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INTERVISTA A PAULO SUESS

“La Teologia india è intrinsecamente antisistemica, perché la cosmovisione, le pratiche sociali e le


forme economiche dei popoli indigeni ostacolano l'espansione della mentalità individualista su cui
si fonda il capitalismo”. Inizia con questa sentenza lapidaria l'intervista con p. Paulo Suess,
consulente teologico del Consiglio indigenista missionario (Cimi), organismo della Conferenza
nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb), del quale è stato in passato segretario generale. E subito
aggiunge: “Perciò quanto più il capitalismo si impone come soluzione definitiva della storia, tanto
maggiori difficoltà avranno i popoli indigeni per sopravvivere e tanto più attaccata sarà la Teologia
india, perché essa cerca di rafforzarli, a partire dalla loro eredità religiosa”. Nato e ordinato prete in
Germania, ma missionario in Brasile dal 1966, p. Suess è dottore in Teologia fondamentale,
professore di Missiologia all'Istituto teologico di São Paulo (Itesp) e membro del Consiglio
missionario nazionale, avendo presieduto anche l'Associazione internazionale per gli studi sulla
missione (Iams). Dottore honoris causa alle Università tedesche di Bamberg e Francoforte, non è
tenero neppure con la sua Chiesa: “Alla V Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano,
svoltasi ad Aparecida nel 2007, il card. William Levada, all'epoca prefetto della Congregazione per
la dottrina della fede, vietò che il termine 'Teologia india' apparisse nel documento finale. La
teologia dell'istituzione ecclesiastica ha molte affinità col sistema capitalista: anch'essa impone le
sue regole dall'alto, è prodotta in solitario, crea una monocultura colonizzatrice, mentre la Teologia
della liberazione e la Teologia india sono induttive, pluriculturali e comunitarie. Naturalmente la
teologia ufficiale non vuole la morte degli indigeni e ammette lenitivi superficiali, ma non la
possibilità di ripensare questa affinità strutturale col sistema capitalista che sfrutta e fa vittime. Però
una cosa è curarle, come la Chiesa ha sempre fatto, e un'altra lottare per cambiamenti strutturali
affinché, almeno in prospettiva, non ce ne siano più. Qui sta una grande difficoltà che la Teologia
india incontra oggi”

Quindi la Teologia india non ha futuro?


Io credo che la Teologia india non si possa bloccare. Essa si sta rafforzando silenziosamente e per la
Chiesa sarebbe una grande opportunità per avvicinarsi ai popoli indigeni, liberandosi dai residui del
colonialismo ancora presenti per il controllo uniformante esercitato dalle autorità vaticane, che
ostacolano il cammino di una Chiesa autoctona. Il Vaticano II, al capitolo 6 del decreto “Ad
Gentes”, parla dello sviluppo di Chiese autoctone - “ricche di forze proprie e di una propria maturità
e fornite adeguatamente di una gerarchia propria, unita al popolo fedele, nonché di mezzi consoni al
loro genio per viver bene la vita cristiana” - come di una necessità, mentre oggi questo è ritenuto
sovversivo. Lo dimostrano le correzioni che la Congregazione per i vescovi ha recentemente chiesto
alla diocesi di San Cristobal de Las Casas di introdurre nel proprio Direttorio per il diaconato
indigeno permanente, in uso dal 1999, sostenendo che “si nota una chiara influenza” della Teologia
della liberazione, giudicata “perniciosa per la formazione e il ministero dei diaconi permanenti”.
Per oltre un decennio non erano stati sollevati problemi, dal che si deduce che l'istituzione
ecclesiastica si è indurita.
Comunque nella Chiesa c'è sempre una differenza tra quanto dicono i documenti e la prassi. A volte
ci sono testi ottimi, cui la prassi non corrisponde per nulla; in altri casi i documenti sono restrittivi,
ma la prassi va avanti. La Teologia india cammina nella base, perché il popolo non si lascia rubare
la sua Chiesa, da cui è stato colonizzato, ma che utilizza pure per liberarsi. A ostacolare questo
processo sono persone che non conoscono la realtà e non hanno accettato l'”aggiornamento”
proposto dal Concilio affinché la Chiesa assumesse la modernità e, attraverso l'inculturazione, si
avvicinasse ai popoli. La Teologia india è esattamente un tentativo di inculturare la fede. Per
elaborare una teologia cristiana non abbiamo bisogno di Aristotele né di Platone, ma possiamo
ricorrere ad altre tradizioni importanti che, secondo il Vaticano II, possono essere considerate
“preparatio Evangelii”.

Quali critiche ha rivolto Roma al Direttorio dei diaconi permanenti indigeni di San Cristobal
de las Casas e come ha reagito la diocesi?
Tra le modifiche richieste si va dalla soppressione della possibilità che i fedeli commentino la
Parola di Dio nelle celebrazioni comunitarie alla cancellazione dell'appellativo “Madre” al fianco a
“Padre” riferito a Dio, in quanto “espressione di sincretismo religioso”. Viene inoltre respinto il
radicamento del diaconato nella cultura, nell'organizzazione ancestrale delle comunità e nel loro
sistema di cariche, perché mescolerebbe una struttura “della società civile con il ministero
ecclesiastico fondato sull'ordine”. Poi è criticata l'enfasi su un diaconato esercitato come coppia di
sposi, propria di una cultura che non concepisce la maturità di una persona al di fuori della famiglia,
perché indurrebbe a pensare che il ministero stesso sia condiviso dalla moglie.
Nella diocesi c'è un fondamentale dissenso rispetto agli interventi romani, che appaiono una forma
di colonialismo. Ma in un sistema ancora quasi imperiale ci si chiede se è meglio protestare, il che
provocherebbe l'immediata sostituzione del vescovo con uno più conservatore, o accettare le
imposizioni e attendere una nuova primavera. Noi anziani abbiamo visto una situazione simile
durante il pontificato di Pio XII, quando i grandi teologi poi protagonisti del Concilio Vaticano II
erano messi all'indice. Avrebbero potuto abbandonare la Chiesa, ma rimasero e dopo qualche anno
venne Giovanni XXIII. Ho l'impressione che la Chiesa di San Cristobal de Las Casas accetti
formalmente quanto le è stato importo, ma non interiormente. E questa è una vittoria molto fragile
per l'istituzione.

C'è uno specifico contributo brasiliano a questa riflessione teologica continentale?


Il 17 ottobre 1965, alla fine del Concilio, in un discorso a tutti i vescovi, Paolo VI disse: “La nostra
religione è la carità”. Noi camminiamo un po' per questa strada: difendiamo i diritti degli indigeni
alla terra, forniamo assistenza legale quando sono portati nei tribunali. D'altro canto il primo
comandamento è l'amore, non la religiosità. Al dottore della legge che gli chiede come fare per
ottenere la vita eterna, Gesù racconta la parabola del buon samaritano, in cui a ignorare la vittima
dei ladroni sono proprio il sacerdote e il levita, che venivano dal tempio, mentre chi fa quanto si
deve fare per entrare nella vita eterna è uno cui era vietato entrare nel tempio: questa è la vera
religiosità.
Parlare in Brasile di “teologia india” suona un po' artificiale, perché non c'è un teologo cattolico che
abbia accompagnato le comunità originarie e prodotto una riflessione sistematica. Anche il
contributo brasiliano nell'Articolazione ecumenica latinoamericana di pastorale indigena (Aelapi) è
limitato: ci sono tentativi di ripensare qualche tema della teologia cristiana, per esempio la
creazione, tenendo conto di come essa appare nei miti dei popoli aborigeni, ma non vedo ancora una
Teologia india brasiliana con proprie caratteristiche, a causa della difficoltà di elaborarla in un
contesto di microetnie, nelle quali il cristianesimo non riesce a riprodursi come cristianesimo
indigeno, cioè che abbia già, oltre a catechisti, presbiteri, ecc. Ci sono alcuni preti indigeni nella
regione amazzonica del Rio Negro, ma la prima generazione manca delle condizioni per produrre
una riflessione teologica autonoma. Il Cimi si è impegnato molto, ma la presenza di piccole etnie
esigerebbe uno sforzo enorme di diversificazione perché ogni popolo ha una religione e una
mitologia diversa. Finora non si è andati molto al di là di studi antropologici, magari realizzati da
missionari.

E il dialogo con queste religioni indigene?


Esiste, ma in forma sporadica, legato a questa o quella persona, a questa o quella zona.

Che significa oggi fare missione e come risolvere la tensione tra annuncio esplicito e
inculturazione?
Noi viviamo insieme ai popoli indigeni e cerchiamo di aiutarli a riprodurre la loro cultura, ma gli
operatori pastorali in questo campo sono pochissimi. Il discorso missionario è, quindi, finalizzato a
che la Chiesa destini più persone al lavoro nelle comunità aborigene. Spesso i problemi sono anche
legati ai costi di spostamento all'interno delle aree indigene. Questo essere missionario esige
un'abnegazione totale e la rinuncia a ogni carriera ecclesiastica. E oggi è difficile trovare persone
che si dedichino a una causa come quella indigena. D'altro canto gli evangelici che vanno tra queste
popolazioni hanno spesso una mentalità fondamentalista, per cui distruggono le culture autoctone.
L'affermazione di Gesù Cristo come unica via di salvezza non fa granché problema perché gli
indios in generale sono già cristiani, ma si cerca di passare da un'evangelizzazione colonizzatrice a
una liberatrice. La Chiesa resta segno e sacramento di salvezza, ma la si vede in un'altra prospettiva,
come Chiesa impegnata col popolo e la sua cultura. Siamo presenti anche in mezzo ai popoli che
non sono all'interno della Chiesa cattolica, come i Suruhua nel Rio Solimoes o nel Rio Madera, con
cui il Cimi è entrato in contatto solo di recente. Lì non è il momento di parlare di Gesù Cristo, ma di
consolidare le relazioni e proteggere i territori demarcati, e non mancano i conflitti, per esempio col
gruppo evangelico Jovens para Cristo, che ha fatto venire dall'Australia uno sciamano da loro
convertito per convertire uno sciamano locale! Perciò la missione non consiste nel prendere il
Vangelo e applicarlo automaticamente, ma bisogna valutare ogni situazione per vedere quando è il
momento di parlare o di tacere.

Qual è oggi la principale sfida per la Chiesa latinoamericana?


Recuperare il contesto storico e sociale da cui partire per l'azione pastorale. Poi dare voce e forza ai
laici, che il passaggio dal mondo rurale a quello urbano ha piuttosto indebolito perché si lavora
lontano da casa, si rientra tardi e resta poco tempo da dedicare all'impegno. Servirebbe inoltre,
anche in vista di una missionarietà che coinvolga tutta la Chiesa, una diversificazione dei ministeri e
degli stessi preti. La formazione nei Seminari dovrebbe quindi tener conto della necessità di stare in
mezzo al popolo, ma molti giovani vogliono solo avere una parrocchia nel centro della città per
ottenere sicurezza economica e di status. Oggi parecchi arrivano in Seminario con uno spirito
autoritario e siccome i seminaristi sono pochi a volte si accettano persone che non hanno una vera
vocazione di servizio. Dei ministeri, per la verità, è stato proibito di discutere ad Aparecida, ma
senza affrontare questo tema la “missione continentale” lanciata da quella Conferenza resterà sulla
carta, anche se Roma pensa di realizzarla coi movimenti. Questa diversificazione dei ministeri
potrebbe cominciare, per esempio, da una discussione libera sull'esperienza dei diaconi permanenti
indigeni di San Cristobal de las Casas. Io non credo che l'abolizione dell'obbligo del celibato per il
clero secolare risolva tutto. La Chiesa deve prendere atto che il tempo della cristianità è finito e
superare la convinzione che il 90 per cento del mondo si salvi nella nostra Chiesa. Abbiamo bisogno
di comunità significative e sarebbe meglio privilegiare la qualità dei preti rispetto alla quantità,
avendo mistici, non cantanti, mentre si trovano poche persone di profonda spiritualità nel clero,
dove abbondano organizzatori e amministratori. Così non facciamo progredire il Vangelo. E mentre
prima ne avevamo di buoni, siccome il livello della formazione è calato, in Brasile non abbiamo più
intellettuali cattolici. L'ultimo forse è Frei Betto.

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