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INTERVISTA A GUSTAVO GUTIERREZ

Vedendolo così piccolo e un po' malandato camminare zoppicando e reggendosi a un bastone nei
chiostri del Seminario arcivescovile di Seveso, in provincia di Milano, si fa fatica a pensare che p.
Gustavo Gutierrez sia all'origine di un movimento teologico che negli ultimi quattro decenni ha
motivato la partecipazione di migliaia di cristiani alle lotte per la giustizia sociale, turbato i sonni
dei potenti (tanto da meritare studi dei think tank conservatori degli Stati Uniti e apposite
conferenze degli eserciti di tutto il continente americano) e suscitato controversie nella stessa
istituzione ecclesiastica, soprattutto per la sua presunta dipendenza dal marxismo. Ma quando
questo prete ottantacinquenne apre la bocca, si capisce subito che ci si trova davanti a un "gigante"
del pensiero cristiano. Il “padre” della teologia della liberazione è venuto in Italia per partecipare al
XXIII Congresso nazionale dell'Associazione teologica italiana (Ati) e presentare con l'arcivescovo
Ludwig Muller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, al Festival di letteratura di
Mantova il libro scritto a quattro mani nel 2004 e oggi tradotto in italiano dall'Editrice missionaria
italiana e dalle Edizioni Messaggero Padova col titolo “Dalla parte dei poveri”. Proprio questa
tavola rotonda è stata definita da molti “storica”, perché negli anni scorsi l'organismo della Curia
romana incaricato di vegliare sull'ortodossia non aveva mostrato molta comprensione verso i
teologi della liberazione, emanando nel 1984 e nel 1986 due “Istruzione”, complessivamente
piuttosto critiche, e censurando in varia forma e misura alcuni autori, come i brasiliani Leonardo
Boff e Ivone Gebara o lo spagnolo naturalizzato salvadoregno Jon Sobrino.
Proprio dall'amicizia con mons. Muller, prende le mosse la conversazione con Jesus: “L'ho
conosciuto nel 1988, quando p. Josef Sayer, all'epoca missionario a Lima e poi direttore fino
all'anno scorso di Misereor (l'agenzia della Conferenza episcopale tedesca che si occupa di
cooperazione allo sviluppo – ndr), invitò un gruppo di professori tedeschi per un seminario cui mi
chiese di partecipare. Il professor Muller, che insegnava teologia dogmatica a Monaco, alla fine
dell'incontro mi disse che la discussione gli aveva ricordato l'importanza della pratica, per cui mi
propose di venire periodicamente in Perù a dare una mano come professore. Per 15 anni ha sempre
trascorso 3-4 settimane delle sue ferie annuali insegnando nel seminario di Cuzco, i cui alunni erano
indigeni con una scolarizzazione molto bassa, e dedicando i fine settimana al lavoro pastorale nelle
aree rurali. Io non ho visto molti professori europei impiegare così le proprie vacanze!
Naturalmente quando è diventato vescovo è potuto tornare in Perù solo per periodi più brevi. Negli
anni la nostra amicizia è cresciuta. Insomma, penso sia una persona intellettualmente molto aperta e
ha avuto la semplicità e il coraggio di dire che la prospettiva liberatrice ha mutato il suo modo di
concepire la teologia.
Crede che il giudizio positivo di mons. Muller sia limitato ai suoi scritti o si estenda alla
teologia della liberazione nel suo complesso?
Non gliel'ho mai chiesto e, in effetti, quando parla della teologia della liberazione, subito mi cita.
Posso però immaginare, senza sbagliarmi di molto, che il suo giudizio non riguardi solo la mia
riflessione, perché le posizioni di noi, teologi della liberazione, sono essenzialmente le stesse e io
non l'ho mai sentito criticare un altro autore.
La teologia della liberazione ha tentato di rileggere il messaggio evangelico e la riflessione
cristiana “a partire dal povero”. Negli ultimi decenni dal suo tronco sono nati filoni teologici
che cercano di fare lo stesso, ma “a partire dalla donna”, “a partire dall'indio”, “a partire
dall'omosessuale”, ecc. Che ne pensa?
Mi è sempre parso importante disporre di una nozione globale, che per me era quella di
“insignificante”, perché si può esserlo per mancanza di denaro, ma anche per il colore della pelle o
per il fatto di parlare male la lingua dominante in un paese, come avviene in Perù per la metà
indigena della popolazione. Quando parlo dei “poveri”, quindi, non mi riferisco solo a chi ha un
reddito basso, ma intendo “chi non conta, non ha peso sociale”, chi è emarginato o dimenticato.
Già nel libro “Teologia della liberazione” parlavo anche di etnie e culture disprezzate, nonché,
soprattutto dal 1975, della donna, tanto che il documento finale della II Conferenza generale
dell'episcopato latinoamericano tenutasi a Puebla, in Messico, nel 1979, riprende un mio testo che
ne parla come “doppiamente oppressa, in quanto povera e in quanto donna”. Non ho approfondito
molto questa riflessione, perché l'hanno fatto soprattutto le teologhe e non era necessario ripetere
quanto esse dicono. La teologia femminista deriva dall'esperienza della donna e questo mi pare
importante, mi interessa molto. Non è una teologia solo per le donne, perché ha una dimensione
universale.
Il domenicano brasiliano Frei Betto sottolinea spesso che nell'ultimo decennio in America
latina sono andati al governo leader legati idealmente, ma spesso anche per storia personale,
alla “opzione per i poveri” e alla teologia della liberazione. Come giudica questo richiamo?
Io diffido molto di queste identificazioni. Certo il presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, ha una
formazione cristiana, avendo studiato a Lovanio con p. François Houtart, ha conosciuto il nostro
mondo e vi ha fatto riferimento; al contempo è un economista con le sue idee. E il capo dello Stato
del Salvador, Mauricio Funes, ha menzionato spesso mons. Romero, che peraltro è simbolo per
tutto il paese. I leader politici hanno tutto il diritto di citare questi riferimenti, perché vuol dire che
per loro sono significativi e questo mi rallegra.
La Chiesa – parlo di Chiesa perché le idee che si attribuiscono alla teologia della liberazione sono
poi presenti nei documenti dell'episcopato latinoamericano – ha motivato, seppur non da sola,
l'interesse della politica per i poveri, la giustizia, i diritti umani e molte persone si sono identificate
con la teologia della liberazione, ma questa non è un club o un partito politico, cui ci si iscrive!
Perciò non penso si possa dire che un presidente della Repubblica è legato a essa.
Non ho dubbi, e mi fa piacere, che la Chiesa latinoamericana negli ultimi 40 anni abbia influito
molto nella società. E d'altro canto quanta repressione da parte dei governi è stata motivata con la
lotta alla teologia della liberazione! Essa è quindi presente nell'ambiento politico, nel bene e nel
male, ma ci sono altri fattori che influiscono. Molti anni fa un giornalista di Barcellona mi chiese un
parere sulla rivoluzione sandinista che aveva trionfato in Nicaragua, definendola “opera di persone
legate alla teologia della liberazione”. Obiettai che pensavo ci fossero elementi molto più importanti
della teologia della liberazione alla radice di quella rivoluzione, prima di tutto la dittatura dei
Somoza. Non bisogna perdere il senso delle proporzioni! La teologia della liberazione ha
certamente motivato molte persone, ma non le si può attribuire ogni loro atto. Sono contento che
abbia un'influenza: si fa teologia per cambiare questo mondo! Ma non è vero che l'America latina
sia mutata per merito suo!
Da tempo sta lavorando sul tema del pluralismo religioso. Qual è la sua posizione?
È un tema per me molto importante, su cui sto riflettendo da anni. Ho partecipato a molti incontri
sul dialogo interreligioso, ma non vi ho mai visto rappresentanti delle religioni animiste africane,
assai diffuse in quel continente, o di quelle indigene dell'Amazzonia, ma solo delle “grandi religioni
mondiali”, cioè l'islam, lo shintoismo, l'induismo, l'ebraismo, che ha relativamente pochi aderenti,
ma è molto importante, ecc. Questo mi pare non vada bene se vogliamo costruire un'ipotesi
scientifica sulle religioni che sia convincente.
Il dialogo interreligioso è molto interessante, ma per parteciparvi basta rispettare gli altri. Il
problema vero riguarda la teologia delle religioni ed è quello dello statuto di Cristo come salvatore
unico e universale. Mi spiace dirlo, ma penso che nessuna teoria finora elaborata dalla comunità
teologica sia soddisfacente e mi colpisce che Paul Knitter, che conosco bene e su questo ha riflettuto
e scritto ben più di me, nel suo ultimo libro dica più o meno lo stesso, cioè che quanto abbiamo
finora prodotto sono ancora approssimazioni e le ipotesi attuali hanno solo diradato un po' la
nebbia.
In particolare la tripartizione “esclusivismo-inclusivismo-pluralismo”, che pure è stata utile in un
certo momento, mi pare superata, anche perché le posizioni esistenti tra i teologi non sono più
riconducibili a queste tre categorie. Bisogna avere la modestia di ammettere che dobbiamo
approfondire ancora il tema sul piano teologico, il che comunque non è condizione previa del
dialogo con le altre religioni, indispensabile per conoscerci. Di tutto questo avevo parlato con p.
Jacques Dupuis, che ho visto soffrire per le incomprensioni patite. Dupius è morto triste, dopo
essere stato trattato molto male...
Come lei...
Sì, anch'io in un certo momento. Ma allora ho imparato che non bisogna perdere il senso
dell'umorismo, una virtù che aiuta a non sentirsi il centro del mondo o un esule perenne, a non
prendersi troppo sul serio, e che impedisce di amareggiarsi. A me piace molto ridere e credo che
questo mi abbia aiutato nei momenti difficili. Si deve andare avanti, senza sentirsi indispensabile,
perché la riflessione teologica sarebbe proseguita anche senza di me. Comunque io non sono mai
stato oggetto di un processo, ma di un dialogo, anche se ne venni a conoscenza quando era già
iniziato!
Con quale spirito ha vissuto quei momenti in cui percepiva sfiducia nei suoi confronti?
È sgradevole sentirsi definire “uno che si è infiltrato nella Chiesa per distruggerla”. Che uno dica di
non essere d'accordo è normale, ma quell'accusa era pazzesca! La controversia poi aveva una forte
dimensione mediatica in Perù, vi erano coinvolti vescovi e personalità politiche. Ho dialogato
molto, non ho convinto nessuno delle mie posizioni, ma forse hanno compreso che quanto
credevano di me non era vero. A Roma, dove sono più colti, hanno capito di più e mi hanno chiesto
del marxismo solo la prima volta; dopo si sono concentrati su questioni più propriamente
teologiche. È stata una vicenda durata diversi anni, finché nel 2004 il card. Joseph Ratzinger, allora
prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, scrisse un breve testo per dire che il dialogo
si era concluso in modo soddisfacente: non avevano trovato nulla di erroneo. C'è stato un momento
brutto, non solo per il rapporto con Roma, ma anche per la situazione in Perù. Ma io sono un
testardo e ho costantemente cercato di farmi spiegare il merito delle critiche, perché questo serve
anche ad altri, piuttosto che sottomettersi senza discutere o rompere il dialogo.
L'elezione di Papa Francesco e il suo auspicio di “una Chiesa povera per i poveri” ha spinto
molti a parlare di “rivincita” della teologia della liberazione. Che ne pensa e quali ritiene
siano le sfide di fronte al nuovo Papa?
Il Papa ama i poveri perché ha letto il Vangelo e l'ha compreso. Può darsi che conosca la teologia
della liberazione, e se l'ha aiutato a cogliere questa importante prospettiva cristiana, meglio! Ma la
sfida dei poveri è da tempo presente nell'orizzonte della Chiesa, altrimenti non si capirebbe il
martirio che abbiamo sperimentato in America latina, a cominciare da vescovi come mons. Enrique
Angelelli in Argentina, mons. Oscar Romero in Salvador e mons. Juan Gerardi in Guatemala.
Costruire quella “Chiesa povera per i poveri” è una grande scommessa.
E che conseguenze ha?
Dire che la povertà è una grande sfida per la Chiesa implica operare cambiamenti. Per esempio, si
deve affermare con maggior forza in ogni paese la necessità che i bisogni dei poveri siano la
principale preoccupazione politica, sia pur senza proporre programmi concreti, perché questo spetta
alla società civile e politica. E il problema della povertà non si riduce all'aspetto economico, ma
coinvolge, per esempio, la diversità culturale, come è evidente in Perù, dove la maggioranza della
popolazione ha radici indigene. Le situazioni variano da paese a paese e le proposte devono essere
molto concrete. Sono convinto che assumere la prospettiva degli ultimi cambi il comportamento dei
cristiani. Dell'America latina si parla sempre come di un “continente cattolico”, ma questa immensa
povertà mette in dubbio che lo sia davvero, perché la nostra fede non si riduce all'assolvere alcuni
obblighi religiosi, che hanno poco senso se non sono accompagnati dalla lotta per la giustizia. Tutti i
cristiani dovrebbero condividere l'impegno per la dignità della persone, per i diritti umani.

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