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Alma Mater Studiorum

- Università di Bologna -

APPUNTI DI

FISICA DEI PIANETI

Anno Accademico 2005/2006


Sommario

1. II NOSTRO SISTEMA SOLARE


1. ORIGINE
2. SOLE
2.1 Neutrini solari
3. MERCURIO
4. VENERE
5. TERRA
5.1 Atmosfera
5.2 Formazione dei continenti
5.3 LUNA
5.4 La Luna nell'arte
6. MARTE
7. GIOVE
7.1 SATELLITI di GIOVE
8. SATURNO
9. URANO
10. NETTUNO
11. PLUTONE
12. ASTEROIDI
13. COMETE
14. METEORITI e METEORE
15. IMPATTI
16. FORMAZ. di CRATERI da IMPATTO

2. RICHIAMI DI FISICA
17. IL CAMPO MAGNETICO DEI PIANETI
17.1 Caratteristiche generali
17.2 La fisica
17.3 L'effetto dinamo
18. LE ATMOSFERE PLANETARIE
18.1 La temperatura effettiva
18.2 L'effetto serra
18.3 La circolazione atmosferica
18.4 I domini atmosferici
18.5 Bilancio chimico
19. L'EFFETTO FIONDA
20. LA TEORIA DI LIN
21. LA TEORIA DI LARSON
22. I PUNTI LAGRANGIANI
23. L'EFFETTO YARKOVSKY
1. II NOSTRO SISTEMA SOLARE

ORIGINE DEL SISTEMA SOLARE


Cenni Storici
L'origine del sistema solare è uno dei problemi più appassionanti della scienza. Il primo
interrogativo sull'origine del Sistema solare si deve al filosofo francese René Descartes, il
quale nel 1629 attribuì il moto generale dei pianeti al residuo del movimento vorticoso della
nube di gas, da cui essi si sono formati. Successivamente, altri studiosi, in particolare I. Kant e
P.S. De Laplace, sostennero anch'essi che i pianeti si erano formati all'interno di una nube di
gas e polveri in rotazione sotto l'azione combinata della forza di gravità e della forza
centrifuga, responsabile quest'ultima dell'appiattimento della nube. Il modello di Kant-Laplace
è stato alla base di numerose teorie, tutte riassumibili in due categorie di modelli:
- La nebulosa di grande massa di Cameron-Pine (1973), che prevedeva un collasso della
nube rapido con densità crescente. Modello abbandonato dal 1975.
- La nebulosa di piccola massa di Safronov-Hayashi (1972).
Analizzando il decadimento degli isotopi radioattivi si è scoperto che l'età dell'intero Sistema
solare è quella delle meteoriti e delle rocce lunari più vecchie, cioè 4.6 miliardi di anni.

Processi fisici che governano la formazione stellare

Nel Sistema solare circa l'85% del momento angolare totale, pari a circa 10 51 g cm2 /s risiede
nel moto orbitale di Giove e Saturno, lo 0.5%, invece, in quello di rotazione del Sole. A
questo 0.5% va aggiunta un'altra piccola percentuale, meno dello 0.5%, che si riferisce al
moto orbitale del Sole attorno al centro di massa del Sistema solare. Il trasferimento del
momento orbitale, dal giovane Sole ai pianeti, è ragionevolmente dovuto, in gran parte, alla
turbolenza ed ai moti casuali dei gas e polveri del disco protoplanetario. Un altro meccanismo
di trasporto di momento angolare è fornito dai getti di molecole ionizzate, come in IRAS
20126+4104 (Felli e Cesaroni, 2001) uscenti dai poli verso il mezzo interstellare e guidati, in
parte, sul disco dalle linee di forza del campo magnetico.

Le nubi molecolari giganti, composte prevalentemente da polveri (1% della massa) e molecole
quali H2 e CO, hanno una densità di 101-1010 particelle per cm3. Per superare gli effetti di
diffusione dovuti a moti termici e quindi causarne la contrazione le temperature non possono
superare poche decine di gradi Kelvin. Per determinare l'evoluzione della nube sono
importanti il campo magnetico, la rotazione ed i moti turbolenti nel loro interno; anche
interferenze esterne, come collisioni fra nubi molecolari, onde d'urto provenienti da una
supernova ed onde di pressione che attraversano le regioni di formazione (Teoria di Lin),
possono contribuire all'insorgere della contrazione.
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Si dimostra che la rotazione delle nubi molecolari è così lenta (P = 5x10 anni) che la forza
centrifuga è trascurabile rispetto all'autogravità ed ai gradienti di pressione che determinano
l'equilibrio della struttura. In questo modo la rotazione non riesce a contrastare il collasso,
anche se i nuclei densi in contrazione sono portati comunque ad assumere una forma
ellissoidale.
Affinché la contrazione della nube possa avvenire, occorre che la massa della materia
contenuta nella nube superi un valore minimo, detto massa di Jeans (MJ = 18 x MSolex T1.5x
n-0.5, ove T è la temperatura assoluta ed n il numero di particelle per cm3). Nel caso in cui la
massa della nube superi tale valore critico, s'innesca il processo di contrazione gravitazionale.
La prima parte del processo è caratterizzata dal fatto che la temperatura della nube rimane
costante (il collasso è detto isotermo).
Questo avviene perché, in questa prima fase, la nube resta trasparente alla sua stessa
radiazione (nube otticamente sottile); l'energia potenziale gravitazionale liberata durante il
collasso può essere irraggiata e questo fa sì che la temperatura rimanga costante. Man mano
che la contrazione procede, la densità della nube aumenta.
Dalla relazione di Jeans si deduce che la massa limite è inversamente proporzionale alla
densità; fino ad ora si è supposta la temperatura costante, ciò implica che all'aumentare della
densità il valore della massa limite diminuisce. Conseguenza diretta è che più parti della nube
hanno un valore della massa superiore a quello critico. Queste zone della nube iniziano a
contrarsi separatamente e la nube va incontro ad un processo di frammentazione.
Se la contrazione fosse solamente isoterma, come supposto fino ad ora, il processo di
frammentazione non si arresterebbe. La densità crescente nelle varie regioni in cui la nube
originaria si è frammentata, però, rende tali regioni opache alla propria radiazione
(otticamente spesse) impedendo un irraggiamento efficace dell'energia potenziale
gravitazionale. Ciò comporta un aumento della temperatura con conseguente aumento del
valore di MJ, che fissa un limite inferiore per le regioni in cui la nube si è divisa arrestando il
processo di frammentazione. Ciascuna di queste regioni continuerà a collassare dando origine
ad una stella.

La prima descrizione teorica del processo di formazione del Sole è stata formulata da Larson.

In sintesi i modelli teorici suddividono la formazione stellare in tre fasi:


a. fase preliminare: dominata dal campo magnetico (diffusione ambipolare );
b. fase protostellare: dominata dalla gravità (evoluzione dinamica);
c. fase di pre-sequenza principale: dominata dalla gravità e dalle reazioni nucleari (regime
di equilibrio idrostatico).

Riscontri osservativi

I modelli teorici trovano riscontro nelle osservazioni realizzate nelle diverse bande dello spettro
e.m. . Ogni banda viene utilizzata per indagare diversi tipi di fenomeni quali:
a. formazione di nuclei densi (osservati in banda radio a lunghezze d'onda millimetriche);
b. fenomeni di "infall" ed "outflow" (osservati in banda infrarossa e radio);
c. stelle con dischi di accrescimento (osservati in banda infrarossa).
Con il telescopio spaziale Hubble sono state ottenute delle immagini eccezionali delle
nebulose Aquila, Orione, Trifida e Tarantola che "fotografano" le fasi iniziali del processo di
formazione delle stelle all'interno di nubi molecolari. Queste osservazioni mettono in evidenza
il fenomeno della "fotoevaporazione", causato dalla radiazione ultravioletta di stelle blu, vicine.
Il meccanismo dell'erosione trova resistenza solo negli "Evaporating Gas Globules" (EGG) che
appaiono contenuti in strutture simili a dita; essi sono il riscontro visivo delle teorie di
formazione stellare. Da questi globuli si formano le protostelle. Molto interessanti in questo
senso sono le stelle T Tauri, che sembrano essere circondate da un mezzo tenue di gas e
polveri in moto turbolento e da due getti opposti uscenti dalle regioni polari, causati dalla
caduta di materia su una protostella in rapida rotazione e con intensa convezione interna.

La nebulosa primitiva possedeva una lenta rotazione quando, ancora composta di gas e
polveri generò, al suo interno grandi condensazioni (nubi oscure o molecolari). Per il teorema
della conservazione del momento angolare, la velocità angolare finale deve essere
proporzionale all'inverso del quadrato del raggio della nebulosa. L'energia gravitazionale
liberata durante il collasso provocò il progressivo riscaldamento delle zone centrali della
nebulosa che diventarono forti sorgenti infrarosse (globuli di Bok). In breve tempo, il collasso
produsse al centro della nube condizioni di temperatura (T circa 10 7 K) e di pressione tali da
permettere l'innesco delle reazioni nucleari e la formazione della stella. La radiazione prodotta
dalla stella neonata riscaldò la nebulosa circostante facendo passare allo stato gassoso molte
delle polveri e provocando la ionizzazione degli elementi con potenziale di ionizzazione
inferiore a quello dell'idrogeno; il campo magnetico (circa 1 Gauss), già presente nel Sole,
impedì che questi collassassero nella protostella.
Al contrario i materiali non ionizzati, a causa del campo gravitazionale, furono attratti verso di
essa. Per effetto della rotazione il materiale ionizzato si propagò lungo il piano perpendicolare
all'asse di rotazione del sistema formando un disco circolare, sottile e molto appiattito. Questo
fenomeno detto accrezione determinò una distribuzione di massa non omogenea; infatti i
materiali più leggeri raggiunsero l'attuale orbita di Nettuno, mentre quelli più pesanti rimasero
nella zona centrale.
In questo stadio il Sole, in cui era ancora concentrato quasi tutto il momento angolare del
sistema, era una massa informe in contrazione al centro del disco. Quando il gas si accumulò
sul piano equatoriale, ad una certa distanza dal Sole era ancora complessivamente ionizzato;
al termine del collasso, in seguito a contrazioni, attrazioni e collisioni, si formarono cumuli di
particelle, detti planetesimi, che, coagulandosi, produssero dapprima piccoli corpi (di pochi
centimetri), poi corpi più grandi fino a giungere alle dimensioni del km. Successivamente il
corpo più grande in una data zona crebbe più rapidamente degli altri e diede origine a una
grande massa sferica detta protopianeta (Lissauer, 1993).
Durante le collisioni i protopianeti assorbirono i contributi di momento angolare dei corpi
minori, iniziando moti rotatori attorno ai propri assi.
La temperatura, molto elevata vicino al Sole, fece volatilizzare gli elementi più leggeri ed il
gradiente della temperatura li fece allontanare. Questo comportò che i pianeti più vicini al Sole
si formarono da materiale prevalentemente metallico e roccioso di alta densità, mentre quelli
più lontani dal Sole si formarono da composti più leggeri (ghiacci e roccia).
Giove, che nacque al confine tra le due regioni, poté utilizzare sia il materiale solido refrattario
che il ghiaccio, ed è per questa ragione che esso assunse rapidamente una massa così
elevata da riuscire a trattenere col suo campo gravitazionale tutti i componenti volatili della
nebulosa. I pianeti che si formarono all'esterno di Giove derivarono da più ampi volumi di
nebulosa, la cui densità però diminuiva così rapidamente che essi poterono raccogliere
sempre meno materia. Nelle regioni periferiche, i planetesimi assomigliano a nuclei cometari,
ricchissimi di sostanze volatili solidificate dalla bassa temperatura.
Le osservazioni sugli oggetti Herbig Haro (HH) ci informano che le stelle giovani, come era
allora il Sole, tendono a perdere massa rapidamente per il crearsi di un forte vento stellare in
grado di spazzare via le polveri rimaste nel mezzo interplanetario e le atmosfere primitive dei
pianeti interni.
All'esterno di Marte l'influenza gravitazionale di Giove ha impedito la formazione di un pianeta
lasciando solo dei piccoli corpi che, collidendo, si sono ulteriormente frammentati in asteroidi.
Evoluzione Chimica
Il Sistema Solare non è una miscela omogenea di elementi: man mano che ci allontaniamo dal
Sole aumentano gli elementi volatili. Questo indica che doveva esserci una forte differenza di
temperatura fra il centro della nebulosa e i bordi. Anche i pianeti gioviani potrebbero aver
avuto inizio con un nucleo roccioso e ghiacciato tanto grande che la sua attrazione
gravitazionale avrebbe catturato grandi masse di materiale gassoso non differenziato. Su
questa base si comprende facilmente l'analogia di composizione fra questi pianeti e il Sole.
Durante le prime fasi di formazione del Sistema Solare, la temperatura del materiale proto-
planetario scendeva regolarmente passando dal centro alla periferia. A circa 50 milioni di
chilometri dal centro, dove si è formato Mercurio, la temperatura sfiorava i 1200 K. Solo
minerali refrattari come silicati, titanati, alluminati e alcuni ossidi potevano condensarsi allo
stato solido. Tutti gli altri composti e elementi restarono allo stato gassoso e vennero
lentamente, ma inesorabilmente, spinti verso l'esterno dal vento di particelle e dalla pressione
della radiazione emanati dal Sole. Mercurio si è formato perciò senza acqua, ammoniaca o
metano, ma ricco di ferro, nichel, silicio, alluminio.
Qualcosa di analogo è accaduto a Venere, la cui temperatura è di circa 700 K e per la Terra,
che si è formata in una regione dove la temperatura era attorno a 550 K. A queste
temperature potevano resistere e condensarsi composti meno stabili dei precedenti: solfuro di
ferro e alcuni carbonati sono entrati nella composizione di questi e dei pianeti successivi. I
carbonati hanno rivestito una grande importanza nell'attività vulcanica di questi pianeti e
nell'edificazione delle rispettive atmosfere.
Marte, che si è formato a circa 450 K, segna il confine dei pianeti rocciosi e aridi, perché già
nella successiva regione (fascia asteroidale) si sono formati corpi, come le condriti, a volte
ricchi d'acqua.
I pianeti giganti sono sorti nelle regioni esterne della nebulosa protoplanetaria, dove la
temperatura era inferiore allo zero della scala centigrada e l'acqua si trovava allo stato solido.
Una volta raggiunte le dimensioni attuali, qualche centinaio di milioni di anni dopo l'inizio della
contrazione, i pianeti erano dominati da processi chimici in qualche modo "personalizzati".

Nel caso della Terra la temperatura aumentò, per effetto della contrazione gravitazionale,
dell'impatto di meteoriti e del decadimento degli isotopi radioattivi. In queste condizioni il
pianeta, fondendo, si differenziò, gli atomi più pesanti migrarono verso il centro a formare un
nucleo di alta densità, mentre quelli più leggeri tesero a galleggiare formando la crosta. In
seguito la temperatura di quest'ultima scese gradualmente fino a circa 300 K. La temperatura
superficiale di Venere restò sempre superiore ai 700 K; in queste condizioni l'acqua è tutta
nell'atmosfera dove i raggi ultravioletti del Sole la decompongono. L'idrogeno prodotto da
questa decomposizione non è vincolato e sfugge nello spazio; l'ossigeno, invece, produce
ossidi nella crosta. Su Marte l'acqua è allo stato solido, permeata nel terreno.
Successivamente il nostro pianeta ha avuto, quasi sempre, una temperatura superficiale ed
una pressione atmosferica adatte all'esistenza dell'acqua liquida, portata anche dai
planetesimi di tipo cometario, ricchi di elementi volatili. Nell'acqua si è potuta sciogliere
l'anidride carbonica (generata dalla combinazione dei due elementi più abbondanti dopo l'H e
l'He) che, in seguito, è entrata nei cicli biologici, finendo intrappolata nelle rocce costituendo
composti carboniosi. Tutto fa pensare che la nascita della vita sul nostro pianeta sia stata
favorita dalla sua evoluzione chimica, determinata dalla sua particolare storia termica.
Evoluzione futura
Per quanto riguarda il futuro del Sistema solare esso è strettamente legato al futuro del Sole.
La teoria dell'evoluzione stellare prevede che il Sole possa restare in sequenza principale
per altri 5 miliardi di anni. Una successiva fase evolutiva abbastanza rapida rappresenterà la
fine dei pianeti di tipo terrestre: infatti il Sole si trasformerà in una gigante rossa ed inghiottirà
entro la sua superficie Mercurio, Venere, la Terra e forse Marte. La luminosità aumenterà di
circa 100 volte; il vento solare, milioni di volte più intenso dell'attuale, investirà anche i pianeti
esterni causando in essi drastici cambiamenti. Dopo circa 500 mila anni il mantello esterno del
Sole sarà disperso nello spazio interstellare formando una nebulosa planetaria e resterà solo il
nucleo sotto forma di nana bianca.
Il Sistema solare, privo di adeguate fonti di energia, sarà presumibilmente costretto ad una
inesorabile e lenta fine per raffreddamento.
SOLE

Il Sole è la stella al centro del sistema solare ed è per la Terra la principale sorgente di luce e
calore. É un globo di gas portato all'incandescenza da una serie di reazioni termonucleari che
avvengono nel suo interno.
- Dalla distanza media dalla Terra = 1.496 x 108 km e dal suo raggio angolare visto dalla Terra
(16') si ottiene il raggio lineare = 6.960 x 105 km.
- Dalla distanza media dalla Terra e dal Periodo di rivoluzione (anno siderale = 365.2564
giorni) si ottiene la massa di 1.989 x 1033 g, la densità media di 1.410 g/cm3 e la gravità
superficiale di 2.738 x 104 cm/s2.
- Dalla distanza media dalla Terra e dalla Costante Solare di 1.37 x 106 erg/(cm2s), si deduce
la luminosità di 3.84 x 1033 erg/s.
- Dalla luminosità e dal valore del raggio si deduce la Temperatura efficace di 5.780 K.

Fotosfera, cromosfera e corona costituiscono l'atmosfera solare che è stata esaminata in


varie gamme di frequenza grazie anche a numerose missioni spaziali. Queste parti hanno
tutte la stessa composizione chimica, la quale probabilmente differisce di poco da quella
immediatamente sottostante e sono strutture permanenti soggette a continui scambi.
La materia che costituisce il Sole è un gas di atomi neutri e ionizzati, di elettroni liberi e di
tracce appena rilevabili dei più resistenti radicali molecolari.
L'abbondanza dei principali elementi nell'atmosfera del Sole è:

Elemento atomi per 106di fraz. di massa


H
Idrogeno: 106 0.73826
Elio: 85113.8 0.24952
Ossigeno: 457.1 0.00536
Carbonio: 245.5 0.00216
Neon: 69.2 0.00102
Azoto: 60.3 0.00062
Magnesio: 33.9 0.00060
Silicio: 32.4 0.00067
Ferro: 28.2 0.00115
Zolfo: 13.8 0.00032
Alluminio: 2.34 0.000046
Calcio: 2.04 0.000060
Nichel: 1.70 0.000073
Argon: 1.51 0.000044
Sodio: 1.48 0.000025
Cromo: 0.437 0.000017
Cloro: 0.316 0.000008
Manganese: 0.245 0.000010
Fosforo: 0.229 0.000005
Potassio: 0.120 0.000003
L'alta temperatura dell'atmosfera sovrastante il Sole è una conseguenza delle migliaia di
piccole esplosioni provocate dalle continue riorganizzazioni del campo magnetico. Quest'alta
temperatura è sufficiente a portare allo stato di vapore anche le sostanze più refrattarie e gli
urti tra particelle sono tanto violenti da scomporre le molecole nei singoli atomi che le
costituiscono. Le abbondanze relative degli atomi più numerosi sono state valutate misurando
le intensità delle righe di assorbimento: in base a queste il Sole può essere pensato come un
globo di idrogeno e elio contenente tracce di altri elementi.

Fotosfera
Con il nome di fotosfera vengono raggruppati gli strati dell'atmosfera solare che danno origine,
se si escludono le regioni più lontane dell'UV e delle radiofrequenze, alla radiazione continua
e alle righe di Fraunhofer. Lo spessore di tali strati è di appena 400 km, la loro densità 8 x l0-8
g/cm3.
Il flusso di radiazione integrato su tutte le lunghezze d'onda (tenendo conto che le regioni
dell'UV e dell'IR vengono assorbite dalla atmosfera terrestre) è di 6.33 x 1010 erg/(cm2s).
Esaminando attentamente la fotosfera si nota la presenza di un fitto mosaico di aree chiare
separate da zone più scure: è questo il fenomeno chiamato granulazione che corrisponde
alla zona convettiva che penetra nella zona fotosferica. I granuli misurano dagli 800 ai 1000
km di larghezza ed hanno una temperatura di circa 200 K più alta delle zone scure e sono
caratterizzati da una vita media di 15 minuti. Molto probabilmente i granuli chiari sono la cima
di colonne di gas più caldo che ascende, mentre le aree scure corrispondono al gas più freddo
che ricade, questi spostamenti radiali sono dedotti dagli spostamenti Doppler delle righe
spettrali di piccole porzioni di fotosfera, le velocità medie sono dell'ordine di 0.4 km/s. In alcuni
casi, gli interstizi fra i granelli prendono l'aspetto di punti isolati più scuri, detti pori. Spesso i
pori si dissolvono in fretta, altre volte, invece, crescono fino ad assumere l'aspetto di vere e
proprie macchie solari.
Un altro fenomeno caratteristico della superficie solare, noto grazie ai moti delle macchie, è la
rotazione che, contrariamente a quella terrestre, avviene in modo differenziale: più veloce
all'equatore (26 giorni) e più lenta a latitudini polari (36 giorni).
Tutti i fenomeni dell'attività solare, comprese le macchie, derivano dalla fotosfera e si
innalzano negli strati sovrastanti dell'atmosfera solare, cromosfera e corona.

Attività Solare
L'attività solare comprende fenomeni come le macchie, le regioni attive, le protuberanze ed i
brillamenti. Tali fenomeni sono tutti conseguenti all'interazione tra il campo magnetico solare
ed i gas ionizzati e altamente conduttori che compongono gli strati più esterni del Sole.
Durante un minimo di attività il campo è poloidale, cioè con le linee di forza disposte lungo i
meridiani e confluenti nei due poli magnetici. Poiché per effetto della rotazione differenziale la
regione equatoriale ruota più velocemente delle zone polari, le linee di forza, imprigionate nel
plasma fotosferico, si distorcono e vengono "stirate" fino a disporsi quasi parallelamente
all'equatore.
Oltre un certo limite di stiramento le linee si intrecciano annodandosi a cappio; di qui nascono
le zone attive.
La caratteristica fondamentale dell'attività solare è il ciclo d'inversione magnetica della
durata di 22 anni.

Le macchie solari sono aree scure che appaiono sulla superficie del Sole composte da una
zona centrale detta "ombra", con una temperatura di circa 4200 K e un diametro di circa 15
mila km, circondata da una zona più chiara detta "penombra", circa di 30 mila km di diametro
(misure medie). Quando si voglia studiare la vera forma delle macchie sul Sole si deve tenere
presente che si trovano su una sfera e che quindi si presentano in diversa prospettiva a
seconda che siano più o meno vicine ai bordi. In più, essendo presumibilmente le macchie
degli squarci della fotosfera solare, non saranno sviluppate soltanto sulla superficie, ma anche
verso l'interno e l'esterno del Sole. A. Wilson di Glasgow, nel 1774, fu il primo a notare, con
l'osservazione diretta, che una macchia al centro del Sole con ombra e penombra di forma
circolare e concentrica sembrava cambiare forma avvicinandosi al bordo ovest. Misurando la
larghezza della penombra prima al centro e poi al bordo di una macchia solare, ammettendo
che essa resti costante nel tempo è possibile determinare la sua profondità . Wilson trovò per
questa una misura di circa 1/3 del raggio terrestre, ma misurazioni successive mostrarono che
le macchie sono depressioni della fotosfera di profondità variabile, inferiore in media a 750 km
e pertanto minore di quella trovata da Wilson, non raggiungendo che 1''.
All'inizio di questo secolo Hale scoprì nelle macchie solari il campo magnetico molto intenso,
mediamente di 3000 Gauss. Tale fenomeno impedisce i moti convettivi che trasportano
l'energia dall'interno del Sole verso la sua superficie, causando un raffreddamento che
conferisce alle macchie il loro tipico colore scuro (teoria attualmente in discussione). Molto
spesso nell'atmosfera solare si trovano raggruppamenti di macchie che si estendono in
direzione Est-Ovest, paralleli all'equatore solare. L'attività solare è misurata dal numero di
Wolf R=K(10g+m) (dove K è una costante dipendente dal telescopio, g è il numero di gruppi e
m è il numero totale di macchie); la distribuzione delle macchie con la latitudine varia con un
ritmo periodico di circa 11 anni (cosa che si può notare dal diagramma a farfalla di Maunder).
Tuttavia il periodo delle macchie, da un punto di vista fisico, non è di 11 ma di 22 anni, in
quanto solo dopo questo tempo le macchie si ripresentano con le stesse caratteristiche
magnetiche.
Le regioni attive sono zone ad alta concentrazione di campi magnetici non sufficienti a dare
origine a macchie solari; tali campi scaldano e controllano il plasma generando archi
magnetici.
I punti brillanti assomigliano a regioni attive in miniatura per la configurazione dei loro campi
magnetici e per gli archi coronali che li sovrastano. Sono distribuiti in maniera uniforme su
tutto il Sole; ad un minimo di macchie solari corrisponde sempre un massimo di punti brillanti.
Le protuberanze sono nuvole di gas denso a temperatura relativamente bassa (10 4 K)
sospese nella corona molto più calda (106 K). Grazie alla presenza del campo magnetico
possono mantenere invariata la loro posizione per parecchi giorni. Essendo particolarmente
fredde, le protuberanze hanno un'abbondante emissione di radiazioni visibili, che possono
essere osservate nella riga dell'idrogeno neutro. L'espulsione di una delle protuberanze ad
arco è la causa principale delle grandi espulsioni di massa dal Sole. Molte di queste espulsioni
di massa però mancano la Terra o sono troppo piccole per essere preoccupanti. Esistono
protuberanze anche lontane dai centri di attività, ma che comunque seguono sempre una linea
che corre tra due grandi regioni con opposte polarità magnetiche; in questo caso vengono
definite quiescenti.
I brillamenti sono violente rotture dei campi magnetici situati nella cromosfera al di sopra
delle regioni attive, che liberano energia con enorme potenza (1027 erg/s) sotto forma di calore
e di radiazione in tutto lo spettro elettromagnetico. La loro durata varia tra pochi secondi ed
un'ora. Si pensa che la causa dei brillamenti sia da imputare all'accumularsi di un eccesso di
energia del campo magnetico (dovuto ai movimenti nella zona di convezione), che darebbe
origine ad una instabilità tale da indurre il ritorno violento ad una configurazione di minore
energia con liberazione di quella accumulata. La maggior parte dell'energia è ceduta al
plasma circostante sotto forma di calore (si superano i 107 K); di conseguenza dalla
cromosfera si può avere espulsione di materiale ad una velocità di alcune centinaia di km/s.
Nei brillamenti sono stati identificati tre stadi: uno precursore, in cui vengono emessi raggi X
molli; uno impulsivo in cui si accelerano elettroni e protoni ad energie superiori al Mev (con
emissione di raggi X duri e gamma) e un ultimo stadio interessato dal decadimento, nel quale
si nota ancora l’emissione di raggi X molli.
Le facole sono regioni irregolari, più luminose della fotosfera, che circondano le macchie. Si
tratta probabilmente di nubi di gas fotosferico più caldo che si innalzano nella cromosfera più
brillanti perché subiscono un assorbimento minore da parte dell'atmosfera solare.
Generalmente compaiono uno o due giorni prima che si formi la macchia e persistono per
qualche settimana dopo la sua scomparsa, per poi spezzarsi in filamenti luminosi che
svaniscono. Talvolta compaiono e scompaiono senza che si formi la macchia. Si notano
soltanto in vicinanza del bordo, dove la luminosità della fotosfera è minore e spiccano di più
per contrasto.

Polarizzazione delle righe spettrali

L'effetto Zeeman e l' "optical pumping" sono due meccanismi capaci di produrre
polarizzazione nelle righe spettrali, che si formano negli strati più esterni delle atmosfere
stellari.
La presenza del campo magnetico in molti sistemi astrofisici può mutare alcune delle
caratteristiche dinamiche e spettroscopiche che si osservano negli spettri. L'attività magnetica
può essere, quindi, indagata attraverso tali alterazioni, soprattutto attraverso gli effetti che
produce sui livelli di energia degli atomi.
L'effetto Zeeman consiste nella scissione ("splitting") ad opera del campo magnetico dei livelli
energetici dell'atomo in numerosi sottolivelli . Il fenomeno è particolarmente sensibile nella
polarizzazione circolare delle righe prodotte dall'effetto Zeeman longitudinale, in cui la
componente del vettore induzione magnetica è parallela alla linea di vista.
Importanti elementi di investigazione riguardo al segnale di polarizzazione circolare ci vengono
direttamente forniti dall'osservazione del Sole, in particolare analizzando le protuberanze e i
filamenti. Questi sono praticamente due espressioni dello stesso fenomeno, osservato
mantenendo come sfondo il cielo nero o il disco solare. Entrambi assorbono fotoni dalla
fotosfera solare e li riemettono in tutte le direzioni; righe di emissione polarizzate sono visibili
nello spettro delle protuberanze e righe di assorbimento polarizzate nello spettro dei filamenti.
L' "Optical pumping" (ovvero il pompaggio ottico connesso con l'effetto Hanle), invece, per
manifestarsi non ha bisogno di un'attività magnetica e può essere particolarmente efficiente
nel creare polarizzazione.
Cromosfera
La cromosfera, con uno spessore medio di circa 6000 km, è la fascia della atmosfera solare
situata immediatamente all'esterno della fotosfera, ma rispetto a quest'ultima ha una
temperatura molto più alta, circa 10 mila K e una densità più bassa (10-12 g/cm3).
Normalmente invisibile, può essere osservata solo durante le eclissi totali di Sole, oppure con
l'ausilio di un filtro a banda stretta di larghezza non superiore a 0.5 Angstrom (a questo scopo
si impiegano filtri centrati sulla riga Hα dell'idrogeno o la riga K del CaII). La sua scarsa
visibilità è giustificata dal fatto che lo spettro della cromosfera è costituito da righe di
emissione corrispondenti, in massima parte, alle righe di assorbimento dello spettro solare. La
presenza dello spettro di emissione conferma l'alta temperatura della zona.

Gli strumenti usati per fotografare la cromosfera sono lo spettroeliografo e il filtro


monocromatico polarizzatore di Lyot-Ohman. Nelle lastre ottenute con questi strumenti è
possibile osservare le facole e zone filiformi oscure, i filamenti, cioè protuberanze viste in
proiezione sul disco solare; inoltre risultano visibili punti brillanti dovuti al campo magnetico.
Tangenzialmente al disco solare si notano tanti sottili getti di plasma, chiamati spiculae,
caratterizzati da una vita media di 15 minuti, fenomeno strettamente legato alla granulazione
fotosferica.

Magnetars

La nostra stella non è la sola che mostra flares sulla sua atmosfera, anche altri astri di tipo
particolare possono presentare tale caratteristica.
Il 27 agosto 1998 i satelliti registrarono la presenza di una sorgente di raggi X e Gamma;
l'anomalia era che essi non provenivano dal Sole, ma dallo spazio: dalla Soft Gamma
Repeater SGR 1900+14, una stella di neutroni lontana 45000 anni luce.
Un astro di tal tipo viene chiamata "magnetar" perché possiede un forte campo magnetico
(1015 gauss, contro i 10 - 100 gauss del Sole). Nel Sole i flares si verificano quando i campi
magnetici sopra le macchie solari si distorcono e si allungano. L'atmosfera di una magnetar è
simile alla corona solare ed il plasma altamente magnetizzato che la compone è instabile. I
flares delle magnetars sono un milione di milioni di volte più potenti (~1044 erg) di quelli del
Sole (1032 erg).
I flares solari ionizzano l'intera atmosfera terrestre nell'emisfero ove è giorno, i flares delle
magnetars, invece, possono ionizzare anche il lato dell'atmosfera ove vi è notte.
La riserva di energia presente nella magnetosfera e nello strato superficiale delle magnetars è
da 10 a 100 volte maggiore di quella liberata il 27 agosto 1998: queste stelle possiedono un
potenziale capace di dar luogo anche ad eventi di energia molto maggiore. Oggi si conoscono
circa una decina di magnetars.

Corona
Quando, durante un'eclisse, il disco della Luna copre anche l'anello rosso della cromosfera,
compare la corona. È come una debole aureola intorno al Sole di colore bianco giallo
internamente e bianco perlaceo nella parte più esterna. Viene osservata solo durante le eclissi
a causa della sua bassa intensità luminosa (circa un milione di volte meno di quella del disco),
così debole da renderne difficile l'osservazione con l'ausilio del coronografo. La corona si
estende nello spazio per circa 12 raggi solari, ma di solito non si riesce ad osservarla oltre i 4.
La sua temperatura media si aggira sui 2 milioni di gradi, la sua densità è di 10-16 g/cm3.
La corona viene normalmente suddivisa in tre zone distinte: la prima si estende per circa
mezzo grado sopra la fotosfera, corrispondente a 1.5 milioni di Km, ed è chiamata corona
elettronica, poiché la luce di cui brilla è soprattutto luce fotosferica diffusa dagli elettroni
coronali liberi;
lo spettro di questa zona è continuo. Ad un grado dal Sole la corona elettronica si indebolisce
e la luce fotosferica viene diffusa dalla polvere sospesa nello spazio interplanetario;
compaiono allora le righe di Fraunhofer e inizia la seconda zona chiamata corona F. La terza
componente della luce coronale è rivelata dalle righe in emissione degli atomi fortemente
ionizzati, corona L. É una radiazione debole, solo l'1% della luminosità della corona.
La composizione chimica della corona è per elementi e le loro abbondanze del tutto analoga a
quella della fotosfera. Fe, Ni e Ca danno origine alle righe più intense ed essendo fortemente
ionizzati sono facili da riconoscere.
Molte righe ritenute "misteriose" sono dovute a transizioni "proibite" di questi elementi, rese
possibili solo dalla combinazione tra altissima temperatura e bassa pressione (nella corona c'è
un vuoto estremamente spinto).

La forma della corona varia sia in tempi brevi (ore) sia durante il ciclo di attività solare (anni).
Le variazioni rapide sono dovute alle protuberanze sovrastanti le zone di attività della
fotosfera; mentre quelle lente riguardano la forma esterna: durante i massimi la corona si
dispone simmetricamente intorno al Sole assumendo una forma tondeggiante, nei minimi,
invece, i pennacchi polari sono curvati dalle linee di forza del campo magnetico, mentre quelli
equatoriali diventano molto più lunghi e complessi.
L'altissima temperatura della corona è stata un mistero fino a pochissimo tempo fa e al
riguardo erano state formulate varie ipotesi, dato che la fotosfera a 6000 K non può cedere
calore alla corona a 2 milioni di gradi. La soluzione di tale problema si basa sull'analisi del
multipletto dell'HeI a 1083 nm in base ai dati registrati al Tenerife Infrared Polarimeter (TIP)
grazie al quale è stato possibile mappare il campo magnetico nella corona; si è così
dimostrato che il riscaldamento di questa zona è imputabile alla presenza di elevate correnti
elettriche a strato che producono calore per effetto Joule.Gli strati più esterni del Sole sono
più caldi di quanto ci si aspettava (Rosner, 2003).

Scoperta delle correnti elettriche


I flares e i jets di raggi X si presentano nelle regioni attive dove il flusso magnetico emerge
dall'interno solare ed interagisce con l'ambiente magnetico circostante. In questi punti hanno
origine correnti elettriche che separano le regioni di opposta polarità magnetica, alle quali si
attribuisce il riscaldamento della corona; la loro formazione è dovuta sia al fatto che le linee di
forza del campo magnetico si allargano salendo verso l'alto, sia al flusso di radiazione che
emerge dalla sottostante atmosfera (Solanki et al. 2003). In questa zona la dinamica e le
energie sono governate da complessi campi magnetici che, fino ad ora, erano stati misurati
con difficoltà. Dalle osservazioni sono emerse due importanti caratteristiche delle regioni del
Sole attive da poco tempo: in primo luogo, sono stati notati insiemi di loops magnetici
crescenti
ed una discontinuità tangenziale della direzione del campo magnetico; in secondo luogo, il
segnale osservato forniva una chiara testimonianza della presenza di queste correnti
elettriche.
Grazie, infatti, alle misure rilevate al TIP studiando il multipletto dell'HeI, è stato possibile non
solo realizzare la mappa delle regioni a flusso emergente, ma anche individuare tutti i quattro
parametri di Stokes che descrivono totalmente gli stati di polarizzazione della luce.
Dal vettore di Stokes osservato si sono quindi derivati:
1) le velocità lungo la linea di vista;
2) l'intensità del campo magnetico;
3) la sua inclinazione rispetto la normale alla superficie del Sole;
4) l'angolo azimutale.
In questo modo si è notato che il campo magnetico nella corona ha una struttura molto più
disordinata di quella della cromosfera. Questo è riconducibile alla relazione che persiste tra
pressione del gas e pressione magnetica: nella cromosfera, infatti, la Pgas > Pmagnetica e
quindi il gas costringe il campo magnetico a muoversi con esso; al contrario nella corona la
Pgas < Pmagnetica, in quanto la densità del gas è assai bassa, e gli effetti magnetici sono
dominanti confinando e disponendo il gas coronale in modo tale da tracciare la configurazione
delle linee di forza.

I buchi coronali, scoperti nel 1967 tramite immagini a raggi X, sono regioni sovrastanti le
zone polari, in cui la densità e la temperatura dei gas che compongono la corona sono
decisamente al di sotto del livello normale. In queste zone il campo magnetico è più debole
rispetto a quello della fotosfera, che non viene disturbata da questi fenomeni. Anche se
ricevono la stessa quantità di energia, corona e buchi coronali presentano un campo
magnetico diverso: mentre nella prima quest'ultimo è chiuso verso lo spazio interplanetario,
nei secondi forma un arco che, spezzato nel suo punto più alto, libera gas nello spazio dando
origine al vento solare. Questo tipo di vento solare è detto vento solare veloce, e viaggia ad
una velocità di circa 750 km/s. Esiste però anche un altro tipo di vento, detto vento solare
lento (350 km/s), che trae origine dalle calde regioni equatoriali del Sole. .
NEUTRINI SOLARI
Il problema dei neutrini solari

Il Modello Solare Standard (SSM) predice le reazioni nucleari che avvengono all'interno del
Sole e, quindi, anche il flusso di neutrini ad esse collegato. In particolare, il primo processo del
ciclo p-p, la fusione di due protoni in un nucleo di deuterio, produce la maggior parte dei
neutrini solari.
Tasso di Tasso di
En produzione teorico produzione teorico
Flusso a Terra
Sorgente con rilevatore 37Cl con rilevatore 71Ga
1010 cm-2 s-1
MeV SNU=10-36 catture s-1 SNU=10-36 catture s-1
(Homestake) (Gallex, GNO, Sage)

p + p ® 2D+ e+ + n e < 0,42 6,0 0,0 70,8

p + e- + p ® 2D+ n e 1,4 0,014 0,2 3,0

7Be + e- ® 7Li + n e 0,38 e 0,86 0,49 1,2 35,9

8B ® 8Be + e+ + n e < 15 5,05x10-4 6,2 13,8

3He + p ® 4He + e+ + n e <18,77 1,2x10-7 0,005 0,01

13N ® 13C + e+ + n e <1,20 0,049 0,1 3,0

15O ® 15N + e+ + n e < 1,73 0,043 0,3 5,0

17F ® 17O + e+ + n e < 1,74 0,00054 0,004 0,06

TOTALE 6,60 8,0 ± 2,6 132,0 +21/-17

Negli ultimi 30 anni gli esperimenti sui neutrini solari hanno misurato un numero di neutrini
inferiore a quello previsto dal SSM. Questo puzzle noto come problema dei Neutrini Solari
può essere spiegato in 4 modi:
1) il Modello Solare Standard è sbagliato;
2) c'è un errore nella difficilissima misura del flusso di neutrini;
3) c'è un errore nella stima delle sezioni d'urto delle reazioni nucleari che permettono di
mettere in evidenza i neutrini;
4) la fisica dei neutrini non è quella che supponiamo e parte dei neutrini "si perde" per strada.

Il Modello Solare Standard però funziona piuttosto bene (la prova dei neutrini è l'unica che
fallisce) e le teorie alternative non sono del tutto soddisfacenti. Il fatto che decine di
esperimenti fatti in varie parti del mondo e con tecnologie diverse sbaglino tutti nello stesso
modo sembra piuttosto improbabile. La quarta possibilità, seppure la più esotica, sembrava la
più probabile, vediamo perché.

Di neutrini ne esistono tre tipi: νμ, νe , ντ . Ogni tipo ("sapore") è associato alla particella
assieme alla quale viene creato (per esempio, il neutrino νe è associato all'elettrone, il νμ alla
particella "muone", ecc...). Nel Sole vengono creati solo neutrini di tipo νe: sono quelli che si
cercano mediante diversi esperimenti. Ma se i vari sapori si trasformassero l'uno nell'altro?
Supponiamo, ad esempio, che partano dal Sole 100 neutrini νe e che la metà di questi diventi
νμ o ντ prima di arrivare ai rivelatori: i nostri esperimenti vedrebbero il 50% dei neutrini attesi.

La spiegazione di questa discrepanza sembra essere dovuta a delle nuove proprietà


fondamentali nei neutrini e cioè dopo essere stati generati nel Sole nelle quantità previste dal
SSM, subiscono delle trasformazioni durante il tragitto Sole-Terra che li rendono non più
rilevabili da molti esperimenti.
Questa proprietà dei neutrini di cambiare il proprio "sapore" durante il loro tragitto dal nucleo
solare alla Terra viene chiamata "oscillazioni di sapore" o anche effetto MSW dai nomi dei
fisici Mikhejev, Smirnov e Wolfenstein che furono i primi a ipotizzarle.
Gli esperimenti
Gli esperimenti Homestake, SAGE e Gallex usano la tecnica radiochimica mentre il Super-
kamiokande, Borexino e SNO sono esperimenti in tempo reale in cui le interazioni vengono
rilevate nel momento in cui avvengono. Tutti tranne il SNO sono sensibili solo ai neutrini di
sapore elettronico, il SNO, invece, può rivelare anche i neutrini degli altri due sapori.

Dal 1968 al 1995 l'unico rilevatore di neutrini solari è stato un elegantissimo esperimento
condotto nella Homestake Gold Mine nel South Dakota da R. Davis Jr. (Nobel nel 2002 per la
Fisica insieme a M. Koshiba curatore del Super-Kamiokande). Cuore dell'esperimento è stato
un rivelatore costituito da 400 tonnellate di tetracloruro di carbonio (C2 Cl4) un liquido simile
alla comune varechina, posto appunto in una miniera d'oro abbandonata negli Stati Uniti. Si
possono rilevare con questo esperimento neutrini provenienti dalle reazioni pep e 7Be in
quanto la soglia di rilevabilità è di 0,814 MeV. Anche il decadimento del 8B può essere
rivelato, ma esso genera una quantità di neutrini 5.000 volte inferiore della catena pp
completa.
I neutrini vengono catturati dai nuclei di 37Cl contenuti nel liquido; questi nuclei vengono
trasformati in nuclei di 37Ar (νe + 37Cl --> 37Ar + e - ). L'argon viene estratto dal liquido ogni
due mesi mediante un flussaggio di gas e gli atomi estratti vengono contati tramite un
rivelatore chiamato contatore proporzionale al momento in cui decade l'argon ritornando cloro.
Anche se la massa di liquido è molto grande ed il numero di neutrini che attraversano il
rivelatore è di molte migliaia di miliardi al giorno, il numero di neutrini catturati è di meno di uno
al giorno! Ciò è dovuto al fatto che per i neutrini la materia è quasi totalmente trasparente. Dal
numero di atomi di Argon estratti si deduce il numero dei neutrini che hanno attraversato il
liquido.
Le misure hanno sempre mostrato un deficit del flusso di neutrini solari. Il numero di atomi di
Argon estratti è circa il 50% del numero previsto dal SSM.

Dal 1986 all'esperimento Homestake si è aggiunto quello del Super-Kamiokande (Giappone) :


il rivelatore è costituito da 50.000 tonnellate di acqua purissima e si trova in una miniera sotto
2.700 m di montagna. Questo esperimento, che può vedere soltanto i rari neutrini generati
dalla reazione 8B poiché ha una soglia di 7,3 MeV, consente di misurarne, però, l'energia e la
direzione di provenienza. E' stato possibile così confermare (Giugno '98) che i neutrini
osservati provengono effettivamente dal Sole e che il loro numero è effettivamente ridotto
rispetto alle previsioni del SSM.
Nel Super-Kamiokande i neutrini vengono rivelati tramite la loro interazione con gli elettroni
atomici contenuti nell'acqua (luce di Cerenkov). Quando un neutrino urta un elettrone produce
un lampo di luce che viaggia nella direzione del neutrino incidente; questa luce viene
"osservata" da 13.000 fotomoltiplicatori; l'intensità della luce è proporzionale all'energia del
neutrino.
Nel giugno 1998 il gruppo di Super-Kamiokande annunciò di avere rivelato le oscillazioni dei
neutrini. L'esperimento consisteva nel misurare il flusso di neutrini derivati dal decadimento di
raggi cosmici che urtano l'atmosfera. Il flusso proveniente dall'alto risulta superiore al flusso
proveniente dal basso (che quindi ha attraversato tutta la Terra), e questo si spiega solo
supponendo che i neutrini provenienti da più lontano abbiano avuto tempo di cambiare stato.
La conseguenza più interessante è che le oscillazioni del neutrino implicano che questo abbia
una massa diversa da zero, seppur piccola (almeno 180 mila volte inferiore a quella
dell'elettrone).
Purtroppo nel novembre 2001, per cause da accertare, il 60% dei fotomoltiplicatori del
superkamiokande vennero distrutti in pochi secondi.
Gli unici esperimenti che sono in grado di osservare anche i neutrini della reazione pp sono
GNO (Gallium Neutrino Observatory dal '98 successore del GALLEX usato nel periodo
'91-'97) presso i Laboratori del Gran Sasso ed il suo gemello SAGE (Soviet-American Gallium
Experiment) nel Caucaso in Russia, poiché hanno una soglia di 0,233 MeV.
Questi esperimenti hanno così dimostrato che, in effetti, il Sole produce la sua energia
fondendo nuclei di idrogeno in nuclei di elio. Anche in questi esperimenti il numero di neutrini
catturato è molto piccolo (meno di uno al giorno), per cui è stato necessario proseguire le
osservazioni per molti anni. Entrambi gli esperimenti osservano un deficit di circa il 50% nel
numero dei neutrini solari rispetto alle previsioni del SSM (per GNO+GALLEX si ha SNU =
70,8 ± 4,5 ± 3,8).
Nei suddetti laboratori i neutrini vengono catturati dal 71Ga, che viene trasformato in 71Ge.
In particolare il rivelatore usato per GNO è costituito da una soluzione di cloruro di gallio e
acido cloridrico, avente una massa complessiva di 100 tonnellate.
I neutrini solari aventi energia sufficientemente elevata possono interagire con i nuclei di 71Ga
(un isotopo del gallio con massa 71), che costituiscono circa il 40% del gallio presente nella
soluzione. Questa interazione, chiamata processo beta-inverso, converte il nucleo di gallio che
interagisce con il neutrino in un nucleo di germanio (71Ge) con la seguente reazione: νe +
71Ga --> e- + 71Ge.
Nonostante l'elevata massa del rivelatore e l'elevato numero dei neutrini che lo attraversano,
l'interazione si verifica meno di una volta al giorno. Poiché gli atomi di germanio hanno
proprietà chimiche molto diverse rispetto a quelli di gallio, questi possono essere separati dal
resto della soluzione mediante una delicata procedura chimica, che prevede un intenso
flussaggio di azoto. L'estrazione degli atomi di germanio dalla soluzione viene ripetuta una
volta ogni quattro settimane circa; con questa tecnica è possibile estrarre i circa 10-12 atomi di
germanio che sono presenti nella soluzione, disciolti in 1029 atomi di gallio.
E' contando questi atomi di germanio che si può risalire al numero di neutrini che attraversano
il rivelatore: tuttavia, il numero di atomi prodotti è troppo piccolo per poter essere misurato con
le classiche tecniche dell'analisi chimica. A questo scopo, viene in aiuto il fatto che i nuclei di
71Ge prodotti dalle interazioni dei neutrini sono radioattivi: dopo un tempo medio di circa 16
giorni, questi decadono spontaneamente (secondo un processo chiamato beta +) e ritornano
allo stato originario di 71Ga. Durante il decadimento del 71Ge vengono emessi anche dei
positroni e dei raggi X, che sono facilmente rilevabili con le tecniche della fisica nucleare.
Gli atomi di 71Ge estratti dalla soluzione vengono convertiti, attraverso una complessa
procedura chimica, in gas germanio, che viene inserito in un rivelatore di particelle, chiamato
contatore proporzionale. In questo modo, è possibile contare il numero di atomi di germanio
prodotti dalle interazioni dei neutrini semplicemente contando il numero di decadimenti
radioattivi, facilmente rilevabili, che hanno luogo nel contatore proporzionale.
Il contatore proporzionale, tuttavia, non rivela soltanto i (rari) decadimenti del 71Ge ai quali
siamo interessati, ma anche i segnali prodotti da altre sorgenti, come ad esempio i
decadimenti radioattivi nelle rocce circostanti, che costituiscono un disturbo alla misura.
Poiché, nonostante la grande schermatura del Laboratorio, questi segnali di disturbo sono più
frequenti di quelli del germanio, è stato necessario sviluppare delle tecniche che consentissero
di distinguere gli uni dagli altri.
Il fatto poi di svolgere gli esperimenti in laboratori sotterranei (1400 metri per il Laboratorio del
Gran Sasso) consente alla roccia di assorbire i raggi cosmici, eliminando così la maggiore
fonte di rumore.
I neutrini, al contrario, sono così poco interagenti da poter attraversare grandissimi spessori di
roccia e raggiungere indisturbati il rivelatore. La protezione offerta dalla roccia del Gran Sasso
è notevole: i raggi cosmici che raggiungono il Laboratorio rappresentano solo lo 0,00001% di
quelli che arrivano in superficie.

L'esperimento SNO (Sudbury Neutrino Observatory) è in funzione da poco in una miniera di


nichel a Sudbury (Ontario) in Canada. Questo esperimento cattura, nell'acqua pesante (D2O),
i neutrini di alta energia generati nel Sole dalla reazione del 8B, con un meccanismo simile a
quello di Super-Kamiokande.
Il rivelatore è formato da una sfera di 12 metri di diametro contenente 1.000 m3 d'acqua
pesante ed è fornito di 9.522 fotomoltiplicatori per la rilevazione. Il vantaggio dell'acqua
pesante è che consente il verificarsi di due diverse reazioni.
Alla prima reazione che è detta a "corrente carica", vanno soggetti solo i νe, visto che
coinvolge un elettrone: infatti, ha come risultato la trasformazione del neutrone del deuterio in
un protone ed un elettrone; attraverso di essa, i fisici hanno potuto contare quante sono le
interazioni e confermare un risultato noto da decenni, hanno registrato anch'essi un deficit
sistematico rispetto alla teoria. La seconda reazione, che è detta a "corrente neutra", vede
protagonisti i neutrini solari dei tre sapori: il neutrino impatta contro il nucleo del deuterio e lo
spezza nei suoi costituenti, protone e neutrone. Il numero di queste ultime interazioni è
superiore a quello delle reazioni a corrente carica: ciò significa che nel flusso neutrinico che
proviene dalla nostra stella c'è un contributo importante di particelle di sapore muonico e
tauonico.
In 241 giorni di raccolta dati (2-Nov-99 - 15-Jan-01), sono stati registrati 1.169 neutrini, circa
tre al giorno, che è una frazione infinitesima del numero totale di neutrini che sono passati per
il rivelatore. Comunque il flusso totale di tutti i tipi di neutrini provenienti dal Sole è quanto ci si
aspetta dal SSM che è 0,000505 x 1010 cm-2 s-1 ovvero 5,05 x 106 cm-2 s-1 [1], che ora può
ritenersi confermato.
I primi risultati mostrano dunque che esistono neutrini non elettronici provenienti dal Sole,
dovuti alle oscillazioni tra i tre sapori. Quindi la somma del numero dei neutrini elettronici e dei
neutrini di altro sapore che vengono rivelati da SNO si accorda perfettamente con il numero
totale previsto dal SSM.

Dopo più di trent'anni il problema dei neutrini solari sembra quindi aver trovato una
soluzione [3,5].

Problema finito? Forse, ma se ne aprono degli altri (come spesso succede nella scienza): il
fatto che i neutrini cambino "sapore" implica necessariamente che abbiano una massa.
D'altronde già B. Pontecorvo nel 1962 aveva ipotizzato che i neutrini potessero avere una
massa. Egli teorizzò che i tre tipi di particelle νμ , νe , ντ non siano autostati di massa, ma
combinazioni lineari di autostati di massa n1 , n2 , n3 :
| na > = Sk Uak | nk > k = 1,2,3 a = e, μ, τ
Anche se la loro massa fosse piccola, considerato il gran numero di queste particelle
nell'Universo, esse potrebbero esercitare una notevole influenza dal punto di vista
gravitazionale. Si ritiene che a un limite di massa del neutrino elettronico di 2.8 eV corrisponde
un contributo alla densità dell'Universo tra 0,001 e 0,18 (cioè 0,001 < Wn < 0,18 ) [2] .
In altre parole, se la loro massa fosse sufficientemente alta (ma i risultati di SNO tendono però
a smentire questa ipotesi), potrebbero far rallentare il processo di espansione dell'Universo e
spiegare anche parte della "dark matter".
Il futuro
Il Laboratorio del Gran Sasso svolgerà sicuramente un ruolo di assoluto protagonista
nell'ambito della ricerca mondiale sui neutrini solari; le sue sale ospiteranno fra breve un altro
esperimento, il Borexino, dedicato alla ricerca dei neutrini solari dovuti al 7Be sempre
sfruttando la luce di Cerenkov rilevabile questa volta da 2.000 fotomoltiplicatori.
MERCURIO
Mercurio ha un diametro equatoriale di 4878 km, una massa pari ad 1/18 di quella terrestre ed
una densità media di 5.43 g/cc, inferiore solo a quella del nostro pianeta. Risulta difficilmente
osservabile a causa della sua vicinanza al Sole. Dopo Plutone è il pianeta con la massima
inclinazione dell'orbita (i = 7°.0) ed eccentricità (e = 0.206). A causa di quest'ultima, la
massima distanza angolare dal Sole (elongazione) può variare fra 18o e 28o. Al perielio la sua
distanza dal Sole è di sole 0.31 AU.
La sua orbita non è chiusa in quanto presenta un moto di precessione dell'asse maggiore di
574"/secolo; di questi 42".98/secolo sono giustificabili completamente solo attraverso la teoria
della relatività generale a causa della distorsione dello spazio-tempo prodotta dalla gravità
solare.
Quando Mercurio è in congiunzione inferiore vicino all'eclittica, si ha un passaggio sul disco
del Sole. Gli intervalli fra due passaggi successivi sono contemporaneamente multipli del
periodo sinodico (116 giorni) e dell'anno e sono 7, 13 e 46 anni.
Essendo un pianeta interno, Mercurio, mentre percorre la sua orbita, presenta il fenomeno
delle fasi.
La sonda spaziale Mariner 10, del 1974, è stata la prima ad utilizzare l'effetto fionda
gravitazionale del pianeta Venere ed ha fornito gli unici dati fotografici ravvicinati della sua
superficie finora disponibili.

Rotazione ed irraggiamento solare


Mercurio, come hanno scoperto R. Dyce e G. Pettengill da osservazioni compiute nel 1965
con il radiotelescopio di Arecibo, misurando l'allargamento delle righe nello spettro riflesso,
ruota su se stesso in senso diretto in 58.646 giorni terrestri, pari ai 2/3 del periodo di
rivoluzione attorno al Sole (87.969 giorni). Il processo attraverso cui il pianeta, che prima
ruotava molto più velocemente, si è stabilizzato su questo rapporto è ancora oscuro, anche se
forse è legato alla dissipazione di energia per effetti mareali. Un'interessante conseguenza del
rapporto 2/3 fra i 2 periodi è che, mentre sulla Terra il giorno solare e il giorno siderale sono
quasi uguali, su Mercurio il giorno solare è il triplo del giorno siderale cioè 176 giorni terrestri.
Il fatto che i periodi di rotazione e rivoluzione siano in rapporto 2:3, unitamente all'eccentricità
dell'orbita, comporta un disuniforme riscaldamento della superficie: fissato come riferimento
per la longitudine l = 0 il meridiano che vede il Sole alla massima altezza al perielio, dopo un
periodo di rivoluzione il pianeta avrà fatto un giro e mezzo, per cui ad ogni perielio il Sole è
fronteggiato alternativamente dagli emisferi centrati su 0o e 180o di longitudine, mentre
all'afelio si danno il cambio gli emisferi centrati su 90o e 270o. I primi (poli caldi) ricevono una
quantità di radiazione solare 2.5 volte maggiore dei secondi (poli tiepidi). Su Mercurio, quindi,
la temperatura al suolo non è solo funzione della latitudine, ma anche della longitudine.
Durante il giorno la superficie raggiunge nei poli caldi la temperatura di circa 800 K (la
temperatura più elevata di tutti i pianeti del sistema solare) invece ai poli tiepidi essa si aggira
intorno a 90 K. Mercurio quindi risulta essere il pianeta ove coesistono le situazioni termiche
più diverse
Atmosfera
Su Mercurio l'atmosfera è quasi inesistente (10-14 atmosfere). Un oggetto così caldo non può
conservare un'atmosfera apprezzabile, perché le molecole dei gas tendono a superare la
velocità di fuga del pianeta e, quindi, vengono disperse nello spazio.
Nel 1985 si scoprì che l'elemento più abbondante nell'atmosfera mercuriana è l'O2 (42%)
seguito dal Na (29%), H2 (22%), He (6%) e K (0.5%); essi sono stati probabilmente espulsi
dalle rocce a causa dell'incessante bombardamento delle particelle del vento solare. Ma
poiché Na e K sono metalli alcalini ed hanno, allo stato fondamentale, un elettrone nell'orbitale
più esterno, possono essere ionizzati dalle radiazioni solari dando vita all'emissione di uno
strato di ioni liberi.
Probabilmente, dal momento che il pianeta non presenta segni di erosione, l'atmosfera vera e
propria scomparve in epoche immediatamente successive allo stabilizzarsi della sua superficie
per l'intervento della radiazione UV del vento solare e, a causa del campo magnetico presente
in quest'ultimo, altre molecole vennero catturate e fatte fuggire.
Fortunatamente il vento solare è anch'esso una sorgente di particelle.
Resta da mettere in rilievo che l'atmosfera iniziale protesse Mercurio, durante la sua
formazione, dall'erosione degli impatti meteoritici.
Superficie
La superficie può apparire, ad una prima analisi, praticamente identica a quella lunare,
essendo entrambe dominate da crateri da impatto delle più varie dimensioni; è ricoperto da
uno strato di frammenti di rocce analogo, come granularità e spessore, alla regolite lunare e
da rocce silicatiche, simili a quelle terrestri. Poiché predomina il colore ramato, si presume
però che la superficie del pianeta risulti impoverita di ferro e titanio.
A livello macroscopico e da un punto di vista geologico, si hanno sei unità fondamentali della
superficie:
- i terreni densamente craterizzati
- le pianure intercrateriche
- le pianure lisce
- il bacino Caloris Planitia
- il terreno collinoso rigato
- le zone polari
I crateri sono molto simili a quelli lunari. Una lieve diversità di forma può essere dovuta alla
presenza di materiale sollevato vicino al luogo dell'impatto e ciò può essere spiegato dalla più
intensa gravità di Mercurio che ha accorciato il tragitto del materiale eiettato.
I crateri più vasti sono stati appianati dall'assestamento isostatico. La topografia è stata inoltre
mutata da un'intensa attività sismica. Le dimensioni dei crateri mercuriani sono, in genere,
superiori a quelli marziani o lunari e questo probabilmente deriva dal fatto che gli oggetti che
colpirono Mercurio avevano una velocità maggiore rispetto a quelli che caddero sugli altri
pianeti. Questo è l'andamento che si può prevedere nel caso i proiettili si trovassero in orbita
ellittica attorno al Sole, dato che la loro velocità sarebbe stata maggiore nella zona dell'orbita
di Mercurio che non più lontano dalla stella.
I crateri sono stati denominati con i nomi di persone che hanno dato contributi importanti alla
cultura umana. Il terreno comunque più diffuso è costituito dalle pianure intercrateriche che
separano o circondano gruppi di grossi crateri ed essendo alcuni di questi prodotti da impatti
secondari, si può pensare che le pianure intercrateriche siano molto antiche. Queste sono
state battezzate col nome che Mercurio ha in varie lingue.
Le pianure lisce, che assomigliano leggermente ai mari lunari, sono le formazioni più giovani
presenti soprattutto nelle zone boreali e sono di superficie relativamente levigata,
caratterizzate da dislivelli inferiori al chilometro e da un numero esiguo di crateri.
Caloris Planitia

Il bacino Caloris Planitia, così chiamato perché si trova in prossimità di un polo caldo, oltre ad
essere uno dei più vasti crateri del Sistema Solare (diametro circa 1340 Km), presenta una
struttura decisamente curiosa.
L'urto violento del meteorite che lo creò circa 3.85 Ga fa, sollevò catene di montagne alte circa
2 Km, generò un sistema di valli e fratture che si irradiano dal bacino per 1000 km e
scaraventò uno spesso strato di detriti a migliaia di Km di distanza.
Per questo il bacino è circondato da una serie concentrica di altopiani che si irradiano rispetto
al cratere vero e proprio.
La collisione risultò così violenta da sconvolgere la superficie agli antipodi di Caloris Planitia
ove si presentano molte fratture e faglie. Anche sulla Terra è stato constatato che le onde
d'urto dissipano la loro energia agli antipodi del luogo d'impatto.
Il bacino Caloris presenta anche delle superfici crateriche levigate dovute probabilmente allo
scorrere della lava durante il primo periodo della sua formazione e questa ipotesi è supportata
dalla presenza di canali scavati dalla lava stessa e da coltri lobate che potrebbero essere
sponde di distese di magma solidificato. Sicuramente, col trascorrere dei secoli, queste zone
pianeggianti si sono modificate ulteriormente grazie agli assestamenti isostatici ed ai processi
tettonici. La densità di questi "smooth plain" è la stessa per la totalità del pianeta e ciò fa
supporre che queste pianure siano tutte all'incirca coeve. È certo però che queste siano le
conformazioni più giovani su Mercurio.
Terreno collinoso rigato
Il terreno collinoso rigato, occupa un'unica area esattamente agli antipodi del bacino Caloris.
Consiste di un fitto intreccio di alture e depressioni. Le catene di colline hanno una larghezza
di 5 - 10 Km e dislivelli compresi tra 100 e 1800 metri. La formazione è inoltre tagliata da
depressioni lineari così da formare tra loro, un sistema ortogonale. Questa parte di superficie
si sarebbe formata in un periodo compreso tra la formazione delle regioni densamente
craterizzate e quella delle pianure lisce.
Zone polari
Solo recentemente, nel 1991, si sono scoperte da misurazioni radar, due zone polari con un
alto potere riflettente. Si ipotizza che l'acqua, portata da comete e meteoriti, si sia accumulata
in crateri e crepacci dove la temperatura non supera mai i 123 K e, coperta da uno strato di
regolite, abbia resistito all'azione dei raggi cosmici ed ultravioletti. Mercurio dovrebbe aver
mantenuto un'orientazione abbastanza stabile non rivolgendo mai i suoi poli verso il Sole. Non
è comunque certo che solo l'acqua ghiacciata presenti tale tipo di riflettività radar (potrebbe
essere anche zolfo allo stato solido).
A livello microscopico, tutta la superficie presenta una sorta di ragnatela di grandi scarpate
che attraversano tutti i tipi di terreno finora esaminati e che raggiungono lunghezze di diverse
centinaia di chilometri ed altezze superiori ai 1000 metri. Queste scarpate devono essersi
formate dalla compressione della crosta seguita al raffredamento del pianeta o potrebbero
essere anche frutto dell'attrazione mareale del Sole. L'intero sistema di faglie può essere
spiegato comunque con una riduzione del raggio di Mercurio di 1-2 Km.
Campo magnetico
Il Mariner 10 ha rilevato la presenza di un debole campo magnetico, pari ad 1/80 di quello
terrestre e l'asse del dipolo forma un angolo di 11o rispetto all'asse di rotazione, il quale è
perpendicolare al piano dell'orbita. Le polarità del campo sono orientate come sulla Terra.
Il campo magnetico terrestre è generato dalla circolazione nel nucleo di metalli fusi che
conducono corrente in un processo di dinamo autoalimentata. Se il campo magnetico di
Mercurio avesse un'origine analoga, allora anche questo pianeta dovrebbe possedere un
nucleo allo stato fuso. Ma questa ipotesi contrasta con il fatto che i corpi piccoli come Mercurio
hanno un rapporto elevato fra area superficiale e volume; pertanto a parità di altri fattori,
irradiano più velocemente la propria energia termica nello spazio. Avendo Mercurio un nucleo
interamente ferroso, come implica l'elevata densità, questo nucleo si sarà raffreddato e
solidificato milioni di anni fa. Ma in un nucleo solido non si può mantenere una dinamo
magnetica che si autoalimenti. Il campo magnetico può essere stato generato da un nucleo
caldo e liquido, in epoche primordiali, magnetizzando in modo permanente la crosta ricca di
ferro.
La presenza di un campo magnetico comporta l'esistenza di una magnetosfera ovvero di una
cavità allungata nel vento di particelle cariche espulse continuamente dal Sole. La
magnetosfera mercuriana è di circa 7 volte più piccola di quella terrestre e non è altrettanto
efficace nell'intrappolare le particelle cariche.
Struttura interna
Una delle caratteristiche più peculiari di Mercurio è la sua elevata densità; infatti Mercurio è
poco più grande della Luna, ma la sua densità è tipica di un corpo delle dimensioni della
Terra. Questa osservazione fornisce un indizio importante sulla struttura interna del pianeta
che fa pensare ad un nucleo di Fe-Ni il cui raggio sia pari a 3/4 del totale. Il Fe presente in
abbondanza, costituisce il 65 - 70 % della massa totale. La superficie esterna è composta da
una crosta di silicati di Fe-Mg circondati da ossidi refrattari.
VENERE
É il pianeta che assomiglia di più alla nostra Terra per raggio, massa e struttura interna;
tuttavia non si può dire che sia il pianeta gemello della Terra, soprattutto quando si considera
la superficie ed il campo magnetico.
Caratteristiche generali
I dati delle caratteristiche generali sono riportati nell'allegato al capitolo ORIGINE.
Visto da Terra, Venere è l'oggetto più brillante del cielo dopo il Sole e la Luna; il suo
splendore, oltre che alla sua vicinanza alla Terra e al Sole, è dovuto all'albedo di 0.76, il più
alto fra i pianeti del sistema solare. Dante così lo descrive: "lo bel pianeta che ad amar
conforta, faceva tutto ridere l'oriente" (Purgatorio, Canto I). Essendo uno dei due pianeti
inferiori, presenta evidentissimo il fenomeno delle fasi, più facilmente osservabili nelle sere in
cui il pianeta si sta avvicinando alla congiunzione inferiore, quando appare come una falce
sottile.
Venere è priva di satelliti e, praticamente, di campo magnetico; la debolezza di questo campo
magnetico è piuttosto sorprendente, dato che Venere e la Terra hanno dimensioni e masse
simili. Anche la struttura interna è analoga a quella terrestre: il nucleo di ferro e nichel occupa
circa il 30% della massa totale del pianeta.
Una possibile spiegazione di questa differenza nel magnetismo dei due pianeti è la bassa
velocità di rotazione di Venere, forse dovuta all'impatto di un planetesimo che può anche aver
rovesciato l'asse di rotazione.
La lentissima rotazione può essere insufficiente a produrre nel suo nucleo la circolazione
necessaria a generare un campo magnetico, nonostante si supponga che il nucleo di ferro sia
liquido.
La lentezza della rotazione spiega l'assenza di schiacciamento ai poli.
I Moti
La sua massima elongazione è di 48° e in una fase prossima a questa (all'elongazione di
39.7°) il pianeta raggiunge il suo massimo splendore che è di magnitudine -4.6 . Il diametro
angolare di Venere varia da 10" in vicinanza della congiunzione superiore, fino a 64" nella
congiunzione inferiore. L'orbita di Venere quasi circolare (e=0.007) è percorsa nel periodo di
rivoluzione (Pri) di 224.7 giorni terrestri. I transiti di Venere sul disco solare sono eventi
piuttosto rari; essi si ripetono secondo la sequenza di 8; 105; 8; 122; 8; 105.. anni. L'ultimo si è
verificato nel 2004 ed il prossimo sarà nel 2012. Essendo l'equatore inclinato sul piano
dell'orbita di 2.6°, mancano le stagioni. Il moto di rotazione attorno al suo asse è retrogrado
con un giorno siderale (gsi) di 243.0 giorni terrestri, pari a 2/3 del periodo di rivoluzione della
Terra; è probabile che questa frazione semplice sia dovuta ad un fenomeno di risonanza.
Poiché i moti di rotazione e di rivoluzione hanno direzione opposta, il giorno solare venusiano
(gso) è più corto di gsi. Dalla formula: 1/gso=1/gsi+1/Pri si deduce che il giorno venusiano ha
una durata di 116.8 giorni terrestri.
La congiunzione inferiore di Venere rispetto alla Terra avviene ogni 584 giorni terrestri
(periodo sinodico) pari a 5 giorni venusiani; pertanto Venere, in congiunzione inferiore, volge
sempre lo stesso lato alla Terra.
La spessa coltre atmosferica, invece, ha un periodo di rotazione di appena 4 giorni terrestri; la
grande differenza rispetto al periodo di rotazione del pianeta è dovuta alla presenza di forti
venti ad alta quota.
Atmosfera
Moltissime informazioni sull'atmosfera di Venere ci sono giunte da numerose sonde inviate tra
il 1961 e il 1976: il gas predominante è la CO2(96.5%) mentre il restante 3.5% si divide tra altri
composti, fra cui prevale N2; sono presenti in piccole quantità H2, O2, SO2, He, Ar, CO, H2O.
Si può notare che non solo l'acqua è assente al suolo ma anche che l'atmosfera è
estremamente secca.
Nel primo miliardo di anni dalla sua formazione Venere può aver avuto acqua al suolo e
nell'atmosfera e l'effetto serra era presumibilmente molto inferiore ad oggi.
L'abbondanza della CO2 accomuna l'atmosfera di Venere a quella di Marte; nell'atmosfera
terrestre essa è molto scarsa perché è precipitata sotto forma di carbonati (come nelle Alpi
Apuane) nei fondali degli oceani, con una reazione di scambio con il quarzo.
L'atmosfera di Venere, molto densa, può essere suddivisa nei seguenti strati: troposfera,
mesosfera, termosfera, esosfera, molto diversi fra loro; la velocità dei venti varia da 360 km/h
nell'esosfera a 2 km/h al suolo. Anche la temperatura e la pressione subiscono notevoli
variazioni: alla sommità delle nubi più alte, ad una quota di 80 chilometri, la temperatura si
aggira sui -50° C e la pressione è appena 5 millesimi di atmosfera. Andando a quote più
basse esse aumentano rapidamente, tanto che al suolo raggiungono rispettivamente 460° C e
90 atmosfere. L'altissima temperatura alla superficie è causata dall'effetto serra: i responsabili
di quest'effetto sono l'acido solforico e il suo prodotto di dissociazione SO2 assieme alla CO2 e
H2O, presenti nelle fitte nubi a quote superiori a 31 km. Queste ultime sono relativamente
trasparenti per la radiazione solare e opache per l'infrarosso. I raggi solari che giungono al
suolo sono solo il 2% di quelli incidenti, mentre il 22% viene assorbito dall'atmosfera che si
riscalda e non riesce a reirradiare il calore verso lo spazio sotto forma di raggi infrarossi
perché questi sono bloccati dai gas per effetto serra.
Dato l'alto albedo si dovrebbe avere una temperatura efficace di -44 °C, per cui l'entità
dell'effetto serra è di ben 500 °C.
L. Esposito dell'Università del Colorado, usando l'Hubble Space Telescope, ha studiato in
luce ultravioletta le nubi venusiane di acido solforico con due scopi ben precisi: valutarne i
movimenti a livello globale e controllare la concentrazione di SO2. Egli ha scoperto che negli
ultimi 15 anni tale concentrazione è diminuita di un fattore 4. Tra le 1500 formazioni vulcaniche
di Venere, identificate dalla sonda Magellano il Maat Mons è il più probabile responsabile
della gigantesca eruzione, che avrebbe causato il brusco aumento di SO2 nell'atmosfera del
pianeta circa 20 anni fa, fenomeno analogo all'eruzione del vulcano terrestre, Krakatoa nel
1883.
Superficie
A causa della spessa coltre di nubi che avvolge Venere, non è possibile analizzare la
superficie direttamente da Terra. Tuttavia, tramite osservazioni radar da sonde spaziali, si è
potuta fare una mappa dettagliata della superficie, soprattutto grazie alla sonda Magellano
lanciata il 4 maggio 1989, che ha fornito splendide immagini con un potere risolutivo di poche
decine di metri.

Preso come riferimento il valore medio del raggio planetario di 6051.84 km, si sono
evidenziate le caratteristiche morfologiche del pianeta.

Venere è un mondo privo di mari, dove le pianure, tormentate da fratture, crateri e canali,
occupano circa il 90% della superficie e le regioni montagnose sono concentrate in due grandi
continenti (Terrae) Aphrodite e Ishtar, in quest'ultima si trovano i Monti Maxwell, alti 10.7 km. Il
massimo dislivello esistente su Venere è di 15 Km fra il culmine dei Monti Maxwell e il fondo
della Diana Chasma.
La tettonica a zolle su Venere non esiste se non come fenomeno strettamente locale. L'alta
temperatura superficiale rende plastica la litosfera e le tensioni nella crosta non si
accumulano, impedendo la formazione di grandi zolle.
Aspetti caratteristici del suolo venusiano sono: le corone, zone pianeggianti circondate da
striature circolari (probabili vulcani a scudo abortiti sul nascere), gli aracnoidi, strutture
rotondeggianti ricche di solchi circolari e disposti a raggiera (novae), le tessere, altopiani con
strati accidentati e ripiegati, i trogoli, depressioni allungate scavate in terreni piani. Una
caratteristica interessante del suolo citereo è il diverso grado di intensità del segnale radar
riflesso: nelle immagini appaiono più chiare le zone corrugate e più scure le zone lisce.
Tuttavia ad una quota superiore a 3.5 km la riflettività delle rocce è molto superiore a quella
attesa in relazione alla rugosità del terreno. Questo fenomeno può essere spiegato mediante
due teorie. Secondo la prima l'alta riflettività sarebbe dovuta alla presenza della pirrotite, un
solfuro di ferro che deriva da processi chimici di trasformazione del magma vulcanico, possibili
solo alla temperatura e alle condizioni ambientali esistenti su Venere al di sopra di 4 km di
altezza. La seconda ipotesi, partendo dal fatto che anche i terreni non vulcanici mostrano
questa riflettività, sostiene che essa sia dovuta a sali metallici di cloro, fluoro e zolfo emessi
dai vulcani. Queste sostanze volatili tendono a salire verso l'alto e, attorno a 4 Km, finiscono
per depositarsi in forma condensata in un leggero strato dotato di altissima riflettività radar. In
base a questa ipotesi tutto quello che ad una certa quota dovesse mostrare bassa riflettività
deve essere geologicamente molto giovane; è il caso di Cleopatra, il grande cratere dei monti
Maxwell, e del già citato monte Maat.
Fenomeni Vulcanici
Il vulcano Maat nella Atlas Regio della Afrodite Terra, non lontano dal vulcano Sapas, in primo
piano è la seconda vetta di Venere (8 km) e mostra striature recenti di lava, testimonianza di
un'eruzione avvenuta nell'arco degli ultimi venti anni. Le regioni di Atla, Beta e Themis (BAT)
coprono, infatti, il 30% della superficie di Venere e vi si addensa il 70% dei vulcani, scoperti
dalla Magellan. É questo, dunque, un gigantesco punto caldo, da cui Venere emette la
maggior parte del suo calore interno.
Dagli ultimi dati raccolti si è capito che l'attuale superficie di Venere non può avere più di 500
milioni di anni; si tratta quindi di un terreno geologicamente giovane, soggetto ad episodi
parossistici di vulcanesimo globale in grado di rinnovare completamente la crosta. Questi
episodi favoriscono la liberazione del calore interno dato che la conduzione attraverso la
litosfera è bassa e limitata alle corone.
Questo fatto spiega l'assenza su Venere di grandi crateri, presenti invece sulla Luna, su
Mercurio su Callisto, che avendo una superficie molto più antica, conservano il ricordo della
fase iniziale della formazione di crateri ad opera di corpi più grandi. Si è scoperto che su
Venere sono rari anche i piccoli crateri da impatto; ciò è dovuto all'azione della densa
atmosfera che distrugge i piccoli meteoriti (inferiori a 30 m) prima che possano arrivare al
suolo. Una delle caratteristiche uniche del vulcanesimo venusiano sono i gruppi di piccoli domi
vulcanici circolari (10-20 Km di diametro), detti vulcani a brioche che popolano tutto il pianeta.
La loro origine potrebbe essere legata alla presenza di un tipo di lava particolarmente viscosa,
che li avrebbe costruiti risalendo da bocche apertesi in zone pianeggianti.
TERRA
La Terra è il più grande (R = 6370 km) e con la massa maggiore (M = 5.976 x 1024 kg) dei
pianeti rocciosi. Esso è il più denso fra tutti i pianeti.
La caratteristica fondamentale è di essere l'unico laboratorio di vita finora conosciuto. Le
proprietà che contribuiscono a renderla abitabile sono: la distanza dal Sole, la massa ed il
diametro, la presenza di acqua allo stato liquido in superficie, la presenza di una consistente
atmosfera, un opportuno periodo di rotazione, l'inclinazione dell'asse terrestre sull'eclittica che
dà origine alle stagioni e la vicinanza di un satellite di grande massa, la Luna, che ne rende
stabile la direzione dell'asse.
Il nostro bel pianeta non ha sempre avuto l'aspetto attuale: la deriva delle placche ne ha
modificato costantemente la superfice. In particolare i fondali oceanici si stanno
continuamente rinnovando e sono tutti più giovani di 200 milioni di anni. Per contro le rocce
continentali più vecchie hanno 3800 milioni di anni, ma sono ugualmente rocce sedimentarie,
prodotte dall'erosione di rocce più antiche. Glaciazioni si sono susseguite coprendolo quasi
completamente; solo di recente si è capita la grande importanza dell’effetto serra nel
determinarne la temperatura media. La sua immagine dallo spazio la fa definire "Pianeta
azzurro".

Atmosfera
La composizione chimica dell'atmosfera attuale è di circa il 77% di azoto molecolare, 21% di
ossigeno molecolare, 1% di argo ed 1% di vapor acqueo. Anidride carbonica, metano ed
ozono, pur essendo presenti in quntità piccole, sono tutt'altro che trascurabili per gli effetti che
hanno, su grande scala, nelle proprietà di assorbimento dell'atmosfera.
Anche le nubi hanno un considerevole effetto sulla temperatura: quelle basse e compatte
schermano efficacemente i raggi del Sole riflettendo nello spazio il calore; quelle alte e fredde
sono più trasparenti alla radiazione solare ma riflettono efficacemente quella terrestre con
conseguente aumento della temperatura al suolo (WEB 2).
Questa composizione è il risultato di una complessa evoluzione che sarebbe stata
completamente diversa se il pianeta fosse stato 10 milioni di km più vicino o 70 milioni più
lontano dal Sole e se la vita non vi si fosse annidata. Come ha suggerito J. E. Lovelock, nella
sua teoria di Gaia, "è la vita che ha fatto della Terra ciò che essa è, pur essendo solo la
sua inquilina".
La variazione della temperatura, dal suolo all'Esosfera, non è uniforme ma presenta due
minimi: uno all'inizio della Stratosfera e l'altro all'inizio della Termosfera. Nella figura accanto
sono indicate, in funzione dell'altitudine: in rosso la temperatura, in verde la pressione ed in
blu la densità. In basso è invece riportata la circolazione dei venti in funzione della latitudine.
Clima
In termini geologici la Terra è appena uscita da un periodo glaciale che ha avuto il suo
massimo 18-20 mila anni or sono. L'attuale temperatura media della Terra è di 15 °C, ma le
variazioni massime stimate nel periodo nel quale si possono desumere dati sufficientemente
attendibili, mezzo milardo di anni, sono state di più e meno 5 °C.
Anche una diminuzione di circa un grado nella temperatura media globale è però significativa,
tanto da produrre una "piccola glaciazione".
Circa 9 mila anni fa (all'inizio del neolitico) si è avuto un deciso aumento di temperatura che ha
favorito stabili insediamenti umani, la domesticazione degli animali e l'inizio delle coltivazioni.
3 mila anni dopo, in un lungo periodo, ancora più caldo dell'attuale, si è sviluppata l'agricoltura
e sono fiorite molte civiltà, tra le quali l'egizia e quelle mesopotamiche.
Paleoclimi

Le perforazioni dei sedimenti marini, vicino all'Antartide negli ultimi anni del decennio 1980 e,
nel 2003, al largo della Namibia, hanno rivelato un rapido aumento della temperatura, anche di
10 °C, avvenuto intorno a 55 milioni di anni fa. Tale periodo è denominato
Paleocene/Eocene Thermal Maximum (PETM).
La temperatura è rimasta alta ed è ritornata al livello pre-PETM in 250 mila anni.
"Secondo uno studio recente, per ottenere un aumento simile di temperatura nel giro di soli 10
mila anni, occorre che siano stati aggiunti al sistema oceano-atmosfera 1500 - 2000 Gt
(miliardi di tonnellate) di carbonio, ricco del suo isotopo leggero, per creare il rapporto
isotopico che si evidenzia al PETM".
Il metano contenuto nei depositi di gas idrati è ricco di carbonio-12 ed, essendo il metano un
efficace gas serra, è il maggior indiziato per il PETM.
I gas idrati sono stabili solo in un ristretto ambito di temperatura ed un aumento della stessa,
per esempio a seguito della caduta di una cometa, anch'essa ricca di gas idrati, potrebbe aver
innescato una liberazione massiccia del metano inglobato nei gas idrati oceanici, con una
retroazione positiva (Schiermeier 2003 p.681-2).
Come ulteriore indizio sono stati identificati, nelle rocce del Mare del Nord norvegese, più di
700 larghi condotti dovuti, verosimilmente, dalla rapida gassificazione di materiale organico,
da parte di intrusioni magmatiche dal mantello. I gas prodotti, in gran parte metano, che ha un
elevata efficacia come gas serra, hanno raggiunto l'atmosfera(Svensen 2004; Dickens 2004).

L'analisi in diversi siti in Cina e nel Pacifico settentrionale di sedimenti di origine eolica (loess)
e l'uso di modelli climatici computerizzati, integrando i dati con elementi desunti da
perforazioni nel Mare Arabico e nell'Oceano Indiano, hanno indicato che il sollevamento
imalaiano e tibetano ha influenzato notevolmente il clima, anche a livello globale, a partire da
8 milioni di anni (Ma) or sono. Si è infatti instaurato un regime di venti monsonici che ha
trasportato le polveri del deserto dei Gobi per migliaia di chilometri. Il clima monsonico ha
favorito successivamente un raffreddamento globale, magari già tendenziale, portando la
Terra ad una serie di glaciazioni a partire da 2.5 Ma fa (An Zhisheng et al. 2001).
Per i periodi precedenti ci si avvale di indizi geologici, come, fra i più evidenti: le deposizioni di
materiale morenico e le abrasioni glaciali, le tilliti che sono depositi di origine glaciale più o
meno cementificati relativi ad epoche precedenti il Quaternario, i depositi di materiale
desertico o di sale, le glendoniti che sono concrezioni significative del clima in cui si sono
formate, i tipi di rocce sedimentarie, i rinvenimenti di residui di materiali organici come carbone
o torba, i giacimenti minerari, gli isotopi degli elementi chimici, in particolare dell'ossigeno, che
rivelano anche l'abbondanza delle forme di vita nel periodo in esame, per non parlare dei dati
paleontologici che hanno consentito la suddivisione preliminare delle epoche geologiche.
Questi elementi, uniti ai dati paleomagnetici, ci consentono anche di valutare la posizione delle
terre emerse sul globo, nei vari periodi geologici, che evidentemente influenza
considerevolmente il clima di un territorio.
Questo approccio, molto serio e circostanziato, è stato adottato nello studio di Scotese (WEB
1), che riportiamo.
Glaciazioni
Nel 1941 Milutin Milankovitch pubblicò una teoria che prendeva dettagliatamente in esame
l'influenza delle variazioni orbitali e dell'inclinazione dell'asse della Terra sulla sua temperatura
media e sulla distribuzione del calore fra gli emisferi, che avrebbero provocato le glaciazioni.
La teoria è stata perfezionata da André Berger negli anni '80.
Le variazioni di eccentricità del'orbita terrestre, che hanno comunque una limitata influenza,
ricorrono in cicli di 100 mila anni, mentre la variazione dell'inclinazione dell'asse tra 22 e 25
gradi ha un ciclo di 41 mila anni.
Quando l'inclinazione è al minimo si hanno estati più fresche che mantengono la coltre nevosa
e ghiacciata alle alte latitudini aumentando l'Albedo e quindi il minore assorbimento di calore
dal Sole.
Occorre notare che anche la precessione degli eqinozi, che si completa in circa 26 mila anni,
ha la sua influenza perché la distribuzione delle terre emerse è diversa nei due emisferi e
quindi il riscaldamento dipende dall'orientamento dell'asse quando l'orbita non è circolare.
I metodi d'indagine per rilevare le glaciazioni avvenute nel lontano passato sono soprattutto
geologici; quelle più recenti sono documentabili dai sedimenti marini e dalle carote estratte dai
ghiacciai della Groenlandia e dall'Antartide.
Con i sedimenti si può raggiungere anche oltre 2 Ma fa: l'indicazione più affidabile è il livello
del mare esistente nel momento della deposizione dei foraminiferi ed altri organismi marini.
I dati rilevabili dalle carote di ghiaccio sono più dettagliati, ma non si raggiunge il milione di
anni. Da queste si può dedurre p. e. l'aridità e la ventosità presente al momento della caduta
della neve conservata alle varie profondità, per la presenza di polveri; le abbondanze degli
isotopi dell'ossigeno (18O) e dell'idrogeno (deuterio) dell'acqua danno informazioni
sull'evaporazione avvenuta, mentre la composizione dell'aria conservata nelle minuscole
bollicine presenti nel ghiaccio ci indica, tra l'altro, le percentuali di CO 2 e di CH4, i gas serra,
che determinano, con un certo ritardo, la temperatura.
I dati disponibili, al 2004, della perforazione EPICA, in corso di realizzazione in Antartide sul
Dome C, Base Italo-Francese, a 3190 m ha raggiunto ghiaccio di 740 mila anni fa. Ha
evidenziato, tra l'altro, che il periodo interglaciale di 400 mila anni fa è stato il più lungo degli
ultimi 4, 28 mila anni; il chè ci fa ben sperare perché avvenuto quando l'orbita della Terra era
simile all'attuale, cioè quasi circolare (McManus 2004).
Ha evidenziato, inoltre, che il ritmo delle glaciazioni è passato da 41 mila anni a 100 mila anni,
a partire da quella iniziata circa 450 Ma fa, con un netto incremento della temperatura nei
periodi interglaciali, come l'attuale. Il minimo della temperatura dei periodi glaciali non è
variato sensibilmente (White 2004).

Occorre tenere presente che la Terra, senza l'effetto serra, avrebbe una temperatura
media di -15°C, ossia 30°C in meno di quella attuale e che le variazioni di temperatura media
fra i periodi torridi e quelli glaciali sono state in passato, in genere, di soli 10°C.
I vulcani, con la costante emissione di CO2, giocano anch'essi un ruolo: una diminuzione della
CO2, anche solo per un maggior dilavamento temporaneo dell'atmosfera, riduce l'effetto serra
e produce pertanto una più vasta superficie ghiacciata che ha un maggiore albedo e si
instaura quindi una retroazione positiva che porta alla glaciazione. Vi è però una minore
evaporazione e la pioggia sottrae meno CO2 all'atmosfera. I vulcani continuano ad emettere
gas che si accumulano aumentando l'effetto serra che riscalda il pianeta ponendo fine alla
glaciazione.

L'entità della superficie che risulta ghiacciata e la durata della glaciazione, dipende anche
dalla posizione dei continenti. Se sono i mari ad essere maggiormente coperti di ghiaccio, vi è
una minore evaporazione e quindi una minore presenza di vapore acqueo nell'atmosfera che
pure contribuisce all'effetto serra.
Durante le glaciazioni anche gas metano rimane intrappolato sui fondali marini, in alti strati di
gas idrati, che si libera rapidamente all'aumentare della temperatura, andando ad
incrementare l'effetto serra.
Interno della Terra
Durante il primo mezzo miliardo di vita, i minerali di cui è composta la Terra si sono
differenziati, sedimentati e raffreddati, assumendo una struttura a gusci attorno ad un nucleo
di ferro-nichel che ora è solido al centro e liquido nella parte esterna.
La temperatura del nucleo interno è valutata essere di circa 6000 °C, mentre la pressione
assommerebbe a circa 3,5 miliardi di ettopascal, ossia 3,5 milioni di volte quella atmosferica al
livello del mare (Mueller & Stieglitz, 2002).
Secondo Song e Richards (Kaufmann & Freedman 1998, pag. 200) il nucleo interno solido
ruota più velocemente, rispetto al resto della Terra, guadagnando un giro in circa 400 anni. La
valutazione è stata dedotta da 30 anni di analisi di dati sismici, considerando che il nucleo è
cristallizzato in modo preferenziale, che la velocità è diversa secondo l'angolo formato con
l'asse di cristallizzazione, il quale è inclinato di 10 gradi rispetto a quello di rotazione.
Sull'argomento non c'è però generale consenso.
Anche il mantello si suddivide in inferiore e superiore, con diverso grado di plasticità ed
omogeneità.
La ricerca sismica ha permesso di rappresentare il modello dell'interno della Terra con un
buon grado di attendibilità, grazie a diversi tipi di onde che si propagano con modalità e
velocità differenti: onde "P", a compressione longitudinale, che si propagano sia nel mantello
che nel nucleo liquido, con la velocità più elevata; onde "S", ondulatorie, che si propagano nel
mantello, ma non nel nucleo liquido ed onde superficiali ancor più lente.
Per attraversare diametralmente la Terra le onde P impiegano 20 minuti.
Dall'estensione delle zone d'ombra delle onde P ed S si sono potuti valutare i diametri del
nucleo interno ed esterno.
Campo magnetico
Introduzione
Nel 1600 William Gilbert pubblicò un piccolo trattato, intitolato De Magnete, in cui suggeriva,
sulla base di osservazioni effettuate con una bussola, che la Terra si comportasse come un
gigantesco magnete.
Nel 1838 K. F. Gauss dimostrò che un tale campo magnetico doveva generarsi all'interno del
pianeta.
Il campo magnetico terrestre è un campo bipolare, il cui asse passa per il centro della Terra
con una inclinazione di 11.5 gradi, rispetto all'asse di rotazione. L'intensità di questo campo è
molto piccola: 0.3 Gauss.
L'origine del fenomeno magnetico, non è ancora compresa completamente; si valuta che il
campo magnetico terrestre sia dovuto per il 90% alle correnti elettriche interne al nucleo
metallico e per il restante 10% ad altre fonti. L'energia che determina le correnti elettriche si
presume provenga dall'energia cinetica del nucleo.
Dallo studio della magnetizzazione di antiche formazioni rocciose e di fondali marini si è
stabilito che il campo esiste da circa 3,5 miliardi di anni, ha variato la sua intensità ed ha
invertito il proprio orientamento nel corso delle ere geologiche. Il ritmo di tali variazioni non
segue alcuna legge matematica: in genere i periodi di inversione hanno una durata di circa
500 mila anni, o più, con brevi reinversioni di orientamento all'interno del periodo. La velocità
di inversione è relativamente elevata: poche migliaia di anni (Mueller & Stieglitz, 2002).
Nei periodi di inversione il campo magnetico non scompare, diventa più complesso ed i poli
possono emergere in località inusuali, ma continua a proteggere la Terra dalle radiazioni e
dalle tempeste solari (Phillips 2003).
Recenti studi hanno rilevato anche lunghissimi periodi di stabilità, come, p.e., per circa 40
mlioni di anni nel Cretaceo nonchè tra 312 e 262 Ma fa (Jacobs 2001).
Attualmente il campo sembra indebolirsi dello 0.07% ogni anno; il perdurare di questo
decremento farà sparire il campo magnetico entro 4000 anni. L'asse dipolare è soggetto ad
una precessione annua di 0,2 gradi verso occidente (Mueller & Stieglitz, 2002).
Durante il XX secolo il polo magnetico si è spostato verso nord di circa 10 km all'anno, con
un'accelerazione a 40 km/a nell'ultimo periodo (Phillips 2003).
Dal 1995, G. Glatzmaier e P. Roberts (Kaufmann & Freedman 1998, pag. 210) hanno
simulato, con un supercomputer, i movimenti del fluido metallico del nucleo esterno per un
periodo equivalente a 300 mila anni. Il campo magnetico risultante è stato stabile, simile a
quello terrestre e si è spontaneamente invertito ad una data equivalente a 38 mila anni.
Seguendo questo esempio, verranno eseguite simulazioni più raffinate e per periodi
equivalenti più lunghi.
Struttura del campo magnetico
Molti dei primi satelliti artificiali avevano lo scopo di misurare il campo e le particelle al di fuori
dell'atmosfera terrestre. Quando gli USA lanciarono L'Explorer 4 ed i successivi, i contatori
rivelarono la presenza, attorno alla Terra, di zone, denominate poi fasce di Van Allen in onore
dello scienziato che aveva condotto le ricerche, ricche di particelle cariche intrappolate dal
campo magnetico, con concentrazione massima a 3 mila e 15 mila km di altezza.
Le osservazioni successive hanno rivelato che il campo magnetico terrestre forma, attorno alla
Terra, un gigantesco involucro (magnetosfera) a forma di goccia allungata in direzione
opposta al Sole. Questa zona è delimitata da un sottile confine, la magnetopausa, posta a
circa 10 raggi terrestri in direzione del Sole e che si estende per circa 200 raggi terrestri in
direzione opposta.

Le variazioni dell'attività solare e quindi del flusso di particelle accelerate che incontrano la
magnetosfera, possono distorcere la coda magnetica, mentre le particelle in questione
vengono incanalate lungo le linee magnetiche uscenti dai poli ed, interagendo con l'alta
atmosfera, provocano le Aurore polari. Fra i colori dominano il rosso - verde dell'ossigeno ed il
verde - blu dell'azoto. La maggior parte delle Aurore hanno il bordo inferiore a circa 110 km,
mentre il bordo superiore si aggira ad una quota di 320 km.
Superficie
Deriva dei continenti
Nel 1910 il geografo tedesco Alfred Wegener, propose per primo la deriva dei continenti, ma
ci sono voluti 50 anni (del XX secolo, non del Medio Evo) per convincere gli scienziati!
Il vero pregio della scienza è di non costituire un dogma.
In effetti più che di deriva dei continenti occorre parlare di deriva delle placche, perché i
continenti sono solo la parte emersa delle stesse. Vi sono placche formate solo da crosta
oceanica. Quest'ultima si forma continuamente nelle dorsali oceaniche e, poiché più pesante,
viene subdotta alla crosta continentale.
La crosta oceanica subdotta, che si immerge nel mantello, porta con sé sedimenti marini che
fondono più superficialmente, provocando un esteso vulcanesimo del tipo di quello che ha
formato le Ande. I movimenti convettivi del mantello hanno "portato a spasso" le placche per il
pianeta, nelle ere geologiche e sono ancora attivi. Gli effetti più evidenti sono: gli scontri che
innalzano tuttora le giovani montagne, le faglie attive ed i terremoti.
L'esempio più interessante è quello della placca indiana che si insinua sotto quella asiatica
formando l'Imalaia e l'altipiano del Tibet, deformandola fino a 3000 km dal punto di contatto tra
le due placche.
Sorprende il fatto che il sub-continente indiano, già parte del supercontinente Gondvana, non
si sia praticamente deformato nel poderoso scontro, denotando la robustezza del suo antico
basamento (cratone) (Jackson, 2005).

Oceani
Le acque oceaniche coprono i 7/10 della superficie terrestre, influenzando notevolmente il
clima e l'ambiente sulla Terra.
Ci si può immaginare l'oceano percorso da onde e con le maree che alternativamente
muovono le sue acque, ma la vera azione è meno visibile.
Vaste correnti, come giganteschi fiumi, fluiscono attraverso gli oceani, mosse da differenze di
temperatura e salinità.
La Corrente del Golfo ha una portata di circa 150 x 10 6 m3/s (Cambridge Encyclopaedia of
Earth Sciences), 150 volte la somma della portata di tutti i fiumi della Terra. L'energia che
trasporta nell'Europa nord - occidentale è pari al 20% della locale insolazione invernale.
Mentre le coste del Labrador in Canada gelano, alla stessa latitudine in Cornovaglia crescono
le palme ed il gelo è raro.
Solo recentemente gli scienziati hanno messo assieme i pezzi del complicato puzzle delle
correnti oceaniche, incominciando a valutare le loro implicazioni passate e presenti sul clima,
che potranno aiutare nelle previsioni future.
L'Atlantico del nord è uno dei punti chiave della circolazione oceanica: il vento del nord - ovest
raffredda le acque superficiali che aumentano di densità anche perché la formazione di ghiacci
fa aumentare la salinità dell'acqua residua. Essa affonda e fluisce verso sud, rimpiazzata da
acqua più calda proveniente da sud - ovest, spinta dai venti tropicali e dalla forza di Coriolis.
La corrente di fondo arriva fino all'Antartide, unendosi alla Corrente Circumantartica ed a
quelle indopacifiche. Queste ultime sono mosse principalmente da differenze di temperatura e
di piovosità che modifica la salinità.
Nonostante che le correnti fluiscano a poca distanza una dall'altra, con lievi differenze di
temperatura e salinità, esse mantengono la loro identità e, per indurne la miscelazione,
occorre molta energia. Questa viene fornita dalla Luna.
Gary Egbert, dell'Oregon State University, ha scoperto che circa 1/3 dell'energia mareale della
Luna è trasferita alle zone profonde. Qui muove le acque sui fondali accidentati, miscelandole.
Prima delle osservazioni di Egbert si pensava che tutta la potenza trasmessa dalla Luna, 3 x
1012 W (3 Terawatt), venisse dissipata dalle maree in acque basse (Thompson 2001).
I risultati delle perforazioni dei ghiacci della Groenlandia, hanno fornito risultati sorprendenti:
durante l'ultima glaciazione, in circa 60 mila anni, si sono avuti 20 rapidi riscaldamenti di
circa 10 °C, alcuni con un ritmo di 1470 anni. Si ipotizza che ciò sia dovuto ad una
intermittenza nel flusso della Corrente del Golfo (Ganopolsky 2001).
Lo scioglimento dei ghiacci groenlandesi e della banchisa artica per l'aumento di temperatura
da effetto serra, potrebbe far diminuire, drasticamente, la salinità delle acque dell'Atlantico del
nord, provocando l'arresto dell'inabissamento delle acque e, quindi, della Corrente del Golfo,
con l'anomalo raffreddamento dell'Europa nord - occidentale.
La variazione nelle modalità di circolazione delle correnti oceaniche è uno degli aspetti che
può, sorprendentemente, portare la Terra ad un'altra glaciazione (Thompson 2001).
La Nasa rileva la temperatura superficiale dei mari con lo strumento AMSR-E del satellite
Aqua. L'immagine che riportiamo è relativa al 27.8.2003. L'emisfero meridionale è in inverno.
MARTE
Caratteristiche generali
Marte è il più esterno dei pianeti di tipo terrestre ed è quello che, per diversi aspetti, più
assomiglia alla Terra: il periodo di rotazione di 24 ore e 37 minuti e l'inclinazione dell'asse di
rotazione rispetto alla normale al piano dell'orbita di 25.2°, danno origine all'alternarsi delle ore
di luce e buio e delle quattro stagioni come sulla Terra. Il periodo di rivoluzione è di 686.98
giorni terrestri. Il periodo sinodico, cioè l'intervallo tra due opposizioni con la Terra, è di 779.94
giorni.
Il suo asse di rotazione fluttua caoticamente fra 11° e 49° in tempi di pochi milioni di anni;
questo è dovuto alle interazioni gravitazionali con il Sole e gli altri pianeti, favorito dalla
mancanza di un satellite di notevole massa.
Benché sia piuttosto freddo e secco, dopo la Terra è certamente il pianeta più ospitale ed è il
più adatto a ricevere una missione spaziale con uomini a bordo.
Superficie
Fra i pianeti Marte è quello che ha il suolo meglio esplorato sia da satelliti in orbita, che da
sonde fatte posare sul suolo.
Le sonde Viking nel 1976 e Pathfinder nel 1997 hanno rivelato che lo strato superficiale è
prevalentemente costituito da silicati e da ossidi di ferro. A ciò è dovuto il colore rossastro
della superficie; da qui il nome di pianeta rosso.
Fra i pianeti terrestri Marte conserva nella sua litosfera la più completa registrazione del
proprio passato; dall'analisi delle immagini inviate a terra dalle sonde è stato possibile dedurre
la densità di crateri e da questa l'età di ogni parte della crosta. Sono state così individuate tre
epoche geologiche marziane di età decrescente: il Noachiano, fino a 3,7 Ga, l'Esperiano, da
3,7 a circa 3 Ga e l'Amazoniano da 3 Ga al presente (Solomon 2005).
Vi è una notevole differenza tra due tipi di terreno: a Sud la crosta più antica presenta elevati
altipiani e molti crateri da impatto, di cui alcuni molto vasti (Hellas con 1800 km di diametro e
una profondità di 4 km, Argyre 900 km). A Nord vi sono le pianure vulcaniche, più basse e più
recenti e grandi vulcani a scudo. Il confine fra le due zone è fissato da un cerchio minore di
35° di raggio centrato nel punto di coordinate 50° N e 190° W.
Il più alto dei vulcani è l'Olympus Mons, che si eleva per 25 chilometri rispetto al terreno
circostante ed ha un diametro alla base di 600 km. Le sue dimensioni sono così estese perchè
è un vulcano di tipo "punto caldo" terrestre, con lave molto fluide simili a quelle delle Hawaii.
L'Olympus Mons è il più grande vulcano di tutto il sistema solare.
A seguito dello studio di immagini dell'High Resolution Stereo Camera Experiment (HRSC)
sulla sonda Mars Express, l'HRSC Team afferma che, in base al conteggio dei crateri ed alla
loro datazione, le lave sull'Olimpus Mons si possono stimare di età comprese tra 3800 e 100
Ma (Neukum 2004).
Numerosi canyon solcano la superficie di Marte, il sistema più imponente è quello della Valle
Marineris, situata nella zona equatoriale con lunghezza di 5000 km, larghezza fino a 300 km e
profondità fino a 7 km, che si estende su quasi mezzo pianeta.
Solo recentemente si sta chiarendo il quadro di come questi canyon possono essersi formati:
nel primo Esperiano, circa 3.5 miliardi di anni (Ga) or sono, la temperatura del pianeta crebbe
bruscamente facendo irrompere in superficie una quantità d'acqua pari a quella del
Mediterraneo e del Golfo del Messico sommate assieme, provocando catastrofiche
inondazioni; infatti la geometria dei canali di deflusso sembra indicare velocità elevatissime dei
corsi d'acqua.
La causa dell'innalzamento della temperatura potrebbe essere stata:
- l'effetto serra, dovuto ad una atmosfera molto più densa di ora,
- l'impatto di una cometa o di un pianetino,
- la circolazione idrotermale associata al vulcanesimo, che potrebbe aver portato in superficie
l'acqua contenuta in profondità,
- una notevole variazione dell'inclinazione dell'asse di rotazione, che ha portato all'equatore le
calotte polari.
Attualmente l'acqua è contenuta nelle calotte polari, nel permafrost e nelle rocce.
Ci sono altre evidenze che in passato vi fosse acqua liquida in superficie:
1) Sul suolo marziano esistono tre tipi di canali:
a. canali di deflusso: ampi e profondi come, ad esempio, la Valle Marineris, che nascono
in aree soggette, un tempo, ad estesi collassi franosi (graben). Raramente raggiunti da
tributari, questi canali presentano un fondo levigato e grandi isole a forma di lacrima in
corrispondenza di ostacoli naturali.
b. canali dendritici: di piccole dimensioni, spesso riuniti in sistemi ramificati che scendono
dalle regioni elevate e assomigliano a quelli che si formano sulla Terra in zone aride
dopo una violenta pioggia.
c. valli longitudinali: canali sinuosi con caratteristiche e dimensioni intermedie;
2) Attorno a molti crateri, soprattutto vicino ai poli dove era più spesso lo strato di permafrost,
si notano colate di fango solidificate.
Si pensa che questa corona di detriti sia stata formata dal flusso di materiale fluidificato.
La sonda Mars Global Surveyor ha evidenziato, in circa 300 immagini, solchi su pareti
scoscese che potrebbero essere stati prodotti da recenti flussi di acqua, forse per un
temporaneo scioglimento del permafrost.
Anche se attualmente l'atmosfera ha una pressione uguale allo 0,6% di quella terrestre, è
capace di sollevare notevoli quantità di polvere.
Un esempio dell'azione dei venti sulla superficie marziana sono le dune dei depositi di sabbia
basaltica nei pressi del Polo Nord e l'esistenza di crateri completamente spianati, appena
disegnati su un piano orizzontale.
Marte ha due calotte che si estendono su tutto il territorio circostante i poli. Queste sono
costituite da depositi temporanei di anidride carbonica congelata, che variano notevolmente la
propria estensione con il succedersi delle stagioni (coprendo dal 30% a meno dell'1% dell'area
emisferica superficiale). Inoltre nella calotta settentrionale, quando in estate gran parte
dell'anidride carbonica sublima nell'atmosfera, appare una massiccia calotta sottostante
probabilmente composta da ghiaccio d'acqua.
Struttura interna e Campo magnetico
La struttura interna di Marte non è ancora ben nota. La densità media, lo schiacciamento
polare e la velocità di rotazione consentono di ritenere che un nucleo di ferro e solfuro di ferro
con un raggio dell'ordine di 1700 Km sia sovrastato da un mantello più denso di quello
terrestre, e da una crosta spessa circa 200 Km. Il pianeta deve aver perso da tempo gran
parte del suo calore interno e quasi sicuramente non presenta un nucleo liquido. Ciò ha
l'importante conseguenza di impedire che si generi un intenso campo magnetico; infatti è
possibile determinare solo un limite superiore al campo di dipolo pari allo 0.003 % di quello
terrestre.
Tuttavia un debole magnetismo residuo è stato rivelato dal Mars Global Surveyor nelle rocce
più antiche, indicando che Marte aveva un campo magnetico (ed un nucleo liquido) in un
lontano passato. Analizzando il campo magnetico a bande nella Terra Cimmeria e Terra
Sirenum si sono trovate bande magnetizzate analoghe a quelle dei fondali degli oceani
terrestri ove è attiva la tettonica a zolle.
L'atmosfera e il clima
L'aspetto irreale del paesaggio marziano è in gran parte dovuto allo strano colore del cielo: la
rarefatta atmosfera è incapace di trattenere le radiazioni solari blu e violette che rendono il
cielo terrestre così azzurro, mentre, su Marte, le frequenti e violente tempeste di sabbia
lasciano una grande quantità di polvere in sospensione, colorando il cielo di rosa.
Le osservazioni delle sonde russe Mars 2 e 3 mostrarono l'esistenza di una ionosfera a 140
Km di altezza. Le Viking riscontrarono la presenza di anidride carbonica (95%) e, in minime
parti, di azoto (2,7%), argon (1,6%), monossido di carbonio, ossigeno e vapore acqueo.
Quest'ultimo è presente solo in tracce ed è soggetto a forti variazioni stagionali (le condizioni
attuali permettono la presenza di acqua solo sotto forma di ghiaccio e vapore), ma, a dispetto
della sua bassa concentrazione, è saturo e provoca la formazione di nubi di cristalli di
ghiaccio.
Queste nubi sono nella bassa atmosfera e più frequenti nell'emisfero dove è estate, perché la
concentrazione di vapore acqueo è maggiore. Vi sono inoltre altri tipi di nubi: cirri simili a quelli
terrestri, o di tipo ciclonico formate anche da CO2.
La temperatura della superficie è stata determinata mediante l'uso di frequenze radio
diversificate sulle varie regioni del pianeta, ed è, in media, di 218 K con variazioni (in buon
accordo con le previsioni teoriche) tra i 133 e i 300 K. Queste basse temperature, unite alla
bassa pressione atmosferica di circa 6 millibar, escludono la presenza di anidride carbonica
congelata in equilibrio nell'atmosfera; è anche per questo che il pianeta è così freddo.
Le principali cause delle alte escursioni termiche e di pressione sono:
- sabbia sollevata dalle tempeste,
- variazione della percentuale di luce solare non assorbita e riemessa dal pianeta (albedo).
In particolare, la variazione di temperatura nella parte più bassa dell'atmosfera diminuisce con
l'aumentare della quantità di polvere in essa presente. Le tempeste di polvere si sviluppano
tendenzialmente a cavallo del solstizio di estate per l'emisfero Sud, quando Marte è al perielio.
La spiegazione è legata alla forte eccentricità dell'orbita di Marte, che fa sì che al perielio il
pianeta assorba il 45% di energia in più rispetto all'afelio: da qui i grandi squilibri climatici, i
fortissimi venti e le grandi tempeste di sabbia che hanno influenza sul clima: durante queste
tempeste i venti sollevano fino ad altezze di 10-20 km la polvere che ricopre gran parte del
suolo marziano; la polvere in sospensione assorbe la radiazione solare provocando un
generale riscaldamento dell'atmosfera, il quale a sua volta genera forti venti. In questo modo
la tempesta si auto-alimenta e può arrivare ad estendersi su scala planetaria.
Successivamente la polvere, impedendo al calore solare di raggiungere il suolo, provoca un
raffreddamento della superficie. Allora i venti cessano, la tempesta si placa e la polvere torna
a depositarsi lentamente sulla superficie.
All'inizio degli anni 90 Marte è tornato ad essere oggetto di numerose osservazioni con il
telescopio spaziale Hubble; si è così notato che, rispetto ai tempi delle missioni Viking il clima
ha subito un brusco abbassamento termico di almeno 20°C e, contemporaneamente,
l'atmosfera è diventata più secca e trasparente.
La vita su Marte può aver respirato CO2. Entrambe le sonde Viking hanno prelevato campioni
di materiale che sono stati accuratamente analizzati ed i risultati non hanno inizialmente
evidenziato la presenza di materia organica complessa, ma recenti riesami dei valori lasciano
qualche speranza.
É anche possibile che un tempo l'aria marziana abbia contenuto notevoli quantità di ossigeno
oggi imprigionato nel suolo sotto forma di ossidi. In breve, tutti gli ingredienti di base per la vita
possono essere stati presenti su Marte in altre epoche,
I satelliti
I satelliti di Marte, Phobos e Deimos furono scoperti da Asaph Hall nell'Agosto del 1877; si
tratta probabilmente di asteroidi catturati dal campo gravitazionale del pianeta. Le loro
magnitudini visuali durante un'opposizione media (+11.5, +13) sarebbero accessibili anche ad
un normale telescopio, se non fosse per la loro estrema vicinanza al pianeta, in grado di
offuscarli con la sua luce. Entrambi si muovono lungo orbite che giacciono sul piano
equatoriale ed hanno rotazione sincrona (rivolgono al pianeta sempre la stessa faccia come la
Luna alla Terra).
Sia Phobos che Deimos hanno una forma triassiale, sono cioè delle specie di ellissoidi con i
tre assi di simmetria tutti diversi fra loro. Entrambi sono profondamente craterizzati, ma
Deimos ha un aspetto meno accidentato poiché le cavità sono riempite parzialmente da detriti
grossi almeno una decina di metri.
Deimos (dal greco: terrore)

E' il satellite più piccolo fra i due (circa 14 km di diametro). Ha un periodo orbitale di 30 ore e
17 minuti ed una distanza media dal pianeta di 23.400 km. La sua orbita descrive una spirale
che tende ad allontanarsi da Marte.

Phobos (dal greco: paura)

Il satellite Phobos ha le dimensioni 20x23x28 km,il periodo orbitale è di 7 ore e 40 minuti e la


sua distanza media da Marte è di 9380 km. La superficie di Phobos è percorsa da estese
depressioni lineari che sono correlate ad un grande cratere di una decina di chilometri di
diametro. La sua orbita descrive una spirale che tende, al contrario di Deimos, ad avvicinarsi a
Marte: tra circa 50 milioni di anni precipiterà sul pianeta.
GIOVE

Dopo il Sole, Giove è il corpo più grande e di massa maggiore del Sistema Solare .
Il suo diametro di riferimento è quello misurato tra i punti dell'atmosfera dove la pressione è di
1 bar.
Aspetto esteriore
Al telescopio si presenta di un giallo sfavillante, dominato da una coloratissima atmosfera
solcata da bande chiare, dette zone, e altre scure, dette fasce, caratterizzate rispettivamente
da nubi ascendenti calde e nubi discendenti fredde che si alternano come strisce parallele
all'equatore.
Una tale configurazione è il risultato della prevalenza, almeno fino alla latitudine di 60o, di venti
diretti verso levante o ponente, ovvero di correnti zonali. L'uniformità di questo disegno è
interrotta dalla cosiddetta Grande macchia rossa scoperta nel 1665 da Cassini, avente forma
ovale di 39 mila km di lunghezza per 14 mila km di larghezza.
La sua natura non è del tutto certa: dovrebbe trattarsi di una colonna di gas che si muove a
spirale verso l'alto, simile ad un uragano terrestre, accompagnata da una miriade di altre
formazioni metereologiche come, per esempio, strati di nuvole, celle convettive, correnti, getti,
vortici e altre macchie minori, di dimensioni varie e velocità relative fino a 130 m/sec.
Pare che essa si stia riducendo ad un ritmo di 100 Km all'anno, mentre le variazioni di colore
sembrano seguire un ciclo trentennale con passaggi da un rosso mattone acceso ad un rosa
verdastro appena percettibile, tale variazione è probabilmente dovuta alla presenza di fosforo
rosso o zolfo; non essendo mai scomparsa ha certamente un'età di almeno 300 anni. Altri tre
ovali chiari sono recentemente apparsi più a Sud, mentre diverse strutture analoghe sono
durate per mesi o anni.
Esplorazioni dell'atmosfera
Per esplorare in modo diretto Giove nel 1989 è stata lanciata la sonda Galileo, comprendente
un' astronave madre, Orbiter, e un modulo di discesa, Probe, che è stato fatto cadere sul
pianeta il 7 dicembre 1995 attaccato a un paracadute, attraversando l'atmosfera e
raggiungendo una pressione di 24x105 Pa (circa 24 volte quella sulla Terra a livello del mare);
in quel punto la temperatura era di 100 K (comunque lontani dal punto critico di liquefazione
dell'H, che a quella pressione è di 10 K).
Probe ha trasmesso dati preziosi, che hanno modificato le nostre conoscenze di Giove. Le
dense nubi sono immerse in un'atmosfera costituita da idrogeno molecolare, elio e in minima
parte da metano, ammoniaca e acqua. Sono proprio questi ultimi che combinandosi con gli
atomi di idrogeno danno alle nubi il loro colore caratteristico.
Poichè l'accelerazione gravitazionale di Giove è superiore di quella degli altri pianeti giganti
gassosi, la sua atmosfera è la più compressa negli strati più interni e nello stesso tempo la più
sottile in quelli più alti. La temperatura nella termosfera, al livello corrispondente a 0,1 bar, è di
circa 100 K.
La tempestosità di Giove è testimoniata dalla presenza di lampi molto intensi fotografati dai
Voyager sul lato non illuminato del pianeta che Probe ha rilevato essere, tuttavia, in numero
inferiore a quelli terrestri (da 3 a 10 volte inferiore che sulla Terra).
La loro esistenza unita ai principali elementi costituenti la Grande Macchia Rossa, in seguito
ad esperimenti di laboratorio, hanno rilevato la presenza di nitrile, principale costituente degli
amminoacidi.
La sonda Galileo ha analizzato l'atmosfera gioviana nell'infrarosso ; in base ai suoi dati si è
stimato che alla base dell'atmosfera, cioè a 14.000 km dalla sommità delle nubi, a causa di
alte pressioni (circa 2x1011 Pa) e densità, esista un oceano di idrogeno molecolare ed elio
atomico liquidi con densità pari a quella dell'acqua sulla superficie terrestre e temperatura di
6000 K.
Infatti, in queste condizioni, i legami atomici e molecolari si modificano e si genera un liquido
opaco alla radiazione e conduttore di corrente, talmente simile ad un metallo fuso da essere
stato chiamato idrogeno metallico liquido.
Un altro risultato della sonda Galileo è l'aver rivelato che la composizione chimica
dell'atmosfera di Giove non è del tutto analoga a quella del Sole, infatti il rapporto He/H è
0.156 e sono presenti metano ammoniaca ed acqua.
Interno
L'abbondanza di elio è poco più della metà di quella della fotosfera solare e si è pensato che
l'elio mancante si sia spostato lentamente verso il centro del pianeta aumentando così
l'energia irradiata da Giove (circa 2 volte e mezza quella ricevuta dal Sole).
L'eccesso di energia emessa potrebbe anche essere il prodotto residuo della contrazione
seguita al collasso gravitazionale, avvenuto durante il primo stadio della sua formazione. Si
ritiene che, se Giove avesse avuto una massa circa 13 volte maggiore, la contrazione subita
sarebbe stata sufficiente a innescare un processo di fusione nucleare (nana bruna).
L'interno di Giove ha una triplice struttura: un nucleo roccioso, che potrebbe essere servito
nella fase iniziale della formazione del pianeta come un nucleo di condensazione, circondato
da uno strato di idrogeno metallico liquido e da uno strato di idrogeno molecolare liquido.
L'idrogeno diventa metallico, cioè capace di condurre l'elettricità, in seguito alle altissime
pressioni, che rendono la materia degenere.
Campo magnetico
Giove esercita potenti forze magnetiche su una vasta regione dello spazio circostante. La sua
magnetosfera è così estesa che, se fosse visibile, apparirebbe nel cielo più grande della Luna
piena.
Si ritiene che l'intenso campo magnetico (pari a 4 Gauss all'equatore), la cui causa sembrano
essere i moti convettivi all'interno dello strato di idrogeno metallico, faccia da barriera alle
particelle cariche del vento solare e le costringa a deviare per evitare l'invisibile ostacolo. Sul
suo bordo anteriore, volto verso il Sole, si forma un'onda d'urto; dalla parte opposta il campo
magnetico interplanetario trasportato dal vento solare si fonde con quello di Giove, formando
una lunga e turbolenta "coda magnetica" che si estende fino a intersecare l'orbita di Saturno.
All'interno della magnetosfera le particelle cariche ivi intrappolate formano delle intense e letali
fasce di radiazioni, pericolose perfino per l'incolumità dei circuiti elettronici delle sonde che vi
si sono avventurate.
Tali particelle non sembrano provenire dal vento solare, bensì dalle emissioni vulcaniche del
satellite Io che, come gli altri satelliti galileiani, si muove all'interno della magnetosfera.
Gli anelli
All'interno dell'orbita di Giove, le sonde Voyager hanno scoperto deboli anelli di polvere, a soli
50 mila km sopra le nubi del pianeta. Essi sono costituiti da tre componenti dall'aspetto
diverso.
Verso l'esterno c'è un anello relativamente brillante il cui bordo è nettamente definito e vicino
ad esso si nota una banda più luminosa di tutto il resto. Al massimo l'anello intercetta lo
0.001% della luce solare, cioè è praticamente trasparente ad essa, il che spiega la sua debole
luminosità.
Verso l'interno degrada in un disco diffuso che si estende poi con luminosità calante dal bordo
dell'anello brillante spegnendosi alla fine dell'atmosfera del pianeta.
Le particelle degli anelli sono scure e rossastre come molti asteroidi e satelliti del Sistema
Solare esterno. Ancora più piccole sono probabilmente le particelle che compongono l'alone, il
cui movimento sembra influenzato in modo importante dal campo magnetico del pianeta. Le
particelle immerse nella magnetosfera di Giove tendono ad acquistare una carica elettrica
negativa e di conseguenza sono soggette a forze magnetiche che dipendono dalla loro
velocità e producono effetti rilevanti sulle particelle più piccole.
Il fatto che l'asse magnetico di Giove sia inclinato di circa 10 gradi rispetto all'asse polare fa sì
che queste forze abbiano una componente perpendicolare al piano equatoriale e ciò può
spiegare perché le particelle più piccole tendano a diffondersi in un alone piuttosto esteso.
Si ritiene che esso sia il risultato della parziale disintegrazione di uno o più dei piccoli satelliti
che ora sappiamo orbitare sul bordo esterno degli anelli.
I satelliti
Nel 1610 Galileo scoprì quattro satelliti molto luminosi oggi chiamati satelliti galileiani: Io,
Europa, Ganimede e Callisto . Il loro diametro apparente è compreso tra 1.03" di Europa e
1.72" di Ganimede, passando per i valori intermedi di Io 1.20" e Callisto 1.57".
Nel 2003, anche grazie alle missioni Voyager, conosciamo 40 satelliti, ma il loro numero è in
continuo aumento.

Radius Mass Distance


Moon # Discoverer Date
(km) (kg) (km)
Metis XVI 20 9.56e+16 127,969 S. Synnott 1979
Adrastea XV 12.5x10x7.5 1.91e+16 128,971 Jewitt-Danielson 1979
Amalthea V 135x84x75 7.17e+18 181,300 E. Barnard 1892
Thebe XIV 55x45 7.77e+17 221,895 S. Synnott 1979
Io I 1,815 8.94e+22 421,600 Marius-Galileo 1610
Europa II 1,569 4.80e+22 670,900 Marius-Galileo 1610
Ganymede III 2,631 1.48e+23 1,070,000 Marius-Galileo 1610
Callisto IV 2,400 1.08e+23 1,883,000 Marius-Galileo 1610
Leda XIII 8 5.68e+15 11,094,000 C. Kowal 1974
Himalia VI 93 9.56e+18 11,480,000 C. Perrine 1904
Lysithea X 18 7.77e+16 11,720,000 S. Nicholson 1938
Elara VII 38 7.77e+17 11,737,000 C. Perrine 1905
Ananke XII 15 3.82e+16 21,200,000 S. Nicholson 1951
Carme XI 20 9.56e+16 22,600,000 S. Nicholson 1938
Pasiphae VIII 25 1.91e+17 23,500,000 P. Melotte 1908
Sinope IX 18 7.77e+16 23,700,000 S. Nicholson 1914

GIOVE: i satelliti
Dei 16 satelliti gioviani i 4 galileiani hanno orbite quasi circolari (e < 0.01) e poco inclinate
rispetto al piano equatoriale del pianeta mentre gli 8 ad essi più esterni hanno eccentricità
maggiore ed orbite più inclinate; presumibilmente sono asteroidi catturati dal pianeta. Quattro
di questi, Ananke, Carme, Pasiphae e Sinope hanno anche moto retrogrado.
Mentre Io e Europa sono per lo più composti di silicati, la bassa densità di Ganimede e Callisto
indica la presenza di un miscuglio di silicati e ghiaccio, in quantità approssimativamente
equivalenti.
Il fatto che la percentuale di sostanze volatili (in particolar modo il ghiaccio d'acqua) presenti
nei satelliti galileiani cresca man mano che ci si allontana da Giove è testimoniato dalle loro
densità via via decrescenti (Io: 3.53 g/cm3, Europa 2.99 g/cm3, Ganimede 1,94 g/cm3 e
Callisto 1.85 g/cm3). Questa interessante progressione è, con ogni probabilità, connessa con
la formazione e l'evoluzione di Giove che in passato, per contrazione gravitazionale, deve
essere stato molto più caldo di quanto non sia attualmente.
Questa logica asserzione è però in contrasto con la teoria della formazione di Giove più
accreditata, che prevede l'iniziale formazione di un protopianeta di rocce e ghiaccio dalla nube
circumsolare ed il successivo accrescimento di elementi più leggeri (Encrenaz 2001). "Dai più
recenti studi ottenuti dalla sonda Galileo, tutti gli elementi (eccetto l'ossigeno che è un caso
particolare) sembrano arricchiti in Giove di un fattore da 2 a 3 rispetto al Sole. Tuttavia, studi di
laboratorio mostrano che l'azoto (N) e l'argon (Ar) possono essere catturati in ghiacci solo a
temperature inferiori a 30 K. Il fatto che N ed Ar esibiscano lo stesso accrescimento del
carbonio e di altri elementi, implica che i planetesimi che arricchirono Giove si formarono a
bassissima temperatura, più bassa di quella della regione di Urano-Nettuno che è di circa 55
K. Come può essere accaduto ciò a 5 AU dove la temperatura di equilibrio è vicina a 100 K?
La temperatura a 5 UA era più bassa in passato? La storia dei planetesimi che formarono i
pianeti giganti è ancora aperta" (Owen & al. 1999) citato da (Encrenaz 1999). Alla stessa
conclusione arriva Johnson (2000), ipotizzando un avvicinamento di Giove al Sole, citando
l'articolo "Migrating Planets" di Malhotra (1999).
Io
Io ha una superficie di vari colori: dal giallo all'arancione, dal rosso al bruno. Esso presenta la
più spettacolare attività vulcanica di tutto il Sistema Solare con tanto di eruzioni, caldere
vulcaniche e probabilmente anche laghi di zolfo fuso.
Tuttavia, sembra che alcuni vulcani di Io si comportino in modo più simile a dei geyser che non
ai vulcani terrestri: in un geyser, l'acqua sperimenta una rapida transizione di fase dallo stato
liquido a quello gassoso, ed il vapore così generato viene eiettato ad alta velocità verso la
superficie. Su Io, però, il ruolo dell'acqua viene svolto probabilmente dallo zolfo e dal diossido
di zolfo (SO2): queste sostanze sono in effetti state individuate nei venti vulcanici e nella tenue
atmosfera del satellite (Carroll-Ostlie 1996).
I recenti sorvoli a bassa quota della sonda Galileo hanno permesso, infatti, di rilevare che
l'SO2 si presenta in masse di 15-20 molecole, simili a fiocchi di neve, raggiungendo anche una
quota di 500 km (Science@NASA 16 Oct.2001). Hanno permesso anche un maggior dettaglio
spaziale, facendo rilevare una temperatura del magma in uscita dai vulcani di 1800-2000 K,
almeno 300 K in più della lava terrestre (1500 K). La Terra potrebbe aver sperimentato una
simile temperatura della lava nei primi periodi di formazione. Ciò ha sorpreso gli scienziati
perché lo zolfo vaporizza a 700 K e si pensava che tutte le emissioni fossero solforose! La
lava deve essere quindi basaltica (Science@NASA 4 Oct.1999).
Pur avendo un raggio piuttosto grande (1815 Km), le sue dimensioni da sole non spiegano
come può essere tanto caldo da presentare questa intensa attività vulcanica; si è ipotizzato un
riscaldamento dovuto all'effetto mareale causato dalla rotazione attorno a Giove e favorito
dalla risonanza 1:2:4 fra il periodo di Io (1.77 d) e quelli di Europa (3.54 d) e di Ganimede
(7.15 d).
Tra i satelliti galileiani, Io è quello che interagisce maggiormente con il campo magnetico di
Giove, essendo il più vicino al grande pianeta. Dal momento che Io ruota in 1.77 giorni intorno
a Giove, il quale ha un periodo di rotazione di circa 10 ore, si ha che la luna ne attraversa il
campo magnetico alla considerevole velocità di circa 57 km/s: applicando la legge di Faraday,
si calcola che questo induce una differenza di potenziale di ben 600 kV tra un estremità e
l'altra del satellite! Questa differenza di potenziale genera una corrente di 106 Ampere che
fluisce lungo le linee del campo magnetico tra Io e Giove, e produce per effetto Joule un
riscaldamento della luna (il processo è esattamente analogo a quello che produce il
riscaldamento di una resistenza percorsa da corrente). Tuttavia, il calore così generato
rappresenta solamente una frazione molto piccola (circa 1/1000) dell'energia totale emessa
ogni secondo dalla superficie di Io, che ammonta a circa 1014 J/s (Carroll-Ostlie 1997). La
temperatura superficiale di Io è di circa -180 °C, con modeste variazioni tra il giorno e la notte
(Heil 2000).
La struttura nota come Toro di Io (in inglese "Io Torus") è costituita prevalentemente da nubi di
zolfo e sodio che orbitano intorno a Giove all'altezza dell'orbita di Io. Per spiegare l'esistenza
di questa struttura, ed anche il fatto che nel campo magnetico gioviano siano intrappolate un
gran numero di particelle cariche, è stato proposto un processo noto come "sputtering" [in
italiano il verbo "to sputter" si traduce in modo piuttosto infelice, ma quì ha il senso di
"scalzare"]: alcuni ioni di zolfo e di ossigeno provenienti dalla magnetosfera di Giove riescono
a colpire l'atmosfera e la superficie di Io con tale energia da liberare altri atomi di zolfo,
ossigeno, sodio e potassio. Si è stimato che un numero molto elevato di ioni (compreso tra
1027 e 1029) riesca ogni secondo a sfuggire all'attrazione gravitazionale di Io! Un'altra
proposta per spiegare questi fenomeni afferma invece che gli ioni potrebbero essere emessi
direttamente dagli attivissimi vulcani di Io; questa teoria tuttavia gode di minor credito della
precedente, in quanto generalmente le particelle scagliate in aria nel corso di un'eruzione
vulcanica hanno velocità molto inferiori alla velocità di fuga della luna gioviana.
La navicella Galileo ha osservato il pennacchio di un'eruzione in corso permettendo così di
verificare che l'attività vulcanica produce sensibili mutamenti delle strutture superficiali su
tempi scala dell'ordine di pochi anni.

Europa
Europa, situata in un'orbita più esterna di Io, presenta probabilmente un nucleo di silicati ed
uno strato esterno di acqua, ghiacciata in superficie e, si suppone, liquida in profondità.
Si ritiene che il calore necessario per avere acqua allo stato liquido sia generato dalle
interazioni mareali tra Europa, gli altri satelliti galileiani e Giove. Le medesime forze di marea
sono probabilmente la causa delle lunghe spaccature (ben visibili nelle immagini) che solcano
la superficie ghiacciata di Europa.
Dal numero di comete le cui orbite incrociano quella di Giove, Eugene Shoemaker ha stimato
che un cratere di oltre 10 km di diametro, dovrebbe formarsi su Europa mediamente ogni 1.5
milioni di anni. Una estrapolazione fa assommare il numero di grandi crateri su Europa a 45,
per cui la sua superficie non dovrebbe avere più di 30 milioni di anni.
Il ghiaccio non presenta zone di subduzione e quindi il rinnovamento non avviene, come sulla
Terra, per grandi zolle ma per fratturazioni locali con riempimento di rifts da parte del ghiaccio
più fluido sottostante. Il suo colore scuro denota una certa ricchezza di minerali inglobati.
La sonda Galileo ci ha fornito anche analisi spettrali delle grandi macchie rosso scuro, che
presentano analogie con lo spettro di laboratorio del solfato di magnesio.
I crateri da impatto presentano la caratteristica forma, ghiacciata, delle onde concentriche
provocate dal 'sasso in uno stagno'. Si desume che i crateri vengano immediatamente riempiti
dai fluidi sottostanti.
Nelle immagini dettagliate si notano anche piccoli altipiani sollevati da colonne di ghiaccio
(diapiri) o acqua, per effetto convettivo.
Il 3 /1/2000 Galileo è passata a soli 350 km da Europa ed ha analizzato accuratamente anche
la magnetosfera.
I Satelliti ruotano nell'intenso campo magnetico gioviano che induce correnti elettriche nel
loro interno le quali, a loro volta, producono un campo magnetico locale. Quello di Europa ha i
poli presso l'equatore geografico ed essi si invertono ogni 5 ore e mezza. Dal fatto che, inoltre,
non siano geograficamente stabili si è dedotto che le correnti scorrano in un fluido: una
conferma della presenza di un oceano salato sotto i ghiacci. Europa presenta ai poli, di
notte, un eccesso di temperatura di 5 °C, rispetto ai calcoli teorici. E' una conferma del calore
endogeno di Europa dovuto, in larga parte, alle azioni mareali di Giove e degli altri satelliti.
In futuro si prevede di inviare verso Europa una sonda che, 5 anni dopo, s'inserirà in orbita a
200 km di altezza. Rileverà, tra l'altro, l'altitudine dei ghiacci. Se le variazioni mareali
risulteranno di 30 m, vorrà dire che esiste un oceano liquido; in caso contrario la variazione
sarà di un solo metro (Pappalardo et al., 1999).
Il prof. Robert Pappalardo dell'Università del Colorado, USA, ritiene che esista un oceano
molto profondo sotto una crosta di 20 km di ghiaccio. Dai dati inviati recentemente dalla sonda
Galileo e dalla elaborazione di precedenti immagini egli valuta molto attivo il rinnovamento dei
ghiacci di Europa, con risalita dei liquidi o ghiacci sottostanti non solo nelle fessure tra i blocchi
ma anche come 'diapiri' di materiale più caldo. Si sono rilevati infatti, nell'emisfero nord, delle
"lenticulae", del diametro di circa 10 km, di colore scuro, che fanno pensare ad una risalita
dovuta ad un fenomeno di tipo vulcanico od idrotermale. Egli valuta che già al di sotto di circa
2 km vi possano essere temperature che consentano, ad eventuali organismi, di sopravvivere
al viaggio e che anche un esame biologico del materiale di risalita potrebbe essere rivelatore,
senza dover perforare 20 km di ghiaccio per raggiungere l'oceano. (Pappalardo, 2002)
La superficie di Europa è disseminata di blocchi (domes) di ghiaccio alti circa 100 m e del
diametro di circa 10 km, anche in clusters, che si possono formare per anomalie termiche
sottostanti in ambiente ricco di sali. "Siamo eccitati dalla nostra ricerca, perchè pensiamo che
sia possibile rilevare forme di vita presente o passata o anche solo la composizione chimica
dell'oceano portata in superficie e formante questi blocchi" (Pappalardo, 2003).
Ganimede

Ganimede è il satellite più grande di tutto il Sistema Solare avendo un diametro di 5276 Km e
una massa 2.03 volte quella della Luna.
La mappa di Ganimede (che rivolge al pianeta sempre la stessa faccia) mostra crateri, solchi,
aree chiare e scure nettamente differenziate mai osservate in altri corpi celesti . Pare inoltre
che nessun rilievo della superficie si innalzi per più di un chilometro sul livello medio, anche se
i crateri da impatto più recenti raggiungono depressioni di 3-5 Km.

Le aree scure (o regioni) occupano circa il 40% della superficie e sono riccamente
craterizzate, quindi probabilmente sono le più antiche. Si può inoltre notare la presenza di un
complesso intrico di "pieghe" che sembrano fratturare finemente la superficie. Esse sono in
realtà piccoli solchi, profondi qualche centinaio di metri e larghi una decina di chilometri, simili
agli sprofondamenti della crosta terrestre tra faglie parallele (detti graben) e la cui disposizione
non è affatto casuale. Le zone chiare, invece, appaiono costituite da sistemi di solchi paralleli,
talvolta intersecantisi in modo complesso.
Le immagini fornite dalla sonda Galileo mostrano che l'attività effusiva probabilmente è stata
più consistente di quanto si pensasse, e che ha creato anche nel terreno craterizzato ampi
pianori. L'attività tettonica ha inoltre prodotto l'innalzamento di rilievi e la creazione di aree
pianeggianti. Lo spettrometro e il magnetometro a bordo della sonda hanno inoltre evidenziato
la presenza inequivocabile di una vera e propria magnetosfera, popolata di particelle cariche.
Callisto
Dopo Ganimede e Titano, Callisto è il terzo satellite del Sistema Solare per dimensioni,
avendo un diametro di 4848 Km.La sua superficie è in media relativamente scura, riflettendo
solo il 17% della luce solare incidente (meno della metà degli altri satelliti galileiani, ma
sempre più della nostra Luna). Essa è ricchissima di crateri da impatto, e non mostra, da un
punto di vista geologico, fratture o "placche" crostali distinte.
Le strutture più appariscenti sono i bacini chiari formati da numerosi anelli concentrici, disposti
evidentemente intorno ai siti dei maggiori impatti meteoritici, il più grande dei quali è
denominato Valhalla. La formazione di queste strutture avvenne subito dopo gli impatti, a
causa del simmetrico propagarsi verso l'esterno delle potenti onde d'urto generate dalle
immani esplosioni susseguenti agli impatti stessi: queste onde d'urto, oltre a creare nella zona
centrale una cavità (il vero e proprio cratere), deformarono simmetricamente tutto lo strato
superficiale in una vasta regione circostante, creando in questo strato (solido) una struttura
simile alle onde che nascono quando si getta un sasso nell'acqua. La sua densità (1.79 g/cc),
inferiore a quella di Ganimede, indica che lo strato di ghiaccio è più spesso che negli altri
satelliti galileiani.
SATURNO
Fra i 5 pianeti visibili ad occhio nudo, noti fin dall'antichità, Saturno, osservato al cannocchiale
da Huygens nel 1655, mostrò uno degli spettacoli più seducenti del cielo: uno splendido
sistema di anelli.
In base alla massa, al raggio ed alla struttura interna, i pianeti giganti possono essere
suddivisi in due coppie: Saturno-Giove ed Urano-Nettuno. Mentre il raggio di Saturno, pari a
9.5 volte quello terrestre, è di poco inferiore a quello di Giove, la sua massa è meno di 1/3 di
quella di Giove, perchè la sua densità media è la più piccola di tutti i pianeti. Saturno presenta
il più forte rigonfiamento equatoriale dovuto sia alla rapida rotazione che alla fluidità del
mantello esterno.
Le conoscenze del pianeta hanno raggiunto un buon livello solo 20 anni fa, grazie alle sonde
Pioneer 11 (1979), Voyager 1 (1980), Voyager 2 (1981), che è transitata a circa 6 volte il
raggio di Saturno, presso l'orbita del satellite Dione ed al Telescopio Spaziale Hubble (HST).
Si è visto che è il pianeta con il maggior numero di satelliti (18 quelli ufficiali).
Atmosfera
Come negli altri pianeti giganti, l'inizio dell'atmosfera viene fissato nello strato avente la
pressione di un bar; in questo punto la temperatura è di 134 K e scende a meno di 100 K ad
una quota di circa 110 km, dove la pressione è di circa 0.1 bar. Al di sopra di questa quota
inizia la mesosfera dove la temperatura riprende a crescere.
L'atmosfera di Saturno, in massa, è costituita da idrogeno molecolare per il 92.5% ed elio per
il 6.0%. Il restante 1.5% è costituito da metano ammoniaca ed acqua in percentuali simili a
quelle di Giove.
Saturno, come Giove, irradia verso l'esterno più energia di quanta ne riceva dal Sole;
nell'infrarosso, il valore raddoppia rispetto al visibile. Questo eccesso di energia è dovuto
principalmente alla trasformazione in calore dell'energia potenziale dell'elio che sedimenta
verso l'interno. Questo processo spiega la scarsità di elio nell'atmosfera rispetto agli altri
pianeti giganti (1/4 rispetto a Giove).
La temperatura è più alta al Polo Sud ed ha un 'Hot point' a soli 3° dal polo (Orton 2005).
Esternamente Saturno si presenta con varie fasce colorate (evidenziate in immagini a falsi
colori), indice di una differente composizione chimica delle nubi più alte. L'idrogeno, legandosi
con carbonio ed azoto, forma idrocarburi ed ammoniaca. Le sonde Voyager hanno, inoltre,
rilevato la presenza dei composti di idrogeno con fosforo ed ossigeno. Sono stati poi
individuati composti come l'idruro di germanio e l'arsina, presenti in concentrazioni
infinitesimali, che, prodotti in profondità, dove i valori di temperatura e pressione sono più
elevati, conferiscono a Saturno la sua colorazione giallastra.
Le immagini nell'infrarosso ci permettono di distinguere le nubi fredde, quindi alte, da quelle
calde, situate a quote più basse. Questo sistema nuvoloso è meno appariscente di quello
gioviano.
La sonda Cassini ha rilevato notevoli quantità di metano, in profondità nell'atmosfera.
Nonostante il loro aspetto uniforme, si nota che le fasce nuvolose sono talvolta interrotte da
giganteschi vortici, macchie, che raggiungono velocità di circa 1500 km/h, che hanno origine
nella parte più interna dell'atmosfera. Il colore di queste bande è dovuto alla loro
composizione: il biancastro delle nubi più alte è legato all'ammoniaca, mentre il bruno di quelle
più basse al solfuro di ammonio. Infine, l'azzurrino di alcune zone è dovuto alla presenza di
cristalli d'acqua.
Meteorologia
La rapida rotazione di Saturno e l'inclinazione di 27° dell'equatore rispetto al piano dell'orbita
sono i due fattori che principalmente influenzano l'atmosfera saturniana.
Le sonde Voyager hanno misurato velocità di venti che, all'equatore, raggiungono punte di
500 m/s. Sono stati, inoltre, osservati anche dei venti zonali a latitudini di 30°,50° e 60° nord
e sud con velocità di 100-150 m/s; dato che a latitudini di 40°, 58° e 70° soffiano venti diretti in
direzione contraria, si determinano, come su Giove, delle zone di instabilità.
La vera particolarità di Saturno, è, comunque, la sua perfetta simmetria nella distribuzione dei
venti nei due emisferi, nonostante i 27° di inclinazione. Questo dovrebbe, in teoria, causare
una alternanza di stagioni, proprio come sulla Terra. Questo lo si può spiegare tenendo
presente la sua lontananza dal Sole, la cui radiazione è troppo debole per poter influenzare
l'atmosfera.
Fra le varie macchie ovali identificate in entrambi gli emisferi, se ne può mettere in evidenza
una, la Nube Ovale Rossa, nota anche come "Macchia di Anna", posta a 55° sotto
l'equatore di dimensioni di 5000x3000 km, che è analoga alla Grande Macchia Rossa di
Giove. Il suo colore rosso lascia pensare alla presenza di fosforo. Una possibile spiegazione
della loro longevità è che questi vortici siano collegati ad un sistema molto più profondo e
stabile che si sviluppa in verticale, rendendolo così in grado di resistere alle perturbazioni.
Struttura interna
Saturno, come tutti i pianeti giganti, è prevalentemente gassoso; le osservazioni delle sonde
Voyager inducono però a pensare alla presenza di un nucleo centrale roccioso, di circa 0.2
raggi planetari (delle dimensioni della Terra), formato da ossido di magnesio, silice ed ossido
ferroso, che conterrebbe circa il 26% della massa totale del pianeta. La densità media, 0.69
g/cm3, è minore dell'acqua.
Secondo i modelli più attendibili il nucleo, dove la temperatura raggiunge 11 mila Kelvin e la
pressione 20 milioni di bar, è circondato da un involucro di idrogeno molecolare allo stato
metallico, che giunge fino a metà del raggio; qui la temperatura è di circa 4000 K e la
pressione è di 2 milioni di bar.
Campo Magnetico
Nel 1979, la sonda Pioneer 11 confermò l'esistenza di un campo magnetico (ipotizzato per la
presenza di idrogeno liquido che lo avrebbe prodotto per effetto dinamo), la cui intensità fu in
seguito misurata dalle Voyager: risultò essere 20 volte minore di quello gioviano e, quindi,
dell'ordine di quello terrestre. La sua particolarità sta, comunque, nel fatto che il suo asse
coincide quasi esattamente con quello di rotazione del pianeta. Alla sua conformazione
partecipano in maniera tutt'altro che trascurabile i satelliti maggiori, Titano con la sua
atmosfera, Rhea e gli anelli. Esso interagisce con il vento solare generando una magnetosfera
di dimensioni intermedie tra quella di Giove e quella della Terra.
La missione Voyager ha rilevato aurore polari simili a quelle terrestri, però situate anche a
media latitudine; per queste ultime non vi è ancora una spiegazione soddisfacente.
Saturno, come Giove, è una radiosorgente che emette impulsi di lunghezza d'onda variabile
da un centinaio di metri a qualche chilometro e con periodicità di 10h 39.4': effettivo periodo di
rotazione del pianeta.
Il sistema di anelli

Costituzione ed origine
Il sistema degli anelli di Saturno è costituito da sette zone: D, C, B, A, F, G, E, dalla più interna
alla più esterna (l'ordine alfabetico corrisponde all'ordine con cui sono stati scoperti). Sebbene
essi si estendano fino ad oltre 8 raggi di Saturno, i più luminosi sono incredibilmente sottili: il
loro spessore, infatti, arriva, al massimo, a 250 m. Gli anelli riflettono la luce solare più del
pianeta e contribuiscono, in modo rilevante allo splendore complessivo, che raddoppia quando
sono alla massima inclinazione. Le sonde Voyager hanno fatto vedere come gli anelli siano
costituiti da una miriade di particelle , formate da ghiaccio d'acqua che recano al loro interno
gas o micropolveri (come ossido di ferro) ed in minima parte da corpi che superano i 10 m.
Ogni particella ruota attorno al pianeta con un proprio periodo. .
Si pensa che i fenomeni responsabili della formazione degli anelli siano:
1. il residuo del materiale da cui si è condensato il pianeta, in quanto è probabile che durante
la sua formazione, data la grande velocità di rotazione, parte del materiale non si sia
addensato, restando legato a Saturno grazie alla sua forza gravitazionale;
2. gli anelli si sono formati successivamente in seguito alla frantumazione di un satellite
abbastanza grande (come Mimas), che ha superato il limite di Roche, o per lo scontro con un
asteroide o una cometa.
L' ultima ipotesi è la più probabile; infatti la massa totale degli anelli è prossima a quella di
Mimas. Non si spiegherebbe altrimenti come mai Saturno abbia lasciato durante la sua
formazione una quantità di materiale residuo tanto superiore a quella degli altri pianeti giganti.
Come è noto, Saturno non è il solo pianeta gigante fornito di sistema ad anelli; è strano, però,
che sia il solo ad averlo così sviluppato, dato che Giove, ad esempio, ha un sistema satellitare
altrettanto sviluppato, ma una fascia di anelli esigua.
I particolari
L'anello D è invisibile da Terra perché, essendo il più vicino al pianeta, è nascosto dalla sua
luminosità; esso risulta molto tenue e diffuso ed è totalmente staccato da Saturno. Pare che
sia costituito da frammenti ghiacciati, forse prodotti da collisioni tra particelle più grandi,
rallentate dall'atmosfera ed ora in orbita stabile.
Il secondo anello, il C, detto anche anello di velo, è esteso ma poco visibile in quanto le
particelle che lo costituiscono riflettono poco la luce che giunge dal Sole. Presenta una
struttura complessa; è infatti composto da tanti microanelli indipendenti (struttura simile a
quella di un disco microsolco).
La stessa conformazione si rileva anche nell'anello B, che è molto più esteso e vistoso del
precedente; le sue particelle sono infatti opache alla luce e la riflettono; inoltre sono
interessate da fenomeni periodici: si nota da Terra la creazione di zone scure cuneiformi
dirette radialmente (Spokes) che sembrano originate dalla diversa velocità della materia che
causerebbe urti con conseguenti variazioni delle posizioni.
Dopo l'anello B si trova una regione che pare priva di particelle, la divisione di Cassini; in
realtà un po' di materia è presente, ma riflette poco la luce che riceve. Oltre questa si estende
il diffuso e ben visibile anello A, che presenta come gli altri una struttura a microsolco. Al suo
interno, si nota una zona, scura, più stretta della divisione di Cassini, dove la densità del
materiale è molto bassa, detta divisione di Enke. Si pensa che le due divisioni siano originate
da perturbazioni di tipo gravitazionale (fenomeni di risonanza) prodotte dai tre satelliti più
interni Mimas, Encelado e Tetide; in particolare una particella che si muove nella divisione di
Cassini avrebbe un periodo pari alla metà di quello di Mimas, un terzo di quello di Encelado e
un quarto di quello di Tetide.
Grazie alle sonde sono stati scoperti altri anelli. In una zona molto distante si estende l'anello
F, non visibile da Terra in quanto è molto sottile. Esso presenta una struttura complessa
poiché è "sorvegliato" da due satelliti pastori (Prometeus e Pandora) che influenzano il moto
delle particelle, perturbando la loro orbita e causando la formazione di trecce, nodi ed
attorcigliamenti. Alcuni scienziati ritengono che questi agglomerati possano formare anche
delle mini lune.
I satelliti pastori sono molto importanti per mantenere gli anelli in posizione di equilibrio.
Un'altra coppia di satelliti pastori sono Epimeteo e Giano già scoperto da Dollfuss nel 1966.
L'anello G, molto distante dal precedente, è molto labile, ma risulta decisamente più regolare
ed uniforme degli altri (l'ipotesi è che ci possano essere mini lune nascoste al suo interno).
Ultimo anello è l'E, estremamente esteso e poco visibile, tranne che in una zona, che
corrisponde all'orbita del satellite Encelado, dove si nota grande densità di materiale (si pensa
che il satellite emetta, in seguito ad impatti di asteroidi, particelle ghiacciate che arricchiscono
il tenue anello).

I Satelliti

Saturno è circondato da un gran numero di satelliti di cui alcuni "immersi" negli anelli.
Attualmente, con elementi orbitali ben determinati, ce ne sono 18, ma ne sono stati osservati
molti altri: nel 2003 se ne conoscevano 30 e non si escludono ulteriori scoperte,
particolarmente dalla sonda Cassini-Huygens. Tutti i satelliti principali, eccetto Phoebe,
ruotano rivolgendo sempre la stessa faccia a Saturno (rotazione sincrona).
I due maggiori sono:
Rhea è il secondo satellite di Saturno per grandezza. La sua conformazione è molto simile a
quella di Dione (disseminato di crateri e albedo diverso per i due emisferi), come,
probabilmente, la sua storia.
Titano
Titano è il satellite più grande di Saturno, scoperto da Christiaan Huygens nel 1655, ma il
nome gli fu dato solo due secoli dopo da John Herschel. Il suo periodo di rivoluzione attorno a
Saturno è di 15.9 giorni. Inizialmente lo si riteneva il più grande di tutto il sistema solare. Le
successive ricerche gli fecero perdere questo primato (risultò, di poco, più piccolo di
Ganimede), ma portarono ad una scoperta eccezionale: Titano è fornito di atmosfera, il cui
rilevante spessore, caso unico nel sistema solare, rende invisibile la superficie, che è stato
possibile osservarla solo nell'infrarosso.
Le sonde Voyager sono state in grado di mettere in evidenza una differente colorazione dei
due emisferi: quello nord, più scuro e rosso, e quello sud, di splendore uniforme.
Data la particolare natura di questo satellite, per ottenere maggiori informazioni la sonda
Voyager I fu sacrificata per effettuare un passaggio ravvicinato. Questo passaggio fu però
eseguito ad un costo elevato: la sonda dovette rinunciare ad usufruire della fionda
gravitazionale di Saturno, perdendo quindi la possibilità di proseguire il suo viaggio verso
Urano e Nettuno.
Titano è costituito per metà di ghiacci e per metà di roccia. Infatti la sua densità (1.88 g/cm3) è
superiore a quella degli altri satelliti, indicando la presenza di un nucleo roccioso.
Atmosfera:
Titano possiede un'atmosfera 1.5 volte più densa di quella terrestre, composta per più del
90% da azoto molecolare e per il restante 8-10% da metano. Essa presenta tracce di almeno
una dozzina di composti del carbonio come: etano, propano, acetilene, etilene, oltre che
monossido di carbonio, acido cianidrico e cianoacetilene che, alla luce del Sole, si
decompongono, formando una nebbia molto simile al nostro smog. La chimica complessa che
si sviluppa, secondo molti studiosi è proprio la causa della colorazione arancione tipica del
satellite. Tra le caratteristiche peculiari dell'atmosfera di Titano vi è la presenza di aerosol,
particelle in sospensione di dimensioni circa mezzo millesimo di millimetro. La gravità del
satellite tende ovviamente a farli precipitare verso la superficie, favorendo l'aggregazione di
molecole complesse che si depositano.
Nell'atmosfera di Titano si riscontra inoltre la presenza di un esteso effetto serra, che rende la
superficie leggermente più calda di quanto ci si potesse aspettare. Le cause di questo
fenomeno sono i cosiddetti "gas-serra", come ad esempio il metano, componenti principali
dell'atmosfera di Titano. D'altro canto, questo processo di riscaldamento è controbilanciato
dalla presenza di componenti che diminuiscono l'effetto serra, come le nubi in alta atmosfera e
i già citati aerosol.
L'origine dell'atmosfera di Titano è probabilmente da far risalire ai primi momenti della
formazione del satellite, rimasta ad esso legata nonostante la bassa gravità (0.14 volte quella
terrestre) a causa della bassa temperatura alla quale si trova. Le sue condizioni attuali
sembrano analoghe a quelle della Terra diversi miliardi di anni fa e quindi favorevoli allo
sviluppo di composti organici, che poi, sulla Terra, possono aver dato origine alla vita.

Superficie:

La sua temperatura superficiale è di 94 K e sale fino ai 200 K nella stratosfera. Per spiegare
l'alta quantità di metano nell'atmosfera, si è subito pensato alla possibilità di oceani di metano
sulla superficie del satellite, visto che, senza una fonte in grado di rifornirla, il metano
contenuto nell'atmosfera verrebbe dissociato dai raggi ultravioletti nell'arco di poche migliaia di
anni. Il metano infatti, viene agevolmente scisso dagli UV solari nell'alta atmosfera, dando
luogo, mediante un processo di ricombinazione, ad altri idrocarburi quali etano e propano che
tendono, condensando, a precipitare nell'oceano di metano sottostante nel quale sono
miscibili, rendendolo quindi una miscela di vari idrocarburi.
Quest'idea avrebbe dalla sua il fatto che tale miscela è stabile e che avrebbe punto di
ebollizione molto vicino alla temperatura superficiale del pianeta, rendendo possibile una certa
evaporazione ed instaurando, quindi, una sorta di ciclo idrogeologico nel quale l'acqua
sarebbe sostituita da metano liquido. Tuttavia, una superficie liscia come quella di un oceano
non darebbe luogo ad echi radar forti come quelli registrati su Titano, che invece ben si
accordano con una superficie di ghiaccio d'acqua anche abbastanza corrugata.
Per verificare una tale ipotesi, si sono tentate osservazioni infrarosse, alle quali la spessa
atmosfera di Titano è parzialmente trasparente, ricavando dati che fanno supporre la presenza
di strutture permanenti, quali masse solide o addirittura continenti. Questo fatto potrebbe
essere confermato indirettamente anche dall'eccentricità dell'orbita del satellite, che nel caso
di una superficie completamente liquida si sarebbe dovuta circolarizzare da tempo a causa
degli attriti mareali.
Nell'ottobre del 1994, i ricercatori dell'équipe di Peter H. Smith (University of Arizona, Lunar
and Planetary Laboratory) individuarono per la prima volta, grazie alle immagini dell'HST, una
zona chiara di grandi dimensioni, una caratteristica poi successivamente confermata da
ulteriori osservazioni. Questa struttura, situata nell'emisfero "posteriore" rispetto a quello
rivolto verso il pianeta, ha circa le dimensioni dell'Australia, e potrebbe essere una massa
continentale costituita da ghiacci chiari, sulla cui natura si dovrebbe però indagare: la
presenza di idrocarburi e di polveri in sospensione, infatti, dovrebbe rendere scura ogni
struttura in superficie.
Dopo vari studi, si è giunti ad una convincente interpretazione di questa estrema brillantezza:
l'ipotesi chiama in causa un ciclo di precipitazioni oceano-continente, molto simili a quelle
osservate sulla Terra nelle catene montuose a ridosso degli oceani: gli idrocarburi evaporati
dagli oceani si condenserebbero sui continenti, dando luogo a precipitazioni che "pulirebbero"
i ghiacci dalle impurità, rendendoli estremamente brillanti.
Vi è quindi una serie di evidenze a sostegno dell'ipotesi di continenti chiari formati da ghiaccio
d'acqua, circondati da oceani di metano di colore tendente al nero, i quali instaurerebbero tra
loro un ciclo idrogeologico in qualche modo simile a quello presente sulla Terra.
Un'ultima conferma di questa teoria si ha negli studi del team di Caitlin A. Griffith, che ha
rilevato nubi in rapida evoluzione fino ad un'altitudine di circa 15 km, il cui ciclo d'evoluzione è
talmente rapido (alcune ore) che porta a pensare che si tramutino completamente in piogge.
A questo punto sorge tuttavia un problema: sulla Terra la formazione della nubi è in ultima
analisi dipendente dall'irraggiamento solare, che invece non può essere tirato in causa su
Titano, che dista poco meno di 10 U.A dal Sole, tanto più che è stato stimato che sul satellite
la differenza di temperatura tra i poli e le zone equatoriali non sia superiore a 3 K. Molti
studiosi, tra cui la stessa Caitlin Griffith, sostengono che un notevole contributo sia dato dal
calore latente, ossia quello liberato durante la condensazione di un gas: questa
interpretazione sarebbe in accordo con i dati ottenuti per l'atmosfera di Titano.
URANO
Urano fu scoperto nella notte del 13 marzo 1781 dal tedesco Wilhelm Herschel che lo
inquadrò casualmente nel suo telescopio mentre stava scrutando il cielo alla ricerca di stelle
doppie. In principio pensò si trattasse di una cometa, ma l'anno successivo Lexell e l'italiano
Barnaba Oriani mostrarono matematicamente come l'orbita dell'astro attorno al Sole fosse
pressoché circolare: si intuì dunque che si aveva a che fare con un pianeta. La scoperta di
Urano rappresenta una pietra miliare della storia dell'astronomia, infatti esso è il primo pianeta
individuato mediante un telescopio, in altre parole il primo non visibile ad occhio nudo.
Sebbene Urano sia stato scoperto più di due secoli fa, la conoscenza precisa dei suoi
parametri fisico-chimici è una conquista piuttosto recente; grande importanza in questo senso
ha avuto la spedizione della sonda Voyager 2 che giunse a contatto col pianeta nel 1986.
La sua caratteristica più originale è l'orientazione dell'asse di rotazione; esso è quasi giacente
sul piano dell'eclittica, quindi Urano rivolge alternativamente i due poli verso il Sole. La sua
inclinazione (98°) è tale da porre il polo nord, inteso secondo la convenzione della rotazione in
senso antiorario, al di sotto del piano orbitale, per cui il suo moto ci appare retrogrado. Questo
importante parametro fu misurato dall'inclinazione dei piani orbitali dei satelliti, i quali
giacciono sul piano equatoriale stesso: essi, infatti, non mostrano perturbazioni per il
rigonfiamento equatoriale del pianeta, che sarebbero invece presenti se si trovassero al di
fuori di esso. L'ipotesi più accreditata per spiegare questo fenomeno, unico in tutto il Sistema
Solare, è basata sulla collisione non centrale con un planetesimo di massa simile a quella
della Terra avvenuta quando Urano era ancora un disco protoplanetario, il che spiegherebbe
anche la stabilità del sistema pianeta-satelliti.
Atmosfera
Data la difficoltà di stabilire dove abbia inizio la superficie di Urano si assume, analogamente
agli altri pianeti gassosi, come quota di riferimento quella in cui la pressione raggiunge il valore
di 1 Bar. L'analisi dello spettro della luce solare riflessa dal pianeta ha rivelato che, a 1200
mBar, l'atmosfera è formata da idrogeno molecolare (83%), elio (15%) e metano (2%),
composizione che rispecchia quella della nebulosa solare primordiale ed è fredda e densa: la
temperatura minima, raggiunta nei pressi della quota di riferimento, è di 58 K. Al di sotto di tale
livello, alla profondità corrispondente alla pressione di 1600 mBar, è probabile che si formino
nubi di metano, ammoniaca ed acqua. Data la grande distanza dal Sole e la presenza di
correnti a getto simili a quelle terrestri non si riscontrano grandi differenze di temperature fra
l'equatore e i poli: contrariamente a quanto si può pensare sono questi ultimi ad essere più
caldi (circa 7 K di differenza) e ciò è dovuto all'anomala inclinazione dell'asse di rotazione.
Nonostante il numero limitato di formazioni nuvolose si sono potute calcolare le velocità dei
venti in funzione della latitudine, come già si era fatto per Giove e Saturno: i venti soffiano in
direzione dei paralleli e alle latitudini medie raggiungono i 180 m/s nella direzione di rotazione
del pianeta, mentre a latitudini inferiori i 100 m/s in senso opposto.

Struttura interna
La densità di Urano (1.29 g/cm3) è quasi uguale a quella di Giove, però, essendo la sua
massa 22 volte più piccola, si ritiene che non possieda uno strato di idrogeno metallico liquido
come Giove e Saturno.
Si ipotizza che abbia un nucleo roccioso composto da ferro e silicati del raggio di circa 7.500
km; esso è avvolto da un mantello di idrogeno molecolare, elio, metano ed ammoniaca (H2,
He, CH4 e NH3) allo stato liquido spesso circa 10.500 km, il cosiddetto "oceano", che
raggiunge le 200 atm di pressione e i 2.500 K. Infine, al di sopra di esso si trova uno strato
superficiale di idrogeno ed elio che sfuma gradatamente nell'atmosfera.
La teoria del nucleo roccioso non è universalmente accettata: i dati della sonda Voyager 2
hanno aperto la strada all'ipotesi della presenza, al suo posto, di una sostanza liquida
composta da acqua, ammoniaca e isopropanolo (CH3-CHOH-CH3) alla pressione di qualche
milione di atmosfere.
Dal confronto fra energia solare assorbita e riemessa, si è dedotto che Urano è l'unico pianeta
gigante a non avere una fonte interna di calore.
Campo magnetico
La particolarità del suo campo magnetico è, ancora una volta, l'orientazione dell'asse: esso è
spostato di circa 0.3 raggi uraniani dal centro e forma un angolo di 55° con quello di rotazione,
quindi i due poli si trovano a latitudini intermedie. Data l'insolita orientazione di Urano,
l'angolazione dell'asse magnetico rispetto all'eclittica non è dissimile da quella degli altri
pianeti.
L'intensità all'equatore è di 0.23 G, circa la metà di quello terrestre, e la magnetosfera si
estende per circa 600 mila km in direzione del Sole mentre dalla parte opposta forma una
coda lunga 6 milioni di km.
Poiché il campo magnetico segue la rotazione del pianeta, la coda si attorciglia nel piano
dell'eclittica; essa interagisce col plasma interplanetario creando particelle ad alta energia,
principalmente protoni ed elettroni, che determinano l'annerimento della materia organica
presente nei satelliti e negli anelli.
Le due peculiarità di Urano, ovvero l'inclinazione dell'asse di rotazione e di quello magnetico,
sono quasi certamente collegate: è possibile che il campo magnetico sia in parte di origine
fossile e in parte di origine interna. La situazione attuale sarebbe la risultante di un campo
magnetico residuo di quello presente nella nebulosa primordiale, perpendicolare al piano
dell'eclittica, e dell'effetto dinamo collegato alla rotazione del pianeta.
La discontinuità rilevata nell'emissione nella riga Lyman alfa alla lunghezza d'onda di 121.6
nm ha permesso la scoperta di aurore "equatoriali".
Tale fenomeno è causato dall'impatto del vento solare con la magnetosfera, che fa accelerare
gli elettroni delle fasce di radiazione sospingendoli verso i poli lungo le linee magnetiche e
facendoli urtare contro le molecole dell'atmosfera, con conseguente emissione di radiazione.
Anelli
La scoperta del sistema di anelli di Urano risale al 1977 quando l’occultamento di una stella da
parte del pianeta rivelò l’esistenza di nove strutture circolari. Esse vennero chiamate in ordine
di distanza crescente dal pianeta: 6, 5, 4, a, b, h, g, d, e.. Il successivo passaggio della sonda
Voyager 2 (1986) fornì molti dati utili sulle loro caratteristiche oltre a rivelare la presenza di un
altro anello denominato l, fra d ed e.
Tutta la materia del sistema è contenuta in un’ampia regione di spazio che si estende
radialmente per circa 9300 km, a partire da 38 mila km di distanza dal centro del pianeta. La
loro massa totale stimata è di 1018 – 1019 g e, al contrario dei più famosi anelli di Saturno,
sono strettissimi in estensione radiale (qualche chilometro, solo e raggiunge i 100 km in alcuni
punti) e anche piuttosto sottili: il loro spessore è dell’ordine di qualche decina di metri.
Almeno sei di essi sono inclinati rispetto al piano equatoriale, ma tipicamente di non più di
qualche centesimo di grado. Sono anche leggermente ellittici, con eccentricità variabile da
0.001 a 0.01. La forma oblata di un pianeta è sempre causa di una lenta precessione degli
anelli ellittici ed inclinati; nel caso di Urano essi precedono come una struttura rigida e ciò è
sorprendente poiché teoricamente fenomeni di questo tipo dovrebbero spingere più
velocemente il bordo più interno di quello esterno, rendendo quindi circolari gli anelli in non più
di qualche centinaio di anni. La loro forma ellittica deve quindi essere indotta continuamente
dagli anelli stessi o da alcuni satelliti, i cosiddetti "satelliti pastore": non è infatti da escludere la
presenza di piccole lune in questa regione, oltre alle già note Ophelia e Cordelia, che
potrebbero essere sfuggite agli strumenti del Voyager 2 e ai telescopi terrestri. Comunque,
sebbene modelli di questo tipo sembrino generalmente corretti, non si è ancora trovata una
spiegazione soddisfacente per questo fenomeno.
Si pensa che le particelle che li compongono varino dai 10 cm ai 10 m; la quasi totale
mancanza di polvere è determinata dalla presenza del gas dell’atmosfera di Urano la quale si
estende fino alla quota degli anelli: gli urti con le molecole gassose avrebbero fatto precipitare
le polveri verso il pianeta. Il loro colore scuro (albedo pari a circa 0.015), che ne ha reso
difficile l’individuazione, è dovuto alla presenza di un composto di carbonio misto ad acqua e
metano ghiacciati, in proporzioni diverse; tale composto si è costituito in parte nelle prime fasi
evolutive e in parte potrebbe derivare dal bombardamento per mezzo di particelle
magnetosferiche ad alta energia delle superfici dei satelliti che contengono materiale organico.
Satelliti
Circa sei anni dopo la scoperta di Urano, fu lo stesso Herschel nel 1787 a scoprirne i primi due
satelliti, Titania ed Oberon. Nel 1851 il telescopio di W. Lassel ne mostrò altri due, Umbriel
ed Ariel, ed infine quasi un secolo più tardi G. Kuiper scoprì Miranda (1948). Tra il 1985 e il
1986 la sonda Voyager 2 ne individuò ben altri dieci molto più piccoli, le mini-lune, oltre ad
analizzare le superfici dei cinque satelliti già noti.
Dopo la spedizione le ricerche sono continuate fruttuosamente tanto che, soprattutto grazie al
recente utilizzo del Telescopio Spaziale Hubble, alla fine del 2002 la famiglia delle mini-lune
è giunta alle 21 unità ed è in continuo aumento: gli ultimi elementi osservati raggiungono la
distanza di ben 25 milioni di chilometri.
Il sistema di Urano è il terzo in ordine di grandezza dopo quelli di Giove e Saturno; le orbite
sono pressoché circolari e giacciono quasi tutte sul piano equatoriale entro pochi decimi di
grado: sebbene questo sia consueto, l'insolita orientazione del piano equatoriale rende il piano
orbitale delle lune di Urano, l'unico in tutto il Sistema Solare, quasi perpendicolare a quello
delle orbite dei pianeti.
I cinque satelliti maggiori e probabilmente anche le mini-lune sono in rotazione sincrona,
ovvero mostrano al pianeta sempre la stessa faccia; questo tipo di configurazione assai stabile
è indice del fatto che siamo in presenza di un sistema vecchio.
Le loro densità, eccetto quella di Miranda, sono piuttosto elevate se paragonate a quelle dei
satelliti di Saturno, il che fa credere che la percentuale rocciosa di questi corpi sia almeno del
50%; ciò va contro la normale tendenza ad una diminuzione della densità e ad un aumento
della percentuale di ghiaccio con l'allontanarsi dal Sole, come indicano le teorie sull'origine del
Sistema Solare. Questi valori indicano che il disco protosatellitare di Urano era già all'origine
insolitamente povero di ghiaccio; fra le possibili spiegazioni di questa stranezza, una riprende
la teoria dell'impatto con un planetesimo, la cui energia d'urto avrebbe convertito il metano e
l'ammoniaca, composti con tendenza alla condensazione, in CO e N2 gassosi.
Questi satelliti sono piuttosto scuri (albedo pari a circa 0.2) a causa della presenza di un
materiale poco riflettente che ricopre la loro superficie; questo composto di carbonio, acqua e
metano ghiacciati, che é presente anche negli anelli, si é formato principalmente nel corso
delle prime fasi evolutive del sistema, anche se un piccolo contributo può derivare dal
bombardamento magnetosferico cui essi sono continuamente soggetti.
Tutte le superfici delle lune presentano numerosi crateri da impatto causate probabilmente
dall'urto con nuclei di comete a corto periodo, le quali, avendo velocità basse in questa
regione, potrebbero essere state catturate dalla gravità del pianeta. L'analisi delle croste ha
rivelato un'attività geologica crescente al diminuire della distanza da Urano.

Oberon, il satellite più lontano, ha una superficie piuttosto pianeggiante dominata da crateri
scavati nel ghiaccio, in alcuni dei quali si é depositato un materiale più scuro; potrebbe trattarsi
di una componente ghiacciata ricca di composti di carbonio fusasi nella conca del cratere
successivamente alla formazione dello stesso. L'emisfero osservato ha presentato una lieve
colorazione rossastra che dovrebbe derivare da un accumulo di polveri provenienti da alcuni
satelliti retrogradi esterni.
Sul satellite non si sono rilevate tracce di movimenti tettonici, a differenza degli altri quattro
satelliti maggiori che mostrano attività geologica crescente al diminuire della distanza dal
pianeta.
Titania il satellite più grande, è segnato da numerosi crateri da impatto, da una grande
struttura a solco e da molteplici valli e fratture; queste ultime, lunghe centinaia di chilometri e
larghe dai 50 ai 100 km, sono un chiaro indice dell'intensa attività di forze estensionali
prodotte dal calore interno del globo stesso. La relativa scarsità di crateri di grandi dimensioni
è probabilmente dovuta ad un riassetto della superficie, successivo ai grandi bombardamenti
meteorici che l'intero sistema ha subito.
Umbriel appare avere una superficie piuttosto uniforme e antica, quindi è inattivo da molto
tempo. Il suo albedo così basso (0.19, è la luna più scura) suggerisce la presenza di un
recente accumulo di polvere e detriti probabilmente creati dall'impatto di meteoriti. Le immagini
hanno rivelato anche qui parecchi crateri da impatto ed una macchia chiara ad anello vicino
all'equatore.
Ariel è caratterizzato da un'intensa attività esogena ed endogena che si manifesta con una
ricca varietà di processi: esso deve essere geologicamente e tettonicamente attivo da molto
tempo, come testimoniano i numerosi solchi creati da masse fluide viscose di origine
vulcanica, ed i giganteschi canyon che dividono la sua crosta in vasti blocchi poligonali; non
sorprende, dunque, il fatto che Ariel abbia la superficie più giovane di tutti i satelliti di Urano,
infatti non esistono crateri da impatto con diametro superiore ai 50 km. Esso è inoltre il più
riflettente: alcune macchie chiare dovute a ghiaccio d'acqua raggiungono un albedo di 0.45.
Miranda, il più piccolo e interno fra i satelliti maggiori, è nato dalla ricompattazione di un corpo
ghiacciato dopo una collisione catastrofica. Esso presenta una superficie molto eterogenea,
ricca di fratture, faglie e rilievi, molto craterizzata, specialmente nelle regioni più vecchie, e
divisa da una grande struttura a V in due zone a differente riflessione. La sua crosta presenta
una grande quantità di materiale vulcanico ghiacciato molto viscoso e porta evidenze di una
intensa attività geologica tuttora in atto.

Le mini-lune sono una vasta famiglia di oggetti scuri e di dimensioni molto ridotte (qualche
decina di chilometri). Alcuni di essi, come Ophelia e Cordelia, orbitano nei pressi degli anelli
e sarebbero i cosiddetti "satelliti pastore" responsabili della loro ellitticità. Urano sembrava
differire dagli altri corpi giganti del Sistema Solare a causa dell'assenza di lune molto distanti
fino alla scoperta nel 1997 di due nuovi satelliti, lontani 25 milioni di chilometri dal pianeta, che
non sono stati ancora dettagliatamente analizzati a causa della difficoltà di osservazione. Tra i
due Calibano, il più vicino a Urano, appare meno luminoso e sembra avere un'orbita circolare.
Fra gli altri citiamo i maggiori: Puck, Portia e Juliet.
NETTUNO
La scoperta di Nettuno ha costituito una delle avventure intellettuali più entusiasmanti della
storia della scienza. La sua esistenza fu ipotizzata indipendentemente da Adams e Leverrier in
base a delle perturbazioni osservate sul moto di Urano, ma fu effettivamente scoperta
dall'astronomo tedesco Galle nel 1846, che trovò il pianeta a 50 primi di distanza dalla
posizione calcolata da Leverrier.
Dal 1976 al 2000, Nettuno è stato il pianeta più esterno del sistema solare, perché Plutone si
trovava nella porzione della sua orbita interna a quella di Nettuno.
Il periodo di rotazione del pianeta, determinato in base all'emissione periodica dei segnali
radio, che riflettono l'andamento dei moti convettivi all'interno del nucleo, è risultato essere di
16.1 ore.

Atmosfera
Data la notevole distanza che ci separa, Nettuno, visto dalla Terra anche con i telescopi più
potenti e nelle migliori condizioni di osservazione, appare come una bolla confusa, di colore
verde-azzurro, a causa della riflessione di luce blu e dell'assorbimento delle componenti più
rosse da parte del metano atmosferico. Dai dati più precisi forniti dalla sonda Voyager 2
Nettuno ha mostrato la presenza di alcune formazioni chiare che lo fanno apparire come una
perla turchese variegata di bianco.
La sonda ha segnalato una grande macchia scura, denominata GDS (Great Dark Spot), che si
estende per oltre 10 mila Km, ruotante in senso antiorario, per molti aspetti simile alla grande
macchia di Giove, ma nel 1994 le osservazioni dell'H.S.T. hanno dimostrato che era già
scomparsa, mentre un'altra tempesta scura, piuttosto simile, si stava formando nell'emisfero
Nord del pianeta.
Nelle settimane prima dell'incontro, nell'estate 1989, la sonda ha potuto individuare numerose
altre strutture nell'atmosfera del pianeta, sede di complessi moti circolatori: violente tempeste
e cicloni semipermanenti, lunghe catene di nubi bianche, simili a cirri giganteschi, di strutture
ovali, alcune vaste e persistenti, altre limitate e variabili. Tra le più interessanti vi è la SDS
(Second Dark Spot), che percorre una fascia atmosferica australe a latitudine –54° ed è
caratterizzata dall'avere esattamente al centro una concentrazione di nubi bianche che le
conferiscono l'aspetto di un occhio ciclopico.
Queste nubi hanno un periodo di rotazione più lento rispetto a quello del pianeta, il che le fa
apparire in moto retrogrado rispetto ad esso. Questa è una caratteristica peculiare di Nettuno,
dato che sugli altri corpi giganti le nubi ruotano, in genere, più velocemente del pianeta stesso.
Fa eccezione un'ulteriore macchia scura, più piccola della SDS, che si muove molto
velocemente lungo il parallelo –42°, denominata perciò nube scooter.
La presenza dei cirri può essere spiegata per mezzo del ciclo del metano: la radiazione solare
dissocia il metano presente nell'alta atmosfera consentendo la formazione di idrocarburi più
pesanti (etano, acetilene e diacetilene), i quali, per la legge di Avogadro, si inabissano nella
atmosfera condensandosi in cristalli ghiacciati. Nella parte inferiore dell'atmosfera la
temperatura è più elevata e l'etano e il diacetilene si riconvertono in metano che forma nubi
convettive ribollenti che risalgono fino a 50 km più in alto del livello medio dell'atmosfera.
Un quesito rimasto aperto riguarda il moto dei venti sulla superficie: benchè Nettuno e Urano
siano riscaldati in modo differente dal Sole (a causa sia della diversa distanza sia delle diverse
inclinazioni dei loro assi di rotazione) risultano tuttavia possedere un sistema di venti molto
simile. Occorrerà conoscere più dettagliatamente le modalità del trasporto del calore in
superficie e soprattutto all'interno dei pianeti per poter dare una risposta al quesito.
In sintesi nell'atmosfera di Nettuno sono stati individuati tre strati principali:
1) uno strato superiore costituito da nebbia fotochimica composta da idrocarburi (etano,
acetilene);
2) uno strato intermedio formato da nebbia di metano condensato in cristalli di ghiaccio;
3) uno strato inferiore composto da una nuvola creatasi da una miscela di particelle ghiacciate
di acido solfidrico e ammoniaca.
Le informazioni sulla composizione atmosferica riguardano per lo più i costituenti presenti
nella parte superiore: idrogeno, elio, metano ed acetilene, i cui valori in percentuale variano a
seconda della quota di riferimento.
Campo Magnetico
Più debole del previsto (da 0.06 a 1.2 Gauss), il campo magnetico di Nettuno ha un'intensità
dello stesso ordine di grandezza di quello di Urano ed ha l'aspetto classico di dipolo, salvo
vicino alla superficie dove assume una configurazione molto complessa.
Inaspettatamente l'asse magnetico è risultato inclinato di 47° rispetto all'asse di rotazione e
decentrato rispetto al baricentro. La magnetosfera ha una densità di particelle relativamente
bassa. Sia gli anelli che le lune (esclusa Nereide), si trovano al suo interno.
Da notare che i dipoli magnetici dei quattro pianeti gioviani sono tutti orientati in senso opposto
a quello terrestre, il quale si è più volte invertito in passato.
Il mancato allineamento del campo magnetico di Urano e Nettuno con l'asse di rotazione può
essere spiegato considerando che i loro campi magnetici si sono formati in modo diverso da
quelli di Giove e Saturno, a causa della minor massa che non ha consentito all'idrogeno di
portarsi allo stato metallico.
Struttura Interna
La struttura interna, che determina l'effetto dinamo causa del campo magnetico, secondo le
ultime teorie è concepita in questo modo:
1) un nucleo centrale piccolo e roccioso, composto prevalentemente da silicio e ferro;
2) un mantello di ghiaccio fluido e convettivo di H2O, NH3 e CH4 che costituisce circa i 2/3
della massa totale;
3) un guscio semifluido di H ed He e in misura minore CH 4 che sfuma in una debole
atmosfera.
Una singolarità del pianeta è la fuoriuscita di calore dalla sua parte interna sotto forma di
sbuffi; Nettuno emette quasi il triplo dell'energia che riceve dal Sole.
Questo fenomeno può essere messo in relazione, almeno in parte, con gli intensi movimenti
delle nubi intorno a Nettuno, analogamente a quanto avviene in Giove e Saturno.
Secondo le ultime teorie i pianeti gassosi si sono formati in due stadi successivi: un primo in
cui i planetesimi (nuclei di comete, ecc.) si accumularono a formare i nuclei dei pianeti e un
secondo in cui l'idrogeno e l'elio presenti nei dintorni vennero attratti gravitazionalmente a
formarne le atmosfere esterne. Basandosi su questo è stata avanzata l'ipotesi secondo cui
Urano e Nettuno si siano formati più tardi rispetto a Giove e Saturno, quando il vento solare
aveva già provveduto a spazzare fuori dal sistema solare una buona parte dell'idrogeno e
dell'elio presenti. Questo spiegherebbe la minor quantità di questi elementi in Urano e Nettuno
rispetto ai loro due fratelli maggiori. Una conferma è data dalla misura delle loro masse, che
risultano simili a quelle dei "cores" di Giove e Saturno.
Anelli
Il sistema anulare di Nettuno è piuttosto complesso: non si ha ancora la certezza se si tratti di
veri e propri anelli o di archi. Tale anomalia è collegata in parte alla considerevole variazione
del loro spessore. Il sistema si compone di cinque strutture, alcune con i bordi netti, altre
formate da archi o da materia diffusa.

Le fotografie ad alta risoluzione mostrano che nell'anello principale si concentra molta più
materia rispetto alla rimanente fascia esterna del pianeta. L'origine sulla formazione di questi
archi densi e luminosi è tuttora un enigma e nessuna delle teorie proposte sembra dare una
risposta soddisfacente.

Satelliti

Tritone, Nereide e le sei lune scoperte dalla sonda Voyager, delle quali Proteo è la maggiore,
più altre 3 scoperte nel 2002, costituiscono il sistema satellitare di Nettuno. Dei primi due
stupisce la forte inclinazione delle loro orbite. Questo dato è di fondamentale importanza in
quanto attribuirebbe l'origine dei due satelliti, non ad una porzione del pianeta staccatasi per
poi ricondensarsi a distanza, bensì ad un effetto gravitazionale di corpi esterni. Questa teoria
trova sostegno dalle analisi spettrometriche effettuate su Nereide, che ne confermerebbero la
natura di asteroide.
Poiché durante l'esplorazione del Voyager 2 la posizione che Tritone occupava non era delle
più indicate per le rilevazioni, l'ipotesi ancora oggi più accreditata circa la sua formazione
rimane che provenga dalla nebulosa solare.

Tritone, uno dei satelliti più grandi del sistema solare, compie una orbita circolare con moto
retrogrado attorno al pianeta, mentre la traiettoria del più piccolo Nereide descrive un'ellisse
molto schiacciata.
La grande luna di Nettuno presenta un numero di crateri piuttosto contenuto e quindi, da un
punto di vista geologico, la sua superficie è giovane. Nonostante ciò il paesaggio tritoniano,
avvolto da una tenue atmosfera prevalentemente di azoto, si offre vario in quanto sono stati
individuati laghi di ghiaccio, lunghe fenditure di distensione dette "graben" e macchie scure,
queste ultime causate probabilmente da vapori fuoriusciti da geyser. Questi fenomeni di
vulcanesimo residuo in atto, inducono a pensare a una sorgente di calore interno. La
temperatura è estremamente bassa, 38 K.
L'analisi orbitale di Tritone ha indotto a credere che, in un arco di tempo non ben definito, tale
satellite colliderà con il pianeta e da questo impatto potrebbe originarsi un nuovo anello.
PLUTONE
Plutone è il nono pianeta del sistema solare, più piccolo della Luna ed, all'afelio, due volte più
lontano dal Sole di Urano. Nella mitologia romana Plutone (in greco: Ade) è il dio
dell'oltretomba. Il pianeta ha ricevuto questo nome forse perché si trova cosí lontano dal Sole
da essere sempre al buio.
Plutone è l'unico pianeta a non essere stato esplorato da sonde spaziali; a causa della sua
scarsa luminosità (magnitudine visuale apparente = 15). Solo recentemente si sono potute
ampliare le conoscenze grazie al telescopio spaziale Hubble, che ha permesso di scoprire che
Plutone ruota su se stesso in senso orario (opposto a quello della maggioranza degli altri
pianeti).
Dal 1976 al 2000, a causa della forte eccentricità della sua orbita, Plutone si è trovato ad una
distanza dal Sole inferiore a quella di Nettuno, fatto che ha messo in risalto alcune peculiarità
riguardanti la sua atmosfera.
Scoperta di Plutone
L'esistenza di Plutone era stata ipotizzata fin dall'inizio del Novecento per giustificare le
piccole perturbazioni osservate nell'orbita di Urano e Nettuno, ma esso fu scoperto solo nel
1930 da C.W. Tombaugh grazie ad un nuovo telescopio a grande campo.
La scoperta di Plutone è da considerarsi oggi più il frutto di un "caso" che dell'accurata analisi
di Percival Lowell. Infatti col passare degli anni la massa stimata di Plutone, che era ritenuta
responsabile delle perturbazioni dell'orbita di Nettuno, si è andata riducendo sempre più. Le
più recenti misurazioni indicano una massa pari ad 1/5 di quella lunare; questo valore così
piccolo fece supporre l'esistenza di un ulteriore corpo (il pianeta X) di massa comparabile con
quella terrestre situato in un orbita molto esterna a Plutone che giustificasse le discrepanze
orbitali rilevate a suo tempo da Lowell. Da rilevare che, prima di morire, lo stesso Clyde
Tombaugh, il quale aveva passato l'ultima parte della vita alla ricerca di altri pianeti
transplutonici con esito negativo, dichiarò che "… un tale corpo (il pianeta X), a tale distanza
potrebbe essere sfuggito alle mie ricerche, in considerazione delle capacità limitate degli
strumenti da me impiegati …".
Un altro aspetto interessante della scoperta di Plutone risiede nel fatto che sia la sua scoperta
che quella del suo satellite Caronte erano inizialmente state quasi liquidate come un difetto
della pellicola impiegata per le osservazioni.
Satellite e Struttura Interna
Nel 1978 James Christy scoprì il satellite Caronte, fonte di numerose informazioni su Plutone.
La misura del periodo orbitale del sistema Plutone-Caronte e della loro distanza hanno
permesso il calcolo preciso della somma delle loro masse (1/400 di quella terrestre).
Fra il 1985 e il 1990 si è verificata una delle due situazioni favorevoli di ogni rivoluzione di
Plutone (che dura 248 anni) in cui l'orbita di Plutone e Caronte si presenta "di taglio" rispetto
alla Terra; la durata delle eclissi reciproche (circa 4 ore) ha permesso di calcolare il diametro
di Plutone in 2284 Km e quello di Caronte in 1190 Km. Il rapporto delle loro masse, 12 : 1, è il
più basso nel sistema solare tanto che il sistema Plutone-Caronte può essere considerato
come un pianeta doppio. Nonostante le dimensioni di Caronte siano circa 1/3 di quelle della
Luna, la sua immagine nel cielo di Plutone ha un diametro apparente di 3.6 gradi. Questo è
dovuto al fatto che la distanza Plutone-Caronte è solo 1/20 di quella Terra-Luna.
Dalla massa totale e dai diametri del sistema Plutone-Caronte, si ricava una densità media
abbastanza alta, pari a 2.07 gr/cm3, che denota un grande nucleo roccioso. Possiamo quindi
osservare che Plutone è molto più simile a Tritone, satellite di Nettuno, piuttosto che ai grandi
pianeti gioviani. Ciò suggerisce che entrambi si siano formati come corpi indipendenti nelle
regioni più esterne della nube solare primordiale, da qui la loro somiglianza chimica; in seguito
Tritone sarebbe stato catturato dal campo gravitazionale relativamente intenso di Nettuno.
Con questa ipotesi si scarterebbe definitivamente l'idea che Plutone sia un antico satellite di
Nettuno, sfuggito alla sua attrazione gravitazionale in seguito ad una collisione.
Superficie
Dalla sintesi di molte immagini prese dall'HST è stato ottenuto il planisfero. É stata osservata
una forte differenza di albedo fra Plutone (0,63) e Caronte (0,40); mentre Plutone è coperto
principalmente da metano ed ha un colore per lo più rossastro (come Tritone), Caronte è
coperto da acqua ghiacciata ed è grigiastro. Inoltre la superficie di Plutone è molto complessa
e presenta forti contrasti su grande scala; queste disomogeneità causano variazioni di
luminosità durante la sua rotazione ed hanno permesso il calcolo del periodo di rotazione e la
verifica del fatto che il sistema Plutone-Caronte è sincrono: ciò significa che l'uno rivolge
sempre la stessa faccia verso l'altro e che la posizione di uno nel cielo dell'altro è sempre
fissa. Piccole differenze a lungo termine di queste variazioni di luminosità sono state
interpretate come effetti stagionali dovuti alla grande inclinazione dell'asse di rotazione del
pianeta rispetto a quello di rivoluzione.
La temperatura superficiale di Plutone non è ben nota, ma si aggira probabilmente attorno a
40 K.
Atmosfera
Nel giugno del 1988 Plutone è transitato davanti ad una stella ed è proprio grazie a questo
fenomeno particolare che abbiamo acquisito nuovi elementi circa la composizione della sua
atmosfera. Durante l'occultazione la luminosità stellare ha subito un decremento progressivo
dovuto ad un assorbimento e ad una rifrazione da parte di una tenue atmosfera, molto estesa,
di azoto, monossido di carbonio e metano.
Quando il pianeta si avvicina al Sole, il riscaldamento provoca la sublimazione di una parte
della sua superficie, come avviene per le comete. In seguito, durante il successivo
raffreddamento (quando il pianeta è ad una distanza maggiore dal Sole), l'atmosfera viene in
parte dispersa nello spazio e in parte congela, ridepositandosi sulla superficie.
Nel 2004 era previsto l'invio della sonda Pluto-Kuiper Express che doveva raggiungere
Plutone ancora abbastanza vicino al perielio; ma l'ente spaziale americano ha deciso il rinvio
sine die della missione per ragioni di priorità nella distribuzione degli stanziamenti governativi.

Il pianeta X

La ricerca di un pianeta transnettuniano non si arrestò con la scoperta di Plutone, troppo


leggero (1/400 della massa terrestre) per perturbare il moto di corpi 6000 volte più pesanti.
Tombaugh negli anni '30 e Kowal fra il 1977 e il 1984 compirono ricerche sistematiche di
questo decimo pianeta, ma con esito negativo. Essi scoprirono, invece, numerosi asteroidi e
comete nonché un corpo intermedio fra i due gruppi, Chirone, prototipo dei "Centauri",
pianetini orbitanti fra Saturno e Urano, i quali presentano anche fenomeni cometari: a volte
essi aumentano improvvisamente di luminosità sviluppando una chioma ed una breve coda.
Probabilmente un tempo i Centauri erano comete come le altre e Chirone, che ha un diametro
di 160 km, può perciò essere considerato come il resto della più grande cometa conosciuta.
Nemmeno le sonde Pioneer 10 e 11 e Voyager 1 e 2 (il cui moto non è stato perturbato da
forze gravitazionali originate da corpi sconosciuti anche oscuri) ne' il telescopio spaziale
Hubble hanno trovato indizi della presenza di un astro di grande massa esterno a Nettuno. I
Voyager hanno anche permesso di misurare più accuratamente le masse dei pianeti giganti:
quando i valori aggiornati sono stati inseriti nelle formule della meccanica celeste, le
discrepanze nelle posizioni di Urano e Nettuno sono scomparse.
Invece del pianeta X, è stata scoperta una cintura di asteroidi e comete vicini al piano
dell'eclittica, chiamata Edgeworth-Kuiper belt.
Plutone può forse essere considerato il prototipo, di maggiore dimensione, di una nuova
classe di oggetti denominati Plutini, che ruotano attorno al Sole su orbite esterne a Nettuno e
fanno parte del gruppo più ampio dei Kuiper Belt Objects (KBO) che si differenziano dalle
comete della Nube di Oort perché le loro orbite non sono troppo inclinate sull'eclittica.
ASTEROIDI
Introduzione
Nella nebulosa in cui si originò il Sistema Solare, le basse temperature favorirono
l'accrescimento dei pianeti giganti a grandi distanze dal Sole, dove era più abbondante la
materia allo stato solido che fungeva da nucleo di aggregazione. Le regioni più interne, dove
la formazione procedeva più lentamente, risentirono delle forti perturbazioni gravitazionali
prodotte in particolare dal massiccio Giove, che ebbero l'effetto di bloccare completamente la
crescita di un oggetto di dimensioni planetarie nella zona fra Marte e Giove stesso, dove infatti
si trova un gran numero di piccoli corpi: gli asteroidi, o pianetini.
Lo studio delle orbite degli asteroidi, i quali sono perturbati dai pianeti maggiori senza a loro
volta perturbarli, ha dato notevole sviluppo alla Meccanica Celeste.
Gli asteroidi sono entrati anche nella letteratura grazie al Piccolo Principe, capolavoro di A.
Saint Exupery.
La legge di Titius-Bode
Le distanze dei pianeti dal Sole non sono distribuite casualmente ma sembrano piuttosto
regolate da una legge.
Questa osservazione condusse due astronomi del diciottesimo secolo, David Titius e Johann
Bode, a cercare una legge che giustificasse quanto osservato.
Essi trovarono una relazione empirica che ben si adattava alla descrizione dell'architettura del
sistema solare allora conosciuto:
D=0.4 + 0.3 x 2 (n-1)
dove n è il numero d'ordine della successione progressiva dei pianeti contati a partire dal
Sole.

Pianeta n 2 (n-1) D (Titius - Bode) UA D effettiva UA


Mercurio -infinito 0 0.4 0.4
Venere 1 1 0.7 0.7
Terra 2 2 1.0 1.0
Marte 3 4 1.6 1.5
Asteroidi 4 8 2.8 2.8
Giove 5 16 5.2 5.2
Saturno 6 32 10.0 9.5
Urano 7 64 19.6 19.2
Nettuno 8 128 38.8 30.1
Plutone 9 256 77.2 39.8

La legge empirica che Titius e Bode avevano trovato ottenne una clamorosa conferma quando
nel 1781 William Herschel scoprì Urano la cui distanza dal Sole coincideva quasi
perfettamente con quella ipotizzata.

Rimaneva tuttavia una lacuna corrispondente al valore 2.8 nella lista delle distanze planetarie.
Mancava infatti l'osservazione sperimentale di un pianeta la cui distanza fosse compresa tra le
orbite di Marte e di Giove.
Quando nel 1801 Giuseppe Piazzi scoprì Cerere, nonostante le sue piccole dimensioni si
credette di avere finalmente trovato il pianeta mancante, ma negli anni a seguire furono
individuati altri oggetti, che vennero appunto denominati collettivamente "asteroidi" per via
della loro apparenza assolutamente puntiforme al telescopio (asteroide = "a forma di stella").
Tuttavia la scoperta di Nettuno e ancor più di Plutone mostrarono che la legge non è
rigorosamente valida, in quanto questi pianeti si trovano a distanze diverse da quelle previste.

Cerere fu seguito dal Piazzi dal I gennaio all'11 febbraio 1801, poi fu perso di vista. A soli 23
anni K.F. Gauss seppe risolvere in pochi mesi il problema della determinazione di un'orbita da
3 osservazioni, prevedendo la posizione in cui fu ritrovato nel dicembre 1801.

Il numero di asteroidi scoperti, inizialmente esiguo e frutto di intense e faticose campagne


osservative, crebbe esponenzialmente con l'avvento di nuove tecniche come quella fotografica
e, negli ultimi anni, delle camere CCD. Nel marzo 2003 erano ufficialmente catalogati 56000
pianetini: in realtà questo è solo il numero di quelli di cui si conosce l'orbita con sufficiente
precisione, mentre di altri 100.000 si conosce solo un'orbita preliminare. Il numero reale degli
asteroidi nel Sistema Solare, pur non essendo noto, è di gran lunga superiore, stimato
nell'ordine dei milioni di corpi.
Caratteristiche fisiche
Tradizionalmente erano stati definiti asteroidi o pianetini quei piccoli oggetti le cui orbite sono
comprese fra Marte e Giove. Il progresso nella conoscenza e nella comprensione della realtà
fisica ha causato fatalmente anche una revisione critica delle vecchie denominazioni, il nome
"asteroide" viene dato oggi a tutti quegli oggetti che:
• non sono identificati come veri pianeti,
• non sono satelliti di qualche pianeta,
• non hanno attività tipiche delle comete.
I pianetini sono oggetti le cui dimensioni risultano molto piccole in confronto ai pianeti. Il primo
scoperto Cerere, con un diametro medio di 913 km, è il più grande fra quelli della sequenza
principale, seguito da Pallade di 533 km e da Vesta di 525 km. Alcuni asteroidi esterni a Giove
sono di dimensioni ancora maggiori, ad esempio Ixion (28978) ha un diametro di circa 1200
km (Sky & Telescope, August 2002 p.44).

Il numero degli asteroidi aumenta al diminuire delle dimensioni secondo la legge:


dN α m(-q) dm α D (2-3q) dD

Ove dN è il numero di corpi contenuti nell'intervallo di massa (m, m+dm) e di diametro (D,
D+dD) e q è un esponente prossimo a 1.8.
Rispetto a questa legge di potenza c'è un eccesso di corpi con D pari a 100 km, per i quali
l'energia di legame gravitazionale favorisce il riaccumulo di frammenti espulsi a velocità
inferiori alla velocità di fuga (Bertotti e Farinella, 1990).

Le dimensioni dei pianetini possono essere misurate con tre tecniche:


1) misure fotometriche nell'ottico, note le distanze del pianetino dal Sole e dalla Terra ed il suo
albedo
2) osservazioni radar quando i pianetini si trovano in prossimità della Terra
3) osservazioni nel visibile mediante telescopi di grandi dimensioni forniti di ottiche adattive
4) eclissi di stelle osservate sulla superficie terrestre da una rete di astrofili, disposti in modo
da coprire ampiamente tutta l'area interessata dall'eclisse.
La massa totale dei pianetini è valutata attualmente appena 0.0007 volte quella della
Terra, ovvero il 5-6% di quella della Luna. Cerere da sola contiene circa 1/3 della massa totale
dei pianetini.
La loro densità tipica varia da 2 a 3,5 g/cm3. Tutti gli asteroidi sono completamente privi di
atmosfera per via della debolissima gravità superficiale. Persino il loro aspetto presenta
notevoli particolarità: soltanto i maggiori hanno una forma vagamente sferoidale; tutti gli altri,
vista la minore massa, presentano, invece, forma irregolare, che a fatica può essere in certi
casi ricondotta a quella di un ellissoide a tre assi. I pianetini mostrano poi notevoli irregolarità
superficiali, crateri e cicatrici della loro passata evoluzione collisionale, come si può vedere
dalle immagini ottenute dalle sonde spaziali.
Dallo studio delle curve di luce è stato evidenziato che i periodi di rotazione degli asteroidi
possono variare da un paio d'ore a diversi giorni o addirittura settimane, nei casi più rari,
sebbene la maggior parte di essi ruoti con tempi compresi fra le 4 e le 12 ore. I loro assi di
rotazione sono inoltre orientati casualmente nello spazio. La distribuzione di questi valori è
collegata alla storia collisionale di ciascun pianetino: i numerosi urti mediamente subiti da
questi oggetti durante la loro vita possono verosimilmente determinarne lo stato di rotazione.
Un'altra caratteristica comune è il loro bassissimo albedo (o riflettività), variabile da 0.02 a 0.4
e mediamente attestata su valori di 0.15, il che li pone tra gli oggetti più scuri che si possono
incontrare nel Sistema Solare.
Classificazione
Nel caso degli asteroidi, densità media e albedo sono parametri strettamente correlati alla
composizione chimica. Questa appare notevolmente differenziata da corpo a corpo, tanto che
da varie indagini spettrofotometriche sono stati riconosciuti e isolati più di una decina di gruppi
diversi. Tra i tipi "tassonomici", sono tuttavia due quelli principali. I pianetini della classe C, più
numerosi, hanno un colore neutro e un albedo molto basso; sono ricchi di carbonati, minerali
opachi e fotoassorbenti, e il loro spettro è simile a quello di meteoriti piuttosto rare, le condriti
carbonacee. Gli asteroidi del tipo fisico S presentano invece le caratteristiche spettrali dei
corpi composti prevalentemente da rocce silicee: alta riflettività, bande di assorbimento
nell'infrarosso imputabili alla presenza di composti di minerali come l'olivina e il pirosseno, e
una colorazione spiccatamente rossastra (ma comunque variabile) che viene attribuita
all'abbondanza relativamente alta di metalli quali il ferro e il nichel. Questi asteroidi sarebbero
inoltre i corpi progenitori delle meteoriti più comuni che si possono trovare sulla Terra, le
condriti ordinarie.
È interessante osservare che la distinzione tra le due classi si riflette anche in una diversa
distribuzione spaziale: gli oggetti del tipo S occupano di preferenza la parte interna della fascia
asteroidale e quelli del tipo C orbitano invece nella zona esterna. Questo fatto non rispecchia,
come si potrebbe pensare, la variazione in composizione della nebulosa originaria da cui si è
condensato il Sistema Solare, bensì è legato al diverso grado di riscaldamento a cui
sarebbero stati sottoposti i vari corpi in conseguenza delle differenti velocità di formazione
iniziali. Anche l'albedo degli asteroidi tende a calare con l'aumentare della distanza. Ciò è
dovuto alla diminuzione della temperatura col crescere della distanza dal Sole: i materiali più
scuri, ricchi di carbonio e acqua, si condensarono originariamente nelle regioni più fredde e
lontane dalla stella, mentre i materiali rocciosi brillanti erano meno volatili e poterono rimanere
all'interno delle regioni più calde e vicine al Sole.
Caratteristiche orbitali
Un'altra osservazione significativa è suggerita dalla grande varietà di orbite percorse dagli
asteroidi. Esse infatti non sono in genere né circolari né accuratamente disposte sul piano
dell'eclittica: le eccentricità tipiche sono comprese tra 0.05 e 0.3, con un valore medio di 0.15,
mentre le inclinazioni vanno normalmente da 0 a 35 gradi con un valore caratteristico di 8-10
gradi. Questi valori medi non escludono ovviamente la presenza di oggetti con orbite molto più
circolari e meno inclinate, o viceversa: si hanno infatti a volte orbite ellittiche molto schiacciate
(con e > 0,3) simili quasi alle orbite cometarie, con inclinazioni che in alcuni casi possono
oltrepassare i 60°, sebbene la maggior parte giaccia comunque in prossimità dell'eclittica.
La distribuzione dinamica più interessante da studiare riguarda proprio il numero di asteroidi in
funzione del semiasse maggiore dell'orbita, ovvero della distanza media dal Sole durante una
rivoluzione: la quasi totalità degli asteroidi, come tutti sanno, ha orbite comprese fra quella di
Marte, che ha una distanza media dal Sole di circa 228 milioni di chilometri pari a 1.5 UA, e
quella di Giove, situata a quasi 780 milioni di chilometri dal Sole (5,2 UA). Si osserva però che
ben il 95% di essi si concentra in una regione più stretta del Sistema Solare, compresa tra
circa 2.1 e 3.6 UA dal Sole: la cosiddetta fascia principale degli asteroidi, che potremmo
immaginare come un anello largo 225 milioni di chilometri ed altrettanto spesso; un volume
troppo vasto perché anche la presenza di tutti questi oggetti messi assieme possa realmente
riempirlo.
Lacune di Kirkwood
All'interno di questa zona la distribuzione non è omogenea: nel 1866 l'astronomo americano
Daniel Kirkwood si accorse che in corrispondenza di alcuni valori del semiasse maggiore a
dell'orbita si evidenziavano profonde lacune, zone pressoché prive di oggetti che da lui
presero il nome di "lacune di Kirkwood". Ricordando che il semiasse a è legato dalla terza
legge di Keplero al periodo dell'orbita stessa, si è scoperto che le lacune si trovano in
corrispondenza di orbite risonanti con quella di Giove, ovvero i periodi di rivoluzione ad esse
relativi stanno in rapporti numerici semplici con quello del pianeta gigante: 1/4, 1/3, 2/5, 3/7,
1/2, 3/5, ... (ma è altresì valida la dicitura: 4:1, 3:1, 5:2, 7:3, 2:1, 5:3, ...). Ad esempio, la
risonanza 1/4 sta a significare che per un periodo del corpo più esterno quello più interno ne
completa quattro. Queste risonanze prendono il nome di risonanze di moto medio, e il loro
effetto è in un certo senso analogo alle spinte ripetute su un'altalena o un pendolo: se le spinte
avvengono allo stesso punto di ogni oscillazione, possono aumentare l'energia del moto. In
assenza di tali risonanze le perturbazioni sarebbero invece casuali, e farebbero crescere e
diminuire in eguale misura il semiasse maggiore dell'orbita di un asteroide, cosicché col tempo
non si accumulerebbe alcun effetto netto. Le risonanze di moto medio con Giove sono più
importanti rispetto a quelle con gli altri pianeti, poiché Giove è il pianeta di massa maggiore ed
il più vicino agli asteroidi.
Accanto alle risonanze di moto medio ne esistono altre chiamate risonanze secolari, che si
verificano quando i due corpi risonanti sono caratterizzati da uguali periodi di precessione
della linea degli apsidi. L'entità degli effetti delle risonanze secolari, su tempi dell'ordine di
milioni di anni, sono confrontabili con quelle di moto medio.
Il risultato finale è l'espulsione di asteroidi da alcuni intervalli di semiasse maggiore, che
vengono inviati su orbite molto eccentriche le quali possono incrociare quelle di altri pianeti.
"Greci e Troiani"
Un'interessante peculiarità è rappresentata dai cosiddetti pianetini Troiani, il più grande dei
quali è l'asteroide 624 Hektor: questi sono in risonanza 1/1 con Giove e descrivono la sua
stessa orbita, mantenendosi però divisi in due gruppi (a volte denominati rispettivamente
Greci e Troiani) che lo precedono e lo seguono di 60 gradi, in modo da formare con Giove
stesso e col Sole dei triangoli equilateri che ruotano rigidamente. La possibilità della loro
esistenza era stata predetta dal matematico Giuseppe Lagrange sulla base del problema dei
tre corpi: si tratta di un problema classico della meccanica che si prefigge di studiare il moto di
tre punti materiali posti in un sistema isolato e soggetti solo alla reciproca forza gravitazionale.
Normalmente questo problema non è integrabile, ossia non ha soluzione esatta, ma può
ammetterla se si suppone ad esempio che una delle tre masse sia molto minore rispetto alle
altre due. Sulla base di questa ipotesi, la soluzione analitica trovata da Lagrange nel 1772
identificava cinque punti di equilibrio, detti punti lagrangiani, due dei quali nei vertici dei
suddetti triangoli rotanti. In tali punti, indicati con L4 e L5, detti "di librazione", il campo
gravitazionale combinato di Giove e Sole, che hanno una massa enormemente maggiore
rispetto a quella dei Troiani, consente una configurazione stabile; l'orbita seguita da questi
ultimi è perfettamente individuabile in quanto restano confinati nelle zone vicine a questi punti.
All'epoca di Lagrange gli asteroidi non erano stati ancora scoperti, e il suo risultato rimase,
come egli stesso l'aveva definito, una "curiosità matematica", un brillante teorema di
meccanica celeste. Grande fu la sorpresa quando, ad oltre un secolo di distanza, fu scoperto
588 Achilles, il primo asteroide che oscillava in vicinanza del punto lagrangiano L 4 del
sistema Sole-Giove trovandosi quindi su un'orbita eliocentrica simile a quella del pianeta
gigante ma percorsa anticipandolo di 60° rispetto all'astro. Achilles fu presto accompagnato da
altri corpi dinamicamente simili, orbitanti in prossimità sia di L4 che di L5. Questi asteroidi
hanno superfici mediamente più scure: perciò essi restarono una sparuta pattuglia rispetto alla
moltitudine di asteroidi della fascia principale, almeno finché, negli anni '70 e '80, apposite
campagne osservative non mirarono specificatamente alla loro scoperta. Nel marzo 2003
erano catalogati 962 pianetini vicini a L4 e 604 vicini a L5.
Sono stati scoperti anche 6 pianetini Troiani di Marte e uno di Nettuno.
Famiglie dinamiche
Come si è detto, i pianetini dal diametro apprezzabile sono relativamente pochi: nella fascia
principale ogni cubo ideale con lato di cento milioni di chilometri contiene in genere un
solo asteroide più grande di 100 km, ed anche le distanze medie fra oggetti più piccoli sono
piuttosto cospicue e si misurano in milioni di chilometri. Si può dire quindi che la cintura
asteroidale è abbastanza affollata se ci riferiamo a termini di paragone astronomici, dove le
distanze si misurano spesso in anni-luce, mentre ragionando in termini terrestri non si deve
pensare a questa zona come a un'arteria di grande traffico nell'ora di punta. In altre parole, se
un'ipotetica navicella spaziale fosse di passaggio nella fascia degli asteroidi, la collisione con
uno di essi resterebbe un evento altamente improbabile: una prima prova a questo proposito
si ebbe negli anni 1973-74, quando le due sonde spaziali Pioneer 10 e Pioneer 11 della
NASA, dirette verso Giove, attraversarono la fascia principale uscendone indenni dopo 7 mesi,
e registrando sulla propria superficie solo l'impatto di pochi micrometeoriti. Ma il discorso si fa
diverso quando invece della nostra navicella, che trascorrerebbe in quella regione solo poco
tempo, prendiamo in esame gli asteroidi stessi, che orbitano lì da alcuni miliardi di anni: in
questo caso la probabilità di uno scontro fra due oggetti non è più trascurabile, e anzi si può
vedere come questa "storia collisionale" sia l'elemento determinante per capire l'evoluzione
nel tempo della fascia asteroidale. Proprio a questo proposito è da rilevare un'interessante
fenomenologia collegata alla dinamica degli urti, che porta alla formazione delle "famiglie
dinamiche" di asteroidi, scoperte dall'astronomo giapponese K. Hirayama nel 1918 e il cui
studio costituisce tuttora un problema in discussione.
Analizzando la distribuzione dei circa 950 pianetini allora conosciuti in uno spazio
tridimensionale nel quale le coordinate erano il semiasse maggiore (a), l'eccentricità (e) e
l'inclinazione (sen i), ovvero i parametri orbitali più stabili, Hirayama scoprì interessanti
addensamenti di oggetti: si trattava di gruppi di asteroidi le cui orbite, anche se orientate in
modo differente, presentavano elementi - ossia coordinate di questo spazio - molto simili.
Diversamente dal semiasse maggiore, l'eccentricità e l'inclinazione di un'orbita asteroidale non
sono costanti nel tempo, ma subiscono forti variazioni su scale di tempo che vanno da 10 mila
a 100 mila anni a causa dell'attrazione dei pianeti maggiori. Hirayama comprese la necessità
di "depurare" eccentricità e inclinazione da queste variazioni periodiche sostituendo agli
elementi osservati "elementi propri" che fossero costanti nel tempo. Dopo aver applicato le
necessarie correzioni impiegando complesse tecniche matematiche di meccanica celeste a
tutti gli asteroidi conosciuti, Hirayama notò molto più chiaramente che nello spazio degli
elementi propri (comodissimi sono i diagrammi che riportano l'eccentricità o l'inclinazione in
funzione del semiasse maggiore) esistevano effettivamente zone in cui la concentrazione di
oggetti era molto elevata e zone quasi completamente spopolate (strette fasce parallele agli
assi dell'eccentricità e dell'inclinazione o di entrambe). Le zone vuote raffiguravano
evidentemente le risonanze di moto medio, mentre le concentrazioni furono chiamate
"famiglie", sottintendendo che gli asteroidi membri di una stessa famiglia avevano avuto
probabilmente un'origine comune, forse di tipo "esplosivo", che aveva spezzato in decine o
centinaia di grossi frammenti un asteroide primordiale.
Le tre famiglie disperse più importanti, che comprendono ciascuna circa 200 oggetti, hanno
preso il nome del maggiore asteroide che ne fa parte: Koronis (con un semiasse maggiore di
circa 2.86 UA), Eos (semiasse maggiore di circa 3.01 UA) e Themis (semiasse di circa 3.13
UA, vicino al bordo interno della risonanza 1/2 con Giove). A queste si deve aggiungere la
famiglia di Flora, i cui numerosi componenti hanno però orbite soggette a perturbazioni a
lungo periodo che rendono difficile valutarne il grado reale di somiglianza reciproca. Vi sono
poi un'altra ventina di famiglie meno evidenti a prima vista, ma che si possono "estrarre"
rispetto a una distribuzione di fondo di natura casuale grazie a raffinate tecniche di tipo
statistico. Queste famiglie sono associate ad alcuni fra i maggiori asteroidi, come Vesta ed
Eunomia.
Asteroidi doppi
I modelli collisionali hanno anche portato a ipotizzare asteroidi doppi o binari, la cui esistenza,
in 18 casi (aprile 2003), è stata confermata con tecniche diverse. L'esistenza di asteroidi dotati
di satelliti è suggerito:
a. dall'analisi delle curve di luce, del tutto simili in certi casi a quelle di stelle binarie ad
eclisse;
b. dal fatto che alcuni asteroidi possiedono periodi di rotazione molto lunghi;
c. dall'esistenza di crateri da impatto doppi sulle superfici planetarie;
d. da eventi cosiddetti "supplementari" osservati durante le occultazioni di stelle brillanti da
parte di alcuni asteroidi.
Asteroidi esterni alla fascia principale
Non tutti i pianetini popolano la fascia principale: una piccola parte di essi presenta semiassi al
di fuori dell'intervallo indicato o elevate eccentricità orbitali, cosicché non possono essere
contenuti entro questa regione. Infatti nel marzo 2003 si conoscevano 664 pianetini esterni
all'orbita di Nettuno ed altri possono incrociare l'orbita di Marte, e, in numero sempre
decrescente, anche quella della Terra, di Venere e perfino di Mercurio (l'asteroide 1566
Icarus, al perielio, si avvicina a soli 28 milioni di km dal Sole). Il 13 febbraio 2003 è stato
scoperto l'asteroide 2003 CP20 (Marsden 2003), il primo con l'orbita completamente interna a
quella terreste detto Inner-Earth Object (IEO); il suo semiasse maggiore è 0.76 AU, la sua
eccentricità 0.29 e la sua distanza afelica Q 0.9778.
In generale, col termine Near-Earth Objects (NEO) si intendono tutti quei corpi minori
(asteroidi e comete) che al perielio hanno una distanza dal Sole inferiore a 1.3 UA. Quando
invece si parla solo di asteroidi allora si utilizza più correttamente il termine Near-Earth
Asteroids (NEA). Gli Earth-Crossing Asteroids (ECA) o Earth-Grazing Asteroids (EGA), in
particolare, sono quegli asteroidi che possono intersecare la sezione di cattura della Terra a
causa di perturbazioni a lungo termine dovute ai pianeti, e quindi hanno una possibilità "fisica"
di collidere con il nostro pianeta. Dunque i NEA, e in modo particolare gli ECA, rappresentano
un potenziale pericolo per la Terra, e dai calcoli statistici risulta infatti che è probabile qualche
collisione ogni milione di anni.
I NEA si suddividono convenzionalmente in tre classi, in base alla combinazione di due
parametri orbitali dinamici attuali, il semiasse maggiore e l'eccentricità, che determinano a loro
volta la distanza perielica e afelica; i nomi dei tre gruppi derivano dal primo asteroide scoperto
avente le caratteristiche comuni agli altri componenti della categoria. Gli asteroidi del tipo
Amor hanno distanze perieliche variabili tra 1.017 e 1.3 UA; dato che la Terra orbita fra le
0.983 e le 1.017 UA dal Sole, essi possono attraversare l'orbita di Marte, e solo approssimarsi
esternamente a quella terrestre. Gli oggetti Apollo hanno il semiasse maggiore dell'orbita
superiore a 1 UA mentre il perielio si trova sempre a distanza minore di 1'017 UA, di
conseguenza tagliano tutti l'orbita della Terra sebbene abbiano un periodo orbitale più lungo di
un anno. Infine gli Aten, scoperti a partire dal gennaio 1976, sono i NEA più rari: passano la
maggior parte del tempo nella zona di spazio interna all'orbita terrestre, incontrandola solo nei
pressi del loro afelio, quando raggiungono la distanza di poco più di 1 UA dal Sole; dato che i
loro semiassi maggiori sono in media più corti di quello della Terra, il loro periodo orbitale
risulta minore di un anno.
Riassumendo in sintesi,
• gli Amor hanno 1.017 < q £ 1.3 UA
• gli Apollo hanno a ³ 1.0 UA e q < 1.017 UA
• gli Aten hanno a < 1.0 UA e Q ³ 0.983 UA
dove a è il semiasse maggiore, q la distanza perielica e Q la distanza afelica. Da questo
semplice schema risulta evidente che solo gli Apollo e gli Aten intersecano effettivamente
l'orbita terrestre; i primi si trovano di solito esternamente ad essa, mentre i secondi sono
spesso localizzati al suo interno. Gli astronomi sono soliti chiamare genericamente "asteroidi
Aten-Apollo-Amor" tutti i corpi con un perielio più vicino al Sole del valore arbitrario di 1.3 UA,
sebbene le differenze fra i tre gruppi siano già state esposte sopra. L'appartenenza di un dato
oggetto a una delle tre categorie non è però fissata una volta per sempre: dagli studi effettuati
risulta che esistono oscillazioni secolari delle eccentricità orbitali che, su periodi di tempo
dell'ordine di 100.000 anni, porterebbero asteroidi del tipo Amor ad assumere orbite del tipo
Apollo e viceversa. Quindi anche un certo numero di Amor sono ECA anche se adesso non
attraversano l'orbita terrestre. Pare invece che gli Aten siano stati immessi sulle loro orbite
così prossime al Sole dall'attrazione di Venere e della Terra.
Asteroidi potenzialmente pericolosi
Considerando solo i corpi più grandi di 1 km, i NEA rappresentano circa lo 0,1% della
popolazione asteroidale totale del Sistema Solare. I ricercatori stimano che esistano circa
10.000 NEA con dimensioni comprese tra 0,5 e 5 km, di cui circa 1000 potrebbero avvicinarsi
pericolosamente all'orbita terrestre. Fino a marzo 2003 sono stati scoperti e catalogati 2260
NEA, e in effetti 200 di questi, raggruppati sotto la sigla PHA (Potentially Hazardous
Asteroids), presentano caratteristiche tali da avere probabilità di impatto molto maggiori della
media. In verità, molti PHA non rappresentano attualmente un pericolo per la Terra, ma
devono essere tenuti sotto controllo, perché le loro orbite potrebbero essere alterate dal
passaggio radente con altri oggetti simili o con i pianeti stessi. Solo una frazione davvero
piccola può considerarsi veramente rischiosa.
Dai numerosi dati osservativi emerge che le caratteristiche fisiche dei NEA, così come la loro
composizione mineralogica, sono alquanto simili a quelle degli asteroidi della fascia principale,
con una certa prevalenza di oggetti del tipo fisico S, relativamente ricchi di metalli. Tale
preponderanza è però controbilanciata dal fatto che i pianetini del tipo S sono più facilmente
identificabili, avendo un'elevata riflettività, mentre gli oggetti di tipo C, molto più scuri, possono
sfuggire alle osservazioni, e pertanto il loro numero è stato probabilmente sottostimato. A
differenza dei corpi orbitanti nella fascia principale risulta inoltre che gli asteroidi vicini abbiano
dimensioni generalmente più contenute: i due NEA più grandi, con diametri medi dell'ordine di
30 km, sono 1036 Ganymed e 433 Eros, sebbene in questa categoria siano stati osservati
oggetti di dimensioni anche inferiori al chilometro (anzi, alcuni misurano addirittura solo pochi
metri). Pianetini di dimensioni analoghe appartenenti alla fascia principale, a causa della loro
distanza, non sono osservabili con telescopi situati a terra, perciò i NEA offrono un'opportunità
unica di studiare i corpi più piccoli del Sistema Solare.
Alcuni scienziati non escludono che in futuro questi mini-asteroidi possano essere sfruttati
come fonti di preziosi materiali utilizzabili in operazioni spaziali su larga scala.
Di Eros, che in certi momenti passa abbastanza vicino alla Terra, si può determinare molto
bene la parallasse, consentendo la determinazione della scala delle distanze del sistema
solare, cioè dell'unità astronomica (o della parallasse solare). Nel 1931 esso arrivò fino a 26
milioni di km dal nostro pianeta, ciò permise di trovare per la parallasse solare il valore di
8".790 con un'errore di 0".001, corrispondente ad una distanza Terra-Sole di 149 680 000 km,
migliorato solo negli anni '60 mediante la radar-astronomia.
Un indubbio motivo di interesse riguarda l'origine di questi oggetti: a causa delle perturbazioni
di cui si diceva sopra, che sono massime per oggetti con orbite fortemente ellittiche e a bassa
inclinazione (e a volte improvvise per un eventuale incontro ravvicinato con un pianeta), le
traiettorie degli asteroidi vicini cambiano continuamente in modo caotico, e ciò fa sì che essi,
una volta giunti nel Sistema Solare interno, non vi possano sopravvivere più di 200 milioni di
anni prima di urtare contro un pianeta. Visto che questo intervallo di tempo è meno del 5%
dell'età del Sistema Solare, e visto che il tasso di impatti contro i pianeti è rimasto quasi
costante negli ultimi 3 miliardi di anni, è stato dedotto che gli asteroidi vicini non possono aver
avuto origine diretta durante la formazione del Sistema Solare. Presumibilmente dunque
devono essere continuamente prodotti ed immessi sulle loro orbite relativamente effimere da
qualche processo attivo ancora oggi. La comunità dei planetologi si era divisa per circa
vent'anni tra coloro i quali ritenevano che i NEA fossero frammenti originati nella fascia
principale situata fra Marte e Giove da collisioni reciproche tra i numerosissimi asteroidi che la
popolano, e chi li considerava invece come probabili nuclei "morti" di comete a corto periodo,
ormai prive della loro riserva di elementi volatili e quindi spente. Ma in tempi recenti sono stati
scoperti diversi interessanti meccanismi dinamici, legati anche all'influenza gravitazionale di
Marte, che riescono a rendere conto dell'attuale popolazione di NEA.
Le Scale Torino e Palermo
Nel giugno 1999 si è tenuta a Torino una conferenza internazionale sui NEA, sotto l'egida
dell'ONU, che ha adottato una scala dei valori di pericolosità dei NEA denominata, anche in
inglese, " Torino Scale".
Lo scopo della Torino Scale è quello di essere strumento di comunicazione e valutazione per
predizioni sul rischio d'impatto sulla Terra di un asteroide o di una cometa nel futuro.
L'istituzione della Torino Scale semplifica la comunicazione pubblica per la valutazione di un
incontro ravvicinato di un N.E.O. ed aiuta gli astronomi per un'informazione chiara e coerente
sui rischi d'impatto.
Per un oggetto che può avere un incontro ravvicinato con la Terra in un futuro prossimo,
assegnare un valore di rischio secondo la Torino Scale, richiede due numeri: il primo è la
probabilità di collisione dell'oggetto nella data dell'incontro; il secondo è la valutazione più
attendibile dell'energia cinetica dell'oggetto. Tali numeri individuano una posizione all'interno di
una regione etichettata nella figura, e danno il valore della Torino Scale espresso con un
intero. Ci sono numerosi aspetti essenziali nell'applicazione e nella comprensione della Torino
Scale.
Poiché i parametri di immissione di probabilità di collisione e di energia cinetica sono calcolati
da dati osservativi, il valore della Torino Scale può cambiare in modo significativo da nuovi dati
ottenuti successivamente. Il cambiamento del valore della Torino Scale di un oggetto è
inevitabile poichè il risultato ultimo è binario: colpirà la Terra oppure no.
La sfida degli astronomi è ottenere sufficienti informazioni per qualsiasi oggetto per
classificarlo all'interno della categoria 0 o determinare conclusivamente che l'oggetto cada
all'interno della "collisione certa" nell'intervallo delle categorie 8-10.
La Torino Scale prevede:
Livello 0: eventi che non hanno nessuna conseguenza probabile. La designazione si applica
anche ad un oggetto che, nel caso di una collisione, è improbabile faccia danno alla superficie
della Terra.
Livello 1: la possibilità di collisione è estremamente improbabile, tuttavia l'oggetto merita un
monitoraggio.
Livello 2: eventi che meritano preoccupazione. Un incontro abbastanza ravvicinato ma non
insolito. La collisione è molto improbabile.
Livello 3: eventi che meritano preoccupazione. Un incontro ravvicinato con l'1% o più di
possibilità di una collisione capace di causare distruzione localizzata.
Livello 4: eventi che meritano preoccupazione. Un incontro ravvicinato con l'1% o più di
possibilità di una collisione capace di causare devastazione regionale.
Livello 5: eventi minacciosi. Un incontro ravvicinato con una minaccia significativa di una
collisione capace di causare devastazione regionale.
Livello 6: eventi minacciosi. Un incontro ravvicinato con una minaccia significativa di una
collisione capace di causare una catastrofe globale.
Livello 7: eventi minacciosi. Un incontro ravvicinato con una minaccia estremamente
significativa di una collisione capace di causare una catastrofe globale.
Livello 8: collisioni certe. Una collisione capace di causare distruzione localizzata. Tali eventi
si verificano una volta in circa 1000 anni.
Livello 9: collisioni certe. Una collisione capace di causare devastazione regionale. Tali
eventi si verificano una volta in circa 100 mila anni.
Livello 10: collisioni certe. Una collisione capace di causare una catastrofe climatica globale.
Tali eventi si verificano rarissimamente.

I tre aspetti più problematici di questa scala sono: 1) non è previsto il ritardo dell'impatto,
questo significa che scenari simili ricevono lo stesso punteggio sia che l'impatto possa
avvenire tra 90 giorni che tra 90 anni. 2) l'uso di una scala intera porta inevitabilmente ad
approssimazioni. 3) la Torino Scale assegna un valore nullo a tutti gli impatti con energia al di
sotto di 1 MT, indipendentemente dalla probabilità.

Nel gennaio 2001, durante l'Asteroids 2001/Piazzi meeting, la Torino Scale è stata aggiornata
tenendo conto, tra l'altro, del tempo entro il quale l'impatto potrebbe verificarsi. È denominata
"Palermo Scale".
COMETE
Le comete sono dei corpi contenenti materiali volatile che, in vicinanza del Sole, presentano
una spettacolare attività superficiale che le rende, a volte, ben visibili anche ad occhio nudo. Si
può immaginare che esse siano un resto del processo di formazione del sistema solare:
planetesimi che si sono formati oltre l'orbita di Giove, costituiti prevalentemente da materiali
ghiacciati; sono più numerose degli asteroidi, ma, a differenza di questi ultimi, si muovono, in
genere, su orbite molto ellittiche.
Secondo Kresak (1993) la principale classificazione delle comete è basata sui periodi di
rivoluzione attorno al Sole; esse si suddividono in quattro famiglie principali:
1) a corto periodo (fino a 20 anni) chiamate comete SP (short period). Sono dette anche
comete della famiglia di Giove perché sono dinamicamente soggette al suo controllo;
2) a periodo intermedio HP (da 20 a 200 anni), chiamate anche di tipo Halley;
3) di lungo periodo LP (oltre 200 anni);
4) tra le comete di lungo periodo viene distinta una quarta famiglia, quella delle comete nuove
(NC), che si muovono su orbite praticamente paraboliche (eccentricità maggiore di 0.999).
I primi due gruppi rappresentano le "comete periodiche".
Le comete HP, LP, e NC sono caratterizzate da un'elevata eccentricità (superiore,
generalmente, a 0.9) e da una distribuzione sostanzialmente isotropa rispetto all'inclinazione
dell'orbita sul piano dell'eclittica, al contrario delle SP che sono relativamente concentrate
vicino a tale piano.
Una cometa è formata dal nucleo, dalla chioma e dalla coda.

IL NUCLEO
Tutta la fenomenologia di una cometa trae origine da un nucleo monolitico, poroso, avente
albedo e densità
piuttosto basse e dimensioni che possono variare in diametro da poche centinaia di metri fino
a circa 40 km (cometa Hale Bopp). Un nucleo cometario è composto di polveri e di ghiacci
volatili (cioè capaci di passare facilmente allo stato di vapore). Questi ghiacci comprendono
come composto principale l'acqua, che da sola ne costituisce fino all 80% della massa.
Le molecole d'acqua hanno l' esigenza di formare fra loro il massimo numero di legami a
"ponte di idrogeno", favorendo la presenza nella struttura cristallina
del ghiaccio, di cavità che, racchiuse da 6 molecole di acqua, costituiscono una "gabbia" nella
quale possono restare intrappolate piccole molecole di monossido di carbonio (10% della
massa), anidride carbonica (10% della massa), e quantità minori di ammoniaca, metano e
acido cianidrico.

Questi aggregati molecolari prendono il nome di clatrati (dalla parola latina claustrum che
significa "gabbia").
La disgregazione dei clatrati di un nucleo cometario inizia quando esso dista dal Sole tra le 5 e
le 3 U.A.,
ovvero quando il calore è abbastanza intenso da provocare la sublimazione del ghiaccio e la
contemporanea vaporizzazione delle molecole intrappolate, in un rapporto 1:6 con le molecole
che lo circondano.

Nel marzo 1986 la sonda Giotto , nella sua missione intorno al nucleo della cometa di Halley,
ne ha stimato le dimensioni di circa 8 x 15 km. Ha inoltre evidenziato la presenza di fratture
che lasciano fuoriuscire il gas e le polveri destinate ad alimentare la struttura della coda e
della chioma.
È fuori dubbio che, una volta esaurita la riserva interna di ghiaccio, oppure nella impossibilità
di fuoriuscita del materiale sublimato a causa della presenza di una sorta di crosta protettiva,
l'aspetto del nucleo non sarà molto dissimile da quello di un asteroide.

LA CHIOMA
È l'elemento morfologico che dà il nome a tutti questi corpi celesti. Il primo aspetto della
chioma da mettere in evidenza è la sua enorme estensione rispetto al nucleo. Le dimensioni
tipiche della chioma sono comprese tra i 30 mila e i 100 mila km, paragonabili perciò a quelle
dei pianeti giganti.
Essa è costituita dai gas espulsi dal nucleo e fornisce preziose indicazioni sulla distribuzione
della materia eiettata. Il materiale che sublima dal nucleo cometario per il calore solare
trascina con sé parte del materiale superficiale, forma inizialmente getti di gas e polveri diretti
verso il Sole.
Negli spettri delle chiome di comete che si portano molto vicine al Sole si notano
evidentissime le righe in emissione del radicale CN; sono state inoltre rilevate le righe di
metalli allo stato atomico quali : Na, K, Cu, Fe, Co e Ni, provenienti certamente dalla
vaporizzazione del materiale meteoritico del nucleo.
LA CODA
Pur essendo, per tradizione, il tratto caratteristico (e certamente più spettacolare di una
cometa) non sempre la coda accompagna l'apparizione di questi corpi celesti.

I fotoni solari esercitano una sorta di pressione sulle particelle, denominata "pressione di
radiazione" che diminuisce col quadrato della distanza dal Sole.

L'efficienza della pressione di radiazione cala con il crescere delle dimensioni dei granuli di
polvere: i più grandi saranno i meno respinti di tutti e resteranno prossimi al nucleo,
seguendolo da vicino e disseminandosi lentamente lungo l'orbita andando a costituire il
materiale delle stelle cadenti.
I granuli più piccoli si allontaneranno dal nucleo e dall'orbita, disseminandosi in vaste regioni
pressochè complanari con l'orbita stessa e formando la coda di polveri che risulta essere una
struttura essenzialmente piatta sul piano dell'orbita. L'analisi spettroscopica delle code
cometarie mostra la presenza di due componenti distinte: coesistono, infatti, sia uno spettro
continuo di tipo solare, dovuto alla riflessione della luce solare ad opera del pulviscolo, sia uno
spettro in emissione, causato da gas eccitato e ionizzato dalla radiazione solare.
Questa duplice natura diventa molto evidente in alcuni casi (ad esempio la cometa Hale-Bopp)
in cui si è potuta notare una vera e propria biforcazione della coda cometaria. Quindi, anche
grazie alla osservazione visuale, è possibile identificare la tipologia della coda: nel caso della
coda di polveri si può notare una struttura ad arco, mentre la coda di plasma è caratterizzata
da una struttura rettilinea disposta lungo la congiungente Sole-cometa. La tipica forma arcuata
della coda di polvere si spiega considerando l'azione di tre componenti: il suo moto orbitale, la
forza gravitazionale esercitata dal Sole sui granuli di polvere e la pressione di radiazione.
In condizioni geometriche opportune, quando la Terra attraversa il piano orbitale della cometa
(cioè si trova in prossimità di uno dei due nodi di tale orbita) e quest'ultima è passata al
perielio, è possibile l'osservazione di una coda che, partendo dal nucleo cometario, punta
verso il Sole. Si parla in tal caso di "anticoda", ma l'effetto è legato esclusivamente alla
prospettiva.
MODELLI COMETARI
All'inizio del secolo, il modello comunemente accettato sulla morfologia delle comete
prevedeva che le comete fossero costituite da un insieme di particelle di materiale meteoritico,
di natura estremamente porosa, contenenti una notevole quantità di gas molecolare che,
liberato dall'azione del Sole, dava origine alla chioma. Tale modello fu denominato " a mucchio
di ghiaia ".
Nel 1950 F.L.Whipple mise in discussione tale modello e ne propose uno nuovo, denominato "
a palla di neve sporca".
Whipple, in sostanza, scartava il concetto di nucleo cometario come aggregato di materiale
meteorico legato dalla gravità, introducendo al suo posto un nucleo compatto composto di
ghiaccio e di materiale non volatile che rendeva perfettamente conto delle osservazioni.
Effetto razzo
La causa del moto "non gravitazionale" delle comete può essere identificata nella presenza di
un effetto razzo, studiato da Yarkovsky, dovuto alla velocità termica (dell'ordine di decine di
m/s) di espulsione delle molecole dal nucleo a seguito della sublimazione di ghiacci.
L'anticipo o il ritardo del ritorno al perielio di una cometa può essere spiegato proprio
ricorrendo a questo effetto razzo ed alla presenza di una rotazione del nucleo. Se la rotazione
del nucleo è concorde con il moto di rivoluzione, la reazione del getto spingerà la cometa in
avanti sull'orbita, allargandola, facendone in tal modo aumentare il periodo; se il nucleo ruota
in direzione opposta al suo moto orbitale intorno al Sole, l'effetto razzo causerà una forza
frenante che spingerà la cometa verso l'interno in direzione del Sole con la conseguente
diminuzione del periodo (anticipo del passaggio successivo).
Tramite l'effetto razzo si può così spiegare, ad esempio, l'anticipo di due ore e trenta minuti
della cometa Encke (il cui periodo di 3.3 anni è il più piccolo sinora conosciuto) od il ritardo di
4.1 giorni della cometa Halley.
Effetto Poynting - Robertson
Quando la radiazione investe un meteoroide, essa è riemessa isotropicamente. Tuttavia dato
che il meteoroide si muove ad una velocità non nulla rispetto al sole, per effetto Doppler la
radiazione emessa in direzione del moto è spostata verso il blu mentre quella emessa in
direzione opposta al moto risulta spostata verso regioni dello spettro più rosse. Come risultato,
la forza comunicata alla particella dalla radiazione spostata verso il blu, che ha momento
maggiore di quella arrossata, agisce in direzione opposta alla velocità del meteoroide,
frenando la particella. Questa forza è chiamata Effetto Poynting-Robertson.

Esso è importante per particelle di dimensioni che vanno da circa un micron fino a qualche
centimetro, mentre per corpi di dimensioni da 0,1 a 100 metri è invece l'effetto Yarkovsky a
diventare predominante. L'azione di queste forze è importante perché aiuta gli astronomi a
descrivere l'evoluzione degli sciami meteorici in relazione alla vita dei loro corpi progenitori.
NUBE DI OEPIK-OORT E CINTURA DI EDGEWORTH-KUIPER
Le comete a lungo periodo, che costituiscono circa l'84% delle comete con orbite conosciute,
entrano nella zona planetaria del Sistema Solare con qualsiasi inclinazione rispetto all'asse
dell'eclittica e circa il 50% di esse è caratterizzato da rivoluzione retrograda. Ad ogni
passaggio vicino al Sole (perielio) il nucleo della cometa perde gran parte del materiale di cui
è formata in maniera tanto maggiore quanto minore è la distanza dal Sole. Una cometa quindi
è destinata a dissolversi nello spazio e si stima che la sua vita possa variare da 1000 a
100000 passaggi al perielio. Ciò che rimane di tali oggetti può essere un corpo oscuro
costituito da materiali non volatili che continuerà ad orbitare lungo l'orbita seguita dalla cometa
originaria e riempiendo l'orbita stessa di polvere e ciottoli. Quando la Terra nel suo moto
orbitale attraversa periodicamente tali regioni di spazio si verifica il fenomeno degli sciami
meteorici.
Dato che dopo miliardi di anni compaiono sempre nuove comete, Oepik e Oort proposero che,
a distanze molto grandi dal Sole (da 40 mila ad 80 mila U.A.) esista un serbatoio di centinaia
di miliardi di comete, con orbite molto ellittiche e periodi dell'ordine di milioni di anni.
A riprova della validità dell'ipotesi, P. R. Weissman, responsabile della missione NASA sulla
cometa Tempel 1, ha costruito un istogramma riportando in ascissa l'energia orbitale originaria
delle comete, corretta tenendo conto delle perturbazioni dei pianeti ed in ordinata il numero di
comete relative. In esso si nota , evidentissimo, un picco di 80 comete aventi energia orbitale
praticamente nulla, cioè aventi un semiasse maggiore di migliaia di U.A.
In onore degli astronomi che per primi avevano lanciato l'idea questo insieme di comete fu
chiamato "Nube di Oepik-Oort", un residuo della nube originaria di polveri e gas che si
sarebbe condensata circa 5 miliardi di anni fa formando il Sistema Solare.
Nello stesso periodo in cui Oepik e Oort avanzavano la loro teoria, Edgeworth e Kuiper
ipotizzavano l'esistenza di un grande anello di detriti primordiali, oltre l'orbita di Nettuno, una
sorta di "anello saturniano" che cinge il Sistema Solare e che è denominato Edgeworth-
Kuiper Belt.
La fascia di Edgeworth-Kuiper viene attualmente localizzata tra l'orbita di Nettuno e 100 U.A.,
la cui popolazione caratteristica sarebbe costituita sia da comete, che da asteroidi (664 nel
marzo 2003) di dimensioni anche di alcune centinaia di km). Grazie alle osservazioni dell' HST
si sono identificati, in orbite situate oltre quella di Nettuno, centinaia di oggetti, il cui raggio,
ipotizzando un albedo di 0.4, è stato stimato in 5-10 km. La fascia di Edgeworth-Kuiper
sarebbe il serbatoio da cui provengono le comete a corto periodo, ipotesi che è stata provata
anche dalla possibilità che, grazie a piccole instabilità gravitazionali indotte dai pianeti giganti,
questi oggetti possano adeguatamente rifornire l'attuale popolazione delle comete a corto
periodo.
Si può comunque affermare che la nube estrema di Oepik-Oort segna il confine del Sistema
Solare. È plausibile pensare che si estenda fino ad 1/3 della distanza che ci separa da
Proxima Centauri e che quindi a tali distanze le comete possano facilmente essere perturbate
nel loro moto.
I due fattori fondamentali responsabili della perturbazione del moto sono:
1) la forza mareale della Via Lattea;
2) il passaggio di un'altra stella in prossimità del Sole.
Secondo Weissman, statisticamente ci si aspetterebbe che una stella passi a meno di 10 mila
U.A. dal Sole ogni 36 milioni di anni e a meno di 3 mila U.A. ogni 400 milioni di anni. Tra 1.4
milioni di anni la nana rossa Gliese 710 attraverserà la parte esterna nube di Oepik-Oort a
circa 70 mila U.A. dal Sole, che dovrebbe incrementare la frequenza delle comete solo del
50%.
È anche interessante notare che una volta all'interno del sistema solare, una cometa può
avere un incontro ravvicinato con un pianeta, evento che può modificare notevolmente i
parametri orbitali della cometa.
A volte una cometa può avvicinarsi troppo ad un pianeta e venire distrutta.
È quello che è successo alla Shoemaker-Levy 9, che nel Luglio 1992 è stata spaccata
dall'attrazione gravitazionale di Giove la quale, due anni dopo, ha portato il gruppo dei
frammenti a schiantarsi contro il pianeta.
Tali eventi non sono poi così rari: esempi ne sono le strane catene di crateri scoperte dal
Voyager su Callisto e Ganimede, o i crateri da impatto scoperti sulla Luna e sulla Terra in
Ciad (Africa).
LE COMETE TRASPORTATRICI DI VITA
Nei primi anni del '900 il chimico e premio nobel S. Arrhenius immaginò che alcuni
microrganismi potessero; viaggiare da un pianeta all'altro ed anche tra diversi sistemi solari
disseminando la vita. Da qui il nome di Panspermia a tale teoria, ovvero semi dappertutto.
Negli anni '70 tale ipotesi fu ripresa da F. Hoyle e C. Wickramasinghe. Partendo da
considerazioni sulla radiazione I.R. emessa dalle polveri interstellari, simile a quella emessa in
laboratorio da batteri disidratati i due scienziati avanzarono l'ipotesi che alcuni di quei granelli
di polvere fossero in realtà dei batteri resistenti alle radiazioni.
Sulla Terra ad esempio, è stato scoperto il Deinococcus radiodurans in grado di sopportare
una dose di raggi X (molto energetici) circa un milione di volte superiore di quella che
ucciderebbe qualsiasi essere vivente. Un esperimento della Nasa ha dimostrato che una
colonia di tali batteri rimane in vita anche dopo 6 anni di esposizione al vuoto e alle radiazioni
cosmiche. In tali situazioni i microbi entrano in una specie di vita sospesa interrompendo il loro
metabolismo finché le condizioni ambientali non migliorano, potendo vivere per più di 25
milioni di anni.
Però nel tempo necessario a portare da un pianeta all'altro, le micidiali radiazioni avrebbero
comunque ragione di qualunque batterio che si muovesse allo scoperto. Per questo Hoyle e
Wickramasinghe credono che tali semi della vita non viaggino scoperti come pensava
Arrhenius ma protetti all'interno delle comete. Quando una cometa si avvicina ad una stella, il
calore inizia a scioglierla così da liberare i bacilli che poi piovono sui pianeti circostanti.
I microbi inoltre potrebbero anche viaggiare a bordo di un meteorite. L'urto di un asteroide o di
una cometa su un pianeta avrebbe l'effetto di scagliare nello spazio una certa quantità di rocce
superficiali e con esse eventuali forme di vita contenute al loro interno. Lì i batteri, riparati dalle
radiazioni, potrebbero sopravvivere per milioni di anni fino a cadere su un altro pianeta. Che
nelle comete ci sono sostanze organiche (amminoacidi) è stato confermato dal colore scuro
del nucleo della cometa Halley nell'esplorazione ravvicinata effettuata dalla sonda Giotto.
METEORITI, METEORE E MATERIALE
INTERPLANETARIO
Lo spazio interplanetario contiene un gran numero di corpi e particelle di dimensioni troppo
piccole per poter essere osservati individualmente al telescopio, il cui moto è spesso
influenzato da forze non gravitazionali. Questo materiale in genere proviene da comete o
asteroidi. Le più piccole particelle interplanetarie, grani di polvere con dimensioni di 10-100
micron, sono distribuiti lungo il piano del sistema solare, più concentrati verso il Sole. In
primavera dopo il tramonto ad Ovest e in autunno prima dell'alba danno luogo poco sopra
l'orizzonte, al fenomeno della luce zodiacale.
DEFINIZIONI
Meteoroide: corpo di origine asteroidale o cometaria, più grande di una molecola e più
piccolo di un pianetino, che ruota attorno al Sole.
Meteora: complesso di fenomeni luminosi ed acustici che si produce quando un meteoroide
entra nell'atmosfera terrestre vaporizzandosi, tutto o in parte fra 100 e 75 km di quota. Le
meteore particolarmente luminose son chiamate bolidi.
Meteorite: residuo solido del fenomeno meteora che giunge al suolo. Solo nel 1794 E.F.
Chladni accertò la loro origine extraterrestre.
CLASSIFICAZIONE DELLE METEORITI
In base alla percentuale di silicati e di metalli le meteoriti possono essere classificate in:
Aereoliti (94.2%): in prevalenza pietrose.
Sideroliti (1.2%): con circa il 50% di metalli ed il 50% di silicati.
Sideriti (4.6%): in prevalenza di Fe, Ni, Ge, Ga.
Le aeroliti si suddividono in condriti ed acondriti, a seconda della presenza o meno di piccole
sfere chiamate condrule, inclusioni, talvolta ellissoidali, inserite in una matrice a grana fine. Le
dimensioni variano da 0.1 a 4 mm, raggiungendo raramente un centimetro. La loro
abbondanza varia da qualche percento del volume al 70%. Le condrule consistono di minerali
ferromagnesiaci, in vario stato di cristallizzazione, talvolta inclusi in vetro. Sono condriti più del
90% di tutte le meteoriti rocciose e, di queste, circa l'85% sono condriti ordinarie; il loro
contenuto metallico in peso è alto nelle condriti H (high), basso nelle L (low) e molto basso
nelle LL (low-low). Il 4% delle condriti contengono molto carbonio e sono chiamate condriti
carbonacee (condriti C).
Quando un miscuglio di minerali subisce un riscaldamento, va incontro ad un'irreversibile
differenziazione in nuovi componenti. Ma nelle condriti ciò non è successo: in esse convivono
minerali che si formano ad alta e bassa temperatura. Sono quindi le meteoriti che hanno
subito meno alterazioni e questo significa che portano ancora con se` le informazioni piu`
ancestrali del sistema solare, rendendo possibile lo studio della materia primaria del disco
protoplanetario.
Condriti Carbonacee
Le condriti C sono le più complesse ed eterogenee, le più enigmatiche, ma anche le più
interessanti, di tutte le meteoriti.
Le condriti C contengono, in genere, più acqua (fino al 22% in peso) e più sostanze volatili di
quelle ordinarie. La definizione di carbonacee deriva da un errore iniziale di valutazione del
contenuto di carbonio. Talvolta ne contengono meno di quelle ordinarie. Le condriti C sono
però le uniche meteoriti contenenti composti organici che possono essere considerati
precursori di vita (Norton, 2002). Alcune sono ricche di amminoacidi.
Gli amminoacidi sono i componenti delle proteine; quelli utilizzati da tutte le forme di vita sulla
Terra sono 20, legati a centinaia in lunghe catene polipeptidiche. Hanno la caratteristica di
essere otticamente attivi poiché fanno ruotare il piano della luce polarizzata linearmente. Tutti i
viventi sulla Terra utilizzano la forma levogira ad eccezione di alcuni batteri che utilizzano
quella destrogira per la formazione delle proteine della loro membrana esterna.
Nelle meteoriti gli amminoacidi sono presenti in entrambe le forme. Nella più famosa di esse,
la Murchison, caduta nel 1969 a 130 km a nord di Melburne (Australia) in 700 frammenti, ve
ne sono 92 tipi (in preponderanza levogiri) di cui 19 fra i 20 sopracitati e 73 diversi da quelli
presenti sulla Terra. La presenza di amminoacidi sconosciuti ed una certa abbondanza di
destrogiri, conferma l'origine extraterrestre di queste meteoriti.
I dati rilevati sulla composizione dei nuclei cometari ne rivelano la similitudine.

La loro denominazione è relativa al primo rinvenimento per ognuno dei 7 tipi:


- CI, dove la "I" designa Ivuna, Tanzania, dove è caduta nel 1938; una delle tipologie è
l'assenza delle condrule, ma la sua composizione chimica è simile alle altre condriti.
- CM, dove la "M" designa Mighei, Ucraina, dove è caduta nel 1889; tipica è l'elevata
alterazione acquosa.
- CV, dove la "V" designa Vigarano, Ferrara, dove è caduta nel 1910; tipica è la dimensione
delle condrule.
- CO, dove la "O" designa Ornans in Doubs, Francia, dove è caduta nel 1868; tipiche sono le
inclusioni di Ca-Al.
- CR, dove la "R" designa Renazzo, Ferrara, dove è caduta nel 1824; tipica è la quantità di Fe-
Ni metallico.
- CK, dove la "K" designa Karoonda. Sud Australia, dove è caduta nel 1930; tipica è l'assenza
di alterazione acquosa.
- CH, dove la "H" designa ALH (Allan Hills in Antartide), dove sono state rinvenute le prime;
tipica è la ricchezza di metalli.

La meteorite Murchison, rientra, casualmente, nel tipo CM (Norton, 2002).


Anche il materiale più antico conosciuto, 4.56 miliardi di anni, è una condrite carbonacea (CV),
caduta vicino al villaggio Allende, Messico, nel febbraio 1969. Ne sono state recuperate più di
2 t, che costituiscono più dell'80% di tutte le condriti carbonacee catalogate; è probabilmente
la condrite C più studiata nella storia delle meteoriti.

Il 18 gennaio 2000 un'imponente meteora illuminò i cieli sullo Yukon Territory, Canada.
L'esplosione del meteoroide, valutato di circa 5 m di diametro e del peso di 150 t al suo
ingresso in atmosfera, è stata registrata anche dal sistema di difesa USA.
L'esplosione è stata valutata equivalente a 2-3 kT di tritolo, circa un quarto della bomba di
Hiroshima.
Pronte indagini in quel territorio disabitato hanno permesso di recuperare, a partire dal 25
gennaio 2000, sul lago Tagish e negli immediati dintorni, circa un chilo di frammenti, (circa
600) il maggiore dei quali pesa 200 g, che si erano infilati nella neve e che sono stati poi
classificati come condriti carbonacee.
Il pronto recupero, l'appropriato imballaggio in atmosfera di azoto e la conservazione al freddo,
fanno ben sperare che non vi sia stata eccessiva contaminazione biologica terrestre, nonché
la preservazione dei composti più volatili. I frammenti si sono dimostrati molto fragili e porosi.
La fragilità del meteoroide aveva consentito la sua esplosione nell'alta atmosfera, senza danni
al suolo.
Un consorzio di 4 università ha esaminato alcuni frammenti. L'età è stata valutata maggiore di
4,5 miliardi di anni. Sono stati individuati amminoacidi, come nei meteoriti Murchison e Murray
(Australia) e si conferma la presenza di composti ciclici ed aromatici del carbonio e di
composti carbossilici: il più semplice di questi è l'acido nicotinico.
La presenza di nanodiamanti e fullereni di centinaia di atomi di carbonio, inglobanti gas nobili,
ha fatto pensare a materiale presolare.
Vi e` una straordinaria coincidenza tra la composizione del Sole dedotta dal suo spettro e la
composizione delle condriti carbonacee.

Acondriti
Provengono da corpi che hanno subito un'intensa evoluzione termica, in quanto sono
composti da minerali tipici della crosta di corpi differenziati (come ad esempio la Terra).
Fra le acondriti vi è il maggior numero di meteoriti delle quali si è individuata la provenienza;
alcune sono i prodotti di un impatto subito dal pianetino Vesta, altre sono di origine lunare e, la
maggior parte, provengono da Marte.
Infatti tramite lo studio del frazionamento isotopico le acondriti possono essere raggruppate in
associazioni correlate a specifici corpi progenitori, come l'associazione HED (dai nomi dei
gruppi Howarditi, Eucriditi e Diogeniti) o l'associazione SNC (Shergottiti, Nakhliti e
Chassignite). A quest'ultima associazione, i cui membri provengono presumibilmente da
Marte, appartiene anche la meteorite ALH84001, divenuta celebre per i presunti batteri fossili.
ALH84001.
Recentemente si è ipotizzato che anche la meteorite Canyon Diablo (15.6 kg), residuo della
meteorite di 60 mila t, che 50 mila anni fa produsse il Meteor Crater, sia di origine marziana.
Fanno parte della classe intermedia delle sideroliti le mesosideroliti; un bell'esemplare di esse
è stato rinvenuto, nel 1861, nel deserto di Atacama, Cile, presso la località di Vaca Muerta. La
sua struttura non uniforme indica che la meteorite è il frutto di parecchie collisioni successive
che l'hanno arricchita di differenti tipi di materiale.

SIDERITI

Le sideriti, o meteoriti ferrose, chiamate in passato "ferri", sono composte da materiali


altamente differenziati (che hanno subito cambiamenti di composizione), prodotti da fenomeni
di fusione nei corpi progenitori.
Un esempio di siderite è la meteorite trovata a Derrick Peak nell' Antartide, in cui sono ben
visibili delle cavità, chiamate regmaglipti, formate da vortici di aria, localizzati in punti precisi
della superficie del meteorite, durante l'attraversamento dell'atmosfera.

Esistono due diverse classificazioni:

- una di tipo chimico, che si basa sui rapporti del contenuto di nichel con quello di gallio,
germanio e iridio, e che riesce a raggruppare le circa 600 meteoriti ferrose conosciute in 13
gruppi chimici, i cui componenti hanno presumibilmente avuto origine dallo stesso corpo
progenitore (le meteoriti che non ricadono in nessuno di questi gruppi sono dette anomale).

- una di tipo strutturale, che considera i cambiamenti nella struttura delle meteoriti a partire
dalla variazione del rapporto di due leghe di ferro e nichel, la kamacite e la taenite, che
costituiscono oltre il 90% della composizione delle meteoriti ferrose. Inizialmente, quando nel
corpo progenitore la temperatura è elevata, la dotazione di nichel (compresa in genere tra il
5% e il 35% in peso) si trova sottoforma di taenite pura, e viene ridistribuita tra kamacite e
taenite durante il lento processo di raffreddamento. La kamacite si forma solo quando la
taenite scende sotto una temperatura, la cui soglia si abbassa con l'aumentare del contenuto
di nichel della meteorite.

Il sezionamento delle sideriti mette in evidenza una tessitura a lamelle parallele, detta figura
di Widmanstätten, che rispecchia i reticoli cristallini della kamacite e della taenite. A seconda
della disposizione di queste figure si possono suddividere le meteoriti ferrose in tre categorie:
- Esaedriti: presentano un contenuto di nichel inferiore al 6% e risultano quindi interamente
costituite da cristalli di kamacite. Le lamelle della tessitura sono disposte secondo le facce di
un esaedro. Mostrano talvolta serie di sottili linee parallele, dette linee di Neumann, formatesi
probabilmente in seguito ad un violento impatto del corpo progenitore o nell'urto della
meteorite con il suolo terrestre.
- Ottaedriti: hanno un contenuto di nichel compreso fra il 6% e il 17% e contengono sia
kamacite che taenite. Presentano figure di Widmanstätten le cui lamelle sono disposte
secondo le facce di un ottaedro; dal loro spessore e dalla distribuzione del contenuto di nichel
si può risalire al ritmo di raffreddamento e quindi alla profondità nel corpo progenitore a cui si
sono formate: infatti più grande era lo spessore di roccia isolante sopra di esse, più lento sarà
stato il raffreddamento. Questo criterio permette un'ulteriore suddivisione delle ottaedriti in 6
gruppi.
- Atassiti: contengono più del 17% di nichel e sono costituite quasi interamente da taenite. Le
figure di Widmanstätten sono molto sottili e visibili solo al microscopio, facendo apparire la
meteorite priva di struttura, da cui il nome di atassiti. Benchè le atassiti siano estremamente
rare, la meteorite di maggior massa finora rinvenuta (60 t), la Hoba West, è proprio di questo
tipo.

Le meteoriti sono anche interessanti per l'astrofisica, perchè conservano la registrazione del
bombardamento di raggi cosmici subìto, talvolta nel lontano passato, durante la loro
permanenza negli spazi interplanetari. Da questi preziosi reperti è stato accertato che il flusso
medio dei raggi cosmici si è mantenuto costante, entro il 10% negli ultimi 5 mila anni ed
entro un fattore 2 negli ultimi 4 miliardi di anni.
SCIAMI METEORICI
Le meteore possono essere sporadiche (spesso associate a grosse meteoriti), o raggruppate
in sciami che ogni anno si ripresentano con puntualità attorno a date fisse.
Si deve all'astronomo italiano Schiaparelli il merito di aver spiegato questi ritorni periodici degli
sciami con l'attraversamento, da parte della Terra, dell'orbita di alcune comete. Queste, vicine
al Sole da molti secoli, hanno distribuito molte particelle lungo la loro orbita, per cui la Terra,
ad ogni passaggio, attira nella sua atmosfera un certo numero di piccoli meteoroidi.
GLI IMPATTI NEL SISTEMA SOLARE
Importanza degli impatti
Fino alla prima metà del decennio 1960-70, gli scienziati non avevano a disposizione molti dati
per poter considerare il fenomeno impattivo nell'evoluzione dei corpi del Sistema Solare del
tutto generale. Gli stessi crateri lunari, considerato il loro elevatissimo numero e le notevoli
dimensioni di alcuni di essi, non venivano spiegati come conseguenza di questo genere di
eventi, ma si avanzavano ipotesi più vicine alle manifestazioni geologiche tipiche della Terra,
interpretandoli in base a fenomeni vulcanici e di ricaduta sulla superficie lunare dei massi che
tali eruzioni scagliavan violentemente verso l'alto. Storicamente fu proprio questa ipotesi
endogena la prima ad essere proposta per rendere ragione della superficie estremamente
rugosa e irregolare del nostro satellite; accanto ai sostenitori di questa visione endogena vi era
però anche chi sosteneva che si potesse ricondurre la sua morfologia superficiale all'azione
dirompente di proiettili cosmici provenienti dallo spazio interplanetario.
Per molto tempo le due differenti visioni si sono contese il campo, finché le missioni
interplanetarie dei decenni successivi non hanno messo in evidenza la fitta craterizzazione di
tutti i corpi (pianeti, satelliti e asteroidi) che presentano una superficie solida. Le immagini da
esse inviate a terra confermano che il fenomeno è presente su tutti i corpi del Sistema Solare
e che l'origine impattiva deve esserne considerata la causa primaria. Se per spiegare la
craterizzazione dei corpi maggiori, infatti, accanto a questa soluzione, si potrebbe anche
avanzare l'ipotesi endogena, non altrettanto si potrebbe fare per i corpi di dimensioni più
modeste, che risultano assolutamente inadeguati sia ad innescare che a mantenere attivi i
processi vulcanici.
Il meccanismo degli impatti riveste quindi un ruolo di fondamentale importanza nell'evoluzione
del Sistema Solare, non solo come fenomeno distruttivo, ma anche come indispensabile e
basilare elemento costruttivo nella edificazione e nella strutturazione di tutti i corpi che ne
fanno parte, così da risultare uno dei processi essenziali del modellamento delle superfici
planetarie.
Conseguenze degli impatti
Obliquità degli assi di rotazione

La prima conseguenza è l'obliquità dei pianeti, cioè l'angolo tra il piano equatoriale e quello
dell'eclittica :
PIANETA OBLIQUITA' PIANETA OBLIQUITA'
Mercurio 0o1' Giove 3o1'
Venere 177o Saturno 26o7'
Terra 23o26' Urano 97o52'
Marte 25o12' Nettuno 29o56'
La caratteristica comune di tutti i pianeti è il fatto che l'equatore non è complanare con il piano
orbitale, ma forma un angolo il cui valore è spesso tutt'altro che trascurabile; una situazione
che, ipotizzando un accrescimento graduale da polveri, non si riuscirebbe a spiegare in modo
credibile. La spiegazione più semplice richiede espressamente il verificarsi di colossali e
violentissimi impatti, non limitati solamente alla zona più interna (vale a dire ai cosiddetti
pianeti terrestri), ma presenti in modo ugualmente intenso in tutto il Sistema Solare, non solo
nei momenti della sua formazione, ma anche nelle epoche successive. Scontri in grado di
intervenire pesantemente non solo sulla morfologia superficiale, ma sulla stessa integrità fisica
del bersaglio e sulle sue caratteristiche dinamiche. Per giustificare la situazione di Urano, ad
esempio, si ipotizza un impattore con dimensioni paragonabili a quelle della Terra.

Conseguenze degli impatti


Strutturazione
Una seconda evidenza riconducibile all'azione degli impatti è la strutturazione stessa del
nostro pianeta (ma analogo discorso può essere fatto per gli altri pianeti di tipo terrestre), nel
quale si è verificata una drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti
(fondamentalmente ferro e nichel) e quelli meno pesanti (vari composti silicatici, quali olivina e
pirosseni), differenziazione avvenuta in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati
nella discesa verso il centro del pianeta degli elementi più pesanti, con la conseguente
separazione tra nucleo e mantello.
Un simile fenomeno richiede una spaventosa quantità di energia, che una sorgente di tipo
collisionale è certamente in grado di fornire, soprattutto se si considera il tasso di impatti che
avrebbe caratterizzato le fasi iniziali del Sistema Solare. Il quadro generalmente accettato per
queste fasi iniziali (desunto in gran parte dallo studio della craterizzazione lunare) prevede
infatti il verificarsi di un catastrofico bombardamento che avrebbe coinvolto oggetti con
dimensioni anche superiori a 100 km di diametro, la cui intensità sarebbe diminuita
drasticamente circa 3.8 miliardi di anni fa.
Testimonianze di impatti
Terra
Sulla Terra i crateri d'impatto vengono erosi, ricoperti da altre rocce, o subdotti dalla deriva
delle placche. Fra i più recenti e tuttora visibili vi è il Meteor Crater dell'Arizona (50.000 anni) e
fra quelli fossili i più famosi sono quelli di Chicxulub, Messico, 180 km (65 Ma), Bedout,
Australia, 200 km (251 Ma) e Sudbury, Canada, 200-300 km (1800 Ma), la cui momentanea
cavità è stimata in 30 km, che si è parzialmente riempita con il materiale fuso dall'impatto una
con una cavità risultante di 6 km (Mungall 2004). L'impatto, che si stima sia avvenuto ad una
velocità maggiore di 40 km/s, potrebbe aver fuso 27.000 km cubi di crosta terrestre (Toronto
2004).

Mercurio e Luna
Una testimonianza concreta della violenza degli impatti negli stadi iniziali della vita del Sistema
Solare ci proviene dallo studio delle superfici della Luna e di Mercurio.
Velocità di craterizzazione sulla Luna.
I dati si riferiscono al numero di crateri di varie regioni lunari la cui età è nota grazie alle analisi
dei campioni rocciosi del nostro satellite. Si può notare il brusco calo del tasso di produzione
dei crateri; le cuspidi indicano che la diminuzione della craterizzazione è avvenuta passando
anche attraverso brevi aumenti dell'intensità del bombardamento (Hartmann 1977).
Osservando le numerose immagini di questi due corpi a nostra disposizione, non può non
balzare subito all'occhio l'incredibile somiglianza delle due superfici, ambedue caratterizzate
dalla presenza di una fitta craterizzazione, che va dalle piccole strutture ai grandi bacini di
impatto. Ambedue i corpi costituiscono la conferma di un intenso bombardamento che,
perlomeno, ha caratterizzato tutta la zona interna del Sistema Solare e che si è protratto nel
tempo non a ritmo costante ma con una graduale diminuzione sia delle dimensioni dei corpi
impattanti che del numero stesso degli impatti (questi dati si possono desumere
dall'osservazione delle dimensioni e della sovrapposizione dei vari crateri). Se consideriamo le
densità dei pianeti a pressione zero, cioè ipotizzando per essi una struttura sferica senza gli
effetti della compressione, il valore risultante della densità di Mercurio (5.4 g/cm3) è superiore
a quello di tutti gli altri pianeti di tipo terrestre e questo ci porta a ipotizzare una struttura
formata da un nucleo ferroso avvolto da una sottile crosta composta prevalentemente da
silicati. Mercurio, dunque, così simile alla Luna in superficie (anche come composizione
chimica), avrebbe un nucleo interno uguale a quello della Terra, verosimilmente proveniente,
come è avvenuto per il nostro pianeta, dal meccanismo della differenziazione nucleo-mantello.
La maggiore temperatura causata dall'estrema vicinanza del Sole potrebbe certamente
spiegare la carenza di sostanze più leggere (ipotesi dell'evaporazione del mantello) ma,
l'ipotesi di un gigantesco urto che ha privato Mercurio del suo mantello di silicati appare
ugualmente molto plausibile. Tale impatto, da collocare nei primi momenti del periodo di
intenso bombardamento, potrebbe inoltre rendere ragione dell'inclinazione dell'orbita rispetto
all'eclittica (7 gradi), maggiore di quella di tutti gli altri pianeti (escluso Plutone). Le correnti
simulazioni per il fenomeno ipotizzano un proiettile dotato di massa di circa un quinto di quella
del pianeta ed una velocità di impatto di 20 km/sec.
Mercurio - Bacino Caloris.
Sono visibili nella parte sinistra dell'immagine gli anelli concentrici di questo immenso bacino
di impatto (cratere multiring). Il diametro della struttura, ricavato valutando l'anello più elevato,
è di 1.340 km; se però si considera l'anello più esterno il valore del diametro (pur nella
incertezza delle misurazioni dovuta alla sua discontinuità) raggiunge i 3.700 km. Se il
problema per Mercurio era trovare una spiegazione alla sua elevata densità, per la Luna
siamo di fronte ad una situazione opposta. Dal momento che la sua densità (valore medio
3.34 g/cm3) è molto prossima a quella del mantello terrestre, è sempre stato considerato
logico ipotizzare per il nostro satellite una composizione di silicati e, necessariamente, la
mancanza di quel nucleo pesante che può essere considerato una caratteristica saliente dei
corpi planetari posti in questa zona del Sistema Solare. Una svolta fondamentale si è avuta
allorché, grazie alla possibilità di esaminare direttamente le rocce lunari riportate a Terra dalle
missioni Americane e Sovietiche, si è scoperto che la composizione chimica del mantello
terrestre era molto diversa da quella delle rocce lunari, che risultano completamente prive di
acqua e notevolmente arricchite di elementi refrattari. Svanita in tal modo la possibilità di
ipotizzare per il mantello terrestre e quello lunare una medesima origine, si doveva
abbandonare anche la teoria che proponeva per il nostro satellite una formazione coeva alla
Terra, come pianeta doppio. Poiché altre ipotesi (quale ad esempio la cattura da un'orbita
indipendente o quella della fissione causata dalla rapida rotazione terrestre) dovevano essere
abbandonate per difficoltà dinamiche, era necessario trovare altri modelli che fossero in grado
di risolvere sia il problema dell'elevato contenuto di momento angolare del sistema Terra-
Luna, per altro noto da molto tempo, sia il problema chimico della strana composizione del
nostro satellite. Prende così corpo l'ipotesi di un catastrofico impatto della Terra con un
planetesimale (i modelli propongono per il proiettile dimensioni dell'ordine di quelle di Marte),
impatto che sicuramente potrebbe rendere ragione del momento angolare del sistema Terra-
Luna, non giustificabile ricorrendo solamente a casuali impatti di minori dimensioni. Ma
potrebbe anche spiegare le differenziazioni chimiche se, partendo dal presupposto che il
corpo destinato a colpire la Terra fosse già differenziato in nucleo e mantello, si ipotizza che,
in seguito all'urto, il suo nucleo avrebbe contribuito ad incrementare quello terrestre, mentre il
mantello, inizialmente disperso in un disco, si sarebbe successivamente riaggregato per
originare la Luna. L'accrezione e la solidificazione della crosta lunare verrebbero collocate
4440 milioni di anni fa, epoca nella quale iniziò, con una durata di circa 500 milioni di anni, il
periodo di intenso bombardamento responsabile della creazione di quegli smisurati bacini
d'impatto, in seguito colmati da colate basaltiche, che attualmente costituiscono i Mari lunari.
Venere
Grazie alle osservazioni radar, anche sulla superficie di Venere risulta evidente la presenza di
crateri da impatto, con diametri compresi tra 3 e 280 km ed una distribuzione abbastanza
uniforme sull'intera superficie del pianeta. È stato inoltre possibile identificare bacini d'impatto
di enormi proporzioni, quale ad esempio una struttura circolare (di coordinate 35° Sud e 135°
Est) di ben 1800 km di diametro. Le strutture individuate non sembrano mostrare, in oltre il
60% dei casi, effetti di modificazione imputabili a processi geologici o climatici ed in questo
frangente Venere si discosta molto da quanto avviene sulla Terra, sulla quale il meccanismo di
cancellazione delle strutture superficiali è decisamente più attivo. Il fatto che non siano stati
individuati crateri inferiori a 3 km è da imputare alla potente azione di filtro giocata dalla densa
atmosfera venusiana, in grado di distruggere i meteoroidi al di sotto di una certa dimensione
oppure di frenarne la caduta al punto da non produrre cratere al momento dell'impatto con la
superficie. In ogni caso si dovrebbe manifestare al suolo l'azione dell'onda d'urto trasmessa
dal meteoroide all'atmosfera e tale potrebbe essere il meccanismo che ha originato alcune
particolari strutture superficiali. Utilizzando il conteggio dei crateri quale strumento di datazione
superficiale, si può ipotizzare per l'attuale superficie di Venere una età di 500 milioni di anni e
questo implica che si sia verificato un catastrofico episodio di ringiovanimento associabile,
probabilmente, ad una intensa attività di tipo vulcanico che ha riversato sulla superficie del
pianeta uno strato di lava ed ha in tal modo cancellato ogni traccia di precedenti impatti. La
testimonianza maggiore in merito al ruolo che gli impatti hanno giocato per Venere è, però, il
moto di rotazione retrogrado del pianeta, unico in tutto il Sistema (eccettuando l'altro caso
particolare costituito da Urano), riconducibile ad un gigantesco urto avvenuto nei momenti
iniziali della sua formazione, allorché le dimensioni dei planetesimali che entravano in
collisione erano decisamente superiori agli impattori delle epoche successive, quando le orbite
si erano ormai stabilizzate e le zone più "a rischio" si erano quasi completamente svuotate.
Marte
L'analisi delle strutture d'impatto ci permette alcune considerazioni sulla composizione del
suolo marziano suggerendo l'abbondante presenza di acqua sotto forma di permafrost: per
questo, gli ejecta dei crateri d'impatto, mostrano un contorno lobato (e non a raggiera come gli
ejecta dei crateri lunari) interpretabile come un avanzare di fango, formatosi dallo scioglimento
del terreno ghiacciato ad opera del calore generato dall'impatto e successivamente congelato
dopo aver ricoperto la zona circostante.
Molto dibattuto è il problema dell'acqua sulla superficie di Marte, la cui presenza in epoche
passate è testimoniata in modo ineccepibile da molteplici strutture per le quali è ormai fuori
discussione l'origine da fenomeni di natura erosiva. Una possibile risposta al problema
dell'origine di queste grandi quantità di acqua è suggerita da Christopher F. Chyba ricorrendo
all'intenso bombardamento ad opera di comete ed asteroidi carbonacei nell'epoca iniziale
della formazione del Sistema Solare, un processo in grado di apportare sulla superficie del
pianeta rosso uno strato uniformemente distribuito di 10-100 metri d'acqua: ancora una volta,
dunque, viene chiamato in causa il meccanismo degli impatti.

Giove e Saturno
Certo non possiamo aspettarci che i giganti gassosi (Giove e Saturno) possano offrirci una
superficie cosparsa di crateri come quella dei pianeti terrestri, anche perché la "superficie" di
questi corpi è costituita soprattutto da gas. In occasione dell'impatto con la cometa
Shoemaker-Levy 9 nel luglio 1994 si sono potuti notare gli impressionanti ed evidentissimi
segni lasciati dai frammenti sulla superficie di Giove, ma si è potuto osservare anche che nel
volgere di un anno le tracce erano notevolmente diminuite in intensità, chiara indicazione della
potente azione dell'atmosfera gioviana, in grado di disperdere rapidamente le polveri ed i gas
originatisi nell'impatto e rimasti in sospensione.
I satelliti di Giove
La superficie di Ganimede racconta un passato di violenti impatti e la diversità nella
distribuzione dei crateri può ragionevolmente essere interpretata come una conseguenza delle
differenti età dei terreni. Se interpretiamo le caratteristiche strutture superficiali come una
traccia di intensa e travagliata attività geologica, dobbiamo anche ipotizzare che tale attività
abbia inevitabilmente nascosto gli impatti più antichi e questo potrebbe spiegare la presenza
solo di strutture relativamente piccole e l'assenza dei giganteschi bacini d'impatto rilevabili
altrove. Questo, comunque, non impedisce anche a Ganimede di fare sfoggio di una struttura
di 550 km (il bacino Gilgamesh).
Superficie di Ganimede
La struttura raffigurata è una catena di crateri riconducibile ad un corpo disintegratosi in
frammenti prima di colpire la superficie, proprio come è accaduto alla Shoemaker-Levy 9.
Callisto è per dimensioni uguale a Mercurio e, proprio come Mercurio, presenta una superficie
con una fitta craterizzazione, con la presenza di larghi bacini d'impatto (i due maggiori sono
Valhalla con diametro di 4000 km e Asgard di oltre 1600 km), segnale che, a differenza di
quanto è avvenuto per Ganimede, la sua superficie non è stata ringiovanita e rimodellata dalla
attività geologica.
Possiamo aspettarci poco dall'analisi della superficie di Io in merito all'evidenza ed al ruolo
giocato dagli impatti: l'intenso riscaldamento interno indotto dall'azione di marea generata
dalla vicinanza di Giove ha nei fenomeni vulcanici il suo tipico e naturale epilogo e questo
processo influenza pesantemente la morfologia superficiale del satellite. La superficie di Io,
infatti, è ricoperta da una coltre composta dal materiale eruttato continuamente dai vulcani e si
calcola che, al tasso di produzione attuale, nel corso di un milione di anni tale materiale possa
raggiungere il ragguardevole spessore di 10 metri.
Anche da Europa ci provengono scarse informazioni sul tasso di impatti che ha caratterizzato
il sistema satellitare di Giove, ma per ben altri motivi. La superficie del secondo satellite
galileiano è completamente ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e pertanto, in caso di
impatto, non sussistono le premesse ambientali perché una struttura craterica si possa
conservare per lunghi periodi. L'analisi delle immagini inviate dalle sonde (soprattutto quelle
scattate dalla Galileo nel corso del flyby effettuato il 6 novembre 1997) ci permette comunque
di rilevare, sparsi tra le caratteristiche striature della superficie di Europa, numerosi crateri
piccoli e grandi: si può senza difficoltà identificare l'evidente struttura a raggiera di Pwyll (un
cratere recente con diametro di 26 km) e, con altrettanta facilità si può notare, in una
immagine del 4 aprile 1997, una struttura craterica multi ring di 140 km di diametro.
I Satelliti di Saturno
La formazione degli anelli può essere spiegata ricorrendo ad un impatto in grado di sbriciolare
un satellite, anche se non è l'unica teoria in merito.
Sulla superficie di Mimas, spicca il gigantesco cratere Herschel, le cui dimensioni (ben 130 km
di diametro) ci inducono a ritenere che l'impatto che l'ha generato sia stato ad un passo dal
causare danni strutturali ben più disastrosi, e la stessa inclinazione orbitale di Mimas (circa
1,5°) non è escluso che si possa ragionevolmente attribuire proprio a tale evento.
Mimas, analogamente a Rhea e Giapeto, mostra inoltre una saturazione di piccoli crateri ed
una carenza di quelli maggiori di 30 km, indizio che l'epoca della sua formazione è recente,
collocabile cioè in un periodo in cui gli impattori erano ormai diventati più piccoli e quelli di
maggiori dimensioni costituivano solamente dei casi isolati. Ne consegue che si può ipotizzare
per tali satelliti un meccanismo di creazione-distruzione che si può essere attivato più volte nel
corso della loro storia.
Urano
L'asse di rotazione è praticamente adagiato sull'orbita, indicazione chiara che si sono verificati
violenti episodi collisionali che hanno profondamente influenzato la sua formazione.
I satelliti di Urano
Le indicazioni provenienti dal suo sistema satellitare non ci consentono di trarre molte
conclusioni, anche perché le superfici dei satelliti mostrano talvolta morfologie quasi opposte.
Mentre Ariel e Titania, infatti, con le loro superfici abbastanza giovani rivelano di essere stati
dei corpi geologicamente attivi e Umbriel, che richiama molto la morfologia di Callisto,
esibisce una superficie praticamente immutata dal termine del periodo di intenso
bombardamento iniziale, Miranda mostra sia terreni molto antichi e fitti di crateri, sia terreni
che risultano molto più recenti, forse i più giovani tra quelli riscontrabili nel sistema satellitare
di Urano. Quest'ultimo satellite, inoltre, mostra una inclinazione orbitale di oltre 4 gradi,
evidente indizio di un passato collisionale. Si potrebbe collegare ad un unico evento impattivo
sia questa anomala inclinazione dell'orbita, maggiore di quella degli altri satelliti di Urano, sia il
ringiovanimento di una parte della superficie, meccanismo molto efficiente nel caso di superfici
costituite quasi esclusivamente da ghiacci .
I Satelliti di Nettuno
Le immagini relative alla superficie di Tritone, mostrano la presenza sia di complesse strutture
di difficile interpretazione sia quella più familiare dei bacini di impatto, quasi cancellati dal
materiale effusivo che ha colmato la cavità iniziale (proprio in tale fenomeno e nella sua
collocazione in un'epoca recente si potrebbe ricercare la spiegazione dell'assenza di altri
crateri). Ma Tritone, indirettamente, ci può dare una indicazione molto più importante. Il
sistema satellitare di Nettuno (troppo anomalo per essere quello originario) ha da sempre
spronato i planetologi ad identificare le cause della sua stranezza. L'idea attualmente
accettata è quella proposta da P. Farinella e collaboratori nel 1980, che identifica nella cattura
di Tritone lo sconvolgimento del primitivo sistema satellitare di Nettuno. Con tale ipotesi si può
spiegare non solo il moto retrogrado del satellite, ma anche l'esistenza delle complesse
strutture superficiali attribuibili alle forti sollecitazioni gravitazionali che ne avrebbero riscaldato
l'interno.
Conclusioni
1. Il fenomeno degli impatti ha interessato e interessa tutti i corpi del Sistema Solare. I
flussi di craterizzazione mostrano situazioni non sempre omogenee tra le varie zone del
Sistema, tuttavia il loro studio, che ha nel conteggio dei crateri il dato principale,
costituisce un ottimo criterio per valutare le epoche di formazione delle varie superfici.
Anche se, chiaramente, è molto arduo (e talvolta impossibile) riuscire a correlare, sulla
base solamente di questi dati, le fasi geologiche dei vari corpi (sarebbe infatti
necessario disporre della datazione isotopica dei materiali), emerge ugualmente, quale
dato generale, il passaggio da una situazione di intensa craterizzazione iniziale ad una
fase meno violenta.
2. Gli episodi impattivi non hanno avuto solamente uno sbocco nella modificazione della
morfologia superficiale di tutti i corpi, ma hanno contribuito anche a cambiare la stessa
strutturazione interna (differenziazione nucleo/mantello) in quelli sufficientemente
grandi.
3. Talvolta i fenomeni di impatto hanno comportato pesanti modificazioni di carattere
dinamico, testimoniate dalla peculiarità di alcune orbite.
4. Per i pianeti di tipo terrestre bisogna sottolineare il ruolo degli impatti nel meccanismo di
rimozione /creazione delle atmosfere planetarie. Le atmosfere attualmente presenti non
possono certamente essere quelle originarie, dato che la formazione dei pianeti interni
si colloca quando ormai il vento stellare aveva abbondantemente svuotato di gas il
Sistema ancora in formazione. Siamo ancora lontani, però, dal poter affermare se le
nuove atmosfere siano un fenomeno diretto della volatilizzazione degli elementi
componenti la superficie planetaria innescata dal calore riconducibile agli impatti e/o ad
altri fenomeni di tipo endogeno oppure vi sia stato un apporto diretto di tali elementi
proprio da parte dei proiettili cosmici.
5. Un altro elemento fondamentale da inglobare in ogni discorso sugli impatti riguarda la
presenza attuale di acqua sul nostro pianeta e nel passato del pianeta Marte, come
dimostra la sua morfologia superficiale. Dal momento che questa acqua quasi
certamente non potrebbe provenire dai planetesimali che si stavano aggregando (la
temperatura in questa zona del Sistema Solare era troppo elevata), si deve ricercarne
l'origine in una sorgente esterna
FORMAZIONE DI CRATERI DA IMPATTO

Le 4 fasi di formazione
L'impatto è solitamente un fenomeno estremamente rapido e si svolge completamente in
tempi che vanno da frazioni di secondo a pochi minuti. I vari momenti qui indicati, più che una
sequenza temporale rigorosa, dovranno essere considerati fenomeni fisici che si
sovrappongono e si influenzano vicendevolmente durante il breve lasso di tempo occupato
dall'intero evento e, conseguentemente, la separazione tra una fase e la successiva non può
essere stabilita in modo netto. Esaminiamo le quattro fasi più rappresentative dell'evento:
compressione, escavazione, espulsione dei materiali e modificazione finale della
struttura.
Compressione
Durante la prima fase il meteorite colpisce la superficie planetaria e si innesca un sistema di
onde d'urto che trasferiscono energia cinetica (è infatti questa l'origine del contenuto
energetico associato ad ogni evento impattivo) non solo dal proiettile al bersaglio, ma anche
all'interno dello stesso corpo impattante.
La pressione che si viene a generare nel momento dell'impatto è elevatissima: si calcola,
infatti, che nella formazione di un tipico cratere di 10 km a seguito di un urto con un oggetto
dotato di velocità entro valori standard (dell'ordine, cioè, di 15 km/sec) si possono raggiungere
picchi di 5000-10000 kbar (500-1000 Gpa). Questo significa che diventa molto più di una
ragionevole ipotesi il pensare al violento sgretolarsi del meteorite (una vera e propria
esplosione) e la quasi istantanea sua vaporizzazione, destino che necessariamente deve
coinvolgere parte del materiale superficiale planetario presente nella zona dell'impatto.
Escavazione
Le onde d'urto generate dall'evento si propagano nel terreno (la loro velocità iniziale è di circa
10 km/sec) e questa compressione (associata all'espulsione di materiali dal luogo dell'impatto)
origina la cosiddetta "cavità transiente", l'enorme voragine iniziale destinata, in seguito, a
trasformarsi nel cratere vero e proprio.
Il cratere, pertanto, (tranne nel caso di cadute meteoritiche caratterizzate da un più basso
livello energetico) non è mai identificabile come un fenomeno di scavo meccanico originato da
un oggetto solido (il meteorite) che, per così dire, si apre la strada all'interno di un altro
oggetto (la superficie planetaria), cercando di mantenere la direzione originaria del suo moto;
si tratta, invece, del trasformarsi istantaneo in una regione limitatissima di enormi quantitativi
di energia cinetica in energia meccanica e termica.
Nel caso di un impatto astronomico come quelli che stiamo considerando, diventano
completamente irrilevanti sia la forma dell'impattore che la direzione di provenienza del suo
moto ed il risultato che si ottiene è in ogni caso un cratere circolare (che è quanto si può
comunemente osservare). Unica eccezione potrebbe essere costituita da un impatto radente,
un impatto cioè con un angolo di non più di qualche grado rispetto all'orizzonte, situazione che
potrebbe originare un cratere ellittico (o anche una serie di crateri allineati a causa della
disgregazione del proiettile in più oggetti distinti) dal momento che l'energia non verrebbe più
liberata in un unico punto, ma piuttosto lungo una linea.
Espulsione dei materiali
Inizialmente la velocità di espulsione dei materiali è notevole (anche qualche km/sec), ma poi
si attenua stabilizzandosi su valori dell'ordine di 100 m/sec.
I materiali (ejecta) vengono scagliati verso l'alto e verso l'esterno ricoprendo in tal modo una
vasta area circostante il luogo dell'impatto e vanno a formare le caratteristiche raggiere tipiche
di alcuni crateri lunari (si pensi, ad esempio, a quelle evidentissime nel caso del cratere
Tycho), ma che sulla Terra verranno ben presto mascherate dall'opera erosiva dei fenomeni
atmosferici e molto spesso completamente cancellate, assieme a tutta la struttura craterica,
dall'azione distruttiva dei fenomeni geologici.
La forma delle raggiere originate dalla ricaduta degli ejecta ha la sua importanza poiché ci può
fornire preziose informazioni sul tipo di terreno presente nella zona dell'impatto. Se si
esamina, ad esempio, la morfologia degli ejecta dei crateri lunari e la si confronta con quella
dei crateri sulla superficie di Marte, si può vedere come nel secondo caso la coltre originatasi
dai materiali espulsi al momento dell'impatto abbia un caratteristico profilo multilobato, e
proprio questa particolare disposizione ci porta a suggerire la presenza di sostanze liquide sul
luogo d'impatto.
L'interpretazione corrente di queste strutture, infatti, considerando l'azione di escavazione e di
brusco riscaldamento nel momento dell'impatto e la forte presenza di acqua incorporata nel
terreno marziano (permafrost), suggerisce che, anziché il descritto meccanismo di espulsione
su traiettorie balistiche, si inneschi un movimento dei materiali quasi a ondate, che obbligano
gli ejecta a mantenersi radenti al terreno, quasi si trattasse di una esondazione.
La superficie della Luna, invece, è completamente priva di quella componente liquida e
dunque la formazione del caratteristico manto costituito dai materiali espulsi presenta un
aspetto più polveroso, con i materiali (più chiari) provenienti dal sottosuolo che si
distribuiscono (talvolta secondo direzioni privilegiate) all'intorno del cratere ricoprendo la
superficie originaria di colore più scuro (perché dal lunghissimo tempo esposta all'azione
arrossante dei raggi cosmici).

Modificazione
La fase di modificazione della struttura craterica iniziale creatasi a seguito dell'impatto (cavità
transiente) può essere vista in una duplice prospettiva: se da un lato, infatti, si possono
considerare i fenomeni immediatamente successivi all'evento e ad esso direttamente correlati,
dall'altro, però, non si devono trascurare altri processi che, sebbene non direttamente
innescati dall'impatto e caratterizzati da tempi di azione non altrettanto rapidi, sono cause di
mutamenti non meno importanti per l'intera struttura.
Il più importante tra i processi direttamente innescati dall'evento impattivo e che si
manifestano negli istanti immediatamente seguenti al suo verificarsi è l'assestamento
isostatico della struttura. È evidente, infatti, che non appena diminuisce l'azione di
compressione sulle rocce sottostanti la zona della caduta queste tendono a ritornare nella
posizione iniziale (un vero e proprio rimbalzo elastico) riducendo in parte la profondità della
cavità transiente; tale fenomeno, nel caso di impatti di grosse dimensioni, può sfociare nella
formazione di una struttura centrale (central peak) oppure in una struttura più complessa ad
anelli concentrici sopraelevati (bacino multi-ring).
Inoltre, l'inevitabile ricaduta degli ejecta nella zona stessa dell'impatto, contribuisce
ulteriormente a ridurre la profondità della struttura. Il miscuglio di rocce risultante dalla
condensazione del materiale fuso e parzialmente vaporizzato lanciato in atmosfera al
momento dell'urto e poi ricaduto viene solitamente indicato con il termine di suevite.
Infine, la struttura viene ulteriormente alterata da mutamenti indotti da fenomeni atmosferici
(venti, precipitazioni, azione dei corsi d'acqua, movimento dei ghiacci) e geologici (bradisismi,
terremoti, fenomeni di orogenesi, manifestazioni vulcaniche). È chiaro che le modificazioni di
questo tipo possono riguardare solamente la Terra ed i corpi celesti ancora geologicamente
attivi (un esempio in tal senso può essere Europa) oppure dotati di una atmosfera (ad esempio
Venere).
Un altro agente in grado di mutare e mascherare la morfologia della primitiva struttura è la
vegetazione.
Comunque, anche sui corpi geologicamente morti e privi di atmosfera è attivo un modo tutto
particolare di eliminazione delle tracce di un impatto: poiché la superficie di tali corpi conserva
i crateri di tutti gli impatti avvenuti nel corso dell'intera storia geologica, si può giungere in
talune regioni alla cosiddetta saturazione di craterizzazione , il che significa che ogni nuovo
cratere deve necessariamente distruggere (parzialmente o completamente) una struttura
preesistente.

MORFOLOGIA DEI CRATERI DA IMPATTO


Le strutture da impatto vengono distinte in crateri semplici e crateri doppi. Questa
classificazione si basa su crateri esposti alla forte erosione dell'atmosfera terrestre, tuttavia
risulta applicabile anche a quelli di tutti gli altri corpi celesti del Sistema Solare.
Crateri semplici
Le strutture da impatto di questo tipo sono caratterizzate dalla tipica forma di depressione
circolare con bordi rialzati rispetto al terreno circostante, provenienti dall'accumularsi degli
ejecta attorno al luogo dell'impatto. Il diametro di tali strutture semplici, sul nostro pianeta, è
contenuto entro circa 2-4 km; oltre tale misura, infatti, il cratere comincia generalmente ad
assumere una morfologia più complessa. Il parametro che determina la morfologia finale di un
cratere è il valore della forza di gravità sulla superficie: maggiore è tale valore e minore sarà il
diametro di transizione.
Sulla Luna, la cui gravità è circa un sesto di quella terrestre, il passaggio da formazioni
semplici a complesse si ha per diametri dell'ordine di 15-20 chilometri.
Oltre al fattore-gravità, comunque, un ruolo importante lo giocano anche le proprietà dei
terreni nei quali avviene l'impatto ed il grado di resistenza dei materiali che li compongono.
La struttura solitamente menzionata per illustrare questa tipologia di crateri è il Meteor Crater
in Arizona .
In generale nei crateri semplici il rapporto tra la profondità ed il diametro è di circa 1:5 - 1:7,
rapporto che, nel caso dei crateri complessi, diventa circa 1:10 - 1:20.
Per quanto riguarda la profondità di un cratere, occorre distinguere quella che deve essere
considerata la profondità reale, cioè la profondità della struttura al termine della sequenza
impattiva, da quella apparente, che è praticamente quella misurabile ai nostri giorni.
E' infatti estremamente pesante, sul nostro pianeta, l'azione dell'erosione che porta
(naturalmente sempre su tempi geologici) ad un rapido degrado della struttura con frane delle
pareti laterali e conseguente riempimento della cavità, favorito anche dall'azione dei venti e
delle precipitazioni atmosferiche: tutto ciò comporta che la profondità misurabile attualmente
non è più quella originaria del cratere transitorio, per determinare la quale è indispensabile
una accurata analisi della stratigrafia sottostante, che rivela l'esistenza di uno strato di rocce
tipo breccia di forma lenticolare.
Crateri complessi
La varietà delle forme che le strutture riconducibili a questo secondo gruppo possono
assumere è veramente notevole, anche se, comunque, si possono evidenziare alcuni tratti
caratteristici.
Già si è accennato ad un rapporto diametro/profondità inferiore a quello dei crateri semplici, il
che significa che tali strutture hanno, in proporzione, una minore profondità.
Ma le caratteristiche fondamentali di un cratere complesso possono essere identificate nella
presenza di un picco centrale e di bordi multipli concentrici (multi ring) che circondano il punto
dell'impatto, strutture riconducibili al rimbalzo elastico del terreno che tende a riprendere la
sua posizione naturale dopo la compressione generata dall'impatto nella fase di creazione di
una profonda cavità transiente. Un fenomeno che può dare un'idea di ciò che accade è
osservabile lanciando un sasso in acqua: si può chiaramente notare il formarsi di una colonna
ascendente centrale e l'innescarsi di onde concentriche intorno al punto d'impatto. Ed
effettivamente i materiali fusi a seguito dell'enorme quantità d'energia sprigionata dall'impatto
si comportano proprio come l'acqua, formando anelli concentrici che, con il successivo
raffreddamento, si solidificano. Il crollo successivo delle pareti contribuisce, infine ad allargare
la struttura portandola alle sue dimensioni finali.
Anche se il picco centrale e la struttura ad anelli concentrici sono chiaramente visibili,
nonostante la pesante e prolungata azione degli agenti atmosferici, in molti crateri terrestri
(Sudbury, Vredefort, Manicouagan, Clearwater Lakes), gli esempi più significativi di crateri
complessi li possiamo più agevolmente individuare sul nostro satellite, dove la mancanza di
fenomeni erosivi ha mantenuto ogni cosa con il suo aspetto originale.
Il picco centrale e le ripide pareti sono molto evidenti, ad esempio, osservando il cratere
Tycho, una struttura del diametro di 85 km originata da un impatto avvenuto circa 100 milioni
di anni fa: i raggi brillanti che si dipartono dal cratere e si estendono per buona parte
dell'emisfero meridionale (molto appariscenti in occasione della Luna piena) sono gli ejecta
dell'impatto che, non ancora arrossati dalla radiazione cosmica, spiccano sul fondo più scuro
della superficie lunare. Facilmente individuabili sul nostro satellite sono anche alcune
gigantesche strutture, i cosiddetti bacini d'impatto, le cui sorprendenti dimensioni ci ricordano il
tempo in cui una caratteristica saliente del Sistema Solare fu la presenza massiccia di
giganteschi impatti. Tra i bacini d'impatto più grandi identificabili sulla Luna e riconosciuti
come tali possiamo citare il Mare Orientale, che ha un diametro di 900 km e mostra
evidentissima la sua struttura "multi-ring", il Mare Imbrium (diametro di oltre 1100 km) e la
struttura collocata al Polo Sud del nostro satellite (Bacino Aitken, con diametro di 2500 km). Di
dimensioni confrontabili sono i bacini Caloris Planitia su Mercurio e Walhalla su Callisto.
Identificazione dei crateri da impatto
Un metodo per riconoscere l'origine impattiva di un cratere, è l'identificazione di un fenomeno
che prende il nome di metamorfismo da shock, intendendo con ciò i profondi e radicali
cambiamenti che le smisurate energie in gioco possono provocare nelle rocce terrestri
presenti sul luogo dell'impatto.
Le strutture più facilmente identificabili sul terreno sono senza dubbio gli shatter-cones; oltre
all'impatto, infatti, non si conosce nessun altro meccanismo che possa creare le condizioni in
grado di generare tali strutture. Si tratta di fratture coniche che si sviluppano, isolatamente o a
gruppi, in rocce generalmente a grana fine e che mostrano sulla superficie delle striature
longitudinali, richiamando vagamente la trama di una coda di cavallo. L'origine di queste
strutture va ricercata nel momento in cui l'onda d'urto generata dall'impatto attraversa la
roccia: questo comporta che l'apice dei coni debba inizialmente essere rivolto verso il punto
dell'impatto, ma i pesanti sconvolgimenti che l'onda d'urto induce nel terreno cancellano ben
presto tale orientamento iniziale. Normalmente non vengono rinvenuti dei coni completi (tra
l'altro la traduzione letterale del termine inglese è proprio "coni frantumati"), ma solamente dei
frammenti, che spesso racchiudono più strutture di questo tipo che si intersecano l'un l'altra.
L'altezza di questi coni può variare da 1 cm a 5 metri e l'angolo apicale è solitamente molto
prossimo a 90°.
Il passaggio di un'onda di shock nella massa rocciosa lascia delle tracce anche nella struttura
cristallina di molti minerali: tra questi si possa ad esempio citare il quarzo, nella cui struttura si
sviluppano formazioni piane dette lamine di shock, oppure il plagioclasio (una classe di
minerali molto comune, che costituisce circa il 50% della crosta terrestre) che può venire
parzialmente trasformato in vetro diaplettico (vetro di alta densità formatosi allo stato solido in
seguito alla presenza di elevatissime pressioni) che appare isotropo e uniforme in tutte le
orientazioni.
Un'altra tipologia rocciosa la cui presenza è riconducibile all'azione di un impatto è la
cosiddetta breccia d'impatto, una struttura a conglomerato formatasi in seguito al ricementarsi
disordinato dei frammenti rocciosi originatisi dalla disgregazione operata dall'impatto.

ENERGIA DI UN IMPATTO
Dalla fisica elementare sappiamo che l'energia cinetica di un corpo di massa (m) e velocità (v)
è data da:

Partendo da questa formula e trascurando ogni possibile variazione dei


parametri di caduta imputabile all'azione di attrito esercitata dall'atmosfera, si può facilmente
calcolare il contenuto energetico di alcuni asteroidi e comete.
Nella tabella, si indica il contenuto energetico (esprimendolo sia in Joule che in
Mton=4.2*1015Joule) associato a quattro differenti situazioni, due delle quali riguardano
oggetti celesti reali e ben noti, mentre le altre due sono ipotetiche, ma comunque verosimili,
cioè rappresentano oggetti dotati di caratteristiche comunemente riscontrabili tra i corpi reali.

OGGETTO DIAMETRO MASSA (ton) ENERGIA (Joule) ENERGIA (Mton)


Asteroide 1 km 1.2x109 1.91x1020 4.54x104
Cometa 1km 5.24x108 1.29x1021 3.07x105
4179 Toutatis 4.2km+2.5km 1.08x1011 4.86x1022 1.16x107
Hale-Bopp 40km 3.35x1013 3.24x1025 7.72x109

Il calcolo della massa dei quattro oggetti è stato fatto impiegando valori di densità tipici per
questi corpi celesti, vale a dire 1 g/cm3 per le comete e 2.3 g/cm3 per gli asteroidi.
Nel caso di 4179 Toutatis si è calcolata la massa considerandolo costituito (come sembra sia
in realtà) da due corpi a contatto dei quali si è ipotizzata per comodità una struttura sferica.
Analoga struttura sferica è stata ipotizzata anche per i calcoli relativi alla cometa Hale-Bopp.
Per il calcolo dell'Energia Cinetica, infine, si sono impiegati i seguenti valori di velocità:
Asteroide 17.8 km/sec (è la velocità media di un oggetto Earth-crosser)
Cometa 70.2 km/sec (è la velocità della cometa Encke al perielio)
Toutatis 30 km/sec
Hale-Bopp 44 km/sec
2. RICHIAMI DI FISICA

CAMPI MAGNETICI DEL SISTEMA SOLARE


Introduzione
I campi magnetici rivestono una grandissima importanza all’interno del cosmo, in quanto
caratterizzano non solo i pianeti ma anche le stelle, le galassie e l’universo nella sua
interezza. Il campo magnetico può essere visto come un vero e proprio agitatore cosmico: se
esso non esistesse l’universo funzionerebbe esclusivamente grazie alle forze nucleari e
gravitazionali essendo in tal modo soggetto ad una graduale, ma comunque irreversibile,
degradazione termica costellata da occasionali eventi esplosivi. La sua presenza può invece
dar vita ad affascinanti spettacoli cosmici quali le aurore nell’atmosfera terrestre, i brillamenti
stellari, l’emissione di raggi X e tanto altro ancora.
Il nostro scopo è quello di riassumere i caratteri generali del magnetismo planetario spiegando
i principi fisici secondo i quali esso funziona.
Caratteristiche generali
I campi magnetici planetari sono campi di dipolo. Ogni pianeta che lo possiede è caratterizzato
da un polo nord e un polo sud magnetici attraversati da un asse, detto asse magnetico, che
non coincide con quello di rotazione. Nella maggior parte dei casi l’inclinazione del primo
rispetto al secondo è di pochi gradi ( e.g. 11.5 oper la Terra,10.8 o per Giove, 1oper Saturno)
mentre per Urano e Nettuno assume un valore abbastanza elevato rispettivamente di 58.6 o e
di 47 o.
Il campo magnetico di un pianeta è la somma di due componenti distinte : un campo
magnetico intrinseco, generato da processi fisici interni al pianeta stesso e del quale ci
occuperemo, ed uno estrinseco, derivante dall’interazione fra le particelle che costituiscono il
vento solare e gli strati più alti dell’atmosfera.
Al fine di capire quale sia la morfologia del campo magnetico planetario può essere utile
considerare la figura seguente.
Allontanandosi dalla superficie di un pianeta si può notare che il campo magnetico assume
una forma molto particolare: l’interazione con il vento solare dà origine alla magnetosfera, una
regione molto ampia che circonda il pianeta e che ha la peculiarità di essere schiacciata dalla
parte rivolta verso il Sole e di formare invece una lunga coda dalla parte opposta. Appena al di
fuori della magnetosfera, là dove il campo magnetico riesce leggermente a contrastare il vento
solare, si forma un’onda d’urto paragonabile a quella che precede la fusoliera di un aereo in
volo, anche se, nel primo caso, il disturbo è di origine elettromagnetica e non di pressione.
Generalmente il vento solare non riesce ad entrare all’interno della magnetosfera ma può solo
scivolare lungo la sua superficie limite che prende il nome di magnetopausa.
Si è usato l’avverbio "generalmente" in quanto può accadere che alcune particelle energetiche
provenienti dalla nostra stella riescano a penetrare la magnetosfera per rimanere poi
intrappolate all’interno di fasce di radiazione che prendono il nome di fasce di Van Allen.
Quasi tutti i pianeti del sistema solare possiedono un campo magnetico intrinseco, ne sono
sprovvisti, stando almeno alle ultime rilevazioni delle sonde planetarie, Marte e Venere.
Per la Terra il campo magnetico assume un valore in intensità oscillante tra 30mT vicino
all’equatore e 60mT ai poli. Quello che viene chiamato polo nord magnetico, che si trova nelle
regioni settentrionali del Canada, coincide in realtà con il polo sud del dipolo Terra, in quanto
qui le linee di forza del campo sono entranti. Di conseguenza il polo sud magnetico coincide
con quello nord del dipolo e si trova in Antartide (vedi la figura a lato).

Nella tabella seguente vengono riassunti i valori in intensità dei campi magnetici per i vari
pianeti; è facile notare che il campo magnetico più intenso nel sistema solare lo possiede
Giove, Saturno ne ha uno abbastanza simile a quello terrestre, Mercurio uno stranamente
elevato per le sue dimensioni e caratteristiche cinematiche, mentre Marte e Venere
praticamente non lo possiedono. I motivi di questi strani comportamenti verranno discussi
nelle sezioni successive.

Pianeta B alla superficie (mT)

Mercurio 0.35

Venere < 0.01

Terra 30

Marte < 0.01

Giove 430

Saturno 20

Urano 10-100

Nettuno 10-100

Le leggi fisiche
Per arrivare all’illustrazione del modello teorico che spiega la formazione del campo magnetico
terrestre è necessario chiarire che cos’è un campo magnetico e introdurre quali sono le leggi,
del tutto empiriche, che descrivono il suo funzionamento.
Il campo magnetico è una regione dello spazio in ogni punto della quale è definito un vettore
intensità del campo indicato col simbolo . Numerosi e interessanti sono i legami fra esso e
particelle cariche in moto. La prima legge di Laplace ci dice infatti che nella regione di spazio
attorno ad un conduttore nel quale scorre una corrente i viene generato un campo magnetico
espresso dalla formula

(a)
dove m0è una costante detta " permeabilità magnetica del vuoto ", i è la

corrente che scorre entro in conduttore, è un tratto infinitesimo della lunghezza del
conduttore ed è il raggio vettore che ha origine in esso e termina nel punto d’interesse P
(vedi la figura seguente relativa alla prima legge di Laplace).

Una particella di carica q che si muove con una velocità all’interno di un campo magnetico
è soggetta alla forza di Lorentz che devia la sua traiettoria:
(b)
La (b) afferma che la forza agente su una carica in moto ha direzione perpendicolare al piano
che contiene i vettori e e verso dato dalla famosa legge della mano destra.
Un conduttore nel quale scorre una corrente i immerso in un campo magnetico sarà
soggetto ad una forza totale ottenuta come integrazione della b su tutta la lunghezza del filo:

(g)

La (g) è conosciuta come seconda legge di Laplace (vedi figura) ed è giustificata dal fatto che
ogni carica formante la i entro il filo è soggetta alla forza di Lorentz e quindi occorre sommare
tutti i singoli contributi.
Il magnetismo planetario è un fenomeno fisico strettamente legato all’induzione
elettromagnetica che afferma che in un conduttore in moto in un campo magnetico uniforme
viene indotta una forza elettromotrice (fem) che fa scorrere corrente (la stessa cosa
accadrebbe anche se il conduttore fermo fosse immerso in un variabile anziché uniforme).
Questo processo è descritto formalmente dalla legge di Faraday-Newmann:
(d)
La (d) afferma che se il flusso magnetico concatenato con un circuito varia nel corso del
tempo, nel circuito stesso viene indotta una fem il cui verso è tale da opporsi (ecco perché il
segno negativo) alla variazione che l’ha generata.
Condizioni interne di un pianeta per la formazione di un campo magnetico
E’ stato già messo in luce il fatto che i campi magnetici caratterizzano pianeti, stelle, galassie
e tutto l’universo; la loro generazione in corpi così diversi ha comunque un’unica spiegazione
che deriva dalla magnetoidrodinamica, la scienza che studia l’interazione tra un fluido
conduttore in moto e un campo magnetico.
Nel caso dei pianeti tali fluidi sono riserve interne di metallo fuso mantenute in moto turbolento
da forze nucleari e gravitazionali; i campi magnetici preesistenti nei fluidi vengono deformati e
curvati da questi moti acquistando in tal modo energia. Si assiste quindi alla trasformazione
dell’energia meccanica del fluido in moto in quella di un campo magnetico secondo la legge
dell’induzione elettromagnetica di Faraday. Lo strumento fisico che più si avvicina a questo
prototipo è la dinamo e questo è anche il motivo per il quale il fenomeno fisico che genera i
campi magnetici planetari prende il nome di effetto dinamo.
Una dinamo è costituita essenzialmente da un disco metallico rotante attorno ad un asse e da
una bobina coassiale collegata elettricamente ad esso tramite delle spazzole. Una debole
corrente immessa nella bobina genera un campo magnetico che, per la geometria della
dinamo, risulta parallelo all’asse del disco. In esso gli elettroni in moto sono soggetti alla forza
di Lorentz e quindi prendono a scorrere dall’asse alla periferia (lungo il raggio) creando una
corrente. Questa, tramite le spazzole, viene trasferita dal disco alla bobina dove va ad
intensificare il prodotto da essa originariamente e quindi anche la i indotta nel disco.
Le dinamo magnetoidrodinamiche funzionano sostanzialmente nello stesso modo, ma le
cariche, in questo caso, non sono più confinate in bobine ma si muovono all’interno di una
massa fluida immersa in un campo magnetico preesistente.
E’ utile ai fini della descrizione fisica dell’effetto dinamo vedere come formato da linee di
forza "attaccate" alle particelle di cui il fluido è composto. Quando quest’ultimo è in moto, tali
linee vengono stirate e deformate aumentando l’intensità del campo magnetico originario in
quanto, anche in questo caso, l’energia meccanica del fluido viene trasformata in quella di .
Affinché in un pianeta si possa generare un campo magnetico di dipolo misurabile è quindi
necessario che al suo interno si verifichi questa trasformazione e cioè che:
1. Dentro al pianeta vi sia un campo magnetico di dipolo preesistente, anche se
debolissimo, che verrà poi intensificato dal meccanismo della dinamo.
2. Dentro al pianeta ci sia un fluido conduttore capace di sostenere le correnti associate al
campo.
3. Tale fluido sia soggetto ad una rotazione non uniforme e ad una convezione ciclonica,
cioè ad un moto di particelle dal basso verso l’alto descritto da traiettorie a spirale.
Nel caso dei pianeti dotati di campo magnetico è stato accertato che tutte queste condizioni
sono soddisfatte e che, in particolare, il fluido conduttore è presente nella parte esterna del
nucleo sotto forma di metallo fuso inglobante un nucleo centrale più piccolo e solido.

IL MODELLO FISICO DELL’EFFETTO DINAMO


Il primo ad elaborare il modello fisico dell’effetto dinamo per spiegare il magnetismo planetario
fu Walter M. Elsasser nel 1945. Prima di allora si pensava che i campi magnetici dei pianeti
fossero generati per effetto termoelettrico ma, a seguito delle importanti scoperte nell’ambito
della fisica atomica della prima metà dello scorso secolo, lo si dovette scartare a favore del
nuovo e convincente modello.
Elsasser basò la sua teoria su alcune evidenze osservative quali il fatto che sulla superficie
terrestre esistono zone, anche estese migliaia di chilometri, che presentano valori d’intensità
di completamente diversi da quello medio. Lo scienziato ipotizzò che queste " anomalie "
fossero il corrispettivo sulla superficie terrestre di celle convettive di fluido in moto nel nucleo
della Terra.
Nel 1945 le conoscenze circa la struttura interna del pianeta erano abbastanza certe (vedi
figura): da studi riguardanti la propagazione delle onde sismiche nel sottosuolo, si sapeva che
la Terra è costituita da gusci concentrici di materia che avvolgono un nucleo interno solido di
dimensioni abbastanza ridotte. Procedendo verso la superficie si incontrano rispettivamente
nucleo interno (solido), nucleo esterno (liquido), mantello e crosta terrestre (entrambi solidi). Il
fluido costituente la parte esterna del nucleo sarebbe quindi caratterizzato dai moti convettivi
che generano le anomalie suddette sulla superficie. Elsasser notò inoltre che queste ultime
non restavano fisse, ma si muovevano lentamente verso ovest di 0.18 gradi all’anno.
Una spiegazione plausibile di questo moto di "deriva" è la rotazione della parte esterna del
nucleo verso est con velocità angolare minore del pianeta Terra, in modo che una cella
convettiva produca sulla superficie un’anomalia che rimane indietro ogni anno rispetto alla
posizione precedente. L’effetto totale che si ottiene è proprio un moto apparente di
quest’ultima verso ovest.
La spiegazione più sensata agli occhi di Elsasser della lenta rotazione del nucleo esterno è
che in esso le particelle del fluido siano soggette alla forza di Coriolis mentre procedono
convettivamente dal basso verso l’alto. Per la conservazione del momento angolare si ha che
più il fluido è vicino all’asse terrestre, più ruota velocemente. Dal momento che il nucleo
esterno ha la forma di guscio sferico, allora in esso il fluido ruoterà più velocemente ai poli
(cioè alle latitudini più elevate ) che non all’equatore e, alle basse latitudini, si assisterà ad un
moto più intenso mano a mano che dall’esterno del nucleo si procede verso l’interno. Per una
migliore comprensione del modello fisico di Elsasser è utile procedere per tappe e visionare
alcune immagini che illustrano il processo.

1)Come già detto è necessario che all’interno


della Terra vi sia un campo magnetico
dipolare preesistente.
2) Le linee di forza di , congelate nel
fluido, vengono deformate e stirate a seguito
della rotazione non uniforme del nucleo in
direzione perpendicolare a quella originaria.

3) In questo modo viene generato un campo


magnetico, perpendicolare a quello di dipolo
preesistente, chiamato campo azimutale e
diretto verso est nell’emisfero boreale e
verso ovest in quello australe.

4)Il campo azimutale è caratterizzato da un


tempo di decadimento (tempo necessario
affinché si riduca sensibilmente ad opera del
decadimento resistivo della corrente
associata e della tensione delle linee di forza
del campo magnetico) dell’ordine di 30000
anni. Durante questo periodo le linee del
campo hanno avuto modo di avvolgersi molte
volte attorno al nucleo dando vita ad un
campo azimutale sempre più intenso e che
rimane l’unico esistente se gli sottraiamo
quello dipolare ormai trascurabile.
5) Come già detto il fluido è soggetto ad una
convezione ciclonica, cioè le sue particelle
descrivono traiettorie a spirale dirette dal
basso verso l’alto e percorse in senso
antiorario nell’emisfero boreale e in senso
orario in quello australe.

6) Questo moto genera dei cappi negli anelli


del campo azimutale la cui parte esterna è
diretta verso nord e quella interna verso sud
in entrambi gli emisferi del pianeta. Nel corso
del tempo questi campi hanno modo di
fondersi e diffondersi dando vita ad un
campo magnetico più intenso di quello
preesistente e rilevabile sulla superficie
terrestre come campo di dipolo.

Argomenti a sostegno e contro tale modello


Il modello teorico elaborato da Elsasser giustifica un’importante evidenza osservativa riguardo
il campo magnetico terrestre, cioè il fatto che esso ha invertito più volte la sua polarità nel
corso della sua esistenza; esaminando infatti l’orientamento dei granuli di ossido di ferro nelle
lave uscenti dalle spaccature dei fondi oceanici, si può capire che la Terra ha invertito la sua
polarità magnetica (impiegando per questo circa 1000 anni ) ad intervalli casuali di 105-107
anni.
Secondo il nostro modello la spiegazione è data dal fatto che la convezione a cui è soggetto il
fluido nel nucleo può intensificarsi a tal punto da gettare la dinamo in una condizione caotica
nella quale i campi magnetici (azimutale e di conseguenza dipolare) assumono un’
orientazione sbagliata (vedi le figure sottostanti).
Il modello della dinamo riesce anche a giustificare i valori d’intensità dei campi magnetici
registrati dalle sonde per i vari pianeti del sistema solare. Sapendo che essi dipendono dalle
dimensioni assolute del nucleo e dalla sua velocità di rotazione, rimarrebbe spiegato il motivo
per il quale Venere non possiede campo: la sua lenta rotazione attorno all’asse (244 giorni)
non sarebbe infatti in grado d’innescare il meccanismo della dinamo.
I campi di Giove e Saturno sono giustificabili con la presenza di strati interni di H ed He che,
alle particolari condizioni di temperatura e densità in cui si trovano, fungerebbero da buoni
conduttori. La velocissima rotazione del gigante gassoso del sistema solare, unitamente alla
presenza di questi fluidi, sarebbero le cause del suo campo così intenso. Il fatto che Saturno
abbia un valore di stranamente abbastanza simile a quello della Terra (le cui dimensioni
sono assai minori!) è giustificabile considerando che, per il primo pianeta, lo strato di H
metallico è più ridotto che in Giove.
Rimangono comunque degli importanti interrogativi che rendono il modello dell’effetto dinamo
non del tutto convincente. Innanzitutto non si riesce a capire quale sia la fonte di energia che
alimenta la convezione del fluido nel nucleo esterno; inoltre, come mai Marte, pianeta molto
simile alla Terra, non è dotato di campo magnetico, mentre Mercurio, che pure ruota su se
stesso molto lentamente, ha un campo aprezzabile (un ottantesimo di quello terrestre).
Gli scienziati giustificano queste contraddizioni ipotizzando per il pianeta più interno del
sistema solare un meccanismo convettivo particolarmente efficiente associato ad un nucleo di
dimensioni alquanto elevate mentre per il pianeta rosso un’assenza di fluidi conduttori
all’interno a seguito di un raffreddamento millenario.
Soltanto le future missioni spaziali potranno sciogliere questi dubbi e confermare o meno la
validità del modello dell’ effetto dinamo.
LE ATMOSFERE PLANETARIE
TEMPERATURA EFFETTIVA

Nel caso di pianeti senza atmosfera, la legge di Stefan-Boltzmann è il fattore cruciale per
determinare la temperatura: pensando un pianeta come un corpo nero di raggio e
temperatura costante, l’energia emessa dal pianeta nell’unità di tempo sarà:

Ovviamente, la luminosità di corpo nero del Sole è analoga:

Il flusso solare che arriva a sul pianeta sarà quindi:

dove D è la distanza Sole-pianeta.

Possiamo identificare la luminosità di corpo nero del pianeta con il flusso solare che attraversa
l’area proiettata del pianeta e ne viene assorbito. Chiamando a l’albedo, ossia la percentuale
di luce riflessa dal pianeta, la frazione di luce assorbita sarà (1-a), e quindi:

Sostituendo ad Fsun la sua espressione:

Facendo lo stesso per Lp:

Semplificando e risolvendo rispetto a Te:

Come si può notare, la temperatura effettiva non dipende dalla grandezza del pianeta, ma da
temperatura e raggio solari, dalla distanza dal sole e da un solo parametro interamente
relativo al pianeta, l’albedo.

Introducendo i valori per la Terra ( ), risulta:

Questo valore è ben al di sotto della reale temperatura superficiale media della Terra, che è di
circa 15ºC. La ragione di ciò sta nel fatto che la temperatura superficiale di qualsiasi pianeta
dotato di atmosfera è innalzata, in maniera minore o maggiore a seconda dei casi, dall’effetto
serra
TEMPERATURA REALE
Nella nostra trattazione di come fattori atmosferici differenzino la temperatura reale di un
pianeta dalla effettiva andremo a considerare:
- Pianeti (satelliti) di tipo terrestre (quelli di tipo Giove non hanno superficie nel senso qui
inteso, ben definibile);
- Corpi dotati di atmosfere rilevanti (escludiamo quindi ad esempio Mercurio e Luna dotati di
atmosfere troppo tenui per dare effetti importanti). Come l'atmosfera influenzi questi corpi si
può vedere con un semplice conto.
Grazie alla legge di Wien possiamo calcolare qual è la radiazione di picco che la Terra emette
nel liberare l’energia ricevuta dal Sole:

che cade nell’infrarosso medio. Questa radiazione viene in parte assorbita dai gas che
compongono l’atmosfera, contribuendo così all’innalzamento della temperatura al di sopra
della temperatura effettiva.
Alle lunghezze d’onda dell’infrarosso medio i maggiori responsabili dell'assorbimento sono:
• molecole biatomiche sono assorbitori deboli, a meno che gli atomi che le compongono
non siano diversi (CO, NO in particolare)
• molecole con più di due atomi (H2O, CO2 in particolare) sono assorbitori forti
• sostanze molto complesse di produzione umana (CFC e gas di produzione industriale)
• polveri in sospensione.

I primi tre sono i responsabili dell'effetto serra, le ultime dell'effetto areosol.

EFFETTO SERRA

Supponiamo un’atmosfera composta da un singolo strato che assorba tutta la radiazione IR


emessa dalla superficie del pianeta; l’effetto serra è determinato sostanzialmente dal bilancio
energetico radiativo tra superficie, atmosfera e spazio esterno:

Come si vede nella figura, la radiazione che giunge sul pianeta dal Sole (Sr) deve essere
uguale alla radiazione che l’atmosfera emette nello spazio (Pr), altrimenti il pianeta si
riscalderebbe continuamente nel tempo.
La superficie del pianeta assorbe il calore del Sole e quello che l’atmosfera gli ritrasmette, e
quindi rilascia nell’atmosfera il flusso . Il sistema pianeta+atmosfera quindi può essere
assimilabile ad un nuovo corpo nero la cui luminosità è:

Semplificando e risolvendo rispetto a Tsurf:

Per la Terra, la temperatura media superficiale in questa modellizzazione risulta:


, che sono troppi, ma ricordiamoci che abbiamo assunto che tutta la
radiazione IR rilasciata dalla superficie venga intrappolata dall’atmosfera, il che è un’evidente
estremizzazione.

In realtà, la temperatura superficiale terrestre mediata su tutte le latitudini, su tutte le ore del
giorno, su tutto l'anno, è circa .

Il fattore che fa aumentare la temperatura superficiale rispetto a quella effettiva, che noi
abbiamo ricavato da un semplice bilancio energetico, ha in realtà un’origine fisica. Il radicando
è uguale a , dove t è la profondità ottica dell’atmosfera alle lunghezze d’onda
infrarosse. Nel nostro modello, aver supposto l’atmosfera composta da un singolo strato che
cattura tutta la radiazione IR emessa dalla superficie corrisponde ad aver posto .È
possibile così generalizzare la formula della temperatura superficiale:

Possiamo così valutare, ad esempio, l’entità dell’effetto serra sul pianeta Venere. La sua
temperatura effettiva, valutando l’albedo a=0.77, risulta: , persino
minore della temperatura effettiva terrestre (nonostante la maggiore vicinanza al Sole, Venere
ha un’albedo molto più alta, quindi meno radiazione solare viene assorbita dalla superficie del
pianeta).
Il valore della profondità ottica, indispensabile per calcolare la temperatura superficiale media,
risulta essere . La temperatura superficiale di Venere è quindi:

Le sonde inviate su Venere hanno in effetti rilevato una temperatura superficiale comparabile
di 740 K, circa 460ºC.

CIRCOLAZIONE ATMOSFERICA
Consideriamo un pianeta che abbia una modesta inclinazione assiale e che non ruoti su se
stesso, come in figura;

il Sole riscalderà di più l’atmosfera all’equatore piuttosto che quella ai poli, perché all’equatore
i raggi cadono perpendicolarmente alla superficie. All’equatore quindi l’atmosfera più calda si
innalzerà, e seguendo il gradiente di temperatura si sposterà fino ai poli, dove raffreddandosi
si abbasserà. Dopodiché il ciclo si chiuderà quando quest’aria ritornerà all’equatore.
Questo tipo di convezione è chiamato circolazione di Hadley, dal fisico inglese del ‘700 che
per primo ne propose l’esistenza. L’effetto è quello di ridurre il cambiamento di temperatura
con la latitudine.
Tra i corpi del Sistema Solare, l’unico che mostri celle di Hadley ben sviluppate è Venere,
perché la sua inclinazione assiale è molto piccola e la rotazione estremamente lenta; per tutti
gli altri corpi in rapida rotazione, Terra inclusa, questa descrizione non è più sufficiente, ma
bisogna includere gli effetti della forza di Coriolis, mostrata nella figura successiva.

Supponiamo un volumetto di atmosfera all’equatore, trascinato dalla rotazione del pianeta a


velocità ve da ovest a est.Per la circolazione di Hadley, esso si sposterà verso nord, fino a
raggiungere una latitudine L. Poiché in questo modo il volumetto si avvicina all’asse di
rotazione del pianeta, la conservazione del momento angolare impone che il volumetto
aumenti la sua velocità nella direzione della rotazione. Infatti: costante. Alla latitudine
L, il volumetto non si troverà più a distanza Re dall’asse di rotazione ma a distanza
. Per la conservazione del momento angolare:

quindi la velocità vL che il volumetto avrà alla latitudine L sarà:

Questa è la velocità del volumetto alla latitudine L, visto da un osservatore esterno. Per
valutare la velocità del volumetto rispetto alla superficie del pianeta bisogna prima valutare la
velocità di rotazione del pianeta alla latitudine L rispetto all’osservatore esterno.
Dal disegno si evince che tale velocità è uguale a , quindi la velocità del volumetto
relativa alla superficie sarà:

Avere vrel>0 significa che il volumetto si muoverà relativamente alla superficie da ovest a est.
Questi sono infatti i movimenti dei venti principali.
Un effetto della forza di Coriolis su un pianeta rapidamente ruotante è quello di frammentare le
celle di Hadley, che non raggiungono quindi i poli.
Altre circolazioni atmosferiche importanti sono le cosiddette onde troposferiche, che si
sviluppano soprattutto alle medie latitudini. A livello del suolo, le onde troposferiche
corrispondono al familiare sistema di cicloni e anticicloni, che sono i meccanismi più importanti
di dissipazione di energia nell’atmosfera.

DOMINI ATMOSFERICI
Temperatura e pressione in un’atmosfera planetaria dipendono dall’altitudine; per valutare il
cambiamento di pressione con l’altitudine, dal momento che l’atmosfera di un pianeta si
trova in equilibrio (non si contrae né si espande), possiamo riferirci all’equazione dell' equilibrio
idrostatico:

Poichè ci interessa solo l’altitudine, possiamo prendere la sola coordinata z di questa


equazione vettoriale:

Questa equazione mostra che la pressione deve decrescere con l’altitudine. Sostituendo
l’accelerazione di gravità terrestre, che possiamo con buona approssimazione ritenere
costante, abbiamo:

Sostituisco a questa la r che derivo dall’equazione dei gas perfetti: avendo così:

Se la temperatura T è indipendente dall’altitudine (atmosfera isoterma) e lo è anche mav,


integrando la formula precedente si ha:

dove Ps è la pressione all’altitudine zero e h è la cosiddetta altezza di scala isoterma:

Quindi, la pressione decresce esponenzialmente con l’altitudine.


Valutare il cambiamento di temperatura con l’altitudine è più difficile, perché si devono
considerare tutti i possibili modi nei quali l’energia è guadagnata e persa ad ogni livello
atmosferico e alla superficie.
Come abbiamo visto nel discorso sull’effetto serra, gli scambi di calore nei vari livelli sono
molti e complicati. In più, nel considerare il comportamento della temperatura con l’altitudine,
bisogna anche considerare la presenza o l’assenza di convezione.
La convezione si instaura se la diminuzione della temperatura con l’altitudine è rapida quanto
o più del gradiente adiabatico. Nelle atmosfere planetarie il tasso di diminuzione della
temperatura con l’altitudine è chiamato lapse rate (tasso di rilascio), e il gradiente adiabatico è
chiamato adiabatic lapse rate.
L’adiabatic lapse rate è dato da:

dove cp è il ben noto calore specifico a pressione costante. Quindi, se la

convezione si instaura.
Considerando tutti i vari fattori che contribuiscono, si può tracciare un grafico del lapse rate in
una atmosfera planetaria:

Come si vede ci sono diversi tipi di domini atmosferici; Il primo di essi usa come discriminante
il lapse rate, e consta di tre domini:
• troposfera, nella quale il lapse rate è uguale o vicino al valore adiabatico. Il nome
deriva dal fatto che ci sono mutamenti, dovuti alla convezione. Nella tropopausa il lapse
rate diventa sub-adiabatico e scompare la convezione. Qui la radiazione IR emessa
dalla troposfera e dalla superficie fugge nello spazio.
• mesosfera, in cui il lapse rate è piccolo (non c’è convezione). Questo strato guadagna
energia assorbendo fotoni UV solari, ne perde emettendo fotoni IR. Termina nella
mesopausa.
• termosfera, regione in cui il lapse rate è negativo (la temperatura aumenta con
l’altitudine). Non c’è convezione.
A seconda della composizione chimica, un’atmosfera può essere classificata con altri criteri:
• omosfera, nella quale moti atmosferici e collisioni molecolari mantengono l’atmosfera
ben mescolata (stessa composizione a qualsiasi altezza, eccetto per i gas che
condensano);
• eterosfera, nella quale il mescolamento è minore, e l’atmosfera si differenzia
chimicamente (i gas più pesanti tendono a cadere, mentre i più leggeri salgono);
O anche:
• esosfera, nella quale la densità è così bassa, e quindi le collisioni così rare, che molte
particelle riescono a sfuggire nello spazio;
• ionosfera, nella quale ci sono molte particelle ionizzate dai raggi UV solari che rendono
lo strato conduttore elettrico e termico.

Per quel che riguarda il lapse rate, la Terra è un caso unico nel Sistema Solare, perché la
temperatura ha un brusco innalzamento prima ancora della termosfera.
Questo strato particolare è chiamato stratosfera.
Nella stratosfera la convezione è trascurabile, e la risalita improvvisa di temperatura è dovuta
all’assorbimento dei raggi UV solari compresi tra 200 e 300 nm da parte dell’ozono (O3).

BILANCIAMENTO CHIMICO
Il tempo medio nel quale un particolare atomo (o molecola) è presente nell’atmosfera è
chiamato residence time ed è molto piccolo (tipicamente poche ore). Perché un’atmosfera sia
in equilibrio chimico ogni costituente deve essere continuamente rimpiazzato.
Possiamo proporre una panoramica dei fenomeni principali con i quali ogni costituente viene
eliminato o prodotto, e vedere più in dettaglio i casi più interessanti:
Eliminazione:
• precipitazioni (condensazione);
• soluzione in liquidi e, più lentamente, nei solidi;
• fuga termica; perché qualsiasi corpo riesca a fuggire dal campo gravitazionale di un
pianeta di massa M, esso deve raggiungere la velocità di fuga. È data da:

. La frazione di ciascun costituente che ha velocità di fuga dipende dalla

distribuzione delle velocità molecolari alla base dell’esosfera. Questa si può valutare
dalla ben nota distribuzione di Maxwell, il cui picco definisce anche la velocità più

probabile (vmps) che le particelle possono assumere: . Anche per velocità

più probabile minore della velocità di fuga, un numero di particelle più o meno
consistente che si trova nella "coda" della maxwelliana avrà velocità tale da poter
fuggire nello spazio. Per questo fatto si usano confrontare la velocità più probabile non
con la velocità di fuga ma con un sesto di essa. Se questa condizione è rispettata, in un
lasso di tempo sufficientemente lungo una atmosfera perderà gran parte del
componente chimico con quella velocità più probabile

Come si vede, questo processo è mass selective, cioè distingue le particelle a seconda
della massa. Il grafico spiega la mancanza di atmosfera per Plutone, la Luna, Mercurio,
il fatto che Marte ha una tenue atmosfera di CO2, e perché la Terra e Venere hanno
un’atmosfera più densa.
La preminenza della temperatura in questo processo porta al nome di fuga termica.
• impatti con particelle cariche da magnetosfera o vento solare: se un pianeta non
possiede magnetosfera le molecole ionizzate possono essere rimosse anche dal
campo magnetico solare.
Nelle prime fasi del Sistema Solare, quando il Sole stava attraversando la sua fase T
Tauri, il maggiore flusso di fotoni UV generò una grande riserva di ioni nell’esosfera e il
vento solare più forte fu più efficace nel rimuoverli.
• blow-off o impact erosion; specie nelle prime fasi del Sistema Solare, gli impatti con
planetesimi e meteoriti dovevano essere più frequenti. Se l’impattore aveva dimensioni
maggiori dell’altezza di scala isoterma del corpo impattato, praticamente tutta
l’atmosfera di quest’ultimo poteva essere rimossa nello spazio: questo è chiamato
blow-off.
Impattori più piccoli potrebbero aver causato perdite minori, abbassando l’altezza di
scala isoterma e permettendo a corpi sempre più piccoli di fare danni sempre maggiori.
Questo è chiamato impact erosion.
Entrambi questi processi non sono mass selective.
• fuga chimica; alcuni tipi di reazioni chimiche possono aumentare l’energia cinetica, e
quindi la velocità, dei prodotti delle reazioni. Un esempio può essere la
fotodissociazione dell’azoto molecolare nella quale gli atomi di azoto acquistano una
notevole velocità. Questo processo di fuga chimica si aggiunge alla già discussa fuga
termica.
• fuga idrodinamica; l’idrogeno atomico e molecolare possono sfuggire molto facilmente
dalle atmosfere, perché sono poco pesanti. Se c’è una grande quantità di idrogeno che
fugge, il flusso può intrappolare altre molecole e trascinarle con sé nel processo
chiamato fuga idrodinamica. È un processo mass selective, perché particelle di massa
minore possono venire intrappolate più facilmente. Anche questo processo si pensa
che sia stato importante nelle prime fasi del Sistema Solare.
• ossidazione
• formazione di clatrati in acqua.
Produzione:
• evaporazione o sublimazione;
• degassing (l’inverso della soluzione);
• outgassing (da attività vulcanica);
• arricchimento da vento solare o da corpi ricchi di composti volatili.

L'EFFETTO FIONDA

È la tecnica usata dalle sonde spaziali che sfrutta l'incontro ravvicinato (flyby) con un oggetto
molto più pesante, ad esempio un pianeta, al fine di utilizzarne la spinta gravitazionale (fornita
come "rifornimento" di energia cinetica) per modificare in maniera rilevante sia la propria
velocità che la traiettoria.
L'effetto fionda è anche detto gravity assist o gravity swing-by.
Questo espediente fa in modo che parte dell'enorme momento angolare dei pianeti che
ruotano attorno al Sole venga trasferito alla sonda; per ottenere ciò la sonda deve sorvolare il
pianeta a quote relativamente basse, in modo da essere attratta dalla forza di gravità ed
aggiungere alla sua velocità angolare parte di quella relativa alla rivoluzione del pianeta
attorno al Sole.
Ad esempio una sonda diretta verso Giove, nelle fasi di avvicinamento cadrà verso il pianeta,
attratta dal suo forte campo gravitazionale; se la sonda possiede una velocità sufficiente a non
restare "imbrigliata" in un'orbita attorno al pianeta, proseguirà il suo cammino allontanandosi
da questo con una velocità leggermente superiore a quella che aveva prima. Dopo aver
superato Giove la sonda rallenterà nuovamente, a causa dell'attrazione del pianeta, però la
sonda si sarà assicurata una spinta "gratis", che le garantirà un notevole risparmio di
propellente.
Ciò che rende efficente questa tecnica è che il pianeta si muove rispetto al Sole, nel caso di
Giove con una velocità di circa 48.000 km/h attorno al Sole; se la sonda si muove nella stessa
direzione di Giove, si può "agganciare" ad esso ed essere accelerata fino a raggiungere la
stessa velocità del pianeta.
Affichè ci sia sincronia, cioè la sonda incontri il pianeta nel punto giusto per sfruttare al
massimo l'effetto fionda, le sonde devono essere lanciate entro intervalli di tempo ben precisi,
chiamati "finestre di lancio".

Accelerazione gravitazionale
Quando una sonda sfiora un pianeta c'è uno scambio d'impulso fra il pianeta e la sonda (o
meglio il pianeta cede una piccolissima quantità di energia gravitazionale alla sonda). Un
osservatore sul pianeta vede arrivare la sonda a velocità v e andarsene alla stessa velocità v,
quindi il movimento della sonda è perfettamente simmetrico: la sonda viene accelerata con la
forza di gravità del pianeta per un certo tempo poi, aggirato il pianeta, essa viene rallentata
dalla stessa forza per lo stesso periodo di tempo.
Per un osservatore posto sul Sole la sonda arriva da sinistra con una velocità V vicino al
pianeta e poi si perde nello spazio con velocità V'(>V), in quanto il pianeta si muove rispetto al
Sole con velocità Vp.
Quando la sonda si avvicina al pianeta la velocità vista dall'osservatore sul pianeta sarà:
v=V+Vp
analogamente quando la sonda si allontana dal pianeta avremo:
v=V'-Vp
quindi avremo:
V+Vp=V'-Vp => V'=V+2Vpianeta
cioè la velocità della sonda rispetto al Sole è aumentata di 2*Vp; o meglio
δimpulso = 2*Msonda*Vp
(Msonda=massa della sonda). Naturalmente tale aumento di impulso della sonda viene
compensato dalla perdita di impulso del pianeta, il quale perderà un pò di energia cinetica
(girerà più lentamente attorno al proprio asse, o rallenterà la sua corsa attorno al Sole); ma
considerando che Mpianeta>>Msonda tale variazione di velocità del pianeta può essere
considerata nulla.

Oggi quasi tutte le sonde che vengono lanciate nello spazio usano l'effetto fionda, anche più
volte; tra le sonde che hanno effettuato dei flyby ricordiamo la Cassini, che ne ha effettuati
due con Venere (nell'aprile 1998 e nel giugno 1999) oltre a uno con la Terra e uno con Giove;
la sonda Ulisse, che ha sfruttato il flyby con Giove, non tanto per aumentare la propria
velocità, ma per uscire dal piano dell'eclittica e osservare le regioni polari del Sole; la sonda
Galileo, che per due volte ha usato la Terra e poi Venere. Tra le ultime NEAR, la Deep
Space 1, lo Stardust (animazione del flyby con la Terra); ma le prime a sfruttare tale effetto
sono state il Voyager 1 e il Voyager 2.
Frenamento gravitazionale
Risultato di un flyby non è necessariamente un aumento di velocità della sonda, infatti il
Gravitational Assist può essere usato come freno gravitazionale: sarà sufficiente che la sonda
si avvicini alle "spalle" del pianeta in modo da avere per la sonda che si avvicina:
v=V-Vp
mentre, quando la sonda si allontana dal pianeta:
v=V'+Vp
Quindi si ottiene che, per un osservatore sul Sole la sonda avrà una velocità:
V'=V-2*Vp
Un esempio di tale utilizzo del flyby si è avuto con la sonda Galileo, che nel 1995 per entrare
nella orbita di Giove, utilizzò l’azione frenante del suo satellite Io.

TEORIA DI LIN
Dove nascono le stelle? Le stelle nascono nelle braccia a spirali delle galassie, con un
processo descritto dalla teoria di Lin. All'interno di zone, dette risonanze di Lindblad, da 3 a
25 kpc dal centro galattico, si formano delle perturbazioni locali nella densità e di conseguenza
nel potenziale gravitazionale. Queste sono chiamate ONDE DI DENSITA', che si propagano
lungo le braccia a spirale della galassia. Tali onde hanno una velocità di 25 km/sec che,
considerate le densità locali, è supersonica. Ciò determina la formazione di fronti d'urto con
una conseguente compressione del gas; le nubi molecolari che si trovano vicino alla
condizione di instabilità di Jeans, risentendo di questo fronte d'urto, cominciano a collassare
per poi dare origine alle stelle. Questo è un processo che coinvolge vaste parti dei bracci delle
galassie nelle cui immagini si nota che vi sono delle zone con una forte emissione nel blu,
segno della presenza di stelle giovani.

TEORIA DI LARSON
R. Larson ha studiato nel 1969 il collasso di una nube di massa e composizione chimica
analoghe a quelle del Sole, avente però l'idrogeno sotto forma molecolare. Inizialmente la
temperatura (uniforme) è di 10 K, il raggio di 10 mila UA e la densità di 10-19 g/cm3,
corrispondente a 104 molecole/cm3.
La parte centrale si contrae sempre più rapidamente restando di densità uniforme al centro,
mentre nel mantello essa diminuisce con 1/r2.
Quando la temperatura centrale raggiunge i 2000 K, le molecole di H si dissociano
assorbendo energia, creando così le condizioni per un secondo collasso, su un nucleo interno
al primo, di densità e temperatura crescenti.
Quando nel centro la temperatura è dell'ordine del milione di gradi, si innescano le prime
reazioni termonucleari che fanno aumentare la pressione bloccando definitivamente il
collasso.
Schema riassuntivo della teoria di Larson
Fase M (in masse solari) R (cm) ρc (gr/cm3) Tc (K)
Nube iniziale 1 1.63x1017 10-19 10
Inizio opacità 1 6x1013 10-13 10
I core 0.005 1013 10-10 170
II core 0.0015 9x107 2x10-2 2000
Esiste una massa critica di 0.075 masse solari al di sotto della quale la degenerazione del
materiale al centro impedisce che la temperatura raggiunga 8x106 K necessari per l'innesco
della reazione protone-protone. In questo caso la stella non arriva mai alla Sequenza
Principale e muore come nana bruna.
I PUNTI DI LAGRANGE
Supponiamo di avere a che fare con il Sole ed un pianeta. Poniamo che in questo sistema si
presenti anche un terzo corpo di massa m molto inferiore rispetto a quella degli altri due, le cui
masse, per rendere più evidente il rapporto col terzo corpo, saranno indicate rispettivamente
con M1 e M2.

La condizione che e è essenziale perché la propria presenza non alteri

sensibilmente il centro di massa del sistema. In altre parole noi supponiamo che i due corpi di
massa maggiore interagiscano col corpo minore, ma che quest'ultimo non agisca sui due astri,
o che i suoi effetti siano del tutto trascurabili.
Questo tipo di trattazione, che prende il nome di
problema ridotto dei tre corpi, fu studiato da
Lagrange nel 1772. Per affrontarlo prendiamo un
sistema di riferimento non inerziale centrato nel
centro di massa, con un asse solidale con i
pianeti. I due astri avranno la stessa velocità
angolare per cui è possibile mantenerli
contemporaneamente sullo stesso asse, poniamo
che sia l'asse X. Siano R1 e R2 le distanze del
punto generico da M1 e M2.
Andiamo a scrivere l'energia potenziale del corpo
di massa m data dalla somma di 3 contributi: i 2
potenziali gravitazionali ed il potenziale centrifugo,
perché siamo in un sistema di riferimento rotante.

essendo ed esprimendo T tramite la terza legge di Keplero si ha

dove a=x2-x1 per cui


Deriviamo rispetto alle tre coordinate cartesiane per trovare le rispettive posizioni di equilibrio:
Si faccia attenzione che in un'eventuale
derivata seconda U e avrebbero segno opposto. Andando ora a prendere singolarmente
ogni equazione, e uguagliando a zero per trovare i punti di equilibrio si ha:

Dalla terza si ottiene, per l'asse Z, la soluzione z=0, dal momento che la parentesi non si
annulla mai ( M1/R13 +M2/R23 > 0 sempre).
La seconda, riscritta mettendo in evidenza la y, diventa:

che dà vita a due soluzioni, una per y=0, l'altra va trovata per tentativi. E' chiaro comunque
che R1=R2=a è soluzione. Questa, messa a sistema con quella per z, ci dice che si hanno due
soluzioni in punti disposti a triangolo equilatero con i due corpi principali, sul piano orbitale,
chiamati L4 e L5 (vedi figura a lato). Consideriamo ora la derivata lungo l'asse X; e
verifichiamo che le soluzioni ora trovate soddisfino l'equazione . La qual cosa è molto
semplice da provare, infatti l'espressione della (4) per R1 =R2=a si riduce a

per definizione, avendo posto l'origine nel centro di massa.

Occupiamoci ora delle soluzioni sull'asse x, cioè per y=z=0, in allineamento con i due corpi
principali. E' ovvio intanto che ci sia un punto esterno ai due corpi, uno a destra ed uno a
sinistra di entrambi. Infatti per punti esterni le forze gravitazionali tendono a riportare la massa
verso il centro, mentre la forza centrifuga tende a portarla verso l'esterno. Poiché entrambe le
forze diminuiscono con R1 e R2 ed essendo la forza centrifuga monotòna crescente verso la
periferia, certamente esisterà una configurazione di equilibrio.
Esiste anche un terzo punto (ed uno soltanto) interno. Risolvendo l'equazione (4) si trovano le
ascisse dei tre punti Lagrangiani sull'asse X i cui valori sono stati tabulati da Plavec e
Kratochvil (1964) in funzione del rapporto di massa fra i due corpi.
Stabilità dei punti Lagrangiani
Abbiamo trovato cinque punti di equilibrio, le cui coordinate sono le soluzioni esatte del
problema dei tre corpi ristretto, ovvero sono soluzioni statiche e stazionarie nel sistema di
riferimento ruotante.
E’ ora lecito chiedersi di che natura di equilibrio si tratti, stabile (il corpo, se perturbato dalla
sua posizione, comunque nel tempo tende a ritornare nel suo punto Lagrangiano) o instabile
(il corpo, a seguito della perturbazione, si allontana indefinitamente dalla sua posizione).
Consideriamo dunque una soluzione di equilibrio ( ) e introduciamo una piccola
perturbazione nella posizione cui corrisponda una perturbazione in velocità anch’essa piccola :

Le equazioni del moto dunque diventano :

Poiché abbiamo imposto che le perturbazioni siano di piccola entità, possiamo sviluppare i
secondi membri delle equazioni in serie di Taylor :
Le derivate si intendono sempre calcolate in ( ), il primo termine nelle equazioni è nullo
in quanto rappresenta le soluzioni di equilibrio e, sia per la f che per la g, vale la seguente :

Pertanto sostituendo si ottiene :

Questo, grazie alla particolare forma del potenziale, è un sistema di equazioni differenziali del
2° ordine a coefficienti costanti, la cui soluzione pertanto sarà del tipo :

La natura di queste funzioni è strettamente legata ai coefficienti λi :


• Qualora questi siano immaginari puri avremo delle funzioni periodiche, caratteristiche di
un equilibrio stabile (moto periodico attorno alla posizione di equilibrio).
• Qualora anche uno solo dei coefficienti abbia parte reale non nulla avremo delle
funzioni non periodiche, e quindi un equilibrio instabile.
Analizzando i coefficienti per i 5 punti Lagrangiani si ottiene che i punti L1, L2, L3 sono sempre
posizioni di equilibrio instabile, mentre per quel che riguarda i punti L4, L5 occorre valutare il
rapporto di massa dei due corpi principali :

Se allora avremo un equilibrio instabile, come L1, L2, L3.

Nel sistema Sole-Giove μ<0,001 pertanto L4 ed L5 sono punti di equilibrio stabile.

L'EFFETTO YARKOVSKY

Gli astronomi che misurano col radar le orbite asteroidali hanno potuto osservare direttamente
il cosiddetto effetto Yarkovsky una sorta di minuscola spinta - da lungo tempo ipotizzata -
indotta dalla radiazione solare.
L'effetto viene prodotto nel momento in cui gli asteroidi assorbono energia dal Sole e la re-
irradiano nello spazio come calore.
Questo fenomeno è stato misurato per la prima volta sull'asteroide 6489 Golevka,
relativamente piccolo rispetto alla media degli asteroidi vicini alla Terra. Infatti ha le dimensioni
di appena mezzo chilometro, anche se pesa oltre 200 milioni di tonnellate. Tuttavia è ben noto
agli astronomi, che l'hanno studiato tramite osservazioni condotte al Jet Propulsion Laboratory
(JPL) della Nasa nel 1991, nel 1995 e nel 1999.
L'idea che ha ispirato la scoperta dell'Effetto Yarkovsky si basa sulla nozione molto semplice
che la superficie illuminata degli asteroidi (la superficie in cui è giorno) viene riscaldata dal
Sole e si raffredda nella fase di non esposizione ai raggi solari (notte). A causa di questo
fenomeno gli asteroidi tendono ad emettere una maggiore quantità di calore dalla zona
superficiale che si trova a "pomeriggio". Praticamente la parte più calda dell'oggetto cosmico
irradia maggiore energia rispetto alla parte più fredda. Una situazione del tutto analoga si
osserva ad esempio anche sulla Terra dove le temperature che si registrano durante il
tramonto sono superiori a quelle che si hanno all'alba.
Lo squilibrio dell'emissione di radiazione induce una forza, che agisce sul meteoroide in una
particolare direzione che dipende dall'orientamento dell'asse di rotazione e dal senso di spin.
La formula matematica che descrive la forza dovuta all'Effetto Yarkovsky (tratta dalla tesi del
Dott. Mario Sandri all'Università di Padova) è la seguente:

con s raggio fisico del meteoroide, s la costante di Stefan-Boltzmann, T è la temperatura


media, ΔT è la differenza di temperatura tra le due facce del meteoroide e ζ è l'angolo tra
l'asse di rotazione e la direzione normale all'orbita.
Su un corpo sufficientemente piccolo tale spinta ha direzione opposta a quella dell'emissione
termica e provoca una leggera accelerazione che finora non si era mai riusciti a misurare.
La quantità di forza rilasciata è incredibilmente piccola, soprattutto considerando la massa
complessiva degli asteroidi, ma nei 12 anni di osservazioni condotte su Golevka la piccola
forza osservata ha causato una deviazione di 15 chilometri. Applicando la stessa forza per
decine di milioni di anni l'effetto sull'orbita dell'asteroide è considerevole, tanto che asteroidi
che oggi orbitano fra Marte e Giove potrebbero diventare asteroidi NEO.

Recentemente, l'effetto sopra descritto, viene indicato con il nome di "Effetto Yarkovsky
Diurno" per distinguerlo dall' "Effetto Yarkovsky Stagionale" scoperto da Rubincam e Farinella
nel 1998.
Questa forza dipende dall'inclinazione dell'asse di spin del meteoroide. Così come avviene
sulla Terra, dove l'avvicendarsi delle stagioni è dato dall'angolo che l'asse di rotazione forma
con il piano di rivoluzione, per considerevoli intervalli di tempo uno degli emisferi del
meteoroide risulta maggiormente esposto alla radiazione solare. Il calore accumulato durante
questa fase, viene re-irradiato dall'emisfero "estivo", spingendo l'oggetto tanto più
intensamente quanto maggiore è l'area riscaldata.
L'effetto interessa maggiormente meteoroidi di dimensioni inferiori al centimetro, perchè in
queste condizioni la spinta impressa dall'effetto stagionale è più intensa della forza attribuita al
Yarkovsky diurno.
L'intensità, non dipende dal moto di rotazione, ma dalla capacità termica del materiale di cui
sono composti i meteoroidi e dal loro potere riflettente (albedo).
Planetary Orbital Elements

Planetary Mean Orbits (J2000)

Planet a e i Omega ~omega L


(mean) AU deg deg deg deg

Mercur
0.38709893 0.20563069 7.00487 48.33167 77.45645 252.25084
y
Venus 0.72333199 0.00677323 3.39471 76.68069 131.53298 181.97973
Earth 1.00000011 0.01671022 0.00005 -11.26064 102.94719 100.46435
Mars 1.52366231 0.09341233 1.85061 49.57854 336.04084 355.45332
Jupiter 5.20336301 0.04839266 1.30530 100.55615 14.75385 34.40438
Saturn 9.53707032 0.05415060 2.48446 113.71504 92.43194 49.94432
Uranus 19.19126393 0.04716771 0.76986 74.22988 170.96424 313.23218
Neptune 30.06896348 0.00858587 1.76917 131.72169 44.97135 304.88003
Pluto 39.48168677 0.24880766 17.14175 110.30347 224.06676 238.92881
Selected Physical Parameters

Sidereal Sidereal Geom Equatori Escape


Planet Mean Mass Density Rotation Orbit V(1,0) etric al Veloci
radius (×1023 (g cm-3) Period Period (mag.) Albed Gravity ty
(km) kg) (h) (yr) o (m s ) (km s-
-2
1)

Mercury 2440. 3.302 5.427 1407.509 0.2408445 -0.42 0.106 3.701 4.435
±1.
Venus 6051.84 48.685 5.204 -5832.444 0.6151826 -4.4 0.65 8.87 10.361
±0.01
Earth 6371.01 59.736 5.515 23.93419 0.9999786 -3.86 0.367 9.78032 11.186
±0.02 7
Mars 3389.92 6.4185 3.9335 24.622962 1.8807110 -1.52 0.15 3.69 5.027
±0.04 ±0.0004 5
Jupiter 69911. 18986. 1.326 9.92425 11.856523 -9.4 0.52 23.12 59.5
±6. ±0.01
Saturn 58232. 5684.6 0.6873 10.65622 29.423519 -8.88 0.47 8.96 35.5
±6. ±0.01
Uranus 25362. 868.32 1.318 17.24 83.747407 -7.19 0.51 8.69 21.3
±12. ±0.01 ±0.01
Neptune 24624. 1024.3 1.638 16.11 163.72321 -6.87 0.41 11.00 23.5
±21. ±0.01 ±0.05
Pluto 1151* 0.15* 2.1 153.28* 248.0208* -1.0* 0.3* 0.75 1.3
Dati Orbitali e Storici

Distanza Per.Orb.
Nome # Orbita (000 km) (giorni) Incl Eccen Scopritore Data Alias
--------- ---- ------- -------- -------- ----- ----- ---------- ---- -------
Sole - - - - - - - - Sole
(0)

Mercurio I Sole 57910 87,97 7,00 0,21 - - (0)


Venere II Sole 108200 224,70 3,39 0,01 - - (0)
Terra III Sole 149600 365,26 0,00 0,02 - - (0)
Marte IV Sole 227940 686,98 1,85 0,09 - - (0)
Giove V Sole 778330 4332,71 1,31 0,05 - - (0)
Saturno VI Sole 1429400 10759,50 2,49 0,06 - - (0)
Urano VII Sole 2870990 30685,00 0,77 0,05 Herschel 1781 (0)
Nettuno VIII Sole 4504300 60190,00 1,77 0,01 Adams(9) 1846 (0)
Plutone IX Sole 5913520 90800 17,15 0,25 Tombaugh 1930 (0)

Luna I Terra 384 27,32 23,50 0,05 - - Luna


(a, 0)

Phobos I Marte 9 0,32 1,00 0,02 Hall 1877


Deimos II Marte 23 1,26 1,80 0,00 Hall 1877 (b)

Metis XVI Giove 128 0,29 0,00 0,00 Synnott 1979 1979 J
3
Adrastea XV Giove 129 0,30 0,00 0,00 Jewitt(1) 1979 1979 J
1
Amaltea V Giove 181 0,50 0,40 0,00 Barnard 1892
Tebe XIV Giove 222 0,67 0,80 0,02 Synnott 1979 1979 J
2
Io I Giove 422 1,77 0,04 0,00 Galileo(2) 1610
Europa II Giove 671 3,55 0,47 0,01 Galileo(2) 1610
Ganimede III Giove 1070 7,15 0,19 0,00 Galileo(2) 1610
Callisto IV Giove 1883 16,69 0,28 0,01 Galileo(2) 1610
Leda XIII Giove 11094 238,72 27,00 0,15 Kowal 1974
Imalia VI Giove 11480 250,57 28,00 0,16 Perrine 1904
Lisitea X Giove 11720 259,22 29,00 0,11 Nicholson 1938
Elara VII Giove 11737 259,65 28,00 0,21 Perrine 1905
Ananke XII Giove 21200 -631 147,00 0,17 Nicholson 1951
Carme XI Giove 22600 -692 163,00 0,21 Nicholson 1938
Pasifae VIII Giove 23500 -735 147,00 0,38 Melotte 1908
Sinope IX Giove 23700 -758 153,00 0,28 Nicholson 1914

Pan XVIII Saturno 134 0,58 0,00 0,00 Showalter 1990 1981 S
13
Atlante XV Saturno 138 0,60 0,00 0,00 Terrile 1980 1980 S
28
Prometeo XVI Saturno 139 0,61 0,00 0,00 Collins(3) 1980 1980 S
27
Pandora XVII Saturno 142 0,63 0,00 0,00 Collins(3) 1980 1980 S
26
Epimeteo XI Saturno 151 0,69 0,34 0,01 Walker(8) 1980 1980 S
3
Giano X Saturno 151 0,69 0,14 0,01 Dollfus 1966 1980 S
1
Mimas I Saturno 186 0,94 1,53 0,02 Herschel 1789
Encelado II Saturno 238 1,37 0,02 0,00 Herschel 1789
Teti III Saturno 295 1,89 1,09 0,00 Cassini 1684
Telesto XIII Saturno 295 1,89 0,00 0,00 Smith(6) 1980 1980 S
13
Calipso XIV Saturno 295 1,89 0,00 0,00 Pascu(7) 1980 1980 S
25
Dione IV Saturno 377 2,74 0,02 0,00 Cassini 1684
Elena XII Saturno 377 2,74 0,20 0,01 Laques(4) 1980 1980 S
6, Dione B
Rea V Saturno 527 4,52 0,35 0,00 Cassini 1672
Titano VI Saturno 1222 15,95 0,33 0,03 Huygens 1655
Iperione VII Saturno 1481 21,28 0,43 0,10 Bond(5) 1848
Giapeto VIII Saturno 3561 79,33 14,72 0,03 Cassini 1671
Febe IX Saturno 12952 -550,48 175,30 0,16 Pickering 1898

Cordelia VI Urano 50 0,34 0,14 0,00 Voyager 2 1986 1986 U


7
Ofelia VII Urano 54 0,38 0,09 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
8
Bianca VIII Urano 59 0,43 0,16 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
9
Cressida IX Urano 62 0,46 0,04 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
3
Desdemona X Urano 63 0,47 0,16 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
6
Juliet XI Urano 64 0,49 0,06 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
2
Portia XII Urano 66 0,51 0,09 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
1
Rosalind XIII Urano 70 0,56 0,28 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
4
Belinda XIV Urano 75 0,62 0,03 0,00 Voyager 2 1986 1986 U
5
Puck XV Urano 86 0,76 0,31 0,00 Voyager 2 1985 1985 U
1
Miranda V Urano 130 1,41 4,22 0,00 Kuiper 1948
Ariel I Urano 191 2,52 0,00 0,00 Lassell 1851
Umbriel II Urano 266 4,14 0,00 0,00 Lassell 1851
Titania III Urano 436 8,71 0,00 0,00 Herschel 1787
Oberon IV Urano 583 13,46 0,00 0,00 Herschel 1787
Calibano XVI Urano 7200 -930 Gladman 1997 1997 U
1
Sycorax XVII Urano 12200 -1280 Gladman 1997 1997 U
2

Naiade III Nettuno 48 0,29 0,00 0,00 Voyager 2 1989 1989 N


6
Thalassa IV Nettuno 50 0,31 4,50 0,00 Voyager 2 1989 1989 N
5
Despina V Nettuno 53 0,33 0,00 0,00 Voyager 2 1989 1989 N
3
Galatea VI Nettuno 62 0,43 0,00 0,00 Voyager 2 1989 1989 N
4
Larissa VII Nettuno 74 0,55 0,00 0,00 Reitsema 1989 1989 N
2
Proteo VIII Nettuno 118 1,12 0,00 0,00 Voyager 2 1989 1989 N
1
Tritone I Nettuno 355 -5,88 157,00 0,00 Lassell 1846
Nereide II Nettuno 5513 360,13 29,00 0,75 Kuiper 1949

Caronte I Plutone 20 6,39 98,80 0,00 Christy 1978 1978 P


1

Legenda:
Orbita Il Sole o il pianeta attorno al quale il corpo orbita.
Distanza Distanza media (semiasse maggiore) tra i centri x1000 km.
Data Anno della scoperta.
Per.Orb. Periodo siderale dell'orbita in giorni (negativo=retrogrado).
Incl Inclinazione orbitale.
Eccen Eccentricità orbitale.
Alias Altri nomi del corpo.

Dati Fisici
Raggio Massa Rotaz. Dimensioni
Nome (km) (kg) Dens Abo Vo (giorni) (km)
--------- ------- ------- ---- --- ----- ------ ----------
Sole 696000 1,99e30 1,41 ? -26,8 24,6

Mercurio 2440 3,30e23 5,43 ,11 -1,9 58,6


Venere 6052 4,87e24 5,24 ,65 -4,4 -243
Terra 6378 5,97e24 5,52 ,37 - 0,99
Marte 3397 6,42e23 3,93 ,15 -2,7 1,03
Giove 71492 1,90e27 1,33 ,52 -2,3 0,41
Saturno 60268 5,68e26 0,69 ,47 0,7 0,45
Urano 25559 8,68e25 1,32 ,51 5,5 -0,72
Nettuno 24766 1,02e26 1,64 ,41 7,8 0,67
Plutone 1137 1,27e22 2,06 ,55 13,6 -6,39 (z)

Luna 1738 7,35e22 3,34 ,12 -12,7 S

Phobos 11 1,08e16 1,9 ,06 11,3 S 13,5 x 10,8 x 9,4


Deimos 6 1,80e15 1,8 ,07 12,3 S 7,5 x 6,1 x 5,5

Metis 20 9,56e16 2,8 ,05 17,5 ?


Adrastea 10 1,91e16 4,5 ,05 18,7 ? 12,5 x 10 x 7,5
Amaltea 94 7,17e18 1,8 ,05 14,1 S 135 x 83 x 75
Tebe 50 7,77e17 1,5 ,05 16,0 S 55 x 45
Io 1821 8,93e22 3,53 ,61 5,0 S
Europa 1565 4,80e22 2,99 ,64 5,3 S
Ganimede 2634 1,48e23 1,94 ,42 4,6 S
Callisto 2403 1,08e23 1,85 ,20 5,6 S
Leda 8 5,68e15 2,7 ? 20,2 ?
Imalia 93 9,56e18 2,8 ? 15,0 0,4
Lisitea 18 7,77e16 3,1 ? 18,2 ?
Elara 38 7,77e17 3,3 ? 16,6 0,5
Ananke 15 3,82e16 2,7 ? 18,9 ?
Carme 20 9,56e16 2,8 ? 17,9 ?
Pasifae 25 1,91e17 2,9 ? 16,9 ?
Sinope 18 7,77e16 3,1 ? 18,0 ?

Pan 10 ? ? ,5 ? ?
Atlante 15 ? ? ,9 18,0 ? 20 x 10
Prometeo 46 2,70e17 0,7 ,6 15,8 ? 72 x 43 x 32
Pandora 42 2,20e17 0,7 ,9 16,5 ? 57 x 42 x 31
Epimeteo 57 5,59e17 0,6 ,8 15,7 S 69 x 55 x 55
Giano 89 1,98e18 0,65 ,8 14,5 S 99 x 96 x 76
Mimas 199 3,75e19 1,14 ,5 12,9 S
Enceladus 249 7,30e19 1,12 ,99 11,7 S
Teti 530 6,22e20 1,00 ,9 10,2 S
Telesto 15 ? ? ,5 18,7 ? 17 x 14 x 13
Calipso 13 ? ? ,6 19,0 ? 17 x 11 x 11
Dione 560 1,05e21 1,44 ,7 10,4 S
Elena 16 ? ? ,7 18,4 ? 18 x 16 x 15
Rea 764 2,31e21 1,24 ,7 9,7 S
Titano 2575 1,35e23 1,88 ,21 8,3 S
Iperione 143 1,77e19 1,4 ,3 14,2 caotica 185 x 140 x 113
Giapeto 718 1,59e21 1,02 ,2 11,1 S (y)
Febe 110 4,00e18 0,7 ,06 16,5 0,4 115 x 110 x 105
Cordelia 13 ? ? ,07 24,0 ?
Ofelia 16 ? ? ,07 24,0 ?
Bianca 22 ? ? ,07 23,0 ?
Cressida 33 ? ? ,07 22,0 ?
Desdemona 29 ? ? ,07 22,0 ?
Juliet 42 ? ? ,07 22,0 ?
Portia 55 ? ? ,07 21,0 ?
Rosalind 27 ? ? ,07 22,0 ?
Belinda 34 ? ? ,07 22,0 ?
Puck 77 ? ? ,07 20,0 ?
Miranda 236 6,59e19 1,20 ,27 16,5 S 240 x 234 x 233
Ariel 581 1,35e21 1,67 ,34 14,4 S 581 x 578 x 578
Umbriel 585 1,17e21 1,40 ,18 15,3 S
Titania 789 3,53e21 1,71 ,27 14,0 S
Oberon 761 3,01e21 1,63 ,24 14,2 S
Calibano 30 22
Sycorax 60 20

Naiade 29 ? ? ,06 25,0 ?


Thalassa 40 ? ? ,06 24,0 ?
Despina 74 ? ? ,06 23,0 ?
Galatea 79 ? ? ,06 23,0 ?
Larissa 96 ? ? ,06 21,0 ? 104 x 89
Proteo 209 ? ? ,06 20,0 ? 218 x 208 x 201
Tritone 1353 2,15e22 2,05 ,7 13,6 S
Nereide 170 ? ? ,2 18,7 ?

Caronte 586 1,90e21 2,24 ,32 15,5 S (z)

Legenda:
Raggio Raggio equatoriale in km.
Massa in chilogrammi, contando le atmosfere ma non i satelliti.
Dens Densità in g/cm3.
Abo Albedo geometrico dell'oggetto.
Vo Magnitudine dell'oggetto in luce visibile all'opposizione.
Rotaz. Periodo siderale della rotazione equatoriale in giorni
(negativo=retrogrado; S=sincrono).
Dimensioni Raggi dei corpi non sferici.

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