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Otto incontri, un dialogo che si

dispiega nell’arco di tre anni. Un


confronto serrato sul mestiere di
attrice, sulla condizione femminile
dentro e fuori dal set, sull’esperienza di
donna, madre, figlia.
Attraverso le domande di Guillaume
Sbalchiero, appassionate, sensibili, a
tratti rese incerte dall’emozione
dell’incontro, Monica Bellucci si svela,
attingendo alle tappe fondamentali
della sua carriera (gli esordi nel mondo
della moda, i primi passi nel cinema,
gli incontri con i grandi cineasti
europei e americani) e della sua vita
privata (la giovinezza in Italia, il
rapporto con gli uomini, la maternità)
per mostrarci anche il lato più fragile
ed emotivo di una donna spesso
associata all’immagine della pura,
inaccessibile bellezza.
Da queste pagine intense e rivelatorie,
a emergere è la voce piena di una
persona libera.
MONICA BELLUCCI, modella e
poi attrice tra le più apprezzate a
livello internazionale, ha recitato per i
più famosi e brillanti registi
contemporanei. Nel 2017 sarà di nuovo
madrina del Festival di Cannes.

GUILLAUME SBALCHIERO,
giovane scrittore, ne ha raccolto in
queste otto conversazioni le confidenze
e i pensieri.
Monica Bellucci
Guillaume Sbalchiero

Incontri clandestini

Traduzione di Manuela Maddamma


Proprietà letteraria riservata
© 2017 L’Archipel
© 2017 Rizzoli Libri SpA / Rizzoli, Milano

eISBN 9788858690185

Titolo originale dell’opera


RENCONTRES CLANDESTINES

Prima edizione: maggio 2017

Realizzazione editoriale: Librofficina

In copertina:
Fotografia © Juan Aldabaldetrecu Studio
Art Director: Francesca Leoneschi
Graphic Designer: Luigi Altomare / the
WorldofDOT

www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul
diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale,
non autorizzata.
Incontri clandestini
Apparizione

«Ciao Guillaume, sono Monica.»


La notte si allontana, la voce è
ridente. Improvvisamente mi sento
bambino, febbrile. Un po’ tremante, le
chiedo (per un settimanale nazionale)
della sua collaborazione imminente
con Emir Kusturica. Risponde senza
giri di parole, con espressioni franche e
semplici, in un tono leggero.
Poi, rapide, si sciolgono le lingue, la
conversazione si infittisce. La
maternità, la passione per il cinema, la
solitudine: temi incrociati, colori e
idee, miscuglio di ieri e di attese, di
desideri e di esperienze. Sempre
impressionato, ma più naturale, il nodo
che avverto alla gola si sfalda, le mani
si rilassano, mi sento più disteso, meno
lontano, più vicino alle sue parole.
Sussulti, abbandoni, tempi morti,
riprese: andamento del dialogo,
pulsazioni dello scambio, battiti che
eclissano il resto, questa città, questo
brusio, l’inutile.
Riagganciato il telefono, resta la sua
voce. Solo, confinato in questo studio,
la ascolto ancora, la avverto.
Attrazione ancora confusa, e certezza
tuttavia di un’interazione possibile; in
questo momento si disegnano già le
pagine del libro futuro.

Passano i mesi, l’idea resta. Sempre


il desiderio di un libro, incerto, molto
incerto, che lei si ricordi di me, del
nostro scambio telefonico, quel breve
momento, pochi minuti rubati agli
impegni incessanti, alla sfilata di volti
e di nomi, non se ne ricorderà, ma
voglio comunque provare, anche se il
dubbio, l’improbabilità, mi arrovello,
cancello, e infine una sera di novembre
2013 le invio queste parole:

«CHOC
Adolescente, circa quattordici anni,
un film, Malèna: sogni d’infanzia, le
grida della gente, e lei, al centro,
corpo tanto adorato, tanto umiliato,
carne silenziosa, eloquente, non molte
battute, e tuttavia una parola udibile,
sensibile, pienamente tangibile, là, in
fondo agli occhi.

MOVIMENTO
Poi l’esplorazione minuziosa,
attenta, del suo percorso, quel
desiderio di rinnovamento constatato
film dopo film, ruolo dopo ruolo, il
rifiuto della stagnazione, un movimento
sotto maschere diverse (innamorata,
tormentata, spiritosa, violenta…) per
uno stesso viso, multiforme eppure
unico, mirabilmente colto nella
Passione di Cristo di Mel Gibson, senza
trucco, ambivalente, tra dolore e
schegge di luce, solidamente terreno e
indiscutibilmente etereo.

ORIZZONTI
E poi ancora osservazioni,
riflessioni su aspetti disparati (il
trattamento mediatico; la
rappresentazione del suo corpo – dal
vampirismo in Coppola all’offerta in
Philippe Garrel; l’oscillazione tra
tragicità e leggerezza; il rapporto con
gli uomini; la femminilità…), qualche
pista, molte domande, nessuna
sentenza, nessun giudizio, intuizioni
ancora confuse, lei che guarda nella
luce (o rivelatrice o ingannevole),
sentendo anche uno sfasamento, una
distanza, una ritrosia, uno stare ai
margini e al tempo stesso esposta, un
funambolismo dell’istante, una perenne
tensione nonostante i tentativi di
dissimulazione, molti dei commentatori
tutto questo non lo vedono,
ossessionati dal corpo, dalla bellezza,
dall’immagine, dimenticando la
complessità, il velo, quel che non viene
detto e che forse si scoprirà contro
l’immediatezza, col tempo, in un luogo
protetto: un libro».

Guillaume Sbalchiero
*

Qualche giorno d’attesa, fremiti


leggeri; poi lei risponde, un breve
messaggio, un appuntamento è fissato
l’indomani nel bar di un hotel
parigino.
Già, l’indomani.
Velluto sui sedili, luce filtrata, il
mondo sembra lontano, l’enclave è
confortevole, immobile, silenziosa o
quasi: qualche bisbiglio, dei sorrisi,
un’agitazione improvvisa, diffusa.
Lei appare.
Colori scuri, eleganza, incedere
netto che taglia; tende la mano,
sorridente, apparentemente sorpresa,
intrigata, forse per la mia età (allora
ventisette anni), senz’altro per la mia
esitazione, la timidezza della quale lei
non si prende gioco, che provo a
superare, là, seduto vicino a lei, prima
farfugliando vaghe parole, poi
ribadendo la mia ammirazione (anche
critica, tuttavia, alcuni suoi film e
progetti non mi piacciono), e questo
desiderio del libro, non un esercizio
biografico né l’ennesima discussione
tra un’attrice e un giornalista (che del
resto non sono), un dialogo piuttosto,
uno svelarsi, la sua parola che amerei
ascoltare e restituire, ma che lei esita
ancora a liberare, troppo presto, mi
dice, troppo intimamente provata,
incerta di avere il necessario distacco,
ci vuole tempo, non precipitiamo.
Sparisce…
*

Settimane vaghe, impegni e silenzio,


domande che ritornano, la sua agenda
sicuramente affollata, la mia
inesperienza, il mio anonimato: non
credo che il progetto le interessi
davvero, certo, mi dirà no, e non saprò
replicare, o ben poco, deluso di non
averla trattenuta; le mie parole
probabilmente sono state troppe, o non
abbastanza, insufficienti, inopportune
rispetto alle sue aspettative, a quel
momento della sua vita di cui ignoro i
contorni, ma di cui percepisco,
intuitivamente, un bisogno di rivelarsi,
di esplodere sotto una nuova luce,
inedita, un angolo che mi accanisco a
disegnare da questa piccola stanza di
fronte alla città insonne, ore e ore per,
temo, un rifiuto, prospettiva che
tuttavia non mi scoraggia – la speranza
spinge, alimenta fino all’improbabile:
è lei a proporre di rivedermi.
Primo incontro

«Tutti carnefici, tutte vittime»


GUILLAUME SBALCHIERO : In più
di venticinque anni di carriera ha
preso parte sia a grandi successi
commerciali (Matrix, La passione di
Cristo, Asterix & Obelix – Missione
Cleopatra…) sia a progetti più
confidenziali (Per sesso o per amore?,
Un été brûlant…), e ha conosciuto sia
la violenza sia l’elogio della critica. A
proposito di queste esperienze, a cosa
si deve, secondo lei, la qualità di una
creazione artistica?
MONICA BELLUCCI: Pittura,
musica, letteratura, cinema: solo il
tempo attesta il valore di un’opera.
L’istante è sempre soggetto al caso,
alle emozioni, a un certo stato d’animo.
Per poter giudicare, bisogna aspettare.
Arrivare dopo il pubblico, le critiche,
le mode… Giudicare a nudo. Posare un
occhio vergine. Quanti artisti, rimasti
poveri e sconosciuti in vita, sono
esplosi una volta morti! D’altronde,
tutto questo va al di là del semplice
quadro della creazione…

Ovvero?

La giovinezza ci protegge. La legge


biologica copre i nostri difetti. La
goffaggine, l’impulsività… grazie alla
maschera della giovinezza questi
ostacoli si attenuano, possono persino
diventare affascinanti. In un certo
senso, la giovinezza fornisce un alibi.
Ma attenzione: se su tutto questo non si
lavora, a quarant’anni si corre il rischio
di passare per pazzi furiosi!

E come ci si può «lavorare»?

È un vero e proprio lavoro su se


stessi che può prendere una vita intera.
Un costante reinventarsi. Il pericolo è
lasciarsi divorare. Lasciare che questa
parte, benché tanto affascinante
all’inizio, mangi il resto. Occorre
consentire, insomma, che il talento
anneghi la follia.

Ma il talento non sta proprio nel


canalizzare questa follia? Modellarla?
Gli artisti non sono quelli che
rivoltano le loro nevrosi per offrirle al
mondo?

Qualcuno ha detto che siamo tutti


pazzi! Qui, su questo piccolo pianeta
sperduto in mezzo al nulla, abbiamo il
diritto di essere nevrotici! Alcuni
credono, altri creano… Questa lotta per
la sopravvivenza, questa esistenza
piena di qualità, di difetti, di
matrimoni, di divorzi, di desolazioni,
di resurrezioni, si vede particolarmente
nelle attrici e negli attori. Riflettono il
mondo circostante. Il loro corpo
racconta anche il disagio e il desiderio
di un equilibrio. Ma, contrariamente
agli altri, siamo forse meno pericolosi
per la società. Attraverso l’arte
esorcizziamo i nostri tormenti privati e
la violenza che ci circonda…

Se le virtù catartiche dell’arte sono


evidenti, impongono senza dubbio, da
parte dei creatori, di confrontarsi con
domande intime, di sfiorare da quanto
più vicino possibile i propri tormenti…
Da dove si attinge la forza per
riuscirci?

La cerco ancora. Ma come ha detto


Nietzsche: «Ciò che non ti uccide ti
fortifica». Però anche lui alla fine si è
lasciato divorare… Credo solo che,
quando si è più giovani, la vita offra
piccole cose che annunciano la
salvezza dell’avvenire, e che bisogna
saper ascoltare. Poi, senz’altro, arriva
il momento della «grande lezione».

La «grande lezione»?

Il momento della resa dei conti.


Guardare in faccia il proprio destino, i
propri problemi, affrontarli senza
fuggire ma con la voglia di superarli.
Per quanto duri essi siano. È un
momento che può arrivare
all’improvviso. Due minuti prima di
morire, o quando si è molto più
giovani. In questo secondo caso, c’è
ancora la possibilità di cambiare
traiettoria. Comunque sia, esiste
sempre una soluzione, una via d’uscita.
Anche se dovesse essere la morte.

Emil Cioran riteneva che l’esistenza


fosse sopportabile anche grazie alla
possibilità del suicidio. Anche Albert
Camus ne ha molto discusso. È vero
che in ogni momento possiamo fuggire
a noi stessi…

Nessuno decide di affrontare la


realtà, perché la cecità è comoda.
Affrontarla richiede forza di volontà. E
le trasformazioni si compiono spesso
nel dolore; è una scelta tra la vita e la
morte. Una lotta permanente, fatta di
turbamenti, poesia, elevazioni, cadute,
nella quale ognuno prova a guarire
dalla propria infanzia e a trovare il suo
posto. Compresi i mostri peggiori, gli
uomini più cattivi… Un adulto orribile
è necessariamente stato un bambino
triste!

Stando a quel che lei dice, bene e


male non sono che due facce dello
stesso volto…

M – Il mostro di Düsseldorf, di Fritz


Lang, lo mostra chiaramente: siamo
tutti vittime e carnefici. Il confine è
ben lontano dall’essere impenetrabile.
Siamo tutti affascinati dal male e dalla
follia. Basta guardare Stalin,
Mussolini, Franco, Hitler… Intelligenti
e perversi, hanno saputo toccare le
paure ataviche dell’umanità. Sono
manipolatori dotati del senso della
parola. All’improvviso le masse
tremanti e incerte li hanno seguiti.
Nonostante la loro mostruosità, hanno
un’aura. Una sorta di erotismo, senza
dubbio.

E i popoli non sono, come scriveva


La Boétie, schiavi volontari?
L’autorità non regge senza il consenso
collettivo…

Senza cultura è molto facile cadere


nella trappola! È l’accesso ai libri e al
sapere a essere soppresso per primo
nelle dittature. Ne sono testimoni tutte
quelle ragazze, in ogni parte del
mondo, alle quali si impedisce di
andare a scuola. Agli occhi di questi
stupidi regimi, una donna istruita è
pericolosa. Un popolo che pensa è
pericoloso. Perché vuole elevarsi,
prendere la parola, possibilmente
contestare.

E in una società come la nostra,


dove l’accesso al sapere, non ancora
sistematico e universalmente diffuso,
resta tuttavia generalizzato? La
cultura ci protegge definitivamente
contro la barbarie?
Il potere incanta. La personalità in
piazza dà l’illusione di sapere
esattamente cosa bisogna fare o dire.
Perché la gente pensa che il caso non
esiste. Ritiene le proprie decisioni, e i
propri punti di vista, fondati; e vi si
abbandona fiduciosa. Sfortunatamente
uno scarto immenso si staglia a volte
tra l’azione e il profondo
dell’individuo. Si può fare molto
rumore, fabbricare a tavolino cose che
tornano utili alla propria immagine, e
in privato non corrispondere in nulla a
tutto ciò.

Questo comporta anche che i legami


tra individui siano sottoposti a una
forma di rapporto di dominio…
Ogni relazione umana può implicare
un’idea di potere. Anche l’amore dei
genitori, considerato il più grande, il
più bello, può celare la voglia di
dominare il bambino, di orientarlo in
funzione dei propri codici e principi.
La manipolazione si verifica a ogni
livello: famiglia, giustizia, pratica
religiosa, politica, psicoanalisi…
Ovunque, predatori e predatrici
attendono, cercando la fessura per
insinuarsi. Di frequente, del resto,
occupano posti di responsabilità.
Possiedono un certo grado di
autocoscienza, sanno maneggiare le
parole e sono aureolati del prestigio
dato dalla funzione che ricoprono. Ma,
dentro, sono ancora degli animali.
I danni, provocati da una certa
forma di potere, si vedono
quotidianamente. Esistono famiglie,
paesi interi dove nessuna bocca osa
opporsi all’autorità. Basti pensare a
quelle reti di pedofili in cui erano
implicati tanti personaggi noti!
In alcuni, gli impulsi si intuiscono
rapidamente. In altri, al contrario, ben
protetti dal potere che esercitano, quei
desideri morbosi non si manifestano
così rumorosamente e pertanto sono
molto più complicati da debellare.
Quando utilizzati a scopi deprecabili, il
sapere e il linguaggio possono produrre
una tensione, un vero e proprio
rapporto di asservimento sulle persone
più ignoranti.
La nozione di erotismo è anch’essa
molto pregnante nell’arte. Secondo me,
un’opera riuscita comporta uno
svelamento. Un mondo si apre, e il
mondo, tutto a un tratto, si illumina. E
se l’opera si mostra come il prodotto di
un’intenzione e di una costruzione, non
è manipolazione: è un’altra verità.

In effetti è proprio questo che rende


l’arte tanto magnifica. La creazione è
fondamentalmente legata a una
dimensione di libertà spirituale. L’arte
è qualcosa di sano immerso nella
follia. Credo che tutti i film violenti
nei quali ho recitato, come La passione
di Cristo o Irréversible, mi abbiano
permesso di esplorare questa
aggressività. Già da bambina adoravo i
fumetti brutali; eppure non sono una
persona violenta. Ho solo bisogno di
capire.

Parlando d’altro, qual è la sua


relazione con le donne?

Ho un rapporto completamente
differente con le donne. Sono sempre
stata al centro di un mondo femminile.
Zie, nonne molto forti, una madre
onnipresente… tutto un universo molto
protettivo.
In realtà le donne non mi
spaventano. Al contrario, mi
affascinano. E se alcune mi hanno già
tradita, continuo a provare
compassione nei loro confronti.
E sul piano professionale? Come
guarda alle altre attrici?

Attraverso l’attrice vedo la donna. È


la donna che fa l’attrice, e non
viceversa. Noi attrici, quando recitiamo
più volte lo stesso ruolo, è perché forse
siamo bloccate a un certo punto
dell’esistenza. E poi conosco bene le
difficoltà per imporsi in questo mondo
maschile. È per questo che ho molto
rispetto per le attrici che durano nel
tempo.

E gli attori?

Alcuni di loro danno troppa


importanza al loro ego. O tentano di
fare l’attrice, un po’ come se una parte
della loro mascolinità si cancellasse.
Quando sento questo ego femminile
esprimersi così brutalmente, scorgo
una debolezza che non dovrebbe
mostrarsi. Mi vengono in mente le
parole di Richard Burton: «Un’attrice è
un po’ più di una donna, un attore un
po’ meno di un uomo».
Certo, non tutti gli attori si
assomigliano. Ho vissuto con alcuni
partner momenti di intesa magica sul
set; con Gérard Depardieu, ad esempio,
Morgan Freeman e, più di recente, Gael
García Bernal. Penso anche a Marcello
Mastroianni. Rimpiango di non averlo
mai incontrato. Allo stesso tempo
distante e appassionato, distaccato e
impegnato, incarna senz’altro il più bel
modo di essere attore. Era sicuramente
un uomo pieno di contraddizioni, ma
non si può negare la sua dolcezza né la
sua umanità. Una sorta di bontà
d’animo. E il talento al primo posto.

(Nella mia borsa un libro di


conversazioni tra Alberto Moravia e
Claudia Cardinale. Decido di
regalarglielo.)

Ecco un’opera stupefacente:


Alberto Moravia, intellettuale
riconosciuto, considera la giovane
Claudia Cardinale, appena ventenne,
come un oggetto e rifiuta di parlarle di
cinema. Si prende gioco delle sue
opinioni, dei suoi gusti, e prova
piuttosto a stilare un ritratto clinico
dell’attrice, quasi una carta d’identità.
Scritto all’inizio degli anni Sessanta,
in un’epoca in cui produttori come
Carlo Ponti per Sophia Loren, Franco
Cristaldi per Claudia Cardinale,
esercitavano un’influenza importante,
potevano fare e disfare una carriera a
partire da uno sguardo, un contratto;
ecco, questo scambio, abbastanza
brusco, sembra raccontarci qualcosa
dei rapporti tra uomini e donne di
allora…

All’epoca, i produttori creavano le


attrici. Oggi, lo schema si è rovesciato:
non sono più i produttori né i registi
che fanno l’attrice. Siamo più libere. E
più sole.

Veramente più libere? Il dominio


maschile non è ancora molto presente?
Basta osservare le differenze dei
compensi tra attrici e attori.
L’industria cinematografica e culturale
in generale è in mano agli uomini…

Certo, ma noi godiamo, in parte


grazie proprio a queste donne, di una
libertà molto più ampia. A forza di
scelte artistiche giudiziose, e armate
della volontà di non farsi mettere a
tacere, loro hanno innescato un
movimento cruciale, determinante. Il
tempo ha custodito i loro nomi.

In che modo segue il loro esempio?


È un certo desiderio di libertà che la
lega a queste attrici? Sono dei
modelli?

Monica Vitti, Claudia Cardinale,


Sophia Loren, Anna Magnani, Gina
Lollobrigida… Le ammiro da sempre.
Sono donne senza età, bellezze
tragiche. Giovani ma portatrici di un
dramma, di una tristezza ancestrale. Di
una giovinezza diversa, più leggera e
vistosa, che pure amo, incarnata in
quello stesso periodo da Brigitte
Bardot o Jeanne Moreau in Francia. In
questo mi sento vicina a loro. Non so
se sia ereditario o se è legato all’Italia,
ma sentivo anche i miei vent’anni così,
un’età fresca ma con un peso da
portare.
Come loro hanno deciso il percorso
da seguire, anch’io provo a decidere il
mio. Anche se niente è veramente
calcolato. Mi arrivano i progetti, e
scelgo in base ai desideri del momento.
Quando, ad esempio, ho rifiutato
Trecento per girare L’eletto, non c’era
niente di premeditato. Solo oggi, a
distanza, mi accorgo di questa
alternanza continua tra blockbuster e
film d’autore. Un po’ come un pittore
che davanti alla tela vergine ancora non
sa a cosa somiglierà il suo quadro.
Prova, mette questo o quel colore; ed è
dopo, compiuto il lavoro, che prende
coscienza della coerenza del suo
procedimento.

Queste donne sono, come senz’altro


anche lei, corpi ambigui, corpi-limite,
una sorta di vie di mezzo, mondo
inafferrabile, offerto e rifiutato. Sa
qualificare questa «pesantezza»
evocata?

Non ancora. Credo che siamo tutte e


tutti la coscienza atavica di esseri che
hanno vissuto prima di noi. Siamo il
risultato di storie passate, di percorsi,
di vie tessute di studio e di ricerca, di
dolore e di sacrifici.
Questo vale sia per gli uomini sia
per le donne?

Le donne intrattengono un rapporto


molto più stretto col dolore. Un legame
carnale, fisico, dalle prime
mestruazioni al parto. Portiamo questo
dolore nel profondo della nostra carne.

Noi, noi esseri umani, siamo in


grado per un momento di disfarci di
questa condizione instabile e dolorosa.
Un paesaggio, un volto amato, un
brano musicale, un libro, ci aprono
davanti molteplici vie di superamento.

Sicuramente l’arte possiede virtù


curative. La bellezza, come già
dicevano i Greci, eleva. Quando guardo
una statua, una foto, un film, quando
sono di fronte alla bellezza, mi
commuovo, mi sento meglio. Del resto,
non riconoscere il Bello è ammettere
che qualcosa in noi non funziona. Le
persone che ignorano o, peggio ancora,
che vogliono distruggere la bellezza
dovrebbero cercare cosa non va in loro.
Voltaire diceva: «La vita senza
bellezza non è nulla».

Sembra essere una spettatrice


capace di stupirsi. Ma lei è anche
un’artista. Partendo da questo
presupposto, in che modo giudica il suo
lavoro?
Col tempo, lo sguardo si evolve.
All’inizio, più giovane e più narcisista,
ero molto attenta alle critiche, sensibile
al minimo commento espresso sul mio
conto. Con l’esperienza, gli errori, i
fallimenti, però, il mio occhio si è
affinato. Ho imparato meglio la
distanza, il distacco.
Coincidenza

Lei è qui.
Difficile a credersi, il progetto
sembra interessarla, ignoro perché,
anche a lei la ragione sfugge ancora.
Le spiegazioni verranno forse dopo, nel
corso degli incontri, del dialogo che
desidero intrecciare con lei; ho
cominciato oggi tra il serio e il
confidenziale, perenne via di mezzo,
morsi d’ombra e sapore di luce
(reminiscenza di quell’apparizione –
vampiresca – nel Dracula di Coppola)
di uno stesso corpo, di una stessa voce,
che lascia agli occhi e alla bocca la
voglia di scavare, rintracciare,
dolcemente, senza forzare, tutti quei
bagliori, questa ambivalenza, questa
complessità, che ha come uniche armi
la sua visione e i suoi errori: conscia
delle differenze ma tendente alla
condivisione.

Le sue parole, i miei silenzi: già una


condivisione, già un movimento.
Questa donna celebre e sconosciuta
che si scopre solo a metà, che non
voglio costringere, la parola si schiude
sempre, secondo me, davanti a un
orecchio vago, disinteressato, e
tuttavia capace di lasciarla accadere,
senza interferire, senza cercare di
schiacciare la voce udita sui propri
modelli, sulle proprie cadenze – il
ritmo nuovo può di certo sorprendere,
destabilizzare, persino sabotare fino
alla più intima convinzione.

Corpo e voce attenti, il viaggio ha


inizio. Un giorno di rotture e riprese,
accordi e dissonanze, dove i ruoli
(intervistatore-intervistato) e i codici
(domande/risposte) si plasmano,
rinviano l’uno all’altro, si calpestano,
qui, in questo spazio che si apre,
balbettante e ancora fragile. Allora,
quand’anche le frontiere sembrassero
inflessibili e la coincidenza poco
probabile: credere.
Secondo incontro

«La differenza è sempre


malaccetta»
GUILLAUME SBALCHIERO : Che ne
pensa del libro delle conversazioni tra
Alberto Moravia e Claudia Cardinale?

MONICA BELLUCCI: Oggi non


sarebbe più possibile parlare in questo
modo a una donna! Alberto Moravia
concede a Claudia Cardinale, come
unica attività intellettuale, il sogno. Ma
anche i cani sognano! Penso che di
fronte a quella giovane attrice,
l’intellettuale rinomato che era
Moravia si trova privo di risorse.
Claudia Cardinale del resto lo dice,
durante l’intervista la macchina da
scrivere continuava a cadergli, segno di
un evidente disagio. Disagio reciproco,
sicuramente. Lui, con la sua
intelligenza e la sua cultura, instaura
una distanza aggressiva; lei, senza far
niente, con la sua semplice presenza e
la sua bellezza, lo destabilizza. Una
configurazione classica. Molti uomini
colti cercano di mettere a disagio le
belle donne usando il loro sapere, come
se una bella donna non potesse essere
intelligente! Senz’altro la bellezza non
ha bisogno di essere provata. E genera,
come la diversità, moti anomali.
Si è mai trovata in una situazione
del genere? La sua notorietà è causa di
malintesi, a volte?

Le reazioni delle persone dipendono


dal momento e dal luogo. Ricordo ad
esempio un gruppo di turisti italiani
all’aeroporto di Rio. Ero con le mie
due figlie e l’hostess del gate ci ha
fatto passare avanti. Subito, il gruppo
di turisti si è messo a gridare: «La fa
passare perché è un’attrice?». Io non
mi sono nemmeno voltata. Loro hanno
continuato a urlare, insultandomi. A un
certo momento gli ho detto: «Insultate
così vostra moglie o vostra madre?».
Partendo, ho guardato le mie figlie e
ho detto loro: «Avete visto, generiamo
amore e odio». Insomma, anche se i
comportamenti variano da un estremo
all’altro, la matrice resta identica.
Bisogna conviverci. Sennò è la morte!

Amata o invidiata, odiata o


adorata: la celebrità è una superficie
sulla quale alcune persone proiettano
le loro attese, i loro fantasmi, i loro
squilibri anche. Questo movimento di
proiezione/identificazione, ben messo
in luce da Edgar Morin, deve essere
penoso da affrontare, in certi
momenti…

Relativizzare è la parola chiave.


Non darsi mai troppa importanza, e
dirsi che tutti quei comportamenti
estremi, l’eccesso di cattiveria come
l’eccesso di affetto, non devono essere
presi troppo sul personale. Un po’
come Malèna, che interpreto nel film
di Giuseppe Tornatore. Questa
siciliana, durante la Seconda guerra
mondiale, proprio perché diversa,
suscitava l’odio delle donne e il
desiderio degli uomini. Alla fine,
vecchia, costretta a prostituirsi, si fa
accettare dagli altri compaesani. La sua
bellezza è svanita, non è più additata.
Tutte le belle donne attraversano
questa prova. La diversità, che sia
bellezza o tutt’altro, è sempre
malaccetta.

Queste tensioni possono anche


scoppiare nella sfera intima. Il suo
status sociale ha avuto ripercussioni
negative nel suo ambiente privato?

Da un lato, sono circondata da una


famiglia molto presente, e da amici,
alcuni dei quali frequento fin dai tempi
della scuola. Mi conoscono, e dunque
non mi percepiscono come una diva,
ma semplicemente come una persona.
Dall’altro, senza che io sia riuscita
immediatamente a smascherarle, delle
persone care mi hanno già tradito.
Tuttavia non saprei dire se questo abbia
a che fare solo con la mia persona, o
con il mio successo…
Malgrado la delusione, queste
esperienze dolorose mi hanno
insegnato molto.
Eppure, tra il coltello di un amico e
l’insulto di uno sconosciuto, l’impatto
non è lo stesso. Perdonare un amico è
senz’altro molto più difficile…

Nessuno può scagliare la prima


pietra! Tutti, a cominciare da me,
commettono errori. A causa della
nostra enorme debolezza possiamo
ferire i nostri cari…
La generosità esige forza. Eppure,
per quanto ambiguo e paradossale sia,
tradire non impedisce di amare. Basti
pensare a Giuda: amava profondamente
Gesù! L’essenziale è imparare a
perdonare.

*
Il perdono è una teoria magnifica,
ma una realtà difficilmente praticabile.
Si può davvero imparare? È un valore
che insegna alle sue due figlie?

Provo a seguire una linea di


reciproco rispetto. Sono cresciuta con
una madre che esercitava un ruolo
autoritario, e conosco il mio carattere
ribelle! Così, cerco di non riprodurre lo
stesso schema con le mie figlie.
Discutiamo di tutto. Alla pari. Facendo
attenzione a non trascendere con le
parole o i gesti. Perché parlare male,
instaurare un rapporto di forza con i
propri figli, finisce spesso per fornirgli
la scusa per essere, a loro volta,
violenti… In questo caso, le mie figlie
sono ancora bambine… Ma, quando
saranno adolescenti, le cose potrebbero
cambiare completamente. Lo so per
certo: verso i dodici o tredici anni, ero
IN -GE -STI-BI-LE !

Era un’adolescente in crisi contro


l’autorità? Che cosa cercava?

A quell’età ho cominciato a vedere i


miei genitori come individui. Questo
ha creato una distanza, benché l’amore
fosse ancora presente. Ma l’autorità
non aveva alcuna presa su di me… Da
quel momento, ho cercato
l’indipendenza. A diciassette anni
andavo a scuola e lavoravo. Facevo
delle piccole sfilate. Ero come
proiettata nella vita adulta. Qualche
tempo dopo la maturità, sono arrivata a
Milano grazie a un’amica, e ho potuto
cominciare una carriera professionale
come modella. Due minuti dopo, ero
alle Hawaii, Miami… Un cambiamento
totale. A vent’anni possedevo già un
appartamento a New York. Vivevo
come una donna adulta. Ma tutta quella
libertà economica, quei viaggi, le
tentazioni, i parassiti anche, possono
inebriare, e far perdere la ragione. Ho
visto molte modelle superate da una
realtà che non erano ancora pronte a
ricevere.

Pur non conoscendo bene


l’ambiente della moda, immagino in
effetti che sia molto complicato
resistere alle tentazioni. Ma perché
queste modelle crollano? Gli
chiediamo troppo? Eccessivo rigore?
Come si è sviluppato questo universo
dai suoi esordi?

Oggi penso che il concetto di «star»


sia scomparso nel mondo della moda.
Ormai sono le attrici, gli attori, gli
sportivi che fanno le campagne
pubblicitarie. Mentre, negli anni
Novanta, quando ho cominciato, erano
le modelle che rappresentavano la
bellezza e avevano il potere. Un potere,
certo, temporaneo…
Poi bisogna avere la capacità di
reinventarsi. Riadattarsi, dopo aver già
conquistato le luci della ribalta, può
essere complicato.
Complicato nel senso di una
dipendenza dall’esposizione
mediatica? Di una realtà meno
appassionante, più noiosa, alla quale
bisogna di nuovo far fronte? Le
reazioni alla visibilità e al successo
variano probabilmente a seconda della
professione e della sensibilità di
ciascuno. Non tutti sono capaci di
sostenere le luci dei riflettori, e
senz’altro non tutti le desiderano…

Svolgo un mestiere dipendente dalla


visibilità. Sono quasi sinonimi! Se un
medico o un avvocato può riuscire
molto bene senza essere conosciuto,
per gli attori è un’altra cosa… Questo
successo, che attira i riflettori su di sé,
non è privo di rischi. La luce in cui
brilliamo non dura e deforma la realtà.
Quando devo farlo, mi ci immergo, per
un tappeto rosso, una promozione,
un’intervista… Ma la verità è
nell’ombra. In essa mi rigenero, vicina
alle mie bambine, ai miei amici, alla
mia famiglia… Allo stesso modo, non
capisco un artista che sostiene di amare
il suo pubblico o che dice di fare tutto
per lui: è un’affermazione che
nasconde il bisogno di rassicurarsi. Il
pubblico che ci segue è un’entità
relativa.

Eco inquietante: la sua definizione


di pubblico si avvicina a quella
formulata da Chaplin in Luci della
ribalta, che lo associa – cito a memoria
– a una «massa volubile». Benché lei
non sia disillusa come il personaggio
di Chaplin, sembra condividere l’idea
che l’universo dello spettacolo
costituisca un mezzo privilegiato per
osservare il mondo…

E in primo luogo il mio è un


mestiere completamente terapeutico.
Ogni storia, ogni ruolo, offre una
possibilità di conoscersi meglio.
Attraverso di essi si rivelano parti di
noi. Sono delle autentiche esperienze
personali, strettamente legate
all’esistenza. Quando le proposte si
ripetono, bisogna cominciare a
interrogarsi: che cosa ne è della mia
vita? E soprattutto, qual è la domanda
che eludo, imprigionandomi sempre
negli stessi schemi? Questo è un
ragionamento che vale per l’arte in
generale. La scrittura, la pittura, la
musica… C’è una forma di verità che
non trovo in altre professioni. Una
libertà legata all’infanzia,
un’innocenza se vogliamo. A volte è
spezzata, uccisa dalla finalità pratica. Il
prodotto diventa così stereotipato,
lontano dallo stato originario,
selvaggio…

Non ha mai partecipato a progetti


soffocati da questa «finalità pratica»?

Una volta non volevo fare un film.


Ho ceduto, e alla fine nel giro di un
mese ho accettato. Non avrei mai
dovuto! Anche questo mi ha
confermato l’importanza
dell’intuizione. Sempre avere fiducia
in se stessi! E malgrado i possibili
errori. Mi sono a volte ritrovata di
fronte a persone che mi ispiravano un
misto di attrazione e repulsione. La
storia avrebbe potuto fermarsi lì, ma il
mio istinto mi suggeriva di continuare:
l’ho seguito e ho imparato molte cose.

Credere in se stessi impedisce di


credere ad altro? Lei crede in Dio?
Che posto ha la religione nella sua
vita?
Sono il duplice prodotto di un padre
ateo, che non credeva in niente, e di
una madre cattolica, che pensa che
l’indisciplina delle mie figlie derivi dal
fatto che non sono battezzate. È
buffo…
A casa, non voglio mai costringere
le mie figlie. Parliamo delle grandi
figure religiose, Gesù, Maometto o
Buddha, dei testi fondatori, ma più
nella prospettiva di una ricerca, di una
filosofia.
Sono ermeticamente chiusa ai
discorsi dogmatici, da molto tempo.
Senz’altro dalla mia adolescenza,
quando in quell’Italia pia, in mezzo a
ragazze con i calzini bianchi e dalle
buone maniere, mi facevo notare
fumando e per i miei atteggiamenti
ribelli. Ricordo anche certe discussioni,
al liceo, con una persona molto
credente. Contestavo l’esistenza di Dio,
quell’Essere apparentemente supremo
e onnipotente, ma che rifiuta di salvare
la pecora innocente dalle fauci del
lupo.

Dio mi sembra essere una risposta


complessa quanto gli interrogativi che
suscita. Il suo punto di vista si è
evoluto su questi temi?

Certi incontri cruciali, letture, film,


dialoghi, viaggi interiori, anche –
penso a un rito sciamanico molto
intenso e molto doloroso – sono tutte
esperienze che hanno nutrito i miei
dubbi e arricchito la mia ricerca
spirituale. Alcune porte si sono aperte
in questo modo. Ho percepito le
energie superiori e interiori. Senza
sapere se avessi fede, ho sentito di
assomigliare a Maria Maddalena, che
interpreto nella Passione di Cristo di
Mel Gibson. Lei non sa niente e
all’improvviso si trova di fronte a
qualcosa che la supera. Ho intravisto
qualcos’altro, ma sono incapace di
dargli un nome. È una sensazione che
mi ha liberata!

Quella stessa Maria Maddalena


interpretata da Claudia Cardinale nel
Gesù di Nazareth di Zeffirelli… Lei
parla di liberazione come se si sentisse
vincolata, dipendente da una
condizione di insoddisfazione. Prima di
queste esperienze determinanti, si
sentiva in disarmonia con la vita che
conduceva?

Più smarrita, sicuramente… e


angosciata. A un certo punto ho sentito
l’insufficienza della sola materialità.
La carriera, il denaro, la realizzazione:
non trovavo pace! Nessun successo mi
rasserenava. Il contatto col potere mi
lasciava di marmo. Tutt’a un tratto ho
cercato altro. Ma ciò non è legato a una
qualche forma di redenzione! Fin da
giovanissima, avevo tutto a
disposizione e una libertà assoluta. E
tuttavia non ho mai abusato di me
stessa.
Le mie figlie sono state sicuramente
un punto di passaggio. La maternità è
stato il primo momento in cui ho detto:
«Basta, fermo tutto!». In più, ero in una
fase convulsa della mia carriera. Avevo
appena inanellato Asterix, Malèna,
Irréversible, Matrix… Vivevo al ritmo
delle riprese, delle interviste e dei red
carpet. Avevo bisogno di respirare. La
maternità mi ha, in un certo modo,
ricondotta alla mia animalità
ancestrale, e da lì mi ha guidata verso
una dimensione più profonda.
Momento di unione tra carne e spirito.
E ho acquisito più distanza e serenità
rispetto al mio lavoro.

Questa evoluzione l’ha portata a


considerare altre direzioni
professionali?

Il mio mestiere non ha niente di


passivo. Ancora oggi, penso di aver
bisogno di evolvermi come attrice.
D’altra parte, e nonostante alcune
attrici lo facciano con talento, passare
alla regia non mi tenta. Ma mi
piacerebbe collaborare alla scrittura di
un personaggio, aggiungere elementi,
aiutare a imbastirlo… E la fatica, gli
ostacoli e le ferite non hanno spento
questa voglia. Ringrazio anche le
cadute. Mi sono lanciata a capofitto
nell’esistenza, e a volte ho incontrato
muri formidabili. L’essenziale è
riuscire a riconciliarsi con le proprie
ferite… E poi, tutte le donne
conducono una vita violenta, in qualche
modo.

Anche gli uomini, no?

Non sono in pace con il sesso


maschile. Chissà, forse cambierà. Mi
piacerebbe guardare gli uomini sotto
un’altra luce, con meno pregiudizi.
Essere meno sulla difensiva.

Perché associare gli uomini a una


minaccia? È stata maltrattata da
alcuni di loro?

Non è una cosa fisica. Non ho mai,


fortunatamente, subito aggressioni
fisiche da parte di un uomo. Non ho
mai conosciuto l’orrore dello stupro
come in Irréversible. Ma da molto
tempo provo sfiducia. Tuttavia, la
prima scena violenta nella quale mi
sono cimentata, piccola, era quella di
una donna che picchiava suo figlio…
In definitiva, se a volte ho
conosciuto la violenza maschile, era
una violenza sorda, mascherata. E
penso che, solo raramente, mi sono
sentita protetta dagli uomini. Mi
sentivo più sicura a difendermi da sola.

Non ha relazioni rassicuranti con


gli uomini?

Ho qualche amico, alcuni molto


vicini e molto presenti, ma le mie
amicizie con gli uomini non sempre
sono durate. C’è spesso dell’ambiguità
e un momento in cui si pone la
questione del desiderio. Una volta
espressa questa voglia, e poco importa
l’esito, il legame si trasforma
definitivamente.

Il confine tra amicizia e amore resta


molto sottile. A volte, e non parlo solo
di desiderio fisico, perché questo può
spesso essere dominato, il sentimento
supera, invade, e rimette tutto in
discussione. Ciò può portare a
catastrofi, o a storie magnifiche. In
ogni caso, questa situazione di
desiderio, non è mai, forse, l’unico
fine.
Ah, ecco! Non ho mai conosciuto
uomini così evoluti. Ma invecchio…

Crede che con l’età sarà meno


desiderata?

Non so… Ci sono sempre eccellenti


gerontofili!

Non pensa che parte del problema


stia in lei? Se provasse a ristabilire un
legame più sano con gli uomini?

Sto cercando di aprirmi sempre di


più. E, cosa sorprendente, gli uomini
diventano più dolci! Come se svelare la
mia vulnerabilità sventasse gli attacchi.
Prima mi proteggevo di più,
controllavo di più, tenevo le distanze.
Senza veramente volerlo. Ero
senz’altro spaventata, e questo creava
freddezza. A dire il vero penso a una
liberazione al contrario. Attraverso il
mio corpo, la bellezza, la violenza
anche, ho inconsciamente sfruttato la
femminilità per esprimere agli uomini
la mia libertà. Svelarsi e proteggersi al
tempo stesso… chi lo sa, forse una
lotta freudiana contro il padre?

È questo che rende inseparabile la


donna dall’attrice?

L’una alimenta l’altra. Il confine


non si distingue più. A volte fino alla
perdizione totale. A questo proposito, il
caso di Romy Schneider è eclatante. Ho
una registrazione di La chanson
d’Hélène che lei interpreta nell’Amante
di Claude Sautet, con Michel Piccoli.
La sua voce è sconvolgente! L’arte e la
vita si mescolano, dialogano, si
compenetrano. Tutto ciò ha a che fare
con l’animalità, con
l’incommensurabile, col divino!

Come se il sublime fosse radicato


nel torbido, nel tenebroso… Ha mai
avuto l’impressione di sprofondare
senza poterlo evitare?

In certi momenti. Tuttavia, le


nevrosi corrispondono anche a una
forma di ricerca. Tento di
comprendere, di nutrirmene. Mi ci
immergo, ma desidero uscirne. Anche
se non è sempre così facile! E, in
fondo, esiste una persona immune da
tutto questo?

Certi decidono di evitarle, di


negarle…

È vero, ci sono anche gli asceti che


bevono solo acqua e si sottraggono ai
piaceri della carne.

Una vita del genere l’ha mai


attratta?
Una vita da suora? Si può vivere
come una religiosa senza portare il
velo. Ho avuto dei periodi di ritiro… In
qualche modo, i figli, la maternità,
tutta questa devozione, possono
procurare per un breve momento una
sensazione simile.
Lontano

Rivedere L’amante, ascoltare la


Chanson d’Hélène, le sue parole:

Stasera siamo a settembre


Ho chiuso la mia camera da letto
Il sole non entrerà più
Tu non mi ami più
Un uccello passa come una dedica
Lassù nel cielo

[…]

Prima nella nostra casa


Amavo come vivevamo
Come in un disegno di bambini
Tu non mi ami più
Guardo la sera calare sugli specchi
Questa è la vita…

E la voce di Romy Schneider, quel


respiro tremulo, un flebile lamento, la
rottura imminente, un angolo di
infanzia.
Ancora, ancora parole, presto,
pagine che dicono, frasi che
prolungano, tornare ai libri, un verso,
una prosa, bisogno di nutrirsi, ancora,
Baudelaire, evidentemente. Il pittore
della vita moderna, quella lucidità: «Il
bambino vede tutto in forma di novità:
è sempre ebbro», oppure: «Il genio non
è che l’infanzia ritrovata
volontariamente»; e, ancora, Christian
Bobin, La femme à venir, quella
folgorazione: «A diciassette anni, si
vede chiaro. Si vede ciò che è giusto e
ciò che non lo è. Si indovina che il
cuore di un adulto è un miscuglio di
tutto. Si vede che il cuore di un adulto
è uno straccio, un po’ come quelli che i
pittori usano per asciugare i pennelli.
Si vede la vita mancata, ci si promette
tutto il contrario. Si provano collere
pure, senza risentimento, e gioie tutte
nuove, instancabili. Ma non si può
vedere tutto».

Immagini, manciate di aneddoti,


mai sconfinamenti: Monica si svela,
non si disperde, l’intimità è sfiorata,
una sana distanza la preserva, non
voglio immischiarmi, ricevo il suo
sguardo, le sue parole, e questo
ricordo, scolpito, decisivo: lei, sola,
piccola, in un hotel, di fronte alle botte
inflitte da una madre a un bambino.
Nessun padre, nessun uomo.
Violenza.
Una violenza prima effettiva,
incarnata, immediata, dominio di un
corpo sull’altro, potenza e debolezza,
la madre figura di calore, di conforto,
qui furiosamente rovesciata; e un’altra
violenza, simbolica, indiretta,
mascherata, quel silenzio del padre, la
sua assenza.
E lei…

Notte tremante, poca luce,


nient’altro che uno schermo e delle
domande, le dita ancora esitanti:
tacere forse, non dilungarsi, non
scavare, lasciar andare quel ricordo
evocato, distogliersene per non
corromperlo, per non investirlo con
uno sguardo fatalmente personale,
risolutamente estraneo, tanto non mi
appartiene nulla qui, ogni cosa mi è
sconosciuta; e, tuttavia, per non so
quale rete di corrispondenze
(probabile miscela di esperienze intime
e di storie raccontate – tra cui Malèna,
rivisto recentemente), tutto ciò mi
parla da vicino, vicino agli occhi, e mi
invita, senza che Monica me lo
domandi, a interrogarmi su quei corpi
brutalizzati, straziati, ovunque, in ogni
momento («C’è sempre, da qualche
parte, un corpo ucciso» dice Philippe
Jaccottet nel suo Cahier de verdure), io
che invece sono al riparo, immune,
eppure sensibile da sempre
all’umiliazione, questa caratteristica
della specie, questa tendenza malata di
alcuni a voler brillare a scapito di
altri, a metterli in ginocchio per
sentirsi più grandi e dimenticare così
la propria mediocrità. Un rapporto
sporco, malsano, che s’infiltra e
corrompe le famiglie, le amicizie e,
certamente, i luoghi di lavoro, le
imprese, quel mondo verticale dove il
più minuscolo dei padroni, il più
piccolo salariato con un minimo di
potere tra le mani – per quanto
scivolose e di sinistra siano – può
alzare il tono e umiliare i suoi
«inferiori» (non parliamo infatti di
«superiori»?), la posizione che
legittima l’affronto, che giustifica ogni
sorta di attentato all’integrità – fisica,
mentale – di un individuo, proprio
come quella scena che Monica mi
racconta, e che sembra parlarmi di
certe sue preoccupazioni, a cominciare
dall’infanzia (impotenza e desiderio), e
anche dal suo rapporto con gli uomini,
questa mancanza originaria di
presenza maschile alla quale lei ha
reagito, forse, con una femminilità
debordante, a volte perfino aggressiva
– simile a un oggetto di contemplazione
che scoraggi ogni possibilità di
appropriarsene –, creando, da allora,
una distanza con tutto ciò che la
circonda.
Terzo incontro

Morti e resurrezioni
GUILLAUME SBALCHIERO : Molti
artisti di ogni genere non esitano a
prestare il loro nome e la loro
immagine a sostegno di una causa,
mischiandosi a volte anche con la
politica, come Bono, George Clooney o
Bruce Springsteen. Pensa che sia un
dovere degli artisti? È stata spesso
sollecitata a prendere posizione? È
attiva in qualche associazione? Come
concepisce l’idea dell’impegno?
MONICA BELLUCCI: Nel 2010,
incinta della mia seconda figlia, sono
stata invitata a realizzare un libro
fotografico. È un bell’oggetto, e i
ricavi delle vendite, anche se non
conosco le cifre esatte, sono stati
devoluti a due associazioni: una,
l’A .G .O .P., aiuta i bambini malati di
cancro, l’altra Paroles de femmes, lotta
contro le ingiustizie e le
discriminazioni di genere. Ma non mi
piace molto esporre le mie posizioni,
c’è un rischio di strumentalizzazione.
Rifiuto categoricamente di cadere nel
gioco politico, perché è molto difficile
avvicinarsi a questa sfera senza
diventare partigiani. Non ho alcuna
voglia di entrare in quell’ambiente, mi
sentirei soffocare.
Quindi a volte accetto volentieri di
«usare» la mia celebrità per attirare
l’occhio dei media e dell’opinione
pubblica su questioni umanitarie.
Queste associazioni non hanno sempre
accesso ai media, mentre per me è più
semplice… Ne ho discusso con una
rappresentante dell’Unicef. Mi aveva
confidato che senza l’aiuto di
personaggi famosi, i loro risultati
sarebbero stati ben più modesti.
È un peccato, ma purtroppo è la
realtà: i famosi trascinano. Ma non mi
faccio illusioni: penso di avere un
impatto minimo. Non credo di
cambiare il mondo. Provo soltanto, nel
mio piccolo, a dare una mano.
Impegnarsi in nome dei valori senza
esserne lo strumento.
Come si è forgiata la sua coscienza
civile?

A volte mi sono trovata imbarcata


in progetti un po’ controvoglia. Credo
anche di aver vissuto qualche
esperienza che ha formato il mio
sguardo sulla malattia e
sull’ingiustizia. Penso in particolare
agli adolescenti malati di cancro che ho
conosciuto in ospedale. Lì, in piena
crisi ormonale, in piena crescita,
dovevano subire trattamenti di una
violenza estrema. Non so come i
medici riuscissero ad assistere a quella
disperazione, a quei corpi sofferenti. Io
non ho quella forza, anche se con l’età
mi sento più in grado di affrontare quel
genere di situazioni.
Questo coincide con un
rafforzamento del carattere?

Soffro di un sentimentalismo
eccessivo. Perdono molto. Troppo…
Alcune persone ne hanno approfittato.
Adesso provo a essere sentimentale
senza cadere nella trappola del
sentimentalismo.

Conosce le ragioni di questo


comportamento?

Esistono molte spiegazioni


possibili: l’educazione, il mio bagaglio
giudaico-cristiano e quel famoso senso
di colpa… Ma anche la voglia di non
ferire, di non offendere…
Un’insicurezza, una mancanza di
fiducia in se stessi… è un insieme di
cose. E in questo momento, a causa di
tutto ciò, devo fare pulizia di una
montagna di problemi a lungo negati.
Un vero e proprio percorso, doloroso e
appassionante. Riscopro la vista, in
qualche modo.
Tutto questo mi fa pensare a una
frase buddhista che amo molto, che
parla della differenza tra innocenza e
ignoranza: «Si chiama ignorante colui
che vede la bellezza dell’altro, ma che
non vede il resto. Si chiama innocente
colui che vede il resto, ma che continua
a vedere la bellezza».
Questo lavoro su se stessa che
impatto ha avuto sulla sua
professione?

Esiste a tratti una strana


connessione, inspiegabile, tra gli stati
d’animo e i progetti professionali, una
sorta d’impressione che i progetti che
arrivano siano direttamente o
inversamente legati al sentire del
momento.

È un’evoluzione progressiva o un
mutamento improvviso?

Per me, una serie di morti e


resurrezioni… L’adolescenza,
innanzitutto, che sconvolge il quadro
prestabilito, che è ribellione contro
l’autorità. Malgrado l’amore che
nutrono per noi, penso che i genitori
esercitino anche un controllo, e che
verso i tredici o quattrodici anni
occorra disfarsene, ricercare
l’indipendenza. Più tardi, tra i trenta e i
quarantacinque anni, un altro processo
si mette in moto. Periodo di
costruzione, sia sul piano professionale
sia familiare. Infine, verso i
quarantacinque anni, quando la
maschera della bellezza giovanile
svanisce, quando questo demone che ci
è stato donato dalla natura non ci
protegge più, il sé profondo, vero,
emerge. Il ricorso alla fisicità diventa
impossibile. Bisogna confrontarsi, una
volta per tutte, con il tempo e con la
morte.
È una questione di scelta, insomma.
È il momento in cui si comincia a
pensare alla chirurgia estetica per
sfuggire alle leggi
dell’invecchiamento. Oppure in cui si
ha il coraggio di sabotare gli schemi
rassicuranti. Tentare di conservare la
curiosità dell’adolescenza su un viso
adulto. Per niente facile…

Contratto faustiano, tentativo di


invertire il corso del tempo… Ha paura
del futuro?

A parte una banale questione di


ordine pratico, veramente no. Ho visto
troppe persone, attorno a me, morire
per non aver saputo reagire. Da poco è
morto un amico, una persona
splendida, ma incapace di reggere
all’invasione degli altri. La sua
scomparsa mi ha provocato una
tempesta di emozioni, e sono certa che
sarebbe ancora vivo se avesse
resistito… Per questo guido il mio
percorso, agisco come sento, subisco
meno. Sempre gentile, sorridente, ma
più ferma. Meno vuota, allo stesso
tempo…

Meno «vuota»?

Senza la fede, senza l’appiglio di


una religione o di una visione
filosofica, l’esistenza può sembrare
vuota. Le cose materiali hanno valore
solo a condizione di essere il frutto di
sforzi personali. Abitare in un castello,
guidare macchine da corsa, guadagnare
grosse somme di denaro, non porta la
felicità in sé, al contrario può essere
una soddisfazione quando è il risultato
di un lavoro appassionante. Non è
dunque legato alla quantità ma alla
qualità. L’ho saputo molto presto, ma
ci ho messo del tempo a capirlo
veramente.
Da giovane avevo molto a
disposizione. Eppure sentivo un vuoto
pesante. Un’insoddisfazione
inquietante. Sono i figli, penso, questo
amore così potente e avvolgente, che
mi hanno permesso di percepirlo a
fondo. Grazie a loro, ho acquisito una
coscienza nuova di me stessa e del
mondo.

Ma, a preoccuparsi troppo


dell’aspetto spirituale, non si corre il
rischio di dimenticare, ovvero di
distruggere la propria quotidianità?

Evito questo pericolo perché


conduco una vita solidamente ancorata
alla realtà. Il mio equilibrio sta lì, tra
banalità pragmatica e sfere più
immateriali. Proprio come quando
giravo Per sesso o per amore? di
Bertrand Blier, o Un été brûlant di
Philippe Garrel; in entrambi i casi,
allattavo durante le riprese.
*

È difficile tenere il ritmo di questa


marcia funambolica nel materialismo
dell’industria culturale?

È uno dei problemi più grandi di


questo ambiente. Anche se si tratta di
un business, la creazione ha
innanzitutto il dovere di sollevarci
sopra i piccoli problemi materiali di
tutti i giorni, e anche se rispetto il
denaro, perché senza non c’è
indipendenza, penso di non aver mai
rincorso il cachet. Rispondo
semplicemente a dei desideri, ma il
successo e il denaro a volte fanno
esplodere le nevrosi. Basta pensare a
Basquiat: morto d’overdose all’apice
della carriera! Anonimo,
probabilmente sarebbe ancora vivo.
Stare sotto i riflettori obbliga a
responsabilizzarsi. Del resto comincio
a credere che la fama sia ingannevole.
Ci dice: «Prendimi, e vediamo cosa sei
capace di fare!».
È colpa sua se la gente riversa sulle
celebrità frustrazioni e fantasmi. Un
giorno esaltano le dive alle stelle, e il
giorno dopo non esitano a trascinarle
nel fango. In entrambi i casi, è tutto
falso!
Una persona famosa non è né
superiore né inferiore a chiunque altro.
È solo un essere umano che, a causa
della visibilità, della luce dei riflettori,
può risaltare con più rumore e scalpore
di chiunque altro. Molti casi celebri ce
lo dimostrano: Marlon Brando,
Marilyn Monroe, Jim Morrison,
Nicolas De Staël… carriere incredibili,
talenti clamorosi, ma, anche, una vita
privata complicata, nera.
Evidentemente, l’una è in rapporto
all’altra. Separare la biografia
dall’opera mi sembra insensato. Per
guardare in faccia all’artista, per
comprendere la sua creazione, bisogna
esplorare la sua dimensione intima.

Soltanto, per quanto tormentata sia


la vita dietro le quinte, è la Storia che
fissa l’opera; e durare, combattere il
destino, sublimare il biologico,
comporta dei sacrifici.

Ma a quale prezzo! Fosse stata una


contadina, Camille Claudel non
avrebbe evitato il dolore
dell’internamento? Romy non avrebbe
trovato la pace, fuori dal set
cinematografico? Il successo non è
sempre un dono. Anche le stelle
chiedono un riscatto. E queste due
donne, come altre, l’hanno pagato con
la vita.

Relativizzare, come sembra fare lei,


non deve comunque sminuire il piacere
di un bell’articolo, di una recensione
elogiativa, e di ogni altra forma di
riconoscimento.

Ovvio, l’ego è lusingato e le lodi


rassicurano. Ma il pericolo è crederci!
Perché, al minimo colpo di vento, al
più piccolo errore, la caduta può essere
vertiginosa. Per evitarlo bisogna
ricordarsi sempre che le persone
giudicano un’immagine, e non
l’individuo reale.

Internet, radio, televisione, stampa


specializzata: gli sguardi sono troppo
numerosi, le voci troppo eterogenee…
anche volendo, non potrebbe avere il
controllo assoluto sulla maniera in cui
è percepita.

Sono una donna di spettacolo.


All’improvviso, grazie a una
femminilità naturale e a un po’
d’artificio, posso creare un sogno.
Senza niente di eccezionale. E non ho
alcun problema con questo aspetto del
lavoro. Perché amo il sogno creato dal
mondo dell’immagine e sono la prima
a fermarmi davanti a una foto che mi
colpisce e mi entusiasma.
Quando lavoravo come modella,
Odile Sarron, che per quarant’anni è
stata una figura emblematica del
mondo della moda, avendo scoperto
tutte le più grandi modelle, mi disse:
«Quando ti mettono in copertina, sei
una delle rare brune che vende quanto
una bionda». Eppure, ancora oggi, non
ho alcun potere decisionale su una
copertina. E parlo ai giornalisti
unicamente nell’ambito della
promozione di un film.

Che dire invece dei progetti


collaterali? Le campagne pubblicitarie
non sono parte della costruzione di
un’immagine pubblica?

La pubblicità ha a che fare


soprattutto con il piacere e con
l’interesse per un certo sguardo
creativo. Ho accettato, ad esempio, di
collaborare con firme come
Dolce&Gabbana, Dior, Cartier, perché
amo la loro visione rispettosa della
donna, quel modo di comunicare che
può essere bella in qualunque momento
della sua vita.

Questo riflette una evoluzione dello


sguardo dell’industria culturale sulle
donne? C’è una differenza tra l’Europa
e gli Stati Uniti? Ha mai pensato di
vivere lì?

Durante la promozione di Spectre,


molti giornalisti mi hanno rivolto
domande su questi temi. Non ho molta
voglia di entrare nel dibattito. Conosco
il sistema europeo, e vedo attrici come
Charlotte Rampling, Catherine
Deneuve, Judi Dench, Isabelle Huppert,
Helen Mirren, che continuano a
condurre carriere formidabili. Al
contrario non posso giudicare il
funzionamento del sistema americano.
Le attrici americane hanno più titoli di
me per parlarne. All’industria
cinematografica americana mi sono
avvicinata con esperienze interessanti
come Matrix, L’ultima alba, Lei mi
odia, I fratelli Grimm, ma in quanto
europea. Non ho mai vissuto a
Hollywood. E resto profondamente
attaccata alla mia identità europea. Non
avrei sopportato che le mie figlie
parlassero inglese senza padroneggiare
il francese e l’italiano. Viaggio molto,
e ovunque nel mondo resto italiana.
Con tutto il bagaglio di questa
appartenenza.
Quale bagaglio?

La bellezza dell’Italia e le sue


contraddizioni: la pasta, il cinema, il
maschilismo, la donna sottomessa, il
concetto padre/padrone, la sensualità e
il peccato… E poi, come diceva
Umberto Eco: «La grande capacità
degli italiani di sputarsi addosso». Ma
anche questa importante lezione di
sopravvivenza filosofica: «Domani è
un altro giorno».

Cosa si aspetta quando gira un


film?
Rebecca Miller o Terry Gilliam,
Gaspar Noé o le Wachowski: poco
importa il budget e l’ampiezza del
film, m’impegno con la stessa
intensità! Tutto per me diventa
un’esperienza personale, filtrata
attraverso le mie sensazioni. Ho anche
recitato in farsi, in un film iraniano,
Rhino Season, di Bahman Ghobadi e in
serbo, con Emir Kusturica.

Questa incertezza quasi


permanente, riguardo alla possibilità
che un film appassioni o no il pubblico,
l’ha mai frustrata al punto da voler
smettere con il cinema?

Piuttosto morire! Ma, per quasi otto


anni, sono stata leggermente in letargo
come attrice. Come forma di creazione,
la maternità m’interessava più del
cinema!

Quale esperienza le ha restituito la


voglia del cinema?

Un été brûlant di Philippe Garrel!


Grazie a lui, ai suoi consigli, al suo
talento, alla sua visione, ho riannodato
i fili con la mia innocenza originaria, la
mia capacità di abbandonarmi. Mi sono
sentita allieva sotto i suoi occhi, e mi
ha insegnato di nuovo a desiderare
pienamente il cinema.
A proposito del cinema francese,
che rapporto ha con il nostro Paese?
Come ha imparato la nostra lingua?

Fin dalla mia adolescenza, la


Francia è intimamente legata al sogno
del cinema. Prima di mettere piede a
Parigi, a diciassette anni, avevo visto
film come La verità di Clouzot, La
calda amante di Truffaut, Fino
all’ultimo respiro e Il disprezzo di
Godard, che mi hanno profondamente
segnata. E, una volta qui, era come se
ci fossi stata da sempre.
In compenso, imparare la lingua è
stato più complicato. Quando ho girato
L’appartamento di Gilles Mimouni, il
mio francese era disastroso. Poi con
l’aiuto dei coach e di altri film – tra i
quali Irréversible di Gaspar Noé, dove
dovevo improvvisare sempre – ho
cominciato a cavarmela.

Perché ha voluto lasciare l’Italia?


Come è arrivata a L’appartamento di
Gilles Mimouni?

I primi quattro film girati in Italia


non mi hanno dato quello che mi
aspettavo. Sicuramente sono state
esperienze necessarie, che mi hanno
insegnato a comportarmi davanti a una
cinepresa, ma volevo altro, ruoli più
consistenti.
Una volta a Parigi, con la mia
voglia ed entusiasmo, correvo ovunque,
braccavo i casting, e cercavo di trovare
un agente. Dopo qualche tentativo
andato a vuoto, si è aperta una porta:
un’organizzatrice di casting ha
convinto un agente a ricevermi. Mi ha
presa. Dieci giorni dopo, facevo il
provino per L’appartamento di Gilles
Mimouni.

Sembra quasi che lo sradicamento


fosse condizione del suo successo…

L’Italia, all’epoca, non


corrispondeva più alle mie attese
professionali. Imboccando un cammino
più internazionale, vi sono tornata. Il
mio itinerario si è svolto dal di fuori
verso l’interno. Esilio che, in un certo
senso, perdura ancora: straniera in
Italia, italiana in Francia… Non ho
alcun posto, alcun luogo, alcun
ambiente circoscritto.

Se pure l’essenziale è nel


movimento, esiste un luogo dove sta
bene?

Oltre ai miei spostamenti


incessanti, e un desiderio di non
appartenere definitivamente a nessun
luogo, ho quattro basi solide: Roma,
per la sua bellezza e la sua atmosfera
ancestrale; Londra, per la sua creatività
e la sua esuberanza; Lisbona, per la sua
dolcezza di vivere; e Parigi, per il suo
meticciato e il suo spirito laico, e dove
del resto abito oggi.
Ma non posso negare una certa
preoccupazione rispetto alla situazione
politica attuale. Certo, la paura non è
una buona risposta, ma come Hakan
Günday, uno scrittore turco, pensa e
scrive, si è di fronte a uno strano
nemico, di cui non conosciamo le
regole. È una guerra globale dove il
rischio è ovunque, in Siria, a Parigi, a
Orlando o altrove. È un nemico che
attira gli emarginati e esaspera i
conflitti economici e politici.
Voce

Schermi, onde radio, articoli: vasta


ronda, parata di celebrità che
difendono una causa, che mettono a
disposizione il nome e l’immagine e,
poiché la mano è privilegiata, tenderla,
aiutare; almeno in apparenza, perché
le parole sensibili, l’espressione grave
e le buone intenzioni possono anche
essere una facciata, tentativo di
pacificare la coscienza, semplice
strategia promozionale.
A chi credere?
Un disagio sicuro, un’irritazione
contro questo prendere la parola in
nome degli altri, questo sfruttamento
(malamente nascosto) delle sofferenze
col pretesto di una solidarietà, questa
usurpazione della parola, così
frequente, talmente accettata, in questo
continuo scambio di generi, tra artisti-
politici e governanti sotto i riflettori,
dove si incrociano business e carità,
giustizia e libretto d’assegni, slanci
sinceri e audience.
Che fare?
*

Al di là di un talk-show domenicale,
della copertina di una rivista, di
un’intervista, Monica dice la sua, con
discrezione, imparando l’etichetta
(«artista impegnata»), le regole e gli
equilibri della politica, più vicina a
una sensibilizzazione che alla
militanza, preferendo lasciar parlare
per lei le sue scelte artistiche, i suoi
personaggi, i suoi film, piuttosto che
dilungarsi con discorsi prolissi, anche
quando tutto intorno, senza sosta,
microfoni e telecamere si alzano, avidi
di una reazione, di un commento
sull’attualità, certi che gli artisti, in
quanto tali – dal momento che i
governanti, disertori, non rispondono
più –, avranno una parola, sì, LA
PAROLA , ma troppo spesso, purtroppo,
senza accordargli lo spazio sufficiente,
perché il pensiero deve essere reattivo,
l’opinione immediata, a qualunque
costo: l’artista deve sapere.

E io, devo essere un semplice


spettatore?
Interrogativo palpabile, incessante,
che nessuna chiesa, nessun partito
saprebbe risolvere, tanto le tribune e le
assemblee militanti, piene della loro
logica clientelare, mi nauseano e mi
danno, più che la voglia di agire in
loro nome, la voglia di fuggirle, presto,
il più rapidamente possibile, per
tentare, a modo mio, un gesto sensibile
e meditato: scrivere.
Scrivere, sì, senza ideologia né
appartenenza, ma solidale e distante, le
mani guidate da incontri, immagini,
appunti, letture (tra le quali Pirro e
Cinea di Simone de Beauvoir, da cui
traggo un’illuminazione: «Un uomo
che ha vissuto su un pezzo di terra
senza farci nient’altro che mangiare e
dormire, quando l’evento verrà, non
vedrà che un cambiamento
d’abitudini»): qui, in questo mondo
odioso, dove cuori analfabeti vomitano
i loro credo ciechi, dove boia servili
mozzano teste innocenti, e che, ogni
giorno, ogni ora, malgrado tutto questo
orrore e tutta questa stupidità, spinge
ancora di più a stracciarsi le vesti e a
collere aride, sterili, a questa
indifferenza salivata dal divano unto
davanti a schermi immobili e complici,
quando, non troppo lontano, resta da
cogliere ancora bellezza.

Scrivere per non essere soltanto un


inutile sognatore.
Quarto incontro

«Liberarsi dell’artiglio del


maschio»
GUILLAUME SBALCHIERO : Da
bambina, che rapporto aveva con i suoi
genitori?

MONICA BELLUCCI: Mia madre


era più presente di mio padre. Con lei
vivevo il quotidiano ed ero il centro
della sua vita. Inconsciamente
rappresentava la figura della stabilità.
Al contrario, mio padre era spesso
assente per lavoro. Incantatore, quasi
stregava, insufflava magia nel nostro
rapporto a ogni apparizione. Forse a
causa di quest’assenza, sono cresciuta
con un sentimento di sfiducia nei
confronti degli uomini.
Nell’adolescenza, quando ho
cominciato a sfidare la loro autorità, ho
veramente sentito il dolore di mio
padre, toccato la sua tristezza nel
vedermi distante.
In ogni caso, da parte loro ho
ricevuto molto amore e protezione,
senz’altro molto più di quanto loro ne
hanno ricevuto quando erano bambini.
Li ringrazio per questo. E li perdono
per tutte le volte che non hanno capito
cos’avevo nel cuore. In questo senso,
penso che i bambini debbano imparare
a selezionare tra il buono e il cattivo
nei loro genitori. Lo dico sempre alle
mie figlie. Sono fortunata: i miei
genitori sono ancora vivi.

Perché questa sfiducia nei confronti


degli uomini? Le donne non sono
altrettanto minacciose?

Noi sappiamo complottare, tradire,


a volte anche impugnare le armi. Ma
un uomo, appena si trova in una
posizione di debolezza, appena gli
mancano le parole, ha sempre la
possibilità della forza fisica. Anche
inespressa, si indovina, mascherata. E
se alcuni non la usano mai, in tutti
riposa una potenzialità bestiale.
In questo mondo ipermaschilista, le
donne devono lottare per trovare il
proprio posto. Devono conquistare la
loro indipendenza. Liberarsi
dell’«artiglio del maschio». È per
questo, confesso, che le perdono più
facilmente.

In che momento è diventata


consapevole dello sguardo maschile
posato su di lei?

Verso i quattordici o quindici anni,


avevo un corpo già «sviluppato». Ero,
almeno fisicamente, una donna.
Attiravo gli uomini senza sforzi. Me ne
sono presa gioco, a volte, da
adolescente ero provocante, malgrado i
rischi. Il mio corpo parlava per me. Mi
aiutava a dissimulare la mia fragilità e
la mia profonda timidezza. Una
timidezza, del resto, sempre presente.

Ancora oggi?

Dipende dal contesto. Possiedo una


parte segreta e un’altra, all’opposto,
molto comunicativa.

E riesce a conciliarle?

Col passare degli anni, lavorando su


di me, credo di aver forgiato un istinto
di sopravvivenza potente. Molto più
potente di quanto avrei mai creduto.
D’un tratto, riprendo la mia strada, in
certe occasioni aprendomi, in altre
ascoltando.

E sul piano professionale?

Nella maggior parte dei casi ho


vissuto delle bellissime relazioni con i
registi. Quando lavoro con un artista
che rispetto e ammiro, sono capace di
adattarmi e di abbandonarmi alla sua
visione. Ma questo non vuol dire che
accetto qualsiasi cosa!

La storia del cinema è costellata di


numerosi casi di tensioni tra cineasti e
interpreti. Cosa pensa, ad esempio,
della polemica sullo splendido film di
Abdellatif Kechiche, La vita di Adele?

Avevo già adorato Cous cous e,


onestamente, non ho dato importanza a
tutte quelle chiacchiere. In effetti,
sembra avere la reputazione di essere
un tiranno. Ma so solo che il suo film è
un sublime inno alla donna. Léa
Seydoux e Adèle Exarchopoulos sono
raggianti, ognuna a suo modo. Una
fredda, quasi mascolina, intellettuale,
che cela i propri sentimenti, prigioniera
dei suoi schemi; l’altra nuda, senza
difese, ma trionfante in fin dei conti
perché assetata di vita. Adèle ha una
selvaticità adolescenziale, un desiderio
pieno. E, inizialmente percepita come
la più fragile, esplode con tutta la sua
forza, smantellando presunte certezze.
Quella purezza della recitazione, la
difficoltà di cogliere il limite tra la
donna e l’attrice, la ritrovo in attrici
come Émilie Dequenne interprete di
Rosetta dei fratelli Dardenne, Alicia
Vikander in The Danish Girl di Tom
Hooper, o ancora Emmanuelle Bercot
in Mon Roi – Il mio re di Maïwenn…
Quando vedo recitare queste attrici,
riconosco l’armonia rara di un’estrema
bravura e di una capacità d’abbandono,
e mi dico che sono molto fortunata a
fare questo mestiere.

Questo equilibrio è innato o, al


contrario, il frutto di un lungo lavoro?

Si cerca. Oscilla in funzione delle


metamorfosi personali. La difficoltà
viene dallo strumento stesso di questo
mestiere: il nostro corpo. Noi non
godiamo, come un musicista o un
regista, di un filtro protettivo. Non
dobbiamo esprimerci accarezzando la
tastiera di un pianoforte, né abbiamo
una macchina da presa dietro la quale
rifugiarci. Dunque il limite è sfumato.
Tra l’immagine e l’essere, dov’è il
margine?
Recitare esige un sottile dosaggio di
immersioni e sorvoli.
Un’interpretazione richiede amore per
il personaggio – senza mai violentarlo
o possederlo –, capacità di
comprenderne l’oscurità e la luce per
far vibrare il suo cuore attraverso le
nostre parole e i nostri gesti. Ma
attenzione a non diventare quel cuore!
Rischiare

Le riprese incalzano, i nostri


scambi si diradano e, in questo
silenzio, temo un allontanamento, una
stanchezza; mi sento poco sicuro
d’interessare davvero, di porre buone
domande, di avere la capacità di
ascolto necessaria. Allora, alla sua
richiesta improvvisa di coinvolgermi di
più, di dire «Io» (inizialmente scrivevo
«Lui») segue una rimessa in
discussione seria, profonda, del mio
atteggiamento, della mia posizione.
In quanto uomo.
Cosciente di essere colpevole, a
volte, di sguardi fuori posto, di parole
viscide, risate complici… di
assecondare la stupidità dei miei
contemporanei.
E, al tempo stesso, rattristato da
tutte queste caricature barbare, questi
minuscoli tiranni, questi inquisitori da
quattro soldi che, ossessionati dalla
lunghezza del membro e dalla massa
dei muscoli, infarinati da secoli di
ideologia e di fantasmi, ma spesso ben
mascherati dal prestigio di una carica
o dal lustro di un ruolo, non esitano a
inneggiare e a predicare
l’ineguaglianza dei sessi e l’inferiorità
delle donne – totalmente persuasi della
loro virilità e del loro buon diritto.
In branco o isolati, con la certezza
che non tutti gli uomini, certo, sono
mostruosi e che, certo, non tutte le
donne sono delle povere vittime,
affermare semplicemente questo: non
penso che la sessualità sia un ostacolo,
che la forza sia un argomento, che la
brutalità possa essere un regime, e
quindi credo che lo scambio tra uomo e
donna sia possibile, auspicabile,
cruciale, e concepisco il dialogo come
uno scambio da pari a pari, un rifugio
reciproco, una comune liberazione.
*

Dopo qualche giorno di


maturazione, di riflessione e di
autocritica, le mando queste righe:

«Questione dell’IO
Rimbaud diceva: “Io è un altro”.
Definirsi esattamente, tracciare con
precisione i propri contorni, la propria
consistenza, mi sembra difficile,
inconcepibile se non per frammenti,
briciole, pezzi raccolti che forse
formano un tutto, un essere che guardo
avanzare, inciampare, rialzarsi,
sempre stupito, come estraneo, senza
essere del tutto in grado di nominarlo,
di chiamarlo “Io”; ecco perché il
“Lui”, indispensabile riflesso di un
tremito, di un’altezza incerta,
procedimento molto discutibile, si crea
una distanza, ma questa non è mai, in
nessun momento, l’obiettivo.

SLANCIO
Questo libro, lo so, nasce da uno
sconvolgimento, emozione che perdura
di fronte al suo sguardo e alla sua
voce, questa miscela di sicurezza e
fragilità contenuta, pudore e
partecipazione, segreto e gusto di
esporsi: un’ambivalenza,
un’ambiguità, una bellezza non
semplicemente di carne, indiscutibile,
ma di un atteggiamento, di un pensiero,
di una parola. Una singolarità lontana
a priori, inaccessibile (io sono uomo,
lei donna; io anonimo, lei celebre; io
non ho costruito nulla, lei ha una
carriera…), forme dissonanti ma un
dialogo di fondo, passerelle accennate,
noi che ci avviciniamo…
Nell’attesa impaziente delle sue
parole…
Cordialmente,
Guillaume.»

«Guillaume, quando scrive così


tutto diventa emozione… Vibrazione…
Abbandonarsi così vuol dire
rischiare ed è questo che renderà il
nostro incontro interessante…
Se si ritrova questa emozione nel
libro, potremmo intrecciare un dialogo
che forse arricchirà non solo noi, ma
anche gli altri.
Perché confrontarci con gli altri è
difficile per tutti…
Allora il giornalista e l’attrice
saranno dimenticati, e si vedranno due
persone impegnate in una ricerca
interiore e che cercano di capirsi un
po’ di più attraverso l’altro…
Lei è giovane, io una donna matura;
lei è biondo e apparentemente più
distante, io sono bruna e
apparentemente più desiderosa di
stabilire un contatto, perché nel
momento in cui mi dono voglio sapere
anche chi è lei, e perché è qui davanti a
me. Perché, come lei, anche io sono
piena di fragilità…
Forse questo nostro scambio di oggi
dovrebbe apparire nel libro…
Come se il libro fosse un diario
segreto…
Monica.»
Quinto incontro

«Realizzare la propria
femminilità»
GUILLAUME SBALCHIERO : Senza
nessun giudizio sulla sua vita
sentimentale e sperando di non essere
troppo indelicato, posso domandarle:
come si sente in relazione al suo
divorzio?

MONICA BELLUCCI: Quando due


opposti si incontrano, la relazione può
continuare in eterno, a meno che uno
dei due non si risvegli. Quando questo
accade, è il segnale che bisogna
riflettere, lavorare su di sé per capire
che l’altro non è arrivato nella nostra
vita per caso. E, per tornare al concetto
di perdono, bisogna arrivare a
perdonare se stessi e a perdonare
l’altro, perché ognuno porta il proprio
bagaglio di sofferenze.
E andare via…
Se ci sono dei figli, penso sia
importante mantenere un legame con
l’altro (quando è possibile), in nome
dell’amore che c’è stato e dei bei
momenti trascorsi insieme.

Che impatto ha avuto la maternità


sulla sua vita di donna?
All’inizio credevo che maternità
facesse rima con abnegazione. Durante
questi nove o dieci anni, ho vissuto una
comunione intensa della carne e dello
spirito, animale e metafisica.
Attraverso Deva e Léonie, ho provato
un amore potente, dal sapore
sconosciuto. Mi hanno sicuramente
insegnato la compassione, la
clemenza… Ad amare diversamente. E
non ho mai vissuto quegli istanti come
un sacrificio.

Il lato negativo di un’esperienza


così intensa non è di trascurare chi ci
sta intorno e noi stessi?

Nel mio caso l’oblio è stato


momentaneo. La mattina, al posto di
guardarmi allo specchio, cambiavo i
pannolini e lavavo le mie bambine.
Solo dopo mi accorgevo delle rughe e
dei capelli spettinati. Contrariamente a
quegli anni in cui mi sono costruita in
funzione dello sguardo degli altri, in
qualità di figlia, di amica o di
compagna, una volta madre il centro di
gravità si è spostato: la propria
immagine diventa secondaria. In fondo
ho ricomposto, attraverso l’amore dato
alle mie figlie e quello ricevuto, un
equilibrio fondamentale, un profondo
sentimento di unità interiore. Questo
distacco, a patto di dominarlo, è
salutare. Era un passaggio obbligatorio
per la mia femminilità.
Da quel momento può dire di essere
diventata donna?

Nemmeno sul letto di morte oserei


pronunciare questa formula definitiva.
Realizzare la propria femminilità è
qualcosa che varia da persona a
persona. Possiamo, in tanti momenti
diversi e sotto aspetti diversi, sentirci
donne. Concretizzare un sogno,
costruire una carriera professionale,
condividere una discussione
appassionante, sentire la pelle di chi
amiamo, stringerlo… Queste estasi ci
plasmano e ci rivelano a noi stesse.
Personalmente, la maternità si
inscrive in un’altra dimensione. Atto
primigenio, espressione d’animalità
pura, permette, tuttavia, di toccare
profondità inaccessibili fino a quel
momento. Come una strada sinuosa,
dolorosa, che al suo termine ha la
possibilità di un paesaggio inedito, di
un altro orizzonte.

Di fronte alla separazione, che, sia


da un punto di vista intimo sia
burocratico, non è mai una situazione
facile da gestire, quali sono le sue
priorità?

Gli sforzi si concentrano sulle mie


figlie. Ho voluto risparmiarle, evitare
che subissero le sofferenze abituali di
un divorzio. Sono pronta a sopportare
molto per proteggerle. Come una lupa.
E ciò a volte mi ha portato a fargli
vedere la vita in rosa. Anche quando
non era così. Oggi, penso che dirgli una
parte della verità – sono ancora piccole
–, con intelligenza e dolcezza, sia una
tappa necessaria del loro percorso. Un
momento della loro costruzione.

Pensa che la coppia, in quanto


cellula, struttura, sia molto cambiata
rispetto alla generazione dei suoi
genitori? E, insieme, i rapporti tra
uomo e donna?

All’epoca dei miei genitori, in Italia


a maggior ragione, i ruoli erano
nettamente distinti. Regnava il
sessismo, certo ancora palpabile, ma
molto più pronunciato allora. Gli
uomini si aspettavano docilità dalle
donne. Molte camminavano curve, con
la testa china, in silenzio, per paura di
contrariare l’autorità maschile.
Fortunatamente, questo rapporto
malsano si è equilibrato. Le donne di
oggi, grazie a certe figure femminili di
ieri, attrici, intellettuali o anonime, si
sono rialzate. L’acquisizione di questa
indipendenza spaventa ancora alcuni
uomini.

Questo sottintende che gli uomini si


aspettano che lei resti sottomessa?
Sottrarsi a una condizione di
sottomissione, rialzare la testa, può
creare resistenze. Vuol dire sabotare
secoli di schemi, di dogmi, di stupide
credenze. Gli uomini meno
progressisti, i più chiusi, si
domandano: «Perché improvvisamente
manifestate indipendenza? Perché
volete diventare nostre pari?». I loro
punti di riferimento crollano, devono
affrontare una situazione imprevista.
Sono superati, si sentono castrati o
privati di una parte della loro virilità.
Dobbiamo volergliene per questo?
Ci spetta ribattere a quella mancanza di
lucidità e di intelligenza facendo
ricorso all’aggressività? Per quanto mi
riguarda, credo nelle possibilità della
generazione più giovane e in una forza
ancestrale femminile.
I doveri nei confronti della società,
degli uomini, dei figli, allontanano la
donna da questa forza. Per ritrovarla,
occorre risvegliare le proprie passioni.
Avere il coraggio di viverle. E tenere a
distanza chiunque cerchi di
imbavagliarle. È per questo che
esistono così poche registe, così poche
politiche, scienziate, cantanti, anche se
le cose cominciano a muoversi…

Malgrado questo rapporto con gli


uomini che qualificherei «agitato»,
ovvero «non tranquillo», che posto
concede loro nella sua esistenza?

Anche se a volte ho avuto bisogno


di solitudine per ritrovarmi, sono una
donna per cui l’uomo è indispensabile.
Come se la donna fosse il carburante e
l’uomo il motore. L’uno e l’altro sono
complementari.

In cosa ha bisogno di loro?

Comincio a pensare di essere una


donna che ha vissuto molte vite in una
stessa e sola esistenza. E continuo a
credere nell’amore, perché attraverso
l’incontro con l’altro si arriva a
conoscere meglio se stessi.
Frida Kahlo diceva che bisogna
sempre stare con un uomo che ti
innalza. Ma, a volte, è cadendo fino al
fondo che l’elevazione è possibile.
*

Usiamo spesso la parola


«femminilità», ma senza averla mai
veramente definita…

La femminilità è una forza in sé.


Potente. Come la bellezza, non ha
bisogno di essere spiegata. E può
intimidire alcuni uomini, così come
quelle donne che non la riconoscono in
se stesse.
Quando sono andata al Crazy Horse,
ho trovato magnifiche tutte quelle
ragazze che, con le loro gambe, le
anche, i seni e le natiche facevano
vibrare la sala intera al ritmo della
musica. C’è qualcosa di arcaico che si
risveglia quando i corpi denudati, e la
musica, si uniscono. Qualcosa che
supera la semplice sessualità. Qualcosa
che è probabilmente legato alle danze
dionisiache dei nostri antenati, che
celebrano la natura e il suo incessante
rinnovarsi.
Io ho spesso fatto del mio corpo e
della mia femminilità una forza
espressiva con la quale ho nutrito molti
dei miei ruoli. Da Malèna a Spectre,
passando per Irréversible. Ma era
normale. A ispirarmi è stata l’energia,
la stessa che ritrovavo nelle attrici che
ammiravo quando ero giovane.
Ma le donne hanno anche un lato
che si potrebbe qualificare come
«passivo»; è quello che ci rende capaci
di portare un bebè per nove mesi. Di
allattarlo cantandogli una ninnananna.
Di rinunciare a qualcosa per sé, per
proteggere i figli e il concetto di
famiglia. Tutto questo deriva senz’altro
da una lunga tradizione che voleva che,
nei focolari, il cibo più prelibato fosse
destinato prima agli uomini, poi ai
bambini e solo alla fine alle donne.
Questa passività è anche strettamente
legata alla timidezza e al pudore: segni
della bellezza e della profondità.
Ma questo volto ha bisogno di
essere protetto. Protezione che deve
arrivare dalla donna stessa, e da quegli
uomini che lo comprendono, lo
assaporano, senza però volerne
approfittare. Un uomo con un’anima
femminile è quello che sa apprezzare
questa vulnerabilità senza sentire il
desiderio di dominarla.

Dunque si tratta, se ho ben capito,


di tendere verso una forma di
equilibrio. Di assumere e di rispettare
la sua fragilità così come la sua forza.
Forse la cosa più importante è non
accontentarsi solo delle apparenze. A
questo proposito, lei cosa pensa di
rappresentare?

Un’immagine abbastanza
femminile… Mi vesto come mi piace,
non esco trasandata né con i capelli
sporchi. Mi prendo cura di me, del mio
corpo, per semplice rispetto della mia
persona. Può essere che sia legato alle
mie origini italiane. A quella tradizione
che vuole che una donna non si
trascuri…
Quest’apparenza può confondere,
mettere a disagio. Penso però che sia
una distanza che viene meno col
dialogo. Le persone che mi conoscono,
o che mi hanno avvicinata, sanno
interpretare il mio sguardo a tratti
infantile, la mia fascinazione per la
bellezza, la mia voglia di gioia: è quel
côté da «donna trofeo», così ben
incarnato da Catherine Deneuve nel
film di François Ozon, e che non
considero necessariamente una
debolezza. Essere un’attrice non
cambia niente: senza questo mestiere,
agirei allo stesso modo.
Quale personaggio le piacerebbe
incarnare?

Tina Modotti. Era una fotografa


italiana degli anni Venti. Una musa per
molti artisti. Era anche una militante
comunista. Grande viaggiatrice, ha
conosciuto il Messico, gli Stati Uniti,
l’Unione Sovietica… Ha frequentato
molti artisti della sua epoca: Diego
Rivera, Frida Kahlo, Edward Weston,
Pablo Neruda… Era una ribelle.
Rivoluzionaria. Che ha anticipato i
tempi. Morta, ufficialmente, di crisi
cardiaca nel 1942. Ci sono ancora
dubbi sulle vere circostanze della sua
scomparsa. Forse è stata assassinata
per il suo impegno politico.
Esiste al cinema, nella letteratura o
in qualunque altra forma di
espressione artistica, una storia
d’amore che la tocca particolarmente,
e perché?

Senza riflettere troppo, La dolce


vita e Love Story. Due forme opposte
d’amore. Nel film di Fellini, è l’amore
incompiuto. Il fantasma. Marcello
Mastroianni, in coppia con una donna
che lo adora, non riesce ad amarla
veramente: cerca altro, qualcosa di
intoccabile incarnato da Anita Ekberg.
Corre dietro l’immagine. Sostituisce un
ideale alla realtà. In Love Story, Arthur
Hiller, dal canto suo, indaga invece
l’amore nella protezione e nel dolore.
In entrambi i casi, sono degli
estremi. Sacrificio e non-sacrificio.
Fuga e abnegazione. E, tra i due, la vita
di tutti i giorni. Per me è questo,
l’amore eroico. La quotidianità è
sempre più delicata da gestire, gli
uomini e le donne che ne sono capaci
sono degli eroi. È un lavoro complicato
e invisibile. E i nostri problemi, le
nostre forze e le nostre debolezze
derivano da questo lavoro, se è stato
portato a termine o meno. È la base. Il
quadro fondamentale.

Si pone la questione della


rappresentazione del desiderio,
questione che, a seconda delle mani e
dello sguardo di questo o quell’artista,
può passare facilmente dal sublime al
sordido. Dov’è il limite secondo lei?
Qual è la differenza tra pornografia ed
erotismo?

L’erotismo è l’eros sublimato; la


pornografia è l’eros degradato. Una
pellicola come Love di Gaspar Noé può
essere considerato da alcuni come un
film pornografico. Eppure, poiché tutto
è raccontato e mostrato con molto
amore, si tratta in realtà di un’opera
erotica. E totalmente libera. Proprio
come Gaspar.
Scriversi

Davanti agli occhi ho un quadro di


Julian Schnabel, Fifteen Yrs Old and
Surrounded by Pigs, caotico, brutale,
sconvolgente, e come eco, come suo
prolungamento, La vita materiale di
Marguerite Duras, questa frase:
«Dall’antichità, da tempi remoti, da
millenni, il silenzio è donna. Dunque la
letteratura è donna».

Industria complessa, macchinario


ambivalente (tra uniformità e
dirompenze), campi di dominio: alcune
donne decidono allora di urlare, corpo
e voci come specchi che riflettono gli
stereotipi tentando di rovesciarli, di
torcerli.
Grido lanciato nella sfera musicale
mainstream da cantanti come
Madonna, Beyoncé, Rihanna…
legittimo, certo, a volte inudibile
(dall’album Erotica e il libro Sex di
Madonna, l’immaginario porno chic
pop fatica a rinnovarsi), e spesso
mescolanza, per questioni venali, di
provocazione e virtù, aggressività e
buoni sentimenti.
Tra l’interminabile successione di
visioni riduttive e proiezioni
maschiliste del cinema e della
televisione (eroine più virili del più
virile degli uomini; nonne bisbetiche
dal grande cuore; spose lacrimose che
aspettano impazienti il ritorno di un
marito conquistatore, eternamente
innamorate di fronte ai maschi distanti,
vittime tremanti – felicemente – salvate
da un messia provvidenziale…),
modellate in nome del divertimento da
innumerevoli registi, sceneggiatori e
produttori ispirati da fantasmi vuoti e
tenace stupidità, si disegnano al
contrario ritratti di donne molto più
colorate, più complesse, più
appassionanti. Ritratti dove i loro
corpi non sono ridotti a oggetto del
desiderio. Ritratti in cui le loro parole
non nascono solo dal silenzio degli
uomini. Ritratti in cui madre e puttana
non sono i soli viaggi possibili.

Anche Monica grida e da tempo


reagisce, al tempo stesso esposta e
forte, concedendosi e ritirandosi
nell’inaccessibilità, lasciando spesso
allo spettatore la possibilità di un
distacco, di un silenzio, quel silenzio
che avverto in ognuno dei nostri
scambi e nella maggior parte delle sue
scelte, eccetto forse qualche film e
qualche campagna pubblicitaria troppo
semplicistici, troppo monocromi,
incapaci di restituirci la sua diversità;
questa tavolozza che si ispessisce,
questo testo che si espande, scivolando
a poco a poco verso una maggiore
armonia e dolcezza, che lei traccia
adesso con meno aggressività,
l’atteggiamento e lo sguardo più
leggeri (prova eclatante: Un été
brûlant di Philippe Garrel!),
consapevole dei limiti del sistema,
degli uomini, delle donne e di se stessa,
sempre incollerita, mai più
comprensiva: una rabbia trasformata.
Sesto incontro

«La possibilità di un risveglio»


GUILLAUME SBALCHIERO : Perché
ha accettato questo progetto?

MONICA BELLUCCI: Le ragioni


restano ancora sfumate. È la sua rabbia,
nascosta dietro la scrittura, che mi dà
la sensazione di essere tornata al liceo.
Come se una parte di me fosse restata
una studentessa con la voglia di sfidare
l’autorità. Un istinto di rivolta
risvegliato, che mi fa anche venir
voglia di rileggere un libro: Il lupo
della steppa di Hermann Hesse.
Io e lei siamo come due specchi
opposti. Il mio linguaggio è più diretto,
ma l’età mi dà uno sguardo di
pesantezza. Mentre lei si protegge con
la sua scrittura curata. Ma è lo sguardo
di un «intellettuale-killer».
Provo anche, senz’altro
inconsciamente, una voglia di parlare,
di esercitare la critica. Di abbandonare,
per un attimo, i panni dell’attrice.
Esprimermi, semplicemente, da donna,
cosa che non è sempre possibile
durante un’intervista. Un’intervista è
un incontro fuggevole. Scrivere un
libro è scavare in profondità. Ho
cominciato quest’opera con lei senza
sapere davvero dove mi avrebbe
portato. Lo scopro via via. Dolcemente.

Anche per me è una scoperta


progressiva. E il desiderio di
allontanarsi dalle etichette sociali,
tenace. A proposito di questo «gioco di
ruoli», cosa ne pensa dei grandi eventi
cinematografici come il Festival di
Cannes?

Cannes rappresenta sempre un


momento speciale. Unico. La prima
volta che ci sono stata, mi sono
ritrovata a salire le scale del Palais con
Gene Hackman e Morgan Freeman.
Tremavo. Sara Bernhardt diceva che la
paura fa parte del talento. Questa frase
serve da scusa: in effetti continuo,
ancora oggi, a tremare a ogni tappeto
rosso. Le grida dei fotografi, i flash sui
volti, gli sguardi della gente… Ci si
sente in un’arena. E tutto questo non ha
niente a che vedere col cuore stesso del
mestiere di attrice. Un ruolo si elabora
in solitudine.

All’improvviso, sta dissociando


completamente l’aspetto pubblico del
suo lavoro da quello dietro le quinte.
Ma non sono due caratteristiche dello
stesso mestiere?

Essere un’attrice implica anche


sconfiggere la propria timidezza.
Riconosco che ricevere attenzione e
riconoscimento per il mio lavoro non è
solo un momento esaltante, lusinghiero
per l’ego; è soprattutto un momento di
comunione con gli altri, uno scambio.
Attraverso i film e i ruoli scelti
riveliamo una parte di noi. L’uomo è
un animale sociale che ha bisogno di
comunicare. Come il lupo, l’uomo è
solitario, ma ha bisogno di vivere in
gruppo.

Tra i suoi diversi passaggi a


Cannes, quali sono i ricordi più forti?

Due esperienze mi tornano alla


memoria. La prima, nel 2003, da
madrina del Festival. La sensazione di
morire d’angoscia, invasa dal panico
prima dell’apertura. E, fortunatamente,
una chiusura più facile da gestire, più
disinvolta. La seconda nel 2006, come
membro della giuria presieduta da
Wong Kar-wai. Anche se devo
confessare un leggero malessere: la
difficoltà di vedere tre film al giorno,
senza avere il tempo di digerirli.
Non essendo giornalista, non sono
abituata ad assorbire le opere così
freneticamente. Ho bisogno di
masticare lentamente prima di
formulare un’opinione. E i giudizi,
anche i più nutriti, i più argomentati,
emergono da uno stato d’animo del
momento, da una soggettività
condizionata dall’umore, i principi,
l’educazione… Preferisco essere
giudicata, insomma, piuttosto che
giudicare!
Nonostante tutto, malgrado la paura
e la miscela di emozioni, quelle
esperienze mi hanno molto arricchita.
Le ricordo con grande piacere.

Nel 2014, ha difeso Le meraviglie di


Alice Rohrwacher, Gran Prix al
Festival di Cannes, dove interpreta
Milly Catena, una presentatrice
televisiva un po’ surrealista, in piena
ricerca esistenziale, amata da tutti ma
stanca del suo mestiere. Sa perché la
regista si è rivolta a lei? Sa perché, in
generale, i registi la chiamano?

La mia scelta affonda le sue radici


in una ricerca personale. A volte
inconsapevole. Non conosco le ragioni
che spingono i registi a volermi nel
cast, credo che spesso suscitiamo
desideri di cui ci sfuggono le cause.
Emir Kusturica, ad esempio, ha detto di
avermi scelta per una forma di
innocenza che riesco a preservare
malgrado la pesantezza e la crudezza
dei miei ruoli.
Per Le meraviglie, lo scatto fu la
conferenza stampa a Venezia nel 2009
per Un été brûlant di Philippe Garrel.
Alice, in tutta la sensibilità e selvaggia
purezza, mi ha confessato di aver letto,
sui visi, nelle parole e negli
atteggiamenti della gente che era in
sala, una violenza, una forma di odio
nei miei confronti. In quel momento
non avvertivo quell’ostilità, ma il suo
modo di raccontarla, la sua emozione,
mi hanno toccata. Del resto, il film è
stato attaccato in Italia e accolto
estremamente bene in Francia.

Ha senz’altro visto fino a che punto


lei suscita reazioni del tutto
contraddittorie… al tempo stesso fonte
di ammirazione e di avversione.

Non so perché, alla mia età,


continuo a provocare le stesse reazioni
dei miei esordi. Da un lato la cosa mi
lusinga. Vuol dire che la mia
femminilità è ancora dirompente e
dunque disturbante per alcuni. Ma
spero anche che invecchiando, con
l’attenuarsi del corpo e della
sensualità, la mia anima si riveli
ulteriormente a me stessa e agli altri. È
con l’anima che si recita. La tecnica
viene dopo.

Non le viene mai l’istinto di


rispondere agli attacchi?

Dal momento in cui si è scelto di


essere un personaggio pubblico,
bisogna sopportare gli attacchi.

Sopportare, comprendere… non è


così lontano dal giustificare.
Disegni di Charles.

Le racconterò una storia. Un giorno,


seduta su un treno da Nantes a Parigi,
vedo davanti a me un bambino con sua
madre. A un tratto, sento: «Mamma,
hai preso i pannolini?». Lei risponde:
«No». Lui: «E se faccio pipì?». Lei:
«Falla nelle mutandine». Io sono
incredula. Poi, senza dirlo al figlio né
ad altri, va in bagno. Comincio a
parlare col piccolo rimasto solo.
Mentre gioca con due macchinine –
una bianca e una rossa –, gli chiedo il
suo nome: si chiama Charles. Ha tre
anni. Al suo ritorno la madre vede che
stiamo parlando. Non credo di piacerle,
ma non interviene in nessun momento
della conversazione.
Dopo un po’, vedo Charles annoiarsi
un po’. Per cercare di distrarlo, gli
passo carta e penna. Allora disegna un
cerchio, con una macchia più
pronunciata al centro. «Ecco, è un
ragno» mi dice. Poi chiede a sua madre
di disegnare un sole. Gli do un altro
foglio, traccia ancora un cerchio,
stavolta con un tratto molto marcato.
«È un grosso ragno» mi dice. E
domanda nuovamente a sua madre di
aggiungere un sole. Lei esegue. Poi un
terzo foglio. Ancora un cerchio. Ma,
stavolta, è pieno di macchie che il
bambino mi descrive come altri ragni.
E chiede a sua madre di disegnare
quattro soli. Charles si mette allora a
scarabocchiarli di ragni. Stupita, gli
chiedo: «Charles, ma dove sono tutti
questi ragni?». E lui mi risponde: «Nel
letto di Charles».
Mi batte il cuore, fortissimo. Mi
interrogo sulle cause della tristezza di
questo bambino che, a tre anni, disegna
ragni in continuazione. Nel frattempo,
la madre gli dà da mangiare. La vedo
anche leggergli dei racconti.
Coccolarlo. Gli dico: «Spero che presto
non ci saranno più ragni nel tuo letto e
che disegnerai farfalle». La madre mi
sente. Non mi ha quasi mai guardata in
tutto il viaggio. Finalmente, arriviamo
a Parigi. Io e Charles ci salutiamo a più
riprese.
Scendendo dal treno, mi accorgo di
non aver salutato la madre. Arrivo a
casa. Sono molto triste. Cosa avrei
potuto fare per capire meglio? Avrei
dovuto parlare con quella donna? Ma
del resto, chi sono io per giudicare, io
che come madre commetto
sicuramente degli errori? E mentre mi
interrogo, col viso di Charles davanti
agli occhi, apro la borsa e ci trovo… la
sua macchinina rossa.
Ciascuno a suo modo, siamo dei
Charles con i suoi ragni. Tutto dipende
da cosa ne facciamo crescendo, da
come si arriva a trattare con loro.

È una storia toccante. Non so come


avrei potuto reagire. Abbiamo il diritto
di interferire nella vita degli altri
senza conoscerli da vicino, in nome di
un’emozione, per quanto forte essa
sia? L’indignazione è un motore
sufficiente? Benché non abbia discusso
con la madre, si è mostrata buona col
bambino. Quella sua attenzione a
prescindere l’avrà forse segnato.
Secondo me, un gesto d’affetto, anche
da una mano sconosciuta, anche solo
per qualche istante, resiste a lungo.
Secondo lei il dono è qualcosa che si
può imparare? E l’amore?

Una volta qualcuno mi ha


domandato se credo all’esistenza del
diavolo. Ho risposto di no. Credo a
delle energie, forze dirette sia verso il
positivo sia verso il negativo. Allo
stesso modo in cui reagiamo a delle
leggi fisiche. Un polo negativo, un polo
positivo. E questi due poli coesistono
in ciascuno di noi. E ce ne sono anche
altri. Di altre potenze energetiche.
Tutto dipende dal modo in cui
riusciamo a equilibrarle. Come se
avessimo tutti i colori dell’arcobaleno,
e ci aggiungessimo il nero. E come se
ogni colore corrispondesse a una nota
differente. Ora, sta a noi suonare il
pianoforte.
Viatico

Parigi, cielo che urla, pioggia


ostinata, il rifugio di una libreria, e in
testa una canzone, LA canzone, forse:
Gimme Shelter dei Rolling Stones, quel
riff ossessionante di Keith Richards, la
rabbia sensuale di Mick Jagger, il
timbro lacerato di Merry Clayton,
quelle parole profetiche:

Ooh, see the fire is sweepin’


Our very street today
Burns like a red coal carpet
Mad bull lost it’s way…
War, children, it’s just a shot away
It’s just a shot away…

E, davanti a me, fuggevole – caso?


destino? – la raccolta Stravagario di
Pablo Neruda, questa citazione:

Non c’è spazio più grande del


dolore
Non c’è altro universo se non quello
che sanguina.
*

Piangere, per un dramma, per un


niente, su una tomba, su un corpo,
piangere, solitario, la folla non può
nulla, il suo mormorare solo
confusione, l’asprezza di sempre, pugni
e gola dolenti, la sofferenza di essere
instabili, precari, semi portati dal
vento, urlando all’ingiustizia, amando
al tempo stesso, pregando anche un
cielo, una donna, un uomo, per un po’
di calore, un altro sorriso, la luce
prima del tunnel, prima dei versi,
prima dell’oblio; tuttavia, eden o
fornace, corna o aureola, eternità o
nulla, non resta qui che questa vita,
così tremante, così confusa, sfuggente,
che resiste: un movimento dalla culla
alla tomba, nessuna fissità, mai una
lacrima senza un sorriso, non una
rovina senza promesse, allora ecco la
sola felicità: una favola volgare, uno
slogan pubblicitario, un miele
indigesto prescritto da degli
opportunisti, farmacisti ben coscienti
della malinconia diffusa e del valore di
un rifugio, anche se il rimedio venduto
in milioni di esemplari non salva
nessuno, poiché vivere, qui, tra cielo e
terra, richiede distacco, una distanza,
non una freddezza robotica né un sordo
intellettualismo: un occhio, aperto e
critico, sensibile e ponderato, capace
di ricevere scottature e consolazioni
senza mai spiarle, senza accordare
loro troppo spazio, senza lasciare loro
la possibilità di governare, ma
attingendone, appena, l’ebbrezza
necessaria.

Vivere è alleggerirsi.
Settimo incontro

«La realtà è soprattutto uno


stato d’animo»
GUILLAUME SBALCHIERO : Crede
nel destino? Pensa che l’esistenza
abbia un senso? Crede a una qualche
«missione» su questa terra?

MONICA BELLUCCI: Come si può


rispondere? Nasciamo con una
traiettoria stabilita, o scriviamo noi
stessi il nostro destino? Credo che la
vita sia imprevedibile. Ma credo
soprattutto al libero arbitrio. E alla
responsabilità individuale. Tuttavia,
credo anche al legame con qualcosa di
universale e, dicendo questo, mi
riferisco ai grandi pensatori come
Kant, che diceva: «Il cielo stellato
sopra di me e la legge morale dentro di
me» o al poeta Giuseppe Ungaretti col
suo: «M’illumino d’immenso».

L’esistenza non ha qualcosa


d’assurdo? Come adattarcisi?

Essere madre mi ha insegnato che


quando si viene alla luce si è già
qualcuno. Alla nascita delle mie figlie,
ho potuto constatare che uscendo dal
mio ventre ognuna di loro intratteneva
un proprio specifico rapporto con la
vita… Poi l’educazione, la società ci
forniscono una cornice, e ciò
contribuisce a forgiare quel che
diventiamo. Ma la cosa più strana è che
per ritrovare noi stessi e la nostra vera
natura, la natura con la quale siamo
venuti al mondo, dobbiamo arrivare a
individuare queste cornici imposte.

Come impariamo a esercitare il


nostro libero arbitrio?

È il mestiere di vivere. Cercare di


capire chi siamo. Poterlo esprimere
all’interno come all’esterno, facendosi
rispettare, senza mai violare la libertà
del prossimo. Riuscirci è difficile, per
tutti…
*

Vivere è anche creare delle


immagini. Secondo lei, la nostra vita
non si giustifica attraverso il ricordo?
Senza la memoria, cosa resta?

Il poeta italiano Ugo Foscolo diceva


giustamente che il ricordo è l’unica
cosa che impedisce la morte. Se si
aderisce a questa visione, si pone la
questione di quale ricordo si vuole
lasciare. Per quanto mi riguarda, vorrei
lasciare un ricordo dolce e consolante
nel cuore delle mie figlie. Che l’amore
che gli ho dato possa riscaldarle nei
giorni freddi della vita.
Si considera una nostalgica?

Sfortunatamente sì. Mi ci vuole


molto tempo per strappare il ricordo
delle persone che entrano nel mio
cuore; ma non ho questo attaccamento
nei confronti degli oggetti.

Le sarebbe piaciuto vivere in


un’altra epoca?

No, credo che essere donna in


un’altra epoca sarebbe stato
insostenibile per me.

Se, per definizione, il passato è ciò


che è stato e l’avvenire ciò che non è
ancora, come definire il presente?

Come ha dimostrato Albert


Einstein, e so che non sto dicendo nulla
di nuovo: il tempo è relativo. Così si
può dire che, malgrado l’importanza
dell’aspetto materiale dell’esistenza, la
realtà è soprattutto uno stato d’animo.

L’oblio è una facoltà necessaria?


Permette di evitare la follia?

La natura è costruita bene. A quanto


pare da bambini si ha la capacità di
dimenticare e di negare tutto ciò che ha
potuto procurarci dolore. È grazie a
questo che si può sopravvivere. Come
un computer che ha una memoria
morta. A volte, la vita ci mette di
fronte a delle difficoltà, e un elemento
della memoria morta può risorgere con
molta violenza. Si chiama ripetizione
di un trauma. Dentro di noi,
immagazziniamo emozioni e ricordi in
un «cestino», che può rivelarsi utile in
certi momenti della vita, e in cui si
possono andare a ripescare elementi
che erano perduti. È per questa ragione
che i sogni, a volte, possono rivelare
alla nostra coscienza cose scacciate
nell’inconscio.
Per questo Federico Fellini
disegnava tutti i giorni su dei quaderni
i sogni che faceva. Alla sua morte ne è
stato fatto un libro magnifico intitolato
Il libro dei miei sogni, che spiega tutta
la sua opera, la sua ricerca artistica e il
suo percorso spirituale.
La stessa ricerca creativa
sperimentata da Louise Bourgeois,
anche se lei aveva posizione diverse e
dichiarava: «Non sogno mai. Penso,
benché non ne sia sicura, che il mio
accesso diretto all’inconscio non passi
dal sogno ma dalla vita reale.
Purtroppo questo implica una tensione
terrificante. È la soppressione della
realtà immediata».

Dà molta importanza ai suoi sogni?

In italiano si dice: «La notte porta


consiglio». E in Francia si usa
all’incirca la stessa formula. Quando
un proverbio diventa così popolare, mi
unisco ai latini che dicevano: «Vox
populi vox Dei».
Quindi, per rispondere alla sua
domanda, a volte la notte chiarisce
qualcosa che il giorno non ha saputo
illuminare. Penso anche che
l’inconscio si manifesti alla coscienza
nel momento in cui questa è pronta a
riceverlo. Freud e Jung, in maniera
diversa, hanno scritto molto sul tema.
Del resto, sono riusciti a fare delle loro
nevrosi materia di studio, aprendo così
le porte alla psicoanalisi attuale. E non
possiamo che essergliene grati.
Intatto

Tarda sera, la città buia, e


lentamente, pianissimo, una deriva, un
fluttuare tra due mondi dove i volti del
giorno, creduti sicuri, incrollabili, si
caricano di forme sconosciute e
linguaggi oscuri.
Al mattino, alcuni minuti dopo il
letto, gli occhi già al sole e sulle
pagine, la vertigine si dissipa: ogni
oggetto, ogni frammento
d’arredamento, ogni rumore, ogni
odore, ogni parola ritrova i suoi colori
d’origine.
Ma, di nuovo intatto,
quell’ambiente non è semplicemente
altrettanto illusorio? Cosa garantisce
la realtà del reale? I sensi? La
ragione? Che fare, allora? Restare
sordi ai segni, ai messaggi forse
consegnati dal sogno? Oppure, come
scriveva Jean Cocteau in Oppio
(«Lingua viva del sogno, lingua morta
del risveglio… Bisogna interpretare,
tradurre»), strofinarcisi? E poi, perché
interessarsi alla finzione? Perché
creare? «Per non aver paura, soli
nell’oscurità» come suggerisce Luc
Dardenne nel suo diario, Au dos de nos
image?

Storie, a decine, a centinaia, flusso


infaticabile, immagini e ancora
immagini, spesso premasticate,
bianche, come quei libri sugli scaffali
unti, al calduccio del loro psicologismo
e della loro morale, del loro
perbenismo e della loro ruffianeria,
che senza mai raccontare niente
promettono di dire tutto e, soprattutto,
soprattutto, mostrano tutto: priorità
agli sfoghi, trippe di fuori e confessioni
a tonnellate, succose, velenose,
scandalose, dell’intimità in diretta, il
cuore deve vomitare senza tante
ambagi, senza giri di parole, senza
ambiguità, senza filtro se non si vuole
annoiare.
Sotto questi neon di plastica si
scoprono ombelichi, gli ego si lustrano,
l’autoflagellazione suscita vocazioni e
lo stesso si ripete, infinitamente
rimescolato, infinitamente
rimaneggiato, proponendo a una
clientela sempre più vasta (di cui
certamente io stesso faccio parte, a
volte) prodotti levigati, carezzevoli,
indorate pillole per bocche ingorde,
sature di imperativi da ragionieri,
ordinari; bocche che credono,
ingurgitandole, di dimenticare per un
momento la cupezza, la crisi, e che
sbadigliano già alla semplice idea di
doversi risvegliare.

Mancanza di fuori campo, di


silenzio, di vibrazione, di mistero, di
movimento, di furore, in
quest’immaginario continuamente
esibito sul set attraverso una lingua
melliflua, complice, e che,
necessariamente, finisce per seccare
l’immaginario, i sogni individuali,
appiattendosi sulle proiezioni
collettive, diffuse, dominanti.
Perché no, la quantità non è –
sempre – qualità (altrimenti
McDonald’s meriterebbe tre stelle
sulla Guida Michelin!), e no a questa
anestesia carezzevole, quotidianamente
somministrata tra due pubblicità di
yogurt e due slogan ben lubrificati, per
cui in salotto, in camera e al buio delle
sale cinematografiche la gente di tutto
il mondo sbava.
Dire questo (consapevoli, inoltre, di
essere ancora troppo dalla parte dei
sonnambuli) mi fa tornare ad affermare
un desiderio: voglio essere messo in
crisi. Un libro, un film, un quadro, una
musica, per avere valore, ai miei occhi,
devono rinnovare il mio sguardo, le
mie prospettive, senza concedermi
nulla fin dall’inizio, provocarmi,
contraddirmi, ma mai – nonostante il
divertimento sappia anche essere utile
– confortarmi.
Un incontro, un’opera, un sogno:
mai uscirne completamente intatti!
Ottavo incontro

«Mens sana in corpore sano»


GUILLAUME SBALCHIERO : Mi ha
parlato di una seduta d’ipnosi…

MONICA BELLUCCI: Fatta con un


terapeuta competente, l’ipnosi può
essere un’esperienza molto feconda. È
una pratica che permette di aprire più
porte dell’inconscio. A condizione di
trovare il medico capace di richiuderle.
Spinta da una pericolosa curiosità,
ho voluto provare anch’io. E ho vissuto
un’esperienza veramente violenta. Non
ero in buone mani, probabilmente.
Oggi, malgrado il metodo deludente,
mi dico che il mio inconscio aveva
bisogno di passare per quella
esperienza.

Cosa ha visto e capito?

Innanzitutto, che volersi confrontare


con i nostri dolori, andare a cercare
troppo lontano le ferite non è
necessariamente un buon modo per
avanzare. A volte, rivivere il dolore
passato non fa che scuotere il trauma.
Senza alleggerirlo. Guardare avanti,
senza mai voltarsi indietro, potrebbe
anche essere la soluzione migliore.
Assetata di conoscenza, poi, sono
spinta a sperimentare. Nonostante non
mi sia mai ubriacata in tutta la vita e
non abbia mai assunto droghe, tento a
volte viaggi altrettanto rischiosi. Come
l’ipnosi. Come l’ayahuasca, bevuta due
volte in presenza di uno sciamano. Una
bella esperienza, ma molto potente.

Non pensa che simili viaggi siano


possibili grazie all’alcol e a certe
droghe? Penso in particolare
all’hashish baudeleriano, alle sostanze
usate dagli aderenti al movimento del
«Grand Jeu», all’oppio di Jean
Cocteau, alle erranze allucinate dei
Beatles e dei Rolling Stones, al vino
bianco di Bukowski…
Credo al detto latino: mens sana in
corpore sano. L’ipnosi è un viaggio
violento, ma in sintonia con
l’inconscio. E l’ayahuasca è una pianta
completamente diversa da ogni altra
droga. Se si vuole, si può uscire dal
viaggio in qualsiasi momento. E il
corpo non subisce conseguenze. Mentre
con l’alcol o qualunque altra droga il
corpo è fuori controllo. E non amo
questa sensazione.
Amo il piacere, da epicurea, ma non
l’abuso. Avendo conosciuto persone
dipendenti, capisco e so cosa comporta.
La dipendenza è dura sia per la persona
coinvolta sia per chi le sta intorno. Chi
è dipendente si trova come davanti a
una porta chiusa. «Ciò che mi uccide
mi dà la vita.» Trova godimento nella
distruzione e ha difficoltà a capire il
male che può provocare attorno a sé.
Finché la persona dipendente non
desidera realmente uscirne, nessun
lavoro, nessun amore, neanche il più
grande, potrà guarirla.

Per quanto ricordi, lei non ha mai –


o poco – interpretato personaggi
dipendenti da queste sostanze. È un
caso? Personaggi del genere la
tenterebbero?

Perché no. Quando accetto di


interpretare un personaggio, anche se
ne sono molto distante, vuol dire che
posso comprenderlo. Contrariamente a
dipendenze palesi come la droga, il
gioco o l’alcol, ne esistono altre,
nascoste ma diffuse. Può trattarsi della
dipendenza affettiva, sessuale, o anche
di quel bisogno di flirtare con la morte,
come negli sport estremi. E allora, chi
può dire di non conoscere, almeno un
po’, che cos’è la dipendenza? Tutto sta
nel riuscire a rendere il dolore creativo,
anziché renderlo infernale. Non sempre
scontato…

Pensa mai alla morte?

Durante una servizio fotografico,


Oliviero Toscani mi ha fatto vedere sul
suo telefono uno scatto della sua
sublime sposa Kirsti, di quando era
ancora modella. È quasi nuda, su una
spiaggia, i capelli incollati sul viso e
una sigaretta tra le labbra. Molto sexy.
Mi ha detto: «Quando parlo con i miei
nipoti, gli dico di non dimenticare che
questa è la loro nonna». Prima di
aggiungere: «Sarà la foto che ornerà la
sua tomba». Questa battuta mi ha fatto
sorridere. È come un inno alla vita.
Anche se non so quale sarà la foto che
poseranno sulla mia tomba, potrebbe
essere un’idea…
In realtà, la morte non mi piace. Ma
so che un giorno la conoscerò. Senza
sapere se potrò scegliere tra una
dipartita brutale o un incontro più
lento. La vita comunque mi ha già
portato molte piccole morti e
resurrezioni. Mi viene da pensare che
l’esistenza, in sé, sia prepararsi alla
scomparsa definitiva. In ogni caso,
spero che questa presenza busserà alla
mia porta quando sarò molto, molto,
molto vecchia.
In questo momento, mi sento come
se fossi sopravvissuta a una lunga
morte, e nella mia testa risuonano le
ultime parole del libro Le vite private
di Pippa Lee di Rebecca Miller: «I
have no idea how it will go, I don’t
know who I will be in it. I am filled
with fear and happiness».
(«Ignoro come succederà e non so
chi diventerò quando succederà. Sono
piena di paura e di gioia.»)
Scomparsa

Dopo più di tre anni dai nostri


colloqui, sono qui, in una notte
anonima, alla mia scrivania di legno,
l’orecchio a David Bowie (Lady
Grinning Soul, Fame, Wild Is The
Wind, Breaking Glass, Ashes To
Ashes, The Motel, Where Are We
Now? – volti, colori, che la sua
scomparsa, recente, non mette a
tacere) e gli occhi a Georges Perros, a
una frase sconvolgente nella sua Vie
Ordinaire: «I nostri resti sono più veri
della nostra presenza».

Quali tracce restano?


Quei bar d’hotel, le tinte attutite, i
sorrisi franchi, i silenzi necessari, il
bisogno di raccontarsi, il rifiuto
dell’esibizione.
E resta anche l’impressione, tenace,
di un mistero ancora intero e di una
certa vicinanza malgrado le differenze:
io all’uscita dalla fanciullezza, lei
pronta a riconquistarla, ma
l’essenziale, credo, condiviso:
riallacciare con la parte mancante,
quegli anni accoccolati al seno, tra le
mani di altri, amorevoli per lo più, ma
che lasciano ferite, silenzi da
interrogare adesso, con un occhio
esperto che tende all’innocenza, quella
materia prima sepolta – preferendo il
mondo «adulto», la sua logica
meschina, immobile, impermeabile ai
sussulti, alle esplosioni, a tutti quei
bagliori che il bambino coltiva, lui, il
costruttore ribelle.
La constatazione, infine, di una
distanza, di uno iato quasi, tra ciò che
la luce rivela e dissimula, tra cui (e
forse prima di tutto) quel sorriso
franco, disinibito, che non esita a
esprimersi e che, nonostante lo
schermo, si vede raramente – i
riflettori inseguono più volentieri il
lato oscuro, la faccia nera.
Quell’immagine pubblica
(sofisticatezza, una certa freddezza,
distanza a volte…), prodotta al tempo
stesso da una costruzione di sé e da
sguardi periferici, non saprebbe così
contenere tutto l’essere: tolti i tacchi a
spillo dell’attrice (l’espressione è di
Monica) resta la complessità
appassionante e senza dubbio
inesauribile di una donna, di una
madre, di una figlia…

*
Di un’artista anche, che accoglie,
che resiste: gioco eterno, filo teso, un
offrirsi al girotondo sempre però
pronta a ritirarsene presto, così
Monica dura perché non cede mai
completamente, ambigua come lo sono
solo poche altre, impossibile da
cogliere davvero tanto rifiuta
l’etichetta, la teorizzazione (che parole
usare per questo movimento?!), il
traboccare della sua energia, di quella
vitalità – a dispetto a volte delle scelte
azzardate, dei progetti criticabili, delle
apparenti rinunce – impresse su
ognuno dei personaggi, non riuscendo
nessuna maschera a coprirle il viso,
esso stesso maschera plurima,
definitivamente inesauribile, ribelle.
L’artista non acconsente: si
moltiplica.
Filmografia scelta

1992: Dracula di Bram Stoker, di Francis


Ford Coppola (moglie di Dracula)
1996: L’appartamento, di Gilles Mimouni
(Lisa)
1997: Dobermann, di Jan Kounen
(Nathalie, alias Nat la gitana)
2000: Under Suspicion, di Stephen Hopkins
(Chantal Hearst)
2000: Malèna, di Giuseppe Tornatore
(Maddalena «Malèna» Scordia)
2001: Il patto dei lupi, di Christophe Gans
(Sylvia)
2002: Asterix & Obelix – Missione
Cleopatra, di Alain Chabat (Cleopatra)
2002: Irréversible, di Gaspar Noé (Alex)
2003: Ricordati di me, di Gabriele Muccino
(Alessia)
2003: L’ultima alba, di Antoine Fuqua (Dr.
Lena Fiore Kendricks)
2003: Matrix Reloaded, di Larry (Lana) e
Andy (Lilly) Wachowski (Persefone)
2003: Matrix Revolutions, di Larry (Lana) e
Andy (Lilly) Wachowsky (Persefone)
2004: La passione di Cristo, di Mel Gibson
(Maria Maddalena)
2004: Agents Secrets, di Frédéric
Schoendoerffer (Barbara/Lisa)
2004: Lei mi odia, di Spike Lee (Simona
Bonasera)
2005: I fratelli Grimm e l’incantevole
strega, di Terry Gilliam (La Regina dello
specchio)
2005: Per sesso o per amore?, di Bertrand
Blier (Daniela)
2006: N (Io e Napoleone), di Paolo Virzì
(Baronessa Emilia Speziali)
2006: L’eletto, di Guillaume Nicloux (Laura
Siprien)
2007: Manuale d’amore 2. Capitoli
successivi, di Giovanni Veronesi (Lucia)
2007: Shoot ’Em Up – Spara o muori!, di
Michael Davis (Donna Quintano)
2007: Le Deuxième Souffle, di Alain
Corneau (Simona, alias Manouche)
2008: Sanguepazzo, di Marco Tullio
Giordana (Luisa Ferida)
2008: L’uomo che ama, di Maria Sole
Tognazzi (Alba)
2009: La vita segreta della signora Lee, di
Rebecca Miller (Gigi Lee)
2009: Non ti voltare, di Marina de Van
(Jeanne #2)
2010: L’apprendista stregone, di Jon
Turteltaub (Veronica)
2011: Manuale d’amore 3, di Giovanni
Veronesi (Viola)
2011: Un été brûlant, di Philippe Garrel
(Angèle)
2012: Le stagioni del rinoceronte, di
Bahman Ghobadi (Mina)
2013: Benvenuti a Saint Tropez, di Danièle
Thompson (Giovanna)
2014: Le meraviglie, di Alice Rohrwacher
(Milly Catena)
2015: Spectre, di Sam Mendes (Lucia
Sciarra)
2015: Ville-Marie, di Guy Édoin (Sophie
Bernard)
2016: Mozart in the Jungle, stagione 3, di
Roman Coppola, Jason Schwartzmann e
Alex Timbers
2017: On the Milky Road – Sulla via lattea,
di Emir Kusturica (Nevesta)
2017: Twin Peaks 3, di David Lynch

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