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Simon Pietro e il Discepolo che Gesù amava.

Una meditazione

1. Introduzione: a proposito del linguaggio simbolico nel IV vangelo


1.a. Il vangelo dell’Incarnazione: una storia satura di Logos
1.b. Simon Pietro ed il Discepolo Amato come archetipi di realtà permanenti
2. Il DA e SP in Gv 13, 18, 19: perfetto vs pessimo discepolo?
2.a. Simon Pietro
2.b. Il Discepolo che Gesù amava
2.c. Dal kòlpos di Gesù al kòlpos del Padre
2.d. Spalla a spalla: dal cenacolo al cortile del tempio
2.e. Un primo bilancio
3. La riscossa di Simon Pietro in Gv 21
3.a. La pesca miracolosa e il pasto sulla riva
3.b. L’investitura di Simon Pietro
3.c. E lui?
4. Verso una lettura alternativa: due primati differenti e complementari
4.a. Da Simone a Cefa: un’iniziazione non indolore
4.b. Un primato riconosciuto dal DA
4.c. Il “primato” del DA
4.d. Il primato di Pietro
4.e. Se voglio che egli rimanga
5. Perché Simon Pietro ed il Discepolo Amato?
5.a. Una salutare spina nel fianco di entrambi
5.b. Appena udì che era il Signore

1
Simon Pietro e il Discepolo che Gesù amava.

Una meditazione teologica1

“Giovanni, che forse è il più carismatico degli apostoli, il più acuto, il più mistico, il più profetico, il più ardente
nell’amore e nell’amicizia con Cristo, lungi da trarre in tutto ciò un motivo per sentirsi superiore, ha capito che
in questa scelta del Maestro del primato di Pietro c’era la via sicura per vivere i suoi carismi seguendo Cristo.
Già andando al sepolcro la mattina di Pasqua, si ferma e attende. Perché?”

1. Introduzione: a proposito del linguaggio simbolico nel IV vangelo

Al centro di questa nostra meditazione – come il titolo lascia intendere – sarà il rapporto tra
Simon Pietro e il Discepolo Amato (Giovanni?) così come è presentato nel IV vangelo. Il che
immediatamente significa che al centro della nostra attenzione non sarà appena il rapporto
che questi due concreti discepoli di Gesù ebbero col Signore e tra loro, bensì anche - come
vedremo i due aspetti sono in Giovanni sempre indissolubilmente intrecciati - il significato
simbolico, diciamo pure teologico, che questa relazione ha assunto nel tempo agli occhi
dell’evangelista Giovanni. Questo significato simbolico e teologico, è bene dirlo subito, ha a
che fare con la concezione della vita della Chiesa che Giovanni ha maturato nel tempo, in anni
e anni di riflessione, e che ha poi trasfuso nel Suo vangelo sotto la guida dello Spirito di verità
(…).
Parlare del rapporto tra Simon Pietro e il DA significa dunque parlare di un tema assai
importante agli occhi del nostro Evangelista, il che inevitabilmente anche significa: un tema a
tal punto profondo e ricco di sfumature che per trattarlo in modo soddisfacente bisognerebbe
spendere molte più parole di quelle che spenderemo qui. In compenso, chi fosse volonteroso e
interessato potrà approfondire alcuni dei motivi cui in questa sede si accennerà soltanto

1
AVVERTENZA: il testo qui proposto non è la sbobinatura dell’incontro tenuto a San Martino di Castrozza,
bensì una rielaborazione assai più organica ed approfondita degli stessi contenuti. Ho ritenuto necessario
rielaborare il testo, sia per dare più ordine e chiarezza allo sviluppo dell’argomento, sia per offrire almeno
alcuni approfondimenti su passi del vangelo che nello spazio di un’ora non avevo potuto commentare che
tangenzialmente. Per non appesantire eccessivamente il testo, ho comunque deciso di mettere in nota molte
considerazioni, vuoi esegetiche vuoi esistenziali, che in base a dialoghi avuti con alcune persone, ho pensato
potessero risultare utili a fondare il discorso o comunque di un qualche interesse.
2
meditando personalmente i testi in appendice: ivi troverà infatti non solo tutti i testi del
Quarto Vangelo inerenti il nostro tema, ma anche titoli e sottotitoli, nonché suggerimenti di
parallelismi strutturali e contenutistici, che dovrebbero bastare a permettere anche a chi non
avesse chissà quale formazione biblica di fare le proprie scoperte, semplicemente leggendo e
rileggendo i testi l’uno alla luce dell’altro.
In fondo, ogni vero amante di Giovanni lo sa, proprio questa è l’elettrizzante esperienza che
spesso e volentieri si fa nel leggere il QV: quando finalmente “scovi” una chiave che apre la
porta di un certo passo – e ciò di norma accade proprio leggendolo alla luce o sullo sfondo di
altri passi del vangelo medesimo o dell’AT2 -, ti senti come un uomo che d’improvviso si
trovasse su di un balcone che dà su di uno spettacolo meraviglioso - un balcone che è sempre
stato lì, davanti a sé, in casa propria, ma che prima d’aprire la porta rimaneva inaccessibile.
Oppure ancora, cambiando metafora: imparare a leggere il vangelo di Giovanni significa
vivere qualcosa di analogo all’esperienza d’una donna appena assunta come domestica nella
villa d’una ricca possidente, la quale, dopo aver sudato per un po’ a pulire una finestra prima
opaca per la sporcizia, si trovasse d’improvviso a rimirare attraverso il vetro ormai lindo della
finestra, un giardino di straordinaria bellezza - dove è difficile dire se sia maggiore lo stupore
che ella prova per la bellezza di ciò che vede o quello che prova al vedere questa bellezza
trasparire attraverso un vetro, nel nostro caso un testo, che fino ad un attimo prima sembrava
non aver alcunché di attraente da offrire.
Non mi pare eccessivo dire, in questo senso, che il vangelo di Giovanni è in qualche modo
simile al mistero principale di cui parla, e cioè il “la carne” del “Verbo di Dio” (Gv 1, 14):
come nell’apparentemente umile involucro della carne del Galileo Gesù, è racchiusa l’infinita
gloria del Figlio unigenito del Padre (Gv 1, 14 c-d), così le in apparenza disadorne “parolette”
del vangelo giovanneo sono in realtà sature di una stupefacente ricchezza di significato 3. E
come la gloria di Dio irradia sì dalla carne di Gesù, ma in modo velato, così che occorrono
occhi resi penetranti dalla fede per poterla percepire, così la sublime ricchezza di senso
contenuta nelle scarne parolette del IV vangelo, è una ricchezza che si può trovare e non
trovare, a seconda di come si legge. Gesù l’hanno visto in molti, ma non tutti sono arrivati a
2
Questa ars legendi, invero antica quanto la storia della Chiesa, è oggi chiamata intertestualità. Per una
comprensione della peculiare funzione ed uso dell’intertestualità nel IV vangelo, cfr. P. PROSPERI, “Con gli
occhi dell’Aquila: simbolo ed annuncio della fede nel Quarto Vangelo”, in: Atti del Convegno “Parola e
Immagine”, PIO 2019, pp…
3
Non a caso il double entendre (e a volte addirittura triplo, o quadruplo, etc.) è la figura retorica forse prediletta
dal quarto evangelista. Con ci si intende il fatto che spesso e volentieri un’unica frase, parola o espressione
(soprattutto se si tratta di parole di Gesù o su Gesù) può avere due o più significati non solo egualmente validi,
ma comunicanti l’uno con l’altro, in modo tale che la pienezza del senso del testo emerge solo dall’interazione e
reciproca illuminazione o glorificazione dell’uno attraverso l’unione con l’altro. Per un altro importante esempio,
cfr. infra, nota 52.
3
vedere nella sua carne la “gloria come di Figlio unigenito dal Padre” (Gv 1, 14-c). Allo stesso
modo, si può leggere il IV vangelo e sbadigliare, come davanti ad una finestra opaca o ad una
porta chiusa.

1.a. Il vangelo dell’Incarnazione: una storia satura di Logos


Prima di addentrarci in recto nel nostro tema, vale la pena spendere qualche parola in più
sull’analogia appena suggerita, poiché comprenderne le ricadute sul modo di scrivere del
nostro evangelista è fondamentale per poter leggerne con frutto i testi. In ogni avventura
conoscitiva, infatti, è oltremodo importante usare un metodo o approccio adeguato all’oggetto
di indagine. Il metodo, direbbe qualcuno, è imposto dall’oggetto4. Così per capire il vangelo
di Giovanni è importante capire come Giovanni scrive e perciò come desidera essere letto per
poter essere capito. Naturalmente, per dire tutto quel che v’è da dire in merito, si dovrebbe
scrivere non un paragrafo introduttivo bensì un saggio assai più voluminoso dell’intero
contenuto di questa meditazione. Un paio di telegrafiche annotazioni, vale comunque la pena
farle.
Prima annotazione: quando si ha che fare con qualunque passo del Quarto Vangelo, è buona
regola tener presente il fatto che praticamente tutto in questo Vangelo – dove con tutto
intendo: ogni parola (commenti parentetici; ripetizioni pleonastiche, dettagli ambientali che
sembrano puramente materiali; zoomate su oggetti in apparenza insignificanti; etc.) - è saturo
di un qualche significato profondo, o più precisamente: un significato più profondo del senso
immediato e che può emergere solo attraverso attenta, paziente meditazione.
Seconda annotazione: ciò non corrisponde ad un mero gusto letterario del nostro evangelista,
bensì al suo desiderio di rispecchiare o meglio ancora imitare fin nella forma con cui egli ne
scrive il mistero centrale di cui parla. Quale è questo mistero? La risposta è più o meno nota,
anche se richiederebbe molte più qualifiche di quelle che possiamo offrire qui: il Quarto
vangelo è il vangelo dell’Incarnazione. Al centro del prologo, Giovanni stesso scrive:

“E il Verbo divenne carne e prese dimora tra noi…” (Gv 1, 14a).


Non è certo un caso che queste siano le parole forse più universalmente note del Vangelo di
Giovanni. In effetti, in questa breve, folgorante sentenza è condensato il messaggio dell’intero
vangelo. Non è però ozioso chiedersi: che cosa esattamente essa significa?
Innanzitutto, come tutti sappiamo e la Chiesa ha sempre insegnato, qui ci viene annunciato
che Gesù non è un semplice uomo: egli è il Verbo divino, è Dio, il Figlio unigenito (Gv 1,

4
Cfr. L. GIUSSANI, Il Senso Religioso, …
4
14c) mandato dal Padre nel mondo per dimorare tra noi (Gv 1, 14b) come uno di noi. Sì, quel
Verbo di Dio (Gv 1, 1a) che è da sempre presso Dio (Gv 1, 1b) ed è egli stesso Dio (Gv 1, c),
quel Verbo-Figlio per mezzo del quale Dio ha fatto ogni cosa (Gv 1, 3) si è fatto uomo tra gli
uomini, ha assunto una carne esposta al dolore, al pianto, alla morte.
Al contempo, se è vero quanto s’è sopra sottolineato, che cioè è caratteristico di Giovanni dire
due (double entendre) o anche più cose attraverso un’unica espressione o frase, è legittimo
chiedersi: è solo questo che Giovanni sta qui dicendo al suo lettore?
Personalmente, ritengo colga nel segno chi, come ad esempio l’esegeta anglicano Richard
Bauckham5, fa notare che il termine logos nel Greco ordinario significa semplicemente
parola, il che fa pensare anche e più elementarmente al medium di un atto di comunicazione.
Si comprende così la seconda possibile (e a nostro avviso altrettanto valida) lettura del famoso
incipit di Gv 1, 14: quel Dio che già in molti modi aveva parlato agli uomini, cominciando
con la creazione (Gv 1, 3.10) e proseguendo con Mosè (Gv 1, 17a) ora parla in modo nuovo:
il suo messaggio diviene una carne - la carne dell’uomo Gesù di Nazareth. Il che
concretamente significa: la vicenda umana di questo Gesù è rivelazione di Dio (Gv 1, 18), è
parola di Dio (1, 14a)6 - non solo ciò che egli mediante la sua carne ha detto e fatto, ma
persino (anzi, soprattutto!) ciò che nella carne ha patito: la sua sete (Gv 4, 7; 19, 28) e la sua
stanchezza (Gv 4, 7), il suo profondo turbarsi (Gv 11, 33; 12, 27; 13, 21) ed il suo scoppiare
in pianto (Gv 11, 33); persino lo squarciarsi del suo petto (Gv 19, 34), quando il suo corpo
non è ormai che un cadavere appeso ad una croce (Gv 19, 31-33). Osando una sinestesia 7, si
potrebbe dire: in Gesù la parola di Dio non più solo si ascolta - la si vede. Anche questo,
infatti, Giovanni vuol dire quando scrive che “la parola si è fatta carne” (Gv 1, 14).
Si comprende così meglio il motivo di quanto già in precedenza osservato: se è attraverso e
nella carne di Gesù che Dio ha parlato, allora è chiaro che anche i più umili dettagli della
storia di questa carne devono essere saturi di Parola, di sublimi misteri. L’informazione
geografica o cronologica, gli zooming su oggetti materiali d’importanza in apparenza
marginale (le sei giare di pietra in Gv 2, 6; il “vaso pieno di aceto” in Gv, 19, 29, etc.), gli
squarci paesaggistici (“il terreno che Giacobbe aveva dato a suo figlio”: Gv 4, 6; la “molta
erba” del luogo della moltiplicazione dei pani in Gv 6, 10, etc.), tutto è agli occhi di Giovanni
5
Cfr. R. BAUCKHAM, Gospel of glory. Major themes in Johannine Theology, Baker Publishing Group, Grand
Rapids 2015, 50-52.
6
Una rivelazione, è vero, accompagnata da sensibili portenti - tuoni e lampi, fumo e fuoco, terra che trema (cfr.
Es 20) e non ultima la luce che brilla sul volto di Mosè alla discesa dal monte (Es 36); ma pur sempre una
rivelazione il cui nucleo essenziale è costituito dalle parole delle tavole della legge. Con Gesù, invece, la parola
della legge diviene visibile, per usare una sinestesia, in quanto la sua stessa carne è ormai la legge – la parola
attraverso cui Dio dice tutto ciò che ha da dire all’umanità.
7

5
rilevante. Così, per esempio, nell’incontro tra Gesù e la donna samaritana, non è importante
solo quel che Gesù dice a parole alla donna, ma anche il fatto che l’aspettasse seduto sull’orlo
del pozzo (4, 6-c), stanco per il viaggio (4, 6-b), sotto la canicola dell’ora sesta (4-d); o
ancora il fatto che fosse lì da solo, perché i discepoli l’avevano lasciato per andare in città a
comprare da mangiare (4, 8), etc. Insomma, tutto in questa storia è ricco di senso profondo 8.
Tutto è cioè insieme storico e simbolico, per usare il termine più invalso tra gli studiosi.
Va da sé che per vedere la gloria nascosta tralucere attraverso la carne dei testi occorre
guardare alle scene che Giovanni dipinge davanti agli occhi del suo lettore con gli occhiali
giusti9. Di più: anche quando si indossino questi occhiali, non è detto che il testo lasci
immediatamente apparire i tesori di senso che contiene. Per trovarli, è spesso necessario un
lavoro di “setaccio” che presuppone occhi resi penetranti mediante un certo training. Di qui la
convenienza per il lettore neofita di affidarsi, soprattutto all’inizio, alla guida di chi è già
esperto in quest’arte.
Ad ogni buon conto, il principio guida che ai nostri fini importava lumeggiare, credo sia stato
reso perspicuo: nel leggere Giovanni, qualunque sia il passo con cui si ha a che fare, occorre
sempre tenere presente che il racconto ha sempre (almeno) due livelli indissolubilmente
intrecciati, quello storico e quello simbolico-teologico - dove è cruciale precisare che il
secondo non è di norma indipendente da o giustapposto al primo, bensì è incarnato in esso,
come proprio l’affronto del nostro tema eloquentemente dimostra.
È tempo dunque d’entrare in medias res.

8
Parte di tale significato profondo, sia detto per inciso, è con puntualità oltre che forza evocativa catturato ed
espresso da don Antonio Anastasio nel testo della canzone “Se tu sapessi”, che è di fatto un’esegesi di Gv 4, 7:
«Se tu sapessi quanto ti ho aspettato / Quanto ti ho pensato, quanto ti ho voluto / Se tu sapessi in questo deserto /
Chi ti è venuto incontro, quanta sete ho dentro // […] Venivi a me senza pensare distratta nella tua memoria / Ma
sono io che chiedo a te ti amo fino a domandare / Ho sete / ascolta la mia voce sete di te fin sulla croce» («Se tu
sapessi», parole e musica di Antonio Anastasio).
9
A mio parere, due sono le lenti degli occhiali “speciali” che il lettore deve indossare per penetrare il senso
profondo dei racconti giovannei: 1. la fede nell’identità divina di Gesù (Gesù è il Figlio unigenito dal Padre: Gv
1, 14) che permette di misurare la ‘distanza verticale’ tra la Sua casa natale (il Padre) e il luogo ove di volta in
volta si trova: ‘seduto al pozzo e sfinito dal lungo viaggio ’, ‘assetato sulla croce’, etc. 2. La fede nel Suo essere
l’atteso che compie le Scritture (Gesù è il Cristo o figlio di Davide) che permette di vedere ogni singolo fatto
sullo sfondo dell’intera estensione della storia di Israele. Di fatto la gloria nascosta nell’apparente umiltà dei fatti
raccontati non si sprigiona dalla carne di Gesù – pensiamo, per esempio, alla scena della trafittura del costato in
19, 34 - a meno di guardare ai fatti attraverso entrambe le suddette lenti allo stesso tempo (un po’ come si fa
quando si va al cinema a vedere un film in 3D). Per comprendere meglio questa idea, di importanza a mio avviso
cruciale ai fini di una comprensione adeguata dell’estetica teo-poetica giovannea, cfr.: P. PROSPERI, “Con gli
occhi dell’Aquila: simbolo ed annuncio della fede nel Quarto Vangelo”, in: Atti del Convegno “Parola e
Immagine”, PIO 2019.
6
1.b. Simon Pietro ed il Discepolo Amato come archetipi di realtà permanenti
Per cominciare, iniziamo col precisare che il principio appena enunciato si applica, come
prevedibile, ai personaggi che popolano il vangelo non meno che ai dettagli ambientali e
materiali del racconto. Ogni personaggio è cioè se stesso – è una figura storica singolare,
inconfondibile, spesso fortemente caratterizzata fin nei tratti psicologici - e nello stesso tempo
è più di se stesso. Più precisamente: nell’essere se stesso, ogni personaggio (singolare o
collettivo: si pensi ai cosiddetti giudei)10 riveste un ruolo simbolico – è cioè il paradigma o
incarnazione prima di un tipo di figura che continuerà ad esserci dopo di lui o lei e di cui egli
od ella (o essi) è l’incarnazione prima.
Ciò vale per tutti o quasi i personaggi che gravitano attorno a Gesù - ma in special modo vale
per quelle figure che sono state destinate da Dio a rivestire un ruolo importante nella storia
della salvezza e soprattutto della Chiesa. Su tutti, in questo strettamente ecclesiologico
contesto, se ne distinguono tre: la madre, Simon Pietro e il Discepolo Amato.
Così, il Simon Pietro giovanneo è il Simon Pietro storico, quel Simone figlio di Jona che Gesù
ribattezzò Cefa, subito dopo averlo fissato per la prima volta negli occhi (Gv 1, 42a)11.
Nessuno quanto Giovanni ha il dono di farci penetrare, con una acutezza ed insieme una
delicatezza senza pari, nelle pieghe fin psicologiche del dramma personale di Simone. Allo
stesso tempo, la psicologia non è mai in Giovanni fine a sé stessa. Nel dramma di Simone,
nella singolare ed irripetibile storia del suo personale rapporto con il Maestro, si incarna e
consuma un dramma che contiene qualcosa di paradigmatico, qualcosa cioè che sfonda le
barriere della vicenda d’un singolo e diviene fonte di illuminazione non solo del cammino e
10
Per una caratterizzazione narratologica del personaggio dei “giudei” nel quarto evangelo, vedi M.
MARCHESELLI, Studi sul vangelo di Giovanni. Testi, temi e contesto storico, G&BP, Gregorian & Biblical Press,
Roma 2016, 354-374. Per un preciso status quaestionis ed una calibrata risposta alle accuse di anti-giudaismo
mosse ancora di recente al quarto evangelista, cfr. Ibid. pp. 239-353. Personalmente ritengo si possano e debbano
mantenere fermi almeno tre postulati, quando si parla dei Giudei giovannei. Primo, il titolo/nome “i giudei”,
quando e se usato con connotazione negative, non indica i giudei in quanto entità etnica bensì un gruppo
specifico di giudei caratterizzato da una certa postura spirituale che di fatto conduce a rigettare Gesù (cfr. J.
MATEOS - J BARRETO, Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1982, p.144).
Secondo, questo gruppo può essere storicamente identificato con una élite di capi religiosi e notabili che ha il suo
quartier generale in Gerusalemme (cfr. Gv 7,13; 9,22; 19,38; 20,19: soprattutto nei primi due passaggi la
distinzione e persino opposizione tra i Giudei, intesi in senso ristretto come l’élite religiosa avente sede a
Gerusalemme, ed il popolo – anch’esso costituito da persone di etnia giudaica – è esplicitamente rimarcata).
Terzo, come tutti i capitoli dal 5 al 10 documentano, ma nel modo più eloquente ed esplicito Gv 9, la postura
spirituale propria ai giudei (ciò di cui essi sono archetipo) è quella di chi crede di già conoscere tutto ciò che c’è
da conoscere del Signore e delle sue vie (9, 40-41) pur non avendone in realtà una conoscenza verace (5,37-38;
8,19.54-55) e non nutrendo alcun autentico amore verso di Lui (Gv 5,42.44; 8,47 etc.). In questo senso, ma in
questo soltanto, la giudaicità (in senso etnico-religioso) gioca effettivamente un ruolo determinante nel costituirsi
del personaggio dei Giudei. È infatti sulla base della loro nobiltà di nascita e superiore conoscenza di Dio
(rispetto ai gentili ma anche al volgo: Gv 7,48-49; 9,34), che questi Giudei fondano il proprio (erroneo) auto-
convincimento di sapere tutto ciò che c’è da sapere di Dio.
11
41 Egli (Andrea) incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che
significa il Cristo)» 42 e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio
di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)».
7
del dramma d’ogni discepolo del Signore (non a caso don Giussani ci ha così spesso invitato a
immedesimarci nella figura di Pietro); ma anche del cammino di ‘iniziazione’ - cioè di
passaggio da una vecchia ad una nuova mentalità - che è chiamato a fare chiunque il Signore
chiami ad una missione simile12 a quella che il Signore ha dato a Pietro e di cui è l’archetipo.
Cosa si intende per archetipo?
Questo termine indica, quando usato in contesto ecclesiologico come nel nostro caso,
l’incarnazione prima di un tipo di figura la cui presenza, anche dopo la dipartita di Gesù e
degli apostoli, rimane essenziale per la vita della Chiesa. Potremmo usare anche la parola
funzione, se questa parola non evocasse a noi moderni qualcosa di meccanico e freddo, di
impersonale. Invece, in senso giovanneo, che poi vuol dire in senso veramente cristiano, non
c’è opposizione tra la valorizzazione della carne e del sangue dell’uomo Simone, ed il dire
che egli è simbolo d’una certa funzione, di una certa missione precisa. E ciò perché nella
visione della persona che nasce dalla fede, che sgorga da Cristo, la personalità del singolo si
realizza, trova pienamente se stessa proprio nel compito, nel servizio alla totalità. Così
Simone è Simone e nel contempo è Simon Pietro, è Cefa - che vuol dire la Roccia (non a caso
Gesù gli dà un nome nuovo). Il che significa: la piena verità della sua personale identità, il suo
nome definitivo si svela mediante la voce di Gesù che gli dà un compito: “Tu sei Simone, ti
chiamerai Cefa” (Gv 1, 42).
Qualcosa di simile, come vedremo tra breve, vale per colui che si auto-chiama “il discepolo
che Gesù amava”13. Il discepolo amato è certamente una figura storica precisa 14, peraltro
investita d’una missione unica e irrepetibile (scrivere il vangelo medesimo!) 15. E tuttavia c’è

12
Faccio notare, a mo’ di inciso, che in questo simile c’è spazio per tutta una grande varietà di applicazioni
analogiche. Per essere più esplicito, certamente Simon Pietro rappresenta prima di tutto chi è chiamato a
ricoprire una certa funzione di responsabilità istituzionale nella Chiesa, il papa (il successore di Pietro appunto)
innanzitutto, e poi il ministero ordinato (il vescovo, il sacerdote). D’altra parte, uno dei punti di forza del
linguaggio simbolico giovanneo (come del linguaggio simbolico in quanto tale: il simbolo, insegnano i filosofi, è
per sua natura polivalente) sta proprio nella sua analogica estendibilità. Il che significa: in realtà, a ben guardare,
c’è qualcosa di “petrino in ogni vocazione in cui è implicato l’essere investiti in modo oggettivo di autorità, ossia
di responsabilità educativa nei confronti di altri (auctoritas, dal latino augere, è chi fa crescere altri): penso qui,
è il caso più evidente, ad un padre e una madre (che piaccia loro o meno, un padre e una madre hanno
oggettivamente una responsabilità “pastorale”, cioè il compito di “pascere” i loro figli, il che implica un nutrire
non solo fisico); ma penso anche a chi fa per esempio l’insegnante o il responsabile (che può essere laicissimo)
di una comunità o di una fraternità, o il politico. Gira e rigira, c’è in fondo qualcosa di analogicamente “petrino”
in ogni vocazione. Siamo tutti un po’ Pietro non solo in quanto discepoli di Gesù, ma anche in quanto
oggettivamente investiti di “autorità”, cioè del compito di educare persone a noi affidate (fosse anche solo il
proprio marito o la propria moglie).
13
Un discorso a parte e ben più articolato andrebbe fatto per la madre, cioè la Madonna – anch’ella, come il
discepolo amato, mai chiamata per nome nel IV vangelo (cfr. Gv 2, 1-11; Gv 19, 25-27). Si vedano in merito, tra
gli altri: I. DE LA POTTERIE, La Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo,
116-134; A. SERRA, Maria sotto la Croce. Solo l’Addolorata? Verso una rilettura dei contenuti di Gv 19, 25-27,
Padova, Edizioni Messaggero, 2012; ID., Servitium Editrice, Sotto il Monte (BG), 2020, ad loc..
14
Fare nota, citare Culpepper…
8
un senso per cui è vero di Giovanni, il discepolo che Gesù amava 16, quello che è vero per
Simon Pietro: entrambi rappresentano un tipo di figura, diciamo pure di funzione, che nella
vita della Chiesa non può mai mancare se la Chiesa ha da essere ciò che il Signore ha voluto
che fosse17.
Potremmo dirlo così: nella visione del IV Evangelista, è come se la Chiesa non potesse
sussistere né la Sua missione essere feconda senza l’unità dinamica e drammatica, senza la
complementarietà di queste due figure: Pietro e Giovanni. Se manca uno dei due la Chiesa
non è più se stessa, è come amputata e perciò non può svolgere la sua missione, che è quella
di rendere testimonianza a Cristo, di farne risplendere la gloria nel mondo lungo tutto il tempo
che segue la Sua ascensione e precede il Suo ritorno.
Così dicendo, abbiamo già enunciato il tema centrale che adesso dobbiamo sviluppare.
Cominciamo col domandarci: cosa rappresentano, di cosa sono archetipo Simon Pietro e il
discepolo amato? Padre Lepori, nella citazione messa in esergo, già indica sinteticamente la
risposta a questa domanda. In ciò che segue, vorrei tentare di rivestire questa risposta di
“carne e sangue” entrando nel merito di quel che il vangelo ci lascia intuire circa il rapporto
tra queste due figure.
Simon Pietro rappresenta - così almeno nell’interpretazione a nostro avviso più corretta di
questa polarità18, il ministero pastorale – potremmo dire l’autorità istituzionale, per usare il

15
Su questo invece si discute. Senza entrare qui nel merito dei motivi di tale opinione, personalmente ritengo si
possa (se non debba) mantenere, con la tradizione, che il discepolo amato sia in effetti Giovanni figlio di
Zebedeo. Per una succinta introduzione alla cosiddetta questione giovannea (che include tre domande,
inseparabili ma distinte: 1. chi è il discepolo amato? È il discepolo amato anche l’autore del vangelo? Se non lo
è, chi ha scritto il vangelo e in che rapporto sta al DA?) si vedano le prime pagine del capitolo dedicato a “Le
immagini giovannee” nel primo volume del Gesù di Nazareth di J. RATZINGER / BENEDETTO XVI. Per una più
approfondita trattazione, si vedano anche l’ormai classico (ma nelle sue conclusioni a mio avviso problematico)
M. HENGEL, La questione giovannea, Paideia: Brescia, 1998, e soprattutto R. BAUCKHAM, The beloved disciple
and His Witness. Narrative, History and Theology in the Gospel of John. (Grand Rapids, Mich.: Baker
Academic, c2007), 73-92 (l’autore ha il merito di mettere in evidenza, a nostro avviso in modo convincente, che
non vi è oggi più nessuna seria ragione per postulare una distinzione tra la persona del DA e l’autore materiale
del vangelo; più discutibile ci paiono le ragioni addotte da Bauckham per escludere l’identificabilità del DA con
uno dei dodici).
16
Perché il misterioso autore-narratore non si nomina mai? Solo per umiltà, come arguito da taluni? A mio
avviso a questa domanda va data non una ma più risposte, tutte valide, che si integrano a vicenda. Se ne dirà in
merito qualcosa più avanti (cfr. nota 27 e 4.e. Se voglio che egli rimanga).
17
Scrive in merito uno dei commentatori contemporanei più sagaci di Gv 21: “In Gv 21, il ruolo da essi (Simon
Pietro e il DA) storicamente svolto viene reso trasparente per la Chiesa di tutti i tempi: nel tempo che va dalla
risurrezione del Signore alla sua venuta, la comunità ha bisogno di una funzione di testimonianza e di un
ministero pastorale (…). Pietro e il DA sono morti, eppure il ministero pastorale e la funzione di testimonianza
sopravvivono ad essi. I loro ruoli non sono semplicemente dimensioni necessarie alla vita della comunità dei
credenti, sono anche indispensabili perché la manifestazione del Risorto possa essere recepita dai discepoli; non
servono soltanto all’organizzazione della vita comunitaria, ma mediano l’incontro col Risorto tra la sua pasqua e
la sua venuta” (M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare? Un pasto, il Risorto, la comunità, Dehoniane:
Bologna, 2006, 264).
18
Si veda, per una riflessione di taglio dogmatico, soprattutto i rilievi di H. U. V ON BALTHASAR, Il complesso
Anti-romano, Queriniana, Brescia, 1974, 140-160. In ambito più strettamente esegetico, fondamentale è invece
9
linguaggio del recente decreto del Dicastero per i Laici “Le associazioni di fedeli”19. L’altro
discepolo o discepolo che Gesù amava 20 rappresenta invece il carismatico, il discepolo cui è
donata un’eccezionale penetrazione del mistero di Gesù, una speciale, privilegiata intimità
con Lui - e vedremo tra breve fino a quale vertiginoso estremo l’evangelista osi spingere
questa rivendicazione d’eccellenza, pur riuscendo a farlo in un modo che è al contempo
audace e discreto, spudorato eppur velato, fiero e insieme umile.21
In questa luce, si capisce perché padre Lepori agli esercizi della Fraternità abbia potuto
commentare come ha fatto il passo della corsa di Pietro e Giovanni. Non stava sovrapponendo
al testo una sua interpretazione “appiccicata”. No, in realtà è chiaro che l’Evangelista,
parlandoci di questo correre più svelto di Giovanni non ci sta raccontando semplicemente un
fatto storico (senza negare che le cose siano andate così). Nel fatto egli vede l’esprimersi di
una verità profonda: Giovanni è “più veloce” di Simone non solo in senso fisico, ma anche nel
senso che è più acuto, più penetrante, più profondo di Simone, il quale invece, ahimè, bisogna
ammetterlo, se escludiamo la grande confessione di fede di Gv 6, 68-69 22, fino alla pasqua
sembra davvero non azzeccarne una.

oggi: M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare? Un pasto, il Risorto, la comunità, Dehoniane: Bologna,
2006. Importanti per il nostro tema sono soprattutto il capitolo IV (“Pietro e il discepolo che Gesù amava nella
terza manifestazione del Risorto”, 141-203) ed il finale del VI (6.4: “Figure del discepolato e funzioni ecclesiali
in Gv 21, 262-264). Più sintetici ma egualmente utili sono i rilievi del medesimo autore in: “Occasione e scopo
di Gv 21: presentazione e valutazione delle principali ipotesi esegetiche”, in: Studi sul vangelo di Giovanni.
Testi, temi e contesto storico, Pontificio Istituto Biblico, 2016, 115-130: “È nostra convinzione – scrive il
Marcheselli – che [Simon Pietro e il Discepolo Amato in Gv 21 stiano a] simboleggiare rispettivamente il
ministero pastorale al servizio dell’unità e la testimonianza affidabile resa al Signore fino al suo ritorno, come
dimensioni strutturali della comunità dei credenti” (Ibid. 130).
19
Il riferimento è al decreto del pontificio dicastero per i Laici, la famiglia e la vita, Le associazioni di fedeli
(11.06.2022), che disciplina l’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, private e
pubbliche, e negli altri enti con personalità giuridica soggetti alla vigilanza diretta del medesimo Dicastero.
20
Vale la pena notare che questo discepolo, che tanto il vangelo stesso (Cfr. Gv 21, 24) quanto la tradizione
ecclesiale hanno sempre identificato (a nostro parere a ragione) con l’autore del vangelo, non è l’unico
importante personaggio lasciato nell’anonimato. Lo stesso è vero – e non si vorrà vedervi una pura coincidenza -
di quella madre di Gesù che a questo discepolo è così strettamente associata (Gv 19, 25-27). Se alla curiosa
coincidenza si aggiunga l’ancor più curioso dato che tanto il (certamente a tutti noto, all’epoca in cui Giovanni
scrive) nome proprio della madre di Gesù (Mariam: …) quanto il nome del discepolo che secondo la più antica
tradizione è da identificarsi col discepolo amato (Giovanni…) sono tuttavia abbondantemente (birichinamente?)
menzionati nel vangelo, sebbene attraverso altre Marie ed altri Giovanni, diviene chiaro che in realtà il
parallelismo ha ben poco di coincidenziale. Diviene così legittimo ed anzi doveroso chiedersi: perché i due
personaggi secondo il vangelo più vicini a Gesù, sia in senso carnale-materiale che in senso interiore, non
vengono mai chiamati per nome? Non essendo qui a tema la relazione madre-BD, lascio al lettore di riflettere
sull’intrigante quesito. Ciò ovviamente non significa che chi scrive consideri il rapporto DA-madre Gesù meno
importante del rapporto DA-SP ai fini di un chiarimento del significato della figura del DA nell’economia
globale del vangelo. Significa soltanto che si tratta di una tematica a sua volta talmente ricca che si è ritenuto non
affrontarla in questa sede.
21
D’altronde, non si può forse dire qualcosa di simile anche del suo maestro, l’umile “Nazareno” (Gv 1, 46) che
“chiama Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5, 18)? Torneremo più avanti sul parallelismo Discepolo
amato-Gesù, invero assai più martellante e ricco di significato di quanto non appaia a prima vista.
22
Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». [68] Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da
chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
10
2. Il DA e SP in Gv 13, 18, 19: perfetto vs pessimo discepolo?

2.a. Simon Pietro


Se si prova a leggere uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, ciascun pannello di
quelli che amo di chiamare i due trittici petrini23 - cioè i due “grappoli” di scene con Pietro
protagonista che si trovano rispettivamente al capitolo 13 (cioè all’inizio del libro della
gloria)24 e al capitolo 18 (cioè all’inizio della passione del Signore vera e propria), è difficile
non accorgersi di almeno una cosa: se c’è un’idea su cui Giovanni batte e ribatte, nel modo di
descrivere il muoversi di Simone, è la sua goffaggine. In effetti, nonostante la sincerità di una
dedizione che egli non perde occasione di tentare di dimostrare al Signore, la cosa che più
colpisce in questi testi, fino a renderli quasi umoristici, è il fatto che Simone finisce
continuamente per fare il contrario di ciò che non solo dovrebbe, ma addirittura vorrebbe
fare.
Passiamo in rassegna velocemente almeno alcune delle scene di questo polittico.

Prima scena: la lavanda dei piedi.

23
Alludo con questa espressione al fatto che le scene che hanno per attore protagonista o co-protagonista Simon
Pietro in Gv 13 e Gv 18, non solo sono rispettivamente tre (Gv 13, 2-10; 21-30; 33.36-38) e tre (Gv 18, 1-10; 15-
16; 17-18.25-27), ma anche si corrispondono, come in un gioco di specchi, a due a due (la prima alla prima, la
seconda alla seconda, la terza alla terza). Di qui la scelta di parlare di veri e propri “trittici”. In effetti, Giovanni
sembra fare qualcosa di simile ad un pittore di polittici sacri, il quale in una chiesa mettesse da una parte l’uno di
fianco all’altro, sulla stessa parete, tre pannelli con scene in successione, dall’altra l’una di fronte all’altra (su
pareti opposte) le scene che si rispecchiano e richiamano a vicenda in ciascuna delle due serie, così da permettere
a chi guarda di comprendere il senso di ciascuna scena, vedendola da un lato come parte di una successione che
ha una logica interna (il trittico), dall’altro alla luce del gioco di somiglianza e contrasto che la relaziona alla
corrispondente scena dell’altro trittico (per esempio: la predizione del rinnegamento da una parte guarda indietro
alla scena della lavanda dei piedi, in cui Simone si è mostrato resistente a lasciarsi lavare dal Signore, ma
dall’altra deve essere ovviamente letta in rapporto alla scena corrispondente di Gv 18, in cui il rinnegamento si
realizza). Tutto ciò può suonare sofisticato, ma quando si provi a leggere i testi alla luce di questo schema
interpretativo, ci si avvede di quanto esso aiuti a cogliere la logica profonda della Simon Peter’s story narrata da
Giovanni. Si veda la schematizzazione provvista nei testi presentati in appendice: Simon Pietro e il Discepolo
amato: testi.
24
È ormai pacifico che si possa e debba suddividere il vangelo di Giovanni in due “libri” (o macro-unità
testuali), il libro dei segni (Gv 1, 19 – 12, 51) ed il libro della gloria (Gv 13, 1 – 20, 31) preceduti da un prologo
(Gv 1, 18) ed un epilogo (Gv 21). Volendo, si può considerare il capitolo 12 una sorta di transizione o cerniera
tra il libro dei segni ed il libro dell’ora della gloria (noi tendiamo a dare fiducia a questa idea). Il libro dei segni,
così denominato in quanto scandito dai sei segni compiuti dal Gesù giovanneo durante il suo ministero pubblico
(il primo è il segno di Cana, l’ultimo la resurrezione di Lazzaro) descrive la parabola della vita pubblica del
Signore, cominciando con la chiamata dei discepoli (prima settimana “breve”: Gv 1, 19 – 1, 51) e finendo con la
presa d’atto dell’incredulità della maggioranza dei giudei (Gv 12, 37-50), incredulità che a sua volta innesca
l’escalation che conduce alla passione e perciò al secondo libro: il libro della passione o della gloria o ancora
dell’ora (la nostra preferenza va a quest’ultima dicitura). La triplice (egualmente valida) denominazione si
giustifica per il fatto che, nella prospettiva giovannea, le umiliazioni e sofferenze ingiustamente patite da Gesù
per mano dei suoi nemici (passione) – arresto, processo, flagellazione e innalzamento sulla croce (cfr. Gv 12, 32)
- ottengono, a dispetto dell’intenzione di quanti lo hanno “innalzato da terra” (8, 28), l’ironico effetto di tanto più
glorificarlo (cfr. Gv 12, 23.28; 13, 31-32), cioè di far risplendere ancor più radiosamente davanti al mondo la
Sua gloria di Figlio Unigenito (cioè il fino a che punto del suo amore per il Padre e per il mondo).
11
Come sappiamo, Simone è l’unico dei discepoli che oppone inizialmente fiera resistenza
all’iniziativa di Gesù di lavargli i piedi: “non mi laverai mai!” (Gv 13, 8) – protesta Simone.
Perché? È ovvio: la sua intenzione è dimostrare a Gesù il suo rispetto, la sua incondizionata
convinzione che egli sia il Messia, il Re di Israele inviato da Dio. Poiché Gesù è il suo Re, o
perlomeno è destinato da Dio ad esserlo, non può permettere che Gesù gli lavi i piedi. Al
massimo dovrebbe darsi il contrario:

“Tu lavi i piedi a me?”


Peccato che nell’opporsi alla iniziativa del suo Re (a prescindere dal profondo significato
simbolico del gesto, che certo Simone ancora non può capire, come Gesù stesso dice: Gv 13,
7), egli si sta di fatto ribellando a Lui, e perciò stesso sconfessando, con un atto di
insubordinazione, la sua confessione di fede nello status regale di Gesù!
Ma c’è di più. Zoomiamo un poco più da vicino sul dialogo tra discepolo e maestro:

A: Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a
me?». 

B: Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai


dopo». 

C: [8] Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!».

D: Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».

Le parole con cui Gesù inizialmente risponde (B) allo sconcerto di Simon Pietro, rendono
chiaro che il povero discepolo non solo non comprende, ma nemmeno può comprendere il
gesto del maestro. “Lo capirai dopo” infatti significa: solo dopo la pasqua, quando cioè
Simone avrà ricevuto lo Spirito di verità, potrà egli capire il senso dell’azione del maestro. La
“gravità” della sua ribellione risulta così senza dubbio ridimensionata. D’altra parte, si deve
anche notare come l’ironia latente nell’intero quid pro quo si acuisce soltanto, una volta che si
rilegga lo scambio alla luce di quel significato che più tardi Pietro capirà.
Che cosa infatti Simone capirà più tardi?
La risposta è duplice: primo, che la lavanda dei piedi era stata un gesto simbolico attraverso
cui Gesù aveva voluto rivelare in anticipo ai suoi il senso d’un altro e ben più radicale auto-
abbassamento suo: quello della croce. Secondo, che questo senso ha a che fare col fatto che
proprio mediante il dono della sua vita sulla croce il Signore avrebbe “lavato i piedi” ai suoi
in un senso forse più immateriale ma non meno reale. Dal Suo costato squarciato sulla croce
(cfr. Gv 19, 34) stava infatti per scaturire un’acqua (quella dello Spirito) capace di dare a
12
Simone piedi a tal punto “nuovi” e rinvigoriti”, da permettergli di seguire il maestro fino alla
fine (Gv 13, 36), cioè fin sulla croce (Gv 21, 19).
È troppo generico dire che la lavanda dei piedi è prefigurazione dell’amore redentore della
croce. Gesù non fa genericamente il bagno ai suoi discepoli. Egli lava loro i piedi – come egli
stesso sottolinea: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto
mondo” (13, 10). Come interpretare queste notoriamente sibilline parole?
La risposta che ci permettiamo di proporre è la seguente: Simone e gli altri hanno già creduto
in Gesù e per questo sono già mondi (Gv 8, 34-36). La loro iniziazione, tuttavia, è ancora
incompleta. Solo dopo, grazie ed alla luce dello sprigionarsi dell’amore perfetto (eis to telos:
13, 1) del Signore, essi riceveranno piedi da veri “apostoli”, piedi capaci di incamminarsi
sulle orme del divino Maestro (cfr. Gv 13, 12b-15!; Gv 13, 34), cioè di amare con la stessa
radicalità con cui egli li ha amati 25.
Così comprendiamo: rifiutando di lasciarsi lavare i piedi (Gv 13, 8), Simone sta in effetti
(senza accorgersi) sottraendosi all’onda di quell’amore fino all’estremo (Gv 13, 1) da cui egli
deve invece lasciarsi investire, per poter amare dello stesso amore. Il che è come dire (e sta
qui l’ironia): egli sta impedendo a Gesù di donargli ciò che egli più di tutto vorrebbe avere,
come egli stesso dirà poco più tardi: il potere di seguire Gesù fino alla fine (13, 37a) – di
amarlo fino a dare la vita per lui (13, 37b)26.
S’obbietterà: ma Pietro ancora nulla sa del senso profondo del gesto di Gesù. Non è un po’
ingiusto accusarlo d’essere una sorta di pelagiano ante-litteram?
Sì e no. È vero, Simone ancora non può pienamente capire il senso gesto di Gesù. D’altronde,
egli può capirne eccome il senso immediato. Chi può negarlo? Egli ben capisce – come lo

25
Anche se si tratta d’esegesi ancora non recepita, questa interpretazione tanto del senso della lavanda quanto di
Gv 13, 10 è a mio avviso di gran lunga la più plausibile per almeno quattro ragioni: primo, perché corrisponde
alla norma secondo cui la soluzione degli enigmi giovannei si ottiene quasi sempre per via intertestuale (spiegare
Giovanni attraverso altri passi vuoi della scrittura vuoi del vangelo stesso. In questo caso, la connessione
intertestuale (peraltro difficile da negare) è con il terzo pannello del primo trittico petrino, cioè il dialogo tra
Gesù e Simon Pietro, che verte appunto sulla capacità o meno dei discepoli di seguire Gesù dove sta andando
(Gv 13, 36-38). Secondo, questa esegesi stabilisce un elegante e significativo parallelismo tra Gv 13, 10 e Gv 13,
1, dove Giovanni parla di una distinzione in crescendo tra l’amore che Gesù ha già dimostrato ai suoi (nel
ministero pubblico) e l’amore perfetto (eis to telos) che egli sta per dispiegare nella Sua ora. Terzo, i piedi sono
anche altrove in Giovanni simbolo del libero andare di persona in un posto o in un altro. Quarto, i “piedi belli”,
nell’alludere indietro ai messaggeri di lieti annunci di cui aveva parlato Isaia (Is 52, 7) divengono in modo del
tutto spontaneo una allusione in avanti alla missione apostolica dei discepoli (cfr. Gv 13, 16; 15, 16; 20, 21),
come la liturgia bizantina ha così ben colto:.«Umiliandoti nella tua compassione hai lavato i piedi dei tuoi
discepoli, e li hai preparati per la corsa divina (kathisma, tono 3) (…) consacrati al Cristo mediante il vincolo
dell’Amore, gli apostoli ricevettero la lavanda dei Piedi, i piedi belli di quelli che a tutti evangelizzano».
26
Ovviamente è vero per tutti i discepoli e non per il solo Simone, che solo dopo la pasqua diverrà loro
possibile, grazie al dono dello Spirito, seguire Gesù ‘fino in fondo’. È tuttavia significativo, come si vedrà sotto,
che in qualche modo nel DA (e nella Madre) questo potere è prefigurato già prima della pasqua, se è vero che il
DA è di fatto il solo che, grazie alla docilità fiduciosa con cui lascia fare a Gesù, finisce per rimanergli in effetti
vicino fino alla fine (Gv 19, 24 ss.).
13
capisce qualunque lettore - che nella stravagante iniziativa del Signore s’esprime la radicalità
debordante del Suo amore per lui. Diciamo pure: la radicalità d’un amore a tal punto
sovrabbondante rispetto al dovuto, da sembrargli eccessiva. E proprio qui sta il punto:
eccessiva perché? Perché Simone non dovrebbe accettare dal maestro un gesto d’amore così
esagerato ed immeritato – se il maestro lo vuol fare? È vero, molto del senso del gesto rimane
per ora al buon Simone incomprensibile. D’altro canto, il suo sottrarsi d’istinto all’eccesso di
zelo del maestro, lascia sottilmente trasparire, in modo quasi subliminale, la confusione che
ancora regna dentro di lui: vorrebbe esprimere la sua venerazione per il “suo re Messia” e
non s’accorge che il suo no, dice a conti fatti l’opposto, e cioè quanto centrato in sé stesso più
che nel Signore egli ancora sia27.

Passiamo alla seconda scena, invero connessa alla prima da molteplici fili, come già trapelato:
il dialogo tra Simon Pietro e Gesù in 13, 36-38, con annessa profezia del rinnegamento.
Poco più tardi, nel momento struggente in cui, dopo aver lasciato uscire Giuda dal cenacolo,
Gesù annuncia ai suoi che egli sta per andare “dove essi non possono seguirlo” (cioè al
Padre, ma passando per l’erta via della croce), Simone ancora una volta protesta,
dichiarandosi pronto a seguire il Signore ovunque egli vada (13, 37a). Ed ancora una volta lo
fa convinto di manifestare così la sua incondizionata devozione al maestro: “darò la mia vita
per te!”. Conosciamo la risposta di Gesù: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico:
non canterà il gallo, prima che tu mi abbia rinnegato tre volte” (Gv 13, 38). Simone
rinnegherà il Signore, ma lo rinnegherà ancora una volta per disobbedienza, e cioè –
formidabile, nuovo colpo di ironia! – per non averlo seguito (in senso spirituale) col tentare di
seguirlo (in senso fisico)28. Gesù infatti non solo non gli aveva chiesto di seguirlo, ma gli
aveva espressamente detto che non poteva farlo29.
27
Suggestivo, anche se forse non esegeticamente corretto”, è in questo senso interpretare quel “lo capirai dopo”
di Gesù non solo nel senso di: “dopo la mia pasqua e dopo che avrai ricevuto lo Spirito di verità”, ma anche, più
basilarmente e semplicemente, nel senso di: “dopo che lo avrò fatto”. Quasi a dire: “Come un bambino è iniziato
all’amore attivo più attraverso l’esperienza della gioia della sua mamma nel lavarlo e vestirlo che attraverso
mille parole, così tu, Simone, non puoi capirmi né aver parte con me, cioè aver parte di quella gioia di servire
che è ciò che è più mio, se non mi permetti di farti fare un’esperienza fin “tattile” della mia gioia di servirti, di
darmi per te”. Un altro ‘bislacco’ dettaglio del racconto è da questo punto di vista di importanza cruciale:
Giovanni annota in Gv 13, 2 che Gesù si alza da tavola per spogliarsi, cingersi un asciugatoio attorno alla vita
(Gv 13, 3) e approntare il bacile con l’acqua per lavare i piedi ai suoi discepoli (Gv 13, 4), durante la cena e non
prima, come normale. Il che significa: per il Signore, lavare i piedi dei suoi è parte del banchetto è una gioia,
qualcosa di cui gloriarsi e non viceversa. Lo stesso deve essere vero per i suoi discepoli (Gv 13, 12-17) ma lo
può diventare soltanto se e nella misura in cui essi fanno innanzitutto una personale esperienza dell’àgape divina
attraverso le mani, il volto, la carne di Gesù.
28
Sul leitmotiv della “sequela” di Pietro in Gv 1-20, cfr. M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare, cit.
158-163.
29
Non a caso (e non senza ironia), immediatamente dopo l’arresto di Gesù, Giovanni ritrae Simone e un altro
discepolo (cioè lui) nell’atto di seguire (akolythein) Gesù: mentre però il DA riesce a seguire Gesù fino in fondo
14
Per inciso, notiamo anche che l’espressione greca messa da Giovanni in bocca a Simon Pietro
e in italiano tradotta: “darò la mia vita per te”, è un’espressione strana30, che però è la stessa
(guarda caso) che Gesù aveva usato per descrivere il connotato distintivo del pastore
bello/buono. Cosa fa la gloria del vero pastore, cioè di quel re che unico davvero merita
questo nome? Il fatto che dà la vita per le pecore, che si dà lui in sacrificio per quelle pecore-
sudditi che, nel mondo antico, dovevano di norma essere disposte a dare la vita per il proprio
pastore. È questo, intende dunque dire Gesù, che fa la differenza tra il nuovo e assai migliore
tipo di re che con me appare sulla scena della storia ed i re che son venuti prima di me (…). Il
che vuole anche dire: di buon pastore ne esiste in senso proprio e fondante 31 uno solo: “Io
sono il bel/buon pastore” (Gv 10, 11a), che si può tradurre: io sono il re Messia che Israele
attende, che tutti gli uomini attendono - e lo dimostrerò dando la vita per il gregge” (Gv 10,
11b). In questa luce, si comprende l’ironia, venata quasi di tenerezza, contenuta nelle parole
di Gesù a Simone:

Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà
il gallo, prima che tu non m'abbia rinnegato tre volte». (Gv 13, 38)
“Tu darai la vita per me?! Caro il mio Simone, non potrai dare la tua vita per me finché io
non avrò dato la mia per te. Non invertire l’ordine, non prenderti il mio posto! Verrà il tempo
in cui sarai pastore anche tu, ma lo puoi essere se impari innanzitutto ad essere agnello...”

Terza scena: l’arresto.


Qualcosa di perfettamente speculare alla scena della lavanda accade nel drammatico momento
dell’arresto. È notte, siamo nel giardino oltre il fiume Cedron (Gv 18, 1) – quel giardino che
secondo i sinottici (Giovanni non lo nomina) è chiamato Getsemani, per intenderci. Anche
qui, come nel cenacolo, Gesù fa un gesto bizzarro, incomprensibile - almeno agli occhi di chi,
come il nostro Simon Pietro, è fermamente convinto che Gesù sia il Messia: si consegna
volontariamente nelle mani dei soldati venuti ad arrestarlo (Gv 18, 4-8). Quanto poco ciò
corrisponda all’immagine che Simone ha in testa di quel che un aspirante Messia dovrebbe
fare, lo si evince bene dalla sua reazione: cosa fa Simone? Taglia l’orecchio del soldato Malco

(pur non avendo preteso di farlo, né avendo mai tentato di “proteggerlo”) Simone finirà per “perdersi per strada”.
30
Letteralmente l’espressione tithènai ten psychèn andrebbe tradotta: “deporre l’anima per”, “porre l’anima per”
e fa pensare al gesto del sacerdote di porre la vittima sull’altare prima di sgozzarla per compiere il sacrificio. Cfr.
Feuillet,…
31
Dico fondante perché questa esclusività non esclude ma al contrario fonda, nell’ottica giovannea, la possibilità
che anche altri divengano “buoni pastori”. Proprio il modo in cui Giovanni racconta la vicenda di Pietro, intende
evidenziare proprio questo: Simone deve innanzitutto lasciarsi pascere da Gesù, cioè farsi umilmente ricettivo
del Suo amore “fino alla fine”, per poter a sua volta diventare “buon pastore”, capace di dare la sua vita in
gratuità per le pecore di Gesù (Cfr. Gv 21, 15).
15
(Gv 18, 10), buscandosi così l’ennesimo rimbrotto del Signore: “Rinfodera quella spada: non
devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?” Ancora una volta non deve sfuggirci la
sorridente ironia. Non solo Pietro si mostra qui indocile ed istintivo. Di più: egli finisce anche
qui (senza rendersene conto, per carità) per fare l’opposto di ciò che pensa di stare facendo e
vorrebbe fare: egli vuole difendere il suo re, lottando fino all’ultimo sangue per l’instaurarsi
del Suo regno; ma non si avvede (perché nemmeno ha ancora le categorie per avvedersene)
che in realtà è proprio nel permettergli di consegnarsi, come ha sovranamente deciso di fare
(Gv 18, 4-8)32, che egli lo aiuterebbe davvero, e non già cercando di opporsi alla sua
misteriosa iniziativa!
Come si vede, anche senza entrare troppo nelle sfumature dei singoli testi, siamo qui di fronte
ad un limpido caso di ciò che gli esegeti chiamano ironia giovannea. Poiché Simone non
capisce ancora (‘capirai più tardi’, gli dice Gesù: Gv 13, 7) la logica profonda con cui Gesù
si muove; poiché cioè non sa “dove Gesù stia andando”, né di che razza di strana gloria egli
vada in cerca, finisce per fare di continuo il contrario di quello che lui stesso vorrebbe fare e
persino pensa di stare facendo (!?!): non vorrebbe che esprimere la sua venerazione e
devozione per l’uomo che più ama al mondo; e invece finisce per mostrarsi disobbediente e di
intralcio alla di Lui missione33. Vorrebbe mostrarsi umile al Suo cospetto: – non mi laverai
mai! - ; e invece, a conti fatti, si rivela orgoglioso e cieco, incapace di cogliere nei gesti del
Signore l’esprimersi dell’amore straripante del Maestro per lui; incapace non solo di
arrendersi all’eccesso di questo amore, ma prima ancora di accorgersene e stupirsene, tutto
preso come è dal “lottare” ed “agire” per Lui:

Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi
se ne vadano». [9] Perché s'adempisse la parola che egli aveva detto: «Non ho
perduto nessuno di quelli che mi hai dato».  [10] Allora Simon Pietro, che aveva
una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò
l'orecchio destro. (Gv 18, 8-10)

32
Si noti l’insistenza di Giovanni sulla sovrana volontarietà dell’autoconsegna di Gesù, che agli occhi di
Giovanni diviene una vera e propria manifestazione della Sua gloria regale, posto che per Giovanni l’amore
(agape) stesso mediante cui il Signore dà via la vita per i suoi, è la paradossale forza attraverso cui Egli vince il
Principe di questo mondo (Gv 12, 31-32), così come un re sgomina i suoi nemici. La ‘potenza schiacciante’
dell’amore sacrificale del Signore, è quodammodo già alluso ed anticipato nel cadere a terra dei soldati,
‘distorsione simbolica’ del disorientamento che deve averli afferrati al vedere lo scioccante comportamento di
questo aspirante Messia: “Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse
loro: «Chi cercate?». [5] Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro
anche Giuda, il traditore. [6] Appena disse «Sono io (IO SONO)», indietreggiarono e caddero a terra. [7]
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». [8] Gesù replicò: «Vi ho detto che
sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano».
33
Come noto, il tema è in realtà presente anche negli altri vangeli, dove il povero Simone si sente dare del
Satana da Gesù…
16
Si notino le parole che Gesù dice appena prima che Pietro tagli al soldato Malco l’orecchio:
se siete venuti a prendere me, lasciate andare loro”. Mentre gli legano le mani per portarlo al
macello, l’unica premura di Gesù è la salvezza dei suoi. Ma Simone è troppo impegnato a
cercare di salvare Gesù con la sua spada, per poter udire le parole del Signore, esserne colpito
e disarmato.

2.b. Il Discepolo che Gesù amava


Passando ora al Discepolo Amato, notiamo innanzitutto quanto segue: primo, in entrambe le
scene in cui questi viene alla ribalta prima della pasqua34, non ci viene affatto detto che il DA
capisca pienamente il senso di quel che sta accadendo.
Prendiamo la prima delle due apicali scene in cui il DA appare - quella in cui nel cenacolo
egli riceve da Gesù la rivelazione dell’identità del traditore (Gv 13, 21-32). Va da sé che il
nostro discepolo è messo a parte di una informazione – l’identità del traditore - che gli
permette di decifrare in apparenza meglio degli altri le sibilline parole che Gesù a Giuda:
“quel che stai facendo, fallo in fretta!”. Solo Giovanni è messo nella condizione di capire che
col pronunciare queste parole, il maestro ha in pratica dato il permesso a Giuda d’andare a
tradirlo. Di più: lo ha invitato ad affrettarsi a farlo (il che, sia detto per inciso, non significa
glielo abbia comandato)35! D’altro canto, ciò non significa che egli abbia capito meglio degli
altri il senso più profondo delle parole del Signore. Al contrario, si potrebbe persino arguire
che, proprio per il fatto d’averne colto meglio degli altri il senso letterale, più di loro le ha
trovate enigmatiche – come conferma il commento che immediatamente ne segue la citazione:
“nessuno – scrive Giovanni – capì perché Gesù gli avesse chiesto questo”. Certo, come detto,
egli in parte fa eccezione. Ma solo in parte, poiché quel che egli capisce del senso delle parole
del maestro non ne riduce la misteriosità. Capirà poi il mistero racchiuso in quelle poche
parole. Capirà poi che esse esprimevano in realtà l’ardore impaziente, l’incontenibile brama
che il Signore in quell’ora sentiva di far erompere dal suo cuore tutta la gloria del Suo amore.
Capirà poi che se il cuore del Signore batteva così furiosamente, quando egli aveva posato il
34
Le scene sono…cui ne vanno aggiunte altre due in cui però il DA non è chiamato in questo
modo ma solo “un altro discepolo”, senza specifiche I passi sono: Gv 1, 35-39 e Gv 18, 15-18:
1) Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli [36] e, fissando lo sguardo su Gesù che
passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». [37] E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. [38]
Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa
maestro), dove abiti?». [39] Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel
giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
2) Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo
sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; [16] Pietro invece si fermò fuori, vicino alla
porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche
Pietro. 
35

17
capo sul suo petto (Gv 13, 23) non era per la paura di ciò che lo attendeva, quanto piuttosto
per l’intensità dell’amore che gli ardeva dentro, e che finalmente era giunto il momento di
rivelare al mondo. Capirà poi. Ma al momento non capisce. Dove sta dunque la differenza tra
lui e Simone? Nel fatto che il DA lascia fare. Anche lui non capisce, ma lascia fare, si fida
docilmente.
Si intuisce così, come a prescindere da spiegazioni più profonde (il DA era destinato a
rimanere vicino a Gesù fino alla fine a causa della sua missione di testimone oculare), sembra
in effetti esserci un certo rapporto di causa effetto tra la postura interiore del DA, ed il fatto
(certamente anche coincidenziale: era noto al sommo sacerdote, Gv 18, 15) che egli sia
l’unico discepolo che già prima della pasqua ha il potere (come la madre, cui è non a caso
associato) di rimanere vicino a Gesù fino alla fine. Ovviamente è vero anche per lui ciò che è
vero, come sottolineato sopra nel commento a Gv 13, 7-8 e 13, 36-37, non solo per Simone
ma per tutti i discepoli: che cioè solo dopo la pasqua diverrà loro possibile, grazie al dono
dello Spirito, seguire Gesù ‘fino alla fine’. È tuttavia significativo che in qualche modo nel
DA (come nella Madre: Gv 2, 4.5) quel potere di seguire che nel Simone maturo è frutto di un
radicale cambiamento di postura (cfr. Gv 21, 18-19), è prefigurato già prima della pasqua,
posto che egli è il solo discepolo (maschio) che, nell’accettare fiduciosamente che Gesù
prenda la via che ha scelto, finisce di fatto per rimanergli accanto fino alla fine (Gv 19, 24
ss.).
C’è, però, molto di più. Differenza morale a parte, il dato che più salta agli occhi e che
certamente riveste la maggiore importanza nella presentazione del DA, è il fatto che in
entrambe le scene apicali in cui il racconto zooma su di lui, egli si trova in una posizione di
vicinanza al Signore assolutamente privilegiata, se la si paragona a quella degli altri discepoli
(maschi).
Le due scene, note a tutti, sono:
a. L’annunzio del tradimento di Giuda nel cenacolo, durante l’ultima cena (Gv 13, 21-32)
b. La morte sulla croce del Signore (Gv 19, 25-27.35).
Naturalmente si tratta di testi di enorme densità – non possiamo soffermarci su ciascuno di
essi quanto meriterebbero. Per il nostro scopo è sufficiente sottolineare un fatto importante: si
tratta dei due momenti forse più forti in assoluto (almeno agli occhi del IV evangelista) del
glorioso “squadernarsi” dell’amore fino all’estremo (eis to telos: Gv 13, 1) del Signore per i
suoi36.

36
Non a caso, immediatamente dopo aver lasciato uscire Giuda dal cenacolo, Gesù dice: «Ora (sottolineo: ora,
cioè adesso, già prima dell’innalzamento di Gesù, dunque) il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è
stato glorificato in lui. [32] Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo
18
Nella prima scena, assistiamo all’inizio del dispiegarsi di questo amore, poiché nel lasciare
che Giuda vada a tradirlo – e soprattutto nel farlo dicendogli (o dicendo a Satana in lui) “fallo
in fretta”!! (Gv 13, 27) - Gesù ha di fatto già dato consapevolmente il via all’escalation di
eventi che lo porterà ad essere innalzato sulla croce. Orbene, il DA, grazie alla posizione
privilegiata di cui gode, è l’unico che ha potuto registrare l’accaduto in modo tale da capire,
anche se solo parzialmente, quello che sta accadendo. Per cominciare, egli solo sa perché
Giuda sta uscendo, avendogli Gesù appena rivelato l’identità del traditore. In secondo luogo,
egli è abbastanza vicino da udire chiaramente Gesù dire a Giuda (o meglio al diavolo entrato
in lui)37 la strana frase che abbiamo già commentato: “quello che stai facendo, fallo più in
fretta…”. Ed è più che ragionevole supporre che, essendo egli l’unico che sapeva cosa Giuda
stesse uscendo a fare (cfr. Gv 13, 28)38, tale frase gli sia rimasta confitta nella memoria, tanto
enigmatica al momento deve essergli suonata. Più tardi, a distanza di anni, ritornando con la
memoria a quegli istanti, egli ha compreso: sì, proprio in quella sibillina parola detta al
traditore, che al momento gli era parsa così bislacca, era in realtà contenuta una “confidenza”,
la più grande “confidenza” che il Signore gli avesse mai fatto: in verità, il maestro non aveva
appena accettato di dare la vita in sacrificio per i suoi amici, per lui. No, egli ardeva dal
desiderio di farlo – di dimostrare a lui e ad ogni suo discepolo tutta la veemenza del Suo
amore. È questa una confidenza da poco?
Passiamo alla seconda scena. Qui l’amore del Signore s’esprime in modo al contempo più
fisico e più misterioso: esso erompe ormai direttamente dal petto del Signore squarciato dalla
lancia del soldato (Gv 19, 34). Certo, anche qui: sarà solo negli anni a venire che il DA
arriverà pian piano a capire il senso profondo di ciò che ha visto con gli occhi della carne.

glorificherà subito.
37
Riporto qui di seguito tutto il passo, così da rendere più perspicuo quanto si sta arguendo: £Ed egli
reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». [26] Rispose allora Gesù: «E' colui per il quale
intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di
Simone. [27] E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse (a satana o a Giuda? A
satana!): «Quello che (già) stai facendo, fallo al più presto»”. 
38
Come già rimarcato, infatti, Giovanni non dice, nel successivo commento, che “nessuno capì che cosa Giuda
fosse andato a fare”, bensì “che nessuno capì perché Gesù aveva detto questo (a Giuda) ciò che gli aveva detto:
“[28] Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; [29] alcuni infatti pensavano che, tenendo
Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare
qualche cosa ai poveri. [30] Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”. Certo, nella seconda parte del
medesimo commento (Gv 13, 29) – parte che meriterebbe a sua volta un’attenta esegesi - l’Evangelista si
sofferma con compiacimento sulle diverse ipotesi formulate da alcuni dei discepoli circa il possibile scopo
dell’uscita di Giuda, segno della loro ignoranza in materia. Ma tale ignoranza non tocca il DA, che invece
(unico) sa benissimo perché Giuda è uscito. Ciò che anch’egli invece non capisce, è perché Gesù abbia detto al
traditore ciò che gli ha detto: è perciò qui, in questa misteriosa parola detta da Gesù (a satana!), il vero climax
dell’intera (cruciale) scena. Per un commento più approfondito a questo passo, si veda: P. PROSPERI, Gli occhi
dell’aquila…cit. ..
19
E tuttavia, qui come nel cenacolo, tale penetrazione contemplativa è comprensione del senso
d’una indimenticabilmente concreta e storica esperienza visiva – un’esperienza che a nessun
altro dei discepoli (maschi) del Signore è stata concessa39.
Senso profondo nella cui ricchezza non possiamo soffermarci qui40?? E invece soffermiamoci
un po’! Si tocca qui il climax dell’intreccio di storia e spirito: troppo poco si è in passato
sottolineato! È in questa concreta icona che si rivela la gloria dell’amore di Dio!

Ricapitolando: in entrambe le scene il DA si trova in una posizione di vicinanza speciale a


Gesù – vicinanza che gli permette di “udire” (cenacolo) e “vedere” (morte in croce di Gesù)
ciò che, per motivi diversi, agli altri discepoli (maschi) non è dato udire e vedere. Nel
cenacolo ciò è dovuto alla sua vicinanza fisica al Signore ed al fatto che a lui solo Gesù rivela
l’identità del traditore; presso la croce (parà to stayrò: Gv 19, 25), invece, ciò è dovuto al fatto

39
Da notarsi, per inciso, è anche la differenza nella somiglianza: se nel cenacolo il DA s’era trovato in una
posizione tale da permettergli d’udire quel che gli altri non avevano udito, qui gli è dato vedere con gli occhi
della carne quello che agli altri non fu dato vedere La corrispondenza non è evidentemente casuale: le due scene
costituiscono in realtà i due inseparabili pannelli di un dittico, il cui tema unificante è la testimonianza resa dal
discepolo amato all’amore eis to telos del Signore. In effetti, solo chi ha udito e compreso la parola pronunciata
da Gesù nel chiuso del cenacolo, può vedere erompere dal fianco squarciato di Gesù la gloria del divino amore.
Inversamente, la parola detta nel cenacolo diviene pienamente comprensibile solo quando la si “ascolta”
guardando al trafitto. Sul DA come autore ideale del vangelo, cfr. R. BAUCKHAM, The testimony of the beloved
disciple: narrative, history, and theology in the Gospel of John, (Grand Rapids, Michigan 2007), pp. 73-92. Per
una caratterizzazione del DA come testimone ideale, questa volta in parallelo con la funzione di Giovanni
Battista, cfr. R. VIGNOLO, Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Glossa, Milano,
2003, 167-194. Per una presentazione a tutto tondo della figura del DA, cfr. anche G. SEGALLA, “Il discepolo
che Gesù amava” e la tradizione giovannea, «Teologia» XIV (1989) 217-244.
40
Mi limito qui ad osservare che l’icona del trafitto rappresenta per Giovanni non solo la meta o il climax verso
cui tende fin dall’inizio tutto il vangelo come dimostra eloquentemente il fatto che l’unica volta in tutto il
vangelo in cui egli interrompa il racconto per attestare solennemente la verità della sua testimonianza, è dopo
aver dipinto davanti agli occhi del suo lettore questa icona (Gv 19, 35); ma addirittura il punto di arrivo o vertice
di tutta l’auto-rivelazione di Dio al mondo. È guardando a questa icona, infatti, che “chi ha occhi per vedere”
può finalmente gustare e vedere la gloria dell’agape divina in tutto il suo splendore. Il problema è come
acquistare questi occhi. Trattandosi di tema vasto e complesso, mi limito qui ad osservare che per arrivare a
vedere il ‘tremendo’ splendore dell’icona dell’innalzato e trafitto (che è quanto dire: per arrivare a cogliere i
molteplici significati simbolici di cui questa icona è satura), non basta riferirsi alle due citazioni scritturistiche
segnalate dall’autore stesso (Gv 19, 36-37). Occorre invece vedere in essa il compimento non solo di una pletora
di figure veterotestamentarie (e persino tratte dal mondo greco: cfr. Gv 12, 20-23!) ma anche dei segni mediante
cui Gesù manifesta la sua gloria nel suo ministero pubblico (Gv 2, 11) e che Giovanni astutamente racconta in
modo tale da lasciare intuire al suo lettore che essi non sono in realtà che prefigurazioni o anticipazioni
simboliche d’una rivelazione più piena della sua gloria (Gv 1, 50c; 16, 25) - rivelazione che avviene appunto
nell’ora del suo innalzamento da terra. Il che inversamente vuole anche dire: per vedere la gloria del trafitto,
occorre guardare alla sua immagine tenendo sullo sfondo le figure di cui questa icona è compimento. Così, per
esempio, nel sangue che fiotta dal costato aperto di Gesù, il lettore è invitato a vedere il vero vino delle nozze di
Cana; nell’acqua che egli fa sgorgare dal suo petto, la vera acqua viva di cui egli aveva parlato alla donna di
Samaria, ma che (si badi!) non aveva ancora elargito, e così via. Per una riconsiderazione della funzione chiave
dell’icona del trafitto per la comprensione del senso globale dell’intero racconto giovanneo, cfr. ancora P.
PROSPERI, “Con gli occhi dell’Aquila: simbolo ed annuncio della fede nel Quarto Vangelo”, in: Atti del
Convegno “Parola e Immagine”, PIO, Roma, 2019. Per un approccio più semplice e meditativo al senso
simbolico dell’icona del trafitto, cfr. ID, Passione sponsale. Meditazione sul mistero pasquale, (disponibile solo
online: https://sancarlo.org/passione-sponsale/). Per una interpretazione più classica ed articolata, cfr. I. DE LA
POTTERIE, La Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo, pp. 145-157.
20
che egli solo è presente (insieme alla madre e alle altre donne) – gli altri (Pietro incluso!) si
sono dati alla macchia.

2.c. Dal kòlpos di Gesù al kòlpos del Padre


C’è un ultimo dettaglio che non possiamo tralasciare (poi si capirà perché): nella scena del
cenacolo ci viene detto prima che il DA si trova presso il kòlpos di Gesù (che si può tradurre
seno, grembo etc.), e poi che quando Simon Pietro gli chiede di interrogare Gesù circa
l’identità del traditore, il DA si “lascia cadere” (come al solito le traduzioni ovattano e
stemperano la forza del testo originario) sul petto di Gesù:

A: Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola presso il
seno (en to kolpo: cfr. 1, 18) di Gesù. 

B: Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». 

C: Ed egli lasciandosi cadere sul petto (epì to stethos) di Gesù, gli disse:
«Signore, chi è?».

Tutto ciò è rilevante per più motivi, ma prima di tutto perché ci dice di un fatto di importanza
niente affatto sentimentale: nell’ora estrema, cioè nel momento in cui Gesù sta per prendere la
via della croce, questo discepolo ha davvero sentito “battere” (in senso fisico, prima ancora
che mistico-contemplativo) il cuore del Signore. Similmente, il suo racconto della morte del
Signore culmina e si conclude con la descrizione della trasfissione del petto di Gesù. Può
essere una coincidenza? Faccio notare che il “discepolo che Gesù amava” compare con questo
nome, prima della pasqua del Signore, soltanto in queste due circostanze. E faccio anche
notare, se ciò non bastasse, che è proprio e soltanto dopo la narrazione della trafittura del
petto di Gesù, che l’Evangelista interrompe (per la prima volta in tutto il vangelo) il suo
racconto e testimonia solennemente:

“Chi ha visto rende testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che


dice il vero” (Gv 19, 35).
Che vuol dire tutto ciò?
È semplice, l’Evangelista ci sta dicendo chi egli pretenda di essere, o più precisamente quale
sia ai suoi stessi occhi il senso della sua particolare testimonianza: Egli è il testimone
privilegiato dell’amore del Signore – e può esserlo perché nessuno come lui è stato vicino al

21
cuore di Gesù, nell’ora in cui da questo cuore la gloria dell’Amore di Dio s’è sprigionata,
irradiando, per così dire, dal Suo petto.
Ma non è finita. La pretesa del DA si spinge in un certo senso più in là.
Torniamo al termine kòlpos, che ho detto sopra essere il termine greco usato per indicare il
“seno/grembo” di Gesù, ove il DA si trova coricato durante la cena, prima di lasciar cadere il
suo capo sul petto del Signore:

Gv: 13, 23:Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava,

si trovava a tavola presso il seno di Gesù (en to kòlpo tou Iesou)


Ebbene, in tutto il vangelo il termine kòlpos compare soltanto un’altra volta: in Gv 1, 18, il
versetto con cui il prologo si conclude e che da molti è giustamente considerato una sintesi
concentrata del messaggio di tutto il quarto vangelo:

Gv: 1, 18: Dio nessuno l'ha visto mai: proprio il Dio Monogenito,
che è nel seno del Padre, (eis tòn kòlpon tou Patros)
lui lo ha rivelato (exegesato)
Chi è per Giovanni Gesù?
Egli è tante cose, certamente. Ma se occorre dirne una più importante e sintetica di tutte, si
deve senza dubbio dire: il rivelatore del Padre. Più precisamente: Gesù è per Giovanni il
testimone oculare di quel Padre che Egli solo ha veduto, poiché Egli è l’unico che, in quanto
Figlio Suo Monogenito, abbia sporto lo sguardo nelle “viscere del Suo cuore” (eis tòn
kòlpon)41.
Non è dunque il DA il primo e più importante testimone oculare del Quarto Vangelo (cfr. 19,
35). C’è un testimone più importante di lui e questi è Gesù: il testimone oculare/auricolare di
ciò che nessuno ha visto e udito mai, se non lui: il testimone del mistero del Padre.
Mosè, che pur aveva conosciuto Dio più intimamente d’ogni altro in Israele (Es 3, 11; Deut
33, 10, etc.), non aveva potuto vedere Dio che di spalle (Ex 33,18- 23)42. Il Figlio, invece, ha
diretto accesso alle viscere del Suo cuore, ed è perciò in grado di parlarne più autorevolmente
d’ogni altro, di offrirne la rivelazione definitiva43.
41
Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti, ed Egli attesta ciò che ha visto e udito, (Gv 3, 31b-32) 
42
“Gli disse: “Mostrami la tua Gloria!”. [19] Rispose: “Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e
proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò
aver misericordia”. [20] Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e
restare vivo”. [21] Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: [22] quando passerà
la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. [23] Poi toglierò la
mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33, 18-23)
43
È questo che Giovanni intende dire usando il verbo exegesato (= ha spiegato, ha fatto l’esegesi, ha rivelato):
“di quel Dio che nessuno ha mai visto (e nemmeno può vedere direttamente), Il Dio Unigenito ci ha offerto una
sorta di traduzione “in lingua umana”, cioè appunto di esegesi afferrabile ad esseri fatti di carne ed ossa quali noi
22
Orbene, che cosa il Figlio ha visto e udito nel seno del Padre? E come ce lo ha testimoniato?
Il Figlio presso il Padre non “vede e ode” altro che questo: il mistero dell’Amore con cui il
Padre per l’appunto si rivela tale; il mistero dell’Amore mediante cui il Padre eternamente
genera il Figlio, cioè dona al Figlio tutto il Suo, tutta la Sua sostanza.
Come il Figlio ci ha rivelato questo mistero? Amandoci, come Egli stesso è amato, cioè
attraverso il dono totale di Sé stesso; amandoci fino a dar la vita per far nostra la Sua Vita
(Cfr. Gv 3, 16), per generarci alla vera Vita: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato
voi” (Gv 15, 9). L’ironia di Giovanni tocca qui il suo vertice più sublime, poiché ciò che qui
si sta dicendo, è ciò che in assoluto è più alto e nobile - Dio stesso – si è rivelato al mondo
attraverso un’immagine che nulla sembra avere di alto e nobile: la carne d’un uomo appeso a
una croce.
Di qui si capisce l’importanza del Discepolo Amato. Se è nel dono concreto che Gesù ha fatto
di sé stesso nella Sua grande ora, che si è resa visibile la gloria (cioè lo splendore sensibile)
del Dio Amore, allora occorre che vi sia qualcuno che ha visto e udito “bene” quel che Gesù
ha fatto, detto ed anche sofferto in quell’ora suprema.
Questo qualcuno, ci suggerisce il quarto vangelo, è il discepolo che Gesù amava.
Si comprende così anche la rilevanza del parallelismo, sornionamente e insieme audacemente
suggerito dal nostro anonimo autore, tra la posizione del discepolo amato nel seno (en TO
KOLPO) di Gesù e la posizione “eterna” del Figlio nel seno (eis ton KOLPON) del Padre:
come il Figlio Unigenito è l’unico che ha visto il Padre e perciò può rendere testimonianza al
mistero del Suo Amore, così il Discepolo che Gesù amava (non dice questo il nome stesso che
egli ha scelto per sé?) è colui che meglio di tutti ha “visto e udito” il mistero dell’amore del
Figlio, e perciò ne è il testimone privilegiato e più qualificato. Bisogna ammetterlo: sarà
anche umile ed amante del nascondimento, il nostro Giovanni. Ma certamente non è
modesto!44
uomini siamo.
44
Per inciso, mi permetto a questo riguardo di osservare che l’argomento di certuni anche grandissimi
giovannisti (Schnackenburg in testa…) secondo cui il DA non potrebbe essere l’autore reale del quarto vangelo,
poiché se lo fosse mai si sarebbe mostrato così superbo da auto-ritrarsi quale in effetti appare nel vangelo,
dipende a mio parere da un’inconscia e certamente non giovannea confusione tra modestia ed umiltà. In senso
giovanneo, immodestia ed umiltà (cioè mancanza di vanagloria o sete di gloria mondana: cfr. Gv 5, 41-44; 7,
18, etc.) non sono affatto incompatibili, come paradigmaticamente dimostra il ritratto giovanneo di null’altri che
lo stesso Gesù. Nessuno infatti è per Giovanni meno auto-referenziale di Colui che continuamente di Se stesso
dice: “Il Figlio da sé non può fare nulla” (Gv 5, 19), così come nessuno è meno vanaglorioso di quel Figlio di
Dio e figlio di Davide il quale, benché doppiamente nobile di nascita - poiché veniente dal cielo (Cfr. Gv 7, 25-
30) e nato a Betlemme, come le profezie sul Messia richiedono (Gv 7, 40-43!) -, dissimula il suo ‘lignaggio’ fino
al punto da lasciare che tutti in Gerusalemme pensino egli sia un galileo qualunque (Gv 7, 41.52), il “figlio di
Giuseppe” (Cfr. Gv 6, 42). D’altra parte, è altrettanto vero che è difficile immaginare qualcuno che parli più di
sé Stesso e della propria pretesa d’essere il rivelatore di Dio del Gesù giovanneo (il pronome egò è messo in
bocca a Gesù 127x, se non erro). Ebbene, un’analoga, paradossale coincidenza di altissima pretesa ed insieme
totale relatività ad un Altro unita a ritroso nascondimento (nemmeno si dà un nome), caratterizza il DA. Il che,
23
2.d. Spalla a spalla: dal cenacolo al cortile del tempio
A tutto ciò dobbiamo aggiungere il fatto, non meno importante, che se si eccettua la scena del
Calvario, in cui Simon Pietro è assente, in tutte le altre scene in cui incontriamo il nostro
anonimo discepolo, lo troviamo accostato a Simon Pietro. Della corsa al sepolcro s’è già
accennato. Su Gv 21 ci soffermeremo poi. Qui mi limito ad attirare l’attenzione su due scene,
cruciali per comprendere l’innegabile anche se sottile confronto che l’Evangelista instaura tra
i due discepoli.
La prima è ancora una volta la fatidica scena dell’annuncio del tradimento di Giuda.
È importante notare che il DA non interroga Gesù di propria iniziativa, bensì spronato da
Simone. Perché Simon Pietro non interroga il maestro direttamente? Certamente è possibile
trovare nella posizione fisica del DA la spiegazione del ricorso di Simone sua mediazione.
Tuttavia, anche solo la fiducia totale in questo discepolo che il gesto di Pietro implicitamente
dimostra, basta a mettere in chiaro che l’Evangelista qui insinua di più 45. C’è come una sorta
di riconoscimento, da parte di Simone, dell’ascendente particolare di cui questo discepolo
gode presso il maestro. D’altro canto, non ci viene affatto detto che il DA abbia trasmesso a
Simon Pietro l’informazione ricevuta. Al contrario, il vangelo stesso ci dà assai buone ragioni
per postulare che non l’abbia fatto. Quali ragioni?
Sulla base dell’identikit di Simone che Giovanni stesso ci ha già fornito, è facile rispondere:
perché se Pietro avesse saputo che Giuda era il traditore, difficilmente lo avrebbe lasciato
uscire dal cenacolo! Siamo così riportati alla già affiorata differenza di “postura” tra il DA e
Simone. Tale differenza, come s’è già insistito, non è (almeno fino alla pasqua) non ha solo a
che fare con la rispettiva posizione materiale del due, quasi che al discepolo amato fosse
semplicemente capitato, per un puro caso, di trovarsi più vicino a Gesù nella Sua grande ora.
Piuttosto bisogna dire che la vicinanza fisica del DA - ecco ancora la giovannea inseparabilità
di storia e simbolo -, è segno rivelatorio di una maggiore vicinanza interiore - vicinanza che
come detto ha a che fare con l’incondizionata fiducia di questo discepolo nei confronti del
maestro. Egli si fida, lascia fare. Così fa qui, nel cenacolo. Così farà nel cortile del tempio,
quando seguirà Gesù nel suo calvario, senza tentare di “salvarlo”, come forse è intenzionato a
fare Simone46.

alla luce dell’analogia sopra illustrata tra i due testimoni, non dovrebbe stupire.
45
Come conferma il chiaro parallelismo con Gv 18, 15-16, dove ancora Simone avrà bisogno della mediazione
del DA per tentare di entrare nel luogo ove si trova Gesù. Cfr. “dossier di testi” (trittici petrini).
46
Un’analitica dimostrazione di questa tesi prenderebbe troppo spazio. Basti dire che il racconto del passaggio
attraverso la porta di Simone (…), con annesso dialogo con la portinaia, sembra essere trapuntato di sottili
allusioni alla parabola della porta e del buon pastore - allusioni che suggeriscono come Simone stia
24
Possiamo così passare al secondo, ancor più forte “spalla a spalla” tra Pietro e il DA: il
racconto del primo dei tre rinnegamenti di Simone.
Come in altri se non tutti i casi in cui Giovanni ri-narra episodi già immortalati dagli altri
vangeli, anche qui è importante far caso tanto alla continuità tra racconto giovanneo e
sinottico, quanto alle differenze. Spesso e volentieri, infatti, proprio nella variazione, nel
“ritocco” che il pennello giovanneo aggiunge al quadro, si nasconde qualcosa di decisivo per
cogliere il punto di vista “nuovo” del IV evangelista sul senso del già a tutti noto evento. Così
avviene qui47.
Giovanni comincia dicendoci che Simone, immediatamente dopo l’arresto, cerca di seguire
Gesù insieme ad un altro discepolo (che giustamente si tende ad assumere essere il DA).
Subito dopo, ci vien detto che i due si separano, perché l’altro discepolo, essendo noto al
sommo sacerdote, riesce ad entrare nel cortile del tempio con Gesù, mentre Pietro rimane
fuori dalla porta. E che succede poi?

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo
discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel
cortile del sommo sacerdote; [16] Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla
portinaia e fece entrare anche Pietro (17) E la giovane portinaia disse a Pietro:
«Forse anche tu sei dei discepoli di quest'uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». 
Cosa chiede la portinaia a Simon Pietro? Non gli chiede semplicemente se egli sia un
discepolo di Gesù, ma se anche lui sia un discepolo di Gesù, con ciò lasciando intendere che
ella sa bene che l’altro che l’ha fatto entrare è un discepolo di Gesù. Come vediamo, l’accento
qui in parte cambia rispetto al racconto dei sinottici. Non c’è solo il dolore del rinnegamento.
C’è anche il fatto che Simone rinnega mentre di fianco a lui c’è un altro discepolo che non ha
affatto rinnegato (che fosse protetto dalle sue conoscenze, importa fino ad un certo punto: il
fatto rimane!). Il confronto è diretto, secco. C’è poco da fare. Commenta giustamente il
Marcheselli:

Il contrasto è dunque fortissimo: un altro discepolo introduce Pietro all’interno


dello spazio in cui Pietro viene meno come discepolo; dentro il medesimo cortile
in cui Pietro crolla sta un altro discepolo, che però non nega di essere
discepolo48.

subliminalmente arrogandosi il ruolo di buon pastore che corre a salvare la sua pecorella-agnello, quando in
realtà l’agnello in questione non ha bisogno alcuno di essere salvato, poiché è lui che nel liberamente immolarsi
sta facendo di sé il Pastore, che si cura di pascere le Sue pecore!
47
Per una buona presentazione della versione giovannea del rinnegamento di Simone, che mette nella giusta
evidenza il ruolo del DA nella scena, cfr. M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare…142-145.
48
M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare…cit. 145.
25
Torneremo poi sull’importanza di questo punto, commentando il primo botta e risposta tra
Gesù e Simone in Gv 21, 15. Ora è tempo di fare un primo provvisorio bilancio.

2.e. Un primo bilancio


Primo, bisogna ammettere che è difficile non lasciarsi sedurre dalla tesi, sostenuta da molti
esegeti (soprattutto protestanti ma non solo) secondo la quale, perlomeno in Gv 1-20, il
discepolo amato rappresenterebbe il discepolo ideale, il perfetto discepolo, mentre Simon
Pietro sarebbe un esempio negativo, il discepolo pasticcione e disobbediente.
Molti esegeti vanno ben oltre ed arrivano a sostenere che dietro la più o meno patente
rivendicazione di superiorità del DA su SP, si celerebbe la rivendicazione di una totale
indipendenza ed autonomia dall’autorità di Pietro e della Grande Chiesa, da parte della
cosiddetta comunità giovannea (della cui esistenza, by the way, non si ha neanche uno straccio
di prova storica). In pratica, il quarto vangelo (o meglio tutti i capitoli del vangelo escluso il
21, che sarebbe scritto dopo, come una sorta di “ritrattazione”) rifletterebbe la sensibilità
elitaria di una comunità cristiana che, facendosi forte dell’autorità di un fondatore e guida
dall’autorevolezza eccezionale, si voleva non bisognosa di alcun riferimento all’autorità della
Grande Chiesa, “simbolizzata” nel vangelo da Simon Pietro. Potremmo chiamare questa linea
interpretativa teoria della rivalità: il rapporto tra il DA e SP è compreso cioè in termini di
competizione, con tutto ciò che ne consegue.
Orbene, questa interpretazione si trova di fronte ad un evidente ostacolo: GV 21. Infatti, è
innegabile che in Gv 21 la figura di Simone sia presentata in ben altra luce, una luce
totalmente positiva. Passiamo dunque a Gv 21.

3. La riscossa di Simon Pietro in Gv 21


Innanzitutto due parole di inquadramento su Giovanni 21. Quale è la funzione di questo lungo
capitolo finale del Quarto Vangelo? Gv 21 è un epilogo – su questo perlomeno c’è una certa
concordia tra gli studiosi - certamente scritto dopo (probabilmente un buon numero di anni
dopo) il resto del Vangelo49. Inutile soffermarsi sui diversi motivi per cui è ragionevole
postulare questo iato compositivo. Per il nostro scopo, uno solo di questi motivi è interessante.
Non c’è dubbio che Gv 21 si occupa di una problematica nuova rispetto al resto del vangelo.
Mentre il tema centrale di Gv 1-20 è la rivelazione del mistero di Dio in Gesù Cristo, in Gv 21
49
Discordia c’è invece sull’autore di questa parte del vangelo: è lo stesso? È un altro? È un suo discepolo o un
gruppo di suoi discepoli? A mio avviso, anche se non posso qui soffermarmi sulle ragioni della mia convinzione,
si può e si deve ritenere che l’autore di Gv 21 sia per la maggior parte del capitolo lo stesso di Gv 1-20, ad
esclusione forse degli ultimi due versetti. Sulle complesse questioni redazionali legate a Gv 21, rimando a M.
MARCHESELLI, Studi sul vangelo di Giovanni, Pontificio Istituto Biblico, 2016, 91-130 (due interi capitoli sono
dedicati a questo tema e presentano una utile ricapitolazione del dibattito esegetico in merito).
26
l’attenzione si sposta su di una questione collegata alla prima, e tuttavia nuova. La si può
esprimere in forma di domanda: come il Signore continua a manifestare la Sua gloria ed
attirare così tutti a sé (Gv 2, 32), una volta che è tornato al Padre?50

3.a. La pesca miracolosa e il pasto sulla riva


La prima cosa da notare è il fatto che nella scena di apertura (…), troviamo indissolubilmente
intrecciate una pesca miracolosa e l’ultima (la terza) manifestazione del Risorto.
In questo modo, è come se l’Evangelista intendesse suggerire una prima risposta alla
domanda posta: come il Signore continua a manifestarsi nel tempo che sta per cominciare, il
tempo in cui Gesù non sarà più tra i Suoi visibilmente? Attraverso la missione della Chiesa -
missione di cui la pesca dei discepoli è evidentemente un simbolo, come vedremo tra poco51.
Gv 21 è quindi essenzialmente un testo sulla Chiesa – un testo che ci parla della vita e della
missione della Chiesa e perciò anche, come è ovvio che sia, dei protagonisti principali di
questa missione. Non sarà dunque un caso se i due principali protagonisti del capitolo,
insieme a Gesù, sono proprio i due discepoli su cui finora abbiamo fissato la nostra “lente di
ingrandimento”: Simon Pietro e il DA52.
Diamo ora una breve occhiata, come a volo d’uccello, alla struttura dell’intero capitolo. Il
testo è divisibile in due grandi parti, che a loro volta dividerei in due principali sottosezioni
(rimando ai fogli distribuiti).
Nella prima parte, abbiamo l’apparizione del Signore sulla riva del lago, nel contesto di una
pesca. Le sottosezioni sono:
a) Gv 21, 1-8, che ci racconta la pesca stessa (vi torneremo tra poco), oltre che l’apparizione
di Gesù sulla riva
b) Gv 21, 9-14, che si sofferma invece sul pasto di Gesù coi discepoli sulla riva.
È fin troppo chiaro che le due scene rappresentano le due dimensioni fondamentali della vita
della Chiesa in cui il Signore manifesta la Sua presenza: la comunione dei discepoli, raccolta
attorno a Gesù-Eucaristia (b) e la missione dei discepoli (a) descritta “in simbolo” nel
racconto della pesca miracolosa.

50
Per una presentazione generale del tema e della struttura di Gv 21, rimando al già citato ed eccellente lavoro di
Maurizio Marcheselli: Avete qualcosa da mangiare? Un pasto, il Risorto, la comunità, cit. soprattutto capitoli 1:
‘Origine e significato della terminologia del manifestarsi in Gv 21’, pp. 15-36, e 2: ‘Gv 21 come composizione
letteraria unificata’, pp. 37-81.
51
Cfr. M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare…cit. 84 ss. Va da sé che, alla luce di quanto detto al
punto 1, la lettura simbolica che proponiamo del racconto della pesca, per nulla implica la negazione della base
storica di esso.
52
Cfr. M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare…cit. 80-81
27
Ebbene, non v’è chi non veda come le due uniche figure cui l’Evangelista dia personale
risalto in entrambe le scene sono Simon Pietro (in entrambe: Gv 21, 3, 7, 11) e il Discepolo
Amato (nella scena della pesca: 21, 7). Quanto al DA, torneremo più tardi sul suo particolare
ruolo nella stupenda, concitata scena che porta Simone a tuffarsi in acqua per raggiungere a
nuoto il Signore. Qui mi preme soprattutto sottolineare la “parte del leone” assegnata con
chiarezza dall’autore al pescatore di Cafarnao dall’autore nel racconto letto come totalità 53: è
sua l’iniziativa di andare a pescare (Gv 21, 3), quando il DA riconosce il Signore sulla riva è
lui l’unico che si tuffa in acqua verso il maestro, come ad esprimere l’impazienza
incontenibile del suo affetto (Gv 21 7b). Durante il pasto sulla riva, è ancora lui a portare a
riva, in obbedienza al comando del Signore, la rete piena di 153 grossi pesci (Gv 21, 11c),
peraltro – particolare tutt’altro che secondario –facendo sì che “la rete non si spezzi”. Difficile
negare che tutti questi dettagli alludano in modo simbolico al riconoscimento da parte di chi
scrive di un certo primato di Pietro: è lui la guida della missione della Chiesa, nonché il
garante dell’unità di essa (Gv 21, 11c).

3.b. L’investitura di Simon Pietro


Tutto ciò riceve la più chiara delle conferme nella seconda parte di Gv 21 (15-25), che
possiamo dividere anch’essa in due sezioni (più una conclusione: Gv 21,24-25),
corrispondenti ad altrettanti dialoghi tra Gesù e Simon Pietro. La prima (Gv 21, 15-19) verte
sulla missione di Simon Pietro – non a caso si parla di scena di investitura. Quel nuovo nome
che Gesù aveva già dato a Simone fin dal primo incontro, usando però il futuro: “tu sei
Simone, ti chiamerai Cefa”, ora Simone lo può finalmente “fare suo”. Simone, figlio di
Giovanni, è ormai pronto ad essere Cefa, (a) cioè a pascere le pecore del Signore (Gv 21, 15-
18). Di più: Gesù gli preconizza anche (b) che egli renderà gloria a Dio “dando la vita” per il
Signore come il Signore l’aveva data per lui, riuscendo così infine a tener fede alla promessa
fatta nel cenacolo e rimasta inadempiuta a causa del rinnegamento (Gv 21, 18-19). Da ultimo,
(c) se in Gv 13, 36-38 Gesù lo aveva dichiarato impotente a seguirlo e gli aveva predetto
l’imminente rinnegamento, ora gli predice un glorioso martirio (Gv 21,19a) e lo invita (2x) a
seguirlo (21, 19b.22b):

A: In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e
andavi dove volevi;

53
Sul ruolo ed il significato della figura di Pietro in Gv 21, cfr. M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da
mangiare…cit. 141-185.
28
B: ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti
porterà dove tu non vuoi». [19]

C: Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”.

D: E detto questo aggiunse: «Seguimi»


Vale la pena notare, a conferma dello “schema di adempimento” che lega Gv 21, 18-19 alle
scene petrine di Gv 13 (13, 7-8 e 36-38) che l’allusione di Gesù all’aprirsi delle braccia di
Simone per lasciarsi portare dove non vuole, se interpretato alla luce di C (questo disse per
indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio), contiene una innegabile benché sottile
allusione al modo particolare in cui Simon Pietro morirà martire e cioè, come confermato da
una tradizione assai antica, crocifisso come Gesù (benché a testa in giù)54. Considerando che il
prologo del IV vangelo è certamente scritto quando Simon Pietro è già morto da tempo,
l’allusione è a mio parere da considerarsi certa. Ciò è importante proprio perché, a livello
intra-diegetico, mostra come il desiderio da Simone espresso in Gv 13, 36 di seguire Gesù là
dove egli stava andando, non solo non rimarrà frustrato ma finirà per compiersi ad litteram.
Torneremo tra breve più distesamente su questi rilievi. Quanto accennato è qui sufficiente a
farci concludere: difficile immaginare per Simon Pietro una riscossa più completa di quella
che Gv 21 prospetta.

3.c. E lui?
Nel secondo e finale dialogo (Gv 21,20-23) la conversazione tra Pietro e il Risorto verte sul
destino Discepolo Amato, che li segue a distanza mentre camminano sulla riva: “E lui? chiede
Simon Pietro – domanda che si può parafrasare: “che ne sarà di lui?”
Prima di soffermarci sulla famosa ma anche enigmatica risposta di Gesù a questa domanda,
facciamo prima una sosta e chiediamoci, alla luce di quanto emerso: come spiegare questo
cambiamento di prospettiva?
E soprattutto, come riescono a spiegarlo i sostenitori di quella che abbiamo chiamato
ermeneutica della rivalità o competizione? Non c’è dubbio che il Simon Pietro di Gv 21 è
tutt’altro che un esempio negativo.
Un modo di risolvere il problema - modo che a lungo è andato per la maggiore - è la teoria
delle due redazioni. Secondo questa teoria, ci sarebbe stata una prima redazione (o stesura)
del Vangelo di Giovanni – redazione che ovviamente non includeva Gv 21 - in cui si doveva

54
Si vedano, in merito, le importanti osservazioni di M. HENGEL, The Johannine Question, p. 76 e nota 10, p. 194.
Come si vedrà più sotto, non è questo l’unico senso in cui l’espressione di Gesù può e deve essere interpretata.
Cfr..
29
riflettere un tipo di esperienza comunitaria quale sopra si è descritta: elitaria, indipendente da
ogni influsso ed autorità esterna, fieramente orgogliosa di potersi fregiare di avere come capo
e profeta una specie di number one tra i discepoli di Gesù55. In un secondo momento, la
cosiddetta comunità giovannea56 sarebbe entrata in crisi, avrebbe rischiato di sfaldarsi ed
avrebbe così sentito il bisogno di riconciliarsi con la grande Chiesa, per riceverne sostegno.
La redazione di Gv 21 risalirebbe a questa fase, nella quale da una parte la comunità
giovannea riconosce l’autorità di Pietro e della grande Chiesa (Roma?), dall’altra però
continua a rivendicare una certa autonomia, uno “statuto speciale”, per così dire, fondato sul
prestigio del suo (ormai morto) fondatore.
Abbiamo così tutti gli elementi per comprendere la prima possibile interpretazione della
risposta di Gesù (che poi è una contro-domanda) alla domanda di Pietro circa il destino del
DA. Prima di presentarla, leggiamo insieme questo misterioso testo, cercando poi, nel
commentarlo brevemente, di mettere a fuoco le difficoltà principali che esso pone al lettore:

Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava,
quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato:
«Signore, chi è che ti tradisce?». [21] Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù:
«Signore, e lui?». [22] Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io
venga, che importa a te? Tu seguimi».  Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che
quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non
sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?».
(Gv 21, 20-23).
“Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” Gli interpreti di tutti i tempi si
sono scervellati per cercare di dare la retta interpretazione di queste parole di Gesù, visto che
l’autore si guarda bene dall’aiutare il suo lettore ad indovinare. Un aiuto glielo dà: gli dice che
cosa le parole di Gesù non significano. Ma non gli dice quel che significano. Consideriamo
entrambi i lati della medaglia, partendo dal primo.
Innanzitutto, l’Evangelista mette in chiaro che le parole di Gesù non significano che il DA
non sarebbe morto. Il motivo per cui tale (dichiarata erronea) interpretazione delle parole di
Gesù è stuzzicante è chiaro: Gesù aveva appena prima parlato a Pietro del suo destino finale,
55
Da notare che i sostenitori di questo tipo di teoria tendenzialmente non identificano il DA con Giovanni figlio
di Zebedeo, cioè con uno dei dodici.
56
Vale la pena ripeterlo: non esiste neanche una prova dell’esistenza storica di una “comunità giovannea” se
non quanto si può indurre dalle lettere di Giovanni, soprattutto la prima (invero poco o nulla). Per una buona e
sintetica ricapitolazione del dibattito in merito, con particolare riferimento a Gv 21, cfr. M. MARCHESELLI,
‘Occasione e scopo di Gv 21: presentazione e valutazione delle principali ipotesi esegetiche’, in: Studi sul
vangelo di Giovanni, cit. 115-130. Per una presentazione classica dell’influsso delle vicende vissute dalla
cosiddetta comunità giovannea sulla genesi del Quarto Vangelo, si veda, in ambito cattolico, R. BROWN, La
comunità del discepolo prediletto. Luci e ombre nella vita di una Chiesa al tempo del Nuovo Testamento, Assisi,
1982 (su Gv 21 vedi spt. 181-190).
30
del suo martirio (anche se in modo enigmatico). Viene perciò naturale interpretare la domanda
di Simone – E lui? – come una domanda circa il destino dell’altro discepolo, quasi Pietro
dicesse: “va bene, ho capito quale sarà la mia fine. E quanto a lui, quale sarà la sua?”.
L’erronea interpretazione delle parole di Gesù – una interpretazione a quanto pare diffusa tra i
discepoli del DA (Gv 21, 23) - si basa dunque a sua volta su di una erronea o perlomeno
unilaterale comprensione della domanda di Simone. Il che per converso significa che una
volta chiarito il possibile senso alternativo di codesta domanda, anche l’enigma circa il vero
senso della contro-domanda di Gesù dovrebbe sciogliersi facilmente.
Orbene, se si rilegge attentamente la domanda di Simone sullo sfondo delle parole appena
rivoltegli dal Signore, non è difficile realizzare che la suddetta domanda può essere compresa
anche in un senso che nulla ha a che fare con la morte del DA, posto che le parole di Gesù sul
destino dello stesso Simone erano state tutt’altro che chiare:

“Quando eri giovane di cingevi da solo ed andavi dove volevi. Quando sarai
vecchio tenderai le mani, un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi”.
Torneremo più tardi sul significato multidimensionale di queste enigmatiche parole di Gesù a
Simone. Qui basti osservare che non è affatto scontato che Simone comprenda che Gesù
stesse con queste parole predicendogli il martirio. Il contrario è decisamente più vero, e cioè
che ad un primo ascolto le parole del Signore sembrano alludere semplicemente alla nuova
docilità ed obbedienza con cui il Simone maturo, il Simone presbitero (che vuol dire anziano)
sarà capace di lasciarsi guidare dal maestro, a differenza del Simone prima maniera57. A ciò si
aggiunga il fatto che il tema centrale su cui verte il dialogo appena conclusosi tra Gesù e
Simone non è la morte di Pietro, bensì il suo futuro compito pastorale.

57
In effetti, è innegabile che se non ci fosse commento dell’Evangelista (Gv 21, 19a: “Questo gli disse per
indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”), persino il lettore più attrezzato difficilmente coglierebbe
nelle parole di Gesù un’allusione al martirio di Pietro. Un possibile modo di risolvere il problema – quello tipico
di un approccio diacronico o storico-critico al testo – è considerare redazionale (cioè aggiunto in un secondo
momento) il commento del narratore: in origine il testo non avrebbe inteso alludere al modo in cui Pietro doveva
morire (tendere le braccia = morte di croce) bensì solo al nuovo e più docile orientamento esistenziale del Pietro
maturo. In un secondo momento, un redattore sarebbe intervenuto a “distorcere” il senso originario del logion di
Gesù, rileggendolo alla luce dell’avvenuta morte di Pietro. A prescindere dall’impossibilità di provare questa
ipotesi, ciò che a mio avviso rende irricevibile una tale soluzione è che essa impedisce di vedere ciò che è qui è
più importante ai fini di una piena comprensione dell’oracolo di Gesù, e cioè il fatto che lo spiazzante
dirottamento interpretativo che Gv 21, 19a produce nella mente del lettore è ad arte indotto dall’autore non tanto
allo scopo di contestare il senso immediato (tendere le braccia = docilità di chi si lascia condurre da un altro)
quanto di reduplicare il senso del testo, spingendo il lettore a riflettere sul rapporto tra senso immediato
dell’immagine e senso profondo suggerito dal commento. Per quanto sofisticato possa sembrare in teoria, tutto
ciò risulta invece facile a comprendersi nel momento in cui si proceda alla concreta esegesi del testo (cfr.
infra…) .
31
Si comprende così la seconda possibile interpretazione della domanda di Simone, altrettanto
se non più fondata: “E lui?” vorrebbe in realtà dire: “Ho capito quale sarà la mia missione, il
mio compito. E il suo? Che posto avrà lui nella Chiesa?
Che questa sia l’interpretazione più giusta della domanda di Simone (almeno dal punto di
vista di Simone stesso), lo si evince da un altro dettaglio. Ricordiamoci quanto detto all’inizio,
e cioè che nel quarto vangelo non si trova mai una parola inutile, pleonastica. Ebbene, nel
momento in cui leggiamo che Pietro, voltatosi, “vide quel discepolo che Gesù amava, quello
che durante la cena si era appoggiato al petto di Gesù e gli aveva chiesto: «Signore, chi è
che ti tradisce?”, dobbiamo chiederci: che bisogno c’è di richiamare tutto ciò con questa
lunga frase? Il lettore (cioè noi) lo sa bene chi è il DA e cosa ha fatto nel cenacolo! È chiaro:
se Giovanni qui martella su questo ricordo, è per aiutare il lettore, con quasi ammiccante
astuzia, ad indovinare il “contenuto” di tutto ciò che Pietro ha visto nel vedere il DA dietro di
lui: ha visto appunto il discepolo prediletto, quello che aveva poggiato la testa sul petto di
Gesù …di qui la spontanea domanda: e lui? Anche lui (!?) dovrà seguire me? Oppure lui…no?
Se interpretiamo in questo senso la domanda di Pietro, è ovvio che dovremo
conseguentemente leggere anche la risposta di Gesù come risposta a questa domanda.
Ebbene, vi sono più modi possibili (vedremo i principali pian piano) di far questo.
Il primo è quello che più si adatta alla teoria delle due redazioni e cioè: “Se voglio che egli
rimanga finché io venga, che importa a te?” vorrebbe in realtà dire: “Va bene, tu sei il pastore
di tutti. E tuttavia, se voglio che il DA porti avanti una sua comunità, con sue proprie
tradizioni e una sua autonoma vita e voglio che questa sua comunità rimanga, che importa a
te?” In un momento in cui rischia di sparire, la ‘comunità-Chiesa giovannea’ accetterebbe sì il
primato di Pietro, ma nello stesso tempo chiederebbe il “proprio spazio di indipendenza” -
uno spazio in fondo più che dovuto, dato il prestigio del suo fondatore.
Come vedremo, questa lettura non è da rigettarsi del tutto. Tuttavia, se non qualificata e
inserita nel giusto contesto, è irricevibile non tanto perché pericolosa da un punto di vista
Cattolico, ma perché non tiene alla prova dei testi, così come alla prova dei testi non regge
l’intera tesi delle due redazioni, con annessa teoria del passaggio dalla rivalità alla
riconciliazione. Vediamo brevemente perché.

4. Verso una lettura alternativa: due primati differenti e complementari

4.a. Da Simone a Cefa: un’iniziazione non indolore


La ragione fondamentale è semplice: per sostenere la teoria della rivalità (con ritrattazione),
dovremmo eliminare da Gv 1-20 tutti quei passi della prima parte del Vangelo in cui è molto
32
chiaro che fin dall’inizio il primato di Pietro è nel IV vangelo chiaramente riconosciuto. Già
al primo incontro, lo abbiamo già ricordato, Gesù assegna a Simone il nome di Cefa:

“Gesù fissato lo sguardo dentro (emblepsas) Pietro gli disse “Tu sei Simone,
figlio di Giovanni”.
Il verbo emplepsas – scrutandolo dentro (en) – ci dice di questo sguardo intenso di Gesù, che
penetra fino al midollo del cuore di Simone e intuisce tutto di lui, non solo tutto ciò che egli è
nel presente – Tu sei Simone, figlio di Giovanni – ma anche ciò che egli sarà nel futuro: ti
chiamerai Cefa58.
Si noti il paradosso: da una parte Simone è fin dal primo istante in cui Gesù ha posto il suo
sguardo su di lui, indicato come il capo della comunità dei discepoli. Al contempo, Gesù usa
il verbo al futuro, lasciando così intendere che egli, benché già designato, non è ancora Cefa.
C’è dunque un senso giusto in cui, lo abbiamo detto poc’anzi, Simone figlio di Giovanni non
diventa pienamente Cefa che dopo la Pasqua - dopo cioè che egli, avendo ricevuto lo Spirito

58
Il tema della conoscenza intima che Gesù ha del cuore di Simone attraversa a ben guardare la versione
giovannea della Simon’s story dall’inizio alla fine. Vero punto culminante del motivo è senza dubbio il famoso
triplice “sì” di Simone all’insistente domanda del Signore: “mi ami tu?” (Gv 21, 15-17). Come noto, a ciascuna
delle domande di Gesù, Simone non risponde semplicemente “sì, ti voglio bene”, bensì: “sì, tu lo sai che ti
voglio bene”, dove non deve sfuggire la variazione in crescendo contenuta nella terza e conclusiva risposta: “tu
sai tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21, 17c). Il crescendo è chiaramente da comprendersi alla luce di quanto
Giovanni ci ha appena raccontato e cioè della tristezza che ha assalito Simone a causa della triplicazione della
domanda da parte di Gesù (Gv 21, 17b): ormai esasperato, Simone sembra voler “porre a fine” alla questione
proprio appellandosi alla totale conoscenza che Gesù ha di lui e d’ogni cosa. Orbene, vista la capitale importanza
dell’intertestualità nel IV vangelo (il che vuol dire: Giovanni intesse nel suo testo una fittissima rete di rimandi
che collegano i diversi passaggi del vangelo l’uno all’altro), non si può non sentire in questo martellare di Simon
Pietro sulla conoscenza che del suo cuore ha Gesù il “rimbombo”, per così dire, di entrambi gli eventi nei quali
aveva saggiato l’intima conoscenza che il Signore aveva di lui: alludo ovviamente non solo al primo incontro,
ma anche e soprattutto alla predizione del triplice rinnegamento (Gv 13, 38). È certamente vero, come sempre
sottolinea don Giussani nei suoi famosi commenti al sì di Pietro, che Gesù non rinfaccia a Simone il suo
tradimento. Tuttavia è altrettanto vero (come peraltro lo stesso Giussani ama sottolineare) che il ricordo del
triplice rinnegamento aleggia chiaramente sullo sfondo del dialogo, a mo’ di “elefante nella stanza” (si noti che
Simone si rattrista proprio quando Gesù gli fa la domanda per la terza volta). Perché dunque appellarsi così
ostinatamente alla perfetta conoscenza che Gesù ha del suo cuore, se proprio questa conoscenza s’associa
proprio al ricordo del più grande fallimento di Simone nel dimostrare al Signore il Suo amore? A questa
domanda, per ragioni che non posso qui dettagliare, si deve rispondere: dicendo “tu lo sai” è come se Simone si
prendesse la libertà e quasi la soddisfazione (non sta proprio in questo passaggio dalla paura del servo
all’audacia dell’amico la novità del vangelo? cfr. Gv 15, 15) di usare ironicamente a proprio favore il ricordo di
ciò che, secondo la logica della “antica” morale, dovrebbe essere invece motivo di confusione ed impaccio: “sì, –
è come se Simone dicesse: lo sappiamo bene entrambi quel che ho fatto. E sappiamo bene anche che tu lo avevi
predetto, perché sapevi e sai di me molto di più di quanto io stesso sapessi e so. Ma appunto: se così stanno le
cose, allora sai anche- e non fare finta di non saperlo! – quanto ti voglio bene…”. L’audacia (parresìa o libertà di
parola) di Simone, starebbe qui dunque nel rigirare a suo vantaggio (una volta tanto è lui ha prendersi giuoco del
Signore!) l’insinuazione di Gesù, trasformandola in occasione per “cantare” la nuova libertà d’animo che lo
squadernarsi dell’amore pasquale Signore gli ha ottenuto. Faccio notare che questa interpretazione del triplice
“tu lo sai” di Simone, se accolta come valida, andrebbe a rafforzare e confermare la grande intuizione
giussaniana secondo cui nel “sì” di Pietro si esprime in tutta la sua radicalità il passaggio dalla morale della
legge, in cui l’io si misura sulla propria coerenza e perciò vive schiavo della paura di cadere (cfr. Rm 8, 14), alla
“nuova morale” che nasce dalla fede - morale nella quale l’io, sapendosi inesauribilmente amato e perdonato
(addirittura in anticipo: cfr. Gv 13, 39), è liberato dalla paura di sbagliare ed è perciò ormai mosso, nella sua
tensione al bene, dal gratuito desiderio di rispondere all’amore con l’amore.
33
del Risorto (cfr. Gv 20, 22), è ormai abilitato a “pascere le pecore del Signore”. E tuttavia ciò
non significa che la sua speciale autorità non sia riconosciuta nella prima parte del vangelo
(Gv 1-20). Significa piuttosto che il contrasto tra il Simone pre-pasquale, per usare il
linguaggio dei teologi, ed il Simon Pietro di Gv 21 è dovuto al cambiamento (di intelligenza e
di cuore) che il rivelarsi della gloria dell’amore pasquale del Signore (il che include il dono
dello Spirito: Gv 20, 22) ottiene in lui e non ad un supposto “conflitto di visioni
redazionali”59. Come abbiamo già visto, infatti, il punto centrale su cui Giovanni batte e
ribatte nel suo racconto del dramma di Pietro, è che il buon Simone prima della pasqua del
Signore è come se non capisse la logica del muoversi di Gesù, e ciò perché non è ancora stato
“iniziato” al mistero della Sua gloria – una gloria così diversa da quella che il mondo venera e
cerca. Dopo la pasqua, grazie all’aiuto dello Spirito di verità, gli si schiariranno le idee. Egli
comincerà a “capire” Gesù (Gv 13, 7: quello che sto facendo non lo capisci ora, lo capirai più
tardi) e per questo potrà anche seguirLo, andare là dove egli è andato («Dove io vado per ora
tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi»), avendo ormai ricevuto occhi capaci di vedere la
meta ove Gesù era diretto (la croce!) non più come luogo di umiliazione, bensì di
innalzamento e glorificazione (Cfr. Gv 3, 14; 8, 24-28; 12, 32).
C’è dunque sì discontinuità tra un Simone pre e post-pasquale, ma questa discontinuità non è
contrasto tra un Pietro “cattivo” ed un Pietro “bravo” discepolo (pura rottura), bensì tra un
Simone ancora “neofita” ed un Simon Pietro ormai iniziato ai misteri dell’Ora e perciò pronto
a rivestire il ruolo per il quale fin dall’inizio era stato scelto.
Il che inversamente significa: tra il Simone di Gv 1-20 ed il Simone di Gv 21 c’è a conti fatti
continuità non meno che differenza, come peraltro sia la confessione di fede di Pietro in Gv 6,
68-69 che la fine del già citato diverbio Simone-Gesù durante la lavanda chiaramente (e
similarmente) documentano:

Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». [68] Gli
rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita
eterna; [69] noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai


dopo». [8] Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose
Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». [9] Gli disse Simon Pietro:
«Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!»
In entrambi i casi Simon Pietro è posto di fronte ad una parola (l’affermazione che occorre
mangiare la carne e bere il sangue di Gesù per avere la vita: Gv 6, 51) o ad un gesto di Gesù
59
Sulla coerenza del profilo e del ruolo di Pietro in Gv 21 e sul rapporto di tale profilo con lo sfondo dei racconti
di Gv 13 e Gv 18, si veda ancora M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare…cit. 141-185.
34
(la lavanda dei piedi) che non capisce, che gli appare bizzarro. E tuttavia in entrambi i casi lo
sconcerto iniziale cede infine il passo al rinnovarsi della fede. La differenza tra il vecchio e il
nuovo Simone non è dunque contrasto tra un Simone incredulo ed un Simone credente; bensì
tra un Simone che crede ma senza capire, ed un Simon Pietro che ha invece ormai cominciato
a capire Colui in cui crede.
È importante sostare su questo punto perché esso contiene una chiave ermeneutica decisiva ai
fini di una retta comprensione tanto del dramma affettivo quanto del cammino di fede del
Simon Pietro giovanneo. In effetti, già nel primo abbozzo in precedenza offerto (cfr. 3.a) della
vicenda di Pietro, s’era potuto osservare come Giovanni racconti il dramma vissuto da
Simone nelle ore che portano all’innalzamento-glorificazione di Gesù in modo tale da far
cadere l’accento più sul fatto che Simone pur amando Gesù non lo comprende, che non sulla
debolezza del suo affetto, il quale invece appare invariabilmente veemente ed impetuoso (fatta
eccezione per la scena del rinnegamento?)60. Ora possiamo completare il discorso: ciò si
spiega alla luce all’idea, tipicamente giovannea, secondo cui l’iniziazione di Pietro ha a che
fare più con una trasformazione dell’intelligenza che della volontà, anche se è
simultaneamente vero che il giungere a “capire l’Amato” porta con sé una purificazione ed
approfondimento dell’amore stesso61. Detto in altri termini: l’iniziazione di Simone è
passaggio da un amore intenso ma ancora miope e perciò disordinato, ad un amore
intelligente, cioè capace di leggere dentro il cuore dell’Amato (intelligere da intus legere =
leggere dentro) e perciò di più perfetta sequela e donazione di sé.
D’altra parte, guardando le cose dall’inversa prospettiva, si deve anche dire che se c’è in
Giovanni un tema che più d’ogni altro domina ed unifica il dramma soggettivamente vissuto
da Simon Pietro nella sequela di Gesù, questo è proprio quello del desiderio del capo dei
discepoli di dimostrare al suo maestro il suo ardente amore. Significativamente, l’espressione
con cui Simone proclama la sua prontezza a dare la vita per il Signore in 13, 37 non richiama
solo le parole di Gesù sul buon pastore, come già osservato, ma anche anticipa quelle con cui
il maestro descriverà poco più avanti quell’amore per i propri amici di cui non si può pensare
il maggiore:

Gv 13, 37: Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia
vita per te!» (tèn psychèn hyper sou thèso!).

60
Fare nota…
61
Per Giovanni il potere di seguire riposa sul capire, anche se ovviamente l’una cosa non necessariamente porta
all’altra e soprattutto è vero anche il viceversa, e cioè che il seguire (l’obbedire) accresce il capire, porta a capire
sempre di più (intellego ut credam, credo ut intellegam).
35
Gv 15, 13: Nessuno ha un amore più grande (meìzon) di questo: dare la vita per i
propri amici (tithènai tèn psychèn hyper ton phìlon autou) .

È dunque vero che il desiderio di Pietro di dar la vita per il Signore potrà compiersi solo
quando egli avrà imparato a farsi umile ricettacolo dell’amore del Signore per lui
(discontinuità). Ma è altrettanto vero il rovescio della medaglia, e cioè che l’oracolo con cui in
Gv 21, 19a Gesù predice a Pietro il martirio è annuncio del fatto che quel preciso desiderio
rimasto frustrato a causa del rinnegamento, infine si compirà (continuità). Non solo vi è
dunque una certa continuità tra il Simon Pietro di Gv 13-18 e quello di Gv 21. Occorre
spingersi oltre, e arrivare a dire che il Pietro di Gv 21 ci mostra in effetti il perfetto
compimento delle aspirazioni del primo.
Siamo a questo punto pronti per immergerci nella lettura di Gv 21, 18-19. Nulla infatti può
aiutarci a comprendere il sottile intreccio di continuità e discontinuità che lega il giovane (pre-
pasquale) Simon Pietro al vecchio (ma nuovo = post-pasquale), d’una attenta lettura
dell’ultima delle quattro parole profetiche rivolte dal Signore a Pietro, specialmente se fatta in
dialogo con Gv 13, 36-3862:

Gv 13, 36-38:
A.1: Gesù rispose: “Dove io vado ora, per ora non puoi seguirmi.
B.1: Mi seguirai più tardi”.
C.1.a: Signore, perché non posso seguirti ora (akolouthèsai àrti)?
C.1.b: Darò la mia vita per te! (tèn psychèn mou hypèr thèso).
D.1: Gesù rispose: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico, non
canterà il gallo, prima che tu non m'abbia rinnegato tre volte”.

Gv 21, 18-19:

A.2: In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo,
e andavi dove volevi;
B.2: ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e
ti porterà dove tu non vuoi».
62
Significativamente, quattro sono le occasioni in cui Gesù si rivolge a Simone usando un verbo al futuro ed in
ciascuna di queste occorrenze egli preannuncia al discepolo qualcosa di relativo al suo futuro (Gv 1, 42; 13, 7;
13, 36.38; 21, 18). Non è dunque un caso, come vedremo meglio più sotto, se nella sua famosa triplice risposta
alle incalzanti domande del Signore (Gv 21, 15-17), Simon Pietro faccia appello alla intima conoscenza che il
maestro ha di lui. Tale motivo, infatti, torna nel racconto giovanneo della Simon Peter’s story con insistenza non
meno martellante del tema del desiderio di Pietro di dimostrare al maestro il suo amore. Si potrebbe addirittura
dire, osando un poco, che l’intreccio di questi due temi musicali fornisce alla linea melodica della storia di Pietro
l’ossatura, dandole unità e coerenza.
36
C.2.a:  Questo gli disse per indicare con quale morte (poìo thanàto) egli avrebbe
glorificato Dio (doxàsei tòn theòn).
C.2.b: Detto questo aggiunse: «Seguimi». (akoloùthei moi)

Da un lato, nell’annunciare velatamente a Pietro il futuro martirio (B.2), Gesù conferma la


promessa fattagli nel cenacolo (B.1): ora che Simone ha compreso dove Gesù stesse andando,
in un senso indissolubilmente materiale (sulla croce) e spirituale (a sedersi sul suo trono, cioè
ancora la croce) egli è anche in grado di seguirlo (C.2.b). L’inclusione risulta ancor più
evidente, quando si consideri che Gesù non si limita ad invitare Pietro a seguirlo (C.2.b),
bensì gli predice che lo seguirà fino a dare la vita per Lui (B.2), in antitesi con l’oracolo di Gv
13, 38, dove invece gli aveva predetto l’esatto opposto (D.1).
Da ultimo, non si può dimenticare il fatto che, come già osservato, il misterioso tendere le
mani di cui in B.2 allude con tutta probabilità alla morte in croce di Pietro, dando così ad
intendere che non solo Pietro finirà per dare la vita per Gesù, come aveva proclamato di voler
fare in C.1.b., ma addirittura la darà allo stesso modo in cui in cui Gesù l’aveva data per i suoi
amici (Gv 15, 13)63.
C’è di più. L’oracolo di Gesù indica anche una seconda ragione per cui Simone è ora in grado
di seguire il Signore fin là dove egli non aveva potuto seguirlo prima.
Come si è già suggerito, nel leggere Gv 21, 19 non si può evitare di accusare sulle prime la
presenza d’una certa dissonanza tra il commento del narratore (C.2.a) e la sentenza di Gesù.
L’immagine (proverbiale?) usata da Gesù, infatti, non fa affatto pensare, almeno ad una prima
e spontanea lettura, ad alcuna predizione di morte. Piuttosto la chiave dell’immagine sta
nell’analogia tra il passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia, e la trasformazione
dell’orgoglioso e ribelle Simone, in docile ed obbediente discepolo del Signore. Il che
significa: il “vecchio/nuovo” Pietro non è in prima battuta descritto da Gesù come un uomo
pronto al martirio, quanto piuttosto come un uomo che ha imparato a lasciarsi umilmente
condurre da un altro. Perché allora un così spiazzante commento?
La risposta più corretta è a mio avviso anche la più coerente con lo stile del nostro
evangelista: attirando l’attenzione dei suoi lettori su di un secondo, più nascosto significato
dell’oracolo di Gesù, l’Evangelista non intende sminuire l’importanza del senso primario e
più ovvio di esso, per distorcerne la comprensione, come farebbe un impacciato “redattore
finale”. Egli sta piuttosto invitando il lettore astuto, a cogliere la relazione di mutua interiorità
63
Non sarà in questo senso un caso che il commento dell’Evangelista (C.2.a) associ la glorificazione di Dio da
parte di Simone non già (genericamente) alla sua morte, ma al modo della sua morte (poìo thànato), il che
richiama ad litteram Gv 12, 33, nonché la tipica associazione giovannea tra innalzamento da terra del Figlio
dell’uomo e glorificazione di Dio (…).
37
che lega due qualità in apparenza distanti l’una dall’altra: l’arresa docilità dell’agnello e
l’eroica forza di volontà del martire. Proprio l’immagine più sibillina contenuta nel detto di
Gesù, esprime questa idea con eleganza teo-poetica inconfondibilmente giovannea:

ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà


dove non vuoi.
DA un lato, il tendere le mani evoca la remissività d’un vecchio che deve accettare la
mortificazione di lasciarsi vestire e portare da altri, là dove essi e non lui vogliono. Ciò che
qui ci è messo davanti agli occhi, è l’immagine d’un uomo ridotto alla più completa
eteronomia. La spiegazione del narratore, d’altro canto, apre ad una diversa, più paradossale
prospettiva. La nuova docilità di Pietro lo porterà infatti a dare la vita allo stesso modo in cui
il maestro l’ha data: stendendo le mani sulla croce. L’idea che qui si fa largo, in perfetta
continuità con la comprensione giovannea della morte di Gesù, è piuttosto quella di gloria,
forza eroica, dimostrazione di libertà.

Questo gli disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio
Ci troviamo così messi di fronte ad un altro magistrale esempio di double entendre giovanneo
– dove il magistrale allude al fatto che qui Giovanni non si limita a conferire al tendere le
mani del vecchio Simone un doppio significato simbolico (umiltà della fede ed audacia del
martirio). Ciò che qui è (anche letterariamente) sublime, è piuttosto il fatto che nel
sovraimporsi i due sensi dell’immagine vengono ad interagire e trasfigurarsi a vicenda, l’uno
rivelandosi come il rovescio della medaglia dell’altro. In ciò, in effetti, consiste il cuore del
cambiamento che trasforma Simone da giovane e inesperto in anziano e saggio discepolo del
buon Pastore: nella acquisita coscienza che il potere di dar la vita in perfetta libertà per le
pecore, così come il grande Agnello ha fatto, è proporzionale al radicalizzarsi di quell’attiva
dipendenza, di quel ‘confidare non in sé ma in un Altro’ che della vita di fede è la più intima
sostanza.
La profezia finale di Gesù a Pietro, non allude così solo al “mi seguirai più tardi” di Gv 13,
36. Essa guarda anche più indietro, al “lo capirai più tardi” di Gv 13, 6:

a. Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci,

b. ma lo capirai dopo».

a. Gesù rispose: “Dove io vado ora, per ora non puoi seguirmi.

b. Mi seguirai più tardi


38
Come il potere del vecchio Pietro di seguire il Signore è il frutto del suo poggiare non più si
di sé ma sul Signore, così la ragione latente per cui il giovane ed ancora inesperto Simone non
poteva seguirlo prima, è in fondo a ben guardare la stessa per cui egli si rifiuta di farsi lavare i
piedi: egli è ancora troppo centrato su di sé, ovvero – per dirla in linguaggio più paolino –
impegnato a perseguire, coscientemente o meno, una “sua giustizia” (Fil 3, 9)64.
In sintesi, il dramma di Simon Pietro è un perfetto esempio di quella legge del compimento
paradossale e sorprendente, che governa, come ho cercato di illustrare altrove 65, la teologia
figurale giovannea da cima a fondo. Il desiderio di Simone di dare la vita per il maestro, non è
destinato a rimanere frustrato. Nondimeno, la condizione per il compimento di tale desiderio,
è che Simone impari a farsi innanzitutto ricettacolo dell’amore redentore del Signore. Per
diventare colui che tutto si dà, a immagine del buon pastore, deve prima diventare colui che
tutto riceve, a immagine del Figlio-Agnello66.
Di qui un’altra, non marginale considerazione: l’analogia Cristologica è in realtà una chiave
interpretativa decisiva per comprendere il Simon Pietro giovanneo, non meno di quanto lo sia
ai fini di una retta intelligenza del ritratto del DA. Potremmo dire, con una semplificazione
che però non cade lontano dalla verità, che i due discepoli sono entrambi chiamati ad una
speciale immedesimazione con la missione del Signore, sebbene ciascuno sotto un rispetto
differente. Il discepolo amato, come abbiamo visto, è chiamato a rendere una testimonianza
che mima nella sua struttura e nel suo contenuto la testimonianza oculare di Gesù stesso, se è
vero che entrambi rendono testimonianza all’amore senza riserve di cui sono ricettacolo.
Simone, invece, è chiamato a conformarsi a Gesù nell’esercizio del suo ministero di buon
pastore, il che a sua volta implica una profonda comprensione del contenuto e della struttura
ontologica di tale ministero. Orbene, Gesù attinge il potere che Egli ha di dare la vita per le
pecore (Gv 10, 11.18) dal Padre, nel cui amore rimane sempre immerso (Jn 15:9:a.10b).
Analogicamente, Pietro potrà essere un buon pastore solo nella misura del ed in proporzione
al suo rimanere sempre umile pecora del Signore67.

64
Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, In iohannis Evangelium Tractatus, sermo LXVI, 1
65
Cfr. P. PROSPERI, “Con gli occhi dell’Aquila: simbolo ed annuncio della fede nel Quarto Vangelo”, in: Atti del
Convegno “Parola e Immagine”, PIO, Roma, 2019…
66
Agostino lo aveva già detto a modo suo nel suo sessantaseiesimo sermone sul vangelo di Giovanni: “quantum
sibi assumpserat, ut cum venisset Dominus animam suam ponere pro amicis suis, ac per hoc et pro ipso, ille hoc
Domino offerre confideret: et nondum pro se posita anima Christi, animam suam polliceretur se positurum esse
pro Christo? [Augustine, In Iohannis Evangelium Expositio, LXVI, 1]

67
Se analogia, come vuole il concilio Laterano IV, sempre significa somiglianza in una infinitamente più grande
differenza, il suggerito accostamento non è in alcun modo smentito dal fatto che Gesù è il Figlio unigenito del Padre, e
come tale partecipa da sempre della stessa gloria del Padre, il che non vale ovviamente nel caso dell’apprendista
pastore Simon Pietro.
39
Ricapitolando quanto emerso in questo paragrafo, si possono trarre almeno due importanti
conclusioni circa il Simon Pietro giovanneo, che vanno ad integrare e precisare quel che si è
detto in precedenza68.
Primo, il tema del desiderio di Simone di dimostrare al maestro il proprio amore per lui,
domina la vicenda personale di questo discepolo, così come è narrata nel libro della gloria
(Gv 13-21), conferendo ad essa unità, dinamismo e direzione.
Secondo, l’ironico cuore del dramma vissuto da Simone, è da individuarsi nel fatto che questo
discepolo dal cuore tanto generoso quanto istintivo, prima della grande ora in cui il Signore
metterà in chiaro ogni cosa, non comprende/sa “dove Gesù stia andando”, né in senso
materiale (a morire sulla croce) né in senso spirituale/metaforico (perché egli vada dove va).
Terzo, non vi è alcuna vera contraddizione tra il Simon Pietro di Gv 13-18 e il Simon Pietro
di Gv 21. Piuttosto, si deve dire che il secondo non è altri che il primo finalmente abilitato ad
essere ciò che voleva essere dallo Spirito del Crocifisso e Risorto, che ormai arde in lui.

4.b. Un primato riconosciuto dal DA


A conferma della prospettiva suggerita, torniamo brevemente ai due già citati passi in cui,
come detto, una certa “superiorità” del DA è innegabilmente suggerita: la scena dell’annuncio
del traditore nel cenacolo e quella della corsa al sepolcro. A ben guardare, sono proprio queste
due scene ad offrire la conferma più chiara che l’Evangelista riconosce ed afferma il primato
d’autorità di Pietro sugli altri discepoli. Quanto alla corsa al sepolcro, già ne sapete, perché lo
stesso padre Lepori vi si è soffermato agli esercizi: il discepolo amato arriva sì per primo al
sepolcro (Gv 20, 4). Tuttavia non entra (Gv 20, 5). Aspetta, per lasciare che entri per primo
Simon Pietro (Gv 20, 6-7). Quanto alla scena nel cenacolo, anche qui: il DA si trova sì più
vicino a Gesù, ragion per cui Simone ha bisogno della sua mediazione per tentare di carpire a
Gesù il nome del traditore. D’altra parte è altrettanto vero che è Pietro che prende l’iniziativa,
mentre il Da non fa che obbedire alla sua sollecitazione.
Insomma, per sostenere la tesi della doppia redazione, dovremmo espungere (cioè togliere o
considerare aggiunti dopo) praticamente tutti i passi in cui compaiono Simon Pietro e il DA (il
che per taluni studiosi non è ovviamente un problema). Basta dire che si tratta di passi
redazionali, aggiunti in “una fase diacronica successiva” al sostrato originario. Troppo
comoda però: tutte le volte che un versetto non conferma la propria teoria, allora ci si toglie
dall’imbarazzo dicendo che è redazionale, che è un’aggiunta posteriore. Non è tale soluzione
68
Although obviously important for the present topic,, I leave to the final section dedicated in recto to the reading of Jn 21, the
the exegesis of Jn 21:15-17. As will be seen, the proposed schema of redemptive fulfillment finds in the dialogue of Jn 21:15-17
its climactic expression.
40
un po’ troppo comoda, oltre che metodologicamente discutibile? E dunque: non è più
semplice e più ragionevole, vista la mancanza di sicure informazioni circa l’entità di queste
(supposte) “fasi redazionali”69, cercare un’altra spiegazione dei dati in nostro possesso?70
Veniamo così alla nostra proposta, che peraltro si appoggia sull’autorità di alcuni importanti
lettori contemporanei del quarto vangelo71. Come possiamo mettere insieme i pezzi del puzzle
in un modo che non fa violenza ai testi ma tiene conto di tutti i fattori? La risposta che noi si
propone è: in realtà il vangelo di Giovanni sembra metterci di fronte ad una sorta di
paradossale darsi di non uno, bensì due primati, differenti e complementari72.

4.c. Il “primato” del DA


Per dire in merito qualcosa in più, proviamo a rileggere in questa chiave i risultati della
ricognizione già svolta.
Innanzitutto, come s’è già rilevato, non si può negare che dai testi emerga una certa qual
“superiorità” del DA su SP. Ma chiediamoci ora: in cosa esattamente consiste questa
superiorità?
In fondo lo abbiamo già detto. Sulla base di quanto emerso dai testi commentati, bisogna
rispondere: il Discepolo Amato è colui che più e meglio di tutti ha “visto ed udito”. In
particolare, egli è colui che più e meglio di tutti ha udito e veduto lo sprigionarsi della gloria
dell’amore del Signore nella grande ora della Sua pasqua. Resta da specificare che questa
69
Il che non significa affatto negare che il testo del vangelo abbia in effetti conosciuto diverse fasi di
elaborazione e che alcune sue sezioni siano state aggiunte in un secondo o terzo momento ad un sostrato pre-
esistente (l’esempio più evidente sono i capitoli 15-17 – chiaramente aggiunti in un secondo momento ai capitoli
13-15).
70
A tutto ciò si deve aggiungere l’argomento letterario (che è forse addirittura il più forte). Con Giuseppe
Segalla (ed altri), si deve cioè osservare che Gv 21 è sì un epilogo, ma un epilogo necessario, dal momento che
alcuni filoni tematici rimasti in sospeso in Gv 1-20 (su tutti proprio quello della storia di Pietro) rimarrebbero
con tutta evidenza incompiuti se non ci fosse Gv 21 (si pensi allo schema promessa-adempimento contenuto nei
“più tardi” di Gv 13 che in Gv 21 trovano puntuale ripresa). Certo, è presumibile che la redazione finale del
vangelo abbia comportato un certo re-intervento su quanto scritto in precedenza (non scriviamo tutti a questo
modo?). Ma il punto è proprio questo: il vangelo che abbiamo - che è peraltro l’unico vangelo che la Chiesa ha
canonizzato -, è un tutto coerente dal quale Gv 21 non è scorporabile, come fosse un’aggiunta estrinseca. È oggi
viceversa sempre più pacificamente ammesso che senza Gv 21 il vangelo sarebbe monco, cioè mancherebbe
della sua necessaria conclusione.
71
Oltre alle riflessioni balthasariane sul rapporto SP-DA (cfr.: H. U. VON BALTHASAR, Il complesso Anti-
romano, Queriniana, Brescia, 1974, 140-160, etc.) si veda soprattutto: M. MARCHESELLI, Studi sul vangelo di
Giovanni…cit. 127-130; 153-156; ID., Avete qualcosa da mangiare, cit. 80-84; 141-204; 262-201.
72
Questa idea, che sembra essere un contributo originale di Giovanni alla riflessione sulla Chiesa di età
apostolica, apre prospettive preziose in più sfere della vita cristiana – non solo (come più ovvio) in quella della
riflessione sul dibattuto tema della co-essenzialità tra elemento istituzionale e carismatico nella Chiesa. Come già
suggerito, infatti (cfr. n 5), una “dualità” analoga si dà in un po’ ovunque nella vita di fede sia implicata
l’esistenza e l’esercizio di una qualche forma di autorità. Il che significa: l’educazione, in senso ecclesiale,
sempre implica da una parte la presenza di un’autorità oggettiva ultima; dall’altra il fatto che laddove non si
diano altre autorità in qualche modo alla prima irriducibili (benché ad essa obbedienti), il rapporto educativo
manca di qualcosa (si pensi, per esempio, ad una famiglia mono-genitoriale). Sarebbe interessante riflettere sulle
ragioni profonde di questo dato di fatto constatabile nell’esperienza.
41
superiore esperienza ha per così dire due aspetti, distinti e tuttavia entrambi essenziali e
soprattutto inseparabilmente intrecciati. Vediamoli brevemente.
Innanzitutto il DA è colui che, prima della pasqua del Signore, ha “visto ed udito” di più nel
senso più schiettamente materiale del termine. Con Andrea egli è stato il primo ad incontrare
Gesù e riconoscere in lui il Messia (prima, si badi, anche e soprattutto di Simon Pietro)73;
della sua posizione privilegiata nel cenacolo durante l’ultima cena (anche qui: privilegiata
anche e soprattutto rispetto a quella di Simon Pietro) si è già detto; come pure s’è già detto
della sua vicinanza al Signore sia durante il processo (Gv 18, 15-17: ancora una volta in
contrasto con Simon Pietro) che nell’ora della Sua agonia e morte sulla croce (Gv 19, 23-25).
Insomma, è chiaro che questo discepolo è colui che, per la speciale vicinanza a Gesù che gli è
stata concessa, vede e ode più di tutti, in particolare più di Pietro al quale è quasi sempre
accostato74. Il perché di questo eccezionale privilegio non è mai detto se non allusivamente,
come s’è illustrato sopra: ciò ha a che fare con la sua (futura) missione di testimone (e perciò
anche di Evangelista).
C’è però di più. Il DA non si presenta solo come colui che ha visto e udito di più in senso
materiale. Bensì anche come colui che dopo la pasqua dimostra la vista più acuta, cioè la
capacità di penetrare più in profondità il senso di quel che tutti, Simone incluso, “hanno visto
ed udito”. Decisivi sono qui i primi due dei tre passi in cui il DA compare dopo la
resurrezione (manco a dirlo in compagnia di Simon Pietro).
Nel primo di lui ci vien detto sia che il DA arriva per primo al sepolcro vuoto (Gv 20, 4); sia
che, una volta entrato, “vide e credette” (Gv 20, 8). Simone entra per primo, è vero (Gv 20, 6-
7), ma non ci viene affatto detto che egli abbia compreso il senso di ciò che ha visto con la
stessa rapidità dell’altro discepolo. La diversa “velocità” dei due nell’arrivare al sepolcro

73
Gv 1, 38-42: [38] Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero:
«Rabbì (che significa maestro), dove stai?». [39] Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove
stava e quel giorno stettero presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. [40] Uno dei due che avevano
udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro.  [41] Egli incontrò per
primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» [42] e lo condusse
da Gesù.
74
Il quasi allude ovviamente alla scena della morte in croce di Gesù, dove Simon Pietro è assente e il DA è
invece associato alla madre di Gesù (Gv 19, 26: Gesù allora, vedendo la madre ed in piedi accanto a lei
(parestòta) il discepolo che amava…”). D’altro canto, se si eccettua questa scena, il DA è in ogni altro caso in
cui appare esplicitamente o implicitamente accostato e posto in una qualche relazione con Simon Pietro (cfr. Gv
1, 38-42; 13, 23-25; 18, 15-17; 20, 2-10; 21, 7; 21, 20-23). Persino nella prima apparizione – sempre che
concediamo (come è indubbio si debba) che l’anonimo discepolo che con Andrea incontra Gesù sia il DA – un
certo paragone con Pietro fa discretamente capolino, là dove Andrea in Gv 1, 42 dice a Pietro: “Abbiamo trovato
il Messia (che significa il Cristo)”. Dicendo “abbiamo” (plurale), Andrea fa sì che anche qui, cioè nella scena
della prima comparsa in scena di Simon Pietro, il lettore intraveda “alle spalle di Andrea”, per così dire,
quell’altro discepolo che il giorno prima con Andrea ha per primo incontrato Gesù, ha passato tutta la sera con
lui ed ha riconosciuto in lui il Messia. Non è stato dunque Simone a condurre Andrea e Giovanni da Gesù, bensì
viceversa: “Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo). E lo condusse da Gesù”.
42
vuoto è dunque una discreta e birichina allusione al fatto che il contrario è vero? Il testo non
lo dice, ma è difficile negare che lo suggerisca75.
Ben più esplicito è invece il secondo passo - la famosa scena del riconoscimento del Signore
sulla riva del lago in Gv 21. Tutti i discepoli vedono fisicamente lo stesso uomo in piedi sulla
riva, ma inizialmente nessuno di loro si accorge che si tratta di Gesù (Gv 21, 4). Non appena
la pesca miracolosa ha luogo (Gv 21, 5-6), il DA immediatamente Lo riconosce e lo dice a
Pietro: “Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!” (Gv 21, 7a)”.
Doppiamente aquila, dunque, il nostro DA: da una parte egli è colui che prima della pasqua
ha visto di più in senso materiale-quantitativo; dall’altra, egli è anche colui che dopo la
pasqua più ha penetrato il senso profondo di ciò che ha visto e udito, per poi comunicare a
tutti, mediante il Suo vangelo, il frutto della sua contemplazione.

4.d. Il primato di Pietro


E Simon Pietro? In cosa consiste il suo primato? Anche qui la risposta è già contenuta in tutto
quel che di lui s’è detto finora. Se il DA imita Gesù soprattutto in qualità di testimone oculare,
Pietro è piuttosto prima della pasqua l’apprendista pastore; dopo la pasqua, colui che ormai il
Signore chiama a dare la vita per il Suo gregge, così come Lui, il buon pastore, l’ha data (Gv
10, 11.17-18; 21, 15-19)76. A lui il Signore dà il mandato di pascere le sue pecore (Gv 21, 15-
17), custodendo l’unità della Chiesa (Gv 21, 11) ed ergendosi a indefettibile ed intrepido
baluardo della vera fede (ciò che è contenuto nel nome quasi divino di roccia-Cefa77).
In fondo, è chiaro, non si tratta che di due dimensioni o modalità della stessa missione: tanto
la profezia del contemplativo Giovanni quanto l’azione pastorale di Pietro rendono
testimonianza al Signore. E tuttavia è anche vero che si tratta di ruoli differenti e in certa
misura irriducibili l’uno all’altro.

75
Scrive ancora una volta il Marcheselli (M. MARCHESELLI, ‘Chi è beato? Vedere e non vedere in Gv 20, 1-18 e
20, 29’ in: Studi sul vangelo di Giovanni, cit., 83-89): “In termini positivi si deve dire che ciò che possiede il DA
rispetto a Pietro non è (in questo caso, n.d.r.) una dotazione maggiore di informazioni sensoriali, è piuttosto una
maggiore capacità di penetrazione della realtà, è un di più qualitativo. Per la profondità della sua vista, ciò che i
sensi percepiscono materialmente acquista valore di segno: nella tomba vuota il DA non vede Gesù, riconosce
però i segni del suo passaggio da questo mondo al Padre” (Ibid. 87).
76
Sul significato specificamente martirologico del ministero petrino, cfr. J. RATZINGER,…
77
Val la pena ricordare che nell’AT e specialmente nei Salmi il nome di roccia o rupe è spesso e volentieri
associato al Signore, ad indicare che in lui Israele trova rifugio, sostegno, sicurezza (Cfr Sal 18, 2; 31, 3-4; 73,
26 etc.). Sul ruolo e sul significato archetipico di Pietro nell’insieme di Gv 21, vedi M. MARCHESELLI, Avete
qualcosa da mangiare…177-185.
43
4.e. Se voglio che egli rimanga
Possiamo a questo punto tornare all’enigmatico finale di Gv 21 per offrirne la lettura a nostro
avviso più giusta – lettura che da una parte presuppone tutto quel che s’è finora detto del DA,
dall’altra ci aiuta ad approfondirlo. Torniamo alla misteriosa domanda di Gesù a Simone –
quella domanda che, si badi, è insieme al “Tu seguimi!” l’ultima grande parola che il Signore
pronuncia nel IV vangelo:

A: Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a
te?

B: Tu seguimi». 
Innanzitutto voglio insistere sul fatto che le ultime due frasi pronunciate da Gesù in tutto il
vangelo, riguardano rispettivamente il DA e SP. Difficile pensare che ciò sia un caso. In
secondo luogo, mi permetto di attirare l’attenzione sul fatto che i due verbi mediante cui Gesù
descrive il compito rispettivamente del DA e di SP, indicano posture in qualche modo
opposte: il verbo rimanere (mènein) dice immobilità; il verbo “seguire” (akolythènai) dice
invece movimento78.
Quanto al senso del secondo s’è già detto: Pietro è chiamato a seguire Gesù dando la vita per
le pecore del Signore – un “dare la vita” che raggiungerà la sua piena consumazione nel
martirio (Gv 21, 18-19). E Giovanni? In che senso deve egli rimanere?
In un senso direi triplice (tre mi paiono cioè i sensi più plausibili del testo).
Innanzitutto, il DA è destinato a rimanere “finché (il Signore) venga” mediante il suo
vangelo79. Perché “finché io venga”? Perché è chiaro che col Suo ritorno finale, la lettura del
vangelo del DA non servirà più. Ci sarà Lui in presenza! Fino ad allora, però, la testimonianza
del DA rimarrà come una delle mediazioni più efficaci (la più efficace?) attraverso cui i
discepoli d’ogni tempo e luogo potranno vedere Gesù (cfr. Gv 12, 21). C’è dunque un primo
senso molto “materiale”, per così dire (anche se non fisico: il DA morirà infatti anche lui) in
cui Giovanni è destinato a rimanere: di fatto è passando attraverso gli occhi e l’udito di
quest’uomo che innumerevoli generazioni di uomini e donne continueranno a vedere e
ascoltare Gesù, a conoscere i “tratti inconfondibili” del suo volto. Non è straordinario? Certo,
quanto detto è vero di tutti i vangeli (incluso quello di Marco, che è secondo molti il vangelo
di Pietro). E tuttavia – abbiamo già detto in che senso, non vi torno – è anche vero che è come

78
Sul significato e l’importante funzione del verbo seguire (akoloutheìn) nel Quarto Vangelo in generale ed in
relazione alla figura di Pietro in particolare, cfr. ancora M. MARCHESELLI, Avete qualcosa da mangiare, cit. 156-
175.
79
Cfr., nello stesso senso, M. MARCHESELLI, ‘Luogo e condizioni di possibilità del manifestarsi del Risorto
secondo Gv 21’, in: Studi sul vangelo di Giovanni…cit. 155.
44
se alla testimonianza di questo discepolo che unico era vicino al Signore mentre moriva in
croce, spettasse un posto sui generis, un posto speciale. Qui è dove si può dare in parte
ragione a chi vede nelle sibilline parole di Gesù un invito a Pietro (ed ai suoi successori) ad
avere rispetto della peculiarità non solo della testimonianza del DA, ma anche della tradizione
(cosiddetta asiatica) che da essa dipende – una tradizione che noi sappiamo aveva nel II
secolo caratteristiche proprie molto marcate, persino nella liturgia80. Torneremo su questa idea
più avanti, parlando del terzo senso di Gv 21, 22.
Il secondo senso, invero al primo legato, si evince agilmente da un’attenta considerazione del
significato profondo che il verbo “rimanere” (in greco ménein) ha nel resto del vangelo.
Innanzitutto giova richiamare che il verbo rimanere, così come peraltro il verbo seguire, è
uno di quei “grandi verbi giovannei”81 che meravigliosamente esprimono quell’intreccio
indissolubile di carne e spirito, di fisicità e vita profonda, che abbiamo detto all’inizio essere
caratteristica suprema del linguaggio del Quarto Vangelo - vangelo dell’incarnazione in tutti i
sensi (anche in senso stilistico). Mènein, infatti, di per sé significa semplicemente “stare”,
“dimorare”, “rimanere” nel senso fisico del termine. Ma in Giovanni questo verbo finisce per
acquistare quasi sempre, anche là dove a un primo sguardo sembra aver solo senso materiale,
un senso spirituale che non si giustappone semplicemente al primo ma piuttosto ne rivela la
profondità, quasi l’uno trascolorasse nell’altro. Un perfetto esempio è proprio il primissimo
testo in cui incontriamo il DA - sebbene, come s’è già detto, non ancora con questo nome.
Leggiamolo:

«Gli risposero: ‘Rabbì – che significa maestro - dove stai (mèneis)?’ Disse loro:
‘Venite e vedrete’. Andarono dunque e videro dove rimane (pou mènei) e
stettero/rimasero (èmeinan) presso di lui tutto quel giorno. Erano circa le
quattro del pomeriggio»
80
Ricordo che fino al tardo II secolo, un significativo gruppo di Chiese dell’Asia minore che si consideravano
fieramente eredi dell’insegnamento di Giovanni, celebrava la Pasqua in data diversa dalle altre Chiese (il 14
Nisan del calendario ebraico, donde la denominazione di Chiese quartodecimane). Dopo una lunga controversia
con Roma, si decise infine di uniformare il calendario liturgico e l’uso quartodecimano, che peraltro rifletteva
non solo il calendario ma anche la teologia della pasqua propria al quarto vangelo, si estinse. Sulla pasqua
quartodecimana, cfr. R. CANTALAMESSA, La Pasqua della nostra salvezza. Le tradizioni pasquali della Bibbia e
della Chiesa primitiva, Marietti: Genova, 2007.
81
Il verbo menein (stare / rimanere / dimorare, etc.) appare nel Quarto Vangelo 40x (24x nella prima lettera di
Gv) contro le 118x in tutto il resto del NT. Rimarchevole è la concentrazione di occorrenze nel Discorso
dell’addio di Gesù (4x in cap. 14; 11x in cap. 15). Quasi sempre è saturato di senso simbolico o metaforico.
Nella relazione discepolo-Gesù sembra significare “rimanere fedelmente attaccati” a Gesù, non già appena
mediante obbedienza ai suoi comandi (ciò che è piuttosto catturato dal verbo “seguire”), quanto mediante un
esistenziale essere presso di lui che è sintesi di fede, amore unitivo ed imitazione della Sua carità (cfr. Gv 15).
Quando è usato in contesti di reciprocità con la preposizione “in” (Chi rimane in me ed io in lui, porta molto
frutto…etc.) è uno dei modi privilegiati con cui Giovanni esprime sia la mutua inabitazione del Padre e del
Figlio che l’intimità tra il discepolo ed il Signore – mutua inabitazione che è sintesi di dinamismo e riposo. Si
veda, per maggiori dettagli, J. MATEOS – J. BARRETO, Dizionario teologico del vangelo di Giovanni, Cittadella
Editrice, Assisi, 1982, .
45
Tutti noi conosciamo bene questo testo - ci è caro perché don Giussani lo ha commentato
un’infinità di volte. Ebbene, se noi facciamo attenzione al greco di questi famosi versetti, ci
accorgiamo che anche qui, esattamente come nel finale di Gv 21, il verbo mènein la fa da
padrone. Tre volte appare nel giro di due frasi. Maestro dove stai-rimani? Chiedono a Gesù i
due discepoli. La famosa risposta - venite e vedrete! – ha ovviamente in prima battuta un
senso materiale: Gesù sta invitando i suoi discepoli a seguirlo casa sua in senso fisico; ma il
lettore astuto82, che già ha letto il prologo e conosce tutto il vangelo, sa che il luogo dove
Gesù “dimora” è l’amore del Padre suo (Gv 15, 10). Nella risposta di Gesù è dunque in
qualche modo già condensato tutto il senso della Sua missione. Perché il Figlio è venuto nel
mondo, perché s’è fatto uomo? Per un unico scopo: condurre gli uomini che lo seguono, che
credono in lui, a vedere dove abita, a vedere il luogo da cui è venuto e dove è la sua dimora: il
Padre, l’amore del Padre (Gv 15, 10):

“E videro dove rimane (poù mènei) e rimasero presso di lui (par’autò emeinan)
tutto quel giorno”.
Si arriva a vedere il Padre, si arriva a conoscere l’amore del Padre, rimanendo presso l’uomo
Gesù, stando con Lui, “guardando parlare” Gesù: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9).
Ecco, allora. Chi è il discepolo amato? È colui che fin dall’inizio, fin dal primo momento, non
ha fatto altro che questo: rimanere con Gesù, stare con Lui, senza mollarlo mai, nemmeno
mentre moriva in Croce. Può esser casuale che Giovanni usi lo stesso verbo all’inizio del
vangelo (Gv 1, 38-39) per descrivere quel che egli ha fatto nel giorno del suo primo incontro
con Gesù e alla fine del vangelo per parlare del suo “destino” dopo la dipartita di Gesù?
Credo si debba rispondere: no, non è un caso. Piuttosto, credo si debba dire che questo è il
modo con cui Giovanni dice al suo lettore chi davvero egli senta di essere: “io sono colui – è
come se dicesse - che fin dall’inizio e poi sempre, per tutta la vita, anche dopo la pasqua, non
ha fatto altro che questo: stare con Gesù, stare davanti a Lui con gli occhi sgranati, in
ascolto”. Prima della pasqua, come s’è visto, nel senso anche materiale del termine. Dopo la
pasqua, in un senso nuovo, potremmo dire più spirituale. Quanto tempo, quante ore Giovanni
deve aver passato a “ri-guardare” con gli occhi della memoria dentro ai suoi ricordi, per
penetrare il senso profondo di quanto aveva visto e udito!
Comprendiamo così il secondo senso di quel “se voglio che rimanga”: il compito di Giovanni
è rimanere anche nel senso che la sua missione sarà, per usare un termine forse anacronistico

82
L’aggettivo astuto non si deve intendere in questo contesto come sinonimo di perspicace o scaltro, bensì, in
senso più tecnico, come indicante il lettore che ha già letto e riletto più volte in vangelo, è familiare con la
totalità del testo e perciò è in grado di cogliere quei collegamenti intertestuali che al lettore alle prime armi
inevitabilmente sfuggono.
46
ma comunque appropriato, di tipo più contemplativo rispetto a quella di Simone. Non a caso,
come abbiamo già accennato, c’è come un contrasto tra i due verbi con cui Gesù descrive il
futuro dei due discepoli: Giovanni rimane, Pietro segue. È ovvio che non bisogna fare
contrapposizioni assolute (non a caso, infatti, come padre Lepori ricordava agli esercizi, anche
il DA è descritto poco prima nell’atto di seguire Gesù e Pietro: Gv 21, 20). Ogni vero
discepolo di Gesù deve essere un po’ entrambe le cose, un contemplativo ed un uomo
d’azione. E tuttavia non c’è dubbio che Giovanni si sta qui presentando come l’uomo dello
stupore, colui che è per così dire chiamato in modo speciale dal Signore a permanere in quella
postura che in fondo è stata la sua dall’inizio: la postura di colui che è tutto sguardo ed
ascolto, di colui che non si stanca di tenere gli occhi fissi sul Signore, per penetrarne sempre
di più il mistero e poi comunicare a tutti ciò che in questo “rimanere” ha visto ed udito.
Il termine che meglio cattura la vocazione particolare del DA è perciò forse la parola profeta,
se con questo termine intendiamo da un lato il dono fatto a questo discepolo d’essere
ricettacolo di grandi rivelazioni relative al mistero di Cristo; dall’altro il fatto che il dono
certamente speciale concesso al DA – il dono di “occhi” più acuti e penetranti d’ogni altro
discepolo - non è fine a sé stesso. Esso è ordinato alla testimonianza, alla generosa
comunicazione ad altri di ciò che egli è riuscito a vedere grazie a suoi “occhi d’aquila”83,
affinché anche altri possano gustare e vedere la stessa “gloria” che egli ha contemplato (Gv 1,
14b; 19, 35 etc.).
Comprendiamo così almeno una delle più probabili ragioni per cui questo “prediletto”
discepolo di Gesù preferisca rimanere anonimo lungo tutto il suo vangelo. Non si tratta di
semplice umiltà (la maggioranza dei suoi primi lettori sapeva ovviamente chi fosse!).
Piuttosto è vero che, “scomparendo” dietro all’anonimo titolo di discepolo che Gesù amava, è
come se Giovanni dicesse ad ogni suo lettore: “il discepolo prediletto di Gesù non sono
soltanto io, ma anche tu. O meglio: puoi diventarlo, nella misura in cui ti immedesimi con
l’eccezionale esperienza (oculare ed auricolare: vista ed udito) della gloria dell’amore del
Signore che a me è stata donata – immedesimazione resa possibile dal fatto che tale
esperienza l’ho trasfusa, con l’aiuto dello Spirito di verità, nel mio vangelo e perciò chi lo

83
Secondo una antica credenza ancora popolare nel medioevo (cfr. DANTE, Paradiso, I, 46-48), l’aquila sarebbe
l’unico uccello capace di guardare a lungo il Sole senza acciecarsi. La credenza sembra fare da sfondo alla
spiegazione proposta da Agostino per l’identificazione simbolica di Giovanni con il re degli uccelli: «Viceversa
Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l’occhio acutissimo e sicurissimo del
cuore la luce della verità immutabile» (AGOSTINO DI IPPONA, De consensu Evangelistarum 1.6.9; vedi anche
ibid. 4.10.11; ID:, Tractatus in Johannis evangelium, 36.5). Cfr. anche DANTE, Paradiso, XXVI, pp. 52-54. Per
una rilettura del significato dell’associazione simbolica di Giovanni con l’aquila, vedi: P. PROSPERI, Con gli
occhi dell’aquila…cit.
47
legge con occhi e cuore resi acuti dal medesimo Spirito, può vedere ed udire ciò che ho visto e
udito io”84.
Poiché ho parlato di triplice senso, dovrei a questo punto soffermarmi sul terzo significato
della domanda di Gesù. Se non lo faccio, è perché il terzo senso ha direttamente a che fare
con l’ultimo e conclusivo passaggio di questa nostra meditazione - vi torneremo poi. Per
intanto, nel concludere questa sezione, val la pena rimarcare come tra i due pur diversi sensi
appena messi in luce del “rimanere” di Giovanni c’è a ben guardare una assai profonda inter-
penetrazione e persino dipendenza (squisita finezza dello scrivere giovanneo!). Se infatti è
vero che il destino di Giovanni è di “rimanere finché Gesù venga” attraverso il suo vangelo, è
vero anche che, per poter scrivere il suo vangelo, il nostro deve assumere la postura
necessaria a ri-vedere tutto quel che ha già visto con gli occhi della carne, così da penetrarne
la “verità tutta intera” (Gv 16, 13). Di qui il mandato di “rimanere in attesa che il Signore
venga” in un altro, più metaforico senso: a differenza di Simone, chiamato più al movimento
ed all’azione, il DA dovrà spendere parecchio del suo tempo “stando fermo” in
contemplazione, teso ad accogliere quelle rivelazioni dello Spirito di verità (Gv 14, 25-26; Gv
16, 12-15)85 grazie a cui egli potrà non solo “ricordare tutto” (Gv 14, 25), ma anche
comprendere il senso profondo dei suoi ricordi e così scriverne in modo “davvero ispirato”.

5. Perché Simon Pietro ed il Discepolo Amato?

Detto tutto quel che fin qui si è detto, è difficile resistere alla tentazione di farsi la seguente
domanda: se davvero le cose stanno come il quarto Evangelista insinua, se cioè in effetti il
DA e non Simon Pietro è tra i discepoli il più carismatico, il più intelligente e non solo il più
intelligente - l’intelligenza può portare con sé la superbia - ma anche il più docile, il più
obbediente (ce le ha tutte: dopo la Madonna c’è lui! Non per niente sono così legati: Gv 19,
25-27), allora perché…Gesù non ha scelto lui come capo della Chiesa?
84
Certamente l’esperienza storica del DA rimane irripetibile; ma il vangelo non si limita a raccontare
un’esperienza storica. In esso è piuttosto trasfusa l’esperienza contemplativa che il DA ha fatto ri-guardando e ri-
ascoltando ciò che aveva visto e udito con i sensi della carne, dalla posizione “celeste” (ecco gli occhi
dell’aquila) cui lo Spirito di Verità, dopo la pasqua, lo ha “innalzato”. Possiamo così osar dire: paradossalmente,
Giovanni ha sentito meglio battere il cuore di Gesù quando ricordando quell’esperienza ne ha penetrato il senso
profondo, che neanche nel momento in cui ha era fisicamente appoggiato sul petto di Gesù. Il fatto materiale (il
ricordo storico) non perde con ciò di importanza. Ma diviene parte di un’esperienza contemplativa
paradossalmente più piena e ricca di quella storica. È a questa esperienza che il lettore del vangelo può avere
accesso ed è per questo che ogni lettore è o può diventare il DA.
85
“[25] Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. [26] Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre
manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 25-26);
“[12] Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. [13] Quando però
verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che
avrà udito e vi annunzierà le cose future. [14] Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve
l'annunzierà.  [15] Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve
l'annunzierà” (Gv 16, 12-15).
48
Ovviamente questa domanda è in parte oziosa e potrebbe persino essere fuorviante. In ogni
elezione c’è un aspetto di imperscrutabile gratuità che è parte di ciò che la parola elezione
significa: ti scelgo perché ti scelgo, liberamente, gratuitamente, senza merito. “Farò grazia a
chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò aver pietà” (Es 33, 17). Poteva Gesù scegliere
Giovanni invece di Simone? Certo che poteva. E invece sceglie Simone. È il mistero
dell’elezione divina, la quale è tale anche e proprio in quanto ultimamente infondata – così
come infondata è la volontà di Dio di far esistere me, tra tutti gli infiniti possibili esseri umani
che poteva creare e non ha creato (torneremo su questo punto più avanti, perché esso ha a mio
avviso paradossalmente a che fare proprio col motivo positivo della scelta di Simon Pietro).
D’altro canto, infondata non significa senza ragioni, non significa a “capocchia”. Dio non fa
nulla “a capocchia”, cioè senza scopo. Così, se è vero che in ogni vocazione c’è un elemento
di gratuità – perché io? Perché sì! -, è anche vero che Dio non può che scegliere strumenti
proporzionati, cioè adatti a svolgere la funzione che egli dà loro, all’uso che di essi vuol fare.
Se così non facesse, sarebbe un artista maldestro, mentre la nostra fede ci insegna che Dio è il
sommo, il princeps analogatum degli artisti: tutta la creazione e poi la storia della salvezza
non è forse una grande, suprema opera d’arte? Ebbene, ciò che caratterizza il grande artista
non è solo l’avere idee geniali, ma anche il saper incarnare queste idee in forme concrete,
sensibili che esprimono bene una certa idea, che cioè la fanno risplendere con particolare
efficacia e trasparenza. Ciò non rende una certa forma, una certa modalità espressiva
necessaria in senso assoluto. L’artista è sempre libero di scegliere diverse vie e strumenti per
dire ciò che vuol dire. Al contempo, quanto più un artista è grande, tanto più è capace di
scegliere mezzi efficaci per dire ciò che vuol dire – a tal punto efficaci che a chi guarda o
ascolta il risultato finale vien da dire: ma sì, “è giusto così”, “deve essere così”, “non poteva
dirlo meglio”! Poteva Beethoven distribuire archi, fiati, ottoni in modo diverso nello scrivere
il primo movimento della Quinta Sinfonia? In teoria sì, certo. Eppure, a posteriori, noi
sentiamo che c’è una appropriatezza nella scelta che Beethoven ha fatto, che ci fa dire: è
giusto così, è bello così - il gioco tra ottoni, fiati ed archi non poteva essere strutturato meglio.
Perché? L’abbiamo già detto: perché proprio questa distribuzione delle parti aiuta l’idea
musicale ad esprimersi con la dovuta chiarezza, potenza, efficacia. Immaginiamoci la Quinta
di Beethoven coi corni inglesi che suonano le parti dei violini e i violini quelle dei flauti e dei
fagotti: verrebbe fuori una cosa ridicola, una schifezza!
Ecco, qualcosa di simile è vero all’ennesima potenza dell’agire del Signore. Dico
all’ennesima potenza, perché il Signore, essendo non semplicemente un grande artista ma il

49
sommo artista, non commette errori. Le sue scelte son sempre perfettamente calibrate, che
meglio calibrate non si può (fermo restante che poi la libertà umana può complicare le cose!).
Si precisa così il senso giusto (o non ozioso) della domanda posta sopra: ciò che è interessante
qui non è tanto stabilire perché Gesù abbia scelto proprio Simone figlio di Giovanni per essere
Cefa, quanto piuttosto chiedersi in che senso questa scelta – la scelta cioè di dare a Pietro la
guida della Chiesa ma in modo tale che ci sia anche Giovanni, che ci sia anche quest’altro
discepolo che ha la “vista più lunga” di lui insieme a Pietro – aiuta ad esprimere l’idea che il
Signore ha della Chiesa.
Scrive Maurizio Marcheselli, uno tra i massimi studiosi contemporanei di Gv 21:

“Pietro e il Discepolo che Gesù amava hanno svolto un ruolo fondamentale


perché si realizzasse la manifestazione del Risorto nella prima parte del capitolo
(21, 1-14); anche dopo la loro morte (21, 15-24 parla appunto di questo
momento futuro) ciò che essi continuano a rappresentare per la comunità dei
credenti costituisce un elemento indispensabile perché il gruppo dei discepoli
possa svolgere la sua missione e il Risorto possa ancora manifestarsi. La
manifestazione di Gesù ai suoi, nel tempo tra la risurrezione e la parusia (cioè il
ritorno di Cristo, n.d.A.), necessita della funzione svolta da entrambi questi
discepoli: se la testimonianza del DA è necessaria perché il gruppo possa
riconoscere la presenza del Signore, l’azione di Pietro – che porta a terra la rete
piena di pesci senza che essa si spezzi – è pure decisiva per la realizzazione di
quell’azione complessa di pesca e di pasto al cui interno si sperimenta la
manifestazione del Risorto. Il ministero di guida autorevole al servizio dell’unità
e quello della testimonianza che svela l’identità divina di Gesù sono, al tempo
stesso, dimensioni imprescindibili della vita della comunità credente e condizioni
di possibilità per percepire il manifestarsi del Risorto”86

5.a. Una salutare spina nel fianco di entrambi


Nella sezione finale di questa nostra meditazione vogliamo dunque chiederci: in che modo o
in che senso questo intreccio di “petrinità” e “giovannità”, così ben descritta da Marcheselli, è
di aiuto alla missione della Chiesa? Tradotto nel linguaggio oggi più in voga: perché è cosa
buona e giusta – diciamo persino bella, cioè consona (e non semplicemente un bruto dato di
fatto) che ci siano carisma e istituzione, che non ci sia solo l’uno o l’altro, ma che si diano
entrambi, irriducibili eppure necessari l’uno all’altro?
Sono domande delicate ed impegnative, senza dubbio di non facile risposta. In questa sede mi
limiterò a concentrarmi sui suggerimenti o spunti di risposta che mi pare si possano

86
M. MARCHESELLI, ‘Luogo e condizioni di possibilità del manifestarsi del Risorto secondo Gv 21’, in: Studi
sul Vangelo di Giovanni…cit.155-156; ID., Avete qualcosa da mangiare?...cit., 188-191
50
estrapolare dal Quarto Vangelo stesso e in particolare proprio dal capitolo 21. Come vedremo,
non solo l’evangelista Giovanni ha egli stesso a cuore le domande appena formulate, ma ha
anche parecchio da dire in risposta ad esse. Certo, per cogliere i suoi suggerimenti di risposta,
abbiamo bisogno di un certo esprit de finesse, poiché il nostro evangelista, come abbiamo
detto fin dall’inizio, dice spesso le cose più importanti in modo simbolico, cioè incarnando
l’idea nella concretezza del racconto, così che noi possiamo trarre dal testo quel che ha da
dirci solo “leggendo tra le righe”, il che ci obbliga ad assumerci il rischio di spingerci un po’
oltre il senso immediato dei testi87. Spero tuttavia di riuscire a mostrare che Gv 21, se letto
con gli occhiali giusti, non solo ci presenta una profonda teologia del rapporto tra istituzione e
carisma, ma anche una suggestiva e direi persino poetica descrizione della bellezza di questo
rapporto – un rapporto che Giovanni ci aiuta a capire per ciò che veramente è, e cioè non un
rapporto tra “principi astratti”, bensì tra persone - un rapporto che ha tutta la “sanguinante”
drammaticità che caratterizza i rapporti umani. Istituzione e carisma, infatti, non esistono in
astratto. Sono invece sempre incarnati in persone concrete, chiamate da Cristo a superare
ciascuna le proprie tentazioni personalistiche, ciascuna le proprie (commoventemente) umane
debolezze –per entrare nella struggente bellezza dell’amicitia in Christo, della comunione: “vi
do un comandamento nuovo: amatevi l’un l’altro come io vi ho amato”, cioè fino al sacrificio,
fino alla croce (Gv 13, 34; 15, 12).
Perché dunque Pietro e il DA?
La prima risposta che darei – anticipo la tesi, per poi giustificarla con l’aiuto dei testi – è
questa: Giovanni e Pietro devono esserci entrambi innanzitutto88 perché ciascuno è per l’altro
aiuto necessario a vivere la verità della rispettiva missione. E ciascuno è per l’altro tale aiuto,
è cioè per l’altro strada di santità, proprio per il fatto che ciascuno è relativamente (cioè sotto
un diverso rispetto) dipendente dal e bisognoso dell’altro. Volendo metterla giù un po’ più
cruda – come i testi peraltro ci invitano a fare – potremmo dire: ciascuno è aiuto all’altro
innanzitutto nel senso che è per l’altro antidoto all’autoreferenzialità, per usare un termine
oggi in voga, cioè alla tentazione di vivere la propria missione come se tutta la mediazione
della grazia di cui il gregge ha bisogno dovesse o potesse passare attraverso di sé, senza il
sostegno di null’altro che il proprio dono (che si tratti di dono gerarchico o di dono
carismatico).
87
Per un tentativo di chiarimento della logica mistagogica che sovraintende il linguaggio simbolico giovanneo,
rimando ancora al mio: P. PROSPERI, “Con gli occhi dell’Aquila: simbolo ed annuncio della fede nel Quarto
Vangelo”, cit. 125-155.
88
Questo innanzitutto vuole marcare il fatto che la prima giustificazione qui proposta della convenienza della
struttura gerarchico-carismatica della Chiesa – giustificazione che possiamo chiamare pedagogico-strumentale,
non è l’unica. Si dà anche, come si vedrà sotto, una spiegazione più profonda, che è giusto ritenere genuinamente
teo-estetica ed ontologica (cfr.).
51
Per dirla in altro modo e cogliendo forse con più precisione nel segno, si potrebbe dire che
nella prospettiva del IV Vangelo la non auto-sufficienza tanto di Pietro quanto di Giovanni,
cioè il fatto che ciascuno abbia bisogno dell’altro per essere efficace nell’esercizio della
propria missione, è il segno concreto, l’incarnazione concreta del fatto che, se da un lato è
vero che ogni autorità (sia Pietro che Giovanni, sia istituzionale che carismatica) rappresenta
realmente Gesù (è un alter Christus, si dice dei grandi santi; è vicarius Christi, si dice del
Papa), dall’altro è altrettanto vero che non è Gesù, poiché di unico e definitivo mediatore di
Dio ce n’è solo Uno, Gesù Cristo, mentre gli altri hanno il compito di guidare le pecore
mediante sé a Lui, di metterle in rapporto con Lui. O ancora: parafrasando il famoso
commento di Agostino al “pasci le Mie pecore” di Gv 2189, si può dire che Giovanni è per
Pietro (e Pietro per Giovanni)90 il vivente “reminder” del fatto che, per quanto realmente
affidate a Pietro, le pecore sono ultimamente di Gesù e non sue. Di qui la necessità o meglio
convenienza (cumdecentia, direbbe San Tommaso) di questa coesistenza nella comunione tra
due aspetti dell’autorità intrecciati ma irriducibili l’uno all’altro, quello petrino e quello
giovanneo: tale “sinergia” è segno eloquente per tutti, a cominciare dai due discepoli stessi,
del fatto che tutto e tutti nella Chiesa rimandano oltre sé a Gesù Cristo – l’unico uomo che
può dire di sé: io sono (in persona) la Verità e la Vita.
Un’ultima importante “nota previa” – prima di reimmergerci nella lettura dei testi. Come si
vedrà, la prospettiva da cui Giovanni sembra interessato a zoomare sulla questione, non è
tanto (o non è direttamente) quella della convenienza per “le pecore” della suddetta sinergia,
quanto piuttosto quella della convenienza per gli apostoli stessi – cioè per ogni Pietro ed ogni
Giovanni, potremmo dire – dell’esistenza di questa complementarietà91. Certamente le due

89
Cercare sul breviario… (cfr. AGOSTINO D’IPPONA, Sermo 147/A; In evangelium Ioannis
tractatus, 123)
90
Un notabene mi pare qui d’obbligo, soprattutto alla luce del recente dibattito intra-ecclesiale sul rapporto tra
istituzione e carismi nella Chiesa. Come si vedrà, non c’è dubbio che nel racconto di Giovanni 21 l’accento
sembra cadere più sulla funzione pedagogica o correttiva del DA in relazione a Pietro che non sul viceversa. Ciò
però a mio avviso si spiega alla luce del fatto che tale viceversa è ovvio – essendo che il gregge è affidato per
l’appunto a Simon Pietro e non al DA. In termini più espliciti: non c’è dubbio che la polarità Pietro-Giovanni è
presentata da Giovanni in modo tale da stigmatizzare in prima battuta, almeno così ci pare, la possibile
tentazione del clericalismo tipica dell’istituzione, ovvero – noi diremmo - della “Chiesa dei preti”.
L’irriducibilità dell’elemento giovanneo a quello Petrino, da questo punto di vista, sembra fare da argine alla
tentazione di Pietro di sentirsi l’unico mediatore della parola vera e della grazia. C’è d’altra parte anche l’altra
faccia della medaglia. La distinzione è argine anche alla tentazione di ogni Giovanni di chiudersi nell’auto-
referenzialità, cioè nell’illusione di non aver bisogno della correzione e dell’aiuto di nient’altro che del proprio
stesso dono di grazia, il che significa cadere, benché dal lato opposto, nell’identico errore del clericalismo
istituzionalista: concepirsi mediatori di grazia e verità pienamente bastevoli, senza bisogno di alcun aiuto
esterno. L’icona del discepolo amato, che umilmente segue da dietro Gesù e Pietro che conversano sulla riva, è a
mio avviso sufficiente a mostrare quanto anche quest’altro lato della medaglia non sia assente dall’orizzonte di
Gv 21.
91
Assumendo la prospettiva inversa, ci si potrebbe chiedere perché è giovevole anche per il gregge aver
bisogno, per essere messi in verace contatto con Cristo, sia del sacramento e del magistero sicuro assicurati da
52
prospettive sono l’una il rovescio dell’altra. E tuttavia mi pare degno di nota il fatto che, come
vedremo, la prospettiva da Giovanni privilegiata sia quella dell’aiuto che Giovanni e Pietro
sono l’uno per l’altro. La ragione di ciò, mi pare illuminarsi al meglio leggendo Giovanni 21
alla luce dei discorsi dell’addio (Gv 13-17) e più precisamente di quei passi in cui il Gesù
giovanneo batte e ribatte (cfr. Gv, 13, 1-17; 33-35; 15, 12-17) sul fatto che l’efficacia della
futura missione dei discepoli, cioè il loro potere di far risplendere la gloria di Cristo nel
mondo, dipenderà primariamente (e sottolineo: primariamente) non tanto dallo zelo del loro
ardore comunicativo, quanto dal fatto che essi rimangano in Lui (Gv 15, 7.10-11), oltre che
mediante la fede, amandosi l’un l’altro come Egli li ha amati:

Gv 13, 33-35:

[33] Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già
detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. 

[34] Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho
amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 

[35] Da questo (en toùto) tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore
gli uni per gli altri».

Gv 15, 7 ss:

A: [7] Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che


volete e vi sarà dato.  [8] In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto
frutto e diventiate miei discepoli. (…).

B: Rimanete nel mio amore. [10] Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete


nel mio amore (…) [12] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati. 

A: [16] Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché
andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che
chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 

Pietro che del fascino della parola profetica di Giovanni. Perché questa duplice modalità di attingimento della
verità e della grazia (Gv 1, 14d) è più adeguata di una modalità mono-fontale, per così dire? Anche se non mi
soffermerò direttamente su questa domanda, credo che quanto si dirà sia sufficiente ad intuire almeno una delle
ragioni di tale convenienza: il fatto che Pietro e Giovanni siano non solo irriducibili l ’uno all’altro, ma co-
necessari (così come lo sono padre e madre nella nascita ed educazione di un figlio, peraltro), fa sì che essi
possano aiutare meglio chi li segue a capire che essere Chiesa significa appartenere, per dirla san Paolo, non a
Cefa, ad Apollo, a Paolo, ma a Cristo con l’aiuto di Cefa, di Apollo, di Paolo (…) etc. Ci sono a mio avviso
anche altre ragioni di cumdecentia che sarebbe interessante esplorare, ma su di esse non ci soffermeremo in
questa sede.
53
B: [17] Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

Più potente ancora, fino a sconfinare nel sublime, è il climax della preghiera sacerdotale di
Gesù:

A: (…) Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola,

B: perché il mondo creda che tu mi hai mandato.

A: [22] E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come
noi una cosa sola. [23] Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità

B: e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.

Il battere e ribattere del Gesù giovanneo sul comando dell’amore reciproco dei discepoli l’uno
per l’altro è qui talmente forte, che è stato spesso addirittura interpretato come un segno
dell’introverso settarismo che avrebbe contraddistinto la famosa “comunità giovannea”, in
opposizione all’estroversa agape di cui parlano Gesù e san Paolo, quando invitano ad una
carità che non discrimina ed anzi deve estendersi anche al nemico 92. In realtà, i testi citati non
autorizzano in alcun modo tale interpretazione. Piuttosto, il centro della paradossale idea del
Gesù giovanneo, è che la fecondità della missione dei discepoli, cioè la possibilità che anche
dalla loro carne “si sprigioni” lo splendore di quella gloria che hanno visto brillare in Gesù
(Gv 17, 22A), così da suscitare nel mondo la fede (Gv 17, 21B.22B) dipende dal fatto che essi
si amino l’un l’altro d’un amore simile a quello mediante cui il Padre e il Figlio si amano e
sono una cosa sola (Gv 17, 21A.22A). In altri termini, il potere attrattivo della Chiesa sembra
dipendere in Giovanni più dalla bellezza-gloria93 della comunione vissuta tra i discepoli, cioè

92
Cfr. A. NYGREN, Eros e Agape. La nozione cristiana di amore e le sue trasformazioni, EDB: Bologna 2011, ..
93
Giova qui ricordare che il concetto biblico di gloria (ebraico kabòd, greco dòxa), prima d’ogni giovannea
rilettura del concetto, indica nell’AT questo: splendore visibile-sensibile del carattere invisibile e nascosto del
Dio tre volte Santo (Is 6,1 ss). Sulla manifestazione della kabod di Dio nell’AT si veda G. VON RAD, Kabod-
GLORY, TDNT, II, pp. 238 – 247; C. WESTERMANN, Kbd, to be heavy, TLOT II, 595-602 (4a ff.); H.U. VON
BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica, VI Antico Patto, Jaca Book, 1991, 33-77; J. BRIEND, Dieu dans
l’Ecriture, Cerf Paris 1992, pp. 44-50. Quanto alla (creativa) appropriazione giovannea del concetto
veterotestamentario di gloria, si possono consultare: B. BOTTE, La gloire du Christ dans l’Evangile de saint
Jean, in: Questions Liturgiques et Paroissiales 12 (1927) 65-76; J. DUPONT, Essais sur la Christologie de saint
Jean, Éd. de l'Abbaye de Saint-André, Bruges 1951, pp. 253-293; W. GROSSOUW, La glorification du Christ
dans le quatrieme Evangile, in: L’Evangile de Jean. Etudes et problems, 1958, pp. 131-145; D. MOLLAT, Doxa,
in VThB, 1968, pp. 504-511; I. DE LA POTTERIE, La Verite dans Jean, cit., pp. 191-199; W. THUSING, Die
herhöhung und Verherrliching Jesu im Johannesevangelium Ashendorff, Münster 1960; C. REVNEANU, Die
Herrlichkeit des Verherrlichten. Das Verständnis der  in Johannesevangelium, Mohr Siebeck, Tubingen
2007; R. SCHWINDT, Gesichte der Herrlichkeit. Eine exegetisch-traditionsgeschichtliche Studie zur paulinischen
und johanneischen Christologie, Herder, Freiburg im Breisgau 2007. Importanti anche i più recenti: J. FREY, The
glory of the Crucified One, Baylor University Press, Waco 2018; R. BAUCKHAM, Gospel of glory. Major themes
in Johannine Theology, Baker Publishing Group, Grand Rapids 2015, pp. 43-75.
54
del modo in cui essi si “lavano i piedi” l’un l’altro (Gv 13, 14-15), che neanche dalla
radicalità dello zelo missionario dei singoli.
Torneremo nel finale di questa nostra meditazione sulla ragione ultima e invero abissale di
questo fatto, che proprio Gv 17, 22-23 ci aiuterà a trovare nell’essenza comunionale (unità
nella differenziata pluralità delle persone) di quella vita divina della quale la Chiesa è
chiamata a riflettere visibilmente la bellezza-gloria. La non auto-sufficienza tanto di SP
quanto del DA, come si vedrà, non è dunque appena il segno negativo del rispettivo non
essere Gesù; bensì anche, e ben più positivamente, condizione per tanto più e meglio
assomigliarGli, se è vero che la gloria divina di Gesù non è gloria d’un solitario ed
onnipotente sovrano, che tutto fa da sé per glorificare null’altri che se stesso, bensì è “gloria
come di Figlio Unigenito dal Padre” (Gv 1, 14) – è maestà di colui che “da se stesso non è
nulla” (Gv 8, 54), da sé “non fa nulla” (Gv 5, 21)94 e in tutto ciò che fa cerca “la gloria di
colui che lo ha mandato” (Gv 7, 18, cfr. 17, 1.4).
Prima di giungere a spingere lo sguardo su tali ultime, celesti radici della bellezza/bontà della
complementarietà di petrino e giovanneo nella Chiesa, è importante però non perdere di vista
la prima prospettiva, forse meno teologicamente sublime e tuttavia non meno importante e
decisiva, soprattutto per come illumina la portata educativa della suddetta complementarietà,
dove con portata educativa intendo: la “correzione vivente” che Pietro e Giovanni
rappresentano l’uno per l’altro in quanto aiuto a far sì che ciascuno viva un rapporto
equilibrato col proprio dono (gerarchico o carismatico che sia). Come mi accingo a mostrare,
infatti, è questa la prospettiva che l’Evangelista privilegia in Gv 21 ed è perciò la prospettiva
su cui anche noi concentreremo la maggior parte della nostra attenzione.
Val la pena comunque sottolineare, che tale prospettiva è anche nei discorsi dell’addio di
Gesù tutt’altro che assente, posto che il grande gesto simbolico mediante il quale Gesù ha
indicato ai suoi l’ideale (hypodeigma) dell’amore con cui essi devono amarsi l’un l’altro, se
vogliono essere beati, cioè entrare nel gusto della vita che è Sua - è la lavanda dei piedi:

12] Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e
disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto? [13] Voi mi chiamate Maestro e Signore e
dite bene, perché lo sono. [14] Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i
vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. [15] Vi ho dato
infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. [16] In verità, in
verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più
grande di chi lo ha mandato. [17] Sapendo queste cose, sarete beati se le
metterete in pratica.
94
Sul carattere filiale della gloria-doxa di Gesù, si veda il sempre valido commento a Gv 1,14 di I. DE LA
POTTERIE, La vérité dans saint Jean, I, Le Christ et la vérité, Biblical Institute Press, Roma 1977, pp. 176-199.
55
Si deve notare, sulla scia di quanto già accennato 95, come la prontezza a “lavarsi
reciprocamente i piedi” non indichi una generica disponibilità ad abbassarsi per servire il
fratello, sebbene ciò sia certamente parte del senso del gesto di Gesù; ma anche il fatto che
tale mettersi a servizio è ordinato a dare al fratello “piedi nuovi”, vale a dire a servire
l’andare del fratello, cioè la sua missione. Il che significa: il mandato addirittura supremo del
Signore ai suoi nell’imminenza della sua dipartita – sarete beati se farete questo – è quello di
esser pronti da una parte ad “abbassarsi”, a sacrificarsi per servire la missione dell’altro;
dall’altra, a lasciarsi “lavare i piedi”, cioè aiutare e correggere dal fratello. In che senso ciò si
applica alla relazione di cui ci stiamo occupando, quella tra SP e il DA, è quanto ora
dobbiamo mostrare.

5.b. Appena udì che era il Signore


Per cominciare, zoomiamo un po’ più da vicino sulla già menzionata scena del
riconoscimento del Signore da parte del DA in Gv 21, 7, cui segue il tuffo in acqua di Simon
Pietro:

7-a: Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «E' il Signore!».

7-b: Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto,
poiché era spogliato,

7-c: e si gettò in mare. 

8-a: Gli altri discepoli invece vennero con la barca,

8-b: trascinando la rete piena di pesci:

8-c: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.


In questi due versetti, così vivacemente cinematografici, incontriamo un fulgido esempio di
ars teo-poetica giovannea, tanto mirabile è qui l’indissolubile intreccio di drammatica,
sanguigna storicità e profondità di messaggio simbolico-teologico.
Cominciamo col meditare sul senso dei dettagli della scena considerata nella sua vivida
concretezza. Innanzitutto, ci vien raccontato che il DA, una volta riconosciuto il Signore
comunica a Simon Pietro la sua scoperta. Già questo fatto mi pare non indegno di nota.
Perché il DA si rivolge personalmente a Simon Pietro anziché a tutti gli altri discepoli? Non
viene detto. Ciò che invece viene detto è la reazione di Simone, il quale, “udito che era il
Signore”, d’impeto si getta in acqua, per raggiungere Gesù a nuoto.

95

56
Tralasciando per il momento l’intrigante (ed importante) soffermarsi dell’Evangelista su
questo Simone che, nonostante la concitazione del momento, prima di tuffarsi trova il tempo
di cingersi il camiciotto e cioè vestirsi (anziché spogliarsi, come di norma fa chi si tuffa in
mare!)96, non c’è dubbio che l’accento dominante del racconto cade qui sull’impeto
dell’affetto di Simone per il Signore: se infatti Giovanni si prende la briga di informarci che
(i) la barca non era distante che un centinaio di metri (21, 8-c: assai vicina a riva, dunque) e
che (ii) tutti gli altri discepoli rimasero invece sulla barca (21, 8-b), ciò è chiaramente per
dare tanto più risalto all’incontenibile impetuosità dell’affetto di Simone per il Suo amato
maestro: pur sapendo che tra pochi istanti la barca sarà a riva, Simone non riesce ad aspettare,
a trattenersi97.
Non è però finita qui. Un ultimo dettaglio merita attenta considerazione: in Gv 21, 8-b,
Giovanni ci informa che gli altri discepoli vennero con la barca “trascinando la rete piena di
pesci”. Il che significa: l’apparizione del Signore sulla riva ha il paradossale effetto di far
dimenticare momentaneamente a Simone tutto quanto – barca, rete e soprattutto i pesci frutto
di quella pesca di cui proprio lui, non lo si dimentichi, era stato il promotore (Gv 21, 3). Per
un attimo tutto passa in secondo piano, agli occhi del pescatore di Galilea: esiste solo il
Signore – il Signore ed il suo incontenibile desiderio di poter ancora una volta trovarsi davanti
a Lui faccia a faccia, per essere di nuovo, una volta ancora trafitto dal Suo sguardo. Che si
prendano “gli altri” cura della rete e dei pesci...
Comincia così ad affiorare, nel passare al senso profondo del testo, l’idea che Giovanni sta
sottilmente eppur chiaramente veicolando attraverso il racconto dello struggente episodio.
Abbiamo già detto che la pesca miracolosa è agli occhi dell’Evangelista come un simbolo
della missione ecclesiale, il che significa che i pesci a loro volta altro non sono che un
analogo di ciò che nel dialogo di Gv 21, 15-18 Gesù chiamerà i suoi agnelli (Gv 21, 15) o
pecorelle (Gv 21, 16, 17)98. Ecco allora il grande aiuto che Giovanni è per Pietro: il suo
compito è quello di rimettere continuamente Pietro, con la forza della sua voce profetica, in
96
A mio avviso, siamo qui di fronte ad un cristallino esempio di ungrammaticality giovannea. Con questo
termine, si suole indicare uno stratagemma letterario particolarmente amato dal quarto evangelista: zoomando su
un particolare della scena in apparenza fuori posto, il narratore intende ad un tempo avvisare il lettore della
presenza nel particolare medesimo di un enigma ed invogliarlo a scioglierlo. O lo spieghi qui? Quanto al senso
profondo del passo in questione, cfr. infra…
97
Spontaneamente sovvengono qui le parole di Riccardo di San Vittore: “Sapete bene che una cosa è parlare
dell’amore (aliud est loqui de caritate), altra cosa parlare della sua perfezione (aliud de eius consummatione). Sì,
una cosa è parlare dell’amore in quanto tale, un’altra della sua violenza (de eius violentia)” (De IV Gradibus
Violentiae Caritatis, I, 3). Una buona traduzione di questo gioiello della spiritualità medievale, con testo latino e
commento, si trova in: F. ZAMBON, (a cura di), Trattati d’amore cristiano del XII secolo, vol. II (Fondazione
Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori: Milano, 2008), pp. 473-531.
98
Se vi è differenza, essa sta nel fatto che i pesci sembrano stare per i neofiti, cioè i credenti in quanto convertiti
mediante l’azione evangelizzatrice dei discepoli, mentre pecore e agnelli paiono rappresentare i credenti in
quanto già membra della Chiesa e perciò oggetto della permanente cura pastorale di Pietro e degli apostoli.
57
presenza del Risorto, riaccendendo così nel cuore del pescatore leader, la fiamma di quel
puro, gratuito amore per il Signore che è per Cefa la più importante difesa contro la tentazione
cui inevitabilmente lo espone la natura stessa del suo compito: la tentazione della possessività
nei confronti delle pecore, la tentazione di attaccarsi ai pesci come fossero “roba sua”
(ricordiamo che senza la dritta di Gesù Simone e gli altri non avrebbero preso nulla! Gv 21, 5-
6). Solo se Pietro tiene lo sguardo fisso sul Signore (Gv 21, 15) potrà servire veramente il
gregge, cioè pascere le pecore come pecore non sue ma del Signore (Gv 21, 15.16.17). Solo
se egli non perde, nella foga del suo generoso fare per Gesù, il gusto del puro stare con e
davanti a Gesù - puro fino al punto da fargli lasciare senza neanche pensarci nelle mani di
altri tutto quanto: barca, pesci e reti; solo in tal caso può Pietro essere un buon pescatore – un
pescatore che vive la sua missione come risposta amorosa all’amore del Signore e perciò con
una leggerezza, una purità ed una gratuità di dedizione, che non solo lo liberano dalla
tentazione della possessività ma anche riempiono di gusto cento volte più grande (Mt 19, 29;
Mc 10, 29-30; Lc 18, 29, 30) il suo personale godere della relazione con pesci e pecorelle99.
Di qui l’importanza del profeta Giovanni: è inevitabile che chi è chiamato ad essere Cefa, cioè
a portare il peso del governo nella Chiesa, corra più facilmente il rischio di identificare
l’intera sostanza del proprio rapporto col Signore con il proprio fare per Lui - o ancora, per
dirla più in positivo, con il dovere di farsi carico dei molti e spesso gravi problemi che
affliggono la comunità ecclesiale. Non è ciò in qualche modo parte della croce di Pietro?
Ecco allora la grazia d’avere a fianco uno come il discepolo amato – uno cioè che proprio
perché ha come ufficio e carisma il rimanere con gli occhi fissi sul Signore, può aiutare Pietro
a rialzare continuamente lo sguardo, così da riaccorgersi con sorpresa della presenza del
Signore lì, di fronte a lui, e sentire nel cuore il riaccendersi dell’“antica fiamma” - quella
fiamma che nel “gettarlo” verso il Signore, dimentico d’ogni altra cosa, lo purifica e rigenera,
ridimensionando ogni altro peso e attaccamento100.
Un secondo rilievo si può fare in merito – rilievo che ci riporta a quanto già osservato al
paragrafo precedente (5-a). Che Simon Pietro riconosca Gesù attraverso la voce del DA,
99
È curioso notare, in questo senso, che la colazione-banchetto che ha luogo sulla riva sembra consistere sia del
pesce che Gesù già stava cucinando sul fuoco all’arrivo dei discepoli, sia del pesce pescato dai discepoli e
trascinato a riva dallo stesso Simone. Non è a mio avviso errato vedere in ciò un’allusione al fatto che ciò che
nutre e conforta i discepoli, non è solo il puro dono della presenza di Gesù – rappresentato dal pesce da egli
cucinato senza alcuna collaborazione dei suoi – ma anche il “dono nel dono” d’essere a loro volta resi da lui
capaci di portare frutto. Quando l’ordo amoris è rispettato, allora tutti i rapporti – direbbe don Giussani, sulla
scia del Gesù sinottico (Mt 19, 29 e parall.) – divengono un dono di cui si gode cento volte tanto.
100
È in questo senso suggestivo notare il fatto che il tuffarsi in acqua di Simone sia l’effetto collaterale, per così
dire, della sua incontenibile fretta di raggiungere il Signore, una volta compreso che l’uomo sulla riva è lui.
Quasi a dire: ciò che fa continuamente rinascere Pietro (immersione in acqua = battesimo), che rappresenta il
ministero, è il suo essere continuamente ri-sorpreso dalla presenza del Risorto. Giovanni, che rappresenta invece
l’elemento carismatico, offre in ciò a Pietro un aiuto indispensabile, sebbene certo non l’unico.
58
significa anche che egli accetta umilmente di passare attraverso la mediazione di un altro per
arrivare a Gesù – lui che pure è colui cui Gesù ha affidato il timone della Chiesa. Anche in
questo senso o per questa ragione, Giovanni alimenta in Pietro quella che potremmo chiamare
una postura verginale nel modo di esercitare la sua autorità. Che anche lui (Cefa!) abbia
bisogno di Giovanni per riconoscere la presenza del Risorto significa infatti: non è lui l’unico
e nemmeno il più efficace profeta nella Chiesa del Signore. Certo, la roccia su cui la Chiesa si
poggia e sempre si poggerà è la fede che trova in Pietro la sua pietra di paragone (Cfr. Gv 1,
43). Nondimeno, ciò non fa di lui né il più efficace evangelizzatore né il più carismatico tra i
discepoli del Signore.
Quale metanoia richieda sia l’accettare che il capire il senso di questo fatto, ce lo lascia intuire
nel modo più eloquente la già citata domanda finale di Simon Pietro a Gesù, al vedere il
discepolo che Gesù amava che li segue: “Signore, E lui?”. Come s’è già sottolineato, è Simon
Pietro il primo a sentire imbarazzo e si direbbe soggezione di fronte all’autorevolezza di
questo discepolo. Di qui la domanda - espressa in modo sufficientemente elusivo da includere
un po’ tutto: “anche lui dovrà obbedire a me? Oppure lui è esentato?” E ancora: “Come farò a
fare il capo, quando c’è uno come lui in giro”?
Emerge così da sé, senza bisogno d’alcuno sforzo, il terzo ed ultimo significato possibile della
sibillina contro-domanda con cui il Signore risponde a Simone (cfr. Gv 21, 22a) – quello la
cui trattazione s’era sopra rimandata: Giovanni rimane finché il Signore venga anche nel
senso che Pietro deve accettare ed anzi valorizzare la carismatica presenza di questo discepolo
che unico ha poggiato il capo sul petto del Signore - senza cedere alla tentazione di mettergli
la museruola o tarpargli le ali. Fino a che il Signore verrà (cioè finché dura il viaggio della
Chiesa attraverso il mare della storia), sempre vi saranno dei Giovanni cui il Signore
distribuisce liberamente doni e carismi più o meno grandi, senza chiedere a Pietro il permesso
e senza passare attraverso di lui. Pietro deve accettare questa perdurante presenza di Giovanni
al suo fianco senza discutere. Anzi, deve riconoscere in essa un dono fatto non solo alla
Chiesa ma anche a lui. Ciò, per ricapitolare quanto detto, perlomeno in un doppio senso:
primo, l’ascolto di Giovanni, nel rimettere Pietro davanti alla presenza del Risorto (Gv 21, 7a)
alimenta per ciò stesso la fiamma del suo amore per Lui (Gv 21, 7c) – amore dalla cui
intensità e purezza interamente dipende l’affinarsi in Simon Pietro di quella virtù che don
Giussani chiamerebbe verginità, e che applicata al nostro contesto significa: vedere e trattare
agnelli e pecorelle non appena come non propri (momento negativo dell’amore verginale),
bensì come appartenenti a Colui che si ama sopra ogni cosa e perciò come ardentemente
amati (lato positivo dell’amore verginale). È suggestivo, in questa prospettiva, notare come tra

59
le possibili interpretazioni della prima delle tre famose domande fatte da Gesù a Pietro in Gv
21, 15b, ve n’è una che permette di vedere in questo scambio un vero e proprio parallelo in
forma verbale-dialogica, di quanto la scena del tuffo mostra in forma drammatica:

Dopo che ebbero mangiato, disse Gesù a Simon Pietro:

“Simone di Giovanni, mi ami tu più di questi (plèon touton = più di costoro / più
di queste cose: double entendre)?

Sì Signore, tu lo sai che ti voglio bene”.

Gli disse: “Pasci i miei agnelli”.


Se è vero che tra le interpretazioni possibili dell’ambigua domanda di Gesù (b) la lezione da
preferirsi è di gran lunga quella che considera touton un genitivo soggettivo di genere
maschile (= mi ami tu più di [quanto mi amino] costoro?)101, è vero anche che l’ambiguità
potrebbe essere (e a nostro avviso deve essere letta come) ancora una volta intenzionale, visto
l’amore del nostro per il double entendre. Orbene, se si legge tòuton (= di questi) non come
genitivo soggettivo maschile bensì come genitivo oggettivo neutro ( = mi ami tu più di quanto
ami queste cose – cioè barca, reti, pesci, etc.?), quel che viene a galla è uno scambio che
sembra la perfetta spiegazione in parole del paradosso illustrato drammaticamente nella scena
del tuffo: come Pietro deve amare Gesù più di barca e reti, per essere un buon pescatore, così
egli deve amare Gesù più di agnelli e pecore, per essere un buon pastore, cioè per amare
veramente agnelli e pecore.

In secondo luogo, il DA è per Pietro aiuto a vivere con verginità il suo compito anche nel
senso che, nel lasciare a Giovanni “lo spazio” per dire la sua, egli è aiutato a custodire in se la
vigile coscienza che le pecore non sono sue ma del Signore (Gv 21, 7). Come ogni pastore
ben sa, un conto è dire a se stessi: “io so bene che le pecore non mi appartengono!” - un altro
è fare esperienza di questa “nota verità” attraverso il fatto che il Signore si prende cura di
quelle stesse pecore che egli ci affida in custodia, non solo attraverso il nostro agire e parlare,
ma anche attraverso quello di altri, magari dotati dal Signore di doni di grazia più grandi dei
propri. Accettare di buon grado questo fatto – la domanda di Simon Pietro è lì a rendercene
realisticamente consapevoli – non è facile. Può richiedere e di fatto spesso richiede di passare
attraverso una certa lotta col proprio ego. Ma il frutto di questa lotta è un guadagno – se

101
Si veda, per esempio, R. INFANTE, Giovanni. Introduzione, note e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo,
2015, 476, nota filologica ad loc.
60
guadagno è l’acquisizione d’uno sguardo e perciò d’una passione sempre più gratuita e
sincera (verginale, appunto) per il bene del gregge medesimo:

citare Agostino…

Vi è un rovescio ancor più positivo di questa stessa medaglia, ma poiché esso ha a che fare
con il significato più profondo della relazione Pietro-Giovanni, che ci siamo ripromessi di
trattare per ultimo, vi torneremo in conclusione. Dobbiamo ora passare al secondo tema, nel
quale entreremo prendendo le mosse dalla seconda e di norma privilegiata interpretazione di
Gv 21, 15a.

5.c. Mi ami tu più di costoro?


Come accennato, la lezione di gran lunga maggioritaria di Gv 21, 15a, è quella che scorge
nella domanda di Gesù l’intenzione di stabilire una sorta di confronto tra l’amore di Simone
per il maestro e quello che a lui portano gli altri discepoli:

“Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? (plèon touton = più di quanto


questi altri mi amino?)
L’inconveniente di questa lettura, è che ad un primo impatto essa sembra presentarci un Gesù
che, diversamente dal Gesù dei sinottici (…) non solo non cerca di mitigare ma al contrario
stimola la competizione tra i discepoli. L’effetto cacofonico viene però meno non appena si
legga la domanda, come abbiamo visto essere sempre raccomandabile nel leggere Giovanni,
sullo sfondo e alla luce d’un altro importante passo con cui già abbiamo avuto a che fare:

[33] Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho gia
detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. (…)

[36] Simon Pietro gli dice: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io
vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». [37] Pietro disse:
«Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!».
In realtà, era stato Simone il primo a rivendicare neanche troppo implicitamente la superiorità
del suo amore per il Signore, quando s’era dichiarato pronto a seguirlo fin là dove Gesù aveva
detto al gruppo dei discepoli (13, 33) che nessuno di loro poteva andare – fino a dare la vita
per lui (13, 37b). Letta in questa luce, la domanda di Gesù

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1. Umiltà e verginità: servitore della gioia – non padrone della fede. L’umiltà è fondamentale
protezione da un atteggiamento clericale (so tutto io e tu ascolti e basta)
2. Umiltà e senso della sproporzione: aiuto a vivere la radicalità della fede.
3. Dall’umiltà, la libertà dal timore o audacia

Dall’umiltà la fede pura – una fede più radicale, un abbandono totale…io da me non sono
nulla, ma allora mi getto in te, mi abbandono a te.

“Mi ami tu più di costoro?” Si ma anche no! Se Simone avesse anche solo un minimo
pretesto per pensare di essere stato scelto come capo perché il più intelligente, il più
carismatico, il più profondo, quello che ha capito di più e meglio il Maestro, rischierebbe di
diventare facilmente il contrario di quel che deve essere. Cioè, non il padrone della fede dei
discepoli bensì il servitore rispettoso e umile del suo fiorire. Del fiorire dei doni di Grazia che
il Signore dà a chi vuole, all’ultimo dei pescatori.
È commovente in questo senso che la risposta di Simone è un sì tanto certo quanto umile.
Qui ci sarebbe da parlare per ore del cambiamento, della trasformazione che è l’esperienza
della Misericordia, cioè della Pasqua. Questa metanoia ottenuta in Pietro. Ecco perché è
diverso, non perché Pietro prima era un pasticcione e non lo era più dopo, ma perché c’è stato
un cambiamento in lui. Infatti Gesù gli ha detto: “Mi seguirai più tardi”, capirai più tardi,
adesso non capisci. Ha capito poi. Ha capito che cosa? Ha capito che la scelta di Gesù non si
fonda sulle sue doti, sui suoi talenti e doni, è gratuita: ti ho scelto perché ti ho scelto. Cioè
immeritata e immeritabile che è il carattere del ministero, perché quando tu dici la Messa fai
qualcosa che è impossibile all’uomo, è proprio la natura, così come è impossibile per gli
uomini essere infallibili ex cattedra. E’ pura Grazia.
Ti ho scelto non per le tua doti e talenti, che pure puoi avere, e certamente Pietro ne avrà
avuti, c’è anche questo, intendiamoci, ma la scelta è gratuità, cioè immeritata e immeritabile.
Di più, ha capito ormai che in realtà proprio l’arrendersi a questa gratuità del Signore,
infondata, immeritata, ha come frutto in lui lo sprigionarsi di una dedizione finalmente pura,
totale, senza complessi. Non è vero nella nostra vita che è quando ricevi un premio
immeritato, è proprio lì che ti dai in risposta senza calcoli. E’ quando ti senti indegno che tu
diventi più potente, senza complessi, senza più l’ansia di essere all’altezza. E perciò efficace,
costruttivo, edificatore.
È dall’umiltà di un cuore che si sente indegno di essere scelto che inevitabilmente scaturisce
un io perfetto per essere scelto. (Questo qui è l’esperienza di ?San Paolo, no? Infatti io faccio
sempre l’omelia dei Santi Pietro e Paolo, le due colonne della Chiesa di Roma, uno il
rinnegatore e l’altro il persecutore.)
È dall’umiltà di un cuore che si sente indegno di essere scelto che inevitabilmente scaturisce
un io perfetto per essere scelto, adatto a un compito, un buon pastore.

a. Aiuto all’umiltà: Pietro e Giovanni sono l’uno per l’altro richiamo alla propria non autosufficienza,
al proprio non essere un nuovo Gesù, al proprio dipendere dall’infinitamente più grande di sè (vedi
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audio). Icona di Simone che lascia cadere la seconda parte della prima domanda di Gesù: mi ami tu
più di costoro? Pietro sa bene di non amare Gesù più di Giovanni (e gli brucia saperlo), perciò
risponde con un sì tanto entusiasta quanto umile. Non dice, si, ti amo “più degli altri”, so che mi hai
scelto perché sono il migliore, quello che ti ama più perfettamente e ti capisce meglio. L’opposto è
vero. La sua risposta significa, so che mi hai scelto nonostante sia indegno. Ma so anche che questo
non conta, anzi il fatto che mi hai scelto nonostante la mia indegnità mi fa rispondere con un sì
ancora più forte, vero e puro, perché mosso soltanto dalla gratitudine per una scelta immeritata. Il
sentimento di indegnità del dono ricevuto, rende Pietro da una parte più aperto a dipendere
radicalmente dalla grazia del Signore (vedi finale) dall’altra umilmente aperto a ricevere il
contributo di Giovanni e degli altri.

Il tema della conoscenza intima che Gesù ha del cuore di Simone attraversa a ben guardare la versione giovannea
della Simon’s story dall’inizio alla fine. Vero punto culminante del motivo è senza dubbio il famoso triplice “sì”
di Simone all’insistente domanda del Signore: “mi ami tu?” (Gv 21, 15-17). Come noto, a ciascuna delle
domande di Gesù, Simone non risponde semplicemente “sì, ti voglio bene”, bensì: “sì, tu lo sai che ti voglio
bene”, dove non deve sfuggire la variazione in crescendo contenuta nella terza e conclusiva risposta: “tu sai
tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21, 17c). Il crescendo è chiaramente da comprendersi alla luce di quanto
Giovanni ci ha appena raccontato e cioè della tristezza che ha assalito Simone a causa della triplicazione della
domanda da parte di Gesù (Gv 21, 17b): ormai esasperato, Simone sembra voler “porre a fine” alla questione
proprio appellandosi alla totale conoscenza che Gesù ha di lui e d’ogni cosa. Orbene, vista la capitale importanza
dell’intertestualità nel IV vangelo (il che vuol dire: Giovanni intesse nel suo testo una fittissima rete di rimandi
che collegano i diversi passaggi del vangelo l’uno all’altro), non si può non sentire in questo martellare di Simon
Pietro sulla conoscenza che del suo cuore ha Gesù il “rimbombo”, per così dire, di entrambi gli eventi nei quali
aveva saggiato l’intima conoscenza che il Signore aveva di lui: alludo ovviamente non solo al primo incontro,
ma anche e soprattutto alla predizione del triplice rinnegamento (Gv 13, 38). È certamente vero, come sempre
sottolinea don Giussani nei suoi famosi commenti al sì di Pietro, che Gesù non rinfaccia a Simone il suo
tradimento. Tuttavia è altrettanto vero (come peraltro lo stesso Giussani ama sottolineare) che il ricordo del
triplice rinnegamento aleggia chiaramente sullo sfondo del dialogo, a mo’ di “elefante nella stanza” (si noti che
Simone si rattrista proprio quando Gesù gli fa la domanda per la terza volta). Perché dunque appellarsi così
ostinatamente alla perfetta conoscenza che Gesù ha del suo cuore, se proprio questa conoscenza s’associa
proprio al ricordo del più grande fallimento di Simone nel dimostrare al Signore il Suo amore? A questa
domanda, per ragioni che non posso qui dettagliare, si deve rispondere: dicendo “tu lo sai” è come se Simone si
prendesse la libertà e quasi la soddisfazione (non sta proprio in questo passaggio dalla paura del servo
all’audacia dell’amico la novità del vangelo? cfr. Gv 15, 15) di usare ironicamente a proprio favore il ricordo di
ciò che, secondo la logica della “antica” morale, dovrebbe essere invece motivo di confusione ed impaccio: “sì, –
è come se Simone dicesse: lo sappiamo bene entrambi quel che ho fatto. E sappiamo bene anche che tu lo avevi
predetto, perché sapevi e sai di me molto di più di quanto io stesso sapessi e so. Ma appunto: se così stanno le
cose, allora sai anche- e non fare finta di non saperlo! – quanto ti voglio bene…”. L’audacia (parresìa o libertà di
parola) di Simone, starebbe qui dunque nel rigirare a suo vantaggio (una volta tanto è lui ha prendersi giuoco del
Signore!) l’insinuazione di Gesù, trasformandola in occasione per “cantare” la nuova libertà d’animo che lo
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squadernarsi dell’amore pasquale Signore gli ha ottenuto. Faccio notare che questa interpretazione del triplice
“tu lo sai” di Simone, se accolta come valida, andrebbe a rafforzare e confermare la grande intuizione
giussaniana secondo cui nel “sì” di Pietro si esprime in tutta la sua radicalità il passaggio dalla morale della
legge, in cui l’io si misura sulla propria coerenza e perciò vive schiavo della paura di cadere (cfr. Rm 8, 14), alla
“nuova morale” che nasce dalla fede - morale nella quale l’io, sapendosi inesauribilmente amato e perdonato
(addirittura in anticipo: cfr. Gv 13, 39), è liberato dalla paura di sbagliare ed è perciò ormai mosso, nella sua
tensione al bene, dal gratuito desiderio di rispondere all’amore con l’amore

Il finale è l’unica scena in tutto il vangelo in cui incontriamo Pietro più vicino a Gesù del DA!! C ’è
come un rispetto, da parte del DA, dell’intimità di questo rapporto – c’è qualcosa tra Simon Pietro e
Gesù cui egli non ha accesso – egli segue da una certa distanza. Anche lui, dunque – che pure è colui
che ha riposato sul petto di Gesù – deve rispettare il mistero di questa nuova relazione che s’è stabilità
tra il Signore e Pietro, anch’egli d’ora innanzi seguirà Gesù seguendo Pietro (le due cose
coincideranno).

relazione al Signore (umiltà: nessun discepolo è autosufficiente o sempre infallibile) che in


relazione al popolo di Dio che si è chiamati a servire (verginità o castità spirituale: il gregge
non è il mio gregge)

Per Giovanni?? Riprendere gli appunti – 1. segue da lungi: rispetto del primato; 2. Anche per Giovanni
c’è il rischio di superbia, di ripiegamento – non solo clericalismo dei chierici, c’è anche il clericalismo
dei carismatici,

Partecipi di quale gloria?

Terzo: sarete beati… (dono di una occasione di imitazione del Signore)


Insistere sull’intreccio di maestà e umiltà nella lavanda…
Innalzamento… (petrino): i due lati, ricettivo e oblativo della gloria…

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Simon Pietro e il Discepolo Amato in Gv 1-20

1. Gv 1, 37-42: il primo incontro

37]E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. [38]Gesù allora si voltò e, vedendo che
lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti
(rimani)?». [39] Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove stava (rimaneva) e
quel giorno rimasero presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. [40] Uno dei due che
avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon
Pietro. [41]Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che
significa il Cristo)» [42]e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei
Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)».

2. Gv 6, 67-68: la confessione di Pietro

[67]Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». [68] Gli rispose Simon Pietro:
«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; [69] noi abbiamo creduto e conosciuto che
tu sei il Santo di Dio».

3. Gv 13, 1-10: 21 ss.: primo trittico petrino

- Gesù annuncia ai suoi l’arrivo della Sua ora ma Simone non capisce nulla.
a) Gv 13, 1-10: la lavanda dei piedi (Gesù e Simon Pietro).
-Gesù fa un gesto bizzarro, Pietro non capisce ed ha un moto di resistenza; Gesù lo redarguisce.

Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di
tradirlo, [3] Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio
ritornava, [4] si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. [5]
Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con
l'asciugatoio di cui si era cinto. [6] Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi
i piedi a me?».  [7] Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai
dopo».  [8] Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò,
non avrai parte con me».  [9] Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il
capo!».  [10] Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto
mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». 

b) Gv 13, 21-30: Gesù annuncia e permette il suo tradimento (Gesù, Discepolo amato, Simon Pietro).
- Simone cerca di sapere il nome del traditore ma ha bisogno della mediazione del DA, che si trova
più vicino a Gesù.

[21] Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno
di voi mi tradirà». [22] I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. [23] Ora
uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola presso il seno (en to kolpo: cfr. 1, 18) di
Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». [25] Ed egli
lasciandosi cadere sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?».   [26] Rispose allora Gesù: «E' colui
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per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda
Iscariota, figlio di Simone.  [27] E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse:
«Quello che devi fare fallo al più presto». [28] Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto
questo; [29] alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra
quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri.  [30] Preso il
boccone, egli subito uscì. Ed era notte.

c) Gv 13, 33.36-38: Addio e profezia del rinnegamento di Simon Pietro (Gesù, Simon Pietro)
- Simone si dichiara pronto a seguire Gesù, nonostante Gesù abbia detto che ciò per ora non è
possibile. Gesù predice a Simone l’imminente rinnegamento.

[33] Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho gia detto ai Giudei, lo dico
ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. (…)

[36] Simon Pietro gli dice: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado per ora tu non puoi
seguirmi; mi seguirai più tardi».  [37] Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la
mia vita per te!».  [38] Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non
canterà il gallo, prima che tu non m'abbia rinnegato tre volte»

4. Gv 18, 1-11; 15-18: secondo trittico petrino

- Quanto profetizzato in Gv 13 si adempie.


a) 18, 1-11: Arresto di Gesù (Gesù, Simon Pietro).
- Gesù fa un gesto bizzarro, Simon Pietro non capisce ed ha un moto di resistenza; Gesù lo
rimprovera).

[1] Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c'era un giardino
nel quale entrò con i suoi discepoli. [2] Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù
vi si ritirava spesso con i suoi discepoli. [3] Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle
guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi. [4] Gesù allora,
conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».  [5] Gli
risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il
traditore. [6] Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. [7] Domandò loro di nuovo:
«Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». [8] Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque
cercate me, lasciate che questi se ne vadano». [9] Perché s'adempisse la parola che egli aveva detto:
«Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». [10] Allora Simon Pietro, che aveva una spada,
la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si
chiamava Malco.  [11]Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse
bere il calice che il Padre mi ha dato?».

b) Gv, 18, 15-16 (Gesù, Simon Pietro, Discepolo Amato o “altro discepolo”)
- Simone cerca di accedere al cortile dove stanno processando Gesù, ma ha bisogno dell ’aiuto del
DA per riuscirvi

[15] Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era
conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; [16] Pietro
invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò
fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro.

c) Simon Pietro rinnega Gesù (senza nemmeno accorgersi?) (Simon Pietro, altro discepolo,
portinaia).

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- La portinaia, dicendo ‘anche tu’, dimostra di essere a conoscenza del fatto che il DA, che le ha
appena chiesto di lasciar passare Pietro, è un discepolo di Gesù.

[17] E la giovane portinaia disse a Pietro: «Forse anche tu sei dei discepoli di quest'uomo?». Egli
rispose: «Non lo sono». [18] Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva
freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.

6. Gv 19, 25-27: il DA assiste ai piedi della croce alla morte di Gesù


- Gesù affida sua madre al DA, dopo aver annunciato che d’ora in avanti ella sarà sua madre.
Gv 19, 25-27: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e
Maria di Màgdala. [26] Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava,
disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27] Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da
quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

7. Gv 19, 35: Il DA rivendica la veridicità del suo resoconto della morte di Gesù
- Stando al suo racconto, egli è in effetti l’unico tra i discepoli maschi del Signore che possa
vantarsi d’essere testimone oculare dell’evento.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche
voi crediate.

8. Gv 20, 1-10: Pietro e il DA corrono al sepolcro vuoto


- Il DA arriva prima, ma lascia entrare prima Pietro. Benché egli entri per secondo, solo di
lui si dice che vide e credette.

1]Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora
buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. [2]Corse allora e andò da Simon Pietro e
dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e
non sappiamo dove l'hanno posto!». [3]Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si
recarono al sepolcro. [4] Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro
e giunse per primo al sepolcro.  [5]Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.   [6] Giunse
intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,   [7]e il
sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a
parte.  [8]Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e
credette. [9] Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai
morti. [10] I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.

Gv 21: Ultima apparizione del Signore sulla sponda del lago di


Tiberiade

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A: La pesca miracolosa: Simone e il Discepolo Amato “in azione”

[1]Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò
così: [2]si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i
figli di Zebedèo e altri due discepoli. [3] Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero:
«Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero
nulla. [4]Quando gia era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era
Gesù. [5]Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». [6]Allora
disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più
tirarla su per la gran quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «E' il
Signore!». Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era
spogliato, e si gettò in mare. [8] Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete
piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.

A.1: Il pasto sulla riva

Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù:
«Portate un pò del pesce che avete preso or ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a
terra la rete piena di centocinquantatrè grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si
spezzò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?»,
poiché sapevano bene che era il Signore. Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così
pure il pesce. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai
morti.

B: L’investitura: Simone diviene Pietro

Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di
costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei
agnelli». [16] Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore,
tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». [17] Gli disse per la terza volta:
«Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi
vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le
mie pecorelle. [18] In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e
andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti
porterà dove tu non vuoi». [19]Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato
Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

B.1: Dialogo sul destino del Discepolo Amato

Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava , quello che nella cena si
era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?».   [21] Pietro
dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?».  [22] Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga
finché io venga, che importa a te? Tu seguimi».  Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel
discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio
che rimanga finché io venga, che importa a te?».

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