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INTERVISTA CON NANCY CARDOSO, PASTORA METODISTA BRASILIANA E

COMPONENTE DEL COORDINAMENTO NAZIONALE DELLA COMMISSIONE


PASTORALE DELLA TERRA (CPT)

Quali sono i principali temi e le maggiori sfide con cui si è misurata la teologia femminista
latinoamericana in 20 anni di riflessione?
Credo che la maggiore sfida sia stata quella di stabilire una relazione organica tra la teologia
femminista e i movimenti delle donne in America latina, perché c’è sempre stata una reciproca
diffidenza. Gli ultimi due decenni sono serviti a costruire un’agenda comune e un dialogo reale tra
la teologia femminista cristiana della liberazione e le organizzazioni delle donne, precisando il
contributo che le donne delle Chiese hanno da dare al movimento femminista latinoamericano. Per
le teologhe femministe, ma anche per i movimenti di pastorale con le donne, questo ha significato
porre all’ordine del giorno i temi solitamente riuniti nella cosiddetta “ermeneutica del corpo”, che è
stata frutto di un’elaborazione comune tra gruppi femministi e teologhe.
A partire da qui sono state approfondite cinque questioni: epistemologica (c’è una rottura
epistemologica da compiere), erotica, economica, ecologica ed estetica. Sono le cinque “e”, che
traducono i punti comuni e gli assi principali della discussione. Il corpo è anche la materialità a
partire dalla quale si costruisce l’esperienza del sacro e la riflessione teologica: il corpo delle donne,
ma anche il corpo del mondo, il mondo come corpo, l’economia coi suoi metabolismi di produzione
e riproduzione, ecc. Questo recupero del corpo non come metafora o concetto, ma nella sua
materialità ha reso la teologia un contributo significativo ai movimenti sociali. Oggi, per esempio,
teologhe come me e suor Ivonne Gebara lavorano nella formazione politica delle contadine.
Nella relazione coi movimenti femministi e con le organizzazioni sociali più in generale in 15 anni
siamo andate molto avanti, sia pur con grandi difficoltà. A livello delle istituzioni ecclesiastiche la
situazione è invece davvero frustrante: tra le protestanti non abbiamo donne docenti di teologia,
mentre le teologhe cattoliche hanno più spazio accademico, ma non possono accedere ai ministeri
ordinati. Su questo terreno non sono stati compiuti passi avanti.
Quindi c’è ormai una presenza consolidata della teologia femminista nei movimenti sociali, mentre
i limiti istituzionali restano immutati.

Anche se nella Chiesa metodista brasiliana c’è una vescova, Marisa de Freitas Ferreira
Coutinho, alla guida della regione missionaria del Nordest?
Ma per i protestanti il problema non sta nell’accesso al ministero.

Però questo significa che le donne hanno uno spazio di parola.


No, non nella produzione teologica perché noi concepiamo l’episcopato come un servizio di
coordinamento. L’esclusione delle donne dalle Facoltà non è, d’altro canto, frutto di una normativa
ecclesiastica, ma di un limite di fatto, al contrario di quanto avviene alle donne cattoliche, le quali,
per quanto avanzino nella produzione teologica e nell’attività pastorale, si scontrano con una totale
chiusura di diritto sul piano ministeriale-sacramentale.

Quali sono le caratteristiche più salienti della Teologia femminista latinoamericana?


A livello teorico credo che una combinazione del materialismo storico, ereditato dalla Teologia
della liberazione, con elementi del femminismo, i quali svolgono una funzione critica, abbia dato
alla teologia femminista latinoamericana una grande flessibilità. La capacità di unire queste due
tendenze teoriche è esplosiva, perché la teologia femminista non può chiudersi, a mio parere, nella
discussione della questione di genere, ma deve dibattere di ecologia, di economia, questione oggi
tornata presente nella riflessione delle donne con chiavi marxiste rilette a partire dal femminismo.
Ciò implica, per esempio, approfondire la questione della produzione e della riproduzione della vita
materiale, coniugare classe, genere, etnia, una pluralità di paradigmi di comprensione della realtà,
introducendo problematiche come quella circa l’avere o non avere figli/e (quando? quanti/e?) e
quella del lavoro, che per i teologi non esiste. Questo è stato un contributo importante che abbiamo
dato ai movimenti sociali. Oggi il Movimento dei lavoratori senza terra (Mst) discute di
produzione, riproduzione, distribuzione e consumo con chiavi marxiste e con un’influenza del
movimento femminista, in una sintesi abbastanza nuova. Oggi esiste un movimento di donne
contadine femministe, e se aggiungiamo “cristiane” la novità è grande. In questo senso credo che la
nostra partecipazione come teologhe sia stata rilevante. Resta comunque una sfida per il futuro.

Non esiste un coordinamento di teologhe in Brasile?


No. Questa necessità di una rete è emersa in passato, ma alla fine degli anni ’90 si convenne, sia
pure in modo informale, di non consolidare uno spazio proprio delle teologhe, anche perché ve
n’erano alcune favorevoli a un movimento autoreferenziale o altre inserite nei movimenti
femministi.

Quando parla di “teologhe autoreferenziali” intende teologhe più legate all’ambito


accademico che inserite nei movimenti popolari?
Sì. Penso a teologhe maggiormente rappresentanti di un “femminismo della differenza” e che non
vogliono lavorare col materialismo storico. Per altre, invece, questo riferimento resta fondamentale,
sebbene sottoposto alla critica femminista, ma senza caratterizzarsi per un “elogio della differenza”
in quanto tale. I tentativi di coordinamento non hanno avuto esito per un’incompatibilità teorica e
pratica, perché ci siamo rese conto che c’erano due teologie femministe e questo non va negato.

La prima sembra assomigliare maggiormente alla teologia europea, che assume il “pensiero
della differenza”, per esempio teorizzato da Luce Iragaray.
Così la vedo io. Ma queste teologhe non lo direbbero di loro stesse. In realtà io penso che il
movimento femminista e le teologhe siamo inserite nel conflitto che attraversa tutta l’America
latina. Non c’è omogeneità tra noi e oggi abbiamo le nostre reti non come teologhe, ma nelle attività
concrete in cui siamo inserite.
Ci distingue anche il modo di portare avanti la critica del patriarcato della Chiesa.

Ma è una differenza di posizione politica o legata a diverse priorità, per esempio tra chi
individua come urgente l’impegno per l’ordinazione delle donne e chi ritiene più importante
la lotta nei movimenti sociali?
L’ordinazione presbiterale non è una priorità per le donne. Qui esse sono spesso leader di comunità
e questo è sufficiente. Ma c’è un gruppo che dissente da questa posizione e sottolinea l’esistenza di
un problema di rappresentanza, perché c’è un’istituzione - quella ecclesiastica - che nel XXI secolo
continua a dire formalmente “le donne no”. Quindi non vogliamo aprire una lotta di potere, ma per
un gruppo di noi il problema dell’ordinazione esiste, nel senso di un più ampio ripensamento del
ministero, respingendo l’idea che si debba convivere con questa esclusione in nome del fatto che
per le classi popolari non è una questione di primaria importanza. Anche su questo alcune vanno in
una direzione, altre in un’altra. La distinzione sta nel legame più o meno stretto col movimento
femminista e la sua agenda.
Per esempio, i diritti riproduttivi sono priorità o no? Per le teologhe, sia cattoliche sia protestanti, il
margine per parlare in questo campo è molto stretto, basta vedere la censura in cui sono incorse suor
Ivone Gebara, cui è stato imposto il silenzio per un anno, o Regina Jurkewicz, coordinatrice della
sezione brasiliana di Cattoliche per il diritto a decidere, licenziata dall’Istituto teologico della
diocesi di Santo André in seguito alla pubblicazione della sua tesi di dottorato dedicata agli abusi
sessuali compiuti da preti brasiliani sulle donne. Questi temi non interessano molto alle teologhe
che cercano di restare entro i margini consentiti dalle istituzioni e producono una teologia che
neppure vogliono chiamare femminista, ma “della donna”. Sono tendenze legate a diversi
femminismi e diverse prospettive teologiche. Io mi identifico col gruppo che porta avanti il dialogo
coi movimenti sociali e delle donne. Sono loro, e non la Chiesa, a dettare l’agenda della riflessione
teologica, ma così continuiamo a lavorare con donne della base ecclesiale.

La sua elezione nel Coordinamento nazionale della Commissione pastorale della terra (Cpt),
organismo che dipende dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, è frutto di questo
protagonismo femminile o dell’attenzione ecumenica della Chiesa cattolica?
Nella lotta per la terra la Chiesa cattolica resta il principale riferimento, ma la Cpt ha sempre avuto
un’apertura ecumenica, tanto che in passato un pastore luterano ne era stato addirittura eletto
vicepresidente, salvo dover rinunciare perché presidente e vicepresidente devono essere vescovi
cattolici. Da pastora nell’Università metodista di Piracicaba, io ho iniziato a lavorare coi tagliatori
di canna da zucchero, poi coi senza terra utilizzando la Lettura popolare della Bibbia. La mia Chiesa
mi ha sempre appoggiato formalmente, ma senza un sostegno concreto, per esempio liberandomi da
altri impegni pastorali. E la mia presenza ai vertici della Cpt non è in rappresentanza della Chiesa
metodista. Per la prima volta oggi la Cpt ha due donne nel Coordinamento nazionale: io e una
religiosa domenicana, suor Maria Madalena dos Santos. Manca una laica, ma siamo in cammino e
non è stato facile vincere il maschilismo nella stessa Cpt. Ci sono persone molto impegnate, le quali
però hanno ancora difficoltà a immaginare un modo di lavorare in cui si tenga conto del fatto che,
per esempio, io ho due bambini e quindi non posso essere disponibile in qualunque momento. Ciò si
ripropone a livello di base, dove un gran numero di donne sono molto attive, ma non riescono a
partecipare alle decisioni o a assumere compiti di dirigenti. Più che al mio essere metodista, la mia
elezione è legata al maggiore potere acquisito dalle donne nel movimento dei senza terra e in quello
dei piccoli agricoltori.

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