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Elaborato di Javier Rosales – Introduzione agli scritti sapienziali.

I libri sapienziali nella lettera di Giacomo


1. Introduzione.

Nel presente elaborato vorrei mettere in luce la letteratura biblica


sapienziale che secondo una gran maggioranza di esegeti si trova nella
lettera di Giacomo (Gc) del Nuovo Testamento. Il riverbero e l’eco che
troviamo in Giacomo di quei testi veterotestamentari appare come
trasfondo in gran parte delle argomentazioni e le tematiche trattate
dall’autore di Giacomo; e vedremo come lui fa uso di diversi testi
sapienziali per costruire e rafforzare sia letteraria che teologicamente i
diversi argomenti della lettera. A questo scopo l’autore ricorrerá alle
stesse immagini, esempi e metafore dei libri sapienziali e con l’aiuto
degli studi esegetici contemporanei vedremo anche come troviamo
quei libri come trasfondo, spesso a modo di parafrasi, allusioni, accenni,
citazioni implicite, e cosí argomenteremo che l’autore di questo testo
neotestamentario aveva letto quei libri, li ha usati direttamente per la
sua redazione o quanto meno era culturalmente impregnato dalla
tardiva sapienza ebraica e in qualche modo era in conoscenza di quei
libri che fanno parte del canone sia ebraico che cristiano. E questo lo si
puó fare proprio perché l’autore di Giacomo configura una serie di
figure retoriche che collegano l’Antico con il Nuovo Testamento.
Vedremo dunque che la Sapienza é il trasfondo e il pilastro in cui
riposano come punto nevralgico i principali argomenti e le piú
importanti esortazioni del messaggio della lettera.

R. Leconte, introducendo la lettera di Giacomo per la versione


della Bibbia di Gerusalemme (BJ) presenta l’autore di essa come un
“saggio giudeo-cristiano che ripensa in modo originale le massime della

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sapienza giudaica in funzione del compimento che esse hanno ricevuto


sulla bocca del Maestro”.1

Da un punto vista letterario vediamo che l’autore di Gc procede


allo stesso modo in cui i libri sapienziali costruiscono le sentenze: partono
dalla Sapienza come dono dall’alto, (3, 17) per estrarne e derivarne
lezioni di morale pratica, nonché per fare un elenco di ció che é buono,
virtuoso e saggio e di ció che fanno gli stolti, quelli che non conosco la
sapienza. Provando a fare un primo elenco di paralelli tematici
troviamo degli elementi comuni tra il testo neotestamentario e l’insieme
di libri che studiamo; sottolinierei due grandi temi che spuntano: il primo
é quello della sopportazione delle prove che in Gc troviamo in 1,1-12; e
5,7-11; collegato alla grande tematica della limitazione della vita
umana; e il secondo invece riguarda alla sapienza come fonte per
realizzare opere buone, dove il testo della lettera elenca gli atributi che
la Sapienza dona, i frutti di una vita vissuta in essa, e le consecuenze
negative che soffre chi la rifiuta. Un importante e grande esempio di
questo modo di procede di Giacomo lo troviamo nel magnifico
capitolo 3 della lettera, dove l’autore segue Proverbi e Siracide per
esporre l’uso che gli stolti fanno della lingua e del linguaggio.

2. L’avvertimento ai ricchi come verifica della limitazione della vita


umana.

Dicevamo all’introduzione che, meditando sulla limitazione della


vita umana, l’autore di Gc fa riferimento alla letteratura sapienziale.
Tanto é vero che l’autore inserisce verso la fine della lettera la figura di

1“Introduzione alle Lettere cattoliche”; Bibbia di Gerusalemme. 21° ed. Dehoniane. Bologna. 2005.
p. 2585.
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Giobbe, al mio viso, per sintetizzare il suo insegnamento usando come


modello tanti degli insegnamenti tratti dal testo veterotestamentario. In
Gc 5,11 leggiamo: “Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno
sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe
e conoscete la sorte finale che gli riserbó il Signore, perché il Signore é
ricco di misericordia e di compassione”.

Ecco, inizio a trattare questo importante tema presente in Gc con


questo riferimento a Giobbe da parte dell’autore perché, come
vedremo, sará il insegnamento che l’autore vuole trasmettere per
consolare e incoraggiare i destinatari del testo e per avvertire quegli
“stolti” dei libri sapienziali che in Gc prendono il posto dei ricchi (1,11;
4,13-14; 5,1-6), di quelli che “non ascoltano la parola” (1,22.25).

Troviamo dunque che ci sono diverse metafore all’interno del testo


che indicano la natura transitoria dell’esperienza umana in modo simile
a come viene spiegata dal Siracide. Una di esse la troviamo in Gc 1,6,
dove dice che “chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata
dal vento”. Il Siracide dice che “un uomo saggio non detesta la legge,
ma l’ipocrita a suo riguardo é come una nave nella tempesta” (33,2); e
poi leggiamo in 29,17: “La cauzione ha rovinato molta gente onesta, li
ha sballottati come onda del mare”.

L’analogia piú importante peró la troviamo invece in Gc 1,9-11,


dove paragona la vita con l’erba. Dice il testo: “Il fratello di umili
condizioni si rallegri della sua elevazione e il ricco della sua umiliazione,
perché passerá come fiore d’erba. Si leva il sole col suo ardore e fa
seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce.
Cosí anche il ricco appassirá nelle sue imprese”. Le immaggine usate
dall’autore le possiamo chiamare come “metafore della morte”,
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poiché fanno vedere il fatale fine di ogni cosa, l’innevitabile termine di


tutte le cose, anche quelle apparentemente piú belle (in questo caso,
come in tutta la lettera, la ricchezza dell’uomo ricco, per esempio). Nel
libro di Giobbe troviamo la stessa idea che cerca di relativizzare in
qualche modo l’ingiustizia presente, sapendo che tutti, alla fine,
condividiamo la stessa sorte. Il testo di Gb 21 sembra quasi tragico.
Particolarmente i versetti 1-26. Riporto alcuni passaggi che ritengo
esemplari: “Perché vivono i malvagi, invecchiano, anzi sono potenti e
gagliardi? La loro prole prospera insieme con essi. (...) Finiscono nel
benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi. (...) Diventano
essi come paglia di fronte al vento o come pula in preda all’uragano?
(...) Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero. (...) Un altro
muore con l’amarezza in cuore senza aver mai gustato il bene. Nella
polvere giacciono insieme e i vermi li ricoprono.” Sempre in Giobbe
troviamo una bella espressione paralella a quella dell’erba: “L’uomo,
nato di donna, breve di giorni e sazio d’inquietudine, come un fiore
spunta e avvizzisce” (14,1-2).

Un altro testo che risuona a proposito dello stesso brano di Gc lo


troviamo nel capitolo 9 del libro di Qoélet (Qo). Il lungo versetto 2 dice:
“Vi é una sorte unica per tutti, per il giusto e l’empio, per il puro e
l’impuro, per il buono e per il malvagio”.

Similmente possiamo trovare in Gc lo stesso tema riguardo alla


discussione sulle ricchezze e all’interno dell’avvertimento ai ricchi che
troviamo in 4, 13 – 5, 6. Ritengo di capitale importanza i versetti 13 e 14.
Leggiamo: “E ora a voi, che dite: <<oggi o domani andremo nella tal
cittá e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni>>, mentre non

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sapete cosa sará domani! Ma che é mai la vostra vita? Siete come
vapore che appare per un istante e poi scompare”.

Per Gc la vita é effimera, essendo questo evidente nella metafora


del vapore usata nel v.14 per indicare ancora la transitorietá della vita.
La parola tradotta come vapore dalla CEI viene dal atmis, (atmis gar
este he pros oligon fainomene, epeita kai afanixomene). Questo
passaggio dunque lega al mio parere Gc con la vanitas del libro di
Qoelet, specialmente l’inizio (Qo 1, 2) e un brano collocato verso la fine
del testo (Qo 12, 7-8). Questo termine, la “vanitá”, havel, in ebraico, puó
anche essere tradotto come vapore, fumo, foschia. Bisogna dire,
quindi, che la metafora del vapore si presenta come risposta alla
domanda del v. 14: “Che é mai la vostra vita?”; e anche in linea con
l’affermazione che la precede nel testo: “Non sapete cosa sará
domani!”. Inoltre, questo versetto va visto come una reazione alla
situazione illustrata nel v. 13: “Oggi e domani andremo nella tal cittá e
vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”. Motivo del richiamo
di Gc é come dicevamo, il fatto di mettere al di sopra dei beni spirituali,
cioé la sapienza, i beni materiali e l’avarizia, caratteristiche che subito
dopo Gc attribuisce ai ricchi, a cui rivolge dure parole, come dicevamo
prima, in 5, 1-6.

In sintesi, dunque, Gc fa uso del v. 14 a modo esemplare per ridurre


il piano degli uomini ricchi e affannati a qualcosa di futile, banale e di
insensato, poiché non considerano la transitorietá e la fragilitá della
vita, appunto. Marida Nicolaci, nel suo commento a Gc, a proposito di
questo passaggio commenta la convinzione “stolta” per l’autore che
c’é dietro: “dimostra la convinzione che tempi, luoghi ed efficacia delle
loro azioni siano interamente soggetti al calcolo umano, che siano

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padroneggiabili. Sul piano religioso sono persone che vivono la storia a


una sola dimensione, prive persino della sensibilitá e sapienza spirituale
che spingono i pagani a considerare se stessi in relazione a un volere
divino. Il loro ritratto (i ricchi), é spiacevolmente simile a quello dello
<<stolto>>, delineato con insistenza e in piú modi nella Scrittura (cfr. Qo
6,12; 10,13-14)”.2 In questo modo, per Gc l’uomo dovrebbe sapere che
la possibilitá stessa di vivere per poter raccogliere nel futuro il frutto dei
suoi guadagni non dipende da lui, perché del domani egli non puó
disporre, collegando in questo modo l’idea della futilitá e fragilitá della
vita con la banalitá delle ricchezze e dell’affano umano. Questo
collegamento lo si puó trovare secondo Nicolaci in Pr 27,1; Gb 7,16; Sap
2,4; 5,9.14; in questi, dice l’autrice delucida e intrepreta che in questo
“avvertimento ai ricchi”, Gc “richiama l’immagine adoperata per lo
svenire dei ricchi con i loro progetti nel c. 1,10-11, e ne evoca altre
frequenti nella Scrittura per esprimere la fragilitá dell’umana esistenza,
piú che mai avvertita dalla coscienza dei saggi. Giacomo vede i suoi
interlocutori, occupati e resi sicuri dai loro progetti di profitto (cfr. Sir
11,10; 31,1), assumere un atteggiamento arrogante, che li chiude
all’orizzonte di una relazione vitale e concreta con Dio”.3 Per Garofalo,
inoltre, il tema della caducitá delle ricchezze é sviluppato pure in Gb
24,24; 27,13-23 e in Sap 5, 8-9; anche se, come giustamente fa notare,
nell’Antico Testamento i beni materiali erano desiderati e promessi
come una benedizione.4

2 Marida Nicolaci, Lettera di Giacomo. Introduzione, traduzione e commento. Collana “Nuova


versione della Bibbia dai testi antichi”. San Paolo edizioni. 2012. P. 127.
3 Íbid. P. 128.
4 Salvatore Garofalo, Le epistole cattoliche di Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda. 2° edizione.

Marietti. 1949. P. 30.


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3. Le metafore della lingua ovvero contro l’intemperanza del


linguaggio.

Nella lettera troviamo un altro grande tema nel terzo capitolo, dedicato
tutto dall’autore per ammonire a quelli stolti che non sanno usare la
lingua per il bene. Quest’immagine, che vuole fare capire un certo
dominio di se e un uso secondo ragione del linguaggio da parte
dell’uomo, e un tema molto frequente nei testi sapienziali, poiché nel
fondo, vuole fare capire che il dominio proprio é una caratteristica
dell’uomo saggio. Tanto é vero che, per esempio, i rinvii paralleli
proposti dalla BJ abbondano. Troviamo all’inizio del capitolo 3 il riinvio
a Sir 5,9-15; 14,1; 28,13-26; e Pro 10,19; 18,2. Tutti quanti testi che
affrontano il problema che é per l’uomo l’avere una lingua insensata,
avventata e precipitosa. Nei v. 3-12 l’autore sacro fa uso e presenta 7
metafore per affrontare il tema. Le possiamo mettere in ordine nel
modo seguente: 1) la lingua come cavallo indomabile (3,3); 2) la lingua
come timone di una grande nave (3,4-5a); 3) la lingua come fuoco
(3,5b-6); 4) la lingua come un mondo d’iniquitá (3,6); 5) la lingua come
un male ribelle e indomabile (3,7-8); 6) la lingua come una doppia
sorgente (3,9-11); e 7) la lingua come un albero che da un frutto
inaspettato (3,12).

Se, da una parte la lettera di Gc ci presenta queste 7 metafore


per indicare l’uso improprio e che porta alla rovina proprio dello stolto,
il libro dei Proverbi, invece, ci presenta nel c. 10 sette esempi dell’uso
che fa il saggio della lingua. Sarebbero questi: 1) la bocca del giusto
come fonte di vita (10,11); 2) sulle labbra dell’assennato si trova la
sapienza (10,13); 3) la bocca del saggio fa tesoro della scienza (10,14);
4) la lingua del giusto é argento pregiato (10,20); 5) le labbra del giusto

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nutriscono molti (10,21); 6) la bocca del giusto esprime la sapienza


(10,31); 7) le labbra del giusto stillano benevolenza (10,32). Allo stesso
modo, troviamo nel Siracide 28, 13-26 un elenco molto simile a questo
appena citato.

Secondo Nicolaci, questo elenco in Gc dei mali provocati dalla


lingua e che avverte e fa vedere le conseguenze dell’uso sbagliato
della lingua propria di coloro che non sono saggi, mostra in realtá “la
convinzione che la vera abilitá al governo si manifesti anzitutto nel
dominio della lingua”.5 Per Garofalo, inoltre, questa sezione di Gc
sebbene non abbia un legame diretto con quanto precede
immediatamente, si riallaccia invece a quanto é detto sia in 1,19: “sia
ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira”, che in 1,26,
dove l’autore sacro raccomanda a chi vuole essere veramente
religioso di frenare la lingua.6

4. Conclusione

La lettera di Giacomo presenta molti indizzi che la collegano, come


abbiamo visto, alla letteratura sapienza ebraica. Le idee come la
limitatezza della condizione umana, della brevetá e transitorietá della
vita, la ricerca e la cura di una vita pratica concreta ordinata secondo
la sapienza, il timore –negativo- al male che sorge da una vita stolta,
vissuta nell’ignoranza, e altre simili, sono tutte giá state svillupate in tutti
i libri sapienziali. Per l’autore di Giacomo la sapienza va oltre ogni

5 Íbid. p. 100.
6 Garofalo, op. cit. P. 51.
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divagazione teorica. Tendenza tra l’altro sempre accennata in tutti i libri


sapienziali, con le grandi eccezzioni dei diversi inni alla sapienza, ecc.

La sapienza, perció, per Giacomo sarebbe il background intorno


alla quale troviamo i contenuti prima presentati ma non la troviamo
come contenuto in se di una riflessione. La sapienza viene “tradotta”
verso una religione prattica che mette in evidenza la perfezione della
fede cristiana, dove la sapienza trova il suo compimento.

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