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Storia Contemporanea
Università degli Studi di Milano (UNIMI)
60 pag.
1.1 - L’egemonia dei liberali moderati del Risorgimento e la sconfitta dei democratici
Fra il 1849-1860 l'Italia vide intensificarsi l'azione di forze/correnti opposte le quali entrambe
aspiravano a conseguire l'indipendenza del paese dallo straniero, ma si trovavano in aspro
contrasto circa i mezzi da impiegare nella lotta per l’indipendenza e concepivano la
ristrutturazione politica e istituzionale in maniera opposta:
liberali moderati e monarchici , il cui leader indiscusso era Cavour, miravano a una
confederazione di Stati monarchici fondata su un blocco di potere aristocratico-borghese. Essi
puntavano sulla guerra tra Stati, sulle risorse militari del Regno di Sardegna e sull’alleanza con la
Francia di Napoleone III, su una diplomazia e una strategia saldamente nelle mani della
monarchia sabauda. Il conte perseguiva l’espansione dello Stato sardo in vista della creazione di
un regno dell’Alta Italia che fosse egemone su un Italia indipendente e solo tardivamente, in
circostanze da lui del tutto impreviste, abbracciò la prospettiva dell’unità italiana.
democratici repubblicani, dove assunsero un ruolo dirigente Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, erano
divisi al loro interno poiché Mazzini auspicava a coniugare l’indipendenza con l’unità di tutto il
paese in chiave democratica e repubblicana, mentre Cattaneo e Ferrari guardavano a una
federazione di liberi Stati repubblicani. Essi puntavano sulla guerra rivoluzionaria ovvero
sull’insurrezione delle masse popolari e sulla futura convocazione a suffragio universale di
un’Assemblea nazionale Costituente designata a dare le istituzioni della nuova Italia.
L'esito del Risorgimento smentì al tempo stesso le aspettative di Cavour, poiché approdò alla
formazione di uno Stato unitario che a lungo egli aveva ritenuto sia non auspicabile sia impossibile,
e di Mazzini, in quanto il nuovo Stato non nacque né democratico né repubblicano e non fu frutto
della rivoluzione popolare ma della diplomazia e dell’iniziativa politica e militare del Piemonte, che
subordinò infine la conquista del Mezzogiorno compiuta da Garibaldi alla strategia sabauda.
Sennonché le due strategie, pur contrapposte, finirono per intrecciarsi e concorrere entrambe al
compimento dell’unità: fu destino storico di Mazzini di aver posto le basi politiche e il
consolidamento di un forte spirito unitario, ma di non essere riuscito a contrapporre alla
monarchia sabauda una forza popolare democratica capace di dare allo Stato unitario fondamenta
che non fossero quelle volute e imposte da Cavour, il quale ottenne una brillante vittoria sui
democratici, culminata nell’inglobare nel proprio disegno l’azione di Garibaldi. Fu infatti Cavour a
“tirare le fila”, il quale colse con estrema lucidità ed intelligenza che il movimento nazionale da un
lato aveva assunto un’ampiezza tale da dare concretezza alla prospettiva dell’unità istituzionale,
verso la quale egli procedette arditamente imponendo con vigore l’iniziativa piemontese; dall’altro
che nel paese non avrebbe potuto avere successo una rivoluzione democratica e che, semmai la
proprietà fosse stata veramente minacciata, non pochi sarebbero stati i democratici ad arretrare
spaventati.
Infatti il movimento democratico, se disponeva di una brillante élite politica e intellettuale, non
poteva contare su strati sociali popolari sufficientemente ampi e omogenei, non trovava un
seguito attivo nelle masse rurali le quali erano molto arretrate, prive di coscienza politica, quasi
completamente analfabete, a cui i democratici non avevano un programma politico e sociale da
offrire e a cui non potevano assicurare un’organizzazione e una guida efficace.
2.4 – Il compimento dell’unità nazionale. La guerra del 1866 e la presa di Roma nel 1870
Dopo i tentativi di Cavour di risolvere la questione Stato-Chiesa, ne susseguirono altri ma senza
esito, poiché Pio IX, forte dell’appoggio di Napoleone III, era deciso a resistere sfidando la
“provocatoria” proclamazione di Roma capitale da parte del Parlamento nel 1861.
Salito al governo, Rattazzi - in quello che sarà il 1° tentativo di prendere Roma - si avventurò per
una strada spericolata: pensò di favorire in maniera coperta l’iniziativa di Garibaldi, così da non
3.7 – Crisi di fine secolo. L’Italia verso la crisi di sistema, la sconfitta del tentativo reazionario
Il 2° governo di Di Rudinì (1896-98) ereditò il fallimento della politica di Crispi e in una situazione
interna che andò progressivamente aggravandosi. Le forze che avevano sostenuto Crispi
(industriali e armatori interessati al colonialismo, agrari meridionali che avevano plaudito la
repressione in Sicilia, certa piccola borghesia intellettuale nazionalista, gli ambienti di corte)
auspicavano il proseguimento della politica autoritaria, riprendendo le posizioni teoriche di
intellettuali i quali da alcuni anni avevano preso a criticare frontalmente il sistema parlamentare e
a invocare il primato della corona e del suo governo sul Parlamento. Portavoce di questa corrente
fu Sydney Sonnino, il quale, suggestionato dall’esempio tedesco, auspicava che il regime liberale
spostasse il baricentro dal parlamentarismo a un potere esecutivo rafforzato nelle mani del re. Un
simile progetto era provocato dal timore e dalla consapevolezza che la classe dirigente liberale
appariva indebolita a causa della sua incapacità, o meglio impossibilità, di allargare la base del
consenso in direzione conservatrice con un’alleanza organica con i cattolici oppure in direzione
democratica con un riformismo capace di assimilare forze radicali, repubblicane e socialiste.
Alle elezioni anticipate del 1897, volute dal capo del governo e dalla corte, il successo dell’estrema
sinistra - che ottenne 80 deputati (i socialisti quasi raddoppiarono) - indebolì il governo,
accrescendo irritazione e preoccupazione, tanto più dopo il fallito attentato a Umberto I da parte
di un anarchico.
Ma la tensione esplose a Milano dove il prezzo del pane era notevolmente aumentato in seguito
al cattivo raccolto e al mancato flusso delle importazioni USA, impegnate nella guerra con Cuba.
Lo scontento popolare sfociò in tumulti, che assunsero apertamente il carattere di protesta
politica. Venne proclamato lo stato di assedio e il generale Beccaris affrontò la folla con le
artiglierie, convinto di reprimere un'insurrezione socialista, provocando centinaia di morti. Dando
4.2 – Il doppio volto di Giolitti. L’insuccesso del suo disegno di “nazionalizzazione delle
masse”
La politica di Giolitti non riuscì, se non parzialmente, a combattere le ragioni strutturali degli
squilibri interni della società italiana. Quel che Giolitti fece con abilità fu di promuovere lo sviluppo
sociale ed economico là dove esso presentava le condizioni più favorevoli e rendere più efficienti
l’amministrazione della macchina dello Stato.
Giolitti portò a perfezione il sistema del trasformismo, sforzandosi, di allargarne le basi con il
coinvolgimento di correnti della sinistra riformista e del cattolicesimo moderato. Punto essenziale
fu l’allargamento del corpo elettorale nel 1912 con la legge per il suffragio universale maschile. Per
consolidare le sue maggioranze non mancò di ricorrere a pressioni di ogni tipo e anche all'aperta
corruzione, soprattutto al Sud - considerato un serbatoio di voti -, tanto da venire denunciato dagli
oppositori liberali, democratici e dall’estrema sinistra. D'altro canto, per il volto progressista che
mostrava al Nord, ottenne il consenso quasi ininterrotto dei socialisti riformisti, i quali vedevano in
lui il borghese moderno che aveva promosso nuovi rapporti con le organizzazioni dei lavoratori. Il
fatto di disporre di larghe maggioranze consentì a Giolitti di accrescere il potere dell’esecutivo.
Non riuscì, però, nell’intento di indurre la classe dirigente ad accettare le organizzazioni politiche e
sindacali dei lavoratori, alla “nazionalizzazione delle masse”. I socialisti rivoluzionari, i repubblicani
più estremisti, i cattolici intransigenti, i nazionalisti votatisi all’autoritarismo, pur nella loro
diversità, non cessarono di formare un fronte comune decisamente antigiolittiano. Contro di lui
anche i liberali di destra e conservatori sonniniani, i borghesi, industriali, agrari e infine i
meridionalisti.
4.3 – Il governo Zanardelli e le lotte del lavoro
Durante il governo Zanardelli, gli scioperi ebbero una brusca impennata: nel 1901 furono 1034 e
nel 1902 800 (nel 1900 erano stati 410), con una partecipazione senza precedenti dei lavoratori
dell'industria e delle campagne. Giolitti adottò un nuovo atteggiamento: ordinò ai prefetti di
lasciare svolgere senza interventi e talora persino di favorire gli scioperi di carattere economico
per consentire il rialzo dei salari, giudicato utile ad allargare la domanda interna e quindi lo stimolo
della produzione, ma combatté quelli di natura politica in quanto perturbatori dell’ordine
pubblico.
La decisione di Pio X fece seguito a un'intensa attività svolta dai cattolici in campo politico e
sociale. Le organizzazioni cattoliche - che facevano capo all'Opera dei congressi, fondata nel 1874 -
avevano dato vita, secondo criteri ispirati all'ideologia "corporativa" contraria alla lotta di classe e
favorevole alla conciliazione fra lavoratori e padroni, a una serie di istituzioni sociali, economiche e
culturali, create a sostegno del credito ai contadini. Tali istituzioni a sfondo caritativo lasciavano
insoddisfatti la corrente della “ democrazia cristiana”, la quale si opponeva al tempo stesso ai
A favore dell’intervento si mosse una minoranza di forze nettamente discordi anzitutto su quale
schieramento l’Italia dovesse schierarsi al fianco.
I simpatizzanti per l’Intesa e ostili all’Austria: il riformista Bissolati, Salvemini, Murri, il socialista irredentista
Battisti.
i nazionalisti di destra , sostenuti dall’ industria pesante (Ansaldo di Genova) che rumorosamente
sostenevano che neutrale l’Italia sarebbe stata condannata a una posizione di secondo rango. Tra i più accessi c’era
D’annunzio.
Si aggiunse anche Mussolini il quale, dopo essersi mostrato uno dei più risoluti contrari, divenne
improvvisamente interventista e fondò, con sovvenzioni francesi, il quotidiano Il Popolo d’Italia. In risposta il PSI lo
espulse dal partito.
I liberali di destra antigiolittiani (Salandra, Sonnino), appoggiati dal Re, sostenuti dal Corriere della Sera, i
quali auspicavano la conquista delle terre irridente e l’espansione in Anatolia, Africa Nord-orientale e i Balcani.
Inoltre si aspettavano che l’arruolamento nell’esercito avrebbe acceso nelle masse un accentuato autoritarismo.
Dal connubio fra liberali antigiolittiani e nazionalisti uscì la forza determinante che finì per
trascinare l’Italia nel grande conflitto. Il blocco interventista compensò la sua nettissima inferiorità
numerica con l’influenza che aveva direttamente sullo Stato attraverso il governo e la monarchia e
sulle piazze occupate da minoranze quanto mai chiassose. L’intervento venne dunque deciso degli
ambienti di corte, dal governo e dalle alte gerarchie militari . Dopo giri di valzer compiuti dal
governo con gli schieramenti opposti al fine di assicurarsi il miglior compenso, il 26 aprile 1915
venne firmato a il trattato di Londra con cui l’Italia si impegnava entrare in guerra al fianco
dell’Intesa. Il mese dopo indirizzò un ultimatum all'Austria; entrando in guerra con questa, ma non
ancora con la Germania.
5.4 – La società italiana durante la guerra. Intervento dello Stato e fermenti antiparlamentare
6.1 – Le classi sociali nel dopoguerra. La frustrazione delle aspirazioni dei nazionalisti.
Al tavolo della pace delle trattative per i compensi, Francia, GB e USA trattarono l’Italia come una
potenza di secondo rango quale in effetti era, gettando in uno stato di frustrazione gli ambienti
che avevano voluto e sostenuto l’intervento. Il Paese in realtà ottenne risultati tutt’altro che
trascurabili con l’acquisto del Trentino, dell’Alto Adige, dell’Istria e delle isole del Dodecaneso.
A differenza di GB e Francia, in Italia si ravvivò quanto mai violenta la polemica fra neutralisti e
interventisti. I primi - e con particolare virulenza i socialisti - misero sotto accusa i secondi.
Gli interventisti, dal canto loro, erano ancora divisi fra i democratici, soddisfatti del compimento
dell’unità nazionale, e gli interventisti di destra, imperialisti i quali, facendo riferimento alle
promesse del trattato di Londra, rivendicavano rumorosamente il possesso di territori in Dalmazia,
di Fiume, di ampie zone nell’Anatolia e ingrandimenti coloniali. Wilson, non sentendosi vincolato
dal trattato di Londra che non aveva firmato, rinfacciò agli italiani di seguire una linea incoerente:
per un verso rivendicare Trento e Trieste in nome del principio di nazionalità e per l’altro voler
violare i diritti di altre nazionalità, specie nei Balcani . Nelle file degli imperialisti e in numerosi
borghesi ed ex ufficiali, si diffuse quel senso di umiliazione che li indusse a ritenere che quella
dell'Italia fosse una "vittoria mutilata". I gruppi nazionalistici di destra soffiavano sul fuoco; e
D’Annunzio, contando sulla complicità di alcuni comandi militari occupò Fiume, proclamandone
l’annessione all’Italia e stabilendovi un proprio governo. Il paese si divise fra entusiasti sostenitori
e quanti, in prima fila i socialisti, denunciarono il carattere irresponsabile dell’impresa.
La frattura più profonda era di natura economica. Risparmiatori piccoli e medi, possessori di
rendite modeste e piccoli proprietari vedevano i loro capitali faticosamente accumulati perdere di
valore, mentre le tasse crescevano notevolmente. La piccola e media borghesia, che aveva fornito
i quadri degli ufficiali, da un lato era orgogliosa della vittoria, ma dall’altro, impoveritasi durante la
guerra e nell’immediato dopoguerra, era in preda a grande inquietudine per le proprie difficoltà.
Ai contadini poveri e ai braccianti che avevano formato la massa dei soldati il governo nell’anno
1917 aveva promesso la riforma agraria (concessione di terra); e alla fine del conflitto costoro
erano ansiosi di vedere mantenute le promesse. Gli operai che erano riusciti a difendere bene o
male il potere d’acquisto dei loro salari non per questo avevano accettato la guerra.
Così operai, braccianti e contadini entrarono in un’agitazione prolungata e vigorosa.
Gli obiettivi erano però diversi: operai e parte importante dei braccianti - che avevano ormai da
alcuni decenni nel PSI, nelle Camere del lavoro e nei sindacati i propri strumenti di organizzazione
e tutela - nella grande maggioranza erano esaltati dalla rivoluzione bolscevica in Russia e volevano
seguirne l’esempio, convinti che fosse finalmente giunta l’occasione di dare il potere al popolo,
abbattere il capitalismo, procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Per contro la
maggioranza dei proprietari di poca terra e dei contadini poveri mirava a ottenere terra.
6.2 – La risposta alla crisi del mondo cattolico. La nascita del PPI
Il timore del radicale mutamento politico e sociale progettato dai socialisti indusse il Vaticano a
prendere una decisione storica. Consapevole della crisi in cui versava la classe dirigente liberale e
che, per far fronte ai socialisti, fosse necessario andare incontro alle esigenze in primo luogo dei
contadini, acconsentì alla formazione di un partito dei cattolici italiani - non però ufficialmente di
un “partito cattolico”, data la mancata conciliazione della Chiesa con lo Stato - che prese il nome di
Partito Popolare Italiano nel 1919, sotto la direzione di Don Luigi Sturzo. La nascita del partito
segnò una svolta nei rapporti non solo fra i cattolici e lo Stato, ma anche nei rapporti con i liberali,
andando a concludere quell’avvicinamento alla classe dirigente liberale iniziato nel periodo
giolittiano ma su basi diverse. Infatti, Sturzo, se condivideva l’intervento politico in funzione
antisocialista, pensava che i cattolici dovessero intraprendere un corso riformatore. Insomma, non
era più tempo per i cattolici di fare da spalla al liberalismo italiano, ma di presentarsi di fronte ai
liberali come una forza autonoma che rivendicava decisivi cambiamenti.
Nel loro programma, accanto alla difesa dei valori propriamente cattolici, i popolari chiedevano
riforme incisive come la protezione della piccola proprietà contadina; l’imposta progressiva; la fine
dello Stato centralistico dei liberali; e ponevano come obiettivo preminente la collaborazione fra
capitale e lavoro, secondo gli indirizzi e gli ideali propri del corporativismo cattolico.
Confluirono nel partito sia grandi proprietari terrieri, che vedevano nel popolarismo un'efficace
arma contro il socialismo, sia medi e piccoli borghesi che desideravano invece riforme che liberali
non erano in grado di assicurare, sia masse contadine che auspicavano la formazione di una più
robusta area di piccola e media proprietà, e anche una componente ridotta di operai. Il legame
comune era il cattolicesimo. Ciò nondimeno nelle intenzioni di Sturzo il partito non doveva essere
considerato formalmente cattolico e tantomeno clericale.
https://www.raiplay.it/video/2019/07/Passato-e-Presente-La-nascita-del-Partito-Popolare-Italiano-630ef255-972f-42c5-ae82-cb97187fd123.html
6.6 – L’occupazione delle fabbriche. Il biennio nero: controffensiva fascista, la 2° guerra civile
Nel 1920 il biennio rosso maturò una situazione destinata a provocare un confronto durissimo tra
il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Avendo gli industriali rifiutato ogni
aumento salariale, la Fiom, il sindacato degli operai metallurgici, proclamò l’ostruzionismo, cioè il
rallentamento della produzione, e in seguito l’occupazione delle fabbriche in tutta la città.
L’occupazione si estese a Torino, al Piemonte, Liguria e altre zone d’Italia. Dinanzi all’imponenza
delle occupazioni (500.000 operai), si aprì nel PSI e nei sindacati un affannoso dibattito sul da farsi,
nel quale emerse il contrasto tra un’ala radicale che pensava fosse finalmente il preludio della
rivoluzione proletaria e un’ala contraria che temeva che ne sarebbe derivato solo il massacro del
popolo. Così i dirigenti del PSI e quelli della Cgl si confrontarono ma, non trovando un accordo, il
partito rinunciò a guidare il movimento. Emerse tutto il velleitarismo e l'inconsistenza del
massimalismo del PSI, che, mentre diffondeva il " fare come in Russia", non avendo alcuna capacità
di dirigere completamente verso la rivoluzione faceva al tempo stesso montare nella borghesia
una volontà contro-rivoluzionaria e inclinazioni autoritarie.
Giolitti agì con lucidità avendo compreso che lo sbocco rivoluzionario si sarebbe esaurito se non si
fosse fatto ricorso alla repressione militare e riuscì a disinnescare la mina. Senonché - per essersi
rifiutato di impiegare l'esercito, come industriale e conservatori chiedevano a gran voce e per aver
cercato e ottenuto infine un’intesa con i sindacati - vide ergersi una barriera contro di lui di aperta
ostilità da parte degli industriali, scandalizzati per quella che loro occhi era la mancata difesa delle
autorità dello Stato e dei diritti di proprietà. Quando vide che socialisti rinunciarono a dirigere una
rivoluzione si adoperò per raggiungere un accordo sulla base di un progetto di "controllo operaio"
In conseguenza, avvenne una scissione interna al PSI: l'estrema sinistra, di indirizzo comunista e
diretta da Bordiga e Gramsci, considerò la condotta della maggioranza massimalista come la
dimostrazione di tutti gli equivoci e le debolezze del massimalismo, rivoluzionario a parole ma
incapace nei fatti. Nacque così, nel gennaio 1921, il Partito comunista d’Italia, convinto che nel
paese persistessero tutte le condizioni favorevoli alla rivoluzione.
https://www.raiplay.it/video/2018/05/Passato-e-Presente---GIOVANNI-GIOLITTI-lo-statista-3a4b32b3-1cd5-43f4-91c1-3f7524f2ac0a.html
Tra il 1920-21 fu soprattutto a partire dalle campagne che il fascismo si sviluppò e prese
rapidamente quota. Nelle aree tra Cremona, Ferrara, Bologna si mobilitarono gruppi di fascisti - i
cui esponenti erano Farinacci, Italo Balbo e Achille Grandi - aggredendo i socialisti e sindacalisti e
commettendo violenze contro le organizzazioni del movimento operaio. Lo squadrismo fascista si
diffuse rapidamente in tutta l’Italia centro-settentrionale. Ebbe in tal modo inizio la 2° guerra civile
nella storia dello stato unitario. Dal canto suo, la grande industria, allineandosi sulle posizioni dagli
agrari del Ferrarese, incominciò a considerare i fascisti un utile, persino necessario strumento da
contrapporre al movimento operaio e prese perciò a finanziarli in modo consistente.
L’ora del fascismo era davvero ormai suonata; i fasci iscritti si moltiplicarono rapidamente anche
tra le masse popolari. Gli scritti che nel 1920 erano circa 20.000, nel 1921 salirono a oltre 200.000,
con una percentuale di oltre 40% formata da lavoratori della terra e dell'industria. Nei soli primi 4
mesi del 1920 i morti superarono il centinaio, tra i quali 25 fascisti, 41 socialisti e 20 poliziotti.
Giolitti riteneva di potersi servire del fascismo come di uno strumento per reprimere l’estremismo
socialista, e di portarlo in un secondo tempo nell’alveo parlamentare, seguendo i canoni tipici del
trasformismo. Inoltre, sperava di coinvolgere non solo i popolari ma anche una componente dei
socialisti nella strategia guidata dei liberali. Ma il suo piano urtava anzitutto contro il fatto che egli
non disponeva più di un sufficiente consenso in primo luogo tra i liberali.
Il riflusso del movimento operaio dopo l'occupazione delle fabbriche e l'ascesa del fascismo
significò il passaggio dal biennio rosso del 1919-20 al biennio nero del 1921-22 nel corso del quale
l’evoluzione dell’antitesi avrebbe raggiunto il culmine provocando il crollo dello Stato liberale e
l’avvento della dittatura fascista. Dal canto suo Mussolini, resosi perfettamente conto che la
rivoluzione socialista in Italia era un mito ideologico che non aveva alcuna possibilità di
realizzazione, dopo aver offerto i suoi servigi alla classe operaia quando l'occupazione delle
fabbriche era al culmine, nel gennaio 1921 fece un’aperta professione di fede nei valori
“insostituibili” del capitalismo. D’altro canto, era del pari conscio della crisi in cui versavano i
liberali. Intanto la crisi economica andava aggravandosi; seguì una forte disoccupazione
accompagnata dalla decisa volontà degli industriali di puntare all’abbassamento dei salari. Il
timore della disoccupazione agì sulla classe operaia ormai sfiduciata; e il numero degli scioperi,
che aveva provocato in gran parte del Paese un senso di grande stanchezza e disagio, diminuì
drasticamente. In questo quadro la mediazione e le leggi fiscali che colpivano i grandi profitti
proposte da Giolitti erano sempre più sgradite ad industriali e agrari, i quali guardavano con aperta
simpatia Mussolini e le sue squadre.
Essendo palese la debolezza e inconsistenza di Facta, Giolitti, secondo la solita strategia, aveva
iniziato trattative in varie direzioni, specie con il PPI e con i fascisti; ma incontrò ancora una volta il
veto di Sturzo e la contrarietà della Chiesa. Mussolini spinse in un binario morto le trattative con
Giolitti, e pochi giorni dopo diede inizio i preparativi per scendere a Roma con le sue milizie. Per lui
la posta era ormai la presa del potere e la formazione di un governo di cui egli fosse il capo. Per
procurarsi il consenso delle classi alte e del re dichiarò che i fascisti avrebbero appoggiato una
monarchia forte. I sempre più stringenti contatti del fascismo con gli ambienti di corte e i vertici
militari vennero favoriti da influenti settori della massoneria.
Forti di un'estesa organizzazione paramilitare, 40.000 camice nere si concentrarono a Napoli. Qui
Mussolini affermò che il problema politico in Italia si poneva a quel punto come "un problema
di forza", e che la monarchia non aveva ragione di opporsi al fascismo, poiché “il Parlamento
non ha niente a che vedere con l’istituto monarchico”. I fascisti, il cui armamento era
raffazzonato, non avevano certo una forza sufficiente a sostenere un eventuale scontro con
l'esercito. Mussolini era ben consapevole; ma sperava, a ragione, che l'impotenza della classe
dirigente liberale e la simpatia degli imprenditori e degli ambienti di corte verso il fascismo
agissero su Vittorio Emanuele III.
Il 26 ottobre “l’esercito delle camicie nere” fu chiamato alla mobilitazione su Roma. L'azione delle
squadre iniziò il 27 con l'occupazione di prefetture, uffici postali, reti telefoniche, mentre il
governo impartì disposizioni all'esercito al fine di salvaguardare l'ordine pubblico. Il re in un primo
tempo parve orientato verso la proclamazione dello stato di assedio; ma, dopo aver inviato a Facta
un telegramma in cui diceva che “occorreva associare il fascismo al governo nelle vie
legali per evitare scosse pericolose”, il 29 informò Mussolini della sua disponibilità ad
affidargli la guida del governo.
Il governo Mussolini presentava una precisa analogia con l’intervento in guerra nel 1915 : entrambi
videro il re assumere l’iniziativa esprimendo solo una minoranza del paese; entrambi mostrarono
l’impotenza delle forze di maggioranza, irrimediabilmente divise tra loro.
Inoltre, tra i liberali prevaleva la convinzione che fosse positivo che il Paese passasse attraverso un
temporaneo “esperimento fascista” per ridare autorità allo Stato e ristabilire le condizioni per il
ritorno alla preminenza liberale. Tutti non erano in grado di valutare le implicazioni di tre essenziali
dati di fatto: il fascismo era guidato dalla più forte personalità politica apparsa dopo Crispi e
7.3 – Il monopolio politico. Le elezioni del 1924 e la crisi Matteotti. La disfatta delle
opposizioni.
Giunto al potere, tra 1922-26 il fascismo, pur disponendo del controllo degli apparati dello Stato,
non aveva ancora la solidità a cui aspirava: fino a che permanessero istituzioni parlamentari, il
nuovo governo doveva passare attraverso la fiducia della maggioranza. In quel periodo, così,
perseguì con successo una linea volta a liquidare le istituzioni liberali, la pluralità dei partiti, la
libertà di organizzazione sindacale: l'esito fu la costituzione di un regime antiparlamentare e
antidemocratico, fondato sul partito unico lo Stato venne fascistizzato.
Come già nel 1921-22, anche in questi anni, liberali e popolari, salvo deboli minoranze, non vollero
opporsi al fascismo, mentre socialisti e comunisti lo fecero ma senza alcun successo.
Una volta al governo, Mussolini lasciò intendere di voler avviare la “normalizzazione del fascismo”,
facendo intravedere la fine delle violenze sistematiche. Sennonché le squadre fasciste
continuarono a colpire. A fine del 1922 fu costituito il Gran consiglio del fascismo, organo di
suprema direzione politica del partito e delle sue organizzazioni sindacali e cooperative, e
l’inquadramento delle forze paramilitari fasciste nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale
(Mvsn), un’organizzazione non statale ma di partito, posta alle dipendenze personale di Mussolini.
Il fatto che il partito al governo disponesse di un "governo ombra" come il Gran consiglio e di
un'organizzazione armata, che a differenza dell'esercito non prestava giuramento di fedeltà al re,
costituiva un'alterazione clamorosa delle istituzioni.
Dopo essere stato un miscuglio fra reazione e radicalismo democratico, dopo aver agito come
strumento antioperaio e antipopolare al servizio di agrari e industriali, il fascismo si dava ora una
piattaforma nettamente di destra grazie alla fusione tra PNF e ANI, 1923. Infatti, il nazionalismo
diede al fascismo una teoria politica più stabile e coerente che si richiamava al principio
monarchico, all’assoluto primato dello Stato, al corporativismo e all’imperialismo.
Mussolini si preoccupò di stringere i migliori rapporti con il Vaticano . A questo fine venne
approvata la riforma Gentile, sempre nel 1923, che avrebbe posto fine alla scuola laica, dando
nuovo grande peso all'insegnamento della dottrina cristiana. Dietro pressioni del Vaticano, Sturzo
si dimise dalla segreteria del PPI. Era chiaro che fascismo e Vaticano cercavano un’intesa senza la
fastidiosa mediazione del PPI.
Intanto proseguirono gli atti di violenza: arrestati Gobetti e Bordiga e altri 100 dirigenti, mentre
altri ripararono all’estero. L’abitazione di Nitti fu assaltata e devastata e il deputato democratico
Amendola fu vittima di una bastonatura. Le sedi di numerosi giornali, soprattutto socialisti e
comunisti, furono devastate e costrette a sospendere le pubblicazioni.
La conclusione del piano fascista di sanzionare in Parlamento la propria posizione di forza arrivò
con la nuova legge elettorale, legge Acerbo, del 1923, approvata dalla maggioranza dei liberali
7.4 – Le leggi “fascistissime”, fine dello Stato liberale e avvento della dittatura.
Mussolini lanciò un messaggio rassicurante al mondo dell’economia e alla monarchia chiamando a
far parte dell’esecutivo uomini di matrice nazionalista come Federzoni, Alfredo Rocco e Badoglio.
Nel 1925, Tito Zaniboni, deputato socialista, venne arrestato dalla polizia per aver progettato un
attentato a Mussolini. Per rappresaglia il PSU venne sciolto e numerosi giornali sottoposti a
sequestro. Nel 1926 un'anziana signora irlandese ferì in modo lieve con un colpo di rivoltella
mussolini; nello stesso anno un anarchico lanciò invano una bomba contro la sua auto; e ancora,
un altro anarchico, sparò al duce senza colpirlo. Questi attentati furono sfruttati dal fascismo per
completare una legislazione destinata a porre fine di quanto rimaneva delle istituzioni liberali.
Fornirono il pretesto per sciogliere tutti i partiti di opposizione : fu istituito il confino di polizia in
località particolari per gli oppositori mentre gli esuli furono soggetti alla confisca di beni e perdita
della cittadinanza. La trasformazione fu realizzata per mezzo di una serie di leggi “fascistissime”.
Inoltre si provvide a esautorare definitivamente la Cgl. Le corporazioni nazionali, cioè i sindacati
fascisti, furono riconosciuti da Confindustria come le uniche rappresentanze dei lavoratori; e
quest’ultima si proclamò ufficialmente organizzazione “fascista”.
Di eccezionale rilievo fu la legge che modificò lo statuto del 1848: stabilendo che il potere
esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo; che la figura del Presidente il consiglio
muta in Capo del governo; che questi era nominato dal re e poteva essere revocato solo da lui; che
a loro volta i ministri venivano nominati e revocati su proposta del Capo del governo ed erano
responsabili unicamente verso il re e il Capo del governo; che nessun oggetto può essere messo
all'ordine del giorno di una delle due camere, senza l'adesione del Capo del governo. Tutto ciò
comportò un enorme rafforzamento del potere esecutivo e l'esautoramento del Parlamento,
ridotto a cassa di risonanza del Capo del governo, ormai vestito da dittatore. A liquidare la libertà
8.3 – I diversi fondamenti: lo Stato nazionale e la comunità razziale. Differenze tra i due
regimi
Il fascismo italiano fin dalle sue origini ebbe una componente repubblicana e una monarchica.
Quella repubblicana permase all'interno del fascismo, seppure emarginata, fino a prevalere
quando la monarchia nel 1943 avrebbe divorziato dal fascismo. Inoltre il fascismo delle origini
ebbe un’ala irreligiosa è un’altra cattolica. Anche qui, Mussolini, che fu un deciso anticlericale,
mutò atteggiamento alleandosi con la Chiesa, per cui la massa dei fascisti sentì naturale essere sia
fascista che cattolica. Infine, il fascismo era “statalista” e individuava nel carattere “etico” dello
Stato la forma unificante della nazione, senza fare appello prima del 38 a fattori di natura
biologico-razziali.
Le radici ideologiche del nazismo affondavano nella dottrina della superiorità biologica della razza
ariana e nell’antisemitismo; il fascismo diventò razzista tardivamente per effetto della guerra
d’Etiopia e antisemita per imitazione e cedimento al nazismo. Inoltre, il nazismo, salito al potere in
una Repubblica, non ebbe mai il problema di rapporti con centri di potere quali la monarchia e il
Vaticano. Infine, il totalitarismo nazista si espresse anche nel tentativo di creare una “moralità” e
una “religiosità” nazista autonomi e opposte rispetto ai valori tradizionali del cristianesimo.
Il nazismo aveva un nucleo biologico: il culto della purezza del sangue ariano; mentre nel fascismo
il nucleo era politico: il culto dello Stato e della nazione e la fedeltà politica.
Di grande importanza il fatto che il nazismo si affermò in un paese industriale molto più solido di
quello italiano. Il permeare in Italia di vaste zone di grave arretratezza economica e culturale nel
Mezzogiorno rendeva assai problematico l’inquadramento politico di milioni di contadini ancora
analfabeti o semianalfabeti, rimasti sensibili alla voce del clero o delle oligarchie locali. Le
campagne arretrate poterono essere sì oggetto di controllo, ma non terreno fertile per un efficace
indottrinamento politico. In Germania l’intera società fu sottoposta a un processo di integrazione
ideologica rapida e profonda, che ottenne dalla grande maggioranza un’adesione entusiastica.
Capitolo 9 – Dalla dittatura alla vigilia della seconda guerra mondiale
9.2 – La conciliazione fra Stato e Chiesa. Il conflitto del 1931 sull’educazione giovanile
Il risultato plebiscitario alle elezioni era stato ottenuto anche grazie all’invito della Chiesa a votare
sì; invito che suggellava lo storico accordo poco prima raggiunto. Infatti, a febbraio 1929 Mussolini
e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. Questi: un trattato, una convenzione
finanziaria e un concordato. I punti centrali del trattato erano: riconoscimento che la religione
cattolica è la sola religione dello Stato; riconoscimento da parte dello Stato italiano di uno Stato
della città del Vaticano pienamente sovrano indipendente e da parte vaticana del regno d’Italia e
di Roma sua capitale. La convenzione finanziaria stabiliva il pagamento di 1.750.000.000 di lire a
estinzione della perdita subita dal Vaticano dei proventi dell’ex Stato pontificio. Il concordato
regolava gli interessi dello Stato della Chiesa in uno spirito di reciproche concessioni e di mutuo
appoggio. Il carattere laico dello Stato uscito dal Risorgimento veniva cancellato e si realizzava il
proposito di Mussolini di fare del cattolicesimo un pilastro essenziale dell’ordine politico.
Dopo di allora Mussolini diventò gli occhi degli italiani “l’uomo della Provvidenza”.
Il concordato non comportò però l’appianamento di ogni problema; restava stabilire a chi
spettasse educazione giovanile. Pio XI sosteneva che “la missione dell’educazione spetta
innanzitutto alla Chiesa e alla famiglia”; il dittatore dichiarò che era “compito dello
Stato provvedere all’educazione dei giovani e a quella totalitaria dei cittadini”.
Chiesa e fascismo entrarono in conflitto nel corso del 1931 in relazione al ruolo svolto dall’ Azione
cattolica, accusata di perseguire finalità politiche. L'oggetto primario della contesa erano sempre la
gioventù e la sua educazione. Lo scontro toccò l'apice con violenze contro le sedi dei giovani e
degli universitari cattolici; ma si arrivò a un accordo secondo cui l'Azione cattolica rimaneva in vita,
ma si impegnava a limitare la propria attività nell’ambito religioso.
9.3 – L’ordine corporativo. La ricerca di una Terza via fra capitalismo e collettivismo
sovietico.
Dopo il divieto nel 1926 imposto ai lavoratori di scioperare e agli imprenditori di ricorrere alla
serrata, con una legge concepita da Rocco vennero delineata la ristrutturazione "corporativa" dei
rapporti fra capitale e lavoro. Questa stabiliva che le organizzazioni di datori di lavoro e di
lavoratori facessero capo a organismi statali superiori, le corporazioni, il cui compito sarebbe stato
di coordinare i vari settori della produzione, dando loro una disciplina ispirata al superiore
interesse nazionale. Ormai privata di ogni possibilità di azione la Cgl si autosciolse nel 1927.
Dopo che la crisi del 29 aveva investito anche l’Italia, Mussolini presentò il corporativismo come
una “terza via” fra il capitalismo e il collettivismo sovietico . Il risultato non fu il controllo sociale
sulle imprese, ma un’ulteriore concentrazione capitalistica favorita dallo Stato. In sostanza, il
corporativismo fu lo strumento con cui l'Italia imboccò la strada dell'intervento pubblico
nell'economia e nei rapporti di lavoro, in un quadro di sostegno statale al capitalismo
monopolistico.
9.4 – L’economia fascista. Capitalismo di Stato e autarchia. Il mito della potenza demografica
Nei primi anni il fascismo aveva dato alla politica economica con indirizzo liberistico: libero corso
all'iniziativa privata. La quasi scomparsa delle agitazioni sociali a fine 1922 e la tendenza alla
11.2 – La Repubblica Sociale e il Regno del Sud. La lotta tra partigiani e nazifascisti al Nord.
Mussolini, liberato dai tedeschi, ritornò al potere. Messa sotto accusa la monarchia “traditrice”, il
partito fascista si ricostituì con il nome di Partito fascista repubblicano e il nuovo Stato si chiamò
Repubblica sociale italiana, insediandosi nelle rive del lago Garda con il centro a Salò. L’operato
del Duce e del suo governo furono posti sotto la stretta sorveglianza dei tedeschi, i quali
provvidero a creare una loro amministrazione parallela, che aveva l’ultima parola sulla vita della
Repubblica.
Mussolini ricostituì le forze armate - molti giovani chiamati alla leva non si presentarono o
disertarono - senza il favore di Hitler che però lasciò fare; ma senza l’intenzione di impegnarle
contro gli anglo-americani. I compiti affidati ai “repubblichini” furono perciò in maniera quasi
esclusiva quelli della repressione dei partigiani, contro i quali manifestarono una ferocia che
pareggiava quella nazista. Nella repressione un posto anche i campi di concentramento, come
quello di Fossoli a Modena e, il più tristemente famoso, della risiera di San Sabba, presso Trieste,
attrezzato con camere a gas. La caccia agli ebrei portò alla deportazione di circa 8000 persone ed
ebbe il capitolo più tragico nell’irruzione dei tedeschi nel ghetto di Roma, dove 1000 ebrei
vennero arrestati e avviati ai campi di sterminio in Germania.
Dall’altro lato stava il Regno del Sud (ora a Salerno) il quale dichiarò guerra alla Germania,
ottenendo dagli alleati la qualifica non di alleato ma di "Cobelligerante".
Nel regno era urgente la formazione di un gabinetto in grado di rappresentare i partiti politici
antifascisti che avevano ripreso legalmente la loro attività. Ma , mentre inglesi e americani
esigevano il rispetto del ruolo del re e di Badoglio, nei partiti antifascisti prevaleva un diverso
orientamento.
Fin dall'ottobre 1943 il Comitato centrale di liberazione nazionale (creato a Roma il 9 settembre
dai partiti su base paritetica e a cui si erano affiancati i Comitati di liberazione nazionale) aveva
dichiarato, manifestando la propria ostilità verso il re e Badoglio considerati troppo compromessi
con il regime fascista, che questi non potevano né rappresentare l’unità nazionale né guidare la
lotta di liberazione e aveva quindi chiesto un nuovo governo, espressione delle forze antifasciste; e
nel gennaio 1944 - per impulso di azionisti e socialisti appoggiati dai comunisti - l’abdicazione del
re e il rinvio a guerra finita del referendum popolare che avrebbe deciso tra marchia e repubblica.
Sennonché un appoggio decisivo, del tutto imprevisto, al governo monarchico venne dall'URSS,
che, prima tra le potenze alleate, lo riconobbe, con una mossa dettata dall'intento di sottrarre agli
inglesi e americani l'esclusiva influenza sulla politica del regno del sud e di favorire il rafforzamento
del ruolo del partito comunista italiano.
Pochi giorni dopo, Togliatti, tornato dall'esilio in Russia, si espresse a favore della formazione di un
nuovo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti al fine di realizzare l'unità nazionale nella
lotta contro il nazifascismo, del rinvio a guerra finita della soluzione sulla questione monarchia-
repubblica a opera di un’Assemblea costituente. Fu questa la “svolta di Salerno”. Il leader
comunista vide la possibilità non solo di acquistare una posizione chiave della politica italiana per il
suo partito ma anche di accedere direttamente al governo, ottenendo così una legittimazione
importantissima. Il Partito socialista e il Partito d’azione si accordarono alla posizione comunista;
dal canto loro il Partito liberale e la Democrazia cristiana accolsero con soddisfazione la posizione
comunista.
La definitiva capitolazione delle forze tedesche in Italia avvenne il 2 maggio 1945. I giorni della
liberazione e quelli successivi furono anche i “giorni dell'ira” nei confronti dei fascisti, dei
collaborazionisti, dei torturatori, in generale di coloro che avevano sostenuto la Repubblica di Salò.
Entrarono in azione “tribunali popolari” che procedettero a esecuzioni sommarie. Non mancarono
numerose vendette private. Finiva così la tragedia di una lotta di liberazione nazionale che aveva
altresì assunto il carattere di una terribile guerra civile, costata ai partigiani 40.000 caduti e alla
popolazione civile 10.000. complessivamente tra il 1940-45 i morti causati dalla guerra
ammontarono a circa 450.000, di cui circa 90.000 donne.
12.4 – La Costituzione.
A fine 1947 l'Assemblea costituente approvò il testo della nuova Costituzione repubblicana, la
quale entrò in vigore il 1 gennaio 1948. A predisporre il testo era stata la commissione dei 75,
nominata su designazione dei gruppi parlamentari in corrispondenza dei rispettivi rapporti di forza.
Il testo costituzionale segnò una rottura netta con le istituzioni del fascismo, e diede vita a una
Repubblica parlamentare basata su due camere elettive investite delle stesse funzioni legislative.
Un sistema di bicameralismo paritario al quale si accodarono De Gasperi e la DC, spinti - come
avrebbe ammesso Dossetti - “da una voluta intenzionalità nel delineare il governo e
la doppia camera non perché funzionassero ma perché fossero deboli”, data la
preoccupazione “che il PCI potesse diventare maggioranza”.
Tra i principi cardine c’era la piena uguaglianza tra i due sessi e l’impegno dello Stato a rimuovere
tutti gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della personalità e l’accesso alle cariche pubbliche.
I rapporti fra Stato e Chiesa, in base all’art. 7, furono regolati dai Patti lateranensi: “ lo Stato e
la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”,
sancendo l’esistenza di una sfera di rapporti nello territorio nazionale sottratta alla competenza
dello Stato. Da ciò una chiara impronta illiberale tra i privilegi concessi al cattolicesimo rispetto alle
altre confessioni, le quali dall’art. 8 venivano proclamate “libere ed eguali”, ma erano tenute a
darsi statuti non contrastanti con l’ordinamento giuridico italiano. De Gasperi chiese con forza che
l’articolo venisse approvato; temendo lo scontro frontale non solo con la DC, ma anche e
soprattutto con il Vaticano, Togliatti annunciò il voto favorevole del suo partito nella necessità di
salvaguardare l’unità politica.
12.5 – Elezioni 1948: il trionfo della DC. Il terzo sistema politico bloccato della storia italiana.
La divisione sempre più netta dell'Europa in due sfere di influenza ebbe decisive conseguenze sulla
politica interna italiana. Oltre agli USA, anche i sovietici disapprovavano governi di unità
antifascista: nel settembre 1947, per la fondazione del Cominform (che sostituiva la Terza
Internazionale) il PCI, insieme a quello francese, venne aspramente criticato dai sovietici per la sua
collaborazione a livello di governo con la borghesia, per non avere insomma compreso che non era
più il tempo dell’unità antifascista ma quello del confronto-scontro tra mondo capitalistico e
mondo socialista. La guerra fredda si trasferì tout court all’interno del Paese e l’opinione pubblica
si trovò così spaccata.
Ad aprile 1948 si svolsero le elezioni politiche generali per il Parlamento: le prime dopo la fine
della guerra. Comunisti e socialisti diedero vita al Fronte democratico popolare presentandosi
uniti in una sola lista. A favore della DC giocò innanzitutto la dichiarazione di Marshall che se il
popolo italiano avesse affidato il potere a un governo ostile agli USA, ciò avrebbe significato la
rinuncia al programma di assistenza. Inoltre al Fronte nocque notevolmente il colpo di Stato di
Praga, dove i comunisti, senza passare attraverso elezioni generali, assunsero il potere in
Cecoslovacchia con lo scoperto appoggio dei sovietici; colpo di stato che venne salutato con
entusiasmo dal PCI, che fornì efficaci argomenti alle forze che mettevano in dubbio la sua fedeltà
alle istituzioni democratiche. Infatti i comunisti scontarono la contraddizione che caratterizzava la
loro strategia: la convivenza della scelta in senso legalitario (svolta di Salerno) con gli strettissimi
legami con l'Urss e l'appoggio.
Massiccio fu anche l’intervento della comunità italo-americana, che dagli USA in via una valanga
di lettere a congiunti e amici specie meridionali. I socialisti, indeboliti dalla scissione saragattiana,
dato il Fronte costituito con il PCI prestavano il fianco all’accusa di essere una succursale
comunista camuffata. La DC si presentò quindi come l’unica alternativa in grado di evitare al Paese
da un lato un regime comunista e dall’altro di imboccare la deriva reazionaria auspicata dalla
destra.
La partecipazione alle elezioni fu elevatissima: votò il 92%. La vittoria della DC fu clamorosa
(48,5%); il Fronte prese solo il 31%. Repubblicani e liberali subirono sensibili perdite, dimostrando
l’esodo di del loro elettorato verso la DC, considerata l’unica forza in grado di fare scudo contro il
Fronte. La DC infatti ottenne il consenso non solo tra le masse popolari, ma anche di larghi strati
borghesi di ispirazione laica, e si profilava a questo punto anche come il partito della borghesia.
Era chiaro che il sistema politico italiano sarebbe stato caratterizzato da un bipolarismo che
vedeva rispettivamente la DC perno delle forze di governo e il PCI di quelle di opposizione,
attestati agli occhi degli avversari in una sorta di nuovo anti-Stato - che riproponeva il ruolo dei
repubblicani, anarchici, socialisti e socialrivoluzionari nello Stato liberale e degli antifascisti e lo
Stato fascista.
Detentore della maggioranza assoluta, De Gasperi avrebbe potuto formare un governo
monocolore democristiano. Sennonché, dando prova di abilità e prudenza, voleva evitare sia di
affidare alla sola DC la responsabilità del potere in una situazione socio-politica ancora assai
13.1 – Contrasti interni ai partiti di centro e persistente ambiguità della politica del PCI.
Fra 1948-53 si succedettero 3 governi De Gasperi, tutti di coalizione e con l’appoggio
parlamentare di quattro partiti di “centro”. Sennonché il "centrismo quadripartito" finì per essere
una formula depotenziata dal fatto che, se uniti dall'anticomunismo, i partiti di governo non lo
erano circa i modi in cui affrontare i problemi di politica interna. Queste divisioni non riguardavano
soltanto i partiti, ma anche le loro correnti interne; e in primo luogo quelle della DC: la destra
conservatrice, clericale e persino monarchica fronteggiava le correnti riformiste di centro e di
sinistra. De Gasperi si rivelò un abile mediatore e si sforzò di affiancare all’anticomunismo il
riformismo sociale, ispirato da Dossetti. La presenza di tali correnti sarebbe stata una caratteristica
permanente del maggior partito italiano. Esse rappresentavano al tempo stesso fattori di
debolezza e di forza: debolezza in quanto conferiva fragilità ai singoli esecutivi; forza in quanto
costituiva i punti di riferimento di una vasta e articolata rete di interessi diffusi in tutti gli strati
sociali, ciascuno dei quali poteva riconoscersi in questa o quella corrente (rendendo possibile che
la DC rimanesse invariabilmente il partito con il maggior consenso fino al 1992). Il ritiro di Dossetti
nel 1951 aprì la strada all’iniziativa di Fanfani, che mirava a rendere la DC meno dipendente
dall’Azione cattolica e dal Vaticano.
Nella sinistra convivevano due anime: quella ancorata alla finalità rivoluzionarie dettate
dall'ideologia leninista e quella che, piegandosi ai rapporti di forza esistenti in Italia e nel mondo
occidentale, induceva a percorrere la strada delle “riforme di struttura” e radicarsi via via più
profondamente nel sistema politico nazionale. Il PSI restava strettamente legato ai comunisti; ma
al suo interno era anche presente una corrente, rappresentata dai leader Lombardi e Pertini, i
quali sostenevano una linea di autonomia socialista, pur nel quadro dell'alleanza con il PCI e
dell'unità di classe di operai e contadini. A mantenere acceso lo scontro tra filoamericani e
La riforma agraria mirava a promuovere lo sviluppo del sud. Sennonché occorreva intervenire
anche nel settore dell'industria. Così con la legge del 1950 si istituì la Cassa per il Mezzogiorno. La
legge intendeva creare attraverso il finanziamento pubblico una rete di infrastrutture (strade,
acquedotti, elettrificazione), tali da promuovere lo sviluppo dell’industria e migliorare l’agricoltura.
Nel 1952 la Cassa allargò l’ambito del proprio intervento, fornendo crediti all’iniziative industriali
private, con agevolazioni notevoli per alleggerire i rischi imprenditoriali. In 10 anni stanziati 1180
miliardi.
Le organizzazioni criminali trovarono canali favorevoli all’infiltrazione; ma comunque l’intervento
pubblico favorì l’avvio di una modernizzazione del contesto meridionale sia pure relativa e
squilibrata. A beneficiare dei finanziamenti furono le grandi imprese pubbliche private tra cui l’Iri,
l’Eni, ecc. che costruirono impianti siderurgici e petrolchimici, i quali però, data la mancanza delle
necessarie infrastrutture, vissero in una posizione di sistematica precarietà che li fecero definire
polemicamente “cattedrali nel deserto”.
Altre significative misure riformatrici furono il varo nel 1949, per iniziativa del ministro fanfani, del
piano Ina-Casa, diretto a finanziare la costruzione di case popolari; e nel 1951 la riforma Vanoni,
che istituì l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi, l’imposta progressiva e l’aumento dei
minimi imponibili, dando inizio alla razionalizzazione della legislazione fiscale.
Al di là dei suoi limiti, il bilancio economico del quinquennio appariva tutt’altro che trascurabile: la
ricostruzione poteva considerarsi ultimata e la produzione industriale era ormai raddoppiata.
Quale che fosse il giudizio che se ne volesse dare, l’iniziativa riformatrice conseguì un risultato
politico di grande importanza: mostrare che anche in Italia il capitalismo non era affatto in crisi,
anzi, accompagnava un innegabile sviluppo destinato ad accentuarsi fino a dar luogo
all’espressione “il miracolo economico” italiano. Fu così che la strategia del PCI di superare primo
13.3 – La legge truffa e le elezioni del 1953. La fine politica di De Gasperi. Le elezioni del
1958.
I fattori che nel 48 avevano favorito la strepitosa vittoria della DC - l’anticomunismo e gli aiuti
statunitensi - erano venuti indebolendosi. Alle elezioni amministrative di Roma il Blocco del
popolo formato dalle sinistre sembrava poter prevalere, scatenando grave preoccupazione del
Vaticano. Questa preoccupazione portò Pio XII a fare pressioni su De Gasperi perché si aprisse
all’appoggio di monarchici e neofascisti. Il rifiuto di De Gasperi suscitò in viva risentimento negli
ambienti vaticani e anzitutto nel pontefice (nonostante i timori, il Blocco del popolo sarebbe stato
sconfitto).
Di fronte al rischio che alle elezioni politiche nazionali del 1953 la coalizione di centro perdesse
una solida maggioranza e volendo al tempo stesso evitare di dipendere dall’appoggio della destra
monarchica e neofascista, De Gasperi fece approvare una legge elettorale maggioritaria, secondo
la quale il partito o la coalizione che avesse ottenuto almeno il 50,01% dei voti sarebbe stato
assegnato alla camera il 65% dei seggi. La legge fu bollata dalle sinistre come "legge truffa" per il
suo meccanismo che ricordava la legge acerbo. Aspramente combattuta anche dalla destra, la
legge divise profondamente gli italiani. In Parlamento vi furono tafferugli, nel Paese grandi
manifestazioni di protesta che denunciarono il tradimento dei principi democratici. Alle elezioni
DC, PSI, PRI e PLI non raggiunsero la quota necessaria a far scattare la legge ottenendo
complessivamente il 49,2%. La DC perse quasi 2 milioni di voti (passando al 40%); in regresso
anche gli altri tre partiti della maggioranza. La sinistra ebbe notevole successo, passando al 35,3%.
Avanzò sensibilmente anche la destra che vide MSI e monarchici complessivamente al 12,7%.
Indicativo dello scarso consenso con cui era stato accolto il riformismo dall’alto” era il fatto che il
PCI aveva guadagnato voti proprio nel Mezzogiorno. Le elezioni sancirono la fine dell’era De
Gasperi.
La fine della leadership di De Gasperi e il ritorno al sistema proporzionale, però, affermarono la
tendenza che avrebbe caratterizzato la storia successiva della Repubblica: far nascere e cadere con
facilità le maggioranze parlamentari e gli esecutivi a scapito della coerenza del processo legislativo,
della capacità decisionale del Parlamento e dell’efficienza degli esecutivi stessi.
https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/01/Il-centrismo-e400da66-afe3-4573-b382-a8fc2c6430b1.html
Capitolo 14 – Centro-sinistra, “autunno caldo” e “strategia della tensione”
14.1 – Radici del Centro-sinistra: linea Fanfani, evoluzioni tra PSI e PCI, rinnovamento
Chiesa.
Il clima politico interno e internazionale stava notevolmente cambiano per via sia dall’avvio della
distensione tra le due superpotenze, sia dall’effetto impetuoso dello sviluppo economico degli
anni 50, che, con la formazione di un più robusto proletariato industriale, poneva ormai all’ordine
del giorno anche il problema politico di stabilire nuovi rapporti con le masse lavoratrici e di riaprire
il corso delle riforme. Andò perciò maturando un clima favorevole a un'intesa politica fra la DC e la
componente socialista dell'opposizione. Infondo lo spettro del sopravvento dei socialcomunisti
stava venendo gradualmente meno e l'Italia era saldamente inserita nel mondo occidentale.
Le radici della politica di centro-sinistra vanno rintracciate in:
1954 - significativa elezione di Fanfani a segretario della DC, promotore di un corso riformatore.
1955 - Nenni parlò della disponibilità dei socialisti ad aprire un dialogo e appoggiare un governo
riformatore. Inoltre, l’ano seguente, criticò fortemente l’URSS per gli eventi in Ungheria.
1956 - Fine del patto d’unità d’azione tra PSI e PCI dovuta alla sanguinosa repressione sovietica di una
rivolta in Ungheria, approvata dal PCI; e alla crisi comunista internazionale, dopo la denuncia di Krusciov ai crimini di
Stalin.
14.3 – Elezioni 1963. Moderatismo dei governi Moro. Unificazione PSI e PSDI. Dibattito
PCI.
In vista delle elezioni, il parlamento fu sciolto nel 1963. I partiti di centro sinistra si presentarono
l’appuntamento elettorale sotto un duplice attacco: quello delle destre che denunciavano
l’apertura a sinistra; e quello del PCI che criticava fortemente la linea del governo.
I risultati elettorali confermarono che la prima espressione di centro-sinistra non era riuscita ad
accrescere l’area del consenso intorno ai partiti che l’avevano sostenuto e nemmeno a ridurre il
peso dei comunisti; ma solo a far perdere alla DC una componente significativa del suo elettorato.
Prevalse una battuta d’arresto nella politica di centro-sinistra, che seppure non abbandonata
dalla DC, subì un progressivo svuotamento. Ad ogni modo si formò il 1° governo Moro di centro-
sinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti e in cui Nenni ricopriva la carica di
vicepresidente.
Contro il governo si erano schierati nella DC la corrente di Scelba e la sinistra nel PSI. Questa nel
1964 passò dal dissenso alla scissione, dando vita al Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP),
con l’idea di ristabilire l’intesa politica con il PCI, la quale, però, non venne favorita da
quest’ultimo.
Al governo Moro toccò fin dall’inizio di misurarsi sia con l’opposizione di parte della DC sia con gli
effetti della scissione socialista che indebolì Nenni sia con la fase recessiva in cui l’economia
italiana era entrata proprio nel 1964 . Le resistenze agli attacchi ai progetti riformisti ci si fecero
sempre più forti, così come i contrasti interni ai partiti di governo; sicché nel giugno 1964 Moro si
dimise.
Nei vertici militari andava emergendo nello stesso tempo una corrente favorevole alla nascita di
un nuovo partito di destra. Il generale Giovanni de Lorenzo, comandante dei carabinieri, prospettò
agli americani un’opportunità di un’iniziativa in tal senso. Tant’è che, mentre erano in corso le
trattative per la formazione del nuovo governo, ebbe luogo un tentativo di colpo di stato (rimasto
allora nascosto) che coinvolse in prima persona il Presidente della Repubblica Segni e De Lorenzo.
Lo scandalo sarebbe stato rivelato solo nel 67 dall’Espresso. Risultò che De Lorenzo aveva
organizzato la schedatura massiccia di personalità della politica e dell'economia, di sindacalisti e
vescovi e aveva preso contatto con esponenti moderati e di destra contrari all’apertura ai
socialisti. Durante le consultazioni per la formazione il governo, il generale era stato convocato da
Segni, che aveva concepito il disegno di varare un governo tecnico-presidenziale libero dai partiti.
Il piano fallì per la determinazione dei partiti di governo, decisi a sostenere un secondo esecutivo
guidato da Moro.
Anche nel 2° governo Moro lo slancio riformatore appariva in affanno. L’impostazione di Moro era
di perseguire prima la ricerca della stabilità dell’esecutivo e poi le riforme, la cui attuazione venne
di fatto rinviata.
14.4 – 3° governo Moro. Elezioni 1968. Inizi della contestazione contro il “sistema”.
Nel 1966 si formò il 3° governo Moro, un quadripartito. E ancora una volta si mise in luce la
mancanza di incisività del centro-sinistra e le difficoltà di superare i continui contrasti fra la più
conservatrice della DC e i socialisti. A parte alcune leggi positive, rimasero lettera morta la riforma
universitaria, quella tributaria e quella sul diritto di famiglia. Anche le riforme approvate
risultarono poco efficaci per mancanza di adeguati strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
Nel 1968 si svolsero le elezioni politiche. I risultati rafforzarono sia la DC, che ne uscì convinta della
bontà di una linea oscillante fra moderatismo e prudente riformismo, sia il PCI che poté
14.6 – L’ “autunno caldo” e la “strategia della tensione”. Gli inizi del terrorismo.
I sindacati assunsero nel corso delle grandi lotte del 1969 un ruolo nuovo. Dalla pressione dei
lavoratori furono indotti a farsi carico anche dei loro problemi connessi alla condizione umana. I
sindacati approvarono una linea comune d’azione e, al contempo, affermarono una maggiore
autonomia dai partiti (Cgil stabilì l’incompatibilità delle cariche sindacali con quelle politiche,
seguirono Cisl e Uil). La lotta fra operai e imprenditori portò a notevoli conquiste sul piano
salariale e delle condizioni di lavoro. Nel 1970 i salari italiani si erano ormai allineati alle medie
europee. Il PCI da un lato cercò di incanalare e indirizzare le spinte spontaneistiche studentesche e
operaie; dall’altro si sforzò di imprimere alle rivendicazioni il carattere di conquiste democratiche,
denunciando come irresponsabili le pratiche di sabotaggio della produzione e l’assenteismo.
Dopo che Almirante divenne segretario del MSI e attaccò la politica agitando il pericolo rosso, fece
la sua comparsa il terrorismo neofascista. Squadre paramilitari decisi a bloccare il movimento di
lotta degli operai iniziarono ad agire: l’anno fu costellato di attentati dinamitardi volti a suscitare
sfiducia nelle istituzioni. I neofascisti, intenzionati a gettare il paese nel panico facendo appello alla
necessità di un governo autoritario, misero in atto una strategia della tensione, culminata con la
bomba a Piazza Fontana. Si aprì il capitolo tragico della storia italiana, segnato dal gonfiarsi sia di
gruppi terroristici di destra sia di quelli extraparlamentari di estrema sinistra.
Capitolo 15 – Dagli “anni di piombo” alla “crisi di sistema” degli anni ’90.
15.2 – Gli “anni di piombo” e la “lunga notte” della Repubblica.
Tra 1969-70 si susseguirono altri governi Rumor monocolore che si dimostrarono incapaci di
affrontare le agitazioni studentesche e operaie. Nel frattempo Moro parlava dell’avvento di
“tempi nuovi” che richiedevano non solo di affrontare i problemi posti dalle agitazioni degli
A partire dalla metà degli anni 70 andarono prendendo consistenza anche i movimenti delle
donne - le cui origini erano da ricondursi nel 68-69 - i quali si mobilitarono per rivendicare la parità
di diritti, la parità dei salari, la libertà sessuale, la riforma del diritto di famiglia. Fu anche grazie alla
loro spinta che nel 75 fu approvata la legge sulla parità giuridica tra coniugi e la comunione dei
beni.
Nel frattempo, nel PCI venne eletto segretario Enrico Berlinguer nel 1972, il quale dell’Unione
Sovietica sottolineò il ruolo determinante, anche se affermò che in quel Paese persistevano irrisolti
“problemi di democrazia politica”. Sull’Italia disse che “una nuova prospettiva può
essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari:
comunista, socialista, cattolica.”