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Università di Torino
33 pag.
Introduzione
La religione è diventata un oggetto rilevante per gli studiosi di molti ambiti delle scienze umane e
sociali, anche se troppo raramente gli studiosi si occupano della religiosità e spiritualità femminile. La
cosa non sorprende, soprattutto in quei gruppi religiosi che non permettono alle donne di raggiungere
posizioni di vertice. E tuttavia, per altri versi, è un fatto sorprendente che non si sentano più spesso
voci femminili, dal momento che i credenti, in tutto il mondo, sono per la maggior parte donne.
Nonostante ci siano molte teorie per cui le (o alcune) donne sono più religiose degli uomini (guardando
all’ateismo, gli uomini mostrano una probabilità maggiore di essere atei), le ricerche evidenziano che il
gender gap negli stati a maggioranza cristiana sta diminuendo, indicando nel crescente tasso di
occupazione femminile il fattore causale principale. La religiosità delle donne che lavorano a tempo
pieno è infatti simile a quella degli uomini, suggerendo che l’impiego retribuito ha effetti di
secolarizzazione.
I dati delle indagini Pew mostrano come la ‘religiosità’ e la ‘spiritualità’ si manifestino in molteplici
forme, e singole misurazioni quantitative (partecipazione al culto o l’aderenza a particolari posizioni
dottrinali) non possono essere prese, da sole, come indicatori per capire se qualcuno è religioso e in che
misura. Inoltre, affermazioni che suonano veritiere per alcuni gruppi in alcuni luoghi (“le donne sono
più religiose degli uomini”) sono inaccurate per altri gruppi religiosi o in altri contesti. Fattori come
l’occupazione, l’età, la disabilità e l’origine etnica interagiscono con il genere in maniera complicata.
La dominanza di metodi qualitativi nel campo delle analisi che si occupano di donne, religioni e
rapporti di genere riflette le più ampie tendenze delle studiose femministe e degli studi di genere che
privilegiano studi di piccola scala e qualitativi, considerandoli maggiormente adatti a restituire la
complessità, le ambiguità e le dinamiche di potere all’opera nella vita delle donne.
La religione è una delle istituzioni cardine di ogni società. Si tratta di un tema complesso, che si
intreccia con i processi di migrazione e globalizzazione, portando ad un pluralismo religioso.
Gli studiosi e le studiose devono considerare il fatto che le donne sono la maggioranza, tra coloro che
partecipano alla vita religiosa e spirituale, e devono quindi mettere le donne al centro dell’analisi,
anziché considerarle meno importanti rispetto ai leader religiosi (maschi), riconoscendo l’importante
ruolo che la spiritualità e la religione rivestono per le donne, sia in termini negativi sia positivi.
Se è vero che le istituzioni religiose sono spesso patriarcali e marginalizzano e limitano le donne,
queste possono comunque trovare empowerment all’interno delle comunità religiose e a partire dal
proprio impegno religioso. Inoltre, fornire evidenze empiriche su quegli aspetti della religione che
tolgono potere alle donne può incoraggiare le organizzazioni religiose a cambiare le loro pratiche.
Le attiviste femministe che si sono occupate di religione hanno risposto in modi diversi.
Questo volume propone una rassegna di recenti studi che si occupano di ‘donne’, al plurale e delle
religioni, al plurale, con tre obiettivi principali:
1. Offrire un’introduzione ad un tema che oggi si trova al centro del dibattito pubblico, in un
Paese, come l’Italia, caratterizzato da una scarsa alfabetizzazione religiosa.
2. Avvicinare studiosi e studenti alla pluralità dello scenario religioso internazionale in rapida
trasformazione.
3. Una lettura critica al ruolo delle donne nelle religioni, spesso considerato, un po’
frettolosamente, come debole e subordinato ad un potere maschile.
In generale, manca una lente di genere nello studio delle religioni in Italia. Solo recentemente il tema è
diventato un oggetto a sé stante, centrale, dell’analisi.
L’analisi sulla vita spirituale dei giovani italiani rivela importanti differenze e somiglianze tra i generi.
Il genere non discrimina:
A. Nel gruppo di quanti coltivano la vita spirituale secondo i principi della religione di
appartenenza (ossia femmine e maschi seguono o meno i precetti religiosi nello stesso modo).
Ci saremmo attese che più femmine che maschi optassero per una disciplina spirituale normata
dai principi della religione istituzionale.
B. Nelle concezioni di spiritualità che non rimandano esplicitamente alla religione: la stessa quota
di ragazze e ragazzi intende la spiritualità come ricerca di armonia e consenso.
Le differenze di genere riguardano invece il fatto che
• più ragazze che ragazzi sono interessate a coltivare una vita spirituale ma sempre nell’alveo
cattolico.
• le donne, più degli uomini ammettono di vivere la ricerca religiosa e spirituale in modo
personale (discontinuità rispetto al passato), e questo porta ad applicare anche in Italia la
categoria della designer religion - Rountree espressione coniata di recente (“religione
ritagliata su misura”), che secondo l’autrice che l’ha proposta costituisce una prerogativa
femminile. Le donne non sono necessariamente più creative degli uomini, ma per via della
particolare situazione di ‘formale subalternità’ in cui si trovano, sono più propense allo sviluppo
di forme di creatività, che ha portato alla nascita di movimenti liturgici femministi. La designer
religion, per le giovani italiane, si esplica sostanzialmente in una rielaborazione personale delle
fede cattolica.
Comparando i dati relativi alla credenza in Dio di uomini e donne si scopre che mentre in passato la
quota di ragazze che credevano in Dio “senza alcun dubbio” era maggiore di quella dei ragazzi, oggi
questo divario tende a colmarsi, proiettando una nuova luce sul futuro del cattolicesimo in Italia. Se
altre ricerche dovessero confermare che le giovani italiane non sono più propense a farsi portavoce e
garanti dei principi della religione di chiesa, occorrerà rivedere la rappresentazione tradizionale
dell’Italia cattolica che fa delle donne le custodi della trasmissione religiosa.
2 Spiritualità intesa come il versante dell’esperienza soggettiva e della rielaborazione personale della fede ufficiale.
Riepilogando: sebbene le giovani italiane siano più interessate dei loro coetanei a vivere in modo
personale il viaggio spirituale e religioso, l’attitudine alla designer religion non si esplica in un no-
madismo spirituale fuori dai confini ufficiali, risultando ‘più cattoliche’ che ‘spirituali’. Noi
ipotizziamo che almeno tre siano le ragioni per cui il milieu olistico italiano non sia affollato da donne:
1. Lo scarso interesse delle ragazze per la spiritualità alternativa riflette il più ampio disinteresse
generale del Paese, dovuto all’imprinting storico della religione, ossia il suo radicamento
temporale in un certo territorio.
2. La formazione religiosa in famiglia ha il suo baricentro nella madre che si adopera per replicare la
fede che le è stata trasmessa.
3. Una scarsa problematizzazione dell’identità di genere e dei ruoli tradizionali. Questo modello di
socializzazione religiosa ha tutte le probabilità di influenzare le giovani che, in linea di massima,
si sentiranno spinte a seguire le orme delle madri, in un Paese che è conservatore negli
atteggiamenti di genere.
L’analisi mostra che anche in Italia il gender gap nella religiosità giovanile va affievolendosi, ma, a
differenza di altri Paesi del Nord e Centro Europa, la secolarizzazione femminile non è accompagnata
da una rivoluzione spirituale capeggiata da donne.
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L’obiettivo del capitolo è quello di mostrare come l’abbandono spirituale e fisico del ruolo sociale di
mogli, madri e figlie abbia come effetto collaterale la ricostruzione di legami simili che ripropongono i
rapporti familiari nello spazio del monastero. Nel primo paragrafo analizzerò alcuni casi di vergini
ascete, spose di Cristo, nel secondo paragrafo il caso di donne che scelsero di diventare monache
separandosi fisicamente dall’ambiente domestico per vivere in ambienti monastici e nel terzo paragrafo
tenterò di mettere in luce come il linguaggio famigliare sia utilizzato ampiamente nelle fonti letterarie
e documentarie per indicare il ruolo delle donne nei monasteri. Attraverso l’analisi di differenti modi di
separazione, pur vivendo una vita ascetica o monastica, vorrei dimostrare come le donne non
poterono mai rinunciare, fino in fondo, alle strutture della famiglia patriarcale.
1. Quadro generale
Negli ultimi sessant’anni il Regno Unito ha assistito a molteplici cambiamenti nelle appartenenze,
credenze e comportamenti religiosi. La rivoluzione culturale che iniziò negli anni Sessanta portò molti
cambiamenti nel Regno Unito al punto da non lasciare pressoché nessuno “illeso”, nemmeno quelle
donne che erano fedeli convinte e attive. Alcune delle trasformazioni innescate dalla rivoluzione
culturale arrivarono solo più tardi tra la popolazione anziana e/o lontana da Londra. Ma tutte le classi
sociali, indipendentemente dall’area geografica, prima o dopo ne avvertirono l’effetto, mano a mano
che le idee si diffondevano e prendevano forza, grazie anche alla capacità di propagazione offerte
prima dalla televisione poi da internet.
Il presente capitolo considera questi cambiamenti alla luce degli effetti prodotti su 5 gruppi di donne
anziane (> 50 anni al momento della ricerca):
• le “Discepole”, ovvero coloro che sono permanentemente affiliate ad una Chiesa cristiana;
• le “Figliole prodighe”, che hanno fatto ritorno in chiesa dopo una assenza di anni;
• le “Convertite riflessive” che hanno cambiato la comunità di appartenenza;
• le “Convertite olistiche”, che generalmente hanno scelto forme di spiritualità alternativa,
• le “Pecorelle smarrite”, che non frequentano più ma continuano a credere e proseguono le pratiche
nel privato.
2. Contesto e metodi
Il lavoro si basa su uno studio etnografico, basato su osservazione partecipata e interviste non
strutturate, della durata di sei anni (2004-2010) volto ad esaminare la storia di vita di 70 donne anziane
nel Regno Unito, con particolare attenzione al Nord dell’Inghilterra. Le intervistate appartengono a
diverse denominazioni, provengono da classi sociali differenti, e molte, sebbene non tutte, posseggono
un’istruzione universitaria. Vivono principalmente in aree rurali a popolazione bianca, in una delle
regioni a maggiore prevalenza cristiana del Regno Unito.
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4. Risultati
Discepole e Figliole Prodighe
Si tratta di donne che o hanno frequentato una chiesa per tutta la vita (le discepole) o vi hanno fatto
ritorno a seguito di un periodo di difficoltà (le figliole prodighe). Mi sarei attesa da parte di entrambi i
tipi di “donna tradizionale” un qualche riferimento alla loro credenza in Dio, alle preghiere, ma questi
riferimenti sono stati piuttosto scarsi. La ricerca ha evidenziato le credenze da una prospettiva di
“religione vissuta”: le credenze emergono in un contesto relazionale. Le donne raccontano di forti
legami con gli altri membri delle loro comunità e di un impegno prolungato nelle attività della chiesa.
La loro fede si consolida nella presenza reciproca l’una dell’altra e si alimenta in una sorta di mutuo-
aiuto, soprattutto nei momenti di bisogno.
In questa comunità, i legami emotivi sono formati tra il sé, la congregazione e il particolare contesto
socio culturale che quella congregazione incorpora. Ciò che queste donne fanno, anche se rientra
ancora tra i compiti tradizionalmente femminili, è assunto volontariamente, il che esclude l’obbligo.
Le pecorelle smarrite
Per le pecorelle smarrite il Dio maschio e salvatore non è un problema. Semplicemente, per queste
donne, il lavoro e spesso la cura dei figli e anche dei genitori anziani è talmente impegnativo da
impedire la frequentazione della congregazione. Per alcune di loro la chiesa ha fallito nel fornire le
relazioni affettive, altre hanno trovato la chiesa troppo piccola e frivola. La chiesa sta semplicemente
troppo stretta a queste donne, le quali non condividono gli interessi e i valori che legano discepole e
figliole prodighe alla congregazione. Restano però praticanti in molti modi. La scelta di cosa è
importante, dunque, avviene fuori dei ristretti confini fissati da questa o quella particolare istituzione
ecclesiastica.
5. Conclusione
In generale, la visione che le donne hanno del loro agire è oggi molto più determinato dalla loro scelta
personale, anche quando ciò conduce all’adozione dei modelli tradizionali di cura.
L’ingresso delle donne nel mercato del lavoro può determinare la cessazione improvvisa
dell’appartenenza, specialmente quando devono continuare a prendersi cura della famiglia, compito di
cui ancora si fanno carico soprattutto le donne. Il grado di cambiamento verso una divisione più equa
delle cure domestiche e la crescita dei matrimoni bianchi coinvolge meno le donne anziane di questo
studio. La modificazione dei ruoli di genere ha poi reso molte donne consapevoli delle regole
patriarcali e gerarchiche ancora prevalenti in molti ambiti ecclesiastici, portandole a scegliere comunità
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1. Introduzione
Il ruolo assunto dal genere nel fenomeno religioso è da considerarsi un tratto capace di rendere conto
delle diverse dinamiche che attraversano il fenomeno religioso nella modernità, soprattutto riguardo la
“religiosità alternativa contemporanea”, in un Paese come il nostro caratterizzato dal monopolio del
Cattolicesimo. A partire da queste premesse, l’obiettivo del capitolo è quello di riflettere sul legame che
intercorre tra genere e religione, focalizzando l’attenzione sulle modalità attraverso le quali avviene la
costruzione del femminile all’interno del milieu della “religiosità alternativa contemporanea”.
Nello specifico, le tendenze che caratterizzano la “modernità religiosa” possono essere interpretate
come il frutto dell’intreccio di dinamiche contrapposte, ma complementari, di secolarizzazione e
“disincanto del mondo” e di “reincanto”. Questa prospettiva, rappresentando un altro modo di pensare
il binomio religione/modernità, consente di riconoscere la rilevanza delle diverse espressioni e istanze
della “religiosità alternativa”, riducendo così il rischio di interpretare le trasformazioni del fenomeno
religioso come esito esclusivo di una dinamica secolarizzante che, generalmente, fa riferimento al
declino di forme tradizionali di stampo maschile. Sebbene la rilevanza di questa religiosità emergente
non vada interpretata in termini strettamente numerici, la sua significatività risiede proprio nella
capacità di imporre un necessario confronto con le forme più tradizionali di religione.
A tal proposito, un aspetto che esige un’approfondita riflessione è appunto la relazione che intercorre
tra genere e religione.
Woodhead Uno degli elementi che caratterizzano il panorama religioso contemporaneo occidentale è il
ruolo giocato dal genere nel dare forma a queste nuove forme di religiosità e spiritualità, mosse dal
desiderio e necessità di ricercare una spiritualità che sia di supporto e costruttiva per le donne. Il
sorgere di “spiritualità della vita” costituisce una potenziale fonte di empowerment per le donne
rispetto al senso e significato del proprio ruolo e identità di genere, che non trova spazio nelle forme di
religione più tradizionali. Di conseguenza, è interessante approfondire, proprio in ragione della
capacità di critica e della portata destrutturante, il ruolo giocato dal genere nei modelli della religione
occidentale, dal momento che spesso le pioniere nella definizione di nuove modalità di relazione con il
sacro sono state proprio donne che si sono trovate ai margini delle istituzioni religiose mainstream, le
quali hanno lottato contro atteggiamenti e strutture, patriarcali e dominanti, nel contesto sociale più
ampio.
A. Modalità cognitivo/interpretativo
Consiste nella definizione e costruzione di un framework alternativo all’interno del quale l’esperienza
spirituale si struttura e assume significato. Questo framework è caratterizzato da una forte istanza
critica nei confronti dalle religioni tradizionali e si propone di definire e veicolare la visione del mondo
e del divino, i valori, le pratiche e i rituali alla base del percorso spirituale attraverso un’operazione di
“ricodifica della situazione”.
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Adottando una prospettiva storica più ampia, l’operazione di “ricodifica” corrisponde a una
riattribuzione di significato che basa la sua legittimazione nel Paganesimo caratteristico del mondo
antico pre-cristiano. Questa riscoperta e il recupero di una via del sacro femminile ha avuto origine dal
lavoro delle femministe storiche, che hanno prevalentemente operato sul piano dei valori politici,
sociali e civili.
Marjia Gimbutas esistono testimonianze paleo-archeologiche di società dedite al culto della Dea,
egualitarie e caratterizzate da un rapporto tra i sessi equilibrato e paritario. Testimonianze che
starebbero ad indicare che ‘il primo dio era una donna’.
Riane Eisler ha operato un riesame e una riscrittura della storia della società umana, partendo da una
prospettiva incentrata su una “visione olistica dei sessi” il cui risultato è la formulazione di una nuova
“Teoria della trasformazione culturale”. Secondo l’autrice, a fondamento dell’apparente diversità della
cultura umana sono riscontrabili, principalmente, due modelli base di società:
• Da una parte, quello dominatore (dominator model), comunemente definito patriarcale o
matriarcale, incentrato sul predominio di una metà dell’umanità sull’altra (spada).
• Dall’altra, quello definito mutuale (partnership model), in cui le relazioni sociali si basano
prevalentemente sull’unione e non sul predominio (calice) e, pertanto, a partire dalla differenza
fondamentale della nostra specie non si traduce come inferiorità o superiorità.
Numerose studiose femministe hanno sostenuto l’esistenza di società umane pre-bibliche di stampo
matriarcale/matrifocale, egalitarie e incentrate sul culto della Dea intesa come lo spirito della terra che
nutre e sostiene. È solamente con la rimozione della Dea e sua sostituzione con un Dio maschile che
questo culto viene perso. Sostituzione che viene considerata come parte di una battaglia ideologica
guidata dagli uomini per sostituire la società matriarcale con una patriarcale, gerarchica e militarista.
Purtuttavia, si tratta di tesi che, scuotendo e ribaltando con forza molte delle nozioni di senso comune,
non sono state immuni da critiche, anche all’interno dell’ambito degli studi femministi. Sebbene l’idea
del recupero dell’antico culto della Dea sia stata significativa per molte femministe, si tratta di un
B. Modalità espressivo/rituale
Essa è basata sull’esperienza diretta del divino, vissuta attraverso il corpo, ed è fondata sulle
celebrazioni rituali stagionali che caratterizzano la Ruota dell’anno. Quest’ultima rappresenta il
simbolo attorno al quale il gruppo si struttura e prende forma, è il focus verso il quale converge e ruota
la pratica e l’esperienza spirituale.
Considerata nel suo carattere performativo, la pratica rituale si compone principalmente di due parti:
• una più introspettiva, dedicata a meditazioni e visualizzazioni guidate,
• un’altra più espressiva, che generalmente consiste in un atto simbolico, e definisce uno spazio
all’interno del quale è possibile venire a contatto con le diverse qualità dell’energia della Dea.
La ratio che influisce sulla costruzione del femminile consiste nel riconoscimento, accettazione e
integrazione delle proprie parti in ombra e degli stati emotivi a esse associati, operazioni che a loro
volta favorirebbero la connessione con quella parte sacra di sé diretta emanazione dell’energia del
divino femminile, operando una sintesi tra le due polarità archetipiche presenti nell’essere umano, il
femminile e il maschile. Questo movimento verso l’autenticità del proprio sé è, il più delle volte,
sostenuto da risorse che, da una parte, attengono alla dimensione religiosa e spirituale, d’altra parte
provengono da altre sfere come quelle terapeutica e psicoanalitica. Un aspetto particolarmente
rilevante, pertanto, è il ruolo svolto e l’importanza attribuita alle emozioni nel percorso spirituale,
considerate uno dei principali veicoli, insieme alla sessualità, di connessione con il divino. All’interno
della cornice interpretativa che struttura la performance rituale, quindi, è possibile contattare,
riconoscere ed esprimere le proprie emozioni favorendo un’integrazione del femminile dentro di sé. La
costruzione del femminile, e la trasformazione di sé che implica, corrisponde a un processo di
guarigione delle proprie ferite emotive che deriverebbero dalle concezioni relative al genere, alla
relazione tra femminile e maschile, alla religione frutto di quella “logica di dominazione” caratteristica
dei sistemi simbolici e religiosi patriarcali.
Anche il gruppo assume una rilevanza significativa, assolvendo a una serie di funzioni quali:
• costituirsi come framework in cui l’esperienza individuale e collettiva acquisisce senso e significato
nella condivisione con le/gli altre/i;
• rappresentare uno spazio protetto in cui è possibile venire a contatto con se stesse/i e con l’energia
divina ed esprimere liberamente le proprie emozioni;
• essere un luogo di condivisione del proprio vissuto ed esperienze, in cui trovare sostegno per
l’integrazione tra vita quotidiana e spirituale.
L’espressione delle emozioni, quindi, è un aspetto significativo del percorso spirituale e si declina in
concreto nel consentire ai lati ombra e a tutte le emozioni represse di emergere, in modo tale da
integrare questi aspetti nascosti nella propria personalità. La libera espressione, di sé e delle proprie
emozioni concorrerebbe nel processo di costruzione del femminile, assolvendo una funzione catartica:
esternare e condividere le proprie emozioni in un contesto rituale collettivo, all’interno di uno spazio
circoscritto, è considerato un atto di guarigione di per sé, e consente di rielaborare il proprio sentire
l’esperienza spirituale vissuta.
Quindi, il processo di costruzione del femminile consiste in un tentativo di integrazione tra la
dimensione pratica e quella spirituale dell’esistenza, declinata nel riconoscimento della dimensione
sacra dell’esistenza dentro ogni essere umano, e nel mantenimento di una costante connessione con la
sacralità del quotidiano, tramite l’energia del divino femminile presente in natura. Questo comporta
una presa di consapevolezza e responsabilità del proprio posto nel mondo, nei confronti di se stesse/i e
delle/degli altre/i, attraverso il riconoscimento e integrazione dei propri lati ombra, e della parte divina
del sé.
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1. Introduzione
Nel 2013, un rapporto pubblicato dal Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet, ufficio
amministrativo sotto il controllo del Primo Ministro, considerato uno degli emblemi della laicità turca)
ha denunciato la mancanza di spazi e attrezzature adeguate per le donne che frequentano le moschee in
Turchia e ha avviato un programma di “abbellimento” delle moschee con l’obiettivo di potenziare la
partecipazione femminile nello spazio pubblico del religioso.
Nell’ultimo decennio, il Diyanet ha sostenuto progetti ad hoc e pubblicazioni volti a invitare le donne
in moschea, perseguiti attraverso una politica di femminilizzazione dell’istituzione che ha visto il
numero del personale femminile aumentare in maniera consistente. Il fatto che sempre più donne
esperte in materia di religione portino avanti progetti e iniziative rivolte a donne e famiglie, richiama
l’attenzione su come la partecipazione religiosa femminile sia andata ridefinendosi all’interno dello
stesso Diyanet.
Dal 2003, l’istituzione e la professionalizzazione di posizioni all’interno del Diyanet per donne esperte
di religione sono andate di pari passo con un’assistenza morale fornita dallo stato come servizio
pubblico, attraverso gli Uffici per la Famiglia, il servizio di fatwa online e tramite call center, e
soprattutto, tramite un impegno quotidiano delle vaizeler in moschee, centri culturali, ospedali,
orfanotrofi, prigioni e località protette per donne vittime di violenza.
Nell’indagare il tema del rapporto tra donne e religione, e Islam in particolare, l’obiettivo è di
presentare forme e significati della femminilizzazione di una burocrazia religiosa prettamente
maschile. All’interno della religione, sia vista come un possibile strumento di resistenza ed
emancipazione femminile, sia come mezzo attraverso cui giustificare e legittimare forme di
subordinazione, le donne appaiono passive. La religione o in modo strumentale le rende sottomesse, o
in modo quasi illusorio fornisce loro forme di liberazione.
C’è da aggiungere a questo proposito che la “questione della donna” nell’Islam ha visto ampie
corrispondenze tra il dibattito pubblico e gli studi accademici, portando all’affermazione di un
“femminismo Islamico”, declinato sotto due aspetti:
• uno che cerca di conquistare spazi nella sfera religiosa,
• l’altro nella sfera pubblica secolare, e si richiama ad associazioni e movimenti laici.
Emerge anche come la forte segregazione dei sessi favorisca spazi, spesso i privati, in cui le donne
leggono e commentano il Corano. Queste attività, portate avanti in modo volontario da predicatrici,
sono molto diffuse in Turchia, dove le sorelle appartenenti a comunità religiose o a ordini Sufi
organizzano regolarmente incontri in moschee, case private, dormitori.
Alla luce di queste considerazioni, nella prima parte del capitolo sarà dato spazio alle posizioni aperte
alle donne nella burocrazia del Diyanet, con attenzione particolare alla presidenza 2003-2010, durante
la quale il numero e le competenze delle donne impiegate come predicatrici hanno portato a una
professionalizzazione di tale attività. Nella seconda parte, questa prospettiva di genere sarà considerata
in relazione ad una rinnovata presenza della religione nello spazio pubblico.
2. Metodologia
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5. Conclusioni
A partire dall’istituzionalizzazione di operatori di culto femminili, questo capitolo rilegge le molteplici
e complesse relazioni tra donne, stato e religione nella Turchia contemporanea. Mette in luce come
l’autorità del personale femminile sia il risultato di una politica “dall’alto” dello stato e del Diyanet
volta a burocratizzare gli operatori di culto femminili. In che misura questa partecipazione femminile
come concessione statale possa dar vita ad un cambiamento degli equilibri di genere all’interno delle
gerarchie religiose e nella società nel suo complesso resta una questione da approfondire. Tuttavia, un
aspetto sembra emergere in modo chiaro: una nuova donna religiosa, “pia e moderna” è andata
affermandosi.
L’aspetto centrale di questo capitolo è costituito da una ricerca etnografica dettagliata basata su un
campione di 25 donne britanniche che hanno preso l’“ordinazione” in sette differenti gruppi buddhisti
in Gran Bretagna. Dimostrerò che esiste una notevole diversità nelle loro risposte sulla questione del
femminismo e dell’uguaglianza di genere, scalzando ogni rappresentazione semplicistica della loro
attitudine a riguardo. Come riflesso di tale diversità, ho identificato tre specifiche modalità attraverso le
quali le donne buddhiste ordinate in Gran Bretagna trattano l’uguaglianza di genere e il femminismo:
“campagna attiva”, “cauto interesse” e “presa di distanza risoluta”.
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Vediamo ora i tre modi attraverso i quali è affrontato il tema dell’uguaglianza di genere e del
femminismo nel buddhismo:
3. Campagna attiva
Le donne “impegnate attivamente” si esprimono pubblicamente sul tema della disuguaglianza di
genere nel buddhismo, sono impegnate nell’offrire maggiori opportunità alle donne all’interno del
gruppo buddhista, o hanno lasciato alcune comunità buddhiste avviate per vivere da sole o in piccoli
gruppi, poiché toccate dalla questione della disuguaglianza di genere. Quest’approccio enfatizza il fatto
che gli uomini e le donne sono entrambi capaci di seguire gli insegnamenti buddhisti, ma che
quest’ultime hanno sofferto di discriminazione, a causa di preconcetti patriarcali sulle capacità
spirituali delle donne, radicati nella cultura di alcuni paesi in cui il buddhismo è dominante.
Per queste donne ordinate, l’uguaglianza di genere ricopre una grande importanza, che si manifesta
nella richiesta di riconoscimento delle loro “capacità spirituali”, e di ottenere l’ordinazione “superiore”
là dove non è regolarmente disponibile, per un cambiamento nelle istituzioni buddhiste verso un
accesso equo all’ordinazione per le donne e per gli uomini. Le donne “impegnate attivamente”
provengono non solo dai gruppi buddhisti che offrono un’ordinazione monastica differente per gli
uomini e per le donne, ma anche da organizzazioni che hanno stabilito un’uguaglianza di genere a
livello strutturale, sentendo ancora la necessità di promuovere un linguaggio neutro nei cerimoniali e
per assicurarsi che le donne abbiano ruoli organizzativi.
Per le donne “ordinate”, non è sempre stato semplice prendere una posizione pubblica e attiva per
l’uguaglianza di genere, e non è avvenuto senza sofferenza e tensione. Hanno ammesso che non è
sempre stato semplice mantenere l’impegno e che hanno dovuto fare fronte a critiche provenienti dalle
loro comunità di appartenenza. Adottare apertamente un punto di vista femminista o cercare di agire
contro le disuguaglianze di genere nelle tradizioni buddhiste può essere fonte di discordia, diventando
una posizione delicata per chi vive a stretto contatto con la comunità e con l’organizzazione gerarchica.
6. Ulteriori osservazioni
Nel contesto britannico esiste una notevole varietà di atteggiamenti tra le donne buddhiste “ordinate”
rispetto ai temi della parità di genere e del femminismo. Di conseguenza, occorre evitare ogni ipotesi
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7. Conclusioni
Attraverso lo studio di queste tre categorie, ho dimostrato che le donne ordinate in Gran Bretagna si
orientano tra le “linee di frattura” relative al genere in diversi modi e per diversi motivi, legati alle
circostanze personali, alle storie e alle dinamiche organizzative, alle percezioni di discriminazione e
alla loro comprensione dello scopo della pratica buddhista. Le posizioni prese sono influenzate
dall’esperienze delle donne all’interno dei loro gruppi buddhisti, ma coloro che fanno parte di uno
stesso gruppo non sempre affrontano la questione della parità di genere o la trattano nello stesso modo.
La lettura dei dati attraverso queste tre categorie potrebbe aiutare anche ad andare al di là della
dicotomia “occidentale/orientale”, che i ricercatori considerano invece fondamentale per lo studio del
buddhismo contemporaneo. Le sinergie e le diversità dovrebbero essere analizzate in maniera più
approfondita.
7. MORTE E IMPURITÀLE SCIAMANE CIECHE E LA
MORTE IN GIAPPONE (M. Zanetta)
1. Introduzione
L’arcipelago giapponese offre una vasta gamma di esperienze di tipo sciamanico, in prevalenza
femminile. Una delle pratiche più dibattute è quella delle itako, sciamane cieche, la cui popolarità è
legata in particolare al rituale dell’invocazione dei defunti, durante il quale lo spirito di un antenato è
chiamato a possedere il corpo di un’itako per comunicare con i propri discendenti. Queste donne
rappresentano indubbiamente una tipicità anche all’interno dello sciamanesimo giapponese: esse,
4. L’impurità femminile
Affermare un legame tra itako e spirito del defunto attraverso il concetto di kegare implica sostenere
che queste due figure condividono nella propria natura un certo livello di impurità, sono ambedue
elementi contaminanti, e di conseguenza, in una certa misura pericolosi. Da una parte, la morte è una
delle fonti principali di impurità perché mette in dubbio in modo traumatico l’ordine di questo mondo.
Il morto va allontanato dalla società dei viventi per preservare l’integrità delle barriere tra i due mondi.
D’altra parte la donna è impura, perché associata a nascita e mestruazioni. Uno degli approcci alla
tematica dei tabù mestruali è stato quello che lo connette con la nozione di contaminazione simbolica,
che implica una visione della donna come culturalmente pericolosa, per cui il tabù mestruale
rappresenta lo strumento stabilito per contenere e limitare la sua energia dal diffondersi oltre i confini
stabiliti. Il sangue mestruale è un elemento fuori contesto, che supera i confini naturali della pelle e
scorre indipendentemente dalla volontà individuale, incontrollabile e pertanto ancora più pericoloso.
Questa visione che concepisce le donne come fonte di pericolo e di impurità assimilandola alla morte,
già presente nei culti più antichi, è indubbiamente rafforzata dopo l’introduzione del Buddismo, che ha
comportato il deterioramento della condizione e della posizione sociale della donna, favorendo la
circolazione e la diffusione di una visione della società in cui la donna va a occupare una posizione di
secondo piano. Il Buddismo ha quindi una lunga storia di discriminazione femminile; la donna è un
essere debole, in preda a ogni tipo di desiderio e di tentazione, è impura fisicamente, fonte di sozzura
per via del sangue mestruale, su cui non ha controllo, ed è incapace di raggiungere l’illuminazione.
Anche spiritualmente la donna viene descritta come un essere perverso, e alcuni particolari attributi
comportamentali, come la gelosia o la lussuria, sono riferiti unicamente ad essa, diventando la
giustificazione per l’esclusione delle donne dalla Buddità e l’allontanamento dai luoghi sacri.
5. Conclusioni
Quello che si è cercato di dimostrare nel corso di questo lavoro è il legame esistente tra la figura della
sciamana e quella dello spirito del defunto attraverso il concetto di impurità. Diventa così chiaro che il
potere delle itako, non potendo essere negato, cerca di essere incanalato in uno scopo socialmente utile
e riconoscibile, cioè comunicare con esseri ugualmente marginali e pericolosi, ma importanti come
sono i morti inquieti. L’itako viene quindi inserita sulla soglia tra due mondi che non possono
comunicare direttamente; diventa la voce di altre presenze, e, rimanendo sul confine, permette alla
società di salvaguardare se stessa. L’itako, così, è colei che si avventura in territori pericolosi e temuti,
sperimenta una realtà diversa, incontra spiriti a lei affini, e permette loro di raggiungere la liberazione
e allontanarsi dalla società dei vivi, permettendo allo stesso tempo alla società di rimanere intaccata da
forze esterne in grado di sovvertire l’ordine e portare la confusione.
Parlare di ascetismo in India significa confrontarsi con una realtà complessa e altamente differenziata.
L’unica asserzione generale che si possa fare è che tutti gli asceti seguono un qualche percorso che li
porta alla liberazione dal mondo transeunte, distinguendo se stessi da coloro che non cercano tale
liberazione. I criteri ascetici sono poi specifici per ogni gruppo, talvolta realizzabili all’interno della
vita domestica.
In questo capitolo prenderò in considerazione un tipo specifico di ascetismo, quello rinunciante, uno
stile di vita in cui l’individuo abbandona il nucleo familiare e, più in generale, la società laica per
dedicarsi a una ricerca religiosa. La scelta di questa forma di vita ascetica è quella che crea una frattura
maggiore tra l’individuo e il mondo sociale circostante, che diventa particolarmente eclatante se attuata
da una donna. Per questo motivo, il numero delle donne ascete è notevolmente limitato.
L’atteggiamento della società verso una donna che decide di intraprendere la vita ascetica è influenzato
dai testi normativi brahmanici che hanno plasmato ruoli specifici per la donna (figlia/moglie/madre)
spingendo verso un atteggiamento negativo nei confronti di coloro che si discostano da tali ruoli.
Lo scopo di questo capitolo è mostrare come, nel corso dei secoli, l’asceta donna, sebbene scoraggiata,
abbia sempre trovato una sua collocazione nelle tradizioni religiose indiane venendo integrata in
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3. Verso il cambiamento?
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1. Esibire bambole
Uno degli oggetti più popolari, esibito in numerose esposizioni relative all’immagine nazionale di
Israele, sono le bambole fatte a mano, prodotte negli insediamenti ebraici in Palestina, durante il
mandato britannico (1920-1948). Per quanto di foggia e materiale variabili a seconda degli artisti, le
bambole erano prevalentemente fabbricate, pubblicizzate e vendute da donne, erano alte circa 25 cm e
rappresentavano dei ‘tipi sociali’, la cui professione, etnia, religione e posizione politica venivano
comunicate attraverso gli abiti indossati. Queste volevano rappresentare la multiculturalità degli
insediamenti, ed offrono agli storici un accesso all’evoluzione dell’immagine nazionale di Israele,
interna ed estera.
Ricostruire i molteplici significati e usi delle bambole attraverso i vari stadi di creazione, produzione,
industrializzazione e consumo, getta luce sui modi in cui l’immagine che una nazione ha di se stessa
evolve nella circolazione. Queste bambole non hanno quindi un significato ‘originale’ o ‘vero’, ma solo
una costellazione instabile di significati basati sulle interazioni – in continua evoluzione – con le
bambole stesse, e di strati di interpretazione prodotti da tali interazioni.
2. Fabbricare bambole
Le prime fabbricanti di bambole generalmente venivano dai grandi centri urbani dell’Europa centrale e
orientale ed erano per lo più artiste benestanti e colte, educate negli istituti di belle arti dei loro paesi
d’origine. La prima generazione di produttrici progettava consapevolmente le proprie bambole come
‘sculture morbide’ per ricchi consumatori che potevano permettersi oggetti di artigianato il cui valore
risiedeva più nell’esibizione domestica che nel fare giocare i bambini. Le bambole erano descritte
come ‘oggetti deliziosi’. Nella costruzione di uno stile locale, medio orientale e radicato nel territorio,
i rifugiati europei in Palestina non si ispiravano ai lavoratori arabi, bensì a designer, sarte e magliaie
europee. Le fabbricanti di bambole situavano se stesse e il proprio lavoro all’interno del clima politico
e della cultura artistica degli insediamenti.
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3. Industrializzare bambole
Mentre singole fabbricanti di bambole si fecero un nome negli anni ’20- ‘40, due imprese cercarono di
industrializzare la produzione: la branca Palestinese dell’Organizzazione Internazionale Sionista delle
donne (WIZO) e il laboratorio orientato al sociale Maskit. Entrambe le organizzazioni volevano
trasformare radicalmente la produzione di bambole in un’impresa di artigianato e un settore lavorativo
femminile, e stavano cercando di creare un servizio sociale auto-sufficiente per le donne della nazione
4. Consumare bambole
Studiosi appartenenti a diverse discipline hanno identificato i parchi di divertimento Disney come una
ricca risorsa per l’analisi critica della cultura popolare grazie alla miniaturizzazione, mercificazione e
organizzazione del mondo. Israele è incluso tra le nazioni del mondo rappresentate da circa trecento
bambole automatizzate di gomma in abiti nazionali. Una lettura delle scelte di abito suggerisce che i
fabbricanti di bambole Disneyani e i creatori di parchi di divertimento hanno cercato di entrare in re-
lazione con specifiche sensibilità Ebraiche.
La scelta della Disney di rappresentare Israele con una cerimonia matrimoniale tradizionale comunica
la celebrazione dell’amore e della crescita della nazione ma fa anche riferimento alla questione
controversa al cuore della frattura civile-religiosa dell’Israele moderno: il matrimonio. Fin dal 1953, la
legge israeliana attribuisce la celebrazione del matrimonio al Gran Rabbinato di Israele, rendendo i
rabbini ortodossi l’unica autorità ufficiale legittimata ad officiare i matrimoni ebraici. In termini di
legge statale, il Gran Rabbinato proibisce i matrimoni tra Ebrei e non Ebrei, e tra maschi ebrei della
classe sacerdotale e donne convertite, e richiede agli ebrei “discutibili” di convertirsi prima del
matrimonio, una situazione che ha portato molte coppie a sposarsi all’estero.
La messa in scena con baldacchino Disneyana comunica che la coppia mostrata è Ebrea secondo gli
standard legali religiosi, ma la cerimonia matrimoniale pone la controversa e divisiva questione “Chi è
un Ebreo?” La cerimonia con baldacchino della Disney immagina una presenza fisica (e legalmente
sancita) di un’autorità rabbinica Ortodossa nel determinare chi sia un Ebreo.
Il contenuto di genere della Disney appare essere stato coscientemente disegnato per accomodare non
tanto visioni Israeliane normative, quanto le sensibilità dei suoi cittadini più religiosi rispetto all’ampia
questione del ruolo delle donne nella società israeliana e la questione della modestia sessuale.
Nell’impianto della Disney, il viso della donna è velato e indossa un abito a maniche lunghe e collant
bianco opaco, in conformità alle pratiche ultra ortodosse. Nel mettere la sposa su un disco rotante sotto
il baldacchino nunziale, la Disney mette in scena il passatempo nazionale Israeliano della danza.
Tuttavia, il tipo di danza rappresentato dalla figura solitaria della sposa non si allinea all’immagine
normativa Israeliana della danza popolare circolare. Questo tipo di danza comunitaria sarebbe un punto
dolente per gli ebrei ortodossi, che proibiscono danze pubbliche miste e danze femminili in pubblico,
con l’eccezione del matrimonio. Con le loro soluzioni un po’ tortuose rispetto alla prospettiva
ortodossa sullo stato di Israele, l’autorità rabbinica e le politiche di genere, le bambole israeliane del
parco Disney rappresentano prospettive Israeliane non normative.
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