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IL MESSIA DELLA PORTA ACCANTO (Mc 6, 1-6)

Il clima comincia a cambiare attorno a Gesù. Dopo i successi della “primavera di Galilea”, con la
sequenza di miracoli, guarigioni ed esorcismi (1,21-2,12; 4,35-5,43), che ne diffondono la fama e
infittiscono le fila dei suoi seguaci, ecco la prima battuta d’arresto. E proprio a Nazaret. Certo le
avvisaglie c’erano già, nelle dispute con scribi e farisei (2,13-3,5), ma Gesù aveva brillantemente
zittito gli avversari, le cui trame (3,6) non si erano ancora manifestate pubblicamente.
Stavolta, invece, è Gesù a essere ridotto quasi all’impotenza: non può fare nessun miracolo, ma solo
guarire alcuni infermi, e si meraviglia dell’incredulità dei suoi concittadini (6,5a.6a), al punto da
dover amaramente applicare a se stesso un detto popolare: “Un profeta non è disprezzato che nella
sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (6,4). E da allora non metterà più piede nelle sinagoghe.
Il brano evoca il rifiuto che Gesù sperimentò dai compaesani, riletto in chiave universalistica, come
segno di un annuncio respinto da primi destinatari (gli ebrei) e accolto dai pagani.
Tuttavia, visto l’interesse cristologico di Marco, si può azzardare l’ipotesi che questo episodio
intenda, analogamente al “segreto messianico”, affermare una messianicità di Gesù opposta
all’immagine costruita applicando a Dio una logica “umana”. Tra gli ebrei - compresi i discepoli di
Gesù (cfr. 8,2; 10,35-45) - era, infatti, comune l’attesa di un Messia che avrebbe liberato il paese dal
dominio romano e restaurato il Regno davidico. La messianicità di Gesù è radicalmente diversa,
non tanto perché “tutta spirituale” – la sua vicenda ha una dimensione fortemente “pubblica”, basti
pensare alla crocifissione come “re dei giudei” (15,26) – quanto perché assume i tratti del Messia
sofferente e sconfitto, un’idea estranea all’ebraismo, al punto che Pietro protesterà di fronte
all’annuncio della Passione e morte (8,32), venendo apostrofato dal Maestro con l’appellativo di
“Satana”, a sancire il carattere demoniaco di un messianismo trionfalistico e vincente. A Nazaret
questo profilo messianico acquista un ulteriore connotato: si presenta non come fenomeno “extra-
ordinario” e misterioso, ma sotto le spoglie di una persona “comune” e di cui è ben nota
l’appartenenza sociale e familiare. Gesù è “il Messia della porta accanto”.
Lo stupore e l’ammirazione iniziali (6,1-2) sono, infatti, rimpiazzati da scetticismo e scandalo (6,3-
4), quest’ultimo esplicitamente chiamato “incredulità” (6,6a). La sapienza e l’attività taumaturgica
fanno nascere nella gente il sospetto che Gesù sia l’inviato di Dio. Ma di lui si conoscono il
mestiere, la madre e gli altri parenti. Da qui lo “scandalo” degli astanti, che in Gesù trovano il
“sasso che fa inciampare” (skàndalon) sul sentiero consueto di un messianismo spettacolare ed
enigmatico. La radice dell’incredulità è proprio in questa incapacità di accogliere il modo
“quotidiano” che Dio ha di manifestarsi, in nome di una sedicente tutela della dignità e del prestigio
divini, di fatto pretesto per la difesa dell’ordine sociale e dei propri schemi mentali. Proprio questo
porterà le autorità giudaiche a condannare Gesù. Il disprezzo dei concittadini è solo un anticipo del
rifiuto finale.
Il “Messia della porta accanto” cancella ogni separazione, ogni sacralità: il sacro contraddice il Dio
che si fa carne. Interrogato sul perché la Chiesa non sembri disposta a ripensare il celibato dei
presbiteri, José Mariani, un anziano prete argentino, ha risposto: “Se apparissimo come esseri
umani, che fanno parte di una famiglia e hanno problemi coi figli, cadrebbe una sorta di immagine
sacra che ha avuto moltissima influenza. In fondo questa influenza rende la Chiesa un fattore di
potere. Il fatto che il sacerdote si consideri puro, estraneo alle cose mondane, è un motivo di
autorità”.
In questo quadro si comprendono le due note finali di Marco, anch’esse “scandalose”. Nella sua
città Gesù desidera compiere miracoli, ma non può perché chi lo circonda non gli crede; aveva
invece guarito l’emorroissa quasi senza volerlo (5,30) perché la fede della donna era grande (5,34):
i miracoli sono la manifestazione della fede di chi ascolta Gesù più che un segno dei suoi poteri
prodigiosi. La meraviglia di Gesù di fronte all’incredulità dei nazaretani sembra poi quasi ingenua.
Egli pare non capacitarsi che coloro coi quali è cresciuto non riescano a vedere ciò che lui vede, a
gioire di un evento tanto atteso: il Messia è arrivato. “Ma non era così che ce lo aspettavamo”,
sembrano replicare delusi i compaesani. Difficile è accettare che il Mistero giunga attraverso
persone “come noi”, difficile soprattutto accogliere un Messia ordinario, che, proprio perché tale,
chiede ed esige da ciascuno “fede”: chi “stupisce con effetti speciali” dispensa da ogni
coinvolgimento responsabile perché appare “fuori dalla portata”, e quindi esime da ogni
cambiamento, o del tutto indiscutibile, e perciò non lascia spazio a una vera scelta.

LA MISSIONE NELLA PRECARIETÀ (Mc 6, 7-13)

“Sapete che cosa fare e avete visto successi e fallimenti. Adesso tocca a voi”, sembra dire Gesù ai
discepoli quando li manda - a due a due, secondo l’uso giudaico (Lc 7,18; Gv 1,37), praticato anche
dalla Chiesa primitiva (At 8,14; 13,2.4; 15,36-39, ecc.) - in missione, dopo l’insuccesso di Nazaret,
dando loro l’opportunità di agire in prima persona la stessa prassi salvifica del Maestro.
L’istruzione di Gesù si sofferma sui requisiti essenziali dell’inviato: deve essere un uomo libero e
totalmente disponibile per il suo compito. Libertà e disponibilità rese evidenti e comprovabili
dall’assenza di sicurezze materiali. L’equipaggiamento deve quindi essere ridotto all’essenziale
(6,8-9) e, una volta trovata ospitalità, non si deve cercare un alloggio migliore (6,10), perché
l’apostolo, col suo distacco dalle cose, deve dar prova della sua fiducia in Dio, che provvede anche
agli uccelli dell’aria e ai gigli del campo (Mt 6,25-34). Messaggeri che pretendono garanzie non
sono credibili per un annuncio che chiama a mettersi in gioco, a rischiare.
Nel dopo Concilio i missionari si sono sforzati di recuperare questa dimensione della povertà
materiale (come rinuncia a ogni privilegio e condivisione delle condizioni di vita e delle causa della
gente tra cui andavano a vivere e annunciare il Vangelo) e culturale (come disponibilità a liberarsi
da ogni strumento di potere, da ogni pretesa “civilizzatrice”, da ogni connivenza con gli interessi
dei vari imperi e da ogni colonialismo religioso, attenti a non imporre a chi accoglieva l’annuncio
cristiano anche tutto il bagaglio europeo o occidentale). Ne sono nate esperienze di straordinaria
dedizione e radicalità evangelica, che hanno ridato spazio a un pluralismo ecclesiale favorendo
l’emergere autonomo delle giovani Chiese dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia. Tuttavia la
tentazione del ripiegamento su modelli più comodi e soprattutto psicologicamente e
ideologicamente rassicuranti, magari ammantati dal bisogno efficientista di vedere i risultati
dell’impegno di promozione umana, è sempre dietro l’angolo, nella soddisfazione per la costruzione
di ospedali e scuole o nella delusione per la lentezza dei tempi con cui i poveri si emancipano. E,
più in generale, sempre risorge la tentazione di disporre di mezzi per “fare del bene”, ignorando che
le sicurezze cambiano il modo di sentire i problemi altrui, anche perché, inevitabilmente, vanno
difese e ciò rende meno liberi.
Gli apostoli predicano la conversione, scacciano i demoni e guariscono i malati (6,12-13). Nella
tradizione profetica della Bibbia la conversione come cambiamento di mentalità e vita è la
condizione per accogliere il Regno di Dio, cioè la sua azione liberatrice nella storia. Ma l’invito del
Nazareno alla conversione si fonda sul compimento delle attese: “credere nel lieto annuncio”
coincide col “credere in Gesù”, che inaugura il Regno di Dio.
Poiché l’invio dei dodici segue lo scacco di Nazaret, qui la conversione – cui si sono sottratti i
concittadini di Gesù – non pare tanto quella di ordine morale, che si sostanzia nell’eliminare le
proprie iniquità per un comportamento retto, ma consiste nell’accettare che Dio si incarna in un
uomo comune (poi, soprattutto, in un uomo che viene crocifisso). L’appello alla conversione non è
solo perché “la presenza di Dio è in mezzo a voi”, ma perché lo è nella forma più ordinaria e
“normale”. Ciò cui ci si deve convertire è al fatto che il Regno di Dio si realizza in nuce già oggi nel
“falegname, figlio di Maria, fratello di Giacomo, Giuseppe, Guida e Simone” (6,3) e avanza nella
misura in cui sono scacciati i demoni e guariti i malati (cfr. 6,13), cioè si fa spazio una vita
pienamente umana. Il rifiuto di questo messaggio ha conseguenze drammatiche: significa trarsi
fuori dalla nuova solidarietà salvifica. Compiendo verso gli stessi israeliti ostili e increduli (cfr. At
13,51; 18,6) il gesto tipico di separazione dei giudei, che scuotevano la polvere dai sandali quando
rientravano in Palestina dal territorio pagano, per lasciarsi dietro ogni impurità, i dodici li
richiamano alla gravità della scelta e li invitano al ravvedimento.

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