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Da quando nel 2006 si è insediato il primo presidente della Repubblica indigeno, Evo Morales, la
Bolivia vive “un momento estremamente importante soprattutto per i popoli nativi, ma più in
generale per le organizzazioni sociali, che hanno espresso un protagonismo molto forte fin dagli
anni '70, quando ha preso il via un movimento indigenista, soprattutto nella zona occidentale del
paese”. Comincia così l'intervista ad Abraham Colque, teologo cattolico di etnia aymara, rettore
dell'Istituto superiore ecumenico andino di teologia (Iseat) di La Paz e segretario esecutivo della
Comunità di educazione teologica ecumenica latinoamericana e caraibica (Cetela), che prosegue:
“Questo recupero dell'identità autoctona ha permesso negli anni '90 di collegare i cocaleros degli
Yungas o di La Paz, i contadini aymara di Sucre e Cochabamba, ecc. Di questo Evo Morales è
divenuto un catalizzatore, perché il suo progetto aveva un connotato pluriculturale e coinvolgeva
molti gruppi subalterni”.
Sul piano politico condivide le critiche di chi denuncia una certa partitizzazione dell'apparato
dello Stato e un certo autoritarismo nell'azione di governo?
In una certa misura è vero e si può spiegare: al governo è arrivato un movimento, non un partito
creato per governare, e il suo programma si è precisato strada facendo. Il movimento, inoltre,
riuniva persone di diversa provenienza e aveva bisogno di raggiungere una certa omogeneità, ma
una situazione di conflittualità permanente favorisce l'emergere di tratti autoritari. Il governo ha
rischiato più volte di cadere per l'opposizione delle regioni ricche e l'ostilità degli Stati Uniti, che
operano attivamente affinché questo processo fallisca. Perciò la coesione era importante, ma il
pericolo che essa sfoci nell'autoritarismo è visibile in alcuni comportamenti e nelle posizioni di certi
dirigenti più intolleranti. Bisogna invece guadagnarsi il consenso della società civile boliviana, che
ha imparato a dire la propria parola e a mettere in discussione qualunque altra parola non le piaccia.
Il governo l'ha sperimentato col gasolinazo e si presume che ora assuma un atteggiamento più
aperto.
E i settori che in passato si sono più impegnati a favore dei processi di cambiamento?
Sono i più danneggiati da questo scontro verbale, perché si trovano “tra due fuochi”: i vescovi
vicini all'opposizione sospettano che siano alleati del governo e li mettono in guardia dal prendere
posizione, mentre le organizzazioni popolari esigono da loro coerenza con la predicata opzione
preferenziale per i poveri e lealtà al processo di cambiamento. Sono quindi tirati da una parte e
dall'altra da una richiesta di fedeltà: ai movimenti sociali o alla gerarchia. Quindi questo settore
ecclesiale si trova costretto a scegliere tra il prendere le distanze dai vescovi ed eliminare il
riferimento religioso dalla propria pratica o tacere e allentare i propri rapporti con le organizzazioni
popolari. La polarizzazione ha molto indebolito e disarticolato il settore ecclesiale progressista,
come le Comunità ecclesiali di base o le congregazioni religiose inserite negli ambienti popolari.
Non c'è stato un tentativo di riflettere su quale dovrebbe essere una presenza cristiana
impegnata, ma critica, da parte del settore che condivide il processo nel suo insieme, ma
magari non alcuni singoli provvedimenti?
Nel dicembre scorso l'Iseat ha promosso un seminario su “Fede e politica” per riflettere liberamente
e in un ambito ecumenico. Pensavamo saremmo stati un piccolo gruppo, mentre sono arrivati molte
persone da diverse parti del paese. Ciò dimostra che la gente stava cercando uno spazio di questo
tipo, per cui vogliamo ripeterlo a livello di dipartimenti anche per favorire un collegamento tra
settori ecclesiali impegnati nella linea della Teologia della liberazione. Speriamo che nella stessa
Chiesa cattolica nascano questi spazi.