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INTERVISTA A MONS.

GREGORIO ROSA CHAVEZ, VESCOVO AUSILIARE DI SAN SALVADOR


“Questo trentesimo anniversario dell’assassinio di mons. Oscar Romero è stato diverso per la presenza di un nuovo
governo – il primo di sinistra nella storia del paese, dopo 50 anni di regime militare e 20 dello stesso partito di destra,
l’Alleanza repubblicana nazionalista – il cui presidente, Maurizio Funes, la notte stessa della vittoria elettorale, il 15
marzo 2009, disse pubblicamente che si sarebbe ispirato all’opzione per i poveri e l’arcivescovo ucciso il 24 marzo
1980 sarebbe stato la sua guida spirituale. Ciò ha provocato molti fatti imprevisti, che sono una specie di resurrezione
dello stesso mons. Romero nel suo popolo, secondo le sue parole che tutti citano a memoria”. Non può che partire dal
riferimento al “martire cristiano moderno più conosciuto e amato nel mondo” la conversazione con mons. Gregorio
Rosa Chavez, vescovo ausiliare di San Salvador e una delle voci più autorevoli della Chiesa latinoamericana.

Che ha fatto il nuovo governo per ricordare mons. Romero?


Nel 2000 la Commissione interamericana dei diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani (Oea) aveva
emanato una risoluzione che imponeva al governo salvadoregno di riconoscere pubblicamente la propria responsabilità
nell’assassinio e riaprire le indagini, chiedere perdono per questa morte e riservare un omaggio pubblico al presule
ucciso. I due precedenti presidenti della Repubblica, Francisco Flores e Antonio Saca, l’avevano ignorata. Invece il 16
gennaio, durante la commemorazione degli accordi di pace, Funes ha domandato perdono per tutti gli abusi commessi
dagli agenti dello Stato contro la popolazione e il 24 marzo, mentre inaugurava, in una cerimonia ripresa da radio e
televisioni, un murale all’aeroporto internazionale, ha chiesto scusa al popolo, alla Chiesa, alla famiglia di mons.
Romero e a quelle delle vittime di tante tragedie avvenute nel paese, spiegando che considerava questo un passo verso
la riconciliazione nazionale. È stato un momento importantissimo per il Salvador. Nella stessa linea sono andate una
pubblicazione del governo distribuita nei giornali nazionali, gli omaggi a mons. Romero realizzati nelle sedi
diplomatiche all’estero e un programma speciale di commemorazioni nel paese.

La beatificazione di mons. Romero pare in dirittura d’arrivo, ma molti temono che alla fine sarà elevato agli
altari mettendolo in contrapposizione con quanti si sono sempre identificati nella sua figura. Che ne pensa?
Effettivamente ci si chiede se a essere riconosciuto beato sarà un mons. Romero pio, ma inoffensivo, o il profeta che ci
costringe a schierarci a favore di Cristo e del Regno di Dio. Il dibattito è aperto, anche perché il fatto che egli sia stato
ucciso da cristiani disturba molta gente nella Chiesa. C’è comunque un dato oggettivo, cioè il modo in cui si è svolta la
fase “romana” del processo di canonizzazione. La Congregazione per la dottrina della fede ha prima riconosciuto
l’ortodossia dell’arcivescovo, poi ha confermato la correttezza della sua dottrina sociale, cioè della sua ortoprassi. Nel
frattempo il martirio si è andato chiarendo, grazie soprattutto a Giovanni Paolo II che, a quanto mi disse un cardinale,
aggiunse di suo pugno il riferimento a mons. Romero al testo della celebrazione del Giubileo dei martiri nel 2000, il
quale all’inizio non lo citava, il che aveva suscitato proteste in tutto il mondo. D’altro canto Benedetto XVI, sull’aereo
per Aparecida, nel 2007, disse: “Mons. Romero è un grande testimone della fede e merita di essere beatificato”; e
quando ricevette nel 2008 noi vescovi salvadoregni in visita ad limina lo definì “un modello di pastore”. Quindi oggi
per Roma il problema è solo “quando conviene proclamarlo beato”. Bisogna che la sua beatificazione non divida il
paese, il che riporta al discorso sulla riconciliazione.

Una novità è stata pure la lettera con cui la Conferenza episcopale del Salvador (Cedes) ha espresso alla Santa
Sede il proprio desiderio che la beatificazione avvenga quanto prima. Ma in passato il giudizio su mons. Romero
divideva i vescovi salvadoregni.
Il trascorrere del tempo permette sempre una prospettiva più obiettiva. A noi vescovi ha consentito di capire meglio il
momento storico in cui gli toccò essere primate e quindi di comprendere il suo operato, finché nel 2000 decidemmo
all’unanimità di metterlo in cima alla lista dei martiri salvadoregni. La questione della manipolazione politica viene
inoltre vista oggi in termini più completi, perché di questo si accusava sempre la sinistra, mentre la figura di mons.
Romero è stata manipolata pure dalla destra, che lo incolpava della violenza del paese. D’altro canto ormai anche molta
gente di destra va alla sua tomba a chiedergli perdono. Intanto la mente di molte persone semplici che avevano sentito
tanto definirlo “comunista” da crederci, si è andata disintossicando e ora scopre il pastore che dà la vita per il suo
popolo. È la conclusione naturale di un processo che ha richiesto tempo.

Che significa per il paese la vittoria della sinistra e di Funes?


Prima di tutto il fatto che con un cambiamento pacifico arrivi al governo chi prima era nella lotta armata è raro nella
storia del mondo. In secondo luogo il vincitore è un civile, un giornalista famoso. Fin dalla sua nascita come partito
politico sorto dalla guerriglia, il Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln) ha raccolto molta
simpatia tra la popolazione, arrivando a essere la maggior forza in Parlamento. Però non poteva vincere le presidenziali
senza un’alleanza con la società civile. Funes ha aggiunto un voto “fresco”. La gente, tranne un piccolo gruppo, non si è
mai angosciata per la prospettiva che la sinistra governasse e Funes ha fatto una mossa magistrale prendendo le distanze
dal presidente venezuelano Hugo Chavez ed esprimendo la propria simpatia per Barack Obama e il brasiliano Lula.
Questo piace alla gente, che non vuole radicalismi. Il problema è la tensione tra il presidente e l’Fmln, che i mass media
enfatizzano: Funes pare distanziarsi dal partito, che vorrebbe riforme politiche, economiche e sociali più profonde.
Speriamo che questa tensione sia gestita con maturità per il bene del paese.
Come giudica questo primo anno del nuovo governo?
Secondo le inchieste d’opinione Funes è il presidente latinoamericano più popolare, seguito da Lula. Godere di un
consenso superiore all’80 per cento in un paese politicamente diviso a metà vuol dire avere l’approvazione anche di una
parte importante dell’elettorato di destra. Inoltre il presidente ha varato provvedimenti che sono piaciuti alla
popolazione: prima di tutto la distribuzione gratuita di divise, scarpe e materiale scolastico agli studenti delle scuole
pubbliche, che ha aumentato il numero degli iscritti; poi l’abolizione per i poveri del contributo, sulla carta volontario,
ma di fatto obbligatorio, per i ricoveri ospedalieri; in terzo luogo l’erogazione di un buono bimestrale di 100 dollari per
gli ultrasettantenni. Questi interventi sociali hanno avuto un impatto concreto in un paese con forti disuguaglianze e
tanta gente che vive in condizioni indegne di un essere umano. Inoltre studi seri avevano comprovato l’esistenza di una
grande corruzione nei governi precedenti e Funes ha promesso di combatterla. Se lo facesse sarebbe una grande notizia
per il paese, ma non sarà facile, anche se credo abbia la volontà. Molte polemiche sta suscitando il fatto che la sentenza
dell’Oea preveda l’abrogazione della Legge di amnistia: Funes sostiene che non è competenza dell’esecutivo, ma del
Parlamento. Questa posizione ha deluso molta gente progressista. La questione è complicata. Secondo me non possiamo
prescindere dalla memoria, ma poi serve un processo di riconciliazione. Qui abbiamo un compito come Chiesa.

Anche la Chiesa si trova in una situazione un po’ nuova.


Il giorno dopo la firma degli accordi di Chapultepec tra governo e guerriglia, nel 1992, un giornalista chiese
all’arcivescovo, mons. Arturo Rivera y Damas: “Ora che è stata siglata la pace, che farà la Chiesa?”, come se essa si
ritrovasse senza lavoro. Egli rispose: “Abbiamo la grande sfida della riconciliazione”. Questa resta un’opera
incompiuta: il nostro compito fondamentale è aiutare la gente che ha sofferto o fatto danno a sentirsi in pace. Basti
l’esempio del capitano Alvaro Saravia, che partecipò all’omicidio di mons. Romero. Quest’uomo, che è distrutto
fisicamente e vive in condizioni miserabili, ha deciso di raccontare ciò che sa perché vuole trovare pace. La sua
intervista a El faro, che ha commosso il paese, conferma quanto dice il rapporto della Commissione della verità,
rivelando dettagli inediti. Penso sia una condizione comune a tanta gente semplice, che ha nel proprio cuore un dolore o
un rimorso.

La Chiesa salvadoregna ha oggi la capacità di svolgere questo compito?


Come Chiesa siamo inseriti nella realtà globale del nuovo millennio, che è segnata dal disinteresse per chi soffre, dal
centrarsi su se stessi, dalla perdita della prospettiva di un mondo diverso. In questa società addomesticata la Chiesa deve
essere cosciente della propria novità e renderla presente. Come Conferenza episcopale abbiamo mantenuto la nostra
libertà, anche se forse non con la coerenza di mons. Romero. D’altro canto al nostro interno abbiamo imparato a cercare
il consenso. E questo ci ha insegnato ad agire in forma collegiale. Profetici sono stati i documenti emanati nel 2007
sull’attività mineraria e sulle dighe. Il primo è sorto quando mons. José Escobar Alas, vescovo di San Vicente (che ora è
arcivescovo di San Salvador), chiese che fare davanti alla miniera di El Dorado, situata nella sua diocesi. E l’allora
arcivescovo, mons. Fernando Saenz Lacalle, che è laureato in chimica, spiegò come il cianuro usato per separare il
metallo danneggi l’ambiente in modo irreversibile, concludendo che bisognava opporvisi perché le miniere a cielo
aperto significavano morte per il paese, a maggior ragione perché erano situate nel nord, da dove arriva tutta l’acqua
potabile per la nazione. Il documento sorprese l’opinione pubblica. L’arcivescovo ricevette forti pressioni dalle grandi
compagnie minerarie, come la Pacific Rim, ma mantenne la propria posizione e tutti lo appoggiammo. Mons. Escobar
Alas ha ribadito questa contrarietà nel discorso del suo insediamento, il 13 maggio 2008. Ciò ha suscitato una
grandissima simpatia verso la Chiesa. Sulle dighe abbiamo preso una posizione più sfumata, perché la questione è assai
complessa: abbiamo posto il problema dei danni sociali e ambientali, ma non siamo stati così netti nell’opporci alla loro
costruzione. Su altri temi siamo stati meno incisivi, ma abbiamo messo le premesse per riprenderli in forma più
approfondita. Dobbiamo però suscitare nei cristiani una mentalità conforme a questi orientamenti, perché la cultura
dominante va in un’altra direzione.

Da vescovo salvadoregno, quale ritiene sia la principale sfida per la Chiesa universale oggi?
Viviamo un momento estremamente doloroso per la Chiesa a causa della scoperta degli abusi su minori compiuti da
preti e religiosi. Dobbiamo perciò porci in atteggiamento di grande umiltà, riconoscere i nostri errori e a partire da
questo entrare in dialogo con la società. D’altro canto il mondo non ha più frontiere e nulla resta nascosto, per cui
dobbiamo imparare a stare sulla scena pubblica non tanto con parole, ma con la testimonianza. Dalla Chiesa si esige
un’autenticità totale. Questo è salutare, ci purifica. Ciò ci conduce all’utopia che aveva mons. Romero: la Chiesa
povera, missionaria e pasquale; totalmente libera nei confronti del potere economico, politico, militare e impegnata a
favore della liberazione integrale di tutta la persona e di tutte le persone. Questa è la Chiesa di Gesù. Una Chiesa povera
non è ambigua, mentre quando è ricca resta immobilizzata dalla conservazione di tanti tesori. Mons. Romero fu il
Davide di fronte a Golia. Aveva solo una fionda che era la sua radio e un’arma che era la sua parola. E con questi due
strumenti cambiò il Salvador. Questa è una lezione per tutta la Chiesa. Credo che questa utopia di Chiesa vada
recuperata per non apparire una “Chiesa del no”, come dice il titolo di un libro di Marco Politi, ma una Chiesa del sì
totale a Dio e all’uomo. Ciò implica stare sempre in atteggiamento di conversione. Se non seguiamo questa strada non
daremo le risposte che il Signore attende da noi in questo nuovo millennio, pieno di sfide, ma anche di opportunità.

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