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collana

IN CAMMINO
nella stessa collana

Fabio Bartoli
Prendimi con te, corriamo!
Eros e mistica nel Cantico dei Cantici

Marco Bove
Le spalle di Dio
L’esperienza spirituale dei cercatori di Dio

Davide Caldirola
E subito mi addormento
Pensieri e preghiere mentre scende la notte

Guglielmo Cazzulani
Un giro di valzer con Dio
Pregare i Salmi, da laici

Antonio Gentili, Andrea Schnoeller


Dio nel silenzio
Manuale di meditazione

Franz Jalics
Esercizi di contemplazione

Dionigi Tettamanzi
Quando Dio passeggia con l’uomo
In preghiera con i Salmi

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Fabio Bartoli

Oso dire: Padre


Un invito alla preghiera
Immagine di copertina:
Guido Reni, (1575-1642), attr., Trinità, Chiesa della Santissima Trinità,
Marino (RM)

Per i testi biblici:


© 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi
e Caterina da Siena, per gentile concessione

© 2021 ÀNCORA S.r.l.

ÀNCORA EDITRICE
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
Tel. 02.345608.1 - Fax 02.345608.66
editrice@ancoralibri.it
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ISBN 978-88-514-0000-0

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano

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da foreste ben gestite certificate FSC e da materiali riciclati.
Padre nostro, quello nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga la tua signoria,
la tua volontà si compia,
come nel cielo anche sulla terra.
Il pane nostro, quello necessario, dacci oggi
e liberaci dai nostri debiti,
come noi abbiamo liberato i nostri debitori,
e non metterci alla prova,
ma liberaci dal maligno.
Amen.
Dedico queste pagine con affetto devoto
al prof. Real Tremblay,
relatore della mia tesi di licenza.
Da lui ho imparato a «pensare Dio»
e soprattutto che vivere è ricevere.
Spero di poterlo annoverare tra i miei padri.
Introduzione

Credo che nessuno possa davvero insegnare a un altro a pre-


gare: la preghiera è qualcosa di troppo istintivo, troppo primario,
per essere insegnato. È come parlare o camminare: si impara per
contagio, osservando i nostri genitori, stando insieme a persone
che parlano e camminano.
Non si può essere uomini senza avere, almeno in forma germina-
le, un senso religioso, cioè una certa percezione della realtà divina e
trascendente, anche se forse non gli diamo il nome di Dio. Proprio
questo è il presupposto della preghiera, così che certe opere d’arte
che colgono bene questa profondità del cuore umano – penso, ad
esempio, ad alcune poesie di Leopardi o, se è per questo, a certe
canzoni di Fabrizio De André – potrebbero a buon diritto essere
dette preghiere.
Certamente nessuno potrebbe rivolgersi a Dio senza avere già
una qualche percezione di lui, perché pregare è sempre, in certo
modo, entrare in una relazione con questa realtà «oltre»; d’altra
parte, se c’è nell’uomo il desiderio dell’Assoluto è perché esiste
un Assoluto con cui poter entrare in relazione. Per dirla con una
immagine: il fatto che io abbia sete è un indizio sicuro che l’acqua
esiste. In questo senso tutti gli uomini hanno, almeno qualche volta
nella vita, pregato, perché tutti gli uomini hanno, almeno qualche
volta nella vita, desiderato l’Assoluto e sognato di unirsi a lui.
Va da sé che, come accade per i cinque sensi fisici, ci sono uomini
più capaci di altri di questa percezione del divino, uomini capaci
di muoversi nel mondo soprannaturale con la stessa facilità con
cui tutti noi ci muoviamo in quello naturale. Sono i maestri di

7
preghiera, che insegnano soprattutto con la loro vita, mostrando in
modo esemplare cosa significhi vivere una relazione con l’Assoluto.
Attraverso la loro esperienza noi tutti, come allievi, impariamo.
Così i discepoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare
perché, avendo condiviso con lui il pane e il cammino, hanno
visto l’incredibile intimità e confidenza che lo lega a Dio. Sono
affascinati dalla relazione che unisce il loro maestro con il Creatore
e quando gli chiedono di insegnar loro a pregare, ciò che in effetti
stanno chiedendo è di poter entrare in questa medesima relazione.
Gesù capisce perfettamente la loro domanda e propone una pre-
ghiera che è in realtà il condensato della sua esperienza di Figlio.
Allo stesso modo, anche io non voglio scrivere un trattato sulla
preghiera, ma condividere un’esperienza. Inevitabilmente il tesoro
a cui attingo è quello della mia vita, ho cercato però di evitare il
tono autobiografico, sia per non diventare autoreferenziale, sia
perché non voglio che qualcuno guardi il dito invece della luna,
secondo il celebre detto. L’esigenza interiore da cui scaturiscono
queste pagine sta in una circostanza personale che ha scosso pro-
fondamente la mia umanità e la mia fede, e che ha avuto però il
merito di costringermi a ripartire dai fondamenti e quindi appunto
dalla mia esperienza di figlio di Dio.
Se non si può insegnare a parlare o camminare, tuttavia, si può
insegnare a parlar bene o a camminare meglio, e allora per lo più si
tratta di correggere difetti acquisiti involontariamente, imparare la
grammatica o migliorare la postura. È così anche per la preghiera:
nessuno può incontrare Dio al posto tuo, nessuno può sostituirsi a
te nella percezione di Dio, ma si può insegnare a pregare meglio, si
possono correggere i «difetti di pronuncia» o migliorare la nostra
«postura» interiore, si può imparare la «grammatica dello Spirito».
Quindi non basta l’esperienza: in qualche modo abbiamo bisogno
di misurarci su un parametro oggettivo per essere certi di pregare
bene1. Per questo ho pensato di condividere la mia esperienza se-

1
«Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine

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guendo la traccia del Padre Nostro, osando misurare su quella di
Gesù la mia preghiera.
Gesù non è mai astratto o teorico nel suo insegnamento e quindi
non propone un metodo, non lascia ai suoi discepoli delle regole
spirituali da seguire, non detta un trattato, ma semplicemente inse-
gna una preghiera, che però scaturisce direttamente dal suo cuore
e condensa quindi tutto il suo dialogo con Dio. Proprio questo ha
caricato la preghiera del Padre Nostro di un valore immenso, tanto
da farne in tutta la tradizione cristiana, dai Padri fino al Catechi-
smo della Chiesa Cattolica, il paradigma di ogni preghiera2.
Sicuramente Gesù non intendeva insegnarci una formula da
ripetere meccanicamente, quanto comunicarci uno spirito, inse-
gnarci, per così dire, l’ambiente della preghiera. Scrive Origene:
«Non crediamo che tali espressioni ci siano state insegnate per
dirle soltanto nel momento stabilito della preghiera, ma […] tutta
la vita di noi oranti dica incessantemente: Padre nostro che sei nei
cieli»3. Per questo il valore maggiore del Padre Nostro è quello di
aprire uno spazio interiore: dilatare il cuore per renderlo capace
dell’incontro con Dio. Ogni preghiera per portare frutto dovrebbe
avere lo spirito del Padre Nostro, o almeno coglierne il senso. La
preghiera che abbiamo imparato da bambini contiene già tutto ciò
che serve sapere per imparare a pregare bene.

di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vi-
vente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla
fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi.
Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra
vita» (Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, vol. I, Rizzoli, Milano 2007, p. 160).
2
Così ad esempio Tertulliano: «Gesù Cristo, il Signore nostro […] ha fissato per i
nuovi discepoli del nuovo Testamento un nuovo modello di preghiera» (De ora-
tione I,1), e Agostino: «Tutte le altre parole che diciamo, sia quelle che formula da
principio il sentimento di chi prega per renderlo più vivo, sia quelle cui rivolge
l’attenzione in seguito per accrescerlo, non esprimono altro se non quanto è rac-
chiuso nella preghiera insegnataci dal Signore» (Lettera a Proba 12,22).
3
Origene, De Oratione XXIII,5, in Dio nostro Padre. Commento al Pater, Città
Nuova, Roma 1998, p. 33.

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Non ho intenzione di fare un commento esegetico, sia perché
non ne sarei in grado, sia perché ne esistono già di ottimi, antichi
e moderni, e non saprei proprio cosa aggiungervi. Però bisogna
anche dire che il testo del Padre Nostro è una delle pagine del
Nuovo Testamento più difficili da tradurre, piena come è di semi-
tismi che tradiscono con evidenza la sua origine dalla viva voce di
Gesù. Ogni traduzione è una interpretazione, si sa, ma in questo
caso ancora di più. È per questo che la traduzione del Padre Nostro
assomiglia a un cantiere che non si chiude mai: è un lavoro che
sarà sempre in corso d’opera. Mi sono quindi azzardato anche io
a proporre una mia personale versione del testo, pur senza alcuna
pretesa di dare una parola definitiva in merito e sapendo di inse-
rirmi in un dibattito che dura dalle origini del Cristianesimo e
continuerà probabilmente fino alla fine dei tempi.
Non vorrei però che questo distraesse dallo scopo principale di
questo libretto, che è e resta innanzitutto un invito alla preghiera.
Ciò che vorrei fare, seguendo il testo del Padre Nostro, è semplice-
mente invitarti nella mia casa interiore per offrirti la testimonianza
di tutto l’amore che ho ricevuto. Nulla mi autorizza a considerarmi
maestro per qualcuno, anzi sono drammaticamente consapevole
della mia insufficienza e dei miei limiti, ma in tutta semplicità de-
sidero solo condividere la mia esperienza. D’altra parte se c’è una
cosa in cui sono bravo è nello sbagliare, e se c’è una cosa in cui è
bravo Dio è nel venirmi a riprendere dopo ogni sbaglio, così che
ho imparato molto di più su di lui dai miei peccati perdonati che
dalle mie poche virtù, e forse, paradossalmente, proprio perché ho
sbagliato più di tanti altri ho anche imparato di più.
Ti invito quindi a pregare il Padre Nostro con me, per scoprire
insieme a me come un peccatore possa essere trasformato in figlio
e quanta gratitudine porti in cuore per questo.

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Parte prima
CONOSCERE IL PADRE
I

Ὅταν προσεύχησθε, λέγετε· Πάτερ


Quando pregate dite: «Padre»

Ho scelto di seguire la versione del Padre Nostro di Matteo


perché è quella adottata dalla liturgia ed è quindi la più nota e
usata, tuttavia vorrei partire dall’introduzione presente nel Van-
gelo di Luca. Mentre nella versione di Matteo il Padre Nostro è
introdotto da una breve catechesi sulla preghiera, in quella lucana
è preceduto dalla richiesta dei discepoli: «Signore, insegnaci a
pregare», a cui Gesù risponde con una frase semplice: «Quando
pregate, dite…» (Lc 11,2) che nella sua semplicità ha un valore
formidabile e universale. Nessuna preghiera può dirsi cristiana
senza partire da qui: dal riconoscere che Dio è Padre e di conse-
guenza noi siamo figli.
È come quando si accende un computer. Al momento dell’avvio
ogni computer effettua una serie di operazioni senza che neppure
l’utente se ne renda conto: innanzitutto verifica ed eventualmente
ripristina la funzionalità del sistema, poi carica il sistema operati-
vo, ovvero l’ambiente entro cui ogni operazione viene svolta. Così è
per la preghiera: iniziando a pregare dovremmo sempre effettuare
una breve diagnostica, verificando ed eventualmente ripristinando
la nostra capacità di rivolgerci a Dio come figli, e poi caricare «in
memoria» il nome del Padre, che è l’ambiente entro cui svolgere
ogni preghiera e ogni attività umana.
Voglio quindi iniziare sottolineando i due bug, i due difetti
più comuni che spesso condizionano il nostro rapporto con Dio,
impedendoci di rivolgerci a lui come padre: il primo è una falsa
immagine di Dio e il secondo una falsa immagine della paternità.

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La falsa immagine di Dio
Sembra di dire qualcosa di banale e scontato affermando che
Dio è Padre, qualcosa che risale all’infanzia e ai primi ricordi del
catechismo, che appartiene agli strati più primitivi e infantili della
fede, come se la conoscenza di Dio fosse tanto più alta e pura quan-
to più è metafisica e astratta. Ma in realtà l’esperienza mi mostra
che le maggiori difficoltà nella preghiera provengono proprio dal
fatto che, pur avendo ben chiaro in teoria che Dio è Padre, l’im-
magine interiore che ne abbiamo non corrisponde affatto a quella
che Gesù ci ha rivelato.
La conoscenza del Padre può nascere solo dall’esperienza. Sap-
piamo di essere figli, lo abbiamo sempre saputo, ma un conto è
saperlo e un conto è viverlo!
Il medico che ha in cura mio padre, il suo avvocato o il suo
commercialista, sanno di lui cose che io non saprò mai, come
probabilmente i suoi colleghi di lavoro e certamente sua moglie.
Ma nessuno di loro lo conosce come padre, cioè nessuno di loro sa
cosa vuol dire essergli figlio. Questa conoscenza, per definizione,
non può essere teorica, ma è sempre necessariamente frutto di
un’esperienza e quindi di un’incontro. Ed è qui che cominciano i
problemi, perché a ben guardare l’esperienza di Dio come Padre
non è né scontata né facile. Sia, come vedremo, a causa del peccato
originale che ci porta a dubitare di lui, sia perché comunque l’essere
figli non viene dalla natura, ma dalla Grazia, e dunque non può
mai essere dato per acquisito una volta per tutte.
Non essendo noi per natura figli di Dio, la nostra umanità
tende continuamente a ricadere in una sorta di paganesimo pra-
tico, come dimostra tutta la storia di Israele. Non basta avere la
nozione del Padre, perché non è il molto sapere su Dio ciò che
cambia il cuore: anche il più sapiente dei re, come era Salomone,
inizia la sua vita da santo e muore da pagano. Bisogna quindi
lasciarsi sempre ricondurre a quel dono di figliolanza che è in-
deducibile dalla nostra umanità, perché non c’è niente in noi per

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cui Dio debba necessariamente amarci, e quindi periodicamente
lo dimentichiamo. Occorre riscoprirsi totalmente dipendenti,
accorgersi che viviamo solo se riceviamo continuamente il nostro
essere da un altro.
Ricadere nel paganesimo significa che, anche se in alcuni mo-
menti della nostra vita abbiamo avuto lampi di straordinaria
chiarezza e luminosità in cui abbiamo davvero intuito la paternità
di Dio, fatalmente tendiamo a tornare a quelle immagini proprie
della religiosità naturale, che pur non essendo in sé stesse disprez-
zabili – sempre meglio dell’ateismo o dell’empietà – sono tuttavia
lontane anni luce dalla novità cristiana. Mille volte distruggeremo
in noi stessi questi idoli e mille volte si riformeranno, perché in
realtà corrispondono a quella percezione di Dio che si può avere
nella nostra natura caduta.
Detto in altri termini, il senso religioso di cui abbiamo parlato
nell’introduzione può essere un buon punto di partenza nell’espe-
rienza della preghiera, ma l’insegnamento di Gesù va molto oltre
e ci propone un cammino di scoperta geniale, un’avventura che va
molto oltre le possibilità umane.

Due estremi
L’immagine naturale di Dio scritta nella nostra coscienza umana
oscilla tra due poli: a volte ci porta a pensarlo come il principio di
verità e giustizia a fondamento della morale e quindi a costruire
la nostra fede essenzialmente come una risposta etica – in cui ciò
che conta è il fare, l’operare bene –, altre volte invece come il fon-
damento trascendente dell’essere, il motore immobile, che però è
lontano ed evanescente. Da una parte abbiamo un Dio giudice, giu-
sto e implacabile, ma incapace di perdonare, dall’altra un principio
creatore, una forza astratta e impersonale all’origine di ogni cosa,
sostanzialmente indifferente a tutto ciò che accade sotto il cielo.
È chiaro che in entrambi i casi non si può amare questo Dio: non
si può stabilire con lui nessuna relazione personale. Questo idolo

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non può essere amato – al massimo temuto – e men che meno ci
si può sentire amati da esso.
Come fiumi sotterranei queste due tentazioni, che potremmo
chiamare paganesimo etico e paganesimo metafisico, attraver-
sano tutta la storia del Cristianesimo, proprio perché sono così
ragionevoli e rispondono a un apparente «buon senso». A volte si
intrecciano o si sovrappongono, ma segnano tutta la storia della
teologia e della spiritualità. Da una parte, partendo dal confronto
con la filosofia stoica e passando attraverso l’eresia pelagiana, si
arriva a Kant e alla sua pretesa di mantenere la religione dentro
i confini della ragione, presentando così un Cristianesimo molto
umano e razionale, ma carente di mistica; dall’altra, partendo dal
confronto con la metafisica platonica e passando attraverso l’ere-
sia gnostica, si arriva fino a Hegel e alla trasformazione di Dio in
un’idea, inclinando verso un’immagine di Dio molto «alta» e am-
mantata di misticismo, ma diffidente verso tutto ciò che è umano
e in particolare verso la ragione.
Ecco, parlando un po’ a spanne, si potrebbe dire che pelagiane-
simo e gnosticismo sono come due malattie endemiche della fede
che periodicamente ritornano, non solo nella storia della Chiesa,
ma anche nel percorso individuale di ciascuno. A ben guardare,
probabilmente, tutti – e comunque sicuramente io – abbiamo oscil-
lato tra questi due estremi, vivendo la nostra fede in maniera a volte
troppo razionale (fase pelagiana) e a volte troppo emotiva (fase
gnostica), e continuamente rischiamo di ricadere in uno di questi
due eccessi, ma tenere ferma l’immagine del Padre ci libera da
entrambi gli estremismi e ci riconduce al centro della nostra fede.

Padre, in che senso?


Nessuno avrebbe potuto pensare che Dio è Padre se non ce lo
avesse rivelato Gesù: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio»
(Mt 11,27), e questo vuol dire anche che, se pure fosse possibile
una religione entro i limiti della ragione, questa religione certa-

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mente non è il Cristianesimo, che anzi proprio per questo motivo
a stento può essere detto una religione. Ciò che nella nostra fede è
indeducibile e indimostrabile non è tanto l’esistenza di Dio, su cui
pure i filosofi in passato si sono concentrati, ma la sua paternità,
che anzi a prenderla sul serio è una pretesa talmente inaudita da
rasentare la follia.
Questa pretesa è talmente alta che, senza accorgercene, quan-
do chiamiamo Dio «Padre» lo facciamo con un senso debole: lo
chiamiamo Padre perché sappiamo che è il principio della vita e
dunque perché Creatore. Nella nostra mente la vera paternità è
quella biologica, di cui quella divina sarebbe solo una metafora. È
lo stesso senso con cui ad esempio uno scrittore può chiamare «fi-
glio» un suo romanzo. Ma in questo senso debole sono figli di Dio
anche i non cristiani e perfino gli animali, se è per questo! Anni fa,
durante una Messa in parrocchia, accadde un episodio divertente:
entrò un cane in chiesa, io allora chiesi alla gente di farlo uscire e
un bambino si alzò in piedi protestando: «No, perché? È un figlio
di Dio anche lui». Ovviamente non ce l’ho con quel bambino, che
nella sua ingenuità non faceva che ripetere ciò che aveva appreso
dai genitori, dico solo che questo piccolo episodio illustra bene
una mentalità comune, mostrando che se intendiamo la paternità
di Dio solo come metafora, a partire dalla Creazione, il concetto
di «figlio» si svuota di ogni senso e valore.
In realtà attribuire a Dio il titolo di Padre solo in quanto Crea-
tore non basta a rendere conto della rivelazione cristiana, perché
se Dio mi è padre, io sono suo figlio, e la pretesa cristiana è che
questo nome di figlio sia da intendere in senso forte, così come,
in tutta evidenza, lo intende Gesù. Al tempo stesso questo implica
un’antropologia nuova: la rivelazione di Dio come padre è anche
una rivelazione sull’uomo e sul suo valore.
Padre non è solo colui che genera, ma soprattutto colui che si
prende cura, colui che educa e protegge, stabilendo con il figlio un
legame intimo e indissolubile. È così che Gesù vive la sua presen-
za nella propria vita. Per lui dichiarare che Dio è Padre significa

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affermare un rapporto intimissimo e personale, una costante e
dolcissima comunione.
Ma allora anche noi, se possiamo chiamare Dio con questo
nome, possiamo avere con lui lo stesso rapporto: se Dio ti è Padre
allora tu sei fratello di Gesù, coerede con lui, destinato anche tu
alla divinità… Sembrano pretese assurde, non è vero? Soprattutto
quando quotidianamente sperimentiamo l’abisso di vuoto e di ma-
le in cui l’uomo può precipitarsi. Eppure sono affermazioni dedotte
direttamente dalla Parola di Dio, non il risultato di qualche dotto
teorema spirituale.
Per questo nell’uso liturgico la preghiera del Padre Nostro è
introdotta dalla formula «osiamo dire»: perché di per sé noi non
potremmo certo chiamare Dio Padre. L’idea stessa è così folle da
sfiorare l’incoscienza e ci vuole una certa dose di sfacciataggine,
autorizzata solo dalla confidenza nata dall’amore – che la tradi-
zione cristiana chiama parresìa – per poterlo fare4.
Questa prospettiva è talmente vertiginosa che senza volere ten-
diamo sempre a ritornare al senso debole della paternità di Dio e di
conseguenza a dimenticare la visione donata dallo Spirito Santo e a
ricadere in quella percezione naturale che abbiamo definito pagana.
Ecco perché quando ci mettiamo a pregare dobbiamo per prima
cosa purificare la nostra immagine interiore di Dio, staccandoci
da quella immagine naturale che più o meno inconsciamente vive
in noi e costantemente si riforma. Dobbiamo invece rimetterci
spiritualmente davanti al Padre. Si tratta di riconoscerlo per ciò che
egli veramente è e non per ciò che noi pensiamo che sia, e di con-
seguenza si tratta anche di riaffermare la nostra vera posizione da-

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«La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe
sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se
l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a
proferire questo grido: Abbà, Padre!» (Pietro Crisologo, Serm. 71; vedi anche CCC
2777-2778). Anche alla luce di questi testi confesso che mi infastidisce un poco
la disinvoltura con cui non pochi sacerdoti nell’uso liturgico tendono a evitare
l’uso di questa formula introduttiva al Padre Nostro.

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vanti a lui. Che è innanzitutto quella di figli amati. Figli che magari
hanno fatto cose terribili, ma nondimeno figli e nondimeno amati.
Se stai iniziando a pregare non ti stai mettendo davanti al giudi-
ce inquisitore che valuta la tua morale e i tuoi comportamenti con
l’esattezza di una bilancia e men che meno ti stai mettendo davanti
al principio universale, origine e fondamento di tutte le cose. Egli
è tutto questo, beninteso, ma da te vuole farsi conoscere come Pa-
dre e se ti stai preparando a un colloquio con lui è importante che
ristabilisci nel modo giusto la relazione.

La falsa immagine del padre


D’altra parte per comprendere che Dio è Padre a volte può pre-
sentarsi anche l’ostacolo opposto: non di rado noi non abbiamo
un buon ricordo del nostro padre umano, che spesso abbiamo
sperimentato come violento, tirannico o assente. Così è lo stes-
so principio di autorità che va in crisi. Spesso se abbiamo avuto
un rapporto difficile con il nostro padre naturale ci riesce assai
difficile avere un rapporto sereno con l’autorità. È un malessere
molto comune nella mia generazione, quella per intenderci che si
è formata ascoltando Jim Morrison che nel 1967 metteva in scena,
nella canzone The End, l’omicidio rituale del padre.
Accade così a volte che, in un perverso corto circuito, proiettia-
mo su Dio l’immagine distorta di paternità che abbiamo ricevuto
dalla nostra esperienza umana. Ecco quindi che Dio non viene vi-
sto come il padre amorevole e provvidente che la Bibbia ci mostra,
ma come un tiranno insaziabile, che impedisce al proprio figlio
di crescere e vivere, un po’ come Cronos, il padre degli dei della
mitologia greca, che è geloso dei suoi figli e li divora.
Uno dei ricordi più emozionanti della mia esperienza di cap-
pellano ospedaliero è la frase addolorata che mi diceva una donna
malata di tumore, in fase terminale: «Quando mi presenterò a
Dio non sarò io a dovergli chiedere perdono, sarà lui che chiederà
perdono a me». Apparentemente questa frase è una bestemmia

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terribile, in realtà, nella maniera stravolta dal dolore di chi è preda
dell’angoscia della morte tra sofferenze indicibili, esprime uno
stato d’animo molto comune: molti di noi si sentono in credito
verso Dio per il fatto stesso di essere nati, perché la loro vita non
è stata una vita felice, per tutte le sofferenze e le fatiche che hanno
dovuto attraversare, e attribuiscono a Dio la colpa dei loro mali e
delle loro disgrazie.

La menzogna originale
Come può accadere un equivoco così grande? Per capirlo dob-
biamo risalire indietro, a quel peccato che giustamente la nostra
tradizione chiama originale e che potrebbe essere definito sinteti-
camente come il dubitare dell’amore del Padre. Dio aveva donato
all’uomo tutti gli alberi del giardino, egli poteva godere di ogni
frutto della creazione, tutto era nelle sue mani senza sforzo, come
un dono gratuito: ogni piacere, ogni gioia della vita gli era offerta.
Il fatto che in questa universale sovrabbondanza ci fosse una
cosa, una sola, riservata a Dio aveva il senso di mantenere la distan-
za, di ricordare all’uomo che tutto ciò che aveva non lo possedeva
direttamente, ma lo riceveva costantemente in dono. Serviva cioè
a mantenere la distanza tra la creatura e il creatore, a ricordare
all’uomo che egli non è Dio.
Nel momento in cui ha voluto appropriarsi anche di quel frutto
l’uomo ha perso tutto, perché se egli non era Dio aveva però qual-
cosa di meglio: era figlio. Volendo sostituirsi al Padre ha cessato
di essere figlio, volendo essere-dio ha rifiutato di avere-un-dio,
volendo conquistare il mondo ha smesso di riceverlo in dono, vo-
lendo realizzare sé stesso ha dimenticato che l’essenza della gioia
è il ricevere.
Non si riflette mai abbastanza sulla curiosa etimologia del verbo
«realizzarsi», che noi utilizziamo nel senso di affermare sé stessi
o esprimere il proprio potenziale, ma in senso letterale significa
«fare di sé stessi una cosa», ovvero smettere di essere una persona.

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E ha molto senso se si pensa che per essere persona devo affermare
un altro, non me stesso, dato che la persona nasce dall’incontro e
vive nella relazione più che nel possesso. L’uomo che si concentra
sul possesso delle cose tratta come cose anche le persone e così
diventa esso stesso una cosa.
Concentrandosi su sé stesso, nello sforzo di autoaffermarsi, l’uo-
mo ha smesso di essere il sacerdote della creazione, la voce di ogni
cosa che loda il Creatore, per diventarne invece il consumatore,
distruggendo tutto ciò di cui godeva, che nelle sue mani smetteva
di essere un messaggio d’amore per diventare invece merce, grigia
e indistinta merce, sempre disponibile a essere comprata e venduta.
Inizia qui quella terribile cultura che giustamente papa Francesco
chiama «dello scarto». In questo modo l’uomo ha perso ogni feli-
cità, perché della felicità ha perso la fonte che è il sentirsi amato.
Come è potuto accadere un disastro simile?
È accaduto che l’uomo ha creduto al serpente, che gli presentava
la sua propria immagine di Dio, visto come un avversario, uno che
è di ostacolo alla nostra gioia e alla nostra realizzazione. Ha smesso
così di guardare a Dio con gli occhi del figlio e ha cominciato a
guardarlo con gli occhi del satàn, dell’avversario.
Questo stesso percorso si ripete nella vita spirituale di ciascuno.
A causa del peccato il nostro punto di partenza non è mai nella
luce: noi non nasciamo nella gioia, ma nel dolore. La nostra vita
non comincia con una lode, ma con un grido di rivolta, perché
prima dell’inizio c’è una menzogna, una menzogna a cui abbiamo
prestato fede. Per questo non di rado la blasfemia precede il culto
e la bestemmia la lode, per scoprire il Padre spesso dobbiamo par-
tire dal rifiuto di lui: gli abbiamo voltato le spalle e lo accusiamo
di averci abbandonato, sperimentiamo in noi la terribile angoscia
che è la conseguenza di questo abbandono e ci convinciamo che
il solo modo di sfuggirgli è allontanarci ancor di più da lui, come
se la nostalgia di Dio fosse la causa segreta della nostra infelicità,
anziché la traccia sopravvissuta in noi della grandezza da cui pro-
veniamo e dell’altezza a cui siamo chiamati.

21
La menzogna solidamente piantata al centro della nostra co-
scienza, che ci rende la vita difficile e fa sì che i nostri anni «sono
fatica, dolore, passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10), è che
Dio sia nemico della nostra libertà, ovvero appunto che il Padre
celeste sia uguale al nostro padre carnale: pieno di difetti, astioso,
scontroso, chiuso in sé stesso, rivale della nostra gioia, inaffidabile,
pronto ad abbandonarci. Ci convinciamo quindi che le proposte
di Dio nascondano sempre un imbroglio, abbiamo paura di ab-
bandonarci alla sua volontà perché temiamo che, come mi diceva
un uomo in confessione, «se gli dai un dito ti prende la mano, se
gli dai una mano si prende il braccio», e finiamo con il credere di
dover rubare quello che ci sarebbe dato in dono, di dover lottare
fino alla morte per conquistare ciò che in realtà da sempre è a
nostra disposizione5.
Il Padre così deformato ci appare infine come il cieco difensore
della legge: è un destino senza scampo, è l’autorità che domanda il
sacrificio supremo, è la rinuncia a noi stessi, la sottomissione cieca
a un dovere incomprensibile e imperscrutabile.

Dio ama il sacrificio?


È paradigmatico in questo senso il modo in cui spesso nella
storia è stato letto il sacrificio di Gesù sulla croce.
Non c’è dubbio che sia il Padre a volere il sacrificio del Figlio, la
Scrittura è molto chiara su questo: il Figlio è stato «consegnato»
per noi, basta leggere la Lettera agli Ebrei per rendersene conto. Ma

5
«Malgrado tutta la testimonianza della creazione e dell’economia salvifica ad
essa inerente, lo spirito delle tenebre è capace di mostrare Dio come nemico della
propria creatura e, prima di tutto, come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo
e di minaccia per l’uomo. […] L’analisi del peccato nella sua originaria dimensione
indica che, ad opera del “padre della menzogna”, vi sarà lungo la storia dell’uma-
nità una costante pressione al rifiuto di Dio. […] L’uomo sarà incline a vedere in
Dio prima di tutto una propria limitazione, e non la fonte della propria liberazione
e la pienezza del bene» (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, n. 38).

22
che padre è questo che pretende il sacrificio di sangue del suo figlio
per risanare il suo onore offeso? Posto in questi termini il mistero
centrale del Cristianesimo diventa uno scandalo intollerabile, che
giustamente ha allontanato tanti dalla fede.
Non si può negare la complicità involontaria di tanta predi-
cazione cattolica nella generazione di questo equivoco. Cito ad
esempio una omelia di Bossuet: «L’anima santa del mio Salvatore
è presa dall’orrore che incute un Dio minaccioso e mentre si sente
attratta a gettarsi nelle braccia di questo Dio per trovarvi conforto
e sollievo vede che egli torce la faccia, lo respinge, lo abbandona,
lasciandolo tutto completamente in preda al furore della sua giu-
stizia irritata. Ti getti, o Gesù, tra le braccia del Padre e ti senti
respinto, senti che è proprio lui che ti perseguita, che ti colpisce,
che ti abbandona, che ti schiaccia sotto il peso enorme e insoppor-
tabile della sua vendetta; la collera di un Dio irritato: Gesù prega e
il Padre adirato non lo ascolta. È la giustizia di un Dio vendicatore
degli oltraggi ricevuti. Gesù soffre e il Padre non si placa»6.
È vero che oggi capita molto più raramente di sentire espressioni
di questo genere, e tuttavia ancora ogni tanto accade: ad esempio
nella recente crisi dovuta alla pandemia di Covid-19 non è mancato
chi ne parlava come di una punizione di Dio! Con sempre maggio-
re nettezza la Chiesa deve prendere le distanze da questi eccessi,
che in realtà allontanano dalla fede i nostri contemporanei. Vale
la pena di dirlo una volta per tutte ai nostri amici atei: fate bene a
non credere a un dio così! Fate bene perché questo dio non esiste,
non ci credo neppure io! Ovvero non è questo il Dio in cui credo.
Come fare però per uscire da questo paradosso spinoso? Come
tenere insieme l’immagine del Padre misericordioso che ci tra-
smette la Bibbia con la necessità del sacrificio del Figlio?
Io credo che bisogna per prima cosa rovesciare l’assioma freu-
diano, non si tratta cioè di dedurre il mistero del Padre celeste a

6
Omelia per il Venerdì santo 1662, in J.B. Bossuet, Oeuvres complètes, IV, Paris
1836, p. 365.

23
partire dalla nostra esperienza del padre terreno, ma al contrario
scoprire che la paternità è in sé stessa un mistero, incarnato solo
in maniera imperfetta dai nostri padri umani. Non si può partire
dalla copia per conoscere il modello! Al contrario è innanzitutto
al modello che devo guardare se voglio giudicare la copia. Detto
in altre parole: il vero padre è Dio e i nostri padri terreni ne sono
la metafora, il mistero del padre è di per sé inconoscibile, solo lo
Spirito Santo ce lo ha rivelato, e quindi neppure possiamo capire
fino in fondo i nostri padri umani – né per condannarli né per
perdonarli – se prescindiamo da questa rivelazione.
Mio padre, senza saperlo, aveva dinanzi a sé un compito immen-
so, quasi impossibile: doveva essere la prima icona di Dio per quel
bimbo impacciato, fragile e introverso che ero. Per questo posso
perdonarlo dei suoi fallimenti, perché ho imparato dai miei quanto
sia alta e quasi sovrumana la vocazione di padre.
Torniamo allora al sacrificio di Cristo, che è probabilmente il
momento culminante della relazione tra Padre e Figlio7. Il punto è
che non si arriva a quel culmine, né lo si può comprendere, se non
dopo un lungo percorso, che è poi il percorso esistenziale di Gesù8.
Gesù è letteralmente innamorato del Padre, ne parla continua-
mente in termini appassionati e quando lo fa diventa addirittura
lirico: parla degli uccelli del cielo, dei gigli dei campi… ha espres-
sioni di una intimità sconcertante: «Io e il Padre siamo una cosa

7
L’iconografia latina raffigura spesso la Trinità non in sé stessa (come nella ce-
lebre Trinità di Rublëv), ma partendo dal gesto del Padre che offre a noi il Figlio
crocifisso, nel modello iconografico detto del «Trono di Grazia», appunto perché
vede fotografato in quel momento il punto più alto del rapporto tra Padre e Figlio.
Uno dei più potenti esempi di questo modello, anche se forse non il più antico,
è la Trinità di Masaccio che si trova a Firenze in Santa Maria Novella. Anche
l’immagine di copertina di questo libro è una reinterpretazione originale (e a me
molto cara) di quel modello iconografico.
8
Può sembrare sconcertante riconoscere che anche Gesù abbia fatto un percor-
so, ma in realtà in quanto uomo anche lui è cresciuto nella sua comprensione
dell’essere figlio, come ci rivela la Lettera agli Ebrei, che ci dice che egli «imparò
l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).

24
sola», «Chi ha visto me ha visto il Padre»… tutto ciò che fa, lo fa a
partire dal Padre e non riferisce nulla a sé stesso, anzi si concepisce
come un messaggero, uno inviato a fare la volontà di un altro.
Insomma Gesù non capisce sé stesso se non a partire dalla mis-
sione che ha ricevuto, ovvero la salvezza dell’uomo, ed è talmente
identificato con essa che non è nemmeno capace di pensarsi al di
fuori di questa missione. In Gesù identità e missione coincidono
perfettamente. Quando infine comprende che non c’è altra via per
compiere entrambe che quella di morire sulla croce, accetta volon-
tariamente quello che gli è chiesto («non la mia, ma la tua volontà
sia fatta»), dunque in questo sacrificio, anziché distruggersi, egli
realizza compiutamente sé stesso («Ora l’anima mia è turbata; e
che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono
giunto a quest’ora!», Gv 12,27), perché ama il Padre più di sé stesso,
e obbedirgli è ciò che desidera di più.

La logica pasquale
Ma d’altra parte la storia non finisce qui. Abbiamo visto che il
Figlio accetta volontariamente il sacrificio richiesto dal Padre, ma
dal canto suo il Padre non resta in disparte muto e indifferente. Al
contrario, proprio in virtù di quel gesto, il Figlio riceve «quel nome
che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9): proprio perché ha
compiuto perfettamente la sua missione, salvando così l’uomo, è
coronato di gloria nella risurrezione.
In un certo senso e con tutte le dovute cautele si deve parlare
anche di una «sofferenza del Padre». Scrive san Giovanni Paolo II:
«Il “convincere del peccato” non dovrà, dunque, significare anche
il rivelare la sofferenza? Rivelare il dolore inconcepibile e inespri-
mibile, che, a causa del peccato, il Libro sacro nella sua visione
antropomorfica sembra intravvedere nelle “profondità di Dio” e, in
un certo senso, nel cuore stesso dell’ineffabile Trinità? La Chiesa,
ispirandosi alla Rivelazione, crede e professa che il peccato è offesa
di Dio. Che cosa nell’imperscrutabile intimità del Padre, del Verbo

25
e dello Spirito Santo corrisponde a questa “offesa”, a questo rifiuto
dello Spirito che è amore e dono? La concezione di Dio, come essere
necessariamente perfettissimo, esclude certamente da Dio ogni
dolore, derivante da carenze o ferite; ma nelle “profondità di Dio”
c’è un amore di Padre che dinanzi al peccato dell’uomo, secondo
il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire: “Il Signore
vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra… e se
ne addolorò in cuor suo” (Gn 6,5-6). […] In definitiva, questo im-
perscrutabile e indicibile “dolore” di padre genererà soprattutto la
mirabile economia dell’amore redentivo in Gesù Cristo, affinché,
per mezzo del mistero della pietà, nella storia dell’uomo l’amore
possa rivelarsi più forte del peccato. Perché prevalga il “dono”!»
(Dominum et vivificantem, n. 39).
Il sacrificio del Figlio dunque esprime il mistero della pietà, con
cui l’amore di Dio reagisce al mistero della iniquità. È quell’amore
sovrabbondante in cui il Padre sublima il dolore, soprattutto per-
ché non termina nella morte, ma nella risurrezione. Risuscitando
Gesù il Padre dimostra che egli ha fatto bene a fidarsi di lui, che
l’obbedienza non è una fregatura, se mi si passa il francesismo,
dimostra che seppure era necessario un sacrificio – ed era neces-
sario, perché solo mediante il sacrificio si può dare compimento
all’amore – tuttavia l’ultima parola di tutto è la festa, la gioia della
redenzione.
Insomma, il Padre non è una madre.
Il padre non vuole evitare a ogni costo la sofferenza del figlio,
come una madre farebbe, vuole invece che il figlio sia un eroe, un
uomo nobile e giusto, coraggioso e forte, e sa che se vuole educarlo
così non può togliere dal suo cammino ostacoli e sofferenze. Anzi,
la lotta e le sfide sono parte integrante del cammino. Questo signi-
fica la misteriosa frase della lettera agli Ebrei che ci dice che Gesù
imparò a essere figlio dalla sua sofferenza (cf Eb 5,8).
D’altra parte il Padre è anche Colui al quale tutto appartiene e
sa che alla fine di tutto sarà la gioia a prevalere. È l’atto di fede con
cui ci abbandoniamo alla sua volontà onnicomprensiva, smettendo

26
di avere la presunzione di sapere cosa sia meglio per noi stessi, a
rendere possibile l’obbedienza e ad aprire così lo spazio interiore
per la festa.
Ciò che quella mia paziente ha compreso alla fine, prima di
morire, è che poteva fidarsi, che il Padre non l’aveva imbrogliata,
che – seppure il suo corpo si stesse disfacendo nel dolore – quel
sacrificio non era inutile, anzi stava contribuendo alla salvezza del
mondo per sé stessa, per suo marito, per le sue figlie… e soprattutto
e proprio per questo che l’ultima parola sarebbe stata un abbraccio
gioioso, come infatti è stato.
Anche contro l’evidenza, anche contro la logica, anche contro il
sentimento, che sono così facilmente manipolabili, deve prevalere
in noi la fede.

L’ambiente della preghiera


Una volta terminata la diagnostica, cioè dopo aver rimosso gli
ostacoli che ci impediscono di riconoscere Dio come Padre, dob-
biamo «caricare il sistema operativo», ovvero, per dirla con un
linguaggio più tradizionale, metterci alla presenza del Padre e sco-
prire noi stessi come figli. «Padre, questa è la chiave della preghiera.
Senza dire, senza sentire questa parola, non si può pregare»9.
Cosa vuol dire essere figlio? Se nessuno conosce il Padre ne
consegue che nessuno conosce neppure il Figlio, perché solo chi
conosce il proprio padre sa davvero cosa vuol dire essere suoi figli.
Dunque, poiché solo a partire da Gesù e vedendolo attraverso di lui
possiamo conoscere il Padre, solo unendoci a lui, fino ad avere in
noi il suo stesso Spirito, potremmo sapere cosa vuol dire essere figli.
Ma questo è esattamente quello che ci è stato donato! Noi possia-
mo realmente unirci a Gesù, essere una sola carne con lui, perché
è Gesù stesso che si è unito a noi, facendosi uomo fino a speri-

9
Così papa Francesco in una meditazione mattutina a Casa Santa Marta del 20
giugno 2013 (L’Osservatore Romano, 21 giugno 2013).

27
mentare egli stesso la morte, fino a offrire la sua vita per noi, fino
a donarci il suo stesso spirito, fino a renderci possibile, attraverso
l’Eucaristia, di diventare parte del suo stesso corpo! Ecco perché la
fede cristiana comincia dall’incontro vivo e vitale con Cristo e fin-
ché questo incontro non è avvenuto siamo ancora nelle premesse.
Davvero, come recita il Preconio della notte di Pasqua, la nostra
adozione a figli è un mistero insondabile di amore: «O mirabile
condiscendenza della tua grazia, o inestimabile tenerezza del tuo
amore! Per riscattare lo schiavo hai sacrificato il Figlio!». Pur di
salvarci, pur di poterci adottare come figli, noi che eravamo per
natura animali, noi insignificanti schegge impazzite dell’uni-
verso, sporche di sangue e di malignità, il Padre non ha esitato a
sacrificare il suo proprio figlio, superando di un balzo l’abisso di
santità che ci separava, protendendosi al di là della barriera della
differenza ontologica, raggiungendoci lì dove eravamo prigionieri
e liberandoci dalla morte.
Ecco allora che in questo mistero conosciamo un aspetto finora
inaudito del Padre. Egli non è soltanto l’origine della vita, non è
solo il Creatore, ma innanzitutto è il Redentore, è colui che com-
batte per salvare il figlio perduto. Neppure si limita ad agire come
il padre della parabola del figlio prodigo, che rimane in trepida
attesa, ma al contrario egli stesso si mette in cerca del figlio e lotta
per liberarlo, fino a essere ferito, fino a morirne lui stesso.
Dio non è Padre solo nella Creazione, ma innanzitutto e soprat-
tutto nella Redenzione.
Quando ero bambino lessi in un giornale la storia di un vigile
del fuoco che si era ustionato gravemente per salvare il suo stesso
figlio intrappolato in un palazzo in fiamme. Quella vicenda, di cui
ho scordato tutti i dettagli, mi fece una grandissima impressione.
Molte volte ho pensato a quanto quel bambino doveva sentirsi
amato da quest’uomo e ho pensato a come avrebbe guardato le
cicatrici che le ustioni avevano lasciato sul volto del padre non
come qualcosa di ripugnante, ma come un sacramento, come il
bellissimo ricordo del giorno della sua salvezza.

28
Lo stupore del figlio

Se mi si perdona il paradosso, sicuramente azzardato, si potreb-


be quasi dire che il Padre abbia amato me ancor più di Gesù! Gesù
infatti egli non ha mai dovuto perdonarlo, non ha mai dovuto
gettarsi tra le fiamme per salvarlo, non ha dovuto scavalcare l’u-
niverso intero per poterlo raggiungere, come ha dovuto fare con
me… Certo, lo dico come paradosso, se Gesù fosse capace di essere
geloso, avrebbe tutte le ragioni per esserlo di noi!
Dio, che già di diritto avrebbe potuto pretendere il titolo di padre
per averci dato l’essere e la vita, se lo è conquistato a prezzo della
sua morte e risurrezione, perché non si è padri solo nel generare,
ma soprattutto nel combattere per proteggere ciò che abbiamo
generato. Ogni padre è anche un guerriero.
È con immenso stupore allora che, quasi a mezza bocca, possia-
mo e dobbiamo pronunciare il nome del padre, e pronunciando
quel nome mentre siamo sopraffatti dalla lode scopriamo chi sia-
mo davvero, quale è il nostro valore infinito. Non perché valiamo
qualcosa, ma perché siamo costati il sangue di Dio!
Questo stupore genera in noi un dovere, da questo amore nasce
una responsabilità, quella di assomigliare a questo padre. Creati
a sua immagine, avevamo però perso la somiglianza con lui per
causa del peccato e questa somiglianza ci è stata restituita nel
mistero della nostra redenzione. Tocca ora a noi renderla effettiva
nel nostro comportamento, nelle nostre scelte, nella nostra vita. Il
figlio compie sé stesso nel diventare a sua volta padre.
E così noi, che siamo niente, siamo stati uniti a Cristo e siamo
diventati, per usare la formula tradizionale, «figli nel Figlio». È
proprio a partire da questa esperienza formidabile, quella di essere
stati salvati e resi figli in Cristo, che possiamo retrospettivamente
comprendere quello che era vero fin dal principio, cioè che il Padre
ci chiama all’esistenza e ci dona la vita.
D’altra parte senza la Redenzione non siamo neppure capaci di
vedere tutta la meraviglia della Creazione e finiamo con il pensare

29
che la vita valga la pena di essere vissuta a seconda delle circostan-
ze, che la rendono più o meno bella, e magari se queste circostanze
vengono meno siamo delusi, pensiamo che la vita sia stata ingiusta
con noi, fino ad arrabbiarci con Dio stesso e a voler respingere il
suo dono, fino a desiderare e invocare la morte.
Ogni giorno in ospedale ascoltavo la fatica e la sofferenza di
uomini e donne che mi chiedevano: «Che senso ha vivere ancora
se sono diventato inutile ai miei cari e al mondo?». Giustamente
nella notte di Pasqua cantiamo: «Nessun vantaggio per noi essere
nati, se lui non ci avesse redenti», appunto perché è solo a partire
dalla salvezza che possiamo conoscere il Padre e quindi ricevere
la vita come dono, rileggere la nostra storia e capire che essa, tutta
intera dal principio alla fine, è dono.
Sì, la vita è un dono. Bisogna ripeterlo continuamente, perché
tutto intorno a noi stravince la cultura della morte, o dello scarto
come la chiama il Papa, perché come profetizzato nel libro dell’A-
pocalisse gli uomini del nostro tempo sembrano desiderare la
morte e flirtare con essa (cf Ap 9,6). La vita è un dono e se non
respingiamo il nostro Padre dal cielo sperimenteremo come tutto
costantemente ci viene elargito dalle sue mani, perché questo si-
gnifica essere figli: riceversi in dono.
Lo stupore e la gratitudine per il dono della vita diventano
quindi l’atmosfera esistenziale in cui ci muoviamo e il ricordo del
Padre risveglia continuamente in noi questa meraviglia. Per questo
tutto va fatto nel suo nome, in quel nome dovremmo respirare,
muoverci, vivere ed esistere e mai dovremmo rivolgerci a Dio se
non partendo dalla certezza di essere figli, come del resto ha fatto
Gesù, che mai si rivolgeva a lui chiamandolo Dio o Signore, ma
sempre e costantemente con il nome di Padre10. È evidente infatti

10
C’è una vistosa eccezione a dir la verità: quel «Dio mio, Dio mio perché mi hai
abbandonato?» gridato dalla croce. Ma questa eccezione, lungi dal contraddire ciò
che stiamo dicendo, lo conferma; quello infatti è il momento in cui Dio spinge il
suo amore verso l’uomo fino al punto inaudito e impensabile di sperimentare in
sé stesso la conseguenza del peccato, cioè la dimenticanza del Padre. È per fedeltà

30
che è totalmente diverso ripensare i propri peccati o chiedere un
aiuto per i nostri bisogni sapendo che ci si sta rivolgendo a un Pa-
dre buono, così come è del tutto diverso contemplare un astratto
principio cosmico o stare davanti a un Tu immenso che si è fatto
Creatore unicamente per amore.

Rinnovare lo stupore
Questo principio rende la preghiera cristiana diversa da ogni
altra, tanto che solo per analogia si possono trovare dei contatti.
La meditazione buddista ad esempio è sostanzialmente diversa da
quella cristiana e, se pure ci possono essere delle similitudini, sono
molte di più le differenze che le somiglianze. In quanto atto umano
la preghiera cristiana somiglia a quella di qualsiasi altra religione,
ma in quanto si rivolge al Padre ha regole sue proprie ed esclusive,
che sono tali perché non derivano dalla natura umana ma appunto
da quella rivelazione che in sé non può essere dedotta dalla ragione.
Cosa fare dunque per mettersi davanti al Padre? Come rinnovare
la nostra consapevolezza di essere figli?
Lo abbiamo detto: a causa del peccato originale, solo dopo aver
fatto l’esperienza della redenzione nell’incontro con Cristo, solo
dopo essere stati accolti nella familia Dei, possiamo credere dav-
vero che Dio è padre. Per questo nessuno può chiamarlo Padre se
non per un dono dello Spirito Santo (cf Gal 4,6). Ma tutti noi, in
quanto cristiani, abbiamo già ricevuto questo dono nel Battesimo
e nella Cresima, rinnovandolo poi molte volte attraverso tutte le
effusioni di Grazia che abbiamo sperimentato nella nostra vita.
Per cominciare a pregare bisogna quindi per prima cosa risve-

alla sua missione di Figlio che per un attimo Gesù sembra dimenticare che Dio è
Padre: «Insieme con questo orribile peso, misurando “l’intero” male di voltare le
spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell’u-
nione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa
sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio» (Giovanni
Paolo II, Salvifici doloris, n. 18).

31
gliare lo Spirito Santo in noi. La tradizione cristiana ci insegna un
gesto semplice, quello di segnarsi con l’acqua benedetta all’ingres-
so in chiesa, che, a dispetto della sua ferialità, ha un senso profondo
perché significa ricordare il Battesimo che abbiamo ricevuto, che
ci ha strappato al nulla rendendoci figli. Sì, bisognerebbe sempre
iniziare a pregare con una invocazione allo Spirito, anche brevis-
sima, perché risvegli in noi la memoria del dono ricevuto. Ci si
può aiutare con la Parola di Dio: si può ad esempio richiamare
alla mente uno dei numerosi passi che parlano dell’amore paterno
di Dio, come Os 11 o Is 49,15-16 o Lc 15,11-32 o tanti altri. Ma è
soprattutto la memoria di quella Parola non scritta che è l’azione
di Dio nella nostra vita, dei tanti momenti in cui abbiamo speri-
mentato la sua carezza paterna, in cui abbiamo sentito effondersi
in noi lo Spirito del Figlio, a metterci nella giusta sintonia.
Insomma, la preghiera inizia dalla memoria del dono ricevuto.
Avviare il dialogo con Dio Padre significa innanzitutto ricordare
da quale abisso di morte siamo stati liberati e quale gioia ci è stata
riservata, significa ricordare il dono dello Spirito Santo che ci ha
trasformato la vita e ci ha reso felici.
Pregare è fare l’esperienza di essere un nulla e tuttavia un nulla
amato e perciò felice.

32
II

Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς


Padre nostro, quello nei cieli

Il Padre è nei cieli


Fare memoria del Padre significa anche ricordare che egli è nei
cieli. È un paradosso flagrante. La prima frase del Padre Nostro
contiene un ossimoro vertiginoso: come può Dio essere contempo-
raneamente «Padre» e «nei cieli»? Come può il Dio tre volte santo
essere anche più intimo a me di me stesso?
Ma d’altra parte non è proprio questo il compito di ogni pa-
dre? Quello cioè di coniugare distanza e prossimità? Lo abbiamo
già detto: il padre non è la madre11. La madre deve essere sempre
vicina, disponibile in ogni momento per qualsiasi bisogno, fino a
rischiare di confondersi con il figlio, fino a rischiare di assimilarlo
a sé, tanto che il figlio si invischi in quel seno dolcissimo e non
possa più allontanarsene. Il padre no. Il padre afferma contempo-
raneamente vicinanza e distanza, il suo compito è rendere il figlio
indipendente e libero, è insegnargli a stare in piedi da solo, e per
far questo a volte deve nascondersi e ritirare la mano. Deve essere
distante, come se attendesse il figlio in cima a una montagna, così
che questi debba faticare per raggiungerlo, ma al tempo stesso
deve essere vicino, così che il figlio non si scoraggi nel compiere
l’impresa. Il padre deve amare la verità e il bene più dei suoi stessi
figli, se vuole che anch’essi amino il bene e la verità.
11
Va da sé che i concetti di padre e madre sono qui usati in senso analogico, come
archetipi. È chiaro che nella concreta vita di ciascuno i ruoli sono tutt’altro che
fissi e determinati.

33
Se la madre è la terra, il padre è il cielo; se la madre è l’inizio,
il padre è il fine, il modello da raggiungere, l’esempio da imitare.
Bisogna mantenere questo paradosso, conservando intatta sia
la trascendenza che la vicinanza di Dio, altrimenti si banalizza il
nome del Padre fino a farne un pupazzo, un bonaccione che può
essere tirato in ogni direzione, come ho visto purtroppo troppe
volte accadere nella nostra pastorale giovanile, che spesso insiste
così tanto sull’amicizia con Dio da far dimenticare la sua santità.
C’è un solo modo per farlo, ed è comprendere che cielo e terra
non sono due luoghi contrapposti, anzi la terra è piena di cielo,
è segnata in ogni suo angolo dal cielo che ha posto in essa mille
tracce, mille feritoie, mille botole da cui elevarci verso il mistero.
Il bambino trova il suo equilibrio quando impara ad amare il fatto
che la madre e il padre (la sua terra e il suo cielo) siano sposati, cioè
non siano realmente separabili. Allo stesso modo nella vita spiri-
tuale si raggiunge un equilibrio solo quando cielo e terra sono in
pace dentro di noi, quando viene abbattuto il muro di separazione
che era frammezzo.

Tutto ha senso
Tutto viene dal cielo: dunque c’è un primato dello spirituale sul
materiale. Uno dei pregiudizi più duri a morire è che la materia sia
prima dello spirito, e dunque questo derivi da quella. Credo che
sia una conseguenza del darwinismo applicato maldestramente
alla spiritualità e dipende sicuramente dal fatto che confondiamo
lo spirito con le facoltà intellettuali, così che, via via che la scienza
scopre le basi fisiologiche del pensare e del sentire, lo spazio per lo
spirito sembra ritrarsi sempre più.
A causa di questo pregiudizio siamo d’istinto portati a consi-
derare la carne più reale dello spirito, a pensare che sia il corpo a
determinare l’anima, che sia la materia a dare forma alla realtà,
tendiamo così a confondere l’amore con il sesso, la pace con il
benessere, eccetera.

34
È vero il contrario, il racconto della Genesi e il prologo del Van-
gelo di Giovanni sono concordi: all’inizio c’è la parola e tutto da
quella parola proviene. Prima della materia c’è la parola e dunque
lo spirito.
All’inizio non c’è il gioco misterioso di forze imperscrutabili
che si agitano in un caos primordiale, e men che meno c’è il caso.
All’inizio invece c’è una parola, cioè un messaggio con un senso.
Se non avesse senso, la parola sarebbe semplicemente un suono,
se non fosse un messaggio, sarebbe solo un pensiero chiuso in sé
stesso. Se dunque tutto ciò che esiste è parola, allora tutto ha un
senso e tutto è un messaggio.
Tutto ha senso, vorrei ripeterlo mille volte, tutto ha senso.
Tutto ha senso e il senso di tutto è nell’amore. È nell’amore che
ogni istinto e ogni desiderio della carne trovano la loro giustifi-
cazione e il loro compimento, è nell’amare ed essere amato che si
sazia ogni fame e ogni sete dell’uomo, è nella bellezza dell’incontro
e delle relazioni che ogni bellezza si esalta, è nella verità metafisica
che siamo fatti per la comunione che ogni mistero umano trova la
sua ultima spiegazione.
Non è detto che io debba necessariamente conoscerlo o capirlo,
ma, come il bibliotecario di Babele, trovo consolante di per sé sa-
pere che questo senso esiste, anche se fosse oltre e al di là di me12.
E non solo: fin qui ci posso arrivare anche con la sola ragione, ma
se credo alla Rivelazione che mi dice che il Creatore è Padre allora
so che quel senso per me misterioso e incomprensibile mi è stato
rivelato e posso conoscerlo, scopro che quell’amore che è il senso di
ogni cosa è una persona che posso incontrare, e ha un nome: Gesù.

12
«Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell’universo esista un
libro totale; prego gli dèi ignoti che un uomo – uno solo, e sia pure da migliaia
d’anni! – l’abbia trovato e l’abbia letto. Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono
per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all’inferno.
Ch’io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua
enorme Biblioteca si giustifichi» (J.L. Borges, La biblioteca di Babele, Einaudi,
Torino 1955, p. 37).

35
Quante volte abbiamo pensato che la vita non avesse senso?
Ecco: affermare che Dio è il Padre che sta in cielo significa dire
che non è così: nell’incontro con Cristo, quando vieni incorpora-
to in lui e nel suo popolo, la Chiesa, tutto diventa comprensibile
e acquista senso. La tua vita ha senso, perfino nelle sue svolte più
dolorose e incomprensibili; forse oggi non vedi questo senso, però
puoi già affermare che esiste come un atto di fede, come uno che
ha creduto a una promessa.

Tutto è messaggio
Ma non basta dire che la parola esprime un senso. La parola è
anche e soprattutto un messaggio, perché è sempre parola-detta-
a-qualcuno, quindi crea un contatto, avvia una relazione. Se tutto
è parola, allora tutto è messaggio e puoi scoprire le tracce di Dio
dovunque intorno a te, puoi davvero «buscar Dios in todas cosas» –
cercare Dio in tutte le cose – come diceva sant’Ignazio, e non solo,
puoi scorgere in ogni cosa il suo inesauribile desiderio di entrare
in relazione con te.
La tua stessa vita è un messaggio. Tu sei un messaggio destinato
a te stesso e al mondo, messaggio di vita e di amore, messaggio che
vuole stabilire una relazione, aprire un canale, creare un contatto
con Dio. Un messaggio semplice ed essenziale: è bello che tu ci sia.
Sì: Dio ti chiama, ti cerca, ti vuole parlare e tu puoi rivolgerti a lui
come padre perché lui per primo ha preso l’iniziativa di chiamarti
figlio. Puoi cercarlo perché lui stesso ti ha cercato, voluto e amato.

Tu sei futuro
È vero, noi nasciamo dalla terra, ma al tempo stesso siamo
destinati al cielo. Gli anni che viviamo in questo mondo sono la
preistoria del nostro futuro, il grembo da cui siamo partoriti per
poi crescere ed essere svezzati.

36
Sì, tu non sei solo il tuo passato, tu sei innanzitutto e soprattutto
il tuo futuro. Importa poco sapere chi sei stato, perché Dio fa nuove
tutte le cose ed è capace di suscitare figli di Abramo anche dalle
pietre (cf Mt 3,9).
Così la voce formidabile del Padre, che dai cieli ci chiama e ci
attira a sé, ci porta la certezza che questo futuro già da ora ci ri-
empie, attirandoci ed elevandoci, così che l’attrazione per il cielo,
e in ultima analisi la nostra vocazione, è nella nostra origine tanto
quanto la terra da cui siamo stati plasmati e sicuramente dice di noi
molto di più delle nostre ferite, delle nostre fragilità o debolezze.
Anzi, l’esperienza continuamente ripetuta del meraviglioso per-
dono del Padre e della sua forza di trasformazione e guarigione ci
dimostra che, per quanto il nostro inizio sia misero, per quanto
nasciamo dal sangue e dalla violenza, per quanto siamo segnati
dal male commesso o ricevuto, per quante ferite possiamo aver
ricevuto nella nostra infanzia, che forse hanno lasciato vaste cica-
trici nella psiche, la forza del nostro futuro è tale da rinnovarci, da
rendere sempre possibile una redenzione.
Avere un Padre nei cieli significa credere che è preparato per
noi un futuro buono, a dispetto del disastro umano in cui ci di-
battiamo. Significa sapere che la nostra vita non nasce dal gioco
del caso e della necessità, ma è il frutto di un amore, significa che
per quanto grande possa essere la tua colpa, la forza del perdono
rimette la vita in moto e ti dona una nuova speranza, una nuova
pagina su cui scrivere. Tu non sei nato per caso, tu sei nato per
amore.
Ecco un’altra petizione di principio da mettere all’inizio della
preghiera, che discende direttamente da quella di Dio Padre: è be-
ne che tu esista, la tua vita è un bene. Non perché lo hai meritato,
non perché tu abbia avuto chissà quale bravura, ma perché per una
straordinaria fortuna un padre dal cielo ti ha chiamato alla vita.

37
Il Padre è nostro
Questo padre nel cielo è anche il Padre «nostro», cioè il padre di
tutti noi. Ed è importante sottolineare questo «noi».
Gesù è molto preciso nel distinguere: quando definisce Dio
«padre mio e padre vostro, mio Dio e Dio vostro» (Gv 20,17), lo
fa perché propriamente solo lui può chiamarlo «padre mio». Noi,
tutti noi, siamo figli di Dio solo in quanto siamo nella Chiesa, che
non per nulla è detta familia Dei, famiglia di Dio. Nessuno se non
Gesù è figlio di Dio in sé stesso, noi invece, per usare l’espressione
di san Paolo, siamo stati adottati, in quanto membra del suo corpo
(cf Gal 4,4). Un po’ come quando una donna chiama papà anche
il suocero, così anche noi, la sposa di Cristo, abbiamo ricevuto il
diritto di chiamare Dio nostro padre.
Così quando chiamo Dio «Padre nostro» la prima cosa che
intendo dire è che egli è il Padre di Gesù e mio: il primo «noi»
espresso da quel «nostro» siamo io e Gesù, e io posso chiamarlo
Padre solo perché il Figlio si è fatto «noi» con me. E poi quel noi
si allarga, si dilata, perché nel cuore di Gesù trovo tanti altri che
posso chiamare con gioia fratelli perché sono uniti a lui quanto
e più di me. Nessuno va a Dio da solo: se possiamo presentarci
a lui è sempre e solo in quanto parte di una comunità di amore.
Comunità che è certamente la Chiesa, ma che nella concretezza
della vita assume la forma della nostra famiglia, religiosa o natu-
rale che sia13.

13
«Solo nel noi dei discepoli possiamo dire “Padre” a Dio, perché solo mediante
la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente figli di Dio. Così questa
parola “nostro” è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso
del nostro io. Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede
di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere
l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore» (Benedetto
XVI, Gesù di Nazareth, cit., p. 171).

38
Pregare è appartenere

Questa appartenenza deve entrare ovviamente anche nella pre-


ghiera. Quando preghi non sei mai da solo, sei sempre inserito in
un popolo che ti appartiene e a cui tu appartieni. E forse anche
per questo si è tanto attenuata in noi la certezza di avere in Dio
un padre, perché mai come in questi tempi si è attenuata la consa-
pevolezza dell’appartenenza ecclesiale, perché l’epoca che stiamo
vivendo è probabilmente la più individualista della storia umana.
Forse è perché non siamo più capaci di dire «nostro» che non
riusciamo più nemmeno a chiamare Dio «padre»?
Spesso siamo stati educati a concepire la preghiera come un
esercizio privato, quasi come se fosse una scalata solitaria, e quindi
a trattare il ricordo delle persone amate come se fosse una distra-
zione. Ma come potrebbe una madre pregare dimenticando i suoi
figli? Ci hanno insegnato che l’uomo è tanto più spirituale quanto
meno ha legami affettivi, ma il nostro Dio non è un Dio di amore?
E il suo amore – tutta la Bibbia sta lì a testimoniarlo – non è un
amore caloroso, empatico e affettuoso? E allora come potrebbe
avvicinarsi a lui chi si separa dagli affetti?
Tua moglie, tuo marito, i tuoi figli, le tue consorelle o confra-
telli, perfino i tuoi amici e i tuoi colleghi vivono dentro di te e
quindi inevitabilmente li porti con te nella preghiera, così come
loro porteranno te. Non c’è via aperta verso il Padre che prescinda
dall’essere un «noi».
C’è nel Vangelo un episodio che mostra in maniera impressio-
nante questo legame: raccontando l’episodio della tempesta sedata
(Mc 6,45-52), Marco inserisce un verbo fondamentale: «vedendoli».
Riassumiamo la situazione: Gesù dopo aver moltiplicato i pani
si ritira in intimità con il Padre e ordina ai discepoli di precederlo
sull’altra riva, poi durante la notte li «vede» affaticati nella tempe-
sta e quindi li raggiunge in mezzo al mare… Quanto è consolante
questo pensiero! Nella preghiera più intima Gesù non si è separato
dai discepoli, ma continua a «vederli», a essere presente a loro.

39
Anzi vado ancora oltre: di cosa parleranno mai il Padre e il Figlio
se non di noi? Non siamo noi l’oggetto costante del dialogo intimo
all’interno della Trinità?
Anche il Vangelo di Luca apre una finestra sul dialogo intimo
tra il Figlio e il Padre, mostrandoci un momento in cui Gesù esulta
di gioia e, rivolgendosi al Padre, lo loda perché ha rivelato la buona
notizia ai piccoli, mostrandoci così che appunto è sempre di noi
che lui e il Padre parlano (cf Lc 10,21).
E nello stesso modo: di cosa vorrai parlare tu con Dio se non
delle persone che ami? Sia per lodarlo di averle incontrate e ricevute
in dono, sia per presentare a Dio i loro bisogni e le loro necessità,
sia per chiedere perdono di averle ferite o per essere tu a perdonare
se necessario…
No, il ricordo delle persone amate non è di per sé una distra-
zione nella preghiera, l’importante è portare quel ricordo dentro
il dialogo con il Padre. Se ti viene in mente qualcuno mentre pre-
ghi, invece di distrarti, parla al Padre di lui o lascia che il Padre te
ne parli. Al contrario la pretesa di tenere le persone che amiamo
fuori dalla nostra preghiera ha l’effetto di renderla irreale e incon-
sistente. Se pure ci riuscissimo, avremmo forse l’illusione di essere
divenuti più spirituali (riempiendo così il nostro ego di orgoglio),
ma nella realtà saremmo diventati evanescenti come fantasmi. No,
come la buona letteratura la preghiera dovrebbe sempre partire
dalla vita e tornare alla vita, il che significa partire dalle persone
amate e ritornare a loro.

Siamo tutti fratelli


In quanto Padre, Dio è anche il fondamento della relazione
umana. È questo il senso più comune nelle interpretazioni di quel
«nostro» detto del Padre, ed è quasi autoevidente: se Dio è nostro
Padre, noi siamo tutti fratelli.
Capita spesso di sentir dire che il monoteismo sia all’origine
della violenza religiosa, mentre per sua natura il politeismo sarebbe

40
più inclusivo, più tollerante… Certo, se guardiamo agli inizi della
storia di Israele, alle guerre di conquista e sterminio portate avanti
per lunghi secoli, così come se guardiamo al presente del fonda-
mentalismo islamico o anche, purtroppo, a un passato non troppo
lontano in cui la nostra Chiesa ha sostenuto l’evangelizzazione con
la spada, la tesi sembra avere un fondamento ragionevole14.
Questa tesi però non tiene conto dell’elemento centrale del Cri-
stianesimo, che è appunto il Padre. Quando il Cristianesimo ha as-
sunto un carattere violento è perché ha degenerato, dimenticando
la rivelazione di Dio come Padre, perché altrimenti non potrebbe
non riconoscere che gli uomini sono tutti fratelli, o quantomeno
possono diventarlo, e dunque siamo tutti legati fra di noi.
Certo, non tutti gli uomini sono figli di Dio nel senso forte in cui
noi cristiani intendiamo questa espressione, che implica che solo i
battezzati possono dirsi in senso proprio figli di Dio. E tuttavia il
Padre desidera che tutti gli uomini siano salvi e quindi egli desi-
dera che tutti i figli di Adamo diventino anche figli suoi. Non c’è
uomo che non sia «filiabile», quale che sia la sua statura morale o la
sua condizione, e quindi noi, e a maggior ragione perché abbiamo
ricevuto l’essere figli come un dono del tutto immeritato, verso
tutti i figli di Adamo dobbiamo avvertire una solidarietà naturale,
una comunione di destino che ci affratella.
Nessuno può dire che Dio è «Padre nostro» senza sentire nel
cuore un moto spontaneo di benevolenza verso gli altri, senza
sentirsi, per usare la bella espressione di Charles de Foucauld,
fratello universale. Questo è il solo ecumenismo possibile: il rico-
noscimento che Dio è un Padre comune verso il quale tutti siamo
incamminati15.

14
Una buona presentazione dello status quaestionis si trova nel documento della
Commissione teologica internazionale: Dio Trinità, unità degli uomini (2014).
15
Molte volte papa Francesco ha espresso questo concetto, ad esempio nella visita
alla parrocchia di San Paolo della Croce a Corviale (Roma) il 15 aprile 2018.

41
Parte seconda
LE GRANDI RICHIESTE
Dopo aver aver riconosciuto Dio come Padre, la «preghiera del
Signore» si articola in sette richieste che per così dire esprimono il
mistero del dialogo tra il Figlio e il Padre e lo illuminano da diverse
prospettive illustrandolo con esempi concreti.
Detto in altri termini, sono persuaso che insegnando ai disce-
poli il Padre Nostro Gesù li abbia portati al centro della sua stessa
preghiera, mostrando – per quanto possibile con parole umane – la
sua propria relazione con il Padre e dandoci così un modello con-
creto da seguire nella nostra. Le sette petizioni del Padre Nostro
sono dunque l’articolazione del dialogo intimo all’interno della
Trinità, non le sole possibili ovviamente, ma, se Gesù stesso le
ha poste, diventano per noi paradigmatiche e tracciano una pista
entro la quale mantenersi se vogliamo imparare a pregare. Sono i
pilastri di una spiritualità che voglia dirsi filiale, i segnavia che ci
dicono se e quanto siamo davvero figli di Dio.
Tra queste richieste le prime tre hanno evidentemente un posto
privilegiato e devono anche logicamente venire prima. Si nota un
chiaro stacco tematico: mentre infatti nelle successive richieste
siamo invitati a pregare per noi stessi e i nostri bisogni, nelle prime
tre al centro dell’attenzione c’è Dio e il suo disegno di amore. La
struttura del Padre Nostro così corrisponde a quella che dovrebbe
essere la struttura della preghiera: Dio viene prima, la lode pre-
cede l’invocazione, l’amore è il fondamento della morale. Cercate
prima il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in abbondanza
(cf Mt 6,33).

45
Grammaticalmente è degno di nota il fatto che queste tre peti-
zioni sono espresse nella forma del passivo divino («sia santifica-
to», «venga», «sia fatta»), cioè seguendo una forma grammaticale
tipicamente semitica con cui si indica discretamente che è Dio il
soggetto dell’azione: è Dio che santifica il suo nome, è Dio che fa
venire il suo regno, è Dio che compie la sua volontà.
Per di più l’inciso «come in cielo così in terra» probabilmente
è da riferire a tutte e tre le richieste, che dunque andrebbero lette
così: «Glorifica il tuo nome, come in cielo così in terra; proclama
il tuo regno, come in cielo così in terra; compi la tua volontà, co-
me in cielo così in terra»16. Leggendo così il testo, risulta chiara
la circolarità delle prime tre petizioni, che sono quasi un’unica
richiesta ripetuta tre volte con parole diverse: è evidente infatti che
Dio glorifica il suo nome appunto compiendo la sua volontà che
poi altro non è che l’affermazione del suo regno.
In questo modo la frase «come in cielo così in terra» segna co-
me una cesura tra le due parti della preghiera mostrando ancora
meglio la distinzione tra la prima e la seconda serie di richieste:
più ecclesiali ed escatologiche queste iniziali, in cui l’azione di
Dio è invocata attraverso la forma del passivo divino e che in-
tendono portare il cielo in terra; più personali e immediate le
ultime, in cui la provvidenza e la paternità di Dio sono invocate
in forma diretta («dacci il pane», «rimetti i debiti», «non metterci
alla prova», «liberaci») che hanno piuttosto il compito di elevare
la terra al cielo.
È assolutamente necessario conservare sempre nella mente que-
sto primato dell’azione di Dio, per evitare il rischio di cadere in una
lettura volontaristica del Padre Nostro, quasi come se esso sotto la
forma mascherata di una preghiera fosse in realtà una esortazione
rivolta a noi perché ci sforziamo di santificare il nome di Dio, far
venire il suo regno e compiere la sua volontà.

16
Così, ad esempio, le interpreta Origene, De Oratione XXVII,2, in Dio nostro
padre, cit., p. 53.

46
Anche quando parliamo del nostro dovere di santificare il no-
me di Dio o di affermare il suo regno o perfino di compiere la sua
volontà deve restare chiaro che ciò che stiamo chiedendo al Padre
è che sia lui stesso a santificare in noi il suo nome, a far venire su
di noi il suo regno, a compiere attraverso di noi la sua volontà. Il
Figlio non fa nulla da sé stesso (cf Gv 5,19), ma compie l’opera del
Padre. L’essere figli propriamente si esprime in questo movimento
continuo di riceversi e restituirsi, dove è evidente che ogni azione
non è che la restituzione di ciò che innanzitutto abbiamo ricevuto.

47
III

ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου


sia santificato il tuo nome

Dio ha un nome
L’evento più decisivo della storia religiosa del mondo è la rive-
lazione del nome di Dio a Mosè. È un evento formidabile, perché
porta con sé un’intuizione per nulla ovvia: Dio ha un nome. Il che
significa senza ombra di dubbio che Dio è persona, è un tu, uno a
cui ci si può rivolgere direttamente, con cui entrare in relazione.
Non è così anche tra noi uomini? Dire il nostro nome all’interlo-
cutore è il primo modo di creare una relazione, è già stabilire un
noi, entrare in un’intimità.
Non è per nulla scontato che Dio abbia un nome. Significa che
non è un ente supremo, né una energia impersonale, né una sorta
di Comitato Centrale o di Spectre che segretamente presiede ai
destini degli uomini.
Lasciamoci commuovere pieni di stupore da questa rivelazione:
Dio ha un nome e io questo nome posso conoscerlo e nominarlo.
Dio, per me, si è fatto tu. Anzi, è il primo tu della mia vita, il primo
incontro che fonda la mia persona e il mio essere, l’incontro da cui
ogni altro incontro dipende.
Il nome evoca la presenza. Come un uomo innamorato che
ripete continuamente, o lascia scorrere nella mente, il nome della
donna amata e sente in esso quasi la dolcezza del suo esserci. Come
la preghiera del Nome di Gesù, ben nota alla tradizione ortodossa
e resa celebre in Occidente dai Racconti del pellegrino russo. Cono-
scere il nome di Dio è potersi mettere davanti a lui, avere un accesso

48
privilegiato all’abisso della sua potenza creatrice, stargli davanti
non certo alla pari, ma comunque in una reciprocità d’amore.
A questa emozionante rivelazione Gesù aggiunge un elemento
essenziale: il nome di Dio è Padre, nome che non contraddice
quello che Dio si era già dato nel roveto ardente, ma lo completa
e lo integra. Anzi, a ben guardare il nuovo nome di Dio era già
implicito nell’antica rivelazione, visto che anche in quella Dio
non si lasciava pensare senza il suo popolo. Egli stesso, infatti,
dopo aver rivelato il suo nome aggiunge: «Dirai agli Israeliti: Il
Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco,
il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per
sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in
generazione» (Es 3,15). Egli dunque non vuole più essere nominato
senza comprendere nel suo nome anche il nome di Israele. L’amore
che lo unisce al suo popolo è diventato l’elemento essenziale della
autodefinizione di Dio.

Pregare dentro un noi


Si potrebbe continuare, e aggiungere ad Abramo, Isacco e Gia-
cobbe anche i nomi di Pietro e di Paolo, di Agostino e di Basilio,
degli apostoli e di coloro che sono giustamente chiamati Padri
della Chiesa; e poi andando avanti nel tempo Bernardo, Francesco,
Teresa, e Giovanni Paolo II, e don Giussani, e Chiara Lubich…
E non solo, per quanto riguarda me, nella mia preghiera, Egli
sarà anche il Dio di mia madre, il Dio di don Mario Torregrossa,
di padre Real Tremblay… di tutti quelli da cui nella mia storia ho
attinto vita e grazia e di cui in un certo senso sono figlio.
Dio definisce sé stesso nel rifiuto di essere separato dall’uomo, e
quindi si pone all’origine della catena di amore che è la mia storia.
Egli è il padre dei miei padri, e anche per questo mi è Padre.
Dunque fin dall’inizio della Rivelazione nel suo nome è im-
plicito il nome di Padre, ed è anche per questo che egli non può
che essere il Padre «nostro»: perché non posso unirmi a lui sen-

49
za risalire la catena di tutti quelli che mi hanno preceduto, che
hanno permesso che attraverso il loro amore anche io potessi
esistere e unirmi al Padre. Ecco perché non posso andare a lui
senza inserirmi nella traccia che i miei padri hanno lasciato e
che a buon diritto chiamiamo «tradizione» ovvero «ciò che ci è
stato consegnato».
La fede implica il franco e semplice riconoscimento che essa non
inizia né termina con noi. Si prega stando dentro un noi, sapendo
di essere parte di una storia vivente. Per questo chi rompe con la
tradizione spesso finisce con il non pregare affatto, o al più con il
pregare il «dio naturale» descritto prima. Forse si illude di avere
un’autentica spiritualità, ma in realtà ha dimenticato il Padre e si
sta rivolgendo a un idolo.
Bisogna purtroppo sottolineare che molti usano la tradizione
in modo opposto, come se anziché una catena viva di amore fosse
una biblioteca piena di tomi venerabili o un museo archeologico.
In questo modo il culto della tradizione diventa intellettuale e ci
gonfia di orgoglio spirituale, e la fede si trasforma nella conoscenza
enciclopedica del Catechismo e non più nell’esercizio della Carità.
Chi davvero è fedele alla tradizione invece non ha alcun desiderio
di conservarla immutata, anzi non ha affatto paura di vederla
crescere, perché sa che essa è un organismo vivente e quindi deve
crescere e svilupparsi, oppure si ammala e muore.
Intendiamoci: questo sviluppo della tradizione non può avvenire
per rivoluzione, ma semmai in maniera organica, come ad esempio
nella crescita di un albero, che nel passaggio da seme a pianta si
trasforma molte volte e pur tuttavia rimane sé stesso, e così non
ogni cambiamento è buono, ma solo quelli che si mantengono
dentro la traccia della fedeltà all’intenzione di Gesù. Ma l’inten-
zione di Gesù non era certo di fondare una nuova religione, con il
suo armamentario di leggi e decreti, ma piuttosto quella di farci
conoscere Dio nel suo nome di Padre, ed è a questa intenzione che
bisogna essere fedeli: la tradizione è ben compresa e interpretata
quando mostra il volto misericordioso del Padre, perché solo allora

50
è fedele all’intenzione del suo fondatore, mentre si allontana dal
suo scopo e tradisce sé stessa se si riduce a essere un catalogo di
dogmi e codici.

Come bambini
Il primo beneficio del restare nella tradizione è che dentro il suo
solco impariamo l’umiltà, impariamo cioè a essere semplici, ap-
punto come i bambini. Nessuno può pregare senza essere umile, e
la consapevolezza di essere solo dei nani sulle spalle dei giganti, per
usare un’espressione di Bernardo di Chartres divenuta proverbiale,
è un aiuto formidabile a mantenere appunto questa piccolezza. La
fedeltà alla Ttadizione ci insegna a essere figli.
Il culto dei santi ha proprio questo significato: conoscendoli e
amandoli nella loro umanità imparo ad avere verso Dio la stessa
libertà e confidenza che loro hanno avuto. Se Bernardo e Francesco
e Teresa hanno dato del tu a Dio, allora posso farlo anch’io!
Sono sempre colpito dalla facilità con cui i bambini afferrano
la natura personale di Dio. Per loro è chiarissimo, senza alcuna
ombra di dubbio, che Dio è un tu a cui rivolgersi con confidenza e
affetto. Anche le tradizioni popolari spesso, nella loro semplicità
a volte quasi infantile, superano di slancio il problema. Siamo noi,
troppo intelligenti, troppo distaccati, che non riusciamo più a ri-
volgerci al Padre con quella semplicità e quella naturalezza.
Ricordo un giorno in cui stavo parlando della Riconciliazione
a un gruppo di bambini del catechismo e uno di loro mi ha fatto
una domanda: «Ma scusa don Fabio, non ho capito bene: viene
proprio Gesù a perdonarci?» e un’altra, la classica «secchiona» del
gruppo, indicando me: «Ma no, scemo! Ha mandato lui per far-
lo!». Non ho mai sentito più vivo e vitale nella mia stessa carne il
concetto di «agire in persona Christi», che è alla base della teologia
del sacerdozio, ma al tempo stesso ho compreso come il mondo
di riferimento dei bambini è più vasto del mio, ha colori più vivi,
simboli più efficaci perché ogni parola acquista un senso diverso.

51
Sono certo che anche questo rientra in quel compito di ritor-
nare bambini che il Signore ci ha dato, ritornare cioè ad avere un
linguaggio e un pensiero simbolici, capaci di cogliere tutti i colori
del reale, di respirare tutti i profumi nell’aria, di sentire tutte le
voci del mondo e soprattutto di capire che tutto è connesso con
tutto, perché tutto è simbolo, è messaggio, è parola, e rimanda a
un Padre buono.

Pregare è lodare
Abbiamo evidenziato lo stupore connesso alla scoperta del nome
di Dio, che è Padre. La prima petizione del Padre Nostro però ag-
giunge qualcosa: la richiesta cioè che questo nome sia santificato.
Cosa vuol dire? Come Dio santifica il suo nome? L’espressione
«santificare il nome (di Dio)» è un semitismo, che non va inteso nel
senso di aggiungere qualcosa alla santità di Dio, cosa ovviamente
impossibile, quanto nel senso di riconoscere che Dio è santo e
quindi glorificarlo.
Mi sembra che questo si possa fare fondamentalmente in due
modi: uno liturgico/cultuale, l’altro morale. Nel primo caso la
santità di Dio è intesa come la sua gloria e quindi santificarlo
equivale a lodarlo. Nel secondo caso invece per santità di Dio si
intende la sua indefettibile bontà e dunque santificarlo significa
essere fermamente radicati nel bene.
Dio santifica, e dunque glorifica, il suo nome in noi facendo del
nostro cuore un tempio. Dentro il tempio del cuore egli ci insegna
a santificarlo offrendo il sacrificio della lode: pregare è prima di
tutto proclamare la gloria del Padre. Noi che abbiamo ricevuto il
suo nome in dono, vogliamo lodarlo, magnificarlo, glorificarlo, in
restituzione del dono ricevuto. La lode infatti è la conseguenza più
logica dello stupore.
Lodare il Padre, santificare il suo nome, è riconoscere la me-
raviglia di esistere, è affermare la maestà della vita e la bellezza
dell’essere. Se il Padre è santo, santa sarà anche la vita e il mondo

52
e tutto ciò che viene dalle sue mani17. Una delle cose più belle che
ho imparato da don Giussani è il grido di gioia che spesso scaturiva
dalle sue labbra: «Come è bello il mondo e come è grande Dio!»18

Gratitudine e gioia
Abbiamo detto che all’inizio della preghiera c’è una petizione
di principio che afferma: «È bene che tu esista». La preghiera è
un’opzione fondamentale per la vita. Il primo movimento dell’a-
nima che prega sarà quindi la gratitudine. Non ama il Padre chi
non è grato per il dono della vita. E la forma della gratitudine è la
gioia: gioia perché la vita è bella in tutte le sue sfumature, anche le
più dure, perché è bello il mondo, perché tutto ciò che esiste e vive
merita attenzione.
Nella storia della spiritualità spesso la gioia è stata guardata con
sospetto, esaltando invece il sacrificio, il rigore, il senso del dovere.
Ma chi oserebbe affermare che il fine della vita cristiana è il sacrifi-
cio? La Croce è importante, non c’è dubbio, e non c’è vita cristiana
senza di essa, eppure il fine della Croce è la Risurrezione: la Pasqua
sta lì a dimostrare che perfino la morte afferma la vita. Allora non
si deve mai pensare la Croce staccata dalla Risurrezione: non c’è
sacrificio che tra le braccia del Padre non ritrovi il suo perché e la

17
«All’uomo è dato accedere a questo nome, sebbene sia anch’esso trascendente.
Questo nome risplende nella bellezza e nell’ordine del mondo e nella luce interiore
dell’anima umana. Questo nome è la santità stessa» (S. Weil, A proposito del Pater,
in Attesa di Dio, edizione digitale AdelphieBook 2014, posizione Kindle 1489).
18
«Mi ricordo uno dei momenti forse più impressionanti della mia fanciullezza:
una mattina stavo accompagnando mia madre, che andava a Messa – come tutte
le mattine – alle cinque e mezza. Era una mattina di primavera, ancora fredda,
ma limpidissima. Tutto il cielo era sereno. C’era una sola stella che brillava in
esso, la stella del mattino, l’ultima a cadere, così piccola ma così splendente che
sembrava illuminare tutto, mentre il sole cominciava a vincere l’oscurità. Quella
stella attirava tutta l’attenzione dei miei occhi e del mio cuore. Mia madre, mentre
io guardavo, mi disse: “Come è bello il mondo e come è grande Dio!”. È stato uno
di quei momenti che contengono la chiave di volta per tutta la vita» (L. Giussani,
Realtà e giovinezza. La sfida, edizione digitale Rizzoli 2018, posizione Kindle 867).

53
sua bellezza. Tutta l’insistenza dei maestri spirituali sull’ascesi,
sul digiuno, sulla rinuncia in ogni forma, è propedeutica, serve a
uscire dal porto, ma in alto mare, nel seno del Padre, c’è il puro
piacere, una gioia senza misura preparata per noi fin dall’inizio
del mondo.
Come la terra e il cielo non sono da vedere come due realtà
contrapposte, così la gioia celeste e quella terrena non si escludo-
no a vicenda. Anzi, non c’è piacere in questo mondo che non sia
allusione, messaggio, segnale del piacere fontale, primario: vivere
nell’amore.
Il disprezzo del mondo, così caro a certi predicatori, non è mai
da intendere nel senso di un disprezzo o di una sottovalutazione
del dono della vita, ma nel senso dell’affermazione di un valore
nascosto, spesso non evidente, presente in ogni cosa. Così disprez-
zare il mondo significa in realtà esaltare quegli aspetti del mondo
meno apparenti, ma che pure testimoniano la bontà del Padre,
significa scoprire, come diceva Chesterton in uno dei suoi geniali
calembour, «il bello del brutto del mondo».
Disprezzare il mondo non significa non apprezzare nulla, ma
invertire la nostra scala di valori, mettendo in cima ciò che appa-
rentemente valore non ha, godendo di ciò che è umile e semplice
perché più di ogni altra cosa è in diretto rapporto con il Padre.
Il Padre non è soltanto colui da cui tutto proviene, ma è anche e
soprattutto colui che garantisce la bontà di tutto, colui che tutto go-
verna, colui-che-tiene-tutto-nelle-mani (è questo il senso letterale
dell’aggettivo pantokrator, che noi di solito traduciamo con onni-
potente) e quindi fa sì che tutto concorra al nostro bene, e infine,
come abbiamo visto, è colui che è degno di fede, che non tradisce,
che, anzi, ci porta attraverso la morte fino alla Risurrezione.
Certo, a volte può apparire molto difficile credere che la nostra
vita sia governata da Dio. A volte, perfino nella Chiesa, ci sentia-
mo vittime di una burocrazia cieca e impersonale, a volte il male
sembra trionfare senza scampo, e sembra proprio aver ragione il
cinico e divertente autore delle leggi di Murphy quando afferma:

54
«Se qualcosa può andare male lo farà»19. Eppure l’esperienza cre-
dente tenacemente resiste e continua a ripetere con il profeta Isaia:
«Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce» (Is 53,11), e ogni volta
che questa esperienza si ripete scopriamo in essa un anticipo di
quel destino di morte e risurrezione che sembra la chiave di lettura
più vera per interpretare il mondo. Sì, tutto dice la Pasqua ed essa
è inscritta in ogni istante della nostra vicenda umana.
La notte di Pasqua è il vero fondamento della fede nel pantokra-
tor. Lo ripetiamo ancora: il Padre è padre innanzitutto perché
risuscita il figlio dalla morte, eppure finché non moriamo non
possiamo fare davvero questa esperienza. Finché non avremo perso
tutto, la casa, gli affetti, il lavoro, non potremo godere della gioia
infinita di vederci restituire un centuplo buono e tanto più bello
perché totalmente gratuito e inatteso.

Una passione grande


Eppure a tanti cristiani sembra così estranea la preghiera di lode!
È facile pensare alla preghiera come richiesta e anche perfino come
ringraziamento, ma fatichiamo ad accettare l’idea di una lode che
preceda la richiesta.
Ancora una volta per iniziare davvero a pregare ci sono delle
distorsioni da correggere: all’inizio della preghiera, come all’inizio
della vita, ci sarà sempre la gioia, che è contenuta nel nome stesso
di Padre. Perfino quando siamo spinti a pregare dal pentimento
per il male commesso è in realtà la gioia del perdono sperato a
motivarci, altrimenti invece di chiedere perdono cadremmo nella
più cupa depressione, come Caino, come Giuda, e fuggiremmo da
Dio, anziché avvicinarci a lui.
Ma come risvegliare questa gioia in noi? Come vincere l’inclina-
zione, sempre più comune, alla tristezza e alla depressione?

19
Cf Arthur Bloch, La legge di Murphy e altri motivi per cui le cose vanno a rove-
scio!, Longanesi, Milano 1988.

55
Bisogna innanzitutto autorizzarsi a desiderare. Ci sono vie di
sapienza che affermano che la pace consiste nello spegnere in sé
ogni desiderio. Non è questa la via cristiana, che è anzi una via
prettamente erotica, che cioè esalta l’eros per ogni cosa. Non si
tratta di non avere più desideri, ma di imparare a sintonizzarli su
quelli di Dio. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù, dice san
Paolo (cf Fil 2,5) e questo significa anche: appassionatevi alle sue
passioni, amate ciò che lui ama, desiderate ciò che lui desidera.
Osserva i tratti umani del Maestro di Nazareth, così come ce lo
descrivono i Vangeli: non c’è in lui nulla di freddo, nulla che non
scaturisca da un cuore grande e appassionato. È vero, tutto è straor-
dinariamente in equilibrio, ma questa pace non è raggiunta soppri-
mendo le passioni umane; da nessuna pagina dei Vangeli si potrà
dedurre in Gesù un minimo cenno di autocensura o di autorepres-
sione; il segreto del suo equilibrio interiore è piuttosto l’essere tutto
intero e fin dall’inizio rivolto al Padre. Ciò che fa di Gesù l’uomo
più equilibrato che abbia mai camminato in questo mondo non è un
controllo attento e maniacale, né l’avere spento ogni desiderio e vo-
lontà, ma l’aver indirizzato spontaneamente al Padre ogni fibra di sé.
L’eros, che in Gesù diventa amore appassionato al Padre, è, con-
tro tutta una falsa scuola di spiritualità, l’autentica via della pace.
Del resto san Paolo condanna in via definitiva questa falsa ascesi
di soppressione dell’umano: «Queste cose hanno una parvenza
di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità
riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la
carne» (Col 2,23).
«Non possiamo impedire a noi stessi di desiderare; noi siamo
desiderio, ma il desiderio che ci inchioda all’immaginario, al
tempo, all’egoismo, se facciamo in modo che passi tutto intero in
questa domanda, possiamo farne una leva, capace di strapparci
dall’immaginario verso il reale, dal tempo verso l’eternità, e fuori
dalla prigione dell’io»20.

20
S. Weil, A proposito del Pater, cit., pos. 1489.

56
Certo, in noi che siamo segnati dal peccato originale questo
ri-orientamento del desiderio avviene di solito attraverso uno
strappo che può essere atroce, e comunque richiede un lungo e
paziente lavoro su sé stessi. Ma in ogni caso, anche quando siamo
totalmente avviluppati nelle passioni contraddittorie che agitano
il nostro cuore tirandolo verso i recessi più bassi e oscuri dell’uma-
nità, rimane in noi come una nostalgia, la traccia del bene infinito
a cui siamo chiamati, e che resta il nostro più autentico eros.
Sì, al fondo di ogni nostro desiderio, anche del più perverso, c’è
Dio, perché per lui noi siamo stati creati.

Santificare è godere
Non bisogna quindi rinnegare i nostri desideri naturali, ma
piuttosto scavare in essi fino a trovare la traccia di infinito a cui
rimandano, fino a scoprire in che modo ci portano al Padre. Per-
fino l’eros più triviale ci porta fuori da noi stessi, è nella sua stessa
natura ek-statico, e può quindi condurci a Dio. L’importante è
non fermarci alla superficie, lasciarci invece portare per mano
dall’amore, perché ci conduca esso stesso alla sua propria verità. Il
male non è nelle passioni, ma nel ripiegarsi su di sé, quando l’eros
diventa autoerotismo. Il male è quando invece di concentrarmi
sull’oggetto desiderato, uscendo così da me stesso, voglio posse-
derlo, consumarlo quasi.
Il male non è nel desiderio, ma nella volontà di possesso21.
«La gloria di Dio è l’uomo vivente», così ci assicura sant’Ireneo,
e allora il primo modo di glorificare Dio sarà quello di vivere fino
in fondo la vita che abbiamo ricevuto, gustandola in ogni aspetto
e forma. Però attenzione, perché il santo vescovo di Lione così ter-
mina: «e la vita dell’uomo è la visione di Dio», e allora dobbiamo

21
Ho scritto alcune pagine sul Cantico dei Cantici in cui esploro a lungo il valore
spirituale dell’eros, evidenziando come tutta la tradizione sia concorde nell’affer-
marlo: cf F. Bartoli, Prendimi con te, corriamo!, Àncora, Milano 2016.

57
ricordare che la nostra vita sarà vissuta in pienezza solo se ogni gio-
ia, ogni carezza, ogni sguardo, ogni sussulto d’amore sarà vissuto
davanti a lui, alla sua presenza, e non in una egoistica ricerca di sé.
Nel momento in cui scopriamo la bellezza nascosta nel desiderio,
nel momento in cui ci accorgiamo che tutti gli alberi del giardi-
no sono stati posti nelle nostre mani perché possiamo goderne e
gioirne e smettiamo di concentrarci su quell’unico che ci è stato
precluso, allora emerge spontaneamente la gioia. Sì, non devi fare
nulla di speciale per essere felice, se non smettere di vietartelo!
È esattamente il contrario di come pensava Leopardi: la con-
dizione naturale dell’uomo è la gioia, non il dolore, ed è solo a
causa del peccato, e quindi dell’oblio del Padre, se non siamo più
capaci di vederlo22. Rimettendo al centro il Padre si riapre la fonte
della gioia, che inizia di nuovo a scorrere liberamente in noi, e si
apre così la lode appassionata, la contemplazione innamorata del
meraviglioso Tu che ci sta davanti, il cui nome è appunto Padre.

Pregare dal cuore


Invocare Dio affinché santifichi il suo nome in noi implica per
forza di cose invitarlo a entrare nel nostro cuore, in quel centro in-
timissimo da cui promana tutta la nostra persona: volontà, ragione
e passione. Fare nostra questa preghiera equivale a supplicare Dio
di prendere dimora in quel centro vitale, di venire a vivere in noi.
«Santificare» in ebraico significa anche separare: è santo ciò
che viene separato dall’uso profano per essere dedicato a Dio. Il
divieto di usare il nome di Dio in Israele aveva appunto questa
ragione: tale nome non poteva essere pronunciato proprio per
non rischiare di banalizzarlo. Una volta all’anno però esso veniva
proclamato solennemente dal sommo sacerdote, nel giorno dello

22
Va da sé che il concetto di «naturale» qui è usato in senso teologico. Il peccato,
sebbene sia fin dall’inizio parte della nostra struttura antropologica, non è affatto
naturale, anzi, ci porta fuori dalla nostra vera natura.

58
Yom Kippur, durante il rito dell’espiazione nel Santo dei Santi, nel
luogo più intimo del tempio, alla stessa presenza di Dio. Dunque
normalmente in Israele santificare il nome di Dio significava non
pronunciarlo mai se non appunto in quella straordinaria e solenne
occasione e, paradossalmente, lo si santificava proprio mediante
il silenzio o sostituendolo con perifrasi a volte piuttosto fantasiose
(una di queste, significativamente, è proprio Ha-Shem, «il Nome»).
Quando Gesù proclama sé stesso come il nuovo tempio im-
plicitamente abolisce questa pratica, ma nello stesso tempo ne
rende possibile una nuova: entrando in lui, nuovo tempio, cioè
diventando fratelli suoi e figli di Dio, diventa per noi possibile
pronunciare il nuovo nome divino, quello di Padre, santificandolo
e non banalizzandolo.
Dunque non è più attraverso il silenzio che viene santificato il
nome di Dio, ma entrando nel cuore di Cristo, nuovo tempio, e da lì
mettendoci alla sua presenza come figli nel Figlio. Ma è impossibile
entrare nel cuore di Cristo senza entrare innanzitutto nel proprio.
«Fac cor meum secundum cor tuum» – rendi il mio cuore come il
tuo cuore – recita una delle più antiche preghiere al Sacro Cuore.

Rientrare nel cuore


È nel nostro cuore che dobbiamo rientrare pronunciando il no-
me del Padre, come il figlio cosiddetto prodigo della parabola di
Lc 15, che «rientrando in sé stesso» trova nel cuore il ricordo del
padre ad attenderlo e a dargli la forza di ritornare a casa.
Sì, come il Santo dei Santi è il cuore del tempio di Israele ed è lì
che il sommo sacerdote deve entrare per mettersi alla presenza di
Dio, così il nostro cuore è la cella segreta e intima del tempio che
siamo diventati noi stessi con il nostro Battesimo, è il luogo della
Presenza, il trono di Dio, la stanza nascosta in cui il Padre abita
sempre (cf Mt 6,6).
Il nome del Padre è come la chiave di questo santuario interiore,
che si apre quando il Padre viene invocato con amore. Senza di lui

59
non avresti il coraggio di scendere nel profondo di te stesso perché
avresti paura di ciò che vive in te, nell’oscurità della tua anima.
Invocare quel nome invece ci dà la certezza di essere amati, ci ras-
sicura sulla bontà fondamentale del nostro essere e quindi ci dà il
coraggio di guardarci dentro senza paura, perché qualsiasi cosa io
possa trovare nel mio cuore so che il Padre è già stato lì, l’ha già
vista e l’ha amata, l’ha accolta e perdonata.
È nel cuore quindi che troviamo il Padre e scopriamo la profon-
dità del suo perdono, ed è a partire dal cuore, dal nostro interiore
Santo dei Santi, che possiamo proclamarne il nome santificandolo.
Santificare il nome del Padre richiede di abitare il cuore, ovvero
di avere dimestichezza con la propria intimità, avere accettato e
imparato a non censurare i nostri sentimenti.
Si capisce allora che la fatica che facciamo a entrare nel nostro
cuore è un grande ostacolo alla preghiera. Finché non rientriamo
nel cuore siamo operai, faccendieri, siamo come il figlio maggio-
re della parabola che ha sempre vissuto nella casa del padre e ha
trattato tutti i suoi affari, ma in realtà non lo ha mai conosciuto.
Paradossalmente, era necessario fuggire dal padre, come ha fatto
il fratello minore, per rientrare nel proprio cuore e lì riscoprirlo in
un modo nuovo. Non abbiamo mai pregato davvero se non siamo
capaci di abitare il nostro cuore!

Amare sé stessi
Scoprire nel cuore la presenza del Padre ci insegna anche a
guardare con amore quelle spinte che si agitano dentro di noi, non
perché siamo diventati autoindulgenti, ma perché abbiamo scoper-
to l’amore incondizionato di cui siamo i destinatari e soprattutto
perché abbiamo scoperto che «il cuore del re è un corso d’acqua in
mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole» (Pr 21,1), abbia-
mo scoperto che il Dio pantokrator è capace di rivolgere i nostri
sentimenti, anche i più oscuri, al bene, a patto che non glieli na-
scondiamo e accettiamo invece di presentarglieli con semplicità.

60
Viceversa chi non è di casa nel proprio cuore finisce inevitabil-
mente con il costruire una falsa immagine di sé, basata più sul do-
ver essere e sullo sforzo della volontà che sulla propria concretezza
esistenziale. Questa falsa immagine di sé condiziona la preghiera,
rendendola irreale e vuota: non più dialogo aperto ma formale, non
più effusione di amore ma affermazione di principi.

Lo spirito e la passione
Basta aprire il libro dei Salmi per rendersene conto. Non c’è
emozione umana assente da queste preghiere, anche la rabbia più
violenta e la passione più sfrenata sono descritte senza censura
eppure diventano via dell’incontro con Dio. Il salmista non è mai
un «poeta di corte», uno che parte da una tesi definita che deve
dimostrare, ma al contrario esprime sé stesso in tutta sincerità da-
vanti a Dio, ed è probabilmente anche per questo che il re Davide,
con tutti i suoi peccati, è definito «uomo secondo il cuore di Dio»
(cf At 13,22), appunto perché sapeva abitare il suo stesso cuore.
Del resto il Dio biblico è tutto meno che il primo motore immo-
bile, senza emozioni né passioni, immaginato da Aristotele e dopo
di lui da tanti filosofi. Al contrario il Dio biblico è pieno di pathos:
si arrabbia, grida, piange, esulta, si rivolge all’uomo e al popolo di
Israele con parole cariche di desiderio e di un eros sconcertante.
La stessa storia della salvezza con tutta la sua carica drammatica
rivela la passione di Dio per l’uomo23.
Il rifiuto delle proprie emozioni è in effetti un grave pericolo
per la vita spirituale e può portare serie conseguenze, che vanno
dalla repressione dei propri istinti – che è sempre generatrice di
nevrosi – alla costruzione di una falsa immagine di sé. Quello
che complica le cose poi è che di solito questa falsa immagine è

Credo che siano tuttora insuperate le pagine in cui H.J. Heschel descrive questo
23

pathos di Dio nel libro Il messaggio dei profeti (ed. or. 1936; tr. it. Borla, Roma
1981).

61
rassicurante, ci fa sentire giusti, con la coscienza a posto, e quindi
impedisce la preghiera in due modi: primo, perché ci distoglie dal
chiedere perdono; secondo, perché ci mette in un atteggiamento
difensivo verso coloro che Dio manda per farci aprire gli occhi
sulla nostra vita.
Credo che questo sia un buon test per sapere se davvero abitia-
mo nel nostro cuore: misurare la reazione che abbiamo verso chi
ci invita a conversione. Se accogliamo con fastidio i richiami e le
correzioni probabilmente è perché in realtà siamo in conflitto con
noi stessi, se invece siamo docili e pronti all’ascolto è perché in fon-
do non aspettiamo granché da noi stessi e siamo quindi flessibili
interiormente e pronti al cambiamento.
Fin da Antonio e Pacomio la ricerca dei monaci cristiani è sem-
pre stata quella di abitare secum, di imparare a convivere con sé
stessi, a rientrare nel proprio cuore per trovare in esso la presenza
di Dio. La mitezza, la dolcezza del tratto e del comportamento e
la pace interiore sono il premio che guadagna colui che si accinge
a questa impresa e dunque il test che misura la nostra capacità di
pregare in questo modo.

Avere un cuore unificato


Abbiamo detto che santificare significa in ebraico «separare»,
ma lo stesso verbo può anche essere ben tradotto con «unificare».
Santificare è separare-per-unificare, separare il cuore dai falsi
amori per renderlo uno. Uno, cioè semplice, non duplice, un
cuore che non sia doppio, le cui potenze siano tutte orientate in
una medesima direzione, come attratte dal magnete dell’amore
di Dio.
Siamo sinceri con noi stessi: se interrogati, non dovremmo un
po’ tutti rispondere come l’indemoniato di Gerasa: «Il mio nome
è legione» (cf Mc 5,9)? Dentro ognuno di noi infatti si agitano
passioni contrastanti e sperimentiamo ogni giorno che il nostro
cuore è tirato in tante direzioni diverse. L’unificazione del cuore

62
allora è una condizione indispensabile per poter santificare il no-
me di Dio. La parola monaco viene da mònos, che vuol dire uno,
e significa tanto solitario quanto unificato in sé stesso, unificato
dall’eros divino, definitivamente attratto dall’amore che solo me-
rita il nome di amore.

Dalla lode all’amore


C’è anche una conseguenza etica nell’invocazione affinché Dio
santifichi il suo nome. Con una frase lapidaria il libro del Levitico
scolpisce la pietra angolare di tutta la morale biblica: «Siate santi
perché io sono santo» (Lv 19,2), collegando così in maniera indis-
solubile il culto e la morale, la preghiera e l’azione.
Non c’è contemplazione autentica che non termini nell’azione,
non c’è preghiera cristiana che non sia trasformante del nostro
essere e del nostro agire, perché, per così dire, l’indicativo di Dio
è divenuto il nostro imperativo: noi, creati a immagine di Dio,
abbiamo perduto la somiglianza con lui, la conformità al nostro
modello, e dobbiamo ricostruirla nella nostra vita.
Poiché Dio è santo sarà dunque nostro dovere santificarci e non
può dirsi cristiana una preghiera che non parta dalla santificazione
di Dio per giungere alla nostra.
Nella logica dell’Antico Testamento il termine santità equivale
alla purezza. Non per nulla santo si dice kadosh, che letteralmente
significa «tagliato via, messo da parte». Essere santi allora è non
mescolarsi alle cose del mondo, essere messi da parte per Dio, come
il popolo di Israele, chiamato ad affermare la sua elezione, la sua
irriducibile diversità rispetto a tutti gli altri popoli. In questo caso
l’unificazione del cuore è raggiunta, per così dire, per sottrazione:
mi sforzo di eliminare ogni desiderio e passione per lasciare dentro
di me spazio unicamente all’amore di Dio.

63
La falsa santità
Nasce qui una concezione della santità algida e austera che
però, diciamoci la verità, sembra avere a che fare più con una
religiosità naturale che con la fede in quel Cristo che non ha
paura di essere definito mangione e beone e di essere considera-
to amico dei peccatori (cf Mt 11,19). Gesù infatti sposta il focus
della nostra attenzione e, riprendendo la frase del Levitico, così la
interpreta: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre
vostro» (Lc 6,36).
Cambiando una sola parola propone un nuovo volto della santi-
tà, che non consiste più tanto nella gloria quanto nella misericor-
dia, o meglio ci mostra che la misericordia è la vera gloria. Non
più austeri e macilenti santoni dediti a estenuanti digiuni o varie
pratiche di penitenza, ma uomini e donne incendiati dal fuoco
dell’amore, capaci di perdonare l’imperdonabile e di accostare
come amico perfino chi fa il male.
La falsa santità è figlia di una fede senza amore, quella che con
una geniale espressione F. Hadjadj chiama «la fede dei demoni»24.
È una fede che mentre da una parte è piena di un ossequio formale
alla divinità, dall’altra ne è lontanissima nelle intenzioni e nella
pratica della vita.
San Paolo è addirittura caustico contro questa falsa santità,
come dice nel brano che abbiamo già richiamato: «Se siete morti
con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste an-
cora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere,
non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire
con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una
parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mor-
tificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non
quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-23).

F. Hadjadj, La fede dei demoni, ovvero il superamento dell’ateismo, Marietti,


24

Genova 2010.

64
Pregare Dio perché santifichi il suo nome in noi significherà
allora anche chiedergli un cuore misericordioso come il suo, capace
di perdonare, capace di guardare con il medesimo amore i giusti e
gli ingiusti, i santi e i peccatori. Per essere santi nella prospettiva
cristiana non basta più soltanto separarsi dal male, anzi occorre in-
vece piegarsi sugli umili, sui poveri, sui sofferenti, spesso anche sui
malvagi, per servirli, vivere in una universale offerta di amicizia.
Non più la separazione, ma l’amicizia è il segno cristiano della
santità di Dio.
Questa immagine del Padre misericordioso è veramente qual-
cosa di nuovo nella storia religiosa del mondo ed è forse l’elemento
più originale e proprio del Cristianesimo. È anche interessante
notare come questa immagine di padre corregge ciò che avevamo
detto prima sul fatto che Dio non è una madre. Non per nulla la
misericordia è il sentimento materno per eccellenza, tanto che in
ebraico la parola rahamim – che significa appunto misericordia –
letteralmente vuol dire «viscere di madre». Dunque se vogliamo
essere precisi dovremmo dire che nell’idea cristiana di Dio-Padre
convergono elementi maschili e femminili. Se è vero che il padre
non è una madre, è però altrettanto vero che la sua paternità è tanto
vasta da racchiudere in sé anche la maternità25.

Santificare è assomigliare
Del resto come potrebbe essere possibile santificare il nome
del Padre se non facendo nostri i suoi sentimenti e la sua volontà?
«Santifica il tuo nome» non può essere separato da «sia fatta la tua
volontà» e quale potrà mai essere la volontà di Dio se non che tutti
gli uomini siano salvi? Allo stesso modo Dio santifica il suo nome

25
«Dio è anteriore alla distinzione padre/madre e non è neppure la sintesi di
questi due ruoli, semmai è la fonte» (R. Cantalamessa, Sia benedetto Dio, padre
del Signore nostro Gesù Cristo, conferenza tenuta nella basilica di San Giovanni
in Laterano il 1 giugno 1998 in occasione dell’annuale convegno diocesano; testo
non rivisto dall’autore).

65
edificando tra noi il suo regno, quindi affermando ovunque la
sua regalità, che è paternità. Una volta che lo si è conosciuto come
Padre, non si può santificare Dio dall’alto di una torre di avorio.
Bisogna invece sporcarsi le mani scendendo in strada: nelle corsie
d’ospedale e nelle carceri, nelle fabbriche o nei call center, tra le
baracche o sotto i ponti; insomma bisogna pregare stando in mezzo
alla gente, lì dove vive, lotta e soffre.
È lì, dove l’uomo è più offeso e vilipeso, che il nome di Dio è
maggiormente bestemmiato, appunto perché la gloria di Dio è
l’uomo vivente e dunque ogni volta che questa vita è sottomessa al
profitto il nome del Padre è insultato e deriso: negare all’uomo la
vita e la possibilità di viverla dignitosamente è sputare sulla gloria
di Dio.
Santificare il nome del Padre allora significherà per prima cosa
proclamare la sua paternità proprio là dove è meno visibile. Come
potrebbe riconoscere Dio come padre un profugo rifiutato e abban-
donato da tutti? Come potrebbe non rivoltarsi con rabbia contro
di noi al solo sentire il nome del Padre se al nostro annuncio non
corrispondesse un’opera fattiva di fraternità e conforto?
Il modo migliore di santificare il nome del Padre dunque sarà
quello di invocare il suo regno e di spendersi per esso, come vedre-
mo nel prossimo capitolo.

66
IV

ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου


venga la tua signoria

Per mezzo dello Spirito Santo


Giustamente Simone Weil collega l’invocazione del regno di
Dio allo Spirito Santo, l’una non può stare senza l’altro: «Il regno
di Dio è lo Spirito Santo che ricolma pienamente l’anima delle
creature intelligenti»26, dove «intelligenti» significa appunto capaci
di Spirito Santo.
La prima azione dello Spirito è quella di aleggiare sul caos,
simboleggiato dalle acque della Creazione: è il soffio di Dio che
porta armonia là dove c’è confusione e lotta, esprimendo in questo
appunto il suo potere creatore e la sua azione di governo27. Anche
nel cuore umano lo Spirito Santo porta pace e armonia, così che si
può dire che il primo segno della venuta del Regno è proprio questa
sorprendente e soprannaturale pace che scende in coloro che dallo
Spirito sono abitati, anche contro ogni logica ed evidenza, anche a
dispetto del dolore e delle persecuzioni subite.
Quando Dio entra a regnare in un cuore, ne sottomette tutte le
potenze a sé stesso, orientando a sé ogni passione. Si dice che «al
26
S. Weil, A proposito del Pater, cit., pos. 1501. Non per nulla alcuni manoscritti
del Vangelo di Luca in luogo di «venga il tuo regno» riportano la variante «fai
venire il tuo Spirito sopra di noi che ci purifichi»
27
«Lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità, ma ri-
condurre il tutto all’armonia. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno
dei Padri della Chiesa ha un’espressione che mi piace tanto: lo Spirito Santo ipse
harmonia est. Lui è proprio l’armonia» (Francesco, Omelia nella Messa di Pente-
coste, 19 maggio 2013).

67
cuore non si comanda», ed è senz’altro vero, nel senso che non si
può esercitare su di esso alcuna coercizione, ed è soprattutto inutile
e perfino controproducente tentarlo; è altrettanto vero però che il
cuore si affascina, in modo che possa spontaneamente dirigersi
verso il cuore di Cristo. È propria dello Spirito Santo questa «se-
duzione del cuore», questo fascino che irresistibilmente ci attira al
Padre e fa sì che ci sottomettiamo a lui.
«Lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8) e questo fa sì che il regno
di Dio non coincida necessariamente con la Chiesa visibile, e perfi-
no uomini e donne apparentemente lontanissimi dal Cristianesimo
potrebbero in realtà essere assai vicini al Regno. Così nessuno può
dare per scontato il possesso dello Spirito, anzi continuamente esso
va invocato, appunto perché continuamente corriamo il rischio di
sottrarci al regno di Dio per affermare il regno dell’io, corriamo
cioè il rischio di lasciarci sedurre non dal cuore di Cristo, ma dai
nostri appetiti, di ascoltare i nostri bisogni più che l’amore.
In questo senso l’invocazione perché venga il regno di Dio ha un
inevitabile e necessario carattere di purificazione dei nostri pensie-
ri e dei nostri sentimenti. Invocare il Regno significa innanzitutto
invocare il discernimento, per saper distinguere ciò che è di Dio
da ciò che non lo è.

Regno di Dio regno dell’uomo


Maria, colei che chiamiamo la piena di Grazia, che giustamente
la tradizione cattolica definisce «tabernacolo dello Spirito Santo»,
è quindi a buon titolo anche detta «regina». Il regno di Dio è an-
che e inseparabilmente il regno di Maria. Questo sia perché la sua
presenza è indissolubile da quella dello Spirito Santo, tanto che la
si potrebbe definire una «quasi ipostasi» dello Spirito, sia perché
in lei vediamo in maniera esemplare cosa diventa un’anima in cui
Dio regna.
Osserviamo in lei in maniera paradigmatica uno degli aspetti
più interessanti del regno di Dio: esso è contemporaneamente an-

68
che il regno dell’uomo. Mentre quando si cerca il regno dell’uomo
si finisce inevitabilmente con l’escludere Dio dal trono, mettere sul
trono del cuore Colui che ne è legittimamente il Signore porta con
sé anche l’affermazione dell’uomo come co-regnante. «In verità
vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il
Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete
anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele»
(Mt 19,28).
Dio non è geloso della sua signoria – era proprio questo l’ingan-
no di Satana già nel giardino di Eden – e chi lo segue sperimenta
in questa sequela la più grande libertà, perché sottomettersi a lui
significa essere veramente liberi, ed essere liberi significa essere
padroni di sé stessi, re di quel vasto e pericoloso territorio, ancora
in gran parte inesplorato, che è il nostro cuore. Non a caso nella
Lettera ai Galati san Paolo pone il dominio di sé tra i doni dello
Spirito Santo28.
Nel teso dibattito con i farisei riportato nel capitolo 8 del Vangelo
di Giovanni questo è proprio il punto centrale dell’argomentazione
di Gesù: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36).
L’affermazione di Gesù: «Se sarete miei discepoli, conoscerete la ve-
rità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31) implica che la sottomissione
a lui non è una schiavitù umiliante, ma al contrario è l’esaltazione
di tutte le potenzialità umane e quindi la piena e completa affer-
mazione della libertà: nessuno è più libero di colui che obbedisce
veramente a Dio. Questo principio deve essere la chiave interpre-
tativa di ogni obbedienza nella Chiesa: troppo spesso in passato
abbiamo inteso l’obbedienza come una mortificazione anziché
come una esaltazione dell’umano!

Cf Gal 5,22. Si noti che in questo contesto il dominio di sé di cui parla san Paolo
28

non ha niente a che fare con il self control, appunto perché è frutto dello Spirito
Santo e non della propria forza di volontà; potrebbe invece definirsi come «un sé
dominato dall’amore». In altre parole non è il frutto di un rigido autocontrollo,
ma dell’azione dello Spirito Santo che ha affascinato il nostro cuore.

69
Pregare politicamente

All’inizio del suo Vangelo Marco condensa il messaggio di


Gesù in uno slogan semplice ed efficace: «Il tempo è compiuto e il
regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Dopo verrà il tempo di spiegare,
insegnare, puntualizzare, approfondire, ma intanto è già tutto
in queste due frasi: «Il tempo è compiuto», cioè è finita l’attesa,
inizia qualcosa di nuovo, Dio ha finalmente voltato pagina nella
storia della salvezza; e: «Il regno di Dio è vicino», cioè è finito
il regno del male, è finita la tirannia, è caduto l’usurpatore del
cuore umano.
Siamo abituati a pensare al regno di Dio come se fosse un
lontano paradiso a cui tendere con un’aspirazione più o meno
vaga, eppure continuamente i Vangeli parlano dell’imminenza e
dell’immanenza del Regno: è qui, è qualcosa che cresce, è in mezzo
a noi, dipende in qualche misura anche dal nostro lavoro… tutte
affermazioni che è difficile conciliare con l’idea che l’espressione
«regno di Dio» sia un sinonimo di paradiso.
No, il regno di Dio non è di là da venire; è dovunque Dio regna,
cioè dove regna l’amore, e potrebbe quindi ben essere qui e ades-
so. Dio, che è una comunità di amore, vuole che tutti gli uomini
partecipino di questo medesimo amore trasportandolo in tutti gli
ambiti delle loro relazioni sociali. È ciò che Paolo VI chiamava «la
civiltà dell’amore», ed è ben per questo che il regno di Dio è anche
il regno dell’uomo.
La confusione nasce dal fatto che in Greco, così come in Italiano,
la parola «regno» – basileía – è ambigua e può indicare tanto un
luogo quanto una condizione, così ad esempio si può dire «sotto il
regno dei Savoia» intendendo dire non certo «sottoterra da qual-
che parte in Piemonte», ma piuttosto «sotto l’autorità e il potere
dei Savoia». È in questo secondo senso che va intesa l’espressione
«regno di Dio», che potrebbe essere più chiara traducendo basileía
con il sinonimo «signoria di Dio». Pregando «venga il tuo regno»
ciò che intendiamo dire è dunque «venga la tua signoria», vieni tu a

70
regnare su di me, vieni a regnare su questo mondo, vieni a regnare
sul tempo e sulla storia.

Il Regno è una società

Compresa in questo modo, la categoria del regno di Dio è tanto


mistica quanto politica, tanto intima quanto sociale, riguarda si-
curamente il singolo individuo, ma al tempo stesso anche la rete di
relazioni in cui vive, e non si può invocarlo disinteressandosi della
giustizia o dello sviluppo della società in cui si è inseriti. Come
dobbiamo portare le persone amate nella nostra preghiera, così
non ci si può rivolgere a Dio disinteressandosi del mondo in cui
viviamo. La politica, intesa nel senso nobile del termine, è la più
alta forma della carità, come ha spesso ribadito Paolo VI e anche
recentemente Francesco, e quindi non può rimanere estranea alla
nostra preghiera29.
Nessuno può amare Dio che non vede senza amare il prossimo
che vede: dunque chiedere a Dio di far venire il suo regno richiede
da parte nostra un impegno interno ed esterno perché questo re-
gno venga. In altre parole la preghiera cristiana non è la ricerca di
un paradiso ipotetico, lontano dalla fatica e dal dolore di questo
mondo. Se la nostra preghiera fosse questo, daremmo ragione a
Marx che definiva la religione oppio dei popoli.
Non voglio arrivare agli estremi raggiunti in un passato recente
in alcuni conventi e seminari, dove si raccomandava la lettura del
giornale quotidiano come fosse un libro di orazione, ma neppure
si può dimenticare lo straordinario incipit della Gaudium et spes:
29
Così scriveva già verso la metà del secolo scorso Giuseppe Lazzati: «Per un
cristiano che abbia capito fino in fondo cosa significa essere tale, l’impegno che
chiamo, con un’accezione molto lata, politico, è l’espressione più profonda della
Carità. Perché è certo un segno di amore dare il pane a chi non l’ha, se mi capita
di incontrarlo, ma è ancora più profondo l’impegno di organizzare le cose in
modo che il fratello non manchi del pane, della casa, del vestito, del lavoro» (testo
ripreso nell’antologia di scritti lazzatiani intitolata La carità, AVE, Roma 1987).

71
«Le gioie e le speranze, la tristezze e le angosce degli uomini d’oggi
[…] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo e non vi è nulla di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore» (n. 1).
D’altra parte, però, se siamo qui a invocare Dio perché venga
il suo regno è perché francamente abbiamo preso atto che la sua
realizzazione non dipende da noi. Certo, sarebbe assurdo fare
questa invocazione a Dio senza impegnarci in prima persona, re-
sponsabilmente, ma neppure possiamo presumere che la signoria
di Dio dipenda dal nostro lavoro. Siamo servi inutili, come dice
Gesù (cf Lc 17,10), e se così non fosse vorrebbe dire che il regno che
viene è quello dell’uomo e non più quello di Dio.
Si può applicare anche in questo campo la celebre massima di
sant’Ignazio: «Prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come
se tutto dipendesse da te», però va tenuto ben fermo che il regno
di Dio è innanzitutto opera di Dio, dono che va dal Padre al Figlio
e da questi a tutti i suoi fratelli, altrimenti sarebbe troppo grande
il rischio di rivestire di panni ideologici la nostra azione, sarebbe
troppo facile pronunciare il nome di Dio invano, su qualcosa che
in realtà è soltanto il nostro progetto.

Il Regno e la Chiesa
Diverse volte ho sentito ripetere la frase di Loisy: «Gesù ha an-
nunciato il regno di Dio ed è venuta la Chiesa», come se la Chiesa
fosse qualcosa di totalmente contrapposto al Regno, tutto spiri-
tuale questo, unicamente materiale quella. Ma – come abbiamo
già detto – spirituale e materiale non possono essere contrapposti,
anzi, lo spirito suppone la materia e la completa, così, sebbene non
coincida con la Chiesa, il regno di Dio non può prescindere da essa.
Non solo è da ingenui, da anime belle, pensare che il Regno
possa fare a meno della Chiesa – perché non può esistere una
comunione tra gli uomini senza una comunità umana, senza cioè
un minimo di struttura e organizzazione – ma è proprio teologi-

72
camente sbagliato: significa aver dimenticato il principio dell’In-
carnazione, che è alla base non solo del Cristianesimo, ma di tutta
la Rivelazione biblica, che costantemente parla dell’azione di Dio
che entra nella storia assumendola e non negandola.
È del tutto evidente che la Chiesa non è il regno di Dio: tali e
tante sono state nella storia le sue deformazioni e nefandezze che
non vale proprio la pena di insistere su questo punto, ma al tem-
po stesso il Regno, appunto perché non riguarda solo l’intimo di
ciascuno, ma tocca da vicino il mondo del fare e dell’azione, deve
avere un riscontro ben chiaro nell’immanenza della storia. Che
senso avrebbe affermare che Dio regna nel cuore di un uomo se poi
questo regno non si traducesse in gesti e comportamenti pubblici?

Venga la Chiesa
Ecco perché il regno di Dio non viene se non incarnandosi nella
Chiesa, perché la Chiesa è proprio il luogo in cui questa comunio-
ne dovrebbe nascere e svilupparsi. «Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)
e dunque ciò che innanzitutto ci identifica come Chiesa è proprio
questo regnare dell’amore in mezzo a noi. E allora dire «venga il
tuo regno» implica il dire «venga la Chiesa», venga la sua verità, la
sua pienezza, la sua gloria, che non si manifesta certo alla maniera
umana, ma appunto come splendore dell’amore.
Vengano dunque i papi e i vescovi, vengano i cori dei monaci
che inneggiano all’alba e al tramonto, venga la sapienza di Ago-
stino, Tommaso e Basilio, e venga la santità di Francesco, Ignazio
e Silvano, venga l’arte di Rublëv, Michelangelo e Beato Angelico,
vengano il canto gregoriano e i cori di Bach e Vivaldi e la Cappel-
la sistina e i cori sgangherati delle messe beat, vengano le grandi
cattedrali e le liturgie solenni, vengano Notre Dame e la Sagrada
Familia e il Duomo di Orvieto, vengano le grandi abbazie ma
anche le piccole cappelle in ospedale con solo un paio di fedeli in
preghiera, e le brutte chiese in cemento delle periferie, e le chiese

73
capanne nelle foreste pluviali e le chiese baracche nelle favelas.
Vengano i grandi cenobi e gli eremiti del deserto e i monaci che
si chiudono in clausura o si nascondono nella solitudine delle
città, ma vengano anche i volontari della Caritas e di mille opere
geniali nate in risposta ai bisogni del mondo. Venga la tradizione
popolare, con la sua fantasia, vengano i movimenti con la loro
creatività, venga il Rinnovamento carismatico e il Cammino
neocatecumenale e Comunione e liberazione, vengano le nuove
famiglie religiose, gli istituti secolari e l’ordo virginum e tutti gli
infiniti doni e carismi che lo Spirito ha suscitato e suscita nella
storia.

Già e non ancora


E tuttavia al tempo stesso bisogna riconoscere che questo im-
menso deposito di bellezza e sapienza che è la Chiesa, che pure
continua ad accrescersi, è però anche sempre in pericolo, perché
non basta a sé stesso, e dunque è sempre minacciato dal rischio
di dimenticare il suo scopo e il suo fine, di distogliersi dal suo
obiettivo finendo con il diventare autoreferenziale, costruendo così
l’impero dell’uomo anziché il regno di Dio.
Venga la Chiesa dunque, certamente, purché venendo si di-
mentichi, per così dire, e non esista per sé stessa. La Chiesa è bella
quando si dimentica di sé, quando al centro dell’attenzione pone
il Vangelo, altrimenti ricade nella sociologia, finisce con il mette-
re tra parentesi il regno di Dio e il suo futuro, guardando solo al
presente.
Sì, la Chiesa deve continuamente invocare il regno di Dio, in-
nanzitutto per ricordare che non è ancora qui, per non lasciarsi
intrappolare dal presente e dalle sue logiche, per mantenere sempre
uno sguardo alto, che veda la storia dal punto di vista di Dio, per
ricordare che essa appunto non è ancora quel Regno, che invece
sempre la trascende. È necessario che come una corrente segre-
ta, come un fuoco interiore, il regno di Dio la animi e purifichi

74
continuamente in tutte le sue strutture, ma come dall’interno,
non attraverso l’imposizione di nuove leggi o la superfetazione di
strutture inutili, perché la carne della Chiesa non resti carne, ma
sia invece vivificata dallo Spirito.
Invocare il regno di Dio significa anche riconoscere che la Chie-
sa ancora non è, né sarà mai fino alla fine dei tempi, veramente sé
stessa. Significa riconoscere che c’è una distanza drammatica che
ci separa ancora da ciò che saremo quando davvero Dio sarà tutto
in tutti. Invocare il regno di Dio implica una franca accettazione
della nostra insufficienza e debolezza, e ci libera da ogni rischio
di ecclesiolatria.

Il Regno verrà
Nell’invocazione «venga il tuo regno» c’è una componente esca-
tologica che non può essere nascosta. È vero che il regno di Dio non
è necessariamente il paradiso, ma è altrettanto vero che solo alla
fine dei tempi sarà pienamente stabilito, non vedremo mai com-
piuta «la civiltà dell’amore» in questo nostro mondo. Fino a quel
giorno il mondo è un luogo di contesa e conflitto, perché un altro
è «il principe di questo mondo». Al tempo stesso però la promessa
di Dio non può essere disattesa: infallibilmente il Regno verrà ed
è questo il fondamento della nostra speranza.
Come invocare la santificazione del nome di Dio implica la
fede, così l’invocazione del regno di Dio fonda e sostiene la nostra
speranza.
Quanto è necessaria la speranza per la preghiera! Quanto è
necessario credere che il male finirà e che Dio farà giustizia per i
suoi figli che gridano a lui! Senza di essa l’attesa ci sarebbe insop-
portabile, semplicemente ci lasceremmo andare e cadremmo in
una depressione sconfitta. L’invocazione al regno di Dio, invece,
trasforma il tempo in un laboratorio, così che i giorni non si suc-
cedono più vuoti e senza senso, ma sono mattoni che costruiscono
il nostro uomo interiore.

75
Una preghiera piena di speranza impara a chiedere a Dio come
se avessimo già ottenuto. «Per questo vi dico: tutto quello che do-
mandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà
accordato» (Mc 11,24).
È come nel Magnificat, dove Maria loda Dio perché ha già rove-
sciato i superbi e ricolmato di beni gli affamati, quando in realtà ciò
che ha di fronte è solo un bambino, per di più non ancora nato! La
speranza ci insegna a vedere già il frutto quando ancora la pianta
sta germogliando, perché crede alla promessa di Dio e sa che essa
infallibilmente si compirà.

Il Regno è un destino
Noi siamo futuro, lo abbiamo già detto, siamo direzione, cam-
mino, crescita, e nulla ci porta alla disperazione quanto il pensiero
che la nostra storia sia al capolinea, che non ci sia alcun domani
per noi. Eppure, anche nella condizione esistenziale più pesante,
la certezza del regno di Dio ci riapre l’orizzonte, rende fiato alla
nostra vita e dà vento alle nostre vele.
Spesso gli uomini sono ossessionati dal pensiero del proprio
destino, dalla domanda «cosa sarà di noi?». Pregare «venga il tuo
regno» significa anche dire con chiarezza la nostra fede nel futuro
buono che il Padre ha preparato per noi, significa credere che l’ul-
tima parola sulla nostra vita appartiene a Dio.
Insomma, il regno di Dio è già presente, ma non ancora compiu-
to. È presente come un fuoco, come un’ispirazione, come un’aneli-
to, come una missione, ma al tempo stesso vuole diventare carne,
storia, vita, vuole entrare nel mondo e riempirlo di sé, vuole che
il mondo stesso diventi Regno. Ecco perché continuamente dob-
biamo chiedere che esso venga, perché è già qui eppure ancora in
formazione.
Vale la pena di mettere questo futuro al di sopra di ogni presen-
te, vale la pena di mettersi interamente a servizio del Regno che
viene, vale la pena di assumerlo come la nostra Grande Missione,

76
come la vocazione della nostra vita, perché esso è il futuro buono
che il Padre ha pensato per noi, il destino in cui trova compimento
l’essere figli.

La forza di una promessa


Pregare allora è affermare il primato del regno di Dio, è mettere
il bisogno che si compia la promessa del Padre al di sopra dei nostri
bisogni personali, prima del cibo, prima del vestito (cf Mt 6,33), è
scoprire che nel Regno è la radice e la causa di ogni nostro bene e
di ogni gioia, e quindi che siamo più felici se viene il Regno che se
si realizza per noi un qualsiasi vantaggio o beneficio privato.
Invocare il regno di Dio è accogliere la promessa del Padre
come il centro della nostra vita, il centro vitale da cui promana
ogni energia e ogni determinazione. Ci vuole concentrazione per
pregare così: bisogna essere con-centrati, cioè finalizzati all’ob-
biettivo, come se le potenze del nostro animo fossero le linee
prospettiche di un dipinto che convergono tutte verso lo stesso
punto. Ma la promessa del Regno ha in sé stessa tanta forza da
compiere questo prodigio, se non ci fermiamo a raccogliere fiori
lungo la strada, se non ci lasciamo distrarre da obbiettivi parziali
o secondari.
Al tempo stesso riconoscere nel Regno il nostro destino ci libera
dall’ossessione di essere noi stessi gli artefici della nostra felicità.
Proprio perché l’avvento del regno di Dio domanda la mia collabo-
razione, ma in ultima analisi non dipende da me, posso liberarmi
di tutte le ansie che legano la mia gioia. Fare pace con la mia inu-
tilità, accettare la grande povertà di non essere padrone della mia
vita… è un passo avanti deciso verso la pace del cuore, ma questa
accettazione è possibile solo a partire da una grande speranza nel
Regno che viene.

77
Vivere per il Regno
Invocare il regno di Dio prima del pane quotidiano è ricono-
scere che l’uomo non vive solo di pane, che c’è in noi un bisogno
di senso e di bellezza che è più forte della fame e della sete, ed è la
nostra stessa definizione di uomini, senza il quale non possiamo
vivere. Per questo Gesù ci insegna a chiedere prima che venga il
regno di Dio e solo dopo a pregare per i nostri bisogni personali.
Pregare perché venga il Regno è il modo più sicuro di purificarsi
dalle proprie paure e dal proprio egoismo. Richiede un animo
nobile, capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di guardare al di
là del proprio cortile e vedere invece l’altezza della missione a cui
tutti noi siamo chiamati.
Anche Gesù ha vissuto interamente per il regno di Dio, si è tal-
mente identificato con la sua missione da dire: «Per questo io sono
nato» (Gv 18,37). Dire «venga il tuo regno» quindi significa entrare
in Cristo, diventare figli nel Figlio, perché conduce a identificarci
con la sua missione e a farla nostra, significa non voler più distin-
guere in noi stessi, come ha fatto Gesù, tra identità e missione.
Abbiamo già sottolineato il carattere di purificazione implicito
in questa invocazione, non voglio però enfatizzare l’elemento di
negazione necessario a questa purificazione. Il segreto è l’essere
intimamente protesi verso il Regno: è il desiderio di esso più che
di ogni altra cosa ciò che spontaneamente fa sì che ci liberiamo
delle false immagini che possiamo farcene e perseguire. È l’essere
onesti e autentici con sé stessi ciò che ci impedisce di accontentarci
di tappe intermedie e parziali, per quanto affascinanti, e ci conduce
sempre verso l’alto, verso l’aspirazione a un di più che deve ancora
venire, che ci aspetta nel seno del Padre.
Al tempo stesso questa consapevolezza che il Regno sta venendo,
ma non è ancora compiuto, ci renderà molto realisti nel giudicare
noi stessi e la nostra vita. Nulla è più pericoloso per la vita spiri-
tuale dell’illusione di essere al di sopra della tentazione, nulla fa
più male della pretesa di vivere come se non avessimo il peccato

78
originale e quindi tentando di vivere in questo mondo come se già
fossimo in paradiso.
Eppure il Regno verrà. Nonostante tutto, nonostante noi, verrà.
Questa disincantata speranza ci permette di guardare a ogni realiz-
zazione umana, comprese le nostre, con una leggerezza e un’ironia
che ci liberano dall’ideologia e sono tuttavia lontanissime anche
dal cinismo. È piuttosto uno sguardo carico di tenerezza su di sé,
sull’uomo e sulle sue aspirazioni, così belle e al tempo stesso così
imperfette, così grandi eppure così fragili. Anche in questo sta la
via della pace. Proprio la fiducia nella promessa del Regno che vie-
ne ci permette di accogliere con dolcezza la nostra fragilità, appun-
to perché sappiamo che anche attraverso le nostre imperfezioni la
Storia della Salvezza progredisce verso il suo appuntamento finale.

79
V

γενηθήτω τὸ θέλημά σου


si compia la tua volontà

L’infallibile volontà di Dio


Il Latino della liturgia traduce dal Vangelo il verbo genetheto con
fiat, ed è legittimo. Meno precisa la traduzione italiana con «sia
fatta» (la tua volontà), che sposta l’accento sul fare anziché sull’es-
sere, sviando l’interpretazione della frase verso un senso piuttosto
moralista30. Sarebbe più corretto tradurre «si compia» o – meglio
ancora – «accada» la tua volontà31.
Il desiderio di Dio si compie. Infallibilmente. Se questo non fosse
vero, vorrebbe dire che Dio non è Dio. Che senso ha allora chiedere
a Dio che accada qualcosa che non può non accadere? Ha lo stesso
senso che ha invocare che venga il suo regno, che è già qui, o che
sia santificato il suo nome, che non potrebbe essere più santo di
come è. Significa sintonizzarsi sui desideri di Dio, cioè invocare
una trasformazione del nostro cuore, una educazione della nostra
affettività e della nostra mente, tale che impariamo ad accogliere
la realtà come sua manifestazione.
È in questo senso che Maria risponde all’angelo: «Accada (ge-
noito) di me secondo la tua parola» (Lc 1,38) oppure che Gesù
nel Getsemani prega: «Sia fatta (ginestho) non la mia, ma la tua
volontà» (Lc 22,42).
30
Il verbo in questione infatti è il verbo gignomai, che propriamente significa
«essere» nel senso di esistere o anche accadere.
31
Tanto più che qui per «volontà» troviamo thelema, che indica la volontà nel
senso di intenzione o desiderio più che di decisione stabilita.

80
È più di una semplice obbedienza: non si tratta di piegare la
nostra volontà a quella di un altro, ma di accogliere come nostro il
desiderio di Dio, fare del suo scopo il mio scopo, e così riconoscere
che ciò che accade è una manifestazione della sua onnipotenza,
che tutto ciò che esiste è bene e che attraverso gli avvenimenti
della nostra vita, per quanto ci possano apparire incomprensibili
e privi di senso, Dio guida infallibilmente la storia verso il Regno
e la nostra vita verso di lui.

Abbandonarsi al Padre
La tradizione chiama questo atteggiamento spirituale abbando-
no alla divina provvidenza.
Viene in mente innanzitutto santa Teresa di Gesù Bambino,
che è stata una grande maestra di questa spiritualità, ma anche
naturalmente il Salmo 131 («Come un bimbo svezzato in braccio
a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia») o la celebre
preghiera di Charles de Foucauld: «Padre mio, io mi abbandono a
te, fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia di me ti rin-
grazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto. La tua volontà si compia
in me, in tutte le tue creature. Non desidero altro, mio Dio. Affido
l’anima mia alle tue mani. Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore
del mio cuore perché ti amo, ed è un bisogno del mio amore di do-
narmi, di pormi nelle tue mani senza riserve, con infinita fiducia,
perché tu sei mio Padre»32.
Può essere terribile vivere questo abbandono, perché significa
rinunciare a ogni pretesa di controllo su sé stessi e sulla propria
vita, significa accettare di essere governati da un altro, significa

32
A dire la verità fratel Carlo non l’ha mai scritta esattamente in questa forma.
Questa preghiera, così come è oggi, è estrapolata da una meditazione più ampia
del 1896 in cui De Foucauld commenta il versetto «Padre, nelle tue mani consegno
il mio spirito» (Lc 23,46). È tuttavia condivisa da tutti quelli che si richiamano
al suo insegnamento e per questa ragione accolta tra i testi ufficiali dei Piccoli
Fratelli di Gesù.

81
rinunciare a dominare gli avvenimenti e indirizzarli secondo ciò
che ci sembra giusto, ma compresa in questo modo questa è forse
l’ascesi più rigorosa per il nostro tempo.
L’illusione dell’autonomia, di possedere sé stessi e il proprio fu-
turo, unita all’illusione di sapere ciò che è meglio per noi, sembra
essere infatti una delle più radicate nel cuore dell’uomo moderno.
Al tempo stesso però proprio questa presunzione è la più radicale
negazione della figliolanza. In fondo questa nostra generazione
sembra fatta di eterni adolescenti, che rifiutano ogni dipendenza
dal Padre nella vana speranza di trovare così sé stessi. E se nell’a-
dolescente il rifiuto del padre umano è fisiologico – e in parte giu-
stificato dalle numerose imperfezioni dei nostri padri biologici –,
certo non può dirsi la stessa cosa in chi si pretenderebbe adulto.
Abbandonarsi può essere una prova terribile, eppure qui si trova
la chiave della pace interiore. «E ‘n la sua voluntade è nostra pace»
già cantava padre Dante33.
Sorprendentemente, le complicazioni e gli affanni della nostra
vita si sciolgono in un attimo quando rinunciamo a ogni egotismo
e semplicemente accogliamo la realtà con amore. Questo abbando-
no è possibile nella misura in cui rinunciamo a ciò che pensiamo
sia meglio per noi e ci rivestiamo invece di fede nella provvidenza
del Padre e di un amore che ci porti a darci a lui, a renderci docili e
disponibili come strumenti nelle sue mani, ma nell’attimo presente
e non in un futuro più o meno mitico che desideriamo per noi. Si
tratta di passare dal desiderio –un po’ infantile – di fare ciò che
amiamo alla determinazione di amare ciò che facciamo. In fondo
siamo come una buona massaia che deve preparare la cena con
quel che ha nella dispensa: forse ci sono stati giorni in cui pote-
vamo preparare grandi banchetti e oggi abbiamo solo un pugno
di riso e poche spezie, ma non possiamo per questo rinunciare a

Paradiso III,85. Vale la pena di citare un altro passaggio importante del discorso
33

di Piccarda Donati: «Anzi è formale ad esto beato esse/ tenersi dentro a la divina
voglia,/ per ch’una fansi nostre voglie stesse».

82
mangiare! Solo così, attraverso la nostra docilità, il mondo intero
potrà cambiare tutto intorno a noi.

Sia fatto anche il male?


Eppure c’è qualcosa che sembra stridere profondamente in
questo abbandono, qualcosa che sembra antiumano, che sembra
inaccettabile. Tutta la letteratura del Novecento è attraversata da
questo grido di protesta. Ad esempio, al padre gesuita che gli dice:
«Forse dovremmo amare ciò che non possiamo capire», sdegnato
il dottor Rieux replica: «No, padre, io mi faccio un’altra idea dell’a-
more; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove
i bambini sono torturati»34.
È l’inaccettabile mistero del male e della sofferenza, che certa-
mente non si può far coincidere con la volontà di Dio, e se pure
qualcuno potesse accettare una disgrazia o una malattia come
parte di un disegno più grande che ha di mira il bene non del sin-
golo individuo ma dell’umanità nel suo genere, come si potrebbe
dire a chi ha subito una deliberata cattiveria che quel tradimento,
quell’offesa, quell’abbandono erano volontà di Dio per lui? E in
verità che Dio sarebbe quello che in nome di un bene universale
tollera la sofferenza anche di un solo individuo?35
Il mistero del male è stata la prova suprema del figlio anche per
Gesù, che per la prima volta nell’Orto degli ulivi, di fronte al dolore

34
A. Camus, La peste, Bompiani, Milano 2017, p. 215 (ed. or. 1947).
35
Il grande merito filosofico di Nietzsche è quello di aver seppellito definitiva-
mente ogni teodicea basata sul Dio metafisico: «Troppe cose non gli riuscivano
a questo vasaio, che non aveva imparato a fondo il suo mestiere! Ma che egli si
vendicasse sui suoi vasi, sulle sue creature, per il fatto che gli riuscivano male –
questo era un peccato contro il buon gusto […] Basta con un dio così! Meglio
nessun dio, meglio farsi un destino con le proprie mani, meglio essere un folle,
meglio essere da se stessi dio!» ( F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per
tutti e per nessuno, edizione digitale Oscar Mondadori, posizione Kindle 4634). Se
sia possibile una teodicea dopo Nietzsche è una delle più appassionanti questioni
filosofiche oggi sul tappeto.

83
del tradimento, ha sentito scricchiolare il legame che univa la sua
volontà a quella del Padre.
Il solo modo di tenere insieme questa lacerazione è quello di
seguire lo stesso percorso di Gesù: accettare docilmente l’offesa
proprio per amore di colui che ci fa del male, perché è il solo mo-
do attraverso cui può giungere al mondo la redenzione; lasciare
che il male si accanisca contro di noi perché si spenga la sua furia
omicida; sopportare e resistere contro ogni accanimento, ma senza
opporsi, offrendo anzi sé stessi in sacrificio.
Il Padre non ama il male, certamente, né ama la sofferenza dei
suoi figli, e come potrebbe? Ma ama l’amore, ama immensamente il
fatto che anche nelle condizioni più disperate l’uomo resti capace di
sollevarsi al di sopra del mare della sua angoscia e restare umano.
Egli come padre soffre terribilmente della sofferenza dei suoi figli,
ma vuole la loro santità e per questa ragione non può proteggerli
da quel male, perché solo in questa prova terribile l’oro dell’amore
può essere purificato come dal fuoco.

Il perdono vince il male


Da parte sua il figlio che accetta di subire il male e se ne fa carico
compie davvero la volontà del Padre, perché con il suo amore dà
alla sofferenza un valore infinito. Il gesto di padre Kolbe, che riesce
ancora ad amare fino a offrire sé stesso nell’inferno di Auschwitz,
redime quello stesso inferno, ed è questo un miracolo di fronte al
quale gli angeli stessi rimangono stupiti. Morire perdonando è la
massima espressione del figlio, perché è la massima espressione
del Padre, perché – alla fine di tutto – Dio è perdono. Ed è perdo-
nando che il figlio compie e realizza autenticamente sé stesso nella
volontà del padre.
Pregare che sia fatta la volontà del Padre – anche nel dolore e nel
non senso – è accettare di scendere nell’inferno e restare figli, senza
ribellarsi, continuando a credere nonostante tutto (cf Gb 2,7-10).
Il figlio che, restando nel profondo del suo inferno, riesce ancora

84
a pregare dicendo: «Accada la tua volontà» redime quell’inferno,
spegnendone la fiamma in uno slancio di amore appassionato.
Nonostante la fatica interiore che comporta, questa preghiera di
abbandono porta con sé una grande crescita interiore. Accettando
la sua umiliazione, restando nell’inferno del nonsenso, l’uomo
impara l’umiltà e cresce quindi nell’amore. Silvano dell’Athos, un
grande santo della tradizione ortodossa novecentesca, descrive con
chiarezza questo processo: «Nella mia paura esclamai: “Signore,
vedi che i demoni mi impediscono di pregare. Dimmi tu cosa fare
perché fuggano lontano da me”. E il Signore mi confidò: “I demoni
non cessano di tormentare le anime orgogliose”. Replicai: “Signo-
re, illuminami: quali pensieri renderanno umile la mia anima?”.
Questa la risposta che ricevetti: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e
non disperare!”. Da allora iniziai a fare così e tutto il mio essere
ha trovato pace in Dio»36.
E d’altra parte proprio questo amore esige una tensione assoluta
contro il male: colui che pure accetta il dolore per sé stesso met-
terà ogni fibra del suo essere nell’evitare che altri soffrano. Anzi,
proprio perché ha tanto sofferto, sarà ancora più solidale con chi
soffre e vorrà a ogni costo spegnere ogni dolore. Pregare perché
accada la volontà di Dio include uno sforzo incessante perché
ogni male sia eliminato dal mondo. È questa la grande differenza
tra abbandono e quietismo: il figlio accoglie la realtà così come è,
ma al tempo stesso accoglie come parte della realtà la volontà di
amore del Padre, da cui nasce quel dovere di compiere il bene che
è il segno più distintivo dell’uomo.
Si vede allora come le tre grandi richieste del Padre Nostro
attingono essenzialmente alle tre virtù teologali: non si può santi-
ficare il nome di Dio senza chiedere il dono della Fede, invocare il
regno di Dio significa chiedere il dono della Speranza e compiere
la volontà di Dio è immergersi nella sua Carità.

36
Silvano dell’Athos, Non disperare. Scritti inediti e vita, Qiqajon, Magnano 1994,
p. 78.

85
Pregare è obbedire
Questa carità operativamente si traduce in obbedienza. In
qualsiasi modo lo intendiamo, l’essere figlio sottintende l’essere
obbediente: figlio è colui che riconosce l’autorità del Padre e si
sottomette a lui. Tuttavia, poiché nasce dall’abbandono questa
obbedienza sarà del tutto differente da quella cieca e passiva del
servo: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello
che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò
che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
L’amico del Figlio, che diventa figlio a sua volta, obbedirà in un
modo creativo e responsabile, proprio di colui che si coinvolge nella
«impresa di famiglia» con la propria libertà e la propria iniziativa,
ma al tempo stesso sapendo che non è suo il progetto né la strategia
generale di azione.
Alla fine l’obbedienza del servo è quella farisaica, scaturisce da
quella «fede dei demoni» che abbiamo già menzionato, è un’ob-
bedienza che nasconde una volontà di controllo, è tipica di chi
accetta di obbedire formalmente, ma in realtà lo fa per ritagliarsi
degli spazi interiori di autonomia che gli consentano di piegare la
legge a suo vantaggio per poter evitare quella conversione del cuore
tanto faticosa e dolorosa, mentre l’obbedienza del figlio può essere
più creativa e libera proprio perché scaturisce da una adesione del
cuore.

Obbedienza e libertà
Nella vita di Gesù ci sono molti esempi di questa obbedienza
libera e creativa. Tutte le contese con i farisei si basano di fatto
su questo punto, cioè su come vada intesa l’obbedienza al Padre.
Tipica ad esempio è la contesa sul Sabato: è evidente che Gesù ama
e osserva il Sabato in sé stesso, e quando dice «il Figlio dell’uomo
è più grande del Sabato» non intende invitare alla disobbedienza,
quanto guidare a una interpretazione più alta della lettera della

86
legge (cf Mt 12,1-14). E d’altra parte proprio Gesù ammonisce se-
veramente contro l’ipocrisia di chi vuole usare il suo insegnamento
per scavalcare la legge: «Non crediate che io sia venuto ad abolire
la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno
compimento» (Mt 5,17). Il fatto stesso che Matteo nel suo Vangelo
senta il bisogno di inserire questa puntualizzazione significa che
fin dall’inizio nel Cristianesimo c’è stata la tendenza a interpreta-
re la libertà del figlio come un essere svincolati e autonomi dalla
tradizione, e che l’evangelista è ben conscio del pericolo di questa
deriva.
Si può comprendere questa tensione tra legge e libertà con un
esempio tratto dal mondo biologico: molte specie animali vivono
corazzati in un esoscheletro che ha il compito di sostenere e pro-
teggere i fragili organi interni. Se però l’organismo cresce di di-
mensioni e complessità, questo sistema diventa assai poco pratico:
se ancora una formica può trovare utile vivere in una corazza, un
elefante non potrebbe nemmeno muoversi sotto un peso simile! Per
di più la durezza della struttura esterna, oltre che rendere goffi e
impacciati i movimenti, toglierebbe ogni sensibilità, finendo con
l’isolare l’animale dall’esterno, rendendo difficili le relazioni e le
interazioni con il mondo. Così gli animali più complessi si sono
dotati di un endoscheletro, infinitamente più leggero e flessibile,
che lascia libertà ai movimenti e non separa l’organismo dal mon-
do, rendendo possibile sensibilità e interazioni37.
Accade la stessa cosa nel nostro rapporto con la legge. La legge
esterna ci protegge e ci fa sentire sicuri, ma al tempo stesso ci rende
rigidi e impacciati nei movimenti e nel contatto con gli altri, e so-
prattutto riduce di molto la nostra sensibilità e capacità di coinvol-
gerci nel dolore e nella vita delle persone che incontriamo. Per que-
sto i profeti invitano a scrivere la legge nel cuore (cf Ger 31,33-34),
perché solo così diventa possibile coniugare obbedienza e libertà.

Un buon esempio di questa ambivalenza si trova in 1Sam 17,38-39, dove il re


37

Davide è incapace di camminare indossando l’armatura e le armi di Saul.

87
La legge scritta nel cuore è come un endoscheletro: è interna,
interiorizzata, è accolta e recepita con tanta perfezione che quasi
non si vede dall’esterno. Il Figlio è così obbediente che sembra
obbedire senza sforzo, quasi che non obbedisca, ma affermi sé stes-
so, tanto ha fatto propria la volontà del Padre. In questo modo la
legge sostiene la vita ma senza impedire quella flessibilità e quella
mobilità altrettanto necessarie a vivere. Fedeltà e leggerezza non
sono così in contraddizione!
Solo chi ama e conosce profondamente la legge può interpretarla
con tanta sicurezza da avere una coscienza capace di agire respon-
sabilmente. Proprio questo significa «dare pieno compimento» alla
legge di Dio. Agire secondo coscienza significa essere capaci di
dare una giusta interpretazione della volontà del Padre e proprio
questo permette una libertà straordinaria. D’altra parte tale co-
noscenza è possibile solo dentro una relazione viva e vitale, e non
certo attraverso uno studio meramente teorico. Solo dall’amore, e
non dallo studio, può nascere una retta coscienza.
L’obbedienza del figlio non è la sottomissione a un ordine cieco
e impersonale, ma a una autorità riconosciuta e amata come Padre.
Nasce dall’abbandono e quindi da una relazione, da un rapporto, e
richiede un’adesione libera e responsabile. Insomma: l’obbedienza
è strettamente connessa alla virtù teologale della carità.
L’autorità che domanda la nostra obbedienza è la stessa che fon-
da la bontà del nostro essere, per questo non si può rinnegare quella
senza perdere questa. In ultima analisi obbedire a Dio significa
obbedire alla verità e alla sensatezza dell’essere, e quindi in astratto
di per sé sarebbe comunque naturale e auspicabile, è qualcosa cioè
che dovremmo fare in ogni caso.
Purtroppo però l’uomo ama così tanto la propria libertà che è
capace perfino di fare una sciocchezza, sapendo che è una scioc-
chezza, pur di affermare sé stesso.
Sì, l’uomo ama la libertà più della verità, per questo diventa
capace di una vera obbedienza solo quando ama il Padre più di sé
stesso, e dunque perfino più della propria libertà. E d’altra parte

88
solo perché imparando l’obbedienza ha imparato la dimenticanza
di sé, solo perché non ha più la libertà come idolo, può essere ve-
ramente e pienamente libero.

La fatica di obbedire
Tuttavia è innegabile che in ogni obbedienza c’è una fatica.
Perfino Gesù ha dovuto lottare per obbedire, non perché abbia
mai dubitato di voler obbedire, ma perché ha dovuto sottomettere
il suo turbamento e la sua angoscia38. Aderire alla volontà di Dio
ci impone uno stile di vita soprannaturale, cioè al di sopra della
natura umana, ed è quindi logico e comprensibile che tutto in noi
si ribelli di fronte a questa pretesa. Direi anzi che se uno non ha
mai sperimentato la fatica dell’obbedienza, molto probabilmente
sta illudendo sé stesso, forse si è autoconvinto di obbedire, ma in
realtà sta assecondando i propri desideri.
Il fatto è che la rinuncia a sé stessi è per forza difficile. Eppure
anche se fatica a obbedire, il figlio lo fa con gioia, obbedisce per-
ché ama. Contro tutto ciò che ci insegna la cultura dell’omicidio
del padre, l’obbedienza è una forma dell’amore: qualsiasi amore
domanda obbedienza. Non è forse vero che un uomo che ama una
donna confessa di non poter vivere senza di lei? E quale sottomis-
sione è maggiore di questa? E una madre non deve in un certo
modo «obbedire» essa stessa ai suoi figli?39
Non importa chi sei, non importa cosa fai, sempre nella tua vita
dovrai obbedire a qualcuno, perché ogni scelta che facciamo, cioè
ogni atto di libertà genera una responsabilità e quindi richiede

38
«Essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte della vita di Gesù. L’u-
nità di volontà col Padre è il nocciolo del suo essere in assoluto. Nella domanda
del Padre nostro avvertiamo, però, sullo sfondo soprattutto l’appassionata lotta
interiore di Gesù durante il suo dialogo nell’Orto degli ulivi» (Benedetto XVI,
Gesù di Nazareth, cit., p. 180).
39
Non nel senso che fa ciò che i figli dicono, ma nel senso che deve obbedire alla
loro realtà, alla loro condizione, che spesso la privano della sua autonomia.

89
un’obbedienza. Una ipotetica vita senza obbedienza sarebbe una
vita senza responsabilità, senza legami, senza appartenenze, e io non
credo che qualcuno voglia realmente vivere così. La sola scelta che ci
è data è tra l’obbedire per amore (e allora in realtà la nostra obbedien-
za è a Dio, chiunque sia la persona concreta a cui ci sottomettiamo)
e l’obbedire per forza (e allora è al diavolo che stiamo obbedendo,
perfino se formalmente obbediamo al nostro superiore religioso).
L’albero si giudica dal frutto e la qualità della nostra obbedienza
si giudica dal gusto che lascia nel cuore. Se l’obbedire ci dona un
senso di dolcezza, che si traduce in pace e serenità, probabilmente
nasce dall’amore ed è dunque a Dio che stiamo obbedendo; se
invece genera in noi l’amarezza della rabbia, dell’invidia e del
risentimento, allora non è da Dio e va corretto.
Per questo solo chi obbedisce a Dio è veramente libero. Chiun-
que tu sia, qualsiasi cosa tu faccia nella tua vita, sempre dovrai
obbedire a qualcuno, ma se la prima obbedienza è a Dio allora tutte
le altre obbedienze che la vita ci chiede hanno un limite intrinseco:
l’obbedienza a Dio genera la libertà della coscienza, che è la radice
di ogni libertà umana.

Come riconoscere la volontà di Dio?


Una cosa è certa: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi
(cf 1Tim 2,4). Gesù stesso è chiarissimo: «È volontà del Padre
vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda»
(Mt 18,14). La volontà di Dio per me quindi è una volontà di bene
e di salvezza, coincide con la mia gioia e la mia santificazione. In-
nanzitutto Dio vuole che io sia felice: qualsiasi lettura della volontà
di Dio, qualsiasi discernimento deve partire da qui. Dio vuole che
io diventi suo figlio, così da esprimere tutta la mia potenzialità
umana. È questo il mistero della volontà divina, il progetto sull’uo-
mo e sul mondo, che è stato a noi rivelato (cf Ef 1,5-9).
A noi resta da comprendere come questo disegno generale si
esprime nella concretezza dell’oggi, nelle mille piccole scelte che

90
formano una vita, e sebbene il più delle volte nelle scelte quotidiane
il semplice buon senso possa essere una guida sufficiente, accade
ogni tanto che il Signore domandi ai suoi figli cose sconcertanti,
che possono sembrare perfino contrarie alla natura umana. Come
essere sicuri che sia proprio la sua volontà quella che ci appare?
Fermo restando che il più delle volte è sufficiente un certo sano
realismo a comprendere cosa fare, in quei rari casi in cui il Signore
ci domanda delle scelte soprannaturali, che si discostano cioè da
quella naturalezza che è la nostra guida ordinaria, ci sono alcuni
segnali indicatori che sempre accompagnano la manifestazione
della volontà di Dio.
Ogni persona che si accinge a conoscere la volontà di Dio deve
innanzitutto aver fatto un esercizio previo di ascesi, sintonizzan-
dosi sui desideri di Dio e dunque rinunciando davvero a sé stesso
e alla propria volontà, mettendo da parte aspirazioni e propositi
anche legittimi, per mettersi davvero in ascolto di un altro da lui.
Fatto questo, poi cercherà di comprendere dov’è il maggiore amore.
Dio è amore: non può quindi mai provenire da lui una ispirazio-
ne che non sia mossa dall’amore. Un altro segnale indicatore è la
compresenza di croce e gioia. Il diavolo può dare l’una e l’altra,
ma non può darle insieme, è tipico della Grazia farci percepire la
sofferenza vissuta per amore come una gioia.
Un caso particolare è quello dell’obbedienza al superiore richie-
sta ai religiosi. È pateticamente ovvio che non sempre i superiori
esprimono la volontà di Dio, sono peccatori e fallibili come tutti
alla fin fine, e tuttavia è sempre conveniente obbedire, se non altro
perché attraverso questa obbedienza si ottiene un grande frutto
di purificazione di sé stessi e del proprio desiderio, e diventa così
sempre più trasparente il progetto di Dio per noi.
In tutti i casi la preghiera perché si compia la volontà di Dio ci
scava dentro, fino a rendere il nostro cuore malleabile e permeabile
dallo Spirito Santo. Quando questa docilità comincia a costare
sangue, allora anche noi come Gesù impariamo a essere figli at-
traverso il dolore.

91
VI

ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς


come nel cielo anche sulla terra

La dinamica dell’Incarnazione
Il nostro Dio non è il Primo Motore immobile dei filosofi, non si
limita a starsene lassù sul suo trono a guardare distaccato il ribol-
lire di questo mondo. Al contrario fin dall’inizio egli «scende» dal
suo cielo per coinvolgersi nelle vicende degli uomini. Certamente,
Dio è altro da noi, non può essere confuso con questo mondo, ep-
pure è anche uno che si sporca le mani, che non tiene in alcun conto
la sua regalità e la sua dignità divina, e non ha vergogna di accom-
pagnarsi a ladri e assassini, quali noi siamo. È un Dio che scende,
che si abbassa dal suo cielo verso questo mondo. Fin dall’inizio la
Bibbia ci ripete che un cielo che accettasse di avere sotto di sé una
terra ridotta a inferno non potrebbe in alcun modo dirsi paradiso.
Per questo fin dall’inizio della storia l’obbiettivo di Dio è quello
di abbattere il muro di separazione che il peccato dell’uomo ha
innalzato e tutta la storia biblica può essere letta come il processo
di riconciliazione tra cielo e terra, processo che si compie nella
lenta avanzata dell’Incarnazione: un movimento che comincia
quando il Signore fa alleanza con l’uomo e si crea un suo popolo
in questo mondo, e all’interno di esso poi si sceglie degli uomini
che riempie del suo stesso Spirito, fino a giungere al Natale, in cui
lui stesso si unisce alla carne umana e diventa il fondamento di
un nuovo popolo, processo che termina con l’Ascensione, quando
quella medesima carne umana entra in cielo, fino a giungere al
giorno mirabile dell’Apocalisse in cui sorgeranno un cielo nuovo

92
e una terra nuova, non più nemici, ma riconciliati, il giorno in cui
cielo e terra saranno semplicemente due nomi diversi per indicare
la medesima cosa (cf Ap 21,1-7).
Nell’attesa di quel giorno noi preghiamo perché questa terra
somigli sempre di più al cielo, perché sia il luogo in cui il nome
di Dio è santificato dagli uomini con la stessa perfezione degli
angeli; dove il suo regno coincide con la civiltà dell’amore, dove
cioè tra gli uomini non regna più il potere, ma la benevolenza; e la
sua volontà coincide definitivamente con tutto ciò che è e non c’è
alcuno spazio per il male.
Per pregare in questo modo bisogna avere un «doppio passa-
porto», essere di casa tra gli uomini come tra gli angeli, sentirsi a
proprio agio in una cattedrale come nelle periferie di una metro-
poli. Bisogna amare immensamente la carne umana, con tutte le
sue contraddizioni e le sue sofferenze, e al tempo stesso desiderare
la purezza del cielo con ogni fibra del proprio essere.
È quello che è espresso mirabilmente da un testo risalente alle
origini della Chiesa: «I cristiani né per regione, né per voce, né
per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non
abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né
conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella
scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a
una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in
città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi
ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano
un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.
Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto
come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni pa-
tria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»40.
Chiedere che la terra sia come il cielo significa farsi carico del
mondo intero e, come nel mito di Atlante, sollevarlo a Dio.

40
Lettera a Diogneto V,1-8.

93
Si può vivere così?
Ma davvero si può vivere in questo mondo come cittadini del
cielo? Davvero è possibile una doppia cittadinanza? Non c’è una
pretesa troppo alta in questo ideale? Non si nasconde qui una il-
lusione capace di schiantare la coscienza e che alla fine dei conti
genera una vita ipocrita perché impossibile? Non dovremmo con-
siderare il saggio ammonimento di Elrond, che nel Signore degli
Anelli avverte l’entusiasta Gimli che un giuramento affrettato può
anche spezzare un cuore?41
Sicuramente stiamo parlando di una vita soprannaturale e in
quanto tale al di sopra della nostra natura, cioè della nostra ca-
pacità. Vivere in questo mondo come cittadini del cielo significa
lanciarsi in un’avventura al di sopra delle forze umane, perché è
al di sopra delle forze umane perdonare il nemico, amare senza
cercare il proprio interesse, scegliere la povertà contro la ricchezza,
fare del bene ed essere puniti come ladri, essere insultati e benedire.
Eppure non ci stanchiamo di tentare, siamo così innamorati di
questa bellezza, così presi da questa grazia che non possiamo ras-
segnarci a niente che sia meno di questo. Tu ci hai sedotto Signore
con la tua bellissima vita e, se non possiamo essere come te, allora
niente in questo mondo ci interessa!
Realisticamente allora la vita sarà sempre un continuo tendere
a un di più, sapendo però che quel di più non possiamo darcelo da
soli: non siamo capaci di santificare il nome di Dio, né di vivere
secondo il suo regno e men che meno di compiere la sua volontà,
se non è lui a fare tutte queste cose in noi: «Senza di me non potete
fare nulla» (Gv 15,5).

41
«“Sleale è colui che si accomiata quando la via si oscura”, disse Gimli. “Può
darsi”, disse Elrond, “ma colui che non ha visto il calar della notte, non giuri di
inoltrarsi nelle tenebre”. “Eppure il giuramento prestato può dar forza a un cuore
tremante”, ribatté Gimli. “Può anche spezzarlo”, disse Elrond» (J.R.R. Tolkien, Il
Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1977, p. 367).

94
Ci salva dunque il perdono, ci salva il sacramento della Peniten-
za. Fin dall’inizio il progetto di Dio sull’uomo prevede la possi-
bilità di quel fallimento che è il peccato e per questo il perdono è
parte integrante della Creazione e in un certo senso ne è il vertice,
perché, come scrive sant’Ambrogio nel mirabile finale dell’Hexa-
meron, Dio si riposa perdonando: «Creò il cielo, e non leggo che si
sia riposato; creò la terra e il mare, e non leggo che si sia riposato;
creò il sole la luna e le stelle, e non leggo che nemmeno allora si sia
riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che, a questo punto, si è
riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati»42.
Sì: è il perdono di Dio che rende possibile questo inesausto ten-
dere al cielo, questa aspirazione sempre frustrata e sempre rinno-
vata che siamo noi, che ci rende sopportabili a noi stessi fintanto
che viviamo in questa contraddizione, in questo ossimoro che è la
vita umana.
Una purezza che voglia fondarsi sulle nostre capacità e non sulla
misericordia di Dio è una fede senza amore, una mera ideologia che
distrugge l’uomo e lo condanna a vivere nella nevrosi o nell’ipo-
crisia. Alla fin fine ciò che ci distrugge è la pretesa di essere santi
(cioè di vivere in terra come se fossimo in cielo) con le nostre sole
forze, è l’illusione di poter santificare il Nome, costruire il Regno
o fare la Sua volontà unicamente confidando in noi stessi.
Al diavolo non dispiace troppo che tu aspiri alla santità, purché
cerchi di essere santo confidando in te stesso e nella tua virtù.

42
Ambrogio, Esamerone, Città Nuova, Roma 2002, p. 302.

95
Parte terza
LE RICHIESTE PERSONALI
Se la «preghiera del Signore» si fosse fermata alle prime tre
grandi richieste, sarebbe stata una preghiera per angeli, inadatta
all’uomo. È bello invece osservare che, aggiungendo la seconda se-
rie di petizioni, Gesù ci insegna a non dimenticare il nostro corpo,
la nostra umanità, la nostra concretezza esistenziale. Nessuno dei
bisogni fondamentali è qui dimenticato, anzi, il Signore ci insegna
proprio a pregare partendo dal bisogno.
Non pochi credono che per vivere una vita spirituale sia giusto
mettere da parte le nostre esigenze, molti dimenticano che non
siamo angeli, che abbiamo legittimi bisogni fisici e psicologici
che manifestano la nostra stessa umanità, e finiscono così con il
sopprimere una parte di sé stessi, una parte che prima o poi però
si vendicherà, prendendo il sopravvento su uno spirito che, non
avendo alcuna base solida, era in realtà inconsistente.
Occorre quindi distinguere accuratamente per precisare bene
il nostro linguaggio. Mentre ha prevalso nel mondo moderno
l’antropologia aristotelica, sostanzialmente dualista, che vede
l’uomo come un composto di anima e corpo, io preferisco seguire
una concezione dell’uomo basata più sulle Lettere di Paolo rilette
attraverso i grandi Padri greci, che identifica nell’uomo tre poli: la
carne, la psiche e lo spirito.
Con carne intendiamo non soltanto il corpo fisico, cioè ossa,
muscoli, eccetera, ma anche tutto lo psichismo che è fondamen-
talmente connesso al corpo, come ad esempio gli istinti primari,
quelli che abbiamo in comune con gli animali. La psiche invece è

99
tutto ciò che nasce dall’intelligenza, dalla volontà e dal sentimento,
ed esprime una realtà più propriamente umana, ma non ancora
divinizzata. Il complesso di carne e psiche è il nostro corpo e vive
ciò che chiamiamo la vita biologica, che – seguendo il Greco dei
Padri – potremmo chiamare bios, riservando il nome di zoe alla
vita divinizzata dallo Spirito.
Tutto questo non è ancora il terzo elemento che caratterizza
l’umano, ovvero lo spirito, o pneuma nel linguaggio paolino.
Questo terzo elemento è il più difficile da definire, ma sicuramen-
te non deve essere confuso con la psiche. Ormai con sempre più
chiarezza la scienza ha dimostrato le basi biochimiche del sentire
e del pensare, così che l’attività psichica è sempre più solidamente
interconnessa con quella della carne. Ne consegue che se noi iden-
tificassimo lo spirito con la psiche finiremmo con l’escludere ogni
possibile trascendenza dalla definizione dell’uomo, fino a rendere
plausibile la cinica battuta di John Milton, ovvero il diavolo di un
bel film intitolato per l’appunto L’avvocato del diavolo: «L’amore?
Sopravvalutato, dal punto di vista biochimico non è diverso da una
scorpacciata di cioccolata»43.
Lo spirito nell’uomo invece è altro, è nell’uomo senza essere
dell’uomo, è il soffio divino dentro di lui, è come un legame costan-
temente presente e che non può essere mai del tutto spezzato tra
l’uomo e Dio. Quando l’uomo lascia che il suo corpo biologico sia
riempito da questo soffio, questo corpo diventa corpo pneumatico.
È ancora un corpo umano, ma è anche più che umano, compie così
quello che era il progetto di Dio fin dalla creazione: un essere che
fosse davvero intermedio tra il mondo della materia e quello dello
spirito, un animale destinato a diventare Dio44.

43
Titolo originale The devil’s advocate, è un film del 1997, diretto da Taylor Hack-
ford, con Keanu Reeves e Al Pacino.
44
Forse in effetti è san Tommaso d’Aquino quello che esprime più compiutamente
la verità dell’uomo quando accetta l’antropologia bipartita di Aristotele, ma la cor-
regge, introducendo il concetto di «grazia infusa» che rappresenta appunto il terzo
elemento, lo spirito, dell’antropologia patristica. Il vantaggio del sistema tomista

100
Quando al contrario l’anima dimentica il corpo e le sue esigenze,
apparentemente si slancia libera e vola verso il Signore ubriacan-
dosi di bellezza e di gioia ma, poiché anima e corpo non possono
separarsi, se il secondo rimane indietro, il legame che li unisce si
tende come un elastico e riporta l’anima indietro, con un effetto
di rimbalzo che può essere catastrofico e non di rado riconduce
la persona molto più indietro, sia da un punto di vista etico che
da un punto di vista psichico, rispetto al punto da cui era partita.
Per tutto questo il Signore ci insegna la preghiera dei figli, ma
ce la insegna a partire dal nostro bisogno umano. Perché non di-
mentichiamo mai che il nostro destino di essere simili a lui, coeredi
della divinità, non prescinde dalla nostra biologia e dalla nostra
psiche, e anzi le presuppone.

è che in questo modo lo spirito non è visto come un terzo elemento contrapposto
ai primi due, ma piuttosto come il soffio che li vivifica entrambi dall’interno.
Tanto il nostro corpo come la nostra psiche, nel momento in cui sono animati
dallo spirito, diventano effettivamente un’altra cosa. È chiaro tuttavia che non è
questa la sede per una trattazione dettagliata della questione.

101
VII

τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον


il nostro pane, quello necessario, dacci oggi

Il pane necessario
Il termine epiousion – che nell’uso liturgico diventa «quotidia-
no» – è di difficile traduzione, perché è un unicum. È sconosciuto
sia al Greco classico che a quello biblico, lo troviamo solo qui e nel
parallelo lucano. Noi non sappiamo quale fosse il termine aramai-
co originariamente usato da Gesù, quindi per tradurre nelle nostre
lingue moderne possiamo solo fare ipotesi e conviene, seguendo
Origene, rifarci all’etimologia45. L’etimo epiousion viene dall’asso-
ciazione di due parole: epì, che significa «sopra», e ousìa, che viene
dal verbo essere e indica la sostanza, l’essenza, la natura di una
cosa. Due traduzioni sono quindi possibili: «necessario all’esisten-
za» e «al di sopra della natura», da cui il latino supersubstantialis
usato da Girolamo nella traduzione latina del Vangelo di Matteo.
Personalmente propendo per la prima interpretazione: ciò che
chiediamo a Dio nel Padre Nostro è il pane necessario per vivere, a
patto però di non dimenticare che un cristiano non limiterà mai la
sua vita alla semplice sopravvivenza biologica. Quindi nel concetto
di «pane necessario» deve rientrare anche il pane soprannaturale
di cui parla Girolamo, che è tanto l’Eucaristia quanto la Parola di
Dio quanto la preghiera e la conoscenza di Cristo. Non si può se-
parare il concetto di pane necessario da quello di pane eucaristico.
Questo significa anche imparare a ricevere ogni pane come una
eucaristia, a scorgere il senso eucaristico di ogni bene che nutre la
45
Origene, De Oratione XXVIII,7, in Dio nostro padre, cit., p. 66.

102
nostra vita. Sì, c’è un modo eucaristico di vivere l’amplesso tra gli
sposi cristiani e c’è un abbraccio eucaristico tra gli amici. Allude
all’Eucaristia il godimento di respirare la prima aria del mattino
e il profumo del caffè della prima colazione. È come un’eco del
paradiso terrestre, un modo di vivere e di godere che si avvicina
a quello che doveva essere quello dei nostri progenitori prima del
peccato e che è l’obiettivo di ogni ascesi cristiana: non la rinuncia
al piacere, ma la scoperta del vero piacere, che è ricevere sé stessi
in dono.
Per questo vogliamo imparare la castità dei sensi, perché cresca
in noi quel senso spirituale che ci fa capaci di godere dell’eucaristia
in ogni cosa. «Si tratta insomma di accogliere ogni giorno come un
giorno di grazia […]. Noi chiediamo a Dio di ricevere ogni pane,
ogni sussistenza, come se fosse l’Eucaristia, cioè la comunione al
suo corpo, alla sua presenza. […] C’è un modo di lavarsi, di vestirsi,
di nutrirsi, sia di cibo che di bellezza, un modo di accogliere gli
altri che è eucaristico»46.
In definitiva ricevere dalle mani di Dio il pane epiousion signi-
fica “fare eucaristia” in ogni momento e scoprire che ogni “pane”
può essere corpo, cioè presenza, di Cristo se ricevuto da figli.
Anzi, c’è anche una responsabilità, o meglio una vocazione, che
si prefigura in questo. È compito dell’uomo trasformare la terra in
pane, ovvero rendere il mondo adatto alla vita, fare del creato un
giardino. Si vede qui quella dimensione ecologica della morale che
la teologia e il magistero stanno di recente scoprendo, ma è altresì
e ancor di più compito dell’uomo fare di quel pane una eucaristia,
rendere cioè questo mondo e questa vita concreta che viviamo un
sacramento. Questo non può avvenire senza l’azione sacerdotale
dell’uomo. La natura non è in sé stessa né sacra né divina, eppure
– così come il pane – è consacrabile e può diventare per noi segno
e presenza del divino.

O. Clément, Il Padre nostro, in O. Clément - B. Standaert, Pregare il Padre Nostro,


46

Qiqajon, Magnano 1988, p. 104.

103
Il pane per vivere
Abbiamo bisogno di ricevere forza per vivere. Non abbiamo
in noi stessi la fonte della vita, nessuno tranne Dio può vivere
attingendo a sé stesso, così che il nutrimento è proprio una delle
caratteristiche che identificano i viventi. Non parlo solo del pane
biologico che sostiene il nostro corpo: altrettanto essenziale per vi-
vere è l’autostima, il sentirsi amati, la consapevolezza della propria
utilità, e attingiamo questo nutrimento dalla famiglia, dal lavoro,
dal successo, dall’amicizia, cose tutte che possono ben dirsi «pane»
per il nostro spirito.
Eppure tutte queste fonti di alimento sono parziali e precarie,
sia perché devono essere costantemente rinnovate, sia perché so-
no sempre minacciate: il lavoro lo si può perdere, la famiglia può
sfasciarsi, niente è più effimero del successo, niente è più fragile
dell’amicizia… Tutto passa, tutto muta, ma ci sarà un pane che
non finisce? Ci sarà una fonte di vita che mette definitivamente al
sicuro il nostro cuore?
A volte il Signore permette che nel nostro piccolo facciamo l’e-
sperienza di Giobbe, che siamo privati di tutto, per ricordarci che
solo lui basta, per liberare il nostro cuore dall’attaccamento alle
cose effimere, per insegnarci a risalire sempre dal dono al dona-
tore. Sale allora l’invocazione: «Dacci il pane». È il riconoscimento
semplice e onesto della nostra dipendenza da Dio. Non possiamo
nutrirci da soli, non possiamo provvedere ai nostri bisogni, non
possiamo renderci felici, in tutto dipendiamo da colui che è il fon-
damento della nostra vita.
D’altra parte invocare da Dio il nostro pane significa anche
riconoscere che in ultima analisi solo lui ha il potere di renderci
davvero felici. Se potessimo darci da soli il pane, perché chiederlo?
Solo Dio può saziare il nostro bisogno fino in fondo.

104
Nostro, ma non nostro
La forma grammaticale usata dal Vangelo è insolita, analoga
a quella già usata prima, quando ci si rivolge a Dio chiamando-
lo «Padre nostro, quello nei cieli»; allo stesso modo qui il testo
dice: «pane nostro, quello necessario». Gli aggettivi «nei cieli» e
«necessario» appaiono così come limitazioni e specificazioni del
pronome possessivo «nostro»: Dio ovviamente non è nostro nel
senso che ci appartiene, appunto perché è nei cieli, e allo stesso
modo il pane è detto nostro perché ci è necessario per vivere, ma
non perché ci appartiene, anzi lo dobbiamo chiedere e ricevere in
dono continuamente.
L’uomo è un fascio di bisogni, la Bibbia ce lo ricorda spesso.
È una creatura fragile e passeggera, non può aggiungere un solo
giorno alla sua vita, dipende in tutto dalle persone che ha intorno
e dall’ambiente in cui vive, ha fame e sete, è solo, triste, spesso
deluso dalla vita e abbandonato. Eppure Dio si prende cura di lui.
Per ogni infermità, per ogni bisogno, per ogni solitudine c’è un
«pane». Perfino i capelli del nostro capo sono tutti contati e non
c’è lacrima che non venga consolata, non c’è bisogno umano che
non trovi la sua sazietà nel seno del Padre.
La fiducia del figlio nella versione di Matteo ha il coraggio di
chiedere una risposta immediata alla provvidenza del Padre: dam-
mi il pane necessario e dammelo oggi. Non c’è dilazione, non c’è
attesa: domani ci saranno altri bisogni e altri pani, ma oggi dammi
il pane di cui oggi ho bisogno. Luca, nel passo parallelo, sottolinea
ancor di più l’atteggiamento fiducioso dell’orante sostituendo «og-
gi» con «ogni giorno».
Proprio questa fiducia che oggi riceveremo in dono il pane ne-
cessario fonda il rifiuto di capitalizzare. I doni di Dio non possono
diventare un possesso dell’uomo, come la manna nel deserto, pena
perderne il valore e la bellezza (cf Es 16,16-20). Perfino la grazia di
Dio, se pretendiamo di farne un possesso permanente, imputridi-
sce, mette i vermi e muore.

105
La santa precarietà
D’altra parte proprio questa certezza nella provvidenza è ciò
che permette di vivere in pace in mezzo alla precarietà della vita.
È vero: siamo bisognosi di tutto, ma il Padre provvede a noi e io
ho fiducia che come provvede oggi farà anche domani. Di fronte
alla tragica incertezza del domani «esistono solo due vie di uscita:
l’angoscia, con tutti i modi per sfuggirla, senza grandi risultati
come ben sappiamo, oppure la preghiera»47.
Il verbo «pregare» ha la stessa radice dell’aggettivo «precario»:
prega chi è precario, cioè colui che non si illude di essere autosuf-
ficiente, anzi conosce bene i propri bisogni e li ha ben presenti.
Pregare a partire dai propri bisogni richiede umiltà, realismo,
conoscenza di sé e tanta fiducia che il Signore ha potere di colmare
tutti i nostri desideri e molto di più.
Questa precarietà, consapevolmente vissuta e accettata, è uno
degli elementi che ritorna più spesso nel Vangelo, tanto da poterla
considerare come un elemento essenziale dell’essere figlio. «Non
preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa
berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno
in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete
bisogno» (Mt 6,31-32). La tradizione cristiana ha recepito questa
indicazione nel consiglio evangelico della povertà, che non è mai
amata per sé stessa, ma in quanto appunto è un abbandonarsi alla
provvidenza di Dio.
Chiedere a lui il pane necessario per l’oggi equivale a mettere
il nostro futuro nelle sue mani. È una rinuncia a programmare e
progettare la nostra vita, è il rifiuto di ogni accumulo, di ogni pre-
videnza, appunto perché crediamo che il nostro Padre provvederà
a noi molto meglio di quanto faremmo noi stessi.
Questa fede nella provvidenza diventa così una fonte di energia
permanente che scaturisce dal nostro intimo, da cui possiamo co-

47
O. Clément, Il Padre nostro, cit., p. 103.

106
stantemente attingere la nostra vita spirituale. Potrei perdere ogni
cosa: lavoro, amici, famiglia, perfino la comunione con la Chiesa e
il pane supremo dell’Eucaristia, ma se continuo ad avere fiducia nel
Padre avrò in me stesso una sorgente di vita che non può essermi
tolta, una fonte inesauribile che sempre si rinnova e mi fa vivere al
di là e al di sopra di ogni mio bisogno.

Il pane eucaristico
In questa riflessione sul pane necessario è impossibile non fare
riferimento anche al pane eucaristico inteso in senso stretto. Del
resto, praticamente tutti i Padri della Chiesa interpretano così
questa petizione del Padre Nostro48.
Si corre il rischio di diventare retorici e banali nel sottoline-
are l’importanza dell’Eucaristia nella vita cristiana. Soprattutto
nell’epoca moderna, anche per reazione al protestantesimo, il pane
eucaristico è diventato il carattere distintivo della fede cattolica,
tanto che molti ritengono più corretto identificare i cristiani come
coloro che partecipano all’assemblea eucaristica, piuttosto che
semplicemente in base al Battesimo.
48
Due soli esempi, il primo da Tertulliano: «È Cristo infatti il nostro pane, perché
Cristo è vita e anche il pane è vita […]. Pertanto chiedendo a Dio il pane quotidia-
no noi lo preghiamo di poter vivere sempre in Cristo e di non essere mai separati
dal suo corpo» (De Oratione VI,2); e il secondo da Origene: «Poiché certuni pen-
sano che noi siamo invitati a chiedere il pane per il corpo, è giusto che, rimossa
subito la loro erronea opinione, stabiliamo la verità sul pane supersostanziale.
Bisogna rispondere a costoro perché mai Colui che dice di chiedere cose celesti e
grandi – non essendo celeste il pane che ci viene dato per la nostra carne né grande
preghiera è quella di chiederlo – ordini di elevare al Padre la supplica per quello
che è terreno e piccolo, come se Dio secondo loro si fosse dimenticato dei suoi
insegnamenti» (De Oratione XXVIII,1, in Dio nostro padre, cit., p. 59). Degna di
nota è l’eccezione di Agostino, che riporta entrambe le possibili interpretazioni:
«Quando diciamo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” […] o chiediamo tutte
le cose che ci bastano indicandole tutte col termine “pane”, che fra esse è la cosa
più importante, oppure chiediamo il sacramento dei fedeli che ci è necessario in
questa vita per conseguire la felicità non già di questo mondo, bensì quella eterna»
(Lettera a Proba 11,21).

107
Non riusciamo nemmeno a immaginare come si possa portare
il peso della fede senza nutrirsi di questo pane che ha il potere di
trasformare il peso in sollievo, perché ci rende più che umani, ci fa
capaci di vivere in quel modo soprannaturale in cui Gesù stesso ha
vissuto. Senza Eucaristia il Vangelo è un macigno che ci schiaccia
e la morale una catena che ci opprime rendendoci nevrotici, grazie
al pane della vita invece il Vangelo è un volo d’ali che ci innalza a
Dio e la morale un cammino di liberazione.
Sì, l’Eucaristia è un pane che trasforma chi lo mangia: chi si
nutre di Cristo si trasforma in Cristo, chi si unisce a lui viene as-
similato a lui. Attraverso questo pane davvero veniamo resi figli
e diventa possibile per noi pregare con queste parole che stiamo
commentando. Non c’è nulla che sia più epiousion, nulla di più
necessario alla vita, di questo pane. Non c’è consolazione, né gioia,
né comunione con Dio o con i fratelli che possa prescindere dalla
celebrazione della Messa. Non c’è alcun accesso alla vita divina se
non passando attraverso questo pane. Chi volesse iniziare un cam-
mino spirituale senza partire da qui sarebbe come chi pretendesse
di partire per un lungo viaggio senza cibo: in breve esaurirebbe le
proprie energie e sarebbe costretto a tornare indietro.
Eppure perfino l’Eucaristia non è un diritto ma un dono, e
per questo va continuamente invocato. È sempre più comune il
caso di comunità cristiane private dell’Eucaristia per mancanza
di sacerdoti, ma dico questo soprattutto pensando che possiamo
perdere questo dono per le nostre colpe, e che a causa del nostro
peccato mangiando questo pane rischiamo di mangiare la nostra
condanna anziché la nostra vita, «perché chi mangia e beve senza
riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condan-
na» (1Cor 11,29).
Ma soprattutto l’Eucaristia è un dono dato non a noi, ma alla
Chiesa, e affidato alla sua responsabilità. Essa a sua volta lo di-
stribuisce agli uomini, ma non indiscriminatamente, piuttosto
secondo quanto ciascuno possa riceverne (cf Es 16,16-18). Biso-
gna quindi fidarsi del giudizio dei nostri pastori e credere che a

108
volte perfino un «digiuno eucaristico» può essere un bene per
l’anima49.

Il pane feriale
C’è un’altra suggestione in questo passaggio della «preghiera del
Signore» cui ho già accennato e alla quale non voglio sottrarmi,
anche se non proviene dal rigore dell’esegesi, ma dalla consuetudi-
ne amorosa con cui prego il Padre Nostro ogni giorno. In Italiano
l’aggettivo «quotidiano», con cui di solito si traduce epiousion, oltre
che «di ogni giorno» significa anche «feriale», nel senso contrap-
posto a «festivo» o «solenne».
Mi piace molto non trascurare questa suggestione in pagine
che non sono propriamente di esegesi, ma di invito alla preghiera.
Chiedere a Dio il pane significa infatti chiedere non solo il pane
necessario, quello solenne, soprannaturale, del quale l’Eucaristia
rappresenta per così dire il condensato, ma anche il pane feriale,
quelle piccole gioie di tutti i giorni tanto importanti per la vita, che
vanno dal sorriso di un amico a un buon pranzo per oggi.
Nulla è troppo piccolo per Dio, lui che non si lascia costringere
dal più grande ed è tuttavia contenuto nel più piccolo, come recita
una massima di san Tommaso riportata nell’epitaffio di sant’Igna-
zio di Loyola50, ed è ben degno dell’onnipotente curarsi anche dei
minimi dettagli del nostro benessere integrale. Chiedere: «Dammi
oggi il pane quotidiano» significa quindi anche chiedere: «Dammi

49
Ritengo tuttavia che un tale digiuno non debba mai essere imposto a tempo
indeterminato, ma sempre in vista di un ritorno alla piena comunione. In man-
canza di questo è impossibile che non venga inteso come una condanna piuttosto
che come una pena medicinale.
50
«Non coerceri a maximo contineri tamen a minimo divinum est». Un bel com-
mento di questa frase è contenuto nell’omelia «Tenere conto delle piccole cose»
pronunciata da Francesco in Casa Santa Marta il 14 dicembre 2017 (cf L’Osserva-
tore Romano, 15 dicembre 2017). In sostanza, ha spiegato il Pontefice, è un invito
a «non spaventarsi delle cose grandi, ma tenere conto delle cose piccole: questo è
divino, tutti e due insieme».

109
un buon pranzo oggi, dammi il sorriso di un amico, una pacca
sulla spalla, quel sostegno di cui ho bisogno per vivere». Sì, in tutto
dipendiamo da Dio, nelle cose solenni come in quelle feriali, perché
la vita è incarnazione e concretezza, eppure – appunto perché il
Padre provvede – questa dipendenza non è fonte di angoscia, ma
di una gioia permanente, che sempre si rinnova.

Vivere nel presente


Questa fiducia nel Padre è ciò che ci rende possibile vivere nel
presente, che è il tempo più simile all’eterno. Il passato non esiste
più, il futuro non esiste ancora, solo il presente effettivamente è,
e se noi viviamo nel passato (continuando a rimuginare sui nostri
sbagli o sulle nostre delusioni) o nel futuro (caricandoci di ansie e
aspettative relative al domani) scegliamo di vivere in un non-essere
che a lungo andare ci impedisce di essere felici. L’uomo che chiede
a Dio il pane necessario oggi è l’uomo che ha compreso che «con
la parola “oggi” intendiamo nel tempo presente»51.
Solo chi vive nel presente può essere in pace, perché Dio è nel
presente. Se noi cerchiamo di immaginare il nostro futuro, facil-
mente cadiamo preda dell’angoscia, perché nella nostra proiezione
futura non calcoliamo l’aiuto del Padre, e come potremmo dato
che per definizione egli è l’imprevisto e l’imprevedibile? Quando
cerchiamo di figurarci ciò che sarà, immaginiamo situazioni senza
Dio, in cui siamo da soli di fronte alle difficoltà della vita e quindi
ci sentiamo incapaci e insufficienti. Eppure dovremmo sempre
ricordare la fede di Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà forza»
(Fil 4,13). Allo stesso modo, quando pensiamo al passato spesso lo
facciamo con un senso di rimpianto per ciò che abbiamo perduto
o di angoscia per il male commesso, dimenticando il Dio che con
il suo perdono fa nuove tutte le cose. Penso a un’altra preghiera,
tanto cara al popolo cristiano, l’Ave Maria, in cui chiediamo alla

51
Agostino, Lettera a Proba 11,21.

110
Madre di Dio di pregare per noi «adesso e nell’ora della nostra
morte», appunto perché questi sono i due soli momenti che davvero
contano nella vita: l’adesso e l’ora della morte.

La casa del pane


Come il Padre ci fa giungere il pane necessario? Per quali miste-
riose vie la sua provvidenza giunge a noi? Il Padre ha molti modi
di soccorrere i suoi figli e certo non manca di fantasia per trovare
sempre vie nuove attraverso cui raggiungerci, tuttavia non pos-
siamo dimenticare che la via ordinaria seguita dalla provvidenza
è quella della Chiesa. Al contrario di ciò che provocatoriamente
sosteneva Caino (cf Gn 4,9), noi siamo davvero affidati l’uno all’al-
tro e Dio ci vuole quindi corresponsabili della sua benevolenza. Se
egli apre la sua mano e sazia ogni vivente, dobbiamo ricordare che
la sua mano siamo proprio noi.
Nel suo commento alla «preghiera del Signore» san Cipriano
sottolinea con particolare forza l’aggettivo «nostro» riferito al
pane, così come al Padre. Esso significa che non possiamo chie-
dere il pane solo per noi stessi. Non possiamo invocare da Dio il
nostro pane senza ricordare accanto a noi tutti gli altri bisognosi,
e soprattutto non possiamo dimenticare che a noi spetta il dovere
di essere a nostra volta pane per altri. Poiché siamo stati sfamati
dobbiamo a nostra volta sfamare, poiché siamo stati consolati
dobbiamo consolare.
Non è detto esplicitamente, come a proposito del perdono, ma
anche qui potremmo ben dire: «Dacci oggi il nostro pane quoti-
diano come anche noi lo diamo al nostro prossimo». Possiamo
chiedere a Dio il pane di cui abbiamo bisogno, sia quello biologico
che quello spirituale, solo se a nostra volta siamo disposti a condi-
videre lo stesso pane con chi ha bisogno.
La Chiesa è quindi la vera Betlemme, la casa del pane – è questo
il significato etimologico del nome della cittadina in cui è nato
Gesù –, la casa dove il pane è ricevuto e distribuito. Basta pensare

111
ai due episodi della moltiplicazione dei pani raccontati nei Vangeli,
in cui è evidente che Gesù incarica i discepoli della distribuzione,
coinvolgendoli così nella sua opera (cf Mt 14,13-21 e 15,32-39).
La Chiesa è la casa del pane: del pane biologico, per quanto pos-
sibile, e di quello spirituale, del pane feriale e di quello solenne. È
il luogo in cui ognuno può trovare quell’amore, quella fiducia in sé
stesso, quella comunione senza cui è impossibile vivere.
O meglio, questo è ciò che la Chiesa dovrebbe essere… Quanto è
amaro invece constatare la distanza che ci separa da questo ideale,
quanto è duro ascoltare le confidenze di tanti che hanno trovato
nella Chiesa burocrazia invece di amicizia, pavidità invece di so-
stegno, giudizio invece di perdono!
Per questo la Chiesa deve sempre potersi tradurre in comunità:
l’ecclesialità non è autentica se non si esprime in una comunione
di vita. È in quanto comunità che la Chiesa diventa la casa dove
ogni bisogno dell’uomo è saziato, dove ognuno può trovare l’ener-
gia necessaria per vivere, perché solo nella comunità le relazioni
umane trovano la loro possibilità di espressione. Sì, la Chiesa è
innanzitutto un’amicizia, ed è quando perde la sua dimensione di
comunità che i rapporti tra le persone in essa vengono declinati
non più secondo i parametri dell’amicizia, ma secondo quelli del
potere, così da generare non relazioni, ma sudditanza.
È interessante notare a questo proposito che sia Marco che Luca
nel racconto della prima moltiplicazione dei pani sottolineano
come Gesù abbia ordinato che la folla si raccogliesse in gruppi
di cento e di cinquanta persone, appunto perché questa è una di-
mensione ancora umana, in cui è possibile quello scambio che fa
sì che il pane non sia più solo pane biologico, ma diventi anche il
pane della comunione e dell’amore (cf Mc 6,39-40 e Lc 9,14). Mi
viene in mente la bella frase della serva di Dio Dorothy Day52 che

52
La sua causa di beatificazione, promossa nel 1983, ha incontrato numerosi
ostacoli, ma è tuttora in corso. Nella sua visita negli USA del 2015 papa Francesco
l’ha indicata ai cattolici americani come un modello da seguire.

112
avevamo scritto su una parete del dispensario per i poveri in una
delle parrocchie di cui sono stato parroco: «Noi non facciamo
l’elemosina, noi offriamo amicizia». È quando passa attraverso
il pane dell’amicizia che il pane biologico può essere dato senza
diventare umiliante, è quando esprime un amore reale, attento a
ogni aspetto della vita dell’altro, che l’elemosina sazia davvero i
bisogni dell’uomo, è quando viene dalle mani di un amico che il
pane toglie davvero la fame.
Prima di dare il pane, quindi, bisogna essere pane. Non siamo
una associazione benefica, come ebbe a dire Francesco nell’omelia
della sua prima Messa da Papa, celebrata davanti ai cardinali elet-
tori53, e se vogliamo essere la Chiesa di Cristo è innanzitutto alla
trasformazione del cuore che dobbiamo guardare, a quella trasfor-
mazione interiore che ci rende pane per gli altri, disponibili a essere
«mangiati», pronti a lasciare che gli altri si sazino del nostro affetto
e della nostra amicizia oltre che usufruire dei nostri servizi. Così
prima dell’elemosina viene la carità, prima del servizio, l’amicizia.

53
«Possiamo camminare come vogliamo ma se non confessiamo Gesù Cristo la
cosa non va. Diventeremmo una Ong pietosa ma non la Chiesa» (citazione ripresa
da AgenSir, versione online: https://agensir.it/dossier/2013/03/14/la-chiesa-non-
e-una-ong/).

113
VIII

καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν,


ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν
e liberaci dai nostri debiti
come anche noi abbiamo liberato i nostri debitori

Qual è il mio debito?


Il termine greco opheilema più che i debiti commerciali indica
le obbligazioni giuridiche che possono originare da diverse circo-
stanze, come ad esempio da un vincolo contrattuale o di sangue. Il
non adempimento di queste obbligazioni poteva avere conseguenze
molto serie, fino alla riduzione in schiavitù del debitore54. Per que-
sto nella mia traduzione, concedendomi qualche libertà, ho scelto
il verbo «liberare»: sia per sottolineare l’aspetto di liberazione sot-
tinteso nel testo che per evitare il verbo «rimettere», che in Italiano
ha tutt’altro significato che il latino remittere.
Quando riferito al rapporto con Dio, il termine descrive la con-
dizione esistenziale dell’uomo, il quale ha un debito che non è in
grado di pagare, sia per aver ricevuto l’impagabile dono della vita,
sia per il vincolo stabilito dall’Alleanza e da noi spezzato a causa del
peccato. Quando invece è riferito al nostro rapporto con gli altri,
il termine indica soprattutto la responsabilità che nasce dall’a-
more. Così ad esempio san Paolo lo usa per indicare il dovere che
lui sente di annunciare il Vangelo a tutti, giudei e greci (Rm 1,14)
o per indicare l’amore vicendevole che i cristiani si devono l’un
l’altro (Rm 13,8).

54
Come si vede ad esempio nella parabola di Mt 18,23-28.

114
In questo senso quindi il mio debito deriva innanzitutto dalla
mia vocazione. Poiché ho ricevuto un dono mi è chiesto di corri-
spondere in modo proporzionato alla Grazia ricevuta, così che a
chi ha ricevuto di più sarà chiesto di più.
Abbiamo detto che vivere è riceversi dalle mani del Padre, si ca-
pisce così l’obbligo esistenziale di restituirsi: se tutto ciò che sono è
dono, allora la gratitudine è la via della felicità. Come sarebbe bello
vedere la vita in questo mondo, come lo spazio e il tempo in cui
esercitare questo felice dovere della restituzione di sé e del proprio
amore! Non per nulla Gesù in molte parabole usa questa metafora,
anche se solo qui usa la parola opheilema55.
Mi viene in mente una bella poesia di W. Szymborska che de-
scrive questa condizione in cui tutti noi, a prescindere dalla nostra
fede religiosa, siamo presi: «Nulla è in regalo, tutto è in prestito./
Sono indebitata fino al collo./ Sarò costretta a pagare per me/ con
me stessa,/ a rendere la vita in cambio della vita»56. Eppure questo
debito è contratto con un padre, ed è quindi più un dono che una
catena. Ma la poetessa polacca, pur avendo un’anima profonda-
mente religiosa, non aveva il dono della fede e non riesce a intuirlo,
e così continua: «Non riesco a ricordare/ dove quando e perché/
ho permesso che aprissero/ questo conto a mio nome» e contro
questo debito si ribella. Insomma in lei parla il senso del dovere:
umano, umanissimo, perfino apprezzabile eticamente, ma non
ancora cristiano.
Quando tireremo le somme nella nostra partita doppia, scopri-
remo che abbiamo ricevuto molto di più di quanto abbiamo dato,
ma se ricordiamo che Dio è Padre allora questa scoperta non sarà
fonte di angoscia, ma di una gioia esplosiva. Perché comprende-
remo che nulla è meritato, quindi tutto è donato. Sì, alla fine ci
renderemo conto che è molto più felice l’uomo consapevole del suo

Ad esempio: Mt 18,23-35; Mt 25,14-30; Lc 7,41-50; Lc 16,1-8, eccetera.


55

W. Szymborska, «Nulla è in regalo», da La fine e l’inizio, in W. Szymborska, 25


56

poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 43.

115
debito infinito di quello che al contrario pretende di aver saldato
i suoi debiti con tutti.
Come è triste sentirsi sempre in credito verso la vita e pensare di
aver ricevuto sempre troppo poco rispetto ai propri meriti, come
invece è gioioso e liberatorio ricevere tutto come un dono immeri-
tato sapendo di ottenere molto di più di ciò a cui avremmo diritto!
E tuttavia da questa gratitudine nasce una responsabilità, un
obbligo di benevolenza, un atteggiamento positivo che dobbiamo
a noi stessi e agli altri: siamo stati tanto amati e per questo abbia-
mo l’obbligo di rispondere a questo amore. Il fatto che la nostra
responsabilità sia fondata su un dono non ci libera dal dovere, ma
lo rende dolce e leggero: «Prendete il mio giogo sopra di voi […]. Il
mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30). Non
più un obbligo giuridico, quindi, ma un felice dovere di amore.
Poiché siamo stati salvati e perdonati, poiché siamo stati chiama-
ti a far parte di quella comunità di gioia e amicizia che è la Chiesa,
poiché abbiamo ricevuto in dono e senza alcun merito l’amore di
cui abbiamo bisogno per vivere, abbiamo a nostra volta il dovere
e l’obbligo di diffondere questo amore verso tutti, di restituirlo
innanzitutto a Dio e poi al nostro prossimo appunto attraverso il
debito del Vangelo e quello della carità vicendevole.

Male per bene


Eppure, nonostante la grandezza dei doni ricevuti, siamo capaci
di restituire a Dio e alla vita male per bene. Siamo capaci di non
amare chi ci ama, di abdicare dal dovere di annunciare il Vangelo,
di nascondere i nostri talenti sottoterra, di tradire gli amici, di
fuggire dalla comunione, di disprezzare chi ci dona sé stesso e la
sua fiducia.
Una volta che il male è stato fatto – e tutti noi siamo in un mo-
do o nell’altro coinvolti in questo debito universale, perché tutti
hanno peccato (cf Rm 3,23) – allora il debito diventa quello della
riparazione del male commesso, riparazione che è impossibile, sia

116
perché noi non abbiamo niente da restituire a Dio che non abbia-
mo ricevuto da lui, e quindi nulla con cui possiamo ripagarlo, sia
perché nessuno può seguire fino in fondo le conseguenze dei suoi
gesti che si allargano all’infinito, come cerchi nell’acqua dopo che
un sasso è stato gettato nello stagno, raggiungendo persone inso-
spettabili e a noi sconosciute. Per questo i farisei sgomenti dicono
che solo Dio può perdonare i peccati (cf Lc 5,21).
È questo il debito che ci schiaccia: il dono non corrisposto,
l’ingratitudine che ci porta al male e l’impossibilità di riparare
al danno compiuto. È allora che questo debito può diventare una
catena che ci opprime e ci impedisce di sollevare lo sguardo, perché
oppressi sotto questo debito diventiamo schiavi del senso di colpa,
incapaci di benevolenza e di gioia.
Chiedere a Dio di liberarci dal peso del nostro debito allora
significa chiedergli di liberarci dal senso di colpa e restituirci la
grazia della gratitudine, che rende felice la nostra vita. In fondo
la prima causa e la prima conseguenza del peccato sta proprio
nell’ingratitudine. Il debito è la mancanza d’amore e dobbiamo
confessarlo apertamente: nessuno mai ha pagato questo debito,
nessuno mai ha amato abbastanza. Questa consapevolezza po-
trebbe schiacciarci se non fossimo stati liberati da questo debito,
se non fossimo stati accolti e perdonati nella nostra incapacità
di amare.
Detto in questi termini sembra davvero troppo poco, non è
così? L’uomo è capace di fare cose spaventose, veramente im-
perdonabili, possibile che tutto il male possa essere ridotto a
una semplice mancanza di amore? Ma il male esige sempre una
riparazione57.

57
«La colpa è una realtà, una forza oggettiva; essa ha causato una distruzione
che deve essere superata. Perciò perdonare deve essere più di un ignorare, di un
semplice voler dimenticare. La colpa deve essere smaltita, sanata e così superata. Il
perdono ha il suo prezzo – innanzitutto per colui che perdona: egli deve superare
in sé il male subito, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare sé stesso,
così da coinvolgere poi in questo processo di trasformazione, di purificazione

117
Poiché una relazione è stata spezzata, è necessaria una fatica,
un lavoro per ristabilirla. Purtroppo però l’uomo è incapace di
questa fatica: una volta che il suo peccato ha scavato un abisso tra
lui e Dio, l’uomo non può più ritornare indietro con le sue forze. È
necessario allora che Dio stesso getti il suo corpo crocifisso come
un ponte sopra questo abisso perché l’uomo possa ritornare a lui.
«Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre
iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le
sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5): è solo a partire da qui
che possiamo misurare la grandezza del perdono di Dio.
Se fossimo consapevoli dell’immensità del dono ricevuto, il
senso di colpa per non averlo corrisposto potrebbe schiacciarci, e
solo chi non ha mai sentito in sé il morso terribile del debito può
deridere la sofferenza che ne deriva. Se riuscissimo a vedere il male
commesso dal punto di vista del Padre, a partire cioè dalla sua in-
finita benevolenza, allora forse saremmo capaci di ricondurre tutto
il male alla sua radice, che è sempre una menzogna, una carenza.
Sì, il male comincia sempre con l’ingratitudine e se da una parte
questo non ci rende innocenti, ci offre però la strada per superare
il senso di colpa e andare verso la vita.

Liberaci come abbiamo liberato


Ma soprattutto la gratitudine è il fondamento della nostra ca-
pacità di perdonare. Proprio perché siamo consapevoli di essere
infinitamente sopravanzati dal dono ricevuto, se abita in noi la
gioia insopprimibile della gratitudine, saremo capaci di perdonare
chi ci ha fatto torto, perché ci renderemo conto che in fondo il male
ricevuto è poca cosa rispetto al bene immenso posto nelle nostre
mani. Non possiamo riparare il male che abbiamo commesso verso
gli altri, è vero, ma possiamo scaricare dalle spalle degli altri il male

interiore, anche l’altro, il colpevole, e ambedue, soffrendo fino in fondo il male


e superandolo, diventare nuovi» (Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, cit. p. 190).

118
commesso contro di noi e questo in un certo modo dà sollievo alla
nostra coscienza.
Si tratta di togliere un peso dalle spalle. L’uomo che si sente
perdonato si sente come se quel peso che prima lo schiacciava
fosse stato improvvisamente preso in carico da un altro. È in que-
sto senso che nella Messa preghiamo: «Agnello di Dio che togli il
peccato del mondo», dove nell’originale latino il verbo tollis ha in
sé una sfumatura che include il sollevare e farsi carico che nella
versione italiana sparisce. È in questo senso che il salmista canta:
«Un linguaggio mai inteso io sento: “Ho liberato dal peso la sua
spalla, le sue mani hanno deposto la cesta”» (Sal 81,6-7).
Il male è un peso, una catena imposta alla vita, sia il male
commesso che quello ricevuto: il male commesso ci lega al nostro
debito di riparazione, al senso di colpa che nasce dal compito
impossibile di risanare le ferite che abbiamo causato, perfino in
buona fede; il male ricevuto invece ci lega al passato in una spirale
di rancore e di rivendicazione che ci impedisce di vivere e andare
avanti. Perdonare quindi significa sempre liberare non uno, ma
due prigionieri.
Sì, perdonare è liberare. Liberare l’altro che ci ha fatto del
male dal suo debito di riparazione, ma anche e forse soprattutto
liberare noi stessi dalla catena terribile del rancore che perpetua
le nostre ferite, impedendo loro di rimarginarsi. Probabilmente
ho subito un torto, è vero, probabilmente mi è stato fatto del
male gratuito e doloroso, certamente, ma solo se saprò davvero
perdonare nel profondo del mio cuore, solo se accetterò che sia
Dio a farmi giustizia, nel suo modo e nei suoi tempi, piuttosto
che pretendere che questa giustizia mi venga riconosciuta dagli
uomini, sarò veramente libero dal male subìto e capace di voltare
pagina e andare oltre in una vita che adesso posso dire davvero
nuova, perché rinnovata.

119
Tu non sei il tuo peccato
Dunque è essenziale che ci sia un giudizio, perché senza giudizio
non ci sarebbe giustizia. Se non venisse mai tirata una linea che
distingue il bene dal male, il male avrebbe vinto e non sarebbe pos-
sibile coniugare giustizia e amore, tenere insieme libertà e verità.
E tuttavia il giudizio di Dio non è una condanna che ci umilia e ci
schiaccia, ma l’atto regale con cui viene finalmente detta la verità
su di noi e sulla nostra vita. Senza un giudizio ultimo e autorevole
non ci sarebbe alcuna speranza per gli ultimi e i diseredati di que-
sta terra, per quelli che hanno subito ingiustizia e sono costretti a
piegare la schiena sotto il giogo del male.
È questa parola di verità su di me che illumina l’orizzonte di
senso e offre una vita a cui io scelgo di conformarmi, perché final-
mente è la parola vera, quella che attendevo e che mi rende libero.
Proprio qui si spalanca l’orizzonte della speranza più grande,
perché il giudizio alla fine parte da un punto, che non viene mai
dimenticato: tu sei figlio. La verità su di te non può prescindere
da questo dato di partenza. Qualsiasi cosa tu abbia fatto, qualsiasi
colpa tu abbia commesso, tu non sei la tua colpa, tu sei innanzi-
tutto figlio.
Tu non sei il tuo peccato. Per troppo tempo la Chiesa ha pre-
teso di esercitare il controllo sociale attraverso il senso di colpa,
usato come uno strumento di manipolazione, annunciando la
paura dell’inferno e del diavolo invece della gioia per la salvezza,
l’angoscia per il giudizio invece della speranza per la giustizia, la
minaccia del castigo invece dell’imminenza del perdono58.
Il Vangelo invece è tutt’altro. Gesù perdona continuamente,
perdona sempre, in una maniera che ai suoi ascoltatori risultava
scandalosa, quasi insopportabile, come una bestemmia. E in verità
era una bestemmia ai loro occhi, perché rivelava un volto di Dio

Una descrizione agghiacciante di questa «pastorale della paura» si può trovare


58

nella monumentale opera di J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in


Occidente dal XII al XVIII secolo, il Mulino, Bologna 2006 (ed. or. 1983).

120
che non avevano mai conosciuto: un Dio che davanti a un’adultera
colta in flagrante non chiede una sola parola di pentimento, ma
dice semplicemente: «Io non ti condanno, va’ e non peccare più»
(Gv 8,1-11). Non un lungo percorso di riabilitazione, non un tempo
di ritiro in cui purificare mente e cuore, non una penitenza fatta
di digiuni e autoflagellazioni fisiche o psicologiche, ma semplice-
mente un’autorevole parola di fiducia. Ed è proprio questa fiducia
a suscitare il pentimento, è proprio questo sentirsi incondiziona-
tamente accolti e perdonati che fa sì che il cuore si riapra. Come
con Zaccheo, al quale, molto prima del suo pentimento, Gesù dice:
«Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5). Come con il cosiddetto
buon ladrone, che se era stato condannato alla croce tanto buo-
no non doveva essere, il quale ha avuto in sorte di essere l’unico
santo canonizzato direttamente da Gesù per una sola parola di
compassione.
Sì, Dio non aspetta il tuo pentimento per perdonarti. Se lo fa-
cesse non sarebbe poi una cosa così straordinaria, non ci sarebbe
nessuno scandalo. Da sempre tutte le religioni dicono che Dio
perdona chi si pente: lo dice l’Ebraismo, lo dice l’Islam… e come
potrebbe non essere così? L’uomo è tanto fragile, tanto meschino,
così incapace di mantenere la parola data, così infedele nei suoi
proponimenti… come non avere compassione di lui? Ma il Dio di
Gesù Cristo va infinitamente oltre: ti perdona ben prima che tu ti
penta, perché sa che è proprio l’esperienza di essere stato perdona-
to, di essere amato incondizionatamente, a prescindere dal male
commesso, quella che può condurti al pentimento.
Naturalmente il pentimento rimane necessario, ma non in rela-
zione al perdono, quanto alla salvezza. Per questo, come nel caso
di Zaccheo, spesso il rapporto di causa ed effetto è invertito e il
pentimento è conseguenza e non causa del perdono ricevuto. Tutti
possono accedere alle nozze, buoni e cattivi, ma solo chi indossa
l’abito nuziale, cioè solo chi ha davvero cambiato vita, può rimane-
re (cf Mt 22,1-14). Detto in altri termini, Dio non smette di amare
il peccatore e lo ha già perdonato in cuor suo, ma solo chi accetta

121
di essere perdonato, e dunque riconosce la sua colpa e passa attra-
verso il fuoco del pentimento, può prendere le distanze dal male
commesso e ristabilire la relazione con Dio che era stata distrutta.
Tu non sei il tuo peccato e il perdono di Dio è la proclamazione
della fiducia incrollabile del Padre in quella verità di figlio che non
è stata distrutta dal male che hai fatto, in quella vocazione che è
scritta nella tua carne e nelle tue ossa e non hai certo perduto per-
ché sei stato infedele.
Ci sarà sempre, fino all’ultimo giorno, la possibilità di un ri-
torno, perché tu non puoi far nulla per impedire a Dio di amarti
e sempre egli continuerà a vedere in te, per quanto offuscata e
distorta, l’immagine di un suo figlio.
Per questo il primo e più importante elemento di giudizio è la
conformità a questa immagine. In quanto figlio sarò un buon figlio
se sarò simile a mio padre e, poiché Dio esprime la sua paternità in-
nanzitutto nel perdono, è proprio dalla mia capacità di perdonare
che sarò riconosciuto come figlio e quindi a mia volta perdonato.

Come il Padre
Sì, il mio scopo nella vita, la sola cosa che può farmi felice, è
essere un figlio di Dio; ma io sarò tanto più figlio quanto più sarò
simile a mio padre, e dunque sarò tanto più simile a lui quanto più
sarò capace di perdonare.
Dovremmo sempre ricordarlo quando recitiamo il Padre Nostro,
perché ciò che chiediamo a Dio in effetti è una cosa vertiginosa:
perdonaci così come noi sappiamo perdonare… Mi vengono i
brividi se penso alla limitatezza del mio perdono, non oso pensare
cosa ne sarebbe di me se davvero Dio dovesse trattarmi come io
tratto quelli che mi hanno fatto del male.
Ma in questa preghiera noi chiediamo a Dio di giudicarci co-
me figli, non come sudditi, e se questo da una parte implica una
misericordia altrimenti sconosciuta, dall’altra ci carica di una re-
sponsabilità inaudita che a stento può dirsi umana. Gli angeli stessi

122
rimangono sbalorditi di fronte a questa straordinaria prerogativa
divina concessa all’uomo.
Nessuna vergogna se non ce la fai. Devi saperlo che perdonare
di cuore è il vertice della trasformazione in figlio di Dio e dunque
non avviene mai all’inizio di un cammino, né accade in maniera
facile e naturale.
Per poter perdonare come Dio il tuo cuore deve essere così vicino
al suo da essere totalmente riempito, così consolato da essere oltre
ogni ferita, così libero da essere del tutto padrone di sé. Diciamo-
celo chiaramente: solo Dio sa perdonare davvero; noi, tutti noi,
siamo discepoli in cammino. Preghiamo perché il giorno in cui
saremo come lui e dunque sapremo perdonare davvero si avvicini.
Perdonare come Dio: è questa la nostra eredità e quindi questo
è anche il nostro debito.

123
IX

καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν


e non metterci alla prova

Una traduzione difficile


Negli ultimi anni la traduzione di questa frase ha polarizzato il
dibattito sulla «preghiera del Signore», ed effettivamente se tutto
il testo del Padre Nostro è di per sé piuttosto complesso, questa
è forse la frase più difficile da rendere in Italiano, anche perché
la versione a cui siamo abituati («non ci indurre in tentazione») è
oggettivamente piuttosto maldestra.
L’attenzione di molti commentatori si è soffermata sul verbo
«indurre», sottolineando che è assurdo pensare che Dio possa in-
durre qualcuno a commettere il male. In realtà il verbo «indurre»
riproduce letteralmente il latino inducere e il greco eisphero, solo
che in Italiano ha una sfumatura di persuasione morale che in Lati-
no e in Greco è del tutto secondaria. Sarebbe stato più appropriato
tradurre «condurre» piuttosto che «indurre». Tuttavia anche così
non si risolve il nodo del problema: non è certo più chiaro dire che
Dio ci può «condurre» nella tentazione!
Secondo me, invece, il punto cruciale è l’interpretazione del so-
stantivo peirasmón, che è sì legittimo tradurre con tentazione, ma
in Greco ha un senso più ampio, significando in genere una qual-
siasi prova che ci si trovi ad affrontare. Così ad esempio il martirio
è normalmente detto peirasmón, solo che certo di per sé non è una
cosa seducente, anzi, è qualcosa che di per sé si vorrebbe evitare,

124
potendo59. Così il senso della preghiera non è tanto quello di una
invocazione a Dio di non tentarci al male, quanto quello di non
metterci alla prova, è una supplica a non metterci in una condizio-
ne di pericolo, di non sottoporci al rischio di subire la tentazione.
È l’umanissima richiesta di un uomo, consapevole della sua fra-
gilità e della sua debolezza, che supplica Dio perché – se possibile –
gli sia risparmiata la prova che vede davanti a sé.
Abbiamo un modello chiaro di questa preghiera nelle parole di
Gesù nell’Orto degli ulivi: per due volte esorta i discepoli a pregare
per non entrare nella tentazione, cioè appunto nel peirasmón, e lui
stesso chiede a Dio di esserne liberato: «Padre mio, se è possibile,
passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come
vuoi tu!» (Mt 26,36-45). Sempre nel Vangelo di Matteo c’è un altro
esempio, forse ancora più pertinente: nei versetti 4,1-11 si legge
che lo Spirito Santo conduce Gesù nel deserto per essere tentato
dal diavolo. Qui è letteralmente vero che il Padre espone il Figlio
alla tentazione!

Pregare nella prova


D’altra parte, però, le prove nella vita non possono essere evitate.
Dio vuole dei figli liberi e con la schiena diritta, non dei bambocci
cresciuti in una palla di vetro, e quindi permette che la nostra vita
sia fatica, impegno e dolore, nonostante questo ci esponga alla
tentazione di arrenderci, di tirarci indietro e fallire, perché, come
dice la poetessa americana Emily Dickinson, «non conosciamo mai
la nostra altezza/ finché non siamo chiamati ad alzarci»60.
Proprio il passo di Matteo evocato prima (4,1-11) spiega molto
bene questa dinamica: lo Spirito Santo – quindi Dio – conduce
Gesù nel deserto perché sia messo alla prova. È un momento ne-

59
P. Bovati, in un articolo dal titolo Non metterci alla prova (in La Civiltà Catto-
lica, 3/17 febbraio 2018, quaderno 4023), analizza molto bene tutta la questione.
60
E. Dickinson, Tutte le poesie, Milano, Mondadori 1997, p. 1201.

125
cessario innanzitutto a Gesù stesso. Dobbiamo misurarci con il
nostro limite se vogliamo sapere chi siamo davvero, fa parte della
normale dinamica umana. Ed è solo alla fine di questa prova che
si presenta il tentatore ed è allora che la prova diventa tentazione,
cioè lotta contro il diavolo, e la questione sul tappeto è molto più
insidiosa del semplice acconsentire o meno al male, ma diventa
un combattimento per affermare la verità di sé e di Dio contro gli
inganni del maligno.
Vista in questo senso la prova, e perfino la tentazione, sono
necessarie e hanno una loro utilità. Con la consueta profondità
Origene lo dice chiaramente: «Dio non vuole costringere al bene:
vuole esseri liberi […]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’in-
fuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio;
lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci
a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la
nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la
tentazione ci ha messo in grado di riconoscere»61. E analogamente
sant’Antonio Abate afferma: «Nessuno, se non tentato, può entrare
nel regno dei cieli; di fatto, togli le tentazioni e nessuno si salva»62.
Credo che sia molto importante sottolineare questo perché
molte persone considerano la tentazione già come un peccato, e si
sentono in colpa per il solo fatto di provare certi desideri e certe
inclinazioni. Invece se perfino Gesù è stato tentato, vuol dire che
la tentazione fa parte della vita: è proprio dell’uomo essere tentato
e non è di per sé un segno di debolezza. Naturalmente è vero che la
tentazione si radica nelle nostre fragilità, ed è vero che i momenti
difficili della vita – le prove appunto – fanno emergere con più
evidenza queste fragilità, ma nessuno ne è esente, ognuno ha le
sue: ci sarà chi è più tentato dal piacere e chi dal potere, chi è più
fragile nell’area affettiva e chi in quella dell’orgoglio, ma non è di

Origene, De Oratione XXIX,15-17, qui citato secondo la versione del CCC 2847.
61

Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 2008,
62

pp. 82-83.

126
per sé il fatto di subire una tentazione che dice qualcosa di noi,
quanto l’acconsentire o meno con la volontà.
Finché la seduzione al male non trova un consenso nella nostra
volontà, resta in un certo senso fuori di noi. È in noi, ma non è
nostra, non dice davvero qualcosa su chi siamo e cosa vogliamo,
perché alla fine un uomo non è le sue inclinazioni: un uomo è le
sue scelte.

Il combattimento spirituale
È ciò che la tradizione chiama il combattimento spirituale, e
davvero è una guerra, forse la più dura che un uomo possa com-
battere nella sua vita. Non per nulla i padri del deserto dicevano
che il monaco è colui che ha rinunciato a combattere le guerre del
mondo per combattere la guerra del cuore, la lotta cioè per difen-
dere l’integrità e la purezza di sé e delle proprie ispirazioni63. Nella
visione di sant’Antonio, sulla falsariga di Mt 4,1-11, il monaco è
l’uomo che accetta di essere, come Gesù, condotto nel deserto per
essere messo alla prova.
Non è strano che il Signore, dopo averci invitato a chiedere il
pane, ci inviti a chiedere aiuto in questo combattimento, perché
esso è tanto essenziale alla vita dello spirito quanto lo è il pane per
la sopravvivenza del corpo. Sicuramente il fatto di non sentire in
sé alcuna tentazione non è affatto un indice di santità, e nemmeno
di buona salute psichica se è per questo. Credo anzi che se uno
non sente la fatica del combattimento spirituale, se non sente cioè
il peso della tentazione, è perché ha spento in sé ogni sensibilità
ed è quindi ormai lontanissimo dall’umanità, tanto quanto lo sa-
rebbe se avesse commesso il peggiore dei peccati, oppure perché
è talmente schiavo del maligno che ha quasi spento in sé la voce

63
«Disse ancora (Antonio): “Chi siede nel deserto per custodire la quiete con Dio è
liberato da tre guerre: quella dell’udire, quella del parlare e quella del vedere. Glie-
ne rimane una sola: quella del cuore”» (Vita e detti dei padri del deserto, cit., p. 84).

127
della coscienza così che nemmeno riesce a rendersi conto del male
commesso e viaggia attraverso la vita come in un sogno, forse
perfino convinto di fare del bene, mentre intorno a sé non semina
che morte e distruzione.
Dobbiamo quindi imparare a non scandalizzarci per la tenta-
zione, ad accettarla come una parte normale del nostro percorso di
fede. Lo ripeto, Dio non ci sottrae alla prova, quindi non dobbiamo
abbatterci né sentirci sconfortati se scopriamo di essere inclinati
alla rabbia, alla paura, all’orgoglio o alla sensualità. Questa sco-
perta potrebbe portare un animo scrupoloso alla depressione e
perfino alla resa, ma se l’uomo scopre di avere in Dio un padre
buono anziché un giudice spietato diventa un provvidenziale
bagno di umiltà, che ci insegna a non confidare in noi stessi, ma
nella misericordia di Dio.
Effettivamente la mia esperienza è che ho imparato molto di
più su Dio e su me stesso dai miei peccati e dai miei fallimenti
piuttosto che dalle mie presunte virtù. È quando non riusciamo
a metterla in pratica che la legge di Dio, svelando il nostro limite,
ci è davvero utile, perché in quel momento crolla il castello orgo-
glioso della nostra fiducia in noi stessi e ci apriamo davvero alla
benevolenza del Padre.

Custodire il cuore
Ovviamente questo non ci deve portare a sottovalutare il pe-
ricolo: l’impegno a fuggire le occasioni di tentazione è un punto
centrale di ogni percorso ascetico e sarebbe assai sciocco dimen-
ticarlo. Con la consueta passione san Paolo scrive ai Romani:
«Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi
la grazia? È assurdo! (letteralmente: mè ghenoito – non sia mai!)»
(Rm 6,1-2). La consapevolezza del limite, la coscienza della nostra
debolezza, devono invitarci a un sano realismo: non possiamo
vincere da soli. Se dunque da una parte la lotta contro le tentazioni
non può essere evitata, dall’altra è sciocco provocarla e cercarla.

128
È certamente presumere troppo da sé stessi e in ultima analisi è
tentare il Signore.
Il fulcro della battaglia è evitare che si spenga il soffio dello
Spirito che il Signore ha acceso dentro di noi, ed è proprio il pec-
cato, cioè il rifiuto di amare, ciò che lo spegne. Si tratta in ultima
analisi di custodire il cuore, cioè il santuario della coscienza in cui
appunto lo Spirito Santo ha acceso il fuoco. Non si può evitare la
tentazione, ma si può impedirle di entrare in quel centro intimo e
profondo della persona che nel linguaggio biblico chiamiamo ap-
punto cuore. Per questo Gesù nella sua preghiera durante l’ultima
cena dice: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai
dato […]. Non chiedo che tu li tolga dal mondo (cioè che li togli
dalla tentazione), ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17,11.15).
Gesù non prega perché ci siano risparmiate le tentazioni, ma per-
ché il nostro cuore resti nel nome del Padre, cioè mantenga desta
la coscienza di figlio e sia così, anche nella prova, custodito.
Gesù sa bene che è inutile fuggire dal mondo per evitare le ten-
tazioni, perché se uno non ha risolto in sé stesso certe tensioni, per
quanto possa ritirarsi nel silenzio e nella clausura, porterà i suoi
demoni con sé, così che allontanandosi dal mondo non solo non
ha fuggito le tentazioni, ma anzi, semmai le ha amplificate, por-
tandosi la morte nella sua stessa reclusione, come nel bel racconto
La maschera della morte rossa di E.A. Poe64.
Intendiamoci, a volte può essere saggio e prudente fare un passo
indietro, può essere un atto di umile realismo e a volte perfino una
necessità, ma non lo consiglierei mai come atteggiamento abituale
nella vita. L’aspetto negativo e preventivo della custodia di sé deve
essere sempre tenuto insieme alle esigenze dell’amore che ci spinge
incontro al prossimo e ci porta a prenderci cura di lui.
Supponiamo che io abbia un temperamento incline all’ira: so
di essere fragile e quindi evito di mettermi in situazioni in cui
posso dare in escandescenze. Fin qui tutto bene, fuggo la tenta-

64
In E.A. Poe, I racconti, Einaudi, Torino 1983.

129
zione appunto, ma non posso in nome di questo evitare di farmi
carico delle ingiustizie che vedo intorno a me, anzi, devo sapere
che per combattere il male una certa ira, giustamente indirizzata, è
necessaria e devo quindi piuttosto accoglierla e metterla a servizio
dell’amore, indirizzandola al bene. Oppure supponiamo che io sia
incline alla vanità: so di essere fragile e quindi evito di espormi
pubblicamente, appunto per evitare lodi e complimenti. Fin qui
tutto bene, fuggo la tentazione appunto, ma non posso in nome di
questo ritirarmi del tutto, perché è anche vero che non si accende
una lampada per metterla sotto il letto e ciò che udiamo in segreto
dobbiamo gridarlo dai tetti (cf Lc 8,16 e 12,3).
Insomma la strategia migliore nel combattimento spirituale
non è quella di evitare le occasioni. Questo può essere necessa-
rio e giusto in alcuni momenti, è come il comportamento di un
pugile che scosso da un colpo violento fa un passo indietro per
riprendere l’equilibrio, ma nel lungo periodo è un atteggiamen-
to perdente. Quello che dobbiamo fare piuttosto è riorientare il
nostro desiderio, come avevo già accennato, cogliendo la scintilla
di Dio presente nei nostri bisogni e facendo sì che quella scintilla
illumini la nostra coscienza, saziando l’anima e spegnendo così il
fuoco della tentazione.

Proteggere gli altri


Ogni passo spirituale nel Cristianesimo è dettato dall’amore,
per questo la fuga dalle tentazioni può apparire come un elemento
stonato, moralista, perché sembra sottolineare un aspetto negativo,
di privazione, dettato più dalla paura che dall’amore, piuttosto che
quello slancio in avanti, creativo e originale, che invece è il segno
più autentico del cuore che ama.
Forse però possiamo guardare con un occhio diverso a questo
dovere ascetico se, dopo aver preso coscienza che il male abita in
noi, comprendiamo che la cura dell’altro a cui l’amore ci spinge ci
fa desiderare di proteggerlo, perfino da noi stessi se necessario. Da

130
questo punto di vista lo scopo della continenza non è la perfezio-
ne di una virtù astratta, ma dell’amore. Non mi astengo solo per
paura di ciò che potrei fare a me stesso se lasciassi senza freni il
male in me, ma soprattutto per evitare di fare del male a chi amo,
per evitare che la relazione sia intossicata dalla mia imperfezione
e incapacità nell’amore.
La fuga dalla tentazione quindi ha sicuramente un aspetto nega-
tivo, di disciplina, ma non è quello in primo piano: l’aspetto preva-
lente deve essere quello della purificazione del cuore, perché solo
un cuore veramente puro è capace di amare. Ma è possibile avere
un cuore che sia davvero puro? Non è questa una pretesa troppo
alta? E d’altra parte, se lo fosse, perché Gesù la pone come una delle
otto beatitudini? Se Gesù stesso ce la pone come un obbiettivo della
vita spirituale vuol dire che la purezza non è un ideale impossibile
e troppo alto da raggiungere.
Ancora una volta: nel combattimento spirituale non vince chi
ha paura di amare, ma chi ama di più.

Il mistero del male


Il punto di partenza in questo combattimento è prendere atto
che il male esiste. È una scoperta traumatica e dolorosa, ma non si
può dire di aver davvero iniziato un percorso spirituale fintanto
che non se ne è sperimentato il morso. Il male esiste. Esiste nel
mondo intorno a noi ed esiste dentro di noi, e bisogna sperimen-
tare il dolore atroce di fare il male che non vogliamo, come dice
san Paolo, bisogna sentire il peso di un anima lacerata tra la sua
aspirazione di bene e la sua incapacità di realizzarlo se vogliamo
veramente iniziare a crescere.
Di fronte a questa manifestazione del male si può essere presi
dall’angoscia: è terribile rendersi conto che noi, proprio noi abbia-
mo provocato dolore, proprio noi abbiamo fatto soffrire, e non di
rado le persone che più amiamo! Nasce allora nell’anima la paura
di essere abbandonati di fronte a questo male che sentiamo in mo-

131
do oscuro agitarsi nel profondo. La prova, quella vera, è proprio
in questo essere soli davanti al male e sperimentare così, dram-
maticamente, la nostra povertà, la nostra insufficienza, la nostra
incapacità di compiere quella volontà di Dio che pure avevamo
invocato su di noi.
Chiedere a Dio di non essere messi alla prova significa allora
chiedere di non essere lasciati soli a confrontarci con noi stessi,
di non essere abbandonati di fronte al vuoto spaventoso che si
spalanca al centro dell’anima quando ci si confronta con il male.

Non ci abbandonare
La traduzione che alla fine ha prevalso nella Bibbia CEI e che
da poco è entrata anche nell’uso liturgico («non ci abbandonare
alla tentazione») ha il difetto di non essere molto fedele alla lettera
del testo originale, ma indubbiamente ne coglie bene il senso. È
possibile che Dio ci abbandoni? La certezza della fede dice di no,
eppure Gesù stesso sulla croce si è sentito abbandonato dal Padre e
nessun uomo potrà mai comprendere quanto lacerante e dolorosa
sia stata per lui questa esperienza.
Ma Dio non ci abbandona. Se Gesù ha sentito questo misterioso
abbandono è accaduto proprio per consentirgli di essere solidale
fino in fondo con la condizione dell’uomo peccatore; per sperimen-
tare, lui che è l’Amore, l’abisso del non-amore. Da quel giorno però
nessun uomo può più essere davvero abbandonato, perché anche
nel momento peggiore, anche quando intorno a te è solo tenebra e
vuoto, puoi sempre dire a te stesso: «Anche Gesù è stato qui». Lui
può capirmi perché, come me, ha sentito il vuoto senza scampo,
l’atroce silenzio che circonda l’uomo solo di fronte al male.
Il Padre non ci abbandona, ma misteriosamente a volte è co-
stretto a nascondersi perché il figlio cresca fino a raggiungere la
sua vera statura, è costretto a ritirare la sua dolce presenza perché
il figlio possa trovare in sé quelle energie che lo spingono verso la
vita e risalire dall’abisso. È questa la prova che dobbiamo affron-

132
tare, il peirasmón in cui il figlio diventa davvero consapevole di sé
stesso e può così esprimere tutto il suo potenziale. San Cipriano
dice che Dio può nascondersi per due motivi: o come penitenza,
affinché sperimentiamo la nostra fragilità, o per la sua gloria, co-
me avviene nella vita di certi santi (ad esempio, Antonio abate o
Teresa di Gesù) che lo hanno glorificato proprio con la loro lotta
contro il tentatore. Parafrasando il passo già citato della Lettera
agli Ebrei, impariamo a essere figli dalla nostra sofferenza e dalla
obbedienza nella prova.
È allora, quando Dio si nasconde, che il tentatore usa le più
insidiose frecce al suo arco. È allora che insinua in noi il dubbio
sul Padre, se sia veramente buono, se sia veramente onnipotente,
se sia veramente salvatore, se sia veramente interessato a me e alla
mia vita. Il mistero del male è la grande accusa scagliata contro
il volto paterno di Dio, la più radicale crisi che attraversa l’anima
che vuole conservarsi fedele. E il più duro e serio combattimento
spirituale è conservare un cuore di figlio anche a dispetto del dub-
bio e dell’incertezza, credere alla rivelazione del vero nome di Dio
piuttosto che al grido, a volte assordante, del nostro cuore ferito.
In questo senso il combattimento spirituale consiste nel con-
tinuare a pregare nonostante il dubbio, nel mantenere una fede
ostinata nella paternità di Dio anche contro le apparenze.

La guerra del cuore


Prima mi sono fatto una domanda drammatica, che ho volu-
tamente lasciato in sospeso: è possibile avere un cuore veramente
puro? A prima vista sembrerebbe di no. Solo gli angeli sono capaci
di azioni che siano pure, anche puramente malvagie, come nel caso
degli angeli caduti. Nel nostro caso invece sperimentiamo come
le motivazioni delle nostre azioni sono sempre composite e una
minima componente di narcisismo o di amor proprio è in fondo
sempre presente in ogni cosa che facciamo, così come del resto
nessuno è capace di fare il male in senso assoluto.

133
Proprio in questo, appunto, sta la tentazione, in questa inelimi-
nabile contraddizione che abita in noi, in questa miscela di bene e
di male che si agiterà nel nostro cuore fino all’ultima prova, quella
della morte. Il cuore puro allora è un cuore in un continuo pro-
cesso di purificazione, è un cuore che applica a sé stesso il solenne
impegno per la giustizia del re Davide: «Ridurrò al silenzio ogni
mattino tutti i malvagi del paese» (Sal 101,8).
È facile leggere questo salmo in chiave morale, applicando al
governo di sé i principi del buon governo del regno. In questa
prospettiva gli empi da ridurre al silenzio sono evidentemente i
pensieri negativi che si presentano alla soglia della nostra coscienza
e Davide dice che ogni mattino vanno ridotti al silenzio, perché
di solito è durante la notte che questi pensieri riprendono forza.
Ogni giorno i nostri propositi vanno rinnovati e vanno messe a
tacere quelle voci che ci inclinano al male. È questa in fondo la
vera prova quotidiana in cui chiediamo di non essere lasciati soli.
È un esercizio di igiene spirituale, è come lavarsi il viso al mattino
prima di iniziare la giornata.
Non è utile né opportuno passarsi al setaccio nel tentativo di
estirpare ogni minima traccia di questi pensieri negativi, sia perché
paralizzerebbe di fatto la nostra coscienza, rendendoci incapaci di
qualsiasi scelta, sia perché in effetti noi non siamo i nostri pensieri.
I pensieri sono come una folla di postulanti che chiede udienza al
centro della nostra coscienza, si tratta di scegliere a quali dar voce
e quali far tacere, quali ascoltare e quali lasciar cadere. Ricordalo
sempre: tu non sei i tuoi pensieri, tu sei le tue scelte. Ciò che ti
definisce non sono i pensieri che per un attimo si affollano nella
tua mente, ma quelli che tu hai deciso di nutrire.
Quali sono i pensieri che nutri? Quali sono quelli a cui dai forza
con la tua attenzione? Da quali emozioni sono suscitati? Nella mia
esperienza, rabbia, paura e tristezza sono le emozioni più perico-
lose, quelle che più facilmente suscitano in me pensieri negativi
da ridurre al silenzio; queste emozioni vanno quindi contrastate,
non tanto cercando di soffocarle – questo in genere finisce con il

134
rafforzarle – ma alimentando il cuore con le emozioni contrarie:
allegria, fiducia e benevolenza.
Non esiste un cuore in cui non ci siano pensieri negativi, un
cuore puro è piuttosto quello che non dà udienza a questi pensieri,
riducendoli ogni mattina al silenzio.

Puro cioè semplice


E d’altra parte è proprio questo cuore, così ondivago, così incerto
e squilibrato, che il Signore ha scelto. Non per confermarlo nelle
sue contraddizioni ovviamente, ma appunto per chiamarlo a sé.
Puro vuol dire semplice. Semplice, cioè non duplice. Un cuore puro
è un cuore in cui abita un solo amore, un cuore che non ama in
modo doppio, che si rivolge a Dio tutto intero, anche con le proprie
contraddizioni e il proprio peccato. Proprio il re Davide ne è un
esempio affascinante, lui che è stato uno dei più grandi peccatori
della storia biblica, le cui mani si sono macchiate di sangue inno-
cente, eppure è definito uomo secondo il cuore di Dio (cf At 13,22)
ed è ricordato dalla Bibbia come il modello del re ideale.
Il combattimento spirituale allora sarà la lotta per conservare
questa purezza, questa unicità nell’amore, questa attrazione co-
stante verso Dio, che deve essere continuamente rinnovata. Le due
linee di pensiero così convergono: la strategia vittoriosa nella guer-
ra del cuore consiste da una parte nel custodire i propri pensieri e
dall’altra nel quotidiano impegno di esporli a Dio per lasciare che
siano di nuovo sedotti e affascinati da lui.
È questa la prova in cui chiediamo a Dio di non abbandonarci, di
non nasconderci il suo volto, di continuare ad affascinarci, appunto
perché senza il suo fascino verrebbe meno il perché della lotta e
di certo non avremmo la forza di resistere contro le seduzioni del
tentatore.

135
X

ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ


ma liberaci dal maligno

Il male è una persona


Si può tradurre ponerou (dal male) sia in senso personale (al
maschile) che in senso astratto (al neutro), e nel Vangelo di Matteo
il termine è usato diverse volte in entrambi i modi. Tuttavia qui
va data una leggera preferenza al senso personale, perché di solito
quando indica la liberazione da una cosa o da una situazione il
Greco preferisce la preposizione ek, mentre invece quando, come in
questo caso, usa la preposizione apò è per indicare la liberazione da
una persona. È quindi più corretto tradurre liberaci «dal maligno»
piuttosto che «dal male».
Del resto in questo modo il ritmo generale della preghiera assu-
me un crescendo di intensità che ha molto senso: prima chiediamo
a Dio di non essere messi alla prova, cioè di essere liberati dalle
difficoltà della vita che possono diventare per noi una tentazio-
ne, dopodiché si chiede aiuto contro colui che è il maestro della
tentazione e approfitta proprio di quelle prove per ingannarci e
allontanarci dal padre. In effetti la sesta e la settima richiesta del
Padre Nostro sono così legate che è difficile capirle separatamente
e quasi si potrebbe dire che sono una sola.
È strano come il mondo moderno si opponga all’idea che dietro
il male ci sia una logica spietata e ferrea, un progetto, una strategia
calcolata e perversa, di morte e distruzione. È strano perché invece
tutti gli uomini in tutti i tempi e in tutte le culture hanno sempre
visto questa evidenza. Mentre non sempre e non dovunque gli

136
uomini sono stati d’accordo su Dio, hanno invece sempre avuto la
certezza della presenza del maligno e una sostanziale convergenza
di opinioni su di esso. Solo molto di recente nella storia del pensie-
ro si è affacciata l’idea che il diavolo possa non esistere, mentre io
per parte mia se guardo all’opera dell’uomo trovo molto più facile
credere all’esistenza del diavolo che a quella di Dio.
Eppure più ci penso e più mi convinco che non c’è via di scampo:
credere nell’esistenza del diavolo è una conseguenza logica e neces-
saria della fede nella bontà dell’uomo e del mondo. Infatti non si
può aggirare il dilemma: o il diavolo esiste oppure il diavolo sono
io. Poiché nel mondo c’è il male – e in una misura e a volte con una
gratuità terrificante e ingiustificabile – allora o esiste una potenza
sovrumana, che a buon diritto definiamo diabolica, che svia l’uo-
mo da quella che è la sua vocazione originaria e il desiderio più
profondo del suo cuore, oppure dobbiamo riconoscere che l’uomo
è una radice storta, un essere malvagio e terribile in sé stesso e che
alla fine dei conti sarebbe meglio che non esistesse.
Se il diavolo non esiste, io sono al di là di ogni possibile reden-
zione e sono definitivamente perduto.
È stato osservato con acume che la più grande astuzia del
diavolo è quella di far credere di non esistere. È interessante no-
tare che spesso sono i non credenti a mettere in evidenza questa
strategia – il primo forse è stato Baudelaire – fino ad arrivare alla
paradossale preghiera a Satana dello scrittore italiano Luigi San-
tucci, che osa dire al diavolo: «Ti prego, esisti!»65. La non esistenza
di Satana farebbe, infatti, ricadere sulla libertà umana la piena,
assoluta ed esclusiva responsabilità del male che attraversa tutta
la storia coi suoi fiumi di sangue, di violenza, di immoralità, di
perversione.

65
Ricavo questa citazione da una breve nota del card. Gianfranco Ravasi in me-
moria dello scrittore milanese, nel decennale della morte (avvenuta nel 1999),
pubblicata nella rassegna stampa cattolica online «Regina Mundi»: http://www.
reginamundi.info/rassegna-stampa-cattolica/rassegna-stampa.asp?codice=71.

137
Certo, il diavolo non può essere un alibi per autoassolversi da
ogni accusa di colpevolezza, ma è anche il segno che non siamo soli
nel sopportare il peso enorme, immenso, soffocante della colpa. È
un’attenuante che non elide la nostra reità, ma ci lascia aperto un
varco per ottenere misericordia e non essere imputati dell’intero,
sterminato, cumulo del male. Nella prospettiva cristiana l’uomo
non è un essere cattivo, piuttosto è fragile e facile da ingannare; ma
se l’uomo è più stupido che cattivo, allora posso credere che sarà
redento: se il mio cuore è fragile può rafforzarsi, se è malato può
guarire, e posso ancora sperare in una liberazione.

Siamo prigionieri
Simone Weil sottolinea che mentre la parola «Padre» ha iniziato
la preghiera è la parola «male» a concluderla66. Ci sarebbe piaciuta
una conclusione più irenica, più tranquillizzante, ma non siamo
in paradiso. La nostra condizione in questo mondo è e resterà
sempre una condizione di pericolo, siamo minacciati e dobbiamo
prenderne atto, la sola cosa che ci può sostenere è la certezza della
liberazione. È sempre la fiducia nel Padre che, dopo aver aperto la
preghiera, si estende fino alla sua conclusione, ma mentre all’inizio
è espressa in forma positiva (venga il tuo regno, si compia la tua
volontà, eccetera) alla fine è espressa in forma negativa (non ci ab-
bandonare, liberaci, eccetera). In questo modo si vede che il figlio,
pur essendo saldamente radicato in Dio, è anche ben consapevole
della realtà del mondo, non è affetto dalla sindrome di Pollyanna67:
sa che il mondo è un luogo di conflitto e contesa, sa che la vita è
rischio e che la possibilità di un fallimento è ben presente. Alla fi-
ducia si accompagna così il timore e questo ci mantiene nell’umiltà,
66
S. Weil, A proposito del Pater, cit., pos. 1606.
67
Pollyanna Whittier è la protagonista del romanzo Pollyanna, pubblicato dalla
scrittrice americana Eleanor Hodgman Porter nel 1913, divenuta proverbiale per
aver inventato «il gioco della felicità», che consiste nel trovare un aspetto positivo
in ogni cosa.

138
e purtuttavia sul timore prevale sempre la fiducia, perché appunto
Dio è il pantokrator e tutto gli appartiene.
Questa liberazione è innanzitutto la liberazione da una perso-
na: l’avversario, il maligno, il nemico del genere umano. Ha molti
nomi, ma tutti in qualche modo riconducono alla sua azione es-
senziale: impedire all’uomo di raggiungere la statura di figlio, im-
pedire cioè il compimento della volontà di Dio su di lui. È notevole
come in quasi tutte le religioni l’avversario tenti di ottenere questo
risultato usando l’inganno e la menzogna, perché mi sembra un
implicito riconoscimento della superiorità del bene: il diavolo non
può opporsi direttamente a Dio, ma lo combatte con il sotterfugio
andando a colpire l’uomo nella sua fragilità e debolezza.
In tutti i casi è sempre la fedeltà al dono ricevuto la via della
salvezza. Al tempo stesso però dobbiamo constatare che siamo
talmente avviluppati in una rete di inganni che questa fedeltà è
resa nostro malgrado estremamente difficile. Per quanto ci sfor-
ziamo dobbiamo amaramente constatare, come san Paolo, che «in
me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio
del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il
bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,18-19). Si tenta
e si ritenta e mille volte dobbiamo rassegnarci al fatto che anche il
più puro degli uomini non è esente dal male, così come dobbiamo
scoprire che siamo incapaci di un pensiero che sia veramente puro,
che sia definitivamente libero da ogni narcisismo e da ogni amor
proprio. «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?»
conclude il suo monologo l’Apostolo (cf Rm 7,24). Siamo prigio-
nieri senza scampo! Da qui l’invocazione, tanto più vera quanto
più accorata: liberami!
Eppure, appunto, il Padre ha il potere di liberarci, sebbene mai
definitivamente in questo mondo. Come nota il Concilio di Tren-
to, anche dopo il Battesimo, anche dopo che è stato eliminato il
peccato originale, rimane in noi la traccia della concupiscenza,
traccia che viene lasciata ad agonem, secondo le parole del Conci-
lio, cioè come un pungolo che ci impedisce di rilassarci, che fa sì

139
che costantemente ricordiamo la nostra dipendenza in tutto dal
Padre68. Ma se c’è una lotta è perché una vittoria è possibile: certo
non da soli, ma c’è una liberazione, c’è una vittoria che ci attende.
Così il Concilio è categorico: mentre da una parte afferma senza
esitazioni la realtà del male e la sua forza, dall’altra condanna de-
finitivamente ogni idea che possa inclinare a pensare che l’uomo
sia incorreggibile e destinato fatalmente a soccombere nel com-
battimento spirituale.
Come siamo dipendenti da Dio per il pane e viviamo solo in
quanto costantemente lo riceviamo dalle sue mani, così è per la
nostra liberazione, che deve essere quotidianamente rinnovata.
Senza questo legame, che va custodito e ricostruito ogni giorno,
torneremmo rapidamente a essere schiavi, seppure siamo stati
liberati. Ancora una volta si conferma l’assioma del figlio: essere è
riceversi, esistiamo in quanto siamo donati a noi stessi.

Quale liberazione?
Eppure abbiamo detto che la tentazione non può essere mai del
tutto eliminata, che in qualche modo ha perfino una sua funzione
nella crescita dell’uomo spirituale. E allora esattamente da cosa dob-
biamo essere liberati? E cosa vuol dire poi in concreto liberazione?
Il maestro degli inganni usa molti modi per manipolare l’anima
e la coscienza. Certe volte ho la sensazione di essere come un piano-
forte nelle sue mani e scopro con dolore che sa perfettamente quali
tasti toccare per farmi suonare la sua musica. Sono soprattutto le
emozioni questi tasti, perché sa bene che la mente va dove vuole il
cuore. Il libero arbitrio è il tesoro più prezioso dell’uomo, il segreto
della sua unicità, ma è così fragile! Ci vuole così poco a fargli fare
cose che in realtà non vorrebbe o non farebbe mai…

68
Decretum de peccato originali, 5 (DENZ 1515), in H. Denzinger, Enchiridion
Symbolorum, 37° edizione bilingue a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1995,
p. 644.

140
Queste emozioni disordinate, in contrasto con la ragione, di
solito nel linguaggio teologico vengono chiamate «passioni». Le
passioni quindi non sono semplicemente emozioni molto forti,
come in genere si intende nel linguaggio comune, piuttosto sono
emozioni disarmoniche, non in sintonia con la nostra vocazione,
con la nostra identità più profonda, con ciò che siamo chiamati a
essere e che vogliamo, in una parola con la nostra identità di figli.
Per fare un esempio concreto: un uomo che ha un grande desiderio
di sua moglie non è in preda alla passione del sesso, ma è sempli-
cemente molto innamorato, e in questo non c’è nulla di male, anzi
vivere appieno questa emozione è perfino una via di santità, come
sottolinea il Concilio Vaticano II69.
E tuttavia senza emozioni non si può vivere. Lo abbiamo detto
prima: il Dio biblico è pieno di pathos, e un amore senza emozioni
probabilmente neppure meriterebbe il nome di amore. Può acca-
dere che durante la fatica del combattimento spirituale, esasperati
dai propri fallimenti, si possa desiderare di sopprimere del tutto la
nostra sfera emozionale, eppure quelle emozioni attraverso cui en-
tra la tentazione sono anche le porte attraverso cui passa la Grazia.
La rabbia può accecare e portare a uccidere, ma può anche essere
l’energia positiva che ci spinge a lottare per la giustizia; la paura può
farci stare arroccati sulla difensiva o paralizzarci impedendo di fa-
re delle scelte, ma può anche indurci ad avere una giusta prudenza;
la tristezza può condurre alla depressione e allo scoraggiamento,
ma può dare il desiderio di cambiare e risalire la china della vita…
Insomma, non è dalle emozioni che dobbiamo essere liberati,
ma piuttosto da quell’inganno che ci porta ad assolutizzarne una.
Quando l’organismo spirituale è sano, le emozioni lavorano insie-
me, si sostengono l’un l’altra come gli strumenti di un orchestra

69
«Questo amore è espresso e reso perfetto in maniera tutta particolare dall’eser-
cizio degli atti che sono propri del matrimonio; ne consegue che gli atti con i quali
i coniugi si uniscono in casta intimità sono onorevoli e degni e […] favoriscono
la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente in
gioiosa gratitudine gli sposi stessi» (GS 49).

141
guidati da un bravo direttore, e il risultato finale è un equilibrio
armonico che si traduce in un frutto di pace interiore.
Un buon indicatore dell’azione di un nemico che dall’esterno
sta cercando di manipolarci è quando una delle nostre emozioni
prevale così tanto che le altre quasi scompaiono. Se stiamo ascol-
tando solo la nostra rabbia o la nostra paura quasi certamente è
perché siamo sotto l’effetto di un inganno che ci fa scambiare un
dettaglio con il tutto, che ci fa credere che un singolo bene valga
tanto che non possiamo vivere senza, mentre è solo del Padre che
in senso assoluto non possiamo fare a meno.

La forza del silenzio


Bisogna notare che raramente il maligno ci tenta direttamente al
male: è molto difficile ingannare un uomo fino a fargli credere che
una cosa oggettivamente cattiva sia buona e desiderabile. È molto
più comune, e generalmente molto più efficace dal suo punto di
vista, indurci ad assolutizzare un bene fino a fargli occupare tutto
l’orizzonte della nostra immaginazione e della nostra fantasia.
Può accadere così ad esempio che si facciano cose terribili in nome
dell’amore o dell’amicizia, sentendosi perfino nel giusto. Quante
stragi sono state compiute nel nome di Dio! Perfino la fede infatti
può essere utilizzata in questo modo e anzi forse la passione più
pericolosa è proprio quella religiosa, perché nessun’altra mette in
moto corde così profonde.
Il silenzio è un’ottima difesa contro questo pericolo ed è lo
strumento più comunemente usato da Dio per liberarci. Non per
nulla fretta e confusione sono le armi più frequentemente usate
dal nemico per indurci a fare quello che lui vuole. Bisogna invece
sempre ricordare che «nella conversione e nella calma sta la vostra
salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15).
Così quando il Signore vuole liberare qualcuno da un forte in-
ganno di solito lo costringe al silenzio, appunto perché in questo
silenzio interiore si può placare quella emozione disordinata e si

142
ritrovano quindi equilibrio e pace, in modo da potersi orientare a
ciò che si vuole davvero.
È ciò che propone santa Teresa d’Avila, quando paragona l’ani-
mo umano a una caraffa piena di acqua sporca. Il modo migliore
di tornare a vedere limpidamente attraverso di essa è posarla, in
modo che tutte le particelle in sospensione si posino sul fondo e
l’acqua torni trasparente.

La forza dell’equilibrio
Una vita equilibrata è di per sé stessa una utile difesa contro il
maligno, ma bisogna sempre ricordare che il nostro nemico è mille
volte più intelligente di noi. Non facciamo mai l’errore di confidare
troppo in noi stessi e nella nostra capacità! Anzi, quello è proprio il
momento in cui siamo perduti, perché l’equilibrio spirituale non è
un equilibrio statico, come quello di un uomo seduto in poltrona,
ma dinamico, simile a quello di chi va in bicicletta, e quindi deve
essere continuamente vigilato e rinnovato.
Dal punto di vista del diavolo un uomo spiritualmente seduto
in poltrona, cioè comodo nella sua certezza, che non si mette mai
in crisi o in discussione, che non rischia niente nel confronto con
la vita è come un grande peccatore, perché è altrettanto lontano
da Dio. Infatti amare è rischiare, prendere l’iniziativa, sporcarsi le
mani e quindi in qualche modo rimettere sempre in discussione
il nostro equilibrio interiore. L’amore non ammette comfort zone.
Così spesso la tentazione, specialmente per noi sacerdoti, è quella
della comodità. Un don Abbondio serve il diavolo forse più e me-
glio di un padre Ralph!70
Come la forza che tiene in equilibrio un uomo in bicicletta è la
spinta che lo fa avanzare, così l’equilibrio spirituale è il frutto del

70
Padre Ralph de Bricassart è il giovane e ambizioso protagonista della miniserie
TV Uccelli di Rovo, tratta dall’omonimo romanzo di Colleen McCullogh, che in
Italia ha avuto un tale successo da diventare proverbiale.

143
fascino costante di Dio che ci attira a sé. Non siamo in equilibrio
perché abbiamo spento in noi tutte le emozioni, né perché abbiamo
realizzato tutti i nostri sogni e desideri, ma perché l’incontro con
Cristo ha polarizzato il nostro cuore, attirandolo a sé come un
magnete. Come ho detto più sopra: l’uomo di Dio non è un uomo
privo di eros, ma un uomo in cui tutto è affascinato da Dio.

La grande tentazione
Fino adesso ho parlato di cuori relativamente sani, cuori an-
cora capaci di amare e di odiare, e quindi non del tutto perduti.
Eppure vedo sorgere una sorta di uomo nuovo, che mi sembra
essere vittima della più grande delle tentazioni. Sono quelli che
C.S. Lewis chiama «uomini senza petto», uomini cioè privati del
mistero, incapaci di trascendere i loro bisogni naturali e attingere
a quella malattia di infinito che è forse il segno più caratteristico
della umanità.
Intendiamoci, uomini così sono sempre esistiti in ogni epoca e
in ogni tempo, ma quello che più mi spaventa, ed è ciò che costi-
tuisce la grande tentazione, è che mentre in passato sono sempre
stati guardati non dico con disprezzo, ma con compassione, come
se fossero dei ciechi da illuminare o dei bruti da nobilitare, oggi in-
vece sono esaltati dalla cultura mainstream e presentati a modello.
All’inizio di questo libro ho parlato del senso religioso, cioè di
quell’indefinibile bisogno che spinge l’uomo a cercare sempre,
quella inestinguibile sete che alla fine lo conduce a Dio. Un uomo
senza senso religioso non avrebbe alcuna pietà né religione, sa-
rebbe del tutto incapace di arte, di bellezza e dunque di preghiera,
non avrebbe alcun contatto con il mistero e il divino e alla fin fine
smetterebbe di essere un uomo.
Eppure proprio questa è la grande tentazione che vedo profilarsi
all’orizzonte, la più pericolosa, la più astuta. Non l’ateismo, che in
quanto rifiuto di Dio è in un certo modo ancora un dialogo con
lui e lascia aperta una porta alla conversione, ma l’abolizione del

144
mistero, del sogno, del sublime, che in ultima analisi è, secondo
il titolo della geniale opera di Lewis, una abolizione dell’uomo71.
Ho visto questa tentazione, silenziosa e micidiale come un
cancro, diffondersi dovunque: in impiegati di banca capaci di
pensare solo ai conti e al denaro, e in ingegneri capaci solo di pen-
sare all’efficienza e alla gestione dei sistemi, ma anche in uomini
di Chiesa che hanno fatto della prudenza pastorale un idolo che
li ha resi incapaci di credere alla divina provvidenza o in biblisti
che hanno abbandonato il mistero della Parola per affidarsi alla
scienza linguistica o esegetica.
La tentazione di oggi non è più la semplice negazione di Dio,
come agli inizi del XX secolo, ma lo sviamento del desiderio di
lui, impantanato nelle secche dell’occultismo e del falso mistici-
smo new age, o intossicato da una falsa scienza che gonfia anziché
edificare. Mille droghe, mille veleni, mille strategie per far sì che
l’uomo scambi la vita soprannaturale con una supervita naturale.
È l’ultimo uomo, annunciato da Nietzsche nel prologo del suo
Zarathustra: «Guai! Viene il tempo in cui l’uomo non scaglierà più
la freccia del suo desiderio ardente al di là dell’uomo, e la corda
del suo arco avrà disimparato a vibrare […] Guai! Viene il tempo
in cui l’uomo non partorirà più nessuna stella. […] Ecco! Io vi
mostro l’ultimo uomo. “Che cosa è amore? Che cosa è creazione?
Che cosa è desiderio ardente? Che cosa è stella?” – così domanda
l’ultimo uomo e ammicca. La terra allora sarà diventata piccola e
su di essa andrà saltellando l’ultimo uomo che tutto rimpicciolisce
[…] “Noi abbiamo inventato la felicità” dicono, ammiccando, gli
ultimi uomini»72.
Quando la felicità non è più un mistero da ricevere in dono, ma
un problema tecnico da risolvere, la risposta di Dio è in un para-
dosso: ho sete. Come davanti alla donna samaritana del Vangelo
di Giovanni, davanti a ogni uomo egli dice: «Dammi da bere».

71
C.S. Lewis, L’abolizione dell’uomo, Jaca Book, Milano 2016 (ed. or. 1943).
72
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pos. 729.

145
E la sete di Dio la vedo nella sete dei piccoli, di quelli che co-
munque saranno sempre schiavizzati e umiliati, perché il potere
dell’uomo sulla natura si risolve sempre, prima o poi, nel potere
di alcuni uomini su altri uomini usando la natura per strumento.
Proprio per questo quei piccoli, quegli ultimi, saranno i soli anco-
ra capaci di provare angoscia e stupore, le due forze che possono
ridestare in noi il desiderio di Dio.
E allora quei piccoli, quegli ultimi, saranno l’ultimo sacramen-
to: nella loro sete ascolteremo ancora la sete di Dio, nel loro grido
«Dammi da bere» – dammi da bere verità, dammi da bere certezze,
dammi da bere una gioia che non umilia, una pace che non di-
strugge, una verità che non nasconde – in quel grido ritroveremo
il grido di Dio.
Sì, Dio ha sete, ha sete che noi abbiamo sete di lui, desidera essere
desiderato, perché lui e lui solo è la libertà che non schiavizza, la
verità che non opprime, la bellezza che rende belli, la giustizia che
perdona.
Liberaci da ogni male, Signore, e più di tutto liberaci dall’illu-
sione di essere autosufficienti.

Liberazione integrale
Come il drago nell’Apocalisse è costretto a fermarsi sulla spiag-
gia e deve servirsi come suoi agenti delle due «bestie» (cf Ap 12,18),
così il diavolo agisce nella storia umana servendosi degli uomini.
Una liberazione integrale dal maligno quindi richiede che siamo
liberati anche dai suoi agenti in questo mondo.
Giovanni ha visto la «bestia-che-sale-dal-mare» concretizzarsi
nell’impero romano, sono numerose le allusioni e gli indizi dis-
seminati nel libro che lo indicano, ma ogni impero umano, ogni
potere che si pretende assoluto è in quanto tale un agente diabolico
e dunque una incarnazione della bestia. Ogni volta che un pote-
re si arroga un diritto totale sulla persona, privandola della sua
libertà, esso diventa una manifestazione del maligno. In questo

146
senso quindi la liberazione è opera tipicamente divina: solo Dio
può davvero liberare, solo Dio vuole veramente farlo, perché la
liberazione è un frutto dell’amore. In ultima analisi solo l’amore è
liberante, perché solo l’amore vuole davvero che tu sia.
È diabolico quindi ogni tentativo di manipolazione, coartazione,
costrizione e prigionia della persona, sia fisico che spirituale, ed è
divino l’atto del liberare, che contiene in sé la radicale fiducia del
Padre verso i suoi figli: ti libero perché voglio che tu sia te stesso, e
voglio che tu sia te stesso perché credo in te, credo nella tua bontà
di fondo, credo che tu alla fine vorrai amare.
«Anche se l’impero romano e le sue ideologie non esistono
più – quanto è ancora attuale tutto ciò! Anche oggi ci sono, da un
lato, le potenze del mercato, del traffico di armi, di droghe e di
uomini – potenze che gravano sul mondo e trascinano l’umanità
in vincoli ai quali non ci si può sottrarre. Anche oggi c’è, dall’altro
lato, l’ideologia del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo
una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere.
Non ti preoccupare di lui! Cerca da solo di carpire dalla vita quanto
puoi! Anche a queste tentazioni sembra impossibile sottrarsi»73.
Ma finché l’uomo conserva in sé quel residuo di libertà suffi-
ciente a gridare verso il Padre: «Liberami!», ancora può sperare.
Solo qualora avesse perduto la sua relazione con Dio, solo quando
dovesse perdere davvero il suo essere figlio, allora l’uomo diven-
terebbe un puro numero nel gioco delle statistiche, un prodotto
del caso e della necessità, allora il «drago» avrebbe vinto davvero.
Finché nonostante tutte le sventure che possono colpirti, nonostan-
te la forza schiacciante della manipolazione ideologica, sei ancora
capace di invocare il Padre, in realtà il tuo cuore non è perduto,
ancora appartieni a lui, sei suo figlio e nulla può strapparti dalle
sue mani (cf Gv 10,29).
Per questo non preghiamo di essere liberati dalla tentazione, ma
dal maligno. La tentazione ha una sua utilità, lo abbiamo detto, ma

73
Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, cit., p. 198.

147
il maligno uccide, distrugge74. Essere liberati dal maligno significa
che il cuore, quel centro intimo della persona che governa sia le
facoltà superiori dell’intelletto che gli istinti e l’affettività, rimane
nonostante tutto rivolto a Dio. A dispetto di qualsiasi peccato pos-
siamo aver commesso, ciò che conta è rimanere figli, mantenere la
relazione con Dio Padre, relazione che può essere ferita, ma rimane
viva fintanto che possiamo gridare a lui il nostro pentimento e il
nostro desiderio di essere liberati.

È Pasqua: finalmente liberi!


Ricordo benissimo quando, giovane diciassettenne, mi stavo
per la prima volta accostando in modo consapevole alla fede ed
entrando nelle stanze dell’oratorio vidi un poster colorato appeso
a un muro che gridava uno slogan vistoso: «È Pasqua: finalmente
liberi!». Per me, imbevuto in quel momento di vaghe idee marxi-
steggianti, quello slogan significava poco, anzi, mi irritò notevol-
mente: cosa c’entra la liberazione, pensavo, con la Pasqua?
Eppure è dalla Pasqua che ogni liberazione autentica trae la sua
forza. Poiché le potenze che ci asserviscono non sono certamente
soltanto economiche o politiche o psicologiche o sociali, ma sono
tutte agenti a servizio di un nemico nascosto e più insidioso, la
sola vera liberazione può essere portata da Colui che ha ridotto in
catene questo crudele tiranno, liberandoci così dal suo potere, ed
è sul Calvario e poi nella notte della Risurrezione che tutto questo
è accaduto e che attraverso la forza del sacramento noi possiamo
rendere di nuovo presente oggi.
La definitiva liberazione è Dio crocefisso a ogni male del mondo,
«ma capace di far scoppiare nelle tenebre l’immensa forza della

74
«Dio ci libera dalle tribolazioni, non perché non ci vengano più tribolazioni,
ma perché, pur essendo nella tribolazione, per il soccorso divino non veniamo
schiacciati» (Origene, Sulla preghiera, cit., p. 174).

148
Risurrezione»75. Pasqua è la trasfigurazione dell’abisso, dire: «Libe-
raci dal male!» significa invocare: «Vieni Signore Gesù, Maranatha,
vieni mia gioia e mio liberatore» (cf Ap 22,20).
La Chiesa tutta intera è impegnata in questa lotta contro il
maligno. Per questo chiediamo di essere liberati insieme: è un
«liberaci», non un «liberami», quello che si alza a Dio. Vale qui lo
stesso principio ribadito più volte lungo tutta questa riflessione
sulla «preghiera del Signore»: la vita cristiana è essenzialmente vita
di comunità, nessuno si salva da solo, nessuno si libera da solo. C’è
una misteriosa solidarietà nel peccato, per cui «se un membro soffre
tutto il corpo soffre con lui» (1Cor 12,26) e allo stesso modo ci sarà
una solidarietà nella liberazione, per cui se uno è liberato, tutti in
un certo modo partecipano della sua liberazione. Questo significa
che occorre schierarsi, nessuna neutralità è possibile tra il bene e il
male, tra il drago e l’agnello, men che meno in questo tempo così
difficile e confuso.
La preghiera per essere liberati dal maligno è una preghiera at-
tiva, non una semplice attesa, e domanda la nostra cooperazione.
Questa cooperazione può avvenire alla maniera dei monaci, che
silenziosi agiscono attraverso la loro intercessione, o alla maniera
attiva di chi si spende per collaborare alla gioia del mondo, ma
tutti, a partire dalla piccola porzione di realtà che ci è affidata,
siamo coinvolti.

Nel sacramento
Noi sacerdoti siamo chiamati a collaborare nel modo più bello
a questa preghiera attiva amministrando il sacramento della Ri-
conciliazione.
Purtroppo la versione italiana della liturgia ha scelto di tradurre
«ego te absolvo» con la formula più assonante «io ti assolvo» invece
di quella più esatta «io ti libero». Nell’uso italiano infatti la parola

75
O. Clément, Il Padre nostro, cit., p. 117.

149
«assoluzione» sembra fastidiosamente desunta dalle procedure
giuridiche: è la conclusione di un processo, da cui si può farla
franca – anche se colpevoli – grazie a un buon avvocato.
Quanto è più profonda e radicale la parola «liberazione», che
allude anche alle conseguenze più oscure e profonde del peccato,
il quale incarcera e opprime anche la mia gioia, la mia capacità di
amare, la mia umanità! Non è solo dalla minaccia del giudizio di
Dio che siamo liberati, ma anche dalle catene che il peccato aveva
imposto al nostro cuore.
La formula dell’assoluzione, se letta integralmente, esprime
molto bene questo senso: «Dio Padre di misericordia, che ha ri-
conciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e
ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda
mediante il ministero della Chiesa il perdono e la pace. E io ti as-
solvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo»76. Si può vedere facilmente che il protagonista è il Padre, è
da lui che provengono il perdono e la pace, che coincidono quindi
con il ristabilimento della relazione con lui, e l’effetto atteso nel
cuore del penitente è per l’appunto un effetto di pace, quindi non
semplicemente una assoluzione giuridica, ma una liberazione
integrale, che coinvolga le sfere più profonde dell’animo. Solo in
senso metaforico il sacramento della Riconciliazione va interpre-
tato come tribunale, ciò che deve prevalere a mio giudizio è invece
il modello del «ritorno a casa», seguendo la traccia della parabola
del padre misericordioso (cf Lc 15,20-24).
Si comprende così come l’ultima invocazione del padre Nostro
richiama in un certo senso le prime tre: è riconsacrando il tempio
del cuore nella santificazione del suo Nome, è riaffermando in noi
la sua Signoria ed è attraverso la nostra adesione alla sua Volontà
che si compie la nostra liberazione.

76
Rito della Penitenza (1974), nn. 46.55.

150
Liberaci da tutti i mali

In quasi tutte le liturgie il Padre Nostro si conclude con una


invocazione che serve ad ampliare e specificare questa ultima
domanda: «Liberaci, Signore da tutti i mali…» Tra le altre cose il
fatto che la tradizione abbia sentito il bisogno di aggiungere que-
sta specificazione è una conferma del fatto che fin dall’inizio la
Chiesa ha sentito l’ultima invocazione del Padre Nostro come una
richiesta di aiuto contro il maligno.
Tutti i mali, perché il male ha molti volti e molte frecce e tutti
possono ferire l’uomo, ma il Padre è pantokrator, tiene tutto nelle
mani, e dunque può concedere la pace ai nostri giorni, dove pace,
cioè shalom, è sinonimo di salvezza, la condizione dell’uomo libe-
rato e dunque introdotto nel regno di Dio.
E allora Signore liberaci, tutti noi, non soltanto me, tutti noi figli
di Adamo che tu vuoi rendere tuoi figli.
Libera dal male noi che abbiamo vergogna del nome di cristia-
ni e anche quelli che di questo nome fanno la bandiera della loro
presunta superiorità e del loro disprezzo.
Libera dal male noi così pronti a condividere il pane del cielo e
così restii ad aprire la mani ai poveri.
Libera dal male noi che parliamo di comunità e di amore e
siamo così schiavi di pregiudizi e gelosie da non saper nemmeno
rispettarci a vicenda.
Libera dal male noi che ci crediamo sapienti e abbiamo dimen-
ticato il sorriso dei bambini e la gioia che danno le chiazze di sole
tra gli alberi in un pomeriggio d’estate.
E soprattutto libera dal male me, che insieme alla tua Chiesa – ed
è la mia sola giustificazione – oso dire al mondo che tu sei Padre.
Si mostra così come l’ultima parola del Padre Nostro non è in
realtà il male, come sembrava dire Simone Weil, ma la liberazione.
Lo abbiamo già detto: il padre non è solo colui che genera, ma an-
che e forse soprattutto colui che libera. C’è stato – e ancora dura –
un conflitto contro il male, d’accordo, ma l’esito non è incerto e

151
la durezza del combattimento serve soltanto a rendere più grande
la gioia per la salvezza ricevuta. E sappiamo che con l’aiuto della
misericordia di Dio possiamo vivere senza turbamento, liberi dal
peccato e in attesa del compimento della nostra speranza.
Così la «preghiera del Signore» è conclusa da una promessa,
promessa che è certa perché fondata nell’amore di Dio riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo. Speranza è l’ultima
parola di questa come di ogni altra preghiera, speranza che è cer-
tezza, perché l’amore del Padre ne è il fondamento.

152
Conclusione

Amen

Non voglio lasciare la conclusione di questo libro a un discorso


sul maligno e sulla sua opera. Vorrei quindi terminare questa lunga
meditazione soffermandomi su quell’avverbio che giustamente è
stato definito un Credo abbreviato e che nella tradizione cristiana
conclude ogni preghiera: «Amen».
La parola «amen» non è facile da tradurre, per questo gene-
ralmente si preferisce lasciarla nella sua forma originale. Viene
dal verbo aramaico aman, «star fermo, essere stabile», da cui per
traslato «così è, in verità». Ogni volta che un credente dice «amen»
intende dire quindi che crede e si impegna su ciò che Dio ha re-
so saldo. È perciò una formula che contemporaneamente indica
assenso razionale e adesione della volontà, impegno e desiderio.
Nell’uso biblico conosciamo un senso debole di questo avverbio,
simile al nostro «così sia», come ad esempio in Ger 28,6 – dove
esprime più che altro un auspicio – ma prevale il senso forte, co-
me ad esempio in Ger 11,5, o con ancora più forza in Dt 27,15-26,
dove esprime un impegno personale e l’adesione a una missione.
Fortissimo infine è il senso che gli dà Gesù, che usa molte volte
questa espressione – addirittura raddoppiandola nel Vangelo di
Giovanni, per conferirle maggiore enfasi – per indicare che è Dio
stesso a garantire una cosa o a impegnarsi per essa (ad esempio in
Lc 9,27 o in Gv 10,1).
Nell’uso liturgico è attestato fin dai più antichi testi cristiani ed
ebraici come risposta alle dossologie e alle preghiere, assumendo
così il suo senso di «credo abbreviato». È degno di menzione l’uso
che ne fa Dante nel Paradiso, dove lo pone a conclusione del coro

153
dei beati dei cieli del Sole e di Marte, ma sottolinea anche l’anelito e
il desiderio implicito nella parola: «Tanto mi parver sùbiti e accorti/
e l’uno e l’altro coro a dicer "Amme!",/ che ben mostrar disio d’i
corpi morti:/ forse non pur per lor, ma per le mamme,/ per li padri
e per li altri che fuor cari/ anzi che fosser sempiterne fiamme»77.
È veramente la sintesi dell’essere figlio, la parola che più di ogni
altra compendia l’atteggiamento esistenziale del Cristiano. Si dice
che sia stata l’ultima parola in punto di morte di san Giovanni Pa-
olo II, e davvero dovrebbe essere la parola finale della nostra vita:
detta, anzi gridata, come un bilancio di gioia e gratitudine contem-
plando a partire dalla fine il percorso che la Grazia ha compiuto
dentro di noi. Chiudiamo così il cerchio e lo stupore che avevamo
provato all’inizio di fronte alla rivelazione del nome del Padre
diventa adesione entusiastica e piena di slancio della volontà che
accoglie il dono della vita e desidera corrispondere a tanta bellezza.
Se io fossi capace di dire «amen» a tutto ciò che esiste, se sapessi
dire «amen» a ogni singolo rivolgimento della mia vita, se potes-
si svegliarmi e dire «amen» al nuovo giorno e coricarmi e dire
«amen» a quello passato, allora sarei veramente un degno figlio
del mio Padre celeste.
Così proclamare il nostro «amen» alla fine del Padre Nostro ci
consente di rileggerlo a ritroso, a partire dalla liberazione per con-
cluderlo con la scoperta della paternità. Del resto forse esistenzial-
mente è questo il percorso che corrisponde di più alla nostra espe-
rienza: quasi sempre la nostra esperienza di Dio comincia con la
scoperta di essere stati liberati dagli inganni del maligno e progre-
disce attraverso i suoi doni fino a imparare ad affidarsi alla sua vo-
lontà, a porre il suo Regno sopra ogni cosa, a glorificare il suo Nome
come il sommo bene, fino a scoprire il suo bellissimo volto di Padre.
Dire «amen» alla fine del Padre Nostro significa dire: io credo
tutto questo, mio Dio! Questo è ciò che voglio e desidero, compi
in me la tua opera e rendimi veramente e definitivamente figlio.

77
Paradiso XIV, 61-66.

154
Indice

Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7

Parte prima
CONOSCERE IL PADRE

I. QUANDO PREGATE DITE: «PADRE» . . . . . . . . . . . . . » 13


La falsa immagine di Dio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 14
Due estremi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 15
Padre, in che senso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16
La falsa immagine del padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 19
La menzogna originale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20
Dio ama il sacrificio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 22
La logica pasquale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 25
L’ambiente della preghiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 27
Lo stupore del figlio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 29
Rinnovare lo stupore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 31

II. PADRE NOSTRO, QUELLO NEI CIELI . . . . . . . . . . . » 33


Il Padre è nei cieli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 33
Tutto ha senso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 34
Tutto è messaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 36
Tu sei futuro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 36
Il Padre è nostro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 38
Pregare è appartenere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 39
Siamo tutti fratelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 40
Parte seconda
LE GRANDI RICHIESTE

III. SIA SANTIFICATO IL TUO NOME. . . . . . . . . . . . . . pag, 48


Dio ha un nome. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 48
Pregare dentro un noi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 49
Come bambini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 51
Pregare è lodare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52
Gratitudine e gioia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53
Una passione grande. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 55
Santificare è godere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 57
Pregare dal cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 58
Rientrare nel cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 59
Amare sé stessi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 60
Lo spirito e la passione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 61
Avere un cuore unificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 62
Dalla lode all’amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 63
La falsa santità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 64
Santificare è assomigliare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65

IV. VENGA LA TUA SIGNORIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 67


Per mezzo dello Spirito Santo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 67
Regno di Dio regno dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 68
Pregare politicamente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70
Il Regno è una società. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71
Il Regno e la Chiesa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 72
Venga la Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
Già e non ancora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 74
Il Regno verrà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75
Il Regno è un destino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 76
La forza di una promessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 77
Vivere per il Regno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 78
V. SI COMPIA LA TUA VOLONTÀ. . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 80
L’infallibile volontà di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 80
Abbandonarsi al Padre. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 81
Sia fatto anche il male? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 83
Il perdono vince il male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 84
Pregare è obbedire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 86
Obbedienza e libertà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 86
La fatica di obbedire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 89
Come riconoscere la volontà di Dio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 90

VI. COME NEL CIELO ANCHE SULLA TERRA. . . . . . » 92


La dinamica dell’Incarnazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 92
Si può vivere così? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 94

Parte terza
LE RICHIESTE PERSONALI

VII. IL NOSTRO PANE, QUELLO NECESSARIO,


DACCI OGGI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 102
Il pane necessario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 102
Il pane per vivere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 104
Nostro, ma non nostro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
La santa precarietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 106
Il pane eucaristico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 107
Il pane feriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 109
Vivere nel presente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 110
La casa del pane. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 111

VIII. E LIBERACI DAI NOSTRI DEBITI COME ANCHE NOI


ABBIAMO LIBERATO I NOSTRI DEBITORI . . . . . . . . » 114
Qual è il mio debito?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 114
Male per bene. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116
Liberaci come abbiamo liberato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 118
Tu non sei il tuo peccato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 120
Come il Padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 122

IX. E NON METTERCI ALLA PROVA . . . . . . . . . . . . . . . » 124


Una traduzione difficile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124
Pregare nella prova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 125
Il combattimento spirituale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127
Custodire il cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128
Proteggere gli altri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130
Il mistero del male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 131
Non ci abbandonare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 132
La guerra del cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 133
Puro cioè semplice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 135

X. MA LIBERACI DAL MALIGNO . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136


Il male è una persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136
Siamo prigionieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 138
Quale liberazione?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 140
La forza del silenzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 142
La forza dell’equilibrio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 143
La grande tentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 144
Liberazione integrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 146
È Pasqua: finalmente liberi!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 148
Nel sacramento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 149
Liberaci da tutti i mali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 151

Conclusione. Amen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153

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