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L’America Latina vive un momento politicamente convulso. Dopo il primo decennio del 2000, caratterizzato dall’arrivo
al governo di leader e partiti estranei alle tradizionali oligarchie e attenti a migliorare le condizioni di vita delle classi
popolari attraverso programma sociali finanziati dall’esportazione delle materie prime, il rallentamento dell’economia
mondiale, unito al malcontento legato al permanere di forti disuguaglianze e della corruzione, ha condotto alla fine del
“ciclo progressista” e una fase di forte instabilità politica. In quello che il teologo spagnolo José Ignacio Gonzalez Faus
ha definito “l’anno del disincanto e dell’indignazione” rivolte popolari hanno scosso Cile ed Ecuador, Haiti e Honduras,
Porto Rico e Colombia, mentre in Venezuela la crisi socioeconomica sembra cronicizzarsi, in Bolivia la parabola di Evo
Morales, primo presidente indigeno, pare giunta al capolinea senza che emerga un’alternativa credibile e in Perù le
elezioni per il Parlamento, sciolto dal capo dello Stato, Martin Vizcarra, hanno evidenziato un panorama politico
polverizzato, con la conferma, tuttavia, della presenza sempre più stabile di formazioni di matrice evangelica.
Le nuove rivolte
Il calo dei prezzi delle materie prime e, quindi, la riduzione dei margini per programmi sociali finanziati senza toccare
gli interessi delle oligarchie, insieme alla pervasività di politiche estrattiviste sempre più aggressive, sostenute dai
governi di ogni colore, e di forme di controllo dei ceti medi e bassi delle città che alternano misure assistenziali e
repressione hanno prodotto in vari paesi grandi proteste popolari, che in alcuni casi hanno assunto il carattere di vere
rivolte, con protagonisti i giovani, i popoli originari e le donne: i primi, che faticano a vedere la possibilità di un futuro
dignitoso, stretti tra la prospettiva di un lavoro precario e malpagato, e la violenza quotidiana di polizia e narcos; i
secondi, che vivono direttamente l’espropriazione e l’inqinamento delle proprie terre e fondano la propria forza
sull’organizzazione comunitaria e il proprio prestigio sull’incarnare modi di vivere potenzialmente non capitalisti; le
ultime, che non tollerano più lo scarto tra la retorica dell’uguaglianza tra i sessi nel discorso pubblico e la realtà della
discriminazione di genere e dei femminicidi, oltre a essere le prime penalizzate dal livello infimo dei servizi pubblici.
Le sollevazioni sono diverse tra loro: per esempio, in Ecuador la mobilitazione contro la liberalizzazione del prezzo dei
combustibili è stata diretta dalla Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), sebbene poi, per la
prima volta da anni, sia stata in parte scavalcata dai poveri delle città, mentre in Cile c’è stata un’esplosione spontanea,
senza leadrship, ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari e la convergenza attorno
alla rivendicazione di una nuova Costituzione che superi quella varata nel 1980 dal gen. Augusto Pinochet.
Queste grandi mobilitazioni potrebbero dare nuova linfa a movimenti popolari indebolitisi nell’ultimo quindicennio,
senza che le proteste di quel periodo sedimentassero forme organizzative solide, salvo quelle legate ai bisogni materiali
e culturali dell’abitare nelle città (Movimento dei lavoratori senza tetto in Brasile), mentre quelle dei soggetti
penalizzati dai progetti estrattivi (contadini, indigeni, ecc.) erano rimaste minoritarie, anche perché ormai l’80% dei 580
milioni di latinoamericani è urbano. Facevano già eccezione in questo scenario lo sviluppo di un potente movimento
delle donne, sorto in Argentina per protestare contro i femminicidi (Ni una menos) ed estesosi in tutto il mondo, e, in
parte, quello degli studenti, soprattutto in alcuni paesi (Cile), mentre le mobilitazioni dell’opinione pubblica contro la
corruzione, pur a volte capaci di costringere capi di Stato alle dimissioni (Guatemala, Perù), tendevano a rifluire in
breve tempo senza dar vita a gruppi stabili.