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IL POTERE DELLA VOCE DI ORSON WELLES TRA RADIO E CINEMA

L’esperienza della parola è ciò che ha influenzato da sempre l’attività psichica dell’uomo e così
anche il suono influenza i nostri sensi sul mondo. La voce è qualcosa che stabilisce la relazione di
interfacciamento e di frontalità e ha bisogno di essere ascoltata e apre un varco all’interno di un
altro. Essa ci caratterizza e viene associata al nostro aspetto ed è al tempo stesso inscindibile ma
anche separata perché esce da noi. Quando la voce arrivò nel cinema essa era vista come una
sorta di potere da utilizzare al meglio e per questo sono stati molti gli studi condotti sul sonoro
sulle personalità che con la loro voce hanno dato vita a miti indelebili nella mente degli spettatori.
Una delle personalità nel mondo della radio, del cinema e del teatro che ha fatto della sua voce
uno strumento caratterizzante della sua persona e personaggio è sicuramente Orson Welles. Egli a
soli 26 anni era arrivato nel mondo dello spettacolo, ed era stato lo show man più dinamico della
compagnia di prosa del New York Federal Theatre e socio fondatore e direttore artistico della
compagnia di prosa. Da conduttore radiofonico, diventa un’epitome della radio stessa. Per tale
motivo andò a Hollywood con uno dei contratti più generosi mai offerti dall’industria
cinematografica, in cui aveva prodotto, diretto, sceneggiato e interpretato come protagonista un
film.
Nato nel Wisconsin da una facoltosa ed eccentrica famiglia, gli era stata impartita un’educazione
poco convenzionale, ma rimase orfano a soli 15 anni, ciò influenzò così tanto la sua carriera da
portare l’horror e la vecchiaia al centro delle sue opere. Egli mostra fin da subito una passione per
il teatro, in cui si cimenta soprattutto con le tragedie di Shakespeare, allestendo spettacoli con la
compagnia della Todd School for Boys, frequentata tra il 1926 e il 1931, vestendo
contemporaneamente i panni di regista, scenografo, costumista, attore. Egli non ama mostrarsi nel
suo reale aspetto e per questo utilizza moltissimi travestimenti, in cui deforma il suo viso e il suo
giovane fisico, per poter impersonare personaggi più maturi, dato che la sua voce ha un timbro
importante che non va di pari passo con la sua, ancora, longilinea fisicità. Prima che il suo corpo si
ingrandisca nell’età matura, fino a diventare imponente Welles è costretto a ingigantirlo con
l’artificio. In questo modo, la tonante sonorità della sua voce, la sua impeccabile dizione, possono
essere messe a servizio del personaggio. Tanto più grandi sono i suoi travestimenti tanto meno
visibile diventa Welles, lasciando solo alla sua inconfondibile voce il compito di identificarlo. Visibili
invece sono proprio il trucco, l’artificio, la protesi, che acuiscono la dimensione della finzione e
rimarcano la separazione tra attore e personaggio. A 18 anni insieme a William Vance diresse il
suo primo film, una farsa espressionista muta intitolata Hearts of Age, film amatoriale. Scrisse
inoltre un testo interamente suo, intitolato Bright Lucifer, una curiosa mistura di argomentazioni
filosofiche e fantasie gotiche, appesantite da scherzosi e talvolta conturbanti riferimenti
autobiografici, mentre nei sui drammi e film più dichiaratamente politici, rappresenterà il conflitto
in termini di dilemma sociale, in quanto la sua è una morale per certi versi pessimistica; egli
afferma che il male vince sempre e l’unica consolazione è che la hubris del tiranno lo condurrà
fatalmente alla caduta.
Tornato in America dall’Irlanda fondò la New York Federal Theatre e del Mercury Group. La figura
di Welles è caratterizzata da un notevole senso di tensione e contraddizione interna che si può
cogliere in un film come Quarto Potere, riflesso di quelle sottili complessità e di quei contrasti insiti
nella posizione politica di Welles stesso, che si dichiarava socialista, ma le sue regie erano
improntate forse più allo spirito delle avanguardie degli anni venti che a quello impegnato dei
trenta, che si rifaceva alla tradizione dell’espressionismo. Il lavoro di Welles consisteva
principalmente di revival o adattamenti di classici, secondo criteri improntati a una drammaticità
esasperata e con effetti visivi che prefiguravano le immagini dei suoi futuri film. Il Giulio Cesare fu
un grande successo e un trionfo del “teatro di regia”. Altri successi arrivarono con le
rappresentazioni di The shoemaker’s Holiday e di Heartbreak House.
Sempre a New York intorno alla figura di Orson Welles trova ampio risalto l’epifania della sua voce,
una voce fuori dall’ordinario che viene immediatamente notata. In radio non veniva invece notata
la sua “immensa corporatura”, e proprio la “cecità della radio” fu d’ausilio agli esordi della sua
carriera, in quanto non doveva preoccuparsi della propria presenza fisica e poteva liberamente
esprimere con il solo utilizzo dello strumento vocale un registro illimitato di stati d’animo e di
emozioni.

Certo una voce risuona nel corpo (e del corpo) da cui scaturisce: è un corpo che arriva alle nostre orecchie
attraverso colonne d’aria che echeggiano di cavità, risonanze della carne, vibrazioni di membrane e
cartilagini, interferenze di frequenze, intenzioni linguistiche 1

Il suo debutto radiofonico a “The March of Time” il 22 marzo 1935 in cui Welles tramite uno
scherzo acustico dimostrò il suo talento per l’imitazione e la facilità nel cambiare dialetto, accento
ed età che lasciò stupiti i presenti nello studio CBS. In un contesto in cui la parola radio era carica

1
Franco Minganti, Modulazioni di frequenza: l'immaginario radiofonico tra letteratura e cinema, Campanotto, Udine
1997, p. 113
di magia, Welles con le sue qualità aveva creato un vero e proprio “auditorium”, anche perché egli
conosceva profondamente i problemi della radiofonia live e per questo sviluppa l’intuizione
estetica del “soundscape”, ovvero la necessità di integrare nel tessuto sonoro la voce umana, la
musica, i rumori, cosa che viene applicata alla voce di The Shadow.
Welles, dunque, pensava alla radio come a un mezzo più narrativo che drammatico. Con la sua
magnifica voce, in un’atmosfera di onnipotenze e intimità poteva diventare un perfetto storyteller.
Nella maggior parte dei programmi campeggiava la voce di Welles che leggeva ampi brani di prosa
da romanzi famosi, e la musica di Bernard Hermann. Egli riesce ad intuire anche l’importanza che il
proprio nome inizia a rivestire, quasi come se fosse un marchio di garanzia di qualità dello
spettacolo radiofonico, cinematografico o teatrale che sia. È grazie all’efficacia della sua voce, ricca
del background teatrale e del know-how in un mix con le musiche di Hermann, che Welles produce
grandi risultati. La Guerra dei mondi ad esempio, è stata una farsa in cui alla radio Welles e
collaboratori simulavano un attacco alieno, mandando nel panico moltissimi ascoltatori. Questo
espediente doveva garantire al suo autore, sull’onda della pubblicità, la partenza per Hollywood.
La Guerra dei mondi fece di lui il primo rappresentante del “teatro di cronaca”.
La radio, dunque, era un medium documentario negli anni Trenta, poiché univa indissolubilmente
due metodi di persuasione, quello diretto e quello vicario. L’ascoltatore era testimone in prima
persona e la sua voce incorporea guadagnava la loro fiducia, tanto che i sondaggi testimoniano di
un medium che gode di una credibilità maggiore anche rispetto alla stampa e Welles veniva visto
come un oracolo. Mentre Hollywood diventa medium di fiction, la radio di Welles è l’odierno
oracolo. Anche se nella radiofonia wellesiana la fiction è una componente molto spiccata.

Parecchi americani sono cresciuti ascoltando quella voce come se fosse un oracolo. 2

La radio è anche un medium affettivo fatto di singole voci che diventano familiari. Egli entra anche
nella sfera affettiva, poiché ha creato un confine labile tra il Sé e il personaggio. È proprio su
questa stretta relazione tra voce radiofonica e audience che Welles costruisce la sua fama, legata
ad un’aura di magia, in cui un mezzo di comunicazione così distante arrivava ad una
comunicazione molto ravvicinata.

2
E. Barnouw, The Sponsor. Notes on a Modern Potentate, Oxoford UP, New York 1978, p. 29
La radio tocca intimamente, personalmente, quasi tutti, in quanto presenta un mondo di comunicazioni
sottintese tra l’insieme autore/speaker e l’ascoltatore. È questo il suo aspetto immediato: un’esperienza
3
privata. Le sue profondità sublimali sono cariche degli echi risonanti di corni tribali e antichi tamburi.

Welles si accorge che il pubblico invisibile della radio non va pensato collettivamente, ma in modo
individuale, come se si rivolgesse ad ogni singola persona parlandole al telefono o formalmente
attraverso una lettera. In questo contesto la voce di Welles diviene la chiave di First Person
Singular, che potrebbe sembrare un programma prettamente egocentrico ma che si dimostra una
sottile stratificazione di devices concorrenti che ruotano attorno ad una prima persona narrante.
Tale programma offriva alla radio ciò di cui aveva bisogno, una nuova sonorità da mandare in onda
e un nuovo ritmo. Così la presenza “forte” del narratore accentra su di sé e sul proprio esserci
l’attenzione.
Ci sono stati momenti nella carriera radiofonica di Orson Welles di scarsa ispirazione come
sottolinea Sarris, anche se egli deve aver creduto molto in tale attività come testimoniano alcune
foto che lo ritraggono intento e concentrato al microfono, ma la sua autoironia è riuscita sempre a
salvarlo da situazioni di declino troppo pesanti.
Wells non si limita al solo contesto radiofonico e vuole contaminare le diverse forme espressive
passa, ben presto al cinema a causa del bisogno di denaro per tenere a galla il Mercury, così i suoi
spettacoli lo portarono alla RKO. Alle sue spalle aveva già un film completo a tutti gli effetti e il suo
lavoro teatrale mostrava il suo interesse per il cinema. L’RKO era uno studio che si basava
essenzialmente sul talento degli scenografi. Welles era per sua natura un mago il cui particolare
talento non consisteva tanto nella sua pur notevole fantasia e nella sua capacità creativa, quanto
nella consumata abilità di spingere i motivi più scontati del repertorio teatrale fino a livelli ben
superiori rispetto agli effetti consueti. Uno stile personale denso di implicazioni e di rimandi sul
piano storico, culturale e psicologico. Un aspetto fondamentale nella cinematografia wellesiana,
che già era stato predominante nella sua carriera radiofonica e teatrale riguarda sicuramente la
sfera legata alla voce e agli interventi fuori campo e per questo all’interno della sua esperienza
cinematografica Welles mette a frutto il suo bagaglio di conoscenze radiofoniche, in quanto in un
primo momento il sonoro del cinematografico funzionava come quello radiofonico e avrebbe così
provocato gli stessi problemi di percezione di localizzazione acustica della voce, Welles cerca il
modo in modo da non renderla immobile e associata ai corpi dei personaggi.

3
M. McLuhan, Understading Media, McGraw Hill, New York 1964
Il cinema di Welles è uno dei pochi a non ignorare tale “immobilità centrale della voce”, a costruire su di
essa il proprio movimento centrato, come se derivasse da una image rajoutée su di un’emissione
radiofonica4

Dunque la struttura del cinema di Welles è costruita sulla concretezza di una parola
essenzialmente radiofonica, cioè egli sa conosce perfettamente la fissità e l’inerzia dei supporti del
cinema e l’immobilità dell’altoparlante. L’ascoltatore in ogni caso rimane affascinato anche se non
vede, in quanto ha già un’esperienza pregressa data dalla percezione mitica della voce radiofonica,
a cui gli spettatori hanno dato piena fiducia. L’inquadratura sonora è il risultato di un lavoro di
montaggio con l’immagine e di mescolanza tra timbro e volume dei suoni.
Welles cercava di suggerire una serie di tensioni conflittuali sul piano visivo, mentre sul piano della
voce egli cerca di rendere il più naturale possibile il suono che fuoriesce dalle labbra dei
personaggi. Ne risulta così, in Quarto potere, il dettaglio insito sulla bocca di Kane moribondo, che
pronuncia la misteriosa parola “Rosebund”, con un’inquadratura dalle dimensioni iperboliche
tanto da apparire una sorta di provocazione grottesca per il pubblico. Tale espediente non è solo
una sfida di una parola che costituirà l’enigma del film, ma anche il tentativo di imprigionare la
voce dalla sorgente visiva.

I critici hanno spesso accennato alla natura radiofonica di Quarto potere. (In effetti, le prime parole
pronunciate da Welles sullo schermo, dopo il sussurro di Rosebud, sono un riferimento preciso alla sua
trasmissione sull’invasione dei marziani: “non prendete alla lettera ciò che sentite dire alla radio”, dice
ridacchiando). A riprova della sapienza di Welles nell’uso del sonoro, i critici hanno spesso citato i così detti
“missaggi lampo”, ovvero scene in cui la frase di un determinato personaggio rimane bruscamente tagliata
a metà per venire poi ripresa e completata da un personaggio diverso in alto contesto di tempo e di luogo. 5

Nitidamente ripreso in immagini di suggestione tridimensionale, Quarto potere si basa su


un’accurata ricostruzione storica e di costume e su un senso dei conflitti e delle caste sociali; a tali
qualità apparentemente realistiche unisce uno stile recitativo esagitato e nevrotico, e una mise en
scene improntata non solo all’ambiguità ma anche a una densa, complessa molteplicità di livelli,
così molti dei suoi film successivi prescindono da ogni remora naturalistica, da ogni residuo di
buon senso e di decoro convenzionali.

4
M. Chion, La Toile trouée, Parigi 1988
5
J. Naremore, Orson Welles ovvero la magia del cinema, p. 67
Oltre all’attenzione della fonte della voce proveniente dal personaggio inquadrato Orson Welles
sperimenta la voce fuori campo. Il cinema sonoro, infatti, consiste anche nel far vedere un
immagine scura, mentre si lascia udire il suono o la voce di qualcuno che si suppone sia nascosto.
“Acousmatique”:

“Si dice di un suono che si sente senza vedere la fonte da cui proviene” 6

Il terzo uomo Welles fa una spettacolare entrata in scena in cui è centrale il suono.

In un vicolo scuro si ode il tenue rumore dei passi, poi il miagolare di un gatto in primo piano che si struscia
contro i piedi, poi finalmente con l’accendersi di una finestra una sorta di spot illumina dall’alto il sorriso
ironico sul volto dell’attore, ma ecco che, dopo una rapida panoramica in avanti sul primo piano, la luce si
spegne, torna il buio e inizia la fuga segnata dalla corsa dell’ombra sui muri e dal rimbombo non meno
spaventevole dei passi7

Quando la presenza acusmatica è quella di una voce e soprattutto quando questa voce non è stata
ancora visualizzata si ottiene un’entità dalle caratteristiche particolari, come se fossero un’ombra
parlante e che viene chiamata àcusma, cioè un’entità senza volto. La voce narrante nel racconto
fuori campo è immediatamente riconoscibile e può essere definita anche rassicurante perché
fornisce una panoramica sugli avvenimenti che stanno per accadere o ne dà una spiegazione più
esaustiva. In L’orgoglio degli Amberson, ad esempio, Welles non fa parte del cast di attori, ma la
sua presenza si fa sentire con la sua voce fuori campo, infatti, il piano della struttura, può ricordare
i vecchi adattamenti radiofonici di Welles, in quanto riprende direttamente il dialogo del romanzo
in cui Welles racconta in modo ammiccante le vicende ai suoi spettatori, che allora conoscevano
le sue trasmissioni radiofoniche, con battute perfette, come avviene nella sequenza iniziale che
introduce e prepara il ballo degli Amberson, esempio altamente sofisticato di montaggio denso di
significato. Il taglio del film si può definire documentaristico sugli usi del e i costumi del 1873,
Welles descrive gli abiti in velluto delle signore, le buone consuetudini, il tram a cavalli, addirittura
fa considerazioni sul passaggio dei tempi. Dopo soli cinque minuti di film lo spettatore viene come
ipnotizzato e diventa parte di quel mondo dolce e antico di serenate sotto la finestra e grandi
ricevimenti nel salone.

6
M. Chion, La voce del cinema, p. 35
7
P. Valentini, Il suono nel cinema, p. 143
La storia comincia con lo schermo buio e la voce di Welles che ci narra lo splendore degli Amberson,
cominciato nel 1873, fosse durato “per anni e anni, fino a che non videro il loro villaggio del Midwest
allargarsi, oscurarsi e diventare una città”. Mentre si illumina lo schermo Wells parla ancora […] 8

Gli sfondi, i costumi, i volti tendono a persuadere il pubblico che il mondo degli Amberson è reale,
ma i toni sono volutamente artificiosi e sentimentali, tesi a stabilire una certa distanza fra noi e il
dramma. Un secondo momento in cui si ripresenta la voce fuori campo di Welles si trova nel
finale, dove la voce rompe la finzione scenica e si palesa nella figura dello stesso Welles che dietro
il microfono si dichiara rivendicando la paternità del discorso.
La voce fuori campo di Welles è una caratteristica anche per altri film come il Macbeth, di cui ne
aveva già fatto edizioni teatrali e interpretato alla radio. Il film fu fatto in due settimane e mezzo e
con un bilancio di soli 700mila dollari. Il contesto è primitivo ed esotico, ed elimina ogni traccia di
eleganza rinascimentale. Situa Macbeth nel cuore della tenebra, sottolineando la nuda lotta fra
una rozza brama di potere e una rudimentale, essenziale necessità di mantenere l’ordine. Taglia
notevoli passi riducendo la sceneggiatura all’osso. La storia risultava ai limiti della comprensione e
fu costretto ad inventarsi la voce fuori campo con cui rimediare alla meglio per descrivere
l’ambientazione. Nacque così il lungo incipit narrativo–descrittivo.
Per ben dieci anni dopo il Macbeth Welles non riuscì a dirigere nessun’altro film in America. A
parte Quarto potere, l’Infernale Quinlan resta il più straordinario ed emozionante dei suoi film. È
un thriller improntato a una forte carica di satira sociale, il suo stile è “eccessivo”, sempre sul
genere noir caratterizzato dalla voce over di Welles. Il film parla di razzismo, di poliziotti corrotti, di
disordine sessuale, in un’atmosfera splendidamente sordida, dove l’aria stessa rigurgita di rifiuti,
detriti, cartacce svolazzanti qua e là. Tutto questo fa dell’Infernale Quinlan una geniale mescolanza
di arte povera e di raffinatezza continentale, ha tutta l’energica spregiudicatezza di un film di serie
B e la raffinata consapevolezza di un melodramma della nouvelle vague. Le qualità interessanti del
personaggio Quinlan emergono più dalle eccentricità del suo comportamento che dalle chiavi e
dalle motivazione che dovrebbero spiegarlo. Grazie alle sue doti di recitazione, Welles fa di lui sia
l’esempio di una ben precisa metafora, sia un individuo, un poliziotto razzista e un groviglio di
contraddizioni.
Dopo lo spettacolo teatrale Around the World Welles chiudeva la scena con un debito di
trecentocinquantamila dollari e il fisco americano non gli dava scampo. Decise così di cercare
lavoro in Europa, girando film nei luoghi più disparati. Anche in Europa non ebbe i successi sperati
8
James Naremore Orson Welles ovvero la magia del cinema, p. 129.
e Welles fu etichettato come inaffidabile, stravagante e poco commerciale, anche se i film europei,
liberi dalle formule hollywoodiane e dall’estetismo e dall’avanguardia, rivelano risultati più
soddisfacenti. Tra tutti i film di Welles quello più “bello” è l’Otello. La vicenda è limpida, la
recitazione naturalistica, le composizioni figurative relativamente semplici ma eleganti e piacevoli
a vedersi, con un espressionismo fotografico nitido. Il film presenta anche la tipica struttura del
plot di marca wellesiana, in quanto incomincia con il funerale di Otello e Desdemona, per poi
mostrare come siano giunti alla morte, chiudendo il cerchio con il ritorno delle immagini del
corteo funebre. Terminata la grandiosa scena del funerale arriva la voce di Welles, che oltre a
recitare Otello fa da narratore, raccordando le diverse scene, e o fa in modo così profondo da
sembrare musica. Welles non è un narratore comodo, non mette mai lo spettatore a suo agio, ma
la forza della sua narrazione è così potente che crea sempre suspence, anche quando si sa come va
a finire e si conosce tutto quello che succede scena per scena. Grazie alla meraviglia di questa voce
forte e magnetica si resta soggiogati e non si può fare a meno di ascoltare fino in fondo. Su tutto
incombe infine un forte senso di fatalità e immagini di imprigionamento. Lo stile del film per il vero
non tende a cancellarsi, ma la macchina da presa tende in un certo senso a sostituirsi alla
recitazione. Nell’insieme, tuttavia, Welles sembra aver optato per un effetto pacato, in modo che
l’atmosfera dell’Otello risultasse diversa da quella nefasta del Macbeth.
Su tutti i lavori realizzati da Welles, pochi possono essere definiti “le sue opere” e la maggior parte
del valore dei suoi film dopo Quarto potere è stato compromesso per vari motivi, perciò ogni
tentativo da parte di studiosi e storici di restaurare tutta l’opera di Welles risulta fallimentare, in
quanto manca sempre un tassello che può far comprendere nell’interezza il suo operato. Ma un
particolare che collega tutta la produzione wellesiana nel cinema, così come in teatro e in radio, è
costituito dalla voce di Welles, vibrante e intensa, un vero e proprio marchio di fabbrica per tutti i
suoi lavori più o meno riusciti. Quasi tutti i film, di Welles sono infatti caratterizzati dalla sua voce
fuori campo, che ci immette all’interno della storia, creando un’aurea mistica, in cui lo spettatore
come ipnotizzato non può far altro che prestare attenzione ad ogni singola scena. Quando invece
la narrazione è affidata ad altre “voci” vediamo Welles nelle vesti di attore, che grazie alla sua
imponente fisicità e alla sua profonda voce riesce ad interpretare e a caratterizzare i suoi
personaggi in modo da renderli indelebili nella mente di chi li guarda

Bibliografia

o E. Barnouw, The Sponsor. Notes on a Modern Potentate, Oxoford UP, New York 1978
o M. Chion, La voce nel cinema, Pratiche, Parma 1991

o M. Chion, La Toile trouée, Parigi 1988

o S. Connor, La voce come medium. La storia culturale del ventriloquio, Luca Sossella Editore,
Roma 2007

o M. McLuhan, Understading Media, McGraw Hill, New York 1964

o F. Minganti, Modulazioni di frequenza: l'immaginario radiofonico tra letteratura e cinema,


Campanotto, Udine 1997

o James Naremore Orson Welles ovvero la magia del cinema, Marsilio editori S.P.A, Venezia
1993

o P. Valentini, Il suono nel cinema, Marsilio editori S.P.A., Venezia 2006

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