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INTERVISTA CON NILTON GIESE

Nilton Giese, pastore della Chiesa evangelica di confessione luterana in Brasile (Ieclb), è
Segretario generale del Consiglio latinoamericano delle Chiese (Clai), il più rappresentativo
organismo dei cristiani che nel continente si richiamano alla Riforma, che riunisce 140 Chiese
evangeliche, protestanti e anglicane e una quarantina di organizzazioni ecumeniche.
Che pensa del sorgere in America latina di Chiese cattoliche non in comunione con Roma?
Queste Chiese non costituiscono un fenomeno molto rilevante in America latina. In genere quando i
preti abbandonano la Chiesa cattolica romana, nella maggioranza dei casi perché rifiutano il
celibato, non creano altri gruppi cattolici, ma si inseriscono in quelli protestanti, soprattutto nella
Chiesa episcopale anglicana. Comunque con queste comunità cattoliche non romane il Clai non ha
relazioni.
Quali Chiese aderiscono al Clai?
Il Clai si è costituito nel 1982. Per essere membro pieno bisogna essere una Chiesa con oltre 1.500
membri e avere una dimensione nazionale. In America latina, naturalmente, vi sono moltissime altre
Chiese evangeliche, ma al Clai appartengono quelle che hanno scoperto di avere una vocazione
ecumenica, cioè hanno riconosciuto la possibilità di operare insieme tanto sul piano ecclesiale
quanto sociale.
Come mai al Clai, diversamente dalla Conferenza europee della Chiese (Kek), non aderiscono
Chiese ortodosse?
Diversamente da quanto accade in Europa, in America latina le Chiese ortodosse sono molto
piccole. Anche se nessuna aderisce ufficialmente al Clai, con loro intratteniamo un dialogo piuttosto
intenso ed esse partecipano spesso alle nostre iniziative.
D’altro canto l’ecumenismo in America latina è diverso da quello europeo. In Europa passa
soprattutto attraverso il riconoscimento istituzionale, cioè la firma di accordi tra le Chiese che
riconoscono reciprocamente, per esempio, la validità dei propri ministeri; in America latina
favorisce prima di tutto un avvicinamento su questioni sociali, il che a volte permette di coinvolgere
anche Chiese “non ecumeniche”. E anche la continuità delle relazioni passa attraverso questo
“ecumenismo di servizio”, altrimenti i rapporti si raffreddano progressivamente.
Che rapporti ha il Clai con le Chiese pentecostali?
Al Clai aderiscono diverse Chiese pentecostali e in Cile costituiscono quasi l’80 per cento dei suoi
membri, ma è un pentecostalismo aperto all’ecumenismo, non esclusivista. D’altro canto in
America latina la maggiore denominazione evangelica è le Assemblee di Dio, che non è ecumenica,
ma nel 1909 ha dato inizio nel Cono sud al movimento pentecostale; con un secolo di vita è quasi
una “Chiesa storica”, che ha costruito una propria teologia, diversa da quella di Lutero o Calvino. Il
Clai partecipa come organizzatore alle celebrazioni del centesimo anniversario del pentecostalismo
in molti paesi del continente (Brasile, Cile, ecc.).
Dal 2008 il Clai si è ristrutturato, costituendo “Tavoli nazionali”, cui aderiscono prima di tutto le
Chiese già membri, che si riuniscono per affrontare i problemi di ciascun paese, dalle gravidanze di
adolescenti alle bande giovanili (le maras centroamericane). Il lavoro su questi temi è poi aperto
alla collaborazione anche di Chiese non affiliate al Clai, a patto che questa partecipazione non sia
nascosta o limitata a singoli pastori.
Come sono le relazioni con la Chiesa cattolica romana?
Non è il momento di massimo entusiasmo: le dichiarazioni vaticane degli ultimi anni, come la
Dominus Jesus, hanno raffreddato i rapporti ecumenici, ma anche nelle Chiese evangeliche sono
cresciute correnti teologiche che ostacolano il dialogo.
Pure la tendenza della Santa Sede a stabilire relazioni dirette con gli Stati a volte ostacola nuove
forme di collaborazione, perché i rapporti interstatali si pongono al di sopra di quelli tra Chiese. Ciò
è accaduto, per esempio, nel 2009 in Ecuador, quando il presidente della Repubblica, Rafael Correa,
ha firmato il decreto n. 17.080 con cui affida ad alcuni ordini missionari la cura degli indigeni della
regione amazzonica, sulla base del Modus vivendi firmato tra Roma e Quito nel 1937. Subito i
gruppi evangelici hanno chiesto: “Perché nel dialogo con la Chiesa cattolica non ci è stato
comunicato che c’erano questi progetti? E allora di che si parla?”. Ciò provoca frustrazione e
diffidenza. Inoltre le Chiese evangeliche si chiedono: “Perché non abbiamo gli stessi benefici della
Chiesa cattolica? Perché il governo appoggia finanziariamente i progetti sociali di una Chiesa e non
quelli di un’altra?”. Questi problemi bloccano i rapporti con la Chiesa cattolica. Invece ci sono
molte possibilità di lavorare insieme: da parte evangelica non c’è nessuna difficoltà a collaborare
con missioni cattoliche e molti cattolici guardano con grande simpatia alle opere sociali
evangeliche. E alla gente piace questo ecumenismo di servizio e di base.
Nel mondo evangelico si é diffusa in questi anni la Teologia della prosperità. Che ne pensa?
La Teologia della prosperità parte dal presupposto che Dio voglia il benessere economico per le
persone, per cui eventuali difficoltà sono dovute all’intervento del demonio, da cui ci si può liberare
attraverso la “guerra spirituale”, cioè pagando il pastore o la Chiesa. Ci sono Chiese, come quella
chiamata Smetti di soffrire, secondo cui quanto più denaro la persona ha, tanto più è benedetta da
Dio. È una visione interna al pensiero neoliberale, che valorizza il successo economico, e attira
soprattutto persone del ceto medio, addebitando il mancato sviluppo della loro piccola attività
produttiva o commerciale a un problema spirituale. Ciò si scontra con la visione di altre Chiese,
perché per noi Dio non è manipolabile in questo modo. Noi diciamo che come esiste una linea della
povertà, per cui chi guadagna meno di un dollaro al giorno è miserabile e chi ne guadagna uno è
povero, bisogna stabilire una linea della ricchezza, fino alla quale questa è benedizione di Dio, ma
oltre è immorale, perché danneggia la collettività e l’ambiente. Secondo la Teologia della
prosperità, inoltre, se uno è povero è perché pecca, mentre Gesù rifiuta questa prospettiva
colpevolizzante nei confronti del cieco nato, ma risponde che questa cecità serve affinché si
manifesti la gloria di Dio. E se la gloria di Dio si manifesta quando le persone hanno una vita
dignitosa, convincere un disoccupato che non trova lavoro perché ha un demonio, per scacciare il
quale deve indebitarsi, provoca depressione e rassegnazione, violenze verso i familiari e suicidi, per
cui questa teologia non è liberatrice, ma schiavizza ancor più le persone.
Come spiega il fatto che in Brasile la Chiesa metodista, da sempre in prima linea nel dialogo
ecumenico, abbia abbandonato gli organismi interconfessionali?
È stato eletto un gruppo dirigente chiuso verso la Chiesa cattolica e le religioni afrobrasilane, per
cui la Chiesa metodista si è ritirata dagli organismi ecumenici, come il Consiglio nazionale delle
Chiese cristiane (Conic), e dal dialogo bilaterale. D’altra parte se perdiamo la prospettiva
dell’“ecumenismo di servizio”, diventano prioritari altri obiettivi, come l’incremento dei propri
membri, che la Chiesa metodista brasiliana vuole arrivino al milione entro una data determinata
attraverso la conversione. In sé la volontà di espandersi non è un male, a patto che non pregiudichi
l’entusiasmo ecumenico, perché l’evangelizzazione è la missione della Chiesa, ma c’è una missione
di Dio, la quale chiede di costruire giustizia, uguaglianza, dignità, di portare a chi soffre un
messaggio di liberazione (che può essere un pane, un abbraccio, un posto di lavoro, ecc.) perché a
Dio ogni sofferenza umana fa male. Allora, in che modo, come Chiese, aiutiamo Dio a far sì che ci
sia meno sofferenza nel mondo? L’ecumenismo consiste non nel pensare tutti alla stessa maniera,
ma nell’impegnarsi nella missione di Dio, che è più importante della nostra missione
denominazionale.

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