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STORIA DEL TEATRO E DELLO SPETTACOLO

Lezioni online:

2.03.2020; 3.03.2020; 5.03.2020

Appunti per le lezioni del 2, 3 e 5 marzo


1921-1946 Da Trieste a Milano

Nasce a Barcola (Trieste), il 14 agosto. Il padre industriale, impresario e gestore del popolare “Cinema-Teatro
Fenice”, la madre una acclamata violinista. Il 14 settembre 1924 a Vienna, a soli 28 anni, muore il padre Bruno.
Dopo la morte di nonno Olimpio, Giorgio e la madre si trasferiscono a Milano. Studia al Convitto Longone e al
Liceo Parini. Anima la claque del Teatro Odeon. Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici dove segue i corsi di
recitazione e dizione. Stringe amicizia con Paolo Grassi. Ottiene la medaglia d’oro e si diploma all’Accademia.
Lavora come attore in compagnie di giro, percorrendo l’Italia. Partecipa al gruppo sperimentale “Palcoscenico”
sotto la direzione di Grassi. Nel 1943 rma a Novara la sua prima regia. L’11 ottobre 1943 a Milano, sposa Rosita
Lupi. Condannato a morte, ripara in Svizzera. internato nel campo di M rren e successivamente trasferito a
Ginevra, dove frequenta la classe di teatro di Jean Bart. Con la Compagnie des Masques presenta Assassinio
nella cattedrale di Eliot e Caligola di Camus. Nel luglio 1945, torna in Italia. Inizia l’attivit di critico teatrale sul
quotidiano “Milano sera”. Presenta al Teatro Lirico Giovanna d’arco al rogo di Honegger sua prima regia lirica.
Con Grassi fonda “Diogene”, circolo di cultura teatrale. Fra gli altri spettacoli, rimette in scena con Renzo Ricci
Caligola di Camus e con la compagnia del Teatro Excelsior I piccoli borghesi di Gorkij.

Giorgio Olimpio Guglielmo, nasce il 14 agosto 1921, il padre è Bruno Andrea Vittorio Strehler (di
origini viennesi ma nato a Trieste l’11 agosto 1896), industriale, impresario e gestore del
popolarissimo Cinema-Teatro Fenice, la madre è Alberta Lovri , (l’amatissima Nin ). Giorgio Strehler
nasce dunque a Barcola e Trieste, punto di con uenza di etnie diverse e tradizioni ricche, rimarr
sempre nel cuore di Strehler . Nel 1924 muore il padre Bruno.Nonostante questo, gli anni triestini di
Strehler trascorrono sereni al anco di mamma Nin e nonno Olimpio Lovri . In casa si parlano
quattro lingue: l’italiano (triestino), il tedesco, lingua paterna, il croato, lingua di nonno Olimpio,
originario del Montenegro, e il francese, lingua quest’ultima della nonna materna Maria Firmy,
parigina di nascita. E, soprattutto, si fa tanta musica: nonno Olimpio un celebre cornista (ma anche
direttore di orchestre e cori, impresario del Teatro Verdi di Trieste e proprietario di due sale
cinematogra che); mamma Nin un’ottima violinista (concertista acclamata, pseudonimo di
Albertina Ferrari, aveva suonato anche con il grande direttore d’orchestra Wilhelm F rtwangler). a
sette anni, nel 1928, Strehler si trasferisce con la madre a Milano. Alcuni anni addietro, nonna Maria
Firmy aveva lasciato il marito Olimpio e Trieste per un altro uomo. Cos , quando il nonno muore,
bambino e madre non esitano a raggiungerla a Milano. Strehler compie studi regolari presso il
Convitto Longone , no alla maturit classica conseguita al Liceo Parini, inserendosi agevolmente
nella vita e nello spirito particolare di una citt che, in seguito, egli riconoscer sempre come sua
patria di adozione.

È a Venezia che, quasi per caso, nel 1934 vede Max Reinhardt - uno fra i pi in uenti registi e
impresari della prima met del XX secolo - intento a mettere in scena il suo shakespeariano
Mercante di Venezia. La prima impressione teatrale dell’adolescente Giorgio. Il teatro inizia, tuttavia,
a diventare parte signi cativa della vita di Strehler due anni dopo, intorno al 1936, quando, dopo
avere quasi per caso assistito alla rappresentazione di Una delle ultime sere di Carnovale di Carlo
Goldoni, o erto dalla Compagnia di Gino Cavalieri, egli comincia a frequentare le sale teatrali
cittadine e, in particolare, l'Odeon di cui anima la claque. Il ruolo di claquista gli sta stretto ma gli
garantisce l’ingresso gratuito a teatro e il contatto con un ambiente che lo a ascina. La passione per
il teatro cresce e nel 1938 si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici dove egli segue i corsi di

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recitazione e dizione. Uno degli assistenti il giovane Paolo Grassi che Strehler ha gi avuto modo di
incontrare pi volte a teatro e alla fermata del tram in corso Buenos Aires. Fra i due, nasce una
conoscenza che diventa presto sodalizio e poi un’amicizia profonda che si alimenta anche del
comune amore per la musica.Grassi e Strehler vanno a teatro insieme, vanno insieme ai concerti,
diventano inseparabili. Qualcuno scherzosamente li chiama i Dioscuri di Milano. In Accademia,
Strehler ottiene la medaglia d'oro per la recitazione e, nel 1940, si diploma con tutti gli onori. Sono
questi i tempi del primo amore di Strehler, la giovane e bella danzatrice Rosa Lupo-Stanghellini (in
arte Rosita Lupi) che, l’11 ottobre 1943 a Milano, diventer sua moglie. L'impegno quale attore in
compagnie di giro immediatamente successivo: Per un giovane attore in quegli anni l’unico modo
per farsi luce la routine della compagnia di giro. Strehler, al quale sono assegnate di solito le parti
di amoroso, si trova cos a vivere di persona un ambiente ancora legato a una tradizione di
improvvisazione, girovaga, e in cui la media degli attori conosce appena i nomi dei registi che hanno
maggior peso nel teatro europeo. il teatro “all’antica italiana”.

Deluso dalla routine che caratterizza la vita delle compagnie di giro, Strehler - che, nel frattempo, si
iscritto alla Facolt di giurisprudenza di Milano - si accosta al gruppo teatrale “Palcoscenico”, primo
ensemble sperimentale italiano sorto nell'ambito del mensile "Posizione" (dove il giovane Giorgio
pubblica le sue prime osservazioni critiche sul teatro italiano fra le quali Condizioni di una polemica e
Responsabilit della regia e alcune ri essioni sul mito dei Giganti della montagna di Pirandello), con il
proposito di esprimere istanze di rinnovamento rispetto alla situazione stagnante delle nostre scene.
Nato nel febbraio 1941 su idea di Paolo Grassi con l’aiuto di Ernesto Treccani, “Palcoscenico” si
de nisce “centro intellettuale d’avanguardia che d impulso a manifestazioni d’arte modernissima”.
Gli attori di “Palcoscenico” sono i giovani diplomati all’Accademia dei Filodrammatici, ai quali si
uniscono gli scenogra e i pittori di “Corrente”, insomma, gli amici e i compagni di Strehler (Franco
Parenti, Liana Casartelli, Giuliana Pogliani, Mario Feliciani, il pittore Luigi Veronesi, la pianista Enrica
Cavallo, moglie di Grassi). “Palcoscenico” si impegna a rinnovare il vecchio repertorio in un mondo
intellettuale che snobba il teatro. Strehler percorre l’Italia intera recitando in primarie formazioni
comiche e partecipando continuativamente alla redazione di articoli e traduzioni per riviste di cinema
e teatro. Le parole di Strehler sono critiche e invocano la necessit di una riforma radicale del teatro.
Il 24 gennaio 1943, Strehler che, nel frattempo, sta svolgendo il servizio militare, rma “in licenza” a
Novara, la sua prima regia. Si tratta di uno spettacolo allestito da un gruppo di giovani intellettuali
radunatisi attorno a “Posizione”( mensile della Federazione universitaria fascista di Novara diretta da
Guido Tornielli) composto da L’uomo dal ore in bocca, All’uscita e Sogno (ma forse no)di Luigi
Pirandello. Mentre il primo dei tre atti unici gi all’epoca fra i testi pirandelliani pi frequentemente
rappresentati, Sogno (ma forse no) denota una scelta pensata, originale e fortemente registica,
poich non sembra scritto per attirare l’interesse di grandi attori: la particolare struttura del testo
sembra richiedere da parte di chi lo metta in scena un notevole contributo ideativo, “registico”.
Scelta di un’opera che gli consenta di mettere alla prova il suo ancora acerbo, ma gi evidente
talento. Dopo l'8 settembre 1943 Strehler richiamato alle armi, ma, ostile al regime fascista, non
aderisce alla Repubblica di Sal e si unisce ai gruppi resistenziali. Riconosciuto quale militante
socialista, attivo antifascista e condannato a morte in contumacia, nel gennaio 1944, Strehler
esortato dal Comitato di Liberazione Nazionale a riparare in Svizzera. Qui, in un primo tempo,
accolto nel campo di internamento per militari di M rren, dove mette in scena, con una compagnia di
soli uomini, tre atti unici di Pirandello (L’imbecille, La patente e L’uomo dal ore in bocca).
Successivamente, ottiene il permesso di trasferirsi a Ginevra per frequentare i corsi di giurisprudenza
e la classe di teatro tenuta al Conservatorio da Jean Bart. Qui fonda con l’attore e regista Claude
Maritz la Compagnie des Masques e decide che quella del regista sarebbe stata la sua laica
missione. Proprio la libera citt di Ginevra gli o re tutti gli strumenti per a narsi culturalmente, farsi

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conoscere e, in ne, diventare protagonista. In quegli anni nasce in lui la “necessit ” di fare teatro non
pi come attore soltanto, ma come regista.

Il 14 aprile 1945, Strehler dirige, con lo pseudonimo di Georges Firmy (cognome della nonna
materna), sulle scene del Th tre de la Com die di Ginevra, Assassinio nella cattedrale di Thomas
Stearns Eliot. In quei primi mesi del 1945 Strehler studia i classici del teatro, a trovare testi di autori
nuovi e anche a scovare quei libri politici che il fascismo, mettendoli al bando, non gli aveva
permesso di conoscere. Albert Camus la sua ultima scoperta, il suo ultimo idolo.

Strehler fa seguire il 27 giugno la “prima mondiale” di Caligula di Camus, nella versione originale
francese. Georges Firmy (così si rma). E poi, a luglio, Piccola citt , dell’americano Thornton Wilder.
La ne della guerra riconduce Strehler a Milano, una citt quasi morta, poco pi che uno scheletro,
eppure insolitamente vitale: gi nei primi mesi del 1945, la vita teatrale milanese riprende con
energia, alimentata da molti attori che con uiscono da Roma al Nord. Strehler si rende, tuttavia,
subito conto che la guerra ha smembrato le forze giovani e che, per procedere alla riforma del teatro
italiano, si deve ora mostrare di essere in grado di tenere le redini dei pi vari movimenti della cultura,
della tecnica, del costume e si deve farlo, sul piano concreto, attraverso la ricomposizione di un
equilibrio e di una nuova unit da cui scaturiscano un ordine e una struttura. in questo clima che
nascono i primi discorsi tra Strehler e l’amico ritrovato Paolo Grassi, i primi progetti. Strehler diviene
dall’agosto al dicembre 1945 critico teatrale per il quotidiano di informazione del pomeriggio “Milano
Sera”, fondato da Elio Vittorini, attivit che svolge con grande passione.

Anche per favorire la messa in scena di un nuovo repertorio svincolato dagli interessi degli esercenti
teatrali interessati al solo guadagno economico, Strehler propone all’amico Grassi di creare un teatro
(“O cina 45” vorrebbe chiamarlo), ma Grassi non d’accordo: deve essere la municipalit a farsi
carico del teatro, un teatro pubblico e stabile. Ospitati nei locali della libreria di Marco Zanotti in via
Brera, Strehler e Grassi danno vita a “Diogene”, circolo di cultura teatrale dove dall’autunno 1945, si
leggono testi nuovi, italiani e stranieri, e si dibattono i temi generali del rinnovamento del teatro di
prosa, si parla degli spettacoli o erti dai palcoscenici milanesi, si ospitano conferenze e dibattiti.
Intorno a “Diogene” si raccolgono personaggi del mondo teatrale come Vittorio Gassman, Tino
Carraro, Ivo Chiesa, Ruggero Jacobbi regista e studioso, Ettore Gaipa, Mario Landi e, non ultima,
Nina Vinchi. Soprattutto si fa tutto questo insieme: “quello su cui batto io – insiste Grassi -
l’iniziativa collettiva degli amatori di teatro. Ad esempio a Milano abbiamo ormai un regolare
funzionamento del Circolo del Teatro il “Diogene” il quale ogni domenica presenta (nel ciclo mensile)
una novit italiana scelta da una commissione di lettura, un’opera straniera di particolare interesse,
una pubblica discussione su tutte le novit del mese e nella quarta riunione o un classico
particolarmente attuale o una discussione su un tema preciso. Il tutto rinverdito da notiziari e con il
solito dibattito del pubblico tenuto alla ne di ogni lettura.
Al “Diogene” Strehler incontra Ruggero Jacobbi che gli presenta l’attrice Diana Torrieri dalla quale
riceve la proposta di rmare la regia della tragedia Il lutto si addice a Elettra di Eugene O’Neill per la
compagnia Benassi-Torrieri. In occasione di questo allestimento, Strehler conosce anche il giovane
scenografo genovese Gianni Ratto.

Cos Strehler descrive le di colt incontrate: “Nessuno dei giovani di oggi pu sapere bene cosa
stata la battaglia della nostra generazione per a ermare, in Italia, persino il concetto della «regia» e
portare un paese fermo culturalmente dal fascismo, nel mondo della cultura europea, con una
situazione economica, povera, distrutta, con il peso di una guerra civile alle spalle.” Lo spettacolo
debutta al Teatro Odeon di Milano il 15 dicembre 1945 e ottiene un grande successo. Le scene,
dovute a Fornasetti e a Gianni Ratto, hanno costretto l'azione, per necessit tecniche, in zone

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limitate che hanno dato ancor maggior rilievo alle parole e ai sentimenti del dramma. La scenogra a
suggestiva stata sempre illuminata con rara cura.”

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Un successo trionfale che si ripete anche quando egli lavora con Renzo Ricci, per il quale a ronta
nuovamente Caligola di Camus, in scena per la prima volta in Italia al Teatro della Pergola di Firenze il
5 gennaio 1946. Ci testimonia la tempestiva attenzione di un grande attore, a ermato e celebrato
come Ricci, cresciuto alla scuola dei mattatori, nei confronti della nascente regia che, nalmente,
anche in Italia sembra muovere i suoi primi passi. Ricci sceglie Strehler (in scena anche come attore
nel ruolo del giovane Scipione), di cui, pur ancora giovanissimo, gi circola nell’ambiente dello
spettacolo il nome come uno fra i pi promettenti registi. Scena semplice e suggestiva,
commentandolo con musiche atonali appropriate, non cadendo mai nell'accademia. Grande
successo.

Dal 1946, Strehler abbandona l'attivit di critica drammatica per dedicarsi all'impegno registico.
In stretta sinergia con Grassi, Strehler organizza eventi culturali e spettacolari per la celebrazione
della pace e si impegna personalmente nella campagna elettorale della primavera 1946 per il
socialista Antonio Greppi, appassionato autore di teatro, che riconfermato sindaco dal voto
popolare. Pochi mesi prima della riapertura della ricostruita Scala sotto la bacchetta di Toscanini,
Strehler allestisce, il 19 aprile 1946 al Teatro Lirico – dove la stagione d’opera scaligera si svolge
temporaneamente – in forma semiscenica l’oratorio drammatico, Giovanna d’Arco al rogo

Nel frattempo, sin da un articolo pubblicato sull’“Avanti!” il 25 aprile 1946, Paolo Grassi va ri ettendo
sulla situazione non certo rosea in cui versa il teatro italiano contemporaneo. “ necessario - dichiara
a gran voce - se vogliamo salvare il teatro di prosa da una catastrofe prossima e da una lenta morte,
prendere urgenti provvedimenti di ordine economico”. Grassi crede nella natura sociale del
fenomeno teatrale. Strumento attivo e operante della democrazia, il teatro - e deve essere - un
“pubblico servizio” nel senso che deve contribuire anch’esso al processo di organizzazione e
ricostruzione morale della societ . Nel maggio, Grassi illustra le basi dell’idea di teatro di Strehler e
sua: “Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro,
mentre il teatro per la sua intrinseca sostanza, fra le arti la pi idonea a parlare direttamente al
cuore e alla sensibilit della collettivit . Bisogna vederlo come una necessit collettiva, come un
bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio, alla stregua della metropolitana e dei vigili del
fuoco, e che per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettivit , la collettivit attuasse
quei provvedimenti atti a strappare il teatro all'attuale disagio economico e al presente monopolio di
un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni”. Un teatro
quindi dove l’attivit produttiva possa rispondere - come contenuto e linguaggio - a un pubblico che
idealmente deve ri ettere e contenere tutte le componenti attive della cittadinanza. Grassi e Strehler
lavorano parallelamente con un ne comune.

Nel giugno 1946, egli dirige al Teatro Odeon, la sua prima compagnia, costituita da attori di fama, tra
cui Tino Carraro. Ben presto, tuttavia, per dissidi intervenuti con la prima attrice, Strehler costretto
a abbandonare la Compagnia e, in attesa di nuovi sviluppi, lavora al Teatro Excelsior con la. In ne, in
occasione del decennale della morte di Gorkij, grazie anche all’aiuto nanziario del mecenate
Francesco Graziadei, Strehler rma la regia di Piccoli borghesi con Lilla Brignone, Gianni Santuccio,
Salvo Randone, Antonio Battistella, Marcello Moretti, Franco Parenti, Mario Feliciani, Lia Zoppelli, Lia
Angeleri, Armando Alzelmo (un gruppo di attori coordinati da Grassi che, con pochissime varianti,
costituir il nucleo fondamentale della prima compagnia del Piccolo Teatro). Lo scenografo Gianni
Ratto e lo spettacolo va in scena al Teatro Excelsior di Milano, gestito da Maner Lualdi, il 26

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novembre 1946. “Questo spettacolo segna una data importante per la storia del teatro italiano e mia.
In esso lavorammo uniti per la prima volta, strettamente si pu dire, Paolo Grassi e io (vecchi amici
gi dagli anni della Resistenza). Lui come organizzatore, io come regista. Lo spettacolo ebbe un
successo straordinario”. Tutti hanno portato il loro contributo con una «civilt » ammirevole.

Video Giorgio Strehler e la storia del “Piccolo”

Parte 1 e 2 Speciale tg1 (1911). Strehler “quel diavolo di un Faust).

Giorgio Strehler nasce a Barcola, Trieste, il 14 agosto 1921 in una famiglia dove si intrecciano lingue
e culture diverse trasferitosi a Milano con la madre, studia musica e si forma come attore.
Giorgio Strehler e il Piccolo di Milano: un luogo, una vita. Inverno del ‘47 lui e Grassi stavano girando
per trovare una sede per un teatro stabile, avevano già parlato con il sindaco Greppi, nanziato dal
comune. Arrivarono in questa sede che era stata un cinema, il cinema Broletto, ed era stato poi la
sede della brigata Muti in cui c’erano piccole carceri e anche stanze di cultura dove sono stati fatti i
camerini. Era un teatro inesistente. C’era un sipario e un raggio di sole bellissimo che
tagliava il palcoscenico.

(Parla Guido Vergani giornalista e scrittore)

Milano era una città in cui c’era grande fervore intellettuale. Città che attraverso i propri
amministratori aveva avuto il coraggio di ricostruire la scala come primo atto di speranza. Era una
città totalmente ridotta in macerie, non c’erano più ospedali e si ricominciò a ricostruire, in mezzo
alle polemiche, la scala perché si capì che dare il segnale di ripresa attraverso la cultura fosse
estremamente importante. Dal manifesto del Piccolo (via Rovello)
“noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana, un’astratto omaggio alla cultura. Il teatro
resta quello che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori, un luogo dove la comunità ascolta
una parola da accettare o da respingere”

Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Ebe Colciaghi è stata la prima costumista del Piccolo teatro.
Primissimo spettacolo “l’albergo dei poveri”, che aveva inaugurato il teatro il 14 maggio 1947
(giorno della prima). All’inizio
c’erano Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Ebe Colciaghi (costumista), Gianni Ratto (scenografo), il
marito della Colciaghi tiratore di palcoscenico e pubbliche relazioni, Fiorenzo Carpi (per le musiche),
Rosita Lupi (coreografa, mima e prima ballerina),Nina Vinchi (faceva da moderatrice).

Tra gli attori del piccolo teatro Gianni Santuccio fu protagonista dei primi spettacoli. Santuccio
racconta che nella prima de “l’albergo dei poveri” per 4-5 secondi dopo la calata del sipario ci fu
silenzio, choc per uno spettacolo così nuovo, poi esplosione di applausi.
L’opera “tre soldi” parla Gino Negri (musicista). Atmosfera di lotta continua, anno in cui il piccolo
arriva ai suoi livelli più alti. La consacrazione.
Milano, una formazione del teatro stabile è partita per una tournée negli Stati Uniti. Tournée frutto
dell’opera del direttore del teatro Paolo Grassi e del regista Giorgio Strehler. Fin dalla sua fondazione
il Piccolo ha portato la sua voce in terra straniera. Ormai una consuetudine è quella di essere
presenti nel coro del teatro mondiale. Dopo 35 anni di assenza il teatro italiano sarà presente sui
palcoscenici nordamericani. Il protagonista della commedia di Goldoni “Arlecchino servitore di due
padroni” è Marcello Moretti (Arlecchino). Sono 12 anni che porta in giro quella maschera, lo
spettacolo è sempre lo stesso e sempre variato. Problemi di lingua: spettacolo tradotto in tutte le
lingue ed è uno spettacolo prevalentemente mimico quindi comprensibile a quasi tutti i pubblici dato
che il pubblico prima di assistere allo spettacolo legge la trama che consegnano a ogni teatro.

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L’invenzione del regista.Giorgio Strehler mette in scena l’opera da tre soldi (1974).Arrivano gli onori:
la costruzione di un mito. La Francia onora Giorgio Strehler, il più illustre regista di teatro e fondatore,
insieme a Paolo Grassi, del Piccolo. Il presidente francese Mitterand gli consegna le insegne di
commentatore della region d’onore e la Francia choede a Strehler di dedicarle 3 anni del suo lavoro
per la costruzione del teatro d’Europa. Incarico u ciale conferito dal responsabile della politica
culturale del governo francese. Nuovo trionfo in Francia del teatro italiano. Favorire il lavoro comune
di registi, attori e scrittori, per dare vita nei palcoscenici di Parigi e Europa ad altre opere destinate ad
arricchire il patrimonio culturale del continente. Jack Lang: il Piccolo teatro, serie di messe in scena
stupefacenti che hanno determinato il corso della storia della regia europea di questo periodo. Il
Piccolo teatro e Strehler in particolare, sono stati gli ispiratori principali della rivoluzione teatrale
europea. Teatro d’Europa vuol dire che il teatro si trasforma in una sorta di punto di riferimento vitale
aperto a autori, registi, attori di tutta Europa. Si tratta di ritrovare lo spirito del teatro del XVIII secolo,
dove autori e attori migravano da un paese all’altro. Es. Attori italiani venivano a Parigi, Goldoni
andava a Parigi. Spirito brillante. Grazie all’esistenza di una costellazione di teatri in Europa si vuole
ricreare questo clima, l’unione dei teatri d’Europa rappresenta un’idea del futuro. Corrado Pani come
attore ha avuto una carriera straordinaria. Uno dei pochi attori italiani che hanno lavorato sia con
Visconti che con Strehler. Con Luchino Visconti lavora a 20 anni; con Giorgio Strehler lavora a 30
anni. Con Strehler mette in scena “Le baru e chiozzotte” e “il gioco dei potenti”dove interpretava
Riccardo Terzo. Due grandi maestri e due maniere diverse di fare teatro ma i due livelli più alti del
teatro italiano. Le vertigini teatrali

Il mestiere del teatro non è facile, qualcuno ci si perde, diventa molto sciocco, vanesio, esibizionista;
altri invece si puri cano, a nano, diventano più profondi.Da parte del pubblico c’è sempre una sorta
di timore nei confronti dell’attore perché non ne capisce il meccanismo interiore. C’è anche un po’
una giusti cazione umana nel tenere un po’ più lontano l’attore. Sorta di sospetto nei confronti delle
caratteristiche di questo strano mestiere, mestiere dell’anima in cui si rimescolano delle cose terribili
che ci sono nell’anima, uomini e donne che portano alla gente questa terribile cosa che abbiamo
dentro, insomma non è comodo. 1997 il Piccolo festeggia 50 anni di attività teatrale.
Ferruccio Soleri parla: Arlecchino è stato il primo personaggio importante del Piccolo teatro di Milano
nel 1947, era Marcello Moretti allora, dal 1963 è subentrato lui (Ferruccio Soleri).

Piccolo video Arlecchino servitore di due padroni, 1962-63 con Ferruccio Soleri.

50 anni per un teatro sono tantissimi, come luogo vivo di esseri umani che si riuniscono, 280
spettacoli. Questo è un fatto abbastanza straordinario. Morte di Strehler (1997), video funzione
funebre. Le ceneri di Giorgio Strehler, morto a Lugano nella notte di Natale del 1997 riposano nel
cimitero di Sant’Anna a Trieste.

Lezione 4

9.03.2020

Nel marzo 1947 rma alla Scala la regia di Traviata di Verdi. Il 14 maggio inaugura il Piccolo Teatro di
Milano, primo teatro stabile a gestione pubblica d’Italia, con L’albergo dei poveri, di Gorkij. La prima
stagione si conclude con Arlecchino, servitore di due padroni di Goldoni. Nel febbraio 1947 nasce,
infatti, il Piccolo Teatro della citt di Milano, primo teatro stabile a gestione pubblica del nostro
paese, destinato a inaugurare anche in Italia la prassi di un teatro pubblico e sovvenzionato che in
altri paesi europei era gi allora una realt consolidata. Sfruttando un momento propizio della storia
culturale milanese quale l’epoca fervida della ricostruzione, Strehler e Grassi riescono a ottenere un
piccolo nanziamento comunale e, soprattutto, una sede: il teatro di via Rovello, vecchia sala

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cinematogra ca, ora ribattezzata con un nome scelto in omaggio al Malij Teatr di Mosca (la celebre
“piccola” sala moscovita contrapposta al “grande” Bolscioj). “

”. La sala , infatti, piuttosto piccola, in cattive condizioni, il palcoscenico poco spazioso e poco
attrezzato, ma , comunque, un inizio. Commissione artistica: Mario Apollonio, docente presso
l’Universit Cattolica di Milano, Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Virgilio Tosi. Gli intenti programmatici
dell’ente sono a dati a una lettera aperta. Si a erma il valore di un “teatro d’arte per tutti”, di contro
a un teatro come “rito mondano” o come “astratto omaggio alla cultura” o ancora di contro a un
teatro di svago. Un teatro che sia il “luogo dove una comunit liberamente riunita si rivela a s
stessa, luogo in cui una comunit ascolta una parola da accettare o da respingere.” Il Piccolo Teatro
sceglie l’impegno, il superamento del dualismo tra cultura alta e cultura popolare, la fusione delle
istanze radicali dell’uomo con le istanze sociali, e l’indipendenza. Strehler, e Grassi con lui, sceglie,
quindi, di non essere subalterno alle ragioni dei partiti e al ricatto del mercato, ricercando la
concretezza, l’eticit , l’impegno morale che rappresenta l’eredit storica della cultura lombarda e
milanese. E, ancora, si pre gge di ri utare i condizionamenti caratteristici del tradizionale spettacolo
di intrattenimento, sempre disposto a piegare le scelte di programmazione alle esigenze del
botteghino, per aspirare a un teatro moderno di grande qualit , nato da scelte consapevoli di poetica
e da un lavoro di allestimento prolungato e approfondito. Ma, nel contempo, un teatro progettato per
essere “popolare”, ossia inteso ad aprirsi alla fruizione di un grande pubblico, e, in particolare, di
quelle fasce di popolazione che per et , censo e livello culturale ne sono tradizionalmente escluse:
“recluteremo i nostri spettatori, quanto pi possibile, tra i lavoratori e tra i giovani, nelle o cine,
negli u ci, nelle scuole, o rendo comunque spettacoli di alto livello artistico a prezzi quanto pi
possibile ridotti. Non, dunque, teatro sperimentale e nemmeno teatro d’eccezione, chiuso in una
cerchia di iniziati. Ma teatro d’arte per tutti.”

Contemporaneamente, nel marzo 1947, su incarico del sovrintendente della Scala Antonio il giovane
Strehler - rma il 6 marzo 1947 la sua prima regia lirica, anche se, come ho gi detto, il suo debutto
in campo musicale era avvenuto l’anno precedente con l’allestimento “semiscenico” della Giovanna
d'Arco al rogo al Teatro Lirico di Milano. La traviata di Giuseppe Verdi, diretta da Tullio Sera n, per il
palcoscenico della Scala ricostruita. Si impegna a rompere gli schemi ormai desueti della routine
degli allestimenti d’opera, per sostituirvi un apparato scenogra co e costumistico non pi generico,
ma originale e studiato in funzione della partitura da rappresentarsi. Un regista che, auspicando una
recitazione scevra dalla convenzionale staticit proposta dai cantanti lirici, si ponga quale
responsabile unico di tutti i di erenti elementi dello spettacolo. La traviata, per esempio, un
dramma sociale in cui diverse concezioni della vita e della morale. Il regista pu creare questo
ambiente e, senza forzare il testo, mettere in luce questo signi cato che la convenzione lirica
generalmente trascura. Alla Scala questo costituirebbe per una rivoluzione tale da terrorizzare il
tradizionalismo degli abbonati. Al regista rimane, quindi, il secondo compito, il pi modesto ma non
volgare. Cercare almeno di ripulire l'esecuzione da quanto di trito e convenzionale gli anni vi hanno
accumulato: costruire una scena pi vera che possa essere goduta anche dal pubblico delle gallerie
e che realizzi nelle luci e nei colori e nella disposizione dei mobili non solo un criterio d armonia
artistica ma l'atmosfera intima del dramma". Una breve, ma incisiva dichiarazione di intenti alla
quale, mutatis mutandis, Strehler rimarr coerentemente fedele per tutto il corso della sua carriera.

Il 14 maggio 1947, il venticinquenne Strehler inaugura il Piccolo Teatro con L’albergo dei poveri di
Maxim Gorkij. E da quella ormai storica data la sua vita va a coincidere (a parte una breve parentesi
dal 1968 al 1971) con quella dell’istituzione milanese, che diventa la sua prima e pi amata casa. La
sua regia segue l’impostazione del testo, rimanendovi fedele, senza apparire piatta; anzi riesce a
cogliere lo spirito russo dell’autore, rappresentando in modo realistico l’azione che anima i

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personaggi, le loro intenzioni e tutto quanto li fa pulsare di vita. Una regia che sembra svelare la
realt , senza scadere in un arido complesso naturalistico. “Nella scelta del repertorio per la stagione
1947 - annota il regista - la prima opera da rappresentare aveva ai nostri occhi un signi cato
particolare, convinti come eravamo che essa dovesse apparire un poco come la pre gurazione e il
nocciolo di tutta l’attivit futura del teatro.” Anche per tale ragione, dopo la bocciatura della
‘scabrosa’ Mandragola di Machiavelli da parte del vicesindaco di Milano, Strehler sceglie Gorkij
(autore di quei Piccoli borghesi che gi aveva allestito con successo all’Excelsior l’anno prima), uno
fra i cavalli di battaglia di Stanislavskij e del Teatro d’Arte di Mosca nelle sue prime stagioni,
cercando di inserirsi nel repertorio europeo, di gettare un ponte verso altre culture. L’azione de
L’albergo dei poveri (che va in scena dopo soli dodici giorni di prove) si svolge all’interno dell’albergo
stesso, mentre una sola scena ambientata in cortile. Stanislavskij rappresentava il dramma nei due
luoghi indicati; Strehler, invece, per ragioni pratiche, fra cui le ridotte dimensioni del palcoscenico,
ambienta la vicenda in una scena unica, rmata da Gianni Ratto. Lo stile naturalistico: sul
palcoscenico ricreata una cantina fumosa, con una scaletta sconnessa, i cui muri verdastri
inquadrano, nella luce oca di una nestra, le so erenze, le ribellioni, gli scontri dei tristi ospiti
dell’albergo, le cui voci sono rese stridule dall’acquavite. “Malinconia e liricit , ricerca psicologica e
quadretto storico: il tutto con dentro una nota di denuncia e di speranza”. Lo spettacolo
interpretato, fra gli altri, da Gianni Santuccio, Lilla Brignone e Marcello Moretti, tre attori che
animeranno le prime fondamentali tappe del Piccolo Teatro, e dallo stesso Strehler, impegnato nel
ruolo del ciabattino Alioscia, una parrucca stopposa in testa, la faccia coperta da lentiggini, la
sarmonica in mano. “Questa volta per la regia di Giorgio Strehler, veramente eccellente, viva, varia,
colorita, musicale, entro il bel quadro scenico ideato dal Ratto, con i costumi di Ebe Colciaghi,
l’Albergo dei poveri fu recitato benissimo. Forse qualche lentezza potr essere evitata, e attenuato
qualche e etto teatrale. Tutti gli attori sono da lodare, il Randone, il Carnabuci, il Santuccio, Lilla
Brignone, Elena Zareschi, Lia Zoppelli, Lia Angeleri, Lina Paoli, l’Alzelmo, applaudito a scena aperta,
il Moretti, il Feliciani, il Battistella, Tino Bianchi, il Martelli, lo Zago. Gli applausi furono caldi, convinti;
talora vere acclamazioni.”

Nella scelta del repertorio, n dalla prima stagione (che dura circa tre mesi), Strehler si impegna a
creare un equilibrio fra testi italiani e stranieri, fra autori moderni e classici. Inoltre, persegue
l’obiettivo di formare un solido gruppo di attori per una compagnia stabile. Il regista presenta a
giugno Armand Salacrou, un autore contemporaneo, con una commedia legata alla storia civile, Le
notti dell’ira, sul tema della Resistenza. Le notti dell’ira rappresenta un processo a un crudele atto di
vilt di Bernard Bazire e sua moglie Pierette che consegnarono nelle mani dei nazisti, il loro amico
d’infanzia Jean Corbeau. La storia inizia dalla ne e ripercorre, a ritroso, un tassello alla volta, la
vicenda dolorosa.Lo spettacolo rappresentato, per la prima volta in Italia, il 6 giugno 1947 con
trentasette repliche, frutto di un esperimento di Paolo Grassi che porta nella platea di via Rovello, a
prezzo ridotto, un pubblico organizzato: una replica destinata ai partigiani e ai mutilati di guerra,
un’altra a cinquecento portinaie e portinai e una terza, di domenica pomeriggio, aperta agli edicolanti
milanesi. L’azione si svolge su due piani di erenti: quello teatrale (le vicende che sono interpretate
sul palcoscenico, a contatto con il pubblico) e quello a dato agli inserti cinematogra ci. Gli attori
impugnano armi vere, ma gli spari sono sostituiti dalle note di Fiorenzo Carpi. Il suono diventa
rumore evocativo della realt . Lo stesso genere di rapporti suggerito dalla scena. Il salotto dei
coniugi Bazire diventa, grazie ad inediti e etti illuminotecnici e all’uso di pareti trasparenti, il ponte
ferroviario che i partigiani devono fare saltare: la tappezzeria verde e gialla del soggiorno si dissolve,
poco a poco, grazie a un e etto di luce, lasciando apparire la struttura metallica del ponte in cui
l’intelaiatura della scena precedente, con i tubi in ferro e legno, si inserisce e compone una

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geometria industriale. Strehler presenta il 24 luglio in chiusura della prima stagione del Piccolo
Teatro, Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni.

È diventato, a poco a poco, il segno della continuit ideale del nostro lavoro e al tempo stesso una
bandiera. Era il teatro che, con i suoi attori, ritornava (o tentava di ritornare) alle fonti primitive di un
avvenimento scenico dimenticato, attraverso le vicende della storia, e indicava un cammino di
semplicit , di amore e di solidariet ai pubblici contemporanei. Era il teatro che riscopriva (se cos si
pu dire) una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte, non pi come un fatto intellettuale, ma
come un esercizio di vita presente, operante. Per il pubblico Arlecchino servitore di due padroni e
deve essere puro divertimento che il nostro grande Carlo Goldoni (ben pi grande altrove che qui,
certo) prima di avviarsi sul di cile cammino della “riforma” ha voluto lasciarci, a memoria di
un’epoca favolosa ed estinta, con un garbo ed una misura ritmica ammirevoli. Il mondo degli
equivoci si muove vertiginosamente attorno alla gura misteriosa ed eterna di Arlecchino. Si varcano
qui i limiti del logico e del possibile. L’assurdo nella sua forza pi piena ed assoluta entra sul
palcoscenico e non spaventa. Anzi ci trasporta in un mondo pi facile, in cui tutti i nodi si sciolgono e
in ne ci trascina nell’empireo del grande teatro comico che tutto un inno gioioso di liberazione e di
felicit di esistere. Abbandonarsi a questa “felicit ”, senza peso e senza tempo, tutto quello che
noi chiediamo a noi stessi e a coloro che ci ascoltano. Sappiamo che quando un tale miracolo
avviene si accende, se pur per un attimo, nel nostro cuore una scintilla che lascia la sua
incancellabile traccia di calore e di umanit .”. Protagonista dello spettacolo Marcello Moretti: attore
di straordinaria bravura, capace di fondere nella sua recitazione, orchestrata in modo perfetto e
equilibrato sui registri diversi e complementari della parola, del gesto e del movimento acrobatico,
l'intenzione "realistica" con un distacco da cui il pubblico assume la consapevolezza della nzione e
del puro gioco in cui immerso. Moretti in questo ruolo mette a disposizione della fantasia creativa
del regista non solo le proprie abilit siche, ma anche la prontezza del gesto e della battuta.
Strehler, infatti, durante le prove ssa alcune trovate sceniche nate dal lavoro con Moretti che
contribuiscono alla straordinaria fortuna dello spettacolo. In tale sinergia si sviluppa anche il lavoro
volto a recuperare le tecniche recitative dei comici dell’arte e il conseguente utilizzo della maschera.
Strehler racconta che Moretti scopre per primo che la bocca acquista con la maschera acquista un
valore espressivo incredibile. Accanto a Moretti recitano Antonio Battistella, Elena Zareschi, Gianni
Santuccio, Franco Parenti, Anna Maestri; ma vicino al protagonista (sostituito dal 1963 da Ferruccio
Soleri e dal 2019 da Enrico Bonavera) ruoteranno nelle dieci edizioni dello spettacolo e nelle migliaia
di repliche (che proseguono a tutt’oggi senza soluzione di continuit ) in Italia e all’estero tutti o quasi
i migliori attori italiani.

10.03.2020 lezione 5

1948-1949

Da Pirandello a Ibsen

Le prime regie di testi di Shakespeare Le regie d’opera

Per la seconda stagione 1947-1948 del Piccolo Teatro, Strehler - congiuntamente a Paolo Grassi -
progetta un periodo di attivit di sette-otto mesi, per favorire, in tal modo, il passaggio dalla
programmazione sperimentale del primo anno di attivit a una reale stabilit di lavoro. Egli pensa
perci a un cartellone ricco ed eclettico e rma la regia di sette spettacoli, per l’allestimento dei quali
si apre a esperienze e talenti diversi, pur mirando a conservare una certa unit di indirizzo. Lo
spettacolo inaugurale I giganti della montagna di Pirandello. L'interesse di Strehler per Luigi
Pirandello si precisa n dall’anno 1943, con la stesura di tre articoli critici in cui emergono alcune

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ri essioni gi determinanti sui Giganti della montagna, che il regista mette in scena per la prima volta
il 16 ottobre 1947 e a cui torner in altre occasioni (nel 1966 e nel 1994 al Teatro Lirico di Milano, ma
si contano anche due edizioni in lingua tedesca, nel 1949 a Zurigo e nel 1958 a D sseldorf), per
marcare momenti signi cativi della nostra storia nazionale e della sua personale vicenda di
intellettuale. Nel testo di Pirandello si possono rintracciare elementi che ne segnalano la vicinanza
con il sentire di Strehler: esso pu essere letto come una ri essione metateatrale sulla ricerca del
senso che sta alla base del fare teatro, senso che viene trovato, in ne, nella strada dell’impegno
sociale dell’arte e dell’artista, battuta dallo stesso regista. Nel 1947, Strehler coglie l'attualit dei
Giganti nel paesaggio di rovine in cui si trasformata l'Italia: “Uscivamo dalla guerra e dal fascismo.
Si sentiva che sarebbero sorti, come sempre nelle rovine, altri Giganti, dopo quelli che c'eravamo
lasciati alle spalle. Erano i mostri dello Stalinismo da una parte e i mostri del Maccartismo dall'altra
parte. Tutti e due nemici della poesia e dell'umanit ”. C’ , dunque, la consapevolezza della presenza
di invisibili rappresentanti di un'umanit ignorante e sorda alla voce dell'intelligenza e dell'arte. Si
tratta del mito dell’arte ma anche una concreta storia.
C’è un’ingenuit di sentire che si incanti dei lampi nti, delle luci, delle apparizioni, come possono
incantarsi dei bambini: bambini che sanno gi troppo, certo, ma sempre pronti ad un gioco di poesia.
Proprio in questa poesia, il dramma di Ilse e dei Comici arrivati una notte improvvisamente in una
misteriosa villa ove vivono dei candidi illusi, ubriachi di in nito, fuori della vita, e costretti dalla loro
stessa frenesia ad abbandonarla per recitare in mezzo ai "Giganti" che uccideranno Ilse
inevitabilmente, acquista il suo sapore eterno. Ed ecco cos che il rinunciare da parte dei Comici alla
villa diventa tragedia esplicita del cessare dall’in nito nell’attimo stesso di ogni creazione. La voglia
di far vivere la propria arte nel mondo spinge Ilse a non accettare il mondo degli Scalognati e di
Cotrone. Al di qua ci sono i Giganti ma solo ad essi possibile rivolgersi e tentare una parola di
comprensione, perch solo essi anche se non lo capiscono, potranno capire un giorno e tramutare la
pazzia di Ilse in concreta paci cazione. Questa la desolata, la pi desolata conclusione forse che
Pirandello ci abbia lasciato, ma a cui pure freme l’ansia di ritrovare una "Societ " composta, in cui si
ritrova un altissimo messaggio che di disperazione e di fede, al tempo stesso, nell’uomo. Un
messaggio di perdono e di piet . Piet per tutti. All’interno di moduli gurativi naturalistici - le scene
di Gianni Ratto e i costumi di Ebe Colciaghi sono aderenti alla didascalia pirandelliana - netto appare
il contrasto tra il mondo di Ilse (Lilla Brignone) e quello di Cotrone (Camillo Pilotto). Questa prima
edizione si chiude, tuttavia, ‘tradizionalmente’ con il grido posto dall'autore a suggello del secondo
atto “Io ho paura! ho paura!” e con la caduta di un telo nero a ricoprire tutta la scena, lasciando fuori
Camillo Pilotto a leggere in proscenio la traccia dell’ultimo atto raccontata dal drammaturgo al glio
Stefano, mentre la carretta con il corpo esanime di Ilse-Poesia si allontana lungo la platea da dove
era arrivata. Pure, gi ora, Strehler concentra il suo interesse sul nale incompiuto, che sar l’oggetto
di ricerca delle edizioni future, e giudica che ci sia “abbastanza materia per andare avanti da soli,
senza l'autore, per vedere questo atto esistere, gi con i personaggi in azione: i Giganti che non si
vedono, il sipario, l'ulivo saraceno, i comici che si preparano.” Ricordando a distanza di anni questa
prima edizione dei Giganti, Strehler scrive: “Allora non c’era il sipario di ferro che stritoler pi tardi,
emblematicamente, il carretto dei comici-poesia, non c’erano tante cose, forse importanti
dell’edizione successiva. Ma c’era tutto il resto. C’era la recita non capita, il sipario che divide i
comici dai Giganti invisibili. C’erano gi le ombre enormi dei pugni che uccidono Ilse, l’attrice
divorata dall’amore del teatro, c’era la carretta che se ne andava per nella platea, quella volta,
lentamente con il corpo morto di Ilse sulla paglia ed i comici a ranti che l’accompagnavano in
questo ultimo viaggio funebre in mezzo al pubblico. La poesia morta non era stritolata, ma esibita
alla gente, come vittima, come tributo innocente al mondo che uccide”.

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Tre testi di Shakespeare impegnano il regista nei mesi successivi. Il primo Riccardo II, dramma
storico in cinque atti e tre tempi, opera poco nota e ancor meno rappresentata. Con essa, Strehler
si accosta a Shakespeare e avvia un profondo lavoro di ripensamento del di lui teatro, destinato a
moltiplicarne la fortuna in Italia. I testi che il regista sceglie sono, soprattutto, drammi storici e politici:
egli, infatti, si impegna a colmare un vuoto culturale (il panorama teatrale shakespeariano tradizionale
in Italia era limitato a Romeo e Giulietta, Otello, Lear, Amleto e Macbeth) e soddisfare il suo interesse
per il rapporto storia/teatro. Fin da Riccardo II, ora rappresentato per la prima volta in Italia, la novit
dell’intervento di Strehler appare evidente nella ricerca di una maniera rigorosa e nuova di presentare
Shakespeare, in contrasto con la tradizione dei mattatori. È un’interrogazione sulla fragilit umana.”
Strehler, anzitutto, si pone il problema della traduzione: Cesare Vico Lodovici presenta un testo
pensato per la scena, per gli attori, per lo spettacolo, senza tagli o rivolgimenti sostanziali. La
traduzione deve essere precisa, ma adatta a un pubblico contemporaneo, senza enfasi o
compiacimenti accademici. Lo spettacolo propone la ricostruzione della scena ssa elisabettiana,
realizzata da Gianni Ratto. Non, tuttavia, una ricostruzione lologica, ma una citazione del teatro
elisabettiano: tre porte al livello del palcoscenico, un piccolo praticabile che conduce a una zona
sopraelevata; due porte al piano superiore percorso tutto da una balconata con al centro due grandi
nestre. Un allestimento apparentemente semplice, che comporta in realt non poche di colt :
Ratto si trova, infatti, a lavorare su un palcoscenico assai piccolo dove devono muoversi oltre
settanta persone e posizionarsi un gruppo musicale formato da sette elementi. A sua volta, Strehler
sperimenta soluzioni registiche innovative: i cambi di scena sono indicati, per esempio, dalle
musiche di Fiorenzo Carpi eseguite da soldati e servi. Cos , lo scorrere del tempo realizzato
attraverso il passaggio sul ballatoio elisabettiano di un servo che regge una boccia di cristallo
illuminata. Il servo scompare entro il primo arco del ballatoio e riappare silenziosamente. Soltanto al
suo apparire nel pubblico si crea un’allusione e una analogia all’apparire, scomparire e riapparire
della luna fra le nuvole. La cura assidua del gesto e la composizione dell’insieme dove ogni attore
(fra i protagonisti Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Giancarlo Sbragia e Franco Parenti) diviene gura
necessaria e indispensabile. “La regia di Giorgio Strehler, ormai esperta, ha consentito di far muovere
sull'angusto palcoscenico circa un centinaio di attori e comparse; e, quel che pi importa, di farli
muovere con tempi e ritmi esatti. La scena ssa, un rifacimento modellato sulla stampa famosa del
Teatro Swan, che gi aveva dato modo agli autori del lm Enrico V di ricostruire il Globe Theatre, ha
permesso espedienti ingegnosi quanto e caci, variet di movimento e bellezza di composizione.
Insieme a Strehler, che ha forse ottenuto il successo pi caloroso della sua carriera, sarebbe ingiusto
non dar merito dello spettacolo anche allo scenografo Gianni Ratto. “Strehler voleva realizzare uno
spettacolo come si pensava fosse ai tempi di Shakespeare e scelse Riccardo II, testo mai
rappresentato in Italia. Chiese a Ratto di ricostruire il palcoscenico elisabettiano, sviluppato su due
balconate. Musiche di Fiorenzo Carpi. Eliminato il sipario, il pubblico si trovava, come nel Globe, a
contatto diretto con lo spazio scenico. ≪Shakespeare nello stile di Shakespeare e il miglior
spettacolo visto in Italia≫ e per la prima volta si uso il termine “mago”: mago della regia, mago delle
luci.

Il successo del Riccardo II non rimane isolato ma richiama l’attenzione del Maggio Musicale
Fiorentino che invita Strehler a rmare la seconda regia di un’opera di Shakespeare. Si tratta de La
tempesta, in un’edizione all’aperto, da realizzarsi nella cornice naturale dei Giardini di Boboli,
presso la Vasca dei Cigni, a Firenze il 5 giugno 1948, che nella bella traduzione di Salvatore
Quasimodo, accolta dal favore unanime di pubblico e critica. Come ricorda Romolo Valli: “Dopo le
prime battute l’isola si veramente trasformata animata da immagini incantevoli, so usa di luci
morbide, percorsa da teorie leggerissime di spiriti suscitati da un Ariele, cui la grazia di Lilla Brignone
pareva avere veramente conferito un’esistenza immateriale. Di contro Calibano, Marcello Moretti,

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mostro informe e pure scosso da fremiti umanissimi, trascinava penosamente la sua ripugnante
sembianza. E man mano che l’azione proseguiva, pi credibile si faceva la nzione. Musiche di
Carpi. Concluse le recite orentine della Tempesta, il giovane ma gi a ermato e stimato regista
partecipa a un Convegno sul teatro organizzato a Milano da Grassi dove presenta una discussa
relazione dedicata alle Condizioni del regista e della regia in Italia. In quella occasione Strehler
a erma che: “Senza un attore non si recita, senza un regista si crede di poter recitar”. Le condizioni
dei registi italiani sono tali che uno solo di essi – lui – pu campare del suo lavoro ma per campare e
andando di questo passo in tre anni dovr allestire tante regie quante Max Reinhardt non ne allest
durante la sua vita. Il regista non ha volto giuridico, la sua professione non difesa da alcun
contratto di lavoro, i suoi stipendi sono da fame, la sua vita quindi pi precaria di quella dell’ultimo
attore. Strehler chiede agli attori un abbandono ducioso. Ma il rapporto registi-attori resta la pi
ingegnosa e legittima sopra azione individuale che solo in casi eccezionali diventa una amorosa
intesa. Strehler tratta, infatti, gli aspetti giuridici e organizzativi relativi alla professione del regista
teatrale, i rapporti che intercorrono tra attore e regista, le condizioni di lavoro che si creano all’interno
di un teatro stabile o di una compagnia di giro, la formazione dei futuri registi. Egli compone un
quadro di grande interesse come ricordano i critici presenti: “Nella relazione di Strehler che fu
ascoltata attentamente, balz subito con grande evidenza il grosso problema della vita del regista.
Chi e che cosa rappresenta oggi il regista teatrale? e ettivamente l’autore dello spettacolo, colui
che fa vivere il testo scritto e lo porta ad una perfetta comunione con il pubblico oppure una gura
marginale utile ai ni complessivi dello spettacolo, ma in de nitiva per niente importante per la sua
realizzazione? Dobbiamo risalire ai tempi del grande teatro greco - fatto religioso per eccellenza - per
ritrovare la gura del regista nell’autore medesimo che a sua volta sar anche attore. Solo qui l’unit
dello spettacolo viene assicurata in modo potente. E il teatro - dichiara Strehler - trionfa. Quando,
inevitabilmente, i compiti si dividono, gli autori si allontanano dal palcoscenico e si limitano a scrivere
le opere, gli attori fanno solamente il loro mestiere e il resto dello spettacolo allestito da puri
specialisti e tecnici, il teatro smarrisce la sua via e decade. Oggi, al regista, come interprete del testo
e coordinatore di tutti i fatti scenici, non si pu rinunciare. Non si pu , ma intanto non si riconosce
alla sua opera nessuna realt , nessuna stabilit . Il povero regista non ha garanzie contrattuali, non ha
sindacato, deve per no viaggiare con gli scontrini degli attori”. L'intervento di Strehler raccoglie
l’approvazione di Silvio d’Amico e di tutti coloro che credono non solo nella gura professionale del
regista, ma anche in un ruolo di erente del teatro nella societ di cui il regista, appunto, si deve fare
promotore. Romeo e
Giulietta di Shakespeare, organizzato da Paolo Grassi, rmato con Renato Simoni e presentato nella
cornice del Teatro Romano in Verona il 26 luglio 1948 (la traduzione di Salvatore Quasimodo).

Per l’inaugurazione del terzo anno di attivit del Piccolo Teatro Strehler propone un testo del
Settecento, Il corvo di Carlo Gozzi, il “nemico” di Goldoni, gi allestito il 26 settembre nel corso della
IX edizione del Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia (dove nell’agosto del 1947
Strehler aveva ripresentato l’Albergo dei poveri). Testo che o re al regista la possibilit per un
ulteriore approfondimento dei temi della commedia dell’Arte. Strehler ravvisa nel tramonto della
repubblica veneta un aggancio con la realt contemporanea. Ma l’esito veneziano dello spettacolo
contrastato poich il pubblico, accorso a applaudire Il corvo di Gozzi, si trova ad assistere a Il corvo
di Strehler il quale, attraverso esso, si dichiara ideologicamente e sembra aggredire gli spettatori con
uno spettacolo problematico, dove tutti i servi della favola gozziana, a amati, senza lavoro, ma non
avviliti, sono carichi di una forza esplosiva che fa ri ettere. “

Con la messinscena de Il gabbiano di Anton Cechov (novembre 1948), il regista incontra per la prima
volta l’autore russo al quale sar legato da particolare sintonia. Con Il gabbiano, Strehler si confronta
di nuovo con Stanislavskij che nel suo Teatro d’Arte aveva portato al successo il testo nel 1898,

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inaugurando un nuovo modo di mettere in scena Cechov e un nuovo modo di fare teatro. Per
Strehler fondamentale non solo il confronto con l’impostazione data al lavoro cinquant’anni prima
da Stanislavskij, ma anche l’incontro tra due culture: quella russa di inizio secolo e quella italiana di
ne anni Quaranta. Egli si impegna in un riesame del realismo, per proporre una nuova lettura
scenica, che sia libera da un eccessivo ossequio al naturalismo che era stato s orato ne L’albergo
dei poveri (1947) Oltre che dalle scenogra e di Ratto e dalle musiche di Carpi, n naturalismo, n
realismo". Abbiamo insomma cercato di renderlo essenziale.”

Mette poi in scena la shakespeariana Bisbetica domata, in scena il 17 febbraio 1949, con Lilla
Brignone memorabile protagonista, entrambe con le scene di Giulio Coltellacci, Strehler torna alla
Scala. Infatti, dopo una ripresa di Traviata, realizzata nel gennaio 1948.

Il contemporaneo ritorno al palcoscenico della prosa avviene l’11 maggio 1949 con un autore
italiano, Ivo Chiesa e il suo dramma Gente nel tempo tratto dal romanzo di Massimo Bontempelli.
Gente nel tempo la disgraziata storia di una famiglia della provincia romana che viene maledetta
dalla nonna, conosciuta in paese come la Grande Vecchia, sul letto di morte. La famiglia non d
peso alle parole della Grande Vecchia, trascinandosi dietro una vita essenzialmente vuota, ma
costellata di tradimenti e bugie, no alla morte del glio Silvano che avviene proprio nell’anniversario
di morte della madre. La maledizione colpisce tutti i membri della famiglia che si ammalano
gravemente e muoiono sempre lo stesso giorno. A tirare le redini della vicenda c’ l’abate Clementi,
memoria storica del paesino e personaggio freddo ed enigmatico che informa le due nipoti ormai
cresciute, Nora e Dirce, della maledizione. Le due si trasferiscono a Milano mentre l’Italia cade nella
piaga della Prima Guerra Mondiale, ma la maledizione della Grande Vecchia aleggia sulle loro teste
come una sentenza di morte. Allora al venticinquesimo anniversario della morte della Grande Vecchia
ritornano al loro paesino di origine dove muore Nora facendo cadere nella disperazione Dirce.
Passano gli anni e Dirce, invecchiata e con i capelli grigi, sulle scale di una chiesa a chiedere
l’elemosina, persa nel tempo e invisibile agli occhi di tutti. Strehler confeziona un eccellente
spettacolo, grazie all’intensa e viva interpretazione di Lilla Brignone anche se il pubblico non sembra
particolarmente interessato a questa proposta.

Nel mese di settembre, egli ancora impegnato quale regista musicale per allestire la prima
rappresentazione italiana dell’opera Lulu di Alban Berg, musicista viennese della scuola
dodecafonica di Schoenberg, al Teatro la Fenice di Venezia (4 settembre 1949), in occasione del XII
Festival internazionale di musica contemporanea e del III Autunno musicale della Biennale di
Venezia. E in tale allestimento, proprio la struttura del testo drammatico di Frank Wedekind o re al
regista la possibilit di rileggere criticamente il complesso personaggio di Lulu (interpretato da Lydia
Stix) e il sistema borghese che la circonda e nir per ucciderla. La regia di Strehler ha conferito ai
cantanti una disinvoltura di giuoco scenico qual rara vedere anche nel teatro di prosa”. Un doppio
tributo all’amato Pirandello, costruito sulle suggestioni espressionistiche dello scenografo Teo Otto,
alla base dell’edizione zurighese dei Giganti della montagna in lingua tedesca, 1 ottobre 1949, e di
Questa sera si recita a soggetto, presentato al parigino Th tre des Champs-Elys es il 24 ottobre
1949 e, successivamente, al Piccolo Teatro di Milano, il 20 novembre 1949. Strehler ha fatto
dell’opera pirandelliana uno spettacolo vario, colorito, ricco di trovate, concertato come una sinfonia
di parole, di gridi, di voci, di alterchi, di dolorosi e disperati accenti. Discorso per ricordare Luigi
Pirandello, il suo sogno di un teatro stabile italiano e le origini della commedia rappresentata ieri
sera, esprimendo la sua gratitudine al Piccolo Teatro.”

1949, Il piccolo Eyolf, un testo da tempo lontano dalle scene milanesi e che ben si adatta alla
composizione della compagnia del Piccolo Teatro. La regia si impegna a dilatare la costruzione
psicologica dei personaggi sul terreno delle responsabilit umane da assumere, delle passioni sterili

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da cui scampare, delle solitudini da evitare, delle ragioni del vivere in un mondo i cui cardini
sentimentali si sono formati a cavallo fra i due secoli. In tale direzione, il regista studia e svela i
di erenti livelli drammatici e stilistici insiti in un testo che certo ricco di atmosfere simboliste, ma
non solo. Senza trascurare gli elementi lirici e suggestivi, Strehler si preoccupa di galvanizzare le
possibilit drammatiche della commedia, conferendo al dialogo, fratture, strappi e accelerazioni
ritmiche, nervose e originali.

Lezione 6

12.03.2020

Con Il piccolo Eyolf di Ibsen il regista conclude, come abbiamo visto, il 1949 ma d il via a un
percorso di ricerca sul tema del nucleo familiare nella societ borghese che si snoda per un
quinquennio e che ha come

Per di colt di allestimento e organizzazione, numero di attori impiegati, cura di scene e costumi,
Riccardo III di Shakespeare rappresenta lo sforzo maggiore della stagione 1949-1950. Sulla limpida
traduzione di Quasimodo, Riccardo III a rontato con criteri registici simili a quelli che avevano
informato la rappresentazione del Riccardo II nel 1948. Ispirata ancora al palcoscenico elisabettiano,
secondo una crescente astrazione, la scena di Giulio Coltellacci ssa, a due piani, rivestita di
paramenti neri con frange e gigli d'argento. Sul fondo presenta un doppio baldacchino, nero
anch’esso, e il trono del sanguinario re. Nero e argento sono i colori dominanti nei sontuosi costumi;
neri anche i tamburi che annunciano le molteplici esecuzioni. Strehler propone uno spettacolo lungo
e luttuoso, una grande esplorazione, in parte a ascinata, del male. Renzo Ricci, un Riccardo III
cattivo, subdolo e satanico. Fu uno spettacolo funebre, in un'altra scena ssa, di tipo elisabettiano.
Strehler torna alla Scala dove lavora continuativamente per due mesi. Passiamo ora alla
contemporanea attivit che Strehler conduce sul palcoscenico del Teatro alla Scala. Don Pasquale di
Gaetano Donizetti accolta con a ettuoso calore. Per il capolavoro donizettiano, Ratto predispone
una scena ssa nella cui cornice si succedono i di erenti ambienti prescritti nel libretto, mediante
l’uso di una piattaforma girevole. Strehler abbandona tutte le consuetudini di rappresentazione che
vogliono in Don Pasquale una farsa ricca di gags grossolane e “caratteri” esagerati per creare uno
spettacolo "umano", dove sentimenti e poesia emergano senza indugi e vadano di pari passo con la
straordinaria partitura musicale.

Invitato in occasione del XI Festival Internazionale del teatro presso la Biennale di Venezia, Strehler
torna a Carlo Goldoni. Egli decide infatti di mettere in scena il 20 luglio 1950 un testo fortunato ai
tempi in cui fu scritto, quanto trascurato in seguito: La putta onorata. L'ambientazione esterna di
alcune scene, convincono il regista a scegliere la zona di Campo San Trovaso – gi teatro di celebri
allestimenti - e i contigui canali per ambientare lo spettacolo all’interno di un contenitore di
naturalistica evidenza. Ad esso, lo scenografo Gianni Ratto sovrappone una struttura costituita da
case praticabili realizzate in legno e addossate agli edi ci esistenti nel campo, capaci di ruotare su
s stesse aprendo gli interni a vista per consentire lo svolgimento delle scene l ambientate.
Attraverso una lettura anticonvenzionale dei personaggi (fra i quali, i veneti Arlecchino-Moretti,
Brighella-Battistella e, soprattutto, Pantalone interpretato dal grande attore goldoniano Cesco
Baseggio, qui umanizzati e spogliati della maschera) e l'aggiunta di cori, musiche, parti cantate
(a date alle trascrizioni e agli adattamenti di Ermanno Wolf-Ferrari) e azioni coreogra che, il regista
o re uno spettacolo godibile, caratterizzato da una pittura "realistica" d'ambiente di grande
suggestione. Cos Strehler ricorda l’allestimento di questa commedia goldoniana che nella stagione
1949-1950 ottiene un grande successo di pubblico ma non convince la critica teatrale: “Ricordo
un’alba aspettando il giornale. Nel 1950, d’estate a Venezia allestimmo La putta onorata.

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Protagonisti: Brignone e Santuccio, magni ca coppia ‘criminale’ di nobili infami. Enormi di colt
delle prove all’aperto, di notte, con le case abitate intorno. Si tratta di una stroncatura senza piet .
A Carlo Goldoni Strehler torna per l’inaugurazione della stagione 1950-1951 del Piccolo Teatro,
a rontando con Gli innamorati un testo pi maturo, intendendolo come un'indagine di tipo
psicologico sull'uomo, disancorata da interessi determinanti di ordine sociale. Impegnandosi a
liberare l'opera dalla convenzionalit teatrale esteriore, con l'intenzione di mettere in luce l'umanit
dei personaggi, il regista, a ascinato dalla ricerca della musicalit e dal ritmo interno al testo, si
impegna a dirigere un concertato sinfonico ricco e composito. stato uno dei testi attraverso i quali
si mossa la nostra indagine teatrale su Goldoni: se consideriamo le opere goldoniane
rappresentate da noi, dall’Arlecchino servitore di due padroni 1947 no alla Trilogia della villeggiatura
1954, possiamo riscontrare una specie di diagramma cronologico, che corrisponde anche ad una
evoluzione storica di Goldoni scrittore: quest’opera di indagine si svolta infatti attraverso delle
tappe e parte dal Goldoni della Commedia dell’Arte no ad arrivare al Goldoni realistico dell’ultimo
periodo. Sul palcoscenico del Piccolo Teatro noi abbiamo cio seguito nel tempo lo stesso
sviluppo che Goldoni ha seguito come scrittore nella sua parabola di vita, partendo cio dalla
Commedia dell’Arte per giungere al realismo. Goldoni ha conquistato la dimensione della realt ,
con Le baru e chiozzotte, con La trilogia della villeggiatura e con I Rusteghi, per esempio. Ora, Gli
innamorati rappresenta un po’ la seconda tappa, il passaggio dalla Commedia dell’Arte alla riforma, il
testo che a noi storicamente parso una delle svolte di Goldoni verso la commedia realistica. Si
tratta gi di una commedia di caratteri. In rapporto al gioco gratuito dell’Arlecchino servitore di due
padroni e di altre commedie di un certo periodo storico, con Gli innamorati entriamo in un’indagine
pi precisa sull’uomo. Per gi prende avvio qui un’indagine estremamente pi concreta dell’essere
umano, non pi maschera, non pi carattere (cio maschera senza maschera), ma uomo nelle sue
molteplici contraddizioni. Gli innamorati una commedia i cui personaggi si muovono in perenne
contraddizione con s stessi e fra loro, in cui la dialettica di un fatto vitale comincia a prendere corpo
e sostanza. Gli innamorati di Goldoni furono rappresentati con una scena che era tendenzialmente
ancora la scena classica ssa della Commedia dell’Arte, ma che aveva gi acquistato una certa
concretezza di oggetti e di cose che si muovevano in scena. La scenogra a tuttavia era ancora di
tipo pittorico, non era ancora tendenzialmente realistica; era piuttosto una scena tendenzialmente
stilizzata ed anche nella recitazione degli attori il modulo sul quale ci muovemmo oscillava fra il ritmo
della Commedia dell’Arte e un approfondimento psicologico dei singoli personaggi. su questa
falsariga che noi abbiamo recitato Gli innamorati di Goldoni”. Da tali premesse, Strehler propone la
rilettura attenta di una commedia, liberata dal tono larmoyant che non le appartiene, per essere
inserita a pieno titolo fra le opere pi divertenti e ironiche di Goldoni. A ci collaborano, soprattutto, i
due protagonisti Antonio Pierfederici e Marina Dol n che propongono una recitazione ricca di ritmo e
tutta giocata sui semitoni nella bella scena rmata da Gianni Ratto.

La morte di Danton di Georg B chner, uno fra gli spettacoli pi riusciti della stagione, in scena il 15
dicembre 1950

L’importanza dell’attivit di Strehler quale regista lirico trova una chiara e felice conferma nel corso
del 1951 quando, da febbraio a giugno, egli mette in scena sul palcoscenico scaligero
ininterrottamente cinque nuove opere. Dopo avere riproposto a Berlino una edizione del suo Don
Giovanni di Moli re in lingua tedesca - il lungo e minuzioso lavoro di approfondimento critico che
trova una felice realizzazione nei due allestimenti shakespeariani che seguono: Re Enrico IV e La
dodicesima notte.

Rappresentato al Teatro Romano di Verona il 7 luglio 1951, Re Enrico IV, nella traduzione approntata
per l’occasione da Cesare Vico Lodovici, dramma storico in cinque atti, conferma l’interesse di

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Strehler per i drammi storici di Shakespeare. Esso impostato nei canoni di una narrazione
popolaresca, di erentemente da Riccardo II. Dramma storico no ad allora mai rappresentato in
Italia, nella cornice scenica predisposta da Pino Casarini. L’impalcatura elisabettiana assunse un
carattere strutturalmente pi «costruito» e, in taluni particolari, decisamente architettonico, pur non
indulgendo ovviamente a ricerche veristiche.

Il 1951 coincide, infatti, con la fondazione nell’autunno della milanese Scuola d’Arte Drammatica
del Piccolo Teatro (l’attuale Civica Scuola “Paolo Grassi), dove, per alcuni anni, Strehler insegna
recitazione (una passione, quella pedagogica, che lo accompagner per tutta la vita). Edizione
veneziana della Vedova scaltra di Goldoni che egli allestir nel 1953. All’originalit scenica del
Credulo fanno seguito, nel corso del 1952, la prima e contrastata rappresentazione assoluta di
Proserpina e lo straniero32 (17 marzo) del compositore argentino Juan Jos Castro (presente anche
sul podio), vincitore del premio o erto dalla Scala per il cinquantenario della morte di Verdi, e la
ripresa - bene accolta - di Don Pasquale di Donizetti (13 maggio 1952).

Lezione 7

16.03.2020

1952-1953 Shakespeare, Goldoni , Pirandello e la drammaturgia contemporanea

Il 1952 si inaugura per Strehler con una nuova regia shakespeariana presentata il 31 gennaio, al
Piccolo Teatro. Si tratta di Macbeth nella traduzione inedita di Salvatore Quasimodo, sulla quale
Strehler opera tagli e cambiamenti di prospettiva in modo che tutto lo spettacolo sembri muoversi
nelle menti di Macbeth (Gianni Santuccio, per l’ultima volta al Piccolo) e Lady Macbeth (Lilla
Brignone), quasi fosse una proiezione della loro interiorit . Il testo viene proposto pi come un
dramma di valenza storica e politica che come una tragedia. Vengono messi in risalto il potere, la
dittatura, la violenza politica. Macbeth uno spettacolo importante nell’evoluzione interiore del
regista: “ero arrivato alle soglie del mio incontro molto intenso con Brecht, prima che autore, Maestro
di teatro. Si occupa poi di due testi contemporanei.

Seconda edizione di Arlecchino servitore di due padroni presentata durante la tourn e a Roma
del Piccolo il 17 aprile 1952, e poi ripresa no al 1955 in Italia e in molti paesi del mondo per un
totale di 113 recite. Si tratta di una edizione in parte di erente dalla precedente: alla stilizzazione
della prima si sostituisce una rappresentazione pi corposa e, in un certo senso, pi realistica
del mondo dei comici dell'arte. L'impianto scenico, uguale nella sostanza a quello del 1947,
presenta elementi pittorici realizzati secondo un'intenzione maggiormente descrittiva. La dimensione
umana della favola risulta accresciuta, senza che, per ora, essa sia storicizzata, mentre le scene di
Ratto de niscono con maggiore eleganza la linea stilizzata e fantasiosa che aveva contraddistinto la
prima edizione.

Nel frattempo, prende sempre maggiore consistenza nelle scelte artistiche di Strehler la necessit di
approfondire un lone drammaturgico di impegno politico-sociale, imperniato su opere che
trattino temi inerenti la rivoluzione e la libert . Il regista rma due opere che si collegano a interessi di
tale ordine: L’ingranaggio di Jean-Paul Sartre, per il quale predispone, anzitutto, a un’unica scena, un
enorme e squallido capannone metallico sopra al quale posto un grande ri ettore che ha la
funzione di determinare, con la sua accensione e il suo spegnimento, le di erenti fasi della
rappresentazione.

Dopo la prima rappresentazione assoluta di Sacrilegio massimo di Stefano Pirandello, dramma


ambientato in un campo di sterminio e accolto dalle riserve di parte del pubblico per la tourn e al

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Th tre Marigny di Parigi (marzo 1953), Strehler a ronta un nuovo testo di Pirandello: Sei personaggi
in cerca d’autore. La linea interpretativa segue quella disegnata nell'allestimento rmato da di Orazio
Costa nel 1946 che faceva dei Sei personaggi un dramma della realt , ben de niti anche sotto
l'aspetto sociale, come piccoli borghesi - che, nel dramma pirandelliano, si presentano a chiedere
conto della loro tragedia alla societ stessa, qui ra gurata in esemplari rappresentativi della non
autenticit , cio da attori. Liberati da qualsiasi simbologia, i sei personaggi arrivano sul palcoscenico
- dove gli attori si stanno preparando alle prove - dalla strada, dalla casa accanto, quindi dalla vita
reale. Per questo, indossano costumi storicamente ben identi cabili(primo dopoguerra) di Ebe
Colgiachi. Giorgio Strehler ha adottato il testo originale dei Sei personaggi, che si presenta
notevolmente pi conciso di quello che comunemente si recita. il nale stesso, soprattutto, appare
troncato e senza le sovrastrutture espressionistiche che furono prese dall’interpretazione tedesca di
Max Reinhardt. L’opera si conclude – o meglio non si conclude – con il grido “Realt signori, realt ”
del padre che stende al pubblico tra le braccia il giovanetto morto. In tal modo la commedia o la
tragedia dei sei personaggi e quella degli attori rimane come sospesa. Il sipario si chiude in un lampo
di magnesio, che annulla il tempo, i gesti e le di erenze. Su questo testo l’interpretazione del Piccolo
Teatro si riallacciata a quella che nel 1922 apparve sul palcoscenico del Teatro Valle di Roma e che
certo con tutti i suoi inevitabili difetti di “novit ” e di impreparazione al linguaggio cos particolare di
Luigi Pirandello, alla sua dialettica lucida e so erta, portava pi chiaramente l’impronta dell’autore. Il
palcoscenico vuoto che apparir agli spettatori sar idealmente quello del teatro alla prima
rappresentazione del dramma; cos gli abiti degli attori si atteggeranno a quelli che furono gli abiti
storici. Non si tratta di ricostruzione storicistica ma di una ricerca oggettiva della realt del testo e del
suo modo di rappresentarsi nel tempo.

Con Lul - in scena il 30 aprile 1953 - Strehler realizza il primo tentativo di rivalutazione del mondo
milanese ottocentesco di Carlo Bertolazzi. Forse pensando a un futuro allestimento de El Nost Milan,
il regista sembra volere e ettuare una prova generale mettendo in scena Lul che, proprio per essere
un testo meno dialettale dell’opera maggiore di Bertolazzi, pu prestarsi al graduale esperimento di
inaugurare un lone di drammaturgia milanese in dialetto al Piccolo. Lul rientra, inoltre, a pieno titolo
nella proposta di analisi dei personaggi femminili del teatro borghese.Che si snoda da La
parigina a Casa di bambola a Emma.La volubile bugiarda Lul , che tradisce amante e marito e che
non ama, in realt , alcuno, pur sentendo un gran bisogno di amare tutti, l'ultimo personaggio che
Lilla Brignone interpreti sul palcoscenico del Piccolo Teatro. Sullo sfondo delle indovinate scene stile
liberty di Ratto, accanto a Giancarlo Sbragia, un ardente, ingenuo e insomma perfetto studente
innamorato e poi marito assassino, a Tino Carraro, l’amante tradito, Elena Borgo, la madre ambigua,
Lilla Brignone o re l’ennesima prova della propria bravura e sensibilit . In accordo con Strehler, Ebe
Colgiaghi ha vestito la protagonista con abiti allegri che esaltano la sua femminilit e sensualit . La
regia si attiene a una rigorosa linea realistica. Il regista si impegna a promuovere la drammaturgia
italiana contemporane.

Nell’autunno 1953, il regista torna a Goldoni con La vedova scaltra presentata al Teatro La Fenice in
occasione del XIV Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia e successivamente
proposta al Piccolo Teatro il 12 ottobre 1953, l’ultimo testo di Goldoni da noi rappresentato prima
della Trilogia della villeggiatura e direi che il punto di passaggio tra la nostra attivit goldoniana
precedente ed appunto la Trilogia della villeggiatura. Prova generale di alcune soluzioni che sono
state poi adoperate nella Trilogia della villeggiatura. Presa di contatto di conoscenza del reale, che
rappresenta per noi il punto focale per capire l’opera di Goldoni. C’è certa stilizzazione tendente
ormai verso il realismo, verso la realt ; nel testo la stilizzazione dei caratteri esiste ancora, (cio le
maschere), ma psicologicamente essi sono visti con dei tratti gi pi realistici ed in questo senso

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l’esperienza della Vedova scaltra ci fu di grande aiuto per la successiva interpretazione della Trilogia.
Musiche di Fiorenzo Carpi.

La tragedia Giulio Cesare di Shakespeare, tradotto da Eugenio Montale, rappresentata il 20


novembre 1953. Dramma storico politico riletto problematicamente - la lotta per il potere tra Cesare
e i difensori della libert repubblicana - d'altro lato, un dramma umano fondato sull'amicizia. Da qui,
l'impostazione psicologica della recitazione, l'impianto intimistico della rappresentazione che, anche
per tale ragione, non segue pi il modello elisabettiano. Si abbandona l’impianto scenico
elisabettiano. Strehler conduce una ricerca psicologica, una messa a fuoco delle singole gure. La
tragedia prevede un largo impiego di scene di massa, di di cile realizzazione soprattutto su un
palcoscenico piccolo come quello di via Rovello. Strehler risolve, almeno in parte, tale di colt
disponendo con sagacia sulla ribalta gruppi d'attori in grado di comunicare l'idea della folla. Solo in
parte, per , perch parlando dello spettacolo a pi di trent'anni di distanza, egli ricorda come il limite
pi grande del suo Giulio Cesare fosse appunto dato dall'incapacit di armonizzare le scene di folla
con tutto il resto dello spettacolo.

Il tema dominante di tutta la rappresentazione è la mascolinit , o meglio, l'amicizia maschile che


viene tradita per ragioni di ordine ideale. Egli vede gli uomini portati ad amarsi, se l'amore dell'idea
non li rendesse, necessariamente, nemici. Le idee li spingono ad a rontarsi e ad uccidere, ma,
appunto per questo, la morte di uno suscita immediatamente il compianto dell'avversario.

Lezione 8

17.03.2020

1954 – 1955: il Piccolo Teatro invitato a visitare i Paesi dell’America Latina. La trilogia della
villeggiatura di Goldoni, Il giardino dei ciliegi di Cechov e El Nost Milan di Carlo Bertolazzi

La prima regia che Giorgio Strehler rma nel 1954 un trittico pirandelliano che presenta in una sola
serata tre atti unici: L'imbecille (il protagonista Romolo Valli), La patente, La giara. Al regista
sembra, in tale occasione, interessare un Pirandello legato a un mondo originario siciliano e libero
dalle in uenze culturali di varia provenienza europea che si fanno sentire in molta parte del suo
teatro. I tre atti unici (due dei quali – lo ricordo - da lui proposti dieci anni prima nel campo di
internamento di M rren) che vanno in scena il 19 gennaio 1954, permettono, inoltre, interessanti
esperienze sceniche: si adotta, infatti, un'unica scena, rmata da Damiani, costruita da un
panorama/cielo mediterraneo, e da parapettate che, di atto in atto, sono sempli cate no alla loro
totale eliminazione dal palcoscenico. Cos , nell'ultimo atto, restano in scena solo un olivo e il cielo.

Nel 1954, tra giugno e luglio il Piccolo Teatro invitato a visitare i Paesi dell’America Latina. La
compagnia del Piccolo presenta nel corso della fortunata tourn e in America Latina anche
Arlecchino servitore di due padroni. Il percorso goldoniano di Strehler prosegue con un allestimento
che possiamo ad oggi considerare storico. Al rientro in Italia, egli infatti inizia le prove della Trilogia
della villeggiatura che debutta il 23 novembre 1954, nella sala del Piccolo Teatro, lasciando
pubblico e critica incantati dalla magia della rappresentazione. Sotto un unico titolo riunisce tre
commedie di Carlo Goldoni: Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il
ritorno dalla villeggiatura. Si tratta infatti di uno studio compiuto su una parte trascurata dell’opera
di Goldoni che ci appare di estrema importanza ai ni della reale conoscenza della drammaturgia
goldoniana. Infatti se Le smanie per la villeggiatura hanno avuto in questo secolo una certa vita sui
nostri palcoscenici, altrettanto non si pu dire delle due commedie che la seguono, sebbene tutte le
tre commedie siano rigidamente conseguenziali, compongano un tutto organico e gran parte dei pi
eminenti critici goldoniani, dall’Ortolani al Maddalena, siano concordi nel riconoscere altissimo valore

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al Ritorno dalla villeggiatura ed un pi che notevole interesse di costume alle Avventure della
villeggiatura. È una sorta di diario di tre giornate. La Trilogia risulta una commedia di stati d’animo e,
se un tale vocabolo potesse essere agevolmente usato per Goldoni, di atmosfere. Parte, appunto,
dello stato d’animo si allarga nell’immagine di tutto un mondo che si incammina con il suo carico di
umanit , verso il suo destino storico, e pi in l ancora, ci avvicina insensibilmente ad una eterna
avventura, l’eterna avventura delle "villeggiature" umane, delle partenze e dei ritorni, delle illusioni e
delle disillusioni, delle stagioni, delle et che non tornano dal viaggio nel tempo. Certo, tutto ci
avviene qui, insensibilmente, e discretamente come discreta e profonda ci sempre apparsa
l’umanit di Goldoni che tocca appena le cose troppo gravi da dire, che s ora talvolta la tragedia
(proprio nelle Baru e chiozzotte quanto poco basterebbe perch il coltello di Tita Nane
oltrepassasse il suo limite di gioco innocente!); che si stempera poi in una saggezza ed in "bont ".
Una bont che ha il sapore assai spesso di una sorridente piet per l’uomo. Toccante storia di amori
sbagliati – (e forse non solo di amori) – riassunti nell’incapacit di risolvere i problemi di un’esistenza
al di fuori, da una parte, degli schemi dei doveri d’onore e delle "riputazioni", ma anche dall’altro,
cos attenti a non mancare a se stessi, a non fare del male agli altri, soprattutto a chi non ha colpa, ci
porta, assai pi che con la Pamela, davvero alle soglie di un secolo nuovo. Lo spettacolo (scene di
Mario Chiari, costumi di Maria de Matteis e musiche di Fiorenzo Carpi) un trionfo che rivela un
Goldoni poco noto, lontano dai lazzi della commedia dell’arte e pi vicino a una sensibilit romantica.
“Della Trilogia, fusa in uno spettacolo unico, Strehler ha fatto un capolavoro, un’opera compiuta e
perfetta. Gli errori che i personaggi - incapaci di vivere al di fuori degli schemi precostituiti -
compiono conducono la commedia ai limiti estremi del dramma attraverso una profonda malinconia
e una dolorosa rassegnazione, in cui Strehler ravvisa l'espressione del declinare di un secolo, il
Settecento, fatto di gioia di vivere, garbo e misura. Importante la scelta registica di spostare
l’ambientazione cronologica dei testi di una ventina d’anni in avanti, per accostarla alla data cruciale
del 1789. Cos operando, Strehler trasforma l’indagine socio-economica di Goldoni nel ritratto di una
societ in pieno disfacimento, sottolineando la grande modernit del commediografo, il suo intuito e
le sue intenzioni. una villeggiatura, "gente" che vive, so re, si diverte e ama e nello stesso tempo,
dietro, lo schema di una "societ " alle soglie della Rivoluzione francese che s’incammina verso la
catastrofe storica, con il suo carico di umanit , di errori, di bene, di male, di incomprensioni) che ci
meraviglia. la sua raggiunta maturit di annotazione psicologica, di ssare il tratto inconfondibile
del carattere e soprattutto dello stato d’animo. Poich in de nitiva la Trilogia risulta una commedia di
stati d’animo e, senza voler anticipare troppo, di atmosfere, se un simile vocabolo potesse essere
usato agevolmente per Goldoni. Stati d’animo soprattutto amorosi. La Trilogia una commedia
d’amore. Possiamo certo dire che il rapporto amoroso il fulcro di tutte le commedie goldoniane. Se
c’ una possibile "tristezza" in Goldoni. La Trilogia rivela un insospettato senso di "modernit ". Le tre
commedie furono rappresentate in sere successive, a poca distanza l’una dall’altra, nell’autunno del
1761. Le tre commedie formano un tutto unico, recitato a distanza per ragioni diremmo "tecniche".
Uni cazione di qualche luogo in sede di regia, per ragioni di parsimonia tecnica e di unitariet . Qua e
l sono stati ritoccati dei vocaboli troppo "arcaici " senza peraltro modi care il lessico goldoniano.
Per il resto il testo rimasto assolutamente immutato. Si tratta della rappresentazione delle tre
commedie di Goldoni, cos come sono, possibilmente nello stile e nel gusto che richiedono, appena
ridotte e misurate, per poter essere rappresentate su un palcoscenico contemporaneo. Un Goldoni
diverso dal solito, pi moderno, pi vicino a noi. Della trilogia, fusa in uno spettacolo unico, Strehler
ha fatto un capolavoro.

“Nel gennaio 1955 mentre ancora si replica La trilogia della villeggiatura, di giorno si prova Il
Giardino dei ciliegi, Cechov. La scena non viene smontata per le prove e tra quegli alberi, tra quelle
cose che servono a costruire l'atmosfera fatta di noia e di attesa inde nita della Trilogia nasce, come

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per osmosi poetica, il clima della commedia cecoviana.” Cos Strehler ricorda il lavoro di allestimento
condotto per mettere in scena Il giardino dei ciliegi di Cechov al quale sar particolarmente legato.
Cerca di rendere l'intima ragione del dramma che i personaggi della vicenda vivono. Il regista si
impegna cos a cercare di rendere sul palcoscenico l’equilibrio tra la realt e la sua tras gurazione
fantastica, operata dai personaggi. Il regista rende l'atmosfera del Giardino, la sensazione di un
mondo - quello della vecchia aristocrazia europea - che scompare, senza che i suoi stessi
protagonisti ne abbiano coscienza, lasciando il posto ad un altro - quello della borghesia, dei nuovi
ricchi -, cercando di evitare il cechovismo e il colore locale, ma anzi richiamandosi alle profonde
ragioni storiche e culturali del testo. A Tino Carraro va, soprattutto, il merito di avere fatto di
Lopachin un personaggio positivo, solido, intelligente, capace, l'unico a mantenere, nel corso della
vicenda, un atteggiamento pratico nei confronti di quella realt dalla quale tutti gli altri sfuggono,
sottraendolo, cos , ad una consuetudine interpretativa che lo voleva avido e rozzo mercante, felice
per il trionfo ottenuto sui suoi ex-padroni. Nonostante il favore di critica e pubblico, Strehler non si
mostra del tutto soddisfatto di tale allestimento che diverr una base da cui partire per la
successiva edizione di questo testo.

Dopo una lunga e fortunata tourn e estiva con Arlecchino e la Trilogia della villeggiatura che
raggiunge anche la Iugoslavia con quattordici rappresentazioni in nove citt , Strehler rma due
impegnative regie musicali. La prima L’angelo di fuoco di Sergei Prokof’ev, rappresentato al Teatro
La Fenice di Venezia il 14 settembre in occasione del XVIII Festival internazionale di musica
contemporanea della Biennale.

Messinscene strehleriane di Lul (1953), El nost Milan: la povera gent (1955, 1961 e 1979). Con la
Trilogia della villeggiatura di Goldoni e Giulio Cesare di Shakespeare questo spettacolo
considerato il massimo dei risultati di Strehler.

Lezione 9

19.03.2020

1956 Alla presenza di Bertolt Brecht, Strehler presenta L’opera da tre soldi. 1957 Suscita
polemiche con la rappresentazione de I giacobini di Zardi. Ancora nel 1957 con Paolo Grassi
pubblica il documento Per un teatro nazionale italiano. Nell'autunno 1957 mette in scena la
tragedia in cinque atti Coriolano di William Shakespeare

Il 1956 rappresenta uno snodo cruciale nell’esperienza artistica di Giorgio Strehler. Ora si tratta di
mettere in scena l’Opera che per lui rappresenta “un antico amore”, da realizzare quasi per liberarsi
del peso di esso, e nello stesso tempo, il testo “pi opportuno”, nella sua fertile contraddittoriet , per
avvicinarsi e accostare il pubblico italiano alla drammaturgia brechtiana e alla poetica del teatro
epico, inaugurando uno studio di esse sistematico e prolungato nel tempo. La regia di Strehler
(supportata dalle scene ‘epiche’ di Teo Otto e dai costumi di Ezio Frigerio) si muove nella direzione di
un chiarimento del teatro epico - che in questo dramma ha una delle sue prime formulazioni - del
quale sono indagate le fonti ‘gastronomiche’. Elemento critico e provocatorio contro la societ
capitalistica e il teatro borghese. Strehler stesso chiarisce quanto sia importante, per lui e per il
Piccolo, ‘l’esperimento Opera da tre soldi’: la scommessa sta “nel voler dimostrare quanto sia
poetico e umano il teatro di Brecht nel suo impegno per il riscatto sociale, e come la sua posizione
ideologica sia completata, direi travalicata, dalla sincerit e dalla densit del messaggio poetico e
umano”. Il regista mira a dare dell’Opera una “interpretazione oggettiva” , uno stato fondamentale di
‘malessere’ nel pubblico borghese. La presenza delle canzoni possiede un'importanza fondamentale
nell'economia dello spettacolo: il regista suggerisce agli attori di recitarle, anzich cantarle. Cos ,

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quasi giocando con la nuova funzione drammatica della musica, gli attori interpretano le arie,
accompagnando la loro esecuzione con parole e gesti. A proposito della recitazione, Strehler chiede
ai propri interpreti di non agire sulle emozioni e sui sentimenti del pubblico, ma sui loro pensieri: per
ottenere ci , l'attore non deve immedesimarsi nel proprio personaggio, ma, mantenendo, appunto,
un distacco critico da esso, esporlo, lasciando, poi, agli spettatori la libert di coglierlo e
interpretarlo. Furono certamente le prove pi impegnative che avessimo mai fatto - ricorda Strehler -
Notti insonni, attori e collaboratori sull’orlo del collasso nervoso. Scenogra a di Luciano Damiani ed
Ezio Frigerio per le scene e i costumi.

Poi, la sera della “prima”, l’emozione della presenza di Brecht, giunto da Berlino via Chiasso
insieme alla glia e a Elisabetta Hauptmann Dessau. tra il pubblico, con la sua sahariana da
operaio; vediamo che si diverte, ride, applaude. Quando sale sul palcoscenico, per ricevere la sua
parte di applausi, pallido. Dice che ha trovato lo spettacolo stupendo.” Assai vasto l’entusiasmo
con cui pubblico e critica premiano L’opera da tre soldi (che debutta il 10 febbraio 1956 e
raggiunge le 172 recite). Folgorato dalla regia di Strehler, Brecht (presente in sala per le prime
due recite) ne d un giudizio assai lusinghiero, riconoscendola come la migliore fra le
interpretazioni sceniche n l operate di quel testo e decidendo di a dare l’intera propria
opera drammaturgica al Piccolo Teatro che, da quel momento, assume la responsabilit di
gestirne ogni ipotesi di rappresentazione in Italia. Il regista conclude la stagione 1955-1956 con
la ripresa romana della Trilogia della villeggiatura.
Nell’agosto 1956 allestisce la terza edizione di Arlecchino dove accanto alle novit scenogra che
(scene e costumi sono ora realizzati da Ezio Frigerio). L’edizione di Arlecchino del 1956 sposta infatti
l’attenzione dal testo al metatesto: il regista immagina una compagnia di comici del Settecento che
giunta in una piazza si prepara a recitare il testo del drammaturgo veneziano. Al testo spettacolo e
sottotesto goldoniano fa da cornice il testo elaborato da Strehler che interferisce con esso
interrompendolo a pi riprese: si tratta, infatti, del copione degli attori della compagnia che prima
dello spettacolo si preparano ad andare in scena riprovando le battute, dandosi consigli e che
durante la rappresentazione, commentano le battute e l’interpretazione, stuzzicandosi con giochi
linguistici. Scesi dalla pedana al termine delle proprie azioni, gli attori si levano la maschera e,
rimanendo a vista, compiono gesti quotidiani, chiacchierano fra loro o collaborano con i recitanti,
spostando in tal modo l'attenzione dal testo al metatesto allo scopo di cogliere e rappresentare il
momento storico a cui l'opera implicitamente si riferisce.

Il 1957 vede Strehler doppiamente impegnato nelle vesti di regista lirico. Va inoltre ricordato che
al 1957 risale inoltre la stesura - a quattro mani con Paolo Grassi - di un primo progetto
legislativo di interesse nazionale, Per un teatro nazionale italiano, destinato a formulare una
normativa organica per il teatro di prosa, cui far seguito, nel 1964, il manifesto Un teatro nuovo per
un nuovo teatro, lucida analisi della situazione del Piccolo Teatro nei suoi primi anni di vita.

Nell'autunno 1957, Strehler inizia le prove della tragedia in cinque atti Coriolano di William
Shakespeare, spettacolo che inaugura la nuova stagione del Piccolo Teatro il 9 novembre 1957 e
conferma la tensione di Strehler verso un teatro impegnato sul piano ideologico, secondo una linea
epica che emerge sempre pi esplicitamente dopo l’incontro con Brecht. Ritorna a Shakespeare.
Giudicata una delle pi alte opere di Shakespeare, scritta nel periodo della piena maturit del Poeta,
la tragedia di Coriolano costituisce tuttavia una specie di zona silenziosa, nell’indagine della
drammaturgia shakespeariana. Il primo lavoro da noi compiuto stato quello di raccogliere e
comparare il poco materiale critico esistente sul Coriolano, di capire la linea interpretativa, ritrovare
rapporti reali sulla base della parola shakespeariana, di ogni personaggio e dell’azione stessa della
tragedia.

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Il Coriolano è una tragedia storica, meglio ancora politica, consegnando alla parola politica tutta una
sua totale dilatazione dialettica. questa meravigliosa presa di possesso di una totale realt
dell’essere umano, Coriolano come altri, visto continuamente in una dinamica di dimensioni private e
pubbliche, psicologiche e politiche, storiche e contingenti, a fare del Coriolano una tragedia per noi
unica nella storia del teatro e come tale quasi irriducibile ad ogni schema di de nizione. Divisione dei
due tempi in cui la tragedia stata rappresentata al Piccolo Teatro. Due tempi che segnano in un
certo senso due aspetti di una stessa realt in due diversi registri: il collettivo e il singolo. Il primo
tempo che presenta i protagonisti della tragedia in una dimensione storica, precipuamente politica -
ma non la storia e la politica fatta da uomini singoli? Il secondo tempo, che de nisce i protagonisti
in una dimensione psicologica, interiore, umana - ma non umana l’azione della storia, non il
singolo uomo una parte ineluttabile della collettivit ? Questa diversit di accento, cos evidente
anche sul piano stilistico, non sposta tuttavia il fulcro della tragedia che, per noi, si ssato nel
contrasto tra classe patrizia e plebe, come momento tipico di una costante della realt umana.
L’eroe, Coriolano, il simbolo di un patriziato assoluto, l’essere positivo e ragionante che pecca solo
per eccesso e per orgoglio, cambia prospettiva. L’eroe ci appare del tutto irrazionale, del tutto fuori
della storia, staccato dalla collettivit che lo circonda. Non si muove contro la plebe soltanto, ma
contro tutti, compreso s stesso. Tutti i nodi drammatici hanno uno svolgimento ed in ne una
catastrofe che chiude e al tempo stesso apre la possibilit di altre tragedie, altri svolgimenti, altre
catastro . In questo senso il contrasto patriziato-plebe che si svolge in una alternativa di vittorie e
scon tte per l’una e per l’altra parte si conclude con una disfatta della parte plebea. L’esilio, la
lontananza dalla madre, la constatazione di un totale abbandono sentimentale ed ideologico portano
Coriolano all’unica reazione per lui possibile e sul piano politico e su quello sentimentale: il
tradimento concepito come vendetta, la ricerca di una amicizia con il suo peggiore nemico. La strada
di Coriolano seminata di cadaveri si chiude col suo cadavere. E verr ucciso cos come sempre
vissuto, nell’urlo, nell’insulto, nella brutalit . Il grido di Au dio – lattante! – gettato a Coriolano.
L’apparato scenico, le scene stesse, i costumi e le musiche hanno rappresentato una ricerca di
chiarezza, di semplicit , che per non diventasse essenza, aridit , antiteatro, retorica della castit .
Non possiamo certo sapere noi l’esatto limite dell’equilibrio raggiunto. L’avventura del Coriolano
nita.

Nell’innovativa interpretazione strehleriana, Coriolano non risulta un eroe, ma un ragazzo immaturo,


irrazionale, al di fuori della storia e della collettivit che lo circondano. Incapace di vedere la realt ,
egli appare manovrato da chi al potere, dalla madre, dai condizionamenti di classe, dalla plebe e
smarrisce i connotati di uomo crudele e sanguinario per apparire un adolescente che sta imparando,
a proprie spese, a muoversi in un mondo che, in confronto a lui, crudele e ostile. La messinscena
segnata dalla tarda lezione brechtiana, a partire dall’impiego - in questo caso particolarmente
adeguato - di “un metodo di indagine dialettico, al posto di un metodo di indagine idealistico,
romantico.” Per la rappresentazione si impiega lo stile epico, individuato come la modalit che
meglio possa rappresentare “una realt in movimento, i mutamenti delle cose, dei rapporti di una
realt collettiva”.

Confortato dal successo di Coriolano - che raggiunge 46 recite consecutive - Strehler conclude il
1957 presentando una commedia, Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari con
Tino Carraro, ancora una volta, nel ruolo del protagonista Carlo Goldoni. La commedia che va in
scena il 23 dicembre 1957, deriva la propria materia dai M moires goldoniani dove si narra, fra
l’altro, il periodo pi fecondo della carriera del commediografo che si impegna con il pubblico e con i
suoi detrattori, a comporre, nello spazio di un solo anno comico, 1749-1750, ben sedici commedie
nuove. Goldoni e le sue sedici commedie nuove rappresenta per Strehler l’occasione per ri ettere su
un’epoca che, pi di una volta, aveva attirato la sua curiosit intellettuale. Il regista sul palcoscenico

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si impegna a ricostruire, con una precisione minuziosa, questo frammento di storia del teatro, sia
attraverso le splendide scene di Luciano Damiani, sia attraverso la recitazione imposta ai suoi attori.
Lo scenografo Damiani crea sullo sfondo di una Venezia malinconica, divorata dalla mu a dei secoli,
ricoperta da un leggero strato di neve, una patetica ribalta di vecchi comici con candele, ventole,
proprio come vuole la tradizione. Suggestivo il velario all'antica al cui centro ritagliata una porta,
da cui si presentano gli attori a ringraziare il pubblico, che chiude il boccascena. Strehler punta, poi,
su una recitazione d’e etto, carica, tradizionale, attraverso la cui convenzionalit , si mostrino al
pubblico le so erenze degli uomini di teatro. Carraro d vita a un Goldoni meno bonario di come lo
dipinga la tradizione, ma pi conscio di s e dell'alto valore storico della sua riforma e pi umano nei
rapporti con la moglie Nicoletta.

Lezione 10

23.03.2020

1958-1960: Prima edizione de L’anima buona di Sezuan di Brecht. Allestimento tedesco de I


giganti della montagna di Pirandello. Nel 1959 presenta un’unica nuova regia: Platonov e altri
di Cechov. Realizza La visita della vecchia signora di D rrenmatt con Sarah Ferrati e L’egoista
di Bertolazzi con Tino Carraro. Rimette in scena El Nost Milan.

Un ulteriore passo nello studio del teatro epico costituito dall’allestimento de L’anima buona
di Sezuan di Bertolt Brecht che debutta il 22 febbraio 1958. Questa “parabola drammatica”,
impostata da Strehler con rigore e semplicit . Giocato sui toni del bianco, del grigio e del nero (solo
agli dei e alla loro nuvola sono concessi i colori), l’allestimento rmato da Luciano Damiani mostra
una Cina allusa e non realmente rappresentata, attraverso una teatralit realizzata con mezzi che
appaiono primitivi, artigianali e indicativi, “al servizio della vicenda”: il fondale di tela grigia, il sipario
a due ante e il pavimento del palcoscenico di bamb , i costumi semplici e di foggia vagamente
orientale. Una luce candida illumina il palcoscenico e crea un’atmosfera quasi favolistica. Le scene di
Damiani. Successo.
Il 1958 prosegue per Strehler con una nuova edizione dei Giganti della montagna, una nuova
regia musicale per la Piccola Scala e il riallestimento dell’Opera da tre soldi. Egli rma una
edizione dei Giganti della montagna di Pirandello (la prima in lingua tedesca) con Bernhard Minetti, il
pi grande attore teatrale della Germania del secondo dopoguerra, nel ruolo di Cotrone, che va in
scena il 19 aprile allo Schauspielhaus di D sseldorf con le scene di Luciano Damiani, i costumi di
Ezio Frigerio, le musiche di Fiorenzo Carpi e le maschere di Amleto Sartori. Indi, il regista si dedica
all’allestimento de Il cappello di paglia di Firenze, in scena alla Piccola Scala, il 2 giugno 1958.
La ripresa dell’Opera da tre soldi (11 novembre 1958), in parte modi cata nel disegno registico,
riscuote un successo ancora pi convinto rispetto a quello della edizione del 1956. Tale riallestimento
assorbe per lungo tempo le forze di Strehler anche per la presenza nel cast di nuovi attori fra i quali
Tino Buazzelli (Geremia Peachum), Giancarlo Dettori e Gastone Moschin.

( Nel giardino dei ciliegi Strehler fa in modo che il carattere dei personaggi si manifesti attraverso
l'incontro-scontro tra un individuo e la societ ). Fortunata tourn e in Francia che vede Strehler
trionfare sul palcoscenico parigino del Th tre National Populaire con l’Opera da tre soldi (marzo-
aprile 1960), e le ormai storiche recite negli Stati Uniti, in Canada e in URSS (il Piccolo con
Arlecchino la prima formazione teatrale italiana a Mosca dalla Rivoluzione d’ottobre). La
quindicesima stagione del Piccolo Teatro si inaugura, infatti, l’11 novembre 1960 con la
commedia L’egoista di Bertolazzi, storia di un uomo che mai, nemmeno per un momento, ha
orrore di s stesso, e straordinaria interpretazione di Tino Carraro. Strehler a ascinato
dall’invenzione del protagonista, egoista “assoluto”, l’evoluzione del cui carattere Bertolazzi coglie

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nel testo con originalit per quarant’anni, nelle quattro et fondamentali dell’uomo (giovinezza,
maturit , declino e vecchiaia). Il regista sposta l’azione della pi ce dalla datazione originaria
(1864-1901) al 1900-1940, scegliendo un momento della storia segnato da con itti mondiali e
angosciose incertezze, ma, soprattutto, volendo cos rispettare la volont dell’autore che, facendo
iniziare l’azione in un tempo storico, la lasciava concludere nella contemporaneit (L’egoista fu
messo in scena nel 1901). “L'azione si svolge nel corso di quarant'anni (giovinezza, maturit ,
anzianit , vecchiaia del protagonista Franco Marteno) e Bertolazzi ssa come ultimo tempo di queste
fasi quello in cui la commedia fu rappresentata (1901). Primo intuito felice della regia di Strehler
stato quindi di spostare tutta l'azione in modo che I’ultimo tempo sia quello attuale e quello iniziale
sia il principio di secolo anzich il 1860 (cosa questa che ci avrebbe portato senza un logico scopo in
un clima remoto ed avrebbe tolto all’egoista la sua perenne attualit )” La parabola dell’‘egoista’
appare cos un fatto presente e non idealizzato in un’epoca remota.
L’idea di rappresentare l’Egoista indubbiamente di antica data. Ed in questo senso potr anche
apparire un poco in ritardo su certe esperienze del nostro teatro, in questi ultimi anni. Idealmente la si
potrebbe collocare dopo la realizzazione di Lul e assai prima di quella de El nost
Milan.Esempli cazione che vuole toccare momenti tipici e situazioni tipiche. Gi in questo senso, la
scelta inconsueta dell’arco di tempo in cui si svolge l’azione – quarant’anni, una intera epoca storica
– e il cogliere il protagonista in quattro et fondamentali dell’uomo: giovinezza, maturit , declino,
vecchiaia, possono da sole confermare un fondamentale atteggiamento dell’autore. Ma non solo.
Esiste anche la scelta del tipo di evoluzione egoistica del personaggio nel corso di ciascun atto del
dramma. Primo atto: giovent , egoismo sensorio (la piccola tirannia domestica) che culmina con un
matrimonio d’interesse tanto crudele ed improvviso, quanto gratuito, ne a s stesso. Secondo atto:
maturit , egoismo sociale, nel cerchio dei rapporti borghesi (l’amante, la moglie, il fastidio
domestico, i gli) che si conclude con un atto di egoismo quasi meta sico, la paura del male, prima
ancora di quello della morte. Terzo atto: decadenza, egoismo sentimentale (tirannia degli amori
famigliari, i gli cresciuti e posseduti come oggetto esclusivo) che crea il suo capolavoro nella sua
scena nale, cosciente ed incosciente recitazione di una so erenza quasi nuova, scena in cui
l’egoista convince s stesso e la glia a non abbandonarlo per un altro. In ne il quarto atto:
vecchiaia, una somma gelida dei temi precedenti, una specie di inferno fatto di pochi gesti e parole,
ritmato sulla presenza della morte, in una camera riscaldata di contro ad un mondo coperto di neve.
A noi sembrato inequivocabile il fatto che per Bertolazzi, l’azione iniziatasi in un lontano tempo
storico dovesse concludersi nella sua contemporaneit . Dovesse cio , nel suo ultimo atto, apparire
come un fatto presente e non idealizzato da un’epoca ormai remota allo spettatore. l’egoismo
tipico di Marteno che si ri uta alla storia ad impedire l’irrompere concreto della storia nel suo quadro
e quindi a costringere giustamente Bertolazzi a lasciare la storia fuori dalla porta, fuori dalle nestre.
Ma la storia uisce ugualmente, il tempo uisce ben oltre l’egoismo del protagonista: dal costume, al
mobile che muta, alla notizia del giornale lasciato sul tavolo. Esso la presenza appena indicata, il
controcanto appena accennato ma presente. La storia de L’ Egoista si apre in un tempo ormai quasi
favoloso per noi all’inizio del secolo e si chiude alle soglie del 1940. Per indicarci la sua permanente
verit e possibilit concreta di esistere ancora – come esiste – in mezzo a noi. Lo spettacolo di
Strehler mostra al pubblico un egoista debole, che compie il male con la stessa innocenza con cui lo
compirebbe un bambino, insicuro di tutto e di tutti, spaventato dall'idea della morte, invidioso degli
altri, e, soprattutto, atterrito dall'idea della solitudine, interpretato da un perfetto Tino Carraro.
Elegante spazio scenico creato da Luciano Damiani.

La stagione 1960/1961 prosegue all’insegna di Carlo Bertolazzi: terminate, infatti, le repliche de


L’egoista, Strehler riprende El nost Milan, accentuandone, rispetto alla prima edizione, il carattere di

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canovaccio: numerose sono le scene e controscene che il regista introduce nello spettacolo. Lo
spettacolo va ad inaugurare la stagione 1961-1962 del Piccolo Teatro.

Lezione 11

24.03.2020

1961-1963 il lavoro di Strehler per mettere in scena Brecht: Schweyk nella seconda guerra mondiale,
L’eccezione e la regola, Vita di Galileo. Arlecchino a Villa Litta: l'edizione dei carri.

Dopo la ripresa del Nost Milan di Carlo Bertolazzi, Brecht a tornare con decisione sul palcoscenico
di via Rovello: infatti tra il 1961 e il 1963, le tre novit del cartellone del Piccolo Teatro sono testi
brechtiani.
Con Vita di Galileo, che debutta il 5 novembre 1963, Strehler approda a uno fra i risultati pi
convincenti di vent’anni di teatro, testo fondamentale nel percorso artistico di Strehler.
“L’allestimento di Vita di Galileo costituisce il coronamento del discorso che il Piccolo Teatro va
conducendo da ormai sette anni sull’opera di Bertolt Brecht. In esso vi come il compendio degli
atteggiamenti stilistici che Brecht assunse nelle altre sue opere.Discorso su Brecht, che si apr com’
noto con L’opera da tre soldi.
Dopo la post- espressionistica Opera da tre soldi, L’anima buona di Sezuan (1958) testimoni della
fase epica della maturit brechtiana, lo Schweyk nella seconda guerra mondiale (1961) esempli c il
tentativo di superamento dello stile epico in una formulazione epico-popolare pi libera ed aperta, e
L’eccezione e la regola (1962) riand in ne alla fase pi rigorosamente epica e didascalica, che
aveva rappresentato – negli anni intorno al 1930 – l’applicazione pi conseguente ed intransigente
del nuovo linguaggio. Solo come coronamento di questa sistematica esplorazione oggi
possibile a rontare il di cile capitolo di Vita di Galileo che a ronta – nel problema del potere della
scienza e dunque delle sue responsabilit e dei suoi ni – il problema di maggior urgenza e pi
gravide di conseguenze estreme che sia oggi possibile porre”.
Vita di Galileo uno spettacolo di cinque ore e mezza (che va in scena dopo quattro mesi di prove),
sbalorditivo per precisione, rigore e coerenza poetica, costruito su un equilibrio quasi miracoloso, nel
quale sono espresse, con lucidit e strazio virile, l’ironia e la melanconia della condizione umana e la
sommessa dolorosa speranza in un mondo migliore. Nella Lettera agli attori di Vita di Galileo, in cui il
regista, in prossimit della ripresa dello spettacolo nel novembre 1963, invita i suoi attori a una umile
e paziente fedelt allo spettacolo originario, Strehler svela la fatica e la delicatezza di questo
spettacolo. Partendo da una suggestione leonardesca, Luciano Damiani, con semplicit e relativa
povert di mezzi, costruisce uno spazio teatrale che ha l’obiettivo di contenere il maggior numero di
elementi culturali e architettonici appaiabili con l’epoca in cui visse e oper lo scienziato e o rire
un’immagine reale del comportamento del personaggio e della societ , pur attraverso elementi
scenici allusivi, non realistici. Solo gli accessori, i mobili e i costumi sono realistici, curati in ogni
particolare: usati e sdruciti per il popolo, pesanti e ricchi di broccati per i potenti.
riesce, cio , a trasformare in emozione il suo doloroso realismo, facendo conoscere, anche nel
nostro paese, una fra le opere pi alte di Bertolt Brecht. “
Nonostante un conclamato successo,
la polemica che questo allestimento innesta senza eguali nella storia del teatro italiano. Contro e a
favore di questo spettacolo si schierano forze politiche, vertici ecclesiastici e tutta la stampa
nazionale.
Spettacolo accompagnato da forti critiche, specialmente da parte della chiesa. Paolo Grassi - Mi
dicono che in una chiesa a Milano la sera si fa novena perch Galileo non vada in scena”.

Dopo una pausa di quattro anni, dovuta alla scomparsa di Marcello Moretti, morto il 18 gennaio 1961
a soli cinquanta anni, Strehler il 10 luglio 1963 ripresenta Arlecchino in un'edizione estiva
all'aperto (la prima) alla Villa Litta di Milano, parzialmente modi cata rispetto alla precedente e
che si avvale ora della presenza di Ferruccio Soleri, subentrato nella parte di protagonista che aveva
gi sostenuto debuttando il 27 febbraio 1960 al City Centre Theatre di New York come sostituto di
Moretti. Gli appunti di regia per l’edizione di Villa Litta a Milano segnalano la riscrittura della prima
parte del primo atto ad apertura della rappresentazione con l’inserimento di nuove battute e la
seguente didascalia iniziale: “Due grandi carri hanno bloccato le loro ruote sul prato. I cavalli sono

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stati staccati, portati via. Due scalette di legno ne fanno quasi due piccole case, a rontate a poche
decine di metri l’una dall’altra. In mezzo, gli attori che ne sono scesi hanno rizzato il palcoscenico:
una pedana pressoch quadrata, delimitata da un lato dalle le degli schermi per le candele – le luci
della ribalta – e dal lato opposto da due montanti e una traversa in legno: sulla traversa due riloghe,
sulle quali scorrono i fondali che fanno da scena: una calle, un “salotto-in-casa-di-Pantalone”, un
interno d’osteria, eccetera. Tra palcoscenico e carri le cose dei comici: quelle che serviranno per lo
spettacolo, quelle che serviranno per altri spettacoli. E dietro il palco, due tavoli con tutto il
trovarobato necessario alla recita della sera. È davanti alla Villa che hanno posto la sede del loro
nomade teatro. Il padrone di casa – nobile o ricco mercante che sia – ha gentilmente concesso l’uso
di un paio di stanze al pianterreno, dove i comici potranno rifocillarsi con qualche gotto di vino
altrettanto gentilmente o erto. Il pubblico s’aduna, il sole tramontato: calano le prime ombre della
sera. L’edizione di Villa Litta (la quarta) che rimanda per il contesto popolare alla vita dei commedianti
d’arte inserendo nella vicenda il teatro nel teatro attraverso un divertente “dietro le quinte” infatti
spesso indicata come “edizione dei carri”.

Lezione 12

26.03.2020

1964-65. Goldoni, Shakespeare e Mozart. Realizza Ascesa e caduta della città di Mahagonny di
Brecht/ Weil e Le baru e chiozzotte di Goldoni. Firma con Paolo Grassi il documento Un teatro
nuovo per un nuovo teatro. Presenta la regia de Il gioco dei potenti, riduzione delle tre parti di Enrico
VI di Shakespeare. A Salzburg allestisce la sua prima opera di Mozart: Il ratto dal serraglio.

Nei primi mesi del 1964, Strehler si dedica ancora all’allestimento di un’opera brechtiana. Si tratta in
questa occasione di Ascesa e caduta della citt di Mahagonny.

Il 1964 per Strehler anche l’anno della redazione, a quattro mani con Paolo Grassi, pubblicata
nell’aprile, del documento che analizza criticamente la situazione del Piccolo teatro. Si tratta del
gi ricordato Un teatro nuovo per un nuovo teatro. Si analizza la struttura dell’ente evidenziandone
la diversit nelle due fasi 1947-1952 e 1952-1964. È necessario “un nuovo edi cio”, la “creazione di
un teatro sperimentale di 300 posti”, la “conservazione della sede di via Rovello per attivit
collaterali”, “politica dei prezzi”; per la creazione di un vero teatro popolare.
L’Amministrazione Comunale prende in considerazione le osservazioni di Grassi e Strehler e a da al
Piccolo, dalla ne del 1964, la sala del Teatro Lirico di via Larga, come provvisoria sistemazione
per un ampliamento di attivit del teatro. L’aver a disposizione uno spazio due volte pi grande
pone nuovi problemi estetici e organizzativi. Grazie tuttavia a questo spazio nascono spettacoli come
Le baru e chiozzotte e Il gioco dei potenti, di cui si dir tra breve e che non avrebbero potuto essere
concepiti nella sala di via Rovello. Inoltre, si tenta un’operazione sociologica” che si concretizza
nell’o rire a ciascun cittadino uguale possibilit di assistere agli spettacoli, diminuendo il costo dei
biglietti e abolendo le riduzioni e gli abbonamenti alle prime. Grassi e Strehler vedono le due sale
come un tutt’unico ma forse passibile di una di erenziazione a livello di repertorio e politica di prezzi:
il Teatro Lirico come teatro nazional-popolare, con grandi testi ‘classici’ (Brecht, Bertolazzi, Goldoni,
Shakespeare) e prezzi contenuti, il Piccolo in via Rovello per testi scelti in modo pi sottile e
problematico in una prospettiva pi sperimentale e di ricerca.

Strehler torna a Goldoni, con l’allestimento - presentato per la prima volta sul palcoscenico
“popolare” del Teatro Lirico, dato ora come si detto in gestione al Piccolo - delle Baru e
chiozzotte che inaugurano il 29 novembre la stagione teatrale 1964-1965. “II primo autentico
testo della drammaturgia nazionale che abbia come protagonista il popolo. Strehler proponen la
ricreazione "poetica" di un ambiente sociale e di un mondo civile storicamente e geogra camente
ben determinati. Le baru e raccontano la vita di una piccola e povera comunit . Della povera gente
coglie la so erenza quasi sempre inespressa, spesso del tutto innocente, primitiva, neppure

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avvertita. Non si tratta di ideologia populista, ma di carit . Lo scenografo Luciano Damiani (cui si
devono anche i costumi) realizza una linea di vecchie abitazioni e di squeri sullo sfondo e, davanti ad
essa, una tartana disarmata. Su un piano pi prossimo allo spettatore, due ali di case di scorcio e
due lenzuola candide stese al sole. Importanza che lo strumento linguistico possiede nel teatro
goldoniano e nelle Baru e in particolare, impone alla compagnia, formata da elementi di eterogenea
provenienza regionale un soggiorno a Chioggia per apprendere la pronuncia locale. Lo spettacolo,
con il quale Giorgio Strehler si ricollegato a una non dimenticata Trilogia della villeggiatura — l la
borghesia goldoniana, qui il popolo — ha ottenuto un meritato successo. Smarrita ogni connotazione
caricaturale, il chioggiotto delle Baru e diviene, dunque, nella regia di Strehler, uno fra i fondamenti
della lettura realistica dell'opera. in virt di tale scelta registica, o re una prova eccellente. “L'esordio
con le Baru e chiozzotte di Carlo Goldoni al Lirico, doveva comportare il raggiungimento di uno
scopo lungamente cercato e nalmente conseguito: il contatto del teatro d'arte col grande pubblico
in una sala di capacit adeguata.

Ideato come libero adattamento in due giornate dalle tre parti di Re Enrico VI di William
Shakespeare, Il gioco dei potenti che debutta anch’esso, dopo 150 giorni di prove, sul
palcoscenico del Teatro Lirico di Milano il 21 e 22 giugno 1965 , in realt , una riscrittura non solo di
Enrico VI, ma di tutto lo Shakespeare dei drammi storici, quasi un tentativo di riassumerne i temi
in un unico spettacolo. Strehler fa recitare al personaggio-coro (Franco Graziosi), da lui ideato,
brani di monologhi di drammi shakespeariani, a commento della storia, e costruisce un nale aperto
verso nuovi delitti, in cui Riccardo (Corrado Pani) recita le prime battute proprio del Riccardo III, letto,
quindi, come ideale proseguimento dell’Enrico VI. Spettacolo ‘enorme’ diviso in due lunghe serate,
ricco di materiali, attori, masse in movimento. In collaborazione con Luigi Lunari, Strehler riduce il
materiale delle tre tragedie tradotte da Cesare Vico Lodovici in due parti: la prima, Un trono e il
popolo, contiene l’inizio della prima tragedia e i primi quattro atti della seconda; la seconda, La
guerra delle due rose, sintetizza in dodici quadri il quinto atto della seconda tragedia e tutta la terza.
Insanguinata e intricata, l’azione si svolge su una immensa piattaforma ottagonale, secondo i canoni
desunti dalla teatralit epica: pochi oggetti in scena mutano a vista, si scoprono le macchine e la
natura di ‘fatto da palcoscenico’ della vicenda. “Lo spettacolo, che ha inizio con uno splendido e
glaciale rito funebre e, subito dopo, con la consacrazione di un re fanciullo, un bimbetto con scettro
e corona, sfumato di lievissima grazia e di ironia, ha poi tra l'altro una scena di piazza, una era
plebea che esattamente uno degli abituali trion scenici di Strehler. Nello spettacolo ci sono
giocolieri, comici ambulanti, giostre e balli. Nobili e popolani si mescolano; ma guai a chi si da, tra
la teppa apparentemente libera, tra gli artigiani e i poveri, si aggirano, armate di ferro, le truppe del
re: girotondo, canti, balli, si ride e si irride, ma sullo sfondo trasvola il fantasma della forca. La
traduzione del testo quella ben nota di Cesare Vico Lodovici; le scene e i costumi magni ci di
Strehler, le musiche suggestive di Fiorenzo Carpi. La «seconda giornata» del Gioco riprende dal di
dentro, ambizioni, cupidigia di potenza, feticismo, odio, turpitudine dei sensi, la storia della lotta delle
Due Rose, delle fazioni che insanguinarono la Corte e il paese d'Inghilterra in quel tempo lontano.
la guerra civile, il pi grande dei agelli; sono creature che non hanno neppure il sentore sia pur vago
della piet , della carit , del perdono. La passione diventa sempre delitto, la giustizia abolita,
soltanto trionfa la vendetta, in culmini di sadismo e di vilt . Un’operazione di avanzamento del
linguaggio teatrale nel suo insieme (dalla drammaturgia alla scenogra a, alle musiche, al lavoro
dell’attore, soprattutto). Leggiamo quanto scrive Strehler: “Rifare il gi fatto, tanto tempo fa. Ancora
una volta. E non poterlo fare come era. Il primo Gioco dei potenti nacque come visione onirica, e poi
fu un’altra cosa, monca, sulla scena.

Nel 1965, Strehler debutta al Festival di Salisburgo, mettendo in scena il suo primo Mozart Il ratto
dal serraglio con la direzione d’orchestra di Zubin Mehta. Per la forma mista di musica e parola e il

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tono leggero del testo, questo Singspiel mozartiano - come il pi celebre Flauto magico - non di rado
allestito come una pi ce da teatro delle marionette, ricca, quindi, di e etti clowneschi e grossolani.
L'intervento di Strehler volto, in primo luogo, proprio a eliminare tali errate interpretazioni, per
ricondurre il Ratto al suo primitivo signi cato, ricreando quella che egli de nisce “illusione
spettacolare”. La messinscena del Ratto non deve, infatti, mai permettere allo spettatore di
dimenticare che sta assistendo alla rappresentazione di una favola, una storia fantastica e irreale,
che, tuttavia, non deve trasformarsi in una farsa. A tale scopo, Strehler predispone, insieme a
Luciano Damiani, una soluzione scenica e illuminotecnica assai originale. Sul palcoscenico di grandi
dimensioni della Kleines Festspielhaus in Salisburgo posizionato un pi modesto boccascena al cui
interno si svolge la rappresentazione. Alle spalle di tale boccascena, disposto un fondale di tulle e
garza bianchi che non accoglie alcun elemento scenogra co n dipinto, n costruito. A quinte piatte
dipinte, fatte scorrere su rotelle a vista, a dato il compito di fare magicamente apparire minareti e
torri, isole e onde marine. Tuttavia, la trovata registica di maggiore e etto riguarda i movimenti dei
cantanti in scena, coniugati con l'uso sapiente delle luci. Strehler predispone due zone distinte sul
palcoscenico: il fondo e il centro del palco sono illuminati in modo tradizionale, mentre il proscenio
sempre in controluce. Cos , ogni volta che i cantanti avanzano in proscenio, la loro gura assume i
contorni di una silhouette nera che si staglia sul fondale bianco. Con tale arti zio, il regista traduce
visivamente la continua alternanza che l'opera prevede, tra realt e fantasia, tra presenza e assenza.
La scelta di trasformare, in alcuni momenti dell'azione, i cantanti in sottili pro li di s stessi o re al
regista la possibilit di concretizzare scenicamente una serie di intuizioni registiche che
contribuiscono a fare riemergere il vero signi cato del capolavoro di Mozart. Spettacolo di grande
suggestione e di straordinaria bellezza visiva, accolto con interesse da pubblico e critica, questa
edizione del Ratto dal serraglio sar da Strehler allestita in pi occasioni e in di erenti sale teatrali
(Firenze, Milano, Venezia, Parigi, Bologna) per tutto il corso della sua attivit registica.

Lezione 13

30.03.2020

1966-68 la nuova edizione dei giganti della montagna di Pirandello. Le dismissioni dalla
direzione del Piccolo Teatro. Per celebrare i vent'anni del Piccolo, nel 1966 Strehler mette in
scena una nuova edizione de I giganti della montagna di Pirandello. Deluso dalle strutture
politiche e amministrative italiane e segnato dalle contestazioni che sta investendo i teatri
stabili a nanziamento pubblico e la stessa gura del regista (ritenuto un ‘despota della
scena’), nel luglio 1968 si dimette dal Piccolo Teatro. Consegna il suo teatro nelle mani di
Paolo Grassi e si trasferisce con alcuni attori e collaboratori a Roma.

Mette in scena una nuova edizione de I giganti della montagna di Pirandello con Turi
Ferro, Valentina Cortese, Mario Carotenuto e Marisa Fabbri. Con Herbert von Karajan
presenta alla Scala Cavalleria rusticana di Mascagni. Regista e attore con Milva nel
recital Io, Bertolt Brecht. Il 22 luglio 1968 si dimette dalla direzione del Piccolo Teatro
e fonda il Gruppo Teatro e Azione.

Mentre le Baru e chiozzotte in tourn e nelle due Germanie e in Francia sono accolte da un
successo straordinario, la “novit ” del giornalista e drammaturgo Salvato Cappelli,
Duecentomila e uno1 ispirata alla vicenda di Claude Robert Eatherly, aviatore statunitense
che in qualità di u ciale dell’United States Air Force prese parte alla missione culminata
con lo sgancio della bomba atomica di Hiroshima, riconferma l’interesse di Strehler per la
drammaturgia contemporanea. Lo spettacolo va in scena al Piccolo il 4 maggio 1966 con
scene e costumi rmati da Ezio Frigerio e Giancarlo Sbragia nel ruolo del protagonista.

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Debbo a Giorgio Strehler - dichiara l’autore - un’esperienza fondamentale per un autore di
teatro: l’acquisizione di mezzi nuovi, e non solamente tecnici, per la costruzione di strutture
spettacolari di diverso tipo. Sul piano di una collaborazione totale, Strehler una presenza
viva, che risolve e conforta. E non mi sento diminuito nell’ammetterlo pubblicamente.
Duecentomila e uno, inteso quale spettacolo di rumori e luci, per la prima volta nel teatro
italiano, appartiene di diritto alla sua storia personale di lavoro. Strehler e Paolo Grassi; gli
attori: Giancarlo Sbragia, Valeria Valeri, Gabriella Giacobbe, Carlo Cataneo; lo scenografo:
Enzo Frigerio, riconosceranno l’onest di questa testimonianza.”.

Cavalleria rusticana2 di Pietro Mascagni (allestita alla Scala il 12 maggio 1966) rappresenta
per il regista una nuova s da alla tradizione di rappresentazione dell’opera lirica. Infatti, al
lavoro di revisione musicale condotto sulla partitura da Herbert von Karajan, corrisponde
una rilettura registica della vicenda. Tratta da una novella di Giovanni Verga, Cavalleria
rusticana di norma messa in scena “realisticamente”, non trascurando spesso elementi
folclorici regionali. Ma secondo Strehler, a una attenta lettura del libretto, tale eccesso di
realismo si rivela errato e controproducente, non trovando giusti cazione alcuna n nelle
indicazioni didascaliche (troppo convenzionali), n nelle situazioni sceniche proposte. Il
"verismo" dell'opera - ove lo si voglia trovare - va cercato per Strehler soprattutto nella
musica. Eliminato, quindi, l’obbligo di un impianto scenico naturalista, il regista studia con
Luciano Damiani una scena unica, uno spazio vasto e inondato di sole: una piazza sulla
sommit di un paese della Sicilia. Un muro la delimita sul lato destro, mentre su quello
sinistro si protende una colata di lava rossastra e nera quasi a indicare la permanenza di un
pericolo su una collettivit emarginata, una specie di terrore naturale alla base dei
sentimenti popolari. Gli abiti di scena perdono il carattere multicolore folcloristico per
assumere un tono popolare-festivo, dai colori tra il marrone e il grigio. La recitazione, sia dei
solisti sia del coro e dei mimi, diviene misurata e il pi possibile naturale: atteggiamenti
scarni, pochi gesti essenziali, posizioni chiare, scontri violenti e implacabili. Il risultato
complessivo uno spettacolo nuovo, dove il realismo non diventa sequenza
cinematogra ca n melodramma, ma diviene un “realismo poetico” ancor pi valorizzato
dalle note di Mascagni.

Nello stesso anno, Strehler mette in scena al Teatro Lirico il 26 novembre per celebrare i
venti anni del Piccolo la seconda edizione italiana dei Giganti della montagna3 di Luigi
Pirandello, un testo con cui, come ho accennato, il regista ha un legame particolare. Tale
ritorno ai Giganti, nel 1966, si spiega anche con motivazioni esterne (la coincidenza del
centenario pirandelliano e, come detto, il ventesimo del Piccolo), ma, come sempre in
Strehler, muove da pi profonde esigenze, preludio forse al suo prossimo allontanamento
dal teatro da lui fondato. Ri essioni che trovano compiutamente sede negli appunti di regia
pubblicati in occasione di questa seconda edizione dello spettacolo e che spiegano
dettagliatamente le scelte compiute dal regista: “Un inizio, un sipario di ferro, chiuso,
ermetico. Un sipario senza fantasia: forza, struttura, materia spietata (tenebra e pietra). Si
alza adagio, mentre un lo di musica esce da sotto, scivola fuori, a lo delle larghe tavole di
legno del palco, scoprendo una scena tenue di verde spento, che sale tra l’erba argentea,
rasa dalla luce del crepuscolo, no ad un magico volume, trasparente e misterioso al tempo
stesso. Appare chiaro, come sospeso nel vuoto, aria, sera; il dolce viola della sera di
un’Italia fonda e tenera, inventata su temi e toni, appena accennati, di una pittura italica
meta sica e reale insieme. Trema a un poco d’aria, palpita come una cosa viva, con brevi
sussulti. Oppure sta, in un’immobilit assoluta. Un tono di colore, un muro o una casa
inventata. Un lenzuolo popolare che diventa casa e teatro. La casa fantasma. La casa

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teatro. La casa sipario. I Giganti: una recita davanti, dietro e intorno a un sipario. Il mistero,
la levit del sipario. La semplicit di un lenzuolo teso e palpitante nell’aria della sera. I rifugi
misteriosi, le protezioni dell’infanzia. I giochi di luce con la lampada accesa sotto le coperte.
Le trasparenze, le ombre. Il teatro, il carnevale, il gioco del cigno con la mano, la lanterna
magica nel silenzio di una stanza piena d’ombra. Il sipario che apre e chiude, vela e rivela. Il
sipario che diventa mucchio informe al suolo. Il gioco del sipario piegato, come le donne
dopo che hanno stirato le lenzuola. "L’arsenale delle apparizioni": il mistero del teatro nella
sua completezza. Luogo in cui le cose si fanno da s , dove tutto possibile. Ricettacolo di
tutti gli "strumenti" del teatro: attori, mimi, burattini, fantocci, marionette, bambole, trucco,
illusione, scene, costumi, schermi, macchine, oggetti, cantinelle, arti ci, giochi, soluzioni
sonore e visive, che animano e danno vita, nelle sue diverse possibili "forme" (generi), allo
spettacolo, alla rappresentazione: teatro di prosa, avanspettacolo o variet , cinema, mimo,
teatro musicato. "Un sottopalco". Simbolo faticoso, oscuro e massiccio della teatralit ,
mostruoso, pesante meccanismo da cui tutto pu nascere. Misterioso e crudele nella sua
arida immensit . Contrassegna la fredda materia da cui con fatica e rischio si cava il
sangue dall’arte. "Teatro-macchina". Si contrappone alla levit aerea del "palcoscenico"
vuoto. Il vuoto della partenza creativa, del dar vita alla poesia, dell’incarnare
nell’interpretazione. L’impenetrabile ermetico mistero del sipario chiuso che sprigiona,
dischiudendosi, calore, tenerezza, fantasia, apparizioni: "il teatro poesia". "Il sipario
fondale" per La favola del glio cambiato. Due lembi di un sipario di tela, cuciti insieme, con
apertura simile ad una ferita, che un tempo fungeva da siparietto neutro. Colore grigio
rosato, slavato da innumerevoli piogge e innumerevoli soli. Povero e antico, con qualche
sdrucitura ricucita con precisa arte, ma senza nascondere nulla, come gli strappi delle vele.
Viene spiegato e sospeso ad una corda, con destrezza di acrobati, secondo un rituale
automatico, ma non per questo meno pieno di inconscio amore. Tocca appena il suolo, si
incurva lievemente al centro senza pieghe scomposte. E il ricalco piccolo e reale, gli stessi
segni, del grande telone-villa della "scalogna"- sipario. Rarefazione quindi della scenogra a
lungo l’arco della commedia, nel senso di una progressiva purezza strutturale e pittorica,
conseguente al progressivo scarni carsi del linguaggio pirandelliano: dalle prime parole alle
ultime "Ho paura, ho paura", al signi cato gestico del "racconto nale" mimato, all’ultimo
tragico silenzio. I Giganti: forse l’unica vera grande commedia sul teatro. Una commedia
che propone e ripropone la problematicit teatrale nelle sue varie possibili forme e riassume
in fatto teatrale la vita stessa del teatro. Diario di teatralit . Diversi nuclei di teatro. Diversi
piani di teatro. La "scalogna", possibile schema di teatro, agnostico, ne a s stesso,
avulso dalla realt . Un teatro globale dove tutto avviene, inventato non per un pubblico, ma
come puro gioco. (Viene in mente l’infantilismo del teatro, il "teatro-gioco" dei bambini;
forse l’unico teatro serio; dimenticato e cancellato dall’abitudine, dalla pratica quotidiana
del mestiere che appanna la fantasia, la capacit di inventare). La "scalogna", vista come
teatro preesistente, in cui con uisce un bestiario strano di umanit ri utata o allontanata
dopo un ri uto. Ciascuno per diversi motivi, per un diverso processo, secondo una
gradazione, determinata dalle circostanze o dalla volontariet . Non il mondo della follia o
della morte (fantasmi), ma il regno della poesia (poesia-teatro), dell’innocenza, della
purezza, che o re l’incanto positivo-negativo del "non impegno". Rinunciati, dunque, nella
realizzazione, i valori plastici in favore di una disperata ma dolce rarefazione, ispirata ad una
pittura meta sica, sulla scorta dei Carr , dei Rosai, dei Sironi, al ne di far intuire il tessuto
nazional-popolare, paesano e contadino e, al contempo, il mistero isolano ai limiti fra realt
e irrealt ... Conseguentemente gli "scalognati" dovrebbero risultare realistici, cio
"possibili" popolari, ma anche "eccezionali", casi limite, invenzioni. Altro nucleo di teatro:

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"La compagnia dei comici": che riassume e scompone i diversi aspetti della "teatralit ". Gli
attori devono apparire realistici, identi cabili, plausibili come classe, piccolo-borghese,
inequivocabilmente riferibili ad una precisa categoria di mestiere. (Minima componente
aristocratica per il conte). Di provenienze diverse: isolane, mitteleuropee, con leggere
cadenze e in essioni dialettali. Accusano i segni della deformazione professionale, ma non
per questo debbono diventare maschere di attori, o evocare ruoli schematici. Tipi di teatro,
uniti tutti dal decadimento e dalla pena, dal patetico che c’ sempre nel comico nito e allo
stremo. I trucchi sfatti simboleggiano il mostruoso, il laido, l’osceno contro natura del
teatro, ma al tempo stesso la sua terribilit , il suo misterioso, il gioco profondo del
travestirsi in un altro, di essere altri, il dolore, la volutt di non poter essere altro che altri.
Parlano il tipico linguaggio, un poco retorico, degli attori; il loro tono penosamente e
ntamente entusiasta. La squallida entrata d’inizio, suggerisce il rituale delle congratulazioni
in "camerino" al termine dello spettacolo. Sorridono con occhi disperati, per ammiccano
con gesti di piacere, baci sulla punta delle dita, mani che segnano l’aria, ostentano
godimento artistico, abilit d’interlocutori. Moderata curiosit che con na con l’indi erenza.
Egoismo appena mascherato da un rituale antico. L’incontro tra i due gruppi deve apparire
incommensurabile. I comici portano un peso di tensione, di disperazione, di lotta
quotidiana, che urta contro il distacco, la pulizia, la tenerezza degli "scalognati". "Il gioco di
rifrazione nel teatro" di Pirandello e deve risultare chiaro poeticamente. Non solo
dialetticamente. La commedia si apre con un fatto teatrale: gli "scalognati"... "fanno" "i
fantasmi", quindi "teatro", primitivo, elementare, "per i comici". Poi i comici, "artisti della
scena", appaiono, uno dopo l’altro, sospesi su un altro palcoscenico, pi alto del reale, che
esalta la loro teatralit , e recitano teatro per gli "scalognati". Il "carretto" di Ilse diventa, per
fantasia, un ulteriore piccolo "palcoscenico" per la recita di un testo poetico. Il pubblico
dalla platea guarda cos gli "scalognati", che diventano pubblico per i comici, i quali a loro
volta guardano Ilse. Il rapporto si preciser ancora come "triplicazione formale" nell’azione
mimata del nale: teatralit per gli altri, poesia o erta al ri uto, all’indi erenza, nella
rifrazione comici-pubblico/societ -Giganti. E ancora la recita si spezza e si rappresenta il
dramma privato dei comici fra di loro. La storia di un poeta morto per amore, il viaggio di
Ilse e il conte... La scena deve essere pirandelliana in modo quasi eccessivo: contorcimento
di frasi e di corpi, concerto di rapidit e di pena. Lacerazione di una verit esibita
impudicamente a spettacolo tra e per una collettivit - pubblico. Ecco allora la "triplicazione
sostanziale". "Uomini", che essendo "attori", si comportano da attori, recitano la parte di
attori nella vita ( gurazioni di Ilse donna-attrice-madre). Contrasto stridente col mondo
essenziale della "scalogna". "Attori" che, in quanto tali, recitano, interpretano
"personaggi" (Favola del glio cambiato). Esseri che danno corpo ad altre situazioni teatrali.
"Dilaniandosi" reciprocamente: "teatro-vita". "Mascherandosi". In ammati dalla scoperta di
un fantastico trovarobato, cedono all’incanto del travestimento, proiettando inconsciamente
sui costumi indossati la propria agognata realt , amore puro, la sottomissione drammatica
non pi riconoscibile. Non sanno di amare il teatro proprio perch lo amano ancora. Si
spiega cos la funzione demisti catrice della "mascherata" come poetica proiezione di s .
"Teatro-carnevale". E ancora "sognandosi" nei panni dei personaggi interpretati; vittime
della sonnambula febbre teatrale che li danna e li condiziona. Duplicazione sica dell’attore
che resta "attaccato" alla "parte" contro la propria volont . Proiezione teatrale della
coscienza. "Teatro onirico". Nei due diversi mondi teatrali, proposti dalla commedia: la
"scalogna" e la compagnia della Contessa, si ri ette eterna tematica poesia-teatro, il
rapporto dialettico "testo-rappresentazione". Da un lato l’ideale pensato, il puro spirito
scaturito dalla fantasia del poeta (Fantocci, Cotrone), "teatro puro" (letto), dall’altro la

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rappresentazione, come fase essenziale, determinante dell’opera teatrale (il teatro tale in
quanto lo si fa), come ragione, scelta di un "genere"; lo spettacolo, dunque, che implica la
responsabilit dell’interprete, necessariamente condizionato dalle incertezze, dai rischi,
dagli errori di valutazione e d’interpretazione (sia in eccesso che in difetto), e che resta
comunque legato ad una realt concreta di mezzi, di cose, di uomini, di pubblico. "Teatro
rappresentato". (Compagnia Ilse). Ma oltre che o rire dialetticamente incarnata l’opposta
ideologia sul teatro, Pirandello schematizza, nei personaggi di Ilse, Cromo, Cotrone, i
"diversi modi" di "fare il teatro", di essere in palcoscenico. "Ilse": ra gura la missione, il
martirio. Una lezione di purezza. Sganciata dalla contingenza, votata ai valori dell’opera,
che o re anche contro il pubblico (ma che pur sempre esiste), continuamente su di un
palcoscenico, dal quale scender solo con la morte. "Teatro missione". Cromo: potrebbe
indicare tra le molte componenti “l’onorato" mestiere trascinato quotidianamente. La
lezione del professionismo umile, faticoso, ingrato, che prescinde da ogni giudizio critico,
ma che comporta un amore profondo e inconsapevole. "Teatro mestiere". Cotrone:
riassunto di tutte le possibili matrici del teatro. Non ultima la lezione di fede nelle possibilit
della poesia. Invito a credere come bambini nel gioco, negli arti ci dell’arte, senza chiedere
ragioni, senza de nire... "Teatro pura invenzione". E forse ri ette, al contempo, la faccia
speculativa del Pirandello classico, nel brillare assoluto delle contrapposizioni forma-
sostanza, apparenza-verit , magia-realt . Pur avendo ri utato la battaglia per vivere
volontariamente nella "scalogna", sembra appartenere virtualmente alla compagnia dei
comici, segnando cos il limite d’incontro, il punto di sutura drammatica tra i due mondi. Il
nale non scritto dei Giganti o re forse la possibilit di far divenire un’opera, per tanti versi
datata e ineluttabilmente legata a certe cadenze di stile tipiche ad un certo momento
storico letterario italiano, qualcosa che ancora pu appartenerci. La serie di interrogativi,
non risolti nei termini estremi, nemmeno dopo il trascorrere di tanta storia, proietta il senso
di tutta l’avventura direttamente nel nostro stesso esistere contemporaneo. Non infatti
che il mondo dei Giganti stia alle nostre spalle. I Giganti sono ancora tra noi, dentro di noi,
davanti a noi, in un perenne agguato fatto di mille tentazioni e prevaricazioni, agguati del
sistema, dei comuni retaggi della vita quotidiana; talch la storia della fantasia, poesia-
teatro dei poveri comici, teneramente, ciecamente e, diciamolo pure, astoricamente legati
all’arte, come unica salvezza, storia aperta. errata la risoluzione fantastica-anarchica di
ri uto degli "scalognati", insu ciente e per altri versi errata la lotta impari e quasi
maniacale di Ilse e dei Comici, che testardamente, col sacri cio di s consumato nella
poesia, tentano di riformare il mondo; errato e mostruoso, anche nell’incosciente
innocenza della brutalit , il non capire, l’evadere, lo sprofondare nell’istinto, dei Giganti
(schiavi ottusi ed anonimi di altri ancor pi irraggiungibili Giganti), che so oca e rinnega
l’atto poetico. Come comunicare al pubblico contemporaneo, al di l delle parole non
scritte, nel silenzio, la reciprocit delle scon tte, i di erenti gradi e stati dei diversi modi di
essere? "I Giganti vincono sempre. I Giganti perdono sempre". Potrebbe essere la formula
che inchioda il nucleo ideologico della commedia e che suggerisce la coerente soluzione al
dramma incompiuto. Ilse rinuncia all’assoluto, al non essere, per combattere la sua
battaglia in mezzo agli uomini, tra i Giganti. E i Giganti la uccideranno. Non un ri uto
cosciente, responsabile, positivo, ma la gelida indi erenza, l’assenteismo che uccider con
Ilse la poesia. Lo schema teatrale Ilse-teatro/Giganti-pubblico rispecchia il rapporto poesia-
societ . I Giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci ri utiamo
alla poesia e, con la poesia, all’uomo. Ecco il senso e la ragione della scelta di un testo che
acquista nuova luce dal "contesto" storico nel quale ci muoviamo: una societ che si lascia
sempre pi condizionare dalle proprie stesse strutture, una societ che diviene ogni giorno

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pi insensibile e refrattaria al richiamo dell’arte, e sembra quasi volersi rendere incapace di
far poesia, di capire poesia, di amare la poesia.”

Se in questa seconda edizione, l’elemento gurativo (ora la scena rmata da Ezio Frigerio,
i costumi da Frigerio e Enrico Job) rimane sostanzialmente invariato, pur nella direzione di
una maggiore stilizzazione e svuotamento, il nale a divenire oggetto privilegiato
dell’invenzione registica. “Mentre un frastuono orribile annuncia la calata dei Giganti, si
chiude il tradizionale sipario di velluto e Turi Ferro, uscendo dal personaggio di Cotrone,
s'avanza alla ribalta a ricordare che il dramma s'interrompe in quel punto e che del terzo
atto si sa soltanto che sarebbe stata la storia di una rappresentazione impossibile. Mimata
in una atmosfera da Incubo, questa rappresentazione troncata dallo strazio che di Ilse
fanno i servi dei Giganti: sono «i servi fanatici della vita» irridenti e incomprensivi contro i
«servi fanatici dell'arte che a loro volta non sanno parlare agli uomini» (ma i primi non siamo
noi, qui in platea, e gli altri non sono gli attori, l sulla scena?). Mentre i comici s'allontanano
col corpo di Ilse, il sipario di ferro s'abbatte sulla loro carretta, stritolandola. Conclusione
pessimistica, ancor pi di quella di Pirandello che salvava la Poesia o almeno l'illusione di
essa, ma che rispecchia i dubbi e i travagli del lavoro teatrale di Strehler e la sua ansia di
rinnovamento. E, nello stesso tempo, uno spettacolo rigoroso ed esemplare, salvo
nell'incerto primo atto, davvero un bilancio di vent'anni: niente pi rachitismo,

anche con la preziosa collaborazione dello scenografo Frigerio che ha spento gli accecanti
bianchi galileiani, ma ripensamento del passato ed esame critico del presente. Fra i molti
interpreti, docili alle intenzioni del regista, Valentina Cortese supera il cimento forse pi
arduo della sua carriera, Turi Ferro un «mago» duttile e non senza ironia, Mario
Carotenuto, Marisa Fabbri, Luciano Alberici, Alessandro Ninchi gareggiano in bravura e
dedizione con i loro compagni, tutti applauditi alla prima, con commozione e fervore,
insieme al musicista Carpi, al Frigerio e allo stesso regista.”.

Nella partitura scenica che conclude lo spettacolo, Strehler demisti ca dunque, nell'atto di
farle vivere, le magie del teatro e suggella la morte dell'arte e della poesia, facendone
fracassare la simbolica carretta sotto la lama del sipario taglia amma. Convinto della ne
ineludibile di un certo modo di fare teatro, il regista cala lo spettacolo in un pessimismo che
lo distacca dal precedente allestimento: eppure ancora accetta la s da dialettica del
cimento scenico, dando voce a una preoccupazione al cui fondo balugina la speranza. “Lo
spettacolo rompe l’involucro del decadentismo e sprigiona dal testo pirandelliano quanto
v’ in esso che ancora ci pu riguardare. Anzitutto, l’opera come evento poetico, sia pure
incompiuto [...], stata posta nel contesto culturale e artistico del proprio tempo. C’ l’eco
dell’ermetismo; c’ , nelle proiezioni, nelle gurine di certi personaggi, la pittura dei Carr ,
dei Rosai, dei Sironi. C’ la musica di scena che rimanda all’esperienza di Webern. Ma v’
anche la presenza del mondo popolare, in specie quello del Sud. Siamo, cio , alle radici
stesse dell’arte di Pirandello.” L'ottimismo giovanile che aveva spinto Strehler a credere in
un "teatro d'arte per tutti", sembra cedere il passo alla consapevolezza di una situazione in
cui mancano le condizioni necessarie per l'operare artistico, ma il pessimismo del regista
rimane dialettico, in sintonia con l'atteggiamento che soggiace alla drammaturgia
pirandelliana.

I vent’anni del Piccolo Teatro, che si celebrano il 14 maggio 1967, sono per Strehler
occasione di bilancio. Nel 1967 la compagnia del Piccolo pu vantarsi di avere presentato
pi di 4.300 recite di spettacoli rmati da Strehler in 142 localit italiane e in 116 citt
straniere dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, degli Stati Uniti, del Canada, del Sudamerica e

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del Nord Africa. Nella vita privata, una nuova bellissima compagna ha fatto la sua comparsa
prepotentemente dall’inizio degli anni Sessanta: Valentina Cortese, donna a ascinante
che per lungo tempo gli sar vicina. “Con Valentina io ho vissuto un amore vero – ricorda il
regista - Eravamo opposti: io bianco, lei nero. Una cosa impossibile. Ogni giorno ci
sbattevamo reciprocamente fuori di casa, ma era un amore travolgente tremendo, che gli
amici subivano teneramente, in segreto forse sorridendo di queste sceneggiate molto
italiane, cos belle e delle nostre fughe: vado a dormire dal mio amico, basta, non ti vedo
pi . E poi, a mezzanotte, telefonarsi, mi manchi, mi manchi...”.

Nella vita professionale se, da un lato, Strehler pu ritenersi orgoglioso dello straordinario
lavoro artistico compiuto, d’altro lato, non pu non avvertire un senso di disagio profondo
nei confronti delle strutture politiche e amministrative italiane, dalle quali egli si aspetta
invano un impegno concreto per o rire stabilit e ettiva al teatro da lui fondato (basti
pensare, al proposito, che nel 1966 gli incassi derivanti dalla vendita di abbonamenti e
biglietti coprono ancora il 73% del bilancio globale del Piccolo). Nel luglio 1966 le cronache
teatrali italiane e tedesche pubblicano notizie riguardanti il Piccolo Teatro di Milano e la
possibile perdita dei due direttori, in quanto Strehler potrebbe accettare l’o erta della Freie
Volksb hne di Berlino, per la successione di Piscator, e Grassi, a sua volta, accettare una
fra le varie o erte estere che pure gli sono state fatte. Strehler dichiara pubblicamente di
non sentirsela di lavorare con il fucile puntato addosso. “Il fucile della Milano snob
sedicente di sinistra e carica di miliardi, per cui Brecht un vecchio organo s atato e il
Piccolo Teatro il regno della noia. Voglio potere provare due mesi uno spettacolo che il
minimo decente, senza sentirmi un criminale che manda a picco il bilancio. Voglio avere il
diritto di sbagliare, una volta tanto, senza che subito da tutte le parti mi si spari addosso a
zero. E poi che cessi questa retorica dello Strehler che non fa nulla, sullo Strehler che non
ha pi voglia di lavorare”. E ancora: “Il problema di sapere che cosa si intende per fare del
teatro a gestione pubblica, non soltanto a Milano ma in tutta Italia. E non si tratta tanto di
piani economici quanto di inquadramento sociale, morale e naturalmente legislativo. Cos ,
certo non si pu andare avanti. Volete per esempio un Teatro Nazionale? E allora bisogner
vedere chi ha i titoli per assumersi tale funzione. Oppure, no, vi va bene cos , bisogna
continuare? E allora dovete darci la possibilit di lavorare in modo decente, dovete darci un
teatro, nalmente, un teatro di 1.500 posti, che la misura giusta”. Forse anche per tali
ragioni, il regista nel 1967 produce per il Piccolo il solo recital Io, Bertolt Brecht. Poesie e
canzoni interpretate da Giorgio Strehler e Milva4 che conclude nel giugno 1967 la stagione.
“Io. Bertolt Brecht prende il titolo da un verso autobiogra co del grande drammaturgo, ed
un «fatto teatrale», pi che uno spettacolo: distinzione operata dallo stesso Giorgio Strehler,
il quale ovviamente regista della rappresentazione e suo interprete insieme con Milva.
Liriche e canzoni: alcune famosissime, in specie fra queste ultime, altre forse meno
conosciute. E dall’insieme scaturisce un ritratto a ettuoso e fraterno dello scrittore,
dell'uomo, della sua breve, ardente parabola nella storia e nell'esistenza. La sua giovinezza
ribelle, la sua formazione teatrale e politica, il suo lungo esilio (che per tanti anni
«costeggia» l’amata e odiata Germania), la sua partecipazione alla lotta antifascista, il suo
ritorno, la sua presenza attiva e critica nella costruzione del socialismo. Strehler ha
compiuto un piccolo prodigio. riuscendo a raccogliere nel giro di due ore e mezzo tutti gli
elementi essenziali alla comprensione di Brecht, senza scadere nella pura apologetica e
senza lasciarsi sedurre da aspetti marginali, bench brillanti.”

Nel frattempo, il regista avvia un radicale ripensamento del proprio ruolo di uomo di teatro
all’interno di una struttura pubblica stabile, ripensamento che non , tuttavia, ascrivibile

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solamente a s ducia nei confronti del sistema teatrale. Bisogna ricordare che verso la ne
degli anni Sessanta, segnata da profonde contestazioni che investono anche, seppure non
principalmente, il teatro, la gura del regista e l’egemonia ch’essa ha instaurato,
comparendo con tanta energia sulle scene italiane a partire dal secondo dopoguerra,
divengono, infatti, oggetto di accese discussioni. Il termine “regista” diviene sinonimo di
“despota della scena” e la sua stessa gura professionale diviene oggetto di critica da parte
di gruppi e gure emergenti che ri utano la centralit di una personalit demiurgica nella
creazione dell’evento teatrale e sono, invece, pi favorevoli a esigenze collettivistiche e
all’idea di un teatro di corresponsabilit . Il Convegno “Per un nuovo teatro” che si svolge a
Ivrea nel 1967 e il manifesto che ne segue (sottoscritto, fra gli altri, da Luca Ronconi,
Carmelo Bene e Aldo Trionfo) costituiscono un atto d’accusa di non trascurabile entit in un
momento critico nei confronti del teatro di regia e della politica produttiva seguita dagli
stabili a nanziamento pubblico. Se da un lato, il regista e drammaturgo Luigi Squarzina
mostra impegno a ri ettere autocriticamente sul ruolo ch’egli stesso riveste, accanto ai pi
autorevoli fra i suoi colleghi, nel teatro che insieme hanno saputo edi care, nella folgorante
metafora scenica di Una delle ultime sere di Carnovale (1967), Gianfranco de Bosio, d’altro
lato, si dimette dalla direzione del Teatro Stabile di Torino.

In questo periodo Strehler pensa concretamente anche al cinema come dichiara a Giorgio
Polacco in una lunga intervista pubblicata sul “La Stampa”: Giorgio Strehler, che da
vent'anni esatti dirige insieme a Paolo Grassi il Piccolo Teatro di Milano. Siamo andati a
scovarlo a Gardone, dove in una villa a cento metri dal lago, fra il verde intenso di un tto
parco, sta trascorrendo alcuni giorni di riposo, dopo l'allestimento dei pirandelliani Giganti
della montagna, e in vista delle impegnative fatiche che l'attendono (prima fra tutte, una
paventatissima operazione alle tonsille). Sono anni e anni che i produttori danno la caccia a
Strehler, cercando di convincerlo a mettersi dietro la macchina da presa. Ora,
e ettivamente, qualcosa maturato. Esiste un contratto in piena regola con Carlo Ponti,
per un lm da girare entro il 1968. «Ma sempre ammesso — ci tiene a sottolineare Il regista
— che si trovi, Ponti ed io, un soggetto di comune accordo, e con il soggetto una linea
interpretativa, un cast d'attori, un metodo di lavoro che ci trovi pienamente consenzienti
entrambi. Ora, sino ad oggi, tutto questo non l'abbiamo ancora trovato, sebbene ci stia
pensando piuttosto intensamente da agosto in qua. Si capisce, hanno fatto presto a
mettermi in bocca delle semplici idee come se si trattasse di progetti gi avanzati. anche
facile: l'autore preferito di Strehler Brecht. Bene, far Madre Coraggio con Sophia. La sua
citt Trieste, la sua cultura, mitteleuropea, a ondata in quel lembo di terra ai con ni con
l'Austria e la Jugoslavia? Bene, debutter con La coscienza di Zeno, che oltre a tutto oggi
si vende bene anche nei pockets. «Veramente, crediamo di sapere che per Zeno le cose
stanno un po' pi avanti che per Brecht.

Abbiamo letto qualche pagina di sceneggiatura». «Non si tratta di una sceneggiatura. Ho


provato a buttar gi sulla carta, cos come mi frullavano per il capo, alcune idee di
ambientazione del grande romanzo sveviano. Luci, personaggi, colori di una citt , che non
esiste pi , la Trieste di cinquant’anni fa: qualche pennellata, insomma, la ricerca di
un'atmosfera, per cercar di ssare qualche immagine, ma niente di pi . In questi giorni
scadeva il termine contrattuale per presentare a Ponti un abbozzo di treatment e io gli ho
consegnato queste venti cartelle. Ma quasi certamente non se ne far nulla». «In fumo,
quindi l'idea di tanta solitudine. Potrebbe essere nalmente l'occasione per il grande ritorno
della divina». M'incontrer con lei il prossimo mese. Chiss , io non dispero di convincerla.
Poi, magari, il soggetto potrebbe cambiare, diventare addirittura la storia di un lm con la

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Garbo che poi non si fa, una specie di Otto e mezzo, insomma, ma alla mia maniera. «E
Madre Coraggio, a teatro, non si fa pi ?». «Madre Coraggio si fa, eccome. Inizieremo le
prove in autunno e lo spettacolo andr in scena alla ne dell'anno, con Lina Volonghi
protagonista. Cos cadranno tutte le illazioni che si sono fatte sulla scomparsa del
capolavoro di Brecht dal cartellone del Piccolo di quest'anno. Un semplice rinvio di qualche
mese, ecco tutto. Riempiremo il vuoto con uno spettacolo brechtiano interpretato da Milva
e da me. Reciteremo e canteremo insieme. Gi , tanto, un giorno o l'altro, dovr pur
decidermi a far io la parte di Machie Messer nell'Opera da tre soldi!». Non recitava
perlomeno da quindici anni, dall'epoca del Re Cervo di Gozzi. Qualcuno lo ricorda ancora,
la sera dell’inaugurazione del Piccolo, dire qualche battuta nell'Albergo dei poveri di Gorkj e
strimpellare una sarmonica. Accantonato per il momento il debutto cinematogra co,
Strehler ritorna forse ad accarezzare la sua antica passione, quella dell'attore?”. Il 22 luglio
1968, Giorgio Strehler si dimette e consegna il “suo” Piccolo di Milano, dopo ventun anni di
attivit durante i quali l'Ente pubblico milanese si imposto all'attenzione della critica e del
pubblico non solo italiano, ma europeo. In una lettera, discussa sabato 20 luglio dal
Consiglio d'amministrazione, il regista triestino motiva la sua decisione con la necessit di
sperimentare nuove metodologie di lavoro in una indipendenza di scelte e responsabilit
che egli ritiene non compatibili con un pubblico istituto e precisa di non avere dissensi n
col Piccolo Teatro n con Paolo Grassi, l'altro condirettore. Le dimissioni-e non poteva
essere altrimenti- sono state accettate”. Il gesto appare motivato dal disagio che
l’acclamato regista prova entro un contesto di crescente di denza nei confronti di chi,
come lui, ha di fatto consentito la nascita di un teatro profondamente rinnovato anche in
Italia e da un’esigenza sincera di ridiscendere in trincea per fornire un contributo personale
in un momento di profondo ripensamento culturale e politico. “Quando sono uscito dal
Piccolo - racconta Strehler - stata una grande lacerazione. Colpevole fu il ‘68. Una
mattina, sotto le mie nestre, una turba di giovani urlava. Io mi sono detto: ecco i compagni
che vengono a chiedermi di andare alla manifestazione. Ho aperto la nestra e mi hanno
preso a pernacchie, avevano dei cartelli con su scritto: morte al barone, morte a Grassi e a
Strehler. Era la contestazione giovanile, sulla bocca avevano solo Che Guevara. Cosa
potevo fare? Sono sceso in strada e ho gridato: “Ragazzi, andiamo al Piccolo che vi faccio
vedere”. Siamo entrati nel mio u cio, ho mostrato loro la mia sedia, era una sedia
miserabile, sai e ho detto: “Voi credete che questa sia una poltrona? Va bene, prendetela
allora, prendetevi il mio posto. Ma ricordatevi che Strehler fa il teatro qui in Europa dentro
fuori, senza di voi, con voi, con le strutture, senza le strutture.” Ho preso la mia roba e non
mi hanno pi visto. Ho fatto una cooperativa e sono stato con questa cooperativa quattro
anni.” Eppure, probabilmente, tale distacco trova una motivazione non trascurabile anche
nelle divergenze di opinione che, con crescente frequenza, lo contrappongono all’amico
Grassi il quale con lui condivide la direzione del Piccolo. Infatti, da quello storico 1947, il
rapporto con Grassi si andato via via modi cando e, pur mantenendo come base una
schietta amicizia, sembra forse essere giunto a un momento cruciale. “Naturalmente fra
Grassi e me in quel momento c’erano delle di colt che erano di ordine tecnico-strutturale.
Lui, ancora prima del ’68, aveva nito per dare una cadenza di eccessiva produttivit al
teatro, in luogo dell’approfondimento che io, che stavo avviandomi alla maturit ,
desideravo. Facevamo cinque spettacoli all’anno, capisci? E io dicevo: “Facciamone due,
ma bene”. I politici, cittadini e nazionali, stavano dalla parte sua, e forse era lui a sentirne il
ato sul collo. E quindi s , vero, c’era fra noi un contrasto molto forte che stranamente
non aveva pi i momenti frenetici di prima. Era una cosa composta, fredda, molto seria, che
per non aveva intaccato la nostra amicizia”. Dal canto suo, Grassi accoglie con dolore la

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notizia delle dimissioni dell’amico e sottolinea che la decisione di Strehler (che
personalmente egli non si sente di fare propria, credendo che ancora ci sia la possibilit di
salvare la politica dei teatri stabili pubblici), non deve essere interpretata come atto di
protesta verso questi ultimi, alla cui nascita e creazione di una sionomia il regista ha dato
enorme contributo, bens verso tutti i problemi irrisolti del teatro a gestione pubblica e, in
particolare, a quelli del Piccolo (ine cienza delle strutture delle due sale, necessit di una
nuova sede, pressioni e ingerenze politiche) gi indicati da anni dai due direttori. Quella di
Strehler si con gura come una decisione, so erta e dolorosa, che ha come ne ultimo
quello di smuovere il mondo dello spettacolo e, soprattutto, della politica e della sotto
politica verso una maggiore responsabilit nei confronti della cultura e del teatro che “non
- tuona Grassi - vetrina di ambizioni personali ma espressione di civilt , saldatura tra cultura
e societ ”. La crisi, professionale e umana, di un grande regista come Strehler nei confronti
delle istituzioni dovrebbe nalmente dissuadere queste ultime dal lasciar “scrivere questa
storia (del teatro) ancora una volta sull’acqua, lasciandola soltanto all’invenzione degli
artisti, ma a dandola a strumenti e iniziative che la leghino alla storia e ai problemi della
nostra societ .”

Nel maggio 1968, mentre a Parigi gli studenti invadono il Th tre de l’Od on, tempio della
scena francese, costringendo alle dimissioni il direttore Jean Louis Barrault, Strehler
abbandona, dunque, il teatro di via Rovello. “Con la mia scelta — conferma — ho voluto
riprendere il mio posto sul palcoscenico, solo, senza nessun equivoco di potere nelle mani,
l dove falsi profeti, miserabili ambiziosi non mirano, in realt , che al potere. Io ci rinuncio,
per contrapporre ai parolai il "fare". II fare teatro, nello spirito con cui ho intrapreso il mio
lavoro vent'anni fa. Mi chiedi in concreto che cosa far , che cosa saranno, insomma, quelle
nuove metodologie di cui tanto si parlato a proposito della mia lettera di dimissioni. Non
ho la risposta pronta, n facile. N globale. Sar , la mia, una sperimentazione, una ricerca,
che nascer e si svilupper sul lavoro concreto che far per mettere in scena, con un
gruppo di sette attori, II fantoccio lusitano di Peter Weiss. Punter qui tutte le mie carte, e
non tanto quelle del successo, e quindi dell'avvenire mio, quanto proprio quelle della
ricerca. Sara qualcosa di estremamente duttile, aggressivo, rapido, concreto, in una totale
libert inventiva. senza preoccupazioni esterne di nessun genere. Cercher di creare
rapporti nuovi con gli attori, coi tecnici, col pubblico.” Pur consapevole di lasciare un vuoto
incolmabile, non essendo ipotizzabile una sua sostituzione a nessun livello, il regista
coinvolge nella propria avventura un drappello di attori (vecchi e nuovi) e di fedeli
collaboratori (Franco Graziosi, Giancarlo Dettori, Milva, Giustino Durano, Marisa Fabbri,
Milena Vukotic, Gianfranco Mauri, Fiorenzo Carpi, Ezio Frigerio, Lamberto Puggelli, Marise
Flach) con i quali si trasferisce a Roma per fondare il Gruppo Teatro e Azione. “Ho sentito
che una certa parabola della mia vita si era conclusa, anche se poteva essere
apparentemente o arti ciosamente protratta. stata una lacerazione che mi costata
molto, ma era necessaria, per rimescolare le carte e mettere il teatro a gestione pubblica di
fronte alle sue responsabilit , per trascinare ad un'autocritica quanti sono implicati con la
vita teatrale in Italia.” Il gruppo Teatro e Azione lo strumento di questo lavoro e un
tentativo di rispondere a molti interrogativi con “una dimostrazione concreta di possibilit di
azione teatrale e politica, politica di teatro e politica di vita”. Il gruppo non solo
un'alternativa al teatro a gestione pubblica, ma anche un modo, non l'unico (sottolinea
Strehler), di fare del teatro con strutture e rapporti diversi: autogestione, partecipazione
diretta di tutti all'attivit artistica e amministrativa, nanziamento basato sulla riduzione al
minimo delle paghe e le anticipazioni dei teatri dove il gruppo reciter , discussione continua

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e aperta sul lavoro fatto e da fare, sui programmi futuri. Su questa “tartana di comici”, come
goldonianamente la chiama il suo capitano, sono imbarcati registi e scenogra , coreogra e
musicisti, tecnici e letterati, oltre, naturalmente, una decina di attori. Si tratta infatti di una
struttura a base cooperativistica, il cui nome ri ette in modo evidente la volont del regista
di rigenerarsi in un bagno di attivit , nel fuoco della contestazione politica e culturale. Una
volont che ritroviamo nelle stesse dichiarazioni coeve di Strehler: “Il nostro gruppo (e il mio
plurale non maiestatico, ma reale e autentico) autosu ciente, autonomo e indipendente,
anche attraverso una forma pratica di auto nanziamento, che ci porter ben presto a
recitare spettacoli nelle fabbriche, dinanzi a un pubblico forse idealmente pi vicino a noi.”
Ne forniscono testimonianza gli allestimenti rmati dal regista, il quale si propone di mettere
in scena testi particolarmente idonei a interpretare la partecipazione e l’interesse del gruppo
per eventi politici.

Note

1 Duecentomila e uno di Salvato Cappelli. Scene e costumi: Ezio Frigerio. Musiche: Raoul Ceroni.
Interpreti: Giancarlo Sbragia, Valeria Valeri, Carlo Cataneo, Luciano Alberici, Franco Mezzera, Mario
Mariani, Gabriella Giacobbe, Maria Teresa Bax, Ottavio Fanfani, Ugo Bologna, Bob Marchese, Carlo
Formigoni, Umberto Troni, Dario Penne. Milano, Piccolo Teatro, 4 maggio 1966.

2 Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Concertatore e direttore d’orchestra: Herbert von Karajan.
Scene e costumi: Luciano Damiani. Interpreti: Fiorenza Cossotto, Adriana Martino, Gianfranco
Cecchele, Gian Giacomo Guel , Anna Di Stasio. Milano, Teatro alla Scala, 12 maggio 1966.

3 I giganti della montagna di Luigi Pirandello (seconda edizione) Giorgio Strehler. Scene: Ezio Frigerio.
Costumi: Ezio Frigerio, Enrico Job. Musiche: Fiorenzo Carpi. Maschere: Luisa Spinatelli. Movimenti
mimici: Marise Flach. Interpreti: Valentina Cortese, Luciano Alberici, Marisa Fabbri, Mario Carotenuto,
Alessandro Ninchi, Virgilio Gottardi, Leopoldo Valentini, Pietro Buttarelli, Turi Ferro, Lino Robi, Olimpo
Griggio, Nuccia Fumo, Carlo Formigoni, Dory Dorika, Ivana Monti. Milano, Teatro Lirico, 25 novembre
1966.

4 Io, Bertolt Brecht (poesie e canzoni) da Bertolt Brecht. Interprete: Giorgio Strehler. Cantante: Milva.
Collaboratore musicale: Doriano Saracino. Milano, Piccolo Teatro, 9 giugno 1967.

Lezione 14

31.03.2020

1969-71 Gli spettacoli con il Gruppo Teatro e Azione, un nuovo Brecht e le regie liriche.

Con il Gruppo Teatro e Azione, Strehler presenta Cantata di un mostro lusitano di Peter
Weiss, nel fondo di Gorkij e Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di
guerra (Walter Reder). Firma la regia per Santa Giovanna dei macelli di Brecht. Presenta al
maggio Musicale orentino Fidelio di Beethoven (direttore Zubin Mehta) e alla Scala Simon
Boccanegra di Verdi (direttore Claudio Abbado).

22 luglio 1968, Giorgio Strehler dopo 21 anni di servizio ininterrotto, si dimette da direttore
e consegna il ‘suo’ Piccolo Teatro nelle mani di Paolo Grassi. La stampa ne d prontamente
annuncio: “Giorgio Strehler, il più prestigioso regista di teatro italiano, ha lasciato la
condirezione del Piccolo di Milano, dopo ventun anni di attivit durante i quali l'Ente
pubblico milanese si imposto all'attenzione della critica e del pubblico non solo italiano,

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ma europeo. In una lettera, discussa sabato 20 luglio dal Consiglio d'amministrazione, il
regista triestino motiva la sua decisione con la necessit di sperimentare nuove
metodologie di lavoro in una indipendenza di scelte e responsabilit che egli ritiene non
compatibili con un pubblico istituto e precisa di non avere dissensi n con il Piccolo Teatro
n con Paolo Grassi, l'altro condirettore.” Le dimissioni - e non poteva essere altrimenti-
sono state accolte dal Consiglio di Amministrazione, presieduto dal Sindaco di Milano Aldo
Aniasi. Il gesto appare motivato dal disagio che l’acclamato regista prova entro un contesto
di crescente di denza nei confronti del lavoro di chi, come lui, ha di fatto consentito la
nascita di un teatro profondamente rinnovato anche in Italia, e da un’esigenza sincera di
ridiscendere in trincea per fornire un contributo personale in un momento di profondo
ripensamento culturale e politico. “Quando sono uscito dal Piccolo - ricorda Strehler -
stata una grande lacerazione. Colpevole fu il ‘68. Una mattina, sotto le mie nestre, una
turba di giovani urlava. Io mi sono detto: ecco i compagni che vengono a chiedermi di
andare alla manifestazione. Ho aperto la nestra e mi hanno preso a pernacchie, avevano
dei cartelli con su scritto: morte al barone, morte a Grassi e a Strehler. Era la contestazione
giovanile, sulla bocca avevano solo Che Guevara. Cosa potevo fare? Sono sceso in strada
e ho gridato: “Ragazzi, andiamo al Piccolo che vi faccio vedere”. Siamo entrati nel mio
u cio, ho mostrato loro la mia sedia, era una sedia miserabile, e ho detto: “Voi credete che
questa sia una poltrona? Va bene, prendetela allora, prendetevi il mio posto. Ma ricordatevi
che Strehler fa il teatro qui in Europa dentro fuori, senza di voi, con voi, con le strutture,
senza le strutture.” Ho preso la mia roba e non mi hanno pi visto. Ho fatto una cooperativa
e sono stato con questa cooperativa quattro anni.” Eppure, probabilmente, tale distacco
trova una motivazione non trascurabile anche nelle divergenze di opinione che, con
crescente frequenza, lo contrappongono all’amico Grassi il quale con lui condivide la
direzione del Piccolo. Infatti, da quello storico 1947, il rapporto con Grassi si andato via
via modi cando e, pur mantenendo come base una schietta amicizia e una profonda stima,
sembra forse essere giunto a un momento cruciale. “Naturalmente fra Grassi e me in quel
momento c’erano delle di colt che erano di ordine tecnico-strutturale. Lui, ancora prima
del ’68, aveva nito per dare una cadenza di eccessiva produttivit al teatro, in luogo
dell’approfondimento che io, che stavo avviandomi alla maturit , desideravo. Facevamo
cinque spettacoli all’anno, capisci? E io dicevo: “Facciamone due, ma bene”. I politici,
cittadini e nazionali, stavano dalla parte sua, e forse era lui a sentirne il ato sul collo. E
quindi s , vero, c’era fra noi un contrasto molto forte che stranamente non aveva pi i
momenti frenetici di prima. Era una cosa composta, fredda, molto seria, che per non
aveva intaccato la nostra amicizia”. Dal canto suo, Grassi accoglie con dolore la notizia
delle dimissioni dell’amico e sottolinea che la decisione di Strehler (che personalmente egli
non si sente di fare propria, credendo che ancora ci sia la possibilit di salvare la politica
dei teatri stabili pubblici), non deve essere interpretata come atto di protesta verso questi
ultimi, alla cui nascita e creazione di una sionomia il regista ha dato enorme contributo,
bens verso tutti i problemi irrisolti del teatro a gestione pubblica e, in particolare, a quelli
del Piccolo (ine cienza delle strutture delle due sale, necessit di una nuova sede,
pressioni e ingerenze politiche) gi indicati da anni dai due direttori. Quella di Strehler si
con gura come una decisione, so erta e dolorosa, che ha come ne ultimo quello di
smuovere il mondo dello spettacolo e, soprattutto, della politica e della sottopolitica verso
una maggiore responsabilit nei confronti della cultura e del teatro che “non - tuona
Grassi - vetrina di ambizioni personali ma espressione di civilt , saldatura tra cultura e
societ ”. La crisi, professionale e umana, di un grande regista come Strehler nei confronti
delle istituzioni dovrebbe nalmente dissuadere queste ultime dal lasciar “scrivere questa

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storia (del teatro) ancora una volta sull’acqua, lasciandola soltanto all’invenzione degli
artisti, ma a dandola a strumenti e iniziative che la leghino alla storia e ai problemi della
nostra societ .”

Nel maggio 1968, mentre a Parigi gli studenti invadono il Th tre de l’Od on, tempio della
scena francese, costringendo alle dimissioni il direttore Jean Louis Barrault, Strehler
abbandona, dunque, il suo teatro di via Rovello. “Con la mia scelta - conferma - ho voluto
riprendere il mio posto sul palcoscenico, solo, senza nessun equivoco di potere nelle mani,
l dove falsi profeti, miserabili ambiziosi non mirano, in realt , che al potere. Io ci rinuncio,
per contrapporre ai parolai il "fare". II fare teatro, nello spirito con cui ho intrapreso il mio
lavoro vent'anni fa. Mi chiedono in concreto che cosa far , che cosa saranno, insomma,
quelle nuove metodologie di cui tanto si parlato a proposito della mia lettera di dimissioni.
Non ho la risposta pronta, n facile. N globale. Sar , la mia, una sperimentazione, una
ricerca, che nascer e si svilupper sul lavoro concreto che far per mettere in scena, con
un gruppo di sette attori, II fantoccio lusitano di Peter Weiss. Punter qui tutte le mie carte,
e non tanto quelle del successo, e quindi dell'avvenire mio, quanto proprio quelle della
ricerca. Sara qualcosa di estremamente duttile, aggressivo, rapido, concreto, in una totale
libert inventiva. senza preoccupazioni esterne di nessun genere. Cercher di creare
rapporti nuovi con gli attori, coi tecnici, col pubblico.” Pur consapevole di lasciare un vuoto
incolmabile, non essendo ipotizzabile una sua sostituzione a nessun livello, il regista
coinvolge nella propria avventura un drappello di attori (vecchi e nuovi) e di fedeli
collaboratori (Franco Graziosi, Giancarlo Dettori, Milva, Giustino Durano, Marisa Fabbri,
Milena Vukotic, Gianfranco Mauri, Fiorenzo Carpi, Ezio Frigerio, Lamberto Puggelli, Marise
Flach) con i quali si trasferisce a Roma per fondare il Gruppo Teatro e Azione. “Ho sentito
che una certa parabola della mia vita si era conclusa, anche se poteva essere
apparentemente o arti ciosamente protratta. stata una lacerazione che mi costata
molto, ma era necessaria, per rimescolare le carte e mettere il teatro a gestione pubblica di
fronte alle sue responsabilit , per trascinare ad un'autocritica quanti sono implicati con la
vita teatrale in Italia.” Il gruppo Teatro e Azione lo strumento di questo lavoro e un
tentativo di rispondere a molti interrogativi con “una dimostrazione concreta di possibilit di
azione teatrale e politica, politica di teatro e politica di vita”. Il gruppo non solo
un'alternativa al teatro a gestione pubblica, ma anche un modo, non l'unico (sottolinea
Strehler), di fare del teatro con strutture e rapporti diversi: autogestione, partecipazione
diretta di tutti all'attivit artistica e amministrativa, nanziamento basato sulla riduzione al
minimo delle paghe e le anticipazioni dei teatri dove il gruppo reciter , discussione continua
e aperta sul lavoro fatto e da fare, sui programmi futuri. Su questa “tartana di comici”, come
goldonianamente la chiama il suo capitano, sono imbarcati registi e scenogra , coreogra e
musicisti, tecnici e letterati, oltre, naturalmente, una decina di attori. Si tratta infatti di una
struttura a base cooperativistica, il cui nome ri ette in modo evidente la volont del regista
di rigenerarsi in un bagno di attivit , nel fuoco della contestazione politica e culturale. Una
volont che ritroviamo nelle stesse dichiarazioni coeve di Strehler: “Il nostro gruppo (e il mio
plurale non maiestatico, ma reale e autentico) autosu ciente, autonomo e indipendente,
anche attraverso una forma pratica di auto nanziamento, che ci porter ben presto a
recitare spettacoli nelle fabbriche, dinanzi a un pubblico forse idealmente pi vicino a noi.”
Ne forniscono testimonianza gli allestimenti rmati dal regista, il quale mette in scena testi
particolarmente idonei a interpretare la partecipazione e l’interesse del gruppo per eventi
politici. Ma andiamo per ordine. Il 18 febbraio 1969 Strehler presenta il Gruppo Teatro e
Azione in una conferenza stampa a Roma. “Un alternativa ai teatri a gestione pubblica. Una

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possibilità concreta di fare teatro, non l’unica o la migliore. -ripete il regista- un collettivo,
un’assemblea permanente, un incontro di personalità diverse sul comune terreno del
lavoro. Nato sulla base dell'autogestione, il collettivo ha ridotto al minimo i suoi costi. Del
gruppo fanno parte gli attori, sceneggiatori, musicisti, tecnici. Mancano ancora gli uomini di
di erenti interessi, anche extra teatrali, che ci stiano accanto, discutano e a anchino da
altri punti di vista il nostro lavoro di palcoscenico. Ma ci avverr , lo spero. Anzitutto i
drammaturghi: bisogna che il drammaturgo torni ad essere materialmente presente al rito
delle prove, alla realt del lavoro sul palcoscenico”.

Nel frattempo Strehler presenta un adattamento delle prove, alla realt del lavoro sul
palcoscenico”. Nel frattempo Strehler presenta un adattamento per la radio nazionale de
L'eccezione e la regola di Brecht, trasmesso il 12 e 13 marzo 1969, caratterizzato dalle
canzoni-ballate composte da Fiorenzo Carpi e dalla interpretazione di Ottavio Fanfani,
Gianfranco Mauri, Vincenzo De Toma,Marisa Fabbri e dello stesso regista che sostiene il
ruolo del giudice.

Per l’esordio scenico del neo costituito Gruppo Teatro e Azione, Strehler sceglie La cantata
di un mostro lusitano1, il suo centocinquantunesimo spettacolo, “lavoro di teatro con
musiche” di Peter Weiss dedicato al tema dello sfruttamento condotto dal Portogallo
nell’Angola che va in scena il 25 marzo 1969 al Teatro Quirino di Roma. Dieci attori, cinque
uomini e cinque donne, interpretano i bianchi e i neri, passando da un ruolo all’altro con un
semplice scambio di cappelli: quelli larghi di paglia li trasformano in neri, quelli sformati di
sto a in bianchi. Fino alla distruzione nale, su tutti i personaggi grava l’invenzione che d il
titolo al dramma: l’ombra minacciosa di un mostruoso fantoccio, simbolo del ‘potere
bianco’ e del colonialismo portoghese. Si tratta di un testo che - come un collage –
assembla dati storici, brani di cronaca, discorsi politici, documenti, statistiche, spesso
facendo tesoro del didascalismo di ascendenza brechtiana. La scelta di un testo
drammaturgico “aperto, mobile, incerto” da addebitarsi sia a motivi di ordine ideologico,
sia alla volont di dare vita a una proposta di spettacolo, di iniziare un esperimento di lavoro
collettivo non sul vuoto o sul nulla, ma su una base solida che non sia per troppo
vincolante (il testo diviene un pre-testo). Il regista interviene, infatti, sul testo, modi cando e
ampliando la Cantata che lo stesso Weiss, del resto, considera un canovaccio sul quale
ogni interprete chiamato a lavorare autonomamente. Se, a livello testuale, egli tenta di
allargare i termini della questione, scavalcando i limiti geogra ci e temporali nei quali Weiss
ambienta il problema del razzismo, a livello pi schiettamente spettacolistico, Strehler
arricchisce lo spettacolo, con estro e spirito liberatorio, di una potente iniezione di fantasia
teatrale, che rende il messaggio pi chiaro e invitante. Lo spettacolo riesce, tra l’altro, in
maniera soddisfacente anche nell’intento programmatico di sollevare le reazioni negli
spettatori. La Cantata appare cos una riproposta del repertorio strehleriano
dall’espressionismo, al teatro epico e didascalico d’estrazione brechtiana, al tripudio
fragoroso del circo, al patetismo misto di derisione del music hall. Tutto ci , per , in una
forma inedita per Strehler, quella di uno spettacolo che sembra farsi sera per sera, con una
specie di bruschezza, una voluta approssimazione; in uno spettacolo non “bello”, ma di
grande impatto visivo e emotivo. L’esperienza extra-Piccolo della Cantata riporta, cos ,
Strehler alla terra d’origine; evidente la continuit nel modo di fare regia, come lo la
volont di proseguire il lavoro sul realismo. Lo spettacolo si impegna, infatti, a inscenare
una contrapposizione dialettica di due tecniche teatrali che dividono un po’ troppo
sommariamente le esperienze contemporanee: l’identi cazione stanislavskiana e la
distanza epica brechtiana. All’interno del “collettivo” di attori emergono le presenze di

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Marisa Fabbri, Franco Graziosi, Marisa Minelli, Milena Vukotic, Gianfranco Dettori, Giustino
Durano e Milva, qui anche attrice.

Nel giugno 1969, per il XXXII Maggio Musicale Fiorentino, Strehler si dedica all’allestimento
del Fidelio2 di Ludwig van Beethoven, diretto e concertato da Zubin Mehta, con scene e
costumi disegnati da Ezio Frigerio. L’opera principia in un’atmosfera ancora calata in un
Settecento “classico” e pre-rivoluzionario, ma, mano a mano che il dramma si svolge, il
tono solare svanisce per lasciare spazio a colori pi inquietanti che rimandano alla
rivoluzione francese e, soprattutto, al successivo dominio napoleonico. Tale progressivo
oscuramento della vicenda convince il regista ad ambientare Fidelio negli anni della sua
ultima stesura, cio nel 1814, poich , soltanto in tale versione l'opera reca i segni pi
evidenti della personalit del musicista deluso dagli avvenimenti storici a lui contemporanei.
Per Strehler, Fidelio un dramma umano, sociale, politico, una s da all’ordine classico, ed
anche l'indicazione di un dramma di Beethoven stesso che si sent tradito dalla
Rivoluzione francese che gli apparve, con Napoleone Bonaparte, una “non rivoluzione”,
un'oppressione falsamente rivoluzionaria. Cos dallo spiazzo antistante il carcere del primo
atto, per mezzo di un sistema di rotazione delle strutture sceniche, lo spettatore guidato
nelle tte tenebre delle prigioni e nei tetri sotterranei dove sono rinchiusi i prigionieri.
L'atmosfera si fa sempre pi cupa, no a quando, in corrispondenza con il nale, le mura
della prigione crollano lasciando ltrare lame di luce, che dissipano – ma solo
provvisoriamente - l'angoscia e il senso d'oppressione. Un Fidelio che Strehler de nisce
goyesco, gettando quasi un ponte fra il titanismo di Beethoven e quello del pittore
Francisco Goya. Cos osserva Carlo Titomanlio “Una immensa sequenza di domande e di
scelte, ognuna contrastante quasi con le altre», cos Giorgio Strehler de n Fidelio in un
contributo autocritico pubblicato nel 1974. Dalle cronache relative all’edizione del 1969 per
il Maggio Musicale Fiorentino (prima di due distinte versioni, distanti vent’anni l’una
dall’altra) emerge con chiarezza quali siano state le risposte fornite dal regista triestino alla
prova del palcoscenico. Priorit del suo intervento registico, per certi versi pionieristico nel
novero delle realizzazioni novecentesche, il recupero dell’immanente teatralit dell’opera.
Lo sviluppo drammaturgico interno, che anche sviluppo ritmico ed emotivo, accentuato
imponendo ai cantanti dinamiche recitative parallele allo svolgersi della vicenda e
all’esecuzione musicale: vivaci e disinvolte all’inizio, ad assecondare il clima ‘cameristico’
delle prime scene, e poi gradualmente pi intense, tormentate. Ma vi concorre in maniera
essenziale anche l’impianto scenogra co messo a punto da Ezio Frigerio, tra i collaboratori
storici di Strehler. L’azione trasferita arbitrariamente ai primi dell’Ottocento, epoca ltrata
attraverso connotazioni visive ispirate alle pi cupe pitture di Goya, dai rapporti tonali
evocativi e anticlassici. goyesca la nera parete di pietre squadrate che durante l’opera
avanza fatalmente dal fondo no al boccascena, restringendo il campo d’azione, cos come
le vesti lacere fatte indossare agli oppressi e le feluche napoleoniche portate dai carcerieri.
In tal modo, ri ettendo «sulla posizione umana e politica di Beethoven» e associandovi
quella del suo contemporaneo Goya (accomunato al primo, oltre che dalla senile sordit ,
anche dalla condizione di inquieto testimone del periodo rivoluzionario e poi napoleonico),
Strehler e Frigerio costruiscono un sistema specchiante scevro da ogni tendenziosa
sovrastruttura.”.

A Firenze in questi mesi prende corpo con Tullio Kezich, l’amico di una vita, e Ludovico
Zorzi anche il progetto M moires che avrebbe dovuto portare alla rappresentazione della
vita di Goldoni messa in scena o sullo schermo attraverso appunto le sue memorie. Questo
progetto - che, come diremo, non vedr mai la sua realizzazione - tuttavia posposto

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all’impegnativo allestimento della Santa Giovanna di Brecht. Coprodotta dal Maggio
Musicale Fiorentino e dal Piccolo Teatro e messa in scena al Teatro della Pergola il 3 luglio
1970, Santa Giovanna dei macelli3, rappresenta infatti la settima tappa di Strehler nel teatro
brechtiano, di cui il regista presenta una fra le prove migliori. La coproduzione con il
Piccolo, oltre ad avviare il riavvicinamento alla casa-madre, permette a Strehler di tornare a
lavorare con attori a lui fedeli, ma rimasti esterni, anche per motivi ideologici, al Gruppo
Teatro e Azione, fra i quali Valentina Cortese e Gianfranco Mauri. Strehler sceglie il testo,
nella traduzione di Franco Fortini, che per Brecht si inscrive in un momento di trapasso dal
teatro gastronomico a quello epico. Si tratta di un’opera con una dirompente carica
didascalica di stampo marxista, che pure tutta costruita sull’invenzione di una favola
illuminante, quale quella che ripropone l’eroina nazionale francese, Santa Giovanna d’Arco,
nel nostro secolo capitalistico. Lo spettacolo che si svolge nella Chicago degli anni Trenta,
si compone di elementi svariati, tra loro perfettamente connessi, e, ancora una volta,
Strehler, in linea con s stesso quanto con Brecht, si serve di richiami ad altre forme di
spettacolo, in particolare al circo, al variet e al cinema muto di Charlie Chaplin. Le musiche
di Fiorenzo Carpi impreziosiscono questo spettacolo corale. Le scenogra e di Ezio Frigerio
si basano su un elemento costante sullo sfondo, l’immagine grigia e tetra di una periferia
industriale, davanti alla quale tre di erenti tipologie di cancelli si aprono e chiudono,
scandendo, con i loro movimenti, luoghi e tempi dell’azione. L’intento del regista consiste
nel mettere in evidenza plastica sulla scena la divisione della societ in classi e i tre tipi di
cancelli rimandano ai tre mondi evocati sulla scena: vi sono i cancelli delle Fabbriche,
percorsi da lo spinato (che richiamano il mondo degli operai – alludendo sia all’equazione
fabbrica/prigione/lager, sia all’avvento del nazismo negli anni in cui la pi ce fu scritta), i
cancelli dorati della Borsa (il mondo dei capitalisti) e i cancelli funerari (il mondo dei Cappelli
Neri, gli a liati dell’Esercito della Salvezza). Settanta sono gli attori che animano la scena di
Frigerio dove i cancelli scorrono quasi a sostituire il tradizionale “siparietto” e a sottolineare
la divisione della società in classi. Lo spettacolo è ricco di invenzioni gurative e immagini
sceniche di grande impatto. Il mondo degli sfruttatori caratterizzato dal contrasto nero/
bianco delle marsine e degli sparati, ed “tutto immerso in un grottesco violento, che sta
fra il rude disegno di George Grosz e la scatenata comica di Charlot.” Questi “clowns
bicolori” ruotano tutti intorno all’ambiguo Mauler, il re della carne, personaggio che
riassume il Capitalismo violento, interpretato da un Glauco Mauri straordinario. Per contro, il
mondo dei Cappelli Neri (quello da cui proviene Giovanna interpretata da una ineguagliabile
Valentina Cortese) caratterizzato dal viola chiesastico, mentre quello dei settantamila
operai, “di una aspra suggestione”, da un rozzo grigio tela. Fra i diversi temi del dramma, lo
spettacolo sottolinea, con evidente valenza didattica, l’alleanza dei Cappelli Neri con quelli
che Strehler chiama i “Giganti” della Borsa. La religione letta come vero e proprio
instrumentum regni, strumento, che, se bene impiegato nelle sue componenti di sacri cio e
ricompensa eterna, permette ai capitalisti di perpetuare lo sfruttamento degli operai.
“Lodate le musiche di Carpi, molte parole andrebberospese per gli interpreti di questo
settimo allestimento brechtiano di Strehler nel quale i fedelissimi del regista sono
perfettamente a atati con attori che recitano per la prima volta con lui. L'elogio dev'essere
innanzitutto collettivo, lo esige la coralit della rappresentazione. Ci non toglie che Glauco
Mauri sia di una bravura mostruosa sotto il trucco violento di un capitalista abbastanza
somigliante a Hitler, e che con Gigi Pistilli e Franco Mezzera costituisce un formidabile
terzetto. Ricordati ancora Vittorio Sanipoli, Mario Feliciani, Cesare Polacco, Franco Alpestre
e una fortissima Cesarina Gherardi, eccoci in ne a Valentina Cortese, inesausta

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protagonista, in una interpretazione di grande rilievo che ha suggellato un successo per
molti versi memorabile e da tutti meritato”.

Pur se ancora legato a un ambito politico, un testo di erente scelto per la seconda
produzione del Gruppo Teatro e Azione, in scena al Teatro Metastasio di Prato il 12
novembre 1970: si tratta di una nuova edizione (la seconda) de L’albergo dei poveri, il testo
che ventitr anni prima aveva inaugurato proprio la sala di via Rovello. Avvalendosi di ottimi
interpreti quali Renato De Carmine, Franco Graziosi e Antonio Battistella, Giancarlo Dettori,
Gianfranco Mauri e Marisa Fabbri, Strehler presenta il dramma di Gorkij nella nuova
traduzione della slavista Milly Martinelli e con il titolo modi cato Nel fondo4. Tale scelta
nasce da un lato, dal desiderio di maggiore aderenza lologica, d’altro lato, come segno di
un’impostazione ideologica di erente da quella da cui era scaturita la prima edizione:
“Perch Albergo dei poveri, I bassifondi e cos via, quando il titolo di Gorkij Nel fondo
della vita, che Stanislavskji stesso consigli di allargare ancora, lasciando solo Nel fondo,
ossia nel gi , nel pi gi , nell’in mo, nel basso, senza restrizioni o limitazioni di colore
ambientale? Semplicemente Nel fondo perch in questo fondo, in questa sotto-vita si
agitano esseri sprofondati, decaduti nel pi gi di una societ , di un mondo che sopra.
Esseri che sono appunto fuori, out.” Di questo mondo buio, dominato dall’angoscia e dalla
solitudine disperata, Strehler propone ora un’interpretazione meno naturalistica, in cui la
malinconica dimensione corale, protagonista del primo allestimento, cede il passo al
dramma dei singoli individui, allo scavo della dimensione psicologica e della realt sociale
di ciascun personaggio. Leggiamo in una intervista: Lodate le musiche di Carpi, molte
parole andrebbero spese per gli interpreti di questo settimo allestimento brechtiano di
Strehler nel quale i fedelissimi del regista sono perfettamente a atati con attori che
recitano per la prima volta con lui. L'elogio dev'essere innanzitutto collettivo, lo esige la
coralit della rappresentazione. Ci non toglie che Glauco Mauri sia di una bravura
mostruosa sotto il trucco violento di un capitalista abbastanza somigliante a Hitler, e che
con Gigi Pistilli e Franco Mezzera costituisce un formidabile terzetto. Ricordati ancora
Vittorio Sanipoli, Mario Feliciani, Cesare Polacco, Franco Alpestre e una fortissima Cesarina
Gherardi, eccoci in ne a Valentina Cortese, inesausta protagonista, in una interpretazione di
grande rilievo che ha suggellato un successo per molti versi memorabile e da tutti
meritato”. “Che cosa c' stato tra il 1947 e oggi che possa dare un senso a questa ripresa
del testo di Gorki? Ma una vita - tuona lui - un uomo che ha fatto centosettanta spettacoli.
Ed chiaro che non intende rispondere a una domanda, buttata l solo per avviare il
discorso, o per accendere la miccia, quanto per prevenire le obiezioni di coloro che
ricameranno su questo ritorno alle origini per ripetere che Strehler ormai nito, che non ha
pi niente da dire, che non fa altro che commemorarsi. Un uomo nito? Davvero non ho
avuto questa impressione vedendolo provare per sei, sette ore e poi, ancora, ascoltandolo
per altre tre ore late mentre parlava di s e del teatro, delle sue speranze (poche) e delle
sue amarezze (molte). Le prove di Strehler sono sempre lezioni di altissimo teatro, anche
quando tendono irresistibilmente a trasformarsi in un vero e proprio recital sul tema Come
lavora un Grande Regista, se Strehler sa che vi assistono persone estranee allo spettacolo.
Strehler recita con gli attori, ne anticipa e ne accompagna le battute, su ognuna delle quali,
fosse anche di una sola parola, capace di fermarsi a lungo rifacendo e moltiplicando la
storia del personaggio a cui essa tocca e magari dell'interprete che deve pronunciarla.
Poche ore con questo regista che corre instancabilmente su e gi per la platea, sale e
scende mille volte la scaletta che porta in palcoscenico per correggere un'intonazione o
inventare un gesto, e subito si capisce che cosa veramente sia il teatro, la fatica che esso

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costa, il lavoro di scavo e di approfondimento che pu essere fatto su un testo, e non
importa se lo spettatore non lo sapr mai, un suo diritto non saperlo, importa che
percepisca l'insieme che , appunto, il risultato di cento e cento particolari amorevolmente
e accanitamente studiati, provati e riprovati. Perch ancora Gorki, dunque? Non nego —
spiega Strehler — che in principio vi fosse un fatto sentimentale. Quando mi o rirono (nel
luglio 1969), o meglio fecero nta di o rirmi, la direzione del Teatro Stabile di Roma, mi
venne in mente che mi sarebbe piaciuto ricominciare con lo stesso lavoro con cui vent'anni
prima avevo inaugurato il primo teatro italiano a gestione pubblica del dopoguerra. Ma
dopo? Beh, Strehler si riletto il testo, ne ha riesplorato il retroterra - Mosca 1902, il Teatro
d'Arte, Stanislavskij, la cui fotogra a nella parte di Satin campeggia ora sul manifesto dello
spettacolo - e si accorto, ad esempio, che il titolo originale Nadne (Nel fondo) aveva un
signi cato pi inde nito, e pi universale, di quello assunto nelle versioni tedesche e
francesi, e l'ha ripristinato. Arrischio un'interpretazione. Si pu dire allora che in questi venti
anni ci sono stati i "barboni" del Nost Milan, i vagabondi di Beckett, magari anche gli
hippies? S , in un certo senso si pu dirlo, e a questo punto chiaro che Strehler non si
limiter a atto a ripetersi. Lui stesso, del resto, ricorda confusamente la sua messinscena
del 1947, sa soltanto che era tremendamente naturalistica (Dopo tanto fascismo - dice -
eravamo tutti a amati di realt »), mentre questa non lo sar (nemmeno il testo lo ) anche
se ci saranno i suoni e i rumori della vita: il treno, ad esempio, il cui passaggio tecnici e
attori imitano a turno tra le quinte con mezzi rudimentali e che tuttavia, assicura Strehler,
nessuna registrazione dal vivo riuscirebbe a riprodurre meglio. Artigianato? Strehler ne
ero: La nostra una cooperativa, il foglio-paga degli attori di 360 mila lire, quello
dell'intero gruppo di 28 persone, tecnici compresi, di 542 mila lire, nessuno prende pi di
25 mila lire al giorno, l'allestimento costato 11 milioni. Una pausa, poi soggiunge: Ma
nessuno ci ha aiutato, il premio di avviamento lo danno dopo due mesi di repliche, se non
fosse stato per i 20 milioni del Comune di Prato non avremmo potuto nemmeno
incominciare. Ora Strehler sbotta: Eppure gli Stabili danno ad alcuni attori anche centomila
per sera, il teatro italiano a onda, non esiste pi . Se si va avanti di questo passo, potrebbe
essere la mia ultima regia. Ecco, gli scappata. No, non voleva dirlo, forse neppure lo
pensava. No, Nel fondo non sar l'ultimo spettacolo del gruppo Teatro e Azione, n l'ultima
reg a di Strehler da noi. [...] Non una commemorazione quindi – conclude Strehler – ma
come pi di vent’anni fa avevamo inaugurato l’attivit del Piccolo con questo dramma che
voleva mostrare come noi credessimo nell’uomo nonostante tutto, nel presente con la
riedizione di Teatro e Azione, noi riprendevamo questo testo per a ermare una continuit di
pensiero e di azione al di sopra delle contingenze. L’invenzione scenogra ca di Ezio Frigerio
prevede un’alta parete ricoperta di intonaco sgretolato e corroso, davanti alla quale sta un
grande tavolato di legno, una specie di palcoscenico abbandonato, su cui avviene gran
parte dell’azione. Lo spettacolo risulta cos una sequenza di nuclei drammatici i cui
protagonisti sono, di volta in volta, tutti i personaggi, per ciascuno dei quali previsto un
momento di assoluto rilievo. “Tra gli altri personaggi, buttati come mucchi di stracci sul
nudo praticabile inclinato che campeggia nella scena assolutamente non naturalistica di
Ezio Frigerio, Giancarlo Dettori rende con sottigliezza la nevrosi dell'Attore fallito
scaricandola in recite pirandelliane (due lumi, un lenzuolo, un'ombra dietro di esso: I giganti
della montagna ma anche Questa sera si recita a soggetto), Renato De Carmine intuisce
che la fatuit del Barone pi simulata che reale, e Gianfranco Mauri un Bottegaio di rara
misura, che Strehler ha voluto ebreo. L’operazione compiuta da Strehler con questa
seconda regia ambiziosa: il regista pone a confronto i falliti e i relitti gorkiani con il Nulla,
assoluto protagonista di esperienze artistiche pi recenti, quali il teatro dell’angoscia

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esistenziale e dell’assurdo. Il mondo de Nel fondo cos per Strehler non gi l’unica
possibile interpretazione della vita, la metafora reale della condizione umana, ma “tutto
sommato, una vergognosa disavventura sociale”, transitoria e rimediabile. Il risultato di
questo messaggio di speranza uno spettacolo dalla cui suggestione di cile sottrarsi,
una suggestione fatta di un rigore che non concede nulla alla platea, che smonta il
naturalismo e il sentimentalismo gorkiani, la consequenzialit delle scene, la presenza di un
intreccio e la divisione in atti, apparentemente non connessi tra loro. “Franco Graziosi si
aggiudicato un bell'applauso dopo il monologo pronunciato al proscenio. Hanno
confermato la loro bravura Gianfranco Mauri, Marisa Fabbri, Carlo Cataneo, Antonio
Battistella. Hanno acquistato in rigore ed asciuttezza Giancarlo Dettori, Renato De Carmine
e Giustino Durano. E con loro Cip Barcellini, Silvana Scal , Marisa Minelli, Massimo
Sarchielli, Eligio Irato, Giorgio Del Bene, Alfred Thomas hanno diviso le liete accoglienze.”.
Lo spettacolo viene ripreso dalla RAI e trasmesso il 10 marzo 1972 sul secondo canale.

Nonostante le positive risposte di pubblico e critica, la situazione del Gruppo (ora


cooperativa) non facile e lo si vede dallo spettacolo successivo (la regia rmata in
collaborazione con Lamberto Puggelli) Referendum per l’assoluzione o la condanna di un
criminale di guerra (Walter Reder)5 di Roberto Pallavicini e Gian Franco Ven - dramma
suggerito dall’eccidio di Marzabotto ordinato appunto dal Maggiore delle SS Walter Reder,
novit italiana che va in scena al Teatro Manzoni di Pistoia il 4 giugno 1971. Come osserva
Claudio Longhi “La crisi annunciata da Nel fondo esplode conclamata al terzo spettacolo
del complesso: Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra
(Walter Reder) di Gian Franco Ven e Roberto Pallavicini. Intanto nel passaggio da Nel
fondo a Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra si consum
una trasformazione organizzativa dell’ensemble, improvvida per Marisa Fabbri: «[...] Anche
l’organizzazione cambiava», ricorda l’attrice, «da Gruppo si trasform in cooperativa e se
devo trovare un errore, se mi permesso, trattandosi di Giorgio Strehler, fu proprio quello.
Ci fu come una specie di piccola resa dei conti, un bivio, una divergenza». Al di l delle
questioni organizzative, con Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di
guerra la coesione del Gruppo Teatro e Azione per soprattutto minata da un violento
dibattito politico interno. Incentrato sulle vicende dell’eccidio nazista di Marzabotto e sulla
responsabilit storica di Walter Reder, il copione giudicato da molti attori - in primis
Marisa Fabbri - eccessivamente giusti cazionista nei confronti del ex gerarca: all’indomani
delle rappresentazioni di Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di
guerra, Marisa e non pochi suoi compagni di lavoro escono dal Gruppo che si scioglie. Cos
Strehler ricorda la genesi dello spettacolo: “Erano gi cominciate le prove, da parte della
Compagnia che dirigo, di questo Invito al referendum popolare sulla condanna o
l’assoluzione di un criminale di guerra (il maggiore delle SS Walter Reder), quando gli autori
del testo, Pallavicini e Ven , mi domandarono amichevolmente perch mai avessi scelto
proprio il loro lavoro come novit italiana e perch proprio un testo sulla Resistenza. Ecco la
mia risposta che anche la storia dell’incontro fra la Compagnia, gli autori e me, e il
riconoscimento che al di l degli interessi individuali e delle generazioni c’ un sentimento
comune che in nessun modo pu essere limitato a fatti contingenti, precisi, cronistici ma si
accumula in un «no» perentorio, cosciente, tragico, dinanzi alla sopra azione di ogni tempo.
Noi dovevamo fare, dopo Nel fondo di Gorki, una novit italiana. Lo sforzo impiegato per
rappresentare il Gorki aveva esaurito sia le nostre energie psico siche che quelle,
permettetemi di dirlo, nanziarie. E dicendo «dovevamo fare», intendo non solo la necessit
pratica delle sovvenzioni che il Ministero dello Spettacolo concede alle Compagnie che

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rappresentano novit italiane, ma soprattutto l’urgenza profonda sentita da tutti i membri
della Compagnia di impegnarci in un problema di teatro italiano che non per noi presente
ma «presentissimo». E questo l’entroterra della nostra scelta. Abbiamo cominciato a
rivedere i testi che ognuno di noi, in maggiore o minore misura, ci eravamo impegnati di
proporre. Ci furono varie discussioni e varie proposte. Da una parte c’erano, sotto mano,
testi gi scritti, dall’altra proposte di alcuni membri della Compagnia. Siamo arrivati a una
prima conclusione: di non usare un testo completamente chiuso, de nito; pensammo che
valesse la pena di mettere in scena qualcosa che ci impegnasse anche da un punto di vista
drammaturgico: operando come lavoratori della «scena» ma con qualcuno dietro che
lavorasse con noi come scrittore. Qualcosa insomma che fosse radicalmente diverso dal
fatto che un autore ci consegni un testo e noi lo rappresentiamo. Fra le varie ipotesi di
lavoro pensammo per esempio a un testo - ma da scrivere - sulla vicenda del tenente delle
SS Kurt Gerstein, desumendolo dal libro Kurt Gerstein o l’ambiguit del bene. Vennero poi
altre idee, altrettanto valide e altrettanto da scrivere. Mentre alcuni gi lavoravano a certe di
queste proposte — per esempio con Roberto Pallavicini stavamo gi stendendo una prima
versione drammaturgica della vicenda del tenente Gerstein —, ci siamo resi conto che tutti
noi, in un modo o nell’altro, eravamo coinvolti idealmente col problema della Resistenza.
Nel corso di tante nostre riunioni, a volte tempestose, a volte brevi, a volte a annate, il tema
della Resistenza uscito quasi naturalmente, come logica conseguenza di urgenze che si
manifestavano ogni qualvolta si parlava della violenza esercitata da uomini su uomini.
Emergeva insomma da tutti noi quel bisogno di dire «no» alla societ contemporanea, che
non ci soddisfa. A questo punto, quasi per automatismo, ci siamo resi conto di dover
rappresentare qualcosa che andasse al di l del caso contingente di violenza privata - come
poteva essere il caso del tenente Kurt Gerstein - qualcosa insomma che a ondasse nella
storia di noi tutti, che attraverso la storia spiegasse il nostro attuale atteggiamento.
Rappresentare la tragedia della violenza non come fatto a s , vicino o lontano, ma come
matrice del nostro «no» di oggi. Ormai il tema Resistenza era diventato ineluttabile: una
premessa necessaria anche per il nostro lavoro futuro. Ripeto: non volevamo per un testo
gi compiuto; da mettere in scena e basta. Bens un materiale drammatico preparato da
autori le cui idee e sentimenti coagulassero non solo con le nostre istanze ideali ma con il
nostro programma di lavoro cooperativo. Per un caso, del tutto estraneo ai programmi miei
e della Compagnia - ossia la pubblicazione del libro Pirandello fascista di Gian Franco Ven
- ho incontrato Vene. Non sapevo a atto che avesse abbozzato, tempo fa, un lavoro
teatrale ispirato al referendum popolare sulle possibilit di concedere oggi la grazia a un
criminale di guerra come Reder. Dissi subito a Vene: «Guarda che una cosa del genere,
proprio perch si riferisce a una vicenda insieme conclusa e non conclusa, mi interessa
mortalmente. proprio quello che noi cerchiamo di avere come traccia del nostro lavoro:
non una rievocazione del passato, ma una proiezione del passato sul presente, sull’oggi».
Alla prima lettura del testo, tutt’altro che compiuto, io personalmente mi resi conto che
questo copione poteva coagulare tutti quegli interessi, quelle ansie che si erano veri cati
durante le nostre riunioni. Poteva essere il tratto d’unione fra un lavoro «personale»,
«privato» — cui credo — e un lavoro collettivo. Perch c’ questo da aggiungere: io non
credo alla stesura collettiva di un testo: un’opera sempre qualcosa di segreto, di intimo, di
privato: per anche quest’opera «privata» pu essere sempre veri cata, discussa e tradotta
in qualcosa di pi concreto da una discussione collettiva. Cos dissi al mio gruppo, alla
Compagnia da me diretta, che ora c’era un comune denominatore sul quale avremmo
potuto agire applicandovi drammaturgicamente tutto quanto era scaturito di vero dalle
nostre riunioni. Il testo originario, l’abbozzo, stato a dato agli attori e, per la parte

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drammaturgica e la versione de nitiva, a Roberto Pallavicini: da questa versione de nitiva
sono emerse con maggior precisione, con maggiore stringatezza, quelle che erano le
caratteristiche della prima versione: ossia la prospettiva che fatti della Resistenza
antifascista e antinazista assumono oggi no a inglobare eventi di oggi, come la strage di
Song My, nel Vietnam; cose che d’altronde, in embrione, l’abbozzo di Ven conteneva gi
nell’originale. Evidentemente le nostre discussioni hanno decantato, anche in Ven e in
Pallavicini, le incertezze che c’erano nella versione iniziale. L’importante di questo lavoro,
singolo o collegiale che sia, che da un fatto tragicissimo, ma locale; provinciale, si arrivi a
porre un problema di carattere internazionale, direi universale. La Resistenza, questo voglio
dire, e questo si dimostra nel testo, non che abbia risolto i problemi che stanno alla base
di quel momento e di quell’avvenimento; il problema, nel senso pi vasto, rimane: il
problema della violenza, della sopra azione, della guerra. il problema dell’ordine, di
quell’ordine di cui Walter Reder parla nel testo e, che ancora si pone come base dei crimini
di Reder o di Kappler o del tenente americano Calley, ma che sbagliato porlo cos :
limitato al fatto contingente. Qui si tratta di problemi di coscienza universale. Insisto sulla
strage di Song My e sulla storia del tenente Calley, prima condannato poi assolto, perch
questo dimostra che, se si sta ai fatti, le sentenze contingenti non soddisfano a atto la
coscienza degli uomini. Sulla base della logica del provvisorio, del contingente, del fatto
singolo, il Rader del dramma di Ven e Pallavicini dovrebbe essere assolto, graziato. Ma noi
volevamo e vogliamo andare al di l del contingente, al di l delle convinzioni politiche
immediate: un problema che tocca il fondo della coscienza umana. Perci , anche se ci
sono degli autori responsabili di ci che hanno scritto, questa responsabilit non solo si
riversa ma condivisa da tutti noi che rappresentiamo il dramma. E questo voglio
sottolinearlo perch dimostra come ci siano le possibilit di un teatro, non dir collegiale,
ma veramente cooperativo alla luce di un comune sentire che pu toccare situazioni e
argomenti i quali vanno ben al di l della «trama» rappresentata. Queste possibilit ci sono.
E noi ci crediamo. Questo, a mio parere, il signi cato di un «collettivo teatrale». Un
«collettivo» dove, tuttavia, ognuno mantiene una sua personalit e responsabilit intera: non
un agglomerato di gente, ma di «persone». In questo senso la Resistenza non pi un
fenomeno italiano ma universale. Purtroppo esistono pochissimi testi teatrali
sull’argomento: io personalmente ne conosco solo due o tre o cinque (validi intendo).
Perch ? Mi hanno chiesto gli autori Pallavicini e Ven . Non lo so il perch . una domanda
quasi drammatica. Una risposta ovvia potrebbe essere che si tratta di una vicenda ancora
troppo vicina storicamente per essere collocata. Poi c’ un’altra risposta: che
l’assimilazione del signi cato di «Resistenza» non stata tale, nei singoli individui, da non
porre troppi dubbi. Perch un Geoges Bidault, eroe della Resistenza francese, divenne
neofascista e capo dell’OAS (Organisation de l'arm e secr te)? Perch altri hanno fatto lo
stesso, dovunque, in ogni continente? Non lo so, non lo so. Ho solo la sensazione che
parlare della Resistenza come «testo chiuso», come fatto agiogra co, non racconta n
spiega nulla. Ci voleva un testo aperto come il Referendum per iniziare un discorso. Un
discorso cominciato, con la Compagnia che dirigo, ai primi di giugno e continuer , con
cambiamenti magari, miglioramenti o peggioramenti, chiss , nella prossima stagione. Non
per prendere impegni di durata: ma perch un discorso aperto va continuato.”.

Conclusasi nel giugno 1971 l’avventura teatrale del Gruppo Teatro e Azione e conclusosi
anche il matrimonio con Rosita Lupi sciolto dal Tribunale civile e penale il 29 marzo 1971 ,
Strehler rientra nella sua Milano per inaugurare il 7 dicembre 1971 la stagione della Scala
con Simon Boccanegra6 di Giuseppe Verdi. Alla base di tale allestimento - che vede il

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regista tornare a una partitura di Verdi dopo la Traviata del 1947, dalla quale sono trascorsi
ben venticinque anni - sta un’inedita attenzione al versante politico e civile presente nella
partitura verdiana. “La parte civile dell'opera quella su cui ho potuto operare pi
profondamente - dichiara Strehler - la parte sentimentale ho dovuto tenerla nel suo limite
dell'incredibile storico e del credibile musicale”. Poich , dunque, i personaggi non risultano
bene sbalzati, ma appaiono magniloquenti e retorici, Strehler individua nella valenza sociale
della vicenda la chiave di volta per la sua regia. Nel protagonista, il regista a erma di
riconoscere un germe di "realt " che si discosta in maniera decisa dal tono generale
dell'opera. La sua interpretazione deve, quindi, essere resa con attenzione, come se il
personaggio cercasse, di volta in volta, il modo giusto per agire. Simone Boccanegra
uomo collocato dalla storia e dalle circostanze in una posizione, quella di doge, per lui
inadeguata, dalla quale egli stesso vorrebbe recedere. A tale proposito, illuminante appare
la scena conclusiva dell'opera che, contrariamente a quanto prescritto dal libretto, Strehler
fa svolgere nei pressi del mare, con la sagoma di una nave sullo sfondo: la morte di
Boccanegra, doge-marinaio, si consuma mentre egli tenta di aggrapparsi alle gomene del
vascello, ultimo sforzo per riunirsi al suo elemento congeniale, il mare, e per ritrovare le sue
origini popolari. Tale sensazione di inadeguatezza psicologica e sociale accresciuta
dall'atmosfera generale che il regista impone allo spettacolo. Ezio Frigerio appronta una
scena disadorna e composta da due soli praticabili sul fondo, tra i quali si stagliano ora il
pro lo del palazzo dei Fieschi, ora l'immagine di leggeri vascelli, immersa in una di usa
nebbia oscura dalla quale i personaggi emergono soltanto per partecipare alla vicenda,
giungendo ai grandi nodi dell’azione drammatica, portando dentro a s ciascuno un destino
che proviene da lontano. Ritenendo, inoltre, che il nucleo della vicenda risieda nella
capacit degli uomini di modellare a proprio piacimento gli eventi della storia, creando o
distruggendo miti, Strehler sembra indicare nella massa popolare un elemento passivo a
qualsivoglia evento o cambiamento. Il colore verde nelle di erenti tonalit degli abiti delle
masse vuole, infatti, dare un senso di indistinta marea al movimento in scena, signi cando,
attraverso l'assimilazione del costume con l'ambiente, una sostanziale incapacit
decisionale. Grazie a tale soluzione, il regista pone in giusta evidenza il senso di critica
sociale contenuto nella partitura - che egli giudica una fra le pi di cili di Verdi da mettere
in scena - del resto magistralmente riletta dal direttore d’orchestra e concertatore Claudio
Abbado con il quale Strehler inaugura un importante rapporto di collaborazione artistica che
condurr entrambi a risultati straordinari e a tutt’oggi ineguagliati.

Note

1 Cantata di un mostro lusitano di Peter Weiss Traduzione e riduzione: Giorgio Strehler. Scene e
costumi: Ezio Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi, Bruno Nicolai. Movimenti mimici: Marise Flach.
Interpreti: Milena Vukotic, Saviana Sca , Marisa Minelli, Milva, Marisa Fabbri, Giorgio Del Bene,
Giancarlo Dettori, Giustino Durano, Franco Graziosi, Massimo Sarchielli. Produzione: Gruppo Teatro e
Azione. Roma, Teatro Quirino, 25 marzo 1969.

2 Fidelio di Ludwig Van Beethoven. Concertatore e direttore d’orchestra: Zubin Mehta. Scene e
costumi: Ezio Frigerio. Interpreti: Paul Schoe er, Thomas Stewart, James King, Sena Jurinac, Franz
Crass, Lee Venora, Gerhard Unger, Giorgio Giorgetti, Guerrando Rigiri. Firenze, Teatro Comunale,
XXXII Maggio Musicale Fiorentino, 3 giugno 1969.

3 Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht. Traduzione: Franco Fortini. Scene e costumi: Ezio
Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Glauco Mauri, Vittorio
Sanipoli, Mario Feliciani, Cesare Polacco, Franco Ferrari, Gigi Pistilli, Nestor Garay, Renato Del Grillo,

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Nino Faillaci, Roberto Pescara, Claudio Besestri, Augusto Bonardi, Romolo Eusebio, Renato Floris,
Giorgio Naddi, Egidio Casolari, Gino Centanin, Livio Pombeni, Marco Stefanoni, Alberto Carpanini,
Roberto Colombo, Renzo Fabris, Gianni Pulone, Massimo Sarchielli, Leopoldo Valentini, Roberto
Vezzosi, Giacomo Cottino, Gianfranco Mauri, Renato Gari, Peter Reichert, Alberto Ricca, Fausto
Tomassini, Enrico D’Amato, Armando Spadaro, Franco Mezzera, Umberto Tabarelli, Ivan Cecchini,
Valentina Cortese, Maria Teresa Tosti, Lea Barsanti, Daniela Gara, Anna Malvica, Marcella Mariotti,
Mirka Martini, Raoul Ceroni, Cesare Bergonzi, Renzo Bergonzi, Pietro Lapolla, Franco Alpestre,
Marcello Tusco, Cip Barcellini, Corrado Sonni, Antonio Piovanelli, Enrico Canestrini, Armando
Benetti, Giorgio Bertoli, Ildebrando Birib , Massimiliano Bruno, Guerrino Crivello, Alberto Mancioppi,
Franco Moraldi, Luciano Pavan, Bruno Portesan, Evaldo Rogato, Giovanni Santelli, Loris Toso, Mario
Ventura, Cesarina Gheraldi, Aurora Cancian, Liana Casartelli, Teresina Cavallari, Lia Giovannella, Tina
Maver, Ariella Reggio, Maria Sciacca, Dina Zanoni, Gianni Cicali, Francesco Cosi, Fabio Leoncini,
Rolando Peperone. Firenze, Teatro della Pergola (XXXIII Maggio Musicale Fiorentino), 3 luglio 1970.

4 Nel fondo di Maxim Gorki (seconda edizione). Traduzione: Milly Martinelli. Riduzione: Giorgio
Strehler. Scene e costumi: Ezio Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti: Giustino Durano, Marisa
Fabbri, Silvana Scal , Eligio Irato, Carlo Cataneo, Cip Barcellini, Laura Caglio, Anna Rechimuzzi,
Marisa Minelli, Renato De Carmine, Giancarlo Dettori, Gianfranco Mauri, Massimo Sarchielli, Alfred
Thomas, Giorgio Del Bene, Antonio Battistella, Franco Graziosi. Produzione: Gruppo Teatro e Azione -
Teatro Metastasio di Prato. Prato, Teatro Metastasio, 12 novembre 1970.

5 Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (Walter Reder) di Roberto


Pallavicini e Gian Franco Ven . Scene e costumi: Ezio Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti:
Renato De Carmine, Carlo Cataneo, Eligio Irato, Gianfranco Mauri, Giancarlo Dettori, Cip Barcellini,
Giorgio Del Bene, Massimo Sarchielli, Franco Graziosi, Antonio Battistella, Marisa Fabbri, Luisa Rossi,
Mauro Antinarella. Produzione: Gruppo Teatro e Azione. Pistoia, Teatro Manzoni, 4 giugno 1971.

6 Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi. Concertatore e direttore d’orchestra: Claudio Abbado.


Scene e costumi: Ezio Frigerio. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Piero Cappuccilli, Mirella
Freni, Gianni Raimondi, Felice Schiavi, Nicolai Ghiaurov, Giovanni Foiani, Gianfranco Manganotti,
Milena Pauli. Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 1971.

Lezione 15

2.04.2020

1972-74 Il rientro al Piccolo Teatro: Shakespeare, Brecht e Cechov

Ritornato al Piccolo teatro come direttore unico, Strehler mette in scena Re Lear di
Shakespeare, la seconda edizione de L’opera da tre soldi di Brecht e de Il giardino dei
ciliegi di Cechov. Presenta la versione tedesca de Il gioco dei potenti a Salisburgo. A
Versailles rma la regia per Le nozze di Figaro di Mozart e al Grosses Festpielhaus di
Salisburgo Il auto magico di Mozart. Mette in scena al Burgtheater di Vienna La trilogia
della villeggiatura di Goldoni.

Gli occhi di Strehler non cessano di essere rivolti alla sua Milano e quando, nonostante il
buon andamento di quattro stagioni gestite da solo con non poche di colt , Paolo Grassi
lascia nel 1972 il Piccolo per assumere la carica di sovrintendente del Teatro alla Scala, il
regista che ha concluso l’avventura teatrale del Gruppo Teatro e Azione, accoglie la
proposta di ritornare, ora come direttore unico, al Piccolo, destinato a restarvi per tutta la
vita. Da subito Strehler si impegna a sopperire alla perdita di una gura indispensabile alla

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vita del Piccolo come quella di Grassi (che dalla Scala passer poi nel 1977 alla Presidenza
della Rai, morendo a Londra nel 1981) con la presenza costante di Nina Vinchi, segretario
generale del Piccolo sin dalla fondazione e profonda conoscitrice della “grande macchina
organizzativa” del primo teatro stabile pubblico d’Italia. Il 5 maggio 1972, mentre sta
provando alla Scala la ripresa del suo ormai storico allestimento del Ratto dal serraglio di
Mozart, Strehler nominato u cialmente direttore del Piccolo dal sindaco Aldo Aniasi.
Paolo Grassi designato sovrintendente del Teatro alla Scala e il 25 aprile annuncia
pubblicamente le sue dimissioni da direttore del Piccolo sul palco di via Rovello, poco
prima della messa in scena dello spettacolo Interrogatorio all’Avana di Hans Magnus
Enzensberger. Giorgio Strehler gli succeder anche perch i patti sono stati chiari n da
subito. Nina Vinchi come si detto rimarr al Piccolo in rappresentanza della continuit :
validissima segretaria generale del teatro, la Vinchi una gura indispensabile, il trait-
d’union che lega indissolubilmente le sorti dei due pilastri che l’hanno creato. Lei stata
accanto ai due titani in ogni occasione, ha amministrato con trasparenza il denaro pubblico,
ha intessuto reti e rapporti che hanno dato ottimi risultati. Senza di lei nulla di quanto
Strehler e Grassi sono riusciti a fare al Piccolo avrebbe potuto essere realizzato. Come si
diceva, Strehler in questi mesi impegnato alla Scala nell’allestimento del Ratto dal
serraglio1 di Mozart (in scena il 15 maggio) accolto anche in questa occasione da un vero e
proprio trionfo: “Mettere in scena questo lavoro ai nostri giorni - leggiamo - signi ca perci
rilevarne l’ambigua natura, a mezza via tra vero e falso, tra concerto e commedia. Giorgio
Strehler e Luciano Damiani, regista e bozzettista, hanno risolto il di cile problema in modo
tanto semplice da riuscire geniale: la scena disegnata in bianco e nero, la luce alternata al
buio, i pro li delle navi sul mare, ci portano in un mondo abesco di gurine ritagliate nella
carta secondo il gusto dei nonni e dei bisnonni. Dove per la musica impone una
dimensione autentica di sentimento. allora interviene una solare luminosit che d corpo
alle ombre cinesi e restituisce al personaggio la sua sionomia e la sua intera gura. In
questo modo, l'opera scorre tra l'illusione e la realt ; punteggiata da brevi elegantissime
gag comiche nello stile della commedia delle maschere; animata da fulminei cambi di scena
eseguiti con la precisione di un gioco di prestigio; governata da una attenta razionalit .
come si conviene a un prodotto del settecento illuministico.”

Il 4 novembre 1972 debutta il primo spettacolo teatrale rmato dal neo direttore unico
Giorgio Strehler: Re Lear2 che va quasi a festeggiare i 25 anni dalla fondazione del Piccolo
Teatro. Come si detto, William Shakespeare fra quegli autori che Strehler mostra,
trasversalmente alle scansioni temporali, di prediligere, ed proprio con l’allestimento di Re
Lear che il regista sceglie di festeggiare il proprio ritorno u ciale al Piccolo Teatro. Re Lear
contribuisce, infatti, per il profondo studio critico, storico e lologico compiuto dal regista, a
dare vita in Italia a un modo nuovo, pi completo e teatrale di inscenare Shakespeare. Ci
che emerge grazie a questo spettacolo, la consapevolezza non solo che le opere del
drammaturgo inglese – anche le pi alte letterariamente – sono sempre teatrali, sempre
rivolte a un pubblico, sempre concepite per il palcoscenico e solo su di esso compiute e
reali. Ritenuto dalla critica ottocentesca irrappresentabile (le numerose e complesse
componenti del testo sono percepite come ostacolo alla resa scenica), Re Lear compie il
suo de nitivo ingresso nella prassi teatrale italiana proprio grazie a Strehler, che fa
un’a ermazione fondamentale: “La cosiddetta irrappresentabilit del Lear non esiste. una
tragedia, anzi, che si inteatra: tutte le cose del testo che ho capito, le ho capite, giorno per
giorno, sulla scena”. Se alla base dello spettacolo sta l’idea che, da un lato, il palcoscenico
metafora del mondo, d’altro lato, il mondo esso stesso, cosicch fare teatro tutt’uno

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con il vivere. Ecco allora sul palcoscenico “un grande teatro di pazzi, un grande circo-
mondo”. La scena ssa dello spettacolo, predisposta da Ezio Frigerio, appare infatti
composta da una grande piattaforma circolare in legno, vuota e desolata, che richiama una
pista circense. Il circo diviene metafora del teatro, che, a sua volta, metafora del mondo.
Tutti gli elementi dello spettacolo concorrono ad esprimere la metafora circo-mondo,
mentre tutto ci che sulla scena simbolo e soggetto di metamorfosi, richiamando cos la
seconda importante chiave interpretativa che Strehler predilige, quella delle mutazioni, dei
travestimenti cui alcuni dei personaggi (Lear, Gloucester, Edgar) vanno incontro per
compiere il proprio percorso conoscitivo. Al ne di rendere riconoscibili le tappe del
cammino interiore pi signi cativo, quello di Lear (Tino Carraro tornato per l’occasione a
lavorare con Strehler dopo dieci anni di assenza dalla scena del Piccolo) attraverso la
pazzia verso la verit , Strehler le accompagna con una musica ricorrente. Tra queste tappe
di conoscenza (la scena di apertura, la tempesta, l’incontro con Gloucester, il risveglio) la
pi interessante forse quella della tempesta (che coincide con l’insorgere della pazzia del
re), in cui Strehler sottolinea attraverso gli e etti sonori le diverse valenze che la tempesta
acquista per i vari personaggi. Per Lear la tempesta interiore e, dunque, la resa di essa
simbolica, metaforica, a data alla sola musica, mentre per gli altri essa un evento
meteerologico, reso con modalit naturalistiche. Come sempre di grande utilit per
comprendere le ragioni delle scelte registiche alla base di questo allestimento si rivelano gli
appunti di regia redatti da Strehler durante le prove dello spettacolo. Si tratta di una
ri essione molto importante nel cammino di Strehler (e non solo per l’allestimento di questo
testo). Ritengo quindi sia utile rileggerlo integralmente: “Non trascurare nel Lear un dato di
fatto: la favola di Leir-Lear per Raphael Holinshed datata nel 3105 dalla nascita del mondo
(55 anni prima della fondazione di Roma). In Israele regnavano Giuda e Geroboamo. La
tragedia stata mantenuta da Shakespeare in una lontananza alle soglie del tempo, non
fuori tempo, ma non storicizzata. In tale modo si ottiene una astrazione delle situazioni
senza per perdere del tutto una connotazione storica possibile: cio storia di uomini in un
certo tempo. Solo che il tempo remotissimo. La pi remota tragedia di Shakespeare;
notare che non a caso si parla qui di Dei e non di Dio. Non portarla nel vuoto. Non farla
diventare un pretesto storico. certo che la prima scena ha come nucleo un love-test di
fama popolare: la glia o le glie che dicono o non dicono di amare il padre come il pane e il
sale. Evidentemente dunque: un rituale a senso unico, con soluzione stabilita a priori. Esso
serve a dare una forma ad un atto pubblico, con la rappresentazione della ubbidienza dei
gli ai padri e quindi dei giovani ai vecchi. Come tutti i rituali essi non possono essere n
mutati, n tantomeno capovolti. Essi seguono una loro logica simbolica di gesti e parole. Il
fatto che insistessi sul carattere di prologo della prima scena, nel suo nucleo, di cosa data a
priori, ha dunque un suo fondamento preciso. Non una recita per divertire Lear, non una
invenzione di Lear o una sua bizzarria. un fatto che si deve fare e che sanziona
praticamente la sua abdicazione. Lo sconvolgimento di Lear quello dell’o ciante che
vede il blasfemo, che si avvicina all’ostia e la sputa per terra. incredulit ed orrore e
smarrimento. E altro. Le reazioni sono a senso unico, sebbene di tipo diverso secondo i
diversi caratteri. Quello di Lear reagisce come reagirebbero tutti, nel fondo, ma con il suo
particolare modo: ira, maledizione, grida, collera, ecc. ecc. Cordelia insomma spezza tutto
un giro rito-costruzione storica e senza avere avvertito, di colpo, inattesa! chiaro che in
questa versione la posizione di Kent diventa ancora pi di cile. Kent si oppone alla
violenza del re, certo, ma deve sapere che il re ha ragione. Forse non si aspetta nemmeno
lui che Cordelia spezzi il nodo, ma non si aspetta nemmeno che il re prenda cos sul serio
l’atto di Cordelia... Per ... La storia potrebbe essere raccontata cos : il vecchio Re Lear,

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deciso ad abdicare e delegare il potere alle sue glie e per esse ai loro mariti e dividere fra
di esse il suo regno, decide la spartizione e la solenne cerimonia che sanzioner
l’avvenimento. A questo scopo usato il rituale del love-test, pubblicamente. Egli spiega
l’antefatto della spartizione e poi pone le domande rituali alle tre glie. Le prime due
rispondono come devono, con atto di sottomissione completa. La terza, la pi giovane, si
ribella alla forma rituale, che le appare vuota ed inutile. Il vecchio re, di fronte allo scandalo
e di fronte al grave attentato alla sua regalit , al sistema stesso su cui poggia il suo potere e
lo stato, disereda la glia e la d in sposa al re di Francia che se la porta via, all’estero.
Cordelia: Cordelia da tempo ha capito di quale stampo sono fatte le sorelle ed i rispettivi
mariti, ha capito che la decisione del re errata, che i tempi sono ormai maturi per un’altra
forma di vita e di rapporti e che grave pericolo correr il padre stesso quando realizzasse il
suo desiderio. La glia pi giovane sceglie al tempo stesso il momento pi giusto e quello
pi errato per signi care al padre il suo pensiero. Ma ella non una politica, una
sentimentale con un forte carattere, propenso all’introversione e, con ogni probabilit , al
tempo stesso irri essiva e testarda come il padre. In Cordelia esistono alcune qualit e
difetti del padre e sono proprio questi che in un dialogo che spezza la calma del rituale del
love-test rende insanabile il contrasto tra i due. Basterebbe un poco pi di umilt da parte
di Cordelia, un poco pi di essibilit politica, un poco pi di capacit di spiegare a parole i
sentimenti pi profondi per chiarire, forse, l’equivoco. Ma i due, troppo simili in fondo, si
allontanano sempre pi . Il re convinto che la mancanza di Cordelia alle formule del love-
test nasconda una reale mancanza di amore e nel tempo stesso sia la manifestazione della
pi aperta ribellione ai suoi voleri, e insieme, ai voleri della legge che come sempre
stata. L’atteggiamento di Cordelia ribelle, pericoloso per l’unit politica del suo disegno.
Deve andarsene. E la scaccia senza terre n dote. Se la prenda il primo che vuole. Nel caso
speci co: il re di Francia. Costui accetta di sposare ugualmente Cordelia privata di ogni
bene (a di erenza di Borgogna che ri uta). Probabilmente per due ragioni che collimano, in
questo caso: a etto o amore verso Cordelia e ragione politica, in quanto un matrimonio con
la glia ripudiata e che stata privata della sua parte di regno potr forse essere in futuro
una ragione di stato per intervenire negli a ari del regno di Britannia. Si vedr col tempo. Il
Fool: il Fool che sparisce alla ne del terzo atto (cosiddetto), comunque al centro quasi
della tragedia? Perch ? Se c’ un perch . Ma il perch che si cerca non logico ma
poetico. Lear al massimo della cecit . solo con s stesso. Perch il Fool lo lascia per
sempre? (per noi «per sempre»). Comunque l’ultimo gesto del Fool non la sua battuta
famosa «E io andr a dormire a mezzogiorno» (cio assolutamente fuori tempo). Indicazione
di una morte prematura. Bradley [Andrew Cecil Bradley, letterato inglese, celebre per il suo
lavoro critico su Shakespeare] pensa addirittura che si sia ammalato per la pioggia e il
freddo e che si senta male! Il Fool esce «portando con Kent e Gloster» il corpo inerte del
vecchio Lear. questo corteo che segna la ne della sua parte. Ed naturale che la
didascalia non shakespeariana faccia parte della logica dell’azione n dalla prima
rappresentazione. Quindi valida. C’ poi la battuta di Kent, indiretta, per il Fool che
«suggella» un rapporto di tenerezza tra lui e il vecchio. un epita o comunque, per il ruolo,
la gura. Bisogna partire probabilmente dalla ne. Resta sempre un punto interrogativo, tra
tanti altri, da svelare. Nei miei primi appunti c’ una indicazione del tutto intuitiva: Fool-
Cordelia. Quando sparisce Cordelia appare il Fool, quando il Fool sparisce riappare
Cordelia. Ci evidente ma di per s stesso non giusti ca una identi cazione di Cordelia
con il Fool. Certamente crea una «premessa», come dire, di strano malessere, di
coincidenza che risulta pi scenica che letta. Non di pi . Pi tardi soccorre una citazione
del Bradley, che presuppone che tale sparizione-apparizione duplice sia dovuta al fatto che

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al tempo di Shakespeare l’attore che impersoni cava Cordelia recitasse anche la parte del
Fool. Bisognerebbe controllare tale a ermazione: su quali basi nata, dai registi? (non
credo); dalla tradizione? (non mi pare); da quale notizia allora? Dall’altra parte Lear non
una tragedia cos «piena» da richiedere doppioni in gran numero. Tuttavia, una spiegazione
relativa potrebbe essere il fatto che ragazzi adatti a recitare le parti di Cordelia, Regan e
Goneril non dovevano essercene molti (le parti di giovani donne in Shakespeare sono
sempre limitate, anche per questo evidentemente). Tre ragazzi in tre parti femminili, dunque.
Tutti sfruttati. Se, a questo punto, il testo richiedeva un ragazzo (boy) per il Fool poteva
essere naturale doppiarlo o pensare ad una metodologia di palcoscenico per farlo. Qui
nasce per il problema dell’et del Fool. Era necessario che il Fool del Lear fosse giovane
(boy). Si potrebbe continuare con le congetture «di necessit » all’in nito. Giova piuttosto
esaminare altre congetture, poetiche, e controllare se esse possono avere un senso. Qui si
entra in un mondo oscuro, di sensazioni sfuggenti, di sensibili intuizioni che possono
s orare l’immagini co, l’elucubrazione intellettualistica e altro. Una cosa mi pare per certa:
c’ qualcosa di misterioso in questo legame, inesistente in apparenza, tra il Fool e Cordelia.
Lo si sente e non si spiega. Persino il Bradley parla di un Fool che «ama Cordelia e che
rimasto a so rire quando Cordelia andata via». Il Fool il Fool di Cordelia pi che di Lear.
In un certo senso appare che il Fool un prolungamento della presenza di Cordelia. Per
Bradley, in termini naturalistici caratteriali, «il povero Fool che tanto amava Cordelia» (vedi
battuta) un «ragazzo» non del tutto pazzo, ma... O il Fool fa sentire di pi l’assenza di
Cordelia? Infatti i suoi primi argomenti-lazzi-rimproveri sono gli stessi di Cordelia: il vecchio
re sbaglia, pazzo. Perch non prende la berretta del pazzo? Le due glie sono diverse da
quelle che crede (ecco la frase di Cordelia) e si riveleranno presto per quello che sono. La
verit per pi segreta per me questa: il Fool la «persistenza» di un bene che stato
cacciato via. Cordelia-Fool-Lear: c’ nel legame Fool- Lear una tenacia profonda ed
inesprimibile di a etti, di complicit ed anche di «tenerezza» ad un certo punto. E poich il
«bene» – per noi – era quello di Cordelia cacciata, come per altro verso quello di Kent
cacciato anch’esso, ecco che il Fool «tiene luogo» di questo bene in altro modo. il bene
rimasto, il rapporto «umano» rimasto e che rimarr . Appunto la persistenza. A questo scopo
mi farei una domanda retorica ma illuminante: ammettiamo che il Fool non sparisca,
misteriosamente, e che continui a stare vicino a Lear. Che lo segua anche nel «dopo». Cosa
avverrebbe, cosa potrebbe fare, quali sarebbero i rapporti suoi con Lear? Per quanto ci
pensi non riesco a vedere dei rapporti praticamente possibili. Prendiamo una scena: quella
del risveglio di Lear con Cordelia e le seguenti. Potrebbe esserci il Fool, e se s cosa
dovrebbero fare o dire? Nessuno mai potr tentare di inventare ci che un poeta non ha
fatto. Ma si pu tentare di seguire una traccia plausibile di presenza. Non c’ posto per il
Fool dopo la «pazzia» di Lear. E non erra chi dice che il Fool sparisce quando ha portato
Lear alla pazzia. Il suo ruolo nisce l . Non solo, per . Il fatto che il Fool serve a Lear
«solo» in fase negativa del personaggio Lear, come commento alla sua negativit . Non pu
servire quando il personaggio Lear riemerge dal buio ed nuovo, cio opposto a quello che
fu. In questo caso il Fool dovrebbe diventare l’opposto anche lui di quello che fu. Un Fool
che «come prima» commenta e irride e parla e canta e spiega per enigmi e giochi non pi
«la follia» di Lear, l’errore di Lear, il disumano di Lear, ma il suo umano, la sua saggezza
conquistata, il suo amore ritirato? Impossibile. A un Lear nuovo, il Fool dovrebbe
trasformarsi in un fatto nuovo, probabilmente tutto comprensione, dolcezza, tenerezza,
a etto, trepidazione; (ci che noi sentiamo che «sotto» al Fool ma assume veste
variopinta prima). E poich ci non possibile o almeno non pare possibile ecco che il Fool
deve sparire. Non c’ pi bisogno di lui ma di un altro termine d’a etto e di presenza. Cio

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Cordelia. Lo so che tutto ci – e lo dicevo – sfuggente, «sensibile» quasi, o peggio. Ma
resta inoppugnabile il fatto che: a) il Fool accompagna Lear nella sua disgrazia-follia-
cammino di conoscenza e lo accompagna come «presenza», se non femminea, certo «non
virile»; b) che la presenza «virile» la d Kent (anche se travestito: «chi sei tu?» – dice Lear –
«A man» risponde Kent). Il problema Fool-Cordelia certo uno dei pi enigmatici, pazzeschi
problemi che mi sia stato dato di incontrare. Tanto strano da domandarsi se esso esista o
non sia invece un parto di fantasia... Mi viene di farmi un altro gioco del pensiero: poniamo
che l’attore (boy) fosse lo stesso. Cosa poteva succedere nella rappresentazione
shakespeariana? I doppioni non erano poi cos comuni, n usati per parti «importanti» o per
due parti importanti. Mi pare che la «convenzione» di questo genere non fosse una delle
tante convenzioni in uso nel tempo. Come non lo con i Comici dell’Arte. Non ce n’
bisogno, del resto. Tutto combinato e su ciente per l’organico della compagnia. Il
pubblico doveva «riconoscere» nel Fool Cordelia e alla ne viceversa? Probabilmente
riconosceva solo qualche cosa, alcuni timbri di voce, qualche caratteristica «inalienabile» e
niente di pi , tanto i personaggi sono lontani. Ma doveva forse riconoscere un «legame»
misterioso, impalpabile. La tempesta: la luce immobile, da diluvio universale, chiarissima,
lancinante, tra ggente. Come la luce di un lampo interminabile o arrestatosi nel momento
della scintilla. Poi buio. Poi un altro, a lungo. Scandito nel vuoto, a intervalli. Nudo nella luce
impietosa di un fulmine che non si spegne. Il problema della tempesta un problema
acustico terri cante. O semplicissimo, trovata la chiave. Il punto pi di cile di ci , il
risveglio di Lear. La musica che accompagna il risveglio di Lear. Due soluzioni iniziali.
L’oboe elisabettiano, solo, che «risillaba» accanto a Lear (invisibile ma vicino e vero) un
tema sommerso. O un suono di voci umane calme, piano, lontano; col pericolo che
diventino meta siche, o voci del sogno di Lear od altro. Grande impressione per il «quarto
atto» ma soprattutto in modo sconvolgente ed inaspettato per la scena del «risveglio» di
Lear con Cordelia. Dopo «la tempesta» di Lear, la follia degli uomini, la cattiveria, il sangue
ed il dolore, appare una incredibile pace. Lear si risveglia, anzi sta risvegliandosi. Ed qui
che avvenuto il «capovolgimento», qui la conquista della «verit » che al di l delle cose.
Chi parla ancora Lear ma al tempo stesso un altro: parla con acutezza e soprattutto con
una in nita tristezza; lui che non ha mai conosciuto il distacco, la tristezza, la malinconica
contemplazione della vita. un monologo lento, calmo, sereno, direi, da un «altro mondo».
L’e etto stupendo, drammaticamente perfetto. stato scelto il momento giusto perch
avvenga. «un colpo di scena» di una grandezza assoluta, perch semplice, perch logico,
perch naturale, perch poetico, perch drammaturgico, perch ... Non ci sono problemi per
la realizzazione. Semmai uno iniziale, quello della musica, dell’attesa. Ma anche questo
meno, risolto il problema del dove e come stanno Lear e Cordelia, il «luogo» drammatico (
sdraiato Lear? Certamente, non pu non esserlo. Ma: su un letto grande o altro? O per
terra? Dovrebbe a mio avviso essere per terra, rinascere dalla terra come un «neonato
vecchissimo». Se «per terra», cosa ha sotto? Se ha sotto qualcosa, non pi «per terra»!).
Il resto semplice, no all’uscita di Lear che se ne va solo, nel vuoto. Ma non piange, non
si dispera, sorride quasi e scuote un poco la testa in un «no» misterioso mentre esce e ssa
per un attimo gli «altri». Cordelia che aspetta il risveglio di Lear. La «carezza» sulla fronte per
liberarla dai bianchi capelli, «il pallido elmo». Le parole di Cordelia sembrano dedicate ad un
«altro uomo». Cio sono un «anticipo» di quello che Lear ci apparir tra poco. Ma non lo
sappiamo. Questo genio. Si potrebbe pensare che, per Cordelia, Lear sia apparso un
poco «sempre» cos , vecchissimo e tenero. Forse Cordelia con l’occhio del cuore ha visto
sempre la «bont » di Lear, che al di l della sua collera e del suo dispotismo. Un uomo
vecchissimo come un bambino. Sempre la scena del risveglio di Lear. Una immagine

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lancinante: un uomo vecchissimo come un bambino appena nato da un sonno di morte,
bianco e diafano, le mani raccolte, piccole unghie incredibilmente trasparenti, nel grembo di
una giovanissima quietamente seduta, composta, che gli accarezza lenta i capelli, li scosta
dalla fronte piena di crepe azzurre come vene sottilissime. Il gesto dolcissimo, il sorriso, la
tenerezza, la pena, l’amore, la piet per la vita che ritorna, che ria ora. Il vecchio ha le
ginocchia piegate, i pugni quasi stretti, e respira appena. Poi apre gli occhi e ssa quelli
della giovane. Il vecchio il padre. La giovane la glia. Il padre che rinasce alla vita (la pi
vera di s ) dalla glia che l’ha «amato sempre». La glia-madre, eternamente. Il cerchio
della vita e delle et che si chiude in un gesto. In un atto d’amore. Alla ne, quando Lear
porta dentro Cordelia, Cordelia nelle sue braccia: l’idea di un fantoccio rotto, un
fantoccino pallido, esangue, dal viso bianco bianco. Lear la porta proprio come un
fantoccio, quasi facendogli trascinare le punte dei piedi per terra, tenendolo abbracciato, al
petto, con fatica perch pesa, nonostante tutto. I piedini s orano il fango e qualche volta
strisciano lasciando una riga pi lunga. L’avanzata faticosa. Poi sul davanti (al centro? pi
avanti ancora? sulla passerella dopo aver tirato gi Cordelia-fantoccio morta?), la lascia
andare a terra, scomposta, e la guarda in ginocchio, come un bambino antichissimo che
guarda il suo giocattolo rotto. Con curiosit . Qui arriver la battuta «my poor Fool is
hanged». Oppure durante le battute di Kent, Lear avr incominciato a toccare il fantoccio-
Cordelia, a darle piccole scosse, ritirandosi per vedere l’e etto del colpo, tirandola poi per
le braccine, poi sollevando un braccino per il polso, in alto, piegandolo un poco e poi
lasciandolo. Il braccino ricade morto e resta. Lear allora, proprio alla battuta, in ginocchio,
accucciato ha un lampo. La ssa, si allontana col busto, si riavvicina lentissimo con le
palme a terra, ssando Cordelia faccia a faccia e mormora, adagio, con orrore tenerissimo,
al di l del male: - «Ti hanno impiccato, povero Matto mio!». E furiosamente se la stringe al
cuore, mentre le braccine inerti dondolano nel ritmo di una straziante ninna nanna, perduta,
immemore.”

Osservando il gruppo di personaggi che accompagnano Lear e notando come il fool


compaia quando Cordelia scompare e svanisca quando ella ritorna, Strehler legge dunque
il fool come “la persistenza di un bene che stato cacciato via” e lo identi ca con Cordelia
stessa, facendone cos interpretare la parte dalla medesima attrice: Ottavia Piccolo
(giovanissima era gi stata Checca nelle Baru e chiozzotte di Goldoni). Questa scelta
“dilata i motivi dell’amore liale e paterno. Il rapporto di Lear con il Matto diventa il
ravvedimento di un padre stizzoso, che abbia creduto che la riservatezza della glia
prediletta derivi dalla mancanza di a etto.” Lo scopo del Matto (che, coerente con la
metafora circense, ritratto come un vero e proprio clown da circo) quello di
accompagnare Lear nella pazzia verso la luce, ma quando il re emerge dal buio necessita di
essere scortato da una diversa gura: la dolce, a ettuosa Cordelia, che ai nostri occhi
per lo stesso interprete. Fra i personaggi che accompagnano Lear nel suo viaggio
iniziatico (e che con lui mutano) Edgar - Gabriele Lavia - nella lettura strehleriana, assume
un certo peso ed foriero di speranza. Il regista, infatti, mostrando di non condividere
l’interpretazione pessimistica che di questo personaggio era stata pi volte data, ne mette
in evidenza il ruolo drammaturgico di polo positivo: egli viene qui ad incarnare l’immagine
del nuovo governante, dell’uomo moderno che risollever le sorti del regno. Negli intenti di
Strehler, Re Lear vuole essere uno spettacolo totale, in cui tutte le componenti del testo
trovano il loro spazio e il loro equilibrio - come Strehler stesso a erma: “Noi tenteremo di
darne una lettura oggettiva, totale”. Pure, inevitabile che, so ermandosi notevolmente sul
tema del percorso interiore dell’uomo (Lear, ma anche Gloucester o Edgar), il regista lasci in

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questa ri essione poco spazio ai ‘cattivi’ (Edmund, per esempio, interpretato da Giuseppe
Pambieri), visti solamente come coloro che inconsapevolmente guidano gli avversari ‘buoni’
alla consapevolezza. “Alla riuscita concorrono i costumi, anche questi di Frigerio che veste
di lucida pelle nera i potenti e i sicari e di bianchi cenci le loro vittime, e gli e etti sonori di
Fiorenzo Carpi dei quali il tristaneggiante oboe del risveglio di Lear tra i pi toccanti. Per
Strehler il cammino interiore di Lear una metafora della vita, “una esplorazione nel
Profondo” da cui egli stesso a erma di essere riemerso “mutato”. Come Lear, attraverso
l’esperienza teatrale, il regista rinasce dal suo lavoro pi consapevole e maturo: il teatro
anche in questo senso metafora del mondo, grazie alla cui mediazione si pu accedere alla
conoscenza e alla verit della condizione umana. Il successo di Re Lear senza precedenti:
l’interpretazione o erta da Tino Carraro straordinaria (per molti la migliore della sua
lunghissima carriera) e lo spettacolo replicato ininterrottamente in quasi tutti i teatri italiani
ed europei per sei anni, raccogliendo, ovunque, i favori incondizionati di pubblico e critica.
Leggiamo in conclusione quanto scrive “l’Unit ” all’indomani della prima rappresentazione:
“Gabriele Lavia il giovane Edgar. Lo rende con acuta capacit di asciuttezza, con uno stile
freddo, di testa, intelligente; di una freschezza espressiva sempre all'erta. Renato De
Carmine Gloucester di cui con poetica sintesi esprime la remissivit ai voleri dei suoi
nuovi capi (le due sorelle regine e i loro mariti) e l'attaccamento di fondo a Lear. Ottavia
Piccolo il fool e Cordelia; al primo d tutta la sua bravura, la sua carica di piccolo clown
acuto, tenero, amico, un personaggio da non dimenticare; la seconda pi debole, forse,
perch , troppo per cos dire, toccante, e forse troppo insistita la similitudine Cordelia-Madre
(sulla base dell'interpretazione psicanalitica: Lear che nasce dal grembo della propria glia).
Giuseppe Pambieri Edmund, il bastardo di Gloucester; forse pi giovanilmente irruente
che per do, dichiara di essere un mostro di cattiveria (e non per nulla una battuta da lui
stata tradotta come decisione di andare «nei ranghi della morte». come un ardito fascista;
cosi come di stampo nazista il personaggio di Cornovaglia. eseguito con e cacia da
Orlando Mezzabotta). Carlo Cataneo il buon Kent. l'amico-servitore di Lear, chiaro e
preciso: quand' alla gogna particolarmente bravo. Ivana Monti e Ida Meda sono le due
glie di Lear; bench assai giovani, le due attrici ben con gurano i loro personaggi, dando
loro quell'esatta sionomia borghese, di piccole donne intriganti che compiono delitti pi
grandi di loro. Cesare Ferrario il Duca di Scozia, marito di Goneril. Oswald. il dato servo
dei duchi. Fulvio Ricciardi; i tre servi (i quali hanno un notevole rilievo nello spettacolo, che
li propone come rappresentanti della classe servile. riconoscendo ad essa doti di fedelt e
di umanit ), sono Eugenio Masciari. Gabriele Villan. Sergio Salvi”.

Dopo la straordinaria prova di Re Lear, prosegue la stagione di grande creativit del regista,
il quale rma spettacoli destinati a diventare storici sia per il teatro in prosa, sia per quello
musicale. Il gruppo originario di artisti, tecnici e musicisti che accompagna Strehler nella
avventura del Piccolo, gli si mantiene fedele (sia per la qualit universalmente riconosciuta
al lavoro strehleriano, sia per il carattere stabile del Piccolo che si con gura come casa
sicura, come realt teatrale dotata di continuit ), aprendosi anche a nuovi contributi.
Accanto a Tino Carraro, Renato De Carmine, Milva, Giulia Lazzarini, Franco Graziosi,
Ferruccio Soleri, Giancarlo Dettori, ai quali si aggiunge, nel 1973, Andrea Jonasson (che
Strehler incontra a Salisburgo durante l’edizione tedesca del Gioco dei potenti di
Shakespeare e sposer a Milano il 12 giugno 1981 dopo essere stata la sua compagna per
otto anni), si pongono i collaboratori storici Lamberto Puggelli, Enrico D’Amato, Carlo
Battistoni, professionalmente cresciuti e spesso impegnati in regie anche assai signi cative
fuori e dentro il Piccolo, eppure fedeli a Strehler, al quale continueranno a fare da assistenti

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no alla di lui morte. E ancora gli scenogra Luciano Damiani e Ezio Frigerio, la costumista
Franca Squarciapino, il musicista Fiorenzo Carpi, Marise Flach per i movimenti mimici, e
molti altri. Anche a questi ottimi collaboratori (o illustri artisti come Claudio Abbado) e allievi
(da Patrice Ch reau a Klaus Michael Gr ber, da Henning Brockhaus a Stefano De Luca) si
devono gli altissimi risultati d’arte conseguiti dal regista. Con ciascuno fra loro Strehler
sperimenta una via speciale di dialogo e scambio, un modo per stimolarsi reciprocamente a
dare di pi , per compiere insieme il percorso sempre arduo che separa la prima lettura al
tavolino di un testo o di una partitura dalla sua compiuta realizzazione in uno spettacolo
che, nel pensiero del regista, opera d’arte autonoma e pienamente indipendente. Nel
febbraio 1973, dopo un lungo lavoro preparatorio rallentato da un incidente a Milva e dalla
malattia di Gianni Santuccio (che deve rinunciare al suo ruolo lasciando il posto a
Domenico Modugno), Strehler presenta sul palcoscenico del Teatro Metastasio di Prato la
seconda edizione dell’Opera da tre soldi3, in un allestimento che, risentendo del
progressivo imborghesimento di pubblico e attori, ha il merito di storicizzare non solo il
testo di Brecht, ma anche la precedente edizione del Piccolo Teatro. Negli appunti per la
seconda edizione dell'Opera da tre soldi il regista indica le ragioni per cui questa nuova
edizione deve essere pi provocatoria della precedente. “Il punto centrale per una
interpretazione de L’opera da tre soldi il suo apparire gastronomico per essere anti
astronomica; l’apparenza del divertente che diventa di continuo allarmante; l’evasione
piacevole che diventa spiacevolezza e aggressione diretta. O indiretta. Sui due versanti,
rappresentare L’opera da tre soldi come un colorato sottomondo proletario, fantastico,
inventato e anche aggressivamente innocuo, o come un inequivocabile, sinistro, violento
fatto di violenza che dalla scena raggela il pubblico «borghese» in ascolto, sono ambedue
errori di fondo. L’uno tenta di escludere l’altro, e ci contro il testo, contro la sua volont di
essere in un dato modo che si potrebbe, entro questi limiti, de nire ambiguo. Nei limiti,
appunto, di una delle cinque maniere per scrivere la verit , quando non si pu farlo.
Ambiguo ma «volutamente» ambiguo, come scelta metodologica, non come incapacit o
insu cienza ideologica. Perch L’opera da tre soldi rappresenta proprio questo «giocare» il
sistema della societ borghese, dall’interno, con alcune sue armi (dal pittoresco al patetico,
dal generico rivoluzionario alla canzone). Nel riprendere in esame L’opera da tre soldi, di
nuovo, si pone una problematica che va al di l del rifare il gi fatto. Indubbiamente al
tempo della sua prima edizione o della successiva (poco modi cata) si era raggiunto questo
equilibrio instabile che giusti ca e determina il successo dello spettacolo nel pubblico per
demisti carlo in ci che ha di pi gelosamente segreto: il suo perbenismo borghese. Il
pubblico non borghese poteva, del resto, cogliere ugualmente il suo messaggio e divertirsi.
Poi e continuamente, a tratti, a lampi, a battute, a situazioni gestuali, veniva a contatto con
la carica eversiva del testo-spettacolo, veniva colpito brutalmente e subito rimesso in una
atmosfera piacevole. Alcuni esempi: nel «Kanonen Song», Mackie Messer e il capo della
polizia Brown la Tigre cantano ricordando i bei tempi passati in guerra. Bevono il solito
«whiskaccio» e rammemorano tempi gloriosi, da buoni commilitoni. La canzone
piacevolmente ritmica, con qualcosa di eroico e brutale (le trombe all’unisono, il tamburo
militare), ma jazzisticamente eccitante e melodicamente cantabile. In essa si parla di altri
commilitoni Johnny e George e altri che «ai bei tempi» sono morti per la patria. Poi la patria
e la sua guerra, contestualmente, si scoprono essere una guerra coloniale contro i negri, o
razze di colore, delle quali piacevolmente gli allegri compagnoni facevano «beefsteak tartar»
(cocktail nella traduzione italiana). La progressione della scoperta perfetta, perfettamente
dissimulata e perfettamente leggibile. Canto dei ladri. Gli ascoltatori (membri della banda di
Mackie Messer, cio ladri e ladri diversi, il grosso, il magro, il giovane traviato, l’immigrato,

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lo sportivo, il ridicolo) e il cappellano Kimball, celebrante il matrimonio del re dei banditi, ma
soave e dolcissimo, seguono divertiti il canto dei due amici. A poco a poco il ritmo della
marcia, i suoni, le parole, l’allegra violenza dei due incominciano a coinvolgerli. Alla ne,
come attratti dal cerchio di luce che isola Mackie e Brown che gridano rievocando i loro
massacri «piacevoli» da «commilitoni allegri» sui negri e razze annesse, attaccano anche
loro a cantare l’ultimo ritornello, con gesti sempre pi violenti e precisi, estraggono quasi
automaticamente le «armi personali» (rasoio, catena, coltello e pistole) e le agitano verso
l’alto. Persino il reverendo «piamente» dalla tasca ha tirato fuori la sua arma di difesa
personale e l’adopera come gli altri. Sull’ultimo accordo sul quale riecheggia il ritmo di
marcia dei piedi di tutti, le pistole sparano: fuoco e fumo dal gruppo per un attimo. Il
proiettore bluastro si spegne di colpo. La musica tace. Il gruppo di colpo si scioglie «come
uscendo da un sogno», le armi sono rimesse in tasca, riprende «il piacevole convito di
nozze». Non successo nulla. Soltanto un piccolo coretto di amici un poco alterati.
L’applauso qui scoppia ineluttabile. Ed assai complesso. Esso liberatore di una tensione
fatta di motivi diversi: da quello puramente ritmico-animale (a livello pi basso), a quello del
malessere da esorcizzare e allontanare, da quello della «coscienza sociale» che ha
analizzato gli stadi di erenti di demisti cazione della banda che canta e marcia, a quello
della «bellezza piacevole» estetica, spettacolare, quella del «buon teatro» ad esempio.
L’intrecciarsi di motivi, sostanzialmente demisti catori, ma anche parzialmente misti catori
ttissimo, e l’un motivo non preclude l’altro, anzi lo potenzia, lo veicola meglio e lo mette
in dialettica con altri. Alla ne si potr dire da un lato di avere visto e sentito un violento
song sulla guerra, che nisce in un coro e in un crescendo drammatico superbamente
realizzato, piacevole anche plasticamente (con alcune trovate, come quella del gruppo che
si unisce per cantare in coro e marcia anche lui «come se fossero soldati»!). Un grande
«momento di teatro». Dall’altro lato, di avere visto in atto il processo di demisti cazione
della mitologia della guerra, della alienazione dell’atto guerresco, del coinvolgersi ignobile
degli altri nella folla guerresca, anche del reverendo, che diventa un sanguinario cappellano
militare (magari a suo tempo, benedicente labari e torturatori). Presentimento. Tra queste
due percezioni estreme, la teatrale-gastronomica e la dialettica sociale, altre percezioni
intermedie: ad esempio quella della societ tedesca alle soglie del nazismo. Cio il gruppo
visto non come condizione borghese tout court ma come condizione di un «dato momento
storico della societ tedesca» nel 1928, presentimento della crudelt nazista, e via di
questo passo. Si potrebbe continuare. Ma ci che interessa qui notare la metodologia
tipica che Brecht e Weill usano, e che qui messa in una evidenza – non evidente –
evidente. Il discorso nasce per me dall’instabile rapporto di piacevole-spiacevole,
accattivante-scostante, a ettivo-aggressivo che alla base della Opera da tre soldi. Ora,
questo equilibrio instabile lo si pu ottenere attraverso varie metodologie, tutte possibili
nell’Opera da tre soldi (tutte cio legittime, scartando le illegittime). Ma sostanzialmente i
metodi sono due: o si parte dal piacevole, come base plastica, visiva, auditiva e si immette
l’acido «continuamente» nel preparato, a volute, schizzi e altro. O si parte dallo spiacevole,
dall’inquietante e lo si veicola con il «piacevole», l’accattivante, quasi il misti catorio. Nella
prima edizione il metodo seguito fu il primo e diede buoni risultati. Mi viene da chiedermi,
ora, se la metodologia dovr essere la stessa. Addirittura lo stesso spettacolo, anche se
«rifatto» uguale (cio diversissimo dieci o quattordici o sedici anni dopo!), oppure se
necessario invertire il rapporto e impostare lo spettacolo sul versante pi crudo e
spiacevole per piacevolizzarlo. Il risultato dovrebbe essere uguale ma l’accento di partenza
opposto. Oscuramente sento una attrazione ineluttabile a questo processo. Ma perch ?
Perch c’ in me un bisogno «demoniaco» di fare diverso il gi fatto? Il trovare o il provare

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un nuovo tipo di spettacolo sulle spoglie di quello antico perch gi usato? Un nuovo
bisogno gurativo? O altro? Tutti agguati, in fondo, anche se possibili e plausibili e
artisticamente validi. Oppure tale attrazione o tendenzialit il frutto di un contesto storico-
sociale intorno a me, dentro di me (la storia e il tempo e il rapporto testo-tempo che mi
spinge a trovare un «nuovo» modo o forma di colloquio con la collettivit )?” Per quanto
riguarda il cast Mackie Messer ora a dato a Domenico Modugno (che sostituisce, come
si detto, l’indisposto Gianni Santuccio), Jenny a Milva, la signora Peachum a Adriana
Innocenti, il signor Peachum a Gianrico Tedeschi. Leggiamo al proposito “Domenico
Modugno (Mackie Messer), cui toccato il compito pi arduo, per il suo tardivo inserimento
nella distribuzione, non ha ancora conseguito la necessaria compattezza e incisivit di tono;
ma dice assai bene le ultime pagine dell'Opera, con la villoniana ballata degli impiccati, e
interpreta i songs in modo sicuro limpido, a gara con Milva (Jenny delle Spelonche),
acclamatissima come cantante, ma anche come attrice, per la sua indubbia «grinta»,
rilevata dal trucco; nella duplice veste recitativa e canora ha anche un ottimo risalto Adriana
Innocenti (signora Peachum), che si guadagnata un applauso personale (ma tutti ne
hanno avuti) con la “Ballata della schiavit sessuale”. Polly una intensa Giulia Lazzarini
alla quale Strehler indirizza nel maggio 1973 una lettera relativa al suo personaggio: “Giulia
adorabile e adorata! Tutto il mio bene, la mia stima a te, da sempre, se ci pensi bene.
Questa volta non ti lascio scappare pi . La tua condanna ineluttabile! Volevo dirti molte
cose l’altra sera ma noi ci siamo parlati sempre poco e detti ugualmente tanto. Tra noi non
c’ bisogno, ecco, di dire: sappiamo. Ti ho ritrovata sempre pi brava, straordinariamente
brava, matura, cosciente, precisa, lucida e abbandonata, sempre giustamente sospesa tra
intuizione e critica, in un equilibrio quasi incredibile tra un altissimo mestiere di teatro (viva
quando cos , il mestiere; noi dobbiamo amarlo, il mestiere!) e una freschezza poetica,
invenzione fantasia e rispetto per quello che si deve dire e fare. Mi hai dato molta gioia,
Giulia, non perch “facevi bene” Polly o mi “seguivi” ma perch , davanti a me, davi corpo a
un certo tipo di attore o attrice ideale. Era il tuo modo di essere attrice che mi faceva felice,
mi aiutava e mi aiuta ancora. Adesso pensa a te. Devi farlo con tenacia e seriet come se
fosse (ed ) ancora lavoro di teatro. Spesso ho so erto con te perch sentivo che le forze ti
mancavano. stata, la tua, una lotta dura, continua che io, forse solo io, ho seguito nella
sua realt . Ma non deve pi ripetersi. Ti voglio ritrovare piena di sole, di luce (non dico di
felicit . Non c’ . Se non a lampi brevissimi. Ormai lo so anch’io!) e di slancio. Ti voglio
grassa, grassa, riposata e serena. Per ora niente altro: fai una lunga, lunga vacanza. Non
farti prendere assolutamente dal “teatro” in qualsiasi forma. Devi pensare solo a te, essere
umano. Devi rispettare te, essere umano, perch da l che nasce te, attrice. Questo lo sai.
Non si sulla scena se non si prima dentro.” Con loro Gianni Agus e Giancarlo Dettori
completano il foltissimo cast.

Nel marzo 1973, Strehler allestisce per il Teatrino di Corte di Versailles, riaperto dopo i lavori
di restauro, il suo secondo Mozart: Le nozze di Figaro4. A di erenza del Ratto dal serraglio,
tutto giocato su un registro abesco, quella delle Nozze una rappresentazione di carattere
realistico. La ra nata cornice scenogra ca, disegnata da Ezio Frigerio, concorre a tale
scopo: per il primo atto, egli abbandona la ricostruzione tradizionale della stanza dei due
promessi sposi, per ambientare l'azione nel corridoio di un castello tralasciando, quindi, i
riferimenti simbolici al letto nuziale di Susanna e Figaro. La camera della contessa, per il
secondo atto, risulta spoglia, con poco mobilio disposto senza grazia, illuminata da un
pallido sole che penetra dalla nestra, secondo una inclinazione bassa, da tardo
pomeriggio. Il terzo atto, poi, ambientato in una lunga galleria vuota caratterizzata dalla

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presenza di un clavicembalo. I cantanti, non possono spostarsi verso il fondo della galleria,
per non infrangere il gioco prospettico e svelare il trucco scenico: l'e etto , quindi, quello
di giganti costretti in un piccolo spazio vitale. L'ultimo atto ra gura il giardino "degli
inganni" in una maniera nel complesso tradizionale. Per Strehler, il libretto di Lorenzo Da
Ponte per l'opera mozartiana, ancora pi del testo originale di Beaumarchais, risente del
clima dell'imminente Rivoluzione francese. Tale clima , tuttavia, ltrato attraverso la musica
di Mozart, perdendo, almeno in super cie, il carattere aspro di critica sociale per acquisire
un vago senso di rimpianto verso qualcosa che si sta per perdere. come se la "folle
giornata" fosse al tramonto, con il sole che allunga le ombre. Solo in un caso il regista pare
alludere apertamente alla rivoluzione: quando, nel primo atto, cantando "Giovani liete, ori
spargete" e inneggiando al conte che ha abolito lo ius primae noctis, il coro irrompe nella
stanza, animato da una forza formidabile quasi a volere mettere sotto sopra l'intero castello.
Strehler ritiene, inoltre, di potere intervenire in maniera decisa sul carattere dei personaggi.
L'impianto registico dell'opera richiede, infatti, una attenta caratterizzazione scenica delle
psicologie dei protagonisti. Susanna presenta, secondo il regista, l'incarnazione dell'amore
sensuale. Tale gura resa in tutta la sua femminilit irresistibile, nell'evidente piacere dei
sensi, nell'invito malizioso che ogni suo gesto sottolinea, inconsapevolmente. Infatti, c'
qualcosa di biologico e vitale nel realizzarsi di Susanna: una incontenibile inclinazione
all'amore ignaro di pudori e esitazioni morali. La medesima caratterizzazione erotica investe
il giovane Cherubino, uno fra i personaggi pi ardui da rappresentare negli allestimenti delle
Nozze, anche per il fatto che scritto per essere vocalmente interpretato da una donna.
Cherubino non un ragazzo super ciale, non ama solo l'amore in astratto: egli ama l’amore
carnale e se potesse andare a letto con la contessa, lo farebbe, con Barbarina, con
Susanna. Tutto ci stato dipinto da Mozart con delicatezza. La sua sensualit richiede di
essere tradotta in atti concreti, richiede baci, letti, corpi che si toccano. Figaro il simbolo
della rivendicazione popolare. Infatti, dalla lettura che il regista o re del personaggio,
evidente che la sua attenzione non si pone sulla gura del servo, bens sul rapporto di
tensione che si instaura tra Figaro e il Conte. A di erenza degli altri personaggi, Figaro
appare pretesto scenico per esprimere idee "pericolose". Scrive Strehler: “Figaro non un
personaggio scaltro, un valletto ridicolo, che si prende gioco del Conte. Egli reca in s una
certa coscienza di classe”. La contessa Rosina una donna infelice, trascurata dal marito e
destinata, anche nel corso della vicenda di Beaumarchais, a cadere fra le braccia di
Cherubino. Il Conte, invece, trattato con comprensione per le sue origini e la sua
educazione, in alcuni punti celebrato come democratico. Anche i tradimenti alla moglie
appaiono come debolezze umane, comuni a tutti i mortali. Il Conte un uomo nato in una
societ alle soglie della Rivoluzione francese. Ha difetti e qualit . Al termine della vicenda,
egli appare come un democratico, travalicando i problemi di classe per incarnare l'umanit .
Almaviva si trova quindi a recitare il ruolo di vittima della storia, della debolezza umana,
vittima di un carne ce, Figaro, che attende soltanto che gli eventi storici si volgano a suo
favore. Lo spettacolo che debutta il 30 marzo 1973 a Versailles e successivamente
all’Opera di Parigi il 12 settembre, ha esito trionfale e la critica elogia le capacit di Strehler
di infondere ritmo e vigore all'interpretazione attorale dell'intera compagnia di canto. Negli
anni successivi, in occasione delle numerose riprese allestite alla Scala, il regista torner pi
volte al capolavoro mozartiano approfondendo le proprie scelte e, soprattutto nelle edizioni
dirette da Riccardo Muti, rendendo ancora pi evidente e perfetta la sintonia tra quanto
accade in orchestra e quanto si rappresenta in scena.

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Due spettacoli “epici” impegnano Strehler nella primavera e nell’estate 1973: La condanna
di Lucullo5, dramma didattico di Brecht, su musica di Paul Dessau, rmato in
collaborazione con Lamberto Puggelli e presentato al Teatro Lirico di Milano il 19 maggio
1973, e lo shakespeariano Gioco dei potenti6 - di cui si gi detto - in una nuova e
impegnativa edizione in lingua tedesca approntata alla Felsenreitschule in Salisburgo il 13 e
14 agosto dello stesso anno con Michael Heltau e Andrea Jonasson. Fra Brecht e
Shakespeare si inserisce anche una nuova edizione di Arlecchino7 (la quinta) che debutta
alla Villa Comunale di Milano il 24 giugno 1973. Alla conferenza stampa della stagione
1973/74 del Piccolo Strehler pu cos orgogliosamente annunciare pi di 104.000 spettatori
per Re Lear e 50.000 per L’opera da tre soldi oltre a una nuova edizione (la seconda) del
Giardino dei ciliegi8 di Cechov che andr a presentare sul palcoscenico del Piccolo Teatro il
22 maggio 1974, alla quale sta dedicando le sue cure pi a ettuose. Infatti, Strehler si
accosta nuovamente al Giardino desideroso ora di superare i molti empasses e problemi
che egli giudica non essere stato capace di risolvere con l’edizione del gennaio 1955. La
chiave realistica, fortemente indirizzata dalle teorie di Stanislavskij, con cui il regista aveva
a rontato il primo Giardino gli pare, nel 1974, un limite rispetto alla resa della complessit
del dettato cecoviano, il cui nucleo problematico crede di avere allora solo s orato. Con
un’esperienza teatrale assai ricca alle spalle (e, in parte, modellata sull’imprescindibile
Brecht), Strehler a ronta ora il testo di Cechov sulla scorta della ‘teoria delle tre scatole’,
che gli permette di fondere e armonizzare nello spettacolo i tre possibili piani di lettura
(di erenti, ma complementari, pensati come una concatenazione ascendente dal particolare
al generale), che egli individua nelle note di regia. “Ci sono tre scatole – a erma il regista -
una dentro l’altra, a stretto contatto, l’ultima contiene la penultima, la penultima la prima. La
prima scatola la scatola del "vero" (del possibile vero che in teatro il massimo vero), e il
racconto un racconto umano, interessante. Non vero, ad esempio, che il Giardino non
ha una trama "divertente". anzi pieno di colpi di scena, pieno di avvenimenti, di trovate, di
atmosfere, di caratteri che mutano. una storia umana bellissima, un’avventura umana
emozionante. In questa prima scatola si racconta dunque la storia della famiglia di Gaiev e
di Liuba, e di altri. Ed una storia vera, che si colloca certo nella storia, certo nella grande
vita, ma il suo interesse sta proprio in questo suo far vedere come vivono davvero i
personaggi, e dove vivono. un’interpretazione-visione "realistica", simile ad una ottima
ricostruzione come la si potrebbe tentare in un lm di atmosfera. La seconda scatola invece
la scatola della Storia. Qui l’avventura della famiglia vista tutta sotto l’angolatura della
storia, che non assente nella prima scatola, ma ne costituisce il sottofondo lontano, la
traccia quasi invisibile. Qui invece la storia non solo "costume" o "oggetto": lo scopo
del racconto. Qui interessa di pi il muoversi delle classi sociali in rapporto dialettico tra di
loro. Il mutamento dei caratteri e delle cose come passaggi di propriet . I personaggi sono
certo loro stessi "gente umana", con precisi caratteri individuali, certi vestiti, e certi visi, ma
rappresentano – in primo piano – una parte della Storia che si muove: sono la borghesia
possidente che sta morendo di apatia e di assenza, la nuova classe capitalistica che sale e
si impadronisce, la nuova giovanissima imprecisa rivoluzione che si annuncia, e cos via.
Qui stanze, oggetti, cose, vestiti, gesti, pur mantenendo il loro carattere plausibile sono
come "spostati" un poco, sono "straniati" nel discorso e nella prospettiva della Storia.
Indubbiamente la seconda scatola contiene la prima, ma appunto per questo pi grande.
Le due scatole si completano. La terza scatola in ne la scatola della vita. La grande
scatola dell’avventura umana; dell’uomo che nasce, cresce, vive, ama, non ama, vince,
perde, capisce non capisce, passa, muore. una parabola "eterna" (per quanto di eterno
possa esserci nel breve corso dell’uomo sulla terra). E qui i personaggi sono visti ancora

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nella verit di un racconto, ancora nella realt di una storia "politica" che si muove, ma
anche in una dimensione quasi "meta sica", in una sorte di parabola sul destino dell’uomo.
Ci sono i vecchi, ci sono le generazioni di mezzo, ci sono i pi giovani, ci sono i
giovanissimi, ci sono i padroni, i servi, i mezzi padroni, la tizia del circo, l’animale, il ridicolo,
e via dicendo, c’ una specie di paradigma dell’et dell’uomo e degli uomini. La casa "La
casa" e le stanze sono "Le Stanze dell’uomo" e la storia diventa una grande parafrasi
poetica da cui non assente il racconto, non assente la storia, ma tutta contenuta nella
grande avventura dell’uomo in quanto uomo, carne umana che passa. Questa ultima
scatola porta la rappresentazione sul versante "simbolico e meta sico allusivo", non so
trovare la parola esatta. Si decanta di molto aneddoto, diventa molto pi alta, si libra molto
pi in su. Ogni scatola ha dunque la sua sionomia e il suo pericolo. La prima il pericolo
della minuzia pedante, del "gusto" della ricostruzione (molto Visconti) e del racconto visto
dal "buco della serratura" e che si ferma quasi l . La seconda ha il pericolo dell’isolare i
personaggi come emblemi di storia, cio raggelati in una posizione di pesi o di tematica
storica (Marx, critica a Schikingen, Lassalle, e via dicendo: ad esempio, lo "schillereggiare")
cio di togliere umanit vera ai personaggi per ergerli a simbolica storica.”. Desideroso di
lavorare su di un materiale letterario coerente e in linea con la propria interpretazione,
a ancato da Luigi Lunari, Strehler a ronta una nuova traduzione del testo, che cerca di
ssare attraverso l’obiettivo di “assoluta verosimiglianza”. La sinergia tra traduzione e
spettacolo totale, tant’ vero che il testo giunge a una redazione de nitiva solo nel corso
delle prove. Semplice e potente invenzione di base dello spettacolo, emblema della volont
registica di unire reale e simbolico, il velo (ideato da Luciano Damiani, tornato con questo
spettacolo a collaborare con Strehler), che dal fondo della scena sale all’arco scenico e da l
si protende, leggero, sulla platea, rappresentando il giardino: “Quel giardino che ci deve
essere e non essere”. Strehler ricava l’idea di bianco totale e luminosit candida dallo
stesso Cechov, che parla di un giardino tutto bianco, cosparso dai ori bianchi della
primavera e dalla bianca neve invernale, su cui si stagliano appena i vestiti bianchi delle
signore. Il bianco senza stagione del giardino diventa una presenza immanente, un mezzo
per attenuare la cesura tra interni e esterni, e anche tra platea e palcoscenico. E bianco non
solo l’elemento poetico e scenogra co del velo-giardino: bianchi sono anche lo sfondo
della casa e gli abiti dei personaggi (contrapposti a quelli neri della servit ). Il bianco il
colore dell’innocenza, e, dunque, dell’infanzia, alla quale sono rimasti ancorati tutti
personaggi. Scrive nel diario delle prove il 6 febbraio: “Il giardino vero e proprio il punto di
coagulazione della storia, il suo protagonista; ed nel giardino che si trova, proprio per
questo, l’enorme di colt interpretativa. Non farlo vedere, darlo per supposto, un errore.
Farlo vedere e sentire, un altro errore. Il giardino deve esistere, deve essere qualcosa che
si vede e si sente quasi (arrivo a pensare persino all’odore, o solo all’odore, per gioco!), ma
non pu non essere "un tu o". Perch il tutto si concentra. Il giardino per me in "primo
piano". attraverso il giardino che si vede la storia. uno schermo attraverso il quale, non
deformato, si vede tutto il resto. Nel modo pi volgare un sipario di velo, a giardino, che
funge da quarta parete, e si vede e non si vede. Ma, ripeto, questo un modo volgare per
chiarire un punto critico. Ma c’ anche di pi . Non basta un piano davanti, occorre
qualcosa di pi . questo "qualcosa di pi " che non riesco per ora ad a errare. Che mi
sfugge tra le dita. Anche perch le di colt , gli enigmi tecnici mi sono davanti e mi
paralizzano quasi del tutto...” Attorno alla “camera dei bambini” cui fa riferimento il testo,
Strehler costruisce cos il secondo cardine della propria lettura: tutti i personaggi del
Giardino sono nti adulti, incapaci di crescere, inetti ad a rontare la vita reale, il presente,
da cui fuggono nelle due opposte direzioni del passato e del futuro. Vittime di questo

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regresso all’infanzia, essi sono immobilizzati e incapaci di prendere qualsiasi decisione e di
gestire una situazione assai grave, sono anzi alla continua ricerca di conforto e
rassicurazione. Ma questa chiave, che potrebbe apparire psicanalitica, risolta da Strehler
attraverso il richiamo alle scatole della storia e della vita: il tema del regresso all’infanzia
altro non che il trampolino di lancio verso la rappresentazione “del ri uto della societ di
Ljuba (Valentina Cortese) e di Gaiev (Gianni Santuccio), societ degli oziosi ricchi al
tramonto, a inserirsi nella realt nuova, che non solo quella del mercante Lopachin
(Franco Graziosi)”, come testimonia poi l’esplicito passaggio del viandante-mendicante e il
personaggio di Ania (una giovanissima Monica Guerritore). Nel secondo e terzo atto, sulla
piattaforma bianca e astratta che simboleggia il giardino in salita, si incontrano le giovanili
inutili speranze, l’apatia, la cieca ducia dei personaggi, in bilico tra passato e futuro, sino al
punto della rottura della corda di un violino, segno di un sobbalzo profetico, che qui Strehler
rende “con un silenzio lungo, un soprassalto rabbrividito dei personaggi e il palpitare e il
gon arsi del velo, che insieme spazio e tempo, cielo e stagione”. Ricorda Strehler nei suoi
appunti il 21 marzo: “Il giardino si precisato in immagine. Quel giardino che ci deve essere
e non essere, che deve stare davanti e che a gennaio era una sensazione, ora sta
diventando qualcosa. Luciano ha proposto una "cosa in alto" che investe gli spettatori, ma
"da sopra". Su questa idea, non ancora immagine, abbiamo lavorato e siamo giunti alla
decisione di tentare il "giardino" come una "cupola" lieve, di sto a, non velo ma altro, che
pu palpitare, che trasparente, che sale sopra la platea, in luce e movimento e colore e
che si proietta nella scena come un so tto ideale che prolunga quello invisibile di una casa.
L’immagine non ancora chiara, solo la prova reale ci potr dare la misura del suo valore
evocativo-plastico- poetico. Io credo che questa apparenza non simbolica, poich si tratta
di qualcosa di reale, questa luce-atmosfera che varia negli atti, questo palpitare di un cielo
teatrale, con fogli di carta sottile che frusciano con un suono "trasposto" e altri e etti
imprevedibili possono dare concretamente questo incredibile giardino di Cechov meglio di
ogni altro fatto teatrale o di una sua assenza per nto amore di "castit " o "nudit ". Ma non
solo, la scena stessa arrivata a de nire quello spazio bianco che Cechov ipotizzava nella
sua lettera del 5 ottobre da Yalta. In questa lettera c’ una incredibile concentrazione di
"tempo", egli parla di un giardino estivo bianco, tutto bianco anzi totalmente bianco e di
signore vestite di bianco. Dopo un attimo aggiunge "Fuori nevica". Straordinaria questa
doppia immagine, estate-inverno, collegata sul bianco totale. Questo eterno bianco di
giardino sotto i ori bianchi della primavera e sotto la neve dell’inverno. Cos mi appare
certo che il Giardino dei ciliegi nato per Cechov in un lancinante bagliore di bianco, un
bianco "senza stagione".

Nel quarto atto, la chiusa lasciata al grande Renzo Ricci, nel ruolo di Firs, estrema
apparizione della sua carriera, il vecchissimo maggiordomo- “ruolo terminale per magni ci
vecchi con aure di ricordi illustri” lo de nisce accuratamente Alberto Arbasino- dimenticato
custode della casa e del passato, steso sul vecchio divano: dall’alto, gli cade addosso il
velo- giardino come un sudario, mentre sullo sfondo il rumore ritmato delle seghe in azione
apre la strada al futuro e suggella il passaggio di testimone tra classi sociali e generazioni.
“Il realismo di Strehler -leggiamo - ha qui fatto due passi innanzi: dall’accumulare in scena
gli elementi visibili dell’ambientazione della commedia passato a una scena nuda; dal
mettere in mostra, sicamente, i ciliegi del meraviglioso giardino di Liubov Andreievna
approdato a un’altra immagine-simbolo-emblema e trovata di teatro, e macchina, lieve,
aerea, vaporosa e pregnante, al grande velario che fa da sipario e da «cielo» al
palcoscenico e a met della platea.”

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Il 1974 si conclude per Strehler con due spettacoli allestiti in Austria e una nuova regia
presentata alla Scala. Per l’inaugurazione del Festival di Salisburgo, Strehler appronta infatti
Die Zauber te (Il Flauto magico)9 di Mozart che, tuttavia, per problemi di ordine tecnico e
interpretativo (nati in parte delle di erenti scelte di Herbert von Karajan) resta un’esperienza
incompleta. Indi, per il Burghtheater di Vienna, il regista rma una seconda edizione della
Trilogia della villeggiatura10 in lingua tedesca in una nuova veste scenica rmata da Ezio
Frigerio e Franca Squarciapino e interpretativa – Andrea Jonasson protagonista femminile –
che, a vent’anni di distanza dalla prima edizione italiana, conferma l’interesse del regista per
questo trittico goldoniano. A tali spettacoli, si aggiunge una nuova edizione presentata alla
Scala de L’amore delle tre melarance11 (sul podio c’ ora Claudio Abbado) ambientata,
questa volta, in un pirotecnico clima futurista russo ispirato a Mejerchol’d, agli anni Venti e
alla teatralit delle avanguardie, e realizzato scenicamente da Luciano Damiani. il mondo
del cubismo, della bio-meccanica, delle geometrie che rivedevano lo spazio del
palcoscenico e di tutta la realt , qui accolto e riproposto come in un grande gioco teatrale.
Le torri sono sistemate nei palchi di proscenio, i siparietti si alzano e abbassano con una
magia artigianale. “Noi qui immaginiamo a modo nostro il mondo russo attorno al 1920 –
a erma il regista – cos come loro immaginavano a modo loro quello della Commedia
dell’Arte, del Gozzi e delle loro fantasia. Ma a volte improvvisamente ci si sente dentro altre
cose pi fonde. La compagnia di canto deve in questo spettacolo recitare, ballare, mimare,
fare salti, insomma fare tutto quello che normalmente si ritiene che non si possa svolgere su
un palcoscenico d’opera. un divertimento per tutti, oltre che una fatica tra le pi
professionalmente.” Strehler “con la ben nota tecnica capace di fantasmagorici miracoli,
o re un prodigio di movimento, costato chiss quante prove: i cantanti si trasformano in
autentici acrobati piovendo in scena lungo scivoli con salti, capriole, pazzie, tutte calcolate
al millesimo”. Da notare che nel dicembre 1974 a Milano sono in scena
contemporaneamente, nello stesso mese, ben quattro regie di Strehler: nella sede di via
Rovello, il Giardino dei ciliegi di Cechov, al Teatro dell’Arte Re Lear di Shakespeare, al
Teatro Lirico l’Opera da tre soldi di Brecht e sul palco della Scala l’Amore delle tre
melarance di Proko ev. «Per avere un quadro completo - aggiunge Strehler con malcelato
orgoglio - bisogna aggiungere che a Vienna si recita in questi giorni, il mio allestimento della
goldoniana Trilogia della Villeggiatura e che all’Op ra di Parigi si festeggia la ne dell’anno
con le mie Nozze di Figaro di Mozart”.

Note

1 Il ratto dal serraglio di Wolfgang Amadeus Mozart. Concertatore e direttore d’orchestra: Bernhard
Conz. Scene e costumi: Luciano Damiani. Interpreti: Michael Heltau, Luigi Alva, Elisabeth Hardwood,
Elke Schary, Gerhard Unger, Kurt Moll, Ferruccio Soleri, 15 maggio 1972.

2 Re Lear di William Shakespeare. Traduzione: Angelo Dallagiacoma, Luigi Lunari. Scene e costumi:
Ezio Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Tino Carraro, Carlo
Cataneo, Renato De Carmine, Gabriele Lavia, Umberto Ceriani, Cesare Ferrario, Orlando Mezzabotta,
Franco Patano, Enrico Carabelli, Ottavia Piccolo, Ivana Monti, Ida Meda, Fulvio Ricciardi, Corrado
Sonni, Eugenio Masciari, Gabriele Villa, Sergio Salvi, Franco Sangermano, Franco Ferri, Gilfranco
Baroni, Ernesto Maria Rossi, Jackie Basehart, Pierparide Tedeschi. Milano, Piccolo Teatro, 4
novembre 1972.

3 L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill (seconda edizione). Traduzione: Ettore Gaipa, Gino
Negri, Giorgio Strehler. Musiche: Kurt Weill. Collaborazione musicale: Fiorenzo Carpi, Gino Negri.
Scene e costumi: Ezio Frigerio. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Giancarlo Dettori,

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Domenico Modugno, Gianrico Tedeschi, Adriana Innocenti, Giulia Lazzarini, Milva, Gianni Agus, Laura
Ambesi, Lorenzo Grechi, Cip Barcellini, Guerrino Crivello, Leopoldo Valentini, Armando Spadaro,
Umberto Tabarelli, Marisa Minelli, Fulvia Gasser, Selvaggia Torre, Lea Barsanti, Virginia Javarone, Dory
Dorika, Dina Zanoni, Mirka Martini, Giorgio Naddi, Renato Gari, Ferruccio Soleri, Renzo Fabris,
Ra aele Fallica, Ildebrando Birib . Prato, Teatro Metastasio, 14 febbraio 1973.

4 Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart. Concertatore e direttore d’orchestra: George


Solti. Scene e costumi: Ezio Frigerio. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Gundula Janowitz,
Gabriel Bacquier, Mirella Freni, Jos Van Dam, Frederica von Stade, Jane Berbi , Kurt Moll, Michel
S n chal, Carl Schultz, Dani le Perriers, Jacques Loreau, Christiane Issartel, Anna Ringart. Versailles,
Teatrino di Corte, 30 marzo 1973.

5 La condanna di Lucullo di Bertolt Brecht e Paul Dessau. Concertatore e direttore d’orchestra:


Bruno Bartoletti. Scene: Paolo Bregni. Costumi: Luisa Spinatelli. Movimenti mimici: Marise Flach,
Angelo Corti. Interpreti: Herbert Handt, Maurizio Mazzieri, Ursula Kiss Reinhardt, Emanuela Abriani,
Nicla Bottoni, Franco Calabrese, Carlo Del Bosco, Carlo Franzini, Pier Francesco Poli, Rosa
Laghezza, Laura Bocca, Alvinio Misciano, Aronne Ceroni, Leonardo Monreale, Stefania Malag ,
Franca Ostini, Maria Dalla Spezia, Gabriella Gavazzi, Silvana Zanolli, Annamaria Pizzoli, Lina Rossi,
Arturo Testa, Edith Martelli, Claudio Giombi, Saverio Sa na, Pio Bonfanti, Redento Comacchio,
Alessandro Novelli, Alfredo Pistone, Lorenzo Testi, Carlo Cataneo, Orlando Mezzatinta, Cesare
Ferrario, Franco Sangermano, Mirka Martini, Fulvia Gasser, Corrado Sonni, Sergio Salvi, Marisa
Minelli, Ivana Monti, Giancarlo Fortunato, Eugenio Masciari, Franco Ferri. Milano, Teatro Lirico, 19
maggio 1973.

6 Das Spiel der M chtigen (Il gioco dei potenti) di Giorgio Strehler, da Enrico VI di William
Shakespeare (seconda edizione) (in 2 serate). Versione tedesca: Loek Huisman. Scene: Paolo Bregni.
Costumi: Fabio Battistini, Titus Vossberg. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach.
Maschere: Werner Strub. Interpreti: Will Quad ieg, Michael Heltau, Andrea Jonasson, Siegfried
Lowitz, Maria Emo, Richard M nch, Erik Frey, Rolf Boysen, Hannes Riesenberger, Karl Michael Vogler,
Aljoscha Sebald, Robert Hauer-Riedl, Gert Westphal, Herwig Seeb ck, Egon Jordan, Tom Krinzinger,
Kurt Hansen, Adolf Lukan, Karl Bl hm, Kurt A. Tichy, Thomas Frey, Edd Stavjanik, Max Mairich, Oscar
Reinhardt, Heinz Petters, Wolfgang Reichmann, Richard Haller, Toni Berger, Karl Paryla, Adolph
Spalinger, Erich Aberle, Hermann Scheidlerer, Helmut Janatsch, Angelika Hau , G tz von Langheim,
Stephan Paryla, Max Mairich, Franz Steger, Anton Duschek, Fritz Bischof, Richard Tomaselli, Georg
Bartik, Bruno Thost, Friedrich Jores, Michael Kiurina, A.W. Hirschal, Hans Fasser, Oskar Kravanja,
Herwin H er, Maria Los, Heinz Rohn, Rolf Hartmann, P. Walter Jacob, Nikolaus Paryla, Blanche
Aubry, Peter Haener, Walter Langer, Ludwig Marat, Dorothea Parton, Lona Dubois, Hallgard
Bruckhaus, Isolde Stiegler, Eva Fichte, Katharina Ortner, Dagmar Dorsch, Petra-Maria Anze, Regina
Kreijci, Bettina Frey, Linda Joy Bathman, Rosa Hartlieb, Alexandra Tichy, Sabranski, Bernhardt
Walcher, N. Windich-Spoerk, Padaurek, Paul Schmitzberger, Harald Baumgarten, Christian Koch,
Johannes Bahr, Franz Csencsits, Rudolf Gramer, Frank Ho mann, Gerd B ckmann, Christian Ghera,
Kurt Hansen, Harry Hornisch, Alfred Reiterer. Produzione: Salzburger Festspiele 1973. Salisburgo,
Felsenreitschule, 13 e 14 agosto 1973.

7 Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (quinta edizione). Scene e costumi: Ezio
Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Maschere: Amleto e Donato Sartori. Interpreti: Gianrico Tedeschi,
Ginella Bertacchi, Andrea Matteuzzi, Giancarlo Dettori, Anna Saia, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri,
Marisa Minelli, Ferruccio Soleri, Cip Barcellini, Angelo Corti, Giorgio Naddi. Milano, Villa Comunale,
24 giugno 1973.

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8 Il giardino dei ciliegi di Anton Pavlovic Cechov (seconda edizione). Traduzione: Luigi Lunari, Giorgio
Strehler. Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti: Valentina Cortese,
Monica Guerritore, Giulia Lazzarini, Gianni Santuccio, Franco Graziosi, Piero Sammataro, Enzo
Tarascio, Claudia Lawrence, Gianfranco Mauri, Marisa Minnelli, Renzo Ricci, Cip Barcellini, Vladimir
Nikolaev, Guido Verdiani. Milano, Piccolo Teatro, 21 maggio 1974.

9 Die Zauber te (Il auto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart. Concertatore e direttore
d’orchestra: Herbert von Karajan. Scene e costumi: Luciano Damiani. Coreogra e: Marise Flach.
Interpreti: Peter Meven, Ren Kollo, Jos Van Dam, Hans Christian, Alf Beinell, Edita Gruberov ,
Edith Mathis, Jane Marsh, Trudeliese Schmidt, Sylvia Anderson, Hermann Prey, Reri Grist, Gerhard
Unger, Martin Schomberg, Martin Egel, (Tre bambini): solisti del T lzer Knabenchores. Salisburgo,
Grosses Festpielhaus, 26 luglio 1974.

10 Die Trilogie der Sommerfrische (La trilogia della villeggiatura) di Carlo Goldoni (seconda edizione).
Versione tedesca: Piero Rismondo. Riduzione: Giorgio Strehler. Scene e costumi: Ezio Frigerio.
Assistente per i costumi: Franca Squarciapino. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti: Frank Ho mann,
Otto Tausig, Heinz Zuber, Gertrud Jesserer, Michael Heltau, Manfred Inger, Rudolf Melichar, Andrea
Jonasson, Helma Gautier, Johannes Schauer, Heinz Raetz, Susi Nicoletti, Eva Zilcher, Christine
Zimmermann, Hermann Scheidleder, Karl Paryla, Philipp Zeska. Produzione: Burgtheater di Vienna.
Vienna, Burgtheater, 9 novembre 1974.

11 L’amore delle tre melarance di Sergej Prokof’ev (seconda edizione). Concertatore e direttore
d’orchestra: Claudio Abbado. Scene e costumi: Luciano Damiani. Coreogra a: Mario Pistoni.
Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Luigi Roni, Michele Molese, Rosa Laghezza, Claudio
Desderi, Sergio Tedesco, Renato Cesari, Enzo Dara, Klara Barlow, Laura Zannini, Wilma Vernocchi,
Daniela Mazzucato, Giovanni Gusmeroli, Alfredo Mariotti, Eleonora Jankovic, Nicola Martinucci, Carlo
Zardo, Giuliana Gaspari. Milano, Teatro alla Scala, 19 dicembre 1974.

Lezione 16

6.04.2020

1975-1977 il Campiello di Goldoni e Machbeth di Verdi

Mette in scena il campiello di Goldoni e Le balcon di Genet al Piccolo, Macbeth di Verdi alla
scala (con Abbado sul podio) e la storia della bambola abbandonata da Sastre e Brecht alla
Piccola Scala. Festeggia i 30 anni del Piccolo Teatro. Ad Amburgo presenta la seconda
edizione de L’anima buona di Sezuan di Brecht con Andrea Jonasson. All'Odeon di Parigi
va in scena una nuova edizione di Arlecchino.

Nel 1975 va in scena Io, Bertolt Brecht n. 21, una nuova versione del recital brechtiano che
ora vede Strehler nella sola veste di regista. Nel dispositivo scenico rmato da Paolo
Bregni, si muovono ora Tino Carraro e Milva. “Seconda edizione del recital che, gi vari anni
or sono, ebbe come interprete, accanto a Milva, lo stesso regista Giorgio Strehler, il quale si
ritirato adesso tra le quinte, cedendo il posto a Carraro. Ma non qui il solo mutamento (e
in meglio) introdotto da Strehler nel lavoro suo e dei suoi compagni. Pur «sgomento», come
dice, «davanti alla vastit , alla ricchezza dell'opera brechtiana, alla necessit di comparare
stesure diverse, mettere a confronto poesia e teatro, scritto politico e scritto teorico-
estetico e via dicendo» egli ci o re infatti, con maggiore organicit di prima, un’immagine
stringata ma incisiva del grande drammaturgo e dell'uomo, del militante. Dopo una lunga

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tourn e, il recital approda sul palcoscenico della Piccola Scala di Milano il 2 dicembre
1975.

L'itinerario goldoniano di Strehler prosegue con la regia del Campiello2. Si tratta di un


allestimento che debutta al Piccolo il 30 maggio 1975 e recupera non poche acquisizioni
dalla precedente esperienza delle Baru e e del pi recente allestimento viennese della
Trilogia della villeggiatura. Muovendo dal rispetto del testo e delle intenzioni di Goldoni,
Strehler elabora scenicamente un'opera all'apparenza fragile nella sostanza drammaturgica,
no a porre in evidenza nodi problematici di ordine psicologico e sociale di cui, a una lettura
meno penetrante, non si coglie la presenza. “Ma perch questo Campiello? – si chiede
Strehler - ancora la domanda di sempre che mi perseguita quando si avvera una “scelta”.
Come se ogni scelta fosse soltanto razionale o soltanto “poetica”, di necessit interiore.
Certo per questo Campiello esiste ad esempio una necessit abbastanza chiara all’origine,
e non una circostanza di poesia. So che giusto, utile, necessario che questo spettacolo
sia uno spettacolo di autore italiano, proprio guardando l’arco dei tre anni: c’ Cechov, c’
Brecht, c’ Shakespeare... giusto, utile, necessario, (come necessario!) che si tratti di uno
spettacolo “semplice” (!) cio , almeno, con un numero limitato di attori e con pochi
cambiamenti di scena: la situazione nanziaria del momento terribile e le prospettive per il
futuro estremamente incerte. una specie di miracolo della volont e della capacit della
fantasia che il Piccolo continui a fare quello che fa, che abbia prodotto gli spettacoli che ha
prodotto in questi anni e che io sia qui ad incominciare un’altra cosa “straordinaria”, fuori
dalla regola, dall’immobilismo, dalla stanchezza interiore, dalla s ducia che tutti ci pervade.
proprio per la prospettiva futura, ecco, che si a accia un’altra ragione utile e giusta e
previdente: uno spettacolo che si possa portare nel mondo. Ecco alcuni motivi che hanno
spinto al pensiero Goldoni. E poi, tanti anni che non a ronto pi Goldoni: dalle Baru e
chiozzotte. Il mio discorso su Goldoni, che credo abbia portato qualcosa non al teatro
italiano ma alla cultura italiana, si arrestato molti anni fa alle Baru e, come punta estrema
di un itinerario. Altri hanno allestito tre commedie che io tante volte avevo annunciato,
previsto, descritto: La casa nova, I rusteghi, Una delle ultime sere di carnovale. I rusteghi
doveva seguire Le baru e o precederle, ad esempio. In questo senso il chinarsi sul
Campiello pu certo essere una specie di passo indietro sul tema: Goldoni popolare. Si
dice, infatti, che Il campiello pu essere una prova generale delle Baru e. Persino quel
Cavaliere pu rassomigliare al Cogitore, ma ancora non sviluppato, non ancora intuito
poeticamente. Questo e altro.” «Questa grande commedia plebea - dice Strehler -questo
piccolo grande poema plebeo il Campiello, non meno delle Baru e poi delle Massere e
delle Donne gelose, ma con pi forza, pi compattezza di tutte queste. Baru e comprese,
commedia popolare in senso profondo, non solo per il colore o per i suoi protagonisti
popolari lo senza risparmi, lo decisamente, audacemente, violentemente... Il Campiello,
oltre che storia dei rapporti tra gli abitanti del Campiello, storia di un di cile rapporto tra
un gruppo sociale ed etnico e un altro Da una parte il Campiello Venezia-popolo dall'altra
parte gli stranieri' napoletani, nobili o seminobili borghesi.” Anche in questo caso, lo studio
dello spazio scenico costituisce il presupposto dell'interpretazione registica, di cui egli
manifesta con chiarezza la cifra: “Il campiello ha due tipi di abitanti: vecchi e giovani. Per i
giovani il campiello si erge repressivo. un clan con regole molto severe. Le giovani non
possono stare in strada, devono stare su alla nestra. La strada libert , la permissivit .
Cos , i due piani plastici della scena-campiello sono de niti nello spazio: la piazzetta appare
come il luogo posseduto dalle madri e dagli uomini, anche se giovani; luogo di incontri, di
scontri e di giochi, vita socializzata. La casa in s appare come il possesso personalizzato e

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privato delle singole famiglie. La nestra, e il balcone o l'altana, il luogo naturale di evasione
relativa delle glie, delle giovani”. All'analisi dei valori simbolici sottesi allo spazio che al
centro della vicenda, Strehler fa seguire una scelta scenogra ca ispirata a
un'interpretazione dichiaratamente "teatrale" della realt : l'impianto realizzato da Luciano
Damiani ignora, infatti, l'illusoriet prospettica e ogni concessione alla verisimiglianza.
«Tutta la platea del Piccolo - dichiara Strehler - diventer Il campiello e gli spettatori ci
saranno seduti in mezzo, a guardare, osservare, ascoltare il lento svolgersi del tempo
veneziano, sul nire di un carnevale, un gioved grasso. All’inizio sono le dieci del mattino,
alla ne saranno le sei del pomeriggio: e allora tutto a lume di candela, con ombre voraci
che si allargano, la notte che incomincia e i servi di scena che ritirano gli attrezzi, l’arti cio
che si smonta e Il campiello che si spopola, che si allontana, che si rannicchia nel ricordo...
Il bozzetto di Luciano Damiani chiaro: tutta la scenogra a si prolunga, in ogni dimensione
in platea; negli angoli ci saranno mucchi di neve, e altra neve, sotto forma di coriandoli
bianchi, cadr sugli spettatori. Siamo d’inverno questa volta. E il pavimento del
palcoscenico sar un telone di sto a impermeabile con avvallamenti di acqua ghiacciata in
mezzo. Saremo tutti in mezzo a quella povera gente, alla miseria della sopravvivenza: non
mica una commedia da leggersi sul registro comico, gronda malinconia e poesia; e io dar
uno spettacolo semplice, dar una lettura umana. Desidero ricreare l’atmosfera magica di
realismo poetico». Estendendosi dal palco alle pareti della sala, gli elementi scenici
presentano un rincorrersi di tetti veneziani ricoperti di neve che ambisce racchiudere anche
la platea in un unico suggestivo spazio visivo.

“ Strehler mette la commedia sotto la neve. E la poeticissima scena di Luciano Damiani,


che si spinge sino a metà platea con un cielo di tetti e comignoli, è un campiello con una
coltre di bianco, consolato da un sole invernale che ne illumina e quasi ne impreziosisce i
muri squallidi e nudi. Su questo campiello di <<case povere e piene di gente bassa>>”

La forza interpretativa si esprime anche nel deciso contrasto che si crea fra i materiali
scenogra ci (la carta e la tela dipinte), impiegati per i fondali, e la concretezza realistica dei
poveri arredi, degli attrezzi di scena. Tra la neve di carta che spruzza le assi del
palcoscenico e l'acqua vera che forma una pozza ghiacciata in cui naviga la barchetta
giocattolo di un bimbo. Confermando l'intenzione di condurre a fondo la lettura del Goldoni
corale e popolare attraverso una sorta di immersione nel mondo evocato sulla scena, di
partecipazione discreta allo svolgimento di una vicenda senza inizio e senza ne, il regista
desidera ricreare un'atmosfera magica che egli stesso, come si detto, de nisce di
“realismo poetico”. Con tale de nizione Strehler fa ancora una volta riferimento a una
personale cifra di lettura da lui raggiunta nell'interpretazione dei grandi testi goldoniani (e
non solo), sulla scorta di una comprensione approfondita del loro potenziale realistico e di
una successiva elaborazione dei dati emersi attraverso il ltro di una memoria capace di
accrescere la suggestione e l'e cacia della rappresentazione, senza per questo tradire in
alcun modo il rispetto della realt .

Strehler costruisce cos uno spettacolo che traduce nella vita di un linguaggio scenico ricco
e polifonico il nocciolo ispirativo che dell'opera sta al centro. Per far questo il regista ricorre,
talvolta, alla riproposta visiva di elementi gi utilizzati in altri spettacoli, senza tuttavia
limitare in alcun modo la sua creativit . La vita di tutti i giorni, minutamente descritta da
Goldoni, ritorna sul palcoscenico nella trascrizione di Strehler il quale riesce, a elevarla
poeticamente, attraverso piccoli gesti scenici e atti quotidiani che acquistano nel suo
Campiello un signi cato appunto poetico. Il regista si confronta con il ritmo del testo (Il

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campiello scritto in versi) e imprime alla rappresentazione un andamento ora accelerato
ora lento con e etti evocativo che rimandano ad altri spettacoli e ad altri autori a rontati da
Strehler. Una compagnia di notevole valore asseconda le intenzioni del regista: assai
opportuna risulta la scelta di a dare i personaggi di adolescenti a interpreti davvero
giovani, fra i quali Pamela Villoresi, Maddalena Crippa, Bruno Zanin e Micaela Ezdra,
a ancati dagli “adulti” Anna Maestri e Luigi Diberti, Achille Millo e Didi Perego.

“Come sempre nei migliori spettacoli di Strehler, e questo indubbiamente lo a conferma di


un felice periodo di vena del regista, non si nirebbe mai di citare questo o quel particolare
anche perch ce ne sono assai pochi di super ui o non signi canti. Ma a questo punto
occorre ricordare lo squisito concertato di una recitazione davvero corale della quale, dopo
i primissimi minuti, arrivano distintamente allo spettatore, parola per parola, tutte le battute
di un dialetto meno facile di quanto, ingannati da musicali cadenze, alcuni possano ritenere.
Lo usano, e con la stessa propriet , attori veneti e non veneti. Nel terzetto delle «vecie», tra
un'impetuosa Didi Perego e una sorniona Edda Valente, Anna Maestri sbalordisce per
l'incisivit con cui sgrana le sue repliche e la prontezza con cui si muove, nonostante debba
ancora so rire le conseguenze della sua brutta caduta. Tra i giovani, si fanno apprezzare
per vivacit e freschezza Bruno Zanin e l'esordiente Maddalena Crippa, Pamela Villoresi
anch'essa quasi al debutto, ma soprattutto Micaela Esdra che interpreta il di cile
personaggio di Gasparina con un garbo e una misura del tutto encomiabili. Pi maturo e pi
ricco di esperienza dei suoi giovanissimi colleghi, e lo si vede, Luigi Diberti un eccellente
Anzoleto mentre Achille Millo, napoletano verace, colora con le in essioni del suo dialetto
l'italiano del proprio personaggio che, con quello di Fabrizio (Gianni Mantesi, il cameriere
Elio Veller), il solo a parlare in lingua. E tutti concorrono all'esito felicissimo di uno
spettacolo che, alla prima «u ciale» di ieri sera, a ollata di molte personalit del teatro,
stato salutato da applausi a scena aperta e da innumerevoli chiamate nali anche per il
regista e i suoi collaboratori.” E ancora leggiamo: “Tutti eccezionali gli interpreti da Anna
Maestri, che Catte, solida, anziana, animosa, concreta, tutta uzzoli di nuovo matrimonio,
«sente» il ritmo in maniera prodigiosa, la comicit le sgorga naturale (e pur tanto calcolata):
si veda la splendida scena in cui si fa toccare i denti in bocca dall'amica Pasqua, che
induce al riso ma anche ad un sentimento profondo di amicizia, a Didi Perego, che
appunto Donna Pasqua (il nome del personaggio ricorre anche nelle Baru e chiozzotte), pi
plebea di lei, un po' svampita, baluardo rosso della virt della glia Gnese che la giovane
«diva» televisiva Pamela Villoresi tanto manierata davanti alla macchina TV, quanto qui in
palcoscenico, semplice e temperamentosa; Lucietta, glia di Catte (nome che si ritrova
anche esso nelle Baru e), Maddalena Crippa, brava nelle furie della gelosia e della
ripicca. Edda Valente Orsola, la terza «anziana» del Campiello: disegna con amore la parte
di una «tritoler », di una fabbricante a domicilio di dolciumi da povera gente e difende con
asprezza il glio giovanetto Zorzeto, che Bruno Zanin (protagonista gi di Amarcord di
Felllnl); tutta l'Ingenuit e le prime malizie sono nel suo comportamento focoso e infantile (si
vedano la prima scena del gioco della Venturina e quelle dei vari litigi In cui implicato).
Anzoletto, il danzato e poi sposo di Lucietta (quella scena del loro matrimonio laico, una
cerimonia semplice e solennissima davanti alla comunit del campiello), Luigi Diberti, che
incarna un personaggio tenero e violento al tempo stesso primitivo nella sua durezza. Elio
Veller il garzone della locanda, anche egli preciso e sicuro; Giorgio Sortoli Simone,
parente di Lucietta, che arriva in tempo a celebrarne gli sponsali. Dalla parte degli
«estranei» al campiello, c' prima di tutto l'eccellente Achille Millo, che costruisce scena per
scena il personaggio del Cavaliere, cesellando con estrema nezza, auto ironizzandosi e

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intenerendosi sul piccolo mondo a lui diverso e lontano. Gasparina Micaela Esdra: il suo
personaggio un gioiello di toni e di ritmi (la sua bu a parlata con la z invece della s; la sua
innocente boria aristocratica, la bellissima scena in cui mostra al Cavaliere come le donne
vanno per Venezia; il toccante nale, quando saluta, prima di andarsene con il Cavaliere, i
veneziani). Gianni Mantesi interpreta quella specie di «rustego» che Fabrizio lo zio di
Gasparina: e lo fa da par suo, burbero e ostile no In fondo (la scena del librone gettato
dall'alto di casa sul tavolaccio del gioco della semola).” In ne: “Una regia particolarmente
attenta ai valori etici ed estetici che una «lettura» moderna della commedia vi pu scoprire,
ai valori «fonici» del testo, ai signi cati della sua struttura e dei suoi ritmi [...]. Questa
appunto stata la regia di Strehler, che ha fatto di questo suo Campiello una specie di essere
umano collettivo in cui le vitalit dei singoli si fondono nella forza vitale del tutto, che pulsa
come un unico essere.” L’allestimento della sola seconda giornata del Gioco dei potenti3 al
Burghtheater di Vienna il 12 novembre 1975 (le parti principali ancora a date a Michael
Heltau e Andrea Jonasson, le scene di Paolo Bregni), precede di poche settimane una
nuova inaugurazione scaligera (7 dicembre 1975) a data dal sovrintendente Paolo Grassi
alla coppia Abbado/Strehler. Anche in tale occasione, si tratta di un’opera verdiana,
Macbeth4, il cui libretto tratto dall’omonima tragedia di Shakespeare. “Dramma di una
tentazione demoniaca reale: le streghe come il diavolo? Dramma del succubo, anche
sessuale? Dramma politico storico della conquista di un regno da parte dello straniero? – si
interroga il regista – Con Macbeth potremmo continuare all’in nito. Verdi se ne reso
conto. Bisognava far sentire che se ne era reso conto.” Cos , in totale sinergia con Abbado,
Strehler e Damiani trasformano il cupo castello di Macbeth in un contenitore in rame,
monumentale e oscuro, che imprime alla vicenda un senso di delirante ferocia.
Un’impenetrabile parete in rame brunito che occupa l’intero palcoscenico e rinserra i
protagonisti: quando si apre uno spiraglio solo per lasciare entrare la morte. Nel
tenebroso deserto del castello, cortigiani e soldati sono immobili spettatori della catastrofe,
mentre Macbeth e la Lady, la coppia criminale, vi si aggira serrata in mantelli dalle lunghe
code continuamente intrecciate che creano un cerchio attanagliante della solitudine e del
delitto. E nel contenitore in rame si svolgono anche le scene magiche durante le quali
Macbeth colloquia con le streghe e gli spiriti infernali, rinchiusi tutti in un velario
ondeggiante che copre la scena. Al rosso dominante delle scene infernali si alterna il grigio
del potere; al bianco lunare che accompagna Lady Macbeth nella scena del
sonnambulismo, l’azzurro dei lunghi strascichi. “Lo spettacolo dominalo dal colore cupreo
di quelle tre tonnellate di rame ormai famose, impiegate nella scena e nei costumi.
un'intuizione geniale del colorito generale di questa tragedia. Le scene di Damiani e la regia
nobilissima di Strehler fanno tutt'uno: quel fondale sopraelevato, un po' alla Appia, dietro il
quale un qualche elevatore fa spuntare, dal

basso in alto, personaggi, guerrieri, armi e stendardi, ssi in una loro immobile dimensione
epica. Quel velo rossastro, talvolta sanguigno, che si sconvolge con movenze quasi oscene
sul cielo delle streghe, e pu sembrare tante cose, tutte orribili. «Una nuvola vermiglia
gon a di venia; un polmone ansimante; un'enorme, uttuante placenta pronta a
squarciarsi»”. E ancora:

“L'isolamento dei personaggi reso evidente dalle mura di metallo in cui sono chiusi. Il
castello fortezza e prigione: quando il suo muro si alza per rinserrarsi tosto sul re la
morte di Duncano, quando resta aperto nel nale di fronte alla foresta la morte di
Macbeth. In queste sale deserte e fosche anche i cortigiani, i soldati stanno come
paralizzati, immoti spettatori della tragedia; e i due vi si aggirano serrati nei mantelli dalle

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lunghissime code (draghi la cui traccia sanguigna continua oltre la loro presenza)
uscendone solo per inoltrarsi sul mondo delle streghe avvolto in una metallica coltre”.
Macbeth un successo clamoroso che fa dire ai critici che Strehler non solo ha rmato una
fra le pagine migliori del suo lavoro registico, ma che con questo allestimento egli ha anche
aperto un capitolo nuovo nella regia musicale.

Opera di di cile perspicuit , in alcuni momenti oscura e impenetrabile, Le balcon5 di Jean


Genet va in scena al Piccolo Teatro nel maggio 1976. Di grande utilit per comprendere le
ragioni di questa scelta che pu sembrare curiosa nel percorso di Strehler, appaiono anche
in questa occasione le note di regia che il regista redige per il programma di sala. “Il testo
per questa edizione del Balcon di Jean Genet si fonda sulle tre diverse versioni che la storia
di quest’opera permettono di identi care e di distinguere: la prima stesura del 1956,
pubblicata dall’Arbal te, che stata la prima ad essere rappresentata (all’Arts Theatre di
Londra, il 22 aprile 1957, per la regia di Peter Zadek); la seconda del 1960, ancora per i tipi
dell’Arbal te, che presenta notevolissime varianti rispetto alla prima e che rimane la pi
comunemente nota, gurando dal 1968 nel quarto volume delle “Ouvres compl tes”
pubblicate da Gallimard; ed in ne – tuttora inedita – quella usata per l’allestimento diretto
da Antoine Bourseiller nel 1969 a Marsiglia e nel 1975 al Th tre Recamier di Parigi. Anche
quest’ultima versione presenta notevoli varianti rispetto alle edizioni a stampa, e ad essa ha
posto mano in qualche misura lo stesso Genet che proprio in quell’occasione aveva
dichiarato di non essere soddisfatto del Balcon e di considerarlo – nella versione
comunemente nota – superato ed ambiguo: “d mod et ambigu”. Tralasceremo di
considerare le modi che operate ad ogni altro allestimento del Balcon avvenute per
iniziativa dei vari registi al di fuori della partecipazione dell’autore e che si sostanziano
spesso in ristrutturazioni vere e proprie, tanto cospicue quanto discutibili. Sappiamo che a
questi interventi Genet si sempre detto contrario come del resto si quasi sempre detto
insoddisfatto del modo nel quale “Le Balcon” veniva messo in scena nelle varie parti del
mondo. Egli ha pi volte insistito a nch il testo del dramma non venisse toccato ed ha
anche scritto alcune pagine di minute note di regia aggiungendo per – abbastanza
curiosamente e contraddittoriamente – che “ovviamente questo non si rivolge a un regista
intelligente il quale sa quel che deve fare”. La collaborazione di Genet alla versione messa
in scena da Bourseiller contraddice dunque a questa sua riluttanza a vedere il testo
alterato, ma si accorda d’altro canto con la sua dichiarata insoddisfazione per la versione
comunemente nota. mia opinione che Genet sentisse – magari malgr sol – Le Balcon
come un’opera incompiuta, non perfettamente risolta, e che a conti fatti e ad anni di
distanza abbia tentato ancora una volta di trovare una “forma” pi contemporanea ed
attuale al “fantasma” drammaturgico che egli aveva agitato sui palcoscenici del suo tempo.
da questa esigenza che mi sono sentito autorizzato a mettere a punto – in una rigorosa e
oggettiva interpretazione delle ragioni e delle nalit pi profonde di questo lungo travaglio
creativo – quella che pu essere de nita – senza nessuna pretesa di dire in merito l’ultima
parola – la nostra versione del Balcon, oggi. Base prima di questo lavoro di “edizione” la
versione del 1956 in quanto versione originale primigenia., e dunque pi vicina
all’invenzione poetica, all’intuizione dell’autore. Essa stata integrata ove ci parso giusto,
attraverso un meditato confronto con la seconda versione, con la introduzione o la
sostituzione non tanto di scene intere quanto piuttosto di battute particolarmente
signi cative e illuminanti quale ad esempio la conclusiva battuta di Irma che manca nella
prima versione. Della terza edizione ci siamo limitati ad accogliere la soppressione – per
quanto sorprendente – delle scene dedicate alla rivoluzione e di quella ai giovani in blouson

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noir, con la conseguenza che i personaggi di Roger e di Chantal non prendono pi parte
all’azione visiva, pur rimanendo presenti come necessit drammatica e come puntuale e
pregnante riferimento emblematico. Per il resto stata seguita la prima versione con
l’eccezione delle due brevi scene oniriche in cui appaiono ad Irma i tre emblematici
personaggi del Sangue, dello Sperma e delle Lacrime e la scena dei fotogra nell’ultimo
quadro che nell’edizione del 1956 sono ancora il Sangue, lo Sperma e le Lacrime travestiti
da paparazzi. I numerosi spostamenti di battute e di accenti drammatici operati nell’ambito
del testo cos strutturato appartengono ad una responsabile operazione di chiari cazione e
interpretazione critica in tutto analoga a quella che comunemente si opera sui testi all’atto
della loro proposta scenica. Un esempio a questo proposito dato dal valore conclusivo
assegnato alla battuta “Qualcuno che sogna” con la quale Carmen – anzich il
Plenipotenziario – a rispondere all’interrogativo aperto dagli spari che, so ocata la rivolta,
continuano a echeggiare nelle strade.”. Prendendo le mosse da tali osservazioni, Strehler
ravvisa in questo testo un esplicito riferimento al teatro e alla vita degli attori. Nei salotti del
bordello dove la vicenda ha luogo, infatti, si svolgono scene gi ideate dai clienti che
arrivano con il copione pronto e si limitano a chiedere attori e scene per rappresentarle.
Nella casa di tolleranza, gli uomini cercano, invano, di assumere un'identit ssa per
difendersi da una realt sterile e lenire, per conseguenza, i dolori della frustrazione
quotidiana, proprio come accade ai personaggi pirandelliani. Una volta stabilita tale
equivalenza tra Genet e Pirandello, in collaborazione con lo scenografo Luciano Damiani,
Strehler ricopre le pareti del palcoscenico con specchi che, ri ettendo secondo diverse
angolazioni le immagini dei personaggi in scena, mostrano l'inutilit dei tentativi messi in
atto dagli uomini per riuscire ad assumere un'identit ssa ed immutabile. Incapaci di
accettare la propria natura, che li vuole in continua trasformazione, i personaggi del Balcon
cercano di trovare una propria identit al di fuori di s , nel mondo esterno, indossando una
maschera, il cui modello tratto dalla realt che li circonda, e adattando ad essa ogni
comportamento ed ogni pensiero: niscono, insomma, con il diventare ridicoli fantocci. Per
enfatizzare tale gioco scenico, Strehler fa uscire i personaggi dal bordello, facendo loro
attraversare, con passo malfermo, come in una macabra s lata, la platea, e mostrandoli,
poi, immobili e spettrali, alla balconata della galleria, inseguiti dai ri ettori, da dove
assistono alla cruenta conclusione della pi ce. Costretti a recitare le proprie battute in
modo freddo e distaccato, secondo il modello del teatro brechtiano, e a indossare costumi
pesanti e esageratamente abbondanti, gli attori si muovono sul palcoscenico con di colt
e in modo innaturale, nendo, appunto, con il rassomigliare a fantocci. Cos , Franco
Graziosi, capo della polizia, il grande Renzo Ricci, nella sua ultima straordinaria apparizione
in scena nei panni del plenipotenziario, Renato De Carmine, Il Vescovo, Tino Carraro, il
Generale, Giulia Lazzarini, prostituta-monaca e Anna Proclemer ostentano una recitazione
fredda e distaccata che contribuisce a rendere questo allestimento strehleriano un prezioso
unicum. “La perfetta distribuzione dei ruoli Anna Proclemer (Irma). Renzo Ricci (il
plenipotenziario), Tino Carraro (il generale». Enzo Tarascio (11 giudice). Renato De Carmine
(il vescovo). Franco Graziosi (il capo della polizia), Giulia Lazzarini (Carmen), Erika Blanc (da
cavalla), Anna Saia (a ladra». Maristella Greco (la signora). Cristina Gaioni (la penitente).
Armando Benetti (il mendicante) ha esaltato al meglio tipologie di una imagerie ora tutta
virata sulla repugnanza del vizio ora sulla cifra violentemente grottesca, toccando in tal
modo il vertice di un'impeccabile performance. Gli attori tutti. Strehler. Damiani e Fiorenzo
Carpi sono stati del resto ampiamente rimeritati della loro intelligente fatica da una trionfale
accoglienza.”

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Uno spettacolo “per bambini e per grandi”, La storia della bambola abbandonata6 tratto da
un testo di Brecht e di Alfonso Sastre, presentato con successo alla Piccola Scala il 22
dicembre 1976, con le scene e i costumi di Luciano Damiani e le musiche di Fiorenzo Carpi,
conclude l’attivit di Strehler nel 1976. Si tratta del solo spettacolo che Giorgio Strehler ha
scritto e messo in scena.

Tratto da Bertolt Brecht e Alfonso Sastre, La storia della bambola abbandonata una aba
adatta anche agli adulti. Protagonisti di quest'opera strehleriana sono i bambini che, oltre
ad essere l'interlocutore-principe del racconto, diventano gli animatori della storia. Una
storia semplice, piena di poesia, che intercetta la sfera emozionale dello spettatore.

Il nale sar libero – dice Strehler – in modo che i bambini possano intervenire con il loro
parere, liberamente”. E facendo rimbalzare la verit del Teatro con quella della storia,
Strehler ha inserito i brani pi semplici de Il cerchio di gesso del Caucaso (di Brecht) e
spiegher ai piccoli spettatori chi era il signor Bertolt Brecht, mentre Damiani sta
preparando ricchi e stilizzati costumi di aba. Intonando in coro le musiche di Fiorenzo
Carpi e attorniata da cinque attori adulti: Ottavio Fanfani, Gianfranco Mauri,

Cip Barcellini, Liana Casartelli e Narcisa Bonati”.

Dopo questa esperienza, Strehler si dedica dapprima ai festeggiamenti per i trenta anni di

attivit del Piccolo, indi a una nuova edizione dell’Anima buona di Sezuan7 presentata allo
Schauspielhaus di Amburgo il 25 settembre 1977 con Andrea Jonasson straordinaria
interprete (della quale diremo a proposito dell’edizione italiana) e in ne a una edizione, la
sesta, di Arlecchino8 ricordata come l’ “ dition Od on” appunto perch approntata per la
grande sala del Th tre Od on di Parigi (4 ottobre 1977) che a novembre va a ospitare
anche Re Lear. Come ricorda il regista: “Questa edizione ha una particolare caratteristica.
Essa nata nel 1977 a Parigi, al Th tre Od on. stata pensata, provata e recitata in quel
teatro, per quel teatro, per quelle dimensioni, quell’atmosfera e persino per quel sipario
dipinto, quel drappo di velluto rosso nto che Arlecchino ad un certo punto solleva a fatica
con le sue mani e le sue spalle perch lo spettacolo continui. Noi infatti la chiamiamo
“ dition Od on” e tale rester nella nostra storia per sempre. un’edizione che amiamo
particolarmente, perch essa stata approfondita soprattutto sul versante del controcanto
dei comici che fanno ed assistono allo spettacolo dell’Arlecchino servitore di due padroni.
Gli inizi di ogni atto, i nali e tante idee, invenzioni, sospensioni malinconiche, certo gioco
del teatro nel teatro, certo diario di vita di comici di un secolo meraviglioso e lontano,
appartengono solo a questa edizione francese. Come se l’averla fatta nascere e il viverla su
un palcoscenico francese, in un teatro tanto amato e tanto ricco di storia, come l’Od on,
cos pieno di fantasmi teatrali antichissimi, abbia in qualche modo riportato alla nostra
fantasia la necessit di riallacciarsi ad alcune nostre radici europee, alla storia dei viaggi dei
comici italiani nel cuore del Seicento, Settecento, per tutta l’Europa per portare teatro s ,
ma anche per legare uomini a uomini, per creare alcune storie misteriosamente profonde, e
che sono durate nel tempo, come semi di umanit e di vitalit e immaginazione, della
grande cultura Europea. Proprio in Francia, anima lucente dell’Europa, questa avventura di
comici che inventano il teatro, palazzo, stanza, granaio, strada, che sia, insomma, mondo e
che parlano una lingua diversa e pur universale, che imparano i linguaggi altrui e li
assimilano, che si lasciano prendere ed assimilare a loro volta dalla Francia, che diventano
attori francesi (ah! Carlo Antonio Bertinazzi, Thomassin, Silvia, italiani e poi francesi, ah! gli
attori adorabili e adorati di Marivaux) proprio qui ha acquistato una sua necessit di essere

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rappresentata. Altrove no. I motivi della creazione sono segreti e intoccabili ma hanno la
loro ineluttabilit . Noi abbiamo sentito col cuore tutto ci e il nostro Arlecchino “dell’Od on”
un segno di fraternit , di amicizia irripetibile. E anche il segno, uno tra i tanti, di una
volont di essere europei proprio essendo ciascuno di noi, noi stessi, con le nostre storie, le
nostre lingue, i nostri dialetti, le nostre particolarit .” Strehler immagina una compagnia di
comici cacciati da Parigi che, sulla via del ritorno, si fermano in un palazzo abbandonato
dove accorrono a vederli dei contadini ai quali essi o rono lo spettacolo, ma sempre con la
nostalgia dell’avvenuta partenza, con la malinconia di un teatro che si pu spegnere.
Strehler si trova allora simbolicamente alla testa della compagnia di comici italiani che,
ancora una volta e qualche secolo dopo Riccoboni, muove alla conquista del pubblico
francese: per l’occasione, la regia dello spettacolo si arricchisce di alcune trouvailles,
relative soprattutto al gioco dei contrappunti che si creano fra la nzione e la realt del
teatro nel teatro, mentre i comici entrano ed escono dalla recita del Servitore di due
padroni. L’autore dei dialoghi un Goldoni che si trova in un momento preciso del processo
di riforma, quando, cio , alla rozzezza e al lazzo stereotipato della maschera sta
sostituendo, plasmandolo, un dialogo conseguente, un principio di carattere. L’idea
strehleriana parte, dunque, da un’esplorazione del teatro tutta riassorbita nell’universo di
Goldoni, dove si contrappongono e si compenetrano i poli di Scena e Mondo. La
scenogra a di Ezio Frigerio ipotizza l’interno ampio di un palazzo signorile, dalle enormi e
risonanti volte grigie. La recita avviene in un salone dove si perde la fuga degli spazi: le
candele si accendono in ribalta, sparita la pedana, che in altre edizioni delimitava lo
spazio della rappresentazione e un suggeritore sfoglia stancamente il copione. Ma la realt
dei comici, la loro vita, l , ben presente sotto gli occhi dello spettatore: c’ chi si toglie la
maschera e si asciuga il sudore o parla con il vicino prima di rientrare in scena, chi sferruzza
su un lavoro a maglia, chi intento a preparare i trucchi o gli e etti sonori. In questa nuova
edizione dello spettacolo il mondo ha fatto breccia ed penetrato lentamente; come in altri
spettacoli di Strehler, in ligrana vi si vede trasparire un preciso e lievissimo gioco di
riferimenti personali ed ideali. Particolarit dello spettacolo anche la trovata dalla
nuvoletta provvidenziale - calata dall’alto con delle funi a vista - che a ne spettacolo
consente al povero Arlecchino di sfuggire alle ire dei suoi padroni traendolo con s fra le
polveri della memoria. Tutto appare come se quei ricordi, quei personaggi, quelle diavolerie
acrobatiche di Arlecchino, si fossero caricati d’una suggestione poetica pi intensa. Rivive
l’Arlecchino di Ferruccio Soleri, sempre uguale a s stesso, cos straordinariamente vivo,
bimbo giocoso e sfrenato, triste e felice, eppure cos diverso ogni volta, cos
sorprendentemente nuovo. “Un si atto spettacolo non poteva trovare la propria compiuta
forma e misura se non nella corale, collettiva prova di una collaudatissima «macchina
scenica» qual quella appunto congegnata da Strehler e dai suoi abituali collaboratori (lo
scenografo Ezio Frigerio e il musicista Fiorenzo Carpi) basandosi fondamentalmente
sull'apporto prezioso, sulla maestria e sulla generosit di uno stuolo di attori che danno
davvero il meglio di s stessi. Da Nico Pepe (Pantalone) a Pamela Villoresi (Clarice), da
Franco Graziosi (Florindo) a Anna Saia (Beatrice), da Enzo Tarascio (dottor Lombardi) a
Roberto Chevalier (Silvio), da Gianfranco Mauri (Brighella) a Marisa Minelli (Smeraldina),
no, sopra tutto e tutti, al prodigioso Ferruccio Soleri. Inimitabile Arlecchino.

Note

1 Io, Bertolt Brecht n. 2 da Bertolt Brecht. Dispositivo scenico: Paolo Bregni. Con: Tino Carraro,
Milva. Al pianoforte: Mario Morghen. Pavia, Teatro Fraschini, 6 marzo 1975.

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2 Il campiello di Carlo Goldoni. Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi.
Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Micaela Esdra, Anna Maestri, Maddalena Crippa, Didi
Perego, Pamela Villoresi, Edda Valente, Bruno Zanin, Luigi Diberti, Achille Millo, Gianni Mantesi, Elio
Veller, Giorgio Bertoli, Pierparide Tedeschi, Giovanni Vettorazzo. Milano, Piccolo Teatro, 30 maggio
1975.

3 Das Spiel der M chtigen (Il gioco dei potenti) di Giorgio Strehler, da Enrico VI di William
Shakespeare (seconda giornata). Versione tedesca: Loek Huisman. Scene: Paolo Bregni. Musiche:
Fiorenzo Carpi. Coreogra e: Marise Flach. Maschere: Herta Ecker, Albert Ecker. Interpreti: Sebastian
Fischer, Michael Heltau, Andrea Jonasson, Walter Starz, Michael Hanisch, Dieter Witting, Heinz
Grohmann, Karl Mittner, J rgen Wilke, Herbert Kucera, Heinz Raetz, Rudolph Billek, Rolf Boysen,
Frank Ho mann, Eugen Stark, Wolfgang Gellert, Otto Collin, Rudolph Melichar, Bruno Thost, Franz
Helkins, Johannes Seilern, Tom Krinzinger, Erich Auer, Klaus H ring, Rudolf Paczak, Gottfried
Blahovsky, Otto Tausig, Johannes Schauer, Irene Rampfel, Eva Fichte, Eward Braun, Malte Berlin.
Produzione: Burgtheater di Vienna. Vienna, Burgtheater, 12 novembre 1975.

4 Macbeth di Giuseppe Verdi. Concertatore e direttore d’orchestra: Claudio Abbado. Scene e


costumi: Luciano Damiani. Coreogra e: Mario Pistoni. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti:
Piero Cappuccilli, Nicolai Ghiaurov, Shirley Verret, Stefania Malag , Franco Tagliavini, Nicola
Martinucci, Carlo Zardo, Alfredo Mariotti, Antonio Zerbini, Alfredo Giacomotti, Maria Fausta Gallamini,
Massimo Bortolotti. Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 1975.

5 Le balcon di Jean Genet. Traduzione e adattamento: Giorgio Strehler. Scene e costumi: Luciano
Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Renato De Carmine,
Enzo Tarascio, Alan Steel, Tino Carraro, Armando Benetti, Franco Graziosi, Renzo Ricci, Anna
Proclemer, Cristina Gajoni, Anna Saia, Erika Blanc, Maristella Greco, Giulia Lazzarini, Milva. Milano,
Piccolo Teatro, 18 maggio 1976.

6 La storia della bambola abbandonata di Giorgio Strehler, da Alfonso Sastre e Bertolt Brecht.
Traduzione: Rosanna Pel . Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti
mimici: Marise Flach. Interpreti: Cip Barcellini, Narcisa Bonati, Liana Casartelli, Ottavio Fanfani,
Gianfranco Mauri, Bruno Bergonzi, Giovanni Bertocchi, Remo Emarten, Renato Sarti, Alessandro
Roberti. Milano, Piccola Scala, 22 dicembre 1976.

7 Der gute Mensch von Sezuan (L’anima buona di Sezuan) di Bertolt Brecht (seconda edizione).
Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche: Paul Dessau. Interpreti: E.O. Fuhrmann, Axel Bauer,
Klaus Steiger, Andrea Jonasson, Heinrich Giskes, Ingeborg Lapsien, Kurt Beck, G nter K nig, Gisela
Trowe, Margit Carstensen, Gottfried Kramer, Rolf J lich, Wolfgang Kaven, Timo W llner, Siegrid
Hackenberg, Klaus Pohl, Dieter Prochnow, Heide Gr bl, Arend Weidner, Regine Lamster, Metin
Karag zoglu, mer gzuc, Ilse Bally, Hans Ulrich, Erna Nitter, Hans Irle, Hamed Dilmaghani.
Produzione: Schauspielhaus di Amburgo. Amburgo, Schauspielhaus, 25 settembre 1977.

8 Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (sesta edizione). Scene e costumi: Ezio
Frigerio. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Maschere: Amleto Sartori. Registi
assistenti: Carlo Battistoni, Enrico D’Amato. Interpreti: Nico Pepe, Pamela Villoresi, Enzo Tarascio,
Roberto Chevalier, Anna Saia, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri, Marisa Minelli, Ferruccio Soleri, Elio
Veller, Carlo Boso, Piergiorgio Fasolo, Armando Benetti. Parigi, Th tre de l’Od on, 4 ottobre 1977.

Lezione 17

7.04.2020

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1978-1980 la Tempesta di Shakespeare al Teatro Lirico, La trilogia della villeggiatura di
Goldoni all' Odéon di Parigi e Falsta di Verdi alla Scala

Firma la regia de La tempesta con Tino Carraro e Giulia Lazzarini e la versione francese de
La trilogia della villeggiatura di Goldoni al Théâtre de l’Odéon di Parigi. Seconda edizione de
El nost Milan di Bertolazzi. Realizza Il temporale di Strindberg e presenta alla Scala Falsta
di Verdi (Lorin Maazel sul podio). Si candida nelle liste del Partito Socialista Italiano.

Dopo avere nuovamente ripreso con successo Il ratto dal serraglio di Mozart per la Scala (5
febbraio 1978), il 28 giugno Strehler conclude la propria ri essione su Shakespeare con La
tempesta1. Trent’anni dopo la giovanile realizzazione orentina negli spazi aperti del
giardino di Boboli, il regista a ronta l’opera con ben altra maturit artistica e intellettuale,
muovendo da due di erenti ordini di ri essione, l’uno teatrale, l’altro pi legato alla societ
contemporanea. Da un punto di vista teatrale, il regista legge e de nisce il dramma
attraverso l’espressione “tutto teatro”. “Tutto teatro” vuole dire che La tempesta per
Strehler (supportato dalle interpretazioni di esegeti quali Jan Kott e Agostino Lombardo,
traduttore del testo per questa edizione) un’opera metateatrale in cui si sviluppano una
serie di situazioni che traggono dal mondo del teatro occasione e spunto. “Certo -
commenta Strehler - la ri essione critica di Agostino Lombardo trova le sue motivazioni e i
suoi risultati pi congrui sul terreno di un'idea progressiva del mondo shakespeariano
mentre quello di Jan Kott privilegia vistosamente la disperazione di un universo che si
ricompone sempre secondo immutati rapporti di forza. Ma proprio da questo confronto
dialettico che possono scaturire nuove valenze e nuove prospettive per cogliere a fondo
l'intrico reale della Tempesta. D'altronde, i piani d'interpretazione sono in niti e ugualmente
in niti divengono cosi anche i punti focali di ogni indagine”. Prospero , infatti, che l’autore
stesso, William Shakespeare, e l’isola un’isola della mente, un teatro mentale, ricco di
suoni e apparenze che Prospero stesso crea e controlla, lasciandoli poi muovere dallo
spirito Ariel. Lo spiega con attenzione lo stesso Strehler negli appunti di regia redatti per
questa seconda edizione e intitolati iniziato il lavoro della Tempesta “Da quando? Forse
dal 1948, quando, per la prima volta, ho a rontato La Tempesta di William Shakespeare. In
mezzo, quasi duecento spettacoli, trent’anni di vita e di teatro. Da allora, dopo la
rappresentazione nel giardino di Boboli in qualche notte incantata, con giochi d’acqua e
fuochi d’arti cio e con la divina incoscienza della giovinezza, molti altri testi di Shakespeare
sono venuti alla ribalta in un lungo itinerario che approdato al Re Lear. Ed dal Lear che,
anni dopo, parte La Tempesta. Da certe conquiste o comprensioni nate dal lavoro compiuto
su un abissale capolavoro che innanzitutto un cammino di conoscenza, un itinerario nel
buio per arrivare ad una particella di luce. Umana e poetica. Ma La Tempesta stata
segretamente e costantemente presente in tutta questa indagine su Shakespeare e quindi
sull’uomo e la sua storia. Tutt’al pi venuto il momento di «riprendere» oggi di nuovo in
mano il testo e di tentare di darlo al pubblico con uno spettacolo che mi sembra, n
dall’inizio, impossibile. Perch dunque rappresentare La Tempesta? Risponderei: perch
bisogna s dare l’impossibile, perch il nostro dovere di uomini di teatro (e, a lampi, di
artisti) ad un certo punto della nostra vita e della nostra conoscenza – a rontare
direttamente l’impossibile, anche a costo di uscirne spezzati – ma anche per strappare un
altro pugno di verit del mondo. Una scelta, a teatro, del resto, non mai pura. Nasce
sempre da circostanze pi o meno favorevoli, da sensazioni di opportunit e di necessit .
Ed , nonostante tutto, una scelta fatta da altri che un «direttore di teatro» poi fa sua.
Davanti alla Tempesta non so dunque se questa scelta riassuma un bisogno in qualche

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modo «oscuramente collettivo», o se invece non sia pi che altre volte (quasi un’eccezione)
un bisogno profondo della mia teatralit , giunta alla sua ultima svolta. Non so se l’estremo
messaggio umano della Tempesta cos disperatamente solo possa rappresentare qualche
cosa di necessario nella terribile distrazione dell’oggi. Non so se questa inquieta luce di
speranza-non speranza, questa interrogazione estrema sul destino dell’uomo possa
scuotere la bra di quel «riassunto del mondo» che sempre il pubblico. Ma parve cos
anche per il Re Lear e poi ci si accorse che il collettivo umano – quel collettivo tempestato
dai mass-media, dalla confusione delle lingue – voleva invece raccogliersi intorno a grandi
parole scritte da un grande uomo e poeta che a distanza di secoli poteva ancora parlare
«direttamente» alla nostra contemporaneit . E che sapeva raccogliersi, insieme, in un
silenzio attonito e comprensivo. Come si spiegherebbe altrimenti il grande «incontro
pubblico» che il Re Lear che abbiamo rappresentato ha trovato nelle platee del mondo, in
questi anni, in lingue diverse? Non certo il magico di una regia o il fascino di un attore. Mai,
ricordiamolo, mai sono queste le cose che determinano a teatro l’incontro lungo, continuo,
caldo e travolto della gente con la realt di uno spettacolo di teatro. Esso nasce da
qualcosa che sta pi in l dei mezzi del teatro, un qualcosa che il teatro, per , ha il dovere
di cercare e di trasmettere il pi limpidamente possibile, il pi onestamente possibile. Cos
nasce questa edizione della Tempesta, da molto tempo come sottofondo segreto di un
lavoro fatto su Shakespeare; da meno tempo dopo l’esperienza sconvolgente del Lear; da
ancora meno tempo, circa un anno dal nuovo studio intrapreso sul testo. Proprio lo studio
del testo, delle parole di un poeta messe insieme, testo, scena, semantica, interi e
signi canti. Quel testo che «giovani» troppo ignoranti, arroganti, cinici e di conseguenza
«sfatti» per essere la «giovent » – sostenuti da «vecchi» impegnati a recitare il ruolo di una
presunta giovinezza - considerano il nulla – o un pretesto per qualche gioco infame,
all’etichetta della dissacrazione o della smitizzazione – quel testo che noi consideriamo
tutto da capire e trasmettere. Il testo come matrice unica per il teatro – che indica, spinge,
propone ogni soluzione di suono e gesto perch la racchiude in s , perch le appartiene. La
realt di questa lettura – la lettura di questa realt – ci stanno costando ore di grande sforzo
intellettuale, ci chiedono una presenza profonda che spesso non possiamo dare, perch il
teatro che si fa ogni giorno chiede anch’esso la sua parte. La Tempesta nata direttamente
durante una stagione molto complessa, quella del 1976-1977, con molti spettacoli in Italia e
all’estero, non certo nel silenzio e nel raccoglimento che tanti di noi, io per primo, si
augurerebbero. Il pubblico dovrebbe avvertire qualcosa di questo travaglio segreto – che,
forse, non dovrebbe restare tale – questo travaglio sta dietro ad ogni vera rappresentazione
di teatro. Sono ore rubate quasi all’urgenza della vita di un teatro che si fa sera per sera,
all’orribile macchina per fare teatro, come l’ha chiamata Jacques Copeau, alla quale il
teatro non sa sottrarsi perch forse parte del suo destino. Per questo lavoro – oltre a quel
tanto di meditazione solitaria che occorre - abbiamo scelto la soluzione di un colloquio fra
noi - Battistoni, Carpi, D’Amato, Damiani, Gaipa, Lombardo, Lunari, Kott, Pagliaro e io.
Agostino Lombardo cura la traduzione della Tempesta. Kott e Lombardo come due poli di
un atteggiamento dialettico per una indagine sulla parola e sul senso – e, in mezzo, le
nostre conquiste piccole e grandi, le nostre prime intuizioni sceniche. Guardo sul mio
tavolo, mentre scrivo questa nota, le cartelle di «materiale di lavoro» gi accumulate. Sono
pi di 400 pagine colme di note, resoconti di colloqui, dialoghi stenografati. Guardo su un
tavolo l’accumulo di libri, con i segni, le strisce di carta bianca che ne escono, ad indicare
un punto di riferimento, un’immagine che ci ha colpito. Altri verranno. Altre pagine andranno
ad aggiungersi a quelle gi scritte. Dietro ad un’interpretazione di un’opera di teatro –
quando essa si realizza con un autentico e amorevole sentimento scienti co – ci sono certo

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molti libri scritti dagli interpreti e mai pubblicati, molti studi letterari, storici o altro, che non
vedranno la luce se non quella incandescente della ribalta (vera o ttizia che sia) del teatro.
E cos deve essere. Dunque, stiamo scrivendo questo libro sulla Tempesta di Shakespeare.
E continueremo a scriverlo no al momento della rappresentazione, come sempre con
disperata tenacia e con l’incessante volont di aggiungere una sillaba in pi al vocabolario
del mondo. Ma qui nel cuore della Tempesta l’uomo di teatro si trova davanti al teatro nella
sua ultima essenza. Tocca o crede di toccare gli estremi limiti del teatro. Nella Tempesta c’
l’estrema stanchezza e vanit del teatro e al tempo stesso l’estrema importanza troppo
delusa della vita. C’ la glori cazione del teatro, delusa e trionfante, del teatro come mezzo
altissimo e insostenibile di conoscenza e di storia, ma, entro certi limiti, inutile, terribilmente
inutile o insu ciente, per il muoversi inconcepibile della vita che sempre lo supera. Occorre
un grande coraggio, un disperato coraggio, per fare la Tempesta di William Shakespeare
oggi. Ma forse di gesti come questi che proprio oggi si ha bisogno.”

Nell’allestimento del Piccolo Teatro, Prospero (Tino Carraro) diviene cos il doppio non solo
dell’autore, ma anche di Giorgio Strehler stesso, il regista-duca-mago che, isolatosi nel
teatro-isola (il Piccolo Teatro, isola ancora felice rispetto alla realt in crisi che lo circonda),
fa muovere i personaggi attraverso i sentieri contorti dell’isola deserta. Lo stesso libro della
scienza di Prospero, che alla ne egli sprofonda negli abissi marini, un copione di scena.
a questo livello il punto di contatto con il secondo ordine di ri essioni immanenti alla
lettura dell’opera. Strehler decide di confrontarsi con questo testo in un momento
signi cativo della storia italiana: siamo nel 1978, e se il reinsediamento de nitivo al Piccolo
ormai una conquista certa, se le urgenze che avevano portato il regista a fondare a Roma
il Gruppo Teatro e Azione sono esaurite, all’esterno, fuori dal teatro, c’ ancora una realt di
“lotta”, anche se una protesta che avviene in una maniera assai poco condivisibile e
lontana dai valori e dalle istanze in cui il regista si era un tempo riconosciuto. Siamo nel
pieno dei cosiddetti anni di piombo (il 1978 l’anno del rapimento e dell’uccisione del
Presidente della Democrazia Cristina Aldo Moro) e Strehler, grazie al suo teatro-isola,
sembra sentire la necessit di compiere un percorso iniziatico, un viaggio alla ricerca di
un’umanit che pare scomparsa. Cos nel dramma di Prospero il regista individua il dramma
della societ italiana contemporanea che, costretta a vivere la tragica esperienza del
terrorismo, non riesce pi a nutrire speranze nei valori positivi dell'uomo. “La tempesta
nasce – scrive Strehler – in un momento che a me sembra abbia i connotati
dell’apocalisse... La storia arrivata puntualmente dentro i muri chiusi di un teatro, dentro
cui una piccola collettivit stava lavorando sulle parole di un grande poeta per inventare
sogni.” La tempesta, per lui dramma “dell’accettazione della realt umana”, gli appare (e
sono da notare le forti a nit con il discorso su Lear) “come un cammino di conoscenza
del suo protagonista, Prospero, verso la conquista del reale e, quindi, un faticoso cammino
di conoscenza per noi interpreti e per noi spettatori.” Attraverso un impiego sapiente di tutti
i linguaggi teatrali (luci, movimenti, suoni, ritmi, silenzi), il regista disegna con la Tempesta
una metafora del teatro e della creazione poetica. Straordinariamente e caci si confermano
le soluzioni sceniche ideate dal regista e da Luciano Damiani: l’apparizione di Ariel, spirito
dell’aria, una leggera Giulia Lazzarini che, sospesa a metri d’altezza grazie a un visibilissimo
cavo d’acciaio, recita e danza tra realt e fantasia, oppure, per contrasto, quella di Calibano
(Michele Placido poi, per l’inaugurazione della stagione 1978/1979, Massimo Foschi), che
emerge dalla botola del palcoscenico con veemenza di spirito infernale. Il regista realizza la
prima scena del dramma - metateatrale in virt della rivelazione da parte di Prospero della
sua “Arte potente” - con una sorta di tolda e un grande albero maestro, che si piega da

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tutte le parti, incastrato sulla zattera- isola, collocata al centro del palcoscenico. Intorno ad
essa, nascosti sotto un grande telo azzurro, decine di ragazzi creano l’e etto del mare in
tempesta agitando le mani sulle loro teste, no a quando, tra le urla dei naviganti, il vascello
del re di Napoli inghiottito nella seta azzurra. Un coup de th tre, semplice e spettacolare
insieme, che lascia sbalorditi, mentre sottintende il buio, la disperazione, la fatica del vivere.
L’apparato scenogra co e la regia alludono da subito a una rappresentazione straniata
dell’illusione teatrale; pi avanti nello spettacolo assistiamo a citazioni del macchinismo
barocco, mentre i due bu oni Stefano e Trinculo sono maschere della commedia dell’arte.
La lunga citazione del masque interrotto e rovesciato da Shakespeare resa con geniale
semplicit dal regista: egli elimina dee, ninfe e mietitori, e lascia comparire sulla zattera-
isola un grande velo dorato, mentre sullo sfondo il sole splende in un cielo azzurro. Di
grande impatto visivo sono le immagini ideate per il nale: a un gesto di Prospero la zattera-
isola, ormai abbandonata da tutti, con grande frastuono va in pezzi e di fronte a ci che ne
resta Carraro recita l’epilogo. Ormai le strutture delle scene si sono sfaldate, ogni trucco si
palesato, svanito e Prospero, che recita il monologo in platea, delega agli spettatori “le
ragioni non solo del teatro, ma della coscienza e della vita”. In questa commedia - sembra
dirci il regista - c’ la glori cazione del teatro come mezzo alto e insostenibile di
conoscenza e storia, ma entro certi limiti, inutile e insu ciente, per il muoversi inconcepibile
della vita che sempre lo supera.” Un cammino di conoscenza, insomma, verso la conquista
del reale: quello di Prospero che, alla ne, volendo a ermare l'onore di vivere, spezza la
bacchetta dei sortilegi. Nella realizzazione scenica di Strehler, sopravvive una speranza: con
la sua Tempesta, oltre a dare nuova vita al capolavoro di Shakespeare e o rire magiche
risonanze alle sue parole, egli d una risposta agli interrogativi di quegli anni di cili: la
zattera-isola, il luogo di rifugio, caduto in pezzi alla ne dello spettacolo e noi spettatori
comprendiamo che la scelta non la fuga, l’indi erenza, l’isolamento. La scelta doverosa
la realt , l’impegno, l’umanit , al di l di ogni utopia (anche artistica). Non ci sar da
stupirsi, dunque, se la Tempesta rappresenta uno fra i pi grandi successi di Strehler e del
Piccolo Teatro (e forse del teatro italiano): duecentottantasette sono le repliche dello
spettacolo che portato in tourn e anche a Parigi, Los Angeles, New York, riscuotendo
ovunque eccezionali consensi di pubblico e critica.

Il Piccolo ha festeggiato il suo trentesimo anno di attivit , nel 1977, e Strehler pu calcolare
di avere lavorato con circa 3.000 artisti, fra attori, cantanti, musicisti, scenogra , costumisti,
e altri. Un piccolo universo. Ma a tale indefesso e straordinario impegno artistico, il regista
non esita a coniugare un impegno civile e politico che diviene via via sempre pi
importante. Nel 1979, Strehler si candida nelle liste del Partito Socialista al Parlamento
europeo. Dichiara in pi occasioni: “Sono stato perplesso per molti giorni, anzi molti mesi,
prima di accettare - e quando l'ho fatto, l'ho fatto di buon grado - l'invito a candidarmi nel
Parlamento europeo. Le perplessit derivavano, evidentemente, dalla mia desuetudine alla
vita politica cos com' usualmente intesa, e contemporaneamente ai miei impegni di
direttore al Piccolo Teatro di Milano. Se ho accettato le a ettuose, pressanti, pi che
amichevoli o erte dei compagni socialisti, lo ho scelto proprio perch in questo momento
non rappresentassero un gesto soltanto simbolico, bens una scelta di campo, un impegno
ideale. In un'Europa futuribile, nella quale poco, troppo poco se non nulla, si andato nora
parlando di cultura, la mia candidatura vuol rappresentare - almeno cos spero - l'idea di
una comunit culturale oltre che economica, fondata sulla comunanza di idee, di cervelli, di
operazioni culturali comuni, insomma una circolazione di idee democratiche e moderne che
abbraccino i settori della scuola (e quindi dell'insegnamento tout court), dell'informazione,

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dei mass media, e per quanto mi riguarda pi direttamente del teatro di prosa. Credo in
de nitiva che la mia candidatura al Parlamento Europeo possa essere dimostrativa di una
libera, anche se «tendenziosa», partecipazione alle scelte culturali di una vasta e
democratica rappresentanza plurinazionale.”. Eletto come esponente del Gruppo socialista,
Strehler partecipa come deputato ai lavori del parlamento di Strasburgo solo anni dopo, dal
26 settembre 1983 al 23 luglio 1984, subentrando a Bettino Craxi divenuto nel frattempo
Presidente del Consiglio e battendosi per un’Europa “umana”, capace di parlare agli uomini
di oggi e di perseguire l'obiettivo di un teatro d'arte, elevato nei contenuti e pensato per
porsi al servizio della collettivit , in aperta polemica con la commercializzazione del
prodotto culturale, un’Europa degli uomini e delle comunit , delle idee e della cultura”.

Il 16 dicembre 1978 Strehler ripresenta sul palcoscenico del parigino Th tre Od on, con
gli attori della Com die Fran aise, nella traduzione di F licien Marceau, la Trilogia della
villeggiatura2 di Goldoni in una versione francese. Cos leggiamo: “Goldoni tornato alla
Com die Fran aise. Vi aveva fatto il suo ingresso, da vivo, nel 1771, con la prima delle due
commedie da lui scritte direttamente in lingua francese, durante il lungo esilio parigino, Il
burbero bene co, e ve lo ha trionfalmente ricondotto, mettendo ne ad una esclusione
protrattasi dal secolo passato ai nostri giorni, il suo maggior regista di oggi, Giorgio Strehler.
All'Od on, dunque, si rappresenta, a sala esaurita, gi da sabato scorso, e sino al 4
febbraio, la Trilogia della villeggiatura nell'adattamento dello stesso Strehler e nella versione
di F l cien Marceau (l'autore dell'Uovo e della Pappa reale, divenuto frattanto accademico
di Francia), l'insieme dei tre testi cio Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della
villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, che Strehler a ront nella loro organicit e
complessit gi nel lontano 1954, al Piccolo di Milano, e che pi di recente ha proposto a
Vienna, con interpreti di lingua tedesca. Lo spettacolo, compresi i due brevi intervalli, si
aggira - nonostante tagli e raccordi - sulle quattro ore e quaranta minuti: ma, bisogna dirlo,
senza un istante di noia. Strehler, coerentemente alla sua costante ispirazione, accentua
insomma la prospettiva sociale della Trilogia e ne rileva la drammaticit di fondo, caricando
di amarezza il sorriso con il quale il commediografo sembra osservare i casi esposti. Dal
nevrotico dinamismo delle Smanie, da quel girare a vuoto, reso con un perfetto dosaggio
degli elementi espressivi, dalla parola al gesto, all'invenzione mimica, si passa cos al pi
disteso ritmo delle Avventure, immerse in un clima gi cechoviano che rende quasi
sicamente palpabile il tedio della piccola, male assortita comunit , priva di cultura, di
ideali, e poi anche di sentimenti. Nella terza parte, la cupezza del quadro si aggrava. Si fa
aspra, negli atteggiamenti e nei comportamenti, la molla dell'interesse, ormai schiacciante.
[...] E l'ambiente nel quale si salderanno malamente i destini di Giacinta e Leonardo, di
Guglielmo e Vittoria, ha qualcosa di sinistro: come una casa in via di sgombero, una
stazione di passaggio, squallida e anonima, dalla vaga tinta funeraria, rischiarata appena
dalla luce di tristi candele, mentre i personaggi indossano abiti di nera tela cerata e recano
fradici ombrelli, ad evocare un autunno o un incipiente inverno, non soltanto meteorologico.
D'altronde, l'articolata scenogra a. sobriamente realistica. di Ezio Frigerio (suoi, e di Franca
Squarciapino, anche i costumi) accompagna le varie fasi dell'azione con stretta aderenza al
loro svolgimento non solo esterno ma interno psicologico per no umorale. Ennesima prova
di un sodalizio antico e felice, non meno di quello fra Strehler e Fiorenzo Carpi che ha
composto le musiche, pertinenti quanto funzionali nel legare i diversi luoghi e momenti della
Trilogia. Un grosso impegno Strehler lo ha avuto poi con gli attori, professionalmente
impeccabili, ma educati ad una scuola tanto di erente dalla nostra e poco abituati a
frequentare un linguaggio come quello goldoniano, da scavare in profondit , al di l delle

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sue apparenze discrete, leggere, riservate, talora sfuggenti, dietro e dentro i termini comuni
dell'esistenza quotidiana, allusivi ed elusivi, specchio e schermo di una commedia umana
che spesso un passo solo dalla tragedia piena e dichiarata. Tanto pi apprezzabili
risultano l'omogeneit , l'alto livello globale e il timbro relativamente nuovo che
contrassegnano la recitazione, guidata da Strehler con lo scrupolo e lo studio di sempre.
Non possiamo citare tutti. Ma ricordiamo quanto meno, con il veterano Pierre Dux
(amministratore della Com die ancora per poco), che disegna assai nemente e
giustamente il suo Filippo, l’autorevole Ludmilla Mika l, la sensibile Fran oise Beaulieu, le
molto appropriate Catherine Hiegel e Catherine Salviat, il prestante Claude Giraud, il vivace
e misurato Marcel Tristani e Denise Denise Gence bravissima nel mantenere la sua Sabina
in sospeso tra patetico e ridicolo, senza degradarla nella macchietta.”

Dopo avere proposto, il 26 settembre 1979, una terza versione del suo Io, Bertolt Brecht n.
3 Essere amici al mondo3 da Bertolt Brecht al anco di Milva, al Piccolo Teatro, Strehler
presenta al Teatro Lirico di Milano il 18 dicembre 1979, a ventiquattro anni dal primo
allestimento, una seconda edizione de El nost Milan4 di Carlo Bertolazzi. Nel programma di
sala 1979/80 il regista sviluppa alcune signi cative ri essioni sulla seconda edizione dello
spettacolo in confronto alla prima del 1955. “Rileggendo la breve nota che scrivemmo sul
programma del 1955 ne condividiamo ancora la linea critica. C’ piuttosto da chiedersi
quanto della verit di ieri, quanto delle ragioni che ci spinsero un tempo a rappresentarlo,
questo Nost Milan, possono trovare riscontro nel nostro oggi. Qui il pubblico sar il critico
pi legittimo. Come sempre a teatro. E noi interpreti aspettiamo, come sempre, con
trepidazione e umilt questo incontro, che per noi del Piccolo ha sempre contato pi di
tutto. Ma anche con una interiore certezza della necessit che ci ha spinto a proporre
ancora – a distanza ed in modo simile e diverso – il nostro lavoro di teatro, alla collettivit .
Non come patetica reliquia del passato ma come un mezzo per allacciare il passato al
presente e per conoscerlo meglio. Lavorando sul testo del Nost Milan, a distanza di tanti
anni, quello di Bertolazzi e quello della sua riduzione per lo spettacolo, ho comparato le
di erenze, ho cercato di ritrovare le ragioni di certe scelte, di certi spostamenti e di certi
tagli, insomma ho ripercorso il lavoro critico che feci d’impeto in un’estate del 1955, davanti
alla "necessit " di una rappresentazione immediata.Fu un lavoro rapido, fatto di decisioni
che oggi mi appaiono perentorie e quasi temerarie. Ma fu come sempre un lavoro di amore,
pieno di rispetto per l’opera, per le ragioni che l’hanno fatta nascere (almeno per quelle che
io ho creduto di scorgervi) che poi ho trasformato in uno spettacolo, con voci, ritmi, scene,
costumi, musiche, luci: il nostro modo di scrittura, di noi interpreti, sulle sabbie mobili del
teatro di cui resta solo la traccia nel copione con freghi a matita che rimpiazzano altri freghi
e altri segni. Certamente la cosa che pi mi colpisce – e ricordo quanti dubbi mi cost – la
decisione di recitare il Nost Milan in tre atti anzich in quattro, fondendo in uno solo due atti
(il secondo e il terzo) dell’originale. C’era qui un agguato persino del "divertimento teatrale",
molto sottile. Il secondo atto di Bertolazzi infatti si svolge un certo sabato "nel" cortile del
Broletto. Cio nello stesso cortile del Piccolo Teatro, fuori del palcoscenico. In quel cortile lo
spettatore durante l’intervallo avrebbe potuto visitare e toccare "sul serio" muri e case dopo
averle viste "per nta" sul palcoscenico! Questo problema, ricordo, con la sua seduzione
quasi irresistibile per il regista, soprattutto per il giovane regista che ero, fu risolto come
doveva, cio non cadendo nel gioco della teatralit e del teatro e del non teatro, in fondo
cos facile, nella sua apparente "intelligenza" critica. Decisi di far svolgere un solo atto, nelle
Cucine Economiche e l , in qualche modo, far convergere tutto o quasi tutto il testo del
gioco del lotto nel cortile del Broletto. Poich , certo, questo "gioco del lotto", questa

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speranza ultima dei poveri, questa eterna possibilit impossibile non poteva essere messa
da parte. Cos l , nelle povere cucine, un sabato a mezzogiorno, con freddo e sole, con le
prime sirene lontanissime di una citt che si industrializza e le campane che quasi si
opponevano a quel suono lungo e nuovo con il suono invece familiare che scandiva il ritmo
della giornata e della vita, si parlava anche del lotto di ieri e, attraverso questo, del lotto di
oggi. Si parlava di povert e violenza (c’era violenza anche in quel giorno, c’era il massacro,
alle porte, tra l’altro, di Bava Beccaris) si parlava di disoccupazione, di lavoro non trovato e
tanto cercato, si parlava di miseria e di fame, di vita che costa sempre pi cara, di "danee"
di "cinq franc de roba" che viene ormai pagata dieci, insomma si parlava, in un frammento
di umano, di una citt che gi correva tutta verso il disumano e gi non sapeva come
fermare questa corsa che ci porta al nostro oggi. Questo secondo lungo atto, come una
piccola sinfonia, in cui temi e controtemi si svolgono e si troncano per poi riprendere,
diventava molto denso con una sua poesia aspra e sospesa, che comportava enormi
di colt ritmiche per costruire una unit che in partenza mi pareva quasi perdersi – qua e l
– nel bozzetto, nel colore locale. Su quelle tavole di legno scuro, davanti al quartino di vino
e alla tazzina di minestra povera (a Parigi qualcuno scrisse che si sentiva in sala persino
l’odore dei cavoli di quella minestra! Mentre il Paoloeu, cuciniere di teatro, rimestava nei
suoi pentoloni solo grandi nuvole di ghiaccio secco "per fare il fumo" a teatro) viveva la sua
breve avventura un piccolo cosmo di "povera gent" di sottoproletariato di una citt in
crescita senza armonia e poca piet , povera gente che per trova continuamente dentro,
un tepore fraterno, una lombarda pudica solidariet fatta di pochi gesti, sia una canzone
accennata, sia un sorriso appena s orato e nascosto da parola ruvida, sia un passo che
rallenta la sua corsa. Certo questo lavoro di "riscrittura" che fonde due temi e due attimi di
teatro distinti in uno solo, richiedeva e richiede oggi agli interpreti una estrema sensibilit
negli accordi e nei registri, richiede una specie di leggerezza dei toni e dei gesti che
purtuttavia mai deve andare a discapito della severit dei contenuti, della chiarezza cruda e
violenta di questo grido dal fondo che El nost Milan di Carlo Bertolazzi. un grido dal
fondo, dal fondo di una citt violentata, gi allora violentata, dal fondo del sottoproletariato
urbano con ancora tanto di contadino che si inurba e mi viene da dire semplicemente,
ancora una volta, come questo paese-citt si mosso appena nella sua storia pi densa in
tanti anni. Quasi un secolo. Gli "altri" Gi allora, venticinque anni fa, pareva chiara la
secchezza di Bertolazzi che tanto facilmente pu essere presa, basta che lo si voglia, basta
che ci si fermi allo schema e al modulo esteriore, per "bozzettistica", e qua e l per
"melodramma". Ma mi toccava, mi tocca sempre di pi , la "pertinenza" "provocatoria" di
questo brulicare di vita sotterranea che si dispera in solitudine, in solitudine si diverte, in
solitudine mangia e muore, ma che anche capace di amore carnale o tenero (o le due
cose insieme), questa umanit che ha rapporti complessi con i suoi compagni di classe o
sottoclasse e rapporti semplicissimi e diversi con gli "altri", appunto i "loro". Semplici e
diretti, ma non semplicistici: gli "altri" sono soltanto gli avversari ancora irraggiungibili, gli
dei di un Olimpo borghese inattaccabile che detiene un Potere imperscrutabile o,
all’opposto, perscrutabilissimo. Parlano del Lotto, ad esempio, come "ultima speranza", del
sabato come una cosa da aspettare per poter vivere. Vedono aprirsi una tragedia se
qualcuno butta l (ed un operaio a dirlo) che "il Lotto stanno per sopprimerlo". Uno dice:
"Sopprimerlo sarebbe come buttarci in mezzo alla strada. Piuttosto occorre la riforma. La
riforma della ruota. E prima di tutto cambiare il martinino" (il ragazzino del collegio degli
orfani che, bendato tira fuori dalla ruota i numeri ogni sabato). Incalza un’altra: "Ma certo,
cosa vuol dire questo tirare fuori, cos all’orba? Bisognerebbe che ognuno tirasse una volta
per uno (democraticamente, aggiungo io) i suoi numeri. Cos ci sarebbe giustizia". "Tanto

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pi che, fa ancora l’operaio, io dico che gli assessori giocano sul sicuro, conoscono la
cinquina, gi da ieri sera". E cos via scoppiano bombe di profondit che ancora oggi
attraverso il dialetto di una citt che lo sta perdendo arrivano – almeno cos a noi parso
nel corso di tutte le prove – nella platea contemporanea, insieme quasi ad una specie di
disperata e tenera richiesta di non perdere questa nostra lingua straordinaria, questa lingua-
radice di una collettivit , una delle tante di cui il nostro mondo ricco ma incapace di
difendere come un patrimonio ineguagliabile, che non "divide" gli uomini ma invece li rende
pi ricchi, pi vicini, inimitabili. Scoppiano barlumi di rivolte e di lacerazioni che ci hanno
fatto constatare molto spesso in questi giorni quanta lotta passata, quanta storia per
cambiare in fondo cos poco. Rielaborando un testo del passato ci sembrato insomma di
sentire che il suo sottofondo non superato, che non allontanato come un sogno o come
una memoria nel tessuto della nostra vita sociale. Abbiamo avuto il sentimento che questo
Nost Milan di oggi risulter forse pi acre del previsto o di quello che prevedono i piccoli
esegeti, i piccoli esegeti, i piccoli intellettuali della nuova (o mai nata) loso a, gli esegeti del
provocatorio quando esso solo grido, disperazione, nulla. Pi provocatorio perch
purtroppo, con tutti i trasferimenti del caso, ancora "pertinente" alla nostra vita di uomini
contemporanei. Pi provocatorio perch terribilmente umano – ah! il terribile e vergognoso
timore dei codardi verso la vita davanti all’umano che per essi diventa solo romanticismo
deteriore o populismo da romanzo d’appendice! – terribilmente umano in un mondo che
corre verso il gelo di sterminate periferie che certamente nemmeno la luce di questo
spettacolo di teatro potr cancellare o nascondere o addolcire. Ma semmai ancora di pi
denunciare, per opporsi, per tentare di mutare, non con un gioco della nostalgia, la realt di
questa nostra citt -patria-mondo, e scuoterci con in niti interrogativi proprio
suldiveniredellanostraconvivenzachenonsappiamopi se giustochiamareumanaecivile.” E
ancora: “La vita passa, cominciamo a fare gli attori giovani e poi arriviamo a fare i padri...
Prima il personaggio di Nina era interpretato da Valentina Fortunato, poi da Valentina
Cortese, adesso da Mariangela Melato. Tino Carraro che era il Togasso, qui sar il padre...”.
Infatti, Tino Carraro indossa ora i panni del vecchio Peppon, a ancato dal Togasso di
Franco Graziosi e da Mariangela Melato la cui Nina la vera rivelazione della serata. “Non
c' dubbio che, riprendendo in mano il testo di Bertolazzi, Strehler si copiato con carta
carbone; e non soltanto nelle componenti fondamentali dello spettacolo (le scene di
Luciano Damiani diventate oramai immagini storiche) con quella sempre citata mensa
popolare del secondo atto; e i costumi grigi e neri della Colciaghi e le musiche struggenti di
Fiorenzo Carpi) ma anche nei dettagli pi minuziosi, nel trucco, nei gesti: quasi
impressionante per esempio, la rassomiglianza di Franco Graziosi, il malvivente Togasso,
con Tino Carraro che - impegnato con lo stesso personaggio nelle due precedenti edizioni
si trasferito adesso (e senza far rimpiangere l'esibizione del vecchio attore milanese di
allora, l'indimenticabile Rinaldi) nei panni del padre di Nina. E quanto a Nina, sta etta dopo
sta etta (da Valentina Fortunato a Valentina Cortese e adesso, felicissimamente, a
Mariangela Melato) il personaggio, pure attraverso tre interpreti cos diverse in tutto,
conferma intatte le sue cadenze di piet , di innocenza, di rabbia.”

Nel 1980 Strehler d inizio alle prove di Temporale5 di August Strindberg, testo con cui egli
intende concludere la stagione teatrale del Piccolo. La “prima” di Temporale va infatti in
scena al Piccolo Teatro il 18 giugno 1980. Si tratta di uno “spettacolo-evento”, che segna
un punto di svolta nel percorso creativo di Strehler e, pi in generale, nella consapevolezza
critica con cui Strindberg recepito in Italia, dopo una lunga dimenticanza. A conferma del
fatto che il regista avverta la novit e il rischio dell’operazione che sta conducendo su

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Strindberg, le prove dello spettacolo sono circondate da grande riserbo e interrotte solo
dalla sua partecipazione in veste di attore nell’aprile 1980 a sei recite dell’Oedipus rex di
Igor Stravinskij (sotto la direzione di Claudio Abbado). Strehler giusti ca la scelta di un
autore poco rappresentato in Italia e scarsamente in linea, a prima vista, con l’impegno di
denuncia sociale e politica delle sue regie, proponendo l’immagine di uno Strindberg niente
a atto schizofrenico o paranoico, ma lucido contestatore del so ocante perbenismo
borghese della sua epoca. Primo fra i drammi da camera di Strindberg, Temporale una
partitura musicale in cui non succede nulla. Quando il sipario si alza, tutto gi accaduto e
le azioni che vediamo potrebbero essere il prodotto di una solitaria allucinazione del
protagonista. Il regista, che a ronta Strindberg per la prima volta, sceglie Temporale perch
trova che in questo dramma “si snodino e si mostrino quasi riassunti, con profonda
semplicit , i grandi temi ripetitivi, vorrei dire ossessivi che con alterno rilievo ricorrono in
tutto il suo teatro”. Nelle note di regie signi cativamente intitolate Tragica meschinit della
famiglia borghese e pubblicate sul programma di sala, Strehler ri ette su Strindberg in
generale e sul testo del Temporale: “Dalla dimensione cosmica della Tempesta di William
Shakespeare, alle sulfuree, anguste per die dell’inferno borghese del Temporale di August
Strindberg. L , l’isola-mondo sperduta in uno spazio-tempo analogici, qui un’isola-casa
incombente con la quotidianit dei suoi oggetti comuni, tavoli, sedie, pianoforti, telefoni e
come orizzonte una strada, una panchina, un albero solitario dove agiscono o piuttosto
“sono agiti”, in uno stato tra sonno e veglia, dai loro destini umani, personaggi che ognuno
a suo modo hanno perduto, se mai l’hanno avuta, la capacit di vivere e persino morire,
insieme. L lo sconvolgersi emblematico ed enigmatico insieme degli elementi primigeni e
le onde infuriate di un mare che pu travolgere ed uccidere o meglio “trasformare”, qui
l’attesa quasi angosciosa di un temporale di ne estate con a tratti solo un lontano rombo
di minaccia che arriva, non uccide, non trasforma, n lava, n risolve alcunch per coloro
che l’hanno aspettato perch prigionieri del loro piccolo mondo privato, della loro privata
disperazione, della loro sostanziale mancanza di reciproca piet . Non concesso spingersi
oltre nella comparazione delle due opere se non per rilevare certe misteriose risonanze che i
poeti si rimandano nel tempo attraverso l’alfabeto dell’arte, dei simboli, delle metafore e
che il teatro, nella sua ricerca, rende concrete accostando voci le pi diverse e lontane. E
certo la scelta del Temporale di Strindberg non nasce dai titoli e dalle assonanze. Ma
certamente le registra. Del resto, nel repertorio gi cos vasto del Piccolo Teatro ci sono dei
vuoti che spaventano l’uomo di teatro onesto il quale vede tutta l’immensit del teatro che
doveva, poteva, fare e sa che, in tutta una vita, non riuscir mai a realizzare sul
palcoscenico. Uno di questi vuoti rappresentato da Strindberg e dalla sua opera. Ma non
il solo. [...] da Strindberg che nasce tanta parte del teatro contemporaneo. A lui noi
siamo debitori di temi, idee, metodi teatrali che ebbero poi vario sviluppo nel tempo,
talvolta ricalcati o riecheggiati, tal’altra persino deformati, ma mai esauriti. I suoi Drammi da
Camera, una sorta di Kammer Musiken, mi sembrano poi, nella loro intimit apparente, la
punta estrema della sua opera di drammaturgo, e regista, inventore di teatralit e questo
non solo per ragioni cronologiche. E il Temporale pu dirsi opera tra le pi sottili e, al tempo
stesso, complesse in cui si annodano e si mostrano quasi riassunti, con profonda
semplicit , i grandi temi ripetitivi, vorrei dire ossessivi che con alterno rilievo ricorrono in
tutto il suo teatro; per parte mia vi ho scorto, per altro, qualche gura diversa, nuova, e
persino il rovesciamento di alcuni luoghi comuni strindberghiani. Certo il teatro di Strindberg
non sta tutto nel Temporale il quale per costituisce, pur nella sua forma di “teatro
borghese”, di atmosfera, un’opera che travalica continuamente questi suoi apparenti
con ni, raggiungendo regioni inesplorate al suo tempo storico e forse ancora oggi. La

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tensione tra “realt ”, o meglio, “il possibile reale” del teatro e “l’irrealt ”, proprio perch di
teatro si tratta, avvertita qui come presenza ineluttabile. Durante il nostro lavoro ci siamo
imbattuti si pu dire minuto per minuto nella di colt di rendere quel travalicare, di cui si
diceva prima, i limiti del quotidiano di questi personaggi che vivono, mangiano, camminano,
amano, odiano e nello stesso tempo si trovano ad agire in una dimensione che sorpassa la
loro storia, il loro destino o, pi semplicemente, la loro “condizione umana” e, con la loro, la
nostra, facendocela percepire quasi come una sorta di “condizione dell’universo”. Nella
prospettiva del “realistico”, il Temporale pu essere visto come un breve tratto, lo spazio di
qualche lampo, della storia, o meglio della tragedia di un “signore”, un ex funzionario in
pensione, di suo fratello, della sua ex moglie che dopo anni “per strano caso” tornata ad
abitare nella stessa casa, con la glia e il nuovo marito – che della bambina ora il patrigno
– e che dell’appartamento ha fatto, pare, una bisca. Mentre il temporale minaccia e
lampeggia, ma non scoppia, i personaggi fatalmente si incontrano, si scontrano e questo
d il via a una catena di inutilit , o vani cazioni, se cos si pu dire, dove il Signore tenta
invano appunto di “non lasciarsi coinvolgere dalla vita”, il nuovo marito di fuggire con una
nuova amante, la moglie fuggita di tornare alla casa, il fratello di “darsi da fare”, le fr re et
son double, si potrebbe sorridere, perch da unico amico del Signore, si rivela alla ne
come ex amante della moglie. E cos la famiglia borghese, intesa qui come “carcere”, ci
rivela la sua tragica meschinit . Passato il temporale, tutto sembra rientrare nell’ordine. Le
cose “sembra che vadano a posto”, l dove regnano, cio , la solitudine e il vuoto. A far da
controcanto al dramma del Signore, vi quello del Pasticcere, che sta al piano di sotto e ha
una glia che fugge, e quasi subito, scon tta, ritorna mentre tutto riprende come se nulla
fosse successo o come se tutto fosse successo da sempre: e qui ci ritroviamo davanti il
circostanziato elenco di questi altri accadimenti, e il far conserve e metterle da parte per
l’inverno, i dialoghi brevissimi con la glia e quello, indecifrabile, fra il Pasticcere e la moglie
semicieca che si vorrebbe anche sorda, e cos via, controcanto a un universo, appunto, di
ciechi e di sordi; o di aspiranti tali. Anche la gura di “Louise”, immagine di giovinezza e di
una certa negativa saggezza, sembra dissolversi: andata a spegnere la luce. Nel buio che
scende, quel buio dell’autunno nordico per noi cos misterioso, resta la luce pallida di un
lampione a rischiarare la facciata di una casa, “topos” di ogni rendimento dei conti, che
trascolorando si muta in uno schermo astratto dietro il quale si nascondono i fantasmi e i
ricordi del passato. In questo racconto di teatro c’ il caldo ghiaccio di un’estate piena di
vapori, ci sono tutte le povere e piccole cose della vita, guanti, bottoni, bastoni da
passeggio, una scacchiera per far da passatempo e ci dovrebbero essere stufe di maiolica
e ritratti in cornice e pendole che suonano e palme che si specchiano nei vetri. Tutte cose
che Strindberg annota minuziosamente, tutti oggetti scenici innumerevoli, quasi da “horreur
du vide” e che poi Strindberg cancella in tanti suoi appunti dicendoci che “sulla scena
meglio che non ci sia niente” o che “meglio recitare davanti ad un tendaggio con una
sedia e un tavolo” e che la “pi bella stanza” che egli avesse visto in teatro, era appunto per
il Temporale “una stanza vuota, senza stufe, n porte, n nestre”. Ma questo contraddirsi
invece indice proprio di una di quelle disperate ricerche strindberghiane volte a oltrepassare
i limiti appunto della metodologia drammatica del suo tempo e con essi oltrepassare il
naturalismo delle cose e delle azioni e che non trovano ancora per lui piena possibilit di
esprimersi se non per bagliori o intuizioni irrisolte. Tutto qui, in questo mondo “realistico o
naturalistico” sembra “lente tranquilla”, tutto pare vibrare fra vita che resta e vita che va,
“pi breve del tuo fazzoletto”, come dice Montale e tutto qui strazio “come unghie ai
vetri”. Ma il Temporale non pu non essere visto anche nell’altra dimensione, di un “oltre”
realt , come una specie di crogiuolo dell’esistenza umana, coi suoi luoghi interiori ed

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esteriori: istituzioni, famiglia, l’amore possibile-impossibile, il capirsi e il non, il non sapere
soprattutto accettare la “verit ” propria e altrui. Qui tutto luce violenta di poesia che
brucia. Qui agisce il gioco eterno dell’odio e dell’amore e degli egoismi del cuore umano,
l’abisso del cuore umano dice Strindberg. E allora i mobili non sono pi mobili, ma cose
“cose” misteriose, come sospese nel vuoto universale, i barometri diventano pugnali o
simboli del tempo che muta, gli scacchi ancora una volta diventano l’emblema della
“partita” della vita con i suoi pezzi tali che “basta conoscere il movimento di ognuno di essi
e il resto viene da s ”, l’ombra della palma diventa sta le crudele d’acciaio fatto per
torturare carne e cuore, un lampadario diventa il notturno peccato, mentre i pianoforti si
mettono a suonare da soli, la musica della pianola sale agli astri e un ombrello, sotto la
pioggia, il grottesco sfacelo di tutto il dolore umano. La storia di questi umili oggetti di
ogni giorno, e di questi uomini, divenuti oggetti anch’essi in una grande Terra Desolata,
proprio quella di T. S. Eliot, si accende di una luce di magnesio e si proietta in una
signi cazione universale che ci coinvolge e ci sconvolge ancora. Tutto vero, relativamente
vero, e plausibile e concreto e nello stesso tempo tutto inventato, fantasmatico,
paurosamente “improbabile” e non per questo meno possibile, nel Temporale di Strindberg.
Ed ecco allora, in questo scatenarsi dell’incertezza e dell’angoscia dell’esistenza, che il
“primo lampione”, accendendosi, potrebbe diventare nalmente l’unica, anche se piccola,
luce “da lanterna cieca” della ragione. La ragione, quella che, forse, pu far commettere
all’uomo qualche errore di meno in tutto quel buio che scende. Il Signore dice forse
qualcosa che davvero pu essere accettato con questo signi cato, alla ne del dramma? O
invece, oltre le parole che ci sono e pesano purtuttavia, solo la mia tenace o disperata
volont di credere in questo valore nonostante tutto e ad ogni costo? Rispondo che ognuno
legge i poeti come pu e sa. E che tutte le letture sono valide e vere purch non siano
arbitrio ma so erta interpretazione. Esattamente come lo stata la nostra rispetto a questo
Temporale: tentativo di rendere vibranti, comprensibili molti dei piani poetici in esso presenti
e molte delle sue implicazioni, tentativo di restituire almeno qualcosa della miscela
esplosiva, della “nitroglicerina” strindberghiana, al pubblico perch questo, in qualche
modo, l’aiuti a conoscere meglio, a capire meglio la vita, anche al di l dell’emozione
“artistica” che resta, beninteso, il fondamento dell’arte e del teatro.” Partendo da tali
osservazioni, Strehler utilizza la traduzione messa a punto alcuni anni prima da Luciano
Codignola, limitandosi a qualche breve taglio e a qualche inversione di battute, laddove il
ritmo della messinscena lo richieda. Tutte le invenzioni sceniche trovano giusti cazione
nelle dettagliate didascalie strindberghiane. La scenogra a di Ezio Frigerio prevede che
buona parte del palcoscenico sia occupata da un’alta parete in plexiglas scuro posta di
sghembo, di volta in volta ri ettente, trasparente o opaca, che evoca la facciata della casa
del Signore (l’anziano protagonista). L’impianto scenico include anche lo spazio delle prime
le della platea. La scena cos trasferita per met nella platea, dove Ezio Frigerio ha
realizzato due zone, “pi della coscienza che della realt ”: lo spazio antistante la casa,
luogo della ri essione dal di fuori, dell’uscita da s stessi; e l’interno dove il Signore abita,
luogo delle tensioni e degli scontri. A sottolineare la valenza simbolica dello spettacolo
concorrono la particolare incisivit della partitura musicale (composta da Fiorenzo Carpi) e
dell’apparato illuminotecnico dello spettacolo, che costituiscono una specie di sovra testo e
contrappunto ai dialoghi, cui conferiscono ritmo e musicalit . I dialoghi sono accompagnati
quasi costantemente e talvolta sostituiti da un valzer, proposto in di erenti versioni, oltre
che da trilli del telefono e cupi tuoni. L’interpretazione dei personaggi, incarnati da Tino
Carraro, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri, Pamela Villoresi, Francesca Benedetti, oscilla
tra realismo e simbolismo. L’interpretazione di Tino Carraro valutata dalla critica come uno

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fra i vertici della sua carriera e come un contributo fondamentale al successo dello
spettacolo. “Al disegno concettuale e stilistico strehleriano risponde un ottimo Tino Carraro,
con una bella tenuta d'insieme del protagonista e tratti di forte intensit . Del fratello Franco
Graziosi fa pure un ritratto pungente, corrosivo. Figurativamente azzeccata, ma non sempre
sotto controllo, Francesca Benedetti nei panni di Gerda. Di una dolcezza per no eccessiva,
al confronto, Pamela Villoresi, nelle vesti di Louise, rara creatura femminile cui Strindberg
conceda simpatia. E una e cace caratterizzazione fornisce Gianfranco Mauri (il
pasticcere).”. Dramma della solitudine e della vecchiaia che denuncia l’angoscia
dell’esistenza, Temporale si conclude lasciando aperto uno spiraglio di speranza. La battuta
nale: “Adesso arrivato l’autunno, la stagione di noi vecchi. Quest’autunno anch’io me ne
andr da questa casa del silenzio”, che potrebbe essere interpretata come l’annuncio di un
suicidio, rappresenta in realt , nelle intenzioni di Strehler, un atto di ducia nella razionalit .
Il regista propone una doppia chiave di accesso al testo strindberghiano, leggendolo, da un
lato, come un dramma borghese di stampo naturalista, volto a denunciare le crudelt dei
rapporti nell’ambito della famiglia borghese, d’altro lato, come un’opera visionaria e
misteriosa, satanica ed esoterica, percorsa da un’allusivit simbolica inquietante e foriera di
impensabili sviluppi nel corso del Novecento. Questa seconda linea interpretativa rimane
per lo pi accennata e suggerita, mentre prevale nelle scelte registiche un tono sommesso,
una sorta di “intimismo critico” misurato e controllato, trattenuto nell’alveo della razionalit .
Ma un intimismo critico che riesce a fare di Temporale un so erto itinerarium mortis, una
meditazione sul senso della vecchiaia e della morte, evocata sin dalle prime battute tramite
il ricordo di un inquilino della casa spentosi pochi mesi prima e richiamata no alla
commovente e metaforica uscita di scena del Signore. “La lezione tutta di regia – scrive
Siro Ferrone – E qui si intende per regia non l’abile arredamento della scena, non l’uso di
espedienti luministici, non gli itinerari deambulatori dei recitanti. Tutte queste cose ci sono,
al momento giusto, nella misura giusta, al posto giusto. Ma c’ di pi , come si poteva del
resto prevedere. C’ una perfetta dizione, pause impeccabili, il concertato dei gesti e dei
suoni, un rapporto tra colore scenico e coloritura delle parole, l’importanza del dettaglio e il
rigore del contesto”.

La presenza di Strehler sul palcoscenico della Scala continua. Se il 7 dicembre 1978 la


ripresa del suo Simon Boccanegra inaugura la stagione, il 7 dicembre 1980 una nuova
inaugurazione scaligera a data nuovamente a lui. Questa volta si tratta dell’ultima
partitura di Giuseppe Verdi, Falsta 6, la celebre commedia shakespeariana su libretto di
Arrigo Boito, con la direzione di Lorin Maazel che il regista decide di ambientare lontano da
Windsor e dalla vecchia Inghilterra. Dichiara Strehler: “Prima di accettare l'invito scaligero
per l'inaugurazione, domani sera, di questa stagione con il Falsta , mi sono chiesto, come
mai in tante e tante reg e liriche non avessi mai messo in scena questo capolavoro del
«vecchio» Verdi. La risposta pi semplice — ma pi lacunosa — era che in quasi duecento
spettacoli della mia vita di regista non ho mai allestito, cito alla rinfusa, n un Amleto o un
Otello, n un Faust o un Edipo re. Non si pu fare tutto, ovviamente in una sola vita. Ma
sarebbe troppo facile sbrigarsela cos . C' , evidentemente, una ragione di fondo che mi era
e che mi rimane nascosta. Quest'ubriacone protagonista, in fondo, di quattro commedie
shakespeariane (le due parti di Enrico IV, l'Enrico V e Le allegre comari di Windsor) un
personaggio che ha fatto parlare di s quattro secoli e migliaia di pagine. un tragico eroe
oppure un solenne bu one? Oppure tutte due le cose? uno straccione speculatore e
magniloquente, oppure un cinico losofo opportunista? Dileggia, astuto e villano insieme, le
istituzioni oppure uno sbevazzone ostinato che sa amministrarsi assai bene nel suo rituale

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alcoolico? Chiss non sia tutto questo. Per , qui siamo al Falsta di Giuseppe Verdi (e di
Arrigo Boito) che una cosa, non tutt'un'altra cosa dal Falsta shakespeariano. Per anni
s' andato discutendo se il «miglior» Verdi fosse quello passional-risorgimentale della
trilogia (Rigoletto- Trovatore-Traviata) o quello cosiddetto «maturo» dell'Otello e del Falsta .
Pi vicino al primo Ottocento o pi consapevole dell'esistenza di un certo Wagner? Pi
a ezionato a libretti mediocri o pi legato a un letterato ne, colto, scapigliato, modernista
come Boito? Un problema non soltanto insolubile, ma da non porsi. Perch Verdi, pi lo si
studia, lo si legge e lo si realizza, proprio un tutt'uno: quello giovanile e quello «senile»,
quello «patriottico» e quello «religioso»: sempre grande, sempre grandissimo uomo di
teatro, musicista e librettista e regista lui stesso, con una perfetta consapevolezza degli
strumenti tecnici e scenici — oltre a quelli musicali — da doversi impiegare. Mi sono
trovato, sulle prime, un po' come all'approccio con il Simon Boccanegra: un intreccio
tumultuoso (quello, s , drammaturgicamente assai pi improbabile) e molto di cile a
realizzarsi in maniera non banale, pedissequa. Solo che il Simone del 1857 viene dopo la
Trilogia, e dopo l'insuccesso clamoroso di un'opera, a proposito della quale Verdi scrive alla
contessa Ma ei «mi pare essermi ingannato», e Falsta viene invece trentasei anni dopo:
qualcosa come tutta la vita di Mozart, per intenderci. Qui, la chiave per comprendere il
mondo pi complessa e insieme, per , pi chiara: «Tutto nel mondo burla». La gelosia
di Otello si tramuta in una gelosia comica, ma non per questo meno pregnante o meno
«tragica» ( un po' il tema ricorrente di tutto il grande Verdi, lo annota anche di recente un
musicologo come Massimo Mila), l'umorismo frammisto all' a anno del quotidiano, la
catastrofe non sai quando sia parallela alla vita o decisa da un imperscrutabile destino... Mi
veniva spesso in mente, questi giorni, queste sere di prove assillanti con cantanti-attori
disposti al sacri cio pi totale, la frase con cui Stendhal diceva, a proposito del Barbiere di
Rossini, che « chaque instant s'abaisse n' tre que de la musique de concert». E a parte
la perentoriet opinabile del giudizio, Falsta mi ricorda proprio questa enorme fusione tra il
capolavoro strumentale (il «senso» dell'orchestra) e il canto che vi si inserisce malioso e
frenetico insieme, perfetto nella sua armonica compattezza. Due soli esempi (ma
potrebbero essercene cento): Nannetta, la pi giovane delle «Comari», suscita tenerezza a
Quickly, la pi anziana, che l'accarezza appena e c' un «mi maggiore» delicato e
soavissimo; a Falsta che «insulta», a modo suo, Pistola, gridandogli sprezzante
«saltimbanco», quando la strumentazione si accende, questa volta s , con un piglio quasi
wagneriano. Guai, dunque, a pensare — come regista e/o come direttore d'orchestra — a
«sir John Falsta come a un personaggio esclusivamente comico. tragicomico, questo s .
Ma ha dentro s le problematiche, le angosce, i marasmi di Mozart: con in pi , forse, la
paura stessa di vivere, di esistere. Non buttiamola sulla lacrima, per carit : ma questo mio,
questo «nostro» Falsta – di Maazel, di Ezio Frigerio, dello straordinario Juan Pons
(trentadue anni, un baritono spagnolo prodigioso), della Freni, di tutti — questo Falsta che
sa pi di campagna qualsiasi, magari della Padania, che non di Windsor, questo Falsta
insomma far anche ridere ma non soltanto ridere. Toscanini lo scopriva ogni volta diverso:
e ogni volta diverso lo scopriva Mariano Stabile, che di «sir» John ne fece quasi una
leggenda personale (quattordici volte solo alla Scala, dal '21 al '52: un miracolo
incomprensibile), ogni giorno lo scopriamo diverso, quasi ina errabile noi. E chi sa come lo
scoprir , diverso e ina errabile, domani sera il pubblico della Scala.”. Strehler immagina,
infatti, che la vicenda si svolga in una corte rurale, aperta su un orizzonte di cascine, una
grande scenogra a padana, realizzata da Ezio Frigerio, che rimanda a ci che Verdi aveva
sotto gli occhi, nella villa di Sant’Agata, mentre componeva, appunto, la sua ultima opera.
In tale disegno registico, personaggi nobili e allegre comari diventano tutti contadini del

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passato, vestiti con gli abiti di festa, che si apprestano a porre in atto una grande burla. Ma
per Strehler mettere in scena Falsta in luoghi, ambienti o situazioni anomale rispetto alla
tradizione interpretativa, non signi ca forzare le strutture drammaturgiche del testo. Quelle
che in questo allestimento possono apparire tali, sono semmai forzature nei confronti della
tradizione di rappresentazione del testo. “ davvero Falsta un laido bu one? necessario
che sia cos ?” - si interroga il regista. Il personaggio di Falsta concepito tradizionalmente
come un grasso bu one, lascivo e velleitario, e tale interpretazione si incrostata sulla
partitura no a usurparne quella autenticit vincolante che spetta ai valori ritmici, melodici e
timbrici. Ma sottoposta a un serrato interrogatorio e stretta dalle contestazioni, la tradizione
di rappresentazione mostra la corda. La bu oneria laida di Falsta , impotente e volgare
seduttore gabbato, ha troppe controindicazioni nella lettura del testo e della partitura.
Come si pu conciliare, per esempio, tale "laida bu oneria" con il ra nato cinismo e la
sottile autoironia della lezione di Falsta sull'onore? E con l'elegante purezza melodica in
cui si distende il suo sentimento per Alice? Nasce cos uno spettacolo costruito su tutto ci
che forma l'esame oggettivo del testo, della partitura musicale e della tradizione di
rappresentazione. In stretta sinergia con Lorin Maazel, Strehler studia e esplora
criticamente tutto ci che possa, in qualche modo, chiarire e arricchire la vicenda da
mettere in scena. Ne esce un Falsta “contadino” che per Strehler , in qualche modo, la
risultante critica di una serie di apporti e strati cazioni alla quale ogni autore - da
Shakespeare a Boito a Verdi - impone il proprio sigillo, non senza, tuttavia, avere
considerato criticamente tutti i precedenti.

Note

1 La tempesta di William Shakespeare. Traduzione: Agostino Lombardo. Scene e costumi: Luciano


Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Claudio Gora, Luciano
Virgilio, Tino Carraro, Osvaldo Ruggieri, Massimo Bonetti, Mario Carrara, Fabrizio Bentivoglio, Franco
Sangermano, Michele Placido, Armando Marra, Mimmo Craig, Bruno Noris, Alvaro Caccianiga,
Fabiana Udenio, Giulia Lazzarini. Milano, Teatro Lirico, 28 giugno 1978.

2 La trilogie de la vill giature (La trilogia della villeggiatura) di Carlo Goldoni (terza edizione) Versione
francese: F licien Marceau. Adattamento: Giorgio Strehler. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Ezio
Frigerio, Franca Squarciapino. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti: Pierre Dux/Bernard Dheran,
Jacques Eyser, Fran oise Beaulien, Claude Giraud, Marcel Tristani, Yves Pignot, G rard Giroudon,
Jacques Sereys, Denise Gence, Fran oise Seigner, Ludmilla Mika l, Catherine Hiegel, Catherine
Salviat, Bernadette Le Sache. Produzione: Com die Fran aise, Parigi. Parigi, Th tre de l’Od on, 16
dicembre 1978.

3 Io, Bertolt Brecht n. 3 da Bertolt Brecht. Milva. Al pianoforte: Giuseppe Moraschi, Dispositivo
scenico di Paolo Bregni, Milano, Piccolo, 26 settembre 1979.

4 El nost Milan di Carlo Bertolazzi (seconda edizione). Scene: Luciano Damiani. Costumi: Ebe
Colciaghi. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Tino Carraro,
Mariangela Melato, Franco Graziosi, Giorgio Giorgi, Elena Borgo, Anna Priori, Maria Gabriella
Bianchini, Antonio Zanoletti, Piero Medini, Carlo Montini, Daniele Pagani, Filippo Ferrante, Edmondo
Sannazaro, Gianfranco Mauri, Lia Giovannella, Mirton Vajani, Andrea Tidona, Adele Pellegatta,
Luciana Luppi, Alarico Salaroli, Luigi Bambozzi, Enrico Maggi, Nino Bignamini, Giuliana Soldani,
Giulio Spadea, Mario Ventura, Raoul Ceroni, Vincenzo Brandi, Angelo Mariani, Elisabetta Torlasco,

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Franco Moraldi, Renzo Schiroli, Claudio Maggioni, Narcisa Bonati, Roberto Marelli, Carla Monti, Dario
Cristini, Alessandro Balducci, Leda Celani, Giordano Mancioppi, Dina Zanoni, Iris De Sanctis, Elena
Pantano, Piera Ambrosiani, Maria Arienti, Jolanda Brambilla, Claudia Job, Maria Vendramin. Milano,
Teatro Lirico, 18 dicembre 1979.

5 Temporale di Johan August Strindberg. Traduzione: Luciano Codignola. Versione scenica: Giorgio
Strehler. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Musiche: Fiorenzo Carpi. Interpreti:
Tino Carraro, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri, Elisabetta Torlasco, Francesca Benedetti, Pamela
Villoresi, Carlo Fortuna, Ettore Gaipa, Mauro Cerana, Rocco Cesareo, Elena Zo. Milano, Piccolo
Teatro, 18 giugno 1980.

6 Falsta di Giuseppe Verdi. Concertatore e direttore d’orchestra: Lorin Maazel. Scene e costumi:
Ezio Frigerio. Coreogra e: Bruno Telloli. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Juan Pons, Bernd
Weikl, Peter Kelen, Piero De Palma, Sergio Tedesco, Luigi Roni, Mirella Freni, Patricia Wise, Jocelyne
Taillon, Kathleen Kuhlmann, Walter Valdi, Christian Duncan. Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre
1980.

Lezione 18

16.04.2020

1981-1983 tra Mozart, Brecht e Beckett. Il Théatre de l’Europe a Parigi.

Strehler presenta la seconda edizione italiana de L’anima buona di Sezuan di Brecht con
Andrea Jonasson. Alla Scala vanno in scena il secondo allestimento delle Nozze di Figaro di
Mozart (con Muti sul podio) e Lohengrin di Wagner (con Abbado sul podio). Mette in scena
Attosenzaparole tra Giorni felici di Beckett e Minna von Barnhelm di Lessing. È nominato
direttore del Théâtre de l'Europe, istituito dal Parlamento europeo, con sede a Parigi e
inaugurato con La Tempesta.

Terminate le recite scaligere e dato un fraterno e doloroso addio all’amico e compagno di


sempre Paolo Grassi, spentosi a Londra il 14 marzo 1981, Strehler si dedica all’allestimento
di una seconda edizione italiana dell’Anima buona di Sezuan1 di Bertolt Brecht che egli
aveva gi messo in scena - come si visto - nel 1958 a Milano e ancora nel 1977 in
tedesco (Der gute Mensch von Sezuan) al Deutsches Schauspielhaus di Amburgo. Nelle
ri essioni dedicate allo spettacolo e intitolate Come i Troiani dunque, anche noi... Strehler
individua le ragioni che lo hanno spinto a rimettere in scena questo testo brechtiano.
“Come i Troiani dunque, anche noi... questo il verso conclusivo di una poesia di Bertolt
Brecht che ho letto, all’inizio delle prove, ai compagni dell’Anima buona di Sezuan, edizione
1981 del Piccolo Teatro, cio venticinque anni dalla sua prima comparsa sul nostro
palcoscenico. Una intera generazione fa. Una dedica al nostro ed al loro lavoro. Perch il
sentimento di questa breve lirica vuole essere il segno della nostra disperazione, ma anche
della nostra ducia non tanto nel futuro della nostra guerra (quella che iniziammo con Paolo
Grassi pi di quarant’anni fa) per un teatro diverso in un mondo diverso, quanto nel valore

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del semplice gesto dell’uomo intento al suo lavoro per difendere le cose che ama ed in cui
crede. Fiducia negli sforzi di tanti altri, oltre che nostri, per non lasciare abbattere le triplici
porte cos sconnesse di questa nostra Troia, dagli invasori della dissoluzione, dai
massacratori della vita con sistemi sempre pi occulti e pi perversi. Fiducia nei valori
fondamentali dell’esistenza umana, gli unici capaci ancora di annientare la barbarie che ci
circonda. Non c’ nessun trionfalismo, nessuna piccola caparbiet , nessuna nostalgia di
coerenza nel riproporre, da parte nostra, quest’opera di Brecht, scritta nel 1939, alle soglie
di un’altra barbarie, diversa ed uguale come la barbarie sempre, perch i mostri si
rassomigliano sempre ed il fantasma di Guernica sempre pronto a divorare le sue
colombe. C’ semmai la constatazione, per noi chiara, vorrei dire serena, che questa
«parabola drammatica» ha riconquistato (se mai l’aveva persa) una sua necessit , una sua
attualit tragica, una sua ancor pi sconvolgente novit formale, di quanto non l’avesse nel
momento della sua scrittura. Le opere dei poeti o impallidiscono e svaniscono nel tempo,
giudice implacabile, o si fanno pi forti, gridano pi alto e si impongono con pi violenza
nelle contemporaneit dei posteri. In un mondo come il nostro, in cui – mi pare – si sta
realmente perdendo ogni misura e quindi anche e soprattutto la misura della bont perch
incapaci ormai di intenderla come «atto quotidiano» (cantare una canzone, montare una
macchina, piantare qualcosa. Questa bont – dice Brecht). Incapaci di vivere la poca
bont di cui disponiamo come «normalit » e non come eccezione, in un mondo in cui il
problema del male solo la prova dell’orrore che diventato ormai un’abitudine (ed
questo il fondo dell’orrore), in cui tutto ormai «costa troppo caro» in ogni senso, per poter
dirsi noi, ancora, interamente umani, in cui ssiamo quasi con freddezza la violenza che
esplode in ogni minuto della nostra giornata e in cui persino il «divertimento» diventato,
sui nostri piccoli schermi notturni, un continuo massacro a colori, un’opera come L’anima
buona di Sezuan sembra quasi fotografare, sotto il pro lo dell’arte, questa atroce
schizofrenia che si impadronita di noi. La schizofrenia di Shen Te, anima buona, e di Shui
Ta, anima cattiva, la nostra stessa schizofrenia che ci viene riproposta nella luce
implacabile del teatro, nostro specchio e nostra vita, messa davanti a noi perch in essi noi
ci si possa riconoscere e capire. Questa schizofrenia non solo quella dei grandi doppi
della letteratura (Stevenson e Il Dottor Jeckyl e Mister Hyde, tanto per intenderci) non solo
il problema del nero che in noi, del nostro inconscio, che purtuttavia ha certamente una
sua eco nella parabola brechtiana. Non solo insomma «problema di coscienza».
piuttosto un paradigma della «schizofrenia sociale» nella quale viviamo. il paradigma di
questa spirale di dissociazione che sembra non avere pi una soluzione di continuit . E – in
questi giorni – molto spesso ho pensato a ci che Fornari pi di tutti ha intuito su questa
nostra «follia dell’era atomica». Impossibilitati di fronte al «terrore atomico» – che ci assicura
la nostra morte insieme a quella altrui – di riversare il nostro «male» nell’«Altro» per
esorcizzarlo; impossibilitati a distruggere i nostri Shui Ta, perch siamo costretti a
riconoscere che Shui Ta siamo noi stessi e che uccidendo il «nemico cattivo», il cattivo
cugino, saremo fatalmente uccisi anche noi, resi dunque sterili persino in questa nostra
magia da infanti che pure – in qualche modo – ci consolava, e nello stesso tempo non
ancora abbastanza adulti da accettare la nostra realt umana «cos come », la nostra
responsabilit sociale «per quello che » e di accettare la nostra depressione per uscirne se
possibile maturi, «uomini», noi viviamo il crepuscolo di questo giardino manicomiale del
mondo in cui ancora, nel suo spazio di vuoto perlaceo, intorno ad una distesa di fango e di
acque e di ri uti, sorgono e tramontano lune e soli agitandoci con tanto poco amore e
gridando, chiedendo aiuto agli Dei, alla Storia, alla Ideologia, per strapparci appena un
poco dalla Grande Angoscia che ci pervade. Ma questa angoscia «in noi». E la sua

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dissoluzione solo in noi e tra noi. a are nostro, di noi appunto, «e meri di questo
pianeta – ultimo rifugio – che fatto cos ». E perci il gesto conclusivo dell’Anima buona
che non pot essere buona e che noi abbiamo fatto rivolgere al pubblico, perch ci parso
implicito nello svolgimento del testo, chiedendo aiuto, l alla gente riunita come simbolo del
mondo e non altrove, investe la collettivit con un grido-interrogazione che non pu non
appartenerci e non coinvolgerci con la perentoriet che hanno i grandi gesti della poesia.
Non pu soprattutto non investirci di responsabilit . Tanto pi greve di signi cati e di valori
, per un altro verso, questa che noi consideriamo una delle grandi opere della
drammaturgia contemporanea, in quanto essa ci si presenta con una lievit formale, con
una sua specie di distacco, di lontananza metaforica, con l’eleganza suprema del
linguaggio che anche una traduzione pu solo appannare un poco, ma non distruggere. E
c’ in una sintesi, quasi sempre risolta poeticamente e drammaturgicamente, tutto o quasi
tutto quello che, nel teatro, venuto dopo quel 1939 che segna la ne del travagliato
cammino di Bertolt Brecht compiuto con L’anima buona di Sezuan. C’ la grande lezione
del «teatro epico» proposta non come «fatto didattico», ma come risoluzione poetica, come
modo nuovo di «fare teatro». C’ cio l’applicazione semplice e naturale di una nuova
tecnica drammaturgica di cui il teatro non potrebbe oggi fare a meno per confrontarlo
almeno con altre risoluzioni ed altre proposte. C’ la «lezione didattica» ma non didascalica,
come la vorrebbe l’anti-brechtismo degli stenterelli. C’ la «dimostrazione», ma non
scolastica, della «famosa» scena di strada (altro feticcio per i brechtiani e per gli
antibrechtiani). C’ «il teatro dell’assurdo», c’ il «teatro gestuale», in cui per il «gesto» non
appare soltanto «liberatorio» di uno stato d’animo soggettivo, ma gesto socializzato, che
discrimina, che connota non solo un carattere personale, ma un carattere sociale, storico.
C’ il teatro «mimico», il gioco-dramma della pantomima che inventa spazio e cose e
persone. C’ molta «clownerie», oggi che tanto si parla di questa possibilit drammatica
(una delle in nite possibilit del teatro). Ci sono anche musica e canzoni che si integrano
nel racconto e nello stesso tempo creano zone di pausa e di critica e di ripensamento. E ci
sono brividi stilistici – mi pare tti nel testo – che ci portano persino alle soglie dello
sgomento beckettiano. Penso che la complessit e la compiutezza formale della sintesi,
che si riscontrano nell’Anima buona di Sezuan, non possano, in de nitiva, non porci, sotto il
pro lo dell’arte e del teatro, di fronte al grande problema Brecht, che tanti di noi hanno
vissuto, in positivo o in negativo. Ancora una volta. Forse nel momento meno opportuno
che poi risulta, ai ni dell’arte, sempre il pi necessario. Brecht stato molto tradito e molto
frainteso. Tradito e frainteso anche da coloro che ne hanno enfatizzato (spesso male) i
valori. Pu questa rappresentazione dell’Anima buona di Sezuan far iniziare, come nuovo,
perch mai in fondo c’ veramente stato, un discorso serio, pacato, dialettico e soprattutto
non infantile, sulla presenza dell’opera di Brecht nel cuore della nostra contemporaneit ?
Oltre l’evidente coinvolgimento nostro nell’opera che oggi rappresentiamo, oltre il
sentimento del suo messaggio (non ho davvero paura di adoperare questa parola
«diventata sporca» per tanti nipotini di un’estetica «pura» che alla ne soltanto l’estetica
della frigidit ), pu forse anche questo «lavoro di teatro», questa nostra «ricerca»,
rappresentare il nostro pezzetto di legno, in lato nelle triplici porte sconnesse del nostro
Teatro-Mondo? «Come i Troiani dunque, anche noi...».”

In questa seconda edizione che debutta il 9 aprile 1981 sul palcoscenico del Teatro
comunale di Modena e sviluppa in maniera coerente e completa le premesse dell’edizione
tedesca del 1977, superato il realismo che aveva caratterizzato l’edizione 1958. L’idea
sulla quale si basa la scenogra a (a Amburgo rmata da Luciano Damiani, ora da Paolo

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Bregni) condiziona tutta la messinscena. La scena composta da un grande girevole che
occupa la quasi totalit del palcoscenico circondato da un fondale bianco curvato (un
ciclorama). Inoltre, il palcoscenico irregolarmente coperto con qualche centimetro
d’acqua, costringendo gli attori a recitare con i piedi immersi in pozzanghere pi o meno
profonde. Come stato notato da Roberto Alonge, Strehler prende le mosse da un dato
interno al testo, nel quale si dice che la provincia di Sezuan a itta da inondazioni, ma, al
contempo, carica l’elemento liquido di ulteriori valori simbolico- meta sici. Il regista sembra
sottolineare, in tale modo, l’importanza che ha la metamorfosi nel testo: la continua
trasformazione di Shen Te nell’immaginario cugino Shui Ta letta attraverso la metafora
dell’acqua, elemento metamor co per eccellenza: essa in grado di sciogliere ogni forma
per poi lasciarla ricomparire sotto un nuovo, diverso pro lo. L’acqua , inoltre, simbolo del
principio vitale, poich essa ricettacolo di tutti i germi e da essa nasce la vita: attraverso
l’acqua il regista richiama il tema della maternit , che nell’allestimento riceve un valore ben
maggiore rispetto a quello che a tale tema riserva originariamente il drammaturgo. Fin dai
primi quadri, Strehler presenta una Shen Te pi vicina a una madre che a una prostituta
(come si evince dal testo originale), tagliando alcune parole che alludono a tale professione
e non mostrando in piena luce l’attrice truccata e vestita in maniera volgare. L’inedito
spessore che assume il tema della maternit in Strehler sposta in secondo piano gli altri
elementi che Brecht, attraverso la vicenda di Shen Te, intendeva sottolineare: il regista non
sembra interessato a scandagliare la dinamica ambigua che sta al fondo dello
sdoppiamento di Shen Te. Per esempio, l’intervento del Cugino cattivo e il salto
imprenditoriale dalla tabaccheria alla manifattura sono letti attraverso l’ottica privata della
sola Shen Te madre, laddove in Brecht essi erano stimolati dai bisogni dell’intera comunit ,
per cui non emerge il fatto che il travestimento in Shui Ta non sia una trovata di Shen Te, ma
della comunit stessa, che intende tutelare s stessa, tutelando Shen Te. In ombra
rimangono anche le valenze dello stesso cugino, al quale pure Brecht a da un signi cato
non secondario e non del tutto negativo: quello di ergersi quasi a simbolo non tanto dei
capitalisti occidentali, quanto dei manager rossi, cio di coloro che avevano il compito di
introdurre l’industrializzazione e un capitalismo senza padroni nella giovane societ
socialista. Dietro al cugino, ridotto quasi a un “cattivo” da fumetto, si nascondono sempre,
per Strehler, la poesia di Shen Te e la sua anima buona: lei, con la sua storia di un amore
frustrato e di una maternit tanto so erta, ma vittoriosa, l’unica vera protagonista del
dramma. lo stesso regista che alla prima prova di lettura d come indicazione: “il tema
dell’Anima buona l’amore”. All’indomani della prima recita possiamo leggere: “La
traduzione dello stesso Strehler e di Luigi Lunari, le musiche lancinanti di Paul Dessau, le
scene di Paolo Bregni (un grande girevole che marcia all'in nito sotto un cielo di perla, a
perdita d' occhio), i costumi di Luisa Spinatelli (da Cina di oggi, a piacevole contrasto con
un'a abulazione che profuma di antico) tutto si calibra armoniosamente nei tempi distesi di
una regia che cerca le cadenze piane della parabola ma che sa impennarsi nella violenza,
stringersi nell'ironia, muoversi teneramente nei labirinto degli a etti. Gli attori sono
tantissimi, ma di qualcuno dovremo parlare meno frettolosamente: ad incominciare per
esempio dalla protagonista Andrea Jonasson, giovane e intensissima attrice tedesca che
imperson Shen Te nell'edizione di Amburgo e che adesso in italiano restituisce con la voce
e col corpo accenti incantevoli di verit , di grazia, di tenerezza (la sua scena col bambino
non ancora nato grande lezione di drammaturgia). C' poi uno splendido Massimo Ranieri
(applausi interminabili alla sua Canzone del banchetto nuziale) nei panni del povero aviatore
disoccupato che diventer una iena quando scoprir le vie del successo. E come rapace
madre di lui, Isa Danieli guida un’eccellente citazione di «sceneggiata» alla napoletana assai

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divertente. Diciamo ancora di Renato De Carmine assai commovente nel candore
dell'acquaiolo Wang. E poi Carmen Scarpitta, cos viva nel cinismo della vedova Shin, ed
Edda Valente, cosi mascolinamente aggressiva come padrona di casa, e Renzo Palmer cos
patetico - come barbiere innamorato. E il Mezzera, il Montini, il Veller (pagliaccesco trio
divino) il Salaroli come ottuso poliziotto, il Naddi, il Sannazzaro, la Bonati, il Becherelli e gli
altri, che non abbiamo spazio da nominare, tutti trascinati in nite volte alla ribalta insieme
con Giorgio Strehler dagli applausi fragorosi del pubblico che gremiva il Teatro Comunale di
Modena.” Memorabile resta su tutti la grande interpretazione di Andrea Jonasson (Shen Te/
Shui Ta) – che Strehler ha sposato a Milano il 12 giugno 1981 - a ancata, fra gli altri, come
si detto da Renato De Carmine (Wang) e Massimo Ranieri (Yang Sun).

Mentre il testo di Brecht in scena al Teatro Lirico di Milano, Strehler appronta una nuova
produzione de Le nozze di Figaro di Mozart per la Scala che debutta il 19 maggio 1981 con
la direzione d’orchestra di Riccardo Muti.

Questa edizione che ripropone la scenogra a di Ezio Frigerio e i costumi di Franca


Squarciapino, pu contare sulla presenza di Riccardo Muti il quale al suo debutto scaligero
inaugura uno straordinario percorso mozartiano che condivider ancora con Strehler per
l’allestimento di Don Giovanni. “Quando nel 1981 con Strehler facemmo Le nozze di Figaro
alla Scala - ricorda Muti - provammo insieme, anco a anco, per pi di un mese...» e lo
spettacolo ricordato ancora oggi come un classico del teatro d’opera, tanto il successo
che ottiene nelle molte riprese che seguono alla prima rappresentazione. “Una parte non
piccola del merito del bellissimo spettacolo va attribuita alla regia di Strehler, alle scene di
Ezio Frigerio e ai costumi di Franca Squarciapino. Si trattava di un allestimento concepito
qualche anno fa per il teatro di Parigi che era e resta lodevole per la semplice nitidezza delle
architetture, per la soavit delle luci e per la diradata preziosit degli arredi. In quegli interni
un po' austeri di stanze e gallerie da palazzo nobiliare, la teatralissima vicenda si dipana
con un risalto che reso possibile proprio dalla lineare semplicit dell'ambiente, no a
raggiungere il culmine nel quarto atto con la scena notturna del giardino ove la commedia
degli equivoci si stempera su sfondi non pi architettonici ma pittorici. Le silhouettes
ammorbidite da veli e mantelli si adagiano elegantissime su immagini di fontane e giardini
ricostruendo minuziosamente i tratti di un quadro nel genere di Watteau, sul quale calano
con le ultime note tre luccicanti lampadari a ricordarci che si trattato di una gran festa
teatrale alla quale il pubblico ha tributato, com'era giusto, accoglienze trionfali”.
Ancora al teatro musicale appartiene la successiva regia. Si tratta di una nuova
inaugurazione scaligera e di un nuovo incontro con Claudio Abbado. In questa occasione (7
dicembre 1981) per mettere in scena Lohengrin2, una fra le opere pi popolari di Richard
Wagner che Strehler si impegna a rileggere alla luce della “ragione”, prendendo cio le
distanze da quel Romanticismo abesco che aveva no a quel punto caratterizzato gli
allestimenti di questa partitura. Egli, infatti, mediante l’accentuazione dell’elemento
spettacolare e politico insito nella vicenda, presenta un Lohengrin misterioso, un poeta che
si pone contro la guerra e contro la sua incarnazione il germanesimo gi gravido di
Nazismo. «In fondo - dice Strehler - il Lohengrin l'opera di Wagner in cui i contrasti si
manifestano con maggior forza. C' una forma di godimento e di disagio insieme. Estasi e
odio, insomma: nel libretto e nella partitura». Ma in questo disagio, quale ruolo appartiene a
Lohengrin, in particolare? «Lohengrin — sostiene Strehler — il pi solitario, in assoluto,
degli eroi wagneriani. un eroe miracoloso ma remoto. sovrumano e magico insieme.
un prodigio, un "ein winder", un cigno che canta al suo popolo». Prendiamo le date.
Lohengrin, andato in scena la prima volta nell'agosto 1850, radicalmente legato agli

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«scritti rivoluzionari» di Wagner. Nel suo saggio (del 1848) intitolato «L'uomo e la societ
presente» leggiamo: « cominciata la lotta dell'uomo contro la societ presente». Aggiunge
Strehler: « la societ umana ben nota dai tempi di Feuerbach. La societ del futuro
avrebbe il dovere di condurre gli uomini a una felicit sempre pi alta e pi pura,
perfezionando le loro qualit spirituali morali, siche e politiche». Ma i diritti dell'uomo? E la
lotta per questi diritti? Strehler ha scelto questo Wagner per un'idea: «Repubblicanesimo e
riformismo paternalistico, Feuerbach e Proudhon, i loso e gli spiriti tedeschi che nel '48
culmineranno nel Manifesto: non solo questo, il Lohengrin, ma "anche" questo». Con
Ezio Frigerio e Franca Squarciapino, Strehler predispone una messa in scena sfarzosa,
impreziosita da colonne altissime illuminate da sinistri fasci di luce che provocano un
suggestivo e etto a specchio. In tali spazi si svolge l’azione tutta dell’opera, ricca di
preziosi richiami pittorici, dove, nella scena conclusiva, il protagonista compare in scena,
grazie a un opportuno movimento di colonne, per poi scomparire magicamente nelle vesti
del cigno. Un allestimento di grande impegno che trova nell’accordo fra la parte musicale e
la parte visiva uno fra i suoi punti di forza.

Al primo e unico incontro con Wagner, segue quello altrettanto unico con Samuel Beckett
che avviene con lo spettacolo Attosenzaparole tra Giorni felici3, in scena al Piccolo Teatro il
5 maggio 1982. Beckett si presenta agli occhi di Strehler come un punto d’arrivo, una prova
attraverso la quale veri care la propria maturit artistica: “Ho sentito il desiderio di vedere
come riesco a fare questo autore. Mi ha spinto la necessit di avvicinarmi ad un autore che
conosco molto bene e cercare di rappresentarlo come io so fare, come io lo vedo, come io
lo sento”. Il regista si accosta all’autore irlandese con la convinzione di poterlo presentare
sotto una luce nuova, per metterne in risalto inediti aspetti fondamentali. Accantonata la
lettura tradizionale di un Beckett pessimista e nichilista, Strehler ne sottolinea la dimensione
stoica, la volont di opporre una resistenza combattiva ed eroica al male e al dolore
esistenziale. “Accanto alla tragica lotta fra l’uomo e il Fato, la lotta di Prometeo e di Edipo,
di Elettra e di Oreste, di Antigone e di Alcesti, si pro la quella di Winnie, interrata no alla
vita, della sua sporta da cui estrae gli oggetti banali della sua giornata per colmare il vuoto
che invade ogni ora del suo ‘giorno felice’, il suo maniacale impulso a ‘parlare’ per vincere il
silenzio, il suo cercare con insistenza tormentosa il suo partner Willie, un relitto d’uomo
ridotto ai bisogni elementari, strisciante in un buco da talpa, il suo solleticarlo al dialogo, il
suo persistere nel mantenere il possesso di lui, diviso e irraggiungibile, ma pur sempre il
suo opposto e il suo specchio. Un inestinguibile amore per la vita. Oltre tutto e nonostante
tutto.” Proprio nell’eroismo del vivere, del durare, del resistere, si fonda il senso dello
spettacolo strehleriano, ed questo medesimo tema che consente l’operazione
drammaturgica voluta da Strehler che lega in un unico plesso poetico Atto senza parole con
Giorni felici. E ettivamente, tra i due tempi di Giorni felici, il regista decide di inserire Atto
senza parole dello stesso Beckett, azione mimica che rappresenta la parabola della nascita,
dell’evoluzione e della lotta dell’uomo con il mondo, con la vita, con la divinit .
L’interpretazione di Strehler emerge nell’originalit dell’apparato scenogra co e nel
potenziamento dell’interpretazione dei protagonisti, Giulia Lazzarini, interprete di Winnie e il
mimo Roy Bosier, interprete dell’Atto senza parole. “Strehler ha inserito – senza interruzione
di continuit – tra le due parti di Giorni felici, prima che per Winnie suoni il campanello del
risveglio, l’Atto senza parole n. 1 (che sar interpretato dal mimo svizzero Roy Bosier, allievo
di Marcel Marceau), dove un uomo lotta inutilmente contro l’assurdo delle cose del mondo.
Proprio come se fosse un sogno - dice - La parola, il gesto del silenzio, poi ancora la
parola.” La struttura scenica voluta dal regista (realizzata da Ezio Frigerio), prevede una

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modi cazione: nessun pendio di monticello, n distesa d’erba – come indicato dalla
didascalia beckettiana – occupa il palcoscenico; solamente una leggera inclinazione
ondulata, una specie di duna che, ricoperta di sabbia costituita da nissima polvere bianca
di marmo, un deserto, scende in platea su tutta la distesa dell’apertura del boccascena.
Winnie esce dalla buca del suggeritore, vicinissima al pubblico, e a destra, leggermente
arretrato, il marito emerge da un altro buco. Quella sabbia che invade lo spazio della platea
esprime la volont di superare la contrapposizione frontale imposta dalla struttura
architettonica della sala all’italiana e tende a coinvolgere emotivamente gli spettatori. La
scelta del materiale, una polvere di marmo ri ettente, suggerisce l’idea di un mondo di
sopravvissuti, un luogo assoluto di cilmente riconducibile a coordinate geogra che
precise. Anche la musica di scena, composta da Fiorenzo Carpi come musica d’organo
vagamente rituale, suggerisce atmosfere di mistero. Inoltre, su questo impasto sonoro,
prendono corpo i rintocchi di un orologio che scandisce il passare del tempo e attribuisce
alla dimensione temporale un usso non naturalistico, scon nante nell’atemporalit del
divenire cosmico, di cui l’orologio sembra riprodurre il ritmo. Ma, accanto a questa cupa
lettura, Strehler ne suggerisce un’altra: nella scatola scenica, sull’uniformit notturna
so ocante ed angosciante, egli proietta un cielo stellato, alludente ad una possibile
costellazione, forse l’Orsa Maggiore; in tal modo, con ccata nel deserto e contro ri essa
nell’in nito, la solitudine di Winnie non pu che risultare ancora pi dolorosa e quindi
grande, eroica e dignitosa. Due linee interpretative si a ancano nello spettacolo: una prima
linea che, assecondando il testo, ampli ca il quesito loso co sul signi cato dell’io nel
cosmo; una seconda linea, pi strehleriana, che a tale quesito intende indicare una
possibile risposta nel valore della stoica ed eroica resistenza dell’individuo al male e al
dolore, con un’evidente connotazione etica. Il peso di questa contro-lettura di carattere
morale che spinge oltre il pessimismo di un cosmo eliocentricamente ignaro dell’uomo
a dato all’interpretazione di Giulia Lazzarini che deve incarnare l’idea che Strehler ha del
personaggio. La protagonista sottoposta alla prova impegnativa e faticosa di
un’interpretazione incalzante, privata delle continue pause di cui Beckett aveva punteggiato
il testo. Convinto che il silenzio corrisponda all’assenza e al vuoto, il regista nega al
personaggio le pause che Beckett aveva previsto e indicato per impedire alla disperazione
di emergere. Secondo Strehler, Winnie deve infatti vivere a due livelli: intimamente presente
e consapevole dell’imminente sprofondamento, esteriormente impegnata ad ignorare la
catastrofe. Dopo la prima recita di Giorni felici accolta dal consenso unanime di pubblico e
critica (che decretano un vero e proprio trionfo alla interpretazione di Giulia Lazzarini),
Strehler parte per Cannes dove presiede la giuria della trentacinquesima edizione del
Festival di Cannes che si svolge dal 14 al 26 maggio.

Il 1983 un anno particolarmente ricco di attivit per Strehler. Nella sua vesta di regista

per la conclusione della stagione teatrale del Piccolo Teatro, si dedica alla messa in scena
di un celebre testo di Gotthold Ephraim Lessing, Minna von Barnhelm4, tappa irrinunciabile
dei repertori tedeschi ma ignorato sulle nostre scene. Il regista allestisce questa pi ce che
debutta il 29 maggio 1983 sia per rispondere alla polemica riaccesasi in quegli anni sulla
centralit dell’attore, riconfermando la validit del teatro di regia, sia per colmare un vuoto
della tradizione teatrale italiana nei confronti di un grande classico tedesco. “Negli ultimi
tempi – a erma il regista - emersa una tendenza al clamore, al grido, all’urlo, l’esplosione
del pararomantico e del melodrammatico. Ecco perch sar uno spettacolo non agevole. In
un momento di gobbi che si rotolano gridando forsennatamente sul palcoscenico, voglio
fare Minna che il dramma della decenza, del pudore, della tolleranza, della bont , il

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dramma retto sulla verit dell’uomo. Poi, voglio fare Minna perch , dal 1760 una novit
assoluta per l’Italia.” Commedia realistica, radicata nella storia della Germania alla ne della
Guerra dei Sette anni e testo esemplare della riforma teatrale impostata da Lessing nella
Drammaturgia di Amburgo, Minna, con il suo nocciolo morale e loso co illuminista, con il
suo proporsi quale commedia seria sul con itto tra due orgogliose personalit di nobili
amanti, sembra costituire un’interruzione rispetto agli allestimenti realizzati da Strehler nei
primi anni Ottanta. In realt , essa si pone in una linea di continuit rispetto all’ispirazione
registica e ai fondamentali loni problematici dell’opera strehleriana di quell’epoca e
rappresenta una metafora della condizione esistenziale contemporanea. “Nessuno meglio
di Lessing poteva dare un segno per una storia gi cos antica come quella del Piccolo
Teatro continuamente rinnovata nella ricerca di quel teatro dell’umano e della ragione e del
cuore che stata la nostra missione.” Non a caso, come testimoniano la lunghezza dei
tempi di prova, l’accuratezza dell’impianto scenogra co (Ezio Frigerio) e l’uso sapiente delle
luci, si tratta di un’opera seguita e costruita con dedizione e convinzione. Pi delle tesi
morali che stavano a cuore al losofo e drammaturgo tedesco, a Strehler interessa il
meccanismo che le ingloba e che ad esso conduce, ossia il con itto tra i due nobili amanti
– Minna (Andrea Jonasson) e l’u ciale Tellheim (Sergio Fantoni) – ai quali il regista assegna
un’accentuazione moderna, drammatica, che scavalca i tempi e diventa l’incarnazione della
lotta tra maschile e femminile, della battaglia tra i due sessi. “Spero che il pubblico avverta
che qui, in questa commedia, in questa donna, c’ come un brivido di futuro. - annota il
regista - Non solo perch in questo testo si sta abbandonando l’Illuminismo per andare
verso il Romanticismo, ma anche perch vi ra gurata una lotta fra i sessi quasi
strindberghiana. E qui, pur con le parole e i sentimenti che si potevano esprimere nel
Settecento, ci sono due esseri in collisione perenne. Allora diciamo che ho scelto di fare
Minna perch in questo contrasto tra il mondo femminile materno e quello maschile – fra un
mondo di tenerezza lucida e un mondo di talvolta ottusa sicurezza – ho trovato quelli che
per me sono i motivi pi profondi del mio fare teatro: il dramma della decadenza,
dell’intelligenza, dell’illuminismo, anche, del pudore, della tolleranza, della bont , della
verit , dell’uomo.” Strehler si fa approntare una nuova traduzione da Bianca Zevi, “esatta,
rigorosa e nello stesso tempo poetica”. Egli stesso interviene sul testo, arricchendolo con
annotazioni didascaliche di regia e con una reinvenzione visuale delle scene, al ne di
mettere in risalto la dimensione interiore dei personaggi, sfruttando sia il registro della
gestualit realistica sia, in maggior misura, quello della gestualit metaforica e simbolica.
Realizzate da Fiorenzo Carpi, le musiche alternano brani originali, arieggianti canzoni
popolari e marcette d’epoca, a brani di Beethoven e Haydn, la cui eco giunge ltrata dai
grandi nestroni posti sulla parete di fondo. Ideati da Franca Squarciapino, i costumi si
ispirano alle divise e alle fogge del tempo, in una sobria ripresa priva di compiacimento
antiquario, mentre si a accia un tono parodistico nell’enfasi di certe decorazioni delle
uniformi maschili, in sintonia con il sottofondo antimilitarista del testo lessinghiano. Ruolo
decisivo per de nire l’ambiente spetta all’impianto scenogra co articolato da Ezio Frigerio
in due luoghi che si immaginano contigui: il pianoterra costituito dallo stanzone centrale
della locanda, pavimentato in cotto autentico e occupato da una la di tavoli per servire il
pranzo, per il quale lo scenografo stesso a erma di essersi ispirato allo spazio di un
dormitorio per marinai a Lubecca, e la stanza dove alloggiata Minna, subito sopra il vasto
salone dal quale separata da un soppalco che divide a met le grandi nestre dello
sfondo e con il quale comunica per mezzo di immaginari corridoi e scale fuori scena. In
conclusione, anche Minna pu essere fatta rientrare in quella coerente ri essione
strehleriana sul senso del teatro che assegna allo strumento della rappresentazione una

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funzione culturale e esistenziale determinante. Come ricorda Guido Davico Bonino:
“assolutamente superiore per dominio della vocalit , gestualit e corporeit , ci fa dono di
una Minna di rabbrividente tenerezza (la scena della «scoperta» di Tellheim un capolavoro
di sensibilit e nezza, con l'alto corpo sinuoso che vibra e freme come un giunco,
squassato qua e l dal vento del destino) e al tempo stesso di una passionalit , calda,
vibrante (la successiva scena dell'autoanalisi reciproca, del «far luce insieme», esemplare
della gamma sbalorditiva di toni, gesti, movimenti dell'interprete che, per inciso, non ha
sbagliato una sola parola lei tedesca, della versione italiana). Sergio Fantoni le ha tenuto
bene testa nell'ingrato personaggio di Tellheim sciogliendone uno ad uno con crescente
ironia, i groppi nevrotici, sino ad e etti di amaro sarcasmo nel nale. E ai due ha rubato dei
preziosi «controcanto», irruente, festosa, ilare, caparbia, Pamela Villoresi, una Franziska di
smalto no. Se abbiamo detto che la «cornice» ci ha meno a ascinato per ragioni culturali
e testuali, non va ascritto a demerito degli altri attori, che Strehler modella e riunisce con
ostinazione magni ca: e qui sono l'oste, tra l'in ngardo e lo stolido, dell'ottimo Valgoi, il
guizzante, arlecchinesco Nino Bignamini, il corpulento marziale Werner del Garko, e il livido
baro francese del De Daninos. Caldi applausi a tutti, dopo tre ore di Andrea Jonasson,
attricespettacolo, da un folto pubblico.”

In questo anno, attivit artistica e poetica teatrale di Strehler valicano i con ni nazionali per
manifestare appieno la loro vocazione europea. Se, infatti, da un lato, il regista prosegue
come abbiamo detto a rmare allestimenti in prosa e in musica al Piccolo alla Scala e in
importanti teatri d’opera e di prosa stranieri (Salisburgo, Vienna, Amburgo, Parigi), d’altro
lato, nel 1983 egli d vita a un progetto di teatro europeo che, grazie allo sforzo congiunto
del Ministro della Cultura francese Jack Lang e del Presidente della Repubblica Fran ois
Mitterrand, si concretizza il 16 giugno 1983, quando nasce u cialmente il Th tre de
l’Europe, inaugurato con La Tempesta di Shakespeare/Strehler in scena al Th tre Odeon di
Parigi il 3 novembre 1983. Scrive Strehler in questa occasione: “Quale testo, quale autore,
quale spettacolo, poteva «naturalmente», pi di ogni altro, avere la ragione di inaugurare un
Th tre de l’Europe se non William Shakespeare, The Tempest, recitata dal Piccolo Teatro
di Milano, teatro italiano, certo, ma che sin dalla sua nascita ha mostrato una vocazione
europea, senza equivoci, con l’impegno di mostrare il volto umano del teatro e la sua
perpetua missione di legare gli uomini agli uomini nel cuore inquieto del nostro continente?
Ed per questo diventato quasi ineluttabile che io abbia deciso di far rivivere La Tempesta
di Shakespeare, gi allestita nel corso della stagione 1978/79. Ho voluto fare di questa
opera quasi una nuova edizione, anche se questa Tempesta riprende innumerevoli
modulazioni dell’altra edizione. Molti attori sono cambiati, alcuni vuoti sono stati riempiti,
almeno lo spero, alcune esperienze e ri essioni messe a frutto. Oggi possiamo dire che
questa edizione della Tempesta da questo momento l’edizione dell’«Od on», quella del
Th tre de l’Europe, di Parigi, 1983. Mi sembra anche in modo sempre pi chiaro che si
esempli chi, nella Tempesta di Shakespeare, il tema che noi abbiamo scelto per questa
nostra prima stagione del Teatro d’Europa: Teatro-Illusione-Potere. Personalmente credo
che la dimensione della Tempesta si ritrover sempre in qualche modo legata alla
drammaturgia che metteremo in scena al Teatro d’Europa o in qualsiasi altro teatro nei
prossimi anni, perch La Tempesta di Shakespeare il cuore, il nodo imperituro della
teatralit europea. il prologo straziante, lacerante e magni co della nostra storia di uomini
e di teatro. Occorre dunque un grande coraggio, un disperato coraggio per tentare di far
rivivere La Tempesta, oggi. Ma forse di gesti come questi che oggi si ha bisogno...». Cos
scrivevo all’inizio delle prove della Tempesta. Ora che abbiamo tentato di farla rivivere, lo

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confermo. Lo confermo soprattutto nel loro senso di una fatica disperata e di una disperata
ducia. Una ducia sempre pi labile ma pur sempre ancora ducia che il teatro possa oggi
ridare in qualche modo, ad una collettivit che la sta quasi perdendo, la ragione
dell’esistenza e della convivenza umana. La Tempesta nata in un momento che a me
sembrava avesse tutti i connotati dell’Apocalisse. Era la tragica stagione dell’assassinio di
Aldo Moro. Ma un’Apocalisse degradata in cui tutto si confondeva, tutto si annullava:
rivolta, calcolato assassinio, rituale politico, dentro una spaventosa indi erenza. La storia
non stata fuori dal luogo dove costruivamo il nostro spettacolo. La storia arrivava e arriva
giorno dopo giorno puntualmente dentro i muri chiusi di un teatro, a Milano come a Parigi,
su un palcoscenico-mondo dove una piccola collettivit sta lavorando sulle parole di un
grande poeta per inventare sogni e la realt dei sogni e delle metafore. Non sogni gratuiti.
Immagini, suoni, signi cati che proprio «mettendosi contro» un certo tipo di storia intorno,
si rivelano, oggi come allora, un gesto attivo di ri uto del nulla, un tentativo violento di
opporsi a questo dissolvimento della ragione. Tanto pi che ci che si svolge sulla scena
aveva ed ha la sua ineluttabile carica di disperazione. La Tempesta «un’opera disperata»,
ma nello stesso tempo attiva, che domanda non il gesto suicida della rinuncia ad essere
uomini, ma la domanda di essere migliori. l’estremo grido del fallimento di un progetto
umano e meraviglioso, e non riuscito. l’estrema domanda sul destino dell’uomo e della
storia, delle sue contraddizioni e della sua poesia, e quindi del teatro. Teatro come parafrasi
pi vicina d’ogni altra alla vita. Ed essa lascia dentro di noi – ora che siamo alle ultime
battute – non un sapore amaro, troppo grande per questo, ma un senso quieto, di
profondo dolore, in una luce di tramonto, quando noi vorremmo che tutto nascesse nella
luce di un primo giorno della creazione, una profonda pena per questo destino umano che
cos di cilmente cerca la possibilit di svolgersi per l’uomo e non contro l’uomo. Eppure,
nello stesso tempo, La Tempesta che si chiude per noi l’ultima volta, proprio nell’attimo
della constatazione dello scacco, ci consegna un altrettanto quieta e profonda
consapevolezza che soltanto la conquista dell’umano – che non semplicemente piet ,
giustizia o tenerezza, ma accettazione della realt umana, cos come , oltre la dolce
utopia, oltre l’iridescente schermo dei grandi progetti, la dura, cattiva realt – soltanto la
realt conquistata e accettata, pu aiutare veramente l’uomo a prendere il mondo nelle sue
mani, non per distruggerlo o avvilirlo, come sembra stia facendo ad ogni tornante della sua
storia. La Tempesta ci appare ora sempre di pi , oltre ogni sua implicazione – e le
implicazioni sono tutte vastissime: politica, storia, arte, teatro – come un cammino di
conoscenza, del suo protagonista Prospero verso la «conquista del reale» e quindi un
faticoso cammino di conoscenza per noi interpreti e per noi spettatori. Ma oltre a ci ,
appare anche una grande parabola del teatro. Assieme alle domande ultime sulla stessa
vita e sulla storia, sulla conoscenza che Shakespeare nella Tempesta ci pone, ci sono le
domande sul destino della teatralit . Cio le domande su come e perch noi facciamo
teatro – proprio noi, gente di palcoscenico – e su cosa il teatro dovrebbe o potrebbe essere.
Cos , investiti anche in prima persona come lavoro di teatro, oltre che come lavoro di vivere,
noi siamo arrivati a concludere uno spettacolo che pi di uno spettacolo, poich ad esso
siamo stati quasi forzati a dare tutto di noi. Perch in queste quattro ore abbiamo dovuto, in
qualche modo, riassumere tutta la nostra storia passata, tutto il nostro presente e quel
tanto di futuro che riusciamo a scorgere nel buio davanti a noi. Come sempre, ma pi di
sempre, consegniamo al pubblico uno spettacolo che nei suoi limiti, nella sua fatale
imperfezione, stato una ricerca veramente nel profondo, stato un incessante
esperimento anche se ha – come ogni esperimento reale deve avere – una sua forma
compiuta, un suo risultato visibile e veri cabile. Ma il nostro uno spettacolo che apre pi

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domande rispetto alle risposte che pu dare. Questa meditazione teatrale che coinvolge
l’uomo intero in una totalit che ci fa attoniti ed impotenti, non ci ha lasciati indenni. Ci ha
lacerati. Resta da vedere quanto il terribile brivido di quest’opera di poesia – per me una
delle pi alte che il genio umano abbia saputo produrre – trover in chi vede e ascolta la
sua risonanza. Quanto di questa abbia una eco nel nostro spettacolo della Tempesta.
Quanto si sia riusciti a fare perch con La Tempesta qualcosa cambi, anche se di poco, nel
mondo, in quanto ha cambiato gli uomini che hanno vissuto La Tempesta sul palcoscenico
e in platea. Abbiamo sempre cercato – senza illusioni ma con qualche certezza – di fare un
teatro che voleva modi care il mondo. Mai come in questa Tempesta abbiamo sentito la
fallibile, disperante, trionfale grandezza e responsabilit del nostro mestiere.”

Approvato dal parlamento francese sotto forma di decreto legge del Ministro della Cultura e
pubblicato sulla “Gazzetta U ciale” il 23 giugno 1983, lo statuto del Th tre de l'Europe,
dichiara esplicitamente la volont di una comune collaborazione e di un dialogo continuo
fra uomini di teatro di diverse nazioni per creare un sistema di coproduzione e distribuzione
teatrale nei diversi paesi dell’Europa, attraverso un organismo che disponga di un proprio
budget annuo e di una propria sede, il Th tre National de l’Od on a Parigi. Strehler ne
nominato direttore per due trienni consecutivi, dal 1983 al 1988 (nel primo triennio
coadiuvato da Maurizio Scaparro): a lui a dato il compito di selezionare i nuovi spettacoli
e programmare le coproduzioni. Strehler sa bene che il futuro dell’Europa deve passare
attraverso le grandi intese economiche, la stabilit delle monete, la battaglia contro la
sperequazione dei salari, l’abolizione di troppe zone depresse, e deve passare attraverso i
diritti-doveri dei lavoratori, uguali ed equi per tutti i paesi dell’Europa Unita, ma il futuro
dell’Europa passa anche attraverso un’autentica crescita culturale dell’intera comunit
all’interno della quale il teatro deve essere una necessit primaria. Se si vuole quindi creare
un polo di aggregazione nel panorama teatrale europeo, fornendo un servizio di
ricognizione di realt e tradizioni che possano essere confrontate con quelle di altre culture,
tutto ci deve accadere secondo Strehler attraverso la programmazione di una stagione di
cinque o sei mesi e una tta rete di contatti e collegamenti con le istituzioni di altri paesi. Da
ricordare in ne che, eletto come esponente del Partito Socialista Italiano alle elezioni per il
Parlamento Europeo, Strehler partecipa come deputato ai lavori del parlamento a
Strasburgo dal 26 settembre 1983 al 23 luglio 1984. Egli subentra a Bettino Craxi (divenuto
nel frattempo Presidente del Consiglio) e si batte per un’Europa “umana” capace di parlare
agli uomini di oggi e di perseguire l'obiettivo di un teatro d'arte, elevato nei contenuti e
pensato per porsi al servizio della collettivit , in aperta polemica con la
commercializzazione del prodotto culturale, un’Europa degli uomini e delle comunit , delle
idee e della cultura”.

Note

1 L’anima buona di Sezuan di Bertolt Brecht (terza edizione). Traduzione: Giorgio Strehler, Luigi
Lunari. Scene: Paolo Bregni. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Paul Dessau. Movimenti mimici:
Marise Flach. Interpreti: Renato De Carmine, Franco Mezzera, Carlo Montini, Elio Veller, Andrea
Jonasson, Carmen Scarpitta, Narcisa Bonati, Giampiero Becherelli, Maurizio Trombini, Giorgio Giorgi,
Sabina Vannucchi, Andrea Perrone, Edmondo Sannazaro, Stefania Graziosi, Giorgio Naddi, Edda
Valente, Alarico Salaroli, Massimo Ranieri, Isa Danieli, Renzo Palmer, Armando Benetti, Anna Carena,
Dario Cristini, Carlotta Curussani, Angelo Mariani. Modena, Teatro Comunale, 9 aprile 1981.

2 Lohengrin di Richard Wagner. Concertatore e direttore d’orchestra: Claudio Abbado.Scene: Ezio


Frigerio. Costumi: Ezio Frigerio, Franca Squarciapino. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti:

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Aage Haugland, Rene Kollo, Anna Tomowa-Sintow, Siegmund Nimsgern, Elizabeth Connell, Hartmut
Welker, Giuseppe Costanzo, Francesco Memeo, Eftimio Michalopoulos, Silvestro Sammaritano, Maria
Grazia Polcaro, Junko Matsuno, Miriam Gauci, Evghenia Dundekova. Milano, Teatro alla Scala, 7
dicembre 1981.

3 Attosenzaparole tra Giorni felici di Samuel Beckett. Traduzione: Carlo Fruttero. Versione scenica:
Giorgio Strehler. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti
mimici: Marise Flach. Interpreti: Giulia Lazzarini, Gianfranco Mauri, Roy Bosier. Milano, Piccolo Teatro,
5 maggio 1982.

4 Minna von Barnhelm di Gotthold Ephraim Lessing. Traduzione: Bianca Zevi. Versione scenica:
Giorgio Strehler. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Musiche: Fiorenzo Carpi.
Interpreti: Andrea Jonasson, Pamela Villoresi, Sergio Fantoni, Nino Bignamini, Gianni Garko, Ruggero
de Daninos, Mario Valgoi, Anna Saia, Alvaro Caccianiga, Paolo Rossini, Guido Stancanelli. Milano,
Piccolo Teatro, 29 maggio 1983.

Lezione 19

20.04.2020

Dal 1984 al 1986: Corneille, De Filippo, Jouvet e ancora Brecht

Per l’inaugurazione della seconda stagione dell’Odéon-Théâtre de l’Europe a Parigi,


Strehler presenta L’illusion di Pierre Corneille. A pochi mesi dalla scomparsa di Eduardo De
Filippo, mette in scena La grande magia al Piccolo Teatro. Inaugura il Teatro Studio con
Elvira, o la passione teatrale, adattamento teatrale delle lezioni di Louis Jouvet. Il 31 ottobre
1986 debutta a Parigi la terza edizione de L’Opera da tre soldi (in francese) di Brecht.

Per l’inaugurazione della seconda stagione dell’Od on-Th tre de l’Europe a Parigi,
Strehler presenta L’illusion di Pierre Corneille. A pochi mesi dalla scomparsa di Eduardo De
Filippo, mette in scena La grande magia al Piccolo Teatro. Inaugura il Teatro Studio con
Elvira, o la passione teatrale, adattamento teatrale delle lezioni di Louis Jouvet. Il 31 ottobre
1986 debutta a Parigi la terza edizione de L’Opera da tre soldi (in francese)

Il 13 aprile 1984 sul palcoscenico del Teatro Lirico va in scena la ripresa dell’edizione
Od on (1977) di Arlecchino (alla sua 1507 recita) prima della partenza dello spettacolo per
Madrid, Francoforte e Los Angeles dove, con La Tempesta di Shakespeare, rappresenter a
luglio l’Italia in occasione dei giochi olimpici. La messa in scena del testo di Goldoni d
occasione a Strehler per nuove ri essioni che compaiono nelle note di regia: “Ancora
l’Arlecchino servitore di due padroni. Ancora e sempre. Sempre uguale e sempre diverso.
questo il carattere straordinario di un lavoro di teatro che dura nel tempo o rendosi a
pubblici e a generazioni che passano e che mantiene intatta la sua carica di vitalit , di
comunicazione, di emozione, attraverso gli anni. Ormai pi di trenta. Ma poi esatto,
de nire “straordinario” il sorpassare gli anni, anche i secoli, per un’opera di teatro, per un
qualsiasi gesto della poesia degli uomini? Non questa invece – o non dovrebbe essere
questa – la caratteristica dell’opera d’arte in quanto opera d’arte? La vera opera d’arte parla
con accenti diversi, con prospettive diverse ma sempre contemporanee, alla gente a cui si
rivolge. Mutano i suoi interpreti, si cambiano certi moduli espressivi, cambiano certi ritmi,
“le texte” resta. Cos quest’Arlecchino intramontabile ha il segno della vita che passa e si
rinnova. sangue che pulsa e scorre nelle vene di un teatro reale e immaginario, come in
un corpo umano. Del resto lo spettacolo del Piccolo Teatro, dell’Arlecchino servitore di due

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padroni di Goldoni, con la mia direzione, (la mia regia) ha avuto edizioni diverse, talvolta
simili, talvolta totalmente diverse, non nello spirito ma nella forma, cosicch almeno ogni
cinque o sei anni il pubblico ha visto un altro spettacolo, non la copia del precedente, non il
suo contrario, ma la sua continuit dialettica, uguale e di erente al tempo stesso. Come la
vita.”

La seconda stagione del Th tre de l’Europe inaugurata da uno spettacolo che Strehler,
nella sua veste di direttore artistico della istituzione europea, realizza interamente a Parigi:
L’illusion di Pierre Corneille. Nell’Illusion1, presentata al Th tre de l’Od on di Parigi nel
novembre 1984, n dal titolo, il regista dichiara la chiave di lettura della sua regia. Strehler,
infatti, presenta l’opera al pubblico come L’illusion (e non come Illusion comique), titolo con
cui Corneille stesso aveva ribattezzato questo “strano mostro” a sottolinearne il signi cato
di teatrum mundi in cui la vita stessa a essere un’illusione, con le sue parvenze e opinioni
ingannevoli, mentre al teatro a data una funzione di identi cazione e ordine. In tale
prospettiva, il regista sviscera il signi cato pi profondo dell’opera, un ibrido di tragedia,
commedia e romanzo, vale a dire una lieta e triste metafora della vita dell’uomo che utilizza
il teatro per una dimostrazione poetica della relativit dei sentimenti. Strehler presta
particolare attenzione al discorso sul teatro e sulla dignit del mestiere di attore che si
sviluppa in questa opera di Corneille e si cristallizza nella gura di Clindoro: con una felice
intuizione, egli mostra il rapporto fra il mago, il regista, il saggio e l’istrione, l’attore e il folle.
Matamore e Alcandre, interpretati entrambi da G rard Desarthe, hanno in comune il fatto di
giungere dalla notte dei tempi e di attraversare i secoli, da eremiti. Il loro riunirsi in uno
stesso attore introduce una dimensione essenziale del barocco: la metamorfosi.

Inoltre, a una stessa attrice (Nada Strancar) sono a dati i due ruoli femminili: Lisa, la serva
misteriosa, e Rosina, la commediante ardente, che osa trasgredire i tab per vivere la sua
passione, due donne della stessa tempra. Il gioco del doppio diviene, quindi, elemento
costante della regia ed sottolineato dalle luci e dalla scenogra a. Le luci, concepite
all’interno di ciascuna scena come una successione laterale di proiettori blu e oro, ri ettono
il caldo e il freddo sullo stesso personaggio, evidenziandone il carattere doppio. L’impiantito
della scena, voluto dallo scenografo Ezio Frigerio in marmo nero, appare poi come uno
specchio lucido che raddoppia le sagome degli attori impegnati a rappresentare un’opera
metateatrale che nel gioco del doppio ri ette un’inquietudine universale. Lo spettacolo
riscuote un enorme successo di pubblico, anche grazie al lavoro critico compiuto dal
regista sul verso alessandrino che, attraverso una “recitazione all’italiana”, immette vivacit
e infonde nuovo respiro all’opera, pur nel pieno rispetto del testo di Corneille. Dichiara
Strehler a proposito della sua regia: “

Siamo arrivati ancora una volta ad una

delle ultime pagine del nostro studio critico sul’Illusion di Pierre Corneille. Scritto in questi
mesi dell'ultimo autunno 1984 a Parigi, sul palcoscenico con gli uomini e i mezzi del Teatro.
Si tratta solo

di uno spettacolo, certo, fra centinaia d'altri, ma per noi sempre il nostro ultimo delirio
d'amore, il nostro ultimo bisogno mai esausto di conoscenza, la nostra ultima ricerca che
vorrebbe essere sempre pi profonda. Del resto l'abbiamo sempre fatto cosi il Teatro, con
una specie di gesto totale dell'a etto e del gusto e delle idee come se da esso dipendesse

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la salvezza del mondo, e niente restato fuori della nostra responsabilit e della nostra
storia. Nemmeno questa Illusion di Corneille che era stata da noi scelta per inaugurare il
Th tre de l'Europe (e apre la seconda stagione, che nasce forse proprio anch'essa da
un'altra illusione, quella che il lavoro di teatro serva ancora a qualche cosa al cuore
dell'uomo). da quando in una delle lunghe sere dopo l'Ath n e tra lunghi discorsi rubati al
sonno, Jouvet ci parl dell'Illusion Comique, della sua esperienza con il cartel alla Com die
Fran aise (quale occasione perduta), poi mi fece vedere, nella sua casa piena di mobili di
teatro, disegni di scene, costumi, appunti, materiali di studio per un'opera che l'aveva
lasciato infelice proprio perch ne conosceva la grandezza, che nacque in me il primo
interesse per l'opera che ci accingiamo a rappresentare. Saremo riusciti a restituire alla
gente almeno un lampo di ci che abbiamo creduto di capire e vedere nell'Illusion?
Raramente impresa si rivelata pi di cile e pi so erta e una sola per tutte le altre mi
viene alla memoria continuamente La tempesta di Shakespeare. L certamente ci stava
davanti una tragedia cosmica, ma qui ci stava e ci sta davanti la abissale profondit dei
sentimenti umani, l'ambiguit dell'amore. L , nell'isola, si

discopriva la storia del mondo, della schiavit , della libert e insieme quella del Teatro. Qui
ci si muove nella penombra delle anime, immagini di qualcosa altro, proiettate sui muri della
caverna, proprio quella di Platone, qui si parla pi piano e si sussurrano cose grandissime
degli uomini e delle donne, della vita. Ma la tensione la stessa. Il tocco della genialit
sempre imprevedibile, sconvolgente, uguale. Credo veramente che lo stesso Corneille
ormai maturo, alla ne della sua storia abbia guardato al suo trange monstre juven le,
come de nisce l’Illlusion, con una specie di

meraviglia. Ci che ci ha colpito nell’Illusion la metafora della vita dell'uomo che adopera
il Teatro per una dimostrazione poetica e sconvolgente della relativit dei legami, dei
sentimenti, dei protagonisti della scena del mondo in cui si recita l'avventura umana. Tutto il
resto, contesto storico, legittimazione del Teatro, plaidoyer sul Teatro, sulla sua moralit ed
altro, sono temi e accenti secondari per noi, forse anch'essi schermi illusori per attirare i pi
ingenui come se

nell’Illusion tutto stesse solo l . Cosa l’Illusion, se non una passione d'amore, se non una
continua serie di storie d'amore e di identit che si incatenano una nell'altra per creare un
universo di passioni sottilmente variate, scritte con una suprema eleganza di stile, inventate
ad ogni pagina e ad ogni attimo e lasciate sempre in sospeso, sempre in un'incertezza in
cui sembra ri ettersi un'inquietudine universale che circonda e che meglio ci fa riconoscere
la nostra fragilit alle soglie del mistero di vivere? E allora ecco che noi con pochi attori
abbiamo rappresentato molti personaggi, abbiamo dato una voce sola ai maghi e ai
pagliacci: perch l'illusione fosse ancora pi illusoria. Abbiamo seguito l'avventura d'amore
e di colpa di un padre che ricerca il glio perduto da lui stesso per cacciato e che ora,
contraddittoriamente e disperatamente ama, la storia di un

glio che non riesce a trovare una sua identit ed un suo destino, non sappiamo quanto
infantile o scaltro, un glio che tradisce l'amore, che appare fragile ed anche volgare e che
trova la sua profondit umana, la sua verit , solo davanti alla morte anch'essa illusoria e
trova la sua vocazione proprio nella mobilit , in certezza, mutabilit del mestiere dell'attore.
Abbiamo cercato di raccontare il tragico dell'amore contraddittorio di Lyse e quello lineare
d'Isabelle, amore che unisce e divide, secondo i casi e talvolta anche nisce per uccidere
assurdamente, per amore o

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meglio per un'idea dell'amore, una diversa dall'altra. Abbiamo seguito il continuo
rovesciarsi dei sentimenti, della passione, dalla vendetta all'odio, dall'odio alla piet . E la
follia l'abbiamo fatta apparire dalle quinte con un movimento quasi meccanico di un
fantoccio. L'abbiamo pensata come «la follia dell'attore totale», quella che ha bisogno solo
di s , di un pubblico, magari un solo ascoltatore, compare e spettatore. Abbiamo visto nella
maschera dell'arte l'iperbole solitaria di chi

si inventa ad ogni attimo diverso e si ubriaca di s stesso no quasi a dissolversi in una,


questa forse non illusoria, miseria e piet . Ma chi mai sapr darci il senso ultimo di questo
Matamore capitano spagnolo che ci piove da duemila anni di storia e di paura e di ombre e
le esorcizza? E tutto ci attraverso il lavoro di un mago, mago di parole e rappresentazione
che fa vedere agli occhi del padre spettatore, dei fatti passati e all'ultimo presente
nell'attimo stesso in cui si veri cano sul palco di un teatro, dove il gioco si chiude, se gioco
stato mai. E li fa vedere anche agli altri: spettatori che assistono a questo spettacolo dalla
sala del teatro. Abbiamo voluto che tutto fosse mobile, tutto incerto ma non incoerente in
un suo disegno, il personaggio, il sangue, il pugnale, il ridicolo e il lampo del teatro per
raccontarci l'incertezza dell'avventura umana. Senza lasciare nemmeno una conclusione
paci cante. Cosi in un ultimo atto da tragedia (tragedia che si svolge in un teatro
immaginario - oppure immaginato — o fatto piuttosto nel teatro in cui noi stiamo recitando,
oggi, l'illusione) dove attori, in una Inghilterra di sogno, ripetono il loro ondo di sempre, non
esattamente come sempre. Sar ucciso Clindoro, attore ormai di teatro, insieme alla
«sconosciuta», l'attrice ultima amma delirante d'un amore proibito, dove l'assassino, il
nobile Eraste, ricorda per suprema invenzione un passato ormai remoto, quando lo stesso
Clindoro uccide per amore il nobile Adraste. Si sparger sangue sul palco, nella notte. E
una sillaba segner l'avventarsi nel teatro del fato. Poi sar come se niente fosse stato. I
morti risorgeranno (ed forse anche la morte l'ultima illusione, risorgono sempre a teatro i
morti) e il gruppo umano dei comici partir per compiere altro lavoro. Mai sapremo se alla
ne il padre ritrover veramente il glio e se la storia rappresentata la storia vera o il suo
ri esso. Mai sapremo chi incarna il mago della parola scritta, della parola rappresentata
fatta lei stessa teatro. Sapremo solo che siamo pochi attori, che facciamo tante parti, e a
quale lieto o oscuro destino andranno incontro i protagonisti dell'Illusion.”

Il 5 maggio 1985, a pochi giorni dalla scomparsa di Eduardo De Filippo, Strehler presenta
per la prima volta un testo del commediografo napoletano. Qualche anno prima, nel maggio
1980, Strehler aveva voluto celebrare l’ottantesimo compleanno del grande attore e
drammaturgo con queste parole: “Ci sarebbe da scrivere almeno un saggio sul teatro di
Eduardo - e dico almeno un saggio per non dire un libro o pi libri come questo
straordinario autore e interprete richiederebbe. Cosa che per quanto mi consta, nel nostro
paese delle lettere e del teatro non avvenuta: esempio questo, tra tanti della super cialit
di un atteggiamento radical chic (o peggio) da parte del mondo della cultura, da destra a
sinistra. I saggi, i libri, qui da noi, per il teatro si scrivono su “spazi alternativi” su
“demisti cazioni culturali” su “personaggi” che contano in nitamente meno di Eduardo,
grande autore di un «teatro» nazional-popolare, radicato nella lingua e nel costume di una
parte del nostro mondo che diventa (proprio perch parte di un mondo ben individuato e
ben de nito) patrimonio universale. Eduardo un maestro di teatralit . di «modo di
recitare». di «stare nel teatro» e dovrebbe essere un «esempio» per la pletora, sempre pi
esangue, di coloro che credono che il teatro si faccia senza le parole dei poeti e senza
recitarle per il mondo. Mi piace, allora, io che sono un teatrante — dicono «alla vecchia
italiana» insomma alla maniera di Eduardo - abbracciare, a distanza, questo amico e

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maestro, per questo suo ottantesimo compleanno che avviene a Milano, in mezzo a noi,
ringraziarlo per esserci, per avere vissuto recitato e scritto tanto per tanti durante una intera
vita. Per avermi insegnato impegno semplice e profondo, umilt di front al nostro mestiere,
attenzione vigile alla vita e, alla storia, per avermi insegnato la ricerca della parsimonia nella
teatralit , del minimo dei mezzi per esprimere il pi possibile dell'uomo e dei suoi rapporti,
dei suoi sentimenti, delle sue contraddizioni. Buon compleanno, caro Edoardo, con tutta la
mia tenerezza fraterna, commossa e rispettosa.” Il testo che Strehler sceglie La grande
magia2, favola sull’illusione del vivere, sul contrasto tra fantasia e realt . Le ragioni di tale
scelta sono diverse: “Credo che la commedia contenga cose che vanno dette e che io
stesso avrei sottoscritte. – a erma Strehler - Dal momento che non sono un autore,
cercher di dirle con le parole di Eduardo a nch la gente ne venga a conoscenza. Inoltre,
volevo dare ad Eduardo, uomo di teatro chiuso quanto altri mai, la possibilit di vedersi dal
di fuori, non pi come capo troupe, ma come autore e spettatore. Purtroppo, proprio
quest’ultima ragione venuta a mancare con la sua morte”. La vicenda narra la storia
paradossale di un uomo che nisce per convincersi che la realt non esiste: “ una delle
commedie pi amare di Eduardo – dice Strehler - Il teatro di Eduardo sempre amaro, ma
in genere c’ una via di fuga, una possibilit consolatoria, che rende tutto migliore. Qui
invece il punto di fuga non si trova, c’ solo un uomo che ri uta la realt per restare
nell’illusione. Forse con questa commedia nisce la mia trilogia dell’illusione che
comprende La tempesta e l’Illusion di Corneille, appunto. Trilogia non voluta e casuale, ma
un tema cui ho pensato in questi anni”. Intento di Strehler pare essere quello dunque di
puntare al recupero della grande favola dell’illusione; per tale motivo, l’apparato
scenogra co (Ezio Frigerio) si impoverisce, costituito nei primi due atti da uno scolorito
fondale che rappresenta un muro scrostato e macchiato di umidit ; mentre nel terzo atto
rimanda a certi “inferni familiari” tipici di Eduardo, con il rosso cupo di un interno in
penombra. Mettendo in scena La grande magia, Strehler non si rif alla tradizione di
messinscena teatrale di Eduardo, ma arricchisce questa “favola in tre atti” con tinte
meta siche, frammiste a una serie di citazioni: dalla farsa all’avanspettacolo, dal
melodramma alle tentazioni rivistaiole, in un incastro variegato e pittoresco di dialettismi
regionali. Il gioco teatrale enfatizzato e dilatato, spogliando Eduardo della sua
napoletanit per trasferire l’autore sul piano della meditazione alta, del respiro
europeizzante. “E cos Renato De Carmine – leggiamo il giorno successivo alla prima
rappresentazione - ha potuto costruire il suo Otto sulla corda tesa di una spettacolarit
esplicita, ricca delle sue cadenze romanesche, solida come una sorta di roccia volgare che
si sfalda solo un attimo quando la vita porge prepotentemente i conti. E Franco Parenti ha
costruito invece, dico proprio invece, un Calogero sempre pi astratto, come fosse
immerso ad ogni passo non tanto nella sua crescente follia, quanto nel suo ripiegarsi in s
stesso, a leggersi e compitarsi scegliendo tutte le parole tra quelle non dette. Era davvero
una superba prova di attore, di attori, che con molta intelligenza mettevano la loro
professione al servizio non tanto di Eduardo quando di un testo da riscoprire in tutte le sue
illuminazioni antiche. C’era anche Eleonora Brigliadori, esaltata nel suo ruolo u ciale di
bellezza lontana, e Mimmo Craig che con Gianfranco Mauri faceva una deliziosa coppia di
clienti compari della esplicita tru a e Gerardo Amato che disegnava con lo stile del
Marcaurelio una sorta di amante latino con giacca da marina. Rosalina Neri era la forte,
divertente macchietta lombarda che s' detto. Ma la sorpresa pi forte della compagnia di
teatranti che apparivano venuti dalle nebbie, era un delizioso Carlo Croccolo, fortemente
partenopeo, come fosse la ragionevole citazione del cameriere di Totò.”

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Alla chiusura del sipario, gli applausi del pubblico sono per i due protagonisti, Renato De
Carmine (Otto Marvuglia) e l’indimenticabile Franco Parenti (Calogero), ma anche per lo
scenografo Ezio Frigerio, la costumista Luisa Spinatelli, l’autore delle musiche Fiorenzo
Carpi. Riporto in conclusione la lettera che Strehler pubblica sul programma di sala: “Caro,
carissimo Eduardo, che cosa posso dirti. Posso dirti, per esempio, che cosa ha signi cato,
per quelli della nostra generazione, che cosa avete signi cato Tu, Titina (l'adorabile Titina) e
Peppino, quando eravamo, come si dice, ancora giovani. Era un misto di popolaresco e di
verace, di credibilit naturalistica e di sublimazione etica, non veristica. Era una ventata,
nella tta ragnatela di quegli anni, venuta d'improvviso a portare un segno di lealt nei
confronti della storia, un segno di sicurezza nei confronti dell'individuo, un segno di
"positivit " (quanto risulta "datata" questa parola) nei confronti della societ , per certi versi
disperata ma non ancora nello sfacelo. Posso dirti, per esempio, che il tuo Trattato sulla
famiglia, come l'ha chiamato qualcuno, in lunghi, diversi ed eguali capitoli, mi ha fatto
esplorare dimensioni "segrete" che ben conoscevo, tra il dolore sovrumano e l'humour
sapiente, tra l'allegrezza ( gurati, io triestino) e la spietata legge dell'amaro quotidiano.
Posso dirti, per esempio, che Ha da pass 'a nuttata per il teatro italiano non solo una
"battuta" teatrale, ma quasi una lezione di vita, una mesta contemplazione del passato e
insieme uno sguardo verso un Domani che sia, speriamo, molto vicino all'alba piuttosto che
agli anni a venire. Perch , lo sai bene, Eduardo, veniamo da lontano, ma andiamo lontano.
Posso dirti, per esempio, che il tuo 'O vico stretto non soltanto una poesia, ma anche e
soprattutto una Weltanschaung, l dove dici - e quanto giustamente! - che il cavallo corre
molto meglio quando la strada diritta, libera, vuota, ma nel "vico stretto", appunto, "c'
pi s zio". Purch dal "vico stretto" ne usciamo, beninteso. Posso dirti, per esempio, che
questa tua poesia (quale poeta, poi, oltre che teatrante, lo diranno uomini pi indottrinati di
me) a suo modo assai vicina alle poesie che un altro grande uomo di teatro, cos diverso
da Te, scrisse a Svendborg, Bertolt Brecht. Eppure, Tu sei italianissimo, napoletanissimo e
contemporaneamente "internazionale". Perch il tuo ridere e il tuo piangere, caro Eduardo,
non sono tuoi, sono nostri. Sono il ridere e il piangere della Povera gent di Bertolazzi, sono i
sentimenti umani degli uomini che ancora hanno un cuore, una volont di fare, un ri uto
istintivo, alla sopra azione, al sopruso, all'ingiustizia. Posso dirti, per esempio, che con il
tuo palcoscenico, con la tua arte d'attore, con il tuo magistero umano, con la tua "lezione"
sempre eguale e sempre diversa, ci hai insegnato a decifrare che la vita cos , e hai scritto
una pagina meravigliosamente umana nella storia del teatro”.
Il 30 giugno 1986, con una scelta carica di signi cato, Strehler decide di mettere in scena,
nell’inaugurazione del Piccolo Teatro Studio e nell’approssimarsi di quella della nuova
Scuola di Teatro da lui diretta e che avr sede proprio nei locali annessi al Teatro Studio,
uno spettacolo sui generis: Elvira, o la passione teatrale3 da Louis Jouvet. “ questo infatti,
per noi, uno spettacolo emblematico, - osserva Strehler - un’indagine sulla moralit del
gesto teatrale, un atto d’amore per uno dei nostri maestri, ma nello stesso tempo anche la
testimonianza di un legame profondo con il lavoro che stiamo svolgendo per la nostra
Scuola: del tutto coerente, del tutto inserito, quindi, nel discorso sul teatro e sull’uomo che
andiamo facendo dal 1947 ad oggi. Due ore di totale impegno teatrale, in cui due attori – in
queste sere Giulia Lazzarini ed io – davanti agli allievi in scena, simbolo degli allievi di ieri e
di domani, di fronte al pubblico, col solo sostegno del loro corpo, della loro voce e della loro
presenza, svelano le alte parole, le so erte meditazioni e il severo rigore di un maestro del
teatro. Non un “recital” dunque – parola che ri utiamo -, ma una specie di suicidio teatrale,
perch la gente sappia un poco di verit , sulla fatica, sul dolore, sulla tensione nostra di
interpreti, di servitori del teatro, sulla nostra segreta realt di sempre imperfetti messaggeri

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della poesia e della verit . Una cos alta, cos impegnativa prova merita ben altre
denominazioni che non quella di spettacolo, termine del tutto insu ciente a de nire quel
qualcosa di straordinario che stato Elvira: un avvenimento sconvolgente, colto nel
profondo dal pubblico ogni sera, lasciandoci sempre meravigliati e commossi. L’adesione
totale del pubblico – nella nostra cosiddetta societ dello spettacolo – a questo atto di
verit , una delle poche cose che confortano la mia ultima maturit di uomo di teatro. E
fanno giustizia di molte amarezze, di molte vilt , di molto disordine che circonda il nostro
lavoro. Ed certo super uo sottolineare quanto questa messa in opera di un discorso sul
teatro, in uno spazio che abbiamo fatto nascere l’anno scorso, sia legata alla struttura
stessa del Teatro Studio e voglia indicarne una possibilit di uso, una delle tante possibilit
stilistiche. Consegniamo dunque al pubblico questa nostra fatica, con la promessa di
ripeterla oggi il pi possibile, per riprenderla domani e poi dopodomani, perch Elvira o la
passione teatrale deve essere per il Teatro Studio il lo rosso che ricordi sempre nel tempo
la sua genesi e le sue nalit . In questo senso abbiamo presentato Elvira o la passione
teatrale troppe poche volte; e invece vogliamo che il nostro pubblico ed il pubblico europeo
dentro e fuori le nostre mura ascolti il pi possibile il nostro sommesso ma perentorio
messaggio. La vita di questo spettacolo sar dunque lunga e Elvira costituir una
irrinunciabile permanenza nel nostro teatro, un richiamo per tutti ad un concetto pi nobile,
pi alto di teatralit . E domani, quegli allievi oggi “ nti” della rappresentazione saranno veri
e rinnoveranno l’evento di oggi, perch Giulia Lazzarini ed io diremo loro le stesse cose che
diciamo queste sere: lass , nella nostra scuola, noi lavoreremo infatti sempre su questo lo
di amore e saggezza e su quel lampo di intuizione di Louis Jouvet, che si fatto, in queste
circostanze, spettacolo per il pubblico.” In questo allestimento lo stesso regista - come si
letto - impegnato sulla scena con Giulia Lazzarini nella drammatizzazione di sette lezioni
di teatro di Louis Jouvet, uno fra i maestri cui Strehler si sempre sentito vicino e che
ritorna ora a ispirare sia il nuovo spazio teatrale, sia la nascente istituzione dedicata alla
formazione di attori e tecnici teatrali. Il regista de nisce lo spettacolo “un suicidio teatrale”.
Infatti, si tratta di due ore di totale impegno teatrale, in cui due attori davanti agli allievi di
scena, simbolo degli allievi di ieri e di domani, di fronte al pubblico, con il solo sostegno del
loro corpo, della loro voce e della loro presenza, svelano le alte parole, le so erte
meditazioni e il severo rigore di un maestro del teatro. Elvira o la passione teatrale si basa
sui resoconti stenogra ci delle sette lezioni che Louis Jouvet tenne al Conservatorio d’Arte
Drammatica di Parigi tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, in piena guerra. In queste
lezioni il maestro insegna all’allieva ebrea Claudia la scena sesta del quarto atto del Don
Giovanni di Moli re (e lo spettacolo si pro la, al tempo stesso, come un omaggio anche a
Moli re), la scena in cui Donna Elvira, ormai distaccata da ogni tentazione terrestre, viene a
supplicare Don Giovanni che si penta, perch il cielo ha esaurito ogni riserva di misericordia
per lui. Fino a Jouvet, per il quale - come per Strehler - tutto nel testo, questa scena era
stata considerata una faticosa tirata moralistica, arginata, in parte, dai lazzi di Sganarello e
Ragotin. Secondo il regista francese, essa , per prima cosa, una scena d’amore, durante la
quale Elvira tenta di salvare l’uomo che ama con tenerezza. Sotto la compostezza rigorosa
e trattenuta della donna, va letto il tumultuare di una tempesta di passioni. Nello spettacolo,
Strehler diviso tra il ruolo di attore e quello di regista, tra la lezione di Jouvet e la propria:
pur interpretando il maestro francese, il regista italiano in scena rimane s stesso, con la
sua tipica maniera di dirigere le prove, con il particolare modo di intendersi con una delle
sue attrici preferite. L’immedesimazione Strehler-Jouvet si nota nel prologo durante il quale
Strehler, in un’atmosfera didattica e familiare, incontra il pubblico: ad esso egli espone i
dubbi e le ri essioni sia proprie, sia di Jouvet. Poi il buio, e poi ancora l’irrompere di

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proiezioni cinematogra che: a esse il regista o re il compito di situare storicamente Elvira,
per ricordare al pubblico quel momento terribile della storia, la Seconda guerra mondiale,
entro cui prende corpo la piccola storia individuale di Claudia, degli altri allievi e del loro
incontro con il maestro Jouvet. Dalle proiezioni di nuovo al buio, e, quindi, alla prima delle
sette lezioni: uno spettacolo semplice e suggestivo, in cui l’alternarsi di luce e buio segna
gli stacchi tra una lezione e l’altra, tra una scena e l’altra. Per tutte e sette le lezioni, la
scena di Donna Elvira (peraltro abbastanza breve) ripresa, frazionata, sviscerata nei suoi
pi intimi recessi verbali. Jouvet dimostra con la sua puntigliosa analisi testuale che non si
tratta di un discorso moralistico, ma di una sublime scena d’amore, di quell’amore che non
chiede nulla per s , ma puro dono all’altro. Anche per Giulia Lazzarini il ruolo “doppio”:
alle indicazioni di Jouvet sulla gura di Elvira si aggiungono e si sovrappongono quelle di
Strehler sul ruolo di Claudia. La Lazzarini mostra tutta la sua bravura nel rendere le varie fasi
di disperazione e di euforia dell’allieva alle prese con la lenta, interiore conquista del
personaggio, no alla scena nale in cui, dopo dubbi e scoramenti, Claudia riesce a
raggiungere la piena soddisfazione del suo maestro, che l’accoglie piangente fra le braccia,
mentre le luci si abbassano e segnano il termine dello spettacolo. Uno spettacolo che
inaugura, all’interno del Piccolo Teatro, anche la nuova scuola di teatro, (il primo corso
signi cativamente intitolato a Jacques Copeau uno fra i maestri di Strehler) improntata ai
pi attuali criteri pedagogici e fornita di infrastrutture di notevole rilievo (fra cui l’ex Teatro
Fossati, restaurato e riaperto con il nome di Piccolo Teatro Studio), oggi considerata fra le
pi prestigiose del mondo. Il regista, da sempre interessato - come si detto - alla
formazione degli attori, pu cos coronare il sogno di dirigere una scuola di teatro
solidamente legata alla tradizione del Piccolo Teatro.

Il 1986 si conclude per Strehler con una nuova, imponente, edizione dell’Opera da tre soldi4
di Brecht, presentata questa volta in lingua francese il 31 ottobre 1986 al Th tre du
Chatelet di Parigi, interpretata fra gli altri da Michael Heltau (Mackie), (Jonathan Jeremiah
Peachum), Denise Gence (Celia Peachum), Barbara Sukowa (Polly) e Milva ( ). Le scene
sono di Ezio Frigerio, i costumi di Franca Squarciapino, l’orchestra diretta da Peter
Fischer. Osserva al proposito il regista: <<comincerei con il ribadire che Brecht è
soprattutto un a ascinante universo estetico, suscettibile dunque d’essere ria rontato ogni
volta con una relativa autonomia. Per questo, ad esempio, ho deciso con Frigerio di
ambientare questa nostra terza Opera in una Brooklyn Anni Dieci, con i suoi immensi
palazzi di mattone sullo sfondo, bagnati da una luce livida. Vorremmo fare intendere, sia
pure attraverso questo mascheramento storico, o forse grazie ad esso, che il centro
dell’economia mondiale si è spostato ormai al di là dell’Atlantico, che spesso coloro che la
manovrano hanno i tratti impeccabili del nanziere, sotto i quali si nasconde un criminale di
nuova fattura, diplomato magari all'universit . Vorremmo anche lasciare capire, nei rapporti
tra uomo e donna, ad esempio, che la regola istintuale di questo mondo oggi la
doppiezza costante. Abbiamo perci lavorato, in questi sessanta giorni, a restituire
all’Opera il massimo dello humour, come Brecht mi ha sempre raccomandato, ma anche ad
innervare nella comicità un’asprezza quasi dolorosa”. << Questa sera - dice agli attori il
regista alla prova generale - ha termine il nostro ritrovarci quotidiano. Ora lo spettacolo
appartiene solo a voi e al pubblico. Io devo andarmene, mettermi da parte. Vorrei restare,
ma non posso: l'eterna dannazione di noi registi. Vi voglio dire per quanto vi sono grato
per il nostro lavorare insieme». Strehler rivolge queste parole alla sua compagnia in questa
edizione davvero internazionale che parla lingue diverse ma dove l'idioma u ciale il
francese. Il Mackie Messer di Heltau di erente rispetto alle precedenti edizioni, sembra un

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personaggio di una commedia so sticata. Strehler ha costruito per lui con pazienza questo
ruolo. Milva una Jenny delle Spelonche diversa non solo per l'abito, il trucco, la lingua, i
capelli, da quella del 1973. “ diversa” - continua Milva – “dentro di s , pi aggressiva., ma
meno cupa di quella di allora. una donna primordiale, semplice, come lo ero io molti anni
fa, che si lascia andare alle cose. Un personaggio ambiguo, straordinario, che resta nell'aria
anche quando non c' : un vero e proprio simbolo dell’Opera da tre soldi. Per il resto posso
dire di essere stata la prima a rmare il contratto: avevo voglia di tornare a lavorare con
Strehler”. Del cast degli interpreti principali fa parte anche il francese Yves Robert, noto
anche in cinema, che Peachum e Tiger Brown l'attore di origine algerina Jean
Bengulgul. Barbara Sukowa, attrice cinematogra ca ma anche teatrale, ricorda: “Polly
solo una donna che nasconde la sua forza sotto la sua femminilit . Con Strehler l'incontro
stato bellissimo. Un uomo formidabile, Inaspettato, generoso. Quest'anno, poi, I’Opera per
me era nell'aria: a Berlino mi avevano o erto il ruolo di Jenny; ma io ho scelto di fare questo
spettacolo, che per me era pi importante. Le di colt maggiori le ho avute nel canto e non
con la lingua. Cantare Weill e Brecht richiede, infatti, uno stile particolare. Per Polly, con
Strehler, abbiamo scelto la leggerezza, una certa ironia. E una chiave che non mi stata
di cile perch anche questo sentimento sta dentro di me, perch lo sono tutti i miei
personaggi”. Di grande interesse si rivela che spesso coloro che la manovrano hanno i tratti
impeccabili del nanziere, sotto i quali si nasconde un criminale di nuova fattura, diplomato
magari all'universit . Vorremmo anche lasciare capire, nei rapporti tra uomo e donna, ad
esempio, che la regola istintuale di questo mondo oggi la doppiezza costante. Abbiamo
perci lavorato, in questi sessanta giorni, a restituire all’Opera il massimo dello humour,
come Brecht mi ha sempre raccomandato, ma anche ad innervare nella comicit
un'asprezza quasi dolorosa.” la testimonianza di Natalia Aspesi che racconta il lavoro
preparatorio di Strehler a pochi giorni dal debutto, sottolineando nuovamente la dimensione
internazionale che questa edizione dell’Opera da tre soldi assume: “Nel buio, Giorgio
Strehler si muove con energia irrefrenabile, tra la platea e il palcoscenico: ordina in
francese, suggerisce in tedesco, canta in italiano, mima, nel linguaggio universale dei gesti,
l'inso erenza del prigioniero Mackie Messer, l'innocente stupore di Polly Peachum. Da due
mesi vive cos , dieci ore al giorno, chiuso nel vecchio e maestoso Th tre du Chatelet, ori,
velluti, le di palchi come in una Scala non molto pi piccola. Sono gli ultimi giorni delle
prove dell'Opera da tre soldi, allestita dal Teatro d'Europa in collaborazione con lo Chatelet,
il teatro municipale di Chirac. La moglie Andrea Jonasson, il bianco barboncino in braccio,
segue immobile e silenziosa il suo agitarsi frenetico, la segretaria Elizabeth esprime la sua
totale devozione portandogli ogni tanto un t , un brodino. A 65 anni, invaso ancora una
volta dalla passione per il teatro, per Brecht, Strehler vive il suo potere carismatico e il
piacere della sua stessa tirannia, con una forza quasi violenta: ignora il cedimento, la
stanchezza, l'incertezza, l'attesa, un po' di attenzione per gli altri, gli attori che si muovono
sul palcoscenico come in trincea. Il francese Yves Robert si accascia su una sedia, il
tedesco Michael Heltau si perde nello scoramento, Barbara Sukowa ha lampi di ribellione
trattenuta. Lo scenografo Ezio Frigerio, in platea, mormora "Sono a pezzi", sua moglie
Franca Squarciapino, costumista, sorride: "Appena nite le prove, scappiamo in Africa dove
nessuno ci pu raggiungere". Solo Milva ha la saggezza del pi forte: i rossi capelli raccolti
in cima alla testa, come apparir sul palcoscenico, la candida pelle perfettamente truccata,
la gura sottile chiusa in un lungo abito elegante che usa come vestaglia, dice: "Bisogna
avere pazienza, ma anche tenergli testa, serenamente". L'opera da tre soldi andr in scena
il 31 ottobre ma Strehler ha chiesto che la vera prima, con i critici, sia il 12 novembre, per
avere il tempo di ri nire uno spettacolo che secondo lui avrebbe avuto bisogno di pi prove:

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il teatro, che ha 2000 posti, gi esaurito da settimane, dall'Italia tempestano di richieste
che ormai non possono pi essere accolte. Anche per i francesi, Brecht, Strehler, Milva
sono un grande evento. Entra in scena per la prima volta una Lucy, la giovane attrice
francese Annick Cisaruk, che ha sostituito quella allontanata per scarsa disciplina e
sottomissione: Strehler impietrisce tutti gridando, perch la ragazza non perfettamente
truccata, come per il vero spettacolo: "Siete disumani, mandare allo sbaraglio una ragazza
che per la prima volta si trova davanti a me: il trucco d sicurezza, aiuta". Accorrono
truccatrici tremanti, anche il cappello viene prontamente sostituito. Sin dal primo giorno
delle prove tutti devono essere truccati e in costume come per la prima: "Il mio vestito gi
da buttar via" dice Milva, rilassata; Denise Gence, matura attrice uscita dalla Com die
Fran aise, una Celia Peachum vestita di neri pizzi sbrindellati, sta provando docile la sua
canzone per la ventesima volta, mentre Strehler con imperiosa dolcezza le mostra come lui
vuole che si faccia, interrompendola continuamente. Yves Robert, regista e attore celebre in
Francia, la grigia barba e la bombetta di Johnathan Peachum, non si lascia soggiogare dall'
entusiasmo creativo del regista: continua a mimare la sua canzoncina con dispettosa
indi erenza. L'opera di Brecht-Weill la realizzazione pi importante del secondo triennio
del Teatro d' Europa di cui Strehler stato ancora nominato direttore, dal nuovo ministro
della cultura Fran ois L otard. " stata una scelta abbastanza casuale. Il nostro teatro,
l'Od on, chiuso per restauri, lo Chatelet ci ha o erto una coproduzione; una sala molto
grande, abbiamo pensato a un'opera che potesse riempirlo. In pi , questo Brecht non viene
dato in Francia da anni, ci sembrato una buona idea": dice Strehler, i bei capelli bianchi
folti e composti, la gura robusta dentro l'eterno maglione blu, scattante e impaziente, la
salute tornata perfetta, dopo il cedimento di qualche tempo fa. Tra il pomeriggio e la notte,
prende solo pochi minuti di pausa e ne appro tta per mangiare qualche dolcetto, cambiare
maglione, ristorarsi un po' dall'in uenza che da giorni lo ha colpito, senza del resto
accarlo. "Per sono molto stanco, stanchissimo, solo che non ci si pu fermare. Dopo la
prima u ciale, dopo le necessarie limature, scappo a Quiberon, a rimettermi in sesto.
Intanto mi tengo su con l'agopuntura, due volte al giorno viene un genio che mi fa tirare
avanti". Questa edizione dell'Opera, la terza per Strehler, ha avuto i suoi intoppi e i suoi
disordini. Fin da principio erano certi il regista Strehler, e Milva per la parte di Jenny delle
Spelonche: non solo perch l'ha gi interpretata con grande successo, ma perch in
Francia, come del resto in Germania, la cantante-attrice italiana adorata, considerata una
star pi che da noi. Per gli altri interpreti, ci sono state di colt , come racconta il regista.
Per la buona Polly aveva pensato a Nastassia Kinski, ma la giovane attrice era incinta,
aveva impegni televisivi, non stava bene. Dopo qualche prova con Strehler, si ritirata
soprattutto perch in preda a una depressione. Barbara Sukowa era incerta, doveva girare
un lm col tedesco Schl ndor . Poi il copione non le piaciuto, e ha accettato il teatro.
Mackie il bandito avrebbe dovuto essere Marcello Mastroianni, negato alla parte cantata:
Yves Montand non ne aveva voglia, Johnny Hallyday non poteva, Dirk Bogarde non sapeva
bene il francese. "Cos siamo arrivati a Michael Heltau, con il quale ho gi lavorato per il
teatro di Vienna". A questo punto c'era una attrice italiana, un attore tedesco, ci voleva per
forza per il teatro d' Europa un francese. Strehler prima aveva pensato, per la parte di
Peachum, a Peter Ustinov, poi a George Wilson, in ne era stato scritturato lo svizzero Heinz
Bennent (quello, tra l'altro, dell'Ultimo metro). Per assoluta incompatibilit di carattere, sin
dal primo giorno, lo scontro intellettuale tra due diversi modi di vedere Brecht ha rotto il
sodalizio. Sembrava che nessuno volesse pi interpretare quel ruolo, lavorare con Strehler,
a rontare un impegno di mesi: poi Yves Robert ha detto s : ma per una specie di
maledizione ha di colt a ricordare la parte, gli hanno dovuto a ancare una suggeritrice.

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Heltau ha un insegnante di francese al anco notte e giorno, perch la lingua gli ostica.
Pure Milva, che pure il francese lo parla molto bene pur non avendolo mai studiato, lavora
con una insegnante. Anche con l'orchestra c' stato qualche problema: la dirige Peter
Fischer, allievo di Paul Dessau, che era stato collaboratore diretto di Brecht, componendo
tra l'altro la musica di scena di Madre coraggio e di L'anima buona di Sezuan. Fischer ha
conosciuto Bertolt Brecht, ha lavorato con lui al Berliner Ensemble, il diretto erede della
linea originale dell'opera. "La sua la migliore orchestra che ho mai avuto" dice convinto
Strehler: per il musicista, accato dalla precisione e della intransigenza dell'italiano, ha
preso una settimana di vacanza per andare a fare una cura del sonno. Del resto, era stato
molto perplesso ascoltando gli arrangiamenti musicali di Negri e Carpi nell'edizione
milanese del 1972: li aveva de niti "cotoletta alla milanese". Strehler ha scelto ancora una
volta Milva: "Per stima, amicizia, nostalgia, abitudine di lavorare insieme, convinzione che
sia una eccezionale Jenny, certezza che tra noi ci sia una storia che non nisce, iniziata
tanti anni fa lavorando insieme alle canzoni di Brecht, cui lei si accost con estrema umilt ,
venendo dai successi delle canzonette. Mi intenerisce anche il fatto di sapere che Milva sia
cambiata, abbia cominciato a diventare quella donna importante che oggi, dopo l'incontro
con me con l'Opera". Milva ha accettato la faticosa impresa. "Per la voglia di tornare a
lavorare con Strehler, per recitare in francese, cosa che non ho mai fatto, per s darmi
ancora una volta e rimettermi in discussione. Non cos facile: tutti piegano la testa davanti
a lui, tranne Barbara Sukowa, da me non sopporta che dica la mia, alza la voce ma io
resisto, nisce poi che mi accarezza. Lui che sa dire cose cos belle, cos umane, con gli
attori umano non . Il fatto che io l'amo come sempre, ma non lo temo pi ". Anche Milva
conduce a Parigi una vita da monaca: la mattina incontra i giornalisti, almeno due interviste
alla volta, dopo le tre si chiude in teatro, sino a mezzanotte. Mangia una volta al giorno in un
ristorantino cinese, fa mezz'ora di ginnastica, aspetta che il suo compagno, Massimo
Gallerani, o la sorella, vadano a trovarla qualche giorno. Con la sua grossa agenda, tratta gli
a ari personalmente, senza un agente: con l'Opera andr , dopo febbraio, a Vienna, Milano
e Roma, con Astor Piazzolla far una tourn e in Europa, da sola andr per un lungo giro in
Giappone. Alla televisione italiana presenter nello spettacolo del sabato sera, in quattro
serate, il suo ultimo disco, con le canzoni scritte apposta per lei da Vangelis, Tra un sogno e
l'altro; sta preparando la sua partecipazione a un festival dedicato a Luciano Berio l'anno
venturo a Londra, in cui interpreter ancora una volta La vera storia. Intanto Strehler lavora
con un accanimento e una passione che stroncano i suoi collaboratori: come se mettesse
in scena L' opera da tre soldi per la prima volta: "Nel 1956, esattamente trent'anni fa, avevo
35 anni: il testo non era stato quasi mai rappresentato in Italia, attorno al drammaturgo
tedesco c'era molta disinformazione, dovevamo appropriarci di miti e valori culturali da
discutere. C'erano Milly, Tino Carraro, Mario Carotenuto e soprattutto c'era Bertolt Brecht.
Io avevo lavorato con lui al Berliner, avevamo parlato tanto. Venne una settimana a Milano,
ci aiut . Mor in agosto, prima dei fatti di Ungheria, ma gi la sua vita, a Berlino Est, dove
viveva ma anche a Ovest, era guardata con sospetto". Tre giorni dopo la prima milanese,
Brecht sugger di tagliare almeno tre quarti d'ora di spettacolo, cosa che Strehler fece. "Poi
mi mand il testo della corale nale, opposto all'originale: anzich dire che non bisognava
prendersela con i miserabili, quella nuova diceva che bisognava lottare accanto a loro.
Facemmo tradurre il testo, poi l'originale and perduto: non resta quindi che la traduzione
italiana di questo cambiamento, che ho inserito in francese anche in questa edizione". Nel
1972, per L'opera da tre soldi Strehler scelse Milva, Giulia Lazzarini, Santuccio, Tedeschi. E
spost l'azione dalla met degli anni Dieci (e gi sua era stata l'idea di ambientarla anzich
nell'Inghilterra della regina Vittoria, negli Stati Uniti, con l'approvazione dell'autore),

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all'epoca del proibizionismo. Nell'edizione di oggi, tornato al 1915 "perch c'
un'in azione degli anni Venti e solo a sentire il charleston rabbrividisco". ancora attuale
quest'opera? "Lo , soprattutto perch racconta del tradimento. In pi c' un nuovo
pubblico che non l'ha mai vista, che forse ne ha sentito parlare dai nonni del 1956, ed
giusto che la conosca, si diverta, ci ri etta". Per la prima volta, Strehler inserisce un
importante omaggio al suo amato autore. Agli inizi non sar un attore a interpretare la parte
del cantastorie (nel 1956 era Ottavio Fanfani, nel 1972 Giancarlo Dettori). "Ho scovato un
vecchio disco in cui lo stesso Brecht a interpretare la parte. Sentiremo cos , a trent' anni
dalla morte, la sua stessa voce, lui stesso,

partecipare al nostro lavoro."

. Riporto in ne le osservazioni di

Guido Davico Bonino che danno

conto dettagliatamente del lavoro profuso da Strehler per questa terza edizione che,
nonostante l’impegno comune non indi erente, non sar n ripresa, n proposta in altre
sale teatrali francesi o europee. “Si pu esprimere il pi radicale pessimismo attraverso
l'esaltazione della bellezza? Credo che in questa domanda e nell'implicita risposta
a ermativa stia la chiave della terza edizione dell'Opera da tre soldi di Brecht-Weill, o erta
all'attenzione della critica italiana l'altra

sera al

Th tre

du Chatelet, gremito sino all'ultimo ordine di palchi. Al suo terzo appuntamento

con l'Opera, dopo quelli canonici del 1956 e del 1972, Strehler non nasconde, ma esibisce
la sua s ducia e confessa il suo sconforto dinanzi alla societ attuale e alla storia recente,
traendo dal dramma brechtiano uno spettacolo di mortuaria bellezza: la rapinosa, eppure
illividita, quasi algida sarabanda di un'umanit misera e feroce, che sa perfettamente che i
giorni dell'ira divina pi non

verranno (per dirla con le parole dei songs), che tortura, depreda e sbrana inebriandosi delle
proprie infamie e brutture. C' una luce brunita e spettrale in quella Brooklyn-Gomorra, tra
due alti grattacieli di mattonato, i fari di un'abnorme berlina, le lampadine di due immense
pale-ruote da luna park, in cui la voce chioccia e femminea di Brecht stesso scandisce la
veridica storia di Macheath, nel prologo. E la bottega rosso-gambero di Gionata Geremia
Peachum, l'imprenditore della piet organizzata, il garage rosso-porpora di Mackie Messer,
il bandito corruttore e libertino, il bordello rosso Cina di Jenny delle Spelonche delle
compagne baldracche (tutto l'apparato scenogra co di Ezio Frigerio) sembrano tre
antiche mansions, tre scene sse, statiche e anguste, da mistero medievale capovolto,
disperato e blasfemo. Sapendo che impossibile mettere ordine nel mondo, Strehler (come
Alcandre, Crotone, Prospero, i «suoi» maghi-registi) si riserva, ora che ha pubblicamente
deposto l'ottimismo dalla ragione, di mettere almeno ordine in quel marasma scenico, in
quel brulicame ttizio; e lo fa al pi alto livello di lucidit , con esiti di un'impressionante,
quasi angosciosa levigatezza formale. La grande scena del matrimonio di Mackie e Polly
Peachum si trasforma in una sequenza di trasformismo non solo decorativo, ma
propriamente etico: quei sei banditucoli deformi (c' il nano e l'allampanato, il grasso e il
bleso) arredano lo spazio, ma anche loro stessi in irreprensibili borghesi, in un'esibizione di

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tempismo con gli oggetti o di e ettismo gestuale reciproco che ha qualcosa di allucinatorio
tant' perfetto.

All'opposto, la scena del lupanare e della cattura di Mackie (siamo stavolta sotto l'egida
visuale di Toulouse-Lautrec) con le nove puttane a campionario, tutte diverse e tutte eguali,
ha qualcosa di catatonico, sembra la visione profetica di una corruzione inevitabile. E,
ancora, la s lata dimostrativa degli otto mendicanti su improbabili arti meccanici, su protesi
assurde (qui il pittore- guida potrebbe essere Egon Wellesz: ma questi e altri richiami gurali
sono splendidamente ricreati dai costumi di Vera Squarciapino) ha la strappata cadenza
dell'incubo, l'orribile sogno di un futuro gi ricominciato. Ecco, la dimensione dell'incubo
mi sembra, in questa terza edizione, farsi strada con un'evidenza che le due passate non mi
avevano trasmesso. Nell'oppressione dell'incubo, e proprio nella separatezza della loro
solitudine circolare, vivono, non a caso, in questo spettacolo, i sei protagonisti. Credo
d'aver compreso che stavolta Strehler li ha scelti, aldil di internazionalit , notoriet ,
professionismo, anche per la loro etologia, per ci che antropologicamente il loro sico
esprime: e vi ha poi inculcato, nel duro lavoro preparatorio di a namento interpretativo, un
preciso comportamento, che specchio-simbolo di ruoli sociali nella sua mente ben
circostanziati. Alto, elegante, ancor bello, Michael Heltau come Mackie una tutta odierna
tipologia del crimine, tra falsa managerialit e couture di lusso: ha ridicoli scatti felpati da
playboy di copertina di rivista rapidi gesti di stizza da alto dirigente deluso, e, tra le sbarre,
la supponente malinconia dell'innocente tradito non sto a far nomi noti, dico che l'attore
miscela egregiamente i vari registri stilistici del personaggio. Yves Robert come Peachum
non ha pi nessuna delle untuose doppiezze dei suoi predecessori, come i nostri
Carotenuto o Buazzelli: rapido e aspro, deciso e provocatorio, uomo di marketing, con le
idee molto chiare sulla sua «area di espansione». Bionda, deliziosa, esile, eppure di un
incandescente vitalismo, Barbara Sukowa una Polly giovanilmente desiderosa, tra
ingenuit e incertezze, di schiettezza sentimentale: ma sa anche fare risaltare l'ambiguit
dei giovani, la loro facilit , appena avvertono un vuoto di ideali, a passare dall'altra parte.
Due «caratteri», incisi col bulino dell'irrisione, sono la Celia Peachum di Denise Gence, una
madre-bu one, che viravolta tra autoritarismo ed etilia, e il Tiger Brown di Yves Bengulgul,
piccolo, grasso, con un paio di ba etti hitleriani, la voce afona, davvero la caricatura
estrema del potere spossessato. Quanto a Milva come Jenny delle Spelonche, chioma fulva
su labbra di bistro e gambe ben salde in proscenio, sono Weill, Brecht, Strehler che
cantano la loro amarezza di innamorati delusi dalla vita in quella sua voce calda e possente,
che scuote ogni volta il teatro plaudente. Non dico degli altri per motivi di spazio: ma
dell'epilogo a sorpresa (Mackie salvato dal messo del presidente) non posso tacere.
Strehler stavolta l'ha risolto in parodia del melodramma: tutti si vestono di gran corsa da
comparse d'Aida e Norma, e cantano il fasullo lieto ne. Ancora un modo per suggerire che
la degradazione del teatro sempre meno penosa di quella della vita.”

Note

1 L’illusion di Pierre Corneille. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo
Carpi. Maschere: Luc Laporte. Interpreti: Marc Delsaert, G rard Desarthe, G rard H rold, Nathalie
Nell, Hugues Quester, Nada Strancar, Henri Virlogeux, Olivier Deparis, Jean-Paul Galinski, Fr d ric
Girard, Fran ois Grosjean, No lle Rech. Produzione: Th tre de l’Europe. Parigi, Teatro de l’Od on,
11 novembre 1984.

2 La grande magia di Eduardo De Filippo. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche:
Fiorenzo Carpi. Interpreti: Ra aele Bondini, Dina Zanoni, Anna Saia, Martina Carpi, Eleonora

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Brigliadori, Franco Parenti, Gerardo Amato, Mimmo Craig, Gianfranco Mauri, Stefania Graziosi, Vici
De Roll, Renato De Carmine, Rosalina Neri, Sante Calogero, Vincenzo Crocitti, Carlo Croccolo, Renzo
Rossi, Anna Recchimuzzi, Maretta De Carmine, Giancarlo Cond . Milano, Piccolo Teatro, 3 maggio
1985.

3 Elvira, o la passione teatrale da Louis Jouvet. Elementi scenici: Ezio Frigerio. Elementi di costume:
Luisa Spinatelli. Interpreti: Giorgio Strehler, Giulia Lazzarini, Luigi Di Fiore, Mario Ficarazzo, Claudio
Carioti, Giusi Cataldo, Annalisa Costantino, Cristina Nutrizio, Tito Manganelli. Milano, Teatro Studio,
30 giugno 1986.

4 L’op ra de quat’sous di Bertolt Brecht e Kurt Weill (terza edizione). Traduzione: Myriam Tanant.
Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Musiche: Kurt Weill. Direzione musicale: Peter
Fischer. Interpreti: Michael Heltau, Yves Robert, Denise Gence, Barbara Sukowa, Jean Benguigui,
Milva, Annick Cisaruk, Fred Personne, Jacques Bouanich, Michel Creton, Bruno Balp, Guy Grosso,
Jean-Fran ois Perrier, Alain Flick, Philippe Paimblanc, G rard Grobman, lise Caron, Juliette
Degenne, Denise P ron, Lucette Raillat, Lucette Filiu, Anita Alvares, Carina Barone, Laurence Darpy,
Isis, Andrea Cohen. Produzione: Th tre de l’Europe/Th tre Musical de Paris-Chatelet. Parigi,
Th tre Musical de Paris-Chatelet, 31 ottobre 1986.

Lezione 20

21.04.2020

Goldoni, Mozart e Pirandello

Con una nuova edizione di Arlecchino, Strehler festeggia i 40 anni del Piccolo Teatro.
Inaugura la stagione scaligera con Don Giovanni di Mozart (sul podio Riccardo Muti). Eletto
senatore, presenta un progetto di legge sul teatro. Mette in scena Come tu mi vuoi di
Pirandello e due atti unici contemporanei: Il tempo stringe di Antonio Tabucchi e Libero di
Renato Sarti. Con una nuova edizione di Arlecchino, Strehler festeggia i 40 anni del Piccolo
Teatro. Inaugura la stagione scaligera con Don Giovanni di Mozart (sul podio Riccardo
Muti). Eletto senatore, presenta un progetto di legge sul teatro. Mette in scena Come tu mi
vuoi di Pirandello e due atti unici contemporanei: Il tempo stringe di Antonio Tabucchi e
Libero di Renato Sarti.

Strehler si dedica a una nuova edizione di Arlecchino1 (quella dell’addio) presentata in


coincidenza con il quarantesimo del Piccolo Teatro la sera del 14 maggio 1987. “Quali
signi cati e quali ragioni ha questa rappresentazione di Arlecchino, servitore di due padroni
di Carlo Goldoni, per l’anniversario dei quarant’anni di vita del Piccolo Teatro, la sera del 14
maggio? Ha le ragioni di una testimonianza e di una fedelt a qualcosa che ha
accompagnato per quattro decenni la nostra vita di commedianti, nel nostro paese e nel
mondo. Ed il signi cato di un grato, commosso saluto d’addio, al pubblico della nostra
citt . Al nostro pubblico di sempre. Abbiamo chiamato questo Arlecchino “l’edizione
dell’addio”, ed un addio che noi diamo ad una nostra avventura teatrale antica, ma
sempre rinnovata nel tempo. Noi, quelli che siamo rimasti di una compagnia nata nel 1947,
ci sentiamo il simbolo dei tanti interpreti che hanno dato vita ai personaggi di un testo e di
uno spettacolo certamente straordinario nella sua vitalit e nella sua capacit di rifarsi
diverso, pur restando fondamentalmente lo stesso. Se c’ un miracolo dell’Arlecchino,
proprio questo. Avremmo voluto che, sera dopo sera, tutti i comici che vi hanno partecipato
si alternassero nei ruoli che furono i loro. Non abbiamo potuto farlo. Perch molti di loro non
ci sono pi . Altri sono presenti, ancora nel teatro ma in altri luoghi, in altri spettacoli. Ma

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siamo riusciti almeno ad indicare “simbolicamente”, con una relativa ma signi cativa
alternanza, questo piccolo mondo di attori che si riuniscono, che avanzano negli anni, che
si dividono e lasciano il posto ad altri, e talvolta si ritrovano. Non sempre, non tutte le sere
gli attori dell’Arlecchino saranno, infatti, gli stessi. Ma l’Arlecchino ugualmente sar , davanti
al pubblico, con la perennit delle opere d’arte del teatro, che restano anche al di l dei loro
interpreti. Per il resto, gli attori dell’Arlecchino 1987 sono stanchi. Hanno il diritto e il destino
di essere stanchi. Alcuni di loro portano avanti questo spettacolo da decenni, altri l’hanno
lasciato per poi riprenderlo in momenti successivi. Tuttavia essi non mostreranno la loro
stanchezza, noi non lasceremo trasparire la nostra umana fatica, il peso degli anni sulle
nostre spalle, come ogni vero commediante deve fare. Perch proprio questa la nostra
estrema dignit di servitori del teatro ed il segno della nostra umilt , portata come un segno
di onore. Questa serata, queste serate, avranno dunque certamente un loro carico di
tristezza e di acconsentimento alla vita che passa. Nell’ilare gioco di Arlecchino servitore di
due padroni non potr mancare il brivido e l’ombra del tempo. Per primo la maschera
gloriosa di Arlecchino fu di Marcello Moretti e dopo di lui di Ferruccio Soleri, artista
altrettanto straordinario ed altrettanto unico. Innanzi tutto a loro va la mia gratitudine. Una
sola attrice qui, nuova, – Andrea Jonasson - che si assunta il ruolo di tante prime attrici
del Piccolo Teatro, quello di Beatrice, e che vuole semplicemente - e non facile - dare il
segno di una continuit del nostro mestiere in un’Europa del teatro che si sta costruendo
pi concretamente di quella della politica. A tutti, ai tanti attori che, come nelle famiglie dei
comici, si sono avvicendati in quattro decenni nei ruoli dell’Arlecchino, vanno il mio grazie e
il mio a etto. Chiss , Arlecchino servitore di due padroni, anzi, il Servitore di due padroni di
Carlo Goldoni (e ricordo che un tempo mi fu rimproverata come indegna irriverenza o bassa
ricerca di successo plateale, l’apposizione cos legittima del nome di Arlecchino al titolo
originale!) potr anche rinascere un giorno. Con altri, in altri tempi, con cadenze forse tutte
diverse. Forse potr essere uno dei possibili “testi” con i quali si concluderanno i tre anni
del primo corso intitolato a Jacques Copeau della nostra Scuola di Teatro, nella quale noi
riponiamo tante speranze ed alla quale abbiamo dedicato e dedicheremo tanta fatica. Forse
avr inizio un Arlecchino di ragazzi, come noi fummo allora, quando nacque sulle nostre
scene. O forse no. Ma questo Arlecchino, servitore di due padroni il nostro pubblico non lo
vedr pi . Esso non verr ripreso, n “riciclato”, se mai pu de nirsi cos la di cile e umile
opera di mantenere in vita, senza far trasparire le rughe degli anni, uno spettacolo che ha
segnato la giovinezza del Piccolo Teatro, la nostra, e che ha fatto acclamare per
quarant’anni il teatro italiano nel mondo. Il Grande Mondo che Goldoni metteva sempre
accanto al Teatro e che grazie ad un altro lungo e paziente lavoro, ha conosciuto non solo
questo Goldoni, giovanile ed ancora atteso al gioco delle maschere, ma anche l’altro suo
volto, pi profondo, pi poetico e compiuto: quello delle Baru e chiozzotte, della Trilogia
della villeggiatura e del Campiello. Con orgoglio annoto che il pericolo di un equivoco che
poteva nascere – e che in parte nato, in un primo tempo – da questa miracolosa
esperienza della Commedia dell’Arte giocata per cos dire sul vuoto, senza rete, senza
tradizioni, per sangue e natura italica soltanto, non c’ stato; che oggi – non in Italia, ma
nell’Europa e fuori dell’Europa –, Carlo Goldoni nalmente conosciuto, amato e recitato,
forse anche capito, per ci che di pi imperituro e di poetico di lui resta. Ma tutto questo
non avvenuto per un caso della sorte. per volont nostra, per nostra tenacia e nostra
ricerca, per lavoro nostro. Per il resto, Arlecchino ha segnato un grande successo del
Piccolo Teatro, ma ha anche avuto la sorte di arrestare in certo qual modo un altro possibile
discorso sul tema della Commedia dell’Arte, che proprio con Arlecchino noi avevamo
cercato di riscoprire. E che pochi altri – forse nessuno – hanno cercato veramente di portare

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avanti. Non da escludere dunque, che questo nostro addio all’Arlecchino ci spinga a
riprendere un lo quasi interrotto perch tutto assorbito da un solo testo di Goldoni, quello
cio del lavoro iniziato con Il corvo di Gozzi e poi lasciato a lato per ‘necessit ’ teatrale. Per
‘successo’, perch nella mobilit dell’esperienza teatrale i successi, talvolta, diventano
tirannici. Questo Arlecchino inizia al lume delle candele e nisce con le candele che si
spengono, una per una. Non per il frutto di un’idea bizzarra di ‘regia’, ma per un fatto di
vita, che appartiene alla realt del lavoro quotidiano. Una sera, infatti, per caso, durante
quella che noi chiamiamo “l’edizione dell’Od on” di Parigi, proprio in quel teatro, nel corso
dell’ultimo atto si veri c un’interruzione di corrente. Il teatro rimase sprofondato nel buio.
Buia la platea, buia la scena. Gli attori restarono perplessi ed anche impauriti, poi uno di
loro ebbe l’idea di accendere una candela di un candelabro in scena. E, rapidamente, come
se fosse concertato, essi cominciarono ad accenderne altre. Alcuni si spinsero nelle quinte,
n nei camerini, per cercare luce e tornarono e recitarono quello che doveva essere, quello
che doveva essere recitato e portato a compimento davanti al pubblico, per il pubblico.
Essi lo fecero, illuminandosi reciprocamente, in un gioco improvvisato e quasi disperato che
ci commosse tutti. Una sera, in un teatro del mondo, noi nimmo dunque questa commedia
della gioia, nimmo tra le lacrime questa ‘cosa da ridere’ e mai, credo mai, tutti coloro che
c’erano, quella sera, sentirono pi profondamente la gloria del teatro, il suo splendore
contro tutto e tutti, nel buio della notte dell’uomo. Addio vecchio Arlecchino, buongiorno a
te, Arlecchino nuovo e a tutti gli Arlecchini che verranno nella vita di domani! Su il sipario.
Una volta di pi .” In questa edizione, Strehler sposta il baricentro dello spettacolo su una
dimensione quasi onirica e gli attori, stanchi, dopo quarant’anni di spettacoli, sembrano
pronti a deporre le maschere. Essi appaiono come gure di un altro universo -
settecentesche silhouettes – che emergono, all’inizio, lentamente dal buio, e, nell’oscurit ,
dove Arlecchino torna a sprofondare alla ne della recita, allo spegnersi delle candele. il
buio in cui si perdono i fantasmi del teatro quando passa la loro ora e, allusivamente, il buio
in cui sembra concludersi (ma cos non sar ) il lungo ciclo di vita di questo spettacolo.
Nel maggio 1987, Strehler inaugura una nuova fase della sua attivit politica: egli rassegna
infatti, le dimissioni dal Partito Socialista Italiano e si candida quale indipendente nelle liste
elettorali del Partito Comunista. “Ho rassegnato le mie dimissioni dal PSI-Partito Socialista
Italiano- spiega in un comunicato-con una decisione dolorosa ma che giudico necessaria
per la mia coerenza. Infatti sempre più mi è di cile riconoscermi nel comportamento
politico del PSI.
Non penso di venir meno ai miei ideali, né alla mia opera di uomo e artista, al mio stare nella
società come ho sempre fatto e come farò con questa scelta. L’amicizia e la stima che mi
legano a tanti compagni rimangono immutate e mi fanno sperare che, nel tempo, su grandi
temi comuni, radicati nel mio cuore, sarà possibile trovarci ancora accanto”. E ancora “Il
mio gesto che qualcuno ha visto come un tradimento, come un atto preagonico nasce da
un fatto semplice ma per me fondamentale: voglio impegnarmi nella costruzione di
un’alternativa di sinistra nel nostro paese. Un cammino che credo possibile anzi reale ma
che richiede sforzi grossissimi da parte di tutti. Vorrei pero anche dire che il partito
socialista che ha lasciato me, non io il partito. La mia decisione ha vecchie radici che i
compagni milanesi conoscevano bene e che risalgono al congresso di Verona, alla morte di
Lombardi che mi ha fatto sentire in certo qual senso orfano. Ho scelto di essere un
indipendente di sinistra il che vuol dire per me essere fuori da certe logiche di partito ma
allo stesso tempo non essere un indipendente in senso assoluto, vuol dire avere la
possibilit di lavorare perch questa alternativa sia possibile, fungere da tramite per tutti
coloro le cui idee non giungono dove vorrebbero e dovrebbero. Io credo che da parte dei

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dirigenti del PCI sia stato un bell’atto di coraggio aprire le proprie liste a gente che pu non
essere sempre d’accordo con loro. E credo che questa decisione vada veramente nel senso
di quell’alternativa di cui si diceva. Per questo vorrei che il mio gesto fosse visto in positivo
come il segnale dell’apertura di un itinerario e di un dialogo possibile nel quale anche il PSI
pu giocare un ruolo importante. [...] Io non ho mai fatto solo teatro ma sempre con le mie
scelte con la mia vita anche politica. Sono sempre stato un animale sociale storico
dall’antifascismo alla Resistenza alla militanza lunga e fedele in un partito. Credo dunque di
essere sempre stato un artista impegnato nella vita civile il che secondo me non in
contraddizione con il fare teatro e non signi ca a atto che io abbia fatto nella mia vita solo
teatro politico. Anche se penso che il teatro - proprio perch un rito collettivo e si realizza
di fronte a migliaia di persone - non sia qualcosa d’astratto ma sia sempre e comunque
legato alta storia. E io credo che non si possa mai sfuggire alla storia. Io non sono e non
mio considero un politico di professione. Sono un regista, un direttore di teatro che per
sente il grande bisogno di impegnarsi in prima persona il dovere civico di essere un
testimone collettivo un testimone delle idee degli altri.” Eletto senatore della Repubblica
nella X legislatura (1987-1992), il regista esprime principalmente il suo impegno politico
redigendo una non pi dilazionabile legge organica per il teatro di prosa. Nel 1988 egli
presenta, infatti, alla Camera con il deputato Willer Bordon, membro della commissione
parlamentare di vigilanza della RAI, un articolato progetto di legge sul teatro che, tuttavia,
non sar discusso e votato nel corso della legislatura.
Ho rassegnato le mie dimissioni dal PSI - Partito Socialista Italiano — spiega in un
comunicato — con una decisione dolorosa ma che giudico necessaria per la mia coerenza.
Infatti sempre pi mi di cile riconoscermi nel comportamento politico del PSI. Non penso
di venir meno ai miei ideali, n alla mia opera di uomo e di artista, al mio stare nella societ
come ho sempre fatto e come far con questa scelta. L'amicizia e la stima che mi legano a
tanti compagni rimangono immutate e mi fanno sperare che, nel tempo, su grandi temi
comuni, radicati nel mio cuore, sar possibile trovarci ancora accanto.”
Il disegno di legge presentato da Strehler auspica un rilancio dei teatri pubblici a prezzo di
una loro rifondazione e ristrutturazione. La proposta verte su un'ipotesi di centri drammatici
nazionali sul modello di quelli francesi, ossia organismi attivi a pi livelli, dotati tra l'altro di
scuole da integrarsi ai cicli produttivi.
In questa occasione Strehler non esita a denunciare il problema della carenza di risorse
economiche: “Il teatro italiano va rispettato con il superamento della logica
assistenzialistica, della mancia o sovvenzione quasi indiscriminata, anteponendo al
concetto di leggi di mercato compiti artistici e sociali ineludibili”.

Strehler torna alla Scala per allestire Don Giovanni2, presentato il 7 dicembre 1987, con la
direzione musicale di Riccardo Muti. “Torno alla Scala – dice il regista – sei anni dopo
l’esperienza non troppo felice del Lohengrin, che fu il mio primo Wagner, cui segu un lungo
periodo di disamore non tanto per l’opera ma per la struttura della lirica cos com’ . A
tutt’oggi rimane per me un mistero capire come si possa sondare un capolavoro musicale
come questo, o altri, in soli venti giorni, quando un qualunque Shakespeare assorbe
almeno tre mesi della tua vita. l’anno, per me, in cui a ronto Faust, e avevo seri e legittimi
dubbi se buttarmi o meno nel Don Giovanni di cui da tempo si parlava con Muti e Badini.
Poi, lo dico senza retorica, hanno vinto la fedelt e gli a etti. La fedelt verso l’istituzione
scaligera, cio verso una citt , Milano, cui ho dedicato il novanta per cento delle mie
energie teatrali sprigionatesi tra via Rovello e piazza della Scala. E gli a etti verso gli amici,
sindaco Pillitteri in prima la, che hanno cos gentilmente insistito.” Per questa opera che

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egli de nisce “l’utopia di uno spettacolo in musica totale”, Strehler lavora, soprattutto, sulla
caratterizzazione dei personaggi, collaborando con una compagnia di canto molto
disponibile che per un tempo maggiore del consueto prova e riprova lo spettacolo
inaugurale. Don Giovanni per Strehler uno spettacolo tenebroso, notturno. “Mozart -
spiega il regista - ha voluto il suo Don Giovanni cos , al lume di candele notturne ed esso
non pu secondo me essere altro, se non per qualche breve momento. Mi fa meraviglia
sentire chi lo vede “solare”, tutto luce e sole! Ma se l’azione si svolge quasi sempre di notte,
di notte pranzi funebri e cimiteri, di notte violenze ed assassinii”. Un allestimento, quindi,
che trascorre alla incerta luce delle candele, in una misteriosa penombra che avvolge tutto
e tutti, nobili e contadini, signori e servi. Per quanto riguarda poi la recitazione dei cantanti,
Strehler presenta uno spettacolo agile, svelto, dinamico: l’opera mozartiana deve essere
recitata e cantata da interpreti giovani, soprattutto per il ruolo del protagonista il quale deve
essere immemore, fresco, capace di ridere e giocare, incosciente nella sua non
accettazione della morte, del dolore, n di nulla al di l della terra. “Un Don Giovanni di
totale egoistica giovent ”, lo de nisce il regista. E ancora: “Quest’opera di Mozart (e
ricordiamoci anche di Da Ponte) ha una spiccatissima vocazione teatrale. Cos che solo una
ricerca il pi possibile unitaria, fra lavoro musicale e messinscena, riesce a dare come
frutto, nella rappresentazione, quel momento di “esistenza scenica” in cui Don Giovanni
rivela parte di s . Siamo perfettamente d’accordo, Muti ed io, che qualsiasi allestimento
giunge solo a un disvelamento parziale del mistero di Don Giovanni. Don Giovanni concede,
di volta in volta, una parte di s anche se direttore e regista tendono obbligatoriamente alla
comprensione totale. Dovremmo de nirla un’opera irrappresentabile. Eppure rappresentarla
un dovere, oltre che un godimento, un’avventura magica. Don Giovanni non si pu fare e,
al tempo stesso, si deve fare perch nato per la musica e per il teatro con attitudine
mirabile. [...] una storia compatta, consequenziale, logica musicalmente ma anche
teatralmente. Esclusa ogni notazione pittorica, ogni pennellata d’ambiente, Don Giovanni
fonda il proprio potere sul Tempo, che scorre ineluttabile, giusto, oggettivo. La vita della
scena si fa allora pi vera della vita vera, la notte segue al giorno, il pianto al riso, il vento
alla luce della luna, con movimento profondo, una sorta di epifania della mano divina,
assolutamente sconvolgente. Cos Don Giovanni diventa un’opera necessaria. Metterlo in
scena signi ca scaldarsi al fuoco interiore che lo regola, abbandonarsi a Mozart, ai suoi
passaggi della mente e del cuore, ora metaforici, specchio della vita umana, ora
sentimentali, specchio dell’anima mozartiana, ora puramente sici, specchio della specie.
[...] Per a errare Don Giovanni occorre scendere gi , in fondo, nel buio, e poi riemergere
con Mozart. Non bisogna schematizzare, o interpretare cervelloticamente. Bisogna
ascoltare. La partitura, le indicazioni dell’autore, la sua mano che non ri uta, se chiamata in
causa, di guidare chi si avvicina. [...] Ci sar , in palcoscenico, un tocco di Commedia
dell’Arte. Ci sar l’ala della tragedia greca. Ci sar l’et di Mozart, bella e di cile. Tutto
apparterr al buio di Mozart, quella tenebra luminosissima, dalla quale autore e opera
emergono specchiate, seducenti, eterne”. Per lo spettacolo, Ezio Frigerio predispone
un’architettonica grandiosit neoclassica, caratterizzata da imponenti colonne e lunghe
scalinate. “In Don Giovanni i frammenti architettonici utilizzati appartengono a contesti
di erenti: il giardino nel palazzo di Don Giovanni chiuso da un portale che ricorda quello
di Villa Manin a Passariano; lo sfondo della sala di Don Giovanni rielabora la Prospettiva di
villa immaginaria, un a resco del 1771 di Antonio Visentini; la statua del Commendatore
interpreta liberamente i monumenti equestri del Bernini. [...] Lungo il fondale bianco,
variamente illuminato nel corso dello spettacolo, sono disposti i modelli che ricostruiscono,
di quadro in quadro, l’immagine di un paesaggio arti cializzato che allude all’entroterra

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delle ville venete” Dal canto suo, Franca Squarciapino disegna costumi dal cromatismo
notturno riconducibili al gusto della met del Settecento. “Li ho voluti tutti eleganti, ma
rigorosi. Devono essere drammatici. Sono complessivamente centocinquanta e per ognuno
sono stati usati pi o meno quindici metri di sto a. Don Giovanni: questo giovin signore che
passa da un’avventura all’altra, colui che inganna e s’inganna, vestir un abito nero di seta
pesante. Avr poi grandi mantelli. Il primo sar color oro, poi blu e l’ultimo rosso fuoco.
Donna Elvira: una donna estremamente passionale che vive no in fondo il suo dramma di
donna sedotta e abbandonata. Per questo ho pensato di vestirla con un vestito molto
importante, rosso vivo. Non una tinta sfacciata, ma intensa, smorzata da certi inserti.
Leporello: una delle poche gure realmente umane di tutta l’opera. Avr un costume da
servitore, ma molto elegante. di seta damascata. Poi i mantelli se li scambier
continuamente con Don Giovanni. Una specie di gioco dei mantelli. Donna Anna: avr un
abito blu notte. Nel primo quadro del I atto, quando verr inseguita da Don Giovanni,
indosser una camicia da notte in seta con una vestaglia grigio perla. Il Commendatore
all’inizio avr un grande mantello vestaglia. E, in ne, il mantello in cui si avvolger il
Convitato di pietra di raso moir go rato con “e etto granito”, cos convincente da
sembrare appunto di pietra. Zerlina e Masetto, i contadini e il popolo hanno abiti meno
elaborati rispetto agli altri personaggi, sono vestiti in modo pi semplice”. Cos facendo,
Franca Squarciapino lascia intuire l’estrazione sociale inferiore, ma, nonostante ci , hanno
anche loro “abiti drammatici e rigorosi”. Proprio come Leporello ha un costume da
servitore, ma ben vestito, cos i due giovani sposi e il coro hanno abiti da contadini, ma
eleganti. “Una tavolozza luminosa con contadinelle e contadini in festa intorno a Masetto e
Zerlina: giallo oro, ocra, rosa salmone, verde pallido per corpini stringati da nastri di seta
che si allentano nelle scene d’amore, gonne ricche gon ate da sottogonne, marsine strette
e culotte”. Al disegno registico di Strehler corrisponde la lettura musicale di Riccardo Muti il
quale contribuisce in maniera determinante alla riuscita di questo allestimento, pi volte
ripreso negli anni successivi. Ricorda Strehler: “Lui e io abbiamo lavorato molto vicini:
c’erano, sul palcoscenico, due sedie, una accanto all’altra, la mia e la sua. Molto spesso
una sedia restava vuota e voleva dire che uno di noi era andato gi , per controllare a
distanza il lavoro dell’altro. E cos anche per la musica. stato un rapporto assolutamente
commovente. E Muti mi apparso veramente come un “regista” autorevole e capace. [...].
Per quanto riguarda il Don Giovanni, Muti e io abbiamo, ad esempio, parlato ben poco
criticamente e nonostante ci abbiamo parlato molto pi di quanto abitualmente avvenga. E
poi c’era una ducia di fondo, reciproca. Ma anche la ducia e la stima non sono su cienti.
Bisogna calarsi dentro l’altro, reciprocamente”. Ri ette in conclusione Strehler: “Mi sono
anche chiesto che cosa formalmente oggi il Don Giovanni per noi? Un’opera nella
tradizione del teatro del Settecento cio di forme chiuse. Ma questa mi sempre parsa una
delle qualit della sua grandezza con uno scatto continuo da parte del suo autore per uscire
da queste forme chiuse. Allora il mio compito di regista sta nel tenerla ancorata allo stile del
suo tempo ma anche nell’oltrepassarlo. Senza mai dimenticare neppure un momento che
un’opera scritta nel 1787 due anni prima della Rivoluzione francese ma che legata
strettamente al suo tempo storico pur precorrendo secoli di invenzioni musicali e
drammaturgiche. Don Giovanni come la commedia umana la crudelt il cinismo la
seduzione il gioco il divertimento il vizio dell’amore non amore, l’eroismo del ri uto della
trascendenza che per anche il limite del personaggio Don Giovanni come un mito.
Avevamo pensato lo scenografo Ezio Frigerio e io a una scena che ci portasse a Praga
dove l’opera e stata data la prima volta. Praga con i suoi colori, con il suo ume e i suoi
ponti. Ma subito ci siamo resi conto che Don Giovanni doveva restare legato alla sua

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mediterraneit che qui i climi sono precisi che Mozart stesso e rimasto fedele alla leggenda
spagnola. E cos nato questo Don Giovanni.”

Il 27 marzo 1988 il pubblico milanese assiste al debutto di un nuovo Pirandello rmato da


Strehler. In questa occasione il registe sceglie un testo della maturit , fra i meno frequentati
del grande drammaturgo, Come tu mi vuoi3. Nella breve ri essione sul testo e
sull'interpretazione data nello spettacolo di Strehler, leggiamo: “Come tu mi vuoi annuncia
per primo nel 1926 un tema che diventer poi comune a tanta drammaturgia
contemporanea: quello della perdita-ricerca della propria identit e, insieme a questo,
quello dell’Europa. Pi di dieci anni prima che si avventi sul mondo la follia della seconda
guerra mondiale, Pirandello presenta il grosso esperimento, la lacerazione del superstite
cuore europeo, inventando il personaggio dell’Ignota. Ignota prima a s stessa che agli altri,
ignara persino delle sue radici, lingua e paese. Forse, queste radici sono certamente
italiane, strappate dalla guerra e trapiantate in contesto diverso, estraneo. Diventata
“tedesca”, l’Ignota esprime lo smarrimento di tutto un continente ormai alla deriva nella sua
realt profonda. Ritrovata l’Italia, come un mito, la dolce Italia, dei cieli sempre azzurri e
degli uomini buoni, l’Ignota trova invece, anche qui, meschinit , avidit e il grigio dei cuori
gi ormai segnati da un fascismo in ascesa. Essa ricalca i passi di una s stessa bella e
giovane e limpida per cancellare l’immagine di un’altra s stessa che tra i brividi di un
nazismo nascente danzava follemente in un cabaret di Berlino e non riesce n per gli altri,
n per s a consistere “come ”, a farsi accettare nel suo essere quella e non un’altra. Cos
il tema pirandelliano dell’essere “uno, nessuno e centomila”, qui si colora di un altro motivo:
quello di non sapere pi nemmeno di dove si , di quale lingua si parla col cuore oltre che
con le parole. E nel dramma dell’Ignota non c’ che una soluzione apparente. Restano
soltanto sconvolgimento e sanguinanti domande. L’unica risposta che l’Ignota pu dare agli
“altri” e a noi questa: essere farsi. Pi in l c’ il vuoto. Lo spettacolo costruito su
questo testo molto spesso frainteso ma illuminato da una grande idea drammaturgica, si
avvale di un gruppo di attori italiani, francesi, spagnoli e tedeschi a signi care anche in
questo senso non pi la perdita ma la ricerca di una Europa.” Si tratta di uno spettacolo che
il regista aveva da tempo ideato, ma che era stato bloccato da un veto posto da Marta
Abba, detentrice dei diritti d’autore. Interrogato sui motivi della scelta di un testo privo di
quelle valenze metateatrali, che avevano nora di preferenza caratterizzato il suo rapporto
con il drammaturgo siciliano, il regista risponde: “Perch mi sembrato il concentrato della
poetica di Pirandello. Perch avevo l’attrice adatta per interpretarlo. Perch centrato sul
problema dell’identit , che, nel momento in cui sto addentrandomi in Faust, mi a ascina.”
La trovata registica strehleriana, che valorizza il bilinguismo di Andrea Jonasson, sta nel fare
recitare in tedesco da attori tedeschi i personaggi non italiani del primo atto, secondo la
chiave interpretativa che vede il testo ruotare sul contrasto fra il primo atto ambientato a
Berlino, in un clima mitteleuropeo cosmopolita e dissoluto, e gli altri due, ambientati invece
nella tranquilla provincia italiana. La scena di Ezio Frigerio riproduce il quadro d’epoca
(Berlino) e, grazie alla piastrellatura a specchi del palcoscenico, sottolinea il tema di fondo
dello sdoppiamento e della perdita di identit della protagonista. La scelta di tradurre parte
del dialogo in tedesco, cio in una lingua raramente posseduta dagli spettatori italiani,
obbedisce, oltre che a criteri di ambientazione, a una mirata operazione drammaturgica,
“che ha il compito determinato di coprire ed occultare solo alcuni accenti particolari della
scrittura pirandelliana.” Attraverso la gura dell’Ignota, Pirandello ci o re il ritratto di una
donna che, pur conducendo un’esistenza depravata nei locali notturni della Berlino della
Belle poque, porta dentro di s una profonda sete di purezza e una forte carica etica che

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la conducono a condannare alcuni comportamenti che sembrerebbe solo subire. L’Ignota di
Strehler , rispetto all’originale pirandelliano, un personaggio pi moderno, libero e
emancipato, privo dei dubbi e delle incertezze di una sessualit so erente e tormentata.
L’Ignota della Jonasson risulta, cos , una donna con un carattere forte e sicuro, che non ha
bisogno di attaccarsi a un nuovo uomo per negarsi alla prepotenza maschile del precedente
compagno. A un’analisi del copione strehleriano, si nota come il tedesco serva anche a
coprire, a occultare allo spettatore italiano quei pudori, quell’indignazione morale che
l’Ignota di Pirandello esprime rispetto ai suoi accompagnatori “porci”, all’omosessualit di
Mop o della glia. La lettura strehleriana dell’Ignota emerge anche dalle geometrie spaziali e
dalle traiettorie che il regista studia per Andrea Jonasson. Strehler, infatti, non esita a
spezzare la legatura di tipo naturalistico che c’ nel testo pirandelliano: immaginando una
geogra a spaziale assente nell’originale, egli fa muovere l’attrice in uno spazio e secondo
traiettorie che non coincidono con quelle delle precise didascalie pirandelliane. Nella scena
d’apertura, ad esempio, l’Ignota non entra e esce dalla porta d’ingresso (come indica
Pirandello), ma, prima, semplicemente compare e, poi, per uscire impiega una scaletta
posta tra palco e platea, ideata dal regista, per il quale evidentemente l’Ignota “si muove in
uno spazio mentale”, il cui baricentro Strehler localizza al di qua della quarta parete, tra il
proscenio e l’area del pubblico, dove conduce la scaletta. La forzatura pi vistosa che il
regista compie sul testo , tuttavia, nel nale, dove egli propone un’identi cazione, anche
sica, (laddove Pirandello apriva una divaricazione totale) tra l’Ignota, che non sa chi
perch sempre stata pronta a modellarsi come gli uomini le chiedevano di essere (Come
tu mi vuoi, appunto), e la Demente, che non sa chi , perch completamente priva della
ragione. Mentre il sipario si chiude dietro alle due donne, l’Ignota spinge la Demente in
carrozzella verso quello spazio, oltre la quarta parete, solo suo, mostrando la comunanza
dei due personaggi femminili privati entrambe della propria identit . La scelta di imprimere
un carattere poliglotta allo spettacolo crea, a questo punto, un’ulteriore apertura di senso,
motivata dalla dichiarazione del regista di avere scelto il testo anche per parlare dell’Europa
di oggi. Se il dramma dell’Ignota – un dramma misterioso che ruota intorno a una donna
misteriosa vista prima a Berlino nella sua sfuggente bellezza - e diversamente della
Demente, quello della perdita delle radici culturali e linguistiche (nella continua
oscillazione Italia-Germania), no alla perdita della stessa propria identit , il messaggio
nale del regista vuole essere un invito al recupero di queste radici in un’Europa teatrale
comune. Lo spettacolo accolto dal vivo interesse di pubblico e critica: le molte recensioni,
lodano il lavoro registico di Strehler ma anche l’interpretazione folgorante di Andrea
Jonasson, impegnata in un vero e proprio tour de force, Franco Graziosi, Orso Maria
Guerrini, Edda Valente e Mario Valgoi e della compagnia tutta.

Il tempo stringe4 di Antonio Tabucchi con Giancarlo Dettori e Libero di Renato Sarti con
Giuliana De Sia e Mattia Sbragia sono i due brevi testi contemporanei che Strehler sceglie
per inaugurare il ciclo “Spazio Parola” e che mette in scena ill 30 dicembre 1988, quasi a
volere testimoniare un rinato e coraggioso interesse per la drammaturgia italiana
contemporanea.

Così Osvaldo Guerrieri racconta dettagliatamente lo spettacolo dalle pagine de “La


Stampa” “Si esce dal Piccolo Teatro Studio con un sentimento ambiguo. Da una parte si
sente, si sa, di avere assistito a un fatto straordinario: il pi grande e illustre fra i teatri stabili
decide di mettere in scena, con la regia di Giorgio Strehler, due nuovi testi di autori italiani, Il
tempo stringe del narratore Antonio Tabucchi e Libero di Renato Sarti, ex attore e,
nonostante la giovane et (36 anni), gi autore di una mezza dozzina di copioni. Dall'altra, si

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ha Ia sensazione che questo ammirevole atto di coraggio, questa volont orgogliosa e
polemica di a ermare l'esistenza di un teatro nostro, scritto con parole nostre e a misura
del nostro vivere frantumato, riveli una qualche sproporzione, una dismisura. Perch i due
atti unici cui abbiamo assistito l'altra sera, tra un pubblico folto e attento, racchiudono la
fragile grazia di un momento poetico schizzato con tratti brevi, nervosissimi, quasi
provvisori. Sono due testi che s'insinuano nel tessuto s lacciato e molle di un'esistenza ai
margini; sono labirinti verbali e sentimentali, privi di quella forma compatta che possa
restituirci il grumo della sgradevolezza cui forse tendevano. Tabucchi, con II tempo stringe,
ci trascina in una nevrosi familiare che non sappiamo quanto prossima alla follia, il suo
personaggio, Enrico, si precipita in una clinica dove, pochi istanti prima, morto suo
fratello. Ha gli abiti stazzonati di chi ha compiuto un lungo viaggio, lo sguardo acceso.
Diresti: adesso piange, magari si dispera, oppure s'incupisce in un dolore sordo. Invece
urla: “Eh no, non pu nire cos !”. Che cosa non pu nire? Che lo ha spezzato quella
sagoma umana distesa su un letto, bendata come una mummia, con una gamba appesa ai
tiranti ortopedici? Non pu nire una vecchia storia di rancori familiari, di odii sotterranei.
Enrico era il timido di casa, badava al padre dopo la morte per suicidio della madre, doveva
essere pronto ad ogni incombenza. Mentre l'altro, con le sue auto sportive, correva chiss
dove. Ed ecco, allora, le memorie lontane, i torti subiti, la misteriosa lettera della mamma,
se poi era davvero della mamma, i con itti mai spenti, urlati o sibilati a quella forma
immobile. Per liberarsi di un peso, o forse per un atto molto speciale d'amore, rivelato
dall'o rire al fratello i propri abiti e andarsene poi fuori, tutto sgargiante di giallo, come un
clown folle sopra atto dai parossismi del tra co e della vita. Nella sua scaltrezza letteraria,
Tabucchi opera qui, come il Pessoa da lui amato e tradotto, molti travestimenti
drammaturgici con una predilezione, si direbbe, per Strindberg e per i suoi inferni da
camera. E in ci molto diverso da Renato Sarti che, con Libero, tenta di scattare una foto
stilizzata di una condizione giovanile dissipata tra droga, alcol e sentimenti di troppo labile
intensit . Racconta, con troppo scoperti manierismi giovanilistici, due vite che girano a
vuoto. Maria e Tino: lei si prostituisce per procurarsi la roba, lui si abbrutisce davanti al
televisore. Nella loro fragilit , si capisce che lei ha ancora qualche guizzo di vita, tanto che
decide di sottrarsi al pantano in cui stanno per annegare. Ma reagisce come pu , facendosi
violentare per tentare un ricatto e nendo in prigione dove dar alla luce un bambino che, in
un ultimo barlume di sogno, in un lampo estremo di dolcezza, chiamer Libero. Ecco, siamo
in una specie di limbo drammaturgico (o un esperimento, una tappa di un processo
investigativo) portato tuttavia e strepitosi esiti spettacolari non solo dalla regia di Strehler
cos misurata e attenta, ma anche da un saggio interpretativo di altissima intensit . Che
straordinario Enrico ha saputo comunicarci Giancarlo Dettori, quanta forza epica, straniato,
allucinata ha saputo trarre dal suo personaggio. E che ritratto di donna scucita e malvissuta
ha fatto palpitare Giuliana De Sio, ottimamente coadiuvata da Mattia Sbragia, inappuntabile
nella sua abulica inettitudine. Applausi fervidissimi”.

Note

1 Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (edizione dell’addio). Scene: Ezio Frigerio.
Costumi: Franca Squarciapino. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Maschere:
Amleto Sartori. Interpreti: Ettore Conti, Susanna Marcomeni (poi Giulia Lazzarini), Enzo Tarascio,
Giancarlo Dettori (poi Roberto Chevalier), Andrea Jonasson, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri,
Marisa Minelli (poi Narcisa Bonati), Ferruccio Soleri, Enrico Bonavera, Sergio Lomazzi, Riccardo
Magherini, Ettore Gaipa, Edmondo Sannazaro. Milano, Piccolo Teatro, 14 maggio 1987.

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2 Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart. Concertatore e direttore d’orchestra: Riccardo Muti.
Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti:
Thomas Allen, Sergej Koptchak, Edita Gruberova, Francisco Araiza, Ann Murray, Claudio Desderi,
Natale De Carolis, Susanne Mentzer. Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 1987.

3 Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Musiche:
da Arnold Sch nberg (Verkl rte Nacht). Interpreti: Andrea Jonasson, Franz Boehm, Mirjam Ploteny,
Orso Maria Guerrini, Franco Graziosi, Edda Valente, Mario Valgoi, Mario Valdemarin, Anna Saia, Anna
Priori, Pourna Prema, Klaus Dittmann, Sonja Fuchs, Olivier Corretger, Danilo Fernandez, Gioras
Fischer, William Finley Green. Milano, Piccolo Teatro, 27 marzo 1988.

4 Il tempo stringe di Antonio Tabucchi e Libero di Renato Sarti. Scene: Fulvio Lanza. Costumi: Luisa
Spinatelli. Interpreti: Giancarlo Dettori, Leda Celani, Tito Manganelli, Giuliana De Sio, Mattia Sbragia.
Milano, Teatro Studio, 30 dicembre 1988.

Lezione 21

23.04.2020

Il Faust di Goethe (frammenti parte prima e parte seconda)

Strehler presenta Faust frammenti, parte prima e parte seconda. È nominato presidente
dell’Unione dei Teatri d’Europa creata in collaborazione con il ministro francese della cultura
Jack Lang. Per il Théâtre du Châtelet di Parigi rma la regia di Fidelio di Beethoven. Con gli
allievi della Scuola di Teatro mette in scena l’edizione del “buongiorno” di Arlecchino

Strehler presenta Faust frammenti, parte prima e parte seconda. nominato presidente
dell’Unione dei Teatri d’Europa creata in collaborazione con il ministro francese della cultura
Jack Lang. Per il Th tre du Ch telet di Parigi rma la regia di Fidelio di Beethoven. Con gli
allievi della Scuola di Teatro mette in scena l’edizione del “buongiorno” di Arlecchino

Gi da lungo tempo, la mente del regista assorbita dal progetto di mettere in scena Faust,
attraverso uno studio condotto da Strehler anche nell’ambito dei corsi della Scuola di teatro
sul capolavoro di Johann Wolfgang Goethe che sfocia, in due spettacoli Faust frammenti,
parte prima e Faust frammenti, parte seconda. Gli spettacoli della durata complessiva di
otto ore (ognuno presentato, a sua volta, nel corso di due serate) vanno in scena al Teatro
Studio, rispettivamente nel 1989 e nel 1991, e vedono il regista tornare sul palcoscenico in
veste di attore per interpretare il ruolo del protagonista. Inserito in un periodo in cui Strehler
, come non mai, concentrato sulla tematica meta teatrale, Faust si presenta come la
summa della teatralit strehleriana e pu essere considerato un tentativo di sintesi della
maturazione umana, artistica e teorica del regista. Faust , per Strehler, anzitutto, un uomo
di ogni tempo: “Faust tocca le radici dell’avventura umana, delle sue altezze e dei suoi
abissi. nostro contemporaneo, sempre, e come tale, va al di l di Goethe, del suo tempo
storico.” Il testo goethiano, per l’occasione tradotto dallo stesso Strehler (a ancato da
Gilberto Tofano), , per la prima volta in Italia, presentato dal regista, almeno ‘idealmente’,
nella sua interezza: tuttavia, anche se la vicenda comunque restituita nella sua continuit
e completezza, a conti fatti, il progetto originario non pu del tutto essere realizzato e sono
messi in scena circa 6.500 sui 12.111 versi che compongono l’intera opera. Nelle intenzioni

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del regista, il progetto avrebbe dovuto compiersi in modo graduale, ma non meccanico:
basti pensare che i 2.000 versi presentati nella parte prima non corrispondono ai primi
2.000 versi del poema drammatico, ma ad alcune scene fondamentali della prima parte (in
totale 5.000 versi) e sono scelti per costruire una struttura portante sulla quale il regista si
propone di tornare pi avanti per colmare i vuoti, mettendo in scena i versi mancanti. Per
tale via, Strehler desidera rispettare la natura di lavoro in progress propria dello stesso
Faust, che occup l’intera vita di Goethe, e indica l’idea interpretativa forse pi originale e
interessante che sottesa al suo Faust. Egli dichiara, infatti, che “la de nizione da noi data
di Faust frammenti, non deve essere intesa come riduttiva. Essa lo solo per dichiarata
onest intellettuale” e che lo spettacolo “a ronta e non schiva temi- immagini-
interpretazione dei molti di cili e complessi momenti di Faust”. Il dramma presentato
secondo una struttura a quadri che mira ad a rontare i nuclei pi sensibili e i temi portanti
dell’opera, s dandone l’irrappresentabilit presunta n dallo stesso Goethe. “L’incontro con
Faust - dichiara Strehler - mi attendeva a un limite della mia vita di interprete, dopo avere
accompagnato, silenziosamente, a lato, il mio cammino per decenni. Cos come mi hanno
atteso La tempesta e il Re Lear di Shakespeare e tanti altri momenti spirituali altissimi del
teatro e dei suoi poeti che ho cercato di interpretare come meglio sapevo, nel tempo. Non
potevo sottrarmi, anche se l'impegno, il rischio erano estremi.” Come ho gi detto, nelle
intenzioni del suo ideatore, per la prima volta alle prese con Goethe, lo spettacolo un
lavoro in eri, pieno di proposte e interrogativi, “una ricerca che ad un certo punto viene
mostrata nella sua forma di spettacolo- lavoro-appunto-ipotesi alla collettivit .” Tale
struttura ancora pi giusti cata dalla stessa densit dell’opera goethiana, complessa,
misteriosa nel suo signi cato ultimo, contraddittoria, in bilico fra accensioni liriche e tragica
disperazione, tutta innervata da una tensione interiore quasi insostenibile per gli interpreti. Il
regista ri uta l’idea di una formula totalizzante attraverso cui leggere la tragedia goethiana:
egli prende le mosse, anzi, dall’idea di adottare chiavi e stili interpretativi diversi per le
di erenti parti che compongono la complessa opera. Lo spettacolo nale, dunque, non pu
che risultare composito, quasi fosse un catalogo della teatralit . Stili, forme e generi teatrali
si intersecano e si susseguono, trascorrendo da momenti di ‘teatro totale’ a momenti di
raccordo resi con una semplice lettura drammatica, da scene che si rifanno ai moduli della
commedia e dell’opera bu a ad altre di sapore tragico o melodrammatico, da una
recitazione immedesimata ai moduli del teatro epico. Strehler presenta infatti in pi
occasioni il suo Faust “come un grande oratorio drammatico in cui momenti di spettacolo si
alternano a momenti di ri essione, di lettura - ora critica, ora emozionale - solitaria o a pi
voci.”. Egli e il pittore/scenografo cecoslovacco Joseph Svoboda realizzano una
scenogra a di base scarna e semplice: una spirale bianca, in tela sottile, simile a un
gigantesco labirinto, pende dal so tto del teatro: essa pu , all’improvviso, accendersi di
stelle, mentre la grande ellisse del Teatro Studio ricoperta da un impiantito di legno chiaro,
delimitato sul fondo da una tenda grezza. Una botola permette inaspettate apparizioni, che
colgono con stupore il pubblico: la piscina iniziale, la mongol era su cui partono Faust e
Me stofele, dopo la rma del terribile patto, la cucina della strega e altre. Ricorda Svoboda:
“Quasi alla ne della mia carriera, ho lavorato con Giorgio Strehler a Milano. Lo conoscevo
di fama, ma le nostre strade si sono incrociate solo per allestire il capolavoro di Goethe,
Faust. Io ero – si capisce - molto curioso di incontrare Giorgio Strehler, e fui ben lieto
quando, nel 1989, ne ebbi nalmente l’occasione. Si tratta infatti di uno di quei registi che
dominano totalmente l’arte del teatro, cos propriamente de nita dai tedeschi, con termine
intraducibile, Gesammtkunstwerk. come se in lui si sommassero, ad altissimo livello, tutte
le professioni teatrali: e questo spiega perch egli scelga con tanto rigore i suoi

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collaboratori per i singoli progetti, e ponga come condizioni imprescindibili la competenza e
il talento. Il nostro lavoro inizi con uno scambio di idee molto ampio, che and
precisandosi man mano che ci avvicinavamo al punto: e non mancarono, anzi furono fonte
di ispirazione reciproca, i momenti in cui ci trovammo a incrociare le spade. Ebbi modo di
apprezzare anche un aspetto molto positivo della personalit di Strehler, ovvero la sua
capacit di scartare senza rimpianti idee che inizialmente aveva giudicato magni che,
quando queste alla prova dei fatti si rivelavano drammaturgicamente improduttive. A ogni
incontro mi presentavo con un gran numero di schizzi e di modelli, ma ero consapevole di
non aver ancora trovato la giusta soluzione. Lo spazio del Teatro Studio, dove palcoscenico
e platea tradizionali sono integrati e si collocano al centro dell’ellisse dei sedili, richiede la
creazione di un rapporto di partnership tra i due settori. Quando me ne resi conto, capii che
era questa l’idea dalla quale dovevo partire, e Strehler fu immediatamente d’accordo.
Realizzai cos la spirale che dall’alto dominava la platea: come dalla spirale era nato il
mondo, cos dalla mia, da cui via via uivano tutti gli elementi scenici, nasceva il mondo
dello spettacolo. Adottammo questa soluzione - che appariva di grande semplicit , bench
fosse vero il contrario - anche per la seconda parte del Faust, nel 1991. E ancora una volta
veri cai che quando un regista accoglie e concepisce la scenogra a cos come fece
Strehler, ovvero quale strumento attraverso il quale esprimere no in fondo le proprie idee,
si crea un rapporto di collaborazione ottimale, un accordo vero e profondo tra le due
diverse discipline teatrali.”

Faust frammenti, parte prima1 debutta in due serata il 18 marzo 1989 al Teatro Studio.
Come egli stesso indica negli appunti di regia della prima parte del progetto: “Di cile
parlare di questo spettacolo. Perch , certamente, di uno spettacolo si tratta, completo e
de nito, che rappresenta e dice certe cose col teatro ma, nello stesso tempo, anche un
primo risultato non del tutto concluso, pieno di proposte e di interrogativi, di una ricerca
compiuta su pi di duemila versi della Prima Parte del Faust di Goethe che ne conta 4614 e
che, insieme alla Seconda Parte della tragedia, arriva a 12.111 versi. nostro fermo
intendimento portarli al pubblico nella loro interezza se mezzi, forza, volont pubbliche e
destino ce ne daranno nel domani la possibilit . Dunque il nostro lavoro che pure ha
presentato per noi uno sforzo, una fatica d'amore e di comprensione quale mai abbiamo
incontrato nella nostra storia, solo una parte, appena iniziale, di un tutto grandissimo che
ci impegner per anni. La densit dell'opera goethiana, la sua complessit , il suo
permanente mistero nella chiarezza, le sue contraddizioni, le sue continue accensioni liriche
e soprattutto la sua tensione interiore quasi insostenibile per gli interpreti, ci sono apparsi
talvolta insormontabili. Abbiamo disperato. Abbiamo lottato duramente con l'Angelo e con il
Demone. Da tutto questo nato un "evento teatrale" composito, in cui stili e metodi si
intersecano e si susseguono secondo logiche intuitive e creative in cui parti di "spettacolo
completo" passano a momenti di ri essione, di lettura drammatica del testo, che subito si
trasforma in recita, ma non del tutto "recitata" secondo gli schemi del teatro
dell'immedesimazione, piuttosto teso verso quelli del teatro di origine epica, in cui persino
l'aspetto formale della rappresentazione si rompe spesso in un anticlima, in una anti
atmosfera per poi, nonostante tutto, ritrovarla con variazioni emozionali che creano una
particolare unit nell'esteriore anti unit . La vera unit dello spettacolo sta nel fondo. Nella
sua idea critica o meglio nella sua posizione critica e dialettica. Mi domando come e se
tutto questo travaglio composito riuscir ad ordinarsi in chiarezza a contatto con il
pubblico, come tutto si far "semplicemente" teatro e se tutto apparir limpido,
sostanzialmente logico, coerente nella sua libert . Qualora il nostro lavoro non venga colto

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dal pubblico con immediatezza, come un coraggioso esperimento che non pu fare a meno
di una compiutezza rappresentativa, ma che non vuole per essere uno spettacolo
completo, nito in ogni sua parte per sempre (come se poi, mai una rappresentazione
potesse per sempre essere nita!) esso non avr raggiunto il suo primo scopo. Certo, nello
smarrimento del teatro contemporaneo, nell'incertezza sempre pi evidente dei suoi
interpreti, proporre cose di questo genere, proporre testi di questo livello intellettuale e
poetico, in questa forma cos aperta ed inconsueta, perch si conosca meglio e si parli
meglio di una delle pi grandi opere teatrali prodotte dal genio umano, perch magari
attraverso questo fatto speci co si arrivi anche a fare delle considerazioni sul teatro, sul
modo di viverlo, sulla posizione morale degli interpreti verso quello che pur essendo un
"mestiere" soprattutto una vocazione d'arte, perch si tocchi il problema di cosa o deve
essere un teatro d'arte oggi, insomma proporre domande come queste pu davvero essere
segno di ingenuit e di utopia. Non nego che queste due componenti esistano alla base
della nostra storia di ieri e di oggi. Ma esse sono - per me - il segno di uno slancio morale,
di uno sforzo che tende al pi in l , al meglio, alla ricerca delle ragioni grandi dell'umano e
non di un peccato di cui vergognarsi, nella deriva dei valori in atto nella nostra
contemporaneit .” Prosegue il regista: “Io credo che, almeno come disperato momento di
amore e conoscenza, certe parole debbano essere a ermate, certe avventure rischiate e
certe dichiarazioni di ducia gettate in faccia al cinismo, al vuoto, alla rassegnazione di
tanta parte del teatro e della cultura contemporanea e che certe battaglie debbano essere
combattute anche se, forse, perdute in partenza. La nostra ricerca sul Faust incominciata,
l'abbiamo pagata e costruita con molto di noi stessi. Oggi la o riamo al pubblico.
Adempiamo, un'altra volta, al nostro compito di interpreti, alla nostra responsabilit di
uomini del teatro che nel teatro credono ancora come nella vita.” La vicenda di Faust
principia con il “Prologo in Cielo”, che vede schierati i tre arcangeli e le milizie celesti, ai
quali, improvvisamente, appare da una botola Me stofele. Nella versione strehleriana,
intessuta di una solennit quasi barocca, il diavolo (Franco Graziosi) compare, nudo e
calvo, da uno stagno infernale fumante e fangoso, che l’antitesi visuale alle amme dentro
cui volteggiano gli arcangeli nel retroscena e da cui proviene la voce divina (Tino Carraro) e
che riporta, allo stesso tempo, alla querelle del tempo di Goethe sull’origine della terra
(formatasi dall’acqua e dal fuoco). Il momento chiave del patto tra Faust (interpretato dallo
stesso Strehler) e Me stofele reso come un dialogo-confronto, in cui i due si incontrano,
si scontrano, si fondono, si scambiano le parti, scambiandosi di posto davanti al leggio, no
ad apparire “come dei doppi reciproci di una sola gura”. Faust e Me stofele diventano
cos due termini di una stessa realt dialettica: l’uno trae rilievo dall’opporsi all’altro, no a
quando il soggetto forte riesce ad annullare l’altro, riconducendolo a un’identi cazione con
s stesso. Nella “Cucina della Strega”, il livello abbassato, quasi per indicarne la
miserabile carnalit e permanente contemporaneit di questa scena: l’orgia e gli incantesimi
stregoneschi diventano un gruppo musicale che suona rock fragoroso, mentre ballerini
scatenati inghiottiscono Faust, che sparisce negli inferi (a questo punto si chiude la prima
parte dello spettacolo). Per Margherita (Giulia Lazzarini), Strehler si rif alla suggestione
della Venere di Giorgione (la cui immagine viene anche proiettata sulla scena) e alla sua
“immensit meta sica”. Le prime scene tra Faust e Margherita sono recitate senza che mai
i due protagonisti siano contemporaneamente in scena: dapprima Strehler a leggere
entrambe le parti, poi nel “Carcere” la stessa Lazzarini, sola, davanti a un leggio, nel vuoto
quasi assoluto, a interpretare, leggere, svolgere con stili diversi la parte di s stessa e quella
di Faust. Nello spazio, plasmato dalle luci e abitato dalle musiche di Fiorenzo Carpi, viene
abbandonato ogni “piccolo realismo teatrale” (oggetti, arredi...), per lasciare, invece, ampio

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spazio all’immaginazione del pubblico. Allo stesso modo, costumi storici o ‘particolari’ (lo
stesso Faust vestito di nero, seppure con un ampio mantello e un cilindro) sono realizzati
da Luisa Spinatelli solo dove sembrano necessari, per dare un tempo storico o una
ineliminabile concretezza visiva all'azione interiore. Il successo di Faust frammenti, parte
prima unanime e coincide con un altro felice momento della vita professionale di Strehler
che, grazie alla volont di Jack Lang, nominato, il 9 ottobre 1989, presidente dell’Unione
dei Teatri d'Europa, ente nalizzato al coordinamento di molti fra i pi signi cativi teatri
nazionali europei, allo scopo di pervenire a una linea di ricerca teatrale ampiamente
condivisa e improntata a nalit per diversi aspetti in sintonia con le linee programmatiche
elaborate proprio dal suo Piccolo Teatro di Milano.

Dopo la prima parte del poema drammatico goethiano, Strehler si dedica alla messa in
scena di Fidelio2 di Beethoven con le scene di Ezio Frigerio, i costumi di Franca
Squarciapino e la direzione di Lorin Maazel (presentato al Th tre du Ch telet di Parigi il 10
novembre 1989 e riallestito alla Scala il 27 gennaio 1990). Quando il regista torna a lavorare
su Fidelio (la prima edizione era stata presentata nel 1969 a Firenze) ancora Frigerio a
occuparsi della parte visiva, insieme alla costumista Franca Squarciapino. “scene cupe e
pietrose da vero carcere antico di Ezio Frigerio, dei costumi di epoca napoleonica di Franca
Squarciapino, movenze ra nate e precise dei cantanti-attori e luci prelevate con grande
eleganza dai dipinti di Goya.” Varie sono le novit che questa edizione presenta: in
particolare la cella sotterranea di Florestano ora trasformata in un anfratto roccioso,
ancora goyesco, che nella scena conclusiva si apre, lasciando che il tripudio nale sia
irraggiato dalla piena luce. “La regia di Strehler non va oltre la costruzione di quadri plastici
ricalcati dalle immagini goyesche della guerra: evoluzioni militari al seguito del tiranno,
atteggiamenti dolorosi dei prigionieri nel cortile del carcere, aquiloni infantili e una bandiera
al vento nella festa della liberazione. L'unica vera innovazione data dai movimenti scenici
di Frigerio che costruisce ardite prospettive aprendo le pareti del castello e la caverna di
Florestano, sostituita in un magico turbine dalla gran volta rosata del cielo. Questi
movimenti, per merito dei bravissimi macchinisti scaligeri, riescono impeccabili.

Mentre il progetto Faust prosegue con Faust frammenti, parte prima in scena a febbraio e a
ottobre 1990 che propone l’aggiunta di nuove scene, va in scena una nuova edizione di
Arlecchino3 detta del “buongiorno” (in scena dal 30 ottobre). In questa edizione al
protagonista Ferruccio Soleri sono a ancati gli allievi neodiplomati del "Corso Jacques
Copeau" della Scuola di Teatro che si a acciano al mondo del teatro dopo i tre anni di
scuola. Ricorda al proposito Strehler: “Chiamammo l’ultima nostra edizione dell’Arlecchino
servitore di due padroni edizione dell’addio. Non era un segno patetico, ma il gesto di
amore e fedelt di un gruppo di attori, da decenni interpreti dei personaggi dello spettacolo,
a Milano, in Italia, nel mondo e che erano arrivati a fare a meno di tutto, a spogliare
l’avvenimento scenico di ogni suo apparato esteriore, per recitare in nudit assoluta e
poesia, qualcosa che ha accompagnato la vita del Piccolo da pi di quarantacinque anni.
Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (per essere esatti Il servitore di due padroni, e
gi nel 1948, coi primi veleni, ci fu rimproverato di aver aggiunto arbitrariamente il nome di
Arlecchino al titolo originale), ha percorso veramente i teatri del mondo e portato ovunque
un’immagine dell’Italia e del nostro Teatro, del nostro essere Attori. Due soli Arlecchini:
Marcello Moretti e, dopo di lui, Ferruccio Soleri. E intorno a loro tanti e tanti compagni che
si sono alternati nei vari ruoli, ognuno uguale e diverso dall’altro. Lo spettacolo sempre
rinato dalle sue ceneri, mai identico, sempre in movimento, sempre alla ricerca di un
“modo” di rappresentarsi che non fosse la copia esatta del vecchio, ma la traccia del

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nuovo, su ci che di valido c’era stato. Forse questa storia dell’Arlecchino veramente una
storia unica di ricorrente vitalit e di capacit di rinnovarsi restando s stessi. Ma mai come
oggi tutta la fatica di tante donne e tanti uomini del teatro trova il senso di un estremo dono
a coloro che al teatro nascono. Gli attori dell’Arlecchino, tutti, quelli di ieri e quelli di secoli
fa, lasciano in mano ad un gruppo di giovanissimi la loro eredit e, in quinta o in platea, li
seguono sorridendo mentre essi ripetono i vecchi lazzi, ritrovano le vecchie situazioni e le
trasformano, le fanno loro. Non ho mai visto un segno cos limpido e poetico della
continuit dell’amore teatrale come dai volti e dagli atteggiamenti di Giulia Lazzarini, Franco
Graziosi, Gianfranco Mauri, Andrea Jonasson – fra tanti altri – a qualche prova di questo
Arlecchino che chiamammo del “buongiorno”. Era un sorriso dolcissimo, tenero di gioia e
malinconia, di meraviglia ed umanissima tristezza per la vita che passa. Qualcosa che mi
di cile descrivere, ma i lumi della ribalta, questa volta veri, davano un colore d’infanzia alle
guance ed una lucentezza agli occhi nella platea, che poteva essere quella delle lacrime.
Lass , continuava l’eterno gioco, l’avventura della Maschera, gli equivoci d’amore, la fame,
i pranzi sperati ed avverati, ma quella volta chi li portava avanti erano gli allievi della nostra
Scuola di Teatro. E, oggi, a continuare, ci sono rimasti molti fra loro, ormai ex allievi, ormai
entrati, di diritto, nella professione. Il legame sico con la storia era – ed – dato dalla
presenza di un solo grande attore, volutamente rimasto l , per essere un punto di riferimento
concreto, l’Arlecchino di ieri e di oggi: Ferruccio Soleri. Del resto, questi ragazzi,
appartengono come formazione anche a lui. Parlo di formazione e non di insegnamento.
Per tre anni una parte di noi ha dedicato tempo e passione ad aiutare “altri” a votarsi al
teatro. Un teatro che non fosse solo un mestiere ma “un modo di essere” nel mondo. In
qualche breve appunto sulla Scuola di Teatro, all’inizio, ho scritto: “vorremmo che questo
ammaestramento al teatro servisse anche per la vita. Chi non far teatro, dopo questa
scuola, non avr perso invano i suoi giorni”. Questo gruppo al quale ho dato il nome, certo
ricco di responsabilit , di “I Giovani del Piccolo” l’ex Primo Corso della nostra Scuola di
Attori dedicato a Jacques Copeau. E gi nei luoghi consueti e cari della loro formazione che
non sempre stata facile, ma sempre stata vissuta nell’amore, altri giovani riempiono lo
spazio lasciato da loro: gli allievi del corso “Eleonora Duse”. Il Teatro-Vita questo.
Accettiamolo con devozione. di cile che io parli “prima” di ci che dovrebbe essere un
fatto o un avvenimento teatrale o che io spieghi il senso di un accadimento di palcoscenico.
Ma, in questo caso, vorrei dare un’indicazione al nostro pubblico. Mai come in questa
edizione l’Arlecchino servitore di due padroni stato un lavoro di gruppo. il gruppo degli
ormai ex allievi che “giocano” con lo spettacolo e con loro stessi, in due, tre, quattro
compagnie diverse, che si mescolano, si sostituiscono, si ripetono, si amano e si
contrastano. Ognuno certo ha il suo spazio, ma ci che conta per noi e per loro la vita
dello spettacolo-testo, che va al di l di ogni singola persona e che deve incominciare ad un
certo punto e nire ineluttabilmente ad un altro, senza arresti n esitazioni. insomma il
teatro diventato atto collettivo che ha valore, pi della singolarit . Abbiamo voluto, tutti
insieme, che ad un certo punto i nostri spettatori non sapessero pi “chi” recitava in un
certo momento e chi in un altro, tanta unit profonda, identit di ritmi e cadenze,
atteggiamento morale e professionale legavano ad un’unica amma gli atti teatrali in
svolgimento. Vorremmo che uscisse folgorante l’immagine di una piccola collettivit di
teatranti che vivono il teatro con uguali intenti, con una posizione mentale disponibile e
sorvegliata, in un atteggiamento collettivo libero, ma non di licenza, in un rispetto fantasioso
del teatro, che del teatro non hanno paura ma ricevono gioia e che vogliono solo dire quello
che si deve dire con amore e abbandono, per ricevere a loro volta amore da tutti colore che
li ascoltano. Pu essere (anzi certamente lo ) un traguardo ambizioso. Ma l’unico che vale.

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Fondersi nella teatralit – attori e pubblico – per diventare un’entit collettiva che si parla
con una voce sola. E vorrei aggiungere: non facile, ci che questi giovani fanno. Dietro a
certa implacabile sicurezza ritmica, a certa leggerezza e capacit di mimesi, ci sono ore e
ore di fatica, ci sono prezzi alti e disponibilit umane non facilmente riscontrabili nel
disperato muoversi di questa contemporaneit che tutto bruca, tutto dissacra, che tutto
vorrebbe comodo, usabile e consumabile. Occorre molta disciplina interiore per
conquistare ci che questi Giovani del Piccolo stanno conquistando. Io, che ho voluto in
mezzo ad enormi di colt , questa scuola, questo luogo di ricerca “vera” aperto sul domani,
con Enrico D’Amato e tutti gli insegnanti, o ro al teatro italiano altre sue creature perch lo
portino avanti, lo difendano e lo aiutino ad essere all’altezza estetica ed umana che merita,
proprio l dove si vorrebbe considerarlo solo un super uo residuo di un’Arte decaduta ed
inutile. Perci auguri a voi tutti. Auguri a te vecchissimo Arlecchino. Auguri a te Ferruccio,
immortale Arlecchino. Buongiorno, “Arlecchino del Buongiorno”! Che tu sia un’altra realt di
questo Piccolo Teatro cos piccolo da diventare l’inimmaginabile punto in cui il minimo e
l’immenso si toccano.” Senza sosta prosegue in questi mesi il lavoro per la
rappresentazione di Faust frammenti, parte seconda4 che debutta (anche esso in due
serata) il 28 aprile 1991 al Teatro Studio di Milano. Osserva il regista nei suoi appunti di
regia: “Con la rappresentazione dei Frammenti della parte seconda del Faust di Goethe, il
Progetto Faust giunto alla met del suo cammino; un cammino di ricerca e di ri essione
sicuramente non semplice, un lavoro collettivo faticoso che ci ha lasciato talvolta perplessi,
talvolta inermi, ma sempre ammirati e sconvolti di fronte alla grandezza del testo che
andavamo via via a rontando. Un lavoro di umilt , dunque anche il nostro, nel tentare di
dare corpo reale, sulla scena, ad una delle pi grandi opere della cultura umana, che
Goethe stesso aveva scritto e inteso come opera teatrale. Su questo punto non abbiamo
mai avuto dubbi. Non abbiamo mai esitato a credere alla rappresentabilit della Tragedia
Faust da tanti giudicata "irrappresentabile" soprattutto per quanto riguarda la Seconda
Parte. Per noi, non esiste teatralit pi alta, pi complessa, pi sperimentale ed abbagliante
di questo viaggio verso l’in nito. Cos , con i Frammenti della seconda parte, dei 12.111
versi del Faust ne avremo rappresentati circa 6.500. Con quale criterio sono stati scelti
"questi" Frammenti, e perch alcune parti sono state privilegiate rispetto ad altre? Con
quello di tracciare per il pubblico un chiaro lo conduttore di un’avventura terrena e
meta sica, senza troppo sempli care la sua straordinaria complessit . La nostra
interpretazione - del resto - una rappresentazione in divenire che si completer in
momenti successivi. Come Faust la tragedia del Divenire dell’Uomo. Divenire inteso come
mutamento, spinta anche al di l del possibile per cercare un’unica possibilit di salvezza:
fermare l’Eterno nell’Attimo. Le due coordinate fondamentali, lo Spazio e il Tempo, si
annullano in questo Divenire, e cos Faust non ha limiti, atemporale anche se la sua
scommessa con Me stofele, che a torto viene chiamata "patto", ne segna la carnalit e la
illusoria immortalit . Soltanto nel mutare della vita e nella sua carnalit e una illusoria
immortalit . Soltanto nel mutare della vita e nella sua ciclicit , rigeneratrice di nuova vita
all’in nito, Goethe ci de nisce il suo concetto di immortalit . E la Storia di Faust si snoda in
una dialettica eterna iscrivendo una storia terrestre in un contesto cosmico. Per il resto, la
risposta non pu che essere una: il materiale rappresentabile a cui ci siamo trovati di fronte
talmente vasto, da richiedere necessariamente non tanto dei "tagli" ma delle "omissioni"
per riservare alla ricerca del prossimo anno ci che non stato sino ad ora rappresentato,
naturalmente seguendo lo stesso metodo che ha accompagnato il nostro lavoro no ad
oggi. La seconda parte si apre con il Prologo sulla Terra, non in Cielo, dove il sole nascente
ripete per il motivo di un immenso ordine universale. Qui, terrenamente, Faust si risveglia

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immemore alla vita, e nel nale del Prologo, sovrastato da un arcobaleno "che immobile,
muta", enuncia: "Come rassomiglia all’agire dell’uomo... Soltanto in un ri esso colorato ci
concesso possedere la vita". E appunto, in un ri esso colorato vive l’imperatore nel suo
Palazzo, ignaro del destino del suo popolo. questo il compito di Me stofele: ricoprire tutto
di una nta, male ca, illusione. Ecco allora rovesciato il mito di Pluto, Dio della Ricchezza
che "dona di s " e della Poesia fonte anch’essa di inestinguibile ricchezza - ma fragile,
impotente ed esiliata - con l’invenzione "diabolica" della Carta Moneta, simbolo del
Possesso e della Ricchezza Accumulatrice. Quella che regge il nostro oggi. Il doppio di
Faust non soltanto Me stofele. Faust anche il doppio contraddittorio di s stesso:
colui che vuole possedere tutto ma che pur tuttavia ha sempre dentro una luce, una scintilla
che lo illumina, rendendolo in qualche modo cosciente che il Possesso materiale non salva,
anzi distrugge. Questo bagliore accompagna meravigliosamente il Faust e tutta la Poesia e
Verit di Goethe. Faust, uomo, vende la sua anima e nel momento stesso in cui compie
questo gesto in un certo senso liberatorio, perch di "scelta", perde la sua Libert , quella a
cui anela, per cui disposto a tutto. Per Faust, Libert Verit , Bellezza che egli cerca in
uno spazio scon nato, in un viaggio all’interno del Mito, perch solo in esso, nell’Eterna
Verit del Simbolo pu trovare la sua salvezza. L , nel "Mondo Simbolico", tutto pu essere
consumato, perch tutto ssato per sempre. Faust, raggiunta Elena, ha raggiunto l’unica
possibilit di fermare il suo tempo. Ma a Faust "Uomo" non pu essere concesso di
appartenere alla fortunata schiera degli Dei-Simboli-Archetipi e alla sua disperazione
terrestre non rimane che un candido velo bianco, che Elena, ritornata nell’Eternit , gli ha
lasciato come Simbolo della sua esistenza di Simbolo. Che cosa resta da fare - a Faust - a
questo punto? Costruire sulla Terra, fermare la Natura delle Cose, capovolgere insomma,
distruggere per poi ricostruire ancora in un agghiacciante cerchio di infelicit e
contraddizione. Faust-Me stofele insieme creano il mondo moderno, un mondo dove si
combatte per un possesso e mero che dura un istante, ma che feroce e vuole tutto, che
una spinta ossessiva e vorace, irrefrenabile e lacerante. Cos anche Filemone e Bauci, due
"vecchi", simboli dell’unione e di un amore umano, tenero e discreto, vengono uccisi.
Perch nel mondo di Faust-Me stofele non c’ pi spazio nemmeno per un barlume di
tenerezza, e soltanto l’Angoscia pu convivere con lui, unica compagna che egli ama ed
odia, ma dalla quale non pu staccarsi perch il suo "Male" ha raggiunto il punto assoluto.
L’angoscia vitrea e funerea lo assalir no alla morte, anche se per qualche istante egli
crede di essersene liberato. Alla ne, Faust, vecchio e cieco (ha cento simbolici anni, dice
Goethe, come Re Lear) si avvia inconsapevole verso la morte che Me stofele aspetta avido;
ma all’improvviso - nel nostro spettacolo - come per un miracolo dell’anima, gli occhi si
spalancheranno per a errare il nuovo attimo "inattingibile" eppure "possibile". E il corpo di
Faust precipiter non in una fossa ma nell’eternit . L’anima di Faust non potr essere
posseduta da Me stofele. Perch nessuno pu possedere l’Uomo se non la Natura delle
cose. Per questo nella nostra interpretazione Faust ritorna embrione nel grembo della
Madre Terra: non per "posare", ma per continuare l’in nita dialettica del mondo. Cosa pu
restare dopo questa rappresentazione agli "uomini di oggi" che dovrebbero rabbrividire di
fronte all’attualit di questo Testo? La risposta pu darcela, forse ancora una volta Goethe,
che in una lettera alla contessa Augusta von Stolberg, ormai vecchio e malato, scrive:
"Vivere a lungo signi ca sopravvivere a molte cose, a persone amate, odiate, indi erenti,
sopravvivere ai regni e alle capitali, anche ai boschi e agli alberi che giovani abbiamo
seminato e piantato. Sopravviviamo a noi stessi e ci riteniamo soddisfatti quando ci rimane
qualche o erta d’amore e di spirito. Sopportiamo tutto questo trascorrere se ci rimane
l’eterno di ogni attimo presente: non so riamo del tempo che passa". La prima dello

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spettacolo ottiene un grande successo, grazie alle scene di Joseph Svoboda, ai costumi di
Luisa Spinatelli e alle musiche di Fiorenzo Carpi. Gli applausi premiano soprattutto Strehler
(sia regista, sia attore) e Franco Graziosi (ancora uno splendido Me stofele), Tino Carraro
(Chirone), Giulia Lazzarini (Ariel, la Poesia, Bauci, l’Angoscia, una penitente di nome
Margherita)), Eleonora Brigliadori (Elena) che nella ripresa dello spettacolo (novembre 1991)
sostituita da Andrea Jonasson.

Note

1 Faust frammenti, parte prima di Johann Wolfgang Goethe. Traduzione: Giorgio Strehler, Gilberto
Tofano. Scene: Josef Svoboda. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici:
Marise Flach. Musicisti: Fabio Amodio, Andrea De Filippo, gruppo rock Mammona Cats, Marco
Pinna, Mario Arcari, Primiano Mandunzio. Cantanti: Dorothy Fisher, Gerard Colombo, Marco
Guerzoni, Francesco Montemurro, Massimo Pezzutti. Interpreti: Giorgio Strehler, Franco Graziosi,
Giulia Lazzarini, Gianfranco Mauri, Tino Carraro e gli allievi del corso Jacques Copeau della Scuola di
Teatro diretta da Giorgio Strehler. Flavio Albanese, Sara Alzetta, Sonia Bergamasco, Giorgio
Bongiovanni, Paolo Calabresi, Maria Gabriella Campanile, Umberto Carmignani, Marta Comerio, Luca
Criscuoli, Leonardo De Colle, Gaia De Laurentiis, Stefano De Luca, Simonetta Fais, Simona Ferraro,
Mario Guariso, Stefano Guizzi, Sergio Leone, Nicoletta Maragno, Sara Masini, Paola Morales, Claudia
Negrin, Ilaria Onorato, Laura Pasetti, Mace Perlman, Rossana Piano Stefano Quatrosi, Federica
Roberto, Victoria Salvador Villalba, Maria Teresa Sintoni, Laura Torelli, Silvano Torrieri. Milano, Teatro
Studio, 18 marzo 1989.

2 Fidelio di Ludwig van Beethoven. Scene di Ezio Frigerio, costumi di Franca Squarciapino, Orchestre
national de France et le Choeur Philarmonique national de Varsovie; Concertatore e direttore
d’orchestra Lorin Maazel. Interpreti: Siegfried Jerusalem (Florestan), Jeannine Altmeyer (Leonore),
Richard Cowan (Don Fernando), Siegmund Nimsgern (Don Pizarro); Kurt Rydl (Rocco); Joanna
Kozlowska (Marzelline); Uwe Peper (Jaquino). Paris, Th tre du Ch telet, 10 novembre 1989.

3 Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (edizione del buongiorno). Scene: Ezio Frigerio.
Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Maschere:
Amleto Sartori, Natale Panaro. Interpreti: Giorgio Bongiovanni, Paolo Calabresi, Leonardo De Colle,
Gabriella Campanile, Marta Comerio, Gaia De Laurentiis, Nicoletta Maragno, Laura Pasetti, Paolo
Calabresi, Stefano De Luca, Sergio Leone, Stefano Guizzi, Stefano Quatrosi, Sara Alzetta, Sonia
Bergamasco, Simona Fais, Simona Ferraro, Paola Morales, Rossana Piano, Marica Roberto, Victoria
Salvador Villalba, Umberto Carmignani, Mario Guarisio, Mace Perlman, Luca Criscuoli, Silvano
Torrieri, Claudia Negrin, Ilaria Onorato, Maria Teresa Sintoni, Laura Torelli, Ferruccio Soleri. Milano,
Piccolo Teatro, 30 ottobre 1990.

4 Faust frammenti, parte seconda di Johann Wolfgang Goethe. Traduzione: Giorgio Strehler, Gilberto
Tofano. Scene: Josef Svoboda. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi, Aldo Tarabella.
Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Giulia Lazzarini, Giorgio Strehler, Franco Graziosi, Antonio
Fattorini, Mario Valgoi, Giampiero Becherelli, Gianfranco Mauri, Riccardo Mantani Renzi, Sara Alzetta,
Sonia Bergamasco, Paolo Calabresi, Maria Gabriella Campanile, Umberto Carmignani, Luca Criscuoli,
Leonardo De Colle, Gaia De Laurentiis, Stefano De Luca, Simona Fais, Mario Guariso, Nicoletta
Maragno, Paola Morales, Claudia Negrin, Ilaria Onorato, Rossana Piano, Stefano Quatrosi, Marica
Roberto, Maria Teresa Sintoni, Laura Torelli, Silvano Torrieri, Marta Comerio, Laura Pasetti, Roberta
Bosetti, Marzia De Maria, Angelica Dettori, Jole Tramacere, Francesco Montemurro, Guido Torlonia,
Giorgio Bongiovanni, Stefano Guizzi, Federico Pedrazzi, Michele Pietrobon, Tino Carraro, Andrea
Jonasson, Eleonora Brigliadori. Milano, Teatro Studio, 28 aprile 1991.

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Lezione 22

27.04.2020

Goldoni e Marivaux

In occasione delle celebrazioni per il bicentenario della morte di Carlo Goldoni (1793),
Strehler rimette in scena Le baru e chiozzotte e Il campiello. Nel 1994 presenta una nuova
edizione (la terza) de I giganti della montagna di Luigi Pirandello, rma la regia de L’isola
degli schiavi di Marivaux e rimette in scena al Teatro Studio La storia della bambola
abbandonata di Brecht/Sastre.

In occasione delle celebrazioni per il bicentenario della morte di Carlo Goldoni (1793),
Strehler rimette in scena Le baru e chiozzotte e Il campiello. Nel 1994 presenta una nuova
edizione (la terza) de I giganti della montagna di Luigi Pirandello, rma la regia de L’isola
degli schiavi di Marivaux e rimette in scena al Teatro StudioLa storia della bambola
abbandonatadi Brecht/Sastre. In occasione delle celebrazioni goldoniane (duecento anni
dalla morte del commediografo avvenuta a Parigi, il 6 febbraio 1793) l’attenzione di Strehler
si concentra sul teatro di Carlo Goldoni al quale egli decide di rendere omaggio
riproponendo tre spettacoli storici ai quali profondamente legato: Le baru e chiozzotte, Il
campiello e Arlecchino servitore di due padroni. Le baru e chiozzotte1 arrivano al Teatro
Lirico di Milano - a distanza di 28 anni dalla prima edizione -il 15 novembre 1992 dopo una
trionfale tourn e internazionale partita da Siviglia, Madrid, Londra, D sseldorf. Lo
spettacolo si avvale, come nel 1964, delle scene e costumi di Luciano Damiani, delle
musiche di Fiorenzo Carpi ma presenta una distribuzione rinnovata che vede in scena Nino
Bignamini, Donatella Ceccarello, Elio Crovetto, Armando De Ceccon, Susanna Marcomeni,
Gianfranco Mauri, Laura Pasetti, Didi Perego, Edmondo Sannazzaro, Sergio Terenghi, Lino
Troisi e Pamela Villoresi. Anche la ripresa del Campiello2- in scena al Piccolo il 6 febbraio
1993- presenta un cast rinnovato rispetto al 1975, fra gli altri, Giulia Lazzarini, Giancarlo
Dettori, Rosalina Neri, Laura Marinoni, Valentina Fortunato, Edda Valente, Luigi Diberti,
Roberto Zibetti. Arlecchino servitore di due padroni invece riallestito nella recente
edizione del “buongiorno” e debutta al Teatro Studio il 26 gennaio 1993. Scrive Strehler a
conclusione del bicentenario, non nascondendo un po’ di amarezza per tutto quanto
avrebbe potuto essere fatto: “In occasione delle celebrazioni per il bicentenario della morte
di Carlo Goldoni (1793), Strehler rimette in scena Le baru e chiozzotte e Il campiello. Nel
1994 presenta una nuova edizione (la terza) de I giganti della montagna di Luigi Pirandello,
rma la regia de L’isola degli schiavi di Marivaux e rimette in scena al Teatro StudioLa storia
della bambola abbandonatadi Brecht/Sastre.

Teatro Lirico di Milano - a distanza di 28 anni dalla prima edizione - il 15 novembre 1992
dopo una trionfale tourn e internazionale partita da Siviglia, Madrid, Londra, D sseldorf. Lo
spettacolo si avvale, come nel 1964, delle scene e costumi di Luciano Damiani, delle
musiche di Fiorenzo Carpi ma presenta una distribuzione rinnovata che vede in scena Nino
Bignamini, Donatella Ceccarello, Elio Crovetto, Armando De Ceccon, Susanna Marcomeni,
Gianfranco Mauri, Laura Pasetti, Didi Perego, Edmondo Sannazzaro, Sergio Terenghi, Lino
Troisi e Pamela Villoresi. Anche la ripresa del-Gli anniversari della nascita o della morte dei
grandi personaggi, spesso servono a tacitare la coscienza storica che si dimentica o
trascura quelli che hanno dato molto al patrimonio culturale e artistico del mondo. Per Carlo
Goldoni il 1993 - bicentenario della sua morte - avrebbe potuto essere l'occasione non
tanto di una celebrazione quanto del ripensamento, con maggiore attenzione critica, su di

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lui come scrittore di teatro, teorico della scena e uomo della storia, nella sua realt di
europeo che ha saputo vivere l'avventura di un mondo che stava scomparendo e di un altro
mondo che stava nascendo. Avrebbe potuto, ma, salvo rari casi sporadici, non stato cos ,
almeno nel nostro Paese. E il bicentenario di uno dei nostri massimi scrittori teatrali stato
- se non proprio passato sotto silenzio - guardato con quel tanto di su cienza (provinciale),
di noia, di autodistruzione, che noi - spesso privi come siamo del senso della storia -
sappiamo mettere in tutte le cose che riguardano da vicino il nostro patrimonio culturale e
artistico. successo, allora, che meglio di noi hanno fatto molti, a cominciare dalla Francia,
se non proprio tutti. stata l'ennesima ingiustizia nei confronti di un autore come Goldoni
che ha saputo sempre tenere vivo il legame profondo che unisce la vera teatralit alla vita,
in una visione capace di tras gurare il quotidiano nel brivido lirico d'amore per certe verit
dell'uomo che compongono l'immagine pi profonda del suo teatro. Perch quello che, per
tanto tempo, apparso come gioco, musica e divertimento, oggi diventa misura di stile,
testimonianza dell'epoca e del costume, ricerca e scoperta di un'umanit che vive i suoi
drammi fra sorriso e tenerezza, in un alternarsi di luce e di ombra, di parole e di silenzio
che, spesso, sorprende una critica troppo abituata al clich del comico e del ridicolo. Il
«disamore», il disinteresse nei confronti di Goldoni - uomo della coralit , tenace sostenitore
del fascino discreto della commedia della vita - non nasce dal palcoscenico. Anzi la scena
italiana del dopoguerra, a cominciare dagli spettacoli di Visconti e dai miei - e pi tardi da
quelli di Squarzina, De Bosio e ancora con Ronconi e Castri ha combattuto una battaglia
coraggiosa per togliere questo autore dalla patina abitudinaria della piacevolezza, per
ricercarne le radici profonde. La «rivoluzione goldoniana» l'abbiamo fatta noi teatranti, non
gli intellettuali e gli storici, che sono venuti dopo. Nel mio lavoro teatrale, nella vicenda pi
che quarantennale del Piccolo Teatro (che documentata nella mostra Goldoni e il Piccolo
Teatro 1947-1993, a Palazzo Bagatti-Valsecchi di Milano), Goldoni un autore che ritorna,
un punto di riferimento importante, insostituibile, al quale commisurare ricerche e scoperte,
magari attuate in altri testi, di altri drammaturghi. Goldoni, dunque, rappresenta nel nostro
viaggio di comici la cultura, la pratica teatrale, il metodo e il cuore, Nell'arco della mia vita
ho messo in scena otto testi di Goldoni, taluni come l'Arlecchino, La trilogia della
villeggiatura, Le baru e chiozzotte, Il campiello riproposti in edizioni diverse, ma nora non
ho potuto fare lo spettacolo che sogno e che inseguo da anni sui M moires che anche
quest'anno ho dovuto rinviare, per senso di responsabilit , in un momento cos di cile,
anche economicamente, per il nostro Paese. Nel corso di anni, di spettacoli, di ricerche, mi
sono fatto una mia idea di Goldoni, del signor G, come io lo chiamo. Un uomo
estremamente segreto e complesso, con tutti i caratteri «veneziani» di fondo: pudore,
riservatezza, trasformazione della verit in un'altra pi gradevole, capacit naturale al
compromesso e alla mediazione. Ma anche uomo guidato da una vocazione ineluttabile
verso un'idea, un modo di essere nell'arte e nella vita, pi moderno, pi all'avanguardia di
quanto gli si riconosca. da questo carattere che nasce in Goldoni il senso di una
«missione teatrale» che pone le sue radici in una riforma che non ricerca soltanto il
passaggio dal testo improvvisato al testo scritto ma che s'interroga, anche, sul perch di
una letteratura teatrale italiana che non c' . La sua riforma un manifesto per un teatro
della verit e della vita e dei suoi accadimenti, straordinario proprio perch vita. Ma che,
nello stesso tempo, avverte che questa verit deve farsi teatro e deve trovare un suo stile,
dunque diventare «pratica», (che Goldoni approfondisce moltissimo come direttore di
spettacoli e di teatri, e regista) con il senso, dunque, di essere una scrittura «per» attori, che
«attraverso» attori «conformi al naturale» raggiunge il suo vero e ultimo senso. Non
possibile che nascano testi come I rusteghi, La casa nova, Una delle ultime sere di

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Carnovale, Le baru e chiozzotte, Il campiello, senza che gli attori da lui guidati non
sappiano recitare in modo diverso da quello convenzionale ed esteriore del tempo. Una
ossessione, la sua, tesa a realizzarsi senza cedimenti ma solo con concessioni tattiche, di
necessit e sotto gli assalti del potere, degli opportunisti miserabili, delle gazzette, fra
di colt nanziarie e di stato sociale. Insomma la vita di un uomo che tenta continuamente
di esorcizzare quella parte di s stesso che non tutto gioco e teatro e che lo fa so rire. Ho
sempre ricercato «questo» Goldoni ipocondriaco, vulnerabile, per no maniacale, a itto da
mania persecutoria nei miei spettacoli, nel cuore e nella verit dei suoi personaggi. Un
Goldoni umano, lontanissimo dall'agiogra a veneta di ieri appena smussata dalla critica
moderna. Un autore profondamente «nazional-popolare» nel portare a maturazione lo
scambio continuo fra lingua e dialetto. Una lezione e una base per un autentico, e mai
realizzato, teatro nazionale. Questo il lavoro che avrei voluto vedere intensi cato sulla
pagina e sulla scena senza inutili dissacrazioni n sterili formalismi, con molta attenzione
critica, molto rispetto e amore in occasione di questo bicentenario. questo che non c'
stato o c' stato poco.».

Il 1994 vede Strehler impegnato in tre regie: una nuova edizione (la terza) de I giganti della
montagna di Pirandello, L’isola degli schiavi di Marivaux e la riproposta de La storia della
bambola abbandonata di Brecht/Sastre. I giganti della montagna3 debuttano al Teatro
Lirico il 27 febbraio 1994. Gli appunti di Strehler ci forniscono, anche in questa occasione,
preziose informazioni sul percorso pirandelliano che conduce alla terza edizione di questo
testo. Scrive il regista: “C’ un tema profondo, ricorrente nella grande cultura greca-
europea il tema dei Giganti mitici che vogliono impadronirsi del potere celeste, universale. E
vengono scon tti, quando sembrano avere vinto. Questo tema dei Giganti profondamente
radicato nel cuore europeo. Pirandello nella sua ultima opera incompiuta lo esempli ca con
il Teatro e la Poesia, lo innesta in una problematica che prende l’aspetto della
Rappresentazione. Due mondi: gli Scalognati, fuori della realt perch si credono altri di
quelli che sono e perch la "societ normale" non li vuole. I Comici, fuori della realt perch
"attori" e perch la realt del pubblico non vuole accettare il loro messaggio, opera poetica
che recitano. I due mondi si incontrano in una villa meta sica, un luogo non luogo, dove
realt e sogno si confondono. Ma ad Ilse, l’Attrice che brucia di teatro, non basta. Il Teatro e
la sua Poesia devono essere dati al Mondo della Realt . Non restare sogno. E fuori dal
Sogno ormai la Realt quella dei Giganti e dei loro servitori, gente che si ottusa, che ha
dimenticato il cuore, la bellezza. Gente che lavora per costruire cosa, scavare, consumare.
Ilse con il suo tragico e meraviglioso errore, obbliga la sua Compagnia, il Teatro, a recitare
proprio l , davanti a Giganti invisibili e presenti. Crotone, il Mago del Sogno, avverte per
che "l ", egli non pu salvare Ilse. Ed Ilse viene uccisa dal pubblico dei piccoli Giganti (i
grandi forse sono altrove, forse non sanno nemmeno pi che il teatro esiste) che sentono la
Poesia come una provocazione. I Comici se ne vanno con Ilse morta a ranti ma anche
liberati. Nell’epoca dei Giganti "umano" adeguarsi, non dare pi messaggi, restare dei
pagliacci che fanno ridere e niente altro. Il corteo funebre nella platea non pu non segnare
che una scon tta ed un’accusa. Il Piccolo Teatro rappresenta nell’anno 1994 per la terza
volta una nuova edizione dei Giganti della montagna di Pirandello. La prima ha avuto luogo
nel 1947: come un presentimento. La seconda nel 1966: come un timore che nonostante
tanta "rivoluzione" giovanile intorno, il cammino della societ degli uomini verso
l’abbandono di alti ideali e valori, fosse accelerato e quasi ineluttabile. La terza, questa:
come una tragica contestazione che i Giganti hanno vinto e che ci hanno, consapevoli o
inconsapevoli, travolti, che non siamo pi gli stessi, che stiamo precipitando. Noi siamo,

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oggi, diventati anche noi, gli e servi dei Giganti misteriosi che guidano la nostra vita in un
crepuscolo dell’anima sempre pi universale. La metafora del Teatro e della Poesia
diventata qualcosa di pi . Davanti al pubblico di oggi, noi attori, come quelli della Favola
davanti al pubblico dei Giganti, dobbiamo soltanto sparire e lasciare un vuoto e un alto
silenzio. Forse proprio da questo ultimo sacri cio, dal brivido degli spettatori, lasciati soli
in un teatro semi buio dalle povere luci vacillanti che pu nascere un sussulto, una
domanda, un breve ma profondo ripensamento sul nostro destino umano. Non si tratta di
"rifare" per chiss quale inesistente comodit , uno spettacolo di un lontano passato. Ma di
ria ermare, ancora pi tragicamente di sempre con uno spettacolo di oggi, il grande
smarrimento che ci circonda. Una sola speranza: i Giganti hanno vinto sempre. E sempre
hanno perso, nel mito e nella storia. L’uomo non si ancora de nitivamente perduto. I
giganti della montagna rappresentano nel "mio" teatro un antico amore. Il copione, dalle
pagine leggere e gualcite, dove ritrovo segni misteriosi, indicazioni di cui non rintraccio pi il
senso, il fregio rosso dei sipari indicato dal suggeritore, porta il numero 5 sulla copertina. Il
che mi ricorda che stato, nel 1947, il quinto spettacolo del Piccolo Teatro. Tra quel
numero e oggi: una vita, una storia intera di teatro. Ritornare a questo testo, quasi alla ne
di una parabola, mentre si addensano dentro e fuori di me, nuovi temi, nuove urgenze,
lampeggiamenti di perplessit , e anche ineluttabili chiarezze, pu sembrare soltanto
un’attitudine della memoria, un gesto a ettuoso verso s stessi, verso una disperata
coerenza in un mondo che si sfalda, si contraddice, si rinnega ad ogni attimo. Ma non lo .
O, almeno, lo solo in parte, da un punto di vista pi segreto ed a ettivo. Altre volte, dopo
di allora, mi sono trovato a confrontarmi con attori anche stranieri, con il tema dei giganti. E
ogni volta sono stato mosso dal tentativo di entrare pi profondamente dentro quest’opera
misteriosa, come sono misteriose tutte le opere ultime dei Grandi Vecchi, lasciate come un
riassunto - che al tempo stesso un’apertura per il domani - dai drammaturghi - poeti al
limite della loro vita. straordinaria la carica "magica" che le tempeste dei drammaturghi
poeti, portano dentro, nel tempo. Una specie d’irradiazione, di cui non si sa spiegare la
natura, pervade certe pagine dell’ultimo teatro dei grandi drammaturghi alle soglie della
morte o della follia: succede a I giganti della montagna, rimasti addirittura incompiuti
eppure perfettamente compiuti nella loro parabola. Un testo nel quale l’ultima parola scritta
una battuta d’angoscia gridata dai comici: "ho paura", al precipitare dei giganti in marcia
al di l delle precarie mura della Villa della Scalogna. Nel ricreare, oggi, questo testo ho
tentato per prima cosa, di lasciare ai Giganti il suo limite di mistero da non violare: un
barlume, un lampo abbacinato, un suono teso. Ma non un incubo mitteleuropeo, come
forse verrebbe fatto di pensare e come, del resto, io stesso ho lasciato talvolta che
avvenisse. Semmai un lucido sogno meta sico, tutto nostro, italico, con il suo fondo di
favola popolare, di credenze antiche, che diventa anche, talvolta, favola, mito. Qui si tratta
del mito ultimo, quello della poesia, meglio ancora dell’arte, in assoluto. E per Pirandello il
teatro che incarna la poesia, il mistero dell’arte, meglio che ogni altra "forma". Da qui
l’avventura dei Comici e degli Scalognati. Ma chi sono gli Scalognati se non l’incarnazione
di un altro modo di fare teatro, pi puro: perch se stessi? Un nano che vuole credersi
bambino, una vecchina che vuole credersi morta, una donna cannone che vuole credersi
leggera come una ballerina sul lo, un mago che vuole credersi mago, un vecchio
mendicante che a forza di tendere la mano, di essere respinto, si ritrova insieme agli altri, ai
margini della vita. E i comici che recitano per gli altri pi che per s stessi, a forza di recitare
una favola che nessun pubblico vuole accettare, trascinati da Ilse, "attrice" assoluta,
anch’essi niscono per essere "dimessi" dalla realt , per trovarsi "fuori" della vita, ai piedi
dell’immaginaria o reale - come si vuole - Villa della Scalogna, dove vivono Cotrone ed i

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suoi Scalognati. Due mondi che entrano in contatto in un’aura sospesa dove ogni cosa
possibile. Siamo nell’assoluto, tutto qui si paci ca, tutto si accetta, tutto creduto, tutto
valido e vero. Qui i comici potranno recitare la loro favola ed essere capiti. Addirittura
nasceranno dal nulla, diretta invenzione del poeta, i personaggi mancanti e ormai non pi
recitati dalla piccola compagnia, dai resti, dice un comico, di quella che fu una gran
compagnia. a questo punto che avviene il gesto de nitivo di Ilse. Forse nella
drammaturgia della "rappresentazione" o del "teatro nel teatro" di Pirandello, il dramma pi
"teatrale" di tutti I giganti della montagna. Mito dell’arte che si rappresenta
simbolicamente nel "teatro", nel testo di teatro-poesia, negli attori che lo "rappresentano",
nel pubblico che non l’accetta o l’accetta con tentennamenti. Mito dell’arte che si
rappresenta simbolicamente nella fantasia degli Scalognati. Fantasia che si realizza nella
volont o capacit tenacissima di "inventarsi" una situazione teatrale quasi solo per s . Gli
altri non devono "divertirsi", capire o altro, basterebbe che "accettassero la fantasia-follia".
Teatro degli Scalognati perch questi ultimi non devono abdicare alla vita e vivere il loro
teatro pensato, inventato, anche in mezzo agli altri. Gli Scalognati tra di loro si accettano,
accettano il teatro di ciascuno (il nano che dice di essere bambino, la vecchina che dice di
essere morta sono degli esempi precisi). Arrivano gli attori. Ilse incomincia a recitare la
Favola del glio cambiato davanti agli Scalognati, come in un delirio. Gli attori aiutano la
recita di Ilse che s’interrompe subito. E subito questi attori, come su di un palcoscenico,
davanti agli Scalognati, gridano la loro passione (il loro teatro privato, la loro vita privata, gli
amori, le pene, i rimorsi, persino le loro storie private), recitano impudicamente il loro
dramma (come in un certo senso potevano farlo i Sei personaggi di fronte agli attori ignari).
Ostentano, insomma, il proprio dramma davanti ad altri. Non anche questo fare "teatro"?
Poi gli Scalognati recitano il loro "teatro" per gli attori: la vecchina racconta la sua morte,
Duccio, in parte la sua storia, Cotrone quasi tutta la sua, il nano Quaqueo balla sui tasti
dell’organo come un gatto. Poi i comici riappaiono vestiti "da teatro", con costumi teatrali
che hanno indossato quasi senza saperlo, cio non con la "coscienza" degli attori
professionisti. E quasi s’incantano e si meravigliano di averlo fatto, di questo
mascheramento di teatro. In un secondo momento l’arsenale delle apparizioni un teatro in
formazione, dove si accumulano le "apparizioni" di teatro in genere, in particolare i fantocci
della Favola del glio cambiato. Qui entrano, come in un sogno, Ilse e il Conte e
rappresentano involontariamente e inconsciamente una parete del loro dramma di reciproca
incomprensione, con implicazioni sentimentali e persino sessuali, davanti ai fantocci
immobili. Dopo di loro entrano, come in trance, Diamante e Cromo, trasformati in due
personaggi diversi della Favola del glio cambiato dai due diversi costumi che indossano.
Entra Battaglia, vestito da donna, da sgualdrinella. I Fantocci e i sogni dei comici si
mescolano in una rappresentazione teatrale parafrasando il ballo del ca della Favola.
Spizzi, in sogno, s’impicca davanti ai sogni dei compagni e ai fantocci. come una specie
di prova generale della Favola del glio cambiato, dove i personaggi mancanti della
rappresentazione nascono dal nulla. Questa prova generale ha il suo doppio nell’epilogo
senza parole nel quale i comici recitano davanti ai Giganti e Ilse viene uccisa, sul quale
s’innesta un’altra rappresentazione, nella quale i comici "recitano" il dramma del loro dolore
e il funerale di Ilse. Il nale de I giganti della montagna, un vero e proprio prisma di
situazioni teatrali, uno spasimo di teatralit . Un "tutto teatro", un tutto recita teatrale. Gli uni
per gli altri. Come farlo sentire al pubblico contemporaneo? Come, al di l delle parole che
non esistono, "comunicare" in silenzio la reciprocit delle scon tte? I comici dovrebbero far
vedere oltre la tenerezza degli oggetti, del trucco, l’amore delle cose, la pena dei costumi
vecchi, del mascherarsi ogni sera, del portare avanti, penosamente, una "missione" senza

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quasi saperne il perch . Ma anche la testardaggine imposta o subita, quel tanto di
egotismo di sentirsi i fulcri del mondo. Per Ilse la capacit di riformare il mondo con il suo
dire poesia, ecc. I giganti non si vedono, ma condizionano i servi che assistono alla
rappresentazione, ma che non capiscono e che, a loro volta, sicamente non si vedono,
perch , per Pirandello, stanno "al di l del tendone"? Gli Scalognati: che sono impotenti e
non muovono un dito, non possono "farlo" nella vita? Ma senza caricare di troppi signi cati
l’azione muta nale, che la peggior cosa.” Prendendo le mosse da tali osservazioni, Ilse
perfetta, Franco Graziosi, un Cotrone intenso e misurato, Giulia Lazzarini, che con un
prodigio di tecnica ci o re di Sgricia una ostinata vecchina ultrasiciliana. “Con loro il Cromo
perplesso di Lino Troisi, il Conte leale di Giancarlo Dettori, la Mara-Mara di Nadia Rinaldi.
Miscelata con gli e etti delle apparizioni spettacolari, la limpidezza della lettura registica si
fa ancora pi convincente nel nale, quando dopo che calato un drappo nero al termine di
quanto scritto da Strehler confeziona uno spettacolo memorabile grazie anche alle superbe
prove di Andrea Jonasson, una Pirandello, Tino Carraro vestito in borghese esce e legge le
pagine con la sintesi delle intenzioni dell'autore circa il seguito dettate al glio Stefano”.
Dopo la lettura, comincia la pantomima, su di una piattaforma e di spalle al pubblico,
durante la quale Ilse a ronta gli invisibili giganti, vituperata, muore, e viene trasportata dai
colleghi attraverso la sala prima che il sipario tagliafuoco distrugga la carretta.

L’isola degli schiavi4 di Marivaux debutta a Barcellona il 18 ottobre 1994. Gli interpreti
principali principali di questo nuovo spettacolo sono Philippe Leroy, Laura Marinoni,
Massimo Ranieri, Luciano Roman e Pamela Villoresi. Le scene sono di Ezio Frigerio, i
costumi di Luisa Spinatelli, le musiche di Fiorenzo Carpi e i movimenti mimici di Marise
Flach.

Dopo il debutto a Barcellona, lo spettacolo è presentato a Torino e Milano nella sala di via
Rovello il 13 dicembre per partecipare alla terza edizione del Festival dei Teatri d’Europa (di
cui Strehler è presidente) che no al 15 dicembre occupa il delle tre sale del Piccolo
ospitando gli spettacoli dei 14 teatri d'Europa che formano appunto l’Union des Th tres
de l’Europe (UTE). Da notare che anche la traduzione e l'adattamento del testo di Marivaux
sono di Strehler: «Questo testo – osserva ilregista - cos poco noto che ho dovuto tradurlo
io stesso. Avrei voluto occuparmi del teatro di Marivaux gi anni fa, ma mi era stato
impossibile perch per troppo tempo ho messo in scena e studiato Goldoni e non mi
sembrava opportuno mescolare troppi lavori del settecento>>.

Anche in tale occasione, Strehler si accosta a Marivaux attraverso un percorso originale e


inedito, non scegliendo uno fra i capolavori del commediografo francese, ma prendendo le
mosse da un’opera o meglio da un complesso di tre testi no ad allora mai rappresentati in
Italia, le Utopie (L’isola della ragione, La colonia, L’isola degli schiavi) e decidendo, in ne, di
mettere in scena quest’ultima. Scrive Strehler: “Ho rimandato a lungo l’incontro con
Marivaux. Ma, nei momenti chiave del mio lavoro, il desiderio di confrontarmi con il suo
teatro si fatto sempre pi necessario. Mi stato accanto quando ho a rontato la
Tempesta di Shakespeare. Mi ha inseguito nelle peripezie dell’Illusion di Corneille. L’ho
ritrovato nel nostro viaggio attorno a Goldoni, nel nostro progetto (purtroppo ancora non
realizzato!) dei M moires. Oggi Marivaux qui. Con un “piccolo” testo come L’isola degli
schiavi. Con il suo messaggio di disincantata tolleranza, la sua utopia. Con la sua lucidit , la
sua umanit , il suo mondo in cui si confrontano gioco e dialettica. Il mondo dei padroni,
incerti fra l’arroganza del comando e il trionfo dell’amore, quello dei servi che lo raddoppia
e lo contraddice. Per molto tempo, nel teatro di Marivaux, i servi sono stati considerati

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come le “scimmie” dei loro padroni e i loro comportamenti come lo specchio, deformante e
grottesco, talvolta addirittura comico, del modo di essere di chi li comanda. Eppure, in tutte
le sue commedie, Marivaux ci dice proprio il contrario. I servitori hanno una loro personale
esistenza: se copiano il modo di fare dei loro padroni, se li secondano nei loro intrighi, per
soddisfare i propri bisogni, i propri desideri; ma la realizzazione di questi desideri passa
attraverso i bisogni o i capricci dei loro padroni. Come sostiene Arlecchino in L’isola degli
schiavi, i servitori sono pi saggi dei loro signori. Se sembrano pi divertenti, pi bu
perch la bu oneria l’unico modo che hanno per esprimersi ciascuno avr ripreso il ruolo
che gli compete, che ci sia comprensione e rispetto di tutti per tutti. Possiamo aspettarci
che Marivaux sogni non tanto che abbia ne la divisione della societ in classi, ma,
piuttosto, l’infelicit che si accompagna all’ingiustizia sociale. Dopo il soggiorno nelle sue
isole mitiche, che ci riportano alla memoria l’isola della Tempesta di Shakespeare, autore da
lui molto amato (per questo ci sar la nave della “nostra” Tempesta proveniente da altri
mari, da altri naufraghi a rendere visibile questo ideale legame), Marivaux approda a una
societ “positiva”, fondata su di un nuovo accordo fra servi e padroni, fra il cuore e la
ragione, fra la parola e la verit , dove sar nalmente possibile, senza rischiare, essere
buoni e, soprattutto, essere se stessi. Un’utopia che un miraggio: una volta tornati ad
Atene i servi dell’Isola degli schiavi crederanno di essere stati ingannati? Lontano dalla
protezione di quel losofo-mago che Trivellino si ritroveranno nella stessa, dura,
situazione di un tempo? E la societ ideale che sognavano non apparir loro come un
paradiso perduto? Divinamente ambiguo, Marivaux non risponde. Ma noi sentiamo che
quello che gli interessa davvero (e a noi con lui) che il pubblico comprenda la lezione
dopo aver visto gli uomini diventare, grazie a un nuovo gioco, generosi e ragionevoli. Teatro
nel teatro, commedia nella commedia. recitando e rappresentando che i personaggi di
Marivaux, sempre giovani, se non anagra camente perlomeno scenicamente, perch
cominciano a vivere nel momento misterioso in cui si alza il sipario, hanno qualche
possibilit di raggiungere l’Amore e la Verit . Vivono (o rivivono?) un inizio ideale del mondo
e della societ . Ma la loro giovinezza e il loro potere d’invenzione sono illusori e tutti i loro
stratagemmi, le loro “sorprese”, in apparenza non scal scono l’ordine delle cose. Tutto
sembra gi esistere nella stretta connessione fra gioco e necessit , fra libert del teatro e
ssit della vita sociale. Ma durante il tempo dello spettacolo, con i soli che si sostituiscono
alle lune, ci si pu scambiare i ruoli, ci si pu travestire, indossare una maschera. Tutto
permesso, perch ci quasi impossibile stabilire una separazione fra falsit e sincerit e
solo al teatro concessa la divina leggerezza di un’utopica giovinezza e di una favolosa
libert . Marivaux esalta il teatro, lo esplora, ne celebra la potenza, la mette in dubbio. Parte
dal sogno, dall’utopia, dall’idea di un viaggio di cambiamento e di conoscenza, e lo adatta
agli usi della societ in cui vive. Lo fa diventare quasi troppo reale: sta a noi fermarci prima
sul ciglio dell’abisso, con il cuore e lo spirito ben vigili. Metamorfosi, cambiamento. Poesia
del gesto. Magia della parola. Leggerezza. Il gioco dei bambini. Non dimenticare mai che
Marivaux un autore di commedia, ma non un autore comico. La metamorfosi
travestimento, maschera. E se di lui stato detto che, nel corso del viaggio del teatro
all’improvviso dei comici dell’arte a quello del testo scritto, ha dato un cuore ad Arlecchino,
quanto c’ in questo itinerario creativo, in questa trasformazione drammaturgia e spirituale,
in questo cambiarsi della maschera in personaggio, di natura, di ragione, di emozione?
Come non vederci un annuncio, pur nelle ovvie di erenze, del rapporto tra fra i due libri del
Teatro e del Mondo dal quale nasce la riforma del Teatro e del Mondo dal quale nasce la
Riforma di Goldoni. Nel “tempo teatrale” della ragionevolezza e dell’analisi che proprio di
Marivaux, in questa scomposizione e ricomposizione dei ruoli e delle situazioni, fra amori,

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ri uti, odii e rivolte, tutto necessario: parola, gesto, sguardo. Anzi, sta proprio qui la reale
dissimulazione, ai quali Marivaux o re un mondo intero da scoprire. Crudelt , ma anche
self-control; cortesia, ma anche politesse e nessun cinismo. Forse, alla ne di quest’Isola
degli schiavi, che sta per iniziare il suo viaggio, i signori saranno pi umani, pi giusti. Forse
i servi avranno capito che il cuore dei signori non poi tanto diverso dal loro. Forse. la
sconvolgente novit di un testo che non certo un punto periferico nella produzione di
questo autore. Ancora una volta, la divina ambiguit di Marivaux”.” Per Strehler, dunque,
L’isola degli schiavi una specie di “clinica della ragione”, una “colonia” di rieducazione”
per nobili signori che approdandovi sono costretti a scambiare ruoli e abiti con i propri
servi, subendo ci che hanno no ad allora in itto ai loro sottoposti. Ma anche un
cammino di conoscenza che tocca tutti, servi e padroni, catarticamente destinandosi a far
ri ettere soprattutto gli spettatori. La ragione che domina sull’isola - opposta s’intende alla
ratio convenzionale che insiste sul mondo - vuole che ci si liberi dalla schiavit dei propri
ruoli e da ogni subordinazione reciproca per elaborare in ne un pensiero politico nuovo e
autenticamente egualitario. E davvero illuminato si dimostra, infatti, alla ne della commedia
Arlecchino (Massimo Ranieri), ri utandosi spontaneamente di proseguire le vessazioni sul
suo ex padrone: il gioco dello scambio , insomma, la prova iniziatica necessaria per
raggiungere l’equanimit e la giustizia, per fare propria la Ragione. Ma anche una recita -
teatro nel teatro - a parti scambiate durante la quale gli uomini, in questa come nelle altre
isole, devono farsi attori per apprendere che la vita rappresentazione e che, per valutarne
a fondo le esperienze, necessario rappresentarle appunto con disciplina e secondo la
Ragione autentica. Solo per tale via, potr essere chiaro ci che a Strehler appare uno fra
gli assunti pi alti del teatro di Marivaux: ossia che l’uomo vale in quanto uomo, a
prescindere dalla sua collocazione socio- culturale e dal suo sesso. “L’Isola per me è un
grande apologo sull’animo dell’uomo e i condizionamenti sociali” dice Strehler

“Noi cercheremo di farlo con l'amore e la leggerezza, ma anche l'ambiguit che si merita. Si
aprir con un'evocazione della Tempesta, perch anche qui si parla di naufraghi in un'isola
e per la prima volta far recitare quattro attori nudi, ma in modo poetico e non per voluttà”.

Nella magica Isola approntata da Ezio Frigerio, si muovono Laura Marinoni, Luciano
Roman, Pamela Villoresi, Massimo Ranieri e Philippe Leroy (sostituiti questi ultimi due nel
corso delle recite rispettivamente da Mattia Sbragia e Renato De Carmine) che o rono una
ottima interpretazione. Il successo dello spettacolo testimoniato anche dalla lunga
tourn e internazionale che porta lo spettacolo di Strehler a Parigi, Madrid, Santander,
Bucarest,

Rennes, Valencia, Lubiana, Copenaghen, Grenoble, Annemasse, Mosca, Istanbul e


Salonicco.

La storia della bambola abbandonata5 di Brecht/Sastre va in scena al Teatro Studio il 25


ottobre 1994 e ripropone l’allestimento che Strehler aveva a suo tempo realizzato per il
palcoscenico della Piccola Scala nel 1976. “Si pu riproporre uno spettacolo come La
storia della bambola abbandonata che appartiene alla nostra storia, che porta il segno del
nostro tempo, della nostra identit - si domanda il regista - senza essere accusati di fare
archeologia? Io penso di s tanto pi che questo un lavoro particolare, pensato per i
bambini, ma non solamente perch , pur rivolgendosi a quelli che saranno gli spettatori di
domani, ricerca anche il bambino che in noi. Magari un po’ smarrito, ma pur sempre
presente nella sua intatta capacit di stupirsi, nella sua ansia di giustizia, nella sua ricerca di
ci che buono e giusto, qualche volta smarrito sotto la patina conformista di una vita "da

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grandi". Con la sua capacit di gioco, anche; e, dunque, di essere protagonista di uno dei
giochi pi antichi del mondo, quello del teatro. La nostra Storia della bambola abbandonata
nasce da tutto questo, ma anche da altre ri essioni, da altre ineludibili coincidenze. In un
momento di enorme confusione etica e civile, di perdita di certezze un tempo indiscutibili,
di generale smarrimento, necessario ribadire, difendere, battersi per quello in cui
crediamo. I grandi valori della libert e della tolleranza, innanzi tutto, e, di ri esso, anche il
senso della dignit dell'arte, in un'epoca che sembra non accettare messe in discussione.
Come dire, come comunicare tutto questo agli spettatori pi giovani? Come parlare ai
bambini di ci che buono e giusto? Mai come in questo momento - il caso di dirlo - i
bambini ci guardano. pensando soprattutto a loro, ma anche ai grandi che a loro stanno
vicini, che li amano, che sentono la responsabilit della loro formazione che riproponiamo
oggi, alle soglie del duemila, dell'epoca telematica, dei giocattoli elettronici, questa "favola"
che ha per protagonista una bambola, due bambine, i loro amici e gente semplice, adulti
che amano i bambini e che conoscono l'arte di narrare. Credo che il nostro sia uno dei
Paesi che meno si siano preoccupati e si preoccupino dei bambini, e che quando se ne
occupano lo fanno nei modi pi paternalistici e stupidi. E invece un teatro per l'infanzia - lo
pensavo anche sedici anni fa quando and in scena per la prima volta La storia della
bambola abbandonata - deve essere fatto con amore, con attenzione e, soprattutto,
partendo da un punto di vista che a me pare l'unico giusto: il teatro per bambini deve
essere un teatro per uomini "pi piccoli", quindi un teatro nel quale gli altri, "i grandi",
possono divertirsi. Cos successo, almeno, per questa nostra Bambola. Nel teatro, nelle
ore di lavoro teatrale, i rapporti fra gli adulti e i bambini che hanno partecipato a questa
nostra esperienza, sono stati qualcosa di straordinario. Questi bambini sono stati liberi e,
credo, felici e hanno compiuto un lavoro di teatro proprio identico quello che dovrebbero
fare gli attori "grandi": una specie di divertimento-gioco con la seriet e la responsabilit del
lavoro. Lavoro collettivo di teatro che, fatalmente, diventato lavoro collettivo sulla societ
che ha a che fare con la democrazia formale e non formale. Ma soprattutto, cari bambini,
questo spettacolo fatto e pensato, oggi pi di quella prima, lontana volta, per voi. Siete
voi gli spettatori di domani, i grandi che verranno dopo di noi. A voi a diamo il nostro
bagaglio di sogni, che, forse non siamo riusciti a realizzare e la nostra tenerezza. A voi
a diamo - con tutto il cuore! - il senso di questo lavoro che nasce da un libro per bambini
pensato da uno scrittore, Alfonso Sastre, che per i suoi ideali di giustizia e di libert ha
dovuto sopportare, in anni terribili per il suo paese, la Spagna, il carcere pi duro. Una
favola che nasce da un grande testo di Bertolt Brecht, nostro maestro, Il cerchio di gesso
del Caucaso. In questa Storia della bambola abbandonata c' tutto questo, ma anche il
nostro modo di fare teatro, il nostro modo di teatranti capaci ancora di stupirsi e di dire no.
No a un mondo senza amore, senza giustizia. Lo diciamo come sappiamo, ricostruendo su
di un palcoscenico magie, sguardi, parole, gesti. il nostro modo di raccontare "favole",
ma cos colme di realt e di consapevolezza da trasformarsi, per incanto, in una vita vera.
questo il gioco che vogliamo giocare con voi.”. Sul palcoscenico gli attori Narcisa Bonati,
Liliana Casartelli, Mimmo Craig, Gianfranco Mauri, Enzo Tarascio e le due bambine
protagoniste Alice Bisagni e Alice Prati o rono una prova di grande abilit . Con loro il folto
gruppo di bambini della scuola elementare "Confalonieri" di Milano che appare
perfettamente inserito nel disegno registico strehleriano.

Note

1 Le baru e chiozzotte di Carlo Goldoni (seconda edizione). Scene e costumi: Luciano Damiani.
Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti: Elio Crovetto, Pamela Villoresi,

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Armando De Ceccon, Fabio Sartor, Gianfranco Mauri, Luciano Roman, Susanna Marcomeni, Laura
Pasetti, Lino Troisi, Nino Bignamini, Attilio Duse, Sergio Terenghi. Siviglia, Teatro Lope de Vega, 7
ottobre 1992.

2 Il campiello di Carlo Goldoni (seconda edizione). Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche:
Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Registi assistenti: Carlo Battistoni, Giuseppina
Carutti. Interpreti: Giulia Lazzarini, Giancarlo Dettori, Rosalina Neri, Laura Marinoni, Valentina
Fortunato, Giulia Franzoso, Edda Valente, Roberto Zibetti, Luigi Diberti, Gianni Mantesi, Giorgio
Bongiovanni, Gabriele Balducci, Giulio Luciani, Federico Ulivi, Armando Malpede, Plinio Marsano,
Stefano Parazzoli. Milano, Piccolo Teatro, 6 febbraio 1993.

3 I giganti della montagna di Luigi Pirandello (terza edizione). Scene: Ezio Frigerio. Costumi e
maschere: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici: Marise Flach. Interpreti:
Andrea Jonasson, Giancarlo Dettori, Anna Saia, Lino Troisi, Leonardo De Colle, Enzo Tarascio,
Francesco Cordella, Sante Calogero, Franco Graziosi, Tino Carraro, Gianfranco Mauri, Giulia
Lazzarini, Fabrizio Cale , Maxmilian Mazzotta, Nadia Rinaldi, Giovanna Di Rauso. Milano, Teatro
Lirico, 27 febbraio 1994.

4 L’isola degli schiavi di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux. Traduzione e adattamento: Giorgio
Strehler. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Luisa Spinatelli. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti mimici:
Marise Flach. Interpreti: Luciano Roman, Massimo Ranieri, Laura Marinoni, Pamela Villoresi, Philippe
Leroy. Barcellona, Teatro Poliorama, 18 ottobre 1994.

5 La storia della bambola abbandonata di Giorgio Strehler, da Alfonso Sastre e Bertolt Brecht.
Traduzione: Rosanna Pel . Scene e costumi: Luciano Damiani. Musiche: Fiorenzo Carpi. Movimenti
mimici: Marise Flach. Interpreti: Narcisa Bonati, Liliana Casartelli, Mimmo Craig, Gianfranco Mauri,
Enzo Tarascio, Alice Bisagni, Alice Prati, e i bambini della scuola elementare “Confalonieri ”di Milano,
Milano, Teatro Studio, 25 ottobre 1994.

Lezione 23

28.04.2020

Gli ultimi anni: Brecht, Goldoni e Mozart

Strehler presenta lo spettacolo Non sempre splende la luna. Milva canta un nuovo Brecht.
Rimette in scena L’eccezione e la regola e L’anima buona di Sezuan di Brecht. Nel maggio
1997 festeggia i 50 anni del Piccolo Teatro con una nuova edizione (quella del
cinquantenario) di Arlecchino. A giugno interpreta nuovamente Elvira o la passione teatrale.
Inizia le prove di Così fan tutte di Mozart. Muore a Lugano il 25 dicembre 1997.

Strehler presenta lo spettacolo Non sempre splende la luna. Milva canta un nuovo Brecht.
Firma una nuova edizione de L’eccezione e la regola e de L’anima buona di Sezuan di
Brecht. Nel maggio 1997 festeggia i 50 anni del Piccolo Teatro con Arlecchino (edizione del
Cinquantenario). A giugno interpreta nuovamente Elvira o la passione teatrale. Inizia le
prove di Così fan tutte di Mozart. Muore a Lugano il 25 dicembre 1997.

Nel corso del 1995 Strehler rma due appuntamenti brechtiani: il recital “Non sempre
splende la luna”. Milva canta un nuovo Brecht in scena al Piccolo Teatro il 14 novembre, e
la ripresa de L’eccezione e la regola, dramma didattico di Brecht, già presentato al Piccolo
Teatro nel maggio 1962. Così scrive acutamente Anna Bandettini su “La Repubblica” a
proposito dello spettacolo “Non sempre splende la luna”. Milva canta un nuovo Brecht1

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che vede Milva protagonista: “ La sala strapiena, gli applausi, due bis nali e Milva, bella,
pallida, forse un po' spaesata, commossa con due lacrime sul viso. È stato un bel
successo, l'altra sera, il debutto di Non sempre splende la luna, il recital di song brechtiani
di Milva e Strehler, nuova selezione di brani meno febbrile, aggressiva di quella che trent'
anni fa fece scoprire in Milva un'interprete ideale per Brecht. Ma le scoperte non sono
mancate nemmeno in questo secondo incontro. Oggi ha una sottanina nera, calze nere
spesse, solo un po' di rossetto sulle labbra e i capelli raccolti dietro la nuca, la Milva che
Strehler ha presentato agli spettatori. Non una semplice immagine inedita della cantante,
ma un corpo scenico nuovo e magico, che si piega, che scatta in sussulti, che si disarticola.
Anche la voce non è più solo potente: è dolente, commossa, ora stridula e profonda, ora
forte. Una vera attrice, oltre che una grande cantante: segno di un incisivo lavoro registico,
ma anche di quanto Milva sia maturata come artista di spettacolo, di quanto sappia
anteporre a sé stessa il gusto del gioco teatrale. Ma non solo: nella sua gura, luminosa e
laconica, c'è anche l'immagine, in carne ed ossa, di come Strehler sembra rileggere oggi
Brecht. Nei più di venti song presentati nel recital (suonati con rigore da Beppe Moraschi al
piano, Bruno Poletto alla sarmonica, Federico Ulivi alla chitarra e banjo), infatti, non c' è
traccia del Brecht più marziale, didascalico e ideologico. Dietro gli attimi di struggente
stupore sentimentale, di romantica tenerezza di song come Un'amara canzone d' amore o
la bella Canzone d' amore, c' è un Brecht che riacquista la sua integrità umana, che
ridiventa genuino poeta lirico, vulnerabile come noi comuni mortali. Sono le canzoni
musicate dallo stesso scrittore, quando da giovane, nelle taverne di Monaco, suonava la
chitarra davanti agli amici, "inedite" per noi, ma belle, capaci di emozioni dirette al pari delle
canzoni sanguigne di Weill, della musica aristocratica di Eisler, dei toni romantici di Dessau,
dell'intimista Portami un ore, composta per l'occasione da Fiorenzo Carpi. Eppure, anche
queste canzoni d' amore non si riducono a un puro ripiegamento sentimentale: sono l'altra
faccia di una coscienza sul mondo inquieta e amara. E infatti la signi cativa selezione di
brani scelta da Strehler, crea un controcanto dialettico al clima interiore delle ballate
d'amore giovanili, e non solo con la irrinunciabile Surabaya Johnny che ormai solo Milva
può cantare o Bilbao-song. Più che il Brecht "politico" dai toni caricati, è il Brecht del
risentimento per il destino dell'uomo quello che ne esce esaltato, come nella Ballata di Lilly
all' inferno e ancora di più nella drammatica, toccante Ballata di Marie Sanders che è come
un chiodo nella ferita dell' Olocausto; il Brecht ironico e realista, dell'osservazione
sarcastica sul mondo di Jacob Apfelbock o il giglio dei campi, dell'umorismo acre,
antiborghese, e della durezza feroce di La ballata della vivi cante potenza del denaro e
della divertente Ballata di chi vuole star bene al mondo. Fino ad arrivare alla emblematica
conclusione dell'Epita o per Rosa Luxemburg, colei che "i ricchi hanno spedito nell'
aldilà", per ricordarci che la visione del mondo di Brecht è molto poco tranquillizzante. In
forma più allegra, gioiosa, dunque più crudele, lo aveva cantato anche Hanna Cash (la più
pungente tra le ballate) che dopo essere fuggita dai boschi per raggiungere la grande città,
torna nei boschi, resta fedele all’uomo che la picchia e ai gli insegna la morale: “che la vita
è di cile”.

L’eccezione e la regola2 va in scena al Teatro Studio il 1 dicembre, parte di un trittico


brechtiano composto da Quanto costa il ferro? e da alcune scene tratte da Terrore e miseria
del Terzo Reich (regia Carlo Battistoni). Come ricorda lo stesso Strehler, L’eccezione e la
regola del 1962 era parte di uno spettacolo “che metteva in contatto il teatro epico con il
“teatro realistico” quest’ultimo rappresentato da un atto unico di Arthur Miller dal titolo
Ricordo di due lunedì. Due modi di fare teatro e due tecniche di recitazione venivano a

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costituirsi come due poli dialettici davanti al pubblico. Appariva chiaro che la metodologia
usata nella messinscena dell’una e dell’altra opera, sia come “forma” che come “stile” di
recitazione appariva molto diversa, ma ambedue gli spettacoli erano drammaticamente
validi e accessibili al pubblico che ne decretò un grande successo. Oggi ripresentiamo
L’eccezione e la regola nell’ambito della nostra ricerca e riproposta dell’autore Brecht, per
conoscerlo meglio e per discuterlo con maggiore serenità e distacco. I drammi didattici di
Brecht appartengono ad un periodo ben de nito della cronistoria dell’autore. Questo
periodo, più o meno va dal 1928 al 1934. Appaiono così allora La linea di condotta, Il
dramma didattico di Baden Baden (L’accordo), Il volo di Lindberg (che prese anche il nome
di Il volo sull’oceano, per volontà dell’autore che considerò assai criticamente la posizione
fascista del primo trasvolatore atlantico). Nacquero l’opera da camera Mahagonny, Il
consenziente e Il dissenziente, L’eccezione e la regola, Teste tonde e teste a punta e Gli
Orazi e i Curiazi, l’ultimo “dramma didattico” (che verrà rappresentato solo nel 1958). Il
momento è quello di una scoperta di Brecht, che studiando da una parte il teatro Nô e il
Kabuki e dall’altro approfondendo lo studio sulle teorie marxiste, realizza una forma di
teatro “non gastronomico” cioè non concepibile solo per divertirsi ma anche per imparare e
per insegnare. Nella forma più semplice, meno realistica possibile, Brecht pone alcuni
problemi, mette in drammaturgia alcuni interrogativi che gli sembrano urgenti. Il pubblico
dovrà decidere i torti e le ragioni dei fatti e dei personaggi. Nonostante i grandi equivoci
suscitati - Brecht freddo ideologo che “mostra” senza arte e calore umano proponendo
“solo” teoremi politici - questa fase del teatro brechtiano è assai importante nell’evoluzione
della sua scrittura, si integra in modi assai complessi con le sue opere successive. Ci è
sembrato necessario mostrarla oggi con uno spettacolo che, muovendo dal nostro vecchio
lavoro di teatro, lo rinnova in molte parti. Sulla traccia viva della prima Eccezione e la regola
Gianfranco Mauri, allora interprete del ruolo del portatore, ha ricostruito perfettamente
l’opera sulla scena reinventata da Luciano Damiani al Teatro Studio. Io l’ho rivista, si può
dire, dal “di fuori” e ho continuato poi il suo lavoro no alla ne. Gli interpreti di oggi sono
attori noti e cari del Piccolo e molti ex-allievi del primo corso, ormai lontano, della nostra
Scuola di Teatro, la scuola “fantasma” di cui credo il pubblico ha sentito parlare. Nel lavoro
mi è apparso ancora più chiaro uno degli scopi dei drammi didattici, mai sottolineato a
su cienza; che cioè il dramma deve insegnare qualcosa non solo al pubblico ma,
innanzitutto, a coloro che lo interpretano. Ho visto sotto i miei occhi gli attori recitare con
una nuova tecnica, con una nettezza che non è però frigidità, con un’autocoscienza di
uomini prima che di attori, mostrata sempre come un avvenimento dialettico. Così ho
capito, io stesso ancora meglio, che la verità dei drammi didattici è quella di mostrare agli
spettatori un processo dialettico dove si è costretti a decidere. Al di là delle idee politiche o
degli accenti sociali dell’autore. Il valore estetico dell’Eccezione e la regola mi è apparso
ancora più evidente; e non ha nulla di primitivo, non ha nemmeno quella secchezza che
molti hanno voluto attribuire a Brecht. Penso che il pubblico troverà utili queste mie
ri essioni e ne farà a sua volta altre, le proprie, per discuterle con sé stesso. Accanto
all’Eccezione e la regola abbiamo allestito un breve e folgorante “fatto teatrale”, non
“didattico” come denominazione ma ugualmente ammaestrante.” In scenaRoberto Aielli,
Narcisa Bonati, Giorgio Bongiovanni, Francesco Cordella, Mimmo Craig, Sergio Leone,
Gianfranco Mauri, Enzo Tarascio interpretano questo dramma didattico attraverso una
recitazione compiuta e matura, priva di qualsivoglia sovrastruttura psicologica, senza
sentimenti e interessi che non siano quelli essenziali alla funzione a loro a data dalla
vicenda.

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Il 1996 vede Strehler nuovamente impegnato in un allestimento brechtiano. Si tratta questa
volta della terza edizione de L’anima buona di Sezuan3 che va in scena nello spazio del
Teatro Studio il 26 marzo. Nei suoi appunti di regia, Strehler traccia le linee guida lungo le
quali si muove questa nuova edizione: “È un Brecht molto umano quello di Sezuan, lineare
e severo: la tensione stilistica è assoluta. Non si limita all’enunciazione di fatti e a
raccontare una parabola sulla bontà. L’anima buona di Sezuan è una delle opere di Brecht
più risolte dal punto di vista estetico, poetico e per no formale e il pubblico, al Teatro
Studio, a diretto contatto con gli attori, con i piedi quasi sul girevole che porta avanti e
indietro il destino degli uomini, avrà modo di toccare con mano queste emozioni dello
spettacolo. Stiamo vivendo l’insostenibile contemporaneità di un mondo che mostra
sempre di più la sua essenza crudele, un mondo, anzi, dove la faccia della durezza è
diventata un valore per dare dignità ai nostri egoismi: per questo, in questa edizione, la
protagonista si trova, alla ne, con le mani rivolte verso il pubblico a chiedere aiuto, a
domandare se è possibile cambiare il mondo. Soli non si riesce a fare nulla, il destino è
nelle mani degli uomini, non fuori dagli uomini, e non solo degli uomini buoni. L’uomo solo
diviso tra il bene e il male sarà sempre destinato a vedere le sconcezze della vita come se
esistessero solo nel piccolo schermo della televisione. Hitler o i criminali di guerra che
vanno in giro tron in “Mercedes” dopo aver massacrato i civili in nome di una folle pulizia
etnica, sono mostri? No, erano, sono, uomini mostruosi. I mostri li costruiamo noi. In un
mondo che va verso il gelo e la non-comunicazione o la comunicazione distorta, dove i
sentimenti sono spariti per fare posto alle emozioni cosiddette forti ed e mere, virtuali,
urlate e trasmesse a ritmo di spot pubblicitari, bambini che muoiono di fame e subiscono
inenarrabili violenze, Sarajevo, la Cecenia, di nuovo e sempre la pulizia etnica, solo noi
possiamo fermare la barbarie, la violenza e l’orrore che ci circondano in un mondo che
sempre di più separa invece che unire. Riproporre oggi l’opera di un autore scritta in
un’epoca ormai lontanissima per noi, il 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale,
signi ca riproporre una grande tragedia contemporanea che ci sta addosso, che riguarda
tutti. Anche questa volta, riprendendo uno spettacolo che avevo già allestito nel ’58 e poi
nell’80, mi sono trovato dinnanzi un testo sconvolgente, di una contemporaneità e una
pertinenza rispetto alle cose che abbiamo davanti agli occhi, che mi sembra scritto non
oggi ma addirittura domani o dopodomani. L’attualità di Brecht sta nella ricchezza dei suoi
contenuti e nella sua grandezza poetica. In questo testo si discute di cose eterne, della lotta
fra il bene e il male: la nostra condanna è di dover essere cattivi per poter fare il bene. La
parabola ammonitrice è questa.

Brecht si è posto alcune domande fondamentali sul bene e sul male, sull’essere buono e
sull’essere cattivo in generale, ma soprattutto su tutti noi che viviamo con queste due
anime dentro, quella buona e quella cattiva, quella bianca e quella nera. Sa bene che non
basta più essere buoni, che bisogna lottare contro l’ingiustizia, bisogna travestirci anche noi
con la maschera della cattiveria per scacciare la cattiveria dal mondo. Brecht ha lasciato il
nale aperto. Per questo è stato criticato, perché non diceva chi era buono e chi era cattivo,
non esibiva la bandiera rossa o quella azzurra, suggeriva semplicemente che una soluzione
l’uomo doveva trovarla. Questa è la vera lezione brechtiana e mi sento di dire che il lavoro
con e su Brecht è appena cominciato; la grande lezione brechtiana è ancora tutta da
apprendere. Un teatro di interrogativi di fronte all’esistenza dell’uomo, un teatro che
riguarda il vivere civile, ma detto con parole e con gli enigmi della poesia perché è
impossibile pensare a un teatro che prescinda dall’umanità. Credo che una delle grandi
forze del teatro sia la sua capacità di attraversare il tempo e i muri, di irradiarsi al di fuori.

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L’audience di una trasmissione televisiva può essere di milioni di persone, ma quanti
“vivranno” quello che vedono? E quanti milioni hanno visto l’Amleto di Shakespeare da
quando è stato scritto? Ma queste opere e le parole che hanno ascoltato, le emozioni che
hanno provato si sono cucite sulla loro pelle, sono entrate nel loro modo profondo di
pensare, nella cultura, li hanno, poco o tanto non importa, trasformati. Io credo a questo
potere, all’intensità della rappresentazione, come una specie di messaggio sulla non-
violenza che conquista gli uomini: il teatro in cui credo non aggredisce, cerca piuttosto di
indurre al cambiamento. Faccio teatro perché la gente lo ami, lo capisca, lo discuta, perché
qualcosa di quello che abbiamo detto in palcoscenico resti nel cuore di altri uomini come
noi, che sono gli spettatori. Ecco perché questa parabola drammatica ritrova, se mai
l’avesse persa, un’attualità e una necessità tragica, una forza ancora più sconvolgente sotto
la luce implacabile del teatro, nostro specchio e nostra vita.” Si tratta sotto tutti gli aspetti
quindi di una nuova edizione come lo stesso Strehler più volte sottolinea: “Tanto per
cominciare nello spazio a pianta centrale, rotondo, girevole del Teatro Studio, Brecht è tutta
un’altra cosa. Anzi, mi pare che sia nel suo luogo ideale. Recitato sotto il naso della gente,
a stretto contatto con lo spettatore acquista tutto un altro signi cato, un altro impatto. Sarà
più forte, più crudele, più viva promette Strehler, la morale della parabola brechtiana, della
povera Shen Te troppo buona e quindi sfruttata da tutti, nché non decide di travestirsi da
suo cugino Shui Ta, cattivo, prepotente, a arista e dunque rispettato. Oggi, più di quindici
anni fa, mi sembra un testo scritto per noi. E non lo sto dicendo perché in Shui Ta c'è chi
potrebbe vedere Berlusconi. Nel 1981 mi sembrava che questo Sezuan parlasse a una
società che aveva toccato il fondo. Ma oggi? Ci paiono per no buoni quegli anni Ottanta.
Siamo andati oltre. Oggi la società si è imbarbarita, incrudelita, incarognita. Ci si permette
di dare dei compagni di merenda alle alte cariche dello Stato. Ma che mondo è questo?
Dobbiamo sperare nelle elezioni? Mah, certo, noi voteremo, ma quanto alla speranza,
comincio a non crederci più". E allora? "La risposta di Brecht, che ci arriva in modo poetico,
più che politica è etica. Non c' è solo il bianco o solo il nero, essere buoni o essere cattivi.
Brecht ci dice che per difenderci è inutile chiedere consiglio agli dei, a chi ci governa, che
dobbiamo alzarci noi, abitanti di questo piccolo universo che non fa che girare su stesso.
Quel grido di 'aiuto' che Shen Te rivolgerà nel nale agli spettatori, stavolta, sarà più vero e
meno teatrale. Sarà una chiamata di responsabilità, a noi tutti". Protagonista assoluta dello
spettacolo è ancora una volta l’insuperabile Andrea Jonasson che, al anco dello
straordinario Renato De Carmine, o re una prova indimenticabile. Con loro si segnalano
Mattia Sbragia l’aviatore, Rosalina Neri la madre, i tre dèi (Mario Maranzana, Gianfranco
Mauri, Enzo Tarascio), Ettore Conti, Edda Valente, Claudia Lawrence, Anna Saia, Paolo
Calabresi, Carlo Montini, Narcisa Bonati, Mimmo Craig, Mario Santella, Stefania Graziosi,
Riccardo Mantani Renzi, Pia Lanciotti tutti acclamati dal pubblico e premiati dalla critica
che riserva allo Spettacolo lodi incondizionate.

A fronte del successo pieno e convinto che l’allestimento dell’Anima buona di Sezuan
ottiene, la vita di Strehler è in questo anno segnata da un doloroso contenzioso con
l’amministrazione civica, che lo obbliga a compiere gesti clamorosi, mettendone in
discussione il ruolo all’interno del Piccolo Teatro e ignorandone la statura somma per
trattarlo come un relitto ormai inutile e ingombrante. Mentre tutto il mondo civile fa a gara
per attribuire a Strehler premi e onori cenze, il consiglio comunale milanese nel luglio 1996
ne accoglie le dimissioni (provocatoriamente rassegnate dal regista il 3 giugno a seguito
dell’ennesimo rinvio dell’inaugurazione della nuova sede del Piccolo Teatro, in costruzione

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da 18 anni su progetto di Marco Zanuso, annunciando che sarebbero diventate operative
dal 31 dicembre).

La situazione diviene politicamente complessa e il 3 dicembre 1996 Strehler rende pubblico


il suo allontanamento dal teatro con questa dichiarazione: “il 14 maggio 1997 il Piccolo
Teatro compie cinquant' anni di vita. Era questa l'occasione per o rire a una Istituzione
diventata una grande realtà culturale italiana ed europea, prospettive di sviluppo e di
sicurezza. Per mesi e mesi ho posto a tutti i livelli, in tutti i modi possibili il problema della
costruzione non di un edi cio teatrale ma di un Nuovo Piccolo Teatro, fatto soprattutto per i
giovani e rivolto assai più al domani che alla celebrazione di un glorioso passato. Un
progetto triennale prevedeva nei particolari artistici, gestionali e nanziari, lavoro stabile e
duraturo per 470 lavoratori dello spettacolo (artisti, tecnici e collaboratori) durante 12 mesi
di attività all' anno, con 450 serate teatrali per 250.000 spettatori, una Scuola Internazionale
di Teatro, un'attività d' arte dedicata alla prosa, alla musica, alla danza, al cinema, all' opera
lirica e alla ricerca teatrale italiana ed europea. Tutte le mie proposte non hanno avuto
riscontro e sono cadute nel vuoto. Nessuno dei Soci Fondatori dell'Ente ha dichiarato il
proprio interesse ad esclusione dell'Amministrazione Provinciale che ha raddoppiato il
proprio contributo con entusiasmo. Davanti a questa congiura del silenzio, a questa volontà
di non rispondere, di eludere ogni impegno circa un tema che io giudico di interesse
collettivo, non posso che confermare la mia decisione già da tempo resa nota, di non
essere più vincolato a un incarico istituzionale quale è la Direzione del Piccolo Teatro.
Nonostante l'interesse del Governo e dell'Onorevole Veltroni per i problemi della cultura, ai
quali va la mia ducia, la situazione locale e il comportamento troppo scorretto dei
responsabili dell'Amministrazione di Milano impediscono oggettivamente la mia libertà
artistica e la vita di una Istituzione che è patrimonio della città. Da semplice cittadino ai
cittadini milanesi, denuncio un altro esempio di indi erenza e di incapacità del Sindaco
Formentini, dell'Assessore alla Cultura Daverio, del Consiglio Comunale capaci, nel merito,
soltanto di auspicare il mio più rapido allontanamento dalla città, e sotto i gonfaloni sbiaditi
della Lega assieme ai loro complici di aver portato Milano ad un livello di degradazione mai
raggiunto prima. Al tentativo in atto di contrabbandare poi un gesto puramente elettorale,
quale la "messa in mostra" a qualunque costo di un teatro non nito, dopo diciotto anni di
inazione, bisogna rispondere con il ri uto di prestarsi ad un altro misero gioco di potere che
nasconde solo il vuoto e la mancanza di ogni reale sentimento civico. Non si tratta di un
problema del Piccolo Teatro. Non si tratta più di un problema culturale, ma di un problema
politico. Da parte sua l'Assessore alla Cultura della Regione, Tremaglia, ha avuto, in queste
circostanze, solo il fremito di inviare a me ed alla stampa una lettera di puro sdegno
fascista, per avere io dichiarato che non mi sentivo di inginocchiarmi indiscriminatamente
davanti ai caduti di tutte le parti, considerando la scelta della Resistenza una scelta di
libertà e l'altra quella del dispotismo. Ma in quali mani siamo caduti? Dobbiamo tutti
opporci a questo modo di amministrare la cosa pubblica con tanta incompetenza ed
ignoranza faziosa. Non più Direttore di una istituzione pubblica, dopo essermi riappropriato
della mia totale libertà di artista, unico bene che posseggo: semplice cittadino in una
comunità avvilita, senza poteri ne scopi occulti, sento di poter esortare la città tutta ad
unirsi in un appello pubblico, al di là dei partiti, perché si scuota dal torpore in cui l' hanno
fatta cadere, perché riprenda il suo volto più vero fatto di competenza, di capacità nel
dirigere e nel creare, perché riconquisti quei caratteri che l' hanno resa unica e grande nella
vita unitaria della nostra Nazione.” A questo periodo assai di cile risale anche la decisione
di abbandonare alcuni importanti progetti che, privato della serenità necessaria, Strehler

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non ha più le forze per portare a termine nonostante ogni possibile tentativo fatto per non
abbandonarli.

Mio riferisco alla lettura scenica con musiche Madre coraggio di Sarajevo (da Brecht) che
avrebbe dovuto inaugurare nell’interpretazione di Giulia Lazzarini la nuova sede del Piccolo
e che viene, ora, a data a Carlo Battistoni dopo un periodo di lavoro preparatorio (il
debutto sarà a Palermo il 27 giugno 1996) e a L’avaro di Molière, tradotto e messo in prova
da Strehler con Paolo Villaggio e poi consegnato nelle mani di Lamberto Puggelli (il debutto
avverrà al Teatro Lirico il 16 gennaio 1997).

Nei primi mesi del 1997 la direzione del Piccolo è a data a Jack Lang il quale dichiara da
subito: "La mia sarà una direzione per riportare Giorgio Strehler al Piccolo" e a da al
vecchio amico il coordinamento artistico di tutte le manifestazioni programmate per il
cinquantesimo del teatro.

Rientrato u cialmente al Piccolo il 25 marzo, Strehler si impegna a ideare spettacoli, eventi,


convegni he devono celebrare mezzo secolo del primo e più importante teatro stabile
pubblico d’Italia. Non stupisce che per festeggiare i cinquanta anni del Piccolo, il 14 maggio
1997 torni in scena Arlecchino servitore di due padroni4 in una nuova edizione chiamata
appunto “edizione del Cinquantenario”. Strehler coglie questa occasione per proporre
alcune ri essioni, pubblicate nel programma di sala, intitolate L’Arlecchino è un fatto
straordinario: “Perché Arlecchino? Ancora? Ma sì: ancora e sempre, come sempre è stato.
Ma un altro Arlecchino, rinato dalle ceneri dell’ultimo, anche questo come sempre. È giusto
ricreare un “altro” nuovo Arlecchino di Goldoni, quando ce ne sono stati già almeno dieci,
tutti identici e tutti profondamente diversi? Dal 1947, era il 24 luglio, la ne della nostra
prima stagione. Fino ad oggi, il 14 maggio dei nostri cinquant’anni. L’Arlecchino è un fatto
straordinario nella storia del teatro mondiale. Questo spettacolo ci ha accompagnato per
tutta la vita, rinnovandosi volta per volta. Centinaia di attori lo hanno recitato. Ci sono degli
spettatori che l’hanno visto nascere, poi, anni dopo, l’hanno visto rinascere; dopo altri,
l’hanno riconosciuto in Italia o nel mondo... Oggi questi stessi spettatori ed altri ancora lo
rivedranno, in occasione del nostro anniversario. Forse un grande libro avrebbe potuto
essere scritto su questa storia: la storia di un solo spettacolo, ripetuto ma non ricopiato
quasi all’in nito. Nessuno l’ha scritto e credo che nessuno lo scriverà. Ma se noi teatranti,
per compiere il nostro meraviglioso e disperante mestiere, dovessimo aspettare quelli che
scrivono, non ci sarebbe più una ribalta che si accende nel mondo. Noi facciamo il teatro.
Altri lo guardano. Altri ancora lo descrivono e lo ricordano. I più lo dimenticano. O credono
di dimenticarlo; perché io penso che un atto teatrale d’arte, vitale, compiuto, rimanga
dentro al pubblico come una memoria sepolta e non perduta. Questa edizione
dell’Arlecchino ha la caratteristica fondamentale di gettare luce su un “altro” Arlecchino. Ho
dato al teatro del Novecento due Arlecchini, quando già si era spenta non la memoria ma la
presenza di questa straordinaria maschera italiana. Moretti e Soleri: sono due nomi, ma
scritti nel gran libro della storia dei comici del mondo, accanto a Bertinazzi, Thomassin e
molti altri. Storia che vive. Questa nuova interpretazione è per me fonte di una trepidazione,
di un fascino, di una curiosità, in nite. La compagnia sarà tutta di giovani ex allievi di una
scuola che, senza clamore ma tenacemente, presta donne e uomini della scena al teatro
italiano ed europeo. A reggere le la di questa nuova famiglia, due grandi attori, due amici:
Ferruccio Soleri e Gianfranco Mauri. Di Ferruccio che posso dire, ancora, che già non sia
stato detto o scritto, in tanti anni di vita trascorsi insieme sulle scene? Il mio Arlecchino è
lui, personaggio ormai a rancato, libero dalla schiavitù del tempo che passa: eppure lui sa,

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ogni volta, rinascere sempre nuovo, sempre unico. Accanto a lui Gianfranco Mauri nel ruolo
di Brighella, tende le mani a questi giovani dal gruppo dei “vecchi” del Piccolo. Ancora
storia e vita. A loro si a dano questi giovani, che sono un piccolo nucleo della nuova
famiglia che – nata da noi – costituirà il nuovo Piccolo Teatro, Teatro d’Europa, da domani
anche Teatro Nazionale. Un altro segno, non di celebrazione come sempre un po’ funebre,
ma di nascita. Per il resto, l’Arlecchino sarà come sempre pieno di storia e di ricordi; ma
anche di nuovi suoni, di nuove sorprese. Sul nostro vecchio palcoscenico, così piccolo,
così povero ma tanto ricco di creatività, di bagliori e di grandi voci della poesia umana.
L’abbiamo voluto là, proprio perché in quel luogo palpita la storia. Ai muri sono aggrappati
in niti ricordi, le stanze sono abitate; in ogni poltrona si è seduta una gura cara in attesa o
in ascolto. Il nuovo vecchio futuro Arlecchino sta bene lì, nella sua culla di un tempo,
quando recitavamo con maschere di carta in pieno luglio e la carta delle maschere si
scioglieva sul nostro viso con lunghe righe di nero... Piccoli stracci che mettevamo con cura
sul tavolino, dando loro una forma quasi perduta e che ritrovavamo l’indomani, pronte per
sciogliersi di nuovo sui visi della nostra giovinezza”.

Fra le molteplici attività alle quali Strehler si dedica in questi mesi va ricordato il suo
appassionato ritorno sulle scene del Teatro Studio, il 19 giugno 1997, per interpretare Elvira
o la passione teatrale, sempre al anco dell’amatissima Giulia Lazzarini. Alle recite di Elvira
egli accompagna un impegno incondizionato volto a progettare la vita artistica del Piccolo
per il triennio di ne secolo presentando un programma ricco di proposte e a ascinanti
novità. Basti al proposito citare le Memorie di Goldoni – di cui ho già detto in più occasioni -
riscritte per il palcoscenico e rielaborata in più occasioni sin dalla ne degli anni Sessanta,
progetto attraverso il quale il regista intende raccontare il teatro e la vita di Goldoni. Ernesto
Calindri avrebbe dovuto interpretare nel ruolo del protagonista accanto a Giulia Lazzarini,
Carla Fracci, Valentina Cortese, Narcisa Bonati, Ferruccio Soleri, progetto al quale Strehler
pensa da lunghissimo tempo. Il 26 giugno 1997 ricevendo dall’Università degli Studi di
Torino la laurea honoris causa, egli ricorda: “Goldoni mi ha insegnato che la vita è
sorprendente e che non bisogna mai aspettarsi le cose immutabili, perché nella vita tutto
cambia: mai nessuno è cattivo no in fondo, mai nessuno è buono no in fondo.”

Nell’estate e nell’autunno 1997 la sua attività creativa trova tuttavia il suo obiettivo primo
nella messinscena di un nuovo spettacolo Così fan tutte5 di Mozart, l’opera da lui scelta
signi cativamente per portare a termine la Trilogia italiana di Mozart e inaugurare nalmente
(dopo 20 anni di attesa) la nuova sede del Piccolo Teatro. Le prime prove cominciano sin
dal mese di luglio e proseguono sino al 23 dicembre, ultimo giorno di lavoro prima della
pausa natalizia. Queste le parole del regista: “Ultima prova, 23 dicembre. Oggi proviamo
l’ultima scena di Così fan tutte. Mi dicono: "Ma come, dottore, proprio lei che non lo fa mai
no all’ultimo, prova il nale? Ma allora lo spettacolo, dopo dieci giorni è già fatto"...
Lasciamoli parlare. Quello che voglio dirvi è che questa scena non possiamo buttarla via. Le
due sorelle stanno sedute attorno al tavolo un po’ vestite da turche, con i due albanesi.
Sono tutte prese dal gioco che c’è fra loro e i due cavalieri stranieri, che è anche un gioco
erotico: ci si tocca sotto il tavolo, ci si riconosce..." Bevi bevi, tocca tocca". Ma con
leggerezza mi raccomando. Ecco questo strano gioco un po’ da commedia dell’arte
comincia. I quattro quasi spariscono dentro la tovaglia che ricopre il tavolo. Ecco che
appare un notaio che non è altri che quella matricolata di Despina d’accordo con quell’altro
simpatico mascalzone che è don Alfonso, il quale, però, si è ben guardato dal dirle che i
due albanesi, in realtà sono Ferrando e Guglielmo. Improvvisamente mentre sono lì a
leggere le carte ecco un rumore. Cosa sarà mai? Sono loro, i soldati che ritornano. Panico,

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ma Dorabella e Fiordiligi non si perdono d’animo. Fanno come tutte le donne: nascondono.
Ecco, spingete i vostri amanti dietro il velario come se fosse un armadio, così (fa vedere
come). Per il resto niente paura: un calcetto con la scarpina così (compie l’azione), per
nascondere in qualche modo il contratto di matrimonio, i vestiti alla turca, sbattuti qua e là.
Viene fuori il vestitino di sempre: non è successo niente tutto si è fermato come al momento
della partenza dei due innamorati. Rifacciamo tutto. Attenti. I gesti devono essere veri,
naturali, non plateali, veloci. Leggeri. Ma avete una certa ansia: "Oddio, oddio i nostri
innamorati sono tornati e noi stavamo qui con gli altri... via tutto via tutto, facciamo sparire
tutto non è stato niente, niente... (fa ripetere alle cantanti tre, quattro volte). Ecco i soldati
portano in scena i bagagli degli u ciali fra questi c’è un baule, un baule di teatro, un po’ la
cesta di Arlecchino, ecco così. Despina, buttati dentro! Arrivano i due u ciali con la loro
bella divisa, che poi sono i nostri due albanesi, i mascalzoni. E quindi si devono cambiare
tutti in fretta: "Mia cara, mio caro" si dicono, ma tutti e quattro sanno che hanno mentito e
che non c’è poi gran gioia in quel ritrovarsi. Ecco che Guglielmo trova il contratto di nozze:
nta rabbia. No così, nta!! Ma che cosa vuol mai dire tutto questo? Nozze. Nozze? "E via,
traditrice, ridammi il mio ritratto" dice a Fiordiligi Guglielmo, mentre Despina esce travestita
dalla sua cesta e si spoglia velocemente degli abiti di notaio per ritornare la serva nta di
sempre (fa ripetere più volte). Non siate rigidi: velocità, leggerezza. Leggerezza, capite?
Gioco ..."Bevi, bevi, tocca tocca"... Ecco che tutto si ricompone nel campo di battaglia di
questa farsa dolce - amara che è questa scena. Fedeltà, amore eterno... Un sogno, un
sogno, tutti l’hanno imparato, tutti lo sanno. Ma la vita non è sogno, la vita è un’altra cosa.
Noi uomini siamo e meri come i nostri sentimenti... C’è tutto questo mentre cantate, al di
là delle parole. È questa la morale enorme che Mozart ci lascia. Su così bravi, tu coprila un
po’ (dice a Guglielmo) perché lei è un po’ svestita. Su abbracciatevi, ridete con un po’ di
tristezza magari... la vita è questo, cosa credete? Ecco adesso tutti insieme rivolgetevi
verso il pubblico, abituatevi "a parlare" con il pubblico. Non sono un fanatico della dizione,
ma dovete abituarvi a fare capire le parole che dite. "Che ridere che ridere" cantate... Un bel
sorriso mi raccomando, ma tristezza... che bella la vita, che triste la vita... (fa ripetere la
scena più e più volte). Ecco tutto si scioglie. Sembra che i protagonisti abbiano capito tutto.
Lasciano perdere, tutti insieme. Si abbracciano, ridono e piangono un po’, si vergognano e
sono felici, ma provano anche pena. Le coppie si incrociano e si spiano. Chissà uno va a
guardare l’amante sotto la parrucca, un’altra trova un ba o perduto per terra. Forse per un
attimo, ma solo per un attimo, gli u ciali si mettono, il vestito lasciato cadere dalle donne...
Provate a farlo... Chi sono le donne? Chi gli uomini? Chi le infedeli? Chi gli spasimanti? Su,
coraggio, fate: scioltezza, naturalezza, gioco... (Si ripete). Avete lavorato bene, sono
contento di voi. Allora questo vecchio "mostro" vi fa un regalo. Vi dà un giorno di vacanza in
più (applausi). Il 27 non ci sarò. Ci rivediamo il 28.”

La regia del Così fan tutte con le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino
resta incompiuta perché Strehler muore la mattina di Natale, 25 dicembre 1997, alle 4.30
per un attacco cardiaco nella sua casa di Lugano, all'età di 76 anni. I funerali, ai quali
partecipa compatta la cittadinanza, si svolgono a Milano il 27 dicembre. Poco dopo,
Giorgio Strehler parte per il suo ultimo viaggio terreno alla volta della natia Trieste dove le
sue ceneri sono tumulate nella tomba di famiglia nel cimitero di Sant’Anna. La regia di Così
fan tutte sarà condotta a termine da Carlo Battistoni e inaugurerà il 26 gennaio 1998 la sala
del nuovo Piccolo Teatro, ora Teatro Strehler.

Note:

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1 “Non sempre splende la luna”. Milva canta un nuovo Brecht. Testi: Bertolt Brecht. Traduzione:
Giorgio Strehler, Helena Janaczek. Musiche: Bertolt Brecht, Fiorenzo Carpi, Paul Dessau, Hanns
Eisler, Hans-Dieter Hosalla, Kurt Weill. Arrangiamenti: Fiorenzo Carpi. Interpreti: Milva. pianoforte,
armonium: Beppe Moraschi, sarmonica: Bruno Paletto, chitarra, banjo: Federico Ulivi. Milano,
Piccolo teatro, 14 novembre 1995.

2 L'eccezione e la regola autore: Bertolt Brecht. traduzione: Giorgio Strehler. regia: Giorgio Strehler.
Scene: Luciano Damiani. costumi: Luciano Damiani. musiche: Fiorenzo Carpi. interpreti principali:
Roberto Aielli, Narcisa Bonati, Giorgio Bongiovanni, Francesco Cordella, Mimmo Craig, Sergio Leone,
Gianfranco Mauri, Enzo Tarascio. Teatro Studio Milano, 1 dicembre 1995.

3 L’anima buona di Sezuan di Bertolt Brecht. Interpreti: Paolo Calabresi, Sante Calogero, Ettore
Conti, Mimmo Craig, Renato De Carmine, Andrea Jonasson, Sergio Leone, Mario Maranzana,
Gianfranco Mauri, Rosalina Neri, Antonio Ruggiero, Anna Saia, Mattia Sbragia, Enzo Tarascio, Edda
Valente. Milano, Teatro Studio, 26 marzo 1996.

4 Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (edizione del Cinquantenario). scene: Ezio
Frigerio. costumi: Franca Squarciapino.musiche: Fiorenzo Carpi. maschere: Amleto Sartori.
Movimenti mimici di Marise Flach. Interpreti: Giorgio Bongiovanni, Paolo Calabresi, Francesco
Cordella, Sergio Leone, Nicoletta Maragno, Gianfranco Mauri, Maximilian Mazzotta, Laura Pasetti,
Stefano Quatrosi, Giorgia Senesi, Maria Grazie Solano, Ferruccio Soleri, Alighiero Scala, Luca
Criscuoli. Piccolo Teatro Milano, 14 maggio 1997.

5 Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart. Concertatore e direttore d’orchestra: Ion Marin. Regia
realizzata da Carlo Battistoni. Scene: Ezio Frigerio. Costumi: Franca Squarciapino. Movimento
coreogra ci: Marise Flach. Interpreti: Eteri Gvazava, Teresa Cullen, Jonas Kaufmann, Nicolas Rivenq,
Soraya Chaves, Alfonso Echeverria. Orchestra Sinfonica “Giuseppe Verdi” e Coro della Civica Scuola
di Musica di Milano. Milano, Nuovo Piccolo Teatro, 26 gennaio 1998.

Videolezione

Strehler, contestualizzazone per capire la scelta degli autori, su quelli su cui è tornato più
volte nel corso della sua carriera, in particolare dei cosiddetti “riempi pista”, ovvero
Shakespeare, Goldoni e Pirandello. A questi si aggiunge colui che ha avuto uno spazio
importante per Strehler, ovvero Brecht, determinante per lui.

A questi quattro autori di teatro di prosa si aggiunge Mozart, ultimo autore (musicista) che
Strehler a ronta (senza riuscire a nire) al quale opera molte ri essioni.

SHAKESPEARE

Shakespeare (1564-1616) vive a cavallo tra ‘500 e ‘600, nel periodo quindi del tetro
elisabettiano, epoca molto fortunata per il teatro inglese. È attore, direttore di compagnia,
gura molto discussa e controversa. Si pensa anche che ci fossero più Shakespeare, dato il
numero enorme e la di erenza dei testi.
Shakespeare è il primo che rompe, che infrange le tre unità di azione, tempo e luogo. Si
tratta di un autore rivoluzionario per l’epoca, per certi aspetti lo è tutt’ora, è un autore
contemporaneo.

Peso che hanno gli spettacoli, i titoli shakespeariani in Strehler

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Riccardo II,1948, è il primo testo rappresentato da Strehler, altri sono “la Tempesta” e “Re
Lear”. Alcuni messi in scena solo una volta, altri ripresi nel corso degli anni,messi in scena
in più occasioni. “La tempesta”, per esempio, è stato fatto nel 1948 per poi essere ripreso
nel 1978.

Sintonia tra Strehler e Shakespeare che nasce dal grande interesse per la produzione del
drammaturgo inglese che ritorna più volte nella teatrogra a di Strehler.

Strehler parte da opere meno conosciute. Non è un caso che non abbia mai fatto l’opera
più conosciuta di Shakespeare, “Amleto”, l’opera forse più famosa di teatro al mondo; e
che abbia toccato frettolosamente anche altri testi molto famosi. Per esempio “Romeo e
Giulietta” è stato messo in scena all’inizio, nel 1948, in una regia rmata con Renato
Simoni, altro importante regista e critico teatrale.

Dedica invece molta attenzione a testi come “Riccardo II”. Siamo nella prima stagione del
PiccoloTeatro, si tratta di un testo rappresentato per la prima volta in Italia. C’era quindi
anche quell’idea di proporre qualcosa di Shakespeare meno consueto che non fosse uno
Shakespeare del grande attore, delle grandi tragedie, commedie e drammi storici, ma di
fare un lavoro di ricerca, compito di un teatro pubblico stabile, qual era il Piccolo.
C’è quindi un interesse, una curiosità per il testo meno presentato, il desiderio di mettere in
scena testi che partono da Shakespeare ma che sono vere e proprie creazioni dello stesso
regista, come fa ne “il gioco dei potenti”, in cui mette insieme due testi diversi di
Shakespeare. Adattamento dall’Enrico IV.
È Strehler che scrive i testi.
La prima edizione de “il gioco dei potenti” 1965, teatro Lirico, ma poi ci sono altre edizioni,
verrà rappresentato anche a Strasburgo con attori tedeschi. Testo che ritorna molto nella
teatrogra a di Strehler.

I testi di Shakespeare possono essere divisi in tre grandi categorie:


- TRAGEDIE: per quanto riguarda le tragedie shakespeariane Strehler pone molta
attenzione è “Re Lear”. L’interpretazione di Tino Carraro rimane nella storia;

- COMMEDIE: non c’è un testo particolare messo in scena da Strehler. Si potrebbe citare
“la tempesta”, anche se non si può de nire totalmente una commedia (rientra comunque
in questa categoria). Si tratta di un testo straordinario che va in tutta e anche in America,
interpretato sempre da Tino Carraro;

- DRAMMI STORICI: sono tutti gli Enrichi. “Il gioco dei potenti”, si tratta di un
adattamento dell’Enrico IV. Strehler dedica la sua attenzione anche a altri testi che
possono essere inclusi tra i drammi storici di Shakespeare. Allestimento di Enrico IV
messo in scena al teatro Romano di Verona nel 1951.

Interesse vario che va a coprire tutti i generi di Shakespeare.

Messa in scena del teatro shakespeariano e di Strehler:


il teatro di Shakespeare era molto diverso da come lo intendiamo noi. Le compagnie del
teatro elisabettiano era formate solo da attori uomini, essi interpretavano anche i ruoli
femminili. Il concetto di realismo, aderenza alla realtà era concepito in modo molto diverso
da ora. Non si trattava di un teatro di travestimento, era un teatro di codi cazioni, il

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pubblico sapeva riconoscere in quel giovane Giulietta e le sue caratteristiche nonostante
fosse un uomo, apprezzandolo così.

Nel teatro elisabettiano gli attori si esibivano su una pedana, la scenogra a era
sostanzialmente inesistente. C’era un fondale sempre identico, un upper stage (piano
superiore con balcone usato per esempio nella famosa scena di Romeo e Giuditta). Il
pubblico era molto rumoroso. Si trattava di teatro scoperti, in cui gli spettacoli duravano
l’intera giornata, era quindi un luogo d’incontro, dove trascorrere il tempo, per questo non
silenzioso.
Gli attori non avevano costumi particolari. I luoghi in cui si svolgevano le azioni erano
spiegati dalle lunghe presentazioni degli attori.
Shakespeare non rispettava l’unità di luogo, che quindi erano più di uno ed erano da
spiegare al pubblico.

Strehler riprende quest’idea del teatro elisabettiano, di un teatro nudo, senza scene, dove
anche i costumi sono indicazioni, non hanno una vera aderenza storica.
“La tempesta”, per esempio, è una vera e propria scena elisabettiana, con la zattera-
pedana di legno, in una scena completamente vuota, senza quinte o fondali. Non ci sono
elementi realistici. Gli stessi interpreti hanno molta attenzione per la poesia. Strehler ceca di
ricreare quell’ambiente shakespeariano di poesia attraverso la sua grande arte: la
recitazione degli attori; la capacità tecnica, ovvero l’illuminotecnica.

Le vicende di Shakespeare sono sempre attuali, al punto che ci sono riferimenti all’attualità.
L’Italia del 1978 è un’Italia colpita, abbattuta dal terrorismo. Aderenza del testo
shakespeariano alla di coltà dell’uomo di adattarsi, di rispondere a situazioni di cili
era ,sicuramente, per Strehler sicuramente una grande s da. Voleva creare un teatro che
parlasse all’uomo.

Lezione 24

30.04.2020

Ri essioni conclusive

Domandare a un poeta: che cos’è la poesia, come la fa, cosa vuole dire con questo e con
quello, obbligarlo a spiegare perché ha fatto questa poesia e non un’altra e via dicendo? È
possibile la risposta? Nessun artista mai è riuscito a parlare di ciò… Perché l’uomo d’arte fa
e non spiega. Non sa, non può, non vuole spiegare. (Giorgio Strehler)

Giorgio Strehler è uno fra gli artisti più signi cativi della storia dello spettacolo
contemporaneo. Personalità di fama internazionale e padre fondatore del teatro di regia in
Italia, egli ha dedicato tutta la sua esistenza alla creazione e alla di usione di un “teatro
d’arte per tutti”, intendendo con tale de nizione un teatro che fosse espressione di un
impegno artistico di alto pro lo morale e civile, un teatro “necessario”, destinato a svolgere
un'importante funzione collettiva nella coscienza politica, sociale e culturale della nazione.
Infatti, è proprio a partire dal 1947, con la nascita del primo teatro stabile italiano, il Piccolo
Teatro di Milano, che si può parlare di una prassi registica consolidata ed eretta a sistema.
Tale condizione ha consentito al regista di muoversi n dai primi anni con una libertà negata
al mercato privato, condizionato da logiche di tipo commerciale. Strehler ha così potuto
scegliere, di volta in volta, nuovi percorsi, guidato da un vigile senso dell’attualità culturale,
da un’apertura senza riserve nei confronti delle drammaturgie straniere, da una volontà

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ferma di agire in nome dell’arte e della cultura per tutti. A tutto ciò spronato inoltre da una
personale sensibilità poetica che gli ha consigliato in più occasioni di riprendere esperienze
passate per vagliarle alla luce di una più consapevole maturità e di un contesto sociale e
politico modi cato, per riviverle secondo modalità di erenti.

“Non sono un artista. Sono uno che fa il mestiere dell’interprete” ama spesso ripetere
Strehler, sottolineando che il regista non è un “illustratore”. Al contrario, lungi dal limitarsi a
un commento illustrativo del testo, il regista deve assegnare all'andamento dello spettacolo
un doppio percorso di leggibilità: il primo, più esteriore, ricostruisce il testo, non solo
rispettandone la struttura e o rendone una verisimile traduzione scenica, ma
storicizzandolo, ossia facendone il veicolo per comprendere la cultura e la civiltà che in
esso si esprimono. Il secondo, più profondo, a volte addirittura nascosto, è costituito dal
nesso che il regista deve sapere cogliere tra il testo e l'attualità, soprattutto in termini socio-
culturali. E sul palcoscenico tale percorso prende forma proprio attraverso gli interventi del
regista il quale va a colmare gli spazi lasciati aperti dall'autore del testo, mettendo a frutto la
propria creatività critica e la propria capacità compositiva. Ma in tutto ciò, il regista si deve
mantenere sempre coerente con la scelta di rispettare in maniera assoluta il testo d’autore
per fornirne nello spettacolo un’interpretazione personale e meditata che, senza ricorrere a
manipolazioni, divagazioni o adattamenti, si ponga come una nuova e spesso originale
opera d’arte (si pensi alle scoperte e alle riscoperte per tale via attuate da Strehler il quale,
attraverso alcune fra le proprie interpretazioni registiche, ha contribuito a una più motivata
comprensione degli autori, avviando ripensamenti anche in sede letteraria.). “Il mio teatro –
ha dichiarato Strehler – è sempre stato il disperato tentativo di cercare di essere un
interprete il più possibile limpido, il più possibile non deformante”.

La regia è, dunque, per Strehler un atto critico o, meglio, la lettura critica, tendenzialmente
obiettiva, di un testo attraverso la “forma” dello spettacolo. Proprio tale obiettività richiede
una forte disponibilità da parte del regista critico ad assumere un atteggiamento imparziale
anche, a volte, addirittura “contro sé stesso”. È pur vero che una regia critica può apparire
in alcuni casi un’interpretazione soggettiva e tendenziosa - poiché gli schemi sensibili di
una generazione o di una critica letteraria o di un gusto hanno velato la reale portata di un
testo, facendolo diventare altra cosa da sé - ma per Strehler “un testo non è quello che si
vorrebbe fosse: è quello che è. Scoprire questo quello che è è il primo compito del regista,
anche al di là delle mode, delle false interpretazioni precedenti, degli usi”. Interpretare un
testo diviene dunque un po’ come leggere una partitura musicale “in cui il do bemolle è do
bemolle e non un do diesis, in cui un certo tempo è quello indicato in partitura, in cui il tono
è quello che è, il ritmo è quello che è, non altro. Esiste una oggettività dell’interpretazione
musicale? Oppure è tutta a data all’arbitrio dell’interprete? Questo può essere un
paragone utile”.

Ma non è tutto. Strehler ricerca nel testo la realtà, la verità, la sua autenticità (“o la sua non-
autenticità, se capisci che non è autentico”). “La verità di chi scrive e la verità di chi
interpreta.

La relativa, forse, ma fondamentale sincerità e autenticità. Sto molto in guardia a cercare il


vero, l’autentico, quello che uno voleva dire veramente. Il testo ha una sua verità; questa
verità è da scoprirsi, è da capirsi nella sua totalità, se possibile. Quando i testi sono molto
grossi la totalità è il mondo; quando sono un po’ più piccoli la totalità è una camera in cui
litigano e si amano o non si amano, che già è una bella complessità, certo, ma insomma
non è una Weltanschauung - visione del mondo - in cui metti in gioco il destino della razza

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umana. Questa autenticità la colgo nel prendere tra le mani i testi che non ho mai letto e
anche i testi che ho già conosciuto”. Il teatro va così a con gurarsi come un di cile e
delicato compromesso tra rappresentazione della realtà e astrazione poetica, tra ricerca
critica e intuizione naturale, tra ragione e emozione. Infatti, se scopo primo del teatro è per
Strehler il “fare vedere”, il “mostrare” (senza, tuttavia, volere spiegare troppo il perché si fa
una certa cosa piuttosto che un’altra), ogni scelta, anche la più piccola, deve sempre avere
alle spalle mille ragioni di tipo critico, storico, lologico in grado di confermare o smentire
ciò che si è fatto.

L’atto artistico nasce, dunque, da una ampia conoscenza del reale che, tuttavia, deve
necessariamente essere abbinata a qualche cosa che non si sa - o non si vuole - spiegare.
Deve essere un riassunto poetico e emozionante, ma reale, in cui il regista presenta tutto
ciò che sa o presume di sapere in un’atmosfera magica di “realismo poetico”. Utilizzata in
più occasioni a partire dalla prima edizione de El nost Milan di Carlo Bertolazzi, tale
de nizione individua la personale cifra di lettura impiegata dal regista il quale coniuga la
realtà presente nel testo con una poesia che ne smorza le tinte, e contemporaneamente ne
accresce l’e cacia. Per Strehler, la realtà nel suo insieme è spesso misera, morti cante e,
quindi, grossolanamente brutta. Tuttavia, essa è poetica o almeno “poetizzabile” in alcuni
suoi particolari che possono, a prima vista, apparire insigni canti, o quasi, ma che sono
capaci di accogliere reconditi signi cati. Realismo del “poetizzabile”, spesso al di fuori e al
di sopra delle vere esigenze della vicenda, che è riletta dal regista attraverso appunto il ltro
della poesia: un ltro capace di sfumare i contorni, accrescere la suggestione e l’e cacia
della rappresentazione. Questa, in sintesi, potrebbe de nirsi la molla prima del “fare teatro”
di Strehler. Un “fare teatro” che mette in scena la realtà - anche dove essa è brutta e
“sporca” - impegnandosi per renderla più “poetica”, attraverso la “grande poesia della
scena”, di volta in volta declinata sui versanti della rimembranza o dell’evocazione
fantastica, scevra sempre, tuttavia, da gratuiti e virtuosistici intellettualismi. In tale
mediazione tra rappresentazione diretta della realtà e astrazione artistica, in tale delicato
equilibrio di concezione e mezzi interpretativi, costanti nella produzione di Strehler, può
essere riconosciuta una dorsale della di lui coerenza di uomo di teatro e d’artista.

Sulla scorta di queste osservazioni, possiamo tentare di delineare un “metodo Strehler”?


Esiste una ricetta, più o meno segreta, che ci sveli gli ingredienti della creazione artistica
strehleriana? Sicuramente no, o almeno non sempre e non per tutto. “Il grande teatro di
Strehler - osserva Sito Ferrone - celebra lo splendore e la povertà della illusione razionale.
Tutti gli arti ci della scenotecnica e tutti i segreti del mestiere di attore vengono esibiti come
utensili e cienti e poi smontati e mostrati al pubblico nella loro vanità. Ogni attore prima
“divino” e poi guitto, ogni trovata registica può sembrare una furberia bassa o geniale: il
teatro dà ordine al caos e lo lascia intravedere sullo sfondo”. Possiamo, tuttavia, almeno
provare ad individuare alcuni punti ssi, alcune azioni ricorrenti nel suo modo di fare teatro
che egli stesso in qualche occasione ha voluto rivelarci. Anzitutto, Strehler si accosta al
testo cercando di essere il più possibile vergine (“cerco a tutti i costi di essere come un
ingenuo lettore che non ha saputo mai niente. Cerco di farmi stupire, di farmi intrigare”),
sforzandosi di non sapere nulla, “che è la cosa più di cile da ottenere, col sedimento
culturale che abbiamo, con tutte le nostre passioni, le nostre letture, i nostri gusti. Non
siamo mai puri, mai vergini nell’accostarci a un testo, e quindi possiamo avere dei
condizionamenti, che noi consideriamo invece conquiste culturali: molte volte lo sono e
molte altre volte invece sono condizionamenti o pregiudizi”. “La metodologia - prosegue il
regista - per me contiene alcune cose che sono veramente metodologiche e che riguardano

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per esempio i fatti tecnici: la correttezza di un certo spazio nel quale si agisce; la luce che
dà l’ambiente esatto in cui l’azione si svolge (giorno/notte, interno/esterno); alcuni oggetti
utili e maneggevoli (sedie e tavoli) che si costruiscono lentamente insieme per diventare poi
un fatto che di per sé stesso può avere anche valore estetico. Nella tecnica io ho ottenuto
nel mio teatro molti risultati di ammaestramento – quasi vorrei dire di condizionamento –
involontario, per cui certe cose con me non si possono fare che in un certo modo”. Dunque,
il “metodo Strehler” sembra prendere le mosse da un lavoro tecnico e d’équipe: solo
attraverso il lavoro collettivo, duro e prolungato delle prove, nel sinergico contributo di molti
linguaggi e di molti esseri umani si può giungere alla comprensione e all’interpretazione di
un’opera: scenogra a, costumi, musica, luci, movimenti di scena, sono gli ingredienti
irrinunciabili degli impasti sempre nuovi entro cui germina la recitazione dell’attore e si
condensa l’idea interpretativa della regia. A tale proposito, può essere utile seguire, per
sommi capi, il percorso creativo che il regista intraprende per allestire uno spettacolo.

Inizialmente, Strehler descrive lo spettacolo che ha in mente, non procedendo per immagini
precise, ma per sensazioni. Il lavoro dell’immagine è demandato allo scenografo al quale è
concessa, quindi, una grande libertà creativa. Lo spazio scenico per Strehler è, anzitutto, lo
spazio nel quale si muovono gli attori e il lavoro con lo scenografo è molto importante per la
realizzazione del progetto registico. “Di solito – spiega il regista - n dal primo giorno di
prova, cominciamo a lavorare con spazi de niti, ma non de nitivi, giacché è quasi certo che
non rimarranno no alla serata della prima rappresentazione”. È un work in progress
ininterrotto che prescinde dai primi bozzetti (per Strehler non esiste un bozzetto, ma tante
successive elaborazioni che portano man mano al progetto nale) per trasformarsi in
qualcosa di di erente che nasce e si costruisce, appunto, nel corso delle prove con gli
attori, veri protagonisti - non dimentichiamolo - del teatro strehleriano. “Per me l’ideale
sarebbe costruire uno spazio partendo da dati e ipotesi inde nite e di modellarlo poi con gli
attori mentre si lavora”. Allo stesso modo, egli non ama i costumi dominanti. In sé il
costume non deve essere un elemento autonomo, bensì parte di tutto un insieme di scene,
di luci, di attori, di situazioni, di movimento. Per Strehler, il costume giusto è quello che
passa inosservato: non bisogna accorgersi che è un costume teatrale. Quindi, il regista
incontra tutti i collaboratori tecnici (direttori di palcoscenico, macchinisti, tecnici di scena,
fonici) i quali devono esprimersi in modo autonomo eppure perfettamente integrato con lo
spirito che, di volta in volta, dà luogo all’interpretazione globale del testo. Anche dal punto
di vista tecnico, Strehler esige una pulizia formale assoluta: non vuole vedere un proiettore
mal posizionato, né un ba o di luce, né un fondale non perfettamente teso.

Nuova tappa del lavoro sono le prove a tavolino. Cosa racconta Strehler agli attori durante
le prime prove a tavolino? “Quello che so – confessa il regista – quando è stato scritto il
testo, come è stato scritto, che enigmi ci sono dentro, cosa ho capito un po’, cosa non
capisco per niente, perché più di così non posso, cosa dovremo scoprire insieme”. Quindi,
il lavoro prosegue leggendo, parlando, provando con la voce e la presenza viva dei
di erenti attori (“con l’intelligente che ti dice la cosa intelligente e lo stupido che dice quella
stupida che serve anch’essa”) al ne di creare progressivamente attorno al testo un nucleo
di idee che presto, di lì a poco, sarà messo in prova in palcoscenico. Attori, dunque, non
passivi, non mestieranti comodi, ma artisti messi sempre di fronte a un vuoto da colmare
con la creatività e la fantasia. “Alcuni recepiscono, altri no. Ma quelli che ci stanno creano
delle forze incredibili”.

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Il passo successivo consiste nelle prove d’insieme (le cosiddette prove “in piedi”). Per
Strehler avvengono sempre in una scena vuota, pulita, dove non ci siano attrezzi di scena o
elementi dello spettacolo precedente, una scena illuminata correttamente (non con luci di
servizio). Quasi sempre il regista fa le luci prima dell’inizio delle prove in palcoscenico: egli
dedica ore e ore a preparare anche una sola atmosfera. Una musica di scena contribuisce,
in ne, a completare tale quadro. Ma una musica non casuale! Come Strehler è molto abile a
realizzare le luci, così egli possiede una perfetta sensibilità musicale che gli permette di
scegliere l’andamento musicale più appropriato. La musica è “chiari cazione”, è
“necessità”, appartiene al testo. “Gli attori si sentono giusti in quella scena, con quella luce,
quei vestiti e quella musica; si mettono in una fase più creativa del solito. E in questa fase
tirano fuori delle cose incredibili. Sanno essere veramente bravi”. E Strehler - si sa - non
dirige gli attori da una poltrona in platea: “in genere vado dagli attori e con gesti li rallento, li
incito, mostro un ritmo, una forma, faccio una cosa che non è proprio giusta, che posso
fare io soltanto, che un altro non ha ragione di fare”.

Terza fase: dopo l’improvvisazione, gli attori sono chiamati a rifare ciò che hanno creato
nelle prove precedenti. Sotto la guida di Strehler (il quale recentemente si è avvalso anche
di nastri registrati) si ssano gesti, posizioni, toni vocali, sguardi. “Questo è un lavoro
noioso. Talmente noioso che chi assiste alle prove se non è adusato al mestiere, dapprima
(alle prove creative) si diverte come un pazzo; poi assiste a queste altre prove in cui sembra
che non si faccia che ripetere all’in nito la stessa cosa e nisce che non viene più. La
creazione è già avvenuta in altra sede”. Progressivamente, attraverso costumi provvisori
che diventano de nitivi, melodie abbozzate che diventano complete, fondali che si
de niscono illuminati da luci via via più suggestive, l’allestimento si avvia verso la fase
conclusiva. Ma non rapidamente. Infatti, “la parte più di cile di tale processo - annota
Strehler - avviene quando, per intuizione o ragionamento, vedendo la storia che si è svolta
per due terzi o tre quarti verso una certa sua completezza, ti accorgi che alcune cose forse
non tengono più, oppure che hai esagerato in una certa direzione.” In tale caso, il regista
non esita a tornare indietro, a correggere, rifare, riprovare: tutto può essere cambiato e può
diventare migliore o peggiore. Fino alla prova generale in cui gli attori si ritrovano nalmente
vestiti con i costumi de nitivi (da loro già vissuti nel corso delle prove) con una coscienza
del testo molto importante con una collaborazione nel lavoro molto importante. Poi
principiano le repliche dello spettacolo, ma anche in tale sede Strehler non ammette
improvvisazione, né variazioni anche minime. “Ogni tanto li ripesco, faccio una prova, ma è
molto di cile riprendere i cavalli che sono in corsa, perché poi ognuno ha una
giusti cazione. Comunque, li tengo solidi”.

Questo per quanto riguarda il teatro in prosa. Interessante può essere dedicare qualche
osservazione anche al teatro in musica. “Sono sempre stato un direttore d’orchestra
mancato - dichiarava Strehler - e un musicista non mancato come musicista ma come
professionista. Io sono un buon musicista dal punto di vista tecnico e sono un buon
musicista come ascoltatore, come conoscenza della musica. Forse, forse la mia cultura
musicale è più forte della mia cultura letteraria. Conosco forse meglio Mozart di
Shakespeare. Questo mi ha permesso e mi permette, per esempio, di fare opere liriche
molto bene”. Da tali premesse non sarà di cile riconoscere a Strehler il merito di avere
esportato per primo sulle scene del teatro d’opera in Italia la serietà, il metodo, la
concezione totalizzante, la ricchezza creativa che hanno fatto di lui, uno fra i maggiori
registi di prosa di tutto il mondo. Grazie agli spettacoli di Strehler la regia si è a ermata,
infatti, quale componente indispensabile alla realizzazione dell’opera lirica, ponendo in

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primo piano la necessità di un apparato scenogra co non più generico ma originale e
studiato in funzione della partitura da rappresentarsi, di una recitazione che abbandoni la
convenzionale staticità proposta dai cantanti e, soprattutto, di un responsabile unico che
connetta e integri omogeneamente i di erenti elementi compositivi dello spettacolo. Ma il
teatro in musica non è per Strehler un blocco compatto. Il regista sa bene che le forme di
teatro musicale sono molteplici e non si può avere lo stesso rapporto con l’opera lirica
quando si allestisca un melodramma italiano dell'Ottocento, un'opera bu a settecentesca o
un’opera contemporanea di Prokof’ev o Stravinskij, che già fra loro sono cose diversissime.
Esistono opere musicali in cui una mediazione registica è necessaria e indispensabile, altre
che, per vari motivi, possono essere allestite senza grande dispendio di energie. È, quindi,
chiaro che il tipo di rapporto che unisce Strehler al testo musicale di un'opera come
Lohengrin di Wagner (Scala 1981) non è, e non può essere, ovviamente, lo stesso che lo
unisce a Cavalleria rusticana di Mascagni (Scala 1966). Se nel Ratto dal serraglio di Mozart
(Salzburg 1965, poi allestito in più e più occasioni a Firenze, Milano, Venezia, Parigi,
Bologna, Napoli) Strehler ha privilegiato le parti musicali, proprio perché in tale opera parole
e musica non vanno insieme - tanto è vero che vi sono parti recitate e parti cantate - nel
Simon Boccanegra (Scala 1971) e nel Falsta (Scala 1980) verdiani, in cui parole e musica
sono veramente inscindibili e compenetrate, questa stessa scelta non può avere luogo.
Ogni volta si instaura un rapporto diverso: come del resto avviene - ed è unanimemente
riconosciuto - per il teatro in prosa.

Ciò premesso, è lo stesso Strehler a individuare in quattro linee portanti, le strade


interpretative potenzialmente percorribili da un regista che voglia mettere in scena un'opera
lirica. Anzitutto, la strada dell'interpretazione paratradizionale cioè "quasi tradizionale e
storica", sulla base di ciò che fu idealmente la prima rappresentazione dell'opera nel suo
tempo, poco a poco adattata al gusto mutevole del pubblico (in luogo di un fondale dipinto,
un semiplastico; in luogo della convenzione assoluta, una convenzione relativa). Indi,
individua una seconda via nella interpretazione storicistica, e cioè in una “ricostruzione
possibilmente di gusto della scena primitiva, dell'impianto scenico primitivo dell'opera”: un
rifacimento storico - fatalmente inventato - della rappresentazione originaria (per esempio,
per un'opera del Settecento scene e quinte dipinte con prospettiva centrale; oppure per un
melodramma ottocentesco, una ricostruzione che proponga pedissequamente le
disposizioni sceniche originali). L’interpretazione modernista - che, a dire il vero, Strehler
de nisce “ nta-moderna” - è la terza via. Si tratta dell’applicazione di alcuni moduli estetici
moderni al passato, senza una reale giusti cazione e al solo scopo di “fare del moderno”.
Per esempio, in epoca cubista, fare un Mozart cubista, perché paia contemporaneo. In ne,
la strada che Strehler predilige e che egli de nisce “interpretazione dello spirito”,
interpretazione, cioè, dello spirito da cui è nato il fatto d'arte, rivisto, rivissuto, amato e
criticato da un occhio contemporaneo. Non il paratradizionale, non la ricostruzione, ma la
riproposta della verità sostanziale dell'opera nel tempo, a un pubblico di oggi, con valori di
oggi che, tuttavia, mai prescindano dalla realtà dei valori e dei signi cati di ieri. Una
interpretazione che, al tempo stesso, sia attenta e rispettosa di ciò che fu, ma
coraggiosamente modi chi, interpreti, cambi addirittura, sopprima o integri la visione, ssa
nel tempo e musei cata, ormai di un'opera d’arte. “Strada molto aperta, senza rete ai
margini, poiché cerca una sintesi tra tradizione vera, ragioni del passato, signi cati persino
polemici, di una certa opera e sua possibilità di diventare, per quanto possibile,
“contemporanea” di oggi o di sempre, non soltanto per certe sue caratteristiche

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“melodicamente emotive”, puramente esteriori, melodrammatiche, e ettistiche, ma per le
sue caratteristiche profonde, la sua carica di reale poesia, di reale emozione”.

Una interpretazione dello spirito che sia, dunque, profonda, legittima, ricca di interrogativi e
segni nuovi che devono essere trattati con grande discrezione, non con appariscente
platealità. Un’interpretazione in grado di distruggere i luoghi comuni per aprire le porte a un
ripensamento critico dell'opera rappresentata. Così ogni opera lirica si rivela una sorta di
sottile gioco di compromessi tra musica e parola, tra possibilità reali degli interpreti, leggi,
modalità, necessità, spazi che talvolta non ha quasi riferimenti se non esteriori con il lavoro
critico del teatro drammatico. In tale direzione, tutto ciò che il direttore d'orchestra ha
compiuto sul piano sonoro deve essere guida precisa per il lavoro del regista. Strehler cerca
così di dare spazio, movimenti e gurazioni alle intuizioni critico-musicali del direttore
d'orchestra che egli non esita a de nire il direttore dello spettacolo, l'unico legittimato a fare
il direttore nel teatro d'opera. Così facendo, Strehler coglie (e risolve a un tempo) i limiti
connessi con l’esercizio della regia nel teatro musicale, radicalmente diversa da quella
drammatica, accennando fra le righe alla magica e complessa alchimia da cui qualche volta
soltanto, può sortire uno spettacolo importante e centrato. Sorretto da una forte
convinzione ideale, che tutti gli conosciamo nella sua attività prevalente di regista e
direttore nel teatro di prosa, egli mostra di credere con fermezza nelle potenzialità
speci che di un teatro musicale innervato dalla presenza determinata e determinante di un
regista capace di porsi in sintonia con il maestro concertatore per dare vita alla creazione di
uno spettacolo in cui l’opera trovi piena realizzazione. E nel pieno rispetto della sensibilità
musicale espressa dal compositore. Infatti, “è Mozart che ha scritto Don Giovanni, anche se
Karajan o altri lo hanno diretto e lo dirigeranno bene”.

Ecco allora che nel lavoro di Strehler il concetto e la prassi di regia lirica vanno a coincidere
con quello di regia di prosa in un solo punto: nella necessità, cioè, di individuare e
riesprimere scenicamente il carattere speci co e il tono fondamentale del testo. Ma per
riconoscere tale tono non è più su ciente rivolgersi al solo libretto - poiché il suo contributo
si limita il più delle volte a narrare una vicenda - ma è necessario rivolgersi al compositore o
meglio alla sua musica (“la musica è un meraviglioso passe-partout che consente di
accedere alla comprensione del testo”), cercando di capire i suoi pensieri, rendersi padrone
del suo mondo e del suo stile. Da tali ri essioni, ben si comprende come le regie liriche di
Strehler siano sempre nate da ben ponderate ri essioni e da un ben lungo e serio lavoro di
meditazione. Mai da divertimento polemico, da indi erenza o, peggio, da mancanza di
ri essione, “perché anche per l'opera lirica - ha scritto Strehler - non esiste una regia totale;
si può tentare soltanto di avvicinarsi in una certa misura alla maggior quantità possibile
della verità contenuta nei capolavori, non soltanto cercando di comprendere ciò che i loro
creatori hanno detto nel loro tempo, ma ciò che possono ancora dire alla nostra sensibilità
di uomini d'oggi”.

Un’osservazione conclusiva (ma che forse avremmo dovuto mettere all’inizio) deve essere
riservata a quelli che in più occasioni Strehler ha indicato come i suoi maestri. Infatti, se la
scelta di un repertorio aperto ai classici, come alle novità, senza concessioni alle esigenze
commerciali, la lettura lologicamente attenta, la genialità dell'interpretazione registica,
capace di declinarsi secondo un numero in nito di variabili, hanno fatto di Strehler forse il
più importante regista critico del nostro paese, la coerenza di uno stile in cui l'aspirazione a
un rapporto vivo e dialettico con la realtà sappia coniugarsi con i toni delicati di una poesia
della scena di statura assoluta ne hanno fatto il riferimento indiscusso di almeno tre

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generazioni di registi. Strehler, tuttavia, non ha mai nascosto i suoi sentimenti di gratitudine
verso alcune personalità della scena europea che, in vario modo e in di erenti periodi,
hanno molto in uenzato la sua prassi artistica.

Dalla Francia egli fa propria e rilegge l’esperienza di Jacques Copeau, autore, critico, attore
e regista teatrale, fondatore a Parigi nel 1913 del Théâtre du Vieux-Colombier. Pur
ideologicamente distante dal fervente cattolicesimo dell’artista francese, Strehler ne
condivide le istanze sociali, civili e culturali, riconoscendo in lui un vero “maestro”. “Ho
amato Jacques Copeau senza aver visto un suo spettacolo, mai. - scrive Strehler – L’ho
amato scoprendo una sua fotogra a in un libro, leggendo i suoi Souvenirs du Vieux
Colombier, scoprendo il “suo” teatro giorno per giorno attraverso documenti passati, frasi di
chi l’ha conosciuto. Ho inventato, insomma, Jacques Copeau perché avevo bisogno di un
maestro, di un padre”. Da lui, egli dichiara di avere imparato “l’amore per un teatro che non
fosse ne a se stesso, che non si esaurisse nella ricerca di un’opera d’arte perfetta ma che
cercasse sempre la sua collettività consenziente e che di questa società gettasse alla luce i
moti più naturali e più comuni”; “la considerazione di un testo drammatico come un
qualcosa di vitale” e “il rispetto per il testo drammatico e la ricerca disperante di una sua
oggettiva interpretazione, che sempre sfuggirà”; “la coscienza dei limiti del «mestiere» del
regista, il gusto dell’artigiano a cui soccorre talvolta un’intuizione d’arte, ma che dell’arte
non si pasce quotidianamente”; “la necessità del fanatismo, il gusto della dedizione
bruciante, di un certo misticismo verso il mistero teatrale.” E, soprattutto, il maestro
Copeau indica al regista la nascita di un sogno: quello di una collettività teatrale operante
nella società per riformarla”, poiché, “la società viene prima del teatro, e l’uomo con la sua
anima (se ci credi) e il peso della sua storia è più importante del teatro”. Da Copeau Strehler
mutua, dunque, l’idea di un teatro quale luogo di dibattito civile, di impegno sociale e
culturale, destinato a svolgere un'importante funzione nella coscienza della nazione: un
luogo, insomma, riservato alla creazione di eventi mai riconducibili a nalità ludiche, bensì
destinati a promuovere un agire artistico di alto pro lo e ad inaugurare un dialogo ideale
capace di coinvolgere gli attori e il regista da un lato e il pubblico dall’altro.

Accanto a Copeau, sempre in terra di Francia, troviamo Louis Jouvet che Strehler ha,
invece, conosciuto e frequentato, come uomo e come teatrante. A Jouvet il regista si
dichiara debitore del coraggio di avere accettato il teatro, anche nelle sue miserie, come un
lavoro quotidiano e non come un’arte divina. “Ho imparato da lui l’amore per il mestiere in
quanto mestiere e l’umile orgoglio di farlo bene. Devo a Jouvet la presenza critica nel
mettere in scena un testo intesa non solo come studio lologico critico culturale dello
stesso ma come comprensione sensibile, abbandono intuitivo che è anche questo uno dei
modi di far critica. Devo a lui il senso del transeunte che c’è nel teatro e un coraggioso
acconsentire a questo teatro che passa”. Come per Jouvet, anche per Strehler il teatro -
come la musica e la poesia - sono in grado di spostare il mondo di appena un millimetro ma
l’artista deve avere il coraggio di essere sé stesso, difendere le proprie idee e, nello stesso
tempo, metterle in questione per andare avanti. “Ciò che conta è non essere mai
soddisfatti, non fermarsi mai”. Non a caso, proprio con un testo di Jouvet, Elvira, o la
passione teatrale, Strehler inaugurerà nel 1986 il Teatro Studio e soprattutto la sua “Scuola
di Teatro”.

Ma è l’incontro con Bertolt Brecht, avvenuto negli anni Cinquanta, che contribuisce in
maniera determinante alla maturazione del regista il quale, pur ri utando l’adozione di un
metodo in senso stretto, fa sua la grande lezione del teatro epico, operando personali e

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sempre diverse ricomposizioni dell’impianto recitativo nei suoi spettacoli, liberamente
attingendo alle lezioni dell’immedesimazione (Stanislavskij) e dello straniamento (Brecht). Se
è corretto a ermare che Strehler sia stato il massimo interprete italiano di Brecht e il suo
migliore esegeta, occorre precisare come egli abbia ri utato l’adozione di modalità
recitative di stretta osservanza epica, a esse preferendo impasti originali determinati da
calcolate alternanze e sorvegliati incontri fra piani interpretativi e recitativi di erenti, sia nel
caso di testi brechtiani, sia nel caso di testi altrui. Sin dai primi anni Cinquanta, Strehler
avvia un rapporto, destinato a durare nel tempo, con la drammaturgia brechtiana che si
articolerà nell’allestimento di varie opere ripetutamente riprese, e di diversi recitals. A ciò si
accosta un più profondo, seppure meno percepibile, rapporto di convinta condivisone del
pensiero e della poetica teatrali di Brecht, del quale al regista italiano interessano tanto il
progetto politico, quanto quello scenico. Da un punto di vista scenico, Strehler deriva dal
teatro epico una tensione critica che lo porta a focalizzare la propria attenzione sul
processo di costruzione/svelamento dell’illusione teatrale. Da un punto di vista politico,
l’incontro con Brecht induce il regista ad accentuare la preoccupazione ideologica e civile
che lo spinge a distanziarsi da un’ipotesi drammaturgica legata a un concetto di teatro per il
teatro, per ssare lo sguardo sulla storia, sulla politica, sulla realtà umana e sociale. Al di là
dei singoli allestimenti brechtiani di cui diremo di usamente, Brecht ha in uenzato tutto il
lavoro registico di Strehler. Dalle regie dei drammi didattici a quelle dei drammi dialettici,
dalle letture ai recitals e alle opere liriche, ai saggi critici, alle note di regia, tutto il lavoro di
Strehler è stato sempre più che un lavoro su Brecht, un lavoro con Brecht. Se gli
insegnamenti di Copeau e Jouvet gli dicono "tutto il teatro e null'altro che il teatro", la
lezione di brechtiana gli appare più vasta: essa, infatti, si riferisce non a un teatro fuori della
storia, fuori del tempo, non al teatro eterno di sempre, non alla storia contro il teatro, ma
alla storia a teatro, a mondo e vita nello stesso tempo, in un rapporto dialettico continuo (la
scuola brechtiana del dubbio), di cile, talvolta doloroso, ma sempre attivo, sempre attento
al divenire generale. Brecht sembra rappresentare il “punto di incontro” delle componenti
Copeau-Jouvet: a lui Strehler deve la scoperta di “un teatro umano”, un teatro cioè “fatto
per gli uomini, per divertirli ma anche per aiutarli a trasformarsi e a trasformare il mondo in
un mondo migliore, un mondo per l’uomo.” In Brecht, egli riconosce “un grande maestro
anche di tecnica scenica, anche di metodologia, e un «uomo di teatro» totale. “Quando
Brecht ci diceva che la ratio è importante, che il teatro deve essere una cosa logica,
usufruibile, ha creato dei grandi (sani) dubbi nella gente, ha messo molte cose in
discussione. Ma diceva anche: beninteso, il teatro rimane sempre il teatro”. Se Brecht
auspica uno spettatore critico, capace di porsi sempre in relazione e in discussione con lo
spettacolo a cui assiste, Strehler richiede, a sua volta, allo spettatore una presenza
costruttiva, una collaborazione critica all’evento teatrale, istituendo un rapporto vivo con la
realtà, che, lungi dall’esaurirsi in un legame immediato con l’attualità o con il banale
quotidiano, crei i presupposti per na ri essione “poetica” sui problemi dell’umanità.

Lezione 25

4.05.2020

Ri essioni sul teatro musicale: Strehler regista d'opera lirica

La mia famiglia, che è di artisti, di musicisti, non c’entra niente con il teatro di prosa. Certo il
mio essere musicista viene però da lontano, da lì; dalla mia casa, dalla mia infanzia tutta
nata nella musica: mia madre era una celebre violinista, mio nonno suonava in modo

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sommo il corno. È l’atmosfera umana della musica che mi è rimasta dentro (Giorgio
Strehler)

«L’opera è un meraviglioso equivoco che si perpetua da secoli e che ha dato a noi


capolavori che ci accompagnano nel nostro cammino umano, ma che ciononostante si
porta sempre dietro certi suoi peccati d’origine. In me teatrante, l’opera lirica ha sempre
lasciato una sua particolare “insoddisfazione” o infelicità, una sua impossibilità di essere
risolta tutta completamente in musica e spettacolo, in musica e teatro. Da una parte,
l’astrazione “senza scopo” della musica, dall’altra la concretezza, con il suo scopo
drammatico, la sua storia, del teatro. Questi due mondi tentano di fondersi nell’opera, ma
giungono quasi sempre ad approssimazioni più o meno alte. Anche perché il problema
dell’interpretazione dell’opera lirica è una dei più di cili, forse ai limiti, impossibile. Limiti
che si trovano sempre davanti all’interprete, al regista in questo caso. E tanto più l’opera è
alta, tanto più i problemi diventano complessi... Non è facile amare l’opera lirica. Né nella
sua forma né nelle sue possibilità concrete di mettersi in scena, davanti al mondo. Non è
facile amare “la regia di un’opera lirica”. Ma Fidelio esiste, esiste Lulu, esiste Wozzeck,
esiste Il Flauto magico, esiste il Don Giovanni, esiste Otello, esiste Tristano, esiste Simon
Boccanegra ... Essi sono là e aspettano qualcosa. Qualcosa che talvolta succede. Talvolta
si veri ca. Su questi casi limite, io continuo a fare opera. La musica stessa è, direi, l’apporto
più duraturo e profondo della mia vita. Ho studiato musica, non abbastanza per poter
essere direttore d’orchestra, però troppo per essere un semplice dilettante. Credo che la
mia natura sia in fondo di carattere ritmico-musicale, e non mi nascondo che forse la più
piena realizzazione di me stesso l’avrei avuta quale interprete di musica, speci catamente
direttore d’orchestra. In realtà il mio lavoro sulla musica è stato sempre collaterale a quello
del teatro di prosa, ma privatamente la musica è la mia compagna più cara. Non amo
coloro che ascoltano musica facendo altre cose. A me, la musica come “sottofondo” dà
fastidio. Se musica è, deve essere ascoltata con la massima concentrazione.»

I primi anni 1946-1958

“Forse, forse la mia cultura musicale è più forte della mia cultura letteraria. Conosco forse
meglio Mozart di Shakespeare. Questo mi ha permesso e mi permette, per esempio, di fare
opere liriche molto bene”. Da tali premesse non sarà di cile riconoscere a Strehler il merito
di avere esportato per primo sulle scene del teatro d’opera in Italia la serietà, il metodo, la
concezione totalizzante, la ricchezza creativa che hanno fatto di lui, uno fra i maggiori
registi di prosa di tutto il mondo. Grazie agli spettacoli di Strehler la regia si è a ermata,
infatti, quale elemento indispensabile alla realizzazione dell’opera lirica, ponendo in primo
piano la necessità di un apparato scenogra co non più generico ma originale e studiato in
funzione della partitura da rappresentarsi, di una recitazione che abbandoni la
convenzionale staticità proposta dai cantanti e, soprattutto, di un responsabile unico che
connetta e integri omogeneamente i di erenti elementi compositivi dello spettacolo. Del
resto, non è un caso che il percorso artistico di Strehler inizi proprio con la musica: pochi
mesi prima della riapertura della ricostruita Scala sotto la bacchetta di Toscanini, il giovane
regista mette in scena, il 19 aprile 1946 al Teatro Lirico, l’oratorio drammatico, Giovanna
d’Arco al rogo, composto dal musicista svizzero Arthur Honegger, su testo di Paul Claudel -
interpretato nei ruoli recitati da Renzo Ricci e Sarah Ferrati - inaugurando con questo
allestimento una lunga e spesso non su cientemente considerata attività sul palcoscenico
del teatro musicale.

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Nel marzo 1947, infatti, su incarico del sovrintendente della Scala Antonio Ghiringhelli, più
incuriosito che convinto, il venticinquenne Strehler rma la sua prima ‘vera’ regia lirica.
Questa volta, l’occasione si presenta assai più impegnativa. Si tratta, infatti, di mettere in
scena La traviata di Giuseppe Verdi, diretta da Tullio Sera n, per il palcoscenico della Scala
ricostruita. Non molte le testimonianze relative a tale allestimento (e quelle poche, volte,
soprattutto, a ricordarne la parte musicale), ma su cienti a mostrarci il lavoro di un giovane
regista che si impegna a rompere gli schemi ormai desueti della routine degli allestimenti
d’opera. Anche se i recensori dell'epoca sembrano più attratti dalla vicenda nata dalla
misteriosa indisposizione della protagonista (Margherita Carosio), che costringe il teatro a
rinviare più volte la data della prima rappresentazione, piuttosto che dal lavoro che il regista
sta conducendo con Gianni Ratto per le scene e Ebe Colciaghi per i costumi, un breve
articolo dello stesso Strehler ci fornisce un prezioso spaccato del mondo del teatro
musicale. Ci appare, infatti, un regista imbrigliato in una serie di impedimenti che non gli
permettono di agire con la libertà creativa che egli auspicherebbe. Un regista giovane, ma
professionalmente già adulto, conscio sia delle proprie possibilità creative, sia dei limiti che
una tradizione interpretativa gli impone e, soprattutto, della necessità di agire con metodo
nel processo di graduale rinnovamento della scena musicale. "Un regista può fare due cose
- dichiara Strehler - mettere in scena il dramma secondo la concezione che egli ne ha: La
traviata, per esempio, è un dramma sociale in cui diverse concezioni della vita e della
morale, quella del padre e quella di Violetta, cozzano, mentre Alfredo ondeggia, incerto e
smarrito fra loro. Il regista può creare questo ambiente e, senza forzare il testo, mettere in
luce questo signi cato che la convenzione lirica generalmente trascura. Alla Scala questo
costituirebbe però una rivoluzione tale da terrorizzare il tradizionalismo degli abbonati. Al
regista rimane, quindi, il secondo compito, il più modesto ma non volgare. Cercare almeno
di ripulire l'esecuzione da quanto di trito e convenzionale gli anni vi hanno accumulato:
costruire una scena più vera che possa essere goduta anche dal pubblico delle gallerie e
che realizzi nelle luci e nei colori e nella disposizione dei mobili non solo un criterio dì
armonia artistica ma l'atmosfera intima del dramma". Una breve ma incisiva dichiarazione di
intenti alla quale, mutatis mutandis, Strehler rimarrà coerentemente fedele per tutto il corso
della sua carriera.

L’attività scaligera di Strehler nel 1947 non si esaurisce con l’allestimento di Traviata, ma
prosegue - grazie anche al successo raccolto con la partitura verdiana - nel mese di
dicembre con la prima rappresentazione italiana dell’Amore delle tre melarance di Sergej
Proko ev. E, in tale occasione, il fatto di inscenare un’opera non di repertorio e, per
conseguenza, priva di una tradizione scenica, permette al regista di a rontare la
messinscena senza troppe restrizioni. Anzi, lo aiuta nello sforzo di fare "recitare" cantanti e
coristi con la stessa precisione richiesta agli attori di prosa (ma con ni e intenti di erenti).
Ne nasce uno spettacolo equilibrato in cui la delicata stilizzazione dei movimenti si coniuga
con la ricchezza della invenzione registica in uno spazio scenico ride nito da Gianni Ratto
che prevede, all’interno del boccascena reale della Scala, un secondo boccascena dove il
regista piazza coristi e guranti intenti, n dalle prime battute dell’opera, a seguire e
commentare la vicenda. Un gioco di "teatro nel teatro" che, pur nascendo dal testo di Carlo
Gozzi, lascia perplessi e un po’ disorientati i più conservatori fra gli abbonati della Scala.

Dopo una ripresa di Traviata, realizzata nel gennaio 1948, il regista è invitato a allestire il
Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa. Anche in tale occasione, la lettura registica di
Strehler si distacca dalla tradizione minuettistica settecentesca per o rire uno spettacolo
nuovo dove i personaggi dell’opera giocosa sono trasformati in tante ideali gurine da

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carillon o, forse meglio, in silhouettes, per mostrare al pubblico un Settecento stilizzato,
equidistante da pizzi traforati e merletti di maniera. Non a caso, Ratto racchiude la scena,
raggelata per mezzo di luci sse, in una grande cornice dorata, quasi a volere mostrare con
distacco, senza rimpianti o nostalgie, “un mondo che non ci appartiene più”. E per la Scala,
Strehler rma il 7 aprile 1949, con Yvonne Chéry, l'allestimento del Pelléas et Mélisande di
Claude Debussy, rappresentato nella sala del Piermarini dai complessi dell'Opéra Comique
di Parigi, e, soprattutto, il Cordovano, debutto teatrale di Go redo Petrassi, andato in scena
12 maggio 1949 nella traduzione di Eugenio Montale, con scene e costumi di Giulio
Coltellacci. Questa breve opera costituisce la seconda parte di un trittico composto da Le
pauvre matelot di Milhaud (regia di Alessandro Brissoni) e dal balletto La giara di Casella
(coreogra a di Margherita Wallmann) e si con gura come un atto unico dal sapore di opera
bu a dove Strehler ha modo di cimentarsi con una teatralità vivace, non imbrigliata da
ossequiose tradizioni, ricca di allusività e intuizioni psicologiche ben realizzate. Nel mese di
settembre, una nuova produzione: Lulu di Alban Berg, questa volta al Teatro la Fenice di
Venezia (4 settembre 1949), in occasione del Festival internazionale di musica
contemporanea e dell'Autunno musicale veneziano. E in tale allestimento, proprio la
struttura del testo drammatico di Frank Wedekind o re al regista la possibilità di rileggere
criticamente il complesso personaggio di Lulu (interpretato da una straordinaria Lidia Stix) e
il sistema borghese che la circonda e nirà per ucciderla.

Se alle “sei novelle in un dramma” dell’opera L’allegra brigata di Gian Francesco Malipiero,
rappresentata il 4 maggio 1950 (con la coppia Gianni Ratto e Ebe Colciaghi), non arride
sorte benevola, nonostante il lavoro compiuto da Strehler, attento, anche in questo caso, a
rendere scenicamente i di erenti registri stilistici proposti dal testo musicale, il 20 maggio la
messa in scena di un’opera tratta dal repertorio italiano ottocentesco, quello più amato e
popolare, Don Pasquale di Gaetano Donizetti è accolta con a ettuoso calore. Per il
capolavoro donizettiano, Ratto predispone una scena ssa nella cui cornice si succedono i
di erenti ambienti prescritti nel libretto, mediante l’uso di una piattaforma girevole. Strehler
abbandona tutte le consuetudini di rappresentazione che vogliono in Don Pasquale una
farsa ricca di gags grossolane e “caratteri” esagerati per creare uno spettacolo "umano",
dove sentimenti e poesia emergano senza indugi e vadano di pari passo con la
straordinaria partitura musicale. Uno spettacolo che proprio nel perfetto equilibrio tra
comicità e commozione sembra trovare la sua cifra stilistica migliore e più originale. E sette
giorni dopo la rappresentazione di Don Pasquale, ecco Strehler pronto a rmare una nuova
regia. Si tratta dell’ultima opera della stagione Arianna a Nasso di Richard Strauss, in scena
il 27 maggio. Del complesso testo di Hugo von Hofmannsthal, alla sua prima
rappresentazione nella sala del Piermarini, realizzato con scene e costumi rmati da Ludwig
Sievert, Strehler propone una lettura attenta a rispettare ed evidenziare scenicamente i
di erenti registri presenti nell’opera. Dal prologo di gusto realista e dinamico, movimentato
dalle maschere della commedia dell’arte, si trascorre così all` “atto serio”, classicheggiante,
allegorico e statico. In conclusione di stagione, Strehler si impegna anche a realizzare il
Nazareno di Lorenzo Perosi, in scena alla Scala il 15 giugno 1950, in collaborazione con
Margherita Wallmann (scene e costumi di Gian lippo Usellini), spettacolo prodotto in
occasione delle celebrazioni indette per l’anno santo e accolto con favore da pubblico e
critica.

L’importanza dell’attività di Strehler quale regista lirico trova una chiara e de nitiva
conferma nel corso del 1951 quando, da febbraio a giugno, egli mette in scena sul
palcoscenico scaligero ininterrottamente cinque nuove opere. Dal Settecento

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“sentimentale” della Cecchina ossia La buona gliola di Niccolò Piccinni, vivi cata da una
recitazione agile e attenta ai minimi particolari (24 febbraio), all’Ottocento italiano dell’Elisir
d’amore di Donizetti, anch’esso rinnovato e, soprattutto, allontanato dalla grassa comicità
farsesca per trasformarsi in una storia venata di malinconia (9 marzo). Dall’Ottocento
francese di Werther di Jules Massenet, con scene e costumi di Alessandro Benois, che
trova uno Strehler “romanticamente” impegnato a rileggere il capolavoro di Goethe (18
aprile), a due opere “contemporanee”: il “madrigale scenico” tratto dalla Spoon River
Anthology, La collina, musicato dal giovane compositore Mario Peragallo (12 maggio) e il
dramma biblico Giuditta di Arthur Honegger (14 giugno), impreziosito dalle coreogra e di
Margherita Wallmann. La stagione 1951-1952 ci mostra Strehler ancora sul palcoscenico
della Scala questa volta per allestire una nuova partitura dell’amato compositore Domenico
Cimarosa. Si tratta della farsa Il credulo (26 dicembre 1951), impreziosita da scene e
costumi della pittrice Léonor Fini, la quale, trasfondendo nell’opera tutta la fantasia
surrealista della sua arte, ambienta la vicenda in un ampio armadio grigio da cui escono, di
volta in volta, i personaggi. All’originalità scenica del Credulo fanno seguito la prima e
contrastata rappresentazione assoluta di Proserpina e lo straniero (marzo 1952)
dell’argentino Juan José Castro (presente anche sul podio), vincitore del premio o erto
dalla Scala per il cinquantenario della morte di Verdi, e la ripresa - bene accolta - di Don
Pasquale (13 maggio 1952). Dopo una nuova regia musicale presentata alla Fenice di
Venezia, il 10 settembre 1952, La favola del glio cambiato di Luigi Pirandello, con musiche
di Gian Francesco Malipiero, Strehler rma due nuove produzioni: L’Angelo di fuoco di
Sergei Prokof’ev, rappresentato al Teatro La Fenice di Venezia nel settembre 1955 (e ripreso
l’anno successivo con eguale fortuna alla Scala), e una nuova edizione del Matrimonio
segreto di Domenico Cimarosa che inaugura la sala della Piccola Scala, il 26 dicembre
1955. Entrambi gli allestimenti portano le rme di Luciano Damiani per le scene e di Ezio
Frigerio per i costumi e, pur attraverso di erenti scelte registiche, ben testimoniano
l’impegno creativo di Strehler nel campo della regia musicale, dove egli ha ormai imposto
con il proprio operato la moderna gura del regista d’opera. Il 1957 vede Strehler
nuovamente impegnato alla Scala con la regia di Louise di Gustave Charpantier, un
allestimento di profonda delicatezza e grave contenuto melanconico, arricchito dalle scene
pittoriche di Luciano Damiani e dai bellissimi costumi di Ezio Frigerio, e alla Piccola Scala,
con l’Histoire du soldat di Igor Strawinsky, sotto la direzione di Nino Sonzogno in cui, entro
una scena disegnata da Nicola Benois e animata dalle coreogra e di Jokn Cranko, il regista
è presente anche in scena nella parte del Lettore. L’anno successivo, sempre alla Piccola
Scala, è la volta de Il cappello di paglia di Firenze, in scena il 2 giugno 1958. La garbata
“farsa musicale” di Nino Rota, tratta dall’omonima commedia di Labiche, permette a
Strehler di inventare una perfetta macchina scenica (scene di Damiani, costumi di Frigerio)
ricca di trovate originali, che ben si addicono al ritmo della musica.

Il ratto dal serraglio di Mozart

Dopo sei anni trascorsi a mettere in scena i grandi capolavori del teatro di prosa, l’attività di
Strehler sul palcoscenico musicale riprende, nel 1964, quando il regista si dedica
all’allestimento di un’opera brechtiana su musica di Kurt Weill, Ascesa e caduta della città
di Mahagonny (in scena alla Piccola Scala il 29 febbraio 1964 con la direzione di Nino
Sonzogno) e, nel 1965, con il debutto al Festival di Salisburgo, dove mette in scena Il ratto
dal serraglio di Mozart. Consacrato dalla tradizione interpretativa a semplice e ingenua
operetta, per la forma mista di musica e parola e il tono leggero del testo, questo Singspiel
mozartiano - come il più celebre Flauto magico - non di rado è allestito come una pièce da

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teatro delle marionette, ricca, quindi, di e etti clowneschi e grossolani. L'intervento di
Strehler è volto, in primo luogo, proprio a eliminare tali errate interpretazioni, per ricondurre
il Ratto al suo primitivo signi cato, ricreando quella che egli de nisce “illusione
spettacolare”. La messinscena del Ratto non deve, infatti, mai permettere allo spettatore di
dimenticare che sta assistendo alla rappresentazione di una favola, una storia fantastica e
irreale, che, tuttavia, non deve trasformarsi in una farsa. A tale scopo, Strehler predispone,
insieme allo scenografo Damiani, una soluzione scenica e illuminotecnica assai originale.
Sul palcoscenico di grandi dimensioni della Kleines Festspielhaus in Salisburgo è
posizionato un più modesto boccascena al cui interno si svolge la rappresentazione. Alle
spalle di tale boccascena, è disposto un fondale di tulle e garza bianchi che non accoglie
alcun elemento scenogra co né dipinto, né costruito. A quinte piatte dipinte, fatte scorrere
su rotelle a vista, è a dato il compito di fare magicamente apparire minareti e torri, isole e
onde marine. Tuttavia, la trovata registica di maggiore e etto riguarda i movimenti dei
cantanti in scena, coniugati con l'uso sapiente delle luci. Strehler predispone due zone
distinte sul palcoscenico: il fondo e il centro del palco sono illuminati in modo tradizionale,
mentre il proscenio è sempre in controluce. Così, ogni volta che i cantanti avanzano in
proscenio, la loro gura assume i contorni di una silhouette nera che si staglia sul fondale
bianco. Con tale arti zio, il regista traduce visivamente la continua alternanza che l'opera
prevede, tra realtà e fantasia, tra presenza e assenza. La scelta di trasformare, in alcuni
momenti dell'azione, i cantanti in sottili pro li di sé stessi o re al regista la possibilità di
rendere concreto scenicamente una serie di intuizioni registiche che contribuiscono a fare
riemergere il vero signi cato del capolavoro mozartiano. Spettacolo di grande suggestione
e di straordinaria bellezza visiva, accolto con grande interesse da pubblico e critica, questa
edizione del Ratto dal serraglio diretta da Zubin Mehta, sarà da Strehler allestita in più
occasioni e in di erenti sale teatrali (Firenze, Parigi, Milano, Napoli) per tutto il corso della
sua attività registica.

Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni Allestita alla Scala nel maggio 1966, Cavalleria
rusticana di Pietro Mascagni rappresenta per il regista una nuova s da alla tradizione di
rappresentazione dell’opera lirica. Infatti, al lavoro di revisione musicale condotto sulla
partitura da Herbert von Karajan, corrisponde una rilettura registica della vicenda. Tratta da
una novella di Giovanni Verga, Cavalleria rusticana è di norma messa in scena
“realisticamente”, non trascurando spesso elementi folclorici regionali. Secondo Strehler,
tuttavia, a una attenta lettura del libretto, tale eccesso di realismo si rivela errato e
controproducente, non trovando giusti cazione alcuna né nelle indicazioni didascaliche
(troppo convenzionali), né nelle situazioni sceniche proposte. Il "verismo" dell'opera - ove lo
si voglia trovare - va cercato per Strehler soprattutto nella musica. Eliminato, quindi,
l’obbligo di un impianto scenico naturalista, il regista studia con Luciano Damiani una scena
unica, uno spazio vasto e inondato di sole: una piazza sulla sommità di un paese della
Sicilia. Un muro la delimita sul lato destro, mentre su quello sinistro si protende una colata
di lava rossastra e nera quasi a indicare la permanenza di un pericolo su una collettività
emarginata, una specie di terrore naturale alla base dei sentimenti popolari. Gli abiti di
scena perdono il carattere multicolore folcloristico per assumere un tono popolare-festivo,
dai colori tra il marrone e il grigio. La recitazione, sia dei solisti sia del coro e dei mimi,
diviene misurata e il più possibile naturale: atteggiamenti scarni, pochi gesti essenziali,
posizioni chiare, scontri violenti e implacabili. Il risultato complessivo è uno spettacolo
nuovo, dove il realismo non diventa sequenza cinematogra ca né melodramma, ma diviene
un “realismo poetico” ancor più valorizzato dalle note di Mascagni.

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Fidelio di Ludwig van Beethoven

Nel giugno 1969, per il XXXII Maggio Musicale Fiorentino, Strehler allestisce Fidelio di
Ludwig van Beethoven, diretto e concertato da Zubin Mehta, con scene e costumi disegnati
da Ezio Frigerio. L’opera principia in un’atmosfera ancora calata in un Settecento “classico”
e pre-rivoluzionario, ma, mano a mano che il dramma si svolge, il tono solare svanisce per
lasciare spazio a colori più inquietanti che rimandano alla rivoluzione francese e,
soprattutto, al successivo dominio napoleonico. Tale progressivo oscuramento della
vicenda convince il regista ad ambientare Fidelio negli anni della sua ultima stesura, cioè
nel 1814, poiché, soltanto in tale versione l'opera reca i segni più evidenti della personalità
del musicista deluso dagli avvenimenti storici a lui contemporanei. Per Strehler, Fidelio è un
dramma umano, sociale, politico, una s da all’ordine classico, ed è anche l'indicazione di
un dramma di Beethoven stesso che si sentì tradito dalla rivoluzione francese che gli
apparve, con Napoleone Bonaparte, una “non rivoluzione”, un'oppressione falsamente
rivoluzionaria. Così dallo spiazzo antistante al carcere del primo atto, per mezzo di un
sistema di rotazione delle strutture sceniche, lo spettatore è guidato nelle tte tenebre delle
prigioni e nei tetri sotterranei dove sono rinchiusi i prigionieri. L'atmosfera si fa sempre più
cupa, no a quando, in corrispondenza con il nale, le mura della prigione crollano
lasciando ltrare lame di luce, che dissipano – ma solo provvisoriamente - l'angoscia e il
senso d'oppressione. Un Fidelio - ripreso in più occasioni e proposto anche alla Scala nel
1990 sotto la direzione di Lorin Maazel - che Strehler de nisce goyesco, gettando quasi un
ponte fra il titanismo di Beethoven e quello di Goya.

Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi

Nel 1971 Strehler inaugura il 7 dicembre la stagione scaligera con Simon Boccanegra di
Giuseppe Verdi. Alla base di tale allestimento sta un’inedita attenzione al versante politico e
civile presente nella partitura verdiana. “La parte civile dell'opera è quella su cui ho potuto
operare più profondamente - dichiara Strehler - la parte sentimentale ho dovuto tenerla nel
suo limite dell'incredibile storico e del credibile musicale”. Poiché, dunque, i personaggi
non sono bene sbalzati, ma appaiono magniloquenti e retorici, Strehler individua nella
valenza sociale della vicenda la chiave di volta per la sua regia. Nel protagonista, il regista
a erma di riconoscere un germe di "realtà" che si discosta in maniera decisa dal tono
generale dell'opera. La sua interpretazione deve, quindi, essere resa con attenzione, come
se il personaggio cercasse, di volta in volta, il modo giusto per agire. Simone Boccanegra è
uomo collocato dalla storia e dalle circostanze in una posizione, quella di doge, per lui
inadeguata, dalla quale egli stesso vorrebbe recedere. A tale proposito, illuminante appare
la scena conclusiva dell'opera che, contrariamente a quanto prescritto dal libretto, Strehler
fa svolgere nei pressi del mare, con la sagoma di una nave sullo sfondo: la morte di
Boccanegra, doge-marinaio, si consuma mentre egli tenta di aggrapparsi alle gomene del
vascello, ultimo sforzo per riunirsi al suo elemento congeniale, il mare, e per ritrovare le sue
origini popolari. Tale sensazione di inadeguatezza psicologica e sociale è accresciuta
dall'atmosfera generale che il regista impone allo spettacolo. Ezio Frigerio appronta una
scena disadorna e composta da due soli praticabili sul fondo, tra i quali si stagliano ora il
pro lo del palazzo dei Fieschi, ora l'immagine di leggeri vascelli, immersa in una di usa
nebbia oscura dalla quale i personaggi emergono soltanto per partecipare all'azione,
giungendo ai grandi nodi dell’azione drammatica, portando dentro di sé ciascuno un
destino che proviene da lontano. Ritenendo, inoltre, che il nucleo della vicenda risieda nella
capacità degli uomini di modellare a proprio piacimento gli eventi della storia, creando o

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distruggendo miti, Strehler sembra indicare nella massa popolare un elemento passivo a
qualsiasi evento o cambiamento. Il colore verde nelle di erenti tonalità degli abiti delle
masse vuole, infatti, dare un senso di indistinta marea al movimento in scena, signi cando,
attraverso l'assimilazione del costume con l'ambiente, una sostanziale incapacità
decisionale. Grazie a tale soluzione, il regista pone in giusta evidenza il senso di critica
sociale contenuto nella partitura – che egli giudica una fra le più di cili di Verdi da mettere
in scena - del resto magistralmente riletta da Claudio Abbado con il quale Strehler inaugura
un importante rapporto di collaborazione artistica che condurrà entrambi a risultati
straordinari e a tutt’oggi ineguagliati.

Le nozze di Figaro di Mozart

Nel 1973, Strehler allestisce per il Teatrino di Corte di Versailles, riaperto dopo i lavori di
restauro, il suo secondo Mozart: Le nozze di Figaro. A di erenza del Ratto dal serraglio
presentato a Salisburgo e tutto giocato su un registro abesco, quella di Versailles è una
rappresentazione di carattere realistico. La ra nata cornice scenogra ca, disegnata da Ezio
Frigerio, concorre a tale scopo: per il primo atto, egli abbandona la ricostruzione
tradizionale della stanza dei due promessi sposi, per ambientare l'azione nel corridoio di un
castello tralasciando, quindi, i riferimenti simbolici al letto nuziale di Susanna e Figaro. La
camera della contessa, per il secondo atto, risulta spoglia, con poco mobilio disposto
senza grazia, illuminata da un pallido sole che penetra dalla nestra, secondo una
inclinazione bassa, da tardo pomeriggio. Il terzo atto, poi, è ambientato in una lunga galleria
vuota caratterizzata dalla presenza di un clavicembalo. I cantanti, non possono spostarsi
verso il fondo della galleria, per non infrangere il gioco prospettico e svelare il trucco
scenico: l'e etto è, quindi, quello di giganti costretti in un piccolo spazio vitale. L'ultimo atto
ra gura il giardino "degli inganni" in una maniera nel complesso tradizionale. Per Strehler, il
libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana, ancora più del testo originale di Beaumarchais,
risente del clima dell'imminente rivoluzione francese. Tale clima è, tuttavia, ltrato attraverso
la musica di Mozart, perdendo, almeno in super cie, il carattere aspro di critica sociale per
acquisire un vago senso di rimpianto verso qualcosa che si sta per perdere. È come se la
"folle giornata" fosse al tramonto, con il sole che allunga le ombre. Solo in un caso il regista
pare alludere apertamente alla rivoluzione: quando, nel primo atto, cantando "Giovani liete,
ori spargete" e inneggiando al conte che ha abolito lo ius primae noctis, il coro irrompe
nella stanza, animato da una forza formidabile quasi a volere mettere sotto sopra l'intero
castello. Strehler ritiene, inoltre, di potere intervenire in maniera decisa sul carattere dei
personaggi. L'impianto registico dell'opera richiede, infatti, una attenta caratterizzazione
scenica delle psicologie dei protagonisti. Susanna presenta, secondo il regista,
l'incarnazione dell'amore sensuale. Tale gura è resa in tutta la sua femminilità irresistibile,
nell'incelabile piacere dei sensi, nell'invito malizioso che ogni suo gesto sottolinea,
inconsapevolmente. Infatti, c'è qualcosa di biologico e vitale nel realizzarsi di Susanna: una
incontenibile inclinazione all'amore ignaro di pudori e esitazioni morali. La medesima
caratterizzazione erotica investe il giovane Cherubino, uno fra i personaggi più ardui da
rappresentare negli allestimenti delle Nozze, anche perché è scritto per essere vocalmente
interpretato da una donna. Cherubino non è un ragazzo super ciale, non ama solo l'amore
in astratto: egli ama l’amore carnale e se potesse andare a letto con la contessa, lo farebbe,
con Barbarina, con Susanna. Tutto ciò è stato dipinto da Mozart con delicatezza. La sua
sensualità richiede di essere tradotta in atti concreti, richiede baci, letti, corpi che si
toccano. Figaro è dipinto come il simbolo della rivendicazione popolare. Infatti, dalla lettura
che il regista o re del personaggio, è evidente che la sua attenzione non si pone sulla gura

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del servo, bensì sul rapporto di tensione che si instaura tra Figaro e il Conte. A di erenza
degli altri personaggi, Figaro appare pretesto scenico per esprimere idee "pericolose".
Scrive Strehler: “Figaro non è un personaggio scaltro, un valletto ridicolo, che si prende
gioco del Conte. Egli reca in sé una certa coscienza di classe”. La contessa Rosina è una
donna infelice, trascurata dal marito e destinata, anche nel corso della vicenda di
Beaumarchais, a cadere fra le braccia di Cherubino. Il Conte, invece, è trattato con
comprensione per le sue origini e la sua educazione, in alcuni punti celebrato come
democratico. Anche i tradimenti alla moglie appaiono come debolezze umane comuni a
tutti i mortali. Il Conte è un uomo nato in una società alle soglie della rivoluzione francese.
Ha difetti e qualità. Al termine della vicenda, egli appare come un democratico, travalicando
i problemi di classe per incarnare l'umanità. Almaviva si trova quindi a recitare il ruolo di
vittima della storia, della debolezza umana, vittima di un carne ce, Figaro, che attende
soltanto che gli eventi storici si volgano a suo favore. Lo spettacolo ha esito trionfale e la
critica elogia le capacità di Strehler di infondere ritmo e vigore all'interpretazione attorale
dell'intera compagnia di canto. Negli anni successivi, in occasione delle numerose riprese
allestite alla Scala, il regista tornerà più volte al capolavoro mozartiano approfondendo le
proprie scelte e, soprattutto nelle edizioni dirette da Riccardo Muti, rendendo ancora più
evidente e perfetta la sintonia tra quanto accade in orchestra e quanto si rappresenta in
scena.

Macbeth di Verdi

Dopo essersi dedicato all’allestimento de La condanna di Lucullo, dramma didascalico di


Brecht, su musica di Paul Dessau, rmato in collaborazione con il regista Lamberto Puggelli
(Teatro Lirico di Milano, maggio 1973), al mozartiano Flauto magico (Festival di Salisburgo,
luglio 1974) che, tuttavia, per problemi di ordine tecnico e interpretativo (soprattutto con
Herbert von Karajan) resta un’esperienza incompleta e a una nuova edizione dell’Amore
delle tre melarance di Proko ev (Teatro alla Scala, dicembre 1974) diretta da Claudio
Abbado e ambientata, questa volta, in un pirotecnico scenario futurista russo degli anni
Venti, ispirato a Mejerchol’d, e realizzato da Luciano Damiani, Strehler inaugura
nuovamente la stagione lirica della Scala il 7 dicembre 1975. Anche in questa occasione, si
tratta di un’opera verdiana, Macbeth, con la direzione musicale di Abbado, il cui libretto è
tratto dall’omonimia tragedia di Shakespeare. “Dramma di una tentazione demoniaca reale:
le streghe come il diavolo? Dramma del succubo, anche sessuale? Dramma politico storico
della conquista di un regno da parte dello straniero? – si interroga il regista – Con Macbeth
potremmo continuare all’in nito. Verdi se n’è reso conto. Bisognava far sentire che se ne
era reso conto.” Così, in totale sinergia con Abbado, Strehler e lo scenografo Damiani
trasformano il cupo castello di Macbeth in un contenitore in rame, monumentale e oscuro,
che imprime alla vicenda un senso di delirante ferocia. Un’impenetrabile parete in rame
brunito che occupa l’intero palcoscenico e rinserra i protagonisti: quando si apre uno
spiraglio è solo per lasciare entrare la morte. Nel tenebroso deserto del castello, cortigiani e
soldati sono immobili spettatori della catastrofe, mentre Macbeth e la Lady, la coppia
criminale, vi si aggira serrata in mantelli dalle lunghe code continuamente intrecciate che
creano un cerchio attanagliante della solitudine e del delitto. E nel contenitore in rame si
svolgono anche le scene magiche durante le quali Macbeth colloquia con le streghe e gli
spiriti infernali, rinchiusi tutti in un velario ondeggiante che copre la scena. Al rosso
dominante delle scene infernali si alterna il grigio del potere; al bianco lunare che
accompagna Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo, l’azzurro dei lunghi strascichi.
Macbeth è un successo clamoroso che fa dire ai critici che Strehler non solo ha rmato una

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fra le pagine migliori del suo lavoro registico, ma che con questo allestimento egli ha anche
aperto un capitolo nuovo nella regia musicale.

Falsta di Verdi

Dopo cinque anni di assenza dalla scena musicale, il 7 dicembre 1980 una nuova
inaugurazione scaligera è a data a Strehler. In scena c’è l’ultima partitura verdiana, Falsta ,
la celebre commedia shakespeariana su libretto di Arrigo Boito, diretta da Lorin Maazel che
il regista decide di ambientare lontano da Windsor e dalla vecchia Inghilterra. Egli
immagina, infatti, che la vicenda si svolga in una corte rurale, aperta su un orizzonte di
cascine, una grande scenogra a padana, realizzata da Ezio Frigerio, che rimanda a ciò che
Verdi aveva sotto gli occhi, nella villa di Sant’Agata, mentre componeva, appunto, la sua
ultima opera. In tale disegno registico, personaggi nobili e “allegre comari” diventano tutti
contadini del passato, vestiti con gli abiti di festa, che si apprestano a porre in atto una
grande burla. Ma per Strehler mettere in scena Falsta in luoghi, ambienti o situazioni
anomale rispetto alla tradizione interpretativa, non signi ca forzare le strutture
drammaturgiche del testo. Quelle che in questo allestimento possono apparire tali, sono
semmai forzature nei confronti della tradizione di rappresentazione del testo. “È davvero
Falsta un laido bu one? È necessario che sia così?” - si interroga il regista. Il personaggio
di Falsta è concepito tradizionalmente come un grasso bu one, lascivo e velleitario, e tale
interpretazione si è incrostata sulla partitura no a usurparne quella autenticità vincolante
che spetta ai valori ritmici, melodici e timbrici. Ma sottoposta a un serrato interrogatorio e
stretta dalle contestazioni, la tradizione di rappresentazione mostra la corda. La bu oneria
laida di Falsta , impotente e volgare seduttore gabbato, ha troppe controindicazioni nella
lettura del testo e della partitura. Come si può conciliare, per esempio, tale "laida
bu oneria" con il ra nato cinismo e la sottile autoironia della lezione di Falsta sull'onore?
E con l'elegante purezza melodica in cui si distende il suo sentimento per Alice? Nasce così
uno spettacolo costruito su tutto ciò che forma l'esame oggettivo del testo, della partitura
musicale e della tradizione di rappresentazione. In stretta sinergia con Lorin Maazel,
Strehler studia e esplora criticamente tutto ciò che possa, in qualche modo, chiarire e
arricchire la vicenda da mettere in scena. Ne esce un Falsta “contadino” che per Strehler
è, in qualche modo, la risultante critica di una serie di apporti e strati cazioni alla quale ogni
autore - da Shakespeare a Boito a Verdi - impone il proprio sigillo, non senza, tuttavia,
avere considerato criticamente tutti i precedenti.

Lohengrin Wagner

Una nuova inaugurazione scaligera, un nuovo incontro con Claudio Abbado. In questa
occasione (7 dicembre 1981) per mettere in scena Lohengrin, una fra le opere più popolari
di Richard Wagner che Strehler si impegna a rileggere alla luce della “ragione”, prendendo
cioè le distanze da quel Romanticismo abesco che aveva no a quel punto caratterizzato
gli allestimenti di questa partitura. Egli, infatti, mediante l’accentuazione dell’elemento
spettacolare e politico insito nella vicenda, presenta un Lohengrin misterioso, un poeta che
si pone contro la guerra e contro la sua incarnazione, il germanesimo già gravido di
Nazismo. Con Ezio Frigerio e Franca Squarciapino, Strehler predispone una messa in scena
sfarzosa, impreziosita da colonne altissime illuminate da sinistri fasci di luce che provocano
un suggestivo e etto a specchio. In tali spazi si svolge l’azione tutta dell’opera, ricca di
preziosi richiami pittorici, dove, nella scena conclusiva, il protagonista compare in scena,
grazie a un opportuno movimento di colonne, per poi scomparire magicamente nelle vesti

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del cigno. Un allestimento di grande impegno che trova nell’accordo fra la parte musicale e
la parte visiva uno fra i suoi punti di forza. Don Giovanni Mozart

Strehler torna alla Scala (e sarà l’ultima volta) per allestire Don Giovanni, presentato il 7
dicembre 1987, con la direzione musicale di Riccardo Muti. Per questa opera che egli
de nisce “l’utopia di uno spettacolo in musica totale”, Strehler lavora, soprattutto, sulla
caratterizzazione dei personaggi, collaborando con una compagnia di canto molto
disponibile che per mesi prova e riprova lo spettacolo inaugurale. Don Giovanni è per
Strehler uno spettacolo tenebroso, notturno. “Mozart - spiega il regista - ha voluto il suo
Don Giovanni così, al lume di candele notturne ed esso non può secondo me essere altro,
se non per qualche breve momento. Mi fa meraviglia sentire chi lo vede “solare”,
mediterraneo, tutto luce e sole! Ma se l’azione si svolge quasi sempre di notte, di notte
pranzi funebri e cimiteri, di notte violenze ed assassinii”. Un allestimento, quindi, che
trascorre alla incerta luce delle candele, in una misteriosa penombra che avvolge tutto e
tutti, nobili e contadini, signori e servi. Per quanto riguarda poi la recitazione dei cantanti,
Strehler presenta uno spettacolo agile, svelto, dinamico: l’opera mozartiana deve essere
recitata e cantata da interpreti giovani, soprattutto per il ruolo del protagonista il quale deve
essere immemore, fresco, capace di ridere e giocare, incosciente nella sua non
accettazione della morte, del dolore, né di nulla al di là della terra. “Un Don Giovanni di
totale egoistica gioventù”, lo de nisce il regista. Per tale spettacolo, Ezio Frigerio
predispone “un’architettonica grandiosità neoclassica” caratterizzata da imponenti colonne
e lunghe scalinate mentre Franca Squarciapino disegna costumi dal cromatismo notturno.
Al disegno registico di Strehler corrisponde la lettura musicale di Riccardo Muti il quale
contribuisce in maniera determinante alla riuscita di questo allestimento, più volte ripreso
negli anni successivi. La regia di Così fan tutte di Mozart, scelto signi cativamente da
Strehler per concludere la Trilogia italiana di Mozart e inaugurare la nuova sede del Piccolo
Teatro, resta incompiuta per la morte dell’artista. Sarà condotta a termine da Carlo
Battistoni che, con grande sapienza e umiltà, realizzerà tutte le indicazioni che il Maestro
aveva impartito durante le prove.

Teatro e musica: il “metodo Strehler”

Cosa signi ca fare regia per Strehler? La regia per Strehler è la lettura critica,
tendenzialmente obiettiva, di un testo attraverso la “forma” dello spettacolo. Proprio tale
obiettività richiede una forte disponibilità da parte del regista critico ad assumere un
atteggiamento imparziale anche “contro sé stesso”. È pur vero che una regia critica può
apparire, in alcuni casi, un’interpretazione soggettiva e tendenziosa - poiché gli schemi
sensibili di una generazione o di una critica letteraria o di un gusto hanno velato la reale
portata di un testo, facendolo diventare altra cosa da sé - ma per Strehler “un testo non è
quello che si vorrebbe fosse: è quello che è. Scoprire questo quello che è è il primo
compito del regista, anche al di là delle mode, delle false interpretazioni precedenti, degli
usi”. Il regista ricerca nel testo la realtà, la verità, la sua autenticità (“o la sua non-
autenticità, se capisci che non è autentico”). Ecco, quindi, che il teatro va a con gurarsi
come un compromesso tra rappresentazione della realtà e astrazione poetica, tra ricerca
critica e intuizione naturale, tra ragione e emozione. Infatti, se scopo primo del teatro è per
Strehler il “fare vedere”, il “mostrare” (senza, tuttavia, volere spiegare troppo il perché si fa
una certa cosa piuttosto che un’altra), ogni scelta, anche la più piccola, deve sempre avere
alle spalle mille ragioni di tipo critico, storico, lologico in grado di confermare o smentire
ciò che si è fatto.

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La scena teatrale

Possiamo, quindi, tentare di delineare un “metodo Strehler” che possa utilmente essere
applicato alla regia del teatro in prosa e alla regia dell’opera lirica? Esiste una ricetta, più o
meno segreta, che ci sveli gli ingredienti della creazione artistica strehleriana?
Probabilmente no, o almeno non sempre e non per tutto. Ma possiamo individuare alcuni
punti ssi, alcune azioni ricorrenti nel suo modo di fare teatro che egli stesso in qualche
occasione ha voluto rivelarci. Prendiamo le mosse dal teatro, quello parlato. Anzitutto,
Strehler si accosta al testo cercando di essere il più possibile vergine (“cerco a tutti i costi di
essere come un ingenuo lettore che non ha saputo mai niente. Cerco di farmi stupire, di
farmi intrigare”), sforzandosi di non sapere nulla, “che è la cosa più di cile da ottenere, col
sedimento culturale che abbiamo, con tutte le nostre passioni, le nostre letture, i nostri
gusti. Non siamo mai puri, mai vergini nell’accostarci a un testo, e quindi possiamo avere
dei condizionamenti, che noi consideriamo invece conquiste culturali: molte volte lo sono e
molte altre volte invece sono condizionamenti pregiudizi”.

“La metodologia - prosegue il regista - per me contiene alcune cose che sono veramente
metodologiche e che riguardano per esempio i fatti tecnici: la correttezza di un certo spazio
nel quale si agisce; la luce che dà l’ambiente esatto in cui l’azione si svolge (giorno/notte,
interno/esterno); alcuni oggetti utili e maneggevoli (sedie e tavoli) che si costruiscono
lentamente insieme per diventare poi un fatto che di per se stesso può avere anche valore
estetico. Nella tecnica io ho ottenuto nel mio teatro molti risultati di ammaestramento –
quasi vorrei dire di condizionamento – involontario, per cui certe cose con me non si
possono fare che in un certo modo”. Dunque, il “metodo Strehler” sembra prendere le
mosse da un lavoro tecnico e d’èquipe: solo attraverso il lavoro collettivo, duro e
prolungato delle prove, nel sinergico contributo di molti linguaggi e di molti esseri umani si
può giungere alla comprensione e all’interpretazione di un’opera: scenogra a, costumi,
musica, luci, movimenti di scena, sono gli ingredienti irrinunciabili degli impasti sempre
nuovi entro cui germina la recitazione dell’attore e si condensa l’idea interpretativa della
regia. A tale proposito, può essere utile seguire, per sommi capi, il percorso creativo che il
regista intraprende per allestire uno spettacolo.

Inizialmente, Strehler descrive lo spettacolo che ha in mente, ma non procede per immagini
precise, bensì per sensazioni. Il lavoro dell’immagine è demandato allo scenografo al quale
è concessa, quindi, una grande libertà creativa. Lo spazio scenico per Strehler è, anzitutto,
lo spazio nel quale si muovono gli attori. Ecco, quindi, che il lavoro con lo scenografo è
molto importante per la realizzazione del progetto registico. “Di solito – spiega il regista - n
dal primo giorno di prova, cominciamo a lavorare con spazi de niti, ma non de nitivi,
giacché è quasi certo che non rimarranno no alla serata della prima rappresentazione”. È
un work in progress ininterrotto che prescinde dai primi bozzetti (per Strehler non esiste un
bozzetto, ma tante successive elaborazioni che portano man mano al progetto nale) per
trasformarsi in qualcosa di di erente che nasce e si costruisce, appunto, nel corso delle
prove con gli attori, veri protagonisti - non dimentichiamolo - del teatro strehleriano. “Per
me l’ideale sarebbe costruire uno spazio partendo da dati e ipotesi inde nite e di modellarlo
poi con gli attori mentre si lavora”. Allo stesso modo, egli non ama i costumi dominanti. In
sé il costume non deve essere un elemento autonomo, bensì parte di tutto un insieme di
scene, di luci, di attori, di situazioni, di movimento. Per Strehler, il costume giusto è quello
che passa inosservato: non bisogna accorgersi che è un costume teatrale. Quindi, il regista
incontra tutti i collaboratori tecnici (direttori di palcoscenico, macchinisti, tecnici di scena,

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fonici) i quali devono esprimersi in modo autonomo eppure perfettamente integrato con lo
spirito che, di volta in volta, dà luogo all’interpretazione globale del testo. Anche dal punto
di vista tecnico, Strehler esige una pulizia formale assoluta: non vuole vedere un proiettore
mal posizionato, né un ba o di luce, né un fondale non perfettamente teso.

Nuova tappa del lavoro sono le prove a tavolino. Cosa racconta Strehler agli attori durante
le prime prove a tavolino? “Quello che so – confessa il regista – quando è stato scritto il
testo, come è stato scritto, che enigmi ci sono dentro, cosa ho capito un po’, cosa non
capisco per niente, perché più di così non posso, cosa dovremo scoprire insieme”. Quindi,
il lavoro prosegue leggendo, parlando, provando con la voce e la presenza viva dei
di erenti attori (“con l’intelligente che ti dice la cosa intelligente e lo stupido che dice quella
stupida che serve anch’essa”) al ne di creare progressivamente attorno al testo un nucleo
di idee che presto, di lì a poco, sarà messo in prova in palcoscenico. Attori, dunque, non
passivi, non mestieranti comodi, ma artisti messi sempre di fronte a un vuoto da colmare
con la creatività e la fantasia. “Alcuni recepiscono, altri no. Ma quelli che ci stanno creano
delle forze incredibili”.

Il passo successivo consiste nelle prove d’insieme (le cosiddette prove “in piedi”). Per
Strehler avvengono sempre in una scena vuota, pulita, dove non ci siano attrezzi di scena o
elementi dello spettacolo precedente, una scena illuminata correttamente (non con luci di
servizio). Quasi sempre il regista fa le luci prima dell’inizio delle prove in palcoscenico: egli
dedica ore e ore a preparare anche una sola atmosfera. Una musica di scena contribuisce,
in ne, a completare tale quadro. Ma una musica non casuale! Come Strehler è molto abile a
realizzare le luci, così egli possiede una perfetta sensibilità musicale che gli permette di
scegliere l’andamento musicale più appropriato. La musica è “chiari cazione”, è
“necessità”, appartiene al testo. “Gli attori si sentono giusti in quella scena, con quella luce,
quei vestiti e quella musica; si mettono in una fase più creativa del solito. E in questa fase
tirano fuori delle cose incredibili. Sanno essere veramente bravi”. E Strehler - si sa - non
dirige gli attori da una poltrona in platea: “in genere vado dagli attori e con gesti li rallento, li
incito, mostro un ritmo, una forma, faccio una cosa che non è proprio giusta, che posso
fare io soltanto, che un altro non ha ragione di fare”.

Terza fase: dopo l’improvvisazione, gli attori sono chiamati a rifare ciò che hanno creato
nelle prove precedenti. Sotto la guida di Strehler (il quale recentemente si è avvalso anche
di nastri registrati) si ssano gesti, posizioni, toni vocali, sguardi. “Questo è un lavoro
noioso. Talmente noioso che chi assiste alle prove se non è adusato al mestiere, dapprima
(alle prove creative) si diverte come un pazzo; poi assiste a queste altre prove in cui sembra
che non si faccia che ripetere all’in nito la stessa cosa e nisce che non viene più. La
creazione è già avvenuta in altra sede”. Progressivamente, attraverso costumi provvisori
che diventano de nitivi, melodie abbozzate che diventano complete, fondali che si
de niscono illuminati da luci via via più suggestive, l’allestimento si avvia verso la fase
conclusiva. Ma non rapidamente. Infatti, “la parte più di cile di tale processo - annota
Strehler - avviene quando, per intuizione o ragionamento, vedendo la storia che si è svolta
per due terzi o tre quarti verso una certa sua completezza, ti accorgi che alcune cose forse
non tengono più, oppure che hai esagerato in una certa direzione.” In tale caso, il regista
non esita a tornare indietro, a correggere, rifare, riprovare: tutto può essere cambiato e può
diventare migliore o peggiore. Fino alla prova generale in cui gli attori si ritrovano nalmente
vestiti con i costumi de nitivi (da loro già vissuti nel corso delle prove) con una coscienza
del testo molto importante con una collaborazione nel lavoro molto importante. Poi

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principiano le repliche dello spettacolo, ma anche in tale sede Strehler non ammette
improvvisazione, né variazioni anche minime. “Ogni tanto li ripesco, faccio una prova, ma è
molto di cile riprendere i cavalli che sono in corsa, perché poi ognuno ha una
giusti cazione. Comunque, li tengo solidi”.

La scena musicale

Di erenti sono le considerazioni che possiamo riservare all’allestimento di un’opera lirica. Il


teatro in musica non è per Strehler un blocco compatto. Il regista sa bene che le forme di
teatro musicale sono molteplici e non si può avere lo stesso rapporto con l’opera lirica
quando si allestisca un melodramma italiano dell'Ottocento, un'opera bu a settecentesca o
un’opera contemporanea di Prokof’ev o Stravinskij, che già fra loro sono cose diversissime.
Esistono opere musicali in cui una mediazione registica è necessaria e indispensabile, altre
che, per vari motivi, possono essere allestite senza grande dispendio di energie. È, quindi,
chiaro che il tipo di rapporto che unisce Strehler al testo musicale di un'opera come
Lohengrin di Wagner (Scala 1981) non è, e non può essere, ovviamente, lo stesso che lo
unisce a Cavalleria rusticana di Mascagni (Scala 1966). Se nel Ratto dal serraglio di Mozart
(Salzburg 1965, poi Firenze, Milano, Parigi) Strehler ha privilegiato le parti musicali, proprio
perché in tale opera parole e musica non vanno insieme - tanto è vero che vi sono parti
recitate e parti cantate - nel Simon Boccanegra (Scala 1971) e nel Falsta (Scala 1980)
verdiani, in cui parole e musica sono veramente inscindibili e compenetrate, questa stessa
scelta non può avere luogo. Ogni volta si instaura un rapporto diverso: come del resto
avviene - ed è unanimemente riconosciuto - per il teatro in prosa.

Ciò premesso, è lo stesso Strehler a individuare in quattro linee portanti, le strade


interpretative potenzialmente percorribili da un regista che voglia mettere in scena un'opera
lirica. Anzitutto, la strada dell'interpretazione paratradizionale cioè "quasi tradizionale e
storica", sulla base di ciò che fu idealmente la prima rappresentazione dell'opera nel suo
tempo, poco a poco adattata al gusto mutevole del pubblico (in luogo di un fondale dipinto,
un semiplastico; in luogo della convenzione assoluta, una convenzione relativa). Indi,
individua una seconda via nella interpretazione storicistica, e cioè in una “ricostruzione
possibilmente di gusto della scena primitiva, dell'impianto scenico primitivo dell'opera”: un
rifacimento storico - fatalmente inventato - della rappresentazione originaria (per esempio,
per un'opera del Settecento scene e quinte dipinte con prospettiva centrale; oppure per un
melodramma ottocentesco, una ricostruzione che proponga pedissequamente le
disposizioni sceniche originali). L’interpretazione modernista - che, a dire il vero, Strehler
de nisce “ nta-moderna” - è la terza via. Si tratta dell’applicazione di alcuni moduli estetici
moderni al passato, senza una reale giusti cazione e al solo scopo di “fare del moderno”.
Per esempio, in epoca cubista, fare un Mozart cubista, perché paia contemporaneo.

Ecco, in ne, la strada che Strehler predilige e che egli de nisce “interpretazione dello
spirito”, interpretazione, cioè, dello spirito da cui è nato il fatto d'arte, rivisto, rivissuto,
amato e criticato da un occhio contemporaneo. Non il paratradizionale, non la
ricostruzione, ma la riproposta della verità sostanziale dell'opera nel tempo, a un pubblico
di oggi, con valori di oggi che, tuttavia, mai prescindano dalla realtà dei valori e dei
signi cati di ieri. Una interpretazione che, al tempo stesso, sia attenta e rispettosa di ciò
che fu, ma coraggiosamente modi chi, interpreti, cambi addirittura, sopprima o integri la
visione, ssa nel tempo e musei cata, ormai di un'opera d’arte. “Strada molto aperta, senza
rete ai margini, poiché cerca una sintesi tra tradizione vera, ragioni del passato, signi cati
persino polemici, di una certa opera e sua possibilità di diventare, per quanto possibile,

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“contemporanea” di oggi o di sempre, non soltanto per certe sue caratteristiche
“melodicamente emotive”, puramente esteriori, melodrammatiche, e ettistiche, ma per le
sue caratteristiche profonde, la sua carica di reale poesia, di reale emozione”.

Una interpretazione dello spirito che sia, dunque, profonda, legittima, ricca di interrogativi e
segni nuovi che devono essere trattati con grande discrezione, non con appariscente
platealità. Un’interpretazione in grado di distruggere i luoghi comuni per aprire le porte a un
ripensamento critico dell'opera rappresentata. Così ogni opera lirica si rivela una sorta di
sottile gioco di compromessi tra musica e parola, tra possibilità reali degli interpreti, leggi,
modalità, necessità, spazi che talvolta non ha quasi riferimenti se non esteriori con il lavoro
critico del teatro drammatico. In tale direzione, tutto ciò che il direttore d'orchestra ha
compiuto sul piano sonoro deve essere guida precisa per il lavoro del regista. Strehler cerca
così di dare spazio, movimenti e gurazioni alle intuizioni critico-musicali del direttore
d'orchestra che egli non esita a de nire il direttore dello spettacolo, l'unico legittimato a fare
il direttore nel teatro d'opera. Così facendo, Strehler coglie (e risolve a un tempo) i limiti
connessi con l’esercizio della regia nel teatro musicale, radicalmente diversa da quella
drammatica, accennando fra le righe alla magica e complessa alchimia da cui qualche volta
soltanto, può sortire uno spettacolo importante e centrato. Sorretto da una forte
convinzione ideale, che tutti gli conosciamo nella sua attività prevalente di regista e
direttore nel teatro di prosa, egli mostra di credere con fermezza nelle potenzialità
speci che di un teatro musicale innervato dalla presenza determinata e determinante di un
regista capace di porsi in sintonia con il maestro concertatore per dare vita alla creazione di
uno spettacolo in cui l’opera trovi piena realizzazione.

Ecco allora che nel lavoro di Strehler il concetto e la prassi di regia lirica vanno a coincidere
con quello di regia di prosa in un solo punto: nella necessità, cioè, di individuare e
riesprimere scenicamente il carattere speci co e il tono fondamentale del testo. Ma per
riconoscere tale tono non è più su ciente rivolgersi al solo libretto - poiché il suo contributo
si limita il più delle volte a narrare una vicenda - ma è necessario rivolgersi al compositore o
meglio alla sua musica (“la musica è un meraviglioso passe-partout che consente di
accedere alla comprensione del testo”), cercando di capire i suoi pensieri, rendersi padrone
del suo mondo e del suo stile. Da tali ri essioni, ben si comprende come le regie liriche di
Strehler siano sempre nate da ben ponderate ri essioni e da un ben lungo e serio lavoro di
meditazione. Mai da divertimento polemico, da indi erenza o, peggio, da mancanza di
ri essione, “perché anche per l'opera lirica - ha scritto Strehler - non esiste una regia totale;
si può tentare soltanto di avvicinarsi in una certa misura alla maggior quantità possibile
della verità contenuta nei capolavori, non soltanto cercando di comprendere ciò che i loro
creatori hanno detto nel loro tempo, ma ciò che possono ancora dire alla nostra sensibilità
di uomini d’oggi.

Lezione 26

5.05.2020

Carlo Goldoni (1707-93)


Vive praticamente un secolo, un secolo molto importante, di grandi riforme.
Vive l’illuminismo, la rivoluzione francese, nei 1793 è a Parigi. È anche un periodo di
importarti innovazioni teatrali.

Goldoni scrive in tre lingue:

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- veneziano (lingua veneziana, dialetto) che è quello oggi meno rappresentato;
- Italiano (il toscano), in opere come “la locandiera” (vicenda di Mirandolina);
- La terza lingua che utilizza è il francese, meno utilizzata ma comunque importante.
A Parigi è insegnante di francese della classe nobile. Scrive opere teatrali in francese e le
sue “memorie” (“Memoires”), opera non teatrale in cui racconta la storia della sua riforma,
del suo lavoro.
Si tratta di una autore/commediografo molto complesso.
Riforma della commedia dell’arte:
Goldoni prende la tecnica dei comici dell’arte e, attraverso un lavoro intelligente e graduato,
la trasforma in quella che è il testo scritto, aprendo la strada al teatro moderno.
È chiaro che comunque anche dopo Goldoni la commedia dell’arte ci sia ancora.
È il suo tentativo di andare verso un teatro che rispecchi di più la realtà e non sia il solo
divertimento puro della commedia dell’arte.
Goldoni:
- questione linguistica
- Lavoro di grande riforma della commedia dell’arte
- Idea di riformare questa commedia dell’arte perché sente intorno a se’ il secolo dei lumi e
capisce che è anche ora di mettere in scena l’idea della realtà. La commedia dell’arte
doveva interessare anche un pubblico un po’ disattento che si riuniva spesso
semplicemente con il ne di incontrarsi e divertirsi. Il teatro di Goldoni doveva divertire
ma, allo stesso tempo, mettere in scena caratteri veri e in fondo cercare attraverso uno
spirito educativo di migliorare il mondo , di fare qualcosa che da lui in poi sarà ripreso da
molti autori.

Goldoni fa queste cose con grande fatica e con un successo discontinuo. Non riuscirà a
vedere tutto il successo della sua riforma. Ha scritto moltissimo, toccando tutti i generi della
drammaturgia. Era un professionista che ha lavorato per più compagnie, segue lo spirito
imprenditoriale nuovo. Diventa commediografo, poeta di compagnia, colui che detiene la
proprietà dei testi.

Le scelte di Strehler vanno a toccare tutti i punti trattati prima.


La prima è una scelta linguistica Strehler mette in scena le opere in veneziano, pensiamo
all’ “Arlecchino”. Mette in scena anche testi in italiano, come “La trilogia della villeggiatura”.
Ha poi un’attenzione particolare per il testo “Memoires” che ha un po’ sempre
accompagnato la sua storia e che voleva mettere in scena. Non è mai riuscito a farlo perché
è morto prima di riuscite a portare a termine la sua idea.

Ri essione che fa sui generi


Strehler lavora in maniera straordinaria sia sulla commedia dell’arte, mette in scena il
Goldoni della commedia dell’arte, come “Arlecchino servitore di due padroni” che noi
sappiamo in realtà non essere una vera e propria commedia dell’arte perché è scritta. Lo
spettacolo di Strehler è ben lontano dall’improvvisazione, però c’è un recupero degli
strumenti della commedia dell’arte; sia sulla riforma.

1947: Arlecchino.
Spettacolo sempre stato ripreso, varie edizioni. Ancora adesso è uno spettacolo di grande

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successo. Ragione artistica e di carattere organizzativo. Arlecchino è lo spettacolo che è
stato messo più in scena nelle tournée internazionali del Piccolo. Aiutata dalla capacità
mimica, ginnica, acrobatica degli attori e da una vicenda molto esile che si riesce a
comprendere anche senza bisogno di avere una conoscenza dell’italiano veneziano.

Commedia dell’arte e riforma

Strehler mette in scena altri testi, anche molto di erenti tra loro. I più importanti sono.
- “le baru e chiozzote”, edizione del 1964
- edizione del “Campiello”, 1975. Spettacoli poi ripresi per le celebrazioni Goldoniane,
1993
- poi uno spettacolo al quale Strehler ha dedicato molte ri essioni: “la trilogia della
villeggiatura”. Si tratta di tre testi raggruppati in una sola serata. Strehler le mette in
scena in tre edizioni molto diverse: 1954 (primi anni del Piccolo), 1974 (a Vienna, in
tedesco); 1978 (a Parigi alla Comedie Francaise, ovvero la più antica istituzione di teatro
europea)

“la trilogia della villeggiatura” mostra le debolezze di tutta la classe sociale. Anticipa un
discorso storico che va a anticipare la rivoluzione francese.

Siamo nella dimensione di un Goldoni molto impegnato che Strehler mette in scena sempre
attraverso quell’idea di realismo poetico (idea di coniugare la realtà con la poesia della
scena) e lo fa in più occasioni.

“le baru e chiozzotte” sono un grande testo popolare che va anche a inaugurare la grande
sala del teatro lirico che allora era stata destinata al Piccolo. Scelta linguistica di cile, il
chiozzotto è simile al veneziano ma si tratta di una lingua che gli attori faticano a imparare.

Come con Shakespeare anche con Goldoni Strehler non mette in scena i testi più famosi
(es. “La Locandiera”). Vedere gli autori attraverso testi meno frequentati. Autore come
Goldoni molto legato all’epoca in cui ha vissuto era spesso rappresentato come un autore
un po’ lezioso, manierato, accompagnato sempre da inchini, ventagli, ecc. (idea che si
aveva del ‘700).

Tutto questo scompare. Quando Strehler mette in scena le prime opere come “gli
innamorati” o “la vedova scaltra” (nel primo periodo, anni ‘50). Il fatto di mettere in scena un
Goldoni molto lontano da quella tradizione settecentesca un po’ nta (chiamata dagli storici
apocrifa), che non risponde alla realtà, è un’operazione molto forte che va a riconsiderare il
teatro di regia. È un’operazione che forse va a restituire a Goldoni il vero signi cato del suo
teatro, non legato al solo ne ludico ma anche un teatro che aveva un profondo valore
d’insegnamento.

Goldoni amava dire, come ha anche scritto nelle sue “Memoires” (opera in tre volumi), che
l’intero suo lavoro teatrale era basato sulla lettura du due grandi libri: quello del teatro e
quello del mondo.
Il libro del teatro era la conoscenza pratica delle modalità del palcoscenico. Goldoni era un
uomo di teatro, viveva a stretto contatto con gli attori e conosceva bene le problematiche
legate allo spettacolo.
Il libro del mondo era invece la realtà. Si tratta della capacità di mettere in scena, sempre
attraverso un’attenzione particolare alla sensibilità degli spettatori che non dovevano

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essere urtati con la rappresentazione troppo vera della realtà ma la capacità di mettere in
scena il mondo, di creare dei caratteri veri, dei personaggi con una dimensione psicologica
completa. Con il tempo diventeranno sempre più veri.
Strehler sente vicina la personalità intellettuale di Goldoni e sente la responsabilità di
rimettere in scena un autore così importante, dandogli il giusto valore, non continuando a
proporre una rappresentazione di Goldoni “super ciale” e che ormai aveva fatto il suo
tempo.
Cosa che non farà ovviamente sono Strehler, nello stesso periodo c’era un grande lavoro di
rilettura delle opere di Goldoni.
Luchino Visconti, per esempio, è un grandissimo regista che, più o meno nello stesso
periodo di Strehler, mette in scena un’edizione della Locandiera.

Goldoni è comunque un autore che ha accompagnato Strehler durante tutto il suo lavoro.

Lezione 27

7.05.2020

Integrazione Brecht, Pirandello e Mozart

Due autori e una compositore (ambito del teatro musicale).

Brecht

Il rapporto di Strehler con Brecht è stato il rapporto più studiato, unico, di quelli studiati no
a ora, con il quale Strehler ha un contatto personale, nel senso che lo conosce.

Brecht era all’apice raggiunto della sua carriera, era tornato a Berlino est nel 1948, Strehler
lo conosce (Strehler sapeva perfettamente il tedesco), hanno un rapporto molto concreto.
Brecht dirigeva anche un teatro, una compagnia teatrale, Strehler segue i suoi
insegnamenti. Per Strehler Brecht è proprio un maestro da cui impara anche le tecniche
artigianali del fare teatro.

Rapporto che condiziona tutta la messinscena del teatro di Brecht in Italia. Vede l’opera da
tre soldi messa in scena al Piccolo teatro poco prima di morire e a erma pubblicamente
che avrebbe avuto molto piacere che a Strehler fossero consegnati i diritti di
rappresentazione, cioè la possibilità di fare tutto il suo teatro in Italia.

Questa concessione dell’eredità rende Strehler detentore di tutto il teatro di Brecht in Italia
almeno no agli anni Settanta. Altro personaggio importantissimo con il quale Brecht ha un
rapporto altrettanto stretto è Paolo Grassi.

Grassi e Strehler si trovano a gestire questo patrimonio Brechtiano. Brecht era un autore
che aveva molto da dire nell’Italia degli anni ‘50-‘60, aveva un signi cato di rapporto con la
società e la politica molto più forte di adesso. Autore dichiaratamente comunista che
andava quindi contro a un pensiero dominante e che era un autore per certi aspetti
scomodo da’ a Grassi, Strehler e al Piccolo Teatro una grande marcia.
Un esempio sono le conseguenze della rappresentazione “Vita di Galileo”.
Importanza del mettere in scena Brecht in quel periodo e anche dell’essere gli unici a
poterlo fare in quel periodo. Una ri essione che dobbiamo fare è che “l’opera da tre soldi” è
uno dei pochissimi testi che Strehler mette in scena tre volte. ‘50, anni ‘70 e Parigi anni ‘80.
Testo molto signi cativo per lui. Si tratta di tre veri e propri spettacoli diversi, che si
richiamano.

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“L’anima buona del Sezuan” messa in scena più volte.

Testi importanti nella storia del piccolo teatro, del teatro italiano generale e non solo.
Mettendo in scena Brecht, Strehler si trova a dover a rontare anche un metodo di
recitazione molto diverso a quello tradizionale che risaliva alla scuola dell’immedesimazione
messa a punto da Stanivslaskj.

Brecht propone invece un metodo di recitazione di erente che non si basava


sull’immedesimazione ma sullo “straniamento”, cioè sulla possibilità non vivere le vicende
del personaggio messo in scena ma cercare di recitare guardandolo da fuori.
Nozioni molto tecniche. Anche su questo Strehler utilizza una modalità particolare, fa capire
quanto questo metodo di Brecht non fosse così antitetico e diverso rispetto a quello
dell’immedesimazione ma che potesse essere discusso e riletto anche a seconda della
tradizione degli attori italiani.

Continuo lavoro sui testi di Brecht. Punto di riferimento costante nelle scelte artistiche di
Strehler, uno dei suoi maestri. Alcuni testi di Brecht sono messi in scena per la prima volta
in Italia proprio da Strehler.

Pirandello

Le opere che Strehler mette in scena di Pirandello sono relativamente poche. Nel primo
periodo, quello degli anni ‘50, in cui Strehler fa tantissimi spettacoli, compaiono dei testi di
Pirandello (compaiono i famosissimi sei personaggi in ceca di autore). Spettacoli che hanno
un certo successo ma non c’è un’attenzione particolare al teatro di Pirandello, è un po’
sporadico il suo interesse per lui, fatta eccezione per un testo che è signi cativo nel suo
percorso che è “i giganti della montagna” (c’è il video della terza edizione).

Ne fa tre edizioni. Si tratta di un testo che dice molto del modo di fare teatro di Strehler, per
esempio è un testo non concluso, Pirandello muore. Testo incompleto. Strehler si avvicina
nelle tre edizioni alle indicazioni nali del testo in modo molto diverso, ognuna è lo specchio
delle tre stagioni. 1948, poi anni ‘60 e poi anni ‘90.

Rapporto signi cativo con questo testo, uno dei meno rappresentati e complessi di
Pirandello. Testo che ha bisogno di una forte preparazione critica, testo che richiede una
ri essione più generale e che si allontana da quello che è il consueto teatro di Pirandello.
C’è un altro testo che Strehler mette in scena con Andrea Jonasson, grande interprete
anche dell’ultima versione dei Giganti della montagna e grande interprete Brechtiana, che è
“come tu mi vuoi”. Si tratta di un testo che appare negli anni ‘80 ma non rimane nel
repertorio del Piccolo Teatro legato a Strehler come rimangono“i giganti della montagna”,
ma che fa vedere anche come ci sia un interesse anche costante.
È vero che i testi di Pirandello non sono molti in Strehler ma è anche vero che la scelta delle
tre edizioni de “i giganti della montagna” in tre periodi molto diversi ci danno l’idea di
questo lavoro e interesse continuo. Ci mostra anche il rapporto non indi erente che lega
Strehler a Pirandello. C’è anche poi la messa in scena di un’opera lirica “la favola del glio
cambiato”, a Venezia. Pirandello è l’autore del teatro italiano. Lui e Goldoni sono i grandi
drammaturghi italiani.

Mozart

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Ri essione che ci permette di lasciare il teatro parlato per passare nell’ambito del teatro
musicale, cioè dell’opera lirica. Importanza che il percorso di regista lirico ha nella carriera
di Strehler.

Nel lavoro di regista lirico obbedisce, soprattutto nella prima parte, a commissioni. Mentre
nel Piccolo sceglieva con Paolo Grassi gli autori da mettere in scena, per quanto riguarda
l’opera lirica solitamente sono i grandi teatri, come la Scala o la Fenice di Venezia che
commissionano la regia di opere liriche che decidono di mettere in cartellone, in scena, ai
registi che poi vengono contattati.
Negli anni ‘50 fa un numero vastissimo di regie, passando dagli autori del ‘700 ai
contemporanei (Malipiero).

Su Mozart mette in scena un’opera minore, un singspiel dove gli attori parlano e cantano,
dei recitativi secchi, che è “il ratto dal serraglio” opera piccolina di Mozart, fra le meno
rappresentate. La mette in scena nel 1965 a Salisburgo, opera che diventerà quasi di
repertorio. Strehler genialmente riesce a coniugare testo cantato e parlato in una
dimensione che lo rende storico.

Altra opera che Strehler mette in scena “il auto magico”, sempre a Salisburgo dove si tiene
un grande fesTival internazionale che proprio quest’anno (2020) compie i suoi 100 anni.

Scelte musicali e registiche che non vanno a collimare, risultato però limitato a quella
rappresentazione.
Grande lavoro che Strehler fa sulla trilogia mozartiana italiana, cioè sui libretti scritti con Da
Ponte (librettista di Mozart), in particolare a “le nozze di garo”, “il dongiovanni” e “così fan
tutte”.

“nozze di Figaro”, messa in scena più volte, è presente tanto nel percorso di Strehler che ci
mette più volta mani. Rende l’idea del lavoro straordinario che fa di recitazione con i
cantanti e di rilettura di tutta la tradizione del teatro musicale che trova uno dei suoi
massimi esempi nelle nozze di garo.
“Il dongiovanni” è l’Opera con la o maiuscola, messa in scena nel 1987, lungo lavoro alla
scala con Riccardo Muti con il quel aveva già messo in scena nozze di garo. Spettacolo a
cui Strehler dedica molto del suo tempo, ripreso in più edizioni.
Spettacolo che crea quasi un nuovo modo di mettere in scena Mozart.
Peso che Mozart con la sua poesia, sensibilità, vita non felice trova una qualche
consonanza con la sensibilità di Strehler, glio di musicisti e musicista egli stesso.

Sono presenti anche altri autori nella teatrogra a di Strehler come Verdi con Simon
Boccanegra, Falsta , ecc e altri autori contemporanei, Mozart è però un punto sso.

Strehler alla ne della sua carriera per inaugurare la nuova sede tanto attesa del piccolo,
che oggi si chiama teatro Strehler, che è la sala grande, una delle tre sale gestite dal Piccolo
Teatro, doveva inaugurarsi con il “così fan tutte”.
Scelta di scegliere proprio quest’opera è indicativa, testo molto particolare con 6 interpreti,
in cui è la recitazione dei cantanti che è molto importante, Strehler non arriva nemmeno a
provare in palcoscenico. I lavori che riesce a portare avanti nel dicembre 1997 porta a
completare il cast, ci sono vari appunti di regia, lo spettacolo è quindi pronto per essere
provato, cosa poi avrebbe fatto Strehler non lo sapeva nessuno. Era un uomo di teatro che
confrontava e veri cava le sue scelte sulle tavole del palcoscenico.

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Probabilmente molte delle cose che Strehler aveva indicato sarebbero state modi cate o
forse no.

Siamo nella dimensione di uno spettacolo che va in scena nel gennaio del 1998 grazie
anche al lavoro costante di un grande regista vicino a Strehler che è stato Carlo Battistoni
che ha rmato la regia del “così fan tutte”, da un’idea di Strehler.
Anche la veri ca del lavoro di Strehler su Mozart ci porta a dire l’importanza di questo
compositore, autore, della sua musica, del suo teatro soprattutto italiano, il rapporto con la
trilogia italiana di Lorenzo Da Ponte, andando a testimoniare l’a etto che Strehler ha
mostrato per Mozart.

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