PRESENTAZIONE
Più gli anni si susseguono in questa primavera del dopo Concilio, e più chiara è la
coscienza della costitutività e dell’urgenza che l’annuncio della Parola ha nei riguardi della
Chiesa.
Mons. Carlo Maria Martini è per eccellenza l’uomo della Parola.
Tutto il suo itinerario di studi, tutte le scelte per esprimere la sua vocazione e missione
di figlio di Sant’Ignazio, sono state qualificate da un servizio della Parola.
Dalle tesi di dottorato in teologia e in scienze bibliche, agli insegnamenti e
responsabilità di direzione del Pontificio Istituto Biblico e della Pontificia Università
Gregoriana, agli interventi di annunzio in corsi di eserciti spirituali e in conferenze e
relazioni attestano un preciso e costante servizio ministeriale.
Questo servire la Parola è dono di Dio ed è scelta di solidarietà e di partecipazione a
quelli che sono i radicali bisogni umani.
Già Amos aveva fatto la diagnosi per la sua generazione e ha offerto uno strumento
criteriologico per tutte le generazioni:
«Ogni Vescovo – ha detto il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II, nell’omelia della
concelebrazione della solennità dell’Epifania (1980), preparando gli animi all’ordinazione
episcopale di Mons. Carlo Maria Martini – è l’amministratore del mistero e il servo del dono
che si prepara incessantemente nei cuori umani, questo dono proviene dall’esperienza della
generazione alla quale il Vescovo appartiene.
Proviene dalla vita di centinaia, migliaia e milioni di uomini, suoi fratelli e sorelle, egli
stesso, Vescovo, è il servo del dono.
Colui che custodisce e che moltiplica... È Cristo stesso Pastore, Vescovo delle nostre
anime, di tutto ciò che è umano, che vuole fare di noi un sacrificio gradito a Dio (cf. III
Preghiera Eucaristica) un dono al Padre.
Il Vescovo è colui che custodisce il dono, è colui che risveglia il dono nei cuori, nelle
coscienze, nelle esperienze difficili della sua epoca, nelle sue aspirazioni e nei suoi
smarrimenti, nella sua civilizzazione, nell’economie e nella cultura».
E rivolgendosi direttamente al nuovo pastore della Chiesa milanese il Papa così si è
espresso:
«Con gioia la Chiesa di Milano saluta questo Successore degno figlio di Sant’Ignazio,
stimato rettore del «Biblicum» e poi della «Università Gregoriana» a Roma. Con gioia e
fiducia la Chiesa di Milano saluta colui che deve essere il suo nuovo Vescovo e pastore, il
nuovo amministratore del dono di cui ho parlato, e il nuovo testimone della stella; quella
stella che conduce infallibilmente a Betlemme».
Questo cammino con e verso Gesù, giacché «il più grande tesoro della Chiesa è il suo
Sposo», è aiutato anche da queste pagine in parte raccolte dalla viva voce, in parte scritte
espressamente dallo stesso Arcivescovo Carlo Maria Martini.
Continua ad avverarsi, attraverso i diversi doni (e questa pubblicazione è un piccolo
segno) che il Signore suscita costantemente nella sua Chiesa, l’unica grande dinamica di
speranza, di coraggio, di solidarietà, di progetto cristiano che deve animare il quotidiano del
credente e che da lui viene proposta e imprestata ai propri compagni di viaggio.
Preghiera, scelte e azioni apostoliche, frutti dello Spirito e Parola di Dio scritta
rivelano la fede costante e il riferimento vitale personale che ci fa essere Chiesa.
«Ecco, la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cf. 2Cor 5,15), dà sempre
all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione; né
è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possono salvarsi (cf. At 4,12). Crede
ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia
umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che
non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo che è sempre lo stesso: ieri,
oggi e nei secoli. (cf. Col 1,15)» (GS 10).
Il quotidiano, ricchezza-possibilità e rischio per l’uomo, solo con Lui può avere il suo
senso e solo grazie a Lui e al suo Santo Spirito può operosamente esprimersi in preghiera e
azioni liete.
Luciano Pacomio
3
La preghiera cristiana 1
(Atti)
Pregare
Perché parlare della preghiera del cristiano, quasi ci fosse bisogno di affermarne la
necessità?
Potrebbe sembrare un argomento scontato, dal momento che Gesù nel Nuovo
Testamento ci viene presentato molto spesso in preghiera.
La preghiera di Gesù
L’epistola agli Ebrei ci dice che: «Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere
e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte...» (Eb 5,7).
Anche gli evangelisti ce lo presentano sovente nell’atteggiamento di preghiera; in
particolare Luca ci propone Gesù come colui che si portava volentieri in disparte per
pregare.
In una nota preziosa di Luca troviamo infatti queste parole: «Ma Gesù si ritirava in
luoghi solitari a pregare» (Lc 5,16), dove il verbo all’imperfetto ci fa capire che si tratta di
un’abitudine che era stata tramandata come propria di Gesù. E anche nel capitolo nove Luca
premette al racconto della confessione di Cesarea un’espressione che potrebbe essere
tradotta: «Essendo Gesù come al solito in preghiera» (Lc 9,18).
Abbiamo dunque testimonianze abbastanza chiare sulla preghiera costante di Gesù e
questo potrebbe essere in qualche modo sufficiente per la nostra preghiera.
I vangeli comunque ci mostrano Gesù in preghiera anche in situazioni particolarmente
rilevanti:
– al momento del battesimo: «Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in
preghiera, il cielo si aprì» (Lc 3,21);
– al momento della elezione degli Apostoli: «In quei giorni Gesù se ne andò nella
montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno chiamò a sé i suoi
discepoli e ne scelse dodici...» (Lc 6,12-13);
– dopo il ritorno dei discepoli dalla missione: «...Gesù esulto nello Spirito Santo e
disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai
dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”...» (Lc 10,21);
– prima del miracolo della risurrezione di Lazzaro: «Gesù allora alzò gli occhi e disse:
“Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato”» (Gv 11,41);
– al momento della trasfigurazione: «Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e
salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste
divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-29);
– nei momenti cruciali della sua vita come nell’orto del Getzemani: «Poi si allontanò
da loro... e inginocchiatosi, pregava... In preda all’angoscia, pregava più intensamente» (Lc
22,41.44).
La preghiera di Gesù dunque è un elemento inconfutabile del Nuovo Testamento.
Pertanto è un punto di partenza essenziale comunque lo si voglia spiegare teologicamente.
1 Conferenza tenuta nel Seminario di Casale Monferrato il 25 marzo 1967, tratta dal registratore e non
rivista dall’autore.
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La preghiera di Paolo
Sempre nel Nuovo Testamento vediamo Paolo, modello di apostolato, che prega ed
esorta a pregare continuamente.
Possiamo ricordare, per esemplificare, l’inizio della Lettera ai Romani: «Dio... mi è
testimone che io mi ricordo sempre di voi; chiedendo sempre nelle mie preghiere che per
volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi» (Rm 1,9-10).
Ma anche nella Lettera ai Tessalonicesi si afferma: «Ringraziamo sempre Dio per tutti
voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio...» (1Ts 1,2-
3); e ancora nella stessa lettera: «Chiediamo di poter vedere il vostro volto e completare ciò
che ancora manca alla vostra fede» (1Ts 3,10).
Preghiera e vita
Ma un altro aspetto è assai rilevante e tocca più profondamente la crisi della preghiera.
Non è un problema nuovo, era già stato sottolineato nel Nuovo Testamento:
«Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21); «Per questo, entrando nel mondo, Cristo
dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai
gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di
me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7).
È necessario dunque scovare in noi, nella nostra società, la mentalità dell’uomo
vecchio che vorrebbe far consistere la preghiera nel dire “Signore! Signore”, cioè nel
formalismo verbale e nell’affidamento rinunciatario, che fa della preghiera qualcosa in cui si
rifugia, come un diversivo dal reale impegno di vita.
Oppure la mentalità che si sazia soltanto nell’offrire sacrifici, olocausti e vittime, cioè
nell’atteggiamento quasi commerciale verso Dio, di chi pretende di acquistarsi i favori
divini, quasi a comprarsi Dio con la contropartita della preghiera.
Si tratta di denunciare questa mentalità e combatterla come atto di onestà verso Dio,
verso noi stessi e verso tutti gli uomini.
È una mentalità che fa schermo al vangelo.
Noi dobbiamo aprirci e “lasciarci possedere” dalla mentalità dell’uomo nuovo secondo
la quale la preghiera consiste essenzialmente nel fare la volontà del Padre, nell’offrire la
propria esistenza spontaneamente, gratuitamente e per amore al compimento della volontà
del Padre.
Di conseguenza la vita di ogni uomo, la storia di tutti gli uomini in quanto è
liberamente spesa per compiere la volontà del Padre, è vera preghiera.
Qui evidentemente abbiamo in qualche modo raggiunto la soluzione dell’antinomia di
cui si parlava riferendosi all’istanza dell’efficienza, del servizio, della carità, della comunità,
tutte istanze che sembrano contrapporsi al tempo della preghiera, e che vengono facilmente
risolte quando si dice: l’offerta della vita a Dio è l’unica preghiera e quindi, l’impegno di
servizio corrisponde alla preghiera stessa.
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Credo che qui si tocchi il punto di maggiore difficoltà in quanto nasce non da
negligenza, da trascuratezza, da pigrizia, ma da una ricerca che vuole essere squisitamente
evangelica.
Una difficoltà dunque troppo grande perché possiamo pretendere di risolverla con due
parole o con qualche riflessione.
Direi quasi che non c’è altra soluzione a questa difficoltà se non quella che ci viene
descritta dagli Atti degli Apostoli al capitolo venti, al termine del discorso di Paolo in cui
parla di tutti i problemi che fanno tribolare la Chiesa e conclude dicendo: «Detto questo, si
inginocchiò con tutti loro e pregò» (At 20, 36).
Questa sarebbe forse la soluzione e la risposta a tutta questa serie di problemi: cioè
metterci a pregare con la comunità per uscire da queste difficoltà.
La comunità primitiva
Se dunque questo è il problema essenziale della preghiera cristiana, diventa opportuna
una meditazione semplice e umile della Parola di Dio quale si è espressa nella comunità
delle origini, in particolare nel libretto degli Atti degli Apostoli, non per pretendere di
risolvere questo problema in astratto, ma per avere qualche indicazione concreta sul come
comportarci per essere da una parte fedeli al vangelo e alle parole evangeliche citate,
dall’altra fedeli all’esempio dei primi cristiani che appunto dopo la parola di Paolo, “piegate
le ginocchia”, incominciarono insieme a pregare.
Che cosa dunque ci può dire una considerazione molto semplice e modesta sulla
preghiera nella comunità primitiva in relazione alle difficoltà che oggi tendono a svalutarla?
Innanzitutto bisogna dire, anche se con un senso di delusione, che la comunità
primitiva non ci dà delle risposte teoriche a questi problemi in quanto non si ponevano in
questa stessa forma.
E questo fatto ci fa rilevare che la comunità primitiva non sentiva il dilemma
preghiera-vita, non ne aveva coscienza; dunque l’esasperare questo dilemma e il volerlo
portare ad una soluzione di tipo unilaterale ci rivela di esserci un po’ allontanati dal semplice
e lineare modo di vedere le cose della primitiva comunità cristiana.
Tuttavia, prescindendo dal fatto che la comunità primitiva non abbia una teoria precisa
ed elaborata su questo problema, se vogliamo raccogliere i dati che servono per illuminarci e
farci capire ciò che la Parola di Dio ci può indicare, potremmo fare una serie di costatazioni
successive che la lettura attenta degli Atti degli Apostoli sembra proporci. In questo modo
potremmo ricevere da Dio, attraverso la preghiera, che ci richiama il fatto che è sempre
questione di dono, la grazia di comprendere in che modo preghiera, vita e azione efficace
debbono coniugarsi e congiungersi realmente in noi.
La Parola di Dio
Dunque la comunità è costruita dalla Parola di Dio, ma dobbiamo domandarci cos’è
questa Parola di Dio: come opera, come giunge a noi? Ecco la seconda costatazione che
facciamo leggendo gli Atti degli Apostoli.
La Parola di Dio è dono dello Spirito. È lo Spirito di Dio che diffonde questa Parola,
che la dà agli uomini e la dà anche come Parola profetica da comunicare nella missione e
nella testimonianza.
Abbiamo tre casi tipici a partire dall’inizio del capitolo secondo in cui gli Apostoli,
ricevendo lo Spirito, incominciano a parlare e Pietro allora annuncia la Parola di salvezza.
Fino a questo momento non c’è stato ancora annuncio della Parola.
Lo Spirito è quello dal quale è venuto il dono di parlare, quindi la Parola di Dio che
costruisce ed edifica la Chiesa è dono dello Spirito.
Questo dono gratuito di Dio dunque:
– avviene per gli Apostoli durante la Pentecoste: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito
Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di
esprimersi» (At 2,4);
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– avviene anche per la comunità di Cornelio, quando si converte: «Pietro stava ancora
dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il dis-
corso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i
pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e
glorificare Dio» (At 10,44-46); questa glorificazione di Dio con cui è connessa la
testimonianza e quindi la diffusione della Chiesa è dunque anch’essa dono dello Spirito;
– avviene infine dopo l’imposizione delle mani di Paolo su quei discepoli giovanniti di
Efeso che non conoscevano ancora lo Spirito, ma solamente il nome del Signore Gesù, cioè
il battesimo di Giovanni: «E non appena ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo
Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6); anche la profezia dunque,
attraverso cui la Chiesa si costruisce è dono dello Spirito.
Resta in ultimo da rilevare che, quando si comincia a descrivere la grande missione
paolina che porterà la Parola di Dio nell’Asia e poi nell’Europa, operando quindi la grande
diffusione della Chiesa, viene annotato che questo avviene perché Paolo e Barnaba sono
«inviati dallo Spirito Santo» (At 13,4), dopo la preghiera e il digiuno della comunità.
Quindi la Parola di Dio, che costruisce e fa germinare la Chiesa, è dono dello Spirito.
Ora però ci chiediamo: come interviene a questo punto la preghiera se la Parola di Dio
è la realtà da cui tutta la Chiesa è continuamente rinnovata, molto più che non da un
riesaminarsi introverso?
Se questa Parola è dono dello Spirito, l’uomo di fronte ad essa ha e deve avere
soprattutto un atteggiamento di disponibilità, di ricezione, di povertà e di implorazione,
ritenendo questa Parola come dono e come grazia: questo è appunto la preghiera.
Ecco dunque che la preghiera appare come momento fondamentale per la costruzione
della comunità, intrinsecamente legato al costruirsi, al farsi, allo strutturarsi della comunità
stessa. E i responsabili umani di questa costruzione, cioè gli Apostoli e poi i presbiteri, sono
per prima cosa consacrati alla preghiera, per realizzare in pieno la caratteristica della Chiesa
continuamente germinata attraverso la Parola di Dio, dono dello Spirito a cui segue la fede e
l’adesione piena al Cristo.
Quindi la preghiera è momento intrinsecamente connesso al vivere della comunità, in
particolare al vivere di coloro che sono dedicati, da una consacrazione, alla comunità e al suo
servizio.
1. Qual è la prima attività nella quale incontriamo occupati gli Apostoli nel libro degli
Atti?
«Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a
Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato. Entrati in città salirono al piano
superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e
Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo.
Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con
Maria la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1, 12-14).
Questa è la prima descrizione che Luca ci presenta, affinché, ripetendo il nome degli
Apostoli, che il lettore già conosce dal Vangelo, venga concentrata l’attenzione su ciò che
essi faranno nella Chiesa primitiva.
Ecco la prima presentazione degli Apostoli: persone in preghiera con tutta la comunità,
perché soltanto di qui si avrà la venuta dello Spirito e quindi la Parola e quindi la diffusione,
la moltiplicazione della Parola stessa.
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È curioso che gli Apostoli ci vengano presentati in preghiera poco dopo aver ascoltato
dal versetto 8 dello stesso capitolo che gli Apostoli sono per la testimonianza : «Ma avrete
forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta
la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Se da una parte
dunque la testimonianza è il programma degli Apostoli, dall’altra essi “sono in preghiera”.
Come si attua il legame tra queste due realtà?
Si può essere testimoni del Risorto, ricevendo la forza dello Spirito Santo, testimoni
quindi con la Parola, che è dono dello Spirito, ed esige dunque di essere ricevuta e ascoltata
nella disponibilità totale della preghiera.
Ecco come queste realtà vengono fin dall’inizio inquadrate come essenziali nella
comunità: la Parola che promuove la testimonianza, lo Spirito che dà questa Parola e la
preghiera che ci dispone ad accoglierla e la implora.
2. Qual è la seconda attività nella quale noi cogliamo gli Apostoli, ci chiediamo sempre
seguendo il racconto degli Atti?
È l’attività in cui essi pregano per colui che dovrà prendere il posto di Giuda.
Anche qui la loro attività è quella di pregare per risolvere un problema importante di
vita ecclesiale.
Noi avremmo potuto dire di fronte a questo problema: si tratta di un problema di
efficienza, dobbiamo essere dodici per essere un numero compatto, che faccia impressione
alla comunità di Israele e quindi dobbiamo trovare la persona più adatta attraverso una serie
di tests psicologici che ne rilevino le attitudini.
Gli Apostoli invece partono da un altro concetto, non sociologico ma teologico, cioè la
Scrittura.
«Infatti sta scritto nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta, e nessuno vi
abiti, il suo incarico lo prenda un altro”. Bisogna dunque che tra coloro che ci furono
compagni per tutto il tempo in cui il Signore ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal
battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, ma divenga,
insieme a noi, testimone della sua risurrezione. Ne furono proposti due, Giuseppe detto
Barsabba, che era soprannominato Giusto, e Mattia. Allora essi pregarono dicendo: “Tu
Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato a prendere il
posto in questo ministero e apostolato che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto da
lui scelto”» (At 1,20-25).
Ecco l’attività tipicamente apostolica: l’interpretazione della Scrittura, cioè la
considerazione della difficoltà comunitaria da un punto di vista teologico, perché questa
situazione grave e difficile sia risolta dalla Parola di Dio e dall’azione divina.
3. Qual è la terza attività nella quale sono presentati gli Apostoli nel capitolo
successivo?
«Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo» (At 2,1).
Qui non si parla esplicitamente di preghiera, però le formule usate da Luca fanno
capire al lettore attento dell’opera lucana che siamo di fronte ad una convocazione in cui si
prega: infatti è usata la formula “tutti insieme nello stesso luogo”, che corrisponde a quella
“con animo unito”, che è la formula con cui Luca di solito designa la preghiera comunitaria.
Per esempio troviamo: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio» (At 2, 46),
e qui è sottintesa la preghiera fatta nel tempio; e ancora: «All’udire ciò, (gli Apostoli) tutti
insieme levarono la loro voce a Dio» (At 4,24).
Quindi con questo quadro degli Apostoli riuniti “tutti insieme in un solo luogo” Luca,
prima della Pentecoste, ci presenta la comunità non soltanto come “unione di cuori”, ma
anche come “unione di preghiera”, perché attraverso la preghiera si forma questo “cuore
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comune”, questa “unità di intenti” poi consacrata dalla presenza dello Spirito, che toglie le
differenze e li prepara per la missione di annunciare la Parola.
Questo è confermato da un fatto interessante (cf. J. Dupont, Il testamento pastorale di
San Paolo, Milano 1967), e cioè che l’avverbio “insieme” si trova una volta sola in Paolo e
designa una situazione di preghiera: «E il Dio della perseveranza e della consolazione vi
conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, ad esempio di Cristo Gesù,
perché con un solo animo (insieme) e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore
nostro Gesù Cristo» (Rm 15,5-6).
Come glorificazione della preghiera è dunque probabilmente anche quella descritta nei
versetti precedenti alla narrazione dell’avvenimento della Pentecoste.
5. Un ultimo esempio concreto del libro degli Atti degli Apostoli ci viene offerto
quando gli Apostoli, per l’accrescimento quantitativo della comunità, devono prendere
posizione su quali siano i loro compiti principali, pressati dalle urgenze e dalle scadenze di
una organizzazione sempre più complessa a Gerusalemme, scelgono e riconoscono la
necessità della Parola e della preghiera: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio
per il servizio delle mense... Noi invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della
parola» (At 6,2.4).
Questo mi pare degno di attenta meditazione per ogni opzione che si ponga tra una
certa forma di servizio e un’altra.
Quindi senza svalutare affatto la forma di servizio che è quella che devono fare i sette,
cioè quella di carità, di testimonianza, quella che deve tenere in vita l’unione dei cuori anche
attraverso un servizio materiale e concreto, la scelta degli Apostoli è per il sevizio della
Parola e per la preghiera.
Il Dupont in una pagina conclusiva del libro già citato, presenta un’immagine vigorosa
della comunità primitiva che prega di continuo. Ecco in sintesi il suo pensiero.
Comincia con alcuni esempi:
– il mattino di Pentecoste gli Apostoli si riuniscono all’ora terza: «Questi uomini non
sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino» (At 2,15);
– a Giaffa, sulla terrazza d’una casa: «Pietro salì verso mezzogiorno a pregare» (At
10,9);
– e all’ora nona: «Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera
verso le tre del pomeriggio» (At 3,1);
– la preghiera accompagna l’elezione dei sette: «Li presentarono quindi agli apostoli i
quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6);
– la comunicazione dello Spirito ai samaritani è preceduta dalla preghiera: «Essi
(Pietro e Giovanni) discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo...
Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,15.17);
– dopo l’invocazione dello Spirito per l’invio dei missionari: «Allora, dopo aver
digiunato e pregato, imposero loro (a Bàrnaba e Saulo) le mani e li accomiatarono» (At
13,3);
– per la strutturazione delle nuove comunità: «Costituirono quindi per loro in ogni
comunità alcuni anziani e dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale
avevano creduto» (At 14,23);
– quando Erode fa arrestare Pietro: «Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una
preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui» (At 12,5);
– ancora Pietro prega prima del “risveglio” della discepola Tabità: «Pietro fece uscire
tutti e si inginocchiò a pregare...» (At 9,40a);
– e Paolo prega prima della guarigione del padre di Publio: «Paolo l’andò a visitare e
dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì» (At 28, 8b).
Dopo questo lungo elenco il Dupont conclude che l’impressione complessiva è che i
primi cristiani preghino continuamente. Senza dubbio Luca ha voluto far capire questo ai
suoi lettori mostrando continuamente i credenti in preghiera: in tutto essi trovano occasione
per pregare. In ogni avvenimento importante o anche semplicemente nelle Ore liturgiche
ebraiche, la chiesa apostolica, con gli esempi citati, realizza in pieno l’ideale di pregare
“sempre” (Lc 18,1) e “in ogni tempo” (Lc 28,36), quell’ideale evangelico che è anche di
Paolo».
Conclusione
Certamente dunque preghiera e vita, preghiera ed efficienza, preghiera e azione vanno
pienamente congiunte, ma nella coscienza che la preghiera attua il mistero cristiano di morte
e risurrezione.
Se cioè vogliamo essere fedeli al dato del Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere e
accogliere il fatto che nella preghiera ci sia un elemento di inefficienza, di improduttività, di
accettazione dell’inutilità e della passività dell’uomo.
Proprio la passività dell’uomo esalta il primato dell’iniziativa della Parola di Dio che,
ricevuta dall’uomo con questo atteggiamento di umiltà e di morte apparente, produce i frutti
della carità e del servizio di cui la primitiva comunità ci dà esempi abbondantissimi,
mettendo però come sua prima preoccupazione non quella di trasformare la vita perché possa
diventare coerente, ma quella di partire dalla propria incapacità per rivolgersi a Dio, affinché
la sua Parola trasformi in coerenza la nostra esigenza.
C’è quindi un mistero nella preghiera e nel suo primato che è assolutamente
impossibile togliere dal cuore del Nuovo Testamento e che, se è riconosciuto, ci porta al
centro del mistero pasquale e del mistero di redenzione. È il mistero di accettazione di cui la
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(Atti)
La “vera” Chiesa
La vera protagonista della storia narrata negli Atti degli Apostoli non è tanto la
comunità, quanto la Parola di Dio che ci viene come dono dallo Spirito. Si potrebbe allora
concludere che la vera Chiesa è la Chiesa dello Spirito, la Chiesa dei carismi, la Chiesa della
Parola, la Chiesa della fede.
Carismi e autorità
Dobbiamo però porci una domanda: «Che cosa ci stanno a fare gli Apostoli in questa
Chiesa che è carisma, Spirito, Parola? Che cosa ci stanno a fare gli anziani che Paolo ha cura
di costituire nelle singole comunità?».
Leggiamo infatti, per esempio, che al ritorno di Paolo e Bàrnaba per le varie città che
sono state evangelizzate nell’Asia minore si dice: «Ritornarono... rianimando i discepoli ed
esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio. Costituirono quindi per loro in ogni comunità
alcuni anziani e dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano
creduto» (At 14,22-23); e ancora Paolo ai responsabili della comunità di Efeso prima di
lasciarli afferma: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito
Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo
sangue» (At 20,28).
È il grosso problema, che tanto si agita nella Chiesa, del rapporto tra autorità e carismi:
che cosa ha la prevalenza nella Chiesa? Come mai se la Chiesa è dello Spirito esiste anche
questo elemento che sono gli Apostoli, i sorveglianti, i vescovi, l’autorità, ecc.? Non c’è
forse una continua tensione e frizione tra questi due elementi?
Naturalmente non è possibile dare una risposta esaustiva a questo problema, ma si
possono trovare alcune indicazioni a partire dagli Atti degli Apostoli perché le stesse
domande se le era già poste Luca scrivendo il libro degli Atti.
I primi cristiani cioè, erano coscienti che nella Chiesa devono essere sempre salvati
due elementi: da una parte l’elemento spirituale carismatico (la Parola di Dio) e dall’altra
l’elemento di continuità visibile pastorale.
Essi, per istinto spirituale, per ispirazione divina, sentivano che queste cose dovevano
permanere, e con la loro compenetrazione costituire la Chiesa; cercavano però logicamente
di sistemare questo fatto in quanto partiva dal Cristo ed era stato da loro ricevuto.
Anche Luca si propone questo scopo.
2 Conferenza tenuta nel Seminario di Casale Monferrato il 25 marzo 1967, tratta dal registratore e non
rivista dall’autore.
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Il modello costruttivo:
le scelte della comunità
1. Il primo esempio che noi possiamo ricavare dal libro degli Atti circa la funzione
degli Apostoli si trova subito all’inizio.
«Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò
dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti
nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la passione, con
molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio.
Mentre, si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme,
ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da
me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non
molti giorni”. Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo
in cui ricostruirai il regno di Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e
i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che
scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e
fino agli estremi confini della terra”. Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una
nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se
n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di
Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al
cielo, tornerà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a
Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino
permesso in un sabato. Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano
Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo
di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella
preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At
1,1-14).
Spesso si dà come titolo a questi versetti la dicitura “le ultime parole di Gesù e
l’ascensione al cielo”: in realtà, se leggiamo attentamente questi versetti, è un altro il punto
di vista con cui essi sono presentati.
Versetto per versetto noi veniamo messi di fronte a una grandezza nuova, che sorge
appunto col libro degli Atti degli Apostoli, e che sta tra il Cristo “che va al cielo” e la
comunità “che rimane”, anzi la costituisce: sono appunto gli Apostoli.
Tutti questi primi versetti degli Atti sono concentrati su quest’idea: il Cristo non c’è
più, la sua presenza visibile è costituita dagli Apostoli che hanno l’assicurazione dello
Spirito, legame invisibile col Cristo.
15
2. Il secondo esempio ci è offerto dai tre famosi sommari che si trovano nei primi
capitoli degli Atti degli Apostoli e che ci descrivono la vita della comunità primitiva come
vita di carità, di comunione dei beni, di preghiera, di letizia.
Ad essi si è ispirata in ogni secolo sia la Chiesa che ogni movimento di riforma.
Possiamo anzi dire che ogni riforma che è venuta nella Chiesa si è sempre riportata a questo
primitivo modo di vivere dei primi cristiani, o radicalmente come imitazione totale e
immediata, o almeno come ideale.
Ora, che cosa è interessante notare in queste descrizioni della vita di carità, di gioia, di
preghiera, di comunicazione dei beni della prima Chiesa?
In ciascuna di queste descrizioni, Luca ha cura di notare l’importanza della presenza
dell’Apostolo, quasi per farci capire che non esiste nessuna di queste realizzazioni concrete
della vita ecclesiale, senza una continuità della presenza di Cristo con il suo Spirito
attraverso la visibile presenza apostolica.
perché quanti possedevano campi o case li vendevano; portavano l’importo di ciò che era
stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno
secondo il bisogno» (At 4,32-35).
Un quadro veramente meraviglioso di questa comunità primitiva. Ma anche qui Luca
ha cura di farci notare che in questa comunità “con grande forza gli Apostoli rendevano
testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”.
Questo è il centro da cui tutta la vita di carità può promanare. E questa vita di
comunità, di comunione dei beni, di servizio reciproco, si attuava in questo modo:
“portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e
poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.
Anche questo esperimento di carità, che rimane in qualche modo ideale nella Chiesa,
anche se poi è vissuto a diversi livelli, ci propone la centralità degli Apostoli. La vita
comunitaria è dunque ancora sotto il segno della presenza apostolica che è appunto una
continua presenza di Cristo, garantita dallo Spirito.
3. Il terzo esempio è costituito dalla predicazione ai giudei, quella che comprende tutta
la prima parte (capp. 1-15) del libro degli Atti e che ci descrive appunto come avviene
progressivamente la predicazione al popolo giudaico, quindi come la Parola si diffonde.
Chi sono gli artefici di questa predicazione? Luca ha cura di farci notare che gli artefici
fondamentali, i pilastri di questo servizio della Parola, sono o Pietro e i Dodici, oppure
persone che sono nella scia di Pietro e dei Dodici: in concreto sono Pietro e Giovanni,
Stefano e Filippo.
Stefano e Filippo sono due di coloro che hanno avuto l’imposizione dalle mani degli
Apostoli.
Dunque noi non conosciamo in fondo altri servitori della Parola ai giudei se non questi
che sono posti, per così dire, come il prolungamento del gruppo apostolico.
4. Il quarto esempio infine ci viene dalla predicazione ai pagani che comprende tutta la
seconda parte del libro degli Atti (capp. 16-28).
Come avviene questa predicazione ai pagani? Predicazione che costituisce la grande
novità e scoperta della Chiesa primitiva: la possibilità cioè di annunciare liberamente ai
pagani il messaggio evangelico senza obbligarli alla legge di Mosè.
Questa predicazione avviene principalmente per opera di Paolo. Luca però ci fa notare
che Paolo ha sì ricevuto un’investitura speciale dal Cristo, ma nel contempo viene detto che
Paolo non ha operato senza un contatto col gruppo apostolico al quale è presentato da
Bàrnaba dopo la sua conversione. Inoltre Paolo ha operato in quella linea che Pietro,
17
Quindi se noi esaminiamo il modello costruttivo della Chiesa, noi vediamo che esso è
aperto a sviluppi davvero imprevedibili, che i primi credenti stessi non potevano prevedere:
rimane costante però la ricerca di questa continuità che garantisce la presenza del Cristo.
Il modello critico:
le crisi della comunità
La Chiesa dunque si sviluppa non soltanto attraverso successive crescite, ma anche
attraverso sofferenze e persecuzioni.
Gli Atti ci parlano particolarmente di quattro gravi fratture e divisioni attraverso le
quali la Chiesa viene ad essere in stato di crisi, di difficoltà, di oscurità, e per opera dello
Spirito, supera queste crisi.
marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste
cose» (At 5,1-11).
Ci troviamo dunque di fronte ad un caso tipico nel quale si vuole dire come questa
Chiesa, che si fondava sulla libera e spontanea condivisione di tutto, era insidiata fin
dall’inizio da questa ipocrisia. Gli Atti ci fanno capire che questa ipocrisia non era tanto
colpevole per l’atto in sé, cioè per il fatto di ritenere una parte dei beni, ma era colpevole
perché attentava alla reciproca fiducia nella comunità.
Questa crisi che minacciava di essere la rottura di un rapporto di semplicità e di
fraternità instauratosi tra i discepoli, viene risolta attraverso la presenza di Pietro.
È Pietro che, con la sua autorità profetica, denuncia e risolve questa crisi di fiducia
della primitiva comunità che avrebbe minacciato di spaccarla attraverso una comunità di
poveri reali da una parte e di poveri falsi dall’altra e quindi una comunità nella quale la
divisione avrebbe incominciato a introdursi.
Quindi questa prima crisi di cui Luca ci presenta solo qualche aspetto ma che dovette
essere certamente molto più grave, viene superata per l’autorità apostolica, che ha la
funzione di smascherare ciò che di male si sta compiendo ai danni della comunità.
3. La terza crisi, ancora più terribile, è quella della dispersione (diaspora). La comunità
di Gerusalemme era una comunità che si stava costruendo, che aveva passato alcune
situazioni difficili e stava diventando ormai anche una potenza economica per la
collaborazione di tutti e il lavoro comune. Era dunque un gruppo forte, che poteva alzare la
sua voce.
A questo punto interviene l’uccisione di Stefano, la persecuzione e la fuga dei cristiani.
«In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e
tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samarìa»
(At 8,1).
Questo poteva sembrare un momento di crisi destinato a far morire la comunità. E
Luca fa un’annotazione curiosa: “tutti furono dispersi ad eccezione degli apostoli”. È
difficile stabilire storicamente il motivo per cui rimasero a Gerusalemme; probabilmente
perché la persecuzione era diretta verso un gruppo particolare di cristiani, gli ellenisti, cioè
un gruppo che oggi si potrebbe dire di punta. Un gruppo che poteva sembrare fanatico,
mentre gli Apostoli appartenevano piuttosto al gruppo dell’osservanza giudaica, per questo
forse restano immuni da questa persecuzione.
19
4. La quarta crisi è quella che Luca ci presenta al capitolo quindici degli Atti, quando
oramai la dispersione tra i pagani ha raggiunto una sua nuova maturità. Gerusalemme ha
cominciato a ricostruirsi come comunità; le comunità pagane sono ormai coscienti di sé e
cominciano a opporsi alle comunità osservanti giudaiche.
Quindi c’è un rischio nuovo nel cristianesimo primitivo: o la creazione di due gruppi, i
giudeo-cristiani e i greci; oppure l’esclusione dei greci come non veri cristiani, e quindi
quasi suicidio della Chiesa primitiva per avere messo fuori quei greci che invece erano il
fermento della Chiesa, come poi di fatto lo furono per la diffusione in Occidente.
«Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: “Se non vi
fate circoncidire secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi”. Poiché Paolo e Bàrnaba si
opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo
e Bàrnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per
tale questione. Essi dunque, scortati per un tratto dalla comunità, attraversarono la Fenicia e
la Samarìa raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli.
Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani e
riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto per mezzo loro. Ma si alzarono alcuni della setta
dei farisei, che erano diventati credenti affermando: è necessario circonciderli e ordinar loro
di osservare la legge di Mosè. Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare
questo problema. Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse: “Fratelli, voi sapete che già
da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la
parola del vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in
loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna
discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché
continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né
noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo
salvati e nello stesso modo anche loro”. Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare
Bàrnaba e Paolo che riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per
mezzo loro. Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: “Fratelli, ascoltatemi,
Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per
consacrarlo al suo nome. Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:
Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i
pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli
animali soffocati e dal sangue.
Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto
ogni sabato nelle sinagoghe» (At 15,1-21).
Anche qui, di fronte a questa nuova crisi, che Luca ci presenta con parole velate,
mentre si trattava di una questione di vita o di morte, perché si opponevano ferocemente
alcuni cristiani agli altri, di nuovo vediamo Pietro che invocando la sua esperienza
carismatica, riesce a far riflettere la Chiesa e a far vedere come né l’una soluzione
(separazione tra giudei e greci), né l’altra (esclusione dei greci) può essere una soluzione
praticabile, ma che invece la Parola di Dio comanda il superamento di queste due posizioni
opposte attraverso una libertà e un riconoscimento delle diversità comuni e, come poi
suggerisce Giacomo, attraverso un accomodamento pratico su alcuni punti tecnici di
comportamento quotidiano.
Nelle crisi che si succedono dunque nella Chiesa, la presenza apostolica è quella che
garantisce, attraverso diversi interventi, l’unità della Chiesa stessa e quindi la continuità della
presenza dell’unico Cristo.
Conclusione
Rispetto alla domanda che ci siamo posti all’inizio del capitolo circa la funzione e il
ruolo degli Apostoli nella Chiesa della Parola, dello Spirito e dei carismi, possiamo rilevare
allora da Luca questa indicazione: gli Apostoli sono coloro ai quali incombe la missione di
rappresentare visibilmente la presenza e la continuità del Cristo in mezzo alle diverse
esperienze della comunità.
Questo compito gli Apostoli possono attuarlo non attraverso degli schemi prefabbricati
o attraverso delle applicazioni di norme già fatte, ma attraverso la ricerca continua, ansiosa e
difficile della scelta più opportuna.
Pietro stesso si è trovato a volte in difficoltà e disagio – come lo dimostra l’intervento
celeste sulla terrazza di Giaffa (At 10,9-17) – quando deve capire dal cielo che cosa bisogna
fare.
Nei momenti difficili l’intervento dello Spirito, attraverso la mediazione apostolica,
riporta la Chiesa, che sta dissolvendosi o almeno tende alla disgregazione, all’unità che
costituisce la comunione del corpo di Cristo.
La riconsiderazione del rapporto autorità e carismi sulla base dei testi del Nuovo
Testamento, è garanzia della nostra fedeltà alla genuinità del messaggio che annunciamo
come Chiesa.
21
(Paolo)
Il contesto immediato
Per quanto riguarda il contesto immediato di Gal 5,22-23, è sufficiente notare che
l’espressione appare nella terza parte della lettera ai Galati, quella esortativa (con inizio a
5,1), dopo la vigorosa apologia personale (capitoli 1-2), e l’argomentazione dottrinale in cui
Paolo ha esposto il suo vangelo della salvezza mediante la fede (capitoli 3-4). A partire dal
capitolo 5 si sviluppano le conclusioni riguardanti la libertà cristiana che deriva dall’essere
divenuti «figli di Dio per la fede in Cristo Gesù» (Gal 3,26).
Ma in questa esaltazione della libertà sorge una obiezione. Non c’è forse pericolo che
da questa dottrina si tragga pretesto per fare tutto ciò che piace, anche a danno dei fratelli?
Paolo precisa allora che tale libertà non deve divenire “un pretesto per vivere secondo
la carne”, ma occorre “mediante la carità” mettersi “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13).
Questo “mettersi a servizio” non è l’espressione di una volontà che si crede capace di
compiere da sola opere degne del Regno, ma segue come per connaturalità dal “camminare
secondo lo Spirito” (Gal 5, 16), dal “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).
3 Articolo tratto da I frutti dello Spirito nell’antropologia paolina, in Servitium 1 (1979), serie III,
Marietti, pp. 5-12.
22
A questo punto segue la descrizione delle due vie che si aprono di fronte alla scelta
dell’uomo chiamato al vangelo:
– la moralità della carne, cioè l’esistenza morale fondata sulla propria autosufficienza
(5,19-21);
– o l’affidarsi allo Spirito e alla sua fecondità interiore (5,22-23).
I testi affini
Passiamo ora ai contesti paolini che possono ritenersi analoghi a Gal 5,22-23, in
quanto fanno menzione di “frutti” che corrispondono ai nove lì citati.
Un secondo testo è il citato Ef 5,9, dove si dice che «il frutto della luce consiste in ogni
bontà, giustizia e verità». Il primo di questi atteggiamenti corrisponde al sesto elencato in
Gal 5,22. Nella stessa lettera Paolo aveva esortato a comportarsi «in maniera degna della
vocazione che avete ricevuto, con ogni... mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda
con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace»
(Ef 4,1-3).
In Rm 14,17 si dice che «il regno di Dio... è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo».
Un terzo testo è Col 3,12-14: «Rivestitevi, come amati da Dio... di sentimenti di...
bontà... di mansuetudine, di pazienza... Al di sopra di tutto poi vi sia la carità...». È
importante anche ricordare 1 Cor 13,4-7, dove, descrivendo la “carità”, si dice che essa «è
paziente, è benigna... tutto crede». Queste tre espressioni corrispondono rispettivamente alla
quarta, alla quinta e alla settima delle disposizioni ricordate in Gal 5, 22 come frutto dello
Spirito.
Si può ancora menzionare 1 Tm 4,12, dove Timoteo è esortato ad essere esempio ai
fedeli «...nella carità, nella fede...».
Al di fuori delle lettere di Paolo possiamo ancora ricordare 2 Pt 1,5-7 dove, indicando
l’obiettivo dell’impegno cristiano, si dice che occorre «aggiungere alla vostra fede la virtù,
alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla
pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità». Anche qui non è
difficile riconoscere almeno tre dei nomi ricordati nel passo della lettera ai Galati, cioè la
fede, la temperanza (dominio di sé) e la carità.
Nella ricerca di passi paolini analoghi conviene anche menzionare alcuni altri testi in
cui Paolo parla di “frutto” in un ambiente di pensiero analogo a quello della lettera ai Galati.
Probabilmente uno dei passi più significativi è Rm 6,21-22: «Che frutto raccoglievate
allora da azioni di cui oggi arrossite? Infatti il loro destino è la morte. Ora invece, liberati dal
peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come
destino avete la vita eterna». In questo testo è interessante il rapporto tra liberazione dal
peccato e possibilità di raccogliere il frutto per la santità.
Il pensiero ritorna in Rm 7,4, dove la conseguenza dell’essere stati «messi a morte
quanto alla legge per appartenere ad un altro, cioè a Colui che fu risuscitato dai morti» ha per
conseguenza che «noi portiamo frutti per Dio» (si noti che qui non è usato il sostantivo
“frutto”; ma il verbo greco che significa “fruttificare”).
23
Altro testo interessante è Fil 1,11: «Ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono
per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio».
Si può ancora citare Fil 4,17: «Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che
ridonda a vostro vantaggio».
Prime conclusioni
Da questa breve inchiesta si possono ricavare alcune cose.
Secondo, che là dove abbiamo contesti analoghi, cioè in Rm, 1 e 2 Cor e Ef, gli
atteggiamenti che ricorrono sono, in ordine di frequenza: amore, pazienza, (longanimità) e
benevolenza, che ricorrono due volte; gioia, bontà, fede e mansuetudine, che ricorrono una
volta. Non ricorre più invece il “dominio di sé”, che riappare nel Nuovo Testamento solo in
2 Pt (e in At 24,25).
Terzo, ciò che in Gal 5,22-23 (a cui si può assimilare Rm 14, 17) è attribuito allo
Spirito come suo frutto, appare altrove come oggetto di esortazione.
Sembrerebbe che Paolo consideri questi atteggiamenti ora come risultato della
trasformazione operata dallo Spirito nel cristiano, ora come risultato dell’impegno morale.
Un’espressione sintetica di questo “paradosso” si ha in Gal 5,25: «Se pertanto viviamo dello
Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito». Già R. Bultmann aveva notato che qui
siamo di fronte a un apparente paradosso: come può essere oggetto di sforzo morale ciò che
è dono? Egli aveva già spiegato che i due membri della frase non vanno presi separatamente,
quasi che sia possibile vivere dello Spirito (che è dono) senza camminare anche secondo lo
Spirito (cioè con un impegno personale). La frase esprime l’inscindibilità dei due aspetti. In
altre parole: se lo Spirito è veramente nell’uomo, esso produce frutto, e il frutto si vede in
atteggiamenti che costituiscono la comunità.
Un’ultima conclusione riguarda l’uso della parola “frutto”. Mentre essa può essere
applicata anche alla carne (cf. Rm 6,21; 7,5) designando ciò che spontaneamente e come per
connaturalità è prodotto da essa, la parola “opere” non è mai applicata direttamente allo
Spirito. Per lo Spirito vale la legge della vita, della manifestazione spontanea e gustosa
(“frutto” della vitalità e fecondità interiore). Crisostomo dice a proposito di questo testo:
«Ma perché parlo di “un frutto dello Spirito” ? Perché le opere cattive dipendono
esclusivamente da noi, mentre quelle buone richiedono non solo il nostro impegno, ma anche
l’amorosa assistenza di Dio».
La prospettiva di Paolo
Dopo questa breve inchiesta sui testi analoghi di Paolo, ritorniamo al contesto
immediato dell’espressione di Gal 5,22-23, esaminando l’opposizione di “carne” e “spirito”
(Gal 5,13-18).
A livello naturale questa opposizione si potrebbe definire come lo scontro tra i desideri
immediati dell’uomo, volti alla soddisfazione delle necessità elementari, sia biologiche che
psicologiche (bisogno di sopravvivere, di essere stimato, di difendere il proprio prestigio,
ecc.) e il desiderio dell’uomo volto al bene senza limiti, a tutto ciò che è bene in sé.
24
In una situazione di ordine interiore ed esteriore questi due gruppi di desideri sono fatti
per essere armonizzati tra loro, con una subordinazione dei desideri immediati al desiderio
del bene sommo. In una situazione di disordine personale e sociale questi desideri spesso si
contrastano, ed è a tale situazione che si riferisce normalmente l’opposizione “carne-spirito”.
S. Paolo tuttavia intende questi termini non al semplice livello sopra descritto, ma li
considera concretamente operanti nell’economia del Regno. In tale economia
l’autosufficienza dell’uomo si contrappone all’accettazione del dono salvifico che viene da
Dio in Gesù Cristo. Nell’ambito dell’osservanza legale e morale la contrapposizione è tra
uno sforzo anche eroico per il proprio perfezionamento morale e la confidenza nel potere
trasformante dello Spirito, che cambia il cuore dell’uomo.
Sarebbe tuttavia errato pensare che questo frutto venga fuori in maniera automatica,
senza la partecipazione intensa della personalità umana. Paolo esorta infatti a mettersi «a
servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13), ad evitare di «mordersi e divorarsi a vicenda» (Gal
5,15), a «camminare secondo lo Spirito» (Gal 5,16). Potremmo chiamare questo il livello
ascetico della esortazione paolina.
Ma in Gal 5,18 e 5,25 abbiamo quello che potremo chiamare il livello mistico della
esortazione. «Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge» (Gal 5,18);
«Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25).
Vivere dello Spirito indica il risultato del battesimo cristiano.
Camminare secondo lo Spirito si riferisce all’espressione nella vita di quella realtà che
il cristiano vive in se stesso.
I frutti sono non solo gli atteggiamenti da cui nascono i “ministeri” e le “operazioni” di
cui si parla in 1 Cor 12,5-6, ma ne costituiscono anche l’atmosfera e ne definiscono il modo
di esercizio, rendendoli veramente costruttivi e non disgregatori dell’unità (cf. 1 Cor 12,21
-13, 7 e Rm 12,8: «Chi fa opere di misericordia, le compia con gioia»).
In che maniera dunque questi frutti dello Spinto si possono collocare nell’antropologia
paolina?
Se dell’antropologia paolina consideriamo qui specificatamente l’ambito descritto della
opposizione carne-spirito, i frutti designano il modo di vita spontaneo e gioioso che si attua
nell’uomo che, rinunciando all’autosufficienza, ha aperto le porte del suo cuore al vangelo
del Regno e si è lasciato trasformare dallo Spirito nel battesimo.
Nell’ambito invece legge-grazia i frutti dello Spirito segnano, in opposizione alla
sterilità, e all’immoralità, che sono la conseguenza della falsa moralità legale, la vera
moralità cristiana che si mostra nella capacità di edificare una comunità e rinsaldarla nella
comunione.
Tale quadro si ottiene usando, come griglia organizzativa, tre categorie fondamentali
che definiscono l’uomo biblico nella sua vita di relazione e nel suo aspetto sociale: esse sono
il cuore, la bocca e la mano.
Una definizione rigorosa dei singoli frutti è spesso difficile, perché la mentalità
semitica è più sensibile ai legami e alle affinità tra i vari atteggiamenti che non alla loro
distinzione reciproca.
L’“amore” è il carisma fondamentale secondo 1 Cor 13,1, e questo pensiero era stato
ripreso in Gal 5,13-14. Nell’attuale contesto mi pare che si sottolinei principalmente la
disposizione benevola e disinteressata a favore del prossimo, radice di tutti gli altri
atteggiamenti. Il termine tradotto dalla versione CEI con “pazienza” indica piuttosto la
magnanimità del cuore, la capacità di sopportare situazioni pesanti nella comunità senza
cadere nella stizza o nell’amarezza. La “fedeltà” mi sembra qui indicare la capacità di dar
fiducia e di creare un clima di fiducia nella comunità. Essa nasce principalmente da un cuore
che ha superato, con la fede nel Risorto, la paura della morte (cf. Eb 2, 14-15 e Rm 6,4) e
quindi il timore e la diffidenza di fronte a ogni danno che può provenire dall’azione altrui.
Come atteggiamenti della “bocca”, cioè del modo di comportarsi nel conversare e nel
trattare con gli altri, possiamo designare in Gal 5, 22-23:
– la gioia (chara),
– la benevolenza (chrestote),
26
– e la mitezza (prautes).
Queste cose indicano un rapporto con gli altri tale da generare entusiasmo e voglia di
lavorare, suscitando spazi di accoglienza, senza cedere alla prosopopea e al puntiglio del
prestigio.
Come atteggiamenti della “mano”, cioè dell’agire concreto nella vita quotidiana,
noterei
– la “pace” (eirene), in quanto assicura convivenza ordinata e distribuzione armoniosa
dei compiti in una comunità, che raggiunge così un tono di benessere spirituale e anche
materiale;
– la “bontà” (agathosune), cioè la prontezza a soccorrere largamente e volentieri
chiunque si trovi in qualche necessità;
– e il “dominio di sé” (enkrateia), che assicura in una comunità il rispetto dei diritti di
tutti.
Qual’è dunque la figura di uomo che risulta dalla convergenza di questi atteggiamenti?
È un uomo essenzialmente costruttivo, che rifugge da tutti gli atteggiamenti che sono
fautori della degenerazione di un gruppo (elencati in Gal 5,19-21), per promuovere invece
tutto ciò che giova alla costruzione gioiosa e rapida di una intesa comunitaria.
Potremo dire in sintesi che frutto dello Spirito è una personalità generatrice di
comunione, e di conseguenza una comunità in cui tale comunione è vissuta. Essa si attua a
partire dalla presenza, in un gruppo di credenti, di uomini e donne che operano nella maniera
descritta da Paolo, e che collaborano armonicamente tra loro sotto l’influsso dell’unico
Spirito (cf. 1 Cor 12, 12-27; Rm 12,3-8; Ef 4,11-14).
27
(Teologia)
4 Articolo tratto da Il mistero della Scrittura, in I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura,
Marietti, Torino 1975, pp. 322-333.
28
divino di salvezza, sono accessibili soltanto a chi li accosta in una situazione o almeno in
un’ipotesi di fede.
La Bibbia è un libro che nasce da un’esperienza del tutto singolare, l’esperienza di un
grande movimento carismatico e profetico, per cui essa è stata una realtà proclamata e
vissuta prima di essere un libro scritto. Anche dopo la sua fissazione in scritto ha continuato
ad essere il centro di una comunità vivacissima e in continua evoluzione, che per secoli ha
vissuto degli insegnamenti di questo libro, li ha commentati e attualizzati, tanto nei secoli
dell’unità come, e forse ancora con più passione e interesse, dopo la grande divisione
religiosa in Occidente. La Scrittura ha mostrato ancora una volta in tempi recenti la sua
vitalità ponendosi al centro di uno dei più grandi eventi religiosi del nostro secolo, il concilio
ecumenico Vaticano II. Essa è ai giorni nostri, forse più che mai, grazie anche agli impulsi
dati dal Concilio, l’anima del rinnovamento liturgico e spirituale del Cattolicesimo.
Non c’è da stupirsi se una realtà così grandiosa e complessa abbia degli aspetti che
vanno al di là della nostra immediata capacità di intendere, e sono proposti all’adesione di
fede del credente. Mi riferisco in particolare:
– alla relazione della Scrittura con la Chiesa, che è strumento definitivo della salvezza
di Dio tra gli uomini: qui ha il suo luogo la questione del canone (i libri come regola della
fede e della vita ecclesiastica, e la delimitazione esatta di essi);
– alla sua relazione con lo Spirito di Dio all’opera nell’economia di salvezza, della
quale questo libro è parte integrante: l’ispirazione e l’efficacia della Scrittura;
– alla sua relazione con il Verbo di Dio che manifesta agli uomini il piano di salvezza
del Padre: la verità della Scrittura;
– alla specifica posizione di questo libro rispetto alle altre opere di letteratura: fino a
che punto le norme di interpretazione razionale che vengono applicate a ogni prodotto
letterario umano (le comuni regole della critica) valgono per la Sacra Scrittura, e fino a che
punto essa gode invece di regole proprie di interpretazione: è il problema dell’ermeneutica.
Questi interrogativi nascono a riguardo della Bibbia proprio perché essa è, secondo la
fede cattolica, un’espressione privilegiata del “mistero”, cioè dell’intervento di Dio salvatore
nella storia umana. Tutte le grandi realtà della salvezza cristiana (la Chiesa in tutti gli aspetti
e momenti della sua vita, lo Spirito, il Cristo Signore) sono anch’esse perciò intimamente
collegate con la Bibbia. L’illustrazione del nesso vitale tra queste realtà e delle conseguenze
che ciò ha per l’interpretazione non può avvenire che all’interno della fede, tenendo conto di
tutto ciò che la rivelazione, il magistero e la riflessione teologica ci hanno detto lungo i
secoli.
Gli interrogativi pratici che sorgono a proposito di ciascuno dei temi sopra indicati
sono molti. Mi limito a trascriverne alcuni.
Perché se l’opera dello Spirito Santo continua nella Chiesa fino ad oggi, esiste un
canone chiuso dei libri sacri? Come può un libro, necessariamente legato al tempo in cui fu
scritto, contenere delle verità assolute e ugualmente valide per tutti i tempi? In che modo
l’interpretazione della Chiesa non deroga al primato dello Spirito? Come mai lo Spirito si
esprime in forme così diverse, con affermazioni che possono apparire talora contrastanti?
Non possiamo proporci in questa sintesi di trattare a fondo questi e altri analoghi
problemi, ma solo di raccogliere e di compendiare i titoli essenziali di una riflessione a
proposito del “mistero” della Scrittura.
La Scrittura e la Chiesa
La Chiesa «una sola complessa realtà risultante da un duplice elemento umano e
divino» (LG 8) è il mezzo ordinario con cui Dio opera la salvezza tra gli uomini. La
Scrittura, parte integrante del mistero della Chiesa, ha molteplici relazioni con la Chiesa
stessa.
29
Se qualcuno poi non li accoglierà come sacri e canonici, integri con tutte le loro parti,
come si vuole leggerli nella Chiesa cattolica e come si trovano nell’antica edizione volgata
latina, e consapevolmente disprezzerà le predette tradizioni: sia anatema».
Queste affermazioni sono state poi confermate dal concilio Vaticano I e Vaticano II.
A partire dal concilio Tridentino la lista non viene più ripetuta nelle prese di posizione
ufficiali. Ci si accontenta di far riferimento al concilio Tridentino. Le discussioni di alcuni
ambienti protestanti odierni a proposito di una riduzione del canone (talora avallata con
motivi ecumenici) non hanno trovato molta risonanza tra i teologi cattolici.
Il criterio fondamentale per stabilire quali sono questi libri è stato costantemente la
«tradizione», cioè l’accettazione della Chiesa fin dai tempi antichi, che si mostrava con la
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lettura pubblica nella Liturgia: «Gli apostoli e gli antichi vescovi, i presidi delle Chiese, che
hanno accettato questi libri, erano molto più prudenti e religiosi di te» (Cirillo di
Gerusalemme, Catech. IV: PG 33, 497; cf. EB 8). Il concilio di Laodicea (c. 360) introduce
l’elenco dei libri dell’AT con le parole: «Questi sono i libri che bisogna leggere» (EB 12). Il
Concilio di Ippona (393) dichiara: «Così abbiamo ricevuto dai padri di leggere questi libri
nella Chiesa» (EB 20). Infine il decreto detto di Gelasio (inizio sec. VI) indica i libri
canonici come «ciò che la Chiesa universale cattolica accetta» (EB 26).
È interessante notare che anche i riformatori del sec. XVI, pur sottolineando altri criteri
per stabilire la lista dei libri, come il Cristocentrismo e l’azione dello Spirito che si manifesta
nella loro lettura, hanno insistito anch’essi sul criterio della tradizione.
Resta un problema. Qual è stata l’origine di questo uso tradizionale dei libri come sacri
e normativi? Abbiamo in proposito scarsi dati; le poche indicazioni reperibili già nell’AT,
poi nel NT rispetto all’AT e nella Chiesa dei primi tempi, ci orientano verso i criteri
dell’ortodossia e dell’origine apostolica (cf. DV, cap. IV).
La Scrittura e lo Spirito
Libri «ispirati»
La Sacra Scrittura è il libro della Chiesa. Da questi libri la Chiesa riceve la sua regola
di vita.
In una serie di affermazioni riassumiamo come la Chiesa rende ragione a se stessa di
questi valori della Scrittura. Essa li proclama, certa della validità ed efficacia di questo
annuncio per il cristiano che oggi vi porge ascolto. La ragione del particolare carattere
normativo che i libri della Bibbia hanno sempre avuto nella Chiesa è indicata concordemente
nel loro carattere “sacro” o “divino”. Tale sacralità comporta genericamente un
riconoscimento che Dio è alla loro origine ed è garante della loro autorità.
In questo senso si possono leggere tre testi molti significativi:
– «Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia
a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo
Spirito di Cristo che era in loro, quando predicava le sofferenze destinate a Cristo e le glorie
che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di
quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello
Spirito Santo mandato dal cielo...» (1Pt 1,10-12).
– «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da
chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per
la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è
ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché
l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,14-16).
– «Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo
fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati
testimoni oculari della sua grandezza... E così abbiamo conferma migliore della parola dei
profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo
oscuro... Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata
spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito
Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2Pt 1,16.19-21).
Più specificamente, alla domanda sul perché i libri della Scrittura hanno per la Chiesa
carattere sacro e normativo, la risposta tradizionale suona così: «Essi sono scritti per
ispirazione dello Spirito» (cf. DV 3, 11).
Parallela alla citata affermazione, troviamo quest’altra fatta propria dal Magistero
solenne: i libri sia dell’AT come del NT «hanno Dio per autore». Il Vaticano I e il Vaticano
II collegano questa posizione con la precedente, indicando nell’azione ispiratrice dello
Spirito Santo il motivo per cui Dio può essere detto autore di questi libri.
L’uso del vocabolo “ispirare” (da cui “ispirazione”) illumina la particolare relazione
che tali libri hanno con lo Spirito Santo, e si collega con le affermazioni presenti già nella
Bibbia, che lo Spirito ispira i profeti e parla per loro bocca.
La dottrina dell’ispirazione applica questi dati biblici riguardanti i profeti anche agli
scrittori dei libri biblici. Essi appaiono così come strumenti di cui Dio si serve per
comunicare il suo messaggio agli uomini.
La teologia medievale e moderna approfondisce lo studio di questo rapporto,
applicando all’agiografo la metafora della causa strumentale. Ciò permette di rispondere
meglio ad alcuni quesiti nati nell’epoca moderna sul rapporto tra l’agiografo e le sue fonti, e
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permette di comprendere meglio gli aspetti umani del libro sacro, pur ritenendo il suo
carattere divino.
L’ispirazione non è un carisma isolato. Essa si inserisce organicamente nel complesso
dei carismi della Parola di Dio, dei quali è strutturata la comunità israelitica e cristiana.
Il carisma dell’ispirazione continua? Come si è detto sopra, il numero dei libri sacri è
definitivamente chiuso. Tuttavia lo stesso Spirito che ha ispirato questi libri continua ora ad
operare nella Chiesa per la loro retta interpretazione e attualizzazione.
– le parole della Sacra Scrittura, essendo normative della vita della Chiesa, la guidano
efficacemente nella sua predicazione, nella sua preghiera e nel suo impegno di servizio degli
uomini;
– le parole della Sacra Scrittura, lette nella fede e in comunione con la Chiesa, hanno
una particolare capacità di muovere al bene, di stimolare alla conversione, di aiutare a
discernere la volontà di Dio, di scoprire, negli eventi del mondo presente, la storia della
salvezza;
– la Scrittura è come l’anima, cioè il principio attivo vivificante, della teologia, da cui
essa riceve continuamente impulso e freschezza per il suo compito di approfondire ed
esporre la coerente logica interiore del dato rivelato, a servizio della comunità dei credenti.
Pur comunicandoci l’intera verità sul piano di Dio, i libri della Scrittura rimangono gli
scritti di un determinato tempo ed epoca della storia.
Essi non possono perciò contenere le precisazioni che si riferiscono a problemi e
domande di epoche successive.
Tocca alla Chiesa, nella sua qualità di interprete autentica della Scrittura, confrontare i
problemi dei tempi successivi con il messaggio permanente della Scrittura per vedere quali
indicazioni emergono per il momento presente.
elevazione ascetica, ma come svelamento dei grandi atteggiamenti che il messaggio della
Bibbia autoritativamente e in maniera efficace induce in noi o richiede da noi: presa di
coscienza della colpa, pentimento, apertura del regno, abbandono a Dio nella fede, povertà,
dono di sé al prossimo, superamento del timore della morte, gioia nella persecuzione,
speranza nel Dio che viene.
L’accostamento a livello del mistero. – Dio abita un mistero inconoscibile, che solo lo
Spirito di Dio conosce perfettamente. Quindi nessuno può proclamare con parole umane e
senza analogie la pienezza del mistero di Dio. Non solo, ma l’uomo non può esprimere la
pienezza dello stesso nostro mistero, del destino a cui Dio ci chiama: «Quello che occhio mai
vide né orecchio udì né cuore d’uomo ha potuto gustare, Dio ha preparato per coloro che lo
amano» (1 Cor 2,9).
Questa realtà di Dio indicibile, unitamente anche al nostro mistero, ci vengono rivelati
dalla Scrittura attraverso segni che sono segni-realtà. Così il Cristo che conversa
amabilmente con gli uomini è per noi il segno dell’amabilità del Padre; il Cristo che muore
per noi è segno dell’infinita carità di Dio; il Cristo che risorge è segno della pienezza di vita
di Dio, che è infinitamente più grande di quanto possiamo immaginare, e colma ogni nostra
deficienza e incapacità. Tutti questi segni realizzati nella storia della salvezza hanno una
dimensione rivelativa e salvifica: sono segni attraverso i quali Dio ci ha detto qualcosa di sé
nel momento stesso in cui operava.
La Bibbia è un dono di Dio alla Chiesa. Ciò vale non soltanto nel senso che la Chiesa,
secondo il piano di Dio, riceve in dono la Bibbia come parte integrante di sé, ma anche nel
senso che la Bibbia ha avuto una funzione attiva, costitutiva, nella formazione del popolo di
Dio. La Chiesa nasce e si costituisce ricevendo la Scrittura.
Dati questi legami strettissimi tra Scrittura e Chiesa, l’interpretazione retta della
Scrittura non può farsi se non nella Chiesa e con la Chiesa.
Ciò implica almeno due cose: