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Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.

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La morte di Bunny Munro (Nick Cave, Feltrinelli, 2009 /


traduzione di Silvia Rota Sperti)
Dio solo sa quanto adoro quest’uomo. Al di là dei baffi, di Grinderman e di
Nocturama (probably il più brutto bel disco nella storia del rock – probably).
Ma non è con amore devozionale che mi sono avvicinato alla sua seconda fatica
letteraria, né con timor di dio e/o attesa trepidante: non ho fatto la fila per
comprare il libro nel giorno della sua uscita, non l’ho comprato poi. Ho avuto
l’occasione buona per leggerlo soltanto una settimana fa, e non appena me lo
sono ritrovato sulla scrivania (cioè sulla scheda audio che poggia sul mixer che
poggia sulla scrivania) mi accorgevo di guardarlo, e poi di aprirlo e girarne le
pagine, con una mistura intestinale di trepidazione e boria artificiosa e
difensiva. Questo perché da qualche parte nei viadotti dissestati della mia
psiche si nasconde la paura tremenda che quest’uomo possa ferirmi: con una
delusione, con un sottoprodotto, con un passo falso.
(È chiaro che Grinderman, i baffi, il blues della non-fica, il riemergere di
un’immagine di Cave circense del rock e cocchiere della biga artefatta del
music-business – laddove invece dominavano prima le tinte scure e primordiali
del Delta e poi il richiamo a una poetica saudosista e poi ancora la rivelazione
di una spiritualità intima e personalissima, laddove, per farla breve, potevamo
vedere dei richiami oltre la musica, oltre il rock’n’roll – è chiaro che dopo un
po’ questo cambiare pelle e sapersi reinventare nell’immaginario collettivo
facendo ogni volta l’esatto contrario di ciò che ti saresti legittimamente
aspettato da uno che ha fatto The Boatman’s Call (storia vecchia, lo so) rompe
un po’ il cazzo. Ed è chiaro che la parentesi Grinderman mi ha regalato un
trauma midollare che non posso che bilanciare schiumando circospezione. Ma
la mia stroncatura di Grinderman l’ho già fatta a tempo debito su Debaser, ed è
ormai acqua evaporata in polvere spazzata via dai venti degli anni, e poi questo
è solo un paragrafo introduttivo per dire che avevo il sacrosanto diritto ad
aspettarmi una cagata, e la recensione de La morte di Bunny Munro inizia qua
sotto.)
Ma quale delusione e/o sottoprodotto e/o passo falso: un pugno nello
stomaco, altro che. Un’entrata a gamba tesa, una sassata in piena fronte. E il
bello è che lo capisci pian piano, finché non ti senti completamente stretto alle
corde. C’è da dire che all’inizio ci provi, a difenderti: muovi obiezioni anche
legittime (“Qui sembra Palahniuk” – “Che bisogno ha di rifarsi a Bukowski?” –
“Perché tanto pop?”), storci il naso, ti sembra di leggere proprio quello che non
vorresti mai leggere a firma Nick Cave, ti sembra di leggere l’atteso romanzo
del tale blogger. E invece Nick Cave ti fotte, ragazzino/a. Nick Cave, per mano
di Bunny Munro.

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Bunny Munro è un venditore porta a porta di prodotti cosmetici che


ritorna a casa dalla sua ultima missione e trova la moglie impiccata. Da qui si
mette sulla strada, insieme al figlio Bunny Junior e a una lista di clienti (donne)
da spennare (e di cui approfittare sessualmente). Questa fuga dissimulata e
fallita termina alla fine della lista. Bunny muore in maniera rocambolesca,
fulminea (è il caso di dirlo), alla fine di un viaggio di perdizione che altro non è
stato se non il precipitare nelle spire della propria follia, una follia
disumanizzata, totale, strisciante e onnicomprensiva, cieca e accecante. Eppure
normalissima.
Davanti al corpo di Libby ancora penzolante, Bunny vede sfumare l’idea
di un pomeriggio di sesso (ma ripeto: “sesso” non è la parola adatta) ma poi si
concentra sulle tette – sulle tette della moglie fresca di suicidio. Questo
potrebbe anche bastare come biglietto da visita – soprattutto dopo che
l’abbiamo visto circuire due ragazze e cercare riparo in un parcheggio dove
sfogare le sue ulteriori brame masturbatorie.
Pensate a un maniaco sessuale, sociopatico, alcolizzato, pervertito,
profittatore, narcisista, sboccato, dategli delle mutande tigrate, pensatelo in
grado di vendere “una bicicletta a un barracuda” – e non avrete Bunny Munro.
Per cogliere in pieno Bunny Munro dovete anche far regredire a meno di zero la
sua umanità. Dovete distruggere qualsiasi dimensione morale, far precipitare i
valori spirituali che distinguono l’uomo dalla bestia, disintegrare l’empatia
sociale. E dimenticavo: aggiungete una colonna sonora ultrapop, e pensate che
non siete gli unici a volervi fare Kylie Minogue e/o Avril Lavigne. Ancora:
metteteci un padre totalmente deluso e una suocera che odia il tipo in questione.
Ah: e poi mettetelo su una Punto gialla, il tipo in questione. Ecco: il tipo in
questione è Bunny Munro, ovvero l’uomo degenerato a pura istintualità
biologica.
La perversione di Bunny Munro non è una perversione sessuale, o
meglio: è una simulazione. In realtà Bunny nutre una depravazione di tipo
autoptico: ha una passione sfrenata, midollare, a tratti patetica ma non per
questo meno agghiacciante, per la vagina, per le tette, per i culi, per le cosce.
Non si tratta di sesso, né di erotismo (che già di per sé richiamerebbe a
dimensioni ulteriori): stiamo parlando di un uomo ossessionato da parti
anatomiche, da pezzi di carne, da pezzi di corpi femminili. La perversione di
Bunny si colloca fra l’obitorio e il sexy shop – questo signore sparge le proprie
ossessioni nel mondo come se il mondo fosse abitato da corpi femminili senza
vita o da bambole gonfiabili. La sua maniacalità non ha assolutamente nulla di
umano. La forbice delle sue pulsioni varia dall’anatomia muscolare alla
fisiologia degli apparati genitali.

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Gli amici e colleghi di Bunny sono della sua stessa stoffa, solo stanno ai
margini, e ti fanno capire che questa è follia pura e oblio e disumanizzazione a
360 gradi, che il filo dell’orizzonte è moralmente rovinato su se stesso, che
l’umanità è persa. Questa sensazione di deserto ti accompagna per l’intero
romanzo. Apparentemente non esistono vie d’uscita dal nulla in cui è ridotto
l’umanismo contemporaneo, sbriciolato dall’immagine, fatto a pezzi dalla
pubblicità e dai tormentoni radiofonici. Qualcosa è andato storto nel tirare la
corda dei vari corpicini prestati alle campagne pubblicitarie, ed eccoci qui.
Basta poco.
Solo la figura di Bunny Junior – solitario, semiautistico, nostalgico,
sofferente – salva questo immaginario desolante e parassitico. Bunny Junior si
rifugia fra i pianeti che tiene in sospensione sopra il letto e l’enciclopedia che
gli ha regalato la madre, e così facendo apre linee prospettiche su altre
dimensioni, salvando in parte la chirurgica tragedia umana di cui La morte di
Bunny Munro è imbevuto. La sua è una tensione alla possibilità di un altrove: il
simbolismo del suo piccolo planetario e dell’enciclopedia è evidente (benché
“simbolismo” è parola terribilmente fuori luogo, incompleta e inadatta a
descrivere questo processo che è in parte allegorico e in parte
straniato/straniante – è un “simbolismo” che lavora per fotogrammi sinaptici,
insomma). Lo stesso si può dire per le infezioni oculari di cui soffre: è forse un
richiamo alla necessità del pianto, al potere catartico della commozione, unico
antidoto per tornare a “sentire”, per riagganciarsi a una tensione spirituale.
L’enciclopedia e il planetario sono per il piccolo Bunny oggetti di transizione
post-traumatica, sono le vie di attuazione del superamento che si fonda
sull’amore per la mamma scomparsa, e sulla sua ineluttabile e disperata
mancanza. Bunny Junior inizia a vedere la madre ovunque, inizia a parlarci, a
sentirne il caldo profumo. E sa che suo padre, nel frattempo, ha imboccato una
strada senza ritorno.
Che poi “impazzire” è termine troppo vago. Bunny Munro naviga a vista
a caccia di clientela da spennare cui rifilare confezioni di creme da notte e
tubetti di esfolianti, e ignora completamente le domande ansiose del figlio, tipo
cosa diavolo stanno facendo e dove porterà questo giro senza senso, dal
momento che la lista è quasi finita e la prospettiva è inesistente a dir poco (e
Bunny Junior sa che tutto questo avrà breve durata e porterà allo sfacelo più
completo, sa che finirà tutto veramente male, tant’è che si mette a consultare
sull’onnipresente enciclopedia la voce “esperienza di premorte”). Poi beve
come un SUV, ed è chiaro che ha delle allucinazioni sensoriali cui non riesce a
dar corpo. E le prende, perdio, le prende di santa ragione prima da una
femminista patita di Frida Kahlo e di Tae Kwon Do, evidentemente contrariata
dal suo atteggiamento testosteronico, e poi dall’energumeno Mushroom Dave,

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che Bunny ha avuto la sfortuna di incontrare dopo aver praticamente violentato


(“le entra dentro come un dannato battipalo”, scrive questa penna meravigliosa)
la sua (dell’energumeno) compagna tossicomane in piena botta. Ma questi sono
dettagli della trama: il fatto è che all’appuntamento con la morte Bunny Munro
ci arriva ridotto a uno straccio, nel fisico un tempo aitante, nei vestiti sudici,
nelle gallerie della mente ormai intasate e inagibili.
Rimarrà solo Bunny Junior, voce della coscienza residua, contrappeso
ideale, umano e morale del nulla larvale cui è ridotto il padre. E Bunny Junior
dovrà farcela da solo. Il piccolo perde in un attimo i punti cardinali: il padre (è
comunque un riferimento forte, rappresenta per lui una figura esemplare di
difficile, e dubbia, interpretazione) e l’enciclopedia, bruciata nell’incidente
finale – e questo sì che è un simbolismo nullificante. Rimane solo, e il
gigantesco non detto che accompagna il romanzo una volta chiuso il libro è
tutto suo.

La morte di Bunny Munro è un romanzo ibrido, posto all’incrocio di diverse


esperienze letterarie e narratologiche in senso lato. Personaggio moralmente
esausto e “fottuto”, invaso dal niente, con un bagaglio di autocoscienza
apparentemente impossibile da evitare ma puntualmente accantonato nella più
vuota insensibilità percettiva; figlioletto al seguito che definisce il miraggio
metanarrativo di un romanzo (di [inizio] formazione) nel romanzo – una
prospettiva potenziale non attuata – e che con il padre ha un rapporto sincero e
diffidente al tempo stesso, trasportato e scettico, reale come in una fiction TV e
falso come nelle circostanze di tante storie autentiche; colore locale e sviluppo
della struttura che mischia i condomini di Ballard con il primo hardboiled che
vi viene in mente, romanzo on the road e psicodramma a basso voltaggio,
comicità imbarazzante modello Benny Hill e inquietante saturazione periferica
allegorica à la David Lynch, pop in alta definizione e bassissima fedeltà
sgranata e fuori fuoco. Questo è un romanzo fortemente visivo: è la
trasposizione in parole di immagini nitidissime. Un crossover che si attua nello
stile e nel mescolamento dei linguaggi narrativi, laddove il registro rimane ben
definito, compiuto, praticamente inoppugnabile.
E poi pensate al Killer Cornuto che avanza nella sua sotto-trama, diretto
al centro focale dove brucia la parabola vertiginosa di Bunny, pensate al
simbolo morale che detto Killer Cornuto incarna, figuratevi questo Occidente in
metastasi spirituale, rivedete Bunny Munro che muore offrendo il petto al cielo,
rileggete la bandella che dice proprio “romanzo morale” e sì, siamo d’accordo,
ma c’è anche molto, molto altro. L’Occidente continua a morire di una tragedia
immane in cui ognuno è palcoscenico e platea.
Leggetelo, fa bene.

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