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MATERIALI SCIENZE

La struttura fisica dei materiali solidi


dipende dalla disposizione degli atomi al
loro interno e dalle forze che li legano.
Tutti i metalli, alcune leghe e alcuni
materiali ceramici sono SOLIDI CRISTALLINI:
hanno un reticolo cristallino in cui gli atomi
assumono una disposizione che si ripete
nelle 3 dimensioni.
La disciplina che studia la disposizione degli
atomi nel reticolo è la CRISTALLOGRAFIA.

Il sistema di Bravais ha ipotizzato 14


tipologie (7 primitive e 7 centrate) di celle
elementari distinte in macro-famiglie con
sottoinsiemi.
Monoclina – Triclina – Cubica – Tetragonale
– Esagonale – Romboedrica – Ortorombica

Un cristallo dunque si identifica conoscendo la disposizione degli atomi. I modelli che incontriamo
maggiormente sono CCC (cubico a corpo centrato), CFC (cubico a facce centrate), EC (esagonale compatto).

Diverse strutture conferiscono diverse proprietà meccaniche al metallo.

Per disegnare la cella elementare di un metallo dobbiamo tener conto di:

- La localizzazione tridimensionale in cui i punti indicano gli atomi e le linee i legami;


- Il numero di legami che ogni atomo crea;
- Lo spazio di compattazione tra gli atomi;

Ogni sistema nella scienza dei materiali punta ad un livello energetico più basso possibile. Più riescono a
compattarsi gli atomi nel reticolo, minore sarà l’energia libera che rende instabile il sistema.
Questo concetto è espresso dal FCA (Fattore di Compattazione Atomica), un numero adimensionale che
assume valori da 0 a 1 e che indica la frazione di volume della struttura cristallina occupata dagli atomi
(quindi più è alto, maggiormente stabile sarà la struttura).

(FCA: CCC = 0,68; CFC ed EC = 0,74)

FCA = vol. occupato da atomi nella cella elementare/ vol. della cella elementare.

FCA dipende da: num. di atomi della cella, tipo di carica elettrica degli atomi, tipo di legame che formano.

Esistono poi in cristallografia sistemi per determinare la posizione degli atomi rispetto agli assi X, Y, Z,
sistemi per indicare la direzione della cella elementare, i Piani di Miller che attraverso 3 indici (H, K e L) ti
permettono di distinguere i vari piani (spazi entro cui gli atomi possono muoversi) tra loro.

ALLOTROPIA (o polimorfismo): capacità di un materiale di presentare diverse strutture di celle elementari in


base alla temperatura. Un esempio è il ferro:

- + di 1539° = Fe liquido
- Tra 1395° e 1539 = Fe delta
- Tra 913° e 1394° = Fe gamma
- Da 912° in giù = Fe alfa (di cui la T media è 273°)
DIFFRAZIONE DEI RAGGI X: è una tecnica per lo studio dei solidi cristallini. Dall’esame dello spettro di
diffrazione dei raggi X, diffrazione che avviene quando incontrano un ostacolo (il cristallo, nostro campione
che abbiamo ottenuto dalla frantumazione -con metodo delle polveri- del metallo che vogliamo analizzare),
è possibile risalire al gruppo spaziale e alla distribuzione degli atomi (o ioni) nella cella elementare.

Perché frantumiamo il metallo? Perché le sue caratteristiche non sono sempre solo quelle degli strati
esterni, e perché potrebbero esserci delle impurità.

Il procedimento: Si utilizza il diffrattometro, strumento costituito da 3 componenti:

- Sorgente dei raggi X


- Goniometro portacampione (su cui
viene montato il cristallo che viene
orientato rispetto ai raggi X incidenti)
- Rilevatore (sensibile ai raggi X, che
misura la diffrazione)

Il cristallo è montato sul goniometro e


gradualmente ruotato mentre viene
bombardato con raggi X che producono una
figura di diffrazione (rilevata dal detector) con
punti regolarmente spaziati.

Il flusso di elettroni si genera grazie alla


differenza di potenziale che si viene a creare tra un anodo ed un catodo (in genere filamento di tungsteno).
(Cosa sono i Raggi X? Particolari onde elettromagnetiche con lunghezza d’onda che oscilla tra 0,5 e 2,5
Armstrong)

SOLIDIFICAZIONE: è un processo grazie al quale, partendo da un metallo liquido, si arriva ad un metallo


solido  ciò avviene attraverso la CRISTALLIZZAZIONE.

La solidificazione prende anche il nome di NUCLEAZIONE, ossia la formazione (all’interno del metallo
liquido) di nuclei solidi che tendono ad ingrandirsi.

Le fasi: 1) formazione (da embrioni) di NUCLEI; 2) i nuclei crescono e si uniscono fino a formare CRISTALLI;
3) questi cristalli crescono ulteriormente e si uniscono a formare GRANI; 4) più grani si incontrano a livello
dei cosiddetti BORDI DEI GRANI (struttura finale costituita da insieme di grani).

Spiegazione: quando inizia il processo di raffreddamento, dal cluster originano gli embrioni, che sono la
fase preliminare al nucleo. Se questi embrioni si accrescono e riescono a raggiungere il RAGGIO CRITICO,
originano i nuclei (nucleazione vera e propria, i nuclei diventano stabili ed il processo diventa irreversibile).
Se invece non viene raggiunto il raggio critico, essendo un processo ancora reversibile, gli embrioni si
sciolgono e ritornano alla fase di cluster iniziale.

La cristallizzazione termina con l’incontro tra i grani e la formazione dei bordi dei grani.
A livello dei bordi dei grani le forze si dissipano. Se i solidi vengono sottoposti ad alte temperature, i bordi
dei grani saranno i primi a cedere.
- Se hanno pochi grani quindi (e grossi), i solidi saranno più resistenti alle alte temperature (avendo meno
bordi), e meno alle basse (come nel solido monocristallino);
- Se hanno molti grani (e fini), saranno meno resistenti ad alte temperature, di più a basse (solido
policristallino).

La nucleazione può essere OMOGENEA o ETEROGENEA.


Quando parliamo di nucleazione OMOGENEA (che
avviene all’interno del metallo fuso) sappiamo che
implica un importante sotto-raffreddamento.
Quando questo si verifica, l’embrione raggiunge il
raggio critico e precipita a formare il nucleo.
Per spiegare meglio la nucleazione omogenea
possiamo immaginare di avere un grafico e di
porre sull’asse delle ascisse il raggio delle
particelle, sull’asse delle ordinate la variazione di
energia libera. Al centro del mio grafico verrà
rappresentato l’andamento dell’energia libera
totale (ΔGT). Il punto più alto è rappresentato
proprio dal punto in cui si raggiungerà il raggio
critico (r*) e successivamente si avrà la precipitazione in nucleo. Questa curva gaussiana è data dalla
somma di due onde: ΔGV (variazione dell’energia libera di volume) e ΔGS (variazione dell’energia libera di
superficie).

GV è un’energia negativa perché viene ceduta (portando alla formazione di nuclei stabili) ed è
rappresentata dalla formula 4/3 𝝅𝒓𝟑. È fondamentale perché viene rilasciata nella trasformazione da
liquido a solido.
GS è un’energia positiva perché è quella che serve durante la formazione della superficie del solido. La sua
formula è 4/3 𝝅𝒓𝟐𝒚. energia libera di superficie (mobilità degli atomi più esterni di un substrato, non sono stabili).

L’andamento dell’energia totale (ΔGT), quindi la curva gaussiana al centro, risulta essere prima crescente
(energia necessaria alla formazione del nucleo), e poi decresce bruscamente una volta raggiunto il raggio
critico (energia di volume liberata dal processo di nucleazione).

Se andiamo ad esaminare la GV e la GS, notiamo che la GS è una caratteristica propria del materiale,
quindi non posso andare ad agire su questa curva, mentre posso andare a modificare l’energia libera di
volume (GV) andando ad aumentare l’entità del sotto-raffreddamento. A valori crescenti di sotto-
raffreddamento il raggio critico si riduce, quindi verrà raggiunto prima. Aumenta quindi la variazione
dell’energia libera di volume e, insieme alla curva GV, si abbassa anche la gaussiana.

La nucleazione ETEROGENEA invece avviene normalmente a livello della parete del contenitore del metallo
fuso, ossia all’interfaccia tra il metallo ed un substrato, cioè una superficie solida che lo raffreddi (che può
essere appunto il contenitore o un fattore nucleante come il Titanio, o delle impurità insolubili).
La nucleazione eterogenea avviene prima (rispetto all’omogenea) perché la variazione di energia libera di
superficie richiesta per formare un nucleo stabile all’interfaccia è minore rispetto alla variazione di energia
libera di volume necessaria per iniziare il processo di nucleazione all’interno del metallo fuso puro (per cui,
come dicevamo, sarebbe necessario un rapido ed importante sotto-raffreddamento).

Quindi la nucleazione eterogenea ha 2 caratteristiche:

- Bassi e lenti sotto-raffreddamenti (basso gradiente termico tra 0,1 e 10 °C);


- Contatto tra superficie solida e metallo liquido.

Le energie che entrano in gioco maggiormente in questo caso sono l’energia di superficie, la tensione
superficiale, caratteristiche intrinseche del metallo sulle quali vado ad agire per diminuire il raggio critico
da raggiungere, creando interfacce solido-liquido (in corrispondenza delle quali andranno a formarsi i
nuclei). Questo è l’unico sistema che mi permette di agire su una caratteristica propria del materiale.

Quando avviene l’interazione si forma l’angolo di contatto, misurato per determinare la bagnabilità.
L’abbassamento dell’energia libera di superficie determina anche un abbassamento della variazione di
energia libera totale (quindi la gaussiana ΔGT si abbassa anche qui, ma in questo caso perchè ho agito sulla
curva superiore). Il raggio critico così viene raggiunto prima.

Nei solidi policristallini, i vari grani che si formano alla fine del processo di cristallizzazione possono essere:

- Grani grossi: derivano da pochi siti di nucleazione,


quindi nel solido cristallino avremo grani più grandi,
ma saranno di meno.
- Grani fini: derivano da molti siti di nucleazione, quindi
nel solido ve ne saranno molti, ma più piccoli.
(maggiore resistenza meccanica?)

Nella nucleazione eterogenea si formano due tipi di grani:

- I grani equiassici, che si formano in un primo momento a livello


dell’interfaccia (per l’alta tensione superficiale) ed hanno un
andamento regolare, parallelo alla parete del contenitore.
- I grani colonnari, che si formano man mano che la nucleazione va
avanti, hanno un andamento irregolare, perpendicolare alle pareti
del contenitore, sono sottili e si vengono a formare al centro (per cui
sono simili a quelli della nucleazione omogenea in quanto non
entrano in contatto con altre superfici, quindi viene meno la t.
superficiale).

Posso diminuire i grani colonnari, in favore dei grani equiassici, andando a creare anche al centro del
materiale puro, nuove interfacce solido-liquido (ad esempio inserendo impurità, gli affinatori dei grani
come il Titanio, il Boro, lo Zirconio). Più affinatori di grani inserisco, più grani si formeranno (di minori
dimensioni).

Quindi in base al tipo di materiale e di proprietà di cui ho bisogno deciderò se prediligere una nucleazione
omogenea o eterogenea, dei grani grossi o fini (quindi con l’aggiunta di più affinatori di grani).

RAFFREDDAMENTO A FREDDO: ne parliamo per spiegare che cosa avviene


nella nucleazione eterogenea. Creo un sistema di raffreddamento con un
flusso continuo d’acqua che va a circondare il recipiente in cui faccio colare
il mio metallo fuso (facendo salire il pistone che vi è all’interno). Per effetto
del gradiente termico venutosi a creare, il metallo tenderà a solidificare.
Alla fine avrò un lingotto metallico pronto per eventuali altri trattamenti.
Non esattamente,
Questo processo non è altro che la COLATA CONTINUA in cui, alla fine della
ma più o meno così
solidificazione, avrò tre strati:

- Zona periferica (o di pelle), in cui i cristalli saranno moltissimi e minuti


- Zona intermedia (o colonnare), in cui avrò grani colonnari (allungati e perpendicolari)
- Zona esterna (equiassica), in cui avrò grani equiassici (quasi rotondi, paralleli e lineari)

Come già detto, se voglio modificare la morfologia dei grani, posso agire andando ad aumentare il sotto-
raffreddamento (colonnari >) oppure creando nuove interfacce (equiassici >). Ciò velocizza il processo di
nucleazione (il raggio critico si riduce).

MONOCRISTALLO: Se ho bisogno di un di un solido monocristallino (che ritroviamo ad esempio in alcune


turbine), quindi più rigido e resistente ad alte temperature, vado a veicolare il processo di nucleazione in
modo tale da far avvenire la solidificazione attorno ad un singolo nucleo.
Questo è possibile evitando importanti sbalzi termici a livello dell’interfaccia, e controllando l’entità del
sotto-raffreddamento che non dovrà essere repentino, ma lento.

La formazione di un monocristallino è semplificata dal processo di Czochrolski, processo di solidificazione


attorno ad un singolo nucleo.
È molto simile a quando immergo la fragola nel cioccolato che poi vi si solidifica intorno.
Ad esempio, se voglio avere un monocristallo di silicio, il processo consiste nel sollevamento verticale a
bassissima velocità di un seme monocristallino di silicio, immerso inizialmente per pochi millimetri in un
recipiente contenente silicio puro fuso.
In poche parole quindi abbiamo questa bacchetta con
un sottile strato di silicio in forma monocristallina.
Dopo l’immersione di quest’ultima, la solleviamo
rotandola lentamente ed in questo modo avviene una
progressiva solidificazione all’interfaccia solido liquido
che genera un monocristallo di grandi dimensioni.
La temperatura del silicio fuso è mantenuta di pochi gradi inferiore alla T di fusione (1414°) così da non
determinare un’eccessiva differenza di temperatura tra il liquido ed il substrato (il seme monocristallino) a
contatto con il quale gli atomi di silicio fuso solidificano e si orientano conservandone la struttura
monocristallina.
Ciò dunque è possibile grazie ad un rigoroso controllo della temperatura del materiale fuso e della velocità
di estrazione.

LEGHE: La lega può essere data dall’unione di due metalli o di un metallo ed un non metallo. È un solido
normalmente policristallino dato dalla somma delle strutture cristallografiche di un solvente ed un soluto.
Si forma dunque una monofase cristallina detta soluzione solida.

Abbiamo 2 tipi di soluzione solida:

- Sostituzionale: si verifica quando gli atomi dell’elemento aggiunto (soluto) vanno a sostituire nel
reticolo atomi dell’elemento genitore (solvente). Affinchè ciò avvenga occorre che: (hume-rotery)
 Non ci sia più del 15% di differenza tra i diametri dei due atomi (altrimenti mi varia il FCA e
con esso la struttura cristallina che tenderà verso una conformazione più stabile);
 Le strutture cristalline dei due elementi siano simili;
 Che non ci siano differenze apprezzabili di valenza ed elettronegatività tra i due atomi.
(La valenza rappresenta la carica elettrica complessiva, l’elettronegatività la quantità di
elettroni negli strati superficiali. Se uno dei due è troppo elettropositivo o negativo rispetto
all’altro, oppure se uno dei due contiene degli elettroni spaiati sugli orbitali esterni e l’altro
no, si determinerà non una sostituzione, ma un’interazione atomica con conseguente
variazione cristallografica)
- Interstiziale: si verifica quando solvente e soluto sono diversi tra loro per dimensioni ed
elettronegatività. In questo caso l’atomo più piccolo si va ad inserire nell’interstizio tra gli atomi più
grandi. I parametri quindi saranno:
 Diversa dimensione;
 Diversa valenza ed elettronegatività.

DIFETTI CRISTALLINI: Come abbiamo detto, la struttura cristallina dei metalli dipende dal processo
merceologico con il quale da fusi vengono fatti raffreddare. Un metallo però non si presenta quasi mai
come puro, ma spesso sotto forma di lega (insieme ad altri metalli).
Una lega metallica non è quasi mai priva di imperfezioni, e quest’ultime devono essere assolutamente
considerate in quanto determinano importanti cambiamenti sulle proprietà del metallo (meccaniche e
fisiche ad esempio il livello di corrosione, oppure la deformabilità a freddo, la connettività elettronica).
Queste imperfezioni sono i cosiddetti difetti cristallini e possiamo distinguere:

- Difetti a zero dimensioni (DI PUNTO):


 Vacanza: La mancanza in un sito atomico dell’atomo
corrispondente.
 Difetto autointerstiziale: Un atomo si sposta in una
posizione interstiziale tra gli altri atomi che lo
circondano nelle loro normali posizioni atomiche.

In entrambi i casi, le proprietà meccaniche saranno


modificate.

- Difetti ad una dimensione (DI LINEA):


 A spigolo: è un difetto che consiste nella presenza di un
mezzo piano di atomi in più all’interno della struttura
cristallina. Questo difetto viene indicato come una T
rovesciata.
Se un corpo che presenta questo difetto subisce una
compressione nella porzione in cui è presente questo
mezzo piano atomico in più, subirà nell’altra porzione uno
stiramento, ovvero una trazione.

 A vite: consiste nella presenza di una linea di dislocazione a


vite in corrispondenza della quale, se vado ad applicare una
sollecitazione di tipo roto-torsionale, avrò una doppia
trazione opposta, quindi una distorsione del reticolo
cristallino intorno ad una linea.

- Difetti a due dimensioni (DI SUPERFICIE):


Sono difetti che riguardano i bordi dei grani. Si vengono a formare
durante la solidificazione, quando i grani si incontrano tra loro. In poche parole sono regioni di
cattivo arrangiamento atomico tra grani adiacenti.
Quando due grani si incontrano, non sono più in grado di espandersi e sono costretti ad adattarsi.
Cristallograficamente quindi, la zona del bordo è più irregolare rispetto alla parte centrale.
Questi difetti sono visibili attraverso il MO, il cui fascio di luce viene riflesso e rifratto a livello di
questi bordi e quindi, studiando il reticolato che viene a formarsi, si è in grado di individuare
eventuali irregolarità.

DIFFUSIONE SOLIDA: Avviene successivamente alla nucleazione, quindi quando abbiamo un reticolo
cristallino già determinato. Esiste quindi anche a basse temperature la possibilità che alcune particelle
atomiche nel reticolo si spostino, e ciò avviene quando queste passano ad un livello energetico superiore.
Con lo spostamento viene liberata energia e si torna ad una situazione di stabilità.

(((In una situazione di stabilità, avrò un saldo algebrico (tra energia libera di volume e di superficie)
NEGATIVO. Questo perché per raggiungere una condizione stabile l’energia deve essere ceduta.
Se il saldo energetico è POSITIVO, vuol dire che non sono in una condizione stabile, che l’energia richiesta
per formare i legami/far avvenire la diffusione è superiore rispetto a quella liberata dal processo di
nucleazione, e quindi non è conveniente che avvenga la mia reazione (ragion per cui la diffusione non si
verifica quando la nucleazione è in corso, ma dopo).
Una volta terminata la solidificazione, se avviene qualcosa che determina il passaggio di alcuni atomi ad un
livello energeticamente superiore, questi si spostano all’interno del reticolo. È questo il meccanismo alla
base della diffusione solida dei metalli a basse temperature.))) QUINDI AVREMO:

DIFFUSIONE ATOMICA PER VACANZA: si verifica quando gli atomi si spostano nel reticolo cristallino da un
sito ad un altro. Questo avviene se le vibrazioni termiche degli atomi consentono di superare l’energia di
attivazione e se sono presenti vacanze nel reticolo.
L’energia di attivazione è uguale alla somma dell’energia per formare la vacanza e l’energia per far spostare
l’atomo. Più alto è il punto di fusione del mio metallo, maggiore sarà l’energia di attivazione necessaria.
Le leggi di Harrenius e Bolzamn (riguardanti temperatura, energia di attivazione e diffusione) regolano la
diffusione solida.

DIFFUSIONE INTERSTIZIALE: avviene quando gli atomi si spostano andando ad occupare degli interstizi,
senza spostare altri atomi del reticolo. Ad esempio quando ho una lega di due elementi, gli atomi più
piccoli si spostano negli interstizi che si formano tra quelli più grandi.

DIFFUSIBILITÀ: La diffusibilità è la capacità che un metallo ha, a temperature inferiori a quelle di fusione,
di garantire la diffusione solida degli atomi al suo interno. Essa dipende da vari fattori come temperatura,
struttura cristallina, la presenza di difetti nel metallo, la concentrazione di specie diffuse.

((Esiste una legge, chiamata legge di Fick, per la quale il coefficiente di diffusività di materia è dato dal
rapporto tra la differenza di concentrazione del materiale e lo spostamento determinato dalla diffusione.))

LAMINAZIONE: La produzione di un metallo è affiancata all’utilizzo di alliganti, ossia qualsiasi elemento


chimico (generalmente un metallo) che viene disciolto in un metallo base per formare una lega.

Processi attraverso i quali creo il mio materiale sono la laminazione a caldo e quella a freddo, entrambi
processi reversibili.

La laminazione è un processo meccanico che ha lo scopo di diminuire lo spessore del mio metallo. Si
utilizzano dei cilindri contrapposti che ruotano velocemente andando ad imprimere una forma sul metallo
che sto laminando. In base alle caratteristiche di cui ho bisogno sceglierò una laminazione a caldo se voglio
un materiale duttile, o a freddo se voglio un materiale rigido.

Laminazione A CALDO: avviene ad alte temperature e serve per ridurre la durezza del metallo e modificare
dello spessore della mia lamiera.

Laminazione A FREDDO: avviene a temperatura ambiente e serve a diminuire lo spessore della lamiera. Non
si verifica alcuna variazione della struttura cristallografica, il materiale resta duro.

Altri due meccanismi importanti sono:

- L’Estrusione = processo che avviene a freddo(?). Deformazione plastica in cui un materiale viene
sottoposto ad una elevata pressione per costringerlo a passare attraverso l’apertura di una matrice,
allo scopo di ridurne la sezione;
- La Forgiatura = Il metallo è costretto ad assumere la forma desiderata mediante l’azione di una
pressa.

PROPRIETÀ MECCANICHE DEI MATERIALI: sono le caratteristiche che determinano come ogni singolo
materiale si comporta a seconda dello sforzo a cui è sottoposto.

Esiste un sistema, chiamato ANSIS, un software che ricostruisce l’effetto di una sollecitazione sul nostro
campione. In questo modo possiamo attribuire delle proprietà e delle caratteristiche a questo corpo, e
possiamo modificare il nostro materiale e le sue proprietà meccaniche per gestire preventivamente gli
stress a cui sarà sottoposto.
Per attribuire le proprietà meccaniche al materiale (durezza, resistenza a fatica – trazione – compressione
– flessione – taglio – torsione) devo sottoporlo a delle prove che si dividono in base a:

- Tipo di sollecitazione
- Tempo di applicazione
- Qualità della forza.

Per quanto riguarda la qualità della forza distinguiamo:

 Stress semplici  applicazione di una coppia di forze che agiscono in direzioni opposte dando
trazione, compressione, flessione, taglio, torsione;
 Stress composti  somma di due o più stress semplici (quindi due o più coppie di forze);
 Stress a fatica  applicazione temporanea o consecutiva di uno o più stress semplici (il mio
materiale viene sottoposto ad una serie di stress ciclici, ma con un carico inferiore a quello di
rottura, proprio per permettere la ripetizione delle sollecitazioni)

Il test si ferma nel momento in cui il mio provino si rompe, e devo conoscere il tipo e l’intensità della forza
che ho applicato, il punto di applicazione sul provino, la velocità con cui si ripetono le sollecitazioni ed il
tempo di somministrazione.

In base al tempo di applicazione distinguiamo:

- Forze statiche: applicate in maniera costante nel tempo;


- Forze dinamiche istantanee: applicate con massima intensità per periodi brevi (come quelle delle
prove di durezza);
- Forze dinamiche cicliche: applicate in maniera ciclica con intensità diverse. Queste possono essere
simmetriche (uguali e opposte), alterne asimmetriche (sempre opposte, ma di intensità diversa) o
pulsanti (non opposte, si sommano tra loro).

(Il concetto di fatica è di notevole importanza in odontoiatria in quanto le protesi complete o i ganci
metallici sono esempi di restauri che subiscono l’applicazione ripetuta di un carico.
Quando un corpo è sollecitato, esso genera una reazione di resistenza meccanica per evitare fratture.)

Definizione di RESISTENZA A FATICA: è lo sforzo al quale il materiale si rompe dopo l’applicazione ripetuta
di un carico. La rottura dipende dalla grandezza del carico e dal numero di cicli.

((Quando si eseguono queste prove di caratterizzazione (per attribuire delle proprietà al materiale), si deve
prestare attenzione a seguire la corretta procedura indicata dalla normativa. Per ogni materiale troviamo
indicazioni specifiche riguardanti la modalità di esecuzione della prova e la strumentazione da utilizzare.
È importante eseguire un quintuplicato, ossia ripeto la prova cinque volte, e dei cinque risultati ottenuti
elimino i due estremi (quello maggiore e quello minore). Con i dati degli altri tre risultati creo dei grafici e
traccio le curve che li rappresentino. Di queste posso prendere la curva che più si avvicina ai valori di
riferimento, oppure posso fare una media delle tre.))

Definizione di SFORZO: è la resistenza interna di un corpo, sviluppata quando ad esso vengono applicate
delle forze. Questa resistenza è uguale in intensità, ma opposta in direzione alle forze esterne applicate.

(Una forza è definita da 3 caratteristiche: punto di applicazione, intensità e verso. L’unità di misura è il
Newton, N)

SFORZO NOMINALE: rapporto tra la forza applicata e la sezione di superficie su cui la applico. Si esprime in
Pa (Pascal) o N/m².

Quest’ultimo entra in gioco ad esempio quando parliamo della prova di trazione.


La PROVA DI TRAZIONE consiste nell’applicazione di una forza (sul cosiddetto tratto utile del corpo che
voglio testare) che determina uno sforzo (la resistenza che il corpo oppone) il quale aumentando si protrae
fino alla rottura (che avviene una volta raggiunto il cosiddetto carico di rottura a trazione, ossia lo sforzo
massimo che può essere sostenuto da un corpo sollecitato a trazione).
Questa prova mi permette di attribuire al mio materiale una serie di caratteristiche meccaniche.

Diciamo che prendo un materiale a forma di osso di cane, perché le estremità mi


permetteranno di agganciarlo ed il tratto centrale sarà il tratto utile (“Lo”, che
presenta un diametro minore e sarà il punto di azione delle due forze opposte,
nonché il punto di rottura).

Dove c’è uno sforzo, c’è solitamente una deformazione.

Definizione di DEFORMAZIONE LINEARE: è il rapporto tra la variazione di


lunghezza del provino (differenza tra lunghezza finale L ed iniziale L0) e la
lunghezza iniziale  D = (L-L0)/L0.

Il Modulo di Poisson è un parametro che vado ad identificare come deformazione laterale del provino
quando viene sottoposto a sollecitazione. Questo movimento si verifica in seguito al processo di trazione,
quando non solo il materiale si allunga in direzione del carico, ma subisce anche una riduzione della sua
sezione laterale. ((Più questo valore è alto (modulo di Poisson o coefficiente di strizione), più la mia prova di
trazione risulterà alterata, perché avremo avuto non solo una trazione, ma anche una flessione del corpo.))

DINAMOMETRO: è uno strumento di misura utilizzato in meccanica per determinare l'entità


di una forza ad esso applicata. Il meccanismo di misurazione utilizza il principio della legge di
Hooke, per il quale la deformazione di un materiale elastico è direttamente proporzionale
alla forza applicata al materiale stesso.

Il dinamometro presenta una molla, e la parte inferiore è munita di un pratico gancio su cui
va attaccato un oggetto qualsiasi per ottenerne il peso. Il corpo attirato verso il basso dalla
forza di gravità deforma la molla, allungandola fino ad un certo valore riportato sulla scala
graduata.

CURVA SFORZO-DEFORMAZIONE: Quando un corpo è sollecitato da una forza esterna, tende a subire un
cambio della sua forma (deformazione). La curva sforzo-deformazione è proprio la descrizione grafica del
comportamento del corpo a cui vengono applicate queste forze (generalmente di flessione).
Sull’asse delle ascisse poniamo la deformazione (ε), mentre su quello delle ordinate lo sforzo (σ). ((In
generale la deformazione è direttamente proporzionale allo sforzo.))
Possiamo vedere dal grafico diversi tratti e punti della curva:

- Tratto OA: deformazione elastica (reversibile);


- Punto B: punto di snervamento;
- Punto C: carico massimo;
- Punto E: limite della strizione;
- Punto F: punto di rottura.

Tratto OA: prende il nome di deformazione elastica. Quando applichiamo una forza ad un corpo, questo
mostra una certa capacità di sopportare stress senza subire modifiche (che dipende dalla coesione e dai
legami intermolecolari).
Quando il corpo non riesce ad equilibrare la forza esterna avremo una deformazione. Questa inizialmente è
elastica, quindi reversibile ed istantanea, per cui una volta interrotta la sollecitazione il corpo ritorna alla
sua forma originaria (questo perché non c’è stata alcuna modifica definitiva a livello della struttura
cristallina).
La deformazione elastica è anche proporzionale al carico.

Possiamo comunque dividere il tratto OA in tre parti: la prima è lineare e segue la legge di Hooke (Forza =
coefficiente di Hooke per l’allungamento); la seconda non rispetta la legge di Hooke, non è più lineare, e
rispetto alla prima parte risulta essere un po’ meno elastica; la terza (carico al limite dell’elasticità)
presenta una completa perdita della proporzionalità tra sforzo e deformazione, non è lineare.

La deformazione elastica è correlata al Modulo di Young (modulo di elasticità), che non è altro che il grado
di elasticità di un corpo. Come già detto è un valore reversibile, che corrisponde al rapporto tra sforzo e
deformazione, e più alto è questo valore  più il corpo è rigido.

A questo punto entra in gioco il concetto di resilienza. Essa viene rappresentata graficamente come l’area
sottesa al tratto OA, ed è intesa come la capacità del materiale di assorbire le sollecitazioni senza che
avvenga una deformazione plastica. Quindi un materiale con scarsa resilienza è un materiale fragile.

Quando invece parliamo di tenacità, intesa come la capacità di un corpo di accumulare energia quando
sottoposto a sollecitazione, ci riferiamo a quando si verificano deformazione elastica e plastica senza che il
corpo vada incontro a rottura. Questa viene rappresentata graficamente come l’area sottesa a tutta la
curva.

Se il primo tratto OA è comune a tutti, da questo momento in poi bisogna fare una distinzione tra mono e
policristallini. Dal punto A inizia il passaggio alla deformazione plastica.

- Nei solidi monocristallini inizia un tratto lineare (in quanto, non essendoci bordi dei grani, le
sollecitazioni non vengono alterate o bloccate, quindi procedono tranquillamente)
- Nei policristallini il passaggio alla deformazione plastica avviene invece in corrispondenza della
cosiddetta fase di incrudimento. Nei policristallini infatti ci sono i bordi dei grani che tendono a ad
ostacolare la deformazione (a T ambiente) per cui servirà uno sforzo molto alto.

In generale, viene preso come punto di riferimento il punto di snervamento, che noi evidenziamo nel punto
B. Infatti sappiamo che il tratto AB corrisponde al passaggio alla deformazione plastica e, visto che non c’è
un passaggio netto, è stato necessario individuare un punto di inizio della fase plastica che non fosse né
troppo vicino a C (carico massimo), né troppo vicino ad A (fine deformazione elastica). Quindi si è preso
come punto di riferimento generale quello ad una deformazione plastica dello 0,2% (B).
Graficamente lo si trova tracciando una parallela del tratto OA (lineare) traslata nel punto 0.2% della
deformazione. Il punto in cui la parallela interseca la curva (che si crea dopo il punto A) viene definito come
punto B, ossia il punto di snervamento (lo snervamento (BC =tratto di snervamento)) è il passaggio da
deformazione elastica a deformazione plastica, AB).

Poi c’è il punto C, che il carico massimo, e arriviamo successivamente al punto E. (CE=passaggio a strizione)

Il punto E viene anche chiamato punto di strizione: la strizione è un fenomeno che si verifica quando la
superficie diminuisce, si riduce lo sforzo (infatti la curva tende a decrementare) e si riduce il diametro. È
stato dunque raggiunto il massimo valore di resistenza possibile, da qui inizia la rottura del materiale.

Da come viene rappresentato il tratto EF, capiamo se si è avuta una frattura (o rottura) duttile o fragile. Nel
caso della frattura duttile avremo un ulteriore assottigliamento del materiale, quindi una frattura che si
propaga lentamente e accompagnata da strizione, mentre nel caso di frattura fragile il tratto EF sarà
pressoché inesistente in quanto la rottura è netta e immediata (senza strizione).
Quindi in caso di materiale duttile avremo una pendenza della curva verso il basso, mentre in caso di
materiale fragile il tratto sarà molto corto. ((se il materiale è resistente, la curva è piatta))

((ALLUNGAMENTO PERCENTUALE: è uguale alla differenza tra sezione finale e sezione iniziale, fratto la
sezione iniziale moltiplicata per 100. Ci dà un valore di riferimento per la duttilità.
STRIZIONE PERCENTUALE: serve per far capire cos’è successo nella zona di assottigliamento + vedi FEA sul
fascisolo, analisi degli elementi finiti))

PROVE DI RESILIENZA E TENACITÀ: si eseguono attraverso il test di Charpy.

((I materiali che presentano un’alta resilienza vengono detti tenaci, mentre quelli che presentano una bassa
resilienza sono detti fragili. In generale esiste un rapporto inverso tra la resilienza e le altre proprietà
meccaniche; per esempio materiali come gli acciai duri sono fragili, mentre sono tenaci quelli con scarsa
resistenza alle sollecitazioni statiche, quali gli acciai dolci o le leghe leggere. Per i materiali metallici si usa in
generale la prova che utilizza il pendolo di Charpy.))

La prova con il pendolo di Charpy è una prova di rottura


per urto a flessione su una provetta di forma e
dimensioni unificate. La provetta è una barretta di
materiale con un intaglio centrale. Lo strumento
utilizzato su cui viene posta, consiste in una incastellatura
che sostiene una mazza oscillante; per questo la
macchina è anche chiamata pendolo di Charpy. La mazza
può essere bloccata a una data altezza; dopo avere
posizionato la provetta in un apposito alloggiamento e
con intaglio rivolto dal lato opposto alla mazza, si può
liberare la mazza che in caduta libera urta contro la
provetta. Se quest’ultima si rompe parliamo si prova di
tenacità, se non si rompe di resilienza. Dopo l’eventuale
rottura la mazza continua il moto pendolare fino a una
certa altezza che viene registrata. La macchina è provvista anche di freno per
le oscillazioni del pendolo.

Una volta eseguito il test, si fa il calcolo della resilienza. La resilienza viene


misurata mediante la relazione
K = L/S (J/cm2) in cui L è il lavoro speso per spezzare la provetta e S l'area
della sua sezione. Il valore di S è noto, mentre dalla prova bisogna rilevare i dati che consentono di
calcolare il lavoro L. Una volta calcolato L dunque si ricava la resilienza K.

PROVE DI DUREZZA: Prove non distruttive che ci danno un’idea delle proprietà del mio materiale. Sono
delle prove economiche e semplici da eseguire, ma allo stesso tempo non sono complete.

Possiamo distinguere: resistenza elastica a percussione (non usata in odontoiatria), resistenza alla
scalfittura e resistenza alla penetrazione (prova di durezza vera e propria).

Per quanto riguarda la resistenza alla scalfittura vengono prese come riferimento due scale, quella di Mohs
e quella di Martenz.
- la scala di Mohs prevede un range di valore da 1 a 10 che va dal materiale meno duro a quello più duro
che scalfisce il precedente. Questi sono: talco, gesso, calcite, fluorite, apatite, ortoclasio, quarzo, topazio,
corindone e diamante.
- la scala di Martens si basa sulla valutazione dell’ampiezza della scalfittura provocata da una punta conica
di diamante (il materiale più duro) sui provini dei materiali da testare. Si valuta l’ampiezza in quanto si tiene
conto della superficie del materiale. Più grande è la scalfittura, meno sarà resistente il materiale.

Le prove di resistenza a penetrazione invece sono le prove di durezza vere e proprie. Sono determinate da
tempo, forma ed intensità di indentazione, e possiamo dividerle in due categorie:

- Prove di macrodurezza (in cui il carico è superiore a 9,81 N)


- Prove di microdurezza (in cui il carico è inferiore a 9,81 N)

Definizione di DUREZZA: resistenza di un metallo alla deformazione plastica permanente.

Prove di MACRODUREZZA: sono il test di Brinnell, il test di Vickers ed il test di Rockwell

Brinnell: utilizzo una sfera in acciaio o carburo di tungsteno, dal diametro di 1,6 mm, con una forza di 123
N. Il penetratore rimane a contatto con il provino 30 sec, e dopo la rimozione viene misurato il diametro di
indentazione. Il numero di Brinnell sarà il rapporto tra il carico applicato e l’area di indentazione
prodotta. Più è piccola, più è duro il materiale.

Questa prova viene utilizzata quando presuppongo già di avere davanti un materiale di media durezza.

Rockwell: è un test rapido. Come indentatori vengono utilizzati normalmente una sfera o un cono
metallico, con i carichi applicati che vanno da 60 a 150 kg, e si misura la profondità dell’indentazione.

Vickers: a seconda del carico può essere considerata di macro o microdurezza. L’indentatore è un diamante
piramidale retto a base quadrata, con angolo di 136°, che viene forzato a penetrare nel materiale da un
carico variabile da 1 a 120 kg. Il test è utilizzato per determinare la durezza di piccole aree e materiali
molto duri.

Prove di MICRODUREZZA: sono quindi il test di Vickers, quello di Knoop e quello di Shore A

Knoop: l’indentatore (penetratore) è un diamante a forma di piramide retta con base rombica e rapporto
tra le diagonali di 7:1. Viene applicato un carico variabile, e si misura la diagonale d’indentazione. Lo
svantaggio è il tempo, è il test più lungo, e inoltre il campione deve essere lucido. D’altra parte è molto
preciso, infatti i risultati ottenuti si analizzano al microscopio.

Shore A: viene eseguita con un dinamometro dotato di penetratore cilindrico con punta smussa dal
diametro di 0,8 mm che aumenta fino a 1,6. Il dinamometro è collegato mediante una leva ad una scala
graduata da 1 a 100. Se l’indentatore penetra completamente nel provino, si ottiene una lettura di 0, se
non penetra per niente di 100. È difficile effettuare una lettura accurata in caso di materiali viscoelastici
(polimeri), viene usato solo per materiali molto duri.
FRATTURA DUTTILE: avviene dopo deformazione plastica. La propagazione della rottura avviene a T
elevate e lentamente. In questo caso ho in una prima fase la strizione, e da questa si generano dei micro-
vuoti che in una seconda fase si uniscono e vanno a formare una cricca nel centro. Questa tende a
propagarsi verso la superficie perpendicolarmente ad essa, e una volta raggiunta, si inclina di 45°
determinando la frattura (rottura di tipo coppa-cono).

FRATTURA FRAGILE: ((propagazione a T basse e velocemente. Qui abbiamo delle dislocazioni che si
oppongono al piano di scorrimento, e risulta fondamentale il ruolo dei bordi dei grani.)) In questo caso
avremo una rottura netta a basse temperature. Si viene a creare un vettore somma, quello che genererà
la rottura definitiva, che rappresenta la somma delle sollecitazioni che si propagano in più direzioni lungo
i bordi dei grani. Quindi qui non si ha deformazione, ma direttamente rottura. A differenza della duttile
dove abbiamo una rottura coppa-cono, qui abbiamo una serie di linee incrementali in corrispondenza
della frattura fragile. (((leggiti giusto su fascicolo pag. 34, 35 e 36)))

(Un’altra differenza la vediamo nel fatto che mentre nella frattura duttile non c’è differenza tra solido
mono o policristallino, nella fragile è importante perché il monocristallino presenta una sola cricca e non
può incontrarne altre, mentre il policristallino presenta diverse microcricche per i diversi grani.)

PROVE A FATICA: prove per capire come si comportano i materiali quando subiscono sollecitazioni continue
nel tempo, quindi importanti proprio perché i materiali utilizzati nel cavo orale sarebbero sottoposti a
stress continui (masticazione).
Queste prove richiedono la presenza di un contagiri, un provino cilindrico ed un motore.

SCORRIMENTO VISCOSO: la prova di scorrimento viscoso a caldo o “Creep” valuta la deformazione


plastica che può subire nel tempo un materiale metallico sottoposto ad una sollecitazione costante ad
elevata temperatura. Nel grafico non abbiamo una curva che inizia dallo 0 perché tutto inizia in seguito ad
un iniziale allungamento istantaneo. Dopodiché abbiamo un creep primario (ossia la fase in cui i bordi dei
grani si oppongono alla propagazione della frattura essendo ancora basse le temperature), un creep
secondario (il secondo momento in cui le T aumentano insieme alla deformazione, la resistenza dei grani è
vinta), e poi ho un creep terziario (in cui la curva è ormai diventata positiva e ci sarà una deformazione tale
da portare a rottura).

La rottura può essere: intergranulare ad aspetto fragile (dopo una piccola deformazione plastica),
intergranulare ad aspetto duttile (dopo consistente deformazione plastica ed un basso livello di strizione),
oppure duttile transgranulare (dopo un’ampia deformazione plastica ed un’ampia strizione).

Per quanto riguarda il trattamento dei metalli, possiamo trattarli da un punto di vista meccanico (ad
esempio lavorazioni a caldo o plastiche primarie) o superficiale (ad esempio levigazione della superficie).

I TRATTAMENTI TERMICI: sono operazioni mediante le quali una lega o un metallo vengono sottoposti a
uno o più cicli termici per impartire determinate proprietà (come la ricottura, l’indurimento per
precipitazione ecc.). Infatti ad esempio se vado a fare delle ricotture sotto la temperatura di fusione
aumento la resistenza meccanica del mio materiale (modificando la resistenza meccanica dei bordi dei
grani). (metalli di maggiore interesse pag. 38 del fascicolo)

CLASSIFICAZIONE DEI METALLI


I metalli sono classificati in base alla temperatura di fusione:
-Basso-fondenti: fino a 500°
-Medio-fondenti: tra i 500 e i 1200°
-Alto fondenti: tra 1200 e 2000°
-Refrattari: se fondono oltre i 2000°.
I metalli sono classificati in base alla densità:
-Leggeri: fino a 5 Kg/d^3;
-Pesanti: tra i 5 e i 15 Kg/d^3;
-Pesantissimi: fino a 22,6 Kg/d^3.
Più pesante è il metallo, meno spazio ci sarà e maggiore sarà la performance meccanica, la resistenza di
questo metallo. D’altra parte, minore è la densità, maggiori saranno le proprietà elastiche. Quindi a
seconda delle esigenze ci si orienterà verso un tipo o un altro di metallo.

Inoltre, vengono classificati in base alla resistività elettrica:


-Buoni conduttori: fino a 10 microOhm/cm;
-Medio conduttori: tra 10 e 25 microOhm/cm;
-Cattivi conduttori: fra 25 e 185 microOhm/cm.

L’oro è un ottimo conduttore, le leghe palladiate sono invece decisamente isolanti e questo è uno dei
pochissimi fattori positivi che ha determinato l’introduzione delle leghe in palladio. Questo è importante
perché, in protesi fissa, la conduzione di uno stimolo (elettrico o termico) può determinare, in presenza di
una protesi scorretta, una sollecitazione abnorme su un pilastro privato del guscio di smalto superficiale.

PROPRIETÀ TERMICHE: fondamentali perché ci fanno comprendere il comportamento del materiale in base
alla variazione di temperatura.

(((Attraverso le proprietà termiche possiamo valutare: la variazione di T, gli shock termici dell’organo pulpo-
dentinale (ecco perché è importante l’utilizzo degli isolanti durante le procedure, la variazione
dimensionale dei materiali, l’azione iatrogena, la reazione di presa di alcuni metalli).)))

Per poter parlare più chiaramente delle proprietà termiche bisogna introdurre alcuni concetti:

CALORE SPECIFICO: quantità di calore necessaria per far salire di un grado centigrado la temperatura di
un grammo di una determinata sostanza

CALORE DI FUSIONE: quantità di calore necessaria per far passare dallo stato solido allo stato liquido un
grammo di sostanza che abbia raggiunto la T di fusione.

T di FUSIONE: temperatura che una sostanza pura mantiene costante nel passaggio da solido a liquido,
mentre una lega eterogenea presenta un intervallo di fusione.

Le proprietà termiche principali sono la dilatazione (o espansione) termica e la conducibilità termica.

DILATAZIONE TERMICA: aumento di volume che un solido subisce in seguito ad un innalzamento della T.
Questa grandezza può essere isotropa (nel caso dei solidi policristallini, dei cristallini cubici, e gli amorfi in
cui la deformazione avviene in tutte le direzioni dello spazio) o anisotropa (riguarda i restanti solidi
cristallini, in cui la deformazione avviene nella direzione di applicazione della sollecitazione).

L’entità della dilatazione viene misurata attraverso il coefficiente di dilatazione termica, che ci dà un’idea
della variazione di lunghezza in seguito ad un aumento di temperatura di 1°C, ed è costante per il metallo
(a meno che non subisca una contrazione per raffreddamento).
Dobbiamo stare attenti infatti con i materiali che utilizziamo, perché potremmo avere una dilatazione
dovuta all’assunzione di cibo e bevande calde, con una successiva contrazione per assunzione di cibi o
bevande fredde, e di conseguenza la rottura del sigillo marginale di un restauro.

Come si calcola la dilatazione termica? Delta L / L = K x Delta T  La variazione di lunghezza in rapporto a


quella iniziale è uguale al coefficiente di dilatazione termica (k) per la variazione di temperatura.
Si può trovare anche la dilatazione volumica. Quando si passa ai volumi si triplica il valore, quindi:
Delta V / V= 3 Delta L / L
CONDUCIBILITÀ TERMICA: capacità di una sostanza/materiale di trasmettere il calore attraverso l’area di 1
cm2 di un materiale di spessore di 1cm, quando la differenza di temperatura è di 1°C. Viene espresso in
Cal/S/Cm^2.

È importante conoscere la conducibilità termica, altrimenti potremmo causare dei danni irreparabili. Se un
calore elevato viene trasmesso attraverso i materiali, giunge in profondità ed entra a contatto con i tessuti,
avremo causato un danno iatrogeno. Così come l’espansione termica può essere causa di altezze di restauri
sbagliate e di conseguenza dolore.

((DIFFUSIBILITÀ TERMICA: K/d x cs (coefficiente di conducibilità fratto densità per calore specifico). Questo
tipo di equazione viene applicata quando il gradiente termico è costante e rappresenta la velocità con la
quale un corpo di temperatura non costante raggiunge l’equilibrio.))

PROPRIETÀ OTTICHE: l’ottica è una branca della scienza che si occupa di studiare i fenomeni di emissione,
trasmissione e assorbimento delle radiazioni elettromagnetiche nella lunghezza d’onda del visibile (380 e
760 nm). È difficile capire il colore di un dente in quanto la percezione è soggettiva, e poi dipende dalla luce
che si sta applicando sull’elemento e dal livello di idratazione dell’elemento.

Infatti un dente poco idratato è completamente diverso da un elemento idratato, e questo è il motivo per
cui nella prova a biscotto andiamo sempre a consigliare al paziente di umettare la protesi (perché vogliamo
renderci conto del risultato finale effettivo).

Quando si parla di ottica bisogna distinguere tra varie tipologie di corpi:

- Il corpo nero, che è in grado di assorbire completamente il raggio e trasformare l’energia assorbita
in calore; (mentre se colpisce il corpo bianco la luce si diffonde)
- Il corpo trasparente che si fa attraversare completamente dal raggio di luce;
- Il corpo luminoso che è in grado di produrre luce propria (partendo dalla soglia di 525 °C)
- Il corpo illuminato che trasmette/emana la luce che gli è arrivata dal corpo luminoso
- La sorgente luminosa che può essere un corpo illuminato o luminoso che emette luce
- Il corpo traslucido che riesce ad essere attraversato parzialmente dalla luce (la diffonde), ma non si
possono vedere gli oggetti attraverso esso (come invece avviene con il corpo trasparente).
- Corpo opaco: non si lascia attraversare dalla luce

Esiste una legge importante nell’ottica, la legge di Fermat.

LEGGE DI FERMAT: un fascio luminoso che attraversa un mezzo trasparente e omogeneo nel vuoto, si
propaga in linea retta secondo una traiettoria brachistocrona, ossia quella più vantaggiosa dal punto di
vista temporale perché impiega meno tempo per essere percorsa.

RIFLESSIONE: fenomeno che si verifica quando un raggio di luce incidente colpisce un oggetto riflettente e
cambia direzione.

Bisogna introdurre quindi la legge di Snell che afferma che un raggio incidente su una superficie con un
angolo “i” viene trasmesso con un angolo di rifrazione “r” il cui seno sia proporzionale al seno di “i”.
Questi due raggi sono nello stesso piano e se il raggio incidente colpisce perpendicolarmente lo specchio,
il raggio riflesso torna completamente indietro su sé stesso, quando invece gli specchi sono convessi e
concavi l’immagine sarà rispettivamente rimpicciolita e ingrandita.

RIFRAZIONE: è un fenomeno per cui un raggio luminoso viene deviato quando passa da un mezzo
trasparente ad un altro (come quando guardiamo la cannuccia nel bicchiere d’acqua).

((Quando parliamo di rifrazione dobbiamo tenere in considerazione gli indici di rifrazione, che sono propri
di ciascun materiale e vengono calcolati vedendo il cambiamento di indice dal vuoto al materiale stesso.
C’è una legge di Snell per la rifrazione che è: n1 (indice di rifrazione) x seno dell’angolo incidente = n2 x
seno dell’angolo rifratto. Il raggio incidente, la normale e il raggio rifratto sono sullo stesso piano, il raggio
che passa da un mezzo ad un altro più denso avrà un angolo più vicino alla normale, quindi più piccolo,
mentre se è meno denso sarà più grande.))

ANGOLO LIMITE: L’angolo di incidenza che nel passaggio da un mezzo più a uno meno rifrangente
corrisponde ad un angolo di 90 gradi. Se quell’angolo fosse superiore, il raggio non sarebbe più rifratto,
ma riflesso.
DIFFUSIONE: È quel fenomeno per cui se una radiazione attraversa un corpo, una parte della sua energia
viene assorbita e poi emessa in varie direzioni dagli atomi e dalle molecole del corpo stesso.
(Se il diametro delle particelle macroscopiche che incontra la radiazione durante la diffusione è maggiore di
lambda, non dipende dalla lunghezza d’onda del raggio emesso, se invece è minore sì.)

FIGURA DI MUNSELL: i parametri che ci permettono di


valutare il colore di un elemento dentale sono la tinta,
il croma ed il valore.

 La tinta, che di fatto è il colore vero e proprio, ci


dà l’indicazione sulla lunghezza d’onda della luce
monocromatica e, sulla figura di Munsell, viene
rappresentata come l’anello esterno (vale solo per
i colori cromatici, quindi non per gli acromatici e i
grigi). La tinta rappresenta il livello di saturazione,
rappresentato perpendicolarmente all’asse
verticale che invece rappresenta il valore.
 Il valore rappresenta la chiarezza, ossia quanta
radiazione bianca è presente nel colore che sto
esaminando, e sulla scala verticale il bianco è pari
a 10, mentre il nero a 0.
 Il croma è indice di quanto è più o meno sbiadito il
colore.

È molto complesso riuscire a capire un colore a occhio nudo, per questo utilizziamo lo spettrofotometro,
strumento che ci permette di ottenere croma, tinta e valore dell’elemento dentale che stiamo esaminando.

All’interno di un unico elemento dentale possiamo trovare varie sfumature di colori, a seconda dello
spessore dello smalto e della dentina visibile. (nella parte centrale l’elemento è più trasparente, infatti lo
spessore dello smalto è minore, al contrario della porzione cervicale e di quella superiore occlusale).

CORROSIONE: è un fenomeno che si verifica tra metalli (o leghe) e l’ambiente circostante, e causa una
degradazione chimico-fisica del materiale. In natura i mezzi corrosivi per eccellenza sono l’acqua, il suolo,
l’atmosfera, mentre nel cavo orale la saliva.

Esistono due tipi di corrosione: umida (che prevede la presenza di acqua o di altri fluidi, reazione in cui si
riduce la componente che acquisisce elettroni e si ossida quella che li cede), e secca (quindi senza acqua,
dovuta all’azione dell’ossigeno, in cui l’ossigeno si riduce ed il metallo si ossida).

Poi distinguiamo la corrosione generalizzata (quindi che riguarda tutta la superficie del materiale),
localizzata (in alcune regioni materiale, e qui distinguiamo la corrosione per vaiolatura che si manifesta
come piccoli forellini, per sforzo che si manifesta con la formazione di cricche, interstiziale che si manifesta
con una sorta di caverne), e selettiva (che riguarda delle zone specifiche del materiale).

La corrosione nel materiale è innescata da diversi meccanismi, tra cui il meccanismo chimico (poco
presente nel cavo orale, unione di metalli e non metalli in ambiente secco), biologico (corrosione umida per
azione di enzimi, con acqua a basse T), elettrochimico (con corrosione causata da un flusso di corrente
elettrica per differenza di potenziale).
Diversi sistemi di analisi della superficie: il SEM (microscopio elettronico a scansione, circa 1000 volte più
preciso del MO, prevede un fascio di elettroni che va ad incidere su un campione che si trova in una camera
sottovuoto con una differenza di potenziale tra anodo e catodo, e c’è un detector che evidenzia le
caratteristiche del campione dalla direzione di questo flusso di elettroni).

MO sfrutta la luce, lunghezza d’onda nello spettro del visibile

((AFM: microscopia a forza atomica (si ha un puntatore laser su cui viene montata una punta acuminata,
che viene avvicinata alla superficie ruvida, e la punta si alza e si abbassa a seconda della superficie creando
un’onda che viene rielaborata su un software))

TEM: a trasmissione, si ha un fascio di elettroni diretto sul campione. In base a come vengono assorbiti gli
elettroni dal campione abbiamo un’analisi. Il campione però deve avere uno spessore molto sottile, ed è
difficile molto spesso sezionare gli elementi dentali, i tessuti calcificati in slices così sottili.

DIAGRAMMI DI STATO: sono dei grafici che rappresentano le fasi di un materiale. La fase è una porzione
omogenea di un materiale che si differenzia dalle altre porzioni per una microstruttura diversa o per la sua
composizione chimica.

I diagrammi di stato ci permettono di comprendere quali fasi sono presenti durante il passaggio da solido a
liquido, conoscere la T di fusione, la T di raffreddamento, e valutare la massima solubilità.

Uno dei primi diagrammi è quello dell’acqua: l’acqua presenta tre fasi (solida, liquida e gassosa)

Sull’asse delle ascisse abbiamo la T, su quella delle ordinate la pressione P, ci sono due linee (di
vaporizzazione e di congelamento, localizzate rispettivamente tra la fase gassosa e la fase liquida la prima
dove coesistono, e tra la fase solida e la liquida la seconda), esistono poi tre punti importanti (punto di
congelamento localizzato a 0°C e pressione 760 mmHg, il punto di ebollizione localizzato a 100 °C e 760
mmHg, il punto triplo in cui coesistono stato solido, gassoso e liquido, ed è ad un valore di 0,01°C e 4,58
mmHg).

Il diagramma invece del ferro: il ferro è allotropo, ossia cambia il suo reticolo cristallino in base alla
temperatura a cui si trova, quindi se cambia il reticolo cambia anche il suo diagramma di stato. In questo
caso abbiamo la T sulle ordinate. I ferri alfa, gamma e delta fanno parte della fase solida. Ferro alfa e delta
sono cubici a corpo centrato, il ferro gamma cubico a facce centrate. Tra il ferro alfa e gamma c’è una linea
bifasica, così come tra gamma e delta, tra delta e liquido e tra liquido e gassoso. Quindi abbiamo 4 linee
bifasiche dove coincidono le due fasi. Punto triplo tra delta, liquido e vapore.

Dobbiamo tener conto del fatto che sia acqua che ferro sono puri.

Questi diagrammi di stato ci permettono di comprendere la varianza, ossia il grado di libertà, ovvero il
numero di variabili che posso modificare senza alterare l’equilibrio. Questa si calcola attraverso le fasi di
Gibbs. Si fa l’equazione per cui il numero delle fasi + il numero della varianza (incognito) = numero delle
componenti (che per le sostanze pure è 1) + il numero delle variabili (T e P), quindi 2. (F+V=C+N)

Il risultato sarà 3 + x = 1 + 2, quindi la varianza è uguale a 0, proprio perché non possiamo apportare
nessuna modifica, altrimenti si altererebbe l’equilibrio. Nelle leghe binarie invece avremmo una condizione
diversa.

LEGHE: sono l’unione di due metalli o di un metallo ed un non metallo, e possono essere ottenute da
diversi processi.
Nel caso in cui le componenti delle leghe possono essere miscelate tra loro parliamo di fusione, che è un
processo che prevede la miscelazione delle componenti fuse tra loro oppure la fusione della componente
principale alla quale vengono aggiunte successivamente le componenti secondarie.
Poi abbiamo casi in cui la lega è miscibile in parte, in cui preferiamo la sinterizzazione in cui le polveri delle
componenti che vengono compattate ad elevate pressioni e temperature (che sono però sempre inferiori a
quelle di fusione), questo determina il meccanismo di diffusione termica. La diffusione termica permette
alle varie componenti di omogeneizzarsi tra loro e portare alla formazione della lega.

Nel caso in cui le componenti non sono miscibili, si preferisce come meccanismo l’elettrodeposizione,
usata molto negli impianti, e che prevede di depositare elettroliticamente le componenti secondarie sulla
massa dell’elemento principale e solo dopo un ciclo termico si attua una minima diffusione (come avviene
nella sabbiatura). Quindi faccio solidificare il metallo di base, vado a sparare un’elettrodeposizione ed
applico il rialzo termico.

Una volta miscelate le componenti possiamo ottenere leghe omogenee o eterogenee.

Omogenee: sono composte da una sola fase in quanto si è avuta una miscibilità completa

Eterogenee: sono formate da più fasi. Non c’è stata una miscibilità completa, ma sono comparse delle fasi
intermedie. Queste sono divisibili in

- eutettiche (miscele di metalli i cui elementi costituenti sono solubili allo stato liquido, ma non
solido – quindi solidificando si formano cristalli distinti)
- peritettiche (le componenti sono solubili in fase liquida, e durante il raffreddamento formano una
fase intermedia, un composto intermetallico, sono le più complesse da disegnare graficamente).

Le leghe possono essere classificate in base alle componenti in binaria, terziaria, quaternaria e complessa,
oppure in base alla componente maggiore quindi in auree, di alluminio, di rame, ferrose, oppure in base
alla t di fusione in basso, medio e alto-fondenti.

(MANCA DIAGRAMMA DI STATO NI-CU – scritto su foglio)

(BIOCOMPATIBILITÀ fatta sul libro fino a test emotossicità, poi dal fascicolo di Ari)
PREVENZIONE (da qua)
La carie è una patologia che determina lesioni a carico dei tessuti dentari ed è ad eziologia multifattoriale
(dipende dalla struttura dei denti, dal biofilm, dalla dieta, dall’età…)

La prevenzione della carie si effettua tramite l’intercettamento precoce delle lesioni attraverso prevenzione
PRIMARIA, SECONDARIA e TERZIARIA.

PRIMARIA: mira al controllo dei fattori eziologici legati alla demineralizzazione della struttura dentale
attraverso somministrazione di fluoro (al fine di potenziare la resistenza nei confronti degli acidi prodotti
dal metabolismo fermentativo dei batteri), l’applicazione di scrupolosi protocolli di igiene orale, una dieta
alimentare che limita il consumo di cibi cariogeni, test di screening per individuare i soggetti più
cariorecettivi.

SECONDARIA: consiste nel controllo dei siti anatomici degli elementi dove le lesioni possono manifestarsi
più facilmente tramite l’applicazione di resine/vernici che riducono la possibilità di attecchimento della
placca.

TERZIARIA: viene messa in atto per trattare le lesioni cariose iniziali ed implica una minima preparazione
cavitaria (quanto più conservativa possibile) e l’applicazione di materiali compositi.

In generale, i materiali più usati nell’odontoiatria preventiva sono fluoro, presidi per l’igiene orale
(dentifricio, collutorio, compresse rivelatrici di placca, spazzolino, filo interdentale, scovolino), dolcificanti
non zuccherati, sigillanti.

FLUORO: F è un metalloide che appartiene al gruppo degli alogeni. Nella tavola periodica ha numero
atomico 9 e peso atomico 18,9984. A t ambiente è un gas, poco più pesante dell’aria, tossico, aggressivo e
di odore penetrante. Il suo punto di ebollizione è a -188,12° e solidifica a -219,62°.

Dopo l’idrogeno è l’atomo più piccolo ed il più elettronegativo, e per questo reagisce con quasi tutti gli
elementi. Il suo comportamento biochimico consiste essenzialmente nella sottrazione di idrogeno a vari
composti, nella formazione di acidi per idrogenazione, ma anche l’interazione con glucidi, lipidi.
Importantissima è la sua affinità per i fosfati di calcio, per cui il fluoro si accumula in zone in fase di
calcificazione interagendo nell’accrescimento dei cristalli di apatite.

La necessità di piccole dosi di fluoro per la formazione dei cristalli di idrossiapatite delle ossa e dei denti
rende fondamentale la sua presenza nella dieta.

L’apporto di fluoro per l’uomo può avvenire attraverso fonti naturali ed artificiali.

- Naturali: acqua (le concentrazioni dipendono da diversi fattori), alimenti (elevate concentrazioni si
trovano in bevande come tè o caffè, nei pesci e negli ortaggi, per un apporto giornaliero con
l’alimentazione di circa 0.2-0,5 ppm), atmosfera (come polveri, vapori o gas in prossimità delle
miniere)
- Artificiali: nei farmaci (anche se quando presentano il fluoro legato al carbonio, non viene
assorbito) e nei prodotti utilizzati nella profilassi della carie.

L’assorbimento avviene principalmente nel tratto gastrointestinale, oppure l’inalazione di polveri può
determinare l’assorbimento al livello della mucosa respiratoria.

L’assorbimento di fluoruri presenti nei liquidi è del 97% per l’acqua e leggermente inferiore per le altre
bevande.
Negli alimenti solidi si riduce sotto l’80%.
Distribuzione: nell’organismo il fluoro si distribuisce tra massa fluida (sangue), tessuti duri e tessuti molli

- Nel sangue la concentrazione è correlata alla quantità assunta con la dieta, con un picco massimo
di presenza dopo un’ora dall’assunzione (mediamente 0,04 ppm).
- Nei tessuti molli il comportamento dei fluoruri è simile a quello che hanno nel sangue. Possiamo
rilevare una concentrazione maggiore negli organi riccamente vascolarizzati
- Nei tessuti duri invece si trova l’85% dei fluoruri presenti nel nostro organismo. Genericamente la
concentrazione si aggira tra 500 e 5000 ppm. (la concentrazione diminuisce secondo l’ordine
cemento-osso-dentina-smalto)

Riguardo ai tessuti dentali, i fluoruri hanno tre fasi di fissazione:

- Formazione: fissazione uniforme su tutta la struttura reticolare


- Mineralizzazione: fissazione che avviene in maniera selettiva sulle zone di mineralizzazione
- A mineralizzazione completata: fissazione limitata agli strati più marginali.

Durante la prima fase di formazione, lo smalto ha una scarsa fissazione del fluoro (si concentra negli strati
superficiali), che aumenta poi in fase di mineralizzazione.

Nella dentina troviamo una concentrazione di fluoro doppia o tripla rispetto allo smalto sia in formazione
che in mineralizzazione.

Il cemento radicolare contiene le concentrazioni più elevate di fluoruri.

Nella placca batterica la concentrazione di F è elevata fino a 40 ppm se l’acqua assunta ne contiene almeno
1ppm.

- Fase pre-eruttiva: il fluoro migliora la configurazione dell’idrossiapatite grazie alla sua inserzione
nel reticolo cristallino;
- Fase post-eruttiva: favorisce la formazione della fluoro-idrossiapatite negli strati superficiali per
scambio ionico. Inoltre il fluoro, interagendo con le membrane batteriche del biofilm, limita
l’assorbimento di zuccheri da parte di quest’ultimo e quindi riduce la glicolisi anaerobica dei batteri.
È palese infine il suo ruolo nei processi di remineralizzazione di piccole lesioni iniziali.

Nella placenta, la concentrazione di F gioca un ruolo importante nella strutturazione dei tessuti calcificati
del feto. Quando si superano i dosaggi di assunzione da parte della madre, la placenta lo assorbe in modo
tale da non farne aumentare eccessivamente la concentrazione nel feto, proteggendolo.

Escrezione: avviene principalmente attraverso le urine (50%), le feci (10%), il sudore (40%), la saliva.

Somministrazione:

- Sistemica: come integrazione della dieta. Ha come bersaglio gli elementi in crescita per cui deve
essere attuata fino a 15 anni. Per via sistemica il fluoro può essere aggiunto ad alimenti come il
latte, il sale o l’acqua, oppure somministrato direttamente sotto forma di compresse (assunzione
costante almeno per i 9 mesi scolastici).
- Topica: può essere effettuata a qualsiasi età, poiché la sua efficacia non è vincolata al processo di
mineralizzazione dei tessuti dentali in crescita, ma ha lo scopo di promuovere la remineralizzazione
degli strati superficiali dello smalto (e lo scambio ionico).
Le metodiche di fluoroprofilassi topiche prevedono l’utilizzo di mezzi di somministrazione per uso
domiciliare (come dentifrici e collutori) e professionale (come gel, vernici, ionoforesi…)
Somministrazione per via topica attraverso paste dentifricie a basso contenuto di F (550 ppm):
raccomandata da 3 a 6 anni due volte al giorno.
Dopo i 6 anni  dentifricio con almeno 1000 ppm di F due volte al giorno.
Fluorosi:
Intossicazione da fluoro e può essere in due modi:
1) ACUTA: Per dosi superiori a 5mg/kg di peso corporeo. Parliamo di circa 250 compresse.
2) CRONICA: Molto più frequente. Senza esito letale fino ai 2gr, con effetto corrosivo su mucosa gastrica,
intestino, diarrea, vomito.

Possiamo avere:
- Fluorosi dentale: disturbo nella formazione del dente. Caratterizzata da chiazze opache nello
smalto, depressioni, colorazioni dal giallo al marrone. In genere interessa gli elementi che
calcificano per ultimi, gli anteriori, in quanto sono quelli che subiscono un accrescimento più lento,
e quindi sono esposti per tutto il periodo di impregnazione al fluoro.

- Fluorosi scheletrica: Si ha per ingestione di acque con concentrazione superiore a 8 ppm. Esiste la
classificazione di Roholm, una classificazione radiologica in base al danno e all’effetto che si è
determinato da un punto di vista clinico. Passiamo da uno stadio iniziale asintomatico, ad uno
stadio secondario con dolori al rachide, limitazioni funzionali, sindromi gastro-intestinali; questo
fino al terzo stadio, con dolori molto importanti, dispnea da sforzo legata a rigidità toracica.

DENTIFRICIO: Il dentifricio è un prodotto finalizzato alla pulizia, alla manutenzione dell'estetica ed alla
salute dei denti. Assieme allo spazzolino viene utilizzato comunemente per promuovere l'igiene orale.
Deve contenere fluoro sotto forma di sale solubile e il tenore di fluoruro sodico e potassico deve essere
elevato (da 500 a 1000 ppm).
Il dentifricio deve essere in grado di levigare le superfici dure del dente, deve lucidare la superficie dello
smalto e prevenire la formazione di macchie; tutto questo senza danneggiare il dente.
Il grado di abrasione viene definito dalla sigla RDA (relative dentin Abrasivity). Un valore troppo elevato di
RDA (>200) causa danni a livello dello smalto.

Il dentifricio è composto da:


- Umettanti: consentono il non indurimento del dentifricio a contatto con l’area
- Addensanti e leganti: prevengono la separazione degli ingredienti solidi da quelli liquidi;
- Astringenti: proteggono le superfici mucose formando una pellicola;
- Abrasivi: eliminano placca e macchie;
- Detergenti: sono schiumogeni per emulsionare la saliva;
- Coloranti, aromatizzanti e dolcificanti: rendono gradevole l’applicazione del dentifricio
- Agenti medicamentosi: hanno un’azione batteriostatica e battericida sul biofilm ed
antiinfiammatoria sui tessuti molli.

COLLUTTORIO: Il collutorio è un prodotto utilizzato per l'igiene orale.


È un antisettico e antiplacca che si sostiene aiuti a prevenire carie, gengiviti e alito cattivo.
I collutori utilizzano il fluoro per la protezione contro la carie.
Tuttavia l'uso di questo prodotto non elimina la necessità dell'utilizzo dello spazzolino e del filo
interdentale. In base alle differenti esigenze, esistono 3 categorie:

1) Antisettici: controllano la placca batterica attraverso la gestione della flora microbica. Il componente
utilizzato è la clorexidina, ma anche Sali di ammonio e triclosan;
2) Antinfiammatori: aiutano la terapia chirurgica nel mantenimento del post-operatorio
3) Cosmetici
SIGILLANTI OCCLUSALI: I sigillanti per solchi sono materiali che vengono posizionati in corrispondenza di
solchi e fossette occlusali al fine di creare una barriera protettiva contro i batteri cariogeni e i substrati
alimentari.
Più dell’80% delle carie si localizza infatti a livello della anfrattuosità delle superfici occlusali dei molari,
dove la complessa morfologia e soprattutto la presenza di solchi profondi e stretti impedisce la
penetrazione delle setole dello spazzolino e quindi un’adeguata detersione.
I sigillanti sono dei compositi (perché hanno matrice e riempitivo) ma si differenziano rispetto al
composito perché cambiano le proprietà meccaniche, sono meno resistenti, + fluidi; un’altra differenza sta
nella composizione chimica riguardo ai riempitivi (possono essere utilizzati per spessori più piccoli).

Prima di eseguire la sigillatura devo inserire il bambino in una classifica di rischio e in base a quello decido
se effettuarla o meno.

I sigillanti sono definiti come compositi molto diluiti perché sono estremamente fluidi così da entrare in
tutte le anfrattuosità e per fare questo devo diminuire il filler. Lo spessore dello strato deve essere minimo
e la condizione affinché possa parlare di sigillatura è che il dente non viene toccato da turbina.
Qual è la funzione vera dei sigillanti?
Una funzione prevalentemente meccanica cioè isolare una delle più importanti nicchie biologiche del
microbioma vale a dire i solchi e le fossette. I sigillanti possono avere dei riempitivi aggiuntivi come il
fluoro allora, in quel caso, la funzione è una funzione di carrier di rilascio di fluoro che consente lo scambio
ionico superficiale e la formazione di fluoro idrossiapatite.

I primi sigillanti erano a base di cianoacrilati in seguito abbandonanti perché soggetti a fenomeni di
degradazione del cavo orale. Oggi sono sigillanti resinosi a base di Bis-Gma (ottenuto dalla regione
Bisfenolo A con il glicidilmetacrilato) ed altri monomeri diluenti come il TEG-DMA (trietilenglicol-
dimetacrilato). Sono materiali fluidi a bassa viscosità che penetrano nelle fessure ed aderiscono allo smalto
dentario preventivamente mordenzano con un legame micromeccanico.

Vengono classificati in base:

A.Al tipo di polimerizzazione:


1) Autopolimerizabili: sono forniti sotto-forma di due componenti da miscelare subito prima dell’uso,
uno contenente il perossido di benzoile e l’altro un’amina terziaria (attivatore); I vantaggi sono che
il grado di conversione è predeterminato, non serve la lampada, ma lo svantaggio è che ho poco
tempo a disposizione per modellarlo.

2) Fotopolimerizzabili: contengono un foto-iniziatore (canforochinone) che viene attivato


dall’esposizione della luce visibile (emessa da una lampada con picco di emissione di circa 470 nm).
Sono i materiali più utilizzati perché permettono di controllare l’inizio della reazione di
polimerizzazione e quindi permettono di avere un tempo di applicazione maggiore. Inoltre, quelli
foto polimerizzabili sono più omogenei. È importante tenere la lampada vicina al composito e non
restare sempre sullo stesso punto, ma muoversi delicatamente facendo in modo che il sigillante
aderisca alle pareti.

B. Al colore. Esistono dei sigillanti:


- Trasparenti.
- Opachi: contengono diossido di titanio;
- Colorati.
Il vantaggio dei sigillanti opachi e colorati è che sono facilmente riconoscibili rispetto allo smalto
circostante. Invece la trasparenza mi dà un miglior risultato estetico.
C. Al riempitivo in riempiti e non riempiti.
Il vero sigillante occlusale è non riempito (ossia più fluido). Senza riempitivo infatti ha quella fluidità in più
necessaria per poterlo inserire nei solchi e nelle fossette.
Quelli riempiti sono meno penetranti, sono riempiti con Sali di fluoro aggiunti alla resina.

Procedura sigillatura (a inizio conservativa). + fogli che ti sei staccata leggili soltanto

CURETTE E ALTRI STRUMENTI PER LA RIMOZIONE DEL TARTARO


Gli strumenti parodontali manuali, quali curette, scaler e lime vengono utilizzati per la rimozione del
tartaro sopra e sotto gengivale e per la levigatura radicolare. Questi strumenti sono formati da tre parti:
 Manico: è l’impugnatura, ha diverse forme e quelli zigrinati o siliconati garantiscono
un’impugnatura più sicura.
 Gambo: Connette il manico alla lama. Ha diverse lunghezze e angolature per favorire l’inserimento
nelle tasche parodontali.
 Lama: E’ la parte lavorante, ha caratteristiche diverse, in genere ogni strumento ha due parti
lavoranti.

La lama e il gambo sono realizzati in acciaio inossidabile, mentre il manico può essere in acciaio o rivestito
da silicone. Esistono anche strumenti con parte lavorante in materiale plastico utilizzati per l’impianto
dentale.

Curette
Una curette o cucchiaio tagliente è uno strumento chirurgico, utilizzato per asportare, scarificare,
raschiare o pulire. Sono caratterizzate da una parte lavorante con uno o due bordi taglienti. Ci sono due tipi
di curette:

1) Universali: hanno la parte lavorante con due bordi taglienti paralleli tra loro, che formano un angolo di
90° con la parte inferiore del gambo. Sono universali perché possono essere utilizzate su tutte le superfici
dentarie. Ci sono vari tipi di curette universali in base alla lunghezza e all’angolazione della parte finale del
gambo. Le più utilizzate sono le Columbia, Goldman Fox. ((Poi ci sono le curette di Langer (uniscono le
caratteristiche delle curette universali e quelle di Gracey) e la curette di Syntette (ha una parte lavorante
con sezione trapezoidale due bordi taglienti). ))

2) Gracey: hanno un bordo tagliente angolato a 70° rispetto alla parte finale del gambo, la parte lavorante è
obliqua rispetto al piano e il bordo è sempre quello inferiore. Vengono suddivise tramite dei numeri.

Ci sono due tipi di curette di Gracey:


- Minifive: sono un’evoluzione delle afterfive. Sono utilizzate per le tasche strette e profonde
- Afterfive: gambo di 3mm delle curette di Gracey convenzionali e hanno la lama un po’ più sottile.

Scaler
Sono strumenti per la rimozione del tartaro sopra-gengivale, sono utilizzati anche per la rimozione di grossi
depositi nelle zone interprossimali in punti di contatto stretti. Hanno un’estremità appuntita e due bordi
taglienti; la lama ha una sezione piramidale con base triangolare e il gambo può essere dritto o angolato.
Hanno forme diverse a seconda dell’utilizzo. I più utilizzati sono a falcetto con lama curva orientata a 90°
rispetto al gambo.

Lime
Le più utilizzate sono le lime di Hirschfeld: sono strumenti di piccole dimensioni che presentano una parte
lavorante con bordi taglienti paralleli fra di loro. La lama è angolata a 90-10° rispetto al gambo. Sono
utilizzate per l’utilizzo delle zone mesiali e distali o dritte, per la rimozione dei depositi vestibolari e linguo-
palatali.
AIR POLISHING
Alternativa all’uso di curette, ablatori o paste abrasive in pazienti sani per la rimozione di macchie
dovute al tè o al caffè. Si è dimostrato uno strumento efficace nella rimozione del biofilm sopra e
sottogengivale e delle discromie. Usano aria compressa, acqua e vari tipi di polveri (bicarbonato di sodio,
glicina, carbonato di calcio). Il flusso è abrasivo.

SBIANCAMENTO Lo sbiancamento dentale è un trattamento estetico molto richiesto; come tale ha ormai
assunto una notevole rilevanza sia in ambito domestico che in quello professionale. Quando si parla di
sbiancamento professionale, ci si riferisce al cosiddetto bleaching, ossia allo sbiancamento effettuato alla
poltrona mediante l'uso di agenti chimici sbiancanti che possono essere attivati o meno da eventuali
sorgenti luminose (come avviene, ad
esempio, nello sbiancamento con laser). Prima di procedere con qualsivoglia metodica di sbiancamento,
è necessario eseguire un'accurata pulizia dentale, allo scopo di rimuovere tartaro, placca ed eventuali
pigmentazioni esterne. ((Una delle tecniche maggiormente impiegate in quest'ambito è rappresentata
dall'air polishing che prevede l'uso di un getto di aria, acqua e bicarbonato di sodio, erogato da uno
specifico strumento direttamente sulla superficie dentale. Solo dopo aver eseguito la detartrasi, è possibile
procedere con il vero e proprio sbiancamento.))

Bleaching (candeggio, sbiancamento)


Il bleaching è la tecnica professionale maggiormente utilizzata e si esegue direttamente nello studio
dentistico. Per questo, essa viene anche definita "sbiancamento dei denti alla poltrona". Questa procedura
sfrutta l'azione di agenti sbiancanti chimici ad alta concentrazione che possono essere o meno potenziati da
specifiche lampade che ne favoriscono l'azione in profondità. I mezzi sbiancanti più diffusi in ambito
professionale sono rappresentati dal gel a base di perossido di idrogeno al 38% e dal gel a base di
perossido di carbammide al 45%.
Il perossido di idrogeno viene applicato direttamente sulla superficie dentale e necessita di 2-4 applicazioni
da 15 minuti ciascuna che possono essere effettuate in una o più sedute. Il perossido di carbammide,
invece, viene posto in contatto con i denti mediante l'ausilio di apposite mascherine personalizzate che
devono essere lasciate in posa per 30 minuti. In alcuni casi, l'azione degli agenti sbiancanti può essere
potenziata attraverso l'uso di sorgenti luminose: è questo l'esempio dello sbiancamento denti con il laser.
Questo particolare tipo di trattamento prevede l'uso di perossido d'idrogeno ad alte concentrazioni che -
una volta applicato sulla superficie dentale - viene irradiato con un laser ad una lunghezza d'onda ben
precisa. Il gel di perossido d'idrogeno viene così attivato dal calore generato dall'irradiazione e rilascia
radicali liberi che sono in grado di penetrare nella struttura del dente. In questo modo, all'interno del dente
si innescano reazioni di ossidoriduzione che scompongono le molecole delle macchie in composti più
piccoli, incolori e facilmente eliminabili.

DA QUA PUOI ANCHE PASSARE DIRETTAMENTE A CONSERVATIVA


Bleaching di denti non vitali
Per quanto riguarda lo sbiancamento dei denti non vitali, la procedura è totalmente diversa da quanto
finora descritto. In questi casi, infatti, si utilizzano due tecniche:
• Walking Bleaching: prevede l’inserimento del perborato di sodio all’interno della cavità pulpare, con
perossido d'idrogeno al 35% che viene inserito direttamente all'interno del dente che si vuole sbiancare. Si
inserisce sul fondo della cavità pulpare uno strato di cemento;
• Inside-Outside bleaching: prevede l’applicazione dell’agente sbiancante sia sulle superfici esterne che
quelle interne del dente

Sbiancamento Domiciliare
L'intervento di bleaching professionale si contrappone ai tradizionali approcci empirici e fai-da-te, dal costo
generalmente contenuto, ma dai risultati inferiori che, peraltro, richiedono tempi relativamente lunghi per
poter essere apprezzati.
Dentifrici Abrasivi
Uno dei metodi più diffusi consiste nell'impiego di dentifrici abrasivi, la cui azione sbiancante si espleta
mediante spazzolamento dei denti con paste dentifrice a granulometria differente. Un utilizzo eccessivo o
improprio di questi prodotti può logorare lo smalto dentale, con conseguente ingiallimento dei denti; la
loro efficacia, inoltre, si limita alla rimozione delle macchie più superficiali.

Mascherine Personalizzate
Per lo sbiancamento domiciliare il dentista può realizzare nel suo studio mascherine personalizzate in
silicone morbido, riproducenti l'esatta forma delle arcate dentarie del paziente. In altre parole, può fornire
al paziente il medesimo tipo di mascherine impiegate in ambulatorio per effettuare il bleaching con
perossido di carbammide ad alta concentrazione.
All'interno di queste mascherine viene inserita la giusta quantità di sostanze sbiancanti in gel - come il
perossido di carbammide a basse concentrazioni (solitamente, variabili dal 10 al 20%) - e si procede con
l'applicazione sui denti. Mantenendole in sede per un tempo variabile dai 30 minuti alle 4-8 ore (secondo le
indicazioni del dentista) e ripetendo l'operazione per circa una settimana, si ottiene un ottimo effetto
sbiancante (paragonabile al bleaching alla poltrona).
Generalmente, la durata dell'effetto è di circa 5-6 anni, ammesso che nel corso di questo periodo si
effettuino richiami di breve durata.

Striscette Sbiancanti
Un altro intervento domiciliare molto praticato si avvale delle cosiddette "whitestrips", striscette adesive a
base di agenti sbiancanti che vanno fatte aderire ai denti per 30 minuti, 2 volte al dì, per 14 giorni.
Economico, pratico e con un basso rischio di ipersensibilità dentinale, questo trattamento presenta tuttavia
una scarsa efficacia, richiede tempi abbastanza lunghi ed i risultati sono garantiti soltanto per pochi mesi. Il
principio attivo è il perossido di idrogeno al 5 o al 14%
CONSERVATIVA (prima parte che non c’è sul libro)
L’odontoiatria conservativa si occupa del trattamento di tutte le lesioni del tessuto dentale, ad eccezione
della camera pulpare della quale si occupa invece l’endodonzia.

Della conservativa fa parte anche la sigillatura dei solchi. Fasi sigillatura:

- Pulizia superfici (spazzolo e lucido denti con spazzolino e pasta di pomice super polish)
- Isolamento campo operatorio mediante diga di gomma
1. si sceglie il tipo di uncino/gancio
2. si sceglie il tipo di gomma da utilizzare
3. si posiziona il foglio di gomma sull’archetto
4. si sceglie la tecnica di posizionamento (quella più diffusa è prima uncino, poi gomma)
5. si eseguono i fori
6. si posiziona in bocca facendo passare gli elementi da trattare attraverso i fori con l’ausilio
del filo interdentale
- Mordenzatura acida (grazie all’acido ortofosforico che decompone la componente organica dello
smalto e della dentina creando delle micro-anfrattuosità nelle quali penetrerà il fissurit (sigillante)
se stiamo eseguendo una sigillatura, oppure l’adesivo prima del composito se stiamo eseguendo
un’otturazione.
- Fotopolimerizzazione del fissurit mediante lampada fotopolimerizzante
- Rifinitura estetica ed occlusale (mediante un set di frese e punte per rimuovere l’eventuale eccesso
di sigillante occlusale con turbina o micromotore)
- Si chiede al paziente se percepisce dei rialzi e si utilizzano delle striscette blu che gli verranno
posizionate in bocca in corrispondenza della sigillatura appena eseguita. Il paziente dovrà aprire e
chiudere ripetutamente le arcate e, una volta rimossa la striscetta, si verifica quanto colorante è
rimasto sulla sigillatura, e in base a ciò si va a rifinire quel punto.

In ogni caso vige il principio di PREPARAZIONE (del campo operatorio), ESECUZIONE (del trattamento vero e
proprio) e RIORDINO (si chiude e si rifinisce esteticamente ed occlusalmente).

Nel caso invece di una lesione cariosa, cerchiamo prima di tutto di capire se è ancora reversibile o meno (le
lesioni iniziali, non cavitate, si presentano come white spot sulle quali si può ancora intervenire con
soluzioni fluorate topiche in quanto la dissoluzione acida non ha ancora determinato un’alterazione
cristallografica sufficiente dello smalto per generare una cavitazione). Quando la lesione è irreversibile
(cavitata) distinguiamo le varie classi di Black.

Prima classe Black: superficie occlusale; seconda classe= superfici occlusali e interprossimali dei posteriori;
terza e quarta classe = anteriori con e senza interessamento dell’angolo incisale; quinta classe= lesioni
cervicali (la + grave); sesta classe = superfici cuspidali;

Preparazione otturazione 

1. chiedere all’operatore se facciamo anestesia che può essere con adrenalina –vasocostrittore- (fiale
rosse o blu) o senza (verdi) (La presenza dell’adrenalina dà la possibilità all’anestetico di rimanere in
sede per più tempo, amplificandone l’effetto); oppure usiamo una pomata anestetica locale;
oppure lo spray refrigerante. Per quanto riguarda la siringa usiamo la carpool (che deve avere uno
dei due anelli aperto per essere idonea all’anestesia tronculare), gli aghi sono di diverse lunghezze
in base all’area da raggiungere.
2. Isolamento del campo operatorio

Esecuzione  rimozione del tessuto danneggiato mediante strumenti manuali e rotanti


Riordino  si chiude con l’otturazione

Preparazione  isolamento e anestesia


Esecuzione  rimozione del tessuto danneggiato con strumenti rotanti (turbina e micromotore) o manuali
(escavatore)

TURBINA MICROMOTORE
Incastro Pressorio Maschio-femmina
N. giri/ min Maggiore velocità Minore
Funzionamento Ad aria Elettrico
Quando si usa Inizio della preparazione (smalto) Nelle zone più delicate (dentina)
Punta Porzione posteriore liscia Porzione posteriore a baionetta

Poi si usa il tubulicid che va a rimuovere i residui della nostra preparazione;


Poi si chiude! (RIORDINO)  con CVI, compomero, composito, amalgama

Otturazione in composito: attrezzatura  composito, flow, mordenzante, adesivo (che non abbiamo visto
per il sigillante).

Il flow serve se abbiamo una cavità molto ampia, con sottosquadri, dove non riusciamo ad arrivare. Quindi
decidiamo di creare uno strato di flow che essendo liquido siamo sicuri penetrerà nelle anfrattuosità e non
lascerà spazi vuoti.

Se si tratta di una carie interprossimale, l’operatore si serve delle matrici con i cunei di legno per
stabilizzarle. Esempi sono la tofflemire e la siqveland, che presentano fessure da dove si fa passare la
matrice (due volte, dopo aver formato un anello che dovrà circondare il dente), e viti di bloccaggio.

Per portare in cavità e modellare il composito usiamo la spatolina, mentre l’otturatore serve a schiacciarlo
e fargli prendere intimo contatto con la struttura dentale.
OTTURATORI: per conservativa servono quello a testa piatta per spingere il composito, e quello lanceolato
per modellare la superficie occlusale.

Otturazione in amalgama  le compresse di amalgama vanno posizionate nel vibratore, la monodose è


blu, la bidose è verde.
Una volta fatta vibrare la capsulina, si posiziona nel mortaio, si raccoglie con lo spingi-amalgama che è una
siringa cavitata, e si inserisce in cavità per cui serve una certa pressione.

Turbina  può presentare punte a pera, lunghe, a pallina. Inoltre possono presentare diamantatura grossa,
media o finissima.

CARRELLO CONSERVATIVA: anestesia, sistemi di isolamento, turbine, micromotore con rispettive frese,
escavatore, spatolina, specillo, materiale da otturazione che scegliamo di utilizzare, lampada
fotopolimerizzante, matrici

CARIE: processo locale di origine estrinseca che determina un rammollimento dei tessuti duri del dente e
la formazione di una cavità. È dovuto al metabolismo fermentativo dei batteri che sono presenti nella
placca (ispessimento del biofilm in cui dominano le specie di streptococcus mutans e sanguinis, i quali,
attraverso la fermentazione acida degli zuccheri, determinano la discesa del Ph dello smalto al di sotto di
quello critico di 5,5, e quindi la demineralizzazione di quest’ultimo).
Eziologia carie:
- Teorie esogene: secondo cui la carie deriva dall’esterno del dente (biofilm)  Teoria di Miller (la
più accreditata, secondo cui gli acidi prodotti dai batteri provocano demineralizzazione con
dissoluzione proteolitica), Teoria di Gottlieb (demineralizzazione preceduta da proteolisi), Teoria di
Schatz (demineralizzazione smaltea)

- Teorie endogene: trofomicrobica (secondo cui diversi processi altererebbero l’odontoblasta che
produrrebbe così tessuti deboli su cui attecchirebbero i batteri), teoria enzimatica di Eggers (carie
dovuta ad un alterato metabolismo del Ca – P) teoria salivare di Leimgruber (secondo cui
l’equilibrio saliva-dente viene alterato da malattie organiche che determinano la produzione di un
liquido salivare alterato e la sintesi di tessuti meno resistenti).

La carie oggi è definita come una malattia distruttiva del dente, multifattoriale, trasmissibile, non acuta, con
complicanze locali e generali, da civilizzazione, prevedibile.
Fattori di rischio sono:
- Basso status socio-economico
- Morfologia delle superfici occlusali
- Riduzione del flusso salivare
- Consumo di carboidrati frequente
- Bassa esposizione al fluoro
- Tipo di microorganismi predominanti
- Scarsa igiene orale

La placca batterica è un ispessimento del biofilm costituito da microrganismi aerobi e anaerobi immersi in
una matrice di polisaccaridi, lipidi e proteine.

La curva di Stephan raffigura l’andamento del Ph della placca dopo il consumo di un pasto.
- Prima scende bruscamente nel giro di 5 min
- Poi risale gradualmente nei successivi 20-30 min grazie all’aumento della concentrazione di
bicarbonati nella saliva.

In base alla profondità del processo carioso distinguiamo:


- Lesione iniziale: è la cosiddetta white spot, il tessuto è leggermente leso, ma non si sta
decomponendo. (La lesione iniziale presenta una zona superficiale, una di lesione, una scura e una
traslucida)

- Lesione dello smalto: viene colpita prima la parte organica della componente interprismatica, poi
anche la componente inorganica prismatica. I batteri si comportano come mordenzanti, penetrano
nei tessuti disciolti e ne causano la disgregazione. (ectasia: dilatazione patologica)

- Lesione dentina: sono interessate le fibre di tomes (prolungamenti citoplasmatici degli


odontoblasti). Queste fibre degenerano e inizia il deposito di Ca2+ che occlude i tubuli.
Successivamente, per l’azione ectasica dei batteri i tubuli dilatandosi si ricanalizzano ed aumenta
così la cavitazione del dente.

Quando si va dall’esterno all’interno della lesione cariosa distinguiamo:


- Zona di attacco: divisa in zone di distruzione, rammollimento, invasione e pigmentazione scura.
- Zona di difesa: zona di intorbidamento, zona eburnea, zona della dentina reattiva.
LIBRO: capitolo materiali per la terapia conservativa, fai da lì CEMENTI, COMPOMERI E AMALGAMA

(COMPOSITI E ADESIVI DA QUI)

COMPOSITI: materiali costituiti dalla combinazione tridimensionale di più materiali diversi separati da
un’interfaccia, al fine di migliorarne le proprietà meccaniche di ognuno. (resine composite usate come
materiali da restauro, ma anche liner, sigillanti, per intarsi inlay e onlay, corone, restauri provvisori ecc.,
sono molto versatili).

A seconda dell’uso presentano formulazioni diverse, ma in generale le componenti sono:

 Matrice polimerica: è formata da dimetacrilati. Il monomero più usato è il Bis GMA, liquido e
altamente viscoso (per l’interazione dei legami H), ottenuto dalla reazione tra 1 molecola di
Bisfenolo A e due di glicidilmetacrilato.
Bis GMA e UDMA rappresentano i principali componenti della matrice resinosa dei compositi.
Il Bis GMA, essendo molto viscoso, viene diluito con il monomero TEGDMA (trietilen-glicol-
dimetacrilato) in rapporto 1:1. (un altro diluente è il metacrilato benzilico)
((Nell’ultimo decennio sono stati introdotti compositi a base non metacrilica, ad esempio i silorani,
con una minore contrazione da polimerizzazione (invece di rompersi il doppio legame, si apre
l’anello ossiranico).))
Altri compositi sono i flowable, fluidi e contenenti monomeri acidi in aggiunta a quelli metacrilici
(es. GPDM). Questi compositi riescono ad aderire alla struttura dentaria attraverso legami chimici,
senza l’utilizzo dei sistemi adesivi smaltodentinali.

 Sostanze che promuovono e modulano la polimerizzazione: Sono catalizzatori ed inibitori. Quando


parliamo di polimerizzazione (reazione tra più monomeri per formare un polimero), dobbiamo
introdurre il concetto di grado di conversione (numero di monomeri presenti in un polimero).
Maggiore è il grado di conversione, maggiore è il numero di legami, maggiori sono rigidità e
resistenza.
La polimerizzazione è un processo che comporta anche la contrazione tridimensionale del
materiale, dovuta alla formazione di legami covalenti tra i monomeri. L’obiettivo di conseguire il
massimo di reazione di polimerizzazione è contrastato dal desiderio di ridurre al minimo il
cambiamento dimensionale per contrazione.
Le resine composite possono essere
 Autopolimerizzanti: la polimerizzazione avviene in seguito a miscelazione di due paste, una
delle quali contiene l’attivatore chimico (un’ammina terziaria), l’altra l’iniziatore (perossido
di benzoile), miscelazione effettuata al fine di ottenere radicali liberi ed avviare la reazione.
Il radicale libero reagisce con il Bis GMA, formando una molecola che ad un’estremità
presenta un anello, e all’altra reagisce con un’altra molecola di Bis GMA, e così via.
I vantaggi di questi compositi sono il grado di conversione predeterminato ed il fatto che
non serve la lampada. Sono più rapidi e, di contro, ho poco tempo per la modellazione.

 Fotopolimerizzanti: la luce visibile (attivatore fisico) fornisce l’energia per attivare


l’iniziatore (canforochinone, la cui reattività è potenziata dall’aggiunta dell’ammina
riducente) contenuto nella resina composita. Questi compositi offrono una
polimerizzazione controllata e non richiedono miscelazione. Presentano uno strato di
inibizione da ossigeno, ovvero uno strato non polimerizzato in superficie che permette di
applicare più strati sottili e polimerizzare separatamente con lampada per almeno 40 sec.
 Riempitivo: o filler, è costituito da materiale vetroso radiopaco. Sulla base delle dimensioni delle
sue particelle il composito può essere macroriempito, microriempito, nanoriempito o ibrido.
-Primi compositi = macroriempiti con particelle di 1-50 micron, conferivano resistenza, ma
rendevano impossibile la lucidatura (scarse proprietà estetiche).
-Poi sono stati introdotti i microriempiti, di 40 nm circa (dovrebbero chiamarsi nano). Rendevano i
compositi lucidabili, ma poco resistenti.
-Per questo sono stati introdotti gli ibridi con caratteristiche intermedie, con particelle da 1 micron
circa e particelle da 40 nm. Grazie alla combinazione di lucidità e resistenza, vengono utilizzati sia
per i settori anteriori che per i posteriori.
-L’innovazione più recente è rappresentata dai nanoriempiti. Attuali proposte commerciali sono i
microibridi ed i nanoibridi.
Funzioni del riempitivo: ridurre la contrazione da polimerizzazione, ridurre l’espansione termica,
migliorare le caratteristiche meccaniche, aumentare la radiopacità.
((In base alla consistenza, troviamo compositi universali (possono essere applicati e modellati con
spatolina), flowable (applicati con una siringa) o packable (compatti, non sono molto lavorabili, ma
più resistenti).))

 Agenti accoppianti (silani): servono per formare un legame abbastanza forte tra matrice resinosa e
riempitivo inorganico. Il silano è un agente accoppiante, solitamente usato per i compositi
dentinali. Presenta i gruppi Si-OH e metacrilato che formano legami covalenti sia con i gruppi Si-O
dei riempitivi, che con i gruppi metacrilati della matrice resinosa.

Proprietà dei compositi: maggiore % riempitivo  maggiore durezza, rigidità e resistenza; modulo elastico
inferiore rispetto ad amalgama  quindi maggiore deformazione; resistenza a fatica aumentata grazie al
miglioramento dei riempitivi, resistenti a compressione, trazione, flessione, non completamente idrofobi.

Fallimento dei compositi intorno al 2% causa fallimento sigillo marginale, quindi carie secondaria e frattura.

Adesivi: gli adesivi smalto dentinali sono stati sviluppati per l’esigenza di risolvere i problemi legati ai
compositi resinosi, in quanto questi non sono capaci di aderire ai tessuti duri dentari, e presentano una
contrazione volumetrica che può portare a gap marginali, quindi ipersensibilità, carie secondarie e
fallimento del restauro.

Compito degli adesivi: UNIRE (substrato dentale che sia smalto o dentina + e composito, garantendo il
sigillo marginale), RESISTERE ALLA SEPARAZIONE, TRASFERIRE GLI STRESS ALL’INTERFACCIA ADESIVA.

ADESIONE: meccanismo che lega due substrati in intimo contatto attraverso un’interfaccia.

L’adesivo, o bonding agent, presenta una FORZA DI ADESIONE  forza meccanica di trazione necessaria a
separare le superfici interessate dal legame. Si misura in MPa.

Esistono 4 teorie che regolano l’adesione:

 Teoria meccanica  secondo cui l’adesivo polimerizzato interagisce meccanicamente con il


substrato infiltrando porosità e irregolarità (create tramite mordenz. – si formano i cosiddetti zaffi
di adesivo).
 Teoria dell’adsorbimento  riguarda i legami chimici tra adesivo e substrato (primari e secondari).
((L’adesione per attrazione intermolecolare  fisica per legami secondari; chimica primari))
 Teoria della diffusione  secondo cui adesivo e materiale da restauro diventano un’unica cosa
reagendo tra loro, per cui l’interfaccia diventa invisibile.
 Teoria elettrostatica  dovuta all’interazione metallica tra un polimero ed una superficie metallica
conduttiva.

Possiamo avere un’unione:

o Macromeccanica: quando il materiale sfrutta eventuali sottosquadri per aumentare la ritenzione;


o Micromeccanica: quella che avviene negli adesivi, quando l’adesivo si insinua nelle anfrattuosità
create sulla superficie del substrato tramite demineralizzazione acida (mord.), creando così gli zaffi.

Prerequisito essenziale per una corretta adesione è che le due superfici siano quanto più possibile a
contatto tra loro (la distanza deve essere nell’ordine di 1nm).
Il CVI è l’unico materiale da restauro che riesce ad aderire al substrato senza il bisogno di pre-trattare la
superficie biologica.

Per ottenere un buon legame con un adesivo liquido è necessario che questo entri in contatto con il
substrato distendendosi in un sottile film che bagni tutta la superficie di smalto/dentina (aderendo).

BAGNABILITÀ: indica il grado di espansione di una goccia di liquido sul substrato. L’angolo di contatto tra
la goccia e la superficie ne misura il grado. (meno di 90 BAGNABILE; più di 90 BASSA BAGNABILITÀ)

I fattori che influenzano la bagnabilità sono: tensione superficiale dell’adesivo (attitudine ad attrarre le sue
molecole più esterne, che restano coese e non bagnano la superficie) e energia libera di superficie
dell’aderendo (mobilità degli atomi più esterni di dentina/smalto, che non sono stabili).

Per ottenere una buona adesione è necessario che la T superficiale dell’adesivo sia uguale o minore
all’energia libera di superficie dell’aderendo.

((considerato un adesivo, a parità di materiale usato e tensione superficiale, otterrò una minore adesione
sulla dentina rispetto allo smalto))

La realizzazione di una buona adesione dipende dai legami chimici che possono formarsi tra adesivo e
smalto/dentina (primari e secondari), così come tra adesivo e materiale da restauro (teoria della
diffusione), ma dipende anche dalla viscosità e idrofilia dell’adesivo.
In particolare, il sistema adesivo contiene sia un gruppo idrofilo che idrofobo. Questa caratteristica
consente di unire i tessuti dentinali (idrofili), con i materiali da restauro (tendenzialmente idrofobi).

SUBSTRATO SMALTO: è un substrato omogeneo, costituito da cristalli aghiformi di idrossiapatite, disposti a


prismi esagonali.

 Matrice inorganica: 97% circa, è principalmente idrossiapatite, ma anche altre apatiti come fluoro-
apatite e carbonato-apatite;
 Matrice organica: 1-2%, carboidrati, lipidi e proteine;
 Acqua: 3%.

SUBSTRATO DENTINA: è un substrato non omogeneo, in quanto presenta diverse caratteristiche


istologiche a seconda del tipo che consideriamo (peritubulare  scarso contenuto di collagene; o
intertubulare  alto contenuto di collagene). Inoltre anche i tubuli dentinali non sono paralleli tra loro, ad
hanno diametro variabile.

 Matrice inorganica: 70%, idrossiapatite


 Matrice organica: 18% collagene e altri composti
 Acqua: 12%
Il numero e la dimensione dei tubuli raddoppia passando dalla dentina superficiale a quella profonda, e si
inverte il rapporto tra dentina peritubulare ed intertubulare.

 Dentina superficiale: 96% inter – 3% peri – 1% acqua;


 Dentina profonda: 12% inter – 66% peri – 22% acqua.

SISTEMI ADESIVI: I primi sistemi adesivi erano resine fluide non caricate, idrofobe, ed affini alla matrice
resinosa dei compositi (Bis GMA, TEGDMA). Si trattava infatti di agenti adesivi a base di Bis GMA, in
pratica compositi privati di riempitivi. Queste resine hanno la capacità di aderire allo smalto sottoposto ad
un trattamento acido di mordenzatura.
La mordenzatura prevede l’applicazione di un acido forte (pH minore di 2, acido ortofosforico al 35-37%)
per un tempo che va dai 15 ai 60 sec. Si ottiene così una demineralizzazione parziale dello smalto che porta
alla formazione di una superficie porosa, con un’alta energia libera di sup. Con la mordenzatura possiamo
ottenere:

 Demineralizzazione della parte centrale dei prismi


 Demineralizzazione della zona interprismatica, prismi intatti
 Entrambe le precedenti.

Dopo mordenzatura, l’acido viene rimosso accuratamente mediante lavaggio, e lo smalto viene asciugato
bene fino ad assumere un aspetto gessoso. Così le resine idrofobe, in virtù dell’elevata energia di superficie
dello smalto mordenzato e asciutto, penetrano nelle anfrattuosità dando luogo ad un’adesione
micromeccanica.

Tuttavia la dentina non è in grado di legarsi a questo tipo di resine, presentando il fluido dentinale e una
bassa energia libera di superficie.

SISTEMI ADESIVI SMALTO DENTINALI: Successivamente dunque è iniziato lo sviluppo di adesivi che fossero
in grado di legarsi efficacemente sia alla dentina che allo smalto.

I GENERAZIONE:
- Inizialmente gli adesivi smalto-dentinali erano rappresentati da molecole on grado di chelare il Ca della
dentina.
- La forza di adesione sviluppata era estremamente bassa (2-5 MPa).
- Inoltre questi materiali si legavano unicamente alla componente inorganica della dentina (che non
veniva mordenzata).

II GENERAZIONE: (anche qui si mordenza ancora solo lo smalto)


Viene introdotto il PRIMER  molecola in grado di rendere la dentina affine alle resine adesive
(aumentandone bagnabilità, quindi energia libera di superficie). Il primer permette il legame con:

 Componente organica della dentina: grazie a gruppi idrofili (del primer) che si legano con i gruppi
–NH e –OH del collagene;
 Componente inorganica della dentina: grazie a gruppi fosfatici, amminici e dicarbossilici (del
primer) che si legano con il Ca della dentina.
 Resina dell’adesivo: grazie a gruppi metacrilati idrofobi.

Il primer più utilizzato è l’HEMA. La forza di adesione sviluppata resta comunque bassa, inferiore a 10 MPa.

III GENERAZIONE: (primo tentativo di rimozione dello smear layer)

Lo SMEAR LAYER, detto fango dentinale, è uno strato amorfo di 3-10 micron costituito da detriti
organici e inorganici, oltre che da batteri. Si sviluppa sulla dentina, e non può essere rimosso con
semplice lavaggio. Si distingue uno smear layer superficiale, ed uno intratubulare (smear plug) che
occlude i tubuli dentinali. La sua rimozione è stata sconsigliata per molto tempo, ritenendo servisse a
proteggere la polpa.

-Con la terza generazione, si tenta di rimuovere lo smear layer attraverso condizionatori dentinali, cioè
acidi deboli come EDTA al 17%., che tuttavia non sono in grado di rimuovere gli smear plug intratubulari.
- Il miglioramento della forza di adesione è stato minimo, di poco superiore ai 10 MPa.

Soltanto dalla IV generazione in poi si è avuta la vera svolta, e siamo passati alla classificazione odierna dei
sistemi adesivi (dalla IV all’ VIII). Questo perché si è iniziato a mordenzare la dentina con gli stessi acidi
forti usati per lo smalto (acido ortofosforico al 35-37%), anche se con tempi minori (max 30 sec).

La mordenzatura acida della dentina permette la completa rimozione di smear layer e smear plug,
rendendo accessibili i tubuli.

Il primer HEMA è in grado di reagire con il suo gruppo idrofilo con le fibre collagene della dentina,
rendendole bagnabili dalla resina adesiva.
Così si sviluppa anche un’adesione meccanica attraverso la penetrazione dell’adesivo nei tubuli aperti che
permette di formare zaffi che ne aumentano la ritenzione.
Comunque più che la lunghezza degli zaffi è importante la connessione dell’adesivo con le fibre collagene
delle pareti peritubulari. Si forma così uno strato ibrido formato da fibre collagene inglobate nella resina
adesiva.

La forza di adesione che si sviluppa con questi sistemi adesivi è superiore ai 20 MPa, tuttavia è necessario
che tutte le fibre collagene esposte siano inglobate nella resina adesiva, in quanto se non inglobate
possono dare origine a nanoleakage, ovvero piccole fessure che possono allargarsi e far fallire il sigillo
marginale. Perché tutte le fibre siano inglobate è necessario che la resina possa penetrare agevolmente tra
esse. Per cui:

- Bisogna evitare un’asciugatura eccessiva dopo mordenzatura, che farebbe collassare le fibre non
permettendo alla resina di penetrarle;
- Evitare anche un’asciugatura scarsa, in quanto il primer sarebbe troppo diluito  non rivestirebbe
tutte le fibre  le fibre non si legherebbero alla resina adesiva.
- Evitare mordenzatura eccessiva, perchè la resina ha capacità di penetrazione limitata e non
riuscirebbe a raggiungere le fibre più profonde.

Dalla IV generazione in poi possiamo classificare gli adesivi smalto-dentinali in base a:

 Numero di passaggi= 3 step, 2 step, 1 step;


 Tipo di solvente= a base acetonica (per dentina molto umida  acetone volatile rimuove acqua
residua); a base alcolica (asciugatura intermedia); a base acquosa (per dentina + asciutta, l’acqua
reidrata la cavità).
 Generazione: IV, V, VI, VII, VIII

(IV – V – VI – VII – VIII gener. FALLE DAGLI SCHEMI SUL LIBRO PAG 168-169-170-172)
VALORI DI ADESIONE: I test di trazione permettono di valutare i valori di adesione dei diversi sistemi
adesivi. Si basano sull’assunto che maggiore è la capacità di adesione che posseggono, migliore sarà la
capacità di sopportare stress meccanici.

Il test di microtrazione, microtensil bond strength, permette di valutare con grande precisione i valori di
adesione su una superficie, suddividendola in piccole sezioni.
Come funziona? Il dente viene decoronato, poi viene applicato l’adesivo e costruito un build-up in
composito, infine viene tagliato in piccoli campioni di circa 1x1mm. I campioni vengono sottoposti a
trazione e si valuta la forza di adesione.

ENDODONZIA (tutta da qua)


L’endo è la branca dell’odontoiatria che studia morfologia, fisiologia e patologia della polpa dentale e dei
tessuti periapicali.
Scopo dell’endodonzia: preservare la polpa sana e, quando ciò fallisce, rimuovere il tessuto necrotico o
ancora vitale colpito da patologie irreversibili.

Gli elementi dentali possono essere mono o pluri-radicolati. Oltre ai canali principali delle radici, possono
essere presenti anche canali secondari e canali accessori più piccoli che hanno reso necessaria
l’introduzione della guttaperca a caldo (che essendo fluida, riesce a raggiungere anche questi piccoli spazi).

FASI DEL TRATTAMENTO ENDODONTICO= possiamo distinguere 2 fasi principali:

1) Fase uno costituita da: programmazione terapeutica, anestesia, preparazione del dente,
isolamento con diga di gomma, disinfezione del campo operatorio;
2) Fase due, cioè la terapia endodontica propriamente detta, costituita da:
 Preparazione  preparazione della cavità di accesso;
 Esecuzione  alesaggio biomeccanico del sistema canalare (rimozione polpa infetta),
sagomatura, detersione canalare ed eventuale medicazione intermedia;
 Riordino  otturazione dello spazio endodontico.

Nel caso in cui il dente sia vivo possiamo sagomare, detergere e chiudere in un’unica seduta.
Nel caso in cui sia necrotico, si può valutare la possibilità di lasciare il dente aperto alcuni giorni per il
drenaggio.

La vitalità dell’elemento viene stabilita con il test di vitalità (prove termiche, si dà uno stimolo freddo o
caldo al dente) oppure non somministrando inizialmente l’anestesia per vedere la reazione del paziente.

Durante una seduta di endodonzia il secondo operatore deve sempre chiedere al primo che tipo di lavoro
vuole eseguire (quindi di quali strumenti ha bisogno) perché alcuni aprono e chiudono il canale in una sola
seduta, altri invece suddividono il trattamento in più sedute.

Fase UNO = Abbiamo l’anestesia che si esegue tramite una siringa carpool o peripress e serve solitamente
nelle prime due sedute. Poi isolamento con diga di gomma e disinfezione del campo operatorio.

Fase DUE = Si passa alla preparazione della cavità di accesso sulla superficie occlusale (premolari/molari) o
linguale (incisivi/canini), che permetta di accedere al sistema canalare con la massima efficacia, comodità e
precisione possibile. La cavità viene aperta tramite frese diamantate per turbina (ad alta velocità), e frese a
rosetta o quelle di Batt per micromotore (manipolo, a bassa velocità). [kit giallo di frese nel COU]

Una volta aperta la cavità, si rimuovono il tessuto pulpare necrotico ed i detriti attraverso l’alesaggio che
viene praticato con strumenti manuali e strumenti rotanti per micromotore (Torque = forza impressa nella
rotazione, momento meccanico. Velocità di rotazione = n. di giri al minuto).

Dopo l’eliminazione dell’infezione, si ha la sagomatura per dare al canale una forma omogenea. La
sagomatura prevede due metodi: corono-apicale (crown down) oppure apico-coronale (step-back, parto
dall’apice con uno strumento molto piccolo e man mano che salgo ne utilizzo altri di dimensioni sempre
maggiori, svasando così il canale. Il punto debole di questa tecnica è che si formano dei gradini, per cui è
necessaria un’ulteriore fase di rifinitura).
Riesco a capire dove fermarmi grazie al localizzatore apicale (ci dice a che distanza dall’apice ci troviamo).
Questo presenta infatti una parte passiva per il posizionamento ed una parte attiva che viene bloccata con
lo strumento che stiamo usando per sagomare.

(Oppure abbiamo la tecnica endorale che si esegue con il cono di guttaperca (o lo strumento) inserito dopo
essere stato marcato. Il tubo radiogeno va posizionato perpendicolarmente al dente, e per fare ciò usiamo i
centratori.)

A questo punto procediamo con la detersione canalare. La detersione e disinfezione dei canali avviene
tramite l’utilizzo irriganti canalari, come l’agente chelante EDTA, oppure la soluzione alcalina di ipoclorito
di sodio, o l’acqua ossigenata (agente ossidante).

Poi abbiamo la fase di medicazione intermedia, eseguita se la terapia endocanalare viene completata in più
sedute. Le medicazioni provvisorie sono lo Stomilex (a base di ossido di calcio), lo Stomidros (a base di
idrossido di calcio) ed il cemento all’ossido di zinco eugenolo (che può essere il cavit, o un cemento
polvere e liquido). Vengono eseguire per essere sicuri di una netta riduzione della componente batterica nel
canale, e per alleviare il dolore al paziente. (se di vuole ripetere l’alesaggio)

Infine si chiude. La chiusura consiste nel riempimento tridimensionale del sistema canalare e nella
realizzazione di un sigillo perfetto per evitare che i batteri sopravvissuti alle manovre di disinfezione
canalare si moltiplichino nei fluidi tissutali. Una corretta otturazione quindi è determinante per il
successo della terapia endodontica. L’elemento fondamentale nell’otturazione sono i coni di guttaperca,
che vengono usati insieme ai cementi.
L’otturazione può essere classica con inserimento del cono e taglio dell’eccesso a freddo, oppure
innovativa con l’utilizzo del termaphil che sarebbe una sorta di fornetto per scaldare il cono di gutta e
renderlo più manipolabile nel canale con la possibilità di otturare anche i canali secondari, più piccoli.

Patologie che necessitano di trattamento endodontico  carie profonda, traumi che determinano una
minima esposizione pulpare (che quando però è evidente richiede devitalizzazione).
((L’anatomia canalare è estremamente complessa, i denti anteriori sono monoradicolati, i premolari mono
o biradicolati, i molari inferiori biradicolati, quelli superiori triradicolati. Questi canali possono essere dritti,
curvi, possono sdoppiarsi in canali secondari.))

RADIOGRAFIA ENDORALE: ricopre un ruolo fondamentale ai fini di una corretta diagnosi e di conseguenza
terapia. Una corretta lettura dell’elemento procede sempre in direzione corono-apicale. Si devono
individuare: un segmento coronale, un segmento corono-radicolare, ed un segmento radicolare apicale. Per
ottenere risultati migliori il fascio deve essere perpendicolare all’elemento, per cui si utilizza la tecnica dei
raggi paralleli Fitzgerald (in cui la pellicola è parallela all’asse del dente, mentre il fascio è perpendicolare ad
entrambi). RADIOGRAFIA SI ESEGUE PRIMA, DURANTE E DOPO IL TRATTAMENTO.
Per evitare la sovrapposizione di immagini che si trovano nella stessa traiettoria dei raggi, si usa la regola
dell’oggetto vestibolare di Clarke, secondo cui quando due oggetti si trovano nella stessa traiettoria del
fascio, quello più vicino alla sorgente radiogena (ovvero quello vestibolare) risulta nel radiogramma
spostato di più (rispetto all’altro) dal lato verso cui proietta il fascio.
Grazie a questa regola siamo in grado di individuare più canali in una stessa radice, distinguere le radici
palatine e vestibolari dei premolari ecc.
Passaggi nel dettaglio:

Con gli strumenti rotanti e le frese, in particolare quelle di Batt (per arrivare alla camera pulpare) e poi
quelle di Gates Glidden (per svasare una volta giunti nell’imbocco canalare), creiamo una cavità di accesso
che non sia troppo grande (si cerca di salvare quanto più possibile il tessuto). Esistono anche punte
ultrasoniche che facilitano l’alesaggio (rimozione dei detriti).

Ogni dentista si regola scegliendo la tecnica che gli risulta migliore sull’utilizzo di strumenti manuali o
montati su manipolo.

Strumenti per l’alesaggio:

Il sistema di numerazione si basa sul diametro degli strumenti misurato in centesimi di mm in diversi punti.

D1  posto ad 1mm dalla punta (che sarebbe D0)


D2  a 15mm da D1, quindi 16mm da D0

Lunghezza totale, ovvero della parte lavorante fino al manico= standard (25mm), lunga (28mm), extra
lunga (31mm), corta (21mm).

Denominazione: ad esempio uno strumento che ha un D1 di 0,10 mm verrà chiamato come strumento n. 10

Anche la colorazione segue schemi specifici che ne facilitano il riconoscimento. (serie di colori che si ripete
quando il valore è duplicato).

La conicità ISO è di 02 (aumento progressivo di diametro di 0,2mm per ogni mm di lunghezza)

Le superfici lavoranti possono essere a lama o a piano. Quelle di svincolo sono le non lavoranti.
La capacità di taglio e penetrazione della punta dipende dall’angolo di transizione/di taglio (quello che si
viene a formare tra l’asse dello strumento e la tangente dell’ultima spira).

Gli strumenti per l’alesaggio si dividono in:

- Strumenti in acciaio: in passato fabbricati in acciaio di carbonio (rigido ed economico, ma che


andava spesso incontro a corrosione), oggi sono in acciaio inossidabile costituito da Fe puro al
74%, cromo al 18%, e nichel all’8%.
Le proprietà fondamentali sono elasticità (capacità di tornare alla forma originale quando
sottoposti a carichi deformanti), plasticità (capacità di subire una deformazione plastica
permanente quando i carichi superano il limite di elasticità), bassa resilienza (si rompono prima,
quindi scarsa capacità di subire forze esterne senza che avvenga rottura).
I principali strumenti in acciaio sono:
 Tiranervi: azione di strappo. Agganciano ed avvolgono su se stessi il filamento pulpare.
Sono costruite per incisione di numerose tacche a 45°
 Lentulo: usato per spingere nel canale sostanze medicamentose e cementi. Presenta
all’estremità una spirale di sicurezza a spire molto strette per ridurre il rischio di rotture.
 K file: fabbricati ruotando un filamento conico d’acciaio liscio a sezione quadrangolare.
Sono prodotti anche in Ni-Ti. Utilizzati per alesaggio manuale in rotazione.
 K flexofile: torsione del filo più accentuata, quindi più lame. Presenta un’estremità
arrotondata. Angolo di transizione di 55°
 K reamer: strumenti con numero di scanalature inferiori alle lime
 K flexoreamer: K reamer con torsione del filo più accentuata
 H file (lime Hedstrom): costruiti per molatura (non per rotazione) di un filo d’acciaio
conico a sezione rotonda. Lame verso l’alto, molto tagliente.
 Frese di Gates-Glidden: di piccole dimensioni, a forma di fiamma, gambo sottile, vengono
montate su contrangolo.
 Frese Largo: simili alle Gates-Glidden, ma con lame più distanziate.

- Strumenti in Ni-Ti: la lega Ni-Ti è un composto intermetallico, che allo stato solido esiste in tre
fasi cristalline, a seconda dei trattamenti fisici, meccanici, termici a cui è sottoposta.
 Fase austenitica: è la fase stabile, si presenta ad alte temperature, struttura cubica a
corpo centrato, lega rigida, super-elastica e quindi meno plastica.

 Fase martensitica: fase instabile del Nitinol, si presenta a basse T, struttura esagonale
compatta, più flessibile, meno elastica, più plastica.

 Fase intermedia R: non ha una precisa conformazione cristallina, è una via di mezzo.

Ciascuna fase cristallina, esiste in un intervallo di temperatura proprio, delimitato dalle


temperature di inizio e di fine trasformazione e che determina il comportamento meccanico del
Nitinol. Abbiamo (a scendere):
Af: T di fine austenite (ancora al di sopra, il Nitinol è completamente austenitico)
As: T di inizio austenite (durante il riscaldamento è il punto in cui comincia la
trasformazione da martensitica ad austenitica)
Ms: T di inizio martensite (durante il raffreddamento è il punto in cui inizia a la
trasformazione da austenitica a martensitica)
Mf: T di fine martensite (al di sotto, il Nitinol è completamente martensitico).

Le proprietà fisiche del Ni-Ti in fase stabile (austenitica) sono:


 Superelasticità: abilità di riprendere la sua forma originaria una volta rimosso il carico,
anche quando questo carico è di entità importante.
 Memoria di forma: una caratteristica che distingue le leghe Ni-Ti dagli acciai. Può essere “a
una via” (capacità della lega deformata e congelata in una struttura martensitica, di
ritornare tramite riscaldamento alla sua struttura iniziale), oppure “a due vie” (capacità
della lega di passare da una forma stabile, ad un’altra altrettanto stabile al continuo variare
della temperatura)
 Resilienza: capacità del materiale di assorbire l’energia trasmessagli senza che si deformi o
fratturi; negli strumenti Ni-Ti è più alta di quelli in acciaio, ciò consente loro di subire minori
deformazioni plastiche nei canali curvi.
 Resistenza a fatica, torsione e flessione: distinguiamo una fatica ciclica (materiale
sottoposto a sollecitazioni cicliche al di sotto del carico di rottura), e una fatica a torsione
(materiale sottoposto a una torsione sotto sforzo)
 Longevità: processi di corrosione nelle leghe Ni-Ti sono poco frequenti
 Precisione del disegno: dovuta alla fabbricazione dello strumento endocanalare per
micromolaggio anziché per torsione del filo (come invece avviene nell’acciaio).
Questo determina una maggiore precisione del disegno con bordi e angoli più accurati.
Inoltre la punta più smussata è meno aggressiva e più scorrevole.
- Strumenti a ultrasuoni per l’alesaggio: diversi sistemi a ultrasuoni sono stati sviluppati per l’uso in
endodonzia:
 Magnetostrittivi: basati su un metodo che converte l’energia elettromagnetica in energia
meccanica; vengono prodotte delle vibrazioni. Tuttavia si viene a creare un movimento
ellittico che non è ideale per l’endodonzia. Inoltre la pila genera calore e le unità
magnetostrittive devono essere raffreddate.
 Piezoelettrici: utilizzano un cristallo che cambia dimensione quando viene applicata una
carica elettrica. Questa deformazione del cristallo viene convertita in un’oscillazione
meccanica senza produzione di calore. Inoltre gli ultrasuoni piezoelettrici offrono più cicli al
secondo, quindi 40 KHz contro i 24 KHz dei magnetostrittivi.

Sagomatura: fase il cui obiettivo sarà quello di creare il substrato ideale per la successiva chiusura dando
al canale una forma omogenea.

Detersione e disinfezione dei canali: avviene mediante l’utilizzo di irriganti canalari. Gli irriganti svolgono:

- Funzione fisica: lubrificazione delle pareti del canale al fine di facilitare la modellazione dello spazio
endodontico e ridurre il rischio di rottura intra-canalare degli strumenti
- Funzione biologica: azione solvente nei confronti dei residui tissutali ed organici e la disinfezione
dello spazio endodontico.

I principali irriganti canalari sono:

 Acidi e agenti chelanti: hanno la capacità di ammorbidire la dentina dissolvendone la struttura


inorganica. Questa dissoluzione determina una minore resistenza della dentina alla strumentazione
delle pareti canalari. Esempi sono l’acido citrico (agente chelante utilizzato in associazione con
ipoclorito di sodio per rimuovere detriti superficiali e smear layer), l’EDTA (etilen-diammino-tetra-
acetico, che è l’agente chelante più usato. Questo composto permette di rimuovere i sali di calcio
dalle pareti interne dei canali radicolari, permettendone la strumentazione. Il carbonato di calcio,
componente essenziale della dentina, in acqua raggiunge un equilibrio dissociandosi. Quando alla
soluzione viene aggiunto il chelante, esso sottrae Sali di calcio, determinando così il continuo
dissociarsi di CaCO3 e la dissoluzione della sostanza inorganica della dentina. L’edta viene
disattivato dall’ipoclorito di sodio che arresta la sua azione decalcificante e chelante).

 Agenti ossidanti: hanno azione antisettica, sbiancante ed effervescente. Abbiamo il perossido di


idrogeno (H2O2, acqua ossigenata), che viene alternata ad ipoclorito di Na. In endodonzia
vengono utilizzate soluzioni al 3%. Si tende ad utilizzarla al primo lavaggio in quanto, grazie
all’effervescenza, consente ai detriti di fuoriuscire.

 Soluzioni alcaline: hanno effetto lubrificante, azione sbiancante, azione antibatterica, dissolvono i
residui della lesione della dentina. A questa famiglia appartiene l’ipoclorito di sodio.
L’ipoclorito di sodio (al 5%) viene utilizzato nelle sedute endodontiche e svolge la sua funzione
anche sulla predentina.
Ha una funzione fisica e meccanica, riuscendo a detergere anche zone non raggiungibili con gli
strumenti. Tuttavia è tossico, quindi il suo uso deve essere limitato all’interno del canale radicolare.

 Soluzioni saline: abbiamo la soluzione fisiologica la cui unica azione nel canale è quella di
lubrificare le pareti favorendo lo scorrimento degli strumenti.
 Altri irriganti: Cetrexidin (soluzione base di cetrimide e clorexidina allo 0,2%) è un liquido incolore,
inodore e insapore. La cetrimide è un detergente cationico e potenzia l’effetto antibatterico della
clorexidina. La clorexidina svolge infatti un’energica azione antibatterica verso i gram+ e -.
Per quanto riguarda la tollerabilità della cetrimide, i suoi effetti irritativi sono irrilevanti.
OPW: acqua a potenziale ossidante, è un’acqua altamente acida ottenuta tramite elettrolisi. È in
grado di inattivare virus e batteri. Non viene assorbita dalla dentina per cui può essere utilizzata
tranquillamente come irrigante per i canali radicolari. Non è tossica né irritante.
Laser: consente di potenziare l’azione degli irriganti favorendo il raggiungimento di alcune zone dei
tubuli dentinali, un tempo inaccessibili.

Sostanze utilizzati nelle medicazioni intermedie: ((attualmente non esiste un unico mezzo in grado di
garantire la completa disinfezione del sistema canalare, per cui)) per garantire una più accurata
disinfezione del sistema radicolare, agli strumenti canalari affianchiamo una disinfezione chimica. Per
essere più sicuri di una drastica riduzione della componente batterica, possono essere necessarie più
sedute, per cui ci ritroviamo ad eseguire delle medicazioni intermedie. Gli agenti disinfettanti sono:

- Alcoli: tra questi l’alcol etilico, altamente infiammabile. L’azione degli alcoli in alte concentrazioni è
di denaturazione delle proteine. Non sono consigliati come antisettici intra-canalari perché hanno
un basso potere antimicrobico.
- Composti fenolici: come il metacresilacetato, noto come cresatina, che ha potere antimicrobico
- Sali di metallo pesanti: non sono adoperati, Ag – Hg – Cu
- Composti detergenti: come l’ammonio quaternario, ottimo antisettico, ma tossico
- Composti alogeni: prodotti contenenti cloro, iodio
- Composti a base di cloro: come ipoclorito di sodio e cloramina T, che svolgono un’azione
antibatterica efficace sui principali microrganismi.
- Soluzione iodo-durata: soluzione che non contiene alcol, può essere considerata un’ottima
medicazione intermedia in quanto presenta un effetto tossico inferiore a quello degli altri
medicamenti.
- Pasta o polvere iodoformica: con iodoformio e vari antisettici, ha un odore sgradevole, è molto
irritante ed è difficile da rimuovere dal canale
- Idrossido di calcio: che presenta un pH elevato (12) che garantisce la morte della maggior parte
dei batteri. È commercialmente noto come stomidros.
- Ossido di calcio: inserito nel canale si trasforma in idrossido di calcio con un importante aumento
di volume che gli permette di penetrare anche nei canali secondari e accessori. (stomilex)
- Pomate antibiotiche e cortisoniche: il problema di questi prodotti è l’eccipiente, la vasellina, che
non è facilmente eliminabile.

Materiali per l’otturazione canalare: la chiusura consiste nel riempimento tridimensionale del sistema
canalare e nella realizzazione di un sigillo perfetto per evitare che i batteri sopravvissuti alle manovre di
disinfezione canalare si moltiplichino nei fluidi tissutali. Una corretta otturazione quindi è determinante
per il successo della terapia endodontica.

Le caratteristiche fisico-chimiche devono essere: un buon tempo di presa che deve essere sufficiente per
la manipolazione, ma neanche troppo lungo; scorrevolezza e capacità di penetrazione, adesione
(maggiore nei materiali fluidi), e caratteristica negativa è la contrazione dimensionale che nel tempo altera
l’ermeticità dell’otturazione.
Le caratteristiche biologiche sono molto importanti in quanto in corrispondenza dell’apice si crea un
contatto con i tessuti viventi. Queste sono: biocompatibilità (cementi e paste vanno usati in maniera
ridotta in quanto irritano i tessuti. Sono sorte inoltre preoccupazioni per le possibili reazioni di
sensibilizzazione che alcuni materiali potrebbero provocare, come l’eugenolo o l’ossido di zinco), azione
disinfettante necessaria per eliminare i batteri.

- Sostanze solide: principalmente erano rappresentate dai coni d’argento. Gli svantaggi sono
l’incapacità di adeguarsi alla forma del canale, l’irritazione del tessuto periapicale. Inoltre, una volta
riassorbito il cemento che gli sta intorno, l’argento va incontro a corrosione per ossidazione che
porta alla produzione di sostanze citotossiche contenenti zolfo e cloro.
- Sostanze fluide: Sono i cementi. L’uso esclusivo dei cementi come materiale da otturazione
endodontico è stato abbandonato dalla maggioranza poiché sono riassorbibili. Per questo motivo,
vengono usati insieme alla guttaperca. Vengono usati perché hanno un’azione germicida, otturano
le aree residue tra i coni di guttaperca e le pareti dei canali, espletano un’azione lubrificante
conferendo scorrevolezza e permettendo il corretto posizionamento dei coni, sono radiopachi (e
ciò piò rivelare la presenza di canali secondari, o fratture radicolari). Questi cementi sono:
 A base di ossido di zinco eugenolo: ottime qualità lubrificanti, permette un sufficiente
tempo di lavorazione, ha azione germicida. Presenta una massa maggiore di qualsiasi altro
cemento, e questo lo rende ideale per le tecniche di condensazione, in quanto può essere
spinto nei vuoti e nelle irregolarità. Lo svantaggio è la presenza dell’argento che lo rende
decolorante. Per ovviare a questo problema si può usare il Tubuliseal, che non macchia. Un
altro svantaggio è la citotossicità dell’eugenolo che inoltre inibisce l’adesione post
endodontica.
Un altro cemento a base di ossido di zinco eugenolo è l’endometasone che contiene
paraformaldeide antimicrobica e corticosteroidi antinfiammatori. Tuttavia la
paraformaldeide è citotossica per le cellule periapicali.

 Senza eugenolo: sono a base di resine artificiali che, polimerizzando, passano dallo stato
fluido a quello solido (ad esempio AH plus) I pareri sono contrastanti per quanto riguarda la
tossicità.

- Sostanze plastiche o semisolide: la GUTTAPERCA.


I vantaggi che offre sono: comprimibilità, inerzia (cioè è poco reattiva), stabilità dimensionale,
tolleranza biologica, radiopacità, dissolvibilità, può essere sterilizzata con NaClO (ipoclorito di
sodio).
Gli svantaggi sono: mancanza di rigidità, mancanza di controllo della lunghezza se sottoposta a
tensione (essendo plastica).
Si presenta traslucida, solida a temperatura ambiente, diventa pieghevole a partire dai 25-30°.
È composta da: 18-22% guttaperca, 59-76% ossido di zinco, 1-4% cere o resine, 1-18%
radiopacizzanti come bario o stronzio.
La preparazione industriale prevede 4 fasi:
o Masticazione: è eseguita per portare la guttaperca ad una viscosità ottimale per la
miscelazione. In questa fase vengono frammentate le molecole del polimero che si
ricombinano. La frammentazione può essere accelerata da catalizzatori chimici.
o Miscelazione
o Vulcanizzazione: processo chimico in cui le catene polimeriche si uniscono in un reticolo
tridimensionale. Può essere accelerata dall’ossido di zinco.
o Poi vengono realizzati i coni (questa fase può avvenire insieme alla vulcanizzazione).
La guttaperca naturale è un derivato della gomma naturale. È organizzata in lunghe catene
policarboniose caratterizzate dal ripetersi periodico del monomero isoprene. A seconda del passo
di avvolgimento molecolare si distinguono:
- Guttaperca alpha  periodo di ripetizione di 8,8 armstrong, T di fusione di 70°, catene ordinate,
buona capacità di flusso riscaldata, rigida a T ambiente.
- Guttaperca beta  periodo di ripetizione di 4,8 armstrong, fusione a 80°, catene disordinate, flusso
inferiore quando è calda, ma più elastica a t ambiente.

Quella normalmente presente in natura è l’alpha, che durante la lavorazione industriale viene
riscaldata a 65°circa e convertita in beta, che è quella che viene usata nei coni. La scelta della
guttaperca più idonea dipende dalle caratteristiche chimico fisiche.
La guttaperca alpha trova migliore applicazione nelle tecniche di condensazione a caldo, in quanto
ha un’ottima fluidità.
La guttaperca beta si adatta ad essere compressa e deformata nelle condensazioni a freddo.
È disponibile in commercio normalmente sotto forma di coni, che possono essere standardizzati,
quindi con conicità ISO .02, oppure non standardizzati più conici ed appuntiti. Oppure ci sono quelli
a conicità differenziata usati per la preparazione del canale radicolare.

Un’ottima innovazione è quella della GuttaFlow 2, ossia una guttaperca fluida usata per l’otturazione a
freddo dei canali radicolari. Combina due prodotti in uno: guttaperca in polvere con particelle inferiori ai
30 micron, e sigillante fluido. È la prima guttaperca fluida non riscaldata, che non si contrae bensì si
espande leggermente determinando una sigillatura eccellente del sistema canalare. La solubilità è pari a 0 e
ciò significa che sigilla ermeticamente il canale. È estremamente biocompatibile, si lavora in 15 minuti e si
indurisce in 30.

Guttaperca resilion: è una guttaperca sintetica che permette un sigillo adesivo del canale radicolare. In
particolare la matrice polimerica presenta al 50% policaprolattone. Non è opportuno mischiare i coni
tradizionali con i resilion in quanto non avverrebbe l’adesione tra i materiali diversi. I resilion sono
biocompatibili, non solubili, facilmente removibili. Il resilion viene usato negli ambiti di diversi sistemi
adesivi che prevedono un primer automordensante contenente acido solforico, HEMA, acqua e iniziatore di
polimerizzazione.

Materiali usati per il trattamento dell’apice immaturo: sono stati suggeriti diversi medicamenti, ma quello
più usato è l’idrossido di calcio, cui si è aggiunto recentemente l’MTA (mineral trioxide aggregate).
Cemento commercializzato come polvere miscelata con acqua distillata o soluzione fisiologica. Si forma un
gel che viene applicato mediante siringa. L’MTA vanta un eccezionale potere sigillante in presenza di
umidità. Biocompatibilità, capacità di indurre formazione di cemento radicolare e di osso.

Perni endo-canalari: hanno la funzione primaria di dare ritenzione ad un restauro coronale creato su un
elemento che ha subito una perdita importante di corona.

Per un restauro post endodontico il clinico può scegliere tra diversi perni endocanalari che sono:

- Perni metallici a ritenzione intrinseca (perno-monconi)


- Perni metallici a ritenzione passiva
- Perni passivi non metallici (in fibra)

A questa classificazione aggiungiamo i perni individuali non metallici che si possono realizzare con le
tecnologie CAD-CAM.

Ritenzione del perno: capacità di resistete a forze verticali dislocanti. Su di essa influiscono lunghezza,
diametro, forma del perno, materiale usato per la cementazione e tipologia attiva o passiva del perno (cioè
se presentano scanalature –come viti- o meno). I perni attivi hanno una maggiore ritenzione. Per quanto
riguarda il diametro, la scelta di un perno di diametro maggiore comporta una maggiore rimozione della
dentina radicolare.

Resistenza del perno: capacità di resistere a forze laterali e rotazionali. Su di essa influiscono lunghezza,
rigidità, quantità di struttura coronale residua  la presenza della ferula (definita come un collare di circa
2mm di altezza, collocato al terzo gengivale dell’elemento che deve ricevere una corona protesica) che
incrementa la resistenza, la ritenzione e la longevità del restauro proteggendolo da fratture radicolari.

Perni in fibra: sono dei perni non metallici costituiti da fibre di carbonio, quarzo, vetro o zirconio + una
matrice di metilmetacrilato (o resina epossidica).
Il diametro delle fibre si aggira tra i 6 ed i 15 micron, la densità delle fibre è di circa 30 fibre per mm2 e le
fibre sono disposte parallelamente all’asse longitudinale del perno.

L’adesione tra fibre e matrice resinosa è prodotta dal silano (agente accoppiante). I perni possono avere
forma conica, cilindrica, doppia conica (che si adatta meglio al canale trattato endodonticamente). Inoltre
alcuni perni hanno elementi ritentivi che possono essere solchi o filettature.

Le caratteristiche del perno dipenderanno dalla sua composizione, infatti maggiore è la quantità di fibra
presente rispetto alla matrice, maggiore sarà la sua resistenza. La soluzione migliore inoltre si ha quando
le fibre sono parallele tra loro. Il successo dei perni in fibra è del 90%. (Il perno con maggiore quantità di
fibra è quello 3M).

Materiali per la cementazione dei perni in fibra: si utilizzano cementi resinosi, ovvero resine con un carico
di riempitivo inferiore a quello dei compositi da restauro. I cementi resinosi contengono monomeri
metacrilato ((bisgma, udma, tegdma)), riempitivi inorganici, iniziatori e attivatori della polimerizzazione,
pigmenti, elementi radiopachi e stabilizzatori.

Per la cementazione dei perni in fibra si possono usare cementi resinosi sia fotopolimerizzabili che a
polimerizzazione chimica, a polimerizzazione duale. In base all’approccio con il substrato, i sistemi di
cementificazione si classificano in:

- Etch and rinse: con mordenzatura, risciacquo, asciugo, applico adesivo, e cemento;
- Self-etch: senza mordenzatura, applico direttamente adesivo e poi cemento;
- Self-adhesive: applico direttamente il cemento.

Vari studi hanno indicato che i risultati più validi nella cementazione dei perni in fibra si ottengono con
l’approccio etch and rinse e l’uso di adesivi e cementi a polimerizzazione duale. Il successo della procedura
dipende comunque dall’accuratezza dell’operatore in ogni fase.

L’utilizzo di cementi automordenzanti è stato proposto per semplificare la procedura di cementazione e


ridurre i margini di errore.

Riguardo ai cementi autoadesivi, se da una parte è vantaggiosa la semplificazione della manipolazione,


dall’altra gli studi di laboratorio hanno rilevato dei limiti relativi al potenziale di demineralizzazione.

Per quanto riguarda invece la ricostruzione (cementificazione?) dei perni-moncone, si impiegano le resine
composite ed è preferibile che queste abbiano una bassa viscosità in modo tale da essere applicate più
facilmente sulla superficie del perno. Quindi devono essere da una parte abbastanza viscose, ma dall’altra
devono avere un riempitivo adeguato a controllare efficacemente la contrazione da polimerizzazione della
resina.
Perni non metallici: tra questi troviamo i perni in ceramica ed in zirconio, il cui uso clinico è scoraggiato in
quanto richiedono spessori maggiori per raggiungere una resistenza paragonabile a quella dei perni
metallici, quindi richiedono preparazioni più estese ed importanti del canale radicolare. Inoltre la
rimozione di questi perni è difficoltosa.

TERAPIA IMPLANTARE (tutta da qui)


Per implantologia dentale si intende l’inserimento chirurgico di viti metalliche in Titanio nell’osso
mandibolare o mascellare del paziente. Lo scopo dell’impianto è quello di riprodurre la radice naturale
dell’elemento, in modo da permettere una riabilitazione funzionale di eventuali edentulismi totali o
parziali.

La condizione per poter inserire un impianto è che ci sia una quantità di osso adeguata che permetta la
realizzazione di una cosiddetta osteointegrazione (la vite in titanio, la cui superficie viene opportunamente
trattata, deve essere resa un tutt’uno con l’osso circostante).

Il materiale normalmente utilizzato per la preparazione di impianti endossei è il TITANIO (generalmente in


forma pura). Le sue proprietà principali sono:

- Ottima biocompatibilità
- Bassa densità
- Grande stabilità elettrochimica
- Alta resistenza meccanica
- Rigidità e tenacità sufficienti

Il titanio industriale è classificato in gradi da 1 a 4, connessi con il contenuto di ossigeno e di ferro.


Aumentando i gradi, migliorano le caratteristiche meccaniche. (tabelle titanio scrivi su foglio)

Il titanio cristallizza in una fase esagonale compatta detta alfa, e se viene riscaldato oltre gli 883°
cristallizza in una fase cubica a corpo centrato, detta beta.

Ti: n. atomico 22, peso atomico 47,90, comportamento simile a silicio e zirconio. È un metallo di
transizione leggero, non solubile in acqua, ma in acidi concentrati sì. Il metallo forma un rivestimento di
ossido passivo protettivo che determina la resistenza a corrosione quando esposto a temperature elevate.

Il suo stato di ossidazione principale è +4 TiO, ma è noto anche negli stati +2 Ti2O3, +3 TiO2, meno stabili.

Lega Ti 6Al 4V: tale lega è decisamente più favorevole rispetto al Ti puro quanto a resistenza tensile e
tenacità. Tuttavia non è molto comune, né impiegata. Inoltre Al e V sono implicati in fenomeni tossici.

- L’alluminio influenza negativamente la mineralizzazione della matrice extracellulare


- Al vanadio è imputato il ritardo della formazione di apatite e l’induzione di cambiamenti
morfologici negli osteoblasti.

Impianti dentari: sono piccole viti di titanio (root form) progettate per sostituire le radici di denti mancanti.
Il profilo implantare può essere lineare o a spire (le spire distribuiscono lo stress, evitandone elevate
concentrazioni all’apice).

Gli impianti utilizzati oggi hanno una superficie porosa. Per ottenere una superficie rugosa si possono
utilizzare tecniche additive (ricopertura della superficie con uno spray di plasma che raffreddandosi diventa
molto ruvido) o sottrattive (es. sabbiatura o mordenzatura). Le tecniche sottrattive sono:
1) Sabbiatura: bombardamento di granuli (60-90 micrometri) della superficie di titanio

2) Mordenzatura acida: provocata da acido solforico, acido cloridrico e fluoridrico;

3) Combinazione tra sabbiatura e mordenzatura:

4) Ossidazione in bagno galvanico

5) Elettroerosione

Ra= rugosità media della superficie

Per quanto riguarda le interazioni degli impianti, il manufatto implantare, nelle prime fasi di inserimento
nel tessuto osseo, dopo aver creato un’area ipossica con necrosi cellulare, viene a contatto con il sangue.
Questo è ricco di proteine le quali, depositandosi sulla superficie dell’impianto, creano un tramite, cioè un
medium, per le cellule che successivamente colonizzeranno l’impianto. Grazie a questo medium il titanio
può integrarsi nel tessuto che potrà adattarsi a sua volta al manufatto.
Da questa fase dipende la reazione delle cellule che avviene nei tempi successivi al contatto tra materiale e
tessuto.

L’adesione delle cellule al substrato di titanio è indispensabile per la loro sopravvivenza. Quest’adesione
avviene in 2 fasi: l’attecchimento (attachment), e l’adesione vera e propria che richiede un tempo
maggiore.

L’attecchimento è caratterizzato dall’intervento di forze blande, come quelle di Van der Waals.
Nella seconda fase di adesione vera e propria invece, le cellule creano veri e propri complessi giunzionali, e
questo avviene grazie all’adsorbimento proteico del materiale dall’ambiente circostante e grazie alla
deposizione di una matrice extracellulare sulla superficie del biomateriale.

Le proteine di adesione sulla superficie citoplasmatica della cellula sono:

- Caderine  permettono l’adesione intercellulare;


- Integrine  permettono l’adesione al substrato.

Le integrine dimostrano un’affinità di legame con delle sequenze amminoacidiche, e la più nota è arginina-
glicina-acido aspartico. Questa sequenza peptidica può anche essere adsorbita al titanio prima del
posizionamento dell’impianto, in modo tale da ottenere un’adesione cellulare migliore e più veloce al
momento dell’impianto.

Inoltre l’adsorbimento proteico del materiale può essere favorito da trattamenti superficiali che mirano ad
ottenere specifici coating proteici, quali quelli del collagene.

La superficie esterna di un impianto dentale, per lo meno nella porzione che deve entrare a contatto con il
tessuto osseo, presenta un profilo ruvido e complesso. Superfici implantari ruvide promuovono una
risposta tissutale più vigorosa che porta ad un’integrazione ossea più rapida. La ruvidità superficiale può
essere distinta in 4 categorie:

- Superficie liscia
- Superficie a ruvidità minima
- Superficie a ruvidità moderata
- Superficie ruvida.

Le cellule eucariotiche sono in grado di percepire profilo e caratteristiche meccaniche, oltre che chimiche,
della superficie con cui sono a contatto. Questa capacità deriva dal citoscheletro, in grado di percepire
variazioni meccaniche grazie ad elementi rigidi di sostegno (microtubuli) ed elementi tensili
(microfilamenti). Attraverso la tensegrità (coesione?), la cellula ed il nucleo formano un’unità morfo-
meccanica in grado di percepire gli stimoli fisici, la propria forma, e la forma dell’ambiente circostante.

È noto che il differenziamento cellulare sia facilitato quando le cellule crescono a contatto con materiali che
presentano caratteristiche simili a quelle del tessuto naturale.

La creazione di nuove superfici implantari dunque richiede un’analisi attenta delle risposte biologiche delle
cellule indotte dalla morfologia e dalle caratteristiche impartite all’impianto.

ZIRCONIA: diossido cristallino di zirconio. Ha proprietà meccaniche molto simili a quelle dei metalli, il suo
colore è simile al colore dentale.

L’ossido di zicronio presenta cristalli che modificano la loro struttura reticolare a seconda della
temperatura. Durante il raffreddamento che segue la sinterizzazione o la cottura, si determina una
variazione volumetrica che modificherebbe la struttura se i produttori non controllassero la
trasformazione di fase con l’aggiunta di ossidi che stabilizzano il sistema.

Da T ambiente fino a 1163°, il reticolo cristallino dell’ossido di zirconio è monoclino.


Fino a 2370° è tetragonale.
Fino al punto di fusione, 2690°, è cubico.

Durante il raffreddamento conseguente la sinterizzazione o la cottura, si verifica un passaggio dalla fase


tetragonale alla fase monoclina stabile. Si ha un aumento della dimensione dei cristalli che potrebbero
disgregare la struttura e modificare quindi protesi, ponti corone.

Aggiungendo ossidi di stabilizzazione quindi è possibile controllare queste trasformazioni. Per stabilizzare
l’ossido di zirconio si utilizzano l’ossido di calcio, ossido di magnesio, ossido di cesio, ossido di ittirio.

L’ossido di ittirio si utilizza prevalentemente nelle protesi dentali, perché soggetto ad elevate sollecitazioni
meccaniche. La zirconia stabilizzata con ittirio, è anche conosciuta come ossido di zirconio tetragonale
policristallino, con percentuali di ittrio inferiori al 3%.

L’ossido di zirconio crea meno reazioni infiammatorie a livello tissutale rispetto ad altri materiali tipo il
titanio.
la zirconia ha proprietà meccaniche simili a quelle dell’acciaio inox. La resistenza alla trazione va da 900 a
1.200 MPa. La resisitenza alla compressione è di circa 2000 MPa.

A temperatura ambiente però la zirconia va incontro ad una trasformazione spontanea e irreversibile verso
la forma monoclina, anche in assenza di stress meccanici. Questo determina una riduzione delle
caratteristiche meccaniche fino alla possibile insorgenza di fratture.

La zirconia è un materiale radiopaco con proprietà ottiche ed estetiche meno accattivanti rispetto alle
ceramiche vetrose. Recentemente è stata introdotta la zirconia ad elevata translucenza, che ha un reticolo
cristallino cubico. Oltre a migliorare le proprietà ottiche, presenta una completa assenza di degradazione
idrotermica. Tuttavia la robustezza della zirconia translucente è inferiore di quella tetragonale.

La zirconia può essere lavorata solo mediante fresatura CADCAM, ma con due differenti tecniche
produttrici:

- Soft matching  fresare la zirconia presintetizzata, sottoforma di blocchi creati compattando a


freddo una miscela di polvere di zirconia, ossidi di stabilizzazione ed agenti leganti. (prima di
sinterizzazione)
- Hard-matching  fresatura dei blocchi di zirconia già precedentemente sinterizzati a 1400-1500°
(mediante una pressatura a caldo)
La zirconia può essere prodotta in forma monolitica o stratificata. Anche se il materiale monolitico privo di
rivestimento di ceramica presenta un aspetto estetico meno soddisfacente, almeno non è interessato dal
fenomeno della frattura del rivestimento esterno in ceramica (chipping).

La zirconia può essere utilizzata su denti naturali, e su impianti per la realizzazione di corone e ponti (fino a
5 elementi).

(MATERIALI DA IMPRONTA FATTI DAL CAPITOLO 15 LIBRO)


POLIMERI QUI!

POLIMERI: un polimero è una macromolecola di grandi dimensioni formata dall’unione di più unità
base dette monomeri. Si ottengono mediante una reazione di polimerizzazione che può avvenire per
condensazione o per addizione.

In generale i polimeri vengono distinti in:

- Di sintesi: come fibre, materie plastiche e gomme di elastomeri;


- Naturali: polisaccaridi, proteine, gomme, resine

Per quanto riguarda la distinzione tra polimeri cristallini e non cristallini, possiamo dire che non esiste un
polimero completamente cristallino, ma esistono polimeri parzialmente cristallini le cui parti
cristallografiche sono definite e sono immersi all’interno di una matrice.

I polimeri non cristallini presentano una disposizione non ordinata.

Per quanto riguarda invece la distinzione tra polimeri termoplastici e polimeri termoindurenti possiamo
dire che:
Termoplastici

- i termoplastici, come le cere, hanno delle catene molecolari legate le une alle altre attraverso
legami doppi secondari. Questi legami doppi secondari sono poco stabili, quindi più facilmente
saranno deformabili con l’aumento di temperatura.
Tant’è che un materiale termoplastico, nel momento in cui aumenta la temperatura, diventa
deformabile e meno viscoso, ma una volta che si raffreddano riacquisiscono lo stato rigido. Questa
trasformazione è reversibile (anche se c’è sempre una certa degradazione che limita il numero di
cicli ripetibili). (formaggio)

I polimeri termoindurenti:

- possono essere modificati solo una volta, prima che assumano la loro forma definitiva. Questo
perché nel momento in cui subiscono il raffreddamento, le caratteristiche che hanno assunto non
sono più in grado di essere modificate riaumentando la temperatura.
Infatti i polimeri termoindurenti presentano dei legami covalenti più stabili, per cui piuttosto che
perdere viscosità per essere rimodellati, si degradano. Per questo motivo non possono essere
riciclati. (gomma)

Un esempio di polimero termoindurente è rappresentato dai cucchiai di protesi dentale.


La reazione di polimerizzazione è una reazione chimica che determina la formazione di un polimero a
partire da monomeri. Prevede la scissione di alcuni legami e la formazione di nuovi con liberazione dei
radicali liberi.

(La reazione di polimerizzazione può essere distinta in polimerizzazione per condensazione e per addizione)

È divisa in fasi: abbiamo una prima fase, quella di iniziazione che proseguirà poi nella fase di propagazione
e nella fase di transizione.

1) Lo stadio iniziale implica la presenza di radicali liberi che inneschino la reazione a catena fornendo
l’energia necessaria per l’apertura di legami chimici nei monomeri (esempio di monomero
l’etilene). Questi radicali derivano dalla decomposizione di iniziatori, che sono principalmente
perossidi (perossido di benzoile) e altri reagenti. Questa decomposizione avviene grazie a degli
attivatori che possono essere chimici  di solito un’ammina terziaria, oppure fisici  luce

Una volta formati, questi radicali liberi dunque reagiscono con un monomero (es. etilene),
provocando l’apertura del doppio legame, e lasciando un legame insaturo (un elettrone spaiato), in
modo tale che il complesso (radicale + etilene insaturo) funga a sua volta da radicale libero (che
avrà bisogno di reagire con un altro monomero, e così via).

2) Questo processo continua nella fase di propagazione che può avvenire per addizione (aggiungendo
i monomeri in maniera lineare all’estremità della catena) o per condensazione (reazione di
polimerizzazione in più siti, alla fine della quale vengono unite le varie parti di catena, con una
perdita di atomi che formeranno molecole residue).

La propagazione continua fino a quando non accadrà qualcosa che la blocca. È una reazione irrreversibile
perché il sistema tenderà sempre ad aggiungere monomeri per raggiungere il livello energetico più basso,
quindi la stabilità.

3) La reazione quindi finisce quando si aggiunge un singolo radicale libero, oppure quando si ha la
combinazione di due catene (al terminale in cui hanno l’elettrone spaiato).

Per quanto riguarda il grado di polimerizzazione, questo è importante perché più è alto, meno sono i
monomeri che non reagiscono, quindi avrò una minore volatilità, una minore tossicità ed un aumento
dell’adesione.

Aumento il grado di polimerizzazione ad esempio utilizzando meno composito, aumentando i tempi di


polimerizzazione, oppure utilizzando materiali come il Burkfill che è in grado di polimerizzare con degli
spessori doppi rispetto a quelli tradizionali.

Il metodo DSC è un test di calorimetria differenziale a scansione che mi permette di valutare il grado di
polimerizzazione. Quindi ho un crogiolo, ci faccio passare del calore, e la differenza tra calore incidente e
calore riflesso mi darà un’idea di quanto calore è stato assorbito dal corpo, che è una misura del grado di
polimerizzazione.

La massa molare (massa di una mole di quella sostanza) del polimero è maggiore rispetto a quella del
monomero. Se questa massa è molto alta ha anche maggiori proprietà meccaniche.

Un polimero in base alle sue funzionalità viene classificato in bifunzionale (polimero ramificato, es.
polietilene) e trifunzionale (polimero reticolato, es. fenolo).

La funzionalità di un polimero fa riferimento alla possibilità che ha di formare in diversi punti della molecola
un legame (e non a quanti può formarne).
Un copolimero è un polimero costituito da monomeri differenti: distinguiamo copolimeri statistici
(unità distribuite casualmente), alternati regolarmente, a blocchi (formati da sequenze di blocchi
delle unità monomeriche) o ad innesto (i blocchi di un monomero sono innestati uno sullo
scheletro dell’altro).
Per quanto riguarda la polimerizzazione per addizione e per condensazione ci sono delle differenze:

- Addizione: il peso molecolare aumenta lentamente, non serve un iniziatore (quando il monomero
entra in contatto con l’attivatore quindi luce o ammina terziaria, la reazione inizia), avviene per
addizione di monomeri all’estremità, non vengono eliminati atomi e la reazione è progressiva.
- Per condensazione: detta anche a catena, presenta l’iniziatore, si vengono a generare diverse
catene, abbiamo più reazioni di polimerizzazione nella stessa matrice che poi si uniranno tra loro
con l’eliminazione di atomi. Il peso molecolare della catena aumenta rapidamente nelle prime fasi
della reazione; le catene neoformate si disattivano alla fine della polimerizzazione.

Le tecniche di polimerizzazione (per condensazione) sono in tutto 4, abbiamo

- Le tecniche in soluzione: nella polimerizzazione reticolare il monomero viene sciolto in un


solvente non reattivo che contiene un catalizzatore, è una reazione che avviene lentamente e ciò
ci permette di avere un maggior controllo su temperatura e viscosità
- Le tecniche in sospensione: il monomero viene miscelato con un catalizzatore, quindi disperso.
Anche qui si può avere un buon controllo della temperatura
- In emulsione è simile alla sospensione, ma bisogna aggiungere emulsionanti per poter disperdere
il monomero in piccole parti
- In massa: prevede l’inserimento del monomero e dell’attivatore in un reattore riscaldato e
raffreddato.

CURVA DI RAFFREDDAMENTO DEI TERMOPLASTICI SCRITTA SU UN FOGLIO!!

Per quanto riguarda gli stereoisomeri, è importante parlarne perché il grado di stereoisomeria mi dà delle
informazioni riguardo le caratteristiche meccaniche.

Possiamo avere tre tipologie di stereoisomeri che sono l’atattico, l’isotattico ed il sindiotattico.

- Atattico: il gruppo metilico laterale è disposto in maniera casuale sui lati della catena
- Isotattico sullo stesso lato della catena principale
- Sindiotattico è disposto alternato da una parte e dall’altra della catena principale.

In base a ciò avrò comportamenti diversi quando sottoporrò il materiale ad una prova.
LAVORAZIONE DEI POLIMERI TERMOPLASTICI: in genere i termoplastici vengono scaldati fino al
rammollimento, per poi essere rimodellati e di nuovo raffreddati. Un esempio è la resina termoplastica per
i bite, venduta come dischi che devono essere inseriti nella termoformatrice, riscaldati, rammolliti, e poi
posizionati sul modello in gesso per prenderne la forma. Abbiamo 3 meccanismi per modellare i
termoplastici:

- Stampaggio ad iniezione: il più comune. Il materiale termoplastico viene inserito fluido all’interno
di stampi predeterminati e lasciato raffreddare per prenderne la forma;
- Estrusione: Il materiale viene spinto a passare attraverso una determinata forma, poi tagliato. È
richiesta una temperatura più bassa rispetto all’iniezione, serve una viscosità più elevata.
- Stampaggio per soffiatura e termoformatura: il primo ha lo scopo di espandere il materiale
rammollito così da farlo aderire alle pareti dello stampo, sfruttando una pressione d’aria positiva, il
secondo invece è l’esempio del bite di prima, in cui i dischi vengono rammolliti e sottoposti ad una
pressione d’aria negativa per ottenere la forma dello stampo.

LAVORAZIONE DEI TERMOINDURENTI: il materiale viene lavorato quando ancora non è completata la
polimerizzazione. Un esempio è la resina dei portaimpronte individuali. Anche qui 3 meccanismi:

- Stampaggio per compressione: il più usato nei termoindurenti. Utilizzo la muffola, che presenta
una pressa superiore ed una inferiore (con lo stampo). Lo stampaggio a compressione consiste nel
posizionare la gomma preparata, della opportuna forma e peso, all'interno dello stampo riscaldato
e aperto, e solo successivamente chiuso in pressione per un tempo sufficiente a permettere la
vulcanizzazione della gomma nella sua nuova e definitiva forma. Il manufatto generalmente è
estratto manualmente e presenta sempre, in corrispondenza della chiusura dello stampo, una bava
anche consistente che deve essere asportata dall'operatore.

- Stampaggio a iniezione: simile a quello a compressione, ma in questo metodo la gomma viene


iniettata calda, tramite un estrusore, direttamente all'interno dello stampo già chiuso e in
pressione (come nella tecnica a cera persa). Il manufatto generalmente viene estratto
automaticamente e anche la sbavatura viene eseguita in modo totalmente automatizzato.

DIAGRAMMA SFORZO DEFORMAZIONE DI UN TERMOPLASTICO: I materiali termoplastici hanno


tante curve sforzo-deformazione perché il comportamento del materiale cambia con la
temperatura. Quindi è sempre necessario indicare la temperatura alla quale la prova viene
eseguita.
- Al di sotto della temperatura di transizione vetrosa la deformazione è di tipo ELASTICO.
- Al di sopra della t di transizione vetrosa la deformazione è PLASTICA.
Detto ciò possiamo affermare che al di sotto della temperatura di transizione vetrosa il polimero
diventa un solido vetroso. I solidi vetrosi infatti possono, per definizione, subire deformazioni
elastiche, ma non plastiche (perché sono amorfi e non hanno un reticolo cristallino ben
determinato).
GRAFICO (vedi disegno): Da 0 a 30° il comportamento dei termoplastici è simile a tutte le
temperature, varia solo il modulo di Young.
Da 40° in poi la curva cambia completamente andamento perché ci stiamo avvicinando alla
temperatura di transizione vetrosa.
((Nella caratterizzazione del materiale andremo ad eseguire più prove a diverse temperature, compresa
quella di transizione vetrosa oltre la quale i materiali vanno incontro a una transizione duttile-fragile. ))
Deformazione elastica: reversibile, temporanea e proporzionale al carico (oltre la def elastica 
direttamente rottura se il polimero è fragile).
Deformazione plastica: irreversibile, avviene a T superiori alla transizione vetrosa. Il polimero si deforma
direttamente in maniera plastica

Polimero fragile: si rompe pur essendo ancora in campo elastico;

Polimero plastico: deformazione elastica  plastica  rottura

Polimero elastico: superelasticità, si deforma elasticamente per molto

IRRIGIDIMENTO DEI TERMOPLASTICI: Esistono fattori capaci di aumentare la rigidità dei materiali
termoplastici.

1. Aumento Massa Molecolare media delle catene polimeriche. Riesco con un meccanismo
industriale ad aumentare la massa dell’unità monomerica, sostituendo uno o più gruppi funzionali,
facilito il processo di compattazione.
2. Aumento della Cristallinità: maggiore è la componente cristallina, più aumenta la resistenza del
materiale, per l’aumento della forza di legame tra gli atomi.
3. Aggiunta di gruppi atomici pendenti: per cui anche se il polimero sarà meno duttile avrò una
maggiore dispersione delle sollecitazioni e un aumento della resistenza e rigidità.
4. Aggiunta di gruppi molto polari: che determina un aumento della forza di legame tra le catene ed
un aumento della resistenza.
5. Aggiunta di fibre di vetro che ostacolano la propagazione delle linee di rottura.
6. Introduzione di anelli fenolici che si oppongono allo scorrimento dei piani.

CERAMICHE: nel linguaggio comune indicano i materiali che costituiscono i manufatti di terracotta e
porcellana. Nel linguaggio dei materiali indicano una vasta gamma di materiali INORGANICI NON
METALLICI che l’industria trasforma in oggetti mediante processi che richiedono alte temperature.

Sono anche conosciute come porcellane dentali. Le loro caratteristiche sono stabilità, elevate
temperature di fusione, biocompatibili, non suscettibili a corrosione, elevata resistenza alla
compressione, elevata durezza e resistenza all’usura. Sono buoni isolanti termici ed elettrici, non
assorbono acqua, sono compatibili con i tessuti orali. Hanno una durezza e compattezza maggiore rispetto
ai metalli, resistono meglio alle alte temperature, ma sono soggette a shock termici (proprio per la bassa
conducibilità termica). Sono caratterizzate da resistenza alla flessione trasversale (che dipende da
lunghezza, spessore e larghezza, aumenta proporzionalmente al cubo della lunghezza).

I difetti sono la fragilità, la bassa resistenza alla rottura. Se urtate si rompono perché non dissipano le
sollecitazioni deformandosi (questo perché quando vanno incontro ad esempio a raffreddamento, si
raffreddano prima esternamente, questo determina un gap, una differenza di temperatura tra interno ed
esterno). La tenacità è bassa (quantità di energia che il materiale riesce ad assorbire quando sollecitato
prima di fratturarsi).

((Nelle ceramiche cristalline prive di fase vetrosa, l’aumento della tenacità si può ottenere grazie alla
composizione, alla purezza delle materie prime, alla granulometria, ai processi di produzione e ai
cambiamenti di fase che possono avvenire quando (la travata?) si trova sotto stress.))

Per oppormi alle fratture posso modificare le proprietà meccaniche agendo su:

- Procedure di sinterizzazione
- Modifica della composizione
- Cambiamenti di fase
- Purezza della materia prima.

La frattura di questi materiali è di tipo fragile, quindi non duttile (plastica). È infatti un materiale elastico,
infatti ha una buona resistenza al carico. (elastiche, ma non plastiche)

Caratteristiche chimico fisiche: le principali comprendono la contrazione lineare e volumetrica, la


resistenza trasversale di cui abbiamo già parlato. Poi abbiamo:
- Resistenza trasversale tra 62 e 90 MPa
- Resistenza al taglio di 110 Mpa
- Resistenza a trazione diametrale meno di 34 MPa
- Resistenza a compressione di 172 MPa
- Bassa resistenza alla trazione dovuta alle fenditure di Griffith
- Modulo di Young 69 GPa
- Conduttività termica 0,003 cal/sec/cm2
- Diffusività 0.64 mm2/sec
- Coefficiente di espansione lineare 12x 10-6/°C
- Durezza di Knoop 460 kg/mm2

Dal punto di vista ottico hanno ottime proprietà estetiche. Le proprietà ottiche della ceramica:
- opacità (proprietà di ostacolare il passaggio di luce)
- traslucenza (permettere il passaggio della luce, ma disperdendone il fascio. Imita bene lo smalto
composto da prismi che ne deviano la luce)
- trasparenza (permettere il passaggio della luce, che subisce una distorsione minima)
- opalescenza (cambiare colore a seconda dell’incidenza del fascio di luce).
La traslucenza tuttavia è una proprietà inversamente proporzionale alla resistenza. Più ho una ceramica
lavorata ed esteticamente più bella, meno resistente sarà.

EFFETTO OMBRELLO: La ceramica non solo può consentire il passaggio della luce in modo simile ai tessuti
dentali, ma può a livello cervicale consentire il passaggio della luce al dente sottostante e ai tessuti
gengivali circostanti. (Questo effetto dipende da come le gengive si attaccano alla capsula)
((quindi il concetto di ombrello si riferisce alla gestione dei tessuti molli intorno agli impianti, con lo scopo
di imitare l’estetica dei tessuti molli conservando l’osso marginale??))

Le ceramiche vengono fornite in commercio sotto-forma di polvere miscelata ad acqua distillata o altro
liquido speciale e trasformata in un prodotto vetroso traslucido sotto opportuna cottura.
((Si identificano al loro interno ossidi, silicati, nitruri, boruri e solfuri. Gli ioni silicato si possono presentare
con varie strutture cristalline insieme, le diverse strutture sono sorrette internamente da legami covalenti,
mentre tra loro da forze di Van der Waals. ))

Composizione: le ceramiche dentali sono costituite da feldspati all’80%, quarzo al 16% e caolino al 4%.
I feldspati sono alluminio silicati di potassio, se vengono riscaldati diventano vetrosi.
Durante la cottura della porcellana c’è sempre il pericolo di un flusso pyroplastico eccessivo che può
provocare arrotondamento dei bordi e si può evitare aggiungendo potassa e soda nel feldspato presente
nella porcellana. Il sodio abbassa la t di fusione, il potassio aumenta la viscosità del vetro.

Quarzo: formato da silice cristallina, costituisce l’impalcatura, il rinforzo per gli altri ingredienti (viene solo
parzialmente fuso). Serve a ridurre il fenomeno del ritiro, per aumentare la durezza, e come smagrante (fa
perdere acqua all’impasto).
Caolino: chiamato anche argilla, conferisce opacità, lavorabilità e malleabilità. Il caolino ad alte
temperature fonde, aderisce alla trama delle particelle di quarzo e si contrae.
Pigmenti: polveri addizionate in piccole quantità per determinare le sfumature che imitano i colori dei denti
naturali.

Le varie componenti della porcellana miscelate danno luogo a due fasi, una vetrosa e una cristallina.
- (((Quella vetrosa si forma durante il procedimento a fuoco, presenta le caratteristiche tipiche del
vetro come fragilità e schemi di frattura non direzionali
- Quella cristallina comprende la leucite e gli ossidi metallici usati come coloranti e opacizzanti.)))

Come avviene il processo di realizzazione di una capsula di porcellana?


- Innanzitutto vado a miscelare ed ottengo come abbiamo detto una fase vetrosa ed una cristallina.
- Compaction: fase in cui si compatta il tutto eliminando quanta più acqua possibile
- Preriscaldamento: aumento la temperatura continuando ad eliminare acqua
- Sinterizzazione: serve ad aumentare il contatto tra le particelle che si fondono compattandosi.
(l’addensamento per mezzo di una fase liquida viscosa è detta vetrificazione)
- Nella cottura si distinguono tre fasi: la fase biscotto, la colorazione e la smaltatura.
- Il glazing, o appunto smaltatura, si effettua per rimediare alla porosità (sempre presente nella
porcellana, con i piccoli vuoti d’aria che sono esposti alla superficie e potrebbe permettere
l’ingresso di batteri, liquidi orali). La superficie quindi è smaltata per ottenere uno strato esterno
lucido, regolare ed impermeabile.

Le ceramiche si dividono in metallo ceramiche e metal-free.

Le metallo ceramiche richiedono la preparazione della cavità che deve avere pareti parallele, angoli vivi e
superfici acuminate.
Le metal-free invece non necessitano di preparazione di cavità in quanto non c’è ritenzione.

I vantaggi delle ceramiche metal-free sono:


1) Estetica dei margini prolungata nel tempo
2) Riduzione delle tempistiche (i passaggi sono preparazione, provvisorio, definitivo con prova del metallo,
prova biscotto. Se utilizzo la tecnologia cad-cam faccio anche prima)
3) Risultato estetico non sovrapponibile alle ceramiche tradizionali
4) Sono conservative.

classificazione delle metal-free in vetrosa- infiltrazione vetrosa e cristalline. sul fascicolo ultime 4 pag. (201-204)

CLASSIFICAZIONE. Le porcellane in base alla composizione si distinguono in:


- Porcellane dentarie feldspatiche: 25% silice, 60% feldspati e 15% altre sostanze. Vengono utilizzate
per corone a giacca e di intarsi. Hanno l’intervallo di rammollimento molto basso;
- Porcellane dentarie feldspatiche per metallo-ceramica: vengono utilizzate per corone
metalloceramica, ha cottura media, bassa temperatura più simile a quella del metallo. Nel
riscaldamento abbiamo una dilatazione termica e se abbiamo due materiali con lo stesso coefficiente
di dilatazione ho un comportamento più omogeneo. Hanno un coefficiente di dilatazione termica
molto vicino alle leghe metalliche.
- Porcellane dentarie alluminose: alluminia al 50% che gli dà maggior resistenza, sono utilizzate per
intarsi e per faccette vestibolari. Corrispondono al quesito di aumentare la resistenza.

Le porcellane a media e bassa temperatura di fusione vengono usate per:


- Metallo ceramica e ceramica integrale;
- Porcellane feldspatiche:
- Porcellane alluminose
In base alle temperature di fusione, le porcellane si fondono:
1) Ad alta temperatura: 1290-1370 °C  hanno alta resistenza, insolubilità, traslucenza e precisione;
2) A media temperatura: 1080-1260 °C
3) A bassa temperatura: 870-1065 °C
4) Low fusion ceramics: 600-650 °C

Tutte le leghe e porcellane dentarie sono delle polveri di varia granulometria e composizione. Nel
procedimento di modellazione di una corona ceramica si bilanciano i diversi componenti stabilendo le loro
posizioni nel manufatto protesico. Abbiamo quindi la seguente classificazione:
- Porcellane opache: sono ottenute aggiungendo sostanze opacizzanti come titanio e zirconio. Dopo
la cottura, la loro superficie risulta irregolare e granulosa e riflette la luce (aspetto naturale);
- Dentina: È una porcellana che conferisce specifiche tonalità di colore e possono essere a bassa o ad
alta traslucenza; hanno delle particolari caratteristiche. Possono essere opache gengivali normali e
ad elevata traslucenza;
- Smalti: Sono dotati di traslucenza molto elevata perché sono ricchi di ossidi di metalli alcalini e
alcalino terrosi e conferiscono l’aspetto smalteo dei denti naturali;
- Vernici trasparenti: sono costituiti da alluminosilicati che aumenta la viscosità e ne riduce la
tendenza a scivolare.

Questa classificazione è importante perché è importante sapere l’ambito applicativo. Tutte le volte che
abbiamo un’interfaccia con i substrati dentali o substrato zirconio-metallo dobbiamo utilizzare delle
temperature di fusione basse.

Una corona in metallo-ceramica è costituita da 3 strati: uno strato opaco che copre la lega metallica, uno
strato di porcellana dentina che è quello che dà colore, uno strato di smalto traslucido.

Vetroceramica: materiale prodotto nello stato vetroso poi convertito allo stato cristallino attraverso un
trattamento termico. Sono vetri colabili con la tecnica della cera persa.

Ceramica per zirconia: i restauri realizzati con le strutture in ossido di zirconio, devono essere
successivamente rivestiti con un materiale estetico compatibile, cioè che abbia il medesimo coefficiente di
espansione termica (per evitare fratture).

Slip-casting: miscela semiliquida contenente ossidi metallici fino all’80% in peso, quali Al2O3, MgAl2O4
La ZTA può essere fabbricata con due differenti processi, soft matching e clip casting pag.374

Pag 375,376 ceramiche a base di zirconia LEGGI

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