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«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo

mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Con
queste parole il Vangelo di Giovanni apre il racconto della passione, compimento di una vita
spesa per gli uomini nella condivisione e nell’amore, in obbedienza totale al Padre, fino al dono
estremo di sé. «È compiuto!» (Gv 19,30), dirà Gesù sulla croce, a suggello di un’offerta che non
conosce riserve e pentimenti. Qualche manoscritto della Vulgata ha aggiunto «tutto», per
maggiore chiarezza: «“Tutto” è compiuto!», nel senso che il disegno salvifico, rivelato nella
Scrittura, realizzato nell’incarnazione, è perfezionato nella croce in un supremo atto di amore.

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Contemplando Gesù sulla croce, si apre alla nostra comprensione il senso pieno delle sue parole:
«Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io
agisco» (Gv 14,31). Il drammatico compimento di un’esistenza vissuta in obbedienza al Padre in
mezzo agli uomini è la rivelazione più luminosa dell’amore di Dio per il Figlio e per noi. Ed è un
amore senza riserve, che non attende altra risposta se non di essere accolto. Nella Lettera a Tito è
scritto: «Gesù Cristo ha dato se stesso per noi» (Tt 2,14; cfr Gal 1,4; 1 Tm 2,6). Paolo precisa: «Il
Figlio di Dio mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). E non c’è amore più
grande di questo, dare la vita per tutti (cfr Rm 5,7-10; 1 Gv 4,10). Si attua così la missione
salvifica di Gesù verso «i suoi» (Gv 13,1), ossia verso i discepoli, ma è una realtà che abbraccia
l’umanità intera e dalla quale solo il nostro rifiuto può escluderci. È infatti nella natura stessa
dell’amore il non essere imposto.

La Lettera ai Romani chiarisce la profondità del dono del Signore: il suo amore che si rivela
nella croce è il fondamento della nostra speranza. «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel
fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. […] Se infatti,
quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo,
molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,8-10). Più
avanti l’Apostolo riprende l’argomento, interrogandosi sul giudizio ultimo. Il Signore Gesù non è
venuto a condannarci o a giudicarci, ma «è morto, anzi è risorto, sta alla destra del Padre e
intercede per noi». E allora: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […] Io sono persuaso che né
morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né
profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù,
nostro Signore» (Rm 8,35-39).

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«Cristo Gesù è morto, anzi è risorto» (Rm 8,34): Paolo collega immediatamente la morte alla
risurrezione del Signore. Non è un particolare irrilevante, poiché nella risurrezione si riscatta
totalmente il fallimento della croce.

Del resto, che cosa sarebbe per noi Gesù se i Vangeli si chiudessero con la morte e la sepoltura
del Crocefisso? Sarebbe l’esempio luminoso di una solidarietà vissuta con coraggio fino alla fine
e che esce tristemente perdente, come accade nelle cose di questo mondo. La sua sarebbe la vita
di un profeta simile a quella dei grandi profeti di Israele, simile anche a quella dei filantropi e dei
grandi uomini del nostro tempo che si sono spesi per gli altri con coraggio e con dedizione
assoluta. Che cosa aggiunge allora l’annuncio della risurrezione alla figura di Gesù, e quindi alla
figura di tanti altri che, consapevolmente o no, sono vissuti come lui?

Nella risurrezione di Gesù il Padre proclama che la vita di Cristo spesa nel dono totale di sé, al di
là del fallimento evidente (la croce), ha in sé il segno della vittoria: la vita donata agli altri fino
alla fine e la morte incontrata per vivere la solidarietà con i fratelli non sono la fine di tutto, ma il
germe di una vita nuova, di una vita redenta, di cui Cristo ha portato l’annuncio profetico nella
propria carne e nella propria storia. Lo spiega la parabola del seme di frumento: «Se il chicco di
grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama
la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita
eterna» (Gv 12,24-25). La vita infatti è amore che cresce e si sviluppa nel dono di sé, e così
diventa feconda in una vita nuova.

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In questa luce è possibile capire le parole di Paolo: «Se Cristo non fosse risorto, la nostra fede
sarebbe vana» (cfr 1 Cor 15,14). Ognuno di noi è il destinatario dell’annuncio del Cristo risorto:
che cosa può voler dire questo nella nostra vita?

Non esistono formule che possano esprimere compiutamente il senso di una realtà così grande,
che va invece cercata, vissuta, amata nel corso di un’esistenza intera ed è il frutto di un incontro
personale con il mistero di Cristo.

Ognuno di noi ha esperienze di fallimento e di morte che sono solo sue e che si percepiscono
variamente in momenti diversi: sono l’insicurezza, la fragilità, la solitudine, l’incomprensione,
l’insuccesso, la malattia, la paura, la miseria di ogni giorno. Oggi, in particolare, nell’epoca del
«coronavirus», scopriamo l’umiliazione della forza del male: l’essere colpiti da un morbo oscuro,
che avanza irrefrenabile, che non conosce limiti e confini, che supera mura e fili spinati, che
sembra essere onnipotente e penetra in tutte le parti del mondo, indiscriminatamente. Ognuno di
noi coglie nel profondo la sua vulnerabilità, la sua povertà, il suo inconfessabile nulla: una verità
sconcertante che ci spaventa.

Cristo risorto ci viene incontro in ognuna di queste situazioni: non solo – e non tanto – per
annunciarci la gioia di una vita futura più piena, ma per dirci che l’assumersi con coraggio il
peso che la vita ci porta, restando aperti all’amore e alla solidarietà, ha in sé già da ora il segno
della vittoria. Nonostante ogni possibile fallimento, la vita che risorge in Cristo è già da ora, nel
quotidiano, l’annuncio gioioso che il Padre ci ama e ci salva in Cristo: Dio non si è pentito di
aver creato l’uomo.

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Si apre allora alla nostra comprensione più piena la parabola giovannea del «Pastore», che spiega
l’epifania dell’amore di Dio: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le
pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il
lupo, abbandona le pecore e fugge, […] perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre
conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. […]. Per questo il Padre mi
ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me
stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho
ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,11-18).

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