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Lezione 15

02/05/23
Letteratura italiana contemporanea

Oggi affrontiamo in maniera un po’ più ampia quello che in parte avete recepito attraverso il documentario
su Prisco che avete visto la scorsa volta con Scialò, “Il signore del romanzo”, ovvero la produzione
romanzesca di Michele Prisco e in particolar modo quello che è il racconto della città che viene da due
romanzi in particolare: “La dama di piazza” e “Una spirale di nebbia”.
Michele Prisco è uno scrittore che nasce a Torre Annunziata nel 1920. Diciamo che questo documentario che
avete visto, il primo documentario realizzato in assoluto su Michele Prisco, è il frutto delle celebrazioni,
delle attività del centenario della nascita dello scrittore che sono cominciate nel 1920 (forse la prof intendeva
2020) e si sono concluse lo scorso anno.
Michele Prisco ebbe una vita piuttosto longeva perché è venuto a mancare nel 2003. È uno degli scrittori
d’area napoletana, e qui l’accezione di “aerea” è ancora più importante perché è di Torre Annunziata, quindi
in realtà è originario della provincia di Napoli, e questa provincia napoletana è al centro dei suoi numerosi
romanzi. Michele Prisco, come poi avrete modo di vedere nel documentario, è uno di questi scrittori che
abbiamo conosciuto che è maggiormente legato all’idea del romanzo ben fatto ed è l’autore più prolifico in
tal senso. La Capria l’abbiamo conosciuto: ha scritto dei romanzi ma, come dirà lui stesso, ha scritto sempre
un solo romanzo. Domenico Rea ne ha scritti due, “Una vampata di rossore” e “Ninfa plebea”. Incoronato ne
ha scritti un po’ di più, però è una situazione marginale, tra l’altro lui è molisano quindi ha sempre questa
difficile collocazione. Compagnone scrive dei romanzi ma non così quanto Prisco e non con quell’idea di
costruzione della struttura, del personaggio o quello sperimentalismo dello stile e dei generi, che caratterizza
solo Prisco.
Tutti i romanzi di Prisco li trovate per esempio sulle bancarelle, in vecchie edizioni, quelli che invece
vengono ripubblicati sono “Una spirale di nebbia” (che è un libro che ha vinto il premio Strega, il più
famoso), “La provincia addormentata” (che è il suo esordio e sono racconti, 1949), e adesso Rizzoli
ripubblicherà “Gli altri”, l’ultimo romanzo di Prisco dal quale hanno tratto un film che uscirà in estate.
Anche di “Una spirale di nebbia” c’è un film di Eribrando Visconti, nipote di Luchino Visconti, che però non
è un granché, ha molte soluzioni personalissime di ambientazione, un taglio molto più erotico del romanzo
stesso e infatti non piacque molto all’autore, ma questa cosa non ci interessa.
Tra romanzi e racconti Prisco scrive una ventina di opere più saggi, è il fondatore de “Le ragioni narrative”,
scritti di arte e anche di cinema, fu critico cinematografico de “Il Mattino”, e tutti i suoi articoli sul cinema
sono stati editi di recente da la casa editrice Ad Est dell’Equatore per la cura di (?).
“La dama di piazza” non è stata ripubblicata, la si trova in due edizioni, una di Rizzoli e una economica.

Quali sono gli elementi che contraddistinguono la prosa di Prisco?


I romanzi di Prisco sono stati sempre accolti in una maniera un po’ controversa per delle ragioni specifiche.
Sono romanzi piuttosto voluminosi, di grande architettura, intorno a cui ruotano numerosi personaggi, e che
molto spesso sono stati accostati alla tradizione ottocentesca. Ovviamente le ambientazioni dei romanzi
sono per la maggior parte la provincia napoletana, solo “La dama di piazza” è ambientata a Napoli, e i
personaggi sono tutti borghesi, quindi tendenzialmente prisco offre un ritratto della borghesia provinciale
meridionale sottolineandone il conformismo, le ipocrisie, le perversioni, anche con un certo moralismo. Sono
per lo più romanzi famigliari. Questo ha generato appunto un’accoglienza piuttosto controversa per varie
ragioni.

La prima ragione è che, non tanto i racconti de “La provincia addormentata”, perché siamo nel 1949 e c’è
ancora un odore di neorealismo, ma i romanzi che vengono pubblicati tra la fine degli anni Cinquanta fino
agli anni Sessanta/Settanta, e sono numerosi, vengono pubblicati in una fase in cui il contesto letterario sta
mutando in maniera piuttosto forte, e nasce la polemica intorno all’avanguardia del gruppo ’63: un gruppo di
scrittori piuttosto giovani che proveniva dall’esperienza del Verri, che si impongono sul dibattito nazionale
provando a sradicare, come ogni movimento di avanguardia è un movimento di rottura, anche piuttosto
violenta, rispetto all’idea del romanzo, alla sopravvivenza dell’autore, alla necessità di costruire dei
personaggi, alla necessità di essere leggibili dal lettore, è un movimento di avanguardia che scardina
completamente idea del romanzo “tradizionale”.
Questo movimento di avanguardia ha il suo luogo di origine nel famosissimo convegno di Palermo nel 1963
da cui poi ha origine l’etichetta gruppo ’63. Questi giovani sono così assennati ed energici che si impongono
con le loro critiche anche durissime sulla scena nazionale, pur rappresentando una fetta di autori piuttosto
limitata. Qual è l’obiettivo principale, il bersaglio del gruppo ’63? È senza dubbio il romanzo ben fatto,
costruito, ben fatto inteso come di largo consumo, accessibile al largo pubblico, il romanzo che usa una
lingua media, che ha una struttura riconoscibile, che ha un meccanismo di evoluzione della trama ben preciso
e magari rientra anche in una tipologia di genere. E infatti la polemica più forte del gruppo ‘63 riguardava
Cassola e Bassani, due autori piuttosto importanti che vennero definiti le “liale” del romanzo. Liala era lo
pseudonimo dei romanzi rosa, i romanzi per le donne, senza alcuna ambizione di artisticità, di rottura, di
sperimentalismo. “Il romanzo ben fatto” ci fa capire anche perché uno come Prisco in quel contesto sia stato
un po’ messo da parte, perché in realtà la tipologia di romanzo, se pur con trame diverse, rientrava in questa
struttura che veniva stigmatizzata. D’altra parte, lo stesso Prisco quando fonda insieme ai suoi amici “Le
ragioni narrative” lo fa anche per questo, per dare una nuova proposta di romanzo che fosse lontana
dall’avanguardia francese, ma anche un po’ in Italia si sentivano gli umori di questa polemica contro il
romanzo, di questa affermazione dell’inutilità del romanzo come genere che potesse rappresentare uno
strumento di conoscenza, l’inutilità, la morte dell’autore stesso, tutte polemiche contro le quali “Le ragioni
narrative” resiste, e quindi anche lo stesso Prisco.
Questa tematica borghese, questa costruzione perfetta del romanzo, questa volontà di sperimentare la lingua
però nascondendo questa sperimentazione, senza percepire un elemento di rottura forte, viene accostato
appunto all’800. Però, se guardiamo bene, in realtà in Prisco non c’è nulla di ottocentesco. Anzi, diciamo che
se immaginiamo l’800 e l’eredità del Naturalismo come il filone verghiano, vediamo che Prisco ha una strada
assolutamente anti-ottocentesca.
Il romanzo ottocentesco ha generalmente un narratore onnisciente; in Prisco invece il narratore non è mai
onnisciente, la narrazione è affidata a un personaggio, a un narratore interno che è portatore di un preciso
punto di vista. Addirittura per esempio in “Una spirale di nebbia” abbiamo una moltiplicazione dei punti di
vista, non fatta in una maniera così caotica come in La Capria, ma sistemata, per cui per esempio abbiamo un
fatto, un delitto, e c’è un’inchiesta, e ogni capitolo è un personaggio che racconta la storia di questo
eventuale delitto, se c’è stato, se non c’è stato, lo vedremo meglio dopo.
In “Una spirale di nebbia” ogni capitolo è il punto di vista di un personaggio interno alla famiglia o che ha
delle relazioni con questa famiglia che viene sottoposta ad indagine, e questo significa già adottare un punto
di vista anti-ottocentesco, anti-naturalistico, perché se io costruisco una storia dove c’è una sequenza con
punti di vista differenti io non avrò mai l’obiettività del racconto e non raggiungerò mai la verità, che è un
po’ il gioco che fa Prisco con il lettore: tirarlo in una storia e metterlo di fronte a tante prospettive, e
concludere con senza mai arrivare alla verità, proponendo quindi l’interrogazione sulla verità eventuale,
stimolando il lettore a ragionare sulle cose che si vivono e succedono ma senza pervenire alla soluzione.
Questo è un processo certamente anti-naturalistico. Per questo è fondamentale che si ritorni a una narrazione
che sia in grado di essere trainata da un personaggio forte, che addirittura ambisce a staccarsi dalla storia
stessa, a diventare esemplare e a rimanere nella storia al di là della vicenda e del romanzo (personaggi
esemplari, come il conte di Montecristo è l’emblema di un certo tipo di valori, Anna Karenina, Lolita, noi ce
li ricordiamo come personaggi e non sono dei tipi, non rappresentano delle virtù o dei vizi come la lussuria,
l’avarizia, ma sono personaggi complessi che rimangono nella nostra memoria come termini di confronto
continui). Prisco ambisce a questo tipo di personaggio, a costruire un personaggio che resti nella memoria.
Però questo personaggio non è costruito alla maniera tradizionale, ma è ovviamente frutto di una costruzione
più sperimentale, meno violenta e meno di rottura.
In che senso?
Dice prisco che, se pensiamo ai racconti dell’ottocento, vediamo che il personaggio veniva descritto in un
certo modo, c’era l’ambiente, poi entrava il personaggio, c’era la descrizione fisica, la descrizione morale, la
descrizione psicologica, la rete delle famiglie, si percepiva tutta una costruzione molto precisa. Dice Prisco
che i suoi personaggi non seguono questa scaletta. Alle volte, alla fine di una storia, probabilmente il lettore
non riesce neanche a figurarsi com’è fatto questo personaggio, se è biondo, se ha gli occhi azzurri, di che
estrazione sociale è, vagamente si po' capire l’età, ma in realtà non ha delle caratteristiche, non è un
personaggio che affonda su certezze rappresentative canoniche. Anche questo è un modo nuovo che Prisco
adotta per raccontare in maniera personale, tardo-novecentesca, le sue storie.
Questo significa che in realtà, e lo sottolinea anche molto bene Pomilio, quando si accusa Prisco di fare un
racconto di tranche de vie, provinciale, o di fare un racconto ottocentesco, è una concezione superficiale
dettata molto spesso da queste trame molto complesse, dal volume dei romanzi, da questa attenzione al
paesaggio che va insieme al personaggio, c’è un aspetto descrittivo forte; però la struttura, la tecnica, mette a
frutto tutte le conquiste della tradizione novecentesca, adottando però una tecnica compositiva che è quella di
matrice inglese, quella del romanzo ben fatto, che è finalizzata ad essere letta da un pubblico medio, ad
avere quanti più lettori possibili.
Prisco pubblica “La provincia addormentata” per Arnoldo Mondadori editore, che è lo stesso editore con cui
Rea aveva pubblicato “Spaccanapoli”, quindi insomma un editore che era attento in quel periodo, e la collana
era “La medusa arancione”. Poi Prisco scrive “Gli eredi del vento”, un romanzo del ’51 in cui si racconta la
storia di un uomo che sposa cinque sorelle, ambientato in provincia; è una riflessione su questo dramma
familiare, c’è un uomo che si sposa le sorelle e alla fine la quarta si suicida perché quasi entra nel
meccanismo psicologico che questa storia del matrimonio delle sorelle deve continuare e lei si suicida per
fare in modo che si arrivi alla quinta sorella. Quando lo legge Mondadori, gli sembra un po’ troppo e Prisco
si incavola dicendo che non è una questione di numeri, si parla di letteratura, e chiede qual è il problema.
Alla fine non si accordano e Prisco passa alla Rizzoli. Questo romanzo vince un premio letterario e questo
premio prevede la pubblicazione con Rizzoli: da quel momento, Prisco pubblicherà sempre con Rizzoli.
Perché vi dico questo? Perché Rizzoli è un editore cosiddetto generalista, non pubblicava autori raffinati,
sperimentali, cercava il largo pubblico, e cercava dei romanzi accessibili alle vendite. Dunque Prisco subisce
anche questo doppio ostracismo dovuto al fatto che pubblicava con un editore che guardava a una qualità
media, quindi anche la destinazione editoriale alla quale lui si rivolge in qualche modo lo pregiudica: prima
ancora di essere letto, pubblicando con Rizzoli, sei stigmatizzato come un autore di largo consumo. Questa
cosa fa capire perché il suo era considerato romanzo ottocentesco, perché c’è la tranche de vie, sono tutte
accezioni che in realtà non si ritrovano in quella che è l’essenza dei romanzi di Prisco
La prosa di Prisco, ha scritto qualcuno, è una prosa a spirale, riecheggiando la “spirale di nebbia”, perché è
una prosa che spesso sovrappone i piani temporali delle storie, e qualcuno ha detto proprio che lo sviluppo
della trama dei romanzi di Prisco non è in diacronia, non è cronologico, ma è in sincronia: succedono nello
stesso tempo diverse cose, quindi anche quando un personaggio fa un flashback, che ricorda una storia, poi il
capitolo successivo riprende un istante da un altro punto di vista, quindi tutto si va a intricare e a sovrapporre
con un meccanismo che però non mette in luce una verità, ma sembra inabissare sempre di più questa
possibilità del lettore di arrivare a vedere la luce di questo giallo, di questo mistero.
Prisco sicuramente è uno scrittore che, come abbiamo visto per altri scrittori e soprattutto La Capria, mette a
frutto sia la lezione di Verga per quanto riguarda le tecniche espressive, per esempio dell’indiretto libero, sia
la lezione dei novecentisti, quindi di Proust per quanto riguarda il meccanismo di memoria involontaria, e di
Joyce per il monologo interiore. C’è una vicinanza dunque con La Capria in questo senso, rispetto ai modelli
letterari. È una generazione, la famosa generazione senza maestri, che è accomunata da questo aver
riscoperto la letteratura del modernismo un po’ tardi, e di averla però messa a frutto in maniera personale,
originale, una cosa che capita molto spesso a gli scrittori che stiamo esaminando. In questo senso li
caratterizza come gruppo, nonostante parliamo di autori che invece questa idea di gruppo di scrittori
meridionali l’aveva sempre un po’ sofferta. E lo stesso Prisco, come gli altri, è uno che non vuole sentirsi
dire che è uno scrittore meridionale né tantomeno napoletano, perché viveva questa etichetta come una
gabbia sociologica, dirà “non capisco perché la società letteraria italiana abbia questo razzismo critico”, cioè
lo deve considerare uno scrittore meridionale quando poi magari Calvino non è uno scrittore piemontese,
perché dobbiamo etichettare questa cosa quando poi Carlo Levi è lo scrittore meridionale per eccellenza pur
essendo piemontese? C’è sempre questo aspetto. Però poi, in un’intervista con Luciano Luisi nel 1986,
quando dunque Prisco era già abbastanza navigato e c’era stata l’esperienza de “Le ragioni narrative”, dirà
con onestà:
“I miei romanzi sono ambientati nel meridione perché là sono le mie radici, ed è la terra che io
conosco meglio e quindi non potrei farne degli sradicati parlando di personaggi triestini […], e
così finisco con lo scoprire le mie corde meridionali perché credo che in questa famiglia di cui
stiamo parlando […] questa famiglia nel meridione ha sofferto di più, su di sé, sulla sua pelle,
certe lacerazioni, certi squilibri.”
Quindi lui di primo acchito rifiuta l’etichetta di scrittore meridionale; poi, ragionando sulle sue opere,
conviene con Luisi che in realtà tutti i suoi romanzi sono ambientati al sud, nella provincia napoletana
soprattutto, e raccontano la borghesia provinciale del sud, una borghesia che ha avuto delle trasformazioni
socio economiche, magari da borghesia contadina è diventata borghesia industriale, magari questi borghesi
non hanno più i contadini che coltivano le olive ma hanno le industrie, una fabbrichetta, e si spartiscono le
cose, però i valori, i modelli di riferimento sono più o meno gli stessi. Essendo un narratore di famiglie (non
per famiglie, ma un narratore che racconta la famiglia), è chiaro che, raccontando la famiglia meridionale,
ovviamente lui riconosce una corda meridionale, e se è vero che dopo gli anni ‘60 c’è stata un’omologazione
culturale (quello di cui abbiamo parlato spesso), e se quindi in realtà le differenze tra nord e sud si sono per
certi aspetti livellate per quel che riguarda il consumismo, un certo tipo di valori, quelli del consumo e
dell’edonismo che sono entrati anche nella borghesia meridionale, comunque il sostrato culturale del
meridione ha fatto in modo che la modernizzazione avesse avuto un effetto un po’ più deflagrante al sud che
non al nord. Per quello che riguarda poi altri cambiamenti all’interno della famiglia, del lavoro, della
condizione della donna, pensate alla legge sul divorzio che è stata approvata, “Una spirale di nebbia” in parte
recepisce queste problematiche, questo dibattito sulla parità di genere, sui diritti, sull’eguaglianza, quindi
trasformazione culturale nella famiglia che naturalmente al sud ha pesato di più. E quindi lui dice che in
effetti non gli piace questa etichetta di scrittore meridionale e di essere associato a tutti i suoi colleghi, perché
ognuno di loro ha le proprie specificità, però riconosce che egli racconta la famiglia del sud.
Poi ragiona anche di un altro tassello importante che abbiamo visto, quello dell’impegno, o meglio del
disimpegno.
Abbiamo visto come l’evoluzione dei fatti storici ha cambiato la concezione dell’intellettuale che da engagé
è diventato impegnato ma su fronti diversi, e che ormai è caduta l’idea della militanza di partito, e in Prisco
questo aspetto del non impegno è ancora più forte, perché lui non ha mai manifestato neanche un
orientamento a sinistra, l’attivismo politico è completamente assente. Dirà su quest’accusa:
“In fondo mi si fa l’accusa di essere uno scrittore poco attento a una certa realtà impegnata,
diciamo.”
L’accusa è anche quella di non aver mai fatto denuncia sociale nei termini tradizionali: la letteratura
meridionale, lo abbiamo visto con Incoronato e con Rea, è una letteratura che ha uno sguardo forte sulla
questione meridionale, sulle classi subalterne, sul concetto di giustizia, di riscatto sociale su quello che è il
problema del dopoguerra e anche i problemi degli anni ‘50/’60 e quindi anche quando non sono autori di
partito (e quasi tutti non lo sono più dopo il ’56) hanno questo impegno civico forte che è un impegno
politico. In Prisco, invece, questo impegno non si vede, perché lui racconta la borghesia, i privilegi, la classe
dei privilegiati, e li racconta sottolineando soprattutto l’aspetto psicologico dei personaggi, le varie
conflittualità. E questo è un altro motivo di accusa. E lui dice:
“In effetti sono uno scrittore di rapporti familiari, proprio perché penso che la famiglia
costituisca il primo nucleo della società.”
Quindi in sostanza, rispetto al concetto di impegno che abbiamo visto fino ad ora, l’impegno civico nel
sociale, Prisco ha un’idea un po’ più ampia: il suo impegno riguarda la possibilità di ragionare sui valori
dell’uomo, a prescindere dal concetto di classe sociale, e quindi di indagare la famiglia come nucleo base,
come la base dei rapporti sociale all’interno dei quali poi si verificano le tensioni, i conflitti, gli atti più
perversi e trasgressivi che ci possono essere, queste storie diventano dei microcosmi sui quali riflettere.
Questi sono gli argini dell’impegno di Prisco, che è un impegno molto diverso rispetto a quello visto negli
autori precedenti.
“Io credo di non essere uno scrittore che si serve dei moduli stilistici dell’ottocento” questa sua affermazione
ci fa capire quanto sia importante l’aspetto dello stile, della forma, della tecnica, che non hanno rimandi
ottocenteschi: usa il monologo interiore (Joyce), le intermittenze della memoria (Proust), di ottocentesco c’è
poco.
X: è uno schema ottocentesco in cui sono inseriti stilemi novecenteschi?
No, lui rifugge il concetto di schema ottocentesco: l’esistenza di una trama, di una struttura ben composta,
non corrisponde a quegli aspetti di narratore universale, di verità oggettiva, di documentare una realtà, ma
piuttosto mette in discussione tutto. È sicuramente una narrazione famigliare, ma dove l’aspetto che conta di
più è la coscienza, quindi quello che noi abbiamo non è una narrativa di memoria, non sono racconti
memoriali, però abbiamo sul piatto tutto quello che accade nella testa, le opinioni dei personaggi sulle cose,
sui fatti, e che seguono una logica che è quella memoriale, cioè una cameriera racconta ciò che si ricorda dei
fatti ma non in sequenza, li mette uno accanto all’altro, e così si crea una narrazione che sembra ottocentesca
perché ci sono otto capitoli, perché sono ben sistemati e perché alla fine c’è una trama, ci sono dei
personaggi, però è molto lontana dal corrispondere a quelle caratteristiche. Sicuramente non è un romanzo di
avanguardia, è un romanzo che non ha quell’intenzione di rompere con la tradizione e soprattutto con il
lettore. I romanzi del gruppo ’63, quelli più famosi, sono illeggibili, scardinano completamente un’idea di
trama, a volte sono collage. Prisco non è un avanguardista, e neanche un ottocentesco, è un narratore che
sperimenta, uno sperimentalismo che è quella dote che contraddistingue ogni singolo autore e ne fa un
autore certamente non mainstream. Prisco con la lingua, con le tecniche, ci lavora. È uno scrittore che
pretende dal suo lettore un’attenzione maggiore. Lui dice:
“Credo che nei miei libri ci sia anche una sperimentazione stilistica e mai ci sia invece la
presenza dello scrittore come deus ex machina, come burattinaio, quale era nell’ottocento.”
Quindi il narratore non è una presenza ingombrante, non è una presenza che sa e governa tutto. Prisco è un
narratore che fa un passo indietro e fa lavorare e interrogare dialetticamente il lettore con i personaggi.

“La dama di piazza”


È uno dei romanzi più importanti di Prisco, perché è una sorta di romanzo storico. Romanzo del 1961 che
però racconta la storia di una famiglia napoletana, in particolar modo della figlia Aurora, dal 1919 al secondo
dopoguerra. Quindi siamo in un periodo particolare della storia letteraria, in cui il filone del Neorealismo
inteso come racconto della Resistenza, della guerra, delle classi meridionali, del disagio dell’immediato
dopoguerra ormai sta andando a scemare. C’è invece una proliferazione del racconto della modernità, degli
anni ’60, il racconto industriale, calato nell’attualità, e c’è anche in questi anni un’attenzione nuova al
romanzo storico. In questi anni (anni ’60) in Italia rinasce il romanzo storico (ad esempio “Il Gattopardo” o
la Bellonci che pure scrive romanzi storici). Nel caso del meridione abbiamo due romanzi storici
fondamentali: uno è “La dama di piazza”, che racconta dall’inizio del fascismo fino alla fine della Seconda
Guerra mondiale, e “Giornale di adolescenza” di Enzo Striano che, come un diario, racconta lo stesso
periodo, dal fascismo fino ad arrivare ai bombardamenti su Napoli tra il ’43 e il ’45. Quindi sono due
romanzi che raccontano quel momento fondamentale per questa generazione, importanti perché scelgono di
raccontare un periodo storico che era stato il periodo della formazione di quella generazione di scrittori, è un
po’ quel segmento storico con il quale questa generazione deve fare i conti, cioè il fascismo; abbiamo detto
che è la generazione degli anni difficili, del ventennio, che però loro hanno compreso tardi perché erano
piccoli.
Perché in questo periodo rinasce il romanzo storico?
Anche per ragioni culturali, si sente la necessità di andare indietro nel tempo e provare anche a leggere nel
passato i meccanismi del presente, in qualche modo si cerca nel passato una sorta di rispecchiamento con
il presente. Questo era avvenuto anche nel ’61, anno in cui fioriscono molti romanzi storici sul
Risorgimento, 1861, si tende a parlare del 1861 per il centenario e a provare anche a fare delle analisi dopo
un secolo; ad esempio una delle chiavi di lettura più forti rispetto all’unità d’Italia che viene fatta in questi
anni è l’accostamento tra il Risorgimento e la Resistenza: molti romanzi storici degli anni ’60 vanno molto
più indietro nel tempo e fanno questo tipo di associazione. Il tentativo è quello di legare il racconto del
passato al presente in termini di rispecchiamento. Questa cosa in parte la si ritrova, in chiave originale, in
questa “dama di piazza”.
Nella lettura del romanzo storico si parla spesso del personaggio tipico (Lukács, critico di formazione
marxista, ragiona sugli aspetti del romanzo storico e parla proprio del passaggio dal romanzo della cronaca
neorealista al romanzo storico, del rispecchiamento tra passato e presente, e anche della tipicità del
personaggio). Nei romanzi storici del secondo 900 ritorna un personaggio che ha dei caratteri tipici,
esemplari, incarna un certo tipo di valori che lo rendono emblema di un determinato momento storico,
culturale e sociale. Questa tipicità, per quanto riguarda “La dama di piazza”, non è espressa in questi termini:
il protagonista intanto è una donna, Aurora, un personaggio tipico ma perché rappresenta non una classe
sociale, ma la città. Prisco si allinea a quegli scrittori, ovviamente senza un’intenzione precisa, che hanno
giocato spesso con le loro trame su questo rispecchiamento tra protagonista e città, c’è questo binomio
che ritorna.
Che caratteristiche ha Aurora e che caratteristiche ha la città descritta da Prisco, che è la Napoli fascista?
Un po’ questa cosa l’abbiamo conosciuta, per esempio La Capria e Ghirelli dicevano di essere cresciuti come
“pesci in una boccia”: c’è questa dimensione di isolamento rispetto a quello che accadeva, la percezione
degli scrittori napoletani di vivere in una città che non ha contezza di quello che sta accadendo, di quello che
realmente è il fascismo, dell’asse con la Germania, della guerra e di tutto quello che accade. In realtà questa
cosa la si evince anche nel racconto de “La dama di piazza”, in questa specularità tra la protagonista e il
luogo.
Per Prisco la descrizione del paesaggio è importante perché è strettamente collegata all’animo del
personaggio. La realtà napoletana descritta nell’opera si divide: c’è lo spazio di Aurora, il campo spaziale dei
luoghi della protagonista, e poi ci sono i luoghi del potere, dove vediamo rappresentare proprio il fascismo
nelle sue parate, nelle sue forme di manifestazione che storicamente hanno una fondatezza. All’interno di
questa grande città (guardiamo sempre gli spazi con gli strumenti che abbiamo imparato a conoscere) il
quartiere di Aurora, che la rappresenta, è il quartiere di Pontecorvo. Prisco ce lo racconta come un
microcosmo isolato da tutto il resto. Quello che accade ad Aurora, alla sua famiglia e a lei in particolare, è
che mentre la città si muove, vive dei fatti storici ampiamente documentati, anche un po’ di fibrillazione e
l’entusiasmo che all’inizio accolse il fascismo come un momento di scossa e di possibilità di progresso (non
c’era l’idea della guerra in previsione e tutto quello che ne derivò, neanche il regime c’era in previsione), in
realtà quel quartiere è dormiente, che fa la stessa vita, immobile da secoli. Abbiamo dunque descrizioni
molto speculari tra l’identità annoiata, indispettita, isolata di Aurora e il silenzio, l’isolamento dormiente del
quartiere di salita Pontecorvo. Per esempio lei addirittura è descritta come una donna che non si accorge di
niente, quasi cieca (tra l’altro abbiamo visto che la cecità è presente anche nella Ortese, questa idea di non
vedere che è una forma di protezione e di isolamento da quello che realmente accade); invece poi c’è la città.
Aurora si sente come
“un’ammalata grave, condannata a morire intorno al cui capezzali medici pietosi e famigliari
dolenti fingano la commedia della serenità, volendo illuderla che si tratta solo di
un’indisposizione passeggera, ancora qualche giornata di letto e tutto passerà. Ella rassomiglia
ad un cieco che palpi con le dita incerte delle monete di cui percepisce la grana ossidata sul
rame senza coglierne l’effigie che vi sia riprodotta.”
È paragonata a una persona cieca che sente sulle monete che si sono ossidate, consumate dal tempo, è
un’immagine molto complessa, non di largo consumo assolutamente, però che sta ad indicare la caratteristica
di questo personaggio indolente che in questo caso è ammalato, ma non ha una malattia vera, è
semplicemente quasi una forma di depressione rispetto al resto che la isola. Quando poi si tratta di raccontare
il suo quartiere, dice:
“Qui il silenzio, in contrapposizione all’animazione festosa di Toledo, risultava anche più intenso, e
sembrava di entrare a un tratto in un mondo immobile e sordo, totalmente diverso.”
Nel libro vedete tra le citazioni del paesaggio e le citazioni che riguardano il personaggio ci sono proprio
degli aggettivi che ritornano, come “immobile”, “sordo”/“cieco”, una impossibilità di vedere/di sentire.
Invece, il personaggio che è più presente nella storia è questo suo innamorato, una storia molto breve, che si
chiama Lillino: lui si fa coinvolgere dalle parate fasciste, si fa entusiasmare, e infatti non riesce alla fine a
portare avanti questa storia d’amore perché sono troppo diversi. Lui infatti fa dei percorsi nella città che sono
completamente diversi dal raggio d’azione di Aurora che si svolge a salita Pontecorvo, e lui ogni volta che va
li non si sente a proprio agio.
Quello che è interessante è alla fine, quando c’è una scena emblematica, siamo già nel ’45 e Aurora è su a
San Martino, e da lì c’è il panorama sulla città. Il narratore riproduce la prospettiva dall’altro di Aurora che
guarda la città, ma lei la vede sfocata, non nitida. Non è una prospettiva cieca, ma c’è una visione metaforica
della realtà che traduce l’impossibilità da parte della protagonista di riuscire ad afferrare quella realtà. È una
realtà cambiata, siamo alla fine di una guerra e non più nel fascismo, è anche un momento “di vittoria”, c’è il
momento della liberazione, e Aurora dall’alto guarda questa città ma non riesce a comprenderne i contorni,
come se vedesse un grande formicaio che poi si dilata, ha contorni sfumati: ciò rappresenta l’impossibilità di
cogliere e interpretare la realtà, di capirla fino in fondo.
Lei dice:
“La città sembra sfocata, allontanata e perduta come in un mare. Sta ferma o cammina? Forse
cerca qualcosa, il segno di una speranza meno estranea ai suoi antichi dolori, la premessa di un
destino che sia meno precario, e perciò aspetta rassegnata e paziente. E anche lei appartiene a
questo mare, come suo padre e zia Sofia, come Emilia e Tonino, e sale fino a lei da quell’ampio
brulicante formicaio un ronzio che rassomiglia alla voce di una conchiglia e riassume i colori,
gli odori, i richiami, i tumulti, i desideri, i silenzi della città”
Quindi questa città dall’alto, dalla prospettiva di Aurora, è una città dai contorni non definiti, prima aveva
scritto
“un groviglio a guardare da quassù, un crudo e umido intrigo di pietre. Cercava un taglio dritto
da riconoscere una strada e non lo trovava, restava questo aspetto informe e caotico di
concrezione uscita dal mare, rimasta a secco, scavata con lenti e individuali accorgimenti per
trovarvi riparo.”
Il taglio dritto sarebbe chiaramente Spaccanapoli. La prospettiva è sfocata, e lei non ha dei problemi alla
vista. Questa città informe, concrezione dal mare, assomiglia a un formicaio, quindi c’è questa idea quasi di
un’operosità che si intravede perché probabilmente sono le persone che camminano, magari sono gli
entusiasmi del dopoguerra, ma chi lo sa, e poi l’idea del suono della città; vi ricordate anche il ronzio, il
vocio di cui parlava Rea, di quanto è importante rappresentare la città non solo dall’aspetto visivo ma anche
dagli altri sensi compreso il suono, e qui c’è il suono della conchiglia. Su questa conchiglia noi abbiamo
detto tanto: abbiamo detto come la conchiglia alla fine sia un esempio bello ma di spirale, è qualcosa che
rappresenta un’alternativa al labirinto, uno spazio da cui è difficile uscire o addirittura che ti tira verso il
basso, che ti cattura, una sorta di imbuto, di sabbie mobile. Questa idea del vedere dall’alto verso il basso una
città sfocata ci fa pensare al fondale di “Ferito a morte”, quando Massimo De Luca si butta nel mare, un mare
che conosce, nel quale si sente bene, è il mare della Grande Occasione in cui lui sente la vita, sente la natura,
ma c’è quel momento in cui lui guarda giù e non riconosce più la geografia nota nel fondale. Non riconoscere
la geografia del fondale è la stessa sensazione che ha aurora quando sta su, non riconosce più Spaccanapoli,
la base, il riferimento della città. Anche in Rea non c’è Napoli, ma il titolo “Spaccanapoli” è proprio il
riferimento. Questa idea di perdere i riferimenti, a livello metaletterario, si carica di tutte queste suggestioni
che hanno a che fare con la metafora visiva, con la prospettiva, ma è un dialogo tra vari testi che non è
intenzionale, Prisco non voleva di certo parlare di La Capria, ma quello della perdita di riferimenti, della
mancanza di riconoscibilità nella città, nello spazio è un discorso che è fortemente radicato con quei temi
degli anni ’60 e con tutta una serie di autori e di opere che hanno raccontato questo.

“Una spirale di nebbia”


È un romanzo un po’ diverso perché sembra un giallo, ma in realtà non lo è. È premio Strega 1966, un po’
speculare per importanza a “Ferito a morte” di La Capria, anch’esso vincitore del premio Strega. Il critico (?)
nel ’60 dirà “Niente Vesuvio, niente sole e niente canzonette”. Già questo ci dice qualcosa di questo
romanzo, che innanzitutto non è ambientato a Napoli ma è ambientato in provincia, ma Prisco viene
comunque veicolato come scrittore d’area napoletana; in questi anni tra l’altro egli vive già a Napoli, ha già
chiuso “Le ragioni narrative”.
L’aspetto che subito balza agli occhi è il fatto che non sia un’immagine paesaggistica che rimanda
all’immagine stereotipica della Napoli sole, natura paradisiaca, canzone e tutti gli altri stereotipi che sono
stati il primo motore dell’originalità di questi scrittori, che come ci dicevamo all’inizio del corso la prima
cosa che vogliono combattere è una rappresentazione stereotipica della città.
Climaticamente, atmosfericamente, questo romanzo non ha sole, non rinvia a sentimentalismi da canzone
ottocentesca. Si racconta di una morte, che non si sa se sia un delitto o un incidente: la morte di Valeria
Sangermano, coniugata di Fabrizio Sangermano. Sono una coppia di altoborghesi, proprietari di un’industria
abbastanza fiorente, che vivono in provincia; durante una battuta di caccia, che è uno dei principali
passatempi altoborghesi che si poteva immaginare negli anni ‘60, Valeria muore per un proiettile che viene
emesso dal fucile di Fabrizio, il marito. Ovviamente Fabrizio si dichiara innocente, affermando che il
proiettile è partito per un errore, perché era una battuta di caccia e non aveva visto realmente che si trattava
della moglie e non di un animale. Il giudice al quale viene affidata l’indagine inizia a sentire tutti i
protagonisti presenti alla vicenda: a questa battuta di caccia c’erano anche altri familiari, il cameriere, amici,
per cui il giudice va lì per accertarsi che la morte di Valeria sia stata un incidente. Inizia invece a sospettare
che probabilmente c’è l’ipotesi dell’omicidio. Qui parte la questione dell’inchiesta e dei punti di vista, perché
la struttura del romanzo affida a ogni capitolo la ricostruzione della vicenda ma anche la storia famigliare; il
racconto della storia famigliare dei due visto e vissuto dagli altri protagonisti che erano presenti: lo stesso
Fabrizio che è inquisito, Piero, Maria Teresa, Costanza, amici in quella che doveva essere una festa, e
ognuno di loro ovviamente ha sentito qualcosa e raccontato di quel fatto, e ognuno di loro poi incalzato dal
giudice racconta come vedeva la coppia, una coppia in crisi. Ancora una volta abbiamo un romanzo
famigliare, perché Valeria e Fabrizio sono marito e moglie, ed è un racconto sull’usura dei sentimenti, perché
quello che emerge su questa coppia in apparenza florida è che in realtà c’erano dei dissapori, abusi,
tradimenti. Questo ovviamente fa vacillare la posizione di Fabrizio Sangermano. Ma in questo racconto tutte
le verità si sovrappongono e si alternano, per cui alla fine la verità non la scopriamo. Abbiamo solo una
nebulosa finale, che è il racconto che emerge da tutte queste sequenze. Per altro, c’è una maestria pazzesca,
perché ogni racconto, oltre a raccontare alcuni momenti della battuta di caccia, racconta anche episodi
differenti collocati nel tempo che riguardano la coppia, quindi noi in ogni capitolo scopriamo una porzione di
passato della vita famigliare di questa coppia che pero non ha una sua linearità, e la fatica del lettore sta nel
costruire una diacronia che invece Prisco tenta di confondere.
Questo dà l’idea molto precisa di quello che è lo sperimentalismo di Prisco, che però non mina l’accessibilità
della storia, perché parliamo di uno dei romanzi più letti e venduti. È anche vero che il premio Strega ha un
suo indotto, però vince il premio Strega, peraltro proprio contro Calvino.
È interessante di questo racconto il finale.
Come abbiamo visto, in “La dama di piazza” c’è questo finale di ripresa dall’alto della Napoli indistinta. Una
cosa simile c’è anche in “Una spirale di nebbia”. Ovviamente qui la protagonista Valeria non c’è perché è
morta, ma ci sono i suoi funerali.
Nella scena finale del funerale, tutti sono al cimitero: senza pervenire a una verità riguardo a questo giallo,
abbiamo una descrizione molto simile. Non è una descrizione cittadina, ma è la descrizione dell’atmosfera
del cimitero, nella nebbia, sotto la pioggia, dove tutto diventa indistinto, non si percepisce più niente, è tutto
avvolto da questa nebbia che dà quell’idea dell’impossibilità percettiva, di quella confusione che è
speculare a quella che avevamo già visto in “La dama di piazza”, l’impossibilità di afferrare la realtà, la
verità.
Prisco, nelle numerose interviste riguardo alla soluzione del delitto, sul perché non arriva alla soluzione, dice
che è perché non è importante. L’importante è interrogarsi sull’uomo, su questa realtà famigliare, provare a
far uscire tutte queste verità e ragionare. Il fatto che non si percepisca nessuna soluzione probabilmente è
l’atto di verosimiglianza più grande, perché è la ricerca della verità che è impossibile. Impossibile perché non
c’è una verità oggettiva e verosimile per tutti. Vogliamo sapere se l’ha sparata per intenzione o meno? Non è
importante, è importante che abbiamo scoperto tutte le sfaccettature di una crisi coniugale dall’interno della
coppia, perché c’è Fabrizio che racconta, ma anche dalla prospettiva degli altri, di come gli altri vedono
quella coppia e di come poi, guardando quella coppia, guardino loro stessi: sono storie di personaggi che poi
impariamo a conoscere, anche queste molto torbide e complicate, fatte di tradimenti. Alla base di tutto c’è
una riflessione molto profonda sull’amore coniugale che viene fatta in un momento molto particolare, perché
in quegli anni si discuteva la legge sul divorzio, e la crisi di coppia viene raccontata da vari romanzi, tant’è
che quando vincerà lo Strega ovviamente si dirà che Prisco ha vinto il premio perché ha cavalcato una
tematica di moda.

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