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Quali critiche ha rivolto Roma al Direttorio dei diaconi permanenti indigeni di San Cristobal
de las Casas e come ha reagito la diocesi?
Tra le modifiche richieste si va dalla soppressione della possibilità che i fedeli commentino la
Parola di Dio nelle celebrazioni comunitarie alla cancellazione dell'appellativo “Madre” al fianco a
“Padre” riferito a Dio, in quanto “espressione di sincretismo religioso”. Viene inoltre respinto il
radicamento del diaconato nella cultura, nell'organizzazione ancestrale delle comunità e nel loro
sistema di cariche, perché mescolerebbe una struttura “della società civile con il ministero
ecclesiastico fondato sull'ordine”. Poi è criticata l'enfasi su un diaconato esercitato come coppia di
sposi, propria di una cultura che non concepisce la maturità di una persona al di fuori della famiglia,
perché indurrebbe a pensare che il ministero stesso sia condiviso dalla moglie.
Nella diocesi c'è un fondamentale dissenso rispetto agli interventi romani, che appaiono una forma
di colonialismo. Ma in un sistema ancora quasi imperiale ci si chiede se è meglio protestare, il che
provocherebbe l'immediata sostituzione del vescovo con uno più conservatore, o accettare le
imposizioni e attendere una nuova primavera. Noi anziani abbiamo visto una situazione simile
durante il pontificato di Pio XII, quando i grandi teologi poi protagonisti del Concilio Vaticano II
erano messi all'indice. Avrebbero potuto abbandonare la Chiesa, ma rimasero e dopo qualche anno
venne Giovanni XXIII. Ho l'impressione che la Chiesa di San Cristobal de Las Casas accetti
formalmente quanto le è stato importo, ma non interiormente. E questa è una vittoria molto fragile
per l'istituzione.
Che significa oggi fare missione e come risolvere la tensione tra annuncio esplicito e
inculturazione?
Noi viviamo insieme ai popoli indigeni e cerchiamo di aiutarli a riprodurre la loro cultura, ma gli
operatori pastorali in questo campo sono pochissimi. Il discorso missionario è, quindi, finalizzato a
che la Chiesa destini più persone al lavoro nelle comunità aborigene. Spesso i problemi sono anche
legati ai costi di spostamento all'interno delle aree indigene. Questo essere missionario esige
un'abnegazione totale e la rinuncia a ogni carriera ecclesiastica. E oggi è difficile trovare persone
che si dedichino a una causa come quella indigena. D'altro canto gli evangelici che vanno tra queste
popolazioni hanno spesso una mentalità fondamentalista, per cui distruggono le culture autoctone.
L'affermazione di Gesù Cristo come unica via di salvezza non fa granché problema perché gli
indios in generale sono già cristiani, ma si cerca di passare da un'evangelizzazione colonizzatrice a
una liberatrice. La Chiesa resta segno e sacramento di salvezza, ma la si vede in un'altra prospettiva,
come Chiesa impegnata col popolo e la sua cultura. Siamo presenti anche in mezzo ai popoli che
non sono all'interno della Chiesa cattolica, come i Suruhua nel Rio Solimoes o nel Rio Madera, con
cui il Cimi è entrato in contatto solo di recente. Lì non è il momento di parlare di Gesù Cristo, ma di
consolidare le relazioni e proteggere i territori demarcati, e non mancano i conflitti, per esempio col
gruppo evangelico Jovens para Cristo, che ha fatto venire dall'Australia uno sciamano da loro
convertito per convertire uno sciamano locale! Perciò la missione non consiste nel prendere il
Vangelo e applicarlo automaticamente, ma bisogna valutare ogni situazione per vedere quando è il
momento di parlare o di tacere.