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Lettera del Santo Padre Francesco ai membri del Capitolo Generale 28°

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Cari fratelli!
vi saluto con affetto e ringrazio Dio di poter, pur a distanza, condividere con voi un
momento del cammino che state percorrendo.
È significativo che, dopo alcuni decenni, la Provvidenza vi abbia condotto a
celebrare il Capitolo Generale a Valdocco – il luogo della memoria – dove il sogno
fondativo si concretizza e fece i primi passi. Sono sicuro che il rumore e il vociare degli
oratori sarà la musica migliore, la più efficace perché lo Spirito ravvivi il dono carismatico
del vostro fondatore. Non chiudete le finestre a questo rumore di sottofondo… Lasciate
che vi accompagni e che vi mantenga inquieti e intrepidi nel discernimento; e permettete
che queste voci e questi canti, a loro volta, evochino in voi i volti di tanti altri giovani che,
per varie ragioni, si trovano come pecore senza pastore (cfr Mc 6,34). Questo vociare e
questa inquietudine vi terranno attenti e svegli davanti a qualunque tipo di anestesia
autoimposta e vi aiuteranno a rimanere in una fedeltà creativa alla vostra identità
salesiana.

1. Ravvivare il dono che avete ricevuto


Pensare alla figura di salesiano per i giovani di oggi implica accettare che siamo
immersi in un momento di cambiamenti, con tutto ciò che di incertezza questo genera.
Nessuno può dire con sicurezza e precisione (se mai qualche volta si è potuto farlo) che
cosa succederà nel prossimo futuro a livello sociale, economico, educativo e culturale.
L’inconsistenza e la “fluidità” degli avvenimenti, ma soprattutto la velocità con cui si
susseguono e si comunicano le cose, fa sì che ogni tipo di previsione diventi una lettura
condannata ad essere riformulata al più presto (cfr Cost. ap. Veritatis gaudium, 3-4). Tale
prospettiva si accentua ancor più per il fatto che le vostre opere sono orientate in modo
particolare al mondo giovanile che in sé stesso è un mondo in movimento e in continua
trasformazione. Questo ci chiede una doppia docilità: docilità ai giovani e alle loro
esigenze e docilità allo Spirito e a tutto quello che Egli voglia trasformare.
Assumere responsabilmente questa situazione – a livello sia personale sia
comunitario – comporta l’uscire da una retorica che ci fa dire continuamente “tutto sta
cambiando” e che, a forza di ripeterlo e ripeterlo, finisce col fissarci in un’inerzia
paralizzante che priva la vostra missione della parresia propria dei discepoli del Signore.
Tale inerzia può anche manifestarsi in uno sguardo e un atteggiamento pessimistici di
fronte a tutto ciò che ci circonda e non solo rispetto alle trasformazioni che avvengono
nella società ma anche in rapporto alla propria Congregazione, ai fratelli e alla vita della
Chiesa. Quell’atteggiamento che finisce per “boicottare” e impedire qualunque risposta o
processo alternativo, oppure per far emergere la posizione opposta: un ottimismo cieco,
capace di dissolvere la forza e novità evangelica, impedendo di accettare concretamente la
complessità che le situazioni richiedono e la profezia che il Signore ci invita a portare
avanti. Né il pessimismo né l’ottimismo sono doni dello Spirito, perché entrambi
provengono da una visione autoreferenziale capace solo di misurarsi con le proprie forze,
capacità o abilità, impedendo di guardare a ciò che il Signore attua e vuole realizzare tra di
noi (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 35). Né adattarsi alla cultura di moda, né rifugiarsi
in un passato eroico ma già disincarnato. In tempi di cambiamenti, fa bene attenersi alle
parole di San Paolo a Timoteo: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio
che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di
timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (2 Tm 1,6-7).
Queste parole ci invitano a coltivare un atteggiamento contemplativo, capace di
identificare e discernere i punti nevralgici. Questo aiuterà ad addentrarsi nel cammino con

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lo spirito e l’apporto proprio dei figli di Don Bosco e, come lui, sviluppare una «valida
rivoluzione culturale» (Enc. Laudato si’, 114). Questo atteggiamento contemplativo
permetterà a voi di superare e oltrepassare le vostre stesse aspettative e i vostri
programmi. Siamo uomini e donne di fede, il che suppone l’essere appassionati di Gesù
Cristo; e sappiamo che tanto il nostro presente quanto il nostro futuro sono impregnati di
questa forza apostolico-carismatica chiamata a continuare a permeare la vita di tanti
giovani abbandonati e in pericolo, poveri e bisognosi, esclusi e scartati, privati di diritti, di
casa… Questi giovani attendono uno sguardo di speranza in grado di contraddire ogni
tipo di fatalismo o determinismo. Attendono di incrociare lo sguardo di Gesù che dice loro
«che in tutte le situazioni buie e dolorose […] c’è una via d’uscita» (Esort. ap. postsin.
Christus vivit, 104). È lì che abita la nostra gioia.
Né pessimista né ottimista, il salesiano del sec. XXI è un uomo pieno di speranza
perché sa che il suo centro è nel Signore, capace di fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5).
Solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di rassegnazione e sopravvivenza
difensiva. Solo questo renderà feconda la nostra vita (cfr Omelia, 2 febbraio 2017), perché
renderà possibile che il dono ricevuto continui ad essere sperimentato ed espresso come
una buona notizia per e con i giovani di oggi. Questo atteggiamento di speranza è capace
di instaurare e inaugurare processi educativi alternativi alla cultura imperante che, in non
poche situazioni – sia per indigenza e povertà estrema sia per abbondanza, in alcuni casi
pure estrema –, finiscono con l’asfissiare e uccidere i sogni dei nostri giovani
condannandoli a un conformismo assordante, strisciante e non di rado narcotizzato. Né
trionfalisti né allarmisti, uomini e donne allegri e speranzosi, non automatizzati ma
artigiani; capaci di «mostrare altri sogni che questo mondo non offre, di testimoniare la
bellezza della generosità, del servizio, della purezza, della fortezza, del perdono, della
fedeltà alla propria vocazione, della preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune,
dell’amore per i poveri, dell’amicizia sociale» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 36).
L’“opzione Valdocco” del vostro 28° Capitolo Generale è una buona occasione per
confrontarsi con le fonti e chiedere al Signore: “Da mihi animas, coetera tolle”.[1] Tolle
soprattutto ciò che durante il cammino si è andato incorporando e perpetuando e che,
sebbene in un altro tempo è potuto essere una risposta adeguata, oggi vi impedisce di
configurare e plasmare la presenza salesiana in maniera evangelicamente significativa
nelle diverse situazioni della missione. Questo richiede, da parte nostra, di superare le
paure e le apprensioni che possono sorgere per aver creduto che il carisma si riducesse o
identificasse con determinate opere o strutture. Vivere fedelmente il carisma è qualcosa di
più ricco e stimolante del semplice abbandono, ripiego o riadattamento delle case o delle
attività; comporta un cambio di mentalità di fronte alla missione da realizzare.[2]

2. L’“opzione Valdocco” e il dono dei giovani


L’Oratorio salesiano e tutto ciò che sorse a partire da esso, come racconta la biografia
dell’Oratorio, nacque come risposta alla vita di giovani con un volto e una storia, che
misero in moto quel giovane sacerdote incapace di rimanere neutrale o immobile davanti a
ciò che accadeva. Fu molto più di un gesto di buona volontà o di bontà, e persino molto
più del risultato di un progetto di studio sulla “fattibilità numerico-carismatica”. Lo penso
come un atto di conversione permanente e di risposta al Signore che, “stanco di bussare”
alle nostre porte, aspetta che andiamo a cercarlo e a incontrarlo… O che lo lasciamo uscire,
quando bussa da dentro. Conversione che implica (e complica) tutta la sua vita e quella di
coloro che gli stavano attorno. Don Bosco non solo non sceglie di separarsi dal mondo per
cercare la santità, ma si lascia interpellare e sceglie come e quale mondo abitare.
Scegliendo e accogliendo il mondo dei bambini e dei giovani abbandonati, senza
lavoro né formazione, ha permesso loro di sperimentare in modo tangibile la paternità di
Dio e ha fornito loro strumenti per raccontare la loro vita e la loro storia alla luce di un

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amore incondizionato. Essi, a loro volta, hanno aiutato la Chiesa a re-incontrarsi con la sua
missione: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo» (Sal 118,22).
Lungi dall’essere agenti passivi o spettatori dell’opera missionaria, essi divennero, a
partire dalla loro stessa condizione – in molti casi “illetterati religiosi” e “analfabeti
sociali” – i principali protagonisti dell’intero processo di fondazione.[3] La salesianità
nasce precisamente da questo incontro capace di suscitare profezie e visioni: accogliere,
integrare e far crescere le migliori qualità come dono per gli altri, soprattutto per quelli
emarginati e abbandonati dai quali non ci si aspetta nulla. Lo disse Paolo VI:
«Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Ci vuole dire, in una
parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza,
slancio e forza per annunziare il Vangelo» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 15). Ogni carisma
ha bisogno di essere rinnovato ed evangelizzato, e nel vostro caso soprattutto dai giovani
più poveri.
Gli interlocutori di Don Bosco ieri e del salesiano oggi non sono meri destinatari di
una strategia progettata in anticipo, ma vivi protagonisti dell’oratorio da realizzare.[4] Per
mezzo di loro e con loro il Signore ci mostra la sua volontà e i suoi sogni.[5] Potremmo
chiamarli co-fondatori delle vostre case, dove il salesiano sarà esperto nel convocare e
generare questo tipo di dinamiche senza sentirsene il padrone. Un’unione che ci ricorda
che siamo “Chiesa in uscita” e ci mobilita per questo: Chiesa capace di abbandonare
posizioni comode, sicure e in alcune occasioni privilegiata, per trovare negli ultimi la
fecondità tipica del Regno di Dio. Non si tratta di una scelta strategica, ma carismatica.
Una fecondità sostenuta in base alla croce di Cristo, che è sempre ingiustizia scandalosa
per quanti hanno bloccato la sensibilità davanti alla sofferenza o sono scesi a patti con
l’ingiustizia nei confronti dell’innocente. «Non possiamo essere una Chiesa che non piange
di fronte a questi drammi dei suoi figli giovani. Non dobbiamo mai farci l’abitudine,
perché chi non sa piangere non è madre. Noi vogliamo piangere perché anche la società
sia più madre» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 75).

3. L’“opzione Valdocco” e il carisma della presenza


È importante sostenere che non veniamo formati per la missione, ma che veniamo
formati nella missione, a partire dalla quale ruota tutta la nostra vita, con le sue scelte e le
sue priorità. La formazione iniziale e quella permanente non possono essere un’istanza
previa, parallela o separata dell’identità e della sensibilità del discepolo. La missione inter
gentes è la nostra scuola migliore: a partire da essa preghiamo, riflettiamo, studiamo,
riposiamo. Quando ci isoliamo o ci allontaniamo dal popolo che siamo chiamati a servire,
la nostra identità come consacrati comincia a sfigurarsi e a diventare una caricatura.
In questo senso, uno degli ostacoli che possiamo individuare non ha tanto a che
vedere con una qualsiasi situazione esterna alle nostre comunità, ma piuttosto è quello che
ci tocca direttamente per un’esperienza distorta del ministero…, e che ci fa tanto male: il
clericalismo. È la ricerca personale di voler occupare, concentrare e determinare gli spazi
minimizzando e annullando l’unzione del Popolo di Dio. Il clericalismo, vivendo la
chiamata in modo elitario, confonde l’elezione con il privilegio, il servizio con il
servilismo, l’unità con l’uniformità, la discrepanza con l’opposizione, la formazione con
l’indottrinamento. Il clericalismo è una perversione che favorisce legami funzionali,
paternalistici, possessivi e perfino manipolatori con il resto delle vocazioni nella Chiesa.
Un altro ostacolo che incontriamo – diffuso, e perfino giustificato, soprattutto in
questo tempo di precarietà e fragilità – è la tendenza al rigorismo. Confondendo autorità
con autoritarismo, esso pretende di governare e controllare i processi umani con un
atteggiamento scrupoloso, severo e perfino meschino di fronte ai limiti e alle debolezze
propri o altrui (soprattutto altrui). Il rigorista dimentica che il grano e la zizzania crescono
insieme (cfr Mt 13,24-30) e «che non tutti possono tutto e che in questa vita le fragilità

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umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi
caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e a chiedere quello
che non puoi» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 49). San Tommaso d’Aquino con grande
finezza e sottigliezza spirituale ci ricorda che «il diavolo inganna molti. Alcuni attirandoli
a commettere i peccati, altri invece all’eccessiva rigidità verso chi pecca, così che se non
può averli con il comportamento vizioso, conduce alla perdizione quelli che ha già,
utilizzando il rigore dei prelati, i quali, non correggendoli con misericordia, li inducono
alla disperazione, ed è così che si perdono e cadono nella rete del diavolo. E questo capita
a noi, se non perdoniamo ai peccatori».[6]
Coloro che accompagnano altri a crescere devono essere persone dai grandi
orizzonti, capaci di mettere insieme limiti e speranza, aiutando così a guardare sempre in
prospettiva, in una prospettiva salvifica. Un educatore «che non teme di porre limiti e, al
tempo stesso, si abbandona alla dinamica della speranza espressa nella sua fiducia
nell’azione del Signore dei processi, è l’immagine di un uomo forte, che guida ciò che non
appartiene a lui, ma al suo Signore»[7]. Non ci è lecito soffocare e impedire la forza e la
grazia del possibile, la cui realizzazione nasconde sempre un seme di Vita nuova e buona.
Impariamo a lavorare e a confidare nei tempi di Dio, che sono sempre più grandi e saggi
delle nostre miopi misure. Lui non vuole distruggere nessuno, ma salvare tutti.
È urgente, pertanto, trovare uno stile di formazione capace di assumere in modo
strutturale il fatto che l’evangelizzazione implica la partecipazione piena, e con piena
cittadinanza, di ogni battezzato – con tutte le sue potenzialità e i suoi limiti – e non solo
dei cosiddetti “attori qualificati” (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 120); una partecipazione
dove il servizio, e il servizio al più povero, sia l’asse portante che aiuti a manifestare e a
testimoniare meglio nostro Signore, «che non è venuto per farsi servire, ma per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Vi incoraggio a continuare a
impegnarvi per fare delle vostre case un “laboratorio ecclesiale” capace di riconoscere,
apprezzare, stimolare e incoraggiare le diverse chiamate e missioni nella Chiesa.[8]
In questo senso, penso concretamente a due presenze della vostra comunità salesiana, che
possono aiutare come elementi a partire dai quali confrontare il posto che occupano le
diverse vocazioni tra di voi; due presenze che costituiscono un “antidoto” contro ogni
tendenza clericalista e rigorista: il Fratello Coadiutore e le donne.
I Fratelli Coadiutori sono espressione viva della gratuità che il carisma ci invita a
custodire. La vostra consacrazione è, innanzitutto, segno di un amore gratuito del Signore
e al Signore nei suoi giovani che non si definisce principalmente con un ministero, una
funzione o un servizio particolare, ma attraverso una presenza. Prima ancora che di cose
da fare, il salesiano è ricordo vivente di una presenza in cui la disponibilità, l’ascolto, la
gioia e la dedizione sono le note essenziali per suscitare processi. La gratuità della
presenza salva la Congregazione da ogni ossessione attivistica e da ogni riduzionismo
tecnico-funzionale. La prima chiamata è quella di essere una presenza gioiosa e gratuita in
mezzo ai giovani.
Che ne sarebbe di Valdocco senza la presenza di Mamma Margherita? Sarebbero
state possibili le vostre case senza questa donna di fede? In alcune regioni e luoghi «ci
sono comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che
alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie
alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato,
insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito
Santo. Per secoli le donne hanno tenuto in piedi la Chiesa in quei luoghi con ammirevole
dedizione e fede ardente» (Esort. ap. postsin. Querida Amazonia, 99). Senza una presenza
reale, effettiva ed affettiva delle donne, le vostre opere mancherebbero del coraggio e della
capacità di declinare la presenza come ospitalità, come casa. Di fronte al rigore che
esclude, bisogna imparare a generare la nuova vita del Vangelo. Vi invito a portare avanti

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dinamiche in cui la voce della donna, il suo sguardo e il suo agire – apprezzato nella sua
singolarità – trovino eco nel prendere le decisioni; come un attore non ausiliare ma
costitutivo delle vostre presenze.

4. L’“opzione Valdocco” nella pluralità delle lingue


Come in altri tempi, il mito di Babele cerca di imporsi in nome della globalità. Interi
sistemi creano una rete di comunicazione globale e digitale capace di interconnettere i vari
angoli del pianeta, col grave pericolo di uniformare monoliticamente le culture,
privandole delle loro caratteristiche essenziali e delle loro risorse. La presenza universale
della vostra famiglia salesiana è uno stimolo e un invito a custodire e a preservare la
ricchezza di molte delle culture in cui siete immersi senza cercare di “omologarle”. D’altra
parte, sforzatevi affinché il cristianesimo sia capace di assumere la lingua e la cultura delle
persone del luogo. È triste vedere che in molte parti si sperimenta ancora la presenza
cristiana come una presenza straniera (soprattutto europea); situazione che si riscontra
anche negli itinerari formativi e negli stili di vita (cfr ibid., 90).[9] Al contrario, agiremo
come ci ispira questo aneddoto che Don Bosco, alla domanda in quale lingua gli piacesse
parlare, rispose: “Quella che mi ha insegnato mia madre: è quella con cui posso
comunicare più facilmente”. Seguendo questa certezza, il salesiano è chiamato a parlare
nella lingua materna di ognuna delle culture in cui si trova. L’unità e la comunione della
vostra famiglia è in grado di assumere e accettare tutte queste differenze, che possono
arricchire l’intero corpo in una sinergia di comunicazione e interazione dove ognuno
possa offrire il meglio di sé per il bene di tutto il corpo. Così la salesianità, lungi dal
perdersi nell’uniformità delle tonalità, acquisterà un’espressione più bella e attrattiva…
saprà esprimersi “in dialetto” (cfr 2 Mac 7,26-27).
Nello stesso tempo, l’irruzione della realtà virtuale come linguaggio dominante in
molti dei Paesi in cui voi svolgete la vostra missione esige, in primo luogo, di riconoscere
tutte le possibilità e le cose buone che produce, senza sottovalutare o ignorare l’incidenza
che possiede nel creare legami, soprattutto sul piano affettivo. Da ciò non siamo immuni
neppure noi adulti consacrati. La tanto diffusa (e necessaria) “pastorale dello schermo” ci
chiede di abitare la rete in modo intelligente riconoscendola come uno spazio di missione,
[10] che richiede, a sua volta, di porre tutte le mediazioni necessarie per non rimanere
prigionieri della sua circolarità e della sua logica particolare (e dicotomica). Questa
trappola – pur in nome della missione – ci può rinchiudere in noi stessi e isolarci in una
virtualità comoda, superflua e poco o per niente impegnata con la vita dei giovani, dei
fratelli della comunità o con i compiti apostolici. La rete non è neutrale e il potere che
possiede per creare cultura è molto alto. Sotto l’avatar della vicinanza virtuale possiamo
finire ciechi o distanti dalla vita concreta delle persone, appiattendo e impoverendo il
vigore missionario. Il ripiegamento individualistico, tanto diffuso e proposto socialmente
in questa cultura largamente digitalizzata, richiede un’attenzione speciale non solo
riguardo ai nostri modelli pedagogici ma anche riguardo all’uso personale e comunitario
del tempo, delle nostre attività e dei nostri beni.

5. L’“opzione Valdocco” e la capacità di sognare


Uno dei “generi letterari” di Don Bosco erano i sogni. Con essi il Signore si fece
strada nella sua vita e nella vita di tutta la vostra Congregazione allargando
l’immaginazione del possibile. I sogni, lungi dal tenerlo addormentato, lo aiutarono, come
accadde a San Giuseppe, ad assumere un altro spessore e un’altra misura della vita, quelli
che nascono dalle viscere della compassione di Dio. Era possibile vivere concretamente il
Vangelo… Lo sognò e gli diede forma nell’oratorio.
Desidero offrirvi queste parole come le “buone notti” in ogni buona casa salesiana
al termine della giornata, invitandovi a sognare e a sognare in grande. Sappiate che il resto

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vi sarà dato in aggiunta. Sognate case aperte, feconde ed evangelizzatrici, capaci di
permettere al Signore di mostrare a tanti giovani il suo amore incondizionato e di
permettere a voi di godere della bellezza a cui siete stati chiamati. Sognate… E non solo
per voi e per il bene della Congregazione, ma per tutti i giovani privi della forza, della luce
e del conforto dell’amicizia con Gesù Cristo, privi di una comunità di fede che li sostenga,
di un orizzonte di senso e di vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). Sognate… E fate
sognare!

Roma, San Giovanni in Laterano, 4 marzo 2020.

Franceso

NOTE
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[1] Motto impresso a fuoco nei primi missionari. Ricordo la lettera di don Giacomo
Costamagna a Don Bosco dove, dopo avergli raccontato le difficoltà del viaggio e i diversi
fallimenti che dovettero affrontare, conclude dicendo: “Dimandiamo unanimi una cosa sola: poter
andare presto nella Patagonia per salvare innumerevoli anime”. La consapevolezza di essere
inviati a cercare anime nelle periferie e a rimanere superando qualsiasi apparente fallimento è una
nota d’identità in base alla quale confrontare e misurare il carisma: “Da mihi animas, coetera tolle”.
[2] Ricordiamo l’ammonimento del Signore: «Trascurando il comandamento di Dio, voi
osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).
[3] Grazie all’aiuto del saggio Cafasso, Don Bosco scoprì chi era agli occhi dei giovani
detenuti; e quei giovani detenuti scoprirono un volto nuovo nello sguardo di Don Bosco. Così
insieme scoprirono il sogno di Dio, che ha bisogno di questi incontri per manifestarsi. Don Bosco
non scoprì la sua missione davanti a uno specchio, ma nel dolore di vedere dei giovani che non
avevano futuro. Il salesiano del sec. XXI non scoprirà la propria identità se non è capace di patire
con «la quantità di ragazzi, sani e robusti, di ingegno sveglio che stavano in carcere tormentati e
del tutto privi di nutrimento spirituale e materiale… In loro era rappresentato l’obbrobrio della
patria, il disonore della famiglia» (Memorie dell’Oratorio di san Francesco di Sales, 48); e noi
potremmo aggiungere: della nostra stessa Chiesa.
[4] Oggi vediamo come in molte regioni sono i giovani i primi a sollevarsi, organizzarsi e
promuovere cause giuste. Le vostre case salesiane, lungi dall’impedire questo risveglio, sono
chiamate a diventare spazi che possano stimolare questa coscienza di cristiani e cittadini.
Ricordiamo il titolo della strenna di quest’anno del Rettor Maggiore: “Buoni cristiani e onesti
cittadini”.
[5] Vi invito a tener sempre presenti tutti coloro che non partecipano di queste istanze ma
che non possiamo ignorare se non vogliamo diventare un gruppo chiuso.
[6] Super II Cor., cap. 2, lect. 2 (in fine). Il passo commentato da san Tommaso è 2 Cor 2,6-7
dove, riguardo a chi lo ha rattristato, san Paolo scrive: «Dovreste usargli benevolenza e confortarlo,
perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte».
[7] J. M. BERGOGLIO, Meditazioni per religiosi, 105.
[8] Una vocazione ecclesiale, prima di essere un atto che differenzia o che rende
complementari, è un invito ad offrire un dono particolare in funzione della crescita degli altri.
[9] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116: «Come possiamo vedere nella storia della Chiesa,
il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì, restando pienamente se stesso,
nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto
delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato».
[10] Oggi, infatti, «si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di
relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario
arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 74).

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