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Anna Frezza

IL PASTICCIACCIO DI RONCONI. UN CONTINUO ALTERNARSI DI


DIALOGO E NARRAZIONE

Il Pasticciaccio, opera teatrale di Luca Ronconi andata in scena la prima volta il


20 febbraio del 1996 al Teatro Argentina a Roma, è il contenuto principale preso in
considerazione in questa riflessione. L’opera è una trasposizione teatrale del romanzo di
Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che apparve per la prima
volta, a puntate, sulla rivista Letteratura nel 1946, per poi essere ampliato e ripubblicato
nel 1957. La vicenda è ambientata nella Roma di fine anni Venti, durante il primo
periodo del ventennio fascista. Il racconto è dunque un variegato affresco sociale
dell’epoca e, insieme, una pungente satira del regime. Il romanzo si presenta (vedremo
poi sotto mentite spoglie) come un giallo: in un palazzo di via Merulana abitato da
ricche famiglie borghesi, noto come “Palazzo degli Ori”, si verifica prima un furto di
gioielli, poi l’assassinio della ricca Liliana Balducci. A indagare sull’efferato omicidio
viene chiamato il commissario Francesco Ingravallo, detto “don Ciccio”, il quale era
tutt’al più un conoscente della donna. Con l’inizio delle indagini prende avvio una
vicenda intricata, che rivela l’ambiguo retroscena delle persone vicine alla vittima e
della stessa Liliana Balducci. Dopo alcuni sospetti che non portano a risultati concreti,
Ingravallo svolge un interrogatorio, che sembra decisivo, all’ultima domestica della
signora Balducci, Assunta. La ragazza accusata, però, proclama esasperata la propria
innocenza e qui l’opera si chiude improvvisamente.

L’idea di Ronconi di prendere il testo del romanzo e farlo recitare in una messa in
scena teatrale, ben si presta a una riflessione sulla differenza e sul rapporto tra le varie
tipologie di discorso. È Platone, all’interno del terzo libro della Repubblica, a operare in
primis questa distinzione, a partire dalla quale anche la Poetica di Aristotele avvierà una
riflessione. Platone presenta un sistema tripartito che identifica tre possibili forme di
discorso, o modi: la forma mimetica, ovvero dialogica, che possiamo legare
all’elemento drammatico; la forma diegetica, ovvero puramente narrativa, in cui parla
solo l’autore e la forma mista, un grado intermediario tra mimetico e diegetico.
Tenendo in considerazione vari esempi di testi differenti (da Il bacio della donna
ragno di Puig, a 6 personaggi in cerca d’autore di Pirandello, al Simposio di Platone
stesso) emerge che la forma mista costituisce la parte più consistente. Non è difficile,
infatti, trovare nel genere narrativo del romanzo inserzioni di discorso diretto tra i
personaggi; parallelamente, è comune osservare nei testi teatrali didascalie, anche molto
lunghe, che interrompono lo scambio di battute tra gli attori. Raramente, invece si
incontrano testi puramente mimetici, composti solamente da dialogo, o puramente
diegetici, al contrario privi di momenti dialogici.
Sulla base della classificazione platonica, il linguista e critico letterario Gérarde
Genette sviluppò una tesi per cui all’interno di un discorso narrativo non esiste una
forma diegetica pura, completamente priva di mimesi e risulta quindi inutile attuare una
distinzione netta tra un modo e un altro poiché di fatto «la mimesis è diegesis». Ed è
proprio la sovrapposizione di queste due categorie ciò che avviene con il Pasticciaccio
di Ronconi, sia in quanto trasposizione teatrale di un romanzo, sia per le specifiche
scelte stilistiche operate dall’autore nel fare ciò, che verranno analizzate più avanti. Il
fatto che l’opera di Gadda possa prestarsi sia alla lettura individuale, sia alla recitazione
è emblema del fatto che non esistono modelli di testo assoluti, ma istanze e la loro
combinazione è il punto di forza delle forme espressive.
Successivamente, in un altro saggio, Palinsesti (1982), Genette approfondisce il
rapporto tra narrazione e dramma e sostiene che il racconto abbia rispetto al teatro la
possibilità di utilizzare molti più mezzi testuali e che dunque un testo narrativo sia
molto più ricco di un testo drammatico. Egli afferma che:

Tutto ciò che può fare il teatro, lo può fare anche il racconto, e senza reciprocità 1.

Tale sproporzione è riscontrabile anche nelle categorie di voce e modo, definite


dallo studioso all’interno di Figure III: discorso del racconto, che si riferiscono
rispettivamente a “chi parla” e a “chi vede”. Secondo Genette, in quanto proprie del
testo narrativo, esse non possono essere trasportate a teatro. Lo studioso infatti spiega:

1
G. Genette, Palinsesti, trad it. di R. Novità, Einaudi, Torino 1997, p. 337.
Tutti i discorsi sono in stile diretto, tranne quelli riferiti a un personaggio che
agisce allora come narratore, e con una libertà di scelta che è quella del racconto; non vi
è alcuna focalizzazione possibile poiché tutti gli attori sono presenti nella stessa misura
e constretti a parlare a turno2.

Voce

Secondo Genette, quando si parla di teatro la categoria di chi racconta si azzera


completamente in quanto strettamente connessa all’esistenza di un testo narrativo. Se
durante una rappresentazione teatrale gli attori agiscono direttamente come i personaggi
del racconto, l’esigenza di avere un narratore svanisce. Possiamo infatti assistere
direttamente ai dialoghi e all’azione dei personaggi, inoltre non ci occorre alcuna
descrizione perché vediamo il loro aspetto con i nostri occhi. Genette accetta solamente
un’eccezione che possa far si che si parli di voce all’interno di un testo teatrale:

Quanto alla voce […] essa scompare completamente, tranne nei casi di presenza
di un recitante come l’Annunciatore del Soulier de satin3.

Rispetto a ciò l’opera di Ronconi costituisce essa stessa un’immediata confutazione


della tesi di Genette. Una delle caratteristiche più peculiari e interessanti del
Pasticciaccio di Ronconi sta proprio nel fatto che gli attori, durante la rappresentazione
teatrale, non recitano solamente le battute dialogiche ma anche le parti di testo che si
possono considerare diegetiche in senso stretto. Si riporta in seguito – a titolo d’esempio
– uno scambio di narrazione e dialogo tra gli attori:

INGRAVALLO: Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco


Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati
funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente sugli affari tenebrosi.
Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e
folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due
bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia. […]
SIGNORA ANTONINI: La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in
ragione di e nonostante quell’arruffio strano di ogni trillo e di ogni busta gialla

2
Ivi., pp. 336-337.
3
Ibidem.
imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato
contesto del di lui tempo.
«Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». […]
«Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta
Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non
dico perché fosse mio marito, bon anima! E mo me prendono per un affittacamere! Io
affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume. » 4.

Ci si trova di fronte a dei personaggi che agiscono e dialogano tra loro e, allo stesso
tempo, parlano di se stessi in terza persona. In un primo momento lo spettatore rimane
straniato dallo spettacolo (già di non facile comprensione a causa dei differenti dialetti e
registri linguistici che Ronconi riprende dal romanzo di Gadda), per poi essere obbligato
ad accettare il fatto che gli attori passino continuamente da discorso diretto a discorso
indiretto. Ronconi, infatti, decide di non attuare una teatralizzazione del romanzo,
trasformando il discorso «narrativizzato» in dialogo ed eliminando così la mediazione
del narratore. Egli mira a realizzare un’edizione teatrale dell’opera di Gadda, più che un
suo adattamento scenico, nella volontà di non ridurre la narrazione a dramma.
L’operazione di Ronconi consiste infatti nel prendere il testo dell’opera di Gadda così
com’è, senza effettuare alcun taglio delle parti in cui la parola viene pressa dal
narratore. A questo proposito lo stesso Ronconi spiega:

Uso il testo così com'è, senza mediazioni drammaturgiche, lasciandogli la sua


autonomia di romanzo. Per questioni di durata ho fatto molti tagli, ma non cambio una
sillaba. Attribuisco le pagine ora a questo ora a quel personaggio: chi dialoga, chi
racconta, chi testimonia quanto ha visto o sta vedendo, chi prefigura fatti a venire 5.

Un efficace termine di paragone – chiarificatore sulla questione del rapporto tra


diegetico e mimetico – è costituito dal teatro monologico di Dario Fo. Nel Pasticciaccio
di Ronconi sono date delle dinamiche per certi versi simili e per altri opposte rispetto a
quanto avviene, ad esempio, in Mistero buffo di Fo. Il testo di Mistero buffo, seppur
costituito da molte parti puramente narrative, presenta anche varie battute e didascalie,

4
La presentazione del commissario Ingravallo e della signora Antonini. Qui e nella successiva citazione
dello spettacolo di Ronconi riporto le parti di testo del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via
Merulana di E. Gadda che ho personalmente modificato rispetto all’edizione teatrale.
5
L. Ronconi, La Repubblica, 17 febbraio 1996.
le quali potrebbero benissimo essere assegnate a un certo numero di attori. Tuttavia,
Dario Fo, attraverso voci intercalate, personifica di volta in volta ogni personaggio che
compare lungo il racconto. È quindi possibile notare che il legame tra i testi di Mistero
buffo e del Pasticciaccio sta nel fatto che entrambi presentano una forte componente di
diegetico, ovvero di parti non drammatiche per definizione. D’altro canto essi possono
essere considerati opposti, se osserviamo che in Mistero buffo Dario Fo, oltre a recitare
le parti puramente narrative, si prende a carico l’interpretazione di tutti i personaggi;
mentre nel Pasticciaccio sono tutti i personaggi a spartirsi le battute di un ipotetico
narratore esterno.
Ronconi rompe il sistema di rappresentazione comune del teatro attuale e utilizza
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana come un’occasione per intraprendere un
diverso modo di scrivere un testo drammatico. La base romanzesca da cui egli parte,
ricca di intrecci e di diversi registri linguistici, lo costringe infatti a rimettere in
discussione le categorie drammaturgiche tradizionali. Il narratore onnisciente dell’opera
di Gadda non scompare tramutato attraverso la dimensione puramente diegetica in
azioni e dialoghi, per quanto riguarda lo sviluppo della vicenda, o in costumi e
scenografie, per quanto concerne invece l’aspetto descrittivo, ma permane, permettendo
allo spettacolo di Ronconi di arricchirsi mediante ulteriori forme espressive. Il racconto
in senso letterario diventa una forma alternativa al dialogo nello strutturare la narrazione
teatrale e ciò attiva una comunicazione più intensa tra palcoscenico e platea.
Riprendendo le medesime parole utilizzate da Ronconi:

La tradizionale idea di «battuta» come «misura» chiusa che scandisce


l’architettura drammaturgica viene travolta dal continuum del flusso narrativo 6.

Tuttavia, allo stesso tempo, il disagio che in varie forme e misure caratterizza
l’umanità vitale e dolente della Roma tra le due guerre all’interno del Pasticciaccio, non
ammette filtri. Secondo Ronconi lo squilibrio patologico di queste figure non può essere
raccontato. La forma narrativa, che dilata lo spessore temporale dell’azione, deve quindi
essere continuamente caricata dell’energia, delle pulsioni e della necessità
dell’espressione in prima persona: solo così può realizzarsi la dimensione barocca e
grottesca che Gadda ci propone attraverso l’umanità del suo romanzo.

6
Conversazione con Luca Ronconi, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies» (www.Gadda.ed.ac.uk)
Come già accennato, un altro elemento significativo ripreso dal romanzo di Gadda
riguarda la scelta linguistica. Ronconi stesso afferma:

È la lingua di Gadda a rendere possibile questo trasferimento dalla pagina alla


scena perché presuppone l’oralità. L’impasto linguistico gaddiano è vivo, passionale 7.

La volontà di Gadda di creare un variegato affresco di personaggi si riflette


nell’utilizzo di differenti registri linguistici: colpisce in particolare l’alternarsi della
lingua letteraria, anche dotta o preziosa, e il romanesco; ma sono diversi i dialetti
inseriti (lombardo, veneto, molisano, napoletano). Quindi non solo Ronconi, con
l’inserimento di discorsi in terza persona, porta la componente diegetica nel teatro, ma
anche lo stesso Gadda affronta un tentativo di mimesi interna, in cui ogni mondo si
autorappresenta nella sua lingua. Se Ronconi trasforma gli attori in narratori, Gadda
trasforma le sue lingue in maschere. Tuttavia, l’intenzione di Gadda non è quella di
ritrarre con verismo la società ma di ricostruire i vari dialetti in maniera scientifica, al
fine di creare un impasto linguistico d’insieme.
A tal proposito Ronconi ha riferito di essersi dedicato a una ricerca
essenzialmente ritmica. Il romanesco, così come il veneziano della contessa Menegazzi
e il napoletano del dottor Fiumi, interessano a Ronconi poiché sistemi di accentazione
che corrispondono ad ambiti mentali differenti. Nello spettacolo questa varietà di
dialetti e ritmi si alterna alla lingua del narratore, creando così una mescolanza tra la
mimesi e la categoria della voce.

Modo

A proposito della seconda categoria presa in considerazione da Genette, il modo,


la categoria di chi vede, egli sostiene che «non vi è alcuna focalizzazione possibile» 8
perché ogni spettatore può osservare in modo oggettivo gli attori e le azioni che

7
L. Ronconi, La Repubblica, 17 febbraio 1996.
8
G. Genette, Palinsesti, cit., p 337.
svolgono in scena. Secondo Genette, dunque, l’unico punto di vista possibile in una
rappresentazione teatrale è quello esterno, di chi assiste alla rappresentazione.
In questo specifico caso è vero che l’unico a osservare completamente dall’esterno
la messa in scena è lo spettatore, ma allo stesso tempo è possibile affermare che in un
certo modo anche gli attori partecipano di una prospettiva esterna allo spettacolo che
stanno mettendo in atto. Infatti, se consideriamo il teatro in senso aristotelico, il puro
aspetto mimetico, o anche l’azione degli attori che impersonificano i personaggi, chi
recita, pronunciando anche le battute che nel testo originale apparterrebbero a un
narratore esterno, esce continuamente dalla propria parte teatrale. Parlando di sé in terza
persona il personaggio perde la propria presunta identità monolitica. L’attore partecipa
quindi a un doppio punto di vista: interno alla vicenda, come personaggio, ed esterno,
impersonando parzialmente la parte di narratore onnisciente, che osserva da fuori i fatti
e i personaggi stessi. In tal modo egli si inserisce in un livello intermediario tra la pura
mimesi e la focalizzazione completamente esterna del pubblico. Inoltre, attraverso
l’inserimento della metalessi narrativa nel teatro, il narratore può a tutti gli effetti
«operare egli stesso gli effetti che canta» e manipolare a suo piacimento la componente
mimetica, secondo Genette invece oggettiva. Allo stesso tempo è propria di questa
duplicità anche l’impossibilità del narratore di modificare la vicenda, in quanto
osservatore esterno a essa.

Tempo

A questo punto risulta utile analizzare un’altra parte del Pasticciaccio, al fine di
collegarci a un’ulteriore categoria genettiana, quella del tempo. Come già detto sopra, al
centro del romanzo c’è il sanguinoso omicidio della signora Balducci. In seguito a tale
avvenimento lo spettatore si trova di fronte al corpo esamine della donna che sottostà
allo sguardo del commissario Ingravallo, giunto nella scena del crimine per svolgere le
indagini. La scena, sebbene cruda, non ha nulla di sconvolgente per il momento se non
che, a un certo punto, la morta prende vita e comincia, come faceva prima, a parlare di
se stessa in terza persona. In seguito è riportato l’esatto punto in cui ciò avviene:
INGRAVALLO: Entrati appena in camera da pranzo, sul parquet tra la tavola e la
credenza piccola, a terra, quella cosa orribile.
SIGNORA BALDUCCI: Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame,
supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi
al petto: come se qualcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel
dessous, o indagarne lo stato di nettezza. […]

Liliana Balducci, sebbene una volta uccisa cessi di esistere come personaggio,
continua a essere presente in scena come narratore, rappresentando in tal modo la
massima espressione della duplicità dell’attore in questo spettacolo. La scelta espressiva
di Ronconi, dell’unione del diegetico e del mimetico, permette così anche il
superamento dello scoglio della morte di un personaggio e della sua conseguente
scomparsa, seppur rimanendo all’interno di una dimensione reale. La signora Balducci,
infatti, non diventa uno spettro o un’apparizione evanescente ma continua a esistere
poiché all’interno di un altro livello: quello della narrazione, intermediario tra pubblico
e recitazione. Il ruolo di Liliana come narratore è per noi fondamentale al fine di capire
il retroscena oscuro del suo personaggio. Ad esempio, ci viene raccontato che la donna,
ossessionata dal fatto di non poter avere figli, provava un morboso affetto per il
“signorino Giuliano”, suo cugino, al quale aveva addirittura regalato dei gioielli in
cambio della promessa di darle in adozione il suo futuro primogenito; o ancora che ella
era solita far venire a casa sua delle giovani e avvenenti ragazze, le “nipoti”, che
accoglieva come figlie per compensare la solitudine e la mancata maternità.
Tutti questi fatti appartengono a un tempo passato rispetto alla vicenda
dell’indagine fruita dallo spettatore. Tramite l’intromissione diegetica di un
personaggio, Ronconi varia l’ordine temporale e, attraverso l’analessi, il pubblico può
assistere a momenti del passato della deceduta. Tuttavia, si tratta di avvenimenti che nel
tempo dello spettacolo sono successivi alla morte di Liliana, fatto che strania lo
spettatore che osserva completamente da fuori la vicenda, al quale pare quasi che la
donna possa continuare a vivere anche dopo la sua scomparsa.
Per quanto riguarda invece la categoria della durata, e in particolare la variazione
della velocità, Genette ammette solamente l’esistenza di una scena isocrona, dove il
tempo del racconto coincide con il tempo della storia. Tuttavia, qui il tempo della
narrazione, che si presta soprattutto alla descrizione dei personaggi o all’introduzione di
ciò che essi stanno per fare, risulta dilatato rispetto a quello più rapido dei momenti in
cui gli attori si scambiano le battute. Di conseguenza ci troviamo di fronte a un tempo
che varia spessissimo il proprio andamento, continuamente rallentato dai momenti
diegetici. Il Pasticciaccio si costruisce dunque su di un delicato equilibrio di continuità
e discontinuità.

All’inizio di questa riflessione si è accennato al fatto che il romanzo di Gadda si


presenti come un giallo, per poi smentirsi dal momento che in realtà del giallo ne
possiede solo le sembianze. Le caratteristiche di questo genere letterario sono tutte
riconoscibili: c’è un furto di gioielli e soprattutto c’è un delitto, che dà origine
all’inchiesta, sviluppata nella maniera più classica. Tuttavia, il lettore non fatica a capire
che la struttura del romanzo poliziesco contiene qualcosa di celato. Racconta un
omicidio e, nello stesso tempo, riflette intorno alla natura complicata dei gesti umani,
attraverso un punto di vista legato tanto all’epoca storica in cui l’opera è ambientata,
quanto al periodo in cui il romanzo è stato scritto (il secondo dopoguerra). Ma ciò che
più discosta la vicenda da un classico giallo è il finale. L’opera, infatti, non si conclude
con l’identificazione di un colpevole, ma con un finale aperto, quasi a voler suggerire
una colpa collettiva del delitto. In relazione al finale Ronconi, seppur rimanendo fedele
al “non detto” del romanzo e al conseguente effetto di sospensione, privilegia quella che
egli chiama «un’opzione di lettura»:

L’ipotesi che Assunta abbia assassinato Liliana prende corpo nella scena finale
dello spettacolo passando attraverso la definizione dell’ambiguo rapporto di
sdoppiamento che unisce Assunta a Virginia − assassina esplicitamente smascherata in
Palazzo degli ori e implicitamente incriminata nella versione in rivista del romanzo 9.

Ronconi stesso parla però di «ipotesi» piuttosto che di certezza, lasciando il finale
ancora drammaticamente aperto.

Fino ad ora si è cercato di analizzare l’opera di Ronconi attraverso le diverse


categorie genettiane. Tuttavia, emerge da questa riflessione come in realtà la modalità
espressiva del Pasticciaccio porti a focalizzarsi più che sulla distinzione, sul nesso, in

9
Conversazione con Luca Ronconi, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies» (www.Gadda.ed.ac.uk)
particolare tra le sfere del modo e della voce. Lo spettacolo, infatti, mette in evidenza
all’interno del teatro – inteso in quanto pura mimesi ma anche come testo drammatico –
l’importanza sia di chi racconta, sia di chi è raccontato (e allo stesso tempo di chi vede e
di chi è osservato). Nel Pasticciaccio entrambi i ruoli vengono racchiusi in chi recita,
che in tal modo non si pone in una dimensione totalmente interna allo spettacolo – come
avviene tradizionalmente per il personaggio – o completamente esterna – come invece
quella del narratore onnisciente o ancor più dello spettatore – ma in un livello
intermediario, che fa si che egli possa raccontare o descrivere, recitare e allo stesso
tempo osservarsi da fuori, attraverso l’immenso potenziale della mescolanza di diegesi e
mimesi.

Bibliografia

C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, 1989

Conversazione con Luca Ronconi, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies»


(www.Gadda.ed.ac.uk)

G. Genette, Palinsesti, trad it. di R. Novità, Einaudi, Torino 1997

L. Ronconi, La Repubblica, 17 febbraio 1996

L. Ronconi, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, edizione Rai, 1996

P. Vescovo, saggio Forse c’è di più (a mo’ di postilla teorica)

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