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1. Il teatro antico
Spettacoli in Grecia
L'oggetto di un indagine sul teatro greco e latino è inevitabilmente di difficile precisazione a causa delle
poche tracce documentarie rimaste. Il caso del teatro, antico e non, è ulteriormente complicato dalla
coesistenza di plurimi codici comunicativi, che per il mondo antico non sono riproducibili, perchè tutto ciò
che dipende dall'azione dei corpi è instabile, così come non sempre è in qualche modo registrabile la sfera
sonora.
• E' necessario tenere presente che una gran parte do ciò che fu messo in scena nel mondo antico non è
minimamente ricostruibile; ma soprattutto bisogna considerare che non è vero che ciò che sopravvive,
soprattutto per i testi, possa essere paradigma di ciò che non c'è più.
Il coro
Elemento centrale dello spettacolo tragico, satiresco e comico, come di quello ditirambico, è il coro.
• Innanzitutto considerare l'elemento del coro implica considerare tripartita la scena greca, esattamente
come tripartito è il teatro come luogo fisico. La suddivisione di scena, orchestra e cavea rispecchia quella di
attore, coro, spettatore, a ribadire quel confine debole fra vicenda inscenata e pubblico, ben presto superato
a favore di un'opposizione binaria che prevarrà nel teatro romano e si imporra nel teatro moderno.
• Il coro assunse sempre più la funzione di esecutore di entractes, come parrebbe indicare, non senza
disappunto, Aristotele nella Poetica: «le parti cantate recentemente non hanno a che fare con la trama più di
quanto non abbiano a che vedere con quella di un'altra tragedia: cantano pertanto intermezzi», ma questa
funzione, diversa rispetto alle prove del V secolo a. C. non autorizza a parlare, in senso valutativo, di
svilimento del coro, quanto piuttosto di progressiva estraneità del coro all'azione drammatica. Si tratta
dunque di una componente non più drammatica (nel senso di attiva), ma spettacolare, di intrattenimento.
• Sul piano numerico, i componenti della compagine furono di quantità diversa in base al genere: il ditirambo
era cantato e danzato da cinquanta coreuti ed è l'idea aristotelica di una derivazione della tragedia dal
ditirambo ciò che ha condotto alcuni studiosi a ipotizzare che le tragedie più antiche disponessero di una
componente corale numericamente analoga. Ma questa ipotesi non trova alcun riscontro nei testi e nelle
testimonianze, sostanzialmente concordi invece nel delineare una prima fase della tragedia con dodici coreuti
e una seconda, inaugurata da Sofocle, con quindici componenti. Sul dramma satiresco le testimonianze
antiche non permettono di definire la quantità dei coreuti, mentre per la commedia c'è concordanza sul
numero di ventiquattro elementi.
• Il coro ditirambico danzava secondo andamenti circolari, mentre le danze tragiche, satiresche e comiche
saranno state, almeno inizialmente, lineari e fondate su schemi rettangolari e quadrati.
• A dispetto del ruolo rilevante che la danza ebbe nel dramma greco, non si conosce molto dei suoi
movimenti nella produzione drammatica, se non che, in generale, ebbe una carattere mimetico e non
astratto o simbolico. Perlopiù ciò che resta sono dati onomastici: della danza tragica (emmeleia), di quella del
dramma satiresco (sikinnis), di quella comica (cordax) e di alcune loro figure – nomi che rimandano spesso al
mondo animale.
Gli attori
Non sembra che il teatro antico abbia originariamente conferito attenzione agli attori. Costoro, a quel che si
conosce, erano tutti uomini e indossavano maschere.
E' dunque solo a partire dalla seconda metà del V secolo a.C. che la figura dell'attore inizia a imporsi come
uno dei mezzi del teatro, tuttavia raramente, nelle fonti, con un proprio nome, e dunque con un'identità e
una consistenza umane, biografiche.
• Originariamente l'attore è solo strumento del teatro, anonima figura. L'attore greco è senza un nome a
segnalarne la professione: hipokrites è il termine greco utilizzato, locuzione dal significato incerto e ambiguo,
derivato da un verbo che indica fin da Omero attività profetica, di interpretazione di un indizio da parte degli
indovini. In Omero l'interprete dei sogni attualizza e rende fruibile per l'intera comunità il senso profondo del
paesaggio onirico; analogamente, l'attore media la parola, la rende corporea. Ritornando alle origini religiose
del teatro, si potrà sospettare che tanto il nome dell'attore, quanto il suo originario anonimato, quanto forse
la maschera, rivelino la figura di un officiante, come un canale vuoto via via riempito dal contenuto di cui si fa
mezzo decifrante per chi osserva e ascolta l'azione.
• Secondo Aristotele, Eschilo introdusse un secondo attore sulla propria scena tragica, ovvero un
interlocutore dell'attore principale. Si deve poi a Sofocle l'introduzione di un terzo attore, beninteso parlante.
Si direbbe che Aristotele non avesse conoscenza di un eventuale quarto attore e che definisse così un
principio compositivo che si annuncia come tradizionale, se nel I secolo a.C. il classicista Orazio (Ars poetica
192) raccomandava sempre i tre attori. Sulla commedia, invece, il numero canonico degli attori è meno
chiaro.
• Quella che appare dunque una regola, perlomeno nella tragedia, determinava evidentemente la possibilità
di affidare più parti a uno stesso attore: l'operazione era in sé agevolata dalla maschera, ma ciò che conta
non è tanto il ricorso alla maschera come possibile espediente per diversificare le parti, quanto soprattutto
l'inganno, del resto accettato di buon grado dal pubblico, secondo il quale personaggi diversi sono agiti dalla
stessa figura professionale.
→ La conseguenza più rilevante di questa abitudini è di ordine compositivo e di dinamismo della scena.
Rispetto al dinamismo non c'è nulla da aggiungere a quanto si ricava dai copioni, sicchè la concitazione non
deriva tanto da un affollamento acustico e concettuale della scena, quanto piuttosto da una variazione
ritmica e di articolazione delle battute, oltre ai movimenti e alle azioni, non sempre ricavabili dal testo
verbale.
Sul piano compositivo è abbastanza evidente che in taluni caso lo stesso attore abbia interpretato parti
maschili e femminili nella stessa opera.
• Solamente i testi, probabilmente, rappresentano l'unico appiglio concesso all'interprete moderno per
ricostruire parti delle modalità recitative dell'attore antico. Infatti, le raffigurazioni vascolari che rimandano a
prassi teatrali non paiono, su questo versante, affidabili.
• Il rapporto teatro-attore è pertanto sin dalle origini mutevole: l'attore da antico medium diviene il padrone
del teatro, perlomeno dal IV secolo a.C. e poi, compiutamente, nel mondo latino, si affaccia e si impone
sovente un teatro per l'attore.
• L'importanza dell'attore ha avuto un decisivo riflesso nella trasmissione dei testi come sono giunti nella
tradizione manoscritta, poiché è ormai acquisizione incontrovertibile che molti copioni sono stati alterati
dagli attori con aggiunte volte a espandere in quantità e patetismo il testo originale.
• La loro professionalità trovò una consacrazione nelle corporazioni e nelle associazioni, attestate ad Atene e
in generale nel mondo greco dall'inizio del III secolo a.C., dopo il manifesto interesse per attori e musicisti
dimostrato sia da Filippo II di Macedonia sia da Alessandro Magno.
→ Dalle iscrizioni si percepisce come le corporazioni siano state spesso fondamentali per l'istituzione o
l'ampliamento e in generale per l'organizzazione delle feste; e da questa attività sempre più capillare in
Grecia non fu esente in realtà parte del mondo grecizzato, compresa la Magna Grecia, se Napoli nel I secolo
a.C. divenne un notissimo ritrovo di artisti drammatici.
Il canto
Aristotele nella Poetica individua la lexis (il linguaggio) e la melopoiia (la composizione dei canti). E,
osservando i copioni superstiti, siano tragici, comici o satireschi, si può constatare come varie parti siano state
recitate, altre siano state pronunciate in una sorta di recitativo e altre, sia corali sia singole, siano state a tutti
gli effetti cantate. Normalmente, si ritiene che le parti recitate fossero quelle in trimetri giambici, quelle in
tetrametri trocaici o giambici fossero in recitativo e quelle nei metri lirici fossero infine cantate.
• Spesso veniva utilizzato l'aulos, strumento convenzionalmente tradotto con “flauto”, ma che era
certamente a doppia canna, con un'ancia, dall'interno ruvido e di lunghezza tale per cui il tono è certamente
da assimilarsi più all'oboe che al flauto moderno. Non c'è dubbio che, insieme all'aulos, l'altro strumento più
diffuso nel dramma fosse la lira. Inoltre, in alcuni casi, pare fossero presenti strumenti percussivi.
• Senza voler schematizzare eccessivamente, sembrerebbe che l'aulos e forse la lira siano stati strumenti volti
all'accompagnamento musicale; gli altri strumenti sono stati coinvolti, invece, solo per necessità
drammaturgica richiesta dalla scena. Vale a dire che, mentre l'aulos e la lira erano udibili da pubblico e attori
ma non, convenzionalmente, dai personaggi, tutti gli altri strumenti così come talora aulos e lira erano
percepibili anche dai personaggi in quanto strumenti in scena e utili alla drammaturgia.
• Anche per quanto riguarda i costumi, i testi tornano a essere gli unici elementi utili per cogliere alcuni
aspetti dei costumi antichi. Dai vasi dipinti non molto si ricava per la tragedia, perchè non sempre si capisce
se il pittore ha rappresentato un momento del mito oppure la forma tragica del mito. Tuttavia è certo che
qualche elemento del costume aveva un valore iconografico indispensabile a cogliere immediatamente il
rango del personaggio, o soprattutto, la divinità interpretata.
• La presenza o meno di un oggetto di scena sarà dipesa non solo dalla riproducibilità tecnica, ma anche dalla
sua necessità drammaturgica. Comunque sia, in generale, gli oggetti di scena nel teatro greco non erano
totalmente diversi da ciò che essi apparivano nella realtà coeva. Ciò non implica che essi non potessero
assumere nel corso dello spettacolo nuove e inedite funzioni o valori simbolici.
Esempio: Il dialogo fra Agamennone e Clitennestra davanti ai drappi purpurei apparsi ai piedi del re
trionfatore, sulla scena eschilea dell'Agamennone, mostra precisamente questo dato: essi sono drappi, tanto
per i personaggi quanto per il pubblico; ma la parola teatrale li trasforma, per il pubblico, nel segnale
dell'esiziale spargimento del sangue del re.
• La tragedia e poi la commedia non ignorarono l'apporto delle innovazioni tecnologiche alla scena, a partire
dagli anni Trenta del V secolo a.C. Di sicuro impiego deve dirsi la macchina del volo, una gru con cinghie e funi
impiegata per far arrivare sulla scena e per allontanare da essa personaggi in volo, specialmente le divinità.
• E' molto discusso, invece, l'impiego nel teatro del V secolo a.C. del cosiddetto ekkuklema o enkuklema. Si
tratterebbe di un carrello che usciva dalla zona retroscenica: altri hanno pensato a un meccanismo volto a
mostrare gli interni retroscenici, una sottoforma di piattaforma girevole.
• La macchina del volo, invece risulta solidamente attestata. Non è però possibile affermare con certezza che
essa fu impiegata in una delle tragedie superstiti e precedenti la Medea di Euripide (431 a.C.), nel cui finale il
macchinario fu certamente impiegato.
Infatti le apparizioni di divinità ex macchina, nella tragedia, si collocavano spesso nei finali.
Esempio: Nel finale della Medea, la protagonista appare sollevata sul carro che il Sole, suo antenato, ha
consegnato a difesa dei nemici; sul carro con la maga ci sono i cadaveri dei figli, mentre a terra, solo e
maledetto dalle aspre parole di Medea, c'è il marito Giasone. La macchina del volo ha qui una funzione
scenotecnica che, attraverso la sollecitazione della vista, traduce nel finale della tragedia il senso della
sconfitta di Giasone e rivela la vittoria di Medea insieme alla sua natura semidivina. Sul piano della vista, cioè,
si enfatizza il rovesciamento rispetto alla situazione iniziale, in cui Medea appariva esule e prostrata dopo
l'abbandono di Giasone.
→ Euripide favorisce dunque un impiego degli strumenti della scenotecnica non avulsi dalla drammaturgia.
La macchina del volo serve a realizzare un movimento fisicamente irreale ma scenicamente travolgente,
attraverso l'impiego di un mezzo che si vorrebbe invisibile e che il pubblico, di buon grado, accetta come tale.
• Aristotele nella Poetica stigmatizza i finali ex machina in quanto essi dovrebbero scaturire dalla vicenda
stessa e non per intervento di un agente giudicato come esterno.
• In generale, si direbbe che l'ingerenza della scenotecnica nella drammaturgia, l'accresciuta disponibilità
degli attori a tirare indulgenti a una generica spettacolarità e il nuovo ruolo del coro costituiscano elementi
disgregativi rispetto alla chiusa e verticale struttura drammaturgica scaturita dalle prime prove tragiche. Ed è
alle suddette spinte disgregative insite nella tragedia nuova che si riferisce Artistotele, quando propone nella
Poetica un ritorno all'ordine.
Il ditirambo
Fra i generi protagonisti dei festival ateniesi, va considerato il ditirambo: antichissimo canto cultuale per
Dioniso. Già nel VI secolo a.C. però, il tema dionisiaco sembrerebbe essere stato affiancato da altri temi
mitologici.
L'elemento spettacolare fondante del ditirambo consiste nel canto corale danzato attorno all'altare del dio, in
assetto circolare.
• Per quanto generica, merita attenzione la notizia aristotelica che nel ditirambo colloca le origini della
tragedia: «la tragedia sorse da un principio di improvvisazione – sia essa sia la commedia, la prima da coloro
che intonavano il ditirambo, la commedia invece dai cortei fallici che ancora oggi sono in uso in molte città –
a poco a poco crebbe secondo quanto veniva manifestandosi; e dopo molti mutamenti smise di mutare,
quando raggiunse la propria natura».
• Dai testi tragici meglio conservati, si direbbe che i cori euripidei sempre più spesso abbiano seguito
evoluzioni circolari nella danza, come nel ditirambo, e non, come invece nelle prove precedenti, secondo
linee rette.
• Quanto alla musica, converrà perlomeno segnalare come, nell'ultimo quarto del V secolo a.C., in
particolare, siano state introdotte novità di tipo tecnico soprattutto sugli strumenti, capaci di conferire alle
esecuzioni corali e specialmente ditirambiche nuovi e più virtuosi andamenti, mimetici di suoni naturali – e
fin realistici negli effetti si direbbe.
• Su un dato conviene riflettere, nel grande naufragio cui gli spettacoli canori e orchestrici del cosiddetto
“nuovo ditirambo”, quello composto dagli anni Venti del V secolo a. C., andarono incontro: che proprio
questa dispersione può essere motivata, oltre che dai consueti fattori casuali, dal rilievo affidato nello
spettacolo a componenti meno registrabili rispetto alla parole, come musica e danza.
• Gli antichi attribuivano a Pratina di Fliunte l'invenzione del dramma satiresco, dunque a cavallo fra VI e V
secolo a.C.: si tratterà non già di un'invenzione vera e propria, ma più verosimilmente di una sorta di
canonizzazione di un genere, forse importato da Fliunte all'interno delle Dionisie cittadine ateniesi. La
presenza costante di un coro di satiri nel dramma satiresco ne conferma l'origine dionisiaca, ma nulla è
rimasto delle prime prove.
• L'unico dramma superstite è il Ciclope di Euripide, la cui struttura appare perfettamente aderente a quella
di una tragedia, con un prologo (recitato), una parodo (cantata), quattro episodi (recitati) alternati agli stasimi
(cantati) e chiusi da un esodo.
• Il dramma satiresco rappresentava un momento più sereno rispetto alle trilogie tragiche che lo
precedevano, con una collocazione agreste; e, non a caso, l'episodio mitico rappresentatovi, che intratteneva
spesso un legame con la trilogia di tragedie precedentemente rappresentate, si dipanava in un'atmosfera
lieta e si inscenava con un linguaggio meno aulico.
La commedia
Mentre per la tragedia si può ragionare a partire anche dalla produzione superstite di Eschilo, Sofocle ed
Euripide, per la commedia del V secolo esistono, integre, undici commedie di Aristofane (Acarnesi, Cavalieri,
Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Tesmoforiazuse, Lisistrata, Rane, Ecclesiazuse, Pluto), che molto difficilmente
possono dirsi un campione adeguato.
• Gli elementi costanti sembrerebbero essere:
1) la presenza di un coro, che le fonti concordemente fissano in ventiquattro coreuti;
2) una struttura, non certo rigida e fissa eppure riconoscibile, che aveva momenti di snodo attorno al
cosiddetto “agone” e alla parabasi (il momento di massima identificazione dell'autore nel coro che si
rivolgeva al pubblico, con un'inversione, per certi versi, della direzione della mediazione corale).
Il caso dell'agone è significativo di un elemento della composizione, che, a quanto pare, gli antichi studiosi
non riconoscevano come strutturale ma che i moderni hanno potuto individuare nella presenza costante di
un dialogo acceso e non senza toni oltraggiosi fra due personaggi. Pur non completamente prese in tutte le
commedie superstiti, la parabasi era invece già percepita come elemento della commedia, fin dall'antichità,
forse come brano corale.
• Come per la tragedia, anche la commedia cosiddetta archaia (“antica”, in realtà di pieno V secolo)intrattiene
rapporti molto profondi con la politica contemporanea, rapporti anche più evidenti di quanti non ne riveli la
tragedia, dal momento che i riferimenti politici nelle commedie del V secolo a.C. sono puntualmente
dichiarati o riconoscibili quand'anche allusi attraverso soprannomi o metafore.
• Un tratto abbastanza vistoso della commedia, considerato come specifico della produzione comica del V
secolo, consiste nella potente carica aggressiva. Infatti la commedia mostrò un'inclinazione ad attacchi
personali espliciti e intraprese invenzioni verbali molto spesso violente e volgari, ma è altrettanto vero che
non tutta la commedia arcaica adottò questa cifra.
• Un altro tratto rilevante del genere comico è indubbiamente l'intertestualità, ovvero la capacità di un
dialogo fra il comico e i generi collaterali. In quest'ambito si potrà considerare il ricorso alla parodia della
tragedia, che si sviluppa su due principali forme e riguarda tutti gli elementi dello spettacolo e non solo
quello verbale.
→ Nelle commedie superstiti integralmente si scorge un solo modo di esercitare la parodia, vale a dire:
1) l'inserzione della maniera tragica in un contesto comico, dove lo scarto consiste nel tono aulico (della
lingua, della musica, della danza, della scenotecnica) per un personaggio o una situazione del tutto
inappropriati ad esso;
2) il travestimento, ovvero l'adattamento di un mito tragico a una situazione molto spesso popolare.
In entrambi i casi la riduzione della tragedia, più spesso della tragedia euripidea, a oggetto di dileggio implica
una discussione sul valore anche civile di quel tipo di spettacolo nel V secolo a.C.
• Dopo il Pluto di Aristofane (388 a.C.) non si possiedono commedie integre prima degli esordi di Menandeo
(342-291 a.C. circa). Della sessantina di anni che separa dunque la prova più recente di Aristofane da quella
più antica e superstite di Menando restano solo varia frammenti comici: stilisticamente, questi lacerti vanno
ascritti a quella che fin dall'età alessandrina fu considerata come “commedia di mezo” (mese). Non appare
come un fatto sorprendente che in questo torno di tempo si assista a un'evoluzione del genere comico che
rende i prodotti dell'archaia e quelli della commedia ellenistica (nea) non perfettamente affiancabili. E del
resto, anche la società ateniese appare diversa: dopo un secolo di lotte intestine la Grecia risulta dominata da
un vincitore straniero, il macedone Filippo II, sicchè i cittadini ateniesi sono ora sudditi cui va dato un teatro
nuovo e differente.
• La commedia cosiddetta “nuova” (nea) appare interessata a trame complesse, con personaggi
psicologicamente tridimensionali, lontani dalla statura “eroica” di quelli aristofanei. E con il nuovo
personaggio comico, anche il coro avrà avuto una sua nuova dimensione: non resta nulla dei brani corali della
commedia nuova, i manoscritti di Menandro recando solo la sigla atta a segnalare in quel punto un
intervento del coro o, per meglio dire, un intermezzo: il compimento, dunque, anche in commedia, di quele
tendenze che Aristotele individuava per la tragedia.
Il nuovo teatro
La nuova dimensione del coro venutasi a delineare nel corso del V secolo si caratterizzava per la tendenza
verso una composizione aggettante e dunque più interessata alla singola scena che alla struttura generale.
→ Non sarà perciò del tutto casuale l'inclinazione dello spettacolo ellenistico e già pre-ellenistico ad alterare i
testi tramandati dei secoli precedenti con lo scopo di amplificare le parti protagoniste.
• Il destino post-teatrale dei testi teatrali tradizionali pare essere andato incontro a due direzioni:
1) una di ordine erudito, di conservazione e studio, ciò che ha permesso la sopravvivenza di alcune delle
tragedie e delle commedie inscenate ad Atene;
2) l'altra, sul versante spettacolare, sembrerebbe una tendenza antologizzante, da non giudicarsi comunque
come l'unica via, volta a selezionare brani adatti a recital, anche inerenti.
• Tale cultura, in accordo con il mutato ruolo degli attori e con la diversa attenzione agli edifici teatrali,
condusse all'affermazione di un teatro vocato all'intrattenimento, magari embrionale al tempo di Aristotele,
ma che certamente si impose a partire dal III secolo a.C. nel mondo ellenizzato.
• Il processo di antologizzazione mira alla costruzione di uno spettacolo che ha nella spettacolarità
dell'evento il principio compositivo, come se il testo fosse il mezzo per esibire la capacità performativa
dell'attore-cantante-musico.
• Quella antologica non sarà stata certo l'unica forma di spettacolo del mondo ellenistico, anche in quelle
opere in cui la musica e il canto solista hanno avuto un ruolo rilevante: non si tratta dunque solo di
rielaborazioni di testi delle epoche precedenti, ma anche di composizioni nuove e originali, come il Lamento
dell'esclusa, databile alla fine del III secolo a.C. Si tratta di un testo destinato alla performance di un solo
attore, un testo poetico adatto al canto, come dimostrano i metri-ritmi coincidenti con alcuni schemi adottati
nei cantica di Plauto, e destinato a un pubblico di greci d'Egitto della classe medio-alta. Questo tipo di
spettacolo sarà un esempio di teatro popolare ellenistico.
Il teatro a Roma
Dell'antica e locale farsa italica non si conosce molto, in quanto inserita in occasioni improvvisate, o
comunque in quanto non affidata a strutture adatte alla preservazione e alla trasmissione: in particolare,
tutta la partitura verbale parrebbe essersi fondata su un canovaccio e pertanto facilmente dispersa.
• Si conoscono pochi cenni sui fescennini e sull'atellana, prima che questa assumesse una forma più letteraria
e pertanto meglio conservata.
• Tendenzialmente gli attori e i performers nel mondo latino furono schiavi, senz'altro non cittadini romani; i
festival che ospitavano momenti spettacolari avevano una propria dimensione religiosa, ma non erano
concepiti come momenti di raccolta della collettività intorno al teatro, quanto come occasioni di
intrattenimento. Ciò nono significa che i ludi non siano stati oggetto di interesse da parte della classe
dirigente romana, almeno come veicolo di consenso.
• Il rapporto con la divinità si rivela garantito dagli aggettivi che caratterizzano i principali momenti di
aggregazione in quanto dedicati rispettivamente a Giove, ad Apollo e alla Grande Madre. Ciò che interessa è
il nome che accomuna tutte queste occasioni: ludi, “giochi”. Il tratto onomastico distingue chiaramente la
festa cultuale ateniese da quella romana, che si caratterizza dunque come una festa della collettività, una
pausa dell'attività ordinaria, specialmente quelle politica e militare.
• Anche la struttura di queste feste appare significativa di un modo diverso di concezione del teatro, in
quanto le diverse forme di spettacolo erano spesso programmate contemporaneamente, dunque in una
sorta di competizione fra i ludi circenses (che comprendevano varie specialità come i giochi del circo, le
esibizioni dei saltimbanchi, le gare sportive, gli incontri gladiatori) e i ludi scaenici (il teatro vero e proprio).
• Il fatto che l'elemento politico sia presente nella fase preparatoria, e poi nell'ammannire gli spettacoli al
pubblico, non significa che la politicizzazione del teatro ricalchi in qualche modo quella ateniese: in Grecia, la
politica non creava il consenso solo con la festa rituale in cui erano allestiti gli spettacoli, ma con gli spettacoli
stessi, con il loro finanziamento e con il testo messo in scena.
La precoce volontà politica di costruire un teatro stabile nell'Atene democratica a sua volta adombra una
concezione del rapporto fra il teatro e la comunità diversa da quella romana, dove i teatri stabili furono
costruiti molto tardivamente, di fatto al termine dell'età repubblicana.
• Se il primo teatro in muratura pare essere essere stato, dopo quello di Bologna (88 a.C.), il grande teatro
che Pompeo volle edificare nella capitale intorno al 55 a.C., le ultime prove drammaturgiche che sono state
oggetto di selezione e conservazione risalgono ad alcuni decenni prima. Si direbbe che al volgere dell'età
repubblicana la separazione fra i ludi destinati alla scena e i ludi di intrattenimento vero e proprio fosse
definitivamente compiuta.
• Dal punto di vista strutturale la forma del teatro romano appare in parte diversa da quella del teatro greco,
per una maggiore autonomia e solidità strutturale, per una propria valenza urbanistica rilevante e per una
monumentalizzazione sempre più accentuata.
• Andrà segnalato l'elevarsi della scena su cui recitavano gli attori; e andrà notato come lo scenario non fosse
più affidato a una struttura effimera, ma fosse diventato parte dell'edificio in muratura.
• L'elemento più interessante qui sarà però la trasformazione del nucleo base dello spazio teatrale greco: la
circolarità del choros si estingue definitivamente in una dimensione semicircolare, una sorta di cavea in
miniatura, atta a ospitare spettatori illustri, specialmente i senatori, omologhi di alcune cariche rilevanti
dell'Atene democratica.
• Il teatro diviene sempre più un luogo di comunicazione tout court, in cui il coinvolgimento del pubblico è
differente rispetto all'epoca classica e in cui l'opera drammatica non si delinea più come mezzo di catarsi,
secondo la definizione aristotelica, o di dibattito civile, secondo una delle letture moderne; piuttosto, il teatro
diventa luogo di intrattenimento, emotivamente coinvolgente, ma in cui esiste una chiara separazione fra
spettatori e attori, senza alcun intermediario, come fu invece il coro, e dunque senza alcun luogo per esso,
come fu l'orchestra: da un'articolazione su tre e elementi a una bipartizione.
2. Il teatro medievale
Durante il Medioevo, il teatro non esiste più come istituzione e ciò che gli studiosi hanno qualificato come
tale aveva per i contemporanei tutt'altra valenza. Sarebbe perciò più corretto ricorrere al concetto più esteso
di forme spettacolari.
• La storia del teatro religioso medievale è fatta di eventi decisamente eterogenei che potrebbero a buon
diritto essere inclusi nella storia della liturgia e delle istituzioni religiose, dove assumerebbero una diversa
rilevanza e altre implicazioni.
I drammi liturgici
L'origine del teatro sacro medievale è stata fatta risalire a un breve dialogo cantato inserito all'interno del rito
liturgico. Denominato Quem quaeritis dalla battuta iniziale, questo dialogo in versi è strettamente connesso
alle festività pasquali, poiché è la rievocazione della Resurrezione di Cristo. Il nucleo iniziale consiste infatti
nella domanda all'angelo rivolta alle Marie, giunte al Sepolcro per cercare il corpo di Cristo.
• Nel X secolo il dialogo del Quem quaeritis aveva assunto una primitiva forma drammatica, denominata
Visitatio sepulchri.
Nelle prime versioni della Visitatio il sepolcro era semplicemente simboleggiato dall'altare, ma a partire dal
XII secolo in alcune chiese furono costruite strutture permanenti per rappresentarlo.
→ Se ne può vedere un esempio nell'edicola della basilica di Aquileia, del XII secolo, e in quella della cappella
di San Maurizio nella cattedrale di Costanza, del 1286.
• Anche l'altra grande ricorrenza dell'anno cristiano, il Natale, ebbe sviluppi analoghi, seppure destinati a una
minore diffusione.
• Diventando sempre più complessi, i drammi liturgici cominciarono a richiedere più luoghi scenici. Le varie
parti della chiesa e i punti cardinali avevano un significato simbolico rispetto ai movimenti.
• Il carattere drammatico di questo primo nucleo consiste soltanto nella struttura dialogica e
nell'impersonificazione. Per la rappresentazione di un determinato personaggio si ricorreva ad alcuni
accessori dell'abbigliamento, come le ali per il diacono che faceva la parte dell'angelo. I costumi avevano
comunque una valenza puramente indicativa, senza alcuna pretesa di verosimiglianza. I colori venivano
utilizzati soprattutto per la loro valenza simbolica: la cappa rossa che Cristo indossava sulla veste bianca, ad
esempio, era un chiaro riferimento alla Passione.
• I luoghi dell'azione erano rappresentati mediante elementi architettonici già presenti nella chiesa, ma
talvolta si procedeva ad allestimenti ex novo.
• L'aggiunta di scene profane è un segno del passaggio graduale dal rito al teatro.
→ Il Mistero della Passione conservato in un manoscritto tedesco del XIII secolo presenta ad esempio
un'alternanza fra il volgare e il latino, poiché il dialogo di Maria Maddalena con il mercante è in tedesco.
L'intento era probabilmente quello di rendere fruibile la rappresentazione a un più ampio pubblico di fedeli.
→ Le didascalie relative alla recitazione degli attori assumono talvolta la valenza di vere e proprie annotazioni
registiche. I luoghi sono di solito designati in modo generico e disposti in mnodo paratattico.
• Ma qual'è dunque il discrimine fra teatro e liturgia? Le persone che prendono parte all'evento rituale o
festive sono attori e spettatori allo stesso tempo.
Le farse
Intorno alla fine del Medioevo erano emersi nuovi generi drammatici, non più a carattere religioso ma
profano, come le farse, le sotties e i sermons joyeux. Questi generi ebbero molta fortuna in Francia.
• Le sotties – così denominate perchè erano incentrate sulla figura del sot (“sciocco”) – consistevano in
dialoghi vivaci, in cui venivano discussi scherzosamente alcuni temi sociali o politici, mentre nei sermons
joyeux un uomo travestito da predicatore faceva una parodia dei sermoni, in un linguaggio che mescolava il
francese a un latino molto approssimativo.
• Una struttura drammatica più composita avevano le farse. Caratterizzate da un'estrema vivacità dell'azione
e da una spiccata volgarità, le farse si svolgevano sulle piazze, su palchi improvvisati attorno ai quali si
disponevano gli spettatori di estrazione popolare. Gli allestimenti si avvalevano di pochi accessori, come una
tenda per separare lo spazio scenico da quello dietro le quinte.
• Frequenti erano i riferimenti ai personaggi reali o a determinate categorie professionali. Ricorrente era a d
esempio la satira dei mestieri e delle donne. Poichè le parti femminili erano recitate da uomini travestiti, le
allusioni sessuali risultavano ancora più caricaturali. La farsa rappresenta del resto il trionfo della corporeità e
degli appetiti sessuali.
• In Francia le due forme principali di teatro popolare, le rappresentazioni religiose e le farse, continuarono in
modo parallelo per tutto il XVI secolo, con alcune sovrapposizioni e commistioni.
• Il proposito di emulare i classici vide i letterati impegnati anche nell'interpretazione della tragedia, definite
da Aristotele nella Poetica il “sommo genere drammaturgico”. Ma a differenza della commedia, l'interesse a
trasporne il testo drammatico nella prassi scenica fu molto più limitato e dunque il successo di questo genere
fu più modesto, restando perlopiù legato al dibattito teorico e astratto. D'altra parte l'uso del linguaggio
artificioso in un momento in cui si affermava la lingua volgare anche in dialetto, l'altisonanza dei personaggi,
le trame dai contenuti che vedevano inadeguate figure regali, colpevoli di azioni non sempre edificanti, isolò
l'interesse verso la tragedia alla speculazione teorica intellettuale.
• La prima tragedia scritta in italiano fu la Sofonisba, scritta da Giangiorgio Trissino nel 1512. Modellata sulla
tragedia euripidea, la struttura, provvista di coro, è priva di divisioni in atti, pur rispettando le tre unità
aristoteliche.
• Due anni dopo Giovanni Rucellai scrisse poi la Rosmunda, modellata sul testo dell'Antigone di Sofocle.
• L'allestimento di maggior successo fu però Orbecche di Giovan Battista Giraldi Cinzio (1541), il quale,
abbandonato il modello greco apre un dibattito su una nuova formula drammaturgica, più attenta al rapporto
con la messinscena e l'apparato.
• Il dramma satiresco venne descritto come forma classica mista, genere che mescolava il comico e il tragico.
Nell'ambito della festa di corte, dalla fine del Quattrocento in poi, non mancarono le rappresentazioni di
ambientazione boschereccia, pur mescolate nei generi e contaminate da fabule mitologiche. L'operazione
interpretativa e di sintesi avrà successo alla fine del secolo, nel pieno della polemica sui fattori di crisi della
drammaturgia contemporanea.
• L'evoluzione verso le forme della cosiddetta “tragicommedia pastorale” sarà allora la proposta che
risponderà al successo dell'Aminta di Torquato Tasso, rappresentata nell'isola di Belvedere sul Po (1573), ma
poi replicata ovunque, e del celebre Pastor Fido di Giovan Battista Guarini.
• Guarini, oltre che autore, fu anche trattatista e nel Compendio della poesia tragicomica dette di fatto avvio
a un dibattito tutto incentrato sulla favola pastorale, facendone l'emblema drammaturgico dell'epoca. Il
rimescolamento dei generi tragico e comico e la contaminazione erano non solo la nuova formula
drammaturgica ma anche la soluzione al dibattito e alla critica, nella ricerca di un mondo bucolico di fantasia.
Il dibattito teorico
Dopo la fase di sperimentazione creativa dei primi del Cinquecento, con il passaggio della drammaturgia
dall'uso della lingua latina a quella volgare, a metà del secolo la produzione teatrale slitta verso un rigidità
tematica e strutturale, tanto comica quanto tragica. La teoresi cinquecentesca si pone dinnanzi alla necessità
di comprendere come la poetica drammaturgica modellata sugli esempi classici potesse conciliarsi con le
esigenze della rappresentazione.
• La letteratura teoretica, esegesi della Poetica aristotelica, annovera le figure di Francesco Robortello,
Vincenzo Maggi, Giulio Cesare Scaligero e Ludovico Castelvetro. Ma appartiene a Giraldi Cinzio il primo
importante trattato rinascimentale sull'arte drammatica composto da un drammaturgo di professione.
→ Nel Discorso ovvero lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie (1554), egli rivendica
come legittima la tragedia a lieto fine, raccomandandola come genere edificante. I migliori esempi di moralità
e i sentimenti negativi nei quali si può identificare lo spettatore devono risolversi attraverso la funzione della
catarsi, intesa come opportuna eventualità di una felice conclusione. Inoltre egli legittimava l'introduzione
degli intermedi musicali non apparenti, per evitare l'inconveniente della lunga e noiosa rappresentazione.
• Anche Giovan Battista Guarini, nel suo Compendio della poesia tragicomica, criticando sia la tragedia per le
tematiche contrarie ai precetti della religione sia la commedia per la noia della ripetitività, considerava
necessaria l'introduzione degli intermedi, essendo ormai divenuta questa l'unica forma spettacolare che
potesse riaccendere l'interesse del pubblico.
• Pino da Cagli, nel suo Discorso intorno al componimento della Commedia de' nostri tempi (1578), nel
sostenere la difesa morale della commedia, indica due pericoli per la sua sopravvivenza:
1) la destabilizzazione del ruolo del genere comico, ormai “commercializzato” dai comici professionisti
dell'Arte;
2) le nuove istanze della rappresentazione, ormai interessate a una spettacolarità sempre più invasiva e
ingegnosa, ovvero quella degli intermedi.
Egli riteneva necessario introdurre tra un atto e l'altro della rappresentazione comica o elementi scenici in
stretto rapporto contenutistico con le vicende oppure brani musicali strumentali che non distraevano lo
spettatore dalla narrazione della trama.
• Gian Giorgio Trissino nel suo trattato di poetica, Quinta e sesta divisione della poetica (1562), sposta la
polemica sull'utilizzo di interazione dei cori e biasima l'uso contemporaneo di introdurre il nuovo fenomeno
emergente, l'intermedio, senza alcun rapporto con i personaggi e la trama del testo drammaturgica.
Ma la teoria, proprio per la rilevanza ormai assunta dalla spettacolarità, comincia a interessarsi anche alla
messa in scena.
• Leone de' Sommi mise a frutto l'esperienza di allestitore di spettacoli di corte gonzagheschi con l'esperienza
della “mercatura” del teatro dei comici dell'Arte. Egli nei Quattro dialoghi in maniera di rappresentazioni
sceniche offrì per la prima volta indicazioni normative sulle modalità dell'allestimento scenico.
• Angelo Ingegneri, accademico olimpico, fu uomo di lettere al servizio di varie corti e artefice della regia
dell'allestimento dell'Edipo re di Sofocle, opera inaugurale del palladiano Teatro Olimpico di Vicenza (1585).
Forte della sua esperienza vicentina, egli scrisse un trattato, Delle poesia rappresentativa e del modo di
rappresentare le favole sceniche (1598), nel quale diede rilievo alla funzione dell'intermedio, come valenza di
indicatore dello scorrere del tempo e di riempitivo della scena vuota. Pertanto sostenne il principio che, se il
testo spettava al poeta, occorreva che la su trasposizione in scena si avvalesse di un'altra professionalità,
quella del corago.
Alla fine del Cinquecento, lo spostamento di interessi del pubblico e degli studiosi porterà a un
rovesciamento del rapporto autore-testo drammatico-attore e pubblico, all'interno del quale saranno la
scenografia, la mutazione stupefacente, il gioco della macchineria, componenti privilegiate della nuova
drammaturgia scenica a ottenere un superiore consenso rispetto alla recitazione del testo drammaturgico.
La definizione dell'edificio teatrale moderno avrà esito dalla difficile sintesi sperimentale tra le ispirazioni al
teatro all'antica, la necessità di predisporre l'immagine illusionistico-prospettica della città, la tecnologia
contemporanea e la messa in scena di nuovi generi drammaturgici, in primis l'intermedio.
• Risale forse al 1508, per l'allestimento della Cassaria di Ariosto, la prima ambigua testimonianza
dell'esecuzione ad opera di Pellegrino da San Daniele di un'illusoria immagine urbana fissa, dipinta in
profondità su un fondale piano.
• Ma fu la rappresentazione della Calandria urbinate del 1513, con scenografie di Girolamo Genga, a
compiere un salto di qualità nell'uso della componente pittorica prospettica con quella a rilievo.
• Secondo le testimonianze di Giorgio Vasari, si attribuisce però a Baldassarre Peruzzi, per la
rappresentazione della Calandria a Roma nel 1514) il primato della realizzazione della scena prospettica
tridimensionale.
Tuttavia, l'illusorietà della scena prospettica ricreata sul piccolo palcoscenico a metà del Cinquecento doveva
ormai rappresentare una prassi diffusa.
• La sintesi più significativa tra la teoresi vitruviana, le pratiche della scena e l'innesto delle scene
prospettiche si esprime infatti nel 1545 nel trattato dell'architetto Sebastiano Serlio, nel Secondo libro di
perspettiva. Partendo infatti dal modello da lui stesso realizzato nel 1539 all'interno di un luogo teatrale
descrive l'organizzazione di uno spazio con una cavea a gradinate al lato estremo, contrapposta frontalmente
a un palcoscenico con proscenio, sul quale agiscono gli attori, separato da una platea-corridoio. L'impianto,
inclinato, prevedeva un fondale dipinto prospetticamente che chiudeva il digradare in altezza delle sequenze
delle quinte laterali fisse.
→ Serio codifica e caratterizza le tre scene del teatro latino, esemplificandole attraverso incisioni che saranno
da allora ritenute modelli normativi fondamentali, rispondenti ai tre generi drammaturgici canonici (FIG.3.3)
• La fissità della scena prospettica serliana sarà però superata. La libertà d'azione dell'intermedio darà una
svolta decisiva alla pratica scenica, scardinando le regole: le molteplici possibilità di cambi di scena, grazie
all'introduzione delle scene rotanti dei periaktoi (strutture a base triangolare con una scena diversa dipinta su
ogni faccia, di memoria classico-vitruviana), ma poi soprattutto delle quinte piatte, romperanno la rigidità
degli schemi normativi dell'ipotesi architettonica vitruviana, al pari dell'unitarietà aristotelica della
drammaturgia regolare.
• Il Teatro Mediceo degli Uffizi a Firenze diventerà la struttura di corte più celebre e conosciuta della
spettacolarità di corte italiana ed europea. L'impianto, con forma poligonale per l'area delle gradinate, vede
al centro il palco del principe (punto di vista privilegiato) a cui spetta la visione piena e perfetta della scena,
della prospettiva a fuoco centrale.
La “meraviglia” dell'intermedio
Si affermano così forme performative diverse che aprono orizzonti su innovativi generi “misti”, fino ad allora
inammissibili, e soprattutto su un progressivo slittamento verso nuovi modi di rappresentazione.
Perduta l'esclusiva funzione ricreativa e di sospensione tra un atto e l'altro della drammaturgia regolare,
l'intermedio sposterà l'interesse del pubblico verso gli effetti di pura visualità, distogliendone l'attenzione
dalla trama.
• La tradizione dell'intermedio era comunque di lunga durata. Già nel corso del Quattrocento le cosiddette
“inframmesse” si erano inserite nei volgarizzamenti classici ferraresi e avevano acquisito sempre più
caratteristiche tecniche della rappresentazione (azione coreutica, di canto, pantomimica).
• Ma nel corso del Cinquecento proprio la connotazione di “medialità” del fenomeno (forma aulica di
intrattenimento e di riposo per gli interpreti e per il pubblico, collocata fra gli atti dei generi drammaturgici,
costituita da canti, moresche, piccole azioni coreografiche) mantenne caratteri non ben definiti, legati alla
tradizione. Intermedi di questo tipo furono definiti intermedi non apparenti, distinti quindi da quelli che
prevedevano un'azione scenica articolata, detti appunto intermedi apparenti.
• L'intermedio ha consentito di sperimentare straordinarie innovazioni scenotecniche, come cambi scenici a
vista e inserimenti di macchine, impossibili nelle altre forme di spettacolo.
• La Cofanaria di Francesco d'Ambra, nel 1565, posta in scena a Firenze a Palazzo Vecchio con apparato di
Giorgio Vasari in occasione delle nozze di Francesco de' Medici con Giovanna d'Austria, non è restata alla
storia tanto per i contenuti del testo, quanto piuttosto per gli intermedi scritti per l'occasione da Giovan
Battista Cini.
→ Nella loro elaborazione, Cini ideò un unico filo conduttore unificante (la favole di Psiche e Amore di
Apuleio) secondo una compenetrazione con la commedia, fu un primissimo esempio di metateatralità.
• Ma la piena autonomia dell'intermedio rispetto l'originaria funzione di subordinazione è resa celebre dalle
rappresentazioni dell'Amico Fido di Giovanni de' Bardi e della commedia La pellegrina di Girolamo Bargagli,
recitata dai componenti dell'Accademia degli Intronati di Siena, nel medesimo teatro, in occasione delle
nozze del granduca Ferdinando con Cristina di Lorena (1589). Ognuno dei sei intermedi, sempre ideati da
Bardi, mise in scena un'azione drammaturgica a sé stante (tra cui Il mito di Arione FIG.3.4)
L'intermedio catalizzò l'attenzione degli addetti alla pratica scenica ma anche del pubblico, formalizzandosi in
un vero e proprio genere performativo e consolidando il proprio statuto. La rappresentazione della
commedia divenne poco più di un pretesto per gli intermedi, i quali, per lo stretto legame con la coreutica, la
musica e il costume allegorico, nell'arco di alcuni decenni consentiranno la maturazione delle prime forme
del “recitar cantando”, il melodramma.
4. La Commedia dell'Arte
Nel fondo Archivio notarile dell'Archivio di Stato di Padova è conservato il più antico contratto di costituzione
di una compagnia di comici sinora reperita nella nostra penisola. Il 25 febbraio 1545 Ser Maphio, detto Zanini
da Padova, e altri sette compagni si riuniscono a casa del notaio padovano Vincenzo Fortuna per costituire
una “fraternal compagnia” al fine di recitare commedie a pagamento di città in città.
→ A capo del sodalizio, che deve restare unito sino alla Quaresima dell'anno successivo, eleggono Ser
Maphio, che è anche responsabile delle trattative d'ingaggio del gruppo.
→ I comici concordano un regolamento per dividere spese e guadagni della loro attività spettacolare e per
stabilire come comportarsi in caso di malattia o fuoriuscita dal sodalizio di uno dei componenti. Unico
investimento comune fissato nell'accordo è l'acquisto di un cavallo per portare le loro “robe” da una località
all'altra.
• La data di stipula di questo primo contratto rappresenta convenzionalmente non solo la nascita dell'attore
di professione ma anche l'inizio di quel nuovo modo di fare spettacolo che si definisce Commedia dell'Arte.
• Va sottolineato però che nel documento non si fa alcun riferimento a questioni tecnico-artistiche. Accanto
al fattore economico, infatti, l'altro elemento che viene specificamente disciplinato nel contratto è il carattere
itinerante del sodalizio.
A capo di un gruppo di comici di mestiere, Benedetto Cantinella era solito incentrare le trame delle
commedie che rappresentava sulla forza espressiva di tipi fissi come il vecchio Magnifico (un ricco mercante
afflitto da tutti i difetti ridicoli della senilità) o come lo Zanni (in genere il suo servitore, ma anche uno
spazzacamino o un soldato codardo).
• Il centro di gravità delle vicende messe in scena dai comici di professione non consisteva tanto nel parlare a
lungo e senza profitto, ma nell'incontro-scontro di queste due tipologie teatrali, che sprigionava già di per sé
una forza comica. Ad affascinare, in particolare, erano gli irresistibili lazzi (motti buffoneschi spesso sguaiati)
in cui eccellevo lo Zanni.
• Al binomio Magnifico-Zanni individuato dalla storiografia teatrale classica Margaret Katritzky preferisce
contrapporre piuttosto la rilevanza compositiva del trio Magnifico-Zanni-Innamorata come nucleo scenico-
drammatico all'origine delle rappresentazioni dei comici dell'Arte.
→ Ad avvalorare questa ipotesi, verso la fine del XX secolo, durante i lavori di ristrutturazione di Palazzo Berla
a Mantova, in una sala è stata scoperta una serie di otto affreschi a grottesca, posti in fregio al soffitto. La
serie, che contiene scene, a parte una, i cui i protagonisti sono perlopiù due Zanni e il Magnifico, rappresenta
l'unico reperto del genere in Italia sulle origini della Commedia dell'Arte (FIG.4.1). Confrontandola con i
repertori iconografici cui si suole fare riferimento in questi casi Umberto Artioli sottolinea come tra tutti
esiste una tessera in comune: il motivo di Pantalone che danza con una dama al suono di uno Zanni musico.
Ma per poter affrontare questo tema è necessario prendere prima in esame la questione della nascita del
professionismo femminile.
L'attrattiva erotica unita a doti tecniche e a una certa predilezione per il travestimento decretano a tal punto
il trionfo delle prime interpreti dell'Arte che, alcuni anni più tardi, nel 1574, Vittoria Piissimi, allora impegnata
nella compagnia dei Gelosi, viene persino chiamata appositamente a Venezia da Milano per intrattenere con
le sue abilità artistiche Enrico III di Valois.
• Il tema dell'attrattiva sessuale introdotta dalla presenza femminile reca fatalmente con sé quello del suo
legame con la prostituzione.
Qui basti ricordare:
- da un lato i molteplici tratti comuni tra le interpreti degli anni Sessanta del Cinquecento e le meretrices
honestae (donne di piacere dalla cultura elevata in grado di comporre versi e suonare strumenti con il preciso
scopo di allietare la vita di corte)
- e dall'altro il processo di nobilitazione della figura dell'attrice posto in atto da una delle più grandi e note
interpreti dell'Arte, Isabella Andreini, e dal figlio Giovan Battista, in arte Lelio.
→ Attrice, poetessa e accademica intenta, godette di una fama molto vasta Rappresentò un insuperato
modello di commediante onesta, in grado di coniugare le abilità artistiche sulla scena con quelle di moglie
devota e madre affettuosa, venendo al contempo apprezzata anche per le sue composizioni poetiche raccolte
in volume.
• Tuttavia , a prescindere dalla molteplicità degli aspetti sottesi alla questione, dalle prove a favore e contro
l'immoralità delle attrici, l'elemento più interessante sembra piuttosto proprio il tema della fascinazione
femminili tout court, connesso con l'ineliminabile portato di ambiguità che sta alla base della finzione scenica
e che, a vario titolo, si cerca da più parti e in vari modi di regolamentare.
→ Infatti, in seguito ai disordini accaduti in occasione di alcune rappresentazioni, nel 1569, ad esempio, il
governatore dello Stato di Milano fece emanare una grida in cui si ordinava che a partire da quel momento le
commedie dovevano essere epurate da tutti gli elementi che pervertivano i costumi dei cittadini.
• Anche per quanto riguarda le suppliche per la concessione della licenza alle rappresentazioni nelle varie
città, frequentemente vengono firmate direttamente dalla vedette della compagnia o addirittura
accompagnate da una sua esibizione preventiva unita ad assicurazioni di irreprensibilità e morigeratezza di
costumi.
• Altre volte, invece, quando l'autorità cittadina sembra non voler proprio favorire in alcun modo le richieste
dei comici, la stella della compagnia mette in campo una strategia indiretta e richiede personalmente
l'intervento di un potente protettore che solleciti la concessione della licenza fino a quel momento negata.
Maschere e canovacci
Verso la metà del XVI secolo la grande fortuna della commedia rinascimentale comincia a declinare. Accanto
al teatro di corte, si impone uno spettacolo che raffigura una realtà sociale molto più ampia di quella presa i
esame dagli allestimenti umanistici. Nelle città si aprono spazi deputati ad accogliere insieme i viaggiatori
stranieri in cerca di guadagni con le loro varie esibizioni e gli spettatori locali che, senza distinzione di classe,
sono disposti a pagare un biglietto per vederli recitare.
• Tra il 1570 e i primi anni Ottanta, una particolare congiuntura di fenomeni demografici, urbanistici e politici
produca a Firenze, Venezia, Madrid, Napoli, Parigi e Londra i primi segni di un radicamento del teatro in
luoghi stabili di vendita: le cosiddette “stanze del teatro”.
→ In questi spazi, che accolgono alternativamente cerretani, ciarlatani, affabulatori, cantanti, mimi e
giocolieri, i seguaci delle prime compagnie comiche, modellate su quelle di Ser Maphio o Cantinella, mettono
in scena le loro rappresentazioni, senza tuttavia disdegnare gli eventuali ingaggi proposti dalle varie corti.
Elemento fondamentale degli spettacoli di Commedia dell'Arte è la presenza in scena di maschere, o tipi fissi,
che ritornano in rappresentazioni diverse, con vestiti, movenze, personalità sempre uguali.
In questo specifico contesto il termine maschera non designa solo lo strumento di cuoio o cartapesta da
indossare sul volto, ma il complesso della figura creata dall'attore. Considerando che un comico dell'Arte
interpreta quasi per tutta la sua carriera un unico personaggio, in genere il nome della maschera finisce per
cancellare quello dell'attore, o per confondersi con esso.
• Ispirato alle fogge regionali o alle divise delle arti e dei mestieri, il vestiario dei comici dell'Arte si definisce
nel tempo in una stilizzazione fissa. Nella sua standardizzazione l'abito diviene la seconda pelle dell'attore, il
mezzo più eloquente per sottolineare gli aspetti di un tipo.
• Accanto al costume, la mezza maschera è l'altro attributo indispensabile, essendo fissata in un'espressione
specifica che si fa tragica o grottesca, comica o sentimentale, solo nel momento in cui l'attore si esprime con
l'efficacia dell'atteggiamento mimico.
• Dei tre tipi in cui si possono per la gran parte suddividere i personaggi dell'Arte (servi, vecchi e innamorati)
soli i primi due usavano costantemente coprire il volto con la maschera. Le donne e gli innamorati recitavano
invece a viso scoperto.
Vecchi
I vecchi usavano una maschera dalle pieghe profonde, a imitazione esagerata delle rughe.
• La più antica di questa tipologia p quella del Magnifico o Pantalone. L'immagine viene definita dal costume
(calzamaglia rossa, mantello nero, ciabatte) e dalla maschera, severa e accigliata, dominata dal lungo naso
aquilino, simmetrico al pizzo puntuto della barba, al punto che non sembra ne siano stato create altre.
Considerato come personaggio drammatico, è un vecchio mercante veneziano, ma per il resto è un tipo
aperto a tutte le possibili determinazioni.
• Altra maschera di vecchio è quella del Dottore. L'immagine tradizionale consiste in un tipo paffuto e
soddisfatto, vestito con un abito accademico nero e una maschera dal naso grosso e corto. Il Dottore, che si
esprime in genere con il dialetto bolognese, è soprattutto una figura verbale dal parlare distorto ed eccessivo,
fondato sulla paronomasia.
→ Questa figura retorica, detta comunemente anche bisticcio o annominazione, permette di accostare due
parole di suono simile o uguale, ma di significato differente, per mettere in risalto l'opposizione dei significati:
matrimonio diventa patrimonio; medicina, merdesina ecc. Applicata sistematicamente, questa tecnica
linguistica rende il discorso assurdo.
Servi o Zanni
I servi o Zanni sono nominalmente moltiplicati in un numero impressionante di personaggi che, almeno agli
esordi, spesso si qualificano con il prefisso Zan (Zan Ganassa, Zan Panza de Pegora ecc.). A parte il nome, il
costume (camicione bianco o grigio e larghi pantaloni), il dialetto e i complessi stilemi gestuali, gli Zanni
hanno un'immagine non precisamente definita e sono facilmente intercambiabili tra loro. Successivamente,
all'interno del gruppo si formeranno delle gerarchie e si distingueranno i servi furbi dagli sciocchi.
• In particolare, il maggior successo ottenuto dai servi sciocchi, tra cui spicca Arlecchino, si deve
primariamente alla loro definizione grossolana, alla plasticità dell'immagine e all'alta capacità di significare
ambiguamente più cose nello stesso tempo.
• Lo stile e la fisionomia di Arlecchino cambiano in relazione all'interprete che ne assume le vesti.
→ Il comico mantovano Tristano Martinelli attorno al 1585 a Parigi crea la prima versione di Arlecchino, un
tipo dal viso ferino, mezzo diavolo e mezza bestia, capo di una masnada infernale, principe del mondo alla
rovescia, re del carnevale e della follia. Il volto della maschera è nero, con profondi archi orbitali: al sommo
della fronte spuntano due bozzi, residuo delle originarie corna infere (FIG.4.3).
→ Solo con Bianconelli, Arlecchino ottiene quel costume a losanghe regolari e il gran collaretto bianco a cui è
si abituati ad associarlo.
Servetta
Sul versante femminile, la Servetta, personaggio della commedia cinquecentesca utilizzato ora come
confidente, ora come balia, ora come mezzana, diventa uno dei ruoli più frequentemente presenti. Dotata di
violenza icastica e di un gioco scenico scopertamente lascivo, in origine era una maschera en travesti (ossia
interpretata da un uomo), una caratteristica mantenuta a lungo anche successivamente all'avvento delle
attrici sulle scene.
• In seguito la tipologia della Servetta si addolcisce, proponendo un modo scenico più malizioso, gentile e
raffinato, per finire con lo sviluppare nella danza la maggior parte delle sue attrattive.
Capitano
A metà strada tra la figura del padrone e del sottoposto troviamo la maschera del Capitano, che rimane
essenzialmente costante nei caratteristici atteggiamenti soldateschi e fanfaroni. Con un linguaggio grottesco,
infarcito di spagnolismi maccheronici, il Capitano esprime tutta l'insofferenza dei popoli della penisola italiana
per la magniloquente vanagloria dei dominatori spagnoli, o più in generale delle truppe mercenarie al
servizio dei potenti.
Innamorati
I giovani Innamorati, infine, inscenano spesso lo schema tipico del contrasto fra giovani amanti e vecchi: gli
uni chiusi nel loro sentimento e fiduciosi, pur nelle loro disperazioni retoriche, che il loro amore giunga a
buon fine; gli altri, per varie considerazioni di interesse, gelosia, autorità, fermi a contrastarli. Agli Innamorati,
sia uomini sia donne, spetta il compito di far procedere le vicende attraverso un repertorio di smancerie
sentimentali, adattando alla situazione i luoghi comuni del concettismo amoroso, attinto di volta in volta da
Petrarca, dai petrarchisti o dai lirici dell'età barocca.
Rovesciando la prospettiva tipica del drammaturgo rinascimentale, il comico italiano decide di eludere il
momento della composizione letteraria, praticando invece una metaforica drammaturgia d'attore, che si
risolve nell'insieme di tecniche comunemente note come improvvisazione.
• La specializzazione scenica di cui i loro membri si dichiarano orgogliosi li induce a considerare il testo come
un mero soggetto recitabile, ovvero quale semplice materia prima della loro rappresentazione, utile nella
misura in cui contenga in sé elementi tali da prestarsi all'elaborazione da parte dell'attore, unico artefice
responsabile dell'azione scenica.
• Del testo drammatico si rifiuta pertanto la pretesa normativa di costituire un organismo autonomo, tale da
esigere soltanto una rispettosa traduzione in termini scenici.
Ma gli improvvisati divertimenti non derivano se non in apparenza da un gioco senza regole: i comici si
avvalgono di un canovaccio (una trama sintetica, priva di battute, delle vicende che vogliono rappresentare)
che mutano di sera in sera.
• Queste fabulae derivano da una schematizzazione seriale dell'impianto-base del canonico dramma comico
cinquecentesco, o addirittura ricalcano senza pudore le commedie di antichi e moderni, sostituendo ai
personaggi originari le maschere.
• L'esempio più ecclatante in questo senso è offerto dal Burlador de Sevilla, attribuito a Tirso de Molina e
stampato nel 1630, ossia dalla storia di Don Giovanni. Il soggetto viaggia dalla Spagna a Napoli, Firenze,
Bologna e Parigi, mutando titolo e arricchendosi via via di giochi scenotecnici e spunti tematici del tutto
assenti nell'opera primigenia, ma che ritroveranno invece nelle rielaborazioni di Biancolelli prima e nella
celebre pièce di Molière poi.
Vale la pena soffermarsi sulla progressiva modificazione dei tipi della Commedia dell'Arte messa in atto in
Francia da un nucleo di attori italiani stanziatisi a Parigi, un fenomeno che vede predominare le posture
energiche, caratterizzate da sforzo e tensione, tanto da trovarsi ben presto di fronte a danzatori piuttosto che
attori.
• Tiberio Fiorilli, in arte Scaramouche, comico agilissimo e in grado di ballare, cantare e suonare a meraviglia,
nel 1658 recita all'Hotel du Petit-Bourbon. I comici italiano e il grande attore francese Molière lavorarono
fianco a fianco: i primi pronti a sfruttare i successi francesi per trarne parodie, il secondo attento a studiare la
tecnica e i soggetti degli italiani.
• Nel 1661 arriva a Parigi una nuova ondata di attori, tra cui Domenico Biancolelli (Arlecchino), che compone
canovacci più garbati, dalla comicità meno greve, per assecondare la crescente richiesta di spettacoli di
balletto, che vedevano in Scaramouche un vero campione. Se nelle rappresentazioni la lingua italiana dei
comici inizia a essere accompagnata da parti in francese, ai canovacci si aggiungono parti musicali e passi di
danza. Il successo e la fama di Biancolelli ben presto surclassano quella di Martinelli, imponendo un modello
di recitazione per la maschera di Arlecchino anche agli attori che lo seguiranno. Le esigenze di moralità della
corte spingono il comico ad abbandonare i vecchi canovacci e accettare adattamenti di vecchi copioni al
modo francese. Il suo personaggio risulta così trasformato in un servo libero e moralista, che unire con
intelligenza il lavoro con il piacere.
• Alla morte di Biancolelli (1688) sarà Evaristo Gherardi a proseguire sulle scene come Arlecchino e a fissare
quell'immagine della maschera che arriverà immutata ai giorni nostri.
• Entrati però in contrasto con Madame de Maintenon, moglie morganatica di Luigi XIV, nel 1697 i comiti
italiani sono cacciati da Parigi.
Nel 1715 Luigi Riccoboni, deluso dai teatri della Repubblica di Venezia, accetta l'invito di Filippo d'Orleans a
ridare vita a Parigi alla Comédie Italienne.
• Più di cento commedie, tra vecchi e nuovi canovacci, vennero rappresentate nei due anni seguenti. Nei
primi mesi vennero distribuite traduzioni per supplire alla diminuita dimestichezza con l'italiano del pubblico
parigino, ma poi si fece direttamente ricorso ai testi in francese. Scarso successo aveva ottenuto il tentativo di
utilizzare i propri attori nel repertorio “alto”.
• Il pubblico francese ai comici dell'Arte chiedeva parodie dei generi musicali.
• Quando Riccoboni si ritira dalla compagnia nel 1729, si adegua il repertorio ai nuovi gusti del pubblico
parigino, con le proposte di Pierre de Marivaux che, celebrando gli ultimi eredi di un'antica tradizione, di fatto
ne rappresenta il crepuscolo. Nelle sue opere le maschere della Commedia dell'Arte sopravvivono all'interno
di trame esili, mosse da sentimenti altrettanto esili.
• Nel 1741 Carlo Antonio Bertinazzi, in arte Carlino, viene chiamato in Francia per sostituire il famoso
Visentini, in arte Thomassin, e ottiene l'ingaggio soprattutto per la padronanza della danza.
• Ciò che distingue l'arte scenica di Bertinazzi da quella di Biancolelli o di Thomassin, che pure avevano reso
più eleganti le evoluzioni rischiose, assecondando l'idea di un Arlecchino “raffinato dall'amore”, è il senso di
commozione che filtra dalla sua personale interpretazione della maschera. Nello stile di Carlino infatti si
possono ancora riconoscere tracce della recitazione dissonante e grottesca delle origini, ma sapientemente
mescolate al sentimento patetico e ai nuovi codici di naturalezza, grazia e dignità richiesti dal pubblico
parigino. Benchè l'innesto di una interpretazione accorata su una fisicità buffonesca sia per sé
contraddittorio, persino Goldoni, chiamato a Parigi nel 1762 per tentare di salvare la Comédie Italienne, si
deve adattare a ideare per Bertinazzi un servo che nutre passioni fini.
• La gloriosa avventura delle maschere italiane a Parigi terminerà sostanzialmente con la morte dell'attore
nel 1783.
Sul versante italiano il declino della Commedia dell'Arte viene sancito convenzionalmente dalla pubblicazione
del Teatro comico di Goldoni nel 1750, una commedia-manifesto in cui l'attore fa pronunciare agli attori i
cardini della sua riforma a favore di un testo scritto per esteso e di un teatro senza maschere.
• Un esempio illustre di resistenza al cambiamento rimane la collaborazione tra Carlo Gozzi e il capocomico
Antonio Sacco. In aspra polemica con i drammaturghi di successo Goldoni e Chiari, a partire dal 1761 il nobile
veneziano si compiace infatti di comporre una serie di Fiabe teatrali per dare nuova linfa vitale all'ormai
screditato e morente teatro delle maschere.
• Con i romanzi Il signor Formica (1819) e La principessa Brambilla (1820-21) di Ernst Theodor Hoffmann e
Capitan Fracassa (1861-63) di Theophile Gautier, la Commedia dell'Arte entra nell'immaginario dei lettori
comuni alla stregua di un mito, ma diventa anche oggetto di interesse di raffinate élite artistiche.
→ Nella loro residenza di Nohant, ad esempio, George Sand e il figlio Maurice si cimentano per quasi
diciassette anni, con attori in carne e ossa o marionette, in sperimentazioni creative che prevedono di
recitare improvvisando un canovaccio con improbabili peripezie comico-sentimentali.
La rinascita novecentesca
In seguito all'esperienza di George e Maurice Sand, gli elementi costitutivi della Commedia dell'Arte
(maschere, improvvisazioni e stilemi scenici) diventano elementi chiave per molti programmi novecenteschi
di rinnovamento del teatro.
• Tra il 1906 e il 1914 la Commedia dell'Arte e i suoi derivati ottocenteschi costituiscono uno dei punti di
riferimento della ricerca d'avanguardia nell'ambito culturale della Russia pre-rivoluzionaria. Secondo Tessari
(2013), dallo sperimentalismo di Vsevolod Mejerchol'd con la messinscena di Balagancik di Aleksandr Blok nel
1906 (in cui coabitano tipi dell'Arte come Arlecchino e Colombina, una figura tipica della pantomima francese
come Pierrot, espedienti metateatrali e auree di ironica fiaba alla Gozzi), al celebre exploit dello stravinskijano
Petruska realizzato dai Balletti Russi di Djagilev, si può riconoscere un'unica tendenza verso il superamento
degli stereotipi pseudorealisti o naturalisti.
• In sintonia con i predecessori, poi, anche Jacques Copeau non avvicina la Commedia dell'Arte in quanto
tradizione da imitare o forma perduta da ritrovare, ma perchè vi individua “vivo e operante” il principio di
una nascita naturale del teatro.
• Se nella penisola italiana, infine, non mancarono certo contributi in campo filologico allo studio scientifico
degli antichi comici e delle loro maschere, risulta invece assente qualsiasi forma di interesse sperimentale
verso un recupero di forme e tecniche almeno fino al 1922, anno in cui Anton Giulio Bragaglia propone sulle
tavole del Teatro degli Indipendenti di Roma una serie di pantomime ispirate a rivisitazioni francesi o russe
del genere. Ma da questo primo spunto non si svilupperanno ulteriori ricerche.
• Bisognerà attendere la fine del secondo conflitto mondiale perchè nel 1847, nella stagione inaugurale del
Piccolo Teatro di Milano, Giorgio Strehler proponga l'Arlecchino servitore di due padroni, uno spettacolo
modello, in grado di far rivivere le tecniche e le forme espressive degli antichi professionisti dell'Arte. Il
progetto di Strehler si è avvalso di una complessa fase laboratoriale per recuperare l'uso della maschera e le
particolari tecniche recitative necessarie a supportarla.
• Quasi trent'anni dopo, in occasione del 400esimo anniversario della nascita della maschera di Arlecchino,
Dario Fo e Franca Rame danno vita alla rappresentazione in due atti Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino, che
debutta nel 1985 a Palazzo del Cinema di Venezia. Per la prima volta la figura di Arlecchino qui presentata
viene elaborata grazie a una ricca ricerca condotta in collaborazione con studiosi specialisti di Commedia
dell'Arte.
→ Il cuore dell'invenzione scenica proposta, però, consiste nell'associare la creatività e la gestualità della
figura di Arlecchino-Martinelli a quella del clown, proiettandolo quindi in un mondo a cui non appartiene.
→ Fo si avvale di una prassi gestuale tramandata in epoca moderna attraverso il teatro minore, il varietà e il
cinema muto.
→ Altra tecnica rappresentativa adottata è il grammelot, una lingua immaginaria fondata su un gioco
onomatopeico di suoni e solo un dieci percento di parole intellegibili. Questo idioma diviene ora una lingua
lombarda, zeppa di espressioni gergali francesi, efficacemente predisposto per raccontare, ad esempio, la
vicenda di un Arlecchino che ha bevuto per errore una pozione che fa crescere a dismisura il membro.
→ Un ulteriore elemento che connota la concezione della maschera posta in scena da Dario Fo,
allontanandola dalla tradizione, è il gioco politico. Partendo dalla considerazione che l'Arlecchino-Martinelli
“ogni tanto si fermava proprio in mezzo al racconto e faceva allusioni dirette”, magari a personaggi che si
trovavano in sala, oppure a personaggi importanti noti a tutti, l'attore introduce a più riprese nello spettacolo
motivi di satira contemporanea, riferimenti a politici italiani e stranieri, o a questioni di attualità.
• Il primo aprile 1993, al Teatro Reale La Monnaie/Du Munt di Bruxelles, debutta una straordinaria
messinscena di Calisto, un dramma per musica di Francesco Cavalli su libretto di Giovanni Faustini, con la
realizzazione e la direzione musicale di René Jacobs; regia, scene, costumi e luci di Herbert Wernicke.
• L'argomento narra contemporaneamente del tentativo di Giove di sedurre la giovane Calisto, che come
seguace di Diana cacciatrice è votata alla castita, e degli amori segreti e casti di Diana con il pastorello
Endimione.
→ L'impianto drammaturgico proposto da Faustini viene interpretato nell'allestimento di Jacobs e Wernicke
seguendo una chiave di lettura in gran parte comica, allusiva e ammiccante.
→ Ciò che più interessa in questa sede però è che direttore e regista abbiano deciso di rileggere le
caratteristiche personali e le movenze di dei e pastori alla luce dei principali tipi della Commedia dell'Arte, in
particolar modo delle figure del Capitano, degli Innamorati, della Servetta e degli Zanni. Le fonti iconografiche
da cui traggono ispirazione i costumi creati per i personaggi si avvalgono di alcune delle cinquanta immagini
inserite da Maurice Sand nei due volumi di Masques et bouffons (1860) dedicati alla commedia di origine
italiana, seguendo puntualmente persino le indicazioni sui colori con poche impercettibili modifiche (FIG.4.7-
4.9).
Una premessa
I comici di mestiere percorrono l'intero continente superando confini linguistici e culturali, ma ai pochi che
grazie alla loro bravura si sottraggono alle difficoltà quotidiane e sperimentano autentiche forme di divismo si
contrappongono artisti che lottano non solo per conquistare piazze redditizie, ma per essere accettati nella
loro identità irregolare.
→ Basterebbe porre mente al Vagabonds Act del 1572 in Inghilterra, sotto il regno di Elisabetta I, allorchè
l'intento di arginare i pericoli di persone senza fissa dimora nel regno permette di arginare i pericoli di
persone senza fissa dimora nel regno permette di ridefinire lo statuto degli attori, obbligando ogni compagnia
a ottenere una licenza affidata ai nobili o ai magistrati e, pertanto, favorendo l'aggregazione di gruppi e il loro
radicamento, soprattutto nel territorio londinese. Ma è un attacco al cuore di quella pletora di artisti
indipendenti e girovaghi che avevano costituito l'ossatura della teatralità medievale.
• In Inghilterra perciò accadeva che mentre nella capitale il settore teatrale conosceva una fase di
espansione, nel contado invece la situazione si presentava molto più delicata: lo spettacolo era parte viva di
tensioni politiche, ideologiche, religiose, e forse la difficile penetrazione degli artisti italiani oltre la Manica si
deve anche al fatto che essi, nonché stranieri, venissero avvertiti come “nemici”.
• In Spagna e, nei territori controllati dalla corona spagnola, a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo le
scene pubbliche furono autorizzate solo a condizione che una cospicua percentuale sui ricavi fosse versata a
un ente assistenzialistico, in modo da purgare attraverso il finanziamento a opere pie l'esercizio di un'arte
diabolica.
• Anche nell'area germanica la vita teatrale fu segnata dalla Riforma, e il vivace confronto ideologico fra
ginnasi protestanti e scuole gesuitiche caratterizzò per tutto il XVI e il XVII secolo le riflessioni sulle funzioni e i
modelli del palcoscenico.
6. Il teatro dell'Ottocento
6.1 L'idea del teatro del Romanticismo: l'arte come esaltazione del sentimento
Il movimento romantico si sviluppa in anni diversi e in concomitanza con avvenimenti storici particolari nei
singoli paesi europei.
• In Germania, esso nasce nell'ultimo decennio del XVIII secolo e individua nell'età medievale il momento di
formazione della coscienza nazionale germanica.
• In Francia, il movimento romantico si sviluppa intorno agli anni Trenta in funzione anti-illuministica e
antiborghese.
• In Inghilterra, il movimento romantico è comunemente legato alle reazioni liberali contro le conseguenze
della Rivoluzione industriale e contro i valori razionalistici dell'Illuminismo.
• Il Romanticismo italiano si caratterizza, invece, come un movimento culturale e letterario specifico,
riflettendo al suo interno la differente concezione del termine “romantico” rispetto a quello che indica in
altre nazioni: per gli italiano esso sembra indicare tutto ciò che appartiene al tempo presente. Anche in Italia
il movimento romantico giunge in ritardo e si sviluppa nel corso degli anni Venti.
• Ponendosi in antitesi all'esaltazione della ragione teorizzata dall'Illuminismo e affermando una nuova
concezione della vita e dell'opera d'arte attraverso la scoperta del valore del sentimento, della storia, del
popolo e della nazione, il Romanticismo rivendica l'individualità dell'artista e riconosce la libertà del genio
dalle regole classiche.
• Se la storia è un patrimonio prezioso, che deve essere conosciuto e posseduto a fondo, affinchè una
nazione possa avere piena coscienza della propria identità, il teatro, a sua volta, si rivela un luogo di incontro
fra persone appartenenti a nazioni e a classi sociali differenti, ma accomunate da un ideale di libertà
condiviso. Non solo un genere artistico, ma un istituto culturale in grado di incidere su una realtà sociale.
→ Nella storia del teatro del XIX secolo il termine romantico va, in sintesi, a coincidere con la messa in scena
di vicende, spesso dilatate e complesse, dove l'eroe è un bandito fuorilegge in lotta contro le ingiustizie. Un
teatro in grado di suscitare forti emozioni, capace di infondere energia e passione. In tale direzione è da
considerarsi anche la rivalutazione di William Shakespeare e soprattutto delle sue tragedie.
→ Altrettanto significativo è l'apprezzamento per la tragedia greca, dove i romantici vedono concretizzarsi la
loro idea di un teatro dominato dallo scontro tra volontà e passioni dell'individuo e le regole che governano la
società. A questi modelli di riferimento, che porteranno alla tragedia romantica, si accompagna la condanna
del dramma borghese, poiché lacerando il velo dell'illusione e privando i personaggi di un'eroica grandezza,
ne vanifica e ridicolizza ogni effetto.
→ In questo conflitto contro il dramma borghese, Luigi Allegri individua la svolta del teatro moderno. Infatti,
fra tragedia romantica e dramma borghese, sarà quest'ultimo a prevalere. La borghesia infatti avrà più
bisogno di un teatro considerato come strumento sociale e specchio fedele in cui riflettere i propri valori, che
di un teatro (quello romantico) inteso come luogo del raggiungimento di un'autenticità negata all'esperienza
del quotidiano.
• Il genere drammatico predominante nell'Ottocento, per numero di testi prodotti e successo di pubblico, è
certamente la pièce bien faite (“azione drammatica ben costruita”) che dalla Francia si diffonde in tutta
Europa. In essa il teso drammatico è inteso come perfetto meccanismo scenico, fondato su un ritmo
incalzante e sulla concatenazione di effetti scenici, capaci di mantenere viva l'attenzione del pubblico.
→ Gli intrecci sono sempre assai complessi; presentano una serie di equivoci, incontri mancati e scambi di
persona.
→ L'abilità compositiva dell'autore si esercita più sulla struttura del dramma che sui contenuti, tanto che al
proposito Luigi Allegri parla di “teatro sintattico”, mentre le vicende presentano incongruenze anche vistose e
caratteri contraddittori, che tuttavia passano inosservati.
→ A ciò concorrono anche un dialogo brillante e personaggi poco problematici, integrati con il sistema di
valori borghesi.
→ Si tratta di una drammaturgia in cui la teatralità della situazione precede la scelta delle tematiche trattate,
cosicchè struttura e funzionalità scenica sono il principale obiettivo dei compositori, la cui opera si configura
come prodotto di facile fruizione.
→ Ne sono testimonianza le numerose opere di Scribe rappresentate in tutta Europa a partire dalla metà
degli anni Venti, fra le quali figurano commedie di ambientazione contemporanea, come Il diplomatico senza
saperlo (1827), Malvina o Il matrimonio per inclinazione (1828) e La calunnia (1840), oppure drammi di
carattere storico, spesso scritti in collaborazione con altri autori, come la celebre Adriana Lecouvreur (1849).
• Un teatro nazionale e popolare, nonostante la pur felice parantesi delle tragedie ispirata alla cronaca
risorgimentale, tende ben presto ad acquietarsi nei toni pacati della drammaturgia borghese della nuova
Italia. Del resto, la povertà del repertorio italiano, la presenza massiccia di testi tradotti dal francese e il
sistema sempre più instabile delle compagnie di giro, aprono la strada allo spettacolo più amato
dell'Ottocento italiano: il melodramma.
• Compositori del calibro di Rossini, Bellini, Donizetti e, soprattutto, Verdi divengono in breve i signori
incontrastati delle scene teatrali, non solo nazionali.
→ Rossini esordisce nel mondo teatrale del 1810 e prosegue la sua carriera con opere buffe (L'italiana in
Algeri, 1813; Il barbiere di Siviglia, 1816; Cenerentola, 1817) e opere serie (Otello, 1816; Guglielmo Tell, 1829)
che lo rendono il compositore più amato di tutti i teatri d'Europa. Egli fa propria la tradizione musicale del
Settecento, innovandola con uno stile di canto e una teatralità che nascono da un nuovo rapporto parola-
musica.
→ Con Bellini si inaugura quello che viene definito il Romanticismo musicale italiano, che trova nella sottile
vena lirica del compositore uno fra i suoi massimi esponenti.
→ Con Donizetti si afferma pienamente il melodramma romantico, caratterizzato da soggetti storico-
romanzeschi attinti dal repertorio medievale e nordico del romanzo storico, da una dimensione decisamente
tragica. Egli compone circa settanta opere buffe e serie, i cui protagonisti vivono spesso amori infelici,
contrastati dagli interventi dei potenti, e soccombono vittime dello scontro romantico tra le ragioni del cuore
e le convenzioni della società.
→ Giuseppe Verdi è il genio che meglio esprime la sensibilità romantica italiana, attraverso una scrittura
musicale al servizio delle esigenze drammatiche e la scelta di soggetti tratti dai drammi di Hugo, Byron,
Schiller e Scribe. Si pensi, solo per fare un esempio fra i molti possibili, alla cosiddetta trilogia “popolare “
(Rigoletto, Il trovatore, La traviata) o alla costante attenzione riservata da Verdi alla drammaturgia
shakespeariana, alla quale attinge in più occasioni, componendo tre capolavori assoluti del melodramma di
tutti i tempi: Macbeth, Otello e Falstaff.
• Essendo il melodramma lo spettacolo più applaudito dal pubblico italiano, non appare strano che i direttori
dei teatri, in cui l'opera lirica e la prosa si alternano, si preoccupino quasi esclusivamente di assicurarsi unba
buona stagione d'opera e, per conseguenza, non esitino ad affrontare spese anche ingenti per allestire
un'opera, lasciando alla prosa quel poco che resta.
→ Nell'opera italiana del XIX secolo il cantante è senza dubbio l'elemento di maggiore richiamo e , quindi, la
voce di spesa più consistente. Artisti lirici del calibro di Giuditta Pasta, Maria Malibran, Adelina Patti,
Giuseppina Strepponi e Francesco Tamagno sono autentici divi teatrali.
• Si può affermare che in Italia di fatto non esiste il teatro di prosa, ma piuttosto quasi esclusivamente il
teatro in musica, poiché l'opera lirica si pone in questo secolo come scuola di sentimenti e di modelli di
comportamento, andando a riempire un vuoto lasciato dalla mancanza di una drammaturgia nazionale.
• Nel corso del XIX secolo, un nuovo genere teatrale si impone sulle scene italiane, andando a sottrarre
ulteriore spazio e risorse al già impoverito teatro di prosa. Si tratta del balletto romantico, spettacolo sensibile
e raffinato che vede nella Sylphide (1832) e in Giselle (1841) le creazioni più celebri.
→ Le vicende narrate dai balletti romantici portano lo spettatore in mondi ultraterreni dove creature eteree
-che indossano tutù bianchi e scarpette da punta- interpretano vicende popolate da incantesimi, malefici,
creature volanti, ombre e spiriti.
→ Uno fra i temi ricorrenti è la presenza di un atto durante il quale tutte le danzatrici, ordinatamente
disposte sulla scena, indossano tutù bianchi. Quest'atto, che prende il nome di ballet blanc, prevede
l'esecuzione di “passi a due” di grande virtuosismo e “variazioni” tecnicamente complesse per mettere in
risalto la straordinaria abilità delle interpreti.
→ Fra le danzatrici più acclamate ricordiamo Maria Taglioni, Carlotta Grisi, Fanny Cerrito e Fanny Elssler.
• Adelaide Ristori riconosce nell'immedesimazione e nella ricerca della psicologia del personaggio i cardini
della sua arte teatrale. Sulla scena l'attrice enfatizza i toni della voce e dilata il gesto per amplificare
l'immagine del reale e creare al meglio l'illusione scenica.
→ Altra caratteristica di Ristori è la cura quasi maniacale del costume, dei gioielli e del trucco di scena, che
devono rispecchiare quanto più possibile la realtà storica del personaggio.
• Ernesto Rossi, considerato dai contemporanei il perfetto modello dell'attore romantico italiano è un Grande
Attore completo, in quanto interpreta il suo ruolo, dirige l'allestimento scenico e riscrive le parti che deve
recitare per meglio adattare il personaggio alla propria personalità e costruire da sé un linguaggio verbale e
mimico-gestuale da attribuire alle proprie interpretazioni.
• Tommaso Salvini, convinto assertore del fatto che il processo di immedesimazione sia necessario per calarsi
nei panni del personaggio, ma vada utilizzato con parsimonia nell'atto della rappresentazione, non ricerca
gesti o toni che possano arrecare danno alla corretta comprensione del testo.
→ L'Otello di Shakespeare viene interpretato tra il 1856 e il 1857 sia Ernesto Rossi che da Tommaso Salvini.
La recitazione dei due è molto differente. Sostenitore di un'immedesimazione emozionale nel personaggio,
Rossi arricchisce la sua recitazione di spontaneità, passione e immediatezza, mentre Salvini introduce invece
silenzi eloquenti e momenti di intima riflessione, da cui traspare la profondità del personaggio.
• Pur non appartenendo alla categoria del Grande Attore, concludiamo queste osservazioni riservando
qualche considerazione alla più celebre attrice italiana di tutti i tempi: Eleonora Duse (FIG.6.5).
→ Nel primo periodo artistico, fino al 1880, si parla di lei come di un'attrice vera, semplice, spontanea,
naturale, capace di rivivere sulla scena i sentimenti delle eroine interpretate. Quando impersona queste parti
drammatiche, lo stile dell'attrice sembra dare maggior peso al valore fonico delle battute, piuttosto che a
quello semantico; da qui una recitazione veloce, ma spezzata nei toni, con accenti apparentemente inutili o
suoni detti sottovoce. Duse riesce così a infondere nelle sue eroine una intensità tragica che porta il pubblico
alla commozione. Come l'attrice realizzi questa tensione espressiva sulla scena non è semplice stabilirlo. Il
gesto di Duse è sempre mentale, mosso dall'interiorità, non è solo fittizio e artificioso.
→ Malgrado il grande successo di questo suo primo periodo romantico, lo “spirito” dell'attrice stessa appare
insoddisfatto, poiché ella aspira a un altro teatro, un “teatro di poesia”, in cui possa risolversi a pieno tutto il
suo patetismo. Per realizzare il suo idea, deve attendere l'incontro con Arrigo Boito e Gabriele d'Annunzio,
che modificano la vita persona dell'attrice, nonché le sue scelte di repertorio.
→ Quello con Boito è un rapporto da maestro ad allieva, che influenza le sue scelte di stile, di contenuto, di
repertorio e la accompagna a una più elevata maturazione culturale. Grazie a lui Duse conosce autori classici
e autori teatrali contemporanei.
→ Quello con d'Annunzio è un sodalizio artistico più complesso: il poeta scrive per lei personaggi
indimenticabili che la divina Eleonora porta per il mondo.
→ Nel 1909 Duse annuncia inaspettatamente il suo ritiro dalle scene, dove tuttavia farà ritorno per un ultima
volta nel 1921 negli Stati Uniti. Impossibile ricordare sommariamente le sue interpretazioni: dai grandi
drammi francesi di Sardou a Ibsen, da Shakespeare a d'Annunzio.
• D'Annunzio riserva al teatro non poca parte della propria attività artistica. Egli compone non solo testi di
grande valore letterario, ma si impegna personalmente in più occasioni nel loro allestimento. Già nel 1898
d'Annunzio promuove un progetto che vede la costruzione di un teatro all'aperto per le rappresentazioni di
opere classiche e di tragedie moderne che ripropongono i moduli dell'antico teatro, in contrapposizione al
realismo imperante del dramma borghese. Tale progetto naufraga, ma d'Annunzio ha già dato vita al suo
“teatro di poesia”, affidando a Duse l'atto unico Sogno di un mattino di primavera (1897) e, successivamente,
La Gioconda (1899), La Gloria (1899), La città morta (1901) e Francesca da Rimini (1901), opere teatrali dalle
quali emergono figure cariche di dolore che si impongono sulla scena per il loro lirismo poetico.
7.1.1 Un'anteprima
Nel dicembre 1896 debutta a Parigi uno spettacolo dissonante rispetto ai canoni del tempo, che sembra
superare di slancio i tre anni che mancano per il nuovo secolo. Il suo titolo è Ubu re; l'autore Alfred Jarry;
regista Aurelien Lugné-Poe; scenografi Paul Sérusier e Pierre Bonnard, due dei pittori del gruppo Nabis.
• La vicenda è una versione parodica del Macbeth. Il testo comincia con un irriguardoso “Merdre” e Jarry
gioca su neologismi, espressioni gergali, deformazioni verbali. L'azione procede per scene staccate, per scarti
logici e assurdi.
→ C'è una vera e propria dissoluzione del personaggio. Ubu è una maschera. Jarry lo aveva disegnato come
una specie di sacco, con un cappuccio e un ventre smisurato, simbolo della sua avidità.
→ Il gusto per la provocazione, il ribaltamento di norme e comportamenti artistici, l'esplosione dell'opera, la
messa in discussione del senso, la cancellazione di verosimiglianza, psicologia e personaggio sono altrettanti
elementi che fanno di questo testo una sorta di Novecento in miniatura.
7.1.2 Transizione
Ma un secolo non nasce dalla sera alla mattina. C'è un complesso processo di transizione nel passaggio tra
Ottocento e Novecento.
• Il processo di transizione tra i secoli riguarda soprattutto la regia, che si presenta dapprima come modo di
allestire in una maniera più ordinata e organizzata la disposizione scenica per diventare, in seguito, un vero e
proprio modello di concezione dello spettacolo.
→ Dopo l'esperienza del Theatre Libre, in uno scritto teorico del 1903, Causerie sur la mise en scene, André
Antoine teorizza il suo procedimento di lavoro: il testo è centrale e compito del regista è rispettarne nella
maniere più fedele le intenzioni, ma la regia è dichiarata un'arte, artistici i suoi mezzi d'espressione, artista,
anche se “dipendente” nei confronti dello scrittore, il regista.
• La transizione dei secoli riguarda anche la recitazione. Il sistema dei ruoli, che la fissava secondo modelli
fissi e distinti, entra in crisi, anche se continua a segnare il modo di impostare lo stile di recitazione e la
trattazione del personaggio.
• La regia è al centro della riflessione teorica di Gordon Craig. Gli spettacoli prodotti tra il 1900 e il 1903
presentavano straordinari elementi di modernità: rifiuto del realismo, uso creativo di scena e luci, un'armonia
di insieme curata dal regista come una vera e propria scrittura.
→ La sua influenza è dovuta soprattutto agli scritti teorici. Nel primo, L'arte del teatro (1905) è espresso un
concetto chiave: il teatro ha un suo proprio linguaggio basato sull'unità organica di azione parola, linea colore
e ritmo (elementi linguistici, non arti). A gestire un simile linguaggio è il regista.
→ Nel 1907 Craig completerà questo radicale scenario teorico con L'attore e la Supermarionetta, in cui
sostiene che bisogna fare a meno anche dell'attore, il quale, in quanto figura viva soggetta all'emozione,
rende impossibile la perfezione della forma.
• Fondamentale l'incontro con la danzatrice Isadora Duncan, che sperimentava una coreografia basata sul
movimento libero. Per Craig teatro è movimento. Di qui la sua ipotesi di scena mobile: gli screens, pannelli
che articolavano plasticamente lo spazio. La sintesi del pensiero di Craig è che il teatro è un'arte della visione,
che la qualità artistica consiste nel produrre immagini in movimento e che il vero artista è il regista.
• La terza ipotesi di una nuova teoria del teatro è quella di Fuchs. Il suo pensiero è affidato a due libri
soprattutto, La scena del futuro (1905) e La rivoluzione del teatro (1909). La sua tesi è che bisogna
“teatralizzare il teatro”, superare il primato della letteratura e pensare lo spettacolo nei termini di
un'immagine visiva. Il cuore dell'esperienza teatrale è, però, l'attore nella sua relazione con lo spettatore, in
grado di istituire un filo di energia tra sala e scena. Un attore pensato come corpo in movimento, tanto che a
fondamento della recitazione è posta la danza.
→ L'obiettivo è riuscire a superare la dimensione del prodotto estetico, dello spettacolo come manufatto, per
recuperare la “festa”, intesa come momento comunitario al cui centro è posta l'identità etnica, il “popolo”
come corpo collettivo.
• Alla regia come ricerca corrisponde, in Germania, un'ipotesi più pragmatica, quella di Max Reinhardt, il cui
obiettivo era di cogliere di ogni testo la vocazione teatrale.
→ Nel 1905 dirige il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Reinhardt aveva ricostruito una
foresta vera al cui interno far vivere gli spiriti shakespeariani. La scenografia si modificava grazie al
palcoscenico girevole.
→ Il senso del vero, però, non interessava Reinhardt in un'accezione naturalista. Per lui la regia doveva essere
una festa dell'invenzione creativa priva di pregiudizi ideologici.
→ Riteneva, inoltre, che ogni modello drammaturgico avesse bisogno di un suo spazio. Assunse, quindi, la
gestione di diversi teatri a Berlino: il Deutsches Theater, tipico edificio all'italiana per i classici, un ambiente
più raccolto, il Kammerspiele, per i drammi moderni, e poi una grande sala senza proscenio in grado di
ricreare il clima comunitario del teatro greco.
• All'esuberanza di Reinhardt fa da contraltare la sobrietà quasi ascetica del francese Jacques Copeau, che
arriva alla regia dalla critica teatrale. Nel 191 apre a Parigi un teatro, il Vieux Colombier, la cui piccola sala era
allestita in modo da rompere la linea di separazione dell'arco scenico. Copeau voleva che lo spettacolo fosse
occasione per uno scambio diretto tra attore e spettatore. Quindi aveva scelto una scena spoglia, non
figurativa, a rilievo, su cui far stagliare la presenza degli attori, i quali, a loro volta, dovevano liberarsi dai
formalismi della recitazione accademica. Questo per riuscire a trasmettere il testo nella sua costituzione più
autentica.
→ Nel 1924 Copeau chiuse il suo teatro e si spostò in Borgogna con un gruppo di attori per studiare la
recitazione partendo dalla Commedia dell'Arte. I Copiaus, così venivano chiamati, non facevano spettacoli ma
cercavano, con un lavoro di gruppo di natura comunitaria, di sperimentare il nucleo più vivo della recitazione,
esibendosi solo occasionalmente in feste popolari con spettacoli di improvvisazione. Quando i Copiaus
tornarono a Parigi e si strutturarono come compagnia, Copeau abbandonò il progetto. Ne nacque la
Compagnie des Quinze, diretta da Michel Saint-Denis.
Russia
• Allo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre, l'allievo di Stanislavskij, Mejerchol'd si accostò alle posizioni
rivoluzionarie, affermando l'esigenza di un “Ottobre teatrale”. Sono questi gli anni del suo più stretto legame
con i movimenti d'avanguardia e in particolare con Majakovskij.
→ Lo spettacolo manifesto di questa fase è Il magnifico cornuto (1922), una farsa grottesca di Fernand
Crommelynck che Mejerchol'd trasforma in una dinamicissima macchina scenica, grazie a una scenografia
costruttivista fatta di congegni meccanici messi in moto dal gioco clownesco e acrobatico degli attori.
→ Negli anni successivi Mejerchol'd si concentrerà sempre più sulla recitazione e sul modo di intervenire sui
testi della tradizione per scrostarli del residuo accademico. Il culmine di tale processo fu Il revisore di Nikolaj
Gogol' (1926). La scena consisteva in un semicerchio di quindici porte e parte dell'azione si svolgeva su
carrelli mobili mentre gli attori facevano ricorso a una gestualità deformante.
Durante le purghe staliniane Mejerchol'd fu arrestato e ucciso.
• Anche per Evgenij Vachtangov, che proveniva pure lui dalla scuola di Stanislavskij, la regia significava dare
corpo a un'invenzione che esaltasse la matrice artificiale della messa in scena. Nel suo allestimento della
Turandot di Carlo Gozzi (1922, FIG 7.2) gli attori accoglievano il pubblico in abito da sera, poi indossavano i
costumi dei personaggi realizzandoli con giocosa innaturalità (lo scettro del re era una racchetta da tennis).
→ Vachtangov voleva ricostruire, in un'accezione moderna, l'atmosfera della Commedia dell'Arte, solo che
preparava con meticolosità ogni momento dello spettacolo. Ciò che emergeva era la capacità della regia di
essere invenzione, stimolo alla creatività degli attori, libera rielaborazione dei materiali drammaturgici.
• Temi analoghi tornano anche in Aleksandr Tairov, che pensava lo spettacolo come un'esuberante festa dello
sguardo, giocata nel rapporto tra un impianto scenico di impostazione pittorica e la dinamica fisica della
recitazione.
→ Nel suo teatro, il Kamernyi Teatr (teatro da camera), sperimentò le polarità estreme dell'arlecchinata e
della tragedia. Nella Fedra di Racine (1922) la scena presentava immagini scomposte secondo il gusto cubista
e piani inclinati che costruivano l'atmosfera inquieta della tragedia. D'altro canto la recitazione era
caratterizzata da un'intensa espressività mimica e gestuale, accentuata dal trucco e dai costumi.
• Pur se in modi diversi, la “scuola russa” presenta dei caratteri comuni:
1) l'accentuazione della teatralità;
2) l'attenzione verso la qualità visiva della messa in scena;
3) la ricerca di una recitazione fisica basata sull'espressività del corpo.
Germania
In Germania il regista, prima ancora di essere un creatore, è un direttore di teatro.
Un secondo elemento che connota la situazione tedesca è la dimensione politica.
• Leopold Jessner diresse teatri prima ad Amburgo e poi a Berlino. Dirigere un teatro significava, per lui,
assumere un ruolo di responsabilità civile nei confronti della comunità sociale. Impegno ed etica si
traducevano nella scelta del repertorio.
→ Nel Guglielmo Tell di Schiller (1919) e nel Riccardo III di Shakespeare (1920) il tema è la riflessione sul
potere e sul diritto dei popoli ad autodeterminarsi. Il suo era un modo nuovo, essenziale e non decorativo di
rappresentare i classici.
• Più dichiaratamente politico fu Erwin Piscator: il teatro doveva essere uno strumento di propaganda, per
dare alle classi subalterne gli strumenti di comprensione della loro condizione.
→ Con Piscator l'attenzione si sposta decisamente verso la scena: costruire una macchina della visione che
accolga il testo letterario e ne indirizzi in maniera autonoma l'interpretazione.
→ In Oplà noi viviamo di Toller (1927) le diverse scene erano ambientate dentro una scenografia verticale
fatta di tre livelli sovrapposti mentre delle proiezioni cinematografiche mostravano il contesto storico.
→ Nelle Avventure del prode soldato Svejk di Hasek (1928) un tapis roulant serviva a dare il senso del
marciare senza fine dei soldati.
→ Piscator è stato il primo a concepire la multivisione come strumento registico e a trattare il film come
parte integrante dell'azione drammatica.
Francia
In Francia la regia si evolve lungo la strada aperta da Copeau. Nel 1927 Louis Jouvet, Charles Dullin, Gaston
Baty e Georges Pitoeff fondano un'associazione denominata Cartel des Quatre, il cui obiettivo era risccattare
la dignità artistica del teatro nei confronti delle pratiche commerciali.
• Per Jouvet regia significa tradurre in scena il testo letterario nella maniera più organica possibile. Centrale il
lavoro dell'attore sul personaggio, che Jouvet legge in termini di responsabilità etica. Il suo obiettivo è cerca
una nuova soluzione scenica per la drammaturgia classica ma anche creare le condizioni per l'affermarsi di
una drammaturgia moderna.
• Dullin è interessato al lavoro di formazione, che pensa come un “Atelier” (il nome che diede al suo teatro),
un luogo di studio comune, di ricerca, il cui nucleo centrale era rappresentato dall'improvvisazione, una
tecnica allora poco diffusa, e dall'uso espressivo del corpo. Non a caso all'Atelier si formarono Jean Vilar,
Antonin Artaud e Etienne Decroux.
• Per Baty, invece, il teatro coincide con la messa in scena. Come lui stesso ebbe a dire, occorre liberare il
teatro da Sua Maestà la Parola. Non voleva, però, una regia visiva, ma dare spazio a una drammaturgia
autenticamente teatrale.
• Anche per Pitoeff compito del regista era dare una vita scenica al testo drammatico. Pitoeff affinò uno stile
essenziale, basato su pochi elementi espressivi. Incisiva fu la regia dei Sei personaggi in cerca d'autore di
Pirandello (1923), in cui aveva esaltato la dimensione fantasmatica dei personaggi rispetto agli attori,
facendoli approdare sul palcoscenico con un montacarichi e immergendoli in una luce verde che ne
accentuava il carattere spettrale.
Italia
Fino al 1932 in Italia non c'è nemmeno la parola per denominare la regia. In realtà c'erano sperimentazioni
nella direzione registica, ma appaiono più che altro come tentativi di dar vita a una migliore organizzazione
scenica.
• Più vicino al contesto europeo è Anton Giulio Bragaglia che, con il suo Teatro degli Indipendenti, cerca di
dar vita a quello che definiva un “teatro teatrale”, un teatro, cioè, che si affidasse all'invenzione scenica,
liberandosi dai vincoli della letteratura. Non a caso fu tra i primi, in Italia, a prestare attenzione allo studio
della Commedia dell'Arte.
• Particolare il caso di Luigi Pirandello, che nel 1925 diede vita a una progetto che prevedeva una compagnia
e un teatro, il Teatro d'Arte, con una sede stabile. Pirandello curava con meticolosità la messa in scena
cercando, attraverso un'adesione al modello europeo, di modernizzare il teatro italiano. Ma non ebbe
successo e il progetto si concluse in fretta.
• La regia fino al secondo dopoguerra fece fatica ad affermarsi in Italia, il cui teatro restò a lungo ancorato alla
dimensione capocomicale.
7.3.2 Futurismo
Il teatro futurista presenta tre linee di tendenza.
• Filippo Tommaso Marinetti si schierò contro il realismo della rappresentazione e i luoghi comuni del
dramma borghese, proponendo invece un teatro “sintetico” di immagini folgoranti e provocatorie (La voluttà
di essere fischiati, 1911; Il teatro sintetico, 1915).
• Un analogo motivo è alla base della seconda direttrice del teatro futurista: il teatro come evento, che si
espresse nelle “serate futuriste”. Non veri e propri spettacoli, ma occasioni di natura spettacolare in cui
venivano letti proclami, declamate poesie, mostrati quadri ecc.
→ Marinetti sosteneva l'ipotesi di un moderno teatro di varietà di sensibilità antiaccademica in cui erano
presenti il rifiuto della narrazione, la comicità irridente, la frammentazione e il rapporto attivo con il pubblico.
Teatro non era produrre uno spettacolo, ma determinare una situazione (Il teatro di varietà, 1913).
• La terza direttrice del teatro futurista introduce il fenomeno del teatro dei pittori. Enrico Prampolini,
Giacomo Balla e Fortunato Depero si dedicarono infatti anche al teatro. Non come pittori-scenografi, ma
come pittori autori di partiture sceniche visive.
→ Prampolini teorizzò un teatro astratto, affidato alla dinamica giustapposizione di elementi visivi, quadri
plastici, luci e colori (Scenografia e coreografia futurista, 1915).
→ Balla in Feu d'artifice di Stravinskij (1917) realizzò una struttura tridimensionale che attraverso luci colorate
“suonava” in sincrono con la musica.
→ Depero, invece, utilizzata marionette per armonizzare il quadro scenico e metterlo in movimento.
7.3.4 Russia
Nella Russia a cavallo della Rivoluzione del 1917 il fermento culturale è simmetrico a quello politico e si
traduce nel proliferare di movimenti d'avanguardia: il Futurismo, il Cubofuturismo, il Suprematismo e il
Costruttivismo, ognuno con una poetica distinta ma tutti tesi a una rivoluzione del linguaggio.
• La figura che meglio incarna questo fervore è Vladimir Majakovskij. I suoi drammi rompono con ogni logica
rappresentativa. La parola è utilizzata per la sua capacità di evocazione sensoriale, negandosi strategicamente
al dialogo.
→ Legato al fervore rivoluzionario è Mistero buffo (1918), in cui la decostruzione linguistica si coniuga con un
utopismo ideologico. In una sorta di percorso iniziatico, gli “impuri”, il proletariato, si avviano verso la terra
promessa, attraversando l'inferno della realtà. Ma il racconto è frammentato, l'azione procede per scarti e
l'ambientazione è irreale. Il testo fu messo in scena da Mejerchol'd segnando un importante momento di
collaborazione tra avanguardia letteraria e regia.
→ In seguito Majakovskij scrisse due testi molto polemici verso l'apparato burocratico, La cimice (1928) e Il
bagno (1929), in cui la tessitura dialogica è, almeno in parte, ricostituita, anche se è sempre forte il senso
ludico e paradossale.
→ Nel 1930 Majakovskij si suicidò. La sua fine e l'uccisione di Mejerchol'd da parte del regime sovietico
rappresentano il fallimento del sogno ideologico e politico delle Avanguardie.
7.3.5 Espressionismo
Anche in Germania il teatro ha una vivace stagione d'avanguardia. Il fenomeno centrale è quello
dell'Espressionismo. Il termine sta ad indicare l'esigenza che l'opera sia il luogo di manifestazione della realtà
interiore dell'artista. Tale manifestazione si esprime nella drammaturgia attraverso un uso lirico, antidialogico
e antidialettico della parola e nella messa in scena grazie a una visività fortemente simbolica.
• Un punto di riferimento fondamentale fu Georg Fuchs. I principali drammaturghi di questa stagione sono
Reinhard Sorge, Walter Hasenclever, Georg Kaiser, nei cui testi la tensione espressionista sfiora la dimensione
dell'inconscio o si ribalta in una chiave politica. Anche in Germania i fermenti avanguardistici si intersecano
con la regia. Sia Jessner sia Reinhardt si cimentano con i drammi dell'Espressionismo cercando soluzioni
sceniche adeguate a visualizzare l'urlo poetico che li caratterizza.
• Accanto alle nuove soluzioni drammaturgiche e registiche è presente anche un “teatro dei pittori”.
→ Vasilij Kandinskij, uno dei padri dell'astrazione pittorica, elaborò una sua visione teatrale a cui diede corpo
in un dramma visivo, Il suono giallo (1912), e in scritti teorici in cui propone un'opera d'arte totale di matrice
wagneriana in cui, però, i tre elementi costitutivi sono musica, movimento e colore.
→ Il secondo protagonista tedesco del “teatro dei pittori” è Oskar Schlemmer, titolare del laboratorio di
teatro presso il Bauhaus. Per egli il teatro doveva essere l'articolazione visiva di un'azione coreografata. Un
ruolo centrale era affidato al costume, che rivestiva completamente i danzatori, fino a nasconderne le
fattezze umane e a trasformarli in forme astratte in movimento.
• La stagione delle Avanguardie storiche può dirsi chiusa alla fine degli anni Trenta. Da un lato l'effervescenza
anarchica aveva fatto il suo corso, dall'altro l'irrigidirsi della situazione politica portò un vento di
conservazione accademica.
• C'è una drammaturgia limitrofa alle Avanguardie. E' il caso di Frank Wedeking, considerato un anticipatore
dell'Espressionismo. Gli elementi più pregnanti della sua scrittura sono lo smascheramento del tabù sessuale
e la dissoluzione dei valori costitutivi della società borghese. Wedekind è innovativo anche sul piano della
struttura drammatica. La coerenza narrativa e lo scambio dialogico sono conservati ma si sfalda il legame
discorsivo tra le scene.
• Più legato al clima delle Avanguardie è Jean Cocteau, poeta, pittore, regista cinematografico oltre che
autore teatrale. I suoi esordi sono esplicitamente avanguardisti, Gli sposi della Tour Eiffel (1921) è un gioco sul
nonsense, senza una trama riconoscibile e uno sviluppo drammatico. Ugualmente giocato sulla decostruzione
della struttura drammaturgica è l'Orfeo (1926), con la commistione spiazzante tra elementi reali e figurazioni
oniriche.
• Un secondo indirizzo della drammaturgia modernista è quello del teatro di poesia, termine con cui si
intende non solo il ricorso al verso ma un certo modo di utilizzare la parola in senso lirico. La figura a cui più si
adatta tale definizione è Thomas Stearns Eliot. Per egli il dramma è una celebrazione liturgica in cui gli atti
umani si ritualizzano. Le sue strutture narrative spesso ricordano l'oratoria, i dialoghi sono trame di
enunciazioni poetiche e il tempo drammatico viene frequentemente sospeso.
• La dimensione poetica è presente, in termini meno tecnici, anche in Paul Claudel. La sua è una
drammaturgia di apologhi morali e religiosi. Nella Scarpina di raso (1929) l'amore impossibile tra i due
protagonisti conduce Claudel a scrivere una parabola etica con salti nel tempo e nello spazio, in cui la
struttura drammatica perde unitarietà. Quello di Claudel è un teatro di parola pura, in cui i personaggio è il
frutto di una costruzione tutta poetica e verbale.
•Al teatro di poesia sono riconducibili anche Hugo von Hofmannsthal e Gabriele d'Annunzio.
→I drammi giovanili di Hofmannsthal sono testi di pura evocazione lirica. La svolta, a inizio secolo, coincide
con la collaborazione con Max Reinhardt, per cui realizza delle riscritture di miti tragici dentro cui proietta
tematiche moderne.
→ D'Annunzio si rivolge a un teatro di articolata costruzione drammatica con La figlia di Jorio (1904) e La
fiaccola sotto il moggio (1905). Il verso e la dimensione sonora della parola sono messi a interagire con
personaggi e strutture narrative che, ricavate dal mondo rurale abruzzese, rimandano a un clima ancestrale e
magico. Nel Martirio di san Sebastiano (1911) l'incontro tra dimensione spirituale e sensualità crea un clima
decadente.
• La dialettica tra ritualità ancestrale e poesia è presente anche in Federico Garcia Lorca. I temi dell'amore
passionale, della gelosia, della fertilità, dell'onore si mescolano dando vita a una tragedia tutta terrestre. In
Yerma (1933) questi elementi sono espressi nella forma più pura. L'azione, che procede per stazioni in
processo di inabissamento verso la morte, è sospesa in enunciati verbali, facendo assumere al testo un
andamento cerimoniale.
• Per William Butler Yeats il teatro di poesia è, invece, lo strumento per il risveglio dello spirito nazionale
irlandese. Il suo obiettivo era riuscire a esprimere l'oralità della parola poetica nella sua purezza. Fondò e
diresse con Lady Gregory l'Abbey Theatre di Dublino dove sperimentò gli screens di Craig.
• Il tema della presa diretta sulla realtà è presente anche nella drammaturgia inglese dei primi anni Sessanta.
Gli “arrabbiati”, così definiti dal titolo di un'opera di John Osborne, Ricorda con rabbia (1956), presentano
spietati spaccati della vita quotidiana inglese, colta nella sua ambientazione più umile. Si tratta di una
provocazione intellettuale che riguarda più i contenuti che la struttura, la quale conserva una forma
convenzionale.
→ John Arden infrange il codice realistico attraverso l'alternanza di poesia, prosa e canto, presenza di un
narratore e inserti filmati. Oggetto è sempre la realtà con le sue contraddizioni politiche, temi ricorrenti il
potere, la violenza e la responsabilità individuale (La danza del sergente Musgrave, 1959).
→ Edward Bond, volendo definire la sua scrittura, parla di “teatro razionale”, che rimanda a un modo di
rappresentare la realtà che rifugge da ogni tentazione di natura sentimentale. Il riferimento è Brecht e la sua
organizzazione paratattica del racconto.
• La caratterizzazione in termini di scrittura letteraria della scena inglese si protrae fino ai nostri giorni e ha
come scenario sempre il Royal Court Theatre. Negli anni Novanta, approdando fino al nuovo secolo, si ha una
generazione di “nuovi arrabbiati”. Oggetto è il disagio verso la fase storica che si esprime in forme feroci. I
principali esponenti di tale stagione sono Sarah Kane, Marc Ravenhill e Martin Crimp.
→ E' soprattutto con Kane che la dialettica tra crudezza della realtà, violenza delle situazioni e del linguaggio,
deformazione della struttura lineare del racconto trova il suo punto di più estremo equilibrio (Dannati, 1995;
L'amore di Fedra, 1996; Psicosi delle 4 e 48, 2000).
• Particolare lo sviluppo della drammaturgia in Italia. La linea centrale è quella degli attori-autori, attori che si
fanno scrittori del proprio teatro.
• E' il caso di Eduardo De Filippo. Egli fonda con i fratelli Peppino e Titina una compagnia che rielabora i
motivi della tradizione napoletana. Unendo l'ascendenza della tradizione con l'insegnamento di Pirandello,
Eduardo dà vita a un dramma borghese popolare, i cui protagonisti sono piccolo-borghesi disorientati dentro
un mondo che ha perduto i suoi confini rassicuranti (Napoli milionaria, 1944; Questi fantasmi (1946). Oggetto
privilegiato è la famiglia, di cui si investigano i conflitti mettendo in gioco l'empatia umana (Filumena
Marturano, 1946) e la dimensione del grottesco e dell'ironia (Sabato, domenica e lunedì, 1959).
• La seconda figura di attore-autore che emerge è quella di Dario Fo. Dopo un'iniziale esperienza nel cabaret,
Fo si dedica a scrivere commedie che mette lui stesso in scena, con allestimenti giocati sul clownesco, il
grottesco e la farsa attraverso cui sono veicolati contenuti di denuncia (La signora è da buttare, 1967; Morte
accidentale di un anarchico, 1970).
→ La dimensione del popolare, di una lingua a metà tra la rielaborazione dei dialetti padani e la pura
invenzione (il grammelot), di una comicità cui contribuiscono le sue doti di attore dalla mimica mobile e dai
tempi incalzanti, sono strumenti utilizzati per dare vita a un moderno teatro politico.
• Di tutt'altro registro il rapporto di Pier Paolo Pasolini con il teatro, che si esprime nell'ipotesi di un teatro di
parola come arena delle idee (Manifesto per un Nuovo Teatro, 1968). Egli scrive una serie di tragedie, in cui
l'azione è praticamente cancellata e risolta in un dialogo di forte intensità poetica. In esso l'argomentazione
che rifugge dalla simulazione della conversazione (Affabulazione).
• Lo sviluppo del teatro di regia in Francia segue la linea tracciata dal teatro popolare.
→ Il caso di Antoine Vitez è emblematico. La sua attività lo ha portato a confrontarsi con il decentramento,
indirizzandolo alla Comédie Francaise. Elemento costante in questo percorso è l'idea di un teatro che sia colto
e popolare a un tempo. Vitez concepisce la regia come strumento per rendere vivo scenicamente il testo
senza forzarne l'interpretazione.
→ Esemplare di questo suo atteggiamento l'allestimento contemporaneo di quattro Molière -Tartufo, Don
Giovanni, La scuola delle mogli, Il misantropo (1978)-, il lavoro su Racine e le diverse edizioni dell'Elettra di
Sofocle.
• Una figura di regista demiurgo è Peter Stein, il fondatore negli anni Settana della Schaubuhne di Berlino,
una delle più importanti istituzioni teatrali europee. Lavorando dentro i parametri della scuola tedesca, Stein
propone un adattamento interpretativo che nasce dallo scavo della materia drammatica. Nelle sue regie Stein
interpreta il testo attraverso parametri di natura storica, culturale e politica. Tale approccio è rivolto sia ai
classici sia a testi contemporanei. Il suo interesse analitico si rivolge spesso a opere dal complesso impianto
tematico che presentano dimensioni monumentali nella durata (i demoni durava nove ore).
• In Italia, la dimensione della scrittura scenica ha un suo particolare sviluppo. Carmelo bene è un attore-
autore che agisce sul testo drammatico e sul personaggio nei termini di una radicale decostruzione.
→ Quando affronta Shakespeare nelle tante edizioni di Amleto, in Riccardo III (1977), Otello (1979) e
Macbeth (1983), Bene smonta la linea narrativa fino a renderla irriconoscibile, mettendo in evidenza alcuni
nuclei tematici: il confronto con il femminile in Riccardo III o il teatro nel teatro in Amleto. Il risultato è un
testo spettacolare in cui i segni visivi fanno da sostegno alla sua recitazione basata su una ritmica dissonante
della dizione e una mimica esasperata.
→ Il suo modo di articolare la scrittura scenica partendo dalla decostruzione del tessuto narrativo e
dall'assolutizzazione della sua presenza scenica è uno degli esempi più convincenti, anche a livello
internazionale, di una drammaturgia antirappresentativa.
• Un altro attore con forte implicazioni autoriali è Leo de Berardinis, che, dopo un'iniziale sperimentazione
sulla disarticolazione del testo, giunge alla ricomposizione della complessità della macchina scenica.
Importante, in questa direzione, anche il lavoro di Carlo Cecchi, altra figura d'attore che ridisegna spettacolo
e testo.
• E' presente poi in Italia una tendenza di drammaturgia visiva che si è tradotta dapprima nel Teatro
immagine e poi nella Postavanguardia.
→ La scrittura scenica aspira al grado zero, smontando il linguaggio nelle sue componenti fonematiche,
secondo un modello che rimanda all'arte concettuale.
→ Protagonisti di questa stagione sono Federico Tiezzi e Sandro Lombardi (Il Carrozzone e poi i
Magazzini criminali); Giorgio Corsetti (La gaia scienza), Mario Martone (Falso Movimento) e Toni
Servillo (Teatro studio di Caserta).
→ A partire dagli anni Ottanta questi autori tornano a cimentarsi con la complessità della messa in
scena, dapprima attraverso una spettacolarizzazione del codice astratto (Crollo nervoso dei Magazzini
criminali, 1980; Cuori strappati della Gaia scienza, 1983; Tango glaciale di Falso Movimento, 1982), poi
affrontando il racconto e il testo letterario, approdando a un tipo particolare di teatro di regia.
8. Teatri in Asia
8.2.1 Il Natyasastra
Il Natyasastra, trattato sull'arte recitativa dell'India classica, è un testo rivelato nato dalla mente di
Brahma, il creatore, che ne ha l'immediata visione in risposta alla sollecitazione di Indra, re degli dei, il
quale, in tempi di decadenza e corruzione dei costumi, fa sua l'esigenza di un divertimento che potesse
essere di conforto per gli uomini di tutte le classi sociali, anche quelle solitamente non ammesse al
sapere dei testi sacri. Brahma definisce la sua creazione “quinto Veda” (veda= “conoscenza”)
rimarcandone l'eccezionalità: è questo un appellativo tributato a quei testi che possono essere
considerati una sorta di completamento del sapere vedico della Quadruplice raccolta, raccolta
sapienziale a fondamento dell'induismo.
• Per far sì che la creazione di Brahma, il Natyaveda, giungesse agli uomini in forma comprensibile, fu
richiesto l'aiuto di Bharatamuni, il saggio Bharata, che ne derivò il Natyasastra in trentasei capitoli e
coinvolse i suoi cento figli per la prima rappresentazione teatrale di sempre: il sostantivo bharata
indicava in antichità la comunità degli attori.
• Fissato in sanscrito su precedenti fonti orali tra il II secolo a.C. ed il II secolo d.C., ma sicuramente
rielaborato almeno fino al V, mantiene traccia della sua origine orale nel ritmo della versificazione e
nelle reiterazioni funzionali alla memorizzazione.
• Il termine natya, reso in genere con “dramma”, ha come radice nat, “danza”, tanto che il suo senso
più esteso suggerisce l'idea di azione scenica in ragione della sua prossimità concettuale all'abhinaya:
quell'insieme di elementi espressivi che il danzatore usa per creare la relazione con il pubblico. Gli
elementi sono:
1) angika abhinaya = gestualità corporea
2) vacika abhinaya = comunicazione verbale
3) aharya abhinaya = apparato scenico e mascheramenti
4) sattvika abhinaya = espressione dei sentimenti.
• Assieme al natya, danza significante ossia semantica, il Quinto Veda si occupa anche della danza
pura, astratta detta nrtta.
• Finalità della rappresentazione è l'assaporamento del rasa (“succo”, “gusto”) da parte del pubblico. Il
rasa risiede nella mente dello spettatore ma è compito dell'interprete produrre la combinazione
perfetta di sentimenti e stati emotivi affinchè una potente esperienza estetica possa condurre alla
beatitudine suprema della liberazione.
• Il IV capitolo del Natyasastra ha ispirato uno straordinario trattato di pietra ancora oggi fruibile nelle
108 formelle scolpite sulle pareti dei gopura (torri) del tempio di Siva Nataraja (FIG.8.1) a
Chidambaram. Risalenti al XIII secolo, i bassorilievi riproducono una danzatrice (devadasi,
letteralmente “sposa di Dio”) accompagnata da un percussionista e un suonatore di cembali, di
dimensioni minori, a indicare che la scena si riferisce a un'azione in esecuzione.
→ Lo studioso Venkataraman Raghavan (1908-79) e la danzatrice Rukmini Devi (1904-86) emendarono
gli accenti più sensuali delle danze delle devadasi e, guardando ai modelli estetici forniti dagli antichi
trattati, formalizzarono un genere di teatro-danza che risolve in sé il paradosso di essere
simultaneamente antico e contemporaneo. Il suo insegnamento fu disciplinato nella rinomata
accademia di danza Kalakshetra (luogo sacro delle arti) fondata da Rukmini Devi nel 1936. Il
bharatanatyam è probabilmente oggi il genere indiano di tradizione che vanta più allievi nel mondo.
• Se le danze, con le loro traiettorie circolari attorno al centro ideale dello spazio rituale, e i danzatori,
con le rotazioni sul proprio asse, tracciano le astratte volute di un tanka o di un mandala, espressioni
grafiche della bellezza del divino e della geografia cosmica del creato, il cerchio formato dal pubblico di
fedeli che asistono ne è la cornice.