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“Chi non è contro di noi è con noi”, “Probati viri uxorati”, “Gay: dall’orgoglio alla

consapevolezza”, “Eluana ci parla ancora”, “Divorziati risposati”, “Chiesa povera tra i poveri”, ecc.
Basta scorrere l’indice per capire che il nuovo libro di mons. Giuseppe Casale, vescovo emerito di
Foggia-Bovino, esplicitamente intitolato “Per riformare la Chiesa. Appunti per una stagione
conciliare” (La Meridiana, p. 76 € 12), non elude nessuno dei temi più scottanti dell’attuale
dibattito ecclesiale. E lo fa con una semplicità e una parresia forse favorite dagli 87 anni, ma certo
non comuni negli ambienti ecclesiastici. Per approfondire le proposte contenute del volumetto
Jesus ha intervistato l’autore.
In questo libretto lei presenta proposte innovative. Pensa che altri vescovi le condividano?
Io credo che una buona parte dei vescovi condivida, soffrendo, la necessità di affrontare questi temi.
Dico soffrendo perché essi rimandano a quella collegialità episcopale che oggi viene oscurata
dall’enfasi posta sul papato. Primato del Papa e collegialità episcopale sono due aspetti dell’unica
comunione nella Chiesa, ma oggi il primo è amplificato in misura esagerata dall’azione della Curia
romana, che dovrebbe svolgere un ruolo puramente esecutivo, mentre ne esercita di fatto uno
normativo, sovrapponendosi alle Chiese locali, e il secondo rimane inoperante, non andando oltre la
funzione consultiva del Sinodo dei vescovi. Così del principio “sub Petro et cum Petro” che
dovrebbe guidare la Chiesa resta solo il primo termine. In Italia poi, il fatto che presidente della
Conferenza episcopale sia nominato dal Papa e il modo “forte” con cui il card. Camillo Ruini ha
governato la Cei per venti anni hanno diffuso tra i vescovi l’idea, infondata teologicamente, che ci
sia un “capo dell’episcopato” cui si deve obbedire e se un vescovo esprime un’opinione diversa sia
un ribelle. Così si restaura una visione ecclesiologica pre-Concilio Vaticano II, col rischio di
allontanare la Chiesa dal mondo di oggi e dalle sue esigenze, mentre la fede deve camminare con la
storia. Bisogna quindi aprire una “stagione conciliare” in cui i vescovi si riuniscano col Papa per
affrontare con coraggio questioni come il celibato dei preti, la contraccezione, la procedura per la
nomina dei vescovi, ecc.
Lei suggerisce l’ordinazione di viri probati uxorati.
Sì, perché è un diritto delle comunità avere preti non pendolari. Io sono stato spesso in Brasile e ho
visto il dramma di comunità che aspettano il prete una volta l’anno, mentre potrebbero essere
guidate da presbiteri di buona condotta e che si siano dimostrati bravi mariti e padri. Parliamo tanto
della centralità dell’eucaristia, ma poi ne priviamo questi popoli, perché non basta che un ministro
distribuisca l’ostia consacrata un mese prima! L’eucaristia deve esser celebrata dal popolo,
altrimenti diventa un rito, se ne perde la sostanza come pane spezzato per la vita del mondo e
sangue versato da Gesù che si rinnova e riattualizza secondo quel ritmo settimanale che ci dà la
Pasqua di Gesù nella vita della gente. D’altro canto dei viri probati uxorati si parlò già nel primo
Sinodo dei vescovi, nel 1971, ma dopo 40 anni i fedeli attendono ancora, mentre la “salvezza delle
anime”, che per il Codice di diritto canonico è “legge suprema”, esige questa presenza. A me poi
pare bello che nel clero, accanto a chi sceglie liberamente il celibato, ci siano persone che danno
testimonianza con la loro famiglia.
Un nuovo rapporto tra primato del Papa e collegialità episcopale si tradurrebbe in nuove
strutture?
Una riforma a livello di Chiesa universale esigerebbe la creazione di un Sinodo permanente,
comporto da vescovi delle Chiese locali, con cui il Papa si riunisca una o due volte al mese per
deliberare, riducendo il ruolo della Curia romana.
Nel libro richiama l’esigenza di un dialogo intraecclesiale. Che significa in concreto?
Io ho ripreso la grande e un po’ dimenticata enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI. Essa parla di
dialogo intraecclesiale, che è fondamentale, perché l’opinione dei credenti deve formarsi nel
confronto della varie esperienze, di fede, di lavoro, comunitarie, ecc. Ma negli ultimi anni questo
dialogo, soprattutto in Italia, è venuto meno: non c’è tra i vescovi, che quando partecipano
all’assemblea della Cei si trovano già preconfezionato il documento finale, non c’è tra i fedeli,
perché è prevalsa l’idea che “si guida dal vertice” e la comunità cristiana è diventata conformista.
Basti vedere Avvenire, che non dà spazio alla pluralità di opinioni esistente nella Chiesa italiana, ma
pubblica solo ciò che è in linea con l’orientamento dei vertici della Cei, ignorando o condannando
chi la pensa diversamente. Il dialogo afferma la libertà di confrontarsi col Vangelo, di porre in
pubblico le proprie opinioni, senza che nessuno si ritenga detentore della verità, ma tutti alla sua
ricerca.
Lei esprime perplessità sul modo in cui nella Chiesa si affrontano i “valori non negoziabili”.
L’espressione non mi piace, perché se sono valori non si negoziano, non se ne fa mercato. Il
problema è che, di fronte a questioni inedite come le convivenze di fatto, le relazioni omosessuali o
il testamento biologico, ci illudiamo di mantenere lo status quo ricorrendo alle leggi, mentre questo
è inevitabilmente destinato a cambiare e il futuro dipenderà solo da un’educazione delle coscienze
alla fede nel Vangelo, in Gesù. Purtroppo nella Chiesa prevale una prospettiva metafisica e
deduttiva, mentre servirebbe una mentalità storico-induttiva. Per esempio, la legge naturale non è
qualcosa di fissato nei ritmi biologici, che cambiano, come ci mostra la scienza, ma comprende
anche la storia e la cultura. Bisogna “agire dal di dentro”, come Paolo ha fatto con la filosofia greca
e il diritto romano, riuscendo a creare un amalgama nuovo, nel nostro caso una società fondata sulla
libertà di coscienza, sul rispetto reciproco, sul dialogo e sulle convinzioni profonde. Quindi la mia è
una prospettiva di grande speranza, sia pur attraverso un travaglio, perché dovremo abituarci a farci
liberare a opera della storia da tanti attaccamenti.
Nel libro lei parla di una “Chiesa povera tra i poveri”.
È un tema che mi sta molto a cuore, perché la ricchezza perverte tutto, mentre noi dobbiamo
mettere i beni materiali al servizio della comunità nella giustizia e nella solidarietà, sapendo che
l’accumulazione ci coinvolge nella logica capitalista, che tiene un miliardo di persone nella fame.
Noi siamo una Chiesa borghese, che tranquillizza i borghesi, i quali possono lavarsi la coscienza se
fanno una piccola elemosina e godersi il risultato di piccoli o grandi compromessi tipici di questa
società in cui governano gli uomini della finanza. Invece dovremmo rinunciare alle proprietà
ecclesiastiche e affidarci alla generosità della gente. Altrimenti ci inseriamo nel ginepraio dei
meccanismi per farle fruttare di più, mentre ci dobbiamo battere per superare gli attuali assetti
capitalistici, trovando una soluzione perché non ci siano più i grandi, scandalosi guadagni e le
grandi, scandalose, miserie, anche in Italia. In questa linea si sono mosse in America latina le
Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione, e in Europa i pretioperai. Oggi non se
ne parla più, ma l’oppressione nel mondo del lavoro esiste ancora e la Chiesa dovrebbe affrontarne
con coraggio le nuove forme per evitare il “San Precario”, l’incertezza per cui il lavoro è una merce
e il lavoratore è uno che si vende sul mercato.

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