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Vangelo e comunità cristiana

Carlo Maria Martini *

PRESENTAZIONE

Si creano talvolta binomi che accomunano una persona a una realtà importante. È
accaduto in Italia per Padre Martini e la riflessione sulla cristianità primitiva, come ci è
descritta negli Atti degli Apostoli. Il Signore ha disposto che quella competenza cessasse di
porsi al servizio degli studenti degli Atenei romani e si misurasse con i problemi quotidiani
della pastorale diretta. L’esercizio della nuova «diaconia» non ha però accantonato la
funzione del maestro. L’ha anzi esaltata. Solo ha un po’ affievolito un dialogo già
straordinariamente vivo e apprezzato con il mondo della ricerca, a vantaggio di un’attività
che dispensa a un numero assai più vasto di fratelli i frutti maturati in quella ricerca.
Il mutamento è stato pero meno radicale di quanto potesse sembrare. La lunga lista
delle pubblicazioni dell’attuale Arcivescovo di Milano mostra quanto breve sia sempre stato,
per Padre Martini, il passo fra lo studio più tecnico e la traduzione in termini di vita delle
conquiste della sua ricerca. La ripubblicazione dei due scritti, recenti ma non facili da
trovare, che leggiamo in questo libro ne è una conferma. È per il grandissimo interesse che
aveva verso la Chiesa di oggi che il giovane studioso si applicò a decifrare i tratti del volto di
quella antica. Così come dal fatto di essere convinto della funzione paradigmatica della
prima esperienza cristiana egli ha tratto la serena sicurezza nelle applicazioni da portare alla
vita odierna della Chiesa.
Ogni scritto del Nuovo Testamento ci parla della prima cristianità. Tutti insieme ce ne
illustrano i mille volti, nell’omogeneità di una fede comune. Nulla è ozioso o gratuito in quel
polittico stupendo. Chi più ne sa leggere più se ne arricchisce.
Le due parti del nostro libro ci offrono due esempi diversi di lettura arricchente:
l’attenzione al solo Vangelo di Marco permette di seguirne l’insegnamento «catecumenale»
collegato alla vicenda esemplare dei Dodici, mentre una sintesi che tiene presente tutto il
Nuovo Testamento (specialmente gli Atti e le lettere paoline) fa prendere contatto con la
realtà misteriosa, unitaria e poliedrica, delle primissime generazioni cristiane. Le occasioni
in cui sono nati questi contributi sono diverse: per un corso di esercizi è stato pensato il
primo; per una sintesi destinata a un grande dizionario teologico la seconda. Ambedue queste
finalità continuano a essere attuali: quella della Parola di Dio che diventa stimolo per una
riflessione orante e quella della Parola di Dio che vuole organizzarsi in categorie intellettuali
rispondenti alla sensibilità e alla problematica di oggi.
È più facile vedere l’utilità del primo contributo, ma sarebbe un errore sottovalutare il
secondo. Ritornare all’esperienza delle prime comunità di uomini e donne che furono capaci
di giocarsi la vita puntando tutto sull’oscuro crocifisso di origine galilea non interessa solo
come risposta a una legittima curiosità. La loro esperienza ha un valore illuminante nei
secoli, perché la Chiesa di ogni secolo vive in parentela con quella. Quale profonda costante
nelle difficoltà da affrontare e quale insegnamento per l’ubbidienza e il ricorso allo Spirito,
* Marietti, Torino 1981.
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per l’individuazione del nucleo perenne della predicazione che salva, per lo stile con cui si
deve andare incontro all’ambiente estraneo a Cristo. Il contatto con ciò che fu all’inizio ci
ridà consapevolezza del grandioso piano di salvezza realizzato in una storia che travalica i
secoli, ci ridà il senso della freschezza di una fede capace di avvincere tanti fratelli, ci
conferma negli orientamenti dell’impegno attuale.

Giuseppe Ghiberti
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I Dodici e il loro itinerario spirituale


modello per ogni discepolo di Gesù, secondo il Vangelo di Marco1

UNA PAROLA DI INTRODUZIONE

In questo primo capitolo ci soffermeremo sulla lettura del Vangelo di san Marco; in
forma continua (cioè non prenderemo il Vangelo capitolo per capitolo), e nemmeno con un
approccio direttamente tematico (cioè non ci fermeremo su alcuni temi del Vangelo di
Marco, per esempio sul Regno di Dio, le parabole, i miracoli, ecc).
Faremo piuttosto una lettura catechistica perché essa ci aiuterà a percorrere una via, un
cammino spirituale. Dobbiamo infatti partire dal fatto probabile che san Marco presenta una
catechesi, un manuale per il catecumeno.
Il Vangelo di Marco è, cioè, un Vangelo fatto per quei membri delle primitive
comunità che cominciavano l’itinerario catecumenale. Per Marco si può senz’altro parlare di
Vangelo del catecumeno.
Matteo è, invece, il Vangelo del catechista in quanto offre un insieme di prescrizioni,
dottrine, esortazioni.
Luca è il Vangelo del dottore; cioè, il Vangelo dato a colui che vuole un
approfondimento storico-salvifico del mistero, in una visuale più ampia.
Giovanni, infine, è il Vangelo del presbitero; dà al cristiano maturo e contemplativo
una visione unitaria dei vari misteri della salvezza.
Marco è dunque il primo di questi quattro manuali: il manuale del catecumeno;
centrato quindi su un itinerario catecumenale. Esso si può ben condensare intorno alla parola
di Gesù ai suoi: «A voi è dato il mistero del Regno, a quelli di fuori in parabole» (Mc 4,11).
Questo Vangelo infatti ci mostra come dalle parabole, cioè dalla visuale esteriore del mistero
del Regno, possiamo entrare al di dentro e ricevere questo mistero.
C’è un’ulteriore considerazione da fare. In questo itinerario catecumenale, che si
sviluppa lungo tutto il Vangelo di Marco, hanno gran parte i dodici apostoli. È opportuno
quindi proporre, come oggetto specifico secondo il quale considereremo il Vangelo di
Marco, l’itinerario spirituale dei Dodici. Su questo itinerario ciascuno di noi potrà rivedere,
riflettere, ripensare il proprio cammino interiore.

L’ITINERARIO DEI DODICI


NEL VANGELO DI SAN MARCO

I brani evangelici dei Dodici


Ci chiediamo: esiste un itinerario dei Dodici nel Vangelo di Marco? Hanno, i Dodici,
un’importanza sufficiente da permetterci di seguire con un certo rigore esegetico il loro
cammino?
Cominciamo con una constatazione; nel Vangelo di Marco ricorre abbastanza sovente
la parola: i Dodici (oi dodeka). Vi sono sette brani che possiamo chiamare i brani dei Dodici.

1 Da un Corso di Esercizi Spirituali sul Vangelo di Marco, tenuto nel 1976, pubblicato, non rivisto dal-
l’autore, da «Stella Mattutina», Roma 1977, ripreso con adattamenti nella Guida per l’operatore pastorale,
Marietti, Tonno 1978, pp. 308-345.
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1. La prima menzione è al capitolo terzo: «ne fece Dodici» (3,14); ripetuto in 3,16:
«fece i Dodici».
2. Troviamo la seconda nel capitolo seguente: «Quando fu solo lo interrogavano quelli
con Lui, cioè i Dodici, e gli chiedevano il significato delle parabole» (4,10).
3. Il terzo passo si trova al capitolo sesto: «e chiama i Dodici» (6,7). Qui è interessante
notare che il greco ripete lo stesso verbo (proskaleitai) di Mc 3,13: «Chiama a sé quelli che
vuole». Strettamente connessi con questo brano, alla fine del medesimo capitolo, abbiamo
gli apostoli che si radunano presso Gesù: i Dodici sono invitati da Lui ad andare in un luogo
deserto e solitario (6,30).
4. La quarta occorrenza si trova al capitolo nono, in alcune istruzioni di Gesù ai
discepoli. Egli «chiamò i Dodici e disse loro: “Se qualcuno vuole essere il primo sia
l’ultimo”» (cfr. 9,35-40).
5. La quinta menzione dei Dodici è nel capitolo seguente: la terza predizione della
morte e risurrezione (10,32-35).
6. Il sesto brano è contenuto nel capitolo undecimo. Gesù, dopo essere entrato «in
Gerusalemme, nel tempio, e dopo aver osservato ogni cosa, essendo ormai l’ora tarda, uscì
con i Dodici alla volta di Betania» (11,11). Quindi, la presenza dei Dodici nell’apostolato
gerosolimitano di Gesù è ricordata espressamente.
7. Infine la settima occorrenza si ha nel capitolo quattordicesimo, quando inizia la
Passione. Qui la menzione dei Dodici ritorna più volte perché tutto il capitolo è presentato in
stretta connessione con i Dodici. «Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici...» (14,10). «E
fattasi sera venne con i Dodici...» (14,17). «E disse loro: è uno dei Dodici, che intinge con
me nel piatto» (14,20). E infine: «...Giuda, uno dei Dodici...» (14,43).

Struttura «apostolica» del Vangelo marciano


La parola i Dodici appare, dunque, sovente in Marco; e, appare ad intervalli regolari, in
sette contesti diversi, quasi ogni due capitoli. Dal capitolo tre fino al quattordici, la via del
discepolo che gradualmente giunge alla conoscenza di Dio è descritta dall’evangelista come
segnata dalla presenza dei Dodici. Dal momento della loro costituzione (c. 3) fino al
disperdersi nell’ora della prova con il tradimento di Giuda (c. 14) questa presenza è
sottolineata in ogni sezione principale del Vangelo.
Possiamo affermare che i Dodici accompagnano il cammino di Gesù dalla sua prima
affermazione fino alla prova finale.
Notiamo che a questi testi, dove appare la parola i Dodici e che possiamo prendere
rigorosamente come punto di partenza per la nostra riflessione, andrebbero aggiunti altri tre
testi che trattano episodi che li riguardano. Soprattutto noterei al capitolo 1,16-20 le prime
chiamate; al capitolo 8,27-30 Pietro, il quale a nome dei Dodici, confessa che Gesù è il
Cristo; al capitolo 16,7 la nuova chiamata dei Dodici, perché si radunino presso Gesù nella
Galilea, dopo la risurrezione.
Se teniamo presenti tutti gli episodi richiamati, abbiamo una specie di struttura
apostolica della versione marciana. È confermata quindi la possibilità di meditare l’itinerario
dei Dodici nel Vangelo di Marco.
Possediamo dieci pericopi apostoliche (sette più tre), in luoghi chiave del Vangelo.
Esse traggono origine da un’affermazione iniziale: «Perché stessero con Lui» (3,14).
Tutta la carriera dei Dodici ha inizio da questo momento fondante la loro esistenza che
è «l’essere con Gesù»: tutto ciò che segue è l’approfondimento di ciò che «l’essere con
Gesù» significa concretamente per la vita di un uomo chiamato all’intimità personale con il
Signore.
La frase così dura, così inaspettata: «E ne fece Dodici perché stessero con lui» (3,14),
pur nella sua rudezza, è piena di significato e contiene in germe tutta la vocazione degli
apostoli. Le dieci pericopi mostrano il cammino secondo il quale gli apostoli sono giunti
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veramente ad essere con Gesù e possedere il mistero del Regno: «A voi è dato il mistero del
Regno di Dio» (4,11).
Essere con Gesù, ricevere da Lui il mistero del Regno, sono due espressioni che
descrivono l’identità degli apostoli e il loro cammino.

Riflessione penitenziale
e il «nostro» cammino con Marco
Possiamo fare un’ultima osservazione su questo itinerario. Il momento della penitenza
non è posto all’inizio, ma lo troviamo soprattutto verso la fine, con la prova della Passione,
nel capitolo 14. All’inizio c’è soltanto un accenno ad essa, perché, in Marco, non viene
presentato un itinerario di conversione che comincia con la penitenza e prosegue con la
scoperta dell’essere con Cristo, ma viene preposta una chiamata ad essere con Cristo. Tale
appello deve gradualmente purificarsi ed approfondirsi, fino a riconoscere, in una riflessione
penitenziale, quanto ancora ci manca per essere fedeli ad una vocazione già esistente.
Noi dunque seguiremo il cammino di Marco. Terremo presenti le singole pericopi
come sfondo, in maniera da potere intendere come la rivelazione progressiva del mistero del
Regno si attui in coloro che sono chiamati ad «essere con Lui».
Mediteremo il cammino che queste pericopi suppongono o indicano; e ci chiederemo:
– Che atteggiamento suppone nei Dodici questo porsi in ascolto rispetto a Gesù?
– Quale mentalità trova in essi?
– Quali presupposti di fede vengono richiesti? Quale via si vuole far percorrere? Quali
prove presenta questa via?
– Come avviene la graduale rivelazione del Regno di Dio affinché si capisca – non
soltanto a parole, ma a fatti – cosa vuol dire «essere con Lui»?

IL MISTERO DI DIO

La riflessione che intendiamo proporre ci aiuta a creare in noi la condizione di totale


disponibilità al mistero di Dio, alla sua attività, alla sua iniziativa.
Riflettiamo dunque insieme sul mistero di Dio in Marco; meglio ancora, costatiamo
quale portata ha l’educazione al senso di Dio nel cammino catecumenale che Marco
propone.

Il silenzio su Dio
Notiamo subito quanto poco si parli di Dio in Marco.
Mancano per esempio istruzioni fondamentali come quella di Mt 6 sulla provvidenza o
sul Padre Nostro, che è l’occasione di una semplicissima ma ampia catechesi su Dio.
Se consideriamo anche le statistiche, pur nel valore limitato che dobbiamo attribuire a
dati di questo genere, vediamo che in Marco il nome di Dio ricorre 37 volte, contro le 46 in
Matteo e le 108 in Luca. Nel Vangelo del catecumeno, a differenza del Vangelo del dottore,
vi è dunque una menzione molto discreta della persona di Dio.
Lo stesso si ottiene per la menzione di Padre: la parola ricorre 13 volte in Marco, ma
appena cinque volte è riferita a Dio, mentre Giovanni ha centinaia di occorrenze del nome di
Padre riferite a Dio; perché, evidentemente, una catechesi su Dio Padre fa parte dell’is-
truzione del cristiano illuminato, mentre all’inizio Dio viene nominato appena.
Come mai questo silenzio su Dio? Perché se ne parla poco? Dobbiamo, credo,
riportarci alla situazione concreta del catecumeno nella Chiesa primitiva.
I catecumeni della chiesa primitiva, soprattutto quelli a cui si rivolge il Vangelo di
Marco, cioè probabilmente catecumeni provenienti in gran parte dal paganesimo, avevano
già di per sé un grande senso religioso. Non era per nulla estraneo ad essi il pensiero, la
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parola, il vocabolo, la menzione continua di Dio; come dice bene san Paolo parlando
appunto dei pagani: «Ce ne sono molti che sono detti Dio, sia nel cielo che sulla terra, e ve
ne sono molti tenuti per dèi, e molti Signori (kyrioi)... (1Cor 8,5).
Tant’è vero che Paolo, entrando in Atene si irrita per la presenza continua di simulacri
di divinità e chiama gli Ateniesi estremamente superstiziosi. Che fossero gente superstiziosa
appare anche al fatto avvenuto ad Efeso e raccontato in Atti 19,18-19. Vi si dice che molti
dei convertiti portarono i loro libri magici per bruciarli e se ne fece un falò che valeva
milioni (cinquantamila denari d’argento). Ciò vuol dire che la superstizione era molto
diffusa; e il catecumenato veniva impartito a gente che, in fondo, Dio l’aveva in bocca anche
troppo. Il problema non era tanto di porre in essi il senso della divinità, che per loro era
dappertutto e appariva in ogni fenomeno, ma di lottare contro una religiosità erronea.
Tra parentesi, potremmo chiederci: è davvero peggiore la nostra situazione odierna di
ateismo diffuso? Forse è più facile parlare del Dio vero in una situazione di ateismo che non
in una situazione di superstizione dove il parlare di Dio può essere capito male, travisato,
stravolto.
Il Vangelo di Marco è nato in una situazione in cui, all’inizio non era opportuno
parlare troppo di Dio, perché questo poteva venire frainteso. Ecco un motivo probabile
perché al catecumeno non si parlava tanto di Dio. Vedremo poi che, in realtà, si parlava di
Dio, ma non in modo diretto.

Il senso di Dio dai Salmi


Come, dunque, il catecumeno veniva istruito su Dio?
Probabilmente, basandosi in gran parte sull’Antico Testamento, soprattutto sui Salmi.
Il libro dei Salmi educava il catecumeno al vero senso di Dio; quindi la comunità
primitiva, formata anche di cristiani provenienti dal paganesimo, lo leggeva molto sovente e
conosceva benissimo i singoli salmi. Ciò appare dalle citazioni frequentissime che ne fa il
Nuovo Testamento e che non sarebbero spiegabili se la comunità, a cui le lettere apostoliche
sono rivolte, non avesse conosciuto perfettamente i Salmi.
Il catecumeno veniva dunque educato al senso di Dio attraverso i salmi. Anche noi, in
fondo, negli Esercizi, facciamo lo stesso. Attraverso la recita dei salmi ci rieduchiamo a
questo senso profondo di Dio che viene assorbito più con la preghiera che non con la
comunicazione verbale di ciò che si può dire su Dio.
Nei pochi accenni che vengono fatti nel Vangelo di Marco al mistero di Dio, noi
cogliamo quel senso specifico di Dio che egli si attende dal catecumeno e anche quel senso
specifico di Dio nel quale si attua la rivelazione che Gesù fa di sé ai Dodici.
La meditazione che propongo è dunque una breve scorsa ai testi principali di Marco,
una quindicina circa, nei quali si possono trovare accenni diretti o indiretti a Dio, per vedere
quale figura, quali aspetti di Dio vengono sottolineati e, quindi, quali vengono ritenuti più
importanti in un cammino catecumenale verso Dio e verso l’intimità col Signore Gesù, che
scandisce l’itinerario dei Dodici.
Questi testi si possono dividere in quattro serie. Ci sono alcuni testi preliminari che
pongono in luce gli aspetti fondamentali; poi vengono date alcune indicazioni successive;
quindi una serie di temi biblici particolari e da ultimo le indicazioni finali sul mistero.
Quattro tipi di testi; e ciascuna di queste serie comprende tre o quattro testi per ordine.

Testi preliminari (Mc 1,2.3.10-11)


Come tradurre questi testi nella nostra esperienza? Chi è Dio? È colui che prende una
iniziativa misteriosa: «Ecco, io mando il mio angelo davanti a te» (1,2). Tralascio il v. 1
perché è molto discusso; probabilmente è autentico ma preferisco non tenerne conto. Dio al
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v. 2 non è nominato, ma è colui che prende una iniziativa misteriosa, non ben definita;
qualcosa sta per succedere; Dio in qualche maniera ci viene incontro.
Dio è il Dio che viene. «Preparate la via del Signore» (1,3): Dio sta venendo. Questa
indicazione, chiara e misteriosa insieme, su Dio come qualcuno che sta venendo verso di noi,
che si muove di sua iniziativa verso di noi, riappare più avanti «vide i cieli aperti...» (1,10);
cioè, Dio: «II Padre vostro che è nei cieli» (11,2.5), si fa presente alla nostra realtà, alla
nostra esperienza, si mette in comunicazione con noi dal cielo.
E come comunica con noi? La risposta è: «Attraverso il suo Figlio diletto» (1,11);
potremmo dire il Figlio modello, quel Figlio nel quale capiremo qualcosa dell’inconoscibile
mistero di Dio.
Dunque, Dio appare come mistero inconoscibile che, ad un certo punto, prende un’ini-
ziativa misteriosa nei nostri confronti e ci viene vicino per scuoterci. Non è molto; ma è
detto tutto ciò che può suscitare un senso di attesa, di preparazione.
Il catecumeno, quindi, non è invitato a dire subito «Dio è qui, Dio è questo o quello»,
ad esprimere cioè qualcosa di ciò che è Dio: È invitato, invece, a comprendere che Dio è
colui che sta per prendere possesso della sua vita e gli va incontro con una misteriosa
iniziativa che egli è chiamato ad accogliere, senza conoscerla nei dettagli.

Indicazioni chiarificatrici (Mc 1,14.15.35; 2,7)


«Gesù viene in Galilea predicando il Vangelo di Dio» (1,14); quindi indirettamente
sappiamo che Dio è il Dio del Vangelo.
«Si è avvicinato il Regno di Dio» (1,15); quindi Dio è il Dio del Regno.
Come tradurre queste due indicazioni? Il Dio del Vangelo; cioè, il Dio che ti porta una
buona notizia, la quale sta per cambiare la tua situazione. Il Dio del Regno; cioè, il Dio che
sta per mettere le cose a posto, misteriosamente.
Dio è colui che entra nella tua vita con un messaggio sconvolgente, pieno di letizia, e
che viene a riordinare le cose della tua vita. Quindi, di nuovo: l’atteggiamento di chi non sa
ancora ciò che Dio vuole, ma si prepara in piena disponibilità nell’accoglienza di una novità
misteriosa che deve entrare nel suo intimo.
Un altro accenno misterioso, del tutto indiretto, l’abbiamo più avanti: «Gesù al mattino
presto va in un luogo deserto e prega» (1,35). Qui Dio appare come colui che il Cristo prega.
Cristo, presentato prima come Figlio modello e suo rivelatore, è in misteriosa unione con
Dio; e noi, pur senza sapere molto di più su Dio, ci troviamo immersi in un’atmosfera di
attesa, rispetto, riverenza, tensione per il mistero di Dio che, in Cristo si sta rivelando a noi.
E ancora, nel capitolo seguente: «... Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?»
(2,7). La frase è proferita dagli avversari ma serve per dirci che solo Dio è colui che può
perdonare. Essa ci reca il senso del perdono. Dio entra con una iniziativa che è buona novella
di perdono e l’uomo deve restare in attesa e in ascolto, disposto e pronto a riceverlo.
Da questi pochi accenni vediamo che viene operato tutto un rovesciamento della
mentalità pagana, per la quale Dio era l’essere a disposizione dell’uomo, sul quale l’uomo
poteva mettere le mani, farselo propizio, chiedendo e ottenendo da Lui ciò che voleva; un
Dio di fronte al quale l’uomo era in stato di attività manipolatrice.
Ora, invece, l’uomo è posto in stato di totale ricettività, di attesa, ascolto, riverenza,
rispetto. È Dio che sta per fare, sta per mettere in opera il suo Regno.
Noi dobbiamo umilmente ascoltare senza capire, essere pronti ad andare là dove Egli ci
vuole portare.
Questi sono alcuni fra gli aspetti fondamentali dell’attesa del mistero di Dio raccolti
nella prima parte di Marco.
Dal c. 2 in avanti sono pochissime le altre menzioni su Dio perché, come vedremo, è in
opera Gesù. Egli si accinge a rivelarne il mistero nella sua persona; di conseguenza la
catechesi su Dio non appare in primo piano. Una volta che l’uomo si è reso disponibile,
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viene indicato il Figlio, incomincia allora la via della sequela del Figlio, che ci permette di
purificarci da tutto un falso modo di comprendere Dio, per arrivare a conoscerlo nella verità.

Temi biblici
Ci sono, tuttavia, nei capitoli 11, 12, 13, ancora quattro menzioni di Dio che ricalcano
temi biblici dell’A.T. Ci fanno constatare che nel Vangelo marciano non si perdevano di
vista alcuni temi fondamentali, che ritenevano punti di partenza per una catechesi del «Dio
di nostro Signore Gesù Cristo».
Quali sono questi quattro punti fondamentali che si riferiscono sempre alla catechesi
veterotestamentaria su Dio? Nel capitolo 10, la risposta di Gesù: «Nessuno è buono se non
Dio» (10,18). Essa rivela al catecumeno la bontà di Dio, l’unico buono da amare «con tutto il
cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze» come è detto in 12,30.
Altro passo di catechesi veterotestamentaria lo ritroviamo nel capitolo seguente: l’esor-
tazione o indicazione (dipende dalle traduzioni) «abbiate fede in Dio» (11,22: trad. C.E.I.).
Notiamo che il testo greco è molto più misterioso perché dice: échete pístin Théu; cioè,
capovolge la questione: «Chi è Dio?». È colui che merita fede e fiducia, colui che merita
totale abbandono. È ciò su cui si insisterà di più nell’itinerario catecumenale: abbandonatevi
al mistero di Dio che vuole agire in voi non a modo vostro, ma così come Lui vuole. E
quindi siate totalmente disponibili.
Un altro accenno veterotestamentario si trova nel c. 13; il Dio della creazione ricordato
in maniera molto indiretta «Dall’inizio della creazione fino al giorno d’oggi» (13,19).
Quello del Dio Unico, Buono, Fedele, Creatore, Realtà suprema da amare, erano temi
veterotestamentari allora molto presenti. Marco ci dà, infatti, un modello di catechesi per
gente che credeva in questi valori. In una catechesi odierna, evidentemente, tali temi non
potrebbero darsi per scontati.
Su questi temi è costruita l’idea evangelica del Dio che viene, che prende un’iniziativa
piena di mistero, del Dio al quale bisogna abbandonarsi e che ci guida misteriosamente per
mezzo del Cristo.
Questa è la disposizione fondamentale con cui il catecumeno inizia la sua catechesi e
che l’annuncio evangelico suppone in lui.

Temi rivelatori
Finalmente, gli ultimi due testi che sono basilari e rivelatori dell’identità di Dio in
Marco.
Nel c. 14: la preghiera: «Abbà, Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo
calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (14, 36).
Chi è il Dio che sta dietro a questa rappresentazione dataci dalle parole di Gesù? È il
Dio a cui tutto è possibile (idea veterotestamentaria), il Dio che può allontanare il calice ma
che, in realtà, non lo fa. È, cioè, il Dio al quale bisogna rimettersi totalmente perché ha su di
noi disposizione completa e ci guida per vie misteriose, così come ha guidato il Cristo.
Il catecumeno è quindi invitato a passare da una idea umanamente prefabbricata di
Dio, in cui tutto è predisposto, in cui egli può appoggiarsi ed ottenere ciò che vuole, facendo
questo o quell’altro atto di culto, ad un Dio che misteriosamente interviene e lo conduce con
bontà, ma che lo porta là dove Lui vuole attraverso l’iniziativa evangelica di salvezza che per
l’uomo è sempre imprevedibile e sconcertante.
In Marco, difatti, l’ultimo testo in cui Gesù ci parla di Dio è il testo più drammatico del
Vangelo. Sulla croce Gesù grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34).
Come mai si chiude con questo brano la serie dei pochi accenni al mistero di Dio in
Marco?
Proprio perché in esso abbiamo il culmine di questa rivelazione: il Dio che viene
presentato nel Vangelo, il Dio a cui tutto è possibile, il Dio che ha in mano ogni cosa e al
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quale noi ci abbandoniamo totalmente, non è obbligato a fare ciò che noi da Lui attendiamo
e può anche esteriormente abbandonarci come ha abbandonato il suo Figlio. È chiaro che
nelle parole di Gesù c’è anche il senso di speranza, ma non bisogna dimenticare che sono
parole di abbandono. Dio ha lasciato il Cristo in una situazione di amarezza, di desolazione
esteriore, di derelizione umana come se l’avesse effettivamente abbandonato.
Il catecumeno è quindi invitato a riflettere attentamente: guarda che la via per cui ti
metti non è una via facile, una via in cui Dio ti assicurerà, di successo in successo, una
riuscita già da te programmata, ma ti metti nelle mani di un Dio misterioso che è buono, che
vuol fare di te il meglio, ma non a modo tuo.
È in gioco quella disponibilità totale che significa accettare il mistero del Dio diverso
da noi che ci porta spesso, e impensatamente, là dove non vorremmo andare. Lo disse Gesù a
Pietro: ti porteranno dove non vuoi andare (Gv 21,18).
È l’abbandonarsi totalmente al mistero di Dio per tutte le sorprese che ad ogni
momento, ad ogni età dell’esistenza, Egli può manifestare.

L’IGNORANZA DEI DISCEPOLI

Approfondiamo il senso della penitenza


A questo punto intendo proporre una riflessione che ci aiuti nell’approfondimento del
senso della penitenza.
Come appare, nel Vangelo di Marco, questa esperienza di purificazione? Utilizziamo
uno dei passi fondamentali in cui Marco, al c. 4, vuol fare comprendere il mistero del Regno:
«A voi è dato il mistero del Regno; a quelli di fuori tutto avviene in parabole» (4,11-12).
Lo scopo di tutta la catechesi marciana è di far passare da una situazione al di fuori, in
cui il mistero del Regno appare da angolature sociologiche o fenomenologiche, ma non è
colto nella sua sostanza, alla situazione al di dentro.
Nel Nuovo Testamento ricorre spesso l’espressione al di fuori per indicare chi non
partecipa alla conoscenza interiore del mistero del Regno, cioè della fede, come per esempio
i pagani. Nella 1 Cor parlando dei giudizi che devono aversi all’interno della comunità,
Paolo dice: «... tocca forse a me giudicare quelli di fuori?...» (1Cor 5,12-13); e ancora, in
Col: «Camminate nella sapienza per riguardo a quelli di fuori» (Col 4,5), cioè, a quelli che
non partecipano al dono del Vangelo e stanno a vedere, e vi guardano giudicandovi da un
punto di vista esteriore. Nella 1 Ts poi, troviamo: «...affinché camminiate in maniera degna,
per riguardo a quelli di fuori» (1Ts 4,12).
L’espressione è, quindi, abbastanza nota nel Nuovo Testamento e designa la categoria
di coloro che non hanno ancora capito il mistero del Regno. Oggi essa comprende non solo i
non battezzati, ma, di fatto, tutti coloro per i quali i misteri del Regno di Dio e della Chiesa
sono ancora qualcosa di esteriore a cui non si partecipa dall’interno, con cui non ci si
identifica, al punto che tutto appare enigmatico. Si vede la Chiesa fare certe cose, compiere
certe azioni sacre o agire in determinati modi, ma tutto sembra come una grande parata di cui
non si capisce il significato.
Bisogna allora entrare con coraggio all’interno di questo mistero per identificarci con
esso. Ecco la via catecumenale: da un di fuori in cui i segni appaiono enigmatici, verso un
interno in cui essi si identificano con la realtà. Questa via è appunto descritta al c. 4 in cui si
cita un passo dell’Antico Testamento: «Affinché vedendo non vedano, ascoltando non
odano, per paura che si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4,12: cit. Is 6,9-10).
Si è discusso a lungo su questo versetto per indicare se è mai possibile che ci sia, da
parte di Dio, una volontà di non farsi capire. In realtà si tratta di un modo espressivo per dire
cosa succede a chi chiude gli occhi: ed è un versetto molto istruttivo se lo rovesciamo
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cogliendone l’aspetto positivo. Cioè se ci chiediamo: qual è la via del catecumeno? È la via
di colui che vuole aprire gli occhi così da vedere. Molti guardano le cose della chiesa, ma
non le vedono, non ne capiscono il senso. Molti, oggi in posizione di critica verso la chiesa,
sono spesso nell’atteggiamento del guardare e non vedere, dell’ascoltare e non intendere.
Bisogna, invece, passare dal guardare al capire, dall’ascoltare al comprendere, in modo da
convertirsi ed avere il perdono. Ecco la via positiva che le parole del v. 12 esprimono.
E si comprende meglio questo, quando si medita il ripetuto invito, nel Vangelo di
Marco, ad aprire gli occhi, ad ascoltare e a comprendere. Possiamo, così, dedicare questo
paragrafo all’ignoranza del discepolo.

L’ignoranza del discepolo


San Marco suppone che il punto di partenza della vita catecumenale, e per gli stessi
Dodici della loro intimità con Gesù, sia una riconosciuta situazione di ignoranza: di un non
sapere e non capire, di un non vederci chiaro. Questa attitudine di ignoranza viene più volte
ricordata da Gesù ai suoi discepoli, perché si convincano che non hanno ancora veramente
visto né capito. Egli ribadisce che è necessario uscire da una tale situazione di sufficienza e
mettersi invece in un atteggiamento di riconosciuta ed umile ignoranza, disposta ed attenta
all’ascolto.
Ci sono dunque nella prima parte di Marco diversi accenni all’ignoranza del discepolo.
È supposta come il normale punto di partenza della catechesi; per i Dodici, poi, sarà il punto
sul quale si inserirà, ad un certo momento, la chiamata di Gesù.
Nel c. 4, oltre al già citato v. 12, abbiamo il v. 23 con l’invito: «Se qualcuno ha orecchi
per intendere ascolti». Al v. 24: «Guardate bene ciò che udite», e al v. 40: «Perché tanta
paura? non avete ancora fede?»; cioè, non intuite ancora? Vedremo, poi, quanto il c. 4 sia
fondamentale, perché segna un passo avanti nella conoscenza di Gesù.
Nel c. 6 ritorna lo stesso rimprovero: «Non avevano capito riguardo ai pani, essendo il
loro cuore indurito» (6,52).
Altro brano di insistenza sull’ignoranza del discepolo è al c. 8: «Perché state
discutendo che non avete pane? Ancora non capite, non intendete (in greco letteralmente:
non avete mente)? Avete il cuore indurito? Avendo occhi non vedete, avendo orecchi non
udite? E non vi ricordate...» (8,17). Ci sono presentati cinque rimproveri successivi che
passano in rassegna tutti i sensi dell’uomo per fare intendere agli interlocutori che non hanno
capito assolutamente niente.
E finalmente al c. 9 troviamo l’ultimo brano riguardante l’incomprensione: «Ma questi
non capivano la parola e avevano paura di interrogarlo» (9,32).
Ecco dunque il punto di partenza per il cammino catecumenale. Tale stadio, anzi,
accompagna per qualche tempo questo itinerario ed è caratterizzato dalla situazione di essere
in qualche modo con l’animo ancora al di fuori del centro del messaggio; di intuire
confusamente qualcosa, ma di non avere ancora capito il mistero. «A voi è dato il mistero...»
(4,11s). Ma questo mistero non viene inteso, non viene capito fino in fondo finché non è
percorso tutto il cammino che è segnato dal Vangelo di Marco. Dal c. 4 al c. 9 si sottolinea
che si è ancora molto indietro in questa strada.
È un atteggiamento che dovremmo suscitare in noi ogni volta che ci mettiamo di fronte
al mistero di Dio. Dovremmo poter dire: «Quanto poco conosciamo del mistero di Dio».
Perché è soltanto con questo atteggiamento che possiamo metterci in attentissimo ed umile
ascolto, pronti a percepire ciò che Dio vuole comunicarci.
Il primo punto allora è il seguente: il Vangelo di Marco suppone, per un serio cammino
catecumenale e per una vera sequela dei Dodici nei riguardi di Gesù, che si parta dalla
costatazione dello stato di una certa ignoranza e incomprensione teorica e pratica del mistero
di Dio.
11

Quale ignoranza?
Dovremmo adesso tentare di rispondere a questa domanda: in che cosa consiste con-
cretamente questa ignoranza? Dove si esplica negli apostoli, nei discepoli?
Occorre leggere tutto il Vangelo di Marco e vedere dove e come tale ignoranza affiora.
Ho scelto alcuni tra i vari passi che si potrebbero proporre, tenendo presente che il Vangelo
di Marco viene letto in una situazione di istruzione catecumenale. Ogni episodio di Marco, in
fondo, ha lo scopo, soprattutto nella prima parte, di stigmatizzare l’ignoranza del discepolo e
fargli capire cosa non va in lui affinché se ne avveda e cerchi di correggersi. Tutta la prima
parte, quindi, ha uno scopo penitenziale. I passi che ora leggiamo contengono tutti un
rimprovero di Gesù, rimprovero diretto o indiretto. Da essi si vede che viene sempre rimpro-
verata al discepolo una situazione di nescienza e di incomprensione.

Ignorare la vera libertà


Nel c. 2 ci imbattiamo nell’episodio degli apostoli che stanno cogliendo le spighe di
grano al sabato.
Che cosa viene rilevato in quella narrazione? Ciò che si potrebbe chiamare l’ignoranza
della vera libertà dei figli di Dio. «Non avete letto ciò che fece Davide quando era in
necessità, come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione» (2,25).
Si tratta chiaramente di un rimprovero di Gesù: non avete letto le Scritture? non le
capite? È condannato l’atteggiamento tipico di chi sta facendo faticosamente il passo dal di
fuori verso il centro del mistero, ma continua ad attaccarsi alle leggi, alle norme, alle
convenzioni, alle consuetudini come se fossero qualcosa di estremamente importante. Il
catecumeno pagano era spesso tentato di fare questo: di legarsi, cioè, a norme e leggi, quasi
che in esse soltanto potesse salvarsi.
Gesù fa intendere che chi possiede questo atteggiamento di rigidità non ha ancora
capito il mistero del Regno che non si rivela nella condizione di tale attaccamento alle
esteriorità legali. Gesù le rimprovera come un difetto ed un errore, facendo notare che
Davide era diverso e sapeva rendersi conto di ciò che era importante e di ciò che era
accessorio, avendo egli superato lo stadio di una esteriore legalità.

Saggezza umana e diserzione del Regno


Un secondo rimprovero di Gesù lo troviamo, subito dopo, nel c. 3. È un forte
rimprovero; Gesù guarda intorno a sé con ira, profondamente rattristato per l’accecamento
del loro cuore (3,5).
A rattristarlo è la situazione dei farisei che gli stanno intorno nella sinagoga, mentre
Egli si appresta a guarire di sabato un uomo. Non osano rispondere al quesito: «È lecito nel
sabato fare del bene o del male?» (3,4).
Si tratta di gente colta, venuta a spiarlo, e che sta lì a guardare, in posizione di critica;
gente che non osa buttarsi; gente che non osa dire una parola per paura di compromettersi. E
il Signore rigetta la paura dell’impegno. Questo è un atteggiamento comune a parecchi
cristiani di oggi: lo stare a guardare la chiesa, il Cristo, le cose della chiesa, al di fuori, pronti
a giudicare, a programmare, forse, ma senza tuttavia buttarsi dentro e impegnarsi. È
l’atteggiamento di comoda sufficienza critica di chi non vuole pagare di persona.
Un tale atteggiamento suscita l’ira di Gesù e il suo profondo dolore, perché esprime il
fatto che si discute, si disserta sul Regno di Dio in maniera anche dotta, in maniera
apparentemente prudente, ma si ha paura di sporcarsi le mani, a buttarsi nella mischia.
12

Paradossale autocoscienza
Un atteggiamento successivo stigmatizzato da Marco lo troviamo nel medesimo c. 3.
Qui la situazione è capovolta, perché sono gli altri che rimproverano Gesù. È una situazione
paradossale, ironica, nella quale Marco vuol fare vedere a che punto si arriva quando si
critica lo stesso Gesù. Vengono i suoi e vogliono prenderlo dicendo: «È fuori di sé» (3,21).
Altro atteggiamento tipico di chi crede di essere dentro al mistero, ma ne è ancora fuori.
È la paura di fare la fine di Gesù; cioè, di essere chiamati fanatici.
Molti vorrebbero avvicinarsi al mistero cristiano, parteciparvi in parte, ma non troppo,
per la paura che la gente dica: «è matto». In realtà non si vuole partecipare fino in fondo al
mistero di Gesù, e questa paura non è rara anche all’interno della chiesa stessa. Molti di noi
vorrebbero vivere il cristianesimo in un modo tale che la gente non pensi che siamo diversi,
un po’ strani, che ci siamo esposti troppo.
Certamente non dobbiamo essere dei fanatici, ma tuttavia non dobbiamo avere paura
che altri lo pensino. Dobbiamo essere prudenti, equilibrati, discreti, ma non dobbiamo
preoccuparci troppo che gli altri ci ritengano tali. Perché sarà difficile, se prendiamo il
Vangelo alla lettera, che ad un certo punto qualcuno non dica di noi: «è fuori di sé, fa troppo,
se la prende troppo», dal momento che questa è stata la sorte di Gesù.

Le troppe preoccupazioni
Un altro atteggiamento presentato come un errato punto di partenza per un itinerario
catecumenale, lo troviamo descritto ampiamente nel c. 4. In forma parabolica ed enigmatica
nei vv. 4-7, dove si parla del seme mangiato dagli uccelli, calpestato sulla strada, soffocato
dalle spine; spiegato poi nei vv. 14-20 attraverso le diverse applicazioni: il diavolo, le
persecuzioni, i troppi affanni ed impegni. Vorrei qui insistere soprattutto su quanto ha
origine nel cuore dell’uomo; cioè, i troppi affannosi impegni e le molteplici preoccupazioni.
Tutto ciò è indicato come una delle cause dell’impossibilità di comprendere la parola e
dell’incapacità di penetrarne il mistero. Lo sappiamo per esperienza: questa è una delle cause
più frequenti per cui gli uomini, anche i cristiani di una certa bontà d’animo, non arrivano a
superare l’esteriorità. Presi da molte cose, invischiati in un continuo succedersi di eventi
esteriori, sono incapaci di arrivare al cuore della realtà.
Colui che inizia la via della conoscenza di Gesù è chiamato a superare questi
atteggiamenti. E non dimentichiamo che le spine delle continue preoccupazioni (mérimnai),
cioè delle angustie del momento presente, possono operare in qualunque situazione, in
qualunque momento, anche quando si è molto avanzati nella vita dello spirito e della
conoscenza di Cristo.
L’accumularsi di preoccupazioni esteriori è il più grave pericolo nel quale possiamo
incorrere, perché può veramente, ad ogni momento, soffocare ed ottundere lo spirito.

Cuore angusto e mediocrità


Un altro atteggiamento riprovato dal Signore lo trovo nel medesimo c. 4: «Guardate
ciò che ascoltata. Con quella misura con cui misurate sarà misurato a voi e vi sarà dato»
(4,24). È l’atteggiamento del cuore angusto, del cuore che non si apre; dà poco e allora poco
riceve; del cuore che chiede al Vangelo quel tanto che basta e quindi riceve molto poco. Un
chiudersi nel proprio limite, che qualche volta può diventare regola di vita: fare il meno
possibile, accontentarsi di tutto ciò che ci mette al riparo dal troppo impegno, dalle esigenze
di Dio; scegliere la mediocrità che conduce ad un vicolo cieco.
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Il «cuore» dell’uomo e l’occhio cattivo


Un’ultima serie di rimproveri, di atteggiamenti da evitare perché rendono incapaci di
conoscere il mistero, l’abbiamo infine nel c. 7 che è una piccola somma della catechesi
morale della chiesa primitiva: «...È dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, che escono i
pensieri cattivi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivie,
occhio cattivo, maldicenza, credere di essere qualcosa, stoltezza. Tutte queste cose cattive
escono dall’interno e contaminano l’uomo» (7,21-23). Questi versetti enumerano molti vizi e
peccati.
Innanzitutto c’è l’affermazione evangelica fondamentale: è dall’uomo, dal suo interno
che queste cose nascono e, di conseguenza, è soprattutto l’interno che occorre rinnovare; il
problema non è solo della società, della struttura, del sistema, ma del cuore dell’uomo da cui
tutto procede.
In secondo luogo va notato che oltre i peccati grossolani che parrebbero riguardare un
peccatore che vuole convenirsi e non noi, ci sono degli atteggiamenti raffinati che vale la
pena di considerare. C’è ad esempio, quello che viene chiamato l’occhio cattivo (ophtalmós
ponerós). Non è facile, a prima lettura, dire cosa si intenda con occhio cattivo. Ma anche
Matteo nella parabola dei lavoratori della vigna parla di occhio cattivo: «Non mi è permesso
di fare ciò che voglio del mio? Ovvero l’occhio tuo è cattivo perché io sono buono?» (Mt
20,15). Possiamo forse concludere che venga rilevato un atteggiamento di invidia e quasi di
critica dei disegni di Dio.
Noi ci affatichiamo tanto e poi Dio, al di fuori di ciò che noi abbiamo fatto, opera cose
migliori e più belle; per esempio: nei protestanti e nei pagani. Questo talora ci sconcerta, e
suscita in noi un senso di smarrimento davanti al mistero di Dio: «Ma come, noi abbiamo
tanto lavorato, operato e forse le persone migliori ci sono sfuggite!».
Un ulteriore atteggiamento da respingere è indicato nella stoltezza (aphrosýne): è
l’ultimo della serie precedente che, come abbiamo detto, costituisce una sorta di summula
del catecumeno. Ci sono tanti modi di stoltezza, ma ci sembra di coglierne due che sono
specificamente enunciati in due passi del Vangelo di Luca.
Al c. 11, sono chiamati «stolti» i farisei che purificano l’esterno del bicchiere e non si
curano dell’interno che è pieno di furto e di cattiveria: «Stolti! Colui che ha fatto l’esterno
non ha fatto anche l’interno?» (Lc 11,40). Stoltezza, in questo caso, è ogni incoerenza che si
preoccupa degli atteggiamenti esteriori, che potendo essere visti, mettono in cattiva luce;
mentre non ci si preoccupa degli atteggiamenti inferiori.
È una situazione nella quale è possibile essere coinvolti, perché è facile ritenere
importanti quelle cose di cui tutti si preoccupano, e invece trascurare quelle cose che sono
poco pubblicizzate o reclamizzate, ma che, davanti a Dio sono più serie e gravi.
Un’altra stoltezza (aphrosýne) la troviamo rimproverata al c. 11 di Luca, al termine
della parabola del ricco stolto, il quale, avendo un grande raccolto, pensa di organizzarsi
costruendo un granaio. Il Signore gli dice: «Stolto (áphron)\ questa stessa notte chiedono da
te la tua anima!» (Lc 12,20).
Viene qui stigmatizzato l’atteggiamento del dare troppa importanza alle cose esteriori.
Ognuno di noi deve, nella vita, realizzare delle cose esteriori: fare, costruire, amministrare...
Bisognerebbe – ci dice il Vangelo – compiere tutte queste cose con l’indice o col dito
mignolo della mano sinistra; perché anche se esse coinvolgono responsabilità, impegni,
persone, il Regno di Dio è la cosa più importante. Tutto il resto vale ed aiuta, ma può esserci
o non esserci; oggi c’è e domani viene distrutto. Basta un niente per dissolvere un’opera
esteriore; invece ciò che conta è l’interiore adesione al Regno.
Ancora un’indicazione, nella medesima serie, è la hyperephanía: cioè
quell’atteggiamento che – ci dice la Madonna del Magnificat (Lc 1,51) – Dio ha respinto: il
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credere di essere qualcuno. L’atteggiamento di superbia, che impedisce la conoscenza del


Regno e rende ottusi alla intuizione della verità profonda del Vangelo.

L’identità dei discepoli


Abbiamo delineato, attraverso sei testi di Marco, un quadro del come il catecumeno,
nella chiesa primitiva, veniva esortato ad esaminarsi, a confrontarsi con la sua realtà di
peccato, per comprendere le radici della sua ignoranza del Regno. A questa ignoranza,
riconosciuta ed umilmente accettata e confessata, Gesù porta una notizia buona e strabiliante.
Questo lieto annunzio, ci dice Marco nei primi due capitoli, è soprattutto rivolto ai malati; a
quelli, cioè, che si riconoscono affetti, in un modo o nell’altro, da qualcuna di queste
debolezze. Condizione essenziale, quindi, per riceverlo, è riconoscersi coinvolti in qualcuna
di queste difficoltà. Altrimenti non si può essere in grado di ascoltare il Vangelo. Gesù dice:
«Non hanno bisogno del medico i sani, ma quelli che stanno male; non vengo a chiamare i
giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17).
Mentre da una parte questa situazione di ignoranza, di incompiutezza e di
inadeguatezza del discepolo gli impedisce di capire il mistero del Regno, dall’altra parte il
riconoscerla umilmente gli permette di ascoltare la parola del medico Gesù.
Il male ha dunque il rimedio. Il riconoscersi bisognosi è già passo necessario verso la
Parola. Nella prospettiva dell’educazione del catecumeno si comprendono, quindi, i primi
due capitoli di Marco che mostrano Gesù abbondantemente occupato con i malati. Gesù il
grande medico, Gesù che non trascura nessuna malattia, che non rifugge di fronte ad alcun
limite dell’uomo. Questi versetti dovevano riempire di consolazione il catecumeno incerto e
titubante dal momento che rivelavano la figura di Gesù-medico-universale, pronto a venire
incontro a qualunque genere di malattia, di oppressione, di difficoltà. Marco dice: è venuto
proprio per questo.
Si attua già qui il primo incontro tra il catecumeno che si riconosce ignorante e distante
dal Regno e la figura di Gesù medico, il quale non gli dice ancora cosa dovrà fare, ma gli
annunzia che è venuto proprio per guarirlo. Il confronto fra il catecumeno e il suo Signore
prelude all’intimità della chiamata di Gesù.

LA CHIAMATA DI GESÙ

Nel paragrafo precedente abbiamo detto che il confronto tra il catecumeno, che si
riconosce ignorante e bisognoso, e il suo Signore, prelude all’intimità della chiamata di
Gesù.
Considereremo, in questo paragrafo, le chiamate che Marco pone al c. 1,16-20, al c.
2,13.14 e al c. 3,13-19. Presentiamo questi passi nella prospettiva teologica del Vangelo
marciano. Marco ha, infatti, voluto non soltanto tramandare i fatti di Gesù, ma presentarli in
una cornice accurata e teologicamente elaborata, in maniera da dare un senso profondo ad
ogni parola e ad ogni inserto redazionale.
Vi sono studi molto recenti sulla struttura del Vangelo di Marco e sul posto che in
questo libretto hanno le chiamate, e in particolare, quelle dei Dodici. Mi riferirò ad essi.
Considereremo i testi dividendoli in due parti chiaramente distinte dallo stesso Marco:
– la prima parte, che comprende i primi due testi, la chiameremo: le vocazioni presso il
lago;
– la seconda parte, con il testo del capitolo terzo, sarà intitolata: la vocazione sul
monte.

Le vocazioni presso il lago


Esse ci pongono una serie di interrogativi.
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Dove avvengono queste chiamate?


Presso il lago. Marco insiste chiaramente su questo particolare che ripete ben tre volte.
«Passando presso il mare di Galilea, vide Simone ed Andrea» (1,16); la stessa connotazione
di luogo è ripetuta per la chiamata di Giacomo e Giovanni: «andato un poco oltre» (1,18). La
medesima situazione locale la troviamo nel c. 2. «Gesù uscì di nuovo presso il lago» (2,13);
«facendo strada (in greco, il verbo è parágon, come in 1,16) vide Levi di Alfeo seduto al
banco delle imposte» (2,14).
Cosa vuol dire il «lago» nella presentazione di Marco? Il lago è il luogo nel quale vive
la gente di Galilea e vi lavora: Gesù cerca e trova la gente nella propria situazione. Marco ci
presenta Gesù che va per le strade del mondo a cercare la gente là dov’è.

In quale situazione Gesù chiama?


L’evangelista precisa con insistenza: al proprio posto di lavoro. Per ciascuno, la
medesima circostanza: «Li vide mentre gettavano le reti in mare: infatti erano pescatori»
(1,16). Sono dunque presso il lago, al loro mestiere. Lo stesso, per Giacomo e Giovanni:
«sulla barca li vide mentre riassettavano le reti» (1,19). Quindi non soltanto sono pescatori,
ma stanno pescando, oppure si accingono a farlo, preparandosi alla pesca. È interessante
quell’insistere che sono lì e stanno facendo il lavoro di ogni giorno.
La stessa precisazione al c. 2: «Facendo strada presso il lago vede Levi, figlio di Alfeo,
seduto al banco delle imposte» (2,14); quindi non soltanto si parla del suo mestiere, è
gabelliere, ma è seduto lì al banco delle imposte, al suo lavoro di ogni giorno.
Che cosa vuol dire Marco? Che Gesù chiama la gente a seguirlo là dove si trova, nella
propria situazione concreta. Va a porgere a ciascuno il suo invito là dove egli è, in una
situazione comune, onesta e onorata come quella dei pescatori, oppure in una situazione
disonorata e moralmente difficile come quella del gabelliere. Gesù va dall’uno e dall’altro e
li chiama.
In questa situazione il catecumeno riconosce la chiamata che a lui, come a ciascuno di
noi, è stata rivolta là dove egli era: in una situazione geografica, ambientale, familiare,
sociale, temperamentale, diversa. Dio ci ha incontrati e chiamati là dove eravamo,
invitandoci alla fede e alla sequela del Cristo.
La chiamata quindi viene offerta a ciascun uomo là dove egli si trova, nella propria
situazione.

Come chiama Gesù?


Viene sottolineato l’aspetto personale: attraverso un colloquio familiare. Vede Simone
e Andrea, si avvicina loro, parla e li chiama. Vede Giacomo e Giovanni, si avvicina loro
familiarmente, parla e li chiama. Vede Levi di Alfeo e anche a lui, singolarmente, si
presenta, parla e lo chiama.
Gesù si avvicina ad ogni uomo e, là dove egli è, gli fa ascoltare quella parola di
speranza e di fiducia che è la chiamata a seguirlo.

A che cosa chiama?


Questo non viene specificato se non in maniera generica, ma al tempo stesso globale; a
seguirlo. «Venite dietro di me (déute opíso mu)» (1,17);
oppure: «Seguimi (akolúthei mói)» (2,14). Cioè chiama ad andare dietro a lui, a
percorrere la sua via, e quindi chiede soprattutto un’immensa fiducia in Lui. C’è, in verità,
una frase misteriosa: «Vi farò pescatori di uomini» (1,17), ma rimane avvolta nel mistero del
futuro. Ora bisogna fidarsi totalmente di Lui. Così l’istruzione catecumenale della chiesa
primitiva leggeva l’abbandono fiducioso a Gesù, necessario per percorrere la via verso la
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conoscenza del mistero. Il catecumeno ha visto qualcosa di Gesù, della sua chiesa, ha sentito
un’attrazione e deve decidersi a impegnarsi, altrimenti non potrà arrivare a percorrere il
cammino. Fiducia totale, donazione completa alla persona di Gesù e non ad una causa.
Perché Gesù non dice «vieni a fare una cosa o un’altra», ma abbi fiducia nella mia persona.

Con quale risultato Gesù chiama?


Marco sottolinea la subitaneità, l’urgenza della risposta; tutti acconsentono subito: in
1,18; in 1,20; in 2,14.
Questa prima serie di chiamate invita ognuno di noi a prendere coscienza di quanto la
nostra vita sia stata trasformata dalla chiamata di Gesù. Per il catecumeno e per noi, è la
vocazione battesimale: chiamata fondamentale nella quale si radica ogni altra, e che ci ha
posti nella via cristiana; itinerario globale, abbracciante tutta quanta la nostra esistenza e
sempre legato alla persona di Gesù che seguiamo.
Invita ognuno di noi a prendere coscienza, con riconoscenza, di quanto la nostra vita
dipenda dal nome personale che Gesù, nella sua infinita bontà, recando verso di noi la
misericordia di Dio e facendola divenire Corpo e Parola, ha voluto pronunciare su ciascuno
di noi.

Vediamo ora, invece, il secondo tipo di chiamata:

Chiamata sul monte


In Marco 3,13-19, il testo si fa estremamente più denso e più ricco. Vedremo prima di
tutto il testo stesso che Marco stacca da ciò che precede e da ciò che segue, perché sia
maggiormente evidenziato; rileveremo poi lo sfondo su cui avviene la chiamata, il luogo
dove avviene, cioè il monte, e infine le varie parole, prese una per una, cioè:
– «Gesù chiama a sé,
– quelli che voleva,
– e andarono presso di Lui,
– e fece Dodici,
– affinché siano con Lui,
– per mandarli a predicare,
– e avere il potere di cacciare i demoni» (3,13-15).

Ogni parola ha un significato molto ricco in tutta la struttura di Marco.


Prima di tutto, il testo è chiaramente distinto, almeno scenograficamente, da ciò che
precede e da ciò che segue. Esiste, infatti, al v. 13 e al v. 20 un cambio di topografia. Nel v.
13 Gesù sale sul monte; nel v. 20 va verso una casa. Il soggetto è sempre Gesù, il quale è al
centro di tutto questo quadro. Viene enucleato quindi un luogo distinto da tutto il resto, in cui
Gesù sta per compiere qualcosa di straordinario.
Qual è lo sfondo ambientale nel quale avviene l’azione descritta nei vv. 13-19 ? È
descritto nei versetti precedenti, soprattutto in 3,7-12. Non è più, come nelle chiamate presso
il lago, la vita quotidiana con la gente al proprio posto di lavoro, ma l’immensa moltitudine
dei bisognosi; potremmo dire, il dolorante spettacolo ecclesiale del popolo che accorre a
Gesù. Tutt’altra situazione della precedente. Prima un incontro in un ambiente limitato;
adesso è ormai tutta una moltitudine che ha sete e fame della Parola di Gesù, della sua
persona, ed è piena di ansia, brucia dal desiderio di essere salvata da Lui.
Marco, di solito così conciso, sa descrivere tutto questo in maniera mirabile: «...Molta
gente dalla Galilea lo seguì. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea, dall’oltre
Giordano, dai dintorni di Tiro e Sidone, una moltitudine grande, udito quanto Egli faceva,
venne a Lui. Perciò Egli disse ai suoi discepoli di tenergli sempre vicino una barca, a causa
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della folla, per non restarne schiacciato: poiché, avendone guariti molti, tutti quelli che
avevano malanni, gli si gettavano addosso per toccarlo. E gli spiriti immondi, quando lo
vedevano, gli si prostravano innanzi e gli gridavano: “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli
severamente imponeva loro di non manifestare chi egli fosse» (3,7-12).
È messo in rilievo il premere dell’umanità dolorante, in tutte le sue miserie, da ogni
parte e non soltanto dalla Galilea e dalla Giudea, verso Gesù. È un grandioso scenario di
convergenza dell’uomo verso la persona di Gesù che parla.
In questo sfondo ecclesiale e che potremmo definire redentivo, Gesù sale sul monte.
Che cosa significa salire su questo monte, dove comincia l’azione che ci accingiamo a
contemplare? Non è facile determinarlo. I lavori recenti di cui ho parlato cercano di studiare
il significato che può avere questo accenno. Sappiamo che nell’Antico Testamento salire
significa solitudine, separarsi dal resto, speciale momento di preghiera. In questo senso Luca
parla di Gesù che si separa e sale sul monte a pregare.
Con Marco siamo però davanti a un quadro diverso. A leggerlo bene vediamo che non
c’è, nella sua mente, un Gesù che lascia tutta questa gente con le loro miserie e se ne va in
solitudine. Gesù è, invece, presso il lago, e vicino al lago ci sono, lo si vede anche oggi, delle
piccole alture o colline. Egli, lentamente, va verso una di esse mentre la gente lo segue, poi,
da quella posizione elevata, comincia a gridare, a chiamare per nome. Quindi, la sua, è una
vera scelta ecclesiale, in un certo senso. Dalla massa di persone che lo seguono,
sovrastandola, Gesù chiama misteriosamente e solennemente alcuni. Certamente questo
salire sul monte dà un rilievo al gesto di Gesù, che forse può avere anche altri significati
teologici; ma il più evidente è quello che abbiamo descritto. Marco ci presenta chiaramente
una scena solenne in cui Gesù, senza separarsi dalla folla, e tuttavia distanziandosene in
qualche maniera, quasi per provvedere meglio ad essa, abbracciandola, con uno sguardo,
chiama i Dodici. Egli non sceglie i suoi nella solitudine; li sceglie nel pieno della sua attività,
tra la folla che cerca aiuto presso di lui. Il senso apostolico ed ecclesiale di tale scelta è
quindi evidenziato dal modo stesso della descrizione.
Gesù sale sul monte e «chiama (proskaléitai) quelli che voleva (ételen) e andarono
(apélthon) da lui». Tre tempi diversi: presente, imperfetto e aoristo. Il presente: Gesù
chiama. È un verbo tipico di Marco, che lo usa nove volte (in Giovanni non appare mai).
Marco, tuttavia, lo usa generalmente come participio, mentre qui al c. 6,7 è usato nella forma
finita; cioè, come verbo che descrive un’azione. È riservato, cioè, a descrivere l’azione di
Gesù nei riguardi dei Dodici.
Dal punto di vista esteriore, qual è il contenuto di tale verbo? L’azione è descritta nel
modo seguente: nella folla immensa, nella quale ci sono malati, storpi, gente che urla, Gesù
grida ad alta voce i dodici nomi, fa segno e questi si staccano dagli altri, venendo verso di
Lui. Esteriormente è uno scandire con solennità alcuni nomi. Ma dal punto di vista degli
atteggiamenti, questo verbo contiene chiaramente l’idea di subordinazione. Chiama in questo
modo chi ha potere su di un altro. Un caso tipico in cui il verbo è presente in Marco con
questa sfumatura, lo troviamo in 15,44, dove Pilato si meravigliò e «chiamato il
centurione...» ecc.; cioè il superiore che chiama a rapporto presso di sé un inferiore.
Probabilmente oltre all’idea di subordinazione c’è quella di preferenza; uno speciale
rapporto con Gesù insito in questo chiamare che sceglie. La preferenza è comunque
chiarissima nel versetto seguente: «Quelli che voleva Lui»; qui si esprime la sovranità della
chiamata. Anzi, a questo «voleva» non deve forse attribuirsi tanto l’idea di «quelli che a Lui
piaceva», di «quelli che gli erano venuti in mente», ma piuttosto l’idea del verbo ebraico
«quelli che lui aveva in cuore». Il paragone migliore lo trovo in Matteo 27,43, che cita un
passo dell’Antico Testamento, il Salmo 22,8. Lanciando delle invettive contro Gesù in croce,
la folla grida: «Ha avuto fiducia in Dio! Lo salvi ora, se lo ha in cuore» (eithélei; lo stesso
verbo di 3,13: éthelen).
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Gesù quindi chiama quelli che vuole, che ha in cuore, che ha prediletto. L’insistenza è
poi espressa di nuovo nell’autós: quelli che Egli voleva. L’autós non era necessario dal
punto di vista grammaticale perché la frase è ugualmente chiara, ma insistendo con il «che
voleva Lui» si sottolinea che non c’è nessuna qualità, nessuna bellezza o attrattiva da parte di
chi è chiamato, ma è Gesù che li ha in cuore e li sceglie. È questo suo amore il movente delle
sue azioni. Forse si può leggere un’altra sfumatura nell’imperfetto «che voleva», «che
portava in cuore» ed è l’intensità dell’affetto. La medesima sfumatura dell’imperfetto
l’abbiamo in un caso del tutto opposto, al c. 6,9: «Erodiade ce l’aveva contro Giovanni e
voleva ucciderlo (éthelen)»; cioè, covava nel cuore questo desiderio da tempo, con intensità
di passione. Qui, all’opposto, Gesù ha nel cuore i suoi, con amore appassionato. Egli stesso
quindi li chiama.
Ed ecco la risposta: «Andarono presso (prós) di Lui». Marco, qui, non usa il frasario
delle prime chiamate: «Lo seguirono»; cioè, il Maestro va avanti e il discepolo, il cristiano lo
segue. Non dice «andarono dietro a Lui», o «lo seguirono», ma andarono «presso di Lui»,
intorno a Lui. È raro questo uso di prós con il verbo di moto. Di solito si usa eis per
descrivere l’andare ad un luogo. Si usa prós soltanto per le persone, ad indicare una intimità
che si viene a creare.
Prós autón vuol dire, di fatto, mettersi dalla parte di uno, non soltanto andare
fisicamente verso, ma stare con qualcuno. Per questo Marco dice: «vennero» (apélthon). Il
verbo greco venire, preceduto da apó, indica il lasciare una certa posizione per andare ad
un’altra. Gli apostoli lasciano la loro posizione comune, in mezzo alla gente, per mettersi
strettamente dalla parte di Gesù, insieme con Lui.
È interessante notare che qui Marco non ha usato un verbo indicante un atteggiamento
interiore, per esempio «gli obbedirono», ma invece usa «si mossero», lasciarono il loro posto
e vennero là dove era Lui. In tutta la descrizione noteremo questo aspetto di concretezza: non
si parla soltanto di una adesione interna, ma proprio del mettersi nella situazione dove Gesù
si trova.
Il v. 14 comprende la frase «E fece Dodici»; frase molto strana anche in greco, con
l’inciso «Che chiamò apostoli», inciso non riportato da tutti i codici. Segue poi: «Affinché
siano con Lui per mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni».
Già dalla traduzione è evidente la durezza del susseguirsi ed accumularsi di queste
frasi, ciascuna delle quali ha un senso pregnante.
«Fece Dodici». Il significato è certamente forte perché può voler dire: «Ne stabilì
Dodici». Alcuni esegeti addirittura intendono: «Ne creò Dodici»; quasi che, con questi
dodici, si ricreasse un popolo. Certamente non è bene forzare troppo il testo, ma il verbo si
presta ad un significato densissimo.

Qual è, infatti, la finalità del «fare Dodici»? La proposizione contiene due verbi:

— «Affinché siano con Lui», e questo è al centro della scelta, dell’affermazione, della
volontà di Gesù. Cosa vuol significare questo stare con Lui? Intanto è sorprendente che lo
scopo di tutta questa grande scena sia che i Dodici stiano con Lui: ma proprio lì è posto
l’accento di tutto il brano.
Stiano con Lui, prima di tutto con una presenza fisica, e quindi lo accompagnino.
Notiamo che, quando durante la Passione la portinaia di Caifa si rivolge a Pietro per
accusarlo, non dice: «Tu eri un discepolo», ma «Anche tu eri con Gesù» (14,67). Si vede
quindi che la caratteristica di questi uomini non era tanto quella di essere della gente che
aderiva intellettualmente, ma che stava fisicamente sempre con Lui.
Questo stare è la prima cosa alla quale Gesù chiama, e in questo essere con Lui
possiamo leggere forse anche di più se ricordiamo che questa è la formula tipica
dell’alleanza: «Dio con noi e noi con Lui». Si realizza in questa semplice convivenza, il
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popolo della nuova alleanza, espressa da «Dio con noi e noi con Lui». Notiamo infine che il
verbo al congiuntivo (hina ósin) indica proprio la stabilità: affinché stessero stabilmente con
Lui. E quindi: non perché fossero suoi discepoli, perché lo accogliessero, lo accettassero, gli
ubbidissero. Prima di tutto, invece, è sottolineato lo stare fisico che è esso stesso oggetto di
chiamata, di scelta, di elezione.

– Dall’esser con Lui deriva poi l’altro verbo per il quale «Fece Dodici»: mandarli a
predicare.
Notiamo che anche qui non si dice: stiano con Lui e predichino; ma viene affermato
che è Gesù che li manda a predicare. È sempre presente, cioè, nel rapporto tra Cristo e i suoi,
l’iniziativa di Gesù.
San Paolo in Rm 10,15 mette quasi in rapporto tecnico, nei riguardi della predicazione,
il «mandare a predicare». È dunque Gesù che li manda a predicare, a proclamare, a gridare.
Predicare che cosa? È ciò che verrà spiegato in tutto il Vangelo di Marco. Possiamo
anticiparlo dicendo: predicare Lui, il mistero del Regno, il Cristo. Allora si comprende
perché sono con Lui: stanno con Lui perché devono testimoniare di Lui. Non sono con Lui
perché debbono essere istruiti e poi mandati a ripetere, ma perché lo conoscano intimamente
in una comunione di vita e poi lo testimonino.
Vediamo quanto il senso dell’apostolato come testimonianza personale sia fortemente
sottolineato.
L’altra realtà che scaturisce da questo essere con Lui è l’avere potere di cacciare i
demoni. Non si dice di cacciarli, ma avere il potere di farlo. Anche qui le parole sono
pregnanti. Per esempio il termine exusían, in Marco, è usato solo per Gesù e per i Dodici.
Soltanto Gesù e i Dodici hanno il potere per eccellenza. In Marco 1,22 si dice che quello del
Cristo è un insegnamento nuovo con potenza. La frase «cacciare i demoni» ha, per Marco,
una grande importanza perché indica, attraverso gli esorcismi e ciò che essi significano, la
lotta che Gesù conduce contro il male; quindi, la sintesi dell’opera di Gesù, alla quale Egli
associa i suoi. La medesima parola ritorna al c. 6,7 quando Gesù manda i suoi in missione.
Essa è perciò strettamente legata alla predicazione. Ciò vuol dire che, secondo tale
concezione, predicazione e lotta contro il male sono strettamente unite. Non si tratta di una
predicazione astratta e poi di un’azione benefica, ma di una predicazione che si attua con
potenza (cfr. Mc 1,22).
Desidero concludere questa riflessione con un’ultima osservazione: cosa devono fare i
Dodici in Mc 3,14-15? Devono predicare e cacciare i demoni. Come sarà descritta la loro
azione in Mc 6,12-13? Che hanno predicato e cacciato i demoni.
In sostanza: che cosa sono i discepoli? Sono Gesù stesso che prolunga la sua azione.
Non sono soltanto i ripetitori di ciò che hanno udito, ma sono l’azione di Gesù che si allarga
e si prolunga. Ancora una volta comprendiamo l’importanza dell’essere con Gesù, non tanto
per imitare qualche parola o coglierne qualche frase, ma per identificarsi con il suo modo di
vivere, di agire, per testimoniarlo e ripeterlo alla stessa maniera.
Ecco come Gesù ha preparato i suoi e come prepara tutti coloro che nella chiesa sono
chiamati ad essere in permanenza con il Signore.
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LA CRISI DEL MINISTERO GALILAICO DI GESÙ


(LE PARABOLE DEL SEME)

In questo paragrafo vogliamo riflettere sul c. 4 detto il «capitolo delle parabole»; ne


comprende principalmente tre: la parabola del seminatore, con la spiegazione che segue; la
parabola del seme che cresce da solo; la parabola del granello di senape.
Questi sembrano essere i tre elementi costituenti la più antica unità letteraria da cui si è
sviluppato il c. 4. In seguito sono state aggiunte altre due brevi parabole: quella della lucerna
sotto il moggio e quella della misura, evidentemente per raggrupparle tutte insieme.
Ci chiediamo: lungo l’itinerario dei Dodici con Gesù, a quale momento corrisponde
l’insegnamento delle parabole? A quale problema intende venire incontro? Quale momento
del cammino degli apostoli con il Signore, viene a segnare?
Sembra molto probabile che gli insegnamenti delle parabole del c. 4 corrispondano ad
un momento di crisi del ministero di Gesù. Occorre quindi: 1) prima di tutto, e brevemente,
analizzare la crisi del ministero di Gesù; 2) vedere, poi, come essa si rifletta, e continui ad
operare nella crisi del catecumeno che, nella chiesa primitiva, legge questo Vangelo; 3)
considerare come questa crisi può rispecchiarsi in noi; 4) infine, vedere in qual modo le
parabole intendono dare un insegnamento e venire incontro a tale momento di crisi,
momento necessario per la formazione dei Dodici nella sequela di Gesù.

Crisi del ministero galilaico di Gesù


Gli esegeti sono d’accordo nel ritenere che, dopo i primi momenti di successo, c’è stato
nel ministero di Gesù un momento di crescente difficoltà. Questa difficoltà è accennata in
varie parti di Marco. Dapprima si tratta di una difficoltà di rapporti con i suoi compaesani,
annunciata in Mc 6,3 ss.; dove Gesù è respinto dai Nazaretani che si scandalizzano di Lui.
Poi la cosa si allarga; non vale soltanto per Nazaret. Ad un certo momento Gesù è indotto a
reazioni come questa: «...gemendo nel suo spirito disse: Perché questa generazione chiede un
segno? In verità vi dico che non le sarà dato nessun segno... e se ne andò al di là del lago»
(8,12).
È chiaramente un momento di urto, quasi di ira del Cristo che non viene capito. Il suo
messaggio non viene accolto e Gesù addirittura se ne va, si allontana.
Del resto neppure gli stessi apostoli lo capiscono a fondo e pochi versetti dopo, in un
brano che abbiamo già letto, Gesù può ripetere amaramente: «Ma non capite, non intendete,
siete accecati? Non avete più nella mente quando spezzai i cinque pani per i cinquemila
uomini, quante ceste piene di pezzi ne portaste via?... ancora non intendete?» (8,17-21).
Ciò vuol dire che Gesù non passa di trionfo in trionfo, ma piuttosto, dopo la prima
grande ondata di entusiasmo, che è notata espressamente in 3,7 dove si parla di «molta
folla», di una grande massa di gente, gradualmente questo entusiasmo va calando per vari
motivi.
Intanto è chiaro, da diverse espressioni di Gesù, che parecchia gente che lo segue non è
della qualità che Gesù vuole; è gente che va dietro per motivi esteriori e non sa vedere in
fondo alle cose. Questo spiega l’insistenza di Gesù: «Chi ha orecchi per intendere ascolti»
(4,9); perché è gente che non sa capire bene, è gente che vede e non intende, ascolta e non
comprende e quindi non si converte e non viene perdonata.
Gesù fatica a far capire il suo messaggio; la gente viene attirata all’inizio dai segni
strepitosi, ma poi, quando si tratta di venire al dunque, parecchi si tirano indietro. Abbiamo
così altre affermazioni – in capitoli seguenti – abbastanza negative e pessimisti-che:
«...questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (7,6).
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Affermazioni più ampie, che si riferiscono a molti altri uditori, le abbiamo in 9,19: «O
generazioni incredule! Fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?».
Esse indicano che Gesù, nel suo ministero, non aveva sempre consolazioni. Oppure la dura
rampogna di 8, 38: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa
generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui...».
Assistiamo, dunque, a partire dalla fine del c. 3 di Marco, ad un declino del prestigio
personale di Gesù. Egli viene gradualmente contestato e respinto, e già anzi in 3,6 si
comincia a volerlo togliere di mezzo. L’opposizione parte dai Farisei, ma poi si allarga alla
gente semplice sino a diventare opposizione completa. Nella parabola dei vignaioli – Mc
12,10 – Gesù parla ormai di sé come della pietra che è respinta dai costruttori. Egli sente che
la sua vita si avvia a terminare in un insuccesso, che essa viene rifiutata e respinta. Il rifiuto
sarà gridato in 15,14-15, quando Pilato chiederà cosa ha fatto di male, e la gente urlerà
sempre più forte: crocifiggilo!
Il Vangelo di Marco, quindi, non tace per nulla che la via di Gesù, dopo un primo
momento di entusiasmo e di successo, ha dovuto contrastare con una diffidenza crescente,
con il distacco e l’allontanamento di parecchi, sempre più numerosi, sino ad essere
completamente respinto dalla maggioranza della sua gente.
Tale esperienza i Dodici la condividono a partire dal giorno in cui, con entusiasmo,
solennemente, sono stati chiamati dalla folla per seguire Gesù. Essa si ripercuote nel
Vangelo: anch’essi partecipano in maniera dolorosa alla crisi del ministero di Gesù. Quando
Pietro, per esempio, in 8, 32 incomincia a rimproverare il Signore, mostra di soffrire
veramente perché non può, non riesce a capire il senso delle cose che accadono, e lo fa
presentando sé e tutti gli altri apostoli quasi dicessero: ma così non va, non ti abbiamo
seguito per questo, era altra la realtà che ci promettevi o almeno che sembravi promettere.
Lo stesso sgomento si ritrova in 9,32, quando Gesù parla della sua prossima Passione ed essi
non capiscono nulla di quel discorso e hanno paura di interrogarlo.
Analogamente in 10,32, quando Gesù, precedendoli va verso Gerusalemme. Essi, «di
ciò si meravigliano e avevano paura». Appare quindi chiaro che anche gli apostoli sono presi
da un senso di sgomento e di disagio; stanno ancora con Lui, ma si domandano perché le
cose vanno così, cosa sta succedendo; non si aspettavano questo.

La crisi del catecumeno nella chiesa primitiva


Il catecumeno che legge questo Vangelo e trova in esso descritta la via che lo attende
nella sequela del Signore, come sente in sé ripercossa la crisi che si è verificata nel ministero
galilaico di Gesù?
Diciamo subito che anche il catecumeno, nella chiesa primitiva, dopo aver risposto
generosamente alla prima chiamata, analoga alla chiamata presso il lago, attraversa la sua
crisi; crisi necessaria.
Quali sono le cause che creano la crisi del catecumeno, dopo il primo momento di
entusiasmo? Possiamo immaginarlo facilmente pensando alla situazione del catecumeno che
dal mondo pagano, ricco di tutta una sua tradizione, di una sua cultura, di una struttura
sociale ben compaginata, entra nel piccolo gregge dei credenti in Cristo e si domanda:
perché così pochi credono e si convertono? Perché questa parola di Dio – se è veramente
parola di Dio –non travolge il mondo, non lo cambia in un baleno?
C’è poi la domanda che si ponevano con più dolore, amarezza e sgomento gli ebrei
convertiti: perché il popolo non ha accettato la Parola? Perché non c’è una conversione in
massa come ci aspettavamo dalle promesse? È il problema che angosciava anche san Paolo,
il quale era continuamente tentato e agitato da questo pensiero: ma perché la parola di Dio —
se è parola di Dio – non cambia, non con verte il cuore di tutto il popolo?
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E per i giudei e per i pagani insieme, altri problemi che affiorano nelle lettere di Paolo:
perché un Messia crocifisso? Perché un messaggio così oscuro, così doloroso, così diverso
da quello offerto dal nostro ambiente?
Vediamo quindi come, nella chiesa primitiva, il catecumeno – dopo aver acconsentito
alla sequela di Gesù – passa anch’egli attraverso una prova di fede, analoga a quella per la
quale è passato Gesù stesso e sono passati gli apostoli. Essa consiste fondamentalmente nel
domandarsi: ma perché la parola di Dio non sconvolge immediatamente il mondo, non lo
trasforma subito?

La nostra crisi
Ecco, allora, che in questa luce possiamo riflettere sulle prove della nostra fede, quelle
per le quali devono necessariamente passare tutti coloro che presso il lago o sul monte hanno
sentito la chiamata e l’hanno ascoltata. Credo che le prove attraversate dalla nostra fede
siano analoghe a quelle di Gesù, dei suoi, di coloro che erano con Gesù, dei cristiani
primitivi e di tutti coloro che lo seguono.
Le domande che possiamo farci dal punto di vista personale sono: perché Dio non mi
fa migliore? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, di impegno, di preghiera, di meditazione,
siamo sempre gli stessi, con gli stessi piccoli difetti, con le stesse piccole difficoltà, quasi
fossimo agli inizi della vita spirituale? Perché la parola di Dio non ci ha trasformati?
E poi, guardandoci attorno, ci possiamo chiedere: perché il Vangelo non cambia il
mondo? Perché così poco frutto dal mio apostolato? Perché il nostro messaggio non è
attraente, non ha un’immediata rispondenza nella gente, in modo da essere subito capito,
assimilato e messo in pratica? Perché non c’è corrispondenza immediata tra la parola
pastoralmente bene annunciata e la rispondenza della gente? Perché pastoralmente non è
possibile programmare in modo da vedere presto una risposta che ci permetta di fare, in
crescendo, un ulteriore programma con nuove risposte sempre migliori?
Altre domande ci vengono poi, in momenti particolari della vita, nei momenti
drammatici: perché la sofferenza? Perché questa morte, lo stroncamento di un apostolato che
produceva tante frutto? Perché Dio sembra non aver bisogno di persone all’acme dell’attività
e del rendimento?
Tutte situazioni nelle quali possiamo ripetere: perché il Regno di Dio va così; perché
non c’è una immediata rispondenza tra potenza della Parola e sua attuazione?
Ecco alcune ripercussioni di questa perenne purificazione della fede che si attua nei
Dodici, nella chiesa primitiva e in ciascuno di noi.

La risposta in parabole
Vediamo ora, come quarto punto della nostra riflessione, in che modo il capitolo delle
parabole risponde a questa situazione di crisi.
Le tre parabole – che hanno come protagonista comune il seme – ci danno, ciascuna
con un messaggio diverso, la risposta alla domanda fondamentale:
perché la parola di Dio non fa frutto subito e non trasforma il mondo, non trasforma gli
altri, me stesso, ecc.

La prima parabola, quella del seminatore, è portatrice, in sostanza, di questo


insegnamento: la parola di Dio non fa frutto automaticamente.
La parola di Dio di per sé, è buona e, se presentata bene, farebbe frutto; ma esso non
dipende solo dalla parola, dipende anche dalle diverse situazioni del terreno, dalle diverse
risposte.
Questo è un punto essenziale del mistero del Regno di Dio, il quale non è un mistero
da interpretare secondo categorie di efficienza. Si pongono, cioè, in opera un certo numero di
mezzi e si ottengono adeguati risultati. Esso è un mistero di dialogo in cui viene fatta una
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proposta che può essere accettata o trascurata e appena considerata o respinta. È un mistero
che gli apostoli sono chiamati a vivere stando con il Signore. Bisogna verificare, giorno per
giorno, che il Regno di Dio va avanti attraverso questa umile proposta, la quale, proprio
perché è proposta, ha in sé insito tutto il rischio della negligenza, trascuranza, non
accettazione, opposizione. E gli apostoli devono vivere con Gesù questo mistero dell’umiltà
del seme del Regno, il quale, pur essendo parola di Dio – e quindi la cosa più perfetta, più
santa e più strapotente che esista –, si adatta ad essere accolta dalle pietre, dalle spine, dal
terreno sbagliato e accetta tali situazioni nelle quali non può fare frutto.
Potremmo forse domandarci, con la chiesa primitiva, nella spiegazione più ampia della
parabola del seminatore, quali sono le situazioni che impediscono di fare frutto.
La parabola ne elenca tre: il seme che viene mangiato dagli uccelli, quello che cade tra
le pietre e non mette radici, quello che cade tra le spine e che viene soffocato. Vengono
notate le tre grandi difficoltà nelle quali incorre continuamente la predicazione evangelica
che, pur essendo santa, buona e presentata pastoralmente bene, spesso non fa frutto.

Il frutto della Parola e l’accoglienza


La prima difficoltà – il seme divorato dagli uccelli – viene spiegata con la menzione di
satana: «Subito satana viene e toglie la parola seminata in loro». Cosa significa questa
venuta di satana? Se noi ci riferiamo alla figura di satana, in altri passi di Marco, per es.
quando Pietro in 8, 33 viene rimproverato da Gesù, vediamo che satana porta nel cuore
l’incomprensione delle vie di Dio. L’incapacità a comprendere la via della croce e, quindi, il
desiderio del crescente successo. Il catecumeno, che accetta il cristianesimo come un modo
di essere di più, di valere di più, di avere più prestigio, più autorità è come il seme mangiato
dagli uccelli. Dovrà accorgersi che la via non è quella, che ha sbagliato strada, e tornare
indietro.

L’efficacia della Parola


La seconda difficoltà – il seme senza radici – descrive la situazione nella quale la
parola è stata accettata solo esteriormente. È stata accolta per un certo gusto estetico della
parola stessa, per una certa forma di snobismo, forse: la parola piace, ha il suo momento di
moda! Ma in realtà, non è stata accolta con quella profondità di adesione a Cristo, con
quell’amore personale per Lui che soltanto permette di conservarla, senza scandalizzarsi di
Lui. Questo radicarsi in Cristo (di cui parla san Paolo in Col 2,7) potrebbe essere il modo
con cui la chiesa primitiva spiegava le sue radici: bisogna essere profondamente radicati in
Lui e nell’amore di Lui per poter fare della ricerca di Lui non la moda del momento, ma un
qualcosa di permanente e di profondo, che non tema lo scandalo.

Al di là di ogni aspettativa
La terza difficoltà – il seme soffocato – è di moltissimi. Le preoccupazioni della vita
presente, l’attrazione esercitata dall’avere, dal potere, dal possedere. Per moltissimi la
preoccupazione del guadagnare è ostacolo alla parola stessa. Tali preoccupazioni della vita
presente hanno d’altronde una applicazione molto vasta, se pensiamo che nel rimprovero
fatto a Marta, che pure si stava occupando del pasto di Gesù, ritorna la stessa parola: «Marta,
ti preoccupi di troppe cose» (Lc 10, 41). Il giudizio, quindi, sull’influsso negativo delle
preoccupazioni eccessive – se vogliamo dare veramente senso e valore alle parole usate da
Gesù –, è molto severo.
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In conclusione, la parola non fa frutto automaticamente ma umilmente e, pur essendo


divina, si adatta alle condizioni del terreno, o meglio, accetta le risposte che il terreno dà e
che spesso sono negative.
Così Gesù spiega agli apostoli perché Lui predica e la sua parola non è efficace. Non è,
in realtà, inefficace la sua parola, ma è l’accoglienza che manca. Questa parabola vuole
essere la giustificazione di Gesù di fronte ai suoi, che vorrebbero un suo maggiore, quasi
automatico, successo.
La seconda parabola – il seme che cresce da solo – è, come spesso avviene nel
Vangelo, in certo modo il rovescio della precedente. La prima ci ha detto che la parola non
fa frutto da sola; qui, al contrario, si afferma: «spontaneamente» da sola (4,28).
Vuole dire agli apostoli, che temono perché la parola è respinta, che la parola fa frutto
a suo tempo. Bisogna avere fiducia, perché la parola seminata va avanti da sola. Buttatela
quindi con coraggio, non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare
condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della parola. Voi spargetela e poi
andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto.
Mentre la prima parabola esprime un insegnamento di realismo, questa ci presenta un
insegnamento di fiducia assoluta che la parola, da sola, fruttificherà. Basta seminarla con
coraggio, con pazienza e con perseveranza.
La terza parabola – quella del granello di senapa – è anch’essa adattata a questa
situazione.
Gli apostoli che sono attorno a Gesù vedono, ad un certo punto, che il loro gruppo
rimane un piccolo gruppo, non si sviluppa, molta gente non prende seriamente il Maestro. Ed
egli risponde ai loro muti interrogativi con la parabola del granello di senapa, del piccolo
seme. Non abbiate paura, – dice –, il Regno di Dio comincia con poco. Non vogliate
pretendere chissà quali risultati; lasciate che le cose si sviluppino gradualmente: da piccoli
semi, da invisibili inizi, nascerà il grande successo del Regno di Dio.
Gesù chiede, in sostanza, agli apostoli una cambiale in bianco; chiede fiducia assoluta
in Lui: venitemi dietro! Voi vedete che le cose non vanno bene, vi immaginavate di avere un
Maestro trascinatore di folle, vedete invece che non lo sono. Questo non dipende da me,
dipende dal fatto che il Regno ha la struttura di proposta di una persona ad un’altra persona;
però il Regno di Dio è potenza di Dio e quindi si sviluppa certamente. Dal poco, Dio
produrrà il molto; dal pochissimo, si svilupperanno cose immense.
Gesù educa i suoi – e la chiesa primitiva ripete questo insegnamento ai catecumeni —
a chiudere gli occhi su ciò che sembra realtà perché si vede e ad aprirli su ciò che è; cioè,
sulla realtà misteriosa del Regno di Dio che sta fruttificando silenziosamente, mentre noi non
ce ne accorgiamo, e darà frutto a suo tempo.

GESÙ IN AZIONE

Vogliamo ora portare la nostra riflessione su un episodio della vita di Gesù raccontato
in Mc 9,14-29. Esso ci mostra un suo tipico modo di agire, in un momento difficile.
Vogliamo, cioè, vedere in questa meditazione, come Gesù parla, come agisce, come si
muove, come si comporta, in una parola Gesù in azione.
Mc 9,14-29 è un episodio lungo, circostanziato, che si riferisce ad un momento storico
della vita del Signore.
Perché veniva tramandato nelle comunità primitive con tanta dovizia di particolari?
Possiamo azzardare un’ipotesi: perché nella comunità primitiva si praticavano molti
esorcismi, alcuni dei quali fallivano. L’episodio del fanciullo indemoniato vuole, allora,
venire incontro all’insuccesso, in modo da poter superare lo scandalo degli esorcismi
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mancati. Esso si propone di far vedere che l’esorcista non dev’essere troppo sicuro di sé,
perché anche gli apostoli non sono riusciti; l’esorcista non deve gloriarsi del suo potere
perché anche lui è soggetto a mancare, se non possiede le condizioni qui segnalate.
Probabilmente, però, è presente anche qualche elemento che fa pensare ad un riflesso
di catechesi battesimale; pare, cioè, che Marco aiuti il catecheta ad indicare alcuni aspetti del
battesimo.

Possiamo dividere l’episodio in sei parti.

1. Mc 9,14-16. La scena è costruita accuratamente. Attraverso una serie di immagini


visive si suscita l’interesse del lettore.
Gesù, dopo la Trasfigurazione, scende dal monte con i tre apostoli, raggiunge gli altri,
vede una gran folla, gli scribi che discutono, la gente che alterca e che, al vederlo, corre a
salutarlo. Questa confusione indica l’esistenza di un grave problema che interessa tutti. E
Gesù interroga gli apostoli: «Di che cosa discutete con loro?».

2. Mc 9,17-18. Il caso: viene presentato il problema attraverso la parola del padre del
ragazzo: «Maestro, ti ho condotto il mio figliolo che ha uno spirito muto e, dove l’afferra, lo
abbatte; egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho domandato ai tuoi discepoli di
cacciarlo, ma non ci sono riusciti».
La scena si concretizza, così, in un caso difficile. Difficile per la tragicità, per il
ribrezzo, per il disagio che desta, e ancor più difficile perché gli apostoli non sono riusciti a
cacciare il demonio. Comincia, in tal modo, tutta una discussione sulla inanità della
predicazione apostolica. Il caso è molto serio, se si pensa, inoltre, che Gesù ha scelto i
Dodici per essere con Lui, mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni. Essi
falliscono quindi nella loro missione essenziale. La loro situazione è drammatica.

3. Mc 9,19-20. Le reazioni di Gesù. La prima (v. 19), si configura come uno scatto di
ira violenta. Essa è veramente grave, perché sembra dire: “non ne posso più di stare con
voi”. Sembra quasi messo in questione il permanere di Gesù fra gli uomini, nel mondo. Se
non di tutti, si può dire che Gesù si lamenta almeno del pubblico che lo circonda: “Non siete
degni della mia opera”.
Quale è la causa di questo grido di sdegno, così offensivo per le persone alle quali è
diretto? È l’incredulità, la mancanza di fede. La stessa costatazione di ira, stupore e
rimprovero l’abbiamo in 6,6 e in 6,14. Gesù per tutta la vita, deve affrontare una simile
situazione di incredulità. L’uomo che non ha fiducia in Lui, che non si abbandona a Lui e
non crede al suo amore. La colpa fondamentale, – e la ritroviamo anche negli altri rimproveri
di Gesù in Marco –, è sempre l’incapacità ad abbandonarsi al suo mistero, quella rigidità che
non permette di varcare il confine della fede, della fiducia nel Signore.
La seconda reazione (v. 20), sembra diametralmente opposta: la calma, il sangue
freddo di Gesù.
Dalle parole: «Conducetelo a me. E glielo condussero e veduto che ebbe Gesù, lo
spirito subito lo fece dare in convulsioni, ed egli cadde a terra, rotolandosi e spumando»,
possiamo intuire che Gesù non si scompone, ma domina con distacco la situazione. È
importante questo prendere le distanze compiuto dal Cristo! Per Lui non è un atteggiamento
passeggero, ma descrive un abituale stato d’animo. Di fronte alla crisi degli apostoli e del
malato, innanzitutto Gesù osserva con tranquillità la situazione.
Viene in mente quello che Paolo dice in 1 Cor 7, quando descrive gli atteggiamenti del
distacco cristiano, nelle situazioni difficili. Alla lista di Paolo potremmo aggiungere: «Chi
governa, come se non governasse; chi opera pastoralmente, come se non lo facesse»; cioè,
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non dobbiamo essere travolti dalla situazione. Dobbiamo imparare a guardarla, a osservarla
con distacco.
Come la osserva Gesù? La osserva con Gestalt. Questa parola tedesca, intraducibile,
significa: tenere conto di tutto il complesso di una situazione, inserendo ogni elemento – col
suo giusto rilievo – nell’insieme. Di qui nasce la costatazione che, di solito, le forme di
degradazione psicologica non nascono dal fatto che non si veda bene l’oggetto, ma dal non
saperlo inquadrare nella situazione con il dovuto distacco.
Vediamo Gesù che, appunto, applica uno sguardo di Gestalt: di rapporto immagine-
sfondo, a tutto ciò che avviene. Egli vede il malato, ma vede anche il padre, vede gli
apostoli, vede la folla e colloca tutto nel quadro della sua missione.
Così lo sguardo di Gesù domina ciò che accade. Non è travolto dal fatto particolare del
ragazzo che gli si rotola innanzi, ma tiene conto di tutta la situazione.
Come avviene, concretamente, nella psicologia umana di Gesù, questo distaccarsi dal
particolare e la sua capacità di considerarlo nel quadro di insieme? Facciamo attenzione ad
una nota finemente psicologica riportata da Marco. Gesù non si occupa del ragazzo, ma del
padre; egli passa mentalmente ad un altro aspetto della situazione.
Cosa succede quando noi ci fermiamo a considerare soltanto un aspetto delle cose?
Che questo aspetto ingigantisce e ci ipnotizza. La situazione di distacco si ha quando da un
particolare si passa ad un suo contrario, o presente o possibile, e quindi si comincia ad
allargare il quadro della realtà considerata.
In realtà cosa fa Gesù? Vede il ragazzo che grida, schiuma, si divincola, ma riflette che
il vero malato è il padre. Capisce quindi che la via da prendere è un’altra. Attraverso una
riflessione attenta e distaccata trova il vero punto d’appoggio che è nuovo, diverso, e a cui
nessuno aveva pensato. Gli apostoli si erano messi a gridare, a fare preghiere sul ragazzo, ma
avevano cominciato dalla parte sbagliata; erano stati incapaci di vedere una nuova apertura
nella situazione.

4. Mc 9,21-24. Il colloquio. Gesù incomincia, quindi, il colloquio con il padre; un


esempio di pastorale dialogica. «Da quanto tempo ciò accade?». La domanda è molto
semplice, quasi banale, ma è fatta con un tono cordiale che manifesta la partecipazione e che
quindi scioglie il cuore del padre. Egli è appunto il grande protagonista della situazione, da
tutti ignorato.
E vediamo come il cuore del padre si scioglie. Da una risposta quasi monosillabica:
«Dall’infanzia», passa, sentendosi capito, a dire altre cose. Incomincia a descrivere i sintomi
del male del figlio, e poi dal suo cuore viene finalmente fuori ciò che è il nocciolo del
problema: «Ma se tu puoi aiutaci, mosso a pietà di noi!».
Siamo così giunti al momento in cui dal semplice rapporto con un ragazzo da guarire si
è giunti ad un cuore che chiede, che si volge con umiltà al Signore per invocare aiuto.
Gesù corregge, amabilmente, le parole troppo timide del padre, rimandando il gioco a
lui: «Hai detto, se posso; ma tutto è possibile a chi crede!». In altri termini: stai chiedendo
qualcosa che devi cominciare a fare tu stesso. Allora il padre comprende e grida: «Credo,
aiuta la mia poca fede».
Siamo arrivati al centro, al nodo, al punto veramente difficile della situazione. Gesù,
trascurando i dati esteriori della realtà, con gradualità e dolcezza, ha trovato il bandolo della
matassa; comincia, cioè, a guarire l’incredulità di quest’uomo. Il grido del padre è molto
bello nella sua semplicità. Dice: «Credo, aiuta la mia poca fede». Mostra l’apertura, il
desiderio di essere aiutato, è un umile atto di fede, e insieme un riconoscimento di essere
ancora molto indietro, di avere bisogno di qualcosa d’altro.
Esso è il monito che nella comunità viene ripetuto agli esorcisti imprudenti e spavaldi:
«Attenzione! ci vuole molta fede per operare tali grandi cose; non crediate di essere
onnipotenti, ma riconoscete a fondo la vostra debolezza e chiedete aiuto».
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Se l’episodio – nella catechesi della chiesa primitiva – ha un rinesso primario verso gli
esorcisti, ne ha anche uno nei riguardi della catechesi catecumenale. Il catecumeno, infatti, di
fronte alle esigenze troppo grandi di Gesù, al mistero del Regno che comincia a vedere in
tutta la sua povertà, la sua durezza, la sua arida quotidianità, è tentato di non farcela più, di
bloccarsi. Con questo episodio è invitato, invece, a non spaventarsi della sua paura, ma a
manifestarla umilmente al Signore; è invitato a trarre vantaggio anche da questa sua sofferta
povertà e debolezza, per farne oggetto di umile preghiera.

5. Mc 9,25-27. L’esorcismo: esso è un esempio tipico nel suo genere. C’è la menzione
dello spirito, la menzione di chi fa l’esorcismo, la menzione del suo potere di comando e la
menzione di ciò che si chiede con autorità. Segue il parossismo delle manifestazioni del male
nel ragazzo stesso, poi il suo cadere come morto, e, infine, la scena di Gesù che lo rialza
guarito.
In tutto l’episodio, oltre al tema dell’esorcismo propriamente detto, ci sono, forse,
anche elementi che davano appigli ad una primitiva catechesi battesimale. Non soltanto nel
senso che il battesimo libera l’uomo dal potere di un male che lo rende chiuso agli altri, ma
in un senso ancora più specifico.
Al v. 26, infatti, si insiste due volte sul tema della morte: «E il fanciullo diventò come
morto, sicché molti dicevano che era morto»; e subito dopo, al v. 27, vengono usati due
classici verbi della risurrezione: «Gesù lo prende con la sua mano, lo rialza e lo fa risorgere».
È certo che, con l’impiego di questi quattro verbi, due di morte e due di risurrezione (il
Cristo morto per i nostri peccati, il Cristo risorto per la nostra giustificazione), la catechesi
primitiva spiegava il battesimo come un morire con Cristo, e un risorgere con Lui e per virtù
di Lui.

6. Mc 9,28-29. La conclusione: «Entrato poi in casa, i discepoli gli chiedono: perché


noi non siamo riusciti a cacciarlo? Risponde Gesù: questa specie di demoni in nessun modo
si può cacciare se non con la preghiera».
Questo insegnamento di Gesù aveva un riflesso molteplice nella catechesi primitiva.
A livello dell’esorcista, era, appunto, l’invito a non presumere di sé, ma a pregare, a
riconoscere che il potere è di Dio e non proprio.
A livello del catecumeno, il quale si trovava di fronte a difficoltà apparentemente
insopportabili nella sua sequela del Signore, è la via della croce, era l’invito a pensare che
solo attraverso la preghiera, l’affidarsi totalmente a Lui, il chiedere umilmente a Lui, avrebbe
potuto superare le proprie difficoltà.
L’episodio del ragazzo indemoniato, quindi, da una parte è qualcosa che riguarda Gesù
stesso, presentato in un momento forte della sua vita, mentre agisce con distacco, con
semplicità e profondità nello scoprire le cause del male; dall’altra parte è un insegnamento
per la chiesa primitiva e per il catecumeno che si è dato alla sequela di Gesù e che viene così
a comprendere come è possibile seguirlo con fiducia.
Gesù stesso ci invita a pregarlo per ottenere la forza di fare tutte le cose difficili, per
vincere tutte le difficoltà apparentemente insormontabili che ci sono richieste, e ci dice che
Egli è venuto proprio per aiutarci a superarle.

IL MISTERO DEL FIGLIO DELL’UOMO

Questo paragrafo al quale diamo come titolo il mistero del Figlio dell’Uomo,
comprende i brani che Marco ci presenta tra il capitolo 8 e il capitolo 10.
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Entriamo nel più profondo del mistero del Regno di Dio. Di conseguenza, ancora di
più, la comprensione di quanto ora andiamo leggendo, deve avvenire più nella preghiera che
non nella considerazione teorica di quello che si ascolta.
In qualche maniera, ciò che ora dobbiamo capire più profondamente è quello che san
Paolo desiderava comprendere quando, nella Lettera ai Filippesi, dice:

«Conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione, ed essere messo a parte dei suoi
patimenti» (Fil 3,10).
Già nella meditazione delle parti precedenti il c. 8 si può intuire come la sorte del seme
calpestato e soffocato è, in ultima analisi, quella di una persona; cioè, la sorte di Gesù stesso.
Il seme è la parola di cui si diceva al c. 4: la parola evangelica, ma la parola evangelica
è Gesù. Il mistero del regno presentato oscuramente nelle parabole come mistero di
nascondimento, mistero di crescita nell’oscurità, di crescita faticosa e contrastata, si rivela
più chiaramente, nella seconda parte di Marco, come il mistero del Figlio dell’Uomo.
Il catecumeno che ha detto di sì a Gesù Figlio di Dio, quando si è sentito chiamare
presso il lago, esperimenta, nella prova di fede alla quale viene condotto attraverso la
sequela di Cristo, che egli è introdotto in una situazione inattesa e nuova; situazione nella
quale valgono le leggi dell’incontro personale, dell’umiltà, dell’attesa, della pazienza. Questa
è la scuola che Gesù fa nei primi otto capitoli di Marco.
Lo stare con lui porta i discepoli a comprendere gradualmente che la vita che hanno
abbracciato non è un’esistenza in cui valgono le leggi dell’efficienza, del successo, del
potere, ma piuttosto le leggi del nascondimento, dell’incontro personale, della piccolezza.
Dopo il c. 8 questa velata conoscenza del mistero, che avviene soltanto attraverso
accenni, si chiarifica. Incomincia così la seconda parte del Vangelo di Marco.
Per comprendere bene questo, occorre premettere che il Vangelo di Marco si divide
chiaramente in due parti che si differenziano tra loro per molti aspetti. Per esempio, ci sono
vocaboli che ricorrono di frequente nella prima parte, e non ricorrono più nella seconda e
viceversa. Vocaboli caratteristici della prima parte sono verbi come: comprendere, incapacità
a comprendere, capire, vedere, avere il cuore accecato, indurito, ascoltare, conoscere,
nascondere, rivelare; verbi che indicano come Gesù chiede la comprensione del Regno
attraverso la fiducia nella sua parola. Si lamenta che gli uomini hanno il cuore chiuso, che i
discepoli non comprendono. Gesù vuole suscitare l’attenzione, in maniera che la mente sia
tesa verso ciò che Egli sta per manifestare.
Ad un certo punto, però, la richiesta di Gesù cambia: l’insistenza non è più tanto sul
comprendere, sull’aprire gli occhi, sul capire, ma sul fare qualcosa per il Regno, sul dare se
stessi, dare la propria vita, pagare di persona. Ecco allora le tipiche frasi della seconda parte,
come: solo chi perde la propria vita la salverà; occorre lasciare casa, fratelli, parenti, figli per
il Vangelo; anche la mano, il piede, l’occhio vanno sacrificati per il Regno.
Nella prima parte si tratta di comprendere il Regno, nella seconda parte si tratta di
entrare nel Regno.
Qual è l’evento che segna il passaggio dall’attenzione al Regno all’entrare nel Regno?
L’evento che conduce dalla prima alla seconda fase della predicazione di Gesù?
È l’episodio della confessione messianica di Pietro a Cesarea. Esso è il punto centrale a
partire dal quale troviamo un mutamento nei temi della predicazione di Gesù. Ed è nella
seconda parte che Egli si dà, in particolare, ad una formazione più accurata del gruppo dei
Dodici. Nella prima parte essi lo seguono, vedono ciò che fa; nella seconda parte Egli si
rivolge a loro con maggior frequenza ed intimità.
Perché la confessione di Pietro ha una parte centrale? Perché da questo momento
comincia il Regno sulla terra. Il fatto che Gesù da questo piccolissimo gruppo, piccolo come
un granello di senapa rispetto al mondo di allora, – da Pietro, cioè, e dai Dodici insieme con
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Lui –, venga riconosciuto nella sua vera identità, segna l’inizio del Regno, di quel Regno che
Gesù viene a portare sulla terra. Questo fatto cambia tutto il contenuto della predicazione di
Gesù. Egli comincia a parlare non più per enigmi, ma chiaramente.
Vediamo allora alcuni elementi della seconda parte del Vangelo di Marco; in
particolare, le predizioni della Passione. La prima predizione segue immediatamente la
confessione di Pietro e le altre due si succedono a intervalli di un capitolo ciascuna; cioè, a
intervalli regolari. Questa successione ritmica, in Marco, è evidentemente intenzionale.
Perché, innanzitutto, tre predizioni? Perché ciò che è essenziale occorre sia ripetuto: tre
volte. Si tratta allora di un insegnamento estremamente importante. Proprio per questo
appare collocato subito, all’inizio della seconda parte.

Prima predizione della Passione (Mc 8,31-37)


«Gesù cominciò ad insegnare...»: evidentemente è un nuovo inizio, un suo nuovo
modo di parlare, un nuovo momento della formazione dei Dodici.
Cosa insegna Gesù? «Che il Figlio dell’uomo deve soffrire molte cose ed essere res-
pinto dagli anziani ed essere ucciso e dopo tre giorni risorgere. E apertamente diceva la
parola».
Gesù insegna, dunque, una cosa che non era mai stata menzionata prima, e penetra
veramente fino in fondo al suo mistero. Insegna che «deve»; cioè, che quanto comincia
appartiene al piano di salvezza; che è disegno di Dio per la redenzione dell’umanità.
«Il Figlio dell’Uomo»: è designazione misteriosa che, nella tradizione apocalittica,
esprime una connotazione gloriosa del Messia, ma che qui viene, invece, utilizzata in un
contesto di estrema umiltà e di totale umiliazione.
«Soffrire molte cose ed essere respinto»: essere respinto dai presbiteri, dai sommi
sacerdoti, dagli scribi; cioè, dalla gente di cultura, dalle categorie sociali che allora
contavano.
«Ed essere ucciso e dopo tre giorni risorgere. E apertamente diceva la parola»: questo
ci fa capire, appunto, che finora Gesù non ha parlato apertamente. Egli ha attratto i suoi, – in
particolare i Dodici –, con il fascino proveniente dalla sua persona, dal suo potere
miracoloso, dalla sua bontà; li ha riempiti di fiducia verso di Lui. Adesso che sono un
piccolo gruppo, ormai ben compatto, può parlare loro con chiarezza.
E le parole chiare sono estremamente dure, perché si parla di morire: essere respinto ed
ucciso. Appare, è vero, in prospettiva anche la risurrezione, ma in una forma tanto misteriosa
che i discepoli non capiscono ancora.
Il mistero perciò è presente nella sua interezza e crea immediatamente nei Dodici un
senso di sgomento e di smarrimento che si esprime, subito dopo, nell’intervento di Pietro
(vv. 32b-33). Esso manifesta la reazione dell’uomo comune, di ciascuno di noi: questo non
dev’essere, questo non va, non ha senso. Esprime la nostra incapacità a capire il mistero di
Dio così come ci si manifesta nella sua realtà e verità, in Gesù Cristo.
Quando – da una conoscenza esteriore del mistero di Dio in Cristo – passiamo alla sua
vera comprensione, cioè al mistero del Cristo respinto e morto per noi, la nostra prima
reazione potrebbe essere bene espressa dalle parole di Pietro: «Ma come mai, perché?
Questo non va assolutamente...». Probabilmente i Dodici capiscono bene che se questo
succede al Maestro, a loro è destinato qualcosa di analogo; la loro sorte per l’avvenire non
sarà certamente rosea. Tutto il loro orizzonte si annebbia e si oscura.
E Gesù allora dice a Pietro che lui non capisce niente del piano di Dio. In Pietro, i
Dodici vengono confrontati col piano di Dio così com’è, sono messi di fronte alla dura realtà
del progetto del Signore; realtà misteriosissima, inaccettabile dal punto di vista della comune
logica umana. Ma essi, ormai, per l’affetto che hanno verso Gesù, non la possono più
respingere. Hanno reazioni interi ori contrastanti, è vero, ma sono totalmente presi dalla
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persona del Signore che Egli sa bene di poter parlare loro apertamente. Tuttavia la parola
stessa rimane durissima.
Nei vv. 34-37 c’è, poi, la trasposizione ai discepoli. Gesù ha parlato di sé, ha parlato
del proprio destino in maniera chiara, suscita la meraviglia, lo sgomento e lo smarrimento
degli apostoli. Ora, gradualmente, incomincia a trasporre la propria via, il proprio mistero di
Figlio dell’uomo, alla vita di quelli che lo seguono. Avviene proprio ciò che gli apostoli,
forse inconsciamente, temevano: la via di Gesù è la via di coloro che sono i suoi.
Abbiamo così la sua parola: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso»
(v. 34). Se pensiamo a Pietro che rinnega Gesù dicendo di non conoscerlo, possiamo
affermare che la parola «rinneghi se stesso» vuole appunto dire: non mi conosco, non tengo
più conto della mia vita, non mi prendo in considerazione. Così dirà Paolo – riassumendo la
sua vita – nel discorso agli anziani di Efeso, riportato in Atti 20,18-24.
E Gesù continua: «Prenda la sua croce»; cioè, tutti i disagi che comporta la sequela del
Cristo, e: «Mi segua». Tutta la forza della frase è riposta nel verbo «mi segua»; cioè, tutte le
altre cose dette prima e dopo, sono i preliminari necessari per poter essere con Gesù, per
poter continuare ad essere con Lui.
Potremmo allargare la nostra considerazione a tutto ciò che nei capitoli seguenti,
specialmente al c. 10 viene specificato intorno a questa sequela di Gesù. Qui abbiamo
soltanto la prima delle indicazioni di quello che comporta il mistero del Regno. Nei capitoli
successivi viene specificata la stessa esigenza in vari modi.
Ho raccolto alcuni brani sotto il titolo: Gesù e i suoi, per mostrare che praticamente il
suo insegnamento al piccolo gruppo dei Dodici si può riassumere, nel modo seguente: chi ha
accettato la chiamata personale a seguirmi, a essere con me, deve accettarmi così come sono.
Cfr. Mc 10,43-45, 10,29; 10,38; 13,13.
E come viene descritta l’identità e l’agire di Gesù? Egli spiega che come e dove Lui è,
anche gli altri devono essere. Dice, per esempio: io non sono venuto per essere servito, ma
per servire; così chi di voi vuole essere come me, sia servo di tutti.
Io ho lasciato ogni cosa: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo; così posso
chiedere a voi di lasciare padre, madre, campi, figli ed ogni cosa.
Io sono venuto a voi come uno che non possiede nulla; così posso chiedere a voi che si
lascino le ricchezze con le quali il Regno dei cieli non va d’accordo.
Io bevo per primo il calice della Passione; così posso chiedere che voi beviate il mio
calice.
Io accetto la contraddizione, l’essere respinto dalla maggioranza del mio popolo; posso
chiedere che anche voi accettiate la contraddizione, la contestazione, da qualunque parte
venga, perché il Figlio dell’Uomo è stato respinto per primo.
In altre parole Gesù, nei testi citati, chiede di scegliere coraggiosamente una vita simile
alla sua. Di sceglierlo nel cuore, perché l’avere questa o quella situazione esterna non
dipende da noi. Dipende da noi, invece, scegliere nel cuore una vita quanto più possibile
vicina al suo modo di vivere fra gli uomini.
Non dipenderà da noi scegliere sempre il servizio più umile, la posizione meno
appariscente, la condizione esteriore più modesta, ma dipenderà da noi l’avere nel cuore
questo desiderio di essere, in quanto è possibile, dove Lui è.
E quindi, tra posizioni di maggiore o minore prestigio e potenza, preferire le seconde;
tra condizioni di maggiore o minore ricchezza, preferire queste ultime; tra posizioni di
servizio comodo o disagiate, preferire quelle disagiate.
Ecco come avviene in questa seconda parte di Marco, l’avviamento alle scelte
evangeliche. Gesù si mette davanti, presenta se stesso e invita ciascuno ad essere là dove Lui
si trova, almeno col cuore, almeno con il desiderio, perché questa è la maniera di capire
profondamente il senso del Vangelo.
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Questa è una scelta estremamente importante perché, al di là di tutte le teologie, di


tutte le teorie, investe la capacità di capire il Vangelo dall’interno.
Quando non si è fatta la scelta fondamentale dell’essere là dove Gesù è, non soltanto
nella sua attività esteriore descritta nella prima parte di Marco, ma lungo l’itinerario che
porta alla croce, descritto nella seconda, non sarà possibile inquadrare le altre verità
evangeliche, avere la Gestalt di cui abbiamo parlato; cioè, quel rapporto tra le singole cose e
il loro sfondo, che mette ogni cosa al suo posto.
Ogni vera ripresa, ogni vero approfondimento dello spirito, ogni capacità di
comprendere le situazioni nelle quali ci troviamo – la nostra situazione nel mondo, la
situazione presente della chiesa – parte da questa rinnovata adesione alla via di Gesù, così
come ci è presentata nella seconda parte di Marco.
È il segreto evangelico che ci dà il modo di capire il nostro posto, il posto della chiesa
nel mondo; è il cuore delle richieste di Gesù.

Seconda predizione della Passione (Mc 9,31-32)


Essa è molto breve: «Stava ammaestrando i suoi e diceva loro: il Figlio dell’Uomo sarà
dato nelle mani degli uomini che lo uccideranno, ma tre giorni dopo risorgerà. Essi però non
comprendevano un tale parlare e avevano paura di interrogarlo».
Abbiamo Gesù che, sempre più vicino al gruppo dei suoi, li forma all’unico punto
essenziale e presenta il mistero centrale del Vangelo; cioè Lui, la sua morte e risurrezione.
Marco, tuttavia, ci fa notare come questo mistero sia difficile e vada ripensato
continuamente nelle nuove situazioni, nelle nuove esigenze della nostra vita spirituale, e col
crescere di questa.
Quella di Gesù è una proposta che è assolutamente incomprensibile, che non ha
paragone con nessun’altra proposta umana.
Nessuna proposta umana oserebbe parlare di morte e risurrezione: siamo qui nel cuore
della piena e pura fede richiesta al discepolo, la quale è l’unica via per arrivare ad una vera
conoscenza di ciò che significa la vita evangelica.

Terza predizione della Passione (Mc 10,52-34)


Essa è più ampia delle precedenti: «Mentre erano in strada verso Gerusalemme, Egli li
precedeva e di ciò si meravigliavano, mentre quelli che venivano dietro erano presi da
timore...».
Marco sembra voglia farci coraggio dicendo che gli apostoli ce ne hanno messo di
tempo a capire;
Gesù era amato da loro, stava in mezzo a loro, anzi andava avanti a loro, ed essi non
potevano non seguirlo; sentivano un’attrazione intensa per Lui, però quanto a capire
veramente il cuore del mistero c’era ancora una lunga strada da fare. Ed il cammino era
estremamente faticoso.
«E tratti a sé i Dodici prese a dire loro: noi andiamo a Gerusalemme e il Figlio
dell’uomo sarà dato in mano dei grandi sacerdoti e degli scribi e lo condanneranno a morte,
lo daranno in mano ai Gentili, lo scherniranno e gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo
faranno morire, ma dopo tre giorni risorgerà».
È di nuovo presente il mistero, con una notevole insistenza sui momenti in cui Gesù
viene respinto e disprezzato. La predizione diventa quindi una nuova richiesta agli apostoli
di affidarsi a Lui e di accettare tutto il mistero nella sua globalità, perché non c’è risurrezione
senza il passaggio attraverso la sofferenza.
Che cosa poteva concludere il catecumeno che veniva educato gradualmente,
attraverso questa lettura, a capire il mistero centrale del Regno di Dio?
Credo che il catecumeno veniva implicitamente invitato – e ciò vale anche per noi – ad
adorare, prima di tutto, nella preghiera, il mistero del disegno divino, riconoscendo che esso
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è estremamente difficile da comprendere. Che tutte le volte che ci imbattiamo in esso, non
soltanto nella fantasia, ma nella realtà, proviamo una istintiva incapacità ad adattarci; ma è
appunto nella preghiera che dobbiamo insistere, chiedendo di accettare il Cristo così come
Egli è.
In secondo luogo, il catecumeno viene stimolato, insieme con noi, a ringraziare il
Signore, perché si è manifestato con tanta chiarezza, e senza alcun desiderio di illuderci. In
prospettiva, quindi, chiedergli di poter rendere grazie quando Egli si manifesta in noi con la
stessa realtà di morte e di risurrezione, perché allora siamo al centro del Vangelo.
Perché tutte le situazioni, che a prima vista ci appaiono incomprensibili e inaccettabili,
– nelle quali sale in noi il grido: qualunque altra cosa, ma non questa –, sono in realtà
situazioni che ci pongono al centro della manifestazione del mistero di Dio.
Viene, infine, chiesto al catecumeno – e a noi -di insistere nella preghiera per chiedere
che Gesù ci tenga con sé e ci porti con sé fino in fondo, convinti che questa accettazione è la
chiave per la comprensione di tutti gli spiriti; nel quale, cioè, è possibile fare la discrezione,
l’analisi delle diverse mentalità che operano in noi e nella chiesa, perché a questo punto tutte
le mentalità e i comportamenti non evangelici si disperdono, dissolvendosi. Tutti i sogni,
tutti i castelli in aria, tutti i progetti puramente umani vengono meno, e rimane viva soltanto
la verità del Vangelo.
Il catecumeno viene, così, educato gradualmente e con insistenza a prendere coscienza
che questa è la rivelazione fondamentale del Figlio dell’Uomo e il mistero nel quale entrare
se vuole superare una pura programmazione umana e collocarsi veramente nel cuore del
Regno di Dio.

LA PASSIONE DI GESÙ

Nelle tre predizioni Gesù annunzia la via della Passione che poi percorre con coraggio
sino in fondo.
Noi siamo chiamati a seguirlo, almeno con l’affetto, nella contemplazione che ci
avvicina a Lui con il cuore, per realizzare in qualche modo ciò che Pietro non ha potuto, pur
avendolo desiderato; cioè, il «dovessi morire con Te» (Mc 14,31).
Capiamo come Pietro avrebbe voluto essere col Maestro, fino in fondo, ma che lo
sarebbe stato in seguito, dopo essere passato attraverso la dura lezione che Gesù si appresta a
dargli, subendo la Passione.

Meditazione difficile
La meditazione della Passione, così come è costruita nel racconto, è sempre per vari
motivi, molto difficile, e lo era già per la chiesa primitiva. Bisogna cogliere molteplici livelli.
Prima di tutto, era difficile rispondere alla domanda del come storicamente era potuto
accadere un fatto simile. Esso comporta, infatti, una inspiegabile serie di errori, di decisioni
affrettate e maldestre, di reazioni a catena, di palleggiamenti di responsabilità dall’uno
all’altro dei protagonisti. Perché non c’era nessun motivo di far morire Gesù!
Come, poi, si sia giunti a questo così velocemente, in una confusione di passioni, di
sbagli, di tergiversazioni, di paure, certamente mette in imbarazzo chi tenta di raccontarlo.
L’evangelista si dilunga nel racconto della Passione, appunto per far comprendere
gradualmente questa serie di fatti tragici e drammatici e, di per sé, non adeguatamente
motivati.
Un’altra domanda difficile si presentava alla chiesa primitiva e al catecumeno che
meditava la Passione: che cosa può avere di grande una morte?
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Tutti coloro che, per vari motivi, hanno qualche familiarità col mistero della morte,
sanno come immediatamente, di fronte a tale fatto, tutta la retorica cessi.
Non c’è niente di meno umano che la morte. L’uomo che muore assume, di solito,
un’espressione banale e goffa; oppure, forse, tormentata e incredula. Non c’è situazione nella
quale l’uomo è meno se stesso del momento della morte.
Appunto perché realtà alla quale è difficile dare un senso, la morte è un non-senso per
l’uomo che vive. L’uomo morto rappresenta qualcosa di incomprensibile, qualcosa che non
dev’essere.
Ora, pensare che questa realtà, cioè il non-senso per la vita, è stata affrontata da nostro
Signore Gesù Cristo, costituisce appunto il mistero dei misteri. Come Gesù, cioè la vita
stessa, abbia voluto ridursi a tutte le espressioni di degradazione umana insite nella morte, è
inspiegabile.
La chiesa primitiva sentiva profondamente questo mistero perché aveva davanti agli
occhi la reale figura del Crocifisso. Per essa il problema era: come leggere questa realtà di
per sé illeggibile, come darle un senso? E ciò da un duplice punto di vista:

– dal punto di vista dell’uomo come leggere tutte le altre realtà della vita che sembrano
mancare di senso, che sembrano pura perdita, pura carenza; ciò che non può essere, e quindi
che non si vuole?

– dal punto di vista di Dio: come Dio poteva essere con Lui anche nella Passione e
nella morte? Non l’ha, forse, abbandonato?

Un lungo racconto per il mistero del dolore


Questi i problemi che agitavano il cuore dei primi cristiani nel meditare la Passione. Il
lungo racconto, presente in ciascuno dei Vangeli, è la risposta a tale interrogativo.
Abbiamo detto che esso è lungo. In Marco comprende, infatti, due capitoli; gli è
dedicato uno spazio estremamente sproporzionato rispetto al resto. Per il catecumeno e per
ciascuno di noi, questo vuol dire che la Passione richiede una lunga considerazione; che
bisogna contemplarla molto, la Passione del Signore; che essa deve avere grande parte nella
nostra conoscenza di Lui.
La Passione è un lungo racconto che introduce un mistero difficile, ed è a sua volta
presentato da alcuni fatti che ne danno il senso.
Il senso fondamentale da essi espresso è mutuato dal profeta Isaia: «Quia ipse voluit»
(Is 53, 7: volgata latina; cfr. testo ebraico: Is 53, 10b. 12c). La Passione non è accidentale,
ma è Gesù stesso che ha accettato fino in fondo questa estrema umiliazione; allora essa
comincia ad acquistare un senso, perché diventa un atto umano di Gesù.
Quali sono gli episodi che sottolineano il «Quia ipse voluit»?
L’unzione di Betania, dove Gesù dice: «Ciò che essa ha fatto, l’ha fatto per ungere in
anticipo il mio corpo per la sepoltura» (14, 8); cioè, Gesù va verso il mistero di degradazione
umana che coscientemente accetta.
Durante la Cena: «Il Figlio dell’Uomo va, come è scritto di Lui» (14,21); quindi, Gesù
entra in un disegno che è il disegno del Padre.
Sempre durante la Cena, ancora più chiaramente: «Questo è il sangue versato per
molti» (14,24).
L’Eucaristia è il mistero che mostra come Gesù accetta di cuore e anticipa in sé la
Passione.
E finalmente, nel Getsemani, l’ultima parola che riprende questo tema: «Non ciò che io
voglio, ma ciò che vuoi tu» (14, 36). Tutta la Passione va quindi meditata riportandola, per
così dire, nell’intimo del cuore del Signore che è andato incontro a questo tragico fatto
volontariamente.
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Voglio sottolineare, a questo proposito, un aspetto che è conseguente al modo con cui
la Passione ci è presentata da Marco: Gesù è andato incontro alla morte, perché ha voluto
venirci incontro fino in fondo; cioè, non ha voluto tirarsi indietro di fronte a nessuna
conseguenza del suo essere con noi, affidandosi a noi completamente.
Ha compiuto la missione di essere con i suoi, fino ad accettare le ultime conseguenze
drammatiche di questo affidarsi agli uomini con fiducia, con buona volontà, col desiderio di
aiutarli.
Da queste riflessioni sul «Quia ipse voluit», possiamo concludere che l’unica cosa che
può dare senso alle nostre sofferenze, è che anche noi giungiamo ad accettarle con Lui.
E questo è facile, certe volte, per le sofferenze che riusciamo a percepire come tali (per
esempio malattie non troppo gravi), e che possiamo prendere dalle mani di Dio con pazienza,
offrendole per gli altri. Ma quando le sofferenze diventano parte di noi stessi, quando
diventano difficoltà che si identificano con il nostro essere, quando finiamo per trovarci in
certe situazioni a cui è estremamente difficile dare un senso, allora l’accettazione diventa
sempre più problematica, perché non ci si sente liberi e distaccati di fronte ad essa. Possiamo
quindi dibatterci per anni, in uno stato di disagio, di insofferenza magari inconscia, di rivolta
interiore verso situazioni che non siamo capaci di accettare. Certe volte, anzi, la cosa più
pesante a cui acconsentire è costituita proprio da noi stessi.
Gesù ci insegna che finché non giungiamo a questa accettazione cosciente e libera, le
nostre sofferenze non hanno veramente senso. Esse cominciano ad averlo quando le abbiamo
in qualche maniera guardate in faccia, come Lui ha fatto, e le abbiamo accettate con Lui.
Questa credo sia una delle chiavi di comprensione del perché della Passione di Gesù:
«Quia ipse voluit».

Dimensione contemplativa
Venendo alla Passione in se stessa, propongo un modo di contemplarla che, penso, sia
consono alla struttura di Marco. Nel suo Vangelo la Passione è tutta un susseguirsi di piccoli
quadri che descrivono situazioni umane, cioè confronti di persone.
Non è tanto un resoconto concatenato di eventi, e neanche uno studio sulla
concatenazione delle cause, anche se questo è presente.
Il modo di raccontare di Marco è piuttosto quello di una serie di quadri in cui i diversi
personaggi di questo mondo entrano in confronto diretto con Gesù, vivendo ciascuno il
mistero della propria chiamata e della propria presa di posizione verso il Regno.
Gesù continua, nella sua Passione, la sua missione di presentare il mistero del Regno
alle persone più diverse e più lontane, a quelle che più sembrano respingerlo, per compiere
sino in fondo la sua missione di essere con noi.
In qualche modo si verifica ancora la parabola del seminatore: Gesù si presenta – come
seme – in diversi terreni e in ciascuno va incontro ad una sorte diversa.
È possibile allora meditare la Passione come una serie di episodi, di situazioni, in cui
Gesù continua eroicamente ad essere il Maestro buono, che insegna come perdere la vita per
acquistarla, come rinnegare se stessi, come prendere la croce, come farsi servo e schiavo di
tutti; realizzazione, cioè, del programma che egli ha enunciato nei capitoli 9 e 10 di Marco.
Possiamo contemplare questi quadri, uno per uno, considerando in ciascuno il mistero
del Regno come seme evangelico che riceve risposte diverse. Ne indico quattordici affinché
possano eventualmente servire per una «Via Crucis».

– Gesù e Giuda.
– Gesù e le guardie.
– Gesù e il sinedrio.
– Gesù e Pietro.
– Gesù e Pilato.
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– Gesù e Barabba con la folla.


– Gesù e i soldati.
– Gesù e Simone di Cirene.
– Gesù e i crocifissori.
– Gesù e i derisori.
– Gesù e il Padre.
– Gesù e il centurione.
– Gesù e le donne presso la croce.
– Gesù e gli amici.

Tutta una galleria di persone che si confrontano con il seme del Regno. Ciascuno con
una diversa risposta, davanti a un Gesù sempre uguale nel suo atteggiamento di disponibilità
e di offerta di salvezza.
Basta prendere una dopo l’altra queste scene e contemplarle. C’è in esse una certa
progressione, un crescendo continuo di umiliazioni sino alla scena decima, quella dei
derisori.
Un altro particolare importante, in queste scene, è il silenzio di Gesù. Parla brevemente
all’inizio, parla a Giuda, parla alle guardie, al sommo sacerdote, parla ancora nella quarta
scena, a Pilato. E poi tace.
Tutti girano attorno a Gesù come in una drammatica giostra ed egli, col suo silenzio,
domina tutto. Contempliamo il contrasto tra le persone che si agitano, che fanno e dicono
una cosa o l’altra e Gesù che, con la sua silenziosa presenza, è al centro, dominatore di tutta
una situazione caotica e convulsa.
Col suo solo esistere, col suo solo essere là, Gesù parla, Gesù giudica.
Ed infine l’ultima parola di Gesù, il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (15,34), che esprime, al tempo stesso, l’apice e il fondo del cammino della
croce, percorso sino all’estremo della desolazione, ma che, insieme, manifesta una immensa
fiducia (cfr. Sal 22(21), 1. 20-32).
Al centro di tutto, nella scena undecima, sta questa parola di Gesù, la sua invocazione
al Padre. Da questo punto comincia un fluire graduale di consolazione e di pace. Già nella
Passione, così come è raccontata, nasce dunque il senso della consolazione e della pace che
durerà fino al sepolcro, preparando la scena della risurrezione.
Possiamo senz’altro tener conto di questa progressione e poi del graduale subentrare di
una nuova atmosfera, quando Gesù è sulla croce. Assaporiamo il mutamento che
misteriosamente il Crocifisso arreca a coloro che gli sono vicini: le donne, gli amici.
Ecco alcune indicazioni per una riflessione su queste scene della Passione. Esse
devono costituire un frequente argomento della nostra contemplazione perché sono il
contravveleno quotidiano a quella atmosfera del mondo in cui viviamo e di cui parla Paolo
scrivendo agli Efesini, al c. 6 (cfr. in appendice, pag. 86).
È nell’attenta contemplazione della Passione che si sciolgono i nodi di situazioni
difficili a comprendersi e si chiariscono i giudizi su situazioni ambigue. Confrontato con
questo paradigma, ciò che è scoria viene a cadere e rimane, invece, ciò che evangelicamente
vale.
È forse per mancanza di riflessione, di meditazione, di contemplazione sulla Passione
di Gesù, che oggi assistiamo a molte confusioni. La Passione ha una parte così
preponderante nei Vangeli, proprio per offrirci un elemento sicuro di discernimento.

LA RISURREZIONE

In questa contemplazione ultima vogliamo rispondere a due domande:


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– come mai Marco, nel cammino che propone al catecumeno, non fa alcun accenno
all’infanzia di Gesù e quindi alla presenza di Maria nella vita del Signore?
– perché al catecumeno viene data una istruzione così breve sulla Risurrezione
(soltanto otto versetti alla fine di Marco)?

Risurrezione e vita nascosta di Gesù


Il catecumeno è chiamato a convenirsi a Gesù Cristo Figlio di Dio, a seguirlo
rispondendo alla sua chiamata, ad andare con Lui fino alla Passione; cioè, a partecipare al
destino del Regno che si sviluppa – come ci mostra Marco stesso – nella umiltà, semplicità,
nascondimento, come un seme che aspetta di essere ricevuto. Troverebbe quindi un grande
vantaggio a meditare l’infanzia di Gesù.
Infatti, le considerazioni sull’infanzia ci presentano due caratteristiche importanti
dell’opera di Gesù: una serie di caratteristiche esteriori – proprie della sua opera – ed
un’altra serie di caratteristiche che si potrebbero chiamare interiori.
Quali le caratteristiche esteriori? Innanzitutto Gesù, tra i tanti modi possibili di
manifestarsi al mondo (per esempio nello splendore di un evento cosmico quale gli viene
chiesto in Mc 8,11-12: «Dacci un segno dal cielo»), sceglie il mezzo meno appariscente.
Sceglie di nascere in povertà, in un angolo remoto del mondo, fuori della propria stessa
casa; sceglie di essere presentato al tempio nel nascondimento, come uno qualunque; sceglie
di mangiare il pane amaro dell’emigrante; sceglie di vivere per decenni nella più assoluta
insignificanza anche di fronte ai suoi, i quali, poi, come ci dice Marco, non riescono neppure
a capirlo quando si ripresenta a Nazaret e dicono: ma costui non l’abbiamo già conosciuto?
La sua vita tra noi non aveva alcuna importanza (6, 2 ss.).
Quindi caratteristiche esteriori di insignificanza. Tuttavia, in questo quadro esterno
d’azione senza sfarzo, di una vita in massima parte senza risonanza mondana, senza
rilevanza sociale o religiosa o politica, come il seme che sembra dormire nella terra, Gesù
non rinuncia a una delle coordinate essenziali del suo Regno. Ed ecco le caratteristiche
interiori del Vangelo dell’infanzia; cioè, la presenza di alcuni cuori che gli sappiano dare il
cento per uno.
Questo contrasto costituisce uno dei misteri fondamentali dell’infanzia: in una estrema
povertà e semplicità esteriore, la presenza di persone a Lui totalmente dedicate, come la terra
buona che dà il centuplo.
Vediamo allora come per decenni il seme evangelico fruttifica silenziosamente nel
cuore di Maria, colei che dà, fin dall’inizio, il cento per uno; fruttifica nel cuore umile di
Giuseppe; viene deposto nell’animo semplice dei pastori; di Simone e di Anna; di alcuni altri
poveri di Jahve che aspettavano la consolazione di Israele; trova – questo seme – anche le
spine di Erode che tendono a soffocarlo; si rifugia nel terreno ben disposto di alcuni uomini
fuori di Israele, come i Magi, animati da volontà buona e da rettitudine sincera.
I Vangeli dell’infanzia presentano la vicenda personale del seme che viene accolto in
diversi terreni e che fa diverso frutto, ma senza alcuna pompa, nessuna risonanza esteriore di
tipo mondano quale ci si aspettava da una manifestazione del Messia.
In questo senso i Vangeli dell’infanzia hanno una importanza grande, perché program-
matica, per la vita cristiana. Essi ci riportano ad una delle leggi fondamentali del Regno:
poco sfarzo esteriore e molta interiorità.
Marco non ha racconti dell’infanzia. Non li ha perché questi racconti suppongono, per
essere accolti, uno spirito di fede maturo, suppongono un animo capace – avendo ormai
accettato in pieno il mistero cristiano – di esercitarsi anche nelle cose più piccole e più
semplici del Vangelo, di cogliere il significato salvifico delle realtà che sono apparentemente
più insignificanti.
Questo viene fatto nella seconda formazione cristiana, in un momento più interiore. Ed
ecco perché la predicazione primitiva non ha mai proposto i Vangeli dell’infanzia. Nella
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seconda formazione, invece, essi venivano proposti perché il catecumeno aveva già accettato
il paradosso dell’umiltà del mistero di Cristo ed era pronto ad accoglierla anche in quei segni
semplicissimi della vita a Nazaret, della nascita a Betlemme, del nascondimento di trent’an-
ni.
Marco, sull’esempio della chiesa primitiva, non ha presentato subito al catecumeno
queste cose che richiedono una capacità di assimilazione più approfondita.
Se però riflettiamo all’itinerario dei Dodici con Gesù, così come Marco ce lo presenta,
ci accorgiamo che, in fondo, la via per la quale essi sono guidati è la stessa.
Con altre parole, in maniera più evidente e più palese, viene esposto un identico
cammino: si tratta di scoprire le leggi della salvezza del Regno, le quali si possono ridurre a
tre fondamentali:

1. La modestia degli inizi, il piccolo seme, esperimentato dagli apostoli nella


semplicità della predicazione di Gesù, riconosciuta da alcuni, respinta, o poco capita, o non
subito accolta da altri.

2. L’insignificanza agli occhi di chi bada soltanto agli eventi che fanno notizia. Gesù
non ha mai fatto notizia nel suo tempo, forse l’ha fatta la sua morte per qualche giorno, ma
l’insieme della sua opera è stato conosciuto assai poco nel mondo d’allora, il mondo
religioso, politico e militare che badava soltanto ai grandi avvenimenti.

3. La contraddizione, lo scandalo e le difficoltà alle quali abbiamo già accennato.

Sono queste le tre leggi che regolano il corso del ministero di Gesù e che gli apostoli
imparano a conoscere stando con Lui, rendendosi sensibili a quelle che sono le realtà del
Regno.
A che cosa sono dunque chiamati gli apostoli attraverso questa educazione? Sono
chiamati a ciò cui è anche chiamato ogni cristiano che medita il Vangelo dell’infanzia: cioè
ad amare Gesù così com’è; a convenirsi alle leggi e al modo di agire del Signore.
Il catecumeno della chiesa primitiva è chiamato ad accettare un Gesù diverso da come
l’avrebbe voluto, un Gesù che opera tra noi in maniera diversa da tutti i moduli religiosi o
profani, politici e civili, che ci si può aspettare, e quindi a riconoscere che il mistero del
Regno è, in definitiva, Gesù stesso, il suo modo di vivere e di morire.
E qui vediamo anche come il mistero di Maria, che non viene accennato quasi per nulla
da Marco, – il quale non ricorda neppure la presenza di Maria presso la croce –, è tuttavia un
mistero posto al centro del Regno di Dio e delle sue leggi fondamentali, perché è un mistero
di umiltà, di nascondimento e di fedeltà interiore ricchissima, ma non appariscente. Marco,
pur non presentandoci il mistero di Maria – perché anche esso è un mistero che viene quando
si è già accettato il Battesimo, quando si è entrati nella comprensione della vita cristiana – ci
fa vedere l’uno e l’altro principio in opera: la visibile presenza e la nascosta fedeltà che
formano insieme il mistero della chiesa.

Istruzione sulla Risurrezione


Ora dobbiamo rispondere alla seconda domanda che ci fa riflettere sull’ultima parte
della vita di Gesù; sulla vita del Signore risorto.
Perché al catecumeno viene data, al capitolo sedicesimo, una così breve istruzione
sulla risurrezione? È vero che la narrazione continua con i versetti che vanno dal 9 al 20, ma
sappiamo che con tutta probabilità non sono un finale letterario, ma un finale canonico del
Vangelo di Marco. Gli esegeti discutono molto – senza giungere ad una conclusione – se il
Vangelo sia da considerarsi terminato con Mc 16,8 o se ci fosse un’altra finale perduta nella
quale Marco parlasse di più della risurrezione di quanto non risulti a noi; oppure se la finale
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canonica, pur non essendo di Marco, sia stata aggiunta in maniera che debba essere
considerata parte integrante anche della struttura evangelica e non soltanto del messaggio
evangelico.
La maggior parte degli esegeti ritiene, comunque, che Marco abbia finito il suo
Vangelo al v. 8; cioè, abbia dato una brevissima istruzione sulla Risurrezione. Una
istruzione, poi, incompleta, perché in essa non appare Gesù risorto; vi si dice soltanto che è
risorto e che lo vedranno.
Come mai questa carenza di Marco riguardo alla Risurrezione? Cerchiamo di dare
alcune risposte.

Gli annunci di Marco


Prima di tutto bisogna dire, per spiegare Marco così com’è, che al tempo del primitivo
kérygma, nell’iniziazione catecumenale era già stata data una parte notevole all’istruzione
sulla Risurrezione.
Possiamo, infatti, distinguere con molta probabilità un primo kérygma, cioè un primo
breve annuncio del Cristo, poi una catechesi più ampia che potrebbe essere appunto Marco, e
infine una seconda catechesi per i battezzati.
Ora, nel primissimo kérygma c’era già un’istruzione centrale sulla Risurrezione, e la
troviamo, per esempio, nei discorsi di Pietro in Atti 2,24-36: è una istruzione più che
sufficiente e duplice:

– apologetica, cioè la Risurrezione è la giustificazione del Cristo, condannato e morto,


ma risuscitato da Dio, e
– storico-salvifica, cioè, la Risurrezione è il centro del piano divino di salvezza
predetto dalle profezie.

Quindi una duplice istruzione – apologetica e storico-salvifica – si supponeva già come


data al catecumeno. Essa sarà poi ampliata nella catechesi successiva, come possiamo
rilevare nel magistrale capitolo 24 di Luca, che è una catechesi amplissima sul significato
storico-salvifico della risurrezione.
Un’istruzione, invece, morale ed ascetica sulla Risurrezione è affidata soprattutto –
sembra – alla catechesi post-battesimale, ed è quella che ritroviamo specialmente in certe
lettere di san Paolo; la supponiamo, per esempio, in Col 3, 1-5 che sviluppa la morale
pasquale insegnata ordinariamente dopo il battesimo.
C’è, infine, sulla Risurrezione un quarto tipo di istruzione; cioè, l’istruzione mistica o
gnostica: quella in cui la Risurrezione e la gloria del Risorto sono presentate come attuate
nella vita stessa di Gesù e del credente. Una istruzione amplissima di questo tipo, che gli
antichi chiamano gnostica, è data da Giovanni, il quale ci presenta Gesù come ancora vivente
nella carne, e che addirittura nella sua stessa morte, manifesta la gloria del Padre.
Istruzione necessaria e importante, ma per uno stadio di maturità spirituale.

La catechesi di Marco attesta la Presenza


Che cosa viene dato, invece, al catecumeno nell’istruzione di Marco? Pur nella brevità
del testo, vengono già offerte al catecumeno parecchie cose importanti.

– Un primo annuncio, nelle parole stesse dell’angelo: «Non abbiate paura» (16,6). Tale
annuncio riassume a questo punto tutti i rimproveri di Gesù e li porta al punto conclusivo.
Ormai bisogna veramente abbandonare ogni timore!
– Poi un secondo annuncio: «Voi cercate Gesù il crocifisso: è risorto, non è qui»
(16,6), cioè, lo stato di Gesù crocifisso non è lo stato nel quale dovete pensarlo sempre;
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quello definitivo. Esso è stato un passaggio; la sua nuova situazione è vita ed Egli vive ora
presso di voi con un nuovo tipo di presenza.
– E il terzo annuncio: «Vi precede in Galilea» (16,7). Anche questo annuncio è
pregnante di significato. Gli esegeti discutono: che cosa significa la Galilea? Significa varie
cose.
Nel Vangelo di Marco – che si svolge in massima parte in Galilea – è appunto il luogo
in cui Gesù si è già mostrato la prima volta ai discepoli, nel quale si ripresenterà a loro nelle
apparizioni che verranno poi narrate nella catechesi. È quindi il luogo dove con gli stessi
gesti, con la sua stessa bontà e disponibilità, essi ritroveranno la presenza viva di quel
Signore che hanno conosciuto. È il luogo in cui il Signore si manifesterà ad essi visibilmente
e dove Gesù comincerà la ricostruzione della comunità, quella ricostruzione che veniva
annunciata nella Passione, in Mc 14,27: Gesù come pastore che precede il gregge, che
presiede al gregge e lo ricostituisce gradualmente.
La Galilea è dunque il luogo dove la comunità dei Dodici sarà ricostruita.
Nelle parole dell’angelo, vi è, probabilmente, anche un richiamo al c. 13 che è il
capitolo della speranza definitiva, della apparizione definitiva del Signore. Esso mostra come
lo sviluppo evangelico della speranza non è lungo la linea di un’utopia mondana di
progresso, ma secondo una linea evangelica di tribolazione, che è stata la linea del Figlio
dell’Uomo. L’attenzione del catecumeno, quindi, viene portata verso questa speranza del
ritorno di Gesù, che tuttavia dovrà essere preceduta da tribolazioni e prove.
Abbiamo tutta una serie di accenni che dovevano essere, poi, svolti nella catechesi, per
insegnare a guardare al futuro e a considerare quale doveva essere l’attesa del catecumeno.
Ecco dunque alcune brevissime riflessioni sulla realtà del Risorto, sulla sua presenza
viva tra i suoi, nel gruppo ricostituito della chiesa, e sulla sua apparizione finale.

La catechesi oggi
Tuttavia è chiaro che Marco non ci parla della risurrezione soltanto negli otto versetti
citati. Se notiamo bene egli va letto e dev’essere letto sin dall’inizio alla luce della presenza
di Gesù vivente. Inizia, infatti, con le parole – che non si trovano in tutti i codici, ma che con
ogni probabilità sono originali – «...Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio» (1,1). Tutta
l’attività di Gesù è proiettata come la presenza tra noi del Figlio di Dio, che la morte non può
inghiottire, quel Figlio in cui Dio si compiace; e quindi, Colui che vive.
Di conseguenza, tutta l’iniziazione catecumenale è fatta non su un Gesù passato e
finito, ma su Gesù che è il Vivente. Intanto, quindi, ha valore considerare le chiamate di
Gesù, i Dodici con Lui, la vicendevole comunanza di vita, in quanto il catecumeno sa che
questa esperienza è permanente, perché Gesù è il Figlio di Dio che non è rimasto nella
morte, ma vive. Le parole che legge hanno un senso, oggi, e sono rivolte a lui.
Tutto il Vangelo di Marco è meditato nell’ipotesi, nella presupposizione, meglio, nel-
l’accettazione che Gesù vive e parla oggi ai suoi e li chiama, così come ha chiamato presso il
lago, o presso il monte, e continua a spiegare la sua vera identità nella chiesa.
Si potrebbe, forse, valorizzare anche in questa maniera l’uso del presente storico in
Marco. Sappiamo che egli usa volentieri il presente: Gesù va, passa, Gesù chiama, Gesù
dice. Questo modo potrebbe – non dal punto di vista di rigida prova esegetica, ma nella fede
– essere stato scelto per presentare Gesù come Colui che oggi vive, chiama, annuncia, esige,
invita, rimprovera, Gesù viene presentato come Colui che vive nella chiesa, e può quindi
essere fonte di chiamata, Persona che può venire concretamente seguita, accettata,
riconosciuta ed amata.
Tutta la catechesi di Marco non è una catechesi del passato, ma una presentazione delle
esigenze di Gesù vivente, ora nella chiesa.
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La vita quotidiana e la nostra scelta radicale


Come le realtà della risurrezione, espresse in Marco, possono essere vissute a livello
della nostra attuale esperienza ecclesiale? Sottolineerei soprattutto due conseguenze.

La prima potrebbe essere ritrovata nella parola, ripetuta così spesso da Gesù: «Aprite
gli occhi».
Cioè il Signore è risorto, il Signore vive; ma dove? Vive presso Dio e vive in mezzo a
voi; quindi, l’invito a riconoscere la presenza viva di Gesù nella nostra esperienza.
Dov’è presente Gesù nella nostra esperienza? Tutte le volte che essa è in consonanza
con l’esperienza descritta dal Vangelo. Gesù vive nei Dodici e in coloro che continuano a
predicare dopo di loro; vive in tutti quelli che sono uniti con i Dodici per fare corpo con
Gesù; vive, quindi, in tutta la vita della chiesa e in tutta la sua santità, e in tutti i suoi
sacramenti. Vive anche nella nostra stessa vocazione che è risposta alla chiamata di Gesù, e
che è un miracolo agli occhi del mondo, un qualcosa di inspiegabile dal punto di vista
umano. Perché ogni volta che una persona accetta di vivere una vita di fede, avviene
qualcosa di incomprensibile e di misterioso. Ogni cristiano vivente è una manifestazione
straordinaria, umanamente inspiegabile della Risurrezione del Signore.
Questo Vangelo allora è un invito ad aprire gli occhi per vedere il Signore nella nostra
esperienza.

La seconda conseguenza è non solo di vedere Gesù che vive, ma Gesù che viene.
Viene tutte le volte che ripetiamo i suoi gesti, le sue parole, tutte le volte che
spezziamo il pane, tutte le volte che rifacciamo le azioni che Egli ci ha comandato di fare e
che viviamo la vita che Egli ci ha insegnato.
È un invito, quindi, a riconoscere Gesù vivo nella chiesa in quanto è espressione di
umiltà, di oscurità, di cose che non appaiono, forse, esteriormente molto visibili e
comprensibili, ma che viste con simpatia, dall’interno, ci manifestano la presenza viva della
Risurrezione del Signore.

Conclusione
A questo punto la scelta fondamentale che possiamo compiere è quella di vivere con
riconoscenza la nostra vita così com’è, nella chiesa. Scoprire, cioè, il tesoro che abbiamo nel
nostro campo e ringraziare immensamente Dio perché ci permette di vivere con Lui una vita
nascosta e non esente da contraddizioni, difficoltà ed oscurità, ma che proprio in esse
manifesta la presenza viva del seme evangelico.
In fondo, la scelta fondamentale che spesso bisogna fare è quella di glorificare l’opera
di Dio nella nostra vita concreta, con tutte le sue ambiguità, incertezze e debolezze, perché in
queste debolezze, incertezze ed ambiguità si manifesta la potenza del Risorto.
La nostra vita quotidiana, infatti, nella sua apparente insignificanza – perché ogni vita
quando è vista da vicino e analizzata nelle sue componenti quotidiane appare estremamente
semplice, povera, inadeguata a quello che è il mistero di Dio – porta già, proprio in questa
inadeguatezza, i segni della risurrezione del Signore.
Essa può diventare una gloriosa manifestazione della potenza del Figlio di Dio nella
umiltà; come il seme messo nella terra e nascosto che nasce per la potenza di Dio e per la
fiducia che si ha nella sua parola.
In questo modo, mi sembra, il Vangelo di Marco ci riporta, dalla vita nella carne di
Gesù, ad accettare e valorizzare, nella fede, tutta la ricchezza della nostra situazione
presente.

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