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CANTO GREGORIANO

A partire dall’VIII secolo, con l’affermarsi del “gregoriano” (da San Gregorio Magno), canto «vocale» che si caratterizza
per l’assenza di accompagnamento musicale, vi è la predominanza della parola sulla musica e segna per i secoli
successivi la via che conduce nel Basso Medioevo, dalla loso a scolastica in poi, ad un accorto allontanamento dalla
musica.
Lo stile melodico del canto gregoriano è inconfondibile: gli intervalli sono diatonici ed il ritmo libero è cantato ‘’a
cappella’’. La melodia è monodica (tutti cantano all’unisono). La durata e l’altezza delle note si percepisce attraverso una
serie di simboli chiamati neumi. La tonalità delle melodie gregoriane è basata su otto modi ecclesiastici, che de niscono
un sistema chiamato octoechos. L’esecuzione è antifonale, ovvero al celebrante risponde il coro. Il repertorio gregoriano
può trovarsi sia in forma diastematica che adiastematica: rispettivamente con o senza riferimenti spaziali. Solitamente i
brani con la scrittura diastematica risalgono all’XI secondo d.C., poiché tale scrittura fu introdotta da Guido D’Arezzo
(991 - 1050 d.C) con il rigo musicale. Egli è considerato come l’ideatore della moderna notazione musicale e del
tetragramma (4 righe) che rimpiazzò la notazione neumatica. Inoltre, per aiutare i cantori nell’apprendimento delle
melodie scritte sul rigo musicale elaborò un metodo, chiamato solmisazione, basato sulla successione di sei suoni
(esacordo) con il semitono situato in posizione centrale. Egli lo derivò dalle sillabe iniziali dei versi dell’inno a San
Giovanni Battista. Dalle sillabe iniziali di questo inno ha praticamente derivato i nomi delle note.
Sempre al monaco benedettino si deve l’invenzione della mano guidoniana, utilizzata come esercizio mnemonico, per
aiutare a ricordare l’esatta intonazione dei gradi della scala, poiché il canto ancora non veniva accompagnato da
strumenti.
In tutto il Medioevo gli strumenti musicali raramente vengono impiegati nelle attività di culto. Le esecuzioni di canti
sacri, estensione della preghiera a Dio, devono rimanere immuni da qualsiasi contaminazione e, pertanto, non debbono
essere accompagnate da melodie strumentali in quanto “l’impiego di strumenti – scrive San Tommaso - o per il carattere del
suono o per la ricercatezza tecnica distrae dalla nalità della preghiera e dalla unione con Dio”. Tuttavia, va tenuto presente che lo
stesso San Tommaso ritiene che di per sé “non sono da escludere dalle esecuzioni musicali gli strumenti che meglio
esprimono e assecondano i sentimenti religiosi, come il auto per la tranquillità e la fermezza dell’anima, gli strumenti a
corda per la dolcezza della contemplazione nel dialogo con Dio e, soprattutto l’organo per ‘’l’entusiasmo religioso che è
capace di suscitare” e in quanto tale quest’ultimo è, infatti, già da secoli l’unico strumento ammesso nelle cerimonie
liturgiche. Al contrario, nella musica profana, che si sviluppa nel corso del Medioevo ed è ampiamente presente nelle
feste popolari, nelle cerimonie pubbliche, nei castelli e nelle corti, trovano spazio, come si può evincere dai documenti
icono-gra ci e dalle miniature, numerosi strumenti musicali: liuto, viella, salterio, ghironda, tra gli strumenti a corda,
chiamati “tensibilia”; auto, tromba naturale o chiarina, bombarda, cornamusa, tra i ati, “in atilia”; tamburo, timpano,
sistri, crotali, tra le percussioni, “percussionalia”. Le melodie della musica profana, però, utilizzate come
accompagnamento alla voce da suonatori di origine popolare (menestrelli, giullari, cantastorie) sono andate in gran parte
perdute, perché trasmesse soltanto in forma orale. Sicché, paradossalmente, gli unici documenti a noi pervenuti dell’arte
strumentale sono relativi agli accompagnamenti musicali di messe e cerimonie che, avendo lo scopo di creare
un’atmosfera di raccoglimento, di arricchire la preghiera e di accrescere la solennità della funzione religiosa, vengono
scritti per mantenerli inalterati e fedeli alla tradizione.
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