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Parola di Dio e vita quotidiana

Carlo Maria Martini *

PRESENTAZIONE

«Quanto sono dolci al mio palato le tue parole:


più del miele per la mia bocca.
Dai tuoi decreti ricevo intelligenza,
per questo odio ogni via di menzogna.
Lampada per i miei passi è la tua parola,
luce sul mio cammino.
Ho giurato e lo confermo,
di custodire i tuoi precetti dì giustizia.
Sono stanco di soffrire, Signore
dammi vita secondo la tua parola» (Sal 119, 103-107).

Più gli anni si susseguono in questa primavera del dopo Concilio, e più chiara è la
coscienza della costitutività e dell’urgenza che l’annuncio della Parola ha nei riguardi della
Chiesa.
Mons. Carlo Maria Martini è per eccellenza l’uomo della Parola.
Tutto il suo itinerario di studi, tutte le scelte per esprimere la sua vocazione e missione
di figlio di Sant’Ignazio, sono state qualificate da un servizio della Parola.
Dalle tesi di dottorato in teologia e in scienze bibliche, agli insegnamenti e
responsabilità di direzione del Pontificio Istituto Biblico e della Pontificia Università
Gregoriana, agli interventi di annunzio in corsi di eserciti spirituali e in conferenze e
relazioni attestano un preciso e costante servizio ministeriale.
Questo servire la Parola è dono di Dio ed è scelta di solidarietà e di partecipazione a
quelli che sono i radicali bisogni umani.
Già Amos aveva fatto la diagnosi per la sua generazione e ha offerto uno strumento
criteriologico per tutte le generazioni:

«Ecco, verranno giorni,


in cui manderò la fame nel paese,
non fame di pane,
né sete di acqua,
ma d’ascoltare la Parola del Signore...
In quei giorni
appassiranno le belle fanciulle
e i giovani per la sete» (Am 8,11.13).

* Marietti, Torino 1980.


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«Ogni Vescovo – ha detto il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II, nell’omelia della
concelebrazione della solennità dell’Epifania (1980), preparando gli animi all’ordinazione
episcopale di Mons. Carlo Maria Martini – è l’amministratore del mistero e il servo del dono
che si prepara incessantemente nei cuori umani, questo dono proviene dall’esperienza della
generazione alla quale il Vescovo appartiene.
Proviene dalla vita di centinaia, migliaia e milioni di uomini, suoi fratelli e sorelle, egli
stesso, Vescovo, è il servo del dono.
Colui che custodisce e che moltiplica... È Cristo stesso Pastore, Vescovo delle nostre
anime, di tutto ciò che è umano, che vuole fare di noi un sacrificio gradito a Dio (cf. III
Preghiera Eucaristica) un dono al Padre.
Il Vescovo è colui che custodisce il dono, è colui che risveglia il dono nei cuori, nelle
coscienze, nelle esperienze difficili della sua epoca, nelle sue aspirazioni e nei suoi
smarrimenti, nella sua civilizzazione, nell’economie e nella cultura».
E rivolgendosi direttamente al nuovo pastore della Chiesa milanese il Papa così si è
espresso:
«Con gioia la Chiesa di Milano saluta questo Successore degno figlio di Sant’Ignazio,
stimato rettore del «Biblicum» e poi della «Università Gregoriana» a Roma. Con gioia e
fiducia la Chiesa di Milano saluta colui che deve essere il suo nuovo Vescovo e pastore, il
nuovo amministratore del dono di cui ho parlato, e il nuovo testimone della stella; quella
stella che conduce infallibilmente a Betlemme».
Questo cammino con e verso Gesù, giacché «il più grande tesoro della Chiesa è il suo
Sposo», è aiutato anche da queste pagine in parte raccolte dalla viva voce, in parte scritte
espressamente dallo stesso Arcivescovo Carlo Maria Martini.
Continua ad avverarsi, attraverso i diversi doni (e questa pubblicazione è un piccolo
segno) che il Signore suscita costantemente nella sua Chiesa, l’unica grande dinamica di
speranza, di coraggio, di solidarietà, di progetto cristiano che deve animare il quotidiano del
credente e che da lui viene proposta e imprestata ai propri compagni di viaggio.
Preghiera, scelte e azioni apostoliche, frutti dello Spirito e Parola di Dio scritta
rivelano la fede costante e il riferimento vitale personale che ci fa essere Chiesa.
«Ecco, la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cf. 2Cor 5,15), dà sempre
all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione; né
è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possono salvarsi (cf. At 4,12). Crede
ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia
umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che
non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo che è sempre lo stesso: ieri,
oggi e nei secoli. (cf. Col 1,15)» (GS 10).
Il quotidiano, ricchezza-possibilità e rischio per l’uomo, solo con Lui può avere il suo
senso e solo grazie a Lui e al suo Santo Spirito può operosamente esprimersi in preghiera e
azioni liete.

Luciano Pacomio
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La preghiera cristiana 1

(Atti)

Pregare
Perché parlare della preghiera del cristiano, quasi ci fosse bisogno di affermarne la
necessità?
Potrebbe sembrare un argomento scontato, dal momento che Gesù nel Nuovo
Testamento ci viene presentato molto spesso in preghiera.

La preghiera di Gesù
L’epistola agli Ebrei ci dice che: «Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere
e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte...» (Eb 5,7).
Anche gli evangelisti ce lo presentano sovente nell’atteggiamento di preghiera; in
particolare Luca ci propone Gesù come colui che si portava volentieri in disparte per
pregare.
In una nota preziosa di Luca troviamo infatti queste parole: «Ma Gesù si ritirava in
luoghi solitari a pregare» (Lc 5,16), dove il verbo all’imperfetto ci fa capire che si tratta di
un’abitudine che era stata tramandata come propria di Gesù. E anche nel capitolo nove Luca
premette al racconto della confessione di Cesarea un’espressione che potrebbe essere
tradotta: «Essendo Gesù come al solito in preghiera» (Lc 9,18).
Abbiamo dunque testimonianze abbastanza chiare sulla preghiera costante di Gesù e
questo potrebbe essere in qualche modo sufficiente per la nostra preghiera.
I vangeli comunque ci mostrano Gesù in preghiera anche in situazioni particolarmente
rilevanti:
– al momento del battesimo: «Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in
preghiera, il cielo si aprì» (Lc 3,21);
– al momento della elezione degli Apostoli: «In quei giorni Gesù se ne andò nella
montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno chiamò a sé i suoi
discepoli e ne scelse dodici...» (Lc 6,12-13);
– dopo il ritorno dei discepoli dalla missione: «...Gesù esulto nello Spirito Santo e
disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai
dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”...» (Lc 10,21);
– prima del miracolo della risurrezione di Lazzaro: «Gesù allora alzò gli occhi e disse:
“Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato”» (Gv 11,41);
– al momento della trasfigurazione: «Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e
salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste
divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-29);
– nei momenti cruciali della sua vita come nell’orto del Getzemani: «Poi si allontanò
da loro... e inginocchiatosi, pregava... In preda all’angoscia, pregava più intensamente» (Lc
22,41.44).
La preghiera di Gesù dunque è un elemento inconfutabile del Nuovo Testamento.
Pertanto è un punto di partenza essenziale comunque lo si voglia spiegare teologicamente.

1 Conferenza tenuta nel Seminario di Casale Monferrato il 25 marzo 1967, tratta dal registratore e non
rivista dall’autore.
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La preghiera di Paolo
Sempre nel Nuovo Testamento vediamo Paolo, modello di apostolato, che prega ed
esorta a pregare continuamente.
Possiamo ricordare, per esemplificare, l’inizio della Lettera ai Romani: «Dio... mi è
testimone che io mi ricordo sempre di voi; chiedendo sempre nelle mie preghiere che per
volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi» (Rm 1,9-10).
Ma anche nella Lettera ai Tessalonicesi si afferma: «Ringraziamo sempre Dio per tutti
voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio...» (1Ts 1,2-
3); e ancora nella stessa lettera: «Chiediamo di poter vedere il vostro volto e completare ciò
che ancora manca alla vostra fede» (1Ts 3,10).

La crisi attuale della preghiera


Dopo questa raccolta di citazioni neotestamentarie sembrerebbe veramente superfluo
porre il problema della preghiera cristiana.
In realtà tutti siamo coscienti che malgrado l’esistenza di questi testi esso si pone con
una certa urgenza ai nostri giorni.
Il problema è reale, lo viviamo ogni giorno. Tutti ammettono che la preghiera è in crisi,
cioè che si prega assai meno. Questo avviene per varie ragioni, ma il fatto certamente esiste e
non lo si può negare; anzi ciascuno potrebbe portare testimonianze personali circa la
diminuzione reale del senso della preghiera e le difficoltà che sono collegate a questa
diminuzione.
È più importante però chiederci il perché. E se facciamo questo, scopriamo che non
siamo soltanto di fronte a pura negligenza. Non si prega di meno unicamente perché si è più
svogliati e più pigri. Non sono dunque sufficienti queste motivazioni semplicistiche. La crisi
che stiamo vivendo è qualcosa di più profondo. Vale la pena di metterlo in luce, per poi
domandare alla Parola di Dio qualche indicazione.
Perché si prega di meno? Perché preghiamo di meno? Facendo questo primo esame
emerge una prima istanza che non è ancora a livello di responsabilità morale e quindi
facilmente condannabile, cioè quella dell’efficienza.
Il mondo vuole «fatti» e noi dobbiamo dare dei fatti, delle opere; esistono sempre più
scadenze, bisogna fare molte cose e farle entro un certo tempo perché il mondo va avanti e
non possiamo non adeguarci, non prevedere e non portare avanti certi mutamenti; e se
vogliamo essere efficienti diamo tempo a queste cose e ne resta meno per quello che era
l’esercizio pacifico della preghiera.
Questa istanza della efficienza, che forse si potrebbe definire mondana, tende però a
qualificarsi meglio, quindi come più cristiana, come istanza di servizio: bisogna prima di
tutto e soprattutto servire.
Evidentemente questo servizio, è il servizio attivo della presenza, dell’aiuto, del
mettersi a disposizione, ed è naturale che in questa sottolineatura del servizio, il tema e il
momento della preghiera venga un po’ trascurato.
Ancora di più si eleva la motivazione quando l’istanza del servizio si tramuta in istanza
di carità; la carità di Cristo ci spinge, ci muove e dobbiamo fare, dobbiamo operare per gli
altri e, siccome viviamo in un mondo competitivo nel quale quelli che non credono e non
pregano operano molto per gli altri, anche noi ci sentiamo presi dal desiderio di esprimere la
nostra carità con opere che possono essere viste, essere testimonianza, affinché possa essere
glorificato il nome del Padre che è nei cieli e che opera in noi.
L’istanza di carità diviene di conseguenza istanza di comunità e di comunione; quindi
il bisogno di stare con gli altri, di vivere la vita di tutti, di parlare con gli altri, di trovarsi con
tutti e perciò di essere sempre a disposizione, implica il privarsi di quei momenti in cui
sembrava che la preghiera, e in particolare la preghiera personale privata, fosse un riservare
qualcosa a noi stessi.
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Il desiderio di disponibilità totale, il desiderio di parlare, di sentire, di avere contatto


con la gente, di conoscere ciò che pensano gli altri, di trovarsi al livello di tutti, fa si che
questo momento della preghiera sia meno sottolineato.
Naturalmente di fronte a questa istanza dell’efficienza, che diventa servizio, che vuole
essere carità, e che vuole essere comunione, attraverso la partecipazione alla vita di tutti, la
preghiera presenta parecchi svantaggi perché non sembra essere nessuna di queste cose.
Perciò si può verificare che, nella vita sacerdotale, ma anche in quella religiosa e nei
gruppi ecclesiali, i tempi di silenzio vengano messi da parte quasi del tutto, per potersi
conoscere, vivere insieme, parlare, scambiarsi le proprie impressioni per realizzare una
forma di vita di comunità come un trovarsi tra fratelli che parlano, come in famiglia, dal
mattino alla sera.
La preghiera, evidentemente, rispetto a tutte queste istanze, si trova in condizioni di
inferiorità. Essa non produce niente, non serve ad osservare le scadenze, prende del tempo e
quindi impedisce di consacrarci totalmente ai nostri impegni. Il problema si complica
quando si comincia a pensare che la preghiera sembra addirittura distogliere dal dono di sé
agli altri, cioè dall’interessarsi agli altri. Rischia di diventare «coltivazione egoistica del
giardino dell’anima», come una siepe che ci mettiamo attorno per proteggere la nostra
privatezza. Essa sembra così contraddire il desiderio di comunione e di comunicazione.
Mi sembra che siano questi alcuni motivi dai quali scaturisce la difficoltà della
preghiera cristiana quando si vuole vivere un’esperienza di fede che è carità, comunione,
partecipazione alla vita di tutti, presenza alle sofferenze e alle difficoltà di tutti gli uomini.

Preghiera e vita
Ma un altro aspetto è assai rilevante e tocca più profondamente la crisi della preghiera.
Non è un problema nuovo, era già stato sottolineato nel Nuovo Testamento:
«Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21); «Per questo, entrando nel mondo, Cristo
dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai
gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di
me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7).
È necessario dunque scovare in noi, nella nostra società, la mentalità dell’uomo
vecchio che vorrebbe far consistere la preghiera nel dire “Signore! Signore”, cioè nel
formalismo verbale e nell’affidamento rinunciatario, che fa della preghiera qualcosa in cui si
rifugia, come un diversivo dal reale impegno di vita.
Oppure la mentalità che si sazia soltanto nell’offrire sacrifici, olocausti e vittime, cioè
nell’atteggiamento quasi commerciale verso Dio, di chi pretende di acquistarsi i favori
divini, quasi a comprarsi Dio con la contropartita della preghiera.
Si tratta di denunciare questa mentalità e combatterla come atto di onestà verso Dio,
verso noi stessi e verso tutti gli uomini.
È una mentalità che fa schermo al vangelo.
Noi dobbiamo aprirci e “lasciarci possedere” dalla mentalità dell’uomo nuovo secondo
la quale la preghiera consiste essenzialmente nel fare la volontà del Padre, nell’offrire la
propria esistenza spontaneamente, gratuitamente e per amore al compimento della volontà
del Padre.
Di conseguenza la vita di ogni uomo, la storia di tutti gli uomini in quanto è
liberamente spesa per compiere la volontà del Padre, è vera preghiera.
Qui evidentemente abbiamo in qualche modo raggiunto la soluzione dell’antinomia di
cui si parlava riferendosi all’istanza dell’efficienza, del servizio, della carità, della comunità,
tutte istanze che sembrano contrapporsi al tempo della preghiera, e che vengono facilmente
risolte quando si dice: l’offerta della vita a Dio è l’unica preghiera e quindi, l’impegno di
servizio corrisponde alla preghiera stessa.
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Credo che qui si tocchi il punto di maggiore difficoltà in quanto nasce non da
negligenza, da trascuratezza, da pigrizia, ma da una ricerca che vuole essere squisitamente
evangelica.
Una difficoltà dunque troppo grande perché possiamo pretendere di risolverla con due
parole o con qualche riflessione.
Direi quasi che non c’è altra soluzione a questa difficoltà se non quella che ci viene
descritta dagli Atti degli Apostoli al capitolo venti, al termine del discorso di Paolo in cui
parla di tutti i problemi che fanno tribolare la Chiesa e conclude dicendo: «Detto questo, si
inginocchiò con tutti loro e pregò» (At 20, 36).
Questa sarebbe forse la soluzione e la risposta a tutta questa serie di problemi: cioè
metterci a pregare con la comunità per uscire da queste difficoltà.

La comunità primitiva
Se dunque questo è il problema essenziale della preghiera cristiana, diventa opportuna
una meditazione semplice e umile della Parola di Dio quale si è espressa nella comunità
delle origini, in particolare nel libretto degli Atti degli Apostoli, non per pretendere di
risolvere questo problema in astratto, ma per avere qualche indicazione concreta sul come
comportarci per essere da una parte fedeli al vangelo e alle parole evangeliche citate,
dall’altra fedeli all’esempio dei primi cristiani che appunto dopo la parola di Paolo, “piegate
le ginocchia”, incominciarono insieme a pregare.
Che cosa dunque ci può dire una considerazione molto semplice e modesta sulla
preghiera nella comunità primitiva in relazione alle difficoltà che oggi tendono a svalutarla?
Innanzitutto bisogna dire, anche se con un senso di delusione, che la comunità
primitiva non ci dà delle risposte teoriche a questi problemi in quanto non si ponevano in
questa stessa forma.
E questo fatto ci fa rilevare che la comunità primitiva non sentiva il dilemma
preghiera-vita, non ne aveva coscienza; dunque l’esasperare questo dilemma e il volerlo
portare ad una soluzione di tipo unilaterale ci rivela di esserci un po’ allontanati dal semplice
e lineare modo di vedere le cose della primitiva comunità cristiana.
Tuttavia, prescindendo dal fatto che la comunità primitiva non abbia una teoria precisa
ed elaborata su questo problema, se vogliamo raccogliere i dati che servono per illuminarci e
farci capire ciò che la Parola di Dio ci può indicare, potremmo fare una serie di costatazioni
successive che la lettura attenta degli Atti degli Apostoli sembra proporci. In questo modo
potremmo ricevere da Dio, attraverso la preghiera, che ci richiama il fatto che è sempre
questione di dono, la grazia di comprendere in che modo preghiera, vita e azione efficace
debbono coniugarsi e congiungersi realmente in noi.

Le convinzioni della comunità primitiva


Se cerchiamo di esaminare la mentalità della comunità delle origini, notiamo
innanzitutto una persuasione fondamentale: essa è costruita dalla Parola di Dio.
Se noi ci chiediamo qual è la vera protagonista degli Atti degli Apostoli, questo libretto
che in poche pagine ci narra i primi eventi della Chiesa dall’anno 30 fino all’anno 60,
dovremmo notare che la Chiesa, l’assemblea, la comunità non è mai il soggetto della
narrazione in tutti i 28 capitoli di questo libro e che mai la Chiesa è soggetto di azione cioè ci
è presentata come attiva, che fa qualche cosa, che si muove, che opera, che avanza, che
progredisce.
C’è qualche eccezione, due in particolare che ci sottolineano ancor più la singolarità di
questo modo di descrivere, certamente diverso dal nostro:
– «La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa
cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo» (At 9,
31).
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– «Le comunità intanto si andavano fortificando nella fede e crescevano di numero


ogni giorno» (At 16,5).
Queste dunque sono eccezioni, ma in tutto il resto della narrazione la Chiesa non è mai
presentata come protagonista dell’azione.
È piuttosto la “Parola”, e di fatto più volte si dice della Parola di Dio ciò che noi oggi
siamo soliti dire della Chiesa.
Per esempio subito dopo l’elezione dei sette diaconi o coloro che sono preposti alle
mense, si dice che «intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il
numero dei discepoli a Gerusalemme» (At 6,7): è la Parola che cresce, si diffonde. Oppure
quando si afferma, dopo la morte di Giacomo e la liberazione di Pietro, che «intanto la
parola di Dio cresceva e si diffondeva» (At 12,24); e ancora parlando non più di Pietro, ma
dell’apostolo di Paolo dice che «così la parola del Signore cresceva e si rafforzava» (At
19,20).
Ecco la protagonista dell’azione: la Parola di Dio.
E qui dovremmo sottolineare il fatto: questo modo di narrare, mettendo al centro del-
l’attenzione la Parola di Dio, quindi l’azione divina, costituisce un monito ad un certo
“prurito ecclesiale”, cioè continuamente preoccupato di come la Chiesa deve essere, come
non deve essere, come deve comportarsi, come qualificarsi, come riformarsi, come
distinguersi, quali provvedimenti prendere, quali lasciare, quasi che questo fosse “il
problema”, senza riconoscere che l’agente della salvezza è la Parola di Dio che noi
dobbiamo ricevere in obbedienza e in umiltà. Quindi un’eccessiva centralità data al
problema ecclesiale mi pare che sia fuori dalla prospettiva degli Atti degli Apostoli, i quali ci
raccontano la vita della Chiesa, ma qualificandola come germinazione della Parola divina,
come vita dei credenti in Cristo, di coloro che invocano il nome del Signore Gesù Cristo, di
coloro che hanno creduto e si sono posti quindi in relazione continua con la Parola e con
Gesù.
Non è il continuo sforzo di specchiarsi, di guardarsi da tutte le parti, di rinnovarsi
continuamente in tutte le forme la preoccupazione dei primi cristiani, ma è quella di essere
obbedienti alla Parola di Dio, di riceverla, di accoglierla e di portarla: così la Chiesa si forma
e prende coscienza di sé. Questo però non avviene in forma esasperata, attraverso un
continuo ripensamento di tipo sociologico che dimentichi come questa Chiesa non è se non
una germinazione di grazia della Parola divina, ascoltata e accolta dall’uomo in fede e in
umiltà, attraverso l’adesione continua al Signore Gesù Cristo.

La Parola di Dio
Dunque la comunità è costruita dalla Parola di Dio, ma dobbiamo domandarci cos’è
questa Parola di Dio: come opera, come giunge a noi? Ecco la seconda costatazione che
facciamo leggendo gli Atti degli Apostoli.
La Parola di Dio è dono dello Spirito. È lo Spirito di Dio che diffonde questa Parola,
che la dà agli uomini e la dà anche come Parola profetica da comunicare nella missione e
nella testimonianza.
Abbiamo tre casi tipici a partire dall’inizio del capitolo secondo in cui gli Apostoli,
ricevendo lo Spirito, incominciano a parlare e Pietro allora annuncia la Parola di salvezza.
Fino a questo momento non c’è stato ancora annuncio della Parola.
Lo Spirito è quello dal quale è venuto il dono di parlare, quindi la Parola di Dio che
costruisce ed edifica la Chiesa è dono dello Spirito.
Questo dono gratuito di Dio dunque:
– avviene per gli Apostoli durante la Pentecoste: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito
Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di
esprimersi» (At 2,4);
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– avviene anche per la comunità di Cornelio, quando si converte: «Pietro stava ancora
dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il dis-
corso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i
pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e
glorificare Dio» (At 10,44-46); questa glorificazione di Dio con cui è connessa la
testimonianza e quindi la diffusione della Chiesa è dunque anch’essa dono dello Spirito;
– avviene infine dopo l’imposizione delle mani di Paolo su quei discepoli giovanniti di
Efeso che non conoscevano ancora lo Spirito, ma solamente il nome del Signore Gesù, cioè
il battesimo di Giovanni: «E non appena ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo
Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6); anche la profezia dunque,
attraverso cui la Chiesa si costruisce è dono dello Spirito.
Resta in ultimo da rilevare che, quando si comincia a descrivere la grande missione
paolina che porterà la Parola di Dio nell’Asia e poi nell’Europa, operando quindi la grande
diffusione della Chiesa, viene annotato che questo avviene perché Paolo e Barnaba sono
«inviati dallo Spirito Santo» (At 13,4), dopo la preghiera e il digiuno della comunità.
Quindi la Parola di Dio, che costruisce e fa germinare la Chiesa, è dono dello Spirito.
Ora però ci chiediamo: come interviene a questo punto la preghiera se la Parola di Dio
è la realtà da cui tutta la Chiesa è continuamente rinnovata, molto più che non da un
riesaminarsi introverso?
Se questa Parola è dono dello Spirito, l’uomo di fronte ad essa ha e deve avere
soprattutto un atteggiamento di disponibilità, di ricezione, di povertà e di implorazione,
ritenendo questa Parola come dono e come grazia: questo è appunto la preghiera.
Ecco dunque che la preghiera appare come momento fondamentale per la costruzione
della comunità, intrinsecamente legato al costruirsi, al farsi, allo strutturarsi della comunità
stessa. E i responsabili umani di questa costruzione, cioè gli Apostoli e poi i presbiteri, sono
per prima cosa consacrati alla preghiera, per realizzare in pieno la caratteristica della Chiesa
continuamente germinata attraverso la Parola di Dio, dono dello Spirito a cui segue la fede e
l’adesione piena al Cristo.
Quindi la preghiera è momento intrinsecamente connesso al vivere della comunità, in
particolare al vivere di coloro che sono dedicati, da una consacrazione, alla comunità e al suo
servizio.

La prassi della comunità primitiva


Possiamo concretizzare questa costatazione generale attraverso cinque brevi quadri in
cui gli Atti degli Apostoli ci presentano la consapevolezza del legame intrinseco della
preghiera con la natura stessa di ogni servizio alla comunità, innanzitutto negli Apostoli.

1. Qual è la prima attività nella quale incontriamo occupati gli Apostoli nel libro degli
Atti?
«Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a
Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato. Entrati in città salirono al piano
superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e
Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo.
Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con
Maria la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1, 12-14).
Questa è la prima descrizione che Luca ci presenta, affinché, ripetendo il nome degli
Apostoli, che il lettore già conosce dal Vangelo, venga concentrata l’attenzione su ciò che
essi faranno nella Chiesa primitiva.
Ecco la prima presentazione degli Apostoli: persone in preghiera con tutta la comunità,
perché soltanto di qui si avrà la venuta dello Spirito e quindi la Parola e quindi la diffusione,
la moltiplicazione della Parola stessa.
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È curioso che gli Apostoli ci vengano presentati in preghiera poco dopo aver ascoltato
dal versetto 8 dello stesso capitolo che gli Apostoli sono per la testimonianza : «Ma avrete
forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta
la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Se da una parte
dunque la testimonianza è il programma degli Apostoli, dall’altra essi “sono in preghiera”.
Come si attua il legame tra queste due realtà?
Si può essere testimoni del Risorto, ricevendo la forza dello Spirito Santo, testimoni
quindi con la Parola, che è dono dello Spirito, ed esige dunque di essere ricevuta e ascoltata
nella disponibilità totale della preghiera.
Ecco come queste realtà vengono fin dall’inizio inquadrate come essenziali nella
comunità: la Parola che promuove la testimonianza, lo Spirito che dà questa Parola e la
preghiera che ci dispone ad accoglierla e la implora.

2. Qual è la seconda attività nella quale noi cogliamo gli Apostoli, ci chiediamo sempre
seguendo il racconto degli Atti?
È l’attività in cui essi pregano per colui che dovrà prendere il posto di Giuda.
Anche qui la loro attività è quella di pregare per risolvere un problema importante di
vita ecclesiale.
Noi avremmo potuto dire di fronte a questo problema: si tratta di un problema di
efficienza, dobbiamo essere dodici per essere un numero compatto, che faccia impressione
alla comunità di Israele e quindi dobbiamo trovare la persona più adatta attraverso una serie
di tests psicologici che ne rilevino le attitudini.
Gli Apostoli invece partono da un altro concetto, non sociologico ma teologico, cioè la
Scrittura.
«Infatti sta scritto nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta, e nessuno vi
abiti, il suo incarico lo prenda un altro”. Bisogna dunque che tra coloro che ci furono
compagni per tutto il tempo in cui il Signore ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal
battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, ma divenga,
insieme a noi, testimone della sua risurrezione. Ne furono proposti due, Giuseppe detto
Barsabba, che era soprannominato Giusto, e Mattia. Allora essi pregarono dicendo: “Tu
Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato a prendere il
posto in questo ministero e apostolato che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto da
lui scelto”» (At 1,20-25).
Ecco l’attività tipicamente apostolica: l’interpretazione della Scrittura, cioè la
considerazione della difficoltà comunitaria da un punto di vista teologico, perché questa
situazione grave e difficile sia risolta dalla Parola di Dio e dall’azione divina.

3. Qual è la terza attività nella quale sono presentati gli Apostoli nel capitolo
successivo?
«Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo» (At 2,1).
Qui non si parla esplicitamente di preghiera, però le formule usate da Luca fanno
capire al lettore attento dell’opera lucana che siamo di fronte ad una convocazione in cui si
prega: infatti è usata la formula “tutti insieme nello stesso luogo”, che corrisponde a quella
“con animo unito”, che è la formula con cui Luca di solito designa la preghiera comunitaria.
Per esempio troviamo: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio» (At 2, 46),
e qui è sottintesa la preghiera fatta nel tempio; e ancora: «All’udire ciò, (gli Apostoli) tutti
insieme levarono la loro voce a Dio» (At 4,24).
Quindi con questo quadro degli Apostoli riuniti “tutti insieme in un solo luogo” Luca,
prima della Pentecoste, ci presenta la comunità non soltanto come “unione di cuori”, ma
anche come “unione di preghiera”, perché attraverso la preghiera si forma questo “cuore
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comune”, questa “unità di intenti” poi consacrata dalla presenza dello Spirito, che toglie le
differenze e li prepara per la missione di annunciare la Parola.
Questo è confermato da un fatto interessante (cf. J. Dupont, Il testamento pastorale di
San Paolo, Milano 1967), e cioè che l’avverbio “insieme” si trova una volta sola in Paolo e
designa una situazione di preghiera: «E il Dio della perseveranza e della consolazione vi
conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, ad esempio di Cristo Gesù,
perché con un solo animo (insieme) e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore
nostro Gesù Cristo» (Rm 15,5-6).
Come glorificazione della preghiera è dunque probabilmente anche quella descritta nei
versetti precedenti alla narrazione dell’avvenimento della Pentecoste.

4. Un altro quadro interessante è quello in cui si presenta come la comunità reagisce


alle prime persecuzioni.
La comunità primitiva, forse, si aspettava ingenuamente che tutto andasse bene, che ci
fosse una crescita per via di sviluppo normale delle strutture e del numero dei credenti; ad un
certo punto però la persecuzione viene a rompere questo disegno e quindi a porre in crisi la
comunità.
La reazione degli Apostoli è la preghiera.
All’ingiunzione del Sinedrio di non più predicare la Parola, gli Apostoli si ricordano
che essa è dono dello Spirito Santo e allora pregano perché sia loro data.
«Appena rimessi in libertà (Pietro e Giovanni) andarono dai loro fratelli e riferirono
quanto avevano detto i sommi sacerdoti e gli anziani. All’udire ciò, tutti insieme levarono la
loro voce a Dio dicendo: «Signore tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è
in essi... Ed ora, Signore volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di
annunziare con tutta franchezza la tua parola» (At 4,23-24. 29).
La parola è dunque chiaramente vista come dono di Dio, che viene implorato dall’A-
postolo per il servizio della comunità.

5. Un ultimo esempio concreto del libro degli Atti degli Apostoli ci viene offerto
quando gli Apostoli, per l’accrescimento quantitativo della comunità, devono prendere
posizione su quali siano i loro compiti principali, pressati dalle urgenze e dalle scadenze di
una organizzazione sempre più complessa a Gerusalemme, scelgono e riconoscono la
necessità della Parola e della preghiera: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio
per il servizio delle mense... Noi invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della
parola» (At 6,2.4).
Questo mi pare degno di attenta meditazione per ogni opzione che si ponga tra una
certa forma di servizio e un’altra.
Quindi senza svalutare affatto la forma di servizio che è quella che devono fare i sette,
cioè quella di carità, di testimonianza, quella che deve tenere in vita l’unione dei cuori anche
attraverso un servizio materiale e concreto, la scelta degli Apostoli è per il sevizio della
Parola e per la preghiera.

La caratteristica della preghiera comunitaria


Con quale caratteristica si presenta la preghiera comunitaria negli Atti degli Apostoli?
Essa diventa parte della vita non perché la vita supplisce la preghiera, ma perché la
preghiera diventa continua e perseverante, è un tenere duro, è un pregare sempre, in ogni
tempo, senza interruzioni, senza interrompersi, come dice Paolo.
Quindi c’è un concetto di preghiera che pervade la vita ed è interessante rilevare come
ciò avveniva nella primitiva comunità non attraverso l’abbandono delle pratiche di preghiera
in favore di quelle di servizio, ma attraverso la moltiplicazione dei tempi di preghiera.
11

Il Dupont in una pagina conclusiva del libro già citato, presenta un’immagine vigorosa
della comunità primitiva che prega di continuo. Ecco in sintesi il suo pensiero.
Comincia con alcuni esempi:
– il mattino di Pentecoste gli Apostoli si riuniscono all’ora terza: «Questi uomini non
sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino» (At 2,15);
– a Giaffa, sulla terrazza d’una casa: «Pietro salì verso mezzogiorno a pregare» (At
10,9);
– e all’ora nona: «Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera
verso le tre del pomeriggio» (At 3,1);
– la preghiera accompagna l’elezione dei sette: «Li presentarono quindi agli apostoli i
quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6);
– la comunicazione dello Spirito ai samaritani è preceduta dalla preghiera: «Essi
(Pietro e Giovanni) discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo...
Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,15.17);
– dopo l’invocazione dello Spirito per l’invio dei missionari: «Allora, dopo aver
digiunato e pregato, imposero loro (a Bàrnaba e Saulo) le mani e li accomiatarono» (At
13,3);
– per la strutturazione delle nuove comunità: «Costituirono quindi per loro in ogni
comunità alcuni anziani e dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale
avevano creduto» (At 14,23);
– quando Erode fa arrestare Pietro: «Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una
preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui» (At 12,5);
– ancora Pietro prega prima del “risveglio” della discepola Tabità: «Pietro fece uscire
tutti e si inginocchiò a pregare...» (At 9,40a);
– e Paolo prega prima della guarigione del padre di Publio: «Paolo l’andò a visitare e
dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì» (At 28, 8b).
Dopo questo lungo elenco il Dupont conclude che l’impressione complessiva è che i
primi cristiani preghino continuamente. Senza dubbio Luca ha voluto far capire questo ai
suoi lettori mostrando continuamente i credenti in preghiera: in tutto essi trovano occasione
per pregare. In ogni avvenimento importante o anche semplicemente nelle Ore liturgiche
ebraiche, la chiesa apostolica, con gli esempi citati, realizza in pieno l’ideale di pregare
“sempre” (Lc 18,1) e “in ogni tempo” (Lc 28,36), quell’ideale evangelico che è anche di
Paolo».

Conclusione
Certamente dunque preghiera e vita, preghiera ed efficienza, preghiera e azione vanno
pienamente congiunte, ma nella coscienza che la preghiera attua il mistero cristiano di morte
e risurrezione.
Se cioè vogliamo essere fedeli al dato del Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere e
accogliere il fatto che nella preghiera ci sia un elemento di inefficienza, di improduttività, di
accettazione dell’inutilità e della passività dell’uomo.
Proprio la passività dell’uomo esalta il primato dell’iniziativa della Parola di Dio che,
ricevuta dall’uomo con questo atteggiamento di umiltà e di morte apparente, produce i frutti
della carità e del servizio di cui la primitiva comunità ci dà esempi abbondantissimi,
mettendo però come sua prima preoccupazione non quella di trasformare la vita perché possa
diventare coerente, ma quella di partire dalla propria incapacità per rivolgersi a Dio, affinché
la sua Parola trasformi in coerenza la nostra esigenza.
C’è quindi un mistero nella preghiera e nel suo primato che è assolutamente
impossibile togliere dal cuore del Nuovo Testamento e che, se è riconosciuto, ci porta al
centro del mistero pasquale e del mistero di redenzione. È il mistero di accettazione di cui la
12

Madonna ci dà l’esempio nell’annunciazione, nella sua disponibilità totale all’azione del


Verbo di Dio alla quale dobbiamo riportarci come servitori della Parola.
13

Scelte e azioni apostoliche 2

(Atti)

La “vera” Chiesa
La vera protagonista della storia narrata negli Atti degli Apostoli non è tanto la
comunità, quanto la Parola di Dio che ci viene come dono dallo Spirito. Si potrebbe allora
concludere che la vera Chiesa è la Chiesa dello Spirito, la Chiesa dei carismi, la Chiesa della
Parola, la Chiesa della fede.

Carismi e autorità
Dobbiamo però porci una domanda: «Che cosa ci stanno a fare gli Apostoli in questa
Chiesa che è carisma, Spirito, Parola? Che cosa ci stanno a fare gli anziani che Paolo ha cura
di costituire nelle singole comunità?».
Leggiamo infatti, per esempio, che al ritorno di Paolo e Bàrnaba per le varie città che
sono state evangelizzate nell’Asia minore si dice: «Ritornarono... rianimando i discepoli ed
esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio. Costituirono quindi per loro in ogni comunità
alcuni anziani e dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano
creduto» (At 14,22-23); e ancora Paolo ai responsabili della comunità di Efeso prima di
lasciarli afferma: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito
Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo
sangue» (At 20,28).
È il grosso problema, che tanto si agita nella Chiesa, del rapporto tra autorità e carismi:
che cosa ha la prevalenza nella Chiesa? Come mai se la Chiesa è dello Spirito esiste anche
questo elemento che sono gli Apostoli, i sorveglianti, i vescovi, l’autorità, ecc.? Non c’è
forse una continua tensione e frizione tra questi due elementi?
Naturalmente non è possibile dare una risposta esaustiva a questo problema, ma si
possono trovare alcune indicazioni a partire dagli Atti degli Apostoli perché le stesse
domande se le era già poste Luca scrivendo il libro degli Atti.
I primi cristiani cioè, erano coscienti che nella Chiesa devono essere sempre salvati
due elementi: da una parte l’elemento spirituale carismatico (la Parola di Dio) e dall’altra
l’elemento di continuità visibile pastorale.
Essi, per istinto spirituale, per ispirazione divina, sentivano che queste cose dovevano
permanere, e con la loro compenetrazione costituire la Chiesa; cercavano però logicamente
di sistemare questo fatto in quanto partiva dal Cristo ed era stato da loro ricevuto.
Anche Luca si propone questo scopo.

Il metodo della nostra riflessione


Cercheremo appunto di capire in che modo Luca realizza questo tentativo, con l’ausilio
metodologico del duplice modello secondo cui avviene lo sviluppo della comunità:
– il modello “costruttivo” della comunità che si costituisce nella carità, nella fede, nella
reciproca unione, nella comunione dei beni, nel servizio;

2 Conferenza tenuta nel Seminario di Casale Monferrato il 25 marzo 1967, tratta dal registratore e non
rivista dall’autore.
14

– e il modello “critico” nel senso neotestamentario di giudizio e anche di tentazione,


sofferenza.
La comunità cioè va avanti costruendosi e crescendo nella carità e nella fede, e insieme
soffrendo tentazioni e persecuzioni: negli Atti degli Apostoli la comunità si sviluppa sempre
in questi due modi.
Naturalmente, il primo modo è quello che noi vorremmo che fosse sempre presente.
Noi pensiamo sempre a uno sviluppo costruttivo e progressivo, di fatto però la Provvidenza
ci presenta il modello critico della persecuzione e della prova, e l’esperienza mostra che non
è meno fruttuoso del precedente.
Essendo disegno di Dio, non tocca comunque a noi né prevederlo né programmarlo.
È interessante vedere poi come in entrambi questi modelli di sviluppo, quando si
intersecano secondo i diversi momenti della volontà di Dio, c’è una funzione specifica degli
Apostoli: essi hanno lo scopo di garantire continuamente il rapporto genuino con il Cristo.
Possiamo specificare questo fatto attraverso alcuni esempi concreti sia secondo il
modello costruttivo che quello critico.

Il modello costruttivo:
le scelte della comunità
1. Il primo esempio che noi possiamo ricavare dal libro degli Atti circa la funzione
degli Apostoli si trova subito all’inizio.
«Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò
dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti
nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la passione, con
molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio.
Mentre, si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme,
ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da
me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non
molti giorni”. Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo
in cui ricostruirai il regno di Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e
i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che
scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e
fino agli estremi confini della terra”. Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una
nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se
n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di
Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al
cielo, tornerà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a
Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino
permesso in un sabato. Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano
Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo
di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella
preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At
1,1-14).
Spesso si dà come titolo a questi versetti la dicitura “le ultime parole di Gesù e
l’ascensione al cielo”: in realtà, se leggiamo attentamente questi versetti, è un altro il punto
di vista con cui essi sono presentati.
Versetto per versetto noi veniamo messi di fronte a una grandezza nuova, che sorge
appunto col libro degli Atti degli Apostoli, e che sta tra il Cristo “che va al cielo” e la
comunità “che rimane”, anzi la costituisce: sono appunto gli Apostoli.
Tutti questi primi versetti degli Atti sono concentrati su quest’idea: il Cristo non c’è
più, la sua presenza visibile è costituita dagli Apostoli che hanno l’assicurazione dello
Spirito, legame invisibile col Cristo.
15

Leggendo questi versetti infatti, vi riconosciamo quasi l’assillo di presentarci questa


proprietà dell’Apostolo di costituire il legame visibile col Cristo che ormai non c’è più: finito
il periodo evangelico inizia il periodo apostolico.
Gli Apostoli sono quelli ai quali Cristo ha detto le ultime parole, ai quali ha fatto la
promessa dello Spirito, dai quali si è fatto vedere fino all’ultimo momento e anzi, la stessa
ascensione di Cristo è descritta dal punto di vista degli Apostoli così come essi l’hanno
vissuta.
Sono essi al centro dell’interesse: non il Cristo che ascende, ma gli Apostoli che
rimangono e che hanno ricevuto la missione della testimonianza.
Agli Apostoli è promesso lo Spirito per assicurare il legame tra la Chiesa apostolica e
Gesù.
Tutto il resto del libro degli Atti serve a dimostrarci, nelle diverse situazioni della
Chiesa, il perseverare di questa struttura: lo Spirito assicura il legame con Gesù, ma sempre
attraverso questa visibile presenza apostolica che appunto tiene teologicamente il posto di
quello che era la persona di Gesù in mezzo ai suoi.
Non si dà quindi Chiesa dello Spirito senza questa incarnazione visibile che si è avuta
nella vita di Gesù e continua attraverso questa presenza apostolica.

2. Il secondo esempio ci è offerto dai tre famosi sommari che si trovano nei primi
capitoli degli Atti degli Apostoli e che ci descrivono la vita della comunità primitiva come
vita di carità, di comunione dei beni, di preghiera, di letizia.
Ad essi si è ispirata in ogni secolo sia la Chiesa che ogni movimento di riforma.
Possiamo anzi dire che ogni riforma che è venuta nella Chiesa si è sempre riportata a questo
primitivo modo di vivere dei primi cristiani, o radicalmente come imitazione totale e
immediata, o almeno come ideale.
Ora, che cosa è interessante notare in queste descrizioni della vita di carità, di gioia, di
preghiera, di comunicazione dei beni della prima Chiesa?
In ciascuna di queste descrizioni, Luca ha cura di notare l’importanza della presenza
dell’Apostolo, quasi per farci capire che non esiste nessuna di queste realizzazioni concrete
della vita ecclesiale, senza una continuità della presenza di Cristo con il suo Spirito
attraverso la visibile presenza apostolica.

Leggiamo la prima descrizione globale di questa vita comunitaria.


«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella
frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni
avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano
insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne
faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano
il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore,
lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno
aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,42-48).
La primitiva comunità è dunque caratterizzata dalla perseveranza nella dottrina
apostolica e dalla presenza di “prodigi e segni” operati per mano degli Apostoli.
Tutto questo sommario si trova pertanto all’insegna, per così dire, della presenza
apostolica.

Il secondo sommario lo troviamo nel capitolo quarto.


«La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima
sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro
comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del
Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso,
16

perché quanti possedevano campi o case li vendevano; portavano l’importo di ciò che era
stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno
secondo il bisogno» (At 4,32-35).
Un quadro veramente meraviglioso di questa comunità primitiva. Ma anche qui Luca
ha cura di farci notare che in questa comunità “con grande forza gli Apostoli rendevano
testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”.
Questo è il centro da cui tutta la vita di carità può promanare. E questa vita di
comunità, di comunione dei beni, di servizio reciproco, si attuava in questo modo:
“portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; e
poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.
Anche questo esperimento di carità, che rimane in qualche modo ideale nella Chiesa,
anche se poi è vissuto a diversi livelli, ci propone la centralità degli Apostoli. La vita
comunitaria è dunque ancora sotto il segno della presenza apostolica che è appunto una
continua presenza di Cristo, garantita dallo Spirito.

Il terzo sommario è al capitolo quinto. Qui si descrive soprattutto la vita di preghiera,


di unione, di fervore del popolo, ma sempre sotto il segno dell’Apostolo.
«Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano
soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il
popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che
credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su
lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno
di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone
tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti» (At 5,12-16).
Anche qui al centro c’è la figura di Pietro a cui si deve tutto questo entusiasmo e
questo accorrere di folle; la testimonianza neotestamentaria è molto esplicita: vi è una
comunità di fede e di preghiera, ricca di doni, di entusiasmo, di vitalità, di annuncio, ma
sempre intorno a questa presenza apostolica che continua la presenza di Cristo.

3. Il terzo esempio è costituito dalla predicazione ai giudei, quella che comprende tutta
la prima parte (capp. 1-15) del libro degli Atti e che ci descrive appunto come avviene
progressivamente la predicazione al popolo giudaico, quindi come la Parola si diffonde.
Chi sono gli artefici di questa predicazione? Luca ha cura di farci notare che gli artefici
fondamentali, i pilastri di questo servizio della Parola, sono o Pietro e i Dodici, oppure
persone che sono nella scia di Pietro e dei Dodici: in concreto sono Pietro e Giovanni,
Stefano e Filippo.
Stefano e Filippo sono due di coloro che hanno avuto l’imposizione dalle mani degli
Apostoli.
Dunque noi non conosciamo in fondo altri servitori della Parola ai giudei se non questi
che sono posti, per così dire, come il prolungamento del gruppo apostolico.

4. Il quarto esempio infine ci viene dalla predicazione ai pagani che comprende tutta la
seconda parte del libro degli Atti (capp. 16-28).
Come avviene questa predicazione ai pagani? Predicazione che costituisce la grande
novità e scoperta della Chiesa primitiva: la possibilità cioè di annunciare liberamente ai
pagani il messaggio evangelico senza obbligarli alla legge di Mosè.
Questa predicazione avviene principalmente per opera di Paolo. Luca però ci fa notare
che Paolo ha sì ricevuto un’investitura speciale dal Cristo, ma nel contempo viene detto che
Paolo non ha operato senza un contatto col gruppo apostolico al quale è presentato da
Bàrnaba dopo la sua conversione. Inoltre Paolo ha operato in quella linea che Pietro,
17

attraverso la conversione di Cornelio, già aveva iniziato e che poi al concilio di


Gerusalemme aveva sancito.
Ciò che vi è di più carismatico in questo scoppio di vitalità della Chiesa primitiva, cioè
la libera predicazione ai pagani, che rompe tutte le barriere della mentalità giudaica del
tempo, non avviene se non in continuità con Pietro e con gli Apostoli.
Ma questa novità, come si rilevava già nel capitolo precedente, diventa possibile solo
in un contesto di preghiera. Una preghiera che è frutto dell’ascolto della Parola di Dio, segue
l’esperienza della conversione, richiede l’accoglienza, con tutto il cuore, del Vangelo. Il
Concilio descrive questa esperienza in modo esemplare. Dice infatti che il popolo di Dio,
attraverso una preghiera fiduciosa, «cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste,
nelle aspirazioni, cui prende parte con gli uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni
della presenza e del disegno di Dio» (GS 11).
In questa continua tensione diventa possibile accogliere ciò che è novità attraverso la
continuità reale col Cristo.
L’opera degli Apostoli nella comunità apostolica è quindi quella di dare continuamente
la garanzia visibile della Presenza dello Spirito di Cristo.
Proprio per questo gli Apostoli scelgono poi dei presbiteri nelle Chiese, e Paolo dice ai
presbiteri di Efeso: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la chiesa di Dio»
(At 20,28).

Quindi se noi esaminiamo il modello costruttivo della Chiesa, noi vediamo che esso è
aperto a sviluppi davvero imprevedibili, che i primi credenti stessi non potevano prevedere:
rimane costante però la ricerca di questa continuità che garantisce la presenza del Cristo.

Il modello critico:
le crisi della comunità
La Chiesa dunque si sviluppa non soltanto attraverso successive crescite, ma anche
attraverso sofferenze e persecuzioni.
Gli Atti ci parlano particolarmente di quattro gravi fratture e divisioni attraverso le
quali la Chiesa viene ad essere in stato di crisi, di difficoltà, di oscurità, e per opera dello
Spirito, supera queste crisi.

1. La prima crisi è quella dell’egoismo e dell’ipocrisia.


La prima comunità ha stabilito dei rapporti d’amore, di carità, di onestà, di servizio,
ma, ad un certo punto, Luca ci presenta un caso tipico in cui questo rapporto di amore viene
rotto per l’avarizia di Anania e Saffira.
«Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per
sé una parte dell’importo, d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai
piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Anania, perché mai satana si è così impossessato
del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del
terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era
sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai
mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un
timore grande prese tutti quelli che ascoltavano. Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo
in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono. Avvenne poi che, circa tre ore più tardi,
entrò anche sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le disse: “Dimmi: avete venduto il
campo a tal prezzo?”. Ed essa: “Sì, a tanto”. Allora Pietro le disse: “Perché vi siete accordati
per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito
tuo marito e porteranno via anche te”. D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando
i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo
18

marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste
cose» (At 5,1-11).
Ci troviamo dunque di fronte ad un caso tipico nel quale si vuole dire come questa
Chiesa, che si fondava sulla libera e spontanea condivisione di tutto, era insidiata fin
dall’inizio da questa ipocrisia. Gli Atti ci fanno capire che questa ipocrisia non era tanto
colpevole per l’atto in sé, cioè per il fatto di ritenere una parte dei beni, ma era colpevole
perché attentava alla reciproca fiducia nella comunità.
Questa crisi che minacciava di essere la rottura di un rapporto di semplicità e di
fraternità instauratosi tra i discepoli, viene risolta attraverso la presenza di Pietro.
È Pietro che, con la sua autorità profetica, denuncia e risolve questa crisi di fiducia
della primitiva comunità che avrebbe minacciato di spaccarla attraverso una comunità di
poveri reali da una parte e di poveri falsi dall’altra e quindi una comunità nella quale la
divisione avrebbe incominciato a introdursi.
Quindi questa prima crisi di cui Luca ci presenta solo qualche aspetto ma che dovette
essere certamente molto più grave, viene superata per l’autorità apostolica, che ha la
funzione di smascherare ciò che di male si sta compiendo ai danni della comunità.

2. La seconda crisi che la comunità primitiva deve affrontare è costituita dalla


divisione a Gerusalemme tra giudei ed ellenisti. Una divisione etnica e di lingua,
probabilmente più di lingua che etnica, ma nella quale attraverso il pretesto della
trascuratezza delle vedove dei greci, si celava certamente un’opposizione di gruppi nella
comunità e, forse, anche di interessi economici e di mentalità che cercavano di fronteggiarsi.
«In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli
ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione
quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che
noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di
voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo
quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”.
Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito
Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timóne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. Li
presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,1-
6).
Anche qui Luca ci presenta il superamento di questa crisi attraverso l’intervento dei
dodici che chiariscono la situazione e che, con una nuova istituzione, riportano la normalità.

3. La terza crisi, ancora più terribile, è quella della dispersione (diaspora). La comunità
di Gerusalemme era una comunità che si stava costruendo, che aveva passato alcune
situazioni difficili e stava diventando ormai anche una potenza economica per la
collaborazione di tutti e il lavoro comune. Era dunque un gruppo forte, che poteva alzare la
sua voce.
A questo punto interviene l’uccisione di Stefano, la persecuzione e la fuga dei cristiani.
«In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e
tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samarìa»
(At 8,1).
Questo poteva sembrare un momento di crisi destinato a far morire la comunità. E
Luca fa un’annotazione curiosa: “tutti furono dispersi ad eccezione degli apostoli”. È
difficile stabilire storicamente il motivo per cui rimasero a Gerusalemme; probabilmente
perché la persecuzione era diretta verso un gruppo particolare di cristiani, gli ellenisti, cioè
un gruppo che oggi si potrebbe dire di punta. Un gruppo che poteva sembrare fanatico,
mentre gli Apostoli appartenevano piuttosto al gruppo dell’osservanza giudaica, per questo
forse restano immuni da questa persecuzione.
19

Cosa avviene però attraverso questa persecuzione?


Succede che la Chiesa, la Parola di Dio, si diffonde nella Samarìa, a Cipro, ad
Antiochia.
Qual’era il rischio di questa diffusione?
Era quello del crearsi di tanti piccoli cristianesimi a seconda delle varie dispersioni
nelle singole città. E quindi tanti modi di vedere e intendere il Cristo. Pericoli non
immaginari come vediamo dalle lettere di Paolo rivolte alla comunità di Corinto.
Che cosa rappresentano gli Apostoli in questo nuovo momento di crisi della comunità?
Rappresentano il punto di riferimento attraverso la loro permanenza a Gerusalemme e
il ruolo che essi assumono nei momenti difficili.
Gli Apostoli, per esempio, vanno a Samarìa (At 8,14) per verificare là dove si predica
la Parola da parte di Filippo, in qualche modo per garantirla e per invocare su di loro lo
Spirito. Gli Apostoli mandano delegati ad Antiochia (At 11,22-25) dove sta per sorgere una
comunità che tenta nuove esperienze, molto diverse, garantendo così la continuità e l’unità in
questo movimento dispersivo che avrebbe minacciato di per sé una frantumazione del
cristianesimo primitivo.

4. La quarta crisi è quella che Luca ci presenta al capitolo quindici degli Atti, quando
oramai la dispersione tra i pagani ha raggiunto una sua nuova maturità. Gerusalemme ha
cominciato a ricostruirsi come comunità; le comunità pagane sono ormai coscienti di sé e
cominciano a opporsi alle comunità osservanti giudaiche.
Quindi c’è un rischio nuovo nel cristianesimo primitivo: o la creazione di due gruppi, i
giudeo-cristiani e i greci; oppure l’esclusione dei greci come non veri cristiani, e quindi
quasi suicidio della Chiesa primitiva per avere messo fuori quei greci che invece erano il
fermento della Chiesa, come poi di fatto lo furono per la diffusione in Occidente.
«Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: “Se non vi
fate circoncidire secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi”. Poiché Paolo e Bàrnaba si
opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo
e Bàrnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per
tale questione. Essi dunque, scortati per un tratto dalla comunità, attraversarono la Fenicia e
la Samarìa raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli.
Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani e
riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto per mezzo loro. Ma si alzarono alcuni della setta
dei farisei, che erano diventati credenti affermando: è necessario circonciderli e ordinar loro
di osservare la legge di Mosè. Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare
questo problema. Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse: “Fratelli, voi sapete che già
da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la
parola del vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in
loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna
discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché
continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né
noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo
salvati e nello stesso modo anche loro”. Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare
Bàrnaba e Paolo che riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per
mezzo loro. Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: “Fratelli, ascoltatemi,
Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per
consacrarlo al suo nome. Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:

“Dopo queste cose ritornerò


e riedificherò la tenda di Davide che
era caduta;
20

ne riparerò le rovine e la rialzerò,


perché anche gli altri uomini cerchino il Signore
e tutte le genti
sulle quali è stato invocato il mio nome,
dice il Signore che fa queste cose
da lui conosciute dall’eternità”.

Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i
pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli
animali soffocati e dal sangue.
Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto
ogni sabato nelle sinagoghe» (At 15,1-21).
Anche qui, di fronte a questa nuova crisi, che Luca ci presenta con parole velate,
mentre si trattava di una questione di vita o di morte, perché si opponevano ferocemente
alcuni cristiani agli altri, di nuovo vediamo Pietro che invocando la sua esperienza
carismatica, riesce a far riflettere la Chiesa e a far vedere come né l’una soluzione
(separazione tra giudei e greci), né l’altra (esclusione dei greci) può essere una soluzione
praticabile, ma che invece la Parola di Dio comanda il superamento di queste due posizioni
opposte attraverso una libertà e un riconoscimento delle diversità comuni e, come poi
suggerisce Giacomo, attraverso un accomodamento pratico su alcuni punti tecnici di
comportamento quotidiano.
Nelle crisi che si succedono dunque nella Chiesa, la presenza apostolica è quella che
garantisce, attraverso diversi interventi, l’unità della Chiesa stessa e quindi la continuità della
presenza dell’unico Cristo.

Conclusione
Rispetto alla domanda che ci siamo posti all’inizio del capitolo circa la funzione e il
ruolo degli Apostoli nella Chiesa della Parola, dello Spirito e dei carismi, possiamo rilevare
allora da Luca questa indicazione: gli Apostoli sono coloro ai quali incombe la missione di
rappresentare visibilmente la presenza e la continuità del Cristo in mezzo alle diverse
esperienze della comunità.
Questo compito gli Apostoli possono attuarlo non attraverso degli schemi prefabbricati
o attraverso delle applicazioni di norme già fatte, ma attraverso la ricerca continua, ansiosa e
difficile della scelta più opportuna.
Pietro stesso si è trovato a volte in difficoltà e disagio – come lo dimostra l’intervento
celeste sulla terrazza di Giaffa (At 10,9-17) – quando deve capire dal cielo che cosa bisogna
fare.
Nei momenti difficili l’intervento dello Spirito, attraverso la mediazione apostolica,
riporta la Chiesa, che sta dissolvendosi o almeno tende alla disgregazione, all’unità che
costituisce la comunione del corpo di Cristo.
La riconsiderazione del rapporto autorità e carismi sulla base dei testi del Nuovo
Testamento, è garanzia della nostra fedeltà alla genuinità del messaggio che annunciamo
come Chiesa.
21

I frutti dello Spirito 3

(Paolo)

Significato dei termini


L’espressione “frutti dello Spirito” a rigore non si trova in Paolo.
Paolo parla una volta sola di “frutto dello Spirito” ed è in Gal 5,22-23, dove egli dà una
lista di «cose contro cui non c’è legge». Sono queste: «amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». Non esiste dunque in Paolo
l’espressione al plurale “frutti dello Spirito”, ma soltanto una lista di diversi atteggiamenti
che è riassunta sotto il nome generico di “frutto dello Spirito”.
Molti manoscritti leggono l’espressione anche in Ef 5,9: «il frutto dello Spirito consiste
in ogni bontà, giustizia e verità». Ma la lezione del Papiro Chester Beatty (P 46), del Codice
Sinaitico (S), del Codice Vaticano (B), del Codice Claromontano (D) e della Volgata, che
leggono “frutto della luce” è preferibile. La prima lezione mostra tuttavia che il testo di Gal
5,22 era ben conosciuto, e poteva influenzare la memoria dello scriba anche in altri passi del
Nuovo Testamento.
Questo testo dunque è al singolare, benché sia invalso l’uso di riferirsi ad esso come ad
un plurale (“frutti”). Non mi risulta tuttavia che l’espressione al plurale sia mai apparsa né in
codici greci, e neppure nelle versioni antiche, benché la struttura della frase, dove a una
parola al singolare segue una lista molteplice di nomi, si prestasse a questo cambiamento.
Ad esso poteva spingere anche la menzione al plurale di “opera della carne” in Gal 5,
19, con l’elencazione di quattordici atteggiamenti negativi, distruttivi della fraternità e
opposti al Regno: «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie,
discordie, gelosie, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge» (Gal 5,19-21).
Proprio in relazione a quanto ho detto, limito la mia riflessione al testo di Gal 5,22-23
(tenendo evidentemente conto di eventuali testi affini), con l’ausilio metodologico di due
domande: qual’è il tipo di uomo e di comunità che Paolo ha davanti a sé quando scrive Gal
5,22-23? quali sono le radici e le motivazioni di questo modo di essere e di operare?

Il contesto immediato
Per quanto riguarda il contesto immediato di Gal 5,22-23, è sufficiente notare che
l’espressione appare nella terza parte della lettera ai Galati, quella esortativa (con inizio a
5,1), dopo la vigorosa apologia personale (capitoli 1-2), e l’argomentazione dottrinale in cui
Paolo ha esposto il suo vangelo della salvezza mediante la fede (capitoli 3-4). A partire dal
capitolo 5 si sviluppano le conclusioni riguardanti la libertà cristiana che deriva dall’essere
divenuti «figli di Dio per la fede in Cristo Gesù» (Gal 3,26).
Ma in questa esaltazione della libertà sorge una obiezione. Non c’è forse pericolo che
da questa dottrina si tragga pretesto per fare tutto ciò che piace, anche a danno dei fratelli?
Paolo precisa allora che tale libertà non deve divenire “un pretesto per vivere secondo
la carne”, ma occorre “mediante la carità” mettersi “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13).
Questo “mettersi a servizio” non è l’espressione di una volontà che si crede capace di
compiere da sola opere degne del Regno, ma segue come per connaturalità dal “camminare
secondo lo Spirito” (Gal 5, 16), dal “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).

3 Articolo tratto da I frutti dello Spirito nell’antropologia paolina, in Servitium 1 (1979), serie III,
Marietti, pp. 5-12.
22

A questo punto segue la descrizione delle due vie che si aprono di fronte alla scelta
dell’uomo chiamato al vangelo:
– la moralità della carne, cioè l’esistenza morale fondata sulla propria autosufficienza
(5,19-21);
– o l’affidarsi allo Spirito e alla sua fecondità interiore (5,22-23).

I testi affini
Passiamo ora ai contesti paolini che possono ritenersi analoghi a Gal 5,22-23, in
quanto fanno menzione di “frutti” che corrispondono ai nove lì citati.

Un primo testo lo troviamo in 2 Cor 6, 6. Parlando del modo di comportarsi del


ministro di Dio nelle varie situazioni dell’esistenza apostolica, vengono elencate «purezza,
sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero». Due almeno di questi
atteggiamenti, benevolenza e amore, corrispondono a quelli enumerati nella lettera ai Galati.

Un secondo testo è il citato Ef 5,9, dove si dice che «il frutto della luce consiste in ogni
bontà, giustizia e verità». Il primo di questi atteggiamenti corrisponde al sesto elencato in
Gal 5,22. Nella stessa lettera Paolo aveva esortato a comportarsi «in maniera degna della
vocazione che avete ricevuto, con ogni... mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda
con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace»
(Ef 4,1-3).
In Rm 14,17 si dice che «il regno di Dio... è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo».

Un terzo testo è Col 3,12-14: «Rivestitevi, come amati da Dio... di sentimenti di...
bontà... di mansuetudine, di pazienza... Al di sopra di tutto poi vi sia la carità...». È
importante anche ricordare 1 Cor 13,4-7, dove, descrivendo la “carità”, si dice che essa «è
paziente, è benigna... tutto crede». Queste tre espressioni corrispondono rispettivamente alla
quarta, alla quinta e alla settima delle disposizioni ricordate in Gal 5, 22 come frutto dello
Spirito.
Si può ancora menzionare 1 Tm 4,12, dove Timoteo è esortato ad essere esempio ai
fedeli «...nella carità, nella fede...».

Al di fuori delle lettere di Paolo possiamo ancora ricordare 2 Pt 1,5-7 dove, indicando
l’obiettivo dell’impegno cristiano, si dice che occorre «aggiungere alla vostra fede la virtù,
alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla
pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità». Anche qui non è
difficile riconoscere almeno tre dei nomi ricordati nel passo della lettera ai Galati, cioè la
fede, la temperanza (dominio di sé) e la carità.

Nella ricerca di passi paolini analoghi conviene anche menzionare alcuni altri testi in
cui Paolo parla di “frutto” in un ambiente di pensiero analogo a quello della lettera ai Galati.
Probabilmente uno dei passi più significativi è Rm 6,21-22: «Che frutto raccoglievate
allora da azioni di cui oggi arrossite? Infatti il loro destino è la morte. Ora invece, liberati dal
peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come
destino avete la vita eterna». In questo testo è interessante il rapporto tra liberazione dal
peccato e possibilità di raccogliere il frutto per la santità.
Il pensiero ritorna in Rm 7,4, dove la conseguenza dell’essere stati «messi a morte
quanto alla legge per appartenere ad un altro, cioè a Colui che fu risuscitato dai morti» ha per
conseguenza che «noi portiamo frutti per Dio» (si noti che qui non è usato il sostantivo
“frutto”; ma il verbo greco che significa “fruttificare”).
23

Altro testo interessante è Fil 1,11: «Ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono
per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio».
Si può ancora citare Fil 4,17: «Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che
ridonda a vostro vantaggio».

Prime conclusioni
Da questa breve inchiesta si possono ricavare alcune cose.

Primo, che in un certo senso l’espressione di Gal 5,22 è linguisticamente piuttosto


isolata. Paolo non ripete altrove un elenco di atteggiamenti unificati sotto il titolo di “frutto
dello Spirito”. Il testo più vicino, come atmosfera, è Rm 14,17.

Secondo, che là dove abbiamo contesti analoghi, cioè in Rm, 1 e 2 Cor e Ef, gli
atteggiamenti che ricorrono sono, in ordine di frequenza: amore, pazienza, (longanimità) e
benevolenza, che ricorrono due volte; gioia, bontà, fede e mansuetudine, che ricorrono una
volta. Non ricorre più invece il “dominio di sé”, che riappare nel Nuovo Testamento solo in
2 Pt (e in At 24,25).

Terzo, ciò che in Gal 5,22-23 (a cui si può assimilare Rm 14, 17) è attribuito allo
Spirito come suo frutto, appare altrove come oggetto di esortazione.
Sembrerebbe che Paolo consideri questi atteggiamenti ora come risultato della
trasformazione operata dallo Spirito nel cristiano, ora come risultato dell’impegno morale.
Un’espressione sintetica di questo “paradosso” si ha in Gal 5,25: «Se pertanto viviamo dello
Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito». Già R. Bultmann aveva notato che qui
siamo di fronte a un apparente paradosso: come può essere oggetto di sforzo morale ciò che
è dono? Egli aveva già spiegato che i due membri della frase non vanno presi separatamente,
quasi che sia possibile vivere dello Spirito (che è dono) senza camminare anche secondo lo
Spirito (cioè con un impegno personale). La frase esprime l’inscindibilità dei due aspetti. In
altre parole: se lo Spirito è veramente nell’uomo, esso produce frutto, e il frutto si vede in
atteggiamenti che costituiscono la comunità.

Un’ultima conclusione riguarda l’uso della parola “frutto”. Mentre essa può essere
applicata anche alla carne (cf. Rm 6,21; 7,5) designando ciò che spontaneamente e come per
connaturalità è prodotto da essa, la parola “opere” non è mai applicata direttamente allo
Spirito. Per lo Spirito vale la legge della vita, della manifestazione spontanea e gustosa
(“frutto” della vitalità e fecondità interiore). Crisostomo dice a proposito di questo testo:
«Ma perché parlo di “un frutto dello Spirito” ? Perché le opere cattive dipendono
esclusivamente da noi, mentre quelle buone richiedono non solo il nostro impegno, ma anche
l’amorosa assistenza di Dio».

Un progetto di uomo e di comunità

La prospettiva di Paolo
Dopo questa breve inchiesta sui testi analoghi di Paolo, ritorniamo al contesto
immediato dell’espressione di Gal 5,22-23, esaminando l’opposizione di “carne” e “spirito”
(Gal 5,13-18).
A livello naturale questa opposizione si potrebbe definire come lo scontro tra i desideri
immediati dell’uomo, volti alla soddisfazione delle necessità elementari, sia biologiche che
psicologiche (bisogno di sopravvivere, di essere stimato, di difendere il proprio prestigio,
ecc.) e il desiderio dell’uomo volto al bene senza limiti, a tutto ciò che è bene in sé.
24

In una situazione di ordine interiore ed esteriore questi due gruppi di desideri sono fatti
per essere armonizzati tra loro, con una subordinazione dei desideri immediati al desiderio
del bene sommo. In una situazione di disordine personale e sociale questi desideri spesso si
contrastano, ed è a tale situazione che si riferisce normalmente l’opposizione “carne-spirito”.
S. Paolo tuttavia intende questi termini non al semplice livello sopra descritto, ma li
considera concretamente operanti nell’economia del Regno. In tale economia
l’autosufficienza dell’uomo si contrappone all’accettazione del dono salvifico che viene da
Dio in Gesù Cristo. Nell’ambito dell’osservanza legale e morale la contrapposizione è tra
uno sforzo anche eroico per il proprio perfezionamento morale e la confidenza nel potere
trasformante dello Spirito, che cambia il cuore dell’uomo.

È in questa prospettiva che è possibile riconoscere il carattere di “novità” e di


“scandalo” delle affermazioni paoline.
La tensione della volontà dell’uomo, anche se volta verso l’ideale dell’onestà morale,
quando sia vissuta nell’autosufficienza, è in realtà produttrice di frutti di morte.
È interessante notare come i quattordici atteggiamenti distruttivi proposti da Paolo in
Gal 5, 19-21 sono atteggiamenti che nessuno esiterebbe a tacciare di immoralità. Eppure essi
provengono dall’uomo che tende allo sforzo morale, fidando sulle proprie forze, e
chiudendosi all’azione di salvezza di Dio in lui. Vengono cioè dalla “carne”. Le opere invece
della moralità del Regno descritte in Gal 5,22, non derivano primariamente dallo sforzo di
osservanza dell’uomo, ma sono lo spontaneo fruttificare dell’azione dello Spirito in lui.

Sarebbe tuttavia errato pensare che questo frutto venga fuori in maniera automatica,
senza la partecipazione intensa della personalità umana. Paolo esorta infatti a mettersi «a
servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13), ad evitare di «mordersi e divorarsi a vicenda» (Gal
5,15), a «camminare secondo lo Spirito» (Gal 5,16). Potremmo chiamare questo il livello
ascetico della esortazione paolina.
Ma in Gal 5,18 e 5,25 abbiamo quello che potremo chiamare il livello mistico della
esortazione. «Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge» (Gal 5,18);
«Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25).
Vivere dello Spirito indica il risultato del battesimo cristiano.
Camminare secondo lo Spirito si riferisce all’espressione nella vita di quella realtà che
il cristiano vive in se stesso.

Cos’è il frutto dello Spirito?


Dobbiamo ora considerare la natura specifica di questo frutto dello Spirito.

I nove atteggiamenti elencati da Paolo riguardano tutti situazioni comunitarie. Sono


cioè atteggiamenti che vengono vissuti in un contesto di persone radunate insieme. Sono tutti
atteggiamenti che potremmo chiamare “costruttivi”. Essi servono infatti a cementare la
comunità stabilendo la mutua fiducia, promuovendo il servizio e la gioia.
Si potrebbero dunque anche riassumere così: “frutto dello Spirito è la promozione
della comunità”, oppure “frutto dello Spirito è la comunione”.
H. Schlier distingue tra “le manifestazioni dello Spirito”, che sarebbero i carismi
elencati in 1 Cor 12,4-11, e che rappresentano le forze sociali nell’edificazione della chiesa,
e “frutto dello Spirito” che «comprende invece quegli effetti interni del pneuma che nella
chiesa rappresentano il fondamento e l’attuazione personale della vita cristiana» (H. Schlier,
Lettera ai Galati, Brescia 1966, p. 263).
Ma è chiaro che i nove atteggiamenti elencati da Paolo in Gal 5,22-23 hanno
riferimento anch’essi alla vita sociale della Chiesa. È significativo ed esempio che come
frutto dello Spirito non si menzioni qui la “giustificazione”.
25

I frutti sono non solo gli atteggiamenti da cui nascono i “ministeri” e le “operazioni” di
cui si parla in 1 Cor 12,5-6, ma ne costituiscono anche l’atmosfera e ne definiscono il modo
di esercizio, rendendoli veramente costruttivi e non disgregatori dell’unità (cf. 1 Cor 12,21
-13, 7 e Rm 12,8: «Chi fa opere di misericordia, le compia con gioia»).

In che maniera dunque questi frutti dello Spinto si possono collocare nell’antropologia
paolina?
Se dell’antropologia paolina consideriamo qui specificatamente l’ambito descritto della
opposizione carne-spirito, i frutti designano il modo di vita spontaneo e gioioso che si attua
nell’uomo che, rinunciando all’autosufficienza, ha aperto le porte del suo cuore al vangelo
del Regno e si è lasciato trasformare dallo Spirito nel battesimo.
Nell’ambito invece legge-grazia i frutti dello Spirito segnano, in opposizione alla
sterilità, e all’immoralità, che sono la conseguenza della falsa moralità legale, la vera
moralità cristiana che si mostra nella capacità di edificare una comunità e rinsaldarla nella
comunione.

Per un quadro d’insieme


Osservando più da vicino gli atteggiamenti descritti da Paolo, sembra che la loro
molteplicità (che dà a prima vista l’impressione di una lista fatta a caso) potrebbe forse
essere organizzata entro un quadro che ne faccia vedere la mutua connessione, e nel quale
risalti la figura di uomo e di comunità che viene a costituirsi dall’insieme di questi
atteggiamenti.

Tale quadro si ottiene usando, come griglia organizzativa, tre categorie fondamentali
che definiscono l’uomo biblico nella sua vita di relazione e nel suo aspetto sociale: esse sono
il cuore, la bocca e la mano.
Una definizione rigorosa dei singoli frutti è spesso difficile, perché la mentalità
semitica è più sensibile ai legami e alle affinità tra i vari atteggiamenti che non alla loro
distinzione reciproca.

Per “cuore” (cf. Mc 7,21) s’intendono le disposizioni interne, affettive dell’uomo,


come radice delle sue parole e delle sue azioni. Al “cuore” si possono riferire in Gal 5,22-23
atteggiamenti come
– l’amore (agape),
– la pazienza (makrothumia),
– la fedeltà (pistis).

L’“amore” è il carisma fondamentale secondo 1 Cor 13,1, e questo pensiero era stato
ripreso in Gal 5,13-14. Nell’attuale contesto mi pare che si sottolinei principalmente la
disposizione benevola e disinteressata a favore del prossimo, radice di tutti gli altri
atteggiamenti. Il termine tradotto dalla versione CEI con “pazienza” indica piuttosto la
magnanimità del cuore, la capacità di sopportare situazioni pesanti nella comunità senza
cadere nella stizza o nell’amarezza. La “fedeltà” mi sembra qui indicare la capacità di dar
fiducia e di creare un clima di fiducia nella comunità. Essa nasce principalmente da un cuore
che ha superato, con la fede nel Risorto, la paura della morte (cf. Eb 2, 14-15 e Rm 6,4) e
quindi il timore e la diffidenza di fronte a ogni danno che può provenire dall’azione altrui.

Come atteggiamenti della “bocca”, cioè del modo di comportarsi nel conversare e nel
trattare con gli altri, possiamo designare in Gal 5, 22-23:
– la gioia (chara),
– la benevolenza (chrestote),
26

– e la mitezza (prautes).
Queste cose indicano un rapporto con gli altri tale da generare entusiasmo e voglia di
lavorare, suscitando spazi di accoglienza, senza cedere alla prosopopea e al puntiglio del
prestigio.
Come atteggiamenti della “mano”, cioè dell’agire concreto nella vita quotidiana,
noterei
– la “pace” (eirene), in quanto assicura convivenza ordinata e distribuzione armoniosa
dei compiti in una comunità, che raggiunge così un tono di benessere spirituale e anche
materiale;
– la “bontà” (agathosune), cioè la prontezza a soccorrere largamente e volentieri
chiunque si trovi in qualche necessità;
– e il “dominio di sé” (enkrateia), che assicura in una comunità il rispetto dei diritti di
tutti.

Qual’è dunque la figura di uomo che risulta dalla convergenza di questi atteggiamenti?
È un uomo essenzialmente costruttivo, che rifugge da tutti gli atteggiamenti che sono
fautori della degenerazione di un gruppo (elencati in Gal 5,19-21), per promuovere invece
tutto ciò che giova alla costruzione gioiosa e rapida di una intesa comunitaria.
Potremo dire in sintesi che frutto dello Spirito è una personalità generatrice di
comunione, e di conseguenza una comunità in cui tale comunione è vissuta. Essa si attua a
partire dalla presenza, in un gruppo di credenti, di uomini e donne che operano nella maniera
descritta da Paolo, e che collaborano armonicamente tra loro sotto l’influsso dell’unico
Spirito (cf. 1 Cor 12, 12-27; Rm 12,3-8; Ef 4,11-14).
27

La Scrittura mistero di salvezza 4

(Teologia)

L’uso del termine “mistero”


Con la parola “mistero” designamo in genere ogni realtà oscura o non pienamente
comprensibile, che intravvediamo insieme come non assurda, anzi gravida di significati
reconditi. Una realtà, in altre parole, di cui percepiamo alcuni aspetti, e di cui ne
intrevvediamo altri più profondi, senza però intenderne fino in fondo la relazione reciproca,
né la composizione delle tensioni che esistono tra essi sul piano delle apparenze.
Nell’ambito della rivelazione cristiana si indica specificatamente con questo termine il
piano divino di salvare e riconciliare ogni cosa in Cristo, piano rimasto nascosto per secoli, e
finalmente svelato con la vita, morte e risurrezione di Gesù (cf. Rm 16,25-27; 1 Cor 2,7-10;
4,1; Ef 3,5-9; Col 1,26-28; 2,2-3; 4,3), come primizia della gloriosa manifestazione finale del
Regno di Dio, in cui il piano della salvezza giungerà alla sua attuazione definitiva.
Nell’uso teologico e liturgico, anche la Liturgia stessa è qualificata come “mistero” di
salvezza; così pure i singoli momenti in cui Gesù manifesta e attua la salvezza di Dio (come
la Incarnazione, la Natività, la Morte...) sono detti “misteri”.
Di qui ne deriva che anche altre grandi realtà salvifiche (come la Chiesa, l’opera dello
Spirito nei cuori ecc.) sono chiamate “misteri” in quanto partecipano dell’evento centrale
salvifico, e sono in parte ancora oscure alla nostra esperienza presente di cristiani. Infatti pur
vivendo in comunione con Cristo non abbiamo finora del suo mistero che una comprensione
limitata (cf. 1 Cor 13,9-12), nell’attesa che la chiarezza del Regno glorioso doni la visione
unificante e pacificante del significato del tutto in Dio (cf. 1 Cor 13,9. 10.12; 15,28).

Parola di Dio, parole di uomini


La Bibbia a diversi titoli può essere detta mistero: in essa, come dice Origene, abita il
Cristo nascosto e rivelato. Essa è parte integrale dell’opera salvifica di Dio, e proclama i
singoli momenti del mistero di Cristo, in attesa della loro attuazione definitiva nel Regno.
In essa l’insieme di chiarezza-oscurità che caratterizza il mistero appare in maniera del
tutto speciale.
Infatti alcuni aspetti del fenomeno “Scrittura” sono chiaramente percepibili all’analisi
profana, mentre altri si intendono soltanto, ed hanno senso, nell’ambito della fede. Così ad
esempio il radicarsi dei vari libri e dei fatti che essi raccontano in un ambiente umano ben
determinabile nel tempo e nello spazio, le diverse forme del linguaggio da essi adoperato, le
vicende dei manoscritti e della trasmissione del testo, possono essere sottoposti alla ricerca
dello storico, del linguista, del critico testuale, come avviene per qualunque altro libro o
tradizione letteraria. Secondo i suoi aspetti “profani” la Bibbia può essere dunque studiata
applicando ad essa i metodi della scienza del linguaggio. I criteri usati nella sua
interpretazione razionale sono in continuità con le varie teorie e atteggiamenti ermeneutici
propri delle varie epoche.
Ma l’unità che pervade i vari libri scritti in tempi ed epoche diversissime, il loro
carattere normativo per la Chiesa, la loro capacità di manifestare autenticamente il disegno

4 Articolo tratto da Il mistero della Scrittura, in I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura,
Marietti, Torino 1975, pp. 322-333.
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divino di salvezza, sono accessibili soltanto a chi li accosta in una situazione o almeno in
un’ipotesi di fede.
La Bibbia è un libro che nasce da un’esperienza del tutto singolare, l’esperienza di un
grande movimento carismatico e profetico, per cui essa è stata una realtà proclamata e
vissuta prima di essere un libro scritto. Anche dopo la sua fissazione in scritto ha continuato
ad essere il centro di una comunità vivacissima e in continua evoluzione, che per secoli ha
vissuto degli insegnamenti di questo libro, li ha commentati e attualizzati, tanto nei secoli
dell’unità come, e forse ancora con più passione e interesse, dopo la grande divisione
religiosa in Occidente. La Scrittura ha mostrato ancora una volta in tempi recenti la sua
vitalità ponendosi al centro di uno dei più grandi eventi religiosi del nostro secolo, il concilio
ecumenico Vaticano II. Essa è ai giorni nostri, forse più che mai, grazie anche agli impulsi
dati dal Concilio, l’anima del rinnovamento liturgico e spirituale del Cattolicesimo.
Non c’è da stupirsi se una realtà così grandiosa e complessa abbia degli aspetti che
vanno al di là della nostra immediata capacità di intendere, e sono proposti all’adesione di
fede del credente. Mi riferisco in particolare:
– alla relazione della Scrittura con la Chiesa, che è strumento definitivo della salvezza
di Dio tra gli uomini: qui ha il suo luogo la questione del canone (i libri come regola della
fede e della vita ecclesiastica, e la delimitazione esatta di essi);
– alla sua relazione con lo Spirito di Dio all’opera nell’economia di salvezza, della
quale questo libro è parte integrante: l’ispirazione e l’efficacia della Scrittura;
– alla sua relazione con il Verbo di Dio che manifesta agli uomini il piano di salvezza
del Padre: la verità della Scrittura;
– alla specifica posizione di questo libro rispetto alle altre opere di letteratura: fino a
che punto le norme di interpretazione razionale che vengono applicate a ogni prodotto
letterario umano (le comuni regole della critica) valgono per la Sacra Scrittura, e fino a che
punto essa gode invece di regole proprie di interpretazione: è il problema dell’ermeneutica.

Questi interrogativi nascono a riguardo della Bibbia proprio perché essa è, secondo la
fede cattolica, un’espressione privilegiata del “mistero”, cioè dell’intervento di Dio salvatore
nella storia umana. Tutte le grandi realtà della salvezza cristiana (la Chiesa in tutti gli aspetti
e momenti della sua vita, lo Spirito, il Cristo Signore) sono anch’esse perciò intimamente
collegate con la Bibbia. L’illustrazione del nesso vitale tra queste realtà e delle conseguenze
che ciò ha per l’interpretazione non può avvenire che all’interno della fede, tenendo conto di
tutto ciò che la rivelazione, il magistero e la riflessione teologica ci hanno detto lungo i
secoli.
Gli interrogativi pratici che sorgono a proposito di ciascuno dei temi sopra indicati
sono molti. Mi limito a trascriverne alcuni.
Perché se l’opera dello Spirito Santo continua nella Chiesa fino ad oggi, esiste un
canone chiuso dei libri sacri? Come può un libro, necessariamente legato al tempo in cui fu
scritto, contenere delle verità assolute e ugualmente valide per tutti i tempi? In che modo
l’interpretazione della Chiesa non deroga al primato dello Spirito? Come mai lo Spirito si
esprime in forme così diverse, con affermazioni che possono apparire talora contrastanti?
Non possiamo proporci in questa sintesi di trattare a fondo questi e altri analoghi
problemi, ma solo di raccogliere e di compendiare i titoli essenziali di una riflessione a
proposito del “mistero” della Scrittura.

La Scrittura e la Chiesa
La Chiesa «una sola complessa realtà risultante da un duplice elemento umano e
divino» (LG 8) è il mezzo ordinario con cui Dio opera la salvezza tra gli uomini. La
Scrittura, parte integrante del mistero della Chiesa, ha molteplici relazioni con la Chiesa
stessa.
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Sinteticamente cercherò di proporle in forma sistematica.


La Chiesa ha sempre riconosciuto di possedere alcuni libri normativi per la sua fede.
La predicazione di Gesù e, al suo seguito, la predicazione apostolica e la Chiesa
primitiva hanno sempre riconosciuto all’Antico Testamento un’autorità indiscussa. Un
identico riconoscimento è avvenuto nella Chiesa del I secolo per quanto riguarda le parole di
Gesù e per l’insegnamento degli Apostoli, orale e scritto. Nel II secolo emerge
esplicitamente la persuasione che si deve attribuire ai libri del Nuovo Testamento autorità
pari a quella attribuita ai libri dell’Antico.
L’esegesi patristica vive ed opera a partire da questa persuasione. Vi sono controversie
sul modo di spiegare questo o quel passo dei libri sacri, ma non sul fatto che essi sono
l’ultima istanza, il punto decisivo di riferimento per la Chiesa.
Tale persuasione trova le sue espressioni magisteriali definitive nel concilio di Firenze
e soprattutto in quello di Trento, che, nel primo decreto della IV Sessione (8 aprile 1546)
afferma: «Il sacrosanto ecumenico e generale Sinodo di Trento, legittimamente radunato
nello Spirito Santo... sempre ha avanti gli occhi lo scopo di sradicare gli errori e conservare,
nella Chiesa, la purità del Vangelo, già promesso per mezzo dei profeti nelle Scritture Sacre
e promulgato inizialmente da Gesù nostro Signore in persona, che poi comandò venisse
predicato, quale fonte di ogni salvifica verità e disciplina dei costumi, a tutte le creature (Mc
16,15).
E vedendo che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni
non scritte, che ricevute dagli Apostoli dalla stessa bocca di Cristo e dagli stessi Apostoli, ai
quali le dettò lo Spirito Santo, trasmesse quasi di mano in mano, giunsero sino a noi,
seguendo l’esempio dei Padri di retta fede, tutti i libri dell’Antico e Nuovo Testamento,
poiché di tutti e due Dio è l’unico autore, e che le tradizioni che riguardano la fede e i
costumi, come dettate a viva bocca da Cristo e dallo Spirito Santo, e conservate nella Chiesa
cattolica con una successione continua, con pari affetto di pietà e devozione accetta e venera.
L’elenco poi dei sacri libri ritenne di dover aggiungere a questo decreto, affinché non
possa sorgere alcun dubbio su quali siano i libri che sono accettati dal Concilio stesso.
Segue l’elenco dei libri dell’AT e del NT.

Se qualcuno poi non li accoglierà come sacri e canonici, integri con tutte le loro parti,
come si vuole leggerli nella Chiesa cattolica e come si trovano nell’antica edizione volgata
latina, e consapevolmente disprezzerà le predette tradizioni: sia anatema».
Queste affermazioni sono state poi confermate dal concilio Vaticano I e Vaticano II.

Il numero di questi libri è limitato ed è specificato in liste precise (canoni), infine è


definitivamente chiuso. Fin dall’antichità la Chiesa ha avuto coscienza che il numero dei libri
normativi era limitato e la lista si doveva considerare chiusa. Questa coscienza è espressa in
cataloghi di libri che vanno dal “canone muratoriano” fino alla lista del concilio Tridentino.
La preoccupazione costante delle liste sopra ricordate è duplice:
– dare un elenco completo di tutti i libri che hanno nella Chiesa autorità di Scrittura
divina;
– escludere ogni altro libro fuori della lista da questa prerogativa.

A partire dal concilio Tridentino la lista non viene più ripetuta nelle prese di posizione
ufficiali. Ci si accontenta di far riferimento al concilio Tridentino. Le discussioni di alcuni
ambienti protestanti odierni a proposito di una riduzione del canone (talora avallata con
motivi ecumenici) non hanno trovato molta risonanza tra i teologi cattolici.

Il criterio fondamentale per stabilire quali sono questi libri è stato costantemente la
«tradizione», cioè l’accettazione della Chiesa fin dai tempi antichi, che si mostrava con la
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lettura pubblica nella Liturgia: «Gli apostoli e gli antichi vescovi, i presidi delle Chiese, che
hanno accettato questi libri, erano molto più prudenti e religiosi di te» (Cirillo di
Gerusalemme, Catech. IV: PG 33, 497; cf. EB 8). Il concilio di Laodicea (c. 360) introduce
l’elenco dei libri dell’AT con le parole: «Questi sono i libri che bisogna leggere» (EB 12). Il
Concilio di Ippona (393) dichiara: «Così abbiamo ricevuto dai padri di leggere questi libri
nella Chiesa» (EB 20). Infine il decreto detto di Gelasio (inizio sec. VI) indica i libri
canonici come «ciò che la Chiesa universale cattolica accetta» (EB 26).
È interessante notare che anche i riformatori del sec. XVI, pur sottolineando altri criteri
per stabilire la lista dei libri, come il Cristocentrismo e l’azione dello Spirito che si manifesta
nella loro lettura, hanno insistito anch’essi sul criterio della tradizione.
Resta un problema. Qual è stata l’origine di questo uso tradizionale dei libri come sacri
e normativi? Abbiamo in proposito scarsi dati; le poche indicazioni reperibili già nell’AT,
poi nel NT rispetto all’AT e nella Chiesa dei primi tempi, ci orientano verso i criteri
dell’ortodossia e dell’origine apostolica (cf. DV, cap. IV).

La Chiesa, all’interno del Canone, ha sempre attribuito un uguale valore normativo a


tutti i libri, in particolare a quelli dell’ AT non meno che a quelli del NT, insistendo contro i
ripetuti tentativi di differenziazione. All’interno stesso del Canone, della lista cioè ufficiale
dei libri sacri, in ogni intervento magisteriale in merito, la Chiesa insiste che i libri dell’AT
hanno valore pari a quello dei libri neotestamentari. Si oppone così ad una tendenza,
riaffiorante abbastanza sovente nella storia, a ridurre il numero dei libri autoritativi ai soli
scritti del NT.
È significativo che gli Statuti della Chiesa antica (una compilazione del sec. v) fanno
chiedere a chi sta per essere ordinato vescovo se creda che «un solo Dio, è l’autore dell’AT e
NT cioè della legge e dei profeti». La formula viene ripresa più volte in seguito specialmente
contro le dottrine manichee del Medioevo (cf. EB 38. 39. 40. 44) e viene affermata nel
concilio di Firenze.
È importante tenere presente questa persuasione costante della Chiesa, anche per una
retta comprensione del significato dell’AT.

I cosiddetti deuterocanonici sono un caso particolare della presa di coscienza dell’e-


guale valore di tutti i libri sacri e normativi. Il problema appare in due momenti distinti della
storia:

a. Nell’antichità (secc. III-IV) – A riguardo dell’AT si trattava di decidere se accettare


solo i libri scritti originariamente in ebraico, o anche i libri scritti in lingua greca. Dopo
diverse fluttuazioni, fu accettata unanimamente la lista più ampia. Per il NT vi furono per
qualche tempo dubbi sull’Apocalisse, e su qualche scritto minore.
b. Al tempo dei riformatori protestanti – I motivi per respingere i “deuterocanonici”
erano derivati dal contenuto. Per i cattolici il concilio di Trento segna praticamente la fine di
ogni discussione sulla lista dei libri.
Le già richiamate recenti discussioni, sulla riduzione del canone sono basate sul
contenuto dei libri e sull’utilità di un canone ridotto in funzione di un avvicinamento
ecumenico, non su motivi di tipo tradizionale.
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La Scrittura e lo Spirito

Libri «ispirati»
La Sacra Scrittura è il libro della Chiesa. Da questi libri la Chiesa riceve la sua regola
di vita.
In una serie di affermazioni riassumiamo come la Chiesa rende ragione a se stessa di
questi valori della Scrittura. Essa li proclama, certa della validità ed efficacia di questo
annuncio per il cristiano che oggi vi porge ascolto. La ragione del particolare carattere
normativo che i libri della Bibbia hanno sempre avuto nella Chiesa è indicata concordemente
nel loro carattere “sacro” o “divino”. Tale sacralità comporta genericamente un
riconoscimento che Dio è alla loro origine ed è garante della loro autorità.
In questo senso si possono leggere tre testi molti significativi:

– «Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia
a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo
Spirito di Cristo che era in loro, quando predicava le sofferenze destinate a Cristo e le glorie
che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di
quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello
Spirito Santo mandato dal cielo...» (1Pt 1,10-12).
– «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da
chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per
la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è
ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché
l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,14-16).
– «Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo
fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati
testimoni oculari della sua grandezza... E così abbiamo conferma migliore della parola dei
profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo
oscuro... Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata
spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito
Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2Pt 1,16.19-21).

Più specificamente, alla domanda sul perché i libri della Scrittura hanno per la Chiesa
carattere sacro e normativo, la risposta tradizionale suona così: «Essi sono scritti per
ispirazione dello Spirito» (cf. DV 3, 11).
Parallela alla citata affermazione, troviamo quest’altra fatta propria dal Magistero
solenne: i libri sia dell’AT come del NT «hanno Dio per autore». Il Vaticano I e il Vaticano
II collegano questa posizione con la precedente, indicando nell’azione ispiratrice dello
Spirito Santo il motivo per cui Dio può essere detto autore di questi libri.
L’uso del vocabolo “ispirare” (da cui “ispirazione”) illumina la particolare relazione
che tali libri hanno con lo Spirito Santo, e si collega con le affermazioni presenti già nella
Bibbia, che lo Spirito ispira i profeti e parla per loro bocca.
La dottrina dell’ispirazione applica questi dati biblici riguardanti i profeti anche agli
scrittori dei libri biblici. Essi appaiono così come strumenti di cui Dio si serve per
comunicare il suo messaggio agli uomini.
La teologia medievale e moderna approfondisce lo studio di questo rapporto,
applicando all’agiografo la metafora della causa strumentale. Ciò permette di rispondere
meglio ad alcuni quesiti nati nell’epoca moderna sul rapporto tra l’agiografo e le sue fonti, e
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permette di comprendere meglio gli aspetti umani del libro sacro, pur ritenendo il suo
carattere divino.
L’ispirazione non è un carisma isolato. Essa si inserisce organicamente nel complesso
dei carismi della Parola di Dio, dei quali è strutturata la comunità israelitica e cristiana.
Il carisma dell’ispirazione continua? Come si è detto sopra, il numero dei libri sacri è
definitivamente chiuso. Tuttavia lo stesso Spirito che ha ispirato questi libri continua ora ad
operare nella Chiesa per la loro retta interpretazione e attualizzazione.

Efficacia della Scrittura


Poiché gli agiografi scrivono per ispirazione dello Spirito Santo, la loro parola ha una
singolare efficacia: essa partecipa alla forza propria della Parola di Dio.
Finalità principale della Parola di Dio è quella di suscitare nell’uomo la fede, ossia «la
capacità di vedere le cose come le vede Gesù Cristo, cioè nella relazione che esse hanno col
Padre, con Dio» (G. Colombo).
Gesù Cristo comunica all’uomo il suo Spirito, il quale ci rende capaci di questa nuova
visione della realtà.
L’efficacia della Scrittura si esprime dunque principalmente nel suscitare e coltivare la
fede, sotto la forza dello Spirito.
Essa si mostra nella vita della Chiesa a vari livelli:

– le parole della Sacra Scrittura, essendo normative della vita della Chiesa, la guidano
efficacemente nella sua predicazione, nella sua preghiera e nel suo impegno di servizio degli
uomini;
– le parole della Sacra Scrittura, lette nella fede e in comunione con la Chiesa, hanno
una particolare capacità di muovere al bene, di stimolare alla conversione, di aiutare a
discernere la volontà di Dio, di scoprire, negli eventi del mondo presente, la storia della
salvezza;
– la Scrittura è come l’anima, cioè il principio attivo vivificante, della teologia, da cui
essa riceve continuamente impulso e freschezza per il suo compito di approfondire ed
esporre la coerente logica interiore del dato rivelato, a servizio della comunità dei credenti.

La Scrittura e Gesù Cristo

Verità detta Scrittura


Tali azioni efficaci sono dovute all’intervento dello Spirito di Dio che ha ispirato nel
passato gli agiografi a scrivere, e che vive nel cuore di chi nella Chiesa legge o ascolta le
Sacre Scritture.
La rivelazione di Dio si è attuata nella storia attraverso fatti e parole che sono
culminati nella presenza tra noi del Figlio di Dio fatto uomo, Gesù Cristo (cf. DV 1, 2).
La raccolta dei libri della Scrittura è formata in stretto rapporto con questa storia di
salvezza. Le sue pagine riflettono autenticamente, per ispirazione divina, i principali eventi
di questa storia e il messaggio ad essi collegato.
La Scrittura manifesta perciò in maniera autentica la rivelazione di Dio culminante nel
Cristo.
I suoi autori ci trasmettono in maniera indubitabile i disegni di Dio per la salvezza
dell’uomo, le sue esigenze, i suoi comandi, le sue iniziative di perdono e di salvezza.
La veracità della Scrittura è perciò la capacità che essa possiede, in virtù della sua
origine divina, di trasmetterci l’intera verità su quanto riguarda il piano salvifico di Dio per
l’uomo di tutti i tempi (cf. DV 3, 11).
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Pur comunicandoci l’intera verità sul piano di Dio, i libri della Scrittura rimangono gli
scritti di un determinato tempo ed epoca della storia.
Essi non possono perciò contenere le precisazioni che si riferiscono a problemi e
domande di epoche successive.
Tocca alla Chiesa, nella sua qualità di interprete autentica della Scrittura, confrontare i
problemi dei tempi successivi con il messaggio permanente della Scrittura per vedere quali
indicazioni emergono per il momento presente.

La Scrittura: singolare cooperazione tra Dio e gli uomini

L’interpretazione della Scrittura


La Bibbia, dono di Dio alla Chiesa, è frutto immediato dell’attività di autori umani che
scrivono sotto l’ispirazione dello Spirito Santo per proclamare l’opera del Verbo di Dio tra
noi. L’interpretazione di essa deve tener conto di tutte queste sue prerogative.
Le norme interpretative che si applicano per la comprensione delle opere di letteratura
(i libri in genere) devono dunque essere usate per la Bibbia tenendo conto del fatto che è di
origine divina. Viceversa, le regole interpretative del libro in quanto è Parola di Dio
dovranno essere armonizzate con il fatto che esso è una produzione letteraria di uomini. «Le
parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo,
come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece
simile all’uomo» (DV 3, 13). Perciò si devono tenere presenti le regole dell’ermeneutica del
linguaggio, i metodi di analisi letteraria e di critica testuale.
La Bibbia è il libro che annuncia l’opera del Verbo di Dio tra noi. Questa opera è
inserita nella storia, ed è stata calata in epoche e tempi ben precisi, ma insieme trascende la
storia di ogni singola epoca per raggiungere tutti i tempi, nei quali continua l’opera salvifica.
Essa ha poi infine in ogni suo momento un costante riferimento al mistero immutabile e
imperscrutabile dell’essere di Dio.
Dalle affermazioni scritte deriva non soltanto che la Bibbia va interpretata tenuto conto
del fatto che essa «ci insegna con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la
nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture» (DV 11), ma che occorre
cercare in essa quella profondità di significato che corrisponde ai diversi livelli in cui il
mistero salvifico si manifesta.
Di tale preoccupazione si sono sviluppate, a partire dai Padri e lungo tutto il Medioevo,
le dottrine sui sensi della Sacra Scrittura.
In conclusione, un’interpretazione retta della Bibbia non può essere che un’interpre-
tazione globale, che tenga cioè conto di tutti i livelli di significato in essa contenuti.

Possiamo in proposito individuare tre livelli di interpretazione della Scrittura: quello


dell’interpretazione storico-critica, quello dell’esistenza cristiana e quello del mistero di Dio.

Interpretazione storico-critica. – La Scrittura è un libro del passato; testimonia di


persone e dottrine emerse molti secoli fa; ed è stata composta in molte sue parti, per
sovrapposizione e fusione di documenti antecedenti. È come un mare dove si sono riversate
molte acque diverse. Le ricerche che si fanno su questo libro come libro del passato con una
storia lunga e complessa, entrano nell’ambito della critica letteraria e storica.

Interpretazione a livello dell’esistenza cristiana. – Questo secondo momento


interpretativo della Bibbia è attuato il testo biblico non è studiato più soltanto in riferimento
alle coordinate storico-geografiche, letterarie e ambientali, ma per scoprire i valori spirituali
perenni che esso porta con sé. È un’interpretazione “spirituale” del testo, non intesa come pia
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elevazione ascetica, ma come svelamento dei grandi atteggiamenti che il messaggio della
Bibbia autoritativamente e in maniera efficace induce in noi o richiede da noi: presa di
coscienza della colpa, pentimento, apertura del regno, abbandono a Dio nella fede, povertà,
dono di sé al prossimo, superamento del timore della morte, gioia nella persecuzione,
speranza nel Dio che viene.

L’accostamento a livello del mistero. – Dio abita un mistero inconoscibile, che solo lo
Spirito di Dio conosce perfettamente. Quindi nessuno può proclamare con parole umane e
senza analogie la pienezza del mistero di Dio. Non solo, ma l’uomo non può esprimere la
pienezza dello stesso nostro mistero, del destino a cui Dio ci chiama: «Quello che occhio mai
vide né orecchio udì né cuore d’uomo ha potuto gustare, Dio ha preparato per coloro che lo
amano» (1 Cor 2,9).
Questa realtà di Dio indicibile, unitamente anche al nostro mistero, ci vengono rivelati
dalla Scrittura attraverso segni che sono segni-realtà. Così il Cristo che conversa
amabilmente con gli uomini è per noi il segno dell’amabilità del Padre; il Cristo che muore
per noi è segno dell’infinita carità di Dio; il Cristo che risorge è segno della pienezza di vita
di Dio, che è infinitamente più grande di quanto possiamo immaginare, e colma ogni nostra
deficienza e incapacità. Tutti questi segni realizzati nella storia della salvezza hanno una
dimensione rivelativa e salvifica: sono segni attraverso i quali Dio ci ha detto qualcosa di sé
nel momento stesso in cui operava.

La Bibbia è un dono di Dio alla Chiesa. Ciò vale non soltanto nel senso che la Chiesa,
secondo il piano di Dio, riceve in dono la Bibbia come parte integrante di sé, ma anche nel
senso che la Bibbia ha avuto una funzione attiva, costitutiva, nella formazione del popolo di
Dio. La Chiesa nasce e si costituisce ricevendo la Scrittura.
Dati questi legami strettissimi tra Scrittura e Chiesa, l’interpretazione retta della
Scrittura non può farsi se non nella Chiesa e con la Chiesa.
Ciò implica almeno due cose:

– che l’interpretazione autentica della Bibbia è affidata al magistero della Chiesa, il


quale non è sopra la Parola di Dio, ma serve ad essa, come custode e interprete della verità
rivelata contenuta nella Scrittura (DV 2, 10);
– che la Scrittura va interpretata tenendo conto della tradizione viva di tutta la Chiesa
(DV 2, 10; 3, 12) e dell’«analogia della fede» (DV 3, 12), cioè del rapporto che intercorre tra
un’affermazione della Scrittura e le altre verità manifestate dalla rivelazione divina.

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