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DISPENSA DI FISIOLOGIA DEGLI

APPARATI
Basata sulle lezioni dei professori
G. Zoccoli, A. Silvani, C. Berteotti,
S. Trazzi e V.C. Lo Martire

A.A. 2019/2020 Canale A


A cura di F. G.
INDICE

Prefazione 3

NEUROFISIOLOGIA
1. Sistema somatonsensitivo 5
2. Controllo del movimento 39
3. Sistema nervoso autonomo 75

FISIOLOGIA DELL’APPARATO DIGERENTE


4. Apparato digerente: funzioni orale e gastrica 107
5. Apparato digerente: funzioni intestinali 127

FISIOLOGIA DELL’APPARATO CARDIOVASCOLARE


6. Gittata sistolica 150
7. Gittata cardiaca 167
8. Metabolismo cardiaco 193
9. Controllo integrato del sistema cardiovascolare 199
10. Organizzazione funzionale del sistema vascolare 209
11. Pressione arteriosa e sua regolazione 239
LABORATORIO: Determinazione della pressione arteriosa 262
12. LABORATORIO: Elettrocardiogramma 273

FISIOLOGIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO


13. Meccanica polmonarte dinamica 306
14. Meccanica polmonare statica 327
LABORATORIO: Spirometria e curve flusso-volume 344
15. Meccanismi degli scambi gassosi alveolari 355
16. Trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue 378
17. Regolazione chimica e nervosa della respirazione 391

FISIOLOGIA RENALE E DELL’OMEOSTASI IDRICA E SALINA


18. Funzioni del glomerulo renale 413
19. Funzioni del tubulo renale 427
20. Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei 452
21. Regolazione del volume dei liquidi corporei 467
22. Regolazione dell’equilibrio acido-base 476
23. Regolazione della calcemia e della fosfatemia 490

FISIOLOGIA DEL METABOLISMO E DELLA RIPRODUZIONE


24. Regolazione del metabolismo energetico 510
25. Gonade femminile e gonade maschile. Accrescimento corporeo 550

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Prefazione
Il lavoro è basato principalmente sulle sbobine A.A. 2019/2020, canale A. Hanno collaborato alla
stesura di specifiche parti della dispensa B.M. Capobianco, A. de Vivo, M. Dudziak.

Il contenuto della dispensa rispecchia esattamente quanto detto a lezione. Le integrazioni dai testi
o da articoli sono segnalate esplicitamente, in maniera tale da poter distinguere ciò che è stato
trattato in aula da ciò che è stato aggiunto da altre fonti.

In relazione al materiale utilizzato per integrare la dispensa ne fornisco qui un elenco:


 Berne & Levy, Fisiologia;
 Boron & Boulpaep, Fisiologia medica;
 Kandel, Principi di neuroscienze;
 Guyton & Hall, Fisiologia medica;
 ho utilizzato infine altri testi e articoli specifici citati di volta in volta nella dispensa.

Nota sulle tesine. Le tesine sono 25. L’ECG è una tesina a sé stante. La Misurazione della pressione
arteriosa è abbinata alla tesina Pressione arteriosa e sua regolazione. Le Curve flusso-volume sono
abbinate alla tesina Meccanica polmonare dinamica, mentre la Spirometria è abbinata alla tesina
Meccanica polmonare statica. All’esame vengono estratte due tesine (o tre, se vi manca la parte di
Fisiologia cellulare) su cui discutere: le due/tre tesine verranno discussa ognuna con un professore
diverso.

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NEUROFISIOLOGIA
Prof.ssa G. Zoccoli

Sensibilità somatica
 Organizzazione delle vie della sensibilità somatica del corpo e della faccia.
 Aree somatosensitive talamiche e corticali.
 Il dolore: dolore nocicettivo e neuropatico; iperalgesia; dolore riferito.
 Modulazione periferica e controllo centrale del dolore.

Controllo del movimento


 Via finale comune: il motoneurone
 Organizzazione delle vie discendenti motorie.
 Funzione delle vie del sistema laterale e del sistema mediale.
 Controllo corticale e troncoencefalico del movimento.
 Regolazione del movimento: cervelletto (organizzazione morfofunzionale, afferenze ed
efferenze); nuclei della base (organizzazione morfofunzionale, circuito diretto e circuito
indiretto).

Sistema nervoso autonomo


 Organizzazione morfofunzionale del sistema nervoso autonomo: sistemi simpatico,
parasimpatico ed enterico.
 Azioni dell’ortosimpatico e del parasimpatico sui principali organi.
 Midollare surrenale.
 Controllo centrale del sistema nervoso autonomo.
 Minzione.
 Meccanismi di termogenesi e termolisi.
 Circolazione cutanea.

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1. Sensibilità somatica
1.1. Sistema somatosensitivo

Il sistema somatosensitivo è quel sistema sensoriale che raccoglie informazioni dalla superficie e
dall’interno del nostro corpo tramite recettori. Questi recettori non sono organizzati in una singola struttura o
organo, come nella sensibilità speciale, ma sono distribuiti in modo sparso in tutto l’organismo.
Il primo a studiare la sensibilità somatosensoriale fu Charles Sherrington, il quale suddivise tale sistema in
tre tipologie in base alla provenienza dello stimolo:
1. sensibilità esterocettiva: raccoglie informazioni che provengono dall’esterno;
2. sensibilità propriocettiva: raccoglie informazioni provenienti dai muscoli e dalle articolazioni, dando
riferimenti riguardo la posizione del corpo nello spazio e la posizione relativa degli arti l’uno rispetto
all’altro e rispetto al corpo;
3. sensibilità interocettiva: raccoglie informazioni provenienti dai visceri, la maggior parte delle quali
rimane inconscia. Molti dei recettori presenti nei visceri sono chemocettori, che monitorano lo stato
interno dell’organismo.
Un’altra classificazione può essere fatta in base alla via nervosa utilizzata per trasportare informazioni dalla
periferia alla corteccia cerebrale:
1. Sensibilità meccanocettiva: dipende dalla stimolazione dei meccanocettori. Le informazioni
vengono convogliate nel sistema dei cordoni posteriori e comprendono:
a. tatto-pressione;
b. tremore-vibrazione;
c. propriocezione: senso di posizione statica e dinamica (cinestesia) delle diverse parti del corpo
nello spazio;
d. distensione viscerale.
2. Sensibilità termico-dolorifica: dipende dalla stimolazione dei termocettori e dei nocicettori. Le
informazioni vengono convogliate nel sistema antero-laterale e comprendono:
a. senso termico;
b. dolore.
Nervi e gangli
Il punto in comune tra tutte le sensibilità che fanno parte del sistema somatosensitivo consiste nel fatto che
tutti i neuroni sensitivi primari sono raggruppati in gangli annessi alle radici dorsali dei nervi spinali (oppure
annessi ai nervi cranici). I neuroni sensitivi primari sono neuroni pseudounipolari, formati quindi da un
assone periferico e da un assone centrale che nell’insieme costituiscono la fibra afferente primaria.
Nell’immagine a lato è possibile vedere
schematizzati:
 in rosso un neurone pseudounipolare che
raccoglie sensibilità meccanica;
 in blu un neurone pseudounipolare che
raccoglie sensibilità termica e dolorifica.
La fibra del primo neurone penetra nella radice
posteriore del midollo spinale, non fa sinapsi e sale
verso l’alto costituendo i fascicoli gracile e cuneato del cordone posteriore. La fibra del secondo neurone,
invece, penetra nella radice posteriore del midollo spinale, contrae sinapsi con un neurone della sostanza grigia,
il cui assone attraversa la linea mediana e sale verso l’alto nel cordone antero-laterale.
Le informazioni somatosensoriali raggiungono il sistema nervoso centrale tramite 31 paia di nervi spinali
che raccolgono informazioni da tutto il corpo, e 12 paia di nervi cranici che raccolgono informazioni
provenienti dalla testa e dal viso.
I nervi spinali sono tutti nervi misti perché contengono sia fibre afferenti (sensoriali) che fibre efferenti
(motorie) e sono suddivisi in:
 8 paia di nervi cervicali;
 12 paia di nervi toracici;
 5 paia di nervi lombari;
 5 paia di nervi sacrali;

5
 1 paio di nervi coccigei.
Il segmento del midollo spinale che dà origine a un paio di nervi spinali viene chiamato mielomero.
I nervi cranici non sono così ripetitivi e ordinati come i nervi spinali. Tra i nervi cranici sono presenti:
 4 nervi misti (V, VII, IX, X);
 3 nervi esclusivamente sensitivi (I, II e VIII);
 5 nervi esclusivamente motori (III, IV, VI, XI, XII).
Il territorio di innervazione di un nervo spinale è segmentale. Per dermatomero si intende una porzione di
cute innervata da un nervo spinale. La conoscenza della disposizione dei dermatomeri è utile per definire la
localizzazione di compromissioni di specifici mielomeri o radici spinali. Esempio: il dolore del nervo sciatico
si diffonde nella parte posteriore del corpo (dal gluteo fino alla pianta del piede) e corrisponde al nervo che
fuoriesce dal foro intervertebrale tra L5 e S1.

Tra i nervi cranici, invece, il principale nervo che raccoglie informazioni sensoriali (tattili, pressorie, termiche
e dolorifiche) dalla regione del capo e del viso, è il nervo trigemino (V).
Il nervo trigemino è costituito da tre branche:
 branca oftalmica: innerva la parte supero-anteriore della testa;
 branca mascellare: innerva la parte intermedio-anteriore della testa;
 branca mandibolare: innerva la parte infero-anteriore della testa.
Queste tre porzioni di cute del viso rappresentano i dermatomeri delle tre branche del nervo trigemino.

Le informazioni che vengono raccolte dai neuroni pseudounipolari dei gangli spinali devono essere trasmesse
attraverso il midollo spinale per raggiungere la corteccia cerebrale. Raggiungendo la corteccia cerebrale, lo
stimolo sensoriale diventa cosciente; di conseguenza, l’attivazione di un recettore sensoriale è una
condizione necessaria ma non sufficiente per generare una sensazione cosciente.
Infatti occorre che il recettore venga attivato, vengano generati dei potenziali d’azione che dovranno esser
trasmessi lungo l’assone periferico e centrale del neurone pseudounipolare, i quali neuroni penetreranno nel
SNC ed attraverso vie specifiche andranno a raggiungere la corteccia cerebrale.

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1.2. Organizzazione delle vie della sensibilità somatica del corpo e della faccia
Corpo

Per quanto riguarda il transito delle informazioni sensoriali dalla periferia verso la corteccia cerebrale il
primo passaggio è l’ascesa lungo il midollo spinale.
In questa immagine nella porzione di destra sono colorati in nero i fasci ascendenti, ossia i fasci che
trasportano le informazioni sensoriali verso i centri superiori, chiamati fasci sensoriali, mentre nella porzione
di sinistra sono colorati in giallo i fasci discendenti, i quali avranno invece il compito di portare i comandi
motori ai motoneuroni che controllano i muscoli, quindi prenderanno il nome di fasci motori.
I principali fasci sensoriali sono:
1. Il fascicolo gracile e il fascicolo cuneato: decorrono nei cordoni posteriori del midollo spinale e
trasportano verso l’alto le informazioni relative alla sensibilità. Circa il 90% delle fibre di questa via
trasporterà informazioni:
 tattili (raffinate) (il cosiddetto tatto epicritico, contrapposto al tatto protopatico, più
grossolano);
 propriocettive coscienti, ossia il proprio senso di posizione (ad esempio trasmette
informazioni coscienti di come è posizionato il corpo o di come sono disposti gli arti uno
rispetto all’altro ecc..)1;
 viscerali, rappresentano una minima parte
2. I due fasci spino-cerebellari, che veicolano informazioni propriocettive destinate al cervelletto:
consistono nel fascio spino-cerebellare dorsale e nel fascio spino-cerebellare ventrale, i quali
convoglieranno informazioni sensitive propriocettive non coscienti (rimarranno non coscenti poiché
non raggiungeranno la corteccia cerebrale).
3. I due fasci spino-talamici: fascio spino-talamico ventrale e fascio spino-talamico laterale. Questi
fasci decorrono lungo il cordone antero-laterale del midollo e comprendono fibre che portano verso
l’alto principalmente informazioni relative alla sensibilità:
 termica;
 dolorifica;
 informazioni tattili grossolane (tatto protopatico).

1
Il termine “cosciente” viene utilizzato poiché l’attivazione dei propriocettori dà luogo anche ad informazioni che
possono non raggiungere la corteccia sensoriale, e dunque non generare una sensazione cosciente, ma in alternativa
raggiungere il cervelletto ed essere utilizzati per migliorare in maniera incoscia il controllo motorio.

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Importanza clinica: una lesione spinale completa dei cordoni posteriori, dove decorrono i fascicoli gracile e
cuneato, che trasportano anche informazioni di tipo tattile, può non determinare una perdita completa della
sensibilità tattile, in quanto alcune informazioni tattili (poco raffinate, protopatiche) sono veicolate nel
cordone antero-laterale (dai fasci spino-talamici). Quindi, pur essendo un tatto grossolano, rimarrà comunque
una certa sensibilità tattile.

Incrociamento delle fibre


In generale si può dire che sia le vie motorie (discendenti), sia le vie somatosensitive (ascendenti) subiscono
incrociamento. Tutte (o meglio, quasi tutte) le vie nervose che salgono verso l’alto e che trasportano
informazioni sensoriali verso la corteccia sono delle vie crociate, quindi in un punto del loro percorso (che
sarà diverso da sistema a sistema) incrociano la linea mediana in modo da arrivare alla corteccia somato-
sensoriale dell’emisfero controlaterale; ciò vuol dire che le sensazioni che provengono dal nostro emisoma
di sinistra raggiungono la corteccia somatosensoriale dell’emisfero destro e viceversa.
Tutti (o quasi) i sistemi ascendenti ed i principali sistemi discendenti (di comando motorio) sono caratterizzati
da questo incrociamento nei mammiferi. Delle eccezioni a questa regola sono rappresentate dal riccio e dal
porcospino, che non possiedono un incrociamento delle vie cortico-spinali, cioè quelle vie che portano i
comandi motori ai motoneuroni.

Fascicoli gracile e cuneato


Le fibre di questi due fasci, che trasportano informazioni sensoriali, penetrano nel midollo spinale e sono
costituite dall’assone centrale del neurone pseudounipolare, il cui soma si trova nel ganglio spinale adagiato
sulla radice posteriore del nervo spinale. L’assone centrale risale lungo tutto il midollo spinale senza contrarre
sinapsi percorrendo i fascicoli gracile o cuneato ed arriva fino al tronco encefalico, in particolare fino alla
porzione inferiore del bulbo dove avviene la loro prima sinapsi nei nuclei gracile e cuneato.
Gli assoni dei neuroni del nucleo gracile e cuneato attraversano la linea mediana, si avrà l’incrociamento
delle fibre sensoriali e proseguono dal lato opposto verso l’alto, formando il lemnisco mediale, mediale poiché
decorre vicino alla linea mediana.
Le fibre del lamnisco mediale attraversano tutto il bulbo, il ponte e il mesencefalo e contraggono la seconda
sinapsi con la seconda stazione sinaptica di questo sistema che è rappresentata dal talamo (nello specifico il
nucleo ventro-postero-laterale, VPL).
Dai neuroni dei nuclei talamici dipartiranno degli assoni che raggiungeranno la corteccia somatoensoriale.
Quando l’informazione arriverà alla corteccia somatosensoriale, si avrà una sensazione cosciente.
Generalmente per questo tipo di informazioni gli assoni del primo neurone possono essere molto lunghi: ad
esempio una sensazione che parte dall’alluce del piede dovrà percorrere un lungo viaggio, poiché la prima
sinapsi sarà a livello del bulbo.

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Nell’immagine possiamo analizzare un corpo di Pacini (piccolo corpuscolo colorato in verde) in
continuazione col neurone psedounipolare nel ganglio spinale, il cui assone penetra attravero la radice
posteriore e poi risale nel cordone posteriore, ossia nel fascicolo gracile e cuneato2 fino alla parte più caudale
del bulbo, dove prenderà la sua prima sinapsi nei nuclei gracile e cuneato3.
L’assone di questi neuroni incrocerà la linea mediana e risaliranno formando il lemnisco mediale, per poi
raggiungere la seconda stazione di ritrasmissione nel talamo, in particolare il nucleo ventro-postero-laterale
del talamo (dove arriveranno quindi le informazioni tattili e propriocettive che provengono dal corpo).
I neuroni del nucleo ventrale posteriore laterale che ricevono queste informazioni mandano il loro assone
alla corteccia somatosensitiva primaria.

Fasci spino-talamici ventrale e laterale


Le informazioni termiche e dolorifiche sono convogliate verso l’alto tramite un sistema diverso, ossia quello
che percorre i cordoni antero-laterali, che prende il nome di fascio spino-talamico. L’assone centrale che
entra attraverso la radice posteriore nel midollo spinale, ha un persorso molto breve poiché contrae subito
sinapsi con un neurone situato nel corno posteriore della sostanza grigia spinale e rappresenta la prima sinapsi
di questo sistema. L’assone di questo neurone incrocia nella linea mediana ed ascende verso l’alto nel fascio
spino-talamico. Quindi questo assone, dopo aver superato la linea mediana, ascende nel fascio spino-talamico
anteriore o in quello laterale, percorre tutto il midollo
spinale, bulbo, ponte, mesencefalo e infine raggiunge il
talamo. Nel talamo vi sarà la seconda sinapsi del sistema e
l’assone del neurone talamico raggiungerà infine la
corteccia somatosensoriale.

Fasci spino-cerebellari dorsale e ventrale


Nell’immagine a lato si può osservare il percorso delle
informazioni propriocettive che non raggiungeranno la
corteccia somatosensoriale (quindi non diventeranno
coscenti), ma che arriveranno al cervelletto e serviranno
per raffinare il controllo motorio. Per arrivare al cervelletto,
le fibre penetrano nel midollo spinale e sinaptano a livello
dei nuclei che si trovano nella sostanza grigia del midollo
spinale. In particolare, se provengono dall’arto inferiore
prendono sinapsi col nucleo di Clarke, poi proseguono
verso l’alto senza incrociare la linea mediana e quindi
raggiungono l’emisfero cerebellare dello stesso lato
(quindi tutte le vie sensoriali incrociano la linea mediana
tranne quelle dirette al cervelletto, che invece
raggiungeranno l’emisfero cerebellare dello stesso lato).

Capo e volto
In questo caso si hanno 3 tipi di informazioni che vengono trasportati da 3 contingenti di fibre diverse.
1. Informazioni tattili raffinate e propriocettive coscienti, trasportate dal lemnisco trigeminale.
2. Informazioni propriocettive non coscenti, trasportate dalle vie trigemino-cerebellari.
3. Informazioni termiche e dolorifiche, trasportate dal tratto trigemino-talamico.
Le informazioni tattili discriminative che provengono dalla regione del viso e del capo vengono convogliate
verso l’alto dal nervo trigemino (V). Come detto in precedenza, questo nervo ha tre branche periferiche (V 1
oftalmica, V2 mascellare e V3 mandibolare).
Gli assoni periferici del nervo trigemino giungono al ganglio di Gasser (un ganglio proprio del trigemino),
dove sono localizzati i corpi cellulari dei neuroni pseudounipolari di questo sistema. L’assone centrale
raggiunge il nucleo principale del trigemino (a livello del ponte), dove prende sinapsi con i neuroni di questo
nucleo. Gli assoni dei neuroni del nucleo principale del trigemino incrociano la linea mediana, formando un
fascio di fibre chiamato lemnisco trigeminale, che raggiungerà il talamo nel nucleo ventro-postero-mediale,

2
Ovviamente è più corretto dire che risale o nell’uno o nell’altro (il gracile per quanto riguarda le fibre dei neuroni
sensitivi della parte inferiore del corpo, il cuneato per quanto riguarda le fibre dei neuroni sensitivi della parte superiore).
3
Di nuovo, o nell’uno o nell’altro.

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VPM (adiacente al nucleo ventro-postero-latelare, che riceve informazioni sempre tattili discriminative ma da
parte del tronco e degli arti). Quindi il nucleo ventro-postero-mediale è il nucleo talamico che riceve le
informazioni tattili e propriocettive che provengono dalla regione del capo e del viso.

Ricapitolazione e precisazioni
Il percorso effettuato dall’informazione percepita dal recettore periferico fino ad arrivare alla corteccia
somatosensitiva primaria può presentare delle deviazioni collaterali. Infatti questa stessa informazione può
attivare nel midollo spinale delle risposte riflesse miotatiche (dette anche riflessi da stiramento, involontari)
prima di raggiungere la corteccia, poiché queste deviazioni collaterali prenderanno sinapsi con i motoneuroni
del midollo spinale. Allo stesso modo queste informazioni tramite altre vie collaterali possono attivare vie
spino-cerebellari, raggiungere il cervelletto ed attivare i centri di controllo motorio non volotario.
Le informazioni recepite dai recettori periferici per la sensibilità tattile raffinata e propriocettiva cosciente
vengono trasportate dall’assone centrale del neurone pseudounipolare nei fascicoli gracile e cuneato fino a
raggiungere i nuclei gracile e cuneato nel bulbo. Gli assoni dei neuroni di questi due nuclei incrociano la linea
mediana formando il lemnisco mediale, il quale raggiungerà il nucleo ventro-postero-laterale del talamo (le
informazioni provenienti dal capo e dal viso raggiungeranno invece il nucleo ventro-postero-mediale). Gli
assoni dei neuroni dei nuclei talamici invieranno le informazioni alla corteccia cerebrale, in particolare alla
corteccia somatosensitiva primaria. In questo modo la stimolazione sensitiva diverrà cosciente.
A questo punto dovrà avvenire un’elaborazione al fine di dare un senso alla stimolazione (ad esempio capire
cosa ci abbia toccato e le implicazioni che comporta in funzione del contesto in cui ci troviamo). Verranno
perciò integrate queste informazioni insieme a tante altre stimolazioni recepite in quel momento, come
informazioni visive, uditive, emozionali, informazioni memorizzate di comportamenti e situazioni passati ecc.
Queste informazioni, una volta integrate tra di loro, verranno interpretate dalle cortecce associative, e a quel
punto la corteccia prefrontale dovrà decidere quale risposta/reazione sarà più corretta per la stimolazione
iniziale. La corteccia prefrontale è quella porzione di corteccia adibita a prendere decisioni. Invierà segnali di
attivazione alle cortecce premotorie, le quali attiveranno le cortecce motorie, che produrrano una reazione
motoria alla situazione.
Il fatto che tra le cortecce che elaborano le informazioni sensoriali e le cortecce che producono una risposta
motoria vi sia tanta elaborazione è alla base della capacità che permette all’essere umano di svincolare la
risposta motoria dallo stimolo sensoriale; ciò fa sì che si possano avere delle diverse risposte e reazioni diverse
da individuo ad individuo. Quindi tanta più corteccia è interposta tra i centri sensoriali ed i centri di controllo
motorio tanto più ci si potrà svincolare da una risposta automatica (uguale per tutti) e si potranno far intervenire
maggiormente le esperienze/personalità ecc.. di ogni singolo individuo.

1.3. Aree somatosensitive talamiche e corticali


Talamo
Il talamo è una massa di tessuto nervoso
situata nel diencefalo, è costituita da due
strutture situate ai due lati del ventricolo (che
si troverà al centro tra queste due strutture).
Esso è stato sempre considerato la principale
stazione di ritrasmissione di tutte le
informazioni sensoriali verso la corteccia
(informazioni somatosensoriali, ottiche,
acustiche). Questi nuclei specifici del talamo
ricordiamo essere il nucleo ventro-postero-
laterale per quanto riguarda le informazioni
provenienti dal tronco e dagli arti e il nucleo
ventro-postero-mediale per quanto riguarda
le informazioni che vengono invece dal viso
e dal capo. In realtà il talamo non è una
semplice stazione di ritrasmissione ma è una
stazione sinaptica in cui l’informazione viene
filtrata e “ripulita”, poi preparata ad essere

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ulteriormente analizzata in corteccia: quindi l’informazione che esce dal talamo è un’informazione diversa da
quella che entra. Ogni sinapsi implica del tempo (si richiedono infatti alcune decine di millisecondi per essere
trasferite), ma questo non è tempo perso poiché serve a migliorare l’informazione che dovrà essere poi
rielaborata. Essendo il talamo una stazione di ritrasmissione delle informazioni sensoriali verso la corteccia,
riceverà paradossalmente più informazioni rispetto alla corteccia.
Un fatto da notare è che il talamo è regolato dalla corteccia, poichè quest’ultima invia alcune fibre al talamo
per indicargli quali informazioni devono essere privilegiate nel filtraggio (e quindi saranno trasmesse in
maniera più efficiente rispetto ad altre informazioni), per poi trasmetterle alla corteccia già migliorate. La
corteccia quindi, come anche i sistemi ascendenti del tronco encefalico, esercita un’azione di controllo sulla
trasmissione talamica; anche all’interno del talamo stesso sono presenti dei sistemi di controllo denominati
nuclei reticolari che filtrano le informazioni.
I nuclei talamici sono divisi in 3 gruppi dalla lamina midollare interna:
1. un gruppo di nuclei anteriori (in realtà è uno solo, il nucleo anteriore);
2. un gruppo di nuclei mediali (nucleo mediale dorsale);
3. un gruppoi di nuclei laterali, fra i quali ricordiamo per la trattazione attuale il nucleo ventro-postero-
laterale e il ventro-postero-mediale.

Corteccia somatosensitiva

La corteccia che riceve informazioni tattili e propriocettive è la corteccia somatosensitiva primaria (in blu
nell’immagine), la quale si trova nel lobo parietale subito dietro al solco centrale, che divide il lobo frontale
dal parietale. Nella porzione più bassa della corteccia somato-sensoriale primaria vi sarà la corteccia somato-
sensoriale secondaria (in azzurro nell’immagine)
La corteccia somato-sensoriale primaria è suddivisa in 4 regioni che vengono chiamate secondo la
numerazione di Brodmann in regioni: 1, 2, 3a e 3b. Fra
queste quella che riceverà il maggior numero di
informazioni dal talamo è la regione 3b, che riceverà
stimoli principalmente di tipo tattile. La 3a riceverà
soprattutto informazioni propriocettive, mentre la 2 sia
tattili sia propriocettive. Comunque vi sarà uno scambio
reciproco di informazioni tra queste regioni.
Queste informazioni, una volta elaborate da questa
porzione di corteccia, passeranno ad altre aree corticali,
tra cui:
1) corteccia somato-sensitiva secondaria e da qui
ancora ad altre cortecce cerebrali.
2) altre aree sensoriali presenti nel lobo parietale,
cioè le aree 5 e 7, da cui passerranno ad altre aree
corticali e così via.
Nella trasmissione dal talamo alla corteccia somato-
sensoriale primaria suddivisa in 4 regioni, l’informazione resterà ancora divisa. Infatti le informazioni
propriocettive che provengono dai propriocettori (fusi neuromuscolari, organi tendinei del Golgi, Ruffini ed
altri) arriveranno su una popolazione di neuroni della corteccia somato-sensitiva primaria. Invece le

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informazioni tattili provenienti da diversi recettori tattili
(Pacini, Ruffini, Meissner, Merkel) arriveranno su una
porzione diversa ed anche queste inizialmente resteranno
suddivise nei diversi canali: vi sarà perciò un gruppo di
neuroni che riceverà tutte le informazioni dai recettori
Merkel, altri neuroni riceveranno tutte le informazioni da
Meissner, altri da Pacini ed altri ancora da Ruffini. Poi a
livello della corteccia verranno fuse insieme per generare
un’informazione che dipende dall’attivazione del
complesso dei recettori.
Gli stimoli che provengono da una zona specifica del
nostro corpo raggiungeranno una porzione specifica della
nostra corteccia somato-sensoriale. Nell’immagine è
visibile una sezione coronale, a sinistra vi è la porzione
laterale dell’emisfero, mentre a destra vi è la porzione
mediale (in rosa è evidenziata la porzione corticale).
Le informazioni che arrivano dalle dita del piede ad
esempio raggiungeranno la porzione più mediale della
corteccia. Seguono in senso medio-laterale le aree che
ricevono le informazioni del piede, della gamba,
dell’anca, del tronco, del collo, della testa, poi della mano, della faccia, della bocca, della lingua, della faringe
ecc. Quindi la stimolazione di un qualsiasi punto della nostra superficie cutanea determinerà l’attivazione di
un punto specifico da un punto di vista topografico della corteccia somato-sensitiva primaria.
L’estensione della rappresentazione corticale dei diversi segmenti corporei non è proporzionale
all’effetiva estensione di quel segmento corporeo, bensì alla densità dei recettori in quella specifica zona
del corpo.
Per esempio, l’essere umano ha tantissimi recettori sensoriali a livello della faccia,
delle labbra e delle dita della mano e conseguentemente la rappresentazione di
queste zone nella corteccia è molto ampia (infatti la maggior parte della corteccia
somato-sensitiva dell’essere umano risponderà a stimoli che provengono da queste
tre zone). Grazie alla rappresentazione dell’Homunculus Sensoriale possiamo
comprendere meglio il fatto che non vi sia correlazione tra estensione fisica di una
porzione del corpo e la sensibilità che possiede nella corteccia: un esempio lampante
è il tronco, che pur essendo una delle porzioni più estese del corpo umano, avrà una
rappresentazione corticale molto bassa; infatti la nostra capacità di discriminazione
sensoriale per uno stimolo che ci colpisce sulla schiena è molto inferiore rispetto a
quella di uno stesso stimolo che ci colpisce sulla faccia o su una mano. Questa discrepanza tra l’estensione
effettiva e la rappresentazione corticale fa sì che questa rappresentazione della superfice corporea in corteccia
prenda il nome per l’appunto di “omuncolo sensoriale” (il termine omuncolo sottolinea questa sproporzione).
La stessa cosa varrà anche per tutte le altre specie studiate come la scimmia, in cui avremo una grande
rappresentazione del viso, che sarà sempre più grande via via che si andrà verso i mammiferi meno evoluti
come il gatto ed il coniglio. Nella corteccia somato-sensoriale del coniglio la rappresentazione delle superfici
corporee è totalmente esigua, quasi tutta la corteccia è occupata infatti da neuroni che ricevono informazioni
che provengono dal muso.

Ricapitolando. Le informazioni tattili e propriocettive vengono trasmesse dalla periferia corporea sino alla
corteccia somatosensitiva primaria, la quale è situata nel lobo parietale subito dietro il solco centrale ed è
suddivisa nelle quattro aree di Brodmann (3A, 3B, 1 e 2). Ciascuna delle informazioni provenienti da una
specifica area corporea raggiunge un preciso punto della corteccia somatosensitiva primaria: in particolare, le
informazioni che arrivano dagli arti inferiori giungono alla parte più mediale della corteccia, quelle che
provengono della mano alla porzione più alta della convessità laterale, quelle che vengono dalla bocca alla sua
porzione più bassa. Questo spiega la possibilità di riscontrare, in tutte le quattro aree di Brodmann, un’ordinata
rappresentazione topografica corticale delle afferenze che originano a livello dalla periferia (mappa
topografica corticale). La rappresentazione della suddivisione anatomica dell'area somestesica primaria viene
definita omuncolo sensoriale, in quanto in essa le dimensioni della rappresentazione corticale non sono
proporzionali all'effettiva grandezza del segmento corporeo considerato, bensì alla densità dei recettori presenti

12
in esso. Nella specie umana, per esempio, le rappresentazioni di mani e faccia presentano estensioni molto
superiori rispetto a quelle di altre aree corporee.

L’individuazione delle mappe topografiche corticali fu effettuata per la prima volta del neurofisiologo
Wilder Penfield, che compì accurati studi su pazienti neurochirurgici operati in anestesia locale. Egli
stimolava piccolissime regioni della corteccia somatosensitiva primaria e chiedeva al paziente in quale esatto
punto della periferia corporea percepisse una sensazione: stimolando la parte più mediale della corteccia
somatosensitiva primaria il paziente riferiva di avvertire una sensazione al piede, stimolando la parte superiore
della convessità laterale una sensazione alla mano o ad un dito ecc. Mediante tali studi, Penfield individuò una
mappa topografica corticale ben dettagliata, ovvero un’esatta rappresentazione della periferia corporea a
livello corticale.
Fu possibile effettuare tali esperimenti poiché il tessuto cerebrale non possiede nocicettori: l’encefalo è privo
di terminazioni dolorifiche, riceve pertanto le informazioni nocicettive provenienti dalla periferia corporea
garantendo la risposta allo stimolo nocivo ma, qualora lo stimolo nocivo colpisse direttamente il cervello, non
provocherebbe dolore.4 Questo garantisce la possibilità di intervenire chirurgicamente sul tessuto cerebrale
anche in anestesia locale senza causare dolore al paziente. L’anestesia locale è necessaria per la rimozione
della cute, del cuoio capelluto e dell'osso, dotati di terminazioni dolorifiche, che proteggono la struttura
encefalica.

Plasticità corticale e modificazione delle mappe corticali


La plasticità corticale è la capacità dei circuiti cerebrali di essere plasmati, modulati e modificati nel
tempo dall’esperienza personale nell’interazione con l’ambiente circostante.
Essa è massima nei primi mesi di vita, ma permane parzialmente anche in età adulta.
I circuiti cerebrali infatti vengono primariamente cablati sulla base di istruzioni genetiche5, in quanto i
geni determinano, durante la vita intrauterina, la definizione della struttura del cervello e di tutte le
connessioni in esso presenti. Dopo la nascita, vengono poi rifiniti e migliorati, al fine di renderli
massimamente adatti all'interazione con l'ambiente. Questo spiega come, di fatto, le rappresentazioni
corticali possano essere modificate nel tempo dall’interazione e dal contatto con l’ambiente esterno.
Il neuroscienziato Michael Merzenich fu il primo a compiere ricerche al riguardo, effettuando svariati
esperimenti sulle scimmie tra la fine degli anni ’80 e i primi 2000: in particolare, studiò le alterazioni della
normale rappresentazione corticale delle dita della mano al variare delle afferenze sensoriali provenienti da
esse.
Figura a lato. In alto è raffigurato l’encefalo della scimmia, in cui si evidenzia la specifica area corticale a cui
giungono le afferenze provenienti dalle dita della mano; nelle immagini sottostanti, sulla sinistra la mano dell'animale
con le dita colorate in arancione e sulla destra la rappresentazione di queste ultime a livello della corteccia
somatosensoriale primaria.
Dopo aver effettuato una prima mappatura corticale (a), Merzenich amputò il dito medio della scimmia
(b) e, dopo tre mesi, rimappò la corteccia dell’animale (c).

4
In generale, la consistenza del tessuto nervoso richiede che midollo spinale, tronco dell'encefalo ed encefalo siano
protette da un rivestimento osseo per evitare danni da trauma. L’assenza di nocicettori a livello encefalico è dovuta quindi
al fatto che il SNC sia protetto da resistenti porzioni ossee (cranio, colonna vertebrale), pertanto è raro che una noxa
patogena o un trauma possano interessare il tessuto cerebrale senza avere prima colpito anche le strutture che lo
contengono e lo proteggono. Anche i visceri interni (addominali e toracici) sono dotati di protezione, ma essa non è tanto
strutturata quanto quella a livello nervoso, pertanto sono dotati di terminazioni dolorifiche.
5
Relativamente all’ereditabilità della plasticità corticale da un punto di vista genetico non sono stati compiuti particolari
studi, poiché occorrerebbe disporre di una casistica molto ampia per poter valutare se l'entità delle modificazioni cerebrali
varia da soggetto a soggetto in relazione a fattori genetici.

13
Nonostante egli si aspettasse di rilevare un'area
muta a livello della corteccia somatosensitiva
primaria, ovvero una piccola striscia di neuroni
che, dopo l’amputazione del terzo dito (D3), non
rispondesse più alla stimolazione di questo, egli
visualizzò l’estensione della rappresentazione
delle dita limitrofe (D2 e D4) verso il
territorio lasciato libero da D3. Pertanto, il
mancato arrivo di afferenze da un dato segmento
corporeo fa sì che le rappresentazioni corticali
delle zone somatiche adiacenti si ingrandiscano
ed estendano sino ad occupare lo spazio rimasto
libero a livello corticale.
In un altro esperimento Marzenich non
effettuò alcuna amputazione, bensì fece ruotare
un disco di materiale ruvido per almeno 4-6
ore tutti i giorni su due dita di una scimmia,
producendo quindi su di esse una stimolazione
tattile continuativa e intensa. La ri-mappatura
effettuata dopo alcuni mesi evidenziò un
aumento della rappresentazione corticale delle
due dita iperstimolate, a spesa delle aree
corticali relative alle zone limitrofe.
Un ulteriore esperimento consistette nella
denervazione sensoriale dell’intero arto
superiore mediante taglio dei nervi del plesso
brachiale (l'insieme dei nervi che porta
informazioni afferenti dall’arto al midollo
spinale). Dopo ben 10 anni dall’intervento si è
osservato che il territorio corticale
originariamente deputato alla risposta alla
stimolazione del braccio, ora rispondeva alla
stimolazione delle aree corporee somatiche che,
a livello della mappa corticale, si trovano
adiacenti alla rappresentazione dell’arto
superiore (spalla e volto). In seguito a
denervazione quindi, la stimolazione del viso e della spalla della scimmia provoca attivazione anche dei
neuroni corticali che in precedenza rispondevano alla stimolazione dell’arto superiore.
Anche nell’uomo la perdita di informazioni sensoriali provenienti da una specifica area corporea
determina il rimaneggiamento delle connessioni corticali.
Il neurologo americano Vilayanur Ramachandran si occupò di studi al
riguardo sulla specie umana sfruttando la tecnica della magnetoencefalografia,
attraverso cui si possono visualizzare le esatte zone corticali che rispondono alla
stimolazione tattile della cute. Qualora un segmento corporeo venga rimosso, la
porzione di corteccia che, in precedenza, rispondeva alla stimolazione di questo,
viene progressivamente sostituita dall’estensione delle rappresentazioni
corticali adiacenti, a loro volta corrispondenti a differenti segmenti corporei.
Nella prima immagine si osserva l’encefalo di un paziente che ha subito
l'amputazione dell’avambraccio sinistro, appena sotto al gomito. La zona
corticale che prima rispondeva alla stimolazione della mano sinistra, ora
risponde alla stimolazione del volto poiché, a livello corticale, le
rappresentazioni di arto superiore e volto sono tra loro adiacenti.
Di conseguenza, stimolando specifiche aree del volto (seconda immagine) che in corrispondenza della
corteccia hanno posizione adiacente a quella della mano e che, dopo l’amputazione, hanno sostituito la

14
rappresentazione dell’arto, si attiva la zona corticale che prima rispondeva
alla stimolazione della mano e il soggetto avverte la sensazione che
qualcuno gliela stia toccando, nonostante essa sia assente.
La sensazione dell'arto fantasma, ben nota ai soggetti amputati, consiste
nella percezione di possedere ancora l'arto rimosso e viene evocata
dall'attivazione di aree corporee che, a livello della mappa corticale, hanno
localizzazione adiacente a quella del segmento corporeo andato perduto.
Questa trasposizione fantasma vale non soltanto per le sensazioni tattili ma
per tutte le modalità sensoriali (ad es., se si tocca con un pezzo di ghiaccio
una precisa zona della faccia del soggetto amputato, egli riporta di avere
freddo ad un dito della mano).
Si ricordi che le amputazioni più frequenti si effettuano agli arti, ma in
generale possono interessare qualunque regione corporea, al punto che tale “sensazione fantasma” può
essere avvertita, per esempio, anche dalle donne che hanno subito mastectomia (asportazione del seno per
carcinoma).
Nota. La plasticità corticale legata alla lesione di un nervo periferico (ad es., amputazione/denervazione)
è solo in parte analoga alle modificazioni del SN in seguito a lesioni spinali. 6
Analogamente a quanto osservato negli studi effettuati da Merzenich sulle scimmie, si è osservato che i
musicisti che suonano strumenti a corda presentano una maggior estensione della rappresentazione
corticale della mano sinistra, proprio perché essa viene particolarmente allenata ed è dunque soggetta a
intensa “stimolazione”. Non è chiaro se l’aumento dell’estensione della rappresentazione corticale della
mano sinistra provochi perdita di sensibilità in segmenti corporei che, a livello corticale, sono ad essa
adiacenti. 7
Finora è stata trattata la plasticità corticale relativa alla corteccia somato-sensoriale, ma tale proprietà
interessa di fatto tutte le cortecce sensoriali dotate di una disposizione topografica, come ad esempio:
 corteccia uditiva, la cui rappresentazione corticale è chiamata tonotopica: i suoni di diverso tono
sono localizzati in punti diversi della corteccia uditiva;
 corteccia visiva, la cui rappresentazione corticale è chiamata retinotopica: la perdita di una
porzione della retina (e quindi di alcuni fotorecettori retinici) fa sì che le informazioni che arrivano
da punti adiacenti vadano ad occupare la regione corticale rimasta libera.
Numerosi studi correlati alla plasticità corticale sono stati effettuati su soggetti non-vedenti. È stato
dimostrato che la corteccia occipitale (visiva) delle persone cieche dalla nascita può essere reclutata da altre
modalità sensoriali e rispondere, per esempio, alla stimolazioni tattile (v. lettura in Braille). La plasticità
corticale potrebbe essere solo in parte la causa della maggiore sensibilità acustica nelle persone non vedenti:
in realtà, la facilità con cui essi analizzano stimoli acustici potrebbe dipendere prevalentemente da fattori
attentivi, in quanto tali soggetti non hanno la possibilità di analizzare stimoli visivi potenzialmente distrattori
e si concentrano esclusivamente su quelli uditivi.

6
Le lesioni spinali determinano alterazioni del SN molto più complesse rispetto alle lesioni di nervi periferici, poiché
inficiano la sensibilità (e motilità) di molteplici e molto più estese aree corporee. Teoricamente, così come la lesione di
un nervo periferico, anche la lesione midollare dovrebbe causare l’alterazione della rappresentazione corticale ma con
modificazioni più consistenti. Tuttavia, non sono ancora stati compiti studi al riguardo.
7
La magnetoencefalografia utilizzata per compiere tali valutazioni rileva solamente consistenti alterazioni della mappa
corticale e non le più piccole variazioni, e non è in grado di misurare con esattezza l’entità dell’aumento di estensione
della rappresentazione corticale. Di conseguenza, se è evidente l'aumento della rappresentazione della mano sinistra, si
assume che venga ridotta, compensativamente, la rappresentazione delle aree corticali limitrofe (dell'avambraccio), anche
se non è possibile effettuare una misurazione esatta di ciò.

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1.2. Organizzazione delle vie della sensibilità somatica del corpo e della faccia
(continuazione)8

Sensibilità propriocettiva non cosciente


Le informazioni propriocettive sono veicolate al cervelletto attraverso le vie spino-cerebellari e il fascio
cuneo-cerebellare e vengono utilizzate per controllare e raffinare il movimento. Non giungendo alla
corteccia cerebrale, pertanto, costituiscono informazioni non coscienti. Nonostante questo, originano
anch’esse da propriocettori periferici.
 Le informazioni propriocettive non coscienti provenienti
dall'arto superiore percorrono il fascicolo cuneato, così
come le informazioni relative a sensazioni coscienti:
tuttavia, una volta arrivate al bulbo, le fibre non contraggono
sinapsi con i neuroni del nucleo cuneato, ma con i neuroni
del nucleo cuneato esterno. Gli assoni dei neuroni del
nucleo cuneato esterno vanno a formare un fascio di fibre
(fascio cuneo-cerebellare) che, attraverso il peduncolo
cerebellare inferiore, giunge all'emisfero cerebellare
omolaterale (non si verifica cioè il consueto
incrociamento).
 Le informazioni propriocettive non coscienti provenienti
dall’arto inferiore percorrono anch’esse il cordone
posteriore. Le fibre arrivano però al nucleo di Clarke
(principalmente localizzato a livello del midollo toracico) e
prendono sinapsi con i neuroni di questo. Gli assoni di tali
neuroni proseguono verso l'alto formando un fascio di fibre
(fascio spino-cerebellare dorsale) che si unisce al fascio
cuneo-cerebellare e che, attraverso il peduncolo
cerebellare inferiore, giunge all'emisfero cerebellare
omolaterale (anche in questo caso non si verifica il
consueto incrociamento).
 Altre informazioni propriocettive non coscienti entrano
nel midollo spinale e decorrono nel cordone
anterolaterale, dunque più anteriormente rispetto al fascio spino-cerebellare dorsale. Le fibre
prendono sinapsi con neuroni della sostanza grigia spinale, i cui assoni poi attraversano la linea
mediana, si dirigono verso l’altro nella metà controlaterale del midollo, andando a costituire il fascio
spino-cerebellare ventrale. Quest’ultimo percorre tutto il midollo spinale, il bulbo, il ponte e giunge
al mesencefalo nel peduncolo cerebellare superiore. A questo livello, il fascio attraversa
nuovamente la linea mediana e raggiunge infine l'emisfero cerebellare omolaterale (in questo caso
si ha un doppio incrociamento, che alla fine però ha un effetto analogo all’assenza di incrociamento
presente nei due fasci precedenti).
Ricapitolando. Ogni metà del cervelletto riceve informazioni propriocettive omolaterali, ovvero
provenienti dalla stessa metà del corpo.

Sensibilità propriocettiva del volto


Le informazioni tattili, propriocettive, termiche e dolorifiche provenienti dal viso sono veicolate dalle fibre
che decorrono nelle tre branche del nervo trigemino.
In particolare, i neuroni sensitivi primari per la sensibilità tattile, per quella termica e per quella dolorifica si
trovano nel ganglio del trigemino, ovvero il ganglio di Gasser.

8
La prof. sembra non aver seguito esattamente i punti della dispensa nel loro ordine: ha infatti spiegato il punto relativo
al talamo e alla corteccia dopo aver spiegato una parte dell’organizzazione delle vie della sensibilità somatica del corpo
e della faccia, per poi spiegare l’altra parte dopo.

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I corpi dei neuroni sensitivi primari pseudounipolari per la
sensibilità propriocettiva, invece, non si trovano nel ganglio di
Gasser, ma nel nucleo mesencefalico trigeminale: gli assoni
periferici che trasportano la sensibilità propriocettiva del viso infatti
attraversano tutto il ganglio di Gasser, proseguono e raggiungono il
loro corpo cellulare situato direttamente nel nucleo mesencefalico del
complesso del trigemino.
A questo punto, l'assone centrale di alcuni di questi neuroni
raggiunge il cervelletto attraverso le vie trigemino-cerebellari
(informazioni propriocettive non coscienti), mentre altri di questi
neuroni sensitivi primari presentano un assone centrale che si unisce
alle fibre del lemnisco-trigeminale per giungere al nucleo ventro-
postero-mediale del talamo e veicolare qui le informazioni che
raggiungono lo stato di coscienza (informazioni propriocettive
coscienti).

Vie lemniscali
Le vie lemniscali partono e decorrono nei cordoni posteriori.
Le informazioni tattili che provengono dai recettori a rapido e a lento adattamento seguono le vie del fascicolo
gracile e del fascicolo cuneato: questi contraggono sinapsi nel nucleo gracile e cuneato, l’assone attraversa la
linea mediana formando il lemnisco mediale ed esso raggiunge il nucleo ventro-postero-laterale del talamo.
 Il tatto e la pressione provengono da recettori a lento adattamento, quali cellule del Merckel e i
corpuscoli di Ruffini.
 Le sensazioni di movimento, le vibrazioni e il flutter (vibrazione a bassa frequenza) provengono
da recettori a rapido adattamento:
o i recettori del flutter sono i follicoli piliferi e i corpuscoli di Meissner;
o i recettori della vibrazione sono i corpuscoli del Pacini.
Si ricordi che il flutter viene trasportato non soltanto dalle vie lemniscali ma anche dalle vie spino-
talamiche, ossia quelle che trasportano la sensibilità termica e dolorifica.
 Le informazioni propriocettive (veicolate dalle medesime vie) provengono da propriocettori
periferici situati nei muscoli (fusi neuromuscolari), nei tendini (organi tendinei del Golgi) e nelle
articolazioni e, in misura minore, anche nella cute (corpuscoli di Ruffini).
 Alcune informazioni viscerali vengono trasportate dalle vie lemniscali, anche se la maggior parte di
esse passa attraverso il sistema anterolaterale, ossia attraverso le vie spino-talamiche per la sensibilità
termica e dolorifica. Quindi, solo una parte di informazioni, come senso di pienezza, distensione dei
visceri e alcune informazioni di dolore viscerale, possono essere portate verso l’altro attraverso le
vie lemniscali.

Lesioni
Lesioni midollari

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Nell’immagine sono raffigurate le diverse sezioni del midollo spinale e i corrispondenti sintomi rilevati
nel paziente: quindi, la colorazione di una zona del corpo indica il deficit sensoriale o motorio che la lesione
midollare sottostante produce in quell’individuo.
Per quanto riguarda le sezioni midollari, le zone tratteggiate in grigio corrispondono alle aree lese, le zone
in blu si riferiscono ai cordoni posteriori che trasportano la sensibilità tattile e propriocettiva, le zone in
verde definiscono i confini del sistema anterolaterale che trasporta la sensibilità termica e dolorifica e le
aree rosse segnalano i fasci discendenti per il controllo motorio (fasci cortico-spinali).
La colorazione a bande ovviamente non vuol dire che ci sono strisce in cui c'è una perdita di controllo
motorio e poi vicino strisce dove c'è perdita del senso di vibrazione e di posizione e poi strisce dove c'è la
perdita del dolore e della temperatura, ma vuol dire che in tutta la regione corporea sono perse tutte e due o
tutte e tre le funzioni.
Esaminiamo come esempi alcune di queste lesioni:
A. Lesione spinale a sezione completa a livello della cintura: si perdono sia la sensibilità che la
motilità sottostanti alla lesione, poiché vengono interrotti tutti i fasci di comunicazione.
 Perdita di sensibilità: sia i fasci che trasportano sensibilità tattile e propriocettiva che
quelli che trasportano sensibilità termica e dolorifica vengono interrotti, quindi nessuna
informazione giunge più alla corteccia e questo fa sì che, di fatto, non si avverta più alcuna
sensazione.
 Perdita di motilità: le vie cortico-spinali che portano i comandi motori ai motoneuroni
sono anch'esse interrotte.
E. Lesione del midollo spinale posteriore (cordoni posteriori): interessa l’interruzione dei fasci che
trasportano la sensibilità tattile e propriocettiva, che viene meno in tutta la regione sottostante alla
lesione.
 Perdita del senso di vibrazione: è possibile analizzare questa perdita attraverso un
diapason, attivandolo e poggiandolo sull’osso del paziente per valutarne la percezione da
parte di esso.
 Perdita del senso di posizione: è possibile analizzare questa perdita muovendo le dita del
paziente e domandandogli se egli riesce ad individuare in quale posizione è stato spostato.
 Il senso del tatto non è completamente perso, poiché il tatto protopatico, ossia non
raffinato, è trasportato dai fasci antero-laterali. Si ha dunque soltanto una perdita del tatto
epicritico.
Lesioni corticali
Una grave lesione della corteccia somato-sensitiva primaria produce la perdita di tutti i tipi di sensibilità.
Lesioni meno intense e meno profonde, invece, possono dar luogo a particolari quadri clinici in cui le
sensibilità elementari vengono mantenute ma vengono colpite cortecce adiacenti a quella somato-sensitiva
primaria.
È il caso, per esempio, della perdita delle capacità integrative, delle funzioni di interpretazione del
segnale: in questi casi il segnale viene percepito ma non si riesce a dargli un significato. Ad esempio:
 viene persa la capacità di riconoscere un oggetto ricostruendone la forma utilizzando
esclusivamente il tatto, senza guardarlo;
 non si distinguono superfici lisce e ruvide;
 non si riesce a capire la lettera disegnata dal medico sul dorso della mano.

Sensibilità termica e dolorifica


Il sistema ascendente antero-laterale trasmette informazioni riguardanti:
 sensibilità termica, quindi la percezione cosciente del caldo e del freddo dovuta alla stimolazione di
termocettori presenti a livello della cute e assenti nei visceri interni;
 sensibilità dolorifica, percepita in seguito all’attivazione dei nocicettori presenti su cute, muscoli e
articolazioni.
Il dolore costituisce una sensazione dalla funzione protettiva estremamente complessa, poiché non fornisce
esclusivamente informazioni su aspetti discriminativi (localizzazione e tipo di oggetto che la origina) tramite
attivazione della corteccia somatosensitiva primaria, ma anche su aspetti affettivi ed emozionali. È inoltre

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responsabile dell’attivazione delle componenti attentive e autonomiche viscerali, quali l’aumento del battito
cardiaco e della sudorazione.
La percezione dello stimolo dolorifico è soggettiva, in quanto due diversi individui possono rispondere
differentemente ad uno stesso stimolo nocicettivo, e varia di intensità a seconda delle condizioni esterne e
dello stato emotivo: in caso di paura o agitazione, per esempio, il dolore provato risulta più intenso, e viceversa.
L’attivazione di un nocicettore non sempre è seguita dalla percezione del dolore, in quanto sono presenti
sistemi endogeni di controllo di tale sensazione con funzione protettiva.
Il dolore, infatti, permette di proteggere l’individuo allontanandolo da ciò che gli è nocivo e avvisandolo della
presenza di una minaccia ma, nelle circostanze in cui si è consapevoli del pericolo, il dolore può diminuire le
possibilità di sopravvivenza. Per questo motivo vengono attivati i sistemi endogeni che bloccano
transitoriamente l’arrivo delle sensazioni dolorifiche ai centri superiori, diminuendo notevolmente la
sensazione percepita.
Al contrario, è possibile che la sensazione di dolore venga percepita nonostante la mancata attivazione dei
nocicettori (ad es., i bambini cadono e spesso piangono senza essersi fatti male: in questo caso si ha la sola
attivazione dei recettori tattili ma i bambini riferiscono di provare dolore in quanto il contesto emozionale è
stato tale da mostrare una rappresentazione corticale analoga a quella che solitamente accompagna
l’attivazione della via nocicettiva).
La sensazione dolorosa diventa cosciente quando raggiunge la corteccia cerebrale. Nel caso della via
nocicettiva si verifica l’attivazione diffusa della corteccia che porta ad una risposta complessiva
dell’organismo. La via della nocicezione origina a livello periferico con l’attivazione dei nocicettori,
terminazioni nervose libere dell’assone periferico del neurone pseudounipolare a T. Lo stimolo viene poi
trasmesso attraverso l’assone centrale, che penetra nel midollo spinale e prende sinapsi con i neuroni presenti
nel corno posteriore della sostanza grigia. Secondo la classificazione di Rexed, il corno posteriore è suddiviso
in nove lamine, in molte delle quali gli assoni centrali contraggono sinapsi (soprattutto nelle lamine I, V, VII
e VIII). Dai nuclei presenti in queste lamine originano dei fasci assonici che attraversano la linea mediana
incrociando a livello del mielomero in cui è avvenuta la sinapsi o in quello immediatamente superiore, per
poi costituire il sistema ascendente antero-laterale.
Da tale sistema si originano dunque vie ascendenti, le cui tre principali sono:
1. Fascio spino-talamico
Dopo essere entrati a far parte del sistema antero-laterale, gli assoni del fascio spino-talamico prendono
sinapsi con i neuroni del nucleo ventrale posteriore laterale (VPL) del talamo. Si tratta dello stesso
nucleo in cui prendono sinapsi i fasci che veicolano informazioni tattili e propriocettive, ma la sinapsi
avviene tra neuroni diversi, pertanto le due vie rimangono separate.
I neuroni del nucleo VPL del talamo che ricevono informazioni termiche e dolorifiche mandano a loro
volta le informazioni alla corteccia somatosensitiva primaria, in neuroni diversi da quelli che
ricevono informazioni tattili e propriocettive (sebbene si localizzino a livello della stessa regione
corticale: ad esempio, la regione che riceve informazioni dal dito indice destro presenta sia neuroni
che ricevono informazioni tattili e propriocettive che neuroni che ricevono informazioni termico-
dolorifiche). La via descritta è responsabile dell’attivazione della sensazione cosciente riguardante
aspetti discriminativi quali la localizzazione e l’intensità dello stimolo dolorifico.
(Il VPM del talamo riceve invece fibre di sensibilità trigeminali provenienti dal viso).
Alcune fibre del fascio spino-talamico contraggono sinapsi con i neuroni dei nuclei dorsali del talamo,
in particolare il dorso-mediale (DM), e dei nuclei intralaminari del talamo, situati all’interno della
lamina midollare interna: i nuclei intralaminari sono responsabili delle proiezioni diffuse a tutta la
corteccia cerebrale per la determinazione di una risposta di tipo attenzionale, mentre le fibre
provenienti dal nucleo dorso-mediale sono responsabili dell’attivazione di un ampio sistema di
cortecce (cortecce orbito-frontale, dell’insula e del cingolo) che determinano l’insorgenza di tutte le
altre risposte associate al dolore, quali emozioni negative e attivazione autonomica.
Tutto ciò contribuisce a rendere il dolore una sensazione che attiva in forma quasi completa il sistema
nervoso centrale.
Dal punto di vista filogenetico il fascio spino-talamico si suddivide in:
 Sistema neo-spino-talamico: fibre che dal midollo arrivano a contrarre sinapsi a livello del
nucleo VPL del talamo, dal quale dipartono delle fibre che raggiungono la corteccia
somatosensitiva primaria. È la componente che permette di determinare a livello cosciente la
sede della noxa patogena ed è la via più recente.

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 Sistema paleo-spino-talamico: prende sinapsi con la porzione mediale del talamo e con i
nuclei intralaminari, dai quali si originano fibre che attivano rispettivamente la corteccia in
maniera diffusa (dai nn. intralaminari) e le cortecce dell’insula, del cingolo e orbito-frontale
(dal n. dorso-mediale). Il sistema porta dunque ad un’attivazione generalizzata della corteccia:
si tratta di un sistema aspecifico che determina una risposta complessiva di tipo emozionale,
viscerale e attenzionale. È la via più antica e nei nostri predecessori evolutivi più antichi era
l’unica presente per la risposta allo stimolo dolorifico mediante attivazione di sistemi di
allarme.
2. Fascio spino-reticolare
Dopo essere entrate a far parte del sistema antero-laterale, le fibre contraggono sinapsi a livello della
formazione reticolare di bulbo e ponte. Da tale sinapsi originano fibre che fanno poi sinapsi (così
come la componente paleospinotalamica) nei nuclei intralaminari (e poi da qui partono fibre che
attivano tutta la corteccia diffusamente: si parla per questo di sistema reticolare attivatore
ascendente) e nella porzione mediale del talamo. Si tratta perciò di una via che origina a livello del
midollo spinale e si porta al talamo attraverso una sinapsi intermedia a livello della formazione
reticolare (via spino-reticolo-talamica). Dalla formazione reticolare del ponte partono anche delle
fibre che raggiungono l’amigdala (nucleo telencefalico importante soprattutto nella gestione delle
emozioni negative, in particolare paura, ma è presente una minima attivazione anche nella genesi di
emozioni positive)9 e l’ipotalamo (uno dei maggiori centri nervosi per la coordinazione delle risposte
autonomiche). Ipotalamo e amigdala sono a loro volta raggiunti da informazioni corticali, con la
conseguente creazione di un circuito per il controllo rispettivamente delle risposte autonomiche e delle
risposte emozionali.
3. Fascio spino-mesencefalico
Dopo essere entrate a far parte del sistema antero-
laterale, le fibre contraggono sinapsi a livello della
formazione reticolare del mesencefalo, del nucleo
parabrachiale e del grigio periacqueduttale (PAG).
Il nucleo parabrachiale, una volta attivato attraverso
il fascio spino-mesencefalico, attiva a sua volta
l’amigdala tramite connessione diretta. Al di là del
ruolo in questa via, il nucleo parabrachiale è anche
centrale nella regolazione fisiologica respiratoria,
cardiovascolare e dello stato di arousal dell’individuo.
Il PAG è una delle regioni del SNC che attiva il sistema
endogeno per il controllo del dolore. Tale sistema
agisce tramite fibre discendenti che raggiungono il
corno posteriore del midollo spinale e che bloccano in
maniera transitoria, attraverso il rilascio di endorfine, la
trasmissione degli impulsi dolorifici tra l’assone
centrale del neurone pseudounipolare e i neuroni presenti nelle lamine I, V, VII e VIII del corno
posteriore della sostanza grigia. Il PAG è inoltre in relazione reciproca con ipotalamo ed amigdala e
spesso è proprio questa attivazione complessiva ed emozionale a dare una spinta per attivare il PAG,
che a sua volta attiverà le vie discendenti di controllo del dolore.

Ricapitolando. Si riconoscono due sistemi ascendenti sulla base della collocazione, laterale o mediale, dei
nuclei talamici di proiezione alla corteccia cerebrale:
 sistema laterale: composto dal fascio neo-spino-talamico deputato alla elaborazione degli aspetti
discriminativi del dolore (consapevolezza della localizzazione e caratteristiche fisiche precise dello
stimolo);
 sistema mediale: composto dai fasci paleo-spino-talamico, spino-reticolare e spino-mesencefalico.
Il sistema mediale comprende diversi tipi di fibre perché è responsabile di un compito più complesso
che coinvolge una porzione molto più ampia del SNC: è infatti deputato alla determinazione

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L’amigdala, in particolare la destra, è una delle strutture cerebrali più attiva nella fase REM del sonno, caratterizzata da
un’attività onirica con connotazione emozionale molto intensa.

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dell’insorgenza delle componenti affettive, emozionali, attenzionali e viscerali che accompagnano
la risposta allo stimolo dolorifico.

Nota. Il PAG potrebbe essere uno dei sistemi che determina la diversa sensibilità al dolore tra un individuo
e l'altro. La diversa reattività al dolore dipende da un lato dalla capacità che ognuno ha di attivare i sistemi
endogeni del controllo del dolore e dall’altro dalla valutazione cognitiva che si fa del proprio stato, i.e.
dall’importanza che si dà al dolore. Il dolore in natura non esiste, si tratta di una sensazione elaborata dal
cervello per facilitare l’interazione con il mondo esterno, perciò gli esseri umani possiedono una certa capacità
di controllo endogeno anche degli aspetti cognitivi (ad es., si ci può convincere che il dolore non è forte e lo
si può percepire per questo diminuito).

Formazione reticolare
La formazione reticolare è una struttura localizzata nella porzione più
interna del tronco encefalico e si configura come una rete diffusa di
neuroni di dimensioni variabili, che presentano numerosi
prolungamenti interconnessi gli uni agli altri, andando a formare una
rete neuronale con il compito di integrare le numerose informazioni
sensoriali provenienti dalla periferia corporea con le informazioni
che giungono dai centri superiori e ridistribuire il risultato della
rielaborazione sia verso l’alto che verso il basso. Possiamo affermare
che la formazione reticolare rappresenta una sorta di “cervello
primitivo”, in quanto da un punto di vista evolutivo il cervello è andato
incontro a numerosi stadi di sviluppo, prima di giungere alla forma
odierna. Il primo stadio dello sviluppo si è verificato con la comparsa
di un sistema estremamente semplice, dotato solo di neuroni sensoriali
e neuroni motori e in grado di elaborare solamente risposte riflesse,
quindi una rudimentale forma di midollo spinale. Proseguendo nello
sviluppo sono comparse strutture e circuiti più elaborati e
conseguentemente il comportamento è diventato via via più
complesso. Questo è inizialmente avvenuto con la comparsa di un
primo centro di integrazione, una sorta di tronco encefalico rudimentale, che permetteva di dare risposte più
elaborate di un singolo riflesso, ovvero la formazione reticolare. In ultimo sono comparse le strutture
diencefaliche e si è avuto lo sviluppo della corteccia telencefalica che possiamo osservare attualmente.
Dal punto di vista anatomico, la formazione reticolare viene suddivisa in tre differenti colonne:
1. una colonna laterale: i neuroni appartenenti a questa porzione integrano le informazioni sensoriali,
difatti tutte le vie che stanno salendo verso l’alto mandano proiezioni collaterali a questi neuroni;
2. una colonna mediale (intermedia): i neuroni qui presenti raccolgono il risultato dell’integrazione
avvenuta nella colonna laterale e lo inviano sia verso l’alto che verso il basso. Alcune di queste
informazioni raggiungono ad esempio i nuclei intralaminari e mediali del talamo, producendo
quell’attivazione generalizzata che abbiamo visto essere conseguente a stimolazioni dolorifiche. Le
fibre ascendenti di questa colonna costituiscono quello che viene chiamato sistema reticolare
attivatore ascendente, un sistema che manda proiezioni al talamo in condizioni di allarme, perché si
abbia un’attivazione generale del sistema nervoso centrale.
La formazione reticolare manda fibre anche al midollo spinale, in particolare tramite i fasci reticolo-
spinali, che verranno presi in esame quando sarà trattato l’argomento del controllo motorio e
posturale.
3. una colonna mediana: i nuclei che compongono questa colonna vengono anche definiti nuclei del
rafe. Essi sono costituiti da neuroni che in gran parte utilizzano come neurotrasmettitore la
serotonina, una monoamina che proietta diffusamente al sistema nervoso centrale. Le funzioni svolte
dalla colonna mediana sono numerose e includono la modulazione del dolore; come abbiamo visto
la sostanza grigia periacqueduttale manda fibre discendenti, che raggiungono proprio i neuroni dei
nuclei del rafe bulbare e sarà l’assone di questi ultimi che va ad esercitare la funzione di controllo e
modulazione sull’arrivo di informazioni dolorifiche.
Le funzioni che svolge la formazione reticolare sono dunque:
 l’attivazione delle vie ascendenti per aumentare l’attenzione;
 l’attivazione delle vie motorie verso il midollo spinale;

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 la gestione della modulazione del dolore;
 la regolazione delle emozioni;
 la gestione di tutte le funzioni viscerali: nella formazione reticolare troviamo infatti i principali centri
di controllo cardiovascolare e respiratorio, che verranno diffusamente trattati quando si parlerà del
sistema nervoso autonomo.

Approfondimento. Neuroni serotoninergici, patologie psichiatriche e sonno


I neuroni serotoninergici hanno un ruolo importante anche nel determinare il nostro equilibrio emozionale
ed effettivamente una disfunzione della trasmissione di questi neuroni è stata chiamata in causa nella genesi
dei sintomi psicotici più diffusi.
I sintomi psicotici legati alla schizofrenia, per esempio, sono stati in parte attributi ad una iperattività
delle vie monoaminergiche, mentre al contrario i sintomi correlati a stati depressivi sono stati attribuiti a
una ipofunzione della trasmissione serotoninergica. A conferma di questo importante ruolo possiamo
notare come i principali farmaci utilizzati nella terapia della depressione siano sviluppati in modo da
stimolare la trasmissione serotoninergica. Questi farmaci sono chiamati inibitori selettivi del trasporto della
serotonina, poiché bloccando la ricaptazione di quest’ultima a livello delle sinapsi ne aumentano la
disponibilità all’interno della fessura sinaptica, incrementando quindi la trasmissione serotoninergica
altrimenti carente.
Un altro aspetto interessante da notare è che la scarica dei neuroni serotoninergici varia col ciclo sonno-
veglia, quindi intuiamo che abbiano un ruolo anche nella regolazione di quest’ultimo.

Riassumendo:

Analizziamo cosa succede quando ad esempio ci si ferisce: si verificano in successione una serie di eventi.
1. La prima sensazione che si prova è precisa, si ha una consapevolezza esatta della qualità dello stimolo
ha provocato la ferita e della sua localizzazione.
2. In secondo luogo, siccome la stimolazione è di tipo dolorifico, si ha il sopraggiungere del correlato di
sensazioni precedentemente analizzate: si prova paura e si ha una generale sensazione negativa,
accompagnata da attivazione autonomica.
3. L’ultimo step è il miglioramento delle condizioni e la progressiva scomparsa della sensazione
dolorifica, insieme ad un rinnovato senso di tranquillità.

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I responsabili delle fasi analizzate sono:
1. Il fascio che veicola la sensazione dolorifica precisa, ad esempio di qualcosa di appuntito che sta
toccando il piede, è formato dalle fibre del sistema neo-spinotalamico, che raggiungono il nucleo
ventro-postero-laterale del talamo e da qui la corteccia somatosensitiva primaria.
2. La paura e l’emozione negativa e l’attivazione autonomica sono invece determinate dall’attivazione
del sistema mediale, quindi dal fascio paleo-spinotalamico, ma anche da quello spino-reticolare e
spino-mesencefalico, che attivano la corteccia del cingolo, la corteccia orbito-frontale, la corteccia
dell’insula e l’amigdala.
3. I responsabili del miglioramento delle condizioni sono i sistemi discendenti di controllo del dolore,
in particolare del sistema del grigio periacqueduttale. Questo sistema è attivato dal fascio spino-
mesencefalico, nonché da fibre discendenti provenienti dalla corteccia, che aiutano ad attenuare la
sensazione dolorifica nel momento in cui passa la sensazione negativa di paura. Questi sistemi
discendenti di controllo del dolore sono massimamente attivati in condizioni di estremo pericolo e
stress, ciò evidenzia quindi come sia importante anche il ruolo giocato dai sistemi di controllo dello
stress nella regolazione della percezione dolorifica, ma in una certa misura può essere attivato anche
in condizioni meno estreme.

Sensibilità termica e dolorifica del volto: vie trigemino-talamiche


La sensibilità termica e dolorifica che proviene dalla regione del capo e del viso viene trasportata dal nervo
trigemino, analogamente a tutte le altre modalità sensoriali che provengono da questa porzione del corpo. Le
informazioni sono raccolte da neuroni che presentano il pirenoforo all’interno del ganglio di Gasser, l’assone
centrale di questi ultimi penetra nel tronco encefalico e discende verso il basso per poi raggiungere il nucleo
spinale del trigemino, localizzato a livello del bulbo, che ospita i neuroni che danno origine al fascio
trigemino-talamico. Il fascio trigemino-talamico raggiunge:
 il nucleo ventro-postero-mediale del talamo: attraverso le successive proiezioni corticali le fibre che
qui sinaptano danno luogo a sensazioni ben definite;
 i nuclei intralaminari: a questo livello si attivano le vie diffuse, che producono la attivazione
generalizzata che per il resto del corpo è dovuta invece alle fibre della via mediale.

Recettori della sensibilità termica e dolorifica


Nota. Questa parte è parte del programma di Fisiologia cellulare e la prof.ssa afferma che non verrà
esplicitamente chiesta all’esame, ma è ovviamente bene averne un’idea di massima.
Le sensazioni termiche e dolorifiche che provengono dalla cute vengono trasmesse dai nocicettori e dai
termocettori cutanei, terminazioni nervose libere che, a differenza dei meccanocettori della sensibilità tattile e
propriocettiva, non presentano una capsula. Dai visceri non provengono informazioni termiche, ma solamente
nocicettive e meccanocettive, perciò i recettori presenti nei visceri ci danno solamente informazioni relative al
dolore e alla distensione viscerale. Le informazioni che le vie antero-laterali trasportano verso l’alto
comprendono anche alcune informazioni tattili protopatiche, motivo per cui l’interruzione dei cordoni
posteriori non determina una perdita assoluta della sensibilità tattile. In particolare tra le informazione che
percorrono questa via ci sono quelle generate dalla stimolazione meccanocettiva dei follicoli piliferi (si ricordi
difatti che attorno alla base di ciascun pelo si avvolgono fibre nervose), e dalla stimolazione dei corpuscoli di
Meissner. La sensazione provocata viene chiamata flutter, e corrisponde ad una vibrazione a bassissima
frequenza.

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Lesioni
 1° caso. Lesione dei cordoni antero-laterali.

La lesione presa in esame compromette la porzione anteriore e laterale del midollo spinale,
preservando invece quella posteriore e interessa il midollo cervicale.
In tutta la regione corporea sottostante la lesione, viene persa la capacità di compiere movimenti,
poiché sono stati compromessi i fasci cortico-spinali che trasportano i comandi motori di entrambi
i lati e tutta la sensibilità termica e dolorifica. È invece risparmiata la sensibilità tattile epicritica e
propriocettiva (quindi senso di vibrazione ad alta frequenza e di posizione).
 2° caso. Emisezione midollare (sindrome di Brown-Sequard)

La lesione midollare in questione colpisce la metà laterale destra del midollo toracico, subito al di
sopra dei lombi. Questa causa l’interruzione dei fasci che decorrono nelle colonne dorsali, ovvero
il fascicolo gracile e il cuneato10, responsabili del trasporto verso i centri superiori della sensibilità

10
In realtà il fascicolo cuneato non è presente a livello di questa sezione, ma la prof. lo ha citato comunque.

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tattile e propriocettiva. Di conseguenza si ha la perdita completa di questo tipo di sensibilità
nell’emicorpo ipsilaterale al di sotto della lesione. La perdita avviene nell’emicorpo omolaterale
all’interruzione del fascio poiché i fasci che occupano i cordoni posteriori stanno salendo nella
stessa metà del midollo spinale da cui sono originate e andranno ad incrociare la linea mediana
solamente nel bulbo. Vengono lesionati anche i fasci cortico-spinali, che incrociando la linea
mediana nel bulbo similmente ai precedenti, discendono nel midollo spinale andando ad innervare
i motoneuroni di quella stessa metà del midollo. Conseguentemente viene persa la capacità di
generare movimenti nell’emicorpo ipsilaterale al di sotto della lesione. Nella porzione anteriore
del midollo vengono lesionati i fasci del sistema antero-laterale, che trasportano la sensibilità
termica e dolorifica. Le fibre di questa via hanno già attraversato la linea mediana, poiché nel
momento in cui entrano nel midollo spinale attraverso la radice posteriore, vanno subito a sinaptare
con neuroni presenti nel corno posteriore della sostanza grigia spinale allo stesso livello d’ingresso,
leggermente più giù o leggermente più su; l’assone di questi ultimi attraversa la linea mediana
andando a formare i fasci del sistema antero-laterale nella metà controlaterale del midollo. La
lesione determina quindi la perdita della sensibilità tattile e propriocettiva e del movimento nella
parte omolaterale dell’emicorpo sottostante, accompagnata dalla perdita della sensibilità termica
e dolorifica nella metà controlaterale del corpo.
Nota. È visibile una piccola mezzaluna verde nell’emicorpo ipsilaterale alla lesione, subito sopra
alla coscia; questo è dovuto al fatto che l’assone dei neuroni del corno posteriore della sostanza
grigia spinale che ricevono le informazioni termiche e dolorifiche attraversa la linea mediana in
genere nello stesso segmento di origine ma, come detto, può effettuare l’attraversamento anche un
poco sopra. Di conseguenza, le fibre che stanno attraversando la linea mediana possono essere lese,
determinano una perdita parziale della sensibilità termica e dolorifica anche omolaterale.

Caratteristiche funzionali dei neuroni sensitivi centrali


Dopo aver analizzato come le informazioni dalla periferia corporea arrivano fino ai centri superiori e alla
corteccia, si può analizzare come l’informazione subisca dei cambiamenti salendo dalla periferia corporea
verso i centri superiori.
L’informazione sensoriale, mentre sale, deve necessariamente cambiare: deve essere ripulita, filtrata,
modificata, resa più chiara, integrata con altre informazioni. Se ciò non avvenisse non avrebbe senso perdere
tempo con stazioni di ritrasmissione sinaptica: si potrebbe avere, a quel punto, un solo assone che arriva
direttamente dalla cute alla corteccia, evitando perdite di tempo. Al contrario, è importante che l’informazione
che arriva in corteccia sia già un’informazione pronta all’uso. Tutte le stazioni di ritrasmissione hanno il
compito di preparazione dell’informazione all’arrivo in corteccia.
Il talamo è la stazione di ritrasmissione più studiata, ma concettualmente il discorso che faremo per il talamo
vale per tutte le stazioni di ritrasmissione (ad es., per i nuclei gracile e cuneato del bulbo).
Il talamo, principale stazione di ritrasmissione, riceve correttamente tutte le informazioni sensoriali, non solo
le somatosensoriali, ma anche le uditive e le visive. Prendiamo in
considerazione, per il momento, le informazioni somatosensoriali (ma
il discorso è estensibile a tutte le altre modalità sensoriali, poiché
vengono tutte processate allo stesso modo).
Nell’immagine è possibile osservare un numero elevato di frecce che
arrivano al talamo, le quali indicano che l’attività dei neuroni talamici,
anche di quelli di ritrasmissione che stanno per rimandare
l’informazione ai centri superiori, viene modulata sulla base di molte
altre informazioni. Il talamo riceve numerose informazioni, ma quelle
che ripartono da esso non sono uguali a quelle che sono arrivate, perché
la corteccia va a influenzare la trasmissione talamica, analogamente a
quanto fanno tutte le strutture limbiche, la formazione reticolare, e
anche strutture motorie (come i gangli della base e il cervelletto).

Ogni stazione di ritrasmissione è una stazione di elaborazione dello stimolo sensoriale.


Si vedrà ora come funzionano i neuroni delle stazioni di ritrasmissione. Si prenda in particolare in
considerazione il talamo, che è la formazione su cui è stata condotta la maggior parte degli studi.

25
Le informazioni sensoriali che risalgono verso la corteccia lo fanno attraverso vie parallele. Ciò significa
che ogni tipo di recettore attiva una determinata catena di neuroni che dalla periferia giunge fino alla corteccia:
vi è quindi una catena di neuroni che dalla periferia alla corteccia somatosensitiva primaria trasporta
informazioni propriocettive, che provengono dai fusi neuromuscolari, un’altra catena che trasporta
informazioni propriocettive, provenienti dagli organi tendinei di Golgi, un’altra che trasporta informazioni
meccanocettive provenienti dai recettori di Pacini e così via. Non c’è cioè mescolamento delle informazioni.
Anche a livello di tutte le stazioni di ritrasmissione vi sono neuroni che vengono attivati solo da un tipo di
recettore e informazioni che provengono da recettori diversi, anche nell’ambito della stessa modalità,
raggiungono neuroni diversi dei nuclei di ritrasmissione. Nei nuclei di ritrasmissione vi è un’organizzazione
somatotopica molto precisa (così come accade in corteccia): ciò vuol dire che, per esempio, nel nucleo ventro-
postero-laterale (VPL) del talamo, le informazioni che provengono da punti specifici della cute raggiungono
neuroni specifici nel nucleo. A livello del nucleo VPL del talamo si avrà quindi un gruppetto di neuroni che
ricevono informazioni dalla mano, un altro gruppetto di neuroni che riceve informazioni dal braccio e così via.
Così come nella corteccia somatosensitiva primaria, si può creare a livello di tale nucleo una mappa
somatotopica della periferia corporea (ed è possibile fare ciò non solo a livello del nucleo VPL, ma anche di
altri nuclei sensitivi talamici o di altre stazioni di trasmissione). Le informazioni sensoriali arrivano in
maniera topograficamente molto precisa in punti specifici di ogni loro nucleo di ritrasmissione e, inoltre,
all’interno di un gruppo di neuroni che ricevono informazioni da un punto specifico di una determinata
zona cutanea, sarà possibile individuare sottogruppi che ricevono informazioni da parte di diversi tipi
di recettori (ad es., un sottogruppo che riceve informazioni da recettori di Pacini di un determinato punto della
mano, un altro sottogruppo che riceve informazioni dai recettori di Meissner di quello stesso punto, un altro
che le riceve dai recettori di Merckel ecc.).

Mano a mano che si sale verso l’alto, i campi recettivi aumentano le loro dimensioni per fenomeni di
convergenza, ovvero diversi neuroni mandano i loro assoni sullo stesso neurone della stazione di
ritrasmissione successiva. Ogni stazione possiede quindi un campo recettivo data dalla somma dei campi
recettivi di tutti i neuroni che proiettano su di essa. La caratteristica principale dei campi recettivi dei nuclei di
ritrasmissione centrale è che sono sia eccitatori che inibitori: questo è vero in generale solo per i neuroni
centrali e non per i neuroni sensitivi primari (ad esclusione di quelli visivi). Tale conformazione del campo
recettivo, con una parte eccitatoria e una inibitoria, dipende dalla presenza di interneuroni inibitori.
Altra caratteristica importante di questi neuroni sensoriali centrali è che la loro attività può essere modulata
da altre strutture cerebrali e quindi dalle condizioni generali dell’individuo. Questo fa parte del discorso più
ampio affrontato in precedenza circa il fatto che l’attività di un nucleo di ritrasmissione viene controllata anche
da vie discendenti.
Per esempio, la trasmissione lungo le vie sensoriali viene condizionata fortemente dal livello di vigilanza:
se si presta attenzione a uno stimolo, questo passa in maniera aumentata verso la corteccia; se non si presta
attenzione la sua trasmissione viene fortemente diminuita, e ciò accade in maniera persino maggiore nel sonno.
Infatti, è facile che una sensazione sensoriale che non è particolarmente intensa non arrivi a un’elaborazione
corticale durante il sonno. La trasmissione è inoltre fortemente condizionata ad esempio dall’anestesia, poiché
l’anestetico blocca la trasmissione delle informazioni sensoriali.

L’esempio a lato mostra l’organizzazione


somatotopica nei nuclei vetro-postero-laterale
e mediale del talamo. Il nucleo VPL è la
porzione più a sinistra, raccoglie informazioni
somatosensoriali provenienti dal corpo. Il
nucleo VPM (più a destra) raccoglie invece
informazioni somatosensoriali provenienti dal
territorio della testa. L’immagine consente di
vedere (colorata in blu) la zona del corpo la
cui stimolazione determina un’attivazione del
punto corrispondente del nucleo. In ogni
punto blu di queste mappe, che risponde alla
stimolazione di una determinata zona cutanea,
ci sono popolazioni di neuroni distinte per i
diversi recettori (vi sono neuroni per la

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sensibilità tattile e per ogni sottotipo di recettore della sensibilità tattile, neuroni della sensibilità propriocettiva
e per qualsiasi sottotipo, neuroni che rispondono a stimoli termici e neuroni che rispondono a stimoli
dolorifici). La stessa cosa accade per le informazioni che raggiungono il nucleo VPM attraverso le vie
trigeminali.

Nota. Non è corretto, nonostante si possa esser portati a farlo, parlare di un’organizzazione laminare a
proposito dei nuclei di ritrasmissione come il nucleo VPL del talamo. L’organizzazione laminare è infatti
propria del corno posteriore della sostanza grigia del midollo spinale, così come l’organizzazione colonnare è
tipica della corteccia. Nel talamo non si parla di una specifica organizzazione anatomica se non nei termini di
quanto detto fino ad ora, cioè di una organizzazione somatotopica.

Campi recettivi eccitatori e inibitori


Nella parte alta dell’immagine si possono osservare i diversi campi
recettivi dei neuroni A, B, C, D, E, che sono neuroni pseudounipolari dei
gangli spinali, ognuno dotato di un piccolo campo recettivo (eccitatorio;
ricordiamo che nei neuroni sensitivi primari la stimolazione del campo
recettivo determina sempre una risposta eccitatoria). Tali neuroni
prendono sinapsi con il neurone F, di secondo ordine, il quale ha un
campo recettivo dato dalla somma dei campi recettivi di A, B, C, D, E. I
neuroni B, C, D formano sinapsi con F tramite una sinapsi eccitatoria,
simboleggiata dal segno +. I neuroni che compongono la porzione più
laterale del campo recettivo del neurone F, ovvero i neuroni A ed E,
prendono sinapsi con esso tramite un interneurone inibitorio, il quale
utilizza come neurotrasmettitore il GABA.
Complessivamente, dunque, la stimolazione della porzione centrale del
campo recettivo di F determina l’attivazione del neurone centrale F,
mentre la stimolazione della parte periferica determina la sua inibizione. Tale processo di inibizione per gli
stimoli che vengono da una determinata parte del campo recettivo prosegue in tutte le stazioni di ritrasmissione,
cosicché salendo nelle stazioni di ritrasmissione più alte, il fronte di eccitazione diventa più stretto e delineato
(viene cioè risaltato) e appare circondato da un alone inibitorio progressivamente più profondo. Questo vuol
dire che lo stimolo risalta di più rispetto allo “sfondo”.
Nella immagine seguente, la barretta bianca simboleggia lo stimolo applicato in una determinata porzione
dello spazio che determina l’attivazione del primo neurone. Andando a misurare l’attività del neurone della
prima stazione di ritrasmissione che riceve informazioni sensoriali dal neurone sensitivo primario, il suo campo
recettivo è più ampio: esso infatti viene attivato da una stimolazione che compare al centro del suo campo
recettivo, mentre viene inibito da stimolazioni che cadono in punti più periferici, a causa della presenza dei
neuroni inibitori.

Il processo aumenta nella sua intensità a mano a mano che il segnale viene trasmesso a stazioni di
ritrasmissione successive. Alla seconda stazione di ritrasmissione si ha un campo recettivo ancora più ampio,

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perché aumentano i fenomeni di convergenza, ma in cui il segnale eccitatorio centrale viene circondato da un
potente alone di inibizione. In questo modo il segnale è stato ripulito, filtrato, reso più forte e nitido, grazie
all’alone inibitorio che lo circonda, rimuovendo tutto il rumore di fondo che potrebbe ostacolare l’analisi
corticale del segnale.
A livello delle stazioni di ritrasmissione, accanto al neurone che viene attivato dallo stimolo che cade al
centro del suo campo recettivo, ce ne sono altri che vengono inibiti da quello stesso stimolo. Quindi, uno
stesso stimolo cade al centro del campo recettivo di un neurone e alla periferia del campo recettivo del
neurone adiacente, andandolo a inibire. Si hanno dunque neuroni fortemente attivati circondati da neuroni
potentemente inibiti.

Circuiti inibitori nei centri superiori di ritrasmissione


I fenomeni di inibizione hanno un ruolo molto importante
nel modulare l’ascesa di informazioni sensoriali verso la
corteccia somatosensitiva primaria.
Se ne distinguono tre tipi: inibizione reciproca (feed-
forward), inibizione ricorrente (feed-back), inibizione
discendente.
Nell’inibizione reciproca una fibra afferente che sale
verso l’alto e trasporta l’informazione al neurone del nucleo
di ritrasmissione va ad attivare il neurone di ritrasmissione,
ma attraverso collaterali che attivano interneuroni inibitori
va ad inibire i neuroni adiacenti. Il neurone della stazione di
ritrasmissione che è stato attivato da questa fibra ascendente,
a sua volta, ha delle collaterali che vanno ad attivare neuroni
inibitori, e anche questi vanno ad inibire neuroni limitrofi.
Pertanto, anche in questo caso la via attivata va ad inibire le
vie circostanti.
In presenza di una via che si attiva fortemente, questa va
ad inibire quelle limitrofe mediante l’inibizione reciproca e l’inibizione ricorrente (feed-back).
Esempio di inibizione ricorrente: si consideri una via che viene fortemente attivata e che va ad attivare tutti
i neuroni della stazione di ritrasmissione, e accanto una via che è attivata meno, poiché lo stimolo sensoriale
che attiva potentemente una via raggiunge anche una via vicina ma meno intensamente. A livello di ogni
stazione di ritrasmissione, i neuroni delle due vie si inibiscono reciprocamente. Ma quelli della via forte,
proprio perché attivati intensamente, inibiscono fortemente quelli della via debole, mentre quelli della via
debole, che sono attivati poco, inibiscono debolmente i neuroni della via forte. Succede quindi che l’inibizione
della debole sulla forte è praticamente nulla, mentre l’inibizione della via forte sulla debole è molto consistente.
Il risultato finale è che la via forte continua a scaricare molto intensamente perché non viene inibita per niente
dalla via debole, mentre la via debole cessa di scaricare perché potentemente inibita dalla via forte.
La terza sorgente di inibizione è quella che viene chiamata inibizione discendente. La corteccia
somatosensitiva è in grado di andare a filtrare attivamente l’informazione che sta arrivando e quindi può far
passare alcune informazioni e bloccarne altre.

Organizzazione colonnare della corteccia somatosensitiva primaria e integrazione delle informazioni


periferiche
I nuclei sensoriali talamici sono nuclei a proiezione specifica che proiettano a punti specifici della corteccia
cerebrale. Il talamo invia infatti informazioni sensoriali anche alla corteccia visiva primaria (il nucleo di
ritrasmissione è il nucleo genicolato laterale) e alla corteccia uditiva primaria (in questo caso il nucleo di
ritrasmissione talamico è il nucleo genicolato mediale).
L’immagine mostra come l’estensione delle cortecce sensoriali primarie sia irrisoria rispetto all’estensione
complessiva della corteccia. Nella nostra specie la grandissima estensione della corteccia si occupa infatti di
altro, ovvero integra, trasforma, modifica, tiene conto del passato: si tratta cioè di cortecce associative che
rendono la vita umana così ricca e svincolata da risposte automatiche a stimoli sensoriali.
Le informazioni talamiche arrivano al IV strato (chiamato strato granulare interno) della corteccia
cerebrale (che nel 90% del cervello è costituita da sei strati ed è detta neocortex11).

11
Nel 10% restante si parla di paleocortex (4/5 strati) e archicortex (3 strati).

28
Ogni punto della cute è rappresentato in un punto specifico
della corteccia somatosensoriale primaria, il quale presenta
un’organizzazione colonnare. Vi è cioè una colonna che
attraversa tutto lo spessore corticale dal primo al sesto strato,
formata da neuroni che elaborano le informazioni portate da una
specifica classe di recettori. Nell’esempio riportato, vi è un
punto nella porzione di corteccia considerata che è collegato al
dito, che risponde ed elabora stimoli corrispondenti a recettori
tattili a rapido adattamento, un altro per recettori a lento
adattamento, un altro per gli organi tendinei di Golgi e poi un
altro per i fusi neuromuscolari e così via. Le informazioni che
arrivano al quarto strato della corteccia
somatosensoriale cominciano ad essere elaborate nel
punto stesso in cui arrivano da una rete di neuroni che
interessa tutti gli strati corticali, e che quindi formano
una colonna corticale deputata all’elaborazione di
quello specifico tipo di stimolo. Si tratta di colonne
aventi uno spessore di 300-600 μm, quindi
estremamente piccole, ma importantissime, poiché
già qui inizia l’analisi.
L’analisi della informazione sensoriale inizia già
dunque nella corteccia somatosensitiva primaria, ed
è importante che avvenga qui, perché per percepire le
caratteristiche di uno stimolo (per esempio uno
stimolo tattile, la forma o il movimento di un oggetto
che si ha in mano), è necessario, a un certo punto,
iniziare a integrare le informazioni provenienti da
diversi tipi recettoriali. Le informazioni arrivano ai
nuclei di ritrasmissione e in corteccia attraverso vie
parallele, in cui l’informazione che origina da ogni
tipo di recettore continua a mantenersi separata dalle
altre in tutte le stazioni di ritrasmissione e che rimane
tale anche quando arriva in corteccia somatosensitiva
primaria. Una volta che è arrivata qui e inizia ad essere elaborata nelle colonne corticali, è fondamentale
iniziare a integrare queste informazioni, ovvero mettere insieme per la prima volta informazioni che vengono
da tipi recettoriali diversi. I diversi recettori sensoriali sono in grado infatti di estrarre ognuno una caratteristica
specifica dello stimolo che li ha attivati. È fondamentale che tali informazioni - che sono arrivate in corteccia
molto nitide (poiché filtrate durante la risalita) - adesso vengano messe assieme in maniera mirata. Si assiste
così, già a livello della corteccia somatosensitiva primaria, alla generazione di un modellino di quello che si
ha in mano, ad esempio.
I neuroni corticali sono dotati di un campo recettivo ancora più ampio di quelli delle stazioni di ritrasmissione
e che rispondono non soltanto agli aspetti basilari della stimolazione sensoriale, ma a caratteristiche più
complesse dello stimolo (vi saranno neuroni che rispondono a uno stimolo che si muove, neuroni che
rispondono a uno stimolo che si muove in una specifica direzione, altri ad un oggetto che ha una determinata
forma, o a un oggetto ruvido ecc.). In questo modo si inizia a percepire ad es. la forma degli oggetti che si
hanno in mano, un po’ per la stimolazione dei recettori tattili da essi stimolati, un po’ per la stimolazione dei
recettori propriocettivi che mediante la posizione delle dita nello spazio, danno informazioni riguardo la forma
e le dimensioni. Compare dunque un’immagine mentale dell’oggetto che si ha in mano con le sue
caratteristiche di superficie, di temperatura, di viscidità. Più informazioni sensoriali si hanno, più l’immagine
dell’oggetto che si sta toccando risulta completa.

Tali informazioni, una volta integrate nella corteccia somatosensitiva primaria, possono subire poi numerosi
destini diversi:
 possono essere ulteriormente elaborate ed integrate con altre informazioni sensoriali. Ciò guiderà
in senso lato il comportamento, perché darà un’idea di cosa sta succedendo nell’ambiente;

29
 possono essere usate per elaborare tracce di memoria (alcuni stimoli sensoriali infatti, una volta
interpretati, diventano in grado di suscitare emozioni);
 possono essere trasmesse direttamente alla corteccia motoria per riaggiustare il movimento durante
l’esecuzione.

1.4. Il dolore: dolore nocicettivo e neuropatico; iperalgesia; dolore riferito

Dolore nocicettivo e neuropatico


Il dolore somato-sensoriale viene suddiviso a seconda della modalità con cui viene prodotto in dolore
nocicettivo e dolore neuropatico.
 Il dolore nocicettivo, come dice il suo nome, dipende dall’attivazione dei nocicettori periferici ed
è la via più “fisiologica” di induzione del dolore. Questo è un dolore che insorge acutamente quando
vengono stimolati i nocicettori, mentre se la causa attivante i nocicettori permane nel tempo il dolore
si trasforma in dolore persistente.
 Il dolore neuropatico non viene prodotto a seguito dell’attivazione dei nocicettori, ma da
un’attivazione spuria, per un trauma fisico, del sistema di fibre che sta trasportando l’impulso
dolorifico verso l’alto. Il dolore neuropatico è tipicamente persistente, perché la causa che lo
determina permane nel tempo. Il problema del dolore persistente è che facilmente cronicizza, ovvero
si mantiene anche dopo la scomparsa delle cause che l’hanno provocato: anche quando non c’è più
nessun motivo fisico per la presenza del dolore, il sistema si mantiene attivo e genera la sensazione
dolorosa12. Questo è un problema importante per due motivi: l’alta incidenza all’interno della
popolazione (quasi il 30% della popolazione adulta soffre di dolore cronico) e il fatto che il dolore
cronico sia molto resistente ai trattamenti farmacologici. Il dolore cronico può persistere anche per
mesi o anni ed essere molto intenso, per questo motivo in molti ospedali vi è un centro per la terapia
del dolore e si stanno studiando continuamente nuovi metodi per trattarlo.
I nocicettori inviano diversi tipi di fibre al midollo spinale: le fibre A-δ, le fibre C e le fibre A-β:
 fibre mielinizzate A-δ: hanno una debole mielinizzazione, rispondono a stimoli meccanici o a stimoli
termici (inferiori ai 5 gradi o superiori ai 45) che sono lesivi per il tessuto;
 fibre amieliniche C: sono fibre amieliniche, sono associate a recettori polimodali perché possono
venir attivati sia da stimoli meccanici che da stimoli termici e anche da stimoli di natura chimica;
 alla percezione del dolore partecipano anche informazioni che sono veicolate da fibre A-β, fibre
associate a meccanocettori che trasportano informazioni relative alla sensibilità tattile: si tratta di
informazioni tattili che entrano nel midollo spinale attraverso la radice posteriore, deviano verso l’alto
percorrendo i cordoni posteriori, fino a proiettare ai nuclei gracile e cuneato del bulbo, ma delle
collaterali di queste fibre possono raggiungere il corno posteriore della sostanza grigia spinale e
prendere sinapsi con i neuroni di origine dei fasci spino-talamici. Le informazioni tattili che arrivano
su questi neuroni non sono in grado di attivarli, non partecipano quindi direttamente alla genesi della
sensazione dolorosa e non è infatti ben chiaro il loro ruolo. In condizioni fisiologiche la stimolazione
di queste fibre non genera dolore, ma dopo processi di sensibilizzazione, anche queste fibre
meccanocettive sono in grado di attivare le vie di conduzione del dolore e determinare una sensazione
dolorosa.
Le fibre A-δ sono quelle che conducono più rapidamente e quindi fanno insorgere più precocemente una
sensazione dolorifica: si tratta di un dolore che viene definito pungente (acuto) perché compare rapidamente,
ma altrettanto rapidamente svanisce. A questa sensazione dolorosa segue quella prodotta dalle fibre C, che
per la loro natura si attivano e conducono più lentamente e determinano l’insorgenza di un dolore che viene
definito urente (meno intenso, ma più prolungato nel tempo). (N.B. Il dolore pungente è anche chiamato primo
dolore mentre il dolore urente è chiamato anche secondo dolore). Si conoscono i diversi pattern di attivazione
di questi due tipi di fibre perché la lesione selettiva dell’una o dell’altro tipo di fibra elimina selettivamente
l’uno o l’altro tipo di dolore.

12
Questo comportamento dell’organismo non deve stupire: l’ambiente in senso generico (le noxe patogene in questo
senso specifico) può determinare un effetto permanente sulle strutture, sui circuiti e sulla funzionalità del sistema nervoso.
Rimane cioè un'“impronta” permanente di questa noxa patogena, ora assente, che mantiene in attività il sistema dolorifico.

30
Queste fibre effettuano sinapsi nel corno posteriore della sostanza grigia spinale. Il corno posteriore del
midollo spinale è suddiviso in dieci lamine (dette di Rexed), dove la lamina I è la più posteriore, mentre la
lamina X è la più anteriore (nell’ambito del corno posteriore della sostanza grigia spinale13). I neuroni presenti
nella lamina I sono in gran parte nocicettori specifici, ovvero rispondono specificamente a stimoli nocicettivi,
che possono essere sia meccanici che termici. Nella lamina II sono presenti dei neuroni che vengono chiamati
nocicettori polimodali, che ricevono sinapsi prevalentemente dalle fibre C e sono in grado di rispondere a
stimoli termici, meccanici e chimici. Più ventralmente nel corno posteriore, nella lamina V, vi sono neuroni
chiamati neuroni ad ampio spettro dinamico, che ricevono afferenze non solo nocicettive ma anche dai
meccanocettori.
Vi sono neuroni di origine dei fasci spinotalamici che ricevono anche informazioni meccanocettive da fibre
A-β. Normalmente queste sinapsi pur arrivando sui neuroni di origine dei fasci spino-talamici non sono in
grado di attivarli producendo una sensazione dolorosa.
Nell’immagine è raffigurata la risposta dei neuroni ad ampio
spettro dinamico e dei neuroni nocicettivi specifici.
I neuroni nocicettivi specifici, la cui attività è rappresentata dal
grafico in basso, sono neuroni che vengono attivati unicamente
da stimoli dolorifici, lo stimolo meccanico di per sé non è infatti
in grado di attivare questo tipo di neuroni. Le sensibilità dei
neuroni delle vie del dolore è stata sperimentata sottoponendo i
recettori a stimoli prima leggeri e poi a stimoli sempre più intensi
fino a quando non producono un danno tissutale:
 la pressione leggera (quella che corrisponde ad una
pressione esercitata da un “pelo di cammello”) non
genera risposta;
 la pressione intensa, generata con una pinza chirurgica
non strettissima (semplicemente comprime un lembo
cutaneo) non genera risposta;
 il pizzicamento, sempre generato con una pinza, non
genera risposta;
 lo schiacciamento, una stimolazione fatta con la pinza
molto forte in modo da ledere la cute che si sta
stimolando, genera una risposta.
In alto è raffigurata invece una risposta di un neurone ad ampio
spettro dinamico. In questo caso si osserva che anche lo stimolo
meccanico è in grado di attivare il neurone ma non riesce di per
sé a generare una sensazione dolorosa: questa attivazione quando
prodotta dallo stimolo meccanico viene filtrata e non raggiunge
i centri superiori (non è quindi una stimolazione abbastanza forte
da riuscire ad essere trasmessa fino ai centri superiori).
In sintesi, esistono neuroni ad ampio spettro dinamico che ricevono anche informazioni meccanocettive dalle
fibre A-β e neuroni nocicettivi specifici che invece ricevono informazioni solo da fibre A-δ o da fibre C.

Dolore nocicettivo: iperalgesia


L’iperalgesia è una sensazione di aumentata percezione dolorifica e viene divisa in primaria e secondaria.
 L’iperalgesia primaria è determinata dalla sensibilizzazione periferica: a livello periferico (per
esempio a livello cutaneo) una noxa patogena che crea un danno tissutale (e.g., un'ustione) dà origine
a un’infiammazione locale con liberazione di sostanze di natura chimica che vanno ad aumentare la
sensibilità dei nocicettori. A questo punto i nocicettori sono sensibilizzati e verranno eccitati ed attivati
anche da stimoli che prima non sarebbero stati in grado di attivarli o avrebbero comportato
un’attivazione molto meno intensa (in altre parole, si ha un abbassamento della soglia dolorifica).

13
La prof. ripete più volte tale affermazione, cioè che le dieci lamine di Rexed sono le suddivisioni del corno posteriore
del midollo spinale. Ciò non risulta da nessuna fonte: è l’intera sostanza grigia ad essere divisa nelle dieci lamine e non
soltanto il corno posteriore. Riporto dai Principi di neuroscienze di Kandel: “le lamine I-VI corrispondono al corno
dorsale, la lamina VII è all'incirca equivalente alla zona intermedia e le lamine VIII e IX formano il corno ventrale. La
lamina X è costituita dalla sostanza grigia che circonda il canale centrale.”

31
Questo meccanismo fa quindi sì che uno stimolo applicato ad una zona cutanea dove ci sia stato un
processo di sensibilizzazione, determini un aumento della percezione dolorifica rispetto
all’applicazione dello stesso stimolo in una zona cutanea dove non vi è stata sensibilizzazione.
 L’iperalgesia secondaria è invece dovuta a un meccanismo di sensibilizzazione centrale e quindi ad
un meccanismo che agisce a livello delle sinapsi tra l’assone centrale del neurone sensitivo primario e
i neuroni di origine dei fasci spinotalamici. Per processi di sensibilizzazione centrale queste sinapsi
risultano potenziate. Lo stimolo attiva dunque più facilmente il neurone spinotalamico e determina
anche in questo caso una percezione dolorifica aumentata.
I processi di sensibilizzazione centrale possono rafforzare anche le sinapsi tra le fibre A-β (i
meccanocettori che prendono sinapsi sui neuroni di origine dei fasci spinotalamici) e i neuroni di
origine dei fasci spinotalamici stessi, cosicché dopo che si è avuta una sensibilizzazione centrale anche
uno stimolo meccanico che normalmente non viene elaborato come dolorifico (i.e., che normalmente
non genera una sensazione dolorosa) può invece essere capace di generare dolore. Riassumendo: uno
stimolo meccanico applicato ad una zona in cui è avvenuta una noxa patogena, e quindi una
sensibilizzazione dei neuroni secondari che ricevono le afferenze da tale zona, può provocare
sensazioni dolorifiche (mentre normalmente, come abbiamo più volte detto, ciò non avviene): questo
meccanismo è chiamato allodinia meccanica.

Si definisce iperalgesia primaria una sensibilizzazione periferica dei nocicettori della zona lesionata.
Nell’immagine riportata in alto osserviamo la raffigurazione di una mano sulla quale è stata prodotta
un’ustione mediante contatto con una sostanza incandescente in una determinata zona (quella all’interno della
quale sono presenti i punti A, B e D). I punti A e D sono i punti dov’è stata generata l’ustione, mentre il punto
B è un punto che viene testato per verificare la soglia dolorifica. Nella zona della lesione si sviluppa una
sensibilizzazione periferica, e di conseguenza una iperalgesia primaria: a livello sperimentale se si stimolano
i punti A e B con stimoli dolorifici sia termici che meccanici, per osservare induzione di dolore è sufficiente
un’intensità di stimolazione significativamente ridotta.
Si definisce iperalgesia secondaria la risposta anomala e amplifica ad una stimolazione che si ha non nella
sede di lesione, ma in una zona più ampia che circonda la sede di lesione (dov’è presente il punto C). Quando
si ha iperalgesia secondaria la stimolazione del punto C mediante uno stimolo meccanico è in grado di
determinare la sensazione dolorosa ad una intensità di stimolazione che normalmente non induce dolore:
questo fenomeno, come già affermato, è detto allodinia meccanica.

Analizziamo ora gli specifici meccanismi che sottostanno ai fenomeni di iperalgesia primaria e secondaria.
 Iperalgesia primaria
Si ha un danno tissutale (e.g., una punta che ferisce la cute): questo determina la rottura di membrane
cellulari e la liberazione nel tessuto di sostanze che normalmente sono presenti solo all’interno della
cellula (e.g. ATP, K+) e che sono fortemente in grado di attivare meccanismi di infiammazione. In
questa situazione, anche cellule come i macrofagi e i mastociti tissutali vengono coinvolti e
partecipano alla liberazione di sostanze ad effetto infiammatorio: in particolare si ricordino la
bradichinina (una sostanza ad effetto infiammatorio potentissimo), la serotonina, l’istamina
(liberata dai mastociti). Tutte queste sostanze sono in grado di attivare direttamente la fibra nervosa
oppure sono in grado di sensibilizzarla, cioè possono far sì che stimoli meno intensi del solito riescano
ad attivare il sistema e a generare potenziali d’azione. I potenziali d’azione viaggiano lungo la fibra e
arrivando al midollo spinale generano la sensazione dolorifica, ma hanno anche un altro effetto:

32
l’assone periferico dei neuroni sensitivi primari
che vengono stimolati o sensibilizzati dalle
sostanze di natura chimica che sono state appena
descritte, ha delle collaterali (nell’immagine una
a destra e una a sinistra), nelle quali viaggia il
potenziale d’azione generato dalla stimolazione
periferica. Un potenziale d’azione che nasce
dalla terminazione della fibra nervosa viaggia
dunque verso il midollo spinale, ma imbocca
anche le collaterali: nell’immagine si può
osservare la collaterale destra che arriva verso un
mastocita e libera la sostanza P, che va ad
attivare i mastociti, i quali partecipano al
fenomeno infiammatorio rilasciando istamina.
Sempre osservando l’immagine, la seconda
collaterale (verso sinistra) raggiunge un vaso
sanguigno: il potenziale d’azione determina la
liberazione da questo terminale assonico di
neurotrasmettitori, come il peptide relato al gene
della calcitonina (CGRP, Calcitonin Gene
Related Peptide)14, che agiscono a livello dei vasi
producendo vasodilatazione e aumento della
permeabilità capillare15. Questo determinerà a
sua volta l’arrivo di altre cellule infiammatorie quali macrofagi e monociti a livello del tessuto
lesionato e manterrà il meccanismo infiammatorio, il quale viene rivelato dalla presenza di segni
caratteristici: il rossore, il gonfiore, il dolore e l’impossibilità da parte della struttura lesionata di
operare un normale funzionamento16. L’infiammazione mediata da terminazioni nervose che
rilasciano a livello locale sostanza P e CGRP (che agiscono su mastociti e vasi) e da altre sostanze
citate, è detta infiammazione neurogena.
Tutti i meccanismi citati promuovono la sensibilizzazione periferica, cioè un aumento della
sensibilità allo stimolo dolorifico che interessa la stessa zona che è stata lesionata e che viene mediata
dalla liberazione di sostanze di natura chimica. Tra queste sostanze, oltre a quelle citate, è bene
ricordare che le prostaglandine, che vengono prodotte a partire dall’acido arachidonico (l’aspirina
agisce bloccando la produzione di prostaglandine, bloccando gli enzimi di produzione di queste
molecole: l’effetto antinfiammatorio ed analgesico di questo farmaco è dunque legato proprio a un
blocco dei meccanismi che sostengono l’infiammazione).
 Iperalgesia secondaria
L'iperalgesia secondaria (sensibilizzazione centrale) si ha quando avviene una stimolazione
dolorifica prolungata nel tempo, quando le fibre A-δ e soprattutto le fibre C continuano a scaricare per
lunghi periodi di tempo. Queste fibre prendono sinapsi coi neuroni del corno posteriore della sostanza
grigia spinale e proprio tali sinapsi risulteranno potenziate dai fenomeni di sensibilizzazione centrale,
in particolare le sinapsi che le fibre C formano coi neuroni di origine dei fasci spino-talamici. Il
neurotrasmettitore che viene utilizzato in queste sinapsi è un neurotrasmettitore eccitatorio, il
glutammato, per entrambi i tipi di fibre (A-δ e C); in più le fibre C rilasciano anche altri neuropeptidi,
tra cui la sostanza P e il peptide relato al gene della calcitonina (CGRP): sembra che siano proprio
queste sostanze co-rilasciate insieme al glutammato a permettere i meccanismi di potenziamento
sinaptico.

14
Il CGRP, come la sostanza P, è una sostanza che promuove l’infiammazione neurogena.
15
Ovviamente l’immagine è una semplificazione: si tratta di fenomeni che ovviamente non riguardano soltanto due
collaterali, un mastocita e un vaso, ma al contrario numerose collaterali, numerose cellule e numerosi vasi capillari.
16
Da aggiungere, oltre a quelli citati dalla prof., anche il calore (calor, rubor, tumor, dolor, functio laesa).

33
I meccanismi di rafforzamento sinaptico sono stati studiati a fondo e uno dei più conosciuti è il
potenziamento a lungo termine. Il potenziamento a lungo termine è un meccanismo molto
importante di rafforzamento dell’attività sinaptica che si ha in tutte le sinapsi dei circuiti implicati nei
meccanismi di memoria; è un fenomeno, quindi, che è stato molto studiato a livello dell’ippocampo
(una delle strutture nervose maggiormente implicate nel rafforzamento delle tracce di memoria).
Quando si ha qualche forma di apprendimento, la traccia (chiamata più correttamente engramma)
viene conservata in circuiti specifici all’interno del sistema nervoso mediante un meccanismo di
rafforzamento delle sinapsi che costituiscono questo circuito. Dopo che c’è stata questa modificazione
nella struttura e nella funzionalità della sinapsi ogni qual volta la membrana pre-sinaptica libera il suo
neurotrasmettitore, la cellula post-sinaptica risponde con un potenziale postsinaptico molto aumentato
rispetto ad una sinapsi normale. Questo meccanismo a lungo termine è reso possibile in queste sinapsi
dalla presenza di specifici recettori per il glutammato che vengono chiamati recettori NMDA. La
presenza dei recettori NMDA consente l’ingresso nella cellula post-sinaptica di calcio, e il calcio,
fungendo da secondo messaggero, innesca una serie di meccanismi che portano all’espressione di
nuovi recettori post-sinaptici e al rafforzamento sinaptico. Per quanto concerne il nostro discorso, a
livello del corno posteriore sono stati riscontrati i recettori NMDA, la liberazione di sostanza P e di
CGRP da parte delle fibre di tipo C può innescare e rafforzare questi meccanismi di potenziamento a
lungo termine inducendo un rafforzamento della trasmissione sinaptica: a parità di stimolazione pre-
sinaptica la risposta post-sinaptica aumenta significativamente e, poiché stiamo parlando di un neurone
di origine dei fasci spino-talamici che portano lo stimolo dolorifico verso i centri superiori, ciò si
estrinseca in pratica in un aumento della sensazione dolorosa.
Questo meccanismo di rafforzamento sinaptico o analoghi meccanismi di plasticità sinaptica, sono
anche alla base del fenomeno dell’allodinia meccanica. Si ha infatti anche un rafforzamento delle
sinapsi tra le fibre A-β che trasportano l’informazione meccanocettiva e i neuroni di origine del fascio
spino-talamico, per cui tali sinapsi, che normalmente non sono in grado di attivare sufficientemente il
neurone post-sinaptico (così da generare un segnale che arriva ai centri superiori e induca una
sensazione dolorosa), diventano invece sinapsi in grado di produrre una risposta. Una stimolazione
meccanica che proviene da una zona cutanea in cui è avvenuta un’iperalgesia secondaria può così
andare ad attivare i neuroni di origine dei fasci spino-talamici e produrre dolore. Quale sia il
meccanismo effettivo attraverso cui le fibre A-β diventano in grado di produrre dolore dopo
sensibilizzazione non è stato ancora del tutto chiarito sebbene siano state proposte diverse teorie al
riguardo17.

17
Dalle slide. “Possibili meccanismi:
1) attivazione della sintesi di sostanza P da parte delle fibre A-β in seguito ad infiammazione; la sostanza P viene
rilasciata a livello delle corna dorsali del midollo spinale, e attiva i neuroni spinotalamici;
2) modificazione del territorio di innervazione (sprouting) delle fibre A-β nelle corna dorsali, che vanno ad
innervare i neuroni spinotalamici della lamina II;
3) attivazione di una via polisinaptica (normalmente silente o sotto soglia) tra i neuroni delle lamine profonde delle
corna dorsali (normalmente innervate dalle fibre A-β) e i neuroni spinotalamici delle lamine superficiali.”

34
In caso di lesione tissutale, l’iperalgesia primaria generalmente si attiva, mentre l’iperalgesia secondaria si
produce solo a seguito di un dolore prolungato. Se il dolore si risolve in breve tempo non si ha dunque il tempo
di produrre i fenomeni plastici a livello del corno posteriore descritti precedentemente, mentre se esso si protrae
nel tempo (come nel caso di malattie croniche, e.g. l’artrite reumatoide) si può osservare il meccanismo di
iperalgesia secondaria.

Dolore neuropatico
Il dolore neuropatico non è causato dalla stimolazione di nocicettori periferici, bensì da una stimolazione
impropria delle fibre nervose che trasmettono il dolore: esso può interessare sia le fibre periferiche che le
fibre centrali. Nel caso in cui a causarlo sia una lesione alle fibre periferiche, si parla di causalgia.
Il dolore neuropatico è un dolore molto intenso: la causalgia viene di solito percepita come un bruciore
(dolore urente) ed è solitamente chiamata anestesia dolorosa, perché la lesione della fibra nervosa di solito è
accompagnata dalla lesione di tutto il nervo che innerva una determinata zona e si ha quindi non soltanto una
lesione delle fibre che stanno trasportando la sensibilità dolorifica, ma anche un’interruzione di fibre che stanno
trasportando la sensibilità tattile e propriocettiva.
Il dolore neuropatico può interessare qualsiasi nervo periferico (o fibre nervose centrali) e può essere causata
da diversi fattori, ma sono particolarmente frequenti alcune cause e alcune localizzazioni:
 la lesione del plesso brachiale (ad es., strappato come conseguenza di un incidente in moto: la testa
viene girata da un lato mentre l’arto viene allontanato dalla testa e abbastanza spesso questo determina
uno strappamento dei fasci di fibre del plesso brachiale), che comporta una perdita di sensibilità
somatosensoriale e motilità dell’arto superiore accompagnata da una sensazione dolorosa riferita
all’arto;
 la nevralgia post-herpetica da herpes zoster: la patologia dell’herpes zoster è data dalla riattivazione
del virus varicella-zoster (HHV-3), dopo che l’infezione è rimasta silente nei gangli del sistema
nervoso periferico. Dopo l’infezione primaria (che generalmente avviene durante l’infanzia), in
periodi successivi della vita, specialmente quando ci sono dei cali nelle difese del sistema immunitario,
il virus può riattivarsi: ripercorre l’assone periferico spostandosi dal ganglio alla superficie cutanea e
manifesta la sua presenza facendo comparire sul dermatomero innervato da quella radice spinale delle
vescicole del tutto simili a quelle espresse durante la varicella (ma che prendono in questo caso il
nome appunto di herpes zoster o comunemente di fuoco di Sant’Antonio). La patologia si risolve
abbastanza in fretta, ma purtroppo delle volte permane una sensazione dolorosa molto intensa riferita
al dermatomero interessato dall’eruzione vescicolare (la nevralgia post-herpetica): si tratta di un dolore
che, come tutti i dolori cronici, è molto resistente ai farmaci;
 il dolore da arto fantasma: con “arto fantasma” si ci riferisce alla sensazione di possedere ancora un
arto che in realtà è stato amputato. Ciò può interessare qualsiasi dei quattro arti, ma anche altre regioni
corporee. Il primo caso documentato è quello dell’ammiraglio Horatio Nelson, che perse il braccio
nella battaglia di Santa Cruz di Tenerife ma continuò a recepire sensazioni provenienti dall’“arto”,
ritenendole la prova dell’esistenza di Dio e della presenza dell’anima. Al di là di queste convinzioni
religiose, a lungo il fenomeno è stata ritenuto una reazione psicologica di negazione; si è poi ipotizzato
che esso fosse dovuto alla formazione di neurinomi all’estremità del moncone e quindi fu trattato col
continuo accorciamento del moncone per rimuoverli. Le teorie attuali ipotizzano invece un errato
rimappaggio dei territori corticali prima riferiti all’arto, che vengono invasi dai territori corticali
vicini, cosicché l’attivazione di queste aree corticali, anche se dovuta a stimoli diversi, induce la
sensazione cosciente originale. I trattamenti attuali cercano dunque di stimolare interneuroni inibitori
sulle cortecce somato-sensoriali interessate. N.B. Circa l’ottanta percento dei soggetti sottoposti ad
amputazione continua a provare sensazioni provenienti dall’arto mancante e circa la metà di questi
soggetti prova violente sensazioni dolorifiche provenienti da esso;
 la sindrome talamica: dovuta a lesioni vascolari talamiche (e.g., ictus nell’area del nucleo ventro-
postero-laterale), si tratta una sindrome molto intensa e resistente ai farmaci e può comparire anche a
distanza di tempo dall’evento scatenante.

Dolore riferito
Le fibre trasportanti informazioni nocicettive provenienti da un viscere proiettano agli stessi neuroni
secondari spino-talamici ai quali proiettano le fibre nocicettive cutanee della zona cutanea che ricopre il
viscere: vi è quindi una sola proiezione che porta al nucleo talamico ventro-postero-laterale e da questo alla
corteccia somato-sensoriale primaria. Di conseguenza stimoli nocivi viscerali non vengono riconosciuti come

35
tali ma solo come stimoli nocivi cutanei (si parla appunto di dolore riferito). Tutto ciò ha un ruolo nel
risparmio di spazio corticale, in quanto il dolore viscerale è raramente presente e in generale è di sicuro molto
meno frequente di quello cutaneo.
Esempi di campi dolorifici comuni:
 cuore: emitorace e braccio sinistro;
 pancreas: schiena e addome periombelicale;
 calcoli renali: dal fianco all’inguine;
 appendicite: quadrante inferiore destro dell’addome.

1.5. Modulazione periferica e controllo centrale del dolore

Ci sono molti meccanismi che permettono di modulare la percezione del dolore, per permettere di agire al
meglio in determinate situazioni, come ad esempio in condizioni di emergenza nelle quali il dolore potrebbe
essere un impedimento all’azione18.
Esistono diversi sistemi endogeni di modulazione del dolore, che verranno analizzati di seguito: il controllo a
cancello, la modulazione centrale del dolore e il controllo del dolore mediato da oppioidi endogeni.

Controllo a cancello
Il controllo a cancello è un sistema di controllo
dell’informazione dolorifica che viene operato dalle fibre della
sensibilità tattile che innervano la stessa zona cutanea che è
stata lesa. Agendo a livello midollare è in grado di limitare se
non abolire la trasmissione dell’impulso dalla fibra afferente
primaria ai neuroni di origine dei fasci spino-talamici.
Le fibre A-β sono in grado di inibire la trasmissione
dolorifica della stessa area che innervano, escludendo il caso
in cui esse siano sensibilizzate e si vengano a formare i rami
collaterali capaci di trasmettere dolore (ricorda, questo caso
specifico si definisce di allodinia meccanica). Queste fibre (che
sono attivate da stimolazioni meccaniche), prima di impegnarsi
nei cordoni posteriori, inviano una collaterale che fa sinapsi su
un interneurone inibitorio, il quale a sua volta inibisce il neurone secondario che si impegnerà nel fascio
spino-talamico. Quando attivati dunque questi meccanocettori vanno a inibire l’attivazione dei neuroni di
origine dei fasci spino-talamici; viceversa, le fibre C e A-δ (che sono attivate da stimolazioni nocive)
inibiscono lo stesso interneurone e stimolano il neurone secondario spino-talamico.
Questo meccanismo di controllo della stimolazione dolorifica è molto efficace ed è sfruttato continuamente:
ad esempio, quando ci si fa male la prima cosa che si fa è toccare la zona che è stata lesa, stimolandola con
pressioni o massaggi per ridurne il dolore. Questo principio può venir utilizzato anche in terapia ed è ciò che
viene fatto attraverso la TENS (stimolazione elettrica nervosa transcutanea). La TENS è infatti proprio una
tecnica che prevede la stimolazione elettrica delle fibre A-β, attraverso degli elettrodi, con lo scopo di ridurre
il dolore.

Modulazione centrale del dolore


Fibre discendenti inibitorie si portano dalla sostanza grigia periacqueduttale (PAG), localizzata a livello
mesencefalico, ai neuroni secondari spino-talamici del midollo spinale. Nella discesa le fibre attraversano dei
nuclei intermedi all’interno dei quali effettuano sinapsi: tali nuclei intermedi, elencati di seguito, che
effettivamente proiettano al corno posteriore della sostanza grigia midollare e vanno a inibire la trasmissione
di informazioni dolorifiche verso l’alto. Essi sono:

18
Si badi che ciò è vero solo per determinati casi e in generale il dolore ha un ruolo fondamentale, per segnalare
all’organismo eventuali eventi avversi che lo stanno colpendo. Soggetti con alterazioni ai sistemi del dolore infatti
solitamente muoiono in età precoce, in quanto non sono in grado di riconoscere adeguatamente il pericolo.

36
 nuclei del rafe: rappresentano la porzione più mediale
della formazione reticolare. Alcuni neuroni dei nuclei del
rafe (in particolare quelli del nucleo del rafe magno,
situato nel bulbo) vengono attivati da fibre che partono
dalla sostanza grigia periacqueduttale e a loro volta
proiettano al corno posteriore, andando ad inibire la
trasmissione di informazioni dolorifiche verso l’alto. I
neuroni dei nuclei del rafe sfruttano come
neurotrasmettitore la serotonina;
 locus coeruleus: è formato da neuroni noradrenergici,
raggiunti da fibre a partenza dalla sostanza grigia
periacqueduttale; essi mandano poi informazioni verso il
corno posteriore e hanno effetto di inibizione dolorifica;
 nucleo parabrachiale;
 formazione reticolare bulbare. 19
La sostanza grigia periacqueduttale, a sua volta, è attivata da collaterali delle fibre spinotalamiche stesse,
dall’amigdala, dall’ipotalamo, dalla corteccia somatosensoriale, dalla corteccia cingolata.

Oppioidi endogeni
Gli oppioidi endogeni sono sostanze prodotte dal sistema nervoso centrale, in particolare nelle regioni
dell’ipotalamo; queste molecole vanno ad agire in molti distretti
dell’organismo, sia interni al sistema nervoso centrale (e.g., nella
sostanza grigia periacqueduttale, nel sistema limbico o nel midollo
spinale), sia esterni (e.g., nelle articolazioni) e sono capaci di
causare analgesia, solitamente in risposta situazioni di stress.
La presenza dei recettori per queste molecole fa sì che
l’organismo sia capace di reagire anche all’oppio e ai suoi derivati,
i quali sono riconosciuti dai recettori e mimano gli effetti degli
oppioidi endogeni. Gli oppiacei sono infatti stati il metodo con cui
si è potuto identificare e studiare gli oppioidi endogeni. I principali oppiacei (tutti derivati dal papavero) sono:
 l’oppio, il derivato più antico del papavero, utilizzato nel passato a scopo curativo e ricreativo;
 la codeina, utilizzata come cura alla tosse;
 il loperamide, utilizzato come cura per la diarrea, in quanto i recettori per gli oppioidi sono presenti
anche nell’intestino e vanno a limitare la motilità intestinale;
 la morfina e il suo derivato eroina: creano forte dipendenza; le qualità fortemente analgesiche della
morfina sono state scoperte alla fine del ‘800. Essa è uno dei maggiori antidolorifici conosciuti ed è
stata usata in maniera massiva prima di scoprirne l’effetto di dipendenza. La morfina non agisce solo
sul sistema nervoso centrale, ma ovunque vi sia un recettore con cui legarsi: come effetto collaterale,
a causa dei recettori intestinali per gli oppioidi, causa stipsi. Di conseguenza quando fu derivata da
essa l’eroina, che invece ha un tropismo maggiore per il cervello e causa meno stipsi, si credette di
poterla usare diffusamente come antidolorifico. Ovviamente in seguito si è capito che essa causa una
maggior dipendenza della morfina (che già creava una forte dipendenza) e che può avere effetti
devastanti, osservabili nei tossicodipendenti.
La morfina si lega a tre tipi di recettori, μ (mu), δ (delta) e κ (kappa), i quali sono recettori metabotropici
(associati a proteine G). I recettori per gli oppioidi sono presenti in molti punti del sistema nervoso centrale,
sono localizzati per esempio nel sistema limbico, dove se legati forniscono una sensazione di benessere (è
proprio questo senso di benessere che provano gli eroinomani quando assumono l’eroina). Sono anche presenti
nella sostanza grigia periacqueduttale, a livello del nucleo del rafe magno e a livello del corno posteriore del
midollo spinale, cioè in tutte le localizzazioni facenti parti del sistema discendente di controllo del dolore ed è
per questo che possono inibire il dolore.
Come già detto, sono stati prima identificati i recettori per gli oppiacei, per la morfina e per l’eroina, e da lì
si è partiti per ricercare quali erano le sostanze endogene in grado di attivare questi recettori. Attraverso un

19
N.B. Tutte le strutture citate non hanno funzione solo nella modulazione del dolore: essa rappresenta solo una delle
innumerevoli funzioni che questi centri hanno (alcuni sono addirittura a proiezione diffusa, cioè proiettano praticamente
in quasi tutte le strutture del SNC, come i nuclei del rafe e il locus coeruleus).

37
esperimento ingegnoso si è riusciti ad individuare gli oppioidi endogeni, prendendo dei pezzi di intestino ed
andando a vedere quali estratti di tessuto cerebrale erano in grado di inibirne l’attività. Gli estratti sono stati
successivamente purificati e si sono classificati tre principali oppioidi endogeni: le encefaline, le endorfine e
le dinorfine. Questi sono gli agonisti endogeni dei recettori μ, δ e κ, e mediano le azioni di questo sistema. Gli
oppioidi endogeni vengono liberati in circolo in condizione di stress, soprattutto a livello del sistema nervoso
centrale e agiscono su diversi distretti. I loro recettori sono presenti anche a livello del midollo spinale e questo
spiega perché oggi si può effettuare l’anestesia epidurale: iniettando i farmaci nel liquor spinale possono venir
raggiunti i recettori per gli oppioidi e in questo modo bloccare gli stimoli dolorifici.

I neuroni del PAG mesencefalico vengono


in parte attivati dal sistema spino-
mesencefalico e in parte da corteccia,
ipotalamo, amigdala e altre regioni. Questi
impulsi possono attivare i neuroni
encefalinergici del PAG, che a loro volta
possono inibire interneuroni inibitori: il
risultato è un’attivazione del sistema
discendente normalmente inibito (doppia
inibizione = attivazione).
Lo stesso meccanismo si verifica a livello
dei nuclei del rafe e del corno posteriore del
midollo spinale, a livello del quale i neuroni
encefalinergici possono inibire
direttamente la via di trasmissione dell’informazione dolorifica. Possono infatti esercitare un’inibizione pre-
sinaptica a livello della terminazione assonica del neurone sensitivo primario: il neurotrasmettitore rilasciato
si lega ai suoi recettori e, tramite la diminuzione dell’ingresso di calcio nel terminale, limita il rilascio di
sostanza P. L’inibizione può essere anche post-sinaptica: essa è effettuata direttamente sui neuroni del fascio
spino-talamico, aumentando la permeabilità al potassio e quindi allontanando il valore del potenziale di
membrana dal valore soglia (diminuzione dell’eccitabilità del neurone).

Oltre agli oppioidi endogeni ci sono altre sostanze con effetto simile, come gli endocannabinoidi: agiscono
sugli stessi recettori a cui si lega la cannabis (CB1, più numerosi a livello del SNC, e CB2, più numerosi in
periferia). La sostanza più conosciuta tra gli endocannabinoidi è l’anandamide, che induce una sensazione di
benessere e in parte una riduzione del dolore. I meccanismi d’azione di questo sistema sono però molto meno
conosciuti rispetto a quelli degli oppioidi endogeni.

Aggiunte sull’argomento:
 per sindrome da astinenza si intende una serie di sintomi fisiologici opposti a quelli stimolati dalla
sostanza verso la quale si prova astinenza. Gli oppioidi danno una sensazione di calma e tranquillità,
i soggetti in crisi di astinenza hanno invece uno stato di eccitazione; allo stesso modo gli oppioidi
danno analgesia e conseguentemente i soggetti in astinenza hanno una ipersensibilità al dolore;
 gli oppioidi endogeni non causano dipendenza in quanto sono degradati molto velocemente; al
contrario gli esogeni persistono a lungo;
 nelle persone che fanno molta attività fisica abitualmente, lo svolgimento della stessa induce la
liberazione di oppioidi endogeni, dando origine a un fenomeno chiamato vigoressia, cioè un benessere
diffuso causato dall’attività fisica;
 il naloxone è una sostanza in grado di fungere da antagonista degli oppioidi endogeni e quindi anche
della morfina e dell’eroina, ed è utilizzato ad esempio per impedire la morte per overdose da
morfina/eroina (la morte per overdose è dovuta ad un’elevata inibizione da parte della morfina dei
centri nervosi respiratori);
 si è recentemente osservato che l’effetto placebo per sindromi dolorifiche sembra essere dovuto a
liberazione di oppioidi: questo è stato verificato tramite tecniche di imaging; inoltre se al soggetto
viene somministrato naloxone gli oppioidi endogeni non possono agire e l’effetto placebo non si
sviluppa (anche questa è una prova del ruolo centrale che queste sostanze hanno nella genesi
dell’effetto stesso).

38
2. Controllo del movimento

Le informazioni sensoriali raccolte perifericamente consentono di ricostruire una rappresentazione mentale


del mondo esterno che guida il nostro comportamento, la nostra interazione con l’ambiente e con gli altri. Ciò
non significa soltanto contrarre dei muscoli, il comportamento infatti comprende anche l’attivazione del
sistema nervoso autonomo, in modo tale che l’attività viscerale sia congrua all’attività fisica, e del sistema
neuroendocrino, per favorire il rilascio di ormoni che sostengano e implementino il comportamento.
Gli effettori del comportamento comprendono quindi il muscolo scheletrico, il muscolo liscio, il muscolo
cardiaco e le ghiandole. Costituiscono la parte terminale di un percorso che inizia grazie all’attivazione dei
recettori sensoriali: le informazioni recepite vengono convogliate al SNC passando attraverso midollo, tronco
encefalico, talamo e infine raggiungono la corteccia cerebrale. Ad ogni livello della salita, le informazioni
sensoriali raggiungono ogni stazione di controllo motorio sia per i muscoli scheletrici che per gli effettori
viscerali. Le vie di controllo motorio originano in parte dalla corteccia e in parte da stazioni sottocorticali e si
organizzano in fasci che fanno sinapsi con interneuroni o direttamente con i motoneuroni situati nel corno
anteriore del midollo spinale.

È possibile eseguire movimenti semplici o complessi, andando ad attivare vie e circuiti nervosi semplici o
complessi. Affinché ogni tipologia di movimento venga realizzata correttamente, la via corrispondente deve
ricevere le adeguate informazioni sensoriali.
Possiamo classificare i movimenti in diverse tipologie, dalla più semplice a quella più complessa:
1. Movimenti riflessi: sono i movimenti più semplici, sono risposte rapide e automatiche ad uno stimolo
sensoriale, che determinano contrazioni coordinate di alcuni muscoli e il rilasciamento di altri. Sono
considerati movimenti stereotipati: ad un determinato stimolo segue sempre lo stesso movimento. In
realtà i circuiti che controllano i movimenti riflessi a livello del midollo spinale, ricevono a loro volta
comandi dai centri superiori che possono modularne l’efficacia e modificarne l’espressione. Quindi
questi riflessi possono essere sfruttati dagli stessi centri superiori per produrre movimenti volontari
(ad es., portando una tazzina di caffè alla bocca, movimento sicuramente non riflesso, viene piegato il
braccio, il bicipite si contrae mentre il tricipite viene rilassato: questo è lo stesso pattern che si ha
durante il riflesso miotatico). I centri superiori quindi, invece di andare a controllare ogni motoneurone
alla volta, possono semplicemente attivare un circuito preesistente. Un altro esempio è il circuito
riflesso di flessione-estensione crociata, sfruttato durante la deambulazione (un arto viene flesso,
l’altro viene esteso, in modo alternato).
2. Movimenti ritmici: più complessi dei semplici riflessi, producono dei movimenti coordinati e
ripetitivi di contrazione e rilassamento muscolare. Sono movimenti ritmici la respirazione, la
masticazione, la deglutizione, il grattamento, la locomozione e i movimenti oculari rapidi. Questi
movimenti iniziano volontariamente, ma vengono poi eseguiti in modo automatico, prevalentemente

39
e direttamente controllati dagli stimoli sensoriali provenienti dalla periferia. Un esempio è
rappresentato dal riflesso di grattamento nel cane.
I movimenti ritmici sono generati e mantenuti da specifiche reti nervose situate prevalentemente nel
tronco encefalico, chiamati “generatori centrali di pattern motori”, attivati dalla volontà e che
proseguono la loro azione modulati da stimoli periferici. In realtà alcuni movimenti, come la tosse,
sono innescati da impulsi sensoriali e non dalla volontà del soggetto.
3. Comportamenti motivati: sono guidati dalla necessità di soddisfare esigenze necessarie alla
sopravvivenza, comportamenti istintivi che nascono dalla necessità di mantenere costanti le condizioni
interne dell’organismo. Tali comportamenti sono coordinati da centri nervosi gerarchicamente più alti
dei precedenti, prevalentemente a livello ipotalamico.
4. Movimenti volontari: in cima a questa gerarchia di tipologie di movimento e di complessità di
strutture nervose che li producono ci sono i movimenti volontari, che consentono di compiere atti
specifici, come il movimento delle estremità degli arti e il linguaggio. Il linguaggio richiede un
controllo motorio altamente specifico di tutti i muscoli implicati nella fonazione, muscoli della lingua,
bocca e respirazione, ma anche il contemporaneo sviluppo di centri corticali adeguati a sostenere la
componente cognitiva delle comunicazioni linguistiche. Il più alto livello di controllo del movimento
è la corteccia cerebrale, che può coordinare movimenti più raffinati, fini, specifici. Dalla corteccia
motoria primaria, premotoria e parietale si dipartono le vie cortico-spinali, fasci discendenti che
arrivando al midollo spinale e attivano i motoneuroni per l’esecuzione del movimento volontario.
L’aspetto decisionale caratterizza il movimento volontario, di cui è responsabile la corteccia
prefrontale. Partecipano anche la componente sensoriale, importante guida, e emozioni, ricordi,
ambizioni e altri aspetti depositati nella corteccia cerebrale. Tutte queste informazioni convergono
nella corteccia prefrontale, che “decide” lo scopo del movimento, ed è la prima ad essere attivata.
Un esempio: il bisogno di caffeina porta all’attivazione della corteccia prefrontale, la quale elabora la
decisione di prendere un caffè. La corteccia prefrontale attiva a sua volta la corteccia parietale
posteriore e la corteccia premotoria, che insieme “decidono” qual è la strategia migliore da un punto
di vista motorio per compiere l’azione. Quindi, nell’esempio, come approcciarsi alla tazzina, come
afferrarla e in che punto, come portarla alle labbra ecc. Soltanto dopo questa elaborazione si ha
l’attivazione della corteccia motoria primaria, che esegue e controlla la specifica sequenza di
attivazione di motoneuroni del midollo spinale che produrranno il movimento. A controllare il
movimento volontario è dunque la corteccia cerebrale nel suo insieme e non soltanto la corteccia
motoria primaria.

I principali centri di controllo delle diverse tipologie di movimento hanno diversa localizzazione:
 midollo spinale: movimenti riflessi;
 tronco dell’encefalo: movimenti ritmici, quali respirazione, masticazione, movimenti oculari ecc.;
 diencefalo e in particolare ipotalamo: comportamenti motivati, come assunzione di cibo e liquidi;
 corteccia cerebrale: movimenti volontari e raffinati degli arti, dita e controllo del linguaggio.

Il controllo discendente, dalla corteccia al tronco dell’encefalo e al midollo spinale, è organizzato in un


sistema mediale, che origina dalla corteccia cerebrale e dal tronco encefalico, e in un sistema laterale, che
ha le stesse origini. Ci sono molte altre strutture implicate in questo controllo, come formazioni specifiche

40
presenti nel tronco, talamo, i gangli della base e il cervelletto, che non mandano direttamente informazioni
discendenti. Le diverse strutture implicate nel controllo del movimento lo rendono più raffinato e adeguato
alle condizioni dell’organismo.

2.1. Via finale comune: il motoneurone


I motoneuroni sono neuroni localizzati nel corno anteriore della sostanza grigia spinale, dove prendono
sinapsi. I motoneuroni α attivano i muscoli scheletrici: il loro assone esce dalla radice anteriore, si impegna
nei nervi spinali e prende infine sinapsi con le fibre muscolari. L’insieme del moteneurone α e di tutte le fibre
muscolari con cui prende sinapsi viene chiamata unità motrice. I motoneuroni che innervano un muscolo
scheletrico sono raccolti a livello del corno anteriore della sostanza grigia spinale in una colonna di neuroni
chiamata nucleo motore, che può estendersi per più segmenti spinali. 20 Gli assoni escono da radici anteriori
diverse e percorrono nervi diversi, ma in prossimità del muscolo le fibre si raccolgono in un unico fascio.
Il numero di fibre muscolari che ogni motoneurone può innervare è variabile, da poche fibre come a livello
delle unità motorie dei muscoli oculari (cinque ca.), a un numero molto più alto, come per i muscoli del dorso
(centottanta ca.). Un muscolo con unità motorie piccole può eseguire movimenti più raffinati rispetto a un
muscolo che ha unità motorie grandi.
Caso estremo: se tutte le fibre di un muscolo facessero parte della stessa unità motoria, ovvero fossero
innervate tutte dallo stesso motoneurone, nel momento in cui questo si attivasse il muscolo si contrarrebbe
completamente, senza possibilità di modulazione o modificazione. Se invece un muscolo è composto da tante
piccole unità motorie, si può attivare e graduare nel tempo la forza con cui il muscolo viene contratto.
La forza con cui un muscolo viene contratto dipende dunque da:
1. numero delle unità motorie reclutate, attivate;
2. intensità con cui ciascuna unità motoria viene attivata, ovvero la frequenza dei potenziali di azione
prodotti dal motoneurone che attiva le unità motorie. Ciascuna fibra muscolare di ciascuna unità
motoria può venire attivata maggiormente se la frequenza dei potenziali d’azione è alta, o meno
intensamente se la frequenza è più bassa.
I motoneuroni γ sono localizzati anch’essi nel corno anteriore della sostanza grigia spinale e vengono attivati
da vie discendenti. Producono la contrazione delle parti polari (periferiche) dei fusi neuromuscolari, che si
contraggono, mentre la zona centrale del fuso, attorno a cui è avvolta la fibra sensoriale Ia, viene stirata.
Questo produce l’attivazione del fuso. Il ruolo dei motoneuroni γ è quello di mantenere attivi i fusi
neuromuscolari anche durante la contrazione del muscolo.
I comandi discendenti attivano sia i motoneuroni α che quelli γ dello stesso muscolo. La co-attivazione α-γ
permette che i fusi neuromuscolari rimangano attivi anche durante la fase di contrazione, permettendo alla
porzione centrale di rimanere sempre in tensione. La fibra Ia può continuare a scaricare segnalando ai centri
nervosi se la contrazione muscolare e l’accorciamento muscolare avvengono regolarmente, oppure se ci sono
delle discrepanze tra la contrazione prevista e quella effettivamente prodotta.

Fisicamente i motoneuroni γ sono più piccoli dei motoneuroni α, i quali sono tra i neuroni più grandi del
SNC e hanno delle fibre di grosso diametro che conducono alla velocità di 72-120 m/s. I motoneuroni γ hanno
una velocità di conduzione dell’impulso inferiore, di 12-48 m/s.

20
La Zoccoli non vi va riferimento, ma ovviamente per i motoneuroni α che controllano i muscoli del volto, ciò non vale.
Essi infatti sono funzionalmente identici a quelli del midollo spinale, ma non sono organizzati in una colonna unica, bensì
dispersi nei diversi nuclei motori (ad es., il nucleo proprio dell’oculomotore, il nucleo dell’abducente, il nucleo motore
del faciale ecc.)

41
Una via discendente che attiva una popolazione di motoneuroni nel corno anteriore della sostanza grigia
spinale attiva anche interneuroni, che a loro volta attivano motoneuroni.
I motoneuroni del corno anteriore hanno tutti un assone a elevato diametro che conduce ad alta velocità;
tuttavia esistono motoneuroni grandi e motoneuroni più piccoli, con differenti velocità di conduzione.
All’inizio di una scarica vengono attivati prima i motoneuroni più piccoli, che controllano l’attività di unità
motorie più piccole. La contrazione avviene in maniera graduale; man mano che l’intensità del comando
discendente aumenta, aumenta la frequenza di scarica e la corrente sinaptica Isin è in grado di attivare anche i
motoneuroni grandi. Questo avviene perché a parità di impulso i motoneuroni più piccoli sono più facilmente
eccitabili. Secondo la legge di Ohm infatti:

ΔV = I · R
I: intensità di corrente applicata
R: resistenza di membrana

La corrente sinaptica (Isin) che viene prodotta dalla liberazione del neurotrasmettitore è la stessa nei due casi.
Il motoneurone più piccolo però ha una resistenza di membrana (R) maggiore del motoneurone più grande,
perché ha meno canali di membrana disposti in parallelo tra loro. Quindi per la legge di Ohm, se I è costante
(a parità di stimolazione dell’interneurone), ma R è significativamente maggiore, allora la differenza di
potenziale ΔV è maggiore nei motoneuroni piccoli. Di conseguenza, mentre nel motoneurone piccolo questa
corrente è sufficiente a produrre una variazione di potenziale che raggiunge il valore soglia e che dunque fa
partire un potenziale d’azione, per il motoneurone grande è insufficiente.

Organizzazione spinale: facilitazione ed occlusione


Per comprendere l’organizzazione dei circuiti del midollo spinale formati da motoneuroni e interneuroni
sono stati fatti molteplici studi, sfruttando i meccanismi dei circuiti riflessi. I riflessi maggiormente studiati
sono quelli dei fusi neuromuscolari; si è osservato l’effetto prodotto dalla stimolazione di tipo elettrico delle
fibre Ia.
Se la frequenza di stimolazione è molto bassa le prime fibre ad attivarsi (in una fibra muscolare ci sono
diverse fibre, afferenti, efferenti) sono le fibre Ia.
Si considerino due branche muscolari A e B, due fasci di fibre che provengono dallo stesso muscolo. Si
posiziona un elettrodo in ognuna di queste due fibre e si stimola a bassa intensità, in modo da attivare le fibre
Ia, il cui assone periferico percorre la branca muscolare e l’assone centrale penetra nel midollo spinale,
prendendo sinapsi con interneuroni e motoneuroni. Si registrano quindi i potenziali d’azione composti, che

42
sono l’insieme dei potenziali d’azione generati dalla branca muscolare a livello della radice anteriore del
midollo spinale (fibra efferente, composta da assoni dei motoneuroni).

Questo approccio allo studio dell’organizzazione spinale ha permesso di verificare e di comprendere che a
livello del circuito del midollo spinale ci sono meccanismi di convergenza e di divergenza.
Divergenza significa che la fibra che entra nel MS, quindi l’assone centrale della fibra Ia, prende sinapsi con
diversi motoneuroni, che andranno poi a innervare, eccitare e far contrarre il muscolo in cui è inserito il fuso
neuromuscolare che è stato stimolato. Convergenza, che più assoni di fibre Ia prendono sinapsi con il
medesimo motoneurone.

Nella parte alta dell’immagine la fibra Ia della branca A prende sinapsi con 7 neuroni diversi, racchiusi nella
goccia azzurra. La goccia gialla rappresenta la sostanza grigia del midollo spinale.
 I motoneuroni hanno eccitabilità diversa in base alle dimensioni; stimolazioni deboli, ovvero sotto-
massimali, sono in grado di attivare solo i motoneuroni piccoli più eccitabili. Nel pattern sperimentale
dell’esempio la stimolazione sotto-massimale della branca A produce l’attivazione di 2 motoneuroni
e si misura a livello della radice anteriore un potenziale d’azione RA = 2. La stimolazione della branca
B produce un analogo effetto. Quando si stimolano contemporaneamente le due branche tramite
stimolazione sotto-massimale si produce l’attivazione di ulteriori motoneuroni, in comune a branca A
e branca B, perché esistono anche fenomeni di convergenza. Gli impulsi si sommano per meccanismi
di sommazione spaziale, per cui anche altri tre motoneuroni raggiungono il valore soglia; il potenziale
d’azione composto che si registra a livello della radice anteriore è maggiore della somma dei

43
potenziali d’azione composti ottenuti dalla stimolazione singola delle branche. La convergenza può
dunque produrre, se la stimolazione è sotto-massimale, il fenomeno di facilitazione.
 Se la stimolazione della fibra Ia è molto intensa, massimale, si ha l’attivazione di tutti i motoneuroni.
Ogni fibra Ia attiva, per divergenza, 7 motoneuroni. La stimolazione contemporanea di entrambe le
branche A e B causa un fenomeno opposto, l’occlusione. L’attivazione contemporanea delle due
branche produce un effetto in termini di ampiezza di potenziale composto registrato nella radice
anteriore più basso di quello teorico presumibile sulla base dell’effetto prodotto dalla stimolazione
separata delle due branche. Il potenziale atteso è 14, ma si misura invece un valore inferiore, 12. La
causa è che due di questi MN sono attivati contemporaneamente da entrambe le branche, quindi il pool
totale dei MN che possono venire attivati in effettivo è 12, poiché due sono in comune. La
convergenza può quindi produrre anche fenomeni di occlusione, se la stimolazione è sovra-massimale.

Interneuroni inibitori
Diversi studi hanno dimostrato che esistono interneuroni inibitori nei circuiti riflessi. Sono stati evidenziati
due importanti tipologie di interneuroni inibitori: gli interneuroni Ia e le cellule di Renshaw.
Gli interneuroni Ia sono attivati da fibre Ia, attivate a loro volta ad esempio da un muscolo flessore. Il
circuito riflesso prevede che la fibra afferente Ia faccia sinapsi:
a. con il motoneurone del muscolo flessore tramite sinapsi diretta;
b. con l’interneurone inibitorio Ia, che va ad inibire uno (o più) motoneurone(i) del muscolo
antagonista, quindi del muscolo estensore (nell’esempio).
L’esistenza degli interneuroni inibitori Ia è stata dimostrata dalla stimolazione contemporanea delle fibre Ia
provenienti sia dall’estensore che dal flessore: la mancata attivazione dei rispettivi motoneuroni indica la
presenza di un intermedio inibitorio.
Le cellule di Renshaw vengono attivate da collaterali degli assoni dei motoneuroni, prima che escano dalla
radice anteriore. La cellula di Renshaw inibisce:
a. il motoneurone stesso che lo ha attivato, con meccanismo a feedback negativo21;
b. gli interneuroni inibitori Ia dei muscoli antagonisti, producendo un’attivazione.
La cellula di Renshaw è in pratica un sistema di contenimento, che va a limitare l’effetto dell’attivazione di
un riflesso.

21
A lezione la prof. ha detto feedback positivo (o meglio, così risulta dalle sbob). In realtà però, verificando sul Kandel,
risulta che effettivamente si tratta di un meccanismo a feedback negativo: “Le connessioni inibitorie delle cellule di
Renshaw con i motoneuroni formano un sistema a feed-back negativo che può contribuire a stabilizzare la frequenza di
scarica dei motoneuroni stessi.”

44
Le fibre discendenti, per produrre e controllare movimenti, di rado attivano direttamente i motoneuroni, ma
di norma vanno ad attivare, controllare e modulare la circuiteria intramidollare (tra cui cellule di Renshaw e
interneuroni Ia); hanno dunque un’azione complessiva sullo stato di attivazione del corno anteriore della
sostanza grigia del midollo spinale.
Si può avere ad esempio un comando discendente che attiva il motoneurone di un flessore, ma che
contemporaneamente va ad inibire l’interneurone inibitorio Ia. Come risultato si ottiene una contrazione del
flessore e contemporaneamente una contrazione dell’estensore, non più inibito. Ci sarà quindi una co-
contrazione di flessore ed estensore, situazione necessaria per sollevare un peso: bicipite e tricipite brachiale,
antagonisti, devono contrarsi contemporaneamente. Su questi interneuroni le vie discendenti possono
modulare la risposta motoria e ottenere pattern di co-attivazione molto specifici e finalizzati allo scopo del
movimento.

Collocazione dei nuclei motori


Nucleo motore = insieme dei motoneuroni che innervano uno stesso muscolo periferico.
Questi nuclei motori, che si trovano nel corno anteriore della sostanza grigia spinale, possono estendersi per
2-3 segmenti spinali. Inoltre, la collocazione dei nuclei motori nel midollo non è casuale, ma è topografica:
 Parte laterale del corno anteriore (nucleo motore dorsolaterale): contiene i nuclei motori per i
muscoli distali degli arti, grazie ai quali si compiono movimenti raffinati come quelli della mano,
delle dita e l’equilibrio del piede.
 Parte mediale del corno anteriore (nucleo motore ventromediale): contiene i nuclei motori per i
muscoli assiali e della radice degli arti, che sono implicati nel mantenimento della postura.

I neuroni che compongono questi nuclei sono collegati tra loro da interneuroni, inibitori ed eccitatori, che
vanno a coordinare l’attivazione di motoneuroni dello stesso nucleo motore e quindi fanno contrarre lo stesso
muscolo. Gli interneuroni proprio-spinali che collegano tra loro i motoneuroni che fanno parte dei nuclei
motori per i muscoli distali sono brevi, mentre gli interneuroni che collegano motoneuroni per i muscoli
assiali sono interneuroni lunghi, che possono percorrere virtualmente anche tutto il midollo spinale.
Questo ci dice che l’attività dei muscoli assiali e prossimali degli arti, ovvero dei muscoli posturali, è
un’attività integrata e coordinata volta al mantenimento della postura. Diversa è l’organizzazione per i
motoneuroni che controllano i muscoli distali degli arti. Questi, dovendo determinare movimenti precisi, non
si contraggono tutti in una volta, ma solo alcuni in determinati momenti.
Sempre per quanto riguarda la disposizione topografica dei motoneuroni, si può dire che gli interneuroni che
collegano motoneuroni per i muscoli distali rimangono sempre ipsilaterali, mentre gli interneuroni che
collegano motoneuroni dei muscoli assiali o prossimali degli arti possono raggiungere motoneuroni di
entrambe le metà del midollo spinale. Questo a conferma del fatto che i muscoli posturali si contraggono tutti
in modo coordinato.
Un ultimo aspetto organizzativo è dato dalla diversa collocazione a livello del corno anteriore di flessori ed
estensori, specialmente per quanto riguarda i motoneuroni per i muscoli degli arti, ovvero quelli localizzati
nella porzione più laterale. Nello specifico, a questo livello si ritrovano anteriormente quelli che controllano
gli estensori e posteriormente quelli che controllano i flessori.

2.2. Organizzazione delle vie discendenti motorie


e 2.3. Funzione delle vie del sistema laterale e del sistema mediale
Tutti i neuroni finora descritti sono controllati da vie discendenti che partono da centri superiori, dal tronco
encefalico o dalla corteccia. Queste vie sono organizzate in due sistemi:
 vie del sistema laterale: comprendono le vie discendenti che controllano i motoneuroni per i muscoli
distali degli arti;
 vie del sistema mediale: controllano l’attività dei motoneuroni per la contrazione dei muscoli assiali
e della radice degli arti.

Queste vie terminano:


1. direttamente sui motoneuroni α (meno frequentemente);

45
2. a livello delle sinapsi tra fibre sensoriali e circuiti midollari, andando a modulare l’arrivo di
informazioni sensoriali critiche nel determinare risposte riflesse, ma anche di quelle informazioni che
poi, salendo verso l’alto, attivano i centri di controllo motorio (modulazione presinaptica delle
afferenze sensoriali);
3. su interneuroni intermedi eccitatori e inibitori, quindi gli interneuroni inibitori Ia, le cellule di
Renshaw e su tutti gli interneuroni proprio-spinali;
4. sui motoneuroni γ, molto importanti per modulare la sensibilità dei fusi neuromuscolari,
mantenendoli attivi anche durante la contrazione muscolare. In questo modo vengono modulate in via
riflessa le risposte di contrazione degli agonisti e degli antagonisti che fanno parte del circuito attivato
dall’attivazione dei fusi stessi.
Le stesse vie discendenti attivano i motoneuroni α per un muscolo e i motoneuroni γ che si portano
nei fusi neuromuscolari dello stesso muscolo stimolato dagli α.

Esempio: si prenda in considerazione uno stimolo motorio volto a determinare la co-contrazione di un


muscolo agonista e di un antagonista, ad esempio per prendere e sollevare una bottiglia d’acqua. Il comando
motorio che stimola i motoneuroni dell’uno (bicipite brachiale), inibisce gli interneuroni inibitori Ia
dell’antagonista (tricipite brachiale), permettendo la contrazione di entrambi i muscoli e il sollevamento della
bottiglia.
Allo stesso modo un comando discendente che va ad attivare una cellula di Renshaw, può frenare o inibire
una risposta riflessa. In alcuni momenti infatti, le risposte riflesse possono risultare controproducenti e per
questo motivo devono poter essere inibite. Esempio: si supponga di tenere qualcosa di fragile in mano.
Verranno quindi attivate delle vie volte a mantenere l’oggetto saldamente nella mano. Se però mentre si tiene
l’oggetto si stanno scendendo le scale e in un certo momento si scivola, il riflesso di prensione dell’oggetto
precedentemente attivato viene velocemente inibito, per poi essere sostituito da un comportamento motorio
diverso, che in questo caso permette di aggrapparsi al corrimano delle scale per non cadere.
Ricapitolando. Se c’è un riflesso miotatico attivato da uno stimolo periferico, i sistemi di controllo superiori,
possono inibire, mediante Renshaw, il motoneurone (o meglio, il gruppo di motoneuroni) per il muscolo che
si sta contraendo (agonista) e l’interneurone inibitorio Ia (o meglio il gruppo di interneuroni) che stava inibendo
l’antagonista, portando alla sua attivazione.
In sostanza basta ricordare che le vie discendenti, agendo su interneuroni inibitori mentre agiscono anche su
motoneuroni α, possono ottenere movimenti radicalmente diversi da quelli che si otterrebbero dalla semplice
esecuzione di movimenti riflessi.

Controllo troncoencefalico
Le vie del sistema mediale a origine dal tronco encefalico originano in particolare da tre sue strutture:

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1. Tetto: porzione posteriore del mesencefalo, in particolare dal collicolo superiore. Tutte le vie che
originano a questo livello vengono chiamate vie tetto-spinali, sulla base dell’origine e dell’arrivo dei
fasci.
2. Formazione reticolare del ponte e in parte anche del bulbo: in questo caso si parla di vie reticolo-
spinali.
3. Nuclei vestibolari: nuclei che si trovano nel ponte, ricevono informazioni sensoriali da utricolo,
sacculo e canali semicircolari. Le vie che originano da questi nuclei prendono il nome di vie vestibolo-
spinali.

Vie tetto-spinali
Originano dal tetto del mesencefalo, dai collicoli superiori, incrociano la linea mediana e scendono
attraversando tutto il tronco dell’encefalo, a livello del quale mandano sinapsi alla formazione reticolare. A
questo punto raggiungono il midollo spinale, dove fanno sinapsi su interneuroni e motoneuroni della porzione
più mediale del corno anteriore della sostanza grigia. Mediante interneuroni proprio-spinali, queste fibre
esercitano un effetto bilaterale attivando muscoli posturali assiali di entrambe le metà del corpo.

Queste vie raggiungono principalmente il midollo del tratto cervicale, senza proseguire inferiormente.
Questo perché la loro funzione è quella di coordinare i movimenti del capo a seguito di stimoli sensoriali
uditivi, visivi e/o somatici, consentendo di girare la testa seguendo uno di questi stimoli.

Vie vestibolo-spinali

Originano dai nuclei vestibolari del ponte, in particolare:

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 Nucleo vestibolare laterale o nucleo di Deiters . Riceve informazioni dai recettori localizzati
nell’utricolo e nel sacculo, che segnalano variazioni nell’accelerazione lineare del capo. Dal nucleo
vestibolare, le fibre scendono come fascio vestibolo-spinale laterale per tutta la lunghezza del
midollo spinale, raggiungendo quindi i motoneuroni che poi si portano ai muscoli posturali. In questo
modo vengono consentiti aggiustamenti nella postura a seguito di variazioni nell’accelerazione
lineare, e in parte anche angolare, del capo. Una piccola quota di fibre che provengono dai recettori
nelle ampolle dei canali semicircolari, che percepiscono accelerazioni angolari del capo, si portano
infatti a fare sinapsi in questo nucleo.
 Nucleo vestibolare mediale. Riceve prevalentemente informazioni dai recettori nelle ampolle dei
canali semicircolari. Dai nuclei vestibolari mediali originano i fasci vestibolo-spinali mediali.
Questi discendono nel tronco, dove mandando sinapsi alla formazione reticolare, poi nel midollo
cervicale e toracico alto, permettendo aggiustamenti nella posizione della testa in risposta ad
accelerazioni angolari.
N.B. Il fatto che tutte queste vie facciano sinapsi nella formazione reticolare fa sì che queste, insieme ai
nuclei dai quali originano, agiscano in modo integrato e coordinato.

Vie reticolo-spinali

Il terzo gruppo di fibre discendenti è rappresentato dalle fibre che vengono prodotte dai neuroni della
formazione reticolare pontina e in parte bulbare.
La formazione reticolare produce due fasci discendenti:
 Fascio reticolo-spinale mediale: è il principale contingente di fibre che origina dalla formazione
reticolare, in particolare dalla formazione reticolare pontina. Da qui, raggiunge i motoneuroni per il
controllo dei muscoli estensori posturali di entrambe le metà del corpo, sostenendone l’attività.
 Fascio reticolo-spinale laterale: fibre discendenti che originano dalla formazione reticolare
bulbare. Il loro ruolo di questo contingente però è meno chiaro nella specie umana perché non attivano
i muscoli estensori, ma al contrario possono esercitare un'azione inibitoria su di essi, attivando allo
stesso tempo i flessori posturali. In un certo senso questo gruppo di fibre va a limitare l'azione dei
muscoli posturali, ed è per questo che questo contingente viene considerato funzionalmente parte del
sistema laterale, quello per i muscoli distali degli altri e i muscoli volontari. Effettivamente quando
si vuole compiere un movimento volontario bisogna limitare la contrazione dei muscoli posturali al
fine di aggiustare la postura durante lo svolgimento del movimento: un muscolo posturale che
inizialmente era contratto per mantenere la postura, durante l'esecuzione del movimento volontario
dovrà essere rilasciato per consentirne lo svolgimento, mentre altri muscoli posturali dovranno essere
contratti per compensare.
Esempio. Movimento di allungamento del braccio e busto per afferrare una fetta di torta distante da
noi. Se ci si trova in piedi, man mano che ci si allunga si compiono dei movimenti compensatori, una
gamba si solleverà leggermente dal pavimento proiettandosi posteriormente per compensare lo
spostamento del baricentro in avanti, evitando la caduta. Il pattern di contrazione dei posturali viene

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quindi momentaneamente inibito e ridistribuito nel corso del movimento volontario e questo
contingente di fibre bulbari partecipa a questa rimodulazione.

Vie del sistema laterale a origine troncoencefalica


Quasi tutto il sistema laterale, nella specie umana, è costituito dalle fibre del sistema cortico-spinale. Questo
significa che nella specie umana i movimenti raffinati volontari sono controllati quasi esclusivamente dalla
corteccia.
Negli altri animali, in maniera residuale anche nell’uomo, un contributo a questo sistema viene dato anche
dal nucleo rosso, un nucleo mesencefalico. Dal nucleo rosso, le fibre (fascio rubro-spinale) incrociano la
linea mediana, scendono nel midollo e raggiungono i motoneuroni presenti nella porzione laterale del corno
anteriore, per i muscoli distali degli arti.
Anche una componente delle fibre che discende dalla formazione reticolare, partecipa alle vie laterali,
nonostante la formazione reticolare non ne faccia parte dal punto di vista anatomico. Nello specifico si parla
di quelle fibre che originano dalla porzione bulbare della formazione reticolare.

Controllo corticale
La corteccia è sede dei circuiti che consentono lo svolgimento di movimenti volontari.
Quando si vuole compiere un movimento volontario, non si deve programmare solo la contrazione dei
muscoli finalizzati all'obiettivo ma anche riprogrammare e rimodulare lo stato di contrazione di tutti gli altri
muscoli corporei per mantenere l'equilibrio e la postura. Muoversi è dunque complesso, l'essere umano lo
apprende e migliora con l'esperienza.
Le vie che discendono dalla corteccia sono chiamate vie cortico-spinali, dirette quindi al midollo spinale.

Vie cortico-spinali laterali o via piramidale laterale


Sono quelle numericamente più rappresentate (80/90 % di tutte le fibre corticospinali). Sono fasci molto grossi
con un milione di fibre circa, 1/3 delle quali originano dalla corteccia motoria primaria (area 4), 1/3 dalla
corteccia premotoria (area 6) e 1/3 inaspettatamente dalla corteccia somatosensoriale primaria (area 3-1-
2).
Perché delle fibre che originano da una corteccia sensoriale scendono con fibre del controllo motorio? Perché
le informazioni sensoriali, come detto più volte, sono cruciali per il controllo motorio, che dipende quindi
strettamente dall'arrivo di informazioni sensoriali. Gli esseri umani impostano l'attività di tutti i centri di
regolazione motoria sulla base delle informazioni sensoriali, della posizione del corpo, dello stato di
contrazione, della velocità con cui si spostano i vari segmenti corporei: ci sono infatti connessioni dirette fra
l'area somatosensitiva primaria e l'area motoria primaria.

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 Le fibre che scendono al midollo spinale dalla corteccia sensitiva primaria, attraversano la capsula
interna, scendono verso il basso incrociando la linea mediana, per fare poi sinapsi con i neuroni del
corno posteriore della sostanza grigia spinale, andando a modulare l'arrivo di informazioni
sensoriali che entrano dalla radice posteriore, modulando quindi le risposte riflesse motorie che queste
informazioni andranno a generare e infine a modulare la salita verso l'alto di informazioni sensoriali
che, ad ogni livello della struttura gerarchica di controllo del movimento, controllano le risposte
motorie. Queste fibre discendenti quindi, condizionano pesantemente l'output motorio.
 Le fibre discendenti dall'area 4 e 6 scendono dalla corteccia, attraversano la capsula interna,
raggiungono il tronco encefalico, scendendo dallo stesso lato da cui sono originate, passano in
prossimità del nucleo rosso e passandovi mandano una collaterale. Continuano a scendere fino al
confine fra bulbo e midollo e a questo livello incrociano la linea mediana (decussazione delle
piramidi), proseguono dalla parte eterolaterale nel cordone laterale della stanza bianca raggiungendo
i diversi livelli del midollo spinale, in particolare cervicale e lombare, e prendono sinapsi con le cellule
della porzione più anteriore della sostanza grigia spinale, direttamente con i motoneuroni o con gli
interneuroni.
Tutto questo sistema cortico-spinale laterale è importante ed è il principale sistema di fibre discendenti per
il controllo dei motoneuroni responsabili della contrazione dei muscoli distali degli arti, se non unica
componente dei sistemi laterali.
Filogeneticamente il fascio cortico-spinale laterale è comparso per la prima volta nei mammiferi e
inizialmente era costituito unicamente da fibre che originavano dalla corteccia e finivano nella porzione
posteriore della sostanza grigia del midollo. Quindi quando è comparso il controllo del movimento, questo
veniva esercitato attraverso la modulazione delle informazioni sensoriali e quindi dai riflessi da loro prodotti.
Era un sistema che non dava la possibilità di compiere movimenti raffinati, che invece si sono manifestati
quando sono comparse le fibre che prendono contatto diretto con i motoneuroni.

Vie cortico-spinali ventrali o via piramidale anteriore


Un contingente minoritario del sistema fa parte del sistema mediale. Numericamente è molto meno
importante rispetto al fascio cortico-spinale laterale (soltanto il 10/20% delle fibre fa parte del contingente
ventrale). Queste fibre discendenti originano dalla corteccia motoria primaria e premotoria, scendono
anch'esse attraverso tutto il tronco dell'encefalo e mentre scendono mandano collaterali agli altri centri del
sistema mediale (formazione reticolare e nuclei vestibolari). Continuano verso il basso, non incrociano la
linea mediana nella decussazione delle piramidi, ma proseguono nel cordone anteriore della sostanza bianca
del midollo spinale ipsilaterale e prendono sinapsi con gli interneuroni e i motoneuroni della porzione più
mediale del corno anteriore. Questo contingente quindi, insieme ai fasci reticolo-spinali e vestibolo-spinali, si
occupa principalmente del controllo posturale.

Vie cortico-bulbari
La corteccia cerebrale controlla i movimenti volontari non soltanto della porzione distale degli arti ma anche
dei muscoli del capo e in particolar modo dei muscoli del viso. La corteccia cerebrale infatti manda vie
discendenti che raggiungono il midollo spinale ma anche vie discendenti che raggiungono il tronco encefalico
che controllano i nuclei motori dei nervi cranici. Queste ultime sono dette vie cortico-bulbari perché
principalmente vanno a controllare il nucleo motore del VII nervo cranico, il nervo faciale, che si trova nel
bulbo e che controlla la muscolatura del volto. Non termina esclusivamente a livello del faciale, ma anche di
altri nuclei, permettendo ad esempio di controllare i movimenti oculari; esso tuttavia è soprattutto un sistema
importante per il controllo raffinato della contrazione dei muscoli facciali, fondamentale nella nostra vita di
esseri umani per diversi motivi:
 Capacità di comunicazione verbale
I muscoli della lingua e delle labbra partecipano al processo di fonazione. Parlare è l’elemento che più
ci caratterizza come esseri umani. Ci contraddistingue dagli altri animali perché il linguaggio facilita
la comunicazione ma soprattutto facilita il passaggio culturale da una generazione all’altra: grazie alla
comunicazione ogni generazione parte dal risultato delle generazioni precedenti.
 Capacità di esprimere diverse espressioni facciali
L’espressione facciale ha un’importanza sociale nella comunicazione interpersonale, infatti la
comunicazione non verbale dipende soprattutto dall’espressione facciale.
Una cosa particolare relativa al controllo dei movimenti del viso è che i motoneuroni che controllano la
contrazione dei muscoli della parte superiore del viso ricevono impulsi e comandi dalla corteccia motoria

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di entrambi i lati, ricevono cioè un’innervazione bilaterale: se quindi si ha una lesione nella corteccia motoria
di un emisfero non si ha una paralisi dei muscoli della parte superiore della faccia, perché i motoneuroni che
controllano questi muscoli ricevono comandi corticali dalle cortecce motorie dei due emisferi e non solo di
quello lesionato. Al contrario i motoneuroni che controllano i movimenti della parte inferiore del volto
ricevono, come tutti i motoneuroni, soltanto comandi dall’emisfero controlaterale: quindi una lesione
corticale di un emisfero produce una paralisi solo della metà inferiore del viso (ovviamente controlaterale alla
lesione).
Una lesione più periferica, invece, di un nervo faciale di un lato comporterà la paralisi di tutta quella metà
del viso.
Ciò permette di differenziare in un paziente che ha paralisi facciale se l’origine è centrale o dipende da una
lesione del nervo periferico.

Tono posturale
Abbiamo visto le vie discendenti che agiscono sui motoneuroni spinali. Il sistema mediale controlla il tono
dei muscoli posturali, invece il sistema laterale è quello maggiormente importante per il controllo dei
movimenti della parte distale degli arti e l’esecuzione dei raffinati movimenti volontari che ci consentono una
interazione proficua con l’ambiente.
Il tono posturale è lo stato di contrazione continua che
hanno i muscoli estensori che permette di affrontare la
presenza della forza di gravità.
La forza di gravità ci schiaccerebbe verso il suolo ma
riusciamo a resistere perché contraiamo dei muscoli che si
oppongono a questa spinta verso il basso. Questi muscoli
sono i muscoli posturali e sono principalmente quelli
estensori degli arti, del collo e del tronco. Il tono dei
muscoli estensori è prodotto dall’attivazione dei
motoneuroni alfa e gamma che sono diretti a questi
muscoli.

Un tono di base è dato dall’arrivo delle attivazioni


sensoriali periferiche dai fusi neuromuscolari dei muscoli
estensori.
Esempio del quadricipite femorale: la forza di gravità tende a spingerci verso il basso facendoci flettere il
ginocchio, i fusi neuromuscolari presenti nel muscolo quadricipite vengono stirati perché il muscolo si allunga
se flettiamo un po' la gamba. Ciò attiva la fibra Ia che produce, in via riflessa, la contrazione del muscolo
quadricipite stesso, opponendoci così alla forza di gravità.
La stessa risposta riflessa si ha in tutti i muscoli estensori, però essa da sola non è sufficiente a contrastare
la forza di gravità: sono necessari quei comandi discendenti prima esaminati che fanno parte del sistema
mediale, che sono rappresentati principalmente dalle fibre discendenti della sostanza reticolare pontina che
vanno a eccitare i muscoli estensori, aumentandone il tono e lo stato di attività.
Accanto a questo, almeno fasicamente si avrà l’attivazione dei sistemi che fanno parte del sistema laterale:
fibre discendenti dalla corteccia cerebrale (fascio corticospinale laterale), nucleo rosso (anche se poco nella
specie umana) e sostanza reticolare bulbare. Questi sistemi invece vanno a inibire i muscoli estensori per
consentire lo svolgimento di altri tipi di movimento.
Risultato complessivo: in condizioni basali prevale la scarica delle vie mediali e quindi si avrà il tono
muscolare di base, con una prevalenza dell’attività dei muscoli estensori.

Lesioni e casi clinici


N.B. Questi studi sono stati fatti principalmente da Sherrington nel secolo scorso sui gatti. Erano molti utilizzati i
gatti perché hanno una struttura dell’organizzazione midollare molto simile a quella umana, oggi cani e gatti non sono
più utilizzati nella ricerca scientifica.

1. Sezione del midollo spinale alla giunzione tra midollo spinale stesso e tronco dell’encefalo
Conseguenze: in acuto si ha una condizione di paralisi flaccida (ipotonia e flaccidità). C’è una
perdita del tono muscolare perché viene perso il prevalente drive di eccitazione sugli estensori. È
vero che le informazioni sensoriali che vengono dai fusi neuromuscolari sono ancora presenti ma

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in condizioni di shock subito dopo la lesione i circuiti non funzionano. La mancanza improvvisa del
drive discendente crea una situazione di disequilibrio a livello dei circuiti midollari per cui
transitoriamente non funziona niente. Nelle settimane successive invece si svilupperà una
condizione di iper-riflessia con sviluppo di rigidità.

2. Decerebrazione (sezione fatta a livello del mesencefalo): sostanza reticolare bulbare e pontina e i
nuclei vestibolari sono ancora connessi al midollo spinale, ma viene persa l’influenza della maggior
parte del sistema laterale (i fasci corticospinali laterali).
Conseguenze: togliendo l’attività della corteccia cerebrale e del nucleo rosso che normalmente
frenano l’effetto dell’attivazione reticolare pontina e vestibolare sugli estensori (soprattutto sono le
fibre corticospinali ad attuare ciò negli uomini, il nucleo rosso ha una rilevanza minore) si crea una
situazione di disequilibrio e si ha una condizione di forte ipertonia degli estensori, forte rigidità.
È determinata in proporzione non trascurabile da fibre reticolari pontine e vestibolari discendenti
che prendono sinapsi sui motoneuroni gamma, questi vanno a stirare la parte centrale del fuso e
attivano la fibra Ia, producendo la contrazione riflessa del muscolo estensore stesso. La prova
dell’esistenza di questa azione specifica sui gamma è che se si sezionano le radici posteriori del
midollo spinale l’ipertonia diminuisce: ciò è dovuto al fatto che si sezionano le fibre Ia e si
interrompe così l’arco riflesso che è stato determinato dall’attivazione dei motoneuroni gamma.

3. Decorticazione (sezione ancora più alta, rimane connesso il nucleo rosso, sono interrotte solamente
le connessioni della corteccia cerebrale).
Conseguenze: sempre ipertonia degli estensori, perché comunque la fonte principale di fibre del
complesso laterale è quella della corteccia che rimane ancora esclusa in questa decorticazione, ma
avere incluso il nucleo rosso ha cambiato un po’ le cose: ha un effetto limitato prevalentemente

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concentrato nei muscoli degli arti anteriori nel gatto, sui muscoli degli arti superiori negli uomini.
La presenza del nucleo rosso fa sì che a livello degli arti anteriori del gatto e degli arti superiori
della specie umana l’estensione possa essere sostituita da una flessione. Quindi si ha estensione
degli arti inferiori dove arrivano gli impulsi discendenti della formazione reticolare del nucleo
vestibolare, mentre invece negli arti superiori ci può essere una flessione, perché questi sono
maggiormente controllati dal nucleo rosso che viene mantenuto in questo schema.

Quello che si è visto facendo uno studio su un’ampia casistica di pazienti è che anche nella specie umana
ci possono essere delle situazioni analoghe e in particolare possiamo ricavare informazioni circa una lesione
avvenuta in un paziente guardando la sua postura:
 un paziente che ha una lesione simile a una decorticazione, quindi al disopra del mesencefalo,
spesso ha una postura che prevede una estensione degli arti inferiori accompagnata da una
flessione degli arti superiori;
 un paziente che ha una lesione tronco-encefalica simile a una decerebrazione, ovvero una lesione
situata tra il ponte e il mesencefalo, avrà una estensione di tutti e quattro gli arti (sia superiori che
inferiori).
Tutta questa serie di studi su modelli animali ci ha fornito uno schema di interpretazione dei sintomi che
si possono trovare in pazienti con lesioni cerebrali e specialmente lesioni da ictus.

2.4. Controllo corticale e troncoencefalico del movimento

N.B. Il controllo troncoencefalico è stato trattato nei punti precedenti, nella discussione delle vie. Il controllo corticale è
stato anche discusso in parte nei punti precedenti, ma qui viene approfondito con la trattazione delle diverse aree motorie.

Il movimento volontario è un movimento diretto a uno scopo, un movimento che dobbiamo apprendere a
fare e che migliora con l’esperienza. Una sua caratteristica è che non necessariamente è guidato da uno stimolo
sensoriale, mentre i movimenti riflessi, quelli ritmici e anche i comportamenti motivati partono da una
stimolazione sensoriale.
Esempio: se si vede una fetta di torta sul tavolo si può decidere o meno di mangiarla. Successivamente si può
essere nella propria stanza a fare altre cose e a un certo punto si pensa alla fetta di torta in frigorifero e si decide
di andare a mangiarla. Non si ha uno stimolo sensoriale diretto che ci guida, anche se non si fame si può
comunque decidere di mangiarla. Il movimento è generato non da uno stimolo sensoriale, ma da una
elaborazione corticale. Si potrebbe controbattere che l’immagine della fetta di torta è comunque nata da una
stimolazione sensoriale, dunque c’è stata una stimolazione sensoriale all’origine che ha creato una traccia di
memoria che si è depositata nella corteccia, alla base dell’idea di mangiare la torta. Effettivamente tutto quello
che c’è nella nostra mente direttamente o indirettamente deriva da una interazione con l’ambiente e quindi in
senso lato da un’esperienza sensoriale. Il movimento volontario, a differenza dei movimenti più o meno

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riflessi, è un movimento che non richiede la presenza di uno stimolo sensoriale immediato per poter essere
eseguito, ma effettivamente si può dire che alla fin dei conti anch’esso è guidato da esperienze sensoriali
passate.

Corteccia motoria primaria


Ci sono diverse regioni corticali che sono importanti per lo svolgimento dei movimenti volontari, quella più
direttamente implicata è la corteccia motoria primaria, l’area 4 di Brodmann, che è la striscia di corteccia
situata subito al davanti del solco centrale nel lobo frontale. Essa è una zona di corteccia importante per
generare i movimenti: controlla quali muscoli si devono contrarre (ed è per questo che ha un’organizzazione
topografica) e con che forza ciascun muscolo deve contrarsi e anche in che direzione svolgere i movimenti.
Ci sono movimenti che per essere prodotti interessano contemporaneamente tante articolazioni quindi la
corteccia motoria primaria coordina anche i movimenti di muscoli che agiscono anche su articolazioni diverse.
La rappresentazione topografica della periferia
corporea a livello della corteccia motoria primaria
corrisponde a un omuncolo motorio: i diversi
punti di questa striscia della corteccia contengono
dei neuroni la cui stimolazione produce
movimenti in zone specifiche del corpo.
Omuncolo e non un uomo, perché la grandezza
della rappresentazione corticale dei diversi
segmenti corporei non è proporzionale alla loro
grandezza fisica ma è proporzionale alla
raffinatezza dei movimenti che questi segmenti
corporei possono produrre. Si può notare una
rappresentazione molto ampia della mano, che
infatti è la zona del corpo con cui possiamo
compiere i movimenti più raffinati e una
rappresentazione altrettanto ampia delle zone del
volto.
I sistemi di studio della funzionalità corticale sono molto migliorati rispetto al passato, adesso è possibile
fare delle registrazioni molto più raffinate. È possibile fare con dei micro-elettrodi delle micro-stimolazioni e
questa analisi raffinata ha permesso di dimostrare che l’organizzazione topografica è assai più complicata di
come si pensava precedentemente. I movimenti che interessano un’articolazione possono venire evocati
stimolando delle colonne cellulari di neuroni corticali che sono frammiste ad altre all’interno di zone corticali
abbastanza ampie.
Esempio: la sezione sulla corteccia motoria primaria che corrisponde all’area del braccio in realtà contiene
tante colonne neuronali che se stimolate individualmente producono movimenti anche di altri gruppi muscolari
per esempio del gomito, del polso, delle dita che sono tutte frammiste lì e collegate tra loro da interneuroni.
Questa organizzazione apparentemente più complessa è un’organizzazione finalizzata a far sì che i
movimenti che per fare muovere un’articolazione devono attivare contemporaneamente gruppi muscolari
diversi possano avvenire in maniera coordinata. Questa disposizione fisica delle colonne che interessano
gruppi muscolari diversi all’interno di una stessa area fa sì che sia più
semplice svolgere un movimento che produce lo spostamento di
un’articolazione, che richiede l’attivazione contemporanea e
coordinata di muscoli diversi.
Nell’immagine a lato è rappresentato un ingrandimento dell’area
motoria primaria deputata al movimento del braccio. In questa area i
puntini colorati in maniera diversa rappresentano colonne neuronali
diverse che controllano la muscolatura di diverse porzioni del
braccio.
 Puntini blu: l’inserimento di un microelettrodo in questi punti
ha determinato la contrazione di muscoli delle dita.
 Puntini rossi: generano movimenti del polso.
 Puntini viola: movimenti del gomito.
 Puntini verdi: movimenti della spalla.

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Come è evidente nell’immagine, le varie colonne corticali sono frammiste tra loro. Questa disposizione
permette di coordinare movimenti che interessano più articolazioni vicine e permette di ottenere dei
movimenti che vengono eseguiti come un tutt’uno in maniera estremamente coordinata. Analisi di questo
tipo hanno rivelato che i neuroni che compongono queste colonne corticali, che agiscono attivando muscoli
diversi e sono presenti nella stessa area della corteccia motoria, sono collegati tra loro. I neuroni di una colonna
mandano delle efferenze a neuroni delle colonne vicine, andando teoricamente ad attivare muscoli diversi. Si
potrebbe dunque generare il movimento di un muscolo mediante stimolazione di una colonna corticale che in
realtà controlla un muscolo diverso.

Nell’immagine soprastante è riportata una porzione della corteccia motoria primaria di ratto suddivisa in due
colonne: in alto la colonna che controlla il muscolo dell’arto anteriore dell’animale e subito sotto una colonna
contenente neuroni che controllano la contrazione dei muscoli del muso, dove sono localizzate le vibrisse.
Esistono delle collaterali degli assoni dei neuroni che andranno ad attivare i muscoli delle vibrisse, che
raggiungono i neuroni presenti nell’area che controlla i movimenti dell’arto anteriore con delle sinapsi
eccitatorie. In linea teorica l’attivazione del neurone che controlla il movimento delle vibrisse può determinare
quindi anche la contrazione del muscolo dell’arto anteriore. In realtà ciò non succede: l’assone dei neuroni
della colonna delle vibrisse manda anche una collaterale ad un interneurone inibitorio, presente nella regione
dell’arto anteriore, che va ad inibire il neurone che controlla il movimento dell’arto anteriore. L’equilibrio
complessivo di queste efferenze che vanno dall’area delle vibrisse all’area dell’arto anteriore è spostato verso
i comandi inibitori, per cui attivando funzionalmente l’area delle vibrisse si contrarranno soltanto le vibrisse.
Per verificare la presenza di questi circuiti, si va ad iniettare nell’area dell’arto anteriore un bloccante
dell’interneurone inibitorio: la stimolazione dell’area delle vibrisse sarà quindi in grado di attivare anche i
neuroni che controllano l’attività dei muscoli dell’arto anteriore e produrre un movimento. Nel pannello B
dell’immagine si vede la stimolazione tramite un elettrodo dell’area delle vibrisse: questo in condizioni normali
(controllo, pannello C in alto) non determina l’attivazione dei muscoli dell’arto anteriore e l’elettromiogramma
riporta una linea piatta. Viene poi iniettata Bicucullina, un bloccante dei recettori GABA (l’interneurone
inibitorio sfrutta proprio il GABA come neurotrasmettitore), andando di fatto ad inattivare l’azione
dell’interneurone. Stimolando, perciò, con un elettrodo l’area delle vibrisse si attiva la collaterale che va da
una parte ad eccitare e da una parte ad inibire i neuroni che controllano l’attività dei muscoli dell’arto anteriore,
ma avendo inattivato l’interneurone inibitorio, permarrà solo l’output eccitatorio e l’elettromiogramma
riporterà un’attivazione di quell’area muscolare. È un effetto transitorio che dura solo fin quando la Bicucullina
è attiva sui recettori GABA, quando la sua azione viene meno la stimolazione dell’area delle vibrisse non
comporterà più l’attivazione dei neuroni che controllano l’arto anteriore.
L’esperimento è quindi servito per comprendere che ci sono dei circuiti interni, a livello della corteccia
motoria primaria, che collegano zone corticali che controllano aree muscolari diverse; in condizioni
fisiologiche il bilanciamento di queste connessioni eccitatorie ed inibitorie è spostato verso l’effetto inibitorio,
per cui la stimolazione di un’area di fatto attiva soltanto i muscoli topograficamente direttamente controllati
da quell’area e non è sufficiente ad attivare le aree adiacenti (seppur anatomicamente collegate).
Plasticità corticale
L’equilibrio tra connessioni eccitatorie ed inibitorie a livello corticale può essere modificato. In condizioni
patologiche, ad esempio, può verificarsi un rimodellamento dell’organizzazione topografica corticale.
La stimolazione di un’area, che prima non era efficace a determinare l’attivazione dell’area corticale
adiacente, può diventare in grado di farlo.

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Il pannello superiore dell’immagine riporta le aree che controllano rispettivamente: l’arto anteriore
(verde), le vibrisse (giallo) e i muscoli perioculari (blu). La stimolazione di ciascuna di queste aree determina
la contrazione esclusivamente del muscolo controllato da quell’area. Successivamente è stato effettuato il
taglio del nervo facciale, quindi si interrompe l’innervazione delle vibrisse. L’alterazione dei circuiti interni
del SNC, tramite meccanismi ancora non del tutto chiari, determina uno spostamento dell’equilibrio
dell’attività dei neuroni presenti nella zona arancione. Nel pannello inferiore si vede che la stimolazione
dell’area per le vibrisse non determina più la contrazione per i muscoli delle vibrisse (muscoli
deafferentati), ma i neuroni di quest’area diventano in grado di attivare i neuroni che controllano il
movimento degli arti. È un classico esempio di plasticità corticale. Essa rappresenta chiaramente la
modulabilità dei circuiti e delle funzioni corticali.
Vi sono anche esempi di plasticità indotta dall’attività e dall’interazione con l’ambiente.
L’esperimento successivo è svolto con registrazione dell’attività corticale di una scimmia. A sinistra si
vedono diverse aree corticali dove, con microstimolazione, si possono ottenere attivazioni di muscoli
diversi.

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La stimolazione dell’area di colore “carta da zucchero” determina estensione dell’indice; quella dell’area
gialla determina flessione del pollice; quella dell’area blu scuro determina abduzione del polso e quella
dell’area in giallo chiaro determina la flessione di altri muscoli non importanti ai fini dell’esperimento. La
scimmia viene addestrata a compiere ripetutamente (diverse ore al giorno) un movimento di prensione di un
oggetto molto piccolo, movimento che richiede esclusivamente l’estensione dell’indice e la flessione del
pollice. Rivalutando la distribuzione topografica corticale dopo l’addestramento, si nota una modificazione
della rappresentazione dei muscoli che sono stati addestrati; questa risulta molto aumentata rispetto alla
situazione precedente e la rappresentazione dei muscoli non utilizzati risulta grandemente sottostimata.
Vi è dunque la possibilità di modificare, in maniera transitoria, la rappresentazione corticale della periferia
corporea muscolare mediante addestramento. Si rafforzano le connessioni eccitatorie e diminuiscono le
connessioni inibitorie, facilitando un aumento della rappresentazione corticale di ciò che “utilizziamo di
più”. Il cervello lavora sempre in maniera ottimale e si adatta in maniera plastica a ciò che ci serve.

Altre aree motorie


La corteccia motoria primaria è quella che va a controllare l’attivazione e la funzione dei muscoli periferici,
ma esistono anche altre aree motorie. Un’area motoria è un’area da cui possono venire evocati dei movimenti
mediante stimolazione elettrica di intensità limitata (probabilmente piantando un elettrodo in qualsiasi punto
della corteccia e dando una scossa elettrica intensissima si riuscirebbe comunque a determinare la genesi di un
movimento, perché l’impulso elettrico diffonderebbe in corteccia e andrebbe ad attivare neuroni in altre aree,
per questo è fondamentale la specificazione dell’“intensità limitata”). Tramite stimolazioni a bassa intensità
su diverse aree corticali, tramite studi su lesioni e studi anatomici e tramite studi di visualizzazione con tecniche
di neuroimaging nella specie umana, sono state individuate: l’area motoria supplementare e la corteccia
premotoria. Entrambe si distendono nel lobo frontale al davanti della corteccia motoria primaria e si trovano
nell’area 6 di Broadmann. L’area premotoria è situata sulla superficie laterale dell’emisfero mentre l’area
motoria supplementare occupa la convessità dell’emisfero e si continua sulla superficie mediale. Ricerche
successive hanno individuato una quarta area motoria: l’area motoria del cingolo. Il cingolo è la striscia di
corteccia, visibile sulla superficie mediale degli emisferi, che scorre al di sopra del corpo calloso; attraversa
quasi tutti i lobi, ma solo la parte anteriore rappresenta l’area motoria del cingolo.
Ricapitolando, si sono identificate quattro aree motorie:
 corteccia motoria primaria (4 di Brodmann);
 area premotoria o premotorie dorsali e ventrali (6 di Brodmann);
 corteccia motoria supplementare o premotoria mediale (6 di Brodmann);
 area motoria del cingolo.

La visione tradizionale vuole che l’area motoria primaria (M1) sia la via finale comune, la porta d’uscita
dell’elaborazione motoria che attiva i muscoli periferici tramite fibre discendenti dirette al tronco dell’encefalo
e al midollo spinale. L’attività dell’area motoria primaria viene controllata da informazioni sensoriali, che
danno un feedback di ciò che sta avvenendo in periferia, ed è coadiuvata dall’attività dell’area premotoria e

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motoria supplementare. Queste svolgono un lavoro di preparazione e mandano il frutto della loro attività
all’area M1, che le associa alle informazioni sensoriali, e attiva i muscoli
periferici.
La visione attuale, rappresentata nello schema a lato, vuole che non solo
la corteccia motoria primaria, ma anche tutte le altre aree motorie possano
attivare le vie discendenti, specialmente per quanto concerne il sistema
mediale (il quale controlla l’attività dei muscoli posturali). I fasci cortico-
spinali contengono anche fibre che originano dalle aree premotorie. Il
sistema non è quindi gerarchico, ma integrato e tutte queste aree si
scambiano informazioni e possono proiettare sia all’area motoria primaria
che ai muscoli controllati dai motoneuroni del tronco e del midollo spinale.
Fondamentale allo scopo di produrre un movimento finalizzato, integrato
e preciso è il feedback sensoriale. Esso è presente a livello di tutti i centri di ritrasmissione (i centri del tronco-
encefalico che proiettano al midollo spinale devono ricevere informazioni sensoriali circa il movimento che si
sta eseguendo), ma anche a livello della corteccia motoria primaria e delle aree premotorie arrivano
continuamente informazioni che modulano, correggono e riaggiustano il movimento a seconda di quello che
sta effettivamente succedendo nella periferia corporea. Si svolgono i movimenti preparandoli e organizzandoli
a livello delle varie aree della corteccia, tenendo conto dell’apprendimento motorio, che comincia sin dalla
nascita, e permette di conoscere qual è la giusta sequenza di contrazione e la forza di contrazione che si deve
attuare per eseguire il movimento desiderato. Tutto ciò deve essere adattato alle circostanze ambientali che
possono variare (si può stimare in maniera scorretta il peso di un oggetto sulla base dell’esperienza e dover
poi modificare il movimento in base al peso reale dell’oggetto in questione; l’efficienza muscolare in quella
circostanza potrebbe essere minore, quindi si produrrà un movimento meno efficace).
Analizziamo ora nel dettaglio le singole aree motorie citate.
Area motoria supplementare o area premotoria mediale
È collocata sulla convessità e sulla parte mediale degli emisferi (non la si può osservare dall’esterno). Viene
attivata durante l’esecuzione di movimenti complessi guidati (ad es., sequenza di movimenti delle dita per
manipolare oggetti), non dall’interazione fisica con l’oggetto, ma da una serie di istruzioni interne. Si può
immaginare un movimento ed eseguirlo senza avere l’oggetto in mano, quindi senza un diretto feedback
sensoriale dell’oggetto che si andrà a manipolare. Si possono paragonare i modelli di istruzioni interne a i
movimenti che svolge un direttore d’orchestra, derivanti solo ed unicamente da ciò che immagina, dalle sue
istruzioni interne. L’immagine a lato si riferisce ad uno studio di neuro-imaging effettuato mentre il soggetto
compie dei movimenti. Chiaramente si otterrà un’immagine di complessiva attivazione corticale di base,
comprendente anche le aree attivate dal movimento; perciò si svolge inizialmente una registrazione dell’attività
corticale prima che il soggetto compia qualsiasi azione (background) e solo successivamente la registrazione
dell’attività durante il movimento.
Si effettua un confronto tra le due
immagini in modo da comprendere
quale area si sia attivata
maggiormente rispetto al
background. Le immagini a lato
rappresentano la differenza tra
l’immagine di attivazione e
l’immagine che fa da background.
Nel pannello A si trovano le aree
attivate in seguito alla richiesta di
compiere un movimento di
flessione delle dita. Vediamo
perciò l’attivazione della corteccia
motoria primaria e della
corteccia somatosensitiva
(feedback sensoriale). Nel
pannello B sono evidenziate le aree
che si attivano durante lo
svolgimento di un movimento più

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preciso, sequenziale e coordinato, dato da contrazioni sequenziali delle dita (es. suonare la tastiera di un
pianoforte). Vediamo l’attivazione delle stesse aree del pannello precedente, ma in più si ha l’area motoria
supplementare (premotoria mediale). È stato svolto, difatti, un movimento complesso sulla base di istruzioni
interne. L’area motoria supplementare si attiva anche se si immagina soltanto di compiere il movimento
(pannello C), senza effettivamente compierlo. In questo caso non ci sarà attivazione né della corteccia motoria
primaria, né della corteccia somatosensoriale, proprio perché non sta avvenendo alcuna contrazione.
La scoperta della funzione di questa corteccia è stata alla base di un esperimento di un gruppo di ricerca che
si poneva il problema di comprendere se i pazienti in coma fossero consapevoli e coscienti o meno. Nel caso
di coma indotto da danno ipossico prolungato ci sarà morte dei neuroni corticali e si ottengono EEG con
tracciati chiaramente patologici, ma ci sono casi di coma post-traumatici in cui viene mantenuta un’attività
cerebrale, non totalmente normale, ma con le classiche variazioni date dal ritmo sonno-veglia. Durante la
ricerca fu effettuata un’analisi di radioimaging su di una ragazza in coma, chiedendole di immaginare di
giocare una partita di tennis (dato che la ragazza era un’ottima tennista), si ottenne l’attivazione dell’area
motoria supplementare. Il soggetto aveva quindi compreso il comando ed immaginato di compiere una
sequenza di movimenti raffinati e rapidi (fattore prognostico positivo). Nel settore dei pazienti in coma sono
svolti molti studi per cercare di individuare segni che rappresentino un fattore prognostico per l’eventuale
uscita dallo stato di coma.

Area premotoria o aree premotorie dorsale e ventrale


Si attivano prevalentemente durate l’esecuzione di movimenti complessi, ma più efficacemente quando
questi prevedono l’interazione fisica con degli oggetti; consentono quindi di programmare i movimenti di
manipolazione e prensione di oggetti fisici. Sono coinvolte nella pianificazione e nella preparazione dei
movimenti, ma anche nella loro esecuzione, dal momento che che da esse originano vie discendenti che
attraverso i fasci cortico-spinali raggiungono la periferia corporea.
È necessaria una stimolazione elettrica ad intensità leggermente maggiore rispetto a M1 per indurre
movimenti; i movimenti indotti sono più complessi rispetto a quelli generarti da M1, comprendono anche
gruppi articolari diversi. Anche nelle cortecce premotorie, così come in M1, sono presenti delle mappe
somatotopiche.
I comandi motori influenzano anche le vie del sistema mediale e spesso determinano movimenti bilaterali.
Molte delle informazioni circa l’organizzazione
e la funzione delle aree motorie sono state ottenute
da studi condotti in primati non umani (in
particolare nei macachi), perché la loro
organizzazione di circuiti corticali è molto più
simile a quella umana di quanto non sia, ad
esempio, quella dei roditori. Lo studio condotto sui
macachi ha permesso di evidenziare un’ulteriore
parcellizzazione delle aree motorie e premotorie in
sub-aree diverse, dall’organizzazione e dalla
funzione specifica.
L’area motoria primaria (nel macaco F1) è
unitaria. L’area 6 è stata suddivisa in sei porzioni,
di cui quattro nell’area premotoria e due nell’area
motoria supplementare. Ciascuna di queste
sottoaree svolge funzioni diverse.
Mentre la stimolazione dell’area motoria primaria produce dei movimenti discreti (specifiche contrazioni
di muscoli diversi), la stimolazione delle aree premotorie determina un movimento che può essere classificato
sulla base del suo obiettivo: se si stimola un punto dell’area premotoria l’animale afferra un oggetto con la
mano e con la bocca, stimolando un altro punto si osserva afferramento solo con la mano oppure l’animale
può essere spinto a strappare o a manipolare un oggetto.
All’interno dell’area premotoria vi è un repertorio motorio interno, una “libreria” di atti motori finalizzati
ad uno scopo. Ad esempio, nell’area premotoria che determina un movimento di afferramento con la mano ci
sono diversi sottotipi di neuroni che determinano il tipo di afferramento: con due dita, con tutte le dita e
prendendo dall’alto l’oggetto, prendendo l’oggetto di lato. Esistono pertanto gruppi di neuroni che codificano
per specifiche azioni motorie e tra loro vi sono sottogruppi che rappresentano le diverse modalità di
esecuzione di quell’atto motorio finalizzato.

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Una caratteristica distintiva è che alcuni dei neuroni dell’area premotoria rispondono anche a stimoli visivi
specifici: si attivano non solo quando l’animale afferra un oggetto ma anche quando semplicemente vede
l’oggetto. Questi sono chiamati neuroni visuo-motori e la loro scoperta ha messo in evidenza il fatto che
l’area premotoria, così come l’area motoria, sia a prevalenza di neuroni motori, ma non in maniera esclusiva.
L’attività di queste aree è in realtà fortemente integrata, può infatti rispondere anche a stimoli sensoriali, così
come neuroni di aree considerate strettamente sensoriali possono attivarsi nel corso di un movimento.
Quando si è in presenza di uno stimolo esterno, bisogna scegliere quale atto motorio utilizzare fra quelli del
repertorio motorio interno.
Esempio: ho una tazzina e devo scegliere tra
gli atti motori rappresentati nella mia
corteccia motoria quale utilizzare. La mia
scelta dipenderà da qual è la finalità del mio
movimento. Se la tazzina è piena, in genere, si
utilizza un movimento che include pollice e
l’indice per afferrare il manico della tazzina.
Se ho già bevuto il caffè e devo mettere via la
tazzina, eseguirò un movimento diverso: la
prendo dall’alto con tutte le dita, attuando così
una diversa prensione. Come faccio a decidere
qual è il movimento più adeguato e a sapere
come compierlo correttamente? Mediante
l’esperienza e l’apprendimento. Il repertorio
motorio interno è pertanto arricchito con
prove ed errori e permette di decidere il
metodo migliore, in questo esempio, per
afferrare la tazzina. Tanto più questo
repertorio è ricco, tanta più esperienza ho fatto, tanto più riuscirò a produrre movimenti complessi. Per fare
tutto ciò occorre una stretta connessione tra cortecce che ricevono informazioni sensoriali e cortecce motorie:
devo guardare la tazzina e poi decidere che movimento compiere.
Gli studi svolti sul macaco sono proprio volti a chiarire qual è l’organizzazione di aree sensoriali e motorie,
in particolare quali sono le connessioni bilaterali tra loro. È stato in particolare studiato il circuito tra area F5
(corteccia premotoria) e area intraparietale anteriore (AIP), coinvolto nei movimenti di afferramento guidati
dalla vista. L’area F5 contiene neuroni visuo-motori (che rispondono a stimoli visivi specifici) e la
connessione con l’AIP consente di operare trasformazioni visuo-motorie: trasformare lo stimolo visivo in un
piano motorio finalizzato all’interazione con l’oggetto.
Analizziamo il funzionamento del circuito prendendo l’esempio precedente della tazzina di caffè. La tazzina
di caffè deve essere riconosciuta: lo stimolo visivo raggiunge la corteccia occipitale, di qui si attivano la “via
del cosa” che va verso il lobo temporale e la “via del dove” che va verso la corteccia parietale. Nell’AIP
l’oggetto non viene più percepito come tale, cioè come uno stimolo visivo, ma viene percepito come un
“obiettivo di un atto motorio”, ovvero di utilizzazione dell’oggetto: capisco perciò cosa voglio farne. Quando
ho assegnato una finalità all’oggetto, il dialogo con l’area F5 mi permette di scegliere nell’ambito della libreria
degli atti motori qual è il movimento giusto per utilizzare l’oggetto secondo la modalità prescelta. La selezione
è attuata sulla base di ciò che la mia esperienza dice essere il modo migliore.
Ricapitolando:
1) La tazzina è analizzata dal lobo occipitale, l’informazione viene integrata e l’oggetto è riconosciuto
dalla corteccia temporale inferiore grazia alla “via del cosa”.
2) Con la “via del dove” lo stimolo raggiunge l’AIP.
3) La scelta di quale approccio motorio avere è fatta con le connessioni reciproche tra AIP e area F5.

Un ruolo fondamentale è svolto dalla corteccia prefrontale, che non fa parte propriamente delle aree motorie
bensì si occupa della decisione di attuare un comportamento (ad esempio “voglio bere un caffè”), manda questa
decisione all’area F5, a sua volta connessa ad AIP, e in questo circuito viene decisa la modalità dell’atto
motorio (“afferrare il manico della tazzina con pollice ed indice”).

Neuroni specchio

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Nell’area F5 ci sono neuroni visuo-motori molto particolari: si attivano non solo quando l’animale esegue
un movimento ma anche quando vede un altro individuo eseguire quell’azione. Sono chiamati neuroni
specchio e sono stati scoperti dal prof. Giacomo Rizzolatti, docente dell’università di Parma, e dal suo gruppo
di ricerca (per chi volesse approfondire, la prof. consiglia il libro di divulgazione scritto da Rizzolatti e da
Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore).
Questi ricercatori studiavano i circuiti che uniscono la corteccia premotoria all’AIP mediante l’utilizzo di
elettrodi posti sull’area F5. Durante il movimento di afferramento di una nocciolina, tale area si attivava e
l’attivazione era rilevata da un registratore. Il registratore, a sua volta, era connesso ad un amplificatore che
generava un segnale sonoro durante la scarica dei neuroni dell’area F5.
Un ricercatore, alla fine di uno di questi esperimenti, prese una nocciolina senza staccare gli elettrodi
dall’animale e l’amplificatore produsse un suono. Ripeté nuovamente quel movimento e i neuroni che si
attivavano durante il movimento del macaco, si attivarono anche con l’osservazione del ricercatore che
afferrava una nocciolina. Da quella scoperta furono poi condotti numerosi studi sul pattern di attivazione dei
neuroni dell’area F5 durante situazioni differenti.

Pannello A: l’animale afferra una


nocciolina e viene registrato un preciso
pattern di scarica.
Pannello B: l’animale osserva un altro
macaco che esegue il suo stesso
movimento e si ha un simile pattern di
scarica.
Pannello C: l’animale vede un essere
umano che afferra una nocciolina e si
continua ad avere un pattern di scarica
simile al pannello A.

Anche nella specie umana sono stati


svolti esperimenti simili, condotti con
tecniche di neuroimaging, grazie alle
quali sono state trovate evidenze della
presenza di neuroni specchio. Si ipotizza
che essi siano presenti in molte, se non tutte, le specie animali.

Pannello A: aree che si attivano quando il soggetto vede un animale della stessa specie o di specie diversa
compiere un movimento. L’azione è quella di mordere, un atto condiviso tra i diversi animali e che attiva la
corteccia umana anche se a farlo è, ad esempio, un cane.
Pannello B: aree che si attivano quando si osservano degli atti comunicativi orali. Qui si notano dei pattern
di attivazione differenti in base alla specie dell’animale osservato. Quando un uomo vede una scimmia
schioccare le labbra le aree attivate sono simili, nonostante la scarica sia minore, perché la consideriamo una
forma di comunicazione orale, mente l’abbaiare di un cane non viene percepito come una forma comunicativa
linguistica e l’attivazione del sistema è significativa ridotta.

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La funzione dei neuroni specchio sembra essere quella di facilitare la comprensione degli atti motori svolti
da altri individui e di farci capire il fine di tali atti: poiché si attivano nella nostra corteccia le stesse aree che
si attiverebbero se compissimo noi quell’azione, siamo in grado di comprendere le motivazioni di un dato
movimento.
Negli ultimi anni sono stati effettuati degli studi con approcci sperimentali sui sistemi dei neuroni specchio
che sembrerebbero essere collegati allo sviluppo di empatia. Infatti, un uomo, osservando un altro individuo,
è portato a provare gli stessi sentimenti che proverebbe se quell’azione la compisse lui. I sistemi di neuroni
specchio sono presenti anche nelle cortecce limbiche e nella corteccia cerebellare e, in sintesi, ci permettono
quindi di entrare in risonanza e in sintonia con le azioni degli altri. Per questi motivi, si pensa che l’autismo
sia una condizione in cui le alterazioni comportamentali dipendano da un insufficiente sviluppo dei neuroni
specchio.

Domanda di uno studente. Si ha attivazione del sistema dei neuroni specchio solo nel caso in cui vediamo una scimmia
mordere il cibo (per esempio) oppure anche la sola immaginazione attiva lo stesso sistema? No, l’immaginazione non lo
attiva. I neuroni specchio richiedono la visione per essere attivati.

2.5. Regolazione del movimento: cervelletto (organizzazione morfofunzionale, afferenze ed


efferenze); nuclei della base (organizzazione morfofunzionale, circuito diretto e circuito
indiretto)

Cervelletto: organizzazione morfofunzionale


Il cervelletto, così come i nuclei della base, non è implicato nell’attivazione diretta dei gruppi muscolari ma
è indispensabile per il corretto svolgimento del movimento.
È una struttura inserita posteriormente al tronco encefalico, sotto gli emisferi cerebrali. Ha un peso
mediamente di 150 g, il quale rappresenta il 10% del peso del nostro cervello, e contiene più del 50% dei
neuroni encefalici. Questa percentuale, dagli ultimi studi, sembra sottostimata poiché i neuroni dell’intero SNC
sono circa 100 miliardi, quelli del cervelletto pare si aggirino attorno ai 70 miliardi!
Nonostante la densità cellulare sia elevatissima, un’ablazione del cervelletto non solo è compatibile con la
vita, ma non crea importanti alterazioni né delle soglie sensoriali né della forza delle contrazioni muscolari. Al
contrario, piccolissime lesioni di particolari aree della corteccia o del tronco encefalico portano a morte
immediata o a coma irreversibile.
Possiamo perciò affermare che il cervelletto non è indispensabile per l’elaborazione di elementi di base
delle percezioni o dei movimenti, ma una sua lesione comporta diversi effetti:
 alterazione della qualità del movimento: è compromessa la capacità di attuare movimenti spazialmente
precisi e finemente coordinati;
 alterazione del tono muscolare, della coordinazione dei muscoli posturali e di mantenimento
dell’equilibrio;
 alterazioni dell’apprendimento motorio.

La sostanza bianca del cervelletto ha una forma ad albero (per questo è chiamata albero della vita), mentre
la corteccia cerebellare è ripiegata a formare dei solchi molto profondi che delimitano non delle
circonvoluzioni, ma delle lamelle cerebellari.

Funzioni del cervelletto:


1. Controllo motorio
a. Aumento della precisione del movimento.
b. Determinazione della sequenza temporale di contrazione dei diversi muscoli durante i
movimenti complessi, soprattutto quelli rapidi.
Un’alterazione della funzionalità cerebellare porterà a dismetria: mancata capacità di effettuare
movimenti rapidi. Un esame che si effettua per verificare tale condizione è quella della prono-
supinazione rapida della mano. Un altro esame usato per valutare la precisione del movimento è quello
che consiste nel chiudere gli occhi, aprire le braccia a croce e toccare con la punta del dito indice in
maniera alternata il naso, incrementando man mano la velocità. Questi movimenti in pazienti con

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lesioni cerebellari sono compromessi. Viene alterato inoltre il tono muscolare, specialmente in lesioni
gravi, portando ad ipotonia cerebellare.
2. Apprendimento motorio (funzioni modificate dall’esperienza)
Il cervelletto è la principale sede della memoria procedurale, che comprende tutti gli schemi motori
che abbiamo imparato ad eseguire. La memoria dichiarativa, distinguibile in memoria episodica e
memoria semantica, ha invece sede primariamente nell’ippocampo.
3. Funzioni cognitive. Mediante tecniche di neuroimaging si è scoperto che il cervelletto si attiva
durante:
a. comprensione del linguaggio verbale;
b. esecuzione di calcoli mentali;
c. immaginazione dei propri movimenti;
d. osservazione dei movimenti altrui (per la presenza di neuroni specchio). Questo sistema si
attiva potentemente quando, ad esempio, un atleta esperto guarda un altro atleta eseguire lo
stesso movimento. Questa attivazione è molto più potente perché egli comprende meglio e
analizza in maniera più sofisticata la serie di atti motori, hanno per lui più significato di quanto
non lo abbiano per individui normali.

Un progetto motorio arriva dai centri cerebrali superiori al midollo e produce dei movimenti volontari,
consente il mantenimento dell’equilibrio oppure opera sul tono posturale. Tutte le volte che le cortecce
premotorie attivano un progetto motorio, mandano anche una copia al cervelletto. Qui tornano anche
informazioni di feedback sensoriale (vie spino-cerebellari dal midollo al cervelletto che inviano informazioni
propriocettive sull’andamento del movimento; afferenze vestibolari per il movimento della testa). Il compito
del cervelletto è quindi quello di confrontare il progetto con il risultato ottenuto. Se c’è una discrepanza tra
il movimento progettato e il movimento compiuto, il cervelletto manda dei comandi di correzione a:
 centri di controllo posturale dell’encefalo;
 corteccia motoria (aumentando ad es. la frequenza di scarica dei neuroni cortico-spinali nel caso in cui
il movimento ottenuto sia stato meno forte di quello progettato);
 corteccia premotoria, per eventualmente modificare il progetto motorio;
 tronco dell’encefalo.

Il cervelletto deve essere connesso al SNC e lo fa mediante i peduncoli cerebellari, fasci di fibre che si
distinguono in:
 superiore: presenta fibre che vanno dal cervelletto verso la corteccia;
 medio: contiene fibre che provengono dalla corteccia, fanno sinapsi con i nuclei pontini e giungono
al cervelletto (vie cortico-ponto-cerebellari);
 inferiore: contiene le connessioni del cervelletto con il tronco dell’encefalo e, tramite quest’ultimo,
con il midollo spinale.

Il cervelletto è formato da tre porzioni principali:


 lobo flocculo-nodulare;
 verme (parte centrale del corpo cerebellare);
 emisferi cerebellari (ai due lati del verme);

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Verme ed emisferi cerebellari sono ricoperti di fessurazioni e lamelle che le separano, dette folia: la corteccia
cerebellare risulta quindi fortemente ripiegata e ciò consente di aumentarne la superficie (fino a 10 volte) e
quindi di aumentare l’estensione dei circuiti in essa contenuti.
Come verrà approfondito in seguito verme ed emisferi cerebellari hanno funzioni diverse:
 il verme si occupa dell’equilibrio e del controllo posturale e quindi agisce sui muscoli assiali;
 gli emisferi cerebellari si occupano del controllo dei movimenti fini volontari, cioè i movimenti della
porzione distale degli arti.

Dal punto di vista filogenetico il cervelletto si divide in:


 archicerebello, corrispondente al lobo flocculo-nodulare;
 paleocerebello, corrispondente al verme;
 neocerebello, corrispondente agli emisferi cerebellari.

Dal punto di vista funzionale (ossia delle connessioni che instaura), invece, il cervelletto si distingue in:
 vestibolocerebello (corrisponde al lobo flocculo-nodulare e quindi all’archicerebello): regione
cerebellare connessa con i nuclei vestibolari del tronco encefalico, coinvolti nel controllo posturale
in risposta a accelerazioni angolari e lineari del capo;
 spinocerebello (corrisponde al verme e alla porzione paravermiana degli emisferi, quindi al
paleocerebello e a una parte del neocerebello): regione cerebellare connessa con il midollo spinale.
Riceve le fibre afferenti spino-cerebellari, che trasportano informazioni propriocettive non coscienti
dalla periferia, e rimanda informazioni ai centri di controllo del sistema mediale (sia a livello del tronco
encefalico che dei centri superiori) deputato al controllo dei muscoli posturali;
 corticocerebello (corrisponde alla porzione laterale degli emisferi cerebellari, quindi a gran parte del
neocerebello): regione cerebellare connessa alla corteccia cerebrale. Riceve informazioni dalla
corteccia cerebrale, che raggiungono prima i nuclei pontini di ritrasmissione e poi l’assone dei neuroni
di questi nuclei penetra nel corticocerebello attraverso il peduncolo cerebellare medio, il
corticocerebello elabora le informazioni e invia il risultato dell’elaborazione di nuovo alla corteccia.

Il cervelletto è formato da sostanza grigia e sostanza bianca.


La sostanza grigia forma:
 Corteccia cerebellare: contiene moltissimi neuroni (50-70 miliardi ca.), fittamente stipati e
caratterizzati dalla medesima struttura organizzativa in tutto il cervelletto (al contrario della corteccia
cerebrale dove l’organizzazione, i tipi cellulari presenti e lo spessore variano da regione a regione):
spessore e citotipi presenti sono gli stessi e cambia solo l’origine delle connessioni afferenti e il
bersaglio di quelle efferenti.
È organizzata in 3 strati:
a. strato molecolare (il più superficiale);
b. strato delle cellule del Purkinje, cellule molto grandi con un albero dendritico
particolarmente esteso, il quale si localizza a livello dello strato molecolare;

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c. strato dei granuli (il più profondo), i granuli sono i neuroni più rappresentati al livello del
cervelletto.
 Nuclei profondi. In senso medio-laterale sono:
1. nucleo del fastigio (il più mediale);
2. nuclei globoso ed emboliforme, detti nel complesso nucleo intermedio;
3. nucleo dentato (il più grande e laterale).
Questi nuclei ricevono informazioni dalla corteccia, le elaborano e le rinviano al tronco encefalico e
al midollo spinale o alla corteccia cerebrale. Tra i nuclei profondi del cervelletto viene indicato a volte
anche il nucleo vestibolare laterale, che pur essendo anatomicamente un nucleo del tronco encefalico,
viene considerato funzionalmente un nucleo del cervelletto, perché riceve direttamente informazioni
dalla corteccia cerebellare e quindi svolge un ruolo analogo ai nuclei cerebellari.

Cervelletto: cellule e fibre


Esistono due sistemi di fibre che portano informazioni al cervelletto:
1. Fibre muscoidi: rappresentano la
principale fonte di informazioni cerebellari
e trasportano informazioni provenienti dal
midollo spinale (vie spino-cerebellari,
attraverso il peduncolo cerebellare
inferiore) e dalla corteccia cerebrale, o
meglio dai nuclei pontini (vie cortico-
ponto-cerebellari, attraverso il peduncolo
cerebellare medio). Le fibre muscoidi
prendono sinapsi (eccitatoria) con i dendriti
dei numerosissimi neuroni dei granuli, il
cui assone risale fino allo strato molecolare,
dove si divide in due rami a 180° uno
rispetto all’altro, formando le fibre
parallele, così chiamate perché decorrono
parallele le une alle altre per tutta la
lunghezza della corteccia. Durante il loro
percorso le fibre parallele che originano da
ogni neurone dei granuli intersecano i
dendriti di numerose cellule del Purkinje, il
cui soma si trova nello strato intermedio ma
i cui dendriti si trovano nello strato
molecolare: ognuna di queste fibre prende
sinapsi con una popolazione molto ampia di
cellule del Purkinje per cui ciascuna cellula del Purkinje riceverà un numero elevatissimo di sinapsi
(più di 200.000): c’è quindi un’enorme divergenza dell’informazione. La sinapsi tra fibre parallele e
cellule del Purkinje è eccitatoria mentre le cellule del Purkinje sono neuroni inibitori. Oltre alle
cellule dei granuli e alle cellule del Purkinje vi sono altri tipi cellulari quali le cellule di Golgi (sono
le più profonde), le cellule a canestro e le cellule stellate: sono tutti interneuroni inibitori che hanno
la funzione di limitare l’attivazione delle cellule dei granuli e delle cellule del Purkinje.
2. Fibre rampicanti: sono gli assoni dei neuroni del nucleo olivare inferiore (situato nel tronco
dell’encefalo), che giungono al cervelletto tramite il peduncolo cerebellare inferiore. Non prendono
sinapsi con le cellule dei granuli ma risalgono (da cui il nome di rampicanti) fino allo strato delle
cellule del Purkinje prendendo direttamente sinapsi con l’albero dendritico di una singola cellula:
ogni cellula del Purkinje riceve quindi sinapsi da una sola fibra rampicante, al contrario di quanto
avviene per le fibre parallele (ogni cellula del Purkinje riceve sinapsi da più di 200.000 fibre parallele).
La sinapsi tra fibra rampicante e cellula del Purkinje è eccitatoria.
Sia le fibre muscoidi che quelle rampicanti, mentre salgono verso la corteccia, mandano una collaterale ai
neuroni dei nuclei profondi.
Gli assoni delle cellule del Purkinje rappresentano l’unica via di uscita dalla corteccia cerebellare: una
volta attivate (sia direttamente dalle fibre rampicanti, che indirettamente dalle fibre muscoidi), il loro assone
esce dalla corteccia e raggiunge i nuclei cerebellari profondi, andandoli a inibire. I nuclei profondi sono dunque

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eccitati dalle collaterali delle fibre rampicanti e delle muscoidi e inibiti dalle cellule del Purkinje come
risultato finale dell’elaborazione cerebellare: il risultato del bilancio tra eccitazione e inibizione determinerà
l’attività dei nuclei profondi e quindi il segnale in uscita dal cervelletto.
All’interno dei nuclei profondi vi sono due tipi di neuroni:
 neuroni eccitatori, il cui assone raggiunge i centri di controllo motorio a livello corticale e
troncoencefalico. In condizioni di normale controllo della postura prevale l’eccitazione e quindi questi
neuroni si attivano e vanno a loro volta ad attivare i centri di controllo motorio per la regolazione del
tono posturale;
 neuroni inibitori, il cui assone va a inibire specificamente i neuroni del nucleo olivare inferiore che
dà origine al sistema delle fibre rampicanti.
Dai nuclei profondi del cervelletto l’informazione esce attraverso:
 il peduncolo cerebellare superiore: le fibre raggiungono il talamo, in particolare il nucleo ventro-
laterale, che proietta alla corteccia motoria primaria e premotoria (via cerebello-talamo-corticale);
 il peduncolo cerebellare inferiore: le fibre raggiungono il tronco dell’encefalo, dove si trovano i
centri di controllo motorio che inviano informazioni ai motoneuroni spinali.
L’assone delle cellule del Purkinje può anche attivare direttamente il nucleo vestibolare laterale.

Le fibre rampicanti sono molte meno di quelle muscoidi, perché originano solo dal nucleo olivare: si tratta
di un nucleo tronco-encefalico non molto ampio che riceve informazioni sensoriali da diversi neuroni tronco-
encefalici e anche dai centri superiori. Il nucleo olivare ha una caratteristica peculiare: i neuroni che lo
compongono sono connessi tra loro da sinapsi elettriche (rare nei mammiferi, sono presenti per esempio nelle
cellule gliali e nella retina) e quindi si attivano tutti insieme (o in larghe popolazioni) mandando un segnale
così potente che i potenziali post-sinaptici eccitatori generati sulle cellule del Purkinje dalle fibre rampicanti
sono sempre così ampi da superare il valore soglia, portando alla genesi di un potenziale d’azione: si tratta di
un’eccezione perché solitamente le sinapsi del sistema nervoso centrale, a differenza della sinapsi
neuromuscolare, generano potenziali post-sinaptici eccitatori molto piccoli (pochi mV) e quindi non sono mai
in grado singolarmente di far raggiungere al neurone il valore soglia (quindi per generare il potenziale d’azione
sono necessari generalmente fenomeni di sommazione). Il potenziale d’azione che si genera in seguito a
stimolazione da parte delle fibre rampicanti delle cellule del Purkinje, è detto potenziale d’azione composto
(perché prima si ha un potenziale più ampio e poi altri potenziali più piccoli) ed è un potenziale ampio e
prolungato nel tempo ma non frequente (circa 1 al secondo).
La sinapsi tra fibre parallele e cellule del Purkinje porta invece alla formazione di normali potenziali post-
sinaptici eccitatori di piccole dimensioni che per attivare le cellule del Purkinje necessitano di sommazione
(ogni cellula del Purkinje riceve 200.000 sinapsi): il potenziale d’azione che si genera è detto potenziale
d’azione semplice, ha una frequenza molto più elevata ed è responsabile anche della scarica a riposo nelle
cellule del Purkinje.
Le fibre muscoidi segnalano cosa sta succedendo a livello del feedback motorio e del comando che proviene
dalla corteccia, le fibre rampicanti invece trasmettono una sorta di segnale di allarme, qualcosa di anomalo
rispetto all’equilibrio che è stato programmato.

Cervelletto: afferenze, efferenze, funzioni


Nel cervelletto riconosciamo tre zone funzionali, che sono il vestibolo-cerebello, lo spino-cerebello e il
cortico-cerebello. Queste tre zone sono chiamate così per l’origine delle loro afferenze: quelle del vestitolo-
cerebello riceve prevalentemente afferenze dai labirinti vestibolari, lo spino-cerebello riceve prevalentemente
dal midollo spinale e il cortico-cerebello riceve dalla corteccia cerebrale.
Vestibolo-cerebello, spino-cerebello e cortico-cerebello sono diversi anche anatomicamente:
 il vestibolo-cerebello corrisponde anatomicamente al lobo flocculo-nodulare (la prima porzione
cerebellare che si è sviluppata da un punto di vista filogenetico, per questo chiamata anche archi-
cerebello);
 lo spino-cerebello corrisponde anatomicamente alla regione del verme e alle porzioni degli emisferi
cerebellari adiacenti al verme, quindi le due strisce di emisfero cerebellare che stanno ai due lati del
verme;
 il cortico-cerebello corrisponde alla porzione più laterale degli emisferi cerebellari.

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L'elaborazione corticale dell'informazione che arriva al cervelletto viene poi ritrasmessa dalla corteccia
cerebellare ai nuclei profondi che sono: nucleo del fastigio, il più mediale, globoso ed emboliforme (insieme
detti nucleo interposito o intermedio) e il più laterale che è il nucleo dentato.

Vestibolo-cerebello
Le informazioni arrivano al vestibolo-cerebello dal labirinto e dai nuclei vestibolari (che ricevono
informazioni dal labirinto); l’informazione penetra attraverso il peduncolo cerebellare inferiore e sale alla
corteccia del vestibolo-cerebello (c'è sempre una collaterale delle fibre muscoidi afferenti che va ad attivare
anche il nucleo profondo del fastigio). Il risultato della elaborazione della corteccia del vestibolo-cerebello è
un messaggio in uscita verso un nucleo profondo. C'è un’eccezione, in quanto i neuroni corticali possono non
fermarsi su un nucleo profondo del cervelletto, ma raggiungere direttamente i nuclei vestibolari presenti nel
tronco dell'encefalo, che funzionalmente possono essere considerati come nuclei profondi del cervelletto e
quindi ricevono direttamente informazioni dagli assoni delle cellule del Purkinje.
Una parte dell’elaborazione corticale raggiunge, come già detto, un nucleo profondo, il nucleo del fastigio,
e dal nucleo del fastigio raggiunge la sostanza reticolare.
Sia le vie vestibolo-spinali sia le vie reticolo-spinali, regolate dal vestibolo-cerebello, sono vie che
partecipano al sistema mediale e coordinano le risposte posturali. In particolare, in questo caso abbiamo
aggiustamenti posturali in risposta a movimenti del capo, vanno a coordinare i movimenti del capo col
movimento del tronco e consentono quindi di mantenere l'equilibrio.

Spino-cerebello
Lo spino-cerebello riceve informazioni dal midollo spinale.
 Alcune di queste informazioni vengono dai muscoli e dalle articolazioni della parte più mediale del
corpo. Queste informazioni raggiungono la porzione del verme e salendo verso la corteccia le fibre
muscoidi che le veicolano mandano anche proiezioni al nucleo del fastigio.
L'informazione che esce dalla corteccia dello spino-cerebello, raggiunge il nucleo del fastigio da cui
partono fibre che raggiungono la sostanza reticolare e quindi i centri tronco-encefalici per il controllo
della postura. I neuroni del nucleo del fastigio però possono anche raggiungere, percorrendo il
peduncolo cerebellare superiore, il nucleo ventrale laterale del talamo e andare alle cortecce
motorie. Dalle cortecce motorie partono le fibre discendenti corticospinali, che appartengono al
sistema mediale, che sono quelle che partecipano al controllo della postura e dell'equilibrio insieme
alle vie discendenti che originano dal tronco dell'encefalo.
 Dal midollo spinale, il cervelletto riceve anche informazioni relative invece al movimento degli arti,
in particolare della parte distale degli arti. Queste informazioni raggiungono la porzione emisferica
dello spino-cerebello, quindi quella striscia di emisfero cerebellare disposta lateralmente rispetto al
verme. Salendo, le fibre muscoidi inviano collaterali anche al nucleo globoso ed emboli forme.

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L'attivazione di questo circuito porterà ad una attivazione dei neuroni di origine del sistema laterale
del controllo del movimento dei fasci corticospinali laterali (attraverso informazioni che dal talamo
raggiungono le cortecce motorie) e anche all'attivazione delle vie rubro-spinali che dal nucleo rosso
arrivano al midollo spinale (questa via rubro-spinale è una via importante in altri mammiferi, anche
dei primati, ma abbastanza residuale nella specie umana).

Cortico-cerebello
In questo caso il punto di origine dell’informazione è a livello dalle cortecce motorie e dalla corteccia
l'informazione va ad attivare i nuclei pontini, il cui assone tramite il peduncolo cerebellare medio raggiunge
il cervelletto, in particolare raggiunge la corteccia nelle porzioni laterali degli emisferi. Salendo le fibre
muscoidi mandano una collaterale al nucleo dentato. L'attivazione di questo circuito (sia direttamente dalla
collaterale che raggiunge il nucleo dentato, sia con il passaggio a livello della corteccia cerebellare, che poi a
sua volta proietta al nucleo dentato) porta un’informazione in uscita dal nucleo dentato che, tramite il
peduncolo cerebellare superiore, arriva al talamo ventro-laterale e va ad attivare le cortecce motorie che
controllano il movimento volontario.
I neuroni del complesso olivare inferiore ricevono tante afferenze (nel grafico ne è indicata soltanto una,
dalla componente cellulare del nucleo rosso, ma in realtà ce ne sono anche altre), ma quello che ci interessa è
che le fibre rampicanti che originano dai neuroni dell'oliva inferiore vanno ad attivare le cellule del Purkinje
a livello emisferico, sia nella parte mediale sia nella parte laterale degli emisferi; esse si attivano in maniera
sincronizzata (grazie alle sinapsi elettriche presenti a livello del complesso olivare inferiore), e vanno a
coordinare l'attività della corteccia cerebellare in modo da ottenere una risposta motoria coordinata su diverse
articolazioni e una risposta motoria che tenga conto di eventuali discrepanze rispetto al progetto originario.

Lesioni cerebellari
Cosa succede se un paziente ha una lesione cerebellare?
Si è detto che tutte le vie sensoriali e motorie si incrociano, ma il cervelletto fa eccezione. Le informazioni
sensoriali che vengono da una metà del corpo raggiungono infatti la stessa metà del cervelletto, ci sono
connessioni che, al contrario di quanto avviene in tante altre vie, non incrociano. Questo fa sì che una lesione
emilaterale del cervelletto determini la comparsa di sintomi omolateralmente.
1. Lesione al vestibolo-cerebello
Se si ha una lesione al vestibolo-cerebello si osserverà un problema vestibolare e quindi di gestione
dell'equilibrio e della marcia. Sono tipicamente dei pazienti che hanno quella che si chiama una
“marcia da ubriaco”, quindi una marcia a piedi larghi per aumentare la base di appoggio e difficoltà
a fare anche pochi passi senza sostegno.
Astasia = difficoltà a mantenere la posizione eretta.
Abasia = difficoltà a mantenere l'equilibrio con basi di appoggio più ristrette.
Un altro sintomo peculiare è il nistagmo, un circuito che serve anche a controllare i movimenti
oculari. Il nistagmo è la presenza di movimenti orizzontali degli occhi, che è normale come
processo di inseguimento di un punto di fissazione (come quando sul treno si guarda fuori dal
finestrino), ma se invece si è in situazioni che non lo richiedono e si osserva questo movimento,
allora c'è un problema cerebellare di regolazione dei movimenti oculari.
2. Lesione allo spino-cerebello
Se c'è una alterazione dello spino-cerebello, in particolare della porzione che controlla i muscoli
posturali, si può avere una alterazione appunto della postura. L'effetto di una lesione acuta del
cervelletto è lo sviluppo di ipotonia cerebellare, proprio perché normalmente, il risultato finale di
questo equilibrio eccitazione-inibizione sui nuclei profondi del cervelletto è un equilibrio positivo,
quindi c'è una scarica tonica di questi neuroni che vanno eccitare i muscoli posturali. Se il cervelletto
viene improvvisamente disconnesso, per esempio per un trauma o un ictus, la perdita di questo tono
determina la presenza di una ipotonia.
3. Lesione emisferi cerebellari
Se c'è una lesione degli emisferi, invece, si osserva un’alterazione del controllo dei muscoli e del
loro normale tono; si può però generare anche un tremore intenzionale (mentre si sta compiendo
un movimento finalizzato a qualcosa, il muscolo trema). Questo tremore è chiamato tremore
intenzionale perché si ha appunto durante l'esecuzione di movimenti finalizzati e si differenzia dal

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tremore a riposo, che hanno i pazienti parkinsoniani (i quali invece hanno per l’appunto un tremore
soltanto o principalmente quando sono fermi).
Se c’è un’alterazione della funzionalità degli emisferi cerebellari si hanno quindi alterazioni
nell’esecuzione precisa di movimenti finalizzati, per cui non si riesce a eseguire un movimento in
maniera corretta: questo fenomeno è detto atassia cerebellare.
Si ha anche dismetria, che significa impossibilità a raggiungere il punto preciso che si vuole
raggiungere.
Una prova che si fa per valutare la presenza di questo tipo di disturbi è mettersi in piedi ad occhi
chiusi e con le braccia aperte a croce e piegarle alternativamente andando a toccare con l'indice
esteso la punta del naso. Un soggetto normale riesce a farlo senza difficoltà invece un paziente con
lesione cerebellare manca il bersaglio e non riesce a fare questo movimento con precisione. Se si
ha una lesione all’emisfero cerebellare di sinistra non si riesca a farlo col braccio di sinistra, se non
si riesce a farlo con la destra si hanno invece problemi all’emisfero di destra.
Un'altra prova che frequentemente risulta alterata in questi pazienti è quella di pronosupinazione:
rapidamente toccare il palmo della mano alternativamente col palmo o con il dorso dell'altra mano;
i pazienti con lesione cerebellare non riescono a compiere questo movimento rapido e alternato.

Nuclei della base: organizzazione morfofunzionale


I nuclei o gangli della base, così come il cervelletto, hanno una funzione di fiancheggiatori e quindi non
promuovono loro stessi la contrazione muscolare, ma partecipano attivamente alla sua progettazione e in parte
anche alla sua esecuzione. Essi sono dei nuclei che sono presenti a livello principalmente del telencefalo e
quindi nella profondità degli emisferi cerebrali. Fanno parte di questo gruppo però anche alcune strutture non
telencefaliche, in particolare un nucleo diencefalico che sta sotto al talamo (il nucleo subtalamico), e
un'importante struttura mesencefalica che è la sostanza nera (la sostanza nera è diventata “famosa” quando si
è scoperto che la degenerazione dei suoi neuroni è alla base della comparsa dei sintomi motori del morbo di
Parkinson).
I gangli della base sono coinvolti soprattutto nella regolazione dell'attività motoria, ma come per il
cervelletto, anche i gangli della base partecipano ad altre funzioni. Oggi abbiamo l’idea del sistema nervoso
centrale come qualcosa di altamente integrato cioè che una struttura non può funzionare se non è correttamente
connessa con le altre e non determina, quando si attiva, un’attivazione complessiva e diffusa.
I gangli della base ricevono afferenze, cioè informazioni, e inviano efferenze principalmente da e verso la
corteccia cerebrale. Il ritorno delle informazioni in corteccia è anche qui mediato dal talamo. Oltre a mandare
efferenze alla corteccia premotoria e motoria, come il cervelletto, le informazioni elaborate dai circuiti dei
gangli della base arrivano anche alla corteccia prefrontale (sede della nostra personalità; una sua lesione
infatti determina una modificazione dei criteri di scelta comportamentali). Questo per sottolineare che i circuiti
dei gangli della base sono implicati fortemente non soltanto nel controllo motorio, ma anche nelle nostre scelte
comportamentali, partecipando alla decisione e non solo all’esecuzione di un movimento.
I gangli della base sono dunque connessi prevalentemente con la corteccia cerebrale e non presentano
connessioni dirette col midollo spinale. Essi possono però mandare delle efferenze alla formazione reticolare
(in minor misura rispetto alle efferenze rivolte alla corteccia).
Tramite lo studio della lesione delle strutture dei gangli della base, possiamo comprendere a fondo quali
siano le loro funzioni; possiamo infatti dire che i gangli della base sono coinvolti nella regolazione del
movimento proprio perché una loro alterazione causa un’alterazione nell’esecuzione del movimento. In
particolar modo si osservano dei movimenti anomali, con riduzione o aumento del repertorio motorio stesso.
Anche in questo caso, come nel caso del cervelletto, la lesione del ganglio della base può dare dei disturbi
posturali, generalmente rigidità e aumento del tono posturale, ma accanto a questi ci sono anche delle
alterazioni sia emozionali che cognitive. Effettivamente proprio per le connessioni che questa struttura ha con
la corteccia prefrontale, si è visto che i gangli della base hanno un ruolo nella selezione delle risposte
comportamentali (in base alla situazione o alle interazioni sociali). Essi hanno inoltre un ruolo anche
nell’esecuzione dei comportamenti motivati, come l'assunzione di cibo o l'assunzione di liquido, e anche in
alcune forme di apprendimento

I gangli della base sono costituiti prevalentemente da nuclei, cioè masse di sostanza grigia presente nella
profondità degli emisferi, e quindi nel telencefalo.
I due nuclei di ingresso dell’informazione nei gangli della base nel loro insieme prendono il nome di striato,
e sono il nucleo caudato e il putamen. Un'altra struttura importante è il globus pallidus, più mediale rispetto

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al putamen, che è diviso in due parti: un segmento esterno, che è quello più vicino al putamen, e un segmento
interno. Il segmento interno, insieme alla porzione reticolata della sostanza nera, corrispondono al punto di
uscita dell’informazione.
C'è anche un'altra struttura che fa parte dei circuiti dei gangli della base ed è un nucleo diencefalico chiamato
nucleo subtalamico, una massa di sostanza grigia che sta tra il talamo e la sostanza nera. Il nucleo subtalamico
è un nucleo che può ricevere informazioni direttamente dalla corteccia (non tante), partecipa ai circuiti dei
gangli della base e manda le sue informazioni alla porzione interna del globus pallidus.
Il nucleo caudato si chiama così perché forma una lunga coda che si estende praticamente in tutti i lobi
cerebrali, quindi parte dal lobo frontale, attraversa il lobo parietale e raggiunge la sua porzione posteriore e poi
torna avanti a livello del lobo temporale. Al livello del suo termine c'è l’amigdala, una struttura non facente
parte dei gangli della base bensì implicata nelle funzioni emozionali. Implicato in queste ultime funzioni vi è
anche il nucleo accumbens, anatomicamente localizzato sulla superficie ventrale dei gangli della base ma
funzionalmente legato per l’appunto alle emozioni (in particolare è coinvolto nei meccanismi del piacere).

Una visione d’insieme dei circuiti dei gangli della base. Le informazioni dalla corteccia raggiungono i gangli
della base, dove avviene la loro elaborazione, da qui le informazioni passano poi al talamo (nucleo ventrale
laterale, su neuroni diversi rispetto a quelli che ricevono informazioni provenienti dal cervelletto, sul nucleo
ventrale anteriore e sulla sostanza grigia intralaminare) e da qui alla corteccia. Le cortecce che vengono
raggiunte sono la corteccia motoria e premotoria ma anche la corteccia del cingolo, la frontale e la prefrontale:
non solo dunque controllo motorio, ma più genericamente controllo del comportamento e controllo della
progettazione del movimento. Quando bisogna prendere delle decisioni comportamentali in situazioni
complesse, i gangli della base partecipano all’elaborazione svolta dalla corteccia prefrontale per scegliere i
comportamenti socialmente appropriati; i circuiti dei gangli della base partecipano anche a quello che viene
chiamato circuito limbico e quindi sostengono comportamenti motivati. Nei prossimi paragrafi
approfondiremo questi singoli circuiti, concentrandoci soprattutto sul circuito motorio, che è quello di interesse
della tesina.

Gangli della base: circuiti


Si ricordi che per circuito in questo frangente si intende una sorta di loop in cui l’informazione parte da una
regione corticale, passa per i gangli della base, il talamo e, infine, ritorna alla stessa regione corticale da cui è
partita.
 Circuito motorio in senso stretto: l’informazione parte dalla corteccia motoria primaria e dalla
corteccia motoria supplementare, passa per i gangli della base e per il talamo e, infine, ritorna alle
stesse cortecce. Il circuito partecipa al controllo dell’esecuzione del movimento, in termini di
direzione, ampiezza e velocità nei diversi segmenti corporei. Sarà il circuito approfondito in questa
tesina.
 Circuito oculomotorio: l’informazione parte e ritorna, in tal caso, nella corteccia deputata al
controllo del movimento oculare a livello del lobo frontale. Il circuito partecipa, come è possibile
intuire, al controllo del movimento degli occhi.
 Circuito prefrontale: l’informazione parte e ritorna alla corteccia prefrontale, particolarmente
estesa. Si ricordi che la corteccia prefrontale, particolarmente sviluppata nella specie umana rispetto
alle altre specie animali, è sede in primo luogo della personalità. È anche sede delle funzioni esecutive,
ovvero funzioni corticali che permettono di sganciare il nostro comportamento dalle risposte
automatiche: esse percepiscono segnali ambientali, che suggeriscono come le risposte automatiche
non siano più adeguate a quella circostanza, e modificano di conseguenza il nostro comportamento.
La corteccia prefrontale permette di scegliere il comportamento giusto rispetto al contesto sociale: ad
esempio ridere in osteria è socialmente approvato, ridere ad un funerale è disdicevole. In ultimo, sono
in parte sostenuti, da tale circuito, anche i comportamenti empatici.
 Circuito limbico: l’informazione parte e ritorna alla corteccia limbica, importante nella gestione
delle emozioni. Il circuito permette il rafforzamento di comportamenti normalmente legati alla
ricompensa. Ad esempio, quando si hanno determinati comportamenti, aumenta la liberazione di
dopamina in tali circuiti: questa ci motiva fortemente a ripetere il comportamento.

Gangli della base: via diretta e via indiretta


Nell’ambito del ruolo che i gangli della base svolgono nel controllo del movimento, è necessario distinguere
tra due vie: la via diretta e la via indiretta. In breve:

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 l’attivazione della via diretta determina un potenziamento dell’attività delle stesse regioni corticali
da cui è partito il segnale;
 l’attivazione della via indiretta determina un’inibizione dell’attività delle stesse regioni corticali da
cui è partito il segnale.

Via diretta
La corteccia motoria, dotata di neuroni glutammatergici, eccitatori, attiva la porta di ingresso dei gangli
della base, ovvero i nuclei putamen e caudato che, nell’insieme, sono chiamati nucleo striato. Lo striato
contiene neuroni colinergici intrinseci al nucleo che mantengono un’attività tonica.
Le sinapsi eccitatorie sullo striato attivano neuroni inibitori – i quali utilizzano sostanza P e GABA – che
prendono sinapsi con la “porta di uscita”, rappresentata dal segmento interno del globus pallidus (GPi) e
dalla porzione reticolare della sostanza nera (SNr), che vengono quindi inibiti. I neuroni del globus pallidus
e della porzione reticolare della sostanza nera sono a loro volta neuroni inibitori che inibiscono i neuroni del
talamo. Tale inibizione viene dunque rimossa: in conclusione i nuclei talamici, attivati, attivano i neuroni
della corteccia.

Corteccia → + Striato → – GPi e SNr → – talamo → + corteccia


(Intuitivamente, se si moltiplicano i segni delle varie sinapsi, si ottiene +, cioè attivazione).

Via indiretta
La corteccia motoria, dotata di neuroni glutammatergici, eccitatori, attiva la porta di ingresso dei gangli
della base, ovvero i nuclei putamen e caudato che, nell’insieme, sono chiamati nucleo striato.
Le sinapsi eccitatorie sullo striato attivano neuroni inibitori (che utilizzano sempre sostanza P e GABA) che
prendono sinapsi, questa volta, con neuroni della porzione esterna del globus pallidus (GPe). Il globus
pallidus esterno di norma inibisce i neuroni del nucleo subtalamico. Tale inibizione viene così rimossa e,
conseguentemente, vengono attivati i neuroni del nucleo subtalamico. I neuroni eccitatori del nucleo
subtalamico attivano i neuroni della porta di uscita dei nuclei della base, ovvero la porzione interna del globus
pallidus e la porzione reticolare della sostanza nera. Questi sono neuroni inibitori che, attivati, inibiscono i
neuroni del talamo. I nuclei del talamo, inibiti, eccitano meno la corteccia.

Corteccia → + Striato → – GPe → – STN → + GPi e SNr → – talamo → + corteccia


(Intuitivamente, se si moltiplicano i segni delle varie sinapsi, si ottiene -, cioè inibizione).

In sostanza:

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 l’attivazione della via diretta determina un aumento dell’attivazione dei neuroni della corteccia:
effetto attivatorio;
 l’attivazione della via indiretta determina una diminuzione dell’attivazione dei neuroni corticali:
effetto frenante.
Porzione compatta della sostanza nera
La porzione compatta della sostanza nera, struttura mesencefalica, esercita una sorta di controllo,
mandando fibre dopaminergiche allo striato:
 le efferenze che giungono sui neuroni da cui origina la via diretta esercitano attivazione;
 le efferenze che giungono sui neuroni da cui origina la via indiretta esercitano inibizione.
Quindi, quando la sostanza nera è attivata, ha nel complesso una scarica attivatoria sulla via diretta e una
scarica inibitoria sulla via indiretta.

Ripetiamo:
 Direct pathway: un neurone eccitatorio eccita un neurone inibitorio del putamen che, a sua volta, va
ad inibire un neurone inibitorio della porzione interna del globus pallidus. Quindi, trattandosi di doppia
inibizione, si genera attivazione. Viene rimossa l’inibizione sul talamo, così attivato.
 Indirect pathway: un neurone eccitatorio eccita un neurone inibitorio del putamen che, a sua volta, va
ad inibire un neurone inibitorio del globus pallidus esterno, che va ad inibire un neurone del nucleo
subtalamico. Trattandosi di doppia inibizione, si genera attivazione: il nucleo subtalamico, attivato,
attiva un neurone della porzione interna del globus pallidus che, a sua volta, inibisce il talamo. Il
talamo, inibito, non attiva la corteccia.

Nella schematizzazione in alto è riassunto quanto visto precedentemente. Tuttavia, è descritta una terza via,
detta via iperdiretta.
È stato osservato che esistono efferenze corticali che arrivano direttamente al nucleo subtalamico. Questo,
a sua volta, attiva la porzione interna del globus pallidus. Dunque, molto più rapidamente di quanto faccia la
via indiretta, la via iperdiretta inibisce i neuroni talamici e, conseguentemente, la corteccia. Possiamo definirla
dunque come una “scorciatoia” della via indiretta.
Inoltre è possibile notare come sia il nucleo subtalamico che il globus pallidus mandino un segnale al nucleo
peduncolo pontino (PPN nell’immagine). Questo manda informazioni alla sostanza reticolare, quindi modula
le vie mediali di motilità, deputate al controllo della postura.
Nell’immagine, a destra, è possibile notare che, quando la corteccia si attiva, la prima via che manda segnali
al talamo e, conseguentemente, di ritorno, alla corteccia è quella iperdiretta, la più rapida, in quanto dotata di
meno sinapsi; si tratta di una fase iniziale di inibizione del movimento, ovvero una fase preparatoria al
movimento volontario: la corteccia manda un segnale alle altre zone corticali per fermar qualunque altro
movimento in esecuzione, allo scopo di permettere il movimento volontario in preparazione. In seguito, risulta
arrivare il segnale trasmesso dalla via diretta, seconda per numero di sinapsi: si tratta di un segnale di

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attivazione che facilita l’esecuzione del movimento volontario. In ultimo, giunge il comando mediato dalla
via indiretta, la più lenta a causa del maggior numero di sinapsi: si tratta di un segnale inibitorio per la
corteccia, dunque un segnale di arresto del movimento. Quindi l’attivazione dei circuiti in cui sono coinvolti
i gangli della base, non promuove direttamente il movimento volontario, ma modula il background su cui è
strutturato tale movimento.

Ricapitolando. Le tre vie nella esecuzione del movimento sono attivate, visto il minor o maggior numero di
sinapsi, l’una dopo l’altra. Via iperdiretta (inibizione della corteccia motoria al fine di bloccare qualsiasi
altro movimento e permettere il movimento progettato) → via diretta (attivazione della corteccia deputata al
movimento volontario) → via indiretta (inibizione della corteccia, arresto del movimento).

Lesioni nei circuiti dei gangli della base


Se si ha una lesione a livello di alcuni punti della via diretta, della via indiretta o della modulazione da
parte della pars compacta della sostanza nera, l’equilibrio tra segnali eccitatori e segnali inibitori può
cambiare e quindi anche il livello di attivazione corticale può cambiare, con una conseguente disfunzione
nel controllo del movimento.
 Questo è quanto accade, ad esempio, nel morbo di Parkinson, malattia neurodegenerativa piuttosto
diffusa nei paesi occidentali. Essa prevede la neurodegenerazione di ampie popolazioni neuronali,
ma che comincia a manifestare i suoi sintomi quando degenerano i neuroni dopaminergici della
sostanza nera della porzione mesencefalica, in particolar modo della pars compacta. Questi
normalmente eccitano la via diretta e inibiscono la via indiretta: dunque una loro scarsa attivazione
non può modulare positivamente l’attività della via diretta e non può modulare negativamente
l’attività della via indiretta, la quale dunque risulterà preminente sulla diretta.

 Un'altra patologia che interessa queste regioni è il morbo di Huntigton, malattia su base genetica.
Questa determina una degenerazione progressiva dei centri nervosi, portando a morte precoce.
Tuttavia, in tal caso, la degenerazione avviene a livello dei neuroni inibitori che agiscono a livello
del segmento esterno del globus pallidus, interrompendo così la via indiretta. Ciò determina uno
spostamento dell’ago della bilancia verso la via diretta che, ricordiamo, promuove il movimento
corticale.

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In conclusione, se si ha una lesione che, complessivamente, sposta l’ago della bilancia verso la via
indiretta, si osserva una diminuzione complessiva dell’eccitazione della corteccia con conseguenze sulla
velocità e sulla forza del movimento volontario: si ha ipocinesia, bradicinesia, rigidità e tremore a riposo.
Questo è quanto accade nel morbo di Parkinson.
Al contrario se si ha una lesione che, complessivamente, sposta l’ago della bilancia verso la via diretta,
si osserva una ipereccitabilità della corteccia motoria: questo implica movimenti atetosici, rapidi (corea) e
ampi e violenti (ballismo). Ciò è quanto accade nel morbo di Huntignton.
Si ricordi che il circuito motorio è uno dei tanti circuiti in cui sono implicati i gangli della base. Lesioni a
livello dei gangli della base hanno dunque conseguenze non solo sulla regolazione del movimento, ma anche
sul comportamento, la personalità e le emozioni.

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3. Sistema nervoso autonomo
3.1. Organizzazione morfofunzionale del sistema nervoso autonomo: sistemi simpatico,
parasimpatico ed enterico

L’organismo riceve informazioni dall’ambiente esterno ed interno, che vengono integrate ed elaborate nel
SNC e producono una risposta che genera sia un comportamento motorio, sia un perfetto adattamento delle
condizioni interne. Infatti le differenze ad esempio tra lo stare sdraiati sul letto o correre non sono solo a livello
dell’attività muscolare, ma anche a livello di attivazione dei visceri: attivazione polmonare, attività cardiaca,
distribuzione del sangue, termoregolazione ecc. Questa regolazione interna vede coinvolto il sistema nervoso
autonomo.
Definito anche vegetativo o viscerale, il sistema nervoso autonomo è la parte del sistema nervoso che presiede
alla regolazione delle funzioni degli organi interni, avendo come tessuto bersaglio il muscolo liscio e
cardiaco, le ghiandole e gli adipociti. Questo serve a mantenere l’omeostasi e a predisporre l’attività dei
visceri al comportamento che si sta assumendo. Il SNA lavora in parallelo al sistema endocrino per adempiere
a queste funzioni. Il SNA non può essere controllato dalla volontà dell’individuo, anche se esercizi di training
autogeno o di controllo del respiro possono modulare in parte tale sistema.

Il SNA adegua in via riflessa o sulla base di comandi nervosi centrali l’attività degli organi interni alle
diverse esigenze funzionali dell’organismo.
 I riflessi autonomici operano attraverso circuiti nervosi elementari per garantire l’omeostasi (ad es.
regolano l’attività cardiaca e vasomotoria per mantenere costante la pressione arteriosa, al fine di
garantire un adeguato afflusso di sangue ai tessuti) o per coordinare l’attività motoria e funzionale
degli organi interni (ad es., apparato gastro-intestinale, vescica). Questi riflessi, come quelli motori
che fanno parte del sistema nervoso somatico, sono caratterizzati da sensori che segnalano un
discostamento dal valore normale e da fibre che danno una risposta riflessa volta a ripristinare il
valore normale.
 I comandi nervosi centrali autonomici operano attraverso circuiti nervosi di maggiore complessità
per adattare in modo coordinato i parametri fisiologici alle esigenze funzionali dei diversi
comportamenti (ad es. regolando la gittata cardiaca, la distribuzione del flusso ematico e il calibro
delle vie aeree durante l’attività fisica). Quando si va a correre, ad esempio, la frequenza cardiaca può
aumentare addirittura prima che si inizi l’esercizio fisico intenso, cioè quando ancora i parametri
interni non sono variati e prima che aumenti la richiesta di ossigeno da parte dei muscoli. Questo è
dovuto proprio ai centri nervosi che danno una risposta preventiva.

Il sistema nervoso periferico è costituito da:


 Sistema nervoso somatico: responsabile dei movimenti volontari dei muscoli scheletrici e degli archi
riflessi che modulano i movimenti.
 Sistema Nervoso Autonomo (SNA): controlla i muscoli lisci (e cardiaco) e le ghiandole endocrine ed
esocrine. È suddiviso in tre parti:
- Sistema nervoso enterico: controlla i riflessi dell’apparato gastro-intestinale.
- Sistema nervoso (orto)simpatico: controlla le reazioni a situazioni di emergenza (stress emotivi,
lotta, competizione atletica, perdita ematica, sesso) e serve a mobilizzare le risorse per rispondere
alla situazione stressante. Senza il SNS un animale può sopravvivere solo se coperto, scaldato e
nutrito.
- Sistema nervoso parasimpatico: responsabile del riposo e dell’assimilazione, reintegra le risorse
spese dal SNS e ne immagazzina altre.
Nota. I sistemi nervosi parasimpatico e simpatico controllano anche il sistema enterico oltre ai loro organi
bersaglio.

Caratteristiche generali del sistema motorio viscerale


 Autonomia: il sistema motorio viscerale è un sistema indipendente dalla volontà dell’individuo.

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 Si distinguono due neuroni: uno pre-gangliare e uno post-gangliare. I corpi cellulari dei neuroni
pre-gangliari si trovano all’interno del sistema nervoso centrale, mentre quelli dei neuroni post-
gangliari sono situati nel sistema nervoso periferico, in particolare nei gangli (ovviamente non nei
gangli spinali, ma in altri gangli). I neuroni pre-gangliari sono mielinizzati, mentre quelli post-
gangliari no.
Nel sistema nervoso simpatico il neurone pre-gangliare è molto più breve rispetto al neurone post-
gangliare, e questo è dovuto al fatto che i gangli simpatici sono localizzati vicino alla colonna
vertebrale
I gangli parasimpatici invece sono localizzati vicino o addirittura all'interno dell’organo bersaglio,
quindi le fibre pre-gangliari sono molto più lunghe di quelle post-gangliari.
Questa differenza anatomica rende conto della diversa velocità con cui un impulso autonomo viene
trasmesso al bersaglio: difatti tale velocità sarà maggiore per quello che riguarda il sistema nervoso
parasimpatico, visto che la fibra più lunga è quella mielinizzata (mentre nel caso del simpatico, la
fibra più lunga, cioè la post-gangliare, non è mielinizzata).
 Si osservano due sinapsi: una tra neurone pre- e post-gangliare, una tra neurone post-gangliare e
tessuto bersaglio. La sinapsi tra neurone post-gangliare e organo bersaglio può essere sia eccitatoria
sia inibitoria.
Una tabella riassuntiva tratta dalle slide che mette a paragone il sistema motorio somatico con quello motorio
viscerale:
Sistema motorio somatico Sistema motorio viscerale
Volontario Autonomo
Motoneuroni in SNC Motoneuroni in SNP (gangli)
Monosinaptico 2 sinapsi
Eccitatorio Eccitatorio o inibitorio

Via motoria vegetativa: sistema nervoso simpatico


I neuroni pre-gangliari del sistema nervoso simpatico hanno il pirenoforo localizzato a livello delle corna
laterali del midollo spinale, da T1 a L3. Il loro assone, uscito dalla radice anteriore del nervo spinale,
raggiunge i gangli simpatici attraverso i rami comunicanti bianchi. I gangli simpatici formano una catena
situata ai lati della colonna vertebrale e per questo sono detti anche gangli paravertebrali.
Una volta raggiunto il ganglio, la fibra pre-gangliare può avere diversi destini:
1. fare sinapsi con i neuroni post-gangliari presenti nel ganglio paravertebrale; gli assoni dei neuroni
post-gangliari si impegneranno poi, grazie ai rami comunicanti grigi, nei nervi spinali, grazie ai quali
raggiungeranno e innerveranno la cute (ghiandole sudoripare, muscoli erettori del pelo e capillari) e i
vasi che vascolarizzano la muscolatura striata;
2. non fare sinapsi a livello dei gangli paravertebrali e salire lungo i cordoni intermedi per raggiungere i
gangli cervicali e qui fare sinapsi. I gangli cervicali sono tre: superiore, medio e inferiore. Nella
maggior parte delle persone, l’inferiore è fuso con il primo toracico a formare il ganglio stellato.
Questi gangli si occupano dell’innervazione dei visceri toracici (cuore e polmoni) e di quelli del capo
(ghiandole lacrimali, salivari e sudoripare, vasi sanguigni e peli del capo, occhio). Finestra patologica.
Un carcinoma polmonare che determina una compressione del ganglio stellato determina un insieme
di sintomi dovuto proprio alla mancata innervazione simpatica degli organi bersaglio: ptosi (caduta
della palpebra superiore), miosi e anidrosi. Questa condizione clinica prende il nome di sindrome di
Bernard-Horner;
3. non fare sinapsi a livello dei gangli paravertebrali e raggiungere i gangli prevertebrali (celiaco,
mesenterico superiore, mesenterico inferiore). Da qui partiranno le fibre post-gangliari che andranno
a innervare stomaco, fegato e cistifellea, pancreas, tenue, rene, crasso, vescica e sistema genitale;
4. non fare sinapsi a livello dei gangli paravertebrali e raggiungere la midollare del surrene. La midollare
del surrene può essere considerata come un ganglio simpatico e le sue cellule come neuroni post-
gangliari. Infatti, queste cellule hanno il ruolo di rilasciare nel torrente ematico adrenalina, molecola
molto simile al neurotrasmettitore noradrenalina rilasciato dalle fibre post-gangliari.

76
Via motoria vegetativa: sistema nervoso parasimpatico
Il sistema nervoso parasimpatico è diviso in due sezioni, quella craniale e quella sacrale.
 La sezione craniale include nuclei localizzati nel mesencefalo, come quello di Edinger-Westphal, e
nel bulbo, come quelli salivatorio superiore, salivatorio inferiore, ambiguo e motore dorsale del
vago (nella sbob è citato anche il nucleo muconasolacrimale di Yagita, ma la prof. non l’ha mai citato,
così come non viene citato da nessun libro di fisiologia né dai Principi di neuroscienze di Kandel;
l’informazione è stata credo integrata dalle sbob di Cocco, ma non so quanto sia affidabile). Le fibre
pre-gangliari provenienti da questi nuclei utilizzano alcuni nervi cranici per dirigersi ai rispettivi
gangli:
- l’oculomotore (III) veicola le fibre dal nucleo di Edinger-Westphal fino al ganglio ciliare:
da qui partiranno fibre post-gangliari dirette al muscolo costrittore della pupilla e al ciliare;
- il faciale (VII) veicola le fibre che dal salivatorio superiore vanno al ganglio
sottomandibolare e al ganglio pterigopalatino: dal primo partiranno fibre post-gangliari per
le ghiandole sottomandibolare e sottolinguale, dal secondo per ghiandole lacrimali, nasali e
palatine;
- il glossofaringeo (IX) veicola le fibre dal salivatorio inferiore al ganglio otico e da qui alla
parotide;
- il vago (X) le fibre dall’ambiguo e dal dorsale motore del vago: in questo caso non possiamo
identificare un solo ganglio, perché ve ne sono numerosissimi, a livello degli organi bersaglio.
Il nervo vago è importantissimo perché veicola le fibre pre-gangliari parasimpatiche a tutti i
visceri toracici (cuore, bronchi e polmoni) e alla maggior parte dei visceri addominali (fino ai
⅔ prossimali del colon).
 La sezione sacrale è formata da neuroni pre-gangliari che originano dalle corna laterali di S2-S4 del
midollo spinale. Si occupa dell’innervazione della restante parte del tratto intestinale (colon distale,
retto), vescica e sistema genitale.
Schema riepilogativo tratto dal Kandel:

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Secondo un articolo pubblicato nel 2016 su Science (“The sacral autonomic out flow in sympathetic”) le
caratteristiche fenotipiche ed ontogenetiche dei neuroni della sezione sacrale sono indistinguibili da quelle
della sezione toracica, e completamenti diverse da quelle della sezione craniale. Dal punto di vista funzionale
sono dunque simili a quelli della sezione craniale parasimpatica, ma dal punto di vista fenotipico e ontogenetico
a quelli della sezione toracica simpatica.

Innervazione da parte del SNA


Fatta eccezione per la cute, che riceve innervazione solo simpatica, tutti gli organi bersaglio del SNA
ricevono una duplice innervazione, sia simpatica sia parasimpatica. I due sistemi sono tra loro antagonisti,
quindi esercitano effetti opposti sull’organo bersaglio. In particolare il simpatico promuove lo sfruttamento
delle risorse metaboliche per aumentare la possibilità di successo o sopravvivenza; il parasimpatico favorisce
la digestione, l’accrescimento, l’immagazzinamento energetico e la risposta immunitaria. In realtà, è più
appropriato considerare i due sistemi come sistemi che operano in maniera coordinata, prevalentemente
esclusiva, ma a volte sinergica, per regolare i visceri e il metabolismo.
In condizioni basali è presente un’attività tonica del sistema nervoso simpatico e parasimpatico. Questa
attività si sbilancia a favore di uno o dell’altro in condizioni ambientali o comportamentali opposte. Quando
l’attivazione dell’uno è molto forte si può avere un’inibizione dell’altro. Per quello che riguarda principalmente
il simpatico, si è visto che si può avere una attivazione differenziata dei vari distretti: ad esempio, si può avere
un’attivazione simpatica cardiovascolare, ma non gastrointestinale.

Sistema nervoso enterico


Per un analisi più approfondita e settoriale del sistema nervoso enterico, si faccia riferimento alle tesine
sull’apparato gastrointestinale.
Il sistema nervoso enterico è formato da tantissimi neuroni, più di quelli presenti nel SNC. Si organizza in
due plessi uniti tra loro mediante diverse fibre: quello mioenterico di Auerbach (localizzato nel connettivo tra
lo strato circolare e longitudinale di muscolatura) e quello sottomucoso di Meissner (nella sottomucosa). La
popolazione di neuroni e di neurotrasmettitori di questo sistema è molto vasta: si distinguono neuroni motori
(implicati nel controllo della contrattilità muscolare, della secrezione ghiandolare), interneuroni e neuroni
sensitivi (raccolgono informazioni importanti nel controllo dell’attività viscerale). Alcuni neuroni sono anche
in grado di regolare l’attività delle cellule immunitarie presenti nell'intestino. Curiosità: si è osservata la
presenza di astrociti intestinali, simili a quelli del SNC.
Anche se può funzionare indipendentemente, il sistema enterico è sotto il controllo del simpatico e
parasimpatico. Le fibre simpatiche sono post-gangliari, mentre quelle parasimpatiche sono pre-gangliari,
perché i gangli parasimpatici sono inseriti direttamente nei due plessi.

Organizzazione della via afferente vegetativa


La componente motoria del SNA si distingue anatomicamente dal sistema motorio somatico. Ciò non è
possibile per quello che riguarda la componente sensitiva.
I corpi cellulari dei neuroni afferenti viscerali sono collocati nei gangli delle radici spinali o nei gangli
sensitivi dei nervi cranici, frammisti a quelli delle fibre afferenti somatiche. I segnali che queste fibre afferenti
trasportano possono:
 innescare riflessi viscerali attivando, tramite interneuroni, i motoneuroni orto- e/o parasimpatici;
 essere condotte ai centri superiori attraverso vie ascendenti cha hanno stazioni nel tronco
dell’encefalo, nell’ipotalamo, nell’amigdala, nel talamo mediale e terminano a livello della corteccia
limbica del cingolo. A livello di questi centri superiori si verifica un’integrazione tra comportamento
motorio e viscerale in modo che collaborino all’unisono.
Dai gangli dei nervi spinali e cranici partono gli assoni centrali che sono diretti al nucleo del tratto solitario,
localizzato nel bulbo. Il nucleo del tratto solitario (NTS) è il principale centro di raccolta delle informazioni
viscerali provenienti:
 dal sistema cardiovascolare (seno/glomo carotideo e arco aortico), per baro- e chemoriflessi;
 dal sistema respiratorio per il controllo dell’attività motoria dell’albero bronchiale e per la regolazione
della secrezione, dal polmone per il controllo del ritmo respiratorio;
 dal sistema gastro-intestinale per regolare il bilancio idrosalino e energetico.

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Queste informazioni giunte al NTS innescano in prima battuta risposte riflesse, ma parallelamente vengono
inviate ai centri superiori per poter adeguare il comportamento alla funzionalità viscerale.
Esempio di via riflessa: un aumento della pressione arteriosa attiva i barocettori carotidei e aortici e questi
inviano un segnale al NTS. Il NTS confronta il valore ricevuto con quelli normali e determina una risposta
effettrice che andrà a correggere il valore.
Per raggiungere i centri superiori, il NTS proietta al nucleo parabrachiale (coinvolto anche nel sistema
anterolaterale che trasporta le informazioni termico-dolorifiche verso l’alto) e da qui alla porzione mediale
del talamo e infine alla corteccia. Inoltre, il NTS proietta direttamente all’ipotalamo, da cui riceve afferenze.
L’ipotalamo riceve le informazioni sensoriali viscerali e promuove risposte più elaborate; ad esempio, quando
cala la glicemia, la risposta riflessa non è altro che l’aumento di motilità e assorbimento intestinale, mentre la
risposta integrata da parte dell’ipotalamo comprende una mobilizzazione delle risorse glucidiche (glicogeno)
e anche l’insorgenza del senso di fame che spinge l’individuo a cercare cibo.
Come detto più volte, la maggior parte delle informazioni viscerali non vengono percepite a livello cosciente,
anche se arrivano alla corteccia. Questo perché non raggiungono la corteccia somatosensitiva primaria, bensì
altre aree corticali. Un’eccezione è data dalle informazioni nocicettive, che però danno un senso di dolore
impreciso, diverso da quello preciso e localizzato che è dato dalle informazioni nocicettive somatiche.

Commento dello schema. Gli organi bersaglio mandano informazioni al nucleo del tratto solitario mediante
i nervi spinali e i nervi cranici (IX e X). Dal NTS le fibre possono proiettare direttamente a neuroni pre-
gangliari simpatici e parasimpatici innescando una via riflessa che modula l’attività dell’organo bersaglio. Il
NTS può proiettare poi al nucleo parabrachiale, da qui al talamo, all’insula (considerata il cervello viscerale
per le analisi delle afferenze viscerali) e infine alla corteccia prefrontale mediale (in particolare alla corteccia
del cingolo, che organizza il pattern delle risposte viscerali). Il nucleo parabrachiale invia informazioni anche
all’ipotalamo, come abbiamo detto precedentemente, attivando una serie di risposte integrate. Infine, dal
nucleo parabrachiale o anche dalla corteccia prefrontale mediale, le informazioni possono arrivare anche

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all’amigdala: questa è fondamentale per la genesi delle emozioni associate a risposte viscerali. Secondo una
scuola di pensiero (dalla psicologia sappiamo che è la teoria di James-Lange), sono proprio le sensazioni
viscerali che si provano alla vista di un pericolo a generare il senso di paura e non viceversa; ad es., se si vede
un serpente, si ha paura perché l’immagine del serpente arriva al talamo, da qui all’ipotalamo e questo attiva
il SNA, l’attivazione del SNA promuove delle variazioni funzionali degli organi bersaglio che vengono
percepite dal sistema afferente e portate all’amigdala. Quindi, la genesi delle emozioni dipende dalle sensazioni
viscerali. (N.B. La prof. cita solo questa scuola di pensiero, in realtà non c’è un accordo totale su questo punto
nella comunità scientifica; esistono anche scuole di pensiero che invece ribaltano la cosa, affermando che sono
le sensazioni viscerali a derivare dalle emozioni e non viceversa; attualmente esistono anche teorie che cercano
di conciliare le due visioni).

Organizzazione sinaptica dei gangli del SNA


I gangli del SNA sono strutture complesse nelle quali si osserva un certo grado di elaborazione e integrazione
del segnale nervoso. Infatti, qui avvengono fenomeni di convergenza e divergenza tra le fibre pre- e post-
gangliari.
La convergenza, ossia la presenza di più neuroni pre-gangliari che sinaptano su un solo neurone post-
gangliare, aumenta la probabilità di efficacia nella trasmissione sinaptica.
La divergenza, ossia la possibilità di un neurone pre-gangliare di sinaptare su più neuroni post-gangliari,
contribuisce a distribuire il segnale a molti neuroni.
A livello dei gangli sia i neuroni pre-gangliari simpatici che parasimpatici utilizzano acetilcolina, che va a
legarsi a recettori nicotinici e muscarinici collocati sulla membrana post-gangliare. I recettori muscarinici
sono importanti perché determinano una prolungata depolarizzazione della membrana post-sinaptica,
avvicinando il potenziale di membrana al valore soglia. Oltre al neurotrasmettitore, vengono liberati co-
trasmettitori neuropeptidici, in particolare LHRH.

Recettori nicotinici
Sono ionotropici e diversi da quelli presenti nel muscolo scheletrico. Infatti, il tipo di recettore nicotinico a
livello dei gangli è N2 (nel muscolo è N1) ed è bloccato dall’esametonio (e non dal curaro come gli N1). Quando
vengono attivati, questi recettori determinano un potenziale eccitatorio molto rapido che si esaurisce in pochi
millisecondi

Recettori muscarinici
Sono metabotropici e attivati solo in presenza di elevate concentrazioni di acetilcolina. Se il neurone pre-
gangliare scarica a bassa frequenza, si attivano solo i nicotinici; se scarica ad alta frequenza si attivano anche
i muscarinici.
Nei neuroni post-gangliari è presente, in condizioni basali (quando i pre-gangliari non scaricano), una
corrente iperpolarizzante detta corrente M, dovuta all’apertura di tanti canali per il K+. L’attivazione dei
recettori muscarinici determina la chiusura di questi canali per il potassio e quindi un blocco della corrente M,
provocando una lenta depolarizzazione. Anche LHRH, agendo su recettori metabotropici, determina la
produzione di secondi messaggeri in grado di chiudere i canali per il potassio e bloccare la corrente M.
Questi canali sono bloccati dall’atropina.

Quindi, la liberazione di ACh e neuropeptidi induce nei neuroni post-gangliari un segnale elettrico bifasico:
 EPSP rapido (nicotinico) seguito da un
 EPSP lento (muscarinico).

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Grafico in alto a sinistra: effetti dell’ACh sui recettori nicotinici (in alto) e muscarinici (in basso). Legandosi
ai recettori nicotinici, l’ACh determina uno spike di 20 mV in pochissimi millisecondi; invece legandosi a
recettori muscarinici determina una depolarizzazione di 4mv che perdura per molto tempo.
Grafico in alto a destra: gli effetti di LHRH sono simili a quelli dei recettori muscarinici.

Di recente scoperta sono gli interneuroni presenti in molti gangli del SNA. Questi interneuroni sono
catecolaminergici (probabilmente dopaminergici) e sono detti small, intensely fluorescent cells (SIF cells).
Hanno prevalentemente effetti inibitori sul neurone post-gangliare e potrebbero anche agire per via endocrina.

Neurotrasmettitori post-gangliari
A livello parasimpatico post-gangliare, viene rilasciata sempre ACh, che si lega a recettori muscarinici
diversi: M1 (intestino), M2 (sistema cardiovascolare), M3 (muscolo liscio e ghiandole), M4, M5. Questo
spiega il motivo per cui lo stesso neurotrasmettitore sia in grado di produrre effetti diversi (ad esempio
favorisce la contrazione intestinale e riduce quella cardiaca).
I neuroni post-gangliari simpatici utilizzano invece noradrenalina, a eccezione dell’innervazione delle
ghiandole sudoripare, che è di tipo colinergico. Anche in questo caso esistono diversi recettori metabotropici
(α1, α2, β1, β2, β3) che mediano effetti altrettanto diversi.
Dal punto di vista medico è importante sapere che esistono tipi diversi di recettori perché si possono creare
farmaci che abbiano affinità solo con uno di questi e quindi che agiscano solo sull’organo bersaglio, evitando
così effetti collaterali sistemici.

Terminazione sinaptica del simpatico


In generale la terminazione sinaptica presenta numerosi recettori, affinché il neurotrasmettitore rilasciato
eserciti una funzione localizzata. Nel sistema nervoso simpatico la terminazione sinaptica è organizzata in
maniera diversa: la parte terminale di questi assoni presenta numerose varicosità del diametro di 1-2 μm,
contenenti mitocondri e vescicole sinaptiche di grandi o piccole dimensioni, perché oltre alla noradrenalina
vengono rilasciati anche neuropeptidi (soprattutto ATP). Di conseguenza il neurotrasmettitore non ha un unico
punto di rilascio ma ha una più ampia diffusione (questo sistema è chiamato trasmissione di volume) e può
andare ad agire su diverse cellule post-sinaptiche. Quindi l'effetto del rilascio del neurotrasmettitore non è un
effetto localizzato, ma diffuso.
Il neurotrasmettitore principale è la noradrenalina (con l'eccezione delle ghiandole sudoripare che invece
vengono innervate da fibre ortosimpatiche colinergiche), ma con essa possono venire co-rilasciati
neuropeptide Y, somatostatina e ATP. Questi co-trasmettitori hanno una dinamica d'azione più lenta, di

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conseguenza il primo effetto è quello prodotto dalla noradrenalina stessa, successivamente arriva il contributo
dato dei neuropeptidi che vengono co-rilasciati.

3.2. Midollare del surrene

La midollare del surrene è una ghiandola endocrina, ma è considerata a tutti gli effetti omologa a un ganglio
del simpatico, quindi le sue cellule sono uguali ai neuroni post-gangliari del simpatico; esse infatti:
 ricevono innervazione da fibre pre-gangliari del simpatico, quindi tramite acetilcolina;
 hanno la stessa origine embrionale dei gangli del simpatico, quindi origine neuroectodermica (come
la neuroipofisi);
 rilasciano principalmente adrenalina (80-90%), chimicamente molto simile alla noradrenalina
rilasciata come neurotrasmettitore dai neuroni post-gangliari del sistema simpatico, ma anche
noradrenalina stessa (10-20%).
Le cellule della midollare del surrene, chiamate cromaffini (poiché colorabili con sali di cromo), si
differenziano dai neuroni post-gangliari del simpatico poiché contengono nel citoplasma l’enzima fenil-
etanolamina-N-metil-transferasi (o semplicemente metil-transferasi) che catalizza la metilazione della
noradrenalina per formare adrenalina.
La funzione di questo enzima è stimolata dal cortisolo, un ormone prodotto dalla corticale surrenale e liberato
in condizioni di stress nel circolo ematico, cioè in quelle situazioni in cui si deve superare un ostacolo e in cui
si attivano varie funzioni “salvavita”; il cortisolo è per questo spesso definito “ormone dello stress”.
L’adrenalina presenta una metilazione in più rispetto alla noradrenalina, e per questo presenta maggiore
affinità per alcuni sottotipi recettoriali. I recettori post-gangliari del simpatico si dividono in α e β: la
noradrenalina ha maggiore affinità per gli α mentre l’adrenalina per i β. L’adrenalina e la noradrenalina
vengono rilasciate nel circolo ematico e avranno un effetto su tutti quei tessuti periferici che presentano
recettori per questi due ormoni. In generale, difficilmente il simpatico o il parasimpatico si attivano nella loro
interezza, ma attuano un’attivazione più “distrettuale” (se ad es. si deve digerire verrà attivato il parasimpatico
e inibito il simpatico per quel distretto); tuttavia esistono delle condizioni “di crisi”, volte a superare un
ostacolo (come esercizio fisico, stress), in cui si ha una attivazione generalizzata del simpatico, che
determina il rilascio di adrenalina e noradrenalina.
Lo stress presenta nell’immaginario comune una connotazione esclusivamente negativa, ma dal punto di
vista biologico determina l’attivazione delle risorse dell’organismo per far fronte a una sfida ambientale
(dall’andare a lavoro a un esame per esempio). In queste situazioni si attivano tutti i meccanismi dello stress
(rilascio di cortisolo, attivazione del simpatico, rilascio di adrenalina dalla midollare del surrene) che pongono
l’individuo nelle condizioni migliori per raggiungere l’obiettivo, sia mobilitando risorse energetiche, sia
agendo a livello cerebrale, stimolando ad esempio la memoria. Lo stress presenta dunque anche delle
connotazioni positive, ad esempio:
 la capacità di apprendimento è legata al livello di stress mediante una curva a U: le capacità di
apprendimento aumentano al crescere dello stress fino a un punto massimo, che se però viene superato
determina l’effetto opposto, inibendo l’apprendimento;
 un moderato livello di stress aiuta la mobilitazione delle risorse energetiche rendendole disponibili,
ma un eccesso di stress esaurisce le riserve, indebolendo l’organismo e anche il sistema immunitario.
La risposta allo stress è quindi dapprima positiva, ma oltre un certo limite determina esaurimento
(tradizionalmente la risposta allo stress è infatti divisa in tre fasi: reazione, resistenza ed esaurimento).
Oltre alle catecolammine, partecipano allo stress anche gli ormoni della corticale del surrene, principalmente
il cortisolo, che agisce sia sulla midollare surrenale che su altri distretti.

Domanda di uno studente. In una situazione normale (e non di tipo lotta e fuggi) vi è comunque una piccola quantità di
adrenalina in circolo? Se sì, ha rilevanza se paragonata al contributo dell’innervazione ortosimpatica basale?
Probabilmente sì, una certa quota di adrenalina in circolo c'è sempre ma il suo contributo funzionale è molto scarso. Tutti
i sistemi sono tonicamente attivi, perché è più facile modulare l'attività di un sistema tonicamente attivo piuttosto che
farlo partire da zero. Il contributo però di sistemi che lavorano a un livello minimale è insignificante rispetto al
contributo diretto mirato a uno specifico bersaglio. Quindi, in condizioni normali, è più importante l'attivazione diretta
del sistema nervoso simpatico su un bersaglio specifico, anche se l'attivazione del sistema ortosimpatico su altri bersagli
non è mai completamente spenta.

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3.3. Azione dell’ortosimpatico e del parasimpatico sui principali organi

Recettori (nor)adrenergici (simpatico)


I recettori (nor)adrenergici sono tutti recettori metabotropici, per cui la loro attivazione non determina
l’apertura o chiusura di canali di membrana, bensì l’attivazione di secondi messaggeri intracellulari con effetti
sul metabolismo della cellula post-sinaptica.
I recettori adrenergici possono essere:
 α: maggiore affinità per la noradrenalina rispetto all’adrenalina;
 β: maggiore affinità per l’adrenalina rispetto alla noradrenalina.
I recettori α e β presentano poi dei sottotipi, la cui conoscenza è importante per sviluppare trattamenti
farmacologici mirati per una specifica funzione: sintetizzando agonisti o antagonisti specifici per un sottotipo
recettoriale si possono attivare o inibire le funzioni di uno specifico organo, evitando così lo sviluppo di effetti
collaterali che possono inficiare la qualità di vita del paziente.

Questi sottotipi recettoriali sono:


 α1: ha effetto eccitatorio. Possono attivare la muscolatura liscia dei vasi di resistenza, provocando
vasocostrizione e quindi aumento della pressione arteriosa. L’agonista per questo recettore è la
fenilefrina, un farmaco in grado di aumentare la pressione arteriosa. L’antagonista è la prazosina, che
inibisce la contrazione della muscolatura liscia dell’urogenitale e per questo è utilizzata nella terapia
per la ritenzione urinaria. È importante ricordare che i recettori per la noradrenalina sono presenti
anche nel SNC costituendo il sistema neuromodulatorio, formato da vie nervose che originano da
cluster di neuroni del tronco encefalico che utilizzano serotonina, dopamina e per l’appunto
noradrenalina (locus coeruleus); di conseguenza, un farmaco agonista o antagonista per questi
recettori, se è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, può avere un effetto a livello
centrale. La disfunzionalità di questo sistema centrale è implicata nella comparsa dei sintomi di
malattie psicotiche come la depressione.
 α2: localizzato prevalentemente a livello pre-sinaptico, è in grado di modulare il rilascio di
neurotrasmettitore. L’attivazione di questo recettore determina una inibizione pre-sinaptica,
provocando una diminuzione della liberazione del neurotrasmettitore rilasciato dalla terminazione
sinaptica che presenta il recettore. Questi recettori possono essere presenti sia nelle terminazioni dei
neuroni post-gangliari del simpatico che di quelli post-gangliari del parasimpatico, quindi il simpatico
è in grado di inibire sia le proprie terminazioni che quelle del sistema parasimpatico. Sembra che i
recettori α2 siano presenti anche nel pancreas: la loro attivazione a questo livello diminuirebbero il
rilascio di insulina. L’agonista per questo recettore è la clonidina (nome commerciale Catapresan), un
farmaco utilizzato come anti-ipertensivo, riducendo in generale l’attivazione del sistema nervoso
simpatico. L’antagonista è la ioimbina, farmaco usato nella cura della eiaculazione tardiva.
 β1: sono eccitatori, vi si lega la noradrenalina a livello cardiaco. Sono presenti anche a livello renale,
dove stimolano la liberazione di renina da parte del sistema iuxtaglomerulare. L’antagonista è
l’atenololo, usato come beta-bloccante nella cura della ipertensione arteriosa.
 β2: presenti nella muscolatura liscia di diversi organi e apparati, come bronchi, apparato
gastrointestinale e forse anche in alcuni vasi dei muscoli e coronarie (anche se qui la loro presenza è
stata dimostrata solo nel maiale). L’attivazione, a differenza di ciò che avviene per gli α 1, determina

83
rilasciamento della muscolatura liscia, provocando vasodilatazione. Inoltre l’attivazione di questi
recettori può comportare anche aumento della glicemia, poiché presenti anche a livello epatico.
L’agonista è il salbutamolo, farmaco d’elezione per la terapia dell’asma perché determina
rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale.
 β3: presenti a livello del tessuto adiposo, la stimolazione del recettore attiva lipasi che liberano acidi
grassi dai trigliceridi. Si può quindi pensare di produrre degli agonisti selettivi per determinare
mobilizzazione di acidi grassi dal tessuto adiposo, utile, insieme
alla restrizione calorica, nella terapia dell’obesità.
Questi recettori producono sull’organo bersaglio effetti profondamente
diversi, perché possono attivare sistemi di secondi messaggeri diversi. In
particolare, l’attivazione degli α1 determina produzione di diacilglicerolo
(DAG) e inositolo-trifosfato (IP3) con aumento di concentrazione di Ca2+
intracellulare, mentre gli α2, β1 e β2 modulano la produzione di AMPc (α2
la riduce, β1 e β2 la aumentano). L’aumento della concentrazione di AMPc
nelle cellule muscolari lisce determina rilasciamento delle cellule stesse,
l’aumento delle concentrazioni di Ca2+ determina invece la loro contrazione
(e questa è la spiegazione molecolare del diverso effetto sulla muscolatura
liscia dei vasi prodotto dall’attivazione dei recettori α1 e β2).

Effetti dell’ortosimpatico nei diversi distretti


 Apparato cardiovascolare
- Cuore: i recettori prevalenti sono i β1, che se attivati sono i responsabili degli effetti
cronotropo positivo (aumento della frequenza cardiaca), dromotropo positivo (aumento
della velocità di conduzione), batmotropo positivo (aumento dell’eccitabilità del miocardio
comune), inotropo positivo (aumento della forza di contrazione).1
- Vasi arteriosi: nella muscolatura liscia sono presenti recettori α1, la cui attivazione determina
vasocostrizione. L’innervazione dei vasi è quasi esclusivamente ortosimpatica, la sua
attività tonica basale mantiene un tono costrittore. Se il tono diminuisce, si determina
vasodilatazione.
Un’eccezione è data dai vasi arteriosi del distretto muscolare scheletrico e dalle coronarie,
che possono presentare anche recettori β2, la cui attivazione determina rilassamento, quindi
vasodilatazione (la loro presenza è stata dimostrata per ora solo nel maiale). In realtà la
circolazione coronarica e quella muscolare sono controllate prevalentemente dai metaboliti
prodotti dalle loro attività: quindi anche nelle coronarie sono presenti recettori α1 attivati
dall’innervazione simpatica del cuore, ma l’effetto di vasodilatazione prodotto dai metaboliti
liberati conseguentemente alla aumentata attività cardiaca è generalmente superiore all’effetto
vasocostrittore sui recettori α1 (per cui si ha comunque vasodilatazione).
- Vasi venosi: nella muscolatura liscia dei vasi venosi sono stati individuati recettori α1, la cui
attivazione determina venocostrizione.
 Apparato respiratorio
- Bronchi: presentano recettori β2, la cui attivazione determina rilasciamento della muscolatura
liscia, quindi broncodilatazione.
- Ventilazione: non si ha effetto diretto del sistema ortosimpatico (né del parasimpatico),
perché il sistema nervoso autonomo non controlla i centri respiratori (l’attività dei muscoli
respiratori è generata da muscoli scheletrici, quindi sotto la volontà, anche se è attivata da
centri che determinano l’automatismo respiratorio situati nel tronco encefalico). Il sistema
nervoso autonomo ha un effetto indiretto sulla funzionalità respiratoria perché le afferenze
autonomiche portano ai centri di controllo dell’attività respiratoria informazioni relative ai
livelli di O2 e CO2 nel sangue.
 Apparato digerente
La funzionalità del tratto GI è controllata dal sistema nervoso enterico, ma il simpatico e il
parasimpatico possono modularlo facendo complessivamente aumentare (parasimpatico) o diminuire
(simpatico) i processi di digestione e assorbimento.

1
Ci sono poi, non citati dalla prof., anche gli effetti lusitropo positivo (aumento della velocità di rilasciamento) e l’effetto
di aumento dell’eterogeneità di ripolarizzazione ventricolare.

84
- Parete intestinale: sono presenti recettori β2, la cui attivazione favorisce il rilasciamento
della muscolatura.
- Sfinteri: presentano recettori α1, la cui attivazione determina contrazione. Il simpatico ha
dunque effetto inibitorio sulla motilità, perché il viscere viene rilasciato, le onde propulsive
vengono meno, gli sfinteri vengono contratti e quindi il passaggio del bolo da un segmento
all’altro viene limitato.
- Secrezioni: il simpatico ha uno scarso effetto sulle secrezioni delle ghiandole esocrine sia
intestinali sia pancreatiche. Questo effetto, se presente, è comunque di tipo inibitorio.
 Apparato renale e urinario
- Apparato iuxtaglomerulare: mediato da recettori β1 (che si trovano anche a livello cardiaco),
la cui attivazione provoca aumento della pressione arteriosa sia perché aumenta la funzionalità
cardiaca, sia per la liberazione di renina (con attivazione quindi del sistema renina-
angiotensina-aldosterone).
- Vescica: il simpatico inibisce i meccanismi della minzione, tramite rilasciamento della parete
vescicale (con i recettori β2) e contrazione dello sfintere interno (recettori α1).
 Apparato genitale maschile
Sull'apparato genitale e riproduttivo maschile, gli effetti del sistema simpatico sono:
- promuovere l’eiaculazione tramite recettori α;
- inibire l'erezione (poiché provoca vasocostrizione).
Il processo di riproduzione e di controllo dell’apparato riproduttivo maschile deriva da un'azione
sinergica di sistema nervoso simpatico e parasimpatico.
L’attivazione del sistema simpatico favorisce i meccanismi dell’eiaculazione mentre quello del
parasimpatico favorisce meccanismi dell’erezione, e quindi perché la funzione riproduttiva maschile
giunga a buon fine occorre un’attivazione coordinata sia delle efferenze simpatiche sia di quelle
parasimpatiche.
 Apparato genitale femminile
La funzionalità del sistema ortosimpatico nell'apparato riproduttivo femminile è meno conosciuta.
L'unica cosa che si sa a riguardo è che l'espressione dei recettori ortosimpatici a livello della
muscolatura uterina cambia durante la gravidanza:
- nell'utero non gravido: prevalgono recettori β che vanno a inibire la contrazione della
muscolatura uterina durante la gravidanza;
- nell'utero gravido: progressivamente vengono espressi più recettori α cosicché al momento
del parto l'attivazione simpatica possa andare a determinare la contrazione della muscolatura
uterina.
 Occhio
A livello dell'occhio l'attivazione del sistema simpatico produce:
- il rilasciamento del muscolo ciliare tramite recettori β2, riducendo la convessità del
cristallino e predisponendolo per la visione da lontano;
- la contrazione del muscolo radiale dell'iride tramite recettori α1 producendo in questo modo
la dilatazione pupillare o midriasi, in modo che arrivi più luce sulla superficie retinica, sui
fotorecettori.
 Ghiandole salivari
Le ghiandole salivari sono un altro esempio di azione sinergica del sistema nervoso simpatico e
parasimpatico: entrambi i sistemi promuovono infatti la funzione delle ghiandole salivari. In
particolare:
- l'attivazione del sistema simpatico agendo su recettori β promuove la secrezione della
componente densa e viscosa e la secrezione di enzimi come l’amilasi;
- l’attivazione del sistema parasimpatico promuove la secrezione della porzione acquosa della
saliva.
 Funzioni metaboliche
- Fegato: l’attivazione dei recettori β2 promuove glicogenolisi e gluconeogenesi nel fegato,
rendendo quindi disponibile glucosio in circolo; il glicogeno normalmente conservato nel
fegato viene metabolizzato a glucosio e liberato nel circolo sanguigno. Viene inoltre
sintetizzato nuovo glucosio a livello epatico mediante attivazione della gluconeogenesi.

85
- Tessuto adiposo: i recettori β3 del tessuto adiposo svolgono anch’essi la stessa funzione, e
quindi mobilizzano substrati energetici, in questo caso gli acidi grassi che vengono staccati
dai trigliceridi grazie all'azione di questi recettori. Pertanto, a livello del tessuto adiposo, il
sistema ortosimpatico promuove la lipolisi.
- Pancreas endocrino: a livello della porzione endocrina del pancreas, l'attivazione dei recettori
α2 ha come effetto prevalente una riduzione della liberazione insulina, anche se questo
effetto nella specie umana è abbastanza scarso.

In conclusione, il sistema ortosimpatico ha effetti molto diversi a seconda dell’organo preso in


considerazione, e quindi la presenza di più sottotipi recettoriali permette di avere una molteplicità di effetti
distinti a livello dei vari organi periferici su cui agisce.

Recettori muscarinici (parasimpatico)


I neuroni post-gangliari parasimpatici rilasciano acetilcolina. Gli effetti dell’acetilcolina sono mediati da
recettori metabotropici e più precisamente in questo caso si tratta di recettori muscarinici.
Questi recettori vengono chiamati muscarinici perché il loro tipico agonista è appunto la muscarina,
contenuta nel fungo velenoso Amanita Muscaria (se viene ingerito il fungo Amanita Muscaria, la muscarina
contenuta al suo interno attiva permanentemente i recettori post-gangliari del sistema nervoso parasimpatico
bloccandone l’attività in maniera irreversibile, determinando un blocco a livello centrale, e quindi anche un
blocco della funzionalità degli organi controllati dal parasimpatico; in ultima analisi, essa determina la morte
del soggetto).
L’effetto muscarinico dell’acetilcolina è invece bloccato selettivamente dall’antagonista atropina, sostanza
estratta dalle bacche di Atropa Belladonna. L’atropina è anche la sostanza utilizzata dall’oculista per dilatare
la pupilla. Questo perché la dilatazione della pupilla, o midriasi, è determinata dall’attivazione del sistema
nervoso simpatico oppure dall’inibizione del parasimpatico. In tutti gli organi lo stato di attivazione dipende
dall'equilibrio tra input simpatico e input parasimpatico ed è possibile modulare questo stato di attivazione
andando ad aumentare l'effetto di uno o a diminuire l'attività dell’altro. Quindi per dilatare la pupilla si può o
attivare l'ortosimpatico o inibire il parasimpatico (nella pratica oculistica si inibisce il parasimpatico tramite
atropina).
I neuroni post-gangliari parasimpatici, analogamente a quelli del sistema ortosimpatico, possono co-rilasciare
altre sostanze, neuropeptidi, come il VIP. Anche in questo caso i co-trasmettitori hanno una cinetica più lenta
rispetto a quella del trasmettitore principale, e quindi avranno effetti post-sinaptici più lenti.
L'organizzazione a varicosità, che si è citata in precedenza, è molto più marcata nel sistema nervoso
ortosimpatico che in quello parasimpatico, quindi il sistema parasimpatico ha un effetto più localizzato di
quanto invece non abbia il sistema simpatico.
Esistono diversi sottotipi di recettori muscarinici. I sottotipi di recettori muscarinici più conosciuti e più
studiati e sono i primi tre: M1, M2 e M3. Successivamente si è scoperto che ne esistono anche altri tipi (M4 e
M5) e recentemente è stato anche individuato il recettore M6.
Anche in questo caso, come nel sistema ortosimpatico, l'attivazione di questi recettori innesca vie di
trasduzione del segnale intracellulare diverse e, di conseguenza, vie metaboliche diverse.
 M1 è principalmente rappresentato a livello intestinale.
Secondi messaggeri: aumento della produzione di DAG e IP3, con conseguente aumento [Ca++] nel
citosol.
 M2 è presente soprattutto a livello del sistema cardiovascolare.
Secondo messaggero: riduzione della produzione di AMPc.
 M3 è espresso in diversi tipi di muscolatura liscia e di ghiandole esocrine.
Secondi messaggeri: aumento della produzione di DAG e IP3, con conseguente aumento [Ca++] nel
citosol. Si tratta quindi dello stesso meccanismo di M1 ma avviene in organi diversi.

Recettori M2 nel pacemaker atriale. L'attivazione dei recettori M2 del sistema parasimpatico a livello del
miocardio specifico può determinare una variazione della funzionalità del sistema pacemaker atriale.
L'acetilcolina va ad attivare recettori muscarinici M2 che vanno a ridurre i livelli di AMPc. A livello delle
cellule pacemaker atriali sono presenti canali HCN che sono responsabili della corrente funny, la quale
determina la depolarizzazione spontanea di queste cellule (depolarizzazione in fase 4) e l’innesco del
potenziale d'azione. I canali HCN hanno una dinamica di apertura che dipende dall’AMPc: quando i livelli di
AMPc sono ridotti, l'apertura durante la fase di ripolarizzazione dei canali HCN viene rallentata. Quindi, a

86
valori di Vm più negativi i canali HCN si aprono più lentamente, il raggiungimento del valore soglia viene
ritardato e questo comporta una diminuzione della frequenza cardiaca.
Riassumendo: l’acetilcolina tramite recettori muscarinici M2 attiva una proteina G che riduce i livelli di
cAMP; ciò causa un rallentamento dell’apertura di canali HCN e della velocità di depolarizzazione spontanea
durante la fase 4, comportando una riduzione della corrente funny e in ultima analisi una riduzione della
frequenza cardiaca.
Una volta si pensava che l'effetto maggiore dell’acetilcolina fosse quello di incrementare l’apertura di canali
per K+, e che quindi l’acetilcolina determinasse uno spostamento del valore del potenziale di riposo verso
valori più negativi. Oggi invece si sa che, nonostante la proteina G abbia effettivamente anche azione diretta
sui canali K+, l’iperpolarizzazione che ne consegue non è efficace a ridurre la frequenza cardiaca, perché
attiva la corrente funny. L'effetto prevalente che determina una riduzione della frequenza cardiaca è invece
quello determinato agendo sui canali HCN, cioè canali modulati dai livelli dei nucleotidi ciclici.

Recettori M3 nel sistema vascolare. La muscolatura liscia dei vasi è innervata solo dal sistema ortosimpatico
e non dal sistema parasimpatico. In effetti, però, l'attivazione del sistema parasimpatico può in alcuni distretti
influire sul calibro vascolare attraverso un meccanismo indiretto che consiste nell'induzione della sintesi di
monossido d'azoto (NO) da parte delle cellule endoteliali. I recettori M3 sono responsabili dell’induzione
della sintesi di monossido di azoto (NO) nell’endotelio, il cui rilascio determina inibizione della fibra
muscolare liscia con conseguente vasodilatazione. Il monossido di azoto è un neurotrasmettitore gassoso che
agisce nel circolo cerebrale e nel distretto genitale. Le cellule endoteliali di questi due distretti ricevono
un’innervazione parasimpatica: presentano infatti recettori muscarinici M3.

1. L’attivazione dei recettori M3 (nell’immagine mAchR), presenti sulla membrana della cellula
endoteliale, induce l’attivazione di una proteina G, che comporta l’attivazione della fosfolipasi C
(PLC), che a sua volta scinde il fosfatidil-inositolo-bifosfato (PIP2) portando alla formazione di
diacilglicerolo (DAG) e inositolo-trifosfato (IP3).
2. IP3 porta all’aumento della [Ca++] nel citosol, determinando l’attivazione di una chinasi Ca++-
calmodulina dipendente.
3. La chinasi Ca++-CaM dipendente determina l’attivazione dell’enzima NOS (Ossido Nitrico sintetasi).
4. Essendo un trasmettitore gassoso diffusibile, NO esce dalla cellula che l'ha prodotto e diffonde anche
nelle cellule muscolari lisce adiacenti (nell’immagine la diffusione è indicata con frecce che si
dipartono da un cerchio all’altro).
5. A livello della cellula muscolare liscia, NO va ad attivare una guanilato ciclasi, che produce GMPc.

87
6. GMPc attiva una cascata di eventi (che non è importante ricordare) che portano a una riduzione della
[Ca++] intracellulare e quindi al rilasciamento della muscolatura liscia.
L'effetto finale è che la muscolatura liscia del vaso diminuisce il suo stato di contrazione e quindi si
ha vasodilatazione.
N.B. Non è necessario conoscere tutti gli enzimi e secondi messaggeri citati, ma bisogna ricordare che l’NO
è prodotto nei distretti citati (genitale e cerebrale) dalle cellule endoteliali (e non dalle cellule muscolari lisce)
dopo il legame dell’ACh ai recettori M3: l’NO prodotto diffonde poi alle cellule muscolari lisce dei vasi e
causa il loro rilasciamento, generando dunque vasodilatazione.

Sildenafil (Viagra)
Alla fine del secolo scorso il meccanismo appena trattato è stato studiato con l'idea di trovare una sostanza
che, stimolando il meccanismo di produzione di NO o favorendo la sua permanenza nelle cellule muscolari,
potesse indurre un aumento della circolazione cerebrale in pazienti colpiti da ictus.
Venne testata una sostanza di nome Sildenafil, che purtroppo non diede i risultati sperati a livello della
circolazione cerebrale (ed è quindi risultata inefficace nel trattamento di pazienti colpiti da ictus), ma ha
prodotto invece effetti significativi e duraturi sulla vascolarizzazione nel distretto genitale.
La vasodilatazione nel distretto genitale maschile è importante per garantire il processo di erezione, e il
Sildenafil blocca la fosfodiesterasi che normalmente degrada il GMPc. Normalmente, il GMPc viene
prodotto in seguito alla presenza dell'ossido nitrico ma viene anche altrettanto rapidamente degradato grazie
alla fosfodiesterasi; l'effetto del NO sulla muscolatura liscia a livello cerebrale e del distretto genitale non
dura dunque nel tempo. Il Sildenafil, il cui nome commerciale è Viagra, è invece una sostanza che inibisce
la via di degradazione del GMPc. In questo modo mantiene alta nel tempo la concentrazione di GMPc
permettendo di mantenere a lungo la vasodilatazione a livello del distretto genitale e quindi di prolungare la
durata dell’erezione.
Questa sostanza fu brevettata verso la fine degli anni ‘90 ed ebbe un successo commerciale enorme. Adesso
il brevetto è scaduto perciò negli ultimi 6-7 anni tantissimi farmaci equivalenti che sfruttano lo stesso
principio sono stati immessi sul mercato.

È importante ricordare che il meccanismo di vasodilatazione tramite produzione di NO da parte del sistema
parasimpatico agisce solamente sul distretto cerebrale e su quello genitale.
Esiste produzione di NO anche da parte dell'endotelio di altre strutture vascolari, come per esempio l’aorta.
In questo caso, però, il meccanismo di sintesi di NO non viene attivato da recettori colinergici e quindi non è
regolato dal sistema parasimpatico ma sembra essere attivato da una stimolazione meccanica del sangue
sulle cellule endoteliali. Il passaggio di sangue, specialmente se la pressione è alta, determina un effetto
meccanico sulle cellule endoteliali che a questo livello consente la produzione di ossido nitrico (vedi tesina
Organizzazione funzionale del sistema vascolare, punto 7).

Effetti del parasimpatico nei diversi distretti


 Apparato cardiovascolare
- Cuore: a livello cardiaco sono presenti recettori M2 che mediano gli effetti del sistema
parasimpatico sul cuore:
 nel miocardio specifico l'effetto principale è quello di riduzione della frequenza
cardiaca quindi di bradicardia (effetto cronotropo negativo) ma si ha anche una
riduzione della velocità di conduzione dell’impulso (effetto dromotropo negativo);
 nel miocardio comune, specialmente a livello atriale, l’effetto è di riduzione della
forza di contrazione (effetto inotropo negativo).
Gli effetti del sistema ortosimpatico sul tessuto cardiaco sono complessivamente maggiori di
quelli del sistema parasimpatico, che sono appunto e principalmente focalizzati nel
determinare una riduzione della frequenza cardiaca.
- Vasi arteriosi: a livello dei vasi arteriosi non c'è un’innervazione parasimpatica, con
l'eccezione dei distretti cerebrale e genitale, come descritto sopra. Nell’endotelio di questi
distretti (e non sulla muscolatura liscia) sono presenti recettori M3, la cui attivazione provoca
la produzione di NO che diffonde dall’endotelio alla muscolatura liscia e ne determina il
rilasciamento (vasodilatazione).
Ricorda. Non esiste negli altri distretti vascolari innervazione parasimpatica diretta ai vasi e/o
nitrergica, quindi non c’è effetto del sistema parasimpatico.

88
 Apparato respiratorio
L’attivazione del sistema parasimpatico produce un effetto opposto rispetto a quello del sistema
ortosimpatico. Quindi, se l’ortosimpatico provoca broncodilatazione, il parasimpatico provoca
broncocostrizione, tramite l’attivazione di recettori M3. Questo avviene perché in condizioni di
stress, quando il soggetto deve affrontare una sfida ambientale, ha bisogno di molto ossigeno, e
l’attivazione dell’ortosimpatico genera dunque broncodilatazione. Al contrario, le circostanze in cui
prevale il sistema parasimpatico non prevedono un aumento del bisogno di ossigeno, e si ha dunque
broncocostrizione.
N.B. Per ricordare l’effetto dei due sistemi sui vari apparati è importante pensare all’effetto
complessivo che si ottiene. C’è una logica ben precisa che aiuta a ricordare le funzioni di simpatico e
parasimpatico.
 Apparato digerente
Il parasimpatico è un grande sostenitore dell'apparato digerente: favorisce infatti le funzioni del
sistema nervoso enterico e promuove un aumento della motilità e delle secrezioni dell'apparato
gastrointestinale. Agisce su stomaco e intestino:
- Parete: l'attivazione dei recettori M3 fa contrarre la parete del viscere e quindi favorisce lo
sviluppo delle onde propulsive del bolo.
- Sfinteri: il parasimpatico produce rilasciamento degli sfinteri e quindi il bolo può transitare
da una sezione del sistema gastrointestinale alle sezioni successive.2
- Secrezioni: stimolazione dell’attività delle ghiandole esocrine (anche pancreas esocrino) e
della secrezione gastrica acida tramite recettori M1 (le slide della Zoccoli riportano recettore
M1, ma le slide della Berteotti, il Berne & Levy e il Boron parlano di recettori M3)3.
 Apparato urinario
A livello dell'apparato urinario, il parasimpatico è favorevole al processo della minzione, e quindi
stimola la contrazione della parete vescicale (tramite recettori M3) e il rilasciamento dello sfintere
interno, promuovendo lo svuotamento del contenuto vescicale all'esterno.
A livello della vescica c'è uno sfintere interno che è controllato dal sistema nervoso autonomo ma
anche uno sfintere esterno rappresentato da muscolatura scheletrica che è sotto il controllo della
volontà.
Il processo di svuotamento della vescica è controllato da riflessi che avvengono a partire dalla parete
vescicale e che hanno un centro sia a livello del midollo spinale stesso sia a livello del tronco
dell'encefalo quindi:
- sia “riflessi brevi”, ovvero riflessi spinali che controllano sulla base dello stato di
riempimento vescicale il momento dello svuotamento della vescica stessa;
- sia un controllo che viene dai centri superiori e può andare a inibire lo svuotamento riflesso
della vescica quando non è il momento di farlo. Questo controllo volontario, esercitato dai
centri superiori, non è presente alla nascita ma si sviluppa intorno ai tre anni di età, e proprio
per questo motivo i bambini sotto i tre anni non hanno un controllo vescicale volontario.
Il processo della minzione è trattato più avanti nella tesina.
 Apparato genitale maschile
Il ruolo del sistema parasimpatico a questo livello non è molto noto; ciò che si sa è che favorisce:
- l’erezione, tramite l’attivazione di recettori M3 e il meccanismo di rilascio di NO (trattato
sopra), che provoca la vasodilatazione e il riempimento dei corpi cavernosi;
- le secrezioni ghiandolari (non si conoscono i recettori implicati).
 Apparato genitale femminile

2
Non risulta né dalle slide della Zoccoli né dai testi che siano coinvolti i recettori M2, ma solo dalla sbobina. Si tenga
presente che i recettori M2 agiscono generando un calo dei livelli intracellulari di cAMP e dunque è strano che inducano
rilasciamento (perché il rilasciamento nella muscolatura liscia è generato da un aumento, non da un calo, del cAMP). Di
conseguenza consiglio di imparare solo la funzione di rilasciamento degli sfinteri, ma non il recettore specifico (la mia
ipotesi è che il rilasciamento sia mediato da altri neurotrasmettitori del parasimpatico, come il VIP, cosa che risulta anche
dalle tesine sull’apparato digerente).
3
In realtà il Berne & Levy cita il recettore M3 nella trattazione della secrezione acida nello stomaco (cap. 29), ma nel
capitolo dedicato al SNA (cap. 11) afferma “L’attivazione di recettori M1 favorisce la secrezione di acido gastrico nello
stomaco”. Non ho idea di quale sia la versione più corretta.

89
L’effetto del parasimpatico nella fisiologia dell’apparato genitale femminile è ancora meno noto di
quello nell’apparato genitale maschile. Si può dire però che il sistema parasimpatico favorisca la
tumescenza clitoridea e le secrezioni ghiandolari.
 Occhio
Nell'occhio il sistema parasimpatico determina un effetto opposto a quello dell'ortosimpatico, quindi:
- la contrazione del muscolo ciliare tramite recettori M3 aumentando la convessità del
cristallino: accomodazione per la visione da vicino;
- la contrazione del muscolo sfintere dell'iride tramite recettori M3 producendo in questo
modo una riduzione del diametro pupillare o miosi.
 Ghiandole salivari
Le ghiandole salivari e il distretto genitale sono i due distretti in cui sistema nervoso simpatico e
parasimpatico cooperano per lo svolgimento della funzione effettrice finale.
A livello delle ghiandole salivari:
- il sistema ortosimpatico induce la secrezione viscosa e la secrezione di enzimi, principalmente
amilasi salivare;
- il sistema parasimpatico induce la secrezione
acquea, sierosa. In questo sembra che abbia un
ruolo importante il co-trasmettitore VIP, che
viene rilasciato insieme all’acetilcolina quando il
neurone scarica ad alta frequenza. Il VIP ha un
effetto anche sui vasi della ghiandola salivare,
determinando vasodilatazione (questa è
un'eccezione alla regola generale riguardante la
mancanza di un effetto diretto del sistema
parasimpatico sul sistema vascolare: a livello
delle ghiandole salivari sembra infatti che il VIP,
co-rilasciato con l'acetilcolina, possa esercitare
un effetto di rilasciamento della muscolatura
liscia dei vasi della ghiandola).
 Funzioni metaboliche
Gli effetti del sistema parasimpatico sulle funzioni metaboliche sono scarsamente conosciuti.
- Fegato: si suppone che a livello epatico l’attivazione dei recettori M3 promuova
glicogenosintesi, svolgendo una funzione opposta a quella dell’ortosimpatico. Se
l’ortosimpatico punta a mobilizzare le scorte di glucosio, il parasimpatico potrebbe favorire
l'effetto opposto, quindi la ricostituzione delle riserve epatiche di glicogeno tramite
meccanismi di glicogenosintesi, ma non è chiaro se questo effetto esista realmente, almeno
nella specie umana.
- Tessuto adiposo: il sistema parasimpatico sembra avere nessun effetto sul tessuto adiposo;
non sono stati infatti riscontrati recettori del sistema parasimpatico in questo tessuto.
- Pancreas endocrino: anche l'effetto sulle secrezioni endocrine del pancreas è dubbio. A
livello del pancreas, l'attivazione dei recettori M3 potrebbe favorire la produzione di insulina
e glucagone, ma anche in questo caso non è un meccanismo certo.
Per quanto riguarda in generale le funzioni metaboliche, il parasimpatico ha un effetto dubbio e ancora
non completamente chiarito.

Effetto del tono ortosimpatico e parasimpatico sulla frequenza cardiaca


Un concetto fondamentale da apprendere è che, a parte poche eccezioni, la funzione di ogni organo dipende
in ogni momento dal bilancio tra l'attività del sistema nervoso simpatico e quella del sistema nervoso
parasimpatico. È quindi importante ricordare che non è mai vero che in un momento funziona solo
l'ortosimpatico e nel momento successivo solo il parasimpatico: in condizioni normali entrambe le sezioni
del sistema nervoso autonomo sono tonicamente attive. Questo bilancio tra attività del sistema simpatico e
attività del sistema parasimpatico può variare in diverse situazioni comportamentali, spostandosi più verso il
simpatico oppure verso il parasimpatico, a seconda che si debbano affrontare sfide ambientali o ci si trovi in
una situazione di riposo.

90
Sono stati fatti degli studi per valutare quale sia l'importanza rispettivamente del tono ortosimpatico del tono
parasimpatico nel determinare la frequenza cardiaca di base: si tratta quindi della frequenza cardiaca che si
ha in condizioni di riposo, e non in condizioni di stress o sforzo fisico. In questo caso, la frequenza cardiaca di
base dipende dal rilascio concomitante di noradrenalina e acetilcolina, liberate rispettivamente dalle fibre
post-gangliari ortosimpatiche e parasimpatiche sui rispettivi recettori a livello cardiaco.
La frequenza cardiaca di base è intorno ai 60-70 battiti/min, nonostante sia molto variabile da individuo a
individuo: è più alta nei bambini, è più bassa in età avanzata e negli atleti (molto facilmente un atleta ha una
frequenza cardiaca che può essere di 50bpm). Questo valore è il risultato degli effetti dell’attivazione tonica
di simpatico e ortosimpatico.
Nella determinazione della frequenza cardiaca di base, è più importante il contributo del simpatico o del
parasimpatico? Fra i due, qual è l’effetto che prevale? Si può rispondere a questa domanda usando degli
inibitori selettivi dei recettori del sistema ortosimpatico e del sistema parasimpatico sul cuore.

Analisi del grafico:


1. punto di partenza (controllo): la frequenza è intorno ai 60-65 bpm;
2. - seguendo la linea tratteggiata nera che va verso l’alto: viene somministrata atropina, provocando un
blocco del sistema parasimpatico. Dal momento che il sistema parasimpatico provoca bradicardia,
inibendolo si assisterà ad un aumento della frequenza cardiaca: eliminando il contributo del tono
parasimpatico sul cuore la frequenza cardiaca sale fino a 120 bpm;
- seguendo la linea continua rossa che va verso il basso: ad un altro soggetto viene somministrato
propranololo, provocando un blocco del sistema ortosimpatico. Dal momento che il sistema
ortosimpatico ha un effetto cronotropo positivo, inibendolo si assisterà ad una diminuzione della
frequenza cardiaca, che cala fino a 50 bmp.
3. A questo punto si può invece procedere in entrambi i soggetti alla denervazione complessiva: al
soggetto al quale era stata sommistrata atropina viene somministrato anche propranololo, a quello al
quale era stato somministrato propranololo viene somministrata anche atropina. L’atropina e il
propranolo bloccano rispettivamente il parasimpatico e l’ortosimpatico, che di conseguenza
risulteranno tutti e due bloccati in entrambi i soggetti. Il blocco di entrambe le branche del sistema
nervoso autonomo porta la frequenza cardiaca ad assestarsi intorno ai 100 bpm: questo significa che,
in condizioni normali di riposo, la frequenza cardiaca è più bassa di quella che si avrebbe eliminando
il contributo del sistema nervoso autonomo.
Si può concludere che è continuamente presente un tono sia ortosimpatico sia parasimpatico sul cuore,
ma il contributo del tono parasimpatico è superiore a quello del sistema ortosimpatico. Il valore
di frequenza cardiaca di base, che si assesta intorno ai 60-70 battiti al minuto, è ottenuto
principalmente da un tono parasimpatico che diminuisce la frequenza cardiaca rispetto al valore
intrinseco presente nei pacemaker atriali.
N.B. Non c'è solo tono parasimpatico, perché se si parte dal valore basale di 65 bpm e si blocca il
sistema ortosimpatico si ha un ulteriore calo di frequenza cardiaca, come dimostra il grafico (nella
curva diretta verso il basso). Questo dimostra che è sempre presente anche un tono ortosimpatico
continuo.

Studio condotto dal gruppo di ricerca della prof. su frequenza cardiaca di base e pressione arteriosa in stato
di veglia e sonno (REM e non REM). Lo studio è stato condotto sul topo utilizzando bloccanti selettivi:

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 dei recettori cardiaci di simpatico e parasimpatico;
 dei recettori vascolari del simpatico.
L’obiettivo dello studio era quello di stabilire quali fossero i determinanti delle variazioni di frequenza
cardiaca e pressione arteriosa che si hanno prima nel passaggio dalla veglia al sonno e poi dal sonno non REM
al sonno REM.
a. Nel passaggio dalla veglia al sonno non REM, frequenza cardiaca e pressione arteriosa si riducono.
b. Nel passaggio da sonno non REM a sonno REM, frequenza cardiaca e pressione arteriosa aumentano
nuovamente, senza però tornare ai valori dello stato di veglia.
Lo studio mirava quindi a capire se in queste variazioni prevalesse l’azione del simpatico o del parasimpatico:
nel topo è emerso che il contributo del sistema nervoso ortosimpatico è prevalente. Il calo di frequenza
cardiaca e di pressione arteriosa nel passaggio da veglia a sonno non REM pare infatti sia dovuto
principalmente ad una diminuzione del tono simpatico piuttosto che a un aumento del tono parasimpatico.

3.4. Controllo centrale del sistema nervoso autonomo


Sono stati trattati gli effetti dei sistemi simpatico e parasimpatico nei vari distretti, ma questi effettori
sottostanno al controllo di centri superiori. Quindi, quando si parla di sistema nervoso autonomo non si parla
soltanto di sistema simpatico e parasimpatico bensì di quello che viene chiamato il sistema nervoso autonomo
allargato, che comprende anche tutti i centri del sistema nervoso centrale che partecipano al controllo della
sua attività.
I sistemi di controllo dell'attività del sistema nervoso autonomo sono organizzati in maniera analoga ai
sistemi di controllo motorio, e quindi sono presenti vari livelli. Dal più semplice al più complesso: midollo
spinale, tronco encefalico, diencefalo (ipotalamo), corteccia. Ognuno di questi livelli è sottoposto al controllo
dei centri superiori.
 A livello del midollo spinale e del tronco dell'encefalo ci sono principalmente dei meccanismi di
controllo riflessi (verrà trattato in particolare il riflesso della minzione come esempio di un controllo
autonomico organizzato nel livello spinale e tronco-encefalico).
 I livelli superiori (ipotalamo) organizzano controlli molto più integrativi, in cui c’è un’integrazione
tra sistema nervoso autonomo, sistema endocrino e sistemi motivazionali e di scelta del
comportamento (verrà trattato in particolare come esempio il meccanismo di termoregolazione).
 Ancora al di sopra di questi livelli c’è il controllo corticale. Anche la corteccia cerebrale infatti
partecipa alla regolazione della funzionalità del sistema nervoso autonomo. In tutte le situazioni
emozionali, per esempio, all’espressione soggettiva si accompagna un’espressione emozionale, che si
esplica tramite l’espressione facciale ma anche tramite un diverso livello di attivazione dei visceri
(esempio: quando si è emozionati si stringe lo stomaco, si vasodilatano i vasi della cute delle guance,
ecc). Quindi tutte le funzioni viscerali si adeguano all'emozione che si sta provando.

Le regioni cruciali per il funzionamento del SNA oggi sono denominate in maniera unitaria come network
autonomico centrale; esso comprende tutte le regioni del SNA che hanno un ruolo nel controllo dell’attività
viscerale. Ciò è una dimostrazione di come l’attività simpatica e parasimpatica non nascano semplicemente da
segnali provenienti dalla periferia corporea, ma siano attività che rispondono alle esigenze dell’intero
organismo. Partendo dal basso e risalendo, osserviamo come parte di questo network:
 a livello bulbare i nuclei del rafe (nuclei della porzione rostro-laterale del bulbo): controllano i neuroni
pre-gangliari del simpatico controllando la loro attività sul sistema cardiovascolare e sulle regioni a
funzione termo-regolatoria;
 sempre a livello bulbare, il nucleo del tratto solitario: è il principale centro di afferenza delle
informazioni viscerali, che convergono in questo punto provenendo dal midollo spinale oppure dai
nervi glossofaringeo e vago. Il nucleo può rimandare queste informazioni verso l’alto attraverso vie
ascendenti, ma può anche essere il centro di riflessi che vanno a modificare l’attività di neuroni pre-
gangliari simpatici e parasimpatici;
 a livello del ponte, il nucleo parabrachiale: riceve informazioni dal nucleo del tratto solitario, è
connesso con i nuclei mediali del talamo e attraverso questi può determinare un’attivazione corticale
diffusa e produrre una risposta di aumento di vigilanza (arousal). È connesso anche con altri centri
importanti per la gestione emozionale come l’amigdala, anch’essa compresa nel network;

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 sempre a livello pontino, l’area di controllo degli organi pelvici o area di Barrington: è implicata
nel controllo della funzione vescicale;
 sempre a livello pontino, il locus coeruelus: non è prettamente parte del network ma è il nucleo di
origine dei neuroni noradrenergici che innervano diffusamente la corteccia cerebrale e in senso lato
tutti i neuroni del SNC. Fa parte di quei sistemi detti neuromodulatori che usano come
neurotrasmettitore le monamine;
 a livello mesencefalico, il PAG (Periaqueductal Gray, Sostanza Grigia Periacqueduttale): è un centro
di integrazione di informazioni autonomiche. Qui convergono non solo le informazioni dolorifiche ma
anche le afferenze viscerali. È implicato nell’attivazione di risposte autonomiche;
 il nucleo centrale dell’amigdala: l’amigdala è un centro importante per la gestione delle emozioni.
In particolare il nucleo centrale è quello che si occupa di far sì che ogni emozione sia accompagnata
dai correlati viscerali adeguati. Esempio: l’amigdala fa sì che la sensazione soggettiva di rabbia sia
accompagnata dall’attivazione autonomica caratteristica: il volto diventa rosso a causa della
vasodilatazione e la frequenza cardiaca aumenta, c’è quindi un’attivazione simpatica adeguata a
sostenere il comportamento legato alla specifica emozione. I correlati viscerali sono diversi per le
diverse emozioni: ogni specifica emozione è accompagnata da uno specifico pattern di attivazione
viscerale;
 l’ipotalamo: è il principale centro di controllo della funzione autonomica. Integra informazioni
vegetative, sensoriali provenienti dai diversi sistemi e altri tipi di informazioni per produrre risposte
adeguate (il ruolo dell’ipotalamo è approfondito nel punto 3.6);
 aree corticali: le aree del sistema limbico hanno funzione di integrare gli aspetti emozionali con
correlati viscerali adeguati. Ci sono due aree corticali più strettamente legate alla gestione dell’attività
autonomica:
1. corteccia dell’insula, considerata la corteccia sensoriale vegetativa ovvero la zona corticale
dove convergono le informazioni vegetative;
2. corteccia anteriore del cingolo, considerata la corteccia motoria vegetativa che organizza le
risposte autonomiche.
Tutto il controllo si sviluppa dunque su più livelli: i livelli più alti integrano l’attività di quelli più bassi.
Per parlare del controllo riflesso dell’attività viscerale prenderemo in considerazione due esempi:
1. il riflesso della minzione: si sviluppa sia a livello spinale sia del tronco encefalico;
2. il controllo integrativo ipotalamico, rappresentato dall’esempio della termoregolazione.

3.5. Minzione

Circuiti nervosi coinvolti nel riflesso della minzione


Un riflesso vegetativo è organizzato come un normale arco riflesso con un recettore periferico, una branca
afferente, un centro di integrazione, una branca efferente e un effettore.
Parlando del riflesso di minzione si intendono le attività che portano allo svuotamento del contenuto
vescicale quando il volume del liquido contenuto all’interno la vescica supera un determinato valore. Lo
stiramento della parete vescicale legato all’accumulo di liquido all’interno dell’organo determina l’innesco
di questo processo riflesso, che risulta nello svuotamento della vescica stessa tramite contrazione della parete
muscolare e rilasciamento degli sfinteri.
Gli effettori del riflesso di minzione sono formati da:
 muscolatura liscia: muscolo detrusore (corpo della vescica) e sfintere interno dell’uretra;
 muscolatura striata: sfintere esterno dell’uretra.
Il riflesso parte dalla vescica: ci sono delle fibre afferenti (nell’immagine, linee rosse sulla parete della
vescica) che innervano la parete vescicale formata dal muscolo detrusore, un muscolo formato da muscolatura
liscia. Le fibre afferenti raggiungono i gangli delle radici posteriori dei nervi spinali attraverso fibre che
decorrono nei nervi pelvici e trasportano informazioni riguardo il grado di tensione della parete vescicale.

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A livello del midollo spinale sacrale questi neuroni sensitivi fanno sinapsi con:
1. Neuroni pre-gangliari del parasimpatico (linee verdi). Queste fibre pre-sinaptiche decorrono nei
nervi pelvici e raggiungono i gangli in prossimità dell’organo bersaglio; da lì partono i neuroni post-
gangliari, che prenderanno sinapsi sia con le fibre del muscolo detrusore sia con la muscolatura liscia
dell’uretra che forma lo sfintere interno dell’uretra.
2. Motoneuroni somatici (linee gialle) che escono dal corno anteriore della sostanza grigia spinale a
livello sacrale; qui sono organizzati in un nucleo motore chiamato nucleo di Onuf. Questi
motoneuroni decorrono nei nervi pudendi, per poi fare sinapsi con la muscolatura striata dello
sfintere esterno dell’uretra.
3. Altri interneuroni (linee marrone scuro), il cui assone risale verso l’alto:
 con una collaterale tale assone fa sinapsi con neuroni pre-gangliari del sistema
ortosimpatico a livello del midollo lombare. L’assone di questi neuroni simpatici raggiunge
il ganglio mesenterico inferiore, un ganglio prevertebrale, e da qui le fibre post-gangliari,
attraverso il nervo ipogastrico, fanno sinapsi sia con il muscolo detrusore sia con la
muscolatura liscia dell’uretra (sfintere interno); prima di far ciò il neurone post-gangliare
però stacca un’altra collaterale, che scende in basso e prende sinapsi con la terminazione

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sinaptica del neurone pre-gangliare parasimpatico. A questo livello sono presenti i
recettori α2, attivati dalla noradrenalina, che determinano inibizione pre-sinaptica e dunque
riduzione della liberazione del trasmettitore da parte della terminazione sinaptica
parasimpatica. Questa è la modalità attraverso cui i neuroni post-gangliari del simpatico
vanno ad inibire l’attività del parasimpatico nei gangli periferici (inibendo, come
descritto, la comunicazione tra neurone pre- e post-gangliare);
 gli assoni che continuano a salire raggiungono ponte e mesencefalo; attraverso altri
interneuroni prendono contatto anche con i neuroni del nucleo di Barrington (o centro
pontino della minzione o centro di controllo dell’attività pelvica), situato nel ponte: esso è il
centro che controlla dall’alto l’attività di tutti i centri spinali implicati in questo riflesso.
Riassumendo. Le fibre afferenti che segnalano le variazioni della tensione della parete del detrusore prendono
contatto con:
 neuroni pre-gangliari simpatici;
 neuroni pre-gangliari parasimpatici;
 motoneuroni che controllano lo sfintere esterno;
 neuroni del nucleo di Barrington.
N.B. I neuroni post-gangliari del sistema simpatico attivandosi possono inibire la trasmissione tra neurone
pre-gangliare e post-gangliare del sistema parasimpatico.

Funzioni del SNA e dei nuclei di Onuf e di Barrington


Funzione del SN simpatico: attivandosi va ad inibire il riflesso di minzione. I neuroni pre-gangliari del
sistema nervoso simpatico sono situati nella colonna intermedio-laterale del midollo spinale a livello lombare;
i loro assoni raggiungono il ganglio mesenterico inferiore. Lì prendono sinapsi con il neurone post-sinaptico
che, attraverso il nervo ipogastrico, raggiunge il muscolo detrusore e ne determina un’inibizione e un
rilasciamento della sua muscolatura. Le fibre fanno sinapsi anche con la muscolatura dello sfintere interno e
lo attivano determinandone la contrazione e quindi la chiusura della comunicazione tra vescica e uretra. In più
le fibre, se attivate, inibiscono anche la trasmissione tra neurone pre- e postsinaptico del parasimpatico.
Funzione del SN parasimpatico: attivandosi favorisce il processo di minzione. I neuroni pre-gangliari
parasimpatici sono nella colonna intermedio-laterale dei segmenti sacrali del midollo spinale. Gli assoni
decorrono nel nervo pelvico e raggiungono i gangli pelvici in prossimità della vescica. I neuroni post-sinaptici
raggiungono sia il muscolo detrusore, favorendone la contrazione, sia lo sfintere interno, inibendone la
contrazione e dunque favorendone il rilasciamento.
Oltre allo sfintere interno è presente anche il muscolo sfintere esterno, costituito da muscolatura striata. È
controllato da motoneuroni presenti nel nucleo motore del corno anteriore della sostanza grigia spinale dei
segmenti sacrali (nucleo di Onuf). L’attivazione di queste fibre fa contrarre il muscolo sfintere esterno.
Tutti questi centri situati a livello del midollo lombare e sacrale sono sottoposti ad un controllo tronco-
encefalico da parte del nucleo di Barrington. I suoi neuroni, quando si attivano, mandano messaggi
discendenti che inducono i processi di minzione andando complessivamente a:
 inibire il simpatico e il nucleo di Onuf, che si oppongono al riflesso: inibendo il nucleo di Onuf viene
rimossa la contrazione dello sfintere esterno, mentre inibendo il simpatico viene meno il rilasciamento
della muscolatura liscia del detrusore e la contrazione della muscolatura dello sfintere interno;
 attivare il parasimpatico, che favorisce il processo di minzione determinando la contrazione del
muscolo detrusore e il rilasciamento dello sfintere interno.

Riflesso della minzione: fasi e meccanismi


Il filtrato glomerulare viene rilasciato dai reni e mano a mano si accumula a livello vescicale. L’aumento del
liquido all’interno della vescica determina l’attivazione di recettori di tensione (meccanocettori) presenti nella
parete del detrusore, che segnalano questo aumento di tensione ai neuroni pre-gangliari del simpatico, del
parasimpatico, al nucleo di Onuf e al nucleo di Barrington. Finché l’accumulo di liquido all’interno della
vescica è scarso le fibre afferenti scaricano poco e si attivano più facilmente i neuroni pre-gangliari
ortosimpatici. La prevalenza dell’attività simpatica fa sì che il detrusore si rilasci e garantisce che l’aumento
di pressione nella vescica inizialmente avvenga molto lentamente. Questo perché più si accumula liquido più
la parete si distende e la tensione nel complesso aumenta lentamente. Quando però l’accumulo di liquido inizia
ad essere consistente e si avvicina al limite massimo di contenimento vescicale (nell’adulto è circa 300 mL),
esso determina un forte aumento della pressione vescicale. La scarica lungo le fibre afferenti diventa più

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intensa e in grado di attivare direttamente l’attività del parasimpatico e del nucleo pontino di Barrington.
L’attivazione di quest’ultimo produce:
 ulteriore attivazione del parasimpatico e un’inibizione del simpatico: il bilancio si sposta
nettamente verso il parasimpatico, il detrusore inizia a contrarsi e lo sfintere interno a rilasciarsi;
 inibizione dei neuroni del nucleo di Onuf, con conseguente rilasciamento dello sfintere esterno e
fuoriuscita di urina.
Nella specie umana negli individui sopra i tre anni di età è presente un sistema inibitorio centrale, che
tiene tonicamente inibito il nucleo di Barrington. Quindi, affinché il meccanismo riflesso abbia inizio,
occorre rimuovere l’inibizione centrale e consentire al nucleo stesso di espletare le sue funzioni discendenti.
L’inibizione viene rimossa, anch’essa volontariamente, solo quando si creano le condizioni ambientali adatte
all’atto di minzione. Se manca il controllo volontario centrale la minzione è guidata solo dalle afferenze, come
nei bambini piccoli, dove i sistemi del controllo volontario non sono ancora pienamente sviluppati e la
minzione risulta un atto completamente riflesso.
Quando il processo di minzione è iniziato, il muscolo detrusore contraendosi mantiene alta la pressione intra-
vescicale e quindi mantiene continuamente attive le afferenze provenienti dal detrusore stesso. Questo
mantiene l’attivazione parasimpatica e garantisce il completo svuotamento vescicale.
Lesioni spinali
La maggior parte dei centri del riflesso della minzionesi trova a livello spinale, ma perché questo processo
venga svolto correttamente e possa garantire un completo svuotamento vescicale necessita del controllo
sovraspinale del nucleo di Barrington. Per questo motivo una lesione spinale che interrompe i collegamenti
tra nucleo di Barrington e centri spinali fa sì che il processo risulti alterato. Immediatamente dopo una
lesione spinale i muscoli risultano flaccidi perché ai motoneuroni viene a mancare l’influenza eccitatoria
dai centri tronco-encefalici; dopo si riattivano i riflessi spinali per cui si può arrivare ad un momento di
spasticità. Lo stesso avviene a livello vescicale, per cui inizialmente si ha una vescica flaccida poi spastica,
oppure i due stati possono alternarsi. Nei pazienti con lesione spinale lo svuotamento vescicale, che viene
gestito solo su base riflessa, non riesce ad essere completo. In questi casi occorre controllare se c’è un
residuo di liquido in vescica ed eventualmente rimuoverlo periodicamente con cateterismo o manovre
specifiche.

Ricapitolando. L’urina si accumula in vescica → la scarsa frequenza di scarica delle fibre afferenti attiva
preferenzialmente il SN simpatico → il simpatico favorisce il rilascio del detrusore e la contrazione del
muscolo sfintere interno → il rilascio del detrusore fa sì che, nonostante il riempimento, la pressione in vescica
non aumenti esponenzialmente → ad un certo punto la capacità vescicale non permette più il fenomeno
descritto precedentemente e la pressione aumenta in modo considerevole → aumenta la frequenza di scarica
delle fibre afferenti → si ha attivazione del SN parasimpatico e del nucleo di Barrington → l’attivazione del
parasimpatico causa rilasciamento dello sfintere interno e contrazione del detrusore, mentre il nucleo di
Barrington va a inibire il simpatico e i motoneuroni del nucleo di Onuf (oltre a favorire l’attività del
parasimpatico) → l’inibizione dei motoneuroni del nucleo di Onuf genera rilasciamento dello sfintere esterno
→ la contemporanea contrazione del m. detrusore e rilasciamento dei mm. sfinteri interno ed esterno permette
lo svuotamento della vescica.
Negli individui sopra i 3 anni di età, il nucleo di Barrington è tonicamente inibito, per evitare che si attivi il
riflesso della minzione in momenti in cui le condizioni ambientali non lo richiedono.

3.6. Meccanismi di termogenesi e termolisi

Controllo integrativo di funzioni complesse: ipotalamo


La termoregolazione è una funzione complessa, perché per mantenere costante la temperatura corporea
l’organismo non si avvale solo del SNA ma anche del sistema endocrino (tramite il rilascio di specifici ormoni)
e dell’assunzione di comportamenti. Per questo motivo si parla di regolazione integrativa che comprende
l’attivazione di sistemi diversi e necessita di un centro nervoso di controllo e integrazione più complesso e
sofisticato di quello che controlla una risposta riflessa.

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Il principale centro di controllo integrativo è l’ipotalamo. Esso è un centro diencefalico di enorme
complessità anatomica: si contano al suo interno almeno cento nuclei diversi che usano differenti
neurotrasmettitori e ricevono afferenze diverse da tutte le regioni corporee e corticali.
L’ipotalamo ha le seguenti funzioni:
 È il principale centro regolatorio delle funzioni viscerali. Può controllare direttamente il sistema
endocrino, essendo in collegamento diretto con l’ipofisi, la principale delle ghiandole endocrine,
tramite il peduncolo ipofisario. Gli ormoni ipofisari liberati sono sostanze prodotte dall’ipotalamo
(ADH, ossitocina; rilasciati poi dalla neuroipofisi) oppure sostanze prodotte dall’adenoipofisi (GH,
TSH, ACTH, FSH, LH, PRL) in seguito alla stimolazione da parte di peptidi ipotalamici (N.B.
Esistono peptidi ipotalamici che possono stimolare la secrezione di ormoni da parte dell’adenoipofisi,
ma anche peptidi che possono inibirla).
 Controlla direttamente anche i neuroni pre-gangliari del SNA: questi ultimi sono infatti raggiunti da
fibre provenienti dai nuclei ipotalamici.
 Ha la possibilità di controllare i comportamenti motivati e quindi di indurre l’organismo a compiere
un comportamento per guidare la sua interazione con l’ambiente esterno. Ad esempio, può far
insorgere il senso di fame e di sete per indurre l’organismo a procurarsi cibo e acqua.
 Ha la funzione principale di integrare le informazioni relative alle condizioni interne del corpo che
vengono usate per il mantenimento, la stabilità e la costanza del mezzo interno, ovvero l’omeostasi
corporea. Questa è una condizione essenziale per la vita perché fa sì che in ogni momento le cellule
sino immerse nell’ambiente più idoneo alla loro sopravvivenza. Ad esempio l’organismo tramite i
processi regolatori ipotalamici riesce a mantenere costante la temperatura corporea e quindi a garantire
che le cellule operino alla temperatura a loro più congeniale. Lo stesso discorso vale per la salinità, il
pH e tutte le condizioni dell’ambiente interno.
 Adeguare costantemente la composizione dell’ambiente interno a ciò che l’organismo sta facendo,
dato che le esigenze cambiano a seconda del comportamento operato. Questo adeguamento della
composizione interna e dell’attività viscerale alle esigenze del comportamento può esser fatto anche
in maniera predittiva: sapendo già cosa succederà è possibile predisporre il livello di funzionamento
degli apparati in modo che organismo sia già pronto per affrontare quel determinato evento. Esempio:
alla mattina ci svegliamo e nel farlo il nostro organismo affronta una sfida ambientale poiché passa
dal riposo all’attività, da una posizione di clinostatismo ad una di ortostatismo. Sulla base della nostra
storia filogenetica e delle nostre abitudini giornaliere l’organismo è in grado di prepararsi in anticipo
a questo cambiamento e si predispone all’azione. Questo comporta un picco di secrezione ormonale
di cortisolo nelle prime ore del mattino, c’è un progressivo aumento della temperatura corporea, un
aumento della pressione arteriosa: il tutto per preparare l’organismo all’azione. Questo è possibile
perché ci sono degli “orologi interni”, di cui il principale è il nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo,
che predispongono l’organismo all’attività che verrà (ritmi circadiani).
Tutte le funzioni ipotalamiche sono indispensabili per garantire la sopravvivenza dell’individuo
(alimentazione, reazioni attacco/fuga, termoregolazione ecc.) e della specie (riproduzione).
Il concetto di costanza del mezzo interno è stato proposto per la prima volta dal fisiologo francese Claude
Bernard, che ha coniato la frase “la costanza del mezzo interno è la condizione della vita libera”, ovvero grazie
al mezzo interno gli esseri umani (ma ovviamente non vale solo per loro) sono liberi di spostarsi nell’ambiente
perché, indipendentemente da ciò che accade fuori, essi sono da soli in grado di creare e di regolare il mezzo
in cui sono immerse le loro cellule. Walter Canon, un fisiologo americano, pochi anni dopo coniò il termine
omeostasi, intendendo l’insieme di tutti i processi attraverso cui l’organismo riesce a mantenere costante i suoi
parametri fisici e chimici anche al cambiare delle condizioni esterne.

Termoregolazione comportamentale e fisiologica; temperatura fisiologica nell’uomo


La termoregolazione è la capacità di regolare attivamente la temperatura corporea, affinché sia sempre
ottimale per garantire i processi fisiologici e metabolici.
Ci sono due modalità per regolare la temperatura corporea:
 modalità comportamentale: ovvero quando si ha caldo e si ci sposta verso ambienti più freddi e, al
contrario, quando si ha freddo verso ambienti più caldi;
 modalità fisiologica: si basa sull’attivazione del SNA e del sistema endocrino.

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I mammiferi (e quindi anche l’uomo) e gli uccelli sono organismi omeotermi, che termoregolano e
mantengono costante la loro temperatura corporea non solo attraverso meccanismi comportamentali ma anche
e soprattutto attraverso dei meccanismi fisiologici.

L’immagine in alto mostra le fluttuazioni della temperatura corporea al variare della temperatura ambientale.
Si nota che in un animale omeotermo, anche se la temperatura ambientale cambia molto, la linea rimane piatta,
a parte per i casi estremi. La temperatura corporea degli animali omeotermi non varia al variare delle
temperature ambientali. Tutti gli altri animali sono invece eterotermi o pecilotermi, ovvero la loro
temperatura corporea varia in dipendenza della temperatura ambientale, quindi si abbassa se sono esposti a
basse temperature, si alza se sono esposti ad alte temperature ambientali: non hanno meccanismi di regolazione
fisiologica autonomica ed endocrina che gli consenta di mantenere la temperatura corporea costante, quindi
l’unico modo che hanno è una regolazione comportamentale. Mantenere la temperatura ad un livello ottimale
per le loro funzioni significa cambiare l’ambiente in cui si trovano: ad esempio andare in acqua è un buon
modo per disperdere calore perché l’acqua ha una conduttività termica più alta dell’aria e favorisce la
dispersione di calore.
La normale temperatura corporea degli esseri umani è intorno ai 37 °C. L’uomo è poco tollerante a
scostamenti rispetto a questo valore di riferimento: è solo in una certa misura tollerante verso valori di
temperatura più bassi e pochissimo verso valori più alti.
Se la temperatura corporea sale oltre 37°C si sta male, se supera i 40° si ha un’azione lesiva, specialmente a
livello del sistema nervoso, che si manifesta inizialmente con convulsioni: se la temperatura continua a salire
si possono sviluppare lesioni neuronali irreversibili e la morte del soggetto per valori al di sopra dei 44°C.
Si è più tolleranti alle riduzioni della temperatura corporea: se la temperatura corporea scende intorno ai 34°C
si osserva riduzione della sensibilità e dell’attività mentale ma è comunque una condizione ben tollerata; se
la temperatura corporea però si abbassa ancora la tolleranza cala e al di sotto dai 25°C si ha infine la morte.
Questo dimostra che il range di temperatura ideale che garantisce la sopravvivenza è molto ristretto, fino a
5°C al di sopra della temperatura standard, circa 10°C al di sotto.

Zone di termoneutralità, ipotermia e ipertermia


Gli esseri umani possono mantenere costante la temperatura corporea con facilità per variazioni della
temperatura ambientale comprese tra -10°C e +40°C, come mostra la linea blu del grafico sottostante.
L’uomo ha una zona di termoneutralità, ovvero la zona del suo benessere soggettivo termico, in cui il
dispendio energetico per mantenere costante la temperatura corporea è minimo. Stando alla temperatura
termoneutra l’organismo spende il minimo di energia possibile per mantenere costante la sua temperatura
corporea.

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Per la specie umana la temperatura termoneutra è di circa 29°C (considerando un uomo nudo, la presenza
di vestiti abbassa la zona di termoneutralità). Quindi, scambiando calore con l’ambiente esterno, in assenza di
meccanismi termogenetici, la temperatura dell’individuo nudo sarebbe di 29°C: in realtà la temperatura
corporea è più alta (intorno ai 37°C) perché c’è sempre comunque una continua produzione di energia, la
cosiddetta termogenesi obbligatoria, derivante da tutte le funzioni metaboliche che l’organismo deve
svolgere per rimanere vivo. Poiché tali funzioni garantiscono la sopravvivenza, si tratta di una quota
ineliminabile di energia e complessivamente prende il nome di metabolismo basale. La zona di
termoneutralità è dunque la temperatura ambientale tale per cui il calore del metabolismo basale è di per sé
sufficiente a garantire il mantenimento della temperatura corporea a 37°C. Uscendo dalla zona termoneutra,
per mantenere i 37°C bisogna spendere un surplus di energia:
 zona di ipotermia: spostandosi a sinistra della banda colorata indicata come zona termoneutra la linea
blu resta piatta, ma la linea rossa rappresentante il metabolismo aumenta. Questo significa che bisogna
consumare energia e generare calore (termogenesi) per mantenere costante la temperatura corporea.
Più la temperatura si abbassa e quindi si discosta da quella della zona di termoneutralità, più energia
bisogna spendere per produrre calore, dal momento che quello proveniente dall’ambiente non è più
sufficiente. I meccanismi di termogenesi sono sufficienti per compensare una diminuzione della
temperatura ambientale fino a -10°C: sotto questo valore la temperatura corporea non può più essere
mantenuta costante con i meccanismi fisiologici e comincerà inevitabilmente a diminuire;
 zona di ipertermia: spostandosi a destra della banda della zona termoneutra
la temperatura ambientale cresce e per mantenere costante la temperatura
corporea si deve spendere energia per facilitare la dispersione di calore da
parte del corpo. La capacità di compensazione in questo caso è molto scarsa:
già quando la temperatura ambientale supera i 40°C, quella corporea non
riesce più ad esser mantenuta costante e inizia a salire.
Nucleo centrale e guscio periferico
Quando si afferma che la temperatura è 37°C non si intende la temperatura di tutto
l’organismo, ma di quello che viene chiamato nucleo centrale o core, che è la sua
parte più interna. Esso corrisponde al cervello, agli organi toracici e alla maggior
parte degli organi addominali. Questa è la zona corporea la cui temperatura è
effettivamente attorno ai 37/37,5°C.
La temperatura di questa zona interna del corpo non può essere misurata
direttamente: bisognerebbe infatti inserire una sonda all’interno dei visceri, manovra
ovviamente irrealizzabile nella pratica. La misura più attendibile della temperatura
centrale è la temperatura rettale; una buona approssimazione è data dalla
temperatura ascellare, leggermente inferiore a quella rettale.

99
Oggigiorno esistono anche dei metodi per rilevare la temperatura alla tempia che, attuando delle
correzioni, sono comunque un buon indicatore della temperatura interna.
Se il nucleo centrale ha una temperatura regolata e costante, il resto dell’organismo, chiamato guscio
periferico, che va a ricoprire il guscio centrale, ha invece una temperatura variabile. Scendendo lungo gli arti
la temperatura cutanea può scendere a 32°C, 28°C, fino a 20°C senza determinare particolari problemi. Lo
spessore e la grandezza di questo guscio esterno varia a seconda delle condizioni ambientali: quando si è in un
ambiente freddo l’obiettivo è evitare il più possibile la dispersione del calore interno, ovvero di mantenere il
nucleo interno sempre a 37°C, si evita quindi di disperdere calore, si vasocostringe tutta la parte periferica
dell’organismo in modo che il sangue caldo non disperda calore verso l’esterno; ciò fa sì che la temperatura
degli arti scenda molto. Il contrario avviene quando si è in una ambiente caldo e bisogna invece disperdere
calore verso l’esterno: in questo caso il flusso ematico nelle parti periferiche del corpo è aumentato per
aumentare la dispersione di calore e di conseguenza la temperatura degli arti si approssima a quella del core.
Il nucleo centrale rimane dunque sempre alla stessa temperatura, mentre la temperatura del guscio periferico
cambia in relazione alle condizioni ambientali, aumentando in un ambiente caldo e diminuendo in un ambiente
freddo. L’omeotermia è riferita perciò solo al nucleo interno dell’organismo.

Bilancio termico
Come già detto, gli esseri umani sono animali omeotermi e devono mantenere la temperatura corporea a
37°C, se la temperatura corporea scende sotto i 37° è necessario produrre calore, se sale sopra i 37°C è
necessario disperdere calore nell’ambiente. La produzione di calore prende il nome
di termogenesi, la dispersione di calore prende il nome di termodispersione o termolisi.
I processi che consentono di generare calore sono in prevalenza processi chimici mentre quelli che
consentono di disperdere calore sono in prevalenza, ma non esclusivamente, processi fisici.
Termogenesi:
 Metabolismo basale: è l’insieme delle reazioni energetiche necessarie per mantenere vivo
l’organismo, la normale attività di base delle cellule e degli apparati che necessitano di energia per la
loro sopravvivenza e che mediante la loro attività generano una quota di calore.
 ADS (azione dinamico specifica degli alimenti): fa riferimento alla quota di energia e alla produzione
di calore legate al processo metabolico degli alimenti che sono ingeriti con la dieta; dopo un pasto si
attuano dei processi di digestione e assorbimento che richiedono dispendio di energia e
determinano una produzione di calore.
 Attività muscolare: quando si ha freddo, la prima cosa che si fa è muoversi (si cammina, si va avanti
e indietro, si sfregano le mani l’una con l’altra). L’attività muscolare produce molto calore ed è una
fonte importante di termogenesi.
 Ci sono, infine, anche alcuni ormoni (ormoni tiroidei, ormone della crescita, testosterone) che
aumentano il metabolismo e facilitano la produzione di calore.
I processi di termodispersione sono quelli classici della fisica
(conduzione, convezione, irraggiamento) e l’evaporazione. I primi tre sono utili per disperdere calore
quando la temperatura corporea è superiore alla temperatura ambientale, ma quando la temperatura ambientale
è superiore a quella corporea l’unico metodo efficacie di dispersione del calore è l’evaporazione.

Termogenesi
La termogenesi viene suddivisa in due categorie: termogenesi obbligatoria e termogenesi facoltativa.
Col termine termogenesi obbligatoria si intende l’insieme di quei processi che producono calore che non
sono eliminabili e che dunque non sono coinvolti nella termoregolazione. Essi sono:
 il metabolismo basale, l’insieme dei processi metabolici che mantengono vive le cellule
dell’organismo; il 60-75% del calore non eliminabile prodotto dall’organismo è legato ai processi del
metabolismo basale.
 l’azione dinamico specifica degli alimenti; essa è parzialmente eliminabile se non si ci ciba; questo
spiega anche perché quando si è in ambienti molto caldi si ha anche meno fame; nonostante questo la
nutrizione non può essere eliminata del tutto, perché è necessaria alla sopravvivenza; la quota di calore
non eliminabile attribuibile a questa modalità è di circa il 10%;
 l’attività muscolare di base; è possibile eliminare quasi tutta l’attività muscolare, ma non quella dei
muscoli respiratori; la quota legata a questa modalità è del 15-30%.

100
Per quanto sia caldo l’ambiente, per quanto sia necessario disperdere calore, comunque una parte di calore
viene comunque prodotto (termogenesi obbligatoria).
Quando si è in ambiente freddo ed è necessario produrre calore, è possibile attivare meccanismi di
termogenesi facoltativa: per esempio, aumentare l’attività muscolare (termogenesi con brivido) o attivare
una serie di altri processi (termogenesi senza brivido).
 Brivido: è un’attività involontaria, una contrazione di fibre muscolari che determinano oscillazioni
ritmiche a una frequenza compresa tra i 10 e i 20 Hz. Questa attività viene prodotta dall’attivazione
dei motoneuroni α, che vengono attivati direttamente dall’ipotalamo, in particolare da un nucleo
ipotalamico che si chiama nucleo dorso-mediale, importante soprattutto nei processi termoregolatori.
Nell’ipotalamo sono presenti centri per la regolazione della temperatura corporea che hanno delle
soglie. Quando è rilevata una temperatura che è più alta della temperatura della soglia massima o più
bassa della soglia minima, si attivano delle risposte. Quando l’ipotalamo rileva una temperatura
corporea più bassa della minima soglia di tollerabilità, attiva il nucleo dorso-mediale che manda
delle efferenze attivatorie ai motoneuroni spinali e genera l’attività ritmica dei muscoli scheletrici di
cui discusso prima, che è adeguata a produrre calore.
 La seconda modalità di produzione del calore è quella chiamata termogenesi senza
brivido. È controllata anche dalla secrezione di ormoni, in particolare degli ormoni tiroidei. Tale
secrezione è sotto il controllo ipotalamico: l’ipotalamo rilascia il TRH (ormone di rilascio della
tireotropina), che agisce sull’adenoipofisi, la quale libera l’ormone TSH (ormone tireotropo o
tireostimolante) , il quale raggiunge attraverso il torrente ematico la tiroide e induce a sua volta la
liberazione degli ormoni T3 (triiodotironina) e T4 (tiroxina). Gli ormoni tiroidei possono indurre
l’espressione di quelle che vengono chiamate proteine disaccoppianti (UCP) a livello del tessuto
adiposo bruno, del muscolo striato e del fegato.

Termogenesi e proteine disaccopianti; BAT


Le proteine disaccoppianti sono proteine che favoriscono l’ingresso di protoni all’interno della matrice
mitocondriale interna. In quest’ultima si svolgono tutti i processi del ciclo di Krebs e quindi dell’attività
metabolica cellulare. I processi del ciclo di Krebs prevedono che si abbia uno spostamento attivo di protoni
dalla matrice interna alla matrice esterna: si crea quindi un gradiente protonico che spinge i protoni a rientrare
nella matrice interna. I protoni rientrano attraverso specifici canali ed è l’ingresso degli ioni H + attraverso
questi canali a livello della membrana che consente la trasformazione di ADP in ATP (ATP sintasi). Le
reazioni del ciclo di Krebs vengono controllate dai livelli di ATP: quando si raggiungono adeguati livelli di
ATP le reazioni enzimatiche sono inibite.
La proteina disaccoppiante crea un tunnel a livello della
membrana mitocondriale, attraverso il quale gli
ioni H+ possono entrare liberamente nella matrice interna: gli
ioni dunque utilizzano la UCP al posto dell’ATP sintasi e si
ha così dissipazione del gradiente protonico senza
produzione di ATP. I processi metabolici del ciclo di
Krebs procedono, perché non vengono inibiti da alte
concentrazioni di ATP e i substrati metabolici vengono
metabolizzati senza produzione di ATP, ma semplicemente
disperdendo l’energia dei propri legami in calore. Questo
processo va avanti proprio perché non essendo
prodotto ATP non c’è mai un segnale di stop: tutto questo
dipende dalla proteina disaccoppiante che disperde il
gradiente protonico di ioni H+ e impedisce che vengano
trasportati normalmente mediante il loro
trasportatore associato alla trasformazione di ADP in
ATP. Non tutti i tessuti presentano mitocondri con proteine
disaccoppianti, il tessuto che ha una maggiore concentrazione
di mitocondri con proteine disaccoppianti è il tessuto adiposo bruno (BAT, Brown Adipose Tissue).
Fino a non pochi anni fa si pensava che il tessuto adiposo bruno fosse presente solo negli animali acclimatati
a climi molto freddi (ad esempio l’orso polare), ma oggi sappiamo che questo tessuto è presente anche nella
specie umana, specialmente nei bambini piccoli. Gli organismi più piccoli sono quelli
che termodisperdono di più perché hanno un rapporto sfavorevole tra massa e superficie: in un organismo

101
piccolo il rapporto tra la superficie corporea e la massa è più alto rispetto a
quanto avvenga in un organismo più grande e quindi, essendoci una
superficie corporea più ampia, questi soggetti (come gli animali più piccoli,
ma anche i bambini nel caso della specie umana) termodisperdono molto.
Essi hanno quindi bisogno di produrre più calore e di conseguenza hanno più
tessuto adiposo bruno.
Il tessuto adiposo bruno nei neonati è raccolto nella schiena, nella
regione periscapolare e toracica (nell’immagine le zone colorate in nero).
Anche negli individui adulti della specie umana che vivono in ambiente
freddo c’è una buona presenza di tessuto adiposo bruno: attualmente si ritiene
inoltre che ci possa essere una transizione tra tessuto adiposo bianco e
tessuto adiposo bruno nel caso in cui si sia esposti per un certo periodo di
tempo a temperature rigide.
L’espressione delle proteine disaccoppianti a livello del tessuto adiposo bruno, ma anche del fegato o
del muscolo scheletrico, è favorita come già anticipato dagli ormoni tiroidei, ma anche
dalla noradrenalina liberata dai neuroni post-gangliari del sistema nervoso simpatico e
dall’adrenalina circolante. Queste sostanze stimolano la trascrizione del gene per la proteina disaccoppiante
andando, nel caso della noradrenalina, a controllare i livelli di AMPc intracellulare, nel caso degli ormoni
tiroidei con un’azione diretta dell’ormone a livello del nucleo della cellula del tessuto adiposo (per l’esattezza
gli ormoni tiroidei si legano a recettori nucleari e il complesso ormone-recettore attiva la trascrizione dei geni
bersaglio, tra cui UCP).

Si ha quindi un aumento della trascrizione genica e della sintesi della proteina disaccoppiante che viene
poi esposta a livello della membrana mitocondriale.
Ricapitolando, sia l’aumento della concentrazione degli ormoni tiroidei che l’azione del sistema nervoso
simpatico possono far aumentare le concentrazioni di proteine disaccoppianti a livello del tessuto adiposo
bruno.

Termolisi

102
La termolisi o termodispersione si attua prevalentemente attraverso i mezzi fisici di conduzione, convezione
e irraggiamento.
 Conduzione: avviene quando due corpi sono a diretto contatto e consiste nel trasferimento di energia
dal corpo più caldo (con particelle dotate di maggiore energia cinetica) a quello più freddo tramite urti
tra le molecole.
 Irraggiamento: analogo alla conduzione ma senza il contatto, quindi con emissione di energia sotto
forma di onde elettromagnetiche. Può avvenire anche nel vuoto (ad es., il calore solare raggiunge la
Terra attraversando prima il vuoto interposto tra i due corpi celesti e poi l’atmosfera).
 Convezione: data da un fluido in movimento (ad es., il sangue, il vento) e direttamente proporzionale
al flusso.
Naturalmente questi meccanismi risultano efficaci esclusivamente se la temperatura corporea è più alta
di quella dell’ambiente. In caso contrario (cioè se la temperatura ambientale è più alta di quella corporea)
l’unico meccanismo di dispersione valido è l’evaporazione.
Evaporazione: è regolata da una differenza di pressione di vapor acqueo (nel nostro caso, tra la cute e
l’aria). In un ambiente caldo e asciutto come un deserto è favorita in quanto la pressione di vapor acqueo
dell’ambiente risulta inferiore a quella superficie corporea, mentre risulta sfavorita in ambienti umidi come le
foreste pluviali, dove si suda ma il sudore non evapora. Il fenomeno è favorito da eventuali flussi d’aria
circostanti, dal momento che riducono il gradiente pressorio nell’ambiente allontanando il vapore acqueo a
ridosso della cute.
Il sudore è secreto dalle ghiandole sudoripare, innervate dalle fibre post-gangliari del sistema
ortosimpatico, che in questo caso utilizzano come neurotrasmettitore l’acetilcolina (si tratta di un’eccezione,
normalmente le fibre post-sinaptiche simpatiche utilizzano la noradrenalina). Le ghiandole sudoripare si
dividono in:
 Eccrine: coinvolte principalmente nella termoregolazione. Il loro secreto in origine ha la stessa
osmolarità del plasma, ma la maggior parte dei soluti viene riassorbita nel transito lungo il tubulo,
verso la superficie. Giunto all’esterno, il sudore, si presenta dunque come una soluzione ipotonica
(20-100 mOsm/L) contenente NaCl.
 Apocrine: non sono coinvolte nella termoregolazione, sono invece coinvolte nell’interazione sociale.
Collocate in zone specifiche dell’organismo (ascelle, inguine ecc.), la loro espressione è più evidente
nelle donne e in alcune razze piuttosto che altre. Sono filogeneticamente antiche e il loro scopo è
rilasciare ferormoni che possono attrarre o causare repulsione verso altri individui. Pertanto risultano

103
inattive nella prima parte della vita e vengono attivate al raggiungimento della pubertà. Il loro secreto
emette un odore peculiare perché contiene più grassi rispetto a quello delle eccrine e viene prodotto in
quantità variabili a seconda dello stato emozionale.
Nonostante siano innervate da fibre simpatiche colinergiche, queste ghiandole possono essere attivate anche
dall’adrenalina in circolo. L’attivazione da parte delle catecolamine è particolarmente rilevante durante
l’esercizio fisico, che in quanto condizione stressante aumenta l’attività della surrenale e quindi la produzione
di catecolammine. Ovviamente la sudorazione durante l’esercizio è funzionale a disperdere il calore generato
dalla contrazione muscolare.

3.7. Circolazione cutanea


Un fattore importante di termoregolazione è dato dalla circolazione cutanea. Il basso metabolismo della
cute la rende un ottimo mezzo per la regolazione del flusso ematico, aumentandolo (fino a venti volte) quando
si necessita disperdere calore e diminuendolo (fino alla metà) se si ha bisogno di ritenerlo. La presenza di
anastomosi artero-venose consente il passaggio diretto del sangue ai plessi venosi superficiali parallelamente
rispetto ai capillari cutanei e quindi indipendentemente dal flusso capillare. Queste anastomosi si trovano
collocate prevalentemente alle estremità più esposte all’ambiente, chiamate di cute apicale.

Sia le arteriole che le anastomosi sono innervate dal simpatico, il cui tono è particolarmente significativo a
livello della cute apicale (dal Boron: “naso, labbra, orecchie, mani e piedi”). La sua funzione è modulare la
vasocostrizione e viene attuata per via riflessa (ad es., in seguito a raffreddamento della cute) o tramite
l’ipotalamo.
Il tono simpatico è invece normalmente basso nelle zone cutanee non apicali: al freddo non si avranno
cambiamenti rilevanti, al caldo invece si può avere una vasodilatazione dal momento che le fibre simpatiche
colinergiche attivano le sudoripare nel cui secreto è presente un enzima, che agisce sulla callidina
(normalmente presente nel liquido tissutale) trasformandola in bradichinina, un potente vasodilatatore.
In una situazione che presenta fattori conflittuali come l’esercizio fisico in un ambiente caldo si riscontrano
delle difficoltà: l’organismo vorrebbe vasodilatare la cute e disperdere calore, ma allo stesso tempo in
profondità i muscoli richiedono considerevoli quantità di sangue e pertanto sarebbe utile attuare una
vasocostrizione a livello cutaneo. La temperatura corporea, di solito, tende a prevalere come importanza e
pertanto l’attività fisica viene ostacolata. Svolgere attività fisica in ambienti sfavorevoli per tempi prolungati
può portare al collasso anche in soggetti allenati: una volta terminata l’attività, la pompa muscolare viene meno

104
e si ha una rapida vasodilatazione e il conseguente abbassamento di pressione arteriosa, che può appunto
portare ad un collasso cardiocircolatorio.
In ambiente freddo il sangue scorre prevalentemente nei plessi venosi profondi. In un ambiente caldo nei
plessi venosi superficiali. Le arterie sono sempre vasi profondi. Al freddo si ha uno scambio di calore tra il
sangue (caldo) arterioso che si dirige in periferia che cede calore all’adiacente sangue (freddo) venoso diretto
al centro. Questo fenomeno limita il calore che verrebbe altrimenti disperso nell’ambiente. Al caldo il sangue
venoso transita invece nei plessi superficiali, rendendo quindi più difficili gli scambi tra vene e arterie e
permettendo una maggiore dispersione grazie anche alla superficialità dei vasi. Questi processi sono
maggiormente sviluppati nei mammiferi marini e in altri animali omeotermi esposti ad un clima rigido, come
ad esempio i pinguini

Attività del centro integrativo ipotalamico


Quando la temperatura corporea aumenta, l’ipotalamo consente di aumentare la dispersione e ridurre la
termogenesi, al freddo ovviamente si comporterà in modo opposto. Esso si occupa anche di coordinare le
risposte comportamentali idonee alla situazione in cui si ci trova (spogliarsi/vestirsi, spostarsi all’ombra/al
sole, ecc.).
La regione ipotalamica più importante per la termoregolazione è l’area pre-ottica (POAH, PreOptic
Anterior Hypotalamus). A questo livello è presente un sistema in grado di rilevare le variazioni della
temperatura corporea, che presenta due soglie di temperatura, una massima e una minima. Se la temperatura
corporea è compresa tra le due soglie, l’attività ipotalamica è trascurabile e attua una lieve variazione della
costrizione dei vasi a seconda di quale soglia sia la più vicina. Se invece vengono superate le soglie,
superiormente o inferiormente, si avrà l’attivazione dei meccanismi visti finora:
 la prima risposta sarà quella comportamentale;
 la seconda invece consiste nelle risposte vasomotorie;
 le risposte più complesse, come quelle che portano a sudorazione/brivido o quelle che modificano il
metabolismo saranno invece messe in atto in un momento successivo.
Gli studi più recenti hanno inoltre smentito la teoria per la quale queste soglie siano dei “set point” e sono
tendenti ad una visione più malleabile dell’attività ipotalamica e dei livelli sogliari. Inoltre le aree sogliari non
risultano fisse, in quanto cambiano durante la giornata: pertanto la nostra temperatura corporea oscilla in
maniera circadiana secondo l’attività mediata dal nucleo sovrachiasmatico ipotalamico, che sincronizza la
termoregolazione in funzione del ciclo luce/buio (le informazioni luce/buio giungono al nucleo direttamente
dalla retina). Da questo ricaviamo che la temperatura corporea è al suo minimo durante la notte e le prime ore
della mattina e aumenta progressivamente fino a raggiungere il suo massimo nel pomeriggio fino alle prime
ore della sera.
La temperatura corporea presenta inoltre variabilità dipendente dall’individuo: nel bambino è più alta,
mentre nell’anziano non è inusuale trovare una temperatura corporea inferiore ai 36°C. Nelle donne invece
può variare con il ciclo ovulatorio: essa sarà minima il giorno prima dell’ovulazione e aumenterà di circa
1°C il giorno seguente (la temperatura basale variabile della donna è stata usata per lungo tempo come
contraccettivo). Ovviamente la variabilità individuale deve essere considerata anche nella sua accezione più
generale, in quanto i valori della temperatura sono sempre estrapolati da una media.
Domanda di uno studente. La sensibilità dei termocettori varia con la temperatura corporea? Quando si ha la febbre si
hanno limitazioni nei meccanismi di dispersione? No, non si vedono variazioni per quanto riguarda i termocettori, a
cambiare quando si ha la febbre sono le soglie ipotalamiche (a opera dei pirogeni), pertanto l’organismo cerca di
mantenere una temperatura più alta del normale (38-39°C).
Domanda di uno studente. Le risposte vasomotorie possono essere influenzate da condizioni di ipertensione o
ipotensione dell’individuo? La risposta di per sé non cambia, al massimo la sua azione potrebbe andare ad esacerbare le
condizioni di ipertensione al freddo o di ipotensione al caldo.
Domanda di uno studente. In che modo i termocettori rilevano la temperatura corporea? Come già trattato in fisiologia
cellulare quando parliamo di termocettori periferici ci riferiamo a terminazioni nervose libere che captano la diversa
temperatura ambientale. Lo stesso sistema è adottato dai neuroni ipotalamici in grado di captare variazioni della
temperatura del sangue che li irrora (termocettori centrali).

105
FISIOLOGIA DELL’APPARATO
DIGERENTE
Dott.ssa C. Berteotti

Apparato digerente: funzioni orali e gastriche


 Organizzazione morfofunzionale dell’esofago e dello stomaco.
 Fase cefalica, orale, esofagea e gastrica dei processi motori, secretori e di assorbimento.
Apparato digerente: funzioni intestinali
 Organizzazione morfofunzionale dell’intestino.
 Intervento dell’intestino tenute e del colon nei processi motori, secretori e di assorbimento.
 Secrezioni pancreatica e biliare.

106
4. Apparato digerente: funzioni orali e gastriche

4.1. Organizzazione morfofunzionale dell’esofago e dello stomaco


Nota. In questo punto della tesina in realtà la prof. non ha trattato esclusivamente l’organizzazione morfofunzionale di
esofago e stomaco, bensì di tutto il tratto GI. Nella tesina successiva il punto relativo all’organizzazione morfofunzionale
dell’intestino è molto breve proprio per questo motivo.

Il tratto gastro-intestinale è costituito dal canale alimentare che si estende dalla bocca all’ano. Questo
comprende una serie di organi ghiandolari associati che riversano le loro secrezioni all’interno del canale
alimentare.
I principali processi che si svolgono all’interno del tratto GI sono:
 digestione e assorbimento: i nutrienti introdotti con la dieta sono costituiti da macromolecole. Queste
necessitano di essere modificate chimicamente prima di poter essere trasportate attraverso le
membrane cellulari e passare infine nel flusso ematico. Attraverso il tratto GI possono anche essere
assorbiti farmaci che vengono somministrati per via orale o rettale;
 motilità: per poter svolgere la funzione di digestione e assorbimento il tratto GI deve avvalersi di una
certa motilità. Questa permette la progressione del contenuto luminale e il suo rimescolamento con
quelli che sono i prodotti delle secrezioni degli organi ghiandolari;
 secrezione: ha il compito di creare un ambiente intraluminale ottimale per permettere una corretta
digestione e assorbimento. Le secrezioni sono principalmente costituite da enzimi, ioni e detergenti;
 escrezione: il tratto GI secerne sostanze di scarto presenti nei cibi ed elimina prodotti di escrezione di
altri organi come il fegato (colesterolo, steroli, residui di farmaci ecc.).
Questi processi devono essere svolti in maniera accurata e regolati in maniera fine; per questo motivo il
sistema di regolazione del tratto GI deve essere particolarmente accurato. Il tratto Gi è in comunicazione con
l’esterno e per questo deve essere protetto da eventuali patogeni, possiede infatti accumuli di tessuto linfoide
e meccanismi difensivi specifici.
Anatomia funzionale
Dal punto di vista anatomico il tratto GI può essere diviso in diversi segmenti: cavità orale, (oro)faringe,
esofago, stomaco, intestino tenue o piccolo intestino (suddiviso a sua volta in duodeno, digiuno, ileo),
intestino crasso o grande intestino (cieco, colon ascendente, colon trasverso, colon discendente, colon
sigmoideo, retto)1 e canale anale. Oltre a queste strutture sono comprese formazioni ghiandolari a fondo cieco,
le quali risultano essere invaginazioni dell’epitelio di rivestimento che riversano il loro secreto nel lume del
tratto GI, nonché veri e propri organi ghiandolari associati (ghiandole salivari, pancreas, fegato).
Le diverse regioni del tratto GI presentano un’organizzazione di base comune, ma specializzazioni diverse,
in quanto deputate ad assolvere funzioni differenti. A separare le regioni con funzione diversa sono presenti
delle strutture di natura muscolare dette sfinteri (sfintere esofageo, sfintere pilorico, sfintere di Oddi, valvola
ileocecale e sfinteri anali). Gli sfinteri sono quindi utili per la compartimentazione del tratto GI ma anche per
evitare movimenti retrogradi del contenuto luminale. Dal punto di vista funzionale, possiamo individuare
tratti a funzione di deposito (stomaco, colon) e tratti a funzione di digestione e assorbimento (intestino tenue).
L’irrorazione del tratto GI è importante per il trasporto dei nutrienti assorbiti. Il sangue drenato dal tratto GI
raggiunge il fegato costituendo la circolazione portale. Riceve circa il 25% della gittata cardiaca; dopo un
pasto riceve una quantità ancora maggiore di sangue per l’assorbimento dei nutrienti. Anche il drenaggio
linfatico risulta fondamentale, in quanto è responsabile del trasporto di sostanze di natura liposolubile che,
attraverso i vasi linfatici, raggiungono la circolazione sistemica.

Specializzazioni cellulari
Descrivendo l’organizzazione istologica generale dell’apparato digerente, dall’interno all’esterno
distinguiamo:

1
In realtà la cosa non è del tutto chiara: alcuni si riferiscono con intestino crasso esclusivamente al colon (Berne & Levy),
ma con intestino crasso/grande intestino più correttamente ci si riferisce al cieco, al colon e al retto.

107
 uno strato interno detto mucosa, che comprende a sua volta l’epitelio, la lamina propria e la muscularis
mucosae;
 esternamente alla mucosa si trova la sottomucosa, dove potranno o meno trovarsi delle ghiandole;
 ancora esternamente, si ritrova la tonaca muscolare, composta da uno strato circolare interno e uno
longitudinale esterno (ad eccezione di alcune porzioni come lo stomaco);
 a seconda del tratto, si potrà trovare uno strato sieroso (peritoneo) o avventizio.
Tra muscularis mucosae e sottomucosa si ritrova il plesso sottomucoso o di Meissner, mentre tra i due strati
della tonaca muscolare il plesso mioenterico o di Auerbach; i due plessi appartengono al sistema nervoso
enterico, approfondito in seguito.
Mucosa
1. L’epitelio è generalmente costituito da un singolo strato continuo di cellule, che va a descrivere il
lume del tratto GI. Il tipo di epitelio presente varia a seconda della funzione del tratto considerato.
Sono presenti cellule diverse:
 enterociti: cellule con funzione assorbente;
 cellule enteroendocrine: caratterizzate dalla presenza di granuli secretori;
 cellule specializzate per produrre protoni (a livello della mucosa gastrica);
 cellule che producono mucina: hanno una funzione protettiva evitando il danneggiamento
dell’epitelio al passaggio del contenuto luminale.
Le cellule che costituiscono l’epitelio sono unite da giunzioni strette. La superficie dell’epitelio è
irregolare ed è possibile individuare due strutture: villi e cripte. I villi sono estroflessioni digitiformi
che permettono di aumentare la superficie disponibile per l’assorbimento. Le cripte sono
invaginazioni dell’epitelio, caratterizzate dalla presenza di una regione proliferativa che contiene
cellule staminali. Queste possiedono la capacità di migrare e differenziarsi permettendo il
rinnovamento dell’epitelio intestinale ogni circa tre giorni.
2. Al di sotto dell’epitelio troviamo la lamina propria, costituita da connettivo lasso ricco di collagene
ed elastina che può contenere ghiandole, vasi linfatici, sanguigni e terminazioni nervose.
3. Infine, troviamo la muscularis mucosae, che è lo strato più interno della muscolatura liscia intestinale.
Sottomucosa
Si trova esternamente rispetto alla mucosa. È composta da connettivo lasso ricco di elastina e fibre
collagene. Presenta vasi sanguigni e linfatici ed è caratterizzata dalla presenza di ghiandole. A questo livello
troviamo uno dei due plessi del sistema nervoso eneterico, il plesso sottomucoso o di Meissner.
Strati muscolari
Sono caratterizzati dalla presenza di muscolatura liscia disposta in due strati: circolare interno e
longitudinale esterno. Lo stomaco è caratterizzato da una struttura leggermente diversa in cui si osservano
tre strati: uno strato muscolare obliquo interno, uno strato circolare intermedio e uno strato longitudinale
esterno.
Tra i due strati (circolare e longitudinale) troviamo una seconda struttura nervosa: il plesso mioenterico o di
Auerbach.
La funzione degli strati muscolari è quella di permettere il rimescolamento e la propulsione del contenuto
luminale. I due plessi permetteranno la regolazione dei processi motori e secretori che si sviluppano lungo il
tratto GI.
Sierosa o avventizia
È costituita da cellule mesoteliali squamose. È un componente del mesentere che riveste la parete degli
organi addominali, permettendo la sospensione di questi2. Tramite la secrezione di liquido rende possibile lo
scivolamento degli organi.

Meccanismi regolatori

2
Così afferma sia la prof. che il Berne & Levy, ma ciò non è del tutto corretto. Non a tutti i livelli infatti si ritrova il
mesentere (che è peritoneo): ad esempio a livello esofageo non è affatto presente il peritoneo, bensì una tonaca avventizia
di tessuto fibroso.

108
Il tratto GI assolve a diverse funzioni, che vengono regolate tramite tre meccanismi: neurocrini, endocrini
e paracrini. Il tratto Gi va incontro a periodi di relativa quiescenza, detti periodi interprandiali, intervallati
da periodi di intensa attività detti postprandiali. Il tratto GI deve essere in grado di:
 rilevare la presenza di cibo a livello di una porzione e rispondere alla presenza di questo in maniera
controllata e appropriata;
 rilevare la composizione chimica dell’alimento, per comunicare con gli organi ghiandolari associati;
 mantenere sempre un’intensa comunicazione fra parti prossimali e distali del tratto GI in modo che
le parti più distali possano prepararsi all’arrivo del cibo.
Analizziamo i tre meccanismi:
 Meccanismo endocrino: comprende cellule enteroendocrine che sono in grado di rilasciare una serie
di ormoni (peptidi regolatori) in risposta a specifici stimoli. Questi ormoni una volta in circolo
raggiungono cellule bersaglio che devono possedere recettori specifici per l’ormone, dando il via ad
una serie di risposte specifiche. I bersagli possono essere anche molto distanti dalla sede di rilascio del
mediatore chimico. Possiamo distinguere due tipi di cellule endocrine: di tipo aperto, la cui membrana
apicale è in comunicazione con il lume del tratto GI ed è deputata alla rilevazione degli stimoli e la
cui membrana basale è invece deputata alla secrezione; di tipo chiuso, che non presentano una
membrana apicale in contatto diretto con il lume del tratto GI (un esempio sono le cellule
enterocromaffino-simili dello stomaco, deputate alla secrezione di istamina).
 Meccanismo paracrino: è un meccanismo simile a quello endocrino ma il mediatore paracrino agisce
su cellule vicine alla cellula che l’ha prodotto; non è necessario il passaggio nel circolo ematico.
Mediatori paracrini sono ad esempio NO, prostaglandine, istamina e serotonina. Molte sostanze
possono agire sia per via paracrina che endocrina.
 Meccanismo neurocrino: regolazione di tipo nervoso, particolarmente complessa a livello del tratto
GI. A questo livello, infatti, sono presenti due sistemi di fibre nervose differenti: un sistema nervoso
estrinseco e uno intrinseco o enterico. Il sistema nervoso estrinseco è caratterizzato dalla presenza di
corpi neuronali al di fuori della parete del tratto GI,
appartiene al SNA e comprende sia la componente
simpatica (fig. B) che parasimpatica (fig. A). Il sistema
nervoso enterico, invece, è formato da neuroni i cui corpi
cellulari si trovano nella parete del tratto GI, a livello dei
due plessi precedentemente citati. La complessità della
regolazione è data dal fatto che alcune funzioni del tratto
GI dipendono in maniera preponderante dal sistema
nervoso estrinseco, mentre altre possono essere svolte in
maniera totalmente indipendente da questo, in quanto
mediate completamente dal sistema nervoso enterico. Si
ha una forte interazione fra questi due sistemi: il sistema
nervoso estrinseco va a regolare la funzionalità del tratto
GI, agendo su neuroni del sistema nervoso enterico (dei
due plessi). Alcuni stimoli derivanti dal cibo presente nel
tratto GI possono attivare vie sensitive afferenti, che
raggiungono il sistema nervoso enterico o attivano il
sistema nervoso estrinseco.
- Innervazione estrinseca
Comprende sia l’innervazione simpatica che
parasimpatica. L’innervazione parasimpatica
è data principalmente da fibre del vago che
innervano esofago, stomaco, pancreas, colecisti,
ecc. fino alla parte prossimale del colon. La
parte distale del colon e la regione anorettale
viene innervata da fibre dei nervi pelvici. Le
fibre pre-gangliari parasimpatiche originano a
livello del tronco encefalico per il vago e a
livello del midollo spinale sacrale per i nervi
pelvici, mentre le fibre post-gangliari originano

109
a livello della parete stessa del tratto GI. La componente simpatica comprende, invece,
neuroni pre-gangliari il cui corpo cellulare è posto a livello della regione toracica del midollo
spinale e i cui assoni si portano ai gangli prevertebrali (celiaco, mesenterico superiore e
mesenterico inferiore). Dai gangli originano neuroni post-gangliari che raggiungono gli organi
bersaglio.
L’innervazione estrinseca del tratto GI comprende vie riflesse che sono regolate da
interneuroni e generalmente mediati dal nervo vago: si parla di riflessi vago-vagali perché il
nervo vago fornisce sia la fibra afferente che efferente. Questi riflessi sono molto importanti
per regolare la funzionalità del tratto GI in seguito all’assunzione di cibo. Un esempio è il
riflesso di rilasciamento recettivo dello stomaco, che permette il rilasciamento della
muscolatura gastrica in seguito all’ingestione di cibo.
Tendenzialmente le componenti simpatiche e parasimpatiche hanno azioni antagoniste: il
parasimpatico attiva i processi fisiologici che avvengono a livello della parete del tratto GI,
il sistema simpatico tende ad avere una funzione inibitoria sul tratto GI e sul muscolo liscio
(tranne che sulla muscolatura liscia degli sfinteri, della quale favorisce la contrazione,
garantendo la compartimentazione). Ovviamente a queste funzioni antagoniste sono presenti
delle eccezioni.
- Innervazione intrinseca o enterica
È costituita da due plessi nervosi, posizionati all’interno della parete del tratto GI, formati da
corpi cellulari dei neuroni e dalle loro fibre. I due plessi sono: plesso sottomucoso o di
Meissner nella sottomucosa e plesso mienterico o di Auerbach nella tonaca muscolare.
L’innervazione intrinseca è caratterizzata da neuroni afferenti, efferenti o interneuroni che
possono anche formare circuiti riflessi costituiti interamente da neuroni del sistema nervoso
enterico. Il sistema nervoso enterico può agire autonomamente rispetto all’innervazione
estrinseca e per questo è definito “piccolo cervello del tratto GI”; tuttavia, può essere
influenzato dal sistema estrinseco che modula i circuiti dei riflessi intrinseci. I plessi del
sistema nervoso enterico ricevono fibre post-gangliari simpatiche e fibre gangliari
parasimpatiche che inviano fibre agli strati della muscolatura circolare o longitudinale e alle
cellule endocrine o esocrine della mucosa. Molti degli ormoni del tratto GI possono agire
come neurotrasmettitori nel sistema enterico e possono essere definiti peptidi cerebro-
viscerali, in quanto hanno funzione di connessione tra sistema nervoso estrinseco ed
intrinseco, costituendo il cosiddetto asse cerebro-viscerale.
Finestra clinica. Morbo di Hirschsprung
Una patologia a carico del sistema nervoso enterico è data dal morbo di Hirschsprung, o megacolon
congenito agangliare, in cui il sistema nervoso enterico è deficitario: mancano neuroni del plesso
mienterico e sottomucoso soprattutto nella parte distale del colon e del retto. Il soggetto manifesta difficoltà
ad espellere il meconio (prodotto delle secrezioni intestinali unitamente a cellule epiteliali intestinali
desquamatesi e dal liquido amniotico durante il periodo pre-natale) al momento della nascita e in generale
presenta una costipazione cronica durante l’infanzia. È una malattia poligenica con deficit dei geni implicati
nello sviluppo e differenziazione dei neuroni che costituiscono il sistema nervoso enterico.

Uno schema di sintesi del controllo neurale gerarchico della funzione GI:

Risposta del tratto GI al pasto


La risposta del tratto GI all’assunzione di cibo comprende più fasi. In generale il cibo funge da stimolo di
natura chimica, meccanica e osmotica e va ad attivare diverse vie con riflessi nervosi, umorali e paracrini che

110
possono modificare le funzioni degli organi effettori, in particolare le funzioni secretorie e di motilità del tratto
GI.

4.2. Fase cefalica, orale, esofagea e gastrica


dei processi motori, secretori e di assorbimento
4.2.1. Fasi cefalica, orale ed esofagea
Fase cefalica
La fase cefalica considera le modificazioni delle condizioni fisiologiche del tratto GI che si verificano prima
che il cibo venga ingerito. Comprende le fasi preparatorie all’assunzione che si svolgono prima che il cibo
venga a contatto con la cavità orale. Quando il cibo si trova in bocca si ha invece la fase orale, seguita dalla
fase faringea (molto breve) ed esofagea per fare transitare il cibo dalla bocca allo stomaco.
La fase cefalica e, in parte, la fase orale sono preparatorie del tratto GI, che viene attivato e preparato ai
processi di digestione e assorbimento. Vari stimoli possono determinare la fase cefalica: stimoli cognitivi,
olfattivi, visivi, uditivi. L’attesa e il pensiero, il profumo, la vista del cibo possono attivare una serie di eventi
preparatori; anche gli stimoli uditivi possono attivare la fase preparatoria, con l’esempio tipico del
condizionamento classico spiegato attraverso l’esperimento di Pavlov. Nell’esperimento si legava lo stimolo
acustico alla presentazione del cibo e, a seguito del condizionamento, il solo stimolo acustico provocava
salivazione nel cane. Allo stesso modo, nella vita quotidiana, la sola frase “il pranzo è pronto!” può stimolare
processi della fase cefalica.
Durante la fase cefalica si ha un aumento dell’attività nervosa del parasimpatico che raggiunge il tratto GI.
In questa fase possono essere implicati anche centri nervosi superiori, come il sistema limbico, l’ipotalamo, la
corteccia. La risposta può essere sia positiva che negativa: ad esempio, in un momento di ansia o difficoltà può
alterarsi la risposta cognitiva al cibo, in quanto sono attivati anche i centri superiori. La via finale comune porta
all’attivazione del nucleo motore dorsale del vago a livello del tronco encefalico, in cui si trovano i neuroni
pre-gangliari vagali; questo determina aumento dell’attività delle fibre efferenti parasimpatiche che, attraverso
le fibre del nervo vago, si portano al tratto GI. Con l’aumento di attività parasimpatica si ha:
- aumento di secrezione salivare;3
- aumento di secrezione acida dello stomaco;
- aumento di secrezione di enzimi pancreatici;
- aumento della contrazione della colecisti;
- rilasciamento dello sfintere di Oddi, per permettere ingresso di enzimi pancreatici e bile a livello
duodenale.
Fase orale
La differenza tra fase orale e fase cefalica è data dal contatto del cibo con la superficie del tratto GI, appunto
in cavità orale. Dalla cavità orale originano stimoli meccanici e chimici, come il gusto. La via efferente è la
stessa della fase cefalica: per stimolazione del parasimpatico si ha aumento di secrezioni salivari, gastriche e
pancreatiche e il rilasciamento dello sfintere di Oddi.
Nella cavità orale si verificano due importanti eventi: la secrezione salivare e la masticazione. Qui inizia
infatti la frammentazione e la digestione del cibo.
La capacità di alzare e abbassare la mandibola è associata a movimenti laterali, antero-posteriori e ad attività
coordinate delle labbra, delle guance e della lingua. Questo insieme di movimenti è volto ad ottimizzare la
triturazione e l’impasto del materiale alimentare con la saliva; a seguito di questo processo, il cibo è trasformato
in bolo. L’assorbimento a livello della cavita orale è minimo, consiste in assorbimento di piccole quantità di
farmaci e alcol.
Proprietà delle secrezioni
Le secrezioni possono provenire da:
 ghiandole associate al tratto GI: ghiandole salivari, pancreas e fegato;

3
Tra tutte le funzioni elencate, la secrezione salivare è l’unica a non esser mediata dal vago, ma da fibre del nervi VII
(sottomandibolare e sottolinguale) e IX (parotide), a partenza rispettivamente dal nucleo salivatorio superiore e dal nucleo
salivatorio inferiore.

111
 ghiandole presenti nello spessore della parete del tratto GI: ghiandole sottomucose o mucose.
In base al tratto in cui ci si trova la composizione chimica del secreto cambia, in quanto dovrà assolvere
funzioni specifiche. Un ambiente acquoso è fondamentale per rendere gli enzimi efficienti; ogni secrezione
contiene elettroliti fondamentali per il gradiente osmotico, proteine, agenti umorali, enzimi che scindono
macromolecole. I componenti delle secrezioni possono essere suddivisi in organici (enzimi, mucina, fattori di
accrescimento, immunoglobuline, fattori assorbenti) e inorganici (elettroliti).
Secrezione salivare: anatomia funzionale delle ghiandole salivari, composizione della saliva,
regolazione della secrezione salivare, meccanismi ionici della secrezione salivare
La secrezione salivare si ha a partire dalla fase cefalica e procede nella fase orale, prepara il cibo alla
deglutizione, favorisce la percezione del gusto, permette l’inizio della digestione dei carboidrati,
neutralizza secrezioni gastriche che possono essere eventualmente rigurgitate nell’esofago e nella cavità
orale, ha proprietà antibatteriche.

Anatomia funzionale
Le principali ghiandole salivari sono tre: parotide, sottomandibolare e sottolinguale. Sono presenti anche
ghiandole salivari più piccole nella lingua, nelle labbra e nel palato. La parotide ha una secrezione di tipo
sieroso; la sottolinguale ha una secrezione mucosa; la sottomandibolare possiede una secrezione mista.
La ghiandola salivare presenta una struttura di tipo tubulo-alveolare. È costituita da acini con nuclei in
posizione basale, con abbondante reticolo endoplasmatico rugoso e granuli secretori in posizione apicale,
destinati alla secrezione. Dagli acini originano i dotti, attraverso i quali le secrezioni acinose arrivano in cavità
orale. Nel passaggio attraverso i dotti la composizione del secreto viene modificata. I dotti dall’acino verso
l’esterno si differenziano in dotti intercalari, striati ed escretori.
Un acino associato al dotto costituisce l’unità funzionale detta salivone. Il secreto primario prodotto
dall’acino è orientativamente isotonico rispetto al plasma (ha livelli di sodio, potassio, cloro e bicarbonato
simili al plasma). L’epitelio acinoso è permeabile a sodio e acqua, il cui passaggio avviene per via
transcellulare, attraverso la mediazione di acquaporine. Il secreto primario viene modificato durante il decorso
attraverso il dotto, originando il secreto secondario. In particolare, durante il passaggio attraverso il dotto si
ha riassorbimento di sodio e cloro e secrezione di potassio e bicarbonato. La modificazione del secreto
primario, attraverso processi di riassorbimento e secrezione, è legata alla velocità di flusso lungo il dotto: se il
tempo di transito è maggiore, la modificazione sarà più profonda. Il secreto secondario è ipotonico rispetto
al plasma: sarà quindi un composto alcalino, con l’obiettivo di ridurre la possibilità di sviluppo di batteri in
cavità orale e neutralizzare il reflusso acido proveniente dallo stomaco. Se la secrezione primaria aumenta
fortemente di volume, la modificazione lungo il dotto è ridotta, in quanto si riduce il tempo di transito e il
secreto secondario avrà composizione più simile al secreto primario (e quindi al plasma). Queste
considerazioni sono osservabili nel seguente grafico: all’aumentare del flusso di saliva, le concentrazioni
ioniche di cloro, bicarbonato e sodio aumentano progressivamente, avvicinandosi a quelle tipiche plasmatiche
(rappresentate dalle colonne a destra del grafico), poiché il tempo di transito attraverso i dotti si riduce 4. Si

4
Che sodio e cloro aumentino è prevedibile, in quanto non c’è tempo per riassorbirli correttamente, ma non ci aspettiamo
che avvenga lo stesso con il bicarbonato, che anzi dovrebbe diminuire all’aumentare del flusso, visto che solitamente nei
dotti esso viene secreto: la spiegazione di ciò? Non so. In ogni caso la cosa è confermata non solo dal grafico tratto dal
Berne & Levy ma anche da altri testi (ad es. dal Boron: “negli esseri umani, un aumento del flusso salivare alcalinizza la
saliva e ne aumenta la [HCO3-]”).

112
badi che anche a flussi salivari elevati il potassio e il bicarbonato rimangono comunque più concentrati che nel
plasma (il bicarbonato è meno concentrato solo a valori estremamente bassi di flusso) e il sodio e il cloro
sempre nettamente meno concentrati che nel plasma; la saliva umana, pur potendo variare entro certi range, è
comunque nel complesso ipotonica.

Composizione della saliva


La massima produzione di saliva negli esseri umani è circa 1 mL/min per grammo di tessuto ghiandolare. Le
ghiandole salivari hanno un alto tasso metabolico e un alto flusso sanguigno (in rapporto allo loro massa);
entrambi sono proporzionali al flusso di saliva formata.
La saliva si caratterizza per:
 ridotta osmolarità;
 pH alcalino (solitamente il pH della saliva si aggira tra 6 e 6,4; quando la secrezione salivare è
stimolata il pH aumenta fino ad 8, per le ridotte modificazioni);
 elevata concentrazione di potassio;
 presenza di composti organici, quali enzimi (amilasi, lipasi, lisozima), mucine, immunoglobuline A,
fattori di accrescimento. Analizziamo la funzione di alcuni di questi composti:
- amilasi salivare: inizia la digestione dell’amido, non è una funzione fondamentale perché
l’amilasi pancreatica può autonomamente svolgere questa funzione;
- lipasi linguale: inizia la digestione dei lipidi, anche questa non è una funzione cruciale;
- glicoproteine: costituiscono muco;
- lisozima e IgA: impediscono la proliferazione batterica in cavità orale.
La componente inorganica dipende dagli stimoli e dalla velocità del flusso salivare.
Regolazione della secrezione salivare
La regolazione della secrezione salivare è esclusivamente di tipo nervoso. Sia la stimolazione ortosimpatica
che quella parasimpatica portano a stimolazione della secrezione salivare, ma il controllo fisiologico primario
delle ghiandole salivari nella risposta al pasto è mediata dal parasimpatico.
Le fibre simpatiche post-gangliari che raggiungono le ghiandole salivari originano dal ganglio cervicale
superiore.
Le fibre parasimpatiche pre-gangliari corrono nei rami dei nervi faciale e glossofaringeo e fanno sinapsi con
i neuroni post-gangliari posti nelle vicinanze o all’interno delle ghiandole salivari. Le terminazioni
parasimpatiche raggiungono sia l’acino che il dotto.
La stimolazione parasimpatica determina:
 aumento della sintesi e della secrezione dei componenti della saliva;
 aumento della velocità dei meccanismi di trasporto lungo i dotti;
 aumento del flusso sanguigno alle ghiandole;
 aumento del metabolismo e del trofismo in generale della ghiandola salivare.
Meccanismi ionici alla base della secrezione salivare

113
Nella struttura della cellula acinosa di una ghiandola sierosa (immagine a sinistra) è presente una membrana
baso-laterale a livello della quale si trova la pompa Na+/K+ ATPasi; in questa zona si ha anche l’azione del
simporto Na+-K+-2Cl-, che può agire grazie al gradiente di Na+ creato dalla pompa Na+/K+. Queste sostanze
poi a livello della membrana apicale fuoriescono attraverso canali anionici, che permettono il passaggio di
cloro e bicarbonato nel lume. La secrezione degli anioni permette la fuoriuscita del sodio e di acqua, che
arrivano nel lume attraverso giunzioni serrate relativamente permeabili. Questo meccanismo è alla base della
formazione del secreto primario.
La modificazione del secreto primario lungo il dotto avviene grazie alla presenza di trasportatori specifici
sulle cellule duttali (immagine a destra). La membrana baso-laterale delle cellule dei dotti presenta sempre la
pompa sodio-potassio, che crea il gradiente per il trasporto degli altri ioni. A livello della membrana apicale si
trovano poi antiporti che funzionano in parallelo: antiporto Na+/H+, antiporto Cl-/HCO3-, antiporto H+/K+. Il
risultato netto sarà il riassorbimento di sodio e cloro e la secrezione di potassio e bicarbonato al livello del
lume, con formazione del secreto secondario.
Finestra clinica. Xerostomia
La sensazione di bocca secca (o xerostomia nei casi più gravi) consiste nella riduzione della secrezione
salivare dovuta a cause congenite o a un processo autoimmune. In caso di diminuita secrezione salivare si
ha abbassamento di pH in cavità orale che può portare alterazione della struttura ed erosione dei denti e
danni della parete esofagea che determinano difficoltà nel processo di deglutizione.

Fasi faringea ed esofagea


In questa fase, di breve durata, avviene il transito del bolo lungo faringe ed esofago, per farlo giungere allo
stomaco.
Il passaggio da cavità orale a faringe ed esofago avviene tramite il processo della deglutizione. Questo
processo inizia volontariamente, procede poi sotto controllo del riflesso della deglutizione, che comprende
una serie di eventi ordinati che portano alla progressione del bolo dalla bocca verso lo stomaco. Durante il
processo di deglutizione, si inibisce la respirazione in modo da impedire il passaggio del bolo in trachea. La
via afferente del riflesso di deglutizione inizia a livello di recettori tattili posti nella faringe; gli impulsi sono
trasmessi a un’area compresa tra bulbo e parte inferiore del ponte chiamata centro della deglutizione. Dal
centro della deglutizione partono impulsi motori che, attraverso i nervi cranici, arrivano alla muscolatura della
faringe e della parte superiore dell’esofago.

114
La fase volontaria della deglutizione inizia con il distacco
di una parte del bolo ad opera della punta della lingua; la
lingua è spinta verso il palato duro e il bolo si sposta verso
l’alto ed indietro. Il bolo si porta così a livello della faringe
dove stimola recettori tattili che inducono il riflesso della
deglutizione. Questo determina l’inizio della fase faringea,
una fase che dura meno di un secondo. Il palato molle è
spinto verso l’alto, le pieghe della faringe si spostano verso
l’interno, in modo da evitare il reflusso di cibo, e si crea un
passaggio per il bolo. Le corde vocali sono stirate, la laringe
si alza ed è spinta in avanti contro l’epiglottide, per evitare
l’ingresso di bolo in trachea, e contestualmente è facilitata
l’apertura dello sfintere esofageo superiore. Il bolo è spinto
dalla costrizione dei muscoli superiori della faringe, si crea
un’onda peristaltica che fa defluire il bolo attraverso lo
sfintere esofageo superiore (SES). La presenza di sfinteri è fondamentale per mantenere la
compartimentazione degli ambienti. L’esofago è caratterizzato dalla presenza di due strati muscolari: circolare
e longitudinale. A livello dello sfintere esofageo superiore è presente muscolatura striata, mentre lo sfintere
esofageo inferiore è costituito da un ispessimento di muscolatura liscia.

Anatomicamente l’esofago è un lungo tubo caratterizzato dalla presenza di due sfinteri che lo mettono in
relazione con la faringe e lo stomaco, rispettivamente lo sfintere esogafeo superiore (SES, costituito da
muscolatura striata) e lo sfintere esofageo inferiore (SEI, costituito da muscolatura liscia).
L’esofago svolge essenzialmente due funzioni:
 permette il movimento del bolo dalla bocca verso lo stomaco (funzione propulsiva);
 ha una funzione protettiva: protegge le vie aeree superiori durante la deglutizione (grazie allo sfintere
superiore) ed evita che le secrezioni acide provenienti dallo stomaco possano risalire e danneggiare
l’esofago (grazie allo sfintere inferiore).
Gli stimoli che danno il via a questa fase sia propulsiva che protettiva, sono di natura meccanica e riguardano
la stimolazione faringea nelle prime fasi (vista precedentemente), mentre successivamente la distensione della
parete esofagea. Le vie nervose, intrinseche ed estrinseche (vago) coinvolte, attivano vie riflesse che danno il
via alle modificazioni funzionali che riguardano la peristalsi, dunque il movimento.
La peristalsi è un movimento che permette il passaggio del contenuto luminale e il suo spostamento in
direzione aborale (lontano dalla bocca). Sono molto importanti anche il rilasciamento dello sfintere esofageo
inferiore e il rilasciamento della porzione prossimale dello stomaco.
Durante la fase esofagea è necessario che gli sfinteri e l’esofago agiscano in maniera coordinata per
permettere la progressione del materiale al loro interno. Questo passaggio è assicurato dalle onde
peristaltiche, presenti in due tipi:

115
 Peristalsi primaria
Quando termina la fase faringea, col
meccanismo della deglutizione, il bolo
passa attraverso lo sfintere esofageo
superiore e la sua presenza nell’esofago,
attraverso la stimolazione dei
meccanorecettori e delle vie riflesse, avvia
un’onda peristaltica che viene denominata
peristalsi primaria e permette di far
progredire il bolo ulteriormente. L’onda è
lenta, circa 3-5 cm/s.
 Peristalsi secondaria
In seguito all’entrata del bolo, della
generazione della peristalsi primaria e
dello stiramento dell’esofago, si viene a
generare una nuova onda, innescata da
meccanocettori, denominata peristalsi secondaria.
Per permettere il passaggio del bolo da faringe a stomaco servono una serie di peristalsi secondarie successive
in modo tale da svuotare completamente l’esofago. Contemporaneamente lo sfintere esofageo inferiore e lo
stomaco devono essere pronti ad accogliere il cibo, e si devono rilasciare contestualmente: questo processo,
denominato rilasciamento recettivo è fondamentale per raccogliere ampi volumi di materiale con un minimo
aumento della pressione gastrica.
La pressione varia in base ai diversi tratti nel tempo. Prima della deglutizione gli sfinteri sono in contrazione
tonica, in seguito alla deglutizione si ha una stimolazione della faringe, una diminuzione della pressione, un
rilasciamento dello SES, la generazione di un’onda peristaltica (che permette la progressione del bolo) e il
rilasciamento dello SEI, il quale permette il passaggio del bolo dall’esofago allo stomaco.
Nell’immagine in basso si possono notare i valori di pressione intramurale nelle diverse porzioni, prima e
dopo la deglutizione. Si può notare come contestualmente avvenga il rilasciamento dello sfintere esofageo
inferiore e della parte prossimale dello stomaco per accogliere il bolo (evitando al contempo di far aumentare
la pressione intragastrica), e successivamente una contrazione dello SEI per evitare il reflusso dei prodotti
gastrici dallo stomaco verso l’esofago.

Riporto qui di seguito per gli interessati un interessante approfondimento sulla deglutizione, tratto da
Anatomia del Gray, 41ª ed., sintetizzato da Marcin Dudziak e da lui fornitomi.
“Tradizionalmente descritto come riflesso, il processo è in realtà è uno schema motorio programmato che ha inizio
quando sostanze alimentari o liquidi stimolano recettori sensitivi dell’orofaringe. A scopo descrittivo si può
suddividere in quattro fasi:
1. Fase preparatoria orale: il palato molle viene abbassato completamente e, simultaneamente, la porzione
posteriore della lingua viene innalzata. In questo modo si determina una chiusura efficace della cavità

116
orale che impedisce la fuoriuscita prematura del bolo nell’orofaringe prima che le vie aeree siano
completamente protette
2. Fase di transito/trasferimento orale: l’esito di questa fase è che il bolo viene trasportato dalla cavità
orale all’orofaringe attraverso l’istmo delle fauci (queste prime due fasi sono meglio distinguibili per
quanto riguarda i liquidi, mentre nella deglutizione del cibo solido si parla un’unica fase orale). Poiché
la porzione anteriore della lingua si innalza contro il palato duro e le labbra e le guance sono rigide, il
liquido viene a trovarsi al centro della cavità orale, in un solco mediano (poco profondo) che si determina
sulla faccia dorsale della lingua stessa. Successivamente tutta la lingua si appiattisce contro il palato duro,
spingendo il liquido indietro, contemporaneamente la chiusura posteriore della cavità orale si rilascia e
la porzione posteriore della lingua si sposta in avanti: l’effetto complessivo è il passaggio del liquido
nell’orofaringe.
3. Fasi orali nella deglutizione del cibo solido: il principale processo a questo livello è senz’altro la
masticazione, che ha l’obiettivo di far raggiungere al cibo una consistenza adatta alla deglutizione, e
consiste in movimenti coordinati della mandibola e della lingua. La formazione del bolo coinvolge diversi
cicli di trasporto del cibo dalla porzione anteriore a quella posteriore della lingua, finché vi si viene a
creare un accumulo (in particolare sulla superficie orofaringea). È importante notare che nella
deglutizione del cibo solido le fasi preparatoria, orale e in parte faringea si sovrappongono: via via che
sono preparati nella cavità orale, i frammenti di cibo sono spostati posteriormente e la fine di questa fase
è segnata dall’azione propulsiva della lingua che spinge parte del bolo nell’orofaringe.
4. Fase faringea: è innescata dal passaggio del bolo nell’orofaringe. Si tratta di una fase totalmente
involontaria ed è la più critica poiché implica la temporanea trasformazione della faringe da via aerea a
canale alimentare. La rinofaringe è isolata dall’orofaringe dalla contrazione del muscolo costrittore
superiore e dal simultaneo innalzamento del palato molle (chiusura velofaringea, se inefficace può
risultare in un rigurgito nasale del cibo). Le vie aeree inferiori, invece, vengono isolate a livello dell’aditus
laringeo dalla chiusura della glottide (azione dei muscoli ariepiglottici) e dalla retloflessione
dell’epiglottide sull’aditus stesso (conseguenza della pressione passiva della base della lingua). Un
ulteriore meccanismo che previene l’aspirazione di materiale è uno spostamento coordinato della laringe
in alto e in avanti, allontanando l’aditus dal percorso del bolo. Questa manovra, inoltre, aiuta ad espandere
lo spazio ipofaringeo e a rilassare lo sfintere esofageo superiore (SES). Durante la deglutizione, la
respirazione viene sospesa brevemente e viene ripresa con l’espirazione per evitare l’inalazione di residui
di cibo eventualmente rimasti nella faringe.
Al termine di questa fase, il bolo è spinto verso lo sfintere esofageo superiore. A riposo, questo sfintere
è chiuso per la contrazione tonica del muscolo cricofaringeo, che si rilascia prima dell’arrivo del bolo; lo
sfintere viene quindi aperto dall’azione combinata dei muscoli sopraioidei (spostamento antero-superiore
della laringe) e dalla pressione passiva del bolo in arrivo. L’azione dello SES si differenzia dall’azione
degli altri sfinteri, la cui apertura, generalmente passiva, è la conseguenza di pressioni generate dal
movimento verso di essi di fluidi o solidi.
5. Fase esofagea: lo spostamento del bolo è determinato da un movimento peristaltico -rilassamento
muscolare davanti al bolo e il successivo restringimento dietro di esso - e avviene in direzione dello
sfintere esofageo inferiore, che si apre temporaneamente per permettere il passaggio nello stomaco.
Movimento del bolo: le forze in gioco
 Forza motrice della lingua: è di fatto una pressione positiva generata dal movimento verso l’alto della lingua
che spinge il bolo verso la faringe.
 Pompa di suzione ipofaringea: è provocata dall’innalzamento e dal movimento in avanti della laringe e
dell’osso joide, che di fatto crea una pressione negativa nella laringofaringe, richiamando il bolo verso
l’esofago, coadiuvata da un’ulteriore pressione negativa interna all’esofago (si ricordi infatti che normalmente
si tratta di un canale non beante).
 Contrazione sequenziale dei tre muscoli costrittori: genera un’onda pressoria positiva dietro il bolo,
facilitando l’eliminazione di ogni residuo dalle pareti della faringe.”

4.2.2. Fase gastrica


Il bolo arrivato a livello dello stomaco inizia la fase successiva, quella gastrica.
Anatomia funzionale dello stomaco

117
Le funzioni principali dello stomaco sono:
 funge da serbatoio temporaneo del cibo (funzione favorita anche dalla struttura anatomica);
 produzione di secreti che iniziano la digestione, principalmente delle proteine.
Quando il cibo passa dall’esofago allo stomaco vi è una stimolazione meccanica della parete gastrica (che
va a distendersi) e, a seconda dei nutrienti, una stimolazione chimica per avviare una serie di risposte. La
regolazione delle funzioni dello stomaco dipende da meccanismi endocrini, paracrini e nervosi. Le risposte
sono legate alla funzione secretoria propria dello stomaco e a funzioni motorie che vanno ad amalgamare il
bolo con gli enzimi per favorirne il passaggio verso il duodeno.
Anatomicamente lo stomaco è diviso in:
 regione cardiale;
 regione del corpo e fondo;
 regione antro-pilorica.
Tuttavia, per necessità fisiologiche, torna più utile dividere lo stomaco dal punto di vista funzionale, sulla
base di quelle che sono le sue capacità motorie. Lo stomaco funzionalmente è diviso in:
 una parte prossimale, con funzione di serbatoio;
 una parte distale, con funzione di rimescolamento (importante anche per controllare e modulare il
passaggio del contenuto gastrico verso il duodeno attraverso il piloro).
Vi sono nette divisioni motorie e secretorie a seconda della regione che si va a considerare.
La superficie dello stomaco, la mucosa gastrica, è rivestita da un epitelio colonnare che si ripiega formando
delle fossette gastriche. Ciascuna fossetta forma l’apertura di un dotto, all’interno del quale si distribuiscono,
e si svuotano, le varie ghiandole gastriche.

La mucosa gastrica può essere suddivisa in tre diverse regioni in base a come sono strutturate le ghiandole
all’interno delle fossette:

118
 ghiandolare cardiale: regione del cardias, inferiormente allo SEI, con ghiandole muco-secernenti;
 ghiandolare ossintica o parietale: localizzata al di sopra dell’incisura gastrica (parte prossimale dello
stomaco, ossia fondo e corpo), con ghiandole acido-secernenti;
 ghiandolare pilorica: parte distale dello stomaco, con ghiandole muco-secernenti.
In base alle divisioni vi sono cellule diverse.
Nell’immagine a lato si può notare una fossetta gastrica nella
regione ossintica. Superficialmente sono presenti cellule
epiteliali superficiali, che si continuano nell’orifizio del dotto
(istmo), rivestito da cellule di tipo mucoso superficiali e da poche
cellule parietali, che caratterizzano la regione. Passando per il
collo, e andando in profondità si trovano:
 le cellule parietali (ossintiche) che producono e
rilasciano HCl e fattore intrinseco;
 le cellule principali (peptiche) che producono
pepsinogeno;
 le cellule enterocromaffino-simili (ECS) che producono
istamina, che ha il compito di determinare una
stimolazione della secrezione acida a livello gastrico;
 le cellule D che producono somatostatina che va ad
inibire la secrezione acida.

Nella regione distale (pilorica) vi sono sempre le fossette gastriche, anche se qui si trovano cellule
principalmente a secrezione mucosa, pur essendo presenti gli altri elementi cellulari, e in più le cellule G, che
producono gastrina.
In tutte le fossette dello stomaco vi è la presenza di quasi tutti i tipi cellulari, ma la differenza di
concentrazione dei diversi tipi cellulari viene a determinare le diverse regioni ghiandolari.

Secrezioni gastriche: componenti inorganiche e organiche


Il succo gastrico è costituito da acqua e da componenti organici ed inorganici.
I componenti inorganici sono due:
 L’acido cloridrico (HCl) è prodotto dalle cellule parietali con lo scopo di ridurre il pH gastrico ai
valori di 1 o 2. Questo abbassamento del pH è essenziale per permettere la conversione del
pepsinogeno in pepsina; inoltre l’acidità dello stomaco previene l’invasione e l’eventuale
colonizzazione del tratto gastro-intestinale da parte di batteri. La velocità di produzione cambia se si
è in condizioni basali o di attività, ovvero in fase di digiuno o dopo pranzo.
 Il bicarbonato (HCO3-) è prodotto dalle cellule epiteliali di superficie, ha il compito di neutralizzare
il pH, in modo che sulla superficie della parete gastrica il pH non sia pari a 1 o 2 come nel lume, ma
più elevato. Svolge quindi una funzione protettiva, evitando che le cellule della mucosa gastrica
vengano danneggiate. Esso viene intrappolato in uno strato mucoso, andando a costituire la barriera
gastrica dello stomaco.
I componenti organici sono tre:

119
 La pepsina è un enzima proteolitico, viene prodotto in forma inattiva, come pepsinogeno, e viene
attivato grazie all’azione del pH acido. La massima azione proteolitica avviene ad un pH di 2 o 3. Le
cellule principali producono il pepsinogeno sotto forma di granuli di zimogeno che vengono poi
rilasciati e attivati. La pepsina ha il ruolo di iniziare la digestione del contenuto proteico della dieta
(circa il 20%).
 La lipasi gastrica inizia l’idrolisi degli acidi grassi (circa il 10%) ed è prodotta dalle cellule principali.
 Il fattore intrinseco, prodotto dalle cellule parietali, che è una glicoproteina indispensabile per
l’assorbimento della vitamina B12. Questa è l’unica funzione fondamentale dello stomaco, le altre
funzioni possono essere sostituite da altre regioni del tratto GI (sia la digestione degli acidi grassi sia
quella delle proteine compiute rispettivamente dalla lipasi e dalla pepsina possono essere facilmente
vicariate dalle lipasi e dalle proteasi pancreatiche, quindi le loro funzioni non sono prettamente
necessarie).
Ricapitolando. Lo stomaco ha diverse funzione, ma la sua funzione fondamentale è la produzione del
fattore intrinseco!

Secrezioni gastriche: meccanismi cellulari di secrezione


 Secrezione acida delle cellule parietali
Le cellule parietali sono responsabili della
secrezione di acido cloridrico (HCl) e del
fattore intrinseco. Hanno una struttura
caratteristica, che cambia a seconda dello
stato funzionale. In condizioni basali esse
presentano un canalicolo centrale che è in
continuità con il lume della ghiandola.
Quando manca la stimolazione, il
citoplasma della cellula presenta una serie
di tubulo-vescicole, che in seguito a
stimolo secretorio scompaiono dal
citoplasma e si fondono con la membrana
plasmatica al polo apicale diventando dei
microvilli del canalicolo. In tal modo
aumenta la superficie del canalicolo. Dato
che all’interno delle tubulo-vescicole si
ritrovano l’anidrasi carbonica e la pompa protonica (antiporto H+/K+), enzimi essenziali per
produrre l’acido, spostandosi nei microvilli a seguito dello stimolo secretorio, la loro attività può
aumentare. La durata del passaggio della cellula dallo stato funzionale basale a quello stimolato dura
circa 10 minuti. Alla cessazione dello stimolo, la cellula riassumerà la sua conformazione basale e le
tubulo-vescicole si riformeranno.
In caso di gastrite o ulcera, cioè nelle condizioni in cui è necessario ridurre la secrezione acida dello
stomaco, si possono utilizzare dei farmaci come l’omeprazolo, che abolisce la secrezione acida
gastrica bloccando la pompa idrogeno-potassio ATPasi, fondamentale per la produzione dell’acido
all’interno delle cellule parietali.
La cellula parietale è anche caratterizzata dalla presenza, a livello della membrana baso-laterale, di
uno scambiatore (scambiatore HCO3-/Cl-) che permette di portare all’interno della cellula il cloro e
di scambiarlo con il bicarbonato prodotto dall’anidrasi carbonica, che quindi fuoriesce dalla cellula. I
protoni prodotti dall’anidrasi riescono ad essere pompati nel lume della ghiandola contro gradiente
elettro-chimico grazie all’azione della pompa idrogeno-potassio ATPasi (antiporto H+/K+). Il
potassio accumulato per azione di questa pompa potrà poi uscire attraverso canali appositi a livello
della membrana baso-laterale. Il cloro entrato precedentemente può uscire a livello del lume tramite
un canale anionico posto a livello della membrana apicale. In questo modo, tramite una serie di
trasportatori specifici, si ha la secrezione di acido cloridrico (HCl) a livello del lume della ghiandola.
In sintesi, i protoni sono estrusi dalla membrana grazie ad una pompa ATPasica, che
contemporaneamente porta in antiporto il potassio all’interno della cellula. La concentrazione di
potassio normale è ristabilita grazie a canali sulla membrana baso-laterale. I protoni estrusi derivano
dall’attività dell’anidrasi carbonica, la quale produce anche HCO3-, che viene scambiato con il cloro

120
a livello della membrana baso-laterale. Il cloro può uscire poi grazie a canali presenti sulla membrana
apicale ed essere rilasciato nel lume ghiandolare.
 Secrezione delle cellule epiteliali e mucipare
Le cellule epiteliali di superficie producono un liquido acquoso in cui sono contenuti cloro e sodio in
una concentrazione simile a quella che si ritrova nel plasma e concentrazioni di potassio e
bicarbonato maggiori di quelle plasmatiche. Il bicarbonato rimane intrappolato nello strato mucoso
che riveste la superficie dello stomaco, svolgendo la funzione protettiva. La sua secrezione aumenta
in seguito alla ingestione di cibo.
Le cellule mucipare producono muco, che viene immagazzinato sotto forma di granuli nella porzione
apicale e poi liberato tramite esocitosi. Le mucine gastriche sono principalmente costituite da
carboidrati (l’80% del loro peso) e sono formate da quattro monomeri simili legati insieme da ponti
disolfuro.

Formano quindi tetrameri che costituiscono uno strato di gel viscoso che aderisce alla superficie dello
stomaco. Questo gel può essere danneggiato e sottoposto all’azione proteolitica della pepsina, che può
scindere i ponti disolfuro. Perciò è necessaria un’azione continua da parte delle cellule mucipare che
sostituiscono le mucine scomposte ormai non funzionali. La velocità di secrezione di questo muco a
riposo è elevata e gli stimoli che determinano un aumento di secrezione di pepsinogeno e acido
aumentano anche quella del muco. Grazie al muco lo strato più prossimo alle cellule avrà un pH di
circa 7, mentre nel lume gastrico arriva addirittura a 1 o 2.

Secrezioni gastriche: regolazione


Quando si è in condizioni basali (quindi in assenza di stimoli) lo stomaco produce il succo gastrico a una
velocità che corrisponde al 10-15% di quella che si può ottenere a seguito della stimolazione massimale.
La secrezione acida basale ha un ritmo circadiano, un picco nelle ore serali e un minimo nelle prime ore del
mattino. Non è ancora stata chiarita la motivazione di questo ritmo, visto che a livello plasmatico la
circolazione di gastrine (che è uno degli elementi principali che vanno a stimolare le cellule parietali in grado
di produrre l’acido cloridrico) rimane relativamente costante durante i periodi tra un pasto e l’altro.
Il più importante stimolatore della secrezione gastrica è il parasimpatico, attraverso il nervo vago.
Per stimolare la cellula parietale ci sono tre vie:
 tramite neuroni enterici parasimpatici5; questi neuroni enterici rilasciano acetilcolina che si lega a
recettori muscarinici M3 presenti sulla cellula parietale che viene stimolata al rilascio di acido
cloridrico;
 tramite l’attivazione di cellule enterocromaffino-simili (da parte dell’acetilcolina dei neuroni
enterici o della gastrina), che rilasceranno istamina (H), la quale agirà per via paracrina, stimolando
la cellula parietale;

5
Nella sbob si parlava di “neuroni enterici pre-gangliari parasimpatici del vago”, ma è un’affermazione che non ha senso;
è corretto dire che i neuroni pre-gangliari vagali vanno a fare sinapsi su neuroni colinergici del SNE, i quali a loro volta
innervano le cellule che stiamo esaminando (fungendo quindi da neuroni post-gangliari). Il Berne & Levy e il Boron
concordano su questo punto.

121
 tramite le cellule G: queste si trovano nella mucosa antrale e vengono attivate dal peptide di rilascio
della gastrina (PRG) che viene rilasciato grazie alla presenza dei neuroni enterici. A questo punto la
cellula G rilascia la gastrina in circolo che, per via endocrina, potrà andare ad agire sia sulle cellule
enterocromaffino-simili, stimolandole al rilascio di istamina, sia sulle cellule parietali, che hanno un
recettore CCK2 in grado di legare la gastrina. L’azione della gastrina ha anche un effetto trofico, in
quanto fa aumentare per dimensioni e numero le cellule enterocromaffino-simili.

Lo stimolo più potente è quello istaminergico, tuttavia tutti questi stimoli si potenziano reciprocamente.

Durante la fase gastrica, la secrezione gastrica risponde a stimoli che si possono manifestare già durante la
fase cefalica e durante la fase orale.
Durante la fase cefalica e orale si possono avere dei meccanismi in grado di favorire la secrezione acida
dello stomaco: alcuni chemocettori infatti sono stimolati dal sapore e/o dall’odore dei cibi e possono andare
ad attivare vie nervose afferenti vagali che stimolano la secrezione acida dello stomaco allo scopo di
prepararlo per la fase gastrica.

Durante la fase gastrica vi è la possibilità di stimolare la secrezione


gastrica grazie al fatto che il bolo, presente nello stomaco, grazie alla
distensione della parete dello stomaco, va ad attivare dei riflessi
vago-vagali che stimolano la secrezione stessa di acido: la
distensione e lo stiramento della parete gastrica vengono rilevate da
terminazioni nervose afferenti che portano l’informazione al tronco
dell’encefalo e successivamente si ha un riflesso vago-vagale che
porta all’aumento della secrezione di acido. La seconda modalità di
stimolo alla secrezione è data dalla presenza delle proteine; quando
il pasto introdotto è ricco di oligopepetidi (e quindi si ha un aumento
di oligopeptidi e amminoacidi a livello dello stomaco), questi sono
rilevati da chemocettori che mettono in atto una stimolazione di fibre
afferenti vagali.
In sintesi, nella fase gastrica osserviamo:
 un riflesso meccanico: riflesso vago-vagale che si genera per
distensione della parete dello stomaco, causata dalla presenza
del bolo;
 un riflesso chimico: riflesso che si genera per la rilevazione
da parte dei chemocettori della mucosa gastrica di proteine
(oligopeptidi e amminoacidi).

122
Esiste un meccanismo a feedback negativo che regola il
rilascio di HCl da parte delle cellule parietali. L’HCl a livello
dell’antro causa il rilascio di somatostatina (da parte delle
cellule D) che agisce attraverso un meccanismo paracrino sulla
produzione di gastrina da parte della cellula G, inibendola. La
cellula G, dunque, in seguito all’azione della somatostatina,
riduce la produzione di gastrina e di conseguenza riduce la
produzione di acido da parte delle cellule parietali.
Dal Berne & Levy: “Quando la concentrazione di H+ nel
lume [antrale] raggiunge una certa soglia (pH < 3), la
somatostatina è rilasciata dalle cellule endocrine della mucosa
antrale. La somatostatina ha un’azione paracrina sulle cellule
G vicine, inducendo una riduzione del rilascio di gastrina e in tal modo una riduzione della secrezione acida.”

Digestione nello stomaco


Il processo di digestione che inizia nello stomaco non è essenziale, la digestione intestinale è infatti capace
di digerire autonomamente tutti gli elementi assunti dalla dieta.
Esistono, tuttavia, alcuni enzimi presenti nello stomaco, di cui abbiamo già discusso, che contribuiscono alla
fase iniziale di digestione:
 la pepsina, inizia la digestione proteica scindendo i legami peptidici;
 l’amilasi, digerisce parte dei carboidrati (è sensibile a basso pH, ma è protetta dai substrati che ne
rallentano la degradazione);
 la lipasi gastrica, produce acidi grassi liberi e monogliceridi dai trigliceridi della dieta (i prodotti
della lipolisi non possono essere assorbiti nello stomaco per il basso pH luminale). L’entità
dell’idrolisi è molto bassa, intorno al 10%.
Finestra clinica. Ulcere
Le ulcere sono erosioni della parete gastrica che interessano la mucosa e talvolta anche lo strato di
muscolatura più profondo. Il danno viene accentuato dall’assunzione di alcool, tabacco e caffeina. Tale
patologia deve essere trattata farmacologicamente per ripristinare un ambiente gastrico idoneo allo
svolgimento di tutti i processi.

Motilità gastrointestinale
Prima di analizzare la motilità gastrica, è necessario discutere in generale della motilità del tratto GI.
La motilità dell’apparato digerente può essere suddivisa in due aspetti:
 attività volta al rimescolamento del cibo con le secrezioni gastriche;
 attività coordinata volta allo svuotamento del contenuto luminale.
Tipi di motilità dell’apparato digerente:
 Peristalsi (faringe, esofago, stomaco distale, intestino tenue e crasso)
La peristalsi ha lo scopo di far progredire il movimento del cibo. Si tratta di un’onda di contrazione
con propulsione in direzione aborale del contenuto luminale. È generata da un riflesso peristaltico
dovuto alla distensione della parete del tratto GI al passare del cibo, che causa una contrazione della
muscolatura circolare e un rilassamento della muscolatura longitudinale a monte del contenuto
luminale, mentre a valle di questo si ha contrazione della muscolatura longitudinale e rilassamento di
quella circolare (cioè l’opposto).
 Segmentazione (intestino)
La segmentazione ha lo scopo di rimescolare il contenuto luminale (bolo ed enzimi) per favorire il
contatto del cibo con le pareti, quindi ha una funzione legata all’assorbimento del cibo stesso, ma
anche di suddivisione del contenuto luminale.
 Contrazione tonica (sfinteri, stomaco prossimale)
La contrazione tonica permette di bloccare il passaggio del contenuto luminale da un tratto al
successivo, ha una funzione di compartimentazione e inoltre mantiene la pressione sui contenuti
luminali.

123
Le cellule interstiziali di Cajal (intestino tenue e parte distale dello stomaco) sono cellule pacemaker che si
trovano tra gli strati longitudinale e circolare della muscolatura liscia. Generano un’attività basale di onde
lente che stimola la contrazione delle cellule muscolari lisce e quando raggiungono la soglia permettono la
genesi del potenziale d’azione. L’ampiezza della depolarizzazione e la frequenza dei potenziali di azione
possono essere modulati da:
 fibre nervose del sistema nervoso autonomo eccitatorio che aumentano la frequenza e l’entità della
depolarizzazione (acetilcolina e sostanza P), e afferenze inibitorie che generano iperpolarizzazione
(polipeptide intestinale vasoattivo e ossido nitrico);
 ormoni e sostanze paracrine.
N.B. L’attività basale non accompagnata da genesi del potenziale di azione evoca contrazioni deboli delle
cellule muscolari lisce che generano tensione (tono), mentre contrazioni intense sono sempre legate alla genesi
di potenziali di azione.
La frequenza di onde lente varia a seconda del tratto gastrointestinale e la diversa frequenza dei vari tratti
è legata alle funzioni specifiche di quel tratto:
 procedendo dal duodeno all’ileo diminuisce per permettere la propulsione aborale del contenuto
luminale;
 procedendo dal colon prossimale al sigma aumenta per ottimizzare il processo di disidratazione e
compattamento delle feci (riassorbimento di acqua e nutrienti residui prima dell’eliminazione
definitiva degli scarti della digestione).
I valori seguenti sono stati citati dalla prof., quindi presumibilmente sono da conoscere:

Motilità gastrica
Vi è un diverso tipo di muscolatura tra le due regioni funzionali dello stomaco:
 la porzione prossimale (funzione di serbatoio: accoglie il cibo ed esercita una pressione su di esso
per consentirne il passaggio alla pompa antrale) necessita di una muscolatura capace di mantenere un
tono contrattile continuo, affinché la distensione della parete non sia eccessiva;
 la porzione distale (pompa antrale) necessita di contrazioni fasiche per far progredire il contenuto
gastrico in direzione dell’intestino.

Serbatoio gastrico
Il riempimento dello stomaco è favorito da un rilasciamento della sua parete causato da tre differenti vie:
 rilasciamento recettivo: con la deglutizione vengono stimolati meccanocettori a livello faringeo che
inducono un riflesso vagale che induce un rilasciamento recettivo a livello della parte prossimale
dello stomaco;
 rilasciamento adattativo del fondo: riflesso vago-vagale innescato da meccanocettori della parete
gastrica in risposta a distensione causata dal passaggio del bolo;
 rilasciamento a feedback: si genera in seguito alla presenza di materiale nell’intestino tenue, che
stimola la secrezione di sostanze ormonali che agiscono in modo endocrino sul sistema enterico
gastrico, inibendolo (questo argomento verrà approfondito nella tesina successiva)
Pompa antrale

124
Le contrazioni antrali portano sia a frantumazione del contenuto gastrico sia a propulsione dello stesso
verso l’intestino.
 La frantumazione del cibo si basa su un meccanismo di retropulsione a getto. Nello specifico,
quando le cellule antrali si contraggono il contenuto luminale urta contro il piloro, che nelle prime fasi
gastriche è chiuso, e ritorna indietro; attraverso diversi cicli in successione è possibile triturare il
contenuto luminale in particelle di 1-7 mm di diametro (chimo gastrico). Successivamente l’apertura
del piloro consente lo svuotamento del chimo nel duodeno.
 Svuotamento gastrico
La velocità di svuotamento dipende da:

- percentuale in peso dei contenuti solidi ingeriti: la velocità è indirettamente proporzionale


al contenuto relativo solido e alle dimensioni delle particelle, in quanto le particelle solide e
più grandi devono essere sottoposte a continui cicli di rimescolamento e frantumazione nello
stomaco attraverso cicli di retropulsione a getto; Inoltre, le dimensioni delle particelle devono
essere inferiori ai 7 mm per passare dallo stomaco verso il duodeno. La velocità è tanto più
rapida quanto minore è la dimensione. Nel caso di cibo solido o semisolido si ha una fase di
latenza, più o meno lunga a seconda delle dimensioni delle particelle, in cui il cibo rimane
all’interno dello stomaco perché deve essere frantumato, mentre il passaggio del cibo liquido
è quasi immediato. Si può dire che lo stomaco distale ha una funzione di setaccio perché fa
passare nel duodeno prima le particelle più piccole;
- tipo di macronutrienti: le componenti
proteiche solide richiedono un tempo di
processamento più lungo rispetto a una
soluzione liquida; Lo svuotamento gastrico
dipende anche dal tipo di componente che
costituisce il materiale; nel grafico a lato si
nota come a seconda che si abbiano glucosio
o proteine (nell’esperimento somministrate
sottoforma di cubetti di fegato) vi è la
necessità di frantumare: lo svuotamento
gastrico deve essere ritardato perché le
proteine devono essere sminuzzate. La
velocità di svuotamento gastrico non è
influenzata solamente dalle dimensioni
iniziali del materiale ma anche dal tipo di
materiale, dall’osmolarità, dal pH e da altri
fattori.

125
Lo svuotamento dello stomaco è dovuto a un’azione coordinata della parte prossimale e distale
dello stesso: in primo luogo, vi è un rilasciamento recettivo della porzione prossimale, in secondo
dei movimenti peristaltici che mescolano il contenuto con le secrezioni a livello distale.
Nelle prime fasi lo svuotamento è inibito dalla chiusura del piloro e dal rilasciamento della porzione
prossimale dello stomaco, ma con il proseguire dell’arrivo del bolo aumentano il contenuto luminale,
la tensione e la pressione a livello prossimale, generando così una forza in grado di dirigere la
fuoriuscita del contenuto dallo stomaco.
A livello intestinale l’arrivo del chimo causa un rilascio della parete duodenale per consentire
all’intestino di riempirsi e l’invio di segnali ormonali, quali la colecistochinina, allo stomaco, che
inibiscono il suo svuotamento. L’intestino deve infatti essere in grado di inviare dei segnali finalizzati
alla regolazione dello svuotamento gastrico, poiché se tutto il chimo arrivasse simultaneamente a
livello duodenale, sarebbe difficile procedere in maniera corretta alla digestione e all’assorbimento
degli elementi che costituiscono il chimo stesso. Lo svuotamento gastrico può procedere perché questi
meccanismi di inibizione, generati nell’intestino all’arrivo del chimo, tendono a diminuire man a mano
che il chimo si allontana dalla sede duodenale e prosegue verso la regione terminale dell’intestino.

126
5. Apparato digerente: funzioni intestinali
N.B. La prof. non ha seguito l’ordine in cui i tre punti della tesina sono presentati nel programma, e dunque ho rispettato
l’ordine in cui sono stati spiegati a lezione. Il primo punto è molto breve, in quanto già trattato praticamente nella tesina
precedente.

5.1. Organizzazione morfofunzionale dell’intestino

Struttura dell’intestino tenue


L’intestino tenue è caratterizzato da una struttura molto particolare che gli permette di avere una superficie
di assorbimento molto vasta. Una volta giunto a livello intestinale, il chimo deve essere rimescolato e posto
nelle condizioni di prendere rapporto con la superficie assorbente dell’intestino stesso.
L’intestino è costituito da una struttura tubulare dotata di ripiegamenti a tutto spessore (sia di mucosa che
di sottomucosa). La mucosa presenta una serie di specializzazioni “a forma di dito”, i villi, costituiti da cellule
epiteliali dotate di espansioni che aumentano ulteriormente l’area di assorbimento della mucosa, i microvilli.
Come anticipato, a livello del piccolo intestino vi è la possibilità di regolare in maniera fine il passaggio del
chimo dallo stomaco verso l’intestino in modo che le varie secrezioni che si riversano a livello duodenale
possano andare a digerire e così favorire l’assorbimento dei vari elementi. Gli stimoli, sia nervosi che ormonali,
saranno attivati dalla distensione della parete intestinale, da elevate quantità di H+ e dalla presenza dei nutrienti
nel lume intestinale. Queste condizioni rendono possibile l’attivazione della fase intestinale alla risposta
integrata all’ingestione del cibo, che ha come conseguenza l’aumento della secrezione pancreatica e della
contrazione della colecisti, il rilasciamento dello sfintere di Oddi che regola l’immissione della bile e dei
succhi pancreatici a livello intestinale, la possibilità di regolare lo svuotamento dello stomaco e di inibire
sia la secrezione acida dello stomaco sia il processo motorio migrante.

La struttura del crasso è trattata in seguito.

5.2. Secrezioni pancreatica e biliare

Secrezioni pancreatiche: funzioni e caratteristiche


Le secrezioni pancreatiche, prodotte dalla componente esocrina del pancreas, contribuiscono alla digestione
enzimatica dei nutrienti che vengono ingeriti, e che hanno di norma dimensioni troppo grandi per poter essere
assorbite a livello delle cellule epiteliali dell’intestino.
La digestione inizia a livello della cavità orale e prosegue nello stomaco, ma è a livello intestinale, grazie
agli enzimi pancreatici, che si creano le condizioni ideali per poter digerire i cibi. In caso le secrezioni “a
monte” vengano a mancare (a livello orale o gastrico), quelle pancreatiche riescono a fare fronte a tale
mancanza permettendo quindi una corretta digestione enzimatica.
Il pancreas esocrino è inoltre l’organo che contribuisce maggiormente alla produzione di ioni bicarbonato
(HCO3-): nel momento in cui il chimo passa dallo stomaco all’intestino, esso è acido, può danneggiare la
mucosa duodenale, che non possiede le stesse caratteristiche di quella gastrica. Il primo compito del pancreas
è quindi quello di produrre e rilasciare ioni HCO3- che neutralizzino l’acidità del chimo, portando il pH del
lume duodenale intorno a 7. Sono presenti altre fonti di secrezione di ioni bicarbonato tra cui cellule del
duodeno stesso e dei dutti. Questo processo è fondamentale, in quanto gli enzimi pancreatici possono svolgere
la loro funzione in maniera ottimale solo a valori di pH più elevati di quello del chimo gastrico.

127
In media vengono prodotti circa 1,5 L al giorno di succo
pancreatico. La secrezione esocrina del pancreas viene
prodotta a livello di ghiandole che hanno una struttura simile
a quella delle ghiandole salivari, rappresentata da un insieme
di acini e da un sistema di dotti. Gli acini producono il
secreto primario, costituito da una serie di componenti
organiche e di Na+, Cl-, HCO3- e K+ che derivano
direttamente dal plasma, modificato in seguito a livello dei
dotti, ove si avrà un ulteriore rilascio di HCO3- e un
assorbimento di Cl-; il succo pancreatico verrà così
alcalinizzato.
Gli enzimi pancreatici sono principalmente enzimi
proteolitici che agiscono su diverse classi di componenti.
Essi sono secreti in forma inattiva: il fatto che siano
prodotti sotto forma di precursori inattivi (zimogeni) è
indispensabile per prevenire un danno alle cellule
pancreatiche stesse causato dall’azione digestiva di tali
enzimi (condizione patologica che prende il nome di
pancreatite, in cui si assiste all’autodigestione del
parenchima pancreatico). Sono presenti una serie di
meccanismi di sicurezza costituiti da inibitori (della tripsina
specialmente, essendo l’enzima deputato all’attivazione
degli altri enzimi digestivi) che vanno a ridurre il rischio che l’attivazione enzimatica sia prematura.

La secrezione pancreatica è regolata dall’azione di due ormoni:


 la secretina, che opera a livello dei dutti per promuovere la secrezione di liquidi e lo scambio di
HCO3- e Cl-;
 la colecistochinina (CCK), che ha un’azione specifica sulla stimolazione della secrezione proteica e
liquida a livello degli acini.

Secrezioni pancreatiche: controllo della secrezione duttale da parte della secretina


La secretina agisce a livello dei dotti pancreatici promuovendo la secrezione di liquidi e lo scambio di ioni.
I dotti pancreatici rappresentano la branca effettrice del sistema di controllo del pH, in grado di rispondere
all’ambiente acido che viene a crearsi inevitabilmente a livello del lume del piccolo intestino. Cellule duodenali
specializzate, definite cellule S del duodeno, sono in grado di inviare informazioni al pancreas, rilasciando la
secretina quando il pH scende sotto il valore di pH = 4,5. La secretina induce, a livello dei dotti, la secrezione
di bicarbonato, per riportare il pH valore a livelli normali.

128
La secretina stimola la secrezione di HCO3- nel lume dei dotti, con l’acqua che segue gli ioni per via
paracellulare. L’ormone induce l’apertura dei canali CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance
Regulator) per il Cl-, il quale può così uscire dalla cellula; essendo in questo modo meno concentrato a livello
intracellulare, il cloro rientra secondo gradiente grazie all’antiporto Cl-/HCO3-, che trasporta attivamente
HCO3- dall’interno della cellula al lume del dotto. HCO3- viene prodotto all’interno delle cellule dei dotti per
azione della anidrasi carbonica (CA), oppure può essere trasportato attraverso lo specifico trasportatore della
membrana baso-laterale NBC-1 in simporto con il sodio (simporto Na+/2HCO3-).
Il canale CFTR è particolarmente studiato poiché nei pazienti affetti da fibrosi cistica una mutazione a carico
del gene che codifica per CFTR ne causa il malfunzionamento, compromettendo la capacità del soggetto di
idratare e alcalinizzare il contenuto luminale. Tra le altre manifestazioni cliniche, questi soggetti avranno
ostruzione intestinale, alterazioni della mucosa duodenale, lesioni a livello delle vie biliari e del pancreas.

Secrezioni pancreatiche: controllo della secrezione acinosa da parte della colecistochinina


La colecistochinina agisce a livello degli acini e viene liberata dalle cellule I del duodeno quando nel lume
sono presenti acidi grassi a catena lunga e alcuni aminoacidi (fenilalanina, metionina, valina). In presenza
di queste sostanze viene stimolato il rilascio di CCK mediante interazione diretta tra le cellule I e le sostanze
citate. La CCK viene inoltre liberata per azione di due peptidi, il peptide di rilascio della CCK (CCK-PR,
prodotto dalle cellule paracrine dell’epitelio duodenale in risposta ai prodotti della digestione degli acidi grassi)
e il peptide monitor (prodotto dalle cellule acinose del pancreas). Queste sostanze possono essere rilasciate
in risposta a segnali nervosi importanti che sono in grado di avviare la secrezione pancreatica durante le fasi
preparatorie cefalica e quella gastrica. In questo modo viene favorita la preparazione di tutto il sistema ancora
prima che il chimo arrivi a livello intestinale. Il rilascio di CCK, e quindi degli enzimi pancreatici, deve essere
adeguato in modo tale da poter permettere una digestione ottimale a livello del piccolo intestino. Questi fattori
di rilascio, in particolare CCK-PR e il peptide monitor, subiscono anche essi la degradazione proteolitica da
parte degli enzimi rilasciati dal pancreas stesso, tra cui ad esempio la tripsina.
Nel momento in cui con la dieta vengono introdotte proteine, queste si vengono a trovare in misura maggiore
a livello del lume rispetto ai fattori di rilascio, e quindi competono con essi per la degradazione proteolitica.
Come conseguenza, i fattori di rilascio che stimolano la secrezione di CCK in presenza di chimo possono

129
continuare a stimolarne il rilascio, perché
l’azione degli enzimi proteolitici agisce prima
sulle proteine della dieta, e solo quando viene a
mancare il substrato rappresentato dalle proteine
del chimo i fattori di rilascio possono essere
degradati, interrompendo la secrezione di CCK
e quindi di succo pancreatico.
La CCK attiva le cellule degli acini pancreatici
per via endocrina (legando il suo recettore
CCK-1), ma può anche attivare un riflesso vago-
vagale, che attraverso il sistema nervoso
enterico potenzia la secrezione delle cellule
degli acini del pancreas (grazie a
neurotrasmettitori quali acetilcolina, PRG,
VIP, che legano i loro recettori presenti sulla
membrana della cellula acinosa). I prodotti della
secrezione delle cellule acinose del pancreas
sono sintetizzati e immagazzinati sotto forma di
granuli: in seguito al legame di CCK a CCK-1 e
di ACh, PRG, VIP ai loro rispettivi recettori, i granuli vengono spostati verso il polo apicale della membrana
e il loro contenuto rilasciato nel lume.

Secrezione biliare: struttura microscopica del fegato


Il fegato è l’organo deputato alla produzione e alla secrezione degli acidi biliari, che hanno un ruolo
fondamentale e imprescindibile per la digestione e l’assorbimento dei lipidi. Il fegato è una ghiandola
localizzata a livello della cavità addominale e molte delle sue funzioni sono associate a quelle del tratto
gastrointestinale.
La bile è prodotta nel fegato, ma viene poi immagazzinata e concentrata nella colecisti fintanto che non sarà
rilasciata in risposta all’ingestione di cibo. La CCK, fondamentale a livello pancreatico, ha anche un’azione
coleretica sulla colecisti (ne provoca la contrazione) e determina il rilassamento dello sfintere di Oddi
affinché la secrezione possa essere rilasciata a livello dell’intestino. Buona parte degli acidi biliari sarà
recuperata attraverso la circolazione enteroepatica.
La maggior parte del sangue che giunge al fegato è di natura venosa e proviene dall’intestino attraverso la
vena porta. In questo modo, al fegato giungono quasi tutti i nutrienti assorbiti, nonché eventuali composti
potenzialmente nocivi ingeriti (quali farmaci e tossine batteriche), per cui esso svolgerà anche
un’importantissima azione detossificante.
Dal punto di vista anatomico il fegato è costituito da epatociti disposti in cordoni (lamine) di cellule che si
anastomizzano e formano delle strutture attorno alle quali circolano ingenti volumi di sangue. Al centro di ogni
lobulo vi è una vena centrale verso la quale si orientano in maniera radiale gli epatociti. Alla periferia di
ciascun lobulo sarà presente la triade portale, costituita da un ramo della vena porta, un ramo dell’arteria
epatica e dal dotto biliare. Il sangue che proviene dalla vena porta e dall’arteria epatica scorre tra gli epatociti
prima di drenare verso la vena centrale.
Le lamine costituite dagli epatociti sono interrotte dalla presenza dei sinusoidi epatici, in cui si getta il sangue
proveniente dalla triade. I sinusoidi sono quindi strutture vascolari, caratterizzate da bassa resistenza,
alimentate da rami della vena porta e dell’arteria epatica. In condizione di digiuno la maggior parte dei
sinusoidi collassa; con l’assunzione di cibo aumenta il volume di sangue che attraversa la vena porta, ed essi
vengono nuovamente reclutati. La bassa resistenza dei sinusoidi permette l’aumento di sangue a livello epatico
senza che ciò causi un aumento esagerato della pressione nel fegato. I sinusoidi sono rivestiti da cellule
endoteliali che presentato fenestrazioni in grado di permettere il passaggio di molecole anche di grandi
dimensioni (come l’albumina) che possono quindi entrare negli epatociti. Sono poi presenti macrofagi, indicati
a questo livello come cellule di Kupffer.
Al di sotto dell’endotelio dei sinusoidi è presente tessuto connettivo lasso che separa l’endotelio dagli
epatociti stessi, che prende il nome di spazio di Disse, ove si trovano cellule stellate che fungono da sito di
accumulo di fattori di crescita per gli epatociti. Sempre a livello degli epatociti originano i canalicoli biliari
che si strutturano tra un epatocita e l’altro con la funzione di drenare la bile verso i dotti di calibro maggiore
rivestiti da colangiociti, dove la bile viene modificata. I dotti biliari maggiori convergono nei dotti epatici di

130
destra e di sinistra, che si uniscono a formare il dotto epatico comune, il quale lascia il fegato per portare la
bile a livello della colecisti oppure direttamente all’intestino attraverso il dotto biliare comune, a seconda
delle relazioni pressorie che si vanno a creare e della fase in cui si trova (ad esempio nel periodo interprandiale
la bile viene convogliata a livello della colecisti).

Secrezione biliare: sintesi, funzioni e composizione


La bile è fondamentale per la digestione dei lipidi, ma funge anche da elemento di trasporto di sostanze di
scarto e di rifiuto. La sintesi della bile avviene a livello degli epatociti, ed essa è poi trasportata a livello della
colecisti e del duodeno. Essa è definita come una soluzione micellare, costituita da acidi biliari,
fosfatidilcolina e colesterolo, in un rapporto 10:3:1.
Gli acidi biliari sono il principale costituente della bile. Gli acidi biliari si formano a livello degli epatociti
a partire dal colesterolo. Il primo passaggio, che avviene a livello epatico, è una idrossilazione della molecola
di colesterolo, dovuta all’enzima 7α-idrossilasi. Inoltre, viene aggiunta una funzione carbossilica acida,
attraverso l’enzima C27 deidrossilasi, che porta alla formazione dell’acido chenodesossicolico. Alla
formazione dell’acido chenodesossicolico può esserci un’alternativa: il colesterolo, idrossilato dalla 7α-
idrossilasi, può subite un’ulteriore idrossilazione ad opera dell’enzima 12α-idrossilasi, e successivamente
l’azione dell’enzima C27 deidrossilasi, che dà origine all’acido colico. Acido colico ed acido
chenodesossicolico sono detti acidi biliari primari. La sintesi di questi acidi può essere regolata in base alle
necessità dell’organismo. Mediamente sono sintetizzati 0,5 grammi al giorno di acidi biliari, ma ne vengono
secreti circa 30 grammi: ciò è possibile grazie alla ricaptazione degli acidi colici.
Una volta ottenuti gli acidi primari, questi possono essere metabolizzati a livello intestinale. Il colon è infatti
ricco di batteri intestinali, che possono convertire l’acido colico in acido desossicolico e l’acido
chenodesossicolico in acido litocolico e acido ursodesossicolico. Tutti gli acidi biliari sintetizzati a livello
intestinale sono definiti acidi biliari secondari (acido litocolico, ursodesossicolico e desossicolico).

Un’importante caratteristica degli acidi primari e secondari è che essi possono essere coniugati a livello degli
epatociti con due amminoacidi: la glicina o la taurina. Grazie alla coniugazione con questi due amminoacidi,
essi sono quasi totalmente ionizzati al pH tipico del piccolo intestino e di conseguenza non attraversano
passivamente le membrane cellulari. Una volta coniugati essi restano nel lume intestinale e non vengono

131
assorbiti finché non arrivano all’ileo terminale (a questo livello vengono assorbiti attraverso un trasportatore
specifico, il trasportatore apicale sodio-dipendente degli acidi biliari, ASBT). Se non vengono assorbiti a
livello dell’ileo, saranno riassorbiti, passivamente, a livello dell’epitelio del colon in seguito alla
deconiugazione portata avanti dagli enzimi della flora batterica. Gli acidi biliari vengono recuperati attraverso
la circolazione entero-epatica; essi tornano a livello degli epatociti, dopo essere stati recuperati a livello
dell’ileo terminale o del colon. A livello del fegato verranno poi, se necessario, nuovamente coniugati e secreti.
Circa il 90% degli acidi biliari viene riciclato, il restante 10% viene eliminato tramite le feci. La secrezione
di bile è circa 500-600 ml al giorno; il ciclo di circolazione entero-epatico si completa da 6 ad 8 volte al giorno.

La fosfatidilcolina, altro importante componente della


bile, è formata a livello della membrana interna del
canalicolo. Il suo trasportatore è detto proteina di
resistenza multipla dai farmaci di tipo 3 (MDR-3).
Anche il colesterolo è portato a livello del canalicolo
attraverso trasportatori. La disponibilità giornaliera di
colesterolo dipende in parte dalla dieta (parte minore) e in
parte dalla sintesi a livello epatico ed extraepatico
(maggiormente). La sintesi giornaliera di colesterolo
bilancia la sua eliminazione, che avviene unicamente con la
bile (negli individui sani); il colesterolo ha una duplice
presenza nella bile: sia in forma di colesterolo semplice
che di acidi biliari.
A livello dei dotti biliari sono presenti i colangiociti, in
grado di modificare la composizione della bile. Presentano trasportatori specifici, che possono recuperare ad
esempio glucosio ed amminoacidi. Anche il cloro viene recuperato e scambiato con il bicarbonato, rendendo
la bile più alcalina. Sono presenti inoltre enzimi come il GGT, gamma-glutamiltranspeptidasi, che scinde il
glutatione nei suoi amminoacidi costituenti, permettendone il riassorbimento. In seguito all’ingestione di cibo,
la bile può essere diluita attraverso le acquaporine (AQP) ed il bicarbonato.

L’ultima modificazione della bile può avvenire a livello della cistifellea, durante la fase interprandiale. La
modificazione della bile a livello della colecisti non è stata approfondita dalla prof. Dal Boron sinteticamente:
a livello della cistifellea si ha riassorbimento di NaCl (grazie agli antiporti Na+/H+ e Cl-/HCO3-) e di acqua,
con conseguente concentrazione degli acidi biliari e degli altri componenti della bile. Si ha inoltre
acidificazione della bile.

Formazione ed escrezione della bilirubina


Il fegato è importantissimo per l’escrezione della bilirubina, un metabolita del gruppo eme potenzialmente
tossico per l’organismo.
Ogni 120 giorni gli eritrociti sono degradati a livello della milza; con essi deve essere degradato il gruppo
eme. La bilirubina è un metabolita dei gruppi eme, un antiossidante; è il composto attraverso il quale vengono
eliminati i gruppi eme dei globuli rossi una volta invecchiati. Essa è in grado di attraversare la barriera emato-
encefalica e di danneggiare il tessuto nervoso; un suo accumulo in circolo può indicare una malattia epatica e

132
determina l’ittero. La bilirubina determina il colore delle feci, e in misura minore delle urine, ed è sintetizzata
a partire dal gruppo eme, tramite un processo che si svolge in due passaggi, nel sistema reticoloendoteliale
(nella milza) e nelle cellule del Kuppfer (fegato).
L’eme viene prima convertito,
attraverso l’enzima eme ossigenasi,
in biliverdina, staccando un atomo
di ferro ed una molecola di
monossido di carbonio. A questo
punto la biliverdina viene convertita,
attraverso l’enzima biliverdina
reduttasi, in bilirubina. La
bilirubina è insolubile e per essere
trasportata nel torrente ematico deve
legarsi all’albumina. A questo punto
può arrivare a livello degli epatociti,
che estraggono la bilirubina
attraverso un processo attivo e la
coniugano con acido glucuronico: a
questo punto la bilirubina coniugata
è secreta nella bile. La reazione di
coniugazione all’acido glucuronico
viene catalizzata da un enzima
chiamato UDP-glucuronil-
transferasi, sintetizzato lentamente
alla nascita; per questo motivo può essere presente un lieve ittero nei neonati (ittero neonatale). La bilirubina
coniugata a livello intestinale non viene assorbita, ma viene trasformata in urobilinogeno a livello dell’ileo
terminale. L’urobilinogeno può avere due destini differenti:
1. può essere escreto con le feci, determinandone il colore dopo esser stato ridotto a stercobilinogeno;
2. può essere riassorbito attraverso il sangue portale nel fegato, dove viene captato, coniugato e rilasciato
nella bile. Una certa quantità di urobilinogeno può raggiungere la circolazione sistemica, i reni ed
essere eliminato attraverso le urine. Determina il caratteristico colore delle urine, dopo essere stato
ossidato a livello dei reni in urobilina.

La bile una volta riversata nei dotti epatici destro e sinistro, poi
attraverso il dotto epatico comune, può eventualmente passare nel
dotto cistico e quindi nella colecisti. La colecisti immagazzina la bile
nei periodi interprandiali, cioè quando lo sfintere di Oddi è chiuso,
permettendo il riassorbimento di sali ed acqua. Viceversa, la presenza
di nutrienti nel duodeno, porta la colecisti a rilasciare bile e al
rilassamento dello sfintere di Oddi. La contrazione della cistifellea è
definita come un’azione colagoga.6
La colecistochinina ha azioni ormonali che influenzano la
contrazione della colecisti ed il rilassamento dello sfintere di Oddi.
Inoltre la colecistochinina può mediare riflessi intrinseci e riflessi
vagali.
Come abbiamo trattato finora, a livello del piccolo intestino sono
presenti due secrezioni importanti (pancreatica ed epatica), che
permettono l’inizio dei processi di digestione e di assorbimento dei
vari elementi della dieta. La funzione delle secrezioni epatiche e

6
La differenza tra colagogo e coleretico non è stata presa in esame a lezione. Spesso i due termini sono usati in maniera
interscambiabile, anche se ciò non è del tutto corretto. Si definisce colagoga una “sostanza o medicamento capace di
stimolare l’escrezione della bile dalla cistifellea”, mentre con coleretica una “sostanza o farmaco che stimola la secrezione
della bile da parte delle cellule epatiche” (info tratte dal Vocabolario Treccani Online).

133
pancreatiche è quello di trasformare in molecole semplici le macromolecole introdotte con la dieta.

5.3. Intervento dell’intestino tenue e del colon


nei processi motori, secretori e di assorbimento

Osserviamo prima l’intervento del piccolo intestino (intestino tenue), molto più rilevante nei processi di
digestione e assorbimento, e in seguito brevemente quello del grande intestino (intestino crasso).

Digestione e assorbimento dei carboidrati


La digestione dei carboidrati avviene attraverso due passaggi: uno a livello del lume intestinale e un altro in
corrispondenza dell’orletto a spazzola degli enterociti.
I carboidrati che possono essere assunti tramite la dieta e che devono esser digeriti sono:
 L’amido: è una miscela di polimeri di glucosio, che possono essere lineari, con legami α-1,4
glicosidici (amilosio), oppure ramificati, con legami α-1,6 glicosidici (amilopectina).
La digestione dell’amido può essere divisa in due fasi. Gli enzimi che intervengono nella prima fase
di digestione dell’amido sono:
1. l’amilasi salivare (o ptialina), che diventa essenziale solo in caso di carenza di amilasi
pancreatica; essa scinde i legami interni (non quelli terminali) α-1,4 glicosidici sia
dell’amilosio che dell’amilopectina, ma non può rompere legami α-1,6 glicosidici;
2. l’amilasi pancreatica, secreta dal pancreas, ha le stesse funzioni dell’amilasi salivare, ma ha
una attività molto maggiore.
Le amilasi generano una digestione incompleta, perché portano alla produzione di oligomeri corti, cioè
dimeri (come il maltosio), trimeri (come il maltotrioso) e molecole ramificate dette destrine α-limite.
A questo punto queste componenti devono essere trasformate in monosaccaridi, attraverso la seconda
fase di digestione, che si compie in corrispondenza dell’orletto a spazzola. Il processo si svolge tramite
idrolasi specifiche, come saccarasi, glucoamilasi, isomaltasi. Esse sono in grado di rompere legami
α-1,4 glicosidici terminali e legami α-1,6 glicosidici (punti di ramificazione). A questo punto i
monomeri possono essere assorbiti, captati dagli enterociti: i monosaccaridi vengono trasportati
attraverso la membrana apicale dei microvilli
grazie a specifici trasportatori. Il trasporto di
glucosio e quello del galattosio sono legati ad un
simporto con lo ione Na+, permesso dal
trasportatore SGLT1 (per l’esattezza 2Na+ ogni
molecola di glucosio7). Una volta all’interno della
cellula, il glucosio può essere utilizzato dalla
cellula, oppure essere trasportato sulla membrana
basale. Il fruttosio viene trasportato da GLUT5
sulla membrana apicale e GLUT2 su quella basale.
N.B L’entrata del fruttosio attraverso GLUT5 non
è accoppiata a quella del sodio.
 Disaccaridi, come lattosio e saccarosio. Il saccarosio è formato da una molecola di glucosio ed una
di fruttosio, mentre il lattosio da una molecola di glucosio ed una di galattosio. L’intestino ha la
capacità di assorbire solo monosaccaridi, i disaccaridi devono perciò essere scissi in monosaccaridi.
Questo fenomeno avviene sulla superficie delle cellule epiteliali del primo intestino, attraverso un
meccanismo detto digestione dell’orletto a spazzola, ed è dovuto alla produzione di idrolasi
specifiche dalle cellule epiteliali del primo intestino, come saccarasi e lattasi. La lattasi si riduce
durante lo svezzamento: se si riduce in maniera eccessiva si va incontro ad una intolleranza al lattosio.
 Polimeri di carboidrati: molecole vegetali che l’uomo non è in grado di digerire.

Digestione e assorbimento delle proteine

7
SGLT1 ha stechiometria 2:1 ed è espresso maggiormente a livello del piccolo intestino, ma anche della parte finale del
tubulo contorto prossimale del nefrone. SGLT2 ha stechiometria 1:1 ed è espresso maggiormente a livello renale, nella
prima parte del tubulo contorto prossimale. Vedi per ulteriori informazioni la tesina Funzioni del tubulo renale.

134
Le proteine, prima di poter essere assorbite a livello intestinale, devono essere digerite nei “mattoni” che le
compongono, ossia gli amminoacidi. Tra questi ultimi ricordiamo che esiste una serie di amminoacidi detti
essenziali che non possono essere sintetizzati direttamente dal nostro organismo e richiedono quindi di essere
ingeriti con la dieta.
Il processo di digestione e assorbimento delle proteine è un processo ridondante, nel senso che essendo così
importante per l’organismo ci sono diversi step che vanno a ripetersi così da sopperire un possibile step
deficitario. Ad esempio, un deficit nei confronti di assorbimento di amminoacidi specifici nell’intestino è raro,
proprio perché ci sono passaggi che sostituiscono quelli che sono mal funzionanti.
La digestione e assorbimento delle proteine può essere diviso in tre fasi, che avvengono in tre compartimenti
diversi:
 a livello del lume gastrico;
 a livello del lume intestinale;
 a livello dell’orletto a spazzola sugli enterociti.
Nel lume gastrico. A questo livello la presenza di un ambiente acido va a denaturare le proteine introdotte
con la dieta e facilita l’azione idrolitica svolta dalla pepsina (prodotta dalle cellule principali dello stomaco
sotto forma di enzima inattivo detto pepsinogeno). La pepsina (termine che indica in realtà un’ampia gamma
di pepsine, dato che ognuna ha la sua specificità enzimatica) agisce specialmente a livello di amminoacidi
neutri a lunga catena e amminoacidi aromatici. La sua azione è tuttavia incompleta, nel senso che scinde
alcune proteine in oligopeptidi, ancora non sufficientemente corti da essere assorbiti dall’intestino.
Nel lume intestinale. Qui l’azione è svolta dalle proteasi del succo pancreatico. Esse sono sintetizzate come
pro-enzimi che verranno successivamente attivate e possiamo distinguerne due tipologie:
 le endopeptidasi, tra le quali la tripsina, la chimotripsina e l’elastasi, che scindono le proteine solo
a livello di legami interni;
 le esopeptidasi, tra cui le carbossipeptidasi, che scindono le proteine agendo sui legami terminali.
Esse vengono attivate solo quando ci sono proteine da digerire a livello del lume (questo rappresenta un
meccanismo protettivo) e l’attivazione procede con il tramite dell’enterochinasi, che converte il tripsinogeno
in tripsina. La tripsina trasformerà poi gli altri pro-enzimi in enzimi attivati.

Questi enzimi si differenziano per il sito d’azione sulle proteine: ad esempio la tripsina, scinde legami
peptidici lasciando amminoacidi basici all’estremità C-terminale mentre l’elastasi e la chimotripsina
scindono legami lasciando amminoacidi neutri all’estremità C-terminale. Alla fine della fase intestinale ci si
ritrova con peptidi corti e amminoacidi neutri e basici liberi.
Sull’orletto a spazzola. Sull’orletto a spazzola degli
enterociti, infine, ci sono delle peptidasi che agiscono come
aminopeptidasi e carbossipeptidasi che frammentano
ulteriormente le proteine, così da renderle assorbibili dalla
membrana apicale dell’enterocita stesso.
Nell’immagine al lato vediamo che esistono degli
specifici trasportatori per i peptidi, detti a specificità
ampia, perché riescono a trasportare diverse sequenze di
amminoacidi e non un tipo di sequenza specifico. Un
esempio di traportatore è PepT1, che permette di
internalizzare nella cellula di/tripeptidi tramite un co-
trasporto con protoni. Il gradiente di H+ fuori dalla cellula è
generato da un antiporto con il Na+ (NHE); ovviamente a

135
sua volta il gradiente di sodio è generato dalla pompa sodio/potassio (presente sulla membrana baso-laterale).
Nell’enterocita i di/tripeptidi assorbiti possono seguire due vie: essere usati a scopo metabolico dalla cellula o
essere riversati, dopo esser stati scissi in amminoacidi semplici da enzimi intracellulari, a livello dei capillari
tramite la membrana baso-laterale, per raggiungere infine il fegato tramite la vena porta.
Schema riassuntivo su digestione e assorbimento delle proteine:

Digestione e assorbimento dei lipidi


I lipidi si caratterizzano per la loro insolubilità in soluzione acquosa e per la loro importanza da un punto di
vista nutrizionale (forniscono molte più calorie rispetto a proteine e carboidrati per grammo di peso, e un
eccesso di assunzione di questa classe di nutrienti contribuisce allo sviluppo dell’obesità).
Nell’immagine seguente si vedono i principali lipidi assimilabili con la dieta: trigliceridi, fosfolipidi ed
esteri del colesterolo.

136
Oltre ai lipidi citati, a livello intestinale arrivano i lipidi di origine epatica presenti nelle secrezioni biliari
(dove c’è un quantitativo di colesterolo maggiore di quello che introduciamo con la dieta) e infine le vitamine
liposolubili (A, D, E e K).
Appena ingeriti i lipidi vanno a liquefarsi e a galleggiare sulla superficie del contenuto gastrico. Questo
provoca una riduzione dell’area di interfaccia tra la fase acquosa e lipidica del contenuto gastrico, cosa che
impedisce agli enzimi lipolitici (che si dispongono nella fase acquosa) di scindere i lipidi. Deve avvenire quindi
prima l’emulsione dei lipidi tramite rimescolamento del contenuto dello stomaco, che provoca la formazione
di una sospensione lipidica aumentando l’area di superficie della fase lipidica.
La prima fase di digestione dei lipidi avviene nello stomaco per opera della lipasi gastrica, che idrolizza i
trigliceridi in digliceridi e acidi grassi liberi (si ha anche a livello orale la lipasi linguale ma la sua azione è
modesta, tanto che può anche mancare). La lipolisi a livello gastrico è tuttavia incompleta e, come per le
proteine, è necessario un ulteriore step per avere dei prodotti che possano essere assorbiti.
Si continua quindi nel piccolo intestino grazie all’azione del succo pancreatico e degli acidi biliari. Nel
succo pancreatico è presente la lipasi pancreatica, che agisce sui trigliceridi producendo acidi grassi liberi,
digliceridi e monogliceridi. Cosa che può sembrare contraddittoria è che questa lipasi è inibita dagli acidi
biliari, i quali provocano la dissociazione tra le gocce di grasso e la lipasi stessa. Tuttavia, la sua azione è
permessa da un cofattore detto colipasi che favorisce il legame tra lipasi e trigliceridi facendo da ponte tra i
due.

137
Come si vede nell’immagine in alto:
A. si parte da una goccia lipidica che viene emulsionata da sali biliari e fosfolipidi generando le
microgocce lipidiche;
B. osservando queste microgocce si nota come ci siano i sali biliari all’esterno e i trigliceridi
internamente, su cui agiscono le lipasi con le colipasi, generando monogliceridi, digliceridi e acidi
grassi.
Gli acidi biliari hanno un’azione anfipatica grazie ad una porzione idrofobica ed una idrofilica, la prima
esposta verso l’interno delle microgocce mentre la seconda verso la fase acquosa. Questo permette alla lipasi
e alla colipasi (situate nalla fase acquosa) di agire sui trigliceridi.
Nella demolizione dei fosfolipidi e degli esteri del colesterolo non interviene la lipasi, bensì rispettivamente
la fosfolipasi A2 per i fosfolipidi e la colesterolo esterasi per gli esteri del colesterolo.
Per quello che riguarda l’assorbimento dei lipidi, la loro entrata negli enterociti avviene mediante specifici
trasportatori8. La specificità è data dal fatto che acidi grassi a catena lunga, media o corta seguiranno diverse
vie.
In particolare, gli acidi grassi a catena media e corta entrano nell’enterocita, non vengono elaborati nella
cellula e passano direttamente nel circolo sanguigno.
Per quanto riguarda quelli a catena lunga (ma anche colesterolo, monogliceridi, lisofosfolipidi) invece,
vengono internalizzati solo i prodotti della lipolisi, mentre la componente biliare non entra nella cellula (il
destino della bile sarà quello di essere riassorbita a livello dell’ileo terminale al fine di essere riciclata). I
prodotti della lipolisi vengono riesterificati e al livello del RE si generano fosfolipidi, trigliceridi ed esteri del
colesterolo. Contemporaneamente nella cellula sono sintetizzate le cosiddette apoliproteine, le quali si
andranno a ricombinare con i prodotti riesterificati generando i chilomicroni. Questi ultimi usciranno
dall’enterocita ed entreranno questa volta, a causa delle grosse dimensioni, nei vasi linfatici e non nei vasi
sanguigni come per gli acidi grassi a catena corta e media. Tramite i vasi linfatici i chilomicroni bypassano la
circolazione portale e raggiungono successivamente il circolo ematico tramite il dotto toracico.
Secrezione e assorbimento di acqua ed elettroliti

8
Dal Boron & Boulpaep: “L’assorbimento di acidi grassi potrebbe avvenire per diffusione non ionica dell’acido grasso
non caricato o per collisione e incorporazione dell’acido grasso nella membrana cellulare. Tuttavia, è chiaro che almeno
tre proteine integrali di membrana promuovono l’assorbimento degli acidi grassi […] Come per gli acidi grassi, si riteneva
che monacilglicerolo, lisofosfolipidi e colesterolo fossero assunti dall’enterocita mediante diffusione attraverso la
membrana plasmatica apicale dei villi dell’orletto a spazzola. Più di recente, tuttavia, oltre ai carrier per acidi grassi, sono
state identificate proteine di membrana che possono essere responsabili del trasferimento di acidi grassi, fosfolipidi e
colesterolo attraverso le membrane cellulari”. Considerazioni simili emergono dal Berne & Levy.

138
Il contenuto intestinale deve essere mantenuto fluido
così da potersi spostare agevolmente nell’intestino e così
che i prodotti della digestione possano diffondere fino
alla loro sede di assorbimento.
In media gli individui ingeriscono ogni giorno 1-2 L di
liquidi dall’esterno; in più quotidianamente una grossa
porzione di liquidi (8 L) è secreta dal tratto
gastrointestinale (a partire dalla saliva fino alle
secrezioni intestinali). Questo implica che all’intestino
ogni giorno pervengono circa 9-10 L di liquidi.
Come si vede nell’immagine, in soggetti sani, di questi
9-10 L a livello del colon ne arrivano circa 2, quindi la
maggior parte del riassorbimento di liquidi avviene
nell’intestino tenue (7 L). Nel colon avviene un ulteriore
riassorbimento, tale per cui alla fine con le feci vengono
eliminati solo 100-200 mL al giorno.
Il bilancio idrico deve essere finemente regolato,
specialmente nel tenue e colon. Il riassorbimento
avviene principalmente grazie agli effetti osmotici
dell’assorbimento dei nutrienti. Simultaneamente al
passaggio di nutrienti attraverso l’epitelio intestinale,
avviene dunque anche il passaggio di acqua attraverso
le giunzioni strette.

Analizziamo i diversi meccanismi tramite cui l’acqua può essere riassorbita e secreta.
 Assorbimento
Nella figura 30-17 si osserva l’assorbimento di acqua e sodio accoppiato al trasporto di nutrienti nel
piccolo intestino. In una condizione post-prandiale c’è presenza di nutrienti e si ha dunque abbiamo
l’assorbimento di glucosio e amminoacidi accoppiato con il Na+ tramite trasportatori specifici (ad
es., SGLT1). Il sodio è trasportato dal lume all’interno della cellula anche grazie ad un antiporto

139
Na+/H+ (NHE-3); si ha anche un entrata di cloro in antiporto con HCO3-. Questi meccanismi sono
accoppiati ad un riassorbimento di liquido, che appunto segue il gradiente osmotico.
Dal Boron & Boulpaep (ma il Berne & Levy dà informazioni equivalenti): “Il meccanismo di
assorbimento di NaCl mediato dagli scambiatori Na+/H+ e Cl/HCO3- rappresenta il principale metodo
di assorbimento del Na+ tra un pasto e l’altro (cioè nel periodo interdigestivo), ma non contribuisce
significativamente all’assorbimento di Na+ nella fase postprandiale, che viene mediato principalmente
dai trasportatori accoppiati ai nutrienti (glucosio e amminoacidi)”.
 Secrezione
Nel piccolo intestino si può avere anche la secrezione di elettroliti e dunque di acqua, che è regolata
da segnali quali deformazioni della mucosa e distensione intestinale. Le sostanze che stimolano la
secrezione elettrolitica possono essere l’acetilcolina, la serotonina, il VIP (peptide intestinale
vasoattivo) e le prostaglandine. Queste secrezioni garantiscono che il contenuto intestinale sia fluido
mano a mano che procedono i processi di digestione e assorbimento e sono importanti per lubrificare
il passaggio di cibo lungo l’intestino.
Il maggior flusso di liquidi nel lume intestinale è dato dalla secrezione attiva di cloro (figura 30-18)
tramite il canale CFTR (deficitario nel caso della fibrosi cistica).9
Infine, ci sono meccanismi (figura 30-19) che portano a secernere ioni HCO3-, che hanno funzione
protettiva contro l’acidità, soprattutto a livello del duodeno e del piloro, che sono le zone
maggiormente esposte all’acidità gastrica.

In conclusione si può dire che “in condizioni di salute, l’intestino tenue è un assorbitore netto di acqua, Na+,
Cl- e K+, ma è un secretore netto di HCO3-. In generale, i processi di assorbimento sono intensificati nel periodo
postprandiale” (Boron & Boulpaep).

Motilità del piccolo intestino


Tra gli aspetti che caratterizzano l'intestino tenue occorre ricordarne due in particolare, ovvero il rilascio al
suo interno di secrezione pancreatica e bile e il fatto che in esso avviene la digestione e l'assorbimento dei
nutrienti. I meccanismi utilizzati variano a seconda dei nutrienti, possono essere più o meno complessi ma

9
“Normalmente le cripte secernono poco Cl- perché i canali del Cl- della membrana apicale sono chiusi o non presenti.
La secrezione del Cl- richiede una stimolazione da parte di uno dei diversi secretagoghi, quali enterotossine, ormoni e
neurotrasmettitori, prodotti di cellule del sistema immunitario (ad esempio, l’istamina) e lassativi. Questi secretagoghi
agiscono aumentando i livelli intracellulari di nucleotidi ciclici o di Ca 2+. Ad esempio, il peptide intestinale vasoattivo
(VIP) agisce attraverso l’adenilato ciclasi”. (Boron & Boulpaep)

140
volti tutti alla scissione degli elementi introdotti con la dieta in elementi tali da poter essere assorbiti a livello
degli enterociti che tappezzano la mucosa intestinale.
In questo tratto si hanno fondamentalmente tre necessità, che sono mescolare il contenuto luminale con le
secrezioni, far sì che i prodotti della digestione possano stare a contatto con la parete intestinale in modo da
favorire il processo di assorbimento e far spostare il contenuto in direzione aborale.
Lo schema riportato mostra come si differenziano le modalità di motilità dell'intestino

Durante il periodo post-prandiale sono presenti due possibili tipi di movimento:


1. Una contrazione di segmentazione, non propulsiva, che ha funzione di rimescolamento, miscelazione
del contenuto luminale e fa in modo che esso stia a contatto lungamente con la parete dell'intestino,
ma anche con i succhi pancreatici e la bile, favorendo l'assorbimento dei nutrienti. Essa è
presumibilmente sotto il controllo del sistema nervoso enterico, anche se vanno ricordati anche
mediatori ormonali, come la colecistochinina (ricorda, la CCK controlla anche lo svuotamento gastrico
in modo da rallentarlo affinché tutti gli elementi digeriti e assorbiti possano essere assorbito a livello
intestinale).
2. Una contrazione peristaltica, propulsiva, che ha luogo dopo l'assorbimento e serve a far progredire il
contenuto luminale (che contiene i residui non digeriti) in direzione aborale affinché il lume possa
liberarsi e prepararsi a ricevere altro cibo. La peristalsi è stimolata dalla sostanza P e dall'acetilcolina
che vengono rilasciate a monte di un tratto intestinale disteso e che fanno contrarre la muscolatura
circolare, mentre a livello più caudale vengono rilasciati il peptide intestinale vasoattivo (VIP) e
l'ossido nitrico che permettono il rilascimento a valle. I contemporanei contrazione a monte e
rilasciamento a valle favoriscono la progressione del contenuto luminale.

Nei periodi interprandiali, ovvero quando si è a digiuno, a livello del piccolo intestino si verificano
contrazioni fasiche di breve durata che prendono il nome di complesso mioelettrico migrante. Sono i
cossidetti “crampi da fame”, un insieme di movimenti che dipendono dall'innervazione vagale presente in
questo tratto e dalla presenza di motilina; quest'ultimo è un ormone il cui rilascio aumenta in fase di digiuno
e che determina una serie di contrazioni di intensità e ritmo variabili che partono dalle cellule pacemaker dello
stomaco e si trasmettono fino alla valvola ileo-cecale. Quello del complesso mioelettrico migrante è un
processo che avviene circa ogni due ore e può essere suddiviso in tre fasi aventi durata e caratteristiche diverse:
1. La prima è caratterizzata da quiescenza motoria. Dura all'incirca 40-60 minuti e le contrazioni che
compaiono sono meno di tre al minuto. È il cosiddetto ileo fisiologico, in cui l'assenza di attività
motoria è dovuta all'azione dei neuroni inibitori del sistema nervoso enterico.
2. Nella seconda fase si verificano una serie di contrazioni irregolari, non coordinate, che si sviluppano
per 40-50 minuti.
3. La terza fase presenta contrazioni ritmiche, regolari e intense che durano dai 2 ai 15 minuti
(generalmente circa 10). Sono in direzione aborale e si propagano per tutta l'estensione dell'intestino:
partono dall'antro gastrico e si spostano fino alla valvola ileo-cecale.
Tali contrazioni hanno la funzione di svuotare completamente lo stomaco e l'intestino tenue: si verifica infatti
l'apertura di piloro e valvola ileo-cecale ed eventuali frammenti (non frammentati in maniera adeguata)
possono così essere allontanati. Quando il complesso ha raggiunto la valvola ileo-cecale, dalla zona pacemaker
dello stomaco parte un nuovo ciclo di attività.
Dopo il pasto l'attività di questo complesso scompare perché i livelli di motilina si riducono, quindi il

141
complesso non può insorgere fintanto che questi livelli non aumentano di nuovo.

Fase colica
Costituisce la fase finale della risposta all'ingestione di cibo: il contenuto infatti giunge nel grande intestino
attraverso l'azione del complesso mioelettrico migrante e attraversa tutti i segmenti del crasso (cieco, porzioni
ascendente, trasversa, discendente, sigmoidea del colon, retto) per giungere infine all'ano.
Le funzioni del colon sono:
1. ulteriore digestione e assorbimento di nutrienti: rappresenta l'ultima possibilità per l'organismo di
digerire e assorbire nutrienti prima che questi vengano espulsi con le feci;
2. assorbimento di liquidi ed elettroliti: a livello del colon arrivano all'incirca 2 litri di liquidi, ma solo
100-200 ml vengono eliminati con le feci, il resto è riassorbito;
3. progressione e compattamento dei prodotti di scarto;
4. la presenza di una microflora di batteri commensali, il microbiota, un ecosistema in simbiosi con
l'organismo per tutta la vita, permette all’organismo stesso di svolgere determinate funzioni che non
possono essere vicariate in nessun altro modo.
Dal punto di vista anatomico il colon è caratterizzato da un epitelio cilindrico al di sotto del quale si trova la
lamina propria, gli strati muscolari e infine la lamina sierosa.
La muscolatura si caratterizza per la formazione di strutture con caratteristiche ben definite: la muscolatura
circolare si contrae a tratti formando segmenti, sacculazioni irregolari di nome haustra, mentre quella
longitudinale si ispessisce in tre bande longitudinali che prendono il nome di taeniae coli. Il contenuto luminale
del tratto contenuto tra due haustra viene spostato avanti e indietro con un ritardo nella progressione luminale
e viene ottimizzato il contatto con l'epitelio in modo tale da favorire i processi che si svolgono a questo livello.

Motilità colica: tipi di contrazioni, archi riflessi, freno dell’ileo, radioscintigrafia


L'azione motoria nel colon è volta a rimescolare il contenuto e a ritardarne la progressione. Si tratta di
progressioni che avvengono sia in direzione orale che in direzione aborale. Il ritmo elettrico di base che serve
a svuotare l'intestino tenue si arresta a livello della valvola ileo-cecale e non è quindi presente nel colon.
Sono presenti contrazioni essenzialmente di due tipi (in realtà di tre):
1. stazionarie brevi, di circa 8 secondi, volte a rimescolare il contenuto luminale e si originano grazie
alla muscolatura circolare;
2. più durature (20-60 secondi), si propagano nei due sensi e sono prodotte grazie alle taeniae coli;
3. si può avere un terzo tipo di contrazioni, che vengono indicate come contrazioni migranti di grande
ampiezza: si osservano solo circa dieci volte al giorno e sono movimenti ad elevata intensità che si
propagano per tutta la lunghezza del colon in direzione aborale (a differenza delle precedenti, che
avvengono in entrambi i sensi) e ne favoriscono lo svuotamento, un po' come le contrazioni ritmiche
e regolari della terza fase del complesso migrante.

È possibile a livello del grande intestino osservare archi riflessi, che originano nei segmenti più prossimali
del tratto gastro-intestinale. Ne esistono due tipi:
1. riflesso gastro-colico: quando lo stomaco si riempie di cibo, la pressione che questo bolo esercita va
ad attivare un arco riflesso lungo che induce aumento di motilità del colon e può provocare necessità
di evacuare il contenuto del colon per far posto a residui dei pasti successivi; è particolarmente
evidente nei bambini piccoli;

142
2. riflesso orto-colico: attivato quando si passa in posizione ortostatica (ad esempio, quando ci si alza
dal letto la mattina si ha il tipico bisogno di andare in bagno).

Quando i nutrienti che non sono ancora stati assorbiti (soprattutto lipidi) giungono all'ileo terminale e alla
parte prossimale del colon possono indurre la liberazione di peptide YY, un prodotto delle cellule
enteroendocrine che inibisce l'attività motoria gastrica e ileale e sfavorisce la secrezione di cloro nel lume
intestinale10. In questo modo viene favorita la permanenza del contenuto luminale nel piccolo intestino e quindi
la digestione e l'assorbimento. Questo processo prende il nome di freno dell'ileo ed è un meccanismo
attraverso il quale l'organismo cerca di assorbire e digerire tutto quello che può recuperare di quel che è stato
introdotto con la dieta.

Un esempio di analisi che permette di valutare la tempistica di transito del contenuto intestinale nel colon è
la radioscintigrafia, attraverso cui si può osservare il tempo di transito nell'intestino crasso. Il colon trasverso
risulta essere il tratto dove vi è minor velocità di transito e quindi maggior tempo di ritenzione, infatti al suo
interno avviene il massimo riassorbimento di acqua ed elettroliti. Occorre comunque ricordare che il tempo e
la velocità con cui il contenuto del colon è trasportato verso il retto è variabile.

Meccanismi di trasporto degli elettroliti (e quindi dell’acqua) nel colon


Il grande intestino riassorbe circa dai 1800 ai 2000 mL di liquidi, e solo 100-200 mL di liquidi sono espulsi
con le feci (si parla sempre di valori al giorno). La capacità di assorbire i liquidi può variare a seconda delle
necessità dell'organismo e può anche aumentare fino a 4-6 litri al giorno (dal Boron: “un aumento
compensativo dell’assorbimento di fluidi nel colon può impedire un aumento dell’acqua fecale nonostante
diminuzioni sostanziali dell’assorbimento di fluidi nell’intestino tenue”). Una possibile secrezione si ha a
livello delle cripte (invaginazioni a livello delle quali vengono prodotte le nuove cellule) e assicura la sterilità
delle cripte stesse.
Per quanto riguarda l’assorbimento e la secrezione di acqua a livello del colon, i processi passivi (molto
simili a quelli che avvengono nell’intestino tenue) sono principalmente tre:
 Meccanismo di assorbimento di NaCl: è identico al processo già incontrato nel piccolo intestino. Il
sodio può essere riassorbito sia in simporto con determinate sostanze che in antiporto con protoni; il
cloro è essenzialmente riassorbito in antiporto con il bicarbonato. L’acqua segue il sodio e il cloro per
gradiente osmotico.
 Meccanismo di captazione degli acidi grassi a catena corta (SCFA): gli acidi grassi a catena corta
(quali acetato, propionato e butirrato) vengono assorbiti dalle cellule epiteliali superficiali con
meccanismi dipendenti dal sodio, soprattutto in simporto (vedi figura 31-4). Gli acidi grassi a catena
corta sono importanti perché possono essere utilizzati come fonte di energia da parte delle cellule del
colon, oppure dai batteri presenti a questo livello.
 Meccanismo di assorbimento elettrogenico degli ioni Na+: avviene soprattutto nella parte distale
del colon, grazie al canale ENaC (canale epiteliale del Na+) che è implicato nel riassorbimento del
sodio anche a livello renale. Grazie ad esso, il Na+ riesce ad entrare nel citosol della cellula e
successivamente riesce a passare attraverso la membrana baso-laterale grazie alla presenza della
pompa Na+/K+ ATPasi. Lo ione Cl- segue in maniera passiva attraverso le giunzioni strette
intracellulari, in modo tale da mantenere la neutralità elettrica (vedi figura 31-5). L’acqua, quindi,
verrà assorbita attraverso le giunzioni strette mediante il gradiente osmotico che si genera
dall’assorbimento dei soluti. Nello specifico, l’assorbimento del sodio è particolarmente importante
perché rappresenta l’ultima possibilità che l’organismo può mettere in atto per evitare l’eccesso di
perdita di liquidi attraverso le feci.
In sintesi, “nel colon umano si verifica l’assorbimento netto di acqua, Na+ e Cl- con poche eccezioni, mentre
vi è la secrezione netta di K+ e HCO3-” (Boron & Boulpaep).

10
Attenzione. Faccio notare che nella sbob era scritto che il peptide YY favorisce la secrezione di cloro, ma ciò è
esattamente l’opposto di quanto riportato sia dal Berne & Levy che dal Boron & Boulpaep (e oltre tutto è anche illogico,
perché un aumento della secrezione di cloro aumenterebbe i liquidi nel lume intestinale e favorirebbe la progressione del
contenuto anziché frenarla); ritengo dunque sia stato un errore di battitura o al massimo una svista della prof.

143
Microbiota intestinale
Una caratteristica peculiare del colon è la presenza del cosiddetto microbiota intestinale, un insieme di
batteri commensali. Esso è un ecosistema che si forma dopo la nascita e matura durante la crescita
dell’individuo:
 negli individui sani, può mutare in relazione alla dieta e al ritmo circadiano ma viene comunque sempre
mantenuto;
 in seguito all’assunzione di antibiotici o in presenza di agenti patogeni, ci può essere un
danneggiamento del microbiota intestinale.
Tra le funzioni svolte dal microbiota intestinale vi sono:
 Mantenere la funzionalità metabolica del grande intestino
A livello del grande intestino, infatti, si ha tale relazione simbiontica con effetti benefici
sull’organismo ospite proprio perché tali batteri intestinali possono indurre la trasformazione di alcune
sostanze. Essi svolgono delle reazioni metaboliche che altrimenti non potrebbero essere svolte dalle
cellule del nostro organismo. Alcuni batteri agiscono su substrati endogeni (es. urea, bilirubina, acidi
biliari), altri su substrati esogeni (fibre, amminoacidi). Hanno un’azione fondamentale nella
formazione degli acidi biliari secondari, sulla deconiugazione degli acidi biliari che non sono stati
assorbiti a livello dell’ileo terminale, in modo tale da renderne possibile il riassorbimento. In più, si
ricordi, permettono la conversione della bilirubina in urobilinogeno.

 Limitare la crescita e l’invasione di microrganismi patogeni

144
Quando si assumono antibiotici, soprattutto quelli ad ampio spettro, questi vanno ad alterare
l’ambiente del colon; per questo motivo, sono spesso prescritti in associazione alcuni probiotici
(batteri commensali selezionati) in grado di resistere all’acidità gastrica e alla proteolisi, andando così
a supportare l’instaurarsi di un nuovo microbiota che aiuti l’organismo.
 Contribuire alla formazione dei gas intestinali
Essi si creano per la fermentazione di composti dietetici che non sono stati assorbiti.
In conclusione, bisogna sottolineare che l’azione di questi batteri intestinali è un ambito di ricerca in continua
evoluzione, finalizzato ad una loro migliore comprensione ma anche ad una valutazione più accurata della loro
azione protettiva (che hanno ad es. in caso di infezioni da agenti patogeni ecc.)

Defecazione
Con il processo della defecazione vengono espulsi:
 residui di cibo che non sono stati digeriti dal corpo;
 eventuali residui di batteri morti e cellule epiteliali morte, che si sono staccate dal rivestimento
intestinale;
 metaboliti che sono stati secreti con la bile;
 piccoli volumi di acqua (100-200 mL/die);
 piccole quantità di nutrienti (se sono di natura lipidica, si parla di steatorrea, che può essere indice di
una mancata digestione o malassorbimento dei lipidi).
Per comprendere il meccanismo della defecazione, occorre ricordare l’anatomia del tratto interessato. Il colon
sigmoideo termina al livello del retto, congiungendosi con esso grazie ad un angolo acuto denominato
giunzione retto-sigmoidea. La struttura del retto è particolare anche per il tipo di muscolatura che la
caratterizza: esso è infatti privo di muscolatura circolare, presenta solo muscolatura longitudinale ed ha
funzione di serbatoio, a livello del quale si vanno ad accumulare le feci prima di essere espulse. Le contrazioni
che si possono sviluppare a livello del retto formano strutture denominate valvole rettali, che vanno a ritardare
il movimento delle feci fino al momento opportuno. Il retto si continua poi nel canale anale, caratterizzato
dalla presenza di muscolatura liscia e muscolatura striata; gli strati muscolari a questo livello agiscono, al fine
di controllare l’eliminazione sia dei residui solidi che dei residui gassosi, come due sfinteri:
 sfintere anale interno: è dato dall’ispessimento della muscolatura circolare liscia;
 sfintere anale esterno: è costituito da tre formazioni muscolari striate che prendono origine dalla
cavità pelvica.
Il tono basale presente a questo livello è particolarmente elevato e tali sfinteri possono contrarsi in maniera
volontaria o riflessa in risposta ad aumenti di pressione a livello addominale.
Il sistema nervoso enterico ed il vago vanno a contrarre gli strati circolari della parte prossimale del colon.
I nervi pelvici controllano il resto del colon ma soprattutto il calibro dello sfintere anale interno. I nervi
pudendi convogliano i comandi volontari e regolano la contrazione dello sfintere anale esterno e dei muscoli
del pavimento pelvico. Si può quindi affermare che gli sfinteri sono anche sotto il controllo volontario.
Il processo della defecazione richiede coordinazione degli strati muscolari lisci e striati a livello del retto e
dell’ano. In più, è importantissimo il contributo dato dai muscoli del pavimento pelvico.
In presenza del movimento dovuto alle contrazioni migranti di grande ampiezza, vi sarà il riempimento del
retto con il materiale fecale, la cui espulsione è controllata dai due sfinteri. Il tono fornito dai due sfinteri a
riposo è a contributo del 70-80% dello sfintere anale interno e del 20-30% dello sfintere anale esterno.
Quando si ha il riempimento del retto con il materiale fecale, il rilascio di peptide intestinale vasoattivo e
ossido nitrico (NO) determina il rilasciamento dello sfintere anale interno, il quale determina a sua volta il
meccanismo del cosiddetto campionamento anale. Esso permette di valutare e capire la natura del contenuto,
ovvero se si tratta di materiale solido, liquido o di gas. Quando viene assunto il controllo degli sfinteri, le
terminazioni nervose sensitive della mucosa anale vanno a generare riflessi, i quali determinano un’attività
appropriata dello sfintere esterno in modo tale che sia in grado di trattenere il contenuto del retto o di eliminarlo
a seconda del momento:
 se non è ritenuta opportuna la defecazione, lo sfintere anale esterno si contrae, impedendo in questo
modo la fuoriuscita delle feci, il retto dovrà riadattarsi nuovamente al volume di materiale fecale, lo
sfintere anale interno si contrae nuovamente e a questo punto lo sfintere anale esterno potrà rilasciarsi.

145
Quindi, quando la defecazione deve essere procrastinata, occorre che l’azione dello sfintere anale
esterno, del muscolo pubo-rettale e delle terminazioni del canale anale venga finemente coordinata;
 quando si può procedere con la defecazione, l’assunzione di una postura accovacciata o seduta
modifica l’orientamento dell’intestino rispetto alle strutture muscolari che lo circondano, facilitando
in questo modo l’eliminazione del contenuto intestinale. In più, vi sarà il rilasciamento del muscolo
pubo-rettale che aumenta l’angolo ano-rettale favorendo il processo. Quando lo sfintere anale esterno
va a rilasciarsi volontariamente, le contrazioni che insorgono a livello del retto possono far sì che il
materiale fecale venga spinto verso l’esterno; questo movimento sarà seguito da un successivo ed
ulteriore movimento di massa delle feci da parte dei segmenti più prossimali del colon che tendono a
spostare altro materiale verso la regione del retto.
Il processo dell’evacuazione è sostenuto e
accompagnato anche da altri movimenti
volontari volti ad aumentare la pressione
addominale. Alcuni esempi sono:
- contrazione del diaframma;
- inspirazione profonda;
- espirazione forzata a glottide chiusa
(anche detta manovra di Valsalva);
- abbassamento del pavimento pelvico.
Quando il campionamento anale indica che il materiale
da eliminare è gassoso gli eventi volti ad eliminare il gas
sono simili, ma il muscolo pubo-rettale non va a
rilasciarsi.
Nell’immagine di lato si nota:
 nel retto l’aumento del tono;
 lo sfintere anale interno si rilascia;
 lo sfintere anale esterno si contrae.
Vi è un adattamento degli sfinteri a seconda che il
soggetto decida di eliminare o di trattenere il contenuto
(in questo caso, vista la contrazione dello sfintere
esterno, si osserva il tentativo di trattenere il
contenuto11).
Nell’immagine in basso è riportata l’innervazione del retto e degli sfinteri anali.

11
La prof. non l’ha detto, ma il Berne & Levy lo lascia intendere. Inoltre osservando la variazione di pressione nel grafico
dello sfintere esterno, non si nota il tipico rilasciamento volontario che è necessario nella defecazione.

146
 L’innervazione efferente simpatica (nell’immagine, in viola) è responsabile della continenza. Fa ciò
inducendo rilasciamento della muscolatura liscia rettale e contrazione dello sfintere anale
interno.
 L’innervazione efferente parasimpatica e somatica (nell’immagine, in blu) sono responsabili della
defecazione (nervi splancnici per la componente parasimpatica, nervi pudendi per quella somatica).
Esse fanno ciò stimolando la contrazione della parete rettale e il rilascio dello sfintere anale
interno (componente parasimpatica) e controllando lo sfintere anale esterno (componente somatica,
volontaria)12.
 L’innervazione afferente (nell’immagine, in verde) è in grado di dare sensazioni coscienti e/o di
attivare riflessi autonomici.
Dunque, il processo di defecazione e la continenza sono processi in parte volontari, mediati dal sistema
nervoso somatico, in parte involontari, mediati dal sistema nervoso autonomo ed enterico attraverso i
riflessi spinali.
A livello del midollo spinale:
 la continenza è controllata da centri posti a livello di L1-L2 (simpatico);
 la defecazione è controllata da centri posti a livello di S2-S3 (parasimpatico).
Il retto, fungendo da serbatoio, deve avere la capacità di adattarsi a seconda dello svolgimento o meno del
processo di defecazione. È inoltre di fondamentale importanza la sinergia tra retto e i due sfinteri anali, che
sono proprio per questo finemente controllati.

12
Il controllo volontario dello sfintere anale esterno è coinvolto sia nella defecazione che nella continenza. La contrazione
dello sfintere anale esterno è coinvolta nella continenza, mentre il rilasciamento nella defecazione.

147
FISIOLOGIA DELL’APPARATO
CARDIOVASCOLARE
Prof. A. Silvani,
V.C. Lo Martire e S. Trazzi

Gittata sistolica
 Genesi e modalità di propagazione dell'impulso cardiaco.
 Correlazione tra eventi elettrici ed eventi meccanici del ciclo cardiaco.
 Posizione e movimenti delle valvole, pressioni e volumi atriali e ventricolari nelle diverse
fasi del ciclo cardiaco.
 Durata delle fasi del ciclo cardiaco.
 Rumori cardiaci e loro genesi.

Gittata Cardiaca
 Gittata sistolica e gittata cardiaca.
 Applicazione del Principio di Fick e del metodo della diluizione dell'indicatore alla
determinazione della gittata cardiaca.
 Diagramma volume pressione nel ventricolo sinistro.
 Regolazione intrinseca eterometrica (meccanismo di Frank-Starling) e omeometrica
(aumento della frequenza cardiaca, risposta all'aumento della pressione diastolica).
 Regolazione estrinseca (nervosa e umorale) dell'attività elettrica e meccanica del miocardio.
 Indici di contrattilità del miocardio.

Metabolismo cardiaco
 Variazioni del flusso ematico coronarico durante il ciclo cardiaco.
 Regolazione nervosa e umorale del circolo coronario.
 Metabolismo cardiaco. Lavoro del cuore.
 Legge di Laplace applicata al cuore.

Controllo integrato del sistema cardiovascolare


 Pressione venosa centrale.
 Controllo integrato del sistema cardiovascolare: curve della funzione cardiaca; curve della
funzione vascolare.
 Relazioni tra curve della funzione cardiaca e curve della funzione vascolare.

Organizzazione funzionale del sistema vascolare


 Caratteristiche elastiche e funzioni delle grandi arterie.
 Legge di Laplace applicata ai vasi.
 Polso arterioso centrale e periferico.
 Funzioni delle arteriole.
 Regolazione del flusso capillare.
 Ruolo dell'endotelio e del muscolo liscio nella regolazione del flusso ematico.
 Funzione dei vasi linfatici.
 Funzione dei vasi venosi.

Pressione arteriosa e sua regolazione

148
 Regolazione riflessa della pressione arteriosa: localizzazione, struttura e caratteristiche
funzionali dei barocettori aortici e carotidei; riflessi cardiaci e vasomotori a partenza dai
barocettori aortici e carotidei
 Riflessi a partenza dai recettori cardiaci
 Ruolo del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
 Determinazione della pressione arteriosa (LABORATORIO): Determinazione della
pressione arteriosa mediante il metodo sfigmomanometrico di Riva-Rocci.

Elettrocardiogramma (LABORATORIO)
 Fondamenti fisici dell'elettrocardiografia: concetto di volume conduttore, dipolo elettrico
equivalente e vettore elettrico.
 Tecniche di registrazione dell'attività elettrica cardiaca: derivazioni bipolari, aumentate e
precordiali.
 Vettore cardiaco istantaneo e genesi delle forme d'onda nelle derivazioni bipolari.
 Calcolo del vettore cardiaco medio o asse elettrico ventricolare.

149
6. Gittata sistolica
6.1. Genesi e modalità di propagazione dell’impulso cardiaco

Introduzione
Il miocardio è costituito da fibre muscolari striate eccitabili, che hanno bisogno di un’eccitazione elettrica
per andare incontro a contrazione; questa contrazione deve avvenire in maniera ben coordinata.
Il cuore costituisce di fatto due pompe, in serie l’una rispetto all’altra; esse devono andare incontro ad una
contrazione che segua una sequenza temporale ben definita, in modo tale da essere propulsive.

 La prima delle due pompe è il cuore destro, costituito da atrio e ventricolo (che a loro volta
corrispondono a due pompe in serie). L’atrio destro riceve il sangue refluo proveniente dalla
circolazione sistemica dell’organismo attraverso le vene cave, e lo porta al ventricolo destro che pompa
il sangue all’interno del circolo polmonare.
 A valle del circolo polmonare c’è il cuore sinistro, costituito anch’esso da due pompe in serie: l’atrio
sinistro riceve sangue dal circolo polmonare e lo pompa nel ventricolo sinistro, il quale a sua volta lo
pompa in aorta e di conseguenza in tutto il circolo sistemico.
Il sistema è dunque formato da due macro-pompe (cuore destro e sinistro) ciascuna costituita da due micro-
pompe (atrio e ventricolo). La contrazione di queste strutture deve essere ben coordinata, in modo tale da poter
avere un flusso di sangue direzionale dal circolo polmonare al sistemico con ritorno dello stesso al cuore, per
far ripartire il ciclo.

Pacemaker primario e secondari – Overdrive suppression


Alla base di tutto ciò vi è una propagazione dell’eccitazione elettrica (e quindi del potenziale d’azione)
all’interno del miocardio. Il potenziale origina fisiologicamente da un sito ben preciso: il pacemaker
primario, che corrisponde al nodo seno-atriale (SA), struttura localizzata nell’atrio destro in prossimità delle
vene cave. Il termine inglese pacemaker può essere tradotto con il termine italiano metronomo, lo strumento
utilizzato dai musicisti per seguire un tempo regolare. Esistono dispositivi impiantabili (artificiali), detti
comunemente pacemaker1, impiegati dai cardiologi per fornire al cuore un’eccitazione elettrica regolare nel
caso in cui il sistema di conduzione cardiaco fisiologico smetta di funzionare in maniera appropriata. I
pacemaker artificiali, impiantabili, mimano la funzione del pacemaker primario.
Il nodo SA è detto pacemaker primario perché ci sono altre cellule all’interno del cuore che sono in grado di
dare ritmo e fungere da metronomi per il cuore: sono i pacemaker secondari o ectopici.
Il pacemaker primario domina sugli altri perché ha fisiologicamente il ritmo più veloce; ha cioè una frequenza
intrinseca maggiore di quella degli altri pacemaker, pari a circa 60 bpm (quindi circa un battito al secondo).2
(N.B. Si è cosndierato 60 bpm per semplicità, ma la frequenza intrinseca è in realtà un po’ superiore, 60-70
bpm). La frequenza degli altri pacemaker è inferiore (e.g., il nodo AV ha una frequenza intrinseca di circa 50
potenziali d’azione al minuto).
Il pacemaker primario ha la frequenza intrinseca maggiore per poter mettere in atto il fenomeno
dell’overdrive suppression. Ogni volta che una cellula eccitabile (come le cellule del miocardio) si eccita, va
incontro ad alterazioni nelle concentrazioni ioniche: di fatto l’eccitazione, e quindi il potenziale d’azione,
dipende proprio dal flusso di ioni in ingresso e in uscita. In molte cellule eccitabili, salvo rare eccezioni, il
potenziale d’azione dipende criticamente da un flusso di Na+. La fase di depolarizzazione del potenziale
consegue dunque a un flusso di Na+ in ingresso nella cellula. Il sodio che entra nella cellula in qualche modo
dovrà anche essere riportato fuori, alle condizioni di riposo, per ristabilire la situazione di omeostasi cellulare;

1
Si noti dunque che un pacemaker è per definizione stretta un dispositivo in grado di generare impulsi elettrici, i quali a
loro volta causano la contrazione del cuore. Si parla di pacemaker naturali per riferirsi alle zone di miocardiociti specifici
in grado di generare spontaneamente potenziali d’azioni ripetuti con un certo ritmo, mentre in ambito clinico il termine è
utilizzato per indicare il dispositivo medico che mira, con l’emissione di efficaci impulsi elettrici, a mantenere regolare e
costante la contrazione cardiaca, quando questa sia seriamente compromessa da una condizione patologica che coinvolga
il sistema di formazione e di conduzione degli stimoli (pacemaker artificiali).
2
Il prof. parla di bpm (battiti per minuto), ma in realtà la frequenza intrinseca si misura in numero di potenziali d’azione
(eventi elettrici) per minuto. La frequenza cardiaca sarà numericamente uguale alla frequenza intrinseca del nodo SA, ma
questo non è vero per i pacemaker secondari (almeno in condizioni fisiologiche).

150
la proteina che permette ciò è la pompa Na+/K+ ATPasi. Essa con trasporto attivo primario pompa sodio in
uscita e potassio in entrata, ristabilendo i gradienti ionici. L’aspetto cruciale dell’overdrive suppression è il
fatto che la pompa Na+/K+ ATPasi abbia una stechiometria particolare (3 ioni Na+ espulsi ogni 2 ioni K+
internalizzati): nel momento in cui essa è chiamata a lavorare di più perché c’è stata una maggiore frequenza
di potenziali d’azione, verrà portata fuori una certa quantità di Na + e portata dentro una quantità inferiore di
K+. In altre parole, la pompa Na+/K+ ATPasi contribuisce alla iperpolarizzazione di membrana, rendendo il
potenziale di membrana più negativo.
I pacemaker secondari vengono portati dal pacemaker primario a lavorare ad una frequenza che è superiore
alla loro. Vanno incontro ad un maggior lavoro della pompa Na+/K+ ATPasi, che quindi iperpolarizza la loro
membrana cellulare e li rende meno suscettibili a raggiungere la loro soglia di depolarizzazione. Per questo
quando il pacemaker primario funziona, l’automaticità delle cellule dei pacemaker secondari è
soppressa. Se il pacemaker primario smette invece di funzionare o funziona in maniera erronea (es. frequenza
più lenta del normale), allora i secondari recuperano la loro eccitabilità, l’iperpolarizzazione mediata dalla
pompa Na+/K+ ATPasi viene meno (perché a basse frequenze lavora meno) e il risultato è che permettono al
cuore di battere, ovviamente ad una frequenza più bassa del normale (che corrisponde alla loro frequenza
intrinseca). La presenza di pacemaker ectopici è perciò benefica per l’organismo, anche se è vero, da un altro
punto di vista, che può contribuire allo sviluppo di aritmie.

Trasmissione dell’impulso cardiaco


L’eccitazione cardiaca viene condotta da una cellula all’altra perché le cellule del miocardio costituiscono di
fatto un sincizio elettrico. Queste cellule sono unite da giunzioni che creano una connessione fisica tra le cellule
e permettono al miocardio di contrarsi in maniera coordinata; costituiscono delle vie a bassa resistenza che
permettono all’eccitazione di passare da una cellula all’altra. Così l’eccitazione prodotta dal pacemaker
primario può arrivare ai pacemaker secondari.
Percorso del potenziale d’azione che genera contrazione:
1. Dal pacemaker primario l’eccitazione passa alle cellule degli atri (sia destro che sinistro). Il pacemaker
primario si trova nell’atrio destro: di conseguenza l’eccitazione sarà per lo più impegnata a raggiungere
l’atrio sinistro. Il verso prevalente con cui l’eccitazione si propaga negli atri è da destra verso
sinistra, perché il pacemaker primario si trova a destra e il grosso del lavoro lo deve fare per
raggiungere l’atrio di sinistra, quello più lontano.
2. L’eccitazione non raggiunge direttamente i ventricoli. Fisiologicamente ciò non è permesso: il cuore
è dotato di uno scheletro fibroso privo di gap junctions, e quindi non in grado di propagare
l’eccitazione elettrica direttamente tra atri e ventricoli. (N.B. Esistono pazienti che presentano delle
soluzioni di continuità di questo scheletro fibroso che fanno sì che l’eccitazione possa passare
direttamente dagli atri ai ventricoli, come per esempio nel caso della sindrome di Wolff-Parkinson-
White, ma sono condizioni patologiche3). Dal nodo senoatriale l’eccitazione passa al nodo atrio-
ventricolare, situato tra l’atrio destro e il setto interventricolare. Esso presenta una velocità di
propagazione dell’eccitazione più lenta; il che è utile, e fa sì che possa passare un certo intervallo di
tempo tra la contrazione degli atri e quella dei ventricoli: se atri e ventricoli si contraessero
simultaneamente il sangue non potrebbe essere propulso in maniera direzionale.
3. Dal nodo AV l’eccitazione prosegue lungo un fascio specializzato di fibre detto fascio di His. Esso
decorre in prossimità del setto interventricolare per poi suddividersi in due branche, una destra e una
sinistra:
o la branca destra è la continuazione del fascio di His;
o la branca sinistra è più grossa e si stacca circa ad angolo retto dal fascio di His per poi
sfioccare ulteriormente in un ramo posteriore e un ramo anteriore.
I rami della branca sinistra e della destra raggiungono le cellule del miocardio ventricolare, andando
fino agli apici del miocardio e poi tornano indietro verso la base del cuore. Questi rami sono costituiti
dalle fibre del Purkinje, le quali sono caratterizzate da una velocità di conduzione molto rapida che
permette di portare l’informazione di contrazione in maniera più o meno simultanea a tutte le cellule.

3
Per approfondimenti si veda il box dedicato del Berne & Levy.

151
N.B. I pacemaker secondari si trovano sia nel nodo atrioventricolare che nelle fibre del Purkinje. La frequenza
intrinseca dei pacemaker del nodo atrioventricolare è inferiore a quella del nodo seno-atriale; quella delle fibre
del Purkinje è ancora inferiore.

Ricapitolando, se il nodo seno-atriale funziona adeguatamente gli altri pacemaker rimangono silenti
(overdrive suppression); se presenta qualche problema, interviene il nodo atrioventricolare che mantiene il
cuore pulsatile ma ad una frequenza più bassa. A sua volta l’automaticità delle fibre del Purkinje viene
soppressa per overdrive suppression dal nodo atrioventricolare. Se c’è un problema anche a livello del nodo
atrioventricolare intervengono le fibre del Purkinje che permettono al ventricolo di contrarsi ad una frequenza
molto bassa ma auspicabilmente ancora sufficiente al mantenimento della vita.

Velocità di propagazione dell’impulso cardiaco


Parlando della propagazione dell’eccitazione a livello del miocardio bisogna puntualizzare due aspetti: il
nodo atrioventricolare conduce ad una velocità lenta; le fibre del Purkinje conducono ad una velocità rapida.
Ciò fa capire che la velocità di conduzione dell’eccitazione delle diverse cellule del miocardio è diversa.
Queste cellule possono essere categorizzate in:
 cellule a risposta lenta: quelle dei nodi (seno-atriale e atrio-ventricolare);
 cellule a risposta rapida: tutte le altre.
I potenziali d’azione delle fibre cardiache sono costituiti da diverse fasi, determinate da una sequenza
temporale. Queste porzioni vengono identificate con numeri (da 0 a 4).

 Fase 0: rapida depolarizzazione;


 Fase 1: ripolarizzazione (altrettanto rapida);
 Fase 2: plateau;
 Fase 3: ripolarizzazione (che diventa completa);
 Fase 4: ritorno al potenziale di membrana a riposo.
Le cellule a risposta rapida e quelle a risposta lenta differiscono in maniera piuttosto consistente.

Nelle cellule a risposta rapida:


 il potenziale a riposo è più negativo (-80/-90 mV);
 la fase 0 è più ripida;
 il potenziale va incontro ad un overshoot (diventa cioè
positivo), ciò non avviene in quelle a risposta lenta;
 la ripolarizzazione terminale è più ripida;
 il periodo refrattario assoluto (nell’immagine ERP)
comincia in fase 0 e arriva alla fase 3. Segue il periodo
refrattario relativo (RRP), che finisce all’inizio della fase
4;
 la fase 1 è meno marcata nelle cellule endocardiche del
ventricolo sinistro (le cellule a risposta rapida sono
eterogenee fra loro).
In quelle a risposta lenta:
 la fase 1 di rapida ripolarizzazione non c’è;
 il plateau non è presente, viene sostituito da una lenta ed iniziale
ripolarizzazione;
 la fase 4 ha caratteristiche peculiari;
 l’ERP va sempre dalla fase 0 e arriva alla 3, ma il RRP procede
ben oltre l’inizio della fase 4 (questo fenomeno è detto
refrattarietà post-ripolarizzazione).
La velocità di propagazione dell’impulso è maggiore nelle cellule a
risposta rapida. Essa dipende dalle caratteristiche dei potenziali d’azione,
in particolare da due caratteristiche:
 ΔVmax: la massima variazione del potenziale elettrico. È la
differenza tra il potenziale di membrana a riposo e la massima depolarizzazione. ΔVmax sarà maggiore

152
nelle cellule a risposta rapida, perché si parte da un potenziale più polarizzato e si raggiunge un
overshoot.
 dV/dt: la derivata prima del potenziale rispetto al tempo, cioè la tendenza e rapidità con cui la cellula
si depolarizza in fase 0. Più è rapida la depolarizzazione, più la derivata prima sarà grande. La rapidità
con cui la cellula si depolarizza in fase 0 è maggiore nelle cellule a risposta rapida (infatti la pendenza
è così grande da essere rappresentata da una riga verticale).
Queste due caratteristiche dipendono da diversi fattori:
1. Il potenziale di membrana a riposo (se il Vm si sposta ΔVmax cambia).
2. La presenza di un periodo refrattario relativo.
Potenziale di membrana a riposo
Si prenda in considerazione l’inattivazione dei canali voltaggio-dipendenti del sodio. Questi canali sono
caratterizzati da tre stati: chiuso, aperto, inattivo. Si passa da chiuso ad aperto con la depolarizzazione. Lo stato
aperto è seguito da quello inattivo, che è chiuso e non apribile; si esce dallo stato inattivo solo quando si torna
in condizioni di ripolarizzazione. Se ci troviamo in una condizione in cui la membrana diventa più
depolarizzata, e il potenziale più positivo, i canali voltaggio-dipendenti del sodio cominciano ad aprirsi ed
inattivarsi, e non riescono a ritornare allo stato chiuso perché la cellula pian piano si è depolarizzata. Questo
fa sì che la capacità della cellula di depolarizzarsi di nuovo sia compromessa. Un risultato di questo tipo può
essere raggiunto modificando la concentrazione extracellulare del potassio.

Consideriamo l’equazione di Millman, che dice che il potenziale di membrana a riposo è approssimabile
alla media ponderata dei potenziali all’equilibrio dei diversi ioni, dove il fattore di ponderazione è dato dal
contributo della conduttanza di ciascuno ione alla conduttanza totale. La conduttanza al K+ è molto più grande
della conduttanza agli altri ioni in condizioni fisiologiche, e questo vale anche per le cellule miocardiche: a
riposo la conduttanza al K+ è circa 100 volte superiore alla conduttanza al Na+; quindi il potenziale
all’equilibrio più importante nel determinare il potenziale di membrana a riposo delle cellule miocardiche è il
potenziale all’equilibrio del potassio EK. Quest’ultimo dipende dall’equazione di Nernst che dice che il
potenziale all’equilibrio del K+ varia con la concentrazione del K+ extra- ed intracellulare, e in particolare con
il rapporto tra le due.
Ricordando l’equilibrio di Gibbs-Donnan: la concentrazione di cationi nel plasma stima molto bene la
concentrazione di cationi nello spazio extracellulare. Quindi se nel plasma si ha una concentrazione di K +
superiore a 5 mM, questa stessa concentrazione sarà anche quella a livello dello spazio extracellulare.
Si pensi ad un’alterazione del bilancio del K+ nel sangue. Normalmente il K+ è più concentrato dentro alla
cellula piuttosto che fuori, quindi questo ione tende ad uscire; nel farlo si lascia indietro delle cariche negative
spaiate. Quando l’effetto di attrazione di queste cariche negative lasciate indietro diventa uguale allo stimolo
dell’uscita del K+ conseguente alla differenza di concentrazione, allora si raggiunge un equilibrio e il flusso
netto diventa zero4. Se c’è un eccesso di K+ fuori dalle cellule allora il rapporto fra la concentrazione di K +
intracellulare ed extracellulare diventa più piccolo, il K+ tende meno ad uscire e di conseguenza serviranno
meno cariche negative spaiate per poterlo trattenere. Quindi se c’è un aumento del K+ extracellulare EK
diventa meno negativo. Siccome il potenziale di membrana a riposo dipende principalmente dal potenziale
all’equilibrio del K+ (ricorda, la conduttanza al K+ è 100 volte quella al sodio), se c’è un aumento della
concentrazione del K+ extracellulare il Vm diventa meno negativo, e di conseguenza ΔVmax diminuisce.

4
In maniera più precisa: quando la forza elettrica e la forza chimica (di concentrazione) hanno lo stesso valore (e
ovviamente verso opposto), si raggiunge l’equilibrio.

153
Riassumendo. Aumento concentrazione di K+ extracellulare → la cellula si depolarizza → i canali
voltaggio-dipendenti del Na+ si inattivano e non riescono più a tornare operativi → ΔVmax e dV/dt
diminuiscono → la velocità di propagazione diminuisce → si ha rischio di aritmie.

Esperimento sulle cellule del Purkinje: viene utilizzato un


elettrostimolatore per far eccitare le cellule a varie
concentrazioni extracellulari di K+ e si osservano le curve dei
vari pannelli.
La concentrazione extracellulare del K+ normalmente è pari
circa a 3 mM (A). Possiamo osservare un potenziale d’azione a
risposta rapida. Se via via sperimentalmente si aumenta la
concentrazione del K+ extracellulare fino a 16 mM si osservano
nuove curve. Se riportiamo la concentrazione di K+ a 3mM (F)
la curva torna normale come nel caso A.
A 16 mM di K+ extracellulare (E) il Vm è molto più vicino allo
zero (lo zero è rappresentato dalla linea tratteggiata); la cellula è depolarizzata come predetto ma la fase 0
diventa molto meno ripida, la 1 scompare e ΔVmax diventa più piccolo. La velocità di conduzione è
notevolmente ridotta, cosa osservabile anche dal fatto che l’intervallo temporale tra l’artefatto elettrico di
stimolazione (lo spike all’inizio delle tracce) e l’inizio della fase 0 si allunga molto. Si ha quindi un
rallentamento della velocità di conduzione del potenziale d’azione, che può essere un problema perché può
portare allo sviluppo di aritmie.
Un aspetto importante è che il potenziale d’azione che le cellule del Purkinje mostrano in presenza di una
concentrazione extracellulare di K+ di 16 mM (E) assomiglia del tutto ad un potenziale d’azione a risposta
lenta. Questo è importante: le fibre del Purkinje fanno parte del sistema di conduzione, sono dotate di
un’automaticità (sono dei pacemaker secondari), ma sono anche caratterizzate da una velocità di conduzione
elevata; oltre alle caratteristiche ioniche dei potenziali a risposta lenta mostrano anche quelle a risposta rapida
determinate da canali voltaggio-dipendenti del Na+. Quando essi si inattivano aumentando la concentrazione
extracellulare di K+ la cellula si depolarizza, le componenti a risposta rapida vengono cancellate e le cellule
del Purkinje agiscono come cellule con caratteristiche a risposta lenta.5

Ricorda. Composizione ionica di cellule e liquido EC


La normale concentrazione extracellulare di potassio è 3,5-5 mM, quella intracellulare 120-150 mM.
La normale concentrazione extracellulare di sodio è 135-147 mM, quella intracellulare 10-15 mM.
La normale concentrazione extracellulare di cloro è 95-105 mM, quella intracellulare 20-30 mM.
La normale concentrazione extracellulare di calcio è 1-2 mM, quella intracellulare ca. 10-4 mM.

Il bilancio del K+ (differenza tra potassio introdotto con la dieta e potassio eliminato) è delicato, è difficile
da regolare e va incontro ad alterazioni in tanti pazienti per cause renali oppure ormonali.
In caso di eccesso di potassio si va incontro ad iperkaliemia (aumento della concentrazione di potassio nel
sangue, [K+] > 5mM). Aumenterà così, per l’equilibrio di Gibbs-Donnan, anche la concentrazione
extracellulare di K+. Un problema renale che causa uno squilibrio del bilancio del K+, in particolare un eccesso
di potassio, rischia di causare aritmie perché riduce la velocità di propagazione del potenziale d’azione.

Caso dell’ischemia del miocardio. La concentrazione intracellulare di K+ è molto più alta di quella
extracellulare e durante i potenziali d’azione il K+ esce dalle cellule (mentre il Na+ entra). Il meccanismo
molecolare che riequilibra il tutto è la pompa Na+/K+ ATPasi, che consuma ATP. Se l’apporto di ossigeno e
nutrienti al cuore in un certo momento, tramite il circolo coronarico, è insufficiente a fornire abbastanza energia
per far funzionare il cuore (se cioè si ci trova in una situazione di ischemia), allora ci sarà meno ATP del
dovuto e la pompa Na+/K+ ATPasi funzionerà meno. Come risultato, parte di quel K+ uscito dalle cellule con
la depolarizzazione non potrà essere riportato dentro, perché la pompa non lavorerà bene. Si avrà di
conseguenza un aumento della concentrazione di K+ extracellulare conseguente all’ischemia del miocardio,
fenomeno localizzato solo a questo livello (a differenza invece di un’alterazione del bilancio del K +, che è un

5
Questo effetto può essere anche causato dall’azione di inibitori dei canali voltaggio-dipendenti per il Na+, quale la
tetradotossina (Berne & Levy).

154
fenomeno sistemico). Ma il risultato sarà lo stesso. Ecco perché problemi ischemici a livello del miocardio
possono portare ad alterazioni aritmiche.

Un altro fattore che può modificare la velocità di propagazione dell’impulso cardiaco è la concentrazione
extracellulare di sodio. In particolare, con essa aumenta anche ΔVmax, ovvero la massima differenza di
potenziale, perché la fase 0 di depolarizzazione nelle cellule a risposta rapida dipende da un ingresso di Na +.
Con variazioni della concentrazione di Na+ extracellulare viene
modificato ΔVmax ma non Vm, perché il contributo della conduttanza
al sodio alla conduttanza totale è troppo basso.

Anche in condizioni di ipokaliemia ([K+] < 3,5 mM) l’eccitabilità


cellulare si riduce, ma per la ragione opposta: se l’iperkaliemia
produce depolarizzazione, l’ipokaliemia produce iperpolarizzazione.
L’iperpolarizzazione non crea alcun problema ai canali del Na+, ma
allontana Vm dalla soglia: il risultato finale è lo stesso.
Sia ipokaliemia che iperkaliemia alterano l’eccitabilità cellulare,
abbassando la velocità di conduzione cardiaca.

Periodo refrattario relativo


Il periodo refrattario relativo è l’altro fattore che influenza la velocità di propagazione: i canali voltaggio-
dipendenti sono in questo periodo ancora in parte inattivi. Di conseguenza non sono in grado di mediare le
correnti cationiche in ingresso necessarie alla depolarizzazione.
Si consideri una cellula a risposta rapida in cui il potenziale
d’azione successivo viene evocato in maniera artificiale ad
intervalli via via più brevi rispetto a quello fisiologico (curva rossa).
Evocando un potenziale d’azione un po’ prima dell’intervallo
fisiologico (curva blu) si osserva che il secondo potenziale d’azione
presenta un più piccolo ΔVmax (la differenza tra Vm e la massima
depolarizzazione diminuisce). Se si evoca ancora prima il
potenziale d’azione (curva verde), cioè proprio circa a metà del
PRR, il problema si acuisce.
Continuando così non solo ΔVmax diventa più piccolo, ma
diminuisce anche la pendenza dV/dt del potenziale d’azione (rapidità della depolarizzazione in fase 0).

Nota. Tutte queste osservazioni mostrano chiaramente quanto sia scorretto affermare che il potenziale
d’azione è un evento stereotipato, poiché il suo profilo e la sue caratteristiche possono variare sulla base di
numerosi elementi.

Nelle cellule a risposta lenta accade la stessa cosa ma


in modo ancora più marcato, poiché presentano il
fenomeno della refrattarietà post-ripolarizzazione.
La curva a ad esempio corrisponde ad un potenziale a
risposta lenta che insorge così tanto all’inizio del PRR
da essere solamente un abbozzo, una modificazione del
potenziale che non ha le caratteristiche tali per andare
incontro ad una propagazione.
Nelle cellule a risposta lenta non solo la velocità di propagazione può diminuire se si ha un potenziale
d’azione che insorge durante il PRR, ma addirittura può diminuire così tanto da annullarsi; cioè il potenziale
può non propagarsi.

Correnti ioniche coinvolte nel potenziale d’azione delle cellule cardiache a risposta rapida
L’immagine a lato mostra le diverse correnti ioniche che mediano un potenziale d’azione a risposta rapida.
 La fase 0, di rapida depolarizzazione, è mediata da correnti cationiche in ingresso (INa e ICa,L). La
fase rapida è data dal sodio, il calcio invece comincia lentamente e prosegue per tutta la fase 2 (long-
lasting).

155
 La fase 1 comprende già ondate
ripolarizzanti che invece coinvolgono
correnti K+, dette transient outward
(Ito,1 e Ito,2). Sono correnti rettificanti
uscenti. La proprietà di rettificazione in
uscita nei canali del potassio avviene per
“default”, quindi dipende
esclusivamente dalla differenza di
concentrazione di K+ sui due lati di
membrana. Le correnti transient
outward danno una corrente del K+
ripolarizzante; si nota nell’immagine il
verso delle curve: Ito è verso l’alto
mentre INa ed ICa vanno verso il basso.
Le correnti Ito sono correnti in uscita,
ripolarizzanti e mediano la fase 1.
Determinano la durata del plateau,
poiché se sono molto ampie accorciano
la fase 2, e contribuiscono agli effetti
della durata del ciclo di eccitazione sulla durata del potenziale d’azione. Se l’intervallo di tempo che
intercorre tra un potenziale d’azione ed il successivo diventa più piccolo, allora la durata del
potenziale d’azione diventa più piccola. I potenziali d’azione sono causa delle contrazioni cardiache,
quindi l’intervallo tra due potenziali d’azione è strettamente correlato all’intervallo che esiste tra una
contrazione e quella successiva, cioè al periodo cardiaco (1/frequenza). Se il periodo cardiaco è
corto, passa meno tempo tra un battito e l’altro, quindi la frequenza è alta. Le correnti Ito sono meno
rappresentate nell’endocardio, il che spiega una fase 1 meno marcata nelle cellule endocardiche del
ventricolo sinistro. L’ampiezza delle correnti Ito varia con la frequenza cardiaca.
 Un'altra componente ripolarizzante, in uscita, sono le correnti IK, rettificanti uscenti ritardate.
Sono ritardate perché iniziano alla fine della fase 2 e all’inizio della fase 3. Sono quindi importanti
nella determinazione della durata del potenziale d’azione; contribuiscono a determinare gli effetti
della durata del ciclo di eccitazione, quindi della frequenza cardiaca sulla durata del potenziale
d’azione. Se la frequenza cardiaca diventa maggiore, ogni potenziale d’azione andrà ad insorgere un
momento prima del dovuto, quindi andrà a terminare in una frazione in cui le correnti rettificanti
uscenti ritardate del K+ sono ancora piuttosto ampie; la fase 3 sarà più ripida e più rapida, con il
potenziale d’azione che durerà meno.
 Rimane da esaminare una corrente ripolarizzante, detta IK1. È una corrente rettificante entrante, in
ingresso. In questo caso è necessario chiarire il significato della rettificazione in entrata, che dipende
dalle caratteristiche dei canali e non dal campo elettrico attorno alla cellula. Il canale infatti permette
al potassio di entrare molto bene, ma di uscire male. Al potenziale all’equilibrio del potassio il flusso
dello ione è pari a 0, non c’è nessun ingresso od uscita netta. Se si vuole un ingresso netto di potassio,
è necessario iperpolarizzare la cellula (aumentando le cariche negative all’interno della membrana)
oltre al potenziale all’equilibrio del potassio. Il potenziale di membrana a riposo della cellula è più
positivo del potenziale all’equilibrio del potassio; infatti ci sono altri ioni che partecipano al
potenziale. La situazione in cui il potassio entra all’interno della cellula è una situazione estrema,
fisiologicamente non si avvera mai all’interno del miocardio; questi canali dunque funzionano bene
in condizioni che non si avverano mai e funzionano male nelle condizioni fisiologiche più frequenti
e comuni, in cui il potassio tende ad uscire (il potassio esce ogni volta che il potenziale di membrana
è più positivo del potenziale all’equilibrio del K+). Sono canali molto importanti, perché nelle
condizioni di membrana a riposo, in cui il potenziale di membrana si avvicina al potenziale di
equilibrio del potassio, i canali funzionano (ma non alla massima efficienza), quindi contribuiscono
al potenziale di membrana di riposo negativo nelle cellule a risposta rapida. Quando la cellula si
depolarizza entrando quindi in fase 2, questi canali funzionano molto male, allontanandosi dalle loro
condizioni ottimali (cioè di iperpolarizzazione). Se questi canali, che sono molto presenti nelle
cellule, lavorassero bene in condizioni di depolarizzazione non si potrebbe manifestare il plateau.
Questo perché i canali IK1 andrebbero ad annullare gli effetti depolarizzanti del calcio entrante. La
depolarizzazione del calcio è quindi accompagnata da questa scarsa efficienza dei canali K1, che

156
permette alla fase 2 di manifestarsi. Un altro aspetto importante di questi canali, con le loro proprietà
di rettificazione in ingresso è il contributo ad una fase 3 ripida, in cui la cellula inizia a ripolarizzarsi.
In queste condizioni, i canali rettificanti entranti, sfruttando il nuovo potenziale di membrana,
tornano ad esportare ioni K+ (pur sempre non in maniera efficiente). Quindi più la cellula si
ripolarizza nella fase 3, più i canali IK1 esportano K+, contribuendo a ripolarizzare ulteriormente la
cellula. Ciò rende la fase 3 molto rapida.
 Lo scambiatore sodio-calcio è un antiporto elettrogenico che trasporta 3 ioni Na+ per ogni ione
Ca2+. Nella fase 0 ed 1, in cui prevalgono correnti depolarizzanti, cioè cationiche in ingresso INa ed
ICa, lo scambiatore sodio calcio INa/Ca determina una corrente che è ripolarizzante, cioè va nel verso
opposto a quello di INa ed ICa (e nello stesso verso delle correnti potassio). Ciò succede proprio
perché è un antiporto; a seconda della direzione del sodio, lo scambiatore porta una carica positiva
in eccesso in uscita piuttosto che in ingresso. INa/Ca, attraverso la sua corrente ripolarizzante, porta
durante la fase 0 ed 1, 3 ioni sodio all’esterno, mentre il calcio entra nella cellula. In questa situazione
il sodio tende ad uscire perché ci sono cellule piene di sodio (in fase 0 c’è un’importante importazione
di sodio all’interno delle cellule da parte di INa) e cellule depolarizzate. L’eccesso di cariche positive
nella cellula, spinge il sodio fuori, mentre il calcio, che ancora ha una bassa concentrazione
all’interno, entra. Il calcio entra in grandi quantità durante la fase 2, mentre durante la fase 3 succede
il contrario di quanto appena descritto: il calcio tende ad uscire ed il sodio entra, determinando una
corrente depolarizzante. Gli effetti elettrici sono importanti nel determinare la suscettibilità aritmica
in condizioni di scompenso cardiaco, cioè quando il bilancio del calcio delle cellule si altera. Inoltre,
sono importanti per il meccanismo d’azione di farmaci cardiotonici, derivati dalla digitalis purpurea
(una pianta).

Correnti ioniche coinvolte nel potenziale d’azione delle cellule cardiache a risposta lenta
In fase 4, il potenziale a riposo è meno negativo rispetto alle cellule a risposta rapida, perché manca IK1, una
corrente rettificante in ingresso. La fase 4 inoltre non è piatta, presenta una progressiva depolarizzazione.
Questo rende ragione dell’automaticità di queste cellule. Sono caratterizzate dallo sviluppo autonomo di
potenziale d’azione. Il tempo che intercorre tra un potenziale ed il successivo cambia a seconda delle diverse
cellule ed è tanto più piccolo nel pacemaker primario, il nodo seno-atriale. (Ricorda. Il nodo seno-atriale
prevale sugli altri per overdrive suppression).
Questa progressiva depolarizzazione nelle cellule a risposta lenta, in fase 4, dipende dal bilancio tra correnti
depolarizzanti e ripolarizzanti.
Quelle depolarizzanti sono:
 una corrente depolarizzante detta funny, perché chi la scoprì trovò divertente scoprire una corrente
depolarizzante in condizioni di membrana iperpolarizzata. È una corrente mediata da canali aspecifici
per il sodio ed il potassio, anche se il suo effetto è mediato dal sodio, poiché in condizioni di riposo
risulta più lontano dall’equilibrio rispetto al potassio. La corrente si attiva lentamente per potenziali di
membrana relativamente polarizzati. La corrente funny è sensibile all’AMP ciclico;
 una corrente di calcio, mediata sia da canali long lasting sia transient (ICa,T e ICa,L). I canali del calcio
ICa,L possono essere bloccati da alcuni farmaci, detti calcio-antagonisti. Questi farmaci hanno effetti
molto ampi, influenzando sia cellule a risposta rapida che lenta. Le correnti del calcio sono responsabili
dell’intera fase 0;
 l’antiporto sodio-calcio (scambiatore), per motivi legati ai bilanci ionici nelle cellule a risposta lenta
non gioca un ruolo in controfase rispetto alle altre correnti (come avveniva nelle cellule a risposta
rapida) ma contribuisce alla depolarizzazione.
Tra le componenti ripolarizzanti:
 la corrente IK, rettificante uscente ritardata;
 una corrente rettificante entrante, diversa da IK1 detta IKAch perché media gli effetti dell’acetilcolina sul
potenziale di queste cellule. L’acetilcolina è il neurotrasmettitore rilasciato dalle terminazioni post-
gangliari del parasimpatico.
È importante ricordare due concetti:
 la depolarizzazione progressiva in fase 4, poiché altrimenti non ci sarebbe l’automaticità;
 i canali voltaggio-dipendenti del sodio non hanno un ruolo in questo contesto; questo spiega i
motivi per cui la fase 0 è molto meno ampia (ΔVmax più piccolo) e molto meno ripida (dV/dt più
piccolo) rispetto a quella delle cellule a risposta rapida. Nelle cellule del Purkinje le proprietà elettriche

157
possono essere convertite da risposta rapida a risposta lenta inattivando questi canali, tramite
l’aumento della concentrazione di potassio extracellulare.

Variazioni della frequenza di scarica del nodo seno-atriale


La frequenza di scarica dei potenziali d’azione nelle cellule a risposta lenta, non è altro che la frequenza degli
eventi in cui il potenziale della membrana raggiunge la soglia (alla fine della depolarizzazione progressiva in
fase 4).
Per poter modificare il tempo necessario
a raggiungere la soglia con la
depolarizzazione progressiva in fase 4 è
possibile agire in tre maniere:
1. rendere la depolarizzazione
in fase 4 più rapida: si
raggiunge prima la soglia e la
frequenza cardiaca è più
rapida. Questo primo
meccanismo è regolato dal
sistema nervoso autonomo
(simpatico e parasimpatico) e
dipende dal bilancio degli
effetti delle due branche del
sistema nervoso autonomo sulle correnti trattate (cioè la funny, la ICa,L, ICa,T, IK). Se si vuole
rendere la velocità di depolarizzazione più rapida, gli effetti sulle correnti depolarizzanti devono
essere più marcati rispetto a quelle polarizzanti. Il simpatico renderà la velocità di
depolarizzazione più rapida, il parasimpatico l’opposto.
2. Si può partire all’inizio della fase 4 da un potenziale di membrana più vicino o lontano alla soglia,
cioè avere una massima ripolarizzazione della membrana più o meno ampia. Questo effetto è
esercitato dal parasimpatico, che attiva i canali del potassio IKAch e porta ad una massima
ripolarizzazione più ampia. Questo meccanismo è sfruttato anche dall’overdrive suppression: i
pacemaker secondari sono portati a lavorare ad una frequenza di scarica superiore alla loro nativa
dal nodo seno-atriale. Vanno incontro ad una maggior attività della Na+/K+ ATPasi, che ha un
contributo iperpolarizzante, quindi allontana la massima ripolarizzazione dalla soglia.
3. Attraverso la variazione del valore del potenziale soglia. È un meccanismo che il nostro
organismo non utilizza fisiologicamente, ma che può essere sfruttato da farmaci antiaritmici (tali
farmaci hanno spesso delle controindicazioni e possono addirittura causare essi stessi aritmie).

Propagazione dell’impulso cardiaco


1. L’onda di depolarizzazione che porta alla contrazione del cuore nasce dal nodo seno-atriale e va
a investire il miocardio atriale
tramite gap junction e vie
internodali di connessione. La
direzione dell’impulso va da
destra (dove si trova il nodo SA,
più precisamente nell’atrio destro a
livello dello sbocco delle vene
cave) verso sinistra ed in basso,
fino a raggiungere il nodo atrio-
ventricolare, dove si realizza un
ritardo funzionale nella
conduzione per permettere la
contrazione degli atri poco prima di
quella dei ventricoli (N.B. La
depolarizzazione degli atri non
raggiunge direttamente i ventricoli,
per via dello scheletro fibroso).

158
2. L’onda depolarizzante passa dunque per il fascio di His, segue la depolarizzazione del setto, che
va da sinistra verso destra (conseguente alle caratteristiche anatomiche del fascio di His; la
branca sinistra è grossa e si divide in due rami, la destra è più sottile).
3. La depolarizzazione del setto è seguita da quella dell’apice con i muscoli papillari, che aiuta a
porre in tensione le corde tendinee. Le branche sinistra e destra del fascio di His si continuano
come fibre di Purkinje.
4. Le ultime porzioni del cuore che si depolarizzano sono le zone basali, perché le fibre del Purkinje
una volta raggiunto l’apice tornano alla base. La sequenza di depolarizzazione coinvolge prima
l’endocardio, poiché lì decorrono le fibre del sistema di conduzione, poi l’epicardio del ventricolo
destro e poi quello del ventricolo sinistro (si comprende come l’onda di depolarizzazione segua
un andamento tridimensionale).

Tecniche della registrazione dell’attività elettrica cardiaca, vettore cardiaco istantaneo genesi
delle forme d’onda nelle derivazioni dell’ECG
Il vettore cardiaco istantaneo è una formalizzazione che consegue ai ragionamenti fatti. Nel momento in cui
il cuore si depolarizza, si forma un’onda di depolarizzazione che si lascia indietro cellule depolarizzate e
“conquista” cellule ancora a riposo. Le cellule del miocardio a risposta veloce (depolarizzate) vanno incontro
ad un overshoot, ad un cambiamento del potenziale di membrana, con una positività elettrica all’interno della
cellula ed una negatività all’esterno. Le cellule a riposo hanno un’organizzazione elettrica opposta. Si forma
una sorta “frontiera” mobile, da una parte le cellule depolarizzate e dall’altra quelle a riposo. Quest’onda di
depolarizzazione può essere descritta con dei vettori che hanno un verso, una direzione ed un’ampiezza. I
vettori cambiano a seconda del tempo, per questo si parla di vettore cardiaco istantaneo. Seguendolo nel
tempo il vettore disegna un’immagine 3D.
Conoscere la direzionalità dell’impulso permette di conoscere l’andamento fisiologico delle onde
rappresentate da un ECG e discriminare quelli che sono i tracciati patologici, permettendo la diagnosi di una
patologia cardiaca.

Concetto base. I vettori cardiaci sono rappresentazioni vettoriali dell’attività elettrica delle cellule del
miocardio.

Gli atri, avendo spessore molto inferiore ai ventricoli, avranno vettori molto più piccoli del ventricolo destro,
che a sua volta avrà vettori più piccoli del sinistro (anche in questo caso, per differenze nello spessore).
Il vettore cardiaco istantaneo è, come già spiegato, il vettore cardiaco che si registra in un dato istante. La
direzione e la lunghezza dei vettori indicano quanto è forte la depolarizzazione e quale punto e momento della
depolarizzazione è preso in analisi:

 1. Decorso verso l’atrio destro, da sinistra verso destra.


 2. e 3. Decorso verso il setto e l’apice del ventricolo sinistro.
 4. e 5. Decorso verso la base.

Il decorso si completa nell’arco di un battito cardiaco, congiungendo le punte dei vettori si ottiene una figura
ellittica (c) che rappresenta una proiezione della figura su un piano coronale (o frontale). Questa
raffigurazione però non basta a descrivere lo spostamento del vettore, perché quest’ultimo (come anticipato)
esegue movimenti tridimensionali. Per questo l’elettrocardiografia usa un set di elettrodi posti su diversi piani
corporei.

159
Alcuni di questi elettrodi quali sono posizionati su un piano coronale, su polsi e caviglie, a dare un’area
chiamata triangolo di Einthoven (è un triangolo e non un quadrilatero perché nella rappresentazione del
triangolo si prende una persona con i polsi ai due lati ma le caviglie
unite). La differenza di potenziale elettrico che si ha a livello di questi
punti permette di identificare la lunghezza del vettore cardiaco
istantaneo sul piano frontale.
Non è il solo piano preso in analisi, esistono infatti anche le
derivazioni precordiali: tra il 4° e il 5° spazio intercostale a partire
dal margine destro dello sterno fino alla linea ascellare media su un
piano orizzontale, perpendicolare al frontale.
L’elettrocardiografia permette di ricavare in modo preciso
l’andamento del vettore cardiaco istantaneo grazie a proiezioni
ortogonali sui due piani, frontale (triangolo di Einthoven) ed
orizzontale (delle derivazione pre-cordiali) appena descritti.
La descrizione dell’onda di depolarizzazione tramite vettori risulta utile perché si può eseguire la
sommazione vettoriale tramite la regola del parallelogramma, ottenendo quindi l’effetto complessivo che
questi vettori danno nell’individuazione del tracciato di un elettrocardiogramma.
La propagazione dell’eccitazione a livello del miocardio è il principale determinante della forma d’onda
dell’ECG.
Il complesso QRS rappresenta l’onda di depolarizzazione
prima descritta attraverso il vettore cardiaco istantaneo.
 Onda Q: depolarizzazione del setto (da sinistra verso destra).
 Onda R: corrisponde al vettore che depolarizza l’apice del
cuore (da destra verso sinistra).
 Onda S: depolarizzazione verso la base (da sinistra verso
destra).
Le ampiezze dei complessi Q ed S sono più piccole: il setto ha
meno massa e non è parallelo all’asse della seconda derivazione.
Il fatto che le onda Q ed S abbiano picchi negativi mentre l’onda
R lo abbia positivo è da ricercare nel fatto che hanno andamenti
vettoriali opposti.

6.2. Correlazione tra eventi elettrici e meccanici


del ciclo cardiaco
La depolarizzazione a livello del
miocardio provoca un ingresso di ioni
Ca2+ attraverso i canali del calcio
voltaggio-dipendenti long lasting
(fondamentali per la fase di plateau).
L’aumento della concentrazione di
calcio che si registra non è sufficiente
per determinare la contrazione del
cuore: è però sufficiente per permettere
ai recettori della rianodina di aprirsi
per far uscire una quantità molto grande
di calcio dal reticolo sarcoplasmatico,
che andrà poi ad attivare l’apparato
contrattile.
Una volta avvenuta la contrazione è necessario diminuire la concentrazione del calcio intracitoplasmatico.
Per farlo si attivano diversi meccanismi:
 attivazione della Ca2+ATPasi SERCA che ri-pompa il catione all’interno del reticolo
sarcoplasmatico. Il controllo di questa pompa avviene attraverso un meccanismo a doppia
inibizione: la proteina chinasi A (PKA) fosforila inibendolo il fosfolambano, che a sua volta
inibiva la pompa SERCA, che di conseguenza risulta attiva;

160
 attivazione dello scambiatore Na+/Ca2+ (elettrogenico, 3 ioni sodio entrano e uno ione calcio
esce);
 attivazione della pompa PMCA (Plasma Membrane Calcium ATPase) in membrana che porta
fuori dalla cellula ioni Ca2+.

Punto importante della trattazione dell’argomento è che aumentare la concentrazione del Ca 2+ all’interno
della cellula richiede tempo, quindi l’andamento della forza contrattile non è del tutto simultaneo
all’andamento della polarizzazione di membrana delle cellule eccitabili cardiache. (N.B. la frequenza cardiaca
normale è circa 60 bpm, quindi circa 1 battito al secondo; dal grafico si nota però che il potenziale d’azione
dura 200ms, perciò i restanti 800ms ca. sono dovuti alla ripolarizzazione6).
Il picco della forza contrattile si manifesta
quando il potenziale di membrana della
cellula a risposta rapida è tornato già al
valore di riposo o quasi, ovvero verso la
fase 4. Questo aspetto è importante perché
sottolinea come l’evento elettrico preceda
l’evento meccanico ma la durata del
potenziale di azione vada in parallelo con
quella della contrazione, quindi se si
riduce la durata del potenziale d’azione si
va a ridurre anche quella della
contrazione (stessa cosa avviene con un
aumento).

6.3. Posizione e movimenti delle valvole, pressioni e


volumi atriali e ventricolari nelle diverse fasi del ciclo cardiaco e
6.4. Durata delle fasi del ciclo cardiaco
Nota. Di fondamentale importanza in questo frangente è il grafico riportato nella pagina seguente, da imparare nel
dettaglio per quanto riguarda la parte superiore (pressioni) in relazione con il tracciato ECG in fondo, con il tracciato dei
suoni cardiaci e quello del polso venoso.

Innanzitutto, il grafico va inteso come se affiancato da altrettanti grafici identici, rappresentando esso un
singolo battito cardiaco, che ricomincia una volta che ogni ciclo cardiaco arriva al termine. Si fa riferimento
al cuore sinistro (si parla di valvola mitrale ed aorta), anche se un grafico del genere si potrebbe tracciare anche
per il cuore destro. Esso avrebbe delle caratteristiche diverse, non tanto da un punto di vista qualitativo quanto
quantitativo; il cuore sinistro infatti ha pareti muscolari più spesse e la situazione pressoria a cui è soggetto è
più critica rispetto a quella del cuore destro. Questo spiega perché il cuore sinistro va più facilmente incontro
a situazione patologiche.
Sull’asse delle x abbiamo il tempo espresso in s. Il tempo si ferma a 0,8s facendo presupporre che si abbiano
poco più di 60 battiti al minuto.
Si hanno diverse curve:
 rossa, corrisponde alla pressione del ventricolo sinistro;
 viola tratteggiata, corrisponde alla pressione dell’atrio sinistro;
 verde tratteggiata, corrisponde alla pressione in aorta.
Queste sono tre curve di pressione per cui sull’asse delle y il tutto è indicato in millimetri di mercurio
(mmHg).
In arancione in basso troviamo il grafico dell’elettrocardiogramma, collegato temporalmente tramite l’asse
delle x a quello riguardante le pressioni sovrastante già citato. La traccia elettrocardiografica in questione è in
seconda derivazione.
(Nota. Il prof. non l’ha citato, ma il grafico prende il nome di diagramma di Wiggers).

6
In realtà queste indicazioni numeriche vanno prese con le pinze.

161
162
Analisi del grafico delle pressioni, in relazione al tracciato ECG

Si legga il grafico da sinistra verso destra.

1. Sistole atriale
Al punto t = 0 considerando l’ECG si trova una deflessione positiva, indicata come onda P, che
corrisponde alla depolarizzazione degli atri. È una deflessione positiva, così come lo è l’onda R
(facente parte del complesso QRS che corrisponde alla depolarizzazione dei ventricoli, vedi dopo).
La depolarizzazione dei ventricoli come quella degli atri si propaga da destra verso sinistra per cui
sono entrambe deflessioni positive. Ovviamente l’onda P è meno spiccata dell’onda R essendo la
massa degli atri notevolmente inferiore a quella dei ventricoli. (Da ricordare. L’effetto meccanico
arriva sempre dopo il segnale elettrico, dato il tempo necessario a far aumentare la concentrazione
di calcio nel sarcoplasma).
Intervallo 0 - 0,1: guardando la curva rossa e viola si nota che quella viola non è sovrapposta alla
rossa ma è leggermente sopra di essa. Le due curve stanno crescendo, quindi la pressione atriale
e ventricolare stanno aumentando insieme, dal momento che il sangue che si trova nell’atrio
fluisce verso il ventricolo. Il fatto che la curva viola si trovi leggermente sopra la rossa spiega
questo passaggio di sangue da atrio a ventricolo (dalla fisica, un fluido si sposta sempre da una
camera a pressione maggiore ad una a pressione minore). La pressione atriale è leggermente
maggiore dato che è avvenuta la depolarizzazione dell’atrio (onda P sulla curva arancione, nel
punto 0). Ciò che mette in relazione la differenza di pressione con la portata del flusso è la
resistenza idraulica, rappresentata dall’ostio della valvola mitrale. Il fatto che ci sia una resistenza
molto piccola a fronte di un flusso notevole favorisce quindi il flusso dall’atrio al ventricolo e il
riempimento di quest’ultimo. (Accenno di fisiopatologia. Se ci fosse un aumento della resistenza
valvolare, condizione nota come stenosi della mitrale, si andrebbe incontro ad un aumento di
pressione a monte, cioè nell’atrio di sinistra a cui segue lo sfiancamento anatomico di questa
camera. Quest’aumento di pressione nell’atrio aumenta la pressione più a monte, cioè nel circolo
polmonare.)
2. Sistole ventricolare
Contratto l’atrio, tocca ai ventricoli: sull’elettrocardiogramma si nota il complesso QRS in cui
l’onda Q corrisponde alla depolarizzazione del setto interventricolare, l’onda R corrisponde alla
depolarizzazione dell’apice, l’onda S corrisponde alla depolarizzazione della base (il prof accenna
anche alla successiva onda T, che corrisponde alla ripolarizzazione dei ventricoli). La fase di
sistole ventricolare si divide a sua volta in tre fasi:
a. Contrazione isovolumetrica
Al tempo 0,1s notiamo la chiusura della valvola mitrale (sul grafico rosso), a cui segue
il notevole aumento della pressione del ventricolo sinistro data dalla sua contrazione
mediata dalla depolarizzazione corrispondente al QRS sul grafico dell’ECG. Questa
contrazione delle pareti ventricolari, detta contrazione isovolumetrica, dovrebbe far
fluire il sangue da qualche parte, ma, come si nota nella curva rossa, per un periodo di
tempo il sangue rimane nel ventricolo, impossibilitato a muoversi per due ragioni:
I. la valvola mitrale è chiusa, la
direzione del flusso di sangue
attraverso questa valvola è dunque
unidirezionale, specialmente perché
l’onda di depolarizzazione che corre
lungo i ventricoli fa prima di tutto
contrarre i muscoli papillari, i quali
tendono le corde tendinee della
valvola, impedendo il reflusso di
sangue verso gli atri (solo in
condizione di insufficienza mitrale
viene persa l’unidirezionalità del

163
flusso sanguigno, per cui il sangue può refluire nell’atrio);
II. la valvola semilunare è chiusa, dato che in questo momento la pressione in aorta
è maggiore di quella nel ventricolo. Anche in questo caso l’unidirezionalità del
flusso può essere persa in una condizione nota come insufficienza aortica.
La contrazione isovolumetrica continua fino a che la pressione del ventricolo diventa
maggiore di quella in aorta. La sua fine è segnata dall’apertura della valvola aortica (nel
momento in cui la pressione ventricolare supera quella in aorta), che segna anche l’inizio
della fase successiva (eiezione rapida).
b. Eiezione rapida
In questa fase si ha un aumento delle
pressioni ventricolare ed aortica (la
pressione ventricolare è leggermente
maggiore di quella in aorta; analogamente
al discorso fatto precedentemente, la
pressione ventricolare essendo di poco
maggiore di quella in aorta permette il
flusso di sangue per motivi di differenza di
pressione verso l’aorta stessa).
Curioso notare in questo momento la curva
tratteggiata viola (pressione atriale) che
va incontro a lieve diminuzione. Questo lo si spiega per un effetto meccanico dovuto alla
contrazione del ventricolo che, mentre espelle il sangue in aorta (situata sopra al cuore!),
fa sì che il cuore venga spinto verso il basso (come il rinculo di un fucile quando si spara).
Quest’abbassamento del cuore esercita una trazione sull’atrio che viene stirato
aumentando le sue dimensioni e provocando questa diminuzione di pressione atriale
osservabile nel grafico. La pressione atriale poi aumenterà nuovamente dato che l’atrio si
riempirà del sangue proveniente dal circolo polmonare.
(Notare sempre lo sfasamento temporale QRS-contrazione meccanica, dovuto al tempo
necessario per far avvenire l’aumento della concentrazione di calcio nel sarcoplasma).
L’eiezione rapida finisce quando la pressione ventricolare raggiunge il picco.
c. Eiezione ridotta
La pressione ventricolare comincia a scendere, e a differenza della fase precedente ora
la pressione aortica è di poco maggiore di quella ventricolare: nonostante ciò il sangue
continua a fluire dal ventricolo in aorta. Questo lo si spiega tramite il concetto di inerzia:
il sangue pompato dalla contrazione ventricolare continua a fluire anche dopo che la
contrazione ventricolare è cessata. Questo momento è detto eiezione ridotta, dato che
consiste nell’ultima parte, quella meno imponente, dello svuotamento del ventricolo.
Il sangue continua a fluire in aorta e man mano la pressione qui aumenta diventando
maggiore di quella ventricolare, comportando infine la chiusura della valvola
semilunare aortica. La pressione aortica col tempo dovrebbe diminuire dato che il sangue
andrà poi a distribuirsi nel circolo sistemico, tuttavia si assiste ad un mantenimento di una
pressione elevata con un leggero calo (la motivazione si esaminerà in seguito). Invece
come prevedibile la pressione del ventricolo, che ha smesso di contrarsi, cala bruscamente.
Comincia quindi la diastole ventricolare.
3. Diastole ventricolare
La dividiamo a sua volta in tre fasi:
a. Rilassamento isovolumetrico
Inizia con la chiusura della valvola
semilunare aortica.
Si assiste a un brusco calo della
pressione ventricolare, mentre come
detto prima rimane abbastanza alta la
pressione in aorta. Analizzando la
pressione atriale notiamo, in linea con la
chiusura della valvola aortica, una rapida
modificazione transitoria. Essa è dovuta

164
proprio alla chiusura della valvola aortica che quando si chiude (si chiude perché il sangue
tende a rientrare in ventricolo una volta che la pressione qui è diminuita rispetto a quella
in aorta) si comporta come una “porta che sbatte”, ripercuotendosi per breve tempo sulla
distensione dell’atrio. La pressione atriale gradualmente aumenta grazie al flusso di
sangue dal circolo polmonare fino quando non sarà maggiore di quella ventricolare e ciò
comporterà l’apertura della valvola mitrale, che corrisponde alla fine della fase di
rilassamento isovolumetrico del ventricolo.
b. Riempimento ventricolare rapido
L’apertura della valvola mitrale fa sì che il sangue fluisca dall’atrio al ventricolo
generando un riempimento ventricolare rapido, dato dal fatto che il ventricolo è
inizialmente “vuoto” (in realtà non è mai completamente vuoto, ha un volume residuo
consistente di sangue7).
c. Riempimento ventricolare lento o diastasi
In seguito si ha un riempimento più lento (detto anche diastasi). La differenza tra la
curva della pressione atriale e quella ventricolare è minima, ad indicare nuovamente il
fatto che la resistenza data da questa valvola al flusso del sangue è bassa.

Ricapitolando. La sistole ventricolare è composta da contrazione isovolumetrica, eiezione rapida ed


eiezione lenta mentre la diastole ventricolare è composta da rilassamento isovolumetrico, riempimento
rapido, riempimento lento (o diastasi) e sistole atriale. Il ciclo a questo punto si ripete.

Analisi del grafico del polso venoso


Si consideri ora il grafico blu del polso venoso, misurato
sulla vena giugulare (riportato a lato; si consideri però
anche il grafico generale in una delle pagine precedenti, per
comparare questa a tutte le altre curve). Nota. Le variazioni
di pressione possono essere apprezzate anche direttamente osservando le vene giugulari di soggetti con
scompensi cardiaci a cui risultano particolarmente turgide.
L’andamento del polso venoso ricalca molto bene quello della pressione atriale, con picchi alla fine della
contrazione atriale (onda a) e alla fine del rilassamento isovolumetrico (onda v).
Il picco dell’onda c invece è dato invece dall’effetto della pulsazione della carotide (che affianca la
giugulare) quando vi fluisce il sangue in seguito all’aumento di pressione in aorta, che si trasmette
passivamente alla vena.8

Analisi dei grafici del flusso aortico e del volume ventricolare


Per quanto riguarda i grafici del flusso aortico e del volume
ventricolare:
 il grafico del flusso aortico informa soltanto del
fatto che il sangue passa dal ventricolo in aorta (si
può evitare di apprenderlo nel dettaglio
quantitativo);
 il grafico del volume ventricolare (non bisogna
prestare attenzione ai valori sull’asse y dato che
sono errati, cit. Silvani9) è importante per notare
un concetto fondamentale: fino ad adesso si è
considerato il ventricolo come una camera che
quando si contrae pompa in aorta tutto il sangue
che aveva raccolto dall’atrio durante il
riempimento. Tuttavia ciò non è corretto: tecnicamente rimane nel ventricolo un volume di sangue

7
Il cosiddetto volume telesistolico.
8
Dal Berne & Levy: “L’onda a si verifica per l’aumento di pressione provocato dalla contrazione atriale. L’onda c è
provocata dall’impatto della vicina arteria carotide comune con la vena giugulare e, in parte, dall’improvvisa chiusura
della valvola tricuspide nella fase iniziale della sistole. L’onda v riflette l’aumento della pressione dovuto al riempimento
atriale. A parte l’onda c, il polso venoso segue abbastanza fedelmente la curva della pressione atriale”.
9
Probabilmente erano errati quelli della sua slide, mentre forse sono corretti quelli in immagine, tratta dall’ultima versione
inglese del Berne & Levy. In ogni caso per sicurezza non si considerino i valori.

165
detto telesistolico (tele-sistolico = alla fine della sistole) che è poco meno della metà del volume
di sangue presente all’inizio della sistole (o se vogliamo alla fine della diastole, il che è la stessa
cosa) detto telediastolico (tele-diastolico = alla fine della diastole).10

6.5. Rumori cardiaci e loro genesi


I toni cardiaci sono dei rumori che si possono auscultare con lo stetoscopio. Fisiologicamente si possono
ascoltare due toni: il primo tono (1) dovuto alla
chiusura della valvola mitrale, il secondo (2) dovuto
alla chiusura della valvola semilunare aortica.
Conoscere ciò ci permette di comprendere in che
momento del ciclo cardiaco avvengono i ‘soffi’. Se si rileva un soffio tra il primo e il secondo tono ci si trova
in sistole ventricolare, se invece lo si rileva tra secondo e primo ci si trova in fase di diastole ventricolare.
Esistono poi un terzo tono (3), che si manifesta all’inizio del riempimento ventricolare ed un quarto tono
(4) associato alla sistole atriale. Sono toni non auscultabili attraverso lo stetoscopio, tranne che in condizioni
patologiche. Se amplificati elettronicamente, essi possono essere registrati graficamente (fonocardiogramma).

10
In un cuore normale, si hanno dei valori di riferimento di circa 140 mL di sangue come volume telediastolico e 50-60
mL di sangue come volume telesistolico, ovvero un po’ meno della metà del volume telediastolico.

166
7. Gittata cardiaca
Nota. I titoli delle tesine finora analizzate vanno presi come punti di riferimento, tuttavia sono imprecisi. È evidente come
la tesina gittata cardiaca ora in esame prenda in considerazione anche il concetto di gittata sistolica: si tratta di una serie
di argomenti tra loro collegati, ma che sono stati distinti in due tesine unicamente per comodità di esecuzione dell’esame.

7.1. Gittata sistolica e gittata cardiaca


Nel trattare questo punto della tesina, è fondamentale dare delle definizioni e avere presente dei valori
numerici di riferimento.

Gittata sistolica
È il volume di sangue che viene eiettato da ciascun ventricolo per ogni battito. Non necessariamente la
gittata sistolica del ventricolo sinistro è uguale alla gittata sistolica del ventricolo destro. Inoltre, battito per
battito, ci possono essere delle differenze in termini di gittata sistolica11, le quali vengono poi annullate a lungo
termine da meccanismi fisiologici che saranno discussi successivamente in dettaglio. La gittata sistolica è un
volume, quindi viene espresso in mL. Un valore di riferimento, che aiuta ad orientarci dal punto di vista
quantitativo, è 70 mL: tuttavia, è importante ricordare che possono esserci enormi differenze tra soggetto e
soggetto dipendenti dall’età, dalla condizione fisica e dalle eventuali condizioni patologiche, oltre che dalla
regolazione fisiologica dell’organismo. Per la gittata sistolica, l’unità di tempo può essere considerata il battito
singolo.

Frequenza cardiaca
È il numero di battiti cardiaci nell’unità di tempo. L’unità che si sceglie deve essere ragionevolmente più
lunga di un battito, ovvero di un periodo cardiaco: arbitrariamente, viene preso come riferimento il minuto,
quindi si usa esprimere la frequenza cardiaca in numero di battiti al minuto. Si ricorda che la durata di un
periodo cardiaco è circa 1 s. Un valore indicativo di frequenza cardiaca è 70 bpm, di conseguenza il periodo
cardiaco risulta di poco inferiore a 1 s.
La frequenza cardiaca varia non solo da soggetto a soggetto, ma anche a seconda dell’età, dello stato fisico
e dei comportamenti: ad esempio, durante il sonno, la frequenza cardiaca diminuisce12, mentre durante
l’esercizio fisico, aumenta.

Gittata cardiaca
È il volume di sangue che viene eiettato dai ventricoli nell’unità di tempo. L’unità di tempo considerata
deve essere molto superiore rispetto alla durata del singolo battito, quindi, con lo stesso ragionamento della
frequenza cardiaca, si sceglie arbitrariamente il minuto. Il volume eiettato dai ventricoli in un minuto è pari al
prodotto della gittata sistolica e della frequenza cardiaca: il valore corrisponde circa a 5 L/min. È importante
tener presente che, laddove la gittata sistolica è un volume, quindi espressa in lunghezza al cubo, la gittata
cardiaca è una portata, espressa dal rapporto tra il volume e il tempo.

GC = gittata sistolica × frequenza cardiaca

Precisazioni
Nessun meccanismo di regolazione fisiologica impone al ventricolo sinistro di rilasciare in aorta lo stesso
volume di sangue che il ventricolo destro rilascia nell’arteria polmonare e viceversa: i due volumi eiettati non
sono quindi legati in senso stretto.
Mentre la gittata sistolica può essere diversa, in un dato battito, fra ventricolo sinistro e ventricolo destro,
ragionando su un’unità di tempo più lunga del singolo periodo cardiaco, la situazione cambia: se su una scala
temporale di tale durata, un ventricolo pompasse molto più sangue rispetto all’altro, il risultato sarebbe,
essendo i due ventricoli in serie l’uno con l’altro, un accumulo di sangue in una parte della circolazione a

11
I motivi fisiologici di diseguaglianza della gittata sistolica del ventricolo destro e sinistro sono riconducibili alle
variazioni pressorie durante inspirazione ed espirazione, a cambiamenti della postura, esercizio fisico, contrazioni
muscolari ecc.
12
N.d.C. Ciò non è vero per il sonno REM.

167
discapito dell’altra. Trattandosi di un circuito chiuso, sul lungo periodo, è critico che si raggiunga una
eguaglianza della gittata sistolica media che viene prodotta da ciascun ventricolo nell’arco di diversi
battiti.
Quindi, la gittata sistolica in un dato battito può essere diversa tra ventricolo destro e ventricolo sinistro, ma
se si considera la media delle gittate sistoliche calcolata su più battiti, allora i valori delle due gittate si devono
eguagliare: in caso contrario, si avrà un accumulo di sangue nel distretto polmonare, piuttosto che in quello
sistemico. Questo effetto viene mediato da meccanismi fisiologici che si analizzeranno successivamente.

7.2. Applicazione del principio di Fick e del metodo della diluizione dell’indicatore alla
determinazione della gittata cardiaca

Principio di Fick
Il principio di Fick afferma che la quantità di sostanza che entra o esce da un organo nell’unità di tempo
è uguale al prodotto del flusso ematico che perfonde quell’organo – per meglio dire, la portata del flusso –
e della differenza artero-venosa della concentrazione di tale sostanza. Da un punto di vista dimensionale,
la formulazione precedente appare corretta: la concentrazione si misura in ammontare di sostanza su unità di
volume e la portata del flusso si misura in volume su unità di tempo, quindi, moltiplicando queste due
grandezze e semplificando il volume, risulta un’unità di misura espressa dal rapporto tra l’ammontare di
sostanza e il tempo.
mol V mol
= ×
t t V
Per applicare questo principio generale alla determinazione della gittata cardiaca, è necessario declinare la
definizione al caso particolare:
 Sostanza. Si prende in considerazione l’ossigeno e, per organo, i polmoni. La quantità di ossigeno,
essendo questo un gas, può essere espressa in termini di volume, ovvero litri di ossigeno, che un
organismo assorbe attraverso i polmoni nell’unità di tempo. L’ossigeno che entra non viene
accumulato nei polmoni, bensì entra nel circolo ematico e viene trasportato in larga parte grazie ai
globuli rossi. In generale, il nostro organismo non possiede scorte di ossigeno, perciò il volume che
viene assorbito nell’unità di tempo è pari al volume utilizzato dalla fosforilazione ossidativa nella
stessa unità di tempo.
 Flusso ematico. Il flusso ematico che passa attraverso i polmoni ammonta a tutta la gittata cardiaca,
dato che il circolo polmonare e il circolo sistemico sono tra loro in serie: tuttavia, non è corretto
sostenere in modo assoluto che non vi sia modo di bypassare i polmoni, poiché esistono degli shunt
che permettono di evitare il circolo polmonare. Tuttavia, con buona approssimazione, tutto il sangue
che passa nel circolo sistemico scorre poi nel circolo polmonare.
 Differenza artero-venosa di concentrazione. Il sangue refluo, dai polmoni, scorre nelle vene
polmonari, poi nell’atrio sinistro, nel ventricolo sinistro e infine in aorta, diretto alle numerose arterie
sistemiche. È difficile andare a misurare la concentrazione di ossigeno nelle vene polmonari, la
localizzazione in cui il valore è massimo. Tuttavia, non vi è un enorme consumo di ossigeno nel
percorso tra le vene polmonari e un’arteria sistemica relativamente grande, come ad esempio l’arteria
radiale: di fatto, la concentrazione di ossigeno in un’arteria sistemica, la quale può essere
accessibile per puntura transcutanea, stima molto bene la concentrazione di ossigeno all’interno
delle vene polmonari poiché la maggior parte del suo consumo avviene nel microcircolo a valle delle
arterie sistemiche. Il circolo sistemico sfocia nelle vene cave, per poi gettarsi nell’atrio destro, nel
ventricolo destro e infine nell’arteria polmonare. Il vaso all’altro capo dei polmoni rispetto alle vene
polmonari è l’arteria polmonare quindi, per riuscire ad avere una buona misura della concentrazione
di ossigeno nel punto di ingresso del circolo polmonare, basta prendere un campione di sangue
direttamente dall’arteria. Lo si può fare sfruttando la possibilità di inserire un catetere nella
circolazione venosa, il quale viene lasciato scorrere fino ad arrivare alle camere cardiache di destra e,
in seguito, all’arteria polmonare. Questa è una procedura di routine svolta sotto controllo pressorio e
radiografico, se serve, in sala operatoria e, in particolare, in ambito anestesiologico. (N.B. È utile

168
ricordare che, una puntura venosa è molto meno pericolosa di una puntura arteriosa poiché vi è minor
pressione nelle vene).

𝑽̇𝑶𝟐 = 𝑮𝑪 × ([𝐎𝟐 ]𝐢𝐧 𝐮𝐧′ 𝐚𝐫𝐭𝐞𝐫𝐢𝐚 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐢𝐜𝐚 – [𝐎𝟐 ]𝐢𝐧 𝐚𝐫𝐭𝐞𝐫𝐢𝐚 𝐩𝐨𝐥𝐦𝐨𝐧𝐚𝐫𝐞 )

Tutte le grandezze citate sono misurabili: il volume di ossigeno assorbito dal polmone in un’unità di tempo
può essere stimato misurando il consumo metabolico di ossigeno attraverso la calorimetria indiretta, mentre
la concentrazione di ossigeno in un’arteria sistemica e nell’arteria polmonare possono essere direttamente
misurate tramite dei campioni di sangue. Rimane quindi come incognita la gittata cardiaca, la quale può essere
facilmente individuata risolvendo l’equazione.

Il consumo di ossigeno a riposo è di circa 250 mL/min. Nel sangue arterioso sistemico, che ha una
concentrazione simile a quella delle vene polmonari, la concentrazione di ossigeno è di circa 200 mL/L (per
ogni litro di sangue, sono presenti 200 mL di ossigeno). Nel sangue che scorre in arteria polmonare, vi è una
concentrazione di ossigeno pari a 150 mL/L: la differenza artero-venosa è, perciò, di 50 mL/L.
Nota. Nel sangue che scorre in arteria polmonare resta gran parte dell’ossigeno, più precisamente i ¾ della
concentrazione rilevabile nel sangue arterioso sistemico. Questo fatto indica la presenza di un cospicuo
margine di sicurezza nei confronti della mancanza di ossigeno nella maggior parte dei distretti del nostro
organismo, con eccezione del tessuto cardiaco che lo consuma quasi completamente a riposo. Non è un caso,
quindi, che l’ischemia miocardica sia così comune. Di fatto, si estrae dal sangue arterioso che perfonde gli
organi circa solo ¼ dell’ossigeno che arriva agli organi stessi.

Metodo della diluizione dell’indicatore


Il grafico riporta in ascissa il tempo, in ordinata la
concentrazione nel sangue di una certa sostanza,
iniettata in bolo direttamente in atrio destro grazie ad un
catetere. Questa sostanza deve avere delle caratteristiche:
 essere facilmente misurabile;
 non deve essere tossica.
Il tipo di sostanza che si può utilizzare può essere vario:
si possono utilizzare dei coloranti particolari o una
soluzione fisiologica fredda (si misurerà poi la
temperatura del sangue piuttosto che la concentrazione
della sostanza). I traccianti radioattivi sarebbero perfetti
per quanto riguarda la caratteristica della misurabilità,
ma ovviamente non sono tali per quanto riguarda la sicurezza della salute del paziente.
Il momento di iniezione di una massa m (in questo caso, 5 mg) della sostanza scelta in atrio destro è indicato
dalla barretta verticale spessa corrispondente al punto 0 sull’asse y. In seguito all’iniezione, si effettuano dei
prelievi di sangue successivi da una qualsiasi arteria sistemica, naturalmente anche lì tramite una
cateterizzazione.
Nei primi istanti, la concentrazione rilevata della sostanza è pari a zero: questa, infatti, dall’atrio destro in cui
è stata iniettata deve passare al ventricolo destro, poi in arteria polmonare, nei polmoni, nelle vene polmonari,
in atrio sinistro, in ventricolo sinistro ed essere pompata nel circolo sistemico attraverso l’aorta.
Alla fine di questo percorso, la sostanza raggiunge l’arteria dalla quale si stanno prendendo i campioni di
sangue: nel momento in cui questo accade, si osserva un aumento progressivo della concentrazione della
sostanza, che continua fino a raggiungere un picco, dopo il quale si osserva una diminuzione altrettanto
progressiva. Il picco disegna una campana la cui base sull’asse delle x è molto più estesa della durata
dell’iniezione in atrio destro: quest’ultima, infatti, avviene quasi istantaneamente, mentre l’aumento della

169
concentrazione della sostanza nell’arteria sistemica si protrae per molto più tempo, perché la sostanza iniettata
in atrio destro si è mescolata con un torrente di sangue, che è quello della gittata cardiaca, che di fatto l’ha
diluita. Per questo motivo, si parla di metodo della diluizione dell’indicatore. Inoltre, il passaggio attraverso il
circolo polmonare e il cuore fa sì che la forma della funzione della concentrazione della sostanza nel sangue
arterioso nel tempo sia molto più slargata rispetto a quella dell’iniezione in atrio.
Durante il decremento della concentrazione della sostanza, la curva, determinata dalla linea continua rossa,
si appiattisce: infatti, in quel punto, l’indicatore ha già compiuto un altro giro all’interno del sistema
circolatorio. La prima parte del bolo che aveva raggiunto l’arteria è già passata attraverso il circolo venoso, è
già tornata al cuore, poi ai polmoni, ed è giunta nuovamente all’arteria che si sta campionando: questo
fenomeno è detto di ricircolo. Le onde successive di ricircolo si sommano a quel poco di concentrazione che
rimane residua: questo rimescolamento continuo fa sì che la concentrazione della sostanza nel sangue risulti
più o meno costante. Naturalmente poi, essa verrà eliminata dall’organismo con dei fenomeni di clearance e
questa costanza verrà meno; infine la concentrazione della sostanza diventerà zero (fenomeno non osservabile
nel grafico).
Il fenomeno del ricircolo causa dei problemi al calcolo che si intende fare ed è dunque necessario estrapolare
la porzione discendente della curva di concentrazione arteriosa dell’indicatore, fino al punto in cui essa
raggiunge l’asse delle x (curva rossa tratteggiata). Questo permette, mediante una procedura matematica, di
“ripulire” la registrazione dei dati dagli effetti del ricircolo: come risultato, si ottiene una curva chiusa, una
sorta di campana, descritta dalla curva rossa continua fino al momento di inizio del fenomeno del ricircolo e
dalla curva tratteggiata rossa da quel momento in poi. L’area sottesa alla curva, detta area sotto la curva
(AUC, Area Under the Curve), avrà le dimensioni del prodotto delle grandezze sull’asse x e sull’asse y, cioè
rispettivamente il tempo t e la concentrazione, ovvero l’ammontare di sostanza m su volume V. 13
Complessivamente dunque l’area sotto la curva avrà le dimensioni di un tempo per ammontare di sostanza
diviso volume, ovvero t m V-1: come per un rettangolo, l’area si ottiene base, corrispondente in questo caso
all’intervallo di tempo sulle x, per altezza, corrispondente alla concentrazione sulle ordinate.
Completando il ragionamento, si ottiene la gittata cardiaca dividendo la massa iniettata per l’area sotto la
curva AUC.

GC = m/AUC

Il bilancio dimensionale è il seguente:

[m] [t m V-1]-1 = [V t-1]

Quelle descritte finora sono tecniche che possono essere sfruttate, in particolare, in ambito di ricerca, nel
quale possono fornire delle misure estremamente accurate. Di fatto, sia l’applicazione del principio di Fick che
della diluizione dell’indicatore vengono utilizzate come metro per valutare l’accuratezza di altre tecniche. Si
tratta di procedure dunque applicate in ambiti molto specialistici, mentre è evidente che in ambito ospedaliero
non possano essere altrettanto funzionali: per intenderci, utilizzare un metodo come quello della diluizione
dell’indicatore per stimare la gittata cardiaca di un paziente sarebbe estremamente invasivo oltre che
dispendioso, dato che implica l’inserimento di un catetere in atrio e in arteria, misurazioni, estrapolazioni e
così via. Anche l’applicazione del principio di Fick è un processo invasivo e complesso, comprendendo
l’inserimento di un catetere che arriva in arteria polmonare, una misurazione di sangue arterioso e una stima
per calorimetria del consumo di ossigeno. In ambito medico, per stimare la gittata cardiaca, si utilizza invece
l’ecocardiografia.

Ecocardiografia
Di fatto, l’ecocardiografia coinvolge delle sonde che emettono ultrasuoni, i quali rimbalzano contro le
strutture cardiache e sono poi rilevati nuovamente dalle sonde, che sono di fatto anche dei ricevitori, dando
delle informazioni sulle caratteristiche strutturali del cuore.
L’ecocardiografia può anche essere raffinata modificando la frequenza di tali ultrasuoni (effetto Doppler).
La logica è quella per la quale il suono emesso da un’ambulanza che si muove verso di noi viene percepito
come più acuto, mentre quello che l’ambulanza produce mentre si allontana da noi è percepito come più grave,
benché di fatto la sirena dell’ambulanza produca sempre il medesimo suono, con lo stesso profilo di frequenza.

13
Precisazione. Non è corretto affermare che l’area sotto la curva AUC è espressione della diluzione a cui è andata
incontro la sostanza nel tempo, perché AUC dipende anche dalla quantità di sostanza inizialmente iniettata in atrio.

170
Se il suono dell’ambulanza, ma anche un ultrasuono, viene prodotto o rimbalza14 da/su un oggetto che si
muove, allora anche la frequenza del suono o dell’ultrasuono cambia. Con l’ecocardiografia Doppler, si ci può
dunque fare un’idea anche della velocità con cui si muovono le strutture cardiache.

Stima della gittata cardiaca attraverso ecocardiografia


1. Si misura il diametro dell’aorta, o meglio dell’ultima porzione della ventricolo sinistro, quella che si
continua direttamente nella valvola semilunare aortica, chiamata tratto di uscita del ventricolo
sinistro (Left Ventricular Outflow Tract, LVOT). Si può
“insonare” (NdS. Neologismo inventato dal prof.) questa
struttura mettendo la sonda in determinate posizioni (i tecnici
parlano di asse lungo parasternale, parasternal long axis). Il
risultato ottenibile è visibile nell’immagine a lato, nella quale
il segmento rosso che unisce due bande bianche spesse (che
rappresentano l’immagine delle pareti del ventricolo di
sinistra) è la rappresentazione del diametro del LVOT.
2. Si misura l’area del tratto di uscita del ventricolo sinistro.
Conoscendo il suo diametro infatti si ricava il raggio r, e con
la formula πr2, si ottiene l’area del segmento di uscita del
ventricolo sinistro attraverso il quale passa il sangue. (Ricorda. La gittata cardiaca, essendo misurata
per un arco temporale sufficientemente lungo – ca. 1 minuto –, è la stessa nel ventricolo di destra e in
quello di sinistra).
3. Si utilizza l’ecocardiografia doppler per stimare la velocità del
sangue che scorre all’interno dell’aorta. Nell’immagine si
osserva più in alto un tracciato di ECG, un complesso QRS in
seconda derivazione, e si può osservare il ritardo che intercorre
tra la R, cioè la marcata deflessione verso l’alto del complesso, e
l’evento meccanico rappresentato dal flusso di sangue,
rappresentato in basso (curva rossa). Si può misurare l’area sotto
la curva rossa di questo profilo di velocità con un integrale
velocità-tempo (velocity-time integral, VTI).
4. Avendo una stima della l’area del LVOT attraverso cui passa il
flusso e una stima della velocità del flusso stesso, con la formula
seguente è possibile ricavare la gittata cardiaca:

𝐆𝐂 = 𝝅 × [(𝐝𝐢𝐚𝐦𝐞𝐭𝐫𝐨 𝐋𝐕𝐎𝐓)/𝟐]𝟐 × 𝐕𝐓𝐈 × 𝐟𝐫𝐞𝐪𝐮𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜𝐚𝐫𝐝𝐢𝐚𝐜𝐚

In questo modo è possibile sjtimare la gittata cardiaca senza procedure invasive (cateteri, iniezioni ecc.).

7.3. Regolazione intrinseca eterometrica e omeometrica


della forza contrattile del miocardio
Il muscolo cardiaco può, come il muscolo scheletrico, modulare la forza di contrazione delle proprie fibre
in caso di necessità, ma non può farlo con gli stessi processi del muscolo striato:
 innanzitutto non può modulare il numero di unità motrici reclutate, in quanto il tessuto muscolare
cardiaco è un sincizio funzionale: questo implica che tutte le fibre si contraggono ad ogni battito;
 non può aumentare la frequenza dei potenziali d’azione, in quanto ad ogni potenziale d’azione
corrisponde un battito: aumentando la frequenza dei potenziali d’azione, il cuore non avrebbe
abbastanza tempo di riempirsi adeguatamente tra una contrazione e l’altra, causando una insufficiente
eiezione di sangue in aorta.

Per questi motivi il cuore utilizza altri meccanismi per modulare la propria forza di contrazione, che possono
essere:
 estrinseci, ovvero che prevedono una componente nervosa o umorale nella regolazione;

14
In questo caso si parla di eco (eco ultrasonica nel caso dell’ecocardiografia doppler).

171
 intrinseci, perché non richiedono l’intervento di neurotrasmettitori o ormoni, ma si esauriscono
all’interno del miocardio.
Più in particolare quelli intrinseci, che si esamineranno per primi, possono essere:
1) meccanismi di regolazione intrinseca eterometrica (essenzialmente uno: il meccanismo di Frank-
Starling);
2) meccanismi di regolazione intrinseca omeometrica (essenzialmente due: l’aumento della frequenza
cardiaca e la risposta all’aumento della pressione diastolica).
Gli aggettivi eterometrica ed omeometrica si riferiscono alla lunghezza delle fibre del miocardio a cui
avvengono: il primo interviene al variare dei valori della lunghezza iniziale delle fibre del miocardio, mentre
i secondi intervengono all’aumentare della frequenza cardiaca o all’aumentare della pressione diastolica in
aorta (la lunghezza delle fibre non varia).

Meccanismo di regolazione intrinseca eterometrica: meccanismo di Frank-Starling o legge del


cuore di Starling
Il meccanismo di Frank-Starling o legge del cuore di Starling è uno dei meccanismi più importanti coinvolti
nel controllo cardiovascolare.
Tutte le cellule muscolari hanno una lunghezza iniziale ottimale per cui la tensione attiva generata durante la
contrazione è massima, ma il muscolo cardiaco lavora a lunghezze iniziali delle sue cellule leggermente
inferiori a quella ottimale: questo implica che aumentando la lunghezza iniziale delle cellule cardiache, il
cuore sviluppa una tensione attiva massimale. Se invece viene superata la lunghezza ottimale, il contributo
della tensione attiva torna a diminuire: anche se aumenta il contributo della tensione passiva, il risultato non è
lo stesso in quanto il cuore inizia a comportarsi come un elastico, di cui si perde gradualmente il controllo.
Con lunghezza iniziale si intende la lunghezza delle fibre cardiache immediatamente prima della contrazione
(sistole): considerando che questo istante corrisponde all’ultima parte della diastole, è più corretto parlare di
lunghezza telediastolica. Quest’ultima dipende direttamente dalla struttura tridimensionale del cuore. Questo
infatti costituisce delle strutture cave (atri e ventricoli), che vengono riempite: in base al volume di sangue che
entra in queste cavità, il volume di queste aumenterà o diminuirà, allungando o accorciando le fibre
miocardiche che ne compongono le pareti.
Si può dunque concludere che la lunghezza iniziale delle cellule del miocardio (in questo caso ventricolare)
dipende dal volume telediastolico del ventricolo: di conseguenza, la tensione attiva sviluppata dalle cellule
cardiache dipende dal volume telediastolico ventricolare.
Sapendo che ad un aumento del volume telediastolico corrisponde (entro certi valori) una contrazione più
vigorosa del cuore dovuta all’aumento della tensione attiva, è facile dedurre che, a parità degli altri fattori
emodinamici, la maggiore forza di contrazione ventricolare si traduce in un aumento della gittata sistolica:
di conseguenza affermare che un aumento del volume telediastolico
ventricolare porta ad un aumento della gittata sistolica è un altro modo
corretto per enunciare il principio di Starling.
Allo stesso modo, considerando costante la frequenza cardiaca, un
aumento della gittata sistolica corrisponde ad un aumento della gittata
cardiaca (GC = gittata sistolica × frequenza cardiaca); di conseguenza
possiamo dire che un aumento del volume telediastolico ventricolare
porta ad un aumento della gittata cardiaca.
Il fatto che tutte queste variabili siano collegate tra loro ci spiega come
mai si ritrova, in testi diversi, ma anche nello stesso testo, il grafico della
legge del cuore di Starling con variabili x e y ogni volta diverse:
 sull’asse delle x si può avere la lunghezza telediastolica delle
cellule ventricolari, il volume telediastolico del ventricolo o il
ritorno venoso;
 sull’asse delle y si può avere lo sviluppo di tensione ventricolare
o pressione ventricolare (messe in relazione dalla legge di
Laplace), la gittata sistolica o la gittata cardiaca.

Nota. Nella maggior parte di questi grafici sono espresse due curve: la curva sistolica, di cui ci siamo occupati
fino ad ora, e la curva diastolica. Questa è rappresentata solo per confronto, mostrandoci il fenomeno

172
prettamente passivo che riflette le caratteristiche di complianza15 del ventricolo: la componente passiva della
tensione totale massima sviluppata in condizioni di allungamento è molto modesta, praticamente trascurabile.
Non è possibile spiegare solo sulla base dello stiramento passivo delle componenti elastiche del cuore
l’aumento considerevole di tensione sviluppata osservabile sulla curva sistolica, gran parte di questo aumento
va dunque spiegato con meccanismi diversi.

Tornando alla curva sistolica, rimane da spiegare il decremento successivo al picco. Questo si osserva solo
in condizioni estreme di riempimento ventricolare difficilmente rilevabili in situazioni cliniche. Si può
concludere quindi che al crescere del volume ventricolare telediastolico (i.e. della lunghezza iniziale delle fibre
del miocardio), cresce la tensione ventricolare (i.e. la gittata sistolica, i.e. la gittata cardiaca), ma solo fino a
un certo punto, che rappresenta un limite che fisiologicamente non è superato.
La legge del cuore di Starling garantisce l’uguaglianza della gittata sistolica media dei due ventricoli (di
conseguenza anche della gittata cardiaca). Questo avviene perché se un ventricolo (ad esempio il sinistro) eietta
una quantità di sangue maggiore rispetto all’altro ventricolo durante la stessa sistole, dopo qualche battito nel
ventricolo destro, a causa del surplus iniziale eiettato dal sinistro, arriverà un ritorno venoso maggiore. Come
già detto prima, un maggiore afflusso venoso nell’atrio destro e quindi nel ventricolo destro, avrà come
conseguenza un aumento del volume telediastolico (che è pari al volume telesistolico sommato al ritorno
venoso) del ventricolo destro, da cui deriva uno stiramento delle cellule miocardiche. Il tutto si traduce in un
aumento della forza contrattile del ventricolo destro e della sua gittata sistolica: quindi anche se la gittata
sistolica nel singolo battito può essere diversa per i due ventricoli, la gittata sistolica media è mantenuta
costante compensando eventuali squilibri. Nota. In risposta allo squilibrio dell’esempio (più sangue eiettato
dal ventricolo sinistro) non soltanto avviene ciò che si è descritto (cioè il cuore destro riceve un ritorno venoso
superiore al normale e quindi aumenta la sua gittata cardiaca), ma anche il ventricolo sinistro risentirà della
cosa (dal circolo polmonare arriva al ventricolo sinistro meno sangue di quello eiettato, perché il ventricolo
destro, a monte del circolo polmonare, nella condizione esaminata eietta meno sangue del sinistro → il volume
telediastolico è minore di quello del battito precedente → la forza di contrazione del ventricolo è minore → la
gittata sistolica è minore di quella del battito precedente). Come si può notare, il sistema tende dunque a
riequilibrarsi da entrambi i punti di vista, e ciò si può spiegare proprio sulla base della legge del cuore di
Starling.

Meccanismi di regolazione intrinseca omeometrica: aumento della pressione diastolica


Come già anticipato la forza di contrazione del miocardio è sensibile
agli aumenti della pressione in aorta alla fine della contrazione
isovolumetrica della sistole ventricolare, momento in cui tale
pressione è minima ed è per questo chiamata diastolica. Se la
pressione diastolica sale, la pressione sviluppata dalla contrazione
ventricolare non sarà più sufficiente ad aprire la valvola semilunare dell’aorta e di conseguenza è necessario
che venga prolungata la fase di contrazione isovolumetrica, in modo tale da raggiungere la pressione
ventricolare necessaria per aprire la valvola. Questo meccanismo ha alla base il fatto che il cuore in condizioni
fisiologiche non lavora alla massima capacità, ma ha una riserva funzionale di tensione da utilizzare nel caso
in cui la pressione diastolica in aorta aumenti. Chiaramente l’utilizzo di questa riserva ha un costo:
considerando tutti gli altri fattori costanti, la durata del potenziale d’azione rimane invariata e, di conseguenza,
rimane uguale la durata della contrazione. Avendo quindi lo stesso tempo a disposizione per la sistole, se una
maggiore quota di questa è occupata dalla contrazione isovolumetrica, si avrà conseguentemente meno tempo
a disposizione per l’eiezione rapida e lenta di sangue, che si traduce in una minore gittata sistolica.

Ricapitolando. Aumento pressione diastolica → prolungamento della fase di contrazione isovolumetrica


→ poiché la durata della sistole è sempre la stessa, si accorciano le fasi di eiezione rapida e lenta → minore
sangue eiettato in aorta (i.e. minore gittata sistolica).

Come il meccanismo di Frank-S tarling anche questo meccanismo non è illimitato, in quanto se la
pressione diastolica in aorta fosse troppo alta tutta la durata della sistole sarebbe occupata dalla fase di
contrazione isovolumetrica: in questa condizione si svilupperebbe la tensione massima sviluppabile dal

15
Complianza = V/P. La complianza è pari alla variazione di volume per unità di pressione. Il rapporto è determinato
dalle caratteristiche della parete in questione.

173
ventricolo, ovvero quella che avviene in condizioni puramente isometriche (realizzabili tuttavia solamente in
laboratorio, in quanto una situazione di questo genere corrisponderebbe ad una gittata sistolica pari a zero). La
massima tensione sviluppabile dal ventricolo sinistro è infatti una delle variabili che è possibile trovare in
ordinata nel grafico della legge di Starling.

La regolazione omeometrica interviene su un singolo battito, mentre quella eterometrica agisce in un


intervallo di tempo maggiore. Come già detto prima il meccanismo di regolazione eterometrica agisce in caso
di aumento del volume telediastolico ventricolare, che può essere dovuto proprio agli effetti della regolazione
omeometrica in risposta ad una pressione diastolica in aorta più alta. Analizziamo il meccanismo nel dettaglio
per una maggiore comprensione:
1. aumenta la pressione diastolica;
2. la contrazione isovolumetrica del ventricolo si prolunga per più tempo;
3. l’eiezione è meno prolungata e la gittata sistolica diminuisce;
4. il volume telesistolico è maggiore del normale (c’è stata una minore eiezione di sangue e quindi c’è
più sangue residuo in ventricolo);
5. al battito successivo il ritorno venoso usuale si somma al volume telesistolico (che è maggiore), e di
conseguenza anche il loro totale (cioè il volume telediastolico) è maggiore;
6. all’aumento del volume telediastolico corrisponde (per la legge del cuore di Starling) un aumento della
forza di contrazione del miocardio e di conseguenza un aumento della gittata sistolica.
Il meccanismo di Frank-Starling riporta quindi in condizioni standard eventuali squilibri di gittata
sistolica dovuti all’azione della regolazione omeometrica.

Relazioni tra frequenza cardiaca, gittata sistolica e gittata cardiaca


La gittata cardiaca è data dal prodotto della frequenza cardiaca e della gittata sistolica. Non è corretto però
dedurre che all'aumento della frequenza cardiaca corrisponda sempre un aumento della gittata cardiaca. Questo
sarebbe vero se i due fattori della formula fossero tra loro indipendenti, ma questi sono, al contrario, in
relazione l'uno con l'altro. A frequenze cardiache elevate infatti avviene un calo della gittata sistolica,
perché il ventricolo ha meno tempo per riempirsi.
All’aumentare della frequenza cardiaca, il periodo cardiaco diminuisce (periodo cardiaco = 1/frequenza
cardiaca). A sua volta la durata del periodo cardiaco ha degli effetti sulla durata del potenziale d'azione: se il
periodo cardiaco diminuisce, la durata del potenziale d'azione diminuisce. La durata della contrazione dipende
dalla durata del potenziale d'azione: si può concludere che alla diminuzione della durata del periodo
cardiaco corrisponde una riduzione della durata della contrazione.
Quando il periodo cardiaco diminuisce, anche la sua frazione occupata dalla contrazione (sistole) diminuisce:
di conseguenza se il periodo cardiaco diminuisce, la sistole dura relativamente meno, e quindi la diastole dura
relativamente di più. In assoluto però ovviamente anche la durata della diastole si riduce: essa è aumentata
solo relativamente al periodo cardiaco, poiché la riduzione della sistole è più consistente (si tratta di una sorta
di meccanismo compensatorio che fa sì che nonostante ci sia un accorciamento generale di entrambe le fasi,
l’accorciamento della sistole sia più marcato di quello della diastole).
Se la durata della diastole diminuisce si ha meno tempo per riempire il ventricolo: si avrà una diminuzione
del riempimento del ventricolo e di conseguenza del volume telediastolico. Ad una diminuzione di
quest’ultimo corrisponde una diminuzione della gittata sistolica.

Ricapitolando. Aumento frequenza cardiaca (i.e. diminuzione del periodo cardiaco) → la durata della
diastole diminuisce → diminuisce il periodo di riempimento ventricolare → diminuisce la gittata
sistolica.

La curva che descrive l’andamento della gittata cardiaca in funzione della frequenza cardiaca presenta tre
momenti:

174
 se la frequenza cardiaca aumenta partendo da valori
molto bassi, la gittata cardiaca aumenta, perché il
ventricolo ha tempo sufficiente per riempirsi
completamente;
 se la frequenza continua ad aumentare il sistema
raggiunge un livello di saturazione (apice della curva);
 se la frequenza continua ancora ad aumentare, il
vantaggio dell’aumento della frequenza è annullato e
superato dallo svantaggio dato dalla mancanza di tempo
a disposizione del ventricolo per riempirsi
completamente (i.e., dalla riduzione significativa della
gittata sistolica), e quindi si ha l’andamento verso il basso
della curva.
Questo è importante dal punto di vista clinico in quanto può, per
esempio, spiegare perché un paziente possa svenire sia in
condizioni di bradiaritmia che in condizioni di tachiaritmia.

Anche la sistole atriale ha un ruolo importante:


 a valori bassi di frequenza cardiaca, questa è relativamente poco importante in quanto a termine della
diastasi il riempimento è praticamente completo;
 a valori alti di frequenza cardiaca la fase di riempimento del ventricolo è abbreviata, perciò il
contributo della contrazione atriale nel riempimento ventricolare diviene significativo.
Non è però detto che la contrazione degli atri sia efficiente. Possono esistere condizioni, per esempio durante
una fibrillazione atriale, in cui la contrazione degli atri è meccanicamente inefficiente, e in caso di aumento
della frequenza cardiaca, il venir meno di un'efficiente contrazione atriale ha delle conseguenze negative dal
punto di vista emodinamico

Si descrive la relazione tra eiezione ventricolare e pressione atriale nel cuore destro e sinistro. Sull’asse delle
ascisse si ha la pressione nell'atrio. A questa si può sostituire il volume telediastolico atriale, immediatamente
precedente alla sistole atriale (perché al crescere del volume telediastolico aumenta anche la pressione dell'atrio
in funzione della complianza dell'atrio). In ordinata si ha la gittata cardiaca dei due ventricoli.
Se aumenta la pressione che è presente in uno dei due atri, aumenta
anche l'ingresso di sangue da quell'atrio al suo ventricolo e quindi
anche il volume telediastolico ventricolare: di conseguenza si avrà un
aumento della gittata sistolica.
Si noti che si ottengono due curve che non sono sovrapposte per il
cuore destro e per il cuore sinistro. Le due curve sono “parallele”, ma
la curva relativa al cuore destro è posta più in alto di quella relativa al
cuore sinistro. A parità di pressione atriale (punti A e B), la gittata
cardiaca sarebbe infatti maggiore nel cuore destro rispetto a quella
sviluppata dal cuore sinistro. Si sa però che la gittata è uguale fra i
due ventricoli. Fisiologicamente, dunque, si è nelle condizioni in cui
la gittata cardiaca esercitata dai due ventricoli è uguale, ma sono
presenti pressioni atriali diverse (punti A e C). Questo perché il cuore
sinistro (che infatti ha una parete molto più spessa) deve pompare il sangue in aorta, dove la pressione è molto
più alta che nelle arterie polmonari dove pompa invece il cuore destro. Si ha dunque una differenza fra le
pressioni nei due atri: la pressione in atrio sinistro è più alta che in atrio destro. Questo è molto importante
dal punto di vista clinico: esistono soggetti che sono affetti, per esempio, da difetto interatriale, una situazione
in cui il setto interatriale non è completo e presenta delle soluzioni di continuità che possono determinare delle
conseguenze emodinamiche anche severe. Solitamente in questi soggetti il sangue passa dall'atrio sinistro
all'atrio destro, proprio perché la pressione a sinistra è maggiore della pressione a destra.
Ricapitolando. All’equilibrio la pressione in atrio sinistro è maggiore della pressione in atrio destro.

175
Meccanismi di regolazione intrinseca omeometrica: aumento della frequenza cardiaca
(variazione sostenuta nel tempo)
Anche detto meccanismo della Treppe (dal tedesco, letteralmente ‘scala’) o effetto Bowditch.
Un aumento di frequenza cardiaca, se sostenuto nel tempo, provoca un aumento della forza di
contrazione ventricolare.
Un primo esempio di questo lo si può avere prendendo come
riferimento un muscolo papillare isolato. Ad un aumento della
frequenza di contrazione, conseguente ad una diminuzione del
periodo cardiaco (da 20 s a 0,63 s), si nota una progressiva
crescita della forza di contrazione. Tale cambiamento non è definitivo, dal momento che se il periodo viene
riportato al valore originale, così si comporta anche la forza di contrazione.
Vi sono due meccanismi alla base di questo fenomeno:
1. I periodi di plateau dei potenziali d’azione occupano complessivamente una frazione maggiore
del tempo quando la frequenza cardiaca aumenta (nonostante ciascun plateau divenga più
breve). Discutendo di potenziale d’azione a risposta rapida, si sa che il plateau occupa una fase
consistente di esso, inferiore solo alla fase 4 (700 ms contro 200). Come precedentemente affermato,
se la frequenza cardiaca aumenta, il periodo cardiaco diminuisce e dunque, nel tempo, verranno
espressi più potenziali d’azione. Se la durata del plateau rimanesse invariata, è chiaro che ci sarebbe
un maggior tempo complessivo occupato dai plateau in un minuto rispetto a quello che ci sarebbe in
una situazione di frequenza cardiaca invariata. Tale conclusione è valida, tuttavia è moderata dal fatto
che con il diminuire del periodo cardiaco diminuisce anche la durata del potenziale d’azione e dunque
del plateau stesso, che si accorcia leggermente. In generale però, è corretto concludere che il tempo
complessivo occupato dalle fasi di plateau è maggiore.
Ciò che porta ad un aumento della forza di contrazione è il maggior tempo a disposizione del calcio
per entrare nella cellula miocardica in fase 2 (che ricordiamo essere contraddistinta dall’ingresso di
calcio tramite canali voltaggio-dipendenti): l’ingresso maggiore di calcio dallo spazio EC porta al
rilascio di grandi quantità di calcio da parte dei recettori della rianodina, che porta ad un aumento della
quantità di calcio nel sarcoplasma, alla base della contrazione stessa.
2. La corrente del calcio ICa si potenzia e si inattiva più tardi
in condizioni di depolarizzazione ripetuta (effetto della
depolarizzazione sui canali del calcio). Si confrontino le due
curve nel grafico: la 1 rappresenta la corrente da singola
depolarizzazione, la 7 generata da sette depolarizzazioni
ripetute. Si noti come quest’ultima presenti un picco più
basso (i.e. una corrente maggiore) e si mantenga a valori
elevati per più tempo (ovviamente nel grafico punti più bassi
corrispondono a valori più alti di corrente). I meccanismi di
tale effetto non sono del tutto chiari, ma sembra che esso sia
riconducibile ad una modificazione dei canali del calcio voltaggio-dipendenti, i quali pare possiedano
uno stato superattivo (oltre ai tre già noti: attivo, chiuso e inattivo), ottenibile solo in caso di stimoli
di depolarizzazione di membrana ripetuti nel tempo a breve distanza l’uno dall’altro.
È importante sottolineare che ci si sta occupando di potenziali d’azione ripetuti nel tempo, da distinguere sia
dalla depolarizzazione lenta e progressiva dovuta a condizioni patologiche (di squilibrio della concentrazione
di potassio)16 sia da una situazione di modificazione transitoria del periodo cardiaco (che ha effetti differenti,
analizzati nel prossimo paragrafo).
Ricordando la correlazione tra frequenza cardiaca e gittata sistolica (all’aumentare della prima diminuisce la
seconda, sebbene esse non siano inversamente proporzionali), è facile capire come il meccanismo appena
enunciato sia di fondamentale importanza, perché compensa le conseguenze avverse di un aumento di
frequenza sulla gittata sistolica, portando ad una maggiore contrazione ventricolare nonostante la minor durata
della contrazione stessa. In altre parole, l’effetto Bowditch (o effetto Treppe) fa sì che il calo della gittata
sistolica (in risposta all’aumento della frequenza cardiaca) non sia così marcato come sarebbe nel caso
in cui questo meccanismo non intervenisse.

16
Le cellula a risposta rapida normalmente infatti non dovrebbero andare incontro a fenomeni di depolarizzazione
spontanea lenta e progressiva.

176
Questo meccanismo può tuttavia alterarsi in condizioni
patologiche, come evidenziato dal grafico. In pazienti con
scompenso cardiaco, il meccanismo della Treppe è estremamente
indebolito rispetto ad individui sani.

Meccanismi di regolazione intrinseca omeometrica: aumento della frequenza cardiaca


(variazioni transitorie)
Si tratta questa volta di un meccanismo di ‘disturbo’, clinicamente rilevante, che concerne le variazioni della
forza contrattile ventricolare in risposta a variazioni transitorie del periodo cardiaco, che possono avvenire per
la presenza di battiti prematuri (fenomeni che capitano prevalentemente in casi patologici, ma possono
avvenire con una frequenza minore anche nei soggetti sani).
Si analizzi il grafico, che mostra una
contrazione sistolica prematura del ventricolo
sinistro (onda A). Ciascuna onda rappresenta
un battito cardiaco. Dal grafico si evince
come i primi due e gli ultimi due battiti siano
regolari, mentre il battito A rappresenta una
contrazione ventricolare prematura.
L’intervallo che separa A dal battito
precedente è un intervallo più breve del
normale, mentre quello che separa A dal successivo è più lungo del normale (ed è definito pausa
compensatoria). La contrazione successiva ad A (cioè B) viene definita post-extrasistolica.
La contrazione prematura del miocardio è dovuta a una corrente di depolarizzazione anomala, che porta il
cuore a contrarsi nonostante sia ancora in periodo refrattario.
A una sistole ventricolare prematura o impropria, corrisponde una forza di contrazione debole; nel caso di
una sistole avvenuta dopo un intervallo più lungo del normale (contrazione post-extrasistolica), si genera
invece una forza di contrazione maggiore del normale.
Alla base di tale fenomeno vi sono due meccanismi:
1. Il primo fa riferimento alla curva di restituzione
meccanica, cioè la funzione che descrive le variazioni
di forza di contrazione del miocardio in funzione
dell’intervallo di accoppiamento (intervallo tra due
depolarizzazioni conseguenti). Da tale curva si evince
che la forza di contrazione aumenta all’aumentare
dell’intervallo di accoppiamento, poiché il calcio nel
reticolo sarcoplasmatico disponibile a ritornare nel
sarcoplasma aumenta col tempo. Per comprendere: la
depolarizzazione della membrana cellulare attiva i
canali voltaggio-dipendenti per il calcio con
conseguente attivazione dei recettori per la rianodina,
il calcio esce dal reticolo sarcoplasmatico ed entra nel
sarcoplasma, permettendo l’avvio del ciclo dei ponti trasversali; successivamente alla ripolarizzazione
della cellula miocardica, tramite le pompe e gli scambiatori (principalmente SERCA), il calcio è
ripompato nel reticolo ma per questioni di compartimentazione, il calcio nel reticolo necessita tempo
per poter essere pronto a ritornare nel sarcoplasma, a causa della conformazione del reticolo stesso.
Dunque, se una depolarizzazione segue troppo rapidamente la precedente, il calcio non è pronto a
uscire dal reticolo e di conseguenza la depolarizzazione successiva (dovuta a intervallo di
accoppiamento ridotto) potrà sfruttare una disponibilità di calcio inferiore all’usuale, portando a una
complessiva attivazione ridotta del ciclo dei ponti trasversali. Viceversa, se l’intervallo di

177
accoppiamento è lungo, il reticolo guadagna (oltre alla quantità fisiologica di calcio) un’aggiunta extra
generando una forza di contrazione maggiore.17
2. Meccanismo di Frank e Starling: la contrazione A insorge in un ventricolo che ha meno tempo per
riempirsi in diastole, mentre per quel che riguarda B avviene l’opposto (il ventricolo ha più tempo per
riempirsi). Per la legge del cuore di Starling, si ha nel primo caso una forza di contrazione minore
rispetto al secondo. Dal Berne & Levy: “un riempimento ventricolare incompleto prima del battito
prematuro spiega in parte la debolezza della contrazione prematura. Successivamente, l’aumento del
riempimento ventricolare durante la pausa compensatoria rende ragione della vigorosa contrazione
post-extrasistolica”.
Nota. La contrazione post-extrasistolica è percepita dal soggetto come palpitazione.

7.4. Regolazione estrinseca (nervosa e umorale)


dell’attività elettrica e meccanica del cuore
I meccanismi di regolazione estrinseca richiedono strutture ulteriori al miocardio: nervi e ormoni.

Regolazione nervosa: SNA


Il principale fattore di regolazione estrinseco dell’attività elettrica e meccanica del cuore è costituito dal
sistema nervoso autonomo, nelle sue componenti simpatica e parasimpatica.
Si analizzi la schematizzazione nella pagina successiva. Il sistema nervoso parasimpatico è rappresentato dal
nervo vago (in realtà al vago appartengono le fibre pre-gangliari; è bene ricordare come l’innervazione delle
cellule cardiache non sia svolta dal vago ma dalle fibre
post-gangliari, originate dai gangli del plesso cardiaco18),
mentre l’ortosimpatico da fibre post-gangliari
simpatiche19.
Un aspetto sottolineato dallo schema a lato è
l’innervazione crociata svolta dalle due branche, orto- e
parasimpatica, che svolgono ognuna un controllo
reciproco sulle terminazioni dell’altra, prima che queste
giungano a dare sinapsi sul miocardio. Si può osservare
infatti che le fibre parasimpatiche fanno sinapsi sulle
simpatiche rilasciando il loro neurotrasmettitore
(acetilcolina, ACh) inibendo il rilascio di trasmettitore
(noradrenalina, qui indicata come NE20) da parte delle
terminazioni simpatiche; viceversa, le fibre del simpatico
possono rilasciare noradrenalina e neuropeptide Y (NPY,
tipico delle cellule simpatiche) sulle fibre
parasimpatiche, inibendo il rilascio di acetilcolina da
parte di quest’ultimo. Questa inibizione pre-sinaptica è

17
Abbastanza contorto. Dal Berne & Levy, più chiaro: “La restituzione della forza contrattile dipende dal tempo di
permanenza del Ca++ libero nel citosol durante il processo di contrazione e rilasciamento. Durante il rilasciamento, il Ca++
che si dissocia dalle proteine contrattili viene accumulato dal reticolo sarcoplasmatico, per essere poi rilasciato di nuovo
per la contrazione successiva. Tuttavia, occorrono circa 500-800 ms prima che il Ca++ che era stato ricaptato divenga di
nuovo disponibile per il rilascio dal reticolo sarcoplasmatico in risposta alla depolarizzazione successiva. Pertanto, la
forza del battito prematuro è debole, perché il tempo trascorso non è tale da consentire che una quantità sufficiente del
Ca++, che era stato sequestrato dal reticolo sarcoplasmatico durante il precedente rilasciamento, diventi disponibile per il
rilascio in risposta alla depolarizzazione prematura. Viceversa, il battito post-extrasistolico è invece molto più potente di
un battito normale, poiché una quantità più elevata di Ca ++ era stata captata dal reticolo sarcoplasmatico durante il
prolungato intervallo tra la fine dell’ultimo battito regolare e l’inizio del battito post-extrasistolico”.
18
Si cita comunque il vago per semplicità: si parla infatti di stimolazione vagale, ipotono vagale ecc.
19
Dal punto di vista anatomico si ricordi che le fibre post-gangliari parasimpatiche sono molto brevi, perché originano
da gangli posti in prossimità dell’organo bersaglio (in questo caso il cuore), mentre quelle post-gangliari simpatiche sono
piuttosto lunghe, perché originano dai gangli paravertabrali (catena del simpatico).
20
NorEpinefrina, nome equivalente.

178
tuttavia molto meno rilevante di quanto non faccia apparire lo schema: va tenuta in considerazione, ma
ricordando che i principali meccanismi di antagonismo tra le due branche sono altri.
La noradrenalina, rilasciata dalle terminazioni delle fibre post-gangliari simpatiche, lega a livello delle
cellule del miocardio dei recettori specifici, quali i recettori β1-adrenergici (N.B. È importante ricordare il
sottotipo perché i farmaci sono specifici per tipi e sottotipi di recettori.); questi sono associati a proteine G di
tipo stimolatorio (Gs), che stimolano l’attività dell’enzima adenilato ciclasi, responsabile della conversione
di ATP in AMPc. Un aumento di tale molecola a livello citoplasmatico provoca l’aumento dell’attività della
protein chinasi A (PKA), che va a fosforilare diversi bersagli molecolari. L’effetto sulle proprietà cardiache
viene analizzato di seguito.
L’acetilcolina, rilasciata dalle terminazioni delle fibre post-gangliari parasimpatiche, invece, lega recettori
muscarinici M2, anch’essi associati a proteine G, in questo caso inibitorie (Gi), che inibiscono l’attività
dell’adenilato ciclasi. La diminuzione di [AMPc] citosolico che segue a questa inibizione porta a una minor
trasduzione del segnale descritto precedentemente. Esistono inoltre degli enzimi, quali le fosfodiesterasi, che
possono degradare l’AMPc, contribuendo alla diminuzione della sua concentrazione intracellulare. I recettori
muscarinici sono altresì associati a particolari subunità delle proteine G (β e γ) che attivate portano a
un’apertura dei canali del potassio KAch. Tale apertura dipende solo da fenomeni a livello di membrana, molto
celeri, dunque è rapida: la conseguenza di tale apertura è un aumento della conduttanza al potassio della
membrana delle cellule miocardiche, fenomeno che contribuisce ad allontanare il potenziale di membrana dalla
soglia.
Ultimo aspetto illustrato nello schema è relativo alla sorte dei trasmettitori rilasciati dalle terminazioni
postagangliari. In generale, questi possono in parte essere degradati, talvolta ricaptati e riciclati, altri vanno
incontro a diffusione. Per l’acetilcolina, è presente un enzima detto acetilcolinesterasi, in grado di catalizzare
la degradazione a velocità molto elevata.
Da ciò si può evincere come la cinetica delle due branche del SNA sia differente. Gli effetti della
noradrenalina (simpatico) si manifestano e vengono meno lentamente, perché dipendono dall’aumento o
diminuzione graduale di AMPc citoplasmatico (che seguono rispettivamente all’attivazione o alla mancata
attivazione dell’adenilato ciclasi). Per quel che riguarda l’acetilcolina (parasimpatico) si ha invece una cinetica
parzialmente simile (dipendente dalla diminuzione della concentrazione di AMPc), ma per altri versi più
veloce, sia nell’insorgenza, che può essere molto più celere a causa della rapidità della cinetica di apertura dei
canali KAch, sia nella cessazione, la cui velocità aumentata è data tanto dalla rapida chiusura dei canali K Ach
quanto dall’azione dell’enzima acetilcolinesterasi, che presenta cinetica rapida e fa sì che la concentrazione di
acetilcolina nello spazio sinaptico cali molto velocemente.

La variazione della concentrazione di AMP ciclico intracellulare e la variazione della conduttanza di


membrana al potassio causano diversi effetti sulle cellule del miocardio:
1) Effetto cronotropo
Fa riferimento a variazioni del periodo cardiaco, indicato come intervallo RR, cioè l’intervallo
temporale tra due onde R consecutive dell’ECG (in cui l’onda R corrisponde alla depolarizzazione
dell’apice del ventricolo sinistro).
 Il sistema nervoso simpatico ha effetto cronotropo positivo, cioè determina una diminuzione
dell’intervallo RR, o in altre parole un aumento della frequenza cardiaca.
 Il sistema nervoso parasimpatico ha effetto cronotropo negativo, cioè determina un
aumento dell’intervallo RR, o in altre parole una diminuzione della frequenza cardiaca.
Il periodo cardiaco è una funzione lineare della frequenza di scarica delle fibre simpatiche e di
quelle parasimpatiche (i.e., se aumenta la frequenza di scarica delle fibre simpatiche sul cuore
diminuisce il periodo cardiaco, viceversa se aumenta la frequenza di scarica delle fibre parasimpatiche
sul cuore, il periodo cardiaco aumenta; entrambi i fenomeni sono caratterizzati da un andamento
lineare). La linearità fa sì che il periodo cardiaco possa essere espresso come una somma algebrica
tra le frequenza di scarica simpatica e parasimpatica a livello del cuore. Bisogna sottolineare che da
un punto di vista elettrofisiologico la variabile utilizzata è il periodo cardiaco, mentre da un punto di
vista emodinamico la variabile considerata è la frequenza cardiaca (perché la gittata cardiaca è il
prodotto di gittata sistolica e frequenza cardiaca). Ricorda. Ovviamente le due grandezze (periodo e
frequenza cardiaca) sono tra loro in un rapporto di proporzionalità inversa.
2) Effetto inotropo
È l’effetto che si riferisce a variazione della forza contrattile del cuore.

179
 Il sistema nervoso simpatico ha effetto inotropo positivo, cioè determina un aumento della
forza contrattile.
 Il sistema nervoso parasimpatico ha effetto inotropo negativo, cioè determina una
diminuzione della forza contrattile.
Bisogna sottolineare che anche la frequenza cardiaca ha un effetto sulla forza contrattile, che può
manifestarsi per variazioni transitorie del periodo cardiaco, ma è rilevante soprattutto se essa è
sostenuta nel tempo. Di conseguenza l’attività simpatica ha un effetto inotropo positivo per due
ragioni:
 ha un effetto inotropo positivo diretto: cioè aumenta la forza contrattile indipendentemente
dall’effetto sulla frequenza cardiaca;
 ha un effetto cronotropo positivo, cioè riduce intervallo RR, o in altre parole aumenta la
frequenza cardiaca: tale aumento contribuisce, grazie al fenomeno della Treppe, ad
aumentare la forza contrattile; questo effetto del simpatico contribuisce di conseguenza
anch’esso, in maniera indiretta, all’aumento della forza contrattile.
Allo stesso modo si comporta l’attività parasimpatica, che ha effetto inotropo negativo, cioè
diminuisce la forza contrattile, per due ragioni:
 ha un effetto inotropo negativo diretto;
 ha un effetto cronotropo negativo, al quale consegue una diminuzione indiretta della forza
contrattile.
3) Effetto lusitropo
È l’effetto sulla velocità di rilasciamento del cuore.
 Il sistema nervoso simpatico ha un effetto lusitropo positivo, cioè aumenta la velocità di
rilasciamento delle cellule cardiache.
 Il sistema nervoso parasimpatico ha un effetto lusitropo negativo, cioè diminuisce la
velocità di rilasciamento delle cellule cardiache.
4) Effetto dromotropo
È l’effetto sulla velocità di conduzione atrio-ventricolare.
 Il sistema nervoso simpatico ha un effetto dromotropo positivo, cioè aumenta la velocità
di conduzione atrio-ventricolare.
 Il sistema nervoso parasimpatico ha un effetto dromotropo negativo, cioè diminuisce la
velocità di conduzione atrio-ventricolare.
5) Effetto batmotropo
È l’effetto sull’automaticità dei pacemaker.
 Il sistema nervoso simpatico ha un effetto batmotropo positivo, cioè aumenta
l’automaticità dei pacemaker.
 Il sistema nervoso parasimpatico ha un effetto batmotropo negativo, cioè diminuisce
l’automaticità dei pacemaker.
6) Il sistema nervoso simpatico, in aggiunta agli effetti precedenti, aumenta anche l’eterogeneità della
ripolarizzazione ventricolare. Mentre la depolarizzazione ventricolare è molto sincronizzata, la
ripolarizzazione avviene in ordine sparso. Tale eterogeneità spaziale e temporale della ripolarizzazione
ventricolare è potenzialmente pericolosa perché si associa alla comparsa di un periodo refrattario
relativo. In questa fase infatti si possono stabilire circuiti aritmici di rientro, quindi eventuali impulsi
elettrici (insorti per diverse ragioni come ad esempio da pacemaker accessori in condizioni
patologiche) si possono propagare in porzioni del miocardio che sono già uscite dalla fase di periodo
refrattario relativo. Ciò significa che una maggiore eterogeneità della ripolarizzazione ventricolare
rappresenta un potenziale rischio aritmico, perché crea “confusione” nelle proprietà elettriche del
miocardio, lasciando la possibilità ad impulsi patologici di potersi propagare. Mettendo assieme
l’aumento dell’automaticità dei pacemaker (effetto batmotropo positivo) con l’aumento della
eterogeneità della ripolarizzazione ventricolare, il pericolo di aritmia aumenta: in questa situazione
infatti l’attività simpatica è definita pro-aritmica, mentre l’attività parasimpatica protegge nei
confronti delle aritmie.

180
Tutti questi effetti trovano le basi in quello che è stato analizzato finora:
 nelle cellule a risposta lenta la
velocità di depolarizzazione in
fase 4 (o, in termini grafici, la
pendenza della curva di
depolarizzazione) aumenta per via
dell’attività simpatica e diminuisce
per quella parasimpatica,
contribuendo all’effetto
cronotropo;
 sempre nelle cellule a risposta
lenta, il parasimpatico fa sì che la
massima ripolarizzazione che
avviene in fase 4 sia più marcata
(grazie all’apertura dei canali che
generano la corrente IKAch): in questo modo la depolarizzazione progressiva, partendo da valori più
distanti dalla soglia, dura più a lungo, facendo sì che il periodo cardiaco aumenti (effetto cronotropo
negativo);
 l’effetto inotropo si manifesta tramite la modulazione dell’attività dei canali voltaggio-dipendenti
del calcio sulla membrana (ma anche grazie alla modulazione dell’attività della pompa SERCA21);
 l’effetto lusitropo si manifesta tramite il controllo della pompa SERCA e della troponina (in
particolare la fosforilazione della troponina ostacola il legame calcio-troponina, accelerando il
rilasciamento cardiaco).

Ricapitolando. Il SN simpatico aumenta tutto ciò che è possibile aumentare a livello cardiaco (frequenza,
forza di contrazione, velocità di rilasciamento, velocità di conduzione atrio-ventricolare, automaticità dei
pacemaker ed eterogeneità di ripolarizzazione ventricolare), mentre il parasimpatico fa l’opposto22. Le
ragioni di questo antagonismo si trovano nell’effetto antagonistico che le due branche hanno sui livelli di
AMPc all’interno della cellula, a cui si aggiunge il meccanismo dei canali del potassio KAch che vengono
controllati principalmente dal parasimpatico.

Si descrive un esperimento per studiare il ruolo del tono


simpatico e del tono parasimpatico sul controllo della
frequenza cardiaca. Si compie l’esperimento su un
soggetto giovane a riposo, utilizzando due farmaci che
sono in grado di bloccare due recettori:
 atropina: un bloccante dei recettori muscarinici;
 propranololo: bloccante aspecifico dei recettori
β-adrenergici.
Si osserva la frequenza cardiaca in ordinata e le dosi
progressivamente crescenti del farmaco 1 e del farmaco 2
in ascissa: ad alcuni soggetti viene somministrata prima
l’atropina e poi il propranololo, in altri prima il
propranololo e poi l’atropina, per avere la certezza che
l’ordine di somministrazione non determini eventuali
effetti particolari.

21
Dal Berne & Levy: “La fosforilazione [determinata dalla PKA, attivatasi in seguito a stimolazione simpatica o al legame
di agonisti β-adrenergici ai recettori dei miociti] dei canali sarcolemmali del Ca ++ provoca l’ingresso nella cellula di una
quantità maggiore di Ca++ trigger, mentre la fosforilazione del fosfolambano aumenta l’attività della pompa SERCA,
consentendo al RS di accumulare più Ca++ prima che questo ione venga espulso dall’antiporto 3Na+-1Ca++ e dalla pompa
sarcolemmale del Ca2+. Il risultato netto è che il RS rilascia durante il successivo potenziale d’azione una quantità
maggiore di Ca++, che promuove più interazioni actina-miosina e quindi una forza di contrazione maggiore.”
22
Il parasimpatico ha effetto sulle stesse grandezze sulle quali ha effetto il simpatico (ovviamente effetto opposto), tranne
l’eterogeneità di ripolarizzazione ventricolare, sulla quale ha effetto solo il simpatico (lo conferma un articolo di Silvani:
per gli interessati l’articolo è Silvani A et al., “Brain-heart interactions: physiology and clinical implications”, Phil. Trans.
R. Soc. A 374: 20150181).

181
Curva superiore: la prima sostanza somministrata è l’atropina. Dosi crescenti di tale farmaco aumentano la
frequenza cardiaca, perché l’atropina blocca gli effetti del parasimpatico (il quale di per sé ha effetto
cronotropo negativo). L’aumento della frequenza cardiaca è progressivo e proporzionale all’aumentare della
dose di atropina (curva rossa della metà sinistra del grafico). Si somministra poi propranololo, che invece come
è visibile, riduce progressivamente la frequenza cardiaca (curva blu della metà destra del grafico).
Curva inferiore: la prima sostanza somministrata è il propranololo. Si ottiene un risultato analogo al
precedente: si osserva cioè una riduzione della frequenza cardiaca (curva blu della metà sinistra del grafico).
In seguito alla somministrazione di atropina, si osserva come nel caso precedente un aumento della frequenza
cardiaca (curva rossa della metà destra del grafico).
Il primo aspetto da considerare è che le variazioni della frequenza cardiaca determinate dall’atropina
sono molto superiori rispetto a quelle determinate dal propranololo.
Il secondo aspetto è che nel momento in cui i soggetti hanno ricevuto la massima dose di atropina e
propranololo, le due curve raggiungono dei valori sovrapposti: in quel punto del grafico si sono cioè bloccati
gli effetti sia del simpatico che del parasimpatico e il risultato è che la frequenza cardiaca si attesta sul valore
di 100 battiti al minuto. 100 bpm è un valore maggiore rispetto a quella di riposo, che si attesta sui 70 bpm
(osservabile all’inizio del grafico prima della somministrazione delle due sostanza). La frequenza cardiaca
intrinseca del nodo seno-atriale è dunque, in soggetti giovani e in salute, tra i 100 e i 110 bpm.
Possiamo concluderne che:
1. a riposo il parasimpatico è molto più attivo del simpatico, perché se avessero la stessa attività di
scarica si avrebbe un effetto netto nullo e si osserverebbe una frequenza cardiaca uguale alla frequenza
cardiaca intrinseca del nodo seno-atriale, pari a 100-110 eventi al minuto, cosa che fisiologicamente
non avviene; dal punto di vista dell’esperimento ciò è anche intuibile dal fatto che gli effetti di
inibizione dei recettori dell’acetilcolina sono molto più marcati degli effetti di inibizione dei recettori
della noradrenalina;
2. a riposo il simpatico non è inattivo, fenomeno abbastanza intuitivo alla luce dell’esperimento: la
somministrazione di propranololo (inibitore dei recettori della norepinefrina, rilasciata dalla fibre post-
gangliari del simpatico) porta a una riduzione della frequenza cardiaca. Se l’attività del simpatico fosse
già di base pari a zero, dopo la somministrazione del propranololo, che è un suo inibitore, non si
avrebbe alcun effetto.
Ricapitolando. A riposo sono tonicamente attivi sia il sistema nervoso simpatico che il sistema nervoso
parasimpatico, ma il tono del parasimpatico prevale di gran lunga sul tono del simpatico.
Nota. Come detto precedentemente, la variabile elettrofisiologica corretta da rilevare è il periodo cardiaco,
non la frequenza, perciò tale esperimento non è ben condotto da un punto di vista metodologico. Sarebbe stato
più opportuno misurare il periodo cardiaco piuttosto che la frequenza, visto che il primo è il risultato della
somma degli effetti della frequenza di scarica simpatica, di quella parasimpatica e del periodo cardiaco
intrinseco, cioè la somma di tre fattori. Lo stesso non vale per la frequenza (che si trova in rapporto iperbolico
con il periodo). Quindi le conclusioni tratte restino valide, ma la valutazione quantitativa degli effetti
dell’atropina e del propranololo non sono propriamente corrette.
Nota 2. Si ricordi che il grafico rappresenta una situazione di riposo e che ovviamente quando si compie
dell’esercizio fisico il tono simpatico aumenta progressivamente e quello parasimpatico progressivamente
diminuisce al variare dell’intensità dell’esercizio. Più precisamente le attività delle due branche varia al variare
del consumo di ossigeno associato all’esercizio in rapporto con il consumo di ossigeno massimale che un
dato soggetto può compiere durante l’attività. Intuitivamente, infatti, un soggetto allenato durante un
allenamento non troppo intenso non compie uno sforzo eccessivo, al contrario di un soggetto sedentario, perché
il primo ha un massimo consumo di ossigeno nettamente più elevato rispetto al secondo. In conclusione durante
l’esercizio fisico tale grafico non è più valido: infatti in funzione di quanto aumenta il consumo di ossigeno in
rapporto al consumo massimale, il tono simpatico prevale progressivamente su quello parasimpatico, finché
alla fine diventa nettamente più prevalente del secondo.
Come già anticipato, esistono delle differenze di velocità tra simpatico e parasimpatico nell’insorgenza e nel
cessazione dell’effetto cronotropo, ascrivibili alle differenti cinetiche dei loro meccanismi di azione.
Analizzando la frequenza di scarica delle fibre simpatiche e parasimpatiche che innervano il cuore sui due
grafici:
1) Grafico A. Aumentando la frequenza di scarica delle fibre parasimpatiche (indotta artificialmente con
un elettrostimolatore sul nervo vago, stimolazione che nel grafico viene marcata dalle due barre blu),

182
si osserva una diminuzione della frequenza cardiaca. È
rilevante analizzare la velocità con la quale tutto ciò si
verifica: la frequenza cardiaca diminuisce infatti quasi
istantaneamente, non appena inizia la stimolazione
artificiale del parasimpatico (come si può attentamente
osservare dal grafico è un fenomeno molto rapido ma
ovviamente non totalmente istantaneo): l’apertura dei
canali KAch, che media tale effetto, è infatti un processo
molto rapido, che viene soltanto lievemente rallentato
dall’azione sui livelli intracellulari di AMPc (che ha
ovviamente una cinetica più lenta). Anche il ritorno alla
frequenza cardiaca precedente in seguito a cessazione
della stimolazione è molto veloce: la chiusura dei canali
KAch e l’azione dell’acetilcolinesterasi (che degrada
velocemente l’acetilcolina nel vallo sinaptico), entrambi
fenomeni caratterizzati da una cinetica molto rapida,
determinano un quasi istantaneo aumento della frequenza cardiaca, che ritorna ai valori di partenza.
2) Grafico B. Aumentando la frequenza di scarica delle fibre simpatiche si osserva un aumento della
frequenza cardiaca. Questo fenomeno tuttavia avviene molto più lentamente e comincia solo dopo
un ritardo di circa 1,5 s (quindi più di un periodo cardiaco). La frequenza cardiaca aumenta
progressivamente con una costante di tempo molto lunga, fino a raggiungere un plateau; nel momento
in cui si cessa di stimolare il simpatico, si osserva, anche qui con un certo ritardo, una riduzione lenta
e progressiva della frequenza cardiaca, ancora una volta quindi con una costante di tempo molto
lunga.23
In conclusione si può affermare che soltanto il controllo del parasimpatico può avvenire in tempi molto rapidi,
cioè da un battito al successivo, al contrario del simpatico che ha una risposta più lenta, che non può avvenire
da un battito al successivo. Ciò è significativo, perché in questo modo è possibile stimare il contributo
dell’attività parasimpatica sul controllo del cuore studiando le variazioni di periodo cardiaco da un battito a
quello successivo, mentre valutando i valori medi del periodo cardiaco in un tempo lungo si può avere un’idea
della somma dell’attività simpatica tonica, della parasimpatica tonica e del periodo cardiaco intrinseco. In
particolare durante l’attività fisica accade che la somma dell’attività simpatica e parasimpatica è cambiata
rispetto alla situazione di riposo, il periodo cardiaco medio è diminuito: ciò significa che è aumentata l’attività
simpatica e contemporaneamente diminuita quella parasimpatica. Se si osserva la variazione del periodo
cardiaco in tempi brevi (da un battito all’altro), si può scartare il contributo del simpatico, che non risponde in
tempi così brevi, ottenendo l’entità della variazione soltanto del parasimpatico, studiando la modulazione
dell’attività parasimpatica, non il suo tono24. Ciò risulta rilevante per un fenomeno che è l’aritmia sinusale
respiratoria: gli atti respiratori infatti modulano il periodo cardiaco e sono fenomeni rapidi; tali modificazioni
possono essere attribuite solo all’attività parasimpatica, ottenendo una stima della modulazione parasimpatica
del periodo cardiaco.

Regolazione umorale
Per regolazione umorale si intende quella esercitata da ormoni o da altre sostanze presenti in circolo, come i
gas ematici e alcuni ioni.

I principali fattori umorali con effetto inotropo positivo sono:


 l’adrenalina (ormone rilasciato dalla porzione midollare dalla ghiandola surrenale);
 la triiodotironina (uno degli ormoni tiroidei, il più attivo).

23
Nota dunque che non solo l’aumento della frequenza cardiaca in seguito alla stimolazione simpatica è lento e
progressivo, ma addirittura vi è un intervallo di tempo, subito successivo all’inizio della stimolazione, di circa 1,5 s, in
cui non si osserva alcun effetto sulla frequenza cardiaca (il valore ovviamente è sperimentale, non so fino a che punto lo
si possa considerare attendibile). Questo periodo è invece virtualmente assente nel caso di stimolazione delle fibre
parasimpatiche, il cui effetto sulla frequenza cardiaca è pressoché istantaneo.
24
Passo della sbobina poco chiaro, credo che si intenda questo: valutando la variazione del periodo cardiaco in tempi
brevi è possibile osservare la rapidità di azione del parasimpatico (modulazione), mentre per studiare il tono parasimpatico
e il tono simpatico si ha necessità di un’osservazione su un tempo più lungo.

183
Esistono altri fattori umorali meno rilevanti che possono causare un effetto inotropo positivo:
 il cortisolo (ormone rilasciato dalla porzione corticale della ghiandola surrenale): non ha un effetto
primario ma un effetto permissivo: l’effetto mancante si osserva quando il cortisolo è assente (si badi
dunque che l’organismo non regola la contrazione cardiaca tramite i livelli di cortisolo);
 l’insulina (ormone rilasciato dal pancreas endocrino): la sua rilevanza fisiologica non è elevata;
 il glucagone (ormone rilasciato dal pancreas endocrino): di per sé avrebbe un effetto importante sul
cuore ma fisiologicamente questo effetto non si manifesta poiché il glucagone arriva poco al cuore, si
ferma “prima” al fegato;
 l’ormone somatotropo (rilasciato dall’adenoipofisi);
 l’ipercalcemia (aumento della concentrazione di calcio nel sangue): la presenza di più calcio che può
entrare durante il plateau tramite i canali di tipo L comporta un aumento della forza di contrazione.
Esistono farmaci che hanno un ruolo analogo ai fattori umorali citati:
 glicosidi digitalici: inibiscono la pompa Na+/K+ ATPasi, provocando un aumento della [Na+]intracellulare
che causerà un’aumentata attività dell’antiporto Na+/Ca2+ con conseguente ingresso di Ca2+, il quale
che contribuirà all’attivazione del meccanismo contrattile e alla generazione di forza contrattile.

Esistono fattori (non ormonali, ma potenzialmente di disturbo) che hanno un effetto inotropo negativo:
 l’ipossia severa: quando si ha troppo poco ossigeno la forza di contrazione si riduce (Nota. È
importante che l’ipossia sia severa poiché se l’ipossia è moderata ci potrebbe invece essere addirittura
un effetto di stimolazione sulla forza di contrazione cardiaca);
 l’ipercapnia (i.e., un eccesso di anidride carbonica); l’effetto è collegato all’acidosi, l’anidride
carbonica è detta ‘acido volatile’ poiché in grado di idratarsi ad acido carbonico, reazione catalizzata
dall’anidrasi carbonica, un enzima ubiquitario: un eccesso di anidride carbonica comporterà quindi
una riduzione del pH;
 l’acidosi: abbassamento del pH;
 l’ipocalcemia (diminuzione della concentrazione di calcio nel sangue): la presenza di meno calcio che
può entrare durante il plateau tramite i canali di tipo L comporta una riduzione della forza di
contrazione.
Si ricordino anche qui alcuni farmaci:
 calcio-antagonisti: inibiscono i canali del Ca2+ di tipo L comportando una diminuzione dell’ingresso
di Ca2+ trigger (che evoca l’uscita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico tramite i recettori della
rianodina) causando una riduzione della forza contrattile.
Da notare che i fattori sopracitati non sono necessariamente indipendenti l’uno dall’altro, per esempio ipossia
severa, ipercapnia e acidosi si manifestano spesso insieme come risultato di un’insufficienza respiratoria25.

L’organismo può regolare la forza di contrazione cardiaca tramite una regolazione umorale solo su scale
temporali relativamente lunghe: non si ha dunque la stessa velocità con la quale è possibile regolare la scarica
di potenziali d’azione delle fibre nervose (parasimpatiche e simpatiche).
Il ruolo principale della regolazione umorale è svolto, come già detto, dall’adrenalina e dalla triiodotironina
(T3); ci sono poi una serie di effetti potenzialmente di disturbo conseguenti a squilibri di bilancio ionico
(ipercalcemia/ipocalcemia) e ad alterazioni della pressione parziale (concentrazione) di gas a livello
dell’interstizio e a livello del sangue (ipossia severa, ipercapnia).

Attenzione. Il Berne & Levy afferma che l’adrenalina possiede un effetto trascurabile nella regolazione
umorale della forza di contrazione del miocardio. Il prof. è di tutt’altra opinione: la letteratura scientifica va
nella direzione opposta, cioè nel sottolineare l’importanza di questo ormone nella regolazione della contrazione
cardiaca. Si analizzi a questo proposito un passaggio dell’articolo “Epinephrine Plasma Metabolic Clearance
Rates and Physiologic Thresholds for Metabolic Hemodynamic Actions in Man” pubblicato sul Journal of
Clinical Investigations.

25
In una situazione di insufficienza respiratoria viene a determinarsi una condizione di ipossia severa, ipercapnia e acidosi
che hanno un effetto inotropo negativo (i.e., di riduzione della forza contrattile del miocardio) che può portare a
complicanze dal punto di vista cardiaco; d’altra parte però, se la forza di contrazione viene ridotta il cuore consuma meno,
e di conseguenza la riduzione della forza di contrazione può essere di aiuto al cuore per cercare di consumare meno in
una situazione di ventilazione polmonare inadeguata.

184
Questo articolo afferma che il livello basale di adrenalina in circolo è 34±18 pg/ml (picogrammi su millilitro)
e questa concentrazione raddoppia quando ci si alza in piedi; se si fuma una sigaretta la concentrazione triplica;
se si comincia a fare esercizio la concentrazione aumenta da 2 a 13 volte e se ci si trova in una condizione di
ipoglicemia indotta da insulina (ormone che stimola l’entrata di glucosio nelle cellule e quindi una riduzione
di concentrazione a livello ematico) la concentrazione di adrenalina aumenta anche di 50 volte. La soglia di
concentrazione di adrenalina superata la quale si osservano degli effetti sulla frequenza cardiaca, e sulla attività
cardiaca in generale, è piuttosto bassa e va da 50 a 100 pg/ml.
La concentrazione basale di adrenalina a riposo è 34 pg/ml, la soglia per osservare un aumento della
frequenza cardiaca è poco superiore a 50 pg/ml, la soglia per osservare un aumento di pressione sistolica è 75
pg/ml. Passando semplicemente da sdraiati ad una posizione eretta si arriva ad una concentrazione di 70 pg/ml,
passando così la soglia per l’incremento di frequenza cardiaca, e avvicinandosi alla soglia per l’incremento
della pressione arteriosa: tutto questo, si noti, senza esercizio.
Graficando in ascissa la concentrazione di adrenalina circolante
(in scala logaritmica) e in ordinata le variazioni di frequenza
cardiaca, pressione sistolica e pressione diastolica si nota che una
volta oltrepassati i valori di soglia sopracitati (50 pg/ml per la
frequenza e un po’ meno di 100 pg/ml per la pressione arteriosa) si
instaura una relazione quasi lineare.
Conclusione. L’adrenalina è coinvolta nel controllo dell’attività
cardiaca nella vita quotidiana: basta alzarsi in piedi da sdraiati per
avere degli effetti significativi da parte dell’adrenalina sulla
frequenza cardiaca e la pressione arteriosa.

7.5. Indici di contrattilità del miocardio


Concetto di contrattilità
Il concetto di contrattilità, seppur molto utilizzato e utile dal punto di vista clinico, non si riferisce ad una
grandezza alla quale può essere attribuito un valore numerico e una unità di misura. Di conseguenza, il concetto
di contrattilità si usa in modo relativo (e.g., si può affermare “la contrattilità cardiaca del paziente x è aumenta

185
o si è ridotta” ma non si può dire “la contrattilità cardiaca del
paziente x vale y”). Per far questo si usano degli indici di
contrattilità che hanno un loro significato fisico, sono associati ad
un valore numerico, e vengono utilizzati per stimare la contrattilità.
La contrattilità è definita come la forza di contrazione26 a
parità di pre-carico, post-carico e frequenza cardiaca.
Il pre-carico è definito come la tensione a cui è sottoposto il
ventricolo sinistro (o più in generale una camera cardiaca) prima
della contrazione, grandezza che dipende dal volume che possiede
il ventricolo prima della contrazione, ovvero il volume
telediastolico. Il pre-carico è dunque stimabile a partire dal volume
telediastolico e d’ora in poi si considererà per semplicità il volume
telediastolico nel parlare di pre-carico.
Il post-carico è definito invece come la tensione a cui è sottoposto il ventricolo sinistro dopo la contrazione,
grandezza che dipende dalla pressione aortica diastolica. Per approssimazione d’ora in poi si considererà
dunque la pressione aortica diastolica nel parlare di post-carico. Il post-carico varia nel tempo: nel momento
in cui si apre la valvola semilunare aortica il post-carico è approssimabile alla pressione aortica diastolica (il
valore minimo della pressione aortica), il post-carico poi aumenta poiché la pressione aortica durante la fase
di eiezione rapida e poi ridotta aumenta.
I tre fattori sopracitati hanno un effetto sulla forza di contrazione attraverso diversi meccanismi:
 il pre-carico per via del meccanismo eterometrico di regolazione (legge di Frank-Starling);
 il post-carico per via del controllo omeometrico determinato dalla pressione aortica;
 la frequenza cardiaca per via dell’effetto della Treppe (o di Bowditch).
Se vengono mantenuti costanti questi fattori (intrinseci) che regolano la forza di contrazione, ci possono
comunque essere dei cambiamenti nella forza di contrazione. Vi sono infatti i meccanismi estrinseci nervosi e
umorali. Il concetto di contrattilità “enfatizza” quindi i meccanismi estrinseci che controllano la forza di
contrazione ponendo come costanti i meccanismi intrinseci in condizioni fisiologiche. In condizioni
patologiche, invece, quindi in presenza di un cuore malato, il concetto di contrattilità permette di “enfatizzare”
anche le alterazioni patologiche del miocardio. In un miocardio parzialmente danneggiato, mantenuti costanti
pre-carico, post-carico e frequenza cardiaca, ci si può aspettare una forza di contrazione più bassa del normale.
Un aumento di contrattilità sarà quindi dovuto a meccanismi
estrinseci di controllo della forza di contrazione (sistema nervoso
simpatico, adrenalina, ormoni tiroidei ecc.). Una diminuzione della
contrattilità sarà dovuta a meccanismi estrinseci inotropi negativi
(sistema parasimpatico), a fattori di disturbo (ipocalcemia, ipossia
severa, ipercapnia e acidosi) o a un danno cardiaco (e.g., ischemia
cardiaca).

Nel grafico troviamo in ascissa la pressione telediastolica del


ventricolo sinistro (una funzione del volume telediastolico che dipende
dalla complianza del ventricolo) e in ordinata il lavoro sistolico del
ventricolo sinistro che dipenderà dalla gittata sistolica, che a sua volta
dipende dalla forza di contrazione.
Vengono rappresentate due curve:
 una curva di controllo (in condizioni fisiologiche);
 una curva indicata con “noradrenalina” (neurotrasmettitore del
sistema nervoso simpatico).
Si assume che pre-carico, post-carico e frequenza cardiaca siano
costanti.
Dall’osservazione delle due curve è possibile concludere che a parità
di pressione (o volume) telediastolica il lavoro sistolico del ventricolo
sinistro è maggiore in presenza di rilascio di noradrenalina. È quindi illustrato un meccanismo inotropo

26
Sebbene si possa far riferimento a qualsiasi camera cardiaca (atri e ventricoli), spesso ci si riferisce ai ventricoli, in
particolare al ventricolo sinistro. Così si farà nella trattazione seguente.

186
positivo estrinseco (nervoso) di controllo della forza di contrazione: lo spostamento della curva nera in alto e
a destra (curva rossa) è una chiara indicazione di un aumento di contrattilità.

Nota. Si badi che la curva rossa è solo una delle infinite curve che rappresentano la relazione tra pressione
telediastolica e lavoro sistolico del ventricolo in risposta alla variazione dell’attività del simpatico (come si
può osservare nel grafico a lato).

Indici di contrattilità: max dP/dt


Anche se non si può attribuire un valore numerico al concetto di contrattilità, si possono utilizzare degli
indici di contrattilità che avranno valori numerici, i quali saranno estimatori della contrattilità.
Gli indici più accurati sono anche quelli più difficili da misurare (interventi invasivi). Tra questi, vi è la
massima derivata prima della pressione ventricolare in funzione del tempo durante un battito cardiaco
𝐝𝑷
(max 𝐝𝒕 ), rappresentata dal grafico.
Nel grafico si osserva in ascissa il tempo, in ordinata la pressione del ventricolo sinistro27. La pressione del
ventricolo sinistro parte da un valore piuttosto basso, aumenta inizialmente bruscamente (aumento associato
alla fase di contrazione isovolumetrica), aumenta poi in maniera
meno brusca (corrisponde alla fase di eiezione rapida),
raggiunge un picco, comincia a scendere (corrisponde alla fase
di eiezione ridotta), per poi scendere bruscamente (fase di
rilassamento isovolumetrico) e infine scendere più lentamente
(fasi di riempimento rapido e lento).
La massima velocità con cui la pressione aumenta durante la
fase di sistole isovolumetrica riflette la contrattilità: tanto più
ripida è la risalita della pressione (maggiore quindi la derivata
prima misurata rispetto al tempo), tanto maggiore la contrattilità.
Nel grafico si confrontano 3 condizioni:
 condizione di controllo (curva A, blu),
 condizione di contrattilità maggiore del normale (curva
B, rossa),
 condizione di contrattilità ridotta (curva C, verde).
La pendenza del segmento nel grafico che riflette la massima
derivata prima della pressione rispetto al tempo può essere
quantificata e rappresenta il valore numerico dell’indice di
contrattilità. La contrattilità in B è dunque maggiore della contrattilità in A, che a sua volta è maggiore della
contrattilità in C.

Indici di contrattilità: frazione di eiezione


È possibile stimare la contrattilità attraverso un altro metodo, che si prospetta essere meno preciso ma anche
meno invasivo: l’ecocardiografia permette di misurare le dimensioni delle camere cardiache sulla base dell’eco
ultrasonica che le camere cardiache sviluppano dopo essere state insonate con ultrasuoni a frequenza
appropriata. L’indice di contrattilità che si può ricavare tramite l’ecocardiografia si chiama frazione di
eiezione ed è pari al rapporto tra la gittata sistolica e il volume telediastolico.
gittata sistolica
Frazione di eiezione =
volume telediastolico
La frazione di eiezione ha in condizioni fisiologiche un valore pari a circa 0,55 (o in termini percentuali
al 55%): la gittata sistolica quindi è più della metà del volume telediastolico o, in altre parole, il residuo
telesistolico, ovvero quanto sangue resta nel ventricolo alla fine della sistole (pari a volume telediastolico –
gittata cardiaca), è un po’ meno della gittata sistolica (se il cuore è sano).

27
È possibile misurare la pressione del ventricolo sinistro inserendo un catetere dotato di un manometro nel ventricolo di
sinistra stesso. Questa è una manovra molto invasiva che si attua solo quando il paziente è in condizioni critiche, per
esempio quando ci si trova in terapia intensiva per problemi emodinamici di stabilità e scompenso emodinamico.

187
La frazione di eiezione non è un indice molto preciso. Un indice perfetto non dovrebbe cambiare al variare
di volume telediastolico, pressione aortica e frequenza cardiaca, mentre dovrebbe cambiare al variare
dell’attività simpatica/parasimpatica o in presenza di fattori umorali (ovvero se ci sono modificazioni dei fattori
estrinseci). L’indice frazione di eiezione cerca di compensare variazioni del volume telediastolico (il principale
fattore intrinseco che controlla la forza di contrazione) con una normalizzazione matematica, dividendo la
gittata sistolica (che è una funzione della forza di contrazione ventricolare) per il volume telediastolico, ma ci
riesce solo in parte.
Si esamini a questo punto il diagramma volume-pressione nel ventricolo sinistro, che permetterà di discutere
in maniera più efficace dell’indice frazione d’eiezione.

7.6. Diagramma volume-pressione del ventricolo sinistro


Nota. Si deve saper disegnare e descrivere il diagramma, anche con i valori numerici.

Nel grafico osserviamo in ascissa il volume del ventricolo sinistro e in ordinata la pressione del ventricolo
sinistro (grafico volume-pressione).
Si prenda in considerazione il punto C, che corrisponde al punto di inizio di contrazione isovolumetrica. Esso
presenta un volume del ventricolo sinistro di 150 mL, detto volume telediastolico (i.e., prima della contrazione
isovolumetrica) e la pressione è di pochi mmHg (si ricordi che la pressione dell’atrio sinistro è maggiore di
quella dell’atrio destro, così come la pressione del ventricolo sinistro è maggiore di quella del ventricolo
destro).

Comincia la contrazione isovolumetrica, la pressione aumenta da C a D senza variazione del volume (si ha
quindi un segmento verticale). In D la pressione del ventricolo
sinistro supera quella in aorta, si apre la valvola semilunare e
comincia la fase di eiezione rapida che va da D a E: la pressione
del ventricolo sinistro continua ad aumentare fino al picco in E
mentre chiaramente il volume scende, dal momento che il
sangue è eiettato dal ventricolo in aorta. Si ha poi fino al punto
F la fase di eiezione ridotta, il volume continua a scendere nel
ventricolo, ma a questo punto diminuisce anche la pressione. In
F è esaurita la forza di inerzia che spinge il sangue in aorta, la
valvola semilunare si chiude e inizia la fase di rilassamento
isovolumetrico (da F ad A), durante la quale il volume sarà fisso
(si avrà dunque un segmento verticale). In A la pressione in
ventricolo è scesa rispetto a quella in atrio sinistro, quindi
inizierà la fase di riempimento rapido (da A a B), in questo
modo il rilassamento è completo e il volume del ventricolo
inizia a salire. Da B inizia la fase di riempimento lento, il
volume ventricolare continua ad aumentare e, in conseguenza
alla complianza del ventricolo, anche la pressione. Alla fine si
osserverà la sistole atriale rappresentata dalla gobba sulla curva
subito prima del punto C: questa fase comporta un aumento della pressione in ventricolo, generata
dall’aumento di pressione data dalla contrazione degli atri.

Dal punto di vista numerico, per quanto riguarda l’asse delle x, il volume telediastolico ha come valore di
riferimento 150 mL, quello telesistolico (punto A) invece ca. 60 mL, quindi meno del 45% del volume
telediastolico, tenendo conto del concetto di frazione di eiezione, il cui valore in un cuore sano è circa 0,55: il
valore telesistolico sarà un po’ meno della metà del telediastolico. Per quanto riguarda l’asse delle y, la
massima pressione del ventricolo sinistro è 120 mmHg nel punto E; nella fase di riempimento invece, nel
ventricolo sinistro, i valori di pressione saranno simili a quelli in atrio, di pochi mmHg (sotto i 7 mmHg). Si
ricordi che la proiezione sull’asse y del punto D è più in basso di quella nel punto F: questo riflette il fatto che
la minima pressione in aorta, quella diastolica, si verifica nel momento in cui si apre la valvola
semilunare aortica. La pressione diastolica, che corrisponde a D, avrà un valore di 80 mmHg. F corrisponderà
al momento in cui si chiude la semilunare aortica. Il fatto che la valvola semilunare si apra o chiuda dipenderà
chiaramente dalla differenza di pressione tra ventricolo e aorta, i cui valori sono vicini in corrispondenza di D

188
ed F, e questo grafico si riferisce alla pressione in ventricolo. La pressione in aorta invece comincia a salire
quando si apre la semilunare aortica fino alla fine dell’eiezione rapida, poi scende fino a che non si riapre la
valvola. Quando si apre la valvola il valore di pressione del ventricolo sarà immediatamente superiore a quella
in aorta. Concludiamo che la pressione in D (quando la valvola si apre) debba necessariamente essere inferiore
a quella in F (quando essa si chiude).28

La gittata sistolica, su un diagramma volume-pressione del ventricolo sinistro, si può calcolare come la
differenza tra le proiezioni sull’asse x del punto C (volume telediastolico) e del punto A (volume telesistolico).
Quindi la gittata sistolica corrisponde a un segmento sull’asse x nel diagramma (AC). Si può affermare dunque
che la frazione di eiezione rappresenta la lunghezza del segmento AC diviso il valore sull’asse delle x del
punto C.
gittata sistolica AC
Frazione d′ eiezione = =
volume telediastolico proeizione sulle x di C

Sintesi della descrizione del grafico:


 segmento CD: fase di contrazione isovolumetrica, il volume resta costante e la pressione sale;
 segmento DE: fase di eiezione rapida, nel punto D la pressione ventricolare supera la pressione in
aorta, si apre la valvola semilunare aortica e il sangue inizia a fluire in aorta; c’è dunque una
diminuzione del volume ventricolare, mentre la pressione continua ad aumentare;
 segmento EF: fase di eiezione ridotta, nel punto E si raggiunge il picco pressorio in ventricolo, a cui
segue una diminuzione di pressione; continua intanto la diminuzione del volume (il sangue sta
continuando a fluire in aorta per inerzia);
 segmento FA: fase di rilassamento isovolumetrico, nel punto F il sangue smette di fluire in aorta e
la pressione aortica maggiore di quella ventricolare fa sì che la valvola semilunare si chiuda; il
ventricolo si rilascia con un conseguente brusco calo pressorio;
 segmento AB: fase di riempimento ventricolare rapido, la pressione in ventricolo diventa più bassa
di quella in atrio, si apre la valvola mitrale e il sangue inizia a fluire nel ventricolo (il volume
ventricolare aumenta); la pressione in ventricolo continua a calare;
 segmento BC: fase di riempimento ventricolare lento (diastasi), il volume continua a salire e anche
la pressione inizia a crescere (non è un aumento dovuto ad una contrazione ma all’aumentare del
volume di sangue); è possibile osservare alla fine del segmento BC una piccola “gobba” che
rappresenta l’aumento pressorio in ventricolo dovuto alla sistole atriale;
 ricomincia da capo.

Diagramma volume-pressione del ventricolo sinistro: aumento del precarico


Se si considera un diagramma volume-pressione di
base del ventricolo sinistro, che corrisponde all’area in
viola, e si aumenta il precarico, cioè il volume
telediastolico, per la legge di Starling (regolazione
intrinseca eterometrica) aumenterà la forza di
contrazione del miocardio, e di conseguenza la gittata
sistolica.
Al battito cardiaco 1, di controllo, si ha un diagramma
che corrisponde alla parte in viola, con il volume
telediastolico riportato con C’. Se al battito cardiaco 2 si
aumenta il volume telediastolico, si passa dal volume C’
precedente a un nuovo valore, maggiore del precedente,
in C. Segue la contrazione isovolumetrica che va da C a
D nella parte in rosa. L’altezza della proiezione di D sarà

28
Spiegazione poco chiara. Quello che ho capito io: la pressione aortica è nel segmento DF molto simile a quella in
ventricolo (come ricavabile anche dal diagramma Wiggers). In F la pressione in aorta è certamente superiore a D, perché
la pressione aortica raggiunge in D il suo minimo (pressione diastolica): poiché si è detto che nel segmento DF i valori di
pressione in ventricolo sono paragonabili (leggermente superiori nel segmento DE e leggermente inferiori in quello EF)
a quelli in aorta, possiamo concludere che anche la pressione ventricolare in F è maggiore di quella in D.

189
la stessa di D’ perché il valore di pressione ventricolare in D dipende dal valore di pressione che c’è in aorta,
il quale non cambia (è lo stesso nel battito di controllo e in quello col volume telediastolico aumentato). Nel
battito col valore telediastolico aumentato, una volta iniziata la fase di eiezione rapida (DE), si notano gli effetti
dell’aumentata forza di contrazione: si infatti genera una pressione superiore a quella del battito di base. La
massima pressione corrisponde al punto E (fine dell’eiezione rapida), che sarà superiore al punto E’. Segue la
fase di eiezione lenta, che prosegue fino al punto F. Il punto F è sovrapposto a F’: in questo punto infatti si
chiude la valvola semilunare aortica, la cui chiusura dipende solamente dalle caratteristiche di pressione e
volume del ventricolo in quel momento e non dal volume telediastolico. Da F inizia la fase di rilassamento
isovolumetrico, che riporta in A o A’, sovrapposti (il volume telesistolico è lo stesso).
In conclusione, il nuovo battito avrà un volume telediastolico maggiore, e di conseguenza una gittata sistolica
maggiore (che corrisponde alla lunghezza del segmento CA, maggiore di C’A’): si osserverà una maggiore
pressione sistolica e una massima pressione ventricolare E maggiore di E’. Per quanto riguarda la frazione di
eiezione, si considera la nuova gittata sistolica e la si divide per il nuovo volume tele diastolico: CA/C avrà
chiaramente un valore simile a C’A’/C’, quindi la frazione di eiezione non cambia molto tra il battito in rosa e
quello in viola: la frazione di eiezione è, in caso di aumento del precarico, un buon indice di contrattilità e
compensa l’effetto della legge di Starling.

Diagramma volume-pressione del ventricolo sinistro: aumento del postcarico


Partendo sempre dal battito di controllo in viola, si osserva il grafico in caso di un aumento del postcarico
(cioè della pressione diastolica): ciò che osserviamo è il meccanismo omeometrico intrinseco di controllo della
forza di contrazione da parte della pressione aortica.
Inizia il secondo battito al punto C (sovrapposto a C’ per
costruzione) e inizia la fase di contrazione isovolumetrica
che procede fino a D’, il punto in cui nel battito precedente
si apriva la valvola semilunare. Nel nuovo battito tuttavia
la valvola non si apre perché la pressione aortica è
aumentata, quindi il ventricolo continua a generare
pressione (D è più alto rispetto a D’). In D il ventricolo è
riuscito a generare una pressione sufficiente a contrastare
quella in aorta e la semilunare aortica si apre. Si sviluppa
poi una pressione di eiezione rapida da D a E, che sarà
caratterizzata da un maggiore valore di pressione. In E
inizierà la eiezione ridotta fino a F, punto nel quale la
valvola si chiude e inizia la fase di rilassamento
isovolumetrico. F è a destra e in alto rispetto a F’: la
valvola infatti si chiude per valori di pressione e volume
telesistolico ventricolare più alti (la pressione aortica
abbiamo detto essere aumentata rispetto alla condizione di controllo, quindi riuscirà a superare la pressione
ventricolare quando questa è ancora elevata). In A chiaramente ci saranno poi la fase di riempimento veloce e
lento, nelle quali ci sarà una riduzione di gittata sistolica a causa dell’aumento di pressione.
In questa situazione, in cui la pressione diastolica aortica è aumentata, il risultato è un aumento di pressione
da parte del ventricolo, dunque una pressione sistolica massima maggiore (E è più in alto di E’) e il tutto sarà
pagato da una riduzione di gittata sistolica: l’intervallo CA è infatti più corto di C’A’. La frazione di eiezione
darebbe qui valori falsati di contrattilità, perché segnalerebbe una modifica della contrattilità (nello specifico
una diminuzione), là dove la contrattilità al contrario non è modificata. Questo a rimarcare che la frazione di
eiezione è un buon indice di contrattilità, ma non è perfetto. La contrattilità è infatti definita a parità di alcune
variabili, tra cui la pressione aortica (postcarico), che qui invece aumenta. Il punto F è il punto in cui si richiude
la valvola aortica, e dipende dalle caratteristiche fisiche di elastanza del ventricolo sinistro in quel dato
momento, quindi da un rapporto costante di P/V. Se si mette in relazione P/V del ventricolo sinistro, in tutti i
momenti in cui si chiude la valvola aortica, in battiti differenti, si ottiene una retta, indicata nel grafico con un
segmento tratteggiato giallo con la sigla ESPVR (rapporto P/V in condizione telesistoliche, End Systolic
Pressure-Volume Relation). Essendo una retta, c’è un rapporto costante di P/V nel momento in cui si chiude
la valvola. Quindi F è più in alto e a destra di F’ perché la curva rossa incrocia la retta ESPVR, che è fissa, in
un punto più in alto e a destra. Quando si attraversa questo tratto la valvola inevitabilmente si chiude.

Diagramma volume-pressione del ventricolo sinistro: aumento di contrattilità

190
Il coefficiente angolare della retta ESPVR è costante se la contrattilità è costante, se quest’ultima cambia,
cambia anche il coefficiente angolare. Se aumenta la contrattilità, la retta diventa più ripida.
Consideriamo il grafico di lato. Il battito di base è sempre
quello in viola e quello successivo in rosa. In C e C’ e in D
e D’ i punti si sovrappongono perché assumiamo che il
volume telediastolico, la pressione aortica diastolica e la
frequenza cardiaca siano costanti. Dato che il cuore si
contrae più vigorosamente, la fase di eiezione rapida fino
ad E produce una pressione maggiore rispetto al battito di
controllo, perciò E è più in alto rispetto a E’, ma anche più
a sinistra (cioè più sangue è stato eiettato in aorta), perché
la retta ESPVR ha ruotato in senso antiorario (segmento
tratteggiato rosso), i.e. il coefficiente angolare è aumentato,
a causa di un aumento della contrattilità. In F la curva
incrocia il segmento rosso e si chiude la valvola, ma il
punto F sarà caratterizzato da un volume molto più basso
rispetto a F’, a stessa pressione. Allo stesso modo A sarà
più a sinistra di A’. Dunque, in presenza di un aumento della contrattilità si andrà incontro a una maggiore
pressione sistolica e allo stesso tempo a una maggiore gittata sistolica perché CA sarà maggiore di C’A’. La
frazione di eiezione ci informa che il rapporto del nuovo battito (CA/C) è maggiore del vecchio (C’A’/C’):
l’informazione è corretta, perché c’è stato un aumento della contrattilità. In questo caso la frazione di eiezione
è un indice affidabile.
Si può affermare che il miglior indice di contrattilità è rappresentato dal coefficiente angolare della retta
ESPVR29, il quale però può essere valutato solo in condizioni sperimentali: nella pratica clinica si utilizza
infatti la frazione d’eiezione.

Una sintesi
Il prof. ha spiegato nel dettaglio (anche troppo) i tre grafici precedenti. Ho tentato di trarne una sintesi.
 Aumento del precarico. La contrattilità resta costante. Aumenta il volume telediastolico → per il
meccanismo di Frank-Starling si ha un aumento della forza contrattile del miocardio e di conseguenza
un aumento della gittata sistolica → si ha anche un aumento della massima pressione ventricolare, ma
le pressioni ventricolari all’apertura e alla chiusura della valvola semilunare non cambiano. In questa
condizione il volume telediastolico è aumentato ma lo è anche la gittata sistolica, dunque non si osserva
una significativa variazione della frazione d’eiezione. La frazione d’eiezione è in questo caso un
indice di contrattilità attendibile.
 Aumento del postcarico. La contrattilità resta costante. Aumenta la pressione aortica diastolica → per
il meccanismo di regolazione intrinseca omeometrica legata alla pressione aortica, aumenta la forza di
contrazione del miocardio per far sì che la pressione ventricolare superi quella in aorta → la pressione
ventricolare diventa maggiore che nella situazione di controllo ma impiega più tempo →
l’allungamento della fase di contrazione isovolumetrica riduce il tempo disponibile per l’eiezione, di
conseguenza la gittata sistolica risulta ridotta → si osserva un volume telesistolico maggiore. In questa
condizione la gittata sistolica è diminuita, ma così non è per il volume telediastolico, che è rimasto
costante, si osserva dunque una variazione significativa della frazione d’eiezione. In questo caso la
frazione d’eiezione non è un indice di contrattilità attendibile, perché è risultata sensibile alla
modificazione del postcarico (un indice di contrattilità perfetto dovrebbe essere del tutto indipendente
dalle variazioni di volume telediastolico, pressione aortica diastolica e frequenza cardiaca).
 Aumento della contrattilità. A parità di volume telediastolico, pressione diastolica e frequenza cardiaca
si ha un aumento della gittata sistolica e della pressione ventricolare massima: ciò vuol dire per
l’appunto che c’è stato un aumento di contrattilità. La frazione d’eiezione si modifica, e lo fa in
maniera corretta, segnalando un’effettiva modificazione della contrattilità.
Si è citata infine la retta ESPVR, che rappresenta la linea sulla quale è possibile ritrovare tutti i punti F, cioè
quelli che indicano sui grafici la chiusura della valvola semilunare, di tutti i battiti successivi del cuore, purché
si mantenga costante la contrattilità (e quindi ritroveremo su ESPVR tutti i punti F in caso di modifica del

29
Il coefficiente angolare dei segmenti tratteggiati (cioè di ESPVR) è pari a P/V, che è il reciproco della complianza
(V/P), anche definito come elastanza.

191
volume telediastolico, della pressione diastolica e della frequenza cardiaca). In caso di modificazione della
contrattilità, la pendenza della ESPVR varia. Si può concludere dunque che il coefficiente angolare della
retta ESPVR rappresenta probabilmente il migliore indice di contrattilità.

192
8. Metabolismo cardiaco
Nota. Il prof. ha affrontato per primi gli ultimi tre punti della tesina (lavoro del cuore, legge di Laplace applicata al
miocardio e metabolismo cardiaco) perché connessi con gli argomenti precedenti. I primi punti della tesina (sul flusso
coronarico) sono stati invece affrontati dopo le tesine Controllo integrato del sistema cardiovascolare e Organizzazione
funzionale del sistema vascolare. Poiché all’esame devono essere affrontati tutti i punti della tesina, ho riunito di nuovo
gli argomenti, mettendoli nell’ordine in cui sono nel programma (si consiglia però di studiare prima i punti 3.3, 3.4 e 3.5
e solo in seguito, dopo aver letto anche le tesine successive, i punti 3.1 e 3.2).

8.1. Variazioni del flusso ematico coronarico durante il ciclo cardiaco


Per la comprensione del circolo coronarico è necessario conoscere l’anatomia delle coronarie già trattata nel
corso di anatomia (il prof. cita nelle slide ad es. le percentuali di dominanza30: il 50% degli individui ha
dominanza destra, circa il 20% dominanza sinistra, il restante 30% dominanza bilanciata). Infatti
malfunzionamenti legati al circolo coronarico sono la prima causa delle patologie cardiovascolari, che a loro
volta sono la prima causa di morte a livello globale. Un insufficiente apporto di sangue e nutrienti al miocardio
è causa di ischemie, infarti del miocardio, aritmie maligne che conseguono all’infarto causate ad esempio da
disequilibri nelle concentrazioni del potassio. Questi eventi quindi sono un’importante causa di mortalità
oppure abbassano la qualità della vita del paziente.
Nota. Nella slide il prof. scrive che la portata coronarica è pari al 5% della gittata cardiaca, un valore non
indifferente.
Le coronarie nascono dall’aorta a livello dei seni del Valsalva e terminano nel seno coronarico. Decorrono
prima sull’epicardio, poi si gettano nel miocardio per diramarsi in vari capillari. Nel miocardio si ha una
pressione molto elevata, soprattutto a livello del ventricolo sinistro: è proprio qui che viene generata quella
pressione sistolica che determina l’aumento di pressione in aorta, che a sua volta determina l’aumento di
pressione nelle coronarie. Ci troviamo quindi in una situazione molto particolare, in cui la pressione fuori
dall’arteria (ventricolo in sistole), soprattutto se di piccolo calibro, è superiore a quella all’interno (~P aortica).
Le ragioni di questo fatto sono diverse: la complianza dell’aorta consente di accumulare energia sviluppata
dal cuore durante la sistole, in particolare durante l’eiezione rapida (per poi rilasciarla durante la diastole e
mantenere il flusso a valle continuo). I seni del Valsalva inoltre sono disposti ad angolo retto rispetto al cono
di eiezione e in questo punto la velocità del sangue è molto elevata. Per il principio di Bernoulli, quando la
componente cinetica della pressione è elevata, la pressione laterale è
bassa. Inoltre tra i seni e i lembi della valvola semilunare aortica si
formano turbini che dissipano energia (se questo moto turbolento non
esistesse in realtà l’effetto dato dal principio di Bernoulli sarebbe
addirittura amplificato, ci troveremmo in una situazione simile
all’effetto Venturi). Infine, le coronarie hanno una loro resistenza per
cui la pressione a monte risulta aumentata e quella a valle diminuisce.
La pressione all’interno delle coronarie è quindi minore di quella nel
tessuto. Questo porta le pareti dei vasi a collabire, diminuendo il
raggio. L’effetto complessivo è quindi un aumento della resistenza e
una diminuzione del flusso. Ne consegue che la perfusione è scarsa in
fase di eiezione rapida e ancor più nella contrazione isovolumetrica
(quando la pressione in aorta è ancora più bassa). Tuttavia, è proprio
durante la sistole che il ventricolo sinistro compie lavoro proprio, sia
considerando la componente del lavoro esterno, sia considerando il
calore di tensione. Il cuore inoltre necessita sempre di energia, in
quando il suo metabolismo è ossidativo. Paradossalmente, proprio nel
momento di necessità, il ventricolo sinistro non riceve energia perché
il flusso coronarico virtualmente si annulla.

30
Ricorda. La dominante è quella che irrora gran parte del miocardio, in particolare è definita tale l’arteria coronaria che
vascolarizza il solco interventricolare posteriore e la gran parte della faccia diaframmatica.

193
Nel ventricolo di destra questa condizione è meno eclatante, perché la pressione è inferiore a quella nel
ventricolo sinistro, con una pressione massima di 25 mmHg. Il flusso in sistole è comunque compromesso ma
non arriva ad annullarsi.

8.2. Regolazione nervosa e umorale del circolo coronarico


Il cuore reagisce a questa condizione regolando l’estrazione
di ossigeno. Mediamente i tessuti periferici estraggono il 25%
dell’O2 contenuto nel sangue arterioso, quindi rimane una
notevole quota di ossigeno da estrarre in condizioni di
necessità. Il cuore a riposo estrae invece il 70-80% dell’O2, ciò
significa che rimane senza quel “margine di sicurezza” dei
tessuti periferici ma riesce a compensare lo scarso flusso
dovuto alle ragioni precedenti. Un’ulteriore estrazione farebbe
crollare la pressione parziale di O2. Il cuore si regola quindi
tramite l’accoppiamento flusso-metabolismo. Il grafico a
lato presenta in ascissa il flusso ematico e in ordinata il
consumo di O2. C’è una certa variabilità, ma in generale i punti
si riuniscono intorno a una retta: all’aumento del metabolismo
consegue un aumento del flusso.
Un altro meccanismo importante di regolazione del flusso coronarico è l’attività simpatica. Il muscolo
cardiaco infatti è controllato dal sistema nervoso simpatico che nel complesso ne potenzia l’attività. Il
simpatico però agisce anche sulle cellule muscolari lisce, che presentano recettori α1 e β2 adrenergici.

Sarebbe possibile per il simpatico regolare in modo indipendente il muscolo cardiaco e il muscolo liscio,
perché sappiamo che la sua azione è effettore-specifica. A livello cardiaco tuttavia il simpatico potenzia le
attività di entrambi i tessuti.
L’effetto prevalente sulla muscolatura liscia è la vasocostrizione, mediata dalla noradrenalina che lega i
recettori α1; la stimolazione del muscolo cardiaco da parte del simpatico (ricorda, effetti cronotropo e inotropo
positivi tra i vari effetti), va però ad aumentarne il metabolismo, favorendo piuttosto la vasodilatazione
mediata dall’accoppiamento flusso-metabolismo. Quindi il simpatico ha un effetto diretto, che stimola la
vasocostrizione α1 mediata, e un effetto indiretto che tramite l’aumento delo metabolismo cardiaco genera
vasodilatazione (in realtà, legando i recettori β2 ha anche un effetto diretto verso la vasodilatazione, ma ciò è
meno rilevante). L’effetto indiretto mediato dall’accoppiamento flusso-metabolismo risulta prevalente, quindi
complessivamente il simpatico aumenta il raggio delle coronarie, diminuendo la loro resistenza e
aumentando il flusso.

Infine, bisogna ricordare che l’aumento della pressione extravascolare è più marcato nell’endocardio
piuttosto che nell’epicardio. L’endocardio è infatti a diretto contatto con il sangue, che viene compresso, per
cui la pressione extracellulare rimane elevata. L’epicardio è a contatto con strutture leggermente più
complianti, come il sacco pericardico, il che permette alla pressione extravascolare di “sfogarsi”; si tratta in
ogni caso di una struttura fibrosa e rigida, per cui la pressione rimane considerevolmente alta, ma minore di
quella endocardica. Ciò spiega perché un danno ischemico si manifesta prima a livello endocardico rispetto

194
all’epicardio. Un piccolo contributo a questo effetto è dato dal fatto che i vasi coronarici sono disposti in modo
leggermente diverso tra epicardio e endocardio, rendendoli diversamente suscettibili a danni ischemici.

8.3. Lavoro del cuore


Più il cuore lavora/fatica, più ha bisogno di ricevere ossigeno e più ha bisogno di un sistema per liberarsi
delle sostanze di scarto. Nel momento in cui il circolo coronarico non funziona più come dovrebbe, inficia
sull’efficienza di lavoro del miocardio portando il cuore in una situazione rischiosa di carenza di ossigeno: si
tratta di una situazione molto pericolosa perché, nel momento in cui il cuore fosse portato a lavorare ad
un’efficienza maggiore rispetto alla norma, non sarebbero garantiti i fenomeni di rifornimento di
nutrienti/eliminazione di sostanze di scarto adeguati, aumentando, conseguentemente, le probabilità di relativa
ipo-perfusione che potrebbe sfociare facilmente in ischemia. In semplici parole, il cuore non ha abbastanza
ossigeno e nutrienti per le sue funzioni.
Tale meccanismo di rallentamento dell’attività cardiaca è stato già visto per una condizione di iperkaliemia,
derivata da una diminuita funzione della pompa Na+/K+ ATPasi (evento generato per esempio dai farmaci
digitalici o semplicemente da un non sufficiente apporto di ATP).
Queste situazioni limite sono risolte chirurgicamente dal cardiologo interventista con procedure di
rivascolarizzazione; il medico invece può cercare di risolvere la situazione riducendo il consumo di nutrienti
da parte del cuore (facendo lavorare meno il cuore). Ciò tuttavia richiede la conoscenza delle variabili
fisiologiche più critiche nel determinare il funzionamento cardiaco, nell’attesa di un’operazione che risolva
definitivamente la questione.
La formula che permette di stimare il lavoro compiuto dal miocardio in un battito che si presenta di seguito
è un’equazione semplificata rispetto all’equazione completa che si potrebbe impostare sulla base di un modello
fisico stringente, tuttavia essa è sufficiente per l’analisi medica delle singole variabili che possono influire sulla
funzionalità del cuore.

𝟏
𝑬 ≅ 𝑷𝑽 + 𝒎𝒗𝟐 + 𝒌𝝉∆𝒕
𝟐

A sinistra dell’equazione si ha il termine E (energia) che si riferisce all’energia impiegata dal cuore per
compiere lavoro: ci indica il lavoro totale del cuore per ogni battito cardiaco.
A destra viene indicato da cosa è dato il lavoro del cuore in un singolo battito:
 Prodotto PV
Pressione: maggiore è la pressione in aorta, maggiore è il lavoro che il cuore dovrà compiere per
pompare il sangue nel circolo sistemico.
Volume: maggiore è la gittata sistolica per ogni battito, maggiore è l’energia che il cuore dovrà
impiegare per muovere questo volume.
(N.B. Nel diagramma volume-pressione sia V che P variano nel tempo e conseguentemente si
dovrebbero considerare degli integrali in funzione del tempo per essere più precisi.)
Il prodotto PV esprime un lavoro: da un punto di vista intuitivo, a parità di gittata sistolica, l’energia
sarà tanto maggiore quanto maggiore è la pressione che occorre vincere per pompare il sangue; mentre,
a parità di pressione, l’energia è tanto maggiore quanto lo è la gittata sistolica. Formalmente possiamo
anche giungere a tale conclusione affermando che la gittata sistolica è un volume, che ha le dimensioni
di lunghezza3 (ad es. m3), mentre la pressione ha le dimensioni di forza/superficie (ad es., N/m2):
semplificando si ritrovano le dimensioni tipiche del lavoro (forza x spostamento).
 1/2mv2
Il cuore determina un’accelerazione del sangue per farlo arrivare in aorta. Bisogna considerare anche
che il sangue parte da fermo quando è nel ventricolo e acquista velocità v tramite la contrazione
(lavoro) del cuore. m rappresenta la massa di sangue eiettata.

Il lavoro esterno, che il cuore cioè compie sul sangue per farlo arrivare ad una determinata velocità v, è dato
dalla somma dei primi due addendi: PV + 1/2mv2.

195
 Prodotto kτ∆t, anche chiamato calore di tensione. Per capire questo prodotto bisogna porre come
postulato che il cuore consuma energia anche senza compiere un lavoro esterno sul sangue: il cuore,
infatti, anche se teoricamente non spostasse sangue, si contrarrebbe, compiendo dunque lavoro.31
Questa forma di energia nel cuore è data dal prodotto della costante k (natura della quale non ci
interessa), per τ (tensione) e ∆t (intervallo di tempo tra l’inizio e la conclusione della contrazione,
essenzialmente la durata della sistole). Quindi, per mantenere la tensione, il cuore consuma tanto di
più quanto maggiori sono la tensione e il tempo che una contrazione (la sistole) impiega per
svilupparsi.

Si analizzi ora il significato della tensione in una struttura cava, che viene esplicitato dalla legge di Laplace.

8.4. Legge di Laplace applicata al cuore


𝝉=𝝈∙𝒘=𝑷∙𝒓
Tale legge è meno intuitiva della precedente perché, prendendo in considerazione la seconda espressione,
afferma che la tensione dipende non solo dall’entità di pressione applicata (P), ma anche dal raggio della
camera ventricolare (r). Dunque essa spiega come il cuore possa reagire ad un aumento del raggio, andando
ad aumentare la tensione (τ) che, conseguentemente, si riflette sull’aumento del calore di tensione (kτ∆t).
L’altra espressione della legge di Laplace (quella a sinistra nella formula) afferma che lo spessore del
miocardio (w) moltiplicato per lo stress del tessuto (σ) è pari alla tensione. Ciò spiega il fenomeno
dell’ispessimento del miocardio che avviene in risposta ad un aumento di tensione, al fine di mantenere lo
stress del tessuto entro valori tollerabili: il cuore può reagire infatti ad un cronico aumento di τ con uno stato
anatomico di ipertrofia. Il lato negativo di questo meccanismo è che un cuore ipertrofico consuma più energia.
Inoltre il circolo coronarico non riesce a crescere con la stessa efficienza del miocardio, che avrà dunque un
deficit di vascolarizzazione. L’aumento di spessore è una variabile importante che influenza il fabbisogno
energetico del cuore.
È quindi da notare come il calore di tensione non rappresenti un aspetto poco importante, ma sia la variabile
principale che influisce sul lavoro totale cardiaco per battito (E).
Se si trattassero pazienti che hanno un circolo coronarico compromesso, in attesa di un’operazione chirurgica,
si potrebbe lavorare su più variabili; infatti, per influire sul lavoro esterno, si potrebbe:
 Diminuire la pressione, la gittata sistolica, la velocità di eiezione del sangue. Per fare ciò occorre
abbassare l’attività inotropa del cuore tramite la modulazione negativa degli agenti inotropi positivi
quali noradrenalina, adrenalina, ormoni tiroidei e farmaci digitalici (questi ultimi potenziano l’attività
cardiaca agendo sulla pompa Na+/K+).
 Diminuire la frequenza cardiaca. Un aumento della frequenza cardiaca infatti va ad aumentare il
consumo del cuore per ben due motivi: innanzitutto si ha una ripetizione dell’evento cardiaco per più
volte nell’unità di tempo (minuto), e conseguentemente il lavoro cardiaco in un minuto
complessivamente aumenta (bisogna sommare i lavori E di tutti i singoli battiti). In secondo luogo una
frequenza cardiaca maggiore farà sì infatti che complessivamente una percentuale maggiore del tempo,
calcolato in un intervallo sufficientemente lungo, sarà spesa in sistole: ∆t nella formula sarà
maggiore32. Si conclude, dunque, che il lavoro attuato dal cuore con frequenza cardiaca alta sarà
maggiore di quello a frequenza cardiaca bassa.
Al cuore costa maggiormente lavorare contro una pressione elevata oppure lavorare pompando una gittata
sistolica elevata? Costa di più lavorare contro una pressione elevata. Ciò perché l’aumento di pressione
influisce su più termini dell’equazione del lavoro cardiaco: sia sulla componente di lavoro esterno data dal
prodotto PV, che sull’espressione del calore di tensione (per la legge di Laplace). Per il cuore è dunque più
oneroso un lavoro pressorio rispetto ad un lavoro volumetrico. Per questo motivo la pressione è forse il

31
Esempio strano ma utile di Silvani: supponiamo di andare a fare la spesa di questi tempi, facendo degli acquisti più
grandi per non uscire troppo a causa del Coronavirus; compriamo due casse d’acqua (9 L ≈ 9 kg d’acqua per cassa). Se
tirassimo su queste casse non compiremmo lavoro, rimanendo fermi; però comunque faremmo fatica: la contrazione del
muscolo consumerebbe energia.
32
Ricorda. La durata delle singola sistole ovviamente diminuirà, ma ciò non è vero per il tempo complessivamente
occupato da tutte le sistoli in un minuto.

196
parametro a cui un medico deve stare più attento: un paziente con una punta ipertensiva generata da un’alta
pressione può andare incontro più facilmente ad un infarto.
Domanda di uno studente: il lavoro cardiaco aumenta sia se aumenta il pre-carico che se aumenta il post-carico? Sì, se
aumenta il pre-carico aumenta il raggio; inoltre si ha un aumento di forza contrattile e di conseguenza un aumento della
massima pressione sistolica ed infine un aumento della gittata sistolica. Se aumenta il post-carico aumenta la pressione,
quindi questo fa aumentare sia la componente PV che il calore di tensione.33

Probabilmente il concetto meno intuitivo di tutti è che una condizione molto sfavorevole dal punto di vista
energetico, per il cuore, è quella di ricorso eccessivo al meccanismo eterometrico di regolazione intrinseca
della forza contrattile. Il meccanismo di Frank-Starling richiede infatti di lavorare a volumi telediastolici
elevati per generare una forza di contrazione elevata; tuttavia, lavorare a volumi telediastolici elevati vuol dire
portare molto in alto il valore del raggio r delle camere cardiache e di conseguenza determinare un aumento
del calore di tensione, che è la principale componente del lavoro totale cardiaco per battito. Il meccanismo di
Frank-Starling è il principale meccanismo di controllo intrinseco di cui il cuore dispone ed è quello che gli
permette di: 1. eguagliare, sul lungo periodo, le gittate cardiache dei due ventricoli e 2. di compensare, in più
battiti, gli effetti di variazione della pressione aortica. Ciò tuttavia ha un costo energetico: aumentare il
volume telediastolico a cui il cuore lavora determina un aumento del raggio delle camere, aumentando
così la tensione ed infine il calore di tensione; questo, in ultima analisi, aumenta i costi energetici per battito
che il cuore richiede per funzionare. Un cuore che magari è danneggiato a causa di un infarto del miocardio e
che quindi presenta una contrattilità ridotta, potrebbe essere portato ad aumentare la forza di contrazione
facendo leva su un aumento del volume telediastolico (principio di Frank-Starling). Tutto questo però
(ironicamente) ha l’effetto finale di rendere un secondo infarto più probabile, perché causa un aumento del
lavoro cardiaco. A breve termine la funzionalità viene ripristinata, ma a lungo termine il cuore non può
sopportare tali condizioni.
L’efficienza meccanica del cuore è data da:

Lavoro esterno
= 0,15 − 0,2 (in percentule 15 − 20%)
Lavoro totale
L’efficienza meccanica del cuore è dunque piuttosto scarsa, tra il 15 e il 20%.34

Nel grafico viene dato un aspetto


visivo del lavoro compiuto dal cuore ad
ogni battito. Non bisogna considerare
tutta l’area sottesa al tratto DEF: infatti
l’area sotto la curva ABC, che è un
integrale del lavoro, non si riferisce al
lavoro che il cuore sta compiendo sul
sangue, ma a quello che il sangue, che
sta arrivando dalle vene cave o
polmonari, compie per riempire le
cavità cardiache (gli atri). Nota.
L’unica eccezione è rappresentata dalla
“gobbetta” della sistole atriale (quella nelle vicinanze del punto C), che è effettivamente lavoro compiuto dalla
muscolatura atriale sul sangue, ma si tratta di una finezza.
Il lavoro esterno netto corrisponde dunque all’area racchiusa dall’anello P-V, che è pari all’area sottesa a
DEF meno l’area sottesa ad ABC.
Esempio per comprendere l’utilità della trattazione fatta.

33
Di conseguenza, il ragionamento precedente secondo cui la pressione influenza più termini dell’equazione mentre il
volume no, è errata? Boh. Le due cose mi appaiono in contraddizione. Aggiornamento: in realtà da vari testi risulta, così
come ha detto il prof., che il lavoro pressorio è più costoso in termini energetici (i.e., in termini di consumo
dell’ossigeno), anche se non so se la ragione è effettivamente quella addotta da Silvani.
34
Si può anche vedere la cosa dal lato opposto: l’80-85% del lavoro compiuto dal cuore è rappresentato dalla tensione di
calore. In altre parole, l’80-85% del lavoro cardiaco non dipende dal suo effettivo lavoro di pompaggio del sangue!

197
Si prenda in considerazione l’articolo “Left Ventricular Wall Stress-Mass-Heart Rate and Cardiovascular Events in
Treated Hypertensive Patients”, pubblicato su Hypertension. Estratto dell’articolo: “La richiesta di ossigeno miocardico
è stata valutata indirettamente tramite il triplo prodotto stress di parete-massa del miocardio-frequenza cardiaca”. Se
prendessimo in considerazione la massa per lo stress di parete, andremmo a misurare qualcosa che si avvicina di molto
alla tensione: la massa, infatti, è correlata allo spessore della parete e, come sappiamo, moltiplicando lo spessore per lo
stress di parete otteniamo la tensione, che è il principale determinante del calore di tensione, il quale è a sua volta il
principale determinante dell’energia richiesta dal cuore.
Tutti questi calcoli hanno dunque un’utilità: l’articolo ad esempio ci dice che valori più bassi di questo triplo prodotto
sono correlati al basso rischio di morte per cause cardiovascolari, infarto del miocardio, ma non di ictus: ciò ha un senso
perché, al variare di questo triplo prodotto, abbiamo un’informazione sul maggiore/minore utilizzo di energia da parte del
cuore in rapporto a quella fornitagli dal circolo sistemico coronarico. È chiaro allora che un disaccoppiamento di questi
eventi ha conseguenze potenzialmente nocive per il cuore, ma non per altri organi come il cervello.

8.5. Metabolismo cardiaco


Il cuore è un organo che sfrutta dal punto di vista energetico la fosforilazione ossidativa, l’unico metodo per
fornire una quantità di ATP elevata in tempi ragionevoli.
Il cuore può impiegare substrati diversi in funzione della loro concentrazione plasmatica.
● Glucosio: se glicemia ≥ ~70mg/dL (~ minimo valore fisiologico a digiuno), la captazione del glucosio
a livello cardiaco è aumentata dall’insulina (N.B. Questo effetto dell’insulina non sembra essere
collegato con il suo effetto inotropo positivo). Quando la concentrazione ematica di glucosio cala, il
cuore smette di esserne avido e cerca altre forme di energia, anche perché ci sono cellule che
necessitano di glucosio molto più del cuore stesso (per esempio i neuroni, che non possono utilizzare
altri substrati: in caso di bassa concentrazione ematica di glucosio e di conseguenza ridotto uptake
neuronale di glucosio si parla di neuroglicopenia).
● Acidi grassi: consumanti normalmente perché rendono una grande quantità di energia: il 60% del
consumo di ossigeno del cuore è dovuto all’ossidazione degli acidi grassi.
● Corpi chetonici: il cuore li ossida in condizioni di digiuno, ovvero quando smette di usare glucosio,
per iniziare a consumare acidi grassi e corpi chetonici. Si ricordi che non c’è una soglia di passaggio
da un nutriente all’altro: il consumo dei diversi substrati varia in funzione della loro concentrazione
plasmatica.
● Lattato: la soglia di utilizzo è molto bassa. Attenzione: il lattato che il cuore utilizza per produrre
energia non è quello prodotto da esso stesso, ma quello prodotto dai muscoli scheletrici nelle
condizioni di eccessivo sforzo. Il cuore non può usare il suo lattato, perché ciò vanificherebbe il ciclo
di produzione dell’ATP. Il lattato può essere prodotto nel muscolo scheletrico tramite degradazione
del glicogeno (il muscolo scheletrico non può direttamente contribuire all’aumento della
concentrazione di glucosio nel sangue, perché le sue cellule non esprimono la glucosio 6-fosfatasi, che
è invece espressa dagli epatociti, i quali possono rilasciare glucosio nel circolo ematico e contribuire
all’aumento della sua concentrazione35). Il fatto che il cuore possa utilizzare il lattato prodotto dal
muscolo scheletrico è positivo, perché consente di convertire glicogeno muscolare in un substrato
energetico per il cuore; per il fegato avviene qualcosa di simile nei processi gluconeogenetici.

35
Breve off-topic. Il muscolo scheletrico indirettamente contribuisce a tale aumento, proprio tramite la produzione di
lattato. Dalla biochimica: il lattato prodotto in condizioni di sforzo dal muscolo scheletrico può essere utilizzato dal fegato
per portare avanti il processo di gluconeogenesi. A sua volta il glucosio rilasciato dal fegato può essere poi utilizzato da
vari organi, tra i quali il muscolo stesso (il cosiddetto ciclo di Cori).

198
9. Controllo integrato del sistema cardiovascolare
Per poter trattare questo argomento è necessario fare riferimento alla formalizzazione di Arthur Guyton che
descrive il rapporto reciproco tra le curve della funzione cardiaca e le curve della funzione vascolare. Tale
formalizzazione ci permette di acquisire una comprensione più profonda degli effetti qualitativi che la
modificazione di una variabile cardiovascolare ha sulle altre variabili. Esse sono interdipendenti l’una
dall’altra, fra di loro intercorre cioè un rapporto causale reciproco: ad esempio, si potrebbe pensare
erroneamente che un aumento della frequenza cardiaca porti sempre ad un aumento della gittata cardiaca (le
due grandezze sono direttamente proporzionali) ma non è così perché, per la relazione ad U invertita (trattata
nella tesina sulla gittata cardiaca), la gittata sistolica stessa è dipendente dalla frequenza cardiaca.
9.1. Pressione venosa centrale e
9.2. Controllo integrato del sistema cardiovascolare: curve della funzione cardiaca;
curve della funzione vascolare

Pressione venosa centrale e curve della funzione vascolare

N.B. Il grafico è da conoscere, anche con i valori numerici (come tutti gli altri )

Come interpretare il grafico


Il grafico è caratterizzato da:
 sull’asse delle y si ritrova la pressione venosa centrale
caratteristica delle vene cave che si gettano direttamente nel cuore
di destra (il cuore è il centro, per questo è detta centrale).
Quest’ultima sarà lievemente superiore alla pressione in atrio
destro perché si ha necessità di avere una differenza di pressione
che permetta di far transitare il sangue dalle cave all’atrio (durante
la contrazione dell’atrio, però, la pressione in esso sarà lievemente
maggiore di quella nelle cave);
 sull’asse delle x sono rappresentati i valori della gittata cardiaca.
Ragionando su un intervallo di tempo relativamente lungo, la
gittata cardiaca è la stessa per i ventricoli destro e sinistro, ma si
prende in considerazione solo il cuore di sinistra perché deve
pompare contro un post-carico superiore (la pressione in aorta è
superiore di quella in arteria polmonare). Questo si riflette anche
sullo spessore della parete del ventricolo sinistro che è molto superiore di quello del ventricolo destro;
ciò implica, secondo la legge di Laplace applicata al cuore, che lo stress di parete potrà essere
mantenuto ridotto a fronte del fatto che la tensione necessaria per pompare il sangue contro un post-
carico superiore sia maggiore.
L’intenzione del grafico è quella di rappresentare una famiglia di curve; in questo caso vengono delineate la
curva normale, che sarà fissa in ogni grafico, e altre due curve che potranno assumere valori differenti a
seconda dell’entità dell’emorragia o della trasfusione e a seconda delle conseguenze sulle variabili fisiologiche.
Per trasfusione si intende l’iniezione di liquido nei vasi (sangue, plasma, soluzione fisiologica) che ha come
risultato l’aumento di volume del contenuto dei vasi stessi, ma non necessariamente una vera e propria
trasfusione (ad esempio, il riassorbimento marcato a livello renale di soluti e acqua è paragonabile ad
un’“iniezione” di soluzione fisiologica). Allo stesso modo, con il termine emorragia si intenda qualsiasi
condizione che produca come effetto una riduzione del volume del contenuto dei vasi sanguigni.
Per disegnare queste spezzate è utile seguire un flowchart:
1. Indicare le variabili rappresentate sugli assi x e y.
2. Indicare gli aspetti numerici sugli assi x e y.
3. Ragionare sulle intercette, ossia ricercare i punti in cui la spezzata incrocia gli assi x e y in modo da
esprimere il valore di una delle variabili in funzione dell’altra.
4. Ragionare sui punti: la parte finale delle spezzate è verticale e quindi la pressione venosa centrale
potrebbe raggiungere valori anche al di sotto di -1. Questo sta ad indicare che al di sotto del valore di

199
0 mmHg la gittata cardiaca non varia più al variare della pressione venosa centrale. Verso destra,
però, la spezzata diminuisce in modo lineare, e ciò sta a significare che al crescere della gittata
cardiaca la pressione venosa centrale diminuisce in modo lineare. Ad ogni variazione di gittata
corrisponderà dunque una variazione proporzionale della pressione venosa centrale, variazione che
cesserà quando la pressione venosa centrale è zero e la gittata cardiaca smette di aumentare e diventa
costante.
In caso di trasfusione o di emorragia, le spezzate seguiranno lo stesso andamento della curva in condizioni
normali ma i punti in cui le spezzate stesse intercettano gli assi saranno diverse. Le tre spezzate sono parallele
tra loro perché la variazione della pressione venosa centrale in funzione della gittata cardiaca (quindi il loro
coefficiente angolare) è uguale sia in condizioni normali sia in caso di aumento o diminuzione del volume.
Bisogna inoltre tenere presente che il valore della gittata cardiaca dipenderà dalle caratteristiche dell’individuo
e in questo specifico caso risulta essere superiore al valore orientativo di 5-6 L/min dato nella tesina sulla
gittata cardiaca; anche il valore della pressione venosa centrale, è variabile a seconda del soggetto ma in ogni
caso risulta essere molto vicino al valore orientativo di 7 mmHg.
Per interpretare questo grafico infine bisogna tener conto della convenzione usuale secondo cui la variabile
sull’asse delle x è la causa e la variabile sull’asse delle y è la conseguenza, ossia la gittata cardiaca è da
considerarsi la causa delle variazioni di pressione venosa centrale. Questa convenzione è in questo caso molto
utile, perché possiamo dire che è effettivamente così: la variazione della gittata cardiaca è causa della
variazione della pressione venosa centrale.

Significato del grafico


Dopo aver premesso alcune questioni, possiamo passare all’analisi del grafico (che si riporta nuovamente):
 In condizioni normali, quando la gittata cardiaca è 0 L/min
la pressione venosa centrale è 7 mmHg (ovviamente per
“normale” si intende la curva segnalata con normale e non
che normalmente abbiamo una gittata cardiaca pari a zero,
XD): ricordando che GC = gittata sistolica x frequenza
cardiaca, si deduce che GC sarà nulla se la gittata sistolica,
la frequenza o entrambe sono pari a zero: in poche parole
se il cuore è fermo. In questo caso la pressione venosa
centrale corrisponderà a 7 mmHg e viene definita
pressione media di riempimento; essa sarà la stessa a
livello di arterie, vene e capillari, poiché normalmente le
differenze pressorie sono generate dal cuore, che in questo
caso è fermo e non può dare origine alla differenza
pressoria nei vari segmenti vascolari. La pressione media
di riempimento dipende esclusivamente dal volume
complessivo di sangue all’interno del sistema vascolare
(comprese le camere cardiache) e dalle caratteristiche
globali dei vasi e delle camere cardiache.
 Al crescere della gittata cardiaca la pressione venosa centrale diminuisce fino a raggiungere il
valore di 0 mmHg, che è quello corrispondente al valore massimale della gittata cardiaca (nel caso
particolare di questo grafico, 7 L/min): assumendo che il cuore di destra e il circolo polmonare siano
un tubo rigido che parte dalle vene cave e arriva fino al ventricolo di sinistra (assunzione non corretta
ovviamente, ma che in questo momento facciamo per semplificazione), se aumenta la gittata cardiaca
allora il ventricolo di sinistra pompa in aorta un volume maggiore di sangue proveniente dalle vene
cave36; di conseguenza, il volume all’interno delle cave sarà ridotto e quindi, svuotandosi sempre di
più, diminuirà proporzionalmente anche la pressione, fino a raggiungere lo zero. Poiché tutte le
pressioni del nostro organismo sono riferite alla pressione barometrica (pressione esterna), se la
pressione venosa centrale è zero la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno delle vene cave è
zero (pressione transmurale, lett. “attraverso la parete” del vaso). Se il cuore volesse ulteriormente

36
Ovviamente il sangue pompato dal ventricolo di sinistra non deriva direttamente dalle vene cave, bensì dall’atrio di
sinistra, che riceve il sangue dal circolo polmonare, il quale a sua volta lo riceve dal ventricolo destro, dall’atrio destro,
ergo dalle vene cave.

200
aumentare la gittata cardiaca, dovrebbe svuotare ancor di più le vene cave, cioè dovrebbe ridurre la
pressione venosa al di sotto della pressione atmosferica (pressione transmurale < 0) e le pareti delle
cave collabirebbero (analogamente ad un palloncino dal quale si aspira tutta l’aria). Questo
ostacolerebbe il flusso di sangue nelle vene cave e impedirebbe al ventricolo di sinistra di pompare il
sangue in aorta; infatti, poiché le cave tendono a collabire il loro raggio diminuisce, ed essendo il
raggio legato alla resistenza idraulica (legge di Hagen-Poiseuille in caso di flusso laminare),
quest’ultima aumenta a livello delle vene, riducendo a valle la pressione telediastolica ventricolare
(impedendo al ventricolo di sinistra di aumentare la gittata) e a monte aumentando la pressione
(favorendo un lieve aumento della pressione transmurale). Le condizioni dunque tendono a ritornare
all’equilibrio.
In sintesi:
Cuore fermo (GC = 0), pressione venosa centrale = 7 mmHg (pressione media di riempimento) →
aumenta GC → la pressione venosa centrale cala in maniera lineare → GC raggiunge un valore tale per
cui la pressione venosa centrale è uguale a 0 → il cuore tende a far aumentare ulteriormente la GC → un
aumento della GC causa una discesa dei valori di pressione venosa centrale al di sotto dello 0 → una riduzione
della pressione nelle cave al di sotto dello zero causa un collabimento delle pareti delle cave → il raggio delle
cave diminuisce e di conseguenza aumenta la resistenza idraulica → una resistenza funge da “diga” e quindi
causa un aumento di pressione a monte (circolo venoso sistemico) e una diminuzione a valle (pressione
telediastolica ventricolare) → l’aumento della pressione a monte causa il riempimento delle cave e l’aumento
della pressione venosa centrale, mentre la diminuzione della pressione telediastolica ventricolare causa (per il
meccanismo di Frank-Starling) un calo della gittata cardiaca → si ritorna alle condizioni precedenti.
Ovviamente qui vediamo il tutto come se fosse un processo, ma ovviamente nella realtà non avremo mai un
soggetto che ha una gittata cardiaca uguale a 0, la cui GC pian piano salirà fino a raggiungere una GC massima
ecc.
Silvani precisa: le oscillazioni descritte alla fine non sono da considerare come reali oscillazioni ma come
fenomeni istantanei che permettono di riportare il sistema in un dato set di valori (e infatti non sono osservabili
nel grafico). Impostando un sistema di equazioni differenziali si otterrebbe un risultato stazionario.
Immaginando di avere singoli fotogrammi di un film: si parte con il valore massimale della gittata cardiaca,
nel fotogramma successivo la gittata prova ad aumentare, la pressione diventa subatmosferica e le cave
collabiscono, nel fotogramma successivo la gittata cardiaca cala perché il volume telediastolico è diminuito
mentre aumenta la pressione delle cave. Se questo fosse realmente un film ritorneremmo alla condizione
iniziale senza accorgerci neanche di questi brevi fotogrammi, come se le nostre condizioni non fossero mai
cambiate.

Curve di funzionalità cardiaca


La curva di funzionalità cardiaca definisce la variazione della gittata cardiaca provocata da una variazione
della pressione venosa centrale (si noti che è una situazione ribaltata rispetto alla precedente). La curva non è
altro che un’espressione della legge del cuore di Frank-Starling, già ampiamente discussa.
Sia le curve di funzionalità cardiaca che le curve di funzionalità vascolare mettono in relazione due famiglie
di variabili: il volume telediastolico (oppure la lunghezza telediastolica delle cellule ventricolari, il ritorno
venoso o ancora la pressione venosa centrale, tutte variabili connesse l’una all’altra) e la massima tensione
generabile dal ventricolo in condizioni isometriche (o la pressione ventricolare, la gittata cardiaca, la gittata
sistolica, ancora una volta tutte connesse l’una all’altra). In un modello ideale in cui il cuore destro e i polmoni

201
sono approssimabili ad un tubo rigido e viene focalizzata
l’attenzione sul ventricolo di sinistra e sulle vene cave, le
variabili possono essere rappresentate rispettivamente da:
 la pressione venosa centrale, che ha una relazione
diretta con il volume telediastolico: un eventuale
aumento della pressione venosa centrale determina una
maggiore pressione telediastolica ventricolare e, in
funzione della complianza ventricolare, un aumento del
volume telediastolico;
 la gittata cardiaca, che ha invece una relazione diretta
con la massima tensione generabile dal ventricolo in
condizioni isometriche: se la frequenza cardiaca è
costante, la gittata cardiaca varia in funzione dalla
gittata sistolica, che a sua volta dipende dalla massima
tensione sviluppabile dal ventricolo sinistro in
condizione isometriche.
La curva di funzionalità cardiaca descrive il rapporto tra la
variazione della gittata cardiaca (variabile dipendente, y), che è
conseguenza delle variazioni di volume telediastolico, e le
variazioni della pressione venosa centrale (causa e variabile
indipendente, x). Viceversa, la curva della funzionalità
vascolare descriveva un rapporto inverso, nel quale la gittata
cardiaca era la causa e la pressione venosa centrale la conseguenza.
Anche in questo caso vengono analizzate una famiglia di curve il cui andamento varia in funzione dei valori
di contrattilità. In particolare, nel caso in cui vi sia un effetto inotropo positivo, le curve sono localizzate
superiormente e a sinistra rispetto alla curva di controllo; nel caso in cui vi sia un effetto inotropo negativo e
una conseguente riduzione di contrattilità, le curve sono poste inferiormente e a destra rispetto alla curva di
controllo.
Poiché si è già discusso del significato di tali curve nel trattare il meccanismo di Frank-Starling, si rimanda
all’apposita tesina.

9.3. Relazioni tra curve della funzione cardiaca e curve della funzione vascolare
La curva della funzionalità vascolare mette in evidenza il rapporto tra la variazione di gittata cardiaca
(causa e variabile indipendente) e la sua conseguenza, ovvero la variazione della pressione venosa centrale.
La curva della funzione cardiaca descrive invece un modello con i rapporti causali invertiti. Ciò permette di
dedurre che il rapporto causale tra le due grandezze è bidirezionale: entrambe sono sia la causa, che la
conseguenza.
Per interpretare il funzionamento del sistema risulta necessario analizzare un grafico in cui vengono
rappresentate entrambe le curve sovrapposte; tuttavia, per poterle porre sugli stessi assi, è necessario trascurare
la modalità intuitiva di rappresentazione di una delle due curve, mantenendo l’andamento dell’altra invariato
(arbitrariamente si sceglie di mantenere invariata la modalità di rappresentazione per le curve di funzionalità
cardiaca).
Nel grafico vengono mantenute le variabili descritte per le curve di funzionalità cardiaca (pressione venosa
centrale sull’asse delle ascisse e gittata cardiaca sull’asse delle ordinate).
Si noti che:
 le curve di funzionalità vascolare sono ruotate di 90° rispetto a quelle osservate all’inizio della tesina,
seppure l’interpretazione causale rimanga invariata: la variazione di gittata cardiaca è la causa e la
variazione di pressione venosa centrale è la conseguenza;
 analizzando entrambe le curve nello stesso grafico si evidenzia il loro punto di intersezione, definito
come punto di equilibrio del sistema. Le coordinate di questo punto (corrispondenti alle coordinate

202
del punto D in figura) rappresentano i valori di pressione venosa centrale e gittata cardiaca del sistema
all’equilibrio.
La tendenza del sistema cardiovascolare ad operare attorno ad un punto d’equilibrio può essere illustrata
esaminando la risposta ad una perturbazione improvvisa.
Dato un sistema all’equilibrio nel punto D, si considerino le
variazioni provocate da un improvviso aumento della pressione
venosa centrale. Tale aumento è rappresentato dalla freccia
DA: sulla curva della funzionalità cardiaca possiamo osservare
come risultato di tale aumento, un aumento della gittata
cardiaca (AB). Questo aumento avrà un effetto sulla curva della
funzionalità vascolare: in questo caso l’aumento della gittata
cardiaca è la causa di una diminuzione della pressione venosa
centrale (BC); questa diminuzione, a sua volta, determina (sulla
curva di funzionalità cardiaca) una diminuzione della gittata
cardiaca, con conseguente aumento della pressione venosa
centrale (sulla curva di funzionalità vascolare). Il processo
continuerà in fasi di entità progressivamente minori fino a
quando non verrà raggiunto nuovamente il punto D.
In conclusione, allontanandosi dal punto di equilibrio si mettono in atto una serie di modificazioni
consecutive di gittata cardiaca e pressione venosa centrale che alla fine riportano il sistema alle sue
condizioni iniziali. Dal Berne & Levy: “Ogni perturbazione (ad esempio, un improvviso aumento della
pressione venosa) genera una sequenza di cambiamenti nella gittata cardiaca e nella pressione venosa che
riporta queste variabili ai loro valori di equilibrio”. Di fatto dunque il punto di equilibrio risulta stabile, sono
possibili delle deviazioni transitorie dei valori di gittata cardiaca e pressione venosa centrale ma, essendo di
breve durata e facendo una media nel tempo, queste si annullano.

Effetti della resistenza periferica


Le variazioni della resistenza periferica modificano
l’andamento delle curve di funzionalità cardiaca e vascolare.
Analizzando il circuito vascolare, la massima resistenza
vascolare è localizzata principalmente a livello delle arteriole37.
Con l’aumento della resistenza vascolare periferica, la
vasocostrizione generalizzata provoca una rotazione in senso
orario (verso il basso) della curva di funzionalità cardiaca e
una rotazione antioraria (sempre verso il basso) della curva di
funzionalità vascolare.
Effetti sulla curva di funzione cardiaca
L’aumento della resistenza vascolare periferica del circolo
sistemico determina una modificazione della curva di
funzionalità cardiaca. Il flusso (o la gittata cardiaca), per
l’equivalente idraulico della legge di Ohm, corrisponde al rapporto tra la differenza di pressione e la resistenza
∆𝑃
(Flusso = ). L’aumento delle resistenze, mantenendo costante il valore della gittata cardiaca, determina
𝑅
dunque un aumento della pressione arteriosa. Con l’aumento della pressione arteriosa il ventricolo sinistro
attiva un meccanismo di regolazione omeometrica della forza contrattile: il cuore è quindi in grado di
pompare sangue ad una pressione maggiore del normale, riducendo però il valore della gittata sistolica, con
conseguente diminuzione anche della gittata cardiaca. Questa variazione viene, in un secondo momento,
compensata dal meccanismo di Frank-Starling; trascurando però l’effetto che la pressione venosa centrale ha
sulla gittata cardiaca nei battiti successivi e, focalizzando l’attenzione su ciò che nel sistema avviene in un

37
Le arteriole sono vasi molto piccoli e dunque hanno una resistenza molto elevata. Seppure il loro raggio sia maggiore
rispetto a quello dei capillari, questi ultimi sono organizzati in parallelo molto più di quanto non lo siano le arteriole: la
resistenza complessiva del circuito capillare resta dunque più bassa di quella arteriolare.

203
singolo battito (durante il quale tutti gli altri eventi causali non hanno il tempo di verificarsi), il ventricolo
sinistro risponde all’aumento del post-carico con la diminuzione della gittata cardiaca.
A parità di pressione venosa centrale, quindi, in caso di aumento delle resistenza vascolari periferiche si avrà
una gittata cardiaca minore rispetto a quella nella situazione di controllo (per osservarlo, traccia ad es. una
linea verticale passante per il valore di press. venosa centrale di 4 mmHg e osserva i corrispettivi valori di GC
sulle y).
Analizzando la figura si nota che:
 la curva di funzionalità cardiaca in presenza di un aumento delle resistenze vascolari periferiche
ruota in basso e a destra (curva rossa tratteggiata);
 le curve rosse (tratteggiata e continua) convergono se la pressione venosa centrale è circa 0: gli
effetti dell’aumento di pressione arteriosa non sono osservabili se il cuore non pompa e la gittata
cardiaca ha un valore nullo.
Nel caso invece in cui si abbia una diminuzione della resistenza vascolare periferica le curve di
funzionalità cardiaca ruotano in alto e a sinistra (evento qui non rappresentato). L’effetto di regolazione
omeometrica agisce in questo caso in maniera opposta: il ventricolo, in caso di diminuzione della resistenza
periferica e della pressione arteriosa, a parità di volume telediastolico pomperà una gittata cardiaca maggiore
del normale.
Effetti sulla curva di funzione vascolare
Considerando un primo caso in cui la gittata cardiaca è nulla, le modificazioni della resistenza delle
arteriole non determinano una sostanziale modificazione della pressione media di riempimento. La
pressione media di riempimento dipende infatti dal volume dei vasi, che rimane costante, e dalle
caratteristiche globali di complianza del sistema (queste ultime effettivamente variano se cambia la resistenza
delle arteriole ma, considerando le arteriole come una frazione molto piccola del circolo complessivo che
contiene un volume di sangue minimo, gli effetti delle variazioni della resistenza vascolare sulla pressione
media di riempimento sono del tutto trascurabili). La pressione media di riempimento è sempre costante, perciò
le curve della funzione vascolare che rappresentano una gamma di diverse resistenze periferiche (ad esempio
la linea blu continua e quella tratteggiata) convergono in un punto comune sull’asse x.
Nel caso in cui la gittata cardiaca non è nulla, il suo aumento determina la diminuzione della pressione
venosa centrale. La gittata cardiaca e il ritorno venoso sono infatti, come abbondantemente spiegato in
precedenza, strettamente interdipendenti: il sangue che viene pompato dal cuore sinistro alle arterie ritorna al
cuore mediante le vene, il sistema circolatorio è infatti un sistema chiuso. La variazione della gittata cardiaca
non è però l’unico fattore che influenza la pressione venosa centrale. Il sangue che scorre nelle arterie per
ritornare al circolo venoso deve passare lungo le arteriole: queste sono i vasi di resistenza del circolo sistemico
e con la loro resistenza ostacolano e rallentano l’arrivo del sangue alle vene cave. In conclusione, la riduzione
della pressione venosa centrale è determinata da due fattori: l’aumento della gittata cardiaca e l’aumento
della resistenza vascolare periferica.
L’aumento di gittata cardiaca determina la riduzione della pressione venosa ma, essendo il sistema
circolatorio un sistema chiuso, questo effetto sarebbe compensato dal ritorno del sangue dalle arterie alle vene.
Tuttavia, questo compenso è debole se le resistenze arteriolari sono elevate, provocando un progressivo
aumento del volume di sangue trattenuto dal sistema arterioso.
Osservando nuovamente la figura notiamo l’andamento della curva di funzionalità vascolare: se la resistenza
arteriolare è elevata la curva di funzionalità vascolare ruota a sinistra, nel verso opposto rispetto alla curva di
funzionalità cardiaca.
Questo implica che:
 se si mantiene costante il valore della gittata cardiaca, il valore della pressione venosa centrale che
si ottiene con una resistenza arteriolare maggiore sarà più basso del valore nella situazione di
controllo (per capire, prova a tirare una linea orizzontale passante per il valore di 2 L/min);
 aumentando la resistenza arteriolare, la pressione venosa centrale diminuisce più rapidamente
al crescere della gittata cardiaca: in termini grafici, cambia il coefficiente angolare del segmento
della retta blu che si origina dall’intersezione con l’asse x: la nuova retta tratteggiata è più ripida della
precedente (guardando il grafico sembrerebbe in realtà che la nuova retta tratteggiata sia meno ripida
di quella continua, ma ricorda che il grafico della funzione vascolare per essere meglio compreso va
osservato ruotato di 90°! );

204
 il valore di pressione venosa centrale uguale a 0 si raggiunge per valori di gittata cardiaca più
bassi (i.e., la gittata cardiaca massimale è inferiore) e, una volta raggiunto quel valore, la gittata
cardiaca rimane costante (in particolare sul grafico presentato, a resistenza aumentata il valore di press.
venosa centrale di 0 mmHg si raggiunge per valori di gittata cardiaca di 5 L/min, mentre a resistenza
di controllo esso si raggiunge per valori di gittata cardiaca di 7 L/min).
Il punto B di intersezione tra le curve tratteggiate (blu e rossa) si trova inferiormente rispetto al punto A.
Aumentando la resistenza arteriolare il sistema cardiovascolare raggiunge dunque l’equilibrio in presenza
di valori di gittata cardiaca più bassi del normale ma di valori di pressione venosa centrale pressoché
invariati.
L’opposto si verifica se la resistenza vascolare periferica diminuisce (evento non rappresentato nel
grafico): la curva rossa (di funzionalità cardiaca) ruoterebbe in alto e a sinistra, la curva blu (di funzionalità
vascolare) in alto e a destra. L’equilibrio in questo caso si otterrebbe per valori di gittata cardiaca più alti del
normale, ma per valori di pressione venosa centrale pressoché invariati rispetto alla condizione di normalità.
Anche la gittata cardiaca massimale aumenterebbe: il cuore sinistro lavorerebbe con un post-carico ridotto e il
ritorno venoso (a causa della resistenza vascolare ridotta) sarebbe abbondante.
Nota. Il fatto che la pressione venosa centrale risulti essere la stessa in caso di modificazioni della resistenza
vascolare periferica è un’importante proprietà emergente del sistema.
Applicazioni a casi reali. Nel caso di vasodilatazione periferica (diminuzione delle resistenza vascolari
periferiche) il cuore è in grado di generare una gittata cardiaca maggiore, mantenendo invariata la pressione
venosa centrale: di conseguenza anche il volume telediastolico rimane invariato e ciò permette al cuore di
lavorare con una modalità di funzionamento cardiaco economica dal punto di vista metabolico, con un raggio
ventricolare poco elevato e mantenendo basso il calore di tensione. Una condizione di vasodilatazione
generalizzata si ha nei vasi che irrorano i muscoli scheletrici durante l’esercizio fisico. Se l’esercizio fisico
richiede l’attività di grandi masse muscolari, la vasodilatazione di numerose arteriole comporta un’elevata
gittata cardiaca che permetterà di irrorare i muscoli scheletrici in esercizio senza sottoporre il cuore a stress
eccessivo (stress dovuto a valori elevati di pressione venosa centrale). In condizioni patologiche invece una
vasocostrizione generalizzata può indurre il cuore a lavorare in condizioni di gittata cardiaca ridotta.

Curve di funzionalità vascolare e cardiaca in condizioni patologiche


Il formalismo delle curve di funzionalità cardiache e vascolari è di fatto fondamentale per comprendere la
fisiopatologia di disturbi cardiovascolari molto comuni come l’insufficienza cardiaca (o scompenso cardiaco).
In questo grafico sono evidenti le numerose intersezioni (punti di equilibrio del sistema) tra le diverse curve
di funzionalità cardiaca e curve di funzionalità vascolare.
Focalizzandosi sulle curve rossa e verde, che rappresentano rispettivamente la normale curva di
funzionalità cardiaca e la normale curva di funzionalità vascolare, il grafico permette di individuare
nell’intersezione A il punto di equilibrio del sistema in condizioni fisiologiche.
Una riduzione di contrattilità per via di una patologia cardiaca (e.g., l’insufficienza cardiaca), o un
aumento della pressione arteriosa portano la curva rossa a
ruotare verso il basso e a destra: infatti, queste due situazioni
fanno sì che, a parità di volume telediastolico (dunque di
pressione venosa centrale), la gittata sistolica (e di
conseguenza la gittata cardiaca) diminuisca.
Confrontando la curva di funzionalità vascolare in
normovolemia (curva verde) e quella in ipervolemia (curva
blu) si riconosce facilmente la situazione che veniva indicata
come “trasfusione” in uno dei grafici delle pagine precedenti.
La trasfusione è infatti un caso particolare di un fenomeno
generale di aumento del volume del contenuto dei vasi
sanguigni (e ovviamente anche del cuore) chiamato
ipervolemia (che questa condizione sia dovuta ad una
trasfusione o ad altro cambia poco dal punto di vista
emodinamico, mentre dal punto di vista cardiovascolare la
presenza di emazie in una trasfusione fa la differenza).

205
Partendo dalla situazione fisiologica (punto A), se il paziente va incontro a un danno cardiaco, come
un’ischemia miocardica, parte del miocardio va in sofferenza e potenzialmente muore. Durante l’ischemia
infatti, l’apporto di ossigeno e nutrienti da parte delle coronarie è momentaneamente insufficiente a supportare
la necessità di energia da parte del cuore. Il risultato è che la contrattilità diminuisce e la curva rossa ruota in
basso e a destra (curva viola): il nuovo punto di intersezione diventa B (intersezione tra curva viola e curva
verde). B è caratterizzato da:
 una gittata cardiaca più bassa di quella normale (B è più giù di A);
 una pressione venosa centrale più alta di quella normale (B è a destra di A).
Grazie al meccanismo di Frank-Starling, l’aumento della pressione venosa centrale causa un aumento del
volume telediastolico e un conseguente aumento della gittata sistolica (e cardiaca). Nonostante questo il
cuore genera una gittata cardiaca più bassa del normale a causa della contrattilità ridotta e la funzione
cardiaca resta subottimale. L’organismo può reagire a una situazione del genere facendo una sorta di
“autoinfusione di soluzione salina fisiologica”, trattenendo acqua e cloruro di sodio attraverso i reni, e
aumentando il volume sanguigno, al fine di aumentare la gittata cardiaca. A causa di questo processo la curva
verde trasla verso l’alto e a destra (curva blu). A questo punto dobbiamo dunque considerare l’intersezione tra
la curva viola e la curva blu, ovvero il punto D. D è caratterizzato da:
 una gittata cardiaca paragonabile a quella di A;
 una pressione venosa centrale più alta di quella normale (D è più a destra di A).
Si è tornati alla performance pre-danno cardiaco (si è ristabilita la GC corretta), ma il cuore lavora con una
pressione venosa centrale molto più alta di quella normale, cioè a un volume telediastolico molto più alto di
quello normale. Questa condizione incrementa in maniera molto rilevante il calore di tensione e quindi anche
il consumo energetico cardiaco. Il problema che aveva dato origine a tutta questa catena di eventi era
un’incapacità del circolo coronarico di nutrire a sufficienza il cuore, perciò questa modalità di compenso non
fa altro che aggravare il problema originario: l’insufficienza cardiaca potrà diventare da moderata (curva viola)
a grave (curva gialla). Prendendo quindi in esame il punto E, intersezione tra la curva gialla e quella blu, esso
è caratterizzato da:
 una gittata cardiaca più bassa del normale (E è più in basso di A);
 una pressione venosa centrale molto più alta di quella normale (E è molto più a destra di A).
Usando una metafora, possiamo dire che si tratta di un chiaro esempio di un “cane che si morde la coda”, o
in termini più corretti di un circolo vizioso: alla modifica di un parametro segue infatti un evento
compensatorio, il quale causa la modifica di un altro parametro, e il tentativo di compensare la modifica del
nuovo parametro va a modificare nuovamente il parametro iniziale e così via. I meccanismi di compenso attuati
dall’organismo permettono dunque al soggetto di sopravvivere, ma non sono affatto positivi.

Insufficienza ventricolare destra e sinistra


Nell’analisi dell’insufficienza ventricolare di destra e di sinistra si elimina la semplificazione fatta in
precedenza (semplificazione secondo cui il cuore destro e il circolo polmonare possono essere modellati come
un unico tubo rigido) e si sottolineano dettagliatamente le specificità dei ventricoli. In particolare si descrivono
le conseguenze dell’insufficienza ventricolare.
In pratica, si consideri l’insufficienza ventricolare come una condizione di contrattilità molto ridotta. Ciò
vuol dire che, a parità di volume telediastolico, frequenza cardiaca e pressione in arteria (aorta per il ventricolo
sinistro e arteria polmonare per il ventricolo destro), la massima tensione sistolica generata in condizioni
isometriche e quindi la gittata sistolica del ventricolo (destro o sinistro) sono molto ridotte.
Le conseguenze di una ridotta contrattilità ventricolare di destra o di sinistra sono in parte controintuitive.

206
1. Insufficienza ventricolare destra
Per ragioni di natura patologica la gittata sistolica del ventricolo destro si riduce, perciò esso non riesce
a pompare sangue in modo efficiente dalla fine del circolo venoso sistemico (vene cave) all’arteria
polmonare. Di conseguenza, la pressione aumenta a monte del ventricolo destro, perché non è più
capace di prendere bene sangue dal circolo venoso sistemico e diminuisce a valle del ventricolo
destro, perché esso non è più capace di pompare sangue all’arteria polmonare.
 L’aumento della pressione a monte porta all’incremento di pressione nell’atrio destro, nelle
vene cave (pressione venosa centrale) e dunque in tutte le vene che si gettano nelle cave
(pressione venosa sistemica) fino ai vasi capillari (quest’onda pressoria non riverbera nelle
arteriole, a monte dei capillari, a causa della loro resistenza vascolare). Considerando
l’equilibrio di Starling-Landis, l’aumento della pressione idraulica all’interno dei capillari
comporta un aumento netto della filtrazione di acqua dai capillari stessi. Tenendo poi in
conto che la revisione recente di tale equilibrio ci ricorda che esso ha un netto orientamento
alla filtrazione e solo transitorio al riassorbimento38, il risultato è che la tendenza alla
filtrazione diventa ancora più elevata. I vasi linfatici compensano la tendenza tonica alla
filtrazione riassorbendo liquido e proteine dall’interstizio e riportandoli in circolo:
inizialmente infatti, la matrice proteoglicanica del gel interstiziale fa sì che la pressione
nell’interstizio salga rapidamente opponendosi all’ulteriore filtrazione; se però la filtrazione
continua è sempre più difficile ostacolarla perché la matrice proteoglicanica si danneggia, la
complianza aumenta e quindi l’aumento della pressione interstiziale è via via minore. Si arriva
in conclusione a un accumulo di acqua libera nello spazio interstiziale, ovvero l’edema.
Questa condizione è marcata negli arti declivi, come caviglie e parte inferiore delle gambe,
perché la forza di gravità (tra il cuore e questi vasi c’è infatti una colonna di sangue) accresce
la pressione dei vasi.
 Il calo di pressione a valle porta all’abbassamento della pressione nell’arteria polmonare, nel
circolo polmonare, nelle vene polmonari, fino all’atrio sinistro. Questo comporta la
diminuzione della pressione nel ventricolo sinistro durante la diastole (e di conseguenza del
volume telediastolico). Per la legge del cuore di Starling, diminuisce la gittata sistolica del
ventricolo sinistro e con essa anche la gittata cardiaca. Per l’equivalente idraulico della legge
di Ohm, inoltre, la gittata cardiaca è uguale alle differenze di pressione diviso le resistenze
∆𝑃
(flusso i. e. GC = ), quindi se la gittata cardiaca crolla e le resistenze sono le stesse, calerà
𝑅
anche la pressione.
Un’insufficienza ventricolare di destra determina dunque da un lato edema negli atri declivi,
dall’altro un drammatico calo della pressione arteriosa sistemica (grave ipotensione).
2. Insufficienza ventricolare sinistra
Se si verifica un’insufficienza del ventricolo sinistro c’è una riduzione della gittata sistolica del
ventricolo e quindi ci sarà una tendenza più o meno severa (non indicata nel grafico) al calo della
pressione arteriosa e della gittata cardiaca. Nel grafico però è indicato un problema più acuto e molto

38
Ricorda dal primo semestre: il riassorbimento non può mai essere continuato nel tempo, per via della
compartimentazione del flusso di acqua che è paracellulare e del trasporto di proteine per transcitosi che è transcellulare.

207
più rilevante per il paziente, ovvero che il ventricolo sinistro insufficiente non è più in grado di
prendere il sangue dai compartimenti a monte e pomparlo in aorta in modo efficiente. Questo
comporterà un aumento di pressione nelle vene polmonari che si riverbera a monte esattamente con
lo stesso ragionamento usato per l’insufficienza ventricolare destra: l’aumento di pressione venosa
polmonare giunge nei capillari polmonari. In questo caso si avrà edema polmonare, una condizione
ben più grave dell’edema degli arti declivi, perché si tratta di un accumulo di acqua libera
nell’interstizio polmonare. All’interno dei polmoni lo scambio di gas avviene attraverso diffusione di
ossigeno e CO2: lo spazio di norma è virtuale, dal momento che la diffusione è efficace solo su distanze
molto piccole. L’aumento del volume dell’interstizio polmonare rende contemporaneamente:
 meno efficiente lo scambio per diffusione dei gas a livello capillare, compromettendo
l’ossigenazione ematica, aumentando la concentrazione di CO2 e quindi diminuendo il pH
(l’ipercapnia si accompagna ad acidosi nel circolo sistemico);
 meccanicamente più faticoso espandere i polmoni imbibiti di acqua, aumentando il lavoro
respiratorio svolto dai muscoli respiratori, i quali per potere svolgere un lavoro respiratorio
maggiore dovranno consumare di più: ma poiché il ventricolo sinistro è in insufficienza non
arriverà loro il corretto apporto di sangue. La situazione di fatica dei muscoli respiratori va
dunque ad aggravare ulteriormente il problema di mancanza di ossigeno.
Domanda di uno studente. L'edema agli arti declivi è favorito dalla forza di gravità mentre quello polmonare è sfavorito,
servirà quindi in quest’ultimo caso una diminuzione di contrattilità maggiore?
Il senso della domanda è giusto, i termini della domanda sono troppo semplificati e di conseguenza è impossibile
rispondere in modo quantitativo, poiché:
1. Non è vero che l’edema polmonare è sfavorito dalla forza di gravità, ma si può dire che le condizioni dell’edema
polmonare possono essere favorite o meno dalla posizione del corpo:
o in ortostatismo la porzione sopra-ilare dei polmoni è protetta: infatti, i polmoni prendono il sangue
dall’ilo che li divide una porzione sopra- e sotto-ilare, per ridurre l’edema polmonare conviene perciò
stare un po’ sollevati;
o il clinostatismo favorisce l’edema.
2. La faccenda dipende inoltre da due aspetti che riguardano i capillari:
o primariamente da quanto la pressione va a riverberarsi all’interno dei capillari partendo dalle vene e la
cosa cambia notevolmente nel circolo sistemico e in quello polmonare;
o secondariamente dipende dalla permeabilità dei diversi capillari: quella dei capillari polmonari è molto
inferiore rispetto a quella dei capillari sistemici quindi francamente diventa difficile andare a fare un
discorso di questo genere.
3. Oltretutto applichiamo il concetto di contrattilità in termini qualitativi, nel senso che la contrattilità sale
piuttosto che scendere. Certamente conosciamo diversi indici di contrattilità ciascuno dei quali ha un valore
numerico esatto (per esempio la frazione di eiezione), ma è difficile stabilire se la contrattilità sia diminuita di
più nel ventricolo di destro o sinistro. Sarebbe possibile determinarlo normalizzando la contrattilità basale, ma
si entra in casi puramente accademici.

208
10. Organizzazione funzionale del sistema vascolare
Premessa: cenni sull’organizzazione anatomica del sistema vascolare
Alcune conoscenze anatomiche e fisiologiche sono necessarie per la trattazione degli argomenti della tesina.
Innanzitutto, bisogna riprendere i concetti di vasi in serie e vasi in parallelo.

Due vasi (o due circoli o sistemi di vasi) sono detti in serie se un ipotetico globulo rosso nel flusso ematico
deve passare necessariamente nel secondo vaso, una volta “imboccato” il primo.
Due vasi (o due circoli) sono detti in parallelo se il globulo rosso può attraversare solo uno di essi, prima di
tornare al cuore e ripartire.
Ad esempio, il circolo polmonare è in serie rispetto a quello sistemico, il circolo del rene destro è in parallelo
rispetto a quello del sinistro, e il circolo del muscolo bicipite brachiale è in parallelo rispetto al circolo del
pancreas. Il circolo sistemico è dunque globalmente in serie rispetto al circolo polmonare, ma si suddivide in
una serie di circoli fra loro in parallelo, con qualche eccezione: i sistemi (o reti) portali.
Esempi di sistemi portali:

209
 circolo portale ipotalamo-ipofisario: prima rete capillare a livello dell’eminenza mediana, connessa
da vene portali lunghe e brevi alla seconda rete capillare, a livello dell’adenoipofisi; si tratta di due
reti capillari in serie fra di loro;
 circolo portale epatico: il sistema capillare dei sinusoidi epatici è in serie rispetto al circolo capillare
gastrointestinale, e degli altri organi il cui circolo venoso è tributario della vena porta; è il sistema
portale per eccellenza, infatti il termine “portale” deriva dal nome della grande vena che si interpone
tra i due letti capillari, la vena porta;
 circolo portale renale: l’arteriola afferente forma i capillari glomerulari, che si risolvono in
un’arteriola efferente (altra eccezione, in quanto negli altri sistemi portali si ha la confluenza dei
capillari in venule, che poi formano la seconda rete capillare), la quale si prosegue nei capillari
peritubulari.

Sui vasi e sulle loro caratteristiche si rimanda all’istologia. Utile può essere questa tabella riepilogativa:

Le arterie distribuiscono il sangue ai capillari che, dotati di parete molto sottile, sono importanti per la
diffusione e la filtrazione; le vene hanno invece il ruolo di raccogliere il sangue refluo.
L’importanza della parete sottile dei capillari sta nel permettere la filtrazione, ovvero il trasporto di acqua
per via principalmente paracellulare (come dimostra la revisione dell’equilibrio di Starling-Landis). Infatti, se
la parete fosse di spessore maggiore rispetto all’insieme del monostrato endoteliale e della sua sottile
membrana basale, la conduttanza idraulica sarebbe insufficiente a permettere un buon processo di filtrazione.
Per quanto riguarda la diffusione di soluti, come enuncia la legge di Fick, è importante che lo spessore della
membrana attraverso cui avviene il processo sia per quanto possibile basso, tant’è vero che in caso di edema
polmonare si hanno problemi di diffusione dovuti all’accumulo di liquido nell’interstizio, che porta a un suo
aumento di spessore.
Le arteriole terminali hanno una parete costituita da un monostrato di cellule endoteliali, da un monostrato
di cellule muscolari lisce e dalla membrana basale. Non è quindi un elevato spessore della parete a conferire
alle arteriole un elevato valore di resistenza idraulica, ma il rapporto tra lo spessore della parete, incrementato
rispetto ai capillari dalla componente muscolare, e il lume, che è piccolissimo (in media 0,03 mm = 30 µm).
Le arteriole sono pertanto vasi muscolari, ma vengono considerate tali per il rapporto tra la componente
muscolare e il lume, non tanto per la massa muscolare in sé, che in termini assoluti è decisamente maggiore
nelle grandi arterie (e.g., nell’aorta, che ha una tonaca di muscolatura liscia molto spessa).

210
10.1. Caratteristiche elastiche e funzioni delle grandi arterie

Effetto Windkessel
Analizziamo in questo punto l’effetto Windkessel. Per descrivere tale effetto sarà necessaria spendere
qualche parola sull’origine del suo nome.
Il Windkessel39 era storicamente un precursore dell’odierno camion dei pompieri. Costituito da un carro e
una botte di legno sopra di esso, la botte era parzialmente piena d’acqua, con una buona porzione del volume
contenente aria. Per riempire la botte si utilizzavano delle pompe “alternative”, o meglio intermittenti, fatte in
modo che ogni volta che si alzava e si abbassava nuovamente la leva si gettasse uno spruzzo d’acqua nella
botte. Dalla botte usciva un lungo tubo con un ugello terminale relativamente stretto. Il risultato di questo
apparato era che, con un flusso intermittente di acqua in ingresso (per capire, a “secchiate”), in uscita si
otteneva un flusso continuo, più efficiente per spegnere gli incendi.
Gli elementi che rendevano possibile questo fenomeno erano due:
1. il volume di aria nella botte, che fungeva da “camera di compressione”, comprimendosi a ogni
aumento di volume dell’acqua all’interno causata dalla pompa, e ri-espandendosi quando l’acqua
invece usciva, nell’intervallo di tempo dovuto al meccanismo della pompa intermittente;
2. lo stretto ugello alla fine del tubo in uscita, che fungeva da resistore idraulico; per la legge di Poiseuille,
infatti, se il raggio è piccolo la resistenza idraulica è alta.

Il circuito idraulico del Windkessel è analogo a un circuito elettrico con un resistore e


un condensatore in parallelo; il resistore è analogo all’ugello del tubo in uscita, e il
condensatore all’aria nella botte, capace di accumulare energia meccanica per rilasciarla
in un secondo momento. Resistore e condensatore sono in parallelo perché un aumento
di pressione dell’acqua all’interno della botte poteva andare ad agire
contemporaneamente sia comprimendo l’aria sia spingendo acqua verso l’ugello.
Un circuito di questo tipo è chiamato filtro passa basso, perché smorza le fluttuazioni rapide di pressione e
del flusso, rendendo il flusso in uscita più costante di quello in ingresso, all’interno di un certo intervallo di
efficienza, correlato alla costante di tempo τ del circuito, pari al prodotto di resistenza R e capacità C.

𝜏 =𝑅∙𝐶
Applicando l’analogia del Windkessel in ambito fisiologico, il ventricolo costituisce la pompa
intermittente (in particolare considereremo il ventricolo sinistro), mentre l’aria nella botte rappresenta
l’aorta e le grandi arterie che da essa si ramificano. In particolare, la prima porzione dell’aorta è dotata di una
componente elastica molto rilevante, che le permette di assorbire parte della pressione prodotta dalla gittata
sistolica, e di cederla successivamente, durante la diastole. Infine, il corrispettivo dell’ugello del Windkessel
è rappresentato dalle arteriole, che infatti sono dotate di una elevata resistenza idraulica. Il risultato sarà
pertanto un flusso di sangue continuo a valle delle arteriole, nonostante l’intermittenza dell’azione di pompa
del ventricolo sinistro. Quindi possiamo parlare anche qui di un funzionamento analogo a quello di un filtro
passa basso, con “filtrazione” delle fluttuazioni rapide di pressione dovute ai battiti, e come risultato
fluttuazioni più lente, molto vicine a un flusso stazionario.

39
Attenzione alla pronuncia: la w va letta alla tedesca come v (“vindkessel”) e non all’inglese come per la Wind.

211
Il paragone con un circuito RC in parallelo regge anche in ambito fisiologico, perché pur essendo aorta e
arteriole anatomicamente in serie, dal punto di vista della propagazione dell’aumento di pressione in sistole,
esso può andare a dissiparsi contemporaneamente dilatando l’aorta e guidando il flusso di sangue attraverso le
arteriole.
Per capire meglio il motivo per cui è importante che le arteriole abbiano elevata resistenza idraulica,
analizziamo due casi estremi: se avessero resistenza elevatissima, il flusso capillare sarebbe minimo (“goccia
a goccia”, cit. Silvani), e gli aumenti di pressione si esaurirebbero nella dilatazione dell’aorta; se avessero
resistenza bassissima non si avrebbe alcuna dilatazione dell’aorta, ma un flusso intermittente a livello capillare;
nessuna delle due situazioni è funzionale, pertanto affinché ci sia un funzionamento “a Windkessel” è
necessario un valore di resistenza idraulica delle arteriole elevato ma non elevatissimo.
Ricordiamo il significato di τ in questo contesto: come si osserva in figura per il circuito elettrico, un’onda
quadra di pressione correlata al battito cardiaco si traduce in un’onda che cresce e decresce in maniera
monoesponenziale, in relazione al valore della costante τ, che esprime le variazioni di pressione reali in aorta.
τ quindi è quell’intervallo di tempo necessario affinché il valore di ΔP raggiunga il 63% del ΔP massimo, o
viceversa decresca del 63% dal valore massimo.

Vantaggi dell’effetto Windkessel:


 l’aumento di pressione in aorta durante la sistole è smorzato dall’estensione elastica
dell’aorta stessa, e il consumo energetico del cuore rimane relativamente basso; se la parete
fosse rigida l’aumento di pressione sarebbe molto elevato, determinando un flusso attraverso le
arteriole pari al rapporto tra gittata sistolica e durata del battito; inoltre si andrebbe a determinare
un postcarico molto elevato per il ventricolo di sinistra, con conseguente regolazione omeometrica
della forza di contrazione e quindi gittata sistolica ridotta, oltre che un consumo energetico molto
elevato (vedi lavoro del cuore e legge di Laplace applicata); l’invecchiamento, alcune patologie

212
come il diabete mellito, e uno stile di vita non sano favoriscono la perdita di elasticità della parete
dell’aorta, portando al verificarsi dei fenomeni appena discussi;

 continuità di nutrimento dei tessuti anche in diastole; la pressione immagazzinata dalla


dilatazione dell’aorta viene rilasciata in diastole, e questo spiega il fatto che in diastole la pressione
in aorta non diminuisca drasticamente, ma anzi rimanga sufficientemente alta per garantire un
flusso di sangue nei capillari anche in questa fase, permettendo la continuità dei processi di
diffusione e filtrazione, quindi del nutrimento dei tessuti. Questo non succede, tuttavia, a livello
del circolo coronarico, come è analizzato nella tesina sul metabolismo cardiaco.

Complianza

∆V
Complianza =
∆P (transmurale)

Il concetto di complianza è utile per definire il comportamento dei vasi, ad esempio la dilatazione e
successivo ritorno elastico della parete dell’aorta come discusso sopra, ma se consideriamo i grafici pressione-
volume del ventricolo sinistro torna utile anche il concetto di elastanza, ovvero il reciproco della complianza,
che è costante quando la contrattilità è costante, e costituisce pertanto un buon indice di contrattilità in
condizioni sperimentali (in pratica il coeff. angolare della retta ESPVR).
Casi estremi:
 complianza nulla: e.g. un tubo rigido, che non varia di volume se aumenta la pressione, la quale
può aumentare per questo motivo teoricamente all’infinito; un esempio meno accurato è lo
pneumatico, la cui parete oppone una grande resistenza all’espansione, anche se la questione
cambia dato che nello pneumatico si inietta normalmente aria, fluido comprimibile, al posto di
liquidi, che sono incomprimibili;
 complianza infinita: e.g. un pallone bucato, se vi si inietta dell’acqua la pressione non sale, l’acqua
esce e il volume occupato dall’acqua può aumentare teoricamente all’infinito;
 complianza finita: sono finiti sia i valori di variazione di pressione sia quelli di variazione di
volume.

10.2. Polso arterioso centrale e periferico


È definita polso pressorio la differenza tra pressione sistolica (massima) e pressione diastolica (minima)
all’interno del vaso preso in considerazione. Il termine pressione differenziale è un sinonimo di polso
pressorio ed è forse più adeguato, perché dà un’idea del significato del parametro (cit. Silvani). Si parla di
“polso” pressorio perché, palpando la pulsazione di un’arteria, ad esempio la radiale al polso, essa sarà

213
funzione della differenza tra pressione massima e minima all’interno dell’arteria stessa, oltre che delle
caratteristiche di complianza della sua parete.
La pressione arteriosa media è definita come la media aritmetica dei valori di pressione in ogni istante,
nell’arco di un battito cardiaco.

Pressione massima, minima, media e differenziale hanno determinanti fisici diversi.

La pressione media dipende dall’equivalente idraulico della legge di Ohm:

∆P = F (portata del flusso) × R (resistenza)

Con ∆P intendiamo la differenza di pressione a monte e a valle; nel circolo sistemico a monte abbiamo l’aorta,
con valori di pressione che oscillano da 80 a 120 mmHg, e a valle le vene cave, dove a cuore fermo la pressione
venosa centrale è pari alla pressione media di riempimento, cioè 7 mmHg, mentre a cuore funzionante e
volemia normale è minore, compresa tra 0 e 7 mmHg. In atrio sinistro la pressione è leggermente maggiore di
quella in atrio destro, come discusso precedentemente.
Assumendo 100 mmHg come pressione media in aorta (Pa) e 5 mmHg come pressione media nelle vene cave
(Pvc), possiamo approssimare la ∆P a ca. 100 mmHg, potendo considerare trascurabile il valore di pressione
all’interno delle vene cave rispetto a quello in aorta. In poche parole possiamo concludere che ∆P ≅ Pa .40

Pertanto, riconsiderando l’equivalente idraulico della legge di Ohm, e sostituendo a ∆P la Pa , a Q la gittata


cardiaca (GC) e a R le resistenze vascolari periferiche (RVP):

𝐏𝐚 = 𝐆𝐂 × 𝐑𝐕𝐏
La pressione media in aorta dipende quindi unicamente dal prodotto della gittata cardiaca per le
resistenze vascolari periferiche, localizzate principalmente a livello delle arteriole.

La pressione differenziale è la differenza di pressione in aorta indotta durante la sistole. Essa dipende in
modo direttamente proporzionale (?41) dall’entità della variazione di volume all’interno dell’aorta (quindi
dalla gittata sistolica) e in modo indirettamente proporzionale dalla complianza della parete arteriosa. Ciò
significa che se la complianza è bassa (la parete dell’aorta è relativamente rigida) il polso pressorio è alto, a
parità di gittata sistolica; allo stesso modo, se cala la gittata sistolica cala anche il polso pressorio, a parità di
complianza. Precisazione: la variazione di volume all’interno dell’aorta non dipende solo dalla gittata
sistolica, ma anche da quanto sangue fluisce dall’aorta attraverso le arteriole (flusso arteriolare), pertanto

40
Il discorso dei valori è approssimativo, come si vedrà nei prossimi paragrafi la pressione arteriosa media non ha come
valore orientativo una media matematica di sistolica e diastolica, come qui pare.
41
Così nella sbob, non ricordo se Silvani abbia parlato effettivamente di rapporti di linearità vera e propria. Da Fisiologia
medica di Guyton & Hall: “Di fatto la pressione pulsatoria è determinata approssimativamente dal rapporto tra gittata
sistolica e compliance dell’albero arterioso. Qualsiasi condizione influenzi uno dei due fattori avrà effetti sulla pressione
pulsatoria: Pressione pulsatoria ≈ Gittata sistolica/Compliance arteriosa.” In effetti, quindi, si può parlare di rapporti di
linearità ma solo con una approssimazione (un’altra approssimazione fatta dal Guyton è che la variazione di volume sia
determinata solo dalla gittata sistolica, mentre non lo è).

214
bisogna considerare il bilancio fra il volume di sangue entrante e quello uscente; se il flusso nelle arteriole non
cambia, resta valida la correlazione tra gittata sistolica e pressione differenziale. Riassumendo, la pressione
differenziale dipende dalla variazione netta del volume arterioso e dalla complianza della parete aortica.

Pressione sistolica e pressione diastolica dipendono da tutti i fattori sopra citati, direttamente o
indirettamente, dal momento che entrambe dipendono direttamente dalla pressione media e dal polso
pressorio, ma indirettamente anche dalla gittata cardiaca e dalle resistenze vascolari periferiche (poiché da
esse dipende la pressione media), dalla complianza arteriosa e dalla variazione del volume arterioso (poiché
da essi dipende la pressione differenziale).

Riassumendo. La pressione media dipende unicamente dalla gittata cardiaca e dalle resistenze arteriose
periferiche. La pressione differenziale o polso pressorio dipende da complianza arteriosa e variazione del
volume ematico arterioso in un battito cardiaco (la quale a sua volta dipende dalla gittata sistolica e dal volume
di sangue che dalle arterie passa alle vene attraverso le arteriole). La pressione diastolica e sistolica
dipendono da tutte le variabili citate.

Complianza arteriosa ed età


La complianza è quindi una variabile importante nel
determinare il polso pressorio e, a cascata, nel determinare
anche pressione sistolica e pressione diastolica, che
dipendono sia dal polso pressorio sia dalla pressione media.
Il contributo preminente alla complianza arteriosa è dato
dalle fibre elastiche all'interno dell’aorta e delle
primissime porzioni del distretto arterioso, ed è importante
nell’effetto Windkessel.
La complianza delle arterie diminuisce al crescere
dell'età. Quando si invecchia (soprattutto se si invecchia
“male”, per fattori di rischio legati allo stile di vita come il
fumo di tabacco), l'elasticità dell'aorta e delle grandi arterie
diminuisce e l’effetto Windkessel funziona meno. Di
conseguenza, le variazioni di pressione associate alle fasi
di sistole e diastole in aorta sono più ampie e il flusso di
sangue a valle delle resistenze arteriolari non presenta più
un flusso continuo ma delle oscillazioni.
Il grafico illustra il modo in cui la complianza arteriosa
diminuisce con l’età.
In ascissa si ha la pressione (mmHg), in ordinata la variazione di volume nelle arterie durante la fase sistolica.
Un grafico di questo tipo si presta bene ad essere interpretato in termini di complianza perché la complianza è
definita come il rapporto tra la variazione di volume e la variazione di pressione (compliance = ∆𝑉⁄∆𝑃).
 La curva a si riferisce a soggetti giovani (20-24 anni): al crescere della pressione (variabile al
denominatore nella formula della complianza), la variazione di volume (variabile al numeratore) è
cospicua. Questo è indice di una complianza elevata. Anche nei soggetti più giovani tuttavia si può
osservare che la curva tende ad appiattirsi per valori di pressione particolarmente elevati. Il fatto che
la curva si appiattisca mostra che, benché sia alta in assoluto, quando la pressione arteriosa diventa
molto alta, la complianza tende a diminuire perfino in un soggetto giovane. Per comprendere in
maniera intuitiva questo fenomeno si prenda in considerazione un esempio pratico: se si comincia a
riempire d’acqua un palloncino, inizialmente esso offre una resistenza molto scarsa al riempimento.
La bassa resistenza si nota dal fatto che, assumendo che la pressione di ingresso sia costante, il
palloncino inizialmente è molto cedevole, si riempie in maniera molto rapida e questo è indice di una
complianza iniziale molto alta. Quando però il palloncino comincia ad essere molto pieno, le
componenti elastiche del palloncino cominciano a saturarsi, perdendo la loro capacità di stiramento.
A questo punto entrano in gioco le componenti di resistenza meccanica che sono molto meno
estensibili. Quindi quando il palloncino è molto pieno si fa più fatica a riempirlo, e per riempirlo
ulteriormente è necessaria una pressione molto maggiore di quella iniziale. Se si continua a riempire
il palloncino, esso a un certo punto scoppia. Questo accade perché, quando viene messa sotto sforzo
la componente di resistenza meccanica, essa può essere danneggiata. Quindi, quando ha una pressione

215
interna molto elevata, anche una struttura normalmente cedevole ed elastica come un palloncino o
come un’arteria, riduce la propria complianza.
 La curva e si riferisce a soggetti più anziani (71-78 anni): in assoluto essa è posta molto più in basso
della curva a e questo indica che, salvo che per valori di pressione bassissimi assolutamente non
fisiologici, la complianza arteriosa dell'anziano è molto minore di quella del giovane. In un
soggetto anziano anche il fenomeno trattato sopra (di saturazione per alti livelli pressori) è
ulteriormente accentuato: la curva si appiattisce per valori di pressione questa volta relativamente
bassi.
La complianza dunque diminuisce all'aumentare della pressione media sia nell’anziano che nel giovane, ma
nell'anziano tutto questo avviene in maniera estremamente più marcata. Questo chiaramente non è affatto
positivo, perché una riduzione della complianza implica che, a parità di variazione del volume arterioso
(ovvero a parità di gittata sistolica), si abbiano valori più alti di pressione differenziale (o polso sistolico).
Questo, in ultima analisi, implica un funzionamento meno efficiente del meccanismo del Windkessel che, fra
le altre cose, aiutava il ventricolo sinistro a lavorare in maniera più economica. La disfunzione porrà il
ventricolo sinistro sotto un maggiore sforzo, per due ragioni principali:
 esso dovrà lavorare a condizioni di postcarico (i.e. di pressione in aorta) più elevato;42
 esso dovrà anche lavorare in condizioni più svantaggiose dal punto di vista energetico dato che
l’aumento del lavoro pressorio causa un aumento del calore di tensione e non solo del lavoro esterno.

Calo della complianza all’aumentare della pressione media


Il fatto che la complianza diminuisca al crescere della pressione media nel giovane e ancora di più
nell'anziano è un punto sul quale è importante riflettere ulteriormente, per
le sue numerose implicazioni.
Nel grafico a lato in ascissa osserviamo la pressione (mmHg), in
ordinata il volume (N.B. Questa volta è riportato il volume, non la
variazione di volume!). Anche questo grafico si presta ad essere
interpretato in termini di complianza.
Si immagini una situazione in cui si sta lavorando attorno a due valori
di pressione media differenti: P̅2 e P̅5 , dove P̅5 > P̅2 . Per ciascuno di
questi livelli pressori, si vada a considerare la variazione di volume
arterioso (si parla di variazione di volume e non semplicemente di gittata
sistolica perché correttamente va considerato anche il flusso di sangue
attraverso le arteriole, in uscita dal sistema arterioso43).
 Nella condizione di lavoro a pressione relativamente bassa,
ovvero P̅2 , la variazione di volume arterioso è pari alla differenza
fra V2 e V1.
In queste condizioni, qual è il valore della pressione sistolica? Dal momento che si sta cercando il
valore di pressione massima, va considerato il valore V2, ovvero il valore di volume massimo che si

42
Domanda di uno studente. Perché diminuendo la complianza aumenta il post-carico? La complianza è uno dei
determinati del polso differenziale. Il ventricolo sinistro, all’apertura della semilunare, lavora contro la pressione che c’è
in aorta nel momento della diastole, ma presto la pressione aortica sale (per attività contrattile ventricolare), durante la
fase di eiezione rapida e lenta il ventricolo va contro pressioni progressivamente crescenti fino al valore massimale. Se la
pressione sistolica cresce progressivamente per la riduzione della complianza, allora lo sforzo che il ventricolo sinistro
deve fare nel corso della fase di eiezione andrà ad aumentare. Per questo motivo, un tempo, la fase di eiezione lenta e
rapida venivano chiamate fase di sistole auxotonica: nome che rimarca il fatto che le condizioni non sono isotoniche, ma
che si tratta di un post-carico crescente. (Effettivamente Silvani aveva inizialmente definito come post-carico
esclusivamente la pressione diastolica e non la sistolica, ma in questo caso sembra aver contraddetto quell’affermazione.
Da Handbook of Cardiac Anatomy, Physiology, and Devices: “il post-carico è molto spesso paragonato alla tensione di
parete ventricolare, che è anche considerata come la pressione che il ventricolo deve superare per eiettare un volume di
sangue attraverso la valvola aortica”).
43
I testi non sempre citano quest’ultimo punto e spesso lo stesso Silvani parla solo di gittata sistolica, nonostante abbia
precisato questo concetto numerose volte. Ripetiamolo; la variazione di volume arterioso dipende:
 dalla gittata sistolica, che tenderà ad aumentare il volume nel sistema arterioso;
 dal deflusso del sangue dalle arterie verso le vene (attraverso le arteriole) che tenderà invece a ridurre il volume
nel sistema arterioso.
Per semplificazione, molti testi considerano soltanto la gittata sistolica.

216
trova a livello del sistema arterioso in queste condizioni pressorie. Basta tirare un segmento orizzontale
fino a intersecare la curva di funzione, che è quella che descrive l'andamento della complianza (la
quale, come abbiamo già detto in precedenza, tende a cambiare all’aumentare della pressione).
Guardando il valore corrispondente in ascissa, ciò che si ottiene è P3, ovvero il valore di pressione
sistolica in queste condizioni.
In queste condizioni, qual è il valore della pressione diastolica? Il valore della pressione minima si
ottiene a partire da V1, ovvero il volume minimo contenuto nelle arterie, tirando un segmento
orizzontale fino alla curva di funzione e poi di nuovo ricavando il valore in ascissa corrispondente, P1.
Quindi in questo scenario si ha una variazione di volume arterioso V2-V1, un valore di pressione media
P2, una pressione diastolica P1, una pressione sistolica P3.
 Nella condizione di lavoro a pressione alta, ovvero P̅5 , la variazione di volume arterioso è pari alla
differenza fra V4 e V3. È fondamentale per questo ragionamento mantenere costante la variazione del
volume ematico arterioso (V4 – V3 = V2 –V1).
Siccome la funzione non è una retta, bensì una curva che si appiattisce per valori elevati di pressione,
quando si proiettano V3 e V4 sulla curva di funzione e si riportano poi in ascissa, si ottengono valori
di pressione diastolica di P4 e di pressione sistolica P6 più lontani tra di loro di quanto non fossero P1
e P3, cioè la pressione differenziale (o polso pressorio) è maggiore (nonostante la variazione di
volume sia la stessa).
La conclusione è che, a parità di differenza di volume arterioso, l’aumento della pressione arteriosa media
causa una diminuzione della complianza, che genera un aumento di pressione differenziale.
Il fatto che la pressione differenziale aumenti quando la pressione media è elevata, è in un certo senso un
dato atteso, perché quando si discute di pressione media elevata si sta ragionando su un sistema arterioso
“pieno”, che quindi fa fatica ad espandersi ulteriormente. Esso ha di conseguenza una complianza ridotta e
quindi la pressione differenziale (o polso pressorio) è più alta.
Le interazioni fra pressione sistolica e pressione diastolica devono dunque necessariamente includere dal
punto di vista interpretativo le relazioni causali fra la complianza e la differenza di volume arterioso, le
resistenze vascolari e la gittata cardiaca. Quindi discorsi quali “un aumento della pressione diastolica è causato
da un aumento delle resistenze vascolari” sono del tutto privi di fondamento. La fisiologia mostra appunto
come la pressione diastolica e la pressione sistolica dipendano da tutte le variabili prese in considerazione
finora (gittata cardiaca, resistenze vascolari periferiche, complianza arteriosa, variazione del volume ematico
arterioso…), per giunta con delle interazioni fra le variabili stesse (in particolare, quando aumenta la pressione
media la complianza diminuisce e questo si riverbera sulla pressione differenziale).

Pressione arteriosa: valori orientativi


N.B. Quelli proposti di seguito non sono valori di riferimento. I valori di riferimento sono i valori attorno ai quali il
sistema viene regolato, e non è questo il caso. Questi sono valori orientativi, che servono per orientarsi a scopo didattico
e dal punto di vista quantitativo.

Pressione arteriosa sistolica (massima) = 120 mmHg

Pressione arteriosa diastolica (minima) = 80 mmHg

Queste comportano:

Pressione arteriosa differenziale (Psistolica – Pdiastolica) = 40 mmHg

Pressione arteriosa media = 93 mmHg

È importante soffermarsi su quest’ultimo valore perché non è intuitivo. Intuitivamente, infatti, verrebbe da
pensare che la pressione arteriosa media sia la media aritmetica tra pressione sistolica e pressione diastolica, e
quindi:

Pmedia = (120+80) / 2 = 100 mmHg

Non è così. La pressione media in condizioni in cui Psistolica = 120 mmHg e Pdiastolica = 80 mmHg, ha infatti un
valore atteso di circa 93 mmHg. La spiegazione nasce dal fatto che l’onda della pressione non è una
sinusoide; se fosse tale, completamente simmetrica, allora effettivamente si potrebbe calcolare la pressione
media sulla base della media aritmetica del picco (Psistolica) e della valle (Pdiastolica). L’onda della pressione non

217
è una sinusoide; sulla base dell’elettrofisiologia, dell'accoppiamento eccitazione-contrazione e dello studio
delle pressioni e dei volumi delle camere cardiache si sa infatti che la sistole dura meno della diastole. Va
ricordato inoltre che la pressione media è definita come la media aritmetica dei valori di pressione in ogni
istante all'interno del ciclo cardiaco. Quindi quando si va a calcolare la pressione media, bisogna tener conto
che il tempo che la pressione passa vicino al suo valore massimo (o sistolico) è minore di quello che la
pressione passa vicino al suo valore minimo (o diastolico), perché la sistole dura meno della diastole: nel
calcolo bisogna considerare questa asimmetria. In uno scenario in cui si potesse effettuare una lettura di
pressione arteriosa istantanea, cioè con una frequenza di campionamento molto elevata, allora si potrebbe
calcolare la pressione media semplicemente seguendo la definizione, quindi calcolando la media aritmetica dei
valori per ogni lettura del sistema. Supponendo di disporre di un sistema che leggesse la pressione 1000
volte/secondo (quindi con una frequenza di campionamento di 1000 Hz), sarebbe possibile prendere tutte le
letture e calcolarne la media aritmetica. È chiaro che questo è uno scenario realizzabile solo in ambiti di ricerca,
non in condizioni ambulatoriali, perché servirebbe un catetere a dimora in un vaso arterioso. In condizioni
ambulatoriali non si possono misurare i valori di pressione in ogni istante, ma solo i valori di pressione massima
e minima con lo sfigmomanometro, tipicamente con la tecnica di Riva-Rocci. Ci si ritrova dunque a dover
stimare il valore della pressione media sulla base di solo due di questi valori; sono state proposte tante formule,
che sono tutte in un certo senso erronee, perché sono tutte degli estimatori e quindi non danno una risposta
esatta ma soltanto una buona stima, con un livello di approssimazione maggiore o minore.
La formula che si propone, anche in virtù della sua semplicità, è:

pressione differenziale
Pressione media = pressione diastolica +
3
Dal punto di vista empirico è una formula che funziona piuttosto bene e permette di calcolare la pressione
arteriosa media sulla base di pressione sistolica e diastolica (la pressione differenziale è la differenza fra le
due). Applicando quindi la formula:

40 mmHg
Pressione media = 80 mmHg + = 93 mmHg
3
Valori di pressione arteriosa e ipertensione
I valori citati finora sono per l’appunto appunto orientativi, poiché effettivamente la pressione arteriosa ha
valori molto variabili all’interno della popolazione.
Si faccia riferimento alle Linee guida per la gestione dell'ipertensione arteriosa stilate da una task force
congiunta della Società europea di cardiologia e della Società europea di ipertensione. Queste linee guida sono
un documento di riferimento nel settore, e tutto sommato è anche il documento più aggiornato (2018).
Nel paragrafo riportato si legge: “La relazione tra la pressione arteriosa (BP, blood pressure) e gli eventi
avversi cardiovascolari e renali è una relazione continua, il che rende la distinzione tra normotensione e
ipertensione, basata su dei valori soglia (cut-off) di valori di pressione, in qualche modo arbitraria.” Ciò
significa che un soggetto che abbia una pressione più bassa di un certo valore determinato non necessariamente
presenterà assenza di problemi cardiovascolari (allo stesso modo, in caso di pressione più alta di un valore ben
determinato, un soggetto non presenterà necessariamente problemi cardiovascolari). La relazione tra pressione
arteriosa aumentata e insorgenza di patologie cardiovascolari è infatti un continuum: più aumenta la pressione,
più aumentano i problemi cardiovascolari e renali. Non c'è un valore soglia che si possa utilizzare come
discriminante per distinguere persone con problemi cardiovascolari da persone che non hanno problemi
cardiovascolari. La mancanza di un valore soglia impedisce pertanto di definire in maniera assoluta e
scientifica il concetto di ipertensione. Se ci fosse un valore soglia definito esso potrebbe essere preso come
riferimento per determinare l'entità del rischio cardiovascolare e renale, ma tale valore non esiste.
Pur tuttavia, nella pratica clinica un valore soglia è necessario, perché il medico deve prendere delle decisioni
binarie (e.g., deve decidere se prescrivere una terapia anti-ipertensiva o meno). Nella pratica si utilizzano
dunque, per ragioni pragmatiche (semplificazione della diagnosi e decisioni sulla terapia), dei valori soglia,
nonostante il fatto che la relazione tra valore di pressione e rischio di malattie cardiovascolari e renali sia da
un punto di vista fisiopatologico continua.
Per rischio cardiovascolare si intende rischio di eventi cardiovascolari avversi, quali infarto, morte
improvvisa aritmica, ictus, eccetera. L’associazione epidemiologica tra valori di pressione e rischio
cardiovascolare parte da valori di pressione molto bassi, già da un valore di pressione sistolica maggiore di

218
115 mmHg (un valore addirittura inferiore a quello da noi considerato come valore orientativo). Ciò non vuol
dire che in presenza di questi valori pressori si possa parlare di ipertensione.
L'ipertensione è un livello di pressione al quale i benefici della terapia (terapia può essere intesa sia come
interventi sullo stile di vita – smettere di fumare, fare
attività fisica, seguire una dieta iposodica – sia come
somministrazione di farmaci) senza dubbio superano
i rischi del trattamento. È chiaro che una definizione
di questo tipo con la fisiologia ha poco a che fare: ha
infatti a che fare con il rapporto costo-beneficio delle
terapie e ha un valore prettamente clinico, non
tecnico44.
I vari valori di pressione vengono classificati in base
al rapporto costo-beneficio delle terapie antipertensive
e non hanno dunque niente a che fare con la fisiologia:
 I valori di pressione ottimale secondo le
Linee guida sono:
- pressione sistolica < 120mmHg;
- pressione diastolica < 80mmHg.
Tali valori sono considerati ottimali perché sono quelli caratterizzati dal minimo rischio
cardiovascolare.
 I valori di pressione normale:
- 120mmHg < pressione sistolica < 129mmHg;
- 80mmHg < pressione diastolica < 84mmHg.
 I valori di pressione normale alta :
- 130mmHg < pressione sistolica < 139mmHg
- 85mmHg < pressione diastolica < 89mmHg
 Si comincia a parlare di ipertensione di grado 1 per valori pari a:
- pressione sistolica > 140mmHg e/o
- pressione diastolica > 90mmHg.
 Si hanno poi un’ipertensione di grado II e III, caratterizzati da valori ancora più elevati.
Ripetiamo ancora (repetita iuvant!): la domanda “qual è il valore fisiologico della pressione arteriosa?” è una
domanda senza senso. Per affrontare l'argomento in termini corretti bisogna fare riferimento alle linee guida
più recenti, tenendo presente che si tratta di valori di utilità clinica (basati su evidenze empiriche), ma che non
hanno alcuna valenza da un punto di vista strettamente formale.

Qualche nota sul rischio cardiovascolare


La grande attenzione data in questo corso al controllo cardiovascolare e al ruolo della pressione arteriosa
dipende da un paio di ragioni:
1. La prima ragione, di gran lunga preminente nel determinare questo approccio, è che l’ipertensione
arteriosa è una condizione estremamente diffusa. Sulla base dei valori di pressione arteriosa
misurati in ambulatorio medico (gli anglosassoni chiamano questi valori office blood pressure):
a. la prevalenza globale dell'ipertensione è stata stimata a 1,13 miliardi di persone nel 2015, con
una prevalenza di più di 150 milioni di persone in Europa centrale e dell’est;
b. la prevalenza complessiva negli adulti è circa il 30-45% dell’intera popolazione, quindi si
tratta di una percentuale altissima di persone (queste percentuali aumentano ulteriormente
all’aumentare dell'età).
Questi dati sono importanti perché l’ipertensione è il principale fattore di rischio per la mortalità
cardiovascolare, che a sua volta è in assoluto la prima ragione di mortalità a livello globale.
Chiudendo il cerchio, per proprietà transitiva si può affermare quindi che l'ipertensione arteriosa è il
principale fattore di rischio per l’accorciamento della durata della vita a livello globale: non si tratta

44
Non è possibile determinare un valore fisiologico della pressione arteriosa. Non si può quindi ad es. considerare il
valore di pressione sistolica di 120mmHg come un valore di riferimento perché, come già detto, non esiste un valore di
riferimento: il nostro organismo regola la pressione sulla base delle necessità metaboliche e comportamentali
dell'organismo stesso e in più c’è una grande variabilità interpersonale.

219
di un problema marginale che colpisce pochi soggetti, si tratta del problema principale che colpisce il
maggior numero di persone in assoluto, perciò è importante che un medico abbia ben chiara la
fisiopatologia dell’apparato cardiovascolare.
2. La seconda ragione è che buona parte dell’attività di ricerca del prof. Silvani è dedicata proprio al
controllo autonomico dell’apparato cardiovascolare. 

Qualche nota sul NSBP


Si può misurare la pressione arteriosa utilizzando macchine automatizzate che rilevano la pressione di notte
mentre il soggetto dorme, calcolando i valori notturni di pressione arteriosa (NSBP, Nocturnal Systolic Blood
Pressure). Si tratta di una pratica di routine piuttosto diffusa in Italia, per quanto non sia così diffusa come la
misurazione ambulatoriale di giorno.
Ci sono studi che hanno confrontato il valore predittivo dei valori notturni con il valore predittivo di quelli
diurni, e c'è una crescente evidenza che dimostra che il valore predittivo del rischio cardiovascolare dei valori
di pressione misurati durante il sonno notturno è molto più alto. Il modo migliore per predire il rischio
cardiovascolare è dunque quello di misurare la pressione di notte tramite i dispositivi automatici.
Le raccomandazioni dell’OMS non sono ancora di misurare la pressione di notte a tutti: si raccomanda di
farlo solo in certi casi, anche se la casistica diventa sempre più espansa, man mano che si aggiornano le edizioni
delle linee guida. In un futuro non lontano probabilmente la misurazione notturna della pressione diventerà la
norma.

Onde sfigmiche, polso pressorio centrale e periferico


Una volta affrontato il polso pressorio, si può discutere delle differenze che ci sono tra polso pressorio
centrale e polso pressorio periferico, ma per fare ciò bisogna introdurre il concetto di onda sfigmica.
Il polso pressorio (o pressione differenziale) è definito come la differenza tra pressione massima (sistolica) e
pressione minima (diastolica). Finora questo concetto è stato applicato a quello che accade in aorta,
considerano il polso pressorio in stretta relazione con il fenomeno del Windkessel. La pressione arteriosa
differenziale in aorta corrisponde al polso pressorio centrale. In linea di principio, però, lo stesso approccio
si può applicare anche a vasi arteriosi più periferici. Di fatto, lo stesso nome polso pressorio origina dalla prassi
di palpare le pulsazioni dell'arteria radiale, proprio a livello del polso anatomico. Le pulsazioni palpabili a
livello dell’arteria radiale sono determinate anch’esse infatti da differenze di pressione, ma si tratta di
differenze di pressione che si trovano nell’arteria radiale stessa, e non in aorta. Quindi con polso pressorio
periferico si ci riferisce alla pressione arteriosa differenziale all’interno dei vasi periferici.
Che relazione c'è tra il polso pressorio centrale e il polso pressorio periferico? Il polso pressorio è sempre
uguale o dipende dalla localizzazione in cui viene misurato? Per rispondere a queste domande bisogna
introdurre il concetto di onda sfigmica.
Per introdurre il concetto di onda sfigmica è utile prima di tutto fare un esperimento mentale. Supponiamo di essere in un
giardino e di dover innaffiare il giardino. Per innaffiare il giardino si ha a disposizione una lunga pompa, ovvero un lungo
tubo di plastica connesso ad un rubinetto grosso abbastanza per generare una pressione importante. Il rubinetto viene
aperto. Se l'esperimento mentale sta riuscendo, allora probabilmente si immaginerà che il tubo serpeggi un po' prima che
ci sia il primo fiotto d'acqua che fuoriesce dall’ugello della pompa. In altre parole, il fatto che stia arrivando dell'acqua ad
alta pressione dal rubinetto che sta riempiendo il tubo fa muovere il tubo stesso, lo fa serpeggiare un po', e solo
successivamente l'acqua comincia ad uscire dall’ugello della pompa. Che cosa è successo?
1. L'onda di pressione generata dall'acqua che è uscita dal rubinetto ed è entrata nella pompa si è trasferita rapidamente
mettendo in tensione la prima porzione del tubo, generando quindi un aumento di pressione locale a livello della
pompa.
2. Quella pressione locale si è trasmessa molto velocemente lungo la parete del tubo determinando uno spostamento
anche del tubo stesso, fino ad arrivare alla punta.
La velocità con cui l'aumento di pressione si è trasmesso lungo il tubo, e quindi la velocità di propagazione dell'aumento
di tensione di parete ad esso associato, è stata molto superiore alla velocità con cui l'acqua fluiva all'interno del tubo
stesso. Questa è la ragione per cui prima il tubo si muove e solo successivamente l'acqua fuoriesce dal tubo. 45

Traslando l’esempio alla fisiologia:


 il momento in cui si apre il rubinetto di colpo, corrisponde alla fase di eiezione rapida, momento in cui
si ha un aumento di pressione rapido e vigoroso all'interno dell’aorta;

45
Gli esempi strani di Silvani sono utili per capire i concetti, ma ovviamente è meglio non citarli all’esame, perché è un
esame di fisiologia e non di fisica applicata XD.

220
 l’aumento di tensione nella prima porzione della parete dell’aorta genera un’onda pressoria, detta
appunto onda sfigmica, che si propaga in periferia verso le arteriole;
 la velocità con cui quest’onda pressoria si propaga è molto superiore alla velocità con cui fluisce il
sangue. Perciò l’onda pressoria arriva in periferia molto prima di quanto non arrivi in periferia il
sangue che è stato eiettato durante la sistole.

Quando si palpa il polso a livello dell’arteria radiale, dunque, l’espansione che si percepisce in realtà non
indica l’arrivo di una porzione di ciascuna gittata sistolica, bensì l’arrivo dell’onda sfigmica che si è
propagata lungo le pareti vascolari cominciando dall’aorta: il flusso di sangue corrispondente arriverà solo
in un secondo momento (N.B. Il flusso di sangue diventa continuo solo a valle delle arteriole per effetto del
Windkessel. A monte è presente ancora una discontinuità, che però diventa sempre più smorzata man a mano
che ci si sposta verso la periferia). Il punto fondamentale è che quando si palpa il polso pressorio non si palpano
boli di sangue che vengono pompati uno dopo l’altro, bensì onde pressorie che arrivano l’una dopo l’altra.
Questo è importante perché spiega come mai l’onda di pressione può cambiare aspetto dal centro alla
periferia; come tutte le onde, anche l’onda sfigmica può andare incontro a riflessioni oppure a fenomeni di
sommazione con onde che vengono riflesse, e quindi assumere forme che originariamente non erano presenti.

Un altro aspetto che merita di essere considerato è la velocità con cui l'onda sfigmica si propaga. La velocità
è tanto maggiore quanto maggiore è la rigidità della struttura che fa propagare l'onda. Se l'onda si
propaga lungo segmenti vascolari che sono più rigidi e quindi meno complianti, essa procede più velocemente.
Nel caso per esempio di un soggetto anziano, magari fumatore, l’onda si propaga in vasi che sono tutti meno
complianti e quindi si propaga più velocemente rispetto a quanto farebbe nei vasi di un giovane.
L'insieme di cambiamenti della velocità di propagazione dell'onda sfigmica legati alla diversa rigidità dei
segmenti vascolari e di sommazione delle onde che vengono riflesse (ad ogni biforcazione del letto vascolare)
produce dei cambiamenti delle forme d’onda man mano che si va in periferia.
I valori numerici riportati nel grafico sulla destra sono quelli riferiti a pressione massima e pressione minima
(al di là dell’argomento specifico, riguardo al discorso fatto prima sull’ipertensione, nota che i valori riportati
appartengono ad un soggetto che è già francamente
iperteso, con un valore di pressione sistolica di circa 160
mmHg e di pressione diastolica di circa 90 mmHg).
A livello dell’arco aortico sono visibili nella forma
dell’onda:
 un considerevole e rapido aumento di pressione,
che corrisponde alla fase di eiezione rapida;
 un leggero calo dell’aumento di pressione che
corrisponde alla fase di eiezione lenta;
 un’incisura che rappresenta un effetto meccanico,
una vibrazione dovuta alla chiusura della valvola
semilunare aortica;
 un successivo calo continuo della pressione, segno
del fatto che si è entrati in fase di diastole (è
importante notare che la fase di calo pressorio,
corrispondente alla diastole, è molto più lunga di quella corrispondente ai picchi pressori, che sono
dovuti alla sistole).
A livello della porzione inferiore dell’aorta addominale l’onda sfigmica diventa molto più stretta. La
pressione sistolica aumenta, raggiungendo un valore di 173 mmHg, mentre la pressione diastolica cala,
assumendo un valore di 86 mmHg.
Man mano che si ci sposta in distretti corporei più distanti (arteria iliaca, ginocchio, caviglia), aumenta
sempre più la pressione differenziale: la pressione sistolica risulta molto più alta di quella dell’arco aortico,
mentre la pressione diastolica è più bassa di quella dell’arco aortico.
L’equivalente idraulico della legge di Ohm insegna che, man mano che il flusso prosegue, la pressione si
dissipa. Questo perché, se la resistenza idraulica non è nulla, allora il ∆P viene dissipato dal flusso. Quindi ci
si aspetta che la pressione diminuisca man mano che si prosegue verso il letto vascolare e che ci si allontani
dall’aorta, ed effettivamente le resistenze periferiche fanno diminuire la pressione arteriosa, che crolla a livello
delle arteriole. La pressione, bassa nel letto capillare, cala ulteriormente a livello dei vasi venosi ed infine
raggiunge un valore di 0-7 mmHg nelle vene cave. Tutto questo è corretto, ma attenzione! In questo

221
ragionamento non ci si sta riferendo alla pressione del flusso di sangue, bensì al valore istantaneo massimo
dell’onda di pressione che si propaga lungo la parete del vaso. Il fatto che questa pressione aumenti dipende
dalla sommazione dell’onda di pressione che procede lungo il letto vascolare con le onde che man a mano si
sono riflesse ad ogni biforcazione del letto arterioso. In ogni caso, poiché non si genera energia “dal nulla”, si
osserverà di rimando un calo della pressione diastolica.
Normalmente la pressione si misura a livello dell’arteria brachiale, dove i valori pressori sono pari a quelli
riscontrati in aorta, ma se si misura la pressione non a livello dell’arteria brachiale ma in posizioni periferiche,
come per esempio a livello della loggia poplitea oppure a livello dell’arteria pedidia, allora ci si aspetta di
trovare una pressione sistolica maggiore rispetto all’aorta o all’arteria brachiale. Quindi, dal momento che si
misurano gli effetti dell’onda sfigmica sulle pareti del vaso (e non gli effetti del flusso di sangue), più si va in
periferia, più ci si aspetta un aumento della pressione sistolica e un calo della pressione diastolica.
Ricapitolando, l’onda sfigmica dipende dalla propagazione della tensione lungo la parete dei vasi (non dal
flusso di sangue) e cambia forma man mano che si procede in periferia (polso arterioso centrale ≠ polso
arterioso periferico). Tali cambiamenti sono diversi, ma ricordiamo principalmente, l’aumento della
pressione sistolica e la diminuzione della pressione diastolica.46

Tutto ciò è di interesse medico in quanto è possibile utilizzare questi concetti per predire in maniera migliore
il rischio cardiovascolare nei pazienti.

Qualche articolo

Prendiamo in considerazione un position paper di un gruppo di lavoro della Società europea di cardiologia
sulla circolazione periferica, pubblicato nel 2015 sulla rivista Atherosclerosis: si ricerca se un intervento sullo
stile di vita, oppure la somministrazione di una certa dose di farmaco riducano o meno il rischio
cardiovascolare dei pazienti. Il modo migliore e più sicuro per saperlo sarebbe somministrare il farmaco e
aspettare dieci/vent'anni che i pazienti muoiano, e quindi vedere se effettivamente l'incidenza di eventi
cardiovascolari avversi è aumentata o no, se la causa di morte cardiovascolare è stata la prevalente oppure no.
Questa metodologia, però, non è pratica, per cui la cosa migliore sarebbe avere un endpoint surrogato da
poter utilizzare come sostituto (il primo è un endpoint clinico). Per poter essere considerato tale, il marcatore
deve soddisfare diversi criteri (non approfonditi): i biomarcatori che soddisfano la maggior parte dei criteri e
che sono stati proposti come ottimali marcatori surrogati clinici sono l’ultrasonografia carotica, l’indice
caviglia-braccio (Ankle-Brachial Index, ABI) e la velocità dell'onda sfigmica tra arteria carotide e arteria
femorale.

“In soggetti sani, i valori sistolici di pressione arteriosa sono fisiologicamente più elevati nelle estremità
inferiori rispetto alle braccia: è un effetto combinato delle riflessioni dell'onda sfigmica e della loro
amplificazione, così come dei cambiamenti dello spessore della parete vascolare attribuiti alla pressione
idrostatica.” L'unico punto sul quale non si è già discusso è quello legato alla pressione idrostatica: la
pressione all'interno dei vasi delle gambe è aumentata rispetto a quella delle braccia perché c'è una colonna di
sangue che li separa dal cuore e che ne aumenta la pressione idrostatica. I vasi rispondono adattandosi e
generando una parete un po' più rigida per riuscire a compensare questo aumento di pressione idrostatica legato
alla postura. Negli arti inferiori la rigidità della parete è dunque maggiore e questo rende la propagazione
dell'onda sfigmica differente.
La relazione tra i valori di pressione sistolica degli arti inferiori rispetto ai superiori può essere quantificata
dal rapporto della pressione sistolica misurata a livello della caviglia e quella misurata a livello del braccio,
tramite l’ABI (cioè il indice caviglia-braccio, rapporto tra pressione sistolica alla caviglia e pressione sistolica
al braccio). Una riduzione di questo rapporto significa che qualcosa non sta funzionando nei vasi sanguigni
che arrivano alla caviglia, i quali potrebbero essere “otturati” per fenomeni di aterosclerosi47. Inizialmente

46
Ho trovato una sintesi del fenomeno nel testo Handbook of Cardiac Anatomy, Physiology, and Devices: “La velocità
dell’onda pressoria avanzante durante ciascun ciclo cardiaco supera di molto l’effettiva velocità del flusso ematico.
Nell’aorta, la velocità dell’onda pressoria potrebbe essere 15 volte più grande di quella del flusso del sangue. In un’arteria
terminale, la velocità dell’onda pressoria potrebbe essere più di 100 volte maggiore rispetto a quella del flusso ematico.
Man mano che l’onda pressoria si muove in periferia lungo l’albero arterioso, fenomeni di riflessione, rifrazione e
interferenza distorcono la forma d’onda pressoria, causando un aumento della pressione sistolica e del polso pressorio.”
47
Attenzione alle definizioni di ateroscelerosi e di arteriosclerosi:
 aterosclerosi: è problema della tonaca intima, presenza di “incrostazioni” sulla superficie interna dei vasi;

222
questo indice veniva quindi misurato per fare diagnosi di ateropatia periferica ostruttiva, ma in seguito si è
capito che, essendo l'aterosclerosi una patologia sistemica (ossia, se è presente a livello delle arterie degli arti
inferiori allora facilmente sarà presente anche altrove come nelle arterie coronarie), che l’ABI è un ottimo
marcatore (o indicatore surrogato clinico) di prognosi cardiovascolare.

Prendiamo in esame un altro articolo, pubblicato nel 2012 su Circulation: “Measurement and Interpretation
of the Ankle-Brachial Index: A Scientific Statement From the American Heart Association”.
(Nota. Per la misura della pressione a livello della caviglia viene utilizzato un bracciale attorno alla caviglia
e anziché utilizzare lo stetoscopio come si fa attualmente nel braccio, si utilizza una sonda eco-doppler.)
L’indice caviglia-braccio è, come abbiamo detto, il rapporto della pressione sistolica misurata alla caviglia
rispetto a quella misurata a livello della arteria brachiale: esso è atteso maggiore di 1 (valori di riferimento tra
1.11 e 1.20), perché l’onda sfigmica va incontro a cambiamenti in periferia e di conseguenza il polso periferico
è diverso da quello centrale. Quando l’indice è minore di 1 significa che la pressione sistolica nella caviglia è
più bassa di quella del braccio: fisiologicamente l’onda sfigmica dovrebbe andare incontro a cambiamenti e
quindi portare ad un aumento della pressione sistolica in periferia, ma se ciò non accade significa che c'è
un’ostruzione parziale delle arterie che portano il sangue fino alla caviglia. Inoltre, se c'è un’ostruzione a quel
livello è facile che ci sia un’ostruzione anche altrove, come ad esempio nelle coronarie. Il rischio di patologia,
dunque, cresce progressivamente con l’abbassamento dell’indice caviglia-braccio.

In base alle nostre conoscenze potremmo predire che nei soggetti sani maggiore sarà l’altezza, maggiore sarà
la distanza che l’onda sfigmica deve percorrere dal cuore, maggiore sarà l'aumento della pressione sistolica
dell’onda sfigmica periferica; questa è una predizione corretta. C'è infatti una correlazione diretta tra l'altezza
del soggetto e l’ABI, che risulterà più alto in soggetti più alti, in quanto l’onda sfigmica avrà più tempo per
andare incontro a quelle riflessioni/sommazioni e percorrere più a lungo i vasi che hanno un maggiore spessore
di parete (negli arti declivi).

Ritornando al position paper della Società europea di cardiologia, l’ultimo indice citato (oltre
all’ultrasonografia delle carotidi, che non consideriamo, e all’ABI, che abbiamo già analizzato) è quello della
velocità dell'onda sfigmica tra arteria carotide e arteria femorale, ossia la velocità dell'onda sfigmica
mentre viaggia dal cuore alla carotide e alla femorale. La velocità dipende ovviamente dalla rigidità del mezzo.
Non è possibile misurare la pressione a livello dell'aorta, ma è possibile conoscere l’inizio dell'evento
elettrico grazie ad un elettrocardiogramma e quindi sapere in quale momento avviene l’eccitazione del
miocardio. Inoltre si può misurare l'arrivo del onda sfigmica a livello di distretti periferici, quali appunto
l’arteria femorale (che è palpabile nell'inguine) e la carotide (palpabile sul collo): preferibilmente non si utilizza
la palpazione ma delle sonde Doppler, le quali ci permettono di misurare in maniera precisa sia i tempi che la
distanza. Da qui si stima la velocità. La velocità dell'onda sfigmica cambia a seconda del tipo di vaso e in

 arteriosclerosi: problema della tonaca media che provoca l’irrigidimento arterioso, di conseguenza la
complianza cala; è legata all'invecchiamento normale o accelerato (e.g., dal fumo). Siccome le onde viaggiano
più velocemente in un tubo rigido, la diminuzione della complianza determina un aumento della velocità
dell’onda sfigmica, che segnala dunque un problema di arteriosclerosi. Fattori di rischio cardiovascolari come
fumo, una dieta sbagliata, mancanza attività fisica, alterano la composizione e le proprietà meccaniche delle
pareti arteriose rendendole meno complianti.

223
particolare aumenta in funzione della rigidità delle arterie (e.g., l’aorta ascendente, che ha una complianza
elevata, presenta una velocità dell’onda pressoria di 4-5 m/s; l’aorta addominale, con una complicanza minore,
di 5-6 m/s; le arterie femorali iliache, con una complienza ancora minore, di 8/9 m/s; a valle dell'arteria
femorale ci sono arterie più piccole, ancora più rigide, in cui la velocità sale ancora). In conclusione, un’onda
sfigmica più veloce del normale è segno di irrigidimento dei vasi e dunque di arteriosclerosi.

10.3. Funzioni dei vasi linfatici


Per un’analisi accurata dei vasi linfatici si faccia riferimento all’anatomia. Si riportano qui solo alcune
informazioni di carattere fisiologico particolarmente rilevanti.

I vasi linfatici:
 sono vasi a fondo cieco con valvole unidirezionali che permettono il flusso di linfa in senso
centripeto;
 la contrazione di strutture esterne, come vasi arteriosi (per l’onda sfigmica) o maggiormente la
contrazione muscolare, svuota il contenuto dei vasi linfatici nei vasi linfatici successivi (in senso
centripeto), mentre durante il rilassamento i vasi possono riempirsi dall’interstizio: questa modalità
permette una propulsione della linfa nonostante la mancanza di una pompa intrinseca al sistema;
 permettono il riassorbimento di 2-4 litri di linfa al giorno, un volume importante rispetto al volume
dei fluidi corporei come quelli nel compartimento intravascolare, e 200 grammi di proteine, che se
confrontato con la concentrazione ematica delle proteine si tratta di un valore molto elevato;
 hanno un ruolo centrale nella sorveglianza immunitaria.

Il grafico di lato presenta in ascissa la pressione interstiziale, in ordinata il flusso relativo di linfa (dove il
valore 1 rappresenta il flusso minimo). Al crescere della pressione aumenta il flusso, ma per valori di
pressione interstiziale elevati il flusso raggiunge il proprio valore massimale. La pressione interstiziale nei
tessuti lassi è circa 0 (in realtà è leggermente subatmosferica,
-1/-2 mmHg, perché i vasi linfatici esercitano una suzione
grazie ai meccanismi valvolati); nell’interstizio l’acqua è
sotto forma di gel e tende a mantenere bassa la complianza,
cosicché piccoli aumenti dell’acqua interstiziale (volume)
portano a considerevoli aumenti di pressione, i quali si
oppongono al flusso d’acqua verso l’interstizio stesso.
Ulteriori aumenti di acqua interstiziale però alterano la
componente proteoglicanica del gel, con conseguente
aumento della complianza: ad ulteriori aumenti di volume
non corrispondono aumenti di pressione tali da bloccare il
flusso in ingresso di acqua. Il risultato è un accumulo di acqua
libera a livello interstiziale, meglio noto come edema.

Nota. I vasi linfatici non sono presenti nella cartilagine, nell’osso, negli epiteli, e nel SNC (tranne che a
livello delle meningi, dove sono stati recentemente identificati).

10.4. Funzioni delle arteriole


Le arteriole si diramano in vasi di ordini successivi diversi (da un raggio di circa 30 μm ad uno di 5 μm) fino
ai capillari, ancora più piccoli, i quali convergono in una rete di venule via via più grandi.

Riguardo alle arteriole bisogna citare a livello morfologico due fatti:

224
 esistono shunt artero-venosi, ossia dei vasi
specializzati che connettono direttamente arteriole di
calibro relativamente grande a venule di circa lo stesso
calibro e permettono di bypassare i capillari. Sono nella
cute e nelle estremità come le orecchie, il padiglione
auricolare, i polpastrelli: sono funzionali a ridurre il
flusso ematico periferico quando si vuole, per esempio,
salvaguardare il controllo della temperatura corporea;
 esistono metarteriole, da cui si staccano dei vasi che si
portano al letto capillare e la cui irrorazione è regolata
da sfinteri precapillari, cioè degli ispessimenti del
rivestimento muscolare delle arteriole con cellule
muscolari lisce organizzate in modo circonferenziale.
Queste possono perfino bloccare il flusso di sangue che
arriva al capillare. Se lo sfintere è chiuso, la
metarteriola funziona come shunt artero-venoso,
mentre se aperto il flusso va normalmente verso i
capillari. Studi recenti dimostrano che le metarteriole
non sono affatto una componente universale del
microcircolo, ma sono un fattore funzionalmente
importante solo a livello del circolo mesenterico.

Sappiamo che la pressione sanguigna dipende dalle


resistenze, in particolare quelle a livello delle arteriole: qui
infatti la pressione, che parte da valori elevati in aorta, crolla.
Nel grafico si evince una pressione oscillante legata a ciò che
avviene nel ventricolo sinistro: i valori sistolici sono intorno a
120-130 mmHg. La pressione oscilla all'interno del letto
arterioso (onda sfigmica) e questo andamento di pressione, se
ci riferiamo non alla conservazione della trasmissione lungo la parete ma a quello che guida il flusso di sangue,
cala progressivamente nel tempo.
L'oscillazione della pressione dipende dal fatto che l'onda di
pressione si propaga lungo tutta la parete: questo è dissociato dal
flusso di sangue all'interno dei vasi, nel senso che il flusso di
sangue è spinto indubbiamente dalla pressione, ma procede
molto più lentamente dell’onda sfigmica. La pressione cala
progressivamente lungo il letto vascolare per la presenza delle
resistenze, dissipandosi in pratica come attrito (i.e., forma di
calore). Il valore della pressione è oscillante fino alle arteriole:
le fluttuazioni vengono poi meno per il fenomeno del
Windkessel e il flusso diventa continuo.
La minima pressione
si raggiunge a livello
delle vene cave (qui
segnalata 3 mmHg, in
generale tra 0 e 7).
Ricorda dal primo
semestre: la resistenza
maggiore al flusso ematico è opposta dalle arteriole e non dai capillari,
in quanto i capillari hanno una maggiore componente in parallelo
rispetto alle arteriole, nelle quali prevale invece l’organizzazione in
serie.

Chiaramente se c'è una vasocostrizione arteriolare la pressione


cambia: la resistenza aumenta e il crollo della pressione a livello
arteriolare sarà graficamente più ripido (curva verde). Al contrario una

225
vasodilatazione arteriolare (curva viola) causa una diminuzione della resistenza vascolare e il crollo della
pressione sarà graficamente meno ripido.

Un punto rilevante è che i capillari glomerulari renali hanno una maggiore pressione idrostatica, perché
hanno a monte una minore resistenza vascolare: la pressione idrostatica dei capillari sistemici vale circa 30-35
mmHg mentre nei capillari glomerulari vale circa 60 mmHg (il doppio). Ciò avviene perché la pressione che
viene portata ai capillari glomerulari origina nell'aorta, come quella dei sistemici, ma a monte di questi ci sarà
una resistenza un po' più bassa rispetto a quella che c'è a monte dei capillari non glomerulari. Questo è
fondamentale perché i capillari renali sono specializzati nell’ultrafiltrazione, che a sua volta, per l’equilibrio
di Starling-Landis, dipende dalla pressione idrostatica.

10.5. Legge di Laplace applicata ai vasi

𝝉≅𝑷∙𝒓
L’unica cosa che manca rispetto alla legge di Laplace applicata al cuore (alla quale questa formula è analoga),
è il contributo dello spessore, in quanto lo spessore della parete ventricolare è rilevante mentre quello di un
vaso è molto piccolo e quindi sostanzialmente trascurabile.
La legge spiega in pratica perché i vasi capillari non scoppiano nonostante la loro parete sia costituita da un
singolo strato di cellule endoteliali, una esile membrana basale e nonostante dentro ci sia un valore di pressione
non indifferente (30-35 mmHg o nel caso dei capillari glomerulari addirittura 60 mmHg): la pressione infatti
è elevata, ma il raggio è molto piccolo, per cui la tensione a cui è sottoposta la parete (ossia il prodotto della
legge di Laplace) è un valore basso.

10.6. Regolazione del flusso capillare


I capillari vengono classificati, in base alla facilità con cui le sostanze presenti nel sangue o nel liquido
interstiziale passano attraverso l’endotelio, in:
 capillari continui: presenti in tessuti quali encefalo, polmone e muscolo scheletrico, in cui giunzioni
serrate, che caratterizzano questo tipo di capillare, regolano finemente (al limite impediscono), il flusso
paracellulare di acqua e soluti fra un cellula endoteliale e l’altra;
 capillari fenestrati: presenti in rene, intestino, plessi corioidei; caratterizzati da fenestrature attraverso
le quali passano soluti con dimensioni di gran lunga superiori a quelli che passano attraverso le
giunzioni dei capillari continui;
 capillari discontinui: presenti in fegato, milza, midollo osseo; sono caratterizzati da aperture che
permettono il passaggio di soluti di grosse dimensioni e, in alcuni casi, anche di cellule.

Il flusso di soluto transcapillare avviene principalmente attraverso la diffusione, seguendo la legge di Fick,
pertanto le variabili da considerare sono permeabilità, superficie e ΔC (differenza di concentrazione di soluto
tra capillare e interstizio)48. Per aumentare il flusso si potrebbe aumentare la permeabilità, cioè aggiungere
trasportatori (fenomeno che potrebbe avvenire soltanto a lungo termine), oppure modificare la superficie:
quest’ultimo caso può essere possibile grazie all’apertura di più capillari, secondo il fenomeno di
reclutamento capillare. Nel muscolo scheletrico a riposo infatti solo il 20% dei capillari è perfuso: le
arteriole a monte di questi capillari sono, in condizioni in cui il muscolo è a riposo, in uno stato di elevata
vasocostrizione, il che implica uno stato di (quasi) obliterazione del lume arteriolare e un aumento della
resistenza, con conseguente riduzione del flusso a valle, che raggiunge valori bassissimi (nell’80% dei capillari
non perfusi sono inclusi sia i capillari che non ricevono alcun tipo di flusso ematico sia quelli che ne ricevono
così poco da essere irrilevante). Questa percentuale aumenta durante l’esercizio fisico grazie proprio al
reclutamento capillare, che porta a un aumento della superficie complessiva dei capillari perfusi quando il
muscolo è in esercizio. Questa superficie corrisponde alla S della legge di Fick della diffusione: maggiore è la

48
Legge di Fick: J = PSΔC.

226
superficie dei capillari, maggiore sarà la capacità delle sostanze che sono al loro interno di uscire dai capillari
(per via paracellulare o per passaggio transcellulare).
Il flusso di sostanze avviene principalmente per diffusione, mentre quello di acqua principalmente per
filtrazione/riassorbimento secondo l’equilibrio di Starling-Landis. Nel momento in cui la diffusione ha inizio,
determinando un flusso netto di sostanze tra il capillare e lo spazio extracellulare che si trova al suo esterno,
secondo la legge di Fick, tutto procede fino ad annullare la differenza di concentrazione delle sostanze
coinvolte tra i due compartimenti in questione, ossia l’interno del vaso capillare e l’interstizio, cioè fino ad
annullare ΔC. Quando questo valore diventa uguale a zero (ΔC = 0), il flusso netto è anch’esso uguale a zero
(J = 0), quindi, nonostante l’ipotetica presenza di flussi migrazionali, questi statisticamente andranno a
equilibrarsi nei due versi (in entrata e in uscita). Dunque, di fatto, la differenza di concentrazione di una qualche
sostanza (ΔC), rappresenta il “motore” che porta a un flusso netto per diffusione. Il flusso tenderebbe a
procedere fino a quando ΔC non viene annullato, e fino a quando non si raggiunge quindi una situazione di
equilibrio; tale situazione, però, non si verifica praticamente mai nei capillari, c’è infatti un ulteriore fattore in
gioco, ossia il flusso ematico. Se questo fosse uguale a zero, in condizioni statiche, si procederebbe per
diffusione fino all’annullamento di ΔC, come appena descritto, ma esso non è affatto uguale a zero: mentre la
diffusione procede, il flusso ematico ricambia continuamente il contenuto di sangue nei capillari, permettendo
dunque alla diffusione di continuare a procedere.
Esempio. L’anidride carbonica prodotta a livello delle cellule, a una pressione parziale elevata, diffonde verso i capillari,
perché la concentrazione di CO2 disciolta è maggiore nei pressi della sede di produzione, ossia nell’interstizio
extracapillare. Il ΔC guida quindi l’ingresso della CO2 verso i capillari per diffusione semplice. Se il flusso ematico
capillare fosse uguale a 0, il flusso netto di CO2 nel capillare procederebbe fino ad annullare la differenza di CO 2 di
partenza. Si verificherebbe dunque una condizione per cui la concentrazione di CO2 nel capillare diventa via via più
simile, fino a essere virtualmente sovrapponibile, a quella interstiziale. Si tratta, chiaramente, di un caso atipico che non
si realizza in condizioni fisiologiche, se non nell’80% dei capillari muscolari a riposo (i quali come abbiamo detto non
sono perfusi); di norma il flusso ematico è infatti presente, e rinnova continuamente il sangue presente nei capillari con
quello nuovo che arriva dalle arterie, più povero di CO2: sarà proprio il sangue proveniente dalla circolazione polmonare
a tenere alta la differenza di CO2 tra interstizio e capillare, facendo sì che il flusso netto di CO 2 rimanga sempre elevato.
Questo fenomeno sarà tanto più efficiente quanto sarà maggiore la portata del flusso ematico.

La portata del flusso ematico transcapillare dipende dall’equivalente idraulico della legge di Ohm (Flusso =
∆P
R
). Nel caso in cui si decida di trascurare la pressione a valle dei capillari, nelle vene, in quanto molto più
bassa, allora la pressione sarà uguale proprio a quella dei capillari (∆𝑃 = 𝑃𝑐𝑎𝑝𝑖𝑙𝑙𝑎𝑟𝑖 − 𝑃𝑣𝑒𝑛𝑜𝑠𝑎 ≈ 𝑃𝑐𝑎𝑝𝑖𝑙𝑙𝑎𝑟𝑖 ).
Quindi, a parità di resistenze, il flusso è tanto maggiore quanto maggiore è la pressione nei capillari che, a
sua volta, dipende dalla pressione nelle arteriole e nelle arterie, a monte. La pressione all’interno della
circolazione sanguigna è un fattore critico perché determina, da un lato la velocità con cui avviene la diffusione
di sostanze (si tratta di un effetto indiretto: una pressione elevata nel distretto arterioso e nelle arteriole guida
un flusso ematico di portata elevata attraverso i capillari e, di conseguenza, mantiene elevato ΔC); dall’altro
una pressione elevata nelle arterie e nelle arteriole si traduce in una pressione elevata nei capillari e dunque in
un maggiore flusso di acqua per ultrafiltrazione in uscita dai capillari stessi. Il controllo della pressione nei
distretti arterioso e arteriolare è quindi rilevante, in quanto il valore di pressione è un valore critico sia per
l’entità del flusso di sostanze per diffusione secondo la legge di Fick, sia per l’entità del flusso di acqua
per ultrafiltrazione secondo l’equilibrio di Starling-Landis.

N.B. Il prof. invita a osservare i seguenti grafici, sottolineando che essi sono utili a rendere chiaro il concetto,
ma presentano alcuni errori.

227
Questi grafici mostrano le oscillazioni della pressione all’interno del distretto vascolare, ma non in maniera
esatta, in quanto dovrebbero riflettere anche le modificazioni dell’onda sfigmica: la pressione sistolica, infatti,
aumenta per effetto delle modificazioni di forma a onda sfigmica man mano che si procede in periferia, mentre
qui si osserva un calo completo. È possibile, però, osservare come la pressione parta da valori piuttosto elevati
a livello di ventricolo e aorta, per poi crollare a valori bassissimi negli atri, e, nel segmento vascolare specifico
delle arteriole. Inoltre, è possibile notare che nel circolo polmonare la circolazione è molto diversa rispetto a
quella nel circolo sistemico: i valori di pressione sistolica polmonare sono molto più bassi di quelli della
pressione sistolica in aorta, un valore di circa 25 mmHg contro 120 mmHg. Un'altra differenza tra i due grafici
è l’andamento oscillante del flusso, che nel circolo polmonare si manifesta anche a livello dei capillari perché
non è presente a livello delle arteriole del circolo polmonare un accumulo di resistenza così importante come
nel circolo sistemico: il risultato è che le fluttuazioni persistono anche oltre le arteriole (l’effetto Windkessel è
inefficiente). Inoltre, la pressione in atrio destro viene riportata come uguale a 3 mmHg e nel sinistro a 5
mmHg: una condizione determinata dalle differenze della funzione che descrive la legge di Frank-Starling fra
i due ventricoli, che spiega anche il verso del flusso di sangue in pazienti con difetti interatriali. Diventa critico
regolare la pressione all’interno del letto vascolare, in particolare nelle arterie e nelle arteriole perché essa va
a influenzare la pressione dei capillari, modulando il flusso per ultrafiltrazione secondo Starling-Landis e
perché se c’è un’elevata pressione nelle arterie, a parità di tutto, aumenta anche la portata del flusso capillare,
e questo modifica la diffusione secondo la legge di Fick, perché massimizza la differenza di concentrazione.

La pressione nelle arterie si riflette nella pressione nei capillari e quindi anche nell’ultrafiltrazione. Se tra
le arterie e i capillari è presente una resistenza (arteriolare) molto alta, l’influenza esercitata è poca, al contrario
se è bassa, l’influenza è elevata. A seconda dell’entità della resistenza arteriolare precapillare, verrà modificata
la pressione idraulica nei capillari a parità di quella arteriosa. Una variabile critica che governa sia
l’ultrafiltrazione sia la diffusione è proprio la resistenza delle arteriole. Essa è definita critica perché indica
quanto la pressione nelle arterie eserciterà un effetto sulla pressione dei capillari, importante per
l’ultrafiltrazione, e sulla portata del flusso nei capillari, importante per la diffusione. Per guidare quindi
l’ultrafiltrazione e la diffusione nei capillari è necessario modificare la pressione arteriosa (che è unica in tutto
il circolo sistemico e corrisponde a quella in aorta) e/o le resistenze arteriolari: nel secondo caso si può essere
specifici dal punto di vista topografico (si parla di fattore tessuto-specifico, ossia regolabile sulla base dello
specifico distretto all’interno del corpo umano).
È possibile controllare la resistenza arteriolare modificando il raggio delle arteriole (seguendo la legge di
Poiseuille), che a sua volta dipende dalla contrazione del muscolo liscio delle pareti delle arteriole stesse. Tale
contrazione deriva dallo stato di fosforilazione della catena leggera della miosina: nel momento in cui essa
viene fosforilata l’attività contrattile sarà maggiore (cicli rapidi); al contrario, quando viene defosforilata, il
ciclo procede più lentamente (stato allacciato, latch state, che permette una contrazione tonica a basso consumo
energetico, critico per mantenere un tono vascolare senza consumare una grande quantità di energia), fino ad
arrivare a livelli di fosforilazione e contrazione nulli. La biologia dei meccanismi che controllano il muscolo

228
liscio arteriolare è di grandissima rilevanza per i fisiologi, farmacologi e i clinici, perché nel momento in cui
si mettono a punto dei farmaci in grado di regolare la contrazione delle arteriole in un distretto piuttosto che
in un altro, si può regolare l’ultrafiltrazione e la diffusione nonché la pressione arteriosa di quello specifico
distretto.

10.7. Ruolo dell’endotelio e del muscolo liscio


nella regolazione del flusso ematico

Modulazione della contrazione del muscolo liscio

A destra osserviamo una cellula endoteliale, a sinistra una cellula muscolare liscia, che immaginiamo
circondare un’arteriola. Il muscolo liscio ha una modalità di accoppiamento farmaco-meccanico, quindi può
rispondere all’attivazione di recettori di membrana che legano degli agonisti e la risposta può determinare in
ultima analisi un cambiamento della fosforilazione della catena leggera della miosina e quindi della forza di
contrazione. Gli agonisti sono diversi: la maggior parte agisce sui recettori accoppiati a proteine G (di vario
tipo), come le catecolammine.
 Noradrenalina
La noradrenalina rilasciata dai neuroni post-gangliari del simpatico si lega ai recettori α1-adrenergici,
aumentando l’attività cellulare della fosfolipasi C (PLC), che determina la produzione di inositolo
1,4,5-trifosfato (IP3), che a sua volta stimola il rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico: il calcio
lega la calmodulina, e il complesso calcio-calmodulina attiva la chinasi della catena leggera della
miosina (MLCK), spostando l’equilibrio della catena leggera della miosina verso la forma fosforilata.
La conseguenza è un aumento della contrazione (e una conseguente riduzione del raggio arteriolare).
 Adrenalina
L’adrenalina rilasciata dalla midollare del surrene si lega ai recettori β2-adrenergici localizzati a
livello delle cellule muscolari lisce, aumentando l’attività dell’adenilato ciclasi, la concentrazione di
AMPc e l’attivazione della proteinchinasi A (PKA), che determina l’inibizione della chinasi della
catena leggera della miosina (MLCK). Il risultato è un maggior rilasciamento (cioè una dilatazione
delle arteriole).

229
Queste prime due vie di trasduzione sono esempi salienti perché a livello delle cellule muscolari lisce possono
essere espressi diversi tipi di recettori adrenergici, che legano sia noradrenalina (o norepinefrina) sia
l’adrenalina (o epinefrina).
I recettori α1-adrenergici legano meglio la noradrenalina rispetto all’adrenalina, che può comunque essere
legata, ma solo quando la sua concentrazione è elevata. Il legame della noradrenalina (o anche dell’adrenalina
a concentrazioni elevate) a tali recettori favorisce la contrazione delle cellule muscolari lisce.
I recettori β2-adrenergici non sono espressi in tutte le cellule muscolari lisce vascolari, ma sono
particolarmente espressi a livello del letto vascolare della muscolatura scheletrica. Essi legano l’adrenalina
e il legame di quest’ultima induce un aumento dell’attività della PKA, stimolando il rilassamento del muscolo
liscio. Nei distretti dove il muscolo liscio arteriolare esprime questi recettori, bassi livelli di adrenalina possono
avere effetto dilatatore, mentre aumentati livelli di adrenalina causano un maggiore legame della molecola ai
recettori α1 e bilanciano l’effetto dilatatore o addirittura possono provocare un effetto vasocostrittore. Un basso
livello di adrenalina genera dunque a livello delle arteriole del muscolo scheletrico un effetto vasodilatatore
che fa sì che ci sia una riduzione della resistenza arteriolare e un aumento del flusso ematico complessivo
(reclutamento capillare), mentre alti livelli legano recettori diversi e generano vasocostrizione.

Un altro enzima chiave nella regolazione della contrazione della muscolatura liscia è la proteina Rho-chinasi.
La Rho-chinasi è estremamente importante, perché controlla l’equilibrio fra la forma fosforilata e defosforilata
delle catene leggere della miosina. Tale enzima agisce in modi diversi:
 stimola direttamente la fosforilazione della catena leggera della miosina. In questo modo favorisce la
contrazione muscolare;
 modula l’equilibrio di fosforilazione di un’altra proteina, la subunità MBS (Myosin-Binding Subunit)
della miosina fosfatasi (inattiva in forma fosforilata). La Rho-chinasi tende a fosforilare MBS,
inattivandola. MBS di norma defosforila la catena leggera della miosina. Quindi Rho chinasi inattiva
un enzima che a sua volta è responsabile dell’inattivazione della catena leggera della miosina: si tratta
di un meccanismo di disinibizione. In questo modo viene incrementata la contrattilità del muscolo
liscio dal momento che l’effetto terminale è l’aumento della forma fosforilata della catena leggere
della miosina;
 modula l’equilibrio di CPI-17 (punto non trattato dal prof.): l’effetto finale è comunque l’aumento
dell’attività della MLCK.
La Rho-chinasi attiva dunque vie parallele che convergono ad aumentare la concentrazione della forma
fosforilata della catena leggera della miosina e a favorire dunque la contrazione muscolare.

Un’ulteriore via di trasduzione importante coinvolge come agonista l’ossido nitrico. L’ossido nitrico (NO)
è un mediatore gassoso che riesce a diffondere bene attraverso il doppio strato lipidico ed è in grado di attivare
la guanilato ciclasi solubile, con aumento dei livelli citosolici di cGMP. La maggiore concentrazione di cGMP
aumenta l’attività della PKG, che a sua volta inibisce MLCK. Nel complesso viene promosso il rilasciamento
muscolare.
I livelli di cGMP dipendono, come i livelli di tutte le sostanze dell’organismo, da un bilancio tra via di sintesi
e di degradazione. La via di sintesi è mediata dalla guanilato ciclasi solubile, la via di degradazione è mediata
invece da alcune fosfodiesterasi. Sono stati sviluppati farmaci che sono in grado di lavorare specificatamente
su alcune forme di fosfodiesterasi che sono espresse selettivamente in certi distretti vascolari rispetto ad altri.
Un esempio importante è costituito dal farmaco Sildenafil (Viagra), che inibisce le fosfodiesterasi nel distretto
vascolare genitale, aumentano così i livelli di cGMP (per disinibizione). Il risultato è l’induzione della
vasodilatazione, che rende possibile l’erezione. Esistono anche farmaci, come i nitrati, che vengono convertiti
dall’organismo in NO e hanno un ruolo ad esempio nella cura dell’angina pectoris (causando vasodilatazione
riducono le resistenze periferiche, riducendo la pressione arteriosa e di conseguenza il consumo energetico
cardiaco).
L’NO può giungere alla cellula muscolare liscia non necessariamente per via esogena (nitrati): esso infatti
può essere rilasciato anche dalle cellule endoteliali dell’arteriola (che sono molto vicine alla cellula muscolare,
in mezzo c’è solo la membrana basale). Nella cellula endoteliale l’aumento dei livelli di NO può dipendere
dall’attivazione di alcuni recettori associati a proteine G espressi sulla membrana cellulare. L’attivazione dei
recettori, tramite la via della PLC e l’attivazione della eNOS (ossido nitrico sintasi endoteliale), porta ad un
aumento di NO. L’agonista di tali recettori è l’acetilcolina (i recettori sono di tipo M3 muscarinici). Quali siano
i meccanismi che portano l’acetilcolina a questo livello non sono ancora molto chiari, considerando che
l’innervazione parasimpatica (che rilascia acetilcolina per mezzo delle fibre postgangliari) è molto scarsa nel

230
circolo vascolare, essendo presente solo in pochissimi letti vascolari: l’acetilcolina a questo livello non è
rilasciata dunque dal sistema nervoso autonomo, salvo rare eccezioni49.
La via di sintesi di NO può essere attivata anche da una variabile emodinamica nota come shear stress. Esso
a livello delle cellule endoteliali aumenta l’attività dell’eNOS, bypassando la via mediata dall’acetilcolina,
PLC ecc.
Lo shear stress o tensione tangenziale è il numeratore di un rapporto che dà la viscosità (il denominatore è
detto shear rate):
𝐹⁄
𝜂= 𝑆
∆𝑣⁄
∆𝑥
Per comprendere concretamente cosa sia la tensione tangenziale è opportuno supporre di avere due lastre e
indicare con S l’area della superficie di tali lastre. F è la forza tangenziale applicata e tesa a far scivolare le
due lastre l’una sull’altra. Le due lastre corrisponderebbero una alla membrana cellulare luminale della cellula
endoteliale e l’altra invece al flusso di plasma ed elementi corpuscolati associati ad esso. Tanto più vigorosa è
la forza esercitata dal plasma sulla membrana cellulare, tanto maggiore è la shear stress e tanto maggiore sarà
la produzione di ossido nitrico da parte delle cellule endoteliali. L’NO diffonde poi alle cellule muscolari
lisce.
Rielaborando l’equazione:
𝐹 ∆𝑣
=𝜂
𝑆 ∆𝑥
Cioè, a parità di viscosità, lo shear stress aumenta all’aumentare della velocità v del flusso ematico, con
conseguente aumentata produzione di NO e vasodilatazione.
Dalle sbob dello scorso anno:
“In definitiva: in una situazione in cui la forza esercitata dal sangue sulle pareti interne delle arteriole aumenta, le cellule
endoteliali reagiscono segnalando alle arteriole di dilatarsi. Questo fenomeno è sfruttato da arteriole di calibro
relativamente grande, quelle più a monte, più lontane dai capillari. Questo perché le arteriole più vicine ai capillari
risentono molto dai cambiamenti metabolici che avvengono in prossimità dei capillari stessi. Le arteriole vicine ai capillari
dunque sentono i bisogni metabolici del tessuto e rispondono di conseguenza, accoppiando il flusso ematico alle necessità
dell’organismo. Le arteriole più a monte sono troppo lontane dal letto capillare per fare questo e hanno una parete
relativamente spessa per cui non possono ‘percepire’ per diffusione semplice ciò che accade nell’interstizio. Tuttavia è
molto utile regolare anche la resistenza di tali arteriole a monte.
È come se ci fossero due dighe in serie, una rappresentata dalle arteriole terminali e l’altra rappresentata dalle arteriole a
monte. L’arteriola a valle aggiusta la propria resistenza sulla base dei bisogni del tessuto, perciò se il tessuto ha bisogno
di ossigeno e nutrienti, l’arteriola si dilata in modo da incrementarne il flusso (la diga apre dei varchi). Tale effetto
potrebbe essere vanificato nel caso in cui l’arteriola a monte mantenesse una resistenza elevata (la diga a monte restasse
chiusa). Essendo le due arteriole in serie è necessario che lavorino in maniera coordinata. Dunque la modificazione di
resistenza a valle determina una modificazione del flusso (modificazione del flusso non eccessiva ma neppure
trascurabile, dato che le due arteriole sono in serie e dunque le loro resistenze si sommano), questo aumento di flusso
determina un aumento di shear stress a monte, con aumento di NO e, per la via sopra descritta, rilassamento del muscolo
liscio a monte. Perciò le arteriole a monte si adattano e capiscono cosa è accaduto a valle grazie a modificazioni dello
shear stress.
Questo discorso è importante perché meccanismi NO-mediati sono critici per mantenere la salute vascolare. NO ha tutta
una serie di altri effetti benefici, incluso quello di limitare l’aggregazione piastrinica: uno stile di vita poco sano (fumo di
sigaretta, mancanza di attività fisica), riduce la concentrazione di NO, questo fa sì che ci sia una tendenza alla
vasocostrizione e all’aggregazione piastrinica, eventi che certamente non hanno un risvolto positivo sulla salute. Uno stile
di vita più sano garantisce invece una vasodilatazione importante.”

Meccanismi di autoregolazione del flusso ematico


Le arteriole sono vasi di resistenza: come delle dighe riducono la pressione a valle e aumentano la pressione
a monte. Ma determinano anche la portata del flusso ematico a parità di pressione. Funzioni delle arteriole:
 determinare la portata del flusso ematico a valle, quindi nei capillari;
 regolare la pressione del flusso sistemico aumentando la pressione a monte.

49
Siamo sicuri? La Zoccoli ha confermato che il parasimpatico innerva solo alcuni letti vascolari (apparato genitale ecc.),
ma ha anche detto che è proprio esso il responsabile del rilascio di aceticolina che lega i recettori muscarinici.

231
L’autoregolazione del flusso ematico è un fenomeno locale, un meccanismo fisiologico che non richiede né
nervi né ormoni, analogamente alla regolazione intrinseca del miocardio. L’autoregolazione delle arteriole
riguarda il loro tono, il loro raggio e dunque la loro resistenza.
Essendo un meccanismo locale, l’autoregolazione del flusso ematico funziona solo sulla base delle necessità
locali (è per così dire “cieco” rispetto a ciò che avviene nel resto dell’organismo). Potrà quindi regolare la
resistenza delle arteriole solo e unicamente sulla base delle necessità del flusso ematico a valle delle arteriole
medesime. Le conseguenze ci saranno anche sulla pressione sistemica, ma saranno perturbazioni per lo più
problematiche. Da qui la definizione di autoregolazione del flusso ematico come meccanismo che mantiene
il flusso ematico capillare circa costante a fronte di variazioni della pressione arteriosa.
La funzione a lato presenta tre parti: una al centro
chiamata plateau (quasi piatta, in debole pendenza),
a sinistra e a destra la funzione è crescente in
maniera molto ripida. Assumendo che il consumo
energetico del tessuto sia costante, allora la portata
del flusso ematico che perfonde il tessuto dovrà
essere costante, perché da quella portata va a
dipendere la velocità del flusso di soluti per
diffusione semplice secondo la legge di Fick.
La pressione arteriosa sistemica è variabile,
indipendentemente da quello che accade nel tessuto.
Per il tessuto, queste variazioni di pressione
arteriosa sono perturbazioni sistemiche che occorre
compensare, se lasciate a se stesse infatti rischierebbero di determinare modificazioni inutili o dannose della
portata del flusso ematico tissutale e quindi cambiamenti inappropriati della velocità con cui sta avvenendo la
diffusione, l’approvvigionamento dei nutrienti e quindi l’eliminazione dei prodotti di scarto. In altri termini se
il metabolismo rimane costante, al tessuto conviene che anche la portata del flusso sia costante cosicché la
velocità di diffusione transcapillare sia costante.

Caso limite: se le arteriole fossero tubi di ferro, con resistenza fissa (perché il raggio di un tubo di ferro non
cambia), la curva gialla sarebbe una retta. Considerando l’equivalente della legge di Ohm:

Flusso (J) = pressione (P) / resistenze (R)

dove P = P a monte – P a valle , tuttavia Pa valle è trascurabile, quindi si considera solo Pa monte.

Se le resistenze sono costanti, il flusso è uguale a una costante per le pressioni, e si può parlare dell’equazione
di una retta, ovvero y = aX (retta passante per l’origine degli assi), dove y rappresenta il flusso, a la costante
1/R, X rappresenta la pressione.

J = P/R
1
𝑅
= costante allora J = cost · P  y = aX
Il meccanismo di autoregolazione del flusso ematico richiede quindi un’attività fisiologica di compenso che
giustifichi lo scostamento rispetto al caso limite di una condizione con resistenze fisse.
Lo scostamento si basa sul fatto che al crescere della pressione arteriosa, per mantenere il flusso circa
costante, deve crescere anche la resistenza, allora il rapporto P/R tende a rimanere quasi costante. Il sistema
non è perfetto, al crescere della pressione, aumenta un po’ il flusso, anche durante il plateau (dove invece un
sistema perfetto farebbe osservare una curva completamente piatta; come precisato prima, nel caso fisiologico
non si osserva una curva del tutto piatta). Il meccanismo di autoregolazione del flusso ematico è un
meccanismo di controllo della resistenza arteriolare (non perfetto) tale per cui al crescere della pressione
arteriosa aumenta la resistenza arteriolare. Il risultato è quello di mantenere il flusso ematico circa costante
a fronte di variazioni della pressione arteriosa, senza l’utilizzo di ormoni o nervi.
Se la pressione arteriosa cala molto (a sinistra del plateu), a R costante, allora la pressione transmurale diventa
molto bassa, e i vasi tendono a collabire, la loro resistenza aumenta, quindi il flusso cala ancora di più di quanto
non calerebbe se i vasi fossero tubi rigidi. A portata del flusso molto bassa, abbiamo un difetto di diffusione
secondo la legge di Fick, dunque un problema di approvvigionamento energetico dei tessuti.

232
Viceversa a destra, il flusso aumenta vertiginosamente perché anche qui la resistenza non è costante: sotto la
spinta di una pressione intravascolare elevata, i vasi si dilatano passivamente, dunque la resistenza dei vasi
cala. Ciò non crea problemi di approvvigionamento tissutale ma ha un costo: in primo luogo il microcircolo
sarebbe sottoposto a valori pressori e di flusso più alti del normale, provocando danni strutturali; in secondo
luogo si avrebbero ripercussioni sistemiche ovvero dilatazione generalizzata delle arteriole per effetti passivi.
Tali strutture andrebbero a distendersi sotto la spinta della pressione vascolare, riducendo la resistenza
arteriolare e la pressione arteriosa.
L’autoregolazione del flusso ematico è dunque importantissima: senza questa i vasi, per via delle loro
proprietà passive, andrebbero a ridurre ulteriormente il loro raggio, dunque aumentare la loro resistenza in
modo inappropriato quando la pressione cala molto, e quindi accentuare il calo del flusso; al contrario in caso
di valori di pressione molto alti, la capacità dei vasi di dilatarsi in maniera passiva ridurrebbe la loro resistenza
accentuando ulteriormente l’aumento di flusso.
L’autoregolazione è un meccanismo molto potente ma non autosufficiente: da solo potrebbe non essere
capace di mantenere la portata del flusso ematico circa costante, perché esso funziona bene se i valori di
pressione sono mantenuti ai livelli di plateau, non è ottimale invece a livelli di pressione troppo bassi o troppo
alti.

Quali meccanismi si attuano nell’autoregolazione del flusso ematico?


I meccanismi miogeno e metabolico, presenti in tutti i tessuti, i quali differiscono per il loro ricorso all’uno
o all’altro.

Il meccanismo miogeno origina dal funzionamento del muscolo liscio arteriolare, sfrutta dei canali cationici
aspecifici attivati dallo stiramento. Se la pressione arteriosa aumenta, aumenta la portata del flusso ematico
capillare. Questo aumento di pressione, determina un aumento della pressione transmurale delle arteriole, e
quindi distensione passiva delle arteriole (che hanno una loro complianza). La distensione determina una
maggiore tensione della parete delle arteriole (legge di Laplace τ = P x raggio). Lo stiramento può attivare
canali cationici, che garantendo l’ingresso di cationi, depolarizzano la cellula e favoriscono la contrazione
della cellula muscolare liscia. Tale attività implica riduzione del raggio delle arteriole, aumento della loro
resistenza, e perciò il meccanismo compensa l’aumento di pressione, riportando il flusso al valore precedente.
Ricapitolando. Aumento della pressione arteriosa → aumento del flusso ematico capillare → aumento della
pressione transmurale delle arteriole → distensione della parete della arteriole → lo stiramento attiva dei canali
cationici → l’ingresso di cationi nella cellula muscolare liscia favorisce la sua depolarizzazione → è favorita
la contrazione della cellula → riduzione del raggio arteriolare → aumento della resistenza, che compensa
l’aumento di pressione iniziale → il flusso è mantenuto circa costante.

Meccanismo metabolico. Il metabolismo


energetico tissutale porta alla produzione di
prodotti di scarto (aumento della pressione
parziale di CO2, CO2 si idrata ad acido carbonico
grazie all’anidrasi carbonica, portando ad un
abbassamento del pH, aumento potassio
extracelllulare, ATP degradato in adenosina).
Tutte queste molecole hanno un effetto
vasodilatatore sul muscolo liscio determinandone
rilassamento e quindi riduzione della resistenza
delle arteriole. Questo porta il flusso ematico ad
aumentare, aumentando così il flusso di sostanze
per diffusione transcapillare secondo la legge di
Fick (viene mantenuto alto ΔC). Se la diffusione transcapillare diventa più efficiente allora tutti i prodotti di
scarto che si erano accumulati nell’interstizio andranno a finire maggiormente nel sangue, la loro
concentrazione nell’interstizio diminuirà fino a raggiungere un equilibrio.
Assumiamo che il metabolismo energetico sia costante (quindi la velocità con cui i prodotti si formano è
costante), e che la pressione arteriosa diminuisca (perturbazione), allora il flusso ematico diminuirà. Di
conseguenza l’efficienza degli scambi transcapillari per diffusione cala e quindi i prodotti di scarto non
riescono a finire nel sangue con la consueta efficacia. La loro concentrazione nell’interstizio aumenta,
determinando vasodilatazione, riduzione delle resistenze arteriolari e aumento del flusso ematico. Questo
aumento del flusso ematico (che avviene nonostante il calo di pressione, grazie al calo delle resistenze),

233
permette di aumentare di nuovo la velocità di diffusione transcapillare e quindi di “lavare via” i cataboliti
vasodilatatori fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio in cui il flusso ematico risulterà leggermente
ridotto rispetto al valore originale. Questo nuovo valore risulterà ridotto inizialmente per il calo di pressione
ma, in seguito, subirà un aumento per effetto dei cataboliti vasodilatatori che riporteranno il flusso a valore
circa pari a quelli iniziale, pur non raggiungendolo. (In pratica, con questo contorto ragionamento, Silvani
intende dire che una riduzione del flusso ematico causato da una diminuzione della pressione arteriosa, rende
meno efficienti gli scambi transcapillari di soluti, che quindi si accumulano nell’interstizio; essi però
accumulandosi andranno ad agire sulla muscolatura liscia e favoriranno la vasodilatazione. Questa
vasodilatazione causa un aumento del flusso ematico e a livello locale compensa dunque in parte, ma non del
tutto, la perturbazione iniziale).
N.B. Gli stessi parametri presi in esame (aumento della PCO2, diminuzione del pH, diminuzione della PO2
polmonare), che inducono vasodilatazione a livello delle arteriole del circolo sistemico, producono invece nelle
arteriole polmonari vasocostrizione.

Domanda di uno studente. Perché a livello delle arteriole polmonari i cataboliti vasodilatatori determinano
vasocostrizione anziché vasodilatazione?
Perché non sono cataboliti, a livello delle arteriole polmonari non c’è tanto consumo energetico, la diffusione
capillare è un processo passivo, ha come motore l’energia termica, determinando variazioni del flusso di
sostanza senza richiedere ATP. CO2 e O2 sono gas oggetto di scambio e non cataboliti. Un basso livello di
pressione parziale di ossigeno nell’interstizio, potrebbe essere dovuto al fatto che arriva poco ossigeno oppure
che il consumo di ossigeno sia aumentato, oppure entrambi. L’ipossia a livello sistemico induce
vasodilatazione, mentre a livello polmonare vasocostrizione. Gli alveoli ricevono una miscela di gas, che
origina dall’aria ambientale, e ci arriva attraverso bronchi, bronchioli, ecc., supponiamo che alcuni di questi
tubi si tappino, per esempio in seguito ad accumulo di muco. Gli alveoli a valle di questi bronchioli
parzialmente ostruiti riceveranno una ventilazione minore del normale, quindi la pressione parziale di ossigeno
diminuirà, perché non stanno funzionando bene. Se il circolo polmonare funzionasse come quello sistemico,
le arteriole dovrebbero dilatarsi attorno agli alveoli che stanno funzionando male, ma sarebbe controproducente
perché equivarrebbe a portare tanto sangue ad alveoli non funzionali. Invece appare perfettamente adattativo
quello che succede realmente, che è l’opposto: la riduzione della pressione parziale dell’ossigeno va a
determinare costrizione a livello delle arteriole polmonari, così che il sangue viene portato lontano dalle
arteriole che funzionano male, dirottato verso gli alveoli che funzionano bene.

I tessuti ad alto metabolismo energetico utilizzano il meccanismo metabolico, mentre i tessuti a basso
metabolismo energetico utilizzano il meccanismo miogeno.

Il meccanismo metabolico viene sfruttato


anche quando cambia il metabolismo
energetico tissutale: determina
l’accoppiamento flusso-metabolismo, ovvero il
fenomeno dell’iperemia attiva (in realtà
l’iperemia attiva è un caso particolare
dell’accoppiamento flusso-metabolismo,
quello cioè in cui metabolismo e flusso
aumentano).
Supponiamo cambiamenti del metabolismo,
ad esempio un aumento del consumo
energetico a pressione arteriosa costante,
aumenta la velocità produzione delle sostanze,
aumenta la concentrazione dei cataboliti
nell’interstizio, e aumenta la velocità di rimozione che però è più bassa della velocità di produzione. Questi
cataboliti sono vasodilatatori, un aumento della loro concentrazione interstiziale determina vasodilatazione,
quindi una riduzione della resistenza, che a parità di pressione, porta ad un aumento del flusso ematico, cioè
la velocità di rimozione aumenta tenendo il passo con la velocità di produzione.50

50
In sintesi: aumenta la produzione di metaboliti vasodilatatori a causa di un aumento del metabolismo energetico ->
vasodilatazione -> aumento del flusso ematico (che “lava via” i metaboliti e favorisce degli scambi trasncapillari più

234
Mantenendo il metabolismo costante e cambiando la pressione, si ottiene un meccanismo di autoregolazione
del flusso ematico, se invece si cambia il metabolismo e si
mantiene costante la pressione si ha il meccanismo
dell’accoppiamento flusso-metabolismo.

Dallo schema di fianco si vede che l’autoregolazione del


flusso ematico si basa sul meccanismo miogeno e sul
meccanismo metabolico, il quale è coinvolto anche
nell’accoppiamento flusso-metabolismo e nella regolazione
chimica del flusso ematico.

La regolazione chimica del flusso ematico del circolo


sistemico è determinata da variazioni di pressione parziale
di CO2, di O2 (ipossia) e modificazioni del pH, dovute non
a cambiamenti del metabolismo ma ad alterazioni
sistemiche (ad esempio insufficienza respiratoria). Gli
effetti sono di vasodilatazione.

10.8. Funzione dei vasi venosi


I vasi venosi hanno una notevole importanza emodinamica,
in quanto contengono la maggior parte del volume di sangue
dell’individuo. Lo schema riporta le percentuali del volume
ematico contenuto nei diversi vasi. Non è obbligatorio
memorizzare i valori, ma osservando l’ultima riga si può notare
come sia distribuito il volume totale del sangue in circolo: il
5% si trova nel cuore, quindi una quota minoritaria; il 10% si
trova nel circolo polmonare. Considerando il circolo sistemico,
il 20% si trova nelle arterie e il restante 65% nelle vene
sistemiche. Quindi i 2/3 circa del volume ematico sono
contenuti nelle vene sistemiche, che sono una sorta di serbatoi
del sangue. Non bisogna però considerare le vene come dei
compartimenti separati dal resto del sistema cardiovascolare:
il sangue è sempre in circolo, ma se si aumenta il volume
complessivo il sangue tenderà a concentrarsi nel
compartimento delle vene. Il volume del sangue è fisso, perché
è un liquido e quindi è incomprimibile; il volume dei vasi,
come quello delle camere cardiache, è invece variabile perché
le pareti dei vasi hanno una complianza caratteristica.

I grafici seguenti permettono di confrontare la complianza


di un’arteria con quella di una vena. Anche in questo caso non
serve concentrarsi sui valori numerici, quanto piuttosto sulla
forma delle curve. Non sarà richiesto specificatamente di
disegnare i grafici, ma osservandoli possiamo trarre alcune conclusioni sul funzionamento dei vasi.

efficienti, per impedire l’accumulo di metaboliti nell’interstizio) -> si raggiunge una situazione di equilibrio in cui il
flusso è adeguato al metabolismo energetico del distretto.

235
Il primo grafico si riferisce all’aorta; in ascissa è riportata la pressione transmurale e in ordinata la variazione
di volume (in percentuale) nel vaso. Il rapporto tra le due grandezze equivale alla complianza, definita come
ΔV/ΔP; dunque la complianza è descritta dalla pendenza della tangente alla curva. All’aumentare della
pressione, la complianza tende a diminuire. Infatti si mettono sotto tensione le componenti della resistenza
meccanica delle arterie, un processo già descritto in relazione all’effetto Windkessel.
Considerando invece la vena cava, la complianza appare estremamente alta per valori di pressione
transmurale bassi, mentre a valori alti di pressione la complianza diminuisce drasticamente. Quando la
pressione transmurale è bassa, si parla in questo caso di complianza apparente, perché in questa fase le vene
sono inizialmente “sgonfie”, poi vengono progressivamente riempite e “gonfiate”, finché il vaso non assume
forma rotonda. La tensione applicata sulle pareti è complessivamente molto bassa. La situazione è analoga al
voler gonfiare un pallone da calcio: le sue pareti sono molto rigide e si oppongono alla distensione, quindi
gonfiare il pallone potrebbe essere faticoso. Tuttavia, se cominciamo a gonfiare il pallone quando è sgonfio,
non facciamo fatica a riempirlo di aria perché lo stiamo semplicemente portando alla sua forma “normale”.
La pressione nelle vene è infatti fisiologicamente molto bassa, i valori di riferimento sono tra 0 e 7 mmHg
nelle vene cave. A monte i valori sono maggiori, ma non di molto: il valore massimo è quello riscontrato a
livello dei capillari non glomerulari del rene, quindi 30 mmHg. Di conseguenza, considerando la pressione
transmurale di un vaso venoso, si parte sempre da valori ben più bassi delle arterie. La complianza misurata
quindi non riflette le caratteristiche intrinseche delle pareti venose, risulta alta semplicemente perché
inizialmente i vasi erano sgonfi. Si ci accorge di ciò perché, se si prova a “gonfiare” le vene quando hanno
assunto la forma rotonda, la loro complianza risulta più
bassa rispetto alle arterie. Queste condizioni si ottengono
però in laboratorio, non sono fisiologiche. La complianza
autentica delle arterie è maggiore di quella delle vene,
perché la componente elastica è maggiore. La
complianza apparente è invece maggiore nelle vene,
perché queste in condizioni fisiologiche sono più
“sgonfie” delle arterie.
Queste considerazioni spiegano perché la maggior parte
del volume è contenuto nelle vene. Torna il famigerato
esempio del gavettone di Silvani. Immaginiamo di
collegare un gavettone a una borsa dell’acqua calda e di
mettere dell’acqua: il volume di acqua si dispone
preferenzialmente nel gavettone. Allo stesso modo il
sangue si dispone più facilmente nelle vene, perché trova
una complianza maggiore, quindi per riempirle viene
dissipata meno energia.
Le vene hanno caratteristiche strutturali peculiari, tra
cui la presenza di valvole venose unidirezionali. Queste
valvole permettono un flusso in direzione centripeta,

236
verso il cuore. Il funzionamento è analogo alle valvole dei vasi linfatici: la propulsione è assicurata dalla
contrazione di strutture extravascolari, ad esempio i muscoli scheletrici circostanti. Il muscolo scheletrico
assiste il flusso ematico, per cui si parla di pompa muscolare, che “spreme” la vena. Per la presenza delle
valvole unidirezionali, il sangue può dirigersi soltanto verso il cuore.
Negli arti inferiori il ritorno è garantito anche dalla particolare disposizione dei vasi. Esiste infatti un circolo
venoso superficiale che raccoglie il sangue dalla cute o comunque dalle strutture superficiali. Vi sono poi
vene perforanti che si dirigono in profondità, dotate di valvole unidirezionali. Questi vasi drenano nelle vene
profonde, da cui il sangue è propulso verso il cuore grazie alla presenza della pompa muscolare (una sorta di
ascensore). Infatti la compressione del muscolo scheletrico è efficace se avviene contro strutture rigide,
tipicamente le ossa: solo le vene profonde possono essere “spremute” con efficienza. La cute invece è
relativamente elastica perciò questo tipo di compressione risulterebbe poco efficace sulle vene superficiali.
Questo meccanismo va incontro a lesioni se le valvole si danneggiano, ad esempio per fattori genetici, fumo,
invecchiamento. In questo caso, quando il muscolo scheletrico comprime le vene, una quota di sangue risale
verso il cuore; una parte può fluire in direzione retrograda attraverso le vene perforanti e arrivare al sistema
superficiale, perché non viene trattenuto dalle valvole. Le vene superficiali hanno complianza apparente
elevata, per cui la pressione esercitata può facilmente dilatarle. Si ha quindi la comparsa di varici, ovvero
dilatazioni localizzate.
Un’altra conseguenza dell’alta complianza apparente delle vene riguarda gli effetti della gravità sulla
circolazione (argomento parzialmente trattato nel primo semestre). Quando si è in posizione eretta, sui vasi
periferici grava una colonna di sangue, cioè il volume di sangue che separa i vasi periferici dal cuore. Ciò
comporta un aumento della pressione a livello degli arti inferiori. L’effetto si ha anche quando si è seduti,
anche se la colonna risulta meno estesa.

L’aumento di pressione comporta un aumento di volume minimo nelle arterie, che sono vasi a bassa
complianza. Le arterie inoltre possono adattarsi all’aumento di pressione aumentando lo spessore della parete,
analogamente alle pareti delle camere cardiache (il meccanismo segue la legge di Laplace e permette di
diminuire lo stress della parete a parità di tensione; secondo la legge di Laplace infatti τ = σw, dove w è lo
spessore della parete: questo aumento di spessore spiega perché l’onda sfigmica si propaghi più velocemente
lungo i vasi degli arti inferiori rispetto ai vasi centrali, l’onda infatti si propaga in modo ottimale lungo le
superfici rigide). Le vene invece hanno una complianza apparente molto elevata che permette loro di riempirsi.
Bisogna ricordare che la pressione di perfusione non viene influenzata in modo rilevante dalla forza di
gravità: la differenza tra il capo arterioso e quello venoso rimane pressoché inalterata. Infatti l’aumento di
pressione al capo arterioso andrebbe a favorire la filtrazione, ma lo stesso aumento si ha anche al capo venoso.
In altre parole, il sangue “scende” più facilmente grazie alla gravità ma “risale” con più fatica. In realtà questa
è un’approssimazione, perché il ritorno venoso è comunque favorito dalla presenza delle valvole;
macroscopicamente però la perfusione non risente della forza di gravità.
La gravità modifica piuttosto la pressione idrostatica
intravascolare, aumentando il volume di sangue nelle vene degli arti
declivi. Il disegno schematizza il circolo sistemico, il sangue passa
dalle arterie ai capillari alle vene per poi tornare al cuore.

237
Se aumenta il volume di sangue nelle vene, evidentemente si ha una
diminuzione del volume in un altro distretto. Dato che il volume di sangue
circolante è sempre lo stesso, si parla sempre di redistribuzione. Nello
specifico il sangue viene sottratto all’atrio destro, perché si accumula nelle
vene degli arti inferiori invece di ritornare al cuore. Indirettamente quindi il
sangue viene sottratto al ventricolo sinistro, cioè si ha una temporanea
diminuzione del volume telediastolico.
Si stima che, quando ci si alza in piedi, l’accumulo di sangue negli arti
declivi sia tra i 300 e gli 800 mL. L’effetto sulla funzionalità del cuore è
equivalente a un’emorragia. Osservando la curva di funzionalità vascolare, si
ha uno spostamento verso la curva che descrive l’emorragia. Considerando
anche la curva di funzionalità cardiaca, il sistema raggiunge un punto di
equilibrio caratterizzato da una pressione venosa centrale e gittata cardiaca più basse, a meno di non reclutare
fattori nervosi che modifichino resistenze vascolari e contrattilità.

238
11. Pressione arteriosa e sua regolazione
Nota. Questa tesina fa da coronamento a quelle finora trattate relativamente all’emodinamica e al controllo
cardiovascolare. Tale tesina è anche associata ad una tesina di laboratorio che concerne la determinazione della pressione
arteriosa mediante il metodo sfigmomanometrico di Riva-Rocci, ergo, nell’eventualità in cui capiti di dover trattare di
questa tesina al momento dell’interrogazione d’esame, sarà necessario fare riferimento anche a questo argomento dal
punto di vista non solo concettuale e laboratoristico, ma anche dal punto di vista pratico. Il terzo punto della tesina, Ruolo
del sistema renina-angiotensina-aldosterone, è stato trattato dal prof solo dopo le tesine sulla fisiologia renale.

Le basi per affrontare questa tesina risiedono nei concetti affrontati nel primo semestre concernenti
l’emodinamica.
Considerando quello che abbiamo definito l’equivalente idraulico della legge di Ohm:

∆𝑃
𝐹=
𝑅
F = portata del flusso; si misura in L/min
ΔP = pressione di perfusione; si misura in mmHg
R = resistenza idraulica; si misura in mmHg min L-1

Il cuore funge da generatore di pressione, la quale risulta essere circa costante. Da ciò si deduce che le
variazioni di flusso ematico locale e totale sono conseguenti a variazioni della resistenza vascolare.
Idealmente potremmo trovarci in una condizione in cui le variazioni del flusso siano, al contrario, dipendenti
unicamente da variazioni di pressione di perfusione, in presenza di una resistenza costante. Nonostante ciò,
lo scenario che si realizza nella realtà è appunto quello in cui il flusso dipende dalle variazioni di resistenza,
fatto che in effetti risulta avere dei pregi dal punto di vista adattativo:
1. In primis, con la modalità di regolazione tramite la resistenza è possibile modulare a livello locale la
resistenza in base alle necessità dei tessuti. Nel secondo scenario presentato, che abbiamo detto non
verificarsi, in cui teoricamente il cuore potrebbe funzionare da pompa generatrice di flusso variando
la pressione in presenza di una resistenza costante, allora le variazioni del flusso ematico prodotte dalle
variazioni di pressione generate dal cuore sarebbero le medesime per tutti i tessuti. Tuttavia, come
sappiamo, il flusso ematico va regolato in maniera fine sulla base delle necessità metaboliche dei
tessuti: idealmente flusso ematico e metabolismo energetico di ciascun tessuto devono rimanere
accoppiati. Ad un certo momento, ad esempio, un tessuto può avere un bisogno energetico differente
da quello di un altro tessuto e a parità di tessuto un organo potrebbe avere consumo energetico
differente da quello di un altro. Per esempio: se si andasse in palestra e si facesse esercizio solo col
braccio destro, ci si ritroverebbe ad avere un aumento del consumo energetico del bicipite di destra,
piuttosto che di quello di sinistra. In una situazione di questo tipo sarebbe adeguato:
 non aumentare il flusso ematico a livello del bicipite sinistro in quanto non lo necessita a causa
del suo basso dispendio energetico;
 aumentare il flusso ematico a livello del bicipite destro, in modo da ottimizzare il processo di
diffusione transcapillare massimizzando il valore di ΔC, oltre che, trattandosi di un muscolo
scheletrico, aumentare il numero di capillari reclutati, ottimizzando la diffusione transcapillare
anche tramite un aumento della superficie.
2. Un altro vantaggio di una modalità di lavoro di questo tipo è che lavorando a P costante si evita al
cuore di lavorare in condizioni fisiologiche generando un lavoro pressorio eccessivo. Questo
vorrebbe dire aumentare in maniera cospicua il consumo energetico cardiaco, dal momento che un
lavoro pressorio elevato ha una componente esterna e una componente data dal calore di tensione
molto rilevante. Un altro aspetto importante da considerare riguardo a questa modalità operativa
consiste nel fatto che l’autoregolazione è un meccanismo robusto, ma non è in grado di lavorare se la
pressione è eccessivamente alta o bassa: lavora bene solo in un intervallo di valori di pressione che
racchiude un tratto della funzione in cui il flusso è quasi costante, ovvero il tratto di plateau. Se il
cuore modificasse la portata del flusso ematico modificando i valori di pressione generata si creerebbe
una situazione rischiosa: se i valori di pressione andassero lontano dai valori di pressione ottimali per
il suo lavoro, la pressione a livello locale sarebbe incapace di gestire le necessità locali.

239
Una premessa alla tesina: la teoria dei controlli
Il prof. è stato un’ora intera su questa premessa (per l’esattezza sull’esempio del forno), quindi presumo sia
un argomento che pur non essendo strettamente di fisiologia ha molto a cuore ;) (ovviamente all’esame è
meglio non citare il forno).

Nel contesto della regolazione della pressione è utile riflettere su alcuni concetti propri della teoria dei
controlli. L’applicazione della teoria dei controlli alla fisiologia ha dimostrato il suo valore nel corso degli
anni e il primo che tentò esplicitamente quest’approccio in ambito fisiologico fu un ricercatore del MIT,
Norbert Wiener, che pubblicò a riguardo il libro Cybernetics subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Un sistema di controllo è un insieme di componenti connessi in modo da comandare, dirigere o regolare un


sistema. Ve ne possono essere due tipologie:
 A ciclo aperto: qui l’azione di controllo è indipendente dall’uscita. Si tratta di sistemi che hanno
caratteristiche di accuratezza, determinata dalla calibrazione, e di stabilità.
Esempio del tostapane: si mette una fetta di pane all’interno del tostapane e si abbassa la levetta, così
il tostapane, passato un certo periodo di tempo, renderà la fetta di pane tostata. Non ci sono ovviamente
sensori che garantiscono che la fetta di pane non bruci o che rimanga fredda, così si fa lavorare il
tostapane per prove ed errori finché non si raggiungerà il risultato desiderato: si mette un certo numero
di fette di pane e si variano ogni volta le caratteristiche e i parametri di funzionamento del tostapane,
quantomeno la durata del riscaldamento, finché non si arriva a un risultato soddisfacente
(calibrazione) e dopodiché i parametri verranno lasciati così come sono. Tale situazione proiettata nel
nostro organismo ci fa arrivare a dire che ovviamente non siamo noi a regolare tali parametri, bensì è
plausibile pensare che sia stata l’evoluzione a regolarli per prove ed errori. Il sistema è poi stabile:
una volta trovata la durata giusta del riscaldamento la fetta di pane viene tostata sempre alla stessa
maniera. La stabilità ovviamente rimane valida nel momento in cui le condizioni di partenza
rimangono altrettanto stabili: se si infila nel tostapane una fetta di pane surgelata, anche lasciando tutti
i parametri di funzionamento del tostapane costanti, la fetta non uscirà certamente tostata.
I pregi di questi sistemi risiedono quindi nella semplicità del sistema: questa caratteristica li rende
robusti. Si può dire dunque che più un sistema è semplice più è robusto e meno soggetto ad alterazioni
patologiche. I difetti sono che l’accuratezza del risultato dipende dalla stabilità delle condizioni
iniziali. Tuttavia, contro questo aspetto gioca il fatto che una calibrazione durata tempi lunghissimi
verosimilmente è avvenuta grazie a processi di selezione naturale e adattamento, perciò la calibrazione
si comporta presumibilmente in maniera efficace. Questa stereotipia del controllo a ciclo aperto
comunque dà qualche limite in organismi complessi come l’uomo.
 A ciclo chiuso: l’azione di controllo dipende dall’uscita. La caratteristica primaria di tali sistemi è il
feedback, ovvero la retroazione, proprietà che consente di generare l’azione di controllo in base al
confronto tra l’uscita (output) e l’ingresso (input) del sistema. La retroazione potrà essere positiva o
negativa.
- Un sistema di controllo a ciclo chiuso in retroazione negativa tende a mantenere costante la
variabile regolata, che corrisponde anche a quella misurata. Quest’ultimo aspetto comporta
delle piccole oscillazioni della variabile attorno ad un valore di riferimento, il che è
perfettamente compatibile al concetto di omeostasi e consegue alla presenza di ritardi nel
sistema.
Esempio del forno: nel momento in cui si imposta all’interno del forno una certa temperatura,
esso ha un meccanismo con cui regola l’intensità della corrente che circola lungo la serpentina
(la quale è una resistenza elettrica), sulla base della differenza tra la temperatura impostata e
quella nel forno. Se la temperatura nel forno è maggiore di quella impostata la serpentina si
spegne, viceversa si accende quando la temperatura è inferiore a quella desiderata.
- Esistono anche dei circuiti a retroazione positiva: essi creano circoli viziosi, cioè: se una
certa variabile cresce, essa tenderà a crescere sempre di più, viceversa se una varabile
diminuisce, tenderà a diminuire sempre di più.
I sistemi a ciclo chiuso a feedback negativo e positivo di fatto coesistono. I sistemi a feedback positivo
aiutano a cambiare rapidamente lo stato del sistema, tuttavia se agisse solo questo meccanismo si
arriverebbe a degli estremi di massimo o minimo per il sistema. È necessario che un sistema di questo
tipo venga invece accoppiato ad uno a feedback negativo: il feedback positivo permette il passaggio

240
rapido del sistema da uno stato A, mantenuto costante grazie al feedback negativo, ad un nuovo stato
B, poi mantenuto costante sempre grazie all’azione del feedback negativo.

Considerando l’esempio del forno e il nostro organismo, cosa permette di passare da A a B? In un forno
sarebbe la manopola di regolazione della temperatura. Nel nostro organismo però non sono presenti manopole
di regolazione di pressione, quindi sono usati proprio i sistemi a ciclo aperto, che consentono di cambiare il
punto di lavoro del sistema. Il sistema può poi cambiare rapidamente grazie ai sistemi a ciclo chiuso a
retroazione positiva e una volta raggiunto il punto d’arrivo è possibile mantenerlo stabilmente grazie ai sistemi
a ciclo chiuso a retroazione negativa, finché non si avrà una nuova eventuale attivazione dei sistemi a ciclo
aperto che ci porteranno ad una nuova condizione C.

Per quanto riguarda il controllo cardiovascolare come possiamo immaginarci una combinazione di circuiti a
ciclo aperto e chiuso? Si può considerare come una gerarchia in cui ciò che si trova più in alto ha un controllo
nei confronti di ciò che sta più in basso.

Dal basso verso l’alto si osservano:


1. Meccanismi locali:
- autoregolazione del flusso ematico;
- accoppiamento flusso-metabolismo;
- regolazione chimica del flusso ematico (CO2, O2, pH).
I sovrastanti consistono nei meccanismi locali di controllo della circolazione vascolare, della
resistenza delle arteriole, ma esistono anche meccanismi locali di controllo del cuore, ovvero quelli
intriseci del controllo cardiaco: eterometrico di Frank-Starling, omeometrico associato a variazioni
sostenute nel tempo di frequenza cardiaca (meccanismo della Treppe), omeometrico in risposta a
variazioni del postcarico.
Tutti questi meccanismi locali hanno in comune il fatto di non richiedere né ormoni né nervi. Ogni
gruppo di arteriole e ogni porzione del miocardio è autogestito, fa storia a sé.
2. Meccanismi riflessi in retroazione negativa:
- riflesso baro(re)cettivo;
- riflesso chemo(re)cettivo;
- riflesso pressorio dell’esercizio.
Ve ne sono molti altri, su alcuni dei quali ci soffermeremo in una prospettiva di interesse più storico
che pratico.
3. Meccanismi di pro-azione: essere proattivi significa agire d’anticipo nei confronti della
manifestazione di un eventuale problema. Nell’ambito cardiovascolare questi meccanismi sono
chiamati comandi autonomici centrali. Essi lavorano a circuito aperto.

In cima alla piramide sono quindi presenti meccanismi a circuito aperto, che comandano sia sui meccanismi
riflessi in retroazione negativa sia su meccanismi locali. Al secondo gradino della piramide vi saranno poi dei
meccanismi riflessi in retroazione negativa, che hanno azione a livello dei meccanismi presenti al terzo

241
gradino, ovvero i meccanismi locali. Saranno poi presenti anche dei meccanismi in retroazione positiva, che
accelerano i cambiamenti della condizione dell’apparato cardiovascolare da uno stato all’altro.

Si analizzino ora i vantaggi e gli svantaggi di ognuno di questi livelli di controllo cardiovascolare.

Per quanto riguarda i meccanismi locali, essi hanno come caratteristica vantaggiosa il fatto di essere molto
robusti, poiché non necessitano ormoni né nervi. Inoltre, sono in grado di agire ottimizzando le condizioni per
la specifica porzione del nostro organismo in cui essi lavorano: per esempio un meccanismo miogeno di
autoregolazione del flusso ematico di una porzione del bicipite destro sarà in grado di regolare il flusso ematico
dei capillari di quella porzione del bicipite destro stesso. D’altra parte, i meccanismi locali sono “egoisti”: essi
non sono informati e non si curano delle necessità di tutto ciò che non è locale poiché non dipendono da ormoni
e da nervi, quindi non subiscono l’influenza di ciò che avviene a distanza. Così facendo però rischiano, nel
cercare di migliorare le condizioni locali, di generare eventi disastrosi a livello sistemico. Se tutti i tessuti e
tutte le porzioni del nostro organismo si regolassero in tale maniera, le conseguenze a livello sistemico
potrebbero essere catastrofiche e questo porterebbe inevitabilmente ad una catastrofe anche a livello locale. In
conclusione, i meccanismi locali sono quindi i più adatti a regolare l’apparato cardiovascolare nelle condizioni
locali, nei limiti però di non provocare danni a livello sistemico (per poi causarli conseguentemente anche a se
stessi).

I meccanismi riflessi in retroazione negativa hanno come vantaggio l’essere sensibili a variabili
sistemiche, quindi possono essere considerati equivalenti a meccanismi dello stato centrale di organizzazione
amministrativa. Il contro della loro azione sta nel fatto di essere meccanismi più complicati di quelli locali,
quindi hanno maggior probabilità di andare eventualmente incontro ad alterazioni, fino a condizioni
patologiche. Un altro contro è che sono programmati per cercare di risolvere dei problemi nel momento in cui
questi si sono già presentati, senza essere capaci di prevenirli.
Tornando all’analogia del forno per spiegare questo punto: anche il forno è programmato per risolvere “alla
meglio” un problema, che consiste nel fatto che la temperatura nel forno è diversa da quella impostata. Il forno
risolve il problema col circuito a retroazione negativa, cercando di avvicinare la temperatura nel forno al valore
impostato con la manopola. Un sistema programmato per cercare di ovviare a un problema tuttavia non è in
grado di prevenire il problema, quindi può solo aspettare che esso si manifesti per risolverlo. Allo stesso modo
un forno non è in grado di prevenire alterazioni della temperatura al suo interno.

Per quanto riguarda i meccanismi di pro-azione invece, essi sono in grado di prevenire il problema prima
che si presenti (come suggerisce il nome stesso).
Continuando con l’esempio del forno: qualora si abbia una torta nel forno e ad un certo punto si ha il dubbio
che sia già cotta, viene per un momento aperto lo sportello del forno per verificare lo stato di cottura: il risultato
è che l’aria calda contenuta nel forno esce e ci sarà un calo di temperatura nel forno, poiché nella cucina la
temperatura è assai più bassa di quella nel forno. A questo punto però se la torta non è effettivamente cotta, si
richiuderà il portello e il forno, essendo programmato come un circuito a retroazione negativa, cerca di
riportare la temperatura interna al valore precedente. Col tempo la temperatura ritornerà a tale valore di
temperatura, ma ormai il danno ormai era già stato fatto al momento dell’apertura anticipata del portello: il
forno non può prevenire l’alterazione della variabile misurata, quindi il forno può solo rimediare ogni volta
che l’alterazione si manifesta. La stessa cosa è fatta dai nostri meccanismi riflessi in retroazione negativa.
In generale una torta continua a cuocere anche se per qualche minuto la temperatura del forno scende molto
rispetto al valore ottimale, quindi l’errore dell’apertura anticipata del portello non ha effetti drammatici sulla
realizzazione della torta. Supponiamo però una situazione in cui la torta riesca ad essere cotta adeguatamente
solo se la temperatura del forno non scende eccessivamente durante la cottura. Data questa premessa, un
meccanismo riflesso in retroazione negativa come quello del forno non sarebbe sufficiente a permettere la
realizzazione della torta nel caso della situazione descritta precedentemente: all’apertura anticipata del portello
la torta non sarà più mangiabile. Cosa potrebbe servire per risolvere la situazione? Un sensore ulteriore che
veda il cuoco che si avvicina al forno prima del tempo e capisca che si sta per aprire il portello del forno,
cosicché in anticipo venga scaldato maggiormente il forno, aumentando la corrente che scorre nella resistenza,
in modo tale da anticipare il calo di temperatura che conseguirà all’apertura del portello. Attraverso questa
azione proattiva il forno riuscirebbe ad evitare l’insorgenza del problema. Questo è ciò che fanno i meccanismi
proattivi, i comandi autonomici centrali, all’interno dell’organismo.
Esempio del predatore e della preda: si supponga di trovarsi in una situazione in cui ci si trova di fronte ad
un predatore e dal punto di vista adattativo la cosa più probabile che accada è che il predatore attacchi: la

242
reazione che si innesca è di tipo lottare o fuggire o un mix prima di attacco e poi di fuga. Per fare ciò bisogna
però poter utilizzare i propri muscoli, fatto che implica l’aumento del consumo energetico muscolare
scheletrico. Noi sappiamo che esiste un’autoregolazione del flusso ematico che ha un meccanismo che
consente l’accoppiamento flusso-metabolismo: l’aumento dell’attività del muscolo scheletrico coincide con
un aumento dei cataboliti vasodilatatori nell’interstizio, quindi con una vasodilatazione arteriolare del muscolo
scheletrico. Supponendo di dover correre velocemente e/o combattere al massimo delle forze, si necessita di
una porzione importante della massa muscolare totale a disposizione e si ha bisogno di utilizzarla molto: ciò
comporta elevato consumo energetico e quindi vasodilatazione di una grande percentuale delle arteriole del
muscolo scheletrico, che nel corpo è molto presente e consuma molto. La conseguenza tuttavia di una massiva
e contemporanea dilatazione di arteriole è un calo drastico della resistenza complessiva del circolo sistemico:
per l’equivalente idraulico della legge di Ohm infatti, a parità di gittata cardiaca, se c’è un calo di resistenza ci
sarà anche un calo di pressione. Questo però comporta il rischio di un danno: se la pressione è troppo bassa i
meccanismi locali non possono funzionare adeguatamente e l’autoregolazione salta. In questo scenario si
rischia quindi di trovarsi nella situazione in cui si comincia a combattere contro il predatore e scappare, per
poi trovarsi improvvisamente in presenza di un calo di pressione. Quindi una situazione in cui muscolo non
riceve abbastanza energia e funziona male, il sistema nervoso centrale funziona male, il cuore ne soffre, infine
si combatte e corre meno efficientemente, per finire ad essere effettiva preda del predatore ed essere mangiato.
A questo si aggiungono poi complicazioni sgradevoli e plausibili: gli aggressori potrebbero avere unghie e
denti affilati che potrebbero ferire e di conseguenza causare emorragie. Con ipovolemia la curva di funzione
vascolare si sposterebbe. Inoltre, risulta essere un ulteriore problema stare in posizione eretta: si corre e
combatte in posizione eretta, quindi contemporaneamente si avrà accumulo di sangue negli arti declivi, che
riduce ulteriormente il ritorno venoso. In uno scenario di questo tipo, calando la pressione, si attivano i
meccanismi riflessi in retroazione negativa che pian piano la riportano ai valori fisiologici, ma è un
meccanismo che agisce troppo lentamente per far sì che non si venga divorati. Per fronteggiare situazioni di
questo tipo ragionevolmente si sono sviluppati i meccanismi pro-attivi anticipatori, i quali, nel momento in cui
ci si trova di fronte ad un potenziale aggressore, già provvedono a regolare l’apparato cardiovascolare per
minimizzare la probabilità di un calo pressorio, che farà la differenza tra il vivere e il morire. Questi
meccanismi vengono utilizzati anche in anticipazione all’esercizio fisico, per trattare anche condizioni più
usuali: l’esercizio fisico ha in comune con la reazione di combattimento e fuga l’elevato consumo energetico
del muscolo scheletrico, che ha un costo.
Tornando al forno: si consideri il forno intelligente col meccanismo pro-attivo che aumenta la temperatura
del forno quando percepisce che qualcuno si sta avvicinando per aprire il portello prima che la torta sia pronta,
anticipandone un’eventuale apertura e di conseguenza una diminuzione della temperatura, fatale per la torta.
Problema: se qualcuno si avvicina al forno solo per guardare, ma senza voler aprire, comunque sarà innescato
un riscaldamento maggiore. Quindi così come il meccanismo pro-attivo del forno permette di regolare la
temperatura del forno, allo stesso modo i meccanismi pro-attivi nel nostro organismo permettono la
regolazione della pressione vascolare in previsione di un eventuale problema. Se il problema poi si pone, allora
si sono spese bene le proprie risorse, se ciò invece non avviene se ne paga il pegno: maggior consumo
energetico, che comporta un rischio perché per quanto riguarda il forno la resistenza del forno rischia di
rompersi e la torta rischia di bruciarsi, mentre per quanto riguarda la pressione arteriosa, se essa aumenta molto
quando non serve si rischia di danneggiare i vasi sanguigni (non a caso l’ipertensione è un rischio di danno
cardiovascolare così rilevante).

Funzionamento del baroriflesso arterioso


Il baroriflesso arterioso, principale meccanismo di controllo riflesso della pressione arteriosa, funziona come
un circuito chiuso a retroazione negativa.

243
Un segnale di riferimento, che equivale al forno e alla manopola con cui si setta la temperatura, viene
confrontato con un segnale che giunge da dei sensori, ovvero i sensori di temperatura nel forno, mentre nel
nostro organismo per quanto riguarda la ricezione della pressione sono responsabili i barorecettori. La
differenza tra i due segnali (quello di riferimento e quello percepito dai barocettori) può essere zero, e dunque
non si ha risposta, o diversa da zero, in cui i segnali dai barocettori è diverso da quello di riferimento (nel caso
del forno invece quando la temperatura interna è diversa dal quella impostata).
Se si verifica un segnale di errore entra in gioco l’attivazione degli effettori, ovvero il cuore e i vasi
dell’apparato cardiovascolare (la resistenza elettrica nel caso del forno), regolati dal sistema nervoso
autonomo, quindi i neuroni simpatici e parasimpatici. Gli effettori rispondono anche ad altri disturbi di vario
genere, come l’alzarsi in piedi, che comporta una modifica del ritorno venoso per motivi gravitazionali.
Il risultato finale dell’azione del sistema nervoso autonomo e dei disturbi consiste poi in una modificazione
della pressione arteriosa, ovvero l’uscita del sistema, rilevata dalle afferenze dei barorecettori, che
retroagiscono e mandano informazioni che vengono confrontate coi segnali di riferimento. Si parla quindi di
un circuito chiuso in retroazione negativa.

I barorecettori recepiscono informazioni sulla pressione arteriosa, che trasferiscono tramite fibre afferenti al
centro di coordinamento del sistema nervoso centrale, nel bulbo. Da qui si dipartono fibre efferenti che
controllano, grazie al sistema nervoso autonomo, cuore e vasi, i quali sono effettori modificatori della
pressione arteriosa. Tali modificazioni sono poi rilevate nuovamente dai barorecettori, sensibili appunto a
questi valori.
Tornando al forno: si immagini di smontare il forno per vederne il funzionamento interno. La teoria dei
controlli insegna dove bisognerebbe andare a guardare, ovvero si dovrebbero cercare degli elementi che per
forza sono presenti perché avvenga il corretto funzionamento del sistema. È necessario che siano presenti dei
sensori di temperatura, equivalenti nel nostro organismo a barorecettori, ed è necessario sapere in quali
condizioni si rompono. Inoltre, il sensore nel forno non può essere lì fine a se stesso, devono esserci fili elettrici
che connettono il termostato del forno a qualche scheda integrata nel forno stesso; allo stesso modo nel nostro
organismo i barorecettori sono integrati a un centro di integrazione, mentre i fili elettrici corrispondono ai
nervi. Dopodiché bisogna trovare la centralina del forno che riceve i segnali dal termostato, equivalente nel
nostro organismo alle porzioni del sistema nervoso centrale che funzionano da centro di integrazione del

244
baroriflesso. Si avranno infine degli effettori: la serpentina nel forno, mentre cuore e vasi sanguigni
nell’organismo, controllati sempre da fibre elettriche.
Bisognerà capire poi qual è la fisica che mette in relazione l’attività degli effettori con la variabile in via di
misurazione, che in questo caso corrispondono alle considerazioni fisiche emodinamiche già esplorate nelle
scorse tesine per vedere come cuore e vasi contribuiscono alla pressione.
Infine, bisognerà valutare la relazione tra la variabile controllata dagli effettori e il sensore. La relazione
potrebbe non essere immediata: analizzando il caso del forno si deduce che esso difficilmente ha un sensore
di temperatura volante nel vano, probabilmente il sensore sarà nella parete del forno. Come misura la
temperatura? Verosimilmente funziona come un termistore, di conseguenza sarà di un materiale che cambia la
resistenza elettrica quando cambia la temperatura del forno stesso. Esso quindi non misura temperatura
direttamente, ma misura precisamente le sue variazioni di resistenza che conseguono alle variazioni di
temperatura.
Tutti questi ragionamenti sono da trasferire nel nostro organismo.
Domanda di uno studente. Come fanno i riflessi ad avere effetto sui meccanismi locali, se questi sono sostanzialmente
indipendenti? La modulazione degli effetti locali avviene grazie all’attività del sistema nervoso simpatico e parasimpatico.
Così come variazioni dell’attività simpatica diretta al cuore modificano la massima pressione sistolica isometrica a parità
di volume telediastolico, quindi modulano l’effetto del meccanismo di Frank-Starling sull’effettore, allo stesso modo
l’attività simpatica modulerà i meccanismi locali di accoppiamento flusso-metabolismo e di autoregolazione del flusso
ematico.

11.1. Regolazione riflessa della pressione arteriosa: localizzazione, struttura e


caratteristiche funzionali dei barocettori aortici e carotidei; riflessi cardiaci e
vasomotori a partenza dai barocettori aortici e carotidei

Localizzazione, struttura e caratteristiche funzionali


I barocettori sono alle porte della circolazione cerebrale, all’origine dell’arteria carotide interna, che si stacca
dalla carotide comune, in corrispondenza di una dilatazione detta seno carotideo. Si trovano anche alle porte
della circolazione sistemica, quindi a livello dell’arco aortico.
I barorecettori sono terminazioni libere di neuroni, che fungono da neuroni sensoriali. Queste terminazioni
meccanosensibili sono incluse nella parete del seno carotideo e dell’arco dell’aorta, in particolare nella tonaca
avventizia.
Esempio. È come se essi fossero degli elastici, annegati nella parete. Infatti, alla stessa maniera di un elastico,
le pareti hanno una certa complianza e possono cambiare il raggio del vaso, sotto la spinta di una maggiore
pressione vascolare. In questo modo, nel momento in cui il raggio del vaso aumenta, le fibre meccanosensitive
saranno sottoposte a un aumento di tensione. Sono fibre che rispondono a uno stiramento aumentando le
correnti cationiche che entrano al loro interno, determinando quindi scariche di potenziali d’azione. Maggiore
è lo stiramento delle fibre, maggiore è la scarica di potenziali d’azione.
La cosa importante da notare è che tecnicamente essi non sono dei barorecettori: è giusto chiamarli così per
l’azione che svolgono, tuttavia guardando al significato del nome, è un significato che in senso stretto non
corrisponde effettivamente ai recettori in esame. Questi recettori infatti non misurano direttamente la
pressione, bensì sono meccanorecettori da stiramento. Il loro stiramento è correlato alla pressione dei vasi:
se aumenta la pressione, aumenta il raggio del vaso (la complianza dei vasi non è zero), aumenta la sezione
trasversa del seno carotideo e dell’arco aortico, e si avrà quindi tendenza all’allungamento delle fibre nervose
meccanosensibili. La maggiore tensione delle fibre è rilevata poi dalle fibre stesse. Questo ragionamento non
è puramente accademico ma ha delle conseguenze funzionali importanti:
- sappiamo che la complianza dei grandi vasi diminuisce con l’età e l’invecchiamento biologico; in casi
del genere a parità di aumento di pressione all’interno del vaso, la dilatazione sarà minore e il
barorecettore si accorgerà meno del cambio di pressione;
- altra implicazione funzionale è nei barorecettori localizzati altrove, ad esempio a livello
cardiopolmonare.

245
Vie centrali dei barorecettori

I barocettori carotidei e aortici sono terminazioni libere di fibre che entrano a far parte di nervi cranici: il
nervo glossofaringeo (IX) per i barorecettori del seno carotideo e il vago (X) per gli aortici. (Il prof ribadisce:
Il riflesso barorecettivo è il principale meccanismo di controllo della pressione arteriosa ed è importante
ricordarlo in ambito medico per due ragioni: la pressione arteriosa elevata è il principale fattore di rischio
cardiovascolare e le patologie cardiovascolari sono la prima causa di morte al mondo.)
Le afferenze dai barorecettori arrivano al bulbo nel nucleo del tratto solitario, che è la principale stazione
di afferenza delle informazioni che arrivano ai visceri. Da qui le informazioni prendono delle strade distinte:
una per il controllo dell’attività del sistema nervoso parasimpatico, l’altra per il simpatico.
 Via del parasimpatico
Ci sono fibre eccitatorie che a partire dal nucleo del tratto solitario raggiungono il nucleo ambiguo.
Qui troviamo i neuroni pre-gangliari del parasimpatico che controllano l’attività cardiaca, mandando
fibre pre-gangliari che corrono nel nervo vago, raggiungendo dei gangli del parasimpatico raggruppati
in un plesso misto (simpatico e parasimpatico). A livello gangliare i neuroni fanno sinapsi con i neuroni
post-gangliari del parasimpatico, che a questo punto raggiungono il cuore.
N.B. L’immagine presenta anche una proiezione al nucleo motore dorsale del vago, tuttavia per quanto
riguarda il controllo del parasimpatico sul cuore, questa ha un effetto del tutto trascurabile.
Se aumenta la pressione, aumenta la scarica del barorecettore, aumenta l’attività dei neuroni nel nucleo
del tratto solitario, aumenta l’attività dei neuroni nel nucleo ambiguo, aumenta l’attività dei neuroni
post-gangliari del parasimpatico con rilascio di acetilcolina. Sono tutte sinapsi eccitatorie: di
conseguenza, se aumenta la pressione, aumenta l’attività del parasimpatico diretta al cuore.
 Via del simpatico
Dal nucleo del tratto solitario parte una proiezione per una porzione del bulbo: bulbo caudale ventro-
laterale. Da qui origina una seconda proiezione, che va al bulbo rostrale ventro-laterale. Il bulbo
caudale contiene neuroni che mandano sinapsi inibitorie, prima differenza all’interno del circuito
analizzato finora (eccitatorio) e il bulbo rostrale contiene neuroni presimpatici critici per l’attività del

246
sistema nervoso simpatico. Questi sono neuroni che proiettano direttamente in maniera monosinaptica
ai neuroni pregangliari del simpatico, nella colonna intermedio-laterale del midollo spinale (in
particolare nei segmenti toracici, parlando di regolazione cardiaca). Da qui troviamo poi neuroni pre-
gangliari che raggiungono con le loro fibre i gangli del simpatico che si trovano lontano dal cuore,
nella catena del simpatico: da qui partono fibre post-gangliari simpatiche che raggiungono il cuore.
Tutte queste sinapsi sono eccitatorie tranne la prima, dal bulbo rostrale al bulbo caudale. Di
conseguenza, quando aumenta la pressione, l’effetto del simpatico è di segno opposto alla
modificazione iniziale: l’attività simpatica diretta al cuore e ai vasi diminuisce.

Ricapitolando. Barocettori carotidei e aortici → fibre nel IX e nel X → sinapsi (+) nel nucleo del tratto
solitario →
 → sinapsi (+) a livello del nucleo ambiguo sui neuroni pre-gangliari parasimpatici → nervo vago (fibre
pre-gangliari) → sinapsi (+) a livello dei gangli in prossimità del cuore → fibre post-gangliari
innervano il cuore (poiché la catena prevede tutte sinapsi eccitatorie, ad una stimolazione dei
barorecettori consegue un’attivazione del parasimpatico);
 → sinapsi (+) a livello del bulbo caudale ventro-laterale → sinapsi (–) a livello del bulbo rostrale
ventro-laterale → sinapsi (+) a livello della colonna intermedio-laterale sui neuroni pre-gangliari →
sinapsi (+) a livello dei gangli paravertebrali sui neuroni post-gangliari → fibre post-gangliari
innervano il cuore (poiché la catena prevede una sinapsi inibitoria, ad una stimolazione dei
barorecettori consegue una riduzione di attività del simpatico).

La modulazione del cuore avviene sia tramite il sistema nervoso simpatico, sia tramite il parasimpatico. Altro
discorso vale per i vasi, dove il parasimpatico ha un controllo solo su alcuni piccoli distretti: sul circolo
cerebrale, sul circolo coronarico, sul circolo degli organi genitali (dove l’attività è importante ad esempio per
l’erezione). Dal punto di vista emodinamico sistemico il parasimpatico conta molto poco. L’azione del
simpatico è più potente, perché coinvolge più distretti vascolari, quindi di fatto è l’unica.

Le strutture citate nel bulbo contengono neuroni e cellule gliali; i neuroni ricevono anche sinapsi differenti,
ciò fa si che il circuito sia modulabile da strutture del sistema nervoso centrale come la central autonomic
network (rete autonomica centrale), una serie di strutture tra loro collegate che hanno come effetto il controllo
coordinato del sistema nervoso autonomo.

Attività dei barocettori


C’è un’attività di ricerca molto intensa sul baroriflesso, che ha un funzionamento molto complesso. Qui ci
soffermeremo solo sulle basi.
Il grafico a lato mostra come risponde la scarica di un
barorecettore alla pressione arteriosa, in presenza di variazioni
della pressione media. Si ha una certa pressione differenziale
(curva blu); si immagini di variare la pressione arteriosa media
(asse delle ordinate). Il valore normale di pressione media è circa
93 mmHg, quindi circa al centro.
Se la pressione media è molto bassa, i barorecettori scaricano
solo quando la pressione differenziale sale. Quando sale la
pressione media, la scarica è presente per una frazione via via
maggiore della durata del ciclo cardiaco: è presente quando la
pressione sale ma anche quando sta scendendo. Il limite è dato
quando la pressione media è molto alta e la scarica dei
barorecettori è sempre presente. Inoltre, per valori intermedi, la
scarica è comunque maggiore quando la pressione differenziale
sta salendo, piuttosto che quando sta scendendo.
In conclusione, i barorecettori rispondono sia alle variazioni
della pressione, sia al valore medio della pressione. Queste sono caratteristiche che potrebbero essere
associate rispettivamente a recettori a rapido adattamento e a lento adattamento. Grazie a questa sensibilità i
barorecettori riescono a mappare i risultati finali di tutte le grandezze da cui dipendono la pressione
differenziale e la pressione media: ad esempio la gittata cardiaca, le resistenze vascolari periferiche, la
complianza dei vasi, le variazioni del volume di sangue nelle arterie.

247
Osserviamo ora il grafico a lato. Se aumenta la pressione nel seno
carotideo (situazione analoga si avrebbe nell’arco dell’aorta), l’attività
simpatica scende, a causa della sinapsi inibitoria di cui si è discusso. Il
contrario succede per l’attività parasimpatica che sale, essendo
caratterizzata da tutte sinapsi eccitatorie.
Interessante è il fatto che si costituiscono funzioni sigmoidali con
saturazione per valori bassi di pressione del seno (alta attività simpatica
e bassa attività parasimpatica), ma anche per valori alti di pressione.
Quindi il baroriflesso funziona abbastanza bene per valori medi, in
quanto la sua attività di modulazione sarà molto forte, mentre funziona
male per valori di pressione molto alti o molto bassi.

Controllo della pressione


Possiamo schematizzare il controllo della pressione come segue.

 Resistenza. Se aumenta l’attività simpatica diretta ai vasi, aumenta la resistenza vascolare periferica
e di conseguenza la pressione arteriosa, perché la pressione arteriosa media è data dal prodotto di
gittata cardiaca e resistenza vascolare periferica.
 Frequenza cardiaca. Se aumenta l’attività del simpatico, la frequenza cardiaca sale (effetto
cronotropo positivo), se aumenta l’attività parasimpatica la frequenza scende (effetto cronotropo
negativo), con effetti di aumento e diminuzione della gittata cardiaca (ergo, della pressione arteriosa
media). In realtà si tratta di un meccanismo poco potente, in quanto la relazione tra frequenza e gittata
cardiaca è a U invertita, ma almeno nella fase di salita della curva, l’aumento è rilevante.
 Contrattilità. Se aumenta l’attività simpatica aumenta la contrattilità, viceversa per il parasimpatico.
L’aumento di contrattilità è correlato all’aumento della forza generata dal ventricolo, quindi
all’aumento della gittata sistolica, aumento della gittata cardiaca e quindi alla pressione.
 Tono venoso. In linea teorica, stimolando il simpatico nelle vene, si contrae il muscolo liscio nelle
vene e possiamo così ridurre la complianza delle vene. Ciò fa si che aumenti la pressione venosa
centrale, che sposta la curva di funzionalità vascolare a valori più alti. Tuttavia, ancora non si sa se il
baroriflesso ha effetto sul tono venoso: evidenze animali suggeriscono che l’attività simpatica evocata
da un baroriflesso riduca il tono venoso, ma questo ancora non è chiaro per l’uomo.
 Produzione di ADH (ormone antidiuretico o vasopressina). Come dice il nome stesso l’azione
dell’ormone è quella di ostacolare la diuresi, come vedremo trattando il rene. Per ora si ricordi solo
che, perdendo meno acqua, si mantiene alto il volume di liquidi corporei e almeno in parte si ha quindi
un aumento del volume ematico, quindi un aumento di pressione arteriosa. L’aumento di ADH non è

248
mediato dal simpatico e dal parasimpatico ma da fibre nervose che collegano il nucleo del tratto
solitario ai neuroni ipotalamici deputati alla produzione dell’ormone.

Nello schema in alto osserviamo gli effetti semplici causali rappresentati


da frecce e troviamo poi dei segni, che caratterizzano l’effetto. Per valutare
l’effetto complessivo, seguendo un ragionamento formale, consideriamo
il segno di ogni effetto causale preso singolarmente e poi moltiplichiamo
per il numero di eventi. Se aumenta il valore della variabile causa
(pressione arteriosa, origine della freccia), avremo un aumento del valore
della variabile conseguenza, dato dalla punta della freccia. Il segno
complessivo sarà dato dal prodotto dei segni dei singoli effetti, risultando
quindi in un effetto molto potente del baroriflesso, che lavora su più
effettori.

Come si osserva nel grafico a lato, l’effetto più importante del


baroriflesso sulla resistenza vascolare si manifesta nel letto mesenterico,
per variazioni di lunga durata, e nel letto muscolare scheletrico, per
variazioni di breve durata. In sintesi, gli effetti del baroriflesso si
manifestano su una molteplicità di letti vascolari.

Cenni clinici

Si osservano tracciati tratti da un soggetto sottoposto a una denervazione bilaterale dei seni carotidei.
Questa denervazione era stata il risultato di una resezione chirurgica di un tumore bilaterale nei glomi carotidei,
quindi di fatto si presenta come effetto collaterale di una terapia oncologica. L’effetto sul paziente è stato
quello di ipotensione ortostatica, cioè di ipotensione conseguente all’assunzione della posizione eretta.
Analizziamo cosa accade. Per l’effetto gravitazionale si ha accumulo di sangue nelle vene degli arti declivi,
quindi ritorno venoso ridotto: la curva di funzionalità vascolare si sposta, il sistema si assesta a lavorare a
valori di gittata più bassi del normale e la pressione crolla.
Dopo un anno dall’intervento (grafico a destra) ci sono stati degli adattamenti (i barorecettori residui nell’arco
dell’aorta hanno preso più importanza), tuttavia una transitoria ipotensione ortostatica si manifestava ancora.
In conclusione, il baroriflesso e le sue afferenze sono indispensabili per la regolazione della pressione arteriosa;
in questo caso patologico se si lascia all’organismo il tempo di riassestarsi, la situazione viene un po’
riequilibrata, ma comunque il problema rimane (si può affermare che baroriflesso non è un meccanismo
ridondante: nei momenti in cui il riflesso viene meno, l’organismo non riesce a compensare completamente la
sua mancanza).

Riflesso barocettivo e controlli vascolari integrati


Si prenda in considerazione il seguente grafico, tratto dall’articolo “Respiratory Sensations, Cardiovascular
Control, Kinaesthesia, and Transcranial Stimulation During Parlysis in Humans”, pubblicato sul Journal of
Physiology nel 1993.

249
Questo grafico rappresenta la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca in un paziente al quale era stato
somministrato un farmaco inibitore paralizzante a livello della placca neuro-muscolare, con un totale blocco
muscolare (venivano paralizzati anche i muscoli respiratori, motivo per cui il paziente, durante l’esperimento,
è intubato). L’utilizzo di un laccio emostatico impediva l’arrivo del farmaco a una mano, così che al paziente
fosse possibile interagire durante lo studio. Al paziente è stato poi chiesto di contrarre i muscoli degli arti
inferiori ma, ovviamente, era impossibilitato, anche al massimo dello sforzo. Si è potuto osservare però che il
comando comportava un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, proporzionale alla
intensità dello sforzo fattuale (anche se questo non veniva effettivamente compiuto). Questo effetto è dovuto
all’attività del comando autonomico centrale.

Esercizio fisico e baroriflesso


In condizioni fisiologiche con l’esercizio fisico si ottiene un aumento del consumo energetico dei muscoli e,
contestualmente, un aumento della produzione di cataboliti da parte degli stessi. Per il meccanismo di
accoppiamento flusso-metabolismo ad un aumento dei cataboliti corrisponde una vasodilatazione con
conseguente diminuzione delle resistenze vascolari periferiche e un aumento del flusso ematico. A questo
segue una modificazione delle curve di funzionalità cardiaca e vascolare, a causa della riduzione della
pressione arteriosa, quindi del post-carico cardiaco: la curva di funzionalità cardiaca ruota verso un aumento
della gittata cardiaca, mentre la curva di funzionalità vascolare ruota verso un aumento della pressione
venosa centrale. Pertanto:
 l’apparato cardiovascolare lavora per valori massimali di gittata cardiaca superiori a quelli normali,
utile sotto sforzo nei muscoli scheletrici che hanno bisogno di maggior apporto ematico, cercando però
di mantenere il flusso ematico costante o, perlomeno, non troppo ridotto, negli altri tessuti;
 in seguito a una riduzione di pressione, prodotta da un meccanismo locale, il meccanismo rischia di
essere deleterio a causa di una risposta autoregolatoria che porta a una riduzione delle proprie
resistenze per cercare di mantenere il flusso ematico invariato, senza curarsi tuttavia della pressione
dell’organismo. La caduta di pressione può essere tale da rendere inefficace anche la risposta
autoregolatoria locale (quest’ ultima funziona solo per intervalli di valori nel plateau).

Il nostro organismo cerca di risolvere la caduta di pressione con il baroriflesso e anticipa un eventuale calo
di pressione con il comando autonomico centrale: quest’ ultimo, nello specifico, comporta un aumento della
frequenza cardiaca, della contrattilità e delle resistenze vascolari periferiche. Il risultato finale di queste
modifiche è un innalzamento della pressione arteriosa e della potenza globale dell’appartato cardiovascolare,
in modo tale che qualsiasi calo della pressione arteriosa che provi a manifestarsi in seguito a una
vasodilatazione mediata da un effetto metabolico muscolare, vada a sommarsi a un aumento della pressione
arteriosa mediata dal comando autonomico centrale. Normalmente tali effetti vanno a controbilanciarsi ed è
ciò che avviene anche nell’assunzione della stazione eretta.

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Comando autonomico centrale e baroriflesso
Il nostro organismo non organizza movimenti complessi come la locomozione, controllando istante per
istante ogni muscolo del nostro corpo. Infatti, il controllo dei muscoli è associato a una rete di interneuroni che
ci permettono di generare schemi motori spazio-temporali. Ciò permette una gestione coordinata dell’apparato
muscolare, nella quale l’encefalo si limita a selezionare schemi motori adatti ai movimenti più fini, fluidi e più
“economici” da un punto di vista computazionale. Anche per quanto riguarda il baroriflesso si hanno
interneuroni che modificano l’attività del baroriflesso e motoneuroni che agiscono direttamente sui muscoli di
vasi e cuore, modificando le condizioni del sistema cardiovascolare: sono anch’essi dei motoneuroni, ma di
tipo vegetativo: quando si parla di schemi motori sono quindi compresi tanto i motoneuroni somatici quanto i
neuroni vegetativi del Sistema Nervoso Autonomo e i motoneuroni di tipo endocrino.

Il comando autonomico centrale lavora in parallelo, sia controllando il cuore e i vasi sanguigni, sia
modulando l’attività del centro d’integrazione del baroriflesso: questo permette di pensare al comando
autonomico centrale come la manopola che regola la temperatura del forno (sistema di controllo a ciclo aperto);
ovviamente non abbiamo un’effettiva “manopola” nel nostro organismo, quanto piuttosto un segnale di
riferimento, il comando autonomico centrale, che a sua volta nasce dall’attività di una rete di interneuroni. Il
comando autonomico centrale si serve quindi del baroriflesso per anticipare gli effetti causati dalla stazione
eretta (o ad esempio dall’esercizio fisico); questo contribuisce a spiegare perché, rimuovendo i barocettori
carotidei, sia così difficile controllare correttamente i cali di pressione in ortostatismo (vedi cenni clinici in
precedenza).

Un esempio dell’attività del baroriflesso si trova nei grafici in alto (tratti da “The arterial baroreflex resets
with orthostasis” pubblicato su Frontiers in Physiology), in cui è rappresentata la pressione diastolica a sinistra
e la sistolica a destra sull’asse delle x, mentre la frequenza cardiaca (indice dell’attività simpatica e
parasimpatica) si trova sull’asse delle y. In riposta a un aumento della pressione abbiamo una scarica fasica
del baroriflesso (che agisce qui come se fossero presenti recettori a rapido adattamento) che spegne l’attività
simpatica. Questo effetto si vede molto meglio sulla curva diastolica che su quella sistolica (curve nere).

Il tilt test è un test diagnostico che si effettua sul paziente disteso su un lettino inclinato e che permette al
soggetto di passare in maniera graduale e controllata dal clinostatismo all’ortostatismo: permette quindi di
eliminare gli effetti di comando centrale associati all’esercizio ed elimina gli effetti della pompa muscolare sul
ritorno venoso. Il tilt test è usato, tra l’altro, nell’ esame diagnostico differenziale per l’analisi delle sincopi.
L’effetto consiste in una modificazione delle curve sigmoidi che si spostano verso l’alto e verso destra: a
parità di valori di pressione arteriosa l’attività simpatica sui muscoli e la frequenza cardiaca sono
maggiori (curve in grigio chiaro). In questo modo si pompa maggiormente sull’apparato cardiovascolare,
come già detto l’aumento di frequenza e dell’attività simpatica servono per prevenire il calo di pressione che
(teoricamente) dovrebbe verificarsi a causa dell’esercizio fisico. Nel caso specifico (continuiamo a riferirci ai
grafici in alto) il calo di pressione arterioso sarà invece dovuto al mancato ritorno venoso poiché, come si è
detto, abbiamo annullato l’effetto della pompa muscolare. L’assunzione della stazione eretta comporta quindi
uno spostamento delle sigmoidi analogo a quello che si avrebbe in anticipazione dell’esercizio fisico (ma anche
in altre situazioni); questo sottolinea come il comando autonomico centrale sfrutti il baroriflesso.

Comando autonomico centrale e sonno


Finora si è parlato di comandi centrali che vanno a potenziare il sistema in seguito a una diminuzione del
ritorno venoso, dovuta all’assunzione della stazione eretta con rispettive riduzioni di pressione e/o variazioni

251
nelle resistenze periferiche. Tuttavia, è bene valutare anche il comando autonomico centrale in relazione al
sonno, che ha una importanza fondamentale nella prognostica degli eventi cardiovascolari avversi, legati
all’analisi della pressione arteriosa notturna. Il sonno non è uno stato omogeneo: si suddivide in due
macrostrati, sonno REM, con movimenti oculari rapidi, e Non-REM, senza movimenti oculari rapidi. Durante
il sonno NREM (80% del sonno totale) la frequenza cardiaca cala rispetto alla media, così come la pressione
arteriosa, l’attività simpatica e le resistenze periferiche; ciò però non è legato all’azione del riflesso
barorecettivo, poiché questo di norma, in seguito a un calo della pressione arteriosa, comporterebbe un
aumento della frequenza cardiaca e dell’attività simpatica. La fase NREM è legata all’azione del comando
autonomico centrale, che nel sonno lavora “al contrario”, ossia spegnendo le vie e riducendo l’attività
cardiovascolare, così da poterla mettere “in manutenzione”, rispetto alla fase diurna quando invece è in piena
attività. Ciò non è dissimile da quello che avviene nella caldaia di casa, dove si va a regolare la centralina
programmata con la temperatura di riferimento: andare a regolare in maniera anticipatoria è un analogo della
regolazione pro-attiva.

Esercizio fisico e baroriflesso (2)


Riprendiamo ancora il controllo cardiovascolare durante l’esercizio fisico.
In questo frangente ci sono problemi a cui l’organismo deve far fronte:
 L’accoppiamento flusso-metabolismo: l’attivazione del muscolo scheletrico causa un aumento di
metabolismo, che induce vasodilatazione a livello dei vasi del muscolo scheletrico stesso; se si utilizza
un numero importante di muscoli la vasodilatazione sarà significativa a livello sistemico. Questo causa
un calo delle resistenze periferiche, quindi della pressione arteriosa sistemica.
 Inoltre l’esercizio si fa in posizione ortostatica, questo si oppone al ritorno venoso.
Vi sono tuttavia anche meccanismi potenzialmente positivi che si mettono in atto durante l’esercizio fisico:
 come si è già visto, il calo delle resistenze vascolari periferiche porta ad un aumento della gittata
cardiaca;
 l’altro aspetto da considerare è che, comportando l’attivazione dei muscoli, l’esercizio fisico attiva la
pompa muscolare scheletrica che facilita il ritorno venoso.

Bisogna ora considerare qual è il ruolo del comando autonomico e del baroriflesso. Il comando autonomico
centrale modifica l’attività del baroriflesso permettendo di lavorare a valori di frequenza cardiaca e di attività
simpatica maggiori del normale. Il baroriflesso in risposta a un qualsiasi calo di pressione arteriosa che dovesse
verificarsi durante l’esercizio, che può essere dovuto a
vasodilatazione metabolica muscolare, piuttosto che
all’ortostatismo, induce un aumento della frequenza cardiaca.
Nel grafico possiamo evidenziare aumenti quasi lineari della
frequenza cardiaca all’aumento del consumo di ossigeno da parte
dell’organismo.
È innanzitutto bene notare che nel grafico il consumo di O2 è
normalizzato al consumo massimo di ossigeno che ogni soggetto
è in grado di consumare facendo esercizio: se confrontiamo un
sedentario con un atleta professionista e valutiamo il consumo di
ossigeno che i due possono sviluppare facendo esercizio, il primo
potrà, al massimo dei suoi sforzi, consumare meno ossigeno del
secondo; avremo quindi sull’asse delle x il consumo di ossigeno
a riposo come valore minimo (Rest) e il consumo di ossigeno
massimo come valore massimo (VO2max).
Anticipato questo possiamo notare che all’aumentare del
consumo di ossigeno si ha un aumento della frequenza
cardiaca. Questo è dovuto, per quanto riguarda i meccanismi, al
comando centrale e al baroriflesso (ce ne sono anche altri); per
quanto riguarda invece gli effettori autonomici sono coinvolti sia
simpatico che parasimpatico.
L’aumento di frequenza cardiaca sarà dovuto a un aumento
dell’attività simpatica e ad un calo di quella parasimpatica. Per
bassi livelli di consumo di ossigeno è prevalente l’effetto della
diminuzione dell’attività parasimpatica: questo non sorprende,

252
perché sappiamo che a riposo l’attività del parasimpatico prevale su quella del simpatico. Viceversa, per alti
livelli di consumo di ossigeno prevale l’effetto dell’aumento dell’attività simpatica. Non c’è tuttavia una
soglia di consumo di ossigeno sotto la quale l’effetto sia dovuto esclusivamente all’attività parasimpatica o
sopra la quale l’effetto sia dovuto esclusivamente all’attività simpatica.
Il comando centrale e il baroriflesso aumentano l’attività simpatica diretta ai vasi sanguigni, effetti che
dipenderanno dai singoli distretti:
 In distretti in cui la regolazione locale prevale sull’attività simpatica, il simpatico avrà effetti molto
modesti: questo succede a livello delle coronarie, dove un aumento del tono simpatico è
controbilanciato dall’aumento del consumo energetico cardiaco che causa vasodilatazione; una
situazione simile si ha anche a livello del sistema nervoso, qui il flusso ematico è infatti mantenuto
costante grazie appunto ad autoregolazione ed accoppiamento flusso-metabolismo.
 Nel muscolo scheletrico attivo l’aumento di attività simpatica prova a limitare la vasodilatazione
indotta dall’accoppiamento flusso-metabolismo.
 Nel muscolo scheletrico inattivo (ponendo ad esempio di fare attività fisica in cui si usano solo
specifici muscoli) il simpatico induce vasocostrizione.
 A livello di rene e intestino l’azione del simpatico sarà importante, con effetto di vasocostrizione; il
baroriflesso si serve infatti soprattutto, per il controllo della pressione, dei vasi renali e (per il controllo
a lunga durata) dei vasi mesenterici.
Possiamo quindi concludere che durante l’esercizio fisico avremo un aumento di gittata cardiaca, grazie alla
modificazione delle curve di funzionalità cardiaca e vascolare, nonché della pompa muscolare che permette di
mantenere il ritorno venoso.
Questa gittata sarà:
 dirottata in gran parte verso muscolo scheletrico in esercizio, dove troviamo una resistenza vascolare
molto ridotta;
 il flusso ematico al cuore aumenta;
 quello al cervello rimane costante;
 quello che accade al flusso a intestino e reni dipende dalla specifica situazione: in condizioni ottimali
non cambia, in caso di necessità saranno però le prime sedi in cui il flusso viene ridotto aumentando
le resistenze locali.
Questa modalità di risposta non è diversa da quella che caratterizza la risposta all’emorragia.
Il tutto può essere riassunto nel seguente schema:

Si ha quindi un controllo a “pacchetto”, comprendente modificazioni dell’attività di muscolo scheletrico,


sistema cardiovascolare e sistema respiratorio, che viene chiamato “central pattern”, con una componente
somatica ed una autonomica. La componente autonomica funge da sistema di controllo “a feed forward”,
anticipatorio, che modifica il punto di lavoro del sistema “a feedback”, cioè del riflesso barocettivo. Il risultato
ultimo è che il valore di pressione, in soggetti in salute, è solo leggermente superiore dei valori basali.

Chemorecettori
Passiamo adesso a concludere il ragionamento sui meccanismi riflessi di controllo cardiovascolare citando i
chemorecettori. Essi sono critici per il controllo della ventilazione e si dividono in periferici e centrali. Quelli
periferici sono localizzati in prossimità di arco aortico e del seno carotico, questi sono i glomi; quelli centrali
sulla superficie ventrale del bulbo. Entrambi sono sensibili all’ipercapnia, inoltre quelli periferici rilevano
iperacidosi e riduzione della pressione parziale dell’ossigeno.

253
I chemorecettori in risposta agli stimoli suddetti comportano effetti su cuore e sui vasi: a livello del cuore si
ha coattivazione vagale e simpatica, a livello dei vasi aumento dell’attività simpatica.
 Per quanto riguarda la frequenza, la coattivazione vagale e simpatica nel cuore porta a bradicardia
perché, come si è già visto, l’effetto del parasimpatico è prevalente;
 per quanto riguarda invece la forza di contrazione prevale l’attività simpatica, si avrà quindi un
aumento della contrattilità;
 in ultima analisi a livello dei vasi l’attività simpatica induce vasocostrizione (nonostante il discorso
vada differenziato sui vari distretti, come fatto prima).
In questa condizione viene favorita inoltre l’aritmia, poiché l’attività simpatica, aumentando l’eterogeneità
di ripolarizzazione favorisce l’insorgenza di fenomeni aritmici.

Qual è la logica funzionale di questo sistema? Un esempio funzionale: il riflesso di immersione.


Poniamo che un animale terricolo cada in una profonda pozza d’acqua: recettori trigeminali nella regione
orale e nasale inibiscono la respirazione (riflesso di immersione); questo è un meccanismo molto efficiente nei
neonati ma attivo anche negli adulti.
L’animale nel cercare di uscire dalla pozza dovrà fare esercizio fisico, il quale va sostenuto da un punto di
vista emodinamico e in assenza di ossigeno, questo è particolarmente complicato per il cuore, che lavora con
metabolismo ossidativo. Si ha quindi l’attuazione dei tre meccanismi sopra descritti: un calo di frequenza
cardiaca, un aumento della contrattilità e vasocostrizione. L’aumento dell’attività simpatica ha l’effetto di
limitare un eventuale calo pressorio che potrebbe occorrere a causa della bradicardia ma anche a causa della
risposta degli stessi vasi, i quali si dilatano a seguito ad ipossia del tessuto (meccanismo metabolico di
autoregolazione del flusso ematico). Meccanocettori nei muscoli nella gabbia toracica segnalano al SNC
l’attività della ventilazione dal punto di vista meccanico. Questi meccanocettori inibiscono il meccanismo
appena descritto.
Non appena l’animale trova un appiglio per tirarsi fuori dall’acqua, cessa l’apnea, inizia una vigorosa
iperventilazione che segnala all’organismo che è passato il momento critico; a questo punto i meccanismi
suddetti diventano inutili, e anzi potenzialmente dannosi.
Gli effetti autonomici del chemoriflesso si manifestano solo se gli effetti ventilatori del chemoriflesso sono
bloccati.51

51
Dal Boron & Boulpaep: “Gli effetti cardiovascolari intrinseci dell’ipossia sui chemocettori periferici comprendono
vasocostrizione e bradicardia. Non è tuttavia facile dimostrare questa bradicardia riflessa primaria, in quanto osservabile
solo durante un’apnea forzata. In condizioni di vita reale, l’ipossia causa tachicardia. Perché? L’ipossia, attraverso i
chemocettori periferici, stimola normalmente i centri respiratori del bulbo, che a loro volta stimolano la ventilazione.

254
11.2. Riflessi a partenza dai recettori cardiaci
Sebbene ci siano barocettori a livello delle vene che si gettano negli atri (in particolare nelle vene polmonari)
e nelle pareti di atri e ventricoli, simili a quelli carotidei e aortici, l’entità delle risposte a questi recettori è
controversa; per lo più essi vanno infatti a coadiuvare il riflesso arterioso.
È bene ricordare che sebbene questi recettori vengano chiamati barocettori la vera variabile che misurano è
la distensione del vaso (esattamente come per i barocettori carotidei e aortici).

Riflesso di Bainbridge
Il Berne & Levy si dilunga sul riflesso di Bainbridge che (a detta di Silvani) più che di interesse fisiologico
è di interesse storico, in quanto è stato il primo riflesso in retroazione negativa scoperto in ambito
cardiovascolare; possiamo comunque accennare al meccanismo: l’aumento della distensione dell’atrio destro
causa un aumento della frequenza cardiaca; questo riflesso permette di portare in circolo il sangue che si trova
in eccesso all’interno dell’atrio (che risulta così disteso), aumentando la frequenza.
Non essendo un effetto particolarmente potente, l’effetto complessivo è dato dall’interazione tra riflesso di
Bainbridge e riflesso barocettivo, suo antagonista.
L’applicazione clinica è scarsissima, si sta al momento discutendo della sua importanza in ambito
anestesiologico.

Il riflesso di Bainbridge, pur essendo sottovalutato da Silvani, è in programma e quindi potrebbe esser chiesto.
Sul Berne & Levy esso è effettivamente troppo lungo, quindi ho tratto dal Guyton & Hall questa sintesi: “I
recettori di stiramento degli atri scatenano il riflesso di Bainbridge trasmettendo segnali afferenti al bulbo
attraverso i nervi vaghi. La via efferente torna al cuore con il nervo vago e i nervi ortosimpatici, incrementando
frequenza cardiaca e contrattilità del miocardio. In questo modo, il riflesso aiuta a prevenire ogni accumulo di
sangue nelle vene, negli atri e nel circolo polmonare.” In realtà pare che l’effetto predominante sia sulla
frequenza cardiaca, perché gli “effetti sulla contrattilità cardiaca e sulla gittata sistolica sono insignificanti”
(Boron & Boulpaep). In conclusione, i testi sono in disaccordo sugli effetti esatti del riflesso, ma concordano
su un punto: ad un aumento della distensione dei recettori atriali corrisponde un aumento della frequenza
cardiaca, aumento determinato da una via nervosa riflessa (riflesso di Bainbridge).

Riflesso pressorio dell’esercizio


N.B. Ovviamente questo riflesso non è un riflesso a partenza dai recettori cardiaci, ma è stato inserito in
questo punto della tesina per comodità.
L’ultimo riflesso, spesso meno trattato, ma molto più rilevante del riflesso di Bainbridge, è il riflesso
pressorio dell’esercizio.
La branca afferente di questo riflesso è dato dalle fibre amieliniche C e dalle fibre mielinizzate A-δ, queste
piccole fibre rilevano effetti della tensione meccanica e la concentrazione di cataboliti a livello del muscolo
scheletrico (come sappiamo quest’ultima aumenta quando il flusso sanguigno non è abbastanza alto per
supportare il metabolismo energetico). Questi recettori segnalano quindi sia la contrazione del muscolo sia
una non sufficiente perfusione dello stesso.

L’elevata PCO2 che può accompagnarsi all’ipossia stimola i chemocettori centrali, inducendo una stimolazione
indipendente della ventilazione. Questa aumentata ventilazione genera due effetti. In primo luogo, distende i polmoni,
stimolando di conseguenza i recettori di stiramento. Gli impulsi afferenti originanti da questi recettori di stiramento
polmonari inibiscono in un’ultima analisi il centro cardioinibitorio, causando una tachicardia riflessa. In secondo luogo,
l’aumentata ventilazione alveolare indotta dall’ipossia abbassa la PCO2 sistemica, determinando un innalzamento del pH
del LEC cerebrale e inibendo il centro cardioinibitorio. L’effetto netto è, di nuovo, una tachicardia. La risposta fisiologica
all’ipossia è, pertanto, la tachicardia.”

255
Il centro di integrazione di queste informazioni è ancora poco noto. La risposta indotta porta all’attivazione
del simpatico e all’inibizione del parasimpatico, con conseguente aumento di frequenza cardiaca e pressione
arteriosa e della resistenza vascolare.
Ci sono evidenze che questo riflesso sia deregolato in patologie come lo scompenso cardiaco.

11.3. Ruolo del sistema renina-angiotensina-aldosterone


Nota. Il punto seguente è stato spiegato e va studiato in seguito alle tesine Funzioni del glomerulo renale, Funzioni del
tubulo renale e Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei.

Nella tesina Funzioni del glomerulo renale, l’enzima renina era stato introdotto nella descrizione del
meccanismo di retroazione tubulo-glomerulare. Nel dettaglio, si era parlato di come un aumento della
concentrazione di ioni calcio all’interno delle cellule granulari dell’arteriola afferente potesse inibire il rilascio
di vescicole contenenti renina, secondo un raro meccanismo di regolazione paradossale.
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone è un sistema che coinvolge l’intero organismo, secondo un
graduale processo a tappe. Il tutto comincia dalla secrezione di renina da parte delle cellule granulari
dell’arteriola afferente a livello dell’apparato iuxtaglomerulare. In particolare, i fattori che inducono il rilascio
dell’enzima sono:
1. Una riduzione dell’apporto di NaCl alla macula densa. Citando il meccanismo di retroazione
tubulo-glomerulare, un aumento dell’apporto di NaCl alla macula densa induce un aumento
dell’attività del trasportatore NKCC2 e della secrezione di adenosina e ATP nello spazio
extracellulare, con conseguente vasocostrizione e inibizione del rilascio di renina. È logico quindi
concludere che, secondo il meccanismo contrario, a una riduzione dell’apporto di NaCl a livello della
macula densa consegue vasodilatazione e aumento del rilascio di renina da parte delle cellule granulari
dell’arteriola afferente.
2. Una riduzione della pressione idraulica nell’arteriola afferente (Paff), che implica una riduzione
della pressione transmurale dell’arteriola stessa. In un certo senso, l’arteriola si sgonfia e questo
implica delle modificazioni della resistenza secondo meccanismo miogeno. In risposta al calo di
pressione, la resistenza della arteriola afferente tende a diminuire in modo tale da mantenere costanti
la VGF e il FPR. Contestualmente, si ottiene un aumento del rilascio di renina. Da notare come questo
meccanismo sia correlato con quello sopracitato della riduzione dell’apporto di NaCl, dove si assisteva
a una vasodilatazione della arteriola afferente e, di conseguenza, a una riduzione della resistenza del
vaso. Come verrà difatti approfondito nei successivi paragrafi, in presenza di vasocostrizione segue

256
una riduzione del rilascio di renina, mentre, in presenza di vasodilatazione, la renina viene rilasciata
in misura maggiore. Dal Boron: “Le cellule granulari delle arteriole afferenti percepiscono il calo di
stiramento associato a un volume circolante effettivo basso. Questo calo di distensione abbassa la
[Ca2+]i, facendo aumentare il rilascio di renina. Al contrario l’aumento della distensione (volume
elevato) inibisce il rilascio di renina”.
3. Un aumento dell’attività simpatica diretta all’arteriola afferente. Si tratta di un effetto mediato da
recettori β-adrenergici ed è importante perché ha delle implicazioni farmacologiche. Dal Boron: “Un
basso volume circolante effettivo, percepito dai barocettori situati nella circolazione arteriosa
sistemica, segnala ai centri di controllo tronco-encefalici di incrementare l’uscita simpatica
sull’apparato iuxtaglomerulare, che stimola a sua volta il rilascio di renina”.
Giunti a questo punto, è bene ragionare in termini di valore adattativo per l’organismo, riportando alcuni
esempi pratici che riguardano i sopracitati fattori di regolazione del rilascio di renina.

Esempio 1. Calo di pressione nell’arteriola afferente


Il rene, da un punto di vista locale, dilata l’arteriola così da mantenere costanti VFG e FPR, secondo un
meccanismo di autoregolazione miogeno. Se si considera invece una visione sistemica, dell’organismo nella
sua interezza, c’è il rischio che il calo di pressione osservato a livello dell’arteriola afferente sia correlato a un
più generale calo di pressione arteriosa. Il sistema renina-angiotensina-aldosterone permette in questo modo
di risollevare la pressione arteriosa. Si assiste dunque a due meccanismi, quello di autoregolazione e quello
messo in atto dalla renina, con effetti apparentemente contrastanti, che tuttavia apportano beneficio sia al rene
sia all’organismo in toto. Riassumendo:

Calo di pressione arteriosa sistemica → calo di pressione nell’arteriola afferente → calo della [Ca2+] nelle
cellule muscolari lisce dell’arteriola afferente e vasodilatazione → calo della [Ca2+] nelle cellule granulari e
mancata inibizione del rilascio di renina → la renina viene rilasciata.
In questo modo, sono mantenuti contemporaneamente adeguati sia i livelli di FPR e VFG, sia la pressione
arteriosa sistemica.

Riportando anche il caso contrario.


Aumento di pressione nell’arteriola afferente → aumento della [Ca2+] nelle cellule muscolari lisce
dell’arteriola afferente e vasocostrizione → aumento della [Ca2+] nelle cellule granulari e inibizione del
rilascio di renina per controllo paradosso.

Esempio 2. Riduzione dell’apporto di NaCl alla macula densa


Le ragioni di questa riduzione potrebbero essere dovute a una più generale riduzione di sodio in circolo o a
una riduzione della VFG, dovuta a sua volta da un calo di pressione arteriosa. Analogamente al precedente
esempio, a livello locale, nel rene, viene dilatata l’arteriola afferente in modo tale da aumentare VFG e il
conseguente carico filtrato di NaCl. Da un punto di vista sistemico, se la riduzione della VFG è effettivamente
dovuta a un calo di pressione, l’organismo risponde incrementando la produzione e il rilascio di renina. Di
nuovo, è facile notare l’apparente dicotomia fra meccanismi di regolazione locale e sistemica che, in realtà,
agiscono in maniera del tutto sinergica.

Esempio 3. Aumento dell’attività simpatica


In risposta a un calo di pressione arteriosa il riflesso barocettivo aumenta l’attività simpatica su alcuni organi
bersaglio, fra cui il rene. Ecco che allora il rilascio di renina rappresenta un importante meccanismo attraverso
il quale il riflesso barocettivo contribuisce a svolgere la propria funzione.

257
Sistema renina-angiotensina-aldosterone
La renina, di per sé, non ha delle funzioni biologiche rilevanti, salvo quella di fungere da enzima proteolitico
nei confronti del peptide
angiotensinogeno, prodotto dal fegato e
rilasciato in circolo: la renina lo cliva,
generando angiotensina I. L’angiotensina
I, a sua volta, può essere proteolizzata
dall’enzima ACE (Angiotensin
Converting Enzyme, enzima di
conversione dell’angiotensina), espresso
sulla superficie luminale dell’endotelio
vascolare, principalmente a livello dei
polmoni, con produzione di angiotensina
II. L’angiotensina II ha degli effetti
importanti sul rene, sui vasi,
sull’ipotalamo e a livello delle ghiandole
surrenali stimola la sintesi e il rilascio di
aldosterone. L’aldosterone sarà quindi
critico nella funzione di innalzamento
della pressione arteriosa.

Funzioni dell’angiotensina II sul rene

L’angiotensina II, a livello renale, agisce in duplice sede:


 Sulle resistenze arteriolari. Gli effetti prodotti dall’ANG II dipendono, in particolare, dalla sua
concentrazione. A basse concentrazioni di ANG II, questa agisce in maggior misura sull’arteriola
efferente, poiché più sensibile, causando vasocostrizione: ciò causa un calo del flusso ematico
renale e un aumento della VFG, così da avere valori elevati di frazione di filtrazione. Ad alte
concentrazioni di ANG II, questa inizia ad agire anche sull’arteriola afferente. Le due resistenze
si sommano, causando una diminuzione del flusso renale e della VFG: la VFG però diminuisce
meno del flusso ematico renale e dunque il rapporto VFG/FPR, cioè la frazione di filtrazione,
aumenta. Come conseguenze, la pressione idrostatica dei capillari peritubulari diminuisce (a causa
dell’aumento di resistenza a monte) e la pressione colloido-osmotica dei capillari peritubulari
aumenta (a causa dell’aumento della frazione di filtrazione, che porta dunque ad una maggiore
filtrazione di acqua e ad una progressiva concentrazione delle proteine nel plasma): il calo di
pressione idrostatica e l’aumento di pressione oncotica nei capillari peritubulari potenziano il
riassorbimento prossimale di sodio e acqua.
Dal Boron: “ad alte concentrazioni, l’ANG II restringe le arteriole efferenti più di quelle afferenti,
incrementando così la frazione di filtrazione e riducendo la pressione idrostatica nei capillari
peritubulari. L’aumento della frazione di filtrazione incrementa anche la concentrazione delle
proteine alla fine dei capillari glomerulari e quindi innalza la pressione colloido-osmotica dei
capillari peritubulari. Le variazioni di ciascuna di queste due forze di Starling favoriscono il

258
passaggio di acqua e soluti riassorbiti dai tubuli prossimali nei capillari peritubulari e dunque
potenziano il riassorbimento di Na+ e di liquido da parte del tubulo prossimale”.
 Sui vasa recta. L’ANG II, agendo da vasocostrittore, diminuisce il flusso ematico nei vasa recta,
con conseguente riduzione dell’assorbimento di urea dall’interstizio midollare. Aumenta quindi la
concentrazione di urea nell’interstizio e lo scambio sodio-urea a livello dell’apice delle anse di Henle
diventa più attivo, causando una maggiore escrezione di urea a spesa di un maggior riassorbimento
di sodio. Il risultato è quindi un aumento del gradiente per il riassorbimento passivo di NaCl da
parte del segmento sottile ascendente dell’ansa di Henle.
L’effetto ultimo dell’angiotensina II sarà dunque quello di limitare l’escrezione di acqua e sodio in presenza
dell’ormone antidiuretico, stimolato dall’angiotensina stessa.

Effetti combinati di angiotensina II e aldosterone

Ricapitolando, l’angiotensina II stimola il riassorbimento renale di sodio nel tubulo prossimale e riduce il
FPR e la VFG, anche se quest’ultima in misura minore, cosicché la frazione di filtrazione risulti aumentata.
Inoltre, induce un aumento della sete e dei livelli di ADH e vasocostrizione periferica. Viene così
implementata l’acquisizione e la ritenzione di liquidi, in particolare di acqua salata, principale costituente dei
liquidi extracellulari, tra cui il plasma. Il volume ematico conseguentemente cresce favorendo l’attività
dell’apparato cardiovascolare a livelli di gittata cardiaca superiori.
L’angiotensina II inoltre, stimola la produzione di aldosterone, che a sua volta induce un maggior
riassorbimento intestinale e renale di sodio (nel tubulo distale e nel dotto collettore). L’ aldosterone,
mineralcorticoide prodotto dalle ghiandole surrenali, agisce sui canali ENaC, che determinano un gradiente
elettrico transluminale tale da facilitare l’escrezione renale di ioni potassio e idrogeno. In aggiunta, ha anche
effetti avversi pro-fibrotici e pro-infiammatori sull’apparato cardiovascolare.
Un aspetto rilevante è infine l’effetto stimolatorio dell’iperkaliemia nei confronti dell’aldosterone, dovuto
alla funzione potassio-escretoria sopracitata, permettendo cioè che il potassio in eccesso venga eliminato (vedi
punto 4 della tesina Funzioni del tubulo renale).

Aldosterone e riassorbimento di sodio


L’aldosterone potenzia il riassorbimento di sodio a livello renale. Questo effetto consta di più fasi di diversa
durata durante le quali, a seconda della modalità di trasduzione del segnale all’interno della cellula, verranno
modificati i livelli e l’attività di determinate proteine coinvolte nel riassorbimento di sodio.
 Prima fase: si realizza nell’arco di pochi minuti e consiste in alcune modificazioni post-
traduzionali di proteine bersaglio così da attivarne specifiche funzioni. In particolare, viene
provocata la fosforilazione di SgK1, una chinasi che in questo modo si attiva e fosforila e inibisce
Nedd4-2, un’ubiquitina ligasi specifica per una subunità di ENaC (le ubiquitin ligasi sono enzimi
che permettono l’ubiquitinazione di determinate proteine e il loro indirizzamento verso il
proteasoma, prima di essere degradate). Di conseguenza, la mancata inibizione di questo
trasportatore implica un aumento della sua attività e un maggior riassorbimento di sodio a livello
del tubulo distale e del dotto collettore. Così come avviene per ENaC, l’aldosterone agisce nella
fase iniziale attivando proteine chinasi per l’attivazione anche di altri trasportatori.

259
 Seconda fase: della durata di alcune ore, in cui viene incrementata la trascrizione di geni che
codificano per proteine trasportatrici come NCC, ENaC, Na+/K+ ATPasi e ROMK, rilevanti per
l’assorbimento di ioni.

(11.4. Determinazione della pressione arteriosa mediante il metodo


sfigmomanometrico di Riva-Rocci)
Nota. Questo argomento non è propriamente un punto della tesina, in quanto non figura nel programma d’esame sul sito,
tuttavia il prof. ha affermato che se dovesse uscire all’esame questa tesina bisognerebbe parlare anche di questo ulteriore
punto, di cui lui ha dato solo qualche notizia e che durante l’interrogazione va dunque integrato con quanto detto nella
lezione di laboratorio specifica sull’argomento.

Per poter effettuare un esame elettrocardiografico e interpretare i risultati è necessario avere una conoscenza
pratica oltre che una conoscenza approfondita dell'eccitazione cardiaca; allo stesso modo per misurare la
pressione con lo sfigmomanometro occorrono delle abilità pratiche, che si acquisiscono in laboratorio, ma è
assolutamente necessario avere anche una buona conoscenza teorica.
A tale proposito la Società Europea dell’Ipertensione Arteriosa (ESH) e la Società Europea di Cardiologia
(ESC) ha emesso nel 2018, in modo congiunto, delle Linee guida contenenti raccomandazioni per la misura
della pressione arteriosa con lo sfigmomanometro. Questi punti non sono richiesti strettamente all’esame, ma
può capitare che si chieda come bisogna misurare la pressione, in che posizione ecc. (secondo Silvani, una
conoscenza teorica dell’argomento è sufficiente a dedurre tutte le informazioni necessarie).

La misurazione denominata office corrisponde in italiano alla misurazione eseguita con lo sfigmomanometro
nell'ambulatorio del medico, invece, la parola ambulatory è utilizzata per la misura della pressione arteriosa
eseguita durante le 24 ore con dispositivi portatili.

In che posizione deve avvenire la rilevazione della pressione? La postura, così come gli stati emotivi, hanno
degli effetti emodinamici non trascurabili sulla pressione arteriosa perciò è necessario sempre appuntare nel
referto la posizione assunta dal paziente durante la misurazione. Per una misurazione ottimale il paziente deve
essere in condizioni di tranquillità, comodo e rilassato. Nel caso in cui il medico incontri il paziente per la
prima volta è consigliabile misurare la pressione in piedi, seduto e sdraiato per comprendere la situazione
clinica.
Se la pressione è nella norma, nelle prossime visite basterà effettuare la rilevazione sul paziente seduto;
invece, se il paziente, per esempio, ha un calo di pressione quando si alza in piedi allora sarà necessaria la
misurazione in stazione eretta anche le prossime volte.

260
Inoltre, è necessario ricordare di misurare anche la frequenza cardiaca e annotarla in quanto ha un ruolo
emodinamico rilevante.
Non esistono, quindi, termini prescrittivi che indicano cosa fare quando si ha un paziente davanti, però le
conoscenze della fisiologia cardiovascolare vengono in soccorso.

Esistono altre tecniche alternative per la misurazione della pressione quali:


 ABPM (Ambulatory Blood Pressure Monitoring), è una metodica diagnostica usata per misurare la
pressione arteriosa ad intervalli regolari durante le 24 ore.
Consiste in un dispositivo portatile, cioè una macchinetta, che si appoggia sul comodino e presenta un
bracciale che viene gonfiato da una pompa ogni 15-30 minuti.
Consente di misurare la pressione diastolica, sistolica e la frequenza cardiaca durante le attività
quotidiane, ma, soprattutto, di notte.
Questo è fondamentale perché, secondo alcuni studi, i valori della pressione misurata di notte hanno
un potere prognostico superiore rispetto a quello dei valori diurni
 Fotopletismografia, è un marchingegno che sfrutta la pressione transmurale dei vasi per misurare la
pressione battito per battito. Non richiede l’inserimento di un catetere ma consiste in una cuffietta che
viene gonfiata nella quale si inserisce un dito. È una tecnica utilizzata principalmente nell’ambito della
ricerca essendo molto costosa e difficile da impiegare.

261
Determinazione della pressione arteriosa (LABORATORIO)
Dott.ssa Viviana Carmen Lo Martire

La seguente parte è stata curata da Alice De Vivo e Benedetta Maria Capobianco.

N.B. Questa non è una tesina a sé stante, ma uno dei punti che dovranno essere descritti nel caso uscisse
all’esame la tesina Pressione arteriosa e sua regolazione.

La pressione arteriosa è la forza che il sangue esercita sulle pareti delle arterie, della quale si effettua la
consueta misurazione per ottenere utili informazioni relative alla condizione cardiovascolare del paziente.
I fattori determinanti della pressione arteriosa si distinguono in due differenti categorie, strettamente
interconnesse tra loro, quali:
 Fattori fisici:
- volume di sangue complessivamente presente nel sistema arterioso, che dipende dalla velocità
di influsso di sangue (velocità con cui un dato volume di sangue viene pompato dal ventricolo
sinistro del cuore all’interno del sistema arterioso nell’unità di tempo), e dalla velocità di
deflusso di sangue (velocità con cui un dato volume di sangue viene trasferito dalle arterie ai
capillari attraverso la circolazione nell’unità di tempo).
Il valore della pressione arteriosa può variare il relazione al rapporto che intercorre tra le
velocità di influsso e deflusso: se l’influsso è superiore al deflusso, il volume di sangue
presente nel sistema arterioso aumenta, le pareti delle arterie in cui il sangue è contenuto si
distendono maggiormente e conseguentemente aumenta la pressione arteriosa; se il deflusso
è superiore all’influsso, il volume di sangue presente nel sistema arterioso diminuisce e
conseguentemente diminuisce la pressione arteriosa; se influsso e deflusso si equivalgono,
invece, si verifica la condizione ottimale in cui il valore della pressione arteriosa rimane
costante.
- caratteristiche elastiche del sistema (complianza), ovvero il grado di distendibilità dei vasi
sanguigni arteriosi.
 Fattori fisiologici:
- portata (o gittata) cardiaca (gittata sistolica · frequenza cardiaca). Corrisponde all’influsso,
ovvero al volume di sangue pompato dal cuore nel sistema arterioso;
- resistenze periferiche totali: variazioni di queste contribuiscono alla regolazione del deflusso
di sangue da arterie a capillari. Sapendo che la pressione arteriosa deriva dal prodotto tra
gittata cardiaca e resistenze periferiche totali, incrementi di uno o di entrambi questi fattori
comportano complessivamente un aumento del suo valore (e viceversa).

In conclusione, il valore della pressione arteriosa dipende dal volume di sangue complessivamente presente
nel sistema arterioso, che a sua volta è determinato dal volume di sangue pompato nel sistema da parte del
cuore (influsso/portata cardiaca) e dal volume di sangue trasferito dal sistema arterioso ai capillari (correlato
alle resistenze periferiche totali).

L’aumento del valore della pressione arteriosa si verifica


principalmente in seguito all’aumento di volume di sangue presente
nel sistema arterioso, provocato a sua volta da molteplici condizioni:
 aumento delle resistenze arteriolari, con conseguente
riduzione del deflusso comportano l’aumento del volume
complessivo di sangue presente nel sistema arterioso;
 aumento della gittata cardiaca (influsso), dunque aumento
del volume di sangue pompato dal cuore al sistema arterioso;
 condizioni che, complessivamente, comportano l’aumento
della volemia (contenuto totale di sangue nell'organismo).

Nelle immagini: il ventricolo sinistro pompa sangue all’interno del sistema arterioso e
a livello delle arteriole (“vasi di resistenza”) si realizza la regolazione delle resistenze periferiche totali.

262
Vi sono casi in cui, tuttavia, viene rilevato l’aumento del valore della pressione arteriosa a parità di volume
arterioso, ovvero in assenza di variazioni del volume di sangue arterioso, ma conseguentemente a riduzione
della complianza arteriosa: ciò è generalmente causato dalla diminuzione della quantità di elastina nella
parete dei vasi arteriosi, che comporta riduzione del grado di distensibilità di questi e dunque aumento della
pressione. La riduzione della complianza arteriosa induce inoltre l’aumento del carico di lavoro del muscolo
cardiaco che, in tal caso, deve pompare con maggior forza il sangue all’interno del sistema arterioso rispetto a
condizioni in cui la complianza non risulta alterata.

Nel circolo arterioso, nel corso di un ciclo cardiaco la pressione oscilla tra un valore massimo (pressione
arteriosa sistolica) e uno minimo (PA diastolica) corrispondenti, rispettivamente, alle fasi di sistole e diastole
del ventricolo sinistro.
La curva pressoria presenta una caratteristica incisura durante la fase discendente, detta incisura dicrota,
dovuta al rimbalzo pressorio e temporalmente coincidente con la chiusura delle valvole semilunari: una volta
terminata la fase di sistole del ventricolo sinistro, il sangue tende infatti a refluire dall’aorta verso il ventricolo,
andando a riempire e distendere i lembi della valvola semilunare aortica; essa viene chiusa e il sangue vi
rimbalza, con successivo innalzamento della pressione arteriosa funzionale al movimento del fluido verso la
periferia vascolare. La velocità con cui la pressione arteriosa scende durante la diastole dipende dalla costante
di tempo , data dal prodotto tra resistenze periferiche totali e complianza arteriosa.

Effetto Windkessel
Il sistema arterioso presenta caratteristiche morfologiche e funzionali tali da trasformare il flusso
intermittente, generato dall’attività ciclica del miocardio ventricolare, in flusso continuo. L'effetto Windkessel
indica il fenomeno fisiologico che permette, in virtù della natura elastica delle pareti delle grosse arterie, di
smorzare la natura pulsatile del flusso sanguigno determinata dall’azione di pompa intermittente del cuore,
trasformando dunque il flusso da intermittente a continuo nel circolo arterioso.
SISTOLE. La valvola DIASTOLE. La valvola
semilunare aortica è semilunare aortica si
aperta e il volume di chiude e l’energia
sangue eiettato dal potenziale incamerata nella
ventricolo sinistro è parete aortica durante la
immesso nel circolo sistole viene restituita
arterioso: questo progressivamente al
determina la distensione sangue in diastole sotto
delle pareti dell’aorta per forma di energia cinetica e
accogliere il sangue di pressione: infatti, la
eiettato, dunque l’energia forza di retrazione elastica
cinetica e di pressione delle pareti dell’aorta e
generata dalla delle arterie le fa tornare
contrazione ventricolare allo stato di riposo e
viene immagazzinata nella parete elastica imprime al sangue la spinta
dell’aorta sotto forma di energia potenziale: la necessaria per far sì che il flusso ematico continui
distensione della parete aortica determina un picco verso la periferia: il ritorno elastico delle arterie
di pressione arteriosa, che raggiunge quindi il suo determina il raggiungimento del valoro minimo di
valore massimo (pressione sistolica). pressione arteriosa (pressione diastolica).

263
L’effetto Windkessel52 non solo garantisce il mantenimento di un flusso ematico stazionario e non
intermittente all’interno del circolo arterioso, ma consente anche di limitare l’escursione di pressione in questo:
se le arterie fossero rigide e non distendibili, infatti, la pressione incrementerebbe durante la sistole e
diminuirebbe durante la diastole in misura eccessiva.
In ultimo, ciò risulta fondamentale per ridurre il carico di lavoro cui è sottoposto il cuore: in assenza di effetto
Windkessel, il notevole incremento di pressione in sistole imporrebbe ai ventricoli di pompare sangue contro
un postcarico elevato, aumentando di conseguenza il lavoro del cuore. Invece, l’eiezione di sangue in questi
vasi elastici fa sì che le loro pareti si distendano, con conseguente minore incremento della pressione sistolica
e del carico del cuore.

Video: The Windkessel principle visualised https://www.youtube.com/watch?v=Bx9Nu2PkPsE


0:08 il flusso di acqua rimane intermittente perché le pareti del tubo entro cui scorre sono rigide
0:55 aggiungendo una componente elastica al circuito, il flusso di acqua “eiettata” nel tubo da intermittente
diviene continuo (poiché la parete del palloncino elastico incamera una certa quantità di energia potenziale che
restituisce al liquido sotto forma di energia cinetica e di pressione).

Effetti del ciclo cardiaco sui vasi: polso arterioso


L’alternarsi di sistole e diastole nel ciclo cardiaco determina variazioni cicliche del valore della pressione
arteriosa, che oscilla tra un valore massimo (pressione sistolica) e un valore minimo (pressione diastolica): tali
variazioni provocano una vera e propria espansione ritmica dei vasi, definita polso arterioso (N.B. La prof.
non l’ha detto, ma a Silvani piace di più il termine pressione differenziale). Infatti, l’immissione del sangue
nell’aorta (che ha pareti dotate di proprietà elastiche), per effetto della contrazione ventricolare durante la
sistole, determina la dilatazione del vaso, al quale segue, durante la diastole, un ritorno elastico della parete,
grazie al cui effetto compressivo sul sangue il flusso prosegue all’interno dei vasi.

Il polso arterioso, ovvero la dilatazione dell’aorta e il suo ritorno elastico, determinano un’onda di dilatazione
e di costrizione del vaso, trasmessa lungo tutta lunghezza dell’aorta stessa e dei rami che ne derivano. Si
definisce onda sfigmica l’onda attraverso cui il polso arterioso si trasmette lungo le pareti delle arterie e può
essere percepito: la propagazione dell’onda sfigmica viene sfruttata per misurare i valori di pressione sistolica
e diastolica con il metodo indiretto di Riva-Rocci.

La formazione e la velocità di propagazione dell’onda dipendono dal grado di distensibilità delle pareti dei
vasi: le proprietà elastiche dei vasi, infatti, sono funzionali a smorzare ed attutire la natura pulsatile del flusso
sanguigno determinata dal pompaggio intermittente del cuore.

52
Windkessel dal tedesco “camera di compensazione, campana d’aria”, in riferimento alle camere di compensazione
presenti all’interno delle pompe anti-incendio utilizzate in passato per intrappolare aria e permettere la conversione del
getto d’acqua da intermittente a continuo.

264
 Arterie distendibili: durante la
sistole i vasi si distendono,
accumulando nelle proprie pareti
energia potenziale che, durante il
ritorno elastico in diastole, spinge
il sangue in avanti verso i
capillari. In condizioni normali,
dunque, il flusso di sangue
all’interno dei vasi è costante: in
sistole il fluido è pompato dal
cuore, in diastole il flusso procede
grazie alla spinta dovuta al ritorno
elastico delle pareti dei grandi vasi arteriosi.
 Arterie rigide: nel caso in cui il
contenuto di elastina nelle pareti
dei vasi diminuisca (ad es. con
l’invecchiamento) si verifica la
riduzione della complianza.
Questo comporta la riduzione del
ritorno elastico delle pareti dei
vasi arteriosi in diastole, dunque
l’arresto del flusso sanguigno
verso i capillari. Se durante la
sistole deve scorrere nei capillari
un volume di sangue pari
all’intero volume sistolico e le pareti non sono sufficientemente distendibili, si verifica l’aumento della
pressione arteriosa e dell’entità dell’escursione tra valore massimo e minimo, nonché l’incremento del
lavoro cui la pompa cardiaca è sottoposta per far fronte al maggior postcarico. Come detto in
precedenza, infatti, il lavoro compiuto dal cuore per spingere in circolo uno stesso volume di sangue
è maggiore all’interno di un condotto rigido, in cui il flusso è intermittente, rispetto a quanto accade
in un condotto che sfrutta il ritorno elastico dei vasi per garantire il trasferimento del sangue ai capillari.

11.4. Determinazione della pressione arteriosa


mediante il metodo sfigmomanometrico di Riva-Rocci
Nella pratica clinica, la misurazione della pressione arteriosa si realizza principalmente mediante il metodo
indiretto di Riva-Rocci: questo è stato sviluppato dal medico italiano Scipione Riva-Rocci nel XIX secolo e
prevede l’utilizzo di uno strumento noto come sfigmomanometro a mercurio53. Esso si compone di:
 un bracciale gonfiabile che si avvolge attorno al braccio del paziente e che,
gonfiandosi, comprime l’arteria brachiale sottostante;
 una pompa regolata da valvola per permettere il gonfiaggio del bracciale;
 un manometro (colonnina graduata contenete mercurio - o elettronica nel
caso in cui lo strumento sia automatico) collegato alla pompa: su di esso si
legge il valore di pressione del bracciale, corrispondente al valore di
pressione arteriosa registrata all’interno del vaso che comprime.
Il metodo di Riva-Rocci costituisce il metodo indiretto più sensibile per l’accurata
misurazione della pressione arteriosa. Esistono inoltre metodi diretti più invasivi,
utilizzati esclusivamente nei reparti ospedalieri di terapia intensiva o durante
interventi chirurgici, funzionali al monitoraggio costante della pressione arteriosa e
consistenti nell’introduzione di un catetere, dotato di un trasduttore di pressione
sulla punta, nell’arteria periferica del paziente.

53
Il mercurio non è più in commercio perché altamente tossico, dunque oggi lo sfigmomanometro a mercurio è spesso
sostituito da strumenti automatici elettronici.

265
La misurazione della pressione arteriosa mediante metodo indiretto di Riva-Rocci con utilizzo di
sfigmomanometro prevede due fasi consecutive, il metodo palpatorio e il metodo auscultatorio.

Metodo palpatorio
Il metodo palpatorio è funzionale al successivo metodo auscultatorio e permette la valutazione della sola
pressione sistolica tramite palpazione. La palpazione si effettua generalmente in sedi che presentano una certa
superficialità dei vasi arteriosi ed un piano osseo sottostante sul quale esercitare una compressione per poter
apprezzare l’onda sfigmica che, durante la sistole ventricolare, si propaga all’interno dei vasi arteriosi.
Si è soliti effettuare la compressione dell’arteria radiale (a livello del polso), realizzata con la punta delle
dita indice e medio di una mano, contro il piano osseo sottostante: questo permette in un primo momento di
percepire la propagazione dell’onda sfigmica attraverso il vaso arterioso. Viene dunque posto il manicotto
dello sfigmomanometro attorno al braccio del paziente e ne si gonfia la camera d’aria: quando la pressione del
manicotto collocato a livello brachiale supera la pressione sistolica del paziente, il bracciale occlude l’arteria
brachiale sottostante e il flusso di sangue in essa si arresta momentaneamente, pertanto scompare anche il polso
nell’arteria radiale e non è più possibile percepire l’onda sfigmica con la palpazione di questa. Riducendo
progressivamente la pressione del manicotto sino a valori inferiori a quello sistolico, durante la sistole
successiva si immetterà nuovamente un getto di sangue nell’arteria brachiale e sarà rilevabile il polso arterioso
a livello radiale. Il valore di pressione che si legge sul manometro dello strumento nell’esatto momento in cui
ricompare il polso a livello radiale corrisponde al valore di pressione arteriosa sistolica del paziente.

Metodo auscultatorio
Solo dopo aver registrato la pressione sistolica con metodo palpatorio, si effettua la misurazione della
pressione sistolica e diastolica mediante metodo auscultatorio (più sensibile rispetto al precedente), che
consiste nella valutazione dei valori di pressione arteriosa tramite percezione di specifici toni auscultabili
durante la procedura. Tale metodo prevede l’utilizzo simultaneo di due strumenti, quali sfigmomanometro e
fonendoscopio.

Si pone il manicotto dello sfigmomanometro attorno al braccio del paziente e lo si gonfia rapidamente con
la pompa connessa alla valvola, fino a quando la pressione all’interno della sua camera d’aria non supera di
circa 30 mmHg il valore della pressione sistolica (precedentemente valutata con metodo palpatorio): così
facendo il vaso arterioso sottostante viene completamente occluso. Si colloca dunque la testa del
fonendoscopio sulla fossa antero-cubitale in corrispondenza dell’arteria brachiale e si procede con il lento
sgonfiamento del manicotto dello sfigmomanometro mediante apertura della valvola (sgonfiare di circa 2-3
mmHg/s). Questo consente al sangue di tornare progressivamente a fluire all’interno del vaso arterioso
precedentemente occluso: a valle della stenosi, in particolare, il moto del sangue non è più laminare e silenzioso
ma turbolento e rumoroso, al punto da poter essere rilevato mediante
procedura di auscultazione con il fonendoscopio.
A livello dell’arteria distale rispetto al bracciale si possono dunque udire
e registrare i cosiddetti toni (o rumori) di Korotkoff: il primo di questi,
breve e schioccante, si ausculta in corrispondenza della rilevazione del
valore di pressione sistolica; continuando a ridurre la pressione del bracciale, il rumore diventa inizialmente
più prolungato, fino a trasformarsi in un fruscio continuo che tende a smorzarsi e poi a scomparire del tutto in
corrispondenza della rilevazione della pressione diastolica, quando l’arteria torna perfettamente pervia e la
turbolenza al suo interno cessa. Si conclude la procedura sgonfiando rapidamente il bracciale fino a pressione
nulla e si attendono almeno 1-2 minuti prima di poter ripetere la misurazione, al fine di evitare congestione
venosa.

Il grafico sottostante rappresenta molteplici onde consecutive di pressione arteriosa, attraversate


trasversalmente dalla retta indicante la graduale diminuzione della pressione all’interno del bracciale dello
sfigmomanometro, con conseguente aumento progressivo del volume di sangue che fluisce all’interno
dell’arteria dopo il punto di occlusione.

266
Durante la procedura di misurazione della pressione arteriosa si identificano, nel corso di cinque fasi
consecutive, quattro differenti toni di Korokoff54, ciascuno con specifiche caratteristiche in termini di qualità
e potenza del suono auscultato.
 Fase I: dopo un totale silenzio iniziale, dovuto alla completa occlusione del vaso (poiché la pressione
del bracciale è maggiore della pressione sistolica), si verifica la comparsa di suoni ripetitivi e chiari,
che aumentano gradualmente di intensità per almeno due battiti consecutivi. Il primo tra i rumori
udibili in questa fase si ausculta in corrispondenza della rilevazione della pressione sistolica. I suoni
udibili in questa fase sono detti snapping (o tapping) tones.
 Fase II: breve periodo durante il quale i suoni si ammorbidiscono, risultano meno schioccanti rispetto
a quelli della fase I e sono assimilabili ad un fruscio: murmurs.
 Fase III: compaiono nuovamente suoni più acuti, netti e nitidi di quelli della fase II , che riguadagnano
l’intensità della fase I ma senza superarla: thumping o knocking tones.
 Fase IV: i toni si attenuano e si smorzano, divenendo più ovattati: muffling tones.
 Fase V: tutti i suoni scompaiono definitivamente, in corrispondenza del rilevamento del valore di
pressione diastolica.
Accade di rado che, in alcuni pazienti, i suoni scompaiano del tutto per un breve periodo tra la fase II e III,
indicato «gap auscultatorio».

Video: Misura pressione arteriosa https://www.youtube.com/watch?v=Rjk16Um1ocM. Sono udibili i


diversi toni e, in un secondo momento, un manometro indica la pressione arteriosa registrata in corrispondenza
di ogni fase (all’inizio p.bracciale ≈ p.sistolica + 30 mmHg).

Video: Blood Pressure korotkoff sounds https://www.youtube.com/watch?v=xjBDiQL3sW0. Per esercitarsi,


leggere sulla colonna graduata il valore di pressione sistolica e diastolica in corrispondenza della I e della V
fase. [110/70]

54
Sono quattro rumori di Korotkoff in cinque fasi differenti: durante l’ultima fase silenziosa non si ausculta alcun tono.

267
Non c’è unanime accordo su quale fase considerare come indicativa della pressione diastolica:
 nel Regno Unito si considera come rappresentativo il momento in cui i toni si smorzano (fase IV, come
si vede nel primo video, in cui il valore di pressione diastolica è maggiore)
 secondo le linee guida americane ed italiane si fa riferimento alla fase V, caratterizzata dalla scomparsa
totale dei toni.
Nel 1962, intervenuta l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si raccomandò di registrare la pressione sia
in fase IV che in fase V, ma ne derivò un problema di misurazione causato dalla differenza di pressione di 5-
10 mmHg tra la fase di attenuazione e la fase di scomparsa dei toni. È quindi sufficiente prendere in
considerazione solo una delle due fasi, con l’eccezione in caso gravidanza in cui la pressione misurata durante
la fase V è molto inferiore rispetto a quella della fase IV.

Accorgimenti pratici
Il bracciale dello sfigmomanometro è costituito da stoffa inestensibile, al cui interno è presente una camera
d’aria gonfiata attraverso una pompa ad essa collegata mediante dei tubi. Il bracciale deve possedere le
corrette dimensioni (né troppo corto e stretto, né troppo lungo e largo) al fine di comprimere adeguatamente
l’arteria sottostante ed evitare la rilevazione di pressioni falsamente elevate o falsamente basse. La lunghezza
consigliata è mediamente pari a 80% della circonferenza del braccio (che deve essere misurata) mentre
l’ampiezza/altezza del manicotto deve corrispondere ai 2/3 della lunghezza del braccio.
Nella tabella sottostante sono riportati i rapporti ideali tra l’altezza/lunghezza del bracciale e la circonferenza
del braccio. In commercio sono disponibili bracciali di tutte le misure considerano questi rapporti anche in
relazione alle diverse età dei pazienti: lo standard fra gli adulti è di circa 24 cm di lunghezza del bracciale.

268
Durante la misurazione con metodo auscultatorio, la testa del fonendoscopio collocata in corrispondenza
della fossa antero-cubitale non deve essere inserita al di sotto del bracciale né premuta sull’arteria, perché
potrebbe esercitare un’ulteriore pressione e falsare il risultato.
È inoltre necessario limitare errori di valutazione: l’operatore che effettua la misurazione deve trovarsi ad
una distanza dalla colonnina del manometro non superiore ai 90 cm (problemi di vista potrebbero alterare la
lettura della scala) e l’occhio deve essere posto all’altezza del menisco. Il risultato non va mai arrotondato
ed è essenziale associare a ciascun tono ascoltato il valore esatto: l’operatore deve dunque godere di un buon
udito, poiché in caso di ipoacusia potrebbe effettuare misurazioni errate.
Il manometro deve essere perfettamente verticale: se fosse flesso altererebbe la lettura.
La pressione arteriosa può essere influenzata da molteplici fattori come età, etnia, temperatura, dolore, stato
emotivo, abuso di alcool, fumo, attività fisica, condizioni patologiche, obesità, ecc.
In conclusione, le precauzioni da attuare prima di effettuare la misurazione della pressione arteriosa sono le
seguenti:
 effettuare tre letture per ciascuna visita;
 collocare il paziente in una stanza tranquilla, seduto o sdraiato;
 verificare la presenza di fattori estranei che possono aver alterato i valori pressori (nicotina, caffeina,
cibo, ansia, stress, dolore, discussioni, sforzi, freddo, farmaci, distensione vescicale, sostanze
adrenergiche).

Procedura pratica
1. Far accomodare il paziente in modo adeguato55.
2. Lavare le mani.
3. Applicare il bracciale intorno al braccio del paziente controllando che sia adeguato alla circonferenza
di questo.
4. Accertarsi che il braccio sia alla stessa altezza del cuore al fine di evitare interferenze da parte della
pressione idrostatica (es. 10 cm più in alto o più in basso sono sufficienti a produrre un errore di
valutazione pari a ±8,2 mmHg).
5. Indentificare il punto di massima intensità dell’arteria brachiale con palpazione.
6. Posizionare nel punto di massima intensità la testa del fonendoscopio libera dal manicotto e da
eventuali indumenti (per evitare di falsare i risultati mediante aggiunta di un’ulteriore pressione).
7. Individuare il polso radiale mediante il metodo palpatorio.
8. Chiudere la valvola della pompetta.
9. Chiedere al paziente di mantenere il silenzio per poter auscultare i toni cardiaci.
10. Insufflare aria all’interno del bracciale fino a quando la pressione pneumatica della camera d’aria
supera la pressione arteriosa: gonfiare il manicotto superando di circa 30mmHg il valore della
pressione arteriosa (valutata alla scomparsa del polso radiale).
11. Aprire la valvola ad una velocità di massimo 2-3 mmHg/s per favorire nuovamente il flusso di sangue
all’interno dell’arteria.
12. Registrare i toni di Korotkoff visibili sulla colonna di mercurio o sul display del manometro: il primo
tono corrisponderà alla pressione sistolica, l’ultimo alla diastolica.
13. Trascrivere il dato sulla cartella clinica del paziente.

55
Il paziente deve essere rilassato, con il braccio flesso poggiato su un supporto, non costretto da abiti e con l’avambraccio
poggiato su una superficie piana. Questo è indispensabile affinché il bracciale sia posizionato alla stessa altezza del cuore,
in corrispondenza del 4° spazio intercostale. La pressione può essere misurata anche in clinostatismo o in ortostatismo
con il braccio poggiato sulla spalla dell’operatore oppure appoggiato su un supporto posto alla stessa altezza di un piano
ideale passante per le valvole atrio-ventricolari, in modo da porre il bracciale sempre all’altezza del cuore.

269
I valori di pressione sono solitamente simili tra braccio destro e sinistro: in alcuni casi si possono notare
fisiologiche differenze di circa 5-10 mmHg tra i due arti dovute alla diversa emergenza dell’arteria succlavia
a destra e a sinistra da cui avrà origine l’arteria brachiale (di solito la pressione è più alta a destra che a sinistra).
Secondo le linee guida, dunque, al primo controllo sarebbe corretto misurare la pressione ad entrambe le
braccia e, qualora vi fossero differenze superiori a 20 mmHg per la sistolica e 10 mmHg per la diastolica in
tre determinazioni consecutive, effettuare una rilevazione in simultanea di entrambi gli arti per verificare che
la differenza sia reale e non dovuta ad un artefatto. Se il problema risulta effettivo, le misurazioni successive
si effettueranno sempre al braccio con pressione maggiore.
Nell’articolo “Evaluation of inter-arm difference in bllod pressure as predictor of vascular diseases among
urban adults in Kancheepuram District of Tamil Nadu”, pubblicato sul Journal of Family Medicine and
Primary Care, una differenza di pressione fra gli arti minore di 5 mmHg viene definita “nella norma”, mentre
si parla di differenza reale di pressione fra le due braccia nel momento in cui la variazione di pressione sistolica
è superiore a 10 mmHg. Le cause possono essere sia fisiologiche che patologiche: nei soggetti giovani la
differenza potrebbe essere data da un muscolo che comprime l’arteria oppure da un problema strutturale o
anatomico; negli anziani le variazioni potrebbero essere dovute ad aterosclerosi, stenosi dell’arteria succlavia,
presenza di un aneurisma, iperplasie fibro-muscolari.

Test di valutazione

270
Video: Physiology of the Circulatory System
https://www.jove.com/science-education/10625/physiology-of-the-circulatory-system

Video: “Blood Pressure Measurement”


https://www.jove.com/science-education/10083/blood-pressure-measurement
Il video, oltre a mostrare la corretta procedura di misurazione della pressione, illustra anche come effettuare
la misurazione del polso paradosso, inteso come calo della pressione sistolica durante l’inspirazione. Esso da
fisiologico può diventare patologico: se il calo è superiore a 10 mmHg ci si trova dinnanzi a patologie come
tamponamento cardiaco (causato da pericardite, con conseguente versamento pericardico che determina una
compressione del cuore impedendogli l’adeguata espansione e dunque calo di pressione), broncopneumopatia
ostruttiva.
Il video mostra anche la differente modalità di misurazione della pressione arteriosa in clinostatismo e
ortostatismo. Questo permette di effettuare diagnosi di ipotensione ortostatica, intesa come calo di pressione
arteriosa nel passaggio dalla posizione supina alla posizione eretta.

Video: “Non-invasive Blood Pressure Measurement Techniques”


https://www.jove.com/science-education/10478/noninvasive-blood-pressure-measurement-techniques
Questo video rientra nella sezione di Ingegneria Biomedica poiché vengono illustrate nuove metodologie di
misurazione della pressione eseguibili anche autonomamente dal paziente. In particolare vengono analizzati
metodi oscillometrici: viene effettuata misurazione indiretta della pressione pulsatile all’interno di un’arteria

271
mediante misurazione delle variazioni periodiche di pressione all’interno del bracciale (le oscillazioni
registrate corrispondono alla pressione all’interno dell’arteria).
Nel video l’operatore commette l’errore di effettuare la misurazione della pressione indossando il camice,
indumento che potrebbe generare ulteriori pressioni con conseguente registrazione di valori di pressione errati.
Viene mostrata anche una tecnica di misurazione della pressione nei roditori (le sta particolarmente a cuore
perché viene utilizzata nel laboratorio della professoressa Zoccoli), che consiste nel posizionamento del
bracciale intorno alla coda (Tail-Cuff).

272
12. Elettrocardiogramma (LABORATORIO)
Introduzione all’elettrocardiografia e
nozioni di base dell’elettrofisiologia cardiaca

Elettrocardiografia
L’elettrocardiografia è quella branca della fisiologia cardiaca deputata alla registrazione, all’analisi e
all’interpretazione dei fenomeni elettrici che si verificano nel cuore durante la sua attività.
Il tracciato elettrocardiografico consiste nella registrazione delle correnti che vengono generate nel cuore a
mano a mano che in questo si propaga l’onda di depolarizzazione.
L’elettrocardiogramma è dunque una registrazione nel tempo delle attività elettrica del cuore durante le
fasi del suo ciclo funzionale.
N.B. L’attività elettrica non è da confondersi con l’attività meccanica del cuore! L’attività elettrica del cuore
è un prerequisito per la contrazione successiva dei cardiomiociti e per permettere al cuore stesso di funzionare
come pompa emodinamica, cosicché il sangue venga inviato in circolo al fine di soddisfare le esigenze
dell’organismo.
In sintesi, la propagazione dei potenziali d’azione nel muscolo cardiaco crea delle separazioni di cariche sulla
superficie esterna delle cellule cardiache che a loro volta generano delle correnti elettriche che vengono
registrate nel tempo mediante un ECG.
N.B. L’ECG non è la registrazione del potenziale d’azione! Per registrare il potenziale d’azione, che ha
un’ampiezza di 100 mV, è necessario inserire un elettrodo all’interno della cellula cardiaca e uno all’esterno.
Invece, il segnale elettrocardiografico è un’onda che ha un’ampiezza massima di circa 1 mV e si registra
mediante macroelettrodi posizionati sulla superficie del corpo.
Alterazioni dell’attività elettrica cardiaca possono causare gravi disturbi della funzione meccanica e, di
conseguenza, dell’attività emodinamica del cuore.
L’ECG è un esame non invasivo eseguito a livello ambulatoriale tramite l’elettrocardiografo. Tale metodica
è molto importante perché permette di avere informazioni diagnostiche:
 sulla posizione del cuore nel torace;
 sull’ampiezza delle camere cardiache;
 sulla presenza di disturbi del ritmo cardiaco, quindi nella conduzione o attivazione degli impulsi;
 sulla presenza di patologie ischemiche.
I fenomeni elettrici registrati sono variazioni di potenziali dovute al fatto che ogni volta che una cellula viene
investita da un segnale sufficientemente adeguato di intensità va incontro a depolarizzazione. In ogni istante
si avranno nel cuore delle aree di cellule depolarizzate e delle aree di cellule in stato basale, tra le quali si crea
una partizione di carica che genera campi elettrici che arrivano fino alla superficie corporea, dove vengono
registrati mediante macro-elettrodi di superficie. Questi fenomeni elettrici sono abbastanza deboli perciò è
necessario un galvanometro che amplifichi questi segnali permettendo così di avere il tracciato
elettrocardiografico.
Originariamente il tracciato veniva eseguito con un pennino che registrava la differenza di potenziale fra una
coppia di elettrodi su un foglio di carta millimetrata che scorreva nel tempo con una velocità costante di 25
mm al secondo.
In riferimento al grafico:
 asse y: differenza di potenziale (mV);
 asse x: tempo (s).
Per ogni evento che vediamo rappresentato nel tracciato
possiamo determinare la tempistica e l’intensità.
La carta millimetrata è suddivisa in quadratini con lato di 5 mm; sull’asse x, 1 s = 25 mm; sull’asse y, 1 mV
= 10 mm
Di fondamentale importanza per l’interpretazione del tracciato ECG è conoscere le proprietà e le funzioni
delle cellule cardiache, i meccanismi di genesi e propagazione dell'impulso elettrico nel cuore.

Elettrofisiologia cardiaca

273
Il cuore invia il sangue in circolo per soddisfare le esigenze di perfusione dei vari organi e tessuti e permette
l’ossigenazione e il rilascio di anidride carbonica attraverso l’apparato respiratorio.
Il cuore è un organo multicavo costituito da 4 camere: due a destra (atrio destro e ventricolo destro) e due a
sinistra (atrio sinistro e ventricolo sinistro). Atri e ventricoli sono separati da uno scheletro fibroso che è
responsabile del loro isolamento elettrofisiologico e presenta delle valvole che permettono il passaggio di
sangue tra le due camere. I due atri sono separati dal setto interatriale, mentre i ventricoli dal setto
interventricolare. Le pareti delle camere sono costituite da tre foglietti, dall’interno all’esterno: endocardio,
miocardio ed epicardio. Lo spessore di queste camere è in diretta relazione con la pressione che devono
esercitare: gli atri hanno una parete più sottile dei ventricoli ed il ventricolo di sinistra è molto più grosso del
ventricolo di destra.
Alcune caratteristiche sono specifiche delle cellule cardiache, altre sono comuni anche ad altre cellule del
nostro organismo:
 automatismo (o cronotropismo): capacità di dare origine in maniera autonoma ad un’eccitazione
nel tempo in assenza di stimoli esterni, quindi, indipendentemente dall’innervazione del sistema
nervoso autonomo, che però è in grado di modulare questa caratteristica propria di alcune cellule del
cuore;
 eccitabilità (o batmotropismo): capacità di queste cellule in seguito ad uno stimolo di adeguata
intensità di generare un potenziale d’azione che verrà propagato alle cellule adiacenti seguendo
circuiti specifici;
 conducibilità (o dromotropismo): capacità di propagare il fenomeno elettrico all’intera massa del
miocardio grazie alla presenza di gap junction fra cellule adiacenti; il cuore è quindi un sincizio
funzionale;
 contrattilità (o inotropismo): capacità di accoppiare il fenomeno elettrico (la genesi del potenziale)
a quello meccanico (la contrazione).
In base alla funzione e caratteristiche, possiamo distinguere in generale tre tipi di cellule cardiache:
 cellule del miocardio comune: sono le cellule che costituiscono le pareti di atri e ventricoli e sono
dotate principalmente di contrattilità, in genere non hanno automatismo, hanno una discreta
conducibilità e sono eccitabili;
 cellule pacemaker: sono le cellule che danno l’avvio all’impulso del potenziale d’azione, hanno
perciò come caratteristica principale l’automatismo, presentano una scarsa conducibilità e un’assenza
di contrattilità. Sono principalmente le cellule del nodo seno-atriale e del nodo atrio-ventricolare
(anche altre porzioni del cuore hanno questa caratteristica però l’impulso viene generato più
lentamente);
 cellule di conduzione, divise in:
- cellule di conduzione propriamente dette: cellule che costituiscono il fascio di His, la sua branca
destra e sinistra fino ad arrivare alle cellule del Purkinje. Hanno la caratteristica di condurre
l’impulso molto velocemente;
- cellule a conduzione decrementale: cellule che permettono un rallentamento dell’impulso.
Dal punto di vista morfologico possiamo distinguere due tessuti differenti nel cuore:
 miocardio comune: colonne di fibre muscolari cilindriche che formano le pareti delle camere
cardiache, specializzati in contrattilità e con una buona conduzione;
 miocardio specifico: tessuto di conduzione, che a sua volta si divide in tre tipi cellulari:
- miociti nodali: le cellule all’interno del nodo SA e AV, sono ovali mononucleate, dal colore
pallido, presentano pochi organelli e poche miofibrille orientate casualmente, avranno
l’automatismo come caratteristica principale;
- miociti di transizione: collegano le cellule di conduzione con quelle nodali, sono miociti ordinari
di forma allungata con un normale apparato contrattile;
- miociti di Purkinje: cellule altamente specializzate nella conduzione rapida dell’impulso,
costituiscono la rete terminale che porta l’impulso ai miociti ventricolari, hanno un elevato
diametro, di circa 70-80 μm (gli altri miociti hanno un diametro intorno ai 10-15 µm, mentre quelli
nodali addirittura 5 µm), presentano poche miofribrille e molti mitocondri. Sono caratterizzati da
un lungo periodo refrattario per basse frequenze cardiache, ciò ha un significato protettivo
poiché evita che eccitazioni premature dell’atrio facciano contrarre i ventricoli prima del dovuto

274
(ciò vale solo per le basse frequenze, mentre per le altre frequenze quest’azione protettiva è svolta
dalle cellule del nodo atrio-ventricolare).
N.B. Nelle fibre del Purkinje il periodo refrattario è inversamente proporzionale alla frequenza
cardiaca!

La propagazione del potenziale d’azione è ordinata e successiva nel tempo.

1. Il pacemaker primario del cuore è il nodo seno-atriale (nodo SA), piccola regione situata nell’atrio
destro in corrispondenza dello sbocco della vena cava superiore. I miociti nodali sono dotati di
automatismo, cioè hanno la capacità di generare spontaneamente un potenziale d’azione ritmicamente
nel tempo ed è per questo che si ha il battito cardiaco. Sono detti pacemaker primario poiché sono loro
a dettare il ritmo cardiaco quando si ha un ritmo normale o sinusale. Non sono le uniche cellule cardiache
ad avere questo tipo di funzione ma semplicemente generano un potenziale d’azione con una frequenza
maggiore rispetto a tutte le altre cellule e quindi sono in grado di sincronizzare le altre cellule alla loro
frequenza. Nel caso in cui il nodo SA non sia in grado per qualche motivo di dare inizio a questo segnale
di attivazione allora l’automatismo presente in altri tipi cellulari (pacemaker secondari) può
manifestarsi, il segnale partirà lo stesso anche se da porzioni diverse del cuore assicurando comunque
una certa funzionalità del tessuto cardiaco.
2. I miociti del nodo SA sono in contatto con i miociti dell’atrio di destra permettendo la propagazione
dell’impulso all’atrio di destra, mentre nell’atrio di sinistra il segnale viene trasportato mediante i tratti
interatriali come il fascio di Bachman: in questo modo sia i miociti atriali di destra che di sinistra
vengono ad essere sincronizzati per la loro attivazione e la successiva contrazione.
3. Dal nodo SA l’impulso è veicolato fino al nodo atrio-ventricolare (nodo AV), piccola formazione
situata nell’atrio di destra in corrispondenza del setto interatriale. Questo avviene attraverso dei fasci
internodali (anteriore, mediano e posteriore). A questo punto a livello delle cellule del nodo AV si ha
un rallentamento fisiologico della trasmissione del segnale che permette al ventricolo di riempirsi
completamente prima di andare in sistole ed ottenere così il massimo della gittata cardiaca. Il nodo AV
presenta la regione nodale vera e propria, dove avviene il rallentamento del segnale elettrico, e due
regioni di transizione: la prima tra gli atri e il nodo e la seconda tra il nodo e le fibre del fascio di His.
4. In seguito, il segnale deve passare dagli atri ai ventricoli. A causa dello scheletro fibroso l’unica via che
il segnale può percorrere dal punto di vista elettrofisiologico è il fascio di His, che attraversa il setto
fibroso, decorrendo lungo la porzione sub-endocardica del setto come fascio comune per un piccolo tratto
e poi si divide in una branca destra e una sinistra, quest’ultima a sua volta si divide in una porzione
anteriore e posteriore. Quindi, attraverso il fascio di His, il segnale dall’atrio passa al ventricolo,
raggiunge l’apice del cuore e qui si continua con la rete terminale del Purkinje, le quali cellule
risalgono verso la base del cuore prendendo contatto con tutti i miociti ventricolari.
In sintesi. Nodo SA  atrio destro e (attraverso il fascio di Bachmann) atrio sinistro  (attraverso i tratti
internodali) nodo AV  (attraverso il fascio di His) ventricoli (in seguito alla diramazione del fascio di His
e attraverso la rete del Purkinje) apice del cuore  basi dei ventricoli.
È presente un ulteriore fascio, il fascio di Kent, normalmente solo in fase fetale, ma in alcune patologie,
come la sindrome di Wolff-Parkinson-White, questo fascio permane e crea una sorta di bypass del segnale
dagli atri ai ventricoli. Inoltre, può trasmettere anche segnali retrogradi di ritorno dal ventricolo all’atrio
creando delle tachicardie sopra-ventricolari.

275
La frequenza cardiaca è dettata dal nodo SA. In condizioni di riposo, nell’adulto, essa è di 60-100 bpm, ma
durante la giornata cambia a seconda degli stress che insorgono o dell’attività fisica che si effettua.
La frequenza cardiaca è modulabile dal sistema nervoso autonomo (SNA):
 il parasimpatico (in genere veicolato dalle fibre del nervo vago 1), tramite l’acetilcolina, agisce sui
recettori muscarinici delle cellule del nodo SA, provoca un rallentamento della frequenza cardiaca
(effetto cronotopo negativo);
 il simpatico, attraverso la noradrenalina, agisce sui recettori noradrenergici, stimola la frequenza
cardiaca provocando un’accelerazione (effetto cronotopo positivo).
In sintesi, il tessuto cardiaco è indipendente per la genesi del segnale (infatti, un cuore denervato batte
egualmente, anche se ad una frequenza superiore), il SNA è in grado di modulare il cronotropismo.

A seconda del tipo di canali ionici presenti all’interno delle singole cellule del tessuto cardiaco possiamo
distinguere due tipi di potenziali d’azione: potenziale di tipo lento e potenziale di tipo rapido.
N.B.: La tipologia dei potenziali d’azione determina la velocità di trasferimento del segnale nel tessuto
cardiaco!

 Potenziale di tipo rapido: caratteristico delle fibre di conduzione, delle fibre di His, delle fibre del
Purkinje e dei miociti atriali e ventricolari.
Si parte da un potenziale di riposo molto negativo, di solito nell’ordine dei -90 mV (fase 4). In seguito
al raggiungimento di un segnale di sufficiente intensità si aprono dei canali per il Na + voltaggio-
dipendenti causando la rapida depolarizzazione del potenziale d’azione (molto rapida e ampia; fase
0). Questa depolarizzazione creerà sia all’interno che all’esterno delle cellule un cambiamento dello
stato elettrico in porzioni diverse del cuore, che genererà le correnti che si andranno a registrare
mediante l’ECG. Successivamente, avviene una fase di rapida ripolarizzazione dovuto all’apertura
dei canali del K+ (fase 1). Poi vi è una fase di plateau dovuto ad un’entrata di calcio che permetterà
l’accoppiamento di questo potenziale d’azione al fenomeno meccanico (fase 2). Si ha infine una
ripolarizzazione finale (fase 3), e un ritorno al potenziale di riposo (fase 4).
I canali del sodio sono caratterizzati da uno:
- stato aperto: l’apertura dei canali è indotta dal voltaggio;
- stato inattivo: i canali non sono stimolabili, permane per tutta la fase 2 di plateau;
- stato chiuso: i canali possono essere nuovamente aperti, permane durante la fase 3 e fino alla
fase del ritorno al potenziale di riposo.
Queste caratteristiche dei canali del sodio fanno sì che il potenziale di tipo rapido abbia una durata
molto grande, che oscilla dai 200 ai 400 ms: ciò giustifica un grosso periodo refrattario, prima di tipo
assoluto nella fase 1 e 2 (i canali non possono essere riaperti) e poi relativo, poiché mano a mano

1
Solo le fibre pre-gangliari appartengono propriamente al vago, anche se effettivamente nella pratica si parla
di innervazione vagale, considerando che i gangli del parasimpatico sono in prossimità degli organi bersagli.

276
che i canali tornano in stato chiuso è possibile stimolarne la riapertura però con dei segnali di intensità
maggiore di quelli che hanno permesso l’apertura nello stato di riposo. Questo periodo refrattario è
indispensabile per il coretto funzionamento del cuore: permette un alto rendimento della funzione di
pompa del cuore in quanto il ventricolo può riempirsi completamente di sangue prima di contrarsi di
nuovo. Grazie al periodo refrattario il cuore non è un muscolo tetanizzabile: mentre il muscolo striato
ha un potenziale d’azione che si esaurisce prima che inizi la contrazione per cui, con un treno di
impulsi, si ha una contrazione protratta grazie alla sommazione degli impulsi e si ha il fenomeno di
tetano, nel cuore il lungo periodo refrattario fa sì che si avrà una contrazione muscolare sovrapposta
al potenziale d’azione.
 Potenziale a risposta lenta: caratteristico dei tessuti nodali (nodo SA e AV)
Si parte da una potenziale di riposo meno negativo rispetto
alle cellule a risposta rapida. Le cellule sono caratterizzate
dalla fase prepotenziale, nella quale si aprono dei canali
cationici che permettono la cosiddetta corrente funny e dei
canali per il calcio che permettono lentamente e
spontaneamente al potenziale di riposo di andare verso il
valore soglia. Raggiunto il valore soglia di depolarizzazione
si ha una fase 0, ma è meno ripida e ampia rispetto a quella delle cellule a risposta rapida. Si ha infine
ripolarizzazione (fase 3) e ritorno allo stato di riposo (fase 4). Non si osservano una fase 1 e 2, perciò
non è visibile un plateau.
La velocità e l’ampiezza del potenziale d’azione della fase 0 (che sono molto più spiccate nei potenziali a
risposta rapida) determinano la velocità di propagazione ed è per questo che nelle varie regioni del cuore ci
sono aree con velocità di trasmissione differenti.
 Nodo seno-atriale: 0,05 metri/secondo
 Miociti atriali: 1 m/s
 Nodo atrio-ventricolare: 0,02 m/s (massimo rallentamento della velocità di propagazione del segnale)
 Fascio di His: 1.5 m/s
 Fibre del Purkinje: fino a 4 m/s (massima veloctà di trasmissione del segnale)
 Miociti ventricolari: 1 m/s

Immagine riassuntiva del percorso dell’impulso e del tipo di potenziale associato a ogni zona del cuore:

Influenza del SNA sull’elettrofisiologia cardiaca


Si può dire che il cuore sia indipendente dal punto di vista della genesi dell’impulso, ma il SNA può
modularne la frequenza.

277
Nel grafico si osserva un potenziale d’azione in
corrispondenza del nodo SA che, come detto
precedentemente, è a risposta lenta.
Si osserva come variano le caratteristiche del grafico in
base alla stimolazione del SNA.
La linea a è quella di controllo.
Il SN simpatico (linea b) agisce attraverso noradrenalina
e recettori adrenergici che, attivati, determinano a livello
intracellulare un aumento dei livelli di cAMP, il quale causa
l’attivazione della PKA, che va a fosforilare i canali della
fase prepotenziale, facilitandone l’apertura. La fase
prepotenziale diventa quindi più ripida, viene raggiunta prima la soglia e di conseguenza si instaura prima il
potenziale d’azione: si ha quindi un aumento della frequenza. In conclusione si può dire che il sistema
nervoso simpatico abbia un effetto cronotropo positivo.
Il parasimpatico (linea c) invece dà effetto opposto. Attraverso l’acetilcolina induce l’attivazione di una
proteina G inibitoria, che blocca l’adenilato ciclasi, quindi diminuisce il cAMP e si ha l’effetto opposto rispetto
al simpatico: la fase prepotenziale diventa più lunga, si raggiunge più tardi la soglia di attivazione, diminuisce
la frequenza cardiaca (effetto cronotropo negativo).
Normalmente sia il simpatico che il parasimpatico agiscono sul cuore. Se si va a bloccare l’una o l’altra
branca del SNA, si altera la frequenza cardiaca. Si può però dire che delle due branche, in genere, prevalga
l’azione del parasimpatico.
Anche le caratteristiche dei miociti (cronotropismo, ionotropismo e batmotropismo) possono essere variate
dal SNA: il SN parasimpatico ha effetto soprattutto sul cronotropismo, di tipo negativo, mentre il simpatico,
in particolare, stimola la forza di contrazione cellule cardiache, dà quindi effetto inotropo positivo.
L’azione rispettiva delle due branche varia in funzione delle esigenze dell’organismo: a riposo si osserva una
frequenza di 60-100 battiti al minuto; nel corso di un’attività fisica la frequenza aumenta; nel sonno diminuisce.
Ci sono poi condizioni particolari, come il calo della pressione arteriosa, che stimolano il SNA al fine di far
reagire il cuore per ripristinare le condizioni fisiologiche del nostro organismo.

Domanda di uno studente. È corretto dire che l’ECG non registra direttamente la propagazione dell'onda di
depolarizzazione ma le correnti che essa genera? L’ECG registra le correnti elettriche che si generano in funzione
dell’onda di depolarizzazione. Se inizialmente è presente, a livello della membrana, una carica interna negativa ed una
esterna positiva, quando le cellule si depolarizzano, queste cariche si invertono, quindi all’esterno delle cellule si viene a
trovare una carica negativa. Le cellule che devono ancora depolarizzarsi, invece, presentano un’area esterna positiva. Ci
sarà quindi una separazione di cariche, sulla superficie esterna delle cellule cardiache, che genererà correnti elettriche che
arriveranno alla superficie del corpo e in questo modo saranno registrate. La separazione di cariche cambia poi in ogni
istante, man mano che l’onda di depolarizzazione si sposta.

12.1. Fondamenti fisici dell’elettrocardiografia: concetto di volume conduttore, dipolo


elettrico equivalente e vettore elettrico

L’elettrocardiografia misura le correnti elettriche che si registrano in virtù del passaggio dell’onda cardiaca
di depolarizzazione. Come detto precedentemente, nel momento in cui le cellule sono attivate dall’onda di
depolarizzazione, invertono le loro caratteristiche elettriche tra interno ed esterno della membrana, quindi in
ogni momento, in base al passaggio del potenziale d’azione, si avranno porzioni esternamente cariche
negativamente e altre positivamente e la loro posizione cambierà istante per istante. Questo genererà correnti
elettriche che saranno registrate attraverso l’ECG.
Concetti centrali da ricordare:
 linea di corrente;
 volume conduttore;
 dipolo elettrico equivalente;
 vettore elettrico istantaneo.

Qualche definizione
 Le quantità di base dell’elettricità sono le cariche, le quali possono essere elettroni o ioni.

278
 I mezzi che ne permettono la migrazione sono i conduttori.
 La corrente elettrica è costituita dal passaggio di cariche elettriche attraverso la sezione del
conduttore.
 Le cariche si muovono da punto a maggior potenziale ad uno a minor potenziale, quindi si muovono
nel conduttore se esiste una differenza di potenziale (ΔV). Effettuando una registrazione
elettrocardiografica si vanno proprio a registrare le differenze di potenziale. La differenza di potenziale
tra due punti è il lavoro necessario per trasferire una carica tra i due punti stessi.

Conduttori di prima e seconda classe; volume conduttore


I mezzi attraverso cui avviene la migrazione delle cariche sono i conduttori. Ne esistono due tipologie.

Quelli di prima classe sono le batterie, con un polo negativo e un polo positivo collegati attraverso un filo
metallico che permette il passaggio delle cariche elettriche. In questo caso quindi la corrente è generata dal
passaggio degli elettroni attraverso un’unica obbligata linea di corrente, che è appunto il filo che congiunge
i poli della batteria. Questo è il tipo di conduttore più comune.
Ci sono poi quelli di seconda classe che sono conduttori detti allo stato liquido. In questo caso il filo che
origina dalla batteria viene interrotto e l’estremità posta in una soluzione elettrolitica, quindi costituita da
acqua e ioni; si genereranno infinite linee di corrente, dovute alla migrazione degli ioni in soluzione. Quindi
in questo conduttore, detto anche volume conduttore, la corrente è generata dalla migrazione degli ioni in
soluzione, che migrano non più attraverso un’unica linea, ma infinite linee di corrente.

Tornando alla prima classe, è stato detto precedentemente che, tra un punto 1 a maggiore potenziale e un
punto 2 a minore potenziale, si può avere un passaggio di elettricità. Nella figura in alto si osserva che il
circuito è stato sdoppiato in due circuiti A e B paralleli tra loro. Si prenda, sulla linea A, un punto x più vicino
all’estremità 1 e un punto y vicino all’estremità 2: il punto x avrà potenziale maggiore rispetto al punto y.
Si prenda invece sulla linea parallela un punto x’, alla stessa altezza di x, quindi equidistante dal punto 1. Si
misurerà, in x’, un’energia potenziale pari a quella del punto x. Questi due punti si trovano, quindi, sulla stessa
linea isopotenziale, non è possibile registrare una differenza di potenziale.
In sintesi. È possibile registrare delle differenze di potenziale su punti diversi della stessa linea di corrente,
ma se si considerano punti, su due diverse linee di corrente, ma sulla stessa linea isopotenziale, non è possibile
registrare una differenza di potenziale.

Quindi, prendendo in considerazione un volume conduttore, caratterizzato da infinite linee di corrente, per
misurare una differenza di potenziale, ci si deve porre sulla stessa linea di corrente.
Il corpo umano è un conduttore di seconda classe, dove l’elettricità derivante dall’attività elettrica del cuore,
essendo questo immerso in fluidi biologici (soluzioni elettrolitiche), genererà infinite linee di corrente che

279
raggiungeranno la superficie del corpo. A questo livello, attraverso elettrodi di superficie, è possibile misurare
l’attività elettrica cardiaca.
Si prenda come esempio una fibra cardiaca che sia per metà (nella parte destra dell’immagine a) a riposo,
mentre per metà (parte sinistra dell’immagine a) già eccitata, quindi carica positivamente all’interno e
negativamente all’esterno. Si considerino ora solo le cariche esterne: nella fibra depolarizzata si riscontra una
carica negativa, nella fibra a riposo una carica positiva.

Nella condizione in cui metà fibra è a riposo e metà è eccitata, ponendo elettrodi sulla membrana della cellula,
è possibile misurare una differenza di potenziale.
Se la stessa fibra viene posta in soluzione elettrolitica (immagine b), le cariche esterne genereranno correnti
elettriche, quindi infinite linee di corrente, dovute alla migrazione degli ioni in soluzione.
In questo modo non c’è più la necessità di porre elettrodi sulla membrana della cellula, ma è possibile
effettuare la misurazione anche a distanza, quindi sulla superficie del corpo. A questo livello i segnali sono
relativamente deboli, ma si possono registrare con l’elettrocardiografo che ha un dispositivo capace di
amplificarli.

Dipolo elettrico equivalente


In realtà la situazione nell’organismo umano è più complessa, è necessario fare delle semplificazioni
concettuali.
Si trasforma la complessa situazione 3D in una situazione rappresentabile a due cariche. Quindi, tutte le
cariche negative vengono assemblate in un’unica negativa Q- e lo stesso viene fatto per le positive Q+. Si va
quindi a rappresentare la situazione come fosse un dipolo elettrico. Si ottengono due cariche, una positiva e
una negativa (opposte, ma di uguale intensità), collegate da un asse, detto asse del dipolo, che misura la
distanza tra le due cariche. Il dipolo elettrico è detto equivalente perché genera lo stesso numero di linee di
corrente che genera il miocardio in toto.
Si può ora dire che: il momento elettrico o momento di dipolo è una grandezza
vettoriale, che quantifica la separazione tra le cariche positive e le cariche negative.
È quindi esplicitato dalla formula: 𝐦 = 𝐐 × 𝐝, data dal prodotto della carica, in
valore assoluto, per la distanza tra la carica positiva e la carica negativa.
Inoltre, in quanto vettore ha:
 una direzione, ovvero l’orientamento spaziale dell’asse del dipolo, che indica come sono orientate le
cariche, le une rispetto le altre;
 un verso, che è diretto dalla carica negativa alla positiva.
Effettuando una misurazione elettrocardiografica, si dispongono le coppie di elettrodi e si misura la
differenza di potenziale tra queste.

Il potenziale elettrico che si registra in un punto P di osservazione, a partire da un elettrodo, in relazione alla
presenza di una carica è dato dalla formula che segue.

εP = K ∙ (Q⁄r)
Esso è quindi direttamente proporzionale alla carica Q e inversamente proporzionale alla distanza tra il punto
P di osservazione e la carica Q che si sta osservando. Quindi a maggiore distanza, si osserva un potenziale
minore.

280
Nel cuore si parla però di dipolo, quindi una carica positiva e una negativa. Si deve quindi ricavare il
potenziale che si osserva in relazione alla presenza di due cariche. Utilizzando la formula appena indicata sia
per la carica positiva che per la carica negativa, si ottengono due formule che terranno conto della relativa
distanza da P rispetto alle due cariche e del valore Q delle due cariche.
Per la carica positiva ε′P = K ∙ (+Q⁄r1 ).
Per la carica negativa ε′′ −Q⁄ ).
P =K∙( r2
Il potenziale misurato nel punto di osservazione P, sarà dato dalla somma delle due formule appena indicate,
da cui si ottiene:
1 1 (r2 − r1 )
εP = ε′P + ε′′
P = KQ ( − ) = KQ
r1 r2 r1 r2

A questo punto però si devono considerare le dimensioni


reali. Il punto di osservazione (P) è, nella realtà, molto
lontano dall’asse del dipolo. Si può quindi approssimare r1
ed r2 ad r, ovvero la distanza che separa il punto P dal punto
medio dell’asse del dipolo (). Inoltre r2 forma, con l’asse
del dipolo, un angolo ’, che è approssimativamente lo
stesso che forma r unendosi con l’asse del dipolo. Quindi
si può dire che ’ e  siano pressoché identici.
A questo punto: se si vuole calcolare r2 – r1 si fa ruotare
r1 su r2, si determina il punto A’. La differenza r2 – r1 risulta
quindi pari al segmento che va da A’ alla carica negativa.
A’ è però approssimabile ad A, che è la proiezione di r1 su
r2. La differenza r2 – r1 la si può quindi considerare dunque
come segmento che va da A alla carica negativa.
Essendo questo il lato di un triangolo rettangolo, si può
dire, per geometria, che r2 – r1 è uguale a:

(r2 − r1 ) = δcosθ

Per quanto riguarda invece il prodotto tra r1 ed r2, essendo entrambi approssimabili ad r, lo si può indicare
con r2.
Sostituendo questi valori alla formula indicata precedentemente, si ottiene quindi che il potenziale letto nel
punto P alla presenza di un dipolo è

εP = KQδcosθ/r 2

Poiché però il momento di dipolo (m) è dato dal prodotto tra la distanza tra le due cariche () e la carica (Q),
si ottiene che il potenziale misurato dal punto di osservazione P è:

εP = Kmcosθ/r 2

Tutto questo sottolinea l’importanza della posizione del punto di osservazione rispetto al dipolo che si sta
creando nel cuore nell’istante in cui viene fatta l’osservazione. La posizione è data da  e dalla distanza r che
separa il punto di osservazione dall’asse del dipolo.

281
Facciamo un esempio. Si ponga il punto di
osservazione parallelo all’asse del dipolo che si
sta osservando.  è uguale a 0, quindi si avrà il
valore massimo di coseno che si possa ottenere,
cioè 1 (cos0° = 1). Il potenziale sarà il massimo
che può assumere.
Si ponga ora il punto di osservazione
perpendicolarmente all’asse del dipolo.  sarà
di 90°, quindi il coseno sarà nullo. Non si
leggerà alcun potenziale da quel punto di
osservazione.

Vettore elettrico istantaneo


È di fondamentale importanza la posizione
del punto di osservazione, che nel caso di
tracciato elettrocardiografico consiste in una
coppia di elettrodi, rispetto al fenomeno che si sta verificando in quel momento nel cuore, quindi rispetto al
vettore elettrico istantaneo, il quale descrive come sono direzionate e separate le cariche in quel dato
momento di osservazione nell’ambito del tessuto cardiaco. Questo chiarisce il motivo per il quale quando viene
effettuata una registrazione elettrocardiografica non viene utilizzata una sola coppia di elettrodi, bensì 12. In
questo modo si possono avere tutti i punti di vista possibili e possono essere osservati al meglio tutti i fenomeni.

Nell’immagine osserviamo una massa di cellule depolarizzata (quella grigia), con cariche esterne negative,
e una massa di cellule ancora a riposo (quella nera), con cariche esterne positive. È quindi presente una
spartizione di cariche complessa, tante cariche positive e tante cariche negative, che viene rappresentata, per
semplificare il concetto, con un dipolo. Si tratta di un dipolo elettrico equivalente. Questo dipolo può essere
a sua volta rappresentato come un vettore elettrico caratterizzato da:
 un’intensità: corrisponde al momento del dipolo, quindi dipende dalla quantità di cariche in gioco e
dalla distanza che separa la carica positiva da quella negativa;
 una direzione: corrisponde all’orientamento spaziale del dipolo; indica quindi come sono posizionate
tra loro la carica positiva rispetto a quella negativa e come è orientata l’onda di depolarizzazione;
 un verso: va dal polo negativo (su cui punta la coda del vettore) al polo positivo (su cui punta la testa
del vettore).
È proprio questo vettore elettrico (in particolare la sua proiezione sull’asse di derivazione) che viene
analizzato mediante una registrazione elettrocardiografica.

Quindi, il vettore elettrico istantaneo rappresenta, in ogni istante di registrazione, la somma di tutte le
attività elettriche che in quel dato istante si stanno verificando nel miocardio. Più precisamente, si tratta
dell’espressione quantitativa delle forze elettriche in gioco durante quell’attività elettrica cardiaca.

Osservando l’immagine, consideriamo, in un primo momento, una sola cellula


depolarizzata (gialla) ed una sola cellula che si deve depolarizzare (blu): il vettore
che deriva dalla presenza di questo dipolo è rappresentato dal vettore più piccolo,
che indica la direzione ed il verso nel quale si sta spostando l’onda di
depolarizzazione. Considerando ora invece due cellule cariche negativamente e
due cellule cariche positivamente, quindi due dipoli, ognuno sarà caratterizzato da
un proprio vettore (in immagine rappresentati dai due vettori più piccoli), e la risultante dell’attività di queste
quattro cellule insieme è rappresentata dal vettore più grande, che è quindi la somma dei due vettori più piccoli.

282
Il vettore risultante corrisponde quindi all’espressione quantitativa delle forze elettriche che si stanno attuando
in quel dato momento di registrazione.

12.2. Tecniche di registrazione dell’attività elettrica cardiaca: derivazioni bipolari,


aumentate e precordiali

Cenni storici
Fino alla metà del 1800 non si era a conoscenza del fatto che il battito cardiaco fosse accompagnato da una
corrente elettrica: fu infatti Carlo Matteucci, nel 1842, a dimostralo per la prima volta.
Verso la fine del 1800 Augustus Desire Waller realizzò per primo un elettrocardiogramma, anche se non si
rese conto delle sue potenzialità.
Agli inizi del 1900 Willem Einthoven, un importante fisiologo, inventò l’elettrocardiografo. Tramite questo
strumento, con degli elettrodi di superficie, riuscì a misurare l’attività elettrica cardiaca. Egli inoltre pose le
basi razionali per l’interpretazione del tracciato elettrocardiografico, che divenne un importantissimo esame
diagnostico, in quanto problemi nella trasmissione del segnale elettrico a livello cardiaco si riflettono in
problemi riguardanti la capacità contrattile del cuore.
Nel 1924 Einthoven ricevette il Premio Nobel per la medicina per la scoperta del meccanismo
dell’elettrocardiogramma.
Da qui in poi ci furono tutta una serie di scoperte che hanno permesso di capire dove si generi il segnale e
quali circuiti questo segnale segua nel tessuto cardiaco (ad es., negli anni ’20 l’inglese Thomas Lewis identificò
il nodo seno-atriale come l’origine dell’attività cardiaca, nel 1927 il sudafricano William Craib pubblicò la sua
teoria del “dipolo” per spiegare la genesi del segnale elettrocardiografico, negli anni ’30 l’americano Frank
Norman Wilson introdusse le derivazioni unipolari degli arti e la derivazioni precordiali).

Derivazioni bipolari, aumentate e precordiali


Fare un elettrocardiogramma consiste nel registrare dei potenziali elettrici prodotti dal cuore, misurando la
differenza di potenziale rilevata tra due elettrodi, posti in punti diversi sulla superficie del corpo, che vanno ad
esplorare le linee di corrente generate dal cuore. Vi è una differenza di potenziale tra questi due elettrodi poiché
si trovano sulla stessa linea di corrente, quindi sulla stessa superficie corporea.
Gli elettrodi sono posti sul corpo in posizioni specifiche, e l’asse che li collega, che è un asse standardizzato,
è chiamato derivazione. Sostanzialmente quindi, quando viene fatto un esame elettrocardiografico vengono
usate delle derivazioni, ovvero delle coppie di elettrodi. È proprio la derivazione il punto di osservazione del
fenomeno elettrico cardiaco.
Le derivazioni sono 12, in questo modo lo stesso evento elettrico è visto da punti differenti. Ciò permette di
avere una visione complessiva più raffinata del fenomeno elettrico che sta attraversando il cuore in un dato
momento, in quanto può essere che alcune derivazioni, per come sono disposte, quindi in base all’angolo che
si forma rispetto al dipolo in quel momento, non siano abbastanza esaustive nell’osservazione dell’evento
elettrico.
Di queste 12 derivazioni:
 6 sono dette periferiche, poiché si fanno a partire da elettrodi che sono posti alla periferia del corpo;
 6 sono dette precordiali, poiché si fanno a partire da elettrodi posti sul precordio, quindi sul torace.

Inoltre le derivazioni possono essere distinte in:


 Bipolari: derivazione in cui entrambi gli elettrodi sono elettrodi registranti, ovvero risentono
direttamente dell’attività elettrica cardiaca. Si tratta delle derivazioni bipolari agli arti di Einthoven,
e sono 3: DI, DII, DIII.
 Unipolari: derivazione in cui un solo elettrodo è registrante, e quindi risente attivamente dell’attività
elettrica cardiaca, mentre l’altro è un elettrodo di riferimento, indifferente all’attività cardiaca ma che
ovviamente è indispensabile per fare la differenza di potenziale.
Vi sono due tipologie di derivazioni unipolari:
- 3 derivazioni unipolari agli arti di Goldberger: aVR, aVL, aVF.
- 6 derivazioni unipolari toraciche o precordiali di Wilson: V1, V2, V3, V4, V5, V6.
Quindi 12 derivazioni, nello stesso istante di registrazione, vedono lo stesso fenomeno elettrico ma da punti
di vista diversi. Si ottengono quindi 12 tracciati diversi.

283
Gli elettrodi utilizzati per dare origine alle 12 derivazioni sono 9, di cui:
 3 sono applicati agli arti (elettrodi periferici): polso sinistro, polso destro, caviglia sinistra.
Questi elettrodi permettono di avere sia le derivazioni bipolari di Enthoven (DI, DII, DIII), sia le
derivazioni unipolari di Goldberger (aVR, aVL, aVF).
 6 sono applicati sul torace (elettrodi precordiali).
Questi consentono di ottenere le sei derivazioni unipolari precordiali di Wilson (da V1 a V6).

Derivazioni bipolari di Einthoven


In origine gli elettrodi utilizzati da Einthoven erano posizionati su spalla sinistra, spalla destra, pube. Oggi
invece vengono posizionano su polso sinistro, polso destro, caviglia sinistra.
Le basi razionali che hanno permesso di interpretare, secondo
Einthoven, il tracciato elettrocardiografico, sono esplicate nei
cosiddetti postulati di Einthoven:
1. Il torace è un conduttore sferico omogeneo con al centro
il cuore. (Questo si può dire solo in approssimazione,
perché in realtà il torace non è completamente
omogeneo).
2. Le forze elettriche cardiache si generano al centro del
conduttore. La risultante di queste forze, in ogni
momento, può essere rappresentata da un vettore
elettrico cardiaco che viene misurato mediante le
derivazioni di Enthoven.
3. Ponendo gli elettrodi nelle specifiche posizioni viene
delimitato un triangolo equilatero che delimita il torace.
Al centro del cosiddetto triangolo di Einthoven è
presente il cuore, e quindi il vettore elettrico cardiaco che
sta rappresentando in quel dato istante l’attività elettrica
del cuore stesso.
4. Ogni derivazione (DI, DII, DIII) vede lo stesso vettore
cardiaco da punti di vista diversi. Più precisamente viene
analizzata la proiezione del vettore elettrico sulla derivazione. Questo processo viene svolto sul
piano bidimensionale frontale, quindi il triangolo di Einthoven delimita un piano frontale di
osservazione.
Progressivamente le varie porzioni del cuore si attivano, vi saranno quindi porzioni cariche positivamente ed
altre cariche negativamente. Questa separazione di carica può essere descritta, da un punto di vista elettrico,
con un dipolo, a sua volta rappresentato da un vettore. Si tratta di un dipolo elettrico equivalente che quindi
genera una serie di linee di corrente che raggiungono la superficie del corpo. Le derivazioni esplorano queste
linee di corrente e mostrano l’attività elettrica cardiaca come differenza di potenziale tra i due elettrodi, posti
sulle linee di corrente. In particolare, questa differenza di potenziale è la rappresentazione della proiezione del
vettore elettrico istantaneo sull’asse di derivazione. Derivazioni differenti avranno una proiezione differente
del vettore quindi vedranno lo stesso evento elettrico in maniera diversa.
Ricapitolando:
 gli elettrodi sono i vertici del triangolo equilatero di Einthoven;
 l’attività cardiaca viene rappresentata da un dipolo equivalente che genera il vettore elettrico
istantaneo al centro del triangolo;

284
 le derivazioni vanno ad esplorare questo vettore
elettrico cardiaco, espressione quantitativa
dell’attività elettrica cardiaca in quel dato
momento. Lo possono fare poiché il vettore
genera delle linee di corrente, che vengono
appunto esplorate con gli elettrodi di ogni singola
derivazione.
Affinché un tracciato elettrocardiografico possa essere
letto in maniera univoca in tutto il mondo i punti
fondamentali sono due:
1. La posizione degli elettrodi deve essere
standard.
2. Il modo in cui viene calcolata la differenza di
potenziale nell’ambito della derivazione deve
essere standardizzato. Il + e il – indicano come
viene calcolata la differenza di potenziale. Nel
caso delle derivazioni bipolari di Einthoven:
 DI: la differenza di potenziale è calcolata
tra il potenziale letto dall’elettrodo posto
sul polso sinistro (LA, left arm) (+) meno il potenziale letto dall’elettrodo posto sul polso
destro (RA, right arm) (-).
 DII: la differenza di potenziale è fatta tra il potenziale letto dall’elettrodo posto sulla caviglia
sinistra (LF, left foot) (+) meno il potenziale letto dall’elettrodo posto sul polso destro (RA)
(-).
 DIII: la differenza di potenziale è fatta tra il potenziale letto dall’elettrodo posto sulla caviglia
sinistra (LF) (+) meno il potenziale letto dall’elettrodo posto sul polso sinistro (LA) (-).

Il triangolo di Einthoven è utile in quanto permette di:


1. dare una spiegazione all’ampiezza e al segno delle onde che si registrano nelle tre diverse derivazioni
bipolari;
2. calcolare il vettore cardiaco medio (o asse elettrico ventricolare), un parametro che dice come è
posizionato il cuore all’interno del torace.

Derivazioni periferiche pseudounipolari aumentate di Goldberger


Si tratta sempre di derivazioni periferiche, vengono quindi mantenute le posizioni degli elettrodi utilizzate
da Einthoven (braccio sinistro, braccio destro, caviglia sinistra), ma pseudounipolari. Per spiegare tale
concetto prendiamo in esame la derivazione aVL. In questo caso la differenza di potenziale viene fatta tra il
potenziale letto dall’elettrodo registrante posto sul polso sinistro (+) e il potenziale letto da un elettrodo di
riferimento posto nel punto intermedio tra gli altri due elettrodi, che sono messi in resistenza con resistenze
da 5 Ω (Nota. La slide indica 5 kΩ). Quindi si dice pseudounipolare poiché in realtà l’elettrodo di riferimento,
derivante da elettrodi che sono registranti, non è completamente indifferente all’attività cardiaca.

285
Per quanto riguarda aVF l’elettrodo registrante è posto sulla caviglia sinistra mentre quello di riferimento a
metà tra gli altri due; per quanto riguarda invece aVR l’elettrodo registrante è posto sul polso destro.
A livello delle derivazioni bipolari si hanno come punti di osservazione i lati del triangolo di Einthoven,
mentre a livello delle derivazioni pseudounipolari vengono considerate le bisettrici degli angoli del triangolo.
Si tratta però sempre di un’osservazione frontale.
Queste derivazioni sono dette aumentate poiché leggono un 50% in più del segnale rispetto a quello letto
dalla corrispondente derivazione di Einthoven. Considerando ad esempio aVR, l’elettrodo registrante è sul
polso destro, l’elettrodo di riferimento è intermedio tra gli altri due elettrodi. aVR può quindi essere scritta
come:

aVR = VR – (VL + VF)/2

ovvero

aVR = potenziale letto dall’elettrodo posto sul polso destro – (somma dei potenziali elettrici letti dai due
elettrodi posti su caviglia sinistra e polso sinistro)/2.

Secondo la legge di Kirchhoff nell’ambito di un circuito chiuso, come potrebbe essere il triangolo di
Einthoven, la somma dei potenziali deve essere uguale a zero. Quindi:

VR + VL + VF = 0  VR = – (VL + VF)  (VL + VF) = – VR

Sostituendo:

aVR = VR + VR/2  aVR = 3/2 VR

aVR è 3/2 di VR, quindi un 50% in più di VR. Per questo tali derivazioni vengono definite aumentate.

Derivazioni unipolari precordiali di Wilson


Queste derivazioni sono definite precordiali in quanto gli elettrodi registranti sono posizionati sul precordio,
quindi molto vicino al cuore, in particolare girano intorno al ventricolo sinistro. Sono definite unipolari poiché
sono date dagli elettrodi registranti (da V1 a V6) e dall’elettrodo di riferimento, detto terminale centrale di
Wilson. L’elettrodo di riferimento viene calcolato automaticamente dalla macchina e sarebbe il punto di
intersezione delle bisettrici degli angoli del triangolo di Einthoven. Questo elettrodo è realmente indifferente
all’attività cardiaca.
La differenza di potenziale sarà fatta tra, per esempio, V1 e il terminale centrale, che sostanzialmente è da
immaginare all’interno del corpo. Quindi la derivazione sarà da V1 verso l’interno e quindi il piano di
osservazione non sarà più frontale bensì orizzontale. Si tratta perciò di un piano perpendicolare a quello cui
fanno riferimento gli altri due tipi di derivazioni.
Inoltre, per come sono posizionati, questi elettrodi vedranno meglio determinati tipi di fenomeni:
 V1 e V2: registrano prevalentemente l’attività del ventricolo destro,
 V4, V5 e V6: registrano prevalentemente l’attività del ventricolo sinistro.
Le posizioni sono più difficili da determinare rispetto alle posizioni degli elettrodi periferici:
 V1: a livello del quarto spazio intercostale sul margine destro dello sterno.
 V2: a livello del quarto spazio intercostale sul margine sinistro dello sterno.
 V3: posto tra V2 e V4.
 V4: a livello del quinto spazio intercostale sulla linea emiclaveare anteriore sinistra.
 V5: a livello del quinto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore sinistra.

286
 V6: a livello del quinto spazio intercostale sulla linea ascellare media sinistra.
È possibile determinare la posizione della prima derivazione, per poi trovare di conseguenza le altre, nel
seguente modo:
1. Appoggiare il dito sull’incisura giugulare.
2. Far scivolare lentamente il dito verso il basso, di circa 4 centimetri, finché non si sente una leggera
escrescenza orizzontale corrispondente all’angolo di Louis, ovvero il punto di giunzione tra il
manubrio e il corpo dello sterno.
3. Individuare il secondo spazio intercostale sul lato destro, lateralmente e appena sotto l’angolo di Louis.
4. Far scivolare il dito verso il basso, di altri due spazi intercostali, fino al quarto spazio intercostale che
è la posizione V1.

Domanda di uno studente. Come mai il terminale centrale di Wilson è indifferente all’attività cardiaca? Il terminale
centrale mette in congiunzione i tre elettrodi periferici mediante le resistenze e questo fa sì che tramite queste resistenze
si annullino tutti gli effetti derivanti dall’attività cardiaca. Mentre a livello del terminale di riferimento caratteristico delle
derivazioni di Goldberger le resistenze sono solo due, e quindi tale terminale è un po’ più sensibile alle variazioni del
potenziale che sono lette da questi elettrodi, a livello del terminale centrale delle derivazioni di Wilson, per la struttura
geometrica del terminale stesso, questo non risente dell’attività elettrica del cuore. È importante sottolineare che, essendo
il terminale centrale di Wilson fatto a partire da degli elettrodi periferici, se si vogliono fare delle registrazioni con
derivazioni precordiali è necessario avere montati anche gli elettrodi periferici, altrimenti non si avrebbe il potenziale di
riferimento con cui fare la differenza di potenziale.

12.3. Vettore cardiaco istantaneo e genesi delle forme d’onda nelle derivazioni bipolari
Al livello del cuore si hanno due tipi di miocardio: miocardio comune e miocardio specifico. Le cellule che
compongono quest’ultimo sono in grado di generare autonomamente il potenziale d’azione.
La propagazione del potenziale d’azione dà origine a delle correnti elettriche che (dal momento che il nostro
torace può essere visto come un conduttore) raggiungono la superficie dell’organismo e vengono misurate
mediante elettrodi: in questo modo si ha il tracciato ECG che rappresenta la registrazione dell’attività elettrica
del cuore nel tempo. Questa attività permette al cuore di funzionare come pompa
emodinamica.
Quando l’onda di depolarizzazione invade il tessuto si crea una ripartizione delle
cariche esterne a queste cellule.
Se osserviamo l’immagine al lato:
 in grigio si hanno le cellule che sono già state depolarizzate ed hanno,
dunque, carica esterna negativa;
 in nero si hanno le cellule che si devono ancora depolarizzare che hanno
carica esterna positiva.
Questa situazione tridimensionale complessa può essere
rappresentata da un dipolo elettrico, rappresentando tutte le cariche
negative come un’unica carica negativa e tutte le positive come
un’unica carica positiva. Questo dipolo può essere rappresentato
da un vettore elettrico istantaneo che ha:
 un’intensità (dipende dalle cariche in gioco e dalla
distanza che vi è tra queste cariche), rappresentata dal
momento del dipolo:
m = δ·Q
 una direzione: è l’asse del dipolo, ovvero l’orientamento spaziale che hanno le cariche negative
rispetto a quelle positive;
 un verso: che (per definizione) va sempre dal polo negativo a quello positivo.

Il dipolo equivalente risultante sarà rappresentato dal vettore elettrico istantaneo. Questo vettore elettrico
sarà quello che verrà esplorato durante una misurazione elettrocardiografica fatta da coppie di elettrodi. L’asse
tra queste coppie è detto asse di derivazione e l’ECG è costituito da 12 derivazioni fatte a partire da 9 elettrodi.
Ogni derivazione vede lo stesso evento elettrico istantaneo dal suo punto di vista.

287
 I 3 elettrodi periferici applicati agli arti (polso sx, polso dx e caviglia sx) permettono di ottenere,
considerati a coppie, le tre derivazioni di Einthoven e le tre di Goldberger.
 I 6 elettrodi toracici consentono di ottenere le 6 derivazioni precordiali di Wilson.
Si osservano 12 tracciati indipendenti associati a ciascuna delle derivazioni. Ciascuna derivazione vede il
fenomeno elettrico da un’angolazione diversa e sarà differente, quindi, dalle altre.
Occorre tener presente che quando si fa una registrazione elettrocardiografica, essa viene fatta per un minuto
e mezzo. Per questo in ogni tracciato si ripetono dei gruppi di onde, dove ogni gruppo rappresenta un ciclo
cardiaco. Il numero di cicli che si ripetono dipende dalla frequenza cardiaca.
L’interpretazione del tracciato elettrocardiografico che ha saputo dare Einthoven ha permesso di utilizzare
questo esame a scopo diagnostico. Occorre tener presente, infatti, che se ci sono dei problemi nella genesi e
nella conduzione del segnale elettrico tra le cellule del miocardio essi vengono a ripercuotersi sulla capacità di
contrazione di queste cellule e di conseguenza sulla funzione fisiologica del cuore.
Il triangolo di Einthoven permette di dare una spiegazione all’ampiezza e al segno delle onde presenti nei
tracciati elettrocardiografici; inoltre permette di calcolare il vettore cardiaco medio o asse elettrico cardiaco
(parametro che indica come è posizionato il cuore nel torace e dà informazioni diagnostiche fondamentali).
Einthoven afferma che il torace è un conduttore sferico omogeneo (anche se in realtà i polmoni generano
della resistenza) al centro del quale l’attività elettrica cardiaca dà origine ad un vettore elettrico istantaneo
che rappresenta l’espressione quantitativa delle forze elettriche che si generano durante l’attività
cardiaca in un determinato istante della misurazione.
Quando si posizionano gli elettrodi periferici si genera il triangolo di Einthoven. Ogni coppia di elettrodi e
quindi ogni derivazione registra delle differenze di potenziale che rappresentano la proiezione del vettore
elettrico istantaneo sull’asse di derivazione.
Nell’immagine i vettori verdi rappresentano la proiezione
del vettore elettrico istantaneo centrale sui tre assi di
derivazione. Si può notare come essi abbiano ampiezze
diverse dovute alla diversa posizione della derivazione
rispetto al vettore elettrico istantaneo (la cui posizione cambia
a seconda di come si sta muovendo l’onda di
depolarizzazione nelle varie porzioni del tessuto cardiaco).
La proiezione del vettore elettrico verrà poi graficata dando
origine alle onde del tracciato elettrocardiografico:
 onde positive: onda P, R e T;
 onde negative: onda Q e S.
Quindi, dato uno stesso evento elettrico, i tracciati
elettrocardiografici risultano differenti proprio perché ogni
proiezione del vettore dipende dalla posizione del vettore
stesso rispetto all’asse di derivazione presa in considerazione.
Il segnale che si registra nell’ECG è l’espressione della posizione delle cariche elettriche nel corso della
depolarizzazione del tessuto cardiaco. Le cariche elettriche sono rappresentate dalle stesse cellule del
miocardio che invertono la loro polarità man mano che prosegue l’onda di depolarizzazione. Perciò per
comprendere come si genera il tracciato elettrocardiografico è necessario innanzitutto chiarire qual è la
condizione elettrica che si viene a creare durante la depolarizzazione del tessuto.
Prendiamo in considerazione un lembo di tessuto a cavallo dell’onda di depolarizzazione:
 le cellule in giallo sono già depolarizzate: superficie esterna carica negativamente;
 le cellule in blu sono cellule a riposo: superficie esterna carica negativamente.

288
L’onda di depolarizzazione si sta spostando nella direzione della freccia rossa (in obliquo) rappresentante il
vettore elettrico istantaneo. Quindi considerando ad esempio un dipolo, il vettore elettrico istantaneo
rappresenta la spartizione di cariche.
Se misurassimo con un galvanometro (due elettrodi posti all’estremità di queste cellule) la corrente elettrica
che si genera in questa condizione si osserverebbe sul tracciato elettrocardiografico una deflessione che è
direttamente proporzionale al vettore e quindi alla quantità di carica in gioco.
Se si considerano quattro cellule, di cui due cariche positivamente e due negativamente si ottengono ottengo
due dipoli ed un vettore finale, che è dato dalla somma dei moduli dei due vettori più piccoli.
La deflessione osservata analizzando l’estremità di un lembo di tessuto sarebbe maggiore, perché è maggiore
la quantità di cariche in gioco. Se si raddoppia, triplica o quadruplica il numero di cariche in gioco il vettore
aumenta di intensità e l’onda del tracciato elettrocardiografico aumenta in proporzione.
N.B. La situazione nel cuore non è così semplice come nel caso delle quattro cellule, il cuore infatti è un
organo tridimensionale. Per questo tipo di fenomeni viene comunque utilizzata una trattazione bidimensionale.

In questo caso osserviamo una propagazione che sta avvenendo in senso orizzontale. Il vettore
che si ottiene sarà dato dalla somma dei singoli dipoli orizzontali che partecipano alla
formazione dell’onda di depolarizzazione.

In questo invece osserviamo un vettore di tipo verticale (movimento dell’onda in senso


verticale).

Nella realtà, l’onda di depolarizzazione si posta sia in senso orizzontale che verticale e, per questo, si ottiene
un vettore obliquo. Per ottenere questo vettore obliquo si utilizza la regola del parallelogramma (la diagonale
del parallelogramma sarà la risultante di questi due vettori).

Se si pone un elettrodo a sinistra ed uno a destra sul lembo di tessuto le differenze di potenziale che si
ottengono rappresentano la proiezione che questo vettore dà sull’asse di derivazione.
Per ottenere la proiezione si utilizza la regola del parallelogramma al contrario: si tracciano delle linee (linee
tratteggiate in figura) a partire dalla testa e dalla coda del vettore ed si ottiene un vettore orizzontale che verrà
misurato dalla coppia di elettrodi (il vettore sarà orizzontale data la posizione della coppia di elettrodi presa in
considerazione).
Dunque, non solo il vettore che si genera per l’attività elettrica cardiaca dipende da quante cariche ci sono in
gioco e da come si sta spostando l’onda di depolarizzazione ma, nell’ambito di una derivazione, occorre tener
conto anche della proiezione che questo vettore dà sull’asse di derivazione.
Mediante la concezione di Einthoven possiamo definire che ampiezza avrà l’onda a seconda:
 dell’intensità del vettore elettrico istantaneo dovuta alle cariche in gioco;
 della posizione del vettore elettrico istantaneo rispetto
all’asse di derivazione nell’istante della registrazione:
questo perché gli elettrodi registrano solo la
componente del vettore lungo l’asse di derivazione.

Se si osservano i due vettori istantanei (blu e rosso)


dell’immagine è possibile notare come entrambi abbiano la
stessa intensità ma inclinazioni differenti.
1. Se si considera un’asse di derivazione in senso
verticale (elettrodi verticali) la proiezione del vettore
blu corrisponderà ad un vettore più lungo, mentre la
proiezione del vettore rosso corrisponderà ad un

289
vettore più corto. Dunque, nonostante i due vettori possano avere la stessa intensità, poiché la loro
inclinazione rispetto all’asse di derivazione è diversa la loro proiezione sull’asse stessa sarà differente.
Perciò, nell’ambito di questa derivazione, il vettore blu istantaneo darà origine ad una differenza di
potenziale maggiore (e quindi un’onda di depolarizzazione più grande) rispetto a quella che originerà
dal vettore rosso.
2. Se invece si considerano degli elettrodi orizzontali si ottiene che, a parità di intensità, si hanno di
nuovo due proiezioni diverse fra loro dovute al fatto che cambia l’inclinazione dei due vettori. Le
registrazioni ottenute, inoltre, saranno anche diverse rispetto a quelle ricavate precedentemente
sull’asse di derivazione perpendicolare.

Nell’immagine di sinistra si può osservare come nel caso di


un vettore elettrico istantaneo perpendicolare all’asse di
derivazione si avrà una proiezione su quest’ultimo nulla e gli
elettrodi non registreranno differenza di potenziale. Non si
registreranno, dunque, deflessioni.
Questo è verificabile anche applicando la legge matematica
εP = Kmcosθ/r 2 , infatti cos90° = 0 e di conseguenza non
sarà registrata alcuna differenza di potenziale ε.
Se il vettore ha posizione parallela (immagine di destra)
rispetto all’asse di derivazione si avrà la massima differenza
di potenziale tra i due elettrodi, infatti cos0° = 1. Quando il
vettore è parallelo all’asse di derivazione la sua proiezione
sull’asse di derivazione è massima e quindi si avrà la massima deflessione dell’ago che misura la differenza di
potenziale tra i due elettrodi.

La teoria di Einthoven afferma anche che le deflessioni che si vanno


a graficare sul tracciato elettrocardiografico possono essere positive
(rispetto alla linea che indica differenza di potenziale pari a 0, detta linea
isopotenziale) o negative, in base a come si sta muovendo l’onda di
depolarizzazione (rappresentata dal vettore elettrico istantaneo) rispetto
agli elettrodi.
 Se l’onda di depolarizzazione si sta avvicinando all’elettrodo
con segno +, ovvero se il vettore elettrico è concorde con
l’asse di derivazione, si avrà una deflessione positiva.
 Se il vettore si sta allontanando dall’elettrodo con segno + la
deflessione ottenuta sul tracciato sarà negativa.

Quindi riassumendo:
 L’intensità dell’onda dipende dalla quantità di carica in gioco
ma soprattutto dalla posizione relativa del vettore elettrico
istantaneo rispetto all’asse di derivazione.
 Il verso dipende dal movimento dell’onda di depolarizzazione,
se questa si muove:
- verso l’elettrodo indicato con il segno + sarà registrata
una deflessione verso l’alto, ovvero una deflessione
positiva del tracciato elettrocardiografico;
- verso l’elettrodo con il segno - e quindi si allontana dall’elettrodo con il segno +, la deflessione
registrata sarà verso il basso (negativa).
 Quando l’onda è perpendicolare all’asse di derivazione le deflessioni saranno assenti, quindi sul
tracciato elettrocardiografico viene registrata una linea orizzontale che si trova sulla linea
isopotenziale.

290
1. Consideriamo un’onda che si sta muovendo da B verso A (le cellule in A non sono ancora state
depolarizzate e per questo hanno cariche positive esterne); l’elettrodo con segno + è posto in A e quello
con segno - in B. In tal caso la deflessione sarà positiva perché il vettore elettrico istantaneo è concorde
all’asse di derivazione.
2. Nel secondo esempio l’onda di depolarizzazione ha quasi attraversato del tutto il tessuto: non si ha più
partizione di carica e non si generano campi elettrici. Di conseguenza la misurazione darà origine ad
una linea (arancione) isopotenziale: non si registra differenza di potenziale.
3. Nel terzo esempio l’onda di depolarizzazione si sta spostando da A verso B e si registrerà un’onda di
tipo negativo. L’onda, infatti, si sta allontanando dall’elettrodo registrante.
4. Nell’ultimo esempio tutte le cellule sono in stato di riposo e quindi tutte le cariche esterne sono
positive: non c’è un dipolo e quindi si registra una linea orizzontale (isoelettrica).

In quest’immagine si ha un vettore
(blu) centrale che rappresenta la
depolarizzazione dei ventricoli.
 Osservandolo con la prima
derivazione di Einthoven il
vettore elettrico istantaneo,
esso si dirige verso l’elettrodo
con segno + posto sul polso
sinistro: in prima derivazione di
Einthoven si legge un’onda di
tipo positivo (onda R).
 Osservando lo stesso evento
con aVR (una delle derivazioni
pseudounipolari di Golberger)
il vettore si sta allontanando
dall’elettrodo registrante
(elettrodo con segno + sul polso
destro). Dunque, l’onda sarà di
tipo negativo.
La positività o negatività dell’onda dipendono, quindi, da come è posizionato il vettore elettrico istantaneo
rispetto all’elettrodo con segno +.

291
Considerando il vettore elettrico istantaneo che rappresenta la depolarizzazione di gran
parte della massa ventricolare, la sua direzione è specifica: punta verso sinistra perché in
genere il ventricolo sinistro è più spesso rispetto al destro. Quindi quando avviene la
depolarizzazione della massa ventricolare il ventricolo sinistro è quello che depolarizza
più tardivamente e di conseguenza il vettore che descrive l’onda di depolarizzazione avrà
questo tipo di posizionamento da destra verso sinistra.
Lo stesso vettore osservato dalle tre diverse derivazioni dà origine ad onde positive
diverse.
 DI: il vettore istantaneo si sta dirigendo verso l’elettrodo registrante (polso sx) e quindi si avrà un’onda
di tipo positivo. L’ampiezza dell’onda è proporzionale alla proiezione del vettore istantaneo (freccia
rossa al centro) sull’asse di derivazione.
 DIII: anche in questo caso il vettore elettrico istantaneo si dirige verso l’elettrodo registrante (caviglia
sx) e quindi si avrà un’onda di tipo positivo. Tuttavia, il vettore è quasi perpendicolare rispetto all’asse
di derivazione, la sua proiezione sarà molto piccola e l’ampiezza dell’onda ridotta.
 DII : il vettore elettrico istantaneo si sta dirigendo verso l’elettrodo registrante (caviglia sx) ed è quasi
parallelo rispetto all’asse di derivazione: si avrà quindi un’onda positiva e di ampiezza maggiore
rispetto alle altre.

Le proiezioni del vettore elettrico istantaneo sull’asse


di derivazione sono legate da una legge matematica che
afferma:

DII = DI + DIII

Grazie a questa legge, detta legge di Einthoven, se si


conoscono i valori di una coppia qualsiasi delle
derivazioni è sempre possibile ricavare la terza
derivazione.
Questa legge può essere considerata come una
riformulazione della legge di Kirchhoff che afferma che
variazioni del potenziale elettrico in un circuito chiuso
deve essere nulla

Osserviamo l’andamento del vettore istantaneo rispetto ad un unico piano di derivazione: DII. In particolare
il vettore ha sempre la stessa intensità, quello che cambia è la sua posizione.
1. Nel primo caso: il vettore è parallelo all’asse di derivazione e punta verso l’elettrodo con segno più.
Si avrà un’onda positiva (perché il vettore è concorde al verso della derivazione) e di massima intensità
(perché essendo parallelo la sua proiezione sarà la massima possibile lungo quell’asse di derivazione).

292
2. Nel secondo caso: l’intensità (legata al numero di cellule) rimane invariata ma cambia la posizione del
vettore che è sempre concorde alla derivazione, ma non è più parallelo. Si avrà un’onda positiva ma
di ampiezza inferiore perché la proiezione del vettore è più piccola.
3. Nel terzo caso: il vettore diventa quasi perpendicolare alla derivazione, punta ancora verso l’elettrodo
con segno +. L’onda è sempre positiva ma molto poco ampia (proiezione ancora più piccola).
4. Nel quarto caso: il vettore punta verso l’elettrodo con segno – e quindi si osserva un’onda negativa
con ampiezza proporzionale alla sua proiezione sull’asse di derivazione.
5. Nel quinto caso: si ha un’onda negativa (vettore che punta all’elettrodo con segno - ) con ampiezza
maggiore rispetto a quella del caso precedente, in particolare l’ampiezza sarà massima.

Tracciato elettrocardiografico: onde


Si può vedere dall’immagine come in questo caso particolare
nel corso di 1 secondo si abbiano due cicli cardiaci (due gruppi
di onde). Il tracciato elettrocardiografico è riportato su carta
millimetrata:
 sull’asse delle y vengono tracciate le differenze di
potenziale tra la coppia di elettrodi (ampiezza
dell’onda). Quindi c’è una corrispondenza tra l’intensità
del segnale in mV e i mm sulla carta. Nello specifico 10
mm di carta millimetrata = 1 mV ovvero 1 mm = 0,1
mV. È possibile dunque ricavare l’ampiezza delle onde
misurando la loro altezza sulla carta millimetrata;
 sull’asse delle x si ha invece il tempo, perché la carta
millimetrata scorre ad una velocità che è costante di 25
mm/s. Quindi, facendo la proporzione si ottiene che 1 mm di carta millimetrata = 40 ms.
Ampiezza e durata delle onde del tracciato elettrocardiografico saranno i due parametri utilizzati per scopo
patologico.

Nel tracciato, considerando la seconda derivazione di Einthoven per questioni di semplicità, si hanno diverse
onde (positive o negative), tratti (o segmenti) e intervalli:
 Attivazione del nodo seno-atriale
Il segnale si genera tipicamente nel nodo SA, che è il pacemaker primario del cuore, in cui le cellule
generano un potenziale d’azione spontaneo e ritmato nel tempo: normalmente ha una frequenza di 60-
100 battiti al minuto. Anche altre cellule nell’ambito del tessuto cardiaco presentano come
caratteristica l’automatismo, ma a frequenza inferiore è il nodo SA che prende il sopravvento e
sincronizza tutto il resto. Il nodo SA si trova allo sbocco della vena cava superiore ed è composto da
poche cellule, di conseguenza il segnale generato è molto piccolo, quindi a livello grafico viene
registrato come un puntino sulla linea isopotenziale.
 Depolarizzazione atriale – onda P
L’onda P corrisponde alla depolarizzazione degli atri. L’impulso partito dal nodo SA arriva molto
velocemente all’atrio di destra (perché a contatto con il nodo SA), poi attraverso i tratti interatriali
(fascio di Bachman) va nei miociti dell’atrio sinistro. La depolarizzazione atriale, soprattutto dell’atrio

293
di destra, dà origine a questo piccolo vettore, che viene visto in seconda derivazione come: un’onda
positiva (perché si dirige verso l’elettrodo con segno +), con una durata temporale di 60-120 ms e di
piccola intensità (0,25-0,40 mV), perché la massa atriale è più piccola della massa ventricolare.
Rappresenta la depolarizzazione degli atri, che è il tempo richiesto perché lo stimolo passi dal nodo
SA al nodo AV.
 Attivazione nodo atrio-ventricolare – segmento PQ (o PR)
Il segnale raggiunge il nodo atrio-ventricolare (costituito da poche cellule) e non si registra, data
l’esigua entità di carica in gioco, una differenza di potenziale.
Qui c’è un rallentamento fisiologico: il segnale passa dagli atri ai ventricoli con un ritardo,
permettendo in un primo momento, la contrazione degli atri e il riempimento ventricolare, e solo
successivamente, la contrazione dei ventricoli.
Dura dai 120 ai 200 ms, è un intervallo che quantifica quanto tempo intercorre tra l’attivazione degli
atri e la successiva attivazione dei ventricoli e offre una stima delle condizioni di conduzione del
segnale tra atrio e ventricolo. Ad esempio, prolungamenti di questo intervallo, normalmente patologici,
segnalano la presenza di disturbi nella conduzione atrioventricolare.
 Depolarizzazione ventricolare – complesso QRS
Costituito da 3 onde, che nell’insieme sono dette complesso QRS e descrivono la depolarizzazione dei
ventricoli, partendo dal setto, passando all’apice dei ventricoli, per poi risalire alla base del cuore.
Questo complesso, anche chiamato ventricologramma, è fondamentale per calcolare l’asse elettrico
cardiaco.
- Depolarizzazione del setto – onda Q
Il primo evento che si registra nei ventricoli è la depolarizzazione del setto, descritta
dall’onda Q, con deflessione negativa. Il segnale passa al ventricolo con il fascio di His (che
collega il nodo AV al ventricolo), passa lo scheletro fibroso e in corrispondenza del setto
interventricolare si dirama nella sua branca sinistra e destra; la sinistra è molto più grande
della destra e si divide ulteriormente in una divisione anteriore e una posteriore. Entrambe le
branche decorrono a livello subendocardico e da entrambe parte un segnale di attivazione, ma
essendo la sinistra più grande della destra, prende il sopravvento: la depolarizzazione dunque
si sposta da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto. C’è un piccolo vettore (perché
sono poche le cellule del setto), che non è più consono alla seconda derivazione, perché si
allontana dal segno +, quindi abbiamo la prima onda negativa del tracciato, l’onda Q.
- Depolarizzazione dell’apice – onda R
Viene descritto dall’onda positiva R, che è alta, dura poco (60-100 ms) ed è indice della
depolarizzazione di gran parte del tessuto ventricolare. Dopo la depolarizzazione del setto,
attraverso le branche del fascio di His, il segnale raggiunge le cellule del Purkinje, quindi
l’apice del cuore, e viene distribuito alla maggior parte della massa ventricolare.
Il vettore è molto grande, punta da destra a sinistra (perché la parete del ventricolo di sinistra
è più grande di quello di destra per motivi fisiologici, quindi si depolarizza più tardivamente)
e dà origine all’onda R.
Si ricorda che la depolarizzazione dei ventricoli avviene sempre dal setto all’apice e infine
alla base (man mano che si sposta verso la base abbiamo la fase calante) e a livello
tridimensionale dall’endocardio all’epicardio.
- Depolarizzazione della base – onda S
L’ultima parte del ventricolo che si depolarizza è la parte basale posteriore del ventricolo
sinistro. Quest’ultima parte del ventricolo dà origine a un piccolo vettore, non più consono
alla seconda derivazione, quindi a livello di tracciato si nota un’onda negativa, l’onda S.
 Tratto ST
A questo punto tutto il ventricolo si è depolarizzato, tutte le cellule che lo compongono avranno la
stessa carica esterna, quindi il momento che descrive la completa depolarizzazione è dato da un
segmento (denominato ST) lungo la linea isopotenziale, in quanto non c’è differenza di potenziale,
non c’è un dipolo. In alcune patologie come l’infarto, ST non sarà lungo la linea isopotenziale.
 Ripolarizzazione dei ventricoli – onda T
Descrive la ripolarizzazione dei ventricoli. È un’onda positiva e asimmetrica, in quanto la fase
crescente è meno ripida della calante. Il vettore è positivo perché avviene in senso opposto alla
depolarizzazione: le ultime regioni a depolarizzare sono le prime a ripolarizzare: si passa dall’epicardio
all’endocardio e si va dalla base, poi apice, infine setto. La ripolarizzazione degli atri, invece, avviene

294
in contemporanea con il complesso QRS. Essendo QRS di entità maggiore dal punto di vista elettrico
(in quanto comprende una massa maggiore), la ripolarizzazione degli atri non è visibile perché
mascherata alla depolarizzazione ventricolare.
Differenze Onda T- Onda R. L’onda T è un’onda meno ampia di R, ma dura più rispetto alla
depolarizzazione dei ventricoli, anche se la massa di cellule coinvolte è la stessa. L’onda T è un
fenomeno che avviene in più tempo perché è desincronizzato, quindi alcuni vettori si elidono
vicendevolemente. L’onda R è un fenomeno sincrono e molto rapido: tutti i vettori istantanei si
sommano, dando origine ad un’onda molto aguzza e di durata breve. Entrambe le onde sono positive,
il vettore sarà positivo perché la ripolarizzazione è elettricamente opposta alla depolarizzazione, ma
nel contempo avviene in senso opposto (le ultime regioni depolarizzate saranno le prime a
ripolarizzare): onda più bassa e larga rispetto all’onda R.
N.B. Vista la presenza di numerose immagini, anche molto grandi, per spiegare il fenomeno, non le ho riportate per
questione di spazio. È possibile recuperarle dalle slide della prof. Si badi che la discussione sulla positività e sull’ampiezza
delle onde è fatta in relazione alla seconda derivazione di Einthoven e che in ogni derivazione le onde tipiche di ogni
evento del ciclo elettrofisiologico cardiaco hanno caratteristiche peculiari.

Intervalli e segmenti
P-R SISTOLE ATRIALE
R-R
Q-T periodo di contrazione 0.85 s
SISTOLE VENTRICOLARE
R-R DURATA DEL
CICLO CARDIACO
T-P periodo di rilasciamento
DIASTOLE VENTRICOLARE

DIASTOLE DIASTOLE
VENTRICOLARE VENTRICOLARE

SISTOLE ATRIALE
0.35 a 0.42 s
SISTOLE VENTRICOLARE
Intervallo: periodo che comprende tratti e onde.
Tratto o segmento: distanza tra due onde, periodo in cui non si registra differenza di potenziale o perché il
segnale coinvolge una piccola quantità di cellule (come nel caso del segmento PR) oppure perché tutte le
cellule hanno la stessa distribuzione elettrica (come nel caso del segmento ST).
 Intervallo PQ (o PR)
Intervallo che corrisponde alla sistole atriale, dura 120-200 ms. PR indica la conduzione attraverso il
nodo AV ed è importante perché indica quanto tempo impiega l’impulso per passare dall’atrio al
ventricolo. Alterazioni alla base di questo intervallo segnalano disturbi nella conduzione AV del
segnale, che possono avere diversa natura: infiammatoria, farmacologica o nervosa. Questo intervallo
è anche influenzato dalla stimolazione del sistema nervoso autonomo, in particolare dal simpatico,
che ha un effetto dromotropo positivo, cioè velocizza la conduzione atrioventricolare dell’impulso,
riducendo l’intervallo PR.
 Intervallo QT
Altro intervallo importante è QT, di durata 350-420 ms, che descrive la depolarizzazione e la
ripolarizzazione del ventricolo, quindi la sistole ventricolare. In alcune patologie si allunga. Il
segmento blu che segue all’intervallo QT rappresenta invece la diastole ventricolare.
 Intervallo R-R
Intervallo che quantifica la durata del ciclo cardiaco. È molto importante perché in base a questo,
tipicamente intorno a 800-850 ms, può essere definita la frequenza cardiaca. Se ci sono variazioni
significative di questo parametro, si possono avere fenomeni di aritmia, sia di tachicardia che di
bradicardia.

295
Relazione temporale tra ECG e potenziale di
membrana di una cellula ventricolare.
Correlazione tra ECG e potenziale di membrana di una cellula ventricolare

Intervallo QT (0.4 s)

1
2

3
0

4 4

Nell’immagine viene descritta la correlazione tra la variazione di potenziale misurata extracellularmente


durante le varie fasi dell’eccitamento ventricolare e le corrispondenti fasi dell’eccitamento registrate
intracellularmente.
 Depolarizzazione (fase 0): correla con il picco R (depolarizzazione ventricolare).
 Plateau (fase 2): correla con il tratto ST, ovvero il momento in cui tutti i ventricoli sono depolarizzati.
 Ripolarizzazione (fase 3): correla con l’onda T, ovvero la ripolarizzazione dei ventricoli.
L’intervallo che va dall’inizio del complesso QRS al picco dell’onda T correla con il periodo refrattario
assoluto, mentre la porzione successiva con il periodo refrattario relativo.

Calcolo della frequenza cardiaca


L’intervallo R-R è importante a scopo diagnostico perché dà informazioni sulla durata del ciclo cardiaco.
È possibile calcolare il numero di intervalli R-R in 1 minuto, anche se più tipicamente si misura la distanza
tra 2 picchi R e da questo valore ricavare la frequenza cardiaca:
 sappiamo che la carta millimetrata scorre a una velocità costante, di 25mm/s;
 facciamo un’equivalenza per vedere a quanti secondi corrisponde 1mm:
1 𝑠 ∙ 𝑚𝑚
25 𝑚𝑚 ∶ 1 𝑠 = 1 𝑚𝑚 ∶ x 𝑠 → 𝑥 = = 0.04 𝑠 = 40 𝑚𝑠
25 𝑚𝑚

Facendo un esempio, se l’intervallo R-R è di 23 mm, dal punto di vista temporale corrisponde a:

23 × 40 𝑚𝑠 = 920 𝑚𝑠 = 0.92 𝑠

Un ciclo cardiaco dura, in questo caso, 0,92s.


Se si vuole capire quante volte quel ciclo cardiaco si ripete in un minuto (quindi la frequenza):

60
= 65 𝑏𝑝𝑚
0.92

12.4. Calcolo del vettore cardiaco medio o asse elettrico ventricolare

Il triangolo di Einthoven è fondamentale per spiegare segno e ampiezza delle onde, ma permette anche di
calcolare il vettore cardiaco medio o asse elettrico cardiaco ventricolare.
Quando un’onda di depolarizzazione passa attraverso il tessuto cardiaco, la corrente elettrica segue una
direzione, detta “asse elettrico”. L’orientamento spaziale di questo asse varia con il procedere dell’onda di
depolarizzazione nelle varie aree cardiache (fenomeno che genera vettori elettrici istantanei orientati) e, nello
specifico, è possibile distinguere:
 un asse elettrico che descrive la depolarizzazione dell’atrio (relativo all’onda P);

296
 un asse elettrico che descrive la depolarizzazione dei ventricoli (relativo al complesso QRS);
 un asse elettrico che descrive la ripolarizzazione dei ventricoli (relativo all’onda T).
L’asse elettrico ventricolare viene dedotto dal
vettore QRS medio (vettore viola al centro del
triangolo di Einthoven) il quale rappresenta la
risultante degli infiniti vettori istantanei della fase
di depolarizzazione (e quindi attivazione) dei
ventricoli, indicata sull’ECG dal complesso QRS.
L’orientamento di questo asse è definito
dall’angolo che si forma tra il prolungamento del
vettore QRS medio e un asse orizzontale. I valori
vanno da 0° a +180° se si procede in senso orario,
mentre nel verso opposto diventano negativi da 0 a
-180°. (Nel caso dell’esempio l’asse orizzontale è
quello della prima derivazione e il vettore forma un
angolo di circa +60°).
L’asse elettrico cardiaco è un parametro molto
importante dal punto di vista clinico e diagnostico:
l’angolo, che indica l’inclinazione del vettore,
fornisce informazioni sulla posizione del cuore
all’interno del torace durante la depolarizzazione
dei ventricoli.
Tipicamente l’asse elettrico ventricolare ha un
range di variazione che va dai -30° ai +90° e
nell’ambito di questi valori l’asse elettrico cardiaco è nella norma. Questa ampia variazione consentita dipende
dal fatto che ogni soggetto ha un complesso QRS diverso e spesso correlato alla costituzione (gli individui alti
e magri hanno un cuore più “verticale” e di conseguenza un asse elettrico che tende ai 90°, gli individui più
bassi e tarchiati hanno un cuore che tende a “stendersi orizzontalmente” e quindi un asse elettrico cardiaco con
valori più vicini a 0°).
La deviazione rispetto a questo range demarca condizioni patologiche:
 Deviazione assiale a sinistra (angolo < -30°): è indice di ipertrofia del ventricolo sinistro che
potrebbe essere indotta da un aumento delle resistenze periferiche. È il caso della stenosi della valvola
aortica: quando il ventricolo va in sistole e deve pompare il sangue incontra molta resistenza perché
l’aorta è semi-occlusa e con il passare del tempo questo tipo di sforzo inspessisce il ventricolo in
maniera patologica. (N.B. In condizioni basali il ventricolo sinistro è comunque più grosso di quello
destro, ma quando assume dimensioni fuori dalla norma si ricade in ambito patologico).
 Deviazione assiale a destra (angolo > +90°): è espressione di ipertrofia ventricolare destra, che
potrebbe essere indotta da una stenosi della valvola polmonare. In condizioni fisiologiche il
ventricolo sinistro è più grosso di quello destro, quindi durante la depolarizzazione il vettore tende
verso sinistra; in seguito ad un inspessimento patologico del ventricolo destro la sua depolarizzazione
è tardiva e il vettore tende a destra e l’angolo che crea con l’asse orizzontale risulta essere maggiore
di +90°.
L’asse elettrico cardiaco può essere calcolato manualmente, considerando i tracciati del complesso QRS di
almeno due delle tre derivazioni di Einthoven e seguendo questo procedimento:
1. Disegnare un triangolo equilatero che corrisponde al triangolo di Einthoven.
2. Analizzare il complesso QRS ottenuto da una derivazione. Nello specifico calcolare la sua altezza
algebrica (altezza in mm dell’onda R meno somma algebrica delle onde Q e S).
3. A partire dal punto medio di un lato del triangolo, disegnare un vettore proporzionale al valore ottenuto
nel passaggio precedente.
4. Ripetere lo stesso procedimento su un’altra derivazione, ottenendo un secondo vettore.
5. I due vettori sono la proiezione lungo la derivazione del vettore istantaneo che ha generato i complessi
QRS e da questi è possibile ricostruire il vettore medio istantaneo:
a. disegnare delle linee verso il centro del triangolo a partire dalla testa e dalla coda dei due
vettori sulle derivazioni e perpendicolari alla derivazione a cui il vettore appartiene;

297
b. congiungere i due punti in cui queste linee si incontrano. In questo modo si ottiene il vettore
elettrico istantaneo che ha generato le proiezioni sulle derivazioni, ricavate andando ad
analizzare i complessi QRS. La direzione del vettore è rappresentata dall’angolo che esso
forma con l’asse dell’ultima derivazione rimasta: questo è l’angolo dell’asse elettrico cardiaco.

Anomalie del tracciato ECG

N.B. Questo punto non compare nel programma sul sito, quindi ritengo non faccia parte del programma d’esame. In ogni
caso la prof. lo ha spiegato, quindi immagino che qualche informazione generale sia meglio studiarla.

Il tracciato elettrocardiografico (ovvero la registrazione grafica dell’attività elettrica che è prerequisito


dell’attività meccanica, a sua volta indispensabile per la funzione di pompa emodinamica del nostro cuore)
permette di ricavare informazioni importanti dal punto di vista diagnostico mediante l’analisi della forma,
dell’ampiezza e della durata di onde e intervalli che compongono il tracciato stesso.
Questo fornisce informazioni su:
 Alterazioni nell’insorgenza e nella propagazione del fenomeno elettrico.
 Orientamento anatomico del cuore rispetto agli assi principali del corpo e ampiezza relativa delle
camere cardiache (come nel caso appena analizzato dell’asse elettrico cardiaco).
 Eventuale presenza di danni di tipo ischemico.
 Attività di alcuni tipi di farmaci.
 Alterazioni della concentrazione di elettroliti nel liquido interstiziale (la concentrazione degli ioni al
di fuori e all’interno della cellula può influenzare la genesi dei potenziali d’azione e di conseguenza
riflettersi nell’ambito del tracciato elettrocardiografico).

Per interpretare un tracciato vengono valutati i seguenti parametri:


 Frequenza cardiaca: si osserva la distanza tra picchi R che fisiologicamente si aggira intorno a 0,85
secondi. Nel caso in cui il nodo seno-atriale generi l’impulso con frequenza maggiore o minore, si
osservano fenomeni di aritmia (tachicardia se la frequenza è superiore a 100 bpm, bradicardia se va
al di sotto di 50 bpm).
 Presenza e morfologia dell’onda P: rappresenta la formazione degli impulsi nel nodo SA e la
propagazione degli stimoli agli atri (quindi indica se il ritmo sinusale è normale).
 Ampiezza e durata delle varie onde.
 Durata degli intervalli:
- QRS: complesso molto rapido che rappresenta la durata della conduzione del segnale
attraverso i ventricoli.
- QT: rappresenta il tempo di contrazione ventricolare (sistole ventricolare).
- PR: rappresenta il momento di sistole atriale (se vi sono alterazioni nella propagazione del
segnale tra atri e ventricoli questo intervallo assume valori differenti).
- RR: descrive la durata di un intero ciclo cardiaco.
 Asse elettrico cardiaco: permette di valutare la presenza di deviazioni.

298
Caratteristiche elettrocardiografiche del ritmo sinusale normale

 L’onda P è presente prima di ogni complesso QRS e ha una morfologia normale (ampiezza e durata
attese): questo testimonia la regolare formazione dell’impulso a partire dal nodo senoatriale e la
propagazione attraverso gli atri fino ai ventricoli.
 L’intervallo PR ha una durata normale: la propagazione dell’impulso non incontra blocchi durante
la conduzione del segnale.
 La costante presenza dei complessi QRS a seguito di un’onda P: indica una normale attivazione dei
ventricoli da parte del nodo senoatriale, senza blocchi nella conduzione atrioventricolare.
 Le onde simili sono equidistanti tra di loro: c’è un tempo costante tra cicli elettrici cardiaci, gli
intervalli P-P ed R-R hanno la stessa durata, quindi il ritmo è cadenzato e regolare.
 I cicli cardiaci si ripetono con una frequenza di 60-100 al minuto (dato ricavato dall’intervallo RR).
Caratteristiche elettrocardiografiche in presenza di patologie
In diagnostica un tracciato elettrocardiografico permette di rilevare alterazioni nell’eccitamento della massa
cardiaca che possono essere la causa o la conseguenza di disturbi nella funzionalità del cuore.
Le anormalità dell’ECG vengono distinte in anomalie del ritmo cardiaco (aritmie) e anomalie della
morfologia del trattato elettrocardiografico.
A. Anomalie del ritmo cardiaco (aritmie)
In base ai meccanismi elettrofisiologici che le determinano possono essere a loro volta suddivise in:
- Aritmie da disfunzione del segnapassi sinusale, causate da un impulso che parte dal nodo
senoatriale, con una frequenza di genesi variata:
a. Tachicardia sinusale, se la frequenza dell’impulso è accelerata (> 100-110/min).
b. Bradicardia sinusale, se la frequenza dell’impulso è rallentata (< 50/min).
c. Aritmia sinusale respiratoria (è un’aritmia fisiologica).
- Aritmie che derivano da una formazione ectopica dell’impulso, il quale è generato in
corrispondenza di altre regioni rispetto al nodo senoatriale:
a. Formazione passiva: il nodo seno-atriale non genera più l’impulso e le altre
cellule cardiache dotate di automatismo rivelano questa loro caratteristica (che in
condizioni fisiologiche sarebbe latente, oscurata dall’impulso del nodo SA). Si
formano battiti (nell’ambito del singolo ciclo cardiaco) o ritmi (se perpetuati per
più cicli cardiaci) ectopici passivi giunzionali o di scappamento, dovuti ai
segnapassi secondari o latenti.
b. Formazione attiva: un altro tessuto dotato di automatismo esalta questa sua
caratteristica e prende il sopravvento sul nodo seno-atriale.
- Aritmie che derivano da anomalie nella conduzione dell’impulso, a loro volta suddivise in:
a. Anomalie dovute ad un fenomeno di rientro (per cui l’impulso viene trasportato
in maniera retrograda a porzioni che sono già state eccitate). Questo avviene nella
sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW), in cui il fascio di Kent, normalmente
presente a livello fetale, permane in età adulta e va a costituire un circuito di rientro
del segnale che dal ventricolo ritorna all’atrio in senso retrogrado, dando origine
a tachicardia sopraventricolare.
Tra queste rientra anche la fibrillazione (eccitazione anticipata di una regione del
cuore a causa di molteplici circuiti secondari che riportano l’impulso dove è
appena passato).

299
b. Aritmie che derivano da un blocco della conduzione seno-atriale o atrio-
ventricolare. Per quanto riguarda i blocchi della conduzione atrio-ventricolare se
ne hanno di tre livelli:
 blocco di I grado: visualizzato sul tracciato ECG con un allungamento
dell’intervallo PR;
 blocco di II grado: sporadicamente l’impulso non passa dall’atrio al
ventricolo;
 blocco di III grado o blocco cardiaco completo: l’impulso non passa
mai dall’atrio al ventricolo (in questo caso generalmente viene impiantato
un pacemaker).
B. Anomalie della morfologia del tracciato elettrocardiografico
- Ipertrofia atriale (e ventricolare)
- Cardiopatia ischemica
- Blocchi di branca, ovvero blocchi della trasmissione del segnale attraverso le branche destra o
sinistra del fascio di His

Aritmie da disfunzioni del segnapassi sinusale


 Tachicardia sinusale: la frequenza cardiaca supera i 110 bpm. La distanza tra i picchi R è molto
più breve rispetto al tracciato del ritmo sinusale normale e di conseguenza cala la durata del ciclo
cardiaco (nell’arco di un minuto si presentano molti più cicli rispetto alla condizione basale).
Può scaturire per:
- cause fisiologiche (esercizio fisico, stress, gravidanza);
- cause patologiche (febbre, shock, anemia);
- cause farmacologiche (sostanze eccitanti come nicotina, caffeina, alcool).

 Bradicardia sinusale: la frequenza cardiaca è inferiore ai 50 bpm. La distanza fra due picchi R
aumenta notevolmente (per osservare questo fenomeno è necessario avere dei tracciati che durino più
di 1 minuto).
Anche in questo caso può scaturire da:
- cause fisiologiche (aumento della stimolazione vagale indotta da un allenamento fisico
prolungato, come avviene negli atleti);
- cause patologiche (fenomeni di ischemia in corrispondenza del nodo senoatriale,
ipotiroidismo);
- cause farmacologiche (agenti β-bloccanti che inibiscono il sistema nervoso simpatico e la sua
azione cronotropa positiva).

 Aritmia sinusale respiratoria: fenomeno che si verifica principalmente nei bambini e scompare con
l’età. Causa variazioni del ritmo cardiaco in relazione ai cicli respiratori. Nello specifico tachicardia

300
durante l’inspirazione e bradicardia durante l’espirazione. Durante i due momenti respiratori il
bilanciamento del controllo da parte del sistema nervoso simpatico e parasimpatico cambia facendo
prevalere l’uno o l’altro. Il sistema nervoso simpatico ha un effetto cronotropo positivo, facilitatore
sulla frequenza cardiaca, aumenta infatti la ritmicità del cuore, mentre quello parasimpatico (il nervo
vago) ha un effetto cronotropo negativo, inibitorio. Queste due branche del sistema nervoso autonomo
agiscono andando a modulare la frequenza cardiaca. Il sistema nervoso simpatico agisce mediante
noradrenalina che, agendo su recettori β1 adrenergici, porta ad un aumento della [AMPc] all’interno
delle cellule nodali; questo attiva la PKA che fosforila canali ionici importanti per il processo. Si
ottiene in questo modo un incremento della velocità con cui si raggiunge la soglia e quindi con cui si
instaura il potenziale d’azione. Il sistema nervoso parasimpatico (quindi il nervo vago) ha un effetto
opposto: agendo mediante acetilcolina su recettori muscarinici, stimola una proteina G inibitoria che
blocca l’adenilato ciclasi. Questo fa diminuire il livello di AMPc intracellulare e blocca la
fosforilazione dei canali ionici che in tal modo non sono attivati (prevale così la corrente di K +). La
soglia di attivazione del potenziale d’azione viene raggiunta più tardi e di conseguenza il numero di
potenziali che vengono instaurati nell’unità di tempo diminuisce.
Inspirazione ed espirazione controllano l’azione del sistema nervoso sulla frequenza cardiaca:
- Inspirazione: depressione intratoracica con conseguente aumento del ritorno venoso
all’atrio destro che si carica di sangue. Questo stimola i meccanocettori atriali causando il
riflesso di Bainbridge → viene stimolato il sistema nervoso simpatico e inibito quello
parasimpatico→ la frequenza cardiaca aumenta.
- Espirazione: passaggio del sangue al ventricolo sinistro. Questo stimola i barocettori,
recettori deputati al controllo della pressione arteriosa presenti a livello del seno carotideo e
dell’arco aortico, causando un riflesso barocettivo → viene stimolato il sistema nervoso
parasimpatico e inibito quello simpatico → la frequenza cardiaca diminuisce.

Aritmie da formazione ectopica dell’impulso

301
Scompare l’onda P, il ritmo non è più dettato dal nodo senoatriale, il quale non è più in grado di agire come
pacemaker primario. Altre regioni del tessuto di conduzione inducono la depolarizzazione del ventricolo (sono
individuabili comunque il complesso QRS e l’onda T) però con una frequenza diversa (in genere
inferiore) rispetto a quella tipica del nodo senoatriale.

Anomalia nella conduzione atrioventricolare dell’impulso

 Blocco atrioventricolare di primo grado: l’intervallo PR è più lungo del normale, a causa di un
rallentamento (non fisiologico) nella conduzione atrio-ventricolare.

 Blocco atrioventricolare di secondo grado: nel tracciato i complessi QRS presenti sono sempre
successivi a un’onda P, ma non tutte le onde P precedono un complesso QRS, quindi non sempre il
segnale passa dall’atrio al ventricolo.

 Blocco atrioventricolare di terzo grado: all’onda P non segue il complesso QRS, la conduzione
dell’impulso è bloccata. Si tratta della situazione più grave.

Aritmie estreme
Le fibrillazioni (atriali e ventricolari) in genere sono dovute a circuiti di rientro del segnale (si ramifica in
tanti piccoli circuiti che risultano in una trasmissione del segnale che non è più coordinata). Nel caso della
fibrillazione atriale l’onda P è sostituita da una serie di onde senza morfologia e ritmicità tipiche del
tracciato elettrocardiografico in condizioni fisiologiche.

La fibrillazione atriale è relativamente meno pericolosa rispetto alla ventricolare (in cui non si riconosce più
nessuna onda) che, se non trattata subito con una cardioversione, risulta mortale.

302
Anomalie della morfologia del tracciato ECG
Quando si genera l’onda P, la fase ascendente riguarda la depolarizzazione
dell’atrio di destra mentre quella discendente riguarda la depolarizzazione
dell’atrio di sinistra. Se c’è un’ipertrofia delle camere cardiache si hanno
modificazioni morfologiche di quest’onda:
a. Ipertrofia atriale destra: l’onda P diventa più ampia. È dovuta a
cause patologiche come la valvulopatia tricuspidale o l’aumento della
pressione telediastolica.
b. Ipertrofia atriale sinistra: l’onda P diventa bifida e anche questa
potrebbe essere causata da varie patologie. Altre anomalie del tracciato
concernono le ischemie (che se prolungate possono portare all’infarto)
oppure i blocchi di branca:

Ischemia e infarto: il segmento ST è


molto sopralivellato, non è più lungo la
linea isopotenziale; l’onda T diventa
negativa e l’onda Q cambia
dimensione.

303
FISIOLOGIA DELL’APPARATO
RESPIRATORIO
Prof.ssa G. Zoccoli e
V.C. Lo Martire

Meccanica polmonare dinamica


 Funzioni delle vie respiratorie.
 Azione dei muscoli respiratori.
 Pressione pleurica.
 Modificazioni della pressione pleurica, alveolare e del flusso di aria durante un ciclo
respiratorio.
 Meccanica polmonare dinamica: flusso e resistenza nelle vie aeree; flussi espiratori
massimali; diagrammi flusso-volume; meccanismo della limitazione del flusso espiratorio
massimo.
 Spirometria (LABORATORIO): Curve flusso-volume.

Meccanica polmonare statica


 Meccanica polmonare statica: curve pressione-volume del polmone, del torace e del sistema
toraco-polmonare; legge di Laplace applicata al polmone; contributo della tensione
superficiale alla elasticità polmonare; fattore surfattante e suo significato fisiologico.
 Lavoro respiratorio
 Spirometria (LABORATORIO): Spirometria diretta e indiretta. Misura dei volumi e delle
capacità polmonari.

Meccanismi degli scambi gassosi polmonari


 Composizione dell’aria atmosferica e alveolare.
 Ventilazione polmonare e ventilazione alveolare.
 Misura dello spazio morto.
 Barriera alveolo-capillare.
 Misura della capacità di diffusione polmonare.
 Circolazione polmonare.
 Rapporto ventilazione-perfusione; eccesso di ventilazione rispetto alla perfusione; eccesso
della perfusione rispetto alla ventilazione.

Trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue


 Forme di trasporto dell’ossigeno nel sangue.
 Significato funzionale della curva di dissociazione dell’emoglobina.
 Aspetti quantitativi del trasporto dell’ossigeno nel sangue.
 Ipossie.
 Forme di trasporto dell’anidride carbonica nel sangue.
 Significato funzionale della curva di trasporto dell’anidride carbonica.
 Aspetti quantitativi del trasporto dell’anidride carbonica nel sangue.

304
 Interazione tra il trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica.

Regolazione chimica e nervosa della respirazione


 Risposte ventilatorie a variazioni della pressione parziale dell’ossigeno, della anidride
carbonica e della concentrazione idrogenionica nel sangue arterioso.
 Funzione dei chemocettori periferici e centrali nella regolazione della ventilazione polmonare.
 Effetti dell’interazione tra gli stimoli chimici sulla ventilazione polmonare.
 Centri respiratori bulbari e pontini.
 Recettori polmonari e riflessi respiratori.

N.B. La prof. ha trattato gli argomenti delle prima due tesine nel seguente ordine:
 punti 1 e 2 della tesina Meccanica polmonare dinamica;
 introduzione alla Meccanica polmonare statica;
 punto 3 della Meccanica polmonare dinamica;
 punto 1 della Meccanica polmonare statica;
 punti 4 e 5 della Meccanica polmonare dinamica;
 punto 2 della Meccanica polmonare statica.
Ho riportato per rendere più agevole lo studio tutti i punti alla loro tesina d’origine. Si consiglia tuttavia di
seguire nello studio iniziale l’ordine della spiegazione, perché è quello logicamente più corretto.

305
13. Meccanica polmonare dinamica

13.1. Funzioni delle vie respiratorie


Vie aeree
La respirazione è una funzione volta a garantire all’organismo un adeguato apporto di ossigeno e
un’adeguata rimozione di anidride carbonica. La rimozione di CO2 è particolarmente rilevante in quanto,
mentre un eccesso di ossigeno non risulta dannoso, il livello di anidride carbonica deve essere regolato con
estrema precisione in quanto fondamentale per la determinazione del pH.
Il processo di ventilazione, che avviene al livello del polmone, deve essere perfettamente coniugato con
quello di perfusione. Quindi l’aria deve arrivare agli alveoli con una concentrazione di gas adeguata al flusso
di sangue che irrora i polmoni nello stesso periodo di tempo. Ne consegue che il rapporto
ventilazione/perfusione è un parametro di grande rilevanza.
Oltre allo scambio di gas il polmone filtra materiale a livello della circolazione polmonare, prevenendo
l’insorgenza di trombi/emboli che avrebbero potuto ostacolare la circolazione a livello periferico o cerebrale,
metabolizza composti e farmaci (l’angiotensina viene metabolizzata e prodotta a livello polmonare) e
rappresenta un serbatoio di sangue.
Per sistema respiratorio si intende ciò che è compreso tra il naso e gli alveoli polmonari e convenzionalmente
si divide in vie aeree superiori (spazio tra il naso e le corde vocali nella laringe) e inferiori (trachea e le
restanti vie di passaggio dell’aria fino agli alveoli).
Il percorso compiuto dall’aria: naso → faringe → laringe → trachea → bronchi → bronchioli → alveoli.
Vie aeree superiori: sono comprese tra il naso e le corde vocali
 Naso
 Faringe posteriore
 Laringe

Vie aeree inferiori: vanno dalla trachea agli alveoli


 Trachea
 Bronchi, bronchioli)
 Alveoli

Con “naso” ci si riferisce anche ai seni paranasali, importanti perché alleggeriscono le ossa del cranio e
perché consentono di dare un’intonazione alla voce permettendo alle vibrazioni delle particelle d’aria di
risuonare al loro interno ed essere meglio percepite all’esterno. Fanno quindi parte del complesso apparato di
fonazione.
Le cavità nasali hanno un volume di ca. 20 mL e si aprono anteriormente con le narici sull’ambiente esterno
e posteriormente tramite le coane nella faringe.
Le vie aeree superiori hanno le importanti funzioni di:
 umidificare l’aria;
 portarla alla temperatura corporea;
 esercitare una prima azione di filtro, grazie anche al musco secreto dall’epitelio secernente: esso è in
grado di trattenere particelle con diametro maggiore di 10 μm (motivo per cui è consigliabile respirare
con il naso e non con la bocca);
 fornire resistenza al flusso di aria grazie alle narici (dalle slide: il naso offre il 50% della resistenza
totale al flusso d’aria).
Esaminando il decorso delle vie aeree, in seguito alla laringe iniziano le strutture anatomiche delle vie aeree
inferiori: trachea, bronchi, bronchioli e infine alveoli polmonari.

306
La grandezza dei due polmoni non è esattamente uguale,
perché parte dello spazio toracico sinistro è occupato dal
cuore: il polmone destro è dunque più grande del polmone
sinistro, motivo per cui il primo è suddiviso in tre lobi
(superiore, medio e inferiore) mentre il secondo soltanto
in due (superiore e inferiore).
I due polmoni sono racchiusi nella pleura: un foglietto
pleurico viscerale ricopre la superficie polmonare e un
foglietto pleurico parietale riveste invece la superficie
interna della gabbia toracica. Lo spazio pleurico che si
viene a formare è uno spazio virtuale, riempito da pochi
millilitri di liquido, che consente lo scorrimento in
maniera agevole di un foglietto rispetto all'altro (questo facilita il movimento del polmone e della gabbia
toracica durante gli atti respiratori). Inoltre, lo spazio pleurico è uno spazio chiuso e non estensibile e ciò rende
solidali i movimenti della gabbia toracica e quelli polmonari: quando la prima si espande, in seguito alla
contrazione dei muscoli inspiratori, i polmoni la seguono.
La trachea si biforca dando origine ai due bronchi principali: uno per il polmone destro e uno per il
polmone sinistro. Questi a loro volta danno origine a bronchi di dimensioni più piccole che vengono chiamati
bronchi lobari, i quali portano aria ai diversi lobi polmonari (per questo motivo sono tre nel polmone destro
e due in quello sinistro).
I bronchi lobari a loro volta si dividono, dando origine ai bronchi segmentali; queste divisioni in bronchi di
dimensioni sempre più piccole proseguono
fino ad arrivare ai bronchioli terminali (che
si chiamano così perché sono l'ultima
diramazione delle vie aeree inferiori prive di
alveoli).
Tutta la porzione delle vie aeree che va
dalla trachea fino ai bronchioli terminali
non partecipa agli scambi respiratori
perché priva di alveoli: questo è un sistema di
conduzione che serve semplicemente per
trasportare l'aria dall'esterno agli alveoli. È
una porzione che comprende le prime 16
suddivisioni (o generazioni) delle vie aeree e
viene chiamata spazio morto perché,
appunto, non partecipa allo scambio di gas.
Nel momento dell’inspirazione, viene introdotto approssimativamente un volume di 500 mL di aria nel
sistema, ma non tutto questo volume partecipa agli scambi respiratori perché una percentuale di quest’aria
rimane all’interno dello spazio morto (es., su 500 mL di aria, 350 mL fanno parte del pool di aria che partecipa
gli scambi respiratori, 150 mL rimangono all’interno delle vie aeree di conduzione e non parteciperanno agli
scambi gassosi).
Gli scambi gassosi avvengono nell’ultima porzione delle vie aeree inferiori (la zona respiratoria, che
comprende le ultime 7 generazioni delle 23 complessive), in quelle che sono chiamate unità respiratorie
terminali, formate dai bronchioli respiratori e dai dotti alveolari con gli alveoli. Il bronchiolo terminale
non ha alveoli e tutte le strutture successive ad esso formano l’acino polmonare.
I bronchi inizialmente si dividono in maniera dicotomica, ma è importante notare che il diametro non
dimezza: ogni bronco dà origine a due bronchi più piccoli, ma comunque con dimensioni superiori alla metà
di quello precedente. A mano a mano che si susseguono diramazioni successive, quindi, la sezione complessiva
dei bronchi va ad aumentare e più si ci allontana dalla trachea, maggiore è la superficie.
Specialmente nella parte terminale delle vie aeree di conduzione, ad ogni diramazione bronchiale e
bronchiolare, la superficie complessiva è sempre maggiore e la sezione trasversa totale delle vie aeree aumenta
enormemente. Questo aumento di superficie implica una diminuzione della velocità del flusso d’aria, che
nella parte terminale diventa sempre più bassa: l’aria, guidata da un gradiente pressorio nella prima parte delle
vie aeree, arriva a livello dei dotti alveolari e degli alveoli a velocità praticamente nulla e per questo gli scambi
di gas possono avvenire attraverso un meccanismo di diffusione. La distanza alveolo-capillare è talmente
piccola che le concentrazioni di gas si annullano molto rapidamente (circa 1 secondo).

307
Una conseguenza del rallentamento del flusso di aria nella porzione terminale è il deposito a livello alveolare
delle particelle in sospensione (che non sono state filtrate a livello nasale o nella prima porzione delle vie
aeree di conduzione), motivo per cui occorre un sistema per la loro rimozione.
Inoltre, l’aumento massiccio della superficie totale porta ad una diminuzione della resistenza al flusso d’aria
nelle vie aeree. Questa è massima all'inizio delle vie di conduzione (quindi a livello della trachea fino ai bronchi
segmentali) e si riduce moltissimo avvicinandosi ai bronchioli terminali.

Specializzazioni cellulari delle vie aeree

La componente cellulare delle vie aeree si modifica procedendo dalla porzione più periferica fino alla
porzione respiratoria.
L’albero respiratorio è coperto da un epitelio ciliato fino ai bronchioli di più piccole dimensioni: le cellule
epiteliali presentano ciglia immerse in un liquido periciliare che contiene anche muco (prodotto dalle cellule
epiteliali stesse ma anche, nelle vie di conduzione più grandi, da ghiandole della sottomucosa). Il liquido
mucoso che ricopre l’epitelio è in grado di inglobare le particelle in sospensione che vengono intrappolate
lungo il loro decorso nelle vie aeree; il movimento ciliare spinge poi il muco e le particelle in esso contenute
verso l’epiglottide, dove l’insieme viene espulso dalle vie aeree e poi inghiottito.
Se l'attività ciliare viene bloccata o paralizzata in seguito ad inalazione di sostanze tossiche, questo
meccanismo viene meno e ciò può favorire l’insorgenza di patologie polmonari anche gravi.
Negli alveoli, invece, non ci sono cellule epiteliali ciliate, quindi il meccanismo di espulsione non funziona
e insorge un problema: a questo livello il flusso di aria ha una velocità talmente bassa che il deposito di
particelle in sospensione viene favorito. Per liberarsi dei depositi intervengono i macrofagi, che possono
inglobare le particelle che non sono state filtrate e rimosse precedentemente, per poi passare nei vasi linfatici
o direttamente nel sangue e rimuovere queste sostanze.
La differenza strutturale nei diversi livelli delle vie aeree però non è limitata alla presenza o all'assenza
dell'epitelio ciliato, ma si rifletta anche nello spessore della parete:
 le vie aeree di conduzione più grosse hanno una parete comprendenti anche strutture cartilaginee
(che, insieme alla tonaca muscolare, rendono le pareti più solide) quindi è più spessa e ha forma e
dimensioni stabili nel tempo;
 le vie aeree di conduzione più piccole invece non hanno una struttura cartilaginea e possono essere
compresse o stirate durante gli atti respiratori (quando il polmone si espande vengono stirate,
quando il polmone diminuisce il suo volume vengono compresse) e questo ha delle implicazioni sulla
resistenza al flusso di aria.

Gli alveoli sono tantissimi (in un essere umano sono circa 500 milioni) e hanno una forma poligonale
assimilabile ad una sfera di diametro compreso tra i 100 e i 300 μm. La parete alveolare è costituita da tre tipi
cellulari diversi (cellule di I, di II e di III tipo) e contiene i capillari con i quali avvengono gli scambi
respiratori: l'aria inspirata va a occupare la porzione interna dell'alveolo e i gas contenuti in essa si scambiano
con i gas che circolano nel sangue dei capillari.

308
La membrana alveolo-capillare, quindi lo spessore che i gas devono attraversare per passare dall'alveolo al
sangue (nel caso dell'ossigeno) o dal sangue all’alveolo (nel
caso dell’anidride carbonica), è uno spazio molto piccolo
(0,2- 0,3 μm). L’estensione della superficie alveolare
invece è estremamente grande: arriva a 100 m² e
rappresenta la superficie più vasta del nostro corpo esposta
all’ambiente esterno (più della superficie cutanea e anche
della superficie intestinale; così dice la Zoccoli, ma in realtà
la superficie intestinale è ca. 200 m2, il doppio di quella
alveolare).
Nell’immagine al microscopio la cavità bianca (marcata
con A) rappresenta l'interno dell’alveolo, mentre le
strutture cellulari che la circondano sono la parete
dell’alveolo stesso.
Quest’ultima è costituita da cellule di tre tipi diversi:
 Cellule di tipo I: sono le cellule che compongono l’alveolo in maggior numero (circa il 95% delle
cellule alveolari). Sono cellule di grandi dimensioni, piatte e molto sottili (poiché è proprio attraverso
queste cellule che avvengono gli scambi gassosi).
 Cellule di tipo II: sono cellule scure, cuboidali. Anche se sono molto meno rappresentate delle cellule
di tipo I, hanno grande importanza perché sintetizzano il tensioattivo polmonare, una sostanza che si
distribuisce sulla superficie interna dell’alveolo e va a diminuirne la tensione superficiale. Inoltre, se
ci sono lesioni e perdite di cellulite tipo I, le cellule di tipo II possono trasformarsi in cellule di tipo I
e sostituirle.
 Cellule di tipo III: sono molto rare. Sono denominate cellule a spazzola e la loro funzione non è del
tutto chiara (si pensa che possano avere una funzione chemocettiva).
Nella rappresentazione grafica a lato:
 La parete alveolare e le cellule di tipo I che la
costituiscono sono rappresentate come grandi
cellule piatte colorate in viola.
 I capillari sono marcati con un colore lilla più
brillante; si nota la sottigliezza della parete alveolo-
capillare (la membrana basale delle cellule di tipo I
è fusa con quella delle cellule endoteliali del
capillare, quindi è veramente una distanza minima
quella che i gas devono percorrere per passare dallo
spazio alveolare al plasma nel capillare e viceversa).
 Le cellule di tipo II sono marcate in giallo.
 In questa rappresentazione si notano anche le fibre
elastiche del parenchima polmonare (in rosa
chiaro). Esse sono molto importanti perché ogni atto
respiratorio è largamente basato sulla presenza della componente elastica: quando i muscoli inspiratori
si contraggono fanno aumentare le dimensioni della gabbia toracica (e di conseguenza del polmone) e
ciò favorisce il flusso di aria dall'esterno all’interno.
Quando i muscoli inspiratori si rilasciano, le fibre elastiche polmonari che erano state estese
dall’aumento del volume polmonare favoriscono il ritorno elastico del polmone, quindi la riduzione
del volume polmonare (di conseguenza, mentre l'atto inspiratorio è un atto attivo prodotto dalla
contrazione dei muscoli inspiratori, il ritorno espiratorio invece è un atto passivo favorito appunto
dalla presenza di una componente elastica a livello polmonare che viene stirata durante l’inspirazione
e ritorna alla lunghezza originale durante il processo espiratorio).

Circolazione polmonare e circolazione bronchiale


L’apparato respiratorio è deputato allo scambio di gas tra aria e sangue e per questo motivo è vascolarizzato
dalla circolazione polmonare (con una portata uguale a quella della circolazione sistemica), che porta sangue
deossigenato e carico di anidride carbonica dalla periferia del corpo verso gli alveoli, cede l'anidride carbonica
e assume l’ossigeno presente nell'aria alveolare che è stata inspirata dall'esterno.

309
Inoltre, essendo il polmone un organo come tutti gli
altri, necessita di una circolazione per il suo
mantenimento, ovvero ha bisogno di sangue carico di
ossigeno e privo di anidride carbonica che vascolarizzi
le strutture che lo compongono (portando ossigeno e
sostanze di nutrimento e rimuovendo l’anidride
carbonica prodotta dal metabolismo delle sue cellule).
Quindi parallelamente alla circolazione polmonare (in
cui il sangue pompato dal ventricolo di destra,
attraverso l’arteria polmonare, arriva agli alveoli per
essere ossigenato), c’è anche una circolazione
bronchiale (il sangue ossigenato arriva dall’aorta
toracica alle arterie bronchiali e va a vascolarizzare e
mantenere le funzioni di tutte le strutture polmonari).
Il sangue refluo dalla circolazione bronchiale
(quindi ricco di CO2) per il 30% si getta nella vena
cava superiore (per l’esattezza, si getta prima nel sistema delle azygos e poi nella vena cava) e ritorna all’atrio
di destra (come normalmente avviene per la circolazione venosa), mentre per il 70% torna all’atrio sinistro
attraverso le vene polmonari: in questo modo va a “contaminare” il sangue delle vene polmonari, che fa parte
della circolazione polmonare ed è stato privato della sua anidride carbonica e caricato di ossigeno, dopo essere
passato dagli alveoli. Questo sangue riceve un contributo, da parte delle vene bronchiali, di sangue che invece
è carico di anidride carbonica e ha ceduto parte del suo ossigeno al tessuto bronchiale. Questa contaminazione
da parte di sangue proveniente dalla circolazione bronchiale è il motivo per cui la pressione parziale di ossigeno
nelle vene polmonari è più bassa di quella che ci si aspetta teoricamente.

Il letto capillare del circolo polmonare è estremamente esteso, con


una rete capillare che arriva a coprire 80 m² per effettuare gli scambi
respiratori.
Nell'immagine i vasi sono stati fissati e mantenuti mentre tutto il
restante tessuto alveolare è stato eliminato. Quindi in bianco si notano:
 a sinistra un’arteriola;
 a destra una venula che si biforca e forma una V;
 una fittissima maglia di capillari del circolo polmonare che
formano sostanzialmente una lamina di sangue.
I capillari polmonari sono così numerosi ed estesi che in
condizioni di riposo contengono quasi 70 mL di sangue. Il volume di
sangue contenuto aumenta durante l'esercizio fisico, quando è
necessario incrementare l'ossigenazione del sangue: in questi casi viene reclutata altra superficie capillare,
ovvero i capillari presenti sono distesi al massimo e alcuni capillari (che non sono perfusi in condizioni basali)
sono reclutati e si riempiono di sangue. Di fatto il volume di sangue presente a livello capillare può triplicare
durante un’attivazione funzionale e arrivare a 200 mL, con una possibilità di scambi gassosi molto elevata.

13.2. Azione dei muscoli respiratori

I muscoli respiratori permettono il funzionamento del sistema facendo variare il volume del complesso
toraco-polmonare. Agiscono sulla gabbia toracica e le variazioni di volume di questa, grazie alla pleura, sono
solidali alle variazioni di volume polmonare.
La variazione del volume toraco-polmonare fa sì che cambi la pressione all’interno degli alveoli e si creino
dei gradienti di pressione rispetto alla Pambientale, favorendo in questo modo un flusso di gas.
Quando il polmone aumenta il suo volume, la pressione alveolare diminuisce (aumento del volume causa
diminuzione della pressione), fino ad essere più bassa di quella esterna. Si crea così un gradiente di pressione
per cui l'aria si sposta dall’esterno all’alveolo. Viceversa, durante il rilasciamento dei muscoli respiratori, la
retrazione elastica del polmone fa diminuire il volume polmonare, questo causa un aumento della pressione

310
alveolare, che diventa superiore a quella esterna (si crea un gradiente di pressione) e l'aria fluisce in senso
inverso, dagli alveoli all’ambiente esterno.
N.B. L’apparato respiratorio è un sistema chiuso, quindi l’aria entra ed esce dallo stesso punto. Per forza di
cose deve esistere un meccanismo che permetta all’aria di entrare dall'esterno e poi, seguendo la stessa via ma
in senso inverso, di uscire dagli alveoli.

Muscoli inspiratori
I muscoli fondamentali sono quelli inspiratori, perché l’inspirazione è sempre un processo attivo che
richiede la contrazione di muscoli (mentre l’espirazione è prevalentemente un atto passivo: durante la
respirazione normale è un atto totalmente passivo, ma è possibile espirare una quantità aggiuntiva di aria
contraendo dei muscoli espiratori).
 Il principale muscolo inspiratorio è il diaframma, un muscolo a forma di cupola che separa la cavità
addominale dalla cavità toracica; si inserisce sulle coste più basse ed è innervato dal nervo frenico,
che origina dai mielomeri cervicali. Il diaframma da solo è sufficiente a garantire una respirazione
normale, pur non essendo l’unico muscolo inspiratorio.
Quando le fibre muscolari del diaframma si contraggono, la cupola diaframmatica si abbassa e spinge
in fuori le coste inferiori, facendo aumentare significativamente il volume della cavità toracica. La
cupola diaframmatica si sposta soltanto di 1 cm durante la respirazione normale ma può arrivare ad
abbassarsi fino a 10 cm durante un’inspirazione forzata, con un margine di aumento del volume della
cavità toracica molto importante.
 Altri muscoli inspiratori sono i muscoli intercostali esterni (da non confondere con gli intercostali
interni, che svolgono la funzione opposta): sono inseriti tra una costa e quella sottostante, dall’alto
verso il basso e da una posizione posteriore ad una anteriore.
La testa di ogni costa è articolata col tubercolo vertebrale della vertebra corrispondente: in condizioni
normali, a riposo, le coste sono inclinate verso il basso, ma nel momento in cui i muscoli intercostali
esterni si contraggono, le coste inferiori si sollevano e in questo modo aumenta sia il diametro
anteroposteriore che il diametro laterale della cavità toracica.
Sono innervati dai nervi intercostali che originano dai mielomeri toracici. La localizzazione
anatomica della vena, dell’arteria e del nervo intercostale sotto al margine costale, fa sì che una frattura
costale possa comportare la lesione dei vasi e anche del nervo.
 I muscoli intercartilaginei parasternali sono anch’essi muscoli inspiratori principali: collegano la
porzione cartilaginea della costa che si inserisce sullo sterno con la porzione cartilaginea della costa
sottostante.

Esistono anche dei muscoli accessori inspiratori che vengono reclutati soltanto durante inspirazioni
forzate o in condizioni patologiche, ovvero quando è necessario aumentare il volume d’aria inspirato:
 gli scaleni: sono inseriti sulle vertebre cervicali e sulle prime due coste, che vanno a sollevare quando
si contraggono;
 lo sternocleidomastoideo: inserito sullo sterno, sulla clavicola e sull’osso mastoide; quando si contrae
determina un sollevamento dello sterno e quindi di tutte le coste che sono articolate con esso;
 sono considerati muscoli inspiratori accessori anche quelli che fanno dilatare le narici e muscoli del
collo e della testa che quando si contraggono danno stabilità e costituiscono un perno per rendere
maggiormente efficace la contrazione degli altri muscoli inspiratori.

Muscoli espiratori
Normalmente l'espirazione è un fenomeno passivo legato al ritorno elastico del sistema toraco-polmonare,
ma i muscoli espiratori possono essere reclutati nel momento in cui è necessario aumentare la ventilazione
e gli scambi gassosi. Questi muscoli sono:
 Gli intercostali interni: esercitano un'azione opposta rispetto ai muscoli intercostali esterni, perché
hanno un inserimento opposto sulle coste che collegano. La loro contrazione determina un
abbassamento costale e quindi una riduzione dei diametri anteroposteriore e laterale della gabbia
toracica.
 I muscoli addominali (retto dell’addome, obliqui e trasverso dell’addome), la cui contrazione
comprime i visceri addominali e determina di conseguenza uno spostamento del diaframma verso
l’alto.

311
In una sezione dell’addome e del tronco vista dal lato, la
contrazione dei muscoli addominali determina uno spostamento
(freccia continua), che va a determinare a sua volta lo
spostamento passivo del diaframma verso l’alto (indicato dalla
freccia tratteggiata), quindi va a spingere passivamente il
diaframma verso l’alto.
La relazione tra diaframma e muscoli addominali funziona anche
in senso opposto: quando il diaframma si contrae crea uno
spostamento (freccia continua verso il basso) che determina la
protrusione passiva verso l'esterno (freccia tratteggiata) dei
muscoli addominali.
In sintesi:
- contrazione del diaframma: la parete addominale sporge in avanti (è quella che si chiama
respirazione addominale, molto utilizzata nello yoga perché favorisce l’inspirazione);
- contrazione dei muscoli addominali: il muscolo diaframma si sposta verso l'alto e favorisce
l’espirazione.

13.3. Pressione pleurica

N.B. Questo punto è stato spiegato dalla prof. dopo la spiegazione dei volumi pomonari, delle capacità polmonari e delle
pressioni, che si ritrovano nella tesina Meccanica polmonare statica.

La pressione pleurica (Ppl) o intrapleurica, è la pressione presente nello spazio pleurico, tra la pleura
viscerale e quella parietale. Questo è uno spazio virtuale, dove non c’è aria, ma un velo di liquido che facilita
lo scorrimento del polmone sulla superficie interna della gabbia toracica. Il valore di questa pressione è un
valore negativo, sub-atmostferico (più basso di quella della Pb).
La pressione pleurica ha un valore negativo perché durante l’accrescimento fetale e corporeo, la gabbia
toracica cresce di più rispetto al polmone. Quindi queste strutture stirano lo spazio intra-pleurico, che essendo
uno spazio virtuale e non contenendo gas non può espandersi, e questo stiramento, attuato dallo stiramento
della gabbia toracica da una parte e dallo stiramento del parenchima polmonare dall’altro, fa si che la pressione
all’interno di questa struttura diventi sub-atmosferica. Il polmone viene stirato perché è ancorato alla gabbia
toracica che è cresciuta più di questo e gli fa assumere un volume più grande rispetto a quello che avrebbe
naturalmente, quindi vi è una forza di retrazione elastica del polmone, che risulta essere più disteso di quanto
sarebbe se lasciato a se stesso, che stira la pleura e rende la pressione intrapleurica sub-atmosferica, quindi
inferiore alla P atmosferica di alcuni mm Hg.
La Ppl è più difficile da misurare rispetto alla pressione barometrica e a quella alveolare, è possibile solo in
maniera invasiva attraverso il posizionamento di un manometro nello spazio pleurico, procedura molto difficile
da eseguire, infatti non viene quasi mai utilizzata. Si può però misurare in maniera indiretta, perché lo spazio
intrapleurico è molto vicino all’esofago a livello della porzione inferiore del torace. Il corpo dell’esofago è
una struttura passiva e, se non si sta deglutendo, la sua muscolatura è rilasciata ed è in grado di trasmettere la
pressione presente nello spazio pleurico adiacente. Quindi è possibile introdurre un catetere nella parte
inferiore dell’esofago, mantenendo il paziente in posizione eretta, poiché in posizione supina il mediastino
potrebbe comprimere l’esofago e falsare la misura. Se il soggetto si trova quindi in posizione eretta e la
muscolatura è rilasciata, la pressione rilevata nella porzione inferiore dell’esofago è altamente rappresentativa
della Ppl.
Il polmone e la parete toracica sono delle strutture tridimensionali in cui il volume varia per effetto delle
pressioni che vengono applicate dai muscoli respiratori, oppure può essere variata in altri modi artificialmente.
Nel grafico viene rappresentata la gabbia toracica il cui interno è colorato in verde. La porzione verde
rappresenta lo spazio intrapleurico e la sfera interna rappresenta la cavità polmonare.
La Ppl normalmente assume un valore subatmosferico di alcuni mmHg o cm di acqua (nella fisiologia
respiratoria per ragioni storiche la pressione viene spesso rappresentata non in mmHg, ma in cm di acqua
poiché i manometri utilizzati avevano questa scala), quindi la Ppl in condizioni normali, di equilibrio
(corrispondente alla CFR), è più bassa della P atmosferica di circa 3 mmHg. Se la P atmosferica (Pb) assume
un valore di 760 mmHg, la Ppl assumerà un valore di ca. 757 mmHg.

312
Nel momento rappresentato nel disegno anche la pressione alveolare PA è 760 mmHg, perché al termine di
una espirazione normale (al volume corrispondente alla CFR), quando il sistema è in equilibrio, non c’è flusso
d’aria e PA = Pb.
Essendo la PA = 760 mm Hg e la Ppl = 757 mm Hg, esiste una forza di retrazione elastica del polmone (pari
a 3 mmHg) che spinge quest’ultimo a retrarsi (rappresentata dalla freccia rossa) e compensa la ΔP tra la cavità
alveolare e la cavità pleurica, per cui il sistema è in equilibrio. La Ppl è più bassa della PA perché vi è questa
forza di retrazione elastica del polmone che contrasta la spinta esercitata dalla PA di 760 mm Hg.
La stessa cosa avviene per la parete toracica, anche in questo caso la Ppl è la stessa che abbiamo visto prima,
ovvero 757 mmHg, Pb = 760 mm Hg.
La ΔP tra la Ppl e la Pb è dovuta alla
presenza di una forza elastica della
parete toracica che tende ad
espandersi e va a contrastare ed
annullare la ΔP.
Si è dunque in una condizione di
equilibrio, dove la Ppl è minore della
Pb e della PA, ma le forze elastiche
compensano queste differenze di
pressione.

La Ppl è una pressione negativa che


serve a “incollare” il polmone alla
gabbia toracica e fa sì che tutti i
movimenti prodotti dalla gabbia
toracica si trasmettano in modo
solidale al polmone.
Se si perde la pressione negativa
interna e si consente alla cavità
pleurica di espandersi, quando la
gabbia toracica si espande non si tirerà
più dietro il polmone. Normalmente il
fatto di aver il polmone ancorato alla
gabbia toracica fa sì che il volume
polmonare sia più grande di quello che sarebbe da solo grazie alle sue proprietà elastiche, e la gabbia toracica
abbia un volume più piccolo di quello che avrebbe da sola. Quindi il polmone è dilatato dal fatto di essere
agganciato al torace e il torace è compresso e ristretto a causa del suo aggancio al polmone. Tagliando
metaforicamente la “molla” che collega la gabbia toracica e il polmone, introducendo aria nella cavità pleurica
e mettendo in comunicazione la cavità pleurica con l’esterno si avrà la seguente condizione: quando la gabbia
toracica si amplia, entra aria dall’esterno nella cavità pleurica e non vi è più un agganciamento del polmone
alla gabbia toracica. Il polmone assume quindi le dimensioni che ha quando non è più vincolato alla gabbia
toracica e lo stesso fa quest’ultima assumendo le sue dimensioni reali. Questa condizione può avvenire in
clinica e viene chiamata pneumotorace.

Pneumotorace
Lo pneumotorace si verifica quando, a causa di un
trauma, si rompe la parete toracica, la pleura
parietale viene lesa ed entra aria dall’esterno.
Nell’immagine a lato osserviamo nell’emitorace
di sinistra (che nell’immagine è a destra perché la
visione della TAC è dal basso), una normale
fisiologia del parenchima polmonare con delle
striature che rappresentano le vie respiratorie.
Nell’emitorace di destra (qui a sinistra), invece, il
polmone è collassato completamente, diventa una
massa che si raccoglie intorno ai bronchi lobari e
qui non si ha più nessuna ventilazione. Il polmone

313
è collassato per la perdita della negatività della pressione nello spazio intrapleurico che normalmente tiene
agganciate e rende solidali il polmone con la gabbia toracica. Anche la gabbia toracica subisce delle
variazioni (si espande), ma ciò è meno evidente, mentre è molto evidente il collasso del parenchima
polmonare.
In caso di pneumotorace che riguarda un solo polmone, l’unica possibilità di ventilare il sistema è di
utilizzare il polmone funzionante e ciò è facilitato se il paziente viene adagiato sul lato del polmone che è
collassato. Un doppio pneumotorace è incompatibile con la vita, a meno che non vi sia una rapida
ventilazione forzata dall’esterno, applicando una pressione positiva e riuscendo a far distendere anche il
polmone collassato, ma è una situazione molto pericolosa.

Domanda di uno studente. Un paziente che ha subito uno pneumotorace quindi, se sopravvive all'evento, vive con un
solo polmone? Non si recupera neanche minimamente la funzionalità dell'altro? Appena si sviluppa l’evento di
pneumotorace, quindi in fase acuta, funziona solo il polmone che non è collassato. Successivamente, nella quasi totalità
di casi (se non vi sono ulteriori problemi), se la ferita viene suturata e la comunicazione tra esterno e la cavità pleurica
viene interrotta, spontaneamente l’aria che si è accumulata nella cavità pleurica viene assorbita, la normale funzione
respiratoria di quel polmone viene ripristinata e ampiamente recuperata. L’ingresso di aria nella cavità polmonare può
avvenire anche dal polmone, quindi i casi di pneumotorace posso essere causati dall’ingresso di aria o dal torace o
dalla parete polmonare stessa. In questo caso parliamo di pneumotoraci spontanei, in cui, a causa di malformazioni
a livello del polmone, si creano dei punti di debolezza della parete polmonare. Possiamo immaginarlo come degli
alveoli che “scoppiano” e creano una comunicazione tra la cavità polmonare e la cavità pleurica, si ha lo stesso effetto:
entra aria nella cavità pleurica, viene persa la negatività della pressione intrapleurica, si svincolano il polmone e la
gabbia toracica e il polmone collassa. In questo caso è più complicato intervenire perché è molto difficile individuare
nel polmone collassato dove sia la lesione che ha causato il collasso polmonare. Si tratta quindi di individui che senza
avere una causa apparente perdono improvvisamente la capacità di ventilare con un polmone. Questo causa grave
dispnea e nel momento in cui arrivano in ospedale, molto spesso la cura è aspettare che la situazione si risolva da sola,
il che può comportare diverso tempo, ma generalmente si arriva a una soluzione.

N.B. I punti successivi sono stati spiegati dopo la trattazione della tesina Meccanica polmonare statica.

13.4. Modificazioni della pressione pleurica, alveolare e del flusso di aria


durante un ciclo respiratorio

Nell’analisi della Meccanica polmonare statica si è discusso delle proprietà statiche dell’apparato
respiratorio, e si è valutato il lavoro necessario per far variare il volume del sistema toraco-polmonare nel suo
insieme. Polmone e gabbia toracica vengono uniti e sono coesi tra loro nei movimenti grazie alla presenza
dello spazio intrapleurico, al cui interno è presente una pressione negativa. L’energia necessaria a ottenere
variazioni di volume è l’energia necessaria per vincere le forze di retrazione elastiche del sistema,
principalmente legate alle strutture elastiche del sistema, ma esiste anche una componente di tensione
superficiale.
La finalità del sistema respiratorio non è tanto quella di variare il suo volume, quanto quella di permettere un
flusso d’aria in entrata e in uscita dall’esterno verso gli alveoli polmonari e da questi verso l’esterno. Al lavoro
volto a vincere le forze elastiche del sistema occorre quindi aggiungere una quota di energia che serva a
vincere le resistenze viscose e l’inerzia delle molecole di aria e a consentire il flusso di aria all’interno del
sistema respiratorio.
Questi aspetti vengono indagati quando si studiano le proprietà meccaniche dinamiche dell’apparato
respiratorio.

Ciclo respiratorio
 Inspirazione
Si parte dalla capacità funzionale residua, a un volume di equilibrio al termine di una espirazione
normale in cui si ha espirato il volume corrente e in cui le forze di retrazione elastica del polmone sono
perfettamente bilanciate dalle forze elastiche della gabbia toracica. Si è in una condizione di equilibrio
in cui la pressione interna agli alveoli è uguale a quella barometrica, non esiste un gradiente pressorio,
e non c’è un flusso di aria in entrata o in uscita dagli alveoli polmonari.

314
Se si vuole generare un flusso di aria bisogna generare un gradiente di pressione tra la cavità alveolare
e l’esterno, tra la pressione alveolare (PA) e la pressione atmosferica o barometrica (Pb). La Pb è
fissa, e consideriamo come valore di riferimento lo 0; ciò che varia rispetto ad essa è la PA.
Se si applica una forza contraendo i muscoli inspiratori, ciò provoca un aumento del volume della
gabbia toracica e questo determina una diminuzione della pressione intrapleurica. Questa infatti è
una cavità chiusa e se stirata la sua pressione interna diminuisce. La diminuzione della pressione
intrapleurica come riflesso fa aumentare la pressione transpolmonare andando a stirare le pareti
alveolari. L’alveolo si dilata e aumenta il suo volume, ciò si traduce in una diminuzione della
pressione intralveolare. Si crea quindi quel gradiente di pressione che favorisce l’ingresso di aria
dall’esterno. Pb > PA.
Il flusso di aria dall’esterno all’alveolo è proporzionale alla riduzione della pressione nella cavità
alveolare. La grandezza della caduta della PA dipende a sua volta dalla forza di contrazione dei muscoli
inspiratori. Durante un’ispirazione forzata si stirano il più possibile i muscoli inspiratori, si amplia il
più possibile la gabbia toracica e si ha così una riduzione ancora più marcata della PA e un flusso
maggiore di aria dall’esterno verso l’alveolo. Mano a mano che l’aria fluisce all’interno della cavità
alveolare va a riempire lo spazio vuoto che si era creato con l’espansione della gabbia toracica e la
pressione interna va ad aumentare. L’inspirazione aumenta fino a ritornare a un valore di PA = Pb: a
questo punto non c’è più gradiente pressorio e il flusso si interrompe: si esaurisce la fase inspiratoria.
 Espirazione
I muscoli inspiratori sono contratti per mantenere questo nuovo volume polmonare. È necessario
applicare una nuova forza per generare un gradiente pressorio che permetta la fuoriuscita dell’aria
dal polmone. È necessario che PA > Pb.
Quando i muscoli inspiratori si rilasciano, le forze di retrazione elastica polmonare sono le uniche
forze presenti, molto più forti di quelle che tenderebbero ad espandere la gabbia toracica. Queste forze,
accumulatesi durante la fase di inspirazione, prevalgono e promuovono una retrazione del polmone:
il volume alveolare diminuisce, di conseguenza la PA aumenta e si genera un gradiente di pressione
che provoca la fuoriuscita di aria.

Questo ciclo respiratorio è rappresentato nei diversi grafici a lato. In ascissa si considera sempre il tempo.

Nel pannello a lato (a) sono rappresentate le variazioni di


volume. L’aria viene inspirata nella prima parte del grafico e
espirata nella seconda, durante un ciclo respiratorio
eupnoico (inspirazione ed espirazione normali). Viene
introdotto durante l’inspirazione un volume corrente (VC)
pari circa a 500 mL, considerando un uomo adulto di 70 kg (si
ricordi che i volumi polmonari sono sempre ridotti nella
femmina rispetto al maschio e che variano anche in base a età,
peso, altezza ecc.).
 Punto A = 0, corrisponde alla capacità funzionale
residua.
 A → C: inspirazione, si introduce nel sistema respiratorio un certo volume di aria (VC).
 C → D: espirazione, rilascio muscoli inspiratori, fase passiva in cui si emette VC all’esterno.
 Punto D: si torna a un volume corrispondente alla capacità funzionale residua.

Nel pannello b sono graficate le variazioni della pressione


transtoracica durante il ciclo respiratorio.
Ptranstoracica = Pintrapleurica – Pb
Questo valore ci informa di quanto la pressione intrapleurica
è più bassa rispetto allo 0 rappresentato dalla Pb. I valori
riportati nel grafico quindi sono i valori della pressione
intrapleurica (considerando Pb pari per l’appunto a 0).
 Punto A: Volume = capacità funzionale residua (CFP),
P intrapleurica = -4/-5 cmH2O.
 A → C: inspirazione.

315
 Punto C: è stato inalato il VC, P intrapleurica = -8 cmH2O. La P intrapleurica si è abbassata
ulteriormente a causa dell’aumento del volume della gabbia toracica.
In questo grafico sono presenti due linee: una tratteggiata e una continua. Dal punto A al punto C la
linea tratteggiata sta sopra quella continua, la situazione si inverte dal punto C al punto D.
Queste due linee definiscono un’area colorata in giallo.
- La linea tratteggiata da A a C è la linea di caduta della pressione transtoracica che si avrebbe
in condizioni statiche, se non ci fosse un flusso di aria e non ci fossero da vincere forze viscose
legate in particolare al movimento delle particelle di aria. È la stessa relazione che abbiamo
già visto studiando le curve pressione-volume nelle proprietà statiche. Per questi valori di
pressione abbiamo un andamento quasi lineare. Queste variazioni di pressione sono quelle
necessarie a vincere le forze di natura elastica e far assumere al polmone un volume superiore.
- Abbiamo detto che con un normale flusso d’aria occorre applicare una quantità maggiore di
energia per vincere le forze viscose che si oppongono al movimento dell’aria e al movimento
delle particelle. In presenza del flusso di aria è necessario che la P intrapleurica diventi più
negativa affinché si possa compiere questo lavoro aggiuntivo. Questa caduta di pressione, che
tiene conto di questo surplus di energia necessaria, è rappresentata dalla curva continua che
passa per il punto B. L’aumento di negatività della P intrapleurica in più rispetto a quello
necessario a vincere le forze elastiche del polmone, è quello che serve per stirare gli alveoli e
generare quel gradiente tra PA e Pb che è alla base del flusso respiratorio.
La differenza tra la curva tratteggiata e la curva continua corrisponde alla caduta della P
alveolare; ci indica quel surplus di lavoro che i muscoli inspiratori devono fare per vincere la
resistenza viscosa che si oppone al movimento della colonna di aria.
 C → D: muscoli inspiratori si rilasciano, P intrapleurica aumenta.
Anche in questa metà di grafico possiamo disegnare due curve.
- Linea tratteggiata: indica quali sarebbero le variazioni di Pressione transtoracica al variare
del volume se non ci fosse un flusso di aria, considerando solo le forze di retrazione elastica
del polmone.
- Linea continua: variazione di pressione reale che tiene anche conto della variazione di
pressione intrapleurica necessaria a mantenere un flusso di aria e opporsi alle forze viscose.
 Punto D: P intrapleurica = -4/-5 cmH2O.

N.B. Le forze viscose che si oppongono al flusso di aria nascono dal fatto che vi sono delle resistenze al
flusso di aria che è ostacolato nel suo percorso dalla geometria delle vie respiratorie stesse.

Nel pannello d sono mostrate le variazioni della pressione


transmurale.
Ptransmurale = Palveolare – Pbarometrica
Possiamo considerare queste variazioni come quelle della PA
(essendo Pb = 0 per convenzione).
 Punto A: il volume è quello corrispondente alla CFR. PA =
0. Non c’è un gradiente di pressione tra l’alveolo e
l’ambiente esterno. Condizione di riposo.
 A → B: inspirazione. Il volume della gabbia toracica si
espande → P intrapleurica diminuisce → stiramento alveolare → V intralveolare aumenta → P
alveolare diminuisce. Vi è un gradiente di pressione: PA < Pb; la pressione alveolare ha cioè un valore
subatmosferico. Questo genera un flusso di aria verso l’interno (inizialmente rapido).
 B → C: continua l’inspirazione, ma mano a mano che si accumula aria all’interno dell’alveolo la
pressione alveolare aumenta e il gradiente di pressione di conseguenza diminuisce.
 L’alveolo continua a espandersi fino al punto C, ma intanto arriva dell’aria dall’esterno che compensa
tale variazione di volume. Al punto C si ha una situazione di equilibrio in cui PA = Pb e dunque la
pressione transmurale è pari a 0. Il volume è aumentato, ma con esso anche la pressione. A questo
punto si interrompe il flusso di aria e termina l’inspirazione.
 C → D: espirazione. Rilasciamento dei muscoli inspiratori. Le forze di retrazione elastica comprimono
l’interno dell’alveolo e si ha un aumento PA che diventa superiore a Pb. PA > Pb. L’aria esce dagli

316
alveoli per gradiente pressorio. Mano a mano che l’aria esce la PA diminuisce fino a che ritorna uguale
a 0 (in D) e il flusso cessa.

Le variazioni di flusso d’aria del pannello c rispecchiano le


variazioni di pressione transtoracica del pannello d.
Questo grafico non è del tutto preciso perché le resistenze al flusso
non sono costanti durante tutto l’atto respiratorio, ma sono più basse
durante l’inspirazione che durante l’espirazione. Questo avviene
perché durante l’inspirazione anche i bronchioli non dotati di
struttura cartilaginea si dilatano e la resistenza al flusso diminuisce.
Questo è un dettaglio per ora trascurabile.

È possibile notare come le variazioni di Pressione transmurale siano molto piccole. Si passa infatti da -1
cmH2O rispetto a quella atmosferica a 0. È sufficiente quindi una caduta di PA di 1 cmH2O per garantire il
normale flusso respiratorio in ingresso e in uscita. (Precisamente sarebbe |P A espirazione| > |PA inspirazione|,
ma di un valore minimo). L’entità della caduta della P alveolare rappresenta la forza che vince le forze di
resistenza viscosa al flusso di aria. La maggior parte della forza applicata al sistema è volta a vincere le
resistenze elastiche del sistema toraco-polmonare, mentre una quota più bassa è quella necessaria per vincere
le forze di resistenza al flusso all’interno del sistema. Questo sempre in condizioni fisiologiche.

Riporto lo schema completo della discussione fatta finora.

317
13.5. Meccanica polmonare dinamica: flusso e resistenza nelle vie aeree; flussi
espiratori massimali; diagrammi flusso-volume; meccanismo della limitazione del
flusso espiratorio massimo

Flusso d’aria lungo le vie respiratorie


La dinamica del flusso di aria lungo le vie respiratorie segue le stesse leggi del flusso di sangue nel sistema
circolatorio e di corrente lungo i cavi elettrici.
Per generare un flusso è necessario creare una differenza di pressione, detta in questo caso pressione
propulsiva.
Le caratteristiche del flusso all’interno del condotto variano a seconda della velocità del flusso:
 Bassa velocità di flusso: flusso laminare. Il fluido si distribuisce in
tanti strati concentrici in cui gli stati centrali hanno una velocità,
detta velocità di punta, più elevata di quella delle particelle che
sono invece più adiacenti alle pareti del condotto. La figura mostra
i vettori di velocità più lunghi nella porzione centrale del condotto rispetto alle porzioni periferiche.
Dal punto di vista economico questo flusso è redditizio, lo scorrimento ordinato delle particelle fa sì
che la forza propulsiva che permette il flusso sia direttamente proporzionale alla velocità di flusso. La
velocità di flusso, secondo la Legge di Hagen-Poiseuille, è direttamente proporzionale alla pressione
propulsiva (ΔP), inversamente proporzionale alle resistenze. La resistenza (R) dipende dalla viscosità,
dalla lunghezza e in maniera critica dal raggio: addirittura la resistenza varia con la quarta potenza
del raggio (se il raggio dimezza, la R aumenta di sedici volte).

𝑃 8𝜂𝑙 𝑷𝝅𝒓𝟒
𝑉̇ = 𝑅 ma 𝑅 = 𝜋𝑟 4 dunque 𝑽̇ =
𝟖𝜼𝒍

 Alta velocità di flusso. In queste condizioni, non abbiamo più


un flusso laminare, ma il flusso diventa turbolento. Il
movimento delle particelle non avviene solo con una direzione
parallela all’asse del condotto, ma anche perpendicolare: in
generale si può descrivere questo moto come casuale o
disordinato. La probabilità di avere un moto turbolento è
definita dal numero di Reynolds (Re). Più alto è Re e più facilmente si svilupperà un moto turbolento.
Il moto turbolento è più dispendioso i termini energetici. La pressione propulsiva infatti non è più
proporzionale alla velocità di flusso, ma al suo quadrato (o, in altre parole, il flusso è proporzionale
alla radice quadrata della pressione propulsiva). Ciò significa che per ottenere la stessa velocità di
flusso occorrerà una pressione propulsiva molto più alta.
La probabilità di avere un moto turbolento è stata studiata teoricamente da Reynolds sui fluidi.
Reynolds scoprì i parametri che quando variano provocano un passaggio da un moto laminare a un
flusso turbolento. Questi sono racchiusi nella definizione di Re:
2𝑟𝑣𝑑
𝑅𝑒 =
𝜂
Più aumentano raggio r, velocità di scorrimento v e densità del mezzo d e più aumenta Re. Re è invece
inversamente proporzionale alla viscosità η: un fluido viscoso è un fluido in cui le molecole
interagiscono molto tra di loro e questo facilita un flusso ordinato. Al contrario velocità e densità sono
caratteristiche legate alle singole particelle.

Durante una respirazione tranquilla, eupnoica, la velocità del flusso di aria in trachea è 150 mL/s, abbastanza
elevata da favorire un moto turbolento.
In condizioni teoriche, quando si considerano dotti senza diramazioni e rettilinei, il valore soglia del Re sopra
il quale si instaura un moto turbolento è 2000. Se Re > 2000 il moto è turbolento.

318
Il flusso rimane turbolento in gran parte dell’albero
respiratorio (è la turbolenza del flusso che ci permette di
percepire il rumore respiratorio del flusso di aria nelle grandi
vie aeree). Il flusso laminare è presente solo nei bronchioli più
piccoli. In condizioni in vivo, ben lontane da quelle laboratoriali
di Reynolds, il flusso diventa facilmente turbolento, a causa
delle numerose diramazioni. Nei bronchioli terminali però la
velocità di flusso diventa molto bassa, tanto da permettere la
diffusione dei gas e la sedimentazione delle particelle in
sospensione. Questa bassa velocità è dovuta alla superficie
totale molto ampia. Si è inizialmente detto che la sezione dei
bronchi figli non è mai la metà dei bronchi di partenza, ma
aumenta con il numero di diramazioni. In particolare alla fine
dell’albero respiratorio, dove si osservano molte diramazioni, la
sezione aumenta moltissimo e la velocità di flusso diminuisce
drasticamente (si annulla quasi), tanto da avere la
sedimentazione delle particelle in sospensione e da permettere
scambi per diffusione. In queste condizioni nella parte terminale
del sistema respiratorio si osserva un flusso laminare. Qui Re =
1, molto più basso del valore soglia individuato da Reynolds; in
condizioni fisiologiche si ha un valore soglia per il moto
turbolento molto più basso rispetto a quello calcolato da
Reynolds.
A livello dei bronchioli il flusso è silente, non apprezzabile
all’auscultazione. Nella maggior parte dell’albero bronchiale il
flusso è transazionale, cioè un moto laminare che diventa
turbolento all’incontro di una diramazione.

Resistenza delle vie respiratorie


La velocità del flusso all’interno delle vie respiratorie è determinata da due fattori:
 la pressione propulsiva;
 le resistenze delle vie respiratorie, definite come il rapporto tra la pressione propulsiva e il flusso.
Nell'albero respiratorio la resistenza totale al flusso dalla bocca fino agli alveoli è una resistenza piuttosto
bassa in condizione fisiologiche, che varia da 1 a 3 cmH2O/(L/s).

Le resistenze non sono uniformi in tutto l’albero respiratorio. Delle 23 generazioni di bronchi e bronchioli a
partire dalla trachea in cui sono suddivise le vie aeree, la massima resistenza si concentra nelle prime 5
generazioni; in generale resta alta nelle prime 8 generazioni per poi crollare e diventare molto bassa a

319
livello dei bronchioli di più piccole dimensioni. Le vie aeree di piccole dimensioni offrono minore resistenza
(meno del 20% del totale per vie aeree con diametro inferiore a 2 mm).
Un condotto con piccolo raggio offre più resistenza al flusso di un condotto a più ampio raggio, perché la
resistenza dipende criticamente dal raggio. Quello che conta però non è il raggio del singolo condotto ma il
raggio e le dimensioni della sezione complessiva di tutti i condotti in parallelo tra loro. Mentre la resistenza in
condotti in serie è data dalla somma delle resistenze dei singoli condotti, la resistenza di un sistema in parallelo
si basa sul reciproco delle resistenze individuali e il reciproco della resistenza totale è dato dalla somma dei
reciproci delle resistenze individuali. In questo caso sono condotti in parallelo e poiché la somma delle sezioni
dei bronchioli terminali è molto più estesa della somma delle sezioni delle prime vie respiratorie, la resistenza
diminuisce a livello dei bronchioli di più piccole dimensioni rispetto al valore che assume nelle prime vie
respiratorie.
In condizioni normali bisogna applicare un lavoro aggiuntivo a quello necessario per vincere la resistenza
elastica del sistema. Ciò farà aumentare il volume per creare un gradiente della pressione propulsiva che
garantisca il flusso. Se le resistenze aumentano, il gradiente della pressione propulsiva dovrà essere maggiore
per garantire il flusso. Quindi il lavoro da fare per garantire il flusso dovrà aumentare di molto.
Il lavoro dipende quindi dalle condizioni elastiche del sistema (un sistema rigido richiederà un lavoro
maggiore per essere esteso), ma anche dalla resistenza al flusso del sistema respiratorio.
Nella tabella a lato possiamo osservare che per una
resistenza totale di 1,5 cmH2O/(L/s) di un individuo
normale la massima quota di resistenza è quella a
carico delle vie aeree di più grandi dimensioni
(faringe, laringe) e bronchi con un diametro
superiore ai 2 mm. Soltanto una quota molto
marginale, meno di un quinto, è a carico delle piccole
vie (bronchioli con diametro minore dei 2 mm). Nelle
broncopatie croniche ostruttive, BPCO (ultima
colonna della tabella), si ha un aumento marcato delle resistenze per ragioni patologiche proprio a carico dei
piccoli bronchioli. Le resistenze possono aumentare fino al doppio/triplo della resistenza totale. In condizioni
normali questi bronchioli rappresentano una quota marginale, quindi anche se la resistenza che essi pongono
al flusso raddoppia, rispetto alle resistenze totali non si ha un aumento marcato e ad un normale esame
spirometrico questo aumento di resistenza può anche sfuggire. È molto facile all'inizio dello sviluppo di una
broncopneumopatia cronica ostruttiva non rilevare l’aumento delle resistenze bronchiolari anche se queste
sono già presenti. Si arriva a fare la diagnosi solo tardi, quando l’aumento delle resistenze di questo segmento
bronchiale è già molto elevata.

Fattori che modificano la resistenza delle vie aeree


Le resistenze delle vie respiratorie non sono costanti ma variano sia temporalmente che spazialmente.
Temporalmente le resistenze delle vie respiratorie diminuiscono durante la inspirazione; spazialmente
più il polmone è espanso più le resistenze diminuiscono.

320
La curva continua più in alto rappresenta una inspirazione forzata: si parte da un volume corrispondente al
volume residuo, si passa per la capacità funzionale residua fino ad arrivare alla capacità polmonare totale.
Aumentando il volume polmonare, le resistenze delle vie aeree vanno progressivamente a diminuire
perché a mano a mano che il polmone si stira, si stirano gli spazi alveolari, che aumentano il loro volume e
fanno crollare la pressione intralveolare, generando gradienti pressori che garantiscono il flusso. Vengono
stirati anche i bronchi: aumenta il loro raggio e diminuisce la loro resistenza. Quindi anche i bronchi risentono
della trazione che il tessuto polmonare esercita su di loro all’aumentare del volume polmonare.
La linea tratteggiata sotto si riferisce al rapporto tra volume polmonare e resistenza polmonare in una
condizione in cui è stata ottenuta una broncodilatazione somministrando un inibitore del sistema
parasimpatico: l’atropina. Il sistema bronchiale è innervato dal sistema nervoso autonomo: quando si attiva il
sistema nervoso simpatico si ha una broncodilatazione, il sistema parasimpatico determina invece una
broncocostrizione. Se si elimina l’effetto del parasimpatico somministrando atropina, che va a bloccare i
recettori muscarinici delle fibre post-gangliari parasimpatiche, si ottiene una broncodilatazione e quindi una
riduzione delle resistenze delle vie aeree. Si ha nel grafico una linea spostata in basso rispetto a quella normale.
Se si somministra un broncocostrittore invece, a parità di volume polmonare, si ottiene un aumento delle
resistenze polmonari. Nel grafico la linea sarebbe spostata più in alto di quella normale.
Le resistenze polmonari possono essere aumentate in condizioni patologiche. La presenza di muco o lo
sviluppo di edema polmonare ostacolano il flusso d’aria aumentando le resistenze. Anche un aumento della
densità dei gas determina un aumento delle resistenze al flusso (es., durante le immersioni dei sub).
In generale più alti sono i volumi polmonari, più basse saranno le resistenze. Un soggetto che ha
patologicamente un aumento delle resistenze trarrà infatti vantaggio a respirare a volumi aumentati che
determinano una dilatazione a livello dell’albero bronchiale, perché vengono stirati i bronchi dall’aumento del
volume polmonare e risulterà facilitato il flusso.

Regolazione nervosa della resistenza


I bronchi sono innervati sia dal sistema simpatico che dal parasimpatico. L'attivazione del parasimpatico
determina la contrazione della muscolatura liscia del sistema bronchiale e quindi broncocostrizione e aumento
delle resistenze bronchiali. L’attivazione del simpatico determina al contrario il rilasciamento della
muscolatura liscia, e quindi broncodilatazione e diminuzione delle resistenza bronchiali. Sui recettori β
l’adrenalina è più attiva della noradrenalina. Ci
sono anche altre sostanze che possono interagire
con l’attività della muscolatura liscia del sistema
bronchiale, come l’istamina, che determina
broncocostrizione. Gli antistaminici sono farmaci
che vengono assunti dalle persone asmatiche e
allergiche proprio per facilitare la dilatazione
della muscolatura bronchiale.
Errore nell’immagine: le fibre pre-gangliari del
sistema simpatico sono comprese nel corno
anteriore della sostanza grigia spinale dei
segmenti da T1 a L3 e quindi le fibre pre-gangliari
escono dalle radici nervose corrispondenti ai
segmenti corrispondenti da T1 a L3, mentre da
tutti i segmenti cervicali non dovrebbero uscire
delle fibre pre-gangliari del sistema simpatico; nel
midollo cervicale infatti non ci sono neuroni pre-
gangliari del sistema simpatico e i gangli cervicali
possono essere raggiunti da tali neuroni solo
attraverso fibre che connettono tra loro i gangli di
livello inferiore con quelli di livello superiore.
Andrebbero cancellati i trattini rossi che
connettono il midollo C1-C8 ai gangli cervicali.
Le resistenze variano secondo un criterio:
 temporale: durante l’inspirazione quando il polmone viene disteso, più aumenta il volume polmonare
più calano le resistenze polmonari;

321
 spaziale: all’interno del parenchima polmonare i bronchi della parte apicale del polmone sono più
distesi di quelli della parte basale che sono “schiacciati” dal peso del polmone. Le resistenze alla base
del polmone a parità di dimensioni del bronco sono più alte rispetto a quelle presenti nella porzione
apicale del polmone stesso. Questo effetto di trazione/compressione sul sistema bronchiale è più
efficace e crea delle variazioni maggiori nei bronchi che sono privi di uno scheletro di natura
cartilaginea, quindi i bronchioli. Fino a che c’è cartilagine, i bronchioli mantengono le loro dimensioni
mentre dove manca una parete cartilaginea l’effetto di stiramento/compressione è molto maggiore e la
resistenza al flusso di aria all’interno di questi bronchioli dipende sostanzialmente dalla differenza tra
la pressione propulsiva all’interno del sistema e la pressione esterna che li comprime da fuori. Quindi
dipende sostanzialmente dalla pressione transmurale tra l’interno della struttura e l’esterno della
struttura stessa.

Misura del flusso espiratorio


Le misure spirometriche possono dare indicazioni sulle resistenze al flusso. Inizialmente, anche in casi di
patologie ostruttive, le prove strumentali possono non evidenziare una variazione delle resistenze quando
queste sono ancora solo a carico dei bronchioli più piccoli.
Le due misure che vengono fatte più frequentemente sono:
1. l’espirazione forzata;
2. il diagramma flusso/volume.
Espirazione forzata
Si chiede al paziente di inspirare massivamente fino al valore della capacità polmonare totale e poi di
espirare alla massima velocità possibile per arrivare rapidamente al volume residuo. Questa misura permette
di calcolare la capacità vitale forzata (CVF). Si definisce forzata perché nello sforzo dinamico di espirare
l’aria il più velocemente possibile, aumentano le resistenze viscose che variano con la velocità. Quindi la
capacità vitale forzata può risultare lievemente inferiore alla capacità vitale misurata durante una espirazione
tranquilla. La capacità vitale forzata è quindi il volume corrispondente all’aria mobilizzabile partendo dalla
massima inspirazione, capacità polmonare totale, al volume residuo il più velocemente possibile.
Il paramento importante è quello del volume massimo espirato durante il primo secondo dell’espirazione
(VEMS). La prima parte dell’espirazione è quella in cui la velocità è maggiore e durante il primo secondo
dell’espirazione un soggetto normale espelle circa l’80% della capacità vitale forzata. Se la capacità vitale è
di 5 L, i primi 4 durante una espirazione forzata vengono espulsi nel primo secondo. Si calcola il rapporto tra
queste due misure: volume massimo espirato in un secondo e capacità vitale forzata (VEMS/CVF), e in un
soggetto normale l’80% della capacità vitale forzata viene espirata nel primo secondo. Nella parte finale
dell’espirazione la velocità di emissione dell’aria va diminuendo fino ad arrivare al volume residuo.

In condizioni patologiche se si ha una:


 pneumopatia ostruttiva (es., asma), si ha un aumento delle resistenze al flusso. Il soggetto ha una
CVF più o meno normale ma si ha una drastica riduzione della velocità di espirazione del soggetto
perché sono aumentate le resistenze. Il rapporto tra il VEMS e la CVF è sceso, nell’esempio graficato,
𝑉𝐸𝑀𝑆
al 42% ( = 0,42). Sotto al 72% il paziente è considerato portatore di una patologia ostruttiva;
𝐶𝑉𝐹

322
 pneumopatia restrittiva (es., fibrosi polmonare, dove il parenchima polmonare è diventato meno
elastico), essendo il parenchima meno compliante la capacità vitale forzata risulta patologicamente
diminuita; anche il VEMS è diminuito ma proporzionalmente meno rispetto a quanto diminuisce
la capacità vitale forzata; quindi in questi soggetti il rapporto tra i due valori può essere addirittura
𝑉𝐸𝑀𝑆
superiore rispetto a quello di un individuo normale, arrivando al 90% come nell’esempio ( 𝐶𝑉𝐹 =
0,90). Un rapporto VEMS/CVF normale ma una significativa riduzione della capacità vitale
forzata è diagnostico per una pneumopatia restrittiva.
Nelle fasi iniziali di una pneumopatia la VEMS può apparire normale perché il rango di normalità non è
restrittivo. I valori del soggetto risultano variati rispetto al prima che si sviluppi la broncopneumopatia ma in
generale, sono ancora considerati valori normali. Poi quando si aggrava entrano nel rango della patologia.

Diagramma flusso-volume
Misura la velocità del flusso rispetto al volume. Viene fatta fare al soggetto una espirazione forzata e viene
misurata la velocità del flusso a mano a mano che il volume diminuisce.

Il pannello a è analogo a quello precedente, fa sempre vedere una espirazione forzata, passando dalla capacità
polmonare totale fino al volume residuo evidenziando i punti in cui è stata misurata la velocità di flusso.
Nel pannello b si ha sull’asse delle x il volume espirato e sull’asse delle y la velocità del flusso mano a mano
che si espira. Il flusso è zero all’inizio, quando il volume corrisponde alla capacità polmonare totale, poi
aumenta perché aumenta la velocità con cui l’aria esce, raggiunge un picco e poi diminuisce la sua velocità
fino a tornare uguale a zero quando si arriva al valore corrispondente al volume residuo. La velocità di
espirazione è massima nelle primissime fasi dell’espirazione in cui si raggiunge il flusso istantaneo più elevato,
definito picco della velocità di flusso espiratorio, che può raggiungere i 10-13 L/s. Dopo questo punto la
velocità espiratoria diminuisce progressivamente in maniera lineare fino ad arrivare al volume residuo. La
velocità del flusso è massima inizialmente e poi diminuisce progressivamente.
Nel pannello c si osservano tre curve:
 blu (corrisponde a quanto visto nel pannello b): variazioni delle velocità di flusso al variale del volume
espirato durante una espirazione forzata. Si raggiunge la velocità massima subito e poi anche se il
soggetto continua a contrarre in maniera spasmodica più che può i suoi muscoli espiratori, la velocità
di espirazione via via inevitabilmente diminuisce;
 rossa e verde: sono anch’esse curve di espirazione ma non in condizioni forzate. Il soggetto sta
espirando con uno sforzo submassimale nella curva rossa e ancora più basso nella curva verde.
La velocità massima ottenuta è diversa nelle tre curve. Quando lo sforzo espiratorio è massimo viene
raggiunta una velocità più alta, quando è intermedio una velocità più bassa e quando è basso una velocità
ancora più bassa. C'è una proporzionalità tra l’intensità dello sforzo e velocità del flusso prodotto.
Nell'ultima parte della curva, quando è stato superato il picco della velocità del flusso espiratorio e la velocità
del flusso sta calando, si vede che però ad un certo punto le tre curve si sovrappongono. La velocità del flusso
espiratorio in queste condizioni non è più proporzionale all’entità dello sforzo espiratorio, ma diviene sforzo-
indipendente, come se ci fosse un limite oltre il quale la velocità non può aumentare.

323
Questa caratteristica vale per l’espirazione ma non
per l’inspirazione. Nella curva dell'inspirazione
forzata non è presente l’asimmetria della curva di
espirazione; la velocità del flusso aumenta per più di
metà della curva inspiratoria e poi scende
rapidamente verso zero.
Il flusso inspiratorio dipende da tre parametri:
1. la forza di contrazione dei muscoli
inspiratori, che vanno ad aumentare il
volume polmonare e quindi generano un
gradiente pressorio. Più alto sarà il gradiente
pressorio più alta sarà la velocità di flusso;
2. la forza di retrazione del polmone che
contrasta la forza di contrazione dei muscoli
inspiratori. Più si dilata il polmone più
questa forza di retroazione aumenta;
3. le resistenze delle vie aeree che
diminuiscono con l'espansione del polmone.
L'equilibro tra queste tre forze fa sì che la massima
velocità di flusso inspiratorio venga raggiunta poco
dopo la metà dell'inspirazione. Il massimo flusso inspiratorio è paragonabile come entità al massimo flusso
espiratorio; in entrambi i casi la velocità massima si attesta intorno ai 10-12 L/s.
Queste velocità possono variare con il genere (nelle femmine è un po' più basso che nei maschi), con l'etnia,
l'età (il progredire dell’età fa diminuire tutti questi volumi e velocità, principalmente perché aumentano le
resistenze ma parallelamente anche perché la forza di contrazione dei muscoli sia espiratori che inspiratori va
diminuendo) ma anche con il peso e con l’altezza del soggetto. Tutti questi parametri devono essere inseriti
nel sistema di valutazione dei risultati durante un esame spirometrico.
Limitazione del flusso espiratorio
La velocità di flusso espiratorio nella prima parte della espirazione è proporzionale allo sforzo
espiratorio; quindi più si contraggono i muscoli espiratori all’inizio dell’espirazione, più veloce è il flusso di
aria. Nell’ultima parte della espirazione al contrario la velocità del flusso è sforzo-indipendente: che si
contraggano poco, mediamente o molto i muscoli espiratori, il flusso è sempre lo stesso; c’è dunque un limite
alla velocità del flusso espiratorio nell’ultima parte dell’espirazione.
N.B. Come abbiamo già detto, questa caratteristica è limitata all'espirazione, non c’è un analogo pattern di
variazione della velocità di flusso in fase inspiratoria.
Osserviamo ora a cosa sia dovuto questo fenomeno della limitazione del flusso espiratorio.
In questa immagine si è nella condizione di esaminare quello che succede a livello della pressione nell’albero
respiratorio e nello spazio intrapleurico (che circonda l’albero respiratorio), durante una espirazione forzata.

324
La pressione intrapleurica durante un’espirazione forzata (ovvero quando contraiamo al massimo tutti i
nostri muscoli espiratori), assume un valore positivo e può arrivare addirittura a +60 cmH2O, valore molto
maggiore rispetto a un normale ciclo respiratorio che si realizza a normali volumi; quando si inspira ed espira
durante una respirazione normale un valore di aria uguale a quello del volume corrente, si è visto che la
pressione intrapleurica oscilla tra -4 e -8 cmH2O, quindi tutti valori negativi e bassi; durante una espirazione
forzata la situazione tuttavia è radicalmente diversa: c’è una contrazione massiccia dei muscoli espiratori, una
brusca riduzione del volume toraco-polmonare che va a comprimere lo spazio intrapleurico e determina un
aumento marcato della pressione intrapleurica.
Questo aumento di pressione intrapleurica si riflette anche sulla pressione alveolare, e anche quest’ultima
cresce considerevolmente. Su questa crescita della P intralveolare ha effetto anche la retrazione elastica del
volume polmonare (il polmone è in un momento di massima espansione, si è al volume corrispondente alla
CPT, quindi la componente elastica del sistema polmonare è massimamente espansa) e esercita una forza che
va a comprimere l'alveolo. La pressione alveolare sale quindi fino a +90 cmH2O, valore molto diverso da
quello del normale ciclo respiratorio; infatti, durante un normale ciclo respiratorio basta una piccolissima
variazione della pressione intralveolare per garantire quel gradiente di pressione rispetto all’ambiente esterno
sufficiente a fare entrare e uscire un volume di aria corrispondente al volume corrente; si parlava di oscillazioni
di 1 cmH2O, in espirazione forzata i valori sono molto più elevati, +90 cmH2O. Questo aumento importante
della P intralveolare riesce a far fluire molto velocemente l’aria verso l'esterno: all’esterno c’è una P b = 0 e in
questo caso la PA è 90 cmH2O più alta della P barometrica. C’è quindi un notevole gradiente di pressione,
definito come pressione propulsiva, che spinge con forza l’aria a uscire.
Mentre l’aria esce lungo l’albero respiratorio, via via che procede verso la bocca, la P all'interno delle vie
aeree va a diminuire, perché viene dissipata per fornire l’energia per vincere le resistenze viscose dell'aria e
quindi favorire la fuoriuscita dell'aria stessa. Quindi, man mano che si ci allontana dall’alveolo e si ci avvicina
alla bocca, si ha una progressiva diminuzione della pressione all’interno dell’albero respiratorio.
In queste condizioni nella fase iniziale della espirazione, la P all’interno delle vie aeree inferiori (quindi
all’interno dell'albero bronchiolare e bronchiale) è comunque sempre superiore rispetto alla P intrapleurica.
Nella parte finale dell’espirazione invece la P intralveolare diminuisce, e quindi anche tutti i valori lungo il
percorso nelle vie aeree diminuiscono. La P intralveolare diminuisce proprio perché le forze di retrazione
elastica, che spingono verso l’interno, diminuiscono mano a mano che il polmone si rimpicciolisce, e quindi
anche la P intralveolare progredendo nell’espirazione va via via diminuendo. La pressione all’interno
dell’alveolo è più bassa, e proporzionalmente anche lungo tutte le vie aeree diminuisce progressivamente.
Si raggiunge così un momento in cui nei bronchi che si trovano ancora all'interno dell’organo polmonare
(quando sono ancora circondati dalle pleure) la pressione all’interno delle vie raggiunge lo stesso valore della
P intrapleurica, che spinge sulla parete esterna dei bronchi e li va a comprimere; questa pressione esercitata
dalla P intrapleurica eguaglia la P interna prodotta all’interno delle vie aeree dal gradiente di pressione tra P
alveolare e P esterna. Il punto dove si realizza questo equilibrio viene chiamato punto di egual pressione, che

325
corrisponde appunto al punto lungo l’albero respiratorio in cui la P all'interno viene eguagliata dalla P
intrapleurica.
Se questo accade a livello dei bronchi più prossimali rispetto alla bocca, essendo bronchi con una parete
cartilaginea consistente, questi non vengono molto deformati dall’azione di queste pressioni che agiscono sulla
loro parete. Ma mano a mano che l’espirazione procede, e quindi la P intralveolare cala, il punto di egual
pressione si sposta progressivamente più distalmente, verso gli alveoli, e raggiunge il livello dei bronchioli
più piccoli, la cui parete non ha più questa consistenza: la P intrapleurica eguaglia quella interna e va a
comprimere il bronchiolo, determinando un aumento delle resistenze e un ostacolo al flusso espiratorio. Per
vincere questo ostacolo si aumenta la forza espiratoria (si contraggono ancora di più i muscoli per forzare il
sistema e per “spremere” fuori l'aria ancora contenuta negli alveoli): quando si incrementa la contrazione dei
muscoli espiratori, aumenta la P intralveolare ma parallelamente aumenta anche la P intrapleurica; quindi, la
forza dei muscoli espiratori agisce alla stessa maniera e nella stessa misura sulla P intralveolare e sulla P
intrapleurica, le due rimangono allo stesso valore e non si riesce più a buttar fuori l’aria. La velocità di flusso
non può più aumentare perché qualsiasi sforzo espiratorio aggiuntivo da questa situazione in poi aumenta
parallelamente nella stessa misura sia la pressione propulsiva tramite un aumento della pressione alveolare
sia la resistenza al flusso andando a comprimere le vie respiratorie.
In condizioni patologiche caratterizzate da un aumento delle resistenze delle vie aeree, il punto di egual
pressione è raggiunto molto precocemente al livello dei bronchioli terminali, e addirittura in questi casi ci
possono essere delle condizioni in cui la P intrapleurica è superiore a quella intralveolare. Nella parte finale
dell’espirazione l’aria rimane intrappolata nel polmone e non riesce ad essere espulsa: ovviamente questo
determina un deficit funzionale che può essere anche importante.

Riassumendo. In assenza di malattie polmonari, nella prima fase dell’espirazione, il punto di egual pressione
viene raggiunto a livello dei bronchi, che hanno una parete consistente che resiste alla compressione esercitata
dalla P intrapleurica e quindi non vengono sostanzialmente deformati e non viene limitato in alcun modo il
flusso. Man mano che l’espirazione va avanti, e quindi le pressioni all’interno dell’albero bronchiale vanno a
diminuire, il punto di ugual pressione si sposta più distalmente, verso gli alveoli, perché la pressione all’interno
dell’alveolo va a diminuire e i bronchi vengono meno retratti dalla forza elastica del polmone: la resistenza al
flusso dell’aria aumenta e si ha una maggiore dissipazione dovuta al transito di aria lungo i condotti.
Nelle malattie polmonari di tipo ostruttivo, caratterizzate da un aumento delle resistenze polmonari, il punto
di egual pressione è così vicino agli alveoli e i bronchioli sono così poco consistenti che vengono facilmente
compressi dalle forti pressioni intrapleuriche: questo determina il loro collasso e l’intrappolamento di aria, che
nella parte finale dell’espirazione non può più essere espulsa; l’aria rimane all’interno del polmone
comportando grandi deficit degli scambi respiratori: rimane lì, si satura di gas e non aiuta più a smaltire
l’anidride carbonica o a portare ossigeno fresco.

326
14. Meccanica polmonare statica
L’azione dei muscoli respiratori genera una forza che determina uno spostamento delle strutture toraco-
polmonari. Trattandosi di organi cavi possiamo quindi affermare che la contrazione dei muscoli respiratori
genera una pressione che determina una variazione del volume toraco-polmonare. L’entità di questa variazione
di volume, che avviene per effetto della contrazione muscolare durante gli atti respiratori, dipende dalla
presenza di:
 elementi elastici, che oppongono una resistenza alla forza applicata che varia il V;
 elementi viscosi, quando è presente un flusso di aria si ha la presenza di resistenze dovute all’attrito
dell’aria stessa e anche all’attrito di tutte le parti in movimento. Il contributo di questi elementi viscosi
varia con l’entità del flusso.
Questo indica che la quantità di aria che entra nel sistema ad ogni atto respiratorio dipende sia dalle
componenti elastiche delle strutture che influiscono sulle variazioni di volume, sia dalle resistenze viscose al
movimento e al flusso. Quindi quanto varia il volume al variare della pressione dipende da un lato
dall’elasticità del sistema e dall’altro dalle resistenze viscose al flusso.
Le proprietà meccaniche statiche del sistema toraco-polmonare studiano le proprietà elastiche del polmone
e della gabbia toracica e descrivono la relazione tra pressione e volume indipendentemente dal flusso di aria,
quindi in assenza di flusso, quando il sistema è fermo, ovvero quando si trova in un punto di equilibrio
contraddistinto da una coppia di valori V e P.
Le proprietà meccaniche statiche includono tutte le componenti che dipendono dalle reazioni elastiche di
tutte le strutture toraco-polmonari (ma anche dei gas), dalla conformazione di queste strutture e anche dai
meccanismi di tensione superficiale, ovvero tutte le proprietà elastiche passive.
Le proprietà meccaniche dinamiche invece, trattate nella tesina omonima, dipendono dalla reazione viscosa
al moto d’aria e al movimento dei tessuti viscosi.
Conoscere le proprietà statiche e dinamiche del sistema toraco-polmonare consente la comprensione del
perché e di come avviene la ventilazione polmonare, che potrà risultare compromessa in presenza, ad esempio,
di alterazioni a livello delle componenti elastiche.
Queste alterazioni potrebbero rendere il sistema meno compliante e più resistente al movimento (si pensi
all’aumento di resistenza al flusso legato all’asma). Tutto questo ci permette di capire come questa relazione
si modifica in condizioni patologiche.
Per andare a studiare la relazione tra variazioni di pressione, determinate dalla contrazione dei muscoli
inspiratori, e corrispondenti variazioni di volume polmonare, dobbiamo introdurre la terminologia legata ai
volumi polmonari.

Introduzione: volumi e capacità polmonari; pressioni

Volumi polmonari

327
 Volume corrente (VC): volume di aria che è introdotto nel sistema ad ogni atto inspiratorio, in
caso di respirazione a riposo. Ha un volume che normalmente (in un individuo maschio adulto) si
aggira intorno ai 500 mL in caso di respirazione normale, eupnoica.
 Volume di riserva inspiratoria (VRI): volume di aria che è possibile ulteriormente introdurre nel
sistema, dopo aver già introdotto il VC, attraverso un’inspirazione forzata, corrisponde ad un
volume di circa 3.0 L. In alcune circostanze si ha necessità di aumentare la respirazione e lo scambio
di gas e di sfruttare il volume di riserva inspiratoria. Ad esempio, in caso di esercizio fisico intenso,
vi è il bisogno di incrementare di anche di 20 volte il consumo di ossigeno ed è quindi necessario un
aumento notevole della ventilazione polmonare.
 Volume di riserva espiratoria (VRE): tutto il volume di aria che può essere espulso dopo una
espirazione forzata (escludendo quello espulso passivamente in respirazione normale, che equivale
al VC). Ha un valore di circa 1.2 L.
Tutta l’aria che può essere mobilizzata (VC, VRI e VRE) ha un volume complessivo di quasi 5 L.
 Volume residuo (VR): quantità di aria che rimane nei polmoni dopo un’espirazione forzata. Ha un
valore di 1.2 L.
VC, VRI e VRE sono chiamati volumi mobilizzabili e sono misurabili tramite spirometria. VR, invece, non
è un volume mobilizzabile poiché rimane dopo l’atto espiratorio forzato e per valutarlo è necessario utilizzare
dei metodi differenti, come la diluizione dell’elio e il lavaggio dell’azoto.
Questi sono valori relativi ad un uomo adulto di 70 kg, mediamente nelle donne tutti i volumi respiratori
sono inferiori di circa il 20%, bisogna quindi tenere a mente che si sta parlando di valori medi, la realtà risulta
essere molto diversa. Sicuramente vi è una differenza di genere importante, ma vi è un’ulteriore modificazione
dei valori dovuta all’età. Infatti, sia VRI e VRE calano con l’età, mentre VR aumenta.

Capacità polmonari
Sono la somma di due o più volumi polmonari.
 Capacità funzionale residua (CFR), corrisponde a VR + VRE. Il volume corrispondente alla
capacità funzionale residua (CFR) corrisponde al volume del sistema a riposo. Espirando
normalmente, il volume di aria che si trova ancora nei polmoni, dopo l’espirazione, è quello
corrispondente alla CFR, poiché si ha ancora il VRE (in quanto non abbiamo effettuato
un’espirazione forzata) e il VR. Si è quindi in una posizione di equilibrio del sistema toraco-
polmonare. Questo è cioè il volume in cui l’organismo è in equilibrio, perché non si spende energia
per mantenerlo: infatti non si osserva la contrazione di alcun muscolo. In questo caso non vi è alcun
gradiente pressorio, per cui la P alveolare è uguale alla P esterna. Il volume corrispondente alla
capacità funzionale residua è quello in cui il sistema toraco-polmonare è nella sua condizione di
equilibrio e da qui, per variare l’equilibrio, bisogna attivare dei muscoli, quindi inspirare contraendo
i muscoli inspiratori oppure eseguire un’espirazione forzata contraendo quelli espiratori.
 Capacità inspiratoria (CI): corrisponde a VC + VRI, indica il volume massimo di aria che si può
introdurre partendo dalla CFR. (Se siamo al termine di una espirazione normale e inspiriamo al
massimo delle nostre forze, quel volume d’aria inspirato è la nostra capacità inspiratoria).
 Capacità vitale (CV): corrisponde a VC + VRI + VRE, rappresenta il volume di aria
mobilizzabile, ciò che si può mobilizzare massimamente.
 Capacità polmonare totale (CPT), corrisponde a VR + VRE + VC + VRI, ovvero a tutta l’aria
presente all’interno del polmone al termine di una inspirazione forzata, cioè la quantità massima
di aria che può essere presente all’interno del sistema toraco-polmonare, compresa la quota di VR,
che non è possibile espellere neanche contraendo al massimo i muscoli espiratori.

Esame spirometrico
Grafico: sull’asse x il tempo (in s), sull’asse y il volume (in L).
Si hanno inizialmente tre ondulazioni, variazioni di volume nel tempo, che si hanno per un’inspirazione ed
espirazione eupnoica. Ogni atto respiratorio mobilizza circa 500 mL di aria. Dopo i primi tre atti inspiratori
normali, si ha un’inspirazione forzata, quindi dopo aver inspirato il volume corrente (nel grafico chiamato V T)
l’inspirazione continua e si inspira il volume di riserva inspiratoria (nel grafico IRV). A questo punto il
soggetto espira più che può, quindi espira un volume uguale alla capacità vitale (VC nel grafico). Si è giunti
alla linea tratteggiata inferiore, si è già buttato fuori tutto ciò che era possibile espirare e rimane una quota di

328
volume di aria nel polmone, circa uguale a 1.200 mL, corrispondente al volume residuo (qui detto RV). La
respirazione poi riprende normalmente.

Componenti elastiche del sistema toraco-polmonare


Il sistema toraco-polmonare è composto da due componenti elastiche accoppiate:
1. i polmoni: sono come un palloncino che tende a collassare. Questo significa che normalmente è più
stirato di quanto sarebbe se lasciato a se stesso;
2. la gabbia toracica: struttura che normalmente è compressa e se fosse libera di farlo, tenderebbe ad
espandersi.
Sono entrambi elementi elastici, vincolati tra loro dalla presenza
dello spazio pleurico, quindi delle pleure viscerali e parietali
virtualmente adese l’una all’altra. Le due pleure rendono solidali il
polmone e la gabbia toracica, li ancorano uno all’altro, come fanno le
molle verdi nell’immagine. Queste, infatti, ancorano la pleura (linea
verde più interna) alla gabbia toracica (linea verde più esterna). In
questo modo tengono stirato il polmone. Questo fa sì che il polmone
abbia un volume più grande di quello che avrebbe se non fosse
vincolato alla gabbia toracica, mentre nella gabbia toracica avviene il
contrario, ovvero il suo vincolamento al polmone la rende costretta e
meno libera, quindi più compressa con un volume più piccolo rispetto
a quello che avrebbe se non fosse ancorata al polmone.
Il polmone quindi è disteso a causa del suo vincolamento alla gabbia toracica, quest’ultima invece è
compressa ed ha un volume ridotto a causa della sua adesione al polmone. Nessuna delle due strutture è in
equilibrio, ma lo è il sistema toraco-polmonare nel suo insieme.
Le proprietà elastiche del sistema toraco-polmonare sono influenzate dai gradienti di pressione attraverso le
pareti che compongono questa struttura:
 Pressione barometrica (Pb): è la pressione atmosferica, ha un valore che si aggira intorno ai 760
mmHg. Questa viene presa come riferimento, quindi quando si parla di P alveolare o P pleurica è
possibile identificare il loro valore in riferimento alla P atmosferica. Quindi, quando si afferma che la
PA = 0, si vuole indicare che questa ha lo stesso valore della Pb (o P atmosferica).
 Pressione alveolare (PA): è la pressione a livello degli alveoli. Se al termine di un’espirazione normale
si rimane con la bocca aperta, si avrà che PA = Pb, poiché non ci sono muscoli che si stanno contraendo,
forze o pressioni che stanno variando la pressione del sistema (la prof. fa solo l’esempio della bocca
aperta, ma anche chiudendo la bocca non cambia niente, semplicemente non c’è più comunicazione
tra esterno ed interno; vedi domanda dopo).
 Pressione pleurica (Ppl) o intrapleurica, è la pressione presente nello spazio pleurico, tra la pleura
viscerale e quella parietale. Questo è uno spazio virtuale, dove non c’è aria, ma un velo di liquido che
facilita lo scorrimento del polmone sulla superficie interna della gabbia toracica. Il valore di questa
pressione è un valore negativo, sub-atmostferico (più basso di quella della Pb). La prof. a questo
punto ha spiegato la pressione intrapleurica, che io ho riportato nella tesina d’appartenenza (Meccanica
polmonare dinamica, punto 3).

329
Possiamo misurare queste pressioni: Pb si misura con un barometro, PA può essere misurata facendo rilassare
i muscoli respiratori dell’individuo e addestrandolo a tenere la glottide aperta e collegandola ad uno spirometro.
Per la misurazione della pressione pleurica, vedi punto 3 della tesina sulle proprietà dinamiche.

Domanda di uno studente. C’è differenza tra glottide aperta o chiusa? Sì, a glottide chiusa non c’è più comunicazione
tra l’ambiente esterno e la cavità alveolare quindi non si può misurare con uno spirometro esterno la PA, è una differenza
puramente pratica per cui non può essere eseguita la misurazione.

14.1. Meccanica polmonare statica: curve pressione-volume del polmone, del torace e
del sistema torace-polmone; complianza; legge di Laplace
applicata al polmone; contributo della tensione superficiale
alla elasticità polmonare; fattore surfattante e suo significato fisiologico

Curve pressione-volume
Attraverso la contrazione dei muscoli respiratori si determina una variazione delle dimensioni della gabbia
toracica. Possiamo quindi valutare l’effetto della contrazione muscolare studiando la variazione tra la forza di
contrazione del muscolo e la variazione di lunghezza, oppure essendo questo un organo cavo, possiamo
studiare anche la relazione tra la pressione generata dalla contrazione dei muscoli respiratori e la variazione
di volume prodotta.
Costruire queste curve pressione-volume ci consente di studiare le proprietà elastiche delle strutture toraco-
polmonari. Per fare questo, bisogna valutare le pressioni transmurali, ovvero quelle presenti ai due lati della
parete del viscere, date dalla differenza di pressione tra l’interno e l’esterno della struttura. Sono queste, infatti,
le pressioni che fanno variare il volume della struttura: facendo variare la pressione transmurale si valuta di
quanto varia il volume.
Questo si può fare con: il polmone isolato (e in questo modo si studiano le proprietà elastiche del polmone),
oppure con la gabbia toracica isolata (studiando le sue proprietà elastiche), oppure con il sistema toraco-
polmonare isolato (studiando le proprietà elastiche del sistema toraco-polmonare nel suo insieme).
Questo grafico mostra come varia il volume di due strutture, una rossa
e una verde, al variare della P transmurale. Più aumenta la pressione
transmurale, più aumenta il volume. Il grafico dimostra che un
aumento del volume, determinato dall’aumento della P transmurale,
non è lo stesso per tutte le strutture. In questo caso, il palloncino
verde è meno distensibile di quello rosso (è più resistente alla
distensione di quanto non sia quello rosso): per gonfiare il palloncino
rosso sono sufficienti pressioni più basse rispetto a quelle necessarie a
gonfiare il palloncino verde. In altre parole, a parità di P transmurale
applicata, nel palloncino verde c’è un aumento di volume molto più
piccolo rispetto all’aumento di volume che si ha nel palloncino rosso.
Per questo studiare le relazioni tra P transmurale applicata e variazione
del V ottenuto, ci permette di avere informazioni circa le proprietà
elastiche della struttura che stiamo esaminando. (N.B. Nel grafico sono
rappresentate delle rette, ma ciò è una semplificazione).

Pressioni transmurali nell’apparato respiratorio


Pressione transmurale: differenza di pressione in un organo cavo tra pressione interna e pressione esterna.
Più l’organo è distensibile, più l’aumento di volume che si ottiene con l’applicazione di una pressione
transmurale sarà elevato. La stessa pressione transmurale determina un aumento di volume maggiore in un
organo distensibile (rappresentato nell’esempio precedente dal palloncino rosso) rispetto a un organo meno
distensibile (palloncino verde). Quindi la stessa P fa aumentare di più il volume del palloncino rosso rispetto
a quello verde.
Applicando questi concetti al sistema toraco-polmonare, si valutano le proprietà elastiche del polmone, della
gabbia toracica e del sistema toraco-polmonare nel suo insieme.

330
 P transpolmonare (Palveolare – Pintrapleurica) per valutare le proprietà elastiche del polmone.
 P transtoracica (Pintrapleurica – Pbarometrica) per valutare le proprietà elastiche della gabbia toracica.
 P transmurale (Palveolare – Pbarometrica) per valutare le proprietà elastiche del sistema toracopolmonare.
In questo caso polmone e gabbia toracica vengono considerati come una struttura unitaria.
Il termine pressione transmurale può essere usato per tutte e tre le pressioni sopra descritte. Per distinguerle
vengono chiamate:
 P transpolmonare la P attraverso la parete polmonare.
 P transtoracica la P attraverso la parete toracica.
 P toracopolmonare/P transmurale la P attraverso il sistema toracopolmonare.
Per caratterizzare le proprietà elastiche del polmone, si misura il variare del volume polmonare al variare
della P transpolmonare.
Per caratterizzare le proprietà elastiche della gabbia toracica, si misura il variare del volume della gabbia
toracica al variare della P transtoracica.
Per caratterizzare le proprietà elastiche del sistema toracopolmonare, si misura il variare del volume
toracopolmonare al variare della P transmurale.
Da ciò derivano le curve pressione volume sottostanti.
Curve pressione-volume
Sull’asse x troviamo le pressioni transmurali utilizzate per variare il volume tra le strutture.
Sull’asse y troviamo la variazione di volume ottenuta applicando le diverse pressioni transmurali. Il volume
è espresso in percentuale rispetto alla capacità vitale (CV), che è pari alla somma di volume di riserva
espiratoria (VRE), volume di riserva inspiratoria (VRI) e volume corrente (VC), ovvero la porzione
mobilizzabile dell’aria introdotta. Volume = 0% corrisponde al volume residuo (VR) in vivo. Volume = 100%
corrisponde alla capacità polmonare totale (CPT) in vivo.
Le tre curve vengono descritte in dettaglio successivamente. Le sagome rappresentano la gabbia toracica e il
polmone in giallo, la striscia bianca rappresenta le dimensioni massime del sistema toracopolmonare, cioè
quanto è diminuito il volume del sistema toracopolmonare rispetto al suo valore massimo, visibile nella sagoma
4. In ogni sagoma le frecce rappresentano le forze elastiche che agiscono sul polmone (in rosso), sulla gabbia
(in blu). Quando la freccia è rivolta verso l’interno, significa che si sviluppano forze elastiche che determinano
una retrazione del polmone, cioè riduzione del volume del polmone (freccia rossa), o che spingano la gabbia
toracica a ridurre volume (freccia blu). Se la freccia è rivolta verso l’esterno, significa che le forze elastiche
sviluppate portano la struttura ad espandersi, ovvero all’aumento di volume.
Quando P = 0 il sistema è in equilibrio, non vengono applicate forze, il volume corrispondente è quello di
riposo.

331
 Curva di rilasciamento polmonare o curva P-V del polmone (più facile da ottenere in un setting
sperimentale; in vivo si utilizza lo spirometro ma è più complicato perché risulta innaturale rilasciare
i muscoli respiratori se non dopo un lungo addestramento del soggetto).
Applicando una P crescente, si ottiene un aumento di volume crescente. La curva sale rapidamente per
Ptranspolmonare bassa, poi si appiattisce per valori di P transpolmonare più alti. In altri termini, inizialmente per
“gonfiare” il polmone è sufficiente una Ptranspolmonare bassa, poi per gonfiarlo ulteriormente bisogna
applicare una Ptranspolmonare via via maggiore. In altri termini: la distensibilità dei polmoni è massima
a bassi volumi, quando il polmone è sgonfio (come un palloncino), mentre diminuisce all’aumentare
dei volumi: quanto più il polmone è gonfio cioè verso il suo limite massimo, tanto più è difficile
gonfiarlo perché gli elementi elastici che compongono la sua parete sono stirati.
Anche per volume corrispondente allo 0% della capacità vitale, corrispondente al VR in vivo, il
polmone non è ancora in equilibrio: serve applicare una pressione transpolmonare, altrimenti il
polmone si contrae (sagoma 1). Sono infatti ancora presenti delle forze elastiche (piccole frecce verso
l’interno) che continuano a far retrarre il parenchima polmonare. Quindi al volume corrispondente al
VR il polmone è comunque più stirato di quanto sarebbe se lasciato a se stesso: nello pneumotorace
infatti il polmone, non più ancorato alla gabbia toracica, assume un volume inferiore rispetto al VR.
Quindi il VR, che è il minimo volume misurabile in vivo per il volume polmonare, è superiore al
volume di equilibrio del polmone.
 Curva di rilasciamento della parete toracica o curva P-V del torace.
Anche questa curva non ha una pendenza costante. La gabbia toracica è infatti meno distensibile a
bassi volumi e più distensibile a volumi più alti (l’opposto della curva P-V del polmone). La curva
aumenta la sua pendenza per volumi più alti. Si nota che la Ptranstoracica è quasi sempre negativa, ciò
significa che la gabbia assume un certo volume, dato dagli elementi elastici che la compongono, che
tendono a farla espandere (frecce verso l’esterno). In altre parole per fare assumere alla gabbia toracica
i valori di volumi ai quali il volume polmonare è uguale al VR, occorre applicare una Ptranstoracica
negativa, cioè comprimere la gabbia toracica. Si paragona la gabbia toracica a un recipiente elastico
che se non fosse trattenuto dalla forza di retrazione del polmone, tenderebbe a espandersi. La gabbia
toracica ha un punto di equilibrio, che corrisponde al punto in cui la linea blu incrocia il valore di

332
Ptranstoracica= 0 e un valore di volume = 50-60% della CV, valore ben al di sopra del volume polmonare
alla fine di una normale inspirazione (quando si è introdotto nel sistema un volume corrispondente al
volume corrente).
 Curva di rilasciamento toracopolmonare o curva P-V del sistema toracopolmonare.
Anche in questo caso non si ha una distensibilità costante ma varia ai diversi volumi. In questo caso
la massima pendenza della curva si ha per volumi centrali (volumi fisiologicamente presenti): la
distensibilità cala per valori di volumi troppo alti o troppo bassi.
- Sagoma 1: corrispondente a un volume pari al volume residuo.
Il polmone ha ancora un volume superiore al suo punto di equilibrio, ma abbastanza vicino.
Invece il volume della gabbia toracica è lontano dal suo valore di equilibrio; per ottenere
questo valore è necessario applicare una P transtoracica negativa piuttosto elevata. Il sistema deve
compiere lavoro, tramite contrazione dei muscoli respiratori che producono una P transtoracica
negativa, contrastando le forze elastiche della gabbia toracica (che tendono ad espanderla). Le
forze elastiche del polmone contrastano in parte quelle della gabbia toracica, ma non sono
sufficienti. Quindi per raggiungere il valore di volume residuo nella gabbia toracica è
necessaria la contrazione dei muscoli respiratori. Il valore del VR dipende dal contrasto tra la
forza sviluppata dai muscoli respiratori e la tendenza elastica della gabbia toracica ad
espandersi. Se la forza muscolare diminuisce, il valore del VR aumenta. Con
l’invecchiamento, la potenza muscolare diminuisce, compresa quella dei muscoli respiratori:
in un soggetto anziano ci sarà maggiore difficoltà a mantenere un VRE, il quale diminuisce,
con un aumento invece di VR.
- Sagoma 2: la linea di rilasciamento del sistema toracopolmonare incrocia il valore di P
transmurale = 0. Quando il volume vale tra il 30 e il 40% della capacità vitale, il sistema
toracopolmonare è in equilibrio. Non occorre applicare nessuna P transmurale per mantenere il
sistema a questo volume. Questo è il volume di riposo del sistema toracopolmonare, che
corrisponde alla capacità funzionale residua. Né il polmone né la gabbia toracica sono in
realtà in equilibrio: a questo valore, si vede dalla figura una freccia rossa verso l’interno che
indica che ci sono forze di retrazione elastiche che tendono a far diminuire il V polmonare, e
una freccia blu verso l’esterno, che significa che ci sono delle forze elastiche che agiscono
sulla gabbia toracica che tendono a farla espandere. A questo volume, che corrisponde a quello
della CFR, il polmone è più disteso di quanto sarebbe se lasciato a se stesso, e tende a retrarsi,
sviluppando forze di retrazione elastica; la gabbia toracica è più ridotta di quanto sarebbe se
fosse lasciata a se stessa, e sviluppa forze elastiche che tendono ad espanderla. Dato che le
due strutture sono agganciate tra loro, le due forze si equivalgono come intensità, e il sistema
è in equilibrio. Il sistema è in equilibrio sempre quando le forze di retrazione elastiche
polmonari sono uguali e contrarie alle forze di contrazione elastiche della gabbia toracica.
Questo è il valore di CFR, che corrisponde al volume di aria che rimane all’interno
dell’apparato respiratorio al termine di una espirazione eupnoica. Espulso il volume corrente
si raggiunge il valore di CFR che è il punto di equilibrio del sistema toracopolmonare.
- Sagoma 3: la linea corrispondente al sistema toracico incrocia il punto 0, quindi la gabbia
toracica è in equilibrio, la linea verde si sovrappone a quella rossa. Le uniche forze che
agiscono sul sistema toracopolmonare a questo valore di volume sono le forze di retrazione
elastiche polmonari. La gabbia toracica è in equilibrio, mentre il polmone vorrebbe retrarsi,
per mantenere questo valore è necessario applicare al sistema una P transpolmonare positiva che
contrasti la tendenza di retrazione elastica del polmone. Si aumenti ancora il volume, fino a
raggiungere il volume corrispondente alla capacità polmonare totale, applicando una P
transpolmonare positiva piuttosto elevata, perché più si aumenta il V al di sopra della capacità
polmonare residua, più si sviluppano forze contrarie che contrastano questo aumento di
volume, e quindi alle forze di retrazione elastiche polmonari si andranno a sommare anche le
forze di retrazione elastiche della gabbia toracica, perché dal punto 3 in su la gabbia toracica
ha un V superiore a quello del suo punto di equilibrio. Anche in questo caso si sviluppano
delle forze elastiche che tendono a ridurre il V della gabbia toracica.
Come raggiungere il V corrispondente alla capacità polmonare totale? Ex vivo applicando una P transpolmonare.
In vivo si attivano i muscoli inspiratori. Più questi sono forti, più si contrastano forze elastiche contrarie che
tendono a diminuire il V del sistema, ovvero si riescono a raggiungere CPT più alte rispetto a un soggetto nel

333
quale i muscoli inspiratori sono meno forti o indeboliti per condizioni patologiche. Quindi raggiungere i due
estremi della capacità respiratoria e il VR come valore minimo, la CPT come valore massimo, dipende dalla
funzionalità dei muscoli scheletrici: più sono forti i muscoli espiratori e più aria si riesce a espellere, e quindi
più basso sarà il volume residuo; più forti sono i muscoli inspiratori e più aria si riesce a inspirare e quindi
aumenta CPT.
Allontanandosi dal punto di equilibrio, che è quello in cui la linea verde incrocia il valore di P transmurale = 0
(che corrisponde al valore della CFR), bisogna applicare un lavoro, una forza, sia per aumentare sia per
diminuire il volume funzionale residuo. Quindi per spostare il sistema dal punto di equilibrio bisogna compiere
lavoro, attivando i muscoli espiratori (diminuzione V toracopolmonare) o inspiratori (aumento V). Attivando
i muscoli inspiratori, quindi spostando il sistema verso l’alto, a quel punto il ritorno verso il valore della CFR
avviene passivamente sfruttando la forza di retrazione elastica polmonare (frecce rosse). Lo stesso avviene
quando si attivano i muscoli espiratori, spostando il sistema verso sinistra e verso il basso, il ritorno alla CFR
passivamente sfrutta le forze elastiche accumulate nella gabbia toracica, che essendo molto lontana dal punto
di equilibrio sviluppa in figura una freccia blu verso l’esterno molto grande per tornare al punto di equilibrio.
CFR = punto di equilibrio. Tutte le volte che ci si allontana della CFR, bisogna compiere un lavoro
(processo attivo), attivando i muscoli respiratori; per ritornare al V iniziale (CFR) si sfruttano le forze
elastiche (processo passivo) accumulate grazie alla precedente azione muscolare.

Sia polmone che gabbia toracica sviluppano forze


elastiche, utili per governare le variazioni di volumi che si
hanno durante gli atti respiratori, ma hanno una struttura
elastica diversa: se fossero liberi e indipendenti l’uno
dall’altro, il polmone avrebbe un volume molto piccolo,
perché contiene molti elementi elastici che tendono a
ridurre il suo volume, mentre la gabbia sarebbe più espansa
avendo una struttura più rigida del polmone. In realtà la
presenza dello spazio intrapleurico vincola il polmone e la
gabbia toracica, che sono legati come due molle (tubo
accanto alla fig.1 e fig.3) che rappresentano le proprietà
elastiche della gabbia toracica (C) e del polmone (L). La
presenza della pleura lega le due molle, stira verso il basso
la molla “gabbia toracica” (l’entità con cui è stirata è
rappresentata dalla freccia rivolta verso il basso nel tubo in
basso a destra) facendo aumentare molto il volume del
polmone, quindi stira molto la molla che rappresenta l’elasticità polmonare e le due restano agganciate tra loro.
La variazione di volume del polmone è superiore a quella della gabbia toracica perché la gabbia toracica è più
rigida, quindi il polmone si deforma più facilmente. La CFR è il volume del sistema toraco-polmonare al
quale la forza di retrazione elastica del polmone è uguale e opposta a quella della gabbia toracica.

Complianza
Nel polmone la distensibilità è maggiore a bassi volumi, fino a
esaurirsi a volumi più alti, nella gabbia toracica è il contrario;
per il sistema toracopolmonare nel suo complesso la
distensibilità è massima per valori intermedi, che sono
corrispondenti ai normali valori di V presenti nella respirazione
fisiologica.
Questa distensibilità viene definita come complianza, cioè la
variazione di volume che può essere ottenuta applicando una
Ptransmurale.

∆𝑉
Complianza =
∆𝑃
La complianza è la misura delle proprietà elastiche del
polmone, struttura molto distensibile, infatti bastano piccole
variazioni di P transmurale per determinare variazioni importanti di V. La misura della complianza riflette le

334
caratteristiche degli alveoli polmonari rispetto alle vie respiratorie (anche queste hanno una certa elasticità ma
minore rispetto a quella polmonare, quindi si considera quest’ultima). Il reciproco della complianza è
l’elastanza, che misura il ritorno elastico, la capacità di ritornare alle condizioni iniziali.

La complianza polmonare non è la stessa per tutti i volumi: è maggiore per i bassi volumi e diminuisce
quando il V polmonare aumenta, ovvero quando si è già stirato il parenchima e quindi ci si avvicina ai limiti
dell’elasticità del parenchima polmonare. A valori fisiologici il polmone è molto distensibile, è sufficiente la
pressione pari a 1cm di acqua per produrre un aumento del V polmonare di 200 mL. La complianza normale è
piuttosto elevata.

CP = 0.2 L/cm H2 O nel soggetto normale

Bisogna però ricordare che il suo valore dipende dal valore iniziale del V del parenchima polmonare. Se si
applica la stessa P al polmone di un topo, e di un uomo, il polmone dell’uomo aumenterà il suo volume molto
di più del polmone del topo.
Per normalizzare quindi il valore della complianza al V di partenza, si calcola la complianza specifica, che
è la complianza corretta per il V polmonare.
Applicando la stessa P a due polmoni, a un polmone, o a un lobo si ottiene un incremento diverso, maggiore
se il V iniziale è più grande. Se si applica una P di 5 cm di acqua a un sistema polmonare integro di un adulto,
si ottiene un aumento volume di 1L (per la relazione 1cm H2O = 0.2 L). Se si ha un solo polmone, applicando
la stessa P di 5 cm, il V aumenta di 0.5 L (e dal rapporto si ottiene una complianza che vale la metà). E così
ancora se si riduce ulteriormente il V iniziale, si ottiene una complianza ancora più bassa.

Per ovviare a questo problema si normalizza il valore di complianza esprimendolo rispetto al V polmonare
così da poter confrontare la complianza di polmoni di volume diverso. Il valore della complianza viene
espresso relativamente al valore della CFR.
La complianza aumenta con l’età e in situazioni patologiche (edema polmonare). Tutta la meccanica statica
e i punti di equilibrio del sistema toracopolmonare dipendono anche dalle forze elastiche sviluppate dal
polmone, quindi se l’elasticità/distensibilità del polmone cambia, cambia anche la curva P-V del polmone, i
punti di equilibrio e la capacità funzionale residua e la capacità polmonare totale.

Curve pressione-volume in presenza di patologie ostruttive e restrittive

Questo grafico è simile al precedente, ci sono tre linee continue, la linea blu del torace, la verde del sistema
toracopolmonare, la rossa del sistema polmonare: esse sono misurate in un individuo normale e
sovrapponibili al grafico precedente (nonostante questo grafico sia leggermente dilatato).

335
Il valore di CFR è il pallino bianco al centro corrispondente a P = 0, dove la linea verde continua incrocia
il valore di P transmurale = 0. In questo punto le forze di retrazione elastiche polmonari (che tendono a far ridurre
il V polmonare) sono esattamente contrastate dalle forze elastiche toraciche che invece tendono a fare
espandere il torace. La linea blu e la linea rossa sono infatti equidistanti dal pallino bianco in mezzo alla
linea verde continua che rappresenta il valore corrispondente alla CFR di un individuo normale.
 Enfisema: malattia ostruttiva che determina una progressiva distruzione del parenchima alveolare,
che è quello maggiormente coinvolto dello sviluppo di forza elastica polmonare. Le fibre elastiche
vengono di conseguenza perse, e così diminuisce la forza di retrazione elastica del polmone, mentre
la complianza aumenta. La curva rossa tratteggiata risulta modificata ed è più spostata verso sinistra.
Il valore di CFR (pallino bianco) per P = 0 si trova più in alto rispetto alla condizione normale. Il
volume è quindi ben al di sopra del volume iniziale, perché le forze di retrazione elastiche sono
diminuite, e trovano un punto di equilibrio con le forze toraciche ad un CFR più elevato del soggetto
normale. Anche la capacità polmonare totale è aumentata (pallino all’incrocio tra linea tratteggiata
verde e tratteggiata rossa dell’enfisema), infatti la linea tratteggiata verde finisce in un punto più
alto del grafico rispetto alla linea verde continua che corrisponde al paziente normale. La CPT
aumenta perché la retrazione elastica del polmone è diminuita e quindi i muscoli inspiratori devono
fare meno lavoro per contrastare questa forza, quindi riescono a introdurre un V di aria maggiore.
In realtà nonostante l’aumento della CFR e della CPT, quest’ultima non compensa la perdita di
volume legata all’aumento della CFR, ne consegue che il VRI risulta diminuito.
 Fibrosi: malattia restrittiva nella quale il parenchima si irrigidisce molto, ciò porta a una riduzione
di complianza. La linea P-V è quella rossa tratteggiata più a destra. Per ottenere aumenti di V rispetto
al paziente enfisematoso e al paziente normale, bisogna applicare Ptranspolmonari più alte (linea più
piatta), di conseguenza il punto di equilibrio si sposta verso il basso, raggiunto per V più bassi,
quindi la CFR è ridotta e così pure la CPT. Il punto massimo è più basso anche del soggetto normale
(riduzione dunque anche di CPT).
In generale, alterazioni delle proprietà elastiche del sistema ne modificano i punti di equilibrio.

Contributo della tensione superficiale alla elasticità polmonare – legge di Laplace applicata al
polmone
L’elasticità polmonare non è determinata solo da elementi elastici insiti nel parenchima polmonare, ma c’è
un importante contributo della tensione superficiale, ovvero la forza che si sviluppa sulla superficie interna
degli alveoli dove si presenta un velo di liquido a contatto con l’aria. Questa forza è provocata dalle molecole
di acqua all’interfaccia aria-liquido e tende a ridurre al minimo la superficie, rendendo difficile la distensione
del polmone.
Questo fenomeno fu scoperto da fisiologi respiratori quando fecero prove e descrissero curve pressione-
volume studiando i polmoni di ratto, polmoni espiantati che potevano essere riempiti di aria o immersi in
soluzione fisiologica. I risultati ottenuti furono molto diversi: la curva pressione-volume ottenuta insufflando
aria è spostata in modo significativo a destra rispetto a quella ottenuta insufflando soluzione fisiologica.
Il grafico presenta sull’asse delle ascisse la pressione
con cui sono stati gonfiati i polmoni di ratto, sull’asse
delle ordinate i volumi ottenuti.
La curva più a sinistra (rossa) indica l’andamento della
curva pressione-volume quando si insuffla la soluzione
fisiologica: si ha aumento di volume all’aumentare della
pressione.
La curva blu invece indica l’andamento pressione-
volume dello stesso polmone in cui la misura è stata fatta
quando il polmone era gonfiato con aria. In questo caso
la curva si trova significativamente spostata a destra:
occorrono pressioni significativamente più alte per
raggiungere gli stessi volumi, rispetto a quando il
polmone era riempito di soluzione fisiologica. Essendo la differenza tra i due grafici dipendente dalla presenza
di aria o di acqua nel polmone, necessariamente la pressione più alta quando il polmone è riempito con aria
rispetto all’acqua deve essere legata alla presenza di una tensione superficiale all’interfaccia aria-liquido.
Un’altra caratteristica emersa da questi studi è che per gonfiare un polmone, ovvero nel fenomeno
dell’insufflazione, per il mantenimento di un certo volume, è necessaria una pressione maggiore rispetto a

336
quella utile a mantenere lo stesso volume durante lo sgonfiamento o desufflazione. Si nota infatti che la curva
riferita all’insufflazione è spostata verso destra rispetto a quella riferita allo sgonfiamento. Tale fenomeno è
chiamato isteresi.
Un’altra cosa che possiamo notare nel grafico è che anche a pressione nulla (Ptransmurale = 0) il volume
polmonare non è uguale a zero, ma rimane a un valore di circa 30 ml (per il ratto).

Domanda di uno studente. Nello pneumotorace il polmone si ritrae a causa di una maggiore tensione superficiale (perché
è venuto a contatto con aria) o semplicemente per l’entrata di liquidi nella cavità pleurica? Nello pneumotorace il polmone
si ritrae perché ha forze di retrazione elastica che tendono a ristabilire un volume minore tipico del suo punto di equilibrio
rispetto a quello più grande che si presenta normalmente. Le forze di retrazione elastica sono generate in parte dalle fibre
elastiche, collagene e in parte dovute all’interfaccia liquido-aria sulla superficie alveolare e quindi alla presenza di
tensione superficiale. Quindi in pneumotorace il polmone non è più ancorato alla gabbia toracica e dunque le forze di
retrazione elastica ne fanno ridurre il volume. In genere durante uno pneumotorace non si ha ingresso di liquidi in cavità
pleurica bensì di aria che può entrare o dall’esterno se è presente una lesione costale o anche dall’interno del polmone se
si ha la rottura di pareti alveolari molto vicine alla pleura viscerale.

La presenza di una superficie bagnata sulla superficie interna negli alveoli crea delle forze di tensione
superficiale che fanno sì la che curva pressione-volume ottenuta in aria sia spostata a destra rispetto a quella
ottenuta con soluzione salina. Le forze superficiali che si creano sono forze che agiscono su unità di lunghezza,
legate alla presenza di forze di adesione tra le molecole di acqua, attratte tra loro. Le molecole di acqua esposte
sulla superficie sono attratte dalle molecole di acqua sottostanti ma non dalle molecole di aria, perciò tendono
a sprofondare verso il basso allontanandosi da quelle di aria. Questa adesione tra le molecole di acqua
determina la presenza di quella che viene chiamata la tensione superficiale. Si può misurare la tensione
superficiale con un apparecchio illustrato a destra nella figura: si utilizza una bacinella piena di acqua e a un
margine si pone una lamina metallica immersa nell’acqua che può essere spostata in una direzione o nell’altra.
Si possono eseguire misurazioni della forza necessaria per spostare la lamina e quindi per espandere la
superficie di acqua a contatto con l’aria soprastante, vincendo la tensione superficiale.

Le forze di tensione superficiale normalmente fanno sì che le molecole di acqua si dispongano in modo da
minimizzare il contatto con aria. Un esempio sono le gocce d’acqua che si formano quando piove, la cui forma
sferica ha un rapporto favorevole tra superficie e volume: garantisce la superficie più piccola per un dato
volume, al fine di mantenere contatto aria-liquido più basso possibile. Stessa condizione si ha anche a livello
degli alveoli polmonari.
Gli alveoli polmonari hanno una forma poliedrica, considerata per comodità sferica. In una sfera la relazione
tra tensione della parete e la pressione all’interno della sfera sono state descritte dalla legge di Laplace. Tale
legge ci dice che la pressione P che si sviluppa sulla parete di questa sfera è direttamente proporzionale alla
tensione T, che agisce all’interno dell’alveolo e comprime il gas contenuto nell’alveolo stesso, e inversamente
proporzionale al raggio r. Se T aumenta, le forze tenderanno a far incurvare di più la superficie della sfera nel
tentativo di ridurre la superficie stessa e quindi r risulterà più piccolo.

2𝑇
𝑃s =
𝑟
4𝑇
N.B. Nella formulazione originale, 𝑃S = 𝑟 perché si considerava una sfera cava circondata dall’aria; in
questo caso invece solo una delle due superfici è a contatto con aria e la formula diviene P = 2T/r . La tensione
superficiale si misura in dine/cm.

337
La legge di Laplace afferma che se la T non varia e rimane costante in tutti gli alveoli, la pressione necessaria
per mantenere distesi gli alveoli è grande negli alveoli più piccoli e minore negli alveoli di grandi dimensioni.
Questo sistema è stabile se i due alveoli non comunicano tra loro; se invece comunicano, l’alveolo che ha
maggior pressione (piccolo) svuota il proprio contenuto negli alveoli più grandi, dove la pressione è più
piccola, favorendo un’instabilità del sistema, rendendo più facile il collasso alveolare.
Si creano dunque numerosi problemi per la presenza dell’interfaccia liquido-aria:
 aumenta l’elasticità polmonare e quindi si necessita di un lavoro inspiratorio maggiore per stirare i
polmoni;
 il sistema diventa instabile perché favorisce il collasso di alveoli minori e dilatazione di quelli più
ampi;
 la tensione superficiale tende a richiamare liquido dall’interstizio pericapillare all’interno della cavità
alveolare, favorendo la formazione di essudato negli alveoli. Infatti la tensione superficiale tende a
creare una superficie ricurva al fine di minimizzare il contatto tra acqua e liquido; questa forza è anche
attrattiva e va a ridurre la pressione idrostatica fuori dai capillari, in questo modo richiama anche
liquido dal capillare stesso.

Fattore surfattante e suo significato fisiologico


Si può diminuire la tensione superficiale e tutti i problemi ad essa associati producendo il surfattante
alveolare (o tensioattivo polmonare). Il surfattante è una sostanza principalmente di natura lipidica per 85-
90% della sua composizione, presentando prevalentemente dipalmitoilfosfatidilcolina (DPPC), essenziale per
ridurre la tensione superficiale, ma è costituito anche da molecole proteiche tra cui albumina, IgA e
apolipoproteine di tipo SP-A, B, C, D.
Le apolipoproteine sono associate generalmente al DPPC per azione sulla tensione superficiale ma sono
ulteriormente importanti perché:
 SP di tipo A e D hanno ruolo immunitario, facilitando la rimozione di virus e batteri da parte dei
macrofagi;
 SP tipo A agisce nel controllo del rilascio del tensioattivo stesso tramite feedback negativo;
 SP di tipo B e C sono fondamentali da un punto di vista respiratorio perché, in malattie genetiche dove
manca la loro produzione, nonostante la presenza di DPPC, sono associate allo sviluppo di
insufficienza respiratoria o altre patologie respiratorie.
Il tensioattivo è prodotto delle cellule alveolari di tipo II, immagazzinato all’interno dei corpi lamellari e
liberato per esocitosi, per essere distribuito nel velo di liquido che ricopre la superficie interna dell’alveolo. La
liberazione dei corpi lamellari è continua, ma può essere aumentata tramite stimolazione del sistema nervoso
simpatico (cosa ancora non molto chiara), con alcuni farmaci e con lo stiramento meccanico del polmone per
introduzione di grandi volumi di aria (durante il fenomeno dello sbadiglio).
Le molecole di surfattante si inseriscono tra le molecole di acqua all’interfaccia aria-liquido, riducendo le
forze di adesione tra le molecole di acqua, diminuendo i legami e quindi diminuendo le forze di tensione
superficiale (il vettore delle forze di adesione è molto piccolo).

338
L’azione del surfattante è tanto più forte quanto più gli alveoli sono piccoli. La tensione è normalmente più
bassa per volumi polmonari più bassi rispetto a volumi maggiori perché le molecole di DPPC sono più vicine
tra loro e rompono con maggior efficacia i legami e le forze di attrazione tra le molecole di acqua.
Nel fenomeno di isteresi si parla di surfattante in particolare durante insufflazione del polmone: quando il
volume sta aumentando, occorre tempo perché il tensioattivo si disponga efficacemente sulla superficie
alveolare, al fine di poter interagire correttamente con le molecole di acqua. Ciò spiegherebbe perché
inizialmente, nella fase di insufflazione, la pressione necessaria a determinare un aumento di volume sia più
alta rispetto al processo di desufflazione.
Il metabolismo del surfattante è rapido: continuamente sintetizzato e continuamente rimosso dai macrofagi
alveolari e dalle cellule stesse che lo hanno secreto. Questo processo è continuo e richiede dispendio
energetico. Se in una zona del polmone si interrompe la circolazione per ragioni patologiche, ad esempio per
un embolo o un trombo, non arriva sangue con ossigeno e nutrienti e le cellule alveolari di tipo II smettono di
produrre surfattante; ciò può portare a un collasso degli alveoli piccoli con dilatazione eccessiva degli alveoli
grandi e la zona polmonare colpita diventerà difficilmente espansibile perché le forze di tensione superficiale
risulteranno aumentate.
Riassumendo. Il tensioattivo è importante perché:
 diminuisce le forze di retrazione elastica polmonari, quindi aumenta la complianza polmonare,
riducendo il lavoro respiratorio;
 previene il collasso di alveoli piccoli e dilatazione di quelli grandi, stabilizza gli alveoli anche con
dimensioni diverse perché negli alveoli più piccoli la tensione superficiale si riduce di più di quanto
non accada in quelli grandi, mantenendo uguale la pressione tra i due alveoli;
 evita accumulo eccessivo di essudato negli alveoli legato alla tensione superficiale.

Surfattante e malattia da distress respiratorio


La mancanza di surfattante induce
rigidità polmonare, bassa complianza,
atelettasia e collasso degli alveoli
polmonari, in cui troppo liquido passa
dai capillari all’alveolo. Tale
mancanza può manifestarsi nei
neonati prematuri, in quanto la sintesi
del surfattante comincia abbastanza
tardi nella gravidanza, con un sistema
polmonare non completamente
sviluppato. Questi bambini non hanno
abbastanza surfattante e sviluppano la malattia da distress respiratorio (RDS), in cui la tensione
superficiale è circa 10 volte superiore a quella di un soggetto normale e quindi la respirazione non sarà
corretta, portando a conseguenze fatali. Si può intervenire favorendo la sintesi del surfattante per un aumento

339
della somministrazione di glucocorticoidi alla madre (normalmente prodotti dalla madre verso il termine
della gravidanza e correlati alla sintesi del tensioattivo) ove si sospetti parto prematuro.

Domanda di uno studente. Il surfattante non è quindi prodotto dal feto durante la gravidanza? Da cosa è bilanciata la
sua assenza? Durante la gravidanza il feto non produce surfattante e non ne ha bisogno perché non respira, l’ossigeno
durante la gravidanza arriva al feto attraverso la circolazione materna. Il polmone è pieno di liquido amniotico che
viene poi espulso al momento della nascita. Alla nascita deve essere presente il tensioattivo: inizia ad essere prodotto
nelle ultime settimane di gravidanza quando la madre aumenta fisiologicamente la produzione di glucocorticoidi che
attraversano la barriera placentare e favoriscono la sintesi del surfattante a livello polmonare, permettendo così
adeguata respirazione quando gli alveoli verranno a contatto con l’aria al momento del parto.

14.2. Lavoro respiratorio

I muscoli respiratori lavorano per vincere le forze che sono presenti all’interno del sistema toraco-polmonare.
Ci sono due tipi di forze che vanno vinte per determinare variazioni di volume della gabbia toraco-polmonare
e di flusso di aria dentro e fuori i polmoni:
 le forze di retrazione elastica del sistema toraco-polmonare: in particolare le più consistenti sono
quelle relative al polmone, perché il polmone è sempre lontano dal suo punto di equilibrio, a differenza
della gabbia toracica che risulta essere più vicina al suo punto di equilibrio (per cui le forze elastiche
generate dalla gabbia toracica sono minori di quelle generate dal parenchima polmonare);
 le resistenze viscose al flusso di aria e al movimento dei tessuti.
Il lavoro esercitato da questi muscoli respiratori può essere espresso come forza applicata per generare una
variazione di lunghezza o, essendo organi cavi, come pressione applicata per generare una variazione di
volume.

Lavoro = Pressione × Volume

Nell’immagine sottostante sono rappresentate le curve Pressione-Volume del sistema polmonare:


 la curva blu descrive le caratteristiche elastiche del sistema toracico;
 la curva rossa le caratteristiche elastiche del sistema polmonare;
 la curva verde le caratteristiche elastiche del sistema toraco-polmonare.
Con caratteristiche elastiche si intende l’entità della pressione che si deve applicare in condizioni statiche per
generare un aumento di volume.

1. Fase di inspirazione. Partendo dal punto corrispondente alla capacità funzionale residua (CFR) si
inspira, e quindi si porta il volume respiratorio al volume corrispondente alla CFR + VC: ci si sposta
sulla linea verde in alto fino al punto un po' sopra al 50% nel grafico, dove finisce il primo ovale. Si

340
osserva quindi la pressione che bisogna applicare in cmH2O per determinare lo stiramento del polmone
e vincere le forze di resistenza elastica polmonare per portare il sistema toraco-polmonare al volume
più elevato. Questa quota di lavoro indispensabile per vincere le forze elastiche può essere rappresenta
da tutta l'area gialla: moltiplicando la variazione di pressione per la variazione di volume si ottiene
tale area gialla, che corrisponde al lavoro che si è dovuto applicare al sistema per vincere le forze di
retrazione elastica del sistema toraco-polmonare.
Ciò riguarda solo le caratteristiche statiche del sistema toraco-polmonare: in condizioni dinamiche
serve più energia, perché oltre a stirare il sistema toraco-polmonare per fargli aumentare il volume, è
necessario anche generare un gradiente di pressione tra alveolo e ambiente esterno per favorire un
flusso di aria vincendo le forze viscose che si oppongono a questo flusso; per vincere queste forze è
necessario applicare un surplus di pressione, che è rappresentato dalla curva che parte sempre da CFR
e delimita l'area azzurra: quest’ultima rappresenta quindi il surplus di lavoro (pressione x volume)
che deve essere fatto dai muscoli inspiratori per vincere le forze di resistenza viscosa al flusso di aria
e al movimento di tessuti.
Complessivamente il lavoro che viene fatto dai muscoli inspiratori del sistema toraco-polmonare è
dato dalla somma del triangolo giallo (= lavoro svolto per vincere le forze di retrazione elastica) e dalla
semiluna azzurra (= lavoro svolto per vincere le forze viscose che si oppongono al flusso di aria e al
movimento dei tessuti).
2. Fase di espirazione. L’espirazione avviene passivamente: si rilasciano i muscoli respiratori, il
sistema ha accumulato energia elastica, perché è stato stirato, e la sfrutta per riportare il sistema
toraco-polmonare al suo punto di equilibrio (al volume corrispondente alla CFR); le forze elastiche
riportano passivamente il sistema al suo punto di equilibrio durante la fase espiratoria.
Anche durante la fase espiratoria si ha un flusso di aria, e quindi bisogna spendere dell’energia per
vincere la resistenza viscosa al movimento. L'energia accumulata sotto forma di energia elastica è
tuttavia sufficiente a coprire questo surplus di energia che garantisce lo spostamento di aria. Infatti,
l’energia necessaria a far spostare l’aria dall’interno dell’alveolo all’ambiente esterno è rappresentata
dalla semiluna arancione, la quale è interamente compresa all'interno dell'aria gialla, che rappresenta
il lavoro elastico fatto in inspirazione (che è poi uguale all’energia elastica che è rimasta accumulata
nel sistema e che permette il ritorno del sistema al punto di partenza).
Quindi, non solo l’energia elastica accumulata tramite il lavoro dei muscoli inspiratori durante la fase
di inspirazione, e che si libera durante la fase espiratoria tramite il ritorno elastico dei polmoni, basta
a coprire il costo energetico necessario a favorire il flusso di aria attraverso le vie respiratorie e a
vincere le resistenze al flusso di aria nelle vie aeree (infatti l’espirazione in condizioni normali avviene
passivamente), ma addirittura è in eccesso. L’area gialla (che corrisponde come abbiamo detto
all’energia elastica) è infatti molto più ampia dell’area arancione (che corrisponde alla spesa energetica
per vincere le resistenze viscose al flusso in uscita), e la differenza, rappresentata dal triangolo giallo
a sinistra dell’ovale, viene dissipata come calore. L’attività respiratoria fa parte della quota di
termogenesi obbligatoria, legata alle attività di base del nostro organismo e che non è eliminabile,
perché comunque si disperde calore nell'ambiente in maniera inevitabile anche durante una
respirazione tranquilla.

La situazione rappresentata dall’ovale più in alto, metà arancione e metà azzurro con la sua corrispondente
area gialla (la spesa energetica relativa al lavoro necessario per vincere le forze elastiche), indica una
respirazione normale (volume di aria corrispondente al VC) che avviene però a volumi più alti, come se si
iniziasse a respirare non partendo dal valore della CFR ma da un valore più alto. Se si lavora a volumi più alti,
ci sono sia vantaggi che svantaggi:
 Uno svantaggio evidente è quello evidenziato dalla grandezza dell'area gialla, che è molto più ampia:
lavorando a volumi più espansi, il polmone è molto più stirato, quindi per farlo espandere ancora di
più durante l’atto inspiratorio occorre un lavoro molto maggiore e quindi è molto più dispendioso.
 Il vantaggio principale è che, lavorando a volumi più alti, le resistenze delle vie respiratorie
diminuiscono (le mezzelune arancione e azzurra sono infatti più piccole che nell’ovale in basso).
I soggetti che hanno un’ostruzione delle vie bronchiali, con un aumento delle resistenze, traggono vantaggio
da questa modalità respiratoria che costa di più, perché occorre fare più lavoro per vincere le forze di
retroazione elastica, ma l'aria passa meglio, perché i bronchi sono dilatati da un polmone che lavora su volumi
più ampi.

341
Il grafico richiama quanto detto fino ad ora:
 la curva gialla (1-6) esprime la variazione di P intrapleurica,
che accompagna la fase inspiratoria ed espiratoria, per
vincere le forze di retroazione elastica;
 la curva rossa (1’-6) è la linea di effettiva variazione della P
intrapleurica quando c’è anche flusso di aria.
È necessario un surplus di pressione, e quindi di lavoro, per vincere
le resistenze viscose al flusso di aria, che corrisponde alla
discrepanza tra le due curve.

Condizione normale (a). Il


grafico mostra il lavoro
suddiviso in espiratorio,
inspiratorio, elastico e resistivo, per una respirazione normale che avviene
a partire dalla capacità funzionale residua (punto A). Dal punto A si inspira
e si arriva al punto C: per fare questo si svolge un lavoro elastico ACBA
e resistivo AICA; il lavoro complessivo è dato dall’area AICBA. Si ha poi
la fase espiratoria in cui il lavoro è dato dall’area ACEA, che è interamente
compresa nel ritorno elastico del polmone.

Aumentata resistenza delle vie aeree (b). L’area azzurra AICA (che
corrisponde al lavoro specifico per vincere le resistenze viscose delle vie
aeree) è aumentata: si ha difficoltà al flusso perché sono aumentate le
resistenze e quindi per garantire lo stesso flusso è necessario aumentare il
gradiente pressorio e creare una pressione intralveolare più alta, e quindi
utilizzare maggiormente i muscoli respiratori. Si avrà dunque un aumento
del lavoro resistivo in inspirazione, ma anche aumento del lavoro resistivo
in espirazione: in questi soggetti specialmente la parte finale
dell’espirazione è molto difficile, e quindi occorre un massiccio intervento
dei muscoli respiratori. Anche l’atto espiratorio diventa un atto attivo e
durante la ventilazione normale è necessario usare i muscoli espiratori
(cosa che normalmente non avviene). Il lavoro respiratorio diventa molto più dispendioso se le resistenze delle
vie aeree aumentano, in questo caso l’energia elastica accumulata durante la fase inspiratoria (ACBA) non è
sufficiente a garantire l’espirazione ed è necessario generare ulteriore energia mediante la contrazione attiva
dei muscoli espiratori; tale ulteriore energia è rappresentata nel grafico dal semicerchio DBA.

Aumento del volume polmonare: diminuzione delle resistenze al flusso,


aumento del ritorno elastico (c). I pazienti con un aumento della resistenza
delle vie aeree possono provare a respirare a V più alti. Questo fa sì che il
lavoro necessario per effettuare l’inspirazione (DICBAD) sia molto
aumentato, perché anche le forze di retrazione elastiche sono molto
aumentate, ma l’espirazione può avvenire passivamente (l’area CEDC è
interamente contenuta nell’area CBADC). Quindi in inspirazione si lavora
di più, perché è necessario contrastare forze di retrazione elastica
polmonare maggiori, ma i bronchi sono più dilatati, e quindi si inspira più
facilmente e l’espirazione può avvenire in maniera passiva.

Il lavoro complessivo che i muscoli respiratori compiono dipende sia dal lavoro elastico (per vincere le forze
elastiche), sia dal lavoro non elastico (per vincere le forze resistive). Queste due componenti, lavoro elastico
e non elastico, rispondono in maniera diversa al variare della frequenza respiratoria.
Al variare della frequenza respiratoria varia sia il VC sia la velocità di flusso. Se si vuole mantenere una certa
ventilazione polmonare e far arrivare agli alveoli una quantità adeguata di aria per garantire gli scambi

342
respiratori, si può giocare su questi due parametri: frequenza
respiratoria e VC. La quantità di aria che arriva all’alveolo in
1 minuto dipende da quanti atti respiratori si compiono in quel
minuto (frequenza respiratoria) e da quale volume di aria si
introduce nel sistema per ogni atto respiratorio (VC); a un
estremo si hanno respiri lenti e profondi (bassa frequenza
respiratoria, alto VC), all’altro respiri molto rapidi e piccoli
(alta frequenza respiratoria, basso VC).
Normalmente si respira con una frequenza media intorno ai
15 atti/min e con volumi correnti medi intorno ai 500
mL/min. Questi sono i valori che vanno a minimizzare il
lavoro respiratorio totale. Ai due estremi si ha:
 ad alta frequenza respiratoria cresce sensibilmente
la componente di lavoro non elastico: più la
frequenza respiratoria aumenta, più aumenta la
velocità di flusso e quindi aumentano le resistenze
viscose al flusso;
 a bassa frequenza respiratoria, aumenta il lavoro elastico: l’utilizzo di VC elevati genera un
maggiore stiramento del polmone.
Il valore normalmente presente, nella maggior parte delle persone sane, è un valore di compromesso, che
tende a trovare il punto in cui il lavoro elastico e non elastico raggiungono una spesa totale minima possibile.
In pazienti che hanno problemi alle vie respiratorie la strategia può cambiare considerevolmente:
 un paziente con una ridotta complianza polmonare, quindi che ha poca elasticità, andrà ad utilizzare
una strategia che minimizza il lavoro elastico, poiché il suo parenchima è poco elastico. Utilizzerà
dunque una strategia respiratoria con un’alta frequenza respiratoria (respiri brevi e rapidi),
caratterizzata da un lavoro elastico più basso;
 un paziente con un’ostruzione delle vie aeree, cioè un aumento delle resistenze delle vie aeree, utilizza
una strategia opposta: utilizza un pattern respiratorio con una bassa frequenza respiratoria (respiri
lunghi e lenti) perché in questo modo aumenta il volume polmonare e vanno a diminuire le resistenze
respiratorie.
Valutando la frequenza respiratoria dei soggetti è possibile avere indizi sulla condizione respiratoria e sulla
presenza di eventuali patologie.

343
Spirometria (LABORATORIO)
Dott.ssa Viviana Carmen Lo Martire

Spirometria diretta e indiretta e


Misura dei volumi e delle capacità polmonari

N.B. Questi punti sono abbinati alla tesina Meccanica polmonare statica.

Lo spirometro è lo strumento che permette


di poter misurare i volumi e le capacità
polmonare e valutando le caratteristiche della
spirometria dinamica i flussi dell’apparato
respiratorio.
Per meccanica polmonare si intende lo studio
delle proprietà meccaniche dei polmoni e della
gabbia toracica, per determinare quanto
facilmente avvengano gli scambi gassosi in
condizioni fisiologiche.
In presenza di alcune patologie le proprietà
meccaniche dei polmoni possono andare
incontro ad alterazione, e, di conseguenza, saranno alterati anche gli scambi gassosi dell’apparato respiratorio.
Andiamo a distinguere due branche:
 statica, si riferisce alle proprietà meccaniche di un polmone il cui volume non cambia nel tempo e
quindi la relazione esistente tra la pressione ed il volume, non tenendo però conto della presenza di un
flusso attraverso l’apparato respiratorio. I volumi polmonari statici vengono misurati istantaneamente
e rappresentano i volumi in cui si può dividere l’aria in entrata ed in uscita;
 dinamica, si riferisce alle proprietà meccaniche di un polmone il cui volume cambia nel tempo e di
quelle forze che sono in grado di determinare dei flussi di aria a livello delle vie aeree. I volumi
polmonari dinamici vengono misurati in un certo periodo di tempo.

Lo studio di queste proprietà permette di capire come i polmoni lavorino in condizioni fisiologiche o in
condizioni patologiche, andando in questo caso ad alterarne le caratteristiche.
Per poter studiare i volumi si fa ricorso a delle misurazioni sperimentali, che richiedono che il paziente esegua
una serie di procedure o manovre di inspirazione ed
espirazione, distinte in normali o forzate (si chiede in questo
caso di compiere un movimento volontario al fine di
incamerare o buttar fuori il maggior quantitativo possibile di
aria); l’operatore dovrà guidarlo in maniera precisa e costante.
Lo spirometro, lo strumento utilizzato per la misurazione dei
volumi di aria inspirati ed espirati, è costituito da un cilindro a
doppia parete la cui l’intercapedine conterrà acqua e all’interno
troviamo un secondo cilindro chiuso in alto che formerà una
campana capovolta. L’acqua permette lo scorrimento della
campana stessa verso l’alto o verso il basso a seconda che il
paziente stia effettuando una inspirazione o una espirazione.
Tramite un sistema a pulegge, la campana è collegata ad un
pennino che scrive su un foglio di carta fissata su un tamburo
rotante. Lo spirometro pocanzi descritto è un esempio di
spirometro tradizionale, che differisce da quelli attualmente
utilizzati in ricerca o in ambito ospedaliero maggiormente
tecnologici.
Durante l’inspirazione l’aria contenuta all’interno della
campana passerà dallo spirometro ai polmoni del paziente

344
attraverso il boccaglio, conseguentemente avremo un abbassamento della campana che si tradurrà sulla carta
fissata nel tamburo rotante in una deflessione verso l’alto.
Durante l’espirazione il paziente spingerà con l’aria la campana verso l’alto, ed il pennino andrà a registrare
una deflessione verso il basso. Si andrà ad ottenere un tipico tracciato spirometrico caratterizzato dal
susseguirsi di inspirazione ed espirazione.
I volumi di aria inspirati ed espirati vengono calcolati se viene calibrata l’ampiezza delle deflessioni descritte
dal pennino sul foglio di carta, e dai tempi di salita e di discesa delle stesse deflessioni si calcola la velocità di
ingresso e di uscita dell’aria.
Nel grafico viene riportato un tipico tracciato con i valori e le indicazioni dei volumi, tenendo conto che
questi rappresentano le varie suddivisioni della capacità polmonare totale.
Di seguito i principali volumi e capacità.
 Il volume corrente (nel grafico pari a 0,5 L o 500 mL) rappresenta il volume di aria che viene ventilato
con ciascun atto ventilatorio ed è ottenuto quando il paziente respira normalmente.
 Si chiede successivamente al paziente di eseguire un’inspirazione massimale seguita da una
espirazione completa, si ottiene così un parametro definito capacità vitale (CV nel grafico).
Quest’ultima può anche essere definita come il volume totale di aria espirata partendo da una massima
inspirazione.
 Nonostante il paziente abbia eseguito una espirazione completa, all’interno dei polmoni sarà rimasta
una quota di aria che corrisponde al volume residuo (VR), si tratta di un volume di aria non
mobilizzabile.
 Un altro parametro è la capacità funzionale residua (CFR nel grafico), che rappresenta il volume di
aria presente all’interno dei polmoni alla fine di una normale espirazione eseguita nel corso della
respirazione tranquilla, o il volume di riposo del polmone, ed è la somma del volume residuo e del
volume di riserva espiratoria (VRE), ossia il volume di aria che può essere ancora espirato dopo una
normale espirazione che richiede però un’attivazione massimale dei muscoli espiratori.
 Un secondo volume di riserva è rappresentato dal volume di riserva inspiratoria (VRI), il volume di
aria che può essere ulteriormente inspirato riempiendo il più possibile i polmoni con una inspirazione
profonda ricorrendo ad una attivazione massimale dei muscoli inspiratori.
 Esiste inoltre una capacità inspiratoria (CI), data dalla somma del volume corrente e del volume di
riserva inspiratoria.
La stima dei volumi e delle capacità polmonari è utile in quanto permette di diagnosticare la presenza di
eventuali patologie, dove questi parametri si trovano alterati determinando o un aumento complessivo dei
volumi presenti all’interno dei polmoni per un’alterazione della pervietà delle vie aeree o una riduzione di
volumi polmonari a causa di accumulo di materiale fibrotico a livello interstiziale.
Di seguito sono riportate le definizioni esatte e schematiche di volumi e capacità:
 Volume corrente (VC): volume che entra ed esce dai polmoni in un singolo respiro (500 mL).
 Volume di riserva inspiratoria (VRI): volume che, oltre al volume corrente, può entrare nei polmoni
in un’inspirazione massimale (2500-3000 mL);
 Volume di riserva espiratoria (VRE): volume che può essere espirato in un’espirazione massimale,
a partire dal termine di un’espirazione tranquilla (1000-1300 mL);
 Volume residuo (VR): volume che rimane nei polmoni dopo un’espirazione completa, anche se
massimale (1100-1500 mL).
 Capacità vitale (CV): volume di aria che può essere espirato partendo da una massima inspirazione
fino ad una espirazione completa (VC + VRI + VRE). In generale volume di aria che può essere in- o
espirato con atti massimali. Ci sono inoltre delle manovre alternative, utilizzate per valutare sempre la
capacità vitale, in cui una espirazione massimale è seguita da una ispirazione completa ma è preferibile
dare la prima definizione.
 Capacità polmonare totale (CPT): volume totale di aria che può essere contenuto nei polmoni (CV
+ VR).
 Capacità funzionale residua (CFR): volume di aria presente nei polmoni alla fine di una normale
espirazione eseguita nel corso di una respirazione tranquilla (volume di riposo dei polmoni), (VR +
VRE).
 Capacità inspiratoria (CI): volume di aria che può essere introdotto nei polmoni effettuando
un’inspirazione massimale subito dopo un’espirazione tranquilla (VC + VRI).

345
I due parametri agli estremi sono la capacità polmonare totale (CPT) e il volume residuo (VR).
Nei soggetti sani i polmoni e la gabbia toracica si muovono all’unisono durante gli atti respiratori. Il
parenchima polmonare è caratterizzato da una forte componente elastica che può essere stirata inducendo un
incremento del volume polmonare, inoltre subisce un processo di retrazione passiva che determina una
conseguente riduzione del volume polmonare. In assenza delle forze esercitate dai muscoli respiratori che
permettono l’aumento di volume della gabbia toracica, e che contrastano la retrazione passiva, ha luogo un
collasso polmonare. I volumi polmonari dipendono quindi dall’equilibrio esistente tra le proprietà di
retrazione elastica del parenchima polmonare e le proprietà dei muscoli della parete toracica.
La capacità polmonare totale viene raggiunta quando i muscoli respiratori della gabbia toracica non sono più
in grado di generare ulteriori forze per favorire la distensione polmonare e della gabbia toracica stessa, i
polmoni sono quindi pieni di aria. Il volume residuo viene invece raggiunto quando i muscoli espiratori si
riducono di lunghezza e perdono forza muscolare: in questo momento la loro forza è insufficiente a ridurre il
volume della gabbia toracica e ne consegue che lo stesso volume rimarrà intrappolato all’interno dei polmoni.
Nella tabella seguente sono riportati diversi parametri (sesso, etnia, età, stile di vita) che influenzano i volumi
polmonari (gli acronimi sono riportati in inglese):

Nell’ambito della spirometria possiamo distinguere:


 spirometria diretta: permette di misurare direttamente i volumi di aria che vengono espirati ed
inspirati duranti i normali atti respiratori;
 spirometria indiretta: permette di misurare i volumi polmonari non mobilizzabili tra cui il volume
residuo e la capacità funzionale residua. Per conoscere le capacità funzionale residua (CFR) e
polmonare totale (CPT) bisogna conoscere anche il volume residuo del soggetto.
Per la valutazione dei flussi si userà invece lo pneumotacometro.

Capacità vitale lenta


Il primo test che analizziamo va a valutare la capacità vitale lenta (SVC), che corrisponde al volume
massimo di aria che può essere espirato lentamente dopo aver eseguito una lenta inspirazione massimale: non
importa la velocità con cui la manovra viene eseguita ma la quantità. Questo test solitamente deve essere
ripetuto molteplici volte per assicurarsi che il paziente abbia mostrato i suoi volumi massimali.

La prof.ssa mostra la schermata iniziale del programma per effettuare il test di capacità vitale lenta, dove si
richiede una serie di informazioni sul paziente (I.D., data di nascita, statura, peso, sesso, etnia), parametri
che permetteranno al programma stesso di calcolare i valori teorici ideali. Quando il medico andrà ad
interpretare il risultato, potrà confrontare i valori teorici con i parametri del paziente. Di seguito i link dei
video dimostrazione del test SVC:
https://www.youtube.com/watch?v=5BcEjMYf1KU
https://www.youtube.com/watch?v=WTp9FFf49Hw

Durante l’esecuzione del test per misurare la capacità vitale lenta, il paziente dovrà utilizzare uno stringinaso
e mordere un supporto per impedire perdite di aria sia dal naso che dai margini della bocca, che renderebbero

346
il test inefficace andando ad alterarne i risultati.
Alternativamente (come mostrato nel video del secondo
link) si potrà utilizzare una maschera che copre
completamente sia il naso che la bocca, ma la
visualizzazione dei risultati sarà leggermente diversa.
Il medico avrà il compito di rassicurare il paziente e
guidarlo ad assumere una corretta postura e
nell’esecuzione delle manovre.
A seguito dell’esecuzione del test di capacità vitale
lenta, si osservano una serie di valori numerici in tabella
e si ottiene un grafico che rappresenta la capacità
inspiratoria (somma tra volume corrente e volume di
riserva inspiratoria) e il volume di riserva espiratoria. Il
volume residuo non è stato calcolato in quanto non può
essere mobilizzato. In particolare, nel grafico troviamo
una barra nera che si riferisce ai valori teorici calcolati
dallo strumento sulla base dei parametri del paziente (a sinistra della tabella), ed una barra blu che si riferisce
invece ai valori reali misurati nel paziente (a destra nella tabella).
Si ottengono quindi i parametri ottenuti mediante spirometria diretta durante l’esecuzione di un test di
capacità vitale lenta.

Di particolare interesse è il volume residuo (che serve anche per il calcolo della capacità polmonare totale)
e la capacità funzionale residua (CFR), in quanto il volume di riposo del polmone partecipa agli scambi
respiratori, parametri che possono essere conosciuti tramite la spirometria indiretta. La capacità funzionale
residua corrisponde quindi all’area alveolare che partecipa agli scambi gassosi, e di conseguenza l’aria a cui
l’organismo attinge per rispondere alle esigenze della respirazione tissutale. Sulla base degli stessi valori della
CFR, è possibile fare una discriminazione tra i diversi tipi di patologie polmonari.
Al termine di una espirazione il volume presente all’interno dei polmoni dipenderà da due fattori:
 forze di retrazione del parenchima polmonare, che tendono a portare il polmone al suo volume di
equilibrio spontaneo (retrazione verso l’interno),
 forze della gabbia toracica, che tendono a farla assumere il suo volume spontaneo di riposo
(retrazione verso l’esterno).
La CFR dipende quindi dal bilancio tra queste due forze opposte che possono alterarsi in presenza di
patologie (anomalie delle forze di retrazione elastica del polmone o anomalie della meccanica della gabbia
toracica).

347
Tecniche di misurazione dei volumi polmonari
Per ottenere il valore di diversi parametri, tra cui il Volume Residuo (VR), i fisiologi hanno sviluppato diverse
tecniche che comprendono:
 la tecnica del lavaggio dell’azoto;
 la tecnica della diluizione dell’elio;
 la pletismografia corporea.
Quella di cui discuteremo è la tecnica della diluizione dell’elio. Questa tecnica si basa sul principio della
conservazione della massa: viene calcolato il volume in cui la sostanza si distribuisce dividendo la massa nota
della sostanza per la sua concentrazione, misurata sul momento (concentrazione x volume = quantità di
sostanza).
Una concentrazione nota di elio (C1) viene aggiunta in un cilindro di volume noto (V1). Il cilindro viene poi
collegato con un volume ignoto (V2, volume polmonare da misurare). Dopo che il gas si è uniformemente
distribuito, viene misurata la sua nuova concentrazione (C2). Essa viene usata per determinare il nuovo volume
in cui il gas inerte si è distribuito. V2 al termine di una normale espirazione tranquilla è la CFR.

Logicamente C2 misurata una volta raggiunto l’equilibrio sarà più bassa di C1, perché la stessa quantità di
elio presente all’inizio nel cilindro sarà distribuita equamente tra V1 (cilindro e tubi) e V2 (CFR), la cui somma
dà il volume totale. Il prodotto di C1 e V1 è uguale al prodotto di C2 per la somma di V1 e V2.
Viene utilizzato l’elio piuttosto che altri gas a causa della sua bassissima solubilità nei tessuti: esso quindi
rimane confinato nel volume alveolare per tutto il tempo in cui viene eseguita la misurazione.
CFR si può misurare utilizzando come indicatore l’elio (He) con un metodo denominato a circuito chiuso. Il
soggetto è collegato a uno spirometro che contiene un volume noto di aria (V 1) cui si è aggiunto elio fino a
raggiungere una concentrazione C1 pari a circa il 10%. A equilibrio raggiunto, si apre la valvola dello
spirometro, invitando il soggetto a respirare normalmente per circa tre minuti (la valvola viene aperta non
appena il soggetto inizia un’inspirazione a volume corrente a partire dalla sua CFR) per portare all’equilibrio
la concentrazione di elio C2 al nuovo volume (V1 + V2) che comprende il suo apparato respiratorio. Lo
spirometro contiene un sistema che assorbe la CO2, mentre l’O2 consumato viene continuamente rimpiazzato

348
dal gas fornito da una bombola di ossigeno puro; l’insieme è tarato automaticamente per mantenere la
concentrazione di O2 intorno al 21%. A concentrazione di elio stabile e a riposo respiratorio si avrà:

C1 x V1 = C2 x (V1 + V2) = C2 x (V1+ CFR)


ovvero:

C1V1 = C2V1 + C2CFR

C1V1 – C2V1 = C2CFR

V1(C1 – C2) = C2CFR

CFR = V1(C1 –C2)/C2

Infine, poiché C1 = [He]iniz. e C2 = [He]fin.:

([𝐇𝐞]𝐢𝐧𝐢𝐳. − [𝐇𝐞]𝐟𝐢𝐧. )
𝐂𝐅𝐑 = 𝐕𝟏 ×
[𝐇𝐞]𝐟𝐢𝐧.

CFR è direttamente proporzionale alla differenza della concentrazione dell’elio iniziale e la concentrazione
dell’elio finale, quindi tanto maggiore sarà questa differenza, tanto maggiore sarà la CFR del soggetto
analizzato.

I risultati dell’esame verranno riportati come nell’immagine, con due diverse curve. Quella a destra
rappresenta i valori della capacità vitale del soggetto, mentre il grafico a sinistra con la curva superiore
rappresenta la concentrazione di elio misurata durante tutto il procedimento, e con la curva inferiore riporta la
capacità funzionale residua. Nella tabella sottostante vengono indicati i restanti valori teorici (capacità vitale,
capacità inspiratoria, volume di riserva espiratoria, capacità funzionale residua e volume residuo) e quale tra
le tre prove effettuate risulta quella migliore dal punto di vista dei dati ottenuti (la B sta per best).

349
I volumi polmonari normali sono associati a fattori come peso, età, sesso, altezza ed etnia, ad esempio
tendono a ridursi con l’età, sono maggiori nei maschi che nelle femmine ecc. Alterazioni dei normali volumi
possono essere spie di patologie polmonari che vanno d’alterare la meccanica dei polmoni, e si possono
classificare essenzialmente in due categorie:
 malattie ostruttive: aumento generale dei volumi;
 malattie restrittive: diminuzione generale dei volumi.
Nelle malattie ostruttive i volumi aumentano perché l’aria rimane intrappolata a causa di una chiusura delle
vie aeree, ciò determina un aumento della resistenza al flusso e provoca espirazioni più lunghe. Rientrano in
questa categoria le bronchiti in quanto l’accumulo di secrezioni a livello bronchiale riduce il lume delle vie
aeree, un altro esempio è l’asma che causa un’eccessiva contrazione della muscolatura liscia bronchiale in
risposta ad allergeni, o il caso dell’enfisema, in cui si ha una totale distruzione dei setti inter-alveolari che
provoca l’ampliamento del volume degli alveoli.
Le malattie restrittive invece determinano un ridotto dispiegamento del polmone per diverse cause, come:
 alterazioni parenchima polmonare (es. fibrosi polmonare interstiziale: i fibroblasti sintetizzano
un’anomala quantità di collagene ed elastina dopo molteplici insulti lesivi);
 malattie della pleura (es. pneumotorace in cui il polmone collassa e il torace si distende all’esterno);
 malattie della parete toracica (es. cifoscoliosi);
 malattie apparato neuromuscolare (es. miastenia grave).
Le patologie ostruttive determinano dunque un aumento di tutti i volumi mentre le patologie restrittive una
diminuzione: tra questi parametri i due più importanti che possiamo prendere in considerazione sono la CFR
e il rapporto tra volume residuo e la capacità polmonare totale (VR/CPT). Il rapporto VR/CPT nei soggetti
sani è di circa 0,25, però il rapporto può modificarsi con la presenza di patologie ostruttive o restrittive. Se il
rapporto aumenta perché è aumentato VR si tratta di una patologia ostruttiva, invece se aumenta perché
diminuisce CPT si tratta di una patologia polmonare restrittiva.
Altrettanto importanti sono le modificazioni di CFR, che dipende dalle forze di retrazione elastica del
parenchima e dalle forze della gabbia toracica che tende ad espandersi verso l’esterno. La CFR può ridursi
quando i muscoli della parete toracica sono deboli e quindi in questo caso la forza di retrazione elastica del
parenchima prevale su quella espansiva della gabbia toracica, ciò avviene per le patologie restrittive. Oppure
essa può aumentare in presenza di una patologia ostruttiva che determina una chiusura prematura delle vie
aeree, quindi l’aria rimarrà intrappolata determinando un aumento complessivo dei volumi.

Curve flusso-volume

N.B. Questo punto è abbinato alla tesina Meccanica polmonare dinamica.

Spirometria dinamica
Utile per il monitoraggio di alcune patologie polmonari, in quanto la spirometria permette anche di misurare
dei flussi e in particolare la velocità del flusso espiratorio e dei volumi espiratori. Per il test il paziente dovrà
eseguire una inspirazione massima fino al raggiungimento della sua CPT, e poi espirare tutta l’aria possibile
il più velocemente possibile, finché nei polmoni non rimarrà soltanto il volume residuo. Questa manovra è
detta capacità vitale forzata: la CVF non sarebbe altro che la capacità vitale ma misurata mediante uno sforzo
compiuto alla massima velocità e forza possibile.
I risultati del test possono essere mostrati in due diversi modi:
 Spirogramma: mostra il volume del gas espirato a partire da CPT contro il tempo.
 Diagramma flusso-volume: si ottiene registrando un flusso istantaneo in funzione del volume del gas.
Il flusso istantaneo può essere mostrato sia durante l’espirazione che durante l’inspirazione
(diagramma flusso-volume espiratorio e inspiratorio).

Spirogramma
Lo spirogramma è un grafico che mostra il volume di gas espirato nell’unità di tempo. Il grafico si ottiene
facendo espirare al paziente tutta l’aria che esso ha accumulato dopo un’inspirazione massimale (raggiunta la
CPT). L’aria espirata deve essere espulsa alla massima velocità possibile. La quantità d’aria espirata in questo
modo prende il nome di capacità vitale forzata (CVF), circa 5 litri (NdS. In realtà, come tutti i volumi e le

350
capacità polmonari, è variabile da individuo a individuo, questo
è solo un valore orientativo). Il volume d’aria che rimane nei
polmoni è il VR.
Da questo grafico è possibile ottenere i seguenti parametri (oltre
a CVF):
 FEV1, cioè il volume d’aria che viene espulso
forzatamente nel primo secondo di espirazione forzata.
 Velocità media di flusso espiratorio nella parte
centrale della CVF. Questa velocità ha anche altri nomi:
flusso espiratorio medio-massimo e FEF25-75. FEF25-75
è il flusso espiratorio forzato tra il 25% e il 75% della
capacità vitale forzata (CVF). Questo si calcola dapprima
dividendo la CVF in quattro parti e successivamente
congiungendo le due parti che corrispondono al 25% ed
al 75%. La pendenza della retta che congiunge questi due
punti nel grafico corrisponde alla velocità: maggiore sarà la pendenza, maggiore risulterà essere la
velocità.
 Il rapporto FEV1/CVF (indice di Tiffenau). Esso è usato come parametro di controllo. Nei soggetti
normali FEV1/CVF > 0,72 (cioè maggiore del 72%, che corrisponde a circa 4 litri d’aria). Un rapporto
inferiore al 72% indica difficoltà respiratoria dovuta a malattie di tipo ostruttivo.

Nel grafico soprastante FEV1 = VEMS.


Patologia ostruttiva. Il volume espirato nel primo secondo è inferiore alla norma, il tempo richiesto per
raggiungere il volume residuo è maggiore. La CVF è inalterata oppure varia molto poco rispetto al soggetto
normale. Questo porta ad un calo del rapporto FEV1/FVC (< 72%), che identifica uno stato patologico.
Patologia restrittiva. Il volume espirato nel primo secondo è inferiore alla norma, il tempo richiesto per
raggiungere il volume residuo è minore. Anche la CVF è inferiore alla norma. Il rapporto FEV1/CVF è
normale (o addirittura aumentato) a causa della contemporanea riduzione di FEV1 e CVF. Il rapporto
FEV1/CVF in caso di patologie restrittive non è affidabile.

351
Diagramma flusso-volume
Il flusso è definito come la variazione di volume nel tempo. Il
grafico si ottiene con il medesimo procedimento utilizzato per
lo spirogramma, la differenza sta nel fatto che nel diagramma
flusso-volume viene registrato il flusso istantaneo attraverso il
pneumotacografo (o flussimetro).
La forma delle curve flusso/volume fornisce delle
informazioni sulla fisiologia polmonare, che in caso di
patologia è alterata.

Il picco di flusso espiratorio viene raggiunto quasi all’inizio


della procedura, poi esso calerà rapidamente man mano che ci
si avvicina al volume residuo. Il motivo di questo picco
all’inizio è dovuto a vari fattori:
 la forza sviluppata dai muscoli espiratori è la massima
possibile;
 la forza di retrazione elastica dei polmoni è al massimo, in
quanto i polmoni sono pieni d’aria;
 la pressione endopleurica è fortemente negativa;
 le vie aeree sono totalmente distese e perciò hanno una bassa
resistenza.
Man mano che l’espirazione procede le vie aeree cominciano
a restringersi, aumentando la resistenza, la forza di retrazione elastica cala e i muscoli espiratori si allontanano
dalla loro lunghezza ottimale. Tutto ciò porta ad una rapida diminuzione del flusso.

Il flusso nel caso della curva inspiratoria raggiunge valori relativamente alti già al 20% della capacità
polmonare totale, rimanendo elevato fino al 75%, per poi decrescere man mano che ci si avvicina alla CPT. Il
motivo di ciò è dovuto a diversi fattori:
 il sistema toraco-polmonare tende all’espansione;
 i muscoli inspiratori sviluppano maggiore forza man mano che il volume polmonare aumenta;
 le vie aeree aumentano il loro calibro;
 la pressione endopleurica è negativa.
Il calo del flusso è dovuto a: un aumento della forza di retrazione elastica che aumenta all’aumentare del
volume polmonare ed a un aumento della resistenza delle vie aeree.

All’aumentare dello sforzo per l’espirazione


aumenta il flusso espiratorio. Il grafico mostra tre
curve che rappresentano tre tipi di sforzi: minimo,
moderato e massimo. Il grafico mette in evidenza il
fatto che a bassi volumi polmonari la velocità del
flusso è indipendente dallo sforzo attuato, queste
velocità sono chiamate velocità sforzo-indipendenti
o velocità flusso-limitate. Le velocità dei flussi
all’inizio della manovra vengono invece chiamate
sforzo-dipendenti.

352
I dati che possono essere acquisiti da un diagramma
flusso/volume sono:
 la capacità vitale forzata o CVF;
 il picco della velocità di flusso espiratoria (PEFR),
cioè la maggiore velocità raggiunta durante la
manovra espiratoria;
 la velocità di flusso espiratorio, cioè la velocità del
flusso espiratorio istantaneo, a punti diversi della CV:
- FEF50 O Vmax50, cioè quando ancora rimane
da espirare il 50% della CV;
- FEF25 O Vmax75, cioè quando ancora rimane
da espirare il 75% della CV;
- FEF75 O Vmax25, cioè quando ancora rimane
da espirare il 25% della CV.
I valori di FEF possono essere indicati anche come Vmax
perché questa sigla identifica il volume che può ancora essere
espirato, ad es. FEF75 O Vmax25, quando è già stato espirato il
75% della CVF e rimane da espirarne il 25%.

Come eseguire il test di capacità vitale forzata:


 mettere il paziente seduto, con la schiena dritta e con
entrambi i piedi poggiati a terra;
 chiudere il naso al paziente con la clip per il naso in modo che l’aria possa uscire solo dalla bocca;
 dare il boccaglio al paziente assicurandosi che tenga le labbra ben chiuse;
 il paziente inizia il test respirando normalmente;
 il paziente successivamente deve inspirare, riempiendo i polmoni totalmente;
 in seguito, il paziente deve espellere l’aria accumulata con la massima forza e velocità possibile finché
non gli viene detto di inspirare nuovamente in modo massimale (dopo circa 6 secondi).
Il test viene anche chiamato anche FVL test perché si fa riferimento ai due tipi di diagrammi ottenuti, F =
flow (flusso) e V = volume.

A sinistra il diagramma flusso-volume, a destra lo spirogramma.

353
Nel caso delle patologie restrittive il volume di aria nei polmoni è ridotto e quindi la curva è spostata a destra.
Il flusso, tuttavia, è normale.
Nel caso delle patologie ostruttive il cambiamento della curva è molto diverso a seconda della patologia e
della gravità della patologia stessa. In tutte queste patologie si verifica un aumento dei volumi, siccome l’aria
tende a permanere nei polmoni a causa di una ridotta pervietà. Il paziente impiegherà più tempo ad espellere
tutta l’aria che ha nei polmoni (escluso ovviamente il VR).

354
15. Meccanismi degli scambi gassosi polmonari

Dopo aver esaminato gli aspetti meccanici, sia statici che dinamici, dell’apparato respiratorio, cominciamo
ad utilizzare queste informazioni per capire come funziona il polmone e a cosa serve. La finalità è quella di
portare ossigeno all'organismo in quantità adeguata a supportare le sue esigenze metaboliche e di liberare
l’organismo dall’anidride carbonica prodotta dal metabolismo rilasciandola nell’ambiente esterno. Affinché
questo avvenga in maniera corretta occorre l’integrazione di tante funzioni diverse.

Parametri molto importanti sono le pressioni parziali dei gas a livello degli alveoli polmonari, che
determinano l’entità degli scambi gassosi a livello della membrana alveolo-capillare. Vedremo come si
determina questa pressione parziale di gas e l’effetto che variazioni di pressioni parziali hanno sugli scambi
respiratori.
Il parametro più regolato in questo sistema è la pressione parziale di anidride carbonica alveolare, che è
in equilibrio con la pressione parziale di anidride carbonica nel sangue: è un parametro che l’organismo regola
a 40 mmHg ed è importante perché garantisce l’eliminazione mediante la ventilazione di tutta l'anidride
carbonica in eccesso prodotta dal metabolismo e nello stesso tempo di mantenere costante il pH ematico al
valore di ~7,4 (l’anidride carbonica partecipa al sistema di tamponi del pH del sangue).
Mediante il metabolismo si producono circa 200 mL/min di CO2 che devono essere espulsi a livello del
polmone e al metabolismo servono indicativamente circa 250 mL/min di O2 per supportare tutte le azioni
metaboliche dell'organismo. Quindi occorre che ci sia un efficiente scambio di gas a livello del polmone, ma
anche, in maniera integrata, un adeguato trasporto di questi gas dal polmone agli organi periferici e viceversa.
È importante quindi che il sistema respiratorio funzioni in maniera perfettamente integrata con il sistema
cardiocircolatorio. Il sistema circolatorio polmonare è un sistema a bassa pressione, perché la sua finalità non
è quella di trasportare ossigeno ai diversi organi periferici, ma quella di portare sangue al polmone e garantire
l’ossigenazione del sangue e la riduzione dell’anidride carbonica; per fare questo è sufficiente un sistema a
bassa pressione: la pressione massima è intorno ai 25 mmHg e la minima intorno ai 10 mmHg.

Leggi dei gas


L'equazione di stato dei gas ci dice che il prodotto tra la pressione P esercitata da un gas e il volume V in
cui questo è contenuto è uguale al numero delle molecole n del gas per la costante dei gas R ed è dipendente
dalla temperatura assoluta T.

𝐏𝐕 = 𝐧𝐑𝐓

Quindi, per la legge di Boyle, quando la temperatura è costante, il prodotto tra la pressione e il volume è una
costante (PV = K). Pressione e volume sono inversamente proporzionali tra loro: se aumenta il volume cala
la pressione e se cala il volume aumenta la pressione (P1V1 = P2V2).
L'aria che inspiriamo è una miscela di gas, non c’è solo ossigeno ma ci sono tanti gas diversi.
Legge di Dalton: la pressione parziale di un gas presente in una miscela di altri gas è la pressione che quel
gas eserciterebbe se da solo occupasse l'intero volume occupato della miscela; la somma di tutte le
pressioni parziali dei gas che compongono la miscela è uguale alla pressione totale della miscela.
I gas arrivano agli alveoli polmonari e si scambiano tra alveoli polmonari e sangue, quindi tra aria e liquido.
La legge di Henry ci dice che, se la temperatura rimane costante, la concentrazione di un gas che si discioglie
in un liquido è proporzionale alla pressione parziale che esso esercita sulla soluzione; quindi più alta è la
pressione parziale del gas, più alta sarà la quantità gas che si discioglie nel liquido: la quantità di ossigeno che
si discioglie nel plasma, è proporzionale alla pressione parziale dell'ossigeno all'interno dell'aria alveolare.
La pressione parziale non è l’unico fattore che determina la quantità di un gas che si discioglie in un liquido
ma è molto importante anche la solubilità del gas, che dipende dalle caratteristiche del gas stesso (dal suo
peso molecolare e dal suo coefficiente di solubilità).
L’anidride carbonica è molto più solubile dell'ossigeno, di circa 24 volte: quindi a parità di pressione parziale
la quantità di anidride carbonica che si scioglie è molto maggiore di quella dell'ossigeno; alla fine tuttavia si
scambia più ossigeno di anidride carbonica perché anche se la sua solubilità è più bassa, la differenza di

355
pressione parziale, che è ciò che spinge il gas a muoversi, è molto più elevata per l’ossigeno che per l'anidride
carbonica (anche se quest’ultima è molto più solubile).

15.1. Composizione dell’aria atmosferica e alveolare

L’aria è una miscela di gas, costituita da:


 Azoto: 78,09%.
 Ossigeno: 20,9%.
 Argon: 0,93%.
 Anidride Carbonica: 0,03%.
 Gas inerti: tracce.
Si può notare che la concentrazione di anidride carbonica nell’aria che si respira è praticamente assente, a
meno che non si viva in un ambiente estremamente inquinato.
La pressione atmosferica (barometrica, Pb), misurata in condizioni standard (cioè a livello del mare, con T =
0°C e in assenza di umidità) è pari a 760 mmHg. La ragione per cui si effettuano queste misurazioni in
condizioni standard è dovuta al fatto che questa è la condizione più riproducibile.
Normalmente però nell’aria c’è anche una quantità variabile di vapore acqueo (cioè acqua allo stato
gassoso); quest’ultimo è un elemento confondente perché non è un gas ma esercita comunque una pressione
parziale e questa dipende dalla temperatura. Quando l’aria è satura di vapore acqueo e la temperatura è di
37°C, il vapore acqueo esercita sempre una pressione di 47 mmHg, indipendentemente dal valore di pressione
barometrica. In una miscela di gas dunque, se è presente anche vapore acqueo al livello di saturazione, occorre
sottrarre questo valore di 47 mmHg per calcolare la pressione parziale degli altri gas. La somma delle pressioni
parziali di tutti i gas che compongono la miscela (tolto il vapore acqueo che non è un gas) è pari quindi a 713
mmHg e non a 760 mmHg (perché 47 sono rappresentati dal vapore acqueo). È importante considerare la
pressione esercitata dal vapore acqueo perché, seppur questo all’esterno sia presente in quantità variabile (può
anche essere zero in giornate particolarmente secche), quando l’aria passa dall’ambiente esterno alle vie
respiratorie diventa satura di vapore acqueo. All’interno delle vie respiratorie infatti c’è sempre una saturazione
di vapore acqueo: la pressione parziale esercitata dalla miscela di gas che compongono l’aria (azoto, ossigeno,
argon e tracce di anidride carbonica) non è 760 mmHg, ma 713 mmHg.
L’aria è quindi una miscela di gas, ognuno presente in proporzioni diverse (l’azoto è il più rappresentato,
seguito dall’ossigeno); le percentuali di ogni gas possono essere espresse come frazioni, ogni gas determina
una frazione del totale in questa miscela e la somma di tutte le frazioni è uguale a 1.

𝐹N2 + 𝐹O2 + 𝐹argon e altri gas = 1,0

In assenza di vapore acqueo, la somma delle pressioni parziali esercitate da tutti i gas è uguale al valore di
pressione barometrica, cioè 760 mmHg, a 0°C e a livello del mare.
La pressione parziale di un gas quindi è uguale al prodotto tra la pressione barometrica e la frazione di
quel gas: questo ci dice quale frazione della pressione barometrica sia prodotta dalla presenza di quel gas.

𝑃gas = 𝐹gas × 𝑃b

Nell’aria inspirata la percentuale di O2 è pari circa al 21%, quindi la sua frazione è 0,21. La pressione parziale
di O2 sarà pari al prodotto tra la pressione barometrica e la frazione di O2:

𝑃O2 = 𝐹O2 × 𝑃b = 0,21 × 760 mmHg = 159 mmHg o 159 torr

Dunque, nell’aria ambientale, a 0°C, senza umidità, l’O2 esercita una pressione parziale di 159 mmHg.

Domanda di uno studente. Se la concentrazione di CO2 è così bassa, come fanno le piante, che necessitano di CO2 per la
fotosintesi? La CO2 è presente in tracce, quindi è ininfluente per la nostra respirazione, ma può essere impiegata per
sostenere la fotosintesi clorofilliana. La fotosintesi prevede che le piante possano utilizzare la CO 2, ma non è basata
esclusivamente su questo: se c’è la utilizzano, altrimenti possono procedere comunque nella produzione di energia in
maniera diversa.

356
Quando si inspira, la trachea si riempie di aria: l’entrata di aria nelle vie respiratorie cambia qualcosa nella
pressione parziale di O2. Nella trachea infatti l’aria è già stata umidificata, essendo passata attraverso le vie
aeree superiori; diventa dunque satura di vapore acqueo.
Si ricordi che una miscela di gas satura di vapore acqueo è caratterizzata da una modifica delle pressioni
parziali dei gas che compongono la miscela, perché il vapor acqueo esercita a saturazione una pressione
parziale di 47 mmHg. Questi 47mmHg devono essere sottratti ai 760 mmHg e la pressione parziale di O 2 in
trachea sarà:

𝑃O2 trachea = 𝐹O2 × (𝑃b − 𝐹H2 O ) = 0,21 × (760 mmHg − 47 mmHg) = 150 mmHg

(La frazione di O2, 0,21, non varia perché il vapore acqueo non è un gas quindi non partecipa alle frazioni
dei gas.)
Per concludere, solo per la presenza di vapore acqueo nell’aria tracheale, la pressione parziale di ossigeno in
trachea scende da 159 mmHg a 150 mmHg.
Riassumendo: nell’aria secca, cioè senza vapore acqueo, l’O2 ha una pressione parziale di 159 mmHg; appena
si entra in trachea la pressione parziale di O2 passa a 150 mmHg per la presenza del vapore acqueo, che esercita
una pressione di 47 mmHg. Si noti che la pressione parziale esercitata dalla CO2 è pari a 0 perché nell’aria
presente nell’ambiente, l’anidride carbonica è virtualmente assente.

15.2. Ventilazione polmonare e ventilazione alveolare

Ventilazione
La ventilazione è il meccanismo che permette di introdurre aria nel sistema toraco-polmonare e
successivamente di espellerla. La parte ventilatoria del sistema toraco-polmonare è una struttura a fondo cieco,
ci deve essere un atto inspiratorio seguito da uno espiratorio; funziona, per usare un’analogia, come un mantice.
In una respirazione normale, considerando un individuo maschio adulto di 70 kg, si inspira per ogni
inspirazione un volume di aria pari a circa 500 mL: questo volume prende il nome di volume corrente.
La frequenza respiratoria, per un uomo adulto di 70 kg, mediamente è pari a 12-15 atti respiratori al
minuto.
In ognuno di questi atti respiratori egli introduce ed espelle un volume pari a 500 mL: quindi
complessivamente l’individuo presenta una ventilazione totale (volume/minuto) pari al prodotto tra la
frequenza respiratoria (12-15 atti/min) e il volume corrente (500 mL).

Ventilazione totale = 500 mL x 15 min-1 = 7500 mL/min (se consideriamo 12 atti/min il valore è di 6000
mL/min)

Tuttavia, non tutta l’aria è utile per gli scambi respiratori: infatti non ovunque ci sono gli alveoli, zona del
polmone deputata agli scambi gassosi. Gli alveoli ci sono soltanto a partire dai bronchioli terminali in poi; la
restante parte dell’albero respiratorio è solo una strada che l’aria deve percorrere per raggiungere gli spazi
alveolari. L’aria immessa ad ogni inspirazione (500 mL), in parte raggiunge l’area alveolare, in parte rimane
nella porzione iniziale del sistema respiratorio che non partecipa agli scambi gassosi. Questa porzione
dell’albero respiratorio che non contiene alveoli è lo spazio morto.
Lo spazio morto non partecipa agli scambi respiratori. Nell’individuo considerato (uomo adulto sano di 70
kg) di solito lo spazio morto ha un valore di 150 mL. La quantità di aria che arriva invece allo spazio alveolare

357
per ogni atto inspiratorio e che partecipa agli scambi è inferiore al valore di volume corrente (500mL), sarà
infatti uguale a 500 mL – 150 mL = 350 mL.
La ventilazione alveolare è il volume di aria che ogni minuto raggiunge gli alveoli e partecipa agli scambi
ventilatori. Questo valore è pari a circa 5 L al minuto. Maggiore è il numero di atti respiratori, a parità di
volume corrente, maggiore sarà la ventilazione alveolare; maggiore è il volume corrente, a parità di atti
respiratori, maggiore sarà la ventilazione alveolare.

Ventilazione alveolare 𝑽𝑨̇ = (500 – 150) mL x 15 min-1 = 5250 mL/min (se consideriamo 12 atti/min il valore
è di 4200 mL/min)

Determinare la ventilazione alveolare è importante per misurare quanto ossigeno arriva alla superficie
alveolo-capillare ed è disponibile per gli scambi respiratori. In condizioni normali, la ventilazione alveolare è
circa di 5 L di aria al minuto, ma è possibile facilmente aumentare questa quantità anche di diverse volte, ad
esempio durante l’esercizio fisico, in cui si aumenta il volume corrente o la frequenza respiratoria; talvolta si
possono aumentare entrambi.
La determinazione della ventilazione alveolare è funzionale per valutare l’efficienza degli scambi respiratori:
per misurare questo parametro si può ad esempio misurare lo spazio morto. Questo è importante perché in
condizioni fisiologiche non varia molto; può però variare in situazioni patologiche. Una volta ottenuto il valore
di spazio morto questo dovrebbe essere sottratto al volume corrente (misurato tramite spirometria) e si
dovrebbe poi moltiplicare il valore ottenuto per la frequenza respiratoria.

Un metodo alternativo, utilizzato in clinica per misurare la ventilazione alveolare è quello di basarsi sulla
misura di CO2 espirata: tutta la CO2 espirata (mL/min) è quella prodotta dal metabolismo (circa 200 mL/min).
La quantità di anidride carbonica prodotta dal metabolismo arriva all’alveolo e viene espulsa. Dunque, la
quantità che si espira proviene tutta dal gas alveolare. Si può misurare quindi la quantità di CO 2 espirata al
minuto tramite uno spirometro (valore indicato con 𝑉̇CO2) che proviene tutta dall’area alveolare; questo
corrisponde alla frazione alveolare costituita dalla CO2: 𝑉̇CO2 sarà uguale alla ventilazione alveolare (𝑉̇A)
moltiplicata per la frazione di CO2 (FCO2), corrisponde cioè alla frazione della ventilazione alveolare costituita
dalla CO2.

𝑉̇CO2
𝑉̇CO2 = 𝑉̇A × FCO2 → 𝑉̇A =
FCO2

A questo punto si risolve l’equazione per la ventilazione alveolare: si ottiene che la ventilazione alveolare è
uguale alla ventilazione di CO2 espirata fratto la frazione di CO2. La frazione di CO2 è però proporzionale alla
sua pressione parziale e dunque possiamo scrivere:
𝑽̇𝐂𝐎𝟐
𝑽̇𝐀 = 𝐤
𝐏𝐀 𝐂𝐎𝟐

Si è ottenuta ottiene l’equazione della ventilazione alveolare. Questa equazione indica che la ventilazione
alveolare è inversamente proporzionale alla
pressione parziale alveolare di CO2. Se la
ventilazione di CO2 è costante, quindi se il
metabolismo produce una quantità costante di
CO2 e cala la ventilazione alveolare, si avrà un
aumento della pressione parziale di CO2. Se
invece aumenta la ventilazione alveolare, si avrà
un calo della pressione parziale di CO2 (a parità
di 𝑉̇CO2).
Questo processo è ben rappresentato nel grafico
a fianco: sull’asse x si ha la ventilazione
alveolare, sull’asse y si ha la pressione parziale
di CO2 alveolare; si consideri la linea rossa
inferiore, ottenuta per una ventilazione di CO2 di
250 mL/min (condizione standard, a riposo di

358
maschio adulto): questa è la quantità prodotta dal metabolismo che non varia. Se si ha una ventilazione
alveolare di 5 L/min, per questa produzione di CO2, la ventilazione garantisce, secondo l’equazione
dell’anidride carbonica alveolare, una pressione parziale di CO2 nell’alveolo di 40 mmHg.
Se, mantenendo costante la produzione di CO2 (250 mL/min), si iperventila e si raddoppia la ventilazione
(10 L/min), la pressione parziale di CO2 alveolare viene ridotta a metà, da 40 a 20 mmHg. Se si ipoventila,
quindi cala la ventilazione alveolare, scendendo sotto i 5 L/min, che garantiscono il normale valore di 40
mmHg di CO2, ottimale per il nostro organismo, la pressione parziale di CO2 alveolare aumenterà. C’è una
perfetta regolazione tra ventilazione alveolare e pressione parziale di CO2 alveolare: questa relazione tra i due
valori fa sì che per una data produzione di CO2, la ventilazione sia adeguata a mantenere una pressione parziale
di anidride carbonica al suo valore ottimale di 40 mmHg.
Cosa succede se la produzione di anidride carbonica aumenta? Se questo valore triplica, si ottiene una
seconda curva, in cui è variato il flusso di anidride carbonica, ma la relazione tra pressione parziale di CO 2
alveolare e ventilazione alveolare è la stessa descritta dall’equazione di ventilazione alveolare. Per garantire il
normale valore di pressione parziale di CO2 alveolare, la ventilazione deve triplicare, diventa perciò pari a 15
L/min.
Il valore di pressione parziale di CO2 alveolare è così importante perché questo valore è uguale a quello della
pressione parziale di CO2 nel sangue arterioso: questi due valori sono in equilibrio. Quindi, quando si ha un
valore ottimale di pressione parziale nell’alveolo, lo si avrà anche nel sangue e questo è importante per il pH.
Con l’equazione della ventilazione alveolare, si può facilmente calcolare la ventilazione alveolare perché il
flusso di CO2 espirata si può misurare raccogliendo l’aria espirata per un minuto e misurando la [CO2] espirata;
la pressione parziale di CO2 alveolare si può misurare con la spirometria valutando la [CO2] nella parte più
terminale di un’espirazione forzata o si può misurare tramite un prelievo di sangue arterioso. Con il prelievo
di sangue arterioso si può misurare la pressione parziale di CO2 nel sangue arterioso e dato che questa è uguale
a quella che si ha nell’alveolo, si può utilizzare questo valore per inserirlo nell’equazione alveolare e avere il
valore della ventilazione alveolare.

Gas alveolari
È stato visto in precedenza come la pressione parziale di O2 si riduca nel passaggio dall’esterno alla trachea
per la presenza del vapore acqueo. In trachea si ha un valore di pressione parziale di O2 pari a 150 mmHg.
Negli alveoli si modifica ancora il valore di pressione parziale di O2? Cambia qualcosa rispetto alla trachea?
La risposta è sì, perché l’O2 negli alveoli passa nel sangue, attraversando la barriera alveolo-capillare; questa
quota di ossigeno viene sostituita dalla CO2 che a sua volta passa dal sangue all’aria alveolare. Quindi, la
frazione dell’ossigeno nella miscela di gas che riempie l’alveolo si riduce, perché una quota passa nel sangue
e viene persa. La frazione di ossigeno nell’area alveolare è più bassa di quella che si aveva nell’area tracheale.
Come si può calcolare la pressione parziale di ossigeno nell’alveolo? La pressione parziale di O 2 nell’aria
alveolare è uguale a quella presente in trachea diminuita della quota passata al sangue. Questa quota passata
al sangue non si può misurare, ma si può misurare la quota di anidride carbonica arrivata dal sangue: se tanto
ossigeno passa dall’alveolo al sangue quanta anidride carbonica passa dal sangue all’alveolo, si può calcolare
la pressione parziale di O2 nell’alveolo sottraendo alla pressione parziale dell’O2 in trachea la pressione
parziale dell’anidride carbonica nell’alveolo.
Questo è un ragionamento valido se effettivamente la quantità di ossigeno che passa dall’alveolo al sangue è
uguale alla quantità di anidride carbonica che passa dal sangue all’alveolo, ma generalmente non è così:
normalmente il nostro organismo consuma per il metabolismo più ossigeno di quanta anidride carbonica
produca: si ha cioè un mismatch, l’uomo medio consuma circa 250 mL di O 2 al minuto e produce circa 200
mL di CO2 al minuto. Il rapporto tra anidride carbonica prodotta e ossigeno consumato viene chiamato
quoziente respiratorio (QR).

CO2 escreta dai polmoni n° di molecole di CO2 prodotte


QR = ( )
O2 assunto dai polmoni n° di molecole di O2 consumate dal metabolismo

Questo rapporto non è costante ma dipende dal metabolismo, dagli alimenti che vengono utilizzati per creare
energia; a seconda della dieta che ogni individuo fa e che ogni giorno può cambiare, cambia il quoziente
respiratorio, che si può misurare tramite calorimetria. Il valore del quoziente respiratorio normalmente varia
tra 1, valore che si ha quando la dieta è costituita prevalentemente o esclusivamente da carboidrati, e 0,7,
valore che si ha quando la dieta è fortemente lipidica. Un valore medio di QR è uguale a 0,8.

359
Tenuto conto del QR, bisogna correggere l’equazione alveolare: se QR è uguale a 1 significa che la quantità
di O2 che passa dall’alveolo al sangue è uguale alla quantità di CO2 che passa dal sangue all’alveolo e quindi
la pressione parziale di ossigeno nell’alveolo è uguale alla pressione parziale di ossigeno nella trachea meno
la pressione parziale di anidride carbonica nell’alveolo. Se questo valore è invece diverso da 1, va inserito
nell’equazione e bisogna tener conto del valore del quoziente respiratorio per correggere il valore di pressione
parziale dell’O2.
Cosa ci dice l’equazione che lega la pressione parziale di CO2 alla pressione parziale dell’O2 e al QR? Ci
dice che tra pressione parziale di O2 e pressione parziale di CO2 c’è una relazione negativa, con una pendenza
che dipende dal quoziente respiratorio.
Equazione dei gas alveolari:
PACO2
PAO2 = PIO2 −
QR
PIO2 = pressione parziale di O2 inspirato.
PAO2 = pressione parziale di O2 in gas alveolare.
PACO2 = pressione parziale di CO2 in gas alveolare.

Questo è evidente nel grafico successivo:

In questo grafico è rappresentata sull’asse delle x la pressione parziale dell’O2 a livello dell’alveolo; sull’asse
delle y è rappresentata la pressione parziale di CO2 nell’alveolo.
Si inizia ad esaminare il grafico partendo dalla freccia rossa in basso a destra, tra il valore di 140 e 160 mmHg
sull’asse x; questo riporta i valori di pressione parziale di O2 a livello alveolare e il valore considerato è di 150
mmHg. Questo è il valore che avrebbe la pressione parziale di ossigeno nell’area alveolare se non ci fossero
scambi respiratori. Si consideri l’aria che dalla trachea arriva all’alveolo, ma gli alveoli non sono perfusi, il
cuore è fermo e si sta ventilando il soggetto artificialmente; non avvengono scambi respiratori per cui la
pressione parziale di ossigeno non varia e la pressione parziale di CO2 è uguale a 0.
Se ci sono scambi respiratori invece, la pressione parziale di O2 diminuisce e parallelamente aumenterà quella
di CO2. Il sistema è regolato in modo da mantenere costante il valore di CO2 nell’alveolo e nel sangue arterioso
a 40 mmHg, valore che nel grafico corrisponde ai pallini azzurri. Ci sono molti pallini azzurri perché il valore
di pressione parziale di ossigeno quando la pressione di CO2 = 40 mmHg, dipende dal quoziente respiratorio.
Al quoziente respiratorio di 0,8, avremo un valore di pressione parziale di CO2 di 40 mmHg in corrispondenza
di un valore di pressione parziale di O2 di 100 mmHg. Se il QR cambia, varia anche il valore di PO2 quando la
PCO2 raggiunge il valore regolato di 40 mmHg. Più si riduce il quoziente respiratorio, più si riduce la pressione
parziale di ossigeno perché la riduzione di QR indica che viene consumato più ossigeno di quello che si
consuma per valori di quozienti respiratori più alti: il suo valore alveolare sarà per questo ridotto.
All’aumentare del QR invece, la pressione parziale di O2 che corrisponde ad una di PCO2 di 40 mmHg, aumenta.

L’equazione dei gas alveolari evidenzia la relazione precisa tra PCO2 e PO2; il valore che il nostro sistema
regola è quello di anidride carbonica; per questo valore si ottiene un valore di PO2 che varia in dipendenza del
QR. Non c’è quindi un valore unico, ma c’è una famiglia di valori che varia nel tempo al variare della dieta

360
del soggetto. È normale avere una pressione parziale di ossigeno a livello alveolare che varia dai 95 ai 105
mmHg a seconda della dieta.

Le concentrazioni dei gas respiratori cambiano non solo in


funzione della dieta ma fluttuano nel tempo, soprattutto quella
di ossigeno, in relazione agli atti respiratori: si parla sempre di
una pressione parziale media nell’aria alveolare, ma questo
valore non è costante: raggiunge valori più alti alla fine
dell’inspirazione e un po’ più bassi alla fine dell’espirazione.
Ogni volta che si immette aria fresca, si aggiunge al pool
dell’aria già presente nel sistema respiratorio ossigeno fresco.
In quel momento aumenta PO2. La concentrazione di ossigeno
in questo pool alveolare rimane costante nel tempo, con
piccole oscillazioni durante l’inspirazione e l’espirazione.

15.3. Misura dello spazio morto

Con il termine spazio morto si intende la zona dell’albero respiratorio non disponibile per gli scambi di
gas. È la parte di conduzione delle vie aeree che permette il trasporto di aria dall’ambiente esterno alle cavità
alveolari. Il volume corrente che si inspira ad ogni atto respiratorio non raggiunge totalmente lo spazio
alveolare ma in parte rimane nello spazio morto, quindi la quota di volume corrente che rimane nello spazio
morto non partecipa agli scambi respiratori. Se per qualche ragione lo spazio morto aumenta le sue dimensioni,
la quantità di aria disponibile agli scambi va proporzionalmente a diminuire. Lo spazio morto può essere
definito in due maniere:
1. spazio morto anatomico, ovvero il volume delle vie aeree prive di alveoli: normalmente in una
persona sana lo spazio morto corrisponde a circa 1/3 del volume corrente;
2. spazio morto fisiologico, in condizioni patologiche la quantità di aria che non partecipa agli scambi
respiratori può essere superiore a quella riferita allo spazio morto anatomico perché ci può essere una
quota di alveoli che sono normalmente ventilati ma non sono perfusi e che quindi ricevono aria ma
non ricevono sangue con cui far avvenire i processi di scambio. Quindi si definisce spazio morto
fisiologico tutto il volume che non partecipa agli scambi respiratori comprendendo quindi le vie aeree
(spazio morto anatomico) più il volume di tutti gli alveoli che vengono ventilati ma non vengono
perfusi.
Maggiore è lo spazio morto e più sarà compromessa la quota degli scambi respiratori, per cui è utile misurare
gli spazi morti anatomico e fisiologico per valutare l'efficacia degli scambi respiratori.

Misura dello spazio morto anatomico: metodo di Fowler


Lo spazio morto anatomico può essere misurato tramite il metodo di Fowler che consiste nel far eseguire al
soggetto una singola inspirazione di O2 al 100% (in aria ambiente la quota di O2 è circa il 20% mentre quella

361
di azoto corrisponde al restante 80%) tramite un’apparecchiatura che presenta un dosimetro per misurare la
concentrazione di azoto sia in entrata che in uscita durante l’atto respiratorio.
In seguito all’inspirazione di O2 al 100% si può osservare una diminuzione della concentrazione di azoto,
che è pari allo 0% alla fine dell’inspirazione.
Nella fase di espirazione si ha in un primo
momento la fuoriuscita di aria che corrisponde
allo spazio morto anatomico e quindi una quota di
O2 puro che era stato somministrato che non viene
percepita dal dosimetro. Un’altra quota di O2
raggiunge le cavità alveolari e si miscela con l’aria
presente all’interno dell’alveolo che presenta una
normale quota di azoto all’interno. L’aria espirata
durante la seconda fase dell’espirazione conterrà
quindi azoto, anche se in quantità minore rispetto
ai valori normali che si registrerebbero in seguito
ad una inspirazione di aria ambientale.
Quindi se 500 mL è il volume corrente, 150 mL
di questo rimane nelle vie respiratorie mentre i
restanti 350 mL raggiungono la cavità alveolare
per miscelarsi con l’azoto qui presente. Al
momento dell’espirazione vengono espirati i 500
mL e vengono percepiti dal dosimetro solo i 350 mL che si sono miscelati all’azoto. Si può quindi cosi risalire
allo spazio morto anatomico.
Riferendoci all’immagine nella pagina successiva, il Pannello B mostra una rappresentazione solo virtuale
della concentrazione di azoto rilevata durante l’espirazione, perché l’aria alveolare si mescola, anche se in
piccole quantità, con l’aria presente nello spazio morto anatomico e quindi la misurazione di azoto è più simile
al pannello C, in cui la concentrazione di azoto percepita dal dosimetro è graduale, con andamento sigmoide
(e non con un angolo a 90° che indica un aumento improvviso di concentrazione di azoto espirato come nel
pannello B). Si traccia quindi una linea verticale che individua due aree di superficie uguale (area a e area b
nel pannello C) in modo da approssimare la situazione reale del pannello C a quella teorica rappresentata nel
pannello B. Lo spazio morto quindi corrisponde a VD rappresentato dalla freccia a due sensi nell’area grigia.

Dal Boron & Boulpaep: “Nel 1948, Ward Fowler ideò un metodo per stimare lo spazio morto anatomico basato sul
lavaggio di N2 proveniente dai polmoni. Il concetto di base è che N 2 fisiologicamente inerte. Dopo che il soggetto ha

362
respirato aria ambiente, l’aria alveolare è formata all’incirca per il 75% da N 2. Dopo un’espirazione tranquilla, quando il
volume polmonare è pari alla CFR (punto 1), il soggetto esegue un singolo respiro normale (circa 500 mL). L’aria inspirata
è O2 al 100%, anche se in teoria potremmo usare qualsiasi miscela atossica di gas priva di N 2. La prima parte dell’O2
inspirato entra negli spazi alveolari (punto 2), dove si miscela rapidamente per diffusione e diluisce N 2 e gli altri gas
rimasti dopo i respiri precedenti di aria ambiente (punto 3). L’ultima parte dell’O 2 inspirato (circa 150 mL) resta nelle vie
aeree di conduzione, che hanno una PN2 pari a zero. Il soggetto esala ora circa 500 mL d’aria (punto 4). Se non fosse
avvenuta alcuna miscelazione tra l’aria priva di N2 nelle vie aeree di conduzione più distali e l’aria contenente N 2 negli
spazi alveolari più prossimali, i primi 150 mL circa d’aria che emergono dal corpo avrebbero un valore di [N 2] pari a zero
(figura B). Dopodiché osserveremmo una netta transizione a un valore molto più alto di [N 2] negli ultimi 350 mL circa di
aria espirata. Perciò, il volume espirato con [N2] pari a zero rappresenterebbe l’aria proveniente dalle vie aeree di
conduzione (spazio morto anatomico), mentre il resto rappresenterebbe l’aria proveniente dagli alveoli. In realtà, avviene
un certo grado di miscelazione tra l’aria nelle vie aeree di conduzione e gli alveoli, per cui la transizione è a forma di S
(figura C). Una linea verticale tracciata attraverso la curva a forma di S in modo che l’area a equivalga all’area b indica
la transizione idealizzata tra l’aria proveniente dalle vie aeree di conduzione e l’aria alveolare. Il volume polmonare
espirato in corrispondenza di questa linea verticale è perciò lo spazio morto anatomico.”
Lo spazio morto anatomico nel corso della vita di un individuo rimane circa costante mentre lo spazio morto
fisiologico può mutare a causa di condizioni patologiche che escludono alcuni alveoli dalla circolazione
polmonare.

Misura dello spazio morto fisiologico: metodo di Bohr


La misurazione dello spazio morto fisiologico attraverso il metodo di Bohr si basa sugli stessi principi
utilizzati per misurare la ventilazione alveolare.

Ventilazione alveolare = volume alveolare x frequenza respiratoria


(per volume alveolare si intende la quota di volume corrente che raggiunge gli alveoli)

Possiamo misurare la ventilazione alveolare basandoci sul fatto che tutto il flusso di anidride carbonica
espirata proviene dagli alveoli e possiamo basarci su questo principio per misurare lo spazio morto fisiologico:
la quantità di CO2 che viene espirata, quindi la frazione di CO2 nel volume corrente (VC x FECO2), proviene
tutta dall’alveolo e quindi è uguale alla quantità di CO2 presente nel volume alveolare (VA x FACO2).
Quindi:

𝑉𝐶 × 𝐹𝐸𝐶𝑂2 = 𝑉𝐴 × 𝐹𝐴𝐶𝑂2

Dato che il volume alveolare è uguale al volume corrente meno il volume dello spazio morto (𝑉𝐴 = 𝑉𝐶 − 𝑉𝑀 )
possiamo scrivere:

𝑉𝐶 × 𝐹𝐸𝐶𝑂2 = (𝑉𝐶 − 𝑉𝑀 ) × 𝐹𝐴𝐶𝑂2

𝑉𝑀 𝐹𝐴𝐶𝑂2 − 𝐹𝐸𝐶𝑂2
=
𝑉𝐶 𝐹𝐴𝐶𝑂2

Dato che la pressione parziale di un gas è proporzionale alla sua frazione, l’equazione di Bohr ci dice che è
possibile misurare il volume dello spazio morto fisiologico se si conosce il volume corrente (che è possibile
misurare con la spirometria), la pressione parziale di anidride carbonica nell'aria alveolare (misurabile tramite
prelievo di sangue arterioso perché la PCO2 arteriosa corrisponde alla PCO2 dell’alveolo) e la PCO2 nell’aria
espirata misurabile con un dosimetro di CO2 connesso allo spirometro.

𝑽𝑴 𝑷𝑨𝑪𝑶 −𝑷𝑬𝑪𝑶
𝟐 𝟐
Equazione di Bohr: =
𝑽𝑪 𝑷𝑨𝑪𝑶
𝟐

La ventilazione alveolare è un aspetto molto importante in quanto rappresenta il flusso di aria che in ogni
minuto partecipa agli scambi gassosi; quindi da un lato si ha la ventilazione polmonare totale (VC x frequenza
respiratoria), che rappresenta tutta l'aria che si immette nel sistema respiratorio in un minuto, e dall'altro c'è la
ventilazione alveolare che è solo una parte della ventilazione totale, che riguarda esclusivamente l'aria che
partecipa agli scambi respiratori: (VC – VM) x frequenza respiratoria.

363
Per aumentare l'entità degli scambi gassosi
bisogna aumentare la ventilazione alveolare
attraverso l'aumento del volume corrente
oppure incrementando la frequenza
respiratoria. In entrambi i casi aumenta la
ventilazione polmonare e quindi la
ventilazione alveolare. Come si può osservare
dalla tabella raddoppiare il volume corrente è
più efficace rispetto al raddoppiare la
frequenza respiratoria.
Questo si spiega perché aumentando il volume corrente si ha un aumento del volume alveolare (mentre lo
spazio morto non cambia), mentre aumentando la frequenza respiratoria lo spazio morto ha una rilevanza
maggiore in quanto ad ogni atto respiratorio il volume alveolare non cambia.

15.4. Barriera alveolo-capillare e


15.5. Misura della capacità di diffusione polmonare

Diffusione alveolare e legge di Graham


Gli scambi respiratori avvengono per diffusione, quindi attraverso un meccanismo passivo. L'aria fluisce
lungo le vie aeree secondo un gradiente di pressione propulsiva (differenza tra pressione barometrica e
pressione alveolare) e la velocità del flusso diminuisce via via che si ci approfonda lungo le vie respiratorie,
perché la superficie complessiva aumenta (bronchi e bronchioli si dividono tra di loro in maniera dicotomica
provocando un aumento della superficie): a livello alveolare la velocità del flusso è praticamente pari a zero e
la diffusione può avvenire in maniera adeguata.
Per comprendere la velocità di diffusione di un gas si ricorre alla legge di Graham, che ci dice che la velocità
di diffusione di un gas è inversamente proporzionale alla radice quadrata del suo peso molecolare. Una
molecola gassosa di grosse dimensioni diffonde cioè più lentamente rispetto ad una molecola gassosa di piccole
dimensioni. CO2 presenta un peso molecolare maggiore rispetto a O2, ma non sono valori così distanti da loro
da generare una differenza significativa.
Acquisisce una rilevanza maggiore il coefficiente di solubilità (α), che indica la velocità di diffusione di un
gas in un mezzo liquido (quindi gas diversi hanno una differente tendenza a solubilizzarsi in un liquido). Il
coefficiente di solubilità della CO2 è di venti volte maggiore rispetto al coefficiente di solubilità dell’O2 e
quindi la velocità con cui CO2 passa da un mezzo gassoso ad uno liquido è molto maggiore della velocità con
cui lo fa l’O2.
Quando un gas deve diffondere attraverso un tessuto come la barriera alveolo-capillare entrano in gioco
anche le caratteristiche del tessuto. Questa relazione è stata descritta dalla legge di Fick, che afferma che la
diffusione di un gas attraverso una lamina di tessuto è direttamente proporzionale all’area del tessuto
A, alla costante di diffusione dello specifico gas D (dipendente dal coefficiente di solubilità e dal peso
molecolare) e alla differenza della pressione parziale ai due lati del tessuto, e inversamente proporzionale
al suo spessore T.

(𝑷𝟏 − 𝑷𝟐 )
𝑽̇𝐠𝐚𝐬 = 𝑨 × 𝑫 ×
𝑻
Come evidenziato dalla legge di Fick, il flusso di un gas attraverso un tessuto è direttamente proporzionale
all’area del tessuto (maggiore è l’area, maggiore sarà la diffusione) e alle caratteristiche del gas stesso,
riassunte dal parametro costante di diffusione. Quest’ultima dipende in primo luogo dal peso molecolare (più
alto sarà il peso molecolare, minore sarà la costante di diffusione di quel gas) e dal coefficiente di solubilità
(maggiore è tale coefficiente, maggiore sarà la costante di diffusione). In ultimo la diffusione dipende in
maniera direttamente proporzionale dalla forza che spinge il gas ad attraversare il tessuto, cioè la differenza
della pressione parziale ai due lati del tessuto stesso (P1 – P2). Dipende invece in modo inversamente
proporzionale dallo spessore del tessuto che il gas deve attraversare.
Questi parametri variano nel nostro sistema respiratorio.
 P1 – P2: forza che spinge il gas ad attraversare la lamina del tessuto.

364
La differenza di pressione parziale dell’O2 è estremamente elevata; la sua pressione parziale nel gas
alveolare è intorno ai 100 mmHg, mentre nel sangue venoso misto trasportato dall’arteria polmonare
(deossigenato) è invece intorno ai 40 mmHg. La differenza di pressione parziale P1 – P2 è 100 mmHg
– 40 mmHg = 60 mmHg.
Per quanto riguarda la CO2, la sua pressione parziale nel capillare è di 46 mmHg, mentre all’interno
della cavità alveolare è 40 mmHg. La differenza P1 – P2 è 46 mmHg – 40 mmHg = 6 mmHg. La
differenza di pressione parziale in questo caso è dieci volte inferiore. Questo fatto non stupisce, perché
la solubilità dell’anidride carbonica è significativamente più alta di quella dell’ossigeno, quindi
l’ossigeno ha bisogno di una maggiore spinta per scambiare una quantità di gas analoga a quella della
CO2 (leggermente superiore) in quanto la sua resistenza al passaggio è superiore rispetto a quella della
CO2.

I gradienti di pressione parziale per O2 e CO2 rivelano che la forza che spinge l’ossigeno a passare
dall’alveolo al capillare è superiore di quella che spinge l’anidride carbonica a passare dal capillare
allo spazio alveolare.
 Area della superficie di scambio A
Quest’area corrisponde a quella degli alveoli ventilati e perfusi (non vanno quindi considerati quelli
non perfusi, sebbene ventilati, che fanno parte dello spazio morto fisiologico). In un individuo adulto
questa superficie corrisponde a circa 70/80 m2.
 Spessore del tessuto
Lo spessore del tessuto invece varia da 1 µm a 0,3 µm in alcune aree. Questo perché la membrana
basale delle cellule epiteliali di tipo 1 della parete alveolare è fusa con la membrana basale delle cellule
endoteliali del capillare, dunque in questi punti lo spessore si riduce a 0,3 µm.

Capacità di diffusione polmonare e sua misurazione attraverso il CO


Ovviamente alterazioni patologiche dall’area della superficie alveolo-capillare disponibile allo scambio o
l’ispessimento della barriera compromettono il flusso dei gas attraverso il polmone. Non è facile misurare in
un paziente questo tipo di alterazioni, poiché è oggettivamente impossibile andare a misurare area e spessore
di un polmone in un soggetto in vivo. Viene quindi utilizzato un altro parametro per valutare un’eventuale
compromissione del polmone, cioè la capacità di diffusione polmonare (Dp).

𝐴×𝐷
Dp =
𝑇
Dp è una grandezza che comprende area, spessore e costante di diffusione, cioè tutti i parametri che non
dipendono dal gradiente di pressione parziale. Essa esprime la facilità con cui uno specifico gas attraversa la
barriera alveolo-capillare per ogni mmHg di gradiente di pressione parziale.

̇ = Dp (𝑃1 − 𝑃2 )
𝑉gas

̇
𝑉gas
Dp =
(𝑃1 − 𝑃2 )

Questo parametro è molto importante perché è indicativo della funzionalità degli scambi respiratori. Il valore
di Dp per ciascun gas può essere misurato e confrontato con valori standard (Dp avrà lo stesso significato
funzionale per ogni gas, ma non lo stesso valore, visto che esso dipende dalla costante di diffusione del gas
D). In un soggetto sano si avranno dei normali valori di Dp per ciascun gas. Se la capacità di diffusione
polmonare di un gas è inferiore ai valori standard vuol dire che il soggetto ha una diminuzione dell’area o un

365
aumento dello spessore del tessuto. Non è possibile distinguere quale parametro sia compromesso, si può solo
rilevare un’alterazione.
Se con il tempo in uno stesso soggetto la Dp per un determinato gas continua a diminuire, in quel soggetto
sarà in corso un processo patologico che compromette uno di questi parametri, come ad esempio un
ispessimento fibrotico, che può essere monitorato misurando la capacità di diffusione polmonare.

La misura della capacità di diffusione polmonare può essere effettuata prendendo in considerazione
qualunque gas poiché il suo significato fisiologico è lo stesso. In genere viene misurata la Dp del monossido
di carbonio (CO). È utile utilizzare CO perché questo gas non è normalmente presente nell’aria inspirata né
nell’organismo, per cui una volta inspirato (a bassa concentrazione, perché esso è estremamente tossico) esso
attraversa la membrana alveolo-capillare, ma la sua pressione parziale a livello del sangue capillare (P2) rimane
sempre pari 0, dal momento che CO non si discioglie fisicamente nel plasma (e la forma disciolta è l’unica
forma che esercita una pressione parziale) ma si lega con grande avidità all’emoglobina. È quindi sufficiente
misurare il flusso di CO dall’alveolo al capillare e la pressione parziale del gas a livello dell’alveolo, ma non è
necessaria la misurazione di P a livello del capillare. Qualsiasi altro gas presente anche nel sangue richiede
anche questa misura per determinare Dp.

𝑉̇CO = Dp (𝑃1 − 𝑃2 )

𝑉CO 𝑉CO
DpCO = =
𝑃1 − 𝑃2 𝑃𝐴CO
Per misurare la capacità di diffusione polmonare del CO si
esegue un test chiamato metodo del singolo respiro.
Metodo del singolo respiro: il soggetto compie una singola
inspirazione con mistura diluita di monossido di carbonio, in cui
[CO] = 0,3%. Si calcola quindi la velocità di scomparsa del CO
dagli alveoli durante i 10 s in cui viene trattenuto il respiro
misurando con un analizzatore ad infrarossi le concentrazioni
inspirate ed espirate di CO.
In un individuo sano di normale corporatura DpCO = 25 ml/min/mmHg. Questo valore rappresenta un
importante valore di riferimento attraverso il quale è possibile confrontare i valori individui diversi che
effettuano il test del singolo respiro utilizzando CO. Può poi essere utilizzato per monitorare uno stesso paziente
nel tempo valutando variazioni della Dp in presenza di condizioni patologiche.
Quando si parla di valore “normale” bisogna comunque tener conto delle condizioni del soggetto in esame:
ovviamente in un individuo di corporatura maggiore rispetto a quello di riferimento aumenterà il valore di
DpCO, così come questo valore è di norma più alto nell’uomo rispetto alla donna, nel giovane rispetto
all’anziano ecc.

Limitazioni allo scambio di gas: diffusione e perfusione


Lo scambio del gas non dipende solo dalla sua diffusione attraverso la barriera alveolo-capillare ma anche
dalla perfusione. La spinta che garantisce il passaggio del gas da una parte all’altra della lamina di tessuto
dipende dal gradiente di pressione parziale (in entrambe le direzioni); a mano a mano che un gas diffonde dalla
regione a pressione parziale maggiore a quella con pressione parziale minore (per O2 dall’alveolo al capillare),
la P2 di questo compartimento aumenta e di conseguenza il gradiente pressorio diminuisce. Considerando O2,
la pressione parziale a livello del capillare aumenta a mano a mano che questo gas diffonde dall’alveolo al
capillare. Quando il gradiente pressorio diventa pari a zero, per quanto la membrana sia permeabile a tale gas
e per quanto il coefficiente di diffusione di quel gas sia alto, se non è presente una forza di spinta lo scambio
non viene promosso. Per questa ragione è importantissima la perfusione: tanto più rapidamente viene rimosso
il sangue caricato di O2, tanto più velocemente sarà ripristinato il gradiente pressorio e il gas potrà continuare
a diffondere da un lato all’altro secondo gradiente.
La perfusione partecipa quindi alla determinazione della pressione parziale nel versante capillare. Un alto
flusso capillare rimuove velocemente il gas diffuso, mantenendone bassa la pressione parziale e favorendo la
diffusione; un flusso lento promuove una riduzione della diffusione aumentando il valore pressorio a livello
capillare.
Esempio pratico riguardante il CO, in riferimento al grafico qui riportato.

366
In questo grafico è riportato in ascissa il tempo di
transito del gas nel capillare; in condizioni normali –
a riposo – una goccia di plasma che percorre il
capillare polmonare impiega 0,75 secondi. In
ordinata è rappresentata la pressione parziale del gas
a livello capillare. La linea tratteggiata più bassa
(indicata da “alveolare”) indica la normale pressione
parziale di quel gas a livello dell’alveolo.
Il punto di ingresso del capillare corrisponde al
punto t = 0 s, il punto di uscita t = 0,75 s.
Una volta inspirato, CO passa spinto dal suo
gradiente di pressione nel capillare attraverso la
membrana alveolo-capillare, ma la pressione
parziale di CO a livello del capillare non aumenta.
Questo perché CO appena passato si lega
all’emoglobina. Di conseguenza la pressione
parziale di tale gas nel plasma non aumenta. Questo
significa che dall’inizio alla fine del capillare esiste
sempre e comunque un gradiente tra area alveolare e
capillare ed il gradiente non si esaurisce. L’unica
eventuale limitazione è dunque la diffusione, ma
non la perfusione.
Il protossido d’azoto (N2O), chiamato anche gas esilarante, non è normalmente presente a livello ematico,
quindi il sangue che entra a livello del capillare polmonare la pressione parziale di N2O = 0. Questo gas, a
differenza del CO, non si lega all’emoglobina, dunque tutto il N2O che passa dall’alveolo al sangue si scioglie
fisicamente e molto rapidamente la sua pressione parziale nel plasma raggiunge un valore uguale a quello
alveolare. Il passaggio di N2O dall’alveolo al capillare cessa dopo appena 0,05 s circa e durante tutto il resto
del tragitto capillare non succede più nulla, non c’è ulteriore passaggio di N 2O a livello ematico in quanto il
sangue è già saturo, e per aumentare la quantità di N2O che passa è necessario aumentare il flusso. Per questo
gas dunque il flusso è limitato dalla perfusione e non dalla diffusione.
Esaminando ora i gas presenti nell’organismo che partecipano agli scambi respiratori, si nota che l’O 2 si
differenzia dal N2O e dal CO perché il sangue che entra nel capillare ha già una pressione parziale (40 mmHg),
quindi la sua linea sul grafico (rossa) parte da valori di P ≠ 0.
L’O2 ha un comportamento a metà strada tra quello dei due gas citati, ma molto più vicino al comportamento
di N2O, ed è un gas il cui scambio a livello della membrana alveolo-capillare è sostanzialmente limitato dalla
perfusione. Infatti, dopo solo un terzo dal tragitto capillare, la pressione parziale di O2 a livello del sangue ha
raggiunto il valore di pressione parziale alveolare. In assenza di gradiente pressorio non vi sono ulteriori scambi
del gas. Il fatto che il sangue si saturi di O2 velocemente permette di avere quindi una ‘riserva’, perché se si
necessita di un maggior apporto di O2 ai tessuti si può aumentare il flusso ematico. L’ascesa del valore di
pressione capillare dell’O2 è più lenta rispetto a quella del N2O nonostante parta da valori di P > 0 perché parte
dell’ossigeno (e non poco) non si discioglie fisicamente nel plasma ma si lega all’emoglobina, tuttavia non con
la stessa avidità che caratterizza CO.
In condizioni normali viene raggiunta la pressione parziale dell’O2 nel capillare = 100 mmHg, che garantisce
la presenza di una quantità sufficiente di tale gas per i normali scambi metabolici. Questo vuol dire che viene
incamerata una quantità di ossigeno nel sangue che garantisce la funzionalità del metabolismo con una grande
riserva. Se diventa necessario un maggiore apporto di O2 per via di un aumento del consumo metabolico, è
sufficiente aumentare il flusso ematico per incrementare il trasporto di ossigeno.
In condizioni normali lo scambio di O2 è limitato dalla perfusione e può essere aumentato aumentando la
velocità di perfusione. Solo in condizioni patologiche esso viene limitato dalla diffusione (ad esempio se
aumenta lo spessore della membrana capillare), in cui dunque diventa difficile raggiungere i livelli di pressione
parziale alveolare di O2 a livello del capillare. Nello specifico, lo scambio non è limitato dal flusso ma dalla
capacità di diffusione polmonare.
Nel pannello B nella pagina successiva è rappresentata una condizione normale. La curva nera si riferisce ad
un soggetto normale con normale capacità di diffusione polmonare (DL = 1 vuol dire uguale alla norma). Le
curve rosse e blu si riferiscono a soggetti che hanno una capacità di diffusione polmonare aumentata (curva
rossa – ad esempio un atleta) o ridotta (curva blu – ad esempio un paziente con edema polmonare).

367
Nel pannello C viene illustrata una condizione di
attività fisica. La curva rossa rappresenta un
soggetto che ha normale flusso polmonare e
normale capacità di diffusione polmonare e che
deve ancora iniziare l’attività fisica. Questo
soggetto sano inizia l’attività fisica (linea verde):
DL rimane = 1, ma il flusso triplica. In questo
modo viene comunque saturato tutto il sangue
anche se scorre ad una velocità maggiore, quindi
in periferia arriverà una quantità maggiore di
sangue completamente ossigenato. La capacità di
diffusione dell’ossigeno è talmente alta che anche
se il sangue scorre più velocemente, vengono
comunque raggiunti i 100 mmHg. Questo non
succede in situazione patologica, se la capacità di
diffusione cala (curva marrone). Il soggetto
considerato, quando inizia l’attività fisica, non
riesce a saturare completamente il sangue di O2,
non riuscendo a raggiungere i 100 mmHg. In
questo caso lo scambio di ossigeno è
evidentemente limitato dalla diffusione.
Una situazione ancora più critica si ha nella
respirazione ad alta quota (pannello D). In questa
condizione, essendo diminuita la pressione
barometrica, diminuisce anche la pressione
parziale dell’O2 alveolare. Anziché 100 mmHg, la
pressione parziale scenderà a 50 mmHg.
Nonostante anche la pressione parziale di O2 nel
sangue venoso cali da 40 a 20 mmHg perché
l’estrazione periferica di ossigeno aumenta,
comunque il gradiente di pressione parziale tra
alveolo e sangue è diminuito rispetto alla
respirazione che avviene a livello del mare.
Essendo la spinta che fa passare l’ossigeno più
bassa, il punto di equilibrio viene raggiunto non
nel primo terzo del capillare ma più avanti. La
capacità di diffusione è sufficiente a raggiungere
la PAO2 anche in presenza di un gradiente pressorio più basso ma ci vuole più tempo (curva rossa). Se un
soggetto compie attività fisica ad alta quota, la velocità di flusso aumenta e non riesce a raggiungere il normale
valore di PAO2 (è necessario “acclimatarsi”: il discorso sarà spiegato nel dettaglio nelle tesine successive). Dal
Boron: “La combinazione di attività fisica e alta quota può far sì che il trasporto di O2 diventi limitato dalla
diffusione anche nelle persone sane”. Lo stato di ipossia che si verifica in questa condizione promuove la
produzione di emoglobina, quindi a lungo termine aumenterà la quantità di emoglobina nel sangue facilitando
così l’esercizio fisico ad alta quota.

Domande degli studenti.


1. Quando consideriamo la solubilità di un gas respiratorio, dobbiamo considerare sia il fatto che sia facilmente
solubile nel plasma, sia che si leghi o meno all'emoglobina?
Quando si esamina la solubilità, si considera soltanto il fatto fisico, cioè la solubilità del gas nel plasma. Non si
considera il fatto che si leghi o meno all’emoglobina.
2. Perché un soggetto allenato a riposo presenta una diffusione di ossigeno aumentata (pannello B slide)?
Nel pannello B la curva rossa può fare riferimento ad un soggetto in buone condizioni di salute ed allenato.
Queste condizioni possono infatti aumentare la capacità di diffusione polmonare perché l’allenamento fisico
determina un reclutamento capillare che aumenta il numero di alveoli perfusi e una maggiore distensione dei
vasi polmonari, con conseguente aumento della superficie di scambio (dunque aumenta D L).

368
15.6. Circolazione polmonare

Il polmone è irrorato da una circolazione polmonare (che deriva dall’arteria polmonare) il cui scopo è quello
di ossigenare il sangue e rimuovere CO2. Il polmone e i bronchi sono inoltre irrorati da una circolazione
bronchiale (che deriva dall’aorta toracica), che ha lo scopo di nutrire il parenchima polmonare.
Il circolo polmonare e quello sistemico hanno caratteristiche completamente differenti, dal momento che il
secondo deve fornire sangue a distretti molto lontani dal cuore e necessita quindi di pressioni molto più elevate
rispetto al primo. Quello sistemico inoltre deve essere finemente regolato in base alle esigenze dei diversi
organi e distretti mentre quello polmonare deve irrorare tendenzialmente ogni parte del polmone in maniera
uguale, dato che ogni sua parte adempie alle medesime funzioni. Questo ci informa anche del fatto che per far
funzionare il circolo polmonare c’è bisogno di minore energia (il ventricolo destro ha infatti pareti più sottili
di quello sinistro) e del perché le arterie polmonari abbiano pareti muscolari più sottili (tanto da confonderle
con vene) e siano di conseguenza più distendibili di quelle sistemiche.
Esaminando i gradienti pressori che si hanno nella circolazione periferica e in quella polmonare si può
osservare che la pressione media in aorta è di ~90 mmHg mentre la pressione media nelle arterie polmonari
è di ~14 mmHg. La pressione alla fine della circolazione polmonare, cioè nell’atrio sinistro, è di 8 mmHg.
Anche la pressione nei capillari polmonari è inferiore a quella dei capillari sistemici, di circa la metà, con
valori intorno a 10 mmHg (valore compreso tra 12 mmHg a livello delle arteriole polmonari e 9 mmHg nelle
venule).

Resistenze del circolo polmonare


Un’altra grande differenza con il circolo
sistemico è che la maggior resistenza al circolo
polmonare è dato dai capillari, mentre in quella
sistemica è data dalle arteriole. La resistenza
offerta dai capillari polmonari (RCP) è ~10 volte
inferiore rispetto a quella data dai vasi sistemici
(1,7 mmHg/L/min contro 17 mmHg/L/min).
Questo lo si può comprendere sulla base della
formula usata per calcolare la resistenza:

∆𝑃
𝑅=
𝐹
Il flusso è il medesimo per le due circolazioni
(la gittata cardiaca è la stessa), ma varia
notevolmente la ΔP, che nel circolo sistemico
vale ~100 mmHg (la P venosa, in uscita, è
paragonabile a 0 se confrontata alla pressione
arteriosa, in ingresso) e nel circolo polmonare
~10 mmHg.
Le resistenze del circolo polmonare possono
ulteriormente ridursi per un aumento della pressione intravascolare sia venosa che arteriosa, quindi a monte
e a valle dei capillari. La riduzione è dovuta a due cause:
1. il fatto che i capillari siano distendibili, quindi pronti ad accogliere un maggior volume di sangue con
conseguente riduzione delle resistenze;
2. perché ci sono dei capillari anatomicamente presenti ma non sempre perfusi in condizioni di bassa
pressione (specialmente nella porzione intermedia del polmone). Questi capillari tuttavia possono
essere reclutati per un aumento di pressione arteriosa.

369
In questo grafico si riporta ciò che succede andando ad
aumentare separatamente la pressione arteriosa e venosa
(possibile con un esperimento non in vivo) e le conseguenze
sulle resistenze vascolari polmonari.
Aumentando la pressione arteriosa o venosa (cioè
spostandosi verso destra sul grafico) si nota come la
resistenza vascolare diminuisca. Lo si spiega perché i vasi
vengono distesi con facilità.

Un’ulteriore caratteristica delle resistenze vascolari


polmonari è che esse possono variare al variare del
volume del polmone.
La variazione della resistenza al variare del volume
polmonare però è diversa a seconda che si considerino i vasi
extra-alveolari (fuori dall’alveolo, ad es. arterie, arteriole,
venule ecc.) o i capillari alveolari (che si trovano dentro
l’alveolo).
 Quando il volume polmonare aumenta durante un’inspirazione e si ha un aumento della negatività
intrapleurica, i vasi extra-alveolari vengono stirati insieme al parenchima polmonare perché sono
ancorati al suo tessuto elastico: di conseguenza la resistenza di questi vasi diminuisce.
 Al contrario i capillari alveolari, per la loro localizzazione anatomica nella parete degli alveoli, quando
il volume polmonare aumenta vengono compressi, perché la parete alveolare viene stirata: si immagini
una lamina che viene tirata ed al suo interno si trovano i capillari, che quindi risultano schiacciati.
Ad un aumento del volume polmonare la resistenza dei capillari aumenta, al contrario quella dei vasi
extra-alveolari diminuisce.

Nell’immagine in alto si osserva la forma dei capillari a livelli di volume corrispondenti alla capacità
funzionale residua (CFR): essi sono pervi. Quando ci spostiamo verso la capacità polmonare totale (CPT) e
quindi quando il volume polmonare è aumentato le pareti alveolari si stirano ed i capillari all’interno vengono
compressi. La curva mostra come la resistenza vascolare dei capillari aumenti all’aumentare del volume
polmonare. Al contrario nei vasi extra-alveolari, lo stiramento della parete alveolare non influisce su di loro,
essendo localizzati al di fuori dell’alveolo. Ciò che accade è invece che essi aumentano le loro dimensioni con
l’espandersi dei polmoni, diminuendo la loro resistenza.
Nel grafico è infine rappresentata la resistenza vascolare polmonare totale al variare del volume
polmonare: è rappresentata con la curva rossa continua che rappresenta la somma delle due curve tratteggiate,

370
che si riferiscono ai vasi extra-alveolari e ai capillari. N.B. Da notare come le due curve tratteggiate si
incontrino a livello della CFR, a sottolineare questo valore come punto di equilibrio del sistema.

Regolazioni delle resistenze vascolari polmonari


Le resistenze vascolari polmonari possono essere
finemente regolate, così come quelle periferiche.
 Il sistema nervoso simpatico gioca un ruolo
di secondaria importanza nella regolazione
del flusso ematico polmonare mentre per
quello sistemico è fondamentale.
 Il parasimpatico a livello dei vasi sistemici
ha poca importanza, ad eccezione della sua
azione a livello genitale e cerebrale, dove
stimola tramite acetilcolina il rilascio di NO
da parte delle cellule endoteliali, il quale
agisce sui livelli di cGMP e di Ca2+
provocando rilasciamento muscolare e
vasodilatazione. Questo meccanismo lo si osserva anche a livello del circolo polmonare, tuttavia, come
per il simpatico, ha poca rilevanza ed effetti non importantissimi sulla regolazione della resistenza
dei suoi vasi.
 Ci sono altre sostanze rilasciate dall’endotelio dei vasi polmonari che hanno effetti sulla muscolatura
liscia e conseguentemente sulla resistenza. Una sostanza liberata direttamente dalle cellule muscolari
lisce è l’istamina, che determina una contrazione della muscolatura liscia con aumento delle
resistenze. Analogo effetto è causato dalla serotonina, rilasciata invece dalle piastrine.
 Una particolare regolazione è data dall’ipossia. La risposta all’ipossia a livello sistemico è la
vasodilatazione così da aumentare il flusso e l’apporto di O2. Nel polmone accade il contrario: i vasi
con sangue ipossico si costringono così da dirottare il sangue verso zone del polmone in cui i vasi
riescono opportunamente ad ossigenare il sangue. Questo fa in modo di far uscire dal polmone sangue
con più ossigeno possibile, cosa che può essere fatta appunto escludendo “dal lavoro” vasi in cui sta
avvenendo l’ipossia.
Osservando il grafico di fianco, consideriamo la curva blu in condizioni di normossia (normale PO2 a
livello degli alveoli). Si osserva una relazione tra aumento della pressione di perfusione (o pressione
intravascolare) sull’ asse delle x ed aumento del flusso
sulle y. La relazione non è lineare in quanto un
raddoppio della pressione di perfusione provoca un
aumento di tre volte del flusso ematico. Ciò accade
perché un aumento della pressione di perfusione va a
diminuire le resistenze a livello dei vasi, che sono
distendibili, con conseguente aumento del flusso. Il
paragone della curva con le curve verdi di
isoresistenza (cioè curve che rappresentano una
situazione in cui la resistenza non varia al variare della
pressione) evidenzia il fatto che l’aumento della
pressione intravascolare va a ridurre la resistenza dei
vasi.
La curva rossa di ipossia è spostata verso il basso
rispetto alla curva di normossia, il che significa che
c’è bisogno di pressioni più alte per ottenere lo stesso
flusso perché le resistenze sono aumentate, a causa del fenomeno della vasocostrizione ipossica (cosi
denominata perché la causa è appunto l’ipossia).
Se la zona del polmone coinvolta dall’ipossia è minima allora non si ha una grande variazione delle
resistenze periferiche polmonari, mentre possono variare se l’ipossia si ha in più del 20% dei vasi, con
l’aggiunta aggravata di incorrere in ipertensione polmonare.

371
15.7. Rapporto ventilazione-perfusione: differenze regionali polmonari del rapporto
ventilazione-perfusione; eccesso di ventilazione rispetto alla perfusione; eccesso della
perfusione rispetto alla ventilazione

Distribuzione del flusso polmonare in ortostatismo


Si è detto che il circolo polmonare è un circolo a bassa pressione e basse resistenze. Ciò fa sì che variazioni
della pressione idrostatica influiscano di più che nella circolazione sistemica. A livello sistemico il flusso
dipende dalla differenza della pressione arteriosa e venosa, nel circolo polmonare c’è un altro “attore”
rappresentato dalla pressione alveolare, essendo i capillari all’interno degli alveoli. Sappiamo che la pressione
idrostatica è quella pressione esercitata da una colonna di liquido, in questo caso il sangue, il quale esercita
una pressione di 0,77 mmHg per cm al di sopra o sotto del livello iniziale.
Nella parte apicale del polmone, che dista ~15 cm dall’ilo bisogna quindi sottrarre al valore pressorio un
valore di pressione esercitato da una colonna di sangue di 15 cm, effettuando quindi una correzione
idrostatica. Questo valore va invece aggiunto per la determinazione della pressione dei vasi che si trovano al
di sotto dell’ilo.
All’apice del polmone di un soggetto in piedi (in ortostatismo), indicata come zona 1 nell’immagine, la
pressione arteriosa raggiunge i suoi valori minimi perché si sottrae al suo valore quello dovuto alla correzione
idrostatica. In queste condizioni in alcuni momenti la pressione alveolare può essere superiore di quella
all’interno del capillare, quindi la pressione transmurale del capillare diventa negativa, ed il capillare risulterà
compresso dalla pressione alveolare, con conseguente aumento di resistenza e diminuzione di flusso al suo
interno. Ciò non accade in condizioni fisiologiche, tuttavia può accadere in casi in cui la pressione arteriosa
del soggetto sia particolarmente bassa con conseguente ipoperfusione delle zone apicali.
Nella zona polmonare indicata nell'immagine come zona 2 invece la pressione arteriosa è più alta rispetto
a quella dell'apice perché il fattore idrostatico conta molto poco (è quasi uguale a zero). Qui generalmente la
pressione arteriosa è superiore a quella
alveolare, ma quella alveolare può essere
superiore a quella venosa, quindi la
pressione alveolare gioca come un
resistore di Starling e può andare a
determinare una tendenza al collasso del
versante venoso del capillare. Il flusso è
quindi determinato non dalla differenza tra
pressione arteriosa e venosa ma dalla
differenza tra pressione arteriosa e
alveolare, mentre la pressione venosa
diventa irrilevante. Possono essere presenti
dei capillari che per ragioni geometriche di
disposizione dei vasi ricevono sangue con
una pressione più bassa e che in alcune
condizioni non sono ancora perfusi ma
possono venire reclutati in condizioni in cui
la pressione arteriosa aumenta o quella
alveolare diminuisce. La zona 2 è quindi tutto sommato ben perfusa e può incrementare il suo flusso mediante
reclutamento di capillari quando la pressione arteriosa aumenta.
La zona che viene maggiormente perfusa è invece la zona basale del polmone (nell'immagine zona 3), dove
non ci sono problemi, perché anche se la pressione arteriosa è bassa, si somma al suo valore quello della
pressione idrostatica, per cui la pressione arteriosa ma anche la pressione venosa sono sempre superiori alla
pressione alveolare. Nella zona 3 quindi tutti i capillari sono comunque sempre perfusi ed è possibile
aumentare la superficie di scambio dilatando i capillari, che già erano perfusi ma che possono così ricevere più
sangue.
Le tre zone polmonari appena descritte si distinguono sulla base dell'effetto che la pressione alveolare
esercita sul flusso, il quale è differenziale, perché si è in un circolo a bassa pressione e l'effetto della pressione
idrostatica si esercita in maniera diversa sulle tre zone delineando tre pattern di vascolarizzazione diversi.

Distribuzione della ventilazione del polmone in ortostatismo

372
Sono state precedentemente esaminate le caratteristiche della perfusione del flusso a livello del polmone e
ne è risultato che (sempre in un soggetto in posizione eretta) è più bassa nella parte apicale del polmone e
maggiore nella parte basale, quindi non è omogenea ma varia secondo un criterio spaziale. La stessa cosa vale
per la ventilazione.
Gli alveoli della parte apicale del polmone sono normalmente più espansi degli alveoli presenti alla base del
polmone e questo è dovuto al fatto che il polmone ha il suo peso e tende per forza di gravità a cadere verso il
basso. Ovviamente è ancorato tramite la cavità pleurica alla gabbia toracica quindi non collassa sul fondo del
torace, ma si stira verso il basso, e questo fa sì che gli alveoli della parte più alta siano stirati e quelli della
parte più bassa siano compressi dal peso che grava sulla parte inferiore.
Se il polmone tende a collassare è più stirato verso il basso, quindi la pressione intrapleurica sarà:
 più negativa nella porzione apicale del polmone;
 meno negativa nella porzione basale.
Quel che è stato detto nelle tesine precedenti delle pressioni intrapleuriche si riferiva ad un valore medio, ma
anche in questo caso ci sono differenze spaziali; quindi la pressione pleurica (e quindi quella transpolmonare)
è diversa a livello apicale e a livello basale.
Con minimi valori di pressione intrapleurica quindi si ha:
 massima negatività nella porzione apicale, perché il polmone si stira verso il basso e tende a cadere
verso il basso, stirando la pleura e il parenchima;
 minimi valori negativi nella parte più bassa, proprio perché il polmone tende a spostarsi verso il
basso.
L'immagine mostra come la pressione intrapleurica (o la pressione
transmurale) siano più alte (e quindi più negative) nella parte più alta del
polmone e meno negative nella parte basale.
Cosa vuol dire avere un alveolo più stirato o meno stirato? Più un alveolo è
di partenza stirato, più bassa sarà la sua complianza; meno stirato è di base,
più alta sarà la sua complianza. Ricordando la curva pressione-volume presa
in considerazione in condizioni statiche:
 per volumi più alti, la complianza è più bassa, quindi occorre una
maggiore differenza di pressione per ottenere una variazione di
volume;
 per volumi più bassi, la complianza è più alta.
Dunque, riassumendo: per un alveolo meno stirato la complianza è più alta mentre per un alveolo che è già
di base stirato, la complianza è più bassa.
L'effetto finale è che:
 gli alveoli all'apice, essendo meno complianti, variano meno le loro dimensioni durante il ciclo
respiratorio e sono meno ventilati;
 gli alveoli alla base, essendo più complianti, partendo da un punto di minor stiramento iniziale, sono
più facilmente espandibili nell'atto respiratorio e quindi sono più ventilati.
A causa di questo effetto della forza di gravità sul parenchima polmonare, si ottiene una condizione in cui la
ventilazione è massima per gli alveoli alla base e minima per gli alveoli all'apice.

373
Nell'immagine a lato (sempre relativa a un soggetto in
ortostatismo), è rappresentato quel che succede ad un
volume polmonare corrispondente alla capacità funzionale
residua, che è sempre la condizione di partenza. A questo
volume polmonare, l'effetto della gravità sul parenchima
tende a stirare gli alveoli. Inoltre, quando si aumenta il
volume polmonare (in alto in questa curva rispetto alla
capacità polmonare totale), sia gli alveoli all'apice che quelli
alla base aumentano le loro dimensioni: quelli alla base di
più, in quanto quelli all'apice erano già stirati e quindi erano
più vicini al loro valore massimo.
Variazioni in direzione opposta si hanno quando si passa
dalla capacità funzionale residua al volume residuo. In
questo caso gli alveoli apicali riducono ulteriormente la loro
dimensione e quelli basali possono addirittura collassare
perché erano già di dimensioni minori.

Rapporto ventilazione-perfusione
Per quanto riguarda perfusione e ventilazione, c'è quindi una disomogeneità nel passaggio dalla base del
polmone all'apice: entrambe diminuiscono passando dalla base all'apice, quindi la base è maggiormente
ventilata ma anche maggiormente perfusa, mentre l'apice è meno ventilato e meno perfuso. La variazione di
perfusione e la variazione di ventilazione vanno nella stessa direzione, quindi la base è più ventilata e perfusa
e andando verso l'apice si riducono sia ventilazione che perfusione.

La differenza sta nel fatto che la variazione di flusso ematico è maggiore della variazione di ventilazione;
in altre parole il flusso diminuisce più rapidamente e consistentemente della ventilazione.
Il rapporto tra ventilazione 𝑉𝐴̇ e perfusione 𝑄̇ ha, infatti, un valore inferiore a 1 alla base (V/Q < 1) e
superiore a 1 all'apice (V/Q > 1).
Ciò che significa che:
 alla base, in proporzione, la ventilazione è inferiore alla perfusione;
 all’apice, in proporzione, la ventilazione è superiore alla perfusione.
Il grafico indica che il rapporto è minimo a livello della base del polmone e va aumentando diventando
massimo all'apice.
Nell'asse delle x, sono rappresentati i livelli costali (dalle coste più inferiori a sinistra a quelle superiori a
destra). Nell'asse delle y a sinistra è rappresentato il flusso sia ventilatorio che ematico, in percentuale del
volume polmonare. Nell’asse delle y a destra è rappresentato il rapporto ventilazione/perfusione, che è
minimo a livello della base del polmone e va progressivamente aumentando fino a diventare massimo all'apice
del polmone. Quindi, la caduta del flusso andando dalla base verso l'apice è maggiore della caduta di
ventilazione andando sempre dal basso verso l'alto.
Come già detto, il concetto importante è che il rapporto ventilazione-perfusione è molto diverso alla base
e all'apice: è infatti inferiore a 1 alla base e superiore a 1 all'apice. Questo rapporto è importante perché

374
determina la pressione parziale di ossigeno a livello dell'aria alveolare – dato che rappresenta la concentrazione
di ossigeno a livello di tutto lo spazio alveolare (circa due litri e mezzo) – e, siccome questa si eguaglia con la
pressione parziale di ossigeno nel capillare, il rapporto determina anche la pressione parziale di ossigeno a
livello del sangue dei capillari polmonari.
La quantità di ossigeno polmonare dipende da due fattori:
 dall'ossigeno che arriva dall'esterno con la ventilazione, che va a diluirsi nello spazio alveolare;
 dal sangue, che continuamente ne porta via.
Si tratta di un equilibrio dinamico: da una parte viene “versato” dentro e da una parte viene portato via.
Possiamo visualizzare questo processo, come illustrato nell'immagine, pensando
 all'ossigeno come un colorante che viene versato dall'alto in una
vasca;
 al flusso ematico come un flusso di acqua pulita che entra e
porta via progressivamente il colore.
Il colore dell'acqua in uscita dipende da quanto colorante viene versato
e da quanto rapidamente viene portata via l'acqua colorata.
Le due grandezze devono essere continuamente equilibrate tra loro:
 se non si porta abbastanza colarante (ossigeno), alla fine ne
verrà portato via troppo (la pressione parziale di ossigeno andrà
a calare);
 se si va a diminuire il flusso di acqua (sangue) e si continua a
versare colorante (ossigeno), la vasca diventerà sempre più colorata (la concentrazione di ossigeno
aumenterà).
Occorre quindi un ottimale rapporto ventilazione/perfusione.
In condizione fisiologica, la ventilazione alveolare è di circa 4 L/min, mentre quella polmonare è di 6 L/min
(la differenza risulta togliendo lo spazio morto). Il flusso nel polmone, come nella circolazione sistemica, è di
5 L/min. Dunque, tenendo conto che ventilazione alveolare = 4 L/min e che perfusione = 5 L/min, si ha un
rapporto ventilazione/perfusione di 0,8. Questo è il valore medio che riguarda tutto il polmone ma, come
detto in precedenza, il rapporto non è omogeneo al suo interno, ma varia in maniera marcata spostandosi dalla
base (< 1) all'apice (> 1) del polmone.

𝑉̇ 4 L/min
= = 0,8
𝑄̇ 5 L/min
in media.

Qual è l'effetto di questa variabilità sull'ossigenazione del sangue?

Nel riquadro A dell'immagine (dove è rappresentato un polmone in cui l'aria entra dall'alto), la cupola
rappresenta lo spazio alveolare e il tubo che passa sotto è la circolazione polmonare attraverso cui arriva sangue
con una pressione parziale di ossigeno uguale a 40 mmHg. In questo sistema, entra aria in cui la pressione
parziale di ossigeno è 150 mmHg (a causa dell'umidificazione dell'aria in trachea) e arriva alla cavità alveolare,
dove la pressione parziale di ossigeno è intorno ai 100 mmHg perché ogni atto inspiratorio apporta ossigeno
ma continuamente il flusso ematico ne porta via una quota. C'è quindi un equilibrio tra apporto di ossigeno

375
attraverso la ventilazione e asporto di ossigeno attraverso la circolazione, dato da un rapporto di
ventilazione/perfusione di 0,8 in cui la pressione parziale di ossigeno nello spazio alveolare è di 100mmHg.
N.B. La prof precisa che il discorso che si fa sull'ossigeno può essere fatto in direzione opposta per l'anidride
carbonica.
Che cosa succede quando tale equilibrio si rompe? La ventilazione può aumentare rispetto alla perfusione,
ma può avvenire anche il contrario. Ipotizziamo i due casi estremi per comprendere il concetto.

Rapporto ventilazione/perfusione ridotto (immagine B)


Analizziamo un caso estremo in cui la ventilazione è pari a 0 e la perfusione ha valori normali: quando
la ventilazione è 0, la PO2 negli spazi alveolari diventa uguale a quella del sangue in ingresso in quanto si sposta
per gradiente di pressione parziale. Dunque, in una situazione in cui il polmone viene perfuso ma non ventilato,
la PO2 nello spazio alveolare va ad eguagliare quella del sangue.
Il concetto generale da comprendere è che più cala la ventilazione rispetto alla perfusione (e quindi il
rapporto ventilazione/perfusione), più la PO2 nella cavità alveolare si andrà ad avvicinare a quella del
plasma in ingresso.
↓ rapporto ventilazione-perfusione determina ↓ PO2 nella cavità alveolare
Inoltre si avrà anche una riduzione della PO2 del sangue che andrà ad uscire dal polmone, dato che esso
si equilibra con quello della cavità alveolare.

Rapporto ventilazione/perfusione aumentato (immagine C)


Nel pannello C è presente l’esempio opposto, ovvero di un polmone che viene ventilato ma non viene
perfuso. Quindi, arriva l’ossigeno ma non viene portato via dal sangue. In questo caso, la PO2 nella cavità
alveolare è esattamente identica a quella dell’area tracheale. Dal momento che non vi è passaggio di O2
dal polmone al sangue né di CO2 dal sangue al polmone, allora la PO2 nel polmone diventa uguale a quella
dell’aria tracheale.
In tutte le condizioni in cui il rapporto ventilazione/perfusione aumenta, PO2 nella cavità alveolare andrà
ad avvicinarsi a quella dell’aria inspirata e ad allontanarsi da quella presente nel plasma.

In conclusione, riassumendo le variazioni del rapporto ventilazione-perfusione:


 qualsiasi riduzione del rapporto, fa calare la PO2 nell’area alveolare (e quindi del sangue, dopo che
questo si sarà ossigenato);
 qualsiasi aumento del rapporto, farà aumentare la PO2 nell’area alveolare (e quindi anche del sangue
che esce da quel polmone).
Ricordando, come detto precedentemente, che vi è una disomogeneità nel rapporto
ventilazione/perfusione tra apice (V/Q > 1) e base (V/Q < 1) del polmone, allora ci aspetteremo che:
 negli alveoli all’apice del polmone, la PO2 sia più alta (si avvicina a quella dell’aria inspirata);
 negli alveoli alla base del polmone, la PO2 sia più bassa (si avvicina, senza raggiungerla, a quella del
sangue in ingresso).
Questo implica che, il sangue che esce dalla porzione apicale del polmone
è molto ossigenato, mentre il sangue che esce dalla base del polmone è
meno ossigenato.
Infatti, come si può notare dall’immagine a lato, la PO2 è di 40 mmHg più
elevata della base. Nello specifico:
 negli alveoli all’apice del polmone, la PO2 è 132 mmHg;
 negli alveoli alla base del polmone, la PO2 è 89 mmHg.
Nell’immagine, però, si può anche osservare che la PO2 nel sangue refluo
dalla circolazione polmonare è 97 mmHg. Come è possibile? Non ci si
dovrebbe aspettare invece una media tra PO2 degli alveoli all’apice e alla
base (quindi circa 110 mmHg)? In realtà, il valore è così basso perché il
flusso ematico è più alto alla base che all’apice. Di conseguenza, il
contributo dell’apice e della base al flusso totale del polmone non è uguale;
ci sarà dunque una maggiore quota di sangue con la PO2 di 89 mmHg
rispetto a quella con la PO2 di 132 mmHg.
Fino ad ora, abbiamo parlato di condizioni estreme (sangue che viene dalla base e sangue che viene
dall’apice) ma vi sono tutte le situazioni intermedie.
 La PO2 all’apice vale 132mmHg, alla base 89 mmHg.

376
 Il rapporto V/Q all’apice vale 3,3
mentre alla base 0,63.
 La ventilazione alveolare
all’apice vale 240 mL/min, alla
base 820 mL/min.
Tutti questi valori variano in maniera
continua spostandosi dall’apice verso la
base; si avrà una situazione disomogenea
per quanto riguarda il flusso, la
ventilazione e soprattutto il rapporto
ventilazione/perfusione. Questo fa sì che
il sangue che proviene dalle diverse
regioni polmonari sia ossigenato in
maniera diversa: il sangue refluo nelle
vene polmonari contiene un sangue misto
che contiene, dunque, una percentuale
diversa di O2.

Differenza alveolo-arteriosa di PO2


Come detto, la PO2 a livello degli alveoli
è circa 100 mmHg mentre la PO2 a livello
delle vene polmonari è 97 mmHg.
Questa discrepanza è dovuta a:
1. Ineguaglianza del rapporto
ventilazione/perfusione nelle
diverse regioni polmonari (le
variazioni di perfusione sono maggiori di quelle di ventilazione).
2. “Inquinamento” del sangue arterioso con sangue venoso:
- 1/3 del sangue della circolazione bronchiale, al posto di sboccare nel circolo venoso, termina
nel circolo polmonare andando ad inquinare il sangue arterioso (N.B. In realtà, i testi di
fisiologia e di anatomia indicano tutti che sono i 2/3 della circolazione bronchiale a terminare
nelle vene polmonari, mentre 1/3 termina nella circolazione venosa sistemica tramite il
sistema delle azygos);
- tramite le vene di Tebesio il sangue refluo dalla circolazione coronarica può terminare
indifferentemente nell’atrio destro o sinistro.
Il sangue che arriva al ventricolo sinistro è un sangue che è stato ossigenato a livello del polmone ma
che poi riceve sangue già deossigenato che proviene dalla circolazione bronchiale e dalla circolazione
coronarica.

377
16. Trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel
sangue
Riassumendo quanto visto fino ad ora, l’ossigeno
sopraggiunge all’alveolo tramite il processo
ventilatorio, diffonde attraverso la membrana
alveolo-capillare; grazie ad un match opportuno di
ventilazione e perfusione, una quantità adeguata di
sangue arriva a livello della circolazione. A questo
punto, bisogna garantire che il sangue giunto a livello
dei capillari polmonari possa raggiungere in quantità
adeguata i tessuti periferici e svolgere la sua
funzione, mediante il meccanismo di trasporto
dell’ossigeno ai tessuti.
Il primo fattore che entra in gioco è la quantità di
ossigeno che entra nei polmoni, poi la capacità
dell’ossigeno di attraversare la membrana alveolo-
capillare e infine la capacità del sangue di trasportare
ossigeno. Parallelamente a ciò, è ovviamente anche
importante la capacità del sistema cardiovascolare di
regolare il flusso ematico in modo da differenziare
l’apporto di O2 ai diversi tessuti periferici sulla base
delle loro esigenze.
In un individuo normale (maschio adulto di 70kg,
buone condizioni di salute, condizioni basali di
riposo) le necessità metaboliche corrispondono ad
una quantità di 250 mL/min di O2.
Ciò significa che, per una portata cardiaca di 5
L/min, ogni litro di sangue deve apportare una
quantità di 50 mL di O2 (quantità che deve essere
garantita ai tessuti periferici per sostenere il loro metabolismo in condizioni basali). Lo stesso sistema deve
garantire lo smaltimento, per ogni litro di sangue, di 40 mL di CO2.

16.1. Forme di trasporto dell’ossigeno nel sangue

L’ossigeno viene trasportato a livello del sangue secondo due modalità:


 disciolto: la quantità di ossigeno fisicamente disciolto dipende dalla PO2 e dal gradiente di PO2 tra
alveolo polmonare e sangue;
 legato all’emoglobina: la quantità trasportata dall’emoglobina dipende dalla concentrazione
dell’emoglobina e dall’affinità dell’ossigeno per l’emoglobina.
La presenza dell’emoglobina è assolutamente essenziale per la sopravvivenza, in quanto la quantità di
ossigeno che viene trasportata in forma fisicamente disciolta è assolutamente insufficiente a garantire le
necessità metaboliche dell’organismo. L’emoglobina consente di aumentare enormemente il potenziale di
trasporto dell’ossigeno nel sangue.

Secondo la legge di Henry, la quantità di un gas disciolto in un liquido dipende dalla sua solubilità e dalla
sua pressione parziale.
 La solubilità dell’ossigeno nel sangue è tale per cui per un gradiente di pressione parziale di 1 mmHg
in 100mL di sangue passano 0,003 mL di ossigeno.
 La pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso è, come già detto, 97 mmHg.
Dunque, tenendo in considerazione questi due valori, potremo affermare che l’ossigeno che viene disciolto
in 100 mL di sangue arterioso è uguale a 0,003 x 97 = 0,29 mL/100 mL. Questo significa che in 100 mL di

378
sangue arterioso si sciolgono poco meno di 0,3 mL di ossigeno (e, di conseguenza, circa 3 mL di ossigeno
disciolto per ogni litro di sangue arterioso). N.B. Nel sangue venoso, ce n’è molto meno: in 1 litro di sangue
venoso ritroviamo poco più di 1 mL di ossigeno disciolto.
Considerando una portata cardiaca a riposo di 5 L/min e che ogni litro di sangue possiede 3 mL di ossigeno
disciolto, allora il sangue può trasportare in totale 15 mL/min di ossigeno ai tessuti periferici. Tuttavia, come
detto, tale quantità è del tutto inadeguata alle richieste dell’organismo, il quale consuma, in condizioni basali,
250 mL di ossigeno al minuto. Per assicurare un apporto di ossigeno ai tessuti di 250 mL/min occorrerebbe
una portata cardiaca di circa 86 litri/min, il che è impossibile da ottenere.

La soluzione escogitata
dall’evoluzione per incrementare
il trasporto di ossigeno è
l’emoglobina. L’emoglobina è
una molecola formata da quattro
catene polipeptidiche, due α e
due β, ognuna delle quali
contiene un gruppo eme.1
L’eme è costituito da una
protoporfirina e da uno ione
ferroso (Fe2+). Ciascuno dei
quattro atomi di ferro può legare
reversibilmente l’ossigeno. Il
ferro resta allo stato ferroso
(Fe2+), per cui la reazione costituisce un’ossigenazione. Si tratterebbe invece di un’ossidazione nel caso in cui
il ferro passasse dalla sua forma ferrosa (Fe2+) alla sua forma ferrica (Fe3+); ma questo, fortunatamente, non
avviene. Infatti, con lo ione ferro allo stato ferrico (Fe3+), il legame con l’ossigeno non sarebbe più reversibile
e quella molecola diverrebbe indisponibile al trasporto (metaemoglobina). Una piccola quota di
metaemoglobina è sempre presente nel sangue ma è irrilevante e non crea problemi.

16.2. Significato funzionale della curva di dissociazione dell’emoglobina e


16.3. Aspetti quantitativi del trasporto dell’ossigeno nel sangue

Curva di dissociazione dell’ossiemoglobina


Possiamo quantificare la capacità
dell’emoglobina di legare e trasportare O2
costruendo la curva di dissociazione
dell’emoglobina. Per costruirla bisogna esporre
il sangue ad una miscela contenente quantità
superiori crescenti di O2 (quindi con una PO2 via
via crescente) e misurare qual è la % di
saturazione dell’emoglobina al crescere della
PO2. Mentre cresce la PO2 crescerà ovviamente
anche l’O2 fisicamente disciolto nel sangue ma
ciò non ci interessa.
Sull’asse x osserviamo la PO2 che sale fino a
100 mmHg (valore fisiologico). Tuttavia,
possiamo testarla anche a valori più alti, in
questo esempio si arrivare a testare il sangue
esponendolo a PO2 fino a 600 mmHg (non
fisiologici). Ci interessa dunque la prima parte
di questa curva. La linea tratteggiata indica la
quantità di O2 fisicamente disciolto (minima parte, linea molto vicina allo 0), mentre la linea continua indica

1
Nell’organismo fetale, è presente un’emoglobina differente che presenta due catene γ al posto delle due catene β.

379
la % di emoglobina saturata. Al crescere della PO2 cresce anche la % di saturazione dell’emoglobina con un
andamento sigmoide. Fino a 50 mmHg la curva sale molto rapidamente, poi diventa sempre più piatta per PO2
molto elevate.
Se il sangue viene esposto a una PO2 di 100 mmHg l’emoglobina è satura al 100%. In queste condizioni 1 g
di emoglobina può legare 1,39 mL di O2, ma in condizioni normali una piccola parte di emoglobina è sotto
forma di metaemoglobina dunque è indisponibile. Di conseguenza fisiologicamente si calcola che 1 g di
emoglobina possa combinarsi non con 1,39 ma con 1,34 mL di O2. La concentrazione di emoglobina
mediamente in un uomo adulto è di 16 g/100 mL, in una donna è di 14 g/100 mL. Prendiamo come valore
medio 15 g/100 mL. Dunque, se ogni g di emoglobina può legare 1,34 mL di O2, la capacità per O2 (intendendo
la capacità dell’emoglobina di legare e trasportare O2) risulta essere pari a 20,1 mL/100 mL di sangue.
In realtà considerando il rapporto ventilazione/perfusione (V/Q) sappiamo che la PO2 nel sangue arterioso
non è 100 mmHg ma 97 mmHg. Questo dipende da:
 ineguale rapporto V/Q che si ha a livello polmonare: alto a livello apicale (dunque buona
ossigenazione) e basso nella porzione basale. Quantitativamente la porzione basale contribuisce di più
al flusso polmonare totale e quindi complessivamente il livello di ossigenazione del sangue arterioso
è più basso di quello che ci si potrebbe aspettare;
 “inquinamento” del sangue arterioso, dovuto al fatto che parte del sangue refluo venoso proveniente
dal circolo bronchiale e dal circolo coronarico si mescola con il sangue arterioso, abbassando la P O2
nel sangue arterioso stesso.
Una PO2 di 97 mmHg (sangue arterioso)
corrisponde ad una % di saturazione dell’emoglobina
del 97,5%. Siamo dunque nel punto più alto della
curva. Nel sangue venoso la PO2 cala (40 mmHg) e la
% di saturazione dell’emoglobina per questo valore è
del 75%. Dunque, l’intervallo tra questi due valori è
il range fisiologico. Eseguendo un calcolo su questi
valori si può ottenere un valore di trasporto di O2 da
parte dell’emoglobina di 19,5 mL di O2 / 100 mL di
sangue arterioso e ovviamente un valore più basso di
15,1 mL di O2 / 100 mL di sangue venoso.
Si è detto che nel sangue arterioso l’O2 fisicamente
disciolto è circa 0,3 mL/100 mL, quello legato
all’emoglobina è 19,5 mL/100 mL, per un totale di
19,8 mL/100 mL. Il totale per il sangue venoso è 15,2
mL/100 mL sommando la fase fisicamente disciolta con quella legata con emoglobina. Ciò significa che i
tessuti periferici rimuovono 4,6 mL di O2/100 mL di sangue (19,8 – 15,2). Dunque quando il sangue passa
attraverso i capillari tissutali rilascia questa quantità di O2. Ciò significa che ogni litro di sangue rilascia nei
tessuti periferici 50 mL di O2; poiché la gittata cardiaca stimata è di 5 L/min si arriva al valore di 250 mL/min
ca. che in precedenza si era quantificata come la quantità di O2 necessaria al metabolismo cellulare.

Osservando la curva di dissociazione per l’emoglobina si è detto che presenta un andamento sigmoide. La
struttura della curva dipende dalla diversa affinità che hanno le quattro molecole di O2 che sequenzialmente si
legano all’emoglobina: le prime infatti si legano più facilmente, le ultime con maggiore difficoltà, dunque la
curva è ripida all’inizio e si appiattisce nella parte finale. In rosso e in blu sono segnate rispettivamente il
valore corrispondente al sangue arterioso e venoso. Si osserva che nel rango fisiologico si è ancora nella parte
orizzontale della curva. La presenza della parte orizzontale della curva è importante perché ciò significa che a
livello alveolare, anche se la PO2 cala leggermente, comunque la % di saturazione dell’emoglobina rimane
estremamente elevata. Il fatto che invece nella parte sinistra la curva scenda più rapidamente è egualmente
importante, perché significa che se la PO2 tissutale cala, questo facilita la liberazione periferica di O2.

Fattori fisiologici che spostano la curva di dissociazione dell’ossiemoglobina


La curva di dissociazione dell’emoglobina può spostarsi (dunque l’affinità dell’emoglobina per l’O2 può
cambiare) in presenza di variazioni di quattro fattori:
 PCO2;
 pH del sangue;
 temperatura;

380
 2,3-difosfoglicerato (DPG).
Tutti questi fattori influenzano l’affinità
dell’emoglobina per O2 e quindi fanno variare,
per una stessa PO2, la % di saturazione
dell’emoglobina.
In particolare, un aumento della PCO2, della
temperatura e/o una diminuzione del pH fanno
spostare a destra la curva. Questo significa che
l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno in
queste condizioni è diminuita: per uno stesso
valore di PO2 una % minore di emoglobina
risulterà saturata. Si tratta di un fenomeno molto
utile: le condizioni citate si verificano infatti in
un tessuto periferico in piena attività. Per
esempio, il muscolo scheletrico che sta lavorando
aumenta la temperatura, la produzione di CO2, la
liberazione di idrogenioni e dunque cala il pH:
l’affinità dell’emoglobina per O2 diminuisce e
permette all’emoglobina di rilasciare per il tessuto una quota aumentata di O2. Nel grafico si osserva:
 una linea continua, che rappresenta la normale curva di dissociazione dell’emoglobina;
 due linee tratteggiate: una a destra che rappresenta la curva in cui l’affinità è diminuita e una a sinistra,
che rappresenta la curva in cui l’affinità è aumentata.
L’ultimo fattore è il DPG. Questo viene prodotto dalla glicolisi anaerobica all’interno dei globuli rossi
(derivato dalla 3-fosfogliceraldeide) ed è in grado di legarsi alle catene β dell’emoglobina, diminuendo
l’affinità dell’emoglobina per l’O2: è uno dei fattori quindi che facilita la liberazione periferica di O2. Il DPG
viene prodotto in condizioni di ipossia cronica, per esempio quando il soggetto si trova ad alta quota (la P O2
diminuisce); un altro esempio è durante il lavoro muscolare (iperconsumo di O2). La sua produzione è stimolata
anche da alcuni ormoni che incrementano il metabolismo (ormoni della crescita, tiroidei e androgeni). Un
aspetto importante è che i processi di conservazione del sangue (prelevato e conservato per le trasfusioni)
fanno diminuire la concentrazione di DPG: questo vuol dire che il sangue trasfuso cede più difficilmente O2 ai
tessuti periferici.

Come facciamo a sapere com’è collocata la curva


di dissociazione dell’emoglobina in un campione di
sangue?
Si misura quella che viene chiamata la P50. Questa
rappresenta la PO2 alla quale l’emoglobina è
saturata di O2 per il 50%. In condizioni normali
(soggetto con PCO2 = 40 mmHg, pH = 7,4 e con t =
37°C) la P50 di emoglobina è 27 mmHg. Se per
ottenere una saturazione dell’emoglobina del 50% è
necessario esporre il sangue ad una PO2 più alta vuol
dire che la curva è spostata a destra (linea
tratteggiata a destra in cui l’affinità dell’emoglobina
per l’O2 è diminuita, in questo caso la P50 = 40
mmHg). Il contrario avviene con uno spostamento a
sinistra (nell’esempio rappresentato nel grafico P50
= 10 mmHg: ciò significa che l’affinità
dell’ossigeno per l’emoglobina è aumentata).

Curva di dissociazione della carbossiemoglobina


Si è parlato del monossido di carbonio (CO) parlando della determinazione della capacità di diffusione
polmonare. Il CO è un gas con un’altissima affinità per l’emoglobina: quando passa nel sangue va subito e
con grande facilità a legarsi con l’emoglobina circolante. L’affinità del CO è circa 200 volte maggiore rispetto

381
a quella dell’O2. Questo significa che la sua P50 è estremamente bassa, pari a circa 0,13 mmHg. Osservando
la curva rossa si capisce come basti una concentrazione di CO estremamente bassa per saturare l’emoglobina
quasi al 100%. Questa altissima affinità fa sì che piccolissime quantità di CO possano avere effetti molto gravi,
in quanto vanno a bloccare i siti di legame dell’emoglobina per l’O2 e quindi riducono drasticamente la quantità
di O2 che può essere trasportata. I casi di avvelenamento da CO non sono infrequenti e purtroppo sono
difficilmente diagnosticabili, in quanto la sintomatologia è molto vaga (mal di testa, vertigini, cefalea, nausea).
Bisogna sospettarlo se c’è un riscaldamento con stufetta e se tante persone della stessa famiglia che vivono
nello stesso ambiente manifestano contemporaneamente gli stessi sintomi. La diagnosi è anche difficile perché
in caso di avvelenamento di CO i livelli della PO2 del sangue sono normali, in quanto rimane invariata la PO2
negli alveoli e dunque anche nel sangue. Inoltre, l’ossimetria che va a valutare la % di emoglobina ossigenata
molte volte non è risolutiva perché se non si usa un apparecchio specifico la carbossiemoglobina viene
riconosciuta come ossiemoglobina.

Se la PCO (pressione parziale di CO) nell’aria che inspiriamo è superiore a 1 mmHg tutta l’emoglobina è
legata al CO. I fumatori hanno una % di emoglobina legata al CO normalmente del 2%. In aree con
inquinamento ambientale questa percentuale può aumentare. Non si può fare molto per curare un
avvelenamento da monossido di carbonio, alcuni provvedimenti sono: somministrare O2 puro o collocare i
pazienti in camere iperbariche per facilitare il trasporto dell’O2 in forma disciolta e poi competere con i siti di
legame sull’emoglobina. Il problema della presenza di CO è legato al fatto che:
 occupa i siti di legame dell’emoglobina per l’ossigeno;
 fa aumentare l’affinità dell’emoglobina per l’O2: l’emoglobina che lega O2 lo rilascia dunque più
difficilmente ai tessuti periferici.
Possiamo osservare questo concetto nel seguente grafico che riporta: sull’asse delle x la PO2, sull’asse delle
y la quantità di O2 trasportata dall’emoglobina, in mL per litro di sangue. Si osservano tre curve. In alto la
condizione normale, in cui nel sangue arterioso (dove PO2 = 97 mmHg) l’emoglobina trasporta 195 mL di O2/L
di sangue, mentre nel sangue venoso (PO2 = 40 mmHg) ne trasporta una quantità pari a 151 mL/L. Se metà
dell’emoglobina è legata al CO passiamo nella seconda di queste curve la quale si sposta a sinistra (aumento
affinità emoglobina per O2) rispetto alla terza curva (la più bassa di questa immagine) la quale è ottenuta in un
individuo anemico che invece di possedere i soliti 15 g di emoglobina per L di sangue ne ha soltanto 7,5.

382
Curva di dissociazione della mioglobina
La mioglobina è un altro pigmento che
contiene ferro: essa non è presente nel sangue,
bensì nei muscoli. È un monomero, dunque
lega una sola molecola di O2 con affinità
maggiore rispetto all’emoglobina. La curva di
dissociazione della mioglobina è intermedia tra
quella dell’emoglobina (in rosso a destra) e
quella per il CO (a sinistra tratteggiata). La
mioglobina presenta una P50 di 5 mmHg. La
curva non ha una forma sigmoide: essendoci un
solo monomero essa assume la forma di
un’iperbole rettangolare. La mioglobina è
presente nel muscolo e quando la PO2 nel
muscolo in attività scende a livelli bassi, essa
cede il suo O2. Le molecole di mioglobina
rappresentano dunque una riserva di O2 a
livello del tessuto muscolare, che può sostenere
il lavoro durante un’attività intensa e
prolungata. La mioglobina è utilizzata anche da
alcuni animali marini (cetacei) come riserva di
O2 per prolungare i periodi di apnea e rendere
meno frequente la necessità di tornare in superficie.

16.4. Ipossie

Si parla di ipossia quando un tessuto non riceve sufficiente O2, di conseguenza ricorre al metabolismo
anaerobico, si forma acido lattico, aumenta la concentrazione di idrogenioni, si abbassa il pH. Le possibili
cause di ipossia possono essere problemi che insorgono a tutti gli stadi che abbiamo esaminato fino ad adesso:
 ipossia ipossica: insufficiente ossigenazione polmonare. Si può avere un problema polmonare, per
esempio diminuisce il rapporto V/Q, oppure si forma un ispessimento della barriera alveolo-capillare.
Tutto ciò fa sì che la PO2 nel sangue a livello capillare vada a diminuire: il sangue arterioso si è
ossigenato meno e di conseguenza ai tessuti arriva meno O2. Questi tuttavia possiedono una normale
capacità di utilizzare l’O2;
 ipossia anemica: problema a livello del trasporto di O2 da parte del sangue. Il problema in questo
caso è l’emoglobina: o ce n’è poca (anemia) oppure essa viene bloccata (per esempio dal monossido
di carbonio). In questo caso, a fronte di una PO2 nel sangue normale si ha un contenuto di O2 nel sangue
arterioso patologicamente basso;
 ipossia circolatoria: alterazione del flusso ematico, legato a problemi circolatori che sono dovuti per
esempio a un trombo, un embolo, una condizione di stagnazione del sangue; in questo caso il contenuto
di ossigeno del sangue arterioso è normale, ma è alterato il rifornimento al tessuto;
 ipossia istotossica: metabolismo tissutale ostacolato dalla presenza di sostanze che vanno a bloccare
il metabolismo aerobico, come ad esempio il cianuro. Il tessuto non riesce ad utilizzare l’O2 che arriva,
dunque si trova sempre in ipossia. L’apporto di ossigeno è normale ma il contenuto del sangue venoso
è superiore al normale in quanto le cellule non utilizzano l’ossigeno.

383
Cianosi
La cianosi consiste nella colorazione bluastra che assumono i tessuti periferici, in particolare polpastrelli e
labbra, quando la concentrazione di emoglobina deossigenata sale al di sopra dei 5 g/100 mL. Dal momento
che questo sintomo compare quando la concentrazione di emoglobina deossigenata aumenta, la comparsa di
questa condizione è molto difficile nei pazienti anemici. È più facile che si presenti in pazienti policitemici
dove invece l’emoglobina è maggiore, di conseguenza più facilmente una quota di questa emoglobina può
essere deossigenata e superare il valore soglia. La cianosi compare:
 in tutti i casi di ipossia ipossica (viene meno una sufficiente ossigenazione);
 nella ipossia circolatoria da stasi, poiché il sangue stagnante viene deossigenato dai tessuti.
Non si osserva invece cianosi nell’ipossia istotossica (perché l’emoglobina in questa condizione è ossigenata)
e nell’avvelenamento da CO (perché la carbossiemoglobina ha un colore rosso vivo, quindi le mucose si
colorano di questo colore e non diventano bluastre).
Curiosità. Poiché la cianosi è evidente a livello del letto ungueale quando un paziente si sottopone ad un
intervento chirurgico gli viene chiesto di non portare smalto sulle unghie delle mani per riuscire ad evidenziare
più precocemente la presenza di cianosi.

16.5. Forme di trasporto dell’anidride carbonica nel sangue e


16.6. Significato funzionale della curva di trasporto dell’anidride carbonica e
16.7. Interazione tra il trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue

La CO2 viene prodotta nei tessuti periferici (prodotto terminale del metabolismo aerobico) e passa al sangue.
A questo livello la quantità fisicamente disciolta di CO2 è percentualmente superiore a quella dell’O2; anche
in questo caso però la maggior parte del gas viene trasportata in altra forma. La CO2, a differenza dell’ossigeno,
va incontro a reazioni chimiche che la convertono in altri composti: è proprio questa capacità di trasformare la
CO2 in altre molecole che aumenta enormemente la capacità del sangue di trasportare questo gas. L’O 2 viene
trasportato quasi tutto all’interno del globulo rosso legato all’emoglobina, mentre per la CO2 la maggior parte
delle reazioni che la convertono in altre molecole avvengono nel globulo rosso, ma poi queste ultime
dall’eritrocita diffondono nel plasma.
La CO2 viaggia nel sangue sotto tre forme: fisicamente disciolta, come bicarbonato, come
carbaminocomposti.

 Fisicamente disciolta
La CO2 prodotta dal metabolismo tissutale passa al liquido interstiziale, da questo al plasma e ai globuli
rossi. La quantità che rimane fisicamente disciolta è proporzionale alla sua pressione parziale. La
solubilità della CO2 nei liquidi è molto più alta di quella dell’O2 (circa 20-24 volte superiore). Dunque,
per ogni 100 mL di sangue 0,065 mL di CO2 risultano fisicamente disciolti per ogni mmHg della
pressione parziale della CO2 stessa. In particolare nel sangue venoso risultano fisicamente disciolte

384
quasi 3 mL ogni 100 mL di sangue, quindi una quantità dieci volte superiore a quella di O2. Nel sangue
arterioso invece se ne trovano 2,62 mL ogni 100 mL sangue. Dunque la differenza tra sangue venoso
e arterioso ci indica che a livello polmonare 100 mL di sangue si libereranno di 0,3 mL di CO2 che
era disciolta nel sangue stesso (3 – 2,6). Come vedremo, meno del 10% della CO2 che viene liberata
a livello polmonare fa parte del pool della CO2 fisicamente disciolta, dunque questa modalità partecipa
al trasporto complessivo di questo gas ma non è la principale.
 Sotto forma di bicarbonato
È molto più rilevante la quota di CO2 trasportata nel sangue in questo modo (circa il 70%). La CO2
passa dal tessuto al liquido interstiziale, da questo al plasma, dal plasma entra nell’eritrocita dove c’è
un enzima, l’anidrasi carbonica, che catalizza l’idratazione della CO2. Si forma acido carbonico
(H2CO3) che poi si dissocia in ione H+ e ione bicarbonato (HCO3-). Questa reazione avviene molto
rapidamente a livello del globulo rosso; può avvenire anche a livello del plasma ma in quella sede la
reazione è molto lenta e quantitativamente poco rilevante (se ne forma una quantità inferiore rispetto
a quella all’interno dell’eritrocita).

Lo ione H+ viene tamponato dall’emoglobina. La facilità con cui l’emoglobina lega lo ione idrogeno
è più elevata per l’emoglobina deossigenata rispetto a quella ossigenata. Un concetto importante è
che a livello del sangue il trasporto dell’O2 e della CO2 si influenzano a vicenda, cioè la presenza di
O2 nel sangue influenza il trasporto di CO2 e viceversa. Il ruolo della CO2 nel modificare il trasporto
di O2 (effetto Bohr) è stato già discusso: in presenza di CO2 e idrogenioni l’affinità
dell’emoglobina per l’O2 va a diminuire. Avviene anche il contrario, cioè l’emoglobina ossigenata
ostacola il trasporto di CO2, mentre l’emoglobina deossigenata facilita il trasporto di CO2 (effetto
Haldane). Quindi a livello dei tessuti periferici quando l’O2 si distacca dall’emoglobina viene facilitato
il passaggio della CO2 nel sangue e il suo trasporto sia da parte del plasma sia da parte degli eritrociti,
mentre il contrario avviene a livello del tessuto polmonare. Qui l’ingresso dell’O2 nel sangue fa
diminuire la capacità di trasporto per la CO2 e di conseguenza favorisce il passaggio della CO2 dal
sangue all’alveolo polmonare.
Abbiamo detto che la quota di CO2 trasportata sotto forma di bicarbonato è la quota principale. La
maggior parte dello ione bicarbonato (HCO3-) viene prodotta nel globulo rosso ma non vi rimane: esce
infatti in scambio con uno ione Cl- per mantenere il bilancio delle cariche negative (scambiatore Cl-
/HCO3-). Dunque in definitiva è entrata inizialmente nella cellula una molecola di gas (CO2) e nella
situazione finale si ha uno ione Cl- in più. Questo significa che nel sangue venoso il bilancio totale è
la presenza di ioni cloro negativi in più negli eritrociti: questi ioni richiamano osmoticamente acqua
dall’esterno e fanno sì che il volume degli eritrociti nel sangue venoso sia superiore al volume degli
eritrociti nel sangue arterioso (“gli eritrociti si gonfiano un pochino”, cit.). L’ematocrito del sangue
venoso risulterà per questo motivo leggermente più alto rispetto all’ematocrito del sangue arterioso
(di circa il 3%). Lo ione H+ invece non riesce ad uscire dall’eritrocita perché la membrana è
sostanzialmente impermeabile a questo ione e viene tamponato dall’emoglobina. L’emoglobina
deossigenata, come abbiamo detto, lega molto meglio gli ioni H+, per cui il carico della CO2 viene
facilitato a livello venoso, quando l’O2 è stato già liberato al tessuto e quindi l’emoglobina risulta
deossigenata. Il contrario avverrà a livello polmonare, l’emoglobina si ossigena, quindi l’H+ si stacca
da essa, la reazione procede in maniera inversa, si riforma CO2 che viene scaricata.
Per poter calcolare la quota di anidride carbonica trasportata sotto forma di bicarbonato che viene
liberata a livello polmonare, effettuiamo il calcolo della quantità di CO2 sottoforma di HCO3- presente
nel sangue arterioso e in quello venoso

385
Nel sangue venoso risultano circa 46,3 mL di CO2, quota che scende a 43,8 mL nel sangue arterioso.
Ciò significa che 100 mL di sangue a livello polmonare liberano 2,5 mL di CO2, circa il 70/75% della
quota CO2 liberata nei polmoni.
 Come carbaminocomposti
L’ultima forma in cui viene trasportata la CO2 nel sangue è quella del carbaminocomposto, un
composto che si forma dalla reazione della CO2 con gruppi amminici che possono trovarsi sia su
proteine del plasma, ma soprattutto a livello dell’emoglobina contenuta nel globulo rosso.

L’emoglobina deossigenata lega l’anidride carbonica molto più facilmente di quanto non faccia
l’emoglobina ossigenata, quindi il passaggio di ossigeno dal sangue al tessuto, a livello periferico,
facilita il carico e il trasporto della CO2 da parte del sangue, perché più facilmente questa può andare
a legarsi all’emoglobina deossigenata e può quindi essere trasportata come carbaminocomposto. Il
legame dell’anidride carbonica con l’emoglobina genera la liberazione di un protone, che può legarsi
all’emoglobina stessa in un altro sito. Il legame della CO2 ma soprattutto quello degli idrogenioni con
l’emoglobina fa diminuire l’affinità della stessa per l’ossigeno. Questo meccanismo prende il nome di
effetto Bohr, già analizzato quando sono state esaminate le curve di dissociazione dell’emoglobina;
si era evidenziato che, ogni volta che la concentrazione di CO2 e di idrogenioni aumenta, quindi quando
il pH diminuisce, la curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno si sposta a destra. Ciò indica
che l’affinità con cui l’emoglobina lega l’ossigeno va a diminuire. La presenza dell’effetto Bohr fa si
che a livello del tessuto periferico l’O2 venga liberato più facilmente e quindi reso disponibile ai tessuti,
poiché siamo in presenza di anidride carbonica proveniente dai tessuti stessi. L’effetto opposto si ha a
livello polmonare, qui l’entità del legame dell’emoglobina con gli idrogenioni e con la CO2
diminuisce, perché questa passa dal sangue all’aria alveolare, quindi la reazione procede in senso
opposto. L’emoglobina non è più legata ad H+ e CO2 e la sua affinità per l’ossigeno va ad aumentare.
L’effetto Bohr facilita quindi la liberazione dell’O2 a livello periferico e contemporaneamente
consente un più agevole passaggio dello stesso dall’aria alveolare al sangue a livello polmonare.

386
Nel grafico possiamo osservare
l’esemplificazione dell’effetto Bohr. Sono
presenti tre curve di dissociazione
dell’emoglobina, tutte calcolate per una
temperatura di 37°C. Quando il pH
diminuisce, arrivando ad un valore di 7,2 e
discostandosi quindi dal valore normale di
7,4 rappresentato nella curva centrale, la
curva si sposta verso destra. Un
movimento in questa direzione indica che
l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno è
diminuita; l’affinità per l’O2 va invece ad
aumentare quando il pH diventa basico,
raggiungendo un valore di 7,6. Queste
variazioni vanno a facilitare gli scambi di
ossigeno sia a livello polmonare che
tissutale. È stato infatti calcolato che l’effetto Bohr determini una liberazione a livello dei capillari
periferici di una quota aggiuntiva di ossigeno pari a 12 mL ogni 100 mL di sangue, rispetto a quanto
invece si avrebbe in assenza di tale effetto.

Nel pannello a sono rappresentati in alto gli scambi che avvengono a livello polmonare, mentre nella
parte inferiore gli scambi tissutali. Il sangue che arriva a livello del capillare polmonare ha un pH più
acido, in questa immagine è 7,2 (la prof. afferma che il valore è troppo basso, le variazioni di pH sono
più contenute nella realtà). In questa circostanza l’anidride carbonica passa dal sangue allo spazio
alveolare e l’emoglobina risulta quindi “scarica”, non più legata né ad idrogenioni né ad anidride
carbonica. Ciò aumenta la sua affinità per l’ossigeno e porta perciò ad un graduale aumento del pH,
che passa dal valore di 7,2 a quello di 7,4 nel sangue arterioso. A livello dei tessuti periferici l’ossigeno
passa dal sangue al tessuto, l’emoglobina deossigenata lega più facilmente CO2 e H+ e questo facilita
il passaggio dell’anidride carbonica dal tessuto periferico al sangue.
Andiamo ora ad analizzare il pannello b: è possibile osservare che passando dal sangue arterioso al
sangue venoso e viceversa, ci si sposta in realtà tra due differenti curve di dissociazione
dell’emoglobina:
- a livello del sangue venoso si è nella curva più bassa, spostata a destra. L’affinità per
l’ossigeno è più bassa a causa della concentrazione più elevata di anidride carbonica e
idrogenioni;
- a livello del sangue arterioso ci si sposta nella curva più alta, spostata a sinistra. L’affinità per
l’ossigeno è più elevata, a causa della più bassa concentrazione di CO2 e H+.
Nel sangue venoso sono contenuti 3,4 mL di CO2 in forma di carbaminocomposti ogni 100 mL di
sangue, in quello arterioso 2,6 mL. Ciò indica che circa 0,8 mL di anidride carbonica vengono
liberati a livello polmonare dopo essere stati trasportati come carbaminocomposti, quindi circa il 20%
del totale della CO2 liberata a livello polmonare.

387
Possiamo quindi affermare che una quota maggioritaria di CO2 è trasportata sotto forma di bicarbonato, poi
secondariamente come carbaminocomposti e infine una quota minoritaria è invece trasportata in forma
fisicamente disciolta.

Effetto Haldane
L’effetto Haldane è il nome che viene attribuito all’effetto che ha il livello di ossigenazione del sangue sulla
facilità con cui l’emoglobina può andare a legare gli idrogenioni. L’emoglobina ossigenata lega più
difficilmente l’anidride carbonica, perché l’emoglobina ossigenata è un acido più forte dell’emoglobina
deossigenata, e quindi la reazione si sposta verso destra, facendo sì che il legame tra emoglobina e idrogenione
risulti più difficoltoso.
Possiamo costruire una curva di dissociazione per l’anidride carbonica, analogamente a quanto si fa per
l’ossigeno. Il procedimento è affine, perciò esponiamo il sangue a valori crescenti di PCO2 e andiamo a vedere
come varia il suo contenuto complessivo.
Nel grafico abbiamo:
o sull’asse delle x i valori crescenti di PCO2;
o sull’asse delle y la concentrazione totale della CO2 trasportata.

(La quota di anidride carbonica disciolta è rappresentata in basso dalla linea verde).
La quota complessiva di anidride carbonica che viene trasportata nel sangue aumenta sostanzialmente in
maniera lineare all’aumentare della sua pressione parziale, perciò, il grafico non presenta una forma sigmoide
come quella che si riscontra nella curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno, bensì può essere
assimilata ad una retta con pendenza positiva. Questo indica che più aumenta la pressione parziale di CO2,
più aumenta anche la concentrazione di anidride carbonica nel sangue. Diversamente da quanto avviene nel
caso del trasporto di ossigeno, dove si osserva una curva sigmoide che indica saturazione (perché quando sono
esauriti tutti i siti di legame per l’ossigeno sull’emoglobina non è possibile trasportarne di più), in questo caso
non si osserva saturazione. Non c’è un limite massimo al trasporto di anidride carbonica perché teoricamente
la trasformazione della CO2 in HCO3- può proseguire in maniera illimitata, di conseguenza la concentrazione
di anidride carbonica nel sangue può aumentare con l’aumentare della PCO2 in modo virtualmente infinito.
La curva di dissociazione dell’anidride carbonica si sposta in funzione dello stato di ossigenazione
dell’emoglobina: se l’emoglobina è ossigenata, la curva si sposta verso il basso. La famiglia di tre curve che
sono rappresentate nel grafico descrivono la dissociazione della CO2 dall’emoglobina a differenti livelli di
ossigenazione. La curva più in alto è stata ottenuta con sangue dove l’emoglobina ha una saturazione dello
0%, quella al centro con una saturazione di ossigeno pari al 75%, corrispondente a quella normale nel sangue
venoso, e quella più in basso con una saturazione dell’emoglobina del 97,5%, valore normale per il sangue
arterioso. Quindi più alta è la saturazione di O2, più spostata verso il basso sarà la curva. Al contrario se
l’emoglobina è deossigenata, la curva si sposta verso l’alto, quindi ad uguale valore di P CO2 il sangue
deossigenato è capace di trasportare una quantità superiore di anidride carbonica. Questo rappresenta l’effetto
Haldane.

388
Nel grafico più piccolo è osservabile che per uno stesso valore di PCO2 (pari a 40mmHg, pressione
normalmente presente nel sangue arterioso), la concentrazione di anidride carbonica portata nel sangue è
significativamente superiore se l’emoglobina non sta trasportando ossigeno.
L’effetto Haldane dipende dal fatto che l’emoglobina deossigenata è un acido più debole rispetto
all’emogobina ossigenata. Ricordiamo che un acido forte è un acido che in soluzione si dissocia
completamente, mentre un acido debole rimane in parte in forma indissociata, quindi parte degli idrogenioni
rimangono comunque legati alla molecola. L’emoglobina deossigenata si dissocia in maniera meno consistente
rispetto all’emoglobina ossigenata e perciò riesce a tamponare gli ioni H+ in maniera molto più efficace.
L’emoglobina deossigenata lega più facilmente gli ioni H+ perché è un acido più debole, quindi la reazione si
sposta verso sinistra, mentre l’emoglobina ossigenata, essendo un acido forte, tende a dissociarsi
dall’idrogenione e quindi a spostare l’equilibrio della reazione verso destra. L’emoglobina deossigenata è
anche maggiormente in grado di formare carbaminocomposti, quindi può legare la CO2 più facilmente e
rapidamente. La presenza dell’effetto Haldane raddoppia la quantità di anidride carbonica che a livello tissutale
può essere caricata sull’emoglobina e quindi trasportata nel sangue venoso. Fisiologicamente e
quantitativamente quindi è un effetto molto importante.

16.8. Aspetti quantitativi del trasporto dell’anidride carbonica nel sangue

L’immagine seguente riassume le caratteristiche del trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica, nonché
l’interazione tra i trasporti di queste due molecole.

389
La CO2 viene trasportata principalmente come HCO3- nel plasma, la sua formazione avviene però attraverso
una reazione che si svolge prevalentemente all’interno del globulo rosso. Il bicarbonato esce dall’eritrocita in
scambio con uno ione cloruro, questo fa aumentare le dimensioni del globulo rosso e conseguentemente
l’ematocrito del sangue venoso. La CO2 viene trasportata inoltre in parte come carbaminocomposti, sia a livello
dell’eritrocita tramite legame con l’emoglobina, sia del plasma quando l’anidride carbonica va a legarsi ad
altre proteine plasmatiche; in parte viene trasportata in forma disciolta, sia a livello del citoplasma del globulo
rosso che a livello del plasma, per una quota pari a circa il 10% del totale.
La presenza di ossigeno influenza la capacità dell’eritrocita e del sangue in generale di trasportare CO2,
principalmente perché la presenza o l’assenza di ossigeno condiziona la capacità dell’emoglobina di legare sia
ioni H+, prodotti dalla dissociazione dell’acido carbonico, sia molecole di CO2 sotto forma di
carbaminocomposti. L’emoglobina deossigenata lega più ioni H+ e forma più carbaminocomposti,
l’emoglobina ossigenata lo fa con minore facilità; nel sangue venoso, dove si ha una P O2 più bassa, più
facilmente si formano carbaminocomposti e legami di idrogenioni con l’emoglobina, agevolando il trasporto
di anidride carbonica. Il contrario si avrà a livello polmonare.
Quantitativamente parlando, dobbiamo ricordare che:
 la quota di anidride carbonica trasportata nella sua forma fisicamente disciolta e liberata a livello
polmonare rappresenta circa il 10%;
 la quota maggioritaria è quella liberata dopo essere stata trasportata come HCO3-, quasi il 70%;
 il 20% invece viene trasportato sottoforma di carbaminocomposti.

In totale, sommando le tre quote a livello polmonare ogni 100 mL di sangue vengono ceduti 3,7 mL di
CO2, quindi quasi 40 mL per ogni litro di sangue; per una gittata cardiaca di 5 L/min la quantità di CO2 liberata
a livello polmonare arriva a essere 200 mL/min. In tal modo è possibile eliminare a livello polmonare quella
quota di CO2 che, per un quoziente respiratorio pari a 0,8, corrisponde a 250 mL/in di ossigeno utilizzati per il
metabolismo cellulare.
Abbiamo esaminato quali sono le modalità di trasporto dell’ossigeno nel sangue per riuscire a trasportarne
250 mL/min ai tessuti periferici e le modalità di trasporto dell’anidride carbonica nel sangue per riuscire a
trasportarne 200 mL/min dai tessuti periferici verso il tessuto polmonare.

390
17. Regolazione chimica e nervosa della respirazione

La respirazione è una funzione particolare, molto diversa da tutte le altre funzioni del nostro organismo,
perché è un’attività autonoma, nel senso che viene generata da un’attività automatica e ritmica di centri
situati nel tronco encefalico, ma gli effettori sono in realtà muscoli scheletrici, quindi in certa misura questa
funzione è soggetta anche ad un controllo volontario. In più, la funzione respiratoria viene anche adattata
all’esecuzione di compiti diversi, difatti la ventilazione si modifica ad esempio quando si parla, quando si fa
esercizio fisico, quando si mangia (ogni volta che si deglutisce la respirazione viene interrotta: ciò è valido
negli adulti, ma non nei neonati, che possono deglutire e respirare contemporaneamente). Il controllo è quindi
molto complesso perché deve integrare diversi tipi di afferenze, centrali e periferiche, e tanti tipi di segnali
diversi.
Da un punto di vista meccanico il controllo della respirazione cerca di minimizzare la spesa (c’è sempre un
criterio economico); si è visto, quando abbiamo studiato la meccanica respiratoria, che da un punto di vista
energetico la variazione più economica è quella da capacità funzionale residua ad un aumento corrispondente
al volume corrente. Se si sta dentro questo rango il lavoro respiratorio, in condizioni fisiologiche e non
patologiche, viene minimizzato. Da un punto di vista fisiologico, l’obiettivo del controllo respiratorio è quello
di mantenere la stabilità dei gas ematici a fronte di variazioni del loro fabbisogno e della loro produzione:
primariamente è necessario mantenere costante la concentrazione arteriosa di anidride carbonica. Sebbene
anche l’ossigeno sia mantenuto controllato tramite chemocettori, la principale regolazione viene effettuata sul
contenuto arterioso di CO2: la ragione di ciò si ritrova nel fatto che questo parametro influisce anche sul
mantenimento dell’equilibrio acido-base.

17.1. Centri respiratori bulbari e pontini

Vi sono diversi siti che si occupano del controllo respiratorio a livello del SNC. L’attività di questi centri di
controllo respiratorio è sottoposta alle informazioni che arrivano da chemocettori sia periferici sia centrali,
che monitorano il livello di ossigeno e anidride carbonica nel sangue e il suo pH, e informazioni che
provengono da recettori polmonari, tramite afferenze che dal polmone raggiungono i centri respiratori.
I centri di controllo respiratorio sono situati nel tronco dell’encefalo e sono costituiti da gruppi diversi di
neuroni. Vi è un gruppo che costituisce il generatore del pattern ventilatorio, quindi promuove l’attivazione
ritmica dei neuroni inspiratori e, quando necessario, anche dei neuroni espiratori, e vi è un altro gruppo che
forma i centri integratori, che andranno a controllare l’attività automatica del generatore del pattern
ventilatorio sulla base di una serie di afferenze che vengono loro dai centri nervosi superiori, dai chemocettori,
dalle vie riflesse e da una serie di altre regioni cerebrali che includono anche la corteccia, l’ipotalamo,
l’amigdala, il sistema limbico e il cervelletto. Ad esempio, la respirazione cambia anche sulla base dello stato
emozionale: se ci si spaventa si compia un’inspirazione improvvisa molto profonda, quasi fino alla capacità
polmonare totale. Ciò è possibile proprio grazie al controllo integrato della respirazione, poiché i centri
emozionali mandano afferenze ai centri integratori, che loro volta vanno a modulare l’attività dei generatori
del pattern ventilatorio, modificando la respirazione.

391
Questa immagine, già precedentemente analizzata, mostra il network autonomico centrale, l’insieme di
tutte quelle regioni nel SNC che partecipano alla regolazione dell’attività del SNA e quindi controllano le
funzioni viscerali, tra cui è compreso il controllo della respirazione.
A livello dei centri del network autonomico centrale, la regolazione della respirazione è principalmente a
carico delle strutture evidenziate in giallo in figura:
 nucleo parabrachiale;
 nucleo del tratto solitario;
 bulbo rostrale ventro-laterale;
 nuclei del rafe.
Tutti questi centri non sono deputati solamente alla modulazione dell’attività respiratoria, ma integrano
questa con quella cardiovascolare e con il controllo dello stato di vigilanza e di attivazione dell’organismo.
Dobbiamo infatti fare sì che l’attività respiratoria sia sempre ben matchata con quella cardiovascolare; più si è
in attività e più deve aumentare il pattern cardiovascolare-respiratorio, meno si è in attività più va a diminuire.
I centri superiori regolano il pattern di attività cardiorespiratoria in funzione del comportamento, ma a loro
volta variazioni cardiorespiratorie possono andare a modificare il livello di arousal, ad esempio durante il
sonno alterazioni del respiro, come apnee notturne, possono andare ad interrompere il sonno stesso e causare
risvegli ripetuti.
L’attività respiratoria viene generata a livello del tronco dell’encefalo, tramite un’attività neuronale
automatica e ritmica di neuroni che si attivano per produrre il pattern di attività respiratoria. I centri sono stati
localizzati sperimentalmente, principalmente durante il corso del secolo scorso, con esperimenti di lesioni a
diversi livelli.
Si sa che i motoneuroni che controllano i movimenti respiratori sono a livello del midollo spinale:
 cervicale: motoneuroni del nervo frenico, che va ad innervare il diaframma;
 toracico: motoneuroni per i muscoli intercostali.
Tali motoneuroni devono essere attivati da centri localizzati superiormente, nel nevrasse. Per affermare ciò
si compie una sezione che separa il midollo spinale dal bulbo. In questo caso il controllo respiratorio viene
perso e si va incontro ad un arresto della respirazione. Questa è la prova che questi centri sono al di sopra del
midollo spinale. Per localizzarli in maniera più esatta si opera una sezione al di sopra del ponte, al confine tra
ponte e mesencefalo, e in questo caso il pattern respiratorio rimane inalterato. I centri generatori del pattern
devono quindi essere compresi tra le due sezioni, e ciò significa che si trovano nella regione del ponte e del
bulbo.

392
L’immagine riportata in alto racconta la serie di esperimenti fatti per individuare i centri importanti nel
controllo respiratorio, mostrando sei diversi livelli di sezione. Nella parte destra della figura sono riportati dei
grafici: la colonna di sinistra presenta grafici effettuati quando i nervi vaghi sono intatti, mentre quella di destra
rappresenta le registrazioni effettuate quando sono stati anche sezionati i vaghi e quindi è stato tolto il
contributo proveniente dal polmone. Sezionare i vaghi elimina una componente di informazione diretta ai
centri respiratori molto importante e quindi va ad aggravare ulteriormente la condizione respiratoria.
 Sezione 6: osservando il pannello più basso
nella colonna “vaghi intatti” qui riportato, si
nota una condizione di apnea, perché i
motoneuroni del nervo frenico e dei nervi
intercostali non ricevono comandi di
attivazione dai centri superiori.
Sezione che separa bulbo da midollo spinale: arresto respiratorio.
 Sezione 1: separa il ponte dal mesencefalo,
livello di sezione chiamato rostropontino.
Nel pannello nella colonna dei vaghi intatti
si nota che l’animale produce un pattern di
respirazione normale.
 Sezione 2: effettuata a metà del ponte,
quindi a livello mediopontino, che esclude
la parte superiore del ponte. Si ha
modificazione del pattern respiratorio, con
comparsa di lunghe inspirazioni profonde,
che occupano la maggior parte del periodo respiratorio, seguite da brevi espirazioni. Se in questa
condizione si procede anche alla sezione dei nervi vaghi, si ottiene un pattern in cui il respiro si blocca
in inspirazione, condizione chiamata apneusi.
 Sezione 3: a livello rostrobulbare, tutto il
ponte rimane escluso dalla sezione. È
ancora presente un pattern respiratorio, ma
con inspirazioni ed espirazioni piccole ed
inefficaci; quindi c’è ancora attività ritmica, ma in assenza del controllo dei centri superiori questa
diventa inefficiente e non riesce a produrre una respirazione in grado di supportare gli scambi
respiratori.
Tutti questi lavori sperimentali hanno permesso di individuare, a livello del ponte e del bulbo, una serie di
strutture che oggi sappiamo essere implicate nel controllo dell’attività respiratoria ed in particolare ne sono
state identificate due a livello del ponte:
 centro pneumotassico: regola l’attività del centro apneustico, in particolare porta ad una sua
inibizione, e regola l’attività dei centri bulbari;
 centro apneustico: stimola l’attività inspiratoria.

393
Il ponte è quindi una regione che integra messaggi diversi provenienti dai centri superiori, dai chemocettori
e dai recettori periferici bulbari e va a modulare i centri bulbari.
Nel bulbo ci sono i centri che generano
il ritmo respiratorio, in particolare sono
stati scoperti due gruppi di neuroni
bulbari:
 gruppo respiratorio dorsale:
in prossimità del nucleo del
tratto solitario;
 gruppo respiratorio ventrale:
rappresenta una colonna di
neuroni che si estende per tutta
la lunghezza del bulbo.
Nell’immagine a lato sono colorati in
giallo i centri che contengono sia
neuroni inspiratori che espiratori,
mentre in blu i centri con solo neuroni
inspiratori e in rosso quelli contenenti
solo neuroni per l’espirazione.

Ponte
Il ponte presenta due importanti centri respiratori, il centro pneumotassico e quello apneustico.
 Si è in particolare evidenziato, in questi anni, il ruolo del centro pneumotassico, che viene chiamato
anche centro respiratorio pontino, che comprende due nuclei importanti:
- nucleo di Kӧlliker-Fuse;
- nucleo parabrachiale (mediale)2.
Questi nuclei non generano di per sé il ritmo respiratorio, ma possono modularlo. Sono in grado, ad
esempio, di stabilizzarlo ad una certa frequenza o influenzarne la durata, sia per quanto riguarda
l’inspirazione che l’espirazione. Sono centri che integrano informazioni provenienti dal resto del SNC,
nonché dalla periferia corporea, andando a coordinare la ventilazione con le funzioni vegetative, in
particolare con quella cardiovascolare, nell’ambito del network autonomico centrale. Vanno a
modulare la profondità degli atti respiratori sulla base delle informazioni che giungono dai
chemocettori, quindi sulla variazione ad esempio della PCO2; ricevono inoltre informazioni dai centri
bulbari che generano il ritmo respiratorio. Il nucleo parabrachiale partecipa anche al controllo della
pressione arteriosa, quindi riceve afferenze non solamente dai chemocettori, ma anche di barocettori.
La regolazione respiratoria non può infatti prescindere da un’integrazione profonda con la regolazione
cardiovascolare. Il nucleo parabrachiale è inoltre in grado di determinare una risposta di arousal, di
risveglio quando la concentrazione di CO2 nel sangue va ad aumentare molto, quindi porta all’aumento
dell’attività respiratoria e all’attivazione del SNC.
Centro pneumotassico, i.e. nucleo di Kӧlliker-Fuse e nucleo parabrachiale sono quindi i centri di
integrazione di tante informazioni diverse e in particolare sono responsabili della coordinazione tra
funzione respiratoria e funzione cardiovascolare.
 Il centro apneustico si trova invece nella parte più inferiore del ponte e controlla direttamente i
muscoli inspiratori e i centri della generazione del ritmo respiratorio nel bulbo. In generale partecipa
al controllo dell’attività anche dei muscoli somatici e non soltanto i respiratori.

2
La prof. ha detto solo nucleo parabrachiale, ma su molti testi si precisa mediale.

394
Bulbo

Scendendo a livello del bulbo si osserva il gruppo respiratorio dorsale (GRD), che contiene
prevalentemente neuroni che controllano l’attività inspiratoria: è un gruppo di nuclei che si trovano in stretta
vicinanza anatomica e compenetrazione con il nucleo del tratto solitario (il nucleo che raccoglie la maggior
parte delle afferenze viscerali).
Oltre a questo, si ha il gruppo respiratorio ventrale (GRV), o colonna respiratoria ventrale, che comprende
sia neuroni inspiratori che espiratori, si trova in stretta contiguità con il nucleo ambiguo e si compone di
diversi gruppi. La colonna respiratoria ventrale comprende infatti:
 complesso di Bӧtzinger;
 complesso pre-Bӧtzinger;
 gruppo respiratorio parambiguale;
 gruppo respiratorio retroambiguale.
I più importanti da ricordare sono i nuclei di Bӧtzinger e pre-Bӧtzinger.
Curiosità: la denominazione dei complessi di Bötzinger e pre-Bötzinger deriva dal congresso in cui furono
per la prima volta descritti, che si tenne ad Heidelberg. Nel corso di questo congresso, due diversi gruppi di
ricerca presentarono le loro scoperte su questi nuclei respiratori. Generalmente quando qualcuno scopre una
nuova struttura, questa prende il suo nome, ma in questo caso essendoci più di uno scopritore, questi nuclei
sono stati chiamati con il nome del vino che era stato servito alla cena sociale.
Ci soffermiamo su questi due nuclei perché sembra che i neuroni che generano l’attività automatica e che
quindi danno il via all’attivazione dei neuroni inspiratori, permettono la cessazione della loro attività ed
eventualmente portano all’attivazione dei neuroni espiratori,
siano contenuti nel complesso di pre-Bӧtzinger e che quindi questo complesso possa essere considerato
come il pacemaker dell’attività respiratoria. Ciò è sicuramente vero nei neonati e probabilmente vero anche
negli adulti.

Neuroni respiratori della regione bulbo-pontina


Nelle strutture bulbo-pontine che svolgono attività di controllo delle funzioni respiratorie sono state
individuate diverse classi di neuroni, che sulla base del momento del ciclo respiratorio durante il quale si
attivano sono stati distinti in:
 neuroni inspiratori, se scaricano durante la fase inspiratoria;

395
 neuroni espiratori, se scaricano durante la fase espiratoria; si attivano solo quando l’espirazione
diventa una funzione attiva (normalmente, in eupnea, l’inspirazione è una fase attiva che richiede
l’attiva contrazione dei muscoli inspiratori, mentre l’espirazione è una fase passiva legata al ritorno
elastico delle strutture messe in tensione durante la fase inspiratoria).
Andando ad analizzare la funzionalità di queste popolazioni neuronali, si distinguono:
 una fase inspiratoria, durante la quale si attivano i neuroni inspiratori;
 una fase espiratoria, ulteriormente suddivisa in una prima fase post-inspiratoria (E1) e una seconda
fase espiratoria in senso stretto (E2).
Si precisa che esistono diverse tipologie di neuroni
inspiratori ed espiratori, localizzati nelle diverse
strutture bulbari in modo disomogeneo: sono
distribuiti, frammisti tra loro, in tutti i nuclei che
svolgono funzioni inspiratorie o espiratorie; non
esistono nuclei costituiti esclusivamente da un solo tipo
di neuroni inspiratori o espiratori.
1. Durante la fase inspiratoria la scarica dei
neuroni inspiratori comincia bruscamente,
cresce fino a raggiungere un picco e poi cessa,
al termine di questa fase, sempre bruscamente.
I neuroni inspiratori possono essere
classificati, a seconda del proprio pattern di
scarica (visibile nel grafico a lato), in:
- neuroni inspiratori precoci:
scaricano rapidamente, con una
frequenza di scarica massima all’inizio dell’atto inspiratorio, dopodiché decrescono fino a
cessare bruscamente la propria attività al termine della fase inspiratoria;
- neuroni inspiratori a rampa: iniziano a scaricare in maniera graduale e aumentano
progressivamente la propria frequenza di scarica fino a raggiungere una frequenza massima
appena prima del termine dell’inspirazione;
- neuroni inspiratori tardivi: sono silenti nella prima parte dell’inspirazione e scaricano in
maniera massimale solo alla fine.
Funzione. L’attivazione dei neuroni inspiratori attiva i motoneuroni dei muscoli inspiratori (in questa
immagine è mostrato il nervo frenico, che innerva il principale muscolo inspiratorio, il diaframma, ma
lo stesso discorso vale per i nervi diretti ai muscoli intercostali esterni). Quando cessa la scarica dei
neuroni inspiratori precoci, a rampa e tardivi, al termine della fase inspiratoria, si interrompe anche la
contrazione dei muscoli inspiratori. Tuttavia, riprende subito dopo grazie all’attivazione dei neuroni
post-inspiratori.
2. I neuroni post-inspiratori scaricano nella prima fase dell’espirazione (fase post-inspiratoria o E1);
tuttavia, vengono funzionalmente inclusi nei neuroni inspiratori perché, al pari di questi ultimi, la loro
attivazione agisce sui muscoli inspiratori. I neuroni post-inspiratori hanno infatti la funzione di
rendere più graduale il rilasciamento dei muscoli inspiratori: ne accompagnano la distensione
durante la prima fase dell’espirazione, facendo sì che la fine dell’inspirazione risulti meno brusca e
dando così continuità al movimento. Mantengono quindi un iniziale stato di contrazione di questi
muscoli inspiratori, che poi progressivamente viene meno: si rilasciano in maniera non brusca, bensì
continuativamente nella prima fase dell’espirazione.
Perché si interrompe l’inspirazione?
a. Oggi si pensa che il principale fattore che determina la cessazione dell’inspirazione siano le
afferenze provenienti dai meccanocettori polmonari: questi vengono stirati durante la fase
inspiratoria, mandano un segnale che attraverso il nervo vago raggiunge il nucleo del tratto
solitario e mediante questo agisce sui neuroni del GRD, che a loro volta inibiscono i neuroni
del GRV che stanno promuovendo la fase inspiratoria. In questo modo cessa improvvisamente
la scarica dei neuroni inspiratori.
b. Il nervo ricorrente del vago (citato nella penultima riga del grafico) innerva i muscoli della
laringe, facendo contrarre in particolare gli adduttori della laringe: anche questa contrazione
frena il rilascio dei muscoli inspiratori e fa cessare l’atto inspiratorio con gradualità e non
improvvisamente.

396
3. Al termine delle fasi inspiratoria e post-inspiratoria, si ha la seconda fase dell’espirazione (E2). Se
l’espirazione è attiva, si verifica l’attivazione dei neuroni espiratori a rampa: questi attivano i
motoneuroni dei muscoli espiratori (nell’ultima riga del grafico si osserva la contrazione dei muscoli
addominali).
Alla fine di questa fase espiratoria si attivano anche i neuroni pre-inspiratori, che vanno ad attivare
l’inspirazione successiva, promuovendo l’attivazione di tutte le altre classi di neuroni inspiratori e
dando luogo al successivo atto inspiratorio.

Riassumendo le caratteristiche e funzioni principali dei neuroni appena descritti:


 Neuroni inspiratori precoci: attività crescente in modo graduale all’inizio dell’inspirazione e poi
decrescente, termina alla fine dell’inspirazione.
 Neuroni inspiratori a rampa: frequenza di scarica che cresce progressivamente durante tutta la fase
inspiratoria.
 Neuroni inspiratori tardivi: breve scarica solo a fine inspirazione.
 Neuroni post-inspiratori: attivi nella fase post-inspiratoria o E1; attivano lievemente il nervo frenico,
mantenendo così attivi i muscoli inspiratori e facendo sì che la cessazione dell’inspirazione e l’inizio
dell’espirazione avvengano gradualmente; inibiscono neuroni espiratori (la prima fase dell’espirazione
è sempre passiva) (NdS. Quest’ultima affermazione è presente nelle slide ma non viene citata a lezione
dalla prof.).
 Neuroni espiratori a rampa: frequenza di scarica crescente durante la fase espiratoria E2 (se
l’espirazione è attiva).
 Neuroni pre-inspiratori (ben caratterizzati solo recentemente; chiamati oggi anche phase spanning,
ovvero ‘quelli che fanno cambiare fase del ciclo respiratorio’): sono i primi ad attivarsi, alla fine
dell’espirazione, e attivano i neuroni inspiratori dando luogo all’inspirazione successiva.

Il GRD contiene principalmente neuroni inspiratori di diverse


tipologie. Questi possono proiettare anche direttamente sui
motoneuroni spinali, agendo così sugli effettori dell’inspirazione.
Tuttavia, proiettano principalmente sui neuroni del GRV, che
contiene i pacemaker dell’attività respiratoria ed è quindi il sito di
genesi del ritmo respiratorio.
Come già ripetuto, il GRV è suddiviso in quattro sezioni:
 complesso di Bötzinger: contiene principalmente neuroni
espiratori;
 complesso di pre-Bötzinger: individuato, almeno con
sicurezza nel neonato, come pacemaker dell’attività
respiratoria, contiene sia neuroni inspiratori che
espiratori;
 nucleo parambiguale: contiene principalmente neuroni
inspiratori;
 nucleo retroambiguale: contiene principalmente neuroni espiratori.
Si ricorda che le diverse classi di neuroni inspiratori sono presenti, frammiste tra loro, in tutti i nuclei che
contengono neuroni inspiratori.
Nel GRV o nelle vicinanze ci sono anche motoneuroni che attraverso i nervi vago e glossofaringeo innervano
le vie aeree superiori controllando la resistenza al flusso di aria.

Genesi del ritmo respiratorio


La genesi del ritmo respiratorio non è ancora del tutto chiarita.
Grazie ad evidenze sperimentali si sa che i neuroni pacemaker non sono presenti nel GRD: isolando la
porzione più rostrale del bulbo, infatti, la ritmogenesi permane. Pertanto, il ritmo non si genera nella parte più
alta del bulbo, bensì nella parte bassa: se la parte più bassa del bulbo rimane connessa ai centri midollare si
riesce comunque a registrare una contrazione ritmica dei muscoli inspiratori.
Si suppone che la funzione principale di GRD sia quella di ricevere informazioni provenienti
prevalentemente dal sistema tracheo-bronchiale e attraverso queste informazioni attuare una modulazione
dell’attività automatica, che viene invece generata dai nuclei della colonna ventrale. Come già detto, oggi si

397
pensa che la cessazione dell’inspirazione dipenda dalle afferenze dei meccanocettori polmonari, che
raggiungono il GRD, il quale a sua volta inibisce i neuroni del GRV.
La popolazione neuronale del GRD riceve anche informazioni dai chemocettori (a riguardo si vedano i
paragrafi successivi). Tutte queste informazioni vengono quindi integrate per partecipare alla modulazione
dell’attività dei neuroni del gruppo ventrale.
I neuroni del GRV si ritiene che invece medino la ritmogenesi respiratoria. Come sappiamo nel GRV si
trovano sia neuroni inspiratori che espiratori, che sembrano essere connessi tra loro da circuiti con inibizione
reciproca che consentono di alternare le fasi inspiratoria ed espiratoria.
Infine, il GRP (gruppo respiratorio pontino) svolge principalmente un’attività di modulazione. I nuclei di
Kölliker-Fuse e, soprattutto, parabrachiale svolgono diverse funzioni:
 mediano i riflessi inibitori originati dal polmone, coadiuvando i neuroni del GRD;
 controllano l’insorgenza dell’attività inspiratoria: infatti, come già detto, questi neuroni ricevono
informazioni dai centri superiori e dai recettori periferici, le integrano e sulla base dell’integrazione
effettuata modulano l’attività respiratoria affinché sia sempre concorde con il comportamento prodotto
dall’individuo, e in particolare con l’attività della funzione cardiovascolare (si ricordi l’importanza del
match preciso tra ventilazione e perfusione, e si tenga a mente come respirazione e circolazione devono
corrispondere alle esigenze dei tessuti, variabili nel tempo, garantendo una distribuzione adeguata di
sangue ossigenato ai diversi tessuti proprio sulla base di tali esigenze).

Controllo volontario della respirazione e controllo integrato dei centri respiratori bulbopontini
Il controllo ritmico della respirazione generato a livello bulbare
raggiunge i motoneuroni dei muscoli respiratori tramite fibre
discendenti che decorrono nella parte anteriore del midollo spinale
(nella sezione di midollo rappresentata dall’immagine a lato si
osservano i fasci contrassegnati da E ed I).
Tuttavia, si ricorda che i muscoli respiratori sono muscoli scheletrici,
pertanto sono sottoposti al controllo della volontà: è possibile quindi
modulare volontariamente lo stato di contrazione di questi muscoli
grazie al controllo attuato mediante l’attivazione delle fibre del fascio
cortico-spinale (rappresentato anch’esso nell’immagine a lato).
Quindi, esiste un doppio controllo dei muscoli respiratori:
 controllo dell’attività automatica mediante le fibre discendenti dai centri bulbari;
 controllo volontario mediante le fibre originate dalla corteccia e discendenti nel midollo spinale
all’interno del fascio piramidale. In certe circostanze, il controllo volontario può prevalere su quello
automatico (ad es. si può volontariamente attuare un’iperventilazione, anche fino a ridurre del 50% la
PCO2; è invece molto più difficile ipoventilare volontariamente, poiché dopo un’apnea più o meno
prolungata c’è comunque, ad un certo punto, la necessità di riprendere attività respiratoria e quindi
l’intervento del controllo automatico).

398
L’immagine permette di sottolineare ancora una volta l’integrazione dell’attività di controllo della
respirazione. Il centro di attuazione di questa regolazione è situato a livello bulbo-pontino; in particolare a
livello bulbare si trovano i centri che generano il ritmo respiratorio. Sulla regione bulbo-pontina convergono
molteplici informazioni ed esigenze:
 centri superiori: cortecce, sistema limbico (ricordiamo come le emozioni possono ampiamente
modulare il ritmo respiratorio), amigdala (struttura fortemente implicata nella genesi dello stato di
paura, che comporta alterazioni della respirazione), ipotalamo (centro di regolazioni autonomiche),
cervelletto (in particolare, il nucleo del fastigio; ricordiamo la connessione tra cervelletto-controllo
motorio-ritmo respiratorio adeguato all’attività motoria);
 recettori dolorifici: il dolore modula ampiamente l’attività respiratoria, infatti quando si ci fa male la
respirazione tende ad aumentare di frequenza e diventare più superficiale; inoltre, quando il dolore è
molto intenso si può raggiungere uno stato di apnea, poiché viene stimolata la liberazione di oppioidi
endogeni che inibiscono l’attività respiratoria (questo giustifica ad esempio il decesso da overdose di
eroina, potente oppioide che ha appunto effetto inibitorio sulle funzioni respiratorie);
 temperatura corporea: quando questa aumenta e vengono attivati i termocettori cutanei si verifica
una risposta respiratoria di cosiddetta polipnea (respirazione superficiale e frequente) che permette di
disperdere calore attraverso le prime vie respiratorie. Questo meccanismo di termodispersione viene
sfruttato dagli animali, specialmente da quelli con il pelo;
 chemocettori, sia i centrali che i periferici (vedi dopo);
 recettori polmonari e della parete toracica (si vedano i punti successivi);
 sonno: durante il sono si ha una diminuzione della sensibilità alle variazioni delle concentrazioni di
CO2 e O2; il processo regolatorio lavora con standard diversi durante la veglia e il sonno. Se la
diminuzione di sensibilità è eccessiva, si possono verificare delle apnee durante il sonno e, in
condizioni patologiche, anche morte improvvisa. Sembra che la SIDS (Sudden Infant Death Syndrome,
morte improvvisa durante il sonno dei neonati) sia legata proprio ad un’alterazione di questo
meccanismo di controllo della respirazione durante il sonno;
 barocettori: determinano una riduzione della respirazione;
 masticazione e deglutizione.
Tralasciando le specifiche di ognuno di questi fattori, ciò che è importante sapere è che l’attività dei centri
di controllo respiratorio è influenzata da tantissime funzioni.
Con la seguente slide si ricordano i principali meccanismi di controllo dei centri nervosi respiratori bulbo-
pontini, appena analizzati. Si aggiunge anche il ruolo delle influenze ormonali: adrenalina e noradrenalina

399
determinano iperventilazione; anche il progesterone, il cui livello è alto nell’ultima parte della gravidanza, può
determinare iperventilazione. Quindi, tantissimi fattori influiscono pesantemente sulla funzione respiratoria.

17.2. Funzione dei chemocettori periferici e centrali nella regolazione della ventilazione
polmonare

La regolazione chimica della respirazione è estremamente importante per il controllo dell’attività respiratoria.
La corteccia cerebrale (e quindi la regolazione nervosa analizzata finora) può modulare l’attività respiratoria
bilanciando il mantenimento della costanza dei gas ematici e del pH con tutte le altre esigenze non respiratorie
appena analizzate.
La regolazione chimica è molto precisa ed efficace: mantiene la costanza della pressione parziale di O2
e CO2 nel sangue arterioso e la costanza del pH. Il parametro che viene meglio regolato è la PCO2: in un
soggetto sano, ben regolato, non accade quasi mai che la PCO2 si discosti dal valore fisiologico di 40 mmHg di
più di 1-2 mmHg, qualunque sia l’attività svolta dal soggetto.
Le informazioni provenienti dai chemocettori, relative a PO2, PCO2 e pH nel sangue arterioso, raggiungono i
centri di controllo del ritmo respiratorio che modulano l’attività respiratoria per riportare i valori controllati ai
valori di riferimento: si tratta di un controllo a
feedback molto efficiente.
Come già detto, i parametri controllati sono tre;
tuttavia il controllo principale è quello esercitato
sul livello di CO2. D’altronde, è un controllo
facilmente giustificabile se si considera che il
valore della PCO2 determina anche il valore del
pH, la cui costanza è essenziale per il normale
funzionamento cellulare.
Osserviamo lo schema proposto a lato.
Se PCO2 aumenta nel plasma, questo si riflette
anche in un aumento della PCO2 a livello del
liquido cefalorachidiano o cerebro-spinale (LCS
nell’immagine).
L’aumento di PCO2 nel plasma attiva i
chemocettori periferici, sensibili sia alle

400
variazioni dei livelli di CO2 che a quelle della concentrazione di idrogenioni; l’aumento di PCO2 nel liquido
cefalorachidiano, invece, determina un aumento della concentrazione di idrogenioni (in seguito ad idratazione
della CO2 ad acido carbonico e quindi dissociazione in bicarbonato e ioni H+), che stimola i chemocettori
centrali.
La stimolazione di entrambi i tipi di chemocettori produce, in via riflessa, un aumento della ventilazione,
e quindi una riduzione della PCO2 e un aumento della PO2. L’aumento della PO2 partecipa anch’esso alla
regolazione della respirazione, poiché i chemocettori periferici (ma non quelli centrali!) sono sensibili anche
alle variazioni di PO2 nel plasma. Quindi, l’aumento della PO2, in via riflessa, limita la risposta ventilatoria
prodotta dalle variazioni della PCO2. Si noti quindi come le due grandezze (PCO2 e PO2) influiscano l’una
sull’altra.
La regolazione chimica della respirazione è quindi mediata da:
 chemocettori periferici;
 chemocettori centrali.

Chemocettori periferici
I chemocettori periferici sono situati in piccole strutture, i glomi, localizzati nella biforcazione carotidea
(glomi carotidei) e sotto l’arco aortico (glomi aortici).
Innervazione. I glomi sono innervati da rami dei nervi glossofaringeo e vago. In particolare, i glomi carotidei
sono innervati dal nervo di Hering, che confluisce nel glossofaringeo e quindi giunge al NTS. I glomi aortici,
invece, sono innervati da rami del nervo vago e raggiungono anch’essi i neuroni del NTS.
Struttura. Nei glomi si trovano due tipi di cellule:
 cellule di tipo I o cellule glomiche, con attività chemocettiva;
 cellule di tipo II, con funzione di sostegno.

La struttura dei glomi è piuttosto complicata e, per certi versi, simile a quella dei gangli del SNA
(caratterizzati da cellule cromaffini, da tanti tipi di cellule e sinapsi e da interneuroni inibitori). I glomi carotidei
sono più studiati dei glomi aortici, tuttavia le informazioni desunte sono valide anche per i secondi.
Le cellule di tipo I contengono delle vescicole sinaptiche, la cui liberazione determina l’attivazione delle
fibre afferenti (in particolare, fibre vagali nell’immagine) che trasportano l’impulso verso il NTS. Sono stati
individuati diversi tipi di neurotrasmettitori contenuti nelle cellule di tipo I: il neurotrasmettitore più importante
è probabilmente la dopamina. Le cellule di tipo I sono infatti tutte cellule cromaffini, contenenti catecolamine,
simili a quelle dei gangli del SNA e della midollare del surrene. Si pensa che queste sinapsi possano addirittura
essere bidirezionali, ovvero che fibre afferenti possano esse stesse liberare un neurotrasmettitore, oltre a

401
recepire informazioni procedenti dalla cellula chemocettiva di tipo I. Questo sarebbe molto particolare: infatti,
una delle caratteristiche fondamentali della sinapsi chimica è proprio l’unidirezionalità.
Le cellule di tipo I sono innervate anche da fibre efferenti del SNA sia simpatiche che parasimpatiche che
possono modulare la sensibilità dei chemocettori stessi (questa può variare, ad esempio, durante il sonno). Le
fibre simpatiche possono essere sia pre- che post-gangliari; le fibre parasimpatiche sono pre-gangliari.
Si tratta quindi di un sistema molto complesso, la cui funzionalità è basata sulla sensibilità delle cellule di
tipo I alle variazioni di PCO2, pH e PO2. Solo i chemocettori periferici sono sensibili alle variazioni del contenuto
plasmatico di O2 (i chemocettori centrali no, tanto che l’esistenza di questi ultimi è stata scoperta proprio
esportando i chemocettori periferici e notando l’eliminazione della capacità di risposta alle variazioni di P O2,
ma la conservazione della sensibilità a PCO2 e pH).
I glomi sono vascolarizzati in maniera molto marcata: il flusso per 100 grammi di tessuto al minuto risulta
40 volte superiore a quello cerebrale (0.04 ml/min per un peso di 2 mg). Il flusso è sproporzionato rispetto
alle esigenze metaboliche di questi organi, e pertanto l’estrazione di ossigeno è irrisoria: in questo modo la PO2
può essere monitorata direttamente a livello arterioso, non essendoci sostanzialmente differenza tra livello
arterioso e livello venoso.
La risposta dei chemocettori periferici alle variazioni del contenuto di gas ematici è molto rapida: possono
scaricare nel giro di pochi secondi e produrre una risposta ventilatoria altrettanto rapida. Viceversa, le risposte
ventilatorie innescate dai chemocettori centrali sono più lente, poiché richiedono più passaggi di attivazioni.
I chemocettori periferici rispondono alle variazioni di PCO2, pH e PO2. La risposta alle variazioni di pH è più
intensa nei glomi carotidei che in quelli aortici (secondi alcuni questi ultimi sono del tutto incapaci di
rispondere a variazioni del pH).
I chemocettori periferici misurano le concentrazioni di gas e
pH nel sangue arterioso. Nel grafico osserviamo come i
chemocettori periferici rispondano al variare della PO2: la
risposta comincia anche per valori normali di PO2; tuttavia,
finché questa rimane uguale o superiore a 100 mmHg la risposta
rimane piuttosto labile, diventa più rapida solo al di sotto di tale
valore, aumenta moltissimo sotto ai 75 mmHg e infine, sotto i
60 mmHg, la rapida desaturazione dell’emoglobina indica la
necessità di incrementare nella maniera più marcata possibile la
respirazione.
Nelle cellule di tipo I si trovano dei sensori per O2, proteine
contenenti gruppi eme che legano il gas presente nel plasma.
Questi sensori sono accoppiati a dei canali per il potassio. Se
non c’è abbastanza O2 nel plasma da saturare i siti di legame, la
conseguente desaturazione dei sensori per O2 determina la
chiusura dei canali K+ accoppiati. Questo porta ad una
diminuzione di permeabilità della membrana per il potassio e
quindi ad una depolarizzazione della cellula. Quindi, si aprono
dei canali per il calcio voltaggio-dipendenti, che permettono
l’ingresso di Ca2+ e quindi il rilascio del neurotrasmettitore,
prevalentemente dopamina, che attiva le fibre afferenti.
Meccanismi analoghi, seppur con sensori diversi, sono attivati
anche per le variazioni di CO2 e pH.

Chemocettori centrali
Funzionano parallelamente a quelli periferici. Sono stati scoperti perché l'asportazione dei periferici non
abolisce la sensibilità chemocettiva: elimina quella per l'ossigeno ma non quella per l’anidride carbonica,
quindi si è cercato che cosa mediasse questa residua sensibilità per la CO2.

402
Sono stati quindi individuati dei chemocettori in una zona
chemocettiva sulla superficie ventro-laterale del bulbo,
alcune centinaia di micron sotto la superficie, in un’area
che è prossima al nucleo retrotrapezoidale, preso questo
come punto di riferimento sulla superficie anteriore del
bulbo.
Le aree ad attività chemocettiva a livello del bulbo sono
in realtà diverse: si distinguono un'area più rostrale,
un’area intermedia e un'area più caudale, sempre sulla
superficie anteriore e ventrale del bulbo. Più recentemente
si è visto che in realtà dei neuroni dotati di sensibilità
chemocettiva sono presenti anche in altre zone, per
esempio, ci sono cellule chemosensibili anche nel locus
coeruleus, nell’ipotalamo, a livello dei nuclei del rafe
(sempre nel bulbo) e probabilmente anche nel nucleo del
tratto solitario; variazioni del contenuto di anidride
carbonica possono modulare la respirazione attivando
anche questi siti accessori.
Probabilmente è un sistema ridondante come tanti altri
nel sistema nervoso centrale, sistemi che hanno determinate capacità ma magari in condizioni normali non le
utilizzano: lo fanno soltanto in condizioni di emergenza e/o condizioni particolari, per esempio durante il sonno
o quando si bloccano le vie respiratorie e c’è un segnale intenso che attiva non soltanto le aree consuete, ma
anche ma anche tutte quelle accessorie che possono partecipare.3

I chemocettori centrali sono particolarmente


sensibili all’aumento dell'anidride carbonica, quindi
all’ ipercapnia, a differenza dei periferici che sono più
sensibili alle variazioni di ossigeno.
In questa immagine sono evidenziati in giallo,
sempre qualche centinaio di micron sotto la superficie
del bulbo, circondati dal liquido extracellulare che
bagna la superficie del chemocettore e media gli
stimoli che arrivano al chemocettore stesso. La
composizione del liquido extracellulare dipende da
ciò che arriva dai vasi sanguigni attraverso la barriera
ematoencefalica e da ciò che arriva dal liquor, il quale
bagna il tessuto (dal momento che non c'è una barriera
tra questi ma solo tra sangue e tessuto, quindi il liquor
che bagna la superficie del bulbo scambia sostanze
con facilità con il liquido extracellulare che bagna il
neurone con funzione chemocettiva). Il terzo fattore che influisce sulla composizione del liquido extracellulare
è ovviamente il metabolismo del tessuto, quindi il tessuto stesso può produrre, per esempio, anidride carbonica.
I chemocettori centrali rispondono principalmente a variazioni della concentrazione protonica, per cui
sono specificamente sensibili alle variazioni di [H+]. I protoni che possono stimolare i chemocettori centrali
sono prodotti in parte dal metabolismo del tessuto cerebrale, ma sono di maggiore interesse quelli legati a una
variazione dell'anidride carbonica nel sangue: questo aumento di CO2 nel sangue fa aumentare anche la
concentrazione degli idrogenioni, dato che l'anidride carbonica viene idratata e l'acido carbonico si dissocia in
idrogenione e ione bicarbonato; gli idrogenioni che sono presenti nel plasma non possono però raggiungere il
liquido extracellulare del tessuto cerebrale, perché non riescono a superare la barriera ematoencefalica e quindi

3
La spiegazione della prof. corrisponde quasi del tutto a questo passo del Boron: “Ricerche più recenti su sezioni cerebrali
e cellule in coltura mostrano che l’acidosi stimola i neuroni in numerosi nuclei del tronco encefalico, tra cui il rafe bulbare
e l’NTS – entrambi nel bulbo – nonché nel locus coeruleus e nell’ipotalamo. L’importanza di ciascuna di queste aree
chemosensibili nel controllo della ventilazione in condizioni normali non è chiara. È possibile che la presenza di sensori
multipli sia un altro esempio di ridondanza in un sistema di importanza fondamentale. In alternativa, alcuni di essi
potrebbero entrare in gioco solo in circostante particolari, come durante disturbi gravi dell’equilibrio acido-base o durante
il sonno”.

403
rimangono all'interno dei vasi. Diverso il discorso per l'anidride carbonica, che è un gas e infatti molto
facilmente attraversa la barriera ematoencefalica e raggiunge il liquido extracellulare e soprattutto il liquor.
Qui la CO2 viene idratata e si forma l'acido carbonico, che si dissocerà in H + e bicarbonato: gli H+ vanno a
stimolare i chemocettori centrali. Questo spiega perché la risposta dei chemocettori centrali è più lenta di
quella dei chemocettori periferici: è necessario infatti un tempo maggiore, affinché l'anidride carbonica passi
attraverso la barriera ematoencefalica, raggiunga il liquido cefalorachidiano, si idrati e gli idrogenioni vadano
a stimolare i chemocettori. Il tempo necessario perché avvenga tutto questo è circa un minuto, quindi quando
si ha un aumento della pressione parziale di anidride carbonica, si ha un aumento di ventilazione che compare
rapidamente perché vengono stimolati i recettori periferici, che determinano in prima battuta un aumento della
profondità del respiro per l'aumento del volume corrente, poi vengono attivati i chemocettori centrali e
aumenta sensibilmente anche la frequenza respiratoria. Affinché la risposta sia completa occorrono diversi
minuti e si raggiunge il massimo della risposta in circa dieci minuti.
Il pH del liquido cefalorachidiano è normalmente un po' più acido di quello del plasma (intorno a 7,32),
perché a livello del liquor ci sono meno proteine,
quindi il potere tampone del liquor e anche del
liquido extracellulare è inferiore a quello del
plasma.
Se l'ipercapnia perdura nel tempo e quindi dura
per diversi minuti o per qualche ora, la risposta ventilatoria va a diminuire perché, seppur molto lentamente,
anche i bicarbonati prodotti dalla dissociazione dell'acido carbonico possono passare dal sangue al liquido
extracellulare e al liquor. Una volta arrivati nel liquor, possono tamponare i protoni H+ e in questo modo andare
a diminuire il livello di attivazione dei chemocettori centrali. Il contenuto di una pressione parziale di anidride
carbonica nel liquor è in equilibrio con quella del sangue venoso cerebrale, quindi un po' più alta di quella del
sangue arterioso.
Riassumendo. CO2 nel plasma → passa la barriera ematoencefalica a livello del liquor (in parte anche del
liquido extracellulare) → viene idratata ad acido carbonico che si dissocia → stimolo adeguato di ioni H + e
attivazione dei chemocettori centrali.

Domanda di uno studente. I chemocettori centrali sono comunque sensibili anche alla CO 2 di per sé? Sembra di sì, ma
in maniera molto marginale. Principalmente la loro attività è di risposta alla concentrazione idrogenionica ed è proprio
per questo che l'aumento della risposta ventilatoria quando varia l'anidride carbonica nel sangue richiede alcuni minuti,
perché anche se hanno un minimo di sensibilità all’anidride carbonica questo non è di per sé sufficiente a guidare la
risposta ventilatoria. Perché si esplichi una risposta respiratoria occorre una stimolazione da parte degli idrogenioni.

17.3. Risposte ventilatorie a variazioni della pressione parziale dell’ossigeno, della


anidride carbonica e della concentrazione idrogenionica nel sangue arterioso e
17.4. Effetti dell’interazione tra gli stimoli chimici sulla ventilazione polmonare

N.B. L’argomento è stato spiegato anche da Silvani e i grafici (tratti dal Berne & Levy) si possono ritrovare nella tesina
Regolazione dell’equilibrio acido-base, al punto 22.4.

La finalità delle risposte è mantenere il più possibile la pressione parziale di CO 2 al valore ottimale (per il
funzionamento dell’organismo e mantenimento del pH) di 40 mmHg: le variazioni del contenuto di anidride
carbonica vengono rilevate dai chemocettori centrali e periferici e determinano una risposta ventilatoria.

404
L'entità di questa risposta per una pressione parziale di 40
mmHg è pari a una normale ventilazione alveolare di 5 litri al
minuto. Se aumenta la pressione parziale di anidride carbonica
di 5 mmHg (passando da 40 a 45), la ventilazione alveolare
raddoppia, passa da 5 a 10 litri al minuto.
Anche l'ipossia fa aumentare la ventilazione, ma si riesce a
raddoppiare la ventilazione alveolare solo se l'ossigeno
diminuisce del 50%, ad esempio se si passa da 100 a 50 mmHg
di pressione parziale di ossigeno, mentre per la CO2 è sufficiente
passare da 40 a 45 mmHg di pressione parziale: la pressione
parziale di anidride carbonica è dunque certamente lo stimolo
più importante nella regolazione dell'attività ventilatoria.
Si può osservare anche come l'aumento della pressione parziale
dell'anidride carbonica eserciti un effetto sulla ventilazione
molto superiore a quello dato invece da una variazione del pH:
una diminuzione del pH determina un aumento della
ventilazione, ma deve essere una variazione molto importante
per modificare effettivamente il valore, mentre aumenti anche
molto contenuti di anidride carbonica determinano un aumento
di ventilazione molto marcato.

La risposta ventilatoria alle variazioni


della anidride carbonica può variare in
diverse condizioni, quindi non è sempre la
stessa. La risposta in condizioni normali di
veglia nel grafico nella prossima pagina è
raffigurata dalla seconda linea da sinistra
(“awake normal”): si parte da un normale
valore di 40 mmHg di pressione parziale di
CO2 e man mano che questa aumenta,
cresce in maniera lineare anche la
ventilazione.
C'è una famiglia di curve che possono
avere posizione diversa, quindi essere
spostate più a destra o più a sinistra (cambia
cioè la soglia), oppure una pendenza
diversa, legata alla sensibilità e
all'efficienza della risposta (quindi più la
linea è verticale più il meccanismo di
regolazione è sensibile e per piccole variazioni della pressione parziale producono ampie variazioni della
ventilazione alveolare; più la linea invece è sdraiata e piatta, meno alta è la sensibilità e meno efficiente è la
risposta, perché significa che occorrono grandi variazioni della pressione parziale per determinare un adeguato
aumento della ventilazione polmonare).
Rispetto alla linea corrispondente alla condizione di veglia normale a fianco a destra troviamo quello che
avviene in condizione di sonno con una variazione sia della sensibilità, sia della soglia. Ciò significa che si
comincia a rispondere più tardi e essendo un po' meno pendente, significa che si risponde con minore
efficienza, quindi il controllo della respirazione durante il sonno è diverso da quello che si ha durante la veglia:
si attiva per valori di anidride carbonica nel sangue un po' più alti e l'efficienza con cui va a controllare il
livello di anidride carbonica è minore; questo implica che durante il sonno la pressione parziale dell'anidride
carbonica sarà di alcuni mmHg più alta di quanto non sia in veglia.
Diversi farmaci possono modificare la sensibilità della risposta ventilatoria, per esempio morfina, eroina e
barbiturici diminuiscono la sensibilità del sistema che risponde più difficilmente. Un fenomeno simile si
osserva anche nella broncopatia cronico-ostruttiva: in questi soggetti non soltanto si ha una difficoltà al
passaggio di aria a livello delle vie aeree superiori, ma anche l'efficacia del sistema regolatorio risulta ridotta.
C'è un'unica curva spostata invece verso sinistra ed è la linea dell’acidosi metabolica. In queste condizioni
la risposta è più intensa perché al contributo dato dalla CO2 si somma anche quello legato alla presenza degli

405
idrogenioni, che esercitano anche un effetto autonomo, quindi le componenti parteciperanno tutte con effetto
additivo.
La risposta ventilatoria viene ridotta anche con l'avanzare dell'età, ci possono essere anche fattori razziali o
genetici; la sensibilità alla CO2 è ridotta anche negli atleti molto allenati e nei sommozzatori, che mantengono
una frequenza respiratoria più bassa di un individuo non allenato.
La risposta è ovviamente amplificata non soltanto dalla riduzione
del pH, ma anche dall'ipossia. A lato si osservano tre rette che
corrispondono alla risposta ventilatoria generata da una variazione
della pressione parziale dell'anidride carbonica in un soggetto dove
la pressione parziale di ossigeno è normale (100 mmHg) o ridotta
(70 e 50 mmHg) : si osserva chiaramente come la risposta sia più
intensa quanto più è ridotto il livello di pressione parziale di
ossigeno4, con un effetto additivo delle due regolazioni.
Ciò avviene anche per variazioni del pH. Se la concentrazione
idrogenionica è diminuita, cioè il pH è aumentato, la sensibilità
della risposta ventilatoria alle variazioni di anidride carbonica è
diminuita; se invece la concentrazione idrogenionica è aumentata,
cioè si è in presenza di un pH basso (es. acidosi metabolica), la
risposta ventilatoria risulta aumentata.

La ventilazione è ovviamente controllata anche


separatamente dai tre fattori: esaminando infatti la risposta
ventilatoria alle variazioni della pressione parziale di
ossigeno si nota che più la pressione parziale di ossigeno si
riduce, più aumenta la risposta ventilatoria e ovviamente la
concomitante variazione di altri parametri può influire sulla
normale risposta.
Le variazioni di ossigeno seguono lo stesso discorso fatto
prima ma rovesciato. Prima abbiamo osservato la risposta alle
variazioni di anidride carbonica a seconda del livello di
pressione parziale di ossigeno, qui vediamo invece come la
risposta ventilatoria alle variazioni della pressione parziale di
ossigeno cambia al variare della pressione parziale di
anidride carbonica.
Più la pressione parziale di anidride carbonica è alta, più le
risposte ventilatore generate da una riduzione della pressione
parziale di ossigeno saranno intense, e la stessa cosa vale per
una variazione del pH: se testiamo le risposte ventilatorie alla
variazione della pressione parziale di ossigeno, queste
saranno tanto più intense se si accompagnano a una riduzione
del pH.

Esposizione ad alta quota


Per capire esattamente come funziona questo sistema, esaminiamo brevemente che cosa accade durante
l'esposizione acuta ad alta quota, il che ci permette di ripassare alcuni concetti espressi in precedenza, in modo
che queste informazioni teoriche servano a comprendere quello che succede nella pratica.
In alta montagna la pressione parziale di ossigeno cala perché ovviamente cala la pressione barometrica e si
rapportano le frazioni di diversi gas che compongono la miscela non a 760 mmHg ma all’effettiva pressione
presente alle diverse altitudini. Risulta comunque più bassa la pressione barometrica (tanto più bassa quanto
più in alto andiamo) e questo determina una riduzione della pressione parziale di ossigeno.
Nonostante la riduzione della pressione parziale di ossigeno, l'anidride carbonica non subisce variazioni
perché non c'è un valore significativo di CO2 nell'aria (né a bassa né ad alta quota), quindi l'unica cosa che
cambia è la pressione parziale di ossigeno che va a stimolare i chemocettori periferici, per cui arriva un segnale

4
Anche qui, come nei casi precedenti, si può osservare sia uno spostamento della soglia, che una variazione dell’entità
della risposta ventilatoria per un dato incremento (o decremento) di P CO2.

406
ai centri di controllo respiratorio che determinano una condizione di iperventilazione. Questo però comporta
una riduzione della pressione parziale di anidride carbonica e questo è un segnale che attiva i chemocettori
soprattutto centrali (in misura minore anche quelli periferici) e va a frenare l’iperventilazione. Si ha dunque
una condizione in cui non si riesce totalmente a compensare la riduzione della pressione parziale di ossigeno
perché la risposta ventilatoria adeguata a compensarla viene frenata dalla riduzione della pressione parziale
dell'anidride carbonica, quindi l’iperventilazione c’è ma non è sufficiente. In questo modo con l’esposizione
ad alta quota si crea una situazione di ipossia, perché la risposta compensatoria non è sufficiente a compensare
la riduzione di pressione parziale di O2, proprio perché lo sviluppo concomitante di ipocapnia va a frenare
questo tipo di risposta.
Per avere un'idea di quanto varia
la pressione parziale di ossigeno
mentre si sale verso l'alto, nella
prima colonna è rappresentata la
pressione parziale di ossigeno
nell'aria inspirata in trachea (150
mmHg come valore di pressione a
livello del mare) e mano a mano
che cresce l’altitudine, come ad
esempio sul Monte Bianco a 4000
m, si osserva una pressione parziale
in trachea diminuita (di circa 100
mmHg a livello del Monte Bianco;
in cima all’Everest la PO2 è ridotta
a quasi un terzo di quella a livello
del mare): ciò può generare dei
gravi fenomeni di ipossia. Ecco
perché è necessaria
un’acclimatazione quando si va in
alta montagna, tanto che anche gli alpinisti più esperti salgono e scendono dal campo base ai campi successivi
per dare tempo all’organismo di sviluppare risposte compensatorie sufficienti.
In condizioni acute la risposta non è quindi sufficiente a compensare la riduzione di pressione parziale di
ossigeno (che deriva da una riduzione della pressione barometrica), se invece c’è un’acclimatazione
l’organismo riesce a compensare e ad arrivare a una condizione di equilibrio, perché permane la pressione
parziale di ossigeno nell'aria respirata, che va a stimolare i chemocettori periferici e determina un aumento
della ventilazione che a sua volta riduce la pressione parziale dell'anidride carbonica come in precedenza, ma
si sviluppa una riduzione della sensibilità dei chemocettori centrali all'anidride carbonica e quindi viene meno
l'effetto frenante che l'attivazione dei chemocettori centrali esercitava sull’iperventilazione indotta dalla
riduzione della pressione parziale di ossigeno. Vi è inoltre anche una compensazione renale, con cui il rene
riesce a compensare l’alcalosi respiratoria prodotta dall’iperventilazione e dalla riduzione della pressione
parziale dell'anidride carbonica e quindi si passa a una condizione in cui viene rimosso l'ostacolo prodotto dalla
ipocapnia allo stimolo che l’ipossia esercitava sui centri respiratori, e si ha finalmente una ossigenazione
adeguata: l’organismo si è acclimatato all'alta quota. Nel processo probabilmente si sviluppa anche un aumento
della sensibilità dei chemocettori periferici all'ipossia, dato che tutte queste strutture sono innervate anche da
fibre efferenti del sistema nervoso autonomo, che possono andare a modulare la sensibilità e la risposta.
Nel processo di acclimatazione sul lungo periodo compaiono anche altri meccanismi: per esempio il rene
può cominciare a liberare eritropoietine e questo va ad aumentare la produzione di emoglobina, oppure si può
avere un aumento del numero dei capillari muscolari, facilitando anche un’ossigenazione tissutale adeguata.
Fare esercizio ad alta quota risulta quasi impossibile all'inizio dell'esposizione ma poi diventa via via sempre
più facile e tanti atleti scelgono di allenarsi in questo modo perché stimola la circolazione a livello muscolare
e un’iperproduzione di emoglobina che se indotta farmacologicamente viene invece considerata doping.

407
Riassumendo. Nel primo periodo di esposizione acuta l’iperventilazione che si sviluppa a causa della
riduzione della pressione parziale di ossigeno non è sufficiente, perché viene frenata dalla concomitante
riduzione della pressione parziale dell'anidride carbonica, generata dall’iperventilazione stessa, che va a inibire
sostanzialmente i chemocettori centrali, quindi a ridurre la risposta ventilatoria. Col tempo la sensibilità dei
chemocettori centrali all’anidride carbonica diminuisce ma parallelamente aumenta la sensibilità dei
chemocettori periferici all'ossigeno, quindi il calo dell'ossigeno diventa uno stimolo più efficiente per stimolare
la ventilazione rispetto alla riduzione dell'anidride carbonica, che diventa uno stimolo meno efficiente per
ridurla e quindi effettivamente la ventilazione aumenta. Inoltre, la riduzione dell’anidride carbonica determina
una situazione di alcalosi respiratoria e anche questa tende a ridurre la ventilazione: tuttavia essa viene
compensata a livello renale e quindi anche questo ulteriore elemento che andrebbe a frenare la risposta
ventilatoria viene eliminato, per cui complessivamente è possibile iperventilare in maniera sufficiente da
compensare l’ipossia che si è sviluppata a causa della riduzione della pressione barometrica.

17.5. Recettori polmonari e riflessi respiratori

Si è detto fin dall'inizio che nei centri bulbari di regolazione e integrazione respiratoria convergono
informazioni che vengono dai centri superiori, dai chemocettori e anche dal polmone stesso. È ovvio che
esistano anche afferenze che vengono dal polmone stesso, perché esso è l’effettore della respirazione e quindi
le sue condizioni partecipano alla regolazione della funzione respiratoria. Esistono dunque dei recettori che
sono situati a livello polmonare e mandano afferenze che raggiungono il nucleo del tratto solitario e da qui
vengono smistate ai centri di controllo respiratorio bulbari e pontini; partecipano a questa regolazione riflessa
della respirazione anche recettori presenti nelle altre strutture dell'albero respiratorio, in particolare la gabbia
toracica e le vie aeree superiori.
Per quanto riguarda il parenchima polmonare, queste informazioni afferenti raggiungono i centri nervosi
trasportati da fibre del nervo vago e si riconoscono tre classi di recettori:
1. Meccanocettori: a lento adattamento, innervati da fibre mieliniche di grosso diametro (fibre A-β) e
sono a livello della muscolatura liscia, principalmente della trachea e dei grossi bronchi; essi
intervengono durante il processo di inspirazione, durante il quale vengono stirati (vengono dunque
attivati durante l’insufflazione polmonare) e determinano in via riflessa la cessazione della
respirazione: è il meccanismo descritto in precedenza per i neuroni inspiratori, che smettono di
scaricare improvvisamente al termine dell'inspirazione come se ci fosse un “interruttore” che li va a
spegnere, rappresentato delle afferenze che vengono dal polmone attraverso il vago, convergono sul
nucleo del tratto solitario e da questi sul gruppo respiratorio dorsale, che va a inibire l'attività

408
inspiratoria. L'attivazione di questi meccanocettori determina l'attivazione di una serie di riflessi che
sono stati descritti da Hering e Breuer.
 Il primo di questi riflessi è chiamato da insufflazione e viene prodotto sperimentalmente
nell'animale, bloccando la trachea al termine di una inspirazione; il risultato di questo riflesso
è proprio quello di andare ad inibire i neuroni inspiratori.
 Gli stessi autori hanno anche descritto un riflesso da desufflazione, che viene attivato invece
alla fine dell'espirazione e l’attivazione di questi meccanocettori determina in via riflessa un
aumento del tempo inspiratorio.
In realtà, la funzionalità di tutti questi recettori è stata testata su preparati sperimentali in animali da
esperimento e quindi in condizioni non fisiologiche, per cui non è chiarissima quale sia effettivamente
la loro funzione in condizioni fisiologiche. Ad ogni modo, questi si classificano come recettori che
vengono attivati dalle variazioni del volume polmonare, dal grado di stiramento dei muscoli lisci della
trachea e grossi bronchi.5
2. Recettori sensibili a stimoli irritativi: a rapido adattamento, rispondono sia alle insufflazioni
massicce e con rapide variazioni del volume polmonare, sia soprattutto ad agenti irritanti. Determinano
la comparsa di iperpnea con aumento della respirazione, tosse e broncocostrizione (determinano il
riflesso della tosse proprio per espellere all'esterno le sostanze irritanti che ne hanno determinato la
l'attivazione). La loro attivazione è anche la base di quello che viene chiamato riflesso paradosso di
Head, caratterizzato dal fatto che l’inspirazione di volumi di aria anche maggiori del volume corrente
produce un’ulteriore intensa inspirazione invece che una espirazione, attraverso l'attivazione di questi
recettori. Questa è una cosa che avviene circa un paio di volte all’ora, una iperinspirazione: tale
meccanismo probabilmente va a stirare tutti gli alveoli e contrasta la fisiologica tendenza al collasso
che hanno alcuni di essi.
3. Recettori juxta-capillari: sono innervati da fibre amieliniche molto sottili di tipo C e generalmente
sono sempre tutte fibre che viaggiano col nervo vago, i recettori sono localizzati nelle pareti alveolari
o anche nelle pareti dei bronchi e possono essere stimolati da sostanze chimiche che sono presenti nel
sangue e qui passano il liquido che bagna la superficie interna dello spazio alveolare. La loro
attivazione determina la comparsa di dispnea con il respiro corto, superficiale e frequente, e possono
essere accompagnate anche da broncocostrizione, bradicardia, ipotensione e secrezione mucosa che
quindi aggrava la patologia respiratoria.

Accanto a questi recettori polmonari partecipano alla regolazione riflessa della respirazione anche recettori
presenti nelle altre strutture dell’albero respiratorio.
1. Fusi neuromuscolari e organi tendinei del Golgi, che sono presenti nei muscoli della gabbia toracica
e funzionano come i fusi e gli organi tendinei presenti nelle altre strutture muscolari: tengono
monitorato lo stato di distensione della gabbia toracica e quindi probabilmente la loro attivazione
partecipa al segnale di arresto della fase respiratoria, in un caso dell’inspirazione, nell’altro caso della
espirazione.
2. Recettori particolari sono quelli
presenti a livello del naso e della
faccia che a contatto con l'acqua
fredda attivano il riflesso da
immersione, quindi una sospensione
della respirazione (apnea)
accompagnata da un'intensa
bradicardia, principalmente nei
mammiferi marini.
Quando ci si immerge si presenta il
riflesso da immersione: si osserva in
questa immagine la risposta cardiaca.
Nella prima fase si vede quello che fa
un animale in superficie (0 m di
profondità) che aumenta progressivamente la sua frequenza cardiaca per prepararsi all'immersione,
poi si immerge a 20 m e durante tutto questo periodo ovviamente non respira: è visibile anche un crollo

5
N.B. Nel Berne & Levy è definito riflesso di Hering-Breur solo quello da insufflazione.

409
concomitante della frequenza. Il senso è quello di risparmiare costi metabolici durante la fase in cui
l'animale non può respirare, poi la frequenza cardiaca aumenta in maniera fasica, molto rapida quando
l'animale ritorna in superficie. Il processo viene mediato proprio da questa specifica classe di recettori
situati a livello del naso e della faccia, è presente anche negli umani quando l'acqua fredda sul viso
determina una risposta riflessa di bradicardia.6
3. Anche nelle mucose delle vie aeree superiori ci sono dei recettori sensibili alla stimolazione con
sostanze irritanti che producono una risposta riflessa volta all’espulsione di queste sostanze tramite
il riflesso dello sternuto.

Domanda di uno studente. È possibile che un soggetto allenato come un sommozzatore, per la già ridotta sensibilità la
CO2, sia più sensibile agli effetti fatali dell'eroina o altri oppioidi rispetto al soggetto normale? La riduzione della
sensibilità alla CO2 nei sommozzatori e nei soggetti allenati non è ovviamente tale da pregiudicare l’efficienza del sistema,
quindi hanno una risposta ventilatoria che comincia più tardi e si sviluppa più lentamente, tollerano meglio le variazioni
della CO2 ma comunque rispondono. L'eroina invece va proprio a bloccare la funzionalità dei centri respiratori, tanto è
vero che dando una sostanza che spiazza l'eroina da questi recettori dei centri respiratori la respirazione viene ripresa e
possiamo salvare il soggetto. Ovviamente in soggetti in cui la sensibilità è già ridotta si ci aspetta plausibilmente che
l'effetto dell'eroina possa essere superiore rispetto a un soggetto normale.

Controllo della respirazione ed esercizio fisico: approfondimento dal Berne & Levy
L’abilità nell’esercizio dipende dalla capacità dei sistemi cardiaco e respiratorio di aumentare il trasporto dell’O 2 ai
tessuti e di rimuovere la CO2 dall’organismo. La ventilazione incrementa immediatamente quando l’esercizio inizia, e
questo incremento è strettamente accoppiato agli aumenti del consumo di O 2 e della produzione di CO2 che
accompagnano l’esercizio. La ventilazione è linearmente correlata sia alla produzione di CO2 che al consumo di O2 a
livelli di esercizio lievi o moderati. Durante l’esercizio massimale, un individuo fisicamente in forma può raggiungere
un consumo di O2 di 4 L/min con un volume ventilatorio di 120 L/min, che è quasi 15 volte maggiore del livello a
riposo. La condizione di esercizio fisico è rimarchevole a causa della mancanza di significative modificazioni nei gas
ematici. Eccetto che a livelli massimi di esercizio, i cambi nella PaCO2 e nella PaO2 sono minimi durante l’esercizio.
Il pH arterioso resta nei valori consueti durante l’esercizio moderato. (Ciò sembra sia dovuto a meccanismi proattivi
di regolazione della risposta). Durante l’esercizio intenso, il pH arterioso inizia a calare a causa del rilascio di acido
lattico rilasciato dai muscoli durante i processi di metabolismo anaerobio. Questo calo nel pH arterioso stimola una
ventilazione sproporzionata rispetto al livello di esercizio. Il livello di esercizio al quale inizia una sostenuta acidosi
metabolica (lattica) è chiamato soglia anaerobica.

Anomalie della respirazione: approfondimento dal Berne & Levy e dal Boron & Boulpaep
 Durante il sonno, approssimativamente un terzo degli individui sani ha brevi episodi di apnea o di
ipoventilazione che non hanno effetti significativi sulla PaO2 o sulla PaCO2. Nelle sindromi da apnea
notturna (o più correttamente sindromi da apnea del sonno), la durata dell’apnea è abnormemente
prolungata, e modifica la PaO2 e la PaCO2. Ci sono due maggiori categorie di apnea notturna. La prima,
l’apnea del sonno ostruttiva (OSA, Obstructive Sleep Apnea) è la più comune sindrome da apnea notturna,
e avviene quando le vie superiori (generalmente l’ipofaringe) si chiudono durante l’inspirazione. La seconda
sindrome da apnea notturna è l’apnea del sonno centrale. Questa variante di apnea avviene quando il drive
ventilatorio verso i motoneuroni respiratori diminuisce.
 La ventilazione di Cheyne-Stokes è un’altra anomalia del respiro, che è caratterizzata dalla variazione del
volume corrente e della frequenza ventilatoria. Dopo un periodo di apnea, il volume corrente e la frequenza
respiratoria aumentano progressivamente per diversi respiri, e poi progressivamente diminuiscono fino al
ripresentarsi dell’apnea. Questo pattern respiratorio irregolare si osserva in alcuni individui con disturbi del
sistema nervoso centrale, traumi alla testa, o con un’aumentata pressione intracranica. Essa si presenza
occasionalmente anche in individui sani durante il sonno o ad alta quota. Il meccanismo che sta alla base
del respiro di Cheyne-Stokes è ignoto.
 La respirazione apneustica è un altro pattern respiratorio anormale caratterizzato da sostenuti periodi di
inspirazione intervallati da brevi periodi di espirazione.
 La respirazione di Kussmaul è una respirazione rapida estremamente profonda osservata in acidosi
metabolica (e.g., chetoacidosi diabetica).

6
Per ulteriori informazioni, vedi tesina Regolazione della pressione arteriosa, punto 11.1.

410
FISIOLOGIA RENALE
E DELLA REGOLAZIONE INTEGRATA
DEL BILANCIO IDRICO E SALINO
Prof. A. Silvani

Funzioni del glomerulo renale


 Flussi plasmatico ed ematico renali.
 Processo di ultrafiltrazione.
 Velocità di ultrafiltrazione glomerulare: clearance dell'inulina; creatinina plasmatica.
 Frazione di filtrazione.
 Autoregolazione del flusso ematico renale e della velocità di filtrazione glomerulare.

Funzioni del tubulo renale


 Processi di assorbimento e secrezione nel nefrone.
 Riassorbimento di NaCl e acqua.
 Controllo renale dell'omeostasi del potassio.
 Clearance renale.

Regolazione dell'osmolalità dei liquidi corporei


 Compartimenti idrici dell'organismo.
 Secrezione neuroipofisaria dell’ormone antidiuretico.
 Meccanismi della concentrazione e diluizione delle urine.
 Clearance osmolare e clearance dell'acqua libera.

Regolazione del volume dei liquidi corporei


 Compartimenti idrici dell'organismo.
 Volume circolante efficace.
 Regolazione dell'escrezione renale dell'acqua e di NaCl.
 Meccanismi di regolazione del volume del liquido extracellulare: recettori di volume; azioni
del sistema nervoso simpatico, del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dei peptidi
natriuretici.

Regolazione dell'equilibrio acido-base


 Concentrazione degli ioni idrogeno nel sangue e sistemi tampone ematici.
 Trasporto tubulare degli ioni idrogeno e bicarbonato.
 Formazione e ruolo degli ioni ammonio.
 Risposte renali e respiratorie alle modificazioni dell'equilibrio acido-base.
 Alterazioni primarie dell'equilibrio acido-base: acidosi e alcalosi di origine respiratoria e
metabolica; meccanismi di compenso.

Regolazione della calcemia e della fosfatemia


 Effetti del paratormone, vitamina D e calcitonina sulla mobilizzazione della matrice ossea e
sull'assorbimento ed escrezione del calcio e dei fosfati.
 Regolazione della secrezione del paratormone e della calcitonina.
 Sintesi endogena della vitamina D.

411
Introduzione alla fisiologia renale e
alla regolazione integrata del bilancio idrico e salino

L’organo deputato al bilancio idrico e salino è il rene.


Le funzioni del glomerulo e del tubulo renale sono implicate nella regolazione dell’osmolalità e del
volume dei liquidi corporei, due aspetti diversi ma in rapporto fra di loro. Il controllo integrato del sistema
vascolare è importante per comprendere bene come avviene la regolazione del volume di liquidi corporei
perché il volume contenuto nei vasi è una parte, anche se piccola, del volume complessivo dei liquidi corporei,
quindi, ha effetto sulla pressione media di riempimento, sulle curve di funzionalità vascolare e, di conseguenza,
sulla funzione cardiaca per via del controllo intrinseco eterometrico della forza contrattile. Il risultato finale
dei fenomeni emodinamici sarà quello di modificare la pressione arteriosa che è fondamentale per
determinare la portata del flusso ematico tissutale da cui dipende l'efficacia del trasporto transcapillare per
diffusione e l'entità del trasporto di acqua per ultrafiltrazione secondo l'equilibrio di Starling. Inoltre, il volume
dei liquidi corporei è regolato dal sistema nervoso autonomo.
I reni sono coinvolti anche nella:
 regolazione dell’equilibrio acido-base, assieme ai polmoni, perciò è indispensabile conoscere la
regolazione chimica e nervosa della respirazione;
 regolazione della calcemia e fosfatemia: alterazioni di calcio e potassio possono determinare aritmie,
essendo questi due elementi coinvolti nell’attività elettrica delle cellule cardiache; inoltre, il calcio è
molto abbondante nelle ossa quindi un suo squilibrio può causare condizioni patologiche deleterie (ad
es. comunemente negli anziani).

412
18. Funzioni del glomerulo renale

18.1. Flussi plasmatico ed ematico renali


Nota. Si dà per scontata la conoscenza dell’anatomia e dell’istologia renale.

I reni contribuiscono allo 0,5% del peso corporeo ma ricevono il 25% della gittata cardiaca. La gittata
cardiaca a riposo è di circa 5 L/min quindi il flusso ematico renale, essendo ¼ del totale, sarà circa 1,25 L/min.
Sono organi estremamente vascolarizzati in quanto devono adempiere all’ultrafiltrazione del plasma.
Il parenchima renale è suddiviso in una porzione interna denominata midollare ed una esterna chiamata
corticale. Il 90% del flusso ematico renale irrora i glomeruli superficiali e la corticale, la restante parte
perfonde i glomeruli juxtamidollari che si trovano in prossimità del confine tra corticale e midollare e da cui
dipartono i vasa recta, capillari lunghi che si approfondano all'interno della midollare. In sintesi, i reni ricevono
un’enorme quantità di sangue rispetto a quanto pesano e la maggior parte di questo sangue raggiunge la
corticale. I vasi linfatici drenano la regione corticale ma non quella midollare. Si hanno dunque
essenzialmente due compartimenti, anche se non c'è una vera barriera che li separa, nel rene: uno molto
vascolarizzato e con un interstizio la cui composizione è ben controllata, che è la corticale, e l'altro, la
midollare, assai meno vascolarizzato (rispetto agli standard renali, ma non rispetto a quelli dell’organismo)
con una composizione interstiziale che non presenta i linfatici (non tanto dissimile dalla mancanza di linfatici
a livello del parenchima encefalico del sistema nervoso centrale).
Il riflesso barocettivo è in grado di modificare la resistenza vascolare renale. Infatti, in caso di emorragia
molto grave, per compensare il calo di pressione, il riflesso barocettivo può determinare un’importante
vasocostrizione sistemica per salvaguardare l’emodinamica sistemica che potrebbe colpire anche la corticale
renale causando così una sofferenza renale importante. Quindi è possibile che un paziente politraumatizzato
ricoverato in terapia intensiva o sottoposto ad un’operazione chirurgica maggiore sviluppi un'insufficienza
renale che nella più rosea delle ipotesi si risolve pian piano.
Il glomerulo renale è un ammasso di capillari. Presenta tre caratteristiche fondamentali:
1. I capillari che costituiscono questa matassa sono brevi e largamente vascolarizzati in parallelo l’uno
con l’altro; la lunghezza del vaso ha effetto sulla resistenza quindi il singolo capillare ha una resistenza
elevata ma nell’insieme la rete presenterà una resistenza bassa essendo questi disposti in parallelo.
2. I capillari glomerulari presentano un’arteriola afferente (AA) a monte ed un’arteriola efferente
(EA) a valle, che a sua volta darà una seconda rete di capillari detta rete peritubulare o, nel caso dei
capillari juxtaglomerulari, i vasa recta. Dunque, vi è l'esistenza di due reti capillari in serie. Ciò ha
delle ripercussioni emodinamiche molto rilevanti: le arteriole sono vasi di resistenza e costituiscono
“dighe” che aumentano la pressione a monte e la riducono a valle quindi generano un “bacino” che
corrisponde a letto capillare. Lavorando sull'apertura di queste due “dighe”, si regola il livello
dell'acqua del “bacino” che, fuori analogia, significa regolare in maniera molto precisa la pressione
idraulica all'interno dei capillari glomerulari stessi. Questo ha una rilevanza immediata per quello che
concerne l'ultrafiltrazione, che dipende principalmente dalla pressione idraulica dei capillari.
3. Tra l’arteriola afferente e quelle efferente vi è un angolo minore di 180° nel quale si colloca, come un
filo dentro alla cruna di un ago, il tubulo contorto distale (una porzione del tubulo renale che origina
dalla capsula di Bowman) formando una specializzazione denominata macula densa coinvolta nella
regolazione della funzione tubulare e glomerulare e nel rilascio di renina. La renina fa parte dell’asse
ormonale renina-angiotensina-aldosterone che influenza gli aspetti emodinamici dell’intero
organismo. Si tratta di interazioni paracrine perché la diffusione dei mediatori avviene nella distanza
ridotta che c'è fra le strutture del glomerulo (spazi contigui): si forma così l'apparato
iuxtaglomerulare.
Cenni sulla struttura del nefrone
La capsula di Bowman a fondo cieco si avvolge attorno ai capillari glomerulari, poi da lì un tubulo convoluto
prossimale si continua come ansa di Henle, che è eterogeneo in quanto presenta un segmento sottile e uno
spesso. La parte terminale del suo tratto ascendente va a rinfilarsi tra l’arteriola afferente ed efferente come
macula densa, costituendo uno spartiacque tra l’ansa di Henle e il tubulo convoluto distale che si getta in un

413
dotto collettore. I dotti collettori confluiscono in dotti sempre più grandi fino a giungere nei calici renali per
poi proseguire nella pelvi renale, negli ureteri, nella vescica urinaria e, attraverso l’uretra, nell’ambiente
esterno.
Nel glomerulo i capillari sono fenestrati.
Per ulteriori informazioni si rimanda all’anatomia.

18.2. Processo di ultrafiltrazione

I glomeruli sono specializzati nell’ultrafiltrazione, mentre i tubuli nel riassorbimento e nella secrezione.
Ciò che viene riassorbito non si accumula all’interno dell’interstizio ma viene portato via attraverso i capillari
peritubulari.
La filtrazione di acqua è quantitativamente elevata (centinaia di litri al giorno). All’interno dell’acqua vi sono
grandi quantità di piccoli soluti (ioni, piccoli nutrienti come glucosio e lattato, amminoacidi), trasportati per
trascinamento del solvente, che sono utili al nostro organismo e quindi devono essere riassorbiti dai tubuli. Il
tubulo renale è dunque impegnato nel riassorbire la grandissima parte di ciò che i glomeruli hanno ultrafiltrato.
Questo sistema non è controintuitivo, anzi, si è rivelato adattativo perché l’accoppiamento tra ultrafiltrazione
e riassorbimento permette che sostanze tossiche, contenute nell’acqua in concentrazioni molto basse, non si
accumulino nell’organismo, permettendo al contempo di recuperare quelle utili.

Per l’equilibrio di Staling-Landis sappiamo che l’ultrafiltrazione dipende dalla somma algebrica di pressioni:
 pressione idraulica all’interno e all’esterno del vaso;
 pressione osmotica all’interno e all’esterno del vaso.

𝐽𝐻2 𝑂 = 𝑘[(𝑃𝑐 + 𝜋𝑖 ) − (𝑃𝑖 + 𝜋𝑐 )]


Se la membrana è impermeabile solo alle proteine, dunque se i piccoli soluti riescono a passare attraverso
l’endotelio per meccanismi di trasporto e trascinamento da parte del solvente mentre le proteine sono troppo
grosse per farlo, allora la pressione osmotica che si considera non è la pressione osmotica totale, ma solo la
pressione osmotica dovuta alle proteine: quest’ultima è detta pressione colloido-osmotica o oncotica.
La variabile critica nel determinare l’entità del flusso per ultrafiltrazione è la pressione idraulica
all’interno dei capillari (Pc) perché questa variabile può essere controllata anche su scale temporali brevi
modificando o la pressione arteriosa sistemica (perché la pressione idraulica nei capillari è ovviamente una
funzione della pressione nelle arterie) o modificando la resistenza dei vasi a monte dei capillari (resistenza
arteriolare).
Applicando l’equilibrio di Starling-Landis al rene, ci si sofferma su una porzione del nefrone: il glomerulo,
cioè una rete di capillari altamente anastomizzati e di breve lunghezza che riceve sangue da un’arteriola
afferente e che poi convoglia il proprio sangue in un’arteriola efferente.

Analizziamo i diversi determinanti dell’equilibrio di Starling e Landis nel caso dei capillari glomerulari.
1. Pressione idraulica nei capillari glomerulari (PGC)
La pressione idraulica nei capillari glomerulari (PGC) vale circa 60 mmHg al capo afferente e 58
mmHg al capo efferente. 60 mmHg è un valore piuttosto elevato in rapporto alla pressione idraulica
nei capillari sistemici extraglomerulari, che è circa 30 mmHg al capo arterioso: quindi nei capillari

414
glomerulari si ha una pressione idraulica che è doppia
rispetto a quella dei capillari sistemici extraglomerulari. La
pressione arteriosa è sempre quella: le grandi arterie
forniscono sangue sia ai capillari glomerulari che a quelli
sistemici extraglomerulari, quindi la pressione dei sistemi a
monte è la stessa per un capillare glomerulare o per un
capillare nel muscolo bicipite. Ciò che differisce è la
resistenza dei vasi a monte dei capillari glomerulari, che
sarà nettamente più bassa rispetto a quella presente a monte
dei capillari sistemici (ricorda, le resistenze sono come
dighe: aumentano la pressione a monte e la riducono a valle;
secondo questa analogia, a monte dei capillari glomerulari
c’è una diga bassa e di conseguenza la pressione nei
capillari glomerulari resta elevata).
Lo stesso ragionamento spiega come mai il calo della
pressione idraulica tra il capo afferente e quello efferente
sia così modesto (solo 2 mmHg): la resistenza complessiva
dei capillari glomerulari è molto bassa e questo per via del
fatto che i capillari sono tanti e posti in parallelo.
Il fatto che la pressione idraulica nei capillari glomerulari resti così elevata ha 2 importanti
conseguenze:
 spinge una filtrazione molto potente: la pressione idraulica nei capillari è infatti la principale
variabile che determina l’ultrafiltrazione;
 avere una pressione idraulica così elevata spiega come mai è funzionalmente efficace
un’organizzazione come quella glomerulare, con un’arteriola a monte e un’arteriola a valle.
L’arteriola efferente (a valle) porta poi il sangue a una rete di capillari (capillari
peritubulari). Per poter spingere il sangue attraverso la resistenza dell’arteriola efferente,
occorrerà una pressione a monte sufficientemente elevata. Il fatto che la pressione a monte
dell’arteriola efferente sia ancora tutto sommato alta (circa 58 mmHg) rende possibile
perfondere anche la rete di capillari che sono a valle dell’arteriola efferente.
2. Pressione oncotica nello spazio del Bowman (πBS)
La pressione oncotica (colloido-osmotica) nello spazio di Bowman (i.e., il termine1 a fondo cieco del
tubulo contorto prossimale) vale circa 0 mmHg, perché l’endotelio dei capillari glomerulari è quasi
impermeabile alle proteine. Se fosse del tutto impermeabile alle proteine, la pressione oncotica sarebbe
0. In realtà un po’ di permeabilità alle proteine è presente, in particolare all’albumina: tecnicamente
quindi la pressione oncotica nello spazio di Bowman non è propriamente 0, ma un valore paragonabile.
Fisiologicamente la poca albumina che riesce a passare nei capillari glomerulari viene poi
immediatamente degradata nella prima porzione del tubulo prossimale, quindi non la si ritrova nelle
urine. Ritrovare albumina all’interno delle urine è un segno di malfunzionamento e alterazione della
funzionalità del processo di filtrazione glomerulare renale: microalbuminuria o macroalbuminuria.
3. Pressione idraulica nello spazio del Bowman (PBS)
La pressione idraulica nello spazio del Bowman (PSB) vale circa 15 mmHg (N.B. Nella tabella alla
pagina precedente il valore viene riportato con un segno meno davanti, perché i numeri fanno
riferimento al segno della somma algebrica delle pressioni che porta alla determinazione del flusso di
acqua per ultrafiltrazione: in poche parole il segno meno è quello dell’equazione di Starling-Landis. Il
segno meno non indica dunque che la pressione è subatmosferica, ma indica semplicemente che se
aumenta la pressione idraulica interstiziale, a parità di tutto il resto, il flusso dell’ultrafiltrazione
diminuisce e dunque che la pressione idraulica nello spazio del Bowman si oppone
all’ultrafiltrazione). Questo valore è diverso rispetto a quello che abbiamo studiato riguardo
l’ultrafiltrazione nei tessuti sistemici in generale:
 la pressione idraulica nell’interstizio dei tessuti lassi è spesso lievemente sub-atmosferica per
via dell’azione di suzione determinata dai vasi linfatici;

1
Da un punto di vista funzionale è l’inizio.

415
 ci sono tessuti circondati da una capsula (tessuto fibroso) in cui la pressione all’interno può
raggiunge valori sovra-atmosferici, anche in dipendenza dell’attività contrattile, per esempio
del muscolo scheletrico o cardiaco;
 la pressione interstiziale del tessuto nervoso dipenderà dalla pressione del liquido cefalo-
rachidiano perché il tutto è circondato da un rivestimento osseo.
Qui si osserva invece una pressione di 15 mmHg, ed è fondamentale che sia così. Il fluido che viene
filtrato nello spazio del Bowman deve poi infatti percorrere una lunga distanza attraverso il tubulo
prossimale, l’ansa di Henle, il tubulo distale, il dotto collettore, i calici renali, gli ureteri, la vescica,
fino ad arrivare in uretra e infine nell’ambiente esterno. Una lunga strada che sarà percorsa dal fluido,
che man mano con le successive trasformazioni diventerà urina, con un flusso per convezione: questo
tipo di flusso è guidato dall’equivalente idraulico della legge di Ohm:
𝛥𝑃
𝐹=
𝑅
Se non ci fosse una pressione a monte sufficientemente elevata, la pre-urina non riuscirebbe ad arrivare
agli ureteri e nella vescica, perché le strutture presenti nei reni non hanno una funzione contrattile che
possano permetterne la propulsione. Quindi la pre-urina fluisce per gradiente di pressione.
Se c’è un’ostruzione a livello delle vie urinarie, ad esempio un calcolo a livello dell’uretere, allora la
pressione idraulica andrà ad aumentare notevolmente perché l’ostruzione determina un aumento della
resistenza, che comportandosi come una diga aumenterà la pressione a monte (a livello della capsula
di Bowman) fino ad ostacolare l’ultra-filtrazione.
4. Pressione oncotica nei capillari glomerulari (πGC)
L’ultima variabile è la pressione oncotica nei capillari glomerulari πCG che parte da un valore di circa
28 mmHg al capo afferente (valore paragonabile alla pressione oncotica nei capillari del resto
dell’organismo) e raggiunge un valore di circa 35 mmHg al capo efferente. (N.B. Ancora una volta,
osservando la tabella dell’immagine, troviamo un segno negativo, che anche in questo caso significa
che si tratta di una variabile che si oppone all’ultrafiltrazione.)
La pressione oncotica nei capillari glomerulari dunque aumenta dal capo afferente al capo efferente,
anche in modo piuttosto significativo. Questo aumento può essere attribuito al fatto che
l’ultrafiltrazione riguarda acqua e piccoli soluti, ma non riguarda le proteine: l’entità
dell’ultrafiltrazione è così importante da concentrare le proteine che non vengono ultrafiltrate
(tranne poche molecole di albumina) all’interno dei capillari. Le proteine vanno cioè a concentrarsi
nei capillari glomerulari man mano che acqua e piccoli soluti escono, portando ad un aumento della
pressione oncotica al capo efferente.
Considerando la somma algebrica dei quattro fattori si ottiene un valore di 17 mmHg al capo afferente e un
valore di 8 mmHg al capo efferente. Il fatto che entrambi i valori siano positivi indica che l’ultrafiltrazione
procederà lungo tutta la lunghezza dei capillari glomerulari (sia al capo afferente che al capo efferente) in
maniera significativa.
Attenzione. Tutti i valori riportati sono valori poco rappresentativi, variabili a seconda di molti fattori, quindi
vanno appresi orientativamente per comprendere le dinamiche trattate: non sono perciò da considerarsi valori
diagnostici.

18.3. Velocità di ultrafiltrazione glomerulare; clearance dell'inulina; creatinina


plasmatica e
18.4. Frazione di filtrazione

N.B. I concetti di clearance dell’inulina e della creatinina sono stati trattati dal prof. nel trattare più estesamente il concetto
di clearance nella tesina Funzioni del tubulo renale. Di conseguenza non ho riportato qui l’argomento, ma si tenga conto
che nel discutere della tesina all’esame bisogna ovviamente discutere anche della clearance dell’inulina e della creatinina
plasmatica.

Velocità di ultrafiltrazione glomerulare


La velocità di filtrazione glomerulare (VFG) è il volume di acqua che viene ultra-filtrato dai glomeruli
nell’unità di tempo: è quindi una portata.

416
Il valore cambia a seconda delle condizioni fisiologica, da maschio a femmina, ma il valore orientativo è di
125 mL/min. Se si moltiplicano 125 mL per tutti i minuti che vi sono in una giornata (1440 minuti), il prodotto
ammonta a 180 L: l’organismo ultra-filtra in una giornata circa 180 L di acqua.
I reni ricevono circa ¼ della gittata cardiaca, quindi con una gittata cardiaca di 5 L al minuto, si ha un flusso
ematico renale di 1,25 L/min. Si vuole prendere in esame invece il flusso plasmatico renale, bisogna
considerare che nel sangue il volume degli elementi corpuscolati (ematocrito) rappresenta il 45% del volume
sanguigno totale e dunque la quota residua del 55% è la quota del plasma. Per ottenere il flusso plasmatico
renale (FPR) si moltiplica dunque 1,25 L per 0,55 e si ottiene una portata di 690 mL/min. Di questo non tutto
va ai glomeruli renali, una piccola quota va a irrorare i tessuti non glomerulari (capsula, midollare). Tuttavia
il 90% di flusso plasmatico renale va ai glomeruli. Moltiplicando 690 mL per 0.90 si ottiene un valore di 620
mL/min di plasma che giunge ai glomeruli. Quindi, approssimando, si può dire che il flusso plasmatico renale
è di ca. 600 mL/min.

Frazione di filtrazione e carico filtrato


La frazione di filtrazione è definita come il rapporto tra la velocità di filtrazione glomerulare e il flusso
plasmatico renale.

VFG 125 mL min−1


Frazione di filtrazione = = ≈ 0.20
FPR 620 mL min−1
1/5 (o in termini percentuali il 20%) del volume del plasma che passa nell’unità di tempo attraverso i capillari
glomerulari, viene filtrato nella stessa unità di tempo; i 4/5 di esso restano a livello del capillare: questo, come
abbiamo detto, porta a un aumento della concentrazione di osmoli nei capillari (dovuta alle proteine che non
vengono filtrate) quindi della pressione oncotica.

Il carico filtrato di una certa sostanza y è il prodotto della velocità di filtrazione glomerulare per la
concentrazione della sostanza nella capsula di Bowman. Quindi, siccome la velocità di filtrazione
volume
glomerulare è una portata di flusso ( ) e la concentrazione è un rapporto tra ammontare di sostanza e
tempo
q.di sostanza
volume ( volume ), semplificando il volume si ottiene una dimensione di ammontare di sostanza nell’unità
di tempo (o in termini di unità di misura, mol/min). Il carico filtrato di una sostanza y è dunque l’ammontare
della sostanza y che viene filtrato dai glomeruli nell’unità di tempo.

Carico filtrato di y = VFG × [y]nella capsula di Bowman

Misurare la concentrazione di una sostanza nella capsula del Bowman è difficile anche in condizione
sperimentali e ancora di più in condizioni cliniche, quindi giova definire il carico filtrato in un caso particolare:
quello in cui la sostanza y filtra liberamente attraverso la barriera glomerulare. In una tale condizione la
concentrazione della sostanza y sarà la medesima all’interno dei capillari glomerulari e fuori da questi, ovvero
nello spazio del Bowman. Si dice che il rapporto tra la concentrazione della sostanza filtrata (che si trova nello
spazio di Bowman) e la concentrazione della sostanza filtranda (che è ancora nei capillari glomerulari) è uguale
a 1 perché la loro concertazione è la stessa, come se, appunto, la barriera non ci fosse.
Per sostanze che filtrano liberamente, dunque, la concentrazione della sostanza nella capsula di Bowman sarà
uguale alla loro concentrazione nei capillari glomerulari e anche uguale alla loro concentrazione a livello delle
arterie. A questo punto, per una sostanza y con queste caratteristiche, si può definire il carico filtrato come
prodotto della velocità di filtrazione glomerulare e della concentrazione della sostanza y del plasma
(molto più agevole da misurare).

Carico filtrato di y = VFG × [y]nel plasma


(se y filtra liberamente attraverso la barriera glomerulare)

Struttura della barriera di filtrazione glomerulare


La barriera di filtrazione glomerulare funziona come un filtro molto raffinato. Essa infatti lascia passare
l’acqua e i piccoli soluti, quali Na+, Cl- e altri, ma non le proteine.

417
Questo principio viene chiamato trascinamento da parte del solvente: l’ultrafiltrazione sposta l’acqua, ma
con essa passano anche piccoli ioni e cristalloidi come il glucosio. Non ci sono pompe che spingono il glucosio
o il sodio a uscire fuori dai capillari glomerulari, ma vengono semplicemente trascinati come detriti in un
fiume.
La barriera di filtrazione glomerulare ha una struttura molto fine come quella di un setaccio: si parla di
ultrafiltro perché ha caratteristiche di filtrazione che si attuano su scala nanometrica e perché la filtrazione
avviene non solo su criteri di dimensione ma anche su criteri di carica.
La barriera glomerulare è composta da 3 strati:
1. il primo è formato dai capillari glomerulari fenestrati: le fenestrature sono soluzioni di continuità
rivestite di membrana all’interno della cellula endoteliale (come tanti piccoli buchi in una botte, cit.
Silvani);
2. l’endotelio dei vasi capillari poggia su una lamina basale piuttosto esile e costituita da fibre collagene;
3. il terzo strato è quello rappresentato dalle ramificazioni di cellule chiamate podociti. I podociti sono
cellule che si dispongono attorno alla superficie
esterna dei capillari glomerulari ramificandosi
progressivamente (come tralci di una vite). I pedicelli
dei podociti rivestono gran parte della superficie
esterna dei capillari glomerulari.
In questa sezione alla microscopia elettronica di un capillare
glomerulare si può osservare l’endotelio e un podocita posto
all’esterno. Lo spazio di Bowman è quello identificato dalle
stelline nere. Si tratta di uno spazio estremamente esile e ciò
spiega:
 quanto sia delicata la struttura di questo ultrafiltro e
come possa facilmente danneggiarsi in presenza di
alterazione patologiche;
 come mai la pressione idraulica all’interno di questo
spazio cresca in maniera importante raggiungendo
quasi i 15 mmHg a fronte, invece, di una pressione
interstiziale che solitamente negli altri tessuti si
assesta intorno ai valori atmosferici.

Quello che è visibile in questa sezione ad ulteriore ingrandimento sono i pedicelli dei podociti. Si può
osservare dal basso verso l’alto: il lume del capillare glomerulare con le fenestrature della cellula endoteliale,
salendo la lamina basale, salendo ancora i pedicelli, poi lo spazio di Bowman e infine il corpo cellulare del
podocita. Tra un pedicello e l’altro sono osservabili dei “muretti” evidenziati dalle frecce: si tratta di strutture
proteiche chiamate diaframmi di filtrazione che chiudono gli spazi tra un pedicello e l’altro.
Una molecola di acqua (o uno ione sodio ecc.) che si trova all’interno del capillare glomerulare e che, sospinta
dal trascinamento da parte del solvente, sia portata a fluire verso lo spazio del Bowman, deve superare alcuni
ostacoli. Essa deve:

418
 riuscire a passare attraverso le fenestrature della cellula endoteliale del capillare: questo è un processo
abbastanza semplice perché lo spazio è relativamente grande;
 passare attraverso la membrana basale: essa è piuttosto esile, composta da connettivo lasso e quindi
anche questo passaggio non comporta una grande difficoltà;
 trovare dei pertugi all’interno dei diaframmi di filtrazione, in cui infilarsi: questo è problematico
perché gli spazi tra un pedicello e l’altro sono relativamente ampi (simili al diametro delle fenestrature
dei capillari), ma sono ostruiti dai diaframmi di filtrazione. Questi ultimi hanno qualche foro (se
fossero ermetici la filtrazione non avverrebbe), ma si tratta di fori molto piccoli.
Il “collo di bottiglia” del processo di ultra-filtrazione attraverso la barriera di filtrazione glomerulare (e ciò
che realmente determina le caratteristiche dell’ultrafiltro) è dunque la presenza dei diaframmi di filtrazione,
che vanno ad occludere gli spazi tra un pedicello e l’altro. Studiando ulteriormente le caratteristiche di questi
“ostacoli” si vede che:
1. Il primo ostacolo è, come abbiamo detto, il passaggio attraverso l’endotelio fenestrato: le
fenestrazioni hanno un diametro di circa 700 Å (1 Å = 10-10 m). L’endotelio capillare ha delle
glicoproteine di membrana intrinseche che contengono nella porzione extracellulare dei residui
carichi negativamente. Ciò significa che:
 una molecola con dimensioni superiori a 700 Å non riuscirà a passare attraverso le
fenestrature perché c’è impedimento sterico;
 molecole con diametro vicino a 700 Å per poter passare dovranno strisciare contro le pareti
avvicinandosi alla superficie endoteliale. La presenza di cariche negative sulla superficie
endoteliale però ostacola il passaggio di molecole cariche negativamente: oltre a dover
centrare esattamente una di queste fenestrature, se è carica negativamente la molecola verrà
respinta in quanto le glicoproteine sulla membrana cellulare esercitano un effetto
elettrostatico di repulsione (dunque l’impedimento è in parte sterico ma soprattutto
elettrostatico);
 molecole con diametro molto inferiore a 700 Å riescono a passare tranquillamente e
indipendentemente dalla carica. Questo perché l’entità della repulsione elettrostatica
diminuisce con il quadrato della distanza, quindi se le molecole sono molto piccole, le
glicoproteine cariche negativamente sono molto lontane e hanno su di esse uno scarso effetto.
La presenza delle glicoproteine cariche negativamente è molto importante perché le proteine
plasmatiche sono cariche negativamente (hanno carica netta negativa) e questo spiega il motivo per
cui i capillari glomerulari riescano a evitare l’ultrafiltrazione delle proteine plasmatiche. Una piccola
eccezione è una quota residuale di albumina che ha una struttura il cui asse corto ha una dimensione
di circa 700 Å, per cui se si infila nel verso giusto passando per l’asse corto, riesce a superare le
fenestrature. Questo succede però solo in minima parte, e quella poca quota di proteina che passa viene
subito degradata.
2. La lamina basale è formata da collagene IV, laminina e fibronectina, che presenta cariche negative,
quindi, nuovamente, un ostacolo alla filtrazione di proteine plasmatiche: sostanze cariche
negativamente faranno più fatica a passare per via dell’effetto repulsivo delle cariche negative espresse
dalla lamina.
3. C’è infine la difficoltà di doversi infilare all’interno dei diaframmi presenti a livello delle fessure di
filtrazione. Queste presentano dei pori che hanno dimensioni di circa 40x140 Å. Dunque è questo il
vero “collo di bottiglia”, perché le dimensioni dei pori delle fessure di filtrazione sono inferiori rispetto
alle dimensioni delle fenestrazioni dei capillari (700 A).
Nel grafico a lato, in ascissa è indicato il raggio
molecolare di destrani, che sono dei polimeri
artificiali con raggi e cariche diverse, mentre, in
ordinata, c’è la filtrabilità relativa. Le linee del grafico
mostrano il rapporto tra le variabili rispetto a composti
neutri, policationici e polianionici. Una filtrabilità
relativa pari a 1 indica una sostanza che filtra molto
bene, mentre il valore 0 indica che la filtrazione è
nulla.

419
Notiamo che per un destrano di qualsiasi carica, la filtrazione si riduce quando le dimensioni aumentano.
Inoltre, a parità di dimensioni, le forme cationiche sono filtrate più facilmente di quelle anioniche. La riduzione
di filtrabilità delle forme anioniche è spiegata con la presenza di glicoproteine cariche negativamente sulla
superficie dell’endotelio glomerulare, che respingono molecole della stessa carica.
Chiaramente il rene fisiologicamente non filtra destrani. Questi composti sono usati per scopi didattici e di
ricerca per spiegare che molecole cariche negativamente, a parità di raggio, passano attraverso i pori con
più difficoltà rispetto a molecole neutre o cariche positivamente.

La tabella mostra diverse sostanze, il loro peso


molecolare in Dalton, il loro raggio molecolare
effettivo in nm e la concentrazione relativa nel filtrato
data dal rapporto filtrato/filtrando, cioè dal rapporto
concentrazione nello spazio del
Bowman/concentrazione nei capillari glomerulari.
Nota. All’esame non saranno richiesti i valori ma
semplicemente il concetto base che vi è dietro e
quindi solo i concetti di seguito trattati.
Analizzando alcuni dei composti presenti in questa
tabella, si può notare che:
 acqua, K+, Cl- e Na+: il rapporto
filtrato/filtrando è pari a 1, per cui filtrano
liberamente come se la barriera non
esistesse.
Ciò accade perché si tratta di molecole molto
piccole e perciò, anche la presenza di cariche
negative, come nel caso del cloro, diventa
ininfluente in quanto la molecola è talmente
piccola da potersi porre al centro di una
fenestrazione e risultare quindi troppo
lontana dalle cariche negative presenti sulla
membrana per risentire dell’effetto, che
infatti diminuisce con il quadrato della
distanza. Una molecola più grande, che
invece deve passare molto vicino alle pareti
della fenestrazione endoteliale, risentirebbe
dell’effetto repulsivo;
 urea: filtra liberamente;
 glucosio: essendo piccolo, filtra liberamente;
 albumina plasmatica: ha raggio molecolare abbastanza grande e rapporto filtrato/filtrando pari a 0,01.
Questo significa che la concentrazione di albumina nello spazio di Bowman è meno del 1% della
concentrazione di albumina presente nei capillari; questo avviene perché è una molecola grande con
carica netta negativa;
 emoglobina: un po’ viene filtrata, infatti il rapporto filtrato/filtrando è di 0,03 (corrispondente al 3%)
.
Queste considerazioni fanno capire che l’ultrafiltrazione non è perfetta: le proteine plasmatiche (specie
emoglobina e albumina) riescono in minima parte a passare, ma sono frazioni molto piccole e quel poco che
passa viene immediatamente degradato nella capsula di Bowman e non lo si ritrova fisiologicamente nelle
urine. Se albumina o emoglobina sono presenti nelle urine è segno che ne è passata una quantità maggiore di
quella che il tubulo riesce a degradare e quindi indicano che c’è un serio problema nella selettività
dell’ultrafiltro.

420
18.5. Autoregolazione del flusso ematico renale e
della velocità di filtrazione glomerulare

La velocità di filtrazione glomerulare e il flusso plasmatico renale sono i due determinanti della frazione di
filtrazione. Questi variano sulla base di due resistenze: la resistenza dell’arteriola afferente e la resistenza
dell’arteriola efferente.

La velocità di filtrazione glomerulare (VFG) corrisponde al volume d’acqua filtrato nell’unità di tempo, ossia
nient’altro che il JH2O visto in precedenza nell’equilibrio di Starling.
Da cosa dipende JH20? Dalle quattro variabili PGC, πBS, PBS e πGC, di cui la fondamentale è la pressione
idraulica nei capillari glomerulari PGC; questa dipenderà dalla pressione arteriosa e dalle resistenze
dell’arteriola afferente ed efferente.
Ogni resistenza funziona come una “diga”, cioè aumenta la pressione a monte e riduce quella a valle.
L’arteriola afferente si comporta da “diga” a monte dei capillari glomerulari, l’arteriola efferente si comporta
da “diga” a valle di questi. Dunque:
 se aumenta la resistenza dell’arteriola afferente (i.e., si alza una “diga” a monte dei capillari
glomerulari), calerà la pressione idraulica nei capillari glomerulari P GC e, di conseguenza, calerà la
VFG;
 se aumenta la resistenza dell’arteriola efferente (i.e., si alza una “diga” a valle dei capillari
glomerulari), aumenterà la pressione idraulica nei capillari glomerulari PGC e, di conseguenza,
aumenterà VFG.
Dunque, la resistenza dell’arteriola afferente e quella dell’arteriola efferente hanno effetti opposti su VFG.

Il flusso plasmatico renale (FPR) è dato da P/R. Le resistenze di cui si parla in questo caso sono in serie,
quindi si parla di Rtot, che è pari alla somma della resistenza dell’arteriola afferente e di quella dell’arteriola
efferente. RPF è quindi funzione di 1/Rtot. Dunque sia che aumenti una, sia che aumenti l’altra, l’effetto sarà
sempre lo stesso: RPF diminuisce.

In conclusione, le due resistenze hanno effetti opposti su VFG, ma lo stesso effetto su RPF. (N.B.
Naturalmente anche i capillari glomerulari offrono la loro resistenza, ma è una resistenza trascurabile (≈ 0),
che non influisce su questi parametri.)

Un aumento della resistenza a livello dell’arteriola afferente fa calare RPF ma anche VGF, mentre invece
un aumento della resistenza dell’arteriola efferente fa calare RPF ma, tendenzialmente, aumentare VGF.
È importante il termine “tendenzialmente” in quanto, nel momento in cui aumenta la resistenza nell’arteriola
efferente, la VFG non aumenta davvero, in quanto c’è un effetto limitante legato al fatto che il flusso
contemporaneamente stia calando. Quindi ciò che succede in realtà è che sia il flusso sia la VFG
diminuiscono, ma il flusso diminuirà di più rispetto alla VFG e ciò porterà quindi ad un aumento della
frazione di filtrazione (che ricordiamo è pari a VFG/FPR).
Per chiarire la questione si faccia riferimento ai seguenti grafici (i grafici non sono riportati dal Berne &
Levy, dunque non sarà richiesto di replicarli in sede
d’esame; ma è importante il concetto che vi sta dietro). Sulla
sinistra del grafico, l’asse in verde fa riferimento alla VFG
(qui chiamata GFR, Glomerular Filtration Rate), sulla
destra, in rosso, c’è un asse che fa riferimento al flusso
plasmatico renale FPR (qui chiamato RPF, Renal Plasmatic
Flow) e in blu un asse che fa riferimento alla pressione
idraulica nei capillari glomerulari PCG.

Grafico B: varia solo la resistenza dell’arteriola afferente.


Sull’asse x aumenta progressivamente la resistenza
dell’arteriola afferente (in termini relativi si è scelto di
inserire valori da uno a quattro).
Il grafico conferma quello detto precedentemente, cioè che
se aumenta la resistenza dell’arteriola afferente:

421
 FPR cala, in quanto se aumenta la resistenza afferente aumenta anche la resistenza totale data dalla
somma delle resistenze;
 la pressione idraulica nei capillari cala (è come se si fosse inserita una “diga” a monte dei capillari
stessi);
 VFG cala, perché è scesa la pressione idraulica nei capillari glomerulari ed essendoci uno scarso
flusso, la VFG scende. Ciò implica il fatto che la frazione di filtrazione cambi di poco o non cambi
affatto.

Grafico C: varia solamente la resistenza dell’arteriola


efferente.
Nel caso dell’arteriola efferente si considerano le stesse
variabili e si osserva che, aumentandola:
 FPR cala: ciò si deve sempre a un aumento della
resistenza totale;
 la pressione idraulica nei capillari aumenta
progressivamente (è come aver inserito una
“diga” a valle dei capillari glomerulari);
 VFG in realtà si sposta di poco, con una funzione
a U invertita:
- per aumenti relativamente piccoli della
resistenza efferente, VFG aumenta;
- quando la resistenza efferente aumenta di
molto, inizialmente VFG rimane
costante per poi iniziare a calare.
Quest’ultimo punto è dovuto al fatto che: se la resistenza nell’arteriola efferente aumenta troppo, la
pressione idraulica nei capillari glomerulari sarà molto alta, ma il flusso plasmatico renale FPR sarà
molto basso, dunque si “filtra troppo” in rapporto a quanto plasma arriva: ergo aumenta la frazione
di filtrazione. Ciò significa che il plasma che arriva diventerà molto concentrato, perché si sta filtrando
molta acqua e piccoli soluti ma, essendo scarso il materiale di partenza, la pressione oncotica dei
capillari glomerulari salirà rapidamente e, essendo anch’essa uno dei determinanti della filtrazione
glomerulare, andrà a giocare contro l’aumento della pressione idraulica e l’ultrafiltrazione.

Meccanismi di autoregolazione
Osserviamo i grafici a lato per capire i meccanismi di
autoregolazione del flusso ematico renale e della velocità
di filtrazione glomerulare.
In ascissa c’è la pressione nell’arteria renale. In ordinata
il flusso ematico renale al centro, e la velocità di
filtrazione glomerulare in basso.
Si può osservare che: inizialmente, al crescere della
pressione, aumentano sia il flusso che VFG.
Successivamente, i due parametri diventano costanti al
crescere della pressione in arteria. Una situazione in cui i
due parametri non variano a fronte dei cambiamenti della
pressione si chiama autoregolazione.
L’autoregolazione funziona perché, al crescere della
pressione, aumenta la resistenza vascolare nell’arteriola
afferente; l’autoregolazione del flusso ematico renale è
esercitata dunque dall’arteriola afferente (come ci mostra il grafico verde, ove la resistenza nell’arteriola
efferente rimane circa costante mentre aumenta quella afferente). I cambiamenti che coinvolgono la resistenza
dell’arteriola afferente, hanno infatti il medesimo effetto sia sul flusso che su VFG.
I due meccanismi su cui si fonda l’autoregolazione sono, come abbiamo già visto (tesina Organizzazione
funzionale del sistema vascolare, punto 7), il meccanismo miogeno e quello metabolico. Essenzialmente sono
sempre entrambi attivi, ma il loro bilancio cambia in base al tessuto in cui si ci trova (ad es., tessuti con un
metabolismo molto attivo hanno un contributo primario del meccanismo metabolico). Il glomerulo renale non

422
ha un metabolismo molto elevato quindi il contributo del meccanismo metabolico è trascurabile, e
l’autoregolazione del flusso è garantita in prima battuta dal meccanismo miogeno, mediato da canali cationici
aperti dallo stiramento nel muscolo liscio dell’arteriola afferente.
A livello glomerulare c’è tuttavia
un ulteriore fenomeno di
autoregolazione, chiamato
retroazione tubulo-glomerulare.
La retroazione tubulo-glomerulare è
un fenomeno di feedback che parte
da eventi che avvengono a livello
tubulare (causa) e ha un effetto sul
glomerulo (conseguenza). L’effetto
sul glomerulo è quello di fare le veci
del meccanismo metabolico
nell’autoregolazione del flusso
ematico e della VFG.

Nota. Il meccanismo di retroazione


tubulo-glomerulare può essere
compreso soltanto dopo aver chiari i
meccanismi di riassorbimento del sodio
a livello della macula densa, che
verranno trattati nella prossima tesina.
Ho riportato qui di seguito l’argomento,
al fine di facilitare lo studio di ogni tesina in vista dell’esame, ma esso andrebbe studiato solo dopo aver chiaro il
riassorbimento di sodio a livello della porzione spessa della branca ascendente dell’ansa di Henle.

Apparato iuxtaglomerulare e retroazione tubulo-glomerulare


Il segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle è l’ultima porzione di essa. L’ultimissima
parte di questo segmento, al confine con il tubulo distale, presenta una specializzazione cellulare detta macula
densa. La macula densa si trova nell’angolo tra arteriola afferente e arteriola efferente, ci sono quindi relazioni
di contiguità con le cellule delle arteriole, in particolare dell’arteriola afferente, e con le cellule interposte tra
i capillari glomerulari dette cellule mesangiali. La relazione con l’arteriola efferente non è rilevante dal punto
di vista funzionale.
Le interazioni avvengono quindi tra:
 cellule della macula densa (MD), cellule specializzate
del segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di
Henle;
 cellule granulari (G), cellule specializzate dell’arteriola
afferente con granuli visibili alla microscopia elettronica;
 cellule muscolari lisce dell’arteriola afferente;
 cellule mesangiali extraglomerulari (EGM), cellule
mesangiali localizzate fuori dal glomerulo,
nell’intercapedine tra cellule della macula densa e cellule
granulari.
Le distanze tra le cellule sono molto ridotte, quindi la
comunicazione avviene per via paracrina tramite diffusione.
Queste cellule insieme costituiscono l’apparato
iuxtaglomerulare (letteralmente “prossimo al glomerulo”). In
particolare, tratteremo delle cellule granulari e della macula
densa, coinvolte anche nel rilascio di renina nel sistema renina-
angiotensina-aldosterone.

La retroazione tubulo-glomerulare influisce sulla resistenza dell’arteriola afferente e perciò coinvolge sia la
VFG (velocità di filtrazione glomerulare) sia il flusso plasmatico renale. Lo scopo di questo tipo di
regolazione è di mantenere costante la VFG.

423
Il feedback parte dal simporto NKCC2 nel segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle, che
riassorbe uno ione Na+, due ioni Cl- e uno ione K+, e il loro riassorbimento aumenta con l’aumento del carico
filtrato: in realtà non è direttamente la variazione del carico filtrato ad aumentare il riassorbimento, ma è la
quantità di ioni Na+, Cl-e K+ che arrivano a “bagnare” quel determinato tratto di tubulo renale.
Prendendo in analisi il sodio, se aumenta il carico filtrato (espresso come VFG x [Na+]nel plasma) aumenterà la
concentrazione dello ione nel tubulo prossimale, in cui vi è un riassorbimento di una frazione costante del
totale, che in questo caso ammonta al 67%. Il dato rilevante è che si avrà un aumento della quantità assoluta
di sodio a livello delle cellule della macula densa, in cui si avrà consequenzialmente più riassorbimento,
sebbene in termini percentuali esso rimanga costante. Questo ragionamento vale anche per il cloro e il
potassio.2
Se aumenta VFG aumenta il carico di filtrazione ed aumenta di conseguenza la quantità degli ioni a livello
del segmento spesso del tratto ascendente dell’ansa di Henle: è proprio quest’ultima la variabile che potenzia
l’efficienza del canale NKCC2. Per cause non del tutto note, l’aumento dell’azione di NKCC2 causa un rilascio
nello spazio extracellulare di ATP e adenosina (ADO). È possibile che la liberazione di adenosina sia dovuta
in parte all’aumento di Na+ nel citoplasma, aumento che potenzia la Na+/K+ ATPasi, che va a consumare più
ATP di quanto ne venga prodotto. L’ATP, passando per lo stato intermedio di ADP, diventa AMP, poi
idrolizzata in adenosina, la quale infine viene liberata.
ATP e adenosina possono diffondere nello spazio interstiziale e raggiungere per via paracrina, tramite
diffusione, le cellule muscolari lisce dell’arteriola afferente. A questo livello, l’ATP si fissa ai recettori P2X e
l’adenosina ai recettori A1 dell’adenosina. L’attivazione di questi recettori provoca un aumento di calcio
intracellulare nelle cellule muscolari lisce, il quale potenzia la fosforilazione della catena leggera della
miosina determinando un aumento del tono, e quindi vasocostrizione. Una vasocostrizione dell’arteriola
afferente tende a ridurre la VFG e il flusso ematico renale. Quindi, partendo da un aumento di VFG, si ottiene
una riduzione di VFG e quindi lo smorzamento della variazione iniziale.
Le cellule muscolari lisce sono connesse alle cellule granulari tramite gap junction, le quali permettono il
flusso di ioni calcio all’interno delle cellule granulari. All’interno di queste ultime cellule si avrà una
regolazione paradossale (molto rara, c’è un solo altro meccanismo analogo nelle paratiroidi), perché
l’aumento di calcio andrà ad inibire il rilascio di vescicole: ciò è controintuitivo perché in tutte le sinapsi
chimiche solitamente il rilascio di vescicole viene stimolato proprio dall’aumento del calcio intracellulare. In
questo caso viene inibito il rilascio di vescicole contenenti renina, che è coinvolta nel sistema renina-
angiotensina-aldosterone, importante meccanismo di regolazione della pressione intravascolare.
In sintesi, tutto questo sistema di feedback è utile nel caso di alterazione della VGF o del flusso ematico
renale, causata per esempio da una variazione della pressione arteriosa dovuta a svariati motivi, come il
passaggio da clinostatismo a ortostatismo. Una situazione tale genera un calo della pressione e di conseguenza
della VFG e del flusso ematico renale: si avrà quindi meno riassorbimento a livello della macula densa e meno
rilascio di ATP e ADP, minor rilascio che comporta vasodilatazione, riduzione della resistenza dell’arteriola
afferente e aumento di VFG e flusso ematico renale. Quindi questo meccanismo interviene sia per aumento
che per calo di queste due variabili, le quali sono regolate insieme perché la regolazione interviene sulla
resistenza di arteriole afferenti. Questa regolazione bivalente non ci sarebbe se si agisse sulla resistenza
dell’arteriola efferente (come discusso in precedenza).

Riassumendo. Aumenta VFG → aumenta carico di filtrazione di ioni Na+, Cl-, K+ → aumenta il
riassorbimento a livello della macula densa attraverso NKCC2 → aumenta il rilascio di ATP e ADP nello
spazio interstiziale → aumenta il calcio intracitoplasmatico nelle cellula muscolari lisce →
 → contrazione delle cellule muscolari lisce → vasocostrizione dell’arteriola afferente → aumenta la
resistenza → diminuiscono la VFG e il flusso ematico renale.

2
Per capire meglio questo punto è bene, come già detto, leggere tutte la tesina successiva.

424
 → grazie a giunzioni comunicanti aumenta il calcio intracitoplasmatico anche nelle cellule granulari
→ è diminuito il rilascio di renina → cala la pressione arteriosa → cala il flusso ematico renale.
Ovviamente se inizialmente la VFG cala anziché aumentare, si ha una serie di eventi analoghi ed opposti a
quelli visti, che portano infine a una vasodilatazione dell’arteriola afferente e ad un maggiore rilascio di renina
(con conseguente innalzamento della pressione arteriosa e del FPR).

Domanda di uno studente. La retroazione tubulo-glomerulare avviene anche per cali drastici di pressione arteriosa? Sì,
ma ha un effetto piuttosto scarso. In caso di ipotensione molto severa la funzionalità renale viene inevitabilmente
compromessa per questioni:
 emodinamiche: l’autoregolazione infatti ha un suo plateau e andando a sinistra dei valori di questo intervallo
non si riesce più a regolare bene il flusso ematico né tantomeno la VFG;
 nervose: il riflesso barorecettivo reagisce a un calo di pressione aumentando la resistenza arteriolare tramite un
aumento dell’attività simpatica sulle arteriole. Tra i letti vascolari che rispondono al baroriflesso c’è quello
renale.
Il rene risente di un calo marcato di pressione arteriosa sia per questioni emodinamiche sia per questioni nervose. Pazienti
in terapia intensiva possono soffrire di insufficienza renale in parte dovute alle conseguenze di cali importanti della
pressione arteriosa (se ne sente parlare spesso in questo periodo per via delle complicazioni che può dare il Covid-19).

Retroazione tubulo-glomerulare e diabete mellito


La retroazione tubulo-glomerulare è fondamentale anche per la comprensione della fisiopatologia del
diabete mellito, in particolare per ciò che riguarda la farmacodinamica coinvolta in questa patologia. Come
sappiamo il diabete è caratterizzato da un’alterazione della glicemia. I livelli normali di glicemia sono circa
70-100 mg/dl, valore usato anche a scopo diagnostico, perché un valore più alto potrebbe essere dovuto ad
una ridotta tolleranza al glucosio, o addirittura al diabete mellito. Se presente nell’organismo ad alte
concentrazioni per un tempo prolungato, il glucosio potrebbe essere concepito come una tossina, non in
senso stretto: esso è anzi fondamentale per la nostra sopravvivenza, e ovviamente per un tempo limitato non
ha alcuna ripercussione negativa sulla nostra salute; il glucosio funge da tossina se la glicemia è
cronicamente elevata: in quel caso esso può andare a danneggiare i tessuti dell’organismo (stress ossidativo,
lipotossicità, stress osmotico, glicosilazione non enzimatica delle proteine). D’altro canto, anche se la
glicemia scende sotto certi livelli (sotto i 50 mg/dl ca.) i tessuti vanno in sofferenza, soprattutto quelli che
dipendono energicamente quasi esclusivamente dal glucosio, come il tessuto nervoso (che utilizza solo
glucosio e in parte corpi chetonici): si osservano in questi casi diversi disturbi neurologici (confusione,
affaticamento, crisi epilettiche, perdita di conoscenza, nei casi più gravi coma e morte). L’organismo è molto
efficiente a difendersi dall’ipoglicemia ma molto meno dall’iperglicemia, perché l’uomo si è evoluto in un
ambiente in cui il cibo scarseggiava.
Tornando alla funzionalità del rene, il carico di filtrazione del glucosio è molto alto, perché filtra
liberamente nel glomerulo e se non lo riassorbissimo, incorreremmo in ipoglicemia. Inoltre, se la
concentrazione di glucosio rimanesse alta nelle urine, si avrebbero due complicazioni:
 il glucosio nelle urine favorisce la proliferazione dei batteri, e quindi favorirebbe le infezioni;
 il glucosio, in quanto osmole, se molto concentrato, tratterrebbe molta acqua e aumenterebbe il
volume delle urine (il diabete mellito per definizione è caratterizzato proprio da urine abbondanti
e “dolci”, ossia ricche di glucosio). L’alto volume di acqua perso nelle urine aumenta inoltre lo
stimolo di sete, caratteristica che accomuna i diabetici.
Ciò può avvenire quando i cotrasportatori Na+/glucosio nel tubulo prossimale sono saturi e non riescono
a far fronte a concentrazioni alte di glucosio: esso rimane quindi nell’ultrafiltrato, in quanto oltre il tubulo
prossimale non ci più sono meccanismi per riassorbirlo.
La soglia di glicemia per cui si va incontro a glicosuria (glucosio nelle urine) è di 180-200 mg/dl, oltre a
questa soglia il tubulo prossimale non riesce a riassorbire interamente il glucosio ed esso si va a riversare
nelle urine. I metodi di riassorbimento del glucosio a livello del tubulo prossimale sono due (per ulteriori
informazioni vedi tesina successiva):
 trasportatore SGLT2 (simporto Na+/glucosio), più diffuso nelle porzioni iniziali del tubulo
prossimale dove la concentrazione di glucosio è più alta e meno difficile da trasportare all’interno
della cellula;
 trasportatore SGLT1 (simporto 2Na+/glucosio) più diffuso nella parte finale del tubulo prossimale,
in cui la concentrazione di glucosio è bassa e serve più energia per riassorbire glucosio: SGLT1
accoppia infatti il riassorbimento di due molecole di Na+ con una molecola di glucosio.

425
In quest’articolo pubblicato sull’American Journal of Cardiology si afferma che “gli inibitori di SGLT2
riducono immediatamente la VFG nei pazienti con diabete mellito di tipo 2”. Come è possibile? Cosa
c’entrano dei trasportatori del glucosio nel tubulo prossimale con la VFG? Per comprendere gli effetti degli
inibitori di SGLT2 bisogna partire dal presupposto che nei pazienti con diabete vi è un’eccessiva
ultrafiltrazione renale: inizialmente questo fenomeno è una fisiologica risposta immediata a un ridotto
segnale del feedback tubulo-glomerulare (perché l’abbondanza di glucosio causa un assorbimento marcato
di sodio e glucosio a livello del prossimale, con conseguenti minori livelli di sodio che giungono alla macula
densa), ma un incremento della VFG a lungo termine porta al rischio di nefropatie. Gli inibitori di SGLT2,
perciò, se somministrati cronicamente, permettono di rallentare in maniera importante la velocità alla quale
progredisce la nefropatia cronica.
Lo stesso effetto può essere mediato anche dagli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina e
dei bloccanti dei recettori dell’angiotensinogeno.
Effetti salutari sul rene sono stati per la prima volta dimostrati in studi con outcome cardiovascolari e poi
sono stati ulteriormente confermati.
In sostanza, un paziente diabetico ha una glicemia alta, quindi molto glucosio viene riassorbito
dall’ultrafiltrato grazie simporti Na+/glucosio SGLT2 e SGLT1. Oltre al glucosio viene riassorbito molto
sodio che trascina con sé quindi anche Cl- e acqua. Il massiccio assorbimento di sodio nel tentativo di
riassorbire il glucosio, diminuisce la quantità di sodio che viene assorbito dalle cellule della macula densa,
quindi per retroazione tubulo-glomerulare aumenta la VFG. Questo effetto, se prolungato, danneggia il
rene: il motivo per il quale si somministrano farmaci inibitori di SGLT2 a pazienti diabetici è per evitare
un’eccessiva filtrazione e nefropatie (come effetto collaterale c’è da dire che questi farmaci lasciano il
glucosio all’interno dell’urina, con gli effetti negativi precedentemente visti).

426
19. Funzioni del tubulo renale

19.1. Processi di assorbimento e secrezione nel nefrone e


19.2. Riassorbimento di NaCl e H2O

N.B. Contestualmente ai processi di riassorbimento di NaCl e acqua, il prof. ha trattato anche i processi di riassorbimento
dello ione bicarbonato (HCO3-), argomento che propriamente fa parte della tesina Regolazione dell’equilibrio acido-base.

Considerazioni generali

Nella presente tesina verranno trattate le funzioni del tubulo renale, in particolare i processi di riassorbimento
e secrezione del nefrone. Ci si focalizzerà soprattutto sul riassorbimento di Na+, Cl- e H2O. L’attenzione è
rivolta in primo luogo a queste sostanze perché l’H2O è il principale solvente dei fluidi biologici e quindi anche
del plasma, che viene ultrafiltrato a livello dei capillari glomerulari, mentre a livello dei liquidi extracellulari,
e quindi anche nel plasma, gli ioni più concentrati sono proprio Na+ e Cl-. Quindi, il carico filtrato
(VFG x [sostanza in questione]) è particolarmente elevato per sodio e cloro, che essendo piccoli ioni possono
passare liberamente tramite le barriere di ultrafiltrazione. L’acqua, il sodio e il cloro sono le sostanze che
vengono maggiormente filtrate.
Successivamente verrà trattato anche il trasporto tubulare degli ioni bicarbonato. Questi ioni sono
particolarmente concentrati nel liquido extracellulare e sono importanti per il mantenimento dell’equilibrio
acido-base, poiché essi fanno parte del sistema tampone ioni bicarbonato/acido carbonico che è il principale
tra i sistemi tampone del liquido extracellulare. Gli ioni bicarbonato sono piccoli e dunque filtrano liberamente;
ciò è problematico poiché potenzialmente si potrebbe filtrare e conseguentemente eliminare ioni bicarbonato
a livello dell’urina, che però sono necessari per mantenere l’equilibrio acido-base.: è quindi qualcosa da
evitare. La filtrazione di HCO3- è inevitabile, essendo infatti gli ioni molto piccoli passano la barriera di
filtrazione facilmente, ma ciò che si può fare per evitare la perdita è operare sul riassorbimento. Poiché anche
questo ancora non è sufficiente, vengono attuati ulteriori meccanismi che consentono la produzione diretta di
ioni bicarbonato a livello del rene tramite la neo-formazione e poi successiva eliminazione di ioni ammonio.

Le percentuali della tabella si riferiscono alle percentuali di carico filtrato di Na+ (per approssimazione
questa è più o meno uguale a quella di Cl-), di H2O e di HCO3- a livello dei vari segmenti del tubulo renale. Il
carico filtrato di H2O non è altro che la velocità di filtrazione glomerulare: volume di H2O filtrato dal glomerulo
nell’unità di tempo. Focalizziamoci ora sul riassorbimento delle singole specie nei vari segmenti del tubulo
renale:
 Tubulo prossimale
- A livello del tubulo prossimale viene riassorbito il 67% del Na+ ultrafiltrato (in buona
approssimazione anche di Cl-, il suo anione di accompagnamento) e il 67% di H2O. Questa

427
percentuale corrisponde all’incirca a 2/3 del carico filtrato di sodio e di acqua. Il
riassorbimento di queste due specie chimiche avviene dunque maggiormente nella prima parte
del tubulo renale.
Un dato significativo a questo livello è che la percentuale di Na+ e H2O riassorbita è la stessa.
Sappiamo che il sodio è il principale ione contenuto all’interno del liquido extracellulare e
sappiamo anche che l’osmolarità di una soluzione dipende dal numero di particelle
osmoticamente attive contenute in essa. Di conseguenza l’osmolalità del liquido extracellulare
è principalmente dovuta proprio al Na+, in quanto il numero di particelle attive di sodio è a
questo livello enormemente superiore a quello delle proteine. Riassorbire un eguale frazione
di carico filtrato di H2O e di Na+ vuol dire dunque riassorbire un eguale quantità di solvente e
di soluto, in particolare del soluto più rappresentato in termini di particelle osmoticamente
attive. Siccome l’osmolarità è pari al rapporto tra numero di particelle osmoticamente attive e
la massa di solvente (o il volume di soluzione3), lavorando sul numeratore e il denominatore
del rapporto nella medesima quantità (cioè riassorbendo come detto una stessa frazione sia
dell’uno che dell’altro), si tende a mantenere l’osmolarità circa costante. Quindi nel tubulo
contorto prossimale l’osmolalità della preurina viene mantenuta circa costante.
L’osmolalità della pre-urina a questo livello è di poco inferiore a quella del plasma. Il motivo
è che l’osmolalità del plasma dipende principalmente dalla quantità di particelle attive di Na +
e degli anioni di accompagnamento, ma dipende anche dalla quantità di proteine presenti;
benché esse giochino un ruolo rilevante nel trasporto per ultrafiltrazione nei capillari (in
quanto essi sono impermeabili solo alle proteine), non dobbiamo pensare che il loro contributo
all’osmolalità totale del plasma sia molto rilevante, anzi ne rappresenta soltanto una piccola
frazione. Nella pre-urina, come detto, le proteine non sono presenti, per cui il valore
plasmatico dell’osmolarità rimane inevitabilmente minore, seppur simile a quello della pre-
urina. In conclusione, nel tubulo contorto prossimale l’osmolalità della pre-urina rimane molto
simile alla osmolarità del plasma e non cambia per tutta la lunghezza del tubulo prossimale.
- La percentuale riassorbita del carico filtrato di HCO3- è maggiore rispetto a quella di Na+ e di
H2O, essendo pari all’80%. Ragionando sul valore di concentrazione, che è pari al rapporto
tra la quantità di sostanza e il volume di solvente, andando a riassorbire una quantità maggiore
di soluto rispetto al solvente, inevitabilmente si ottiene che la concentrazione di bicarbonato
diminuisce mano a mano che si procede nel tubulo stesso, poiché è riassorbito più soluto che
solvente.
 Ansa di Henle
- A questo livello viene riassorbito circa ¼ del Na+ ultrafiltrato, mentre si riassorbe solo il 15%
di H2O. Considerando sempre l’osmolarità della pre-urina e il suo valore come rapporto tra
particelle osmoticamente attive e volume di soluzione, si può notare che, riassorbendo più
soluto (particelle osmoticamente attive) e meno solvente, essa si riduce. L’osmolarità quindi
risulta essere costante e isoosmotica rispetto al plasma nel tubulo contorto prossimale, mentre
nell’ansa di Henle essa diminuisce rispetto al plasma.
L’osmolarità di una soluzione si può in teoria diminuire diluendo la soluzione e quindi
aumentando il volume di solvente, oppure, come fa il rene, agendo selettivamente sulla
quantità di soluto e andando a diminuire la sua concentrazione a parità di volume di solvente.
Il rene diluisce la pre-urina agendo sul soluto e non sul solvente. L’ansa di Henle è per questo
considerata come un segmento diluente del tubulo, non nel senso che aggiunge acqua alla
soluzione quanto piuttosto perché mette in atto un riassorbimento maggiore del soluto.
- Al livello dell’ansa di Henle, è riassorbito il 15% del carico filtrato di HCO3-.
 Tubulo distale
- A livello del tubulo distale è riassorbito all’incirca il 4% del carico filtrato di Na+; è necessario
soffermarsi sul circa, poiché il valore può cambiare in base a meccanismi di regolazione
dell’organismo, che sono molto rilevanti nella gestione dell’equilibrio del volume dei liquidi
corporei.

3
Il prof. a volte non distingue tra osmolarità e osmolalità, che come si vede sono usati in maniera interscambiabile. Ciò
è vero approssimativamente in fisiologia, ma bisogna tener presente che dal punto di vista strettamente chimico
l’osmolarità (numero di particelle osmoticamente attive/volume di soluzione) e l’osmolalità (numero di particelle
osmoticamente attive/massa di solvente) sono due grandezze diverse.

428
Si potrebbe incorrere in un errore di valutazione considerando come irrilevante il
riassorbimento di una percentuale così piccola di sostanza, tuttavia ciò è errato, in quanto la
percentuale è sì piccola ma calcolata su un valore di partenza enorme (~25.500 mmol al
giorno4).
La quantità di acqua riassorbita in questa porzione del tubulo è invece pari a zero, per cui vale
lo stesso ragionamento fatto per l’ansa di Henle: se si riassorbe più soluto rispetto al solvente,
si determina una diluizione della soluzione. Per cui anche il tubulo contorto distale è un
segmento diluente del nefrone.
 Dotto collettore
- A questo livello è riassorbito il 3% circa del carico filtrato di sodio e l’8-17% di acqua.
- Il riassorbimento del bicarbonato è di circa il 5%, complessivo tra tubulo distale e dotto
collettore.

È importante fare alcune osservazioni:


 l’acqua, come è ovvio, non viene riassorbita al 100% (altrimenti non esisterebbero le urine), ma a più
del 99%;
 anche il sodio non viene riassorbito al 100%, ciò significa che un po' di sodio nelle urine sarà
inevitabilmente presente (la quota di sodio riassorbito è maggiore del 99%5);
 il bicarbonato viene invece riassorbito sostanzialmente al 100% (anzi, come vedremo, si ha addirittura
neoformazione di esso), perché esso ha una fondamentale importanza nel mantenimento dell’equilibrio
acido-base6;
 non bisogna trascurare le quantità di sodio riassorbite dai tubuli distale e collettore: pur essendo le
percentuali piccole (rispettivamente 4% e 3%), si riferiscono al carico filtrato del sodio che è enorme,
pari al prodotto tra VFG (che è molto alta, pari a 180 L/giorno) e [Na+] nel plasma (anch’essa molto
alta e superiore ai 100 mM).

Ricapitolando, la pre-urina nel tubulo prossimale fluisce con una osmolarità all’incirca pari a quella del
plasma, per cui si definisce isoosmotica rispetto ad esso, mentre nell’ansa di Henle e nel tubulo contorto distale
la soluzione diventa ipoosmotica rispetto al plasma. Il rene però può esercitare dei meccanismi di regolazione
a seconda delle particolari necessità dell’organismo. Se non ci sono particolari problematiche può eliminare
tranquillamente l’urina così come descritto, quindi ipoosmotica rispetto al plasma e in questo caso il volume
di urina è relativamente elevato. Se invece le condizioni lo richiedono, il rene può mettere in atto un forte
riassorbimento di H2O nel tubulo distale e collettore aumentando di conseguenza in maniera molto marcata
l’osmolarità dell’urina e viceversa diminuendone il volume.
Il riassorbimento del bicarbonato invece, coma abbiamo osservato, è molto alto all’inizio del tubulo e via via
diminuisce. Ciò ha una certa logica; il bicarbonato è molto concentrato nel plasma e viene quindi filtrato molto,
essendo anche piccolo. I meccanismi di riassorbimento funzionano bene quando vi è molto da riassorbire,
mentre richiedono un quantitativo maggiore di energia quando la concentrazione di sostanza da riassorbire
diminuisce. È dunque piuttosto semplice riassorbire il bicarbonato a livello del tubulo prossimale, quando la
sua concentrazione della pre-urina è alta, ma a mano a mano che si va avanti, nell’ansa di Henle e nel tubulo
distale e collettore, verrà riassorbita una quantità minore di questo ione; il riassorbimento tuttavia è comunque
molto importante perché serve per mantenere l’equilibrio acido-base. Nelle porzioni più distali devono quindi
essere messi in campo meccanismi che richiedono più energia.

4
Dal Boron & Boulpaep: “tale quantità è equivalente al contenuto di Na + presente in circa 1,5 kg di sale da cucina, oltre
nove volte la quantità totale di Na+ presente nei liquidi corporei”.
5
~99,6% (Boron & Boulpaep).
6
Dal Boron & Boulpaep: “se l’HCO3- filtrato fosse lasciato tutto nell’urina, il risultato sarebbe equivalente all’aggiunta
di un carico acido nel sangue di 4320 mmol, cioè un’acidosi metabolica catastrofica”.

429
Analizziamo adesso il grafico a lato. Sull’asse x è
presente la percentuale della distanza lungo il tubulo
contorto prossimale (lo 0% corrisponde all’inizio del
tubulo, ossia la capsula di Bowman, mentre il 100%
corrisponde all’ultimo tratto, prima dell’ansa di Henle),
sull’asse delle y invece si ha il rapporto fra la
concentrazione di un dato soluto nella pre-urina (o
l’osmolarità della soluzione) e il valore corrispondente
nel plasma (o l’osmolarità del plasma), il tutto riportato
in percentuale. Quindi avere un valore pari al 100%
significa che vi è un’identità tra la concentrazione della
sostanza (o l’osmolarità della preurina) e la
concentrazione della stessa sostanza nel plasma (o
l’osmolarità nel plasma).
 L’osmolarità complessiva della pre-urina resta
più o meno la stessa del plasma lungo tutta la
lunghezza del tubulo prossimale, stessa cosa
accade per Na+, la cui concentrazione rimane la
medesima lungo tutto il tubulo. Come
sappiamo, ciò si spiega grazie all’assorbimento di medesime percentuali di carico filtrato di acqua e
sodio.
 Per quanto riguarda la concentrazione di bicarbonato essa diminuisce mano a mano che si procede
lungo il tubulo prossimale, perché come detto viene riassorbita una maggiore quantità di bicarbonato
(soluto) rispetto alla quantità di acqua (solvente).
 La diminuzione della concentrazione di soluto è ancora più marcata nel caso di sostanze come:
glucosio, lattato e amminoacidi. Esse infatti devono essere riassorbite e non eliminate perché servono
all’organismo. La rapida caduta delle concentrazioni di tali sostanze avviene principalmente nella
prima porzione del tubulo prossimale. Possiamo dividere il tubulo prossimale in una prima parte e una
seconda parte: nella prima avviene la maggior parte del riassorbimento di tali sostanze e nell’ultima la
loro concentrazione è praticamente nulla. Nei pazienti con il diabete mellito si ha glicosuria, cioè
presenza di glucosio nelle urine, dovuta al fatto che vi è una eccessiva quantità di glucosio in circolo
e questo non viene pertanto riassorbito in toto a livello renale, in quanto i meccanismi di riassorbimento
vengono sopraffatti dall’esagerata quantità di soluto da trasportare. I segmenti del tubulo del nefrone
a valle del tubulo contorto prossimale sono incapaci fisiologicamente di riassorbire glucosio e
amminoacidi, per cui se il prossimale cede non si possono più recuperare tali sostanze.
 Per quanto riguarda il valore del fosfato inorganico (Pi) esso verrà approfondito in seguito, ma si deve
ricordare che c’è una quantità di ioni fosfato inorganici filtrati nella pre-urina. Guardando l’andamento
della curva è però possibile concludere un ragionamento analogo a quello fatto per il bicarbonato, ossia
che probabilmente verrà riassorbita una quantità maggiore di fosfato rispetto a quella del solvente,
ossia l’acqua.
 L’ultimo punto che trattiamo riguarda il comportamento del cloro. La sua concentrazione nella pre-
urina cresce nella prima parte tubulo prossimale e poi rimane costante. Ciò vuol dire che viene
riassorbito un po’ meno cloro rispetto all’acqua (spiegando così un aumento della concentrazione del
cloro). Siccome la percentuale di carico filtrato di acqua riassorbito è la stessa della percentuale di
sodio riassorbito, questo fa capire che nel tubulo prossimale si riassorbe sodio ma molto di meno cloro.
L’osmolarità rimane comunque costante tra plasma e preurina, perché vengono contestualmente
riassorbiti di più altri anioni, come ad esempio il fostato e il bicarbonato.

Bilancio del sodio


A questo punto ci si può concentrare sul bilancio del sodio. Non è necessario conoscere i valori quantitativi
dell’immagine, ma è necessario conoscere il ragionamento collegato e le sue conclusioni.
Partendo dal sodio introdotto con la dieta, possiamo vedere che esso cambia in relazione ai cibi che si
consumano. Ad esempio, nella dieta occidentale è maggiore il consumo di alimenti conservati, normalmente
ricchi di sodio contenuto nel sale (i cibi conservati possono così conservarsi meglio, avere sapore più gradevole
e inoltre, essendo il sale idroscopico, permette di trattenere di più l’acqua e dunque dà ai cibi un maggior peso

430
dovuto all’acqua e non al cibo in sé: il peso maggiore viene pagato di più dal consumatore e determina quindi
un costo di produzione minore).
L’uomo non si è evoluto in ambienti ricchi di sodio, ma è al contrario programmato per fare un buon uso del
poco sodio che dovrebbe introdurre con la dieta, pertanto esso non è totalmente in grado di eliminare un
eccessivo quantitativo di sodio ingerito.
In una dieta tipo, ogni giorno vengono ingeriti
all’incirca 120 mmol di Na+, che sono quasi interamente
riassorbiti a livello intestinale, tanto che nelle feci
rimangono soltanto da 5 a 10 mmol di Na+. La quota
riassorbita va a finire nel liquido interstiziale e da qui può
passare nel plasma. Naturalmente c’è un equilibrio per il
Na+ tra liquido intracellulare ed extracellulare, che è a
favore di quest’ultimo. Il liquido extracellulare
comprende anche il plasma, che perfonde i vari tessuti
dell’organismo e arriva anche alle ghiandole sudoripare,
le quali producono il sudore, il quale conterrà una certa
quantità di sodio, seppur non elevata: si perde attraverso il
sudore una certa quantità di sodio, paragonabile a quella
espulsa tramite le feci (N.B. Ovviamente la quantità di
sodio eliminata con le feci può cambiare anche in base alla
quantità di feci prodotta, quindi in base anche a patologie
quali la diarrea).
Le quantità analizzate fino a questo momento sono
ancora estremamente basse. Si riassorbono in tutto
all’incirca 110 mmol di Na+ al giorno e abbiamo finora
discusso su un’unica perdita, cioè quella di 10-15 mmol
da parte del sudore.
Il rene si deve quindi far carico di eliminare la residua
quantità di Na+ che non viene eliminata con il sudore e le feci. Il rene eliminerà una quantità di circa 100 mmol
di Na+ tramite le urine. Questi 100 mmol derivano dal fatto che ogni giorno il carico filtrato di sodio rispetto
alla quantità ingerita è molto più alto, perché corrisponde all’incirca a 25.500 mmol (nota che nel liquido
extracellulare in toto sono presenti circa 2450 mmol di Na+: ciò vuol dire che i reni filtriamo al giorno
nove/dieci volte tanto). Di questa quota filtrata ne è riassorbita più del 99%: a fronte del carico filtrato sono
eliminati con l’urina solo ca.100 mmol di sodio al giorno.
Osservando i valori numerici, è possibile concludere che la somma della quantità di Na+ eliminata ogni giorno
tramite le feci, le urine e il sudore è uguale, allo stato stazionario, alla quantità di sodio che si è ingerita. Il
bilancio tra Na+ eliminato e Na+ introdotto tramite la dieta allo stato stazionario deve essere quindi pari
al’incirca a zero.

Meccanismi molecolari di riassorbimento renale di


acqua, Na+, Cl-, HCO3- e molecole organiche

Dopo aver trattato in generali i fenomeni di riassorbimento renale a livello tubulare, analizziamo ora i
meccanismi molecolari attraverso cui il rene riassorbe le sostanze di cui abbiamo appena discusso, quindi:
acqua, sodio, cloro, bicarbonato e molecole organiche.
Risulta opportuno trattare questo argomento con un livello così alto di dettaglio perché la farmacologia mette
a disposizione del medico farmaci che modulano appunto questi meccanismi molecolari; ad esempio nel caso
della terapia per il diabete mellito si utilizzano farmaci volti a contrastare il riassorbimento di glucosio a livello
del tubulo prossimale.

Tubulo prossimale: prima porzione


Analizziamo i meccanismi di riassorbimento di sodio, glucosio e ioni bicarbonato nella prima porzione del
tubulo prossimale7.

7
Ha senso dividere il tubulo prossimale in due porzioni perché l’andamento delle concentrazioni delle varie sostanze non
è regolare lungo il decorso del tubulo prossimale. Questa non regolarità delle concentrazioni di soluti riassorbiti e solvente

431
Osservando le immagini delle pagine seguenti, si notano cellule unite tra loro da giunzioni. Queste cellule
sono quelle che compongono la parete del tubulo prossimale. A sinistra delle stesse si osserva il lume del
tubulo, contenente dunque il liquido tubulare, mentre a destra il liquido interstiziale che andrà poi in scambio
con i capillari peritubulari a valle della arteriola efferente. La riga rossa verticale a destra rappresenta
l’endotelio capillare e la membrana basale, quindi sostanzialmente la barriera di scambio capillare.

Riassorbimento di sodio, glucosio, lattato, amminoacidi


Ragioniamo sull’immagine B: sono mostrati i
meccanismi che le cellule del tubulo prossimale
utilizzano per riassorbire sodio e glucosio tramite
un simporto. Esistono due isoforme del simporto
Na+/glucosio:
 SGLT2, con stechiometria 1:1 (in figura):
vengono trasportati uno ione sodio e una molecola
di glucosio;
 SGLT1, con stechiometria 2:1: vengono
trasportati due ioni sodio e una molecola di
glucosio.
Ragionando da un punto di vista termodinamico,
il sodio tende a entrare nelle cellule del tubulo
prossimale in quanto è molto concentrato a livello
extracellulare e nel liquido tubulare: il liquido
tubulare, cioè la pre-urina, contiene un ultrafiltrato
del plasma. Il sodio filtra liberamente, quindi la
sua concentrazione nel plasma è molto elevata e lo
sarà conseguentemente anche nella pre-urina, più di quanto non lo sia all’interno delle cellule del tubulo.
Considerando inoltre che le cellule sono cariche negativamente all’interno, il sodio, in quanto catione, tende a
entrare anche per gradiente elettrico. Il gradiente che spinge il sodio a entrare nelle cellule è dunque
elettrochimico.
Nell’entrare il sodio trascina in ingresso anche glucosio. Con l’isoforma SGLT1 si ha un’energia libera
maggiore fornita dall’ingresso del sodio, perché gli ioni sodio che spingono il glucosio a entrare sono due.
Questa isoforma è più presente nelle ultime porzioni del tubulo prossimale, dove di glucosio ne è rimasto poco
e dunque per farlo entrare è necessaria più energia. Questi, nonostante possano sembrare dettagli, sono molto
rilevanti ai fini della terapia farmacologica per il diabete mellito.
Grazie al simporto, la concentrazione del glucosio all’interno delle cellule del tubulo prossimale aumenta e
questo spinge la sua uscita dalla membrana baso-laterale tramite trasportatori di tipo GLUT2 (lo stesso presente
anche a livello intestinale).
Come discusso nello scorso semestre, la presenza delle giunzioni intercellulari rende le cellule degli epiteli
polarizzate: la deriva delle proteine integrali di membrana lungo la membrana plasmatica è limitata dalla
presenza di giunzioni intercellulari che permettono in questo modo di mantenere una differenza tra la
composizione della membrana apicale e quella della membrana baso-laterale sul profilo delle proteine integrali
di membrana (quali anche i trasportatori). Grazie alle giunzioni intercellulari il simporto Na +/glucosio resta
confinato nella membrana apicale della cellula e alla stessa maniera i trasportatori del glucosio GLUT 2 non
possono migrare oltre la baso-laterale.
Il glucosio passa a livello dell’interstizio grazie a GLUT 2 per diffusione facilitata. Il sodio invece viene
pompato al di fuori della cellula, nell’interstizio, dalla Na+/K-+ ATPasi presente sulla membrana baso-laterale.
La pompa sodio/potassio è necessaria per tenere bassa la concentrazione intracellulare di sodio; altrimenti, a
forza di far entrare sodio tramite il simporto Na+/glucosio la cellula si riempirebbe di sodio e ciò ne
ostacolerebbe un ulteriore ingresso. Conseguentemente, se non c’è abbastanza ATP, la pompa non funziona e
l’accumulo di sodio intracellulare comporta un funzionamento minore del simporto Na+/glucosio.

riassorbito porta a operare una suddivisione del tubulo prossimale, suddivisione che è tuttavia solo concettuale, non c’è
un limite oltre il quale le cellule cambiano morfologia. Si tratta perlopiù di una progressione sfumata da un capo all’altro
del tubulo.

432
Gli altri nutrienti (lattato, amminoacidi) vengono riassorbiti attraverso meccanismi del tutto similari, in
simporto con il sodio.

Riassorbimento di bicarbonato
Concentriamoci ora sull’immagine a lato.
Nel versante che guarda il lume del tubulo,
rappresentato dalla membrana apicale, si può
notare un ingresso di sodio. Nel versante
opposto, a livello della membrana baso-
laterale, si ha un’uscita di sodio
nell’interstizio mediante la Na+/K+ ATPasi.
Sempre a livello baso-laterale si osserva
l’uscita dalla cellula di ioni bicarbonato.
Complessivamente si ha un riassorbimento
di sodio insieme a bicarbonato. Non esiste
tuttavia sulla membrana apicale un simporto
del bicarbonato con il sodio, per cui il
riassorbimento del bicarbonato avviene in
maniera indiretta.
Il tutto comincia da un antiporto Na+/H+
(nell’immagine NHE3): il sodio entra per
gradiente elettrochimico, e questo ingresso è
associato a una fuoriuscita di ioni idrogeno.
Gli ioni idrogeno che fuoriescono sono
prodotti dalla dissociazione dell’acido carbonico in ione idrogeno e ione bicarbonato:
H2CO3 → HCO3- + H+

Questa è una reazione che avviene all’interno della cellula ed è proprio l’idrogeno prodotto da questa reazione
che l’antiporto Na+/H+ va ad utilizzare. La continua diminuzione di idrogeno all’interno della cellula, causata
dall’antiporto, genera uno spostamento della reazione verso i prodotti. L’acido carbonico è prodotto a sua volta
dalla reazione reversibile di idratazione della anidride carbonica:

CO2 + H2O → H2CO3

La reazione è di per sé lenta e viene catalizzata dall’anidrasi carbonica (nell’immagine CA), un enzima che
ha una Vmax molto elevata e che è espressa all’interno delle cellule del tubulo prossimale. L’antiporto Na +/H+
tiene giù i livelli di idrogeno, quest’ultimo viene sottratto alla reazione della sua formazione e fa calare i livelli
di acido carbonico, anche questo a sua volta sottratto alla reazione della sua formazione, con conseguente calo
dei livelli di anidride carbonica (l’acqua è sempre in abbondanza).
Da dove viene l’anidride carbonica utilizzata per la conversione in acido carbonico? Viene dal lume tubulare.
Gli ioni idrogeno, una volta escreti nel lume tubulare dallo scambiatore Na +/H+, si ritrovano in un ambiente
ricco di bicarbonato (che era filtrato liberamente dal plasma alla capsula di Bowmann a livello glomerulare).
Ioni idrogeno e ioni bicarbonato si combineranno a formare nuovamente acido carbonico.

HCO3- + H+ → H2CO3

Anche sul versante luminale della membrana della cellula è presente l’anidrasi carbonica, tuttavia
l’aumento della concentrazione di acido carbonico tende a fare agire questo enzima in maniera opposta a
quanto visto accadere all’interno delle cellule: si ha questa volta uno spostamento della reazione verso la
produzione di CO2 (e acqua).

H2CO3 → CO2 + H2O

L’anidride carbonica così prodotta tende poi a entrare nella cellula per diffusione semplice, poiché all’interno
delle cellule vi è una bassa concentrazione di CO2 (essa viene consumata continuamente dalla reazione di
idratazione vista precedentemente).

433
Si viene così a formare un ricircolo continuo dell’anidride carbonica, che in ultima analisi porta a un
accumulo di sodio e ioni bicarbonato all’interno della cellula tubulare, che poi attraverso la membrana-baso
laterale si porteranno nel liquido interstiziale: il sodio mediante la pompa Na+/K+ ATPasi, lo ione bicarbonato
per diffusione facilitata tramite un trasportatore (NBC1, con il sodio).

Questi due meccanismi molecolari ci spiegano perché nella prima porzione del tubulo prossimale si ha un
drastico calo del glucosio, del lattato, degli amminoacidi ma anche dello ione bicarbonato. Non si ha un
analogo calo della concentrazione di sodio perché si ha un uguale riassorbimento anche di acqua (~67%),
quindi la sua concentrazione lungo il tubulo prossimale rimane costante; si ha invece un riassorbimento più
elevato di bicarbonato (80%) e di molecole organiche, quindi effettivamente la loro concentrazione nel tubulo
diminuisce.

Riassorbimento di acqua
Il riassorbimento di acqua avviene per via paracellulare, cioè attraverso le giunzioni intercellulari, ed è
guidato dalla differenza di pressione osmotica. La differenza di pressioni osmotiche dipende principalmente,
come noto, dalle concentrazioni di sodio. Il riassorbimento di acqua segue quindi il riassorbimento di sodio e
ciò spiega perché la concentrazione di questo ione resti circa costante: si muovono nella stessa quantità sia
soluto che solvente.

Domanda di uno studente. Per quale motivo l’enzima anidrasi carbonica agisce in versi opposti all’interno
della cellula e sulla membrana? Perché questo enzima, come molti altri, catalizza una reazione reversibile e il
verso di una reazione reversibile dipende dalla disponibilità dei prodotti e dei reagenti. Laddove ci sono tanti
reagenti e pochi prodotti la reazione reversibile agisce verso i prodotti, viceversa laddove ci sono tanti prodotti
e pochi reagenti, la reazione si inverte e procede verso i reagenti.

Tubulo prossimale: seconda porzione

Riassorbimento di sodio, glucosio, amminoacidi


Il riassorbimento di sodio continua nella seconda porzione del tubulo contorto prossimale, grazie a
meccanismi trattati di seguito insieme ai meccanismi di riassorbimento del cloro.
Il glucosio, il lattato, gli amminoacidi, sono riassorbiti a questo livello in maniera molto minore: la loro
concentrazione nella seconda porzione del tubulo prossimale è infatti molto bassa. Rilevante è il fatto che il
glucosio residuo sia riassorbito a questo livello grazie ad un simporto con il sodio, SGLT1, che per la sua
stechiometria (2:1), può generare una forza motrice di gran lunga superiore rispetto a quella generata da SGLT2
(1:1) nella prima porzione.

Riassorbimento di cloro (e contestualmente di sodio e acqua)


Il cloro è uno ione molto importante perché è il principale anione di accoppiamento del sodio. Il cloro non
viene riassorbito nella prima porzione del tubulo prossimale e quindi la sua concentrazione lungo il percorso
aumenta (è riassorbita acqua ma non cloro, ergo il rapporto tra soluto e solvente aumenta). Nella prima
porzione si ha una concentrazione di cloro del tutto analoga a quella che ritroviamo nel plasma perché questo
ione filtra liberamente; successivamente questa concentrazione si discosta e aumenta per via del riassorbimento
di acqua.
 Meccanismo di riassorbimento per via paracellulare
Nella seconda porzione del tubulo prossimale le giunzioni intercellulari, differentemente dalla prima,
oltre che all’acqua sono permeabili anche a piccoli ioni, in particolare al sodio e al cloro. Di
conseguenza quando la concentrazione di Cl- nel tubulo aumenta (per i motivi prima descritti), il cloro
tende ad essere riassorbito per via paracellulare secondo un gradiente di concentrazione,
attraversando le giunzioni intercellulari.
Cl- è un anione e un suo trasporto passivo nell’interstizio causa uno spostamento di cariche. Lo
spostamento per gradiente di concentrazione del cloro causa dunque un eccesso di cariche positive
all’interno del lume tubulare, che causa a sua volta uno spostamento di sodio (Na+) per gradiente
elettrico nell’interstizio mediante un riassorbimento paracellulare.
Nella seconda porzione del tubulo prossimale si osserva dunque un riassorbimento di sodio insieme a
cloro per via paracellulare; nella prima porzione invece il cloro praticamente non era riassorbito e il
sodio veniva riassorbito per via transcellulare. Proprio il fatto che nella prima porzione il cloro non

434
viene riassorbito, è il motore, nella seconda porzione, del trasporto per via paracellulare di cloro stesso
e di sodio. Naturalmente sodio e cloro sono delle osmoli e quindi si porteranno dietro anche acqua.
Ciò spiega perché nella seconda porzione la concentrazione del cloro rimane costante: tanto cloro è
riassorbito, tanto sodio e altrettanta acqua per osmosi.
In sintesi, nella prima parte del tubulo prossimale si riassorbono sodio e acqua, ma non cloro →
aumenta la concentrazione di cloro nel tubulo → nella seconda parte del tubulo prossimale il cloro,
per gradiente di concentrazione, viene riassorbito dall’interstizio (e poi dal plasma) passando
attraverso le giunzioni serrate (via paracellulare) → questo spostamento crea un gradiente elettrico (+
nel lume del tubulo, - nell’interstizio) → il sodio è riassorbito per gradiente elettrico, passando
anch’esso per via paracellulare → l’acqua segue il sodio e il cloro per gradiente osmotico.
Il meccanismo di riassorbimento paracellulare del cloro è il principale, ma non l’unico: esistono anche
dei meccanismi trans-cellulari di riassorbimento del cloro a livello del tubulo prossimale.
 Meccanismo di riassorbimento per via trans-cellulare
Questo meccanismo sfrutta degli
antiporti Na+/H+ e antiporti Cl-
/anione, dove per anione si intende
una vasta gamma di molecole
cariche negativamente8 (saranno
quindi numerose le tipologie di
antiporto anione-specifiche).
Quest’ultimo antiporto fa entrare
nella cellula cloro e fa uscire
appunto l’anione. Gli anioni escreti
si associano agli ioni idrogeno
escreti dagli antiporti Na+/H+, per
formare delle sostanze
elettricamente neutre che di fatto
sono gli acidi coniugati dei rispettivi
anioni.

H+ + Base- → H-Base

Gli acidi coniugati vengono poi


riassorbiti per diffusione semplice o facilitata all’interno delle cellule. Gli H-Base all’interno della
cellula si dissociano: gli ioni idrogeno vengono nuovamente escreti dall’antiporto Na+/H+, mentre gli
anioni vengono escreti nuovamente dall’antiporto Cl-/anione. Tutto questo processo serve a fare
entrare nella cellula ioni cloro e sodio (che poi verranno trasportati nel liquido interstiziale grazie alla
pompa sodio/potassio, a canali per il cloro e a cotrasportatori K+/Cl-, presenti sulla membrana baso-
laterale). Anche questo meccanismo di trasporto di sodio e cloro per via trans-cellulare avviene nella
seconda porzione del tubulo prossimale e coadiuva il trasporto di sodio e cloro per via paracellulare.

Retroazione glomerulo-tubulare
Tutti i meccanismi di trasporto nel tubulo prossimale sono regolati da un meccanismo di feedback chiamato
regolazione glomerulo-tubulare (attenzione: abbiamo già citato un altro meccanismo a feedback, che è il
meccanismo di regolazione tubulo-glomerulare, un meccanismo di autoregolazione del flusso ematico renale
e della velocità di filtrazione glomerulare; i due meccanismi sono distinti e non vanno confusi9).

8
Ad es. formiato, ossalato ecc. (Boron & Boulpaep).
9
I termini sono composti dalle parole: glomerulo e tubulo. Il primo dei due termini della serie indica la causa, il secondo
la conseguenza. Quando si parla di regolazione glomerulo-tubulare si intende un meccanismo di retroazione caratterizzato
da qualcosa che accade nel glomerulo come causa, e qualcosa che accade nel tubulo come conseguenza. Nel tubulo
avviene il riassorbimento, nel glomerulo avviene la filtrazione. Dunque, la regolazione glomerulo-tubulare regola il
riassorbimento nel tubulo prossimale a seconda di cosa accade nel glomerulo, cioè a seconda della quantità di acqua e
soluti filtrati nel glomerulo durante la filtrazione. Viceversa, la regolazione tubulo-glomerulare è un meccanismo di
autoregolazione che regola qualcosa che accade nel glomerulo, cioè la filtrazione VFG e il flusso plasmatico renale FPR,
a seconda della quantità di acqua e soluti riassorbiti nel tubulo durante il riassorbimento.

435
L’effetto del meccanismo a feedback di retroazione glomerulo-tubulare è che il tubulo prossimale riassorbe
una frazione costante di acqua e sodio indipendentemente dalla velocità di filtrazione glomerulare.
Sappiamo che il tubulo prossimale riassorbe il 67% dell’acqua e del sodio filtrati, che corrispondono a circa i
2/3 di acqua e soluti filtrati inizialmente. Questa percentuale rimane costante anche se cambia la VFG. Questa
non è un’ovvietà, perché se la VFG è 120 mL al minuto sono riassorbiti nel tubulo prossimale il 67% di 120
mL, se ad esempio però la VFG sale da 120 mL al minuto a 140 mL al minuto, è riassorbito il 67% di 140 mL
al minuto, che è chiaramente una quantità maggiore. La quantità assoluta quindi varia, ma essa è sempre pari
al 67% del volume filtrato dal glomerulo in un minuto.
I meccanismi molecolari alla base della regolazione glomerulo-tubulare sono due:
1. Equilibrio di Starling-Landis, applicato al trasporto per osmosi a livello dei capillari peritubulari. Si
supponga di avere una frazione di filtrazione che aumenta a parità di flusso plasmatico renale (dove
frazione di filtrazione = VFG/FPR). Se aumenta la frazione di filtrazione a parità di flusso plasmatico
renale, vuol dire che aumenta la VFG. Se aumenta la VFG vuol dire che il carico filtrato di acqua e
sodio aumenta: si ha più acqua e sodio nel tubulo prossimale e meno nei capillari glomerulari. Queste
modificazioni hanno una ripercussione sulla pressione oncotica a livello dei capillari glomerulari e
conseguentemente anche dei capillari peritubulari, a valle dei primi: in particolare si ha un aumento
della pressione oncotica a livello dei capillari. I capillari peritubulari dunque tendono ad assorbire
più acqua dall’interstizio. L’assorbimento di acqua dall’interstizio causerà un aumento dell’osmolarità
nell’interstizio stesso che a sua volta assorbirà maggiormente dal lume tubulare. Più in generale si avrà
un flusso di acqua aumentato dal lume tubulare fino al sangue. In questo modo all’interno del lume
tubulare aumenta la concentrazione dei soluti, che dunque, medianti tutti i meccanismi sopracitati,
saranno riassorbiti più efficientemente, sia per via trans-cellulare che per via paracellulare. In poche
parole, un aumento della VFG causa un aumento dell’efficienza dei meccanismi di
riassorbimento di sodio, di cloro, di bicarbonato, di molecole organiche e anche di acqua. Da
notare che affinché il meccanismo funzioni deve cambiare la frazione di filtrazione. Se l’aumento
di VFG è accompagnato da un uguale aumento di FPR (cosicché la frazione di filtrazione resta
costante) tutto questo meccanismo non funziona.
Ricapitolando. Aumenta (ma si può ragionare anche in caso di diminuzione, ovviamente in termini
opposti) VFG a parità di FPR → la frazione di filtrazione aumenta → più acqua e soluti sono filtrati
→ nei capillari glomerulari la diminuzione del solvente causa un aumento della pressione oncotica
(perché le proteine non possono seguire il sovlente attraverso la barriera di filtrazione) → essedno i
capillari glomerulari in serie con quelli peritubulari, anche questi ultimi hanno una pressione oncotica
maggiore → la maggiore pressione oncotica favorisce l’entrata di acqua nei capillari peritubulari
dall’interstizio, e in ultima analisi dal tubulo per via paracellulare → il riassorbimento di acqua
concentra i soluti nella pre-urina → l’aumento della concentrazione dei soluti nel tubulo incrementa il
loro trasporto per via trans-cellulare verso i capillari peritubulari.
2. Se aumenta il carico filtrato di glucosio, lattato e amminoacidi allora ci sarà una maggiore
disponibilità di queste sostanze a livello tubulare per il riassorbimento nel tubulo prossimale. Un
aumento della loro concentrazione non facilita solo il loro riassorbimento ma anche quello di altri
soluti: la loro presenza nel lume tubulare è il punto da cui parte il riassorbimento per via trans-cellulare
del sodio dalla prima porzione del tubulo. Ma questo, a sua volta, è fondamentale per il riassorbimento
di cloro, per gradiente di concentrazione, nella seconda porzione del tubulo prossimale per via para-
cellulare. Questo riassorbimento di cloro, a cascata, determina un riassorbimento di sodio, mosso per
gradiente elettrico, nella seconda porzione per via para-cellulare, che causa a sua volta riassorbimento
anche di acqua (per via dei meccanismi qui sopra trattati). Una massiccia filtrazione delle molecole
organiche rende dunque più efficienti non solo il riassorbimento di queste molecole, ma anche i
meccanismi di riassorbimento di altre molecole (Na+, Cl-, acqua). Questo meccanismo, a differenza
del precedente, è indipendente da quel che accade alla frazione di filtrazione.
Il meccanismo di regolazione glomerulo-tubulare è più efficiente se la frazione di filtrazione varia, perché se
questa rimane costante si ha solo il funzionamento del meccanismo basato sul carico filtrato delle molecole
organiche. Se invece la frazione di filtrazione varia per modificazione della VGF a parità di FPR, i due
meccanismi sopracitati funzioneranno entrambi, sia quello basato sull’equilibrio di Starling applicato ai
capillari peritubulari, sia quello basato sul carico filtrato di molecole organiche. La funzione ultima del
meccanismo di retroazione glomerulo-tubulare è contribuire a regolare la volemia del plasma.

436
A questo punto il prof. tratta la formazione e ruolo degli ioni ammonio, che avviene proprio nel tubulo prossimale.
Essendo però l’argomento parte della tesina sulla Regolazione dell’equilibrio acido-base, l’ho riportato lì per semplificare
lo studio.

Tubulo prossimale: secrezione di anioni e cationi organici


Il tubulo riassorbe gran parte di ciò che viene filtrato a livello glomerulare, ma è anche in grado di secernere
alcune sostanze: è importante l’azione secretoria del tubulo nei confronti di alcune sostanze particolari che,
quando legate a proteine plasmatiche, tendono a filtrare difficilmente nel glomerulo, e quindi con la sola
ultrafiltrazione non verrebbero eliminate adeguatamente dall’organismo. Queste sostanze sono
prevalentemente cationi e anioni organici, tra cui: sali biliari, alcune vitamine (acido ascorbico e acido
folico), in modo da evitarne l’eccesso, ma soprattutto xenobiotici, ovvero farmaci. Tra i farmaci escreti in
questo modo abbiamo ad esempio i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei), l’aspirina, la penicillina e
la morfina.

I meccanismi di trasporto di questi anioni e cationi organici si basano su trasportatori di membrana che
compiono trasporti attivi di tipo secondario. In particolare, esistono famiglie di trasportatori diverse per le
varie classi di farmaci e molecole, dato che queste possono differire molto nelle dimensioni, nella natura
chimica e nella carica elettrica.
In particolare, fra i trasportatori degli anioni organici, ci sono i trasportatori di tipo ABC delle famiglie MRP
(Multi-drug Resistance Protein) e BCRP (Breast Cancer Resistance Protein), che sfruttano l’idrolisi di ATP
per compiere il processo.
Trattandosi di un trasporto mediato da proteine carrier di membrana, avrà caratteristiche di saturazione, una
cinetica simil-enzimatica e possibilità di inibizione competitiva. L’inibizione competitiva è importante
perché un substrato del trasportatore più concentrato di un altro va a saturare più facilmente il trasportatore
stesso, impedendo all’altro di essere veicolato verso l’altro compartimento in modo efficiente. Nella pratica
quindi si può avere l’accumulo di una particolare sostanza nell’organismo, dovuta al fatto che un’altra
sostanza compete con essa per il trasporto attraverso questi carrier di membrana. Quando si tratta di farmaci,
e più facilmente quando si assumono più farmaci contemporaneamente, bisogna individuare tutte le
possibili interazioni, in questo caso a livello renale, per decidere le dosi adeguate da somministrare,
ottimizzando la terapia e riducendo gli effetti tossici legati alla permanenza di elevati livelli dei farmaci stessi.

Ansa di Henle: segmento spesso della branca ascendente


L’ansa di Henle è una struttura eterogenea costituita da una porzione sottile prima discendente verso l’apice
delle papille renali, poi sottile ascendente, seguita da una porzione spessa ascendente. Queste diverse porzioni

437
hanno caratteristiche di permeabilità e di trasporto differenti che verranno trattate in dettaglio nella tesina
Regolazione dell'osmolalità dei liquidi corporei.
Quello che analizziamo in questa sede è ciò avviene nel segmento spesso dell’ansa di Henle, processo che
costituisce il motore dei processi di trasporto che avvengono a livello delle altre porzioni dell’ansa stessa, ed
è anche la base del meccanismo di retroazione tubulo-glomerulare, il quale è funzionalmente analogo al
meccanismo metabolico di autoregolazione del flusso plasmatico renale e della velocità di filtrazione
glomerulare.

Il riassorbimento di ioni in questo segmento sfrutta il trasportatore NKCC2, che attua un simporto
Na+/K+/2Cl- (al posto di uno ione potassio può veicolare anche uno ione ammonio, vedi tesina Regolazione
dell’equilibrio acido-base): si tratta di un simporto elettroneutro, dal momento che coinvolge due anioni
monovalenti e due cationi monovalenti, tutti in entrata.
Dal punto di vista termodinamico, l’ingresso di sodio, molto favorito per gradiente chimico ed elettrico,
fornisce l’energia per il riassorbimento anche degli altri ioni. Il gradiente chimico del sodio viene mantenuto
alto grazie all’azione della Na+/K+ ATPasi sul versante baso-laterale della membrana, che lo pompa
nell’interstizio.
Il cloro viene anch’esso espulso sul versante baso-laterale della cellula secondo gradiente, grazie alla
presenza di canali ionici specifici, e se ne ha pertanto il riassorbimento come per il sodio. Esiste anche un
sistema di simporto che espelle contemporaneamente uno ione potassio e uno ione cloro, sempre sul versante
baso-laterale.
Per quanto riguarda il potassio, sono presenti sulla membrana baso-laterale dei canali di leakage che
veicolano un flusso in uscita secondo gradiente; in questo particolare segmento dell’ansa di Henle sono espressi
tuttavia anche sulla membrana apicale dei canali del potassio specifici, chiamati ROMK (Renal Outer
Medullary Potassium Channel). La conseguenza è un forte flusso di potassio in uscita a livello apicale,
dovuto al normale gradiente tra compartimento intracellulare ed extracellulare, ma anche a una concentrazione
del potassio particolarmente elevata in prossimità della membrana apicale, legata proprio al simporto NKCC2,
che agisce di continuo. I canali ROMK permettono quindi un ricircolo del potassio, uno shuttling; sodio e cloro
sono presenti ad elevate concentrazioni nel lume tubulare, mentre il potassio non lo è, dato che la pre-urina è
un ultrafiltrato del plasma (e nel plasma la concentrazione di K + è di gran lunga inferiore alla sua
concentrazione intracellulare), pertanto in assenza di questo ricircolo, permesso da ROMK, il simporto
NKCC2 si troverebbe facilmente in carenza di potassio da riassorbire, lavorando in condizioni sfavorevoli dal
punto di vista termodinamico.
In conclusione, il sistema NKCC2-ROMK attua un riassorbimento di ioni cloro e sodio con ricircolo di
potassio. In questo modo, tuttavia, non si tratta più di un trasporto elettroneutro nel suo complesso, ma si viene
a creare un eccesso di cariche positive nel lume tubulare. Questo eccesso favorisce la diffusione

438
paracellulare per gradiente elettrico, tra le tight junctions intercellulari, di cationi: Na+, cationi divalenti (Ca++
e Mg++), e K+.
Per quanto paradossale possa sembrare, la piccola fuoriuscita di potassio attraverso ROMK ha come effetto
finale quello di favorire il riassorbimento netto del potassio stesso, insieme ad altri ioni, per via paracellulare,
oltre a permettere l’attività di NKCC2. Si tratta di una sorta di “investimento” che genera una elettropositività
luminale molto importante. Il trasporto di potassio al netto risulta un riassorbimento, perché la quantità che
diffonde per via paracellulare è molto maggiore a quella che fuoriesce tramite ROMK.
A livello quantitativo, in questo segmento si ha nel complesso un riassorbimento di circa il 25% del carico
filtrato di sodio e cloro, e di circa il 20% di quello del potassio. Il riassorbimento di NaCl avviene all’incirca
per metà per via transcellulare e per metà per via paracellulare.
Differentemente dal tubulo prossimale, nel segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle non
si ha un’elevata espressione di acquaporine sulla membrana apicale delle cellule, e le giunzioni intercellulari
sono altresì impermeabili all’acqua. Questa permeabilità a piccoli ioni e impermeabilità all’acqua delle
giunzioni è legata all’espressione di claudine specifiche che vanno a costituirle. Per questo motivo, quindi, il
segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle è un segmento diluente (assorbe soluti ma non
riassorbe contemporaneamente acqua).
I questo segmento dell’ansa di Henle avviene inoltre riassorbimento di bicarbonato in modo del tutto
analogo a quello che avviene nel tubulo prossimale: sistema indiretto, con scambiatore Na+/H+ sulla membrana
apicale, anidrasi carbonica espressa a livello intracellulare e sulla membrana apicale, e riassorbimento di
bicarbonato a livello baso-laterale in antiporto col cloro.

NKCC2 e farmacologia
NKCC2 è bloccato da farmaci detti diuretici dell’ansa, il cui capostipite è il principio attivo furosemide;
come effetto essi hanno la produzione di un maggiore volume di urine, e di urine maggiormente ricche di
soluti; in particolare, è proprio la ritenzione dei soluti a indurre una ritenzione del solvente, dato che il flusso
di acqua è sempre secondario al flusso di soluti a livello del tubulo renale.
Intuitivamente si potrebbe pensare che per favorire la diuresi farmacologicamente si debba indurre la
filtrazione glomerulare di un maggiore volume di plasma, mentre per farlo è necessario proprio agire a
livello del riassorbimento di soluti, limitandolo. Il flusso plasmatico renale e, di conseguenza, il carico
filtrato di soluti sono così grandi che è sufficiente limitare leggermente il riassorbimento di questi per avere
effetti volumetrici importanti sulla quantità di urina prodotta.

Tubulo distale: segmento iniziale


Il tubulo contorto distale può essere suddiviso
in due porzioni: un segmento iniziale, cioè la
parte più vicina all’ansa di Henle, e un segmento
finale. Quest’ultima parte ha caratteristiche
piuttosto simili a quelle del dotto collettore.
Al livello del segmento iniziale del tubulo
distale si ritrova un assorbimento di Na+ e Cl- che
avviene grazie alla presenza di un simporto
Na+/Cl-, detto NCC (Na+-Cl− Cotransporter) o
TSC (Thiazide-Sensitive Na+-Cl−
Cotransporter), in quanto è inibito dai tiazidici
(farmaci diuretici). Tale simporto è un trasporto
attivo secondario che dissipa il gradiente ionico
generato dalla Na+/K+ ATPasi che si trova sulla
membrana baso-laterale.
Questo segmento del tubulo distale è inoltre
impermeabile all’acqua, che non è in grado di
passare né per via paracellulare né per via
transcellulare. Questo fa sì che tale segmento sia
diluente, in quanto avviene un riassorbimento di soluti non accompagnato da un riassorbimento di acqua.

Segmento finale del tubulo distale e dotto collettore


A questo livello si ritrovano due tipi di cellule: le cellule principali e le cellule intercalate.

439
 Cellule principali
A livello di queste cellule si ha un
riassorbimento di Na+ tramite dei
canali detti canali epiteliali per il
Na+ o ENaC (Epithelial Na
Channel): tale riassorbimento è
spinto sempre dal gradiente
mantenuto dalla Na+/K+ ATPasi.
Sulla membrana apicale è inoltre
espresso il canale ROMK. Questo
canale è presente, come già visto,
anche nel segmento spesso della
branca ascendente dell’ansa di
Henle, dove però ha un effetto
differente. Nell’ansa di Henle il
flusso di K+ attraverso ROMK permette a NKCC2 di lavorare a pieno regime e rende il sistema non
più elettroneutro, determinando un potenziale elettrico positivo a livello del lume, che spinge il
trasporto paracellulare di ioni, tra cui il potassio. Quindi, di fatto, a livello della branca ascendente
dell’ansa di Henle si ha un riassorbimento netto di K+ per via paracellulare. Nel tubulo distale e nel
dotto collettore, invece, il trasporto di Na+ non si verifica tramite un simporto elettroneutro, ma
attraverso dei canali, che andranno quindi a determinare uno squilibrio di cariche. Quando gli ioni Na +
entrano nelle cellule principali lasciano indietro delle cariche negative spaiate che attireranno il
potassio facilitandone l’uscita attraverso ROMK, e andranno a generare un gradiente elettrico
transluminale con negatività verso il lume. Questo gradiente elettrico spinge il Cl- a essere riassorbito
per via paracellulare. Questo mostra come l’espressione di un medesimo canale in cellule diverse
possa determinare effetti differenti.

ENaC e farmacologia
L’amiloride è un farmaco diuretico che riduce il riassorbimento di Na+ bloccando i canali ENaC.
Si può inoltre notare come la spinta che porta alla secrezione di K + sia data, oltre che dalla differenza di
concentrazione di K+, dalla negatività intraluminale che dipende dal riassorbimento di Na+ tramite i canali
ENaC, quindi se questo riassorbimento venisse bloccato, oltre all’effetto diuretico dovuto al calo di
riassorbimento di soluti, si avrebbe una riduzione del flusso in uscita di K+. Per questo motivo i diuretici di
cui la Amiloride fa parte sono detti risparmiatori di potassio.

 Cellule intercalate
Queste cellule hanno un ruolo
importante nel controllo
dell’equilibrio acido-base, in
particolare sono coinvolte
nell’assorbimento di HCO3-. Per
tale assorbimento sfruttano un
meccanismo simile a quello già
incontrato a livello del tubulo
prossimale e del segmento spesso
della branca ascendente dell’ansa di
Henle, con la differenza che a livello
della membrana apicale non si ha la
presenza di un simporto Na+/H+,
bensì di una pompa protonica,
quindi un trasporto attivo primario energizzato direttamente dall’ATP. Questa differenza è dovuta al
fatto che la fatica che si fa per riassorbire bicarbonato nelle porzioni più prossimali è scarsa in quanto
la pre-urina è molto ricca di bicarbonato (la concentrazione di HCO3- è elevata essendo la sua
concentrazione nel plasma elevata ed essendo questo in grado di filtrare liberamente). Nelle porzioni
più distali del nefrone, invece, la concentrazione di bicarbonato è molto bassa, essendo stato quasi
tutto riassorbito nelle porzioni precedenti, quindi il pH delle urine comincia a diventare acido.

440
Secernere ioni H+ in questo contesto richiede molta più energia dal punto di vista termodinamico. Per
questo motivo vengono utilizzati meccanismi accoppiati direttamente all’idrolisi dell’ATP invece che
a gradienti ionici.

Farmaci diuretici e loro effetti collaterali


Farmaci diuretici:
 Acetazolamide: inibisce l’anidrasi carbonica. In questo modo viene inibito il riassorbimento di
bicarbonato che è associato, nel tubulo prossimale, al riassorbimento del Na +. Vengono perciò
lasciati ioni nella pre-urina causando l’effetto diuretico soprattutto a livello del tubulo prossimale.
 Diuretici dell’ansa (es. furosemide): agiscono bloccando NKCC2.
 Diuretici tiazidici: agiscono bloccando il simporto Na+/Cl-, NCC. Questi lavorano nel tubulo
distale.
 Amiloride: agisce riducendo l’attivazione e la presenza dei canali ENaC, fungendo anche da
risparmiatore di potassio, senza però agire direttamente sui canali del K+.
 Diuretici osmotici: sostanze che sono delle osmoli che stanno nella pre-urina e che non possono
venire riassorbite. L’effetto diuretico dovuto al richiamo di acqua si riscontra in tutti livelli del
nefrone che sono permeabili all’acqua. Esempi: mannitolo.

Effetti collaterali:
 Diuretici dell’ansa e diuretici tiazidici: possono produrre una deplezione del volume del liquido
extracellulare. Questo porta a: stanchezza, sete, crampi muscolari e ipotensione arteriosa.
 Diuretici dell’ansa, tiazidici e acetazolamide: possono provocare una perdita di potassio. Se si
pensa ai diuretici dell’ansa, con essi si va a bloccare NKCC2 che, insieme a ROMK, serve per
generare la positività intraluminale a livello del segmento spesso della branca ascendente dell’ansa
di Henle. Questa positività permette il riassorbimento di K+. Bloccando NKCC2 non si ha perciò un
corretto riassorbimento di potassio a quel livello, rischiando l’ipokaliemia. Questa ha effetti
importanti sulle cellule eccitabili e può determinare aritmie cardiache. La perdita di K+ a seguito
dell’assunzione di questi farmaci dipende anche dalla sensibilità del riassorbimento distale del K+
al flusso di pre-urina (aspetto che verrà trattato quando si parlerà del bilancio del potassio).
 Amiloride e altri: possono produrre una ritenzione di K+ dovuta al blocco dei canali ENaC, infatti
questi determinano una negatività intraluminale a livello del tubulo distale che, grazie a ROMK,
permette l’uscita di K+. Bloccando ENac non si ha perciò una corretta uscita di K+ rischiando
l’iperkaliemia.
 Molti farmaci diuretici hanno anche effetti di interferenza sull’equilibrio acido base.

19.3. Clearance renale

Il Berne & Levy ricava la formula della clearance renale partendo dal bilanciamento di massa di sostanza in
entrata e in uscita dal rene. Nel rene entrano, tramite l’arteria renale, acqua e soluti: in particolare parlando dei
soluti, possiamo quantificare l’ammontare di sostanza che entra moltiplicando la concentrazione plasmatica
della sostanza in questione per il flusso plasmatico renale, con una formula che riecheggia quella del principio
di Fick già visto per la stima della gittata sistolica.
Ciò che esce dal rene invece può intraprendere due vie: quella dell’uretere e quella della vena renale.
Possiamo quantificare l’ammontare di sostanza eliminata attraverso l’urina moltiplicando la concentrazione di
questa nell’urina per il flusso di urina; allo stesso modo moltiplicando la concentrazione della sostanza nel
plasma della vena renale per il flusso plasmatico renale, otteniamo l’ammontare di sostanza che esce dal rene
attraverso la vena renale.
Applicando il bilanciamento di massa, possiamo scrivere:

𝑃𝑥𝑎 × 𝐹𝑃𝑅 𝑎 = 𝑃𝑥𝑣 × 𝐹𝑃𝑅 𝑣 + 𝑈𝑥 × 𝑉̇


Ingresso (arteria renale) = Uscita (vena renale + uretere)

441
P indica la concentrazione plasmatica di una sostanza x (che troviamo come pedice di P, mentre come apice
abbiamo a o v, che stanno rispettivamente per arteriosa e venosa).
𝑉̇ indica un volume nel tempo, quindi un flusso (in questo caso dell’urina).
Ux indica la concentrazione nell’urina della sostanza x.
FPR è il flusso plasmatico renale dove a o v indicano di nuovo arterioso o venoso.

Secondo il prof, ricavare l’equazione della clearance partendo da questo ragionamento è abbastanza
complesso e macchinoso, quindi preferisce un approccio più operativo partendo direttamente dalla formula. Il
resto della dimostrazione si trova sul libro di testo (cap. 33).

𝑼𝒙 ∙ 𝑽̇
𝐂𝐥𝐞𝐚𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞 =
𝑷𝒂𝒙
Analizzando la formula:
 al numeratore si ha la concentrazione della sostanza x nell’urina moltiplicata per il flusso di
quest’ultima, prodotto che rappresenta l’ammontare di sostanza x persa nell’unità di tempo
attraverso l’urina;
 al denominatore si ha invece la concentrazione plasmatica arteriosa della sostanza x.

Concettualmente la clearance mostra la quantità di sostanza eliminata dai reni con le urine, non in maniera
assoluta, ma normalizzando questo dato per la concentrazione plasmatica in entrata della sostanza. È un
indicatore in pratica dell’efficienza renale: trovare una quantità esigua di sostanza nelle urine, se la
concentrazione in entrata era al contrario molto alta, indica che il rene non è molto efficace nello smaltire
quella sostanza. Al contrario, la stessa quantità di sostanza nelle urine con una concentrazione plasmatica molto
inferiore rispetto al primo caso, indicano invece un’elevata efficacia del rene nello smaltire la sostanza x.
Dal punto di vista dimensionale, la clearance ha dimensioni di una portata: volume nel tempo. Infatti,
semplificando nella formula Ux e Pxa, entrambe concentrazioni, rimane solo V̇.
Partendo da questo concetto possiamo prendere in esame due casi particolari, che valgono per alcune sostanze
con delle determinate caratteristiche, in cui la clearance assume dei valori peculiari particolarmente rilevanti
dal punto di vista clinico.

Primo caso: la sostanza x è tale per cui l’ammontare di sostanza eliminata nel tempo attraverso le urine
(anche detto carico escreto = UX ·V̇) è pari al carico filtrato della sostanza (VFG·Pxa).
𝑈𝑥 ∙ 𝑉̇ = 𝑃𝑥𝑎 ∙ 𝑉𝐹𝐺

Questo si verifica se la sostanza presa in esame:


 filtra liberamente: questa condizione ci permette di utilizzare come concentrazione da moltiplicare per
VFG la concentrazione plasmatica al posto di quella dell’ultrafiltrato (sarebbe molto più complessa da
misurare);
 non è riassorbita dal tubulo;
 non è secreta dal tubulo.
Una volta verificate le condizioni che rendono vera l’equazione sopra riportata, dividendo per Pxa da entrambe
le parti dell’uguale otteniamo che per questa sostanza la clearance renale è uguale alla velocità di filtrazione
glomerulare, indicatore importantissimo per la funzionalità renale.

𝑈𝑥 ∙ 𝑉̇ 𝑃𝑥𝑎 ∙ 𝑉𝐹𝐺
= → Clearance = 𝑉𝐹𝐺
𝑃𝑥𝑎 𝑃𝑥𝑎

Secondo caso: la sostanza x è tale per cui la sua concentrazione nel plasma venoso renale è uguale a 0.
𝑃𝑥𝑣 = 0

Questo si verifica se la sostanza presa in esame:


 filtra liberamente;
 non è riassorbita dal tubulo;

442
 è soggetta a fenomeni di secrezione molto intensi, in quanto solo tramite la secrezione, oltre alla
filtrazione iniziale, è possibile rendere la concentrazione plasmatica a valle dei capillari peritubulari
pari a 0. 10

Se la concentrazione plasmatica venosa di x è pari a 0, vuol dire che tutto l’ammontare di sostanza che entra
nell’organo attraverso l’arteria è espulso attraverso l’urina; questo ci permette di togliere dal bilanciamento di
massa la componente in uscita venosa e scrivere:

𝐹𝑃𝑅 ∙ 𝑃𝑥𝑎 = 𝑈𝑥 ∙ 𝑉̇

Da questa equazione, dividendo da entrambe le parti dell’uguale per Pxa otteniamo che la clearance è pari al
flusso plasmatico renale.

𝐹𝑃𝑅 ∙ 𝑃𝑥𝑎 𝑈𝑥 ∙ 𝑉̇
= → Clearance = 𝐹𝑃𝑅
𝑃𝑥𝑎 𝑃𝑥𝑎

Applicazioni del primo caso: clearance dell’inulina e della creatinina


N.B. Questo è un punto della tesina precedente, Funzioni del glomerulo renale.
Non esistono sostanze esogene che rispettino le caratteristiche fondamentali di applicabilità del primo caso,
ma ne esistono di esogene: un esempio perfetto è l’inulina, polimero artificiale del fruttosio. Questa soddisfa
alla perfezione i parametri necessari, e viene infatti utilizzata come metro di paragone per valutare la clearance
renale di altre sostanze. Lo svantaggio sta nel fatto che essendo una sostanza non propria del nostro organismo,
per valutarne le varie concentrazioni è necessario iniettarla: per questo non viene utilizzata in clinica.
La VFG è fondamentale per valutare la funzionalità renale, in particolare del glomerulo, permettendo di
quantificare un eventuale danno. Per questo, nonostante l’impossibilità di misurarla sui pazienti iniettando
inulina, viene utilizzata una sostanza propria del nostro organismo che si avvicina il più possibile all’efficacia
dell’inulina per la valutazione della VFG: la creatinina. Questa è un prodotto di scarto della degradazione
delle proteine muscolari, che viene eliminata con le urine. La creatinina:
 filtra liberamente;
 non è riassorbita (in quanto prodotto di scarto);
 al contrario dell’inulina, la creatinina viene secreta (sempre in quanto prodotto di scarto), andando a
diminuire la sua efficacia nel valutare la VGF: infatti il carico escreto con le urine è leggermente
maggiore del carico filtrato (all’incirca del 10%). Bisognerà dunque aggiustare di un fattore 1,1 la
formula.
𝑈𝑥 ∙ 𝑉̇ ≅ 1,1 ∙ (𝑃𝑥𝑎 ∙ 𝑉𝐹𝐺)

Questo errore oltre a non essere eccessivamente grande, è compensato da un errore laboratoristico di segno
opposto nel dosaggio della creatinina (è leggermente sottostimata), motivo per cui l’errore è in realtà inferiore
al 10%.
Nonostante queste semplificazioni, rimangono dei problemi da risolvere che riguardano la misurazione delle
concentrazioni: per quanto riguarda la concentrazione plasmatica arteriosa, sappiamo che le concentrazioni di
creatinina nelle arterie e nelle vene sono praticamente uguali, motivo per cui è sufficiente un prelievo venoso;
resta da risolvere il problema della concentrazione nell’urina. Al contrario di quello che si potrebbe pensare,
non basta analizzare un campione di urina del paziente in quanto questa modalità non ci permette di avere il
secondo dato necessario, ovvero quello del flusso di urina (V̇) nell’unità di tempo (ad esempio 24 ore): si
dovrebbe quindi procedere a raccogliere l’urina prodotta durante tutta la giornata. Questo chiaramente
rappresenta un limite se il paziente non è ospedalizzato, non avendo a disposizione un catetere e gli strumenti
adatti per preservare da alterazioni chimiche l’urina eventualmente raccolta. Per risolvere questa
complicazione si può applicare un’ulteriore semplificazione che ha le sue basi proprio nella fisiologia: la
concentrazione plasmatica nel sangue di creatinina è all’incirca costante, il che vuol dire che in condizioni
fisiologiche, tanta creatinina viene prodotta nel sangue in seguito a degradazione delle proteine cellulari,

10
Nel primo caso invece la concentrazione della sostanza era uguale tra capsula del Bowman e capillari glomerulari, e,
vista l’assenza di fenomeni secretori o di assorbimento, anche tra l’urina e il plasma della vena renale.

443
tanta ne viene eliminata dai reni con le urine. Questo assunto non è da prendere per vero in assoluto, in quanto
ci sono condizioni in cui questo non vale che hanno rilevanza dal punto di vista clinico: ad esempio, in seguito
ad un trauma che comporti lesioni a livello del tessuto muscolare scheletrico, la degradazione delle proteine
cellulari aumenterà a livello dei tessuti coinvolti, con conseguente aumento della concentrazione plasmatica di
creatinina. Il rene poi si farà carico di questo surplus di creatinina determinato dalla rabdomiolisi, che può
avere effetti anche gravi sulla funzionalità renale andando a sovraccaricare l’organo. Escludendo questo caso
particolare, si ritorna ora all’assunto per cui la quantità di creatinina prodotta è uguale alla quantità di creatinina
eliminata (o carico escreto). Visto che si sta parlando della creatinina, questa ha caratteristiche tali da poter
affermare che il carico escreto di creatinina è pari al suo carico filtrato di essa (VFG·Pxa); possiamo quindi
scrivere che:

𝑃𝑥𝑎 ∙ 𝑉𝐹𝐺 = 𝑘

Questa è l’equazione di un’iperbole quadratica, dove:


 in ascissa si ha la VFG;
 in ordinata la concentrazione plasmatica di creatinina.
Utilizzando un grafico di questo tipo, è possibile tramite un
semplice prelievo di sangue venoso in cui viene dosata la
concentrazione plasmatica di creatinina, stimare la VFG con un
processo minimamente invasivo. Ovviamente misurare la VFG in
questo modo piuttosto che misurando direttamente tutte le
concentrazioni, permette di risparmiare in termini di tempo e
costo, ma a pagarne è l’accuratezza. Infatti, il grafico è
un’iperbole, e questo comporta che:
 riduzioni anche significative della VFG (ad es., da 130 a
110) comportano piccolissimi aumenti della
concentrazione plasmatica di creatinina in quanto la curva
all’estremità destra è appiattita;
 viceversa, per soggetti che hanno la VFG compromessa (valori bassi), anche piccole diminuzioni di
questa si traducono in variazioni marcate della creatininemia; infatti la parte più a sinistra della curva
è quasi verticale.
L’accuratezza di questo metodo resta comunque sufficientemente buona, tanto da essere preferita a metodi
più invasivi in assenza di necessità di avere misurazioni più precise (come in caso di patologie renali accertate
con relativo pericolo elevato, in cui si procede nell’analizzare la clearance renale della creatinina tramite la
raccolta delle urine nelle 24h).

Applicazione del secondo caso: clearance dell’acido para-amino-ippurico


Una sostanza che soddisfa i criteri del secondo caso citato è l’acido para-amino-ippurico (o para-amino-
ippurato, PAH); tuttavia questo vale solo a basse concentrazioni plasmatiche, poiché se la concentrazione
ematica si alza, i fenomeni di secrezione nel tubulo prossimale non sono più sufficienti per rendere la
concentrazione della sostanza nel plasma venoso renale pari a zero. Per questo motivo tale sostanza può essere
usata, in ambito di ricerca, per stimare il flusso plasmatico renale, mentre non è utilizzata a livello clinico
pratico. Oltre a ciò, storicamente il PAH è stato anche utilizzato per aumentare i livelli plasmatici di
penicillina, in quanto, lavorando con lo stesso sistema di trasporto della penicillina nel tubulo prossimale,
instaura un meccanismo di competizione con essa andando a ridurre la clearance dell’antibiotico e favorendone
dunque il suo permanere nel plasma.

19.4. Controllo renale dell’omeostasi del potassio

Nota. Il punto seguente è stato spiegato dopo la tesina Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei.

Per comprendere il bilancio del potassio è necessario conoscere le funzioni del sistema renina-angiotensina-
aldosterone e dell’ADH in quanto:

444
 le porzioni più distali del tubulo renale secernono potassio tramite ROMK e ciò dipende dall’azione
dell’aldosterone;
 un meccanismo di perturbazione possibile del riassorbimento renale di potassio dipende dal flusso di
pre-urina che a sua volta dipende non solo dalla velocità di filtrazione glomerulare e dal riassorbimento
prossimale, ma anche dal riassorbimento distale di acqua che è in funzione dell’ormone antidiuretico.
Il potassio è uno ione assai importante dal punto di vista clinico poiché la conduttanza a riposo delle cellule
eccitabili al potassio è particolarmente elevata. Infatti, il potenziale di membrana a riposo delle cellule si
avvicina al potenziale di equilibro del potassio e questo fa sì che una variazione del potenziale di equilibro del
potassio provochi una modificazione del potenziale di membrana. Il potenziale di equilibro del K +, secondo
l’equazione di Nernst, dipende dal rapporto tra le concentrazioni di potassio fuori e dentro la cellula. [K +]
nell’interstizio è in equilibro con [K+] nel plasma, che è chiamata kaliemia.

61.5 mV [K + ]𝑜𝑢𝑡
𝐸K = log +
𝑧𝑥 [K ]𝑖𝑛

Alterazioni della kaliemia causano una riduzione di eccitabilità:


[K+ ] out
 iperkaliemia (aumento [K+] nel sangue)  aumento del rapporto [K+ ] in
 potenziale di equilibrio
del potassio diventa meno negativo  depolarizzazione progressiva  stato inattivo canali
voltaggio-dipendenti del Na+ riduzione dell’eccitabilità;
[K+ ] out
 ipokaliema (riduzione [K+] nel sangue)  diminuzione del rapporto [K+ ] in
 potenziale di equilibro
del potassio diventa più negativo  iperpolarizzazione → riduzione eccitabilità.
Queste variazioni a livello cardiaco possono avere degli effetti drammatici poiché aumentano la probabilità
di insorgenza di aritmie: viene meno la capacità di pompaggio del cuore e si blocca la perfusione di sangue nei
tessuti, cosicché le cellule non possono sopravvivere.

Bilancio del potassio


Il mantenimento del bilancio del potassio rappresenta un processo di non facile esecuzione da parte
dell’organismo poiché vi è uno squilibrio.
L’organismo umano comunica con l’ambiente esterno in termini di massa attraverso il liquido extracellulare:
infatti il riassorbimento del cibo avviene in prima battuta nell’interstizio. [K +] nell’interstizio è molto bassa
(circa 4 mM) e quindi basta poco per spostare questa concentrazione in maniera significativa dal valore iniziale
creando così un potenziale rischio di alterazione dell’eccitabilità di membrana.

Perché vi è uno spostamento della [K+] extracellulare?


Un pasto medio equilibrato contiene una quantità di K+ di circa 30 mmol (sono numeri orientativi, non è
necessario conoscerli nel dettaglio, ma è bene avere l’idea dell’ordine di grandezza). Se tale concentrazione
fosse disciolta interamente nell’interstizio, il cui volume è di circa 14 litri, causerebbe un aumento della
concentrazione di 2,4 mM (stesso ordine di grandezza della [K+]out), che corrisponde ad un aumento della
kaliemia di oltre il 50%. Perciò il rischio di alterare il bilancio del potassio è significativo ad ogni pasto.

445
Il problema è risolto dal fatto che parte del potassio ingerito, appena arriva nel liquido extracellulare, viene
trasferito immediatamente nel liquido intracellulare ma non direttamente in quanto deve attraversare il
liquido interstiziale dove rimane il meno possibile.
Ciò avviene grazie all’azione di alcuni ormoni:
1. l’adrenalina, prodotta dalla midollare del surrene sotto stimolazione delle fibre pre-gangliari del
sistema nervoso simpatico;
2. l’insulina, rilasciata dal pancreas endocrino, è implicata nella regolazione metabolica dopo i pasti ed
è l’ormone che viene a mancare in modo assoluto (tipo I) o in termine di capacità di azione (tipo II)
nei pazienti affetti da diabete mellito;
3. l’aldosterone.
Questi tre ormoni vengono stimolati dopo ogni pasto, in particolare il rilascio di insulina e aldosterone è
stimolato direttamente dall’iperkaliema, che consegue al fatto che il potassio ingerito, almeno in un primo
momento, è disciolto nell’interstizio.
Questi ormoni sono coinvolti, quindi, nella ricaptazione di potassio all’interno delle cellule, che avviene con
un ritardo piuttosto breve, nell’ordine dei minuti.
Le cellule che trasportano al loro interno potassio, in risposta agli ormoni, sono primariamente le cellule del
muscolo scheletrico ma anche quelle del fegato, dell’osso e gli eritrociti.
I meccanismi sono diversi, per esempio:
 simporto Na+/K+/2Cl- (della stessa famiglia di NKCC2);
 pompa Na+/K+ ATPasi.
Questo approccio però è efficace solo per un breve periodo. Per comprendere meglio è utile riportare un
esempio: il problema è lo stesso che si ha quando la polvere in casa viene spazzata sotto al tappeto; questa è
una soluzione rapida ma, nel tempo, la polvere accumulata sotto il tappeto sarà così tanta che ri-uscirà fuori.
In concreto non è possibile riempire all’infinito le cellule di potassio, però inizialmente viene sfruttato il grande
volume intracellulare di acqua per tamponare la concentrazione di potassio introdotta.
Sul lungo periodo (scala temporale delle ore) il potassio in eccesso sarà eliminato principalmente con le
urine, ma anche con le feci e con il sudore. Dunque, il rene ha un ruolo fondamentale perché risolve il problema
alla radice.
In sintesi. Il problema di un’elevata [K+] nel liquido extracellulare viene risolto:
 a lungo termine (richiede delle ore) con l’eliminazione renale;
 a breve termine (richiede minuti) portando potassio all’interno della cellula.

Ruolo del rene nel bilancio del potassio

A livello del glomerulo, il potassio viene filtrato liberamente perché ha dimensione ridotte; viene poi
riassorbito nel tubulo prossimale (tanto quanto il sodio in termini percentuali) il 67% del carico filtrato,
quindi la [K+] nel lume tubulare rimane pressoché costante perché è riassorbita in percentuale circa la stessa
quantità di acqua e di potassio. Il riassorbimento significativo avviene in particolare nella seconda parte del
tubulo prossimale, dove il potassio viene riassorbito grazie al trasporto paracellulare mediato dal gradiente
elettrico creato dal trasporto paracellulare passivo di cloro.

446
Il potassio viene riassorbito per il 20% nel
segmento spesso della branca ascendente
dell’ansa di Henle grazie al simporto NKCC2 che
porta dentro potassio; ROMK fa uscire il potassio
entrato, generando così un gradiente elettrico che
spinge il riassorbimento di potassio e altri cationi
per via paracellulare. Dal Boron: “la principale
funzione del canali ROMK è quella di fornire un
meccanismo per riciclare gran parte del K+ dalla
cellula al lume, cosicché la [K+] luminale non
scenda a livelli tanto bassi da mettere a rischio il
funzionamento del cotrasportatore Na+/K+/2Cl-.
Ciononostante, parte del K+ che entra nella cellule
attraverso NKCC2 fuoriesce dalla membrana
baso-laterale, il che rende conto del
riassorbimento transcellulare netto di K+” (che si
va a sommare al riassorbimento paracellulare per
gradiente elettrico).
Nel tubulo distale e nel dotto collettore, vi sono due alternative:
 in una condizione di deplezione di potassio è necessario trattenere potassio, quindi sia il tubulo distale
che il collettore lo riassorbono in maniera importante arrivando ad eliminare con l’urina 1% del carico
filtrato di potassio che corrisponde ad un riassorbimento complessivo del 99% (percentuale analoga a
quella del Na+);
 in condizione di concentrazioni di potassio aumentate o normale prevale la secrezione nel tubulo
distale e nel dotto collettore cosicché nelle urine sia presente dal 15% all’80% del carico filtrato di
K +.
Ricapitolando. Il potassio è filtrato liberamente; nel tubulo prossimale e nel segmento spesso della branca
ascendente dell’ansa di Henle vi è un riassorbimento di potassio indipendente dalla kaliemia, mentre nelle
porzioni distali del nefrone può esserci o un riassorbimento netto o una secrezione netta che può cambiare
molto la percentuale del carico di filtrato di potassio che troviamo nelle urine.

Meccanismi di trasporto renale del potassio


Nella porzione terminale del nefrone l’ingresso del
sodio avviene tramite ENaC, un processo facilitato
dall’aldosterone, che crea un gradiente elettrico
negativo verso il lume, poiché il sodio lascia dietro
delle cariche negative spaiate: questo facilita l’uscita
di potassio tramite ROMK.11
Nel tubulo distale le cellule presentano un ciglio che
può piegarsi sotto la spinta di pre-urina. Il piegamento
del ciglio attiva dei meccanismi di trasduzione del
segnale intracellulare che fanno entrare calcio
all’interno delle cellule: il Ca++ aumenta l’attività di
ROMK, oltre ad attivare un altro canale (nel disegno
non riportato) chiamato maxi-canale del potassio
(rbsol1). La possibilità del potassio di uscire dalla
cellula per entrare nel liquido tubulare aumenta,
quindi, più aumenta il flusso di pre-urina più

11
Il discorso qui è un po’ semplificato. In realtà il potassio non esce solo attraverso ROMK ma anche attraverso altri
trasportatori (il Berne & Levy cita un simporto K+/Cl-) ed è guidato non solo dal gradiente elettrico. Dal Berne & Levy:
“I tre maggiori fattori che controllano il rate della secrezione di K + da parte del segmento finale del tubulo distale e del
dotto collettore sono: 1. L’attività della Na+/K+ ATPasi, 2. La forza trainante (gradiente elettrochimico per i canali del K+
e gradiente di concentrazione chimica per il simporto K+/Cl-), 3. La permeabilità dei canali del K+ della membrana apicale
al K+.”

447
potassio viene secreto all’interno nella pre-urina. Questo costituisce un meccanismo di disturbo.

Il flusso di pre-urina dipende dal carico filtrato, dal riassorbimento di acqua nel tubulo prossimale e nel
segmento sottile discendente dell’ansa di Henle ma, principalmente, dipende da quanta acqua viene assorbita
a livello distale e quindi da quanto ormone antidiuretico è presente.

I principali fattori e ormoni che influenzano l’escrezione di K+ si dividono in:


1) fisiologici: mantengono costante il bilancio di K+;
2) fisiopatologici: alterano il bilancio di K+.

Fattori fisiologici
 Iperkaliemia:
- stimola a breve termine la Na+/K+ ATPasi;
- aumenta la permeabilità apicale al K+;
- inibisce il riassorbimento prossimale, quindi vi è un aumento del flusso di pre-urina a
livello distale, a parità di acqua che viene riassorbita tramite l’ormone antidiuretico, e viene
eliminato così più potassio (il riassorbimento di acqua tramite ADH in condizioni di
iperkaliemia funziona peggio).
 Aldosterone:
- ha degli effetti trascrizionali: aumenta l’espressione della Na+/K+ ATPasi, di ENaC, di SgK1,
di CAP1 (detta anche prostatina, attiva direttamente ENaC); in questo modo potenzia l’attività
delle proteine che contribuiscono direttamente e indirettamente alla secrezione di potassio;
- stimola il riassorbimento di Na+ e di acqua, dunque, riduce il flusso tubulare (col tempo
quest’ultimo effetto è compensato dall’aumento del liquido extracellulare). L’aldosterone di
per sé non permette il riassorbimento di acqua ma di sodio: il sodio che viene riassorbito
finisce nell’interstizio dove provoca un aumento dell’osmolarità interstiziale che attirerà più
acqua, che verrà riassorbita in seguito all’azione dell’ADH. Il riassorbimento d’acqua genera
un calo del flusso di pre-urina, il ciglio si piegherà meno e la secrezione del potassio diminuirà.
Riassumendo: maggior riassorbimento di Na+ ad opera dell’aldosterone  aumento
dell’osmolarità interstiziale più acqua viene attirata  riassorbimento di acqua grazie
all’ADH  diminuzione flusso pre-urina  diminuzione della secrezione di K+.
Quindi, l’aldosterone stimola la secrezione del potassio in maniera diretta ed indiretta con effetti
trascrizionali e post-traduzionali sui recettori ma può anche ridurre la secrezione di potassio riducendo
il flusso di pre-urina.
L’aldosterone può essere rilasciato per due ragioni primarie:

448
1. a causa dell’attivazione del sistema renina-
angiotensina-aldosterone che avviene
quando è necessario aumentare pressione
arteriosa in seguito, per esempio, a una
riduzione del volume ematico. Se cala la
pressione, si attiva il baroriflesso, quindi,
aumenta l’attività simpatica all’arteriola
afferente e viene rilasciata più renina.
Inoltre, un calo di pressione riduce la
velocità di filtrazione glomerulare, riduce il
carico filtrato di sodio e di cloro che arriva
alla macula densa e di conseguenza la
secrezione di renina aumenta. In questa
situazione il flusso di pre-urina è già basso
perché la pressione bassa causa appunto una
diminuzione della filtrazione. L’aldosterone
permette di risolvere ciò grazie al
riassorbimento di sodio sia a livello renale
che intestinale, che in presenza di ADH e del
meccanismo della sete efficienti, porta ad un
aumento della volemia. Dunque, un
problema di pressione troppo bassa, che
scatena l’attivazione del sistema renina-
angiotensina-aldosterone, è risolto grazie
all’azione dell’aldosterone che permette un
ritorno a valore originale di volemia.
Oltre a tale funzione, l’aldosterone stimola
la secrezione di potassio come detto
precedentemente. Ciò potrebbe apparire
come un difetto del sistema, perché non c’è
nessun motivo di abbassare la kaliemia in
questa situazione,
ma in realtà è alla
base di un
meccanismo
raffinatissimo. Infatti, quando l’aldosterone è rilasciato in seguito
all’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone, l’effetto di
riduzione del flusso di pre-urina causa inevitabilmente una
diminuzione della secrezione di potassio (per il meccanismo del
ciglio): tale diminuzione è efficacemente controbilanciata
dall’aumento della secrezione di potassio determinata da meccanismi
ionici. In breve, tale meccanismo impedisce di andare incontro ad
iperkaliemia (che potrebbe esser causata dalla riduzione del flusso di
urine) quando si mette in atto una risposta di difesa nei confronti di cali
pressori.
2. In maniera isolata la secrezione di aldosterone non è associata all’attivazione del sistema
renina-angiotensina-aldosterone e quindi non vi è una condizione di ipovolemia iniziale.
L’aldosterone risponde direttamente a livello della corticale del surrene ad un aumento della
kaliemia e non necessariamente ai livelli di angiotensina II. Nel caso di risposta ad aumenti
della kaliemia, il filtrato è potenzialmente elevato perché, in condizioni di iperkaliemia, il
riassorbimento prossimale è parzialmente compromesso. L’aldosterone avrà un effetto di
riduzione del flusso di pre-urina distale modesto, perché il flusso di pre-urina distale di
partenza è sufficientemente elevato. Tende comunque a riassorbire sodio e se ADH e sete
funzionano ed il bilancio del sodio è positivo anche acqua e ciò si tradurrà con volemia
aumentata. In condizione di ipervolemia causata dall’aumentato rilascio di aldosterone
conseguente alla condizione di iperkalemia, il flusso della pre-urina distale è ampiamente

449
elevato e quindi l’effetto di stimolazione di secrezione di potassio può manifestarsi in maniera
libera.
In sintesi. L’aldosterone ha un duplice effetto:
1. Riassorbimento di sodio e se ADH e sete funzionano anche di acqua  aumento della
volemia.
2. Stimolazione della secrezione di potassio.
Questi due effetti interagiscono perché il riassorbimento di sodio mediato dall’aldosterone,
accompagnato dal riassorbimento d’acqua mediato dall’ADH, riduce il flusso distale di pre-urina, che
riduce la secrezione di potassio. L’effetto volemico dell’aldosterone interagisce con l’effetto della
secrezione di potassio dell’aldosterone.
 Se l’aldosterone è rilasciato in seguito all’attivazione del sistema renina-angiotensina-
aldosterone  il flusso distale di pre-urina è basso (a causa di una minor filtrazione e un
maggior riassorbimento)  i meccanismi di escrezione del potassio regolati dal flusso fanno
sì che la secrezione di potassio cali → la ridotta secrezione di K+ aumenta il rischio di
iperkaliemia  l’aldosterone stimola la secrezione di potassio mediante meccanismi ionici e
compensa il rischio  la difesa dall’ipotensione può avvenire senza causare iperkaliemia.
 Se l’aldosterone è rilasciato sotto la spinta dello stimolo kaliemico (indipendentemente da
renina e angiotensina)  stimolazione della secrezione di potassio → ritorno al punto di
partenza. Durante questo ciclo però l’aldosterone favorisce anche il riassorbimento di sodio e,
se è presente ADH, di acqua  diminuzione del flusso di pre-urina (anche se non diminuisce
così tanto come nel caso di ipovolemia) → cala in parte la secrezione di potassio, a causa dei
meccanismi legati al flusso. Inizialmente l’aldosterone dunque non è molto efficiente nella
stimolazione dell’eliminazione di potassio ma col passare del tempo, continuando a riassorbire
sodio si ha  aumento della volemia  aumento della filtrazione renale  riduzione del
riassorbimento  aumento del flusso di pre-urina e infine  stimolazione della secrezione di
potassio anche per i meccanismi legati al flusso. In conclusione, l’eliminazione del potassio a
livello renale ad opera dell’aldosterone richiede tempo.
Altri fattori che influenzano il bilancio del potassio sono:
 velocità di flusso del liquido tubulare;
 glucocorticoidi: sono in grado di legare i recettori per i mineralcorticoidi;
 equilibrio acido-base:
- l’acidosi metabolica dovuta ad un eccesso di acidi inorganici, causa acutamente iperkaliemia
(dal Berne & Levy: ciò avviene molto meno in caso di acidosi generata da accumulo di acidi
organici);
- l’alcalosi causa ipokaliemia. Questo è dovuto allo scambio di cationi tra citoplasma e liquido
interstiziale, oltre che per una modulazione dei meccanismi di trasporto ionico. Se l’effetto
dell’aldosterone a livello distale non viene compensato, si ha un potente riassorbimento di
sodio tramite ENaC ed un potenziale elettrico negativo nella pre-urina. Si ha una maggiore
eliminazione di potassio ma anche una maggiore eliminazione di ioni H+ perché tra le cellule
principali ci sono quelle intercalate che secernono ioni H tramite l’ATPasi-protonica. Dunque,
l’alcalosi è legata all’ipokaliemia perchè in queste condizioni a livello renale vengono
eliminati sia ioni potassio che idrogeno.
Dal Berne & Levy: “L’acidosi metabolica aumenta la [K+] plasmatica, mentre l’alcalosi metabolica la
fa calare. L’alcalosi respiratoria causa ipokaliemia. Al contrario, l’acidosi respiratoria ha scarso o
nessun effetto sulla [K+] plasmatica. L’acidosi metabolica prodotta da un aumento di acidi inorganici
(e.g. HCl, H2SO4) aumenta la [K+] plasmatica molto di più di un’equivalente acidosi prodotta
dall’accumulo di acidi organici (e.g., acido lattico, acido acetico, chetoacidi). Il ridotto pH (i.e.,
l’aumentata [H+]) promuove il movimento di H+ nelle cellule e il reciproco movimento di K+ fuori
dalla cellule per mantenere l’elettroneutralità. Questo effetto si verifica in parte perché l’acidosi
inibisce i trasportatori che accumulano K+ dentro le cellule, inclusa la Na+/K+ ATPasi e il simporto
Na+/K+/2Cl-. […] L’alcalosi metabolica ha l’effetto opposto; la [K +] plasmatica cala perché K+ entra
nelle cellule e H+ esce.”
Sempre dal Berne & Levy: A livello renale un’acidosi acuta genera una ridotta secrezione di potassio
da parte del tubulo distale e del dotto collettore e quindi iperkaliemia, mentre un’acidosi cronica ha
degli effetti più complessi, osservabili nella figura alla pagine seguente.

450
Ipokaliemia e iperkaliemia: approfondimento dal Berne & Levy
Un’ipokaliemia cronica ([K+] plasmatica < 3.5 mEq/L) è spesso osservabile in pazienti che assumono diuretici per
curare l’ipertensione (sebbene esistano dei diuretici, detti risparmiatori di potassio, che riescono efficacemente a evitare
questo effetto collaterale). L’ipokaliemia si verifica anche nei soggetti con vomito prolungato, in quelli sottoposti a
suzione naso gastrica, con diarrea, che abusano di lassativi o sono affetti da iperaldosteronismo. L’ipokaliemia si
verifica perché l’escrezione renale di K+ supera l’assunzione dietetica di questo ione. I soggetti con vomito prolungato,
che sono stati sottoposti a suzione naso-gastrica o che hanno diarrea, subiscono una riduzione del volume del LEC in
grado di stimolare la secrezione di aldosterone, un ormone che, a sua volta, stimola la secrezione di K + da parte del
rene, contribuendo, quindi allo sviluppo di ipokaliemia.
L’iperkaliemia cronica ([K+] plasmatica > 5 mEq/L) si verifica più spesso nei soggetti che hanno un ridotto flusso
urinario, una bassa concentrazione plasmatica di aldosterone o che sono affetti da malattie renali in cui la velocità di
filtrazione glomerulare si riduce a meno del 20% del normale. In questi pazienti, l’iperkaliemia si sviluppa perché
l’escrezione renale di K+ è inferiore all’assunzione dietetica di questo ione. Cause meno frequenti di iperkaliemia sono
le carenze di insulina, di adrenalina o di aldosterone, o le acidosi metaboliche provocate da acidi organici.
Un’iperkaliemia acuta può osservarsi invece in caso di rabdomiolisi, emolisi e in generali in tutte le situazioni in cui si
ha una massiccia distruzione delle cellule. (Una curiosità dal Boron: “L’intossicazione da digitale, un glicoside
cardiaco che inibisce la Na/K ATPasi, è un’altra rara causa di iperkaliemia derivante da ridistribuzione del K+”).

451
20. Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei

20.1. Compartimenti idrici dell’organismo

L’acqua totale corrisponde al 60% del peso corporeo: la maggior parte di questa, circa il 40% del peso
corporeo, si ritrova all’interno delle cellule (LIC, liquido intracellulare), mentre, al di fuori, il restante 20% si
suddivide tra l’interstizio, che ospita il 15% del peso corporeo, e il plasma, con il 5% (complessivamente liq.
interstiziale + plasma sono detti LEC, liquido extracellulare). Di fatto, quest’ultimo dato non indica che il
volume del sangue è pari al 5% del peso corporeo poiché il plasma, oltre a contenere lipidi e proteine, è
associato all’interno dei vasi agli elementi corpuscolati (piastrine, globuli bianchi e, soprattutto, globuli rossi):
vi è infatti un rapporto volumetrico, definito ematocrito, tra il volume degli elementi corpuscolati nel sangue
e il volume del sangue stesso, che corrisponde al 45% e gioca un ruolo importante nel determinare la viscosità
apparente del sangue. Questa percentuale è molto vicina al 50% perciò, con una buona approssimazione, si
può affermare che la quantità di sangue sia il doppio dell’acqua plasmatica (i 5-6 litri di sangue contengono 3
L di plasma ca.).

La composizione dei liquidi intracellulare ed extracellulare è molto diversa. In particolare, fuori dalle cellule,
l’acqua è ricca di Na+, mente all’interno la soluzione è molto più ricca di K+. Gli ioni HCO3- sono
maggiormente concentrati nel liquido extracellulare, nello specifico a una concentrazione di 22-30 mM: questo
è in grado di spiegare perché il carico filtrato di bicarbonato sia così importante e perché il tubulo renale debba
sfruttare diversi meccanismi indiretti, come l’antiporto Na+/H+ nel tubulo prossimale e nel segmento spesso
del tratto ascendente dell’ansa di Henle e le pompe ATPasiche protoniche nel tubulo distale, per riassorbirlo.
La concentrazione extracellulare del calcio è molto alta rispetto alla sua concentrazione nel citoplasma (la
quale corrisponde a 10-4 mM), ma, se la confrontiamo con quella di altri cationi presenti a livello del liquido
extracellulare, essa è molto più bassa. Lo stesso potassio, che è assai poco abbondante nel LEC, arriva a una
concentrazione su base molare fino a 4-5 volte maggiore rispetto a quella del calcio.
Le proteine sono presenti all’interno del plasma, all’interno delle cellule, ma non all’interno dell’interstizio
per cause legate alla permeabilità dell’endotelio.

I diversi compartimenti sono separati l’uno dall’altro da delle membrane che permettono il passaggio, in
linea generale, sia di acqua sia di soluti. Importante ricordare che vi sono casi particolari in cui le membrane
possono essere più o meno permeabili a determinate sostanze. Le differenze sono essenzialmente quantitative:
il flusso d’acqua attraverso queste membrane è quantitativamente superiore al flusso di osmoli, quindi è
possibile approssimare queste barriere tra i compartimenti cellulari a membrane semipermeabili.
Il fatto che ci sia un flusso d’acqua così importante fa si che, non appena si genera uno squilibrio di osmolalità
tra un compartimento e l’altro, immediatamente questo venga controbilanciato dal movimento dell’acqua
stessa: in sintesi, queste modificazioni possono evidentemente avvenire, tuttavia hanno breve durata, in modo
tale da garantire un’osmolalità nei diversi distretti pressoché costante in un intervallo di valori di 275-295
mOsm/Kg.

452
Il flusso d’acqua attraverso una data membrana è pari al prodotto della superficie della membrana, della
conduttività idraulica della membrana stessa e del termine tra parentesi, che consiste nella differenza di
pressione idraulica vigente nei due compartimenti, a cui viene sottratto il prodotto tra la differenza di pressione
osmotica e il coefficiente di riflessione.

𝐽𝐻2 0 = 𝑆𝐿(∆𝑃 − 𝜎∆𝜋)

Il coefficiente di riflessione 𝜎 è definito come rapporto tra la differenza di pressione osmotica osservata,
ossia determinata sulla base del flusso d’acqua che essa spinge, e la differenza di pressione osmotica
calcolabile mediante la legge di Vant’Hoff. Questa legge prende in considerazione la costante dei gas, la
temperatura assoluta in gradi Kelvin (è possibile considerare la temperatura nei sistemi biologici
dell’organismo come costante) e la differenza di osmolarità. In sintesi, il coefficiente di riflessione è quindi un
rapporto che presenta al numeratore la differenza di pressione osmotica osservabile valutando il flusso d’acqua
attraverso una membrana e, al denominatore, la differenza di pressione osmotica calcolabile sulla base
dell’osmolarità.
∆𝜋𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑡𝑎
𝜎=
∆𝜋
∆𝜋 = 𝑅𝑇∆𝑂𝑠𝑚

Se l’effetto della presenza di una determinata pressione osmotica sul flusso d’acqua corrisponde esattamente
a quello che è possibile prevedere sulla base della differenza di osmolarità tra i due compartimenti, allora il
coefficiente di riflessione ha valore unitario (membrane perfettamente semipermeabili): l’equazione del flusso
d’acqua si riduce quindi al prodotto 𝑆𝐿(∆𝑃 − ∆𝜋). Nel caso in cui, invece, il flusso d’acqua per osmosi non
sia prevedibile esattamente sulla base dell’osmolarità, è necessario tener conto, all’interno della formula, del
coefficiente di riflessione, il quale assume un valore minore di 1 per membrane che non sono perfettamente
semipermeabili.
In linea generale, le membrane biologiche dell’organismo, ossia quelle interposte tra le cellule e l’interstizio
e tra questo ed i vasi, non sono perfettamente semipermeabili. In particolare, possono essere presenti, in
determinati distretti, membrane che permettono il passaggio sia di acqua sia di soluti, ad esclusione delle
proteine: si tratta della situazione studiata parlando dell’applicazione dell’equilibrio di Starling-Landis, sia
nella versione classica sia nella versione aggiornata. In questo caso, si va a considerare solamente la quota di
differenza di pressione osmotica per la quale il coefficiente di riflessione è unitario, ossia la differenza di
pressione oncotica.
Vi è un equilibrio osmotico tra il liquido extracellulare e il liquido intracellulare, il quale deriva dal fatto che
il flusso d’acqua attraverso le membrane (l’endotelio e la membrana basale dei capillari da un lato e la
membrana cellulare dall’altro) è molto maggiore rispetto al flusso di componenti osmoticamente attivi.
L’esistenza di questo bilanciamento, assieme all’esistenza di meccanismi omeostatici molto potenti che
controllano l’osmolarità dei fluidi corporei, ha delle ripercussioni rilevanti.
L’equilibrio osmotico indica che l’osmolarità è uguale in tutti i compartimenti: nel caso in cui vi fossero
differenze, esse sono transitorie. I due meccanismi messi in atto dall’organismo per il mantenimento
dell’osmolarità dei fluidi corporei, la sete e l’azione dell’ormone antidiuretico, sono definiti omeostatici
poiché assicurano il mantenimento dell’omeostasi. Il termine omeostasi è stato coniato nei primi anni del ‘900
da Walter Cannon, un fisiologo che lavorava ad Harvard, e fa riferimento al mantenimento dell’ambiente
interno dell’organismo (in altre parole dei liquidi biologici) in termini di composizione circa costante. La
composizione non è quindi fissa, assolutamente invariabile, ma in grado di modificarsi lievemente attorno a
dei valori di riferimento. Un parametro chiave della composizione dell’ambiente interno dell’organismo è,
appunto, l’osmolalità: meccanismi che permettono di mantenerla entro un intervallo piuttosto limitato attorno
ad un valore di riferimento sono i due meccanismi citati in precedenza. Per correttezza, è doveroso precisare
che l’osmolalità è influenzata da un controllo genetico piuttosto spiccato, quindi tra soggetti vi possono
essere differenze nei valori di riferimento anche significative.

Bilancio del sodio positivo o negativo: ipervolemia e ipovolemia


Innanzitutto, è importante ricordare che le concentrazioni dei cationi nel plasma e nell’interstizio sono molto
simili. Trattando, nello specifico, della concentrazione di sodio in questi due compartimenti, si misurano valori
compresi tra 136 e 146 mM. L’esistenza di questa limitata variabilità è il prezzo che l’organismo paga per

453
potersi difendere nei confronti di stimoli potenti, provenienti sia dall’esterno sia dall’interno, che potrebbero
inficiare sull’equilibrio complessivo del sistema: l’organismo reagisce a questi stimoli, ossia si adatta,
variando leggermente la sua composizione interna in modo da compensare le perturbazioni verificatesi. Nel
caso in cui non fosse in grado di compiere queste modificazioni, esso sarebbe molto più suscettibile a subire
delle alterazioni fatali conseguenti a questi stimoli.
Il concetto di bilancio esprime la differenza tra la quantità in entrata e la quantità in uscita. In condizioni del
bilancio del sodio positivo o negativo, l’organismo va incontro a condizioni, rispettivamente, di ipervolemia
o ipovolemia. Essenzialmente, l’intestino assorbe quasi tutto il sodio che viene ingerito, mentre la sua
eliminazione avviene con le feci, con il sudore e, per la maggior parte, attraverso i reni: un bilancio di sodio
uguale a zero indica che la quantità di sodio introdotto con l’alimentazione corrisponde alla quantità di sodio
espulsa mediante le tre vie sopracitate.
Verrebbe da pensare, intuitivamente, che un bilancio positivo (il quale segnala che viene prelevato
dall’ambiente più sodio di quanto non ne venga effettivamente eliminato) causi un eccesso di sodio, il quale
porta ad una situazione di ipernatriemia (i.e., concentrazione di sodio all’interno del plasma più alta del
normale). Stesso ragionamento può essere applicato ad un bilancio negativo. Essendo il sodio il principale
catione del liquido extracellulare, più precisamente la principale osmole, si potrebbe giungere alla conclusione
che un bilancio positivo o negativo dello ione dovrebbe portare ad iperosmolarità o iposmolarità
rispettivamente. Tuttavia, questa conclusione è errata.
Quello che accade in realtà è che, in condizioni di bilancio positivo o negativo, l’organismo va incontro a
ipervolemia o ipovolemia. Nel caso dell’ipovolemia, la curva di funzione vascolare si sposta verso una
condizione di tipo emorragico (nonostante vi sia un’importante differenza tra i due stati: infatti, l’emorragia
comporta, contestualmente, la perdita di volume plasmatico e di emazie nell’ambiente, mentre l’ipovolemia
dovuta a un bilancio negativo di sodio concerne unicamente una perdita di volume plasmatico). Quindi, sia la
curva di funzionalità vascolare sia la curva di funzionalità cardiaca, si spostano verso valori di gittata cardiaca
inferiori: a parità di tutto, è attesa, di conseguenza, una situazione di ipotensione arteriosa dovuta alla
diminuzione della pressione arteriosa media, la quale è data appunto dal prodotto tra gittata cardiaca e
resistenza vascolari periferiche. Viceversa, un bilancio positivo del sodio non determina di per sé una
condizione di ipertensione arteriosa, ma la favorisce se preesistente (ricorda: l’ipertensione arteriosa è il primo
fattore di rischio per malattie cardiovascolari, le quali sono la prima causa di morte nei paesi occidentali). A
sua volta, una pressione troppo elevata all’interno dei vasi sanguigni accentua la tendenza all’ultrafiltrazione,
già di per sé cospicua, dell’equilibrio di Starling-Landis, determinando un’alterazione delle proprietà
dell’interstizio e, di conseguenza, un aumento della sua complianza: sia la matrice proteoglicanica, oramai
danneggiata, sia i vasi linfatici non sono più in grado di compensare l’aumento di volume e si ha edema.

Si prende un soggetto in esame e si suppone che assuma, in un certo momento della giornata, cibi molto
ricchi di sodio. Pur essendo questo un esempio per facilitare la comprensione dell’argomento, non si discosta
troppo dalla realtà: infatti, l’assunzione di eccessive quantità di sodio con gli alimenti è comune, specialmente
nella dieta dei paesi industrializzati. Per avere un bilancio positivo di sodio, è necessario non solo assumerne
in quantità importanti, ma anche non essere in grado di espellerlo mediante i reni, purtroppo una condizione
altrettanto diffusa.
Quindi, si considera un soggetto che abbia ingerito una quantità di sodio maggiore rispetto a quella che è in
grado di eliminare e in che si trovi una condizione di suscettibilità per cui i suoi reni non hanno una capacità
adeguata di escrezione dello stesso. A breve termine, una frazione importante del sodio assunto con la dieta
viene riassorbita a livello intestinale: esso passa, attraverso l’epitelio intestinale, nell’interstizio, poi all’interno
dei vasi sanguigni e, mediante la circolazione portale, giunge al fegato ed, infine, alla circolazione sistemica.
L’interstizio dell’epitelio intestinale presenta, di fatto, una concentrazione di sodio relativamente elevata, così
come i vasi che perfondono l’organo: localmente, si ha quindi una condizione di ipernatriemia. Il sangue si
distribuisce poi all’interno di tutto l’organismo, quindi questo aumento di concentrazione di sodio,
inevitabilmente, si va a ripercuotere a livello sistemico: l’entità della variazione è tuttavia ridotta, dato che il
volume di sangue che perfonde tutto l’organismo è naturalmente maggiore nell’unità di tempo rispetto a quello
che perfonde unicamente l’intestino. In ogni caso, si può comunque affermare che, effettivamente, all’interno
dei vasi si abbia una condizione di ipernatriemia, con conseguente iperosmolarità e flussi d’acqua (nettamente
più consistenti di quelli delle particelle osmoticamente attive) volti a ripristinare l’equilibrio tra liquido
extracellulare e liquido intracellulare di cui sono espressione. L’acqua passa così dall’interstizio verso il sangue
e, di conseguenza, dalle cellule all’interstizio stesso: il processo di osmosi si ferma quando viene raggiunto un
nuovo equilibrio in cui l’osmolarità dell’ambiente intracellulare, dell’interstizio e del plasma è maggiore

454
rispetto a quella ivi presente precedentemente all’assunzione di sodio. L’entità della differenza di
concentrazione di sodio iniziale (in termini di osmolarità e di natremia) è quindi in parte “compensata” da
meccanismi di tamponamento: (1) la diffusione, a livello sistemico, in un volume di sangue nettamente
maggiore e (2) il flusso d’acqua dall’interno delle cellule epiteliali intestinali all’interstizio.
L’aumento di concentrazione di sodio, quindi di osmolarità, che è comunque misurabile all’interno dei fluidi
biologici, attiva inoltre i meccanismi omeostatici della sete e della risposta all’ormone antidiuretico: mediante
il primo, il soggetto è portato ad assumere acqua, mentre, mediante il secondo, vengono prodotte urine meno
diluite. In generale, si ha aumento della volemia dato sia dall’introduzione di nuovi volumi di liquido
(generalmente iposmotico), sia dal trattenimento di acqua dalle urine. Si parte da un bilancio del sodio positivo,
per poi giungere, mediante eventi compensatori che annullano l’iperosmolarità, ad un bilancio positivo di
acqua. Stesso ragionamento si può applicare ad un bilancio di sodio negativo, il cui risultato finale è, invece,
un bilancio negativo di acqua.

Bilancio positivo o negativo dell’acqua: iposmolarità e iperosmolarità


Questi meccanismi omeostatici possono, tuttavia, non funzionare: ciò accade, ad esempio, nel caso in cui sia
presente un problema ipotalamico per cui il rilascio di ormone ADH risulta diminuito, oppure sia presente un
problema all’organo bersaglio dell’ormone stesso, ossia il rene, per cui esso è incapace di rispondere alla
stimolazione. Inoltre, patologie psichiatriche possono alterare la sensazione della sete, mentre pazienti non
autonomi, seppur nel loro organismo questo meccanismo omeostatico sia funzionante, non sono in grado di
mettere in atto la risposta comportamentale volta a soddisfare lo stimolo. In particolare, quest’ultimo caso può
verificarsi sia in pazienti non ospedalizzati, sia in pazienti in terapia intensiva: essi sono incapaci di controllare
lo stimolo della sete senza la presenza di terzi che si prendano carico di mantenere il meccanismo omeostatico
in atto.
Di fatto, alterazioni del bilancio dell’acqua, positivo o negativo, in carenza di meccanismi omeostatici
compensatori determinano rispettivamente iposmolarità o iperosmolarità. Le conseguenze sono
drammatiche: variazioni dell’osmolarità comportano variazioni del volume dei liquidi corporei a causa della
presenza dell’equilibrio osmotico tra i vari distretti e cellule particolarmente sensibili alle proprie relazioni
spaziali reciproche ne risentono in termini di funzionalità. In particolare, i neuroni hanno un’attività che
dipende dalla forza e dalla posizione delle sinapsi che li raggiungono (fenomeni di sommazione spaziale e
temporale): cambiamenti nel volume di queste cellule possono determinare delle alterazioni della morfologia
sinaptica e, quindi, compromettere la capacità di funzionamento dei neuroni stessi. Inoltre, le cellule neuronali
sono localizzate, per quanto riguarda il sistema nervoso centrale, all’interno del cranio e della colonna
vertebrale, compartimenti essenzialmente rigidi: un aumento del volume complessivo delle cellule causa un
importante aumento della pressione intracranica che può ostacolare la perfusione del tessuto nervoso. Si tratta
di qualcosa di non dissimile, seppur in scala diversa, a quello che accade a livello del ventricolo sinistro in
condizioni di aumento di pressione all’interno dello spessore della sua parete, evento che ostacola la perfusione
coronarica della camera cardiaca durante la sistole.

Per riassumere, un bilancio d’acqua positivo non determina ipervolemia, come verrebbe da pensare data
l’assunzione di una quantità maggiore di acqua di quanta ne venga eliminata: l’acqua che il soggetto introduce
in condizioni di malfunzionamento dei meccanismi omeostatici, va a diluire il sodio e, di conseguenza, porta
ad iposmolarità. Ovviamente anche l’ipervolemia è presente e comporta conseguenze emodinamiche
certamente sfavorevoli, ma per le quali non si muore immediatamente. Al contrario, alterazioni del volume
cellulare neuronale associate all’iposmolarità possono causare disturbi neurologici anche molto gravi come
crisi epilettiche, coma ed infine morte. Di fatto, quindi, sono le variazioni di osmolarità ad essere quelle più
critiche in conseguenza al bilancio dell’acqua positivo o negativo quando i meccanismi omeostatici sono
inadeguati.

In sintesi:
 Se i meccanismi omeostatici dell’ormone ADH e della sete funzionano adeguatamente, alterazioni
del bilancio del sodio comportano alterazioni solo transitorie della natriemia, ossia della
concentrazione del sodio, e dell’osmolarità. Ciò che è rilevante è che, all’equilibrio, alterazioni del
bilancio del sodio determinano alterazioni della volemia.
 Se i meccanismi omeostatici dell’ormone ADH e della sete non funzionano adeguatamente,
alterazioni del bilancio dell’acqua non determinano unicamente alterazioni della volemia, ma
determinano, soprattutto e prima, alterazioni dell’osmolarità. Piccole modificazioni di questo valore

455
sono già in grado di causare gravi segni neurologici, mentre per determinare effetti clinici così severi
e tali da porre a rischio la vita del paziente sarebbero necessarie modificazioni della volemia molto più
ampie.

Domanda di uno studente. Riguardo ai danni neurologici, è più grave l’iperosmolarità o l’iposmolarità? Tendenzialmente,
il professore è portato a rispondere iposmolarità, anche se francamente sono entrambe gravi.

Domanda di uno studente. Perché è più grave uno sbilancio dell’osmolarità a livello neuronale? Supponendo che
l’osmolarità dell’interstizio diminuisca, si osserva un contestuale flusso d’acqua che, dall’interstizio dove è più
abbondante, va verso il compartimento intracellulare. Le cellule di conseguenza si gonfiano, modificando i propri rapporti
spaziali con le cellule vicine e, se quest’ultime sono neuroni, i rapporti sono costituiti dalle sinapsi, la cui posizione viene
così gravemente compromessa. Ovviamente ci sono ripercussioni anche a livello di cellule epiteliali, tuttavia il problema
più grande è quello rappresentato dal tessuto nervoso. Essendo i volumi delle strutture ossee che ospitano queste cellule,
ossia cranio e colonna vertebrale, fissi per via della loro bassa complianza, un ulteriore danno associato è l’aumento della
pressione intracranica, che va ad ostacolare la corretta perfusione delle cellule stesse: il sangue, per poter arrivare al
tessuto, deve infatti vincere la pressione dell’interstizio.

20.2. Meccanismi della concentrazione e diluzione delle urine

I meccanismi di concentrazione e diluizione delle urine sono critici per la regolazione dell’osmolarità dei
liquidi corporei e permettono di ultimare i ragionamenti sui meccanismi di riassorbimento da parte del nefrone.

Il ciclo dell’urea permette di inglobare l’azoto all’interno di un piccolo scheletro carbonioso (composto da
un singolo atomo di C). Il meccanismo, richiedente ATP, permette di ridurre le conseguenze avverse derivate
dai residui azotati. Se questi fossero liberi di circolare sotto forma di NH3, sarebbero tossici per le nostre
cellule.
Lo smaltimento dell’urea è necessario per due ragioni:
1. L’accumulo di urea comporta effetti che, se pur in misura minore all’NH3, sono avversi per le nostre
cellule.
2. L’accumulo di urea rallenterebbe i processi chimici che portano alla sintesi dell’urea stessa.
La formazione dell’urea coinvolge il fegato, ma la sua eliminazione è garantita dai reni: l’urea, infatti, è
sempre presente ad elevata concentrazione nelle urine.

La schematizzazione mostra in alto la corticale renale e in basso la midollare renale. Lo schema raffigura un
nefrone iuxtamidollare, il cui glomerulo è collocato nella parte più interna della corticale renale. La
numerazione percorre la struttura del nefrone: (1) tubulo prossimale, (2) segmento sottile discendente dell’ansa
di Henle, (3) segmento sottile ascendente dell’ansa di Henle, (4) segmento spesso ascendente dell’ansa di

456
Henle, (5) porzione corticale del tubulo distale, (6) porzione midollare del tubulo distale, (6/7) dotto collettore.
Il grafico riporta anche i vasa recta, specializzazioni dei capillari peritubulari, che si approfondano nella
midollare renale12.
Il flusso procede in versi opposti sia nei vasa recta, sia nell’ansa di Henle. Le branche sono in entrambi i
casi giustapposte:
1. vasa recta: nella branca qui rappresentata a sinistra il sangue scende nella midollare, nella branca qui
rappresentata a destra il sangue risale verso la corticale;
2. ansa di Henle: nel segmento sottile discendente la preurina si avvicina all’apice delle papille renali,
nel segmento sottile ascendente la preurina ritorna verso la corticale.
Il fenomeno appena descritto prende il nome di flusso controcorrente.

Assumiamo che il sistema abbia già raggiunto lo stato stazionario, definiremo poi come tale stato venga
raggiunto. Le caratteristiche di composizione dell’interstizio della corticale e della midollare, quando il sistema
lavora a regime, sono profondamente diverse:
1. Corticale renale: l’osmolalità dell’interstizio della corticale renale vale ca. 300 mOsm/kgH2O, valore
simile a quello dei fluidi corporei (270-290 mOsm/kgH2O). Il valore di riferimento presenta variabilità
da individuo a individuo, pur in un intervallo ristretto. Il valore è determinato primariamente dalla
presenza di piccoli ioni, principalmente Na+ e Cl-, ma anche Ca2+ e HCO3-. Le proteine, al contrario,
sono presenti in concentrazione molto basse nell’interstizio e la pressione oncotica interstiziale è
approssimabile a 0 (si trascuri il minimo trasporto transcellulare dovuto alla versione aggiornata
dell’equilibrio di Starling). In buona approssimazione, l’osmolalità dell’interstizio della corticale
renale è dovuta unicamente a Na+ e Cl-, ignorando momentaneamente la presenza di altri piccoli ioni
e proteine.
2. Midollare renale: l’osmolalità dell’interstizio della midollare renale varia secondo un gradiente,
crescente verso l’apice delle papille renali. Il valore massimo, raggiungibile nelle papille renali in stato
stazionario e condizione di antidiuresi, è 1200 mOsm/kgH2O (quadruplo rispetto al valore della
corticale renale). L’aumento dalla zona paracorticale alle papille renali è progressivo, non vi è la
presenza di un netto confine tra i vari valori di osmolalità. La composizione della midollare renale
varia:
 In prossimità della corticale i soluti responsabili dell’osmolalità, con una buona
approssimazione, sono Na+ e Cl-. Il valore di osmolalità è di 300mOsm/kgH2O.
 Via via che si ci avvicina all’apice delle papille renali, le concentrazioni di Na+ e Cl- all’interno
dell’interstizio aumentano.
 All’apice delle papille renali, Na+ e Cl- sono responsabili di circa 600 mOsm/kgH2O, la metà
del valore totale. L’urea è responsabile delle restanti 600 mOsm/kgH2O. L’apice delle papille
renali, in condizioni di antidiuresi, ha dunque un’osmolalità di 1200 mOsm/kgH2O, di cui
600 dovuti al NaCl e 600 dovuti all’urea.
Si consideri un’analogia: l’urea è paragonabile ad un sacchetto della spazzatura contenente rifiuti tossici,
rappresentati fisiologicamente dai residui azotati. Legando chimicamente questi atomi di N all’atomo di C se
ne riduce la tossicità. Se una città (organismo) presenta un’elevata concentrazione di sacchetti, la situazione è
un’emergenza: i processi di smaltimento (pre-urina) sono compromessi (patologia), nonostante la produzione
prosegua. Se essi funzionano, i sacchetti verranno trasportati in discarica (reni), ove vengono lavorati e smaltiti.
Mentre è anomalo trovare sacchetti in città (organismo), è normale trovarli in discarica (reni).
Sfruttiamo l’analogia dei sacchetti. L’urea si accumula nei tessuti e nel torrente ematico come prodotto di
scarto del catabolismo degli amminoacidi. La concentrazione di urea in condizioni fisiologiche è molto bassa,
tendente a 0, nei fluidi corporei: un aumento della sua concentrazione è indice di patologia. Per questo motivo,
l’interstizio corticale e le porzioni midollari adiacenti alla corticale presentano una concentrazione di urea
molto bassa. La concentrazione di urea cresce progressivamente verso l’apice delle papille renali, in
corrispondenza dei meccanismi che la eliminano nell’ambiente.

12
Così dice Silvani, ma in realtà i vasa recta sono capillari in serie con i capillari glomeruli iuxtamidollari, così come
quelli peritubulari sono in serie con i capillari glomerulari corticali: le due cose dunque sono mutuamente esclusive,
l’arteriola efferente può continuarsi o nei capillari peritubulari o nei vasa recta, a seconda della localizzazione del
glomerulo. Silvani ha ripetuto la cosa anche in altre lezioni, quindi probabilmente è convinto che i vasa recta siano in
serie con i capillari peritubulari.

457
Procedendo dal tubulo prossimale al dotto collettore:
 Tubulo prossimale. La pre-urina raggiunge la fine del tubulo prossimale ed entra all’interno del
segmento sottile discendente dell’ansa di Henle. L’osmolarità è la stessa del plasma: i processi di
riassorbimento del tubulo prossimale sono essenzialmente isoosmotici. Le piccolissime differenze di
osmolalità tra interstizio e preurina del tubulo prossimale (2-3 mOsm/kgH2O) sono in buona
approssimazione trascurabili. Il fluido del tubulo prossimale risulta isoosmotico al plasma,
all’interstizio della corticale renale e all’interstizio della prima porzione della midollare renale.
 Segmento sottile discendente. La pre-urina scorre nel tubulo e si avvicina all’apice delle papille
renali: il fluido interstiziale che bagna il segmento sottile discendente è maggiormente concentrato
della pre-urina. L’epitelio del segmento sottile discendente dell’ansa di Henle è permeabile all’acqua
e poco permeabile ad urea e NaCl: essendo l’osmolalità interstiziale maggiore dell’osmolalità
luminale, l’acqua fluisce progressivamente per osmosi a causa del gradiente osmotico. La pre-urina
diminuisce il proprio volume del 15-20% rispetto al carico filtrato e concentra il suo contenuto. L’urea
ed NaCl hanno un coefficiente di riflessione vicino a 1: il segmento sottile discendente è praticamente
impermeabile a questi due soluti.
 Apice dell’ansa di Henle. L’apice delle anse di Henle presenta una preurina con un’osmolalità molto
concentrata (si avvicina a 1200 mOsm/kgH2O) e un interstizio con un’osmolalità di 1200
mOsm/kgH2O, di cui 600 dovuti a NaCl e 600 dovuti a urea. Se il flusso di preurina fosse 0 all’interno
dell’ansa di Henle, l’osmosi procederebbe fino a raggiungere un equilibrio osmotico: l’osmolalità
all’interno dell’ansa di Henle sarebbe esattamente 1200 mOsm/kgH2O. Tuttavia, il flusso incessante
della preurina non permette all’osmosi di raggiungere un equilibrio osmotico: l’osmolalità si avvicina
ma non raggiunge 1200 mOsm/kgH2O. La preurina, a questo livello, risulta essere simile, per
composizione, a quella uscita dal tubulo prossimale, ma con meno acqua, una concentrazione bassa di
urea e un’osmolalità conferita primariamente dagli ioni Na+ e Cl-. La pre-urina raggiunge quasi un
equilibrio osmotico con il fluido interstiziale, ma mantiene una profonda differenza di
composizione:
- [Na+] e [Cl-] luminale è molto maggiore della [Na+] e [Cl-] interstiziale: infatti, l’osmolalità
del fluido luminale è interamente data da Na+ e Cl-, mentre l’osmolalità interstiziale è data
solo al 50% da questi ioni.
- [Urea] interstiziale (600 mOsm/kgH2O) è molto maggiore rispetto a [urea] luminale, in quanto
quest’ultima dipende dalla concentrazione plasmatica (molto bassa). L’apice dell’ansa di
Henle è permeabile all’urea: l’urea, spinta dal proprio gradiente di concentrazione, viene
assorbita dal lume.
 Segmento sottile ascendente. All’apice dell’ansa segue il segmento sottile della branca ascendente
dell'ansa di Henle. Il tratto ascendente sottile è essenzialmente impermeabile all’acqua, ma permeabile
a NaCl. Di conseguenza, quando il liquido tubulare si muove lungo il tratto ascendente sottile, inizia
a perdere NaCl per diffusione passiva ([NaCl] luminale > [NaCl] interstiziale). L’effetto netto è che
lungo il tratto ascendente sottile il volume del liquido tubulare non si modifica, mentre la [NaCl] si
riduce. Pertanto, mentre il liquido ascende lungo il tratto ascendente sottile esso diventa meno
concentrato rispetto al circostante liquido interstiziale (il liquido tubulare, quindi, inizia a diluirsi).
 Segmento spesso ascendente. Il segmento ascendente spesso dell’ansa di Henle è impermeabile
all’acqua e all’urea. Questa porzione del nefrone riassorbe NaCl tramite simporto NKCC2 associato a
ROMK, determinando una differenza di potenziale elettrico transluminale positivo (eccesso di cariche
positive nel lume tubulare). La differenza di potenziale provoca il riassorbimento per via paracellulare
di diversi cationi. Inoltre, il segmento spesso ascendente, in modo del tutto analogo a quello che
avviene nel tubulo prossimale, riassorbe qui una piccola quantità di HCO3-.
Il segmento sottile e spesso ascendenti dell’ansa di Henle hanno effetto diluente: riassorbono soluti,
ma non acqua.
 Tubulo distale e dotto collettore. Si analizzino le caratteristiche della pre-urina all’arrivo nel tubulo
distale corticale:
- Volume. Il volume è inferiore rispetto a quello in uscita dal tubulo prossimale: nel tratto sottile
discendente è stato riassorbito il 15-20% di acqua del carico filtrato. Il dato fa riferimento al
carico filtrato dal glomerulo renale, non alla quota di carico filtrato che esce dal tubulo
prossimale. Nel tubulo prossimale, viene riassorbito circa il 67% del carico filtrato, lasciando
quindi il 33% del volume. Di questo 33% del carico filtrato rimanente, il 50% è riassorbito nel
segmento sottile discendente, lasciandone la metà (il 50% del 33% corrisponde effettivamente

458
al 15-20% del totale). Il volume della pre-urina che giunge al tubulo distale è assai minore
rispetto a quello entrato in midollare (che a sua volta, attenzione, è meno della metà del totale
iniziale dell’ultrafiltrato).
- Composizione. La composizione della pre-urina è diversa perché sono stati riassorbiti più
soluti rispetto all’ acqua. In particolare, il segmento sottile e spesso ascendenti hanno
riassorbito NaCl lasciando invece l’acqua all’interno del lume. La pre-urina che arriva al
tubulo distale avrà un volume ridotto e una concentrazione di soluti ancora più ridotta rispetto
al volume. La minor concentrazione ha come conseguenza una minore osmolarità della
preurina rispetto all’osmolarità interstiziale.
L’urina a valle dei segmenti diluenti è iposmotica rispetto all’interstizio (diluita) e di basso volume.
Il tubulo distale e il dotto collettore riassorbono circa l’8% del carico filtrato di NaCl, secernono
quantità variabili di K+ e H+ e riassorbono una quantità variabile di acqua (circa l’8-17%).
- Il segmento iniziale del tubulo distale riassorbe Na+, Cl-, e Ca2+ ed è impermeabile all’acqua.
Pertanto, la diluizione del liquido tubulare inizia nel tratto ascendente e continua nel segmento
iniziale del tubulo distale.
- L’ultimo segmento del tubulo distale e il dotto collettore riassorbono una quantità variabile
di acqua. Il riassorbimento dell’acqua è mediato dalle acquaporine ed è regolato dall’ormone
antidiuretico ADH. Se è presente a concentrazioni sufficienti aumenta la permeabilità
all’acqua dell’ultima porzione del tubulo distale e del dotto collettore: questo innesca un flusso
d’acqua che per osmosi va dal lume tubulare, dove scorre una preurina diluita, verso
l’interstizio. Il riassorbimento sarà già presente in porzioni più esterne della midollare renale,
vicino alla corticale, dove l’osmolalità è di circa 300 mOsmoli/kgH2O. L’osmolalità della
preurina risulta minore perché si trova a valle di segmenti diluenti. Man mano che si scende
nelle porzioni più profonde della midollare l’osmolalità aumenta e raggiunge 1200
mOsm/kgH2O. A questo livello il gradiente osmotico è elevato e in presenza di ormone ADH
avremo un riassorbimento di acqua decisamente più vigoroso. L’ormone è definito
antidiuretico perché attiva acquaporine, permettendo all’acqua di essere riassorbita secondo il
suo gradente osmotico.

Il liquido interstiziale della midollare è criticamente importante per la concentrazione delle urine, in quanto
la pressione osmotica di questo liquido fornisce la forza che provoca il riassorbimento di acqua dal tubulo
distale e dal dotto collettore (e inizialmente anche dal tratto discendente sottile dell’ansa di Henle). Questi
ultimi sono permeabili all’urea: lo sono sempre in condizioni basali e lo sono ancora di più in presenza di
ormone antidiuretico. Essendo tubulo distale e dotto collettore permeabili all’urea, essa non rappresenta
un’osmole efficace a questo livello: l’urea attraversa con facilità la membrana del dotto collettore e non può
quindi esercitare una pressione osmotica in grado di controbilanciare quella generata dai soluti interstiziali
della midollare. Il suo coefficiente osmotico è uguale a zero, pertanto è un’osmole inefficace.
In presenza di ADH, solo NaCl, e non l’urea, permette il riassorbimento dell’acqua dalla preurina
all’interstizio. I principali componenti dell’interstizio midollare sono NaCl e urea, ma la distribuzione di questi
soluti non è uniforme in tutta la midollare.
 La concentrazione di NaCl nell’ interstizio raggiunge circa 300 mmol e determina un’osmolità pari a 300
mmOsm/kgH2O nella zona di transizione tra midollare esterna e corticale.
 A livello dell’apice delle papille renali l’osmolalità determinata da NaCl raggiunge 600 mOsm/KgH2O
(la metà dei 1200 mOsm/kgH2O).

Trappola dell’urea
Il riassorbimento di acqua nel dotto collettore determina un aumento di concentrazione dell’urea. L’elevata
concentrazione nel lume spinge l’urea ad uscire per gradiente di concentrazione verso l’interstizio, dove si
accumula. Dall’interstizio l’urea rientra attraverso l'apice dell’ansa di Henle, nel quale si trova una
concentrazione di urea più bassa rispetto a quella interstiziale. Questo meccanismo costituisce la trappola
dell’urea: motiva la sua elevata concentrazione nell’interstizio ed il
suo rientro nella pre-urina e spiega il raggiungimento dello stato
stazionario che inizialmente abbiamo considerato come assunto. Per
descrivere il raggiungimento dello stato stazionario, si parta
considerando una bassa concentrazione interstiziale di urea. L’urea viene filtrata nel glomerulo ed entra nella
pre-urina: scorrendo nel tubulo, giunge fino al dotto collettore, dove si ha una [urea] piuttosto elevata per via

459
del riassorbimento di acqua. La differenza di concentrazione permette all’urea di uscire dal tubulo collettore,
permeabile all’urea: essa si accumula nell’interstizio e diffonde all’interno delle anse di Henle (dove la [urea]
è più bassa). La pre-urina tuttavia riscorre all’interno dei segmenti a valle dell’ansa di Henle, fino a tornare
esattamente nel dotto collettore, dove era partita.
L’urea, a causa di questo meccanismo, ricircola: viene filtrata nel glomerulo, fluisce nella pre-urina
all’interno del nefrone, prova a diffondere dal dotto collettore nell’interstizio, per poi ricircolare nuovamente
nel nefrone fino al dotto collettore. Il risultato del ricircolo è l’aumento della propria concentrazione
nell’interstizio midollare: ciò favorisce l’elevata concentrazione della pre-urina che entra nei calici collettori.
Si raggiunge dunque una quasi uguaglianza di concentrazione tra urea interstiziale (600 mOm/kgH2O) e urea
all’interno del dotto collettore. L’uguaglianza non è completa perché la permeabilità è molto alta. Se la
preurina fosse ferma la diffusione avrebbe il tempo di far raggiungere l’equilibrio e quindi l’esatta uguaglianza
delle concentrazioni. Tuttavia, il continuo flusso di pre-urina impedisce il raggiungimento dell’equilibrio.
Indipendentemente dalla presenza di ADH, l’urea si concentra sia nell’interstizio midollare renale sia nella
preurina che esce dal dotto collettore. La presenza di ADH, inoltre, aumenta la permeabilità ad acqua e urea:
questo comporta un aumento di [urea] all’interno del dotto collettore, il rallentamento del flusso e la maggiore
permeabilità all’urea.
La pre-urina risulta molto concentrata di urea sia in condizioni di diuresi (molta urina) sia in condizioni di
antidiuresi (poca urina).
Terminando la metafora dei sacchetti del pattume, paragoniamo l’urea ad un sacchetto di rifiuti. Essi devono
essere eliminati nella maniera più efficiente possibile. L’urea contenuta nella pre-urina che scorre nel dotto
collettore è analoga ai camion di rifiuti che procedono verso la discarica (vescica urinaria). I camion devono
essere pieni di sacchetti dell’immondizia, sia quando ne passano tanti (condizione diuresi) sia quando ne
passano pochi (condizione antidiuresi). La concentrazione di urea deve essere la più alta possibile.
L’urea non è la responsabile diretta dell’assorbimento di acqua nel dotto collettore, non essendo osmole
efficace, tuttavia contribuisce al meccanismo di concentrazione dell’urina. Il ricircolo dell’urea facilita
l’accumulo di urea nell’interstizio midollare, dove può arrivare fino a 600 mmol/L. L’iperosmolarità
interstiziale è fondamentale per la concentrazione della preurina nel dotto collettore.
L’osmolalità nel liquido interstiziale è mantenuta:
 dal riassorbimento di NaCl da parte del segmento sottile ascendente dell’ansa di Henle;
 dall’effettivo accumulo di urea nell’interstizio.
Lo squilibrio di concentrazione di NaCl, più concentrato nel lume rispetto all’interstizio, è dovuto
all’equilibrio osmotico che si realizza per l’elevata [urea] interstiziale. Se l'NaCl fosse l’unico determinante
dell’osmolarità, il sistema tenderebbe ad un equilibrio di concentrazione di Na+ e Cl-. Invece, NaCl, il maggiore
determinante dell’osmolarità dentro il tubulo, è parimenti concentrato all’urea, che determina invece
l'osmolarità interstiziale. L’urea è un elemento critico nel determinare le disuguaglianze che portano al
riassorbimento.

Meccanismo di moltiplicazione in controcorrente


Il riassorbimento di NaCl nel segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle attraverso NKCC2
riceve energia dalla pompa Na+/K+ ATPasi e quindi in ultima analisi dall’ATP. La pompa genera il gradiente
del Na+ che viene sfruttato da NKCC2, che, insieme a ROMK, determina un ulteriore riassorbimento
paracellulare. L’effetto viene detto semplice perché la creazione del gradiente di concentrazione sfrutta solo
ATP.
L’organizzazione controcorrente dell’ansa di Henle permette di sfruttare al massimo le concentrazioni
generate dall’effetto semplice, grazie al riassorbimento attivo (sfruttando ATP) di sodio cloruro a livello del
segmento spesso della branca ascendente dell’ansa.
In seguito al riassorbimento di sodio cloruro da parte della branca ascendente spessa dell’ansa di Henle, le
concentrazioni interstiziali di Na+ e Cl- aumentano: l’interstizio che circonda la branca ascendente spessa è lo
stesso che bagna la porzione sottile della branca discendente dell’ansa di Henle, che è molto vicina. Perciò
la concentrazione di Na+ e Cl- interstiziale aumenterà anche in prossimità di questa porzione. Nel segmento
discendente, avviene il riassorbimento di acqua per osmosi: più lavora l’effetto semplice, più Na+ e Cl-
aumentano nell’interstizio, più l’osmolarità interstiziale sale, più l’acqua viene riassorbita per osmosi dal
segmento discendente dell’ansa di Henle. Se viene riassorbita più acqua dal segmento discendente, lo squilibrio
di concentrazione tra NaCl e urea all’apice dell’ansa sarà più marcato: questo comporta un maggior
riassorbimento di NaCl nel segmento sottile ascendente dell’ansa e l’aumento di osmolarità interstiziale a
questo livello. L’aumento di osmolarità interstiziale di questo segmento, essendo esso adiacente al segmento

460
discendente dell’ansa di Henle, comporterà un maggiore riassorbimento di acqua ed un maggior riassorbimento
di Na+ e Cl- (e cosi via).
In conclusione, gli effetti dell’assorbimento del Na+ e del Cl- nel segmento spesso ascendente dell’ansa di
Henle vengono moltiplicati grazie alle differenze di permeabilità dei diversi segmenti dell’ansa e al fatto
che questi segmenti siano giustapposti. Se l’ansa fosse dritta non ci sarebbe la possibilità per ciò che accade
in un segmento di modificare ciò che accade nell’altro.

Sintesi. I passaggi per generare un’elevata osmolarità interstiziale nella midollare renale sono:
 L’urea è intrappolata all’interno della midollare per via del fenomeno di ricircolo.
 L’effetto semplice di riassorbimento di Na+ e Cl- nel segmento spesso della branca ascendente viene
moltiplicato dalla giustapposizione dei segmenti sottili. I due aspetti sono in relazione: non si potrebbe
avere il ricircolo di urea se non ci fosse la differenza di concentrazione di NaCl ed urea all’apice
dell’ansa.
 L’ATP viene usato nel segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle.

Ruolo dei vasa recta


Na+, Cl-, urea e H2O, riassorbiti nell’interstizio della midollare renale, non possono accumularsi: l’accumulo
di acqua aumenterebbe i valori di pressione interstiziale e diluirebbe l’osmolarità interstiziale, importante per
il riassorbimento dell’acqua stessa. I vasa recta hanno il compito di riportare in circolo acqua e soluti
riassorbiti.
I vasa recta, specializzazioni dell’arteriola afferente che si approfondano nella midollare, presentano tre
caratteristiche funzionali rilevanti:
1. flusso di sangue controcorrente;
2. elevata permeabilità a soluti ed acqua;
3. portata di flusso molto bassa.
Se il sangue dei vasa recta fosse fermo, le caratteristiche funzionali dei vasa recta consentirebbero di
raggiungere un equilibrio di concentrazione tra plasma del sangue ed interstizio. Il sangue tuttavia scorre con
bassa velocità, impedendo il raggiungimento dell’equilibrio:
 porzione discendente: la concentrazione dei soluti è maggiore nell’interstizio che nel lume dei vasa
recta. La porzione discendente veicola il sangue dal circolo, dove la concentrazione di questi soluti è
bassa. Il gradiente osmotico spinge i soluti ad entrare e l’acqua ad uscire.
 porzione ascendente: la concentrazione di soluti è maggiore nel lume dei vasa recta che
nell’interstizio. Infatti, il sangue scorre in un vaso circondato da liquido interstiziale via via meno
concentrato. Il gradiente osmotico spinge i soluti ad uscire e l’acqua ad entrare.
Complessivamente, il sangue uscente dai vasa recta ha volume e carico di soluti maggiore del sangue
entrante. I vasa recta riportano in circolo il Na+, il Cl- e l’acqua che erano stati riassorbiti nella midollare renale
poco alla volta, per non alterare l’equilibrio osmotico, importante per la regolazione della concentrazione delle
urine. Se, per assurdo, i vasa recta non fossero organizzati controcorrente ma dritti, la preservazione del
gradiente osmolare non avverrebbe.

Diuresi ed antidiuresi
La modulazione della produzione di ADH varia le caratteristiche dell’urina.
 Elevata [ADH]. L’elevata concentrazione di ADH comporta un riassorbimento elevato di acqua
nella porzione terminale del tubulo distale e del dotto collettore. L’osmolalità del liquido tubulare
aumenta: a causa della grande quantità di NaCl riassorbita in precedenza, solo una piccola frazione
dell’osmolarità totale è dovuto a NaCl, la frazione maggiore è dovuta alla presenza di urea. La
concentrazione di urea nella pre-urina è elevata: poiché la porzione iniziale del dotto collettore è
impermeabile all’urea (anche in presenza di ADH), l’urea rimane nel liquido tubulare e la sua
concentrazione aumenta con il riassorbimento dell’acqua. In presenza di ADH, la permeabilità
dell’ultima porzione del dotto collettore all’urea, già normalmente presente, aumenta: una certa
quantità di urea diffonderà fuori dal lume accumulandosi nell’interstizio midollare, ma per la trappola
dell’urea si ritroverà nuovamente nel dotto collettore. La produzione finale è un’urina con volume
molto basso e molto ricca di urea: l’osmolarità dell’urina si avvicina alla massima, 1200 mOsm/L.
Questa condizione viene definita antidiuresi: si producono 0,5 L urina/die. Moltiplicando 1200
mOsm/L x 0,5 L/die, risulta un’escrezione minima di 600 mOsm/die: rappresenta la quota di osmoli
di soluti, in eccesso o tossici, che l’organismo deve necessariamente eliminare ogni giorno. L’anuria,

461
la totale assenza di urine nella giornata, è una situazione patologica: non permette di eliminare sostanze
che, in accumulo, causano alterazione dei fluidi biologici e tossicità.
 Bassa [ADH]. La bassa concentrazione di ADH non consente il riassorbimento di acqua da parte della
porzione terminale del tubulo distale e del dotto collettore. La pre-urina diluita, a valle dei segmenti
diluenti del nefrone, viene lasciata fluire virtualmente invariata in vescica. L’unica variazione
rilevante è l’assorbimento di urea: l’elevata permeabilità dell’ultima parte del dotto collettore all’urea
permette l’ingresso della molecola dall’interstizio midollare al lume. La concentrazione di urea deve
essere la più alta possibile. La mancanza di ADH non induce riassorbimento di acqua nelle porzioni
distali del nefrone: il volume di preurina risulta così molto superiore a quello normale (ovviamente il
riassorbimento di acqua negli altri segmenti, tubulo prossimale e segmento sottile ascendente, continua
normalmente). In condizioni di diuresi si possono produrre fino a 18 L urina/die: ca. il 10% della
velocità di filtrazione glomeruale (VGF). L’osmolarità sarà di 150 mOsm/L, corrispondente
all’osmolarità della preurina a valle della prima porzione del tubulo distale.
In situazioni di antidiuresi, il flusso d’acqua porta l’osmolarità a 1200 mOsm/L, in situazione di diuresi, il
flusso d’acqua è assente e l’osmolarità rimane 150 mOsm/L.
Il rene presenta una ampia flessibilità: il volume dell’urina varia in uno spettro 0,5-18 L, la concentrazione
varia in uno spettro 150-1200 mOsm/Kg. Il rene produce, costituitivamente, un’urina diluita, utile a
riassorbire soluti tramite segmenti diluenti. L’urina prodotta, a livello basale, è un’urina poco concentrata e di
volume ridotto rispetto alla pre-urina dell’ultrafiltrato (grazie al riassorbimento di acqua nei segmenti
prossimali del nefrone). Ciò che determina la concentrazione o la diluizione finale dell’urina, è ciò che accade
nel dotto collettore:
 diuresi: in condizioni di diuresi idrica, il dotto collettore non riassorbe e l’urina è condotta in vescica
così come modificata dai segmenti precedenti del tubulo (urina diluita);
 antidiuresi: in condizioni di antidiuresi, il dotto collettore (indotto da ADH) riassorbe acqua,
trasformando l’urina diluita in urina concentrata a volume più basso.
N.B. L’urea deve essere altamente concentrata in entrambi i casi.

Domande
1) La concentrazione di urea nell'ultima parte del dotto collettore è la stessa in diuresi e antidiuresi? Quasi. Se
l’urina fosse ferma, la concentrazione sarebbe la stessa, perché l’ultima parte del dotto collettore ha un’elevata
permeabilità. Tuttavia la pre-urina ha un flusso costante in condizione di diuresi, perché si ha più acqua che
scorre. In questa situazione, difficilmente si raggiungerà l’equilibrio di concentrazione di urea e la sua
concentrazione è poco minore rispetto a quella dell’interstizio.
2) Perché l’osmolarità è 150 mOsm/L nell’urina in condizioni di diuresi? La seconda porzione del tubulo convoluto
distale è a valle di segmenti diluenti: l’osmolarità della pre-urina, 150 mOsm/L, è diminuita rispetto
all’ultrafiltrato, 300 mOsm/L. L’assenza di ormone ADH non induce riassorbimento di acqua nel dotto
collettore: l’urina viene convogliata intatta verso la vescica.
3) La trappola dell’urea non provoca un accumulo della molecola nell’interstizio rispetto all’escrezione? No. Il
dotto collettore ha elevata permeabilità all’urea: un aumento di concentrazione interstiziale comporta un aumento
di concentrazione nella pre-urina. L’urea si concentra nell’interstizio, ma non si accumula davvero. Essa ha,
infatti, tre possibilità: passare attraverso i vasa recta (raramente), entrare nell’ansa di Henle ed essere riportata
al dotto collettore, rimanere all’interno del dotto ed essere convogliata in vescica.
4) Il meccanismo di moltiplicazione è dovuto per Na+ ai trasporti del segmento ascendente spesso, mentre per l’urea
ai meccanismi di riassorbimento nella parte distale del dotto collettore? No. Il segmento ascendente spesso
presenta un meccanismo semplice per trasportare NaCl dal lume tubulare all’interstizio. La moltiplicazione è
dovuta al segmento discendente sottile: l’aumento di [NaCl] interstiziale favorisce il riassorbimento di acqua da
quest’ultimo tratto. Il riassorbimento di acqua determina: (1) la differenza di concentrazione di Na + e urea
all’apice dell’ansa di Henle e (2) spinge il riassorbimento passivo di NaCl dal segmento sottile ascendente.
L’urea sfrutta questi meccanismi per concentrarsi, ma non esiste un meccanismo di moltiplicazione semplice per
l’urea.
5) Qual è l’importanza dei vasa recta? Impediscono l’accumulo di Na+, Cl- e acqua nell’interstizio riassorbendoli
poco alla volta e trasportandoli in circolo: evitano accumulo e drenaggio eccessivo. Il drenaggio eccessivo è
deleterio in quanto, riducendo l’osmolarità, si riduce il riassorbimento di acqua. Inoltre, la condizione di diuresi
induce un aumento del flusso ematico nei vasa recta, diminuendo le resistenze delle arteriole afferenti ed
efferenti: l’aumento di flusso aumenta il drenaggio di soluti, comportando una diminuzione di osmolarità e un
calo del riassorbimento di acqua.

462
20.3. Secrezione neuroipofisaria dell’ormone antidiuretico

L’ormone antidiuretico (ADH) è un


ormone peptidico prodotto dai neuroni dei
nuclei sopraottico e paraventricolare
dell’ipotalamo; da qui è trasportato, lungo
gli assoni dei neuroni stessi, alla
neuroipofisi, è rilasciato nell’interstizio
della neuroipofisi e, da qui, entra in un
sistema di vasi capillari che converge nella
circolazione venosa sistemica. Esso entra
dunque in circolo e raggiunge gli organi
bersaglio, tra cui il primario è il rene.
I neuroni dei suddetti nuclei ipotalamici
ricevono afferenze da diverse popolazioni
neuronali e questo rende conto della
possibilità di secernere ADH in risposta a
molteplici stimoli; gli stimoli primari sono
l’osmolarità dei fluidi corporei e la volemia efficace (il significato pieno di volemia efficace sarà analizzato
più avanti, per ora possiamo coglierne l’accezione più intuitiva: il contenuto del liquido nei vasi efficace, in
questo caso, a indurre secrezione di ADH).

Effetti delle variazioni di osmolalità e volemia sulla secrezione di ADH


N.B. Tutti i grafici seguenti sono da conoscere e bisogna saperli disegnare all’esame.
Osmolalità: sotto un certo valore di osmolalità la produzione
di ADH è circa zero, sopra certi valori si ha una crescita con
andamento lineare. Nel grafico la soglia a cui si ha rilascio di
ADH è ~280 mOsm/Kg; ricordiamo che il valore di riferimento
per l’osmolarità dei liquidi corporei dipende da persona a persona
(determinato su base genetica), tuttavia un valore rappresentativo
può essere 290 mOsm/Kg; possiamo quindi semplificare dicendo
che la soglia di rilascio dell’ADH in risposta all’osmolalità è
nell’intorno del valore di riferimento dell’osmolarità dei
fluidi corporei di ciascun soggetto. In particolare è rilasciato
quando l’osmolarità inizia a portarsi sopra al valore di
riferimento dell’osmolalità dei liquidi corporei.
Aumento osmolarità → produzione ADH → l’ormone
antidiuretico fa produrre urine più concentrate e permette di non
sprecare acqua nell’ambiente → l’acqua che non è eliminata permette di diluire i fluidi corporei, abbassando
l’osmolalità e riportandola a valori di riferimento.

Volemia: ci troviamo in una situazione opposta a quella


appena descritta; nel grafico troviamo, in ascissa, la variazione
percentuale di pressione o volume sanguigni, che sono
dipendenti dalla volemia, rispetto a un valore di riferimento.
Quando il volume del sangue scende oltre il 10% al di sotto
del valore di riferimento si ha produzione di ADH con
andamento lineare, mentre al di sopra dei valori di riferimento
non se ne produce.
Poiché l’ADH permette di conservare l’acqua, agendo quando
si ha una riduzione del volume ematico, compensa, almeno
parzialmente, la riduzione del volume; viceversa non è utile
produrre ADH quando il volume del sangue è già elevato.
È bene notare che qui la produzione di ADH inizia quando il
volume è calato del 10% rispetto al valore di riferimento.
L’ADH risponde quindi prontamente a variazioni

463
dell’osmolarità dei liquidi corporei, meno prontamente a variazioni della volemia, questo perché variazioni
dell’osmolarità sono accompagnate da conseguenze patologiche potenzialmente rapide e pericolose (a causa
principalmente degli effetti sui neuroni), meno rapidi sono invece gli effetti patologici di una variazione della
volemia.

La curva verde corrisponde esattamente alla curva del primo


grafico analizzato. Le altre due curve descrivono quello che
avviene se, in concomitanza con l’aumento di osmolarità, si ha
una variazione del 10% della volemia.
La curva rossa corrisponde ad una riduzione del 10% della
volemia, questo di per sé indurrebbe produzione di ADH.
L’effetto sarà quindi che la produzione di ADH risulta
maggiore rispetto alla curva verde. Per essere più precisi,
l’ADH viene rilasciato in questo caso in condizioni di
osmolarità minori del normale (il “valore soglia” si abbassa);
inoltre la variazione di ADH prodotto per variazione
unitaria di osmolarità plasmatica è maggiore (aumenta la
pendenza della curva: la modifica dell’osmolalità di 1mOsm/kg
genera modifiche più marcate nella concentrazione di ADH
plasmatica). L’ADH difende dunque valori di osmolarità
minori del normale.
Viceversa la curva blu corrisponde ad un aumento del 10% della volemia: in questo caso la pendenza della
curva diminuisce e la soglia si alza. L’ADH difende valori di osmolarità maggiori del normale (l’ADH viene
rilasciato a valori più elevati del normale e la variazione di ADH prodotto per variazione unitaria di osmolarità
plasmatica è minore).
Il controllo della variazione della volemia è meno sensibile del controllo di variazioni dell’osmolarità (il
controllo volemico è sensibile a variazioni minime del 10%) tuttavia, quando insorge, il controllo volemico
effettua un controllo “prepotente” che prevale sull’altro; infatti in caso di riduzioni della volemia l’ADH
difende valori di osmolarità minori del normale.

Rilascio di ADH: controllo da parte dell’angiotensina II, dell’ANP, BNP e dell’etanolo


Altri stimoli controllano il rilascio di ADH:
 Angiotensina II: fa parte del sistema renina-angiotensina-aldosterone e stimola la secrezione di ADH.
Questo ormone aiuta ad evitare riduzioni della pressione arteriosa : la produzione di ADH aiuta a
trattenere acqua, quest’acqua va a “riempire i vasi”, contribuendo a compensare il calo di pressione.
 ANP (Peptide Natriuretico Atriale): peptide che determina natriuresi, cioè diuresi di urine ricche di
sodio. Esso coerentemente inibisce la produzione di ADH.
 BNP (Peptide Natriuretico Cerebrale): anch’esso determina diuresi con urine ricche di sodio e
anch’esso coerentemente inibisce la produzione di ADH.
 Etanolo: inibisce la produzione di ADH, questo contribuisce a spiegare l’aumento di diuresi a seguito
del consumo di bevande alcoliche.

Effetti cellulari dell’ADH sul rene


e sui letti vascolari
L’ADH a livello renale (tubulo distale
e dotto collettore) si lega ai recettori V2
e attiva la cascata di segnale del cAMP.
L’effetto primario è quello di stimolare
la traslocazione di AQP2 sulla
membrana apicale delle cellule del
dotto collettore e dell’ultima parte del
tubulo distale. Le AQP si trovano
all’interno di vescicole di membrana,
quindi sono già preformate, la cascata di
secondi messaggeri indotta dal legame

464
dell’ADH al suo recettore induce la fusione di queste vescicole con la membrana apicale e l’esposizione delle
AQP.
L’ingresso di acqua è favorito da due condizioni:
 espressione costitutiva di AQP3 e 4 sulla membrana baso-laterale che permettono l’uscita di acqua
da questo versante;
 dal punto di vista termodinamico la spinta al riassorbimento di H2O è data dal gradiente osmotico
molto forte tra il lume del collettore e l’interstizio della midollare.
Quando l’ADH cessa di essere rilasciato e quello legato alle cellule viene degradato, le AQP2 sono
nuovamente endocitate (ma non degradate). Questo processo è economico e rapido, perché evita di sprecare
energia per sintetizzare ogni volta le AQP e permette di esporre queste ultime subito dopo l’induzione da parte
dell’ADH.13

L’ADH ha inoltre un effetto di vasocostrizione periferica a livello dei letti vascolari coronarico e
splancnico: qui agisce sui recettori V1A, associati alla cascata di segnale della PLC, che comporta un aumento
di [Ca2+] intracellulare; a causa di questo effetto vasocostrittore l’ADH è anche chiamato arginina
vasopressina. L’ormone può infatti essere rilasciato a seguito di un calo di pressione e l’aumento delle
resistenze periferiche da esso indotto porta ad aumentare la pressione.

Sete
La risposta alla sete può essere compromessa
per patologie psichiatriche, per l’incapacità di
mettere in atto le risposte comportamentali
indotte dalla sete (per esempio pazienti con
demenze) o ancora in pazienti che, essendo in
condizioni di terapia intensiva, non sono in grado
di soddisfare personalmente lo stimolo della sete.
La sete è dovuta ad osmorecettori localizzati in
una regione circumventricolare, l’organum
vasculosum laminae terminalis (organo
vascolarizzato della lamina terminale).
Le regioni circumventricolari sono
caratterizzate dalla mancanza di barriera
ematoencefalica efficiente, che qui risulta
piuttosto lassa; l’organum vasculosum può
quindi rilevare l’osmolarità plasmatica senza l’intermezzo di una barriera ematoencefalica. Rilevata
l’osmolarità, l’organum vasculosum, manda segnali a strutture elencate nella figura, che collettivamente sono
responsabili dello stimolo della sete.
La soglia di osmolarità per il rilascio di ADH è minore di quella per l’induzione di sete; la soglia per l’ADH
è nell’intorno del valore di riferimento, la soglia per la sete è ben al di sopra di questo; ciò vuol dire che quando
si ha sete l’osmolarità si è già modificata in maniera rilevante (per questo in ambienti caldi si consiglia di bere
frequentemente prima che compaia la sete).
L’angiotensina II agisce sull’organo subfornicale (sempre nella regione circumventricolare), contribuendo
anch’essa allo stimolo della sete; pensando nuovamente che l’azione dell’angiotensina è volta a evitare
riduzioni di pressione, possiamo facilmente comprendere il significato di questa azione: favorendo, tra le altre
cose, l’immissione dall’esterno di acqua nell’organismo contribuisce a “riempire” i vasi e quindi ad alzare la
pressione sanguigna.

13
Silvani non li ha citati ma esistono anche meccanismi di regolazione dell’espressione genica delle AQP, mediati sempre
dall’ADH; la loro rilevanza è tuttavia scarsa rispetto al meccanismo di regolazione del trafficking vescicolare.

465
20.4. Clearance osmolare e clearance dell’acqua libera

Clearance osmolare
𝑼𝒐𝒔𝒎 ∙ 𝑽̇
C𝐥𝐞𝐚𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞 𝐨𝐬𝐦𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 =
𝑷𝒐𝒔𝒎,𝒂

Al numeratore: flusso delle urine (𝑉̇) x osmolarità delle urine (Uosm).


Al denominatore: osmolarità del plasma arterioso (Posm,a).
Questa definizione ricalca la definizione generale di clearance, con una differenza particolare: al posto della
clearance di una data sostanza x, consideriamo la clearance di tutti i soluti osmoticamente attivi, l’osmolarità
totale.
È quindi un indice che, normalizzando l’eliminazione renale di tutti gli osmoli all’osmolarità arteriosa, ci dà
informazioni su quanto efficacemente il rene elimini gli osmoli.

Clearance dell’acqua libera

𝑪𝑯𝟐 𝑶 = 𝑽̇ − 𝑪𝒐𝒔𝒎

Clearance dell’acqua libera = flusso delle urine – clearance osmolare

Possiamo scomporre il flusso urinario totale 𝑉̇ in due componenti: il flusso di acqua libera (CH2O) e un flusso
di soli osmoli (COsm).
La clearance dell’acqua libera esprime la capacità dei reni di eliminare acqua.
Quando la clearance dell’acqua libera assume valori negativi , da un punto di vista intuitivo è difficile
comprenderne il significato, risulta invece più pratico parlare in termini di conservazione tubulare dell’acqua
(𝑇𝐻𝐶2 𝑂 ).

𝑻𝑪𝑯𝟐 𝑶 = −𝑪𝑯𝟐 𝑶

Conservazione tubulare dell’acqua = – clearance dell’acqua libera.

In condizioni di iperosmolarità viene rilasciato ADH, questo fa produrre urine molto concentrate, facendo
traslocare AQP2 sulla membrana apicale delle cellule del dotto collettore, permettendo di riassorbire acqua,
trattenendo cioè acqua libera, che prima era presente nell’ultrafiltrato e che ora non si trova più nell’urina; in
queste condizioni TcH2O è positiva mentre CH2O è negativa, la COsm sarà elevata, poiché UOsm è maggiore di
POsm,a (UOsm può arrivare a 1200mOsm/kg, circa 4 volte POsm,a).
𝑈𝑜𝑠𝑚 ∙ 𝑉̇
𝐶𝐻2 𝑂 = 𝑉̇ − 𝐶𝑜𝑠𝑚 = 𝑉̇ −
𝑃𝑜𝑠𝑚,𝑎
𝑈
Poiché come abbiamo detto in questo caso 𝑈𝑜𝑠𝑚 > 𝑃𝑜𝑠𝑚,𝑎 possiamo scrivere che (𝑃 𝑜𝑠𝑚 ∙ 𝑉) > 𝑉̇ e dunque
𝑜𝑠𝑚,𝑎
𝐶𝐻2 𝑂 assume un valore negativo e si parla di 𝑇𝐻𝐶2 𝑂 .

Viceversa, in caso di ipoosmolarità, la produzione di ADH è molto bassa, si producono urine diluite (UOsm
può arrivare a 150 mOsm/kg ed è minore di POsm,a), la CH2O sarà positiva, ha quindi poco senso parlare in
termini di TcH2O.

466
21. Regolazione del volume dei liquidi corporei
Nota. Questa tesina rappresenta un riassunto di molti argomenti trattati nelle lezioni precedenti. Di conseguenza, se
dovesse essere estratta all’esame non è sufficiente esporre quanto di seguito riportato, ma bisogna ricollegarsi agli
argomenti delle altre tesine.

21.1. Compartimenti idrici dell’organismo

Vedi punto equivalente della tesina Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei.

21.2. Volume circolante efficace,


21.3. Regolazione dell’escrezione renale dell’acqua e di NaCl e
21.4. Meccanismi di regolazione del volume del liquido extracellulare: recettori di
volume; azioni del sistema nervoso simpatico, del sistema renina-angiotensina-
aldosterone e dei peptidi natriuretici

Recettori di volume
Recettori di volume: sono recettori da stiramento. N.B. Anche i barorecettori sono recettori da stiramento,
non sono recettori di volume poiché non rilevano direttamente le variazioni di volume, ma sono in grado di
rilevare la circonferenza dei vasi sanguigni all’interno dei quali si trovano.
Per poter regolare una variabile è chiaramente necessario misurarla: questo spiega l’importanza dei recettori.
Per questo processo di regolazione dovremmo anche tener presente la stretta interrelazione tra i meccanismi
di controllo dell’osmolalità dei fluidi corporei e quelli di controllo del loro volume. Se i meccanismi di ADH
e sete sono efficaci, allora variazioni del bilancio del Na+ determinano variazioni del volume del sangue, cioè
del volume circolante efficace. Questo dipende da una più generale regolazione del volume extracellulare. Con
un bilancio di Na+ positivo, si trattiene Na+, i meccanismi di controllo dell’osmolalità fanno trattenere acqua,
il risultato è che si trattiene acqua salata, il volume globale del liquido extracellulare globale aumenta, tra cui
quello contenuto all’interno dei vasi. Questo ci fa comprendere che per regolare il volume circolante efficace,
l'organismo modificherà il bilancio del Na+. Ecco perché è così importante regolare l’escrezione renale di NaCl
a questo riguardo.

Peptidi natriuretici
Il peptide natriuretico atriale (ANP) è contenuto in granuli all'interno di cellule cardiache modificate (tali
cellule sono dette modificate per via della loro capacità di produrre e secernere peptidi), in particolare a livello
degli atri. Il peptide viene rilasciato dai granuli nel momento in cui le cellule miocardiche atriali vanno
incontro a stiramento. Questo accade quando il volume di sangue contenuto al loro interno aumenta per diversi
motivi, tra cui un aumento del volume del sangue contenuto nei vasi, dovuto a sua volta a diverse ragioni: una
molto comune è l'aumento globale del liquido extracellulare.
Il meccanismo di rilascio dell'ANP risponde a variazioni, strettamente parlando, della tensione delle pareti
degli atri. Generalmente queste modificazioni della tensione corrispondono ad una variazione del volume
ematico, quindi del volume del liquido extracellulare.
Il peptide natriuretico cerebrale (BNP) è contenuto e rilasciato da cellule cardiache localizzate a livello
dei ventricoli. È detto cerebrale poiché è stato individuato per la prima volta a livello cerebrale; non è raro che
dei peptidi siano trascritti in citotipi differenti dell’organismo, con anche funzioni biologiche differenti.
Entrambi i peptidi vengono rilasciati quando la tensione delle cellule del miocardio aumenta: negli atri
(ANP) e nei ventricoli (BNP).

Sistema renina-angiotensina-aldosterone e petidi natriuretici


Un altro concetto da tenere a mente ai fini della trattazione del presente argomento è il rilascio di renina da
parte delle cellule lisce dell’arteriola afferente. In questo caso le cellule modificate, contenenti granuli di
renina (un peptide), sono cellule muscolari lisce (anziché cardiache come nel caso dei peptidi natriuretici).

467
C’è una differenza importante tra le cellule modificate cardiache e renali. Mentre il rilascio di renina da parte
delle cellule granulari modificate dell’arteriola afferente è stimolato quando la pressione transmurale
diminuisce (ovvero quando l’arteria afferente si “sgonfia”), le cellule miocardiche modificate rilasciano i
peptidi natriuretico quando aumenta la tensione. Questo è comprensibile ragionando dal punto di vista
funzionale:
 La renina è un ormone che attivando una cascata ormonale difende dai cali di pressione; per questo
motivo è rilasciata in seguito ad un calo di pressione.
 I peptidi natriuretici segnalano un sovraccarico di volume all'interno della circolazione.
Effetti dei peptidi natriuretici
 Limitano il rilascio di ADH (ormone antidiuretico) (vedi tesina Regolazione dell’osmolalità dei
liquidi corporei, punto 3);
 inibiscono il rilascio di aldosterone;
 altri effetti dei peptidi natriuretici sono quelli sulle resistenze periglomerulari (afferente ed efferente):
aumentano la resistenza efferente, diminuiscono quella afferente. Il risultato è che il flusso
plasmatico renale FPR non cambia molto poiché dipende dalla somma delle due resistenze e gli effetti
dei peptidi sulle arteriole afferenti ed efferente più o meno si controbilanciano. Al contrario, la
pressione idraulica all'interno dei capillari glomerulari aumenterà in maniera rilevante.
Quest'ultimo effetto andrà ad essere limitato, per quanto concerne le sue conseguenze sulla velocità di
filtrazione glomerulare (VFG), dall’aumento della pressione oncotica dei capillari glomerulari
conseguente all’aumento della filtrazione. Tuttavia, l’effetto finale dei peptidi natriuretici sarà quello
di tendere ad aumentare la frazione di filtrazione perché l’effetto sulla velocità di filtrazione
glomerulare sarà più marcato di quello sul flusso plasmatico renale. Il che può anche voler dire che
caleranno entrambi, perché magari saranno presenti contemporaneamente altri fattori; tuttavia la
velocità di filtrazione glomerulare si manterrà relativamente elevata rispetto al flusso: si ha
dunque l'aumento della frazione di filtrazione. Avere una frazione di filtrazione elevata contribuisce
a far filtrare di più, di conseguenza è possibile eliminare più acqua e soluti nelle urine. È possibile
anche riassorbire di più neutralizzando l’effetto; tuttavia la maggiore filtrazione rappresenta
indubbiamente un presupposto per poter eliminare più abbondantemente Na+ e H2O. I peptidi
natriuretici, rilasciati in risposta ad un aumento del volume all’interno della circolazione che va a
distendere troppo le pareti degli atri e dei ventricoli, determinano eliminazione di acqua salata con
conseguente riduzione del volume di sangue all’interno dei vasi: si tratta di un chiaro esempio di
circuito in retroazione negativa;

 inibiscono il rilascio di renina;


 riducono il riassorbimento renale di Na+ per effetto diretto sulla porzione midollare del dotto collettore.
Il risultato finale è che una maggiore filtrazione e un minor riassorbimento di Na+ (sia per effetto diretto che
per limitazione degli effetti dell’aldosterone e dell’angiotensina II, i quali aumenterebbero il riassorbimento di
Na+) e di H2O (per riduzione del rilascio di ADH): in poche parole si ha un effetto netto di eliminazione di
acqua salata attraverso le urine. Questo entra a far parte di una serie di circuiti a retroazione negativa, che
analizzeremo di seguito come compendio di tutti gli argomenti trattati finora.

468
Regolazione integrata del volume dei liquidi corporei
Premessa: nel grafico che si presenta si ragiona di relazioni causali che nel nostro organismo sono molto
complesse, talvolta bidirezionali, per cui è necessario avere inizialmente un approccio riduzioni stico,
osservando ogni singola relazione causale avulsa dal contesto e poi, solo successivamente, procedere ad una
sintesi e cercare di valutare gli effetti complessivi delle relazioni causali.
Rappresentiamo le relazioni causali come delle frecce, la cui base è in prossimità della variabile causa e la
punta è in prossimità della variabile conseguenza. Il segno + o – indica se l’effetto dell’aumento della variabile
causa sulla variabile conseguenza è positivo o negativo.

Se aumenta il volume circolante efficace (assumendo tutte le altre variabili costanti), la tensione
dell’arteriola afferente aumenta.
Se aumenta il volume circolante, la curva di funzionalità vascolare si sposta e si sposta di conseguenza
l'intersezione di questa con la curva di funzionalità cardiaca. Ciò vuol dire che il sistema lavora a valori di
gittata cardiaca più elevati (N.B. Si sta assumendo che la resistenza vascolare e sistemica sia costante): a sua
volta ciò determina un aumento della pressione arteriosa media (Pa = GC x RVP). Un aumento della pressione
arteriosa media si estrinseca in un aumento della pressione all’interno dell’arteriola afferente che, a parità di
pressione interstiziale, determina un aumento di pressione transmurale e quindi, per la legge di Laplace (𝜏 ≅
𝑃 ∙ 𝑟), un aumento di tensione.
Senoaortici è un nome collettivo che si riferisce ai barocettori carotidei e dell’arco dell'aorta (quindi non
esistono recettori senoaortici, ma recettori aortici e del seno carotideo, nello schema si è usato l’aggettivo seno
aortici per sintesi). Se aumenta il volume circolante, per tutti i ragionamenti fatti in precedenza (aumenta la
pressione arteriosa), aumenterà anche la tensione dei barorecettori senoaortici (questo spiga il segno + sulla
freccia che nello schema collega il volume ai barocettori).
Esistono barorecettori anche a livello delle grandi vene che si gettano negli atri o a livello degli atri stessi
(qui definiti cardiopolmonari). Il loro ruolo fisiologico è quello di rafforzare il baroriflesso arterioso (esistono
proprietà peculiari, come il riflesso di Bainbridge, che in risposta ad uno stiramento della parete degli atri
determina tachicardia14); anche in questo caso un aumento del volume circolante, a parità di tutte le altre
variabili, aumenta la tensione delle strutture (atri, grandi vene) all’interno delle quali si trovano questi
recettori da stiramento.
Dunque, un aumento del volume circolante determina un aumento della tensione sia dei barocettori aortici,
sia di quelli cardiopolmonari, sia dei barocettori sui generis responsabili della liberazione di peptidi
natriuretici. Le cellule muscolari lisce granulari dell'arteriola afferente possono essere viste come barocettori
esse stesse, perché in risposta a cambiamento della loro tensione esse modificano il rilascio dei loro granuli in
questo caso contenenti renina. In maniera del tutto analoga possiamo considerare barocettori le cellule
cardiache modificate che rilasciano granuli contenenti peptidi natriuretici. È chiaro che non si tratta di
barocettori in senso stretto, poiché, a differenza dei barocettori, non sono fibre nervose ma cellule muscolari
(lisce o cardiache); tuttavia, dal punto di vista della teoria dei controlli, si tratta comunque di sensori di
tensione.

Volume circolante efficace


Prima di procedere è necessario definire il concetto di volume circolante efficace.
L'aggettivo efficace esprime la capacità del volume circolante di aumentare la tensione all'interno di tutte
le strutture che abbiamo visto contenere recettori da stiramento (sensori di tensione), dunque aumentare
l'attività dei barocettori.
N.B. Il volume circolante efficace non è la parte del volume del sangue efficace nel perfondere i tessuti.
Questa definizione non ha senso, perché presuppone che solo una parte del sangue in circolo perfonda i tessuti,
non è assolutamente vero: tutto il sangue presente nell'organismo entra in circolo e va da sé che perfonde i
tessuti. Il volume circolante efficace non è dunque un volume “anatomico”, ma piuttosto un volume funzionale.

14
Vedi tesina Regolazione della pressione arteriosa, punto 2.

469
Immaginiamo di avere un volume ematico molto elevato, quindi una curva di funzionalità vascolare che si
sposta in maniera importante. Qual è l'entità di questo spostamento? Supponiamo che la pressione media di
riempimento (pressione presente all'interno di tutti i vasi dell'organismo quando il cuore è fermo) ammonti a
7 mmHg (valore rappresentativo). In caso di aumento del volume ematico conseguente ad una trasfusione, per
esempio, oppure dovuto al fatto che l'organismo ha trattenuto sodio e acqua, la pressione media di riempimento
può aumentare di qualche mmHg. La pressione venosa centrale sarà tanto più bassa della pressione media di
riempimento tanto maggiore sarà la gittata cardiaca. In conclusione, le variazioni di volume ematico
comportano certamente modificazioni dirette della pressione, ma di piccola entità. Questi piccoli cambiamenti
della pressione sarebbero, però, amplificati dagli effetti del ritorno venoso sulla gittata cardiaca (meccanismo
di Frank-Starling: se si fa lavorare il cuore con un volume telediastolico insufficiente, allora la massima
pressione sistolica generata, quindi la gittata sistolica, sarà troppo bassa). Allora potremmo avere conseguenze
importanti sulla pressione arteriosa sistemica, ma secondarie rispetto all'effetto che lo scarso ritorno venoso ha
sulla funzionalità cardiaca.
Esistono patologie molto comuni per cui il volume circolante efficace si comporta in un modo, mentre il
volume circolante reale si comporta in un altro.
Pensiamo ai pazienti con uno scompenso cardiaco, in cui la contrattilità del miocardio è ridotta e la gittata
cardiaca non è più sufficiente a perfondere tutti i tessuti perché parti del tessuto miocardico si sono
danneggiate, magari in seguito ad un evento ischemico. In questa condizione, i vasi possono anche essere pieni
di sangue ma il cuore non sarà in grado di generare una sufficiente pressione arteriosa. Ciò significa che il
volume ematico vero può anche essere elevato, ma la sua capacità di determinare un aumento di tensione a
livello delle strutture contenenti barocettori è bassa. Dunque, si ha una situazione di volemia reale alta ma di
volemia efficace bassa e in risposta l'organismo cercherà di regolare il volume ematico come se fosse basso
(nonostante la volemia sia in realtà alta): l'organismo infatti non misura direttamente il volume ematico, ma
gli effetti che questo ha sull'attività dei barocettori. L'organismo non è in grado di regolare una variabile che
non può misurare, per questo tende a mantenere costante non il volume ematico, che non può misurare
direttamente, ma l'attività dei barocettori. È l'unica cosa che viene misurata, per cui l'unica che viene regolata,
in modo tale da intervenire sulle altre variabili in maniera indiretta, a cascata.
Quindi, un paziente con scompenso cardiaco presenterà tutti i segni di un paziente che sta avidamente
trattenendo sodio e acqua. Il suo organismo reagisce come ad un'emorragia, perché per quanto riguarda
l'attività dei barocettori la condizione è del tutto analoga a quella di un'emorragia: calo della tensione della
parete delle strutture nelle quali i barocettori sono collocati.
L'ascite è una condizione caratterizzata da accumulo di acqua libera in cavità peritoneale; può essere una
conseguenza di patologie epatiche. Anche in questo caso il volume dei liquidi corporei è elevato, tra cui il
volume ematico che ha, però, una ridotta capacità di determinare l'attività dei barocettori. Quindi il volume
circolante efficace sarà ridotto perché il distretto vascolare è abnormemente dilatato a livello del distretto
intestinale.
Una curva di funzionalità cardiaca con una contrattilità molto bassa determina una minore gittata cardiaca,
nonostante lo spostamento della curva di funzionalità vascolare. Avere una gittata cardiaca bassa, a parità
di resistenze vascolari periferiche, vorrà dire avere una pressione media bassa e di conseguenza
un’attività bassa dei barorecettori arteriosi, a fronte di un volume circolante “vero” molto elevato.

Regolazione integrata del volume dei liquidi corporei


Continuiamo nell’analisi dello schema.

470
La freccia che va da apparato juxtaglomerulare a renina con il segno negativo sta ad indicare che se
aumenta la tensione delle cellule granulari che si trovano nella parete dell’arteriola afferente, si riduce il
rilascio di renina. Si può avere lo stesso effetto anche come conseguenza del filtrato glomerulare: se aumenta
il volume circolante efficace (a parità di tutto il resto) → aumenta anche la VFG → aumenta il carico filtrato
di Na+ e Cl- che arriva alla macula densa → diminuisce il rilascio di renina.
La renina va a clivare l’angiotensinogeno in angiotensina I, che viene poi clivato dall’ACE in angiotensina
II. Nella relazione causale renina-angiotensina II la freccia riposta un segno +, perché se a parità di tutto
aumenta il rilascio di renina aumentano i livelli di angiotensina II.
N.B. Stiamo analizzando ogni relazione causale avulsa dal contesto, per questo la freccia in questione riporta
un segno + nonostante quella precedete riportasse il segno –. Il grafico spiega ogni relazione causale come
effetto sulla variabile conseguenza dell’aumento della variabile causa.
Anche la relazione causale tra angiotensina II e aldosterone riporta un segno +: se aumentano i livelli di
angiotensina II, a parità di tutto il resto, aumentano i livelli di aldosterone.

Dai barorecettori cardiopolmonari si dipartono tre frecce (relazioni causali):


 Peptide natriuretico atriale (ANP), ma vale anche per il cerebrale (BNP): se aumenta la tensione
dei barorecettori cardiopolmonari, aumenta il rilascio di ANP (segno +).
 Ormone antidiuretico (ADH): se l’attività del volume circolante sui barorecettori cala più del 10%,
allora aumenta il rilascio di ADH. Al contrario, se l’attività dei barorecettori, in particolare quelli
cardiopolmonari, aumenta, allora il rilascio di ADH diminuisce (segno –). (Per ulteriori
informazioni, vedi la tesina Regolazione dell’osmolalità dei liquidi corporei, punto 3)
 Attività simpatica: in risposta ad un aumento di tensione dei barorecettori, il baroriflesso arterioso
(quello cardiopolmonare si comporta largamente alla stessa maniera) riduce l’attività simpatica in
periferia (per via del neurone inibitorio nel bulbo caudale ventro-laterale che fa parte del circuito:
attività dei barorecettori → aumenta l’attività dei neuroni del tratto solitario → i neuroni del NTS
attivano i neuroni del bulbo caudale ventro-laterale - neuroni inibitori → questi neuroni inibiscono i
neuroni del bulbo rostrale ventro-laterale - neuroni presimpatici → questi neuroni normalmente
attivano i neuroni pre-gangliari del simpatico, che a loro volta attivano i neuroni post-gangliari del
simpatico. Nel circuito c’è un unico neurone inibitorio, quello del bulbo caudale ventro-laterale, che
ci spiega come mai se aumenta l’attività dei barorecettori cala l’attività simpatica) 15. L’attività
simpatica, così come anche il rilascio di ADH, è governata sia dall’attività dei barorecettori
cardiopolmonari (distretto venoso), sia dei barorecettori senoaortici (distretto arterioso).
N.B. Questo ci fa capire ancora una volta come la suddivisione tra recettori di volume e quelli di pressione
sia fittizia: sono tutti recettori da stiramento. È il volume dei vasi che ha effetti sulla pressione all’interno dei
vasi stessi, la quale a sua volta dipende da tanti fattori (certamente l’attività della pompa cardiaca, ma anche
la localizzazione di questi vasi, ad es. la pressione delle arterie ha determinanti diversi rispetto alla pressione
nelle vene).

Diverse delle suddette variabili hanno effetto sul riassorbimento tubulare di Na+.

15
Per ulteriori informazioni, si veda la tesina Regolazione della pressione arteriosa, punto 1.

471
 L’aldosterone stimola il riassorbimento tubulare di Na+ a livello distale. Ricordiamo che ha un effetto
sia a breve latenza (post-traduzionale), sia a lunga latenza (trascrizionale) (vedi tesina Regolazione
della pressione arteriosa, punto 3). È un effetto che coinvolge in maniera importante l’attività e la
densità dei canali ENaC presenti sulla superficie.
 L’angiotensina II stimola il riassorbimento tubulare di Na+ soprattutto a livello prossimale.
 ANP/BNP inibiscono il riassorbimento di Na+, sia perché spengono l’attività dell’aldosterone, sia
perché hanno effetti diretti nelle porzioni più distali del nefrone.
 L’attività simpatica aumenta il riassorbimento tubulare di Na+, soprattutto a livello prossimale con
un effetto α-adrenergico.
Cosa succede se si assorbe più sodio a livello renale (a parità di tutto il resto)?

Assorbire più sodio porta ad un aumento dell’osmolalità dei fluidi corporei, di conseguenza i meccanismi di
ADH e sete determinano una maggiore assunzione di acqua dall’esterno e un maggiore riassorbimento di acqua
a livello renale. Il risultato è che viene trattenuta acqua salata, aumenta il volume circolante, aumenta il
volume circolante efficace.
È un circuito chiuso il cui segno complessivo può essere ricavato moltiplicando tutti i singoli segni. Per
esempio considerando il circuito volume circolante efficace → apparato juxtaglomerulare → renina →
angiotensina II → aldosterone → riassorbimento di Na+ → volume circolante efficace; tutti i segni sono positivi
salvo uno negativo (l’aumento della tensione delle cellule dell’apparato juxtaglomerulare determina una
riduzione del rilascio di renina). Essendo dispari il numero di segni negativi, il prodotto dei segni è negativo,
per cui si tratta di un circuito chiuso a retroazione negativa che controlla il volume circolante efficace.
Anche nel circuito che parte dal volume circolante efficace ai barorecettori cardiopolmonari per tornare al
volume circolante efficace, c’è un unico segno negativo (effetto dei peptidi natriuretici sul riassorbimento
tubulare di Na+). Anche in questo caso si tratta di un circuito chiuso a retroazione negativa.
Analogamente, nel terzo circuito, che include i barorecettori senoaortici e l’attività simpatica, c’è un unico
segno negativo (neurone inibitorio nel bulbo caudale ventro-laterale) sufficiente a rendere il circuito chiuso
in retroazione negativa.

La velocità di filtrazione glomerulare subisce gli effetti di:


 Peptidi natriuretici, se aumenta il rilascio dei peptidi natriuretici atriale e cerebrale, la VFG tende
ad aumentare.
 Attività simpatica, se aumenta l’attività simpatica la VFG diminuisce. L’attività simpatica si esercita
primariamente sull’arteriola afferente con un effetto α1-adrenergico: vasocostrizione dell’arteriola
afferente → riduzione della pressione idraulica nei capillari glomerulari e del flusso plasmatico renale
→ riduzione della VFG.

472
Se aumenta la velocità di filtrazione glomerulare, a parità di tutto, aumenterà il filtrato ma la quantità
assorbita sarà sempre la stessa, di conseguenza si eliminano più acqua e più soluti. Il risultato sarà una
diminuzione del volume circolante efficace.
Il circuito: volume circolante efficace → barorecettori senoaortici → attività simpatica →VFG → volume
circolante efficace, è un circuito chiuso a retroazione negativa perché presenta tre segni negativi (se il
numero dei segni – è dispari il prodotto è negativo). Anche il circuito volume circolante efficace →
barorecettori cardiopolmonari → ANP/BNP → VFG → volume circolante efficace è un circuito chiuso a
retroazione negativa (c’è un solo segno meno).

Per quanto riguarda la resistenza vascolare sistemica:


 Angiotensina II è un vasocostrittore, quindi aumenta la resistenza vascolare sistemica.
 L’attività simpatica con l’effetto dominante α1-adrenergico è anch’essa un vasocostrittore →
aumenta la resistenza vascolare sistemica. N.B. Ricordiamo che c’è anche un effetto vasodilatatorio
mediato dai recettori β2 localizzati sui vasi sanguigni del muscolo scheletrico, può essere rilevante
prima di un esercizio fisico, ma non va a spostare l’effetto globale dell’attività simpatica sulla
resistenza complessiva.
 ADH, anche detto arginina-vasopressina, aumenta la resistenza vascolare sistemica.
L’aumento della resistenza vascolare sistemica aumenta la volemia efficace. Questo è un altro importante
aspetto che ci spiega perché il concetto di volemia efficace è così rilevante. Infatti, se parlassimo di volemia
circolante in sé e per sé, i cambiamenti di resistenza arteriolare non avrebbero alcun effetto sul volume
circolante, la resistenza di un vaso non è in grado di modificare il volume di tutto il circolo ematico. Al
contrario, un cambiamento della resistenza sistemica determina, a parità di gittata cardiaca, una variazione
della pressione arteriosa e della tensione a livello dei barorecettori, quantomeno a livello di quelli arteriosi
dominanti, andando a modificare il volume circolante efficace. Il fatto che i barorecettori arteriosi (carotidei e
aortici) siano dominanti è stato dimostrato in pazienti con la denervazione bilaterale dei seni carotidei come
effetto collaterale della terapia antitumorale. Questi pazienti sviluppavano ipotensione ortostatica anche a
distanza di un anno dalla terapia; ciò dimostra che gli altri barorecettori non sono in grado di sopperire
completamente alla mancanza di quelli carotidei.
Anche il circuito con effetto sulla volemia efficace che include una variazione della resistenza vascolare
sistemica è un circuito chiuso a retroazione negativa (un solo segno negativo riferito all’effetto dell’aumento
dell’attività dei barorecettori senoaortici sull’attività simpatica).

In un paziente con scompenso cardiaco la resistenza vascolare sistemica tende ad essere alta o bassa?
Tenendo a mente che la resistenza vascolare sistemica aumentando tende ad aumentare la volemia circolante
efficace, vuol dire che il paziente con scompenso cardiaco, il cui problema è una volemia efficace bassa,
tenderà ad aumentare la resistenza vascolare sistemica nel tentativo di far aumentare il volume circolante
efficace.

473
L’ormone antidiuretico va ad aumentare il riassorbimento renale di acqua, di conseguenza, a parità di
tutto, aumenta la volemia efficace. Dunque, anche quest’ultimo è un circuito chiuso a retroazione negativa.

Questo approccio ci permette di vedere l’organismo come un insieme di sistemi di controllo.


Lo schema precedente di Silvani è quello completo, ma ho pensato di dividerlo in sottoschemi che mostrino
i singoli circuiti a retroazione negativa.

474
Domanda di uno studente. Potrebbe esistere una patologia in cui una persona subisce una diminuzione delle resistenze
sistemiche, che causano un aumento di gittata cardiaca per compensare la diminuzione del volume circolante efficace?
No, perché questo richiederebbe una capacità di previsione e progettazione da parte dei meccanismi di controllo delle
resistenze vascolari che non può essere presente. Se la riduzione delle resistenze sistemiche, a parità di gittata, portasse
giù la pressione questo determinerebbe un ulteriore aggravamento della riduzione di volume circolante efficace. Si
consideri che a lungo termine l’organismo potrebbe essere già morto. È poco plausibile che il nostro organismo si sia
evoluto per gestire gli effetti di uno scompenso cardiaco: le patologie cardiovascolari, particolarmente quelle ischemiche,
sono patologie la cui incidenza cresce con l’età e quindi non importanti ai fini della sopravvivenza volta alla propagazione
della specie.
La risposta al cambiamento della volemia efficace è performante se si tratta di eventi acuti, di breve durata ed intensi
come nel caso dell’emorragia. Sempre da un punto di vista evoluzionistico, sarebbe svantaggioso se si svenisse quando
si va incontro ad un’emorragia in quanto diventa critico, ad esempio, essere in grado di sostenere un confronto ed
eventualmente scappare.
In una situazione cronica si mettono in atto una serie di meccanismi che risultano inadeguati e che diventano dannosi.
L’utilizzo di farmaci betabloccanti nella terapia dei pazienti con scompenso cardiaco illustra questo ragionamento. I
betabloccanti antagonizzano i recettori β-adrenergici tramite i quali il sistema nervoso simpatico aumenta la funzionalità
cardiaca (effetto inotropo, cronotropo, dromotropo, lusitropo e batmotropo positivo).
I pazienti con scompenso hanno un aumento dell’attività simpatica diretta al cuore poiché tentano di aumentare la
contrattilità e la frequenza cardiaca in modo da sostenere la gittata cardiaca. Questa risposta porta ad un aumento del
metabolismo cardiaco e quindi ad un maggiore consumo del cuore, ma si consideri che frequentemente il problema
cronico è nato perché il cuore consuma più sangue di quanto le coronarie danneggiate siano in grado di portargli. Si rischia
di entrare in un circolo che accelera la traiettoria verso la morte.
Si deve anche aggiungere che l’attività simpatica è pro-aritmica (aumenta l’eterogeneità della ripolarizzazione, aumenta
l’automaticità dei pacemaker ectopici) il che contribuisce ad aritmie maligne. I betabloccanti quindi bloccano tale risposta
inappropriata.

475
22. Regolazione dell’equilibrio acido-base
22.1. Concentrazione degli ioni idrogeno nel sangue e sistemi tampone ematici

Valori fisiologici di pH e gestione degli acidi nell’organismo


Il valore di riferimento del pH dei fluidi corporei, in particolare del liquido extracellulare, è tra 7.35 e 7.45
(dunque lievemente basico). L’esistenza di un intervallo sottolinea l’esistenza e l’importanza dei meccanismi
omeostatici.
Quando il pH cambia si può andare incontro a diversi problemi, primo tra tutti il cambiamento delle
conformazioni tridimensionali delle proteine, il che altera la loro funzionalità. In casi di variazioni estreme
di pH, alcune proteine possono denaturarsi.
Le perturbazioni del pH che tendono a modificare l’equilibrio sono determinate quotidianamente dal
metabolismo, di conseguenza anche i meccanismi di controllo e di compenso controbilancianti tali
perturbazioni metaboliche sono a loro volta utilizzati quotidianamente dall’organismo.
Il metabolismo dei nutrienti è necessario per l’ottenimento di energia: in particolare si utilizza soprattutto il
metabolismo aerobico, che produce anidride carbonica. La CO2 è anche detta acido volatile perché è un gas
che all’interno del nostro organismo può idratarsi in acido carbonico; tale reazione è piuttosto lenta ma viene
resa celere grazie all’anidrasi carbonica, enzima espresso in molte cellule del corpo (ad es., nei globuli rossi
e nelle cellule tubulari renali sia a livello intracellulare che sulla superficie luminale della membrana apicale).
L’organismo produce una grande quantità di CO2: circa 15-20 moli al giorno. Una soluzione a breve termine
all’acidificazione dei fluidi corporei dovuta alla CO2 consiste nell’utilizzo di sistemi tampone – sistema
formati da un acido debole e la relativa base coniugata – che riducono le modificazioni del pH del sistema. A
lungo termine la capacità di tamponare si esaurisce e diventa necessario l’utilizzo dei polmoni per eliminare
la CO2: difatti il controllo della ventilazione dipende anche dal pH dei fluidi corporei.
Un'altra sostanza prodotta dal metabolismo è l’acido lattico (acido debole) dovuto alla glicolisi anaerobica,
la cui produzione è continua ma è più alta in condizioni di esercizio fisico con sviluppo di debito di ossigeno.
I chetoacidi (acidi deboli) sono invece dovuti alla β-ossidazione degli acidi grassi a livello epatico. Sono
sostanze che possono fungere da substrati energetici (es. acetoacetato, β-idrossibutirrato) e in particolare sono
utilizzabili dai neuroni in aggiunta al glucosio in situazione di digiuno prolungato.
Il catabolismo proteico, oltre ai residui azotati, produce acido solforico e cloridrico (acidi forti). In
condizioni fisiologiche la degradazione delle proteine avviene per turnover, un processo sempre in atto che
sostituisce proteine danneggiate con nuove. Il danneggiamento delle stesse può essere dovuto a diversi tipi di
insulti come raggi UV, temperatura e glicosilazione non enzimatica. Il catabolismo può essere utilizzato anche
in caso di un grave problema di approvvigionamento energetico.
Il catabolismo proteico porta anche alla formazione di bicarbonato (HCO3-). La produzione di HCO3- è assai
inferiore a quella degli acidi forti e non risulta quindi sufficiente ad evitare l’acidificazione dei fluidi corporei.
H2SO4, HCl, i chetoacidi e l’acido lattico sono chiamati acidi non volatili per la loro natura non gassosa e la
loro produzione ammonta a 50-100 mmol al giorno.
Si può quindi evincere che dal punto di vista quantitativo (15-20 mol contro 50-100 mmol) il problema
dell’acidificazione è dovuto principalmente alla produzione di CO2. Questo vuol dire che se si smette di
utilizzare i polmoni, in poco tempo si va incontro ad acidosi respiratoria.
I reni sono gli organi volti alla gestione degli acidi non volatili tramite l’escrezione. Nel caso di
un’insufficienza renale si va incontro ad acidosi ma, visto che la produzione quotidiana è assai inferiore, prima
che la condizione emerga sono necessari giorni.

Sistemi tampone
Il principale sistema tampone del liquido extracellulare è quello costituito dal bicarbonato (base coniugata)
e dell’acido carbonico (acido debole).
L’anidride carbonica si idrata a dare acido carbonico con una reazione catalizzata dall’anidrasi carbonica;
l’acido carbonico si dissocia in ioni idrogeno e ioni bicarbonato.

CO2 + H2 O ↔ H2 CO3 ↔ H + + HCO−


3

Dal punto di vista quantitativo la cinetica della reazione si può formalizzare con l’equazione di Henderson-
Hasselbach:

476
[HCO− 3]
pH = 6,1 + log
0,03 ∙ 𝑃CO2

Trascurando le costanti, da un punto di vista fisiologico l’equazione indica che il pH è in funzione di un


rapporto dove si ha la concentrazione di bicarbonato al numeratore e la pressione parziale16 di CO2 al
denominatore.
La concentrazione del bicarbonato è in ultima analisi gestita dai reni mentre la PCO2 è gestita dai polmoni. Il
controllo del pH dipende da un coordinamento tra l’attività dei reni e dei polmoni. Questo sottolinea
l’origine delle alterazioni del pH.
L’acidosi è definita come un pH dei fluidi corporei più basso rispetto al valore minimo di riferimento (<
7.35). Se si è in acidosi il rapporto tra bicarbonato e PCO2 è basso, il che vuol dire che:
1. si è abbassata la concentrazione di bicarbonato, poiché i reni non sono in grado di riassorbire tutto il
bicarbonato filtrato: si tratta di un’acidosi metabolica;
2. è aumentata la PCO2: evento conseguente ad esempio ad una situazione di apnea o ad un’insufficienza
respiratoria: si tratta di un’acidosi respiratoria.
Com’è possibile risolvere il problema?
1. Per quanto riguarda la bassa concentrazione di bicarbonato dovuta a problemi renali: o si guariscono
i reni (terapia), o si ricorre ad un trapianto, oppure ci si affida ad una macchina esterna che faccia le
veci dei reni (dialisi).
Il nostro organismo è in grado di agire sui polmoni, difatti l’aumento della ventilazione
(iperventilazione) tenta di normalizzare il rapporto riducendo la pressione parziale della CO2. La legge
della ventilazione alveolare ci dice che, a parità di produzione metabolica di CO 2, se si ventila di più
la pressione parziale alveolare di CO2 diminuisce e quindi anche la pressione parziale arteriosa di CO2
diminuisce.
Un paziente con un’acidosi metabolica di origine renale tenderà quindi ad iperventilare abbassando i
propri livelli di CO2 e riportando i propri valori di pH a quelli di riferimento.
2. Nel caso di un’insufficienza respiratoria con livelli di CO2 che tendono a salire si cerca di far guarire
il paziente ma questo risulta difficile nel caso in cui si tratti di una BPCO. Si tenta quindi di lavorare
a livello renale: si spingono i reni, non solo ad assorbire il 100% del bicarbonato che hanno filtrato,
ma anche a produrre nuovo bicarbonato (ad esempio con la produzione di ioni ammonio).
Quando si hanno problemi sia renali che polmonari la situazione è ovviamente più complessa.
Nell’organismo esistono anche altri sistemi tamponi oltre al CO2/HCO3- , come le proteine plasmatiche e i
sali di calcio nell’osso. Questi ultimi sono importanti per tamponare le modificazioni di lunga durata
dell’equilibrio acido-base, in particolare in condizioni di acidosi si tampona erodendo i sali di calcio fosfato
nell’osso, il che determina a lungo andare una situazione di debolezza ossea (l’osso è poco perfuso e quindi si
tratta di tamponi che entrano in gioco in maniera più lenta). I fosfati ematici e le proteine intracellulari sono
altri esempi di sistemi tampone.

Le variazioni di pH conseguenti all’attività metabolica dell’organismo sono compensate:


 nel breve periodo dai sistemi tampone (acido debole + base coniugata) presenti nei liquidi
intracellulari e extracellulari;
 nel lungo periodo dal polmone (eliminazione di CO2 nell’ambiente) e dal rene (eliminazione di acidi
non volatili con le urine).

I principali sistemi tampone dell’organismo sono:


 tamponi proteici: funzionano molto bene nel liquido intracellulare o nel plasma (compartimenti ricchi
di proteine);
 tamponi costituiti da sali di calcio e di fosfato nell’osso: sono tamponi molto rilevanti
funzionalmente ma entrano in gioco solo in condizioni di squilibrio acido-base cronico, soprattutto di
acidosi cronica (questo perché l’osso è perfuso molto poco e quindi è necessario più tempo affinché

16
Ricorda. La pressione parziale di un gas è la pressione che verrebbe esercitata dal gas se questo occupasse da solo il
volume occupato dalla intera miscela di gas.

477
questi tamponi vengano chiamati in gioco in maniera importante). Quando intervengono sono in grado
di tamponare le valenze acide, ma indebolendo la matrice minerale dell’osso;
 sistema bicarbonato-acido carbonico: è il sistema tampone più importante del liquido extracellulare,
sia per l'abbondanza delle molecole che lo costituiscono, sia per le caratteristiche ottimali della K a
dell'acido debole coinvolto.
L’equazione di Henderson- Hasselbalch, come abbiamo già detto, esprime il pH in funzione del logaritmo
del rapporto fra la concentrazione di bicarbonato al numeratore e la pressione parziale di anidride carbonica al
denominatore.
La concentrazione di bicarbonato dipende in maniera critica dalla funzione dei reni, mentre la pressione
parziale di CO2 da quella dei polmoni. Quindi per poter mantenere l'equilibrio acido-base è necessario non
solo che i reni e i polmoni funzionino nel modo adeguato singolarmente, ma è anche fondamentale che
funzionino in modo coordinato.
L’alterazione dell’equilibrio acido-base può portare ad acidosi (riduzione del pH) o ad alcalosi (aumento del
pH). Ciascuna di esse può essere di due tipi: metabolica (dovuta ad alterazioni delle funzionalità renale e
quindi all’accumulo di acidi non volatili) o respiratoria (dovuta ad alterazione della funzionalità polmonare
e quindi all’accumulo di CO2).
Dal momento che il pH dipende da un rapporto, esso può variare o per alterazioni del numeratore o per
alterazione del denominatore:
 aumenta il numeratore → l’equilibrio si sposta verso una condizione di alcalosi: dato che la
concentrazione di HCO3- dipende dalla funzionalità dei reni si tratterà di alcalosi metabolica;
 diminuisce il numeratore → l’equilibrio si sposta verso una condizione di acidosi: dato che i
responsabili di questa alterazione sono i reni si tratterà di acidosi metabolica;
 aumenta il denominatore → l’equilibrio si sposta verso una condizione di acidosi: dato che la pressione
di CO2 è regolata dalla funzionalità polmonare si tratterà di acidosi respiratoria;
 diminuisce il denominatore → l’equilibrio si sposta verso una condizione di alcalosi: dato che la
pressione di CO2 è regolata dalla funzionalità polmonare si tratterà di alcalosi respiratoria.
Tutto ciò ci fa capire che le alterazioni in uno dei due organi possono essere, fino a un certo limite,
controbilanciate da altre alterazioni nell’altro organo.
Un'altra cosa che ci insegna questo approccio è che è possibile avere delle alterazioni dell'equilibrio acido-
base non solamente semplici, ma anche complesse, dovute cioè ad alterazioni contemporanee di numeratore e
denominatore, quindi delle funzionalità renali e polmonari, portando a condizioni di acidosi o alcalosi mista
(più complicate da trattare).

22.2. Trasporto tubulare degli ioni idrogeno e bicarbonato

Nota. Il riassorbimento di ioni bicarbonato è stata già trattata nel dettaglio nella tesina Funzioni del tubulo renale. Qui si
presenta una sintesi.

HCO3- filtra liberamente e il carico filtrato è elevato


in quanto il bicarbonato è molto concentrato nel
plasma:
 tubulo prossimale: avviene il riassorbimento
di circa l’80% del bicarbonato;
 segmento spesso ascendente dell’ansa di
Henle: viene riassorbita una quota di circa il
15% dell’ HCO3- filtrato;
 tubulo distale: piccola quota riassorbita;
 dotto collettore: anche in questo caso il
riassorbimento è piccolo, insieme al tubulo
distale riassorbe circa il 5% del totale di
HCO3-.

478
Il risultato è che in condizioni fisiologiche il riassorbimento di HCO3- è praticamente totale (100%): se
cosi non fosse il numeratore dell’equazione di Henderson ed Hasselbach diminuirebbe, determinando
un’acidosi metabolica.
Per quanto riguarda la tabella, i valori non sono molto importanti e potrebbero variare seguendo altre fonti,
le cose importanti da ricavare dal suo studio sono che:
 nel tubulo prossimale si ha un riassorbimento di HCO3- maggiore rispetto all’acqua e al sodio, quindi
la concentrazione di bicarbonato cala (il maggior riassorbimento di bicarbonato rispetto all’acqua
diluisce il bicarbonato rimasto);
 grazie al riassorbimento di HCO3- che avviene anche nell’ansa di Henle, nel tubulo distale e nel
collettore si arriva ad un riassorbimento del 100%.

Tubulo prossimale
Il sodio viene riassorbito con un meccanismo
già visto: antiporto Na+/H+ e anidrasi
carbonica espressa sia a livello citoplasmatico
sia sul versante luminale della membrana
apicale: nel primo caso catalizza una reazione
di idratazione della CO2, nel secondo caso di
disidratazione dell’H2CO3, e tutto ciò ha lo
scopo di permettere il riassorbimento baso-
laterale di HCO3-.
Sulla membrana apicale è inoltre presente una
pompa protonica, che permette con trasporto
attivo primario l’escrezione di ioni H+ per
favorire il riassorbimento di bicarbonato, in
modo analogo all’antiporto Na+/H+: a questo
livello tale pompa protonica non è
fondamentale, in quanto la concentrazione di
HCO3- a cui gli H+ possono legarsi è ancora
molto simile a quella plasmatica. Risulta invece
piuttosto importante a livello dei segmenti
successivi del nefrone, dove invece l’escrezione di ioni H+ è termodinamicamente molto più sfavorita, in
quanto il pH della pre-urina si fa via via sempre più acido.

Segmento spesso ascendente dell’ansa di Henle


Il riassorbimento è analogo, c’è sempre lo scambiatore Na+/H+ ecc.

Tubulo distale e nel dotto collettore


A questo livello le pompe protoniche citate in precedenza iniziano a lavorare a pieno ritmo, data l’elevata
concentrazione degli ioni H+ nella pre-urina.
I meccanismi di riassorbimento sono sotto controllo dell’aldosterone, che potenzia l’attività e il numero dei
canali ENaC, della pompa Na+/K+ e delle altre proteine che facilitano l’ingresso di Na+ e quindi la creazione
di una negatività luminale che facilita l’escrezione non solo di K + attraverso ROMK ma anche di ioni H+.
Questo vede una interazione tra le cellule principali, grazie alle quali si genera un potenziale negativo, e le
cellule intercalate, che sono invece quelle coinvolte nel controllo dell’equilibrio acido-base.

479
N.B. Il Berne & Levy parla
di cellule intercalate α che,
dopo aver prodotto grazie
all’anidrasi carbonica H+ e
HCO3- a partire da CO2 e H2O,
secernono H+ nel liquido
tubulare, attraverso una pompa
protonica o un antiporto H+/K+
(presenti sulla membrana
apicale), e riassorbono
l’HCO3- tramite un antiporto
Cl-/HCO3- (presente sulla
membrana baso-laterale).
Queste sono le cellule che
mediano il meccanismo
discusso da Silvani e che sono
rappresentate nell’immagine
presente. Il testo però parla
anche di cellule intercalate β,
che svolgono un ruolo
opposto: presentano cioè la pompa protonica sul versante baso-laterale e l’antiporto Cl-/HCO3- (un’isoforma
diversa, detta pendrina) sul versante apicale. Pare che queste cellule secernenti HCO3- siano attive in presenza
di alcalosi metabolica.

Importante è la presenza di tamponi urinari:


 a livello del tubulo prossimale e (molto meno) a livello dell’ansa di Henle il principale tampone
presente nell’urina è quello formato da H2CO3/HCO3-: questo è giustificato dall’altissima
concentrazione di bicarbonato a livello del tubulo prossimale. Quindi a questo livello il rene non ha
grossi problemi ad impedire variazioni del pH nella pre-urina perché l’alta concentrazione di HCO3-
tampona le secrezioni di ioni H+;
 a livello distale le cose però sono diverse: il bicarbonato è stato quasi del tutto riassorbito, quindi gli
ioni H+ che vengono secreti dalla pompa protonica ATPasica vengono tamponati da altri sistemi
tampone, formati principalmente da fosfati che vengono filtrati con la pre-urina (in quanto riassorbiti
poco ed in modo incompleto nei primi tratti del nefrone). Questi tamponi permettono l’eliminazione
degli ioni H+ andando a costituire il cosiddetto acido titolabile urinario, impedendo un’acidificazione
troppo forte della pre-urina distale; se non tamponati gli ioni H+ abbasserebbero in modo significativo
il pH, il che porterebbe ad una modifica delle proteine presenti sul versante luminale delle cellule
tubulari, che quindi risulterebbero danneggiate.
Un altro sistema tampone importante (ma molto meno efficace rispetto a quello formato dai fosfati) è quello
costituito da ioni ammonio/ammoniaca (NH4+/NH3): l’NH3 una volta che arriva nei tratti distali del nefrone
incontra un ambiente acido e si protona a ione ammonio, che rimane intrappolato nella pre-urina, costituendo
di fatto un sistema tampone.
Analizziamo ora il ruolo della formazione di nuovi ioni ammonio a livello del tubulo prossimale, evento che
rivesta invece un’importanza capitale nella regolazione dell’equilibrio acido-base.

22.3. Formazione e ruolo degli ioni ammonio

Nota. Il punto seguente è stato spiegato durante la trattazione delle Funzioni del tubulo renale, ma l’ho riportato qui per
agevolare lo studio in vista dell’esame.

A livello della parete del tubulo prossimale, la glutammina viene catabolizzata in ioni ammonio e, tramite
un intermedio organico carico negativamente e ulteriori passaggi, in ioni bicarbonato. Il processo prende il
nome di ammoniogenesi.
In particolare, da una molecola di glutammina si ottengono due ioni ammonio e due ioni bicarbonato.

480
Gli ioni bicarbonato vengono riassorbiti ed entrano in circolo, mentre gli ioni ammonio vengono escreti a
livello del lume tubulare per essere espulsi con l’urina.
Meccanismi di escrezione dello ione ammonio:
 antiporto Na+/NH4+: l’ingresso di sodio nella cellula è fortemente favorito dal gradiente
elettrochimico e la forza motrice generata porta alla fuoriuscita di ione ammonio;
 fuoriuscita in forma di base coniugata dell’ammonio, ovvero ammoniaca (NH3), mentre il protone
rilasciato esce in antiporto col sodio, sfruttando lo stesso trasportatore che può accettare ammonio al
posto del protone (citato sopra); l’ammoniaca può diffondere liberamente attraverso la membrana, per
poi protonarsi nuovamente nel lume tubulare.

A livello del lume tubulare l’equilibrio chimico è spostato verso la formazione dell’acido coniugato, quindi
prevale lo ione ammonio. In questo modo esso non potrà essere riassorbito in assenza di specifici trasportatori,
cosa invece possibile in forma di ammoniaca.
Nella porzione ascendente dell’ansa di Henle, segmento sottile e poi spesso, lo ione ammonio può essere
riassorbito verso l’interstizio tramite il cotrasportatore Na+/K+ /2 Cl-, che al posto del potassio può
veicolare uno ione ammonio. Inoltre, il voltaggio transepiteliale con il lume positivo favorisce il
riassorbimento paracellulare di ammonio.
Lo ione ammonio nell’interstizio tende a deprotonarsi formando ammoniaca, che diffonde nuovamente nel
lume, anche grazie alla presenza sulle cellule del dotto collettore di trasportatori specifici, chiamati
glicoproteine Rhesus, che attuano la cosiddetta “diffusione non ionica”.
Nella porzione terminale del dotto collettore il pH della preurina si inacidisce significativamente, a
causa dei processi di secrezione di protoni. Il pH basso porta ancora una volta l’equilibrio
ammoniaca/ammonio a spostarsi a favore della forma protonata e non diffusibile, in modo che rimanga
“imprigionato” nel tubulo collettore, e quindi che venga escreto con l’urina; si parla quindi di “intrappolamento
da diffusione”.

I vantaggi adattativi del processo descritto sono:


 la neoformazione di ioni bicarbonato, ovvero di valenze basiche, in circolo; si tratta infatti di un
processo che si va a sommare al riassorbimento di ioni bicarbonato filtrati nella pre-urina, che avrà
delle conseguenze sull’economia dell’equilibrio acido-base;
 contribuire all’escrezione di azoto, che all’interno della glutammina non è pericoloso, ma in forma
di ammoniaca è tossico per l’organismo anche a basse concentrazioni; il contributo del rene nel
complesso è importante per l’eliminazione di scorie azotate dall’organismo;
 la presenza della coppia acido debole/base coniugata nell’urina costituisce un sistema tampone, che,
come discusso precedentemnte, pur non essendo particolarmente efficiente, contribuisce a limitarne le
escursioni di pH.

481
Il processo di ammoniogenesi è potenziato in condizioni di acidosi, visto che il suo ultimo effetto è quello
di immettere in circolo ioni bicarbonato.
N.B. Se gli ioni ammonio fossero riassorbiti come gli ioni bicarbonato, si otterrebbe una neutralizzazione di
quelle valenze basiche neoformate che invece sono importanti per l’equilibrio acido-base complessivo. Questo
perché lo ione ammonio verrebbe convertito in urea a livello epatico, con rilascio di un protone, che andrebbe
a tamponare il bicarbonato; siccome la stechiometria è 1:1, complessivamente si avrebbe una neutralizzazione,
per l’appunto.

Domanda di uno studente. Da dove proviene la glutammina? La glutammina funge da trasportatore di azoto dal fegato
al rene, dove viene poi degradata nel modo appena visto. Si tratta quindi di un meccanismo di eliminazione dell’azoto
dall’organismo che funziona in contemporanea e in parallelo alla formazione di urea. In sostanza la glutammina è
normalmente presente nel sangue, e quando giunge al tubulo prossimale del nefrone viene degradata.

Domanda di uno studente. Quanto è rilevante la neoformazione di ioni bicarbonato rispetto al suo riassorbimento?
Il catabolismo delle proteine porta sì alla produzione di ioni bicarbonato, ma anche in modo molto consistente alla
produzione di cataboliti acidi forti; il risultato netto è la produzione di valenze acide.
Se il catabolismo proteico produce molte valenze acide, tra cui HCl e H2 SO4 , sono necessari dei sistemi tampone, tra cui
il più importante a livello extracellulare è il sistema bicarbonato/acido carbonico. Il catabolismo proteico, in un certo
senso, “consuma” bicarbonato per tamponare il pH dei fluidi corporei. I reni filtrano bicarbonato in grandi quantità, ma
lo riassorbono totalmente, e come abbiamo visto ne producono di nuovo dalla glutammina, aiutando a compensare quella
perdita di bicarbonato legata al tamponamento del pH.

22.4. Risposte renali e respiratorie alle modificazioni dell’equilibrio acido-base

Risposta respiratoria
N.B. Questo argomento corrisponde anche ai punti 1, 2 e 3 della tesina Regolazione chimica e nervosa della respirazione.

I meccanismi di controllo necessitano di sensori che vadano a misurare la variabile controllata.


I sensori critici per il controllo della ventilazione sono i chemorecettori (o chemocettori), distinti in
periferici e centrali.
 I chemorecettori periferici sono localizzati all’interno di piccoli organi, i glomi: sono delle strutture
grandi più o meno come una ciliegia distinte morfofunzionalmente dai vasi sanguigni, dotati di una
piccola capsula, di una vascolarizzazione molto abbondante (in relazione alla massa) e di
un’innervazione sia afferente che efferente. Essi sono localizzati in prossimità dei seni carotidei e
dell'arco dell’aorta, da cui ricevono direttamente vascolarizzazione. A questo livello si trovano anche
i barorecettori arteriosi, ma mentre questi ultimi sono localizzati nello spessore della parete del vaso,
i chemorecettori sono localizzati in strutture a sé stanti, all’esterno dei vasi.
Questa particolare localizzazione dei glomi ha un importante significato funzionale: dato che i seni
carotidei rappresentano la porta della circolazione cerebrale e l’arco dell’aorta la porta della
circolazione sistemica, i glomi, ricevendo vascolarizzazione da queste strutture, sono in grado di
campionare il sangue arterioso che sta entrando nella circolazione cerebrale o nella circolazione
sistemica (significato funzionale analogo a quello che i barocettori hanno nel controllo della pressione
sanguigna).
I glomi periferici carotidei e aortici rispondono a tre stimoli:
1. riduzione della pressione parziale di ossigeno (ipossia);
2. aumento della pressione parziale della CO2 (ipercapnia);
3. riduzione del pH (acidosi).
Anche se i glomi sono in grado di rispondere a ciascuna di queste tre variabili singolarmente, esse si
presentano spesso insieme (sono le tre condizioni che caratterizzano l’asfissia).
I glomi periferici sono nel complesso responsabili di tutta la risposta ventilatoria all’ipossia, del
40% della risposta ventilatoria all’ipercapnia (il restante 60% è responsabilità dei chemorecettori
centrali) e della risposta ventilatoria all’acidosi sia metabolica che respiratoria.
 I chemorecettori centrali sono dei gruppi di neuroni localizzati nel bulbo. Dal momento che si
trovano all’interno della barriera emato-encefalica non sono in grado di rispondere all’acidosi
metabolica, dato che essa è dovuta all’accumulo di acidi non volatili, i quali sono incapaci di

482
attraversare la barriera emato-encefalica e quindi non vengono rilevati dai chemorecettori centrali.
Sono invece in grado di rispondere all’acidosi respiratoria, dato che essa è dovuta a un eccesso di
CO2, la quale è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e può quindi essere rilevata dai
chemorecettori centrali. Inoltre i chemorecettori centrali, essendo all’interno del tessuto nervoso, sono
altamente sensibili alla CO2 prodotta dal tessuto nervoso stesso.
I chemorecettori centrali controllano la ventilazione in risposta a variazione di CO2 dovute:
1. ad alterazioni della funzionalità respiratoria: acidosi respiratoria; CO2 passa attraverso la
membrana emato-encefalica e solo nell’interstizio del tessuto nervoso al di là della membrana
viene idratata ad acido carbonico che fornisce ioni H+ rilevati dai chemorecettori (N.B. Non
sono gli H+ a diffondere direttamente nell’interstizio ma la CO2);
2. a cause metaboliche: elevata produzione di CO2 da parte del metabolismo di tessuti diversi da
quello nervoso (CO2 che entra tramite la barriera emato-encefalica) o dal metabolismo del
tessuto nervoso stesso.
Prendendo in analogia un sistema di condizionamento dell’aria, questo regolerà la temperatura in
modo automatico in relazione alla temperatura rilevata da un termometro interno al sistema stesso. Se
però questo termometro è posto in un punto in alto della stanza, rileverà una temperatura maggiore
rispetto a quella che si rileverebbe nella stessa stanza in un punto più basso (l’aria calda sale e la fredda
scende) e quindi regolerà in modo ottimale la temperatura in alto ma manterrà la temperatura del resto
della stanza più fredda.
Allo stesso modo i chemorecettori centrali regoleranno la respirazione al fine di mantenere costanti i
livelli di CO2 nel tessuto nervoso. Questo è importante anche perché un aumento di CO2 provocherebbe
una forte vasodilatazione a livello cerebrale (regolazione chimica del flusso ematico).

Quali sono gli effetti delle variazioni di PCO2, PO2 e pH sulla ventilazione?

Risposta ventilatoria a variazioni della PCO2


In ascissa si ha la PCO2 arteriosa e in ordinata la ventilazione.
Sono presenti tre curve, ciascuna delle quali descrive la risposta
ventilatoria al variare di PCO2 per un certo valore di PO2 costante:
una per PO2 pari a 50 mmHg, una per PO2 pari a 70 mmHg e una
per PO2 pari a 100 mmHg (valore fisiologico).
Si noti che in tutti i casi la risposta ventilatoria a variazioni di
PCO2 è lineare, cioè il coefficiente angolare è costante e la curva
è una retta: ciò significa che la variazione della ventilazione per
variazione unitaria di PCO2 è costante e in particolare la
ventilazione aumenta all’aumentare di PCO2. Ciò che cambia
tra le tre curve è il valore di tale coefficiente angolare, ossia
l’entità della variazione della ventilazione in risposta alla
variazione unitaria di PCO2.
Se PO2 = 70 mmHg (ipossia), rispetto alla condizione fisiologica
di PO2 la curva:
 diventa più ripida, cioè aumenta il coefficiente angolare e ciò significa che si ha una risposta
ventilatoria maggiore per variazione unitaria di PCO2;
 si sposta a sinistra, il che vuol dire che in condizioni di ipossia la risposta ventilatoria all’ipercapnia
entra in gioco prima e il chemoriflesso andrà quindi a difendere valori di PCO2 più bassi del normale.
La situazione diventa più marcata quando si considera come valore di PO2 un valore ancora più basso (ad es.,
nel grafico 50 mmHg).

Risposta ventilatoria a variazioni della PO2


In ascissa si ha la PO2 arteriosa e in ordinata la ventilazione.
Sono presenti tre curve, ciascuna delle quali descrive la risposta ventilatoria al variare di P O2 per un certo
valore di PCO2 costante: una per PCO2 pari a 35 mmHg, una per PCO2 pari a 45 mmHg e una per PCO2 pari a 55
mmHg. Il valore fisiologico di PCO2 è 40 mmHg (non riportato nel grafico), quindi la situazione normale è
compresa tra le due curve che descrivono la situazione che si avrebbe a 35 e 45 mmHg di PCO2.

483
In questo caso le curve hanno pendenza opposta rispetto alle
curve che descrivevano la risposta a variazioni di PCO2, quindi
la ventilazione aumenta al diminuire di PO2.
Inoltre le curve non sono delle rette: la risposta ventilatoria
si fa spiccata solo quando la pressione parziale dell’ossigeno è
già calata notevolmente, ossia quando raggiunge valori di circa
60 mmHg (in condizioni di normocapnia). Questa è una
notevole differenza rispetto a quello che accade per la risposta
ventilatoria all’ipercapnia: in quest’ultima la ventilazione
aumenta immediatamente appena la PCO2 sale di poco rispetto
al valore di riferimento, mentre la risposta ventilatoria
all’ipossia si manifesta in maniera robusta solo quando questa
è fortemente marcata.
Se PCO2 supera i 40 mmHg (condizione di ipercapnia) la
curva:
 diventa più ripida: ciò significa che si ha una risposta ventilatoria maggiore per variazione unitaria
di PO2;
 si sposta a destra, cioè la risposta ventilatoria all’ipossia entra in gioco prima e quindi per scostamenti
più modesti della PO2 rispetto al suo valore fisiologico.

Riassumendo. La risposta ventilatoria all’ipercapnia è una risposta che comincia appena la pressione parziale
di CO2 sale rispetto al valore di riferimento, e poi procede in maniera lineare. Il guadagno della risposta diventa
maggiore se c’è contemporaneamente ipossia e inoltre, se c’è ipossia, si abbassa la soglia di risposta. La
risposta ventilatoria all’ipossia invece non è lineare. In condizioni di normocapnia la risposta all’ipossia
diventa robusta solo quando la PO2 scende intorno a valori di 60 mmHg, mentre in condizioni di ipercapnia la
risposta ventilatoria all’ipossia diventa rilevante già per piccole riduzioni della PO2.17

Risposta ventilatoria a variazioni del pH


N.B. Questo grafico, a differenza dei due precedenti, non sarà richiesto all’esame.
È una condizione difficile da valutare in quanto il pH è una
grandezza logaritmica, quindi si fa riferimento alla
concentrazione di H+. Nel grafico, andando verso destra si
ha un aumento di pH (quindi diminuzione della
concentrazione di idrogenioni) mentre verso sinistra si ha
una diminuzione del pH (aumento della concentrazione di
idrogenioni). Tanto più aumenta la concentrazione di
idrogenioni, tanto più le risposte ventilatorie alla PCO2
(variabile sull’ascissa) diventano ripide e caratterizzate da
una soglia più bassa. Quindi la concentrazione di idrogenioni
ha lo stesso effetto che ha l’ipossia.

Perché ventilare in risposta a un aumento di CO2 è


benefico?
Perché vige l’equazione della ventilazione alveolare, per cui la pressione parziale alveolare della CO2 è
uguale a un rapporto che ha al numeratore la produzione metabolica di CO2 e al denominatore la ventilazione
alveolare.18

𝑉̇𝐶𝑂2 ∙ 𝑘
𝑃𝐴 𝐶𝑂2 =
𝑉𝐴̇

Questa equazione può essere convertita, moltiplicando a destra e a sinistra dell’uguale per la ventilazione
alveolare, in:

17
“Nella vita reale è raro che la PO2 arteriosa diminuisca senza variazioni concomitanti di PCO2 e pH.” (Boron & Boulpaep).
18
Ricorda. La PCO2 alveolare è fisiologicamente in equilibrio con la P CO2 arteriosa.

484
𝑃𝐴 𝐶𝑂2 ∙ 𝑉𝐴̇ = 𝑉̇𝐶𝑂2 ∙ 𝑘

Se si mantiene fissa la produzione metabolica di CO2 allora otteniamo:

𝑃𝐴 𝐶𝑂2 ∙ 𝑉𝐴̇ = costante

Questa è l’equazione di una iperbole quadratica.


Si ottiene quindi una famiglia di iperboli, ciascuna
delle quali corrisponde a un dato valore di
produzione metabolica di CO2. Sull’asse x si ha la
ventilazione alveolare mentre sull’asse y la PCO2
alveolare.
A parità di produzione metabolica di CO2, se si
ventila di più cala la 𝑃𝐴𝐶𝑂2 . Se si aumenta la
produzione metabolica di CO2 a parità di
ventilazione aumenta la 𝑃𝐴𝐶𝑂2 .
Questa relazione ha come causa variazioni della
ventilazione e come conseguenza variazioni della
PCO2, mentre precedentemente abbiamo analizzato
una situazione in cui la PCO2 è la causa e la ventilazione è l’effetto. Abbiamo, quindi, una relazione causale
bidirezionale, ed entrambe le relazioni causali sono vere (stesso meccanismo concettuale delle curve di
funzionalità vascolare e cardiaca).

Risposta renale

In seguito a filtrazione renale di HCO3- (assumendo che la filtrazione non sia bilanciata dal riassorbimento)
si ha una perdita di HCO3- nelle urine e di conseguenza si ha una riduzione della [HCO3-]plasmatica. L’effetto è
potenzialmente molto rilevante perché molto rilevante è il carico di bicarbonato filtrato: la concentrazione di
HCO3- arterioso è di 25 mEq/L, mentre la velocità di filtrazione glomerulare è di circa 180 L/giorno, quindi
moltiplicando i due termini si ottengono valori importanti.
A bilanciare questo potenziale effetto dannoso dato dalla filtrazione interviene però il riassorbimento: se si
pongono tutte le altri varianti uguali e si aumenta il riassorbimento di HCO3- si osserva un aumento della
[HCO3-]plasmatica.
Ci sono altre varianti da considerare: il catabolismo delle proteine va a produrre acidi non volatili (acido
cloridrico e solforico) che vanno tamponati e di questo si occupa il sistema H2CO3/HCO3-, con le reazioni
chimiche indicate nella slide (non sono importanti da sapere le reazioni, quello che è importante ricordare è
che il tamponamento avviene producendo sali, che vengono poi eliminati con le urine).
Il bicarbonato speso in questo modo non può venire riassorbito e viene perso, perché la reazione inversa
(ovvero la produzione dell’acido tamponato, questa volta nei tratti distali, per eliminarlo nelle urine e
conservare il HCO3- ) presenta un grosso problema, dato che gli acidi forti provocherebbero danni alla vescica

485
e alle vie urinarie. La quota persa è di 50-100 mEq/giorno, una quota piccola ma non trascurabile perché capace
comunque di portare, nell’arco del tempo, ad una condizione di acidosi metabolica.
A bilanciare questa perdita intervengono due meccanismi:
 vengono secreti ioni NH4+ a cui si accompagna una formazione diretta di HCO3-;
 vengono secreti ioni H+ che vanno a legarsi al tampone urinario fosfato nel tubulo distale del nefrone.
Questo meccanismo non porta direttamente ad un riassorbimento o ad una neoformazione di HCO3-
ma di fatto ne sortisce gli stessi effetti, perché dal punto vista dell’equilibrio acido/base eliminare degli
acidi equivale a formare delle basi.
Grazie a questi due meccanismi si è in grado di bilanciare la perdita vista in precedenza.

Ricapitolando, dal Berne & Levy: “L’organismo possiede tre meccanismi generali per difendersi dalle alterazioni
dell’equilibrio acido-base: (1) il tamponamento extracellulare e intracellulare, (2) le modificazioni della P CO2 ematica
prodotte dalle variazioni della ventilazione polmonare e (3) le modificazioni dell’escrezione renale di acidi.
 Tamponamento extracellulare e intracellulare. Il primo meccanismo di difesa contro le alterazioni dell’equilibrio
acido-base è il tamponamento extracellulare e intracellulare. La risposta del tamponamento extracellulare è quasi
istantanea. Il tamponamento intracellulare è invece più lento e si completa in diversi minuti. Le alterazioni
metaboliche che conseguono all’aggiunta al liquido extracellulare di acidi o alcali non volatili sono tamponate
nel LIC e nel LEC. Il sistema tampone CO2/HCO3- è il più importante tampone extracellulare. Un ulteriore
tamponamento extracellulare si verifica mediante il fosfato e le proteine plasmatiche. L’azione combinata dei
processi di tamponamento attuati dai sistemi CO2/HCO3-, fosfato e proteine plasmatiche rendono conto del 50%
circa del tamponamento di un carico di acidi non volatili e del 70% di quello di un carico di alcali non volatili.
La rimanente frazione dei tamponamenti si verifica a livello intracellulare. Il tamponamento intracellulare
prevede l’ingresso degli ioni H+ nella cellula (durante il tamponamento di acidi non volatili) o la loro uscita dalla
cellula (durante il tamponamento di alcali non volatili). L’H+ viene titolato all’interno della cellula sia dai sistemi
HCO3- e Pi, sia dalle proteine. L’osso rappresenta una sorgente aggiuntiva di tampone extracellulare. Con
l’acidosi cronica, il tamponamento da parte del tessuto osseo comporta demineralizzazione. Con le alterazioni
acido-basiche di tipo respiratorio, le variazioni del pH dei liquidi corporei dipendono dalle variazioni della
[H2CO3], che a loro volta dipendono direttamente dalla P CO2. Nelle alterazioni acido-basiche di tipo respiratorio,
quasi tutto (circa il 90%) il tamponamento avviene all’interno delle cellula. Quando la P CO2 aumenta (acidosi
respiratoria), la CO2 entra nelle cellule dove si combina con H2O per formare H2CO3 che quindi si dissocia in
H+ e HCO3-. L’H+ viene tamponato dalle proteine cellulari mentre l’HCO3- esce dalla cellula e incrementa la
[HCO3-] plasmatica. Questo processo di inverte quando la P CO2 si riduce (alcalosi respiratoria).
 Meccanismi di difesa respiratori. I polmoni rappresentano il secondo meccanismo di difesa contro le alterazioni
dell’equilibrio acido-base. La frequenza respiratoria è il principale fattore determinante della P CO2. Gli aumenti
della ventilazione riducono la PCO2; invece, quando la ventilazione si riduce, la P CO2 aumenta. Sia la PCO2 sia il
pH ematico sono importanti fattori regolatori della ventilazione polmonare. I chemocettori situati nell’encefalo
(superficie ventrale del bulbo) e in periferia (corpi carotidei e aortici) rilevano le variazioni della P CO2 e della
[H+] e inducono variazioni della frequenza ventilatoria. Nelle acidosi metaboliche, l’aumento della [H +]
(riduzione del pH) stimola la ventilazione polmonare. Viceversa, nelle alcalosi metaboliche, la riduzione della
[H+] (aumento del pH) riduce la frequenza ventilatoria.
 Meccanismi di difesa renali. Il terzo e ultimo meccanismo di difesa dell’organismo sono i reni. In risposta a una
modificazione del pH e della PCO2 del plasma, i reni mettono in atto gli opportuni aggiustamenti dell’escrezione
di HCO3- e di acido. Per completarsi, la risposta renale richiede diversi giorni per incrementare la sintesi degli
enzimi coinvolti nella produzione di NH4+. Nel caso dell’acidosi (aumento della [H+] o della PCO2), viene
stimolata la secrezione di H+ da parte del nefrone e l’intero carico filtrato HCO 3- viene riassorbito. Viene anche
stimolata l’escrezione di acido titolabile e la produzione e l’escrezione di NH 4+ e aumenta quindi l’escrezione
netta di acido da parte del rene. Il nuovo HCO3- generato durante il processo dell’escrezione acida viene restituito
all’organismo, e la [HCO3-] plasmatica incrementa. In caso di alcalosi metabolica (ridotta [H+]), il carico filtrato
di HCO3- è aumentato (a causa della elevata [HCO3-] plasmatica). In caso di alcalosi respiratoria (ridotta PCO2),
la [HCO3-] plasmatica è ridotta e di conseguenza il suo carico filtrato è ridotto. In entrambe le condizioni, la
secrezione di H+ da parte del nefrone è inibita. Come risultato, l’escrezione di HCO 3- è aumentata. Nello stesso
tempo, è diminuita l’escrezione di acido titolabile e di NH 4+. In sintesi, l’escrezione renale netta di acido è
diminuita e l’HCO3- è rilevabile nelle urine. Inoltre, una certa quantità di HCO 3- è secreta nelle urine dalle cellule
intercalate HCO3--secernenti del tubulo distale e del dotto collettore. Con un’escrezione potenziata di HCO 3-, la
[HCO3-] plasmatica cala.”

486
22.5. Alterazioni primarie dell’equilibrio acido-base: acidosi e alcalosi di origine
respiratoria e metabolica; meccanismi di compenso

N.B. I valori riportati nell’ultima riga non sono da imparare, gli altri sì.
La tabella riporta una riflessione sull’equazione di Henderson e Hasselbach.
Valori di riferimento importanti:
 PCO2 (pressione parziale di CO2) :
- > 40 mmHg: indica una condizione di ipercapnia (e quindi di acidosi respiratoria);
- < 40 mmHg: indica un’alcalosi respiratoria;
 [HCO3-] (concentrazione di bicarbonato)
- < 24mEq/L: indica una condizione di acidosi metabolica;
- > 24mEq/L: indica una condizione di alcalosi metabolica;
 pH arterioso: 7,4 (si tratta di un’approssimazione, in realtà è compreso tra 7,35 e 7,45):
- < 7,4: indica una condizione di acidosi;
- > 7,4: indica una condizione di alcalosi.

Tipi di alterazioni acido-base: approfondimento dal Berne & Levy


 “Acidosi metabolica. L’acidosi metabolica è caratterizzata da una bassa [HCO3-] plasmatica e da un basso
pH. Questa condizione può svilupparsi per l'aggiunta all’organismo di acido non volatile (ad esempio,
chetoacidosi diabetica), per perdita di basi non volatili (ad es. perdita di HCO3- causata da diarrea), o per
un’incapacità dei reni di espellere acido titolabile e NH4+ (ad es., nell’insufficienza renale). Come descritto in
precedenza, gli H+ sono tamponati e la frequenza respiratoria è aumentata (compensazione respiratoria).
Infine, nell'acidosi metabolica, l'escrezione renale netta di acido è aumentata. Questo avviene tramite la
ricaptazione di tutti gli HCO3- dall’urina (riassorbimento di HCO3- potenziato) e aumentando l’escrezione di
acido titolabile e NH4+ (produzione di nuovi HCO3- potenziata). Se il processo che ha avviato il disturbo
acido-base viene corretto, la potenziata escrezione renale netta di acido alla fine restituirà il pH e la [HCO3-]
alla normalità. Dopo la correzione del pH, anche la frequenza ventilatoria ritorna normale.
 Alcalosi metabolica. L'alcalosi metabolica è caratterizzata da un incremento della [HCO 3-] plasmatica e del
pH. Essa può verificarsi sia per aggiunta ai liquidi corporei di basi non volatili (ad es. ingestione di antiacidi),
come risultato della contrazione del volume (ad es. emorragia) o più comunemente per perdita di acidi non
volatili (ad esempio, perdita di HCl gastrico a causa di vomito prolungato). Il tamponamento ha luogo
prevalentemente nel LEC e, in misura minore, nel LIC. L'aumento del pH inibisce i centri respiratori, che
riducono la frequenza ventilatoria, e di conseguenza la P CO2 aumenta (compensazione respiratoria). La
risposta compensatoria renale all'alcalosi metabolica è di aumentare l'escrezione di HCO 3- riducendo il suo
riassorbimento lungo il nefrone. Normalmente questo si verifica abbastanza rapidamente (minuti o ore) ed

487
efficacemente. La potenziata escrezione renale di HCO3- alla fine restituisce il pH e [HCO3-] alla normalità, a
condizione che la causa di fondo dell'iniziale disturbo acido-base sia stata corretta. Quando il pH è corretto,
anche la frequenza ventilatoria ritorna normale.
 Acidosi respiratoria. L'acidosi respiratoria è caratterizzata da un’elevata P CO2 e da un ridotto pH plasmatico.
Essa deriva dalla riduzione dello scambio di gas attraverso gli alveoli, come risultato di una ventilazione
inadeguata (ad es. depressione dei centri respiratori indotta da farmaci) o da un’alterata diffusione dei gas (ad
es. edema polmonare, quale si verifica nelle malattie cardiovascolari e polmonari). Al contrario dei disturbi
metabolici, il tamponamento durante l'acidosi respiratoria si verifica quasi interamente nel compartimento del
LIC. L'aumento della PCO2 e la diminuzione del pH stimolano entrambi il riassorbimento di HCO3- da parte
del nefrone e l’escrezione di acido titolabile e NH4+ (compensazione renale). Insieme queste risposte
aumentano l’escrezione renale netta di acido e generano nuovo HCO 3-. La risposta compensatoria renale
richiede diversi giorni per attuarsi. Di conseguenza, i disturbi respiratori acido-base sono comunemente divisi
in fase acuta e cronica. Nella fase acuta il tempo per la risposta compensativa renale non è sufficiente e il
corpo si affida al tamponamento intracellulare per minimizzare il cambiamento nel pH. Nella fase cronica, si
verifica la compensazione renale. La correzione del disturbo di fondo restituisce la PCO2 alla normalità e
l’escrezione renale netta di acido diminuisce al suo livello iniziale.
 Alcalosi respiratoria. L'alcalosi respiratoria è caratterizzata da una ridotta P CO2 e da un pH plasmatico
aumentato. Essa è causata dall'aumento dello scambio di gas nei polmoni, di solito causato da una maggiore
ventilazione da stimolazione dei centri respiratori (ad es. tramite farmaci o a causa di disturbi del sistema
nervoso centrale). L'iperventilazione si verifica anche in alta quota e a causa di ansia, dolore, o paura. Il
tamponamento è principalmente nel compartimento ICL. Come per l'acidosi respiratoria, l'alcalosi respiratoria
ha una fase acuta e una cronica, che riflettono il tempo necessario per il verificarsi della compensazione
renale. La fase acuta dell’alcalosi respiratoria si riflette nel tamponamento intracellulare, mentre la fase
cronica è rappresentata dalla compensazione renale. Con la compensazione renale, il pH elevato e la ridotta
PCO2 inibiscono il riassorbimento di HCO3- da parte del nefrone e riducono l’escrezione di acido titolabile
acido e NH4+. Come risultato di questi effetti, l’escrezione renale netta di acido è ridotta. La correzione del
disturbo originario restituisce la PCO2 alla normalità e l'escrezione renale di acido aumenta fino al suo livello
iniziale.”

Gap anionici
Il concetto di gap anionico è un concetto che può essere definito sia per le urine che per il plasma, tuttavia
da un punto di vista medico quello utile è quello plasmatico.
 Gap anionico plasmatico:
[Na+] – [Cl-] – [HCO3-]
Il termine gap sta a indicare un divario (NdS. Silvani lo definisce “burrone, buca o soluzione di
continuità”).
Gli ioni scelti per il calcolo del gap anionico non sono gli unici ioni presenti nel plasma, tuttavia ne
rappresentano il gruppo principale.
Situazione ipotetica: si ipotizza che nel plasma ci siano solo Na+, Cl- e HCO3-, quindi il valore del gap
anionico dovrebbe essere zero per via del bilanciamento tra cariche positive e negative: [Na+] = [Cl-]
+ [HCO3-]. Questo non succede perché nel plasma ci sono anche altri anioni quindi fisiologicamente
il gap anionico plasmatico risulta positivo (8-16mEq/L), perché gli anioni che non compaiono
nell’equazione vengono comunque accompagnati dal sodio (in quanto catione), che invece è presente

488
e deve avere quindi un valore di concentrazione tale da bilanciare questi anioni, anche se questi non
compaiono nell’equazione.
Importanza clinica del gap anionico plasmatico: alcuni degli anioni che non compaiono nel calcolo del
gap anionico (es. acido lattico, poi convertito in lattato, β-idrossibutirrato) sono acidi non volatili, che
possono quindi portare ad una condizione di acidosi metabolica: l’aumento di concentrazione di questi
ioni porta ad un aumento della concentrazione di [Na+], quindi ad un aumento del valore del gap
anionico sopra la norma (> 8-16mEq/L). Questo aumento di valore rappresenta una soluzione
diagnostica pratica per il medico in quanto, appurato che c’è una condizione di acidosi metabolica,
rimane da definire da quale molecola è causata, il che risulta difficile da fare in laboratorio per le
limitate risorse in termini di tempo e denaro; la misura delle concentrazioni degli ioni [Na+], [Cl-] e
[HCO3-] è invece più facile in laboratorio e quindi attraverso l’uso di questi valori si può calcolare il
gap anionico e capire se il valore è fuori norma. Grazie alle informazioni del pH invece si ricava se ci
si trova in una condizione di acidosi o alcalosi: l’unione di queste informazioni permette di escludere
diverse molecole e di richiedere analisi di laboratorio specifiche in base al sospetto diagnostico.
Dal Berne & Levy: “Il gap anionico è aumentato nella chetoacidosi associata all'acidosi metabolica
(ad es. diabete mellito) con insufficienza renale, acidosi lattica o ingestione di tossine o determinati
farmaci (ad es. grandi quantità di aspirina). Pertanto, il calcolo del gap anionico è un modo utile di
identificare l'eziologia dell'acidosi metabolica in ambito clinico”.
 Gap anionico urinario:
[Na+] + [K+] – [Cl-]
Gli ioni considerati nel calcolo del gap anionico urinario sono quelli più concentrati nelle urine. In
particolare è rilevante il potassio, che invece non è presente nel calcolo del gap anionico plasmatico.
Nelle urine questo catione risulta particolarmente concentrato perché in condizioni di normo- e
iperkaliemia l’eliminazione del K+ in eccesso ricavato dalla dieta è affidato proprio alle urine (oltre a
feci e sudore). L’assenza del HCO3- è invece spiegata dal fatto che viene quasi totalmente riassorbito
a livello renale. Uno ione che invece è molto concentrato a livello delle urine ma che non compare
nell’equazione del gap anionico urinario è lo ione ammonio NH4+, quindi fisiologicamente il gap
anionico urinario risulta negativo, perché i cationi NH4+ che non compaiono nell’equazione saranno
comunque accompagnati dal cloro, che invece è presente nell’equazione, e deve avere quindi un valore
di concentrazione tale da bilanciare questi cationi.
Importanza clinica del gap anionico urinario: in una condizione di acidosi metabolica la
concentrazione di NH4+ nelle urine dovrebbe essere piuttosto alta e accompagnata dall’aumento della
concentrazione di Cl-, suo anione di accompagnamento: se in condizione di acidosi si rileva un valore
del gap anionico urinario nullo o positivo ciò indica un difetto nella produzione o nell’escrezione
renale di ioni NH4+, senza la necessità di misurare direttamente la concentrazione degli ioni ammonio
nelle urine (spesso non disponibile nei laboratori).

489
23. Regolazione della calcemia e della fosfatemia

Concentrazione di calcio e fosfato nei compartimenti idrici dell’organismo


La concentrazione dello ione calcio è relativamente bassa nell’ acqua extracellulare (e quindi anche in
quella plasmatica) rispetto a quella di altri ioni. I valori si attestano intorno a 1,1-1,3 mM. Dal momento che
la concentrazione intracellulare di Ca2+ è di 10-4 mM si ha un gradiente di concentrazione importante,
dovuto a una differenza di ben quattro ordini di grandezza, che spinge il calcio a passare dall’interstizio al
citoplasma quando la conduttanza a questo ione sulla membrana diventa elevata. All’interno delle cellule ci
sono anche dei compartimenti ben delimitati (come il reticolo endoplasmatico) in cui il calcio è presente a
concentrazioni più elevate che nel citosol e da cui può essere rilasciato sotto stimoli appropriati e permettere
ad esempio la contrazione del muscolo.
Il calcio è abbondante all’interno dello scheletro, il quale ne contiene circa 1 kg. Questo calcio si trova in
equilibrio con quello contenuto negli altri compartimenti dell’organismo.

All’equilibrio, il bilancio del calcio è neutro poiché la differenza tra la quantità di calcio assunto dalla
dieta e la quantità eliminata mediante feci e urine è pari a zero. Delle eccezioni in cui bilancio non è neutro
sono rappresentate da situazioni in cui si sta perdendo calcio (come in osteoporosi) o si sta verificando un
aumento delle scorte di calcio (accrescimento). L’intermedio tra l’assunzione dietetica di calcio e il suo
deposito nelle ossa è rappresentato dal calcio nel liquido extracellulare. In realtà questo calcio è solo una
piccola parte del pool cosiddetto a rapido scambio di calcio, che si trova nell’interstizio immediatamente
prossimo all’osso. È solo questo liquido extracellulare che viene filtrato a livello renale e va incontro a
escrezione urinaria.
Il bilancio del calcio è da considerare in integrazione al
bilancio del fosfato, che comprende fosfati inorganici
presenti in diverse forme come i sali mono- (HPO42-) e
diidrogenofosfato (H2PO4-) a pH fisiologico. Essi sono
indicati complessivamente come Pi.
È fondamentale mantenere un equilibrio coordinato del
calcio e del fosfato perché i loro sali tendono a
precipitare. Questa loro proprietà da un lato è utile a
livello osseo per permettere la mineralizzazione, ma
dall’altro lato è dannosa se avviene al di fuori dell’osso,
determinando calcificazioni ectopiche a livello di reni,
valvole e vasi sanguigni, come può avvenire in
condizioni patologiche.
La concentrazione del calcio nel plasma è di circa di 10 mg/dL, di cui la quota ionizzata è solo il 50%
mentre la restante parte del calcio plasmatico è legata a proteine o complessata con altri ioni. La
concentrazione menzionata sopra di 1,1-1,3 mM corrisponde solo alla quota ionizzata del calcio plasmatico.

490
Il fosfato nel plasma si trova invece ad una concentrazione di circa 4 mg/dL ed è quasi tutto in forma ionizzata
e solo in misura minore legato a proteine e complessato ad altri ioni.
Questi valori non sono fissi ma ricadono all’interno di un intervallo di riferimento che tiene conto anche delle
oscillazioni attribuibili al fenomeno dell’omeostasi. Nello specifico [Ca2+] = 8,8-10,6 mg/dL e [Pi] = 2,5-4,5
mg/dL.
È importante sottolineare che solo lo ione calcio libero (e non complessato ad altri ioni o proteine), cioè solo
il 50% della concentrazione totale nel plasma, esercita i veri e propri effetti biologici. Questo è rilevante perché
una serie di condizioni patologiche determinano effetti sull’organismo alterando solo la frazione del calcio
presente nel plasma sotto forma ionizzata, senza intaccare la quota complessiva di calcio.
Esempi di queste condizioni patologiche sono:
 Acidosi: c’è un eccesso di ioni H+ nel plasma, che si legano ad anioni e proteine sostituendo gli ioni
calcio precedentemente legati ad essi. Ciò comporta un aumento della quota di calcio ionizzato a fronte
di una concentrazione totale di calcio nel plasma che resta negli intervalli fisiologici. Siccome è la
concentrazione della quota di calcio ionizzato che produce effetti biologici e dato che questa quota
risulta aumentata, il paziente sviluppa i segni dell’ipercalcemia nonostante la calcemia complessiva
sia normale.
 Patologia epatica che causa diminuzione della produzione di proteine plasmatiche: la carenza di
proteine disponibili per il legame al calcio fa sì che ci sia una maggiore quantità di calcio ionizzato.
Anche in questo caso si determina ipercalcemia.
 Alcalosi: c’è un calo degli ioni H+ nel plasma, che non legano più proteine ed anioni. Le proteine e gli
anioni liberi legano il calcio e di conseguenza si abbassa la concentrazione della sua forma ionica,
inducendo effetti dell’ipocalcemia pur mantenendo la concentrazione totale del calcio plasmatico
nell’intervallo fisiologico.

Sintomi da alterazioni dei livelli fisiologici di calcio e fosfato


Per spiegare gli effetti che un alterato bilancio del calcio ha sulle cellule eccitabili, occorre esaminare il ruolo
svolto dallo ione nell’apertura dei canali voltaggio-dipendenti del Na+. Il calcio extracellulare interagisce con
questi canali che normalmente si aprono in seguito a depolarizzazione (fatta eccezione per i canali che
sostengono la corrente funny coinvolta nell’autoeccitazione delle cellule nodali cardiache). In particolare,
l’aumento della concentrazione di Ca2+ extracellulare determina, a parità del potenziale di membrana, una
diminuzione della probabilità di apertura dei canali.

Nel grafico sopra, sull’asse delle ascisse sono riportati i valori di potenziale di membrana. Sulle ordinate, è
indicata la probabilità di apertura dei canali voltaggio-dipendenti del sodio, dove 1 vale certezza di apertura e
0 certezza di chiusura. Ciò che interessa notare è che cambiando la concentrazione di calcio extracellulare
(indicata nel grafico come [Ca2+]o dove o sta per out), si ottengono diversi grafici per la funzione che mette in

491
relazione la probabilità di apertura dei canali con il potenziale di membrana. In figura ne vengono mostrati
tre. Considerando una qualsiasi delle tre curve, si trova conferma di quanto menzionato sopra: spostandosi
verso destra, ovvero andando verso una progressiva depolarizzazione della membrana, la probabilità di
apertura dei canali aumenta.
Sapendo che di norma [Ca2+]o è circa 1 mM, in condizioni fisiologiche ci si aspetta una curva compresa tra
quella gialla e quella rossa.
In ipocalcemia, la condizione descritta è quella della curva gialla: a parità di potenziale di membrana
rispetto ad una condizione fisiologica, c’è una maggior probabilità di apertura dei canali Na+ voltaggio-
dipendenti rispetto a quella che si avrebbe in condizioni di normocalcemia.
Viceversa, si verifica l’opposto in condizioni di ipercalcemia (curva rosso scuro): a parità di potenziale di
membrana diminuisce la probabilità di apertura dei canali Na+ voltaggio-dipendenti.
Possiamo riassumere questi dati sperimentali affermando che il calcio extracellulare stabilizza i canali
voltaggio-dipendenti del sodio nel loro stato chiuso.

Ipocalcemia
Il meccanismo appena illustrato spiega perché ridotti livelli di calcio extracellulare possono portare alla
manifestazione del fenomeno della tetania. In una condizione di ipocalcemia, i canali voltaggio-dipendenti
del sodio dei motoneuroni si aprono anche in seguito a variazioni del potenziale di membrana che in
condizioni fisiologiche non sarebbero sufficienti a determinarne l’apertura. L’aumentata apertura di questi
canali determina un’eccitazione patologica dei motoneuroni a cui consegue il raggiungimento della scarica
massimale nei loro assoni, il che provoca contrazioni tetaniche nel muscolo scheletrico di uno o più gruppi
muscolari.

Ipercalcemia
Al contrario, l’ipercalcemia riduce l’eccitabilità cellulare perché diminuisce la probabilità che i canali
voltaggio-dipendenti del sodio si aprano anche in condizioni di voltaggio di membrana che normalmente li
farebbero aprire. Questo comporta delle alterazioni di diverso tipo a carico delle cellule eccitabili:
 alterazioni neurologiche come depressione e coma;
 alterazioni gastriche, fra cui ulcera peptica (dovuta a modificazioni sia a livello dell’epitelio
gastrico sia a livello del controllo nervoso dell’epitelio);
 problemi cardiovascolari, soprattutto a livello di eccitabilità cardiaca con rischio di arresto
cardiaco.
Si manifestano effetti anche al di fuori delle cellule eccitabili. Nello specifico, una maggior quantità di
calcio nel plasma ha come conseguenza una maggior presenza di calcio all’interno della pre-urina. Ciò
significa che, se l’ipercalcemia si verifica in concomitanza di concentrazioni di fosfato inorganico
sufficientemente elevate, essa può causare la precipitazione di sali di calcio e fosfato all’interno delle vie
urinarie portando ad un aumento della probabilità di sviluppare calcoli renali (nefrolitiasi). La precipitazione
di sali di calcio e fosfato può verificarsi in condizioni gravi anche fuori dalle vie urinarie, in particolare sulle
pareti dei vasi e valvole.

Iperfosfatemia
Come appena accennato, la nefrolitiasi consegue all’eccesso sia di calcio che di fosfato, cioè è provocata
oltre che dall’ipercalcemia anche dall’iperfosfatemia. La condizione di iperfosfatemia primaria può
determinare ipocalcemia acuta perché con la precipitazione si riduce la concentrazione di calcio in forma
ionizzata portando così ad un possibile stato di tetanismo.

Ipofosfatemia
Una condizione di ipofosfatemia può portare invece a problemi riguardanti la mineralizzazione ossea,
determinando la formazione di ossa con proprietà meccaniche deboli.

492
23.1. Effetti del paratormone, vitamina D e calcitonina sulla mobilizzazione della
matrice ossea e sull’assorbimento ed escrezione del calcio e dei fosfati

La regolazione delle concentrazioni plasmatiche di calcio e fosfato è critica ai fini della sopravvivenza
dell’essere umano, in quanto esse sono cruciali per il mantenimento delle proprietà meccaniche dell’osso, per
evitare precipitazioni di sali di calcio e fosfato nelle vie urinarie oppure a livello vascolare e per garantire
un’adeguata funzionalità delle cellule eccitabili che esprimono i canali del sodio voltaggio-dipendenti. Diversi
sistemi ormonali sono deputati a questa regolazione:
 Calcitonina: è prodotta dalle cellule parafollicolari della tiroide ed è in grado di inibire il
riassorbimento osseo di calcio e fosfato. Nell’uomo ha un interesse più farmacologico che fisiologico
perché ha effetti molto modesti e la mancanza di calcitonina può essere compensata da modificazioni
dell’attività di altri ormoni. Infatti, nei pazienti sottoposti a tiroidectomia non si nota una significativa
alterazione del bilancio del fosfato e del calcio.19
 Paratormone (PTH): è prodotto dalle ghiandole paratiroidi. La tiroidectomia non compromette il
bilancio del fosfato e del calcio solo se le paratiroidi vengono preservate, poiché il paratormone svolge
diverse importanti funzioni fisiologiche. Nonostante i suoi limiti, in questo caso l’approccio
teleologico può risultare utile per comprendere gli effetti del paratormone. Si può considerare il
paratormone come un ormone con lo “scopo” di mantenere i livelli del calcio nel sangue
sufficientemente elevati, cioè il paratormone cerca di evitare l’ipocalcemia (questa si tratta di una
semplificazione per comprendere meglio l’argomento; ovviamente il PTH non ha alcuno scopo). In
questa ottica, si possono comprendere le funzioni svolte da questo ormone:
- riassorbimento osseo di calcio e fosfato;
- riassorbimento renale di calcio;
- escrezione renale di fosfato.
Il paratormone stimola il riassorbimento osseo di calcio e anche di fosfato, perché nell’osso il fosfato
si trova complessato al calcio e non si può estrarre uno dei due senza prelevare anche l’altro. Tuttavia,
come conseguenza di questo riassorbimento, l’elevata concentrazione plasmatica di questi due ioni
rischierebbe di causare una precipitazione ectopica di sali di calcio e fosfato e ipocalcemia acuta (che
è uno dei problemi della iperfosfatemia) da sommarsi ai danni dovuti alla demineralizzazione delle
ossa. Per evitare tutto questo, si comprende in chiave teleologica perché parallelamente al
riassorbimento renale di calcio il paratormone stimoli anche l’escrezione renale di fosfato.
 Calcitriolo o 1,25-diidrossivitamina D: viene prodotto dall’attività coordinata di cute, fegato, reni e
intestino e stimola:
- riassorbimento intestinale di calcio (e in quantità minore anche di fosfato);
- riassorbimento renale di fosfato;
- rimodellamento osseo.
La vitamina D stimola il riassorbimento renale di fosfato, ovvero sortisce un effetto sul fosfato
opposto rispetto a quello esercitato dal paratormone. Questo può essere spiegato in ottica teleologica:
la vitamina D mantiene livelli sufficientemente alti di calcio e fosfato così da ottimizzare la
deposizione di nuovo osso. Anche in questo caso, se ci sono difetti nella regolazione c’è il rischio di
precipitazione ectopica di sali. Affinché questo non avvenga, è fondamentale che la regolazione da
parte del calcitriolo sia inclusa in una serie di controlli da parte di altri sistemi ormonali.

Sintesi e rilascio del paratormone


Il paratormone è un ormone di natura peptidica e viene prodotto dalle ghiandole paratiroidi. Sul suo rilascio
ha un effetto importante il recettore di membrana CaSR (Calcium Sensing Receptor), sensibile alla
concentrazione di calcio ionico extracellulare (e non al calcio complessato a proteine e altri ioni). Il legame
del calcio ionico a questo recettore attiva delle vie di trasduzione del segnale mediante l’attivazione di proteine
G che portano all’inibizione:

19
Dal Berne & Levy: “Forme più potenti dell’ormone (ad es., calcitonina di salmone) sono state usate terapeuticamente
come inibitori del riassorbimento nel trattamento della malattia di Paget (caratterizzata da un eccessivo riassorbimento
osseo da parte degli osteoclasti) e nell’osteoporosi. La calcitonina è inoltre un utile marker istochimico per il carcinoma
midollare della tiroide.”

493
 della trascrizione dei geni che
codificano per il PTH;
 del rilascio del PTH tramite
esocitosi delle vescicole in cui esso
è immagazzinato.
Quindi, come illustrato nel grafico in
basso, alla crescita del livello di
calcio libero nel sangue si
accompagna una riduzione della
produzione e del rilascio del
paratormone (Ricorda. Qualcosa di
simile avviene anche a livello
dell’arteriola afferente del rene, in cui
però è il livello del calcio
intracitoplasmatico a determinare una
riduzione del rilascio di renina).
Questo è congruente con il quadro
teleologico proposto sopra: in
corrispondenza di bassi valori di calcio
extracellulare, il CaSR non viene attivato in maniera sufficiente da determinare la trasduzione del segnale e
di conseguenza si ha uno spegnimento dell’inibizione (cioè si
ha una disinibizione) posta sul meccanismo di rilascio di PTH,
che una volta liberato ha l’effetto di evitare l’ipocalcemia. Si
tratta di un circuito a feedback negativo (bassi livelli di calcio
stimolano la produzione e il rilascio di PTH → il PTH grazie
alla sua azione fa sì che la [Ca++] plasmatica salga → i nuovi
livelli aumentati di calcio inibiscono la produzione e il rilascio
di PTH).
Il rilascio del paratormone è modulato con un effetto a
retroazione negativa oltre che dal calcio ionico extracellulare
anche dal calcitriolo. Esso spegne la trascrizione per i geni del
PTH e stimola la trascrizione per i geni del CaSR (che a sua
volta è un freno sia alla produzione che al rilascio di
paratormone) ottenendo l’effetto complessivo di contrastare la
secrezione di paratormone. Questa azione inibitoria del calcitriolo sul paratormone si spiega
teleologicamente: mentre il calcitriolo cerca di garantire livelli di calcio e fosfato sufficientemente alti in
modo da renderli disponibili per la mineralizzazione dell’osso, il paratormone contrasta l’ipocalcemia
recuperando il calcio ovunque sia possibile, per esempio dall’osso di cui promuove la demolizione. Perciò il
calcitriolo ha “interesse” a inibire il rilascio e la sintesi di paratormone.

23.2. Sintesi endogena della vitamina D

La sintesi del calcitriolo dipende da un’interazione tra cute, intestino, fegato e reni e avviene a partire da
precursori endogeni oppure introdotti con la dieta.
Con la dieta si possono assorbire come precursori le vitamine D2 (ergocalciferolo, presente in alcuni
vegetali) e D3 (colecalciferolo, assumibile come supplemento vitaminico). Questi vengono assorbiti dagli
enterociti e trasportati al fegato direttamente attraverso il sangue portale oppure tramite i chilomicroni.
La via di sintesi endogena del calcitriolo parte invece dalla cute: i cheratinociti basali sono in grado di
convertire il precursore steroideo 7-deidrocolesterolo in vitamina D3 in seguito ad esposizione ai raggi UV-
B. Per questo motivo, la pigmentazione della cute e l’esposizione al sole giocano un ruolo in questa sintesi.20

20
Dal Berne & Levy: “Individui con un alto contenuto di melanina nella pelle che vivono a latitudini più alte convertono
meno 7-deidrocolesterolo in vitamina D3 e sono dunque maggiormente dipendenti dai supplementi vitaminici o dalle fonti
alimentari di vitamina D (naturali o fortificate).”

494
Quindi, complessivamente la quantità
di vitamina D che arriva al fegato
dipende dalla dieta e dall’esposizione
cutanea ai raggi solari.
La vitamina D che raggiunge il fegato
viene idrossilata dall’enzima 25-
idrossilasi a formare 25-idrossivitamina
D, che però non è ancora funzionalmente
attiva in quanto necessita di un’ulteriore
idrossilazione operata dalla 1α-
idrossilasi a livello del rene. In seguito a
quest’ulteriore reazione si ottiene 1,25-
diidrossivitamina D, meglio conosciuta
come calcitriolo, la forma attiva della
vitamina D che ha effetti biologici
sull’organismo.
Parallelamente a quest’ultimo
passaggio, a partire dal 25-
idrossivitamina D può avvenire una
diversa idrossilazione in posizione 24
portando alla formazione di 24,25-
diidrossivitamina D, la forma
biologicamente inattiva con cui si evita
una sovrapproduzione di vitamina D.

495
L’idrossilazione renale, e dunque la sintesi di calcitriolo, avviene nelle cellule del tubulo prossimale sotto
l’effetto di un controllo ormonale abbastanza complesso.21
 La concentrazione di calcio extracellulare è un fattore di regolazione in quanto anche le cellule del
tubulo prossimale esprimono il CaSR. Il legame tra il calcio e questo recettore innesca una
trasduzione del segnale mediata da proteine G che inibisce la trascrizione del gene CYP1α, il quale
codifica per la 1α-idrossilasi. Quindi, un’alta concentrazione di calcio plasmatico determina
un’inibizione nella produzione del calcitriolo da parte del tubulo prossimale. Questo effetto del
calcio sulla produzione di calcitriolo si spiega inquadrando il tutto in un’ottica teleologica: se lo
“scopo” del calcitriolo è garantire sufficiente calcio e fosfato per la mineralizzazione ossea, in
corrispondenza di un’elevata presenza di calcio extracellulare non occorre ulteriore azione della
vitamina D (non solo non è necessaria ma sarebbe anche dannosa poiché rischierebbe di causare
deposizioni ectopiche di calcio e fosfato. Si ricorda che concentrazioni eccessive di vitamina D sono
dannose per questo motivo, ma anche la carenza di vitamina D è nociva, poiché porterebbe a fragilità
delle ossa).
 Altro fattore che regola il rilascio di vitamina D è il PTH, che legandosi ai propri recettori di membrana
sulle cellule del tubulo prossimale attiva una trasduzione del segnale mediante proteine G stimolatorie
in una via che porta alla stimolazione della trascrizione per il gene CYP1α ed in conclusione ad un
incremento della sintesi del calcitriolo. Si può comprendere questa azione attraverso due prospettive
differenti:
- Da un lato, il paratormone cerca di prevenire o risolvere ipocalcemia perciò è ragionevole che
incrementi i livelli di vitamina D in quanto questa lo coadiuva promuovendo assorbimento di
calcio nell’intestino.
- Nella prospettiva opposta, ricordando che la vitamina D inibisce invece il rilascio di
paratormone da parte delle paratiroidi, lo stimolo del paratormone sul rilascio di vitamina D
serve per chiudere il circolo a retroazione negativa che evita oscillazioni estreme dei livelli
di questi due ormoni (il paratormone stimola rilascio di calcitriolo, il quale inibisce il rilascio
di paratormone).
 Il calcitriolo, inoltre, si autoregola attraverso un meccanismo a feedback negativo andando ad inibire
la trascrizione di CYP1α, mentre stimola la trascrizione del gene CYP24, portando alla produzione
della 24-idrossilasi che conduce alla forma biologicamente inattiva della vitamina D (24,25-
diidrossivitamina D), che non essendo funzionale è destinata alla degradazione. Ciò significa che
quando le cellule del tubulo prossimale stanno producendo un eccesso del loro prodotto, cioè il
calcitriolo, si invia un segnale per la riduzione della produzione del calcitriolo stesso e un dirottamento
del precursore che sta arrivando dal fegato (25-idrossivitamina D) verso la via di degradazione che
sfrutta la idrossilazione in 24.
 La regolazione del calcitriolo dipende anche dal
fosfato inorganico in due modi:
- Alti livelli di questo ione inibiscono
l’idrossilazione in 1 da parte del rene
(quindi la produzione di calcitriolo),
portando direttamente ad una
riduzione della quota di vitamina D
attivata.
- Pi agisce anche indirettamente sul
rilascio di calcitriolo, poiché stimola la
produzione del fattore FGF-23 da parte
delle cellule dell’osso (osteociti ed
osteoblasti). Questo fattore dopo essere
passato in circolo raggiunge i reni e
inibisce la produzione di calcitriolo.
Questa regolazione, che permette in
abbondanza di fosfato di evitare il
rilascio di vitamina D, serve per evitare
l’iperfosfatemia che si rischierebbe di

21
Al contrario la 25-idrossilasi epatica è “costitutivamente espressa e non regolata” (Berne & Levy).

496
raggiungere se si sommassero gli effetti del calcitriolo (che causa riassorbimento intestinale e
renale di fosfato) ad una situazione di partenza già ricca di Pi. Inoltre, è interessante notare che
il calcitriolo stimola la produzione di FGF-23 andando così a chiudere un ulteriore circuito
in retroazione negativa (calcitriolo stimola rilascio di FGF-23, che inibisce rilascio il
calcitriolo).

Domanda di uno studente. Il consumo abituale di acqua ricca di calcio ha effetti rilevanti sul lungo periodo? Potrebbe
portare ad una maggiore probabilità di sviluppare calcoli renali?
Il riassorbimento intestinale di calcio è regolato dalla vitamina D, il cui rilascio dipende dalla concentrazione di calcio
(sia direttamente che indirettamente attraverso il paratormone) e di fosfato. Ne consegue che non si assorbe tutto il calcio
introdotto con la dieta – contenuto in cibo e acqua – ma solo in una quantità proporzionale alla sua concentrazione in
circolo: in condizioni fisiologiche, si riassorbe tanto meno calcio quanto più se ne trova in circolo. Quindi, se il sistema è
funzionante, l’organismo è protetto nei confronti di un’eccessiva assunzione di calcio con la dieta. Tuttavia se alti livelli
di calcio persistono per lungo tempo e coesistono con alterazioni preesistenti dei meccanismi di controllo della
concentrazione di calcio (si ricordi che è un sistema complesso che può andare incontro a perturbazioni per varie ragioni),
si può ottenere un cospicuo aumento dei livelli di calcio circolante a cui segue un aumento dell’eliminazione del calcio
tramite urine e incremento della probabilità di precipitazione di sali di calcio e fosfato (accade se anche i livelli di fosfato
risultano aumentati) nelle vie urinarie a cui corrisponde maggior rischio di formazione di calcoli renali.
Per riassumere, la sola assunzione di calcio in eccesso non determina automaticamente nefrolitiasi, ma questa può
verificarsi se si ha contemporanea la presenza di fattori predisponenti che alterano l’omeostasi del calcio.

23.1. Effetti del paratormone, vitamina D e calcitonina sulla mobilizzazione della


matrice ossea e sull’assorbimento ed escrezione del calcio e dei fosfati (continuazione) e
23.3. Regolazione della secrezione del paratormone e della calcitonina

Assorbimento intestinale di calcio e fosfati


Il riassorbimento intestinale di calcio è svolto mediante due meccanismi:
 trasporto paracellulare;
 trasporto transcellulare:
avviene tramite i canali TRPV5
e TRPV6, che permettono
l’ingresso di Ca2+ sia per
gradiente chimico (la
concentrazione di calcio nel
lume intestinale è relativamente
elevata visto che lo ione è
introdotto con la dieta) che per
gradiente elettrico (le cellule
sono cariche negativamente al
loro interno). L’aspetto critico è
che il Ca2+ intracellulare lega
delle proteine, in particolare la
calbindina. Questo ha delle
conseguenze importanti:
- il legame Ca2+-calbindina abbassa i livelli di Ca2+ in forma ionizzata nel citoplasma
permettendo così di tenere alto il gradiente che spinge Ca2+ a entrare attraverso TRPV5/6;
- la calbindina aiuta anche la traslocazione di Ca2+ verso il lato sieroso delle cellule dell’epitelio
intestinale, dove il Ca2+ viene poi trasportato nell’interstizio tramite la pompa PMCA,
espressa anche a livello muscolare, e tramite l’antiporto sodio/calcio (NCX), espresso anche
a livello delle cellule del miocardio.
Si ribadisce che questi processi sono stimolati dalla vitamina D. Questo accade perché il riassorbimento di
Ca2+ dall’intestino è congruente con il “fine” del calcitriolo che sarebbe mantenere livelli sufficientemente
elevati di calcio e fosfato in circolo per garantire un’adeguata mineralizzazione ossea.

497
Allo stesso tempo, la vitamina D stimola anche il riassorbimento intestinale di fosfato che avviene tramite
un simporto Na+/Pi (NPT2).

Riassorbimento renale di fosfato


A livello renale il riassorbimento di fosfato avviene principalmente dal
tubulo prossimale, dove si riassorbe l’80% del carico filtrato di fosfati
inorganici, mentre il 10% viene assorbito nel tubulo distale: nel complesso
si arriva a eliminare nelle urine circa il 10% del carico filtrato di fosfati.
Si nota che l’eliminazione urinaria di fosfati è relativamente elevata
rispetto a quella di sodio, visto che il sodio eliminato con le urine è di norma
inferiore all’1% del carico filtrato (come si vedrà più avanti, anche il calcio
eliminato con le urine è inferiore all’1% del carico filtrato). I fosfati nelle
urine svolgono due ruoli importanti:
1. Essi sono utili poiché legando H+ costituiscono il principale tampone
urinario presente nei segmenti distali del nefrone, che permette
l’eliminazione del cosiddetto acido titolabile. I fosfati nelle urine riescono
così ad evitare un eccessivo abbassamento del pH dell’urina.
2. Inoltre, l’escrezione di acido titolabile è un meccanismo alternativo
rispetto a quello che coinvolge gli ioni ammonio che consente la
produzione di nuovo bicarbonato (occorre produrre bicarbonato per rimpiazzare quello impiegato
per titolare gli acidi forti che si trovano nel plasma e nel liquido extracellulare dopo essere stati prodotti
dal catabolismo degli amminoacidi). Il fatto che nelle porzioni distali del nefrone gli ioni idrogeno che
vengono escreti, tipicamente mediante delle pompe protoniche, si leghino a fosfato e non a ioni
bicarbonato riflette la quasi totale assenza del bicarbonato nella pre-urina a tale livello. Ciò significa
che dal lume del tubulo distale non si osserva riassorbimento di bicarbonato. È a livello intracellulare
che si assiste a produzione dello ione poiché questo si forma nello stesso processo che produce H +,
vale a dire la reazione di idratazione mediata da anidrasi carbonica che converte CO 2 in acido
carbonico che viene poi dissociato in H+ e ione bicarbonato.

Si analizza ora la modalità di assorbimento


di fosfati dal tubulo prossimale. Come si
osserva nella figura, a livello della membrana
apicale delle cellule del tubulo prossimale è
presente NPT2, un simporto con una
stechiometria di 3 ioni sodio per uno ione
fosfato inorganico. Esiste anche un’isoforma
che invece lavora con 2 ioni sodio con uno
ione fosfato inorganico ma la sostanza non
cambia: il simporto riassorbe fosfato insieme
al sodio22. Il fosfato che entra nelle cellule
viene poi riassorbito a livello dell’interstizio
tramite un antiporto basolaterale
fosfato/anione, in cui l’anione in questione
non è ancora stato ben caratterizzato. Il tutto
è energizzato dalla Na+/K+ ATPasi, che crea
il gradiente del sodio che guida l’ingresso di
fosfato tramite il simporto apicale.

Esistono molteplici meccanismi che modulano il riassorbimento di fosfato dal tubulo prossimale. Come già
affrontato, in seguito ad alterazioni a carico di uno di questi meccanismi di regolazione dell’omeostasi del
calcio e del fosfato, si riscontrano notevoli implicazioni cliniche: aritmie cardiache, alterazioni
neuromuscolari, alterazioni strutturali vascolari e renali per via della calcificazione, debolezza, difetti
dell’accrescimento, fragilità ossea con conseguente suscettibilità a fratture. Vista la complessità del sistema,

22
Nell’ultima versione del Berne & Levy non parla del trasportatore NPT2, ma dei trasportatori IIa (simporto
3Na+/HPO42-) e IIc (simporto 2Na+/H2PO4-).

498
anche in questo caso si raccomanda, per quanto possibile e con tutte le attenzioni del caso, di affidarsi a un
ragionamento teleologico.
 Il paratormone è l’ormone principale che controlla il riassorbimento di fosfato a livello renale e nello
specifico inibisce il riassorbimento dello ione, stimolandone invece l’escrezione. Questo si spiega
considerando che il paratormone evita l’ipocalcemia, andando a prelevare calcio e fosfato dall’osso.
Così facendo, il rischio è che con alti livelli di questi ioni si abbia conseguente formazione di
precipitati, che - causando diminuzione della quota di calcio nella forma ionizzata - condurrebbero a
ipocalcemia acuta, andando così paradossalmente ad aggravare la situazione che aveva stimolato la
produzione di paratormone. Da questo punto di vista, è coerente che il paratormone blocchi
l’assorbimento renale di fosfato, così da evitare precipitazioni ectopiche dei sali.
 Il calcitriolo stimola invece il riassorbimento renale di fosfato, così da mantenere livelli di calcio e
fosfato sufficientemente alti da poter permettere un’adeguata mineralizzazione ossea.
 L’acidosi inibisce il riassorbimento prossimale di fosfato. La conseguenza è un aumento di fosfati
nella porzione distale del nefrone e questo produce più acido titolabile e quindi eliminazione di valenze
acide (il che equivale a produrre nuovo bicarbonato). Tale bicarbonato “prodotto” in maggiore quantità
permette di compensare l’acidosi in conformità con l’equazione di Henderson-Hasselbalch.
 L’ormone della crescita (Growth Hormone, GH) agisce sul simporto di sodio/fosfato all’apice della
cellula del tubulo prossimale stimolando così il riassorbimento di fosfato. Rilasciato in abbondanza
durante l’infanzia e l’adolescenza, questo ormone consente di disporre di alti livelli di calcio e di
fosfato che occorrono in una situazione di crescita in cui c’è bisogno di produrre molto osso ben
mineralizzato.
 Il fosfato inorganico stimola la produzione da parte degli osteociti e degli osteoblasti dell’FGF-23, il
fattore 23 di crescita dei fibroblasti, che inibisce il riassorbimento prossimale di fosfato. La logica
che sottende il meccanismo è che, nel momento in cui sia ha un eccesso di fosfato in circolo, è
ragionevole eliminarlo in quantità maggiore in maniera tale da evitare che il fosfato si accumuli in
maniera eccessiva a livello del liquido extracellulare, dove creerebbe il rischio di una precipitazione
in sali e quindi di ipocalcemia acuta.

Osservando il grafico, si evince che la quota di fosfato


filtrato cresce linearmente con la sua concentrazione
plasmatica poiché il carico filtrato di fosfato è pari al
prodotto della VFG per la concentrazione plasmatica di
fosfato. Dunque, se la VFG è costante, ci si attende una
proporzionalità diretta.
Anche la quota di fosfato riassorbito dal tubulo
prossimale dipende dalla concentrazione plasmatica di
fosfato (fosfatemia), ma questo è vero solamente entro
un certo limite. Al crescere della fosfatemia, il
riassorbimento di fosfato prima aumenta, dopodiché si
stabilizza fino a raggiungere un valore detto
riassorbimento tubulare massimo (Tm).
La quantità di fosfato escreto si ottiene dalla
differenza tra la quantità di fosfato filtrato e quella di
fosfato riassorbito nell’unità di tempo. Ne consegue che
per concentrazioni plasmatiche di fosfato relativamente basse, si riassorbe virtualmente tutto il fosfato filtrato,
mentre per concentrazioni plasmatiche di fosfato maggiori lo si elimina con le urine in quantità crescenti e
proporzionali alla fosfatemia. Questo si verifica perché si è già raggiunto un riassorbimento tubulare
massimale. Tale meccanismo di saturazione del riassorbimento prossimale di fosfato consente di eliminare in
maniera più o meno automatica l’eccesso di fosfati presenti in circolo (sempre tenendo a mente che tuttavia
aumentando la concentrazione di fosfati nelle urine si incorre nel rischio di nefrolitiasi).

499
Riassorbimento renale di calcio
Il riassorbimento renale del calcio avviene anch’esso prevalentemente
a livello del tubulo prossimale, dove viene assorbito circa il 70% del
carico filtrato di calcio, non molto diverso dal riassorbimento di sodio e
acqua (pari al 67%). Nel segmento spesso della branca ascendente
dell’ansa di Henle si riassorbe circa il 20% del carico filtrato di calcio,
nel tubulo distale il 9% e nel dotto collettore l’1%. Quindi, le tre regioni
critiche da considerare per il riassorbimento renale di calcio sono il
tubulo prossimale, il segmento spesso della branca ascendente dell’ansa
di Henle e il tubulo distale. In ognuno di questi tratti sono coinvolti
diversi meccanismi nella regolazione dell’assorbimento dello ione.

Tubulo prossimale
Nel tubulo prossimale il riassorbimento di calcio è essenzialmente
paracellulare e quindi avviene per trascinamento da parte del solvente
e per diffusione.
Questo è reso
possibile dall’esistenza di un gradiente elettrico per cui il
lume risulta positivo. Questo gradiente è il risultato del
riassorbimento di sodio (con altre molecole organiche e
bicarbonato) che avviene nella prima parte del tubulo
prossimale, a cui poi segue il riassorbimento di cloro
nella seconda parte del tubulo prossimale. È il gradiente
transluminale così formato che stimola il riassorbimento
di cationi, in particolare di sodio ma anche di calcio.
Riassumendo, il meccanismo intermedio della positività
intraluminale che modifica il riassorbimento di sodio a
livello del tubulo prossimale ha un effetto anche sul
riassorbimento di calcio.

Segmento spesso della branca ascendente dell’ansa di Henle


Anche a questo livello, il riassorbimento di calcio è
paracellulare. Anche qui si ha un gradiente elettrico
positivo all’interno del lume, determinato questa volta
dall’escrezione di potassio tramite ROMK, che definisce
una positività laddove ci si attenderebbe una
elettroneutralità per effetto del solo simporto NKCC2.
Tanto più lavora il sistema di NKCC2 e ROMK, tanto più
c’è una positività intraluminare e tanto più calcio è
riassorbito per via paracellulare.
 L’ipercalcemia rappresenta il principale
meccanismo di regolazione del riassorbimento di
calcio a questo livello. La fine regolazione
determinata dall’ipercalcemia avviene tramite il
recettore Calcium Sensing Receptor (CaSR). Se c’è molto calcio nello spazio interstiziale questo viene
rilevato da CaSR, che spegne sia l’attività di NKCC2 che quella di ROMK. In questo modo si blocca
la produzione di un gradiente elettrico positivo intraluminale e di conseguenza si riduce il
riassorbimento di calcio e anche di sodio, potassio e altri ioni. L’effetto su questi ioni diversi dal
calcio denota dunque come avvenga un’interazione tra l’omeostasi del calcio e quella del volume dei
liquidi corporei e della loro osmolarità.
 Una famiglia di farmaci, detti diuretici dell’ansa, inibiscono NKCC2 ostacolando così la formazione
del gradiente elettrico positivo nel lume con conseguente diminuzione del riassorbimento di calcio.
A un paziente affetto da ipercalcemia potrebbe essere consigliato un diuretico dell’ansa proprio per
facilitare l’eliminazione di calcio; allo stesso tempo però un paziente affetto da calcoli urinari non
trarrebbe affatto giovamento da un diuretico dell’ansa, in quanto questo lascia il calcio nelle urine
aumentando quindi il rischio di precipitazione del calcio urinario. Risulta dunque evidente come la

500
prescrizione di un farmaco diuretico richieda la precisa conoscenza del meccanismo d’azione del
diuretico in questione.

Tubulo distale
Nel tubulo distale il meccanismo primario di
riassorbimento di calcio è costituito da TRPV5 e TRPV6,
presenti anche a livello delle cellule del duodeno e del
digiuno.
 Il principale ormone che entra in gioco a tale
livello è il paratormone, che stimola il
riassorbimento di calcio; il calcitriolo agisce
allo stesso modo. Si può comprendere questo loro
effetto considerando gli “scopi” dei due ormoni:
il primo consente di evitare una condizione di
ipocalcemia e il secondo di mantenere livelli di
calcio e fosfato in circolo sufficienti a garantire
un’adeguata mineralizzazione ossea. È perciò
conforme ai loro “obiettivi” il fatto che
promuovano il riassorbimento di calcio.
 Altri fattori che controllano il riassorbimento di calcio a livello del tubulo distale sono i diuretici detti
risparmiatori di potassio, i quali inibiscono gli effetti dell’aldosterone sui canali ENaC. Ostacolando
il riassorbimento di sodio tramite i canali ENaC, si genera una negatività luminale meno spiccata del
normale. La negatività del lume a livello del tubulo distale di per sé ha l’effetto di facilitare l’escrezione
di potassio e ostacolare il riassorbimento di calcio; visto che questi farmaci diminuiscono tale
gradiente, si ha una riduzione nell’eliminazione di potassio (effetto da cui i farmaci prendono il nome)
e allo stesso tempo un aumento nel riassorbimento di calcio.
 Altri farmaci diuretici, i farmaci tiazidici, stimolano il riassorbimento di calcio da parte del tubulo
distale agendo sul meccanismo basolaterale di trasporto di calcio nello spazio interstiziale. In
particolare, questi farmaci inibiscono il simporto NCC che introduce dentro la cellula sodio e cloro
dal lume tubulare. Il calcio che entra nella cellula del tubulo distale tramite TRPV5 e TRPV6 passa
nell’interstizio grazie alle pompe del calcio PMCA e allo scambiatore NCX. Come a livello cardiaco,
NCX può modificare la velocità e il verso in cui effettua il trasporto a seconda dei gradienti
elettrochimici. Se NCC è inibito a causa della presenza dei farmaci, entrano meno sodio e cloro e si
determina una concentrazione di sodio citoplasmatico relativamente più bassa. Di conseguenza
NCX è facilitato nel lavoro di far entrare sodio dal liquido extracellulare, e questo comporta
contemporaneamente maggior flusso in uscita di calcio dal citoplasma nell’interstizio attraverso
NCX (essendo NCX uno scambiatore sodio/calcio). Quest’abbassamento della concentrazione
citoplasmatica di calcio facilita il riassorbimento di calcio dal lume tubulare tramite TRPV5 e
TRPV6. Si conclude dunque che sia i risparmiatori di potassio che i tiazidici stimolano riassorbimento
di calcio dal tubulo distale. Si tratta dunque di farmaci adatti a un paziente affetto da ipocalcemia e
non tanto da ipercalcemia. Sono adeguati a un paziente affetto da nefrolitiasi perché riducono la
concentrazione di calcio nelle urine che, pur non essendo l’unico fattore responsabile della
precipitazione di sali, è un contribuente fondamentale nella determinazione del rischio.
A proposito degli effetti collaterali dei farmaci diuretici, trattati in precedenza, ora si può capire
meglio come una possibile complicazione dei tiazidici sia l’ipercalcemia, in quanto questi aumentano
il riassorbimento di calcio nel tubulo contorto distale, incrementando il rischio di calcificazioni
anomale nei tessuti e di disturbi della funzione nervosa e muscolare (ovvero i sintomi da ipercalcemia).
Viceversa, la perdita eccessiva di sodio con i diuretici tiazidici potrebbe favorire una iponatriemia.
 Il calcitriolo stimola il riassorbimento di calcio a questo livello per garantire un’adeguata
mineralizzazione ossea.
 L’acidosi inibisce il riassorbimento di calcio a livello del tubulo distale. Questo incremento
dell’eliminazione renale di calcio con le urine compensa in parte un altro effetto dell’acidosi, ossia lo
spostamento del bilancio tra il calcio totale e il calcio ionizzato in circolo a favore di quest’ultimo.

501
Metabolismo osseo
Dopo aver esaminato ciò che accade a livello intestinale e renale, si sposta ora l’attenzione sul
coinvolgimento dell’osso nella regolazione di calcemia e fosfatemia.

L’osso contiene osteoide, una matrice proteica prodotta dagli osteoblasti che include collagene e sali minerali
di calcio e di fosfato (idrossiapatite) che la stabilizzano e contribuiscono alle sue proprietà meccaniche. L’osso
è composto da due porzioni:
 trabecolare: ha una velocità di rimodellamento maggiore; nel caso si assista a un eccesso del suo
assorbimento rispetto alla sua sintesi si va incontro a una condizione di osteoporosi;
 corticale: più compatta, costituisce l’80% della massa ossea.

Sono tre le popolazioni cellulari coinvolte nel mantenimento dell’osso:


1. gli osteoblasti, che producono la matrice proteica che poi si mineralizza;
2. gli osteociti, che sono le forme residue degli osteoblasti rimasti imprigionati all’interno dell’osso e
modulano l’attività degli osteoblasti e il relativo rimodellamento osseo in risposta a stimoli meccanici.
Gli osteociti sono anche in grado di trasferire calcio alla superficie ossea tramite i canalicoli di
Havers (così ha detto Silvani, ma in realtà i canalicoli sono del tutto distinti dai canali di Havers: i
canalicoli sono dei piccoli canali che contengono i prolungamenti cellulari degli osteociti mentre i
canali di Havers sono canali che contengono vasi e nervi e che percorrono i tessuto osseo lamellare);
3. gli osteoclasti, che sono cellule deputate al riassorbimento, cioè degradazione, dell’osso.

Esiste una stretta interazione tra osteoblasti e osteoclasti. I primi hanno due effetti di stimolazione e uno di
inibizione nei confronti dell’attività dei secondi:
1. Gli osteoblasti presentano recettori per paratormone e calcitriolo e producono fattori di crescita, come
M-CSF (fattore di crescita dei monociti), che stimolano la differenziazione delle cellule della linea
cellulare dei monociti-macrofagi verso la formazione di pre-osteoclasti. Per certi versi, infatti,
l’azione svolta dagli osteoclasti assomiglia a una risposta infiammatoria localizzata, che in questo caso
permette il riassorbimento di calcio, fosfato e matrice proteica che compongono l’osso.

502
2. Gli osteoblasti trasformano i pre-
osteoclasti in osteoclasti attivi
legando tramite RANK-L, una
proteina espressa sulla loro
membrana, il recettore RANK,
presente invece sulla membrana dei
pre-osteoclasti. Questo legame induce
la fusione tra vari pre-osteoclasti che
formano così un osteoclasto
policarionico (cioè polinucleato), il
quale aderisce alla superficie ossea e
rilascia enzimi idrolitici e ioni H+.
Gli enzimi idrolitici clivano le
proteine della matrice ossea, mentre
l’ambiente acido che viene creato è in
grado di portare in soluzione i sali di
calcio e fosfato che fungono da
tamponi. L’acidosi cronica porta a una riduzione dei livelli di calcio e fosfato nell’osso proprio perché
aumenta la quantità di calcio e fosfato che lasciano l’osso per portarsi in soluzione. Riassumendo, gli
osteoclasti policarionici determinano un’acidosi importante ma molto localizzata a livello dell’osso e
questo permette di portare calcio e fosfato inorganico prima nell’interstizio e poi in circolo (e
parallelamente viene anche riassorbita matrice proteica degradata dagli enzimi proteolitici).
3. Gli osteoblasti sono fondamentali anche per bloccare la degradazione dell’osso, così che possano aver
luogo deposizione di matrice e mineralizzazione. Essi producono una proteina solubile,
l’osteoprotegerina (OPG), che impedisce il legame tra RANK-L e RANK, evitando così l’attivazione
degli osteoclasti.
È evidente come gli osteoblasti svolgano l’importante compito di mantenere l’equilibrio tra stimolazione
(tramite RANK-L) e inibizione (tramite OPG) della degradazione ossea. Il tutto è sottoposto a controllo
ormonale da parte di:
 Paratormone
Se il paratormone è presente in circolo a livelli elevati, gli osteoblasti lavorano soprattutto tramite
RANK-L rilasciando poca osteoprotegerina. In questo modo si osserva riassorbimento netto di calcio
(il paratormone infatti evita l’ipocacalcemia).
Al contrario se i livelli di paratormone non sono elevati, l’attività degli osteoblasti viene governata
più da meccanismi locali e si ha un bilancio molto più stringente tra l’attività mediata da RANK-L e
la produzione di osteoprotegerina.
 Calcitriolo
È interessante notare che il calcitriolo, pur essendo volto all’ottimizzazione dei livelli di calcio e
fosfato per ottenere deposizione ossea, stimola l’attività degli osteoclasti. Questo indica che non si
può avere nuova deposizione ossea se prima non si ha rimodellamento e riassorbimento dell’osso
deposto in precedenza (non si può semplicemente sommare osso nuovo sulla superficie di quello
vecchio: bisogna prima assorbire quello vecchio e deporne di nuovo secondo le necessità). Questo è
valido sia per l’accrescimento che per il rimodellamento osseo dovuto ad esempio ad attività fisica.

Domande degli studenti


1. Il fatto che la regolazione in condizioni di ipercalcemia si basi in pratica solo sull’inibizione della secrezione di
paratormone non rende il meccanismo un po’ lento? Se non altro rispetto a come potrebbe essere invece se la
calcitonina avesse un effetto più rilevante.
Avere un sistema di controllo che agisce in due versi opposti conferisce un vantaggio adattivo: pensiamo alla
termoregolazione di una stanza basandosi solamente su una stufa o un condizionatore, piuttosto che entrambi.
Quando ci sono entrambi, il vantaggio è rilevante. Il ragionamento della domanda è corretto ma è inapplicabile,
perché l’organismo non l’abbiamo creato noi. Non c'è un effetto robusto della calcitonina: questo è un fatto.
Quello che si può dire è che, però, il calcio ha degli effetti diretti indipendenti dal paratormone: infatti grazie ai
CaSR (particolarmente espressi a livello renale) il calcio può agire direttamente indipendentemente dal rilascio
di paratormone.
2. Potrebbe ripetere il ruolo del GH nel riassorbimento renale di fosfato inorganico?

503
L’ormone della crescita aumenta il riassorbimento di fosfato tramite il potenziamento del simporto sodio/fosfato:
riduce l’eliminazione del fosfato nelle urine. Durante la crescita (dall’infanzia all’adolescenza) si ha necessità di
un osso plastico e ben mineralizzato. È coerente quindi che l’azione del GH vada ad influire su un maggiore
riassorbimento di fosfato per permette di avere quei livelli di calcio e fosfato sufficienti a facilitare il processo
di mineralizzazione.
3. Potrebbe ripetere perché l’acidosi induce il riassorbimento di calcio a livello renale, considerando che l’acidosi
induce ipercalcemia?
L’acidosi induce un aumento della [Ca2+] inorganico ionizzato a livello del plasma, evento che non sempre è
relegato ad un aumento della calcemia: infatti il calcio totale presente nel plasma è al 50% libero in forma
ionizzata e per il restante 50% associato a proteine/altri ioni che non lo rendono utile nei processi di
trasferimento. L’acidosi spiazza il legame del calcio con le proteine/altri ioni plasmatici: questo porta ad un
aumento della concentrazione di calcio ionizzato talora anche a parità della concentrazione totale di calcio. Se
quindi ci riferiamo all’aspetto fisiologico/biologico l’acidosi aumenta il calcio ionizzato e quindi la calcemia;
tuttavia, spesso, la condizione di ipercalcemia viene riferita al calcio totale (perché è il valore che viene misurato
nelle analisi). A livello renale l’acidosi inibisce il riassorbimento di calcio tramite i canali TRPV 5/6. In
condizioni di acidosi si va così ad eliminare più calcio con le urine e quindi si compensa l’aumento di calcemia
a livello plasmatico.
4. Parlando dell’assorbimento di calcio nel tubulo distale, questo avviene tramite canali TRPV 5/6 come
nell’intestino, ma mentre in quest’ultimo il trasporto avviene secondo gradiente, nel tubulo distale dovrebbe
avvenire contro gradiente. L’assorbimento del sodio nel tubulo distale rende il gradiente luminale negativo.
Com’è possibile quindi che l’assorbimento del calcio avvenga tramite i canali?
Perché il calcio è uno ione: il verso del flusso netto di calcio attraverso i canali TRPV 5/6 dipende dal gradiente
elettrico e dal gradiente chimico (∆C). Lo ione calcio nel plasma è solitamente presente a basse concentrazioni.
Nella pre-urina il filtrato glomerulare parte con una [Ca2+] praticamente uguale a quella plasmatica; il
riassorbimento di calcio è in realtà leggermente superiore a quello di acqua ma in termini di ordini di grandezza
i due si equivalgono. Quindi se il filtrato glomerulare aveva una concentrazione di calcio ben più alta del
citoplasma, anche la preurina che arriverà al tubulo distale avrà una concentrazione maggiore rispetto al LIC. La
risposta breve sta quindi in una differenza di concentrazione. Un po’ nel dettaglio questo ci spiega perché nel
tubulo distale si ha un riassorbimento trans-cellulare e non para-cellulare: quest’ultimo infatti svilupperebbe uno
spostamento dal lume tubulare all’interstizio.

Sintesi del ruolo coordinato di PTH e calcitriolo


Tabella che riassume l’azione del PTH e della 1,25 diidrossivitamina D nell’omeostasi del Ca2+ e del Pi:

 Paratormone:
- Piccolo intestino: nessuna azione diretta.
- Osso: regola e promuove la crescita di osteoblasti e la loro sopravvivenza; regola la
produzione del M-CSF, l’espressione di RANK-L e OPG. A livelli elevati cronici promuove

504
il riassorbimento netto di calcio e di fosfato dall’osso. Gli effetti del PTH sono determinati
dalla concentrazione e determinano a livello dell’osso effetti anche piuttosto diversi. Si è
finora concettualizzato il paratormone come un ormone che aiuta ad evitare livelli troppo bassi
di calcio plasmatico. Quando esso è secreto a livelli elevati, effettivamente è ciò che accade e
prevale l’effetto sugli osteoclasti: un effetto indiretto (gli osteoclasti non rispondono ai livelli
di paratormone) che si esplica in seguito alla stimolazione da parte degli osteoblasti. Il risultato
è un aumento della [Ca2+] e della [Pi] plasmatiche. Se invece il paratormone viene rilasciato a
concentrazioni più basse, allora semplicemente stimola tutto il sistema osteoblasto-
osteoclasti che permette di accoppiare il riassorbimento alla neo-deposizione: non si osserva
più un netto riassorbimento, ma due effetti opposti e bilanciati (grazie specialmente alle
segnalazioni locali degli osteociti).
- Rene: stimola l’attività dell’1-α idrossilasi e dunque la produzione di calcitriolo. Il calcitriolo
stimola, come vedremo a breve, il riassorbimento intestinale (soprattutto) e renale (in minor
parte) di calcio e fosfato e permette al PTH di evitare livelli troppo bassi di calcio nel caso in
cui sia rilasciato molto PTH; quando PTH è rilasciato a livelli normali permette all’operazione
di rimaneggiamento dell’osso di funzionare sempre al meglio avendo a disposizione livelli di
calcio e fosfato adeguati. Il PTH inoltre stimola il riassorbimento di Ca2+ nel tratto
ascendente spesso dell’ansa di Henle: da un lato ciò è positivo perché altrimenti il PTH
finirebbe per degradare l’osso inibendo anche il riassorbimento a livello renale: ne
deriverebbero ossa deboli e numerosi calcoli renali. Dall’altro lato però risparmiare il calcio,
che altrimenti andrebbe eliminato nelle urine, è uno dei metodi con cui si evitano basse
concentrazioni di calcio a livello plasmatico. Il PTH inibisce contestualmente il
riassorbimento di fosfato nella parte prossimale del nefrone sventando una mineralizzazione
nei vasi (data dalla sovrabbondanza contemporanea di fosfato e calcio) e una conseguente
ipocalcemia. Il paratormone si serve del calcitriolo che però ha l’effetto collaterale di
aumentare la fosfatemia e che il paratormone combatte compensando questa tendenza con una
più massiccia eliminazione attraverso le urine.
- Ghiandole paratiroidi: nessun effetto diretto.
 Calcitriolo:
- Piccolo intestino: aumenta l’assorbimento di calcio e quindi fa in modo che la quota di calcio
nelle feci sia più bassa di quella usuale; l’assorbimento di fosfato è aumentato in misura
modesta.
- Osso: sensibilizza gli osteoblasti al paratormone e regola la calcificazione dell’osteoide:
questo perché le operazioni di deposizione e riassorbimento dell’osso non sono solo quelle
che si manifestano quando il PTH è rilasciato a basse concentrazioni, ma anche quelle azioni
cha avvengono nel processo di accrescimento dove non si può pensare che (sebbene sia un
contesto di crescita) l’osso del bambino sia esclusivamente sottoposto a processi di
deposizione di minerale: ci devono infatti essere processi contestuali (seppur attenuati) di
degradazione e riassorbimento. Il calcitriolo in sintesi ci garantisce che gli osteoblasti
rispondano bene sia a livelli normali di paratormone (fonte di equilibrio tra riassorbimento e
deposizione) che a livelli aumentati dello stesso (indice di un prevalente processo di
riassorbimento).
- Rene: ha azioni minime sul riassorbimento di calcio. Promuove il riassorbimento di fosfato
nella parte prossimale del nefrone (che è un’azione opposta a quella esercitata dal
paratormone).
- Ghiandole paratiroidi: il calcitriolo inibisce direttamente l’espressione del gene del PTH e
stimola contestualmente l’espressione del gene del CaSR (che inibisce la produzione di
paratormone e anche il suo rilascio). Riusciamo a concettualizzare questo processo tramite
uno schema a retroazione negativa in cui il PTH stimola la produzione di 1,25
diidrossivitamina D, che a sua volta inibisce la secrezione di PTH: si evitano così squilibri
eccessivi.

505
Si immagini di avere una condizione di ipocalcemia di base: essa porta ad un aumento della secrezione di
paratormone (a causa della minor stimolazione dei CaSR). Il PTH va a stimolare a livello renale la trascrizione
dell’enzima che idrossila la 25-idrossivitamina D in calcitriolo, aumentandone la concentrazione con un
metodo che richiede dei tempi relativamente lunghi (ore-giorni). Da qui parte il feedback negativo del quale è
stato discusso precedentemente: il calcitriolo stimola il riassorbimento di calcio dal tratto intestinale
aumentando la calcemia; il paratormone stimola il ricambio osseo e a questo contribuisce anche il calcitriolo
in due modi:
 garantendo adeguati livelli di calcio e fosfato nella fase di deposizione;
 sensibilizzando gli osteoblasti per rispondere adeguatamente agli stimoli del paratormone.
Il paratormone, oltre a liberare calcio dalle ossa quando è secreto massivamente, aiuta anche a riassorbire più
calcio a livello dei reni e ad eliminare maggiori quantità di fosfato per evitare calcificazioni ectopiche e
precipitazioni distali che ridurrebbero acutamente la calcemia.
L’aumento della calcemia che consegue a questi processi va a inibire la produzione e il rilascio di PTH (il
calcio lega il CaSR a livello delle paratiroidi); la stessa 1,25-diidrossivitamina D va ad inibire direttamente la
produzione di PTH (tramite l’inibizione della trascrizione del suo gene e la promozione della trascrizione del
CaSR) e indirettamente mediante gli effetti sulla calcemia. Si hanno quindi due circuiti a retroazione negativa:
uno dipendente dal calcio, l’altro che si serve del calcitriolo come segnale di feedback negativo. Questi sistemi
sono in relazione l’uno con l’altro e aiutano a sventare possibili eventi di ipocalcemia.

Azioni che vanno a limitare la perturbazione di riduzione della calcemia

506
Il presente grafico ribadisce quanto visto prima: la riduzione della calcemia nel siero aumenta i livelli del
paratormone, che sul rene potenzia il riassorbimento di calcio e riduce il riassorbimento di fosfato. Il PTH
stimola la produzione di calcitriolo e assieme garantiscono un maggior riassorbimento osseo. Infine il
calcitriolo, ma non il PTH, stimola il riassorbimento di calcio a livello intestinale. Insieme queste reazioni
vanno a limitare la perturbazione iniziale di riduzione della calcemia (senza però modificare la fosfatemia,
grazie agli effetti bilanciati dei due ormoni).

Azioni che vanno a limitare la perturbazione di riduzione della fosfatemia

La riduzione dei livelli di fosfato nel siero aumenta la produzione di calcitriolo sia direttamente che
indirettamente grazie all’azione della FGF-23 rilasciata da osteociti e osteoblasti. La vitamina D aiuta a
riassorbire il fosfato sia a livello intestinale che a livello osseo (perché sensibilizza gli osteoblasti al
paratormone). In risposta a queste azioni i livelli di fosfato aumentano, contestualmente però salgono anche
i livelli di calcio, sia dall’osso sia grazie al riassorbimento intestinale. I livelli alti di calcio inibiscono il PTH:
tale inibizione causa un minor riassorbimento di calcio e un maggior riassorbimento di fosfato. Riassorbire più
fosfato aiuta a compensare la perturbazione iniziale; diminuire il riassorbimento di calcio consente al contempo
di evitare una situazione di ipercalcemia data da un eccessivo assorbimento intestinale/renale di calcio a causa
dell’aumento dei livelli di calcitriolo.

Deficienza di produzione di calcitriolo

Sappiamo che la produzione di calcitriolo è complessa ed è realizzata tramite un’azione integrata di: intestino,
reni, fegato, cute.
La diminuzione dei livelli di calcitriolo prodotti può essere influenzata da fattori come limitazioni di ordine
dietetico (dieta particolarmente povera di precursori della vitamina D), scarsa esposizione ai raggi UV o
patologie legate alla sintesi endogena vera e propria dei precursori della vitamina D (un esempio sono dei
danni epatici).
Cosa succede in presenza di una riduzione dei livelli di calcitriolo? L’assorbimento di calcio e fosfato a
livello intestinale diminuisce e ciò porta a bassi livelli di calcio e fosfato nel plasma: è favorita così la

507
secrezione di PTH, che viene rilasciato ad alte concentrazioni. Il PTH molto concentrato attiva osteoblasti e
osteoclasti con l’azione prevalente di RANK/RANK-L, che potenzia l’attività di riassorbimento del calcio a
livello dell’osso; inoltre il paratormone favorisce il riassorbimento renale di calcio; sempre a livello renale
esso induce una maggiore eliminazione di fosfato.
Il risultato finale è che non si riesce a ripristinare la concertazione di fosfato proprio a causa dell’azione
del PTH che, quando aumenta di concentrazione, ha come effetto un minore riassorbimento dello ione a livello
renale.
Vi è inoltre un pericolo per l’eccessiva degradazione delle ossa (data da livelli alti di PTH), portata avanti
per rimediare alla bassa calcemia.
Grazie alle risposte analizzate, si evita la condizione di ipocalcemia grave, ma al prezzo di un problema di
deposizione ossea, con conseguente fragilità ossea: ciò è causato sia dal riassorbimento massivo dell’osso
indotto dal PTH sia dalla ipofosfatemia (generata contestualmente dalla mancata attività del calcitriolo e
dall’eccessiva attività del PTH).
I danni complessivi variano con l’età e con lo stile di vita. Nel caso di un individuo che sviluppa carenza di
calcitriolo in giovinezza si parla di rachitismo:
 Se questi eventi avvengono in giovinezza a volte non danno sintomi, ma si esasperano con la crescita
mostrando una non adeguata mineralizzazione, che non riesce a supportare l’aumento fisiologico di
peso a cui si va incontro passando all’età adolescenziale. Come conseguenza queste ossa crescono
male e rischiano di essere incurvate.
 Raggiunta l’età adulta, quando le placche epifisarie hanno completato la loro crescita e magari si
risolve il problema della scarsità di calcitriolo (perché l’organismo ne richiede di meno), l’osso può
spostare l’equilibrio su una ri-mineralizzazione che però sarà più deleteria che risolutiva, in quanto
sono le stesse ossa ad essersi sviluppate su un’impalcatura deviata.
Nel caso di una carenza di calcitriolo nell’età adulta (quando l’accrescimento è avvenuto fisiologicamente)
si parla di osteomalacia. La mineralizzazione in questo caso è carente quando l’apparato osseo è sviluppato
appieno: vi è quindi la possibilità di insorgenza di microfratture o fratture patologiche.

508
FISIOLOGIA DEL
METABOLISMO ENERGETICO E
DEL’APPARATO RIPRODUTTORE
Prof. A. Silvani

Regolazione del metabolismo energetico


 Bilancio energetico e depositi energetici dell’organismo.
 Misura del metabolismo energetico per mezzo della calorimetria indiretta.
 Struttura e funzioni dell’adenoipofisi.
 Regolazione nervosa ed endocrina dei depositi energetici e del metabolismo
(insulina, glucagone, glucocorticoidi, adrenalina, leptina, ormoni tiroidei,
ormone somatotropo).

Gonade femminile e gonade maschile. Accrescimento corporeo


 Ovaio: regolazione dell’ovulazione; formazione del corpo luteo; regolazione
della secrezione e azioni degli estrogeni e del progesterone; ciclo mestruale.
 Testicolo: regolazione della spermatogenesi; regolazione della secrezione e
azioni degli androgeni.
 Azioni sullo sviluppo e l’accrescimento dell’organismo dell’ormone
somatotropo e degli ormoni tiroidei.

509
24. Regolazione del metabolismo energetico

Si andrà ora a discutere del metabolismo energetico, tesina molto interessante e compatta che si affronta per
l’importanza clinica che riveste. All’esame sarà importante saper soffermarsi sugli aspetti critici di questi
argomenti.
L’argomento del metabolismo energetico è anche al giorno d’oggi sotto i riflettori dell’attenzione mediatica
e sociale. Questo soprattutto per la diffusione di fenomeni come l’obesità che caratterizza primariamente i
paesi ad alto reddito, ma anche paesi mediamente industrializzati ma poveri se si guarda il reddito medio della
popolazione. Questi paesi sono a rischio perché l’obesità non solo si diffonde, ma viene accompagnata dalla
malnutrizione.
Questo fenomeno (che non avviene nei paesi più ricchi) è dato dalla diffusione e dall’aumentato consumo di
alimenti ad alto valore calorico associato ad uno scarso valore nutrizionale con l’assenza di nutrienti essenziali,
soprattutto vitamine.

24.1. Bilancio energetico e depositi energetici nell’organismo

Bilancio energetico
Il bilancio energetico è la differenza tra l’energia ricavabile da fonti assunte con la dieta e l’energia
impiegata nei processi di sostentamento dell’organismo. Esso può essere:
 Nullo, se le quantità di energia assunta ed energia consumata si eguagliano.
 Positivo, se la quantità di energia assunta è superiore a quella di energia consumata. La quantità di
energia non utilizzata dall’organismo viene dunque accumulata a livello dei depositi energetici
rappresentati da:
- lipidi: il principale deposito energetico, soprattutto sotto forma di trigliceridi;
- carboidrati, soprattutto sotto forma di glicogeno;
- proteine.
Condizioni di bilancio energetico positivo si realizzano soprattutto in fase di accrescimento (infanzia
e adolescenza), durante cui l’energia assunta con la dieta viene accumulata prevalentemente in depositi
energetici di natura proteica funzionali alla sintesi, per esempio, di massa ossea e muscolare.
Terminato l’accrescimento, l’energia in eccedenza derivata da condizioni di bilancio energetico
positivo viene accumulata prevalentemente sotto forma di lipidi e, in casi estremi, può determinare
l’insorgere di obesità.
 Negativo, se la quantità di energia consumata è superiore a quella di energia assunta. L’organismo, in
tal caso, attinge energia funzionale al proprio sostentamento primariamente dal deposito adiposo ma,
nel caso in cui essa non sia sufficiente, anche da quello proteico.
Il catabolismo proteico1, tuttavia, è accompagnato da condizioni metaboliche e strutturali avverse per
l’organismo:
- produzione di scorie azotate, che dovranno essere eliminate sotto forma di ioni ammonio e
soprattutto urea, ed acidi forti, da tamponare mediante ioni bicarbonato che dovranno poi
essere recuperati attraverso secrezione di ioni ammonio e di acido titolabile renale;
- la resa energetica delle proteine è nettamente inferiore a quella dei lipidi;
- il consumo di proteine ne inficia la funzione strutturale provocando, per esempio, deficit
nella capacità contrattile del muscolo scheletrico se ne viene catabolizzata la componente
proteica.
Pertanto, il consumo del deposito energetico di natura proteica si realizza esclusivamente in condizioni
di emergenza finalizzate alla compensazione del bilancio energetico negativo.

1
Il catabolismo proteico si realizza fisiologicamente per il turnover delle componenti proteiche, associato a processi di
neosintesi di queste, dunque acidi forti e acidi titolabili volatili sono sempre presenti in minima concentrazione
nell’organismo.

510
Tra le cause delle variazioni del valore del peso corporeo figurano alterazioni nel bilancio energetico: tali
variazioni devono necessariamente essere rilevate su lunga scala temporale (giorni/settimane), affinché siano
rese compatibili con la gestione dei depositi energetici lipidici e proteici. Condizioni di bilancio energetico
positivo comportano aumento di peso in termini di accumulo di massa magra e/o grassa; condizioni di bilancio
energetico negativo comportano diminuzione di peso corporeo.
Su scala temporale molto breve, i cambiamenti di peso corporeo non sono attribuibili a
neosintesi/degradazione di massa a partire da energia ricavata dai depositi corporei, ma derivano
primariamente da alterazioni del bilancio dell’acqua provocate, per esempio, dalla produzione di urina
(tenendo presente che la filtrazione glomerulare ammonta a circa 180 L/die).

Bilancio dell’azoto
Il bilancio dell’azoto esprime la differenza tra azoto assunto con la dieta (proteine) e azoto eliminato con le
urine (sotto forma di ione ammonio e soprattutto urea, in misura minore anche attraverso le feci). Esso può
essere:
 Nullo, se la quantità di azoto assunto con la dieta ed azoto eliminato si eguagliano.
 Positivo, se la quantità di azoto assunto è superiore a quella di azoto eliminato.
Poiché l’azoto viene assunto per la maggior parte a partire da sostanze di natura proteica, condizioni
di bilancio dell’azoto positivo comportano l’aumento di massa magra. Combinando il computo del
bilancio dell’azoto con quello del bilancio energetico è dunque possibile valutare se eventuali
variazioni del peso corporeo sono dovute ad accumulo di massa magra o grassa.
 Negativo, se la quantità di azoto eliminata è superiore a quella di azoto assunta.
Condizioni di bilancio dell’azoto negativo comportano la riduzione di massa magra per catabolismo
proteico.

Depositi energetici dell’organismo


La tabella mostra, per ciascuna tipologia di deposito energetico, i
contributi percentuali alle riserve caloriche totali e al peso corporeo.
 Glicogeno. Esso costituisce circa l’1% del peso corporeo e
rappresenta <1% delle riserve caloriche a disposizione
dell’organismo (motivo per il quale non lo si cita generalmente
trattando di bilancio energetico associato a variazioni del peso
corporeo). Tale molecola si trova all’interno di svariate cellule,
in particolare negli epatociti e nelle cellule muscolari
scheletriche. In termini di quantità assoluta (massa in g), il
glicogeno muscolare scheletrico è più abbondante di quello
epatico, poiché la muscolatura scheletrica ha
complessivamente massa superiore a quella del fegato; considerando invece la quantità relativa (massa
in g su peso dell’organo), si osserva come il fegato sia relativamente più ricco di glicogeno rispetto al
muscolo scheletrico. Nonostante glicogeno scheletrico ed epatico costituiscano chimicamente la
medesima molecola, differiscono notevolmente dal punto di vista funzionale e metabolico.
- Il glicogeno epatico può essere direttamente distribuito all’intero organismo per via ematica.
Infatti, gli epatociti, a differenza delle cellule muscolari scheletriche, esprimono l’enzima
glucosio-6-fosfatasi per l’idrolisi del glucosio-6-fosfato a Pi e glucosio libero. Di
conseguenza, il glicogeno epatico può essere direttamente convertito in glucosio libero che
può passare per l’intermedio dell’interstizio e raggiungere il flusso ematico per essere
distribuito all’organismo. Il glucosio-6-fosfato, invece, non può attraversare la membrana
cellulare né per diffusione né mediante i trasportatori del glucosio (GLUT) per via delle
limitazioni steriche ed elettriche che questi presentano.
- Il glicogeno scheletrico, invece, a causa dell’assenza dell’enzima glucosio-6-fosfatasi, non
può essere direttamente distribuito all’intero organismo per via ematica, ma viene
primariamente utilizzato dal muscolo stesso. In realtà, attraverso un elaborato ciclo
biochimico (il ciclo di Cori), il glicogeno muscolare scheletrico internalizzato e degradato a
glucosio-6-fosfato può essere metabolizzato, mediante glicolisi anaerobica, a lattato, e fornire
energia alla cellula stessa. Il lattato attraversa la membrana cellulare tramite un trasportatore
dedicato, passando per l’interstizio e giungendo dunque al circolo ematico, che lo trasporta

511
sino al fegato. A livello epatico, il lattato funge da substrato gluconeogenico: il glucosio-6-
fosfato neosintetizzato a livello epatico viene quindi scisso in Pi e glucosio libero e può
fuoriuscire dagli epatociti.
Nonostante il glicogeno fornisca uno scarso contributo alle riserve caloriche totali (< 1%), dal
punto di vista funzionale è fondamentale in quanto viene utilizzato da alcune cellule
dell’organismo per il sostentamento del proprio metabolismo: i neuroni, in particolare,
sfruttano principalmente il glucosio per il proprio fabbisogno energetico e, in condizioni di
digiuno prolungato, anche (ma solo in parte) i corpi chetonici. La capacità dei neuroni di
mantenere un metabolismo adeguato è critica per la sopravvivenza dell’organismo, pertanto
le piccole quantità di glicogeno in esso presenti risultano essenziali.
 Proteine. Costituiscono circa il 14-15 % delle riserve caloriche totali e del peso corporeo e
forniscono <5% del fabbisogno energetico a riposo (dovuto principalmente al fisiologico turnover
delle proteine). In caso di digiuno prolungato, tuttavia, possono coprire sino al 15% del fabbisogno,
fungendo da substrati per la gluconeogenesi epatica: il sostentamento metabolico dei neuroni in caso
di digiuno prolungato può essere in parte garantito dal catabolismo proteico, dal quale tuttavia derivano
anche molteplici svantaggi per l’organismo.
 Lipidi. Costituiscono circa l’85% delle riserve caloriche a disposizione dell’organismo e il 20% del
peso corporeo (anche se quest’ultimo è estremamente variabile da soggetto a soggetto). A differenza
degli altri depositi energetici, in questo vi è una notevole sproporzione tra la percentuale delle riserve
caloriche totali cui i grassi contribuiscono e la percentuale del peso corporeo che rappresentano; essa
è dovuta alle proprietà biochimiche dei trigliceridi, che sono:
- molecole dalla resa energetica estremamente elevata (catabolizzati con catabolismo
aerobico molto efficientemente);
- molecole idrofobiche (l’accumulo di depositi energetici idrofobici non comporta anche
accumulo di acqua di accompagnamento, che nel caso delle molecole idrofile invece
costituisce un rilevante contributo al peso corporeo).
I trigliceridi costituiscono una forma ottimale di deposito in termini calorici, ma non contribuiscono
significativamente alla gluconeogenesi, sebbene possano essere convertiti in corpi chetonici a
livello epatico mediante β-ossidazione incompleta al fine di coprire parzialmente il fabbisogno
energetico neuronale in caso di digiuno prolungato.
La percentuale del peso corporeo determinata dai lipidi è estremamente variabile tra i gli individui e
ad oggi è possibile quantificare massa magra e massa grassa mediante raffinate tecniche (es. risonanza
magnetica) e accurati dispostivi, tuttavia molto costosi. Spesso, dunque, si preferisce il calcolo
dell’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index), inteso come rapporto tra il peso (in Kg) e il
quadrato dell’altezza (in m2): se esso è > 25 si parla di sovrappeso, se > 30 di obesità.
La quota di energia richiesta dall’organismo per la generazione e la conversione dei depositi energetici a
partire dai nutrienti introdotti con la dieta può variare tra il 7% e il 25% dell’energia in ingresso.
Si specifica che, nonostante l’organismo attinga costantemente energia dai depositi per svariate ragioni
fisiologiche di natura metabolica, i nutrienti sono introdotti in esso in maniera intermittente. I depositi
energetici sono dunque funzionali a garantire il sostentamento metabolico dell’organismo anche e
soprattutto al di fuori dei pasti, durante i quali viene assunta una quota complessiva di calorie nettamente
superiore a quella necessaria nell’immediatezza. Diversi ormoni, tra cui l’insulina, sono coinvolti nella
gestione e nella regolazione del momentaneo sovraccarico di energia assunta.

Resting Metabolic Rate


La spesa energetica a riposo (RMR, Resting Metabolic Rate) indica la quantità di energia totale richiesta
dall’organismo di un adulto sedentario e a riposo nell’arco di una giornata ed ammonta a circa 2300 Kcal. Le
principali voci di spesa energetica sono così suddivise:
 60-70%: metabolismo basale (BMR, Basal Metabolic Rate), inteso come quota “incomprimibile” di
spesa energetica necessaria al corretto funzionamento dell’organismo: compromettere la quota di
energia dedicata al sostentamento del metabolismo basale inficia la possibilità di sopravvivenza (ad
es., sostentamento energetica della pompa Na+/K+ ATPasi)2.

2
Si pensi all’energia richiesta da tutte le cellule per il corretto funzionamento della pompa Na +/K+ ATPasi: il grado di
attività di questa dipende dal distretto in cui la si considera (ad es. molto elevato in cellule muscolari per attività

512
 20-30%: attività fisica spontanea; considerando un soggetto sedentario e a riposo, rappresenta
l’attività compiuta per svolgere piccoli movimenti che non rientrano nell’ambito dell’attività fisica
lavorativa e ricreativa (ad es., spostare arti, anche da seduti, rigirarsi nel letto, gesticolare, ecc.).
 Termogenesi (produzione di calore):
- 5-15%: termogenesi senza brivido, è sempre attiva ed è più efficiente in caso di
abbassamento della temperatura ambientale. Essa è dovuta a fenomeni di disaccoppiamento
mitocondriale tramite proteine disacoppianti (UCP1), che dissipano il gradiente protonico a
livello della membrana mitocondriale interna producendo calore, generando di fatto un ciclo
futile (poiché il gradiente dissipato deve necessariamente essere ricostituito). L’attività
dell’UCP-1 risulta particolarmente determinante nelle cellule del tessuto adiposo bruno:
quest’ultimo è metabolicamente regolato dalla branca simpatica del SNA, che rilascia
noradrenalina capace di legare recettori β3-adrenergici per l’attivazione dell’UCP1.3 Il tessuto
adiposo bruno è quantitativamente inferiore al tessuto adiposo bianco, è localizzato in sede
periarteriosa, è estremamente vascolarizzato e ricco di mitocondri e povero di trigliceridi.
Per molto tempo si è ritenuto che il tessuto adiposo bruno fosse funzionalmente rilevante solo
in mammiferi di piccola taglia, come roditori ma anche neonati umani: considerando infatti il
rapporto tra superficie e volume corporei, organismi di piccola taglia presentano superficie
corporea relativamente grande rispetto al proprio volume, e quindi sono maggiormente esposti
al raffreddamento di quanto non siano gli organismi di dimensioni superiori. Essendo il calore
prodotto grazie all'attività metabolica del volume e poi dissipato negli scambi a livello della
superficie, si deduce in un primo momento che la possibilità di possedere depositi di tessuto
adiposo bruno (che fungono da dispositivi di riscaldamento) è nettamente più critica in
mammiferi di piccola taglia. Recentemente è stato tuttavia scoperto che il tessuto adiposo
bruno è funzionale anche nell'adulto umano: è interessante notare come una delle ragioni
per cui un soggetto diviene e rimane obeso è il ridotto consumo energetico da parte del tessuto
adiposo bruno rispetto a quello di un soggetto di controllo normopeso.
- 20%: termogenesi alimentare, è limitata ai 90 minuti successivi al pasto. Dopo un pasto si
disperde energia sotto forma di calore a causa dei processi di digestione e di assorbimento dei
nutrienti ma anche a causa dei processi di conversione dei substrati energetici.
- (Termogenesi con brivido, attivata in caso di esposizione al freddo, da considerare come
condizioni ambientali eccezionale, non ottimale. I brividi sono contrazioni muscolari
scoordinate che permettono di produrre energia sotto forma di calore in caso di abbassamento
della temperatura ambientale, compromettendo tuttavia l'efficacia dell’azione motoria.)

contrattile), ma essa agisce dovunque anche per compensare il flusso di massa che altrimenti conseguirebbe all’equilibrio
di Gibbs-Donnan provocando accumulo di osmoli all’interno delle cellule e potenziali lisi.
3
Dal Boron e dal Berne: l’adrenalina agisce sia tramite una sua via diretta (favorendo la lipolisi) ma soprattutto
sinergicamente agli ormoni tiroidei, attivando la deiodasi, un enzima che converte T4 in T3: T3 migra poi nel nucleo dove
lega il suo recettore e stimola la trascrizione del gene UCP1.

513
N.B. Le percentuali citate da Silvani e presenti nella sua slide, se sommate, anche considerando i valori minimi, danno
più del 100%. Immagino che questo sia spiegabile dal fatto che le percentuali possono variare nel tempo nel corso della
giornata (ad es., la quota di termogenesi alimentare può essere maggiore dopo i pasti e quindi occupare percentualmente
uno spazio maggiore); oppure semplicemente non ha fatto il conto XD.

Misurazione del metabolismo basale


La misurazione del metabolismo basale (che contribuisce al 60-70% della spesa energetica totale) avviene
ponendo il soggetto in specifiche condizioni:
 dopo il sonno notturno;
 a digiuno da 12 ore, per evitare termogenesi alimentare;
 a riposo da un’ora, per evitare spese energetiche da parte del muscolo scheletrico relative ad attività
precedente;
 in assenza di stimoli fisici e psichici, per evitare modificazioni dell’attività fisica spontanea e della
termogenesi;
 in condizioni di termo-neutralità. Le condizioni di termo-neutralità costituiscono le condizioni
ambientali ottimali nelle quali il consumo energetico per mantenere relativamente costante la
temperatura corporea è minimo. L’organismo umano è infatti omeotermo, in quanto tende a
mantenere la temperatura corporea entro un ristretto intervallo di valori di riferimento.
- Se le condizioni ambientali tendono4 a causare aumento della temperatura corporea,
l’organismo dissipa energia per opporvisi (e.g., sudorazione);
- se le condizioni ambientali tendono a causare riduzione della temperatura corporea,
l’organismo dissipa energia per opporvisi (e.g., brividi).
Le condizioni ambientali responsabili dell’aumento o dell’abbassamento della temperatura corporea
sono molteplici:
- temperatura ambientale;
- presenza di superfici radianti, che inducono innalzamento della temperatura corporea per
irraggiamento;
- flusso d'aria (a parità di temperatura ambientale, l’esposizione al vento induce maggiore
raffreddamento rispetto all’esposizione ad aria ferma);
- umidità dell'aria, che induce incremento/riduzione di temperatura corporea rispetto ad un
ambiente secco.

Dieta e attività fisica


Si prenda in considerazione un soggetto obeso e sedentario che presenta un bilancio energetico positivo e
non è in accrescimento, quindi sta accumulando tessuto adiposo. Il soggetto per dimagrire deve inizialmente
portare il bilancio energetico a valori negativi, in modo tale da andare a consumare i trigliceridi, e
successivamente stabilizzare il bilancio a valori nulli. Per portare il bilancio energetico a valori negativi si
agisce in due modi:
 si riduce l’energia in ingresso sottoponendo il soggetto ad un trattamento dietetico prolungato che
però può essere di difficile aderenza da parte del paziente;
 si aumentano le spese energetiche; le spese energetiche a riposo (Resting Metabolic Rate) sono date
da:
- Metabolismo basale. Purtroppo, non è possibile modificare il metabolismo basale per
dimagrire perché esso dipende dalle necessità fisiologiche dell’organismo per la
sopravvivenza. N.B. In realtà gli ormoni tiroidei hanno la capacità di modulare il
metabolismo basale, che rappresenta la quota di energia utilizzata per compiere le funzioni
essenziali per la sopravvivenza dell’organismo. Sfortunatamente tali ormoni non possono
essere utilizzati al fine di perdere peso perché provocherebbero degli effetti collaterali
devastanti.
In un soggetto adulto e sedentario il metabolismo basale è responsabile di gran parte del
consumo energetico totale dell’individuo. Di conseguenza aumentare le altre voci di spesa

4
Si parla di condizioni ambientali che “tendono” a far aumentare o a far ridurre la temperatura corporea, poiché non
bisogna limitarsi solo alla temperatura. Infatti, la temperatura ambientale è certamente una variabile rilevante ma non
l'unica da considerare.

514
energetica porta ad una modifica poco rilevante della spesa totale, in quanto esse incidono in
maniera minore rispetto al metabolismo basale.
Pertanto, il dimagrimento di un soggetto sedentario è difficile in assenza di dieta o attività
fisica.
Si può chiarire questo problema tramite un’analogia: supponiamo di andare in un ristorante
dove la spesa potrebbe essere superiore al nostro budget, per ovviare a ciò possiamo ordinare
piatti meno costosi ed avere una buona probabilità di successo qualora il coperto non incida
molto sulla spesa; è chiaro che se il coperto influisce per il 60-70% sulla spesa totale, la scelta
delle pietanze da ordinare varia relativamente poco il conto.
Le altre voci di spesa energetica di un soggetto adulto e sedentario sono:
- Attività fisica spontanea. Stimolando questa attività, quindi cercando di aumentare, per
quanto possibile ed evitando di esagerare, quei piccoli movimenti che si compiono senza
rendersene conto si riesce ad aumentare seppur di poco la spesa energetica giornaliera.
Ovviamente non si possono far muovere le persone in modo apparentemente inappropriato o
farle gesticolare continuamente.
- Termogenesi senza brivido. Essa permette di consumare energia sotto forma di calore.
Purtroppo, stimolando tale meccanismo per consumare più energia si avrebbero effetti
collaterali sulla termoregolazione. Anche se non ci fossero effetti collaterali questo processo
agisce su una piccola percentuale del Resting Metabolic Rate e quindi influisce poco alla spesa
energetica giornaliera.
In conclusione, l’attività fisica lavorativa o ricreativa, che prevede sforzi più intensi dei semplici
movimenti quotidiani è in grado di aumentare la spesa energetica anche di 4000 Kcal/die, triplicando
il Resting Metabolic Rate ed è l’unico modo efficace per aumentare la spesa energetica.
Ricapitolando. La spesa metabolica a riposo (Resting Metabolic Rate) è composta da:
 metabolismo basale (Basal Metabolic Rate) che è la componente principale;
 attività fisica spontanea;
 termogenesi alimentare e termogenesi senza brivido.
Si tratta comunque di componenti che non possono essere modificate in quanto una loro alterazione porta ad
effetti collaterali importanti.
Si stanno studiando delle modalità attraverso le quali modificare la Resting Metabolic Rate senza avere effetti
collaterali rilevanti, ma ancora non sono state trovate. Quello che sappiamo è che l’attività fisica cambia
radicalmente la spesa totale giornaliera, duplicandola o triplicandola. Questa è l’unica vera arma, oltre alla
dieta, che si ha a disposizione nella terapia contro l’obesità, per cercare di riportare il bilancio energetico a
valori negativi per poi stabilizzarlo a valori nulli. È critico spiegarlo anche ai pazienti per migliorare la loro
compliance.

24.2. Misura del metabolismo energetico per mezzo della calorimetria indiretta
N.B. Questo punto viene trattato in modo piuttosto superficiale dal libro di testo, perciò ci affideremo almeno in parte al
materiale esterno. In particolare, si raccomanda l’articolo scientifico pubblicato sulla rivista Clinical Nutrition nel 2017:
Taku Oshima et al., “Indirect calorimetry in nutritional therapy. A position paper by the ICALIC study group”. Si tratta
di un position paper, che esprime una chiara presa di posizione sull'argomento che si vuole discutere da parte di un gruppo
di esperti del settore. L’articolo può essere scaricato liberamente tramite Unibo grazie all’account studenti. Non è richiesto
lo studio dettagliato dell’articolo ma solo di riguardare i concetti trattati.
L’articolo riporta il concetto di spesa energetica:

515
La spesa energetica totale (TEE) è data dalla somma di spesa energetica a riposo (REE) e spesa energetica
legata all’attività fisica (AEE):
 La spesa energetica a riposo (REE) è la somma tra spesa energetica basale (BRR), spesa indotta dalla
dieta (DIT), termogenesi senza brivido (non citata nell’articolo, andrebbe aggiunta per essere più
precisi in quanto presente in minima parte anche nel caso di termoneutralità) e spesa per l’attività fisica
spontanea, non escludibile nemmeno a riposo.
- La spesa energetica basale (o metabolismo basale) BEE è definita come energia spesa a
digiuno, in posizione supina, in condizioni ambientali di termoneutralità e senza stress psico-
fisico. Si applica solo se il soggetto è sano poiché, nel caso in cui sia affetto da patologie, è
difficile identificare una reale condizione basale.
- La termogenesi indotta dalla dieta (DIT) viene definita in parte come energia spesa destinata
all’ossidazione dei substrati energetici durante l’assunzione (orale, enterale o intravenosa), la
digestione, l'assorbimento e l'elaborazione dei nutrienti introdotti con la dieta. Inoltre, una
quota della spesa è dovuta ai processi di interconversione, indipendenti dalle quote provenienti
dai processi di ingestione ed assorbimento, che sono consistenti ma non fondamentali a
determinare la termogenesi indotta dalla dieta, al contrario di quella derivante dai processi di
interconversione.
 La spesa energetica legata all’attività fisica lavorativa e ricreativa, in cui anche un soggetto non atleta
professionista può raggiungere facilmente il consumo di 4000 Kcal al giorno.

516
Abstract:
 Premesse e obiettivi. Lo scopo dell’articolo è quello di chiarire l’uso della calorimetria indiretta
nella terapia nutrizionale per i pazienti con diverse patologie, anche critiche in terapia intensiva.
L’articolo costituisce una revisione critica dei concetti tecnici, delle applicazioni pratiche e degli
sviluppi attuali della calorimetria indiretta.
 Metodi. Gli autori hanno analizzato alcune pubblicazioni di articoli scientifici depositati nella banca
dati PubMed (National Library of Medicine dei National Institutes of Health degli Stati Uniti) per
generare una visione d’insieme sulla conoscenza di base della calorimetria indiretta, descrivere i
vantaggi e gli svantaggi della tecnologia attualmente in uso, chiarire i problemi tecnici e suggerire
soluzioni pragmatiche per la pratica e la ricerca clinica.
 Risultati. La calorimetria indiretta è una tecnica potenzialmente attuabile non solo in ambito di
ricerca ma anche in ambito ambulatoriale e nei reparti, inclusa la terapia intensiva, allo scopo di
misurare la spesa energetica. La misura di spesa energetica ottenuta tramite calorimetria indiretta
può essere utilizzata per definire una terapia nutrizionale ottimale ed è associata a risultati clinici
migliori, in quanto vi è la prescrizione di una dieta o di una nutrizione artificiale (enterale, tramite un
catetere nel tratto gastrointestinale, o parenterale, attraverso un catetere a livello vascolare) in grado
di fornire ai pazienti energia e calorie appropriate rispetto alla loro spesa energetica, ottimizzando così
l’esito clinico (prognosi) dei pazienti stessi.
Per stabilire quante calorie dare ai pazienti si possono utilizzare algoritmi ed equazioni basati sulle
misure antropometriche, quindi è necessario conoscere sesso, altezza, peso, ecc., inserirle
nell’algoritmo e calcolare le calorie necessarie. Questi algoritmi sono validi se riferiti alla media dei
soggetti, ma inaccurati nella realtà individuale di ogni soggetto. La cosa migliore sarebbe quindi
misurare il consumo energetico di quel soggetto specifico e, sulla base del consumo misurato,
determinare le calorie da somministrare con la dieta. Il problema è che nelle tecniche di
calorimetria indiretta ci sono delle limitazioni tecniche e quindi gli esperti raccomandano di sviluppare
soluzioni tecniche innovative che permettono di produrre calorimetri più economici e più facilmente
utilizzabili anche in ambulatorio e nei reparti.
 Conclusioni. La calorimetria indiretta è uno strumento di importanza fondamentale necessario per
ottimizzare la terapia nutrizionale di pazienti affetti da varie patologie e con differenti nutrizioni. In
sintesi, oggigiorno l’uso della calorimetria indiretta in ospedali e ambulatori è limitata per questioni
tecniche, che sono attualmente in fase di superamento. È prevedibile, quindi, che l’impiego nella
pratica clinica di questa tecnica di misurazione della spesa energetica andrà ad aumentare a breve
termine, cioè auspicabilmente il suo utilizzo diventerà significativo già tra 4-5 anni.

Calorimetria indiretta
La calorimetria indiretta è una tecnica che misura il consumo di ossigeno e la produzione di anidride
carbonica durante la respirazione cellulare permettendo di calcolare la spesa energetica dell’organismo in toto.
Tale metodo di misurazione utilizza degli apparecchi, i quali possono avere organizzazione tecnica differente
ma che in buona sostanza utilizzano il principio di Fick: misurano la differenza di concentrazione dei diversi
gas (O2 e CO2) nel flusso d’aria inspirata rispetto a quella espirata, per poi moltiplicarla per il flusso d’aria e
ricavare la quantità di gas che è stata assorbita o eliminata nell’unità di tempo. È lo stesso principio utilizzato
per analizzare la gittata cardiaca, tranne per il fatto che la concentrazione dei gas non viene misurata nel sangue,
ma nell’aria. Inoltre, per stimare il consumo energetico si va a misurare il flusso di aria, mentre nella
misurazione della gittata cardiaca viene dato per assunto, come se fossero già state fatte delle misurazioni di
calorimetria indiretta per calcolarlo, e si va a misurare la differenza di concentrazione di O2 nel sangue arterioso
sistemico e arterioso polmonare per poi metterla in rapporto con il consumo energetico, quindi con il consumo
di ossigeno, per ottenere infine la gittata cardiaca.

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È presente però un problema: il rapporto tra la produzione metabolica di CO2 (𝑉̇CO2) e il consumo metabolico
di O2 (𝑉̇O2), che prende il nome di quoziente respiratorio, non è unitario ma ha di norma un valore
complessivo di 0,8, derivante dal fatto che in genere si consuma più O2 di quanta CO2 venga prodotta. Ciò è
dovuta ad una serie di ragioni, primaria tra queste è l’ossidazione di nutrienti che includono lipidi, carboidrati
e proteine. L’ossidazione di questi nutrienti dà un contributo, per quanto concerne il consumo energetico,
maggiore nei lipidi e nei carboidrati e minore nelle proteine:
 L’ossidazione dei lipidi porta ad un quoziente respiratorio di 0,7 a seguito della stechiometria delle
reazioni chimiche di ossidazione dei lipidi, in particolare degli acidi grassi. Si hanno
proporzionalmente 7 moli di O2 consumate ogni 10 moli di CO2 prodotte. L’esempio riportato nella
slide si riferisce all’acido palmitico ma risultati analoghi si ottengono anche per altri acidi grassi.
 L’ossidazione dei carboidrati porta ad un quoziente respiratorio unitario e dipende dalle reazioni
chimiche di ossidazione di questi. Nell’esempio viene presa in considerazione l’ossidazione del
glucosio, che dimostra che per ogni mole consumata di O2, ne viene prodotta una di CO2 .
 L’ossidazione delle proteine porta ad un quoziente respiratorio variabile in base alla struttura primaria
della proteina ossidata, ma si aggira solitamente tra 0,8 e 0,85.
Considerando un soggetto in condizioni fisiologiche che utilizza un mix di lipidi e carboidrati con un piccolo
contributo di proteine per il proprio metabolismo energetico su base ossidativa, il quoziente respiratorio
complessivo si assesta ad un valore intermedio tra quello dei lipidi e dei carboidrati, in particolare attorno a
0,8, che è anche molto simile a quello associato all’ossidazione delle proteine stesse.
Quando il metabolismo dell’organismo si sposta a favore del consumo dei carboidrati, ci aspettiamo un
aumento del quoziente respiratorio che tenderà a raggiungere 1, al contrario in una situazione in cui il
metabolismo si sposta a favore del metabolismo dei lipidi, avremo la riduzione del quoziente respiratorio verso
0,7: il quoziente respiratorio è perciò variabile in base alle caratteristiche del soggetto e alle quote di
metaboliti che vengono assunte e utilizzate per il metabolismo.
Il quoziente respiratorio non unitario si configura come un problema tecnico controintuitivo: avere un
quoziente respiratorio di 0,8 significa produrre meno CO2 (8 moli) rispetto alla quantità di O2 assunto (10
moli), perciò in pratica si espira un volume di aria minore rispetto a quello inspirato. Questo è possibile
perché parte dell’O2 assunto con l’inspirazione viene tramutato in acqua (vedi le reazioni di ossidazione
nell’immagine), andando a far parte dell’acqua corporea: si tratta di una quantità molto piccola del volume di
aria inspirata, perché il mismatch tra produzione metabolica di CO2 e consumo di O2 è piuttosto limitato e
perché la concentrazione di O2 corrisponde al 21% dell’aria totale inspirata, quindi ha effetti estremamente
limitati sulla meccanica e dinamica polmonare. Quando però si fanno misure estremamente precise e raffinate,
come nella calorimetria indiretta, anche questi piccoli squilibri rischiano di scombinare i conti, anche in
maniera importante.
Perciò con la calorimetria indiretta non ci si può limitare a misurare il flusso di aria che viene scambiato dai
polmoni con la ventilazione, ma si deve misurare in maniera indipendente il flusso di aria inspirato e quello
espirato poiché diversi: in particolare, il flusso d’aria espirato è minore di quello inspirato, per le ragioni dette
prima. Questo complica la costruzione di calorimetri economici ed ampiamente utilizzabili in ambito
ospedaliero perché è necessario analizzare indipendentemente i due flussi, sincronizzare queste misure in modo
estremamente preciso e combinare tutto questo con le misure delle concentrazioni dei gas all’interno dei flussi.

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Per determinare il quoziente respiratorio dobbiamo ricavare il consumo di O2 e la produzione metabolica
di CO2; ciò è possibile attraverso due equazioni:
1. V̇O2 = (V̇i × FiO2 ) − (V̇e × FeO2 )
Il consumo di ossigeno è pari alla differenza tra due prodotti:
- il primo indica quanto ossigeno entra ed è pari al flusso inspirato per la frazione di ossigeno
nell’aria inspirata;
- il secondo indica quanto ossigeno esce ed è pari al flusso espirato per la frazione di ossigeno
nell’aria espirata.
Nota. Non si può semplicemente analizzare il flusso di aria scambiato attraverso il polmone ma deve
essere splittato in flusso d’entrata e di uscita.
2. V̇CO2 = (V̇e × FeCO2 ) − (Vi × FiCO2 )
Per la produzione di anidride carbonica valgono gli stessi ragionamenti visti per l’ossigeno.

La difficoltà principale in termini economici è la possibilità di avere a disposizione strumenti che misurino
separatamente i flussi di aria espirata ed inspirata.
Esiste la possibilità di superare questo problema tecnico con un accorgimento, un assunto basato sul fatto che
l’azoto sia costante nell’aria inspirata ed espirata, ovvero non viene accumulato azoto proveniente dall’aria: è
possibile quindi usare la frazione di azoto ed un set di equazioni, chiamate complessivamente trasformata di
Haldane (il prof. afferma di non volerla sapere nel dettaglio, ma si riporta comunque la tabella dell’articolo in
cui si mostrano i vari procedimenti), che permettono di ricavare un’equazione piuttosto complicata:

V̇O2 = [(1 − FeO2 − FeCO2 ) × (FiO2 − FeO2 ) × V̇e]/(1 − FiO2 )

Tale equazione stima il consumo metabolico di O2 solo sulla base del flusso d’aria espirato, quindi
permette di lavorare con un solo flussimetro rendendo commercialmente possibile l’impiego della calorimetria
indiretta.
Riassumendo. La calorimetria indiretta permette di calcolare il consumo di O2 e la produzione metabolica
di CO2 attraverso il principio di Fick. Il principio di Fick permette di ricavare la differenza di concentrazione
dei gas nell’aria espirata e inspirata nell’unità di tempo. Il procedimento descritto precedentemente sembra
analogo all’applicazione della legge di Fick per la determinazione della gittata cardiaca, ma presenta una
differenza rilevante: il flusso d’aria inspirata è quantitativamente maggiore di quello espirato perché il
quoziente respiratorio complessivo è < 1 (0,8). Questa differenza obbliga a misurare indipendentemente il
flusso inspirato ed espirato di aria con tutti gli aggravi di costo e di sofisticazione tecnica che ne risultano. È
possibile ovviare a questa difficoltà sulla base di un assunto ragionevole, ovvero che l’azoto che inspiriamo
viene liberato tutto con l’aria espirata quindi la concentrazione del gas rimane costante durante la ventilazione,
e attraverso una serie di trasformazioni matematiche grazie alle quali è possibile ottenere una misura del
consumo metabolico di O2 basato solo sul flusso di aria espirata. Per stimare la spesa energetica bisogna
applicare altre equazioni che tengano conto del consumo di ossigeno, della produzione metabolica di CO2 e

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della quota di azoto eliminata con le urine tramite molecole con valenza energetica (la loro sintesi ha richiesto
energia, come l’urea). N.B. I valori delle costanti non sono stati citati a lezione e non sono quindi da sapere.
L’importante è avere un’idea delle variabili che entrano in gioco (in grassetto).

EE = [(𝐕̇𝐎𝟐 × 3.941) + (𝐕̇𝐂𝐎𝟐 × 1.11) + (𝐮 𝐍𝟐 × 2.17)] × 1.44

Grazie a queste equazioni e tenendo in considerazione le condizioni del soggetto, ovvero se è a riposo, se
svolge esercizio fisico o se è nelle condizioni basali (dopo sonno notturno, a riposo, in termoneutralità e in
assenza di stimoli), si analizzano rispettivamente il consumo energetico a riposo, totale o basale.

Consumo energetico durante il sonno notturno


Il consumo energetico cambia a seconda delle condizioni ambientali e del soggetto, ma cambia anche nelle
24h infatti il sonno notturno riduce il consumo energetico.

Un esempio è il grafico. In ordinata è presente la spesa energetica misurata con la calorimetria indiretta e
in ascissa le ore. Si vedono tre tracce:
 traccia con i triangoli (è quella più chiara): corrisponde alla condizione di base, quindi ad un
individuo con 8 ore di sonno a notte. Si può notare che il consumo energetico fluttua durante la
giornata per poi ridursi durante la notte;
 traccia con i quadratini neri: è caratteristica di un soggetto in deprivazione di sonno, sveglio da 24
ore. In questo caso il consumo energetico notturno è un po’ più basso di quello diurno, ma non così
basso come quando si dorme;
 traccia con i cerchi neri: rappresenta il consumo energetico di un individuo severamente deprivato
del sonno (sveglio per 25-40 ore) che ripristina il proprio pattern di sonno naturale (8 ore).
Questo grafico permette di capire che il minore consumo energetico durante il sonno notturno è solo
minimamente dovuto al ritmo circadiano e massimamente dovuto alla variazione dei comportamenti del
soggetto durante il sonno notturno (il soggetto sottoposto a deprivazione di sonno infatti non mostra un calo
del metabolismo paragonabile a quello del soggetto che effettivamente sta dormendo). Quando si dorme,
infatti, ci si muove meno diminuendo così il consumo energetico legato all’attività anche spontanea, si ci
raffredda (in particolare alla fine della notte) e il cervello consuma meno (in particolare durante la fase di sonno
ad onde lente, presente in particolare nelle prime fasi della notte).

24.3. Struttura e funzioni dell’adenoipofisi

L’ipofisi è una ghiandola eterogenea dal punto di vista funzionale, anatomico e embriologico. Presenta una
porzione posteriore, detta neuroipofisi, che può essere considerata come un prolungamento del sistema
nervoso centrale (e ha origine neuroectodermica), e una anteriore, l’adenoipofisi, vera e propria ghiandola
endocrina (dal Boron: “derivata embriologicamente da una invaginazione della cavità buccale chiamata tasca
di Rathke”).

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Le due parti interagiscono tra loro grazie alla presenza di una rete vascolare che collega l’eminenza mediana
(componente della neuroipofisi) con l’adenoipofisi. Questo sistema vascolare origina dall’arteria ipofisaria
superiore che va a formare una prima rete capillare a livello dell’eminenza mediana. Da questa rete si
staccano i vasi portali lunghi (che non hanno caratteristiche proprie né di arterie né di vene) che raggiungono
l’adenoipofisi e qui formano una seconda rete capillare, che, attraverso delle vene, drena il sangue nei seni
durali. Questo circolo portale è vantaggioso per diversi motivi:
 i neuroni magnocellulari possono riversare i loro ormoni direttamente in un circolo vascolare posto
all’esterno rispetto alla barriera emato-encefalica;
 i neuroni parvocellulari, sempre dell’ipotalamo, possono rilasciare i loro prodotti a livello della prima
rete vascolare e, attraverso i vasi portali lunghi, questi raggiungono il loro bersaglio, ossia
l’adenoipofisi.
Quindi, il circolo portale permette un’interazione tra diverse cellule, sfruttando contestualmente i vantaggi
dell’interazione paracrina ed endocrina. Il vantaggio dell’interazione paracrina è dato dal fatto che la sostanza
secreta rimanga molto concentrata e non risenta dei fenomeni di diluizione dovuti al circolo sistemico; invece
il vantaggio dell’interazione endocrina è proprio quello di permettere l’interazione tra cellule relativamente
distanti tra loro, sfruttando una rete vascolare.

Neuroipofisi
Gli ormoni della neuroipofisi sono due neuropeptidi, l’ormone antidiuretico (ADH; detto anche arginina
vasopressina) e l’ossitocina (OT), prodotti dai neuroni magnocellulari dei nuclei sopraottico e
paraventricolare dell’ipotalamo. Una volta prodotti a livello del pirenoforo, questi ormoni discendono lungo
gli assoni, coniugati alla glicoproteina neurofisina, per essere poi rilasciati nella rete capillare che vascolarizza
la neuroipofisi. Per mezzo di cellule gliali, la neuroipofisi facilita il rilascio di questi ormoni peptidici nel
torrente ematico. Prima di raggiungere gli organi bersaglio, questi ormoni devono percorrere la circolazione
sistemica: ciò spiega perché le concentrazioni con cui sono secreti sono piuttosto elevate, altrimenti
risulterebbero troppo diluiti e inefficaci. N.B. I neuroni magnocellulari si chiamano così non solo perché hanno
un grande pirenoforo, ma anche perché rilasciano grandi quantità di ormoni, contrariamente ai parvocellulari.
Per quanto riguarda l’ossitocina, è sufficiente sapere che entra in gioco durante il parto, favorendo le
contrazioni dell’utero, e aiuta l’allattamento, facilitando la contrazione delle cellule muscolari lisce dei dotti
galattofori e quindi la secrezione di latte.
Per quanto riguarda l’ADH, esso è stato ampiamente trattato nelle tesina sulla Regolazione dell’osmolalità
dei liquidi corporei (punto 3).

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Adenoipofisi

A livello dell’eminenza mediana, i neuroni parvocellulari dei nuclei arcuato e periventricolare (attenzione,
non paraventricolare) rilasciano dei fattori che modulano la liberazione degli ormoni adenoipofisari. I fattori
ipotalamici vengono rilasciati nell’interstizio dell’eminenza mediana, entrano nella prima rete capillare,
raggiungono la seconda attraverso i vasi portali lunghi e da qui arrivano all’adenoipofisi a concentrazioni
elevate (non risentendo della diluizione dovuta al circolo sistemico). Gli ormoni dell’adenoipofisi vengono
rilasciati nel circolo sistemico e raggiungono le ghiandole bersaglio, promuovendone la secrezione.
Esistono meccanismi a retroazione negativa che regolano il rilascio ormonale. Si possono individuare tre
livelli di regolazione:
 circuito lungo: gli ormoni delle ghiandole periferiche raggiungono l’adenoipofisi e l’ipotalamo,
inibendo il rilascio di quegli ormoni che stimolano la ghiandola periferica stessa;
 circuito breve: un aumento del rilascio dell’ormone adenoipofisario riduce il rilascio del fattore
ipotalamico che ne stimola la secrezione;
 circuito ultrabreve: un fattore ipotalamico può agire sull’ipotalamo stesso riducendo la sua
produzione oppure promuovendo la secrezione di altri fattori che esercitano effetti opposti. Questo
meccanismo non vale per tutti i fattori ipotalamici.
Oltre a questi meccanismi di retroazione negativa, ne esiste uno a retroazione positiva coinvolto nel fenomeno
dell’ovulazione (verrà trattato nella tesina Gonade femmine e gonade maschile).
Nella tabella sono indicati i fattori ipotalamici, gli ormoni dell’adenoipofisi di cui regolano la secrezione e
le ghiandole bersaglio degli ormoni adenoipofisari stessi. I nomi vanno imparati sia nella loro forma estesa che
in quella sotto forma di sigla.

Fattore ipotalamico Ormone dell’adenoipofisi Ghiandola periferica

(RH = Releasing Hormone)

Ormone liberante ACTH Ormone adrenocorticotropo Corticale del surrene


(CRH) (ACTH)

Ormone liberante TSH (TRH) Ormone tireostimolante Tiroide (cellule follicolari)


(TSH)

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Ormone liberante Ormone luteinizzante (LH) e Gonadi maschili e femminili
gonadotropine (GnRH) Ormone follicolo-stimolante
(FSH)

Ormone liberante GH Ormone della crescita (GH) Fegato (in realtà il GH ha


(GHRH) effetto su diversi bersagli, ma
forma un’asse con il fegato, in
Somatostatina (inibisce la Ormone della crescita (GH) quanto promuove a quel
produzione di GH) livello la produzione e la
secrezione di somatomedine,
che poi saranno responsabili
del feedback sull’adenoipofisi
e sull’ipotalamo)

Fattore inibente il rilascio di Prolattina (PRL) Ghiandola mammaria


prolattina (dopamina)
(Stimola la produzione di
latte. La mancata inibizione da
parte della dopamina
determina iperprolattinemia)

Le caratteristiche principali dei fattori ipotalamici sono le seguenti:


 sono tutti peptidici (ad eccezione della dopamina);
 specificità, ad eccezione di TRH che stimola anche il rilascio di prolattina; somatostatina che inibisce
anche il rilascio di TSH; GHRH che stimola anche il rilascio di ACTH e di prolattina;
 secrezione pulsatile: la secrezione non è continua, ci sono momenti in cui vengono rilasciati
raggiungendo elevate concentrazioni e altri in cui le loro concentrazioni si abbassano notevolmente.
Questi fattori, in base alla loro presenza o meno, producono modificazioni sulla concentrazione dei
loro recettori, quindi se si somministrano farmacologicamente, bisogna tenere conto di questa
pulsatilità, altrimenti si rischia una down-regulation del recettore. Questa pulsatilità dovrebbe
riflettersi lungo tutto l’asse ipotalamo-ipofisi-ghiandola periferica, però è maggiormente evidente tra
ipotalamo e ipofisi. Questo perché un ormone impiega del tempo per raggiungere il bersaglio e
determinarne una risposta, quindi questi ritardi fanno sì che la pulsatilità a livello della ghiandola
periferica sia minima;
 effetti di iperplasia (aumento del numero delle cellule), ipertrofia (aumento delle loro dimensioni),
stimolazione della trascrizione degli ormoni, modificazioni post-traduzionali che potenziano
l’attività dell’ormone (per gli ormoni stimolati da TRH e GnRH), stimolo alla esocitosi. Quindi, i
fattori ipotalamici non promuovono solo la liberazione degli ormoni adenoipofisari, ma ne potenziano
l’attività e anche la quantità (promuovendo ipertrofia e iperplasia cellulare).

24.4. Regolazione nervosa ed endocrina dei depositi energetici e del metabolismo


(insulina, glucagone, glucocorticoidi, adrenalina, leptina, ormoni tiroidei, ormone
somatotropo)

Meccanismi di difesa dall’ipoglicemia


Verranno trattati una serie di ormoni in due grandi blocchi: il primo di questo blocchi è costituito da insulina,
glucagone, glucocorticoidi e adrenalina. Questi ormoni sono accumunati dal fatto che contribuiscono al
controllo della glicemia. Verranno analizzati i meccanismi che il nostro organismo mette in atto per difenderci
dall’ipoglicemia.

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1. Riduzione della secrezione di insulina
Il primo meccanismo che viene messo in atto in risposta all’ipoglicemia è una riduzione dell’ormone
insulina, un ormone rilasciato dal pancreas endocrino dopo i pasti, che aiuta a portare il glucosio
assunto tramite la dieta all’interno delle cellule; così facendo chiaramente l’insulina tende a ridurre la
concentrazione di glucosio nel sangue (riduce quindi la glicemia). Inibire il rilascio di insulina
permette dunque di contrastare efficacemente l’ipoglicemia riportando la glicemia a valori normali.
2. Aumento di rilascio del glucagone
Il glucagone è un altro ormone rilasciato dal pancreas endocrino, che ha effetti in parte opposti a quelli
dell’insulina e tende appunto ad aumentare la glicemia, costituendo così un ovvio meccanismo per
difendere dall’ipoglicemia.
3. Aumento della secrezione di adrenalina
L’adrenalina è un ormone rilasciato dalla midollare del surrene che ha diverse azioni poiché può agire
su recettori adrenergici (si sono citate in altre parti del corso le azioni dell’adrenalina sui recettori β-
adrenergici non solo del cuore ma anche delle arteriole che irrorano il muscolo scheletrico).
L’adrenalina è un ormone molto coinvolto nel controllo metabolico.
4. Aumento dei livelli di cortisolo e dell’ormone somatotropo
L’ormone somatotropo fa un po’ da “cerniera” tra il controllo del metabolismo energetico e in
particolare della glicemia, e i meccanismi di accrescimento dell’organismo. Il rilascio dell’ormone
somatotropo associato al rilascio di cortisolo contribuisce ad evitare l’ipoglicemia durante il sonno
notturno. Durante il sonno notturno l’organismo consuma meno, ma poiché è una situazione in cui
non ci si ciba, si è comunque a rischio di ipoglicemia.
5. Sintomi → risposte comportamentali
Solo se tutti i meccanismi ormonali sopracitati non risultano pienamente efficaci si cominciano ad
avvertire i sintomi dell’ipoglicemia, che sono sintomi associati alla neuroglicopenia, per il fatto che i
neuroni non hanno abbastanza substrati energetici per poter funzionare adeguatamente. I neuroni
hanno infatti bisogno del glucosio per il proprio metabolismo energetico (anche se in condizioni di
digiuno prolungato si adattano ad utilizzare in parte i corpi chetonici). La presenza di questi sintomi
compromette l’efficienza dell’organismo nell’interazione col mondo esterno e attiva delle risposte
comportamentali che essenzialmente consistono nel fatto che si inizia a cercare avidamente il cibo per
cercare di risolvere il problema.
La riduzione dei livelli di insulina è il primo meccanismo che entra in gioco quando la glicemia cala (anche
solo di poco); se ciò non basta, aumentano i livelli di glucagone, se anche questo non basta aumentano quelli
di adrenalina e così via. Questa serie di risposte culmina quindi con le risposte comportamentali.
Nel momento in cui si avvertono i sintomi dell’ipoglicemia dal punto di vista comportamentale diventa per
gli individui una priorità andare a cercare del cibo. Questo non indica che l’organismo ha appena iniziato ad
affrontare il problema, ma al contrario che si è già "molto avanti" nella gestione del problema: sono già entrati
in gioco i diversi meccanismi ormonali che possono consentire di affrontare l'ipoglicemia senza bisogno di
risposte comportamentali, ma questi meccanismi si sono dimostrati inefficaci. Questo a sottolineare che
l'esistenza di sintomi, e quindi le risposte comportamentali ad essi associati, segnalano una situazione di
ipoglicemia già piuttosto importante.
Occorre riflettere sul fatto che l’organismo possiede ben cinque linee di difesa dall'ipoglicemia. Questo indica
che c'è una cospicua ridondanza dei meccanismi di difesa dall'ipoglicemia: se anche uno non funziona
adeguatamente è possibile comunque basarsi sugli altri. In ultima analisi questa molteplicità dei meccanismi
in gioco, questa ridondanza, è alla base della robustezza del meccanismo di regolazione complessivo.
L’organismo è adatto ad evitare l'ipoglicemia anche in condizioni in cui l'intervallo interprandiale tra un pasto
e l'altro è piuttosto lungo. A riprova di ciò, non esistono reparti ospedalieri o specialisti medici che dedicano
la propria attività o la propria carriera a curare i pazienti affetti da ipoglicemia, mentre invece il diabete mellito,
una condizione caratterizzata dalla presenza di un eccesso di concentrazione di glucosio in circolo, quindi da
un’iperglicemia che si mantiene cronicamente nel tempo, è una condizione ad alta prevalenza per la quale
esistono ambulatori dedicati e per la quale esistono specialisti (diabetologi).
Tale ragionamento ci suggerisce come la difesa dalle variazioni della glicemia non sia egualmente efficace
nei confronti di aumenti della glicemia rispetto a quella nei confronti di una riduzione della glicemia.
L’organismo è molto efficiente a difendersi dall'ipoglicemia con ben cinque linee di difesa, ma è invece molto
meno pronto a difendersi dall'iperglicemia. Di fatto c'è un solo ormone che difende dalla iperglicemia e
quell'ormone è l'insulina. Così come spegnendo la produzione di insulina si ci difende dall'ipoglicemia,
aumentandone la produzione (e auspicandosi che questa sortisca i propri effetti biologici) ci si può difendere

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dall’iperglicemia. Il fatto che la difesa dall’iperglicemia si basi su un solo ormone mette a rischio di problemi
patologici, perché nel momento in cui il rilascio di questo ormone viene meno (diabete di tipo 1, ad insorgenza
giovanile), oppure la risposta dell'organismo a questo ormone viene meno (diabete di tipo 2, ad insorgenza
nell'adulto), allora tutta la risposta funzionale all’iperglicemia viene meno. Dal punto di vista evolutivo può
essere facilmente comprensibile come mai gli organismi siano così ben protetti da un calo del glucosio mentre
siano alquanto mal protetti da un aumento dei livelli di glucosio. Possiamo pensare che il problema più cogente,
più frequente, in un ambiente non protetto dalla presenza di consimili, quindi dalla rete sociale e tecnologica
che ci accompagna oggigiorno, sia quello della mancanza di nutrienti. Il problema di dover svolgere attività
fisica in ambienti magari ostili in carenza di cibo è quindi un problema in cui la lotta all’ipoglicemia è una
questione quotidiana. In una tale situazione il rischio di un’iperglicemia è invece molto limitato: magari,
mentre si va alla ricerca di cibo, ci si trova in situazioni in cui il cibo diventa momentaneamente abbondante e
a questo punto si può ingerire una quantità di nutrienti superiore al consueto: questo porterà momentaneamente
ad un aumento dei livelli di glucosio, che però è temporaneo (elevati livelli di glucosio vanno a determinare
degli effetti tossici per l'organismo solo quando sono presenti cronicamente per tempi prolungati). Con ogni
probabilità il fatto che si è così ben difesi dall’ipoglicemia discende dal fatto che il rischio più realistico in
assenza di un supporto sociale e tecnologico è quello di andare incontro a ipoglicemia, non a iperglicemia.

Insulina: secrezione
L'insulina è prodotta dalle cellule del pancreas endocrino.
Il pancreas è una ghiandola lobulare piuttosto estesa (12-15 cm di lunghezza dal duodeno alla milza) con un
parenchima prevalentemente costituito dalla componente esocrina, che ha la funzione di generare il succo
pancreatico che andrà secreto all'interno del duodeno per coadiuvare la digestione.

Il rilascio di insulina avviene invece a livello del pancreas endocrino, negli isolotti del Langerhans, che
rappresentano una piccola porzione della massa pancreatica, circa 1%, benché una porzione molto irrorata:
essi ricevono infatti il 10% del flusso ematico dell’intero organo. La necessità di un’importante irrorazione
deriva dal fatto che gli isolotti del Langerhans devono produrre e immettere nel circolo ematico degli ormoni.
L'insulina è prodotta in particolare dalle cellule β degli isolotti del Langherans. Esistono anche altre cellule
a livello delle isole pancreatiche, fra cui le cellule α che producono glucagone, e cellule  ed F che rilasciano
rispettivamente somatostatina e polipeptide pancreatico. Non ci soffermiamo sugli effetti di questi ultimi a
livello delle isole di Langerhans, ma rileviamo che la somatostatina è stata già incontrata parlando
dell'ipotalamo: essa è infatti un ormone prodotto da neuroni parvicellulari che mandano gli assoni a livello
eminenza mediana, e che inibisce la produzione di ormone della crescita da parte della dell'adenoipofisi.
Questo sottolinea come il medesimo peptide possa essere espresso e prodotto da cellule molto diverse: nel caso
dell’ipotalamo la somatostatina ha come ruolo l'inibizione della produzione di ormone della crescita, mentre a
livello pancreatico la modulazione del rilascio degli altri ormoni da parte delle isole di Langerhans5. Tutto ciò
conferma il principio cosiddetto di causalità olistica per cui l'effetto di un dato gene dipende dal trascrittoma
complessivo della cellula in cui il gene viene espresso e dall'attività delle cellule circostanti (stesso gene,
espressione in cellule differenti, effetti differenti).

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Ricorda. La somatostatina è prodotta anche dalle cellule D dell’antro gastrico in risposta ad un abbassamento eccessivo
del pH ed agisce in feedback negativo sulle cellule G, inibendo la secrezione di gastrina (e in questo modo inibendo
indirettamente la secrezione di acido da parte delle cellule parietali).

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Il glucosio prima di tutto, ma anche una serie di altre sostanze in circolo come aminoacidi, acidi grassi
liberi, chetoacidi e infine anche il potassio, stimolano la produzione di insulina. L'insulina a sua volta ha
l'effetto di ridurre la concentrazione circolante di tutte queste sostanze: glucosio, aminoacidi, acidi grassi
liberi, chetoacidi e potassio. Questo chiude dei circuiti in retroazione negativa che cercano di stabilizzare la
concentrazione di ciascuna di queste sostanze. L'effetto preminente è quello del glucosio ma anche le altre
sostanze sono importanti nel regolare il rilascio di insulina.
Che cosa caratterizza/accomuna queste sostanze?
 Tutte, ad eccezione del potassio, sono dei nutrienti che possono fornire energia: l'insulina permette
dunque di ridurre i livelli circolanti di sostanze che se catabolizzate producono energia.
 Originano dall'assorbimento dei pasti. È naturale che dopo un pasto i livelli circolanti di glucosio,
aminoacidi, acidi grassi liberi aumentino in seguito alla digestione, e questo porta ad una stimolazione
del rilascio di insulina che avrà l'effetto di ridurre i livelli circolanti delle sostanze medesime.
I chetoacidi entrano in gioco in questo ragionamento perché sono dei prodotti della β-ossidazione incompleta
a livello epatico e possono fungere da substrato energetico in condizioni di digiuno prolungato. È chiaro che
l’organismo non ha alcun bisogno di produrre chetoacidi a livello epatico quando è ben nutrito e questo spiega
come mai il rilascio di insulina inibisca in maniera forte anche la produzione di chetoacidi. Peraltro, l'insulina
è l'unico ormone in grado di inibire in maniera netta la produzione di chetoacidi da parte del fegato e questo
spiega come mai in pazienti con diabete mellito severo ci sia un rischio reale di iper-produzione di chetoacidi
da parte del fegato, una condizione che prende il nome di chetoacidosi diabetica e che si caratterizza anche
per alterazioni dell'equilibrio acido-base (i chetoacidi sono degli acidi deboli).
Infine, la dieta è relativamente ricca di potassio rispetto alla concentrazione di potassio che si trova nel
liquido extracellulare. Quindi, immediatamente dopo un pasto non solo aumentano i livelli circolanti di
nutrienti (glucosio, aminoacidi, acidi grassi liberi) ma aumentano anche quelli del potassio: quindi il potassio
rappresenta un ulteriore segnale dello stato post-prandiale ed è molto appropriato che l'insulina, assieme anche
ad aldosterone e adrenalina, riporti il potassio all'interno delle cellule.
Questo controllo è esercitato dai livelli circolanti di queste sostanze ma esiste anche un cosiddetto effetto
incretinico: il glucosio assunto per os è molto più efficace nel determinare il rilascio di insulina del glucosio
assunto per via endovenosa. L’effetto incretinico è responsabile di più del 50% del rilascio di insulina dopo
l'ingestione del glucosio. Il glucosio stimola dunque il rilascio di insulina non solo agendo direttamente sulle
cellule β delle isole del Langherans (questo accade ad esempio dopo la somministrazione di glucosio per via
endovenosa come nutrizione artificiale), ma anche determinando delle risposte a livello del tratto
gastrointestinale. Solo così è possibile spiegare come mai il glucosio per bocca stimoli la secrezione di insulina
più che il glucosio infuso per via endovenosa: ciò è appunto dovuto alla produzione di un fattore incretinico,
che prende il nome di GLP-1 (Glucagon-Like Peptide 1).6

Secrezione di insulina sotto stimolo del glucosio: approfondimento dal Boron & Boulpaep
Il glucosio induce il rilascio di insulina nell’ambito di un processo articolato su sette fasi:
- Fase 1. Il glucosio penetra nelle cellule β attraverso il trasportatore del glucosio GLUT2 per diffusione
facilitata, mentre gli amminoacidi utilizzano un altro gruppoi di trasportatori.
- Fase 2. In presenza di glucochinasi il glucosio in ingresso va incontro a glicolisi e ossidazione tramite il ciclo
dell’acido citrico, fosforilando l’ADP e aumentando i livelli di [ATP] i. Entrano nel ciclo dell’acido citrico

6
I testi citano come incretina anche il polipeptide inibitore gastrico (GIP).

526
anche alcuni amminoacidi. In entrambi i casi, aumentano i seguenti rapporti: [ATP] i/[ADP]i,
[NADH]i/[NAD+]i e [NADPH]i/[NADP+]i.
- Fase 3. L’aumento del rapporto [ATP]i/[ADP]i determina la chiusura dei canali KATP.
- Fase 4. La riduzione della conduttanza di K+ della membrana cellulare causa la depolarizzazione delle cellule
β.
- Fase 5. Tale depolarizzazione attivai i canali per il Ca2+ voltaggio-dipendenti.
- Fase 6. L’aumentata permeabilità al Ca2+ induce un incremento della concentrazione di Ca2+ libero
intracellulare. Gli aumenti della [Ca2+]i scatenano inoltre il rilascio di Ca2+ Ca2+-indotto (CICR) dalle scorte
intracellulari.
- Fase 7. L’aumento della [Ca2+]i, verosimilmente attraverso l’attivazione della cascata di fosforilazione
mediata dal legame Ca2+-calmodulina e la stimolazione delle proteine di fusione granuli/membrana, molto
simile ai processi di secrezione dei granuli nella trasmissione sinaptica, determina infine il rilascio di insulina.

Insulina: effetti
Quali sono gli effetti dell’insulina sui tessuti bersaglio? Innanzitutto, dobbiamo definire quali sono i tessuti
bersaglio più critici per la modulazione del metabolismo energetico e soprattutto delle riserve energetiche
dell’organismo.
I tre tessuti che sono coinvolti principalmente sono:
1. il tessuto adiposo: immagazzinamento di trigliceridi;
2. il tessuto muscolare scheletrico: immagazzinamento di proteine e del glicogeno;
3. il fegato: immagazzinamento di glicogeno. Inoltre, il fegato è una “centralina” dal punto di vista
metabolico per l’organismo e, in particolare, svolge un ruolo fondamentale per il controllo glucidico
e lipidico.

Effetti sul muscolo scheletrico


Il legame dell’insulina ai suoi recettori nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo facilita la traslocazione
sulla membrana cellulare di trasportatori GLUT4, cioè trasportatori per il glucosio che normalmente si trovano
espressi sulla membrana di vescicole intracellulari. Quando le cellule rispondono all’insulina le vescicole si
fondono con la membrana plasmatica cosicché i trasportatori GLUT4 risultino espressi. Questo è importante
perché la permeabilità delle cellule di questi tessuti al glucosio, in assenza di insulina, è molto bassa, in quanto
affidata all’isoforma ubiquitaria dei trasportatori di glucosio, GLUT1, con una densità assai ridotta. Quindi,
il glucosio non è in grado di passare liberamente, invece in presenza di insulina questo problema di
permeabilità viene risolto da GLUT4. Perché entra il glucosio in queste cellule? Favorire l’ingresso di glucosio
all’interno della cellula tramite i trasportatori traslocati è, infatti, una condizione necessaria ma non sufficiente:
è necessaria anche una differenza di concentrazione che ne spinga l’ingresso, che determini un flusso netto,
secondo la legge di Fick. Questa differenza di concentrazione discende da due fattori:
1. il glucosio appena entrato nella cellula viene fosforilato a glucosio-6-fosfato e poi immediatamente
veicolato verso vie metaboliche così da ridurre la concentrazione di glucosio libero intracellulare;
2. la concentrazione extracellulare è elevata perché si considerano condizioni postprandiali.
Il glucosio è dunque spinto ad entrare da questo gradiente di concentrazione e ulteriormente favorito dalla
permeabilità sufficientemente elevata.
Nelle cellule del muscolo scheletrico, il glucosio viene in parte destinato al metabolismo energetico, quindi
all’ossidazione, ma sarebbe una visione limitativa ed erronea quella di ritenere che l’insulina faccia solo

527
bruciare glucosio nel muscolo scheletrico. Avrebbe poco costrutto un susseguirsi di processi di captazione di
glucosio dall’ambiente, digestione, assorbimento, per poi bruciarlo senza alcuna funzione associata. In realtà,
il glucosio all’interno delle cellule del muscolo scheletrico funge anche da substrato per la sintesi in prima
istanza di glicogeno e, poi, anche di proteine. Per la sintesi di queste ultime si necessita di energia, che è
proprio quella ottenuta dal catabolismo energetico del glucosio.
Quindi, il glucosio nelle cellule del muscolo scheletrico funge da “mattoncino” oppure viene catabolizzato
per ottenere energia, che non viene utilizzata per la contrazione finalistica del muscolo scheletrico, bensì per
poter finanziare dal punto di vista energetico la sintesi del glicogeno stesso e soprattutto di proteine.
Per sintetizzare le proteine non serve solo energia ma anche amminoacidi, che sono facilitati ad entrare nella
cellula dall’insulina. I pool molecolari dell’organismo, fra cui quello proteico, sono sottoposti a un cosiddetto
turnover, a un ricambio, a continua degradazione e riassorbimento. L’insulina stimola la sintesi proteica e
inibisce la proteolisi a livello del muscolo scheletrico e questo sposta il turnover verso una sintesi netta. Si è
portati a pensare soltanto agli ormoni sessuali come ormoni anabolizzanti, ma in realtà anche l’insulina è un
potente ormone anabolizzante e in particolare contribuisce all’anabolismo delle proteine nel muscolo
scheletrico.
Cosa accade agli acidi grassi? Essendo in fase postprandiale gli acidi grassi liberi sono presenti in circolo.
Entrano dunque all’interno delle cellule del muscolo scheletrico in maniera molto più ridotta rispetto a quello
che accade lontano dai pasti. Questo perché il muscolo scheletrico utilizza i substrati energetici sulla base della
loro disponibilità. In questa situazione postprandiale, sotto stimolo insulinico, le cellule muscolari scheletriche
hanno a disposizione grandi quantità di glucosio per via del gradiente favorevole e della permeabilità, quindi
non è richiesto l’uso di acidi grassi liberi, che quindi non vengono consumati. In aggiunta, il sangue dopo i
pasti è ricco di lipoproteine, che vengono degradate dall’azione di lipoproteinlipasi, espresse sui capillari
sanguigni che irrorano il muscolo scheletrico e la cui attività è inibita dall’insulina: la minore scissione delle
lipoproteine circolanti fa sì che i lipidi entrino meno facilmente nel muscolo scheletrico.
Ricapitolando. L’insulina nel muscolo scheletrico:
 stimola la traslocazione del trasportatore GLUT4 sulla membrana plasmatica e dunque la
captazione di glucosio;
 stimola la glicolisi e l’ossidazione del piruvato (mediante l’attivazione dell’esochinasi, della
fosfofruttochinasi e della piruvato deidrogenasi);
 stimola la sintesi di glicogeno (mediante l’attivazione della glicogeno sintetasi);
 stimola la sintesi delle proteine e rallenta la degradazione delle proteine esistenti;
 l’aumento del consumo di glucosio permette al muscolo di ridurre l’impiego di grassi e inoltre
l’insulina inibisce direttamente la captazione di acidi grassi mediante l’inibizione della
lipoproteinlipasi.

Effetti sul tessuto adiposo


L’ingresso di glucosio è facilitato con il medesimo meccanismo GLUT4-dipendente discusso
precedentemente.
L’ingresso degli acidi grassi liberi è favorito per diverse ragioni:
1. gli acidi grassi liberi nel tessuto adiposo, sotto stimolo insulinico, sono utilizzati come substrati per
produrre trigliceridi: questo grazie alla disponibilità di energia e di glicerolo entrambi ottenuti dal
catabolismo del glucosio. Viene così ridotta la concentrazione di acidi grassi liberi nelle cellule;
2. l’insulina esercita un effetto sulla lipoproteinlipasi, espressa sulle cellule endoteliali dei capillari che
irrorano il tessuto adiposo, di segno opposto rispetto a quello che si manifesta a livello del muscolo
scheletrico. La lipoproteinlipasi qui viene stimolata, contribuendo ulteriormente all’ingresso di acidi
grassi liberi;
3. viene espressa anche una lipasi ormone-sensibile a livello degli adipociti in grado di scindere i TAG
immagazzinati negli adipociti quando questo si rende necessario, particolarmente lontano dai pasti.
Questa lipasi è inibita dall’insulina.
L’effetto netto dell’azione a livello di queste due lipasi è la sintesi di TAG. Tutti questi effetti combinati
permettono di depositare il glucosio, gli amminoacidi e gli acidi grassi della dieta efficientemente sotto forma
di glicogeno, proteine e TAG.
Effetti sul tessuto adiposo dell’insulina:
 stimola la traslocazione del trasportatore GLUT4 sulla membrana plasmatica e dunque la
captazione di glucosio;

528
 stimola la glicolisi per la produzione di glicerolo 3-fosfato e la conversione dell’acetil-CoA in
acidi grassi (mediante attivazione della piruvato deidrogenasi e dell’acetil-CoA carbossilasi);
 inibisce la lipolisi mediante l’inattivazione della lipasi ormone-sensibile;
 induce la captazione e l’immagazzinamento di acidi grassi esogeni nel tessuto adiposo mediante
l’attivazione della lipoprotein lipasi.7

Effetti sul fegato


L’insulina stimola la glicogenosintesi e inibisce la gluconeogensi e la chetogenesi, inutili in condizioni
postprandiali, avendo abbondanza di substrati energetici.
Non c’è nessun effetto dell’insulina sulla permeabilità degli epatociti al glucosio e non si manifesta il
meccanismo GLUT4-dipendente. La permeabilità degli epatociti al glucosio è sempre moto alta, garantita da
trasportatori GLUT1 ubiquitari e soprattutto GLUT2, costitutivamente espressi, già incontrati a livello della
membrana baso-laterale delle cellule del tubulo prossimale (anche a livello del tubulo prossimale è importante
avere una permeabilità al glucosio sempre alta, perché è necessario che il glucosio, riassorbito tramite simporto
con il sodio a livello apicale, possa essere poi traportato nell’interstizio con grande efficacia)8. Allo stesso
modo, gli epatociti devono essere permeabili al glucosio non solo dopo i pasti, quando vi è comunque un
ingresso netto necessario per costituire il glicogeno, ma anche lontano dai pasti. Abbiamo già ricordato che
grazie alla glucosio-6-fosfatasi si più produrre nuovo glucosio, per cui se la permeabilità al glucosio non fosse
sempre elevata questo nuovo glucosio non potrebbe riversarsi in circolo quando necessario, cioè lontano dai
pasti.
Effetti dell’insulina sul fegato:
 stimola la sintesi del glicogeno;
 inibisce l’attività e la sintesi degli enzimi gluconeogenetici (tramite effetti diretti e tramite
l’inibizione di FOXO1);
 inibisce la chetogenesi;
 stimola la glicolisi (effetto non citato dal prof.);
 stimola la sintesi di acidi grassi (effetto non citato dal prof.).
Ricorda. Non c’è effetto dell’insulina sull’uptake epatico di glucosio.

Pathway molecolari generati dal legame dell’insulina al suo recettore: approfondimento dal Berne & Levy 9

“Il recettore dell’insulina (InsR) è un membro della famiglia genica dei recettori tirosin-chinasici. Gran parte delle
azioni dell’insulina sul metabolismo coinvolge l’attivazione della protein chinasi Akt, che a sua volta ha un’azione
pleiotropica sul metabolismo cellulare.

Il recettore dell’insulina è espresso sulla membrana cellulare come omodimero, con ogni monomero contenente un
dominio tirosin-chinasico sul versante citosolico. Il legame dell’insulina al recettore induce la fosforilazione crociata
delle subunità. Questi residui fosfotirosinici sono poi legati dalle proteine IRS (Insulin Receptor Substrate) (i.e., le
proteine IRS sono “reclutate” dal recettore dell’insulina). Le proteine IRS stesse sono fosforilate dal recettore
dell’insulina su specifici residui tirosinici, che poi reclutano la fosfoinositolo-3-chinasi (PI3K). La PI3K converte il
fosfoinositolo-4,5-bisfosfato (PIP2) in fosfoinositolo-3,4,5-trisfosfato (PIP3). PIP3 è un lipide informazionale che
recluta proteine verso la membrana. In questo pathway, PIP3 recluta la proteina chinasi Akt sulla membrana della
cellula, dove viene attivata. Il pathway pleiotropico legato alla via di segnalazione dell’Akt pleiotropico orchestra le
numerose azioni metaboliche dell'insulina negli epatociti, nel muscolo scheletrico, e negli adipociti, tra cui:

7
Gli acidi grassi endogeni ed esogeni vengono poi riesterificati a TAG grazie al glicerolo 3-fosfato prodotto dalla glicolisi.
8
Ricorda. GLUT2 è espresso anche sulla membrana baso-laterale degli enterociti.
9
Silvani afferma che non è cruciale conoscere queste informazioni in più presenti nel libro di testo, ma che dare loro una
lettura può essere utile.

529
1. traslocazione del
trasportatore di glucosio
GLUT4 sulla membrana
cellulare, permettendo così
l'importazione di glucosio
nei miociti scheletrici e
negli adipociti;
2. l’attivazione di fosfatasi
proteiche, che a loro volta
regolano l'attività di più
enzimi metabolici in tutte le
cellule bersaglio
dell'insulina;
3. attivazione di mTORC1,
che promuove la sintesi
proteica e può inibire la
degradazione delle proteine
mediata dal proteasoma
nelle cellule bersaglio
dell'insulina;
4. attivazione della trascrizione del gene SREBP1. SREBP1 è particolarmente importante per gli effetti
dell'insulina sul fegato, dove orchestra la glicolisi e lipogenesi de novo per la produzione di fosfolipidi, acidi
grassi e triacilgliceroli da eccessivo consumo di glucosio e fruttosio. La segnalazione InsR/Akt stimola
SREBP1 sia direttamente che indirettamente attraverso l'attivazione di mTORC1, il quale attiva anche
SREBP1. SREBP1 induce inoltre l’espressione dell'enzima che catalizza la prima reazione della via dei
pentoso fosfato. Questa reazione genera il coenzima NADPH, necessario per la lipogenesi de novo;
5. inattivazione del fattore di trascrizione FOXO1. La fosforilazione Akt-mediata di FOXO1 promuove
l’esclusione dal nucleo di FOXO1. In assenza del signaling dell’insulina/Akt, FOXO1 induce l'espressione
di geni codificanti per enzimi gluconeogenici e proteine coinvolte nell’assemblaggio epatico e
nell’esportazione delle VLDL.
L'InsR promuove inoltre la proliferazione di alcune cellule bersaglio attraverso l'attivazione della via delle MAPK.”

Glucagone
Anche il glucagone entra in gioco in un circuito in retroazione negativa che controlla la glicemia, ma con un
verso opposto rispetto a quello dell’insulina: in particolare aumenta la concentrazione di glucosio e di
chetoacidi in circolo.

530
Il glucagone agisce prevalentemente sul fegato (a differenza dell’insulina che agisce anche su tessuto adiposo
e muscolare) stimolando la chetogenesi, la gluconeogenesi e la glicogenolisi. Allo stesso tempo i livelli di
glucosio e di chetoacidi riducono i livelli di glucagone: l’effetto è mediato dall’insulina: di fatto glucosio e
amminoacidi stimolano la produzione di insulina e questa inibisce il rilascio di glucagone. Per cui le cellule
α delle isole del Langherans, che rilasciano glucagone, sfruttano i meccanismi molecolari di rilevazione del
glucosio e dei chetoacidi che sono già espressi nelle cellule β, che rilasciano insulina.
Un altro aspetto importante è che le catecolamine, quindi adrenalina e noradrenalina, ma soprattutto la prima,
stimolano la produzione di glucagone legando recettori β2-adrenergici (l’adrenalina, rispetto alla
noradrenalina esercita maggiori effetti sui recettori β, il contrario accade per gli α) 10. Questo contribuisce a
spiegare i meccanismi nervosi di controllo del metabolismo energetico e dei depositi energetici, che in forma
di glicogeno, quantomeno a livello del fegato, sono ridotti dal glucagone.
Alcuni aspetti importanti ancora da discutere relativamente al glucagone:
1. relazione struttura-funzione: la struttura delle isole del Langherans è costituita da un nocciolo di
cellule β e un guscio di cellule delle altre tipologie, che rilasciano i rispettivi ormoni. L’irrorazione
ematica procede con delle arteriole che vanno ad irrorare preferenzialmente la parte del nocciolo e poi
in direzione centrifuga a partire da questo. La vicinanza tra le β e le α e il fatto che le prime a ricevere
sangue arterioso siano le β, fa sì che le α siano le prime ad essere bagnate da liquido interstiziale con
una concentrazione elevata di insulina. È proprio questo il meccanismo alla base della risposta
preferenziale delle cellule α all’insulina, la quale media così il rilascio di glucagone rispetto a
variazioni della glicemia e della concentrazione di chetoacidi;
2. il glucagone ha effetti significativi solo sul fegato, ma non su tessuto adiposo e muscolo scheletrico.
Questo perché sul fegato c’è un effetto molto importante di primo passaggio: il glucagone prodotto
dal pancreas arriva al fegato mediante la vena porta e lega i propri recettori sugli epatociti. In questo
modo viene eliminato dalla circolazione, cosicché a valle del fegato (in vena epatica) la concentrazione
di glucagone risulta molto bassa. Come risultato, i livelli ematici di glucagone fuori dal circolo portale
sono molto bassi e quindi il
glucagone esercita effetti fisiologici
trascurabili sul muscolo scheletrico e
sul tessuto adiposo. La
somministrazione farmacologica di
analoghi del glucagone può sortire
degli effetti diversi;
3. infine, il glucagone è un peptide che
si ottiene dal clivaggio di un
precursore chiamato proglucagone:
questo viene sintetizzato, espresso, in cellule molto diverse, dal pancreas all’intestino, al fegato. Il
clivaggio porta alla produzione di prodotti finali molto diversi, rappresentati dai “mattoncini”
nell’immagine e di cui il glucagone è solo uno. Per altro il fattore incretinico precedentemente citato,
GPL1, non è altro che un altro “mattoncino” che si ottiene dal clivaggio del medesimo proglucagone.
Questo è un altro esempio di un meccanismo molto frequente, in particolare relativamente ai peptidi,
già spiegato in precedenza: la causalità olistica. Il medesimo gene viene trascritto in cellule diverse
ed il prodotto funzionale cambia in maniera drammatica a seconda del trascrittoma delle cellule in
questione. Il trascrittoma include anche trascritti per enzimi di clivaggio, le proteasi, che consentono
un clivaggio differenziale del precursore proteico per avere prodotti finali differenti.
Ricapitolando. Gli effetti maggiori del glucagone sono sul fegato, dove:
 stimola la glicogenolisi, attivando (indirettamente) l’enzima glicogeno fosforilasi;
 stimola la gluconeogenesi (mediante la trascrizione dei geni degli enzimi gluconeogenici, mediata da
CREB e dalla mancata inibizione di FOXO1 da parte dell’insulina);
 stimola l’espressione della glucosio-6-fosfatasi e dunque il rilascio di glucosio nel torrente ematico;

10
Dal Berne & Levy: “Il maggiore stimolo per la secrezione del glucagone è il calo del glucosio ematico. L’insulina
inibisce la secrezione di glucagone, quindi un basso valore ematico di glucosio ha un effetto indiretto sulla secrezione del
glucagone tramite la rimozione dell’inibizione dell’insulina (disinibizione). Alcune evidenze recenti indicano che i bassi
livelli di glucosio hanno anche un effetto diretto sulle cellule α nell’aumento di secrezione di glucagone. Le
catecolammine circolanti, che inibiscono la secrezione di insulina mediante i recettori α2-adrenergici, stimolano la
secrezione di glucagone mediante il legame con i recettori β2-adrenergici.”

531
 stimola la captazione di acidi grassi, la β-ossidazione degli acidi grassi e la chetogenesi.

Pathway molecolari generati dal legame del glucagone al suo recettore: approfondimento dal Berne & Levy

“Il recettore del glucagone è un recettore accoppiato ad una proteina Gs che stimola l’attività dell’adenilato ciclasi e
dunque alza i livelli di cAMP. Il glucagone esercita numerose azioni rapide mediante il signalling della PKA. Esso
esercita anche alcuni effetti trascrizionali tramite la fosforilazione e l’attivazione di fattori trascrizionali come CREB
(cAMP Response Element Binding).”

Il primo meccanismo per difendersi dall’ipoglicemia è spegnere la produzione di insulina, aumentare quella
di glucagone è il secondo; i due vanno spesso di pari passo dal momento che i livelli di insulina hanno un
effetto inibitorio sulla produzione di glucagone. Altri meccanismi di protezione da riduzioni della glicemia
coinvolgono la midollare del surrene e in particolare l’adrenalina.

Adrenalina
La ghiandola surrenale è una ghiandola eterogenea strutturalmente e funzionalmente: consta di una porzione
midollare di origine neuroectodermica, che rilascia adrenalina e noradrenalina sotto controllo delle fibre pre-
gangliari del simpatico, e di una porzione corticale, che è considerata una ghiandola endocrina vera e propria,
non relata al tessuto nervoso. La porzione corticale è essa stessa eterogenea dal punto di vista istologico,
constando di una porzione più interna reticolare che produce ormoni androgeni (vedi tesina Gonade maschile
e gonade femminile), una porzione intermedia fascicolata che rilascia cortisolo (ormone glucocorticoide, vedi
dopo), e una porzione periferica glomerulare che rilascia aldosterone, definito mineralcorticoide per i suoi
effetti sul bilancio del sodio (vedi tesina Regolazione del volume dei liquidi corporei). L’adrenalina ha degli
effetti importanti dal punto di vista metabolico: la persona senza una conoscenza ben specifica di fisiologia è
portata a pensare all’adrenalina come ad un ormone che entra in gioco solo per attivazione comportamentale
ed emotiva estrema (es. livelli che salgono mentre si pratica sport estremo). Questa visione è molto parziale: è
vero che i livelli aumentano in condizioni di attivazione emotiva importante, risposte di “attacco e fuga” per
esempio, ma questo trascura il suo ruolo nella vita quotidiana, che è importantissimo.

I livelli basali di adrenalina vengono quantificati intorno a 30 pg/mL in soggetti sani (per inciso, questo
numero non va ricordato a memoria ma è da tenere presente per il ragionamento), livelli che raddoppiano
alzandosi in piedi, triplicano fumando una sigaretta, aumentano molto considerevolmente con l’esercizio e
anche di 50 volte in condizioni di ipoglicemia indotta da insulina. Cosa si intende per ipoglicemia indotta da
insulina? Si intende una ipoglicemia estremamente marcata. L’insulina riduce i livelli circolanti di glucosio,
la somministrazione a dosi farmacologiche è in grado di determinare delle riduzioni di glicemia
particolarmente brusche e intense. Purtroppo, può accadere che soggetti affetti da diabete mellito, che hanno
una prescrizione di terapia insulinica, possano involontariamente eccedere nella dose. Ebbene queste gravi
riduzioni di glicemia portano a notevoli aumenti, di 50 volte appunto, dei livelli di adrenalina. Tuttavia,
l’adrenalina aumenta anche per livelli di ipoglicemia assai meno gravi, che caratterizzano la nostra vita

532
quotidiana. L’adrenalina è coinvolta nella regolazione cardiovascolare e metabolica nella vita di tutti i giorni,
non necessariamente in condizioni estreme.
Quali sono gli effetti dell’adrenalina sul metabolismo e sui depositi energetici? Sfruttiamo uno schema non
dissimile da quello mostrato in relazione all’insulina. I player, i tessuti chiave, nella risposta sono, in termini
di deposito, il tessuto muscolare scheletrico, l’adiposo e il fegato; per quanto concerne la regolazione e il
metabolismo, si considerano anche il pancreas e i tratti gastrointestinale e urinario.

Per quanto concerne il muscolo scheletrico l’adrenalina “spegne” gli effetti dell’insulina, quindi laddove
essa facilitava l’ingresso del glucosio, aumentando la permeabilità attraverso la traslocazione dei trasportatori
GLUT4 sulla membrana, l’adrenalina blocca questa via di segnale, agisce sui meccanismi molecolari che
connettono la via di segnale dell’insulina alla traslocazione delle vescicole e ha su questi un effetto inibitorio.
L’adrenalina non è un antagonista recettoriale dell’insulina, ma il suo effetto si manifesta a valle dei
recettori, a livello intracellulare. Il risultato finale è che il sarcolemma diventa assai meno permeabile al
glucosio. Quindi cosa bruciano le cellule per sopravvivere, contrarsi, quando c’è elevata adrenalina in circolo?
Innanzitutto contengono del glicogeno che possono utilizzare: esso viene catabolizzato per produrre energia;
questa produzione energetica può avvenire anche in condizioni anaerobiche, la cosa non è improbabile, se si
ricorda che i livelli di adrenalina aumentano in maniera importante durante esercizio fisico. Si pensi ad una
situazione in cui si è lontani dai pasti e si sta compiendo esercizio fisico. Se si vuole ricordarlo in maniera
sicuramente schematica, ma forse utile alla memoria, si potrebbe pensare di non avere un frigorifero pieno in
casa ma di dover andare a cercare il cibo nella giungla e quindi di stare compiendo attività fisica per andare a
caccia, per cercare qualcosa da mangiare e di farlo a stomaco vuoto. Quindi esercizio fisico e ipoglicemia
frequentemente vanno di pari passo in condizioni meno artificiali delle nostre, da cui la possibilità che il
muscolo scheletrico consumi glucosio anche in anaerobiosi. Questo è rilevante perché il catabolismo
anaerobico del glucosio ottenuto dalla glicogenolisi muscolare scheletrica porta ad un aumento dei livelli
circolanti di lattato e il lattato può essere usato come substrato gluconeogenetico dal fegato e come substrato
energetico dal cuore, cosicché il glicogeno muscolare scheletrico può avere degli effetti benefici anche su
organi diversi dal muscolo scheletrico stesso, nonostante questo sia privo della glucosio-6-fosfatasi. In realtà,
anche se esprimesse questo enzima la permeabilità al glucosio delle cellule muscolari scheletriche in fasi
interprandiali, cioè quando la concentrazione di insulina a livello ematico è bassa, sarebbe comunque bassa
perché c’è l’antagonismo, l’opposizione alla traslocazione di vescicole contenenti GLUT4, per cui anche
aumentassero, per assurdo, i livelli intracellulari di glucosio in seguito alla degradazione del glicogeno,
comunque il glucosio non potrebbe uscire in maniera significativa.
Inoltre, le cellule muscolari scheletriche in queste condizioni utilizzano acidi grassi liberi, che sono presenti
in circolo in buona quantità. Essi provengono dal tessuto adiposo dove l’adrenalina stimola la lisi dei
trigliceridi stimolando la lipasi ormone-sensibile, che invece veniva inibita dall’insulina (ecco un altro effetto
opposto). Anche a livello del tessuto adiposo, l’effetto dell’insulina di aumentare la permeabilità al glucosio

533
viene efficacemente bloccato dall’adrenalina. Il
catabolismo dei TAG nel tessuto adiposo produce non
soltanto acidi grassi liberi che possono nutrire il muscolo
scheletrico e il cuore ma anche il glicerolo.
Sotto stimolazione adrenalinica, il glicerolo di origine
adiposa e il lattato di origine muscolare scheletrica
vengono captati dal fegato che li utilizza per produrre
nuovo glucosio. Gli epatociti esprimono la glucosio-6-
fosfatasi e hanno una permeabilità al glucosio in condizioni
basali sempre elevata grazie alla presenza costitutiva dei
trasportatori GLUT2, cosicché il glucosio neoformato può
andare in circolo: questo è essenziale per garantire il
metabolismo dei neuroni, che utilizzano sempre glucosio e,
soltanto in casi di digiuno, anche corpi chetonici.
Ricordiamo che si sta considerando una situazione in cui i
livelli di insulina sono bassi in quanto lontani dai pasti.
L’insulina è l’unico ormone che inibisce invece la
chetogenesi, quindi sia perché c’è una stimolazione da
parte dell’adrenalina, sia perché viene meno l’inibizione da
parte dell’insulina, la produzione epatica di chetoacidi
aumenta, contribuendo a supportare il metabolismo
energetico non solo del cuore, ma anche dei neuroni. Per
produrre chetoacidi servono acidi grassi liberi che il fegato
riceve grazie alla lisi dei TAG adiposi.
Infine, l’adrenalina stimola la glicogenolisi epatica, così come quella scheletrica e anche questo contribuisce
ad aumentare i livelli circolanti di glucosio.
I recettori β-adrenergici riducono la motilità del muscolo liscio, perché sono associati ad una via di segnale
che include l’AMPc. Si è visto questo effetto a livello del muscolo liscio delle arteriole che irrorano il muscolo
scheletrico: questo effetto però è presente anche nei tratti GI e urinario la cui parete è composta largamente da
tessuto muscolare liscio. Ora, è vero che il tessuto muscolare liscio non consuma tanto, ma comunque consuma,
per cui ridurre la motilità del muscolo liscio riduce, per quanto possibile, il consumo energetico e quindi fa sì
che quelle poche calorie che ci può permettere di bruciare vengano utilizzate per far funzionare i muscoli
scheletrici, il cervello e il cuore così da massimizzare la probabilità di successo nella “spedizione di caccia”.
Anche a livello del pancreas ci sono degli effetti dell’adrenalina che potenziano la risposta all’ipoglicemia.
L’adrenalina agisce su recettori di membrana stimolando la produzione di glucagone, con cui agisce
sinergicamente, legando recettori β-adrenergici e inibendo, invece, la produzione di insulina: le due cose si
rafforzano a vicenda, dato che anche le cellule β delle isole del Langherans esprimono recettori per le
catecolamine.
Riassumendo. Gli effetti metabolici dell’adrenalina sono:
 stimola la glicogenolisi epatica e muscolare;
 stimola la gluconeogenesi e la chetogenesi epatica;
 stimola la lipolisi a livello del tessuto adiposo (recettori β3-adrenergici);
 stimola la captazione degli acidi grassi a livello muscolare scheletrico (tramite l’attivazione della
lipasi ormone-sensibile);
 inibisce l’uptake di glucosio da parte del tessuto muscolare e del tessuto adiposo;
 stimola a livello pancreatico la secrezione del glucagone e in maniera minore l’inibizione della
secrezione di insulina;
 genera rilasciamento della muscolatura liscia a livello GI e renale.

Nella sbobina è stato aggiunto questo estratto dalla dispensa di fisiologia del 2017:
“Le cellule beta delle isole del Langerhans sono caratterizzate da recettori α2-adrenergici, che legando le
catecolamine riducono la secrezione di insulina. L’adrenalina ha un’affinità bassa per i recettori di questo tipo,
infatti la concentrazione di adrenalina in circolo tale per cui si può determinare una riduzione dell’insulina
plasmatica è 400 pg/mL, un effetto molto modesto tranne che in condizioni estreme. A livello delle cellule alfa
ci sono, invece, recettori β2-adrenergici che hanno un’affinità maggiore per l’adrenalina, quindi l’effetto è
maggiore sulla secrezione di glucagone. Dunque, la soglia per l’aumento della glicemia è molto inferiore a

534
quella per la produzione dell’insulina plasmatica. Il rapporto glucagone/insulina va ad aumentare in seguito al
rilascio di catecolamine perché la concentrazione di glucagone aumenta in maniera importante, mentre la
concentrazione di insulina (al denominatore) un po’ diminuisce, soprattutto ad alti livelli di catecolamine.
Questo rapporto è quello critico che determina il metabolismo epatico. Come effetto finale si ha che i livelli
circolanti di nutrienti che rimangono più alti del solito, nonostante il muscolo scheletrico consumi più del
normale in condizioni di esercizio fisico. Il muscolo scheletrico consuma molto sia dal punto di vista
metabolico che dal punto di vista ematico durante l’esercizio fisico, quindi devono esserci capacità metaboliche
ed emodinamiche per supportare questo aumento del consumo, senza sacrificare le circolazioni “nobili”
(circoli coronarico e cerebrale).”
Le difese più o meno a breve termine dall’ipoglicemia comportano la riduzione dei livelli di insulina, e
l’incremento dei livelli di glucagone e adrenalina. Se la condizione di ipoglicemia si mantiene per un tempo
prolungato è necessario ricorrere ad altri meccanismi che coinvolgono il cortisolo e l’ormone della crescita
(GH).

Cortisolo
Il cortisolo è prodotto dalla porzione fascicolata della
corticale della ghiandola surrenale. La sua
produzione è sottoposta a un controllo ormonale che
coinvolge l’ipofisi e l’ipotalamo. L’adenoipofisi
rilascia un peptide chiamato ACTH, ormone
adrenocorticotropo, che aumenta complessivamente
l’attività della corticale del surrene e, di conseguenza,
anche la produzione di cortisolo. L’ipotalamo produce
un peptide chiamato CRH, ormone di liberazione
dell’ACTH, che facilita la produzione di ACTH.
Quindi, vi è un asse ipotalamo-adenoipofisi-surrene
che vede coinvolti il CRH, l’ACTH e il cortisolo. Il
cortisolo stesso regola la produzione di CRH e ACTH
tramite un meccanismo a feedback lungo; l’ACTH
controlla la produzione di CRH con un meccanismo a
feedback breve. In questo caso, non c’è un
meccanismo a feedback ultrabreve, che invece è
presente nel meccanismo di controllo di altri ormoni (ad
es., l’ormone della crescita).
Il CRH è prodotto da neuroni dei nuclei parvicellulari
dell’ipotalamo. Questi ultimi ricevono una molteplicità
di informazioni grazie alla grande quantità di sinapsi
che li contattano. Queste sinapsi permettono di
integrare a questo livello diversi stimoli. Tra i diversi
stimoli integrati che favoriscono il rilascio di CRH vi
sono: presenza di stress emotivo, fisico o chimico (l’ipoglicemia rappresenta uno stress chimico) e presenza
di un ritmo circadiano (espressione di un orologio interno che permette di regolare le funzioni dell’organismo
in maniera proattiva anticipatoria con la possibilità di rimanere ancorati al ritmo luce-buio ambientale).
Una molteplicità di stimoli vengono integrati a livello dei neuroni che producono CRH, a seguito dei quali il
CRH viene rilasciato nell’eminenza mediana; tramite i vasi portali lunghi esso arriva all’adenoipofisi, dove
stimola la produzione di ACTH, che si immette in circolo; questo arriva alla corticale del surrene e stimola la
produzione di cortisolo.

535
A differenza del cortisolo che è un ormone steroideo, l’ACTH è un ormone peptidico, ottenuto dalla
trascrizione di un gene chiamato POMC che sta per pro-opiomelanocortina. Questo gene viene trascritto e poi
tradotto in un grosso peptide, la pro-opiomelanocortina appunto, che viene clivato da delle proteasi
intracellulari ad ottenere dei piccoli frammenti. L’ACTH costituisce quindi solo una piccola parte del peptide
che era stato tradotto inizialmente. Un ulteriore clivaggio della sequenza dell’ACTH permette di ottenere due
sottoprodotti: uno di questi è rappresentato dal frammento in figura indicato con la lettera greca α, chiamato
a-MSH, di cui parleremo in seguito, perché importante all’interno della risposta neuronale ad un altro ormone
chiamato leptina. Lo stesso gene pro-opiomelanocortina viene trascritto in cellule diverse: nelle cellule
dell’adenoipofisi viene clivato fino ad ottenere ACTH mentre nei neuroni ipotalamici viene clivato
ulteriormente a produrre a-MSH.

Meccanismo di azione del cortisolo: approfondimento dal Berne & Levy

“Il cortisolo agisce primariamente attraverso il recettore dei glucocorticoidi, che regola la trascrizione genica. In
assenza dell’ormone, il recettore risiede nel citoplasma in un complesso stabile con diversi chaperone molecolari,
incluse proteine da shock termico (HSP) e ciclofilline. Il legame cortisolo-recettore promuove la dissociazione delle
proteine chaperone, seguita da:
1. rapida traslocazione del complesso cortisolo-recettore nel nucleo;
2. dimerizzazione e legame agli elementi di risposta ai glucocorticoidi vicino ai promotori basali dei geni regolati
dal cortisolo;
3. reclutamento di proteine coattivatrici e assemblaggio dei fattori generali di trascrizione che portano ad un
potenziamento o ad un depotenziamento dei geni target.
In alcuni casi il recettore per i glucocorticoidi interagisce con altri fattori trascrizionali, come il fattore NF-κB, e
interferisce con la loro capacità di attivare l’espressione genica”.

Il cortisolo presenta un ritmo circadiano molto forte; è


sottoposto anche ad altri stimoli, tra cui rileviamo un effetto
diretto da parte del sonno, ma il ritmo circadiano è
assolutamente dominante.
Dal grafico si evince che vi è un minimo della
concentrazione di cortisolo (in condizioni normali) poco
dopo l’inizio della notte (la notte in questo grafico è
rappresentata dal rettangolo azzurro). Dopodiché, i livelli di
cortisolo aumentano progressivamente fino a raggiungere un
picco nel primissimo mattino, tipicamente subito dopo il
risveglio. Dopo questo picco i livelli di cortisolo ematico
diminuiscono progressivamente durante la giornata, fino a
raggiungere un nuovo minimo all’inizio della notte
successiva.

536
Si tratta di un ritmo circadiano, regolato da un orologio endogeno, biologico, che esiste all’interno delle
cellule, perciò si manifesta anche se non si è esposti alla luce ambientale e persiste anche se si modificano i
ritmi di veglia e di sonno. Tuttavia, questo non significa che il sonno sia irrilevante dal punto di vista del
controllo della secrezione di cortisolo. Infatti, in particolare il sonno non-REM, agendo sulla produzione di
ACTH, riduce i livelli di cortisolo. Questo significa che se si fa una notte in bianco, quindi si sostituisce al
periodo di sonno notturno un periodo di veglia notturna, e poi si recupera attraverso un periodo di sonno diurno
(rettangolo giallo), allora i livelli di cortisolo subiranno delle leggere modifiche: di notte saranno un pochino
più alti perché viene meno quell’effetto inibitorio del sonno e viceversa saranno un pochino più bassi nel
periodo di sonno pomeridiano, rispetto alla giornata precedente in cui di giorno si era svegli. N.B. Si tratta di
differenze quantitative che dal punto di vista della preparazione all’esame contano poco; quello che serve
ricordare è che il ritmo persiste sia nella prima giornata in cui si dorme di notte, sia nella seconda giornata in
cui si dorme di giorno. Concludiamo dicendo che il sonno ha degli effetti sulla produzione di cortisolo, ma
l’effetto dominante è dato dal ritmo circadiano.
Ricapitolando. Si ha una concentrazione minima di cortisolo in circolo all’inizio della notte che cresce
progressivamente fino ad arrivare ad un picco subito dopo il risveglio.

Cortisolo: effetti metabolici


Gli effetti metabolici del cortisolo si esercitano
sul muscolo scheletrico, sul tessuto adiposo e sul
fegato.
 Sul muscolo scheletrico si osserva
un’inibizione degli effetti dell’insulina.
N.B. Come già visto per l’adrenalina, non
si tratta di un antagonismo recettoriale, ma
è un’inibizione che si manifesta a livello
post-recettoriale. Come conseguenza si ha
una diminuzione della permeabilità
cellulare al glucosio, in modo da poter
sfruttare il glucosio per nutrire i neuroni,
mentre è permesso l’ingresso degli acidi
grassi liberi utilizzati per ottenere energia.
Viene stimolata la proteolisi (effetto
opposto a quello anabolizzante proteico
che viene indotto dall’insulina), per
produrre energia, anche se come conseguenza ci sarà la produzione di acidi forti e scorie azotate.
Risulta, però, essere necessario perché si è in una condizione in cui le prime linee di difesa contro
l’ipoglicemia sono già state esaurite. Aumentano i livelli di aminoacidi in circolo e una parte di essi
può essere utilizzata come substrato per la gluconeogenesi, permettendo al fegato di produrre un po’
di glucosio.
 Il fegato viene spinto a sintetizzare glucosio ma anche a sintetizzare glicogeno. Questo effetto
sembra contraddittorio, tuttavia, in condizioni di ipoglicemia prolungata, gli effetti di glucagone e
adrenalina non possono persistere e non può essere prodotto glucosio a partire dal glicogeno epatico
se effettivamente il glicogeno epatico è stato totalmente consumato. Il glicogeno epatico rappresenta
una risorsa importante in condizioni di emergenza in cui si rischia una neuroglicopenia. Quindi, il
cortisolo si fa carico di evitare un depauperamento eccessivo dei livelli di glicogeno epatico.
Contemporaneamente, su scala temporale breve, adrenalina e glucagone attingono a quel glicogeno
epatico che il cortisolo permette di non esaurire. Naturalmente, questo ha un costo: si convertono
proteine muscolari in glicogeno epatico (tramite una serie di meccanismi biochimici).
 Nel tessuto adiposo, non solo gli effetti del cortisolo si oppongono a quelli dell’insulina mantenendo
bassa la permeabilità di queste cellule al glucosio, ma potenziano anche gli effetti delle catecolammine

537
sulla lipolisi; questo porta alla liberazione di acidi grassi, essenziali per il funzionamento del muscolo
scheletrico e del cuore in condizioni ipoglicemiche.11
Ricapitolando. Effetti metabolici del cortisolo:
 riduce l’uptake di glucosio da parte del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo antagonizzando
gli effetti dell’insulina;
 stimola la proteolisi muscolare scheletrica;
 stimola la gluconeogenesi epatica, ma anche la glicogenosintesi;
 stimola la lipolisi nel tessuto adiposo, potenziando gli effetti delle catecolammine.

Altri effetti del cortisolo


Il cortisolo ha una molteplicità di altri effetti:
 riduce la risposta immunitaria12;
 riduce le funzioni riproduttive agendo a livello di ipotalamo, ipofisi e gonadi;
 aumenta il riassorbimento osseo e riduce la proliferazione di fibroblasti e la sintesi di collagene:
quindi, un eccesso di cortisolo inibisce la crescita;
 determina effetti psicologici piuttosto variabili, che vanno da euforia e labilità emotiva a depressione
e psicosi;
 ha degli effetti permissivi sulle funzionalità vascolari, renali e gastro-intestinali. Si può affermare
che un po’ di cortisolo serve per far funzionare bene il cuore, i vasi, i reni ed il tratto gastrointesinale;
malattie che comportano riduzioni gravi dei livelli di cortisolo, quindi, compromettono anche tutte
queste funzioni;
 ha un effetto permissivo sullo sviluppo fetale del SNC, retina, cute, polmoni e tratto gastro-
intestinale. L’effetto sui polmoni si manifesta sulle cellule alveolari di tipo II, responsabili della
produzione di surfattante. Un deficit di cortisolo nel feto può determinare una sindrome da distress
respiratorio acuto del neonato: il neonato prova ad espandere i polmoni per respirare e non ci riesce
perché la tensione superficiale degli alveoli è troppo alta in carenza di surfactante (vedi tesina
Meccanica polmonare statica);
 non citato dal prof.: ha effetti anche sul rene. Dal Berne & Levy: “Nonostante il cortisolo si leghi al
recettore dei mineralcorticoidi con alta affinità, questa azione è normalmente bloccata
dall’inattivazione del cortisolo in cortisone da parte dell’enzima 11β-idrossisteroide deidrogenasi di
tipo 2 (11β-HSD2)13. In ogni caso, l’attività mineralcorticoide (i.e., il riassorbimento renale di Na+ e
H2O, l’escrezione di K+ e H+) del cortisolo dipende dalla quantità relativa di cortisolo (o di
glucocorticoidi sintetici) e dall’attività dell’11β-HSD2”;
 non citato dal prof.: “il cortisolo inibisce la secrezione e l’azione dell’ormone antidiuretico, e dunque
funge da antagonista dell’ADH. In assenza di cortisolo, l’azione dell’ADH è potenziata” (Berne &
Levy).
Perché citiamo la molteplicità degli effetti del cortisolo? Da un punto di vista fisiologico hanno una loro
rilevanza. Per spiegarlo Silvani utilizza come sempre un racconto caricaturale: ci svegliamo la mattina e
dobbiamo andare a cercare cibo nella giungla dove ci possono essere dei predatori; quindi, dobbiamo fare
esercizio fisico, siamo in una situazione potenzialmente di stress cardiovascolare, oltre che chimico e
potremmo essere feriti durante tutto questo processo, che comporterebbe dover mettere anche in atto una
risposta immunitaria. Questa risposta immunitaria, in ultima analisi, è essenziale per la riparazione dei tessuti
danneggiati, la difesa contro i patogeni esterni e quindi il ritorno alla salute. Tuttavia, tutti questi processi
caratterizzanti la risposta immunitaria richiedono energia. È giusto ed indispensabile attuare una risposta

11
Il Berne & Levy distingue una risposta metabolica al cortisolo normalmente prodotto a causa di uno stress interprandiale
e una risposta a livelli cronicamente elevati di cortisolo. Non ho riportato qui le informazioni perché risultano alquanto
complesse e non sono state spiegate da Silvani (per gli interessati, cap. 43, paragrafo Azioni fisiologiche del cortisolo).
12
“Il cortisolo inibisce la fosfolipasi A2, un enzima chiave nella sintesi di protaglandine, leucotrieni e trombossani. In
virtù della loro attività inibitoria nei confronti della risposta immunitaria, gli analoghi dei glucocorticoidi sono utilizzati
come immunosoppressori nei trapianti d’organo. Alti livelli di cortisolo riducono il numero di linfociti T circolanti e
riducono la loro abilità di migrare nel sito di stimolazione antigenica.” (Berne & Levy)
13
“L’inattivazione del cortisolo da parte dell’11β-HSD2 è reversibile da parte di un altro enzima, l’11β-HSD1, che
riconverte il cortisone in cortisolo. Questa riconversione avviene nei tessuti che esprimono il recettore per i
glucocorticoidi, tra cui il fegato, il tessuto adiposo, il SNC e la pelle.” (Berne & Levy)

538
immunitaria una volta al sicuro nella nostra grotta al termine della spedizione per la ricerca del cibo, ma non
va bene attuare una risposta immunitaria troppo vivace durante la lotta con i predatori: in quel caso la
limitazione funzionale e il dispendio energetico impiegato per la risposta immunitaria andrebbe ad ostacolare
e ridurre la performance aggravando la situazione di pericolo. Anche gli altri effetti del cortisolo sono
importanti, come gli effetti psicologici che possono assumere un ruolo importante dal punto di vista
motivazionale nella ricerca del cibo a stomaco vuoto. In questa situazione di difetto cronico, in cui siamo in
difficoltà e non riusciamo a trovare cibo, dobbiamo dar fondo a tutte le nostre risorse e quindi eventualmente
anche riassorbire l’osso da cui possiamo ricavare calcio, matrice proteica e ridurre la proliferazione dei
fibroblasti (crescere è l’ultimo problema quando si ha un problema più impellente che è quello di
sopravvivere). Tutti questi effetti potenzialmente deleteri, ma se limitati nel tempo sono funzionali a superare
una condizione di stress. La medesima situazione mantenuta per tempi molto più lunghi (una situazione cronica
e cioè una condizione di stress dalla quale non si riesce di fatto ad uscire), diventa dannosa. Se questi effetti si
protraggono per giorni, mesi, anni, allora essi si ci ritorcono contro.
Esistono dei farmaci che mimano gli effetti del cortisolo, ampiamente utilizzati per ridurre le risposte
immunitarie, come nel caso di pazienti affetti da patologie autoimmuni (ma anche in altri casi). Occorre notare
che somministrando questi farmaci non si va ad agire solo sulla risposta immunitaria, ma si hanno anche una
serie di effetti collaterali. Questo non significa che questi farmaci non vadano somministrati, ma che
somministrandoli per diversi anni ci si attende degli effetti collaterali che non sono altro che la magnificazione
degli effetti fisiologici del cortisolo stesso. Cosa succede se si interrompe bruscamente il trattamento
terapeutico con analoghi del cortisolo? Se si somministrano dei farmaci a scopo di soppressione immunitaria,
antinfiammatori, viene evocato il feedback lungo, quello che normalmente viene evocato dal cortisolo prodotto
dalla corticale del surrene. Questo significa interrompere la produzione ipotalamica di CRH e la produzione
adenoipofisaria di ACTH (come se l’organismo decidesse di non produrre cortisolo perché è già sufficiente la
quantità somministrata tramite i farmaci). Se si interrompe bruscamente la terapia, all’organismo viene meno
questo feedback lungo e quindi vi è una disinibizione di CRH e ACTH. Tuttavia, questa disinibizione non
riesce a manifestarsi a pieno immediatamente, perché fisiologicamente tra gli effetti degli ormoni ipotalamici
(CRH che stimola produzione di ACTH) vi sono non solo lo stimolo della secrezione degli ormoni ipofisari,
ma anche l’induzione di una serie di processi a monte (come ipertrofia e iperplasia cellulare, trascrizione
genica) che sono necessari ad un adeguato rilascio di ormoni e che richiedono tempo. Questo vuol dire che,
nel momento in cui si cessa bruscamente la somministrazione di tali farmaci, l’adenoipofisi non è pronta a
rispondere ad elevati livelli di CRH e, allo stesso modo, la corteccia surrenale non sarà pronta a rispondere ad
alti livelli di ACTH (anche l’ACTH stimola il trofismo della ghiandola surrenale, oltre al rilascio degli ormoni).
Come risultato, a seguito dell’interruzione della terapia, si potrà avere un brusco calo dei livelli di cortisolo:
non ci sarà più quello somministrato e non ci sarà ancora quello di produzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-
surrene. Questa condizione di grave calo dei livelli di cortisolo potrà causare una molteplicità di effetti, tra cui
quelli sulle funzionalità vascolari, renali e gastrointestinali per cui il cortisolo ha un’azione permissiva.
Concludendo: una terapia a base di analoghi di cortisolo non va interrotta bruscamente, se è stata portata avanti
per un tempo sufficientemente lungo da far correre il rischio di una ipotrofia dell’adenoipofisi e della corticale
del surrene. Occorre interrompere in maniera progressiva, riducendo pian piano le dosi del farmaco.

Ormone somatotropo o ormone della crescita


L’ormone della crescita (GH) è un ormone prodotto dall’adenoipofisi sotto stimolazione del GHRH, fattore
rilasciato dai neuroni ipotalamici. Altri neuroni ipotalamici producono somatostatina, che inibisce la
produzione di GH. Gli stimoli da cui dipende il rilascio di GHRH e somatostatina sono variabili e includono:
lo stress, l’esercizio fisico, l’inedia (mancanza di nutrienti), l’ipoglicemia acuta, l’invecchiamento. Esistono
poi degli stimoli esercitati in retroazione dal GH stesso e da una serie di ormoni chiamati somatomedine o
Insulin-like Growth Factors (IGF), e in particolare da IGF-1; questo è prodotto dagli epatociti in risposta al
GH.
È possibile visualizzare l’asse ipotalamo-adenoipofisi-fegato: il GHRH stimola il rilascio di GH che agisce
sul fegato stimolando la produzione di IGF-1 che, con un meccanismo a feedaback lungo, va ad inibire la
produzione di GH in maniera indiretta, in quanto stimola la produzione di somatostatina da parte
dell’ipotalamo.

539
Effetti del GH

 A livello del tessuto adiposo, il GH stimola la lipolisi e riduce la captazione del glucosio (di fatto
antagonizza gli effetti dell’insulina).
 A livello del muscolo scheletrico stimola la sintesi proteica e riduce la captazione del glucosio. Si
osservano degli effetti ibridi, perché da un lato c’è la riduzione della captazione del glucosio, effetto

540
opposto a quello dell’insulina, dall’altro c’è lo stimolo alla sintesi proteica, concordante con l’effetto
dell’insulina.
 A livello degli epatociti potenzia la produzione di enzimi gluconeogenetici per promuovere la
produzione di nuovo glucosio e stimolando la produzione di somatomedine, tra cui soprattutto IGF-
1. Queste ultime agiscono come potenti anabolici su una varietà di tessuti come cartilagine, osso,
organi viscerali e altri.
L’ormone della crescita esercita dunque alcuni effetti diretti e alcuni effetti mediati dalle somatomedine.
La produzione epatica di somatomedine richiede, oltre al GH, anche la presenza di insulina. Quindi, la
produzione di somatomedine rappresenta una sorta di switch (interruttore), che può essere acceso o spento a
seconda che l’insulina sia presente oppure no; questo dipende dallo stato metabolico in cui ci si trova: l’insulina
è presente dopo il pasto, se si è ben nutriti, mentre è assente lontani dai pasti. Si può affermare che gli effetti
del GH varieranno a seconda dello stato metabolico: se si hanno sufficienti livelli di insulina, che significa
essere in una condizione nutrizionale adeguata, allora ci si può permettere di crescere, quindi di stimolare
l’anabolismo proteico nel muscolo scheletrico e in altri tessuti (cartilagine, ossa ecc.), in quanto sono
disponibili energia e substrati sufficienti per farlo. Non si può rischiare però, nel tentativo di crescere, di andare
incontro ad ipoglicemia.
Per attuare l’anabolismo proteico bisogna mobilitare le risorse energetiche andando a stimolare la lipolisi nel
tessuto adiposo e attraverso una maggiore produzione di glucosio a livello epatico, e riducendo la captazione
del glucosio da parte del tessuto adiposo e del muscolo scheletrico.
In una situazione di accrescimento si avranno:
 effetti del GH mediati dalle somatomedine su tessuti quali fegato, ossa, cartilagine e organi viscerali;
 effetti stimolanti l’anabolismo proteico del GH e dell’insulina su muscolo scheletrico e tessuto
adiposo.
Se non ci si trova in uno stato di adeguata nutrizione, la mancanza (o quasi) di insulina blocca la produzione
epatica di somatomedine e quindi l’anabolismo a livello di cartilagine, ossa e visceri. Inoltre, la mancanza di
insulina limita notevolmente l’anabolismo a livello di muscolo scheletrico in quanto il GH da solo non è molto
potente. Tuttavia, gli effetti metabolici del GH restano: la stimolazione della gluconeogenesi epatica, la
riduzione della captazione del glucosio e la lipolisi adiposa non richiedono la presenza di insulina, anzi, sono
effetti antagonisti a quelli provocati dall’insulina stessa.

Quello che in condizioni di benessere rappresenta solo un aggiustamento metabolico, per consentire la
crescita senza rischiare una riduzione dell’apporto energetico ai neuroni, in condizioni di necessità (dal punto
di vista metabolico) viene disaccoppiato dalla crescita, che non avviene, e contribuisce a proteggere
dall’ipoglicemia. Il GH è un ormone potremmo dire “a due facce”, che lavora in modo diverso a seconda dello
stato di nutrizione, ma in entrambi i casi in maniera ben coordinata.
 L’ipoglicemia stimola la produzione di GH.
 Alti livelli di amminoacidi in circolo stimolano la produzione di GH perché significa che ci sono
sufficienti quantità di substrati per produrre nuove proteine.
 Lo stress stimola la produzione di GH perché ha anche effetti di protezione dall’ipoglicemia.

541
 Il sonno non-REM stimola la produzione di ormone della crescita: in soggetti maschi adulti, l’impulso
di ormone della crescita durante il sonno è il più ampio e spesso l’unico delle 24 ore; quindi, il sonno
ad onde lente, che si manifesta durante la prima fase della notte, è un fattore che stimola la produzione
di ormone della crescita. In certi soggetti, l’ormone della crescita viene rilasciato solo durante questa
fase.

Tolleranza al glucosio e sonno notturno


Il GH, il cortisolo e la riduzione del consumo energetico notturno consentono di
ridurre la tolleranza al glucosio durante il sonno notturno.
Elevati livelli di glucosio ematico, presenti per un certo periodo di tempo, sono
tossici per l’organismo; viene definita tolleranza al glucosio la capacità
dell’organismo di gestire elevati livelli di glucosio, evitando che questi abbiano
effetti tossici. L’organismo gestisce questa situazione portando il glucosio
all’interno delle cellule, dove potrà essere utilmente impiegato per sintetizzare
proteine, glicogeno, trigliceridi (il glicogeno viene prodotto in maniera diretta a
partire dal glucosio; le proteine grazie all’energia che il glucosio fornisce; i
trigliceridi grazie al glicerolo fornito attraverso processi di trasformazione).
L’ormone che permette di essere tolleranti al glucosio è l’insulina. La tolleranza
al glucosio diminuisce durante il sonno notturno sia a causa del ritmo circadiano endogeno (perché c’è la notte,
anche se si è svegli) sia a causa del sonno stesso. Durante la notte, solitamente, si è a stomaco vuoto, quindi
una ridotta tolleranza al glucosio non rappresenta un problema perché non c’è alcuna tendenza ad avere alti
livelli di glucosio in circolo. Al contrario, questo meccanismo permette di evitare l’ipoglicemia notturna; fatto
molto importante perché di notte si sta diverse ore senza mangiare, mentre il metabolismo è comunque attivo
e si continua a consumare energia. Quindi, è importante una riduzione della tolleranza al glucosio per evitare
di svegliarsi durante la notte per la fame o di andare incontro ad episodi ipoglicemici. Tutto ciò è possibile
perché:
 Il consumo energetico di notte cala sensibilmente (effetto del ritmo circadiano e del sonno, riduzione
del consumo energetico dei neuroni). Riducendo il consumo energetico, si riduce la tendenza delle
cellule a captare glucosio cosicché esso rimanga di più in circolo (e può essere utilizzato dai neuroni).
 All’inizio della notte si ha una consistente secrezione di GH, stimolata dal sonno ad onde lente; con
i suoi effetti anabolici antagonizza gli effetti dell’insulina e quindi riduce la tolleranza al glucosio.
 All’inizio i livelli di cortisolo sono bassi perché il suo ritmo circadiano stabilisce un minimo durante
il sonno ad onte lente, mentre alla fine della notte i livelli di cortisolo sono alti, raggiungendo un
picco nelle prime ore del mattino (tipicamente dopo il risveglio). Alla fine della notte, è il cortisolo
che protegge dall’ipoglicemia (anch’esso antagonizza gli effetti dell’insulina).
Conclusione: durante la notte vi è una riduzione del consumo energetico e della tolleranza al glucosio, in
particolar modo se si dorme. All’inizio della notte si ha un picco di GH se si dorme; alla fine della notte vi
è un picco di cortisolo (che è più ampio se si dorme, ma è comunque presente anche in caso di deprivazione
di sonno). Questo permette all’organismo di passare la notte dormendo, senza limitare l’apporto di glucosio ai
neuroni.
Se si ha uno stile di vita alterato, che vede l’assunzione di un eccesso di calorie poco prima di dormire, con
una bassa tolleranza al glucosio intrinseca all’organismo stesso (a causa di presenza di patologie come diabete
mellito) e quindi non si producono sufficienti quantità di insulina, la risposta cellulare all’insulina non è
adeguata, quello che è un meccanismo protettivo (riduzione della tolleranza durante il sonno notturno) diventa
un problema, in quanto determinerà alti livelli di glucosio ematico, particolarmente di notte.

Leptina
La leptina è un ormone peptidico prodotto dal tessuto adiposo
bianco. Il gene che codifica per l’ormone leptina è stato clonato solo
nel 1994 ed è stato identificato nei topi Ob/Ob portatori in omozigosi
di una mutazione apparentemente recessiva. Questi topi hanno perciò
due copie di una mutazione non-senso del gene per la leptina che non
permette la produzione di quest’ultima.
Come si osserva dall’immagine, i topi Ob/Ob sono estremamente
obesi, pur essendo allevati in un ambiente identico e nutriti con la stessa

542
alimentazione degli animali di controllo che esprimono normalmente la leptina.
Questo mette in evidenza come la leptina sia necessaria per il mantenimento di un adeguato bilancio
energetico e, in particolare, nel controllo fisiologico delle riserve di tessuto adiposo bianco. Dal momento che
la leptina è prodotta dal tessuto adiposo bianco si può dedurre come essa sia un segnale emesso da questo
tessuto per controllare in retroazione negativa il proprio livello.
I depositi energetici principali dell’organismo sono tre: glicogeno, proteine e trigliceridi; tra queste la
massima parte (sia in termini di frazione del peso corporeo totale che di frazione delle calorie totali accumulate)
è rappresentata dai trigliceridi. L’indicatore del livello di trigliceridi è dato proprio dall’ormone leptina. In
assenza di leptina la regolazione viene meno e questo significa che non c’è una situazione di ridondanza. Per
comprendere come nel caso della leptina non vi sia un fattore di ridondanza consideriamo i meccanismi di
difesa dall’ipoglicemia; esistono diverse linee di difesa:
 diminuzione dei livelli di insulina;
 aumento dei livelli di glucagone;
 aumento dei livelli di adrenalina;
 aumento dei livelli di cortisolo e di ormone somatotropo;
 attuazione di risposte comportamentali.
Nel caso in cui, in seguito ad una mutazione, dovesse venire a mancare una di queste linee di difesa si hanno
tutte le restanti. Soltanto nel caso in cui tutte le linee di difesa fossero compromesse si avrebbe un’ipoglicemia
grave. Questo è un esempio di alta ridondanza: ciascuna delle linee di difesa “ridonda” nei confronti delle altre
(l’organismo è molto più protetto nel caso di un potenziale problema di salute). La leptina, invece, rappresenta
l’unico meccanismo di controllo dei livelli di tessuto adiposo; se questo meccanismo viene a mancare infatti
gli animali diventano molto grassi.
Un altro esempio di scarsa ridondanza è rappresentato dai meccanismi di difesa nei confronti di alte
concentrazioni di glucosio rappresentati unicamente dall’ormone insulina: se non si ha insulina la capacità di
difendersi da livelli elevati di glucosio cala. Si è ben protetti nei confronti di un calo della glicemia, ma
scarsamente protetti da un aumento della glicemia (questo spiega perché il diabete mellito sia una patologia
che colpisce molte persone). Allo stesso modo si è ben protetti da una diminuzione di tessuto adiposo bianco
e quindi di leptina, ma non da un aumento.
Questo mostra come il nostro organismo abbia una capacità selettiva di difesa da alterazioni in un verso
piuttosto che in un altro.
I topi Ob/Ob non sono affetti di una mutazione artificiale, ma da una mutazione spontanea. Attraverso l’avvio
di studi su dei topi obesi e grazie all’aiuto della genetica si è scoperta l’esistenza del gene per la leptina; gene
che è stato riscontrato anche nell’uomo. Pochi anni dopo si è scoperto che vi sono anche uomini affetti da
mutazione spontanea del gene per la leptina (mutazione però molto rara) che causa fenotipo simile a quello dei
topi Ob/Ob. Ovviamente nell’uomo (che vive in un ambiente sociale ed industrializzato, a differenza dei topi
Ob/Ob che vivono in un ambiente di laboratorio) le probabilità di andare incontro ad un aumento di peso
corporeo in seguito alla mutazione del gene per la leptina sono molto basse.

543
 Studiando i topi Ob/Ob si è scoperto che la leptina esercita una molteplicità di effetti: sul metabolismo
energetico, sulla ventilazione, sulla riproduzione, sul mantenimento del metabolismo osseo. Si tratta
di effetti permissivi: se si hanno delle riserve di tessuto adiposo sufficienti e quindi tanta leptina,
allora si potrà spendere energia nell’attività riproduttiva (considerabile come il “core business”
dell’organismo); se si ha, invece, una scarsa quantità di tessuto adiposo bianco non si ha sufficiente
energia per la ventilazione, che quindi viene ridotta, e anche il metabolismo osseo viene compromesso.
 La leptina ha, inoltre, un effetto antisteatosico: ciò non vuol dire che essa inibisce il deposito di tessuto
adiposo, quanto piuttosto impedisce il deposito dei trigliceridi al di fuori degli adipociti (come, ad
esempio, nelle cellule muscolari cardiache o in quelle striate scheletriche). La deposizione di
trigliceridi in cellule che non sono adipociti può generare infiammazione. La leptina fa sì che i
trigliceridi (che sono in abbondanza in queste situazioni) vengano selettivamente depositati negli
adipociti.
 Sull’apparato cardiovascolare la leptina ha degli effetti che stimolano l’attività simpatica ed
aumentano la pressione arteriosa. L’obesità rappresenta un fattore di rischio importante non solo per
malattie metaboliche come il diabete ma anche per le malattie cardiovascolari come l’ipertensione
arteriosa. L’iperleptinemia associata all’obesità è uno dei tanti fattori che contribuiscono
all’ipertensione e quindi al rischio cardiovascolare associato all’obesità. Non è l’unico fattore
contribuente, l’obesità di per sé comporta un aumento della pressione arteriosa, tuttavia
l’iperleptinemia contribuisce ad aggravarne gli effetti.
In caso di obesità si ha tanto tessuto adiposo, viene prodotta tanta leptina che, secondo il meccanismo di
retroazione negativa, dovrebbe diminuire il livello di tessuto adiposo stesso, ma ciò in realtà non avviene.
Inspiegabilmente l’organismo diventa tollerante a questi elevati livelli di leptina e, quindi, al nuovo livello di
tessuto adiposo. Questo significa che l’organismo, se esposto a elevati livelli di leptina per un tempo
sufficiente, è come se non li percepisse più. All’ipoleptinemia, invece, non ci si adatta: se si ha un forte
depauperamento di tessuto adiposo (se si è stati in deficit calorico per molto tempo) si hanno conseguenze
fisiologiche ma anche psichiatriche estreme, come l’anoressia nervosa, che possono essere persino letali.
L’organismo agisce in maniera più forte ad un calo di leptina, ma in maniera più blanda ad un suo aumento
(anche questo diventa facilmente comprensibile se visto in un’ottica adattativa).
Elevati livelli di leptina tendono (tramite il
SNC) a ridurre l’apporto di cibo e ad
aumentare la spesa di energia (al contrario una
riduzione dei livelli di leptina tende a far
aumentare l’apporto di cibo ed a ridurre la spesa
energetica; tende dunque a far aumentare le scorte
di tessuto adiposo bianco). Se gli elevati livelli di
leptina sono però presenti per un periodo
relativamente lungo tutto questo viene meno
perché ci si abitua.
Si diventa resistenti agli effetti
dell’iperleptinemia solo per quanto riguarda il
metabolismo energetico; infatti gli effetti a livello
del sistema cardiovascolare (ipertensione)
permangono. Ciò significa che gli effetti
cardiovascolari e autonomici dell’iperleptinemia non vanno incontro ad abituazione, cosa che contribuisce ad
aggravare l’ipertensione tipica delle persone obese.
La leptina agisce su due popolazioni di neuroni a livello del nucleo arcuato dell’ipotalamo che sono
denominate, su base dei peptidi che esse rilasciano:
 neuroni NPY (neuropeptide Y) / AgRP (Agouti-Related Protein);
 neuroni POMC (pro-opiomelanocortina) / CART (Cocaine-Amphetamine Related Transcript).

544
La leptina inibisce i neuroni NPY/AgRP e stimola i POMC/CART; quindi, se si ha tanta leptina, si inibisce
il rilascio di neuropeptide Y che è coinvolto nell’aumento dell’assunzione di cibo. Inibendo i neuroni NPY, la
leptina riduce l’assunzione di cibo. AgRP stimola l’assunzione di cibo, quindi, in conseguenza ad un aumento
della leptina, si ha lo stesso effetto di NPY, ovvero la riduzione del senso di appetito. Si può notare una
ridondanza degli effetti: questa riguarda NPY o AgRP, quindi non la leptina di per sé ma i meccanismi di cui
essa si serve.
I neuroni POMC/CART vengono stimolati dalla leptina a rilasciare gli omonimi peptidi. CART riduce
l’assunzione di cibo, quindi è un peptide anoressizzante. POMC in questi neuroni viene clivato ad αMSH
(attraverso un passaggio in più rispetto alle cellule della adenoipofisi, dove viene clivato ad ACTH). αMSH
lega i recettori 4 per le melanocortine (MC4R) e questi, su popolazioni distinte di neuroni bersaglio, inibiscono
l’assunzione di cibo.
Si osservano dunque due vie che si potenziano a vicenda (si “spegne” una via che fa assumere più cibo
quando si ha più leptina e se ne fa “accendere” una che fa mangiare di meno, in entrambi i casi il risultato è
una minore assunzione di cibo). Tra le due vie esiste anche un “cross talk” diretto, dovuto al fatto che AgRP
fa da antagonista ai recettori MC4R impedendo il legame di αMSH a quest’ultimi. Dal momento che AgRP
viene inibito da alti livelli di leptina, esso non andrà più ad ostacolare il legame di αMSH ai recettori che
andranno ad inibire l’assunzione di cibo. Questo contribuisce ulteriormente a potenziare gli effetti della leptina.

Ormoni tiroidei

Gli ormoni tiroidei sono prodotti dalla tiroide secondo l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. Nell’ipotalamo si
hanno dei neuroni che rilasciano TRH a livello dell’eminenza mediana; il TRH giunge all’adenoipofisi tramite
i vasi portali lunghi e stimola la produzione di TSH; il TSH arriva tramite il sangue alla tiroide e qui stimola
la produzione di ormoni tiroidei.14

14
“Il TSH stimola ogni aspetto della funzione tiroidea. Esso ha azioni immediate, intermedie e a lungo termine
sull’epitelio tiroideo. Le azioni rapide del TSH includono la pinocitosi di colloide nel citoplasma. Il TSH stimola la
proteolisi della tireoglobulina e il rilascio di T4 e T3 dalla ghiandola. L’uptake di iodio e l’attività della perossidasi tiroidea
sono aumentati. TSH stimola anche l’entrata del glucosio nella via dei pentoso fosfati, che genera NADP ridotto
(NADPH) necessario per la reazione della perossidasi. Gli effetti intermedi del TSH avvengono dopo ore o giorni e
coinvolgono la sintesi proteica e l’espressione di numerosi geni, inclusi quelli codificanti per il simporto Na/I, la
tireoglobulina e la perossidasi tiroidea. Una stimolazione da parte del TSH sostenuta nel tempo porta agli effetti a lungo
termine di ipertrofia e iperplasia delle cellule follicolari.” (Berne & Levy).

545
Questi ormoni agiscono in feedback lungo, andando a
spegnere l’attività dell’adenoipofisi e dell’ipotalamo. La
leptina è tra i fattori che stimolano la produzione di TRH;
questa, a sua volta, stimolerà la produzione di TSH e,
quindi, di ormoni tiroidei. Gli ormoni tiroidei potenziano il
metabolismo basale e, dunque, la leptina permette di
mantenere un metabolismo basale elevato.
Si parla di due ormoni primari ed un terzo che rappresenta
una forma “di scarto”, utile ad eliminare un eccesso di
precursori. Gli ormoni tiroidei veri e propri, quindi quelli
attivi, sono T4 e T3.
 T4 (3,5,3’,5’-tetraiodiotironina o tiroxina). Il nome
deriva dalla presenza di quattro atomi di iodio
complessati nelle posizioni 3, 5, 3’ e 5’ della
tironina, una molecola derivante dalla tirosina. T4
rappresenta il 90% della secrezione tiroidea ed ha
un’affinità elevata per la Thyroxine-Binding
Globulin (TBG, globulina legante la tiroxina) alla
quale si lega. Si lega invece scarsamente ai recettori
delle iodotironine e questo fa sì che T4 rimanga nel
sangue legato alle globuline carriers,
prevalentemente alla TBG (evento rilevante è che
tale legame previene la filtrazione degli ormoni
tiroidei a livello renale); per questo motivo è un
ormone che rappresenta una forma di deposito.
 T3 (3,5,3’-triiodiotironina). Si ottiene, come si può
intuire dal nome, togliendo da T4 un atomo di iodio
in posizione 5’.

Vi è una quantità regolata di T4 che viene convertita in T3 tramite una famiglia di enzimi chiamati deiodasi
che vanno ad eliminare un atomo di iodio.
 La deiodasi di tipo 1 si trova in: fegato, rene, tessuto scheletrico e tiroide.
 La deiodasi di tipo 2 si trova nella glia e nell’ipofisi, è una forma ad alta affinità. Questa è importante
per il meccanismo di feedback lungo originato dalle iodotironine e che deve essere un meccanismo ad
alta sensibilità.
 La deiodasi di tipo 3 trasforma T4 in rT3 (3,3’,5’-triiodiotironina). T3 e rT3 differiscono per la posizione
degli atomi di iodio, che sono sempre in numero di 3 ma in T 3 sono in posizione 3,5,3’ mentre in rT3
sono in 3,3’,5’. Questa differenza è sufficiente per modificare le proprietà tridimensionali ed elettriche

546
della molecola e cambiarne l’attività. rT3 è un ormone circa inattivo, che però ha una sua importanza
in quanto impedisce un accumulo di ormoni tiroidei.
Lo stress severo ed il deficit calorico inibiscono la deiodasi di tipo 1; la T4, anche se presente in grande
quantità, viene convertita meno in T3 e di conseguenza quest’ultima esercita meno i propri effetti. In questo
modo viene impedito un metabolismo basale troppo elevato che non sarebbe compatibile con una situazione
di stress severo e che porterebbe ad un progressivo esaurimento delle risorse energetiche.

Sintesi degli ormoni tiroidei: approfondimento dal Berne & Levy

L’unità funzionale della ghiandola tiroide è il follicolo tiroideo. Il lume follicolare è riempito di colloide,
che è composta da tireoglobulina.
La sintesi degli ormoni tiroidei richiede due precursori: lo iodio e la tireoglobulina. Lo iodio è trasportato
attraverso le cellule dal versante basale (vascolare) a quello apicale (luminale follicolare) dell’epitelio
tiroideo (entra attraverso il simporto sodio/iodio, la cui espressione è stimolata dal TSH, ed è poi trasportato
nel lume follicolare attraverso un antiporto cloro/iodio chiamato pendrina). La tireoglobulina è sintetizzata
e secreta attraverso la membrana apicale nel lume follicolare. L’effettiva sintesi delle iodotironine avviene
enzimaticamente nel lume follicolare vicino alla membrana apicale delle cellule epiteliali (lo iodio è ossidato
e incorporato nei residui tirosinici della tireoglobulina: una singola iodinazione forma una monoiodotirosina,
MIT, una seconda iodinazione sullo stesso residuo produce una diiodotirosina, DIT; dopo la iodinazione,
due DIT sono accoppiate a formare T4, mentre una MIT e una DIT sono accoppiate a formare T 3; questi
accoppiamenti avvengono tra tirosine iodinate che restano parte della struttura primaria della tireoglobulina;
l’intera sequenza enzimatica è catalizzata dalla perossidasi tiroidea). La secrezione degli ormoni tiroidei
coinvolge l’endocitosi della tireoglobulina iodinata e il movimento dal versante apicale a quello basale delle
vescicole endocitiche, che si fondono con i lisosomi. La tireoglobulina è degradata enzimaticamente dagli
enzimi lisosomiali, con conseguente rilascio degli ormoni tiroidei T 3 e T4 dallo scheletro tireoglobulinico.
Infine, gli ormoni tiroidei attraversano la membrana basolaterale, probabilmente tramite specifici
trasportatori e giungono infine nel sangue.

547
Le iodiotironine sono trasportate all’interno della cellula attraverso carriers; nel citoplasma tramite deiodasi
T4 è convertito in T3; T3 nel nucleo lega dei recettori per le iodiotironine ed il complesso ormone-recettore ha
un effetto trascrizionale. Tra gli effetti trascrizionali si hanno:
 Effetti metabolici
Potenziamento degli effetti di adrenalina, noradrenalina, cortisolo, glucagone, GH. Questi inducono:
gluconeogenesi, lipolisi, proteolisi e chetogenesi. Vengono liberate risorse energetiche che poi sono
consumate per aumentare il metabolismo basale. Il metabolismo viene aumentato tramite:
1. aumento dell’attività della Na+/K+ ATPasi;
2. aumento dell’attività delle UCP (presenti in grande quantità nel tessuto adiposo bruno) che
mediano la termogenesi senza brivido;
3. aumento del turnover, ovvero sintesi e degradazione, delle proteine e dei lipidi. Questo
processo consuma energia ma non si rivela futile perché va a sostituire delle strutture
danneggiate da alterazioni ambientali e permette al sistema di mantenersi sempre nuovo e
adattato alle condizioni ambientali in atto. In realtà il bilanciamento del turnover ad opera
degli ormoni tiroidei non è perfetto ma c’è una lieve ma comunque maggiore tendenza al
catabolismo più che all’anabolismo. In caso di ipertiroidismo (produzione di più ormoni
tiroidei), dunque, si ha una diminuzione di massa grassa ed anche della massa magra (muscolo
scheletrico).
 Altri effetti
- Aumento dell’attività respiratoria dovuto alla necessità di maggiori scambi di O2 e CO2 per
far fronte all’aumento del metabolismo basale.
- Aumento della termogenesi.
- Aumento dell’attività cardiovascolare: per eliminare l’O2, la CO2 ed il calore prodotti. Gli
ormoni tiroidei, inoltre, dal punto di vista del controllo umorale della risposta cardiaca hanno
un effetto inotropo positivo (potenziano la risposta alle catecolamine) che va ad aumentare
la forza contrattile del muscolo cardiaco.
- Effetti permissivi sullo sviluppo del SNC, ossa, tegumenti, attività riproduttiva e
funzionalità del muscolo scheletrico. Un paziente affetto da ipotiroidismo avrà dei disturbi
a livello di osso, tegumenti (unghie, cute, capelli), funzionalità riproduttiva e funzionalità del
muscolo scheletrico. Se una donna in gravidanza è affetta da ipotiroidismo, questo va ad
interessare il feto avendo effetti sullo sviluppo del SNC. Il bambino alla nascita avrà un severo
ritardo mentale che si accompagna ad un difetto nell’accrescimento: nanismo ipotiroideo. Si
tratta di un nanismo disarmonico, in quanto le proporzioni dei diversi segmenti ossei non sono
mantenute; gli effetti somatici possono essere limitati attraverso un trattamento con ormoni
tiroidei, ma lo stesso trattamento non ha però alcun risultato sul ritardo mentale (questo
sottolinea l’importanza dell’attività preventiva basata su un’adeguata assunzione di iodio da

548
parte di donne che vivono in ambienti poveri di iodio). N.B. Il nanismo armonico (in cui le
proporzioni tra segmenti corporei sono mantenute) è dovuto, invece, ad un difetto dell’ormone
della crescita.

549
25. Gonade femminile e gonade maschile. Accrescimento
corporeo

25.1. Azioni sullo sviluppo e l’accrescimento dell’organismo dell’ormone somatotropo


e degli ormoni tiroidei

Silvani afferma di aver già spiegato l’argomento nella tesina Regolazione del metabolismo energetico, nel punto
dedicato all’ormone della crescita e agli ormoni tiroidei. Ho riportato qui un estratto dal Boron di sintesi:
“Lo sviluppo dell’uovo fecondato all’individuo adulto è un processo straordinariamente complesso che si produce
attraverso una combinazione di iperplasia (un aumento del numero di cellule) e ipertrofia (un aumento della dimensione
delle cellule) e il turnover degli elementi cellulari costituenti i tessuti dell’organismo. I tempi e la capacità di divisione
cellulare variano in base alle caratteristiche di ogni singolo tessuto. Nel sistema nervoso centrale umano, la divisione
neuronale giunge sostanzialmente a compimento entro i primi anni di vita, rimanendo attiva la plasticità neuronale e
parzialmente zone di neurorigenerazione. I tessuti quali l’osseo, il muscolare e l’adiposo proseguono il processo di
proliferazione fino alla pubertà, potendo andare incontro tuttavia per tutta la vita a processi lenti ma attivi di morte e
rigenerazione tissutale oltre che di ipertrofia cellulare. Altri tessuti, come gli epiteli, il sangue e il fegato, mantengono la
propria capacità iperplastica e rigenerativa veloce per tutta la vita.
Nell’uomo, il contributo genetico allo sviluppo risulta evidente se pensiamo che la media dell’altezza dei genitori è uno
dei migliori fattori predittivi della statura definitiva del bambino. Ancor più apprezzabili sono alcune differenze
riscontrate in specifiche mutazioni genetiche che interessano lo sviluppo scheletrico (ad esempio, l’acondroplasia). Vi è
poi un importante contributo nutrizionale e ormonale. L’impatto sullo sviluppo generato da fattori ambientali e
nutrizionali, sia nel caso di carenze alimentari sia da deprivazione affettivo-emotiva, è maggiore quando si produce nei
periodi di intensa proliferazione cellulare, in misura più critica nei primi anni di vita.
Il controllo dello sviluppo lineare nell’uomo dipende da una serie di ormoni e più precisamente dall’ormone della
crescita (GH), dai fattori di crescita insulino-simili 1 e 2 (IGF-1 e IGF-2), dall’insulina, dagli ormoni tiroidei, dai
glucocorticoidi, dagli androgeni e dagli estrogeni. Fra questi, il GH e l’IGF-1 sono stati chiamati in causa quali principali
fattori che stimolano lo sviluppo dopo la nascita, tuttavia il normale sviluppo dell’apparato muscoloscheletrico, la crescita
e la maturazione di altri tessuti possono essere alterati in misura profonda anche da carenze (o eccessi) di ciascuno degli
altri ormoni. Il controllo della massa corporea dipende da numerosi fattori umorali scoperti di recente, che sono prodotti
nel tessuto adiposo, nell’intestino, nell’ipotalamo e in altri tessuti preposti alla regolazione dell’appetito e della spesa
energetica.”
Per gli aspetti molecolari si rimanda alla tesina precedente.

25.2. Testicolo: regolazione della spermatogenesi; regolazione della secrezione e azioni


degli androgeni

Apparato genitale maschile: anatomia


funzionale
Dal Boron & Boulpaep: “Il sistema riproduttivo maschile è
costituito da due componenti essenziali: le gonadi (i testicoli)
e la complessa serie di ghiandole e dotti che formano gli
organi sessuali secondari.
I testicoli sono responsabili della produzione dei gameti, le
cellule aploidi – gli spermatozoi – necessarie per la
riproduzione sessuata, e della sintesi e della secrezione di
ormoni, tra cui il principale ormone sessuale maschile, il
testosterone. Questi ormoni sono necessari per il
condizionamento funzionale degli organi sessuali, le
caratteristiche sessuali secondarie maschili, il controllo di
feedback della secrezione di gonadotropine e la modulazione
del comportamento sessuale.

550
I testicoli sono composti prevalentemente dai tubuli seminiferi e dalle cellule interstiziali di Leydig, situate negli spazi
tra i tubuli. Un tubulo seminifero è un epitelio formato da cellule del Sertoli ed è anche la sede della spermatogenesi, la
produzione di spermatozoi aploidi a partire da cellule germinali diploidi. L’epitelio seminifero si trova al di sopra di una
membrana basale, sostenuta a sua volta da una sottile lamina propria esterna.
Gli organi sessuali accessori maschili comprendono gli epididimi appaiati, il dotto deferente, le vescicole seminali, i
dotti eiaculatori, la prostata, le ghiandole bulbo-uretrali (ghiandole di Cowper), l’uretra e il pene. La funzione primaria
delle ghiandole e dei dotti sessuali accessori maschili è quella di immagazzinare e trasportare gli spermatozoi all’esterno
e dunque consentire loro di raggiungere e fecondare i gameti femminili”.

Regolazione della secrezione degli androgeni


Per quanto riguarda la regolazione
della secrezione degli androgeni,
osserviamo con attenzione lo schema a
lato. Possiamo riconoscere ipotalamo,
cellule gonadotrope dell’adenoipofisi,
cellule del Leydig e cellule del Sertoli.
Si osserva un asse ipotalamo-
adenoipofisi-testicolo: l’ipotalamo
libera il fattore di rilascio delle
gonadotropine (GnRH). Le
gonadotropine sono due: l’ormone
luteinizzante (LH) e l’ormone
follicolo-stimolante (FSH). Notiamo
da questo grafico che l’LH agisce
selettivamente sulle cellule del
Leydig, mentre l’FSH agisce
selettivamente sulle cellule del
Sertoli. Le cellule del Leydig sono
steroidogeniche, dal momento che
sono loro a produrre testosterone. Il
testosterone (T) può a sua volta andare
incontro a modificazioni biochimiche:
in particolare può andare incontro a
conversione in estrogeno (E2) tramite l’enzima aromatasi, oppure essere convertito in periferia in
diidrotestosterone (DHT), che però non potrà più essere substrato dell’aromatasi. L’aromatasi è espressa in
diverse cellule, quali cellule del tessuto adiposo e cellule del Sertoli.
Le cellule del Sertoli producono inoltre l’ABP (Androgen Binding Protein). Si tratta di una proteina di
legame per gli androgeni che, legando il testosterone, permette alla concentrazione di quest’ultimo di rimanere
molto più elevata nel compartimento in cui si trovano le cellule del Sertoli rispetto alla concentrazione in
circolo, anche 100 volte maggiore. L’incremento della concentrazione di testosterone a livello testicolare
dipende da due ragioni:
1. il testosterone è prodotto a livello testicolare;
2. viene prodotta l’ABP.
I livelli di testosterone a livello testicolare servono a mantenere una adeguata gametogenesi.
Il segnale di retroazione che mantiene l’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo a una modalità di regolazione ben
coordinata è dato dal testosterone periferico (quello in circolo) che tramite un meccanismo di feedback lungo
va ad agire su ipotalamo ed ipofisi. Il testosterone periferico può essere convertito in estrogeno (nel tessuto
adiposo) o DHT (in diversi tessuti fra cui anche la cute): l’estrogeno e il DHT vanno a loro volta a lavorare in
retroazione negativa su ipotalamo e ipofisi. Il testosterone in circolo come tale oppure in forma di estrogeno
o DHT rappresenta quindi il segnale di retroazione negativa lungo dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo.
L’assunzione di steroidi esogeni (per varie ragioni, ad esempio a scopo anabolizzante) va a modificare il
segnale di retroazione a ipotalamo e ipofisi, dal momento che è il testosterone periferico a dare il segnale a
feedback negativo. Si ha riduzione della produzione endogena di testosterone, che però è fondamentale per
mantenere i livelli intratesticolari di testosterone molto elevati. Si può arrivare alla situazione paradossale in
cui l’assunzione di steroidi esogeni va a ridurre i livelli intratesticolari di testosterone, compromettendo la
gametogenesi.

551
Nell’immagine precedente osserviamo anche la produzione di inibina da parte delle cellule del Sertoli.
L’inibina costituisce un’altra forma di segnale a feedback negativo lungo grazie al quale il testicolo va a
controllare la produzione di ormoni sessuali.

Sintesi del testosterone e destino degli androgeni: approfondimento dal Berne & Levy

“Le cellule del Leydig sono cellule stromali steroidogeniche. Queste cellule sono in grado di sintetizzare colesterolo,
nonché di acquisirlo attraverso i recettori delle LDL e i recettori delle HDL, e di immagazzinarlo sotto forma di esteri
del colesterolo. Il colesterolo libero viene ottenuto dagli esteri del colesterolo ad opera della colesterolo estere idrolasi
e viene trasferito alla membrana mitocondriale esterna e poi alla membrana mitocondriale interna con un meccanismo
che dipende dalla proteina regolatrice della steroidogenesi acuta (proteina StAR). Come avviene in tutte le cellule
steroidogeniche, il colesterolo viene convertito a pregnenolone ad opera dell’enzima CYP11A1. Il pregnenolone viene
poi convertito a progesterone, 17-idrossiprogesterone e androstenedione ad opera della 3β-idrossisteroide deidrogenasi
(3β-HSD) e del CYP17. Si ricordi che CYP17 è un enzima bifunzionale in quanto è dotato di attività 17-idrossilasi e
di attività 17,20-liasi. L’enzima CYP17 presente nelle cellule del Leydig possiede entrambe le attività a livello elevato.
Sotto questo aspetto le cellule di Leydig sono simili alle cellule della zona reticolare, fatta eccezione del fatto che
esprimono livelli più elevati di 3β-HSD, cosicché la via Δ4 finisce con l’essere favorita. Un’altra importante differenza
è costituita dal fatto che le cellule di Leydig esprimono un’isoforma specifica della 17β-idrossisteroide deidrogenasi
(quella di tipo 3), che converte l’androstenedione a testosterone.
Il testosterone prodotto dalle cellule del Leydig va incontro a destini diversi e possiede parecchie azioni. Data la
vicinanza delle cellule del Leydig ai tubuli seminiferi, quantità significative di testosterone diffondono nei tubuli
seminiferi e si concentrano nel compartimento rivolto verso il lume grazie all’intervento dell’ABP. Questi livelli elevati
di testosterone nei tubuli seminiferi, che sono 100 volte più alti di quelli presenti in circolo, sono assolutamente
necessari perché la spermatogenesi abbia luogo in maniera normale. Le cellule del Sertoli esprimono l’enzima CYP19
(aromatasi), che converte una piccola parte di testosterone in un estrogeno molto potente, il 17β-estradiolo.
In parecchi tessuti (specialmente
in quello adiposo) il testosterone
viene convertito a estrogeno.
Ricerche condotte su uomini con
carenza di aromatasi hanno
dimostrato che l’incapacità di
produrre estrogeni genera una
statura elevata, a causa della
mancata saldatura delle epifisi
delle ossa lunghe, e osteoporosi.
Perciò, negli uomini gli estrogeni
periferici svolgono un importante
ruolo funzionale nella maturazione
e nella biologia delle ossa. Queste
ricerche hanno anche indicato che
gli estrogeni sono coinvolti nella
promozione della sensibilità
all’insulina, nel miglioramento del
profilo lipoproteico (vale a dire
aumento delle HDL e diminuzione
dei trigliceridi e delle LDL) ed
esercitano un’azione a feedback
negativo sulle gonadotropine a
livello ipofisario e ipotalamico.
Il testosterone può essere
convertito anche in un potente
androgeno non aromatizzabile, il
5α-diidrotestosterone (DHT) ad
opera dell’enzima 5α-reduttasi.
Esistono due isoforme di 5α-
reduttasi, quella di tipo 1 e quella
di tipo 2. Le sedi più importanti
nelle quali viene espressa la 5α-
reduttasi 2 sono il tratto
urogenitale maschile, la cute dei
genitali, i follicoli piliferi e il

552
fegato. La 5α-reduttasi 2 produce DHT, che è necessario per la mascolinizzazione dei genitali esterni nel corso della
vita intrauterine e per molte delle modificazioni che si verificano nella pubertà, quali l’accrescimento e l’attività della
prostata, l’accrescimento del pene, la pigmentazione e la ripiegatura dello scroto, la crescita dei peli del pube e delle
ascelle, la crescita dei peli nella faccia e nel corpo e l’aumento della massa muscolare. L’esordio dell’espressione della
5α-reduttasi 1 si verifica nella pubertà. Questo isoenzima viene espresso principalmente nella cute e contribuisce
all’attività delle ghiandole sebacee e alla comparsa di acne, tipica della pubertà.”

Gli androgeni nel maschio non vengono prodotti solo dal testicolo, ma anche dalla porzione reticolare della
corteccia del surrene. Questa non produce testosterone, ma forme più a monte nella catena di sintesi, come
l’androstenedione (dal momento che nella corteccia del surrene mancano gli enzimi per le tappe finali della
sintesi del testosterone, come la 17β-idrossisteroide deidrogenasi di tipo 3). Si possono avere altre forme,
ancora più a monte nella catena, come il deidroepiandrosterone (DHEA), che possono presentarsi anche in
una forma modificata con il gruppo solfato (DHEAS). La produzione di androgeni qui è però
quantitativamente molto inferiore alla produzione di androgeni da parte delle cellule del Leydig testicolari.
Ritornando alla regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi osserviamo che la stazione ipotalamica è
rappresentata dai neuroni parvicellulari che proiettano all’eminenza mediana. Questi neuroni ricevono una
molteplicità di sinapsi, per cui sono sensibili alle condizioni specifiche in cui si trova l’organismo. La
prolattina, lo stress, gli oppioidi esogeni ed endogeni, la pubertà vanno a modificare il rilascio di GnRH. Questo
permette una regolazione molto fine della produzione di questi ormoni, come accade nel caso di altri assi
ipotalamo-ipofisi-ghiandola periferica già studiati.
Il meccanismo del feedback lungo non
è sempre negativo e volto a down-
regolare l’attività di rilascio a livello
dell’ipofisi e dell’ipotalamo. Ciò
significa che il feedback lungo su
adenoipofisi e ipotalamo, che
normalmente ha segno negativo,
potrebbe assumere un segno positivo.
Questo potrebbe determinare una
importante modificazione dal punto di
vista funzionale, perché convertirebbe un
sistema di controllo atto a mantenere
circa costante la variabile controllata
(feedback negativo) in uno atto a
modificare la variabile controllata,
portandola a valori estremi (massimi o
minimi, feedback positivo). Nel caso
dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo
questo cambiamento di segno non
avviene mai (la situazione fisiologica è
che ci sia un feedback di segno negativo).
Per la regolazione dell’asse ipotalamo-
ipofisi-ovaio il feedback che
normalmente ha segno negativo può
invece fisiologicamente diventare di
segno positivo. Si tratta di un fenomeno
ristretto da un punto di vista temporale,
dal momento che avviene selettivamente
prima dell’ovulazione.
Dal grafico si osserva che la
regolazione della produzione di
gonadotropine sfrutta quelle
caratteristiche di pulsatilità proprie del
rilascio degli ormoni ipotalamici (GnRH
in questo caso). Si hanno due
gonadotropine, LH e FSH. Abbiamo

553
visto che nell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo queste due gonadotropine hanno effetti diversi: LH agisce nel
testicolo sulle cellule del Leydig, l’FSH agisce sulle cellule del Sertoli. Tuttavia, si ha un solo ormone liberante
gonadotropine, che è GnRH. L’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio (e non l’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo15) ha
sviluppato la capacità di regolare in maniera differenziale la produzione di LH ed FSH pur lavorando con
un solo ormone di rilascio, facendo in modo che la produzione di LH e FSH dipenda non solo dalla quantità
di GnRH rilasciato, ma anche dalla struttura temporale degli impulsi di GnRH. È possibile visualizzare ciò
grazie al grafico.
Sull’asse x si ha il tempo in
giorni. La curva blu si riferisce
ai livelli di FSH e quella rossa si
riferisce ai livelli di LH. Come
si può notare, se cambia la
frequenza degli impulsi di
GnRH (in particolare se questa
frequenza diminuisce passando
da un impulso all’ora a un
impulso ogni tre ore), i livelli di
LH diminuiscono e quelli di
FSH aumentano: la frequenza
degli impulsi di GnRH ha un
effetto importante sulla
modalità differenziale di
rilascio di LH e FSH. Questo
dipende sicuramente dagli effetti che GnRH ha sui propri recettori nell’adenoipofisi (l’effetto primario è un
effetto di downregulation, sfruttato in modo da regolare con un solo ormone di rilascio due gonadotropine in
modo parallelo e differenziale).
L’ACTH, inoltre, esercita degli effetti di stimolazione anche sulla produzione degli androgeni surrenalici,
per cui si può dire che ha un effetto trofico su tutta la corteccia surrenalica (esso potenzia la produzione di
cortisolo a livello della zona fascicolata, di aldosterone a livello della zona glomerulare e di androgeni a livello
della zona reticolare). Gli androgeni in questo caso non vanno però a retroagire sulla produzione di ACTH. Il
risultato finale è che la regolazione della produzione di androgeni da parte dell’ACTH può creare dei disturbi,
perché viene tenuta in registro da parte dei livelli di cortisolo ma non da parte degli androgeni prodotti. Anche
se ci fosse un eccesso di androgeni prodotti dalla porzione reticolata, questa produzione non potrebbe
autoregolarsi agendo sull’ACTH.

Spermatogenesi
Non trattata a lezione, ma fa parte del programma.
Dal Berne & Levy: “La spermatogenesi comprende i processi di mitosi e di meiosi. Le cellule staminali,
dette spermatogoni, sono disposte nell’epitelio seminifero a livello basale. Gli spermatogoni si suddividono
per via mitotica e generano spermatogoni figli (spermatocitogenesi). Uno o più spermatogoni rimangono nel
contesto della popolazione di cellule staminali, strettamente aderenti alla lamina basale. Tuttavia, la maggior
parte di questi spermatogoni figli entra in divisione meiotica, per cui alla fine della meiosi vengono prodotti
spermatozoi aploidi. Queste suddivisioni sono accompagnate da citochinesi incompleta, per cui tutte le cellule
figlie rimangono interconnesse tra loro da ponti citoplasmatici. Questa particolare configurazione contribuisce
alla sincronia dello sviluppo di una popolazione clonale di cellule seminali. Gli spermatogoni migrano in
direzione apicale, allontanandosi dalla lamina basale, quando entrano nella profase della prima meiosi. In
questa fase vengono denominati spermatociti primari. Nel corso della profase della prima meiosi si svolgono
i processi fondamentali per la riproduzione sessuale concernenti la replicazione, l’appaiamento, il crossing
over dei cromosomi e la ricombinazione dei cromosomi omologhi. Alla fine della prima divisione meiotica
vengono prodotti gli spermatociti secondari, che rapidamente (vale a dire, nell’arco di circa 20 minuti)
completano la seconda divisione meiotica. I prodotti iniziali della meiosi sono gli spermatidi, che sono cellule
aploidi. Gli spermatidi sono piccole cellule di forma tondeggiante che vanno incontro a una straordinaria

15
Secondo Silvani. Nel Berne & Levy non fa invece differenza tra maschio e femmina.

554
metamorfosi denominata spermiogenesi. I prodotti
della spermiogenesi sono gli spermatozoi, che hanno
una forma affusolata. Nel corso della maturazione dello
spermatide a spermatozoo le dimensioni del nucleo
diminuiscono e si forma una coda molto pronunciata.
La coda contiene strutture microtubulari che
contribuiscono alla motilità della cellula, analogamente
a quanto fa il flagello. Il materiale cromatinico del
nucleo della cellula si condensa e la maggior parte del
citoplasma viene persa. L’acrosoma è una struttura
racchiusa da una membrana della testa dello
spermatozoo che agisce come un lisosoma e contiene
enzimi idrolitici che sono importanti per la
fecondazione. Questi enzimi restano inattivi finché non
ha luogo la reazione acrosomiale. Gli spermatozoi si
dispongono in corrispondenza della superficie luminale
del tubulo seminifero. Il rilascio degli spermatozoi, o
spermiazione, è controllato dalle cellule del Sertoli. Il
processo della spermatogenesi si svolge in circa 72
giorni.”

Livelli di testosterone e spermatogenesi: approfondimento dal Berne & Levy

“Nell’asse riproduttivo maschile vi è un’importante “feritoia” che si basa sul fatto che i livelli intratesticolari di
testosterone devono essere 100 volte più elevati di quelli dell’ormone presente in circolo per assicurare velocità normali
di spermatogenesi; tuttavia sono i livelli di testosterone (e di estradiolo) in circolo che assicurano l’azione in feedback
negativo sull’ipofisi e sull’ipotalamo. Ciò comporta che la somministrazione esogena di testosterone può far aumentare
il testosterone e l’estradiolo presenti in circolo fino a livelli da indurre l’inibizione della produzione di LH, senza che
nei testicoli vengano raggiunte concentrazioni sufficientemente elevate per indurre una normale spermatogenesi. La
diminuzione dei livelli di LH provoca una diminuzione della produzione intratesticolare di testosterone ad opera delle
cellule di Leydig e ciò induce una riduzione della spermatogenesi”.

555
Azioni degli androgeni

556
Le azioni degli androgeni sono molteplici. Non dobbiamo pensare agli androgeni solo come ormoni che
aiutano a sviluppare i caratteri sessuali secondari. Essi sono effettivamente importanti per la crescita della
prostata, modificazione dei peli corporei (crescita della barba e produzione di sebo), sviluppo di pene, scroto
e uretra (sono tutti effetti mediati dalla forma DHT, che ricordiamo essere non aromatizzabile). Gli effetti però
sono anche altri:
 Nel fegato gli androgeni modificano il profilo delle lipoproteine. Il testosterone aumenta i livelli di
LDL e VLDL e riduce i livelli delle HDL. Si tratta di una situazione sfortunata, perché le LDL se
presenti in alta concentrazione aumentano il rischio di progressione dell’aterosclerosi, una malattia
dell’intima vascolare che si caratterizza per un accumulo di lipidi a livello sub-intimale, seguito da
una reazione infiammatoria e produzione di placche che possono ulcerarsi e portare all’ostruzione di
vasi sanguigni (causa primaria di patologie come ictus e infarto del miocardio). Gli androgeni
determinano un profilo lipidico sfavorevole dal punto di vista del rischio cardiovascolare. Questo ci
spiega perché il rischio cardiovascolare del maschio fino a una certa età (superato il centenario non ci
sono più grandi differenze tra i due sessi) sia superiore a quello della femmina.
 Effetti sullo scheletro diretti o mediati dall’estrogeno (prodotto a livello del tessuto adiposo). C’è un
potenziamento dello sviluppo scheletrico, che contribuisce al fatto che il maschio tipicamente abbia
una statura superiore a quella della femmina.
 Il testosterone promuove la distribuzione del grasso a livello viscerale addominale rispetto invece
a una distribuzione a livello subcutaneo soprattutto negli arti inferiori. Questo determina una
distribuzione dell’adiposità a mela per l’uomo e a pera per la donna (distribuzione dell’adipe a livello
di glutei e cosce). Il grasso viscerale dal punto di vista delle conseguenze metaboliche è assai peggiore
rispetto al grasso sub-cutaneo: anche questo effetto sulla distribuzione del tessuto adiposo contribuisce
a un profilo cardiovascolare e cardiometabolico peggiore nell’uomo rispetto alla donna.
 Il testosterone ha un effetto anabolizzante sulla massa muscolare. Non dobbiamo sopravvalutare
questo effetto; ad esempio l’insulina ha un effetto altrettanto potente, se non addirittura ancora più
potente. Ciò non toglie che l’effetto del testosterone possa essere significativo nell’atleta
professionista, ma gli effetti anabolizzanti dell’insulina sono maggiori.
 Si ha inoltre un effetto di promozione dell’eritrone, quindi della produzione di eritrociti.
Domande:
1. L’assunzione continua di testosterone esogeno è in grado di inibire la produzione di testosterone endogeno anche
dopo il termine della sua somministrazione?
Vale il discorso fatto per l’asse ipotalamo-ipofisi-corteccia del surrene. Se l’assunzione di testosterone procede
per un tempo abbastanza lungo da dare un effetto ipotrofico sull’adenoipofisi e sul testicolo, allora prima che
l’organismo possa riprendere la piena capacità sintetica deve passare sicuramente del tempo.
2. Perché il testosterone esogeno non riesce a soddisfare il bisogno del testicolo?
Per due motivi.
a. Innanzitutto il testosterone esogeno si deve accumulare ad una concentrazione anche 100 volte
superiore a quella presente in circolo, quindi dovrebbero aumentare di 100 volte i livelli plasmatici
circolanti, per poter raggiungere, per diffusione semplice, questi livelli di concentrazione.
b. Inoltre l’accumulo è determinato da due ragioni: il testosterone è prodotto in situ, quindi la produzione
locale verrebbe ridotta in condizione della soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo,
conseguente all’assunzione di steroide esogeno; la seconda condizione per l’accumulo è la produzione
locale di ABP e anche questa viene ridotta quando l’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo è soppresso.
Riassumendo, per avere un’adeguata concentrazione di testosterone testicolare occorrono sia la produzione
locale di testosterone, sia l’ABP, entrambi soppressi se l’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo è soppresso.
Si potrebbe ovviare a questo problema aumentando molto di più i livelli circolanti di androgeno, facendo in
modo che per diffusione si soddisfi il bisogno del testicolo, ma si dovrebbero aumentare i livelli plasmatici in
modo irragionevole da un punto di vista del dosaggio.
3. Fino a che punto per uno sportivo i vantaggi dell’effetto anabolico dell’insulina superano gli svantaggi magari
dovuti allo sviluppo di un’insulino-resistenza?
L’effetto anabolico dell’insulina lo si vede in negativo, cioè nei pazienti che non producono abbastanza insulina
o il cui corpo non risponde abbastanza bene all’insulina (diabetici), si ha una riduzione della massa magra.

557
25.3. Ovaio: regolazione dell’ovulazione; formazione del corpo luteo; regolazione della
secrezione e azioni degli estrogeni e del progesterone; ciclo mestruale

Apparato genitale femminile: anatomia funzionale


Dal Boron & Boulpaep: “Le ovaie si trovano ai lati della cavità pelvica. Ciascuna ovaia, coperta da uno strato di cellule
mesoteliali, consiste in una midollare interna e una corticale esterna. La corticale dell’ovaia in una femmina adulta
contiene follicoli in via di sviluppo e corpi lutei in vari stadi di formazione. Questi elementi sono disseminati all’interno
dello stroma, che comprende tessuto connettivo, cellule interstiziali e vasi sanguigni. La midollare contiene grandi vasi
sanguigni e altri elementi dello stroma.
Gli organi sessuali accessori femminili comprendono le tube di Falloppio, l’utero, la vagina e i genitali esterni. Le tube
di Falloppio forniscono un percorso per il trasporto degli ovuli dall’ovaia all’utero. L’estremità distale della tuba di
Falloppio si espande nell’infundibolo, che termina con numerose fimbrie. Le fimbrie e la parte restante delle tube di
Falloppio sono rivestite di cellule epiteliali, la maggior parte delle quali sono dotate di ciglia che si muovono in direzione
dell’utero.
L’utero è un organo muscolare complesso a forma di pera, sospeso da una serie di legamenti di supporto. Si compone
di un fondo, un corpo e una porzione caudale stretta chiamata cervice. La superficie esterna dell’utero è ricoperta dalla
tonaca sierosa, mentre l’interno, o endometrio, consiste di tessuto ghiandolare complesso e stroma. La parete uterina
consiste essenzialmente di muscolo liscio specializzato, il miometrio, che si trova tra l’endometrio e la tonaca sierosa.
L’utero forma un continuum con la vagina attraverso il canale cervicale.
La vagina umana è una singola struttura tubulare espandibile di circa 10 cm di lunghezza, rivestita di epitelio stratificato
e circondata da un sottile strato muscolare. I genitali esterni comprendono il clitoride, le grandi labbra e le piccole labbra,
e ghiandole secretive accessorie che si aprono nel vestibolo.
In alcune specie (ad esempio, i conigli), la funzione riproduttiva femminile, e specificamente l’ovulazione (il rilascio di
ovociti fecondabili), è stimolata dall’accoppiamento. Nella maggior parte delle specie, però, il sistema riproduttivo
femminile funziona in maniera ciclica. In alcune di esse (ad esempio, pecore, bovini, cavalli), le femmine sono ricettive
ai maschi solo intorno al momento dell’ovulazione, il che aumenta al massimo le probabilità di fecondazione e gravidanza.
In un piccolo sottogruppo di specie (ad esempio, esseri umani, babbuini, scimmie antropomorfe) l’ovulazione avviene
secondo cicli mensili – chiamati cicli mestruali – associati a episodi regolari di sanguinamento uterino definito
mestruazione.”

Steroidogenesi follicolare
Le cellule della teca sono in grado di produrre androgeni sotto stimolazione da parte dell’LH. Esse
producono testosterone, che può andare in circolo e poi può eventualmente essere convertito ad estrogeno nel
tessuto adiposo. Nella donna la conversione a deidrotestosterone è residuale. Le cellule della teca inoltre
possono rilasciare non il prodotto finale di questa catena steroidogenica, bensì un intermedio avanzato,
l’androstenedione (è uno dei prodotti rilasciati dalla corticale del surrene), che diffonde alle vicine cellule
della granulosa, dove può essere convertito, in ultima analisi, in estrogeno: questa conversione avviene sotto
stimolo da parte dell’FSH.
L’FSH, agendo sui propri recettori delle cellule della granulosa, induce anche l’espressione di recettori
dell’LH in queste cellule, che quindi diventano anche sensibili all’LH.
Si può dire che le cellule del Leydig nel testicolo stanno alle cellule della teca nell’ovaio, così come le cellule
del Sertoli nel testicolo stanno alle cellule della granulosa nell’ovaio: questo perché le cellule del Leydig e le
cellule della teca rispondono all’LH e producono androgeni, mentre le cellule del Sertoli e le cellule della
granulosa rispondono principalmente all’FSH e sono in grado di produrre estrogeni.

558
Corpo luteo e steroidogenesi
L’ovulazione è un processo
infiammatorio, l’epitelio di
superficie dell’ovaio deve
essere rotto da un processo
infiammatorio che poi
permette l’espulsione
dell’ovulo o degli ovuli.
L’epitelio deve poi
rigenerarsi, e questo epitelio
altamente rigenerativo è a più
alto rischio di modificazione
neoplastica. Molti dei tumori
dell’ovaio originano proprio
da questo epitelio.
Una volta che avviene tale
processo infiammatorio, con
rottura dell’antro e
l’ovulazione, resta una
granulosa parietale priva di
lamina basale ed una teca.
Sono vascolarizzate e tale
vascolarizzazione va incontro
a modificazioni: le modificazioni vascolari e strutturali convertono il follicolo, con la sua granulosa e la sua
teca, in una nuova struttura, il corpo luteo. Il nome corpo luteo deriva dal fatto che le cellule assumono
un’apparenza giallastra (da cui “luteo”) e diventano cellule che si specializzano nella produzione dello steroide
progesterone.
All’interno del corpo luteo c’è una popolazione di cellule che rispondono all’LH, rilasciando
androstenedione (originano dalle cellule della teca, sono un’evoluzione di queste).
Un’altra popolazione cellulare risponde anch’essa all’LH, ma produce ormoni steroidei differenti:
progesterone e, convertendo l’androstenedione che diffonde dalle cellule menzionate in precedenza,
estradiolo.
In ultima analisi, gli ormoni che produce il corpo luteo sono: progesterone, estradiolo e una piccola quantità
di androstenedione.

559
La risposta è quindi guidata dall’LH: le cellule originarie della teca già esprimevano i recettori dell’LH,
quelle del follicolo hanno “imparato” ad esprimere i recettori dell’LH in risposta alla stimolazione progressiva
che c’è stata prima dell’ovulazione, da parte dell’FSH. Si verifica quindi una modificazione delle cellule che
cambia anche il profilo degli ormoni che vengono prodotti.
Prima dell’ovulazione si ha una produzione, principalmente di estrogeno con una piccola quantità di
androstenedione; dopo l’ovulazione, si ha una produzione primaria di progesterone e in seconda battuta di
estradiolo e androstenedione.

Produzione di LH e FSH

Trattiamo ora le modificazioni relative di FSH e di LH nella femmina, a seconda dell’età.


Nella femmina c’è una produzione di gonadotropine che è particolarmente alta durante la gestazione, durante
questa fase c’è infatti uno sviluppo delle cellule germinali delle gonadi. C’è un piccolo aumento di
gonadotropine nell’infanzia, poi i livelli rimangono bassi durante la fanciullezza e durante la prima fase della
pubertà, con una prevalenza di produzione di FSH. In età adulta riproduttiva (dopo il menarca e prima della
menopausa) la produzione di LH e di FSH si modifica: ci sono delle fluttuazioni cicliche (circa mensili) della
concentrazione delle gonadotropine, associate al ciclo ovarico, e che si riverberano sul ciclo uterino e sul ciclo
vaginale; inoltre la produzione di LH diventa maggiore rispetto a quella di FSH. Queste fluttuazioni sono il
risultato della possibilità di cambiamento del segno del feedback lungo da negativo a positivo, che avviene
specificamente nell’ovaio, in età riproduttiva. Nel maschio, in età riproduttiva non si hanno queste oscillazioni
cicliche dei livelli di gonadotropine. Durante la senescenza la situazione cambia di nuovo: si perdono le
fluttuazioni e si ritorna alla situazione in cui la produzione di FSH supera quella di LH, cioè prima della fase
riproduttiva.

Ovogenesi e ovulazione
La femmina ha una riserva di circa 300.000 follicoli primordiali dell’ovaio quando arriva alla fase del
menarca. Di questi follicoli, poi, la maggior parte viene persa, va incontro ad atresia. Solo 30.000, il 10% dei
follicoli primordiali, crescono, e anche di
quelli che crescono, la maggior parte si
perde. In conclusione, vengono ovulati
solo circa 450 dei 300.000 follicoli
originari. C’è dunque una selezione molto
importante, solo i migliori vanno incontro
ad ovulazione.
Lo sviluppo del follicolo parte da un
ovocita primario, va poi incontro ad una
serie di modificazioni, insieme a proliferazione della cellule della granulosa e della teca. Le prime tappe di
queste modificazioni, dall’ovocita primario fino al follicolo secondario, sono indipendenti dai livelli di
FSH, e dipendenti da fattori locali, paracrini, a livello ovarico. La prima selezione dei follicoli dipende quindi
da fenomeni locali, ed è indipendente dall’FSH: la maggior parte dei follicoli primordiali non cresce e va
incontro ad atresia. La seconda selezione dei follicoli, che si verifica tra i follicoli che sono andati incontro a

560
crescita, è dipendente dagli ormoni. Questa selezione avviene nella trasformazione da follicolo terziario
primitivo a follicolo di Graaf.
Il prof. non ha spiegato ulteriormente l’ovogenesi, che però pare essere in programma. Il Berne & Levy tratta
tutto in estremo dettaglio, dunque ho tratto una versione più sintetica dal Boron & Boulpaep: “A differenza
del maschio – che produce continuamente un gran numero di gameti maturi (spermatozoi) a partire dalla
pubertà e per il resto della vita – la femmina ha un numero totale limitato di gameti, determinati dal numero di
ovociti formatisi durante la vita fetale. La maturazione dell’ovocita – la produzione di un gamete femminile
aploide in grado di essere fecondato da uno spermatozoo – inizia nell’ovaia fetale. A partire all’incirca dalla
quarta settimana di gestazione, le cellule germinali primordiali migrano dall’endoderma del sacco vitellino alla
cresta gonadica, dove si sviluppano in ovogoni – cellule germinali immature che proliferano per mitosi.
1. Ovociti primari. Intorno all’ottava settimana di gestazione, sono presenti circa 300.000 ovogoni.
All’incirca in questo periodo, alcuni ovogoni entrano nella profase della meiosi I e diventano
ovociti primari. Da questo punto in avanti, il numero delle cellule germinali è determinato da tre
processi in corso: mitosi, meiosi e morte per apoptosi. Entro la 20ª settimana, tutte le divisioni
mitotiche delle cellule germinali femminili sono terminate e il numero totale di queste cellule
raggiunge il valore massimo di 6-7 milioni. Tutti gli ovogoni che non sono già entrati nella profase
della meiosi I entro la 28ª-30ª settimana di gestazione muoiono per apoptosi. Gli ovociti si
arrestano quindi nello stadio di diplotene della profase I. Questo stato prolungato di arresto
meiotico dura fino a poco prima dell’ovulazione molti anni dopo, quando la meiosi riprende e
viene estruso il primo globulo polare. La seconda divisione meiotica avviene con la singamia,
quando la maturazione dell’ovocita aploide è completa.
2. Follicoli primordiali. Nell’ovaia fetale, gli ovociti in arresto meiotico sono circondati da un
singolo strato di cellule pregranulose fusate piatte che formano un follicolo primordiale. Ciascun
follicolo primordiale ha un diametro di 30-60 μm ed è circondato da una membrana basale. Entro
la 30ª settimana di gestazione, le ovaie contengono circa 5-6 milioni di follicoli primordiali. A
differenza dei gameti maschili, non possono formarsi nuovi ovociti dopo questo periodo, perché
tutte le cellule staminali gametogeniche, in questo caso gli ovogoni, sono morte o sono entrate in
meiosi. Perciò, verso la metà della gestazione, il patrimonio disponibile di gameti femminili è stato
costituito. Per il resto della vita della femmina, il numero di follicoli primordiali diminuisce
gradualmente. Un motivo di questo declino è che i follicoli primordiali sono soggetti a un processo
inesorabile di apoptosi che inizia a metà della gestazione e termina con la menopausa, quando il
corredo di follicoli primordiali è praticamente esaurito. Questo progressivo esaurimento è
indipendente dagli ormoni gonadotropi e non è influenzato dalla gravidanza o dall’uso di
contraccettivi orali. Inoltre, dopo la pubertà, ogni mese una coorte di 10-30 follicoli primordiali
entra nel processo irreversibile della follicologenesi, che culmina nell’ovulazione (rottura del
follicolo ed espulsione degli ovociti) o nell’atresia (un processo coordinato in cui l’ovocita e altre
cellule follicolari sono soggette ad apoptosi, degenerazione e riassorbimento). Il meccanismo
grazie al quale alcuni follicoli primordiali danno inizio alla follicologenesi mentre altri restano
quiescenti non è noto. Perciò, anche se le ovaie sono dotate di circa 7 milioni di ovogoni a metà
della gravidanza, il pool di follicoli primordiali viene costantemente impoverito, per cui alla
nascita ne restano circa 1 milione, ~300.000 alla pubertà e quasi nessuno alla menopausa. Dei
circa 300.000 follicoli primordiali presenti alla pubertà, solo 400-500 sono destinati all’ovulazione
tra la pubertà e la menopausa, mentre circa 30.000 fanno parti delle coorti mensili sottoposte ad
atresia.
I gameti femminili sono contenuti nei follicoli ovarici – le unità funzionali primarie dell’ovaia.
Nel corso della vita di una femmina, il 90-95% di tutti i follicoli primordiali non arriva mai alla
follicologenesi. I follicoli primordiali restano dormienti per gran parte della loro vita, ma a un
certo punto una piccola percentuale di essi è sottoposto a una serie di modificazioni in termini di
dimensioni, morfologia e funzione chiamata follicologenesi – l’evento centrale del sistema
riproduttivo femminile umano. La follicologenesi, controllata da fattori intrinseci all’interno
dell’ovaia e dalle gonadotropine (FSH e LH), avviene mediante tre processi: (1) ingrossamento e
maturazione dell’ovocita; (2) differenziazione e proliferazione delle cellule granulose e tecali; (3)
formazione e accumulo di un liquido.
3. Follicoli primari. La prima fase della follicologenesi è il risveglio di un follicolo primordiale dal
suo stato quiescente per diventare un follicolo primario. Questo processo comporta la
proliferazione delle cellule della granulosa e la loro differenziazione da cellule pregranulose

561
appiattite a cellule cuboidali. Inoltre, l’ovocita aumenta per dimensioni e forma la zona pellucida
– un guscio di glicoproteine che circonda la membrana plasmatica dell’ovocita.
4. Follicoli secondari. L’ulteriore proliferazione delle cellule granulose e la comparsa dello strato di
cellule tecali converte il follicolo primario in un follicolo secondario. I follicoli secondari
contengono un ovocita primario circondato da vari strati di cellule granulose cuboidali. Inoltre, le
cellule dello stroma ovarico che circondano
il follicolo sono indotte a differenziarsi in
cellule tecali che popolano la parte esterna
della membrana basale del follicolo.
L’ovocita aumenta di misura fino a un
diametro medio di ~80 μm e il diametro
follicolare passa a 110-120 μm. Quando il
follicolo in via di sviluppo si ingrandisce –
diventando un follicolo secondario in fase
finale – il numero di cellule granulose passa
a ~600 e le cellule tecali mostrano una
differenziazione crescente e vanno a
formare lo strato della teca interna, più
vicino alla granulosa, e la teca esterna, che
comprime lo stroma ovarico circostante. La
progressione in follicoli secondari
comporta anche la formazione di una rete
vascolare a partire dalle arteriole, che
terminano in una rete di capillari simile a
una ghirlanda adiacente alla membrana
basale che circonda lo strato di cellule
granulose, che rimane avascolare. Le
cellule tecali proliferano e acquisiscono
recettori dell’LH, nonché la capacità di
sintetizzare steroidi. Tra l’ovocita e lo
strato adiacente di cellule granulose e tra le
cellule granulose stesse si formano inoltre
delle giunzioni gap. Le giunzioni tra
ovocita e granulosa possono consentire il
trasporto di nutrienti e informazioni dalle
cellule granulose all’ovocita e viceversa. In
questo contesto, le cellule della granulosa
sono analoghe alle cellule del Sertoli,
poiché si prendono cura del gamete e
agiscono da barriera tra l’ovocita e i vasi
sanguigni.
5. Follicoli terziari. Lo stadio successivo
della crescita follicolare è la maturazione
dei follicoli secondari in follicoli terziari
man mano che le cellule granulose sempre
più abbondanti secernono liquido nel centro
del follicolo a formare uno spazio chiamato
antro. I follicoli terziari rappresentano la
prima di due fasi antrali (la seconda è quella
del follicolo di Graaf). L’FSH induce la
transizione dei follicoli secondari preantrali
in follicoli terziari antrali.
6. Follicoli di Graaf. Quando l’antro si ingrandisce arriva a quasi circondare l’ovocita, a eccezione
di una piccola protuberanza o cumulo che fissa l’ovocita al resto del follicolo. In questo secondo
stadio antrale, il follicolo aumenta fino a 22-33 mm di diametro ed è chiamato follicolo
preovulatorio o di Graaf.

562
Le cellule granulose dei follicoli terziari e di Graaf sono di tre tipi: (1) le cellule granulose murali,
che si trovano più lontane dal centro del follicolo, sono le più attive a livello metabolico e
contengono grandi quantità di recettori dell’LH e di enzimi necessari alla sintesi degli steroidi; (2)
le cellule granulose del cumulo, che vengono espulse insieme all’ovocita al momento
dell’ovulazione; (3) le cellule granulose antrali, rivolte verso l’antro, che restano nel follicolo e
diventeranno le grandi cellule luteali del corpo luteo. La capacità di questi tre tipi di cellule di
generare steroide è differente. Le cellule del cumulo non contengono né l’enzima di clivaggio
della catena laterale (P-450SCC) né l’aromatasi (P-450arom), e perciò non sono in grado di generare
estrogeni. Inoltre, le cellule del cumulo rispondono meno all’LH e hanno complessivamente un
contenuto numero di recettori dell’LH inferiore. Il ruolo preciso dello stroma del cumulo non è
stato descritto in maniera definitiva, ma i ricercatori hanno ipotizzato che possa fungere da fonte
di nutrimento e che possa fornire le cellule staminali che si differenziano in altre cellule granulose.
Il liquido antrale fornisce un ambiente unico per la crescita e lo sviluppo dell’ovocita. Esso facilita
il rilascio dell’ovocita e del cumulo al momento dell’ovulazione e funge da terreno per lo scambio
di nutrienti e l’eliminazione di rifiuti nel compartimento avascolare. L’accumulo di liquido antrale
è uno dei principali fattori che contribuiscono alla formazione del follicolo dominante. Tra 5 e 6
giorni prima dell’ovulazione, il follicolo dominante subisce un’espansione accelerata e forma una
protuberanza cistica sulla superficie dell’ovaia. Dopo questa fase finale di crescita, il follicolo –
ora un follicolo di Graaf – è pronto all’ovulazione.
Lo sviluppo dei follicoli primordiali in follicoli secondari avviene costantemente dalla vita fetale fino alla
menopausa, ma quasi tutti questi follicoli subiscono atresia a un certo punto del loro sviluppo. Si ritiene che la
follicologenesi e l’atresia indipendenti dalle gonadotropine siano controllate da fattori all’interno dell’ovaia,
in particolare tra le cellule somatiche e l’ovocita, che agiscono in maniera paracrina.
Al momento della pubertà, l’aumento dei livelli di FSH e LH stimola coorti di follicoli secondari a progredire
agli stadi terziario e preovoluatorio. Nel corso di questo sviluppo la maggior parte dei follicoli va incontro ad
atresia, finché al momento dell’ovulazione resta un solo follicolo di Graaf dominante.”

Controllo ormonale del ciclo ovarico

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Nel grafico vediamo in ascissa i giorni, da 0 a 28, cioè un mese lunare.
Vengono riportate due fasi del ciclo ovarico: la fase follicolare (sulla sinistra) e la fase luteinica (sulla
destra), separate dall’ovulazione. L’ovulazione porta poi ad una modificazione strutturale ma anche
biochimica delle cellule della granulosa e della teca, e le trasforma in corpo luteo. L’ovulazione è preceduta
da alcune fasi di crescita del follicolo: le prime fasi di crescita sono indipendenti dagli ormoni, le ultime no.
Per quanto riguarda il ciclo uterino (o endometriale), il periodo delle mestruazioni (colore rosa del grafico),
si sovrappone perlopiù al ciclo follicolare dell’ovaio (ai primi giorni) e in piccola parte va ad interessare anche
l’ultima parte della fase luteinica.
Le curve nel grafico rappresentano i livelli circolanti di diversi ormoni: gonadotropine (LH, e FSH),
estradiolo, progesterone (prodotto dal corpo luteo), e inibina (segnale di inibizione).
1. Consideriamo, arbitrariamente, l’inizio del ciclo con l’inizio della fase follicolare: si osservano in
questa fase livelli relativamente alti di gonadotropine e livelli relativamente bassi di ormoni
sessuali. I livelli di ormoni sessuali sono bassi perché il corpo luteo è già andato incontro ad
involuzione, è già diventato un corpus albicans (cicatrice fibrosa) e quindi non produce più il
progesterone; inoltre, essendo nelle fasi precoci della crescita dei follicoli, non c’è la produzione di
estrogeno da parte del follicolo stesso. I livelli di gonadotropine sono invece alti perché i bassi livelli
di ormoni sessuali, per feedback negativo, disinibiscono l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio e
quindi permettono una produzione sufficientemente elevata di gonadotropine.
2. Le gonadotropine stimolano le ultime fasi della crescita dei follicoli, quelle ormoni-dipendenti, e in
particolare è l’FSH a giocare un ruolo importante: l’FHS va ad agire sulle cellule della granulosa
favorendo l’espressione dei recettori dell’LH e sono le cellule della granulosa che crescono in
maniera importante per convertire il follicolo secondario in follicolo precoce e poi in follicolo di Graaf.
I livelli di FSH stimolano dunque la crescita di un certo numero di ovociti che hanno superato la prima
selezione, dipendente da fenomeni paracrini locali.
Le gonadotropine, in particolare l’FSH, stimolano i follicoli a produrre ormoni sessuali, in particolare
estrogeno e l’estrogeno va ad inibire l’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio; se però i follicoli non sono tutti
identici, questo meccanismo di retroazione può determinare degli effetti diversi da follicolo a follicolo.
Analizziamo un caso estremo (la situazione reale è vicina a questo, ma non identica): immaginiamo
che tra tutti i follicoli secondari ci sia un follicolo diverso dagli altri, che esprime più recettori per
l’FSH (questo dipende dalle caratteristiche genetiche delle cellule dell’ovocita e dalle caratteristiche
locali paracrine dell’ambiente ovarico). Questo follicolo è esposto alle medesime concentrazioni di
gonadotropine degli altri follicoli, ma risponde meglio perché esprime più recettori per l’FSH, e in
risposta, avrà una maggiore espressione per i recettori dell’LH: comincia dunque a produrre più
estrogeno, andando ad inibire l’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, danneggiando anche se stesso. Il punto,
però, sta nel fatto che questo follicolo risente meno del calo dei livelli di gonadotropine rispetto agli
altri follicoli, i quali avendo meno recettori per l’FSH, sono più dipendenti dai livelli di FSH. Questa
situazione crea una divaricazione progressiva: se all’inizio il follicolo esaminato differiva dagli altri
follicoli di pochissimo, giorno dopo giorno esso cresce progressivamente (fino a follicolo di Graaf),
producendo sempre più estrogeno, e porta quindi gli altri follicoli ad andare incontro ad atresia. Il
piccolo vantaggio iniziale si amplifica, il follicolo dominante acquisisce un vantaggio sempre
maggiore rispetto agli altri. Quindi si arriva alla fine della fase follicolare sostanzialmente con un unico
follicolo che sta crescendo di più e gli altri che stanno andando incontro ad atresia, in uno scenario in
cui la produzione di progesterone è sempre molto bassa e la produzione di estrogeno cresce
progressivamente (perché il follicolo dominante sta crescendo progressivamente, producendo più
estrogeno); la produzione di FSH cala progressivamente per via dell’inibizione dell’asse ipotalamo-
ipofisi-ovaio determinata dall’estrogeno, e la concentrazione di inibina cresce progressivamente (è
il follicolo dominante che la sta producendo e questo contribuisce alla diminuzione di FSH). Questo
scenario in cui c’è un unico follicolo dominante è semplicistico ma abbastanza probabile; è possibile
che ci siano due o al limite tre follicoli che siano migliori, ma la probabilità che questo si verifichi è
piuttosto bassa. Situazioni invece in cui si cerca di indurre artificialmente una gravidanza, cioè in cui
si interviene in maniera importante da un punto di vista esogeno, possono portare a delle ovulazioni
multiple con una frequenza piuttosto elevata.
3. Alla fine della fase follicolare, i livelli di estrogeno che rimangono sufficientemente alti per un tempo
sufficientemente lungo (prodotti dal follicolo dominante) vanno a modificare la risposta delle cellule
dell’ipotalamo e dell’ipofisi all’estrogeno stesso: cambiano il segno dell’asse ipotalamo-ipofisi-
ovaio, da negativo in positivo. Questo cambiamento ha effetti drammatici: l’estrogeno smette di

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inibire la produzione di gonadotropine e comincia invece a stimolarne la produzione, con un feedback
positivo. Si verifica quindi un picco dei livelli di gonadotropine, in particolare l’LH aumenta molto,
ancor più dell’FSH e di conseguenza si ha un aumento anche dei livelli di estrogeno e così via. Questo
cambiamento di segno è temporaneo, quindi il picco rapidamente cessa perché si ripristina il feedback
negativo.
L’aumento importante dei livelli di estrogeno e gonadotropine determinano modificazioni
infiammatorie che portano all’ovulazione, e a cascata modifica le caratteristiche biochimiche e
strutturali delle cellule residue della granulosa e della teca, che diventano corpo luteo.
4. Il corpo luteo produce primariamente progesterone, e in seconda battuta estrogeno: durante la fase
luteinica i livelli di progesterone e di estradiolo aumentano e c’è anche una produzione di inibina
da parte di queste cellule, mentre i livelli di gonadotropine vengono tenute basse. In questa a fase c’è
una sorta di stasi, non c’è crescita di nuovi follicoli, perché i livelli di gonadotropine restano
relativamente troppo bassi, in particolare quelli dell’LH, a causa della produzione di ormoni sessuali
da parte del corpo luteo. Dopo un po’ di tempo, il corpo luteo va incontro ad involuzione, a meno che
non ci siano delle molecole, prodotte dalle cellule dell’embrione nelle sue prime fasi di sviluppo (in
particolare la gonadotropina corionica umana), che contribuisce al mantenimento del corpo luteo.
Durante la fase luteinica si va incontro ad un bivio: se sono presenti le molecole di stimolazione del
corpo luteo allora il corpo luteo si mantiene e queste caratteristiche della fase luteinica si protraggono,
modificandosi un po’, durante la fase della gravidanza; se invece queste molecole di stimolazione non
ci sono (quindi l’impianto dell’ovulo fecondato non è avvenuto), il corpo luteo va incontro ad
involuzione e la produzione di progesterone, ma anche di estrogeno ed inibina, scende
progressivamente, e questo permette ai livelli di gonadotropine di aumentare. Questo aumento
permette di far iniziare di nuovo il ciclo ovarico.
Un altro grafico, tratto dal Berne & Levy, che sintetizza quanto detto finora (il prof. in pratica lo legge):

Asse ipotalamo-ipofisi-ovaio
Questo schema mostra delle variazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-ghiandola periferica.
Ci sono delle complicazioni rispetto ai classici assi ipotalamo-ipofisi-ghiandola periferica:
1) la ghiandola periferica (ovaio) ha due subcomponenti: cellule della teca e della granulosa;

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2) c’è un fattore ulteriore di feedback inibitorio, rappresentato dall’inibina;
3) il segno del feedback può cambiare: alla fine della fase follicolare della femmina, in età riproduttiva,
cioè solo quando i livelli di estrogeno si mantengono sufficientemente alti per un tempo
sufficientemente lungo.

Controllo ormonale del ciclo uterino


Il grafico presentato inizialmente per descrivere il ciclo ovarico in realtà descrive due cicli diversi, il ciclo
ovarico e quello uterino, che però sono sincronizzati da meccanismi ormonali.
Ragioniamo partendo dal giorno 4 (numero orientativo) cioè da quando le mestruazioni sono già finite e si è
all’inizio della fase follicolare.
1. Fase proliferativa. Nell’utero i livelli crescenti di estrogeno, che vengono prodotti dal follicolo
dominante, portano ad una proliferazione dello strato funzionale delle cellule dell’endometrio, fino
all’ovulazione.
2. Fase secretiva. Dopo l’ovulazione comincia la fase luteinica del ciclo ovarico, in cui la produzione di
progesterone ed estrogeno mantiene la proliferazione dello strato funzionale delle cellule
dell’endometrio, ma il fatto che i livelli di progesterone siano molto superiori a quelli della fase
follicolare determina anche una modificazione morfologica e biochimica delle cellule dello strato
funzionale dell’endometrio. Esse si riempiono di vacuoli contenenti sostanze nutritizie (tra cui il
glicogeno) e c’è una intensa proliferazione vascolare, con la formazione di vasi ectasici, disordinati,
che possono portare ai cosiddetti laghi venosi, cioè cavità ripiene di sangue. C’è quindi una
vascolarizzazione quasi eccessiva rispetto alle necessità del tessuto. Il significato di tutto questo è che
questo è il tessuto su cui deve avvenire l’impianto dell’ovulo fecondato: questo ha bisogno di nutrirsi,
soddisfacendo le proprie necessità a spese di questo epitelio, prima di sviluppare i propri annessi.
Questa situazione non può mantenersi a lungo, perché l’epitelio in questa condizione è in uno stato
instabile: è facilmente infiltrabile e degradabile da parte dell’ovocita fecondato e rischia quindi di

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diventare facilmente preda di infezioni batteriche; quindi, le arterie presenti a livello del miometrio e
nello strato basale dell’endometrio, vanno incontro ad una vasocostrizione importante, portando ad
ischemia lo strato più superficiale dell’endometrio (quello che si era trasformato).
3. Fase mestruale. Se non c’è l’impianto dell’embrione e quindi il corpo luteo va in involuzione, questo
epitelio si sfalda e viene eliminato all’esterno tramite l’orifizio vaginale. Questo processo è il
fenomeno delle mestruazioni, che iniziano nell’ultimissimo periodo della fase luteinica, e procedono
poi nel primo periodo della fase follicolare, finché i livelli di estrogeno, che crescono
progressivamente, permettono una neosintesi dello strato funzionale dell’endometrio e il ciclo riparte.

N.B. La durata della fase luteinica è molto regolare, circa 14 giorni, invece la fase follicolare è molto
variabile, perché dipende dalle caratteristiche dei follicoli, cioè dal differenziale di responsività tra il follicolo
(o i follicoli) dominante e tutti gli altri, che vanno incontro ad atresia. La variabilità del tempo tra una
mestruazione e l’altra dipende quindi dalla variabilità della fase follicolare.

Cervice uterina e ciclo vaginale


L’epitelio vaginale modifica le proprie caratteristiche in seguito a queste variazioni ormonali: cambiamenti
della cornificazione delle cellule epiteliali della vagina, e cambiamenti della produzione di muco da parte
della cervice uterina.
Dal Berne & Levy: “Il canale endocervicale è rivestito da un epitelio colonnare semplice che secerne muco
cervicale, la cui produzione è regolata con un meccanismo di natura ormonale. Gli estrogeni stimolano la
produzione di abbondanti quantità di muco elastico, acquoso, leggermente alcalino che costituisce un ambiente
ideale per lo sperma. Il progesterone stimola la produzione di modeste quantità di muco viscoso e leggermente
acido, che costituisce un ambiente ostile allo sperma. Durante il normale ciclo mestruale, all’epoca
dell’ovulazione le condizioni del muco cervicale sono ideali per il passaggio dello sperma e per la sua vitalità”.
“Le cellule superficiali dell’epitelio vaginale si desquamano in continuazione e la natura di queste cellule è
influenzata dall’ambiente ormonale. Gli estrogeni stimolano la proliferazione dell’epitelio vaginale e
aumentano il suo contenuto di glicogeno (questo processo viene denominato “cornificazione”, anche se nella
specie umana non si verifica una vera cornificazione o cheratinizzazione). Il glicogeno viene metabolizzato ad
acido lattico ad opera di lattobacilli commensali, contribuendo così al mantenimento di un ambiente acido, che

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inibisce lo sviluppo di infezioni ad opera di batteri non commensali e funghi. Il progesterone aumenta la
desquamazione delle cellule epiteliali.”

Effetti degli ormoni sessuali


 Estradiolo
- Aumenta l’assorbimento intestinale di calcio, la sopravvivenza degli osteoblasti e l’apoptosi
degli osteoclasti: quindi aiuta lo sviluppo delle ossa e una migliore mineralizzazione.
Questo spiega perché durante la menopausa, quando i livelli di estradiolo calano, ci possono
essere dei problemi di osteoporosi importanti, particolarmente per le donne.
- Aumenta il recettore epatico per le LDL, che aiuta ad eliminare l’LDL in circolo facendolo
ricaptare dal fegato, e aumenta i livelli di HDL in circolo, lipoproteine che agiscono da
scavenger: prendono il colesterolo in eccesso dalla periferia e lo portano al fegato; questi
effetti sulle lipoproteine determinano un profilo lipoproteico migliore nella femmina da un
punto di vista di rischio cardiovascolare.
- Stimola la produzione di ossido nitrico (NO), vasodilatatore che tra le altre cose riduce
l’aggregazione piastrinica, altro fattore che aiuta a ridurre il rischio cardiovascolare.
- Migliora il trofismo di epidermide e derma.
- Neuroprotezione.
Questi effetti vengono meno con la menopausa, ma fino a quel momento la donna ha un vantaggio
biologico notevole rispetto all’uomo.
 Progesterone
- Ha effetti depressivi sul sistema nervoso centrale.
- Aumenta la risposta ventilatoria alla CO2.
- Aumenta la temperatura corporea.
Questi sono dei sistemi che aiutano ad ottimizzare una situazione di inizio di gravidanza, nella quale
la donna ha bisogno di aumentare la propria attività metabolica per supportare anche quella del
nascituro
 Androgeni surrenalici
Contribuiscono sia ad una quota di livelli di androgeno, sia ad una quota di estrogeno, perché una parte
di androgeni viene convertita in estrogeno quando gli androgeni raggiungono la periferia. L’estrogeno
che si ottiene dagli androgeni surrenalici quando la femmina è in età riproduttiva, è una piccola quota
dell’estrogeno totale, quindi conta relativamente poco; l’androgeno che non viene convertito
contribuisce invece ad una quota funzionalmente rilevante. Questa è una situazione speculare a quella
nel maschio: gli androgeni surrenalici sono una piccola quota rispetto a quelli testicolari, mentre la
conversione degli androgeni testicolari e surrenalici in estrogeni in periferia contribuisce ad una quota
funzionalmente rilevante.
Dopo la menopausa, la produzione di ormoni sessuali da parte della femmina crolla, ma la corticale
del surrene continua a lavorare, e consente quindi di avere degli ormoni sessuali in circolo, sia di
androgeno che di estrogeno. La corticale del surrene assume un ruolo importante dopo la menopausa,
perché diventa l’unica fonte significativa di ormoni sessuali, primariamente androgeni ma anche di
estrogeni. La comparsa di peli sul viso in alcune donne anziane riflette almeno in parte questa
produzione di androgeni.

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