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La beatificazione di mons. Romero pare in dirittura d’arrivo, ma molti temono che alla fine sarà elevato agli
altari mettendolo in contrapposizione con quanti si sono sempre identificati nella sua figura. Che ne pensa?
Effettivamente ci si chiede se a essere riconosciuto beato sarà un mons. Romero pio, ma inoffensivo, o il profeta che ci
costringe a schierarci a favore di Cristo e del Regno di Dio. Il dibattito è aperto, anche perché il fatto che egli sia stato
ucciso da cristiani disturba molta gente nella Chiesa. C’è comunque un dato oggettivo, cioè il modo in cui si è svolta la
fase “romana” del processo di canonizzazione. La Congregazione per la dottrina della fede ha prima riconosciuto
l’ortodossia dell’arcivescovo, poi ha confermato la correttezza della sua dottrina sociale, cioè della sua ortoprassi. Nel
frattempo il martirio si è andato chiarendo, grazie soprattutto a Giovanni Paolo II che, a quanto mi disse un cardinale,
aggiunse di suo pugno il riferimento a mons. Romero al testo della celebrazione del Giubileo dei martiri nel 2000, il
quale all’inizio non lo citava, il che aveva suscitato proteste in tutto il mondo. D’altro canto Benedetto XVI, sull’aereo
per Aparecida, nel 2007, disse: “Mons. Romero è un grande testimone della fede e merita di essere beatificato”; e
quando ricevette nel 2008 noi vescovi salvadoregni in visita ad limina lo definì “un modello di pastore”. Quindi oggi
per Roma il problema è solo “quando conviene proclamarlo beato”. Bisogna che la sua beatificazione non divida il
paese, il che riporta al discorso sulla riconciliazione.
Una novità è stata pure la lettera con cui la Conferenza episcopale del Salvador (Cedes) ha espresso alla Santa
Sede il proprio desiderio che la beatificazione avvenga quanto prima. Ma in passato il giudizio su mons. Romero
divideva i vescovi salvadoregni.
Il trascorrere del tempo permette sempre una prospettiva più obiettiva. A noi vescovi ha consentito di capire meglio il
momento storico in cui gli toccò essere primate e quindi di comprendere il suo operato, finché nel 2000 decidemmo
all’unanimità di metterlo in cima alla lista dei martiri salvadoregni. La questione della manipolazione politica viene
inoltre vista oggi in termini più completi, perché di questo si accusava sempre la sinistra, mentre la figura di mons.
Romero è stata manipolata pure dalla destra, che lo incolpava della violenza del paese. D’altro canto ormai anche molta
gente di destra va alla sua tomba a chiedergli perdono. Intanto la mente di molte persone semplici che avevano sentito
tanto definirlo “comunista” da crederci, si è andata disintossicando e ora scopre il pastore che dà la vita per il suo
popolo. È la conclusione naturale di un processo che ha richiesto tempo.
Da vescovo salvadoregno, quale ritiene sia la principale sfida per la Chiesa universale oggi?
Viviamo un momento estremamente doloroso per la Chiesa a causa della scoperta degli abusi su minori compiuti da
preti e religiosi. Dobbiamo perciò porci in atteggiamento di grande umiltà, riconoscere i nostri errori e a partire da
questo entrare in dialogo con la società. D’altro canto il mondo non ha più frontiere e nulla resta nascosto, per cui
dobbiamo imparare a stare sulla scena pubblica non tanto con parole, ma con la testimonianza. Dalla Chiesa si esige
un’autenticità totale. Questo è salutare, ci purifica. Ciò ci conduce all’utopia che aveva mons. Romero: la Chiesa
povera, missionaria e pasquale; totalmente libera nei confronti del potere economico, politico, militare e impegnata a
favore della liberazione integrale di tutta la persona e di tutte le persone. Questa è la Chiesa di Gesù. Una Chiesa povera
non è ambigua, mentre quando è ricca resta immobilizzata dalla conservazione di tanti tesori. Mons. Romero fu il
Davide di fronte a Golia. Aveva solo una fionda che era la sua radio e un’arma che era la sua parola. E con questi due
strumenti cambiò il Salvador. Questa è una lezione per tutta la Chiesa. Credo che questa utopia di Chiesa vada
recuperata per non apparire una “Chiesa del no”, come dice il titolo di un libro di Marco Politi, ma una Chiesa del sì
totale a Dio e all’uomo. Ciò implica stare sempre in atteggiamento di conversione. Se non seguiamo questa strada non
daremo le risposte che il Signore attende da noi in questo nuovo millennio, pieno di sfide, ma anche di opportunità.