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La Radicalità della fede

Gli ostacoli che incontrano


la fede, il celibato, il ministero

Carlo Maria Martini *

PRESENTAZIONE

La radicalità della fede è frutto di quattro incontri che l’Arcivescovo di Milano ha


avuto con i seminaristi del II anno di teologia, quindi con dei giovani che si stanno
preparando all’ordinazione presbiterale e che però già collaborano pastoralmente con i preti
di alcune parrocchie della Diocesi.
Il gruppo di questi seminaristi è stato denominato Ora decima, per indicare che lo stile
degli incontri voleva riferirsi idealmente a quello descritto dal vangelo secondo Giovanni,
nel 1° capitolo; i primi discepoli di Gesù, nel desiderio di conoscerlo e di seguirlo, si
fermarono presso di lui. Uno stile dunque di familiarità, di conversazione amicale, di
ascolto, di dialogo, di preghiera.
Le riflessioni, sul tema fede-celibato-ministero, hanno avuto come oggetto i diversi
ostacoli all’appropriazione esistenziale, cordiale, di questi valori. Sono infatti molti i giovani
che si trovano in difficoltà nel comprendere le vere implicazioni della fede; nel capire il
celibato come dedizione definitiva, totale, del corpo e del cuore, a Dio per il servizio dei
fratelli; nel guardare al presbiterato con fiducia e con gioia.
L’Arcivescovo, partendo sempre da pagine bibliche, ha sapientemente illustrato gli
aspetti difficili del cammino verso la fede matura e le sue parole evidenziano tutta l’espe-
rienza del pastore che sa ascoltare e capire i preti e la gente.
Leggendo queste pagine ci si accorge che possono essere utili non soltanto a coloro che
vivono o si preparano a vivere il ministero ordinato, ma a tutti i cristiani. Perché le
condizioni esigenti per seguire Gesù sono la via verso quella pienezza dell’amore nel quale
si riassume il messaggio dell’Evangelo. Ed è proprio questo amore, che giunge fino al dono
della vita, che potrà fare dei cristiani i testimoni autentici e credibili della presenza di Dio
nella storia, e dell’azione del suo Spirito anche nel nostro tempo.

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* Piemme, Casale Monferrato 1991.


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INTRODUZIONE

Perché l’Ora decima?


L’iniziativa di questi quattro incontri è nata dal desiderio di conoscerci reciprocamente
e di vivere un’esperienza di comunione, di comunicazione nella fede, di scambio.
Come alunni del secondo anno di teologia, infatti, voi rappresentate un momento
emblematico della vita del seminario.
Abbiamo chiamato il nostro gruppo Ora decima volendo fare riferimento al capitolo 1
del vangelo secondo Giovanni. Giovanni Battista si trovava con due dei suoi discepoli e
vedendo Gesù che passava disse: «“Ecco l’agnello di Dio!”. E i due discepoli, sentendolo
parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che
cercate?”. Gli risposero: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?”. Disse loro: “Venite e
vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui;
erano circa le quattro del pomeriggio”» (Gv 1,37-39). La Bibbia di Gerusalemme annota:
«le quattro del pomeriggio: alla lettera “l’ora decima”».
Lo spirito del nostro trovarci insieme vuole appunto essere quello di fermarsi, presso il
Signore anzitutto e poi gli uni presso gli altri.

Le regole
Per compiere questo cammino insieme occorre però rispettare alcune regole.

1. Sentirsi sotto lo sguardo di Dio, alla sua presenza, in compagnia di Gesù. Non basta
quindi attendere alla preghiera come sforzo personale, ma bisogna lasciarsi guardare dal
Signore, contemplarlo, ascoltarlo, cercare il suo volto, nella certezza di essere da lui amati.

2. Bandire dai nostri cuori ogni ansietà di trarre qualche profitto per risolvere
particolari preoccupazioni dell’oggi o per rispondere a domande sul futuro. In caso contrario
non porteremo alcun frutto. Vi invito dunque a impegnarvi seriamente per raggiungere uno
stato di serenità e per rimanere nella quiete.

3. Per non dimenticare lo scopo che ci proponiamo, dobbiamo pregare la Madonna, e


vi suggerisco di recitare ogni giorno un’Ave Maria, affinché ella ci ottenga la grazia di
interiorizzare i doni di Dio, di passare – come vedremo – dall’assenso nozionale all’assenso
reale sui temi che tratteremo.
Tutte e tre queste regole sono importanti.

Il tema
Dopo averci pensato a lungo, ho scelto di riflettere, nei nostri incontri, sul trinomio
fede-celibato-ministero.
E sottolineo subito che non intendo approfondire gli aspetti propositivi, positivi,
didascalici di tale tema, che sono oggetto delle trattazioni teologiche e che voi già conoscete
o state studiando. Considererò, piuttosto, gli aspetti negativi che offuscano una visione
adeguata dei tre elementi (fede, celibato, ministero) e della loro connessione.
In altre parole, rifletteremo sulla fatica della appropriazione di questi valori.
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L’appropriazione
1. Appropriazione significa «fare proprio» un oggetto. In senso morale e spirituale,
vuole dire fare diventare propria un’idea, un ideale, uno stile di vita; partire da una proposta
estrinseca e giungere a renderla mia, a fare in modo che nasca da me.
È interessante notare che il vocabolo latino proprius, da cui deriva appropriazione
(termine usato anche in filosofìa, ma soprattutto in psicologia), non è il comparativo di
prope (più vicino a me). Sembra invece venire dall’espressione giuridica latina pro privo,
cioè per uso privato, per uso mio.
Proprius indica allora ciò che mi appartiene, che mi riguarda direttamente e
personalmente; nel linguaggio corrente si dice anche: «far mia una cosa».

Ci sono altri sinonimi di “appropriazione”. John Henry Newman, per esempio, parla di
“realizzazione”, termine che usa molto in un’opera della sua maturità spirituale, filosofica e
teologica: La grammatica dell’assenso, scritta nel 1870, all’età di 69 anni.
Nel capitolo IV, intitolato «Assenso nozionale e assenso reale», egli cerca di definire le
due qualifiche dell’assenso e poi spiega come la “realizzazione” sia appunto il passaggio dal
nozionale al reale.
Non potendo fermarmi a lungo sulla teoria di Newman, peraltro ben nota, mi limito a
ricordare un passo molto bello, dove egli esemplifica la “realizzazione” nella vicenda
drammatica del patriarca Giobbe, mettendo a confronto il suo atteggiamento verso Dio prima
e dopo la durissima prova.
Già prima – egli scrive – Giobbe intuiva rettamente gli attributi divini; aveva un
assenso nozionale corretto della giustizia, della verità, della santità, della bontà, della
misericordia di Dio. Tuttavia le prove hanno trasformato tale intuizione in assenso reale:

«Io ti conoscevo per sentito dire,


ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento
sopra polvere e cenere» (Gb 42, 5-6).

La conoscenza “per sentito dire” è l’assenso nozionale, della mente, assai diverso da
quel “vedere degli occhi”, che corrisponde all’assenso reale, del cuore.
Richiamo qualche altro sinonimo di “appropriazione”. Si può parlare di “percezione
esistenziale”, a indicare che quando ho fatta mia un’idea, un concetto di Dio, non ho più
bisogno che mi venga imposto dall’esterno, non devo più ricordarlo attraverso la memoria.
Oppure si può parlare di “coscientizzazione” o, ancora, di “integrazione personale”.

2. Emerge la domanda cruciale: a che cosa è dovuta la distanza tra assenso nozionale e
assenso reale?
Anzitutto voglio osservare che l’assenso nozionale non è sbagliato e, per esempio,
nelle verità matematiche è più che sufficiente; capisco un teorema con assenso nozionale e
questo mi basta.
La distanza appare quando si tratta di verità religiose, morali, spirituali, di verità che
riguardano l’ambito dell’esistenza, dell’amore, della gioia, della vita e della morte.
E richiamo almeno due motivi che spiegano tale distanza.

– Il primo è dovuto al fatto che il cammino dell’appropriazione di verità profonde è


assai lungo.
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Mentre un teorema matematico lo si può capire in pochissimo tempo, talora subito,


l’assenso reale è frutto di un itinerario di crescita che passa (come insiste Newman)
attraverso varie prove. Solo così la persona cresce, matura verso assensi reali profondi.
Secondo alcuni grandi psicologi dell’evoluzione umana, l’uomo raggiunge una fede
religiosa genuina e fa sua in maniera propriamente personale la religione che ha ereditato,
intorno ai trent’anni.
A mio avviso, però, è più esatto dire che l’uomo può giungere a integrare la verità
religiosa cristiana nella pienezza della sua personalità; perché molte persone non
interiorizzano mai la fede. Il cammino dell’appropriazione non è solo lungo, ma spesso
avviene in maniera solo embrionale, non quindi automaticamente e non sempre. Inoltre, più
che «intorno ai trent’anni», io direi tra i trenta e i quarant’anni.
Credere che Dio esiste, che è buono e mi chiama, che la fede è un valore che richiede
la vita, che il celibato per il Regno è un valore valido proposto da Cristo a me, che il
ministero è un servizio importante che determina la mia esistenza; tutto questo può essere
frutto di assenso nozionale. Diviene assenso reale attraverso un faticoso e lento processo di
autotrascendenza personale.
La distanza tra i due modi di assenso è dunque motivata dalla necessità di un tempo di
maturazione umana.

– Il secondo motivo, collegato con il primo, è dovuto al fatto che numerosi ostacoli
impediscono l’“appropriazione”.
Ostacoli dell’ambiente spesso sfavorevole; ostacoli costituiti da abitudini personali
cattive oppure semplicemente da pigrizia (non voglia di ragionare, di riflettere su se stesso,
non voglia di compiere la fatica di elaborare il concetto); ostacoli dell’inconscio, per cui una
persona sa parlare benissimo, è capace di esporre le verità con chiarezza, ma a un certo punto
si accorge che sta recitando, che ripete concetti imparati a memoria e che però non ha
penetrato, non ha interiorizzato.
Tutti questi ostacoli sono particolarmente insidiosi per i grandi temi (come la fede, il
celibato, il ministero) che comportano una dedizione esistenziale piena, perché rimettono
continuamente in questione la scelta facendo in modo che non coinvolga totalmente la
coscienza.

Lo stile dell’Ora decima


Nei nostri incontri metteremo perciò a fuoco le difficoltà dell’appropriazione
riflettendo sui blocchi comunicativi. Il processo di passaggio dall’esterno all’interno,
dall’assenso nozionale a quello reale, è infatti un problema di comunicazione e di
assimilazione.
Parleremo dei blocchi comunicativi esistenti a proposito del celibato, sia in sé che nei
suoi rapporti con fede e ministero, esaminando anche il controfenomeno del riaprirsi
tumultuoso dei canali comunicativi in qualche periodo successivo della vita, con esiti
apparentemente incontenibili e selvaggi.
Perché, quando queste scelte controcorrente – fede cristiana, celibato, ministero ordi-
nato – non sono state profondamente assimilate e, anzi, si sono tollerati fenomeni inconsci di
rigetto senza averli esorcizzati e analizzati, a un certo punto tali fenomeni riprendono il
sopravvento dando luogo a manifestazioni imprevedibili.
Lo stile dei nostri incontri vorrebbe essere, perciò, simile a quello della cosiddetta
Cattedra dei non credenti, che abbiamo tenuto nella nostra Diocesi durante gli anni scorsi.
Dovremmo dare voce al credente che è in noi e, insieme, al non credente che è in noi e che
sempre si ribella, resiste, accumula obiezioni alla radicalità della fede, alla proposta
celibataria, alle esigenze di totalità del ministero, proprio a livello di assenso reale.
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Ritengo estremamente importante dare voce a tutto questo prendendone coscienza.


Dare voce, naturalmente in un’atmosfera di raccoglimento e di preghiera, alle obiezioni e
alle resistenze palesi o sorde che abbiamo dentro, perché siamo uomini di questo mondo, di
questo secolo, anche se battezzati e cresimati, e partecipiamo ancora alla condizione di figli
delle tenebre, nel senso che le tenebre non hanno perso per nulla la speranza di ringhiottirci;
perché siamo ancora legati alla terrenità e alla mondanità e arriveremo alla vittoria definitiva,
alla pace soltanto quando il Regno sarà svelato, quando vedremo Dio e lo conosceremo così
come egli ci conosce. Fino ad allora noi saremo sempre in lotta.
Ovviamente, non intendiamo entrare nei meandri della psicoanalisi (che talora è
persino controproducente), bensì renderci conto di quegli ostacoli a un’assimilazione reale
dei valori religiosi, che trovano, a livello cosciente, il nostro assenso.

Il metodo
Sono molti i testi biblici che possono aiutarci nella riflessione e vanno dall’Antico
Testamento (Genesi, Cantico dei Cantici) al Nuovo (i quattro vangeli e le Lettere di san
Paolo). Ne sceglierò, volta per volta, alcuni tra i tanti:
nel primo incontro, partendo da una pagina evangelica, parleremo della radicalità della
donazione esigita dalla fede;
nel secondo, ci soffermeremo sul tema della castità per considerare ciò che ne oscura la
percezione reale;
nel terzo, mediteremo più direttamente sul celibato per il Regno;
infine, nel quarto incontro vedremo il rapporto tra celibato e ministero.
Ogni giornata prevederà tre momenti: anzitutto la mia esposizione del tema; quindi la
riflessione personale, che potrebbe opportunamente snodarsi come adorazione; poi un
raduno comunitario, che io stesso guiderò, per impegnarci nella conversazione e nella
comunicazione della e nella fede.

“Ti ringraziamo, Signore Gesù, perché sei presente in mezzo a noi e ti chiediamo di
aprire i nostri occhi e il nostro cuore per riconoscere ciò che siamo e quali ostacoli si
frappongono nel cammino verso l’esperienza profonda di te e del tuo mistero d’amore.
Maria, madre di Gesù e madre nostra, aiutaci a interiorizzare i doni di Dio così come hai
saputo interiorizzarli tu nell’ascolto della Parola e nella docilità piena all’azione dello
Spirito santo”.
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1.
LA RADICALITÀ DELLA FEDE

Premessa
Non c’è percezione corretta di alcun dono cristiano, tanto meno del dono del celibato
per il Regno e del ministero come dedizione totale, se non nel quadro di una percezione
corretta della radicalità della fede, dell’impegno battesimale di seguire Cristo Gesù.
Il passaggio quindi da un assenso nozionale alla radicalità della fede (che si suppone di
avere quando si professa il “Credo” cristiano) a un assenso reale verso ciò che essa
comporta, è certamente la prima grazia da chiedere.
Per riflettere sugli ostacoli che incontra il nostro cammino verso tale assenso reale alla
radicalità della fede, tema specifico di questa meditazione, rileggiamo un brano del vangelo
secondo Luca, al capitolo 9, dove troviamo tre esempi di mancato assenso:
«Mentre andavano per la strada, un tale disse a Gesù: “Ti seguirò dovunque tu vada”.
Gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose:
“Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i
morti seppelliscano i loro morti: tu va’ e annunzia il regno di Dio”». Un altro disse: “Ti
seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose:
“Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”»
(Lc 9,57-62).
Preghiamo il Signore dicendo:
“Tu che hai pronunciato queste parole che mi appaiono dure, esigenti, donami di
comprendere l’amore con cui le hai dette, la forza potente di carità che te le ha ispirate per
me, qui e adesso. Aiutami a capire le tue intenzioni, i tuoi desideri su di me; fa’, o Signore,
che io riesca a compiere un piccolo tratto di quel faticoso cammino verso V appropriazione
della radicalità della fede che mi hai proposto fin dal giorno del mio battesimo”.

Il contesto di Luca 9, 57-62


Iniziando la lectio della pagina di Luca, rievochiamone anzitutto il contesto.
Gesù sale verso Gerusalemme facendosi precedere da alcuni suoi discepoli e riceve
una cattiva accoglienza da parte dei samaritani.
«Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse
decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri» (vv. 51-52).
Ci soffermiamo sul versetto 51 considerandolo però nella versione greca che è più
pregnante: «Nel compiersi i giorni della sua ascensione egli il volto indurì» (to prósopon
estérisen). Il verbo estérisen (rese saldo, stabilì irrevocabilmente) indica la decisione ferma
di Gesù, la direzione precisa del suo cammino e quindi il passaggio a una fase più radicale
della sua proposta.
Fino a quel momento era apparso un uomo pieno di fascino, capace di dire parole
incantevoli di bontà, di misericordia, di umiltà, di guarigione. Ora indurisce la faccia per
spiegare ai discepoli che se ritengono di volerlo seguire perché attratti dalla sua personalità,
devono però conoscere le condizioni, la radicalità di questa sequela.
L’espressione «indurì il volto» non ha di per sé dei riferimenti letterari assolutamente
identici nella Scrittura. Tuttavia ci sono dei passi, ai quali si è ispirato probabilmente Luca
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che era un attento conoscitore dell’Antico Testamento, dove viene descritto l’atteggiamento
del profeta e del servo.

– Anzitutto Isaia 60, 6-7, il terzo canto del Servo di Jahwè:


«Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro
che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia
dura come pietra,
sapendo di non restare deluso».

Faccia insultata, sputacchiata, resa dura come pietra; l’evangelista vuole così accennare
alle esigenze di Gesù, alla durezza di una via che è parte del mistero del Signore.

– Un altro passo è in Geremia 1,18, che presenta la vocazione del profeta:


«Ecco oggi faccio di te
come una fortezza,
come un muro di bronzo,
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti
e il popolo del paese».

Il profeta, il testimone di Dio non deve aver paura di nessuno, deve saper andare contro
tutto e contro tutti per amore della verità, deve avere la faccia di bronzo.

– Interessante è anche l’espressione che troviamo in Ezechiele 3, 8-9, quando il


Signore dice al sacerdote Ezechiele: «Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una
fronte dura quanto la loro fronte. Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte.
Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una genìa di ribelli».

Luca, dunque, nel capitolo 9, mostra Gesù che comincia a proclamare più palesemente
le esigenze della sua missione, che diventano le esigenze dei discepoli stessi. Nei capitoli
successivi troveremo altri brani simili, tra l’altro non sempre facili da spiegare alla gente.
Leggiamo gli ultimi versetti del contesto: «I messaggeri si incamminarono ed
entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero
riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e
Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”.
Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio» (vv. 52b-56).

Tre modi impropri della sequela


Subito dopo averci fatto sapere che Gesù è rifiutato dai Samaritani e non è capito dai
suoi discepoli, l’evangelista Luca ci presenta tre figure emblematiche che «andavano per la
strada».

1. Il primo è «un tale», forse vecchio forse giovane, forse ricco forse povero. Quel tale
infatti è ciascuno di noi chiamato alla sequela.
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E disse: «Ti seguirò dovunque tu vada!»; parola bellissima, affermazione corretta,


impeccabile, assenso nozionale perfetto. Egli ha capito chi è Gesù.
Gesù però ribatte che quel tale è lontano dall’assenso reale: «Le volpi hanno le loro
tane, gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Se
si vuole dare senso alla promessa di seguire il Signore, bisogna uscire dalla propria tana,
saltar fuori dal nido, bisogna capire tutte le implicazioni della sequela.

2. La seconda figura emblematica è «un altro», innominato, senza età e senza origine,
che Gesù interpella. Egli risponde esprimendo una richiesta sensata, legittima, giusta. È
importante sottolineare che la radicalità evangelica, in questa pagina lucana, non viene
controbattutta da peccaminosità (sono attratto dalla concupiscenza della carne e degli occhi,
dai piaceri, dalle ricchezze).
Il primo personaggio aveva addirittura fatto un’offerta di sé.
Questo «altro» domanda semplicemente di poter seppellire il padre: «Concedimi di
andare a seppellire prima mio padre».
La parola di Gesù ci stupisce non poco: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti».
In realtà essa vuole smascherare la radice della richiesta: “tu credi di volermi seguire, ma sei
ancora legato alle tradizioni ancestrali, non hai ancora compreso il primato del Regno, ne hai
un senso forse nozionale e però non reale; non hai capito che nel Regno ci si muove in un
ambito di nuova rinascita, che tutti i pesi devono essere buttati all’indietro; tu non vuoi
rinunciare all’eredità paterna”. Assistere il padre nel momento della morte, infatti, vuol dire
anche poter ricevere l’eredità e tutto ciò che essa comporta di legami familiari.

3. Il terzo personaggio è nuovamente «un altro», uno di noi.


Di temperamento probabilmente impulsivo, si rivolge a Gesù con immediatezza: «Ti
seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa».
Pure la sua proposta è ragionevole, e ha addirittura un precedente profetico nel primo
Libro dei Re, a cui sembra alludere. Ricordate sicuramente che quando Elia chiama Eliseo
che sta arando i suoi campi, passandogli vicino gli getta addosso il mantello. Eliseo allora
lascia i buoi, corre dietro al profeta apostrofandolo: «Andrò a baciare mio padre e mia
madre, poi ti seguirò». Elia glielo permette: «“Vai e torna, perché sai bene che cosa ho fatto
di te”. Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare
ne fece cuocere la carne e la diede alla gente perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì
Elia, entrando al suo servizio» (cf. 1 Re 19, 19-21).
Le parole del terzo personaggio parrebbero dunque legittime.
Tuttavia Gesù non le accetta e le smaschera: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e
poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»; tu non ti accorgi di essere ancora schiavo
del tuo passato, della tua storia, dei tuoi amici, delle tue conoscenze, di tutto quanto
costituisce il tuo mondo culturale e affettivo; nemmeno tu hai compreso la radicalità del
Regno e sarai di quelli che andranno avanti sempre guardando indietro, guardando a ciò cui
hanno rinunciato, pensando a ciò che rimane o non rimane della loro storia.

La semplice lectio di questo brano evangelico evidenzia già come la vera sequela di
Cristo non ammetta alcun indugio, alcun attaccamento al proprio io, alle persone, alle cose,
perché chiede una totale obbedienza a Dio e alla sua parola.

Piste di meditatio: i simboli del brano evangelico


Ora vorrei suggerirvi qualche spunto di meditatio, cercando di andare più a fondo nelle
parole di Gesù, attualizzando e ampliando i simboli utilizzati nelle tre scene: la tana, il nido,
il padre, i parenti, gli amici.
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1. La tana e il nido sono le immagini del primo quadro: «Le volpi hanno le loro tane e
gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».

– La tana è il luogo in cui uno si rannicchia e trova la sua sicurezza, perché ci sta bene
e si sente difeso.
Il nido è il calore che nutre e protegge.
Oggi il linguaggio psicoanalitico usa simboli diversi: tana e nido diventano il voler
restare nel seno materno e in tutto ciò che esso rappresenta, quindi l’essere coccolati, l’essere
al riparo, nel guscio della propria sensibilità, nel caldo degli affetti, al sicuro dalle
aggressività.
L’uomo, infatti, fa fatica ad accettare l’espulsione dall’utero, si traumatizza e rimane
perciò sempre tentato di riformarsi un altro nido, un altro ambiente protetto.
Gesù afferma però che il Regno è una nascita violenta, esige di uscire «come un
gigante dalla tenda, per correre la propria strada » (cf. Sal 19,6). Chi vuol restare nella tenda,
non potrà mai capire appieno il Regno. Magari compirà nominalmente i gesti del Regno e
tuttavia, essendo rinchiuso nel proprio bisogno di protezione psichica, non affronterà il
combattimento della vita uscendo allo scoperto.
Questo atteggiamento è oggi particolarmente diffuso: i ragazzi, i giovani e le giovani,
nonostante la crisi delle famiglie, non riescono a staccarsene e a decidersi per scelte
definitive, anche in prospettiva matrimoniale e, dopo un primo momento di entusiasmo,
preferiscono optare per scelte a tempo determinato.

– Per quanto riguarda il nostro tema del celibato per il Regno, il gusto della tana o del
nido è esattamente il contrario di quella radicalità della sequela che domanda di andare oltre,
di porre ogni fiducia solo in Dio, di vincere l’istintivo bisogno di affetto. Si impone un
lavoro lungo, perseverante, paziente, mai finito. Ci sono persone che, arrivate a sessant’anni,
improvvisamente scoppiano perché non resistono alla tentazione di rifarsi un loro nido;
evidentemente, pur avendo abbracciato la vita sacerdotale o religiosa, non si erano mai rese
conto del guado, del salto di qualità che esigeva la sequela di Gesù.
Un guado che implica l’assenso reale, non soltanto nozionale, un salto di qualità che fa
soffrire, che può anche far piangere (il bambino, uscendo dal seno materno, piange e si
lamenta), perché chiede di rischiare, di buttarci.
Mi pare utile osservare che talora il Seminario assume per qualcuno la funzione del
nido, del seno materno, anche se comporta, per la sua disciplina e le sue regole, degli aspetti
negativi da sopportare. E se diventa un nido, allora dobbiamo attenderci un certo trauma
esistenziale nel momento in cui il presbitero ordinato dovrà impegnarsi giorno e notte per il
Regno, privo ormai di qualsiasi sicurezza; dobbiamo aspettarci una crisi di rifiuto.
I modi di tale rifiuto sono, per lo più, inconsci. Si tratta di difese istintive provocate
dalla durezza dell’impatto con la vita quotidiana del ministero, difese che si nascondono
sotto vari atteggiamenti. Ci sarà, per esempio, chi colpevolizza l’ambiente esterno –
parrocchia, oratorio, parroco, laici, magari l’alloggio –. In fondo, è una maniera di esprimere
l’incapacità ad affrontare l’aggressività delle situazioni, inevitabile quando si vive la
radicalità del ministero.
Ci sarà chi si autocolpevolizza con forme masochistiche – non sono all’altezza, sono
troppo timido, non sono sufficientemente preparato, eccetera –; tutti pretesti per non lasciarsi
stanare, perché anche questo tipo di masochismo è un nido nel quale uno coltiva se stesso
senza buttarsi.

I simboli usati da Gesù sono dunque molto evocativi e ci permettono di interpretare


tante situazioni nostre e di altri proprio come il risultato di una sequela alla quale non
abbiamo dato l’assenso reale; volevamo seguire Gesù dovunque ci avrebbe portato, ma di
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fatto siamo rimasti legati all’immagine ideale che ci eravamo costruita, non abbiamo capito
che «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».

2. La metafora del padre rappresenta non solo la figura del padre in senso fisico, bensì
tutta la tradizione ancestrale: le abitudini di famiglia, il mos ereditario, il costume.
Secondo gli antichi, sono tre le res che non si possono vincere: la mors, il mas (e lo
vedremo), il mos. Il Vangelo chiede di superare queste abitudini inveterate, ma invece
rimangono. Pensiamo a certi princìpi di vita, inconsci, per esempio al principio di onore per
il quale non si deve mai retrocedere, scendere di grado; entro certi limiti può essere giusto, e
tuttavia quando si pone come prioritario blocca la vita evangelica, allontana dal Regno. Per
seguire Gesù dobbiamo essere disposti ad accettare di buon grado le umiliazioni, le
persecuzioni, gli insulti, gli oltraggi, rinunciando al punto di onore.
Pensiamo a quel principio, che pure proviene dall’educazione familiare, che insegna a
non perdere mai la faccia, per alcun motivo. O a quello, molto interessante, di non dover mai
niente a nessuno, di non essere mai debitori verso altri; è un principio di onestà e di
onorabilità, ma se lo trasferiamo nella radicalità evangelica zoppica.
Al mos, alla tradizione ricevuta e che costituisce l’eredità del padre, appartengono
anche tutti gli assoluti razziali che ci portiamo dentro e che il Vangelo domanda, invece, di
superare. Nel nostro tempo sono apparsi chiaramente in tutta la loro violenza e drammaticità,
e vanno continuamente messi a fuoco per vincerli, sconfiggendo la tendenza a starsene per
proprio conto, con quelli di casa, a combinare affari con gente della stessa razza, a prendere
«mogli e buoi dei paesi tuoi».
Quando il mos ancestrale, cioè gli idola tribus, diventano pretesti contro la novità del
Regno, sono distruttivi. Il buon senso comune non basta per seguire davvero Gesù. Ed è
giusto sapere che gli idola li portiamo con noi anche quando ci decidiamo per Cristo; essi
costituiscono il nostro fardello, il nostro patrimonio paterno, sono nel nostro preconscio.
Dobbiamo perciò imparare a riconoscerli poco per volta e a snidarli con la grazia
straordinaria di Dio, con quella parola nuova che viene dall’alto e che si chiama Vangelo.
«Lascia che i morti seppelliscano i morti», perché se non abbandoni il padre non
diventi adulto, non diventi libero; se ti leghi alle tradizioni familiari usandole come scudo di
fronte alla radicalità della fede, vai verso la morte, resti schiavo, fai seccare le radici della
pianta della sequela. In fondo, chiedendo di andare a seppellire il padre, il personaggio della
seconda scena del brano esprime l’intenzione di continuare a seguire il mos che ha ricevuto,
di assolutizzare la realtà umana.

3. La terza immagine è costituita da parenti e amici.


A differenza del “padre” che rappresenta le tradizioni di famiglia, in questo simbolo
possiamo leggere il culto della propria storia personale: le amicizie, le relazioni, le vicende,
i successi.
Un culto che cresce con gli anni e per questo l’educazione alla fede è più facile nel
bambino che nell’adulto. L’adulto si è già compromesso con la sua storia; se è colto, ha
preso posizione politica, ha scritto dei libri, ha ottenuto riconoscimenti, e gli è difficile
diventare come un bambino, ossia accogliere il Regno.
Allo stesso modo, è più facile la sequela radicale in giovane età che nell’età adulta
quando si è ormai legati a certe abitudini, a una certa cerchia di amicizie.
Il culto della storia personale si impone inconsciamente, senza che uno ci pensi, in
nome di una coerenza di vita: “non mi sento di rinnegare la mia storia, la mia fede, il mio
vangelo; non possono chiedermi di farlo”. Ma il Vangelo, che è risurrezione, vita nuova, può
invece scavalcare la storia personale chiedendo di buttarla e di andare oltre, anche se poi il
Signore la farà ritrovare in ciò che ha di verità.
11

L’Antico Testamento attendeva un Messia che instaurasse un regno politico sicuro e


glorioso per Israele, un regno potente sulla terra. Gesù ha domandato ai suoi discepoli di
rinunciare a questo tipo di speranza messianica che aveva, per il popolo eletto, una forza
straordinaria, e sappiamo che gli apostoli vi hanno rinunciato per la grazia dello Spirito santo
(cf. At 1, 6-8).
Ciò significa che una fede non ben radicata accoglie il Vangelo come sovrapposizione,
come una realtà capace di abbellire e di nobilitare la propria storia personale; non sa
scendere fino in fondo nella vasca battesimale, non vuole rendersi conto che la storia
dell’uomo è legata a strutture di peccato, mentre Dio intende fare cose nuove sulla terra.
L’appello alla storia, dunque, può essere giusto, di buon senso, ma se è fatto contro la
chiamata evangelica è distruttivo.
Se ti volti indietro dopo aver messo mano all’aratro, se guidando la macchina continui
a voltarti per vedere la casa che hai lasciato, vuol dire che il tuo cuore non è stato
conquistato dal Signore Gesù, non è mosso unicamente dal desiderio di seguirlo.

Sintetizzando possiamo dire: Gesù ci ha presentato tre tentazioni di fuga dalla


radicalità della fede. Tre modi che richiamano, per converso, una triplice libertà evangelica:
la libertà dalla madre, dal seno materno, dalla tana e dal nido; la libertà dal padre, dalle
tradizioni ancestrali; la libertà da se stessi, cioè dalla propria storia, dal bisogno di coerenza
umana.
Questa triplice libertà da acquisire è il compito di tutta una vita, è l’impegno verso la
maturità; ogni uomo deve viverlo, e il cristiano deve viverlo anche di fronte alla radicalità
della fede.
Come abbiamo visto, non basta l’assenso nozionale a tale libertà. Occorre la pazienza
di snidare le resistenze all’assenso reale, che non finiscono mai e che si fanno sentire
soprattutto nei momenti decisionali più importanti (come, per esempio, nella scelta del
celibato per il Regno). Se non le snidiamo rimarremo imprigionati in noi stessi.

Applicazioni
Suggerisco, per l’incontro comunitario, tre modalità concrete di riflessione su quanto
ho cercato di spiegare.

1. Uno scambio libero sugli aspetti della meditazione che vi hanno maggiormente
colpito.

2. Ciascuno dovrebbe verificare come reagisce di fronte alla tesi della maturità
cristiana progressiva: mi pare accettabile che l’integrazione della fede nella vita richiede un
tempo così lungo? che la vittoria sulle resistenze avviene in età matura? ho dei dubbi in
proposito?
Credo sia molto utile confrontarsi su questa appropriazione lenta del passaggio dall’as-
senso nozionale a quello reale.

3. Provate a scoprire alcuni aspetti pratici relativi alle metafore del nido, della tana,
dell’eredità paterna, della propria storia. Dove emergono in me questi ostacoli inconsci?
come e quando hanno giocato e giocano nel mio cammino?

“Signore, tu che vedi quanto desideriamo seguirti e partecipare alla tua vita ài Fiiglio
del Padre, aiutaci a vedere con chiarezza i timori, le paure, le tentazioni che si annidano nel
nostro cuore e che possono soffocare la nostra accettazione radicale della fede”.
12

2.
IL DOMINIO DELLA CORPOREITÀ

L’oggetto specifico di questa riflessione è la castità nell’ambito del regno di Dio,


intendendo la castità nel suo senso più largo, quale parte della virtù della temperanza.
La tematica è stata trattata ampiamente e profondamente dal santo Padre nelle sue
catechesi sull’amore umano, tenute fin dall’inizio del suo pontificato in preparazione al
Sinodo 1980 sui «doveri della famiglia cristiana» e che poi ha continuato anche nel 1981.
Esse sono state raccolte in un volume intitolato Uomo e donna lo creò (Città Nuova Editrice-
L.E.V., Roma, 1985).
Vi invito anzi a rileggere soprattutto le catechesi dal n. 54 al n. 59: «Santità e rispetto
del corpo nella dottrina di S. Paolo»; «Descrizione paolina del corpo e dottrina sulla
purezza»; «La virtù della purezza attua la vita secondo lo Spirito»; «Dottrina paolina della
purezza come “vita secondo lo Spirito”»; «La funzione positiva della purezza del cuore»;
«Pedagogia del corpo, ordine morale, manifestazioni affettive».

L’icona biblica che propongo per meditare sulla castità e per comprendere che cosa ci
impedisce di cogliere il valore di questo atteggiamento del cristiano, è quella di Gesù tentato
nel deserto, in particolare l’icona della prima tentazione così come viene descritta dal
vangelo secondo Matteo.

Lectio di Matteo 4,1-4:


Gesù è tentato
«Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E,
dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si
accostò e gli disse: “Se sei il Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”. Ma egli
rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca
di Dio”» (Mt 4,1-4).
Rileggiamo dunque le singole parole del brano collocandole nel contesto della vita di
Gesù e del significato della sua missione.

– «Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato». L’essere tentato fa
parte della presentazione fondamentale di Gesù. L’evangelista Matteo ci offre un primo
abbozzo di Cristo proprio attraverso l’umiliazione del battesimo (cf. 3,13-15), la sua
esaltazione nella teofania (cf. 3, 16-17), la tentazione. Sono queste le prime caratteristiche
che vengono espresse e quindi appartengono al mistero della persona di Gesù, alla sua
singolarità storica e alla sua esemplarità per noi.
Non solo è riconosciuto come il Figlio del Padre – «Questi è il mio Figlio prediletto,
nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17) –, ma è anche colui che è tentato da satana.
Vorrei far notare che il sostantivo greco péira, che traduciamo con “tentazione”
significa letteralmente “esperimento”, “prova”; parola che è entrata, a partire dal 1500, nel
vocabolario scientifico e, nell’ultimo secolo, è diventata tipica della coscienza che l’uomo
moderno ha di sé: l’esperienza.
Gesù nella sua vita è stato più volte messo alla prova, sperimentato, saggiato, tentato.
• È tentato da Pietro e gli risponde: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo,
perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16,23).
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• È tentato dalle folle che vogliono proclamarlo re: «Sapendo che stavano per venire a
prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo» (Gv 6,15).
• È tentato dai capi dei Giudei che lo invitano a scendere dalla croce: «I capi lo
schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio”» (Lc 23, 35).
Nel deserto viene anticipata e riassunta la grande tentazione che accompagna tutta
l’esistenza terrena di Gesù.

– «Nel deserto», perché è il luogo in cui è stato tentato e vinto il popolo d’Israele,
specialmente a Massa e Meriba (cf. Es 17, 1-7). L’uomo, ogni uomo, nel suo cammino verso
Dio viene tentato e vinto. Gesù si associa all’esperienza umana, vive la prova della
tentazione, e la vince per noi.
– «Dallo Spirito». Non è dunque tentato, come può accadere a noi, per disattenzione,
dissipazione, leggerezza, trascuratezza, bensì in un momento di forte intensità spirituale, cioè
mentre prega.
Il parallelo di Luca dice: «Gesù, pieno di Spirito santo, si allontanò dal Giordano e fu
condotto dallo Spirito nel deserto» (Lc 4,1). Ciò significa che la tentazione coglie anche
l’uomo non solo quando è negligente o superficiale, ma essa è insita nella esistenza e può
avvenire nel tempo della preghiera, dell’adorazione, del digiuno.
– «Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame».
È importante osservare che è tentato a partire da un fatto biologico fondamentale,
finalizzato al nutrimento e alla conservazione del corpo, così come la sessualità è un fatto
biologico fondamentale, finalizzato alla conservazione della specie.
– «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». L’invito di satana è a
compiere un atto di violenza sulla natura, a far servire il sasso non a ciò per cui è destinato,
bensì ad altro. Gesù è tentato a sovvertire l’ordine naturale, nella dimenticanza di quell’or-
dine creaturale che è l’obbedienza a Dio.
– E infatti, nella risposta, la richiama immediatamente: «Non di solo pane vivrà
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Dobbiamo chiedere al Signore di farci comprendere il significato inesauribile di questa
affermazione che si richiama all’Antico Testamento, alla pagina in cui viene spiegato il
senso del lungo cammino compiuto dal popolo d’Israele nel deserto:
«Il Signore ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu
non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo
vive di quanto esce dalla bocca di Dio» (Dt 8, 3).
Io penso che dobbiamo leggervi una verità assai profonda: l’uomo non è determinato
da alcuna necessità biologica, perché non è soltanto e prima di tutto un essere che mangia,
che beve, che si mantiene, che si riproduce. Ovviamente non viene negato che l’uomo debba
mangiare e bere; viene negato piuttosto il primato della sfera biologica per sottolineare
quello della parola di Dio.
L’uomo vive anzitutto dell’iniziativa di Dio, della sua promessa, del dono della sua
comunicazione; a partire da qui ha senso tutto il resto. Ogni altra sfera della vita è
subordinata alla comunione dell’uomo con Dio, che si esprime nel dono che il Signore gli fa
della Parola, della familiarità e dell’amicizia con lui.
Le parole bibliche, richiamate da Gesù, alludono ai diversi livelli della realtà umana: il
livello biologico, quello del corpo nella sua manifestazione organica primordiale, che
riguarda il nutrimento, la sessualità, la riproduzione; il livello umano nel quale il nutrimento
diventa convivialità, comunità, e la sessualità si fa amicizia tra uomo e donna, alleanza
sponsale, educazione dei figli, famiglia, cellula della società; il livello della grazia, del dono,
che attrae i primi due livelli e nel quale il corpo appare non soltanto umanizzato, bensì
guidato, mosso dallo Spirito. Qui il nutrimento diventa Eucaristia, cioè convivialità sacra
dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro; la sessualità diventa, da fatto nuziale, sacramento,
14

comunità spirituale tra uomo e donna nell’amore e nell’amicizia di Cristo, cellula della
Chiesa, inizio del grande popolo dei redenti.
Dicendo: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di
Dio», Gesù mette in relazione il dinamismo primordiale della vita con il dinamismo ultimo,
con il dinamismo del dono.

Torneremo a riflettere su questo schema dei dinamismi paralleli e ascendenti delle


attività umane, perché è molto importante per sapersi orientare nella complessa materia della
sessualità e per comprendere come il dinamismo della sponsalità con Cristo, a cui è chiamata
ogni persona umana, può attraversare così profondamente il livello biologico e quello umano
da configurarsi come verginità, come consacrazione totale del corpo e dello spirito al
Signore.
Terminato il momento della lectio, desidero ricordare che nei testi dell’apostolo Paolo
noi troviamo alcune parole-chiave sul tema della sessualità in una visione cristiana: «II corpo
è per il Signore» (1 Cor 6, 13); «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1 Cor 6, 15); «il
vostro corpo è tempio dello Spirito santo» (1 Cor 6,19); «ciascuno sappia mantenere il
proprio corpo con santità e rispetto» (1 Ts 4, 4); «Non regni più il peccato nel vostro corpo
mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di
ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre
membra come strumenti di giustizia per Dio» (Rm 6,12-13).

La presa di coscienza
del dinamismo verticale della sessualità
Dopo aver contemplato Gesù che risponde al tentatore e dopo averlo pregato di
illuminarci, di farci capire il primato della parola che esce dalla bocca di Dio, del suo dono,
della sua amicizia, della sua capacità di attrarre a sé e di dare dinamismo ai diversi livelli
dell’esistenza umana, ci chiediamo: come giungere a percepire in maniera reale, non solo
nozionale, il finalismo verticale, cioè la subordinazione dell’umanità allo Spirito e al Regno,
per cui tutto è assunto nella linea della grazia, della gloria, della vita eterna? (Per finalismo
orizzontale intendiamo invece, per esempio, la finalizzazione del nutrimento alla
conservazione della persona, e poi alla convivialità e alla socialità).
Come viene recepita la finalità verticale nelle diverse fasi evolutive della persona?
come il ragazzo giunge a cogliere questo moto di trascendenza da un livello all’altro, per cui
il superiore domina l’inferiore attraendolo e dandogli forma, dignità, nobiltà, bellezza,
capacità di essere vissuto con ordine? come è avvenuta in me questa presa di coscienza e
come sta avvenendo?

Abbiamo detto nella precedente meditazione che un assenso reale ha bisogno di


almeno trent’anni per compiersi e va continuamente coltivato perché è sempre un poco
fragile, un poco instabile, perché suppone un’umanizzazione e una spiritualizzazione della
persona che si rimette ogni giorno sotto la mozione dello Spirito santo, suppone una forte
vita dello spirito e insieme un cammino di crescita umana.

A me pare dunque che la presa di coscienza del dinamismo verticale di diversi aspetti
corporei dell’esistenza (almeno dei due fondamentali, cioè il sostentamento e la sessualità),
avvenga gradualmente, soprattutto in due momenti contrapposti e complementari, ossia
attraverso momenti positivi e momenti critici.
15

1. I momenti positivi sono quelli nei quali si prende coscienza che esiste un dinamismo
per cui le operazioni proprie della sfera biologica vengono assunte, subordinate e ordinate,
nella sfera dell’umanità e nella sfera della grazia.

– Questo avviene in gran parte nell’educazione. I genitori insegnano le buone maniere


che aiutano a umanizzare il corpo: a mangiare in un certo modo, a bere, a lavarsi, a osservare
certi atteggiamenti nel comportamento, a vivere la giornata in maniera ordinata, eccetera. Si
tratta di un faticosissimo lavoro che tende a dominare la selvaticità degli istinti per farne
strumento di relazione, di rapporto armonico.

– Un altro luogo o momento positivo è la preghiera che comincia forse all’età di 3/4
anni. Mediante la preghiera il bambino, la bambina, e poi il ragazzo, la ragazza, capiscono
che la corporeità viene attratta nella sfera dello spirito mediante le parole, i gesti, il contegno,
il dominio dei sensi: il corpo si piega, le mani si congiungono, non si deve chiacchierare.
Ben presto chi prega capisce che c’è un dominio della corporeità che è finalizzato a qualcosa
di più grande, a un mistero che può intuire vedendo, per esempio, la mamma, il papà, il
prete, la suora che pregano.
L’Eucaristia è un’educazione continua a considerare il proprio corpo come tempio di
Dio, da lui nutrito, abitato e trasformato da Gesù. È un preziosissimo luogo in cui la
corporeità impara il suo dinamismo intrinseco.

– E, ancora, le diverse forme o esperienze di obiettività. Tutte le volte che il ragazzo, la


ragazza imparano a compiere un sacrificio, a rinunciare al gelato, alla bibita, al dolce, per
stare più a lungo in chiesa o per fare un servizio a un compagno, magari per aiutarlo a
vincersi nell’eccessiva vivacità, imparano che il corpo è per il Signore, che l’uomo non vive
di solo pane o di soli dolci, bensì di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

2. I momenti critici, cioè le tentazioni, soprattutto quelle riguardanti l’ambito della


sessualità, sono molto importanti perché attraverso di esse il ragazzo, la ragazza, prendono
coscienza del primato di Cristo e del Regno.
Infatti, di fronte alle scelte morali, magari semplici, che si presentano loro, in questa
lotta quotidiana – che comincia dai 10/12 anni – per accettare o respingere fantasie, pulsioni,
letture, discorsi, desideri sessuali, prendono coscienza che il Signore è padrone del corpo,
che è in gioco la fedeltà a Dio, che il Regno vale anche il sacrificio degli aspetti sessuali.
Si acquista così, a poco a poco, il senso della serietà del Regno e ci si mette in gioco
per Cristo. La disciplina della sessualità, nell’ambito della educazione della fede, è quindi il
segno della signoria di Gesù.
Io penso che proprio nelle tentazioni, nei momenti critici, l’adolescente comincia a
intravedere la possibilità di un dono sponsale del suo corpo a Cristo.
Tranne alcuni casi eccezionali – come quello di Luigi Gonzaga che, giovanissimo, si
reca nella chiesa dell’Annunziata, a Firenze, per fare il voto di verginità perpetua – un
adolescente giunge a cogliere la sua appartenenza al Signore nelle piccole o grandi battaglie
quotidiane e può così formulare un progetto di dedizione che si specificherà più chiaramente
o come scelta celibataria oppure come scelta matrimoniale, dove però il matrimonio è visto
non quale godimento privato, quale ambito privatistico, bensì quale dedizione all’altro, alla
società, alla Chiesa.
Di tutto questo trovo conferma pure nella mia esperienza e vorrei che anche ciascuno
di voi interrogasse la sua storia.
Il desiderio di essere del Signore aiuta a scoprire il disegno che lui ha su di noi, e tale
desiderio lo si incarna, lo si realizza nei momenti critici. Perché il desiderio rimarrebbe
astratto e generico se non fosse continuamente richiamato dalla prepotenza dell’istintività
16

sessuale. Attraverso l’integrazione dei valori dello spirito nel proprio corpo, si può pervenire
a quell’istinto spirituale che è ricordato molto bene dal documento della C.E.I., del 1975,
sulla sessualità, intitolato Persona humana. Vi si legge: «Quanto più i fedeli» (tutti i fedeli,
non solo i consacrati) «comprenderanno la virtù della castità e la sua necessaria funzione
nella loro vita di uomini e di donne, tanto più avvertiranno, per una sorta di istinto spirituale,
ciò che questa virtù esige o suggerisce, tanto meglio essi sapranno accettare e compiere,
docili all’insegnamento della Chiesa, ciò che la retta coscienza detterà loro nei casi concreti»
(cf. n. 11).
Queste parole, molto belle, fanno capire che nel campo della disciplina della sessualità
non basta affidarsi al ragionamento sul lecito e sull’illecito; in tal caso la ragione sarebbe
come una diga che facilmente si rompe. È soltanto mediante un’intuizione spirituale che
arriviamo a cogliere le esigenze poste dal fatto che il nostro corpo è del Signore, è suo
tempio.
L’esercizio progressivo, le fatiche, la penitenza, il pentimento, la direzione spirituale,
saranno naturalmente necessari, e però comprenderemo veramente il significato globale della
castità cristiana, intesa come dominio della propria sensualità e sessualità, in questa maniera
esperienziale ed esistenziale.
Con la ragione e con la riflessione razionale, invece, non si va oltre gli elementi
fondanti, senza entrare nelle profondità della persona che continuerà a vivere forme di
complicità, di doppiezza, di compromesso, nascondendosi a se stessa ed emarginando certi
atteggiamenti, non avendo il coraggio di mettersi di fronte alle proprie pulsioni sessuali,
considerandole davanti a Dio e considerando il tipo di dominio che il Signore, per grazia, ci
dà a poco a poco sulla nostra corporeità.
Concludendo: il dominio dei sensi, specialmente nell’ambito della sessualità, è uno dei
primi modi con cui il preadolescente o l’adolescente impara a conoscere la serietà del Regno.
Anche quando non avverte ancora la possibile chiamata al celibato per il Regno, vi si
dispone; mentre se cede su questo fronte, le indicazioni per il celibato non riusciranno più a
entrare nella coscienza. È dunque assai importante questa fascia di età, pur se la tensione
spirituale della castità deve durare per tutta la vita, non deve mai essere accantonata.

Ostacoli all’assenso reale


Vorrei indicare alcune difficoltà, alcuni ostacoli che ritardano, impediscono, bloccano
o confondono l’assenso reale, la presa di coscienza del dinamismo verticale della sessualità.
Ne enumero tre che possono però frammentarsi in molti altri.

1. Concepire il dominio della sessualità come un disvalore antropologico. Oggi è


abbastanza comune non ritenere che la castità sia un valore antropologico; si afferma anzi
che non è un bene, perché l’uomo deve accettare le sue necessità psicofisiche e
psicosomatiche. Sembra addirittura che il dominio della sessualità debba collegarsi con una
eccessiva tensione che porterebbe a forme di nevrosi.
Questa diffusa mentalità costituisce indubbiamente una difficoltà, un impedimento a
camminare speditamente sulla via del dominio dei sensi e arrivare quindi anche a
comprendere che il corpo è del Signore.

2. Considerare l’ambito della sessualità come puramente privato. Si dice: il corpo è


mio e ne faccio ciò che voglio; sono responsabile di fronte agli altri dei miei atti esterni,
dell’odio, dell’uccisione, della violazione della giustizia sociale, ma l’ambito del mio corpo
lo voglio gestire io. Il Signore, la Chiesa, la società non hanno alcun diritto di interferire,
perché soltanto io devo cercare il mio equilibrio e quand’anche fossi preso da nevrosi o
tentato da perversioni sessuali, c’è sempre lo psicologo che può aiutarmi.
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3. La terza difficoltà, forse la più comune, è di lasciarsi influenzare dal quadro


sensuale ed edonistico dell’atmosfera dominante (giornali, televisione, spettacoli). Molti
cristiani accettano in linea di principio il primato del Signore sul corpo, e tuttavia guardano
con leggerezza e con estrema facilità, direi con una certa dose di irresponsabilità, qualsiasi
tipo di stampa, qualsiasi spettacolo televisivo e teatrale.
Dobbiamo stare dunque molto attenti perché rischiamo un po’ tutti di trovarci in
posizione frontale con la mentalità laicista che privatizza la sessualità ed esalta in modo
sfrenato la libertà di stampa e di espressione.
Dobbiamo stare attenti perché sulle difficoltà che ho ricordato si gioca la serietà della
nostra fede; infatti, la disciplina spirituale che sottopone il corpo al Signore, che ci insegna a
vivere di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, è veramente una contrapposizione alla
mentalità mondana, immanentista, atea. E satana tenta volentieri sulla sessualità perché è in
questo campo che lo spirito laicista può maggiormente far breccia e penetrare
insensibilmente nella coscienza, fino a mettere in situazioni nelle quali uno non può più
adattarsi al primato dello Spirito e giunge a rifiutare le norme della Chiesa, la disciplina
tradizionale, la preghiera e il regno di Dio.
Il dominio della sessualità è, possiamo dire, uno spartiacque, è un momento
determinante che, a partire dalla pubertà fino alla maturità umana e per tutta la vita,
continuamente ci pungola e ci tenta.

Introduzione alla preghiera


Abbiamo contemplato Gesù che, pur affamato e prostrato dall’inedia e dalla sete,
afferma di vivere di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Abbiamo poi meditato sui
cammini umani verso il dominio della sessualità, per sottoporre questa sfera d’esperienza
alla vita della grazia e del Regno.

– Potremmo ora chiedere al Signore, nella preghiera: “Fa’, o Padre, che io mi conosca;
che conosca ciò che mi ostacola, che tende a confondere, a ritardare, a impedire la mia presa
di coscienza della signoria di Cristo sul mio corpo, del primato del tuo Regno”.
Sarebbe anche utile servirci, ripetendole, delle invocazioni dei salmisti:
«Rafforza l’uomo retto, tu che provi mente e cuore, Dio giusto» (Sal 7, 10). L’es-
pressione «mente e cuore» traduce il testo ebraico che recita «cuore e reni», sottolineando
meglio la corporeità, l’aspetto fisico. «Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al
fuoco il cuore e la mente» (Sal 26,2); purificami, rendi trasparente tutto ciò che in me è
ancora istintuale.
E se avvertiamo fatica, difficoltà, nervosismo, stanchezza, viltà interiore, possiamo
ripetere il bellissimo versetto del Salmo 139: «Sei tu che hai creato le mie viscere / e mi hai
tessuto nel seno di mia madre» (v. 13); tu mi conosci, sai come mi hai fatto e dunque tu solo,
mio Dio, puoi aiutarmi.

– Dopo che vi siete messi nel giusto atteggiamento mediante queste preghiere, sarebbe
utile rispondere a tre domande, una di chiarimento e due di esplicitazione.

• Come percepisco il tema della finalità orizzontale e verticale per il quale un


fenomeno biologico è più di se stesso nell’uomo, e un fenomeno umano è più di se stesso nel
cristiano?
Ho infatti sottolineato come sia fondamentale comprendere l’esistenza e il valore di
questo dinamismo di trascendenza da un livello a un altro di esperienza, per cogliere sia il
rapporto tra sessualità, matrimonio, sacramento, regno di Dio, sia la verticalizzazione ultima
della sessualità che si attua nella verginità.
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• Una domanda di esplicitazione: quali ostacoli si frappongono, anche nei nostri


ambienti di famiglia, amicizie, parrocchia, alla comprensione del valore della castità intesa
come custodia dei sensi o della sponsalità del corpo?
• Ancora: quali le idee più confuse, in proposito, tra ragazzi e ragazze? Scrivendomi a
seguito della mia «Lettera ai giovani che non incontro», tanti mi hanno parlato del tema della
castità, e mi sembra utile che ciascuno di voi si interroghi per esplicitare ciò che si porta
dentro.
“Donaci, Signore, di essere attenti allo Spirito santo che sta operando in noi e che
vuol condurci a vivere in maniera reale, non puramente nozionale, le esigenze del Regno,
della parola di Dio che sola può realizzare pienamente la nostra corporeità e la nostra
umanità”.
19

3.
«È VERO CHE DIO HA DETTO:
NON DOVETE MANGIARE
DI NESSUN ALBERO DEL GIARDINO?»

Premessa
Mi piacerebbe dare come titolo a questa proposta di riflessione le parole sospettose con
le quali il tentatore si presenta per la prima volta nella storia della salvezza: «È vero che Dio
ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» (Gen 3,1).
In esse scorgiamo il primo tentativo del maligno di confondere, di violare, di
disturbare, di dissolvere l’intera rete delle tre relazioni strutturali dell’uomo: quella con Dio,
quella con l’altro (uomo o donna), quella con la terra, il mondo.
E volendo dedicarci alla tematica del celibato per il Regno, nasce per noi, dal versetto
della Genesi, una domanda: come il tentatore incide sulla proposta del celibato per il Regno?
Questa domanda può esplicitarsi in due sensi:

– come riesce a spegnere la forza dell’invito di Gesù al celibato ancora prima che sia
chiaramente percepito? È il caso di moltissime vocazioni mancate o abortite, in ragazzi,
adolescenti, giovani.

– Per quanto concerne il cammino già avviato della vita spirituale, come il tentatore si
sforza e riesce a non far passare la proposta da apprensione nozionale a reale, anche in chi
l’ha incoativamente recepita? come può il nemico impedire un’assimilazione gioiosa e
integrata della proposta? Essa è recepita, ma non passa dentro, non diventa bene proprio,
resta imposta dal di fuori e, a un certo punto, viene la voglia di respingerla.
Nello stile dei nostri incontri, tralascio dunque di proposito la considerazione degli
aspetti positivi del celibato presbiterale, che voi quest’anno vi impegnate a svolgere, per
soffermarmi sul rovescio della medaglia, sugli aspetti negativi. Che cosa, cioè, può impedire
la realizzazione, nel senso newmaniano, degli aspetti positivi? che cosa impedisce il
cammino verso la loro piena integrazione?
Cercherò di esemplificare gli impedimenti, le tentazioni che, come ho detto, sono tutte
variazioni della grande domanda di sospetto: perché Dio vi ha detto di non mangiare?
È infatti importante che il momento meditativo costituisca proprio un momento di
valutazione di tali tentazioni, per poi diventare riflessione su di sé: mi riguardano? ce ne
sono altre che ho sperimentato e che vale la pena mettere in luce?
In tal modo noi sottolineiamo, secondo il proposito iniziale, le ombre piuttosto che le
luci del cammino, dando voce al non credente che è in noi e che resiste alla radicalità della
fede e alla proposta celibataria.
Dopo una brevissima riflessione sulla parola della Genesi, vedremo come si esprime il
tentatore per confonderci sul celibato esaminando tre forme particolari con cui oggi si
manifesta la tentazione, tenendo conto appunto del problema delle crisi affrontate, di fatto,
da giovani preti.
20

La grande domanda di sospetto (Gen 3,1)


«È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» (Gen
3,1).

– Ci troviamo davanti a un capolavoro di retorica, perché si tratta di un’insinuazione


chiaramente maligna e paradossale. Come può Dio avere detto di non mangiare di nessuno
dei frutti del giardino?
Ma è proprio la caratteristica di choc, propria di un paradosso falso, a sconcertare chi
ascolta.
Non si è tanto colpiti dalla falsità dell’affermazione, che è evidente, bensì dalle
allusioni che ci stanno dentro.
A bene osservare, è un ottimo modo per cominciare a ingannare qualcuno, e viene
spesso usato oggi anche nella politica: si schiaccia qualcuno con un paradosso, che di per sé
è inammissibile e però è talmente enorme che alla fine la gente pensa che qualcosa di vero ci
sarà. È tipico dell’insinuazione maligna e ansiosa coinvolgere nel dubbio e nella paura,
ottundere la mente e suscitare il sospetto. Se poi l’affermazione cattiva viene fatta da una
persona intelligente, è ancora più facile che chi l’ascolta concluda: forse c’è dietro qualche
problema che non capisco, forse mi sto ingannando o stanno ingannandomi.

– Naturalmente tale affermazione maligna e paradossale ha una parvenza di verità.


Effettivamente è stato proibito di mangiare uno dei frutti del giardino.
La proibizione è dunque vera, solo che non si parla della concessione che Dio ha dato
per tutti gli altri alberi. E questo modo falso di proporre la domanda, fa risultare assurda e
arbitraria la proibizione: per quale motivo Dio ci ha vietato qualcosa? forse ha un secondo
fine, forse non ci vuole bene, forse ci sta ingannando.
L’analisi filologica di questa prima tentazione ci insegna dunque come il nemico opera
per confondere lo spirito umano.

Possiamo ora considerare la nostra particolare tematica domandandoci: come si


esprime il tentatore per confondere l’adolescente, il giovane che è sul punto di ascoltare
l’invito al celibato, che si chiede che cosa vuol dire essere prete? e come il tentatore insinua
nel prete già maturo il sospetto di non essere fatto per il celibato che pure ha abbracciato?
come gli fa credere che il celibato non è stato un dono liberamente accolto, bensì un obbligo
insensato, inutile e dannoso?
Mi dilungo un poco in questo secondo momento, cercando di spaziare per i diversi
modi con cui prende corpo la tentazione di fondo. Mi pare che le obiezioni più correnti
all’appropriazione vitale del celibato per il Regno siano fondamentalmente due.

Prima obiezione:
la paura di restare nel seno della madre
– La prima obiezione consiste nella paura che il celibato per il Regno sia un altro modo
di restare nella tana, nel seno della madre, e quindi che, sotto la parvenza di una scelta
buona, faccia rientrare in quello stadio da cui si era pensato di uscire lasciando la famiglia e
dedicandosi al Regno.
Questa tentazione scava dunque profondamente nella scelta per il Signore, indicandola
come una forma del ritrarsi vitale, non dell’esprimersi.
Il richiamo è alla parola di Gesù in Luca (9, 58), su cui abbiamo riflettuto nella prima
meditazione: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo». Il celibato, che mi sta davanti come ipotesi o che già
sto vivendo, mi impedisce di uscire allo scoperto nella vita. L’obiezione è paradossale
21

proprio come l’affermazione del tentatore nella Genesi: è possibile che, dopo aver lasciato
padre e madre per darsi a una vita completamente diversa, dopo aver corso il rischio di
uscire da tutte le sicurezze della vita, si sia fatta una scelta che risulta essere un tornare
indietro?
Ed è questa paradossalità, in quanto tale, che inquieta.

– In proposito ho letto un libro molto interessante, di uno studioso tedesco (E.


Drewermann, Kleriker. Psychogramm eines Ideals, Wolter-Verlag AG, Olten 1989), che
costituisce certamente l’attacco più ampio contro la concezione del prete così come è vissuta
nella Chiesa cattolica: prete celibatario inserito in una istituzione. L’autore, a partire dalla
psicologia freudiana e junghiana, dalla analisi della società e della cultura, tenta di descrivere
le coordinate di un ideale a suo avviso apparente, che, in realtà, diviene poi una forma di
costrizione, una sorta di botte di ferro nella quale la personalità resta bloccata. Drewermann
assicura di aver scritto il suo libro dopo aver fatto molti incontri analitici (è professore di
psicologia e analista) con preti e con preti in difficoltà. E la sua tesi è interessante perché
costituisce, si potrebbe dire, un ampliamento della domanda di sospetto: ma davvero Dio vi
ha chiesto di non mangiare di nessun albero? Concretamente, chiedendovi di non mangiare
uno dei frutti, quello della sessualità, vi ha chiesto in fondo di non mangiare di nessun
albero, ha fatto di voi delle persone dimezzate, bloccate, delle persone angosciate, piene di
paura, sempre sotto pressione.
Ciò significa che questa obiezione è molto presente, e non a caso l’opera di
Drewermann è stata largamente discussa in Germania, soprattutto negli ambiti ecclesiastici,
trovando ovviamente per lo più degli avversari, dei critici, ma suscitando anche ansietà.
L’autore sostiene (per limitarci alla tesi di natura psicoanalitica) che comunemente la
vocazione del chierico è la sublimazione di e l’identificazione con una condizione materna di
sottomissione al padre. Si presuppone quindi una condizione materna di sottomissione al
padre, che la madre vive in forma sacrificale, quasi vittimale, per il bene del figlio. Tale
condizione viene assunta da uno dei figli che la realizza nell’immolazione religiosa alla
Chiesa, rinnegando – appunto come la madre – la sua vera personalità. Per questo rimane
inconsciamente legato alla madre non diventando né maturo né libero. Per l’autore del libro
è chiaro che la maggior parte dei preti non sono né maturi né liberi, perché irrigiditi
sull’atteggiamento sacrificale materno, e il celibato è parte fondamentale dell’immolazione.
La rinuncia a una famiglia propria permette di immolarsi completamente al servizio di quella
autorità cieca e superiore, magari incapace di amare, che è l’istituzione. Si esaminano poi le
condizioni concrete della vita del prete, del chierico, del seminarista, mediante le quali si
approfondisce, di fatto, questo spirito di sottomissione e di espiazione che determina
l’esistenza.

– Vedo in ciò una forma moderna di esprimere la tentazione fondamentale: il celibato


non ti libera; se Dio ti proibisce uno dei frutti del giardino, lo fa perché vuole proibirteli tutti.
L’esperienza mostra che talora l’obiezione si manifesta proprio così, anche se in
domande più semplici: perché scegli il celibato (suggerisce il tentatore)? Perché hai paura di
vivere un’avventura matrimoniale; ti imponi una sorta di castrazione sacrificale che, al
fondo, è paura di affrontare un matrimonio che potrebbe essere fallimentare o penoso, come
quello o quelli di cui sei stato testimone.
È chiaro che una tentazione di questo tipo rimane per lo più nell’inconscio e opera a
livelli inconsci; è troppo brutale per essere applicata sic et simpliciter a una storia individuale
o a se stessi. Però ciò non toglie che la propria scelta celibataria debba essere purificata da
elementi spuri di questo tipo, che a un certo punto possono esplodere.
Mi sono incontrato più volte con vocazioni di genere espiatorio, con giovani e con
ragazze che pensavano di abbracciare la vita sacerdotale o religiosa perché il padre
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ritrovasse la fede o perché quello o quell’altro parente si convertisse. Il motivo in sé non è


cattivo, ma se diventa preponderante, non regge, non giustifica la scelta vocazionale.
Se dunque la decisione per il celibato presbiterale è stata suggerita da qualcuna di
queste spinte (d’altra parte, non è mai totalmente pura, totalmente perfetta, ma ha sempre
qualche aspetto di ombra), è possibile che la tentazione sorga e faccia pensare che non si è
scelto davvero il celibato, bensì ci si è modellati su un progetto di vita materno, di
identificazione con la madre o magari con il padre, perché talora i ruoli si rovesciano.
A volte questa identificazione può essere mossa dal fatto che il padre o la madre
desiderano così fortemente di avere un figlio prete (oggi è raro, però in passato accadeva) da
creare un condizionamento, la paura di deludere, il desiderio di sacrificarsi per accontentare i
genitori.

– Sono tutte considerazioni molto utili per la nostra riflessione e ci insegnano che il
desiderio del celibato, pur essendo secondo il regno di Dio, va sottoposto a discernimento.
Essendo un progetto del Regno è sicuramente buono, ma nella singola persona può essere
frutto o di grazia o di frustrazioni (e, in questo caso, la frustrazione va contro corrente come
la grazia).
C’è dunque tutto un lavoro di purificazione da compiere, e non è affatto inutile
esaminare questa prima obiezione di rientrare nella tana. E anche libri molto polemici, come
quello di Drewermann, possono servire per riflettere su molti casi difficili che ci si
presentano.

Seconda obiezione
la spinta dei pesi ancestrali
La seconda obiezione assume come motivazione la spinta degli idola tribus, dei pesi
ancestrali che gravano sulla nostra cultura. Ne indico almeno tre, che talora si propongono
alla mente come insuperabili:
– il pregiudizio del maschilismo
– il bisogno di una compagna per maturare e per essere custoditi
– la paura della solitudine.
Questa seconda obiezione, nelle sue tre diverse forme espressive, richiama la risposta
di quell’uomo che è stato interpellato da Gesù: «Signore, concedimi di andare a seppellire
prima mio padre» (Lc 9, 59), quindi la difficoltà della sequela.

1. Il pregiudizio del maschilismo. Tale pregiudizio, grossolano e però molto diffuso, si


rifà al detto antico, sopra ricordato, secondo cui il mas, il maschio, è una realtà che non si
vince mai, insieme al mos e alla mors. Il mos, come abbiamo visto, è il costume, la
consuetudine; chi si prova a uscirne viene alla fine di nuovo rinserrato dentro. E la morte è
chiarissimamente un evento invincibile.

– Un tempo il pregiudizio maschilista, che si esprimeva soprattutto nell’obbligo di


continuare il nome e il seme del padre, era talmente inculcato che addirittura i Papi hanno
dispensato dal celibato, sembra, alcuni chierici che avevano ricevuto i gradi minori del
ministero ordinato per dare modo di continuare la linea maschia della famiglia. Proprio per
questo è considerata eroica la decisione di san Carlo Borromeo di non lasciare la vita
clericale dopo la morte del fratello. La spinta, soprattutto nelle grandi famiglie patriarcali, ad
assicurare la progenie maschile in linea diretta era dunque fortissima.

– Oggi questo pregiudizio assume altre forme, non però meno pericolose. Tutta la
nostra cultura occidentale sostiene con insistenza il privilegio del maschio a esprimere la sua
23

sessualità come gli pare, e perciò considera, di fatto, non pienamente uomo chi non abbia
vissuto o non viva la sessualità genitale. Non sono in pochi a ridicolizzare il celibato dei
preti, a ritenerlo puramente fittizio, a pensare che non possa esistere.
Questa opinione dominante appoggia dunque in tutti i modi la necessità dell’espres-
sione genitale del maschio, l’appoggia con tutte le forme di incitamento alla libertà sessuale
e anzi oggi arriva ad appoggiarla con quella separazione tra sessualità e procreazione che
rende la prima molto più facile, che induce a viverla semplicemente come esperienza. Così, e
lo sappiamo benissimo, l’età delle prime esperienze sessuali, anche complete, diminuisce
sempre più, tocca l’adolescenza.
In fondo, la televisione e, in genere, i mass media vivono di questo pregiudizio (che sta
dietro le quinte, perché raramente verrà messo a fuoco come tema morale). Non sono
relativamente molte le persone che sfuggono a un tale imperio e quindi sono persuase che
uno diventa veramente uomo solo quando possiede in qualche modo una donna; è la forma
tipica della tentazione, che spiega perché sono poche le vocazioni presbiterali. Non ci si
sente di vincere il pregiudizio globale, non ci si sente di abbandonare la visione ancestrale.
Ovviamente, la maggior parte della gente ammette che ci sono delle linee etiche da
accettare: non si ammettono le perversioni sessuali, si sottolinea la necessità del matrimonio
rigorosamente monogamico o comunque della fedeltà almeno temporanea a una donna; tutti
condannano il cambiamento troppo facile del partner. Tuttavia queste linee etiche sono
vaghe, imprecise e certamente non si fondano sulla valutazione del celibato come valore.
Ecco dunque la forma di pregiudizio più crassa contro il celibato e però molto
incidente negli ambienti lontani dalla Chiesa.

2. C’è una forma più sottile, più delicata, più persuasiva della precedente ed è quella
che si riferisce al bisogno di una compagna per maturare e per essere custoditi.
– Che essa abbia molto di vero è dimostrato, per esempio, dal fatto che se si leggono i
primi tre cicli della catechesi del Papa (cf. Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, 31-
286), tutto pare convergere sulla obbligatorietà del disegno divino per il quale l’uomo deve
vivere la fusione con una compagna assegnatagli dal Creatore. Il ragionamento del santo
Padre è così deduttivo a partire dal Libro della Genesi, che sembra non esservi spazio per il
celibato. Se «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18), se «i due saranno una sola carne»
(Gen 2, 24) vuol dire che la verginità non è un valore, che è un disvalore rispetto alla
realizzazione umana. Dio ha pensato l’uomo per la relazionalità e per quella relazionalità che
si compie nella comunione sessuale.
Io credo che la forza persuasiva di questa parola di Dio sia grande. E se una parte delle
vocazioni possibili al presbiterato, al celibato per il Regno viene divorata in partenza dal
pregiudizio maschilista (come il seme della parabola evangelica, che cade sulla strada),
un’altra parte di possibili vocazioni cade in un luogo sassoso, germoglia subito, ma poi
incontra una grossa difficoltà espressa dal dubbio: mi salverò da solo? non ho forse bisogno
di una donna assegnatami dal Creatore, non semplicemente di un’amicizia platonica? A poco
a poco le vocazioni, che pur erano germogliate, restano bruciate dalla domanda, da questo
sole che sembra così ovvio.
Anche nella vita presbiterale o religiosa professata già da molti anni, possono emergere
tali tentazioni, a volte con imprevedibile evidenza, che non si riesce a superare perché le
obiezioni hanno una loro giustificazione, essendo radicate appunto nel disegno del
«principio» a cui si rifà lo stesso Gesù in Mt 19, 3 ss. («in principio» Dio li creò maschio e
femmina e i due si uniranno e saranno una carne sola).
Tutto ciò mette bene in luce come il celibato sia davvero un dono dall’alto, un dono
che si può perdere perché contro di esso sta la parola della Genesi: l’uomo è fatto per avere
una compagna simile a lui.
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– Per questo è particolarmente importante e interessante leggere l’introduzione al


quarto ciclo delle catechesi del Papa dedicato a La verginità cristiana, scritta dal filosofo
polacco Stanislaw Grygiel. Dice tra l’altro: «Giovanni Paolo II mostra il matrimonio così
come esso è “nel principio”. Egli sviluppa l’insegnamento di Cristo che si riferisce al Libro
della Genesi. Dio ha creato l’uomo maschio e femmina. Egli li ha pensati come un’unità
spirituale-corporale costituita dal fatto che l’una esiste per l’altro come dono.
La verità della verginità, invece, egli la mostra alla luce della “fine”, cioè alla luce di
quello stato dell’essere della persona umana in cui le persone non prenderanno né mogli né
mariti, ma saranno come angeli del cielo (cf. Mt 22, 30). Nella situazione del tempo nella
quale l’essere dono nello stato matrimoniale costituisce una via naturale verso lo stato della
perfezione, cioè verso l’amore perfetto, la verginità riveste il carattere di una via
straordinaria, carismatica e non arbitraria, che in una certa misura anticipa lo stato stesso
della perfezione dell’essere della persona umana. La verginità, come stato della perfezione
nel tempo, è comprensibile solo nella relazione con quella pienezza del donarsi dell’uomo
che avverrà nella risurrezione» (Giovanni Paolo II, op. cit., 289).

Non è facile raggiungere questo equilibrio, che teologicamente viene legato al


principio e alla fine, alla creazione e alla risurrezione, previste dall’inizio come unità.
Sappiamo che molta gente non vi arriva, che gli idola tribus non sono permeabili a tale
visione escatologica di risurrezione, perché «animalis homo non percepii ea, quae sunt
Spiritus Dei» (1 Cor 2, 14).
Ciascuno di noi può ritrovare in sé questa fatica, almeno a livello sperimentale, di
sentimenti, di emozioni. Non a caso la Chiesa, in particolare nei primi secoli, ha oscillato nel
definire bene il significato del matrimonio e della verginità. Alcuni Padri, per esaltare la
verginità finivano con il degradare il valore del matrimonio; altri sostenevano che in un
primo tempo Dio aveva creato l’uomo per la verginità e solo dopo, in vista della temporalità
e del peccato, ammise anche una riproduzione di tipo animale.
Oggi non ci si riconosce più in questo tipo di esegesi e di pensiero, tuttavia l’equilibrio
rimane difficile a livello teorico e tanto più a livello di percezione.
L’appropriazione del valore della verginità è quindi una grazia dello Spirito santo, un
dono, una forza interiore, una gioia intrinseca; non è l’effetto di un ragionamento perché il
ragionamento si perde nei meandri del raziocinio, addirittura del raziocinio biblico. Una
rigorosa analisi dei primi due capitoli della Genesi sembrerebbe concludere che esiste un
unico ordine, quello per cui l’uomo si salva solo nella relazionalità coniugale. Ma poi si
constata che non può essere così, anche semplicemente per motivi pratici dal momento che
ci sono persone che, di fatto, non possono sposarsi o non si sposano.

– Comunque, per intraprendere la via carismatica più perfetta – la verginità, il celibato


– occorre la rivelazione di Gesù Cristo, che ci manifesta la situazione finale del credente, la
più simile a Dio, e quindi ci fa cogliere che nella similitudine divina di Genesi 1,27 («Dio
creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»), che è
dinamica, non c’è soltanto il matrimonio bensì pure la verginità.
Dobbiamo accogliere Gesù e, per accoglierlo, dobbiamo esserne innamorati, cioè
entrare nella dinamica sponsale biblica e neotestamentaria.

3. La terza forma di confusione nella proposta del celibato per il Regno è data dalla
paura della solitudine. È una variante della precedente forma, ed è più blanda; il problema
infatti non nasce più dalla prospettiva della rinuncia alla comunione totale intima con la
donna, bensì dalla prospettiva di restare soli.
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– Anche questa paura della solitudine esistenziale funziona, non di rado, come
deterrente all’inizio di un possibile cammino vocazionale di un giovane.
Tale atteggiamento considera di fatto il celibato come una chiusura, come una torre di
avorio, senza veri sbocchi comunicativi, senza esercizio di prossimità quotidiana, e perciò lo
falsa. Ma questa falsa immagine fa, d’altra parte, paura.
Esiste anche la possibilità di un mascheramento del problema del timore della
solitudine: si stima il celibato come un esercizio alto di prossimità e però troppo difficile per
me che ho bisogno di compagnia e di affetto, che ho bisogno di gratificazione nelle piccole
azioni quotidiane. In questo caso si verifica una certa autoillusione, perché si pensa che il
tempo del matrimonio sia identico al tempo dell’amicizia adolescenziale, che ne prolunghi
gli aspetti facili, misconoscendo quindi la vera natura del dono sponsale, che è dono maturo,
adulto.

– Dobbiamo dire che nella paura della solitudine c’è una parte di verità, in quanto la
solitudine è difficile. Insieme c’è una falsità, perché si confonde la solitudine con l’isola-
mento. L’essere preti comporta certamente alcuni momenti di solitudine – il saper vivere, per
un tempo rilevante e prolungato, l’intimità con Dio solo –, ma non l’isolamento che, invece,
rinchiude in se stessi. Se uno si isola è colpa sua, vuol dire che non è capace di comunicare,
di irradiare intorno a sé.
E nella paura della solitudine c’è soprattutto una illusione, difficilissima da superare:
credere che si possa vivere la comunità (magari a due) senza bisogno di affrontare la
solitudine. È comprovato che chi non sa affrontare la solitudine si troverà male anche in
compagnia, perché non sarà capace di gestire i propri problemi e li rovescerà in maniera
dirompente sull’altro. Spesso le comunioni coniugali sono solitudini a due, e quando un
prete pensa di risolvere il suo problema sposandosi rischia di cadere (se la sua crisi non è
bene impostata) in un’altra solitudine perché la colpa di tutto è l’isolamento nel quale si
rinchiude per incapacità a comunicare, non altro.

Preghiera conclusiva
Vorrei concludere la nostra riflessione, che si è svolta come un lungo esame di
coscienza, come un’indagine sulle diverse forme di tentazioni riguardanti il celibato, con una
preghiera.
Il rito di consacrazione della vergine comprende un prefazio estremamente ricco che ci
può molto aiutare a sintetizzare quanto ho cercato di esporre.
Nella prima parte parla della tentazione:
«Sii tu la loro costante difesa, perché il maligno, astuto insidiatore delle migliori
intenzioni, non offuschi in un momento di debolezza la gloria della castità perfetta e,
distogliendo dal proposito verginale, non rapisca il pregio della fedeltà che dà splendore
anche alla vita coniugale». Si suppone quindi che tutte le forme di attacco logico, teologico,
oltre che affettivo, sensuale, emotivo siano portate avanti dal nemico e che il celibato per il
Regno non maturi se non in una lotta diuturna.
Nella parte finale esprime, invece, il vero segreto, il punto nodale del problema, che
non è tanto di riuscire a rintuzzare, smontandoli, gli argomenti del maligno contro il
proposito del celibato, quanto la scoperta del Signore come Tutto.
E conclude: «Sii tu per loro la gioia, l’onore e l’unico volere. Sii tu il sollievo nel-
l’afflizione. Sii tu il consiglio nell’incertezza. Sii tu la difesa nel pericolo, la pazienza nella
prova, l’abbondanza nella povertà, il cibo nel digiuno, la medicina nell’infermità. In te,
Signore, possiedano tutto perché hanno scelto te solo al di sopra di tutto».
Anche dal punto di vista pratico, è questo il cuore della questione: la coscienza di avere
scelto Gesù come tutto della propria vita è l’unica garanzia della perseveranza di una vita
celibataria per il Regno; non ne esiste un’altra. L’ambiente è importante, la direzione
26

spirituale pure, ma ogni cosa deve girare attorno al presupposto che Gesù sia la nostra
consolazione, il nostro conforto, la nostra amicizia; che ci siano quindi i tempi per
intrattenersi con lui, che questa amicizia sia coltivata.
È l’offerta a Gesù della nostra scelta che ci permette di possederlo totalmente fin da
adesso come nella pienezza eterna, di dedicarci a lui anima e corpo, giorno e notte, nella
quotidianità, che dà ragione ed esistenza al celibato. Perché questa stessa scelta è grazia e,
come tale, nutrimento e atmosfera di vita.
Senza di essa a nulla valgono i puntelli di tipo disciplinare, i richiami, le meditazioni,
le riflessioni, le letture. Questo è il dono che dobbiamo presentare a Dio, in quanto ci è stato
dato; che dobbiamo chiedere, se lo desideriamo; su cui domandare luce, se ci pare di non
possederlo a sufficienza e di non capirlo. In maniera che egli ci dia quella chiarezza che sola
ci farà affrontare il difficile cammino della vita ministeriale con fiducia, con tranquillità,
anche con gioia. Perché Cristo ha promesso il centuplo a chi avrà lasciato tutto per seguirlo,
ma non a chi si sarà di nuovo rifugiato nella tana originaria oppure sarà stato fuorviato da
ragionamenti capziosi. Il centuplo è donato a chi vive la totalità.

“O Padre, donaci con sovrabbondanza il tuo Spirito, tu che lo hai dato agli apostoli
nel cenacolo, che lo hai dato ai discepoli nel momento della prova, nelle scelte decisive che
hanno compiuto, tu che lo hai dato ai santi che cercavano te e avevano bisogno di essere da
te illuminati. Fa’ che apriamo il nostro cuore a riceverlo. Te lo chiediamo per intercessione
di Maria, nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo che vive e regna con te nell’unità di questo
stesso Spirito santo per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
27

4.
IL MINISTERO ALLA PROVA

La preghiera pentecostale
Il nostro ultimo incontro è sotto il segno dello Spirito santo. Oggi infatti è l’antivigilia
di Pentecoste e vogliamo pregare tenendo come sfondo la preghiera incessante della
comunità primitiva dopo l’ascensione di Gesù al cielo: «Tutti erano assidui e concordi nella
preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At
1,14). Cerchiamo di vivere questo momento di assiduità e concordia, in orazione incessante
allo Spirito.
Ci lasceremo ispirare per la preghiera pentecostale da un’altra parola di Luca: «II
Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono» (Lc 11, 13), che
costituisce la conclusione dell’insegnamento di Gesù sulla preghiera. Aveva detto prima:
«Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (v. 9). Andando a
ritroso del testo, leggiamo: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli:
Amico, prestami tre pani», glieli darà almeno per la sua insistenza. Questi pani sono il
simbolo dello Spirito, sono la richiesta al Padre che è nei cieli: «Dacci oggi il nostro pane
quotidiano» (Lc 11,3). Dobbiamo dunque supplicare il Padre celeste, con importunità e con
insistenza, perché ci doni il suo Spirito, nella fiducia che essendo padre non darà una pietra,
ma il pane che il figlio gli chiede (cf. Lc 11, 11).
In questa preghiera ricorderemo tutti i giovani della nostra Diocesi e anche i giovani
del sud Italia. Ieri sono stato a Crotone, in Calabria, per un incontro con il Vescovo e con la
comunità cristiana che celebrava una festa mariana importante riflettendo sul tema della
riconciliazione alla luce degli assassinii e delle lotte di mafia che avvelenano quella terra. Ho
visto molti giovani che hanno pregato e cantato con un entusiasmo straordinario; insieme
hanno espresso la loro sofferenza, la loro sensazione di un destino inevitabile di male, la loro
incertezza per il futuro. Dobbiamo quindi ricordarli nell’invocazione allo Spirito santo,
sapendo che proprio quando non sembra che ci siano vie d’uscita può crescere in noi lo
Spirito filiale.

Gesù stanco del ministero


In questo quadro vogliamo riflettere sulle prove, sui pesi del ministero.
Come icona biblica contempliamo Gesù stanco del ministero. L’immagine è nel
vangelo secondo Giovanni: «Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo» (Gv
4,6). Il termine «stanco» è, in greco, kekopiakòs, participio perfetto che indica lo sfinimento,
la stanchezza immensa che si è impadronita di Gesù ek tes oidoporìas, a causa del viaggio,
cioè del suo ministero itinerante, del suo viaggiare in mezzo a noi.
Dietro a queste parole noi leggiamo dunque una fatica che in certi momenti lo sfianca,
tanto che allontana per un poco gli apostoli, nel desiderio di riposare, di avere un momento
di tregua.
Tenendo davanti agli occhi Gesù che, stanco del ministero, siede presso il pozzo,
faremo anzitutto una lectio di due brani del Nuovo Testamento in cui emergono le prove del
ministero e poi, nella meditatio, ci chiederemo come si debbano prevedere e valutare.
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Lectio: aspetti difficili del ministero


1. Il primo testo è di Paolo, e dobbiamo considerarlo autobiografico. «Sia benedetto
Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che
si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi
stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di
Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra
consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che
anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come
siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione. Non vogliamo, infatti,
che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura,
al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di
noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che
risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, per la speranza che
abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora» (2Cor 1,4-10).
In ogni versetto di questo brano leggiamo parole che indicano in diversi modi la fatica
del ministero.
Al v. 4, «tribolazione» e «afflizione»; al v. 5, «sofferenze», quelle che Cristo ha dovuto
sopportare in ragione della sua missione; al v. 6, «essere tribolati» e di nuovo «sofferenze»;
al v. 7, «sofferenze»; al v. 8, la tribolazione è descritta come prova «oltre misura, al di là
delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita»; al v. 9, «sentenza di morte», situazione
dunque di fallimento, senza alcuna via d’uscita; al v. 10, «morte». È tutto un insieme di
circostanze dolorose, afflittive, pesanti, conturbanti, angosciami, che Paolo denuncia e che
non ha vissuto una sola volta, come sappiamo da altre descrizioni (cf. 2Cor 11,23ss.).

2. Il vocabolario paolino, parlando di morte, ci richiama quello di Gesù che, almeno in


un momento della sua vita, alludendo alle sue tribolazioni, impiega il termine «morte»;
«Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli:
“Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo,
cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte”»
(Mt 26, 36-38). Il brano parallelo di Marco, dice: «cominciò a sentire paura e angoscia» (Mc
14,33).
Se dunque a Gesù, e poi a Paolo, non sono state risparmiate prove e fatiche, dobbiamo
pensare che non saranno risparmiate nemmeno a noi, perché: «Là dove sono io sarà anche il
mio servitore» (Gv 12, 26); «potete bere il calice che io sto per bere?» (Mt 20,22).
Il ministero ci viene presentato chiaramente anche nei suoi aspetti difficili e duri, e non
solo in quelli positivi e gratificanti.

Meditatio: il ministero minacciato e consolato


Ma che cosa rende particolarmente pesanti alcuni momenti del ministero, al punto che
rischiamo di soccombere? che cosa infirma, debilita la nostra perseveranza?
Cercherò di rispondere attraverso una serie di domande ulteriori, che sintetizzo in
quattro:
– che cosa intendiamo per «ministero»?
– che cosa minaccia il ministero così inteso?
– che cosa permette di integrare il ministero pesante nella sanità dello sviluppo
personale?
– che cos’è la consolazione interiore come forza specifica del ministero?
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1. Occorre anzitutto chiarire che non intendo qui per «ministero» l’aspetto oggettivo,
cioè la capacità soprannaturale che ci viene data per compiere quelle azioni ministeriali
relative al Corpo eucaristico di Cristo e alla Chiesa, suo corpo, per guidarla e pascerla nella
fede.
Intendo piuttosto l’aspetto soggettivo, la serie di operazioni soggettive che ciascuno di
noi esplica nel suo ministero. Sono una serie di relazioni interpersonali, che ci mettono sia in
relazione con Dio (attraverso gli atti di culto) sia in relazione con gli altri (attraverso gli atti
pastorali).
E ci mettono in relazione – vorrei sottolinearlo – nella forma o nella condizione del-
l’ufficialità e della responsabilità.
Non parlo quindi della preghiera personale o del rapporto che ho con altri nella forma
amicale, familiare.
Parlo di quando il ministro celebra «in persona Christi», di quando compie atti di
relazione interpersonale a nome di Gesù, come suo rappresentante, a nome della Chiesa, in
forma ufficiale e comunque responsabile. Per questo sono atti un po’ pesanti, come ogni
operazione di responsabilità che l’uomo compie (sono pesanti anche gli atti di un politico, di
un ufficiale pubblico, di un amministratore, di un docente). Gli atti del ministero, tuttavia,
hanno un’aggravante: il pastore che li compie ha poco rifugio nel privato. Non è, per
esempio, come il politico che ha nella famiglia un grande contrappeso al logorio delle
responsabilità; non è l’industriale che si può prendere degli hobbies per controbilanciare la
fatica del suo lavoro.

2. Il ministero così inteso diventa allora pesante secondo tre linee:

– nella linea della routine, della ripetitività degli atti formali, che logorano proprio
perché sono fatti per dovere di “ufficio”. Sono atti simbolici e rischiamo di non coglierne più
il senso a motivo del fatto che li compiamo per necessità (la gente li richiede), pur non
avendone voglia. Certo, anche chi fa lavori molto gravosi, per esempio, in fabbrica, si stanca,
ma dopo determinate ore “stacca” e va a casa. A noi gli atti del ministero possono essere
richiesti sempre, senza quasi limiti di orario e di giorni, dal lunedì alla domenica, tutte le
settimane.
È vero che questo impegno continuo può costituire anche un aiuto contro la solitudine,
e però ci pesa.

– Una seconda linea è la carenza di gratificazioni. Talora sono molte, magari superiori
a ogni attesa e a ogni merito; talora, invece, possono mancare. Ci sono poi momenti in cui si
accumulano le non gratificazioni da parte della gente (incomprensioni, malumore
comunitario) e nello stesso tempo non ci sentiamo capiti dai superiori, non ci sentiamo
incoraggiati, riconosciuti. Allora il ministero diventa angosciante, affaticante.

– Infine, siamo minacciati da quella cosa misteriosa che è la demotivazione. Tutti ne


soffriamo più o meno: ne soffrono gli sposi nel matrimonio, i docenti nel loro insegnamento,
i politici nel loro impegno. Chiunque ha una responsabilità vive, a un certo punto, per
stanchezza fisica o psichica, momenti di demotivazione. In questi casi il ministero diventa
davvero pesante e il solo pensare a quello che comporta crea un senso di disgusto, di rifiuto.
È lo stato d’animo che leggo in Gesù nel Getsemani, che leggo in Paolo quando non vede via
d’uscita.
Di queste tre linee che minacciano la tenuta del ministero dobbiamo renderci conto,
perché vi siamo o vi saremo soggetti. Sicuramente vi sono persone psichicamente molto
forti, che riescono ad avere sempre un equilibrio di umore, di voglia, di gusto, però sono
rare. La maggior parte di noi soffre le insidie e le prove.
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3. Che cosa permette di integrare il ministero pesante nella sanità dello sviluppo della
persona? In questo modo il peso può essere una prova di maturazione, di crescita, una prova
che apre le porte alla grazia dello Spirito santo; non una prova insensata o assurda, non
residuo senza motivo dell’esistenza, ma momento costruttivo, prova che ha un significato
prezioso e che dobbiamo attendere che si manifesti con cuore tranquillo perché, mediante
essa, cresceremo nella fede, nella speranza, nell’amore.
Il tema posto dalla domanda è molto importante, riguarda tutta la vita, tutta la tenuta
dell’esistenza. Vi offro alcuni suggerimenti raccomandandovi di metterli in pratica fin da ora
nella vostra quotidianità.

– La cura della salute fisica e psichica. Non di rado si giunge a situazioni senza sbocco
perché si sono sottovalutate le proprie forze. Spinti da generosità, non abbiamo riconosciuto
i nostri limiti e abbiamo così sperperato le energie. Occorre invece imparare una disciplina
mentale e affettiva, se vogliamo giungere a una gestione equilibrata della nostra vita. La
mancanza di ordine nel mangiare, per esempio, nel dormire, può ottenere plauso dalla gente
che ci considera molto dedicati al ministero, tuttavia poi si paga.
Ovviamente ci sono fatiche a cui non possiamo sottrarci, ci sono momenti di punta che
ci impegnano al massimo, ma ciascuno deve conoscere i suoi ritmi e i suoi tempi, per
rispettarli. Una conoscenza non fatta a tavolino, bensì attraverso l’esperienza, quindi anche
sbagliando. Naturalmente è meglio sbagliare per eccesso, lavorare cioè un po’ troppo per
imparare a capire, nell’esame di coscienza, che si è esagerato, che è necessario tirarsi
indietro; è meglio giocarsi lavorando più del dovuto che restare sulla difensiva, nel timore di
stancarsi. Dobbiamo giocarci, però con la capacità di riinquadrarci, per servire a lungo il
Signore e la Chiesa.
La cura della salute fisica e psichica comporta che ciascuno trovi i suoi modi di
“staccare”: una gita in montagna, l’ascolto della musica, un incontro con amici. Piccoli
svaghi che però, se sono ben collocati, giovano assai più che essere divorati dal ministero
passando magari per “eroi”.

– Il secondo suggerimento, ancora di livello umano, è la cura del buon umore. Sapere
cioè equilibrare i sentimenti e le reazioni, senza lasciarsi andare a esagerazioni di
entusiasmo, di euforia o, al contrario, di amarezza, che alla fine logorano.
È importante fare del sano umorismo su di sé e sugli altri, considerare sé e gli altri con
una certa scioltezza, non lasciarsi troppo ingannare dalle situazioni che ci vengono
presentate come tragiche mentre lo sono soltanto relativamente. Tra l’altro, di fronte alle
vere tragedie, la reazione giusta è quella della preghiera e dell’umiltà, non dell’angoscia.

– Entrando in un tema più spirituale, vi raccomando la vigilanza. È quel senso di


distanza, di buon umore trasferito nella sfera dello spirito, quella capacità di tenersi al di
sopra dei giudizi e delle emozioni interiori, per contemplare il Signore, il suo mistero, il suo
Regno che viene, quindi la relatività di tutto rispetto all’infinità di Dio. Vigilanza vuol dire
aspettar-si le prove, vederle come parte del piano divino, avere fiducia che passeranno e che
ne usciremo così come ci siamo entrati. Potrei dire che la vigilanza è una sintesi di
considerazione provvidenziale della storia.

4. Tutto questo sarebbe però poco se non ci fosse la consolazione interiore, l’unico
vero grande rimedio per la tenuta del ministero, la sua forza specifica. Essa è frutto primario
dello Spirito santo e ci permette di mantenere il buon umore e la vigilanza anche in
situazioni che vanno oltre un certo limite.
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– Che cos’è precisamente la consolazione interiore? È quel dono, quel pane che i figli
chiedono al Padre celeste e di cui l’Apostolo dice che lo sostiene nel suo ministero: “Sia
benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni
consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 1,3-4). Paolo resiste
perché sperimenta la consolazione dello Spirito, al punto da poter lui stesso «consolare quelli
che si trovano in qualsiasi genere di afflizione».
È interessante osservare che nel brano della Lettera ai Corinti, la parola paràclesi
appare cinque volte in due versetti: “Dio di ogni consolazione, il quale ci consola... perché
possiamo consolare con la consolazione con cui siamo consolati».
Si tratta di una formidabile esperienza del ministero. Senza di essa non lo si può
affrontare. È, per così dire, il “segreto” della perseveranza, che permette al ministero, anche
se schiacciato dalle difficoltà, mortificato dalla routine, tentato dalla demotivazione, di
resistere, di tenere. La consolazione è l’anima psicologica del ministro (in questo caso dico
del “ministro”, perché nel ministero lo Spirito opera oggettivamente, prescindendo dalla
persona), per la quale egli è se stesso, si autocomprende.

– Per descrivere questa consolazione nei suoi effetti mi appello a sant’Ignazio di


Loyola che ne parla negli Esercizi spirituali, nel Diario, nelle sue Lettere, da maestro
insuperabile. Lo Spirito santo – egli scrive – dà pace, gioia, chiarezza; scaccia ogni
turbamento, attrae interiormente all’amore del Signore, illumina, scopre molti segreti (quindi
fa capire ciò che umanamente non si riesce a comprendere), ci rivela il cammino che
dobbiamo seguire quando siamo incerti, ci suggerisce quello che dobbiamo fuggire (agisce
perciò come prudenza soprannaturale, per spingerci a scegliere il giusto e a evitare l’errore),
ci visita lasciandoci con un profondo senso di tranquillità, di pace. Ignazio ha scritto molto
sull’esperienza della consolazione, perché l’ha vissuta abbondantemente. Dice ancora:
«Consolàti, liberàti da ogni oscurità e inquieta sollecitudine di noi stessi, contenti e
innamorati delle cose di Dio». È molto bello questo «liberati da ogni inquieta sollecitudine di
noi stessi»!
La consolazione, espressa in tutto un insieme di atteggiamenti, è davvero il carburante
quotidiano del ministro, che non gli fa pesare l’ufficialità dei gesti che ripete continuamente
e nemmeno l’incontro con i difetti della gente. Essa è data dallo Spirito proprio perché sia il
sostegno, il soffio del ministro, che lo rinvigorisce, lo rinsalda, lo rincuora, gli apre orizzonti
che sembravano chiusi, gli scopre strade che sembravano non esistere e, anche guidandolo
attraverso un labirinto, gli fa trovare la luce, la via giusta. La consolazione permette di
conservare la calma dove potrebbe nascere inquietudine o malumore. Non dunque una
semplice tenuta psicologica, che pure è importante e bisogna porne le condizioni, non una
semplice speranza di gratificazioni, che pure sono utili, ma la consolazione interiore dello
Spirito è la forza specifica, ordinaria del ministro.

– Tuttavia Gesù ci ha detto che questa consolazione va chiesta, è la domanda centrale


del “Padre nostro”: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Lc 11,3). Il pane quotidiano è
quella forza che permette di sopravvivere oggi, di continuare oggi il ministero. Non lo
chiediamo per domani, per il futuro. È la manna di oggi e dobbiamo vivere della fiducia che
oggi il Padre ce lo dà e domani ce lo darà per il domani.
La consolazione va chiesta con l’importunità e l’insistenza di colui che visita l’amico
di notte perché ha bisogno di mangiare (cf. Lc 11, 5-13). Perché anche noi ci troviamo talora
nella situazione di essere importunati, di ricevere delle richieste che riteniamo eccessive per
noi soprattutto se ci sono fatte dopo una lunga giornata di fatiche; in quel caso dobbiamo, a
nostra volta, andare a importunare l’Amico per avere quel pane che ci è stato domandato,
perché non ci sentiamo all’altezza del ministero, perché non abbiamo risposte da dare.
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Chiedere, quindi, con importunità, sapendo che il Signore ama questa insistenza e ci
lascia a volte nel disagio proprio perché ricorriamo a lui: «Non mi importunare, la porta è già
chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darti i pani» (Lc 11, 7). Il
Signore ci lascia nel senso della nostra inadeguatezza, come ha lasciato Paolo, nel desiderio
che insistiamo. Tale insistenza nel chiedere la consolazione dello Spirito è quindi parte del
ministero, è intercessione del ministero.
Gesù, dopo aver parlato dell’amico importunato, che alla fine concede i pani,
commenta: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11, 9).
Se Dio talora ci appare come qualcuno che ci dà un sasso, e dunque restiamo nell’aridità di
non saper cosa fare per gli altri, oppure come qualcuno che ci dà uno scorpione, cioè un
problema scottante, bruciante, pungente, oppure come qualcuno che ci dà un serpente,
l’angoscia di una situazione che circuisce, non dobbiamo perderci d’animo, ma continuare a
chiedere sapendo che in realtà, egli ci dà il pane, l’uovo, il pesce, lo Spirito.
La perseveranza nella preghiera suscita in noi quello spirito filiale, di abbandono, che è
già lo Spirito santo. Questo significa che l’insistenza nel chiedere non è previa al ministero,
ma è già ministero vissuto, è il ministero di intercessione; essere in mezzo al guado, soffrire
con chi soffre, non aver niente con chi non ha niente, e chiedere con lo spirito filiale.
È racchiuso un grande mistero, quindi, nella preghiera per ottenere la consolazione
spirituale; ed essa, d’altra parte, ci verrà sicuramente donata; non nel senso di sentirla
psicologicamente o fisicamente, piuttosto nel senso che il ministro va avanti e opera a favore
degli altri in maniera impensata, imprevista, al di là di ogni speranza. Perché davvero vive
nella povertà lo spirito filiale e perciò è pieno della consolazione ontologica di Dio, della
grazia ministeriale.

Conclusione: come situarsi rispetto alle difficoltà del ministero?


Dopo quanto ho cercato di esporre, vorrei comunicarvi tre indicazioni che ritengo utili
per situarsi in maniera corretta rispetto alle difficoltà del ministero.

1. Esaminatevi sulla vostra tenuta psicologica adesso, perché le difficoltà sono già
quelle che viviamo nella routine quotidiana; già oggi viviamo doveri, rapporti interpersonali,
al di là degli esperimenti di ministero, nei quali siamo sempre minacciati dalla pesantezza. È
dunque importante capire come la nostra tenuta psicologica funziona e quali sono i nostri
punti deboli.

2. Esaminatevi su come ciascuno applica l’attenzione alla salute fisica e psichica; sulla
cura del buon umore; sulla vigilanza.

3. Infine, esaminatevi sulla perseveranza che avete nel chiedere la consolazione


interiore. Provate a interrogarvi per capire se, in mancanza di questa consolazione, vi
scoraggiate, vi mettete a fare altro, cercando di distrarvi, di non pensarci, oppure se insistete
in quella preghiera che ci pone veramente nella condizione dello spirito filiale, nel cuore del
Nuovo Testamento, nel centro del “Padre nostro”. È attraverso tale preghiera che noi
giungiamo a comprendere chi siamo, che cosa significhi essere figli, dipendere dal Padre,
vivere per la santificazione del Nome, per l’avvento del Regno nella nostra povertà,
debolezza e incapacità.

“Donaci, Signore, la rugiada consolatrice del tuo Spirito, lo Spirito dei figli, lo Spirito
della tenuta vocazionale e della tenuta nel ministero. Donaci, ti preghiamo, in questa
prossima Pentecoste, il fuoco del tuo amore, tutto ciò di cui abbiamo continuamente bisogno
per perseverare nel cammino del Regno anche quando, come Gesù, ci sentiremo affaticati e
stanchi. Maria, madre della gioia profonda e interiore, ottienici dal tuo Figlio e dal Padre
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che è nei cieli quello Spirito di pace, di consolazione, di missione, che è sceso su di te e sugli
Apostoli”.

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