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«Incontro con Kent Nagano», di Roberto Corrent

Hamburg, Elbphilharmonie, 28 ottobre 2019

D: Kent Nagano, avrei una prima domanda: ascoltando la Quinta Sinfonia di Mahler che lei ha
proposto qui alla Elbphilharmonie con la Philharmonisches Staatsorchester Hamburg… Il terzo
movimento inizia quasi come un poema sinfonico di Richard Strauss, e poi troviamo quella che mi
sembra essere una citazione della Seconda Sinfonia di Brahms [canto]. Ma non si può dire che
Mahler faccia un uso frequente della citazione di altri compositori: di sé stesso sì, pensiamo al
„Ging heut’ morgen übers Feld‟ dai »Lieder eines fahrenden Gesellen« nel primo movimento della
Prima Sinfonia… Lei crede che ci sia un significato profondo, un senso nascosto?
R: Non credo che da un punto di vista della citazione vi sia un significato particolare, ma
ovviamente per Mahler la Quinta Sinfonia fu un’opera di svolta: abbandona le forme sinfoniche
profondamente influenzate da »Des Knaben Wunderhorn«, ossia le prime quattro Sinfonie. Credo
che la cosa importante nella Quinta sia il cambiamento radicale in termini di forma e struttura: ci
sono il terzo movimento a cui lei ha fatto riferimento, un movimento molto ironico, a tratti persino
burlesco, è una forma di danza, ma a volte una variazione grottesca di una forma di danza… E
questa è di fatto la seconda parte: la Sinfonia si articola in tre parti, e questo fatto in sé rappresenta
un significativo distanziamento dalla forma della precedente, la Quarta ‒ la Seconda Sinfonia era a
sua volta divisa in due parti… ‒ ma la suddivisione in tre parti è molto insolita, in cui il terzo
movimento costituisce da solo la seconda parte. In questo modo attira su di sé un’attenzione
speciale, sulla sregolatezza e l’inventività del movimento. Sì, per quanto riguarda le citazioni
presenti nella musica di Mahler, nella maggior parte dei casi si tratta di ammiccamenti ironici, e a
volte con un’ironia non intesa nel più positivo dei sensi, trasformando in modo burlesco in modo
estremo, come ad esempio nel Finale della Quinta la trasformazione dell’Adagietto, trasformandolo
in una parodia da incolta musica di intrattenimento. Credo che questo atteggiamento fosse piuttosto
radicale per l’epoca, molto progressivo, come lo era la forma, e la struttura… Ci sono momenti in
quel terzo movimento in cui non sei nemmeno sicuro di quale sia la tonalità in cui ti stai muovendo,
perché cambia così velocemente, e non è scritto in una perfetta forma strutturale diatonica, per cui
non soltanto ti trovi perso nella forma, perso nella struttura, ma anche perso nell’orientamento
armonico. [ridiamo]. È davvero uno straordinario passo avanti.

D: C’è un interessante percorso nel concerto che ha proposto nel concerto di questa sera: la prima
pagina era in fa (l’Ouvertüre »Egmont« di Beethoven), poi siamo passati un tono sotto, al mi
bemolle del Concerto di Liszt con Nobuyuki Tsujii solista), e si è conclusa con ancora un passo al
tono sotto, do diesis (la Sinfonia di Mahler). Quando ha allestito questo programma aveva in mente
questa relazione tonale tra le pagine? E tra l’altro anche il bis del pianista era in do diesis minore…
R: Sì, quella è stata una sorpresa, una grande sorpresa, perché ieri sera non ha concesso un bis, ma
voleva farlo stasera, ma non sapevamo che cosa aspettarci. Il programma originale prevedeva solo
una discesa di un tono, perché era composto solo dal Concerto di Liszt e dalla Sinfonia di Mahler,
ma ci hanno chiesto di eseguire una Ouverture di Beethoven, e sì, l’Ouverture dell’Egmont è in una
tonalità lontana, ma d’altra parte la forza dirompente, la forma trionfante della marcia al momento
della sua apparizione alla fine, come liberazione e libertà, ci siamo detti che a livello di microcosmo
si trovava in sintonia con il momento finale della Quinta Sinfonia di Mahler. Quindi abbiamo deciso
di portare Beethoven, da cui Mahler prende le distanze in modo estremo, entrando nel Ventesimo
secolo, passando attraverso Liszt, una figura molto discussa e controversa con il suo approccio
narrativo, programmatico, descrittivo, apparentemente molto lontano da Beethoven. Ma secondo me
sia per Liszt come per Mahler il riferimento imprescindibile era Beethoven, il punto di partenza.
Quindi abbiamo pensato: «Ok, iniziamo con l’Egmont, urlando una liberazione trionfale».

D: A questo punto credo si possa iniziare dall’inizio, dalla sua esperienza a Berkeley, dove lei è
nato, e dove io ho trascorso un anno a studiare al Music Department con Richard Taruskin, Wye

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Allenbrook e Mary Ann Smart. Che esperienza ricorda dagli anni che lei ha trascorso con
l’orchestra locale, la Berkeley Symphony (che lei ha diretto per più di vent’anni) e poi con
l’Orchestre symphonique de Montréal… A Berkeley ho trovato un grande interesse per la musica
antica, a cui è pure dedicato un importante festival, il Berkeley Festival & Exhibition of Early
Music: è lì che ha avuto inizio il suo interesse per la musica antica?
R: Ho fatto i miei studi in Musica medievale e rinascimentale, all’Università della California a
Santa Cruz, che è un ramo della University of California, con uno degli studiosi di punta della
musica del Medioevo di allora, il Dr. Edward Houghton, e che ora ha dato alle stampe una nuova
edizione di Ockeghem, il Chigi Codex, ed è a tutt’oggi il massimo esperto di Ockeghem. Siamo
ancora in contatto, anche perché è una musica che mi interessa enormemente. Ma sono giunto alla
musica attraverso studi accademici dedicati alla musica medievale e rinascimentale e lo studio della
composizione. È curioso pensare che quella base in musica medievale, passando per la musica
rinascimentale e andando verso la tecnica del contrappunto ‒ contrappunto modale per giungere poi
al contrappunto tonale e finire al contrappunto atonale ‒ tutto ciò ha formato un fondamento
imprevisto per infine approdare alla direzione d’orchestra: non avevo mai pensato che questa
potesse diventare la mia professione. Avevo studiato pianoforte e anche viola… Ero molto vicino
alla facoltà di Berkeley perché Berkeley e Santa Cruz avevano uno scambio frequente di membri
delle facoltà, e per quelli tra noi che seguivano studi accademici la biblioteca principale e la Hertz
Hall erano i luoghi in cui principalmente si lavorava. Andavamo su (intendo a Berkeley) una volta
alla settimana. Per quanto riguarda il percorso dei miei studi, no, ho conosciuto i professori di
Berkeley molto più tardi, in quanto colleghi, quando ero attivo con la Berkeley Symphony. Arrivai
alla Berkeley Symphony semplicemente su invito.

D: Ci parli della sua esperienza a Montréal, dove se non sbaglio lei sarà ancora per un anno…
R: Ci sarò ancora per un anno. In termini relativi sono rimasto a Montréal per un lungo periodo,
sedici anni, un incarico molto lungo… Sembra che io tenda a restare nei posti piuttosto a lungo:
rimasi a Lione per dodici anni, alla Hallé Orchestra di Manchester per dieci, Montréal sedici, e
Berkeley è stata un’esperienza un po’ insolita, vi rimasi trent’anni… ma questo fu per altre ragioni.
Ovviamente mi sentivo molto legato a Berkeley, alla locale cultura musicale, sostenuta come lei ha
detto da una facoltà di musica davvero molto brillante, dove si incontravano i più importanti
accademici e ricercatori, la base secondo me per un’integrità nella ricerca musicale e nella cultura
musicale, questa è Berkeley. Studiai pianoforte con un professore a Berkeley, e ricordo di aver
preso parte a delle soirée dove si trovavano degli straordinari musicologi che ci offrivano i loro
corsi di analisi musicale, come Oswald Jonas, il discepolo di Heinrich Schenker, con cui studiammo
tutte le 32 Sonate di Beethoven e queste soirées erano il più ricco luogo dov’essere se sei una
persona curiosa, se davvero sei interessato a scoprire cosa si trova nella musica, un luogo così ricco
e fertile… Ma la Berkeley Symphony soffriva di problemi esistenziali: per i miei primi cinque anni
l’orchestra chiuse i battenti prima di terminare la stagione per ragioni economiche, e una delle cose
che appresi inaspettatamente fu come sviluppare un rapporto con la comunità in generale, compresa
la dirigenza politica della comunità, e questa è una cosa diversa dalla semplice raccolta di fondi,
devi riuscire a provvedere alla sicurezza per un’orchestra, dove la comunità deve arrivare a sentire
un senso di appartenenza, devono sentire che appartiene loro e dirsi «questa è la mia orchestra, la
nostra orchestra». Così succede qui ad Amburgo, e a Montréal, ma non succede in tutte le orchestre
di secondo piano, come la Berkeley Symphony. Ecco, imparare questo prima di giungere a Berlino,
o a Parigi, Montréal, fu una lezione molto, molto importante. Una delle ragioni per cui credo che sia
stata importante è perché ho capito che volevo essere certo che quando avessi lasciato l’orchestra
avrebbero avuto un futuro assicurato, che in qualche modo la classe dirigente sarebbe stata così
legata alle radici culturali della comunità, che non avrebbero permesso all’orchestra di fallire ‒
come stava per fare in quei fatidici cinque anni. Ricordo quei primi cinque anni come terribilmente
stressanti: poi finalmente i successivi due anni riuscimmo a portare a termine la stagione, così dopo
sette anni di collaborazione tutti noi avevamo un sentimento di traguardo raggiunto. Poi lentamente
‒ ricordo quando festeggiammo il 25° anniversario insieme ‒ l’orchestra si trovò ad avere un extra,

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cosa che ha dell’incredibile! Così accettai di rimanere per ulteriori cinque anni, solo per essere
sicuro: nelle casse c’era un tesoretto, l’orchestra stava rinsaldando la sua posizione. A questo punto
il mio carico di lavoro al di fuori di Berkeley era tale che non riuscivo più a mantenere lo stesso
livello di coinvolgimento a livello di comunità, e quindi pensai «Mm, questo diventerà un
problema…»: se non sei presente, con un ruolo dirigente chiaro per garantire che i rapporti tra la
società o la comunità e l’orchestra siano attivi e attuali ‒ e questo specialmente nel XXI secolo ‒
puoi facilmente perdere legittimità, nel nostro tempo ogni cosa è posta sotto punti interrogativi!
Non puoi rilassarti e pensare che ogni cosa rimarrà la stessa.

D: A proposito di differenti orchestre: si dice che i Berliner Philharmoniker hanno quel loro suono
distintivo perché hanno la Philharmonie, i Wiener Philharmoniker per il Musikverein, la
Concertgebouw per l’omonima sala… Lei, Kent Nagano, arrivò ad Amburgo quando non esisteva
ancora una Elbphilharmonie. Immagino che l’orchestra ‒ la Philharmonisches Staatsorchester
Hamburg ‒ sia cambiata nel frattempo: lei crede che la nuova acustica in cui si troverà a lavorare
creerà un suo suono speciale?
R: Beh la Elbphilharmonie non è ancora stata messa a punto correttamente, ci stanno tuttora
lavorando. Ma prendiamo questa occasione come un’opportunità: una delle questioni che ci
ponemmo quando si trattava di decidere se iniziare una collaborazione con l’orchestra di Amburgo
oppure no, era il suono intrinseco, ossia qual era il suono caratteristico dell’orchestra. In parte a
questa domanda è impossibile dare una risposta, perché un’orchestra si rigenera, nuovi musicisti
arricchiscono le sue fila, c’è sempre un’evoluzione naturale, come succede ad esempio per una città:
la San Francisco Orchestra non suona come suonava quando vi crescevo io: ha un suono
completamente diverso, anche l’altezza del suono è più alto di quello che aveva allora. D’altra parte
c’è una memoria collettiva, una sorta di DNA, per quanto riguarda certe orchestre, che
appartengono a un club esclusivo, e questo club è ciò che io chiamerei un gruppo di orchestre
originali: Wiener Philharmoniker, Staatskapelle Dresden, e anche la Philharmonisches
Staatsorchester Hamburg, fondata nel 1692 (350 anni fa), e in questo loro suono collettivo puoi
sentire il loro passato, così come il loro presente, e se vi senti il passato e il presente, in quel suono
vi puoi sentire anche il futuro; si tratta di qualcosa che ha a che vedere con tutto ciò che sta tra le
note, tutto ciò che è espressione, che non è in due dimensioni, ma si inoltra nella quarta, nella
quinta, nella sesta dimensione… È una cosa molto difficile da spiegare, ma ogni ascoltatore quando
è in sala è in grado di sentirla e percepirla. Questo è ciò su cui ci siamo maggiormente concentrati
da quando lavoriamo insieme: mantenere quell’unico e particolare suono della città di Amburgo al
pubblico, un suono che è diverso, ricco… Ma bisogna ancora vedere cosa significa ricco: c’è ora
una certa oscurità, ora un velluto, una trasparenza nel suono, ombre, come in un ottimo vino. E
questo è un processo che sono certo anche lei ha sentito stasera: normalmente la Quinta di Mahler si
apre ad ogni tipo di interpretazioni, ma la nostra visione è un’interpretazione che sfrutta anche la
lettura introspettiva, i colori egotistici, e le parti esponenziali dell’interpretazione. E questo viene
dalla particolare cultura del suono che abbiamo qui.

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