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Riassunto storia d'Italia di Massimo

Salvadori
Storia Contemporanea
Università degli Studi di Milano (UNIMI)
60 pag.

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STORIA D’ITALIA di Massimo Salvadori
 Prefazione
L'impossibilità tra il 1861 e il 1994 di dare vita in Italia a una normale dialettica tra opposti
schieramenti ha fatto sì che tutti i blocchi di potere che si sono succeduti sono andati incontro al
loro dissolvimento, nei casi dello Stato liberale e dello Stato fascista della caduta dei rispettivi
regimi, in quello della 1° Repubblica, del crollo del sistema dei partiti al potere a partire dal 45. La
crisi del 92-94, infatti, si è differenziata perché non ha provocato il crollo dell’istituzioni
democratico-liberali e ha creato per la prima volta le condizioni per l’accesso alla guida del paese
di schieramenti in competizione. Occorre notare che la 1° Repubblica e lo Stato fascista, seppur in
netta discontinuità politica e istituzionale, hanno al contempo aspetti di continuità:
1- entrambi mantennero quale proprio caposaldo il centralismo politico e amministrativo
ereditato dallo Stato liberale (la Repubblica fino al 68, quando introdusse le autonomie regionali),
con la giustificazione di controllare e reprimere le correnti considerate disgregatrici dell’unità
nazionale.
2- le dinamiche di sviluppo delle crisi da cui si sono formati hanno visto l’ ingrossamento della
sinistra anticapitalistica e la risposta trasformistica per fronteggiarla e respingerla.
Durante il biennio 19-20 e il triennio 45-48 le condizioni economiche e sociali provocate dalle due
guerre ebbero l'inevitabile effetto di un vigoroso impulso alla sinistra. Messi in allarme, la
borghesia, i ceti medi e le masse popolari sotto influenza dei partiti di centro e di destra
fiancheggiati dalla Chiesa cattolica affidarono la loro difesa prima al fascismo e poi allo
schieramento di cui la DC fu perno. La sinistra radicale, che in entrambi i momenti aveva del tutto
sopravvalutato la propria forza e sottovalutato la capacità di ripresa del capitalismo, venne
respinta e messa ai margini del potere. Perfino negli anni 90, quando il pericolo rosso era ormai
inesistente, la sinistra incontrò ostilità capaci di raccogliere con successo i dispersi residui dei
partiti che avevano retto il potere fino al 94.
Così la sinistra nelle sue successive incarnazioni - democratico-repubblicana nel 1860, socialista
massimalista e comunista nel 1921, socialcomunista nel 45-48 e quella ultima incarnata dal PD nel
94 - andò costantemente incontro alla sconfitta, di cui i maggiori artefici furono Cavour, Mussolini,
De Gasperi e Berlusconi.
Per chiarire i motivi per cui nei periodi liberale, fascista e democratico-repubblicano si siano
affermate forme oligo/monopolistiche di potere occorre soffermarsi sulla natura delle relazioni
createsi tra le forze di governo e le forze di opposizione - Stato vs anti-Stato -, tenendo presente
che ciascuna delle diverse componenti di quest'ultima perseguiva progetti di rovesciamento o
quantomeno di mutamento dell'istituzioni.
 Nel periodo liberale si trattò di correnti reazionarie legate ai Borbone e al Papato, che
alimentarono il brigantaggio; dei democratici repubblicani mazziniani; degli anarchici, socialisti
massimalisti e comunisti i quali alzarono insieme la bandiera della rivoluzione sociale.
 Nel ventennio fascista si trattò della lotta tra fascisti e anti-fascisti.
 Nella 1° Repubblica furono i gruppi extraparlamentari dell’estrema destra e dell’estrema sinistra
votati all’eversione e al terrorismo (“anni di piombo”).
La “logica” che inevitabilmente ne derivò fu che le classi dirigenti mirarono sistematicamente a
costruire barriere non valicabili da quello che di volta in volta era considerato l’Anti-Stato.
Altra costante della storia nazionale fu il persistere della disomogeneità tra Nord e Sud. Un
divario, oltre che economico, di mentalità, comportamenti e stili di vita. La questione emerse in
tutta la sua gravità quando fu evidente che l’unificazione aveva avuto un carattere essenzialmente
istituzionale, non economico, sociale e culturale. La classe dirigente piemontese non aveva alcuna
idea di quanto fosse rilevante l’arretratezza complessiva della società e la conflittualità tra grandi
proprietari e contadini, inducendo i governi a pensare che occorresse controllare il territorio con il

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pugno di ferro. Aspetto cruciale è il ruolo esercitato dal potere criminale poiché le sue
organizzazioni hanno creato un’altra forma di anti-Stato.
Per cogliere le cause della corruzione, è necessario richiamare il nesso esistente tra questa e il
fatto che nelle “tre Italia” - liberale, fascista e democratico-repubblicana - si siano succeduti
blocchi di potere inamovibili fino al loro collasso. Negli stati in cui le maggioranze parlamentari e i
governi cedono periodicamente la guida alle opposizioni, è meno facile superare certi limiti
nell’esercizio di poteri indebiti, la burocrazia svolge le proprie funzioni avendo la possibilità di
resistere, almeno in parte, alle pressioni e agli interessi illeciti delle forze politiche ed economiche
dominanti, e la magistratura è a sua volta maggiormente in grado di agire nella tutela della
legalità.
ù

Sulla corruzione e l’illegalità un posto di primaria importanza ha sempre avuto l’atteggiamento di


una parte consistente dei cittadini (evasione fiscale) rispetto all’imposizione fiscale. Lo Stato
italiano ha tradizionalmente fatto gravare il peso delle tasse molto più sugli strati inferiori e medio-
bassi. Per parte loro le classi dirigenti si sono sistematicamente, e con successo, opposte
all’introduzione della tassazione progressiva sul reddito; e, quando la legge l’ha finalmente
introdotta, essa è stata largamente evasa.
La contemporanea presenza di attività delle forze anti-Stato e anti-sistema di carattere politico-
sociale e criminale ha concorso nel rendere più deboli in Italia l'attaccamento alle istituzioni e il
legame di cooperazione e solidarietà tra le classi dirigenti e le classi subalterne, impedendo il
rafforzamento del sentimento di “unità nazionale”, a differenza di quanto avvenuto in USA, GB,
Francia, Germania e altri paesi. A impedirlo sono stati la costante conflittualità ideologica, politica
e sociale e il fatto che il riformismo delle classi dirigenti, messo in atto con un andamento
oscillatorio e inadeguato, ha trovato, per i suoi limiti, scarso o nessun consenso in gran parte delle
masse lavoratrici, favorendo il forte radicamento delle ideologie rivoluzionarie anticapitalistiche.
Nell’età liberale Crispi e Giolitti hanno tentato di suscitarlo entrambi senza successo; nel fascismo
l’obiettivo di solidarietà nazionale in quanto fondamento della sua ideologia attraverso la dittatura
è fallito; infine anche la Repubblica non si è rivelata all’altezza. La “nazionalizzazione delle masse”
in Italia non ha pertanto mai avuto attuazione.
Tutto ciò si è riflesso nella debolezza dello spirito militare, in una prevalente indisponibilità delle
masse operaie e contadine a combattere per uno Stato sentito distante o nemico.
I ceti popolari - che hanno dato prova di volontà combattiva nelle lotte risorgimentali del 1848,
1860, guerra al brigantaggio e 1943-45 - non hanno mostrato un eguale impulso nel sostenere le
guerre proclamate dallo Stato. Lo si vide nel 1866, nell’aggressione colonialistica dell’epoca
liberale, nel 1915-18, nel 1936-39 in Spagna e nel 1940-43. Unica eccezione la conquista
dell’Etiopia nel 1935-36, divenuta popolare perché resa facile dalla sproporzione delle forze in
campo e dall’efficacia della propaganda del regime fascista. La storia d’Italia dopo il 1861 è passata
attraverso tre maggiori “grandi tempeste” - guerra civile del brigantaggio, guerra civile fascisti vs
antifascisti e guerra civile della Resistenza vs neofascisti - l’ultima della quale portò niente di meno
che al sorgere di due Stati nemici, spezzando l’unità del paese.
Resta da dire che, quali che siano state le fragilità e storture della sua storia, l’Italia è riuscita a
superare, seppur parzialmente, l’arretratezza civile, sociale ed economica dell’unificazione e a
entrare infine nel novero delle potenze economiche, seppure non nelle primissime file. Ora il suo
destino è legato a quello dell’Unione Europea, che si trova anch’essa a dover affrontare numerosi
importanti problemi non ancora risolti come quelli di attivare nei cittadini dei vari Stati il senso di
una comune identità e diffondere il sentimento e il legame della solidarietà - per molti aspetti
analoghi a quelli che l’Italia ha incontrato e ancora incontra nel suo cammino.
L’Italia di oggi è un paese che dal 94 ha visto la fine dei blocchi di potere, il formarsi di un sistema
di competizione reciproca. Il paese ha quattro grandi questioni ancora aperte: la scarsa efficienza
delle istituzioni e l’insufficiente capacità decisionale di Parlamento i governi; il divario economico

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tra Nord e Sud; l’elevatissima evasione fiscale; la pervasiva presenza di organizzazioni mafiose.
All’orizzonte il pericolo che si intravede è, se non addirittura l’ingovernabilità del paese, una
governabilità non all’altezza delle sue esigenze.
 Capitolo I - La realizzazione dell’unità italiana e la vittoria politica di Cavour

1.1 - L’egemonia dei liberali moderati del Risorgimento e la sconfitta dei democratici
Fra il 1849-1860 l'Italia vide intensificarsi l'azione di forze/correnti opposte le quali entrambe
aspiravano a conseguire l'indipendenza del paese dallo straniero, ma si trovavano in aspro
contrasto circa i mezzi da impiegare nella lotta per l’indipendenza e concepivano la
ristrutturazione politica e istituzionale in maniera opposta:
 liberali moderati e monarchici , il cui leader indiscusso era Cavour, miravano a una
confederazione di Stati monarchici fondata su un blocco di potere aristocratico-borghese. Essi
puntavano sulla guerra tra Stati, sulle risorse militari del Regno di Sardegna e sull’alleanza con la
Francia di Napoleone III, su una diplomazia e una strategia saldamente nelle mani della
monarchia sabauda. Il conte perseguiva l’espansione dello Stato sardo in vista della creazione di
un regno dell’Alta Italia che fosse egemone su un Italia indipendente e solo tardivamente, in
circostanze da lui del tutto impreviste, abbracciò la prospettiva dell’unità italiana.
 democratici repubblicani, dove assunsero un ruolo dirigente Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, erano
divisi al loro interno poiché Mazzini auspicava a coniugare l’indipendenza con l’unità di tutto il
paese in chiave democratica e repubblicana, mentre Cattaneo e Ferrari guardavano a una
federazione di liberi Stati repubblicani. Essi puntavano sulla guerra rivoluzionaria ovvero
sull’insurrezione delle masse popolari e sulla futura convocazione a suffragio universale di
un’Assemblea nazionale Costituente designata a dare le istituzioni della nuova Italia.
L'esito del Risorgimento smentì al tempo stesso le aspettative di Cavour, poiché approdò alla
formazione di uno Stato unitario che a lungo egli aveva ritenuto sia non auspicabile sia impossibile,
e di Mazzini, in quanto il nuovo Stato non nacque né democratico né repubblicano e non fu frutto
della rivoluzione popolare ma della diplomazia e dell’iniziativa politica e militare del Piemonte, che
subordinò infine la conquista del Mezzogiorno compiuta da Garibaldi alla strategia sabauda.
Sennonché le due strategie, pur contrapposte, finirono per intrecciarsi e concorrere entrambe al
compimento dell’unità: fu destino storico di Mazzini di aver posto le basi politiche e il
consolidamento di un forte spirito unitario, ma di non essere riuscito a contrapporre alla
monarchia sabauda una forza popolare democratica capace di dare allo Stato unitario fondamenta
che non fossero quelle volute e imposte da Cavour, il quale ottenne una brillante vittoria sui
democratici, culminata nell’inglobare nel proprio disegno l’azione di Garibaldi. Fu infatti Cavour a
“tirare le fila”, il quale colse con estrema lucidità ed intelligenza che il movimento nazionale da un
lato aveva assunto un’ampiezza tale da dare concretezza alla prospettiva dell’unità istituzionale,
verso la quale egli procedette arditamente imponendo con vigore l’iniziativa piemontese; dall’altro
che nel paese non avrebbe potuto avere successo una rivoluzione democratica e che, semmai la
proprietà fosse stata veramente minacciata, non pochi sarebbero stati i democratici ad arretrare
spaventati.
Infatti il movimento democratico, se disponeva di una brillante élite politica e intellettuale, non
poteva contare su strati sociali popolari sufficientemente ampi e omogenei, non trovava un
seguito attivo nelle masse rurali le quali erano molto arretrate, prive di coscienza politica, quasi
completamente analfabete, a cui i democratici non avevano un programma politico e sociale da
offrire e a cui non potevano assicurare un’organizzazione e una guida efficace.

1.2 - La “piemontesizzazione” dello Stato unitario e la nascita di una nazione divisa


L'unificazione rese necessaria la costituzione di un nuovo Parlamento da eleggersi su base
nazionale e secondo criteri di censo. Il corpo elettorale risultò essere pari all'1,9% della

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popolazione, e degli aventi diritto al voto solo il 57,2% si recò alle urne nel gennaio 1861 - non
votò la maggioranza dei cattolici a indicare l’opposizione allo “Stato usurpatore”. Il sistema era
bicamerale: la Camera di 443 deputati e il Senato, composto da 222 membri nominati dal sovrano.
Era però funzione preminente della Camera l’approvazione delle leggi finanziarie e del bilancio
dello Stato.
Cavour, volendo sottolineare la continuità istituzionale tra lo Stato sardo e lo Stato italiano - già
espressa dal fatto che il nuovo regno adottò come propria costituzione lo statuto carloalbertino -
fece proclamare dal Parlamento Vittorio Manuele II re d’Italia “per grazia di Dio e volontà
della nazione”, dove il II stava ad intendere il nuovo regno come l’ampliamento del precedente
regno di Sardegna.
Il 17 marzo 1861 ebbe luogo la proclamazione ufficiale del regno d’Italia ; e il 23 venne formato il
primo governo dell’Italia unita, con presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Cavour.
Un illuminante aspetto della “piemontesizzazione” fu l’esito del dibattito tra i fautori di un
centralismo amministrativo e i “regionalisti” - i quali volevano assegnare a regioni, province e
comuni consistenti margini di autonomia amministrativa e poteri in materia di opere pubbliche,
istruzione e agricoltura. Cavour si disse contrario a una “tirannia centralizzatrice”,
dichiarandosi favorevole per il futuro alla concessione “di un vero Self-government alle
regioni e alle province”, ma non nel presente, poiché il centralismo politico-amministrativo
era necessario per impedire lo smembramento di un’Italia sì ormai unita istituzionalmente, ma
percorsa da pericolose tensioni particolaristiche, retaggio dell’età precedente. Si decise così
l’estensione all’intera Italia delle leggi piemontesi sull’amministrazione degli enti locali, di
carattere nettamente centralistico: i sindaci erano di nomina regia e il controllo dei territori
veniva affidato ai prefetti, direttamente responsabili di fronte al governo; la magistratura,
nonostante venisse proclamata formalmente la sua autonomia, fu sottoposta al controllo del
Ministero della Giustizia.
La “piemontesizzazione” emerse anche nell’ unificazione delle forze armate, fatta col criterio di far
valere il peso dell’esercito sardo rispetto alle forze degli sciolti eserciti dell’Italia centrale e
meridionale; e di tradurre in chiave militare la sconfitta della sinistra democratica, emarginando e
infine smantellando l’esercito garibaldino (venne concesso unicamente l'accoglimento di soldati e
ufficiali garibaldini a titolo individuale dopo il parere favorevole di una commissione). Non furono
inseriti i soldati semplici dell'ex esercito borbonico, mentre vennero accolti 2300 ufficiali. Altri
ufficiali vennero dalle divisioni lombarde e dalle disciolte forze toscane ed emiliane. L’esercito di
terra italiano si presentò fin dagli inizi scarsamente addestrato. Il reclutamento venne condotto su
base nazionale e non regionale, rispondendo alla preoccupazione di impedire il sorgere di
solidarietà locali specie tra i contadini meridionali, che avevano risentito fortemente
dell’introduzione della leva obbligatoria - non in vigore nel regno borbonico - introdotta in tutto il
territorio italiano.
Il Paese, unito istituzionalmente, restava profondamente diviso: da un lato i liberali conservatori
al potere; dall’altro, in aperta opposizione, sia i democratici e repubblicani, sia i cattolici, i quali
guidati da un clero ostile non votavano, sia i legittimisti borbonici , sia infine i contadini
meridionali, i quali, convinti che dalla rivoluzione avrebbero ricevuto la terra, vedevano ora i
padroni trasformarsi in amici ferventi dei piemontesi erettisi a loro protettori, e presto avrebbero
alimentato quella ribellione sociale che, sfruttata e in parte diretta dei legittimisti, sarebbe stata
marchiata dalle nuove autorità come una “guerra di brigantaggio”. Venne così a crearsi un vero e
proprio divorzio tra la nuova classe dirigente e le masse povere del Sud , destinato a protrarsi nel
tempo.

1.3 - La battaglia di Cavour per la separazione di Chiesa e Stato

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Cavour cercò in tutti modi di evitare frattura tra la Chiesa e Stato. Laico convinto, personalmente
non credente ma proclamatosi cattolico nella sfera pubblica, ben consapevole dell’importanza
cruciale dei rapporti tra le due autorità, aveva costantemente difeso i principi della libertà di
coscienza e di culto e auspicato la pacificazione politico-religiosa tramite la formazione di un
partito cattolico che, abbandonato il clericalismo anti-istituzionale, si inserisse a pieno titolo nella
dialettica politica e nello Stato. Nel 1861, pochi mesi prima della morte, disse solennemente: “noi
siamo disposti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa
in libero Stato”. Ma Pio IX e la Chiesa accolsero la proposta con un rifiuto senza appello:
ebbe così inizio il contrasto che, con toni più o meno acuti a seconda dei tempi, avrebbe segnato il
percorso dello Stato liberale fino all’avvento del fascismo.

 Capitolo 2 – L’Italia nell’età della Destra storica

2.1 – I problemi e le difficoltà del nuovo Stato unitario.


Nel 1861 Veneto e Trentino erano ancora sotto il dominio austriaco e Roma restava papale.
I problemi all’ordine del giorno erano di enorme portata e vennero risolte molte questioni durante
il quindicennio in cui la Destra liberale resse le sorti del paese dalla morte di Cavour (1861-76), ma
a ciascun successo corrispose un suo pesante rovescio:
 L’unità amministrativa (unificare codici, bilanci, forze armate e creare una burocrazia omogenea)
venne attuata estendendo la legislazione piemontese che mal si adattava alla diversità regionali.
 La necessità di elaborare una linea di sviluppo economico in uno Stato arretrato rispetto agli
stati più avanzati, portò la classe dirigente - per assicurare alle finanze pubbliche la possibilità di
sopravvivenza - a ricorrere a un fiscalismo implacabile che colpì in maniera sproporzionata e
squilibrata i contadini e i lavoratori, e fu causa di ripetuti moti di protesta e violenza ribellistica.
 Per dare una salda direzione politica a un paese esposto ad acute tensioni politiche e sociali, la
borghesia settentrionale rinsaldò l’alleanza di interessi con i latifondisti del Sud , inducendo le
masse popolari a vedere in quello italiano “lo Stato dei signori”.
 La lotta al brigantaggio avvenne tramite una repressione militare accompagnata da un fiume di
sangue, che non abolì le sue radici sociali ed economiche e alimentò nelle masse meridionali una
profonda ostilità verso lo Stato.
 Per affrontare il nodo di Roma si fece ricorso alla forza, accrescendo così le tensioni fra Stato e
Chiesa in un paese a stragrande maggioranza cattolica. Ad ogni modo Stato e Chiesa trovarono
un modus vivendi destinato a consolidarsi nonostante l’intransigenza papale
 Per conquistare il Veneto si condusse una guerra che risultò vittoriosa solo grazie ai trionfi della
Prussia e umiliò l’Italia in conseguenza alle sconfitte subite.
 La collocazione dell’Italia nei rapporti internazionali in un’età che avrebbe visto la guerra del
1866, il crollo dell’impero di Napoleone III nel 1870 e la formazione del Reich germanico nel
1871.
In questo contesto, la Destra storica (Partito liberale) reagì alle difficoltà assumendo uno stile di
governo che mostrava, nonostante la sua natura di forza liberale conservatrice, un tratto
"giacobino": essa era consapevole di dover affrontare compiti eccezionali senza un appoggio
sufficientemente ampio e stabile; da ciò il "giacobinismo" avente il compito di tenere ferme le
redini del potere e unite le deboli membra di una società percorsa da forti tendenze centrifughe.
Una lode della virtù della Destra avrebbe levato B. Croce, scrivendo che “di rado un popolo
ebbe a capo della cosa pubblica un’eletta di uomini come quelli della vecchia
Destra”: un giudizio che, depurato dall’enfasi, ha giustificazione e fondamento.

2.2 – La situazione economico-sociale dell’Italia nel 1861

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Il grave ritardo del Sud ebbe conseguenze assai rilevanti, poiché, data la limitatezza della base
industriale, l’economia italiana subì il peso di un’accentuata arretratezza nel settore agricolo,
quello di gran lunga prevalente (il 58% del Prodotto lordo nazionale che impiegava il 70% della
manodopera), e - in conseguenza al brigantaggio - della frattura tra contadini meridionali e lo
Stato.
Il generale ritardo del Paese risultava evidente anche dal rapporto città-campagna. L'Italia unitaria
aveva un grado elevatissimo di urbanizzazione dovuta alle caratteristiche del suo sviluppo storico;
ma, si trattava di città dal punto di vista produttivo largamente parassitarie, cioè di centri che
vivevano sulle campagne senza essere in condizione di fornire a queste prodotti industriali;
soltanto Torino, Milano e Genova si differenziavano. Napoli, invece, era un grande centro di
consumo senza alcuna consistente risorsa produttiva.
Altri ostacoli, indici dell’arretratezza dello sviluppo del Paese in generale e del Sud in particolare,
erano il bassissimo grado di alfabetizzazione (Lombardia 54%; Sud 90%) - nel quale importanti
conseguenze ebbe legge Casati (piemontese) sulla scuola, che rispecchiava un’impostazione
elitaria, con il privilegiamento conferito all’istruzione classica, in un paese dove sarebbe stato
necessario potenziare l’istruzione popolare - ; dalla limitatezza della rete ferroviaria e dalla sua
dislocazione; dalla marcatissima inferiorità della rete stradale al Sud. Tutto ciò costituiva un
impedimento molto grave alla formazione di un vitale mercato nazionale.
Alla povertà del Paese facevano riscontro le forti necessità di spesa del nuovo Stato. In seguito
all'unificazione dei bilanci degli ex Stati italiani e in conseguenza dei debiti elevatissimi del Regno
sardo causati dalle guerre del Risorgimento, il debito pubblico era enorme (circa mezzo miliardo).
Di qui, anche in relazione a un sistema che colpiva pochissimo la rendita fondiaria, la genesi di un
durissimo fiscalismo.

2.3 – La morte di Cavour. Destra e Sinistra dopo di lui


Destra storica: legata all’aristocrazia e alla grande borghesia, le figure più rappresentative
provenivano dalla classe dirigente subalpina, come Urbano Rattazzi, Quintino Sella e Alfonso
Lamarmora; o dalle file dei moderati del resto d’Italia, come gli emiliani Minghetti e Luigi Carlo
Farini, i meridionali Silvio Spaventa e Francesco De Sanctis.
Sinistra storica: poggiata su una base in larga misura medio e piccolo-borghese, univa esponenti
da un lato della sinistra costituzionale moderata come Agostino Depretis e dall’altro ex mazziniani
e garibaldini come il siciliano Francesco Crispi, i lombardi Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli,
I quali gradualmente, abbandonata la pregiudiziale repubblicana, avevano aderito alla monarchia.
Ridottasi la repubblica a un’alternativa ideologica priva di concretezza, nonostante Mazzini
mantenesse attiva la sua agitazione antimonarchica, la Sinistra faceva valere di fronte alla Destra la
richiesta di un più ampio suffragio fino al limite di quello universale e il principio dell’iniziativa
popolare per il proseguimento delle lotte per acquisire all’Italia Roma e il Veneto.
Dal punto di vista della loro organizzazione interna, le due formazioni non costituivano certo
partiti di tipo moderno. Data la limitatezza del suffragio, non dovendo influenzare e tantomeno
organizzare grandi masse, ma solo ristrette élites; erano essenzialmente "partiti di notabili",
movimenti di opinione, i cui esponenti si legavano agli elettori attraverso le proprie "clientele”.

2.4 – Il compimento dell’unità nazionale. La guerra del 1866 e la presa di Roma nel 1870
Dopo i tentativi di Cavour di risolvere la questione Stato-Chiesa, ne susseguirono altri ma senza
esito, poiché Pio IX, forte dell’appoggio di Napoleone III, era deciso a resistere sfidando la
“provocatoria” proclamazione di Roma capitale da parte del Parlamento nel 1861.
Salito al governo, Rattazzi - in quello che sarà il 1° tentativo di prendere Roma - si avventurò per
una strada spericolata: pensò di favorire in maniera coperta l’iniziativa di Garibaldi, così da non

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compromettere apertamente lo Stato, e raccoglierne i frutti. Garibaldi puntò verso Roma.
Napoleone III protestò energicamente, mentre Vittorio Emanuele e i moderati intravidero la
minaccia che l’impresa garibaldina potesse favorire, a maggior ragione in caso di successo: la
ripresa politica dei democratici. Il re sconfessò allora la spedizione. Ciò nonostante Garibaldi e i
suoi in agosto 1862, iniziarono la marcia. Il governo reagì mandando le truppe regie, le quali
aprirono il fuoco. Lo stesso Garibaldi fu ferito, arrestato e deportato. La reazione dell’opinione
pubblica fu vivissima. Rattazzi, messo in crisi in Parlamento per l’accaduto, a fine anno rassegnò le
dimissioni.
Il governo Minghetti negoziò con la Francia la Convenzione di settembre nel 1864: l'Italia si
impegnava a rispettare Roma e a difendere lo Stato pontificio e la Francia a ritirare le proprie
truppe da Roma entro due anni. Il governo italiano firmò in realtà senza rinunciare a Roma.
Durante il governo La Marmora la Prussia, per iniziativa di Bismarck, offrì un’alleanza militare
contro l’Austria, firmata ad aprile 1866; offerta cui non si opponeva Napoleone III, il quale vedeva
con favore una guerra fra le due potenze germaniche. La ricompensa della 3° guerra di
indipendenza era l'acquisizione dei territori italiani in possesso dell’Austria. La guerra segnò il
trionfo dell’alleato e l’umiliazione dell’Italia, il cui esercito e flotta, nonostante la schiacciante
superiorità numerica, andarono incontro a brucianti sconfitte per la pessima direzione - causata
innanzitutto dalla rivalità tra i generali La Marmora e Cialdini - e le inadeguate organizzazione e
preparazione.
Con la firma della pace l'Austria cedette all'Italia, che non era stata neppure invitata ai preliminari
in segno palese di spregio, il Veneto, ma come già nel 1859 nel caso della Lombardia, tramite la
Francia, volendo umiliare un paese vincitore solo grazie alle armi altrui. L’infelice esito della guerra
suscitò violente polemiche nel paese, denunciato dai settori dell’opposizione. Mazzini attaccò la
monarchia e i suoi governanti incapaci; i cattolici gioirono delle difficoltà dello Stato “nemico del
Papa”. Dal canto loro, Garibaldi e il Partito d’Azione videro nell’inettitudine dei generali monarchici
una conferma della necessità di assumere nuove autonome iniziative per liberare Roma.
Nel 1867 tornò al governo Rattazzi, il quale - in quello che fu il 2° tentativo di prendere Roma -,
come nel 1862, non si sbilanciò ufficialmente - anche per aggirare i patti con la Francia - di fronte
all’iniziativa del Partito d’Azione - il quale mirava a un’insurrezione della città di Roma alla quale
era sicuro sarebbe seguita la risposta repressiva pontificia, così da legittimare un suo intervento. Il
tentativo di insurrezione fallì, ma Garibaldi non rinunciò all’azione e con le sue forze penetrò nei
domini pontifici. Il re, messo di fronte alla minaccia di un intervento francese sconfessò l’operato.
Dopo uno scontro con i papalini, Garibaldi venne battuto a Mentana dalle truppe francesi armati
con i moderni fucili, e quindi fatto arrestare. L’opinione pubblica maturò un profondo risentimento
per Napoleone III, il quale affermò che l’Italia non avrebbe mai avuto Roma, e per Pio IX.
Ad aprire la possibilità di procedere alla liberazione di Roma fu il del tutto imprevisto crollo
dell’impero di Napoleone III dopo il conflitto franco-prussiano nel 1870. approfittando della
situazione, il governo prese la decisione di porre fine al potere temporale. Il Papa dal canto suo
non volle accettare una pacifica trattativa con lo Stato. Sicché truppe comandate da Raffaele
Cadorna, dopo un breve cannoneggiamento a Porta Pia, entrarono in Roma occupandola.
A parte entusiasti sostenitori, soprattutto nella sinistra, la quale vedeva la fine del potere
temporale quale premessa della laicizzazione dello spirito nazionale e della vita pubblica, la grande
maggioranza dello schieramento moderato era favorevole a un compromesso tra Chiesa e Stato,
che si rivelò un arduo compito per il governo e il Parlamento. Si definì così allora in tutta la sua
portata quella “questione romana” che sarebbe durata fino alla conciliazione delle due parti nel
1929 a opera del governo fascista. Pio IX emanò un’enciclica in cui bollava la conquista come
“ingiusta e invalida” e scomunicava i colpevoli e lo stesso re d’Italia, che ne fu profondamente
turbato. A quel punto il governo italiano si trovò nella necessità di definire unilateralmente i
rapporti e lo fece con la legge delle guarentigie nel 1871, ispirata al principio cavouriano liberale di

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separazione: tutelata la libertà della Chiesa; riconosciuta l'extraterritorialità dei palazzi del
Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo; assegnata una dotazione annua di 3.250.000 lire;
assicurati l’inviolabilità del Pontefice e il suo libero esercizio del potere spirituale; riconosciuta
l’indipendenza dell’azione del clero e l’esenzione dei vescovi dal giuramento di fedeltà allo Stato.
Respinta dalla Santa sede, la legge venne però applicata dallo Stato in modo rigoroso. In un clima
di libertà, la Chiesa poté continuare la sua protesta, atteggiandosi a perseguitata. Conseguenza di
storica portata fu nel 1874 il divieto del Papa ai cattolici di partecipare alle elezioni del Parlamento
e la preclusione di ogni possibilità per i cattolici di dare vita a un proprio partito che - come
auspicato da Cavour - potesse competere per la guida del paese sul versante conservatore ma non
reazionario, creando le premesse per un sistema politico di alternanza al potere di opposti
schieramenti.

2.5 – La questione del Mezzogiorno. La guerra del brigantaggio: 1° guerra civile


I contadini poveri del Mezzogiorno, i quali speravano che lo Stato unitario favorisse il superamento
dei rapporti di fatto semi feudali e una redistribuzione della proprietà terriera, videro l’Italia
postrisorgimentale alla luce della continuità delle vecchie forme di sfruttamento. Fu così
inevitabile che una parte consistente dei contadini desse il proprio sostegno, quando non attivo
almeno passivo, all’iniziativa eversiva di bande di briganti, strumentalizzata dai legittimisti
borbonici e papalini, i quali finanziarono le bande e cercarono di dare alla protesta sociale una
direzione reazionaria per provocare il crollo dello Stato unitario. La classe dirigente del Nord -
decisa a difendere ovunque la proprietà - aveva una conoscenza molto limitata se non nulla delle
reali condizioni del Sud. Il governo reagì al brigantaggio stabilendo una stretta intesa con i grandi
proprietari meridionali, che, minacciati dalla rivolta plebea, divennero accesamente "unitari"; e
concepì la lotta contro il brigantaggio essenzialmente in termini di difesa dell’unità dello Stato.

La lotta assunse caratteri di implacabilità da entrambe le parti: i briganti assaltavano villaggi e


centri urbani e, con ferocia e riti barbarici, distruggevano beni e uccidevano i proprietari; i soldati,
che operavano in un territorio ostile che mal conoscevano, procedettero a loro volta a esecuzioni
sommarie e alla distruzione di interi paesi. (metà dell’esercito venne dislocato a Sud tra il 1861-
64).
Il governo, molto allarmato, si preoccupò di indagare sulle radici del brigantaggio nominando una
commissione parlamentare di inchiesta, la quale nel 1863 giunse alla conclusione che nella
spiegazione dei fatti andava messo anzitutto il disperante malessere economico-sociale dei
contadini. Si trattò di una prima presa di coscienza ma la risposta all’inchiesta fu da un lato la
proclamazione astratta di provvedere in futuro con misure adeguate al malessere del Sud e
dall’altro l’emanazione della legge Pica, che inaspriva la repressione.
Manifestazione del profondo disagio fu lo scoppio della rivolta a Palermo nel 1866. L’introduzione
della leva obbligatoria contribuì ad acuire il malcontento tra gli strati popolari dell’isola. Infatti le
la renitenza e la diserzione causarono rastrellamenti e migliaia di arresti da parte delle autorità
militari. Sennonché l’opposizione contro lo Stato si allargò nel Palermitano dagli strati popolari agli
altri strati sociali e alle diverse e persino contrastanti correnti politiche. Palermo fu prima
interamente occupata dagli insorti, i quali inneggiarono alla Repubblica, a Francesco II e ai santi. La
repressione militare venne affidata a Cadorna, le cui truppe entrarono a Palermo assumendone il
controllo. Seguirono numerose condanne a morte e ai lavori forzati. La repressione del
brigantaggio creò un ambiente favorevole allo sviluppo ramificato di organizzazioni come la mafia
e la camorra, in un clima di fedeltà, omertà e ossequio verso i capi dei gruppi criminali da parte
della popolazione.
Un'occasione per avviare i provvedimenti economici e sociali avrebbe potuto essere offerta della
liquidazione delle terre ecclesiastiche incamerate dallo Stato. Ma, anziché promuovere la

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formazione della piccola e media proprietà assegnando terre ai contadini, lo Stato, date le sue
precarie condizioni finanziarie, desiderava un rapido realizzo, e optò per la vendita accelerata delle
terre ai grandi proprietari, che rafforzarono ulteriormente la propria potenza ed influenza sociale.
Negli anni 70 dell’800 si susseguirono altre inchieste di studiosi e uomini liberali, i quali
elaborarono un programma di riforme basato sulla diminuzione della pressione fiscale, sugli
investimenti produttivi e sulla lotta alla proprietà assenteista (sorta di riv. agraria). Ma gli effetti
della loro denuncia furono nulli poiché la classe dirigente non intendeva mettere in crisi l’alleanza
con la grande proprietà meridionale e inoltre puntava ad aumentare al massimo gli introiti fiscali.
Nel corso di un infinito dibattito la storiografia italiana si è domandata se il processo di
accentramento politico amministrativo sia stato o meno un errore, una forzatura che
contraddiceva la storia stessa dell'Italia, in un quadro economico-sociale assai disomogeneo:
insomma una scelta troppo unilaterale. A giustificare la “piemontesizzazione” fu un napoletano,
esponente della destra, Silvio Spaventa il quale in un discorso del 1879 disse: “una nazione
non si unifica veramente se non per un elemento che vi preponderi dentro e
subordini gli altri a sé”. Cinquant’anni dopo un altro meridionale, il pugliese Gaetano
Salvemini, grande meridionalista, espresse un punto di vista analogo nel 1925.
 Capitolo 3 – Dall’avvento della Sinistra alla crisi di fine secolo
3.1 – La fine del potere della Destra
La Destra nel suo quindicennio di governo affrontò la situazione economica energicamente
arrivando al pareggio del bilancio, ed ebbe anche la lungimiranza di capire che lo sviluppo
ferroviario costituiva la condizione necessaria per lo sviluppo di un mercato nazionale. Ma la sua
azione fu basata su una rigida aderenza agli interessi della sua classe dirigente: tassò pochissimo la
proprietà fondiaria ed estese a tutto il regno la legislazione doganale piemontese
accentuatamente liberista.
Si fece pressante in una parte della classe dirigente il desiderio di dare una più larga base di
consenso alle istituzioni e di inaugurare un nuovo corso di riforme, in grado di offrire risposte più
adeguate ai bisogni insoddisfatti di larga parte della popolazione. Un’inchiesta industriale di
iniziativa del governo, conclusa nel 1874, fece emergere chiaramente come influenti ambienti
imprenditoriali vedessero con favore l’istituzione di dazi doganali che li tutelassero dalla
concorrenza straniera.
La Destra venne sempre più pressata dalla Sinistra, costituitasi intorno a De Sanctis staccatosi dalla
Destra e a Rattazzi, che insisteva sul ricorso ad ampie riforme. A questa Sinistra - composta anche
dagli esponenti della Sinistra storica piemontese con a capo Depretis e personalità come
Zanardelli e Crispi - guardavano tanto gli strati borghesi settentrionali che rivendicavano riforme
sul piano fiscale e politico quanto i proprietari e intellettuali meridionali uniti nel chiedere minor
fiscalismo, maggiori interventi a favore del Sud e la possibilità di pesare di più in Parlamento. Di
fronte alla Destra, che aveva espresso il predominio degli interessi dei proprietari terrieri, la
Sinistra intendeva inaugurare una linea politica più sensibile agli interessi degli ambienti finanziari
e commerciali.
Alle elezioni del 1874 la Destra conservò, ancorché indebolita, la maggioranza parlamentare
(ottenendo 276 deputati ne perse 30), prevalendo nel Nord e nel Centro; la Sinistra ottenne 235
deputati in grande maggioranza meridionali. Il vento della politica era significativamente cambiato,
spostando fortemente in parlamento gli equilibri tra settentrione e mezzogiorno. Il primo
beneficiario dell’esito elettorale fu il governo Depretis nel 1876. L’era della Destra era finita.

3.2 – Depretis e il “trasformismo”. La riforma elettorale del 1882


Il passaggio dalla Destra alla Sinistra avvenne in un quadro di continuità, nel senso che non mise in
discussione il blocco di potere dei liberali nel loro insieme. Ma la Sinistra aveva i suoi ideali, quali il

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proposito, poi messo in pratica, di allargare il corpo elettorale; un maggiore impegno
nell’affermare la laicità dello Stato e rilevanti riforme nel settore amministrativo e dell’istruzione.
Inizialmente il primo governo Depretis venne sciolto poiché non godeva di una maggioranza
sufficiente all'attuazione delle riforme che riteneva necessarie. Ma alle elezioni nel 1876 si decretò
il trionfo della Sinistra, che ottenne 414 seggi. Si parlò allora di una “rivoluzione parlamentare”.
Depretis governò per 11 anni, fino alla sua morte nel 1887. La caduta della Destra e la
scomparsa dalla scena nel giro di un decennio dei maggiori protagonisti risorgimentali
(Mazzini; V. Emanuele II; Pio IX; Garibaldi) contribuirono a far prendere piena
coscienza che i vecchi contrasti apparivano sempre più lontani e la dialettica politica
non poteva più basarsi sulle antiche divisioni. Sicché Depretis si adoperò per unire a sé
uomini della Destra ed isolare con il loro contributo l’estrema Sinistra, formata dai repubblicani e,
a sinistra di questi, dagli anarchici e dei primi socialisti. Chiamato “ trasformismo” questa politica
voleva unificare su una base più larga la borghesia e i gruppi politici dominanti, formando un
fronte più solido di fronte alle opposizioni della democrazia repubblicana, dei cattolici
intransigenti e del nascente movimento operaio. Quest'opera di unificazione delle parti liberali
comportò una politica di favori se non pura corruzione: spesso le maggioranze parlamentari
furono comprate e le elezioni conseguite con brogli. Tra coloro che denunciarono aspramente il
trasformismo vi fu Crispi, il quale però si ritroverà a fare lo stesso gioco.
Le riforme dell’era di Depretis rispecchiarono la duplice esigenza di allargare la base del consenso
sociale e di soddisfare alcune istanze di evoluzione civile ormai affermatesi nei paesi più progrediti:
 legge Coppino, 1877: obbligo scolastico gratuito per i bambini 6-9 anni e abolizione dell’obbligo
di seguire il catechismo (applicazione assai lacunosa specie nel Sud, che ottenne minori risorse).
 Abolita la tassa sul macinato, 1884.
 Importantissima riforma elettorale, 1882, nella quale, per timore dei radicali, fu respinta la
richiesta di suffragio universale, avanzata dall’estrema Sinistra. La riforma abbassò l'età
elettorale da 25 ai 21 anni, stabilì che potessero votare coloro che non risultassero analfabeti a
meno che pagassero una certa quota di imposta. Di conseguenza, se il voto venne aperto a una
parte degli operai e degli artigiani specie settentrionali, fu soprattutto la piccola borghesia a
beneficiare della riforma ed acquistare così un nuovo peso. Il bacino elettorale passò dal 2,2% al
6,9% della popolazione. La massa dei contadini, sia meridionali sia settentrionali, essendo nella
maggioranza analfabeta, rimase esclusa. Le elezioni nel 1882, indebolirono quella parte di
Destra contraria a confluire nell’assemblamento di Depretis, portando all’ingresso in Parlamento
ben 163 nuovi deputati e al relativo rafforzamento dell’estrema sinistra di radicali, repubblicani e
socialisti (Costa primo deputato socialista); ma in particolare consolidarono il gruppo di Depretis.

3.3 – La Triplice alleanza e gli infelici esordi del colonialismo italiano


Nello stesso anno si consolidava la nuova linea politica estera, le cui premesse erano state
l'alleanza con la Prussia nel 1866 e l'ostilità tra Francia e Italia, prima per la questione romana e
poi per la tensione causata dal protettorato francese sulla Tunisia (1881), su cui l’Italia nutriva
ambizioni.
Nel 1882 l’Italia firma con la Germania e con l'Austria il trattato della Triplice alleanza, con lo
scopo di costituire un forte blocco militare in funzione antifrancese e di tutelare il principio
monarchico e l’ordine sociale e politico dei loro Stati. L’importanza implicita del trattato fu che le
due potenze riconoscevano l’integrità territoriale dell’Italia e quindi anche l’acquisto di Roma.
L’alleanza con l’Austria ebbe come conseguenza che l’irredentismo (Trento, Trieste e l’Istria erano
austriache) venisse sottoposto a stretto controllo, quando non soffocato (Oberdan impiccato).
Toccò a Depretis inaugurare la politica coloniale italiana, che aspirava a prendere posto tra le
grandi potenze europee. L’espansione coloniale di GB, Francia e Germania era espressione di un
robusto capitalismo finanziario e industriale, che mirava alla conquista di territori per dare sbocco

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agli investimenti, impadronirsi di nuovi mercati e procurarsi le materie prime. Ma l’Italia versava in
altre condizioni e il suo non fu il prodotto di un solido capitalismo, bensì di un insieme di fattori
che ruotavano attorno agli interessi di gruppi ristretti della classe dirigente, decisamente frustrati
dalla penetrazione della Francia in Tunisia e dell’impetuosa espansione coloniale inglese e
francese. A spingere erano in particolare gli ambienti industriali e armatoriali che vedevano nelle
guerre coloniali un ottimo affare in relazione alle commesse militari. Si aggiunga che venne a
mancare il sostegno popolare presente invece nelle masse inglesi e francesi. L’attaccamento di
operai e contadini all’esercito era decisamente scarso, se non nullo.
Le imprese coloniali iniziarono nel 1882 con l’acquisto dei diritti sulla baia di Assad, in Eritrea,
ceduti dalla compagnia genovese Rubattino. Nel 1885 un corpo di spedizione iniziò l’occupazione,
la quale causò una crescente tensione fra l’Italia e l’Impero etiopico, le cui capacità militari
venivano sottovalutate: a gennaio 1887 un reparto italiano di 500 uomini venne annientato da un
comando di 7000 etiopi nei pressi di Dogali, Eritrea; il governo dovette fronteggiare tanto la
reazione dei nazionalisti delusi quanto l’opposizione popolare, che considerava l’espansione
coloniale una scriteriata avventura. Così il primo tentativo coloniale terminò in una cocente
disfatta, in un’ennesima umiliazione e nelle dismissioni del governo Depretis, il quale a fine anno
morì.

3.4 – L’ispirazione bismarckiana di Crispi. Tensione con la Francia, ripresa coloniale


Crispi incarnava con la sua evoluzione politica la trasformazione di molti democratici
repubblicani in nazionalisti monarchici . Rivoluzionario, mazziniano, garibaldino,
sostenitore del suffragio universale, si era convertito alla monarchia diventando uno
degli esponenti principali della Sinistra governativa (a Mazzini scrisse che la sua
adesione alla monarchia avvenne in nome dell’unità nazionale). Egli divenne un acceso
fautore della politica condotta con energia e decisione - incarnata da Bismarck, da lui molto
ammirato -, un nazionalista e un colonialista convinto che l’Italia dovesse imporsi in Africa, un
conservatore che vedeva nei socialisti i più pericolosi nemici interni e considerava i conflitti sociali
di operai e contadini come attentati alla legalità, all’unità del Paese. Era al tempo stesso un leader
di elevate capacità e intelligenza politica, che lo indussero a promuovere importanti riforme
modernizzatrici, coerenti con quella che era stata l’ispirazione prima della Destra e poi di Depretis,
ovvero un rafforzamento ulteriore del potere esecutivo:
 Accresciuti i poteri del Presidente del Consiglio sui ministri.
 1888 - legge di riforma della sanità pubblica; legge sulla libertà di emigrare;
 1889 - nuovo codice penale che abolì la pena di morte salvo che nel codice militare, ridusse le
pene per i reati contro la proprietà e sancì la libertà di sciopero.
 normativa importante secondo cui l’accesso alla magistratura doveva avvenire mediante
concorso
Vi erano in queste leggi elementi indubbiamente progressivi ma esse si inserivano in un disegno
complessivo di Crispi di affermare l’autorità dello Stato in termini che sfociavano
nell’autoritarismo. Tant’è che egli non esitò a ricorrere alla repressione per tenere a bada i
repubblicani, gli anarchici e i socialisti. In questo quadro si inserivano anche il suo anticlericalismo
e la sua intolleranza di fronte alle manifestazioni degli irredentisti, al punto da decretare lo
scioglimento di comitati e giunte di comuni accusate di aver favorito tali manifestazioni.
In campo coloniale, il governo Crispi (1887-91) si propose di risollevare il prestigio italiano; fece
perciò inviare notevoli rinforzi in Africa dando inizio a un’azione espansiva in Eritrea. Un successo
parve essere il trattato di Uccialli firmato nel 1889 con il nuovo negus dell’Etiopia Manelik in base
al quale l'Etiopia riconosceva le conquiste italiane in Eritrea. All'art. 17 però i testi italiano e

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aramaico divergevano su un punto importante: il primo affermava che l'Etiopia si “serviva”
dell’Italia per le trattative con gli altri Stati (un protettorato di fatto); mentre nel secondo che
l’Etiopia poteva trattare con tutti gli Stati “mediante l’aiuto” dell’Italia. Un’ambiguità che
provocherà grandi sviluppi:
nel gennaio 1890 venne proclamata ufficialmente la Colonia Eritrea, posta sotto un governatore.
Quando però ci si accorse che Menelik continuava ad agire come un sovrano indipendente, si
tentò invano di far valere il testo italiano del trattato. Nel febbraio 1891, dopo le dimissioni di
Crispi, le trattative fra Italia ed Etiopia vennero interrotte.
Con l'intento di dare voce all'opposizione alla politica di Crispi, radicali e repubblicani elaborarono
un programma (“Patto di Roma”) in cui chiedevano: il ridimensionamento dei poteri dell'esecutivo;
il decentramento amministrativo; provvedimenti in materia sociale; l’orario di lavoro di 8 ore;
l’uscita dell’Italia dalla Triplice; la rinuncia alle conquiste coloniali. Con tale patto i firmatari
speravano di trascinare con sé anche parte degli operai, ma ottennero un assai scarso consenso tra
i lavoratori, che, politicamente risvegliati dai socialisti, si muovevano in modo sempre più
autonomo rispetto ai movimenti democratico-borghesi.
Le elezioni del 1890, segnate dal forte astensionismo favorito dalla campagna dei cattolici
intransigenti contro l’anticlericale Crispi, diedero all’area governativa una vasta maggioranza con
405 deputati, ma segnarono un netto spostamento al suo interno verso destra. Dopo un voto a lui
sfavorevole, Crispi diede le dimissioni. Intervallata dalla perentesi nel 1891 del governo di Antonio
di Rudinì - già esponente intransigente della Destra storica e avversario di Depretis e di Crispi -, nel
1892 si insediò il 1° governo Giolitti.
3.5 – Il movimento operaio e contadino dall’anarchismo alla fondazione del Partito socialista
La formazione di un movimento operaio indipendente in Italia fu tardiva, in corrispondenza con i
limiti dello sviluppo industriale del paese . Lo stesso Mazzini - che dopo aver aderito nel 1864
all’Internazionale dei lavoratori, se ne allontanò - lottò contro il socialismo temendo che esso
potesse soppiantare il programma repubblicano e il pensiero sociale democratico-riformista.
L’Internazionale estese la sua influenza in Italia e soprattutto nel Sud grazie all’attivismo del
rivoluzionario russo Mikhail Bakunin - uno dei padri dell’anarchismo internazionale - che vi si era
stabilito nel 1864. Il suo lavoro di propaganda, in assenza di un consistente proletariato, oltre che
su ristretti nuclei di operai, fece presa, specie nel Sud e nel Centro, in particolare su artigiani e
intellettuali. Fu così l'anarchismo, con il suo vangelo di immediata ribellione sociale e di rifiuto
pregiudiziale alla partecipazione e alla organizzazione politica, e non il socialismo, a fornire il primo
indirizzo e la prima ideologia al movimento popolare italiano in lotta con l’ordine costituito.
Bakunin si era illuso che in Italia vi fossero tutte le condizioni per una rivoluzione sociale, facendo
leva sulla miseria dei contadini e sulla loro ostilità verso lo Stato. Per questo gli anarchici, con il
concorso di gruppi repubblicani, tentarono tra il 1874-77 di suscitare ripetuti moti eversivi nel
Centro e nel Sud, tutti però conclusi nel fallimento e con numerosi arresti (tra cui quello di Costa,
allora anarchico).
Questi avvenimenti spinsero Andrea Costa a rompere con l’ortodossia anarchica e a fondare nel
1881, in condizioni di clandestinità, il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, accettando di
agire politicamente attraverso un partito e respingendo l’insurrezione. Alle elezioni del 1882, come
già detto, Costa diventa deputato. Nello stesso anno, a Milano, esprimendo l’esigenza della nuova
classe operaia di liberarsi dalla tutela politica dei radicali, era nato il Partito operaio Italiano con
l’obiettivo di promuovere le lotte sindacali. Negli anni successivi, 1884-85, si svilupparono
agitazioni e grandi scioperi, particolarmente nel mantovano nel cremonese, dove furono in prima
fila i braccianti. Fu allora che emersero i primi leader e organizzatori socialisti (Lazzari, Rigola,
Bissolati). Tra il 1887-91 i progressi del movimento, nonostante la repressione governativa, furono
rapidi e intensi. Nel 1891 venne fondato a Milano la 1° Camera del lavoro, seguita presto da altre,
con compiti di collocamento e tutela sindacale.

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Anche in Italia andavano così maturando le condizioni per la creazione di un partito socialista su
scala nazionale. Spingevano in questa direzione: le lotte rivendicative; l’allargamento della base
elettorale (riforma del 1882), i successi del Partito socialdemocratico tedesco; la fondazione della II
Internazionale operaia nel 1889; la diffusione della dottrina marxista.
Un ruolo decisivo ebbe l’intellettuale Filippo Turati, attivamente coadiuvato dalla sua compagna
Anna Kuliscioff, un esule russa. Divenuto socialista dopo aver rotto con il radicalismo, contribuì a
orientare le forze socialiste e operaie verso l'unità organizzativa sulla base della separazione dagli
anarchici, con l’ obiettivo di formare un partito socialista autonomo frutto dell’incontro del
movimento operaio con una nuova leva di intellettuali  dall’incontro dei gruppi socialisti
milanesi, emiliano-romagnoli e di una parte delle organizzazioni operaie, al Congresso di Genova
del 1892, , nacque il Partito dei lavoratori italiani. Nel suo programma, ispirato dal marxismo, si
affermava che lo scopo finale dell'emancipazione dei lavoratori "non può raggiungersi che
mediante l'azione del proletariato organizzato in partito di classe,
indipendente da tutti gli altri partiti e una lotta più ampia intesa a conquistare
i poteri pubblici per trasformarli in uno strumento per l’espropriazione
economica e politica della classe dominante”. Nel 1895 assumerà la denominazione di
Partito socialista Italiano.
La nascita del partito ebbe un’importanza cruciale per 3 motivi: diede vita a un soggetto politico
delle masse lavoratrici; portò sulla scena nazionale il 1° partito politico moderno di massa - in
netto contrasto con il partito liberale basato su gruppi di notabili -; segnò l’emergere di una
cospicua forza in antitesi allo Stato liberale, che si affiancò ai repubblicani e ai cattolici
intransigenti nel non riconoscere i fondamenti dello Stato liberale attraverso non normali
“alternative di governo” ma “alternative di sistema”. Sicché i liberali furono indotti ad opporre un
blocco di potere unitariamente determinato a non cedere la guida del governo.
3.6 – Dal primo ministero Giolitti all’ultimo Crispi. I Fasci siciliani e la sconfitta in Africa
Giovanni Giolitti aveva acquistato una profonda conoscenza della macchina statale stando a
contatto con Sella, Minghetti e Depretis. Appoggiò quest’ultimo fino a quando prese posizione
contro il trasformismo, cui rimproverava di impedire il formarsi di schieramenti definiti. In un
discorso dell’86 dimostrò di aver maturato una concezione liberale più moderna e dinamica di
quella dei Depretis e dei Crispi: “due sono i sistemi politici: la politica imperiale e la
politica democratica. La prima necessita del sacrifizio del privato al pubblico
interesse. La seconda tende invece ad assicurare il benessere del maggior
numero di cittadini. Dobbiamo fare una politica sinceramente democratica”.
Tant’è che dinanzi all’indirizzo coloniale di Crispi si dimise da ministro. Il suo 1° ministero (1892-
93) fu troppo breve per far emergere la statura politica dell'uomo: egli manifestò il proposito di
rivedere il sistema fiscale diminuendo il carico per i non abbienti; fece sentire alle opposizioni e in
particolare ai socialisti un clima meno repressivo; ma al tempo stesso per procurarsi una sicura
maggioranza in Parlamento nelle elezioni del 1892, si dimostrò maestro nell’arte dei precedenti
governi: servirsi dell’apparato statale e dei prefetti per esercitare pressioni e corrompere gli
elettori. Tant’è che ottenne un'ampia maggioranza parlamentare. Sennonché il suo governo fu
interrotto dalla grave crisi provocata dalle agitazioni dirette dai "Fasci" in Sicilia, dove la crisi
agraria aveva provocato una fortissima tensione sociale, si crearono agitazioni guidate da uomini
di orientamento socialista e organizzate dal Movimento dei Fasci, organizzazioni di contadini,
braccianti e piccoli proprietari diffusesi tra 1892-93. Si trattava di un vasto movimento di protesta,
in cui si univano la rivolta contro l’eccessivo fiscalismo, quella contro la tirannia dei “galantuomini”
e la rivendicazione di terre da coltivare. Giolitti, al contrario di Crispi e dei proprietari che
invocavano un’energica repressione, non volle affrontare un problema sociale con misure di stato
d’assedio. Diede così le dimissioni e al potere tornò Crispi.
Crispi ebbe il plauso della maggior parte della borghesia, che vide in lui l’"uomo forte" richiesto
dal momento: fece proclamare lo stato di assedio in Sicilia e iniziò immediatamente la repressione

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provocando un centinaio di morti e circa 2000 arresti. Egli sostenne che ci si trovava di fronte non
tanto a movimenti sociali, quanto a una vasta cospirazione su scala nazionale diretta a sovvertire
lo Stato. Scampato a Roma a un attentato, Crispi concepì a questo punto un disegno repressivo ad
ampio raggio contro le organizzazioni operaie, socialiste e anarchiche. Il Partito socialista fu
sciolto in quanto organizzazione sovversiva, e con esso le organizzazioni sindacali . Va detto che
egli mostrò di comprendere che l'azione dei Fasci non era unicamente eversiva e aveva serie
motivazioni economico-sociali; sicché presentò un disegno di legge diretto a dividere i latifondi
estendendo l’area della piccola e media proprietà, ma venne fatto cadere dai deputati legati agli
interessi dei grandi proprietari. Infine, in previsione delle elezioni del 1895, fece manipolare le liste
elettorali e cancellare da esse moltissimi oppositori specie nel Mezzogiorno, restringendo il corpo
elettorale del 30%, e raggiunse il suo intento: alle elezioni del 1895 le forze attorno a Crispi
raccolsero 334 deputati, le opposizioni liberali sia di destra (di Rudinì) che di sinistra (Giolitti e
Zanardelli) insieme 104, i radicali 47 e i socialisti 15.
In campo coloniale, dopo la questione del testo di Uccialli, i rapporti fra Italia ed Etiopia erano
andati deteriorandosi. Fu Menelik a prendere l’iniziativa nel 1895 attaccando un contingente
italiano infliggendogli una sanguinosa sconfitta. Crispi, che era alla ricerca di un successo militare
ad ogni costo, esortò un altro generale ad agire con decisione. Nel 1896 le forze di quest’ultimo
(16.000 uomini) si scontrarono con 70.000 abissini ad Adua e vennero sbaragliate in una sonora
sconfitta. In Italia scoppiarono violente dimostrazioni contro la guerra e Crispi, il quale rassegnò le
dimissioni.
Gli successe Di Rudinì, cui non rimase che fare la pace con Manelik: il trattato di Addis Abeba
cancellò quello di Uccialli e all’Italia venne riconosciuto il possesso della sola Eritrea.
Si concluse così la parabola di Crispi, che sarebbe morto nel 1901. Egli aveva oscillato tra posizioni
progressiste e autoritarie fino alla reazione, avendo come stella polare la difesa più intransigente
dell’unità. Volpe fece di lui un “precursore” della missione mussoliniana.

3.7 – Crisi di fine secolo. L’Italia verso la crisi di sistema, la sconfitta del tentativo reazionario
Il 2° governo di Di Rudinì (1896-98) ereditò il fallimento della politica di Crispi e in una situazione
interna che andò progressivamente aggravandosi. Le forze che avevano sostenuto Crispi
(industriali e armatori interessati al colonialismo, agrari meridionali che avevano plaudito la
repressione in Sicilia, certa piccola borghesia intellettuale nazionalista, gli ambienti di corte)
auspicavano il proseguimento della politica autoritaria, riprendendo le posizioni teoriche di
intellettuali i quali da alcuni anni avevano preso a criticare frontalmente il sistema parlamentare e
a invocare il primato della corona e del suo governo sul Parlamento. Portavoce di questa corrente
fu Sydney Sonnino, il quale, suggestionato dall’esempio tedesco, auspicava che il regime liberale
spostasse il baricentro dal parlamentarismo a un potere esecutivo rafforzato nelle mani del re. Un
simile progetto era provocato dal timore e dalla consapevolezza che la classe dirigente liberale
appariva indebolita a causa della sua incapacità, o meglio impossibilità, di allargare la base del
consenso in direzione conservatrice con un’alleanza organica con i cattolici oppure in direzione
democratica con un riformismo capace di assimilare forze radicali, repubblicane e socialiste.
Alle elezioni anticipate del 1897, volute dal capo del governo e dalla corte, il successo dell’estrema
sinistra - che ottenne 80 deputati (i socialisti quasi raddoppiarono) - indebolì il governo,
accrescendo irritazione e preoccupazione, tanto più dopo il fallito attentato a Umberto I da parte
di un anarchico.
Ma la tensione esplose a Milano dove il prezzo del pane era notevolmente aumentato in seguito
al cattivo raccolto e al mancato flusso delle importazioni USA, impegnate nella guerra con Cuba.
Lo scontento popolare sfociò in tumulti, che assunsero apertamente il carattere di protesta
politica. Venne proclamato lo stato di assedio e il generale Beccaris affrontò la folla con le
artiglierie, convinto di reprimere un'insurrezione socialista, provocando centinaia di morti. Dando

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prova di insensibilità e cecità politica Umberto I decorò il massacratore di Milano provocando
l’indignazione non solo dei socialisti ma anche di molti borghesi. Si ripeté la risposta reazionaria
effettuata in Sicilia: vennero effettuati centinaia di arresti fra cui quelli dei capi socialisti Turati,
Bissolati, Costa, Kuliscioff, di radicali e repubblicani. Le organizzazioni socialiste e sindacali vennero
sciolte, colpite numerosissime anche le organizzazioni cattoliche, molti giornali furono sospesi
(redattori del Avanti! arrestati), le principali università chiuse.
A questo punto all'interno dello stesso ministero emersero contrasti. Di Rudinì propose un
pacchetto di leggi repressive che non incontrò il favore della maggioranza; il re nominò al suo
posto un generale dando avvio al governo Luigi Pelleux (1898-1900). Egli, che inizialmente ebbe
l’appoggio della sinistra liberale (Zanardelli e Giolitti), pose fine allo stato di assedio di Milano,
ridiede libertà di movimento alle organizzazioni e ai giornali soppressi e varò un indulto per i
condannati politici. Sennonché - anche per la sua condizione di militare soggetta a stretta
dipendenza del re, e sotto la diretta influenza di Sonnino - ben presto mutò indirizzo, facendosi
strumento della corrente reazionaria che voleva porre fine al regime parlamentare. Per far ciò
doveva colpire le opposizioni: nel 1899 presentò dei disegni di legge per porre sotto controllo la
stampa, limitare il diritto di riunione, colpire il diritto di associazione e vietare lo sciopero nei
servizi pubblici. Significativo fu l’appoggio della grande industria milanese, la quale, dopo aver
avversato il conservatorismo di Crispi, si spostò a destra spaventata dalle violente agitazioni sociali
di Milano.
Contro una tale svolta reazionaria - che avrebbe significato la fine del sistema istituzionale e del
governo liberale - prese corpo un’opposizione che andava dai socialisti fino a quei liberali che
optavano per una linea di apertura democratica e riformistica. I disegni di legge di segno
reazionario - emanati per decreto a giungo - trovarono in Parlamento l’ostruzionismo dei socialisti.
A questo punto Pelloux tentò di dare valore esecutivo al decreto, denunciato come
anticostituzionale da Giolitti il quale si schierò apertamente contro il governo dichiarando che era
necessario formare un esecutivo orientato a “impadronirsi di ciò che vi è di ragionevole
nel programma socialista e richiamare a sé la fiducia delle masse popolari”. La
Corte di cassazione nel 1900 dichiarò il decreto nullo per la mancata approvazione del Parlamento.
In questo clima anche la grande industria milanese, avendo giudicato troppo pericoloso il disegno
reazionario di fronte alle resistenze emerse, tolse il proprio appoggio a Pelloux. Convinto di poter
ottenere la fiducia dell’elettorato, questi ottenne dal re lo scioglimento delle camere. Ma le
elezioni del 1900 portarono a un notevole rafforzamento di radicali, repubblicani e socialisti
(insieme 96 seggi) e della sinistra liberale (116 seggi). I governativi ottennero 296 seggi; ma un
indice negativo per il governo fu che la maggioranza fu tale solo per effetto dei collegi uninominali,
in quanto i partiti di opposizione ottennero un numero superiore di voti. Di fronte a questi dati,
Pelloux, pur disponendo ancora della maggioranza, rassegnò le dimissioni. Il re Umberto, anziché
dare l'incarico, come logico nella prassi parlamentare, al capo dell'opposizione liberale Zanardelli,
scelse il vecchio senatore Saracco. Fu l'ultimo atto politico del sovrano poiché un anarchico lo
assassinò a Monza per vendicare i morti di Milano e l’offesa della decorazione a Beccaris.
Durante il governo Saracco I fatti politici più notevoli riguardarono il movimento operaio.
Il PSI era uscito dalle prove affrontate durante la crisi di fine secolo con un senso di grande
sicurezza in sé stesso come parve evidente al Congresso di Roma del 1900. Il punto centrale era la
questione del rapporto tra la lotta per le riforme da conseguirsi nella società borghese
(programma minimo) e la lotta per la rivoluzione socialista ( programma massimo). Le riforme del
programma minimo non erano incompatibili con quelle di cui potevano farsi portatrici le correnti
liberali progressisti e quelle democratiche non socialiste. Il che poneva il problema
dell’opportunità o meno per il PSI di stringere alleanze con liberali e democratici “borghesi”. Nella
direzione di questa opportunità parve spingere la netta vittoria al congresso dei riformisti
(minimalisti) guidati da Turati.

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Anche il PLI si interrogava sulle vie da seguire: Sonnino indicava, combinando elementi
conservatori e progressisti, le linee di un proprio eventuale governo, avente il baricentro in un
corso di riforme: richiamava la necessità di rinsaldare intorno alla monarchia un “fascio”
conservatore unitario e liberale quale contrappeso al “premere dei partiti estremi: la
Sinistra dei sovversivi e la Destra dei clericali”; ma sollecitava al tempo stesso un
piano di riforme, giungendo a chiedere di far partecipare il mondo del lavoro agli utili e alla
gestione delle aziende e di procedere alla revisione integrale dei patti agrari. Egli, inoltre,
auspicava una maggiore unità del Partito liberale.
Giolitti, il quale accoglieva l’invito di Sonnino a rafforzare il partito liberale, al contempo
respingeva nettamente la concezione da questi espressa: “il paese, - dice Sonnino - è
ammalato politicamente e moralmente, ed è vero; ma la causa più grave di
tale malattia è che il peso delle imposte cade in gran parte sulle classi più
povere. Noi abbiamo un grande numero di imposte sulla miseria; non ne
abbiamo una sola che colpisca esclusivamente la ricchezza vera. Io deploro
quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?” e ancora
“È necessario persuadere le classi dirigenti che senza qualche sacrificio esse
non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza
né per le persone né per gli averi.”. La strategia giolittiana era di aprire un nuovo corso
politico di segno progressista, rovesciando l’impostazione dell’intera classe dirigente italiana
improntata sull’impedire alle “masse pericolose” di affacciarsi sulla scena politica, di darsi
un’organizzazione autonoma e riconosciuta dal potere: “il moto ascendente delle classi
popolari è un moto invincibile perché è comune a tutti i paesi civili, e perché
poggiato sul principio dell'uguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere
di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza
economica e politica. Le istituzioni hanno il dovere di persuadere con i fatti
queste classi che ogni legittimo loro interesse trova efficace tutela negli
attuali ordinamenti politici e sociali.”
Saracco diede le dimissioni dopo la sfiducia della Camera. Emanuele III, con intelligenza politica
tirò le somme in seguito alla sconfitta della reazione e affidò il governo a Zanardelli, il quale
chiamò Giolitti agli Interni. In Italia si apriva una nuova fase politica, agevolata dal nuovo slancio
economico.

 Capitolo 4 – L’età giolittiana

4.1 – Il decollo industriale e la modernizzazione “monca” dell’Italia


L’Italia diede inizio al suo decollo industriale in forte ritardo fra il 1896 e il 1914. Il
processo di industrializzazione, però, localizzato quasi esclusivamente al Nord, ebbe
quale effetto di approfondire ulteriormente la divisione del paese.
L'industrializzazione segnò il rinvigorirsi delle organizzazioni sia dei lavoratori sia dei
datori di lavoro, e pose la necessità di affrontare a nuovi livelli i problemi della
gestione sociale e politica, quindi i rapporti fra poteri pubblici, imprenditori e masse
popolari. Interpretare una situazione così complessa fu quanto tentò di fare Giolitti negli anni del
nuovo secolo, lui che aveva maturato la consapevolezza di un pur non facile confronto tra la
borghesia più lungimirante e i socialisti e i sindacati. Il suo programma riformatore nei fatti era

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destinato a essere avversato sia dalla Destra liberale, che considerava pericolosa un’apertura a
Sinistra, sia dalla Sinistra rivoluzionaria, che lo considerava un compromesso “trasformistico”.
Lo statista piemontese si trovò al timone dello Stato sia nella fase di rapido progresso
dell’industria durato fino al 1907, sia nella seguente fase di relativa crisi economica: tra 1901-03
come ministro degli Interni, poi, con varie interruzioni, come Presidente del Consiglio fino al 1914.
Lo sviluppo dell’industria avvenne in un quadro caratterizzato dal ruolo dominante di monopoli
sostenuti dal capitale finanziario e dallo Stato e segnato dalla persistente debolezza della struttura
produttiva nazionale, che, nonostante le mete raggiunte, non era in grado di sostenere il
confronto con la concorrenza estera. Sicché il protezionismo doganale, le commesse statali e il
controllo del mercato interno da parte di gruppi monopolistici costituirono i tratti prevalenti.
L’industria siderurgica conobbe un importante ristrutturazione del 1905 con la costituzione
dell’Ilva.
L’industria automobilistica ebbe uno slancio notevolissimo soprattutto a Torino dove la Fiat
acquistò presto una netta preminenza. Nel 1908 Camillo Olivetti fondò la fabbrica di macchine da
scrivere destinata a un grande avvenire. Ma l’industria “nuova” per eccellenza era quella elettrica,
che aveva conosciuto i suoi esordi con la fondazione della società Edison (1884). Anche l’industria
chimica aumentò molto la produzione specie di materiale elettrico, e quello della gomma che
aveva la sua fabbrica maggiore nella Pirelli (1872).

4.2 – Il doppio volto di Giolitti. L’insuccesso del suo disegno di “nazionalizzazione delle
masse”
La politica di Giolitti non riuscì, se non parzialmente, a combattere le ragioni strutturali degli
squilibri interni della società italiana. Quel che Giolitti fece con abilità fu di promuovere lo sviluppo
sociale ed economico là dove esso presentava le condizioni più favorevoli e rendere più efficienti
l’amministrazione della macchina dello Stato.
Giolitti portò a perfezione il sistema del trasformismo, sforzandosi, di allargarne le basi con il
coinvolgimento di correnti della sinistra riformista e del cattolicesimo moderato. Punto essenziale
fu l’allargamento del corpo elettorale nel 1912 con la legge per il suffragio universale maschile. Per
consolidare le sue maggioranze non mancò di ricorrere a pressioni di ogni tipo e anche all'aperta
corruzione, soprattutto al Sud - considerato un serbatoio di voti -, tanto da venire denunciato dagli
oppositori liberali, democratici e dall’estrema sinistra. D'altro canto, per il volto progressista che
mostrava al Nord, ottenne il consenso quasi ininterrotto dei socialisti riformisti, i quali vedevano in
lui il borghese moderno che aveva promosso nuovi rapporti con le organizzazioni dei lavoratori. Il
fatto di disporre di larghe maggioranze consentì a Giolitti di accrescere il potere dell’esecutivo.
Non riuscì, però, nell’intento di indurre la classe dirigente ad accettare le organizzazioni politiche e
sindacali dei lavoratori, alla “nazionalizzazione delle masse”. I socialisti rivoluzionari, i repubblicani
più estremisti, i cattolici intransigenti, i nazionalisti votatisi all’autoritarismo, pur nella loro
diversità, non cessarono di formare un fronte comune decisamente antigiolittiano. Contro di lui
anche i liberali di destra e conservatori sonniniani, i borghesi, industriali, agrari e infine i
meridionalisti.
4.3 – Il governo Zanardelli e le lotte del lavoro
Durante il governo Zanardelli, gli scioperi ebbero una brusca impennata: nel 1901 furono 1034 e
nel 1902 800 (nel 1900 erano stati 410), con una partecipazione senza precedenti dei lavoratori
dell'industria e delle campagne. Giolitti adottò un nuovo atteggiamento: ordinò ai prefetti di
lasciare svolgere senza interventi e talora persino di favorire gli scioperi di carattere economico
per consentire il rialzo dei salari, giudicato utile ad allargare la domanda interna e quindi lo stimolo
della produzione, ma combatté quelli di natura politica in quanto perturbatori dell’ordine
pubblico.

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Il 1901 segnò una serie di sostanziali successi dei lavoratori industriali e agricoli; ma già nel 1902 la
resistenza padronale, in particolare nelle campagne assunse caratteri di estrema durezza. Tant’è
che venne respinta una riforma tributaria tesa a spostare maggiormente il peso della tassazione
dei tributi diretti a quelli indiretti, poiché toccava i tradizionali privilegi delle classi alte. Furono
invece varate alcune misure di legislazione sociale, specie sulla tutela del lavoro minorile e
femminile. Inoltre, per arginare il divario tra Nord e Sud, venne avviata una serie di interventi a
favore del Mezzogiorno (legge per la Basilicata, per l’industrializzazione di Napoli, per l’acquedotto
pugliese).
Le organizzazioni del movimento operaio presero un grande impulso. Centri motori del
sindacalismo operaio divennero le Camere del lavoro, le quali raggruppavano i lavoratori su base
territoriale. Nelle campagne della Valle Padana crebbe vigoroso il movimento delle leghe delle
cooperative.
Il PSI, che oltre a essere radicato tra gli operai, aveva una forte componente contadina e in
particolare bracciantile, diventò l'elemento dirigente del movimento dei lavoratori. La sua
influenza si estese anche a frange significative della piccola e media borghesia impiegatizia e
professionale e del ceto intellettuale (Lombroso, Pascoli, De Amicis). Le principali tendenze interne
al partito, che sarebbero sopravvissute fino al 1915, erano quella riformistica, guidata da Turati e
Bissolati, e quella intransigente o rivoluzionaria, guidata da Labriola e Ferri. Turati e i riformisti,
convinti dei benefici della linea giolittiana indussero il partito nel 1901 a sostenere il governo; ma
nel 1902-03, dinanzi all’inasprimento dei conflitti sociali la corrente rivoluzionaria andò
rafforzando le sue posizioni.

4.4 – Il 2° e il 3° ministero Giolitti. Movimento socialista, cattolici, liberisti e nazionalisti


Con il 2° governo, Giolitti, succeduto a Zanardelli malato, puntò a scindere il PSI, con il proposito
di legare a sé la corrente riformista e isolare quella rivoluzionaria; e perciò rivolse a Turati l’invito a
entrare nel ministero. Questi, pur convinto delle possibili prospettive positive, rifiutò nella
realistica convinzione che il partito non lo avrebbe seguito, a maggior ragione dopo il netto
spostamento interno a sinistra  infatti nel 1904 al Congresso del partito Labriola e Ferri
ottennero la maggioranza e assunsero la guida. Di lì a pochi mesi, in seguito agli eccessi della
polizia contro gli scioperanti nel Cagliaritano e nel Trapanese, fu proclamato, con l'intenzione della
corrente rivoluzionaria del PSI di provocare la caduta di Giolitti, lo sciopero generale nazionale.
Giolitti non cedette ai conservatori spaventati che chiedevano la repressione aperta, ma non
mostrò allo stesso tempo alcuna debolezza. Prese misure militari per prudenza, ma lasciò che lo
sciopero si sfogasse e si esaurisse. Lo sciopero segnò per i rivoluzionari del PSI una grave sconfitta;
ma indusse molti lavoratori a vedere in Giolitti il loro ennesimo nemico al potere.
Questi dal canto suo non esitò a sfruttare la paura diffusa tra i borghesi e fece sciogliere la Camera
e indire nuove elezioni nel 1904, le quali furono un successo per Giolitti ma solo relativo, poiché i
socialisti videro scendere i propri deputati solo per effetto dei collegi uninominali, in quanto
aumentarono i loro voti. Al rafforzamento dei liberali si accompagnò uno spostamento dell’asse in
senso conservatore, cui concorse anche il fatto che Pio X nel 1903 acconsentì, facendo eccezione
al non expedit, che in alcuni collegi i cattolici votassero per i liberali per impedire la vittoria dei
socialisti. Era l’inizio di un processo destinato ad approfondire il solco tra la sinistra e il blocco di
potere liberale che trovava ora nel “clerico-moderati” un nuovo appoggio.

La decisione di Pio X fece seguito a un'intensa attività svolta dai cattolici in campo politico e
sociale. Le organizzazioni cattoliche - che facevano capo all'Opera dei congressi, fondata nel 1874 -
avevano dato vita, secondo criteri ispirati all'ideologia "corporativa" contraria alla lotta di classe e
favorevole alla conciliazione fra lavoratori e padroni, a una serie di istituzioni sociali, economiche e
culturali, create a sostegno del credito ai contadini. Tali istituzioni a sfondo caritativo lasciavano
insoddisfatti la corrente della “ democrazia cristiana”, la quale si opponeva al tempo stesso ai

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clerico-moderati favorevoli all’avvicinamento ai liberali, e agli intransigenti ostili allo Stato
usurpatore per fedeltà al Vaticano, entrambi vicini nella comune avversione all’organizzazione
autonoma dei lavoratori.
I “democratici cristiani”, pur avversando l’ideologia classista, ritenevano che non fosse possibile
attuare un’efficace contrasto al socialismo se non si fosse intrapresa la difesa degli interessi dei
lavoratori contro l’ottuso conservatorismo delle classi alte, traendo ispirazione e legittimazione
nell’enciclica Rerum Novarum del defunto Leone XIII.
Negli stessi anni il sacerdote Romolo Murri promosse un sindacalismo cattolico, di non grande
incidenza, che mise radici soprattutto nel Nord. In Sicilia, un altro giovane prete, Luigi Sturzo,
meridionalista e federalista, si fece energico organizzatore di leghe contadine. Sennonché, il
"radicalismo" dei democratici cristiani preoccupò i moderati all'interno del mondo cattolico; tanto
che Pio X sciolse nel 1904 l'Opera dei congressi, esprimendo una netta ostilità verso la
"democrazia cristiana". Il movimento cattolico venne posto alle dipendenze dei vescovi. E, come si
è detto, nello stesso anno acconsentì ai cattolici di soccorrere sul piano elettorale i liberali.
Seguendo le direttive vaticane, il movimento si organizzò in varie Unioni (popolare, economico-
sociale ed elettorale.) Murri, creò la propria organizzazione ma, scomunicato, finì nelle file dei
radicali; mentre Sturzo - che pure si era esposto a favore del programma democratico cristiano -,
mostrandosi di temperamento più politico di Murri, obbedì alle direttive vaticane, in attesa che i
tempi fossero maturi per la ripresa del movimento democristiano. Intanto il sindacalismo cattolico
continuò a rafforzarsi con la costituzione del 1909 dei primi sindacati nazionali di categoria.
Nel 1907-08 una crisi industriale provocata da un eccesso di investimenti e da un insufficiente
sbocco dei beni prodotti investì con tutti i paesi più avanzati anche l'Italia. In quell'anno l'ondata di
scioperi fu assai vigorosa e in prevalenza nel settore industriale. La crisi ebbe una soluzione
destinata a diventare classica: una maggiore concentrazione delle imprese più forti e
l’accentuazione del loro carattere monopolistico, con la formazione di consorzi tesi a limitare la
produzione quando necessario e a controllare i prezzi. A partire da quell’anno ricomparve poi il
disavanzo del bilancio dello Stato, destinata ad aumentare notevolmente. Il carattere più moderno
delle relazioni industriali e al tempo stesso il processo di concentrazione delle imprese spingevano
verso la centralizzazione organizzativa. Così, per correggere il carattere troppo locale delle Camere
del lavoro, nel 1906 fu creata la Confederazione generale del lavoro (Cgl), basata su federazioni
nazionali di mestiere, che diventò una roccaforte dei riformisti, grazie anche alla maggioranza che
questi mantennero nel PSI fino al 1911. Gli imprenditori seguirono un percorso analogo che portò
nello stesso anno alla nascita della Confederazione italiana dell’industria.
La più drammatica lotta dei lavoratori fu nel 1908 lo sciopero generale dei braccianti nel
Parmense, il quale, caratterizzato da aspri scontri, fallì. In quell’occasione gli agrari fecero ricorso
al reclutamento di gruppi armati per stroncare l’azione degli scioperanti e suscitare paura tra loro.
Nettamente antigiolittiano fu poi il movimento nazionalista, di posizioni non solo antisocialiste, ma
anche ostili al liberalismo. Nel 1910 il movimento si costituì in Associazione Nazionalista Italiana.
Esso faceva propri i motivi letterario-ideologico come l’individualismo e le suggestioni nietzschiani
del superuomo, l’entusiasmo patriottico e guerresco. Non aveva nulla in comune con il
nazionalismo democratico di Mazzini, collegato alle lotte di emancipazione dei popoli: guardava
invece all’autoritarismo e all’imperialismo. Nel campo dei rapporti di lavoro proponeva una
strutturazione corporativa, simile a quella auspicata dei cattolici. Tra i suoi esponenti Corradini e
Prezzolini.

4.5 – 4° ministero Giolitti. Suffragio universale e inasprimento dei conflitti di classe.


Alle elezioni del 1909 i socialisti ebbero un notevole avanzamento. Pio X, riprendendo le la linea
del 1904, permise che i cattolici votassero - attenuando così ulteriormente il valore del non expedit

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- per sostenere i liberali conservatori, a patto che questi si impegnassero nella difesa degli interessi
cattolici. Furono così eletti anche 16 deputati cattolici.
Nel 1911 si formò il 4° governo Giolitti dopo brevi parentesi di governo di Sonnino. L'introduzione
del suffragio universale era ormai matura: anche perché era diffusa tra i liberali la convinzione,
condivisa non solo da Sonnino ma ora anche da Giolitti, che esso potesse venire utilizzato in chiave
antisocialista e conservatrice anzitutto per l’apporto del voto dei contadini influenzati dalla Chiesa.
La carta del suffragio viene giocata da Giolitti in senso conservatore. Inoltre concedendolo egli
pensava, non a torto, di attenuare l’opposizione dei socialisti alla guerra per la conquista della
Libia, ormai nelle sue intenzioni. Varata nel 1912 la legge elettorale del suffragio universale
maschile il corpo elettorale passò dal 9,5% al 25% della popolazione: i contadini maschi
ottennero per la prima volta il voto.
Con l’azione in Libia iniziata il 1911, Giolitti intendeva sul piano internazionale scongiurare che
questa, data la sua delicata posizione strategica per l'Italia, cadesse sotto il controllo di un'altra
potenza europea. Sul piano interno desiderava compiacere quegli ambienti dell'industria pesante;
il capitalismo finanziario; le correnti nazionalistiche tanto della destra liberale quanto dell’ANI.
Anche socialisti riformisti come Bissolati e sindacalisti rivoluzionari come Labriola si dichiararono
favorevoli. Nel PSI solo la sua sinistra era decisamente e attivamente contraria e in Romagna, il
socialista rivoluzionario Mussolini e il repubblicano Nenni promossero violente agitazioni. La
stampa favorevole all’impresa avviò una campagna propagandistica carica di demagogia, agitando
agli occhi delle masse povere la prospettiva di nuove grandi opportunità per l’emigrazione in terre
ricche. Nell’insieme la campagna ebbe inizialmente sostanziale successo; il conflitto però fu più
lungo e difficile del previsto e, provocando migliaia di morti e feriti, diede un forte colpo al
disavanzo finanziario dello Stato. Il protrarsi del conflitto, divenuto a mano a mano sempre meno
popolare, ebbe un forte contraccolpo sul PSI, nel quale si acuirono i contrasti tra i riformisti e
rivoluzionari. Al Congresso Mussolini, assurto alla guida dei rivoluzionari, accusò i riformisti
Bissolati e Bonomi ottenendone l’espulsione. La maggioranza del partito si schierò sulle posizioni
della sinistra radicale. Il PSI optò per una linea antiriformistica, anticlericale e persino
antiparlamentare, che trovò suo acceso portavoce Mussolini, cui venne affidata la direzione del
quotidiano del partito, l’Avanti!.
Si tennero nel 1913 le prime elezioni a suffragio universale maschile. Il suffragio preoccupò i
liberali, privi di un'organizzazione capace di mobilitare le masse e di una struttura partitica
moderna. In soccorso dei liberali, mossi dall’antisocialismo, vennero i cattolici, gli unici in grado di
contrapporre una rete capillare delle proprie organizzazioni. Non potendo ancora presentare
proprie liste autonome, l'Unione Elettorale Cattolica invitò i liberali a sottoscrivere il patto
Gentiloni: in cambio del voto, questi dovevano opporsi a ogni legge che potesse ledere gli interessi
cattolici. Giolitti lasciò fare; anzi, mise in moto, specie al Sud, la macchina della polizia e la stessa
mafia per intimidire le opposizioni. Nonostante la notevole affermazione dei socialisti, i liberali
presero il 47%.
La Camera però non era quella che Giolitti sperava e così nel 1914 diede le dimissioni . Il suo
disegno fondato sulla disponibilità di una maggioranza parlamentare docile, cozzava con la svolta
radicale della maggioranza dei socialisti, con l'agitazione antidemocratica e antiliberale dei
nazionalisti e contro il nuovo ruolo assunto dei cattolici. Il re nominò Salandra capo del governo.

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 Capitolo 5 – Nella bufera della 1° guerra mondiale. Una guerra senza
consenso
5.1 – L’Italia dalla neutralità all’intervento
Il primo decennio del ‘900 si chiudeva mostrando come tra le potenze europee strette in opposte
alleanze le tensioni montassero pericolosamente. I contrasti erano andati crescendo pressoché
interrottamente: le due crisi marocchine, la guerra italo-turca, le guerre balcaniche. Quando la
guerra scoppiò nell’agosto 1914 l’imperialismo caratterizzava lo spirito e gli atteggiamenti di tutte
le maggiori potenze. Una guerra senza precedenti per il numero di paesi coinvolti, per la
mobilitazione di eserciti immensi dotati di armamenti micidiali messi a disposizione dei progressi
della tecnologia, per il coinvolgimento delle popolazioni civili impegnate in maniera massiccia a
sostenere anzitutto nell’industria le esigenze belliche.
L'Italia dichiarò la neutralità dimostrando quanto poco solida fosse l'alleanza con l'Austria, da cui
la dividevano la questione delle “terre irridente”, e la sua insufficiente preparazione militare, già
emersa nella guerra libica. Le maggiori forze politiche italiane erano favorevoli alla neutralità:
 Il PSI guidava l’opposizione degli strati popolari alla guerra.
 I cattolici accentuarono la loro opposizione a mano a mano che andava profilandosi l’eventualità di entrare al
fianco dell’Intesa, perché simpatizzanti per la cattolica Austria e avversi alla Francia radicale e laica.
 Giolitti e la maggioranza dei parlamentari, convinto che sarebbe stata una guerra lunghissima e costosissima.
Ma tra giolittiani, socialisti e cattolici mancava la possibilità di far fronte comune . Il che lasciò via libera agli
interventisti.

A favore dell’intervento si mosse una minoranza di forze nettamente discordi anzitutto su quale
schieramento l’Italia dovesse schierarsi al fianco.
 I simpatizzanti per l’Intesa e ostili all’Austria: il riformista Bissolati, Salvemini, Murri, il socialista irredentista
Battisti.
 i nazionalisti di destra , sostenuti dall’ industria pesante (Ansaldo di Genova) che rumorosamente
sostenevano che neutrale l’Italia sarebbe stata condannata a una posizione di secondo rango. Tra i più accessi c’era
D’annunzio.
 Si aggiunse anche Mussolini il quale, dopo essersi mostrato uno dei più risoluti contrari, divenne
improvvisamente interventista e fondò, con sovvenzioni francesi, il quotidiano Il Popolo d’Italia. In risposta il PSI lo
espulse dal partito.
 I liberali di destra antigiolittiani (Salandra, Sonnino), appoggiati dal Re, sostenuti dal Corriere della Sera, i
quali auspicavano la conquista delle terre irridente e l’espansione in Anatolia, Africa Nord-orientale e i Balcani.
Inoltre si aspettavano che l’arruolamento nell’esercito avrebbe acceso nelle masse un accentuato autoritarismo.

Dal connubio fra liberali antigiolittiani e nazionalisti uscì la forza determinante che finì per
trascinare l’Italia nel grande conflitto. Il blocco interventista compensò la sua nettissima inferiorità
numerica con l’influenza che aveva direttamente sullo Stato attraverso il governo e la monarchia e
sulle piazze occupate da minoranze quanto mai chiassose. L’intervento venne dunque deciso degli
ambienti di corte, dal governo e dalle alte gerarchie militari . Dopo giri di valzer compiuti dal
governo con gli schieramenti opposti al fine di assicurarsi il miglior compenso, il 26 aprile 1915
venne firmato a il trattato di Londra con cui l’Italia si impegnava entrare in guerra al fianco
dell’Intesa. Il mese dopo indirizzò un ultimatum all'Austria; entrando in guerra con questa, ma non
ancora con la Germania.

5.2 – La logorante guerra di trincea


Gli italiani, il cui comandante era Luigi Cadorna (figlio del Raffaele di Porta Pia) godevano di una
superiorità numerica nei confronti degli avversari, già duramente provati da 10 mesi di guerra. Ma,
come già nel 1866, l’esercito mancava di preparazione: l’addestramento non era adeguato,
carente era l’artiglieria, l’aviazione non esisteva, la metà degli arruolati erano contadini analfabeti.

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Ciò nonostante, nella seconda metà del 1915, Cadorna ordinò ben 4 attacchi nell’Isonzo e nel
Carso, senza ottenere alcun risultato. Quell'anno si concludeva con un bilancio favorevole agli
imperi centrali: la Germania controllava il Belgio, parte della Francia, la Polonia, ed era penetrata
nella Lituania e nella Bielorussia. La Serbia era sconfitta, gli austriaci bloccavano gli italiani, i
tedeschi bloccavano i francesi e gli inglesi, mentre la Russia aveva subito pesanti rovesci.
Il 1916 fu contraddistinto da una serie di grandi offensive tedesche sul fronte occidentale, ma i
francesi riuscirono a tenere le linee grazie anche all’aiuto inglese. Di fronte all'offensiva tedesca i
francesi sollecitarono gli italiani e i russi e intraprendere delle azioni offensive per alleggerire gli
anglo-francesi. Ebbe perciò inizio la 5° offensiva dell'Isonzo che ancora una volta non raggiunse lo
scopo. Anzi, questo insuccesso italiano convinse gli austriaci che fosse possibile vibrare il colpo
risolutivo agli italiani; tant’è che ottennero significativi successi sul Brenta. Il re e Cadorna si
rivolsero allo zar, così i russi sfondarono le linee austriache arrivando fino ai Carpazi meridionali e
furono contenuti solo dall’intervento tedesco. Il grande successo dei russi ebbe conseguenze
importanti: indusse la Romania a entrare in guerra a fianco dell’Intesa; ma questo debole paese
non riuscì a resistere ai tedeschi, i quali lo sbaragliarono, potendo così mettere le mani nelle sue
ricche risorse petrolifere. Dall’altro lato permise agli italiani di passare al contrattacco e di
conquistare Gorizia.
Sennonché in Italia si aprì una grave crisi politica: era ormai inequivocabilmente chiaro a tutti
come i calcoli del governo che contava su un conflitto breve, fossero sbagliati  cadde così il
governo.
5.3 – Dalla catastrofe di Caporetto alla vittoria
Nel 1917, le masse lavoratrici erano esauste e anche sul fronte la condotta di Cadorna, improntata
sulla più dura disciplina, suscitava uno spirito di insubordinazione e diserzione nelle truppe. Nella
prima metà dell’anno vi furono numerose manifestazioni spontanee in vari centri d’Italia (Milano,
Torino le più importanti). Le truppe erano state logorate da una serie di continue azioni offensive
(si arrivò all’11° offensiva sull’Isonzo), con successi di portata limitata. Si tenga presente che la
rivoluzione russa stava provocando la rapida disgregazione dell’esercito zarista, rendendo
possibile agli imperi centrali di dislocare sugli altri fronti nuove forze. Così gli austriaci, rafforzati da
sette divisioni tedesche, sfondarono le linee italiane nei pressi di Caporetto penetrando per circa
150 km. La ritirata acquistò ben presto il carattere di una rotta disordinata di enormi proporzioni,
nella quale gli austro-tedeschi fecero una grande numero di prigionieri e un ricco bottino di armi e
materiali.
La disfatta ebbe immediate ripercussioni sul governo e sul Comando supremo: Cadorna accusò i
soldati ma, su sollecitazione di Francia e GB, venne sostituito dal generale Armando Diaz.
Ora il nemico minacciava alle porte della Pianura Padana, ma l’esercito riuscì a contenere
l’offensiva austro-tedesca. Nonostante i contrasti politici e sociali, nelle truppe e nella popolazione
emerse lo spirito di solidarietà diretto a salvare il Paese. A contribuire fu il cambiamento dello stile
di comando di Diaz e del governo, che smisero di usare le truppe come carne da cannone,
alleggerirono la regolamentazione delle licenze, migliorarono il vitto nelle trincee, elevarono le
pensioni di guerra.
Nel 1917, l’entrata degli USA fu determinante per l’esito del conflitto. Nella battaglia della Marna,
nel 1918, francesi, inglesi e americani sbaragliarono i tedeschi provocando la capitolazione della
Germania. Ma italiani e austriaci proseguirono: un ultimo contrattacco austriaco venne contenuto
e il confronto finale fu nella Battaglia di Vittorio Veneto - avvenuta quando le truppe austriache
erano ormai in dissolvimento - e si concluse dopo che già l’Austria aveva chiesto l’armistizio
all’Italia. Gli italiani occuparono Trento e Trieste e, giorni dopo anche Fiume.

5.4 – La società italiana durante la guerra. Intervento dello Stato e fermenti antiparlamentare

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La guerra comportò un forte intervento dello Stato. Mai si era resa necessaria una mobilitazione
così generale delle risorse tanto umane quanto materiali. La guerra acquistò un “volto
industriale”: armamenti e apparati dovevano essere prodotti su una scala via via più ampia dalle
fabbriche, le cui dimensioni richiedevano massicci investimenti e un aumento della manodopera .
L’Italia compì uno sforzo industriale e in generale economico grandissimo - che dissestò le finanze
pubbliche - cui poté fare fronte solo grazie ai consistenti aiuti degli alleati. Ciò ebbe 2
conseguenze:
- il potenziamento dei poteri del governo, con la sostanziale marginalizzazione del Parlamento;
- il controllo dello Stato sull’economia sempre più rilevante, tramite poteri crescenti in tema di
sorveglianza delle fabbriche e di limitazioni all’attività delle organizzazioni dei lavoratori.
Al tempo stesso, lo Stato lasciò campo libero alle imprese sulla fissazione dei prezzi e dei beni. Il
che volle dire favorire un impressionante aumento dei profitti dell’élites industriali , le quali
divennero oggetto di disprezzo e odio da parte delle masse popolari che vedevano il loro tenore di
vita e retribuzioni abbassarsi costantemente. La conseguenza fu che a pagare i costi della guerra
furono in misura del tutto squilibrata gli strati popolari.
La richiesta di armamenti costituì un fattore determinante del grande sviluppo e della
concentrazione dell’industria. Bastano gli esempi del gruppo Ansaldo e della Fiat. I profitti
aumentarono in maniera esponenziale. Non solo: le maggiori imprese si costituirono in trust e
cartelli che dominavano il loro mercato di riferimento secondo criteri monopolistici.
Un’altra rilevantissima conseguenza fu il ricorso alla manodopera femminile e minorile, chiamata
a colmare i vuoti lasciati dai maschi al fronte. Il numero di donne impiegate si aggirò intorno al
22% del totale degli addetti.
Deposte le armi, il costo della guerra - complessivamente di 157 miliardi - appariva spaventoso; il
debito pubblico, nel 1914 di 15 miliardi, aumentò nel 1919 a 69 miliardi. Con questa situazione
avrebbero dovuto confrontarsi i governi nel dopoguerra: una situazione che, per le sue
implicazioni politiche, economiche e sociali, avrebbe fatto divampare nel Paese la conflittualità tra
le classi dirigenti e le masse popolari, tra quanti si erano arricchiti e quanti decisamente impoveriti.

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 Capitolo 6 – L’“esplosione delle antitesi”: biennio rosso, nero e fascismo

6.1 – Le classi sociali nel dopoguerra. La frustrazione delle aspirazioni dei nazionalisti.
Al tavolo della pace delle trattative per i compensi, Francia, GB e USA trattarono l’Italia come una
potenza di secondo rango quale in effetti era, gettando in uno stato di frustrazione gli ambienti
che avevano voluto e sostenuto l’intervento. Il Paese in realtà ottenne risultati tutt’altro che
trascurabili con l’acquisto del Trentino, dell’Alto Adige, dell’Istria e delle isole del Dodecaneso.
A differenza di GB e Francia, in Italia si ravvivò quanto mai violenta la polemica fra neutralisti e
interventisti. I primi - e con particolare virulenza i socialisti - misero sotto accusa i secondi.
Gli interventisti, dal canto loro, erano ancora divisi fra i democratici, soddisfatti del compimento
dell’unità nazionale, e gli interventisti di destra, imperialisti i quali, facendo riferimento alle
promesse del trattato di Londra, rivendicavano rumorosamente il possesso di territori in Dalmazia,
di Fiume, di ampie zone nell’Anatolia e ingrandimenti coloniali. Wilson, non sentendosi vincolato
dal trattato di Londra che non aveva firmato, rinfacciò agli italiani di seguire una linea incoerente:
per un verso rivendicare Trento e Trieste in nome del principio di nazionalità e per l’altro voler
violare i diritti di altre nazionalità, specie nei Balcani . Nelle file degli imperialisti e in numerosi
borghesi ed ex ufficiali, si diffuse quel senso di umiliazione che li indusse a ritenere che quella
dell'Italia fosse una "vittoria mutilata". I gruppi nazionalistici di destra soffiavano sul fuoco; e
D’Annunzio, contando sulla complicità di alcuni comandi militari occupò Fiume, proclamandone
l’annessione all’Italia e stabilendovi un proprio governo. Il paese si divise fra entusiasti sostenitori
e quanti, in prima fila i socialisti, denunciarono il carattere irresponsabile dell’impresa.
La frattura più profonda era di natura economica. Risparmiatori piccoli e medi, possessori di
rendite modeste e piccoli proprietari vedevano i loro capitali faticosamente accumulati perdere di
valore, mentre le tasse crescevano notevolmente. La piccola e media borghesia, che aveva fornito
i quadri degli ufficiali, da un lato era orgogliosa della vittoria, ma dall’altro, impoveritasi durante la
guerra e nell’immediato dopoguerra, era in preda a grande inquietudine per le proprie difficoltà.
Ai contadini poveri e ai braccianti che avevano formato la massa dei soldati il governo nell’anno
1917 aveva promesso la riforma agraria (concessione di terra); e alla fine del conflitto costoro
erano ansiosi di vedere mantenute le promesse. Gli operai che erano riusciti a difendere bene o
male il potere d’acquisto dei loro salari non per questo avevano accettato la guerra.
Così operai, braccianti e contadini entrarono in un’agitazione prolungata e vigorosa.
Gli obiettivi erano però diversi: operai e parte importante dei braccianti - che avevano ormai da
alcuni decenni nel PSI, nelle Camere del lavoro e nei sindacati i propri strumenti di organizzazione
e tutela - nella grande maggioranza erano esaltati dalla rivoluzione bolscevica in Russia e volevano
seguirne l’esempio, convinti che fosse finalmente giunta l’occasione di dare il potere al popolo,
abbattere il capitalismo, procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Per contro la
maggioranza dei proprietari di poca terra e dei contadini poveri mirava a ottenere terra.

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Nell'insieme, nel dopoguerra, si assistette a uno straordinario rafforzamento della pressione
esercitata, pur con diverse finalità, nei confronti della classe dirigente e dello Stato.
Gli anni 1919-20 passarono sotto il nome di biennio rosso in relazione al fatto che in quel periodo
il PSI, affascinato dal mito bolscevico, diede la propria impronta e il proprio avallo a un’eccezionale
ondata di conflitti politici, scioperi, tumulti, occupazioni di terre, continui attacchi alla proprietà
privata. Ciò che costoro non compresero era che la guerra aveva sì lasciato la borghesia in preda a
una grave crisi delle forze politiche, ma che essa era uscita dal conflitto molto rafforzata
economicamente, e disponeva di una potenziale grande capacità di reazione.

6.2 – La risposta alla crisi del mondo cattolico. La nascita del PPI
Il timore del radicale mutamento politico e sociale progettato dai socialisti indusse il Vaticano a
prendere una decisione storica. Consapevole della crisi in cui versava la classe dirigente liberale e
che, per far fronte ai socialisti, fosse necessario andare incontro alle esigenze in primo luogo dei
contadini, acconsentì alla formazione di un partito dei cattolici italiani - non però ufficialmente di
un “partito cattolico”, data la mancata conciliazione della Chiesa con lo Stato - che prese il nome di
Partito Popolare Italiano nel 1919, sotto la direzione di Don Luigi Sturzo. La nascita del partito
segnò una svolta nei rapporti non solo fra i cattolici e lo Stato, ma anche nei rapporti con i liberali,
andando a concludere quell’avvicinamento alla classe dirigente liberale iniziato nel periodo
giolittiano ma su basi diverse. Infatti, Sturzo, se condivideva l’intervento politico in funzione
antisocialista, pensava che i cattolici dovessero intraprendere un corso riformatore. Insomma, non
era più tempo per i cattolici di fare da spalla al liberalismo italiano, ma di presentarsi di fronte ai
liberali come una forza autonoma che rivendicava decisivi cambiamenti.
Nel loro programma, accanto alla difesa dei valori propriamente cattolici, i popolari chiedevano
riforme incisive come la protezione della piccola proprietà contadina; l’imposta progressiva; la fine
dello Stato centralistico dei liberali; e ponevano come obiettivo preminente la collaborazione fra
capitale e lavoro, secondo gli indirizzi e gli ideali propri del corporativismo cattolico.
Confluirono nel partito sia grandi proprietari terrieri, che vedevano nel popolarismo un'efficace
arma contro il socialismo, sia medi e piccoli borghesi che desideravano invece riforme che liberali
non erano in grado di assicurare, sia masse contadine che auspicavano la formazione di una più
robusta area di piccola e media proprietà, e anche una componente ridotta di operai. Il legame
comune era il cattolicesimo. Ciò nondimeno nelle intenzioni di Sturzo il partito non doveva essere
considerato formalmente cattolico e tantomeno clericale.
https://www.raiplay.it/video/2019/07/Passato-e-Presente-La-nascita-del-Partito-Popolare-Italiano-630ef255-972f-42c5-ae82-cb97187fd123.html

6.3 – Il PSI e l’ondata “massimalista” e bolscevizzante. L’ “Ordine nuovo”


Il maggiore partito di massa restava comunque il PSI. Accanto a esso stava la Cgl, i cui scritti
passarono da 250mila del 1918 a oltre 1,5 milioni nel 1919, fino a raggiungere i 2,3 milioni nel
1920. Il programma del partito del 1918 esprimeva la convinzione che in Italia fosse iniziata la fase
di trapasso dal capitalismo al socialismo da attuarsi mediante la dittatura di classe.
Al Congresso di Bologna del 1919 la direzione del partito cadde nelle mani dei “ massimalisti”, cioè
coloro che ritenevano fosse giunto il momento di fare come in Russia. Si affidò ai Consigli (Soviet)
delle masse lavoratrici il compito di agire come strumenti della violenta lotta di liberazione, e al
partito il ruolo di farsi l’animatore e la guida politica e rivoluzionaria dei Soviet. In realtà, la
maggioranza del partito, i riformisti come Turati e i dirigenti sindacali non credevano alla
rivoluzione ed erano decisamente favorevoli a seguire la via delle riforme.

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Inoltre, gli stessi fautori della rivoluzione erano divisi: accanto ai massimalisti vi era la corrente
comunista, costituita dal gruppo guidato da Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti - i quali
fondarono nel 1919 la rivista L’Ordine nuovo - che presero a criticare sempre più duramente la
maggioranza massimalista, accusandola di essere incapace di preparare il partito e le masse alla
concreta azione contro il capitalismo. I comunisti respingevano la stessa partecipazione alle
elezioni. I massimalisti insistevano sulla necessità di educare e organizzare le masse proletarie alla
rivoluzione organizzando i Consigli degli operai di fabbrica e dei contadini poveri, seguendo il
modello dei soviet.
Per Gramsci, allora ignaro del pensiero di Lenin sulla concezione del partito, il compito non era di
sovrapporsi autoritariamente all’iniziativa delle masse, ma di favorirne l’organizzazione e di
incanalarla. Spettava ai Consigli guidare la lotta di classe all’interno dei luoghi di produzione.

6.4 – La genesi del fascismo.


Nel pieno della crisi sociale e politica italiana si inserì l’azione dell’ex dirigente socialista Benito
Mussolini, che, già acceso interventista e diventato focoso antisocialista, nel marzo 1919 fondò a
Milano i Fasci di combattimento. Egli, dopo l'espulsione dal PSI andò elaborando un pensiero in
cui prevalevano le idee nazionalistiche, pur combinate con propositi di rinnovamento politico e
sociale. Nel dopoguerra, con l'intenzione di fare concorrenza ai socialisti, si preoccupò di dare sue
risposte alla richiesta di cambiamento del movimento operaio e contadino. Raccolse così intorno a
sé piccoli borghesi, ex combattenti di spiriti nazionalistici, antisocialisti, antiliberali, repubblicani,
ex arditi.
Il programma di Sansepolcro si basava su 4 istanze fondamentali: difesa delle ragioni della guerra
e dell'intervento; accusa alla classe dirigente liberale e la contemporanea richiesta di mutamenti
sociali e politici; avversione per il progetto rivoluzionario socialista, classista e antinazionale; un
ostentato spirito repubblicano venato di anticlericalismo. Una contaminazione di nazionalismo e di
rivendicazioni democratiche e sociali, che ben esprimeva le oscillazioni di strati in posizione
intermedia tra borghesia e proletariato. I fascisti chiarirono ben presto come il loro primo obiettivo
fosse attaccare i socialisti. In aprile del 1919 a Milano, durante uno sciopero generale, una colonna
di attivisti incendiò la sede dell’ Avanti!, azione di cui Mussolini se ne assunse tutte le
responsabilità.

6.5 – Le agitazioni sociali e la “scioperomania”. Le elezioni e la crisi del liberalismo.


Di fronte alla crisi che la società stava attraversando, la classe dirigente liberale si mostrava
incerta. Le elezioni del 1913 a suffragio maschile ne avevano già messo in rilievo la debolezza, sia
data dalla mancanza di una struttura moderna di partito e di un’ideologia che potesse far presa
sulle masse, sia dal fatto che agli occhi di operai, braccianti e contadini i liberali apparivano come i
tradizionali difensori degli interessi di classe degli industriali e degli agrari. Nel 1913 questi
avevano potuto mantenere le redini del governo grazie all’appoggio massiccio, ma ancora
subalterno, dei cattolici. Ma la fondazione del PPI cambiò completamente la scena.
Non era solo l’emergere dei partiti di massa e indebolire la classe dirigente liberale, ma anche
l’emergere della più vasta ondata di agitazioni economico-sociali: nel solo 1919 si ebbero 1663
scioperi dell’industria e 208 nell’agricoltura. Le agitazioni, che ottennero sostanziali successi in
materia di orari di lavoro e di condizioni salariali, provocarono la rabbiosa reazione dei proprietari,
i quali lo vissero come un aperto attentato al principio della libertà economica. Questi movimenti
proseguirono nel 1920, sotto la guida non solo dei socialisti, ma anche delle leghe organizzate dei
popolari di sinistra battezzate “leghe bianche”.
Si aggiunse la riconversione da un'economia di guerra a una di pace a creare grandi difficoltà
finanziarie e di occupazioni per quei settori che si erano espansi grazie l'aumento della domanda

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statale. I settori dell'industria in grado di attuare la riconversione senza grandi scossoni - come la
Fiat - si mostravano ancora favorevoli all’ordine istituzionale poggiante su governi liberali, la
siderurgia e l’industria pesante premevano per un indirizzo di governo più autoritario e impegnato
a mantenere elevata anche in tempo di pace la spesa pubblica per le forze armate. Inoltre, la
borghesia agraria centro-settentrionale e latifondisti meridionali chiedevano apertamente una
linea dura per contrastare I movimenti e le rivendicazioni dei braccianti e dei contadini. Tutti,
insomma, chiedevano che la classe politica al potere opponesse una salda diga alle classi popolari
che invocavano maggiore giustizia sociale inneggiando la rivoluzione contro il capitalismo.
Nel 1919 le elezioni, sotto il governo Nitti retto dai popolari, chiarirono i rapporti di forza maturati
tra i partiti, per le quali si approvò la nuova legge elettorale della rappresentanza proporzionale,
così favorendo i partiti di massa. Oltre la metà dei seggi andò ai due partiti di massa. Ormai
qualsiasi governo liberale non poteva più contare su una maggioranza autonoma. I socialisti, che,
in quanto primo singolo partito si sentivano trionfatori, videro nei risultati elettorali la conferma
che si avvicinava la loro ora.
Nel giugno 1920 Nitti si dimise e venne sostituito dal 5° governo Giolitti, con l’appoggio di una
maggioranza formata da liberali, democratici e popolari. Ancora una volta, Turati respinse l’invito.
Giolitti pensava di poter inaugurare un nuovo corso riformatore grazie alla sua abilità di mediatore
fra le forze politiche. Ma si illuse, poiché in realtà mancavano i presupposti necessari : non
disponeva di una sicura maggioranza; in quanto neutralista aveva l’ostilità implacabile degli ex
interventisti e dei nazionalisti; non poteva contare, all’interno delle file socialiste, sull’autorità di
un Turati ormai emarginato dalle correnti maggioritari; a capo dei cattolici c’era Sturzo, vecchio
avversario di Giolitti.
Egli, però, ottenne successi in politica estera: firmò il trattato di Rapallo, in base al quale all'Italia
era riconosciuto il confine della Venezia Giulia secondo quanto stabilito dal trattato di Londra e il
possesso di Zara, lasciando alla Jugoslavia la Dalmazia, mentre Fiume fu dichiarata Stato libero.
Giolitti si accinse con energia a far sgombrare D’Annunzio da Fiume; molti i suoi legionari
sarebbero poi confluiti nelle fiere fasciste.

6.6 – L’occupazione delle fabbriche. Il biennio nero: controffensiva fascista, la 2° guerra civile
Nel 1920 il biennio rosso maturò una situazione destinata a provocare un confronto durissimo tra
il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Avendo gli industriali rifiutato ogni
aumento salariale, la Fiom, il sindacato degli operai metallurgici, proclamò l’ostruzionismo, cioè il
rallentamento della produzione, e in seguito l’occupazione delle fabbriche in tutta la città.
L’occupazione si estese a Torino, al Piemonte, Liguria e altre zone d’Italia. Dinanzi all’imponenza
delle occupazioni (500.000 operai), si aprì nel PSI e nei sindacati un affannoso dibattito sul da farsi,
nel quale emerse il contrasto tra un’ala radicale che pensava fosse finalmente il preludio della
rivoluzione proletaria e un’ala contraria che temeva che ne sarebbe derivato solo il massacro del
popolo. Così i dirigenti del PSI e quelli della Cgl si confrontarono ma, non trovando un accordo, il
partito rinunciò a guidare il movimento. Emerse tutto il velleitarismo e l'inconsistenza del
massimalismo del PSI, che, mentre diffondeva il " fare come in Russia", non avendo alcuna capacità
di dirigere completamente verso la rivoluzione faceva al tempo stesso montare nella borghesia
una volontà contro-rivoluzionaria e inclinazioni autoritarie.
Giolitti agì con lucidità avendo compreso che lo sbocco rivoluzionario si sarebbe esaurito se non si
fosse fatto ricorso alla repressione militare e riuscì a disinnescare la mina. Senonché - per essersi
rifiutato di impiegare l'esercito, come industriale e conservatori chiedevano a gran voce e per aver
cercato e ottenuto infine un’intesa con i sindacati - vide ergersi una barriera contro di lui di aperta
ostilità da parte degli industriali, scandalizzati per quella che loro occhi era la mancata difesa delle
autorità dello Stato e dei diritti di proprietà. Quando vide che socialisti rinunciarono a dirigere una
rivoluzione si adoperò per raggiungere un accordo sulla base di un progetto di "controllo operaio"

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sulle aziende, approvato poi a grande maggioranza da un Congresso della Cgl e poi dagli operai
mediante un referendum. Ebbe così fine l’occupazione delle fabbriche.
Ma la presa di posizione degli industriali trasformò il successo ottenuto da Giolitti in una sconfitta
politica, segnando un divorzio che non sarebbe stato più superato tra la componente democratico-
riformista della classe dirigente e quella - avviata a diventare maggioritaria - favorevole a
imboccare la via della reazione sociale e dell’autoritarismo politico.
La conclusione dell’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo
alla linea politica di Giolitti; rappresentò un irrimediabile débâcle per il partito socialista; inasprì
ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese.

In conseguenza, avvenne una scissione interna al PSI: l'estrema sinistra, di indirizzo comunista e
diretta da Bordiga e Gramsci, considerò la condotta della maggioranza massimalista come la
dimostrazione di tutti gli equivoci e le debolezze del massimalismo, rivoluzionario a parole ma
incapace nei fatti. Nacque così, nel gennaio 1921, il Partito comunista d’Italia, convinto che nel
paese persistessero tutte le condizioni favorevoli alla rivoluzione.
https://www.raiplay.it/video/2018/05/Passato-e-Presente---GIOVANNI-GIOLITTI-lo-statista-3a4b32b3-1cd5-43f4-91c1-3f7524f2ac0a.html

Tra il 1920-21 fu soprattutto a partire dalle campagne che il fascismo si sviluppò e prese
rapidamente quota. Nelle aree tra Cremona, Ferrara, Bologna si mobilitarono gruppi di fascisti - i
cui esponenti erano Farinacci, Italo Balbo e Achille Grandi - aggredendo i socialisti e sindacalisti e
commettendo violenze contro le organizzazioni del movimento operaio. Lo squadrismo fascista si
diffuse rapidamente in tutta l’Italia centro-settentrionale. Ebbe in tal modo inizio la 2° guerra civile
nella storia dello stato unitario. Dal canto suo, la grande industria, allineandosi sulle posizioni dagli
agrari del Ferrarese, incominciò a considerare i fascisti un utile, persino necessario strumento da
contrapporre al movimento operaio e prese perciò a finanziarli in modo consistente.
L’ora del fascismo era davvero ormai suonata; i fasci iscritti si moltiplicarono rapidamente anche
tra le masse popolari. Gli scritti che nel 1920 erano circa 20.000, nel 1921 salirono a oltre 200.000,
con una percentuale di oltre 40% formata da lavoratori della terra e dell'industria. Nei soli primi 4
mesi del 1920 i morti superarono il centinaio, tra i quali 25 fascisti, 41 socialisti e 20 poliziotti.
Giolitti riteneva di potersi servire del fascismo come di uno strumento per reprimere l’estremismo
socialista, e di portarlo in un secondo tempo nell’alveo parlamentare, seguendo i canoni tipici del
trasformismo. Inoltre, sperava di coinvolgere non solo i popolari ma anche una componente dei
socialisti nella strategia guidata dei liberali. Ma il suo piano urtava anzitutto contro il fatto che egli
non disponeva più di un sufficiente consenso in primo luogo tra i liberali.
Il riflusso del movimento operaio dopo l'occupazione delle fabbriche e l'ascesa del fascismo
significò il passaggio dal biennio rosso del 1919-20 al biennio nero del 1921-22 nel corso del quale
l’evoluzione dell’antitesi avrebbe raggiunto il culmine provocando il crollo dello Stato liberale e
l’avvento della dittatura fascista. Dal canto suo Mussolini, resosi perfettamente conto che la
rivoluzione socialista in Italia era un mito ideologico che non aveva alcuna possibilità di
realizzazione, dopo aver offerto i suoi servigi alla classe operaia quando l'occupazione delle
fabbriche era al culmine, nel gennaio 1921 fece un’aperta professione di fede nei valori
“insostituibili” del capitalismo. D’altro canto, era del pari conscio della crisi in cui versavano i
liberali. Intanto la crisi economica andava aggravandosi; seguì una forte disoccupazione
accompagnata dalla decisa volontà degli industriali di puntare all’abbassamento dei salari. Il
timore della disoccupazione agì sulla classe operaia ormai sfiduciata; e il numero degli scioperi,
che aveva provocato in gran parte del Paese un senso di grande stanchezza e disagio, diminuì
drasticamente. In questo quadro la mediazione e le leggi fiscali che colpivano i grandi profitti
proposte da Giolitti erano sempre più sgradite ad industriali e agrari, i quali guardavano con aperta
simpatia Mussolini e le sue squadre.

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Sentendo traballare la sua maggioranza in parlamento, Giolitti fece sciogliere la Camera e indire
nuove elezioni nel 1921. Furono formati “blocchi nazionali” per far fronte ai due grandi partiti di
massa con l'intento di riassorbirli e condizionarli, Giolitti incluse i fascisti, che così ricevettero una
palese legittimazione politica da parte della classe dirigente liberale.
Eletto deputato, Mussolini nel suo primo discorso alla Camera non esitò a respingere il disegno
giolittiano di integrare il fascismo. Ai comunisti disse che con loro “non ci potrà essere che il
combattimento”; e ai socialisti di essere nemici della nazione. Ai popolari mostrò la mano tesa,
ma solo relativamente; soprattutto si preoccupò di trovare orecchie benevole in Vaticano. Assicurò
che il fascismo non era anticlericale. In tema di politica economica e sociale, con il chiaro intento di
ottenere la benevolenza alla borghesia, inneggiò al capitalismo e assicurò che i socialisti e
comunisti sarebbero stati debellati.
Il mese dopo, Giolitti presentò le dimissioni, dopo che la Camera gli diede una fiducia risicata.

 Capitolo 7 – L’avvento al potere del fascismo e crollo dello Stato liberale

7.1 – Bonapartismo e fascismo.


Nel distruggere il pluralismo partitico e le libertà politiche e civili, fascisti e nazisti seguirono le
orme della dittatura bolscevica in Russia. Già altri regimi, in primo luogo quello di Napoleone III e
quello di Bismarck, avevano realizzato forme di dominio basate sul monopolio dell’autorità
politica; ma non si escludeva che nella società restassero operanti una pluralità di indirizzi culturali
e organizzazioni anche partitiche e che queste mantenessero una loro agibilità, anche se con la
loro esclusione della direzione dello Stato. I fascismi hanno rappresentato un salto ulteriore;
hanno dato vita a regimi in cui ogni forma di opposizione politica e sociale veniva combattuta,
stroncata e messa fuori legge. Un monopolio politico realizzato attraverso l’abolizione del
pluralismo ideologico, politico e partitico e lo stretto rapporto fra gli apparati statali e le
organizzazioni del partito unico al potere. Di qui il carattere dittatoriale totalitario. Al fine di
consolidare il monopolio politico non bastava procedere alla centralizzazione dell'autorità. Si
rendeva necessario creare una forza organizzata composta oltre che dal partito da una milizia
armata, e dotarla di un'ideologia in grado di arrivare all’asservimento dello Stato.

7.2 – La marcia su Roma e il primo governo Mussolini.


Il movimento di Mussolini - che si trasformò in Partito Nazionale Fascista - nel corso del 1921
andò depurandosi dei toni radicaleggianti delle origini (programma del 1919) e ormai si presentava
con una nuova forza affidabile ad agrari ed industriali. Egli si preoccupò innanzitutto di stabilire
migliori rapporti con il Vaticano e la monarchia , rendendosi conto che il fascismo non avrebbe
potuto diventare forza di governo senza il benestare non solo della borghesia ma anche della
Chiesa e del sovrano, dietro cui stava l’esercito. Dichiarando che il fascismo di fronte “alle forme
delle singole istituzioni politiche era subordinato agli interessi morali e
materiali della nazione”, adombrava nei confronti del Parlamento e della monarchia una
larvata minaccia; un avvertimento rivolto in particolare al re e quindi un invito a non contrapporre
la monarchia al fascismo e anzi a legare le loro sorti.
L'unica possibilità di formare un governo dotato dell'autorità sufficiente per affrontare il fascismo
dipendeva dall'intesa tra i due partiti di massa, socialista e popolare. Ma si trattava di un'ipotesi

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astratta date le insuperabili divergenze tra le parti, nessuna delle quali aveva ancora compreso
tutta la forza dinamica di un fascismo ormai appoggiato da industriali, agrari e apparati dello Stato.
Popolari e socialisti restavano con lo sguardo fisso alla conta dei numeri in sede elettorali, sempre
in preda alla convinzione che, nonostante tutte le difficoltà, l’epoca presente restasse quella che
avrebbe visto il trionfo della rivoluzione sociale. Agli inizi del 1922 cadde il governo Bonomi; una
candidatura Giolitti venne bloccata dall’opposizione del leader del PPI (il “veto Sturzo”). Si
susseguirono una serie di tentativi e infine - sulla base di un’intesa tra liberali, democratici e
popolari - venne creato il governo Facta. Si trattava dell’ultimo atto di una classe politica esausta. I
deputati, tra cui fascisti e nazionalisti, votarono a maggioranza la fiducia.
Intanto il fascismo aveva ripreso in pieno la sua aggressività. Il 1 maggio fu occasione di una serie
di attacchi contro i comizi socialisti che celebravano la festa del lavoro. Tra maggio e luglio vennero
occupati municipi, assaltate le sedi socialiste e sindacali e le abitazioni di esponenti politici
socialisti repubblicani e popolari. La debolezza con cui Facta affrontava il dilagare delle violenze
fasciste provocò un voto di sfiducia al governo, che cadde. Ricominciò il balletto degli incarichi;
Giolitti, sfiduciato, si tirò indietro. I comunisti erano più che mai contrari a un’intesa Turati-Sturzo.
Il re in mancanza di alternative incaricò un 2° governo Facta.

Essendo palese la debolezza e inconsistenza di Facta, Giolitti, secondo la solita strategia, aveva
iniziato trattative in varie direzioni, specie con il PPI e con i fascisti; ma incontrò ancora una volta il
veto di Sturzo e la contrarietà della Chiesa. Mussolini spinse in un binario morto le trattative con
Giolitti, e pochi giorni dopo diede inizio i preparativi per scendere a Roma con le sue milizie. Per lui
la posta era ormai la presa del potere e la formazione di un governo di cui egli fosse il capo. Per
procurarsi il consenso delle classi alte e del re dichiarò che i fascisti avrebbero appoggiato una
monarchia forte. I sempre più stringenti contatti del fascismo con gli ambienti di corte e i vertici
militari vennero favoriti da influenti settori della massoneria.
Forti di un'estesa organizzazione paramilitare, 40.000 camice nere si concentrarono a Napoli. Qui
Mussolini affermò che il problema politico in Italia si poneva a quel punto come "un problema
di forza", e che la monarchia non aveva ragione di opporsi al fascismo, poiché “il Parlamento
non ha niente a che vedere con l’istituto monarchico”. I fascisti, il cui armamento era
raffazzonato, non avevano certo una forza sufficiente a sostenere un eventuale scontro con
l'esercito. Mussolini era ben consapevole; ma sperava, a ragione, che l'impotenza della classe
dirigente liberale e la simpatia degli imprenditori e degli ambienti di corte verso il fascismo
agissero su Vittorio Emanuele III.
Il 26 ottobre “l’esercito delle camicie nere” fu chiamato alla mobilitazione su Roma. L'azione delle
squadre iniziò il 27 con l'occupazione di prefetture, uffici postali, reti telefoniche, mentre il
governo impartì disposizioni all'esercito al fine di salvaguardare l'ordine pubblico. Il re in un primo
tempo parve orientato verso la proclamazione dello stato di assedio; ma, dopo aver inviato a Facta
un telegramma in cui diceva che “occorreva associare il fascismo al governo nelle vie
legali per evitare scosse pericolose”, il 29 informò Mussolini della sua disponibilità ad
affidargli la guida del governo.
Il governo Mussolini presentava una precisa analogia con l’intervento in guerra nel 1915 : entrambi
videro il re assumere l’iniziativa esprimendo solo una minoranza del paese; entrambi mostrarono
l’impotenza delle forze di maggioranza, irrimediabilmente divise tra loro.
Inoltre, tra i liberali prevaleva la convinzione che fosse positivo che il Paese passasse attraverso un
temporaneo “esperimento fascista” per ridare autorità allo Stato e ristabilire le condizioni per il
ritorno alla preminenza liberale. Tutti non erano in grado di valutare le implicazioni di tre essenziali
dati di fatto: il fascismo era guidato dalla più forte personalità politica apparsa dopo Crispi e

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Giolitti; esso era l’unico soggetto politico a disporre di una propria forza militare ed era
estremamente rafforzato da un solido rapporto con la grande borghesia, con il monarca e i vertici
militari; che dunque, se non della maggioranza quantitativa, disponeva della maggioranza
qualitativa.
Nel chiedere alla Camera la fiducia al governo, Mussolini dichiarò che il governo era stato formato
“al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento. Potevo fare
di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il
Parlamento e costruire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non
ho, almeno in questo primo tempo, voluto.” Nello stesso giorno presentò un progetto di
legge per limitare i poteri del Parlamento e attribuire al governo pieni poteri in varie materie.

7.3 – Il monopolio politico. Le elezioni del 1924 e la crisi Matteotti. La disfatta delle
opposizioni.
Giunto al potere, tra 1922-26 il fascismo, pur disponendo del controllo degli apparati dello Stato,
non aveva ancora la solidità a cui aspirava: fino a che permanessero istituzioni parlamentari, il
nuovo governo doveva passare attraverso la fiducia della maggioranza. In quel periodo, così,
perseguì con successo una linea volta a liquidare le istituzioni liberali, la pluralità dei partiti, la
libertà di organizzazione sindacale: l'esito fu la costituzione di un regime antiparlamentare e
antidemocratico, fondato sul partito unico  lo Stato venne fascistizzato.
Come già nel 1921-22, anche in questi anni, liberali e popolari, salvo deboli minoranze, non vollero
opporsi al fascismo, mentre socialisti e comunisti lo fecero ma senza alcun successo.

Una volta al governo, Mussolini lasciò intendere di voler avviare la “normalizzazione del fascismo”,
facendo intravedere la fine delle violenze sistematiche. Sennonché le squadre fasciste
continuarono a colpire. A fine del 1922 fu costituito il Gran consiglio del fascismo, organo di
suprema direzione politica del partito e delle sue organizzazioni sindacali e cooperative, e
l’inquadramento delle forze paramilitari fasciste nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale
(Mvsn), un’organizzazione non statale ma di partito, posta alle dipendenze personale di Mussolini.
Il fatto che il partito al governo disponesse di un "governo ombra" come il Gran consiglio e di
un'organizzazione armata, che a differenza dell'esercito non prestava giuramento di fedeltà al re,
costituiva un'alterazione clamorosa delle istituzioni.
Dopo essere stato un miscuglio fra reazione e radicalismo democratico, dopo aver agito come
strumento antioperaio e antipopolare al servizio di agrari e industriali, il fascismo si dava ora una
piattaforma nettamente di destra grazie alla fusione tra PNF e ANI, 1923. Infatti, il nazionalismo
diede al fascismo una teoria politica più stabile e coerente che si richiamava al principio
monarchico, all’assoluto primato dello Stato, al corporativismo e all’imperialismo.
Mussolini si preoccupò di stringere i migliori rapporti con il Vaticano . A questo fine venne
approvata la riforma Gentile, sempre nel 1923, che avrebbe posto fine alla scuola laica, dando
nuovo grande peso all'insegnamento della dottrina cristiana. Dietro pressioni del Vaticano, Sturzo
si dimise dalla segreteria del PPI. Era chiaro che fascismo e Vaticano cercavano un’intesa senza la
fastidiosa mediazione del PPI.
Intanto proseguirono gli atti di violenza: arrestati Gobetti e Bordiga e altri 100 dirigenti, mentre
altri ripararono all’estero. L’abitazione di Nitti fu assaltata e devastata e il deputato democratico
Amendola fu vittima di una bastonatura. Le sedi di numerosi giornali, soprattutto socialisti e
comunisti, furono devastate e costrette a sospendere le pubblicazioni.
La conclusione del piano fascista di sanzionare in Parlamento la propria posizione di forza arrivò
con la nuova legge elettorale, legge Acerbo, del 1923, approvata dalla maggioranza dei liberali

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(tra cui Giolitti). La legge stabiliva che la lista di maggioranza relativa, che avesse raggiunto anche
solo il 25%, avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi alla Camera. Alle fissate elezioni per il 1924 si
presentò, come espressione del governo e dei suoi alleati, un “listone”, sotto il diretto controllo
del Gran consiglio e di Mussolini, cui aderì la maggioranza dei liberali. La minoranza liberale, con
Giolitti, presentò proprie liste. La campagna elettorale si svolse in un clima di violenze e
intimidazioni contro tutte le opposizioni, ma specialmente contro le sinistre. I fascisti e i loro alleati
ottennero il 65%.
Quando la Camera fu chiamata a ratificare la convalida delle elezioni, il socialista Giacomo
Matteotti levò la sua voce di protesta facendo la cronistoria delle violenze fasciste contro gli
oppositori durante la campagna elettorale e chiedendo l’annullamento in blocco delle elezioni. Il
discorso fu la sua sentenza di morte: venne rapito e quindi assassinato da sicari fascisti. La
reazione nel paese fu enorme; anche ampi settori della borghesia e della piccola borghesia, che
avevano sostenuto il fascismo, furono disorientati, ritenendo che si fosse superato il limite.
Quattro ministri si dimisero. Mussolini in un primo tempo si proclamò del tutto estraneo
promettendo che i colpevoli sarebbero stati individuati e puniti. Ma le opposizioni non seppero
andare oltre la condanna politica e morale; il che confermò nei fascisti la fiducia nella maniera
forte. Comunisti, liberali, democratici, socialisti riformisti e massimalisti, popolari e repubblicani
costituirono un comitato unitario, nel quale però la proposta di Gramsci di proclamare lo sciopero
generale venne respinta per paura che un’azione di massa contro il fascismo potesse provocare un
salto nel buio. I deputati che aderirono al comitato unitario decisero di non partecipare più ai
lavori della Camera ritirandosi (secessione dell’Aventino). Sturzo lasciò l’Italia. Il Parlamento
venne riaperto e la Camera, in assenza degli aventiniani, votò la fiducia Mussolini e stragrande
maggioranza. A gennaio 1925 Mussolini chiuse la questione assumendo alla Camera la
responsabilità per il delitto Matteotti.

7.4 – Le leggi “fascistissime”, fine dello Stato liberale e avvento della dittatura.
Mussolini lanciò un messaggio rassicurante al mondo dell’economia e alla monarchia chiamando a
far parte dell’esecutivo uomini di matrice nazionalista come Federzoni, Alfredo Rocco e Badoglio.
Nel 1925, Tito Zaniboni, deputato socialista, venne arrestato dalla polizia per aver progettato un
attentato a Mussolini. Per rappresaglia il PSU venne sciolto e numerosi giornali sottoposti a
sequestro. Nel 1926 un'anziana signora irlandese ferì in modo lieve con un colpo di rivoltella
mussolini; nello stesso anno un anarchico lanciò invano una bomba contro la sua auto; e ancora,
un altro anarchico, sparò al duce senza colpirlo. Questi attentati furono sfruttati dal fascismo per
completare una legislazione destinata a porre fine di quanto rimaneva delle istituzioni liberali.
Fornirono il pretesto per sciogliere tutti i partiti di opposizione : fu istituito il confino di polizia in
località particolari per gli oppositori mentre gli esuli furono soggetti alla confisca di beni e perdita
della cittadinanza. La trasformazione fu realizzata per mezzo di una serie di leggi “fascistissime”.
Inoltre si provvide a esautorare definitivamente la Cgl. Le corporazioni nazionali, cioè i sindacati
fascisti, furono riconosciuti da Confindustria come le uniche rappresentanze dei lavoratori; e
quest’ultima si proclamò ufficialmente organizzazione “fascista”.
Di eccezionale rilievo fu la legge che modificò lo statuto del 1848: stabilendo che il potere
esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo; che la figura del Presidente il consiglio
muta in Capo del governo; che questi era nominato dal re e poteva essere revocato solo da lui; che
a loro volta i ministri venivano nominati e revocati su proposta del Capo del governo ed erano
responsabili unicamente verso il re e il Capo del governo; che nessun oggetto può essere messo
all'ordine del giorno di una delle due camere, senza l'adesione del Capo del governo. Tutto ciò
comportò un enorme rafforzamento del potere esecutivo e l'esautoramento del Parlamento,
ridotto a cassa di risonanza del Capo del governo, ormai vestito da dittatore. A liquidare la libertà

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di stampa provvide una legge che negò l’esercizio della professione giornalistica all’iscrizione a un
albo professionale nazionale: giornali liberali come il Corriere e la Stampa furono costretti a
cambiare linea; la residua stampa di opposizione fu oggetto di sistematiche misure vessatorie. Fu
poi arrestato Gramsci ed espatriati i socialisti Treves, Saragat, Nenni e Turati.
Con la legge del 26 - cui fece seguito la costituzione di una speciale polizia politica,
l'Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell'antifascismo (Ovra) - il fascismo si era reso
padrone assoluto dello Stato. Mussolini, non essendovi più forza alcuna in grado di opporsi al
regime, ritenne necessario e opportuno attuare una politica di consolidamento, chiudendo la fase
in cui era stato dato grande spazio all’azione delle squadre. Mussolini dichiarò lo squadrismo
anacronistico nel 1927. Questa linea riuscì molto gradita alle classi dirigenti del paese e alla
monarchia.
Nasceva così la categoria del totalitarismo per qualificare questa dittatura di tipo nuovo, anche se
già anticipata nei suoi aspetti sostanziali della dittatura sovietica. Il termine totalitario, elaborato
prima dagli antifascisti con un'accezione palesemente negativa, nel 1925-26 viene fatto proprio
con significato positivo dai fascisti per esaltare il loro intento di compattare l’intera società
avviandola verso la rinascita nazionale.

 Capitolo 8 – Caratteristiche del regime e natura del totalitarismo fascista

8.1 – Fascismo italiano, forma debole e incompiuta di totalitarismo


Mussolini, a differenza di Stalin ed Hitler, dovette condividere le massime cariche con il re, nelle
cui mani restava la facoltà di ritirare la fiducia al capo del governo (diarchia), un elemento assai
importante di debolezza. Inoltre, dovette condividere il monopolio ideologico con la Chiesa, la
quale in prima persona esercitava una vasta influenza sulle masse, sulla classe dirigente del Paese
e sui quadri alti e medi del fascismo. Inoltre, di estrema importanza fu che venne conservato
nell’amministrazione il personale formatosi durante i governi liberali. Infine, nonostante si
adeguarono in alcuni momenti all’incisivo intervento dello Stato nell’industria e nella finanza, le
élites economiche italiane continuarono a godere di un’autonomia impensabile in Germania . Gli
ostacoli sopraindicati impedirono al fascismo di trasformare l’Italia in uno stato completamente
totalitario; sicché quello fascista fu un “totalitarismo incompiuto”.

8.2 – Il carattere “razionale” del culto del capo


Al vertice dei sistemi fascisti stava il “capo”, dotato dell’attributo dell’infallibilità. In quanto
creatori dei valori fascisti, questi costituivano la fonte e l'incarnazione vivente del "vero" e del
"giusto" e le uniche personalità dotate dell'autorità per assicurare all'interno dei propri partiti
l'amalgama necessario delle diverse componenti in essi confluite. Un simile rapporto rendeva
inevitabile propagandare in modo incessante - all’interno e all’esterno - il dovere di fedeltà
assoluta verso il capo, alimentando uno sfrenato “culto della personalità”. Elevando la
compattezza nazionale a scopo supremo dello Stato, questi crearono le condizioni più favorevoli

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per lo sviluppo dell’imperialismo italiano e tedesco. Di cui la loro volontà di preparare una nuova
guerra che mutasse radicalmente L’Europa; di qui l’esaltazione del militarismo e dell’imperialismo.

8.3 – I diversi fondamenti: lo Stato nazionale e la comunità razziale. Differenze tra i due
regimi
Il fascismo italiano fin dalle sue origini ebbe una componente repubblicana e una monarchica.
Quella repubblicana permase all'interno del fascismo, seppure emarginata, fino a prevalere
quando la monarchia nel 1943 avrebbe divorziato dal fascismo. Inoltre il fascismo delle origini
ebbe un’ala irreligiosa è un’altra cattolica. Anche qui, Mussolini, che fu un deciso anticlericale,
mutò atteggiamento alleandosi con la Chiesa, per cui la massa dei fascisti sentì naturale essere sia
fascista che cattolica. Infine, il fascismo era “statalista” e individuava nel carattere “etico” dello
Stato la forma unificante della nazione, senza fare appello prima del 38 a fattori di natura
biologico-razziali.
Le radici ideologiche del nazismo affondavano nella dottrina della superiorità biologica della razza
ariana e nell’antisemitismo; il fascismo diventò razzista tardivamente per effetto della guerra
d’Etiopia e antisemita per imitazione e cedimento al nazismo. Inoltre, il nazismo, salito al potere in
una Repubblica, non ebbe mai il problema di rapporti con centri di potere quali la monarchia e il
Vaticano. Infine, il totalitarismo nazista si espresse anche nel tentativo di creare una “moralità” e
una “religiosità” nazista autonomi e opposte rispetto ai valori tradizionali del cristianesimo.
Il nazismo aveva un nucleo biologico: il culto della purezza del sangue ariano; mentre nel fascismo
il nucleo era politico: il culto dello Stato e della nazione e la fedeltà politica.
Di grande importanza il fatto che il nazismo si affermò in un paese industriale molto più solido di
quello italiano. Il permeare in Italia di vaste zone di grave arretratezza economica e culturale nel
Mezzogiorno rendeva assai problematico l’inquadramento politico di milioni di contadini ancora
analfabeti o semianalfabeti, rimasti sensibili alla voce del clero o delle oligarchie locali. Le
campagne arretrate poterono essere sì oggetto di controllo, ma non terreno fertile per un efficace
indottrinamento politico. In Germania l’intera società fu sottoposta a un processo di integrazione
ideologica rapida e profonda, che ottenne dalla grande maggioranza un’adesione entusiastica.
 Capitolo 9 – Dalla dittatura alla vigilia della seconda guerra mondiale

9.1 – Lo Stato fascista e le sue istituzioni.


Con l’accantonamento dello squadrismo e la “normalizzazione” inaugurata da Mussolini,
l'amministrazione pubblica venne epurata da tutti gli elementi i cui orientamenti fossero in
contrasto col regime; oltre 100 magistrati espulsi tra 1923-26. Da allora in avanti lo zelo fascista
diventò una qualifica necessaria per fare carriera nel settore pubblico. Un processo di capillare
fascistizzazione subì la scuola: fu imposto il giuramento di fedeltà al regime agli insegnanti
elementari, scuole medie, e in seguito anche professori di università (Togliatti, Croce e Pio XI, per
non privare l’università di validi insegnanti, esortarono i professori a giurare). Nel 1932 i candidati
ai concorsi pubblici, tra cui quelli per entrare in magistratura, furono tenuti all’iscrizione al PNF.
Nel 1926 incominciò l’inquadramento sistematico dei bambini, dei ragazzi e dei giovani dei due
sessi - i maschi ricevevano un’educazione di carattere premilitare - nelle organizzazioni di regime
con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla.
Nel 1928, elaborata da Alfredo Rocco, la legge sulla rappresentanza politica: i candidati alla
Camera sarebbero stati scelti dal Gran consiglio, il quale avrebbero fatto una lista unica nazionale
presentata gli elettori per l’approvazione in blocco. Gli elettori avrebbero potuto rispondere solo Sì
o No. Giolitti, seguito da Croce e Einaudi, votò contro. Egli morì poco dopo. Le elezioni diventarono
un semplice plebiscito a favore del governo. E infatti, alle elezioni del 1929, la lista unica venne
approvata con il 98,4%. La nuova Camera fu esautorata dei suoi compiti precedenti, i quali

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vennero attribuiti al Gran consiglio, il quale a sua volta si trasformò da organo di partito in
“Organo supremo che coordina e integra tutte le attività del regime”. A
quest’ultimo spettava poi di esprimere il proprio parere sulla successione al trono, sulle
prerogative del Capo del governo, sul funzionamento di Camera e Senato, sulla politica
internazionale. La macchina della dittatura assunse la sua fisionomia definitiva.

9.2 – La conciliazione fra Stato e Chiesa. Il conflitto del 1931 sull’educazione giovanile
Il risultato plebiscitario alle elezioni era stato ottenuto anche grazie all’invito della Chiesa a votare
sì; invito che suggellava lo storico accordo poco prima raggiunto. Infatti, a febbraio 1929 Mussolini
e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. Questi: un trattato, una convenzione
finanziaria e un concordato. I punti centrali del trattato erano: riconoscimento che la religione
cattolica è la sola religione dello Stato; riconoscimento da parte dello Stato italiano di uno Stato
della città del Vaticano pienamente sovrano indipendente e da parte vaticana del regno d’Italia e
di Roma sua capitale. La convenzione finanziaria stabiliva il pagamento di 1.750.000.000 di lire a
estinzione della perdita subita dal Vaticano dei proventi dell’ex Stato pontificio. Il concordato
regolava gli interessi dello Stato della Chiesa in uno spirito di reciproche concessioni e di mutuo
appoggio. Il carattere laico dello Stato uscito dal Risorgimento veniva cancellato e si realizzava il
proposito di Mussolini di fare del cattolicesimo un pilastro essenziale dell’ordine politico.
Dopo di allora Mussolini diventò gli occhi degli italiani “l’uomo della Provvidenza”.
Il concordato non comportò però l’appianamento di ogni problema; restava stabilire a chi
spettasse educazione giovanile. Pio XI sosteneva che “la missione dell’educazione spetta
innanzitutto alla Chiesa e alla famiglia”; il dittatore dichiarò che era “compito dello
Stato provvedere all’educazione dei giovani e a quella totalitaria dei cittadini”.
Chiesa e fascismo entrarono in conflitto nel corso del 1931 in relazione al ruolo svolto dall’ Azione
cattolica, accusata di perseguire finalità politiche. L'oggetto primario della contesa erano sempre la
gioventù e la sua educazione. Lo scontro toccò l'apice con violenze contro le sedi dei giovani e
degli universitari cattolici; ma si arrivò a un accordo secondo cui l'Azione cattolica rimaneva in vita,
ma si impegnava a limitare la propria attività nell’ambito religioso.

9.3 – L’ordine corporativo. La ricerca di una Terza via fra capitalismo e collettivismo
sovietico.
Dopo il divieto nel 1926 imposto ai lavoratori di scioperare e agli imprenditori di ricorrere alla
serrata, con una legge concepita da Rocco vennero delineata la ristrutturazione "corporativa" dei
rapporti fra capitale e lavoro. Questa stabiliva che le organizzazioni di datori di lavoro e di
lavoratori facessero capo a organismi statali superiori, le corporazioni, il cui compito sarebbe stato
di coordinare i vari settori della produzione, dando loro una disciplina ispirata al superiore
interesse nazionale. Ormai privata di ogni possibilità di azione la Cgl si autosciolse nel 1927.
Dopo che la crisi del 29 aveva investito anche l’Italia, Mussolini presentò il corporativismo come
una “terza via” fra il capitalismo e il collettivismo sovietico . Il risultato non fu il controllo sociale
sulle imprese, ma un’ulteriore concentrazione capitalistica favorita dallo Stato. In sostanza, il
corporativismo fu lo strumento con cui l'Italia imboccò la strada dell'intervento pubblico
nell'economia e nei rapporti di lavoro, in un quadro di sostegno statale al capitalismo
monopolistico.

9.4 – L’economia fascista. Capitalismo di Stato e autarchia. Il mito della potenza demografica
Nei primi anni il fascismo aveva dato alla politica economica con indirizzo liberistico: libero corso
all'iniziativa privata. La quasi scomparsa delle agitazioni sociali a fine 1922 e la tendenza alla

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diminuzione dei salari contribuirono all’aumento della produzione e dei profitti, in un quadro di
slancio dell’economia mondiale. Ma si prefiguravano due punti deboli: in conseguenza alle leggi
restrittive sull’immigrazione degli USA, l’emigrazione, che tradizionalmente costituì una valvola di
sfogo, era quasi cessata; dall’altro l’incremento della produzione avveniva in presenza di un
disavanzo crescente tra le importazioni e le esportazioni, provocando un forte rialzo dei prezzi, un
rapido processo di inflazione. A partire dal 1925 - con Volpi alle Finanze - il fascismo inaugurò una
linea di deciso “interventismo” statalista, sulla base dello sfruttamento delle risorse interne.
La crisi del 1929 portò la produzione a diminuire considerevolmente e di conseguenza una drastica
riduzione subì anche il commercio con l’estero. Iniziò una progressiva riduzione dei salari e una
crescente disoccupazione che portarono a una diminuzione del reddito nazionale. In Italia, come
altrove, la depressione favorì l’ulteriore concentrazione delle imprese; ma, a differenza di altri
paesi, in Italia essa conquistò caratteri speculativi e parassitari, per via degli accordi fra le grandi
imprese per il controllo dei prezzi e la spartizione del mercato interno, appoggiati dalle autorità ,
che nel 1933 vararono una legge che rafforzava e istituzionalizzava il potere dei monopoli,
vietando il sorgere di nuovi impianti senza l’approvazione del governo. Per alleviare la
disoccupazione si misero in cantiere impegnativi programmi di lavori pubblici: la rete stradale;
l’acquedotto pugliese; le ferrovie; la bonifica delle paludi.
Nel 1936 Mussolini inaugurò una politica economica autarchica, basata sulla produzione di tutta
una serie di beni fino ad allora importati, ricorrendo lo sfruttamento delle risorse interne
disponibili. Avvenne dopo che il regime, lanciato alla conquista dell’Etiopia, venne sanzionato dalla
Società delle nazioni con il divieto di esportazione in Italia e il boicottaggio dei prodotti italiani .
Data la grande carenza di materie prime dell'Italia, lo Stato ordinò lo sfruttamento intensivo del
poco esistente nel paese, indipendentemente dai costi di estrazione. Il povero sottosuolo
nazionale venne spremuto, anche se i costi di produzione erano del tutto antieconomici.
L’autarchia rispondeva alla volontà di rendere indipendente il Paese in particolare nel settore
militare; ma si trattava di un’illusione.
Nonostante le insufficienti risorse economiche, il popolo italiano venne nondimeno esortato a
crescere e moltiplicarsi, in base alla teoria che il numero è la base della potenza militare, in
un’epoca in cui gli eserciti si fondavano sulle macchine e sulla tecnologia. Al tempo stesso
rispondeva alla volontà colonizzatrice, in un’epoca in cui anche la GB passava dal colonialismo al
Commonwealth. Per sostenere tale politica demografica fu stabilita un’imposta sui celibi dai 25 ai
65 anni e furono premiate le famiglie numerose e concesse loro agevolazioni economiche; ai padri
di famiglia fu segnata la priorità nei posti di lavoro.

9.5 – L’organizzazione della cultura e la ricerca del consenso


Come inevitabile, la dittatura osteggiava decisamente la libertà di espressione ideologica e
culturale attraverso la censura e il rigido controllo. Va detto che il regime condusse la battaglia per
il predominio culturale lasciando margini di tolleranza impensabili in Germania o nell’URSS, purché
si accettasse il patto non scritto di manifestare il proprio pensiero in chiave esplicitamente politica.
Esempio significativo è la libertà di espressione concessa a Croce e Einaudi, esponenti del pensiero
liberale che tramite le case editrici Laterza e Einaudi, poterono esercitare una qualificante
influenza. Anche a Gramsci fu concesso di disporre in carcere di un ricco materiale bibliografico e
di scrivere i suoi Quaderni del carcere. Il regime dal canto suo poteva contare sull’opera di vari
intellettuali fascisti di valore, tre quali spiccavano il filosofo Gentile, lo storico Volpe, e il giurista
Rocco; I maggiori architetti della cultura fascista in campo umanistica. La maggior impresa
culturale del fascismo fu l’Enciclopedia italiana progettata nel 1925 con il contributo finanziario
dell’industriale Giovanni Treccani. Essenziale era fornire ai giovani e all’opinione pubblica una

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narrazione centrata sulla tesi che il fascismo rappresentasse lo sbocco positivo della storia
nazionale.
In Italia i quotidiani raggiungevano pressoché unicamente i ceti alti e medi. Per questo, per far
colloquiare direttamente il regime con la massa popolare, acquistò la massima importanza il
ricorso alla radio e al cinema, veicoli anzitutto della voce del Duce. Vennero così varate leggi per
favorire lo sviluppo di questi settori; nel 1924 prese vita l’Istituto Luce. Anche pittura e scultura
portarono i segni della fascistizzaazione; si sviluppò la pittura murale, dove il volto di Mussolini,
esprimente mascolinità fisica e imperiosità spirituale, invase i muri d'Italia. Inoltre nelle facciate
delle nuove costruzioni vennero impresse le date della nuova era accompagnate dai fasci littori.

9.6 – Gli oppositori del fascismo


In Italia ogni opposizione al fascismo era diventata dopo il 1926 un delitto contro lo Stato. L’virano
però le ricordate eccezioni di eminenti personalità come croce ed Einaudi, anche se la loro era una
posizione culturale e intellettuale. L’eccezione, però, conferma la regola: Gaetano Salvemini, uno
dei più tenaci antifascisti della prima ora, venne privato della cittadinanza e i suoi beni furono
sequestrati. Egli fu il primo grande storico antifascista del fascismo. Fra coloro che emigrarono vi
furono numerose eminenti personalità della politica : Nitti; Sturzo; Gobetti; Amendola; Treves;
Saragat; Nenni; Turati; Togliatti; e l’arresto di Gramsci.
Nel 1927 sorse in Francia, per iniziativa dei partiti socialisti, quello repubblicano e la Cgl, la
Concentrazione d’azione antifascista, che però non riuscì a operare concretamente in Italia per
mancanza di un’organizzazione clandestina, e quindi la sua attività principale fu la propaganda
contro il regime. Sennonché l’attività della Concentrazione, snobbata dei comunisti, non
soddisfaceva neppure emigrati come Rosselli, Lussu e Nitti; essi, infatti, fondarono a Parigi nel
1929 il movimento Giustizia e libertà, che intendeva darsi una propria fisionomia. Gl indicò la
strada di un socialismo che fosse non di meno rivoluzionario e capace di coniugare un'avanzata
democrazia e le libertà politiche e civili proprio del liberalismo con la giustizia sociale del
socialismo; mirava insomma a costruire una “terza via” tra fascismo e comunismo. Inoltre
sosteneva l’urgenza di una lotta immediata al fascismo da condurre in Italia mediante gruppi
clandestini.
Molto più organizzata ed estesa fu l'azione antifascista del Partito comunista, frutto non solo della
determinazione dei singoli militanti, ma anche del legame con l'Internazionale comunista e con
l'Urss ed il sostegno anche economico da essere fornito. Nell’errata persistenza a considerare
ancora attuale la prospettiva rivoluzionaria, l’idea era di dare vita alla guerra civile per la conquista
del potere politico. Una volta entrate in vigore le fascistissime, i comunisti entrarono nella
clandestinità; e dall'estero, specie da Parigi, presero a tessere la rete dei propri gruppi interni. In
base alle direttive della Terza Internazionale, in ogni paese ci fu la formazione di fronti popolari
con la partecipazione di tutti i partiti antifascisti: In Italia il Patto di unità d’azione venne firmato
nel 1934 tra PCI e PSI e, e trovò un iniziale importante comune agitazione contro l’aggressione
italiana all’Etiopia.
9.7 – Le leggi razziali e il rinnovarsi del conflitto con la Chiesa nel 1938
In Germania, con le leggi di Norimberga del 1935, gli ebrei vennero ridotti a razze inferiore. Dopo
un discorso di Hitler che denunciava il pericolo del bolscevismo ebraico, nel 1938 si alzò un’ondata
di violenze contro gli ebrei e i loro averi, culminata nella “notte dei cristalli”.
Nello stesso anno in Italia il regime fascista emanò a sua volta le leggi razziali. Mussolini stesso
non aveva mancato in passato di bollare con toni sprezzanti il razzismo nazista; è pur vero, però,
che fin dei primi anni 20 erano esistite nel seno del fascismo correnti antisemite. La spinta decisiva
verso il razzismo come componente ufficiale dell’ideologia della politica del regime venne sia dalle
implicazioni della sempre più stretta alleanza tra i due regimi totalitari, sia dal regime coloniale: si
stabilì così il divieto per gli ebrei stranieri di risiedere in Italia e nelle colonie; il licenziamento di

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insegnanti ebrei; l’espulsione degli alunni ebrei; il divieto ai matrimoni misti; l’allontanamento da
ogni carica pubblica; limitazioni nel campo della proprietà.
La campagna razziale suscitò le proteste di Pio XI. Eppure la Chiesa e il mondo cattolico avevano
accolto senza reagire, e persino con favore, le norme rivolte impedire la “contaminazione” tra
italiani e indigeni in Africa; mentre diverso fu l’atteggiamento di fronte all’antisemitismo
giustificato su base biologica. Nel cattolicesimo l’antisemitismo aveva radici secolari, ma era legato
a motivazioni di ordine religioso, non razziali. Anche la maggioranza degli italiani accolse la
legislazione razziale con un atteggiamento di passività e di conformismo, ma senza entusiasmi: non
si sviluppò un fanatismo antiebraico generalizzato.

9.8 – La politica estera italiana negli anni Venti


La politica estera fascista ebbe un carattere ondivago per via di una contraddizione fondamentale:
l'Italia era contempo contemporaneamente contraria a un revisionismo a favore dell'Austria e
della Jugoslavia e sostenitrice di un revisionismo a proprio profitto. Ma il peso che, nonostante lo
status formale di grande potenza, l’Italia era in grado di esercitare era sostanzialmente modesto;
quindi in buona sostanza negli anni 20 si allineò alla politica di equilibrio europeo.
Nelle linee generali la politica estera fascista conobbe due fasi differenti:
- tra 1923-25 l’appoggio dato alla Francia contro la Germania, improntato sulla moderazione.
- tra 1925-28 Mussolini, sempre forte dell’appoggio della GB, ritenne di poter assumere una più
decisa iniziativa antifrancese sia nel settore danubiano-balcanico sia in quello mediterraneo (Mare
Nostrum), con il risultato di farsi più nettamente fautore del revisionismo dei trattati. Tramite una
serie di accordi con Albania, Romania, Bulgaria e Ungheria, e nuovi rapporti con l’Austria,
l’espansionismo italiano mirava ad accerchiare la Jugoslavia e a imporsi contro la Francia nei
Balcani.

9.9 – Il timore della rinascita della potenza tedesca e la questione austriaca


Dopo la IWW, la Germania fu l’unico Stato nei confronti del quale il disarmo aveva avuto effettive
conseguenze. Nel 1933, Hitler riuscì a contrattare con le altre potenze la posizione della Germania,
che venne riammessa al tavolo. Nello stesso anno, dopo l’uscita del Giappone dalla SdN, I tedeschi
mostrarono chiaramente di voler passare dal riconoscimento in via di principio a un riarmo
effettivo, alla parità sostanziale con le altre potenze. Di fronte alle resistenze della Francia, Hitler
annunciò l'uscita dal SdN; intanto il riarmo tedesco era ripreso a ritmi accelerati. In un primo
tempo Mussolini appoggiò, entro certi limiti, la rinascita della posizione tedesca; ma quando Hitler,
il nome della riunificazione di tutti tedeschi, fece intravedere la minaccia dell'annessione
dell'Austria, reagì per il timore di trovarsi i tedeschi al Brennero. In Austria nel 1932 divenne
cancelliere Dollfuss, il quale pose fine al regime parlamentare. Di fronte alle intenzioni tedesche e
alla comparsa nel proprio paese di un partito nazista, il cancelliere chiese e ricevette assicurazioni
di protezione da Mussolini. Francia, GB e Italia dichiararono la necessità di mantenere
l’indipendenza e l’integrità dell’Austria. Nel 1934 i nazisti austriaci tentarono un colpo di Stato nel
corso del quale uccisero Dollfuss; ma il colpo venne sanguinosamente sventato e l’annessione in
quell’anno fallì.

9.10 – La guerra d’Etiopia e l’inerzia della Società delle Nazioni


L'attacco dell'Italia all'Etiopia non solo determinò la crisi definitiva della SdN, ma pose le basi per
l'appiattimento del fascismo italiano al nazismo anche in politica estera. Favorevoli erano gli
ambienti della grande industria che, nonostante il loro scetticismo, tramite l’impresa coloniale
contavano sulle commesse statali dei materiali necessari alla guerra. Il basso clero, numerosi
cardinali diedero appoggio all'impresa; ma Pio XI non era affatto favorevole a una guerra condotta

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contro un paese cristiano. Mussolini mirava a una vittoriosa impresa coloniale per provare che il
fascismo era in grado di portare prestigio e riscattare le sconfitte del secolo precedente.
Con l’Etiopia l’Italia aveva stabilito in un primo tempo rapporti di grande cordialità: aveva poggiato
il suo ingresso nella SdN e aveva stretto un patto ventennale di amicizia. Eppure, già nel 1932
l’Italia preparò i piani aggressivi. Nel 1934 si arrivò ai primi scontri; e nel 1935 l’Italia denunciò di
fronte la SdN l’Etiopia come un paese barbarico e schiavista. Gli inglesi provarono in un primo
tempo a mediare delle trattative, che però finirono in un nulla di fatto poiché Mussolini non
intendeva accettare nessun accordo, convinto - a ragione - che inglesi e francesi, di fronte alla
minaccia tedesca, non volessero una rottura con l’Italia a causa dell’Etiopia. Nello stesso anno gli
italiani, senza dichiarare guerra, iniziarono l’invasione nella convinzione che sarebbe stata una
vittoria facile. Pochi giorni dopo la SdN sanzionò l’Italia condannandola come aggressore.
Foraggiata dalle armi inglesi l’Etiopia resistette due anni ma alla fine rivelò di non essere
materialmente in grado di resistere. Gli italiani, guidati da Badoglio, impiegarono imponenti mezzi
e persino armi chimiche e bombardamenti su vasta scala. Quando l’imperatore etiopico chiese alla
SdN di non riconoscere la conquista italiana, ne ottenne un rifiuto che rese plateale il premio dato
alla pura forza. Poco dopo, su indicazione di inglesi francesi, vennero abolite le sanzioni all’Italia.

9.11 – La guerra civile spagnola e l’intervento dell’Italia


Era da poco terminata la guerra di Etiopia che l'Italia si trovò militarmente impegnata in Spagna a
sostegno della ribellione dei nazionalisti contro il legittimo governo repubblicano che aveva vinto
le elezioni. Infatti, dopo la proclamazione della Repubblica nel 1931, la Spagna visse varie fasi
politiche fino alle elezioni del 1936, che vengono vinte dalle forze di sinistra riunite in un Fronte
popolare assai composito di repubblicano democratici, socialisti, comunisti e anche anarchici. La
clamorosa sconfitta della destra infiammò le masse, che si mossero con grande violenza contro
coloro che consideravano i loro pressori: i proprietari, ecclesiastici, funzionari. Il governo di sinistra
fu impotente a fronteggiare gli avvenimenti e i comandi militari legati alla destra e i gruppi
monarchici fascistoidi organizzarono una reazione armata, prendendo contatti con Italia e
Germania per ottenere appoggio. Così, con l’aiuto di un Corpo di truppe “volontarie”, cannoni,
automezzi e navi mandate da Mussolini, e i nuovi armamenti tedeschi mandati da Hitler – ansioso
ti testarli - i militari golpisti spagnoli iniziarono l’insurrezione nel luglio 1936. Ad appoggiare la
Repubblica spagnola in maniera consistente, sebbene molto inferiore rispetto a Italia e Germania,
fu l’URSS, che, sotto la copertura dell’internazionale comunista che organizzò le Brigate
internazionali, inviò uomini, armamenti, automezzi e carburante. Anche gli antifascisti italiani
presero un posto significativo tra coloro che, provenienti da un gran numero di paesi,
parteciparono alle Brigate. Di rilievo l’umiliante sconfitta inflitta dalle brigate, in cui un ruolo
importante ebbero gli antifascisti italiani, alle truppe del corpo di spedizione mussoliniano
affiancate da forze franchiste nella battaglia di Guadalajara.
Già usurato dalla guerra d’Etiopia, l’esercito italiano lo fu ulteriormente dall’intervento in Spagna,
che contribuì notevolmente alla sua debolezza al momento dell’ingresso nella 2° guerra mondiale.
La guerra civile spagnola ebbe l’importante conseguenza di comunicare che in Europa si era aperto
il doppio confronto da un lato tra il fascismo internazionale e la decadente democrazia liberale
incarnata da GB e Francia, dall’altro tra il fascismo e la sinistra socialista e comunista  il conflitto
assunse un carattere ideologico generale.
La formazione in Spagna del regime dittatoriale franchista venne considerato da Mussolini come
successo storico del fascismo internazionale.
9.12 – L’asse Roma-Berlino
La guerra civile spagnola e l'intervento italo-tedesco costituirono una tappa decisiva nel cammino
verso una sempre più stretta intesa fra l'Italia e la Germania, inducendo Mussolini a rinunciare
definitivamente alla precedente politica di contenimento della minaccia nazista. Nel 1936,
Galeazzo Ciano stipulò a Berlino l’accordo chiamato l’“asse Roma-Berlino”, sancendo l’impegno

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comune a lottare contro il pericolo bolscevico; la collaborazione economica nei Balcani e nella
soluzione della questione austriaca. A completamento della strategia di alleanze si arrivò anche
all’intesa col Giappone nell’asse Ro-Ber- To. Subito dopo l’Italia annunciò il ritiro dalla SdN.

9.13 – La distruzione dell’Austria e della Cecoslovacchia. Il trionfo della Germania


Hitler, dopo aver realizzato la ricostituzione della potenza tedesca ora riconosciuta dalle altre
potenze, si apprestò a realizzare l’unificazione nel Terzo Reich di tutti tedeschi europei. La GB
conservatrice conduceva una politica di appeasement, nella vana convinzione che, ritornata in una
posizione di prestigio, la Germania si sarebbe sentita appagata; ma Hitler mirava già a rompere gli
equilibri e a creare un “nuovo ordine europeo”.
Nel 1938, Hitler, tramite minacce, indusse il cancelliere austriaco a dimettersi e al suo posto venne
messo il capo dei nazisti austriaci, che formò un governo provvisorio e il giorno stesso chiese a
Hitler di intervenire in Austria per salvare il paese dal “caos”. Le truppe tedesche invasero così
l’Austria, la quale tramite un plebiscito - passato al 99% - venne annessa alla Germania. Nessuna
delle grandi potenze intervenne. L’atteggiamento di complicità di Mussolini fu la prova che ormai
l’Italia si era posta al carro della Germania. In Italia l’annessione, percepita come una capitolazione
all’aggressività tedesca, provocò timori e reazioni negative non solo nella massa dei cittadini ma
anche gli esponenti dell’élite dirigente fascista, in prima fila Balbo.
Dopo l’annessione dell’Austria, il partito tedesco dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1938, avanzò la
richiesta di una serie di autonomia, con l’appoggio della stampa tedesca. Dopo lo scoppio di gravi
disordini nella regione, la situazione precipitò, tanto che la Cecoslovacchia mobilitò il suo notevole
esercito, contando sul legame con la Francia e l’alleanza con la GB. Ma Chamberlain fece sapere
che non avrebbe combattuto per “un lontano paese del quale sappiamo poco”. Hitler
ebbe così via libera; i ciechi cedettero alla richiesta di autonomia dei Sudeti. Ciò non bastò a
soddisfare Hitler, che ora, minacciando l’intervento militare, pretese l’annessione dei Sudeti al
Reich. Essendo chiaro che la Germania intendeva stravincere e la Cecoslovacchia, per parte sua,
era decisa a resistere, si profilò il pericolo di un conflitto europeo. Chamberlain fece un ultimo
tentativo pregando Mussolini di fare da mediatore presso Hitler. Il Duce accettò, per cui si arrivò
alla Conferenza di Monaco alla quale parteciparono Hitler, Mussolini, Daladier e Chamberlain. I
cechi, oggetto delle trattative, furono esclusi. Gli accordi di Monaco, salutati dall’Europa
conservatrice e filofascista come provvidenziali per aver salvaguardato la pace, furono null’altro
che la copertura diplomatica della resa a tutte le pretese tedesche e dello strangolamento della
Cecoslovacchia.
Sennonché il crescendo degli appetiti hitleriani non cessò. Nel 1939 rivolse alla Polonia la richiesta
di ottenere Danzica - città con popolazione in maggioranza tedesca - e il diritto di extraterritorialità
del corridoio fra la città e il Reich, cui la Polonia pose un netto rifiuto. Poco giorni dopo truppe
tedesche occuparono il distretto di Memel, di popolazione tedesca. Fu a quel punto Chamberlain
cambiò approccio e si espresse, congiuntamente alla Francia in appoggio “all’indipendenza
della Polonia, nel caso di un’azione che la minacciasse apertamente ”. Mussolini
era ridotto a ruolo di osservatore inerte.

9.14 – Dal Patto d’acciaio al Patto Molotov-Ribbentrop

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Con la Polonia la tecnica hitleriana seguì le linee già sperimentate nella questione ceca: a Danzica
gruppi nazisti si diedero a fomentare incidenti a catena, mentre in Germania si denunciava la
pressione polacca contro la minoranza tedesca.
A questo punto, Mussolini - che aveva seguito con un misto di ammirazione e frustrazione e la
marcia tedesca - mise in movimento l’imperialismo italiano: a fine 1938 in Italia fu scatenata una
campagna contro la Francia, avanzando rivendicazioni su Tunisia, Corsica, Nizza e Savoia. In
concreto, l’Italia passò all’azione in Albania, il suo Stato satellite, invadendola nel 1939 e
assumendone il controllo - dopo aver fatto fuggire il re in Grecia- tramite un’assemblea di notabili
a Tirana che offrì la corona a Vittorio Emanuele III.
Dal canto suo Roosevelt, preoccupato, indirizzò a Hitler e Mussolini un messaggio in cui si chiedeva
di dare garanzia di pace per il futuro, ottenendo una risposta sostanzialmente derisoria.
A metà del 1939 le due potenze fasciste strinsero un “patto di amicizia e di alleanza”, che
venne definito Patto d’acciaio, il quale mise l’Italia alla mercé dei piani più aggressiva della
Germania, in quanto l’art, 3 stabiliva: “ se una delle Parti Contraenti dovesse venir
trascinata in una complicazione bellica, l’altra Parte Contraente si porrà
immediatamente come alleato al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze
militari.” Ma proprio mentre firmava il patto, l'Italia era del tutto impreparata una guerra
europea. Di questa inferiorità militare il fascismo era consapevole, tanto che Mussolini fece sapere
i tedeschi che essa sarebbe stata pronta la guerra non prima di tre anni.
Dopo le pretese polacche di Hitler, Francia e GB mostrarono un nuovo interessamento verso
l’URSS, la quale però, essendo stata esclusa dagli accordi di Monaco, era animata da una forte e
comprensibile diffidenza. Le due potenze occidentali avviarono, con cautela e scarsa convinzione, i
negoziati con l’Unione Sovietica, la quale propose un’alleanza. I negoziati si protrassero,
rivelandosi fin dall’inizio se difficili. Gli anglo-francesi procedettero con esasperante lentezza; e si
dimostrarono riluttanti nell’affrontare due scogli di vitale importanza per i sovietici: indurre il
governo polacco che, per quanto minacciato dalla Germania, restò violentemente antisovietico, a
consentire il transito dell’Armata Rossa sul suo territorio; ed estendere anche alla Polonia la
garanzia data agli Stati baltici, dai quali i nazisti avrebbero potuto lanciare un’invasione verso Est.
A quel punto Stalin, convinto che la guerra stesse avvicinandosi e constatando che Francia e GB
non agivano con necessaria determinazione, con un realismo e cinismo pari a quelli di Hitler,
decise -mettendo da parte la tradizionale ostilità antisovietica della Germania - di accettare le
offerte fatte da Hitler, il quale, ormai decisa la guerra, voleva evitare l’apertura di due fronti . Stalin
perseguiva due obiettivi: tenere il proprio paese fuori da una guerra mondiale; e lasciare che la
guerra indebolisse le potenze capitalistiche. Così, con una sorprendente speditezza e lasciando
sbalordito il mondo, firmarono a Mosca un patto di non aggressione, definito Patto Molotov-
Ribbentrop, che aveva il carattere di un avere propria alleanza : infatti si stabiliva la spartizione
della Polonia e una nuova sistemazione territoriale e politica degli Stati baltici (la Lituania avrebbe
segnato il confine).
Anche in quel caso Hitler tenne Mussolini all'oscuro della sua intenzione di stringere un patto con
Stalin. Quello stesso giorno Mussolini fece pervenire un secondo messaggio a Hitler, nel quale
ritornava sull'impreparazione militare italiana ed evidenziava di non poter intervenire in guerra a
meno che la Germania “non fornisce mezzi bellici e materie prime”. Ma la Germania,
sentendosi ormai le spalle coperte dal patto con l’URSS, attaccò la Polonia. Due giorno dopo GB e
Francia risposero dichiarando guerra alla Germania.

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 Capitolo 10 – Dall’intervento nella 2° guerra mondiale al crollo del regime

10.1 – L’intervento. L’impreparazione militare. Lo scacco dell’attacco alla Francia.


Le armate italiane erano più deboli nel 1940 di quanto non fossero state nel 1915. Scoppiato il
conflitto, l’Italia proclamò a settembre 1939 la “non belligeranza”. Mussolini era combattuto da
un lato ad assistere da una posizione non impegnata (spingendosi persino ad accordi con GB e
Francia che tentavano di farlo passare alla neutralità); dall’altro dalla sofferenza per la posizione di
inerzia dell’Italia e dall’invidia per i successi tedeschi. Egli manifestò il suo tormento in un
promemoria inviato a Badoglio, al re e a Ciano: “l’Italia non può rimanere neutrale per
tutta la durata della guerra senza squalificarsi […] ma non può fare una guerra
lunga senza dissanguarsi”; pertanto il suo intervento deve avvenire al momento in cui esso
“determina la decisione” di un conflitto destinato a risolversi in tempi brevi.
Il Duce doveva inoltre tener conto dei contrasti interni al gruppo dirigente fascista, diviso fra
coloro che chiedevano l'immediato intervento a fianco della Germania e coloro che si rendevano
conto che la guerra sarebbe stata condizionata della supremazia della Germania.
L'offensiva di Hitler contro la Francia , della quale Mussolini fu tenuto all'oscuro, convinse il Duce
del rapido e del tutto imprevisto crollo militare di questo paese nel maggio 1940, il quale lo
convinse che la vittoria della Germania fosse ormai sicura e che pertanto l’impreparazione
dell’Italia costituisse un fattore trascurabile. Oltre a Ciano all’intervento erano contrari il re,
Badoglio, Balbo, Grandi e Bottai. Mussolini voleva ogni costo che l’Italia, entrando in gioco prima
che fosse irrimediabilmente tardi, ottenesse la sua parte del bottino.
Secondo i piani del dittatore, il paese avrebbe dovuto condurre una “guerra parallela” a quella
tedesca, avente come linee direttrici l’espansione sia nel Mediterraneo - Nizza, Savoia, Corsica,
Africa - sia nel settore danubiano-balcanica. Nel giugno 1940, dopo il crollo dell’esercito francese,
l’Italia, ignorati pressanti inviti di Churchill e Roosevelt, dichiarò guerra alla Francia e alla GB.
Contro il fronte delle Alpi si mossero oltre 300.000 soldati italiani dopo che la Francia aveva già
chiesto l’armistizio ai tedeschi. L’unico risultato fu la conquista del piccolo centro di Mentone.
Intanto l’aviazione inglese aveva bombardato Torino e la flotta francese la costa ligure, senza
alcuna capacità di reazione italiana. A fine giugno, due giorni dopo l’armistizio con la Germania, la
Francia firmò quello con l’Italia.
Lo stato d'animo di molta parte della popolazione italiana era di segno negativo. A temere le
incognite dell'intervento erano buona parte dei quadri militari, influenti settori della grande
borghesia, la grande maggioranza delle masse lavoratrici operaie e rurali, mentre oscillanti
apparivano la media e la piccola borghesia.
Vi era un'importante analogia tra intervento dell'Italia del 1915 e quello del 1940 : in entrambi casi
questo fu deciso quando il governo riteneva che il campo a cui il Paese stava per unirsi stesse
prevalendo e nell'ipotesi che il conflitto sarebbe stato breve. Sennonché nel primo caso il calcolo
sulle alleanze risultò alla fine vantaggioso, nel secondo sbagliato contro tutte le apparenze. Un
altro elemento comune fu che entrambi gli interventi, sostenuti da insufficienti risorse, ebbero
quale esito finale di scatenare conflitti tra le varie componenti la società italiana tali da scavare un
solco profondo tra classi dirigenti e masse popolari e a provocare il crollo tanto del regime liberale
quanto di quello fascista.

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10.2 – Il fallimento della guerra parallela. Insuccesso Africano e sconfitta in Grecia.
Ritenendo imminente anche la caduta dell'Inghilterra, l'Italia voleva trovarsi con qualcosa in mano
nell'eventualità di un armistizio anglo-tedesco. Mussolini offrì a Hitler un corpo di spedizione in
vista dell'invasione della GB, ma l'offerta venne declinata. Sicché egli decise, nel luglio 1940, di
prendere l’iniziativa di un attacco agli inglesi in Africa, i quali sembravano in una posizione di
irrimediabile inferiorità con soli 36.000 uomini contro i 200.000 italiani. Inizialmente furono colti
alcuni limitati successi: gli italiani, partendo dall’Etiopia, penetrarono nel Sudan e occuparono la
Somalia britannica. Ma già alla fine di ottobre l’offensiva in Africa era bloccata; mentre in dicembre
si ebbe una controffensiva inglese che investì e respinse gli italiani. Netta fu anche la sconfitta in
Africa orientale; caddero Bengasi e Addis Abeba. La guerra su questo fronte venne resa più difficile
dalla decisione di Mussolini di attaccare la Grecia. Le sorti pericolanti dell’Italia, incapace di
fronteggiare la controffensiva inglese, vennero sollevate dei tedeschi, i quali con i loro Africakorps,
sbarcarono a febbraio 1941 e riuscirono a respingere gli inglesi dalla Cirenaica. Lungo il corso del
1942, però, dopo che un’offensiva dell’Asse conseguì un notevole successo e si assestò a 100 km
da Alessandria d’Egitto, l’armata britannica comandata Montgomery ebbe la meglio nella battaglia
di El Alamein. La sconfitta fu totale quando le forze anglo-americani sbarcarono in Marocco e
Algeria, dando inizio alla conquista dell’Africa settentrionale.
Infatti, a ottobre 1940, perseguendo la guerra parallela, l’Italia sferrò l’attacco alla Grecia. Hitler fu
vivamente contrario all’iniziativa di Mussolini. Già ad inizio novembre quella che doveva essere
una rapida avanzata venne bloccata, tanto che fu necessaria la ritirata. L’esercito italiano dovette
ricorrere all’aiuto determinante dei tedeschi, segnando così la leadership tedesca e la totale
subordinazione alla Germania. Questa, di fronte al fallimento italiano, in aprile 1941, si apprestò a
invadere la Jugoslavia e la Grecia con l’appoggio della Bulgaria; travolgendo e annientando la
Grecia. Fu necessario l’intervento di Hitler perché i greci si piegassero a firmare l’armistizio anche
con gli italiani, da cui non erano stati sconfitti. Una volta completata la conquista, Jugoslavia e
Grecia furono sottoposte all’occupazione di tedeschi e italiani.
Con i gravi insuccessi subiti, l’Italia dimostrò di non essere in grado di condurre una guerra
parallela.
Intanto, in seguito alla decisione di Hitler di attaccare l’Unione Sovietica nel giugno 1941 - in cui
l’Armata Rossa fu colta completamente di sorpresa, subendo colpi devastanti -, sempre nella
convinzione che la resistenza sovietica sarebbe crollata nel giro di pochi mesi, Mussolini,
nonostante Hitler non lo richiedesse, decise l’ invio in Russia di un contingente (62.000), nel
giugno 1941, per non vedersi escluso dal prossimo enorme bottino ; ulteriormente accresciuto nel
luglio 1942 da altri 230.000 uomini. L’equipaggiamento della truppa era scadente e gli automezzi
non disponevano neppure di lubrificanti adatti al clima russo. L’armata italiana in Russia, dopo la
grande vittoria conseguita dei sovietici tra fine 1942-43 nella battaglia di Stalingrado, venne
investita insieme con tedeschi dalla controffensiva russa. La rotta degli italiani fu penosa: nella
mancanza quasi totale di mezzi di trasporto, la massa di soldati, indifesa e sbandata, si mise in
marcia per la gran parte a piedi. Si calcolano circa 75.000 caduti; 30.000 feriti e ammalati e 85.000
prigionieri e dispersi.
Nonostante la vittoria di Stalingrado, sul fronte russo la pressione delle truppe naziste continuava
essere molto forte; pertanto Stalin chiedeva con insistenza agli anglo-americani l'apertura di un
secondo fronte sul continente europeo che alleggerisse in maniera significativa quella pressione.
Fu proprio il crollo delle forze dell’Asse in Africa a creare le condizioni per l’invasione della Sicilia.
Ciò induce un’importante considerazione: la partecipazione dell’Italia alla guerra costituì un avere
propria palla al piede per la Germania  l'invasione fallita in Grecia costrinse Hitler a prestare un
urgente soccorso, rinviando da aprile a giugno l'attacco all'unione sovietica, con una grave perdita

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di efficacia provocata dal precoce arrivo dell'inverno russo. I disastrosi insuccessi italiani in Africa
furono causa di ulteriore dispersione delle forze naziste.

10.3 – Il crollo militare dell’Italia e la caduta del fascismo. Il governo Badoglio.


Le sconfitte militari fecero emergere il solco ormai profondissimo tra regime fascista e le masse
popolari, colpite sempre più duramente nel loro tenore di vita. L’invasione della Sicilia nel luglio
1943 provocò non solo un vero e proprio crollo del consenso al regime da parte delle masse
popolari, ma anche di quei settori della borghesia e dei ceti piccolo-borghesi. Solco aggravato dai
massicci bombardamenti che colpirono a partire dalla fine del 1942 Milano, Torino, Genova, La
Spezia, Napoli e altre città; e dai prezzi, in primo luogo alimentari, che salivano costantemente.
A reagire per primi in maniera aperta e clamorosa furono gli operai delle fabbriche del Nord. Nel
marzo 1943 a Torino gli operai della Fiat Mirafiori scesero in sciopero. Gli scioperi andarono
rapidamente diffondendosi nel corso del mese in Piemonte e Lombardia. Non organizzati dei
partiti antifascisti clandestini, gli scioperi furono i primi avvenuti nell’Europa occupata dai
nazifascisti, ed ebbero un grande eco internazionale.
La conquista della Tunisia da parte degli alleati costituì il preludio per l’invasione della Sicilia, la
quale, investita, vide la resistenza soprattutto dei tedeschi. Intanto Mussolini, incontratosi con
Hitler, non ebbe il coraggio di mostrare l'impossibilità dell'Italia a continuare la guerra e si
appoggiò all'impegno di aiuti del Fuhrer. Fu in queste circostanze che il re, con il pieno appoggio di
Badoglio, effettuò una manovra di sganciamento delle proprie sorti da quelle del vacillante regime
 La congiura monarchia, favorita dagli ambienti industriali e militari, si saldò alla congiura
interna al regime, quella del massimo gruppo dirigente fascista. Il Duce, infatti, fu pressato a
convocare una seduta del Gran Consiglio del fascismo, nel corso della quale i gerarchi decretarono
la sua caduta.
Il re nominò capo del governo Badoglio; quindi il 25 luglio dispose l’arresto di Mussolini.
La caduta del dittatore fece esplodere manifestazioni di tripudio popolare: assaltate sedi del PNF e
abbattuti i simboli del regime.
I partiti antifascisti erano rimasti estranei alla congiura monarchica del 25 luglio. Ma subito dopo
comparvero sulla scena politica, e, nonostante non ne fosse ancora stata riconosciuta la legalità,
costituirono un Comitato nazionale.
La caduta del fascismo fece da subito gravare sull’Italia la minaccia della reazione tedesca, tant’è
che Badoglio si era affrettato a dichiarare che l’Italia rimaneva fedele all’alleanza; ma i tedeschi
diffidavano a ragione di lui e del sovrano. Hitler - infuriato per la caduta di Mussolini - si
apprestava a far occupare l’Italia settentrionale e centrale. Dal canto loro gli anglo-americani
esigevano la resa incondizionata dell’Italia perciò intensificarono i bombardamenti aerei. Ad
agosto questi comunicarono un documento elaborato da Eisenhower nel quale si dettava le
condizioni dell’armistizio. L’Italia firmò l’armistizio a Cassabile il 3 settembre, ma Badoglio
comunicò agli alleati l’intenzione di rinviare l’annuncio, ottenendo una dura risposta da
Eisenhower, che fece diffondere per radio la notizia. Ciò costrinse Badoglio a leggere a sua volta un
comunicato via radio. L’annuncio dell’armistizio gettò nel caos i capi militari e le truppe, lasciati
colpevolmente da Badoglio senza istruzioni operative. Nei giorni seguenti l’esercito si disgregò. Fin
dall'8 settembre le truppe tedesche occuparono Roma, spingendo il re, il principe Umberto,
Badoglio e vari capi militari - mentre le truppe italiane, cui si unirono gruppi di civili, resistevano di
loro iniziativa in Roma - abbandonarono la capitale, e fuggirono a Brindisi, dove si insediò il
governo del Regno del Sud.
Il 12 settembre Mussolini, prigioniero sul gran sasso, venne liberato e portato in Germania. I circa
2 milioni di militari italiani si sbandarono nel giro di pochi giorni abbandonando le armi, ma in un
gran numero furono fatti prigionieri dei tedeschi. Soltanto pochi reparti si unirono ai tedeschi, cosa
che fece pressoché in blocco la Milizia. La sorte di riparti dislocati in Jugoslavia, Albania e Grecia fu

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segnato da una serie di sanguinose tragedie - a Cefalonia 11.500 uomini rifiutarono di cedere le
armi e, dopo una lotta durata 10 giorni, furono annientati.
Il governo Badoglio aveva così portato l’Italia fuori dall’alleanza tedesca, ma in modo talmente
disastrosa da provocare, lasciando campo libero ai tedeschi in tutto il paese, la catastrofe
dell’esercito e una tragedia nazionale di immense proporzioni.
 Capitolo 11 – La terza guerra civile: la Repubblica di Salò e la Resistenza

11.1 – Il carattere della Resistenza.


Il crollo della dittatura rappresentò la seconda crisi di regime nella storia dello stato unitario e
l’inizio della 3° guerra civile italiana combattuta tra partigiani e neofascisti della Repubblica sociale
italiana: la più grande “esplosione delle antitesi” della storia italiana. I neofascisti accusavano sia i
gerarchi che avevano tradito Mussolini sia il re e Badoglio che avevano abbandonato la barca che
affondava. Gli antifascisti - nelle cui file molti erano ex fascisti disillusi -accusavano l'intera classe
dirigente - gerarchi, burocrati, generali, industriali, agrari, borghesi grandi e piccoli che avevano
sostenuto il regime nei suoi anni trionfanti - prima di aver asservito l'Italia ai nazisti, poi di averla
coinvolta in una guerra sciagurata.
La Resistenza fu la lotta condotta dagli italiani decisi a rompere con il passato e a cercare per il
Paese un diverso futuro. Ad essa presero parte giovani educati del regime passati all’altra sponda;
persone più mature che in passato avevano dato il loro consenso al fascismo oppure erano restate
in uno stato di passività; soldati del disciolto esercito. Vi era infine il nucleo più politicizzato
costituito dei ristretti gruppi che avevano attraversato il fascismo nell’emigrazione o nella
clandestinità essendo sorvegliati, perseguitati, confinati e imprigionati. Furono i capi di questa
minoranza ad assumere la direzione della Resistenza. Quella della Resistenza fu, secondo la
definizione, “l’Italia della speranza”; mentre quella neofascista fu “l’Italia della
disperazione”. Il movimento partigiano ebbe il suo massimo sviluppo nelle regioni
settentrionali e in secondo luogo in quelle centrali. A fare muovere in maniera efficace i primi passi
della Resistenza non furono i gruppi di azione patriottica (Gap) organizzati e diretti dei comunisti,
che condussero operazioni di sabotaggio distruzione di impianti e l’uccisione di numerosi fascisti .
Dal punto di vista sociale, la Resistenza abbracciò tutte le classi; ma la massa dei combattenti fu
composta dal popolo. In gran parte di questo era diffusa la convinzione che la resistenza armata al
nazifascismo potesse e dovesse rappresentare il preludio della rottura con il vecchio Stato e della
fine del predominio degli strati sociali tradizionalmente privilegiati.
Anche nel Mezzogiorno vi furono iniziali atti di resistenza contro i tedeschi in ritirata; ma si trattò
di brevi e limitati episodi. Fece eccezione l’evento di grande rilievo dell’insurrezione di Napoli,
dove la popolazione liberò la città. Il fatto che in generale la resistenza del Mezzogiorno non abbia
avuto sviluppo ebbe conseguenze di grande importanza, vale a dire che questa parte del paese
non venne investita dal processo politico e sociale che la lotta partigiana innestava nel Nord e nel
centro: nel Sud misero più profonde radici le forze che dopo la fine del conflitto avrebbero
maggiormente contrastato il rinnovamento dello Stato.
Il grado di consenso degli italiani residenti nella Repubblica sociale è tanto importante quanto
complesso. Dopo il 45 i capi partigiani e gli storici intesi a celebrare la Resistenza sostennero che
l’Italia neofascista fosse una creatura artificiale creata dai nazisti, una ristretta minoranza, mentre
la grande maggioranza della popolazione avesse sostenuto con passione e convinzione i partigiani.
Ma una risposta persuasiva è stata offerta dallo scrittore Beppe Fenoglio, che visse in prima
persona da partigiano quegli eventi. Egli analizzò l'atteggiamento soprattutto dei contadini e dei
montanari, perlopiù poveri e poverissimi i quali, terribilmente provati dalla guerra e stanchi di
chiunque la facesse, gravati dalle confische delle loro assai scarse risorse alimentari da parte dei
partigiani e fatti oggetto delle rappresaglie dei tedeschi e fascisti, con il loro miseri mezzi
sostennero nonostante tutto, pur spesso maledicendolo, i partigiani in cui riconoscevano, quando

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non anche figli e fratelli, certamente “i loro”. E pare un fatto incontrovertibile che senza il
sostegno della maggioranza della popolazione le formazioni partigiane non avrebbero potuto
sopravvivere.

11.2 – La Repubblica Sociale e il Regno del Sud. La lotta tra partigiani e nazifascisti al Nord.
Mussolini, liberato dai tedeschi, ritornò al potere. Messa sotto accusa la monarchia “traditrice”, il
partito fascista si ricostituì con il nome di Partito fascista repubblicano e il nuovo Stato si chiamò
Repubblica sociale italiana, insediandosi nelle rive del lago Garda con il centro a Salò. L’operato
del Duce e del suo governo furono posti sotto la stretta sorveglianza dei tedeschi, i quali
provvidero a creare una loro amministrazione parallela, che aveva l’ultima parola sulla vita della
Repubblica.
Mussolini ricostituì le forze armate - molti giovani chiamati alla leva non si presentarono o
disertarono - senza il favore di Hitler che però lasciò fare; ma senza l’intenzione di impegnarle
contro gli anglo-americani. I compiti affidati ai “repubblichini” furono perciò in maniera quasi
esclusiva quelli della repressione dei partigiani, contro i quali manifestarono una ferocia che
pareggiava quella nazista. Nella repressione un posto anche i campi di concentramento, come
quello di Fossoli a Modena e, il più tristemente famoso, della risiera di San Sabba, presso Trieste,
attrezzato con camere a gas. La caccia agli ebrei portò alla deportazione di circa 8000 persone ed
ebbe il capitolo più tragico nell’irruzione dei tedeschi nel ghetto di Roma, dove 1000 ebrei
vennero arrestati e avviati ai campi di sterminio in Germania.

Dall’altro lato stava il Regno del Sud (ora a Salerno) il quale dichiarò guerra alla Germania,
ottenendo dagli alleati la qualifica non di alleato ma di "Cobelligerante".
Nel regno era urgente la formazione di un gabinetto in grado di rappresentare i partiti politici
antifascisti che avevano ripreso legalmente la loro attività. Ma , mentre inglesi e americani
esigevano il rispetto del ruolo del re e di Badoglio, nei partiti antifascisti prevaleva un diverso
orientamento.
Fin dall'ottobre 1943 il Comitato centrale di liberazione nazionale (creato a Roma il 9 settembre
dai partiti su base paritetica e a cui si erano affiancati i Comitati di liberazione nazionale) aveva
dichiarato, manifestando la propria ostilità verso il re e Badoglio considerati troppo compromessi
con il regime fascista, che questi non potevano né rappresentare l’unità nazionale né guidare la
lotta di liberazione e aveva quindi chiesto un nuovo governo, espressione delle forze antifasciste; e
nel gennaio 1944 - per impulso di azionisti e socialisti appoggiati dai comunisti - l’abdicazione del
re e il rinvio a guerra finita del referendum popolare che avrebbe deciso tra marchia e repubblica.
Sennonché un appoggio decisivo, del tutto imprevisto, al governo monarchico venne dall'URSS,
che, prima tra le potenze alleate, lo riconobbe, con una mossa dettata dall'intento di sottrarre agli
inglesi e americani l'esclusiva influenza sulla politica del regno del sud e di favorire il rafforzamento
del ruolo del partito comunista italiano.
Pochi giorni dopo, Togliatti, tornato dall'esilio in Russia, si espresse a favore della formazione di un
nuovo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti al fine di realizzare l'unità nazionale nella
lotta contro il nazifascismo, del rinvio a guerra finita della soluzione sulla questione monarchia-
repubblica a opera di un’Assemblea costituente. Fu questa la “svolta di Salerno”. Il leader
comunista vide la possibilità non solo di acquistare una posizione chiave della politica italiana per il
suo partito ma anche di accedere direttamente al governo, ottenendo così una legittimazione
importantissima. Il Partito socialista e il Partito d’azione si accordarono alla posizione comunista;
dal canto loro il Partito liberale e la Democrazia cristiana accolsero con soddisfazione la posizione
comunista.

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Poco dopo che Roma venne liberata, si costituì, suscitando la forte contrarietà di Churchill, su
diretta emanazione dei partiti, un governo Bonomi, in cui entrarono Croce per i liberali, De
Gasperi per i democristiani, Saragat per i socialisti, Togliatti per i comunisti e Cianca per gli
azionisti. Al suo interno emersero profonde divergenze specie in relazione due problemi: i rapporti
con le forze della Resistenza del Nord e l’ epurazione politica dei fascisti. In particolare
quest’ultima provocò la crisi: mentre liberali e democristiani intendevano limitare al massimo le
epurazioni, le sinistre volevano una soluzione radicale. Si formò così un 2° governo Bonomi con
l’astensione di socialisti e azionisti ma con la partecipazione dei comunisti, rimasto in carica fino
alla liberazione totale del Paese.

11.3 – L’insurrezione, la fuga di Mussolini e la “resa dei conti”.


L’irresistibile avanzata delle armate alleate nell’Italia del Nord creò le condizioni favorevoli affinché
il CLNAI proclamasse l’insurrezione nazionale da parte dei partigiani il 25-26 aprile 1945. Esso
assunse i poteri provvisori di governo ed emanò la sentenza di morte o la punizione dell'ergastolo
per i membri del governo di Salò e i gerarchi fascisti.
Mussolini - dopo un incontro a Milano patrocinato dal cardinale Ildefonso Schuster, con membri
del CLNAI, che gli impartirono la resa incondizionata - cercò una via personale di scampo
aggregandosi a una colonna tedesca diretta in Svizzera con la sua compagna Petacci; ma a Dongo
venne riconosciuto, nonostante fosse travestito da soldato tedesco, arrestato e il giorno seguente
ucciso. I corpi di Mussolini, della Petacci e di alcuni gerarchi, trasportati a Milano, furono appesi a
testa in giù a piazzale Loreto, dove nell’agosto 1944 erano stati esposti i cadaveri di 15 partigiani.

La definitiva capitolazione delle forze tedesche in Italia avvenne il 2 maggio 1945. I giorni della
liberazione e quelli successivi furono anche i “giorni dell'ira” nei confronti dei fascisti, dei
collaborazionisti, dei torturatori, in generale di coloro che avevano sostenuto la Repubblica di Salò.
Entrarono in azione “tribunali popolari” che procedettero a esecuzioni sommarie. Non mancarono
numerose vendette private. Finiva così la tragedia di una lotta di liberazione nazionale che aveva
altresì assunto il carattere di una terribile guerra civile, costata ai partigiani 40.000 caduti e alla
popolazione civile 10.000. complessivamente tra il 1940-45 i morti causati dalla guerra
ammontarono a circa 450.000, di cui circa 90.000 donne.

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 Capitolo 12 – L’Italia dal 1945 al 1948. Il sopravvento del moderatismo.
12.1 – I difficili equilibri politici dopo la Liberazione.
Finita la guerra, l’Italia si affacciava a risolvere nientemeno che il problema di “rifare lo Stato”.
In assenza di elezioni politiche generali i partiti non conoscevano ancora gli orientamenti di fondo
del Paese e quindi i reciproci rapporti di forza . L’influenza dell’Amministrazione militare alleata
(Amg) costituiva un fattore da cui le forze politiche italiane non potevano prescindere ed era una
garanzia per i partiti di centro e di destra nei confronti di una sinistra comunista e socialista
filosovietica al cui interno si coltivavano proposte di mutamenti di carattere radicale che le
potenze occidentali non erano disposte a consentire in un paese che esse, nel quadro geopolitico
che andava delineandosi di un confronto con l’Unione Sovietica, erano decisi a mantenere sotto il
loro controllo.
Dal punto di vista economico le condizioni erano decisamente precarie. L’agricoltura non riusciva
ad assicurare un'alimentazione lontanamente adeguata alle necessità della popolazione. Gli
imprenditori privati non erano in condizioni di avviare una consistente ripresa riproduttiva per
insufficienza di capitali, che potevano essere forniti unicamente dagli USA.
In un breve volgere di tempo, secondo le implicazioni dell’accordo tra il governo Bonomi e il
CLNAI, gli organismi installati dai CLN regionali dopo la resa nazifascista dovettero cedere tutti i
poteri al governo di Roma. Sicché, con l’appoggio determinante dell’Amministrazione alleata, il
governo italiano fece prevalere la continuità sulle strutture amministrative dello Stato contro ogni
proposito sostenuto dalle forze maggioritarie della Resistenza, di attuare un cambiamento. Le
forze partigiane furono disarmate, ma parzialmente, poiché soprattutto i comunisti, e non solo
essi, provvidero a nascondere in misura consistente le proprie armi.
La “normalizzazione” venne favorita dalla linea di Togliatti perseguita dal Partito comunista di
collocare il partito nella dialettica elettorale e parlamentare, rafforzando la propria legittimazione
di forza rivoluzionaria ma non eversiva. Infatti Togliatti valutò con spirito realistico il significato
della presenza anglo-americana in Italia e tenne conto delle implicazioni degli accordi intervenuti
fra le grandi potenze che assegnavano l’Italia alla sfera occidentale. Al tempo stesso il partito si
teneva pronto nell’eventualità di una nuova guerra nel caso in cui la situazione internazionale
precipitasse o che le forze conservatrici di destra interne mirassero a instaurare nel Paese un
nuovo regime.
I partiti guardavano tutti alle prime elezioni:
 Partito Liberale: protagonista al governo dello Stato prefascista, era su posizioni apertamente conservatrici,
poggiava su una ristretta base sociale di strati borghesi e medio borghesi favorevoli a restaurare il vecchio Stato e
decisi ad opporsi a ogni sostanziale mutamento degli assetti della proprietà e i tradizionali rapporti tra le classi .
 Partito Democristiano: erede del PPI, la sua ideologia interclassista faceva presa su tutti gli strati e in
particolare su quelli rurali; in sintonia con la dottrina della Chiesa, si impegnava ad affrontare la riforma agraria,
auspicava rapporti di collaborazione tra capitale e lavoro nel pieno rispetto della proprietà privata. Poteva contare su

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1.2 mln di iscritti ma ad esso andava l’appoggio massiccio dell’Azione cattolica (con i suoi 2mln di iscritti) e del
Vaticano.
 Partito Socialista: prima organizzazione politica delle masse, poteva contare sulla forza della propria tradizione
e su 500k di iscriti. Diviso fra rivoluzionari e riformisti, durante la Resistenza, data la prevalenza dei primi, aveva
stretto legami con i comunisti, poco accetti alla minoranza che considerava il PCI portatore di un’ideologia
antidemocratica.
 Partito Comunista: fu in prima fila nel combattere il fascismo sopportando i sacrifici più pesanti e nella
Resistenza diede il maggior contributo di uomini. Costituiva il più forte mai organizzato partito di massa ( 2.25 mln di
iscritti). Manteneva strettissimi rapporti di dipendenza dall’Unione Sovietica (d’altronde simili a quelli della DC dagli
USA) e da questa traeva appoggio politico ed economico. Comunisti e socialisti potevano contare sull’importante
appoggio della Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil) ricostituitasi nel giugno 1944 e da essi controllata.
 Partito d’Azione: di ispirazione mazziniana, era l’unico nuovo partito, fondato nel giugno 1942. Aveva raggiunto
con le sue brigate di Giustizia e Libertà una notevole forza militare nella Resistenza. Appariva come soggetto
eterogeneo, che riuniva socialisti e classisti come Emilio Lussu e liberaldemocratici come Ugo La Malfa, orientati in
campo economico-sociale in senso riformatore ma non radicale e tantomeno anticapitalistico.
12.2 – Il governo Parri: un governo transitorio di compromesso.
Dopo la Liberazione, il governo Bonomi presentò le dimissioni. Frutto di un compromesso fra i
partiti i quali, in assenza di una verifica elettorale, si accordarono sul punto di equilibrio tra le
correnti di sinistra e quelle moderate, si giunse alla designazione di uno dei maggiori esponenti
della Resistenza: il governo Parri nel giugno 1945. Ma al suo interno emerse il contrasto tra coloro
che come Parri percepivano la democrazia quale deciso superamento del sistema liberale
prefascista e quelli come Croce - convinti che il fascismo fosse stato solo una parentesi - che quel
sistema invece intendevano sostanzialmente restaurare. Il programma di Parri venne giudicato dei
conservatori troppo sbilanciato a sinistra; sicché i liberali, seguiti dei democristiani, presero
iniziativa di ritirarsi dal governo, provocandone la caduta a novembre. Socialisti e comunisti, dal
canto loro, si astennero da sostenere l’esecutivo poiché ritenevano necessario il passaggio della
guida di governo ai maggiori partiti, sulla base di un’intesa tra i loro schieramenti e la Democrazia
cristiana.

12.3 – Governo De Gasperi, Repubblica e Assemblea costituente. L’estromissione delle


sinistre.
Nel dicembre 1945 entrò in carica il 1° governo De Gasperi che, pur avendo la partecipazione dei
precedenti partiti, attuò una svolta in senso moderato. Egli gli godeva del determinante appoggio
degli anglo-americani, degli industriali, degli agrari, dell’Azione cattolica e del Vaticano.
L’epurazione dei fascisti, condotta fino ad allora in maniera molto timida, fu di fatto chiusa; anzi, a
chiuderla formalmente fu Togliatti, il quale, in qualità di ministro della giustizia, nel giugno 1946
promulgherà una vasta amnistia per i reati politici, che mise in libertà numerosi ex fascisti.
Importanti furono le elezioni amministrative di marzo 1946, in quanto fornirono la prima misura
del consenso per ciascun partito. I risultati mostrarono che socialisti e comunisti, avevano la loro
roccaforte nell’Italia nord-occidentale e centrale, invece la Democrazia cristiana dominava
nell’Italia nord-orientale. Nel Sud le forze moderate di destra occupavano le posizioni più forti. Qui
inoltre si aggiunse il movimento lanciato da Giannini, l’Uomo qualunque, che ottenne un discreto
successo. Le elezioni misero in evidenza che i partiti di massa erano tre soli. Il Partito d’azione subì
una clamorosa sconfitta, seppur inferiore a quella del Partito liberale e del Partito repubblicano.
Il 2 giugno si svolse contemporaneamente le elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum
per la scelta tra monarchia e repubblica. Il partito di maggioranza relativa (che ha più voti ma non
raggiunge il 50,1%) è la DC, che raggiunge il 35,2%. Il secondo partito è il PSI, con il 20,7%; subito
dietro il PCI, con il 18,9%. I grandi partiti ottennero così da soli quasi il 75%. Mentre il Partito
Liberale non superò il 6,8% e il Partito d’Azione il 1,5%.

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Il referendum istituzionale sancì la vittoria della Repubblica. Per influenzare il voto degli elettori,
Vittorio Manuele III abdicò a favore del figlio Umberto. Come nelle elezioni politiche, anche in
occasione del referendum il Sud votò in senso più conservatore, e cioè per la monarchia.
A luglio 1946 si formò così il 2° governo De Gasperi, ancora un governo di coalizione in cui erano
presenti anche socialisti e comunisti. Infatti, pur perseguendo una linea moderata, De Gasperi
ritenne opportuno continuare a condividere con socialisti e comunisti responsabilità di governo .
Dal canto suo la sinistra intendeva far valere il proprio grande peso nell’esecutivo per porre un
argine alla svolta in atto. In quest’ottica il PSI e il PCI si unirono in un Patto di unità d’azione.
Il contesto internazionale caratterizzato dalla guerra fredda spinse De Gasperi ad arginare e isolare
le sinistre e ad allargare il consenso al centro a scapito delle destre. Determinante in questo fu
l’ennesima scissione interna al PSI nel gennaio 1947: il leader dell’ala contraria al patto di unità di
azione con i comunisti, Giuseppe Saragat, diede vita al Partito socialista democratico italiano,
filo-occidentale, in netta opposizione al PCI, si sarebbe alleato alla DC. De Gasperi non ritenne
ancora opportuno escludere la sinistra per farle condividere la responsabilità della firma del
trattato di pace (febbraio) e l’approvazione per l’inserimento dei Patti lateranensi nella
Costituzione (marzo).
A maggio, giudicando ormai mature le condizioni interne e internazionali, De Gasperi liquidò il
governo di coalizione con le sinistre , inserendo la propria strategia nel disegno anticomunista e
internazionale patrocinato dagli Stati Uniti . Così, forte dell’appoggio americano, presentò le
dimissioni e formò il suo quarto governo a cui parteciparono i liberali. Era un governo
contemporaneamente gradito al Vaticano, agli ambienti economici e agli Stati Uniti, che chiudeva
così la collaborazione governativa fra i grandi partiti di massa. Qualunquisti e monarchici votarono
la fiducia al governo, di segno nettamente anticomunista.
https://www.youtube.com/watch?v=4XsyfrpXIww

12.4 – La Costituzione.
A fine 1947 l'Assemblea costituente approvò il testo della nuova Costituzione repubblicana, la
quale entrò in vigore il 1 gennaio 1948. A predisporre il testo era stata la commissione dei 75,
nominata su designazione dei gruppi parlamentari in corrispondenza dei rispettivi rapporti di forza.
Il testo costituzionale segnò una rottura netta con le istituzioni del fascismo, e diede vita a una
Repubblica parlamentare basata su due camere elettive investite delle stesse funzioni legislative.
Un sistema di bicameralismo paritario al quale si accodarono De Gasperi e la DC, spinti - come
avrebbe ammesso Dossetti - “da una voluta intenzionalità nel delineare il governo e
la doppia camera non perché funzionassero ma perché fossero deboli”, data la
preoccupazione “che il PCI potesse diventare maggioranza”.
Tra i principi cardine c’era la piena uguaglianza tra i due sessi e l’impegno dello Stato a rimuovere
tutti gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della personalità e l’accesso alle cariche pubbliche.
I rapporti fra Stato e Chiesa, in base all’art. 7, furono regolati dai Patti lateranensi: “ lo Stato e
la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”,
sancendo l’esistenza di una sfera di rapporti nello territorio nazionale sottratta alla competenza
dello Stato. Da ciò una chiara impronta illiberale tra i privilegi concessi al cattolicesimo rispetto alle
altre confessioni, le quali dall’art. 8 venivano proclamate “libere ed eguali”, ma erano tenute a
darsi statuti non contrastanti con l’ordinamento giuridico italiano. De Gasperi chiese con forza che
l’articolo venisse approvato; temendo lo scontro frontale non solo con la DC, ma anche e
soprattutto con il Vaticano, Togliatti annunciò il voto favorevole del suo partito nella necessità di
salvaguardare l’unità politica.

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Nell’insieme la Costituzione italiana si configura dunque come l’incontro-compromesso fra i
principi generali di carattere liberal-democratico e i principi sociali patrocinati, pur con diverse
sensibilità, dalle sinistre e dalla DC.
https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/01/Costruire-la-Repubblica-9ceda72e-b640-46ae-a980-a3ac361009e8.html

12.5 – Elezioni 1948: il trionfo della DC. Il terzo sistema politico bloccato della storia italiana.
La divisione sempre più netta dell'Europa in due sfere di influenza ebbe decisive conseguenze sulla
politica interna italiana. Oltre agli USA, anche i sovietici disapprovavano governi di unità
antifascista: nel settembre 1947, per la fondazione del Cominform (che sostituiva la Terza
Internazionale) il PCI, insieme a quello francese, venne aspramente criticato dai sovietici per la sua
collaborazione a livello di governo con la borghesia, per non avere insomma compreso che non era
più il tempo dell’unità antifascista ma quello del confronto-scontro tra mondo capitalistico e
mondo socialista. La guerra fredda si trasferì tout court all’interno del Paese e l’opinione pubblica
si trovò così spaccata.
Ad aprile 1948 si svolsero le elezioni politiche generali per il Parlamento: le prime dopo la fine
della guerra. Comunisti e socialisti diedero vita al Fronte democratico popolare presentandosi
uniti in una sola lista. A favore della DC giocò innanzitutto la dichiarazione di Marshall che se il
popolo italiano avesse affidato il potere a un governo ostile agli USA, ciò avrebbe significato la
rinuncia al programma di assistenza. Inoltre al Fronte nocque notevolmente il colpo di Stato di
Praga, dove i comunisti, senza passare attraverso elezioni generali, assunsero il potere in
Cecoslovacchia con lo scoperto appoggio dei sovietici; colpo di stato che venne salutato con
entusiasmo dal PCI, che fornì efficaci argomenti alle forze che mettevano in dubbio la sua fedeltà
alle istituzioni democratiche. Infatti i comunisti scontarono la contraddizione che caratterizzava la
loro strategia: la convivenza della scelta in senso legalitario (svolta di Salerno) con gli strettissimi
legami con l'Urss e l'appoggio.
Massiccio fu anche l’intervento della comunità italo-americana, che dagli USA in via una valanga
di lettere a congiunti e amici specie meridionali. I socialisti, indeboliti dalla scissione saragattiana,
dato il Fronte costituito con il PCI prestavano il fianco all’accusa di essere una succursale
comunista camuffata. La DC si presentò quindi come l’unica alternativa in grado di evitare al Paese
da un lato un regime comunista e dall’altro di imboccare la deriva reazionaria auspicata dalla
destra.
La partecipazione alle elezioni fu elevatissima: votò il 92%. La vittoria della DC fu clamorosa
(48,5%); il Fronte prese solo il 31%. Repubblicani e liberali subirono sensibili perdite, dimostrando
l’esodo di del loro elettorato verso la DC, considerata l’unica forza in grado di fare scudo contro il
Fronte. La DC infatti ottenne il consenso non solo tra le masse popolari, ma anche di larghi strati
borghesi di ispirazione laica, e si profilava a questo punto anche come il partito della borghesia.
Era chiaro che il sistema politico italiano sarebbe stato caratterizzato da un bipolarismo che
vedeva rispettivamente la DC perno delle forze di governo e il PCI di quelle di opposizione,
attestati agli occhi degli avversari in una sorta di nuovo anti-Stato - che riproponeva il ruolo dei
repubblicani, anarchici, socialisti e socialrivoluzionari nello Stato liberale e degli antifascisti e lo
Stato fascista.
Detentore della maggioranza assoluta, De Gasperi avrebbe potuto formare un governo
monocolore democristiano. Sennonché, dando prova di abilità e prudenza, voleva evitare sia di
affidare alla sola DC la responsabilità del potere in una situazione socio-politica ancora assai

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difficile sia che il governo e il partito andassero incontro a una deriva di tipo clericale; per questo
offrì ai partiti minori - che vennero definiti laici: il PLI, il PRI e il PSDI - di entrare al governo.
Si impose così il terzo sistema politico bloccato della storia d’Italia in cui venne interdetto alle forze
di opposizione di accedere al governo. Dopo il 1948 al PCI sarebbe stata preclusa, per le sue
caratteristiche e i limiti del consenso elettorale, la possibilità di costruire un’alternativa di governo;
infatti non sarebbe più tornato al governo neppure nel quadro di una coalizione. Sul partito legato
all’URSS cadde così un’esclusione fatta valere dallo stringente controllo degli USA
Nel clima di forte contrapposizione, alla scissione del partito socialista seguì la scissione sindacale:
gli esponenti di minoranza della CGIL decisero di non poter più militare in un'organizzazione
accusata di essere strumento del partito comunista. L'avvio della scissione sindacale fu dato dalla
drammatica crisi scaturita dall’attentato a Togliatti. La reazione della gran parte dei lavoratori fu
immediata e spontanea: dilagarono in tutta Italia scontri violenti, occupazioni di fabbriche e la
mobilitazione di ex partigiani, convinti che l’attentato fosse il segnale che le forze conservatrici
intendessero aprire una fase di reazione. Di Vittorio, segretario della CGIL - composta anche da
moderato-cattolici - lancia lo sciopero generale provocando a sua volta una frattura interna con
l’ala cattolico-moderata che si separa formando altri sindacati, CISL (di prevalente impronta
cattolica) e UIL (di una minoranza di socialisti riformisti) . Il Paese pareva sulle soglie della guerra
civile. Ma i dirigenti del PCI e in primo luogo Togliatti si opposero fermamente ad un’insurrezione
priva di prospettive, di carattere avventuristico, sicché l’ondata di agitazioni venne contenuta e si
spense.
In questo clima cadde la scomunica sui comunisti decretata nel luglio 1949 dal Sant’Uffizio. Si
accese così una “guerra civile” ideologica e politica, che mostrava tutti limiti e le difficoltà di una
stabilizzazione in senso moderato.
 Capitolo 13 – L’Italia negli anni del “centrismo”. Il miracolo economico.

13.1 – Contrasti interni ai partiti di centro e persistente ambiguità della politica del PCI.
Fra 1948-53 si succedettero 3 governi De Gasperi, tutti di coalizione e con l’appoggio
parlamentare di quattro partiti di “centro”. Sennonché il "centrismo quadripartito" finì per essere
una formula depotenziata dal fatto che, se uniti dall'anticomunismo, i partiti di governo non lo
erano circa i modi in cui affrontare i problemi di politica interna. Queste divisioni non riguardavano
soltanto i partiti, ma anche le loro correnti interne; e in primo luogo quelle della DC: la destra
conservatrice, clericale e persino monarchica fronteggiava le correnti riformiste di centro e di
sinistra. De Gasperi si rivelò un abile mediatore e si sforzò di affiancare all’anticomunismo il
riformismo sociale, ispirato da Dossetti. La presenza di tali correnti sarebbe stata una caratteristica
permanente del maggior partito italiano. Esse rappresentavano al tempo stesso fattori di
debolezza e di forza: debolezza in quanto conferiva fragilità ai singoli esecutivi; forza in quanto
costituiva i punti di riferimento di una vasta e articolata rete di interessi diffusi in tutti gli strati
sociali, ciascuno dei quali poteva riconoscersi in questa o quella corrente (rendendo possibile che
la DC rimanesse invariabilmente il partito con il maggior consenso fino al 1992). Il ritiro di Dossetti
nel 1951 aprì la strada all’iniziativa di Fanfani, che mirava a rendere la DC meno dipendente
dall’Azione cattolica e dal Vaticano.
Nella sinistra convivevano due anime: quella ancorata alla finalità rivoluzionarie dettate
dall'ideologia leninista e quella che, piegandosi ai rapporti di forza esistenti in Italia e nel mondo
occidentale, induceva a percorrere la strada delle “riforme di struttura” e radicarsi via via più
profondamente nel sistema politico nazionale. Il PSI restava strettamente legato ai comunisti; ma
al suo interno era anche presente una corrente, rappresentata dai leader Lombardi e Pertini, i
quali sostenevano una linea di autonomia socialista, pur nel quadro dell'alleanza con il PCI e
dell'unità di classe di operai e contadini. A mantenere acceso lo scontro tra filoamericani e

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filosovietici furono il trionfo del 1949 dei comunisti in Cina, e lo scoppio nel 1950 della guerra di
Corea.
La destra monarchica aveva il maggiore consenso nel Sud. Quella neofascista aveva diramazioni
non solo nel Sud e nel Centro, ma anche al Nord; il MSI, con forti toni populistici, puntava a far
presa sui nostalgici del regime fascista della Repubblica di Salò. Nella sua orbita si muovevano
gruppi di giovani dediti alla violenza. In base al dettato costituzionale, il MSI avrebbe potuto e
dovuto essere sciolto, ma De Gasperi non ritenne opportuno percorrere questa altra strada perché
temeva, con fondate ragioni, che avrebbe scatenato una campagna di quanti avrebbero invocato
un’analoga messa fuori legge del PCI.

13.2 – Il “riformismo dall’alto”. Riforma agraria e cassa per il Mezzogiorno.


il processo riformatore di De Gasperi intendeva anche contrapporre comunisti e socialisti una sua
politica riformatrice, che potesse allargare la propria area di consenso a partire delle campagne
meridionali. A premere per le riforme nei settori più arretrati dell’economia nazionale erano anche
le forze imprenditoriali più avanzate, consapevoli che la struttura agraria troppo arcaica quale
quella del mezzogiorno poneva un forte freno allo sviluppo capitalistico. Così i governi De Gasperi
vararono a favore delle masse rurali del sud quello che viene definito “un riformismo dall’alto” che
produsse risultati tutt’altro che sottovalutabili. Nel complesso la riforma agraria, che interessava
principalmente il Sud, nel decennio 1950-60 portò all’esproprio di 770.000 ettari di terreni non
coltivati, appartenenti a grandi proprietari e alla formazione di 100.000 aziende a conduzione
familiare. Le nuove proprietà, che i contadini avrebbero dovuto riscattare ratealmente, erano
perlopiù troppo piccole, male assistite e in larga parte terre di scarsa qualità. Sicché molti
assegnatari, delusi, avrebbe in seguito abbandonato le terre emigrando al Nord. In ogni caso la
legislazione di esproprio ebbe un’importanza storica: il tramonto della potenza nel mezzogiorno
dei latifondisti, grandi proprietari assenteisti.

La riforma agraria mirava a promuovere lo sviluppo del sud. Sennonché occorreva intervenire
anche nel settore dell'industria. Così con la legge del 1950 si istituì la Cassa per il Mezzogiorno. La
legge intendeva creare attraverso il finanziamento pubblico una rete di infrastrutture (strade,
acquedotti, elettrificazione), tali da promuovere lo sviluppo dell’industria e migliorare l’agricoltura.
Nel 1952 la Cassa allargò l’ambito del proprio intervento, fornendo crediti all’iniziative industriali
private, con agevolazioni notevoli per alleggerire i rischi imprenditoriali. In 10 anni stanziati 1180
miliardi.
Le organizzazioni criminali trovarono canali favorevoli all’infiltrazione; ma comunque l’intervento
pubblico favorì l’avvio di una modernizzazione del contesto meridionale sia pure relativa e
squilibrata. A beneficiare dei finanziamenti furono le grandi imprese pubbliche private tra cui l’Iri,
l’Eni, ecc. che costruirono impianti siderurgici e petrolchimici, i quali però, data la mancanza delle
necessarie infrastrutture, vissero in una posizione di sistematica precarietà che li fecero definire
polemicamente “cattedrali nel deserto”.
Altre significative misure riformatrici furono il varo nel 1949, per iniziativa del ministro fanfani, del
piano Ina-Casa, diretto a finanziare la costruzione di case popolari; e nel 1951 la riforma Vanoni,
che istituì l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi, l’imposta progressiva e l’aumento dei
minimi imponibili, dando inizio alla razionalizzazione della legislazione fiscale.
Al di là dei suoi limiti, il bilancio economico del quinquennio appariva tutt’altro che trascurabile: la
ricostruzione poteva considerarsi ultimata e la produzione industriale era ormai raddoppiata.
Quale che fosse il giudizio che se ne volesse dare, l’iniziativa riformatrice conseguì un risultato
politico di grande importanza: mostrare che anche in Italia il capitalismo non era affatto in crisi,
anzi, accompagnava un innegabile sviluppo destinato ad accentuarsi fino a dar luogo
all’espressione “il miracolo economico” italiano. Fu così che la strategia del PCI di superare primo

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poi le frontiere della democrazia borghese e del capitalismo non ebbe alcuna possibilità di
successo.

13.3 – La legge truffa e le elezioni del 1953. La fine politica di De Gasperi. Le elezioni del
1958.
I fattori che nel 48 avevano favorito la strepitosa vittoria della DC - l’anticomunismo e gli aiuti
statunitensi - erano venuti indebolendosi. Alle elezioni amministrative di Roma il Blocco del
popolo formato dalle sinistre sembrava poter prevalere, scatenando grave preoccupazione del
Vaticano. Questa preoccupazione portò Pio XII a fare pressioni su De Gasperi perché si aprisse
all’appoggio di monarchici e neofascisti. Il rifiuto di De Gasperi suscitò in viva risentimento negli
ambienti vaticani e anzitutto nel pontefice (nonostante i timori, il Blocco del popolo sarebbe stato
sconfitto).
Di fronte al rischio che alle elezioni politiche nazionali del 1953 la coalizione di centro perdesse
una solida maggioranza e volendo al tempo stesso evitare di dipendere dall’appoggio della destra
monarchica e neofascista, De Gasperi fece approvare una legge elettorale maggioritaria, secondo
la quale il partito o la coalizione che avesse ottenuto almeno il 50,01% dei voti sarebbe stato
assegnato alla camera il 65% dei seggi. La legge fu bollata dalle sinistre come "legge truffa" per il
suo meccanismo che ricordava la legge acerbo. Aspramente combattuta anche dalla destra, la
legge divise profondamente gli italiani. In Parlamento vi furono tafferugli, nel Paese grandi
manifestazioni di protesta che denunciarono il tradimento dei principi democratici. Alle elezioni
DC, PSI, PRI e PLI non raggiunsero la quota necessaria a far scattare la legge ottenendo
complessivamente il 49,2%. La DC perse quasi 2 milioni di voti (passando al 40%); in regresso
anche gli altri tre partiti della maggioranza. La sinistra ebbe notevole successo, passando al 35,3%.
Avanzò sensibilmente anche la destra che vide MSI e monarchici complessivamente al 12,7%.
Indicativo dello scarso consenso con cui era stato accolto il riformismo dall’alto” era il fatto che il
PCI aveva guadagnato voti proprio nel Mezzogiorno. Le elezioni sancirono la fine dell’era De
Gasperi.
La fine della leadership di De Gasperi e il ritorno al sistema proporzionale, però, affermarono la
tendenza che avrebbe caratterizzato la storia successiva della Repubblica: far nascere e cadere con
facilità le maggioranze parlamentari e gli esecutivi a scapito della coerenza del processo legislativo,
della capacità decisionale del Parlamento e dell’efficienza degli esecutivi stessi.
https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/01/Il-centrismo-e400da66-afe3-4573-b382-a8fc2c6430b1.html
 Capitolo 14 – Centro-sinistra, “autunno caldo” e “strategia della tensione”
14.1 – Radici del Centro-sinistra: linea Fanfani, evoluzioni tra PSI e PCI, rinnovamento
Chiesa.
Il clima politico interno e internazionale stava notevolmente cambiano per via sia dall’avvio della
distensione tra le due superpotenze, sia dall’effetto impetuoso dello sviluppo economico degli
anni 50, che, con la formazione di un più robusto proletariato industriale, poneva ormai all’ordine
del giorno anche il problema politico di stabilire nuovi rapporti con le masse lavoratrici e di riaprire
il corso delle riforme. Andò perciò maturando un clima favorevole a un'intesa politica fra la DC e la
componente socialista dell'opposizione. Infondo lo spettro del sopravvento dei socialcomunisti
stava venendo gradualmente meno e l'Italia era saldamente inserita nel mondo occidentale.
Le radici della politica di centro-sinistra vanno rintracciate in:
 1954 - significativa elezione di Fanfani a segretario della DC, promotore di un corso riformatore.
 1955 - Nenni parlò della disponibilità dei socialisti ad aprire un dialogo e appoggiare un governo
riformatore. Inoltre, l’ano seguente, criticò fortemente l’URSS per gli eventi in Ungheria.
 1956 - Fine del patto d’unità d’azione tra PSI e PCI dovuta alla sanguinosa repressione sovietica di una
rivolta in Ungheria, approvata dal PCI; e alla crisi comunista internazionale, dopo la denuncia di Krusciov ai crimini di
Stalin.

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 1958 - Nuovo papa Giovanni XXIII, di grande fascino umano, delineò in senso rinnovatore del ruolo nella
società della Chiesa, facendo spazio allo spirito di distensione e di dialogo. La sua azione culminò nel Concilio
Vaticano II. Egli incoraggiò l’iniziativa delle correnti di sinistra della DC in generale una maggiore autonomia del
mondo politico cattolico dalle gerarchie ecclesiastiche.
 1961 - Nuovo presidente Kennedy, democratico, lontano dalla visione conservatrice di Eisenhower
La linea del PCI, che nei fatti si mostrava fedele alla Costituzione, rispettoso della legalità e delle
istituzioni democratico-parlamentari, cozzava con la scelta di schierarsi dalla parte di Mosca,
giustificata per giunta con la teoria che la rivolta di Budapest fu organizzata da forze capitalistiche
occidentali. Di Vittorio condannò fermamente l’operaio sovietico; come lui si espresse un
manifesto di 101 intellettuali, tra i quali Calvino e Cantimori.

14.2 – Resistenze all’apertura al PSI. Dal governo Tambroni al governo Fanfani.


Bisognerà però aspettare fino al 1962 prima di avere un governo di centro-sinistra.
Le elezioni del 1958 non segnarono grandi variazioni di consenso elettorale. Si formò così un
governo Fanfani – con l’appoggio del PSDI -, il quale però si dimise per via della forte influenza
dell’ala conservatrice interna alla DC, incarnata da Andreotti.
Si formò così il governo Tambroni nel 1960, un monocolore democristiano; ma i nodi vennero al
pettine: repubblicani, socialdemocratici e socialisti non intendevano sostenere un governo che
esprimesse l’ala destra della DC. Le destre a quel punto offrirono i loro voti al governo, che
ottenne una risicata fiducia grazie all’apporto determinante del MSI. A 15 anni dalla Liberazione si
forma il primo governo che poggia sugli eredi del fascismo. L’esecutivo era nettamente sbilanciato
a destra.
Inoltre, il governo autorizzò il MSI a tenere il proprio congresso a Genova, città profondamente
antifascista, niente di meno che sotto la presidenza dell’ex prefetto della RSI. Ciò venne
considerato come un’inaccettabile provocazione dalle forze antifasciste di tutti gli schieramenti. La
reazione a Genova e delle principali città italiane portò ad agitazioni massicce e scioperi affrontati
dalla polizia con estrema brutalità e violenza, al punto da provocare numerosi morti. Sotto
un'ondata di indignazione enorme che coinvolse anche una parte della DC; e dopo aver
denunciato la protesta come “un’azione preordinata e coordinata dal pc con il
sostegno sovietico” Tambroni fu costretto a dimettersi.
Si formò così un altro governo Fanfani, un monocolore democristiano che durerà fino al 1962.
A creare le condizioni per l’affermazione del centro-sinistra contribuì in modo decisivo la posizione
espressa da Nenni nel 1962, che sanciva l’accettazione da parte del PSI della Nato.
Al Congresso della DC, dopo aver fatto i conti con l’opposizione interna dell’ala destra (Segni,
Scelba, Tambroni), si arrivò ad un accordo tra Moro e Fanfani, con l’assenso di Andreotti; si chiede
così il via libera alla formazione del primo governo di centro-sinistra. Dopo aver presentato le
dimissioni del suo precedente governo, si formò il quarto governo Fanfani nel 1962, con la
partecipazione di PSDI e PRI; che in qualche modo anticipò quello del 1963 di Moro (il primo di
centro-sinistra), poiché i socialisti non entrarono ancora nell’esecutivo, ma parteciparono alla
stesura del programma e che divenne una componente essenziale della maggioranza
parlamentare.
Kennedy manteneva una posizione di cauto appoggio al centro-sinistra, mentre influenti settori
della sua amministrazione erano diffidenti o contrari. Prova significativa delle resistenze in Italia fu
invece l'elezione di Segni a Presidente della Repubblica. Il che volle dire che il nuovo corso politico
avrebbe visto il Capo dello Stato nettamente ostile.
Fanfani, che interpretò con energia la via delle riforme, anche se durò poco più di un anno, non
mancò nel portare risultati di rilievo:
 Nazionalizzata l’industria elettrica, cui seguì l’istituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel)
 Legge sulla scuola media unica, che portò l’obbligo scolastico a 14 anni.

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 Altre misure importanti contrastarono gli ostacoli che controllano le donne nel campo delle professioni e
degli impieghi pubblici e la riduzione della leva militare da 18 a 15 mesi; aumenti delle pensioni di invalidità e
vecchiaia.

14.3 – Elezioni 1963. Moderatismo dei governi Moro. Unificazione PSI e PSDI. Dibattito
PCI.
In vista delle elezioni, il parlamento fu sciolto nel 1963. I partiti di centro sinistra si presentarono
l’appuntamento elettorale sotto un duplice attacco: quello delle destre che denunciavano
l’apertura a sinistra; e quello del PCI che criticava fortemente la linea del governo.
I risultati elettorali confermarono che la prima espressione di centro-sinistra non era riuscita ad
accrescere l’area del consenso intorno ai partiti che l’avevano sostenuto e nemmeno a ridurre il
peso dei comunisti; ma solo a far perdere alla DC una componente significativa del suo elettorato.
Prevalse una battuta d’arresto nella politica di centro-sinistra, che seppure non abbandonata
dalla DC, subì un progressivo svuotamento. Ad ogni modo si formò il 1° governo Moro di centro-
sinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti e in cui Nenni ricopriva la carica di
vicepresidente.
Contro il governo si erano schierati nella DC la corrente di Scelba e la sinistra nel PSI. Questa nel
1964 passò dal dissenso alla scissione, dando vita al Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP),
con l’idea di ristabilire l’intesa politica con il PCI, la quale, però, non venne favorita da
quest’ultimo.
Al governo Moro toccò fin dall’inizio di misurarsi sia con l’opposizione di parte della DC sia con gli
effetti della scissione socialista che indebolì Nenni sia con la fase recessiva in cui l’economia
italiana era entrata proprio nel 1964 . Le resistenze agli attacchi ai progetti riformisti ci si fecero
sempre più forti, così come i contrasti interni ai partiti di governo; sicché nel giugno 1964 Moro si
dimise.
Nei vertici militari andava emergendo nello stesso tempo una corrente favorevole alla nascita di
un nuovo partito di destra. Il generale Giovanni de Lorenzo, comandante dei carabinieri, prospettò
agli americani un’opportunità di un’iniziativa in tal senso. Tant’è che, mentre erano in corso le
trattative per la formazione del nuovo governo, ebbe luogo un tentativo di colpo di stato (rimasto
allora nascosto) che coinvolse in prima persona il Presidente della Repubblica Segni e De Lorenzo.
Lo scandalo sarebbe stato rivelato solo nel 67 dall’Espresso. Risultò che De Lorenzo aveva
organizzato la schedatura massiccia di personalità della politica e dell'economia, di sindacalisti e
vescovi e aveva preso contatto con esponenti moderati e di destra contrari all’apertura ai
socialisti. Durante le consultazioni per la formazione il governo, il generale era stato convocato da
Segni, che aveva concepito il disegno di varare un governo tecnico-presidenziale libero dai partiti.
Il piano fallì per la determinazione dei partiti di governo, decisi a sostenere un secondo esecutivo
guidato da Moro.
Anche nel 2° governo Moro lo slancio riformatore appariva in affanno. L’impostazione di Moro era
di perseguire prima la ricerca della stabilità dell’esecutivo e poi le riforme, la cui attuazione venne
di fatto rinviata.

14.4 – 3° governo Moro. Elezioni 1968. Inizi della contestazione contro il “sistema”.
Nel 1966 si formò il 3° governo Moro, un quadripartito. E ancora una volta si mise in luce la
mancanza di incisività del centro-sinistra e le difficoltà di superare i continui contrasti fra la più
conservatrice della DC e i socialisti. A parte alcune leggi positive, rimasero lettera morta la riforma
universitaria, quella tributaria e quella sul diritto di famiglia. Anche le riforme approvate
risultarono poco efficaci per mancanza di adeguati strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
Nel 1968 si svolsero le elezioni politiche. I risultati rafforzarono sia la DC, che ne uscì convinta della
bontà di una linea oscillante fra moderatismo e prudente riformismo, sia il PCI che poté

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raccogliere i voti degli oppositori insoddisfatti della scarsa efficacia riformatrice dei partiti di
governo. risultati invece molto negativi per i socialisti. Si formò un altro governo di centro-sinistra
con a capo Rumor.
Intanto nel 1968:
 in Francia divampa un’ondata di contestazione giovanile e operaia.
 in Germania prese piede il movimento contestatore a opera della gioventù soprattutto universitaria.
 In Cina infuriava la rivoluzione culturale promossa da Mao Zedong contro i dirigenti accusati di
imborghesimento.
 In Cecoslovacchia si ebbe l’invasione delle truppe sovietiche e di altri paesi dell’est.
 Continuava sanguinosa la guerra in Vietnam, che alimentava negli USA, in Europa e in Italia continue
manifestazioni contro l’imperialismo americano.
Questi fattori convergevano nel portare anche in Italia masse crescenti di giovani e di lavoratori a
sottoporre a critica radicale non solo l'azione dei governi ma anche dei partiti. Molta parte della
gioventù studentesca diresse in un primo tempo la sua protesta contro le obsolescenti istituzioni
scolastiche e universitarie, incapaci di rispondere alle aspettative della società e contrassegnate
dal potere di gerarchie autoritarie. Prese così vigore la contestazione nelle università, che diventò
rapidamente terreno fertile per il sorgere di gruppi politicizzati in antagonismo con l’intero
“sistema dominante” costruito insieme dai padroni dell’economia, dai partiti al loro servizio, dagli
apparati dello Stato, dai socialisti rinunciatari, dai comunisti ufficiali pseudorivoluzionari anch’essi
integrati nel sistema. I contestatori allargarono progressivamente le aree della società poste sotto
accusa e presero a elaborare e ad agitare programmi di “rivoluzione globale”. A questi gruppi in un
secondo tempo si collegarono frange consistenti del proletariato industriale, le quali si rivoltarono
contro un tipo di sviluppo economico che vedeva intensificarsi i ritmi di lavoro e creava gravi
sperequazioni; contro le carenze delle condizioni abitative e dei servizi sociali. Nel corso del 68 la
contestazione degli studenti andò saldandosi con quella degli operai più radicalizzati.

14.6 – L’ “autunno caldo” e la “strategia della tensione”. Gli inizi del terrorismo.
I sindacati assunsero nel corso delle grandi lotte del 1969 un ruolo nuovo. Dalla pressione dei
lavoratori furono indotti a farsi carico anche dei loro problemi connessi alla condizione umana. I
sindacati approvarono una linea comune d’azione e, al contempo, affermarono una maggiore
autonomia dai partiti (Cgil stabilì l’incompatibilità delle cariche sindacali con quelle politiche,
seguirono Cisl e Uil). La lotta fra operai e imprenditori portò a notevoli conquiste sul piano
salariale e delle condizioni di lavoro. Nel 1970 i salari italiani si erano ormai allineati alle medie
europee. Il PCI da un lato cercò di incanalare e indirizzare le spinte spontaneistiche studentesche e
operaie; dall’altro si sforzò di imprimere alle rivendicazioni il carattere di conquiste democratiche,
denunciando come irresponsabili le pratiche di sabotaggio della produzione e l’assenteismo.
Dopo che Almirante divenne segretario del MSI e attaccò la politica agitando il pericolo rosso, fece
la sua comparsa il terrorismo neofascista. Squadre paramilitari decisi a bloccare il movimento di
lotta degli operai iniziarono ad agire: l’anno fu costellato di attentati dinamitardi volti a suscitare
sfiducia nelle istituzioni. I neofascisti, intenzionati a gettare il paese nel panico facendo appello alla
necessità di un governo autoritario, misero in atto una strategia della tensione, culminata con la
bomba a Piazza Fontana. Si aprì il capitolo tragico della storia italiana, segnato dal gonfiarsi sia di
gruppi terroristici di destra sia di quelli extraparlamentari di estrema sinistra.
 Capitolo 15 – Dagli “anni di piombo” alla “crisi di sistema” degli anni ’90.
15.2 – Gli “anni di piombo” e la “lunga notte” della Repubblica.
Tra 1969-70 si susseguirono altri governi Rumor monocolore che si dimostrarono incapaci di
affrontare le agitazioni studentesche e operaie. Nel frattempo Moro parlava dell’avvento di
“tempi nuovi” che richiedevano non solo di affrontare i problemi posti dalle agitazioni degli

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operai e degli studenti e dei giovani ma anche di aprire un impegnativo confronto con il Partito
comunista (strategia dell’attenzione).
Come si è detto, era in atto la strategia della tensione, iniziata con la strage a Piazza Fontana - del
quale, inizialmente, si privilegiò la pista rossa escludendo la pista nera; solo in seguito emerse la
responsabilità della destra neofascista -; il MSI e le forze più conservatrici, fra cui la destra
democristiana, denunciavano i pericoli di uno spostamento a sinistra, dell’anarchia e persino della
rivoluzione, invocando un governo forte. L’eversione reazionaria di destra si trascinò per anni,
culminando nella strage di piazza della Loggia a Brescia e nell’attentato al treno Italicus nel 1974;
fino ad arrivare alla strage della stazione di Bologna (1980).
Il terrorismo di sinistra si affacciò sulla scena a partire dagli ultimi mesi del 1969 e affondava le sue
radici in ambienti studenteschi, operai e intellettuali. A fare da terreno di coltura furono
organizzazioni della sinistra extraparlamentare - che si presentò come la “Nuova sinistra” -
composta da gruppi che condividevano l’obiettivo di costituire un’alternativa alla destra fascista,
alla DC e ai suoi alleati e al PCI. Tra loro sorse un vero e proprio partito armato di estrema sinistra,
costituito da un arcipelago di organizzazioni sulle quali finirono per emergere le Brigate Rosse
(formatesi nel 1970) che divennero le protagoniste di un gran numero di sequestri, ferimenti
assassini. Il loro scopo dichiarato era di portare un risolutivo “attacco al cuore dello Stato”.

15.3 – Dall’esaurimento del Centro-sinistra alla sconfitta del terrorismo.


A Rumor seguì un governo Colombo quadripartito (1970) che risultò una versione sempre più
stanca della formula di centro-sinistra, anche se, superando la protesta delle gerarchie cattoliche,
venne approvata la legge sul divorzio. In seguito, passando attraverso le elezioni anticipate; un
governo Andreotti che si distinse per una dilatazione della spesa pubblica finalizzata a ottenere il
consenso - tendenza ormai consolidata e destinata a durare per cui i partiti al governo facevano
gravare sul debito dello Stato le loro strategie elettoralistiche - si arrivò all’ultimo governo Rumor
(1974), un tripartito DC, PSI, PSDI che, in seguito a un crescendo di conflittualità, mostrò a quale
punto di esaurimento fosse giunta la formula di centro-sinistra. Il clima della vita pubblica si era a
tal punto deteriorato che divenne corrente il termine "lottizzazione" per indicare la permanente e
manifesta spartizione del potere da parte dei partiti di governo, con il diffondersi della pratica
delle tangenti pagate dagli imprenditori ai partiti in cambio di favori.
Il diffondersi della corruzione pubblica da un lato e dall'altro l'emergere della complicità di
influenti forze politiche e sociali a favore delle “trame nere” furono decisivi nello spingere nuovi
nuclei di giovani estremisti a sostenere direttamente o indirettamente il terrorismo di sinistra, che
si tinse così anche di motivazioni moralistiche. Il Paese si era inoltrato in un tunnel oscuro:
indebolimento crescente del sistema politico, corruzione pubblica e privata, attacco dei gruppi
eversivi e terroristici allo Stato, atti di aggressione fra le fazioni opposte votatesi alla violenza.

A partire dalla metà degli anni 70 andarono prendendo consistenza anche i movimenti delle
donne - le cui origini erano da ricondursi nel 68-69 - i quali si mobilitarono per rivendicare la parità
di diritti, la parità dei salari, la libertà sessuale, la riforma del diritto di famiglia. Fu anche grazie alla
loro spinta che nel 75 fu approvata la legge sulla parità giuridica tra coniugi e la comunione dei
beni.

Nel frattempo, nel PCI venne eletto segretario Enrico Berlinguer nel 1972, il quale dell’Unione
Sovietica sottolineò il ruolo determinante, anche se affermò che in quel Paese persistevano irrisolti
“problemi di democrazia politica”. Sull’Italia disse che “una nuova prospettiva può
essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari:
comunista, socialista, cattolica.”

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Di fronte al reale pericolo di scardinamento dello Stato, si delineò un'azione convergente tra il PCI
e una parte della DC guidata da Moro. Nel settembre 1973 Berlinguer lanciò la proposta di un
patto tra comunisti, socialisti e democristiani : “non un’alternativa di sinistra ma di
un’alternativa democratica”. Un nuovo grande “compromesso storico” che, se applicato,
avrebbe significato un certo modo il ritorno alla strategia dei governi di unità antifascista (45-47).
Berlinguer agì sotto l’influenza del drammatico rovesciamento in Cile, per mano dei militari, del
governo di Allende. Secondo il leader comunista l’Italia stava attraversando una crisi di sistema
analoga.
La strategia del compromesso storico venne accolta negativamente sia dei sovietici, sia dal
segretario di Stato americano Henry Kissinger, sia della grande maggioranza della DC, e senza
entusiasmo dalla corrente del PCI guidata da Amendola. Moro, invece, assunse il ruolo di
interlocutore privilegiato di Berlinguer. Quest’ultimo, per mettere la strategia al riparo da un
insuperabile intoppo di politica estera - compiendo un passo che precedentemente i comunisti
avevano aspramente rimproverato a Nenni - sostenne che il partito accettava il Patto atlantico.
Nel 1974 si formò un governo Moro che si trattava di una fase intermedia in vista di un nuovo
corso fondato sul dialogo e la collaborazione con il PCI. Il governo dovette misurarsi con la
situazione interna caratterizzata non soltanto da difficoltà economiche, causate dalla crisi
energetica internazionale (shock petrolifero), ma anche dei problemi derivanti dalla lotta contro il
terrorismo, per combattere più efficacemente il quale fu varata la legge sull’ordine pubblico con
cui si conferivano maggiori poteri alla polizia in merito di fermo giudiziario ed impiego delle armi.
In quel periodo tornò alla ribalta la questione del divorzio: la DC, con a capo Fanfani, e il MSI,
appoggiati dalle organizzazioni cattoliche, cercarono la rivincita con un referendum popolare, che
però segnò la secca sconfitta degli antidivorzisti con il 59,3%.
Furono i contrasti fra DC e PSI, il quale era preoccupato di essere emarginato dal dialogo tra DC e
PCI, a far cadere il governo Moro. Si arrivò così alle elezioni anticipate del 1976, le quali furono
precedute da una serie di azioni sanguinose effettuate sia da gruppi neofascisti sia dalle BR. I
risultati videro la tenuta della DC (38,7%), il successo massimo fino ad allora raggiunto del PCI
(34,4%) e la frustrazione del PSI (9,6 %). A favorire l’incremento del PCI furono la condanna del
partito al terrorismo rosso e il riconoscimento di Berlinguer del Patto Atlantico. Si formò così un
governo Andreotti monocolore retto sulla formula della “non sfiducia”, cosiddetta perché il
governo ottenne l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI.
Il PCI scelse dunque la via della collaborazione in un clima favorito dalla svolta ideologica attuata
congiuntamente ai partiti comunisti spagnolo e francese: la formula dell’“ eurocomunismo”.
Questa suonò come una grande novità, in quanto indicava un proposito di autonomia dal
comunismo sovietico che non aveva precedenti. Ambizione dell'eurocomunismo era di costruire
una “terza via” tra quella dei Paesi dell’Est, criticata per non essere in grado di sviluppare la
democrazia socialista, e quella socialdemocratica subalterna agli interessi capitalistici. Punto
chiave è il riconoscimento dell’esistenza e dell’attività dei partiti di opposizione e la possibilità
dell’alternarsi democratico delle maggioranze e delle minoranze. Al tempo stesso però Berlinguer
continuava a esaltare il valore del legame con i paesi comunisti in virtù della superiorità
complessiva del loro modello economico e sociale ricordando come le ripercussioni della crisi
petrolifera che colpirono l’Occidente, lasciarono i paesi comunisti in buona salute: “ nel mondo
capitalistico c’è crisi, nel mondo socialista no”.
Ma la strategia della terza via da un lato inasprì la critica serrata dei gruppi estremistici, dall'altro
provocò la reazione negativa del PSI, che rimproverava a Berlinguer di avanzare riserve verso i
limiti dei regimi comunisti in materia di democrazia senza però voler riconoscere il carattere
dittatoriale e totalitario. Per essi la terza via era una contraddittoria invenzione ideologica.
Intanto Moro andava tessendo la tela per preparare le condizioni di un “confronto
costruttivo”, in vista del possibile ingresso del PCI nella maggioranza parlamentare. Nel contesto

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creato dal fatto che Moro non cedeva alle pressioni americane, nel 1978 si formò il 4° governo
Andreotti, un monocolore, sostenuto non solo da PSI, PSDI e PRI, ma anche dal PCI divenuto così
parte della maggioranza parlamentare. Si profilava ormai la possibilità che si arrivasse a una
grande coalizione DC-PCI. Il clima politico era dunque non solo in forte movimento, ma molto teso
anche perché il PCI, insoddisfatto della composizione del governo, esitava nel concedere la fiducia
ad Andreotti. In un simile contesto si arrivò a un evento che nessuno avrebbe immaginato: un
comando delle BR rapì Moro. In una situazione di tale emergenza il PCI reagì votando quel giorno
stesso la fiducia al governo. La formula, significativamente definita di “ solidarietà nazionale”,
sanzionava il legame stabilitosi tra i partiti schierati in difesa dello Stato.
Il rapimento di Moro ebbe un enorme eco internazionale, gettò nel massimo allarme tutti i partiti
e seminò il turbamento nella maggioranza della popolazione. Alimentò altresì una confusa ridda di
sospetti circa l'appoggio dato ai terroristi vuoi dei servizi segreti sovietici vuoi di quelli statunitensi.
Dal canto loro, i partiti si divisero tra i contrari ad aprire trattative con le BR - che avrebbero
rappresentato il riconoscimento di fatto dell’organizzazione terroristica come controparte politica,
assumendo il significato di una capitolazione dello Stato - e i favorevoli. Dopo due mesi il corpo Di
Moro venne trovato nel bagagliaio di un'auto nel centro di Roma. Nella DC - lacerata dalle lettere
di Moro fatte pervenire dei brigatisti, nelle quali egli rivolgeva aspre accuse a quanti non erano
disposti a trattare la sua liberazione e in particolare ad Andreotti - e ancor più decisamente nel PCI
era prevalsa la “linea della fermezza” tesa a non cedere a una trattativa, la quale avrebbe
rappresentato un clamoroso successo per le BR. La linea di Moro, dopo la sua morte, fu liquidata.
Dal canto loro le BR dovettero registrare il fallimento della strategia diretta ad aprire una fase
rivoluzionaria.
L'uscita dei comunisti dalla maggioranza provocò la caduta di governo di solidarietà nazionale.
Dopo un governo ponte, si arrivò alle elezioni del 1979, le quali penalizzarono notevolmente il PCI,
che perse il 4%, scontando l’insoddisfazione tanto di coloro che videro il partito sostenere il
governo senza riuscire ad accedervi quanto di coloro che all’opposto deploravano da sinistra quel
sostegno. La DC rimase sostanzialmente stabile; così come il PSI. Un notevole successo ottenere i
radicali che beneficiarono della perdita comunista.
L'evoluzione politica degli anni 70 aveva creato una situazione critica per il PSI che si era trovato a
reggere in maniera sempre più subalterna l'alleanza con la DC nel quadro dell’esaurimento del
centro-sinistra. Le deludenti elezioni del 76 produssero una reazione che aprì un processo di
rinnovamento interno e all’emergere di una nuova leadership: eletto segretario Bettino Craxi. Egli
riuscì a consolidare la sua leadership fino a renderla agli inizi degli anni 80 incontrastata. Orientato
a entrare da sinistra in concorrenza ai comunisti, non esitò a battere la strada di un radicalismo dai
toni ideologicamente inediti.
I risultati elettorali del 1979 affossarono la strategia del compromesso storico proposta dai
comunisti; DC e PSI convennero che era interesse reciproco formare una nuova alleanza di
governo, lasciando il PCI fuori e riattivando la comune ambizione di ridimensionare il suo peso
elettorale. I primi due obiettivi furono conseguiti, ma non il terzo. Infatti, il PCI restò sì isolato ma il
consenso non venne significativamente scosso, nonostante le crisi sempre più irreversibile data dal
declino dei regimi dell’Est europeo: declino che Berlinguer continuava negare. Da allora in poi il
PSI, sarebbe rimasto ancorato al ruolo di abile sfruttatore, detestato dei comunisti e mal tollerato
dei democristiani, della “rendita di posizione” che lo rendeva indispensabile alla formazione dei
governi.

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