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TERAPIA-------
DELLE MALATTIE
SPIRITUALI
Un introduzione alla tradizione ascetica
della Chiesa ortodossa
SAN PAOLO
Spiritualità
ISBN 88-215-4930-5
€ 42,00
Titolo originale delTopera:
Thérapeutique des maladies spirituelles. Une introduction
à la tradition ascétique de l'Église orthodoxe
»Les Éditions du Cerf, Paris 19973
PREMESSE ANTROPOLOGICHE
SALUTE ORIGINALE
E ORIGINE DELLE MALATTIE
I
LA SALUTE ORIGINALE DELL’UOMO
15
creazione, non consiste solo nella semplice capacità, conferitagli dal
le sue facoltà, di unirsi a Dio: Adamo fu creato realizzando già, in qual
che misura, la somiglianza a Dio che aveva l’incombenza di portare a
compimento. Fin dall’origine, egli era rivolto verso Dio5 e possede
va, nella sua stessa natura, creata a immagine di Dio, tutte le virtù. San
Gregorio di Nissa scrive: «È ad immagine di Dio che l’uomo è stato
creato, il che equivale a dire: [Dio] ha reso la natura umana partecipe
di ogni bene. [...] C’è in noi, dunque, ogni sorta di bene, ogni virtù,
ogni sapienza e tutto ciò che si può pensare di meglio»6. San Doro-
teo di Gaza insegna la stessa cosa: «Dio ha fatto l’uomo a sua imma
gine, cioè [...] rivestito di ogni virtù»7. In san Giovanni Damasceno
si legge: «Dio ha fatto l’uomo [...] adorno di ogni virtù e ricco di ogni
bene»8. Anche san Massimo annota: «Le virtù sono inerenti all’anima
a motivo della creazione»9.
E, dunque, per natura che l’uomo è virtuoso: «Per natura posse
diamo le virtù che ci sono state date da Dio. Creando l’uomo, Dio le
ha poste in lui»; «Dio, dunque, ci ha dato le virtù con la materia», pre
cisa san Doroteo di Gaza10. «La virtù è connaturale all’anima», os
serva sant’Isacco il Siro11. «Le virtù sono naturali nell’uomo», scrive
ancora san Giovanni Damasceno12.
I Padri, nel sottolineare particolarmente il fatto che le virtù sono
inerenti alla stessa natura dell’uomo e non qualità che gli saranno, in
un modo o nell’altro, date in aggiunta, hanno tuttavia a questo riguardo
una concezione dinamica: le virtù non sono date all’uomo piena
mente compiute; esse appartengono alla sua natura solo in quanto è
nella sua finalità realizzarle, in quanto esse costituiscono il compimento
e la perfezione di questa natura, ma la loro realizzazione suppone la
partecipazione attiva dell’uomo al disegno di Dio, la collaborazione di
tutte le sue facoltà alla volontà divina, la libera apertura del suo esse
re totale alla grazia di Dio. L’uomo è stato creato con la possibilità di
realizzare queste virtù e iniziandone già la realizzazione. Egli le pos
13Cfr. per esempio GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, II, 17; EVAGRIO PONTICO, Centurie
gnostiche, I, 39.
14 Cfr. IRENEO DI LIONE, Dimostrazione della predicazione apostolica, 12; Contro le eresie,
IV, 38, .1-2. T eofilo d ’A ntiochia , A Autolico, II, 25. M acario d 'E gitto , Capitoli parafrasati,
50; M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 ,257D.
17
e divento a somiglianza divenendo cristiano»15. San Gregorio Nazian-
zeno afferma, in maniera simile, la necessaria partecipazione dell’uo
mo all’acquisizione del dono che Dio gli ha fatto. Egli scrive così: «L’a
nima avrà l’oggetto della sua speranza come prezzo della sua virtù, e
non solo come dono di Dio. E proprio in ciò che occorre portare la
bontà al suo culmine come se il bene fosse anche nostra proprietà. Un
bene che non è solo un seme affidato alla natura, ma che è anche l’og
getto di una cultura che dipende dalla nostra volontà»16.
I Padri che distinguono tra l’immagine e la somiglianza ricollegano
le virtù alla somiglianza17, volendo così dimostrare che queste devono
rivelarsi e svilupparsi dinamicamente attraverso la partecipazione at
tiva e la costante collaborazione dell’uomo alla grazia deificante della
Santissima Trinità. Non si potrà, tuttavia, far corrispondere la distin
zione immagine-somiglianza a una distinzione natura-sovranatura, in
cui la somiglianza sarebbe una sovranatura che si aggiungerebbe,
per grazia di Dio, a una natura che potrebbe essere concepita indi
pendentemente da essa e che costituirebbe l’immagine. È naturale nel
l’uomo, secondo i Padri, non solo l’immagine, ma anche la somiglianza:
è nella natura stessa dell’uomo somigliare a Dio; è nella stessa natura
dell’immagine condurre a termine la sua perfezione nella realizzazio
ne della sua somiglianza, e l’uomo è stato creato, lo ripetiamo, per rea
lizzare già naturalmente questa somiglianza per mezzo della virtù del
l’immagine. La somiglianza non è un’aggiunta a una natura che po
trebbe esistere normalmente indipendentemente da essa, ma uno
sviluppo della natura data nell’immagine. L’uomo, attraverso l’im
magine di Dio che è in lui, è naturalmente, sebbene virtualmente, per
fetto18ed è naturalmente capace di realizzare tale virtualità, di assi
milarsi a Dio, perché tale è la finalità normale della sua esistenza, il
normale destino della sua stessa natura. E questo il senso dei coman
damenti divini: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28); «Siate san
ti per me, perché santo sono io» (Lv 20,26); «Siate perfetti, come per
fetto è il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). Possiamo dunque di
re, in senso dinamico, che l’uomo è naturalmente deiforme19.
15 Omelie sullorigine dell uomo, 1,16.
16Discorsi, II, 17. Cfr. Poesie, I, n, 9,90-91. Vedi anche GIOVANNI DAMASCENO, Discorso uti
le all’anima.
17Per esempio, GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12. MAS
SIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, DI, 25; Centurie sulla teologia e reconomiay1 ,13. DO
ROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XII, 134. NlCETA STETATOS, Centurie, III, 8; 11.
18Cfr. GREGORIO DI N issa , Omelie sul Cantico dei Cantici, XV.
19Cfr. V. LOSSKY, Théologie mystique de VÉglise d’Orient, Paris 1944, pp. 96-97. M. L ot-Bo -
RODINE, La déification de l’homme, Paris 1970, pp. 188-191.
18
La somiglianza con Dio, se era stata data in potenza e si trovava
spontaneamente abbozzata nell’immagine, supponeva, per essere com
piuta nella sua perfezione, che Adamo stesso volesse realizzarla inte
gralmente. Frutto della collaborazione della volontà umana con la gra
zia di Dio, essa non poteva essere che opera teantropica, realizzazio
ne comune di Dio e dell’uomo volto verso di lui. L’uomo, infatti, in
virtù della perfezione che Dio aveva voluto per lui e iscritto nella sua
immagine in lui, possedeva una libertà totale che gli consentiva di unir
si a Dio, ma anche di rifiutare di collaborare con lui per realizzare il
suo disegno20. Tuttavia, Dio gli aveva dato un ordine (cfr. Gn 2,16-17)
per aiutarlo a usare bene la sua libertà. Questa si manifestava in tutta
la perfezione della sua natura originaria, nella sua vera finalità, fino a
che si realizzava nella scelta costante e unica di Dio. Attraverso que
sta scelta stabilmente mantenuta con il libero arbitrio, Adamo si con
servava nel bene in cui era stato creato e se l’appropriava sempre più.
In questo stato primordiale, in cui realizzava la finalità vera della
sua natura, Adamo pregava Dio continuamente, lodando e glorificando
sempre il suo Creatore21, conformemente alla volontà di quest’ultimo22.
Coltivando con la sua anima pensieri divini e nutrendosi di essi23,
egli viveva in permanenza nella contemplazione di Dio24. Riconoscendo
la presenza dell’energia divina nelle creature, egli si elevava per mez
zo di queste al Creatore25 e le elevava a sua volta verso Dio, lui che
ne era stato costituito re, realizzando così la sua funzione di «mediato
re tra Dio e la materia»26, compiendo la missione che gli era stata asse
gnata da Dio di unire il mondo sensibile al mondo intelligibile, di «riu
nire per mezzo dell’amore la natura creata con la natura increata fa
cendole apparire nell’unità e nell’identità»27. Vedendo Dio continua-
mente in ogni essere, egli lo vedeva anche in se stesso, perché la purez
za della sua anima gli permetteva di contemplarvelo come in uno spec
chio28. Egli poteva anche godere della visione di Dio a faccia a faccia29.
20Cfr. GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12.
21 Cfr. D oroteo di G aza, Istruzioni spirituali, 1, 1. G iovanni D amasceno , loc. cit., 11; 30.
22 G iovanni D amasceno , loc. cit., il.
23 Cfr. ibid., 30.
24 Cfr. A tan asio d ’A lessan dria, Contro ipagani, 2.
25 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 30.
26 GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. Cfr. 12. GREGORIO
NAZIANZENO, Discorsi, XXXVIII, 11; XLV, 7.
27 M assimo il C onfessore , Ambigua, 41.
28Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 2.
29 Cfr. GREGORIO DI N issa, Discorso catecheticOy 6. Sulla visione di Dio da parte di Adamo
vedi anche MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XLV, 1.
19
«Non essendovi nulla che gli impedisse di conoscere il divino, scrive
sant’Atanasio di Alessandria, la sua purezza gli permetteva di con
templare continuamente l’immagine del Padre, il Verbo di Dio»30. Ada
mo in questo stato «dimorava in Dio che dimorava in lui»31. Così, tut
ti i Padri ci presentano il primo uomo che intrattiene con Dio relazioni
di familiarità (parrésta) e il libro della Genesi ce lo mostra mentre con
versa ogni giorno con lui, in tutta libertà, nel paradiso. Circondato dal
la grazia divina32, viveva in uno stato permanente di intenso godimento
spirituale: i Padri ricordano costantemente la dolcezza, le delizie, la
gioia, la felicità, la fortuna unite alla sua contemplazione33e derivanti
da questa relazione stretta con Dio che gli consentiva di partecipare
alla stessa beatitudine della vita divina. L’uomo, afferma sant’Atana
sio di Alessandria, viveva allora «la sua vera vita»34, cioè quella per la
quale egli è stato creato, quella che costituisce la finalità normale
della sua vera natura.
Poiché Adamo unificava se stesso e unificava tutti gli altri esseri in
lui attraverso la continua contemplazione in ogni cosa di Dio Uno, non
vi erano affatto allora divisioni né nello stesso uomo, né tra l’uomo e
i suoi simili35, né tra l’uomo e gli altri esseri, né tra gli esseri stessi. Re
gnava la pace in tutti e in tutto. L’uomo conduceva in paradiso una vi
ta «senza tristezza, né dolore, né preoccupazioni»36; «possedendo i do
ni di Dio e la potenza propria proveniente dal Verbo del Padre, [...]
egli viveva una vita senza inquietudini»37; «non doveva temere nessu
na malattia interiore: nella sua carne una perfetta salute, nella sua ani
ma una serenità perfetta»38; «febbre, agitazione, follia irrazionale e avi
dità delle viscere, nulla di tutto questo esisteva: la vita era per lui
senza amarezza e l’esistenza senza tristezza»39.
Nel paradiso, l’uomo aveva «facoltà sane e stabili, nel loro stato na
turale»40 e, mantenendosi nello stato naturale in cui era stato creato,
stato di unione permanente con Dio, egli possedeva l’integrità di que
30 Contro i pagani, 2.
31 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 11.
32Ibid.
33 Cfr. ibid., 30. ATANASIO d ’A lessandria , Sull*Incarnazione del Verbo, 3; Contro i pagani,
2. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1 ,1.
34SuWlncarnazione del Verbo, 3.
35 Èva che rappresenta sia la sposa di Adamo che il suo prossimo.
36Atanasio d ’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, 3.
37Id., Contro i pagani, 2.
38A gostino d ’I ppona , La città di Dio, XIV, 26.
39 Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, XXV, 92-94.
40 I saia di Scete , Asceticon, II, 2.
20
ste facoltà41. «Un tempo, afferma san Gregorio di Nissa, il genere uma
no così come lo si può concepire godeva della salute, perché gli ele
menti - voglio dire i moti dell’anima - erano equilibrati secondo le leg
gi della virtù»42.
Lo stato paradisiaco, in cui l’uomo viveva secondo la sua natura pri
mordiale, appariva così come uno stato di salute, in cui l’uomo igno
rava ogni forma di malattia sia nell’anima che nel corpo, e in cui egli
conduceva una vita totalmente normale, poiché conforme alla sua na
tura e alla finalità vera di essa.
Con il peccato originale, Adamo si è allontanato dalla via in cui Dio
lo aveva posto al momento della sua creazione. L’uomo ha mancato lo
scopo che la sua stessa natura gli assegnava. Avendo smesso di ten
dere con tutto il suo essere verso Dio e di aprire tutte le sue facoltà al
la grazia increata di Dio, lo specchio della sua anima si è oscurato e ha
smesso di riflettere il suo Creatore. Poiché Adamo ha smesso di esse
re partecipe della Fonte di ogni perfezione, in lui le virtù si sono in
debolite ed egli ha perduto la somiglianza con Dio che aveva iniziato
a realizzare fin dal momento della sua creazione. L’immagine di Dio,
che non si può più perdere, sussiste nell’uomo decaduto43, ma non es
sendo più iUuminata dall’unione attiva dell’uomo con Dio, non tro
vando più il suo compimento nella realizzazione della somiglianza che
costituisce la sua finalità vera, essa è snaturata44 e velata45. Mentre il
cammino dell’uomo verso la sua perfezione nella luce dello Spirito la
rendeva splendente, il peccato di botto l’oscurò. L’uomo, da quel mo
mento dimentica qual è la sua vera natura, ignora il suo vero destino,
non sa più quale sia la sua vera vita e perde ogni nozione della sua
salute originaria.
Benché l’umanità abbia potuto in seguito, grazie alle voci ispirate dei
profeti, ritrovare in qualche misura il senso di Dio, essa raggiunge solo
«un’ombra dei beni futuri, non l’immagine stessa delle cose» (Eb 10,1).
Solo per mezzo dell’Incarnazione del Cristo l’umanità viene pie-
41 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,1.
42 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
43 Vedi per esempio: ORIGENE, Omelie sulla Genesi, XIII, 4. MACARIO d ’EGITTO, Omelie
(Coll. Ili), XXVI, 5 , 1. G r e g o r io di N azian zo, Discorsi, XXVI, 10. G iovan ni D am asceno,
Discorso utile all’anima. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, V, 395-445. GREGORIO PALA-
MAS, Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 39.
44 G regorio di N azianzo , Discorsi, XXVI, 10.
45 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH) XXVI, 4 ,4 ; 5 ,1 .
21
riamente reintegrata nella sua natura originale e l’uomo ritrova la pos
sibilità di realizzare la perfezione alla quale il Creatore lo ha destina
to. Il Cristo, divenuto perfettamente uomo senza smettere di essere
Dio, restituisce alla natura umana, attraverso l’unione con essa della
sua natura divina nella sua Persona, la pienezza e l’integrità della sua
perfezione originaria condotta al suo compimento. È allora, per mez
zo di Dio stesso nella Persona del suo Figlio, che si realizza imme
diatamente e si rivela a tutti il destino ultimo dell’umanità, la perfe
zione della natura umana unita intimamente e totalmente a Dio. Ada
mo era solo «figura del futuro» (Rm 5,14), perché egli è venuto meno
al suo destino finale: il Cristo manifesta il compimento della promes
sa, la porta alla sua perfezione. «Solo il Salvatore è il primo ad avere
realizzato l’uomo autentico e perfetto», scrive san Nicola Cabasilas46.
Immagine del Dio invisibile (cfr. Col 1,15), «irraggiamento della glo
ria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3) nella quale abita corpo
ralmente la pienezza della divinità (cfr. Col 2,9), Cristo rivela il senso
profondo della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio:
nella sua natura umana si manifesta la natura divina legata ad essa sen
za separazione né confusione. Egli è il modello visibile e compiuto del
l’Uomo Nuovo (cfr. E f 2,5), nel quale l’umanità decaduta è chiamata
a rinnovarsi, del quale ogni uomo è invitato a riprodurre l’immagine
(Rm 8,29) e ad acquisire la somiglianza47. Egli affermerà con la sua du
plice natura di Dio-uomo che l’uomo è destinato ad essere uomo-dio:
«Dio si è fatto uomo affinché l’uomo possa divenire dio», proclama
no i Padri48. In Cristo, Dio presenta se stesso all’uomo come norma
della sua perfezione e del suo destino; egli gli mostra con evidenza che
la sua natura è teantropica; gli rivela che l’uomo non è perfetto se non
unito a Dio - poiché nella Persona del Cristo è attraverso l’unione
alla natura divina che la natura umana è resa perfetta -, e che è solo
attraverso l’assimilazione al Cristo che l’uomo può realizzare in se stes
so tale perfezione teantropica. L’uomo non è veramente uomo se
non essendo dio in Cristo.
Il Cristo è chiamato secondo Adamo non in quanto egli porterà al
l’uomo un’altra natura e un altro destino diversi da quelli assegnati
46La vita in Cristo, VI, 94.
47 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 9.
48 Cfr. IRENEO DI L ione , Contro le eresie, V, Prefazione. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Sull'In
carnazione del Verbo, 54. GREGORIO DI NAZIANZO, Poesie dogmatiche, X, 5-9. GREGORIO DI NlS-
SA, Discorso catechetico, 25; 27. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, V, 56-58. NICOLA
C abasilas, La vita in Cristo, VI, 64.
22
al primo Adamo, ma in quanto viene a compiere lui stesso quello
che Adamo per sua colpa non ha realizzato49.1 Padri affermano che
è ad immagine stessa del Logos, del Verbo di Dio, che Adamo è sta
to creato50, e che il mistero stesso della creazione dell’uomo ad imma
gine del Logos si riallaccia al mistero dell’adozione filiale dell’uomo
con Dio nel suo Figlio. Non vi è per l’uomo, fin dalla sua creazione,
che un solo fine naturale: la somiglianza al Cristo, norma del compi
mento della sua natura, pienamente e chiaramente rivelata nell’In
carnazione del Figlio. L’uomo è stato creato come essere «logico» (lo-
gikós) cioè razionale, ma più fondamentalmente come un essere cri
stologico; logikós nei Padri significava conforme al Logos, al Verbo di
Dio. E i Padri arrivano ad affermare che l’uomo è stato creato non so
lo ad immagine del Logos incarnato, del Cristo Dio e uomo, e che
esso ha fin dalla sua creazione come suo destino, per sua stessa natu
ra, il tendere con tutto il suo essere ad assimilarsi attivamente al Cri
sto51. San Nicola Cabasilas scrive: «La natura umana è stata creata
fin dall’origine in vista dell’Uomo Nuovo, l’intelligenza e il desiderio
dell’uomo sono stati creati per il Cristo: abbiamo ricevuto l’intelligenza
per conoscere il Cristo, il desiderio perché fossimo attratti verso di lui
e la memoria per portarlo in noi. Questo tanto più in quanto egli ha
fatto da modello per la nostra creazione. Infatti, non è il vecchio Ada
mo che è stato figura (paràdeigma) del Nuovo, ma il Nuovo dell’anti
co (cfr. Rm 5,14). Noi, che lo riconosciamo come nostro antenato, con
sideriamo il primo Adamo l’archetipo della natura umana; ma per Co
lui che ha davanti agli occhi tutti gli esseri, prima ancora che questi
esistessero, l’antenato non è che l’imitazione del nuovo Adamo. Egli
è stato creato a immagine e somiglianza di quest’ultimo»52. San Ni
cola Cabasilas potrà perciò scrivere: «L’uomo tende verso il Cristo non
solo a causa della divinità di Nostro Signore, ma anche a causa di que-
st’altra natura [quella umana] che egli possiede»53. San Gregorio Pa-
lamas insegna allo stesso modo: «Già la formazione stessa dell’uomo
fin dall’origine, creata ad immagine di Dio, è stata in vista del Cristo,
49 Cfr. N icola C abasilas , La vita in Cristo, VI, 93-94.
50 Vedi per esempio: OsiGENE, Omelie sulla Genesi, 1,13. CntlLLO d ’A lessandma , Spiega-
zione dei dogmi, IV, ed. Pusey, t. V, p. 558. TERTULLIANO, La risurrezione, VI, 3-5. IRENEO DI LlO-
NE, Contro le eresie, V, 16, 2. ATANASIO D’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, HI; Con
tro i pagani, 2.
51 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, in), XX, 1,2.
52La vita in Cristo, VI, 91-93.
53Ibid., 97.
23
affinché l’uomo potesse a tempo debito comprendere in sé l’Archeti
po; allo stesso modo, il comando in paradiso è stato dato per questo
motivo»54.
Il Cristo si rivela così, da sempre, il principio e il termine (cfr. lCor
8,6; Ap 22,13) della natura umana e in essa di ogni creatura, come
afferma in particolare san Massimo il Confessore, che, a proposito del
l’unione nella Persona del Cristo della natura divina e della natura
umana, scrive: «Ecco il fíne beato in vista del quale ogni cosa fu co
stituita. Ecco il progetto che Dio concepì prima della stessa creazione
degli esseri [...]. A questo fine Dio creò le essenze degli esseri. Così
la ricapitolazione in Dio di ogni creatura si rivela come il termine sia
dell’azione provvidenziale di Dio sia degli esseri che ne beneficiano.
Il Verbo, Dio per essenza, si fece uomo e divenne l’annunciatore di
questa volontà divina. Fece apparire il fondo più intimo dell’amore
del Padre e fece vedere in lui il fine per il quale tutte le creature fu
rono create. D’altronde, è per il Cristo, in altri termini per il mistero
cristico, che il tempo e ciò che esso contiene ricevettero il loro inizio
e la loro fine»55. Queste affermazioni, per quanto riguarda l’uomo, con
cordano con l’insegnamento di san Paolo: il Padre «ci elesse in lui pri
ma della creazione del mondo, perché fossimo santi e irreprensibili
davanti a lui nell’amore, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi,
tramite Gesù Cristo» (E /1,4-5) e «coloro che da sempre egli ha fatto
oggetto delle sue premure, li ha anche predeterminati ad essere confor
mi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra mol
ti fratelli» (Rm 8,29); così il Cristo potrà divenire «tutto in tutti»
(Co/3,11).
Nella Persona del Cristo si esprimono, dunque, totalmente il prin
cipio e il termine della natura dell’uomo, apparendo chiaramente il
suo essere autentico e il suo vero destino. L’immagine di Dio, oscu
rata nell’umanità dal peccato di Adamo, è rimanifestata in Colui che
è senza peccato, con maggior fulgore di quanto essa non fosse in Ada
mo prima della sua caduta: poiché in Cristo l’immagine di Dio si ri
vela nella sua perfezione compiuta, totalmente attualizzata dalla rea
lizzazione totale della somiglianza dell’uomo con Dio che si compie
nella sua Persona per mezzo dell’unione della natura divina alla natu
ra umana. L’immagine e la somiglianza di Dio nell’uomo sono mani
festate dal suo stesso Creatore, il Logos di Dio fatto carne, egli stesso
54 Omelia sull’Epifania.
55 Questioni a Talassio, 60, PG 90, 621AB.
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immagine perfetta del Padre, tali e quali egli le ha volute fin dall’ori
gine, nel loro compimento totale e definitivo. In Adamo appariva so
lo l’immagine del Modello; in Cristo si mostra il Modello stesso; nel
la Persona del Cristo, il Modello si unisce all’immagine - senza confon
dersi con essa e senza esserne mai più separato - e la restaura e la
conduce alla sua perfezione attraverso questa stessa unione. Sant’Ire-
neo così scrive a proposito di questa manifestazione splendente del
l’immagine e della somiglianza, e di questa rivelazione dell’uomo-dio
nel Dio-uomo: «La verità di tutto questo apparve quando il Verbo di
Dio si fece uomo, rendendosi simile all’uomo e rendendo l’uomo si
mile a lui, perché, per mezzo della somiglianza con il Figlio, l’uomo
divenisse prezioso agli occhi del Padre. Nei tempi antichi, infatti, si di
ceva che l’uomo era stato fatto a immagine di Dio, ma tutto questo
non appariva, perché il Verbo era ancora invisibile, Verbo divino, a
immagine del quale l’uomo era stato fatto: peraltro, è per questo
motivo che la somiglianza si era facilmente perduta. Ma, quando il Ver
bo di Dio si fece carne, confermò l’una e l’altra; egli fece apparire l’im
magine in tutta la sua verità, divenendo egli stesso ciò che era la sua
immagine e ristabilì la somiglianza in maniera stabile, rendendo l’uo
mo completamente simile al Padre invisibile per mezzo del Verbo, d’al-
lora in poi visibile»56.
Nel Cristo è, così, rivelato chiaramente all’uomo l’archetipo della
sua vera natura, il modello che fin dalla sua creazione e per la sua stes
sa natura è destinato a compiere57, «essendo il Cristo, fa notare san Ni
cola Cabasilas, il solo e il primo ad aver realizzato l’uomo autentico e
perfetto quanto al comportamento, alla vita e sotto ogni aspetto»58.
Schiudere il proprio essere, realizzarsi, vivere in conformità con la sua
natura, ma anche vivere in modo perfetto, consiste perciò, chiaramente,
per l’uomo nel somigliare al Cristo, nell’assimilarsi a lui e nel divenire
dio in lui59. Solo nell’unione al Cristo l’uomo trova la pienezza del suo
essere, l’integrità e l’integralità della sua natura, il senso vero, primo e
ultimo del suo destino, la perfezione della sua attività e della sua vita
intera. Solo in Cristo l’uomo può essere se stesso, può essere piena
56 Contro le eresie, V, 16, 2.
57 «Egli è l’archetipo di ciò che noi siamo», scrive san Gregorio di Nazianzo.
58La vita in Cristo, VI, 94.
59 SlMEONE IL N uovo T eo logo scrive: «Coloro che sono stati giudicati degni di essere
uniti a lui [...], questi divengono anche dio per adozione, simili al Figlio di Dio. Quale meravi
glia! Il Padre li riveste del loro primo vestito, di quel mantello di cui il Signore era rivestito
prima della fondazione del mondo, perché è detto: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cri
sto, siete stati rivestiti del Cristo”» (Trattati etici, IV, 586-592).
25
mente uomo e realizzare la propria vera natura in tutte le sue dimen
sioni: «Il Figlio, afferma san Massimo, restituisce la natura a se stes
sa»60; e san Gregorio Nazianzeno aggiunge: «Attraverso il Cristo vie
ne restaurata l’integrità della nostra natura».
Infatti l’uomo è per natura, nella sua origine, nella struttura del suo
essere e nel suo destino, un essere cristologico e teocentrico: solo
volgendosi verso Dio egli diviene veramente uomo61; solo unendosi to
talmente al Cristo, egli può essere realmente uomo (óntds ànthtopos
secondo l’espressione di san Gregorio di Nissa), e diremo uomo nor
male (poiché normalmente uomo), e trovarsi in uno stato di piena
salute: «l’assimilazione al Cristo, cioè la salute e la perfezione dell’a
nima», scrive san Gregorio Palamas62.
Al di fuori del Cristo, l’uomo non è né veramente né pienamente
uomo; egli è al di qua della sua natura, vive amputato di una parte di
se stesso, rimane in uno stato di alienazione, come dimostreremo in
seguito. Solo divenendo Dio per mezzo dell’adozione filiale in Cristo,
l’uomo diviene uomo integrale, uomo perfetto, si dimostra adeguato
alla sua autentica natura: infatti, non è di natura umana perfetta se non
in unione con la natura divina, cosa che troviamo compiuta nella Per
sona del Cristo e che ogni uomo può realizzare per assimilazione ap
punto al Cristo. L’uomo, lo ripetiamo, è per natura teantropico: se egli
non è uomo-Dio a somiglianza del Dio-uomo, non è nemmeno uomo;
l’uomo definito in se stesso, indipendentemente dalla sua relazione a
Dio, inscritta nella sua stessa natura, è un essere non-umano; non vi
è natura umana pura: o l’uomo è uomo-dio o non è.
Così le Sacre Scritture e la Tradizione paragonano spesso lo stato
dell’uomo, che non si è ancora conformato al Cristo, che non ha an
cora attualizzato pienamente le potenzialità della sua natura attraver
so la realizzazione della somiglianza a Dio, a uno stato di infanzia. L’u
nione progressiva al Cristo è definita come uno stato di crescita, e il
compimento di tale unione nella sua perfezione è paragonato allo sta
to adulto, chiamato anche stato di uomo completo o di uomo perfet
to. San Paolo si esprime così a questo riguardo: «La costruzione del
Corpo di Cristo, fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della
conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, a quello sviluppo che
realizza la pienezza del Cristo, affinché non siamo più dei bambini [...]
60 Commento del Padre nostro, PG 90, 877D.
61 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4; Omelia sulle Calende, 3.
62 Trìadi, II, 1,42.
26
vivendo invece la verità nell’amore, cresciamo sotto ogni aspetto in co
lui che è il capo, Cristo» (E/4,12-15)63. E consiglia: «Siate uomini»
(lCor 16,13). Anche san Simeone il Nuovo Teologo, usando la stessa
immagine, scrive che colui che progredisce sulla via dell’unione al Cri
sto, «ogni giorno persegue la sua crescita spirituale, eliminando ogni
traccia d’infantilismo e progredendo verso la perfezione compiuta del
l'uomo. Ecco perché, secondo la misura della sua età [spirituale], egli
vede cambiare le facoltà e le operazioni della sua anima e guadagna in
virilità [adulta] e in vigore»64.
Così, l’uomo è chiamato a divenire perfetto ad immagine e somi
glianza del Cristo (cfr. Col 1,28; Eb 10,14; 12,2; 12,23; Gc 1,4), in lui
e per lui («siate perfetti» Mt 5,48), e a divenire in questo modo par
tecipe della natura divina (cfr. 2Pt 1,4). «Coloro che da sempre egli ha
fatto oggetto delle sue premure, li ha anche predeterminati ad essere
conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito
tra molti fratelli» (Rm 8,29). «Per noi, scrive Clemente d’Alessandria,
[il Cristo] è l’immagine senza macchia; con tutte le nostre forze, oc
corre sforzarsi di rendere la nostra immagine simile a lui»65. Sant’Ire-
neo aggiunge: «È divenendo imitatori delle sue azioni ed esecutori del
le sue parole che noi siamo in comunione con lui e per questo noi sia
mo nuovamente creati, riceviamo da colui che è perfetto da prima di
ogni creazione la crescita, da colui che solo è buono ed eccellente, la
somiglianza con lui stesso»66. Quanto a sant’Isacco il Siro, egli fa no
tare che «i nostri Padri [...] per giungere alla perfezione e alla somi
glianza [con Dio] non smettono di accogliere in se stessi, totalmente,
la vita del Signore Gesù Cristo»67.
È attraverso la pratica delle virtù che l’uomo acquista la somi
glianza al Cristo68. L’uomo, lo abbiamo visto, possiede fin dalla crea
zione nella sua stessa natura tutte le virtù che formano l’immagine di
Dio in lui; ma queste gli sono date in germe, ed egli ha il compito di
farle crescere fino a far raggiungere loro il pieno sviluppo: in ciò con-
° Cfr. anche: lCor 14,20; Eb 5,13-14; Ga/4,3.
64 Catechesi, XIV, 111-116. Questo paragone sarà usato anche da san BARSANUFIO, Lettere,
457. C lemente d ’A lessandria scrive a proposito dei filosofi pagani: «Sono dei fanciulli fin
quando non sono resi adulti dal Cristo» (Stronzata^ 1,53,2).
65II pedagogo, I, n, 4, 2.
66 Contro le eresie, V, 1,1.
67Discorsi ascetici, 81.
68 Cfr. C lemente d ’A lessandria, Il pedagogo, I, xn, 99,1. N iceta Stetatos, Centurie, HI,
11. A mbrogio di M ilano , La morte è un bene, 17.
27
siste la realizzazione della somiglianza. In Cristo si rivelano l’archeti
po, il principio e il termine stesso di ogni virtù. Le virtù date alla na
tura dell’uomo al momento della creazione e sviluppate con la sua li
bera partecipazione alla grazia deificante di Dio, appaiono, fin da quel
momento, solo partecipazione a quelle del Cristo, come afferma san
Massimo il Confessore: «Se l’essenza della virtù in ogni uomo è sen
za dubbio il Verbo di Dio (perché l’essenza - o la realtà - di tutte le
virtù, è Nostro Signore Gesù Cristo stesso, come è scritto: Egli è sta
to fatto per noi e giustizia e santificazione e redenzione [cfr. ICor 1,30],
queste cose essendo evidentemente dette di lui in modo categorico, in
quanto egli è la Sapienza stessa e la Giustizia e la Santità), ogni uomo
che partecipa alla virtù secondo un comportamento dato partecipa,
senza contestazione alcuna, di Dio, l’Essenza delle virtù, in quanto egli
ha con volontà sincera coltivato il seme naturale del bene e reso il ter
mine identico al principio ed il principio identico al termine, o piut
tosto ha mostrato l’identità reale dell’inizio e del termine, in perfetto
accordo con Dio; infatti, l’inizio e il termine di ogni cosa sono il di
segno di Dio su tale cosa: egli è l’inizio in quanto all’essere aggiunge
il bene naturale, per partecipazione; egli è il termine in quanto, se
condo questa partecipazione, attraverso una decisione del libero ar
bitrio, l’uomo termina la lodevole corsa che conduce a tale partecipa
zione, corsa grazie alla quale egli diviene dio ricevendo da Dio di es
sere dio, perché al bene naturale secondo l’immagine, egli ha aggiunto
per mezzo della libera volontà la somiglianza costituita attraverso le
virtù, operante, secondo l’orientamento della natura, il ritorno al suo
principio e all’intimità con lui»69.
Nella creazione e nella deificazione, il Figlio di Dio gioca un ruolo
particolare e fondamentale. Il disegno di Dio sull’uomo si rivela e si
compie nel mondo in quanto «mistero di Cristo» {Ef3,4; Col 1,27; 2,2;
4,3; lTm 3,16). Ma nel mistero di Cristo si rivela e si compie il mi
stero dell’economia trinitaria. La creazione dell’uomo e la sua deifi
cazione sembrano essere opera comune della santa e vivificante Tri
nità, opera della volontà benevola del Padre (cfr. Ef 1,5.9; Mt 11,26;
Ap 4,11) che compie ipostaticamente e auturgicamente (autourghikós)70
il Figlio (cfr. Eb 10,7; Gv 1,3.4.34; 5,30) e alla quale coopera lo Spiri
to Santo che vivifica, santifica, conduce alla perfezione (cfr. Gn 1,2; Le
1,35; 4*2,4-38; 2Cor 13,13; E /l,3-14; Tt 3,4-6; ICor 6,11; 12,3-13;
®Ambigua, 7, PG 91,1081C-1084A.
70 Questo termine significa letteralmente: «Con il proprio lavoro».
28
2Cor 3-6). Così ogni Persona divina della Santissima Trinità apporta
alla realizzazione dell’economia divina il suo contributo particolare,
partecipa e coopera secondo la sua ipostasi specifica, ma l’opera di cia
scuna di esse è costantemente legata a quella delle altre due nel com
pimento della volontà comune. La creazione dell’uomo (come quella
del mondo) ai Padri sembrava, così, avere la sua fonte nel gran con
siglio preeterno della santa e consostanziale Trinità. I Padri e tutta la
tradizione ecclesiale vedevano nel plurale della formula «Facciamo
l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza» (Gn
1,26), un’espressione del carattere trinitario della creazione dell’uo
mo. È ugualmente il Gran Consiglio Trinitario che ha voluto che l’uo
mo divenisse partecipe della vita eterna e beata della divina Trinità.
Così i Padri affermano che l’uomo è creato a immagine del Figlio di
Dio: infatti, afferma san Cirillo d’Alessandria, «poiché dovremo es
sere chiamati a essere figli di Dio, ci è tanto più necessario divenire a
immagine del Figlio perché l’impronta della filiazione ci sia utile»71; in
lui egli è, infatti, creato a immagine della Trinità: «Se l’uomo è creato
ad immagine del Figlio», scrive ancora san Cirillo, «sarà anche in que
sto caso a immagine di Dio, perché in lui risplendono le caratteristi
che di tutta la Trinità consostanziale, perché la divinità è una per na
tura nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo»72. Il Cristo «è l’im
magine del Dio invisibile» (Col 1,15), l’irraggiamento della gloria e
l’impronta della sostanza del Padre (cfr. Eb 1,3). Il Figlio, per mezzo
della sua Incarnazione, fa conoscere il Padre (cfr. Mt 11,27; Gv 8,19;
14,6-7.9). E in Cristo, è all’immagine perfetta del Padre che l’uomo è
invitato a conformarsi: «Sarete perfetti, come perfetto è il Padre vo
stro che è nei cieli» (Mi 5,48); «Siate misericordiosi come Dio, vo
stro Padre, è misericordioso» (Le 6,36). Ogni dono che l’uomo rice
ve, ogni perfezione, ogni virtù alla quale egli partecipa in Cristo ha la
sua fonte nel Padre: «Ogni donazione buona e ogni dono perfetto vie
ne dall’alto, discendendo dal Padre delle luci» (Gc 1,16-17). Così il
Cristo, in lui, ci unisce al Padre. Ma egli ci unisce anche allo Spirito
Santo, perché è in seno alla stessa vita trinitaria che il Cristo ci vuole
introdurre chiamandoci ad essere «partecipi della natura divina» (2Pt
1,4). E le virtù (chiamate anche perfezioni, grazie, energie), per mez
zo delle quali avviene questa partecipazione, sono la gloria, la luce,
la grazia, le energie, le perfezioni, le virtù comuni a tutte le Persone
71 Explication des dogmes, éd. Pusey, t. V, p. 558.
12Ibid
29
della Trinità (cfr. 2Cor 13,13). È così che i Padri possono riferirle tan
to al Padre, come alla loro fonte, tanto al Figlio, come a colui che le
manifesta ipostaticamente e vi fa partecipare gli uomini che hanno fe
de in lui, e tanto allo Spirito Santo in quanto egli ne è il portatore e il
donatore. E i Padri alcune volte le chiamano luce o gloria del Padre,
altre volte grazia, luce o gloria del Figlio, altre volte ancora grazia del
lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo, in quanto portatore e donatore di
queste grazie, virtù, o energie increate, talvolta ne riceve il nome ed è
chiamato così: Spirito di Grazia, Spirito di Sapienza, Spirito di For
tezza, Spirito di Gloria, Spirito di Conoscenza, Spirito di Timore di
Dio, Spirito di Verità (cfr. Is 42,1-4; 61,1; Mt 12,18; Gv 14,17; 15,26;
Ef 1,17; Eb 2,4; Gal 5,22; 2Tm 1,7; lPt 4,14; ecc.). Anche il profeta
Isaia e l’Apocalisse parlano dello Spirito al plurale: i sette spiriti divi
ni (cfr. Is 11,1-3; Ap 1,4; 3,1; 4,5; 5,6), ciò che, secondo i Padri, indi
ca le energie o grazie dello Spirito Santo73. Ecco perché si può dire an
che, come fa san Macario l’Egiziano, che l’uomo è stato creato «ad im
magine dello Spirito»74, affermazione che unisce l’insegnamento di
sant’Ireneo75a quello dei primi Padri, che vedono lo Spirito Santo nel
soffio di vita immesso nell’uomo al momento della sua creazione
(cfr. Gn 2,7).
L’attribuzione delle stesse virtù dell’uomo al Cristo e allo Spirito
Santo rivela che esse sono energie comuni alle tre Persone della divi
na Trinità, ma anche nella creazione e nella deificazione dell’uomo, il
Figlio e lo Spirito cooperano strettamente nella realizzazione della vo
lontà del Padre, che è nello stesso tempo la loro volontà. Sant’Ireneo
dice che il Figlio e lo Spirito sono le «mani del Padre»76. Così l’uomo
e tutte le cose sono state create per mezzo del Figlio (cfr. Gv 1,3), ma
nello Spirito: «Il Padre ha creato ogni cosa per mezzo del Verbo nel
lo Spirito, scrive sant’Atanasio d’Alessandria, perché là dove è il Ver
bo, vi è anche lo Spirito, e ciò che produce il Padre riceve la sua esi
stenza per mezzo del Verbo nello Spirito Santo»77. Secondo la volontà
del Padre, l’azione del Figlio è quella di donare l’essere alle creature,
e l’azione dello Spirito è quella di perfezionarle78. Ogni virtù nell’uo
73 Cfr. G r e g o r io d i N azian zo, Discorsi, XLI, 3. G r e g o r io Palam as, Sull’unione e la di-
sfinzione, 33.
74 Omelie (Coll. HI), XXVI, 7, 2. Cfr. Omelie (Coll. II), XLVI, 5-6.
75 Dio, dice, «ha deposto nell’anima le esigenze della virtù, il giudizio, la scienza, la ragione,
la fede, l’amore e tutti gli altri doni che sono immagini dello Spirito» {Contro le eresie, V, 6,1).
16Ibid.
77 Lettere a Serapione, DI, 5.
78 B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XVI, 38.
30
mo riceve così il suo essere dal Figlio, ma è vivificata, santificata,
perfezionata per mezzo dello Spirito Santo a nome del Padre. Così,
l’immagine e la somiglianza di Dio nell’uomo è voluta dal Padre,
realizzata dal Figlio, compiuta nello Spirito Santo e da lui portata a
perfezione. L’opera è compiuta dal Cristo nella sua Incarnazione con
la collaborazione dello Spirito Santo79. Il Cristo permette all’uomo, che
si volge verso di lui, di ricevere lo Spirito Santo, e lo Spirito unisce
l’uomo al Cristo, e per mezzo di lui al Padre. Lo Spirito comunica a
ogni membro del Corpo del Cristo la pienezza della divinità. È per
mezzo di lui che l’uomo realizza in Cristo la somiglianza con Dio80per
ché è attraverso di lui che si comunica e si compie ogni dono (lCor
12,11) e ogni virtù. Egli è, afferma san Basilio, «la fonte di santifica
zione»81. E lui che mostra al credente «l’immagine dell’Invisibile» e,
«nella beata contemplazione dell’immagine», l’indicibile bellezza del
l’Archetipo»82. Per mezzo di lui, «i proficienti divengono perfetti»83.
E lui che deifica84l’uomo, rendendolo conforme al Cristo e in lui al
Padre. «Egli è la nostra perfezione», scrive san Gregorio Nazianzeno85.
Solo nello Spirito Santo, dunque, l’uomo può realizzare l’Archeti
po della sua natura, cioè assimilarsi al Cristo. Perché il Cristo viva in
lui, occorre che lo Spirito viva in lui, che egli divenga pneumatoforo.
L’acquisizione della somiglianza al Cristo e l’acquisizione dello Spiri
to Santo vanno di pari passo e si condizionano reciprocamente. E
vivendo in Cristo che il cristiano riceve lo Spirito inviato dal Padre a
nome del Figlio (cfr. Gv 14,26), ed è vivendo nello Spirito che egli si
unisce al Cristo attraverso la partecipazione alle virtù del Cristo, do
ni dello Spirito.
Perché l’uomo raggiunga la perfezione del suo essere in Cristo, rea
lizzi integralmente la sua natura di cui questi è la norma, il principio
e il termine, e così trovi la sua salvezza, la sua vera vita e la sua totale
salute, deve vivere secondo lo Spirito, condurre un’esistenza spirituale.
L’uomo è stato creato come spirito, anima e corpo, perché egli vi
accolga lo Spirito e sia così completamente spiritualizzato, viva in tut
79 Cfr. ibid., 39.
90Ibid., IX, 22.
81 Ibid., XVI, 38.
82Ibid., IX, 22. San Basilio dice ancora: «Il nostro spirito, illuminato dallo Spirito, fissa il suo
sguardo sul Figlio, e in questi, come in un’immagine, contempla il Padre» {Lettere, CCXXVI).
83Sullo Spirito Santo, loc. cit.
84Cfr. G regorio di N azianzo , Discorsi, XXXI, 29, PG 36,159BC. C irillo d ’A lessandria ,
Dialoghi sulla Trinità, VE.
85 Loc. cit.
31
to il suo essere nello Spirito. Solo assolvendo a questo compito, l’uo
mo realizza il suo destino, vive conformemente alla sua vera natura:
«L’uomo vero che è in noi è l’uomo spirituale», scrive Gemente d’A-
lessandria86. L’uomo non è pienamente uomo e non vive realmente
se non vive nello Spirito, altrimenti egli è un uomo incompleto, im
perfetto, e tutto il suo essere è come morto. Sant’Ireneo lo afferma con
particolare chiarezza: «L’Apostolo dice: “Annunziamo una sapienza a
quelli che sono perfetti” (lCor 2,6). Con il nome di “perfetti”, egli in
dica coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio [...]. Questi uomi
ni, l’Apostolo li chiama anche “spirituali”; spirituali, essi lo sono per
una partecipazione dello Spirito [...]. Quando lo Spirito, unendosi al
l’anima, si è integrato all’opera modellata, grazie a questa effusione
dello Spirito viene a essere realizzato l’uomo spirituale e perfetto, pro
prio quello che è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Quan
do, al contrario, lo Spirito viene a mancare all’anima, un tale uomo,
rimanendo in tutta verità psichico e carnale, sarà imperfetto, posse
dendo sì l’immagine di Dio nell’opera modellata, ma non avendo ri
cevuto la somiglianza per mezzo dello Spirito [...]. Infatti, la carne
modellata solo su se stessa non è l’uomo perfetto: essa è il corpo del
l’uomo, quindi solo una parte dell’uomo. L’anima da sola non è l’uo
mo: infatti, essa non è che l’anima dell’uomo, dunque una parte del
l’uomo. Neanche lo spirito è l’uomo: gli si dà il nome di spirito, non
quello di uomo. Ed è l’aggregazione e l’unione di tutte queste cose che
costituisce l’uomo perfetto. Ecco perché l’Apostolo, indicando se stes
so, ha chiaramente definito l’uomo perfetto e spirituale, beneficiario
della salvezza, quando dice nella sua prima lettera ai Tessalonicesi:
“Che il Dio della pace vi santifichi in modo che voi siate pienamente
compiuti, che il vostro essere integrale - cioè il vostro spirito, la vo
stra anima e il vostro corpo - sia conservato irreprensibile per l’av
vento del Signore Gesù” [...]. Sono dunque perfetti coloro che, con
temporaneamente, possiedono lo Spirito di Dio dimorante sempre con
loro, e si mantengono irreprensibili nelle loro anime e nel loro cor
po, cioè conservano la fede verso Dio e la giustizia verso il prossimo»87.
«Coloro dunque che possiedono la caparra dello Spirito e che, lungi
dall’asservirle alle bramosie della carne, si sottomettono allo Spirito
e vivono in tutto secondo la ragione, l’Apostolo li chiama a buon di
ritto “spirituali”, poiché lo Spirito di Dio abita in loro»88ed «è la no
86 Stromata, H, IX, 4 2 ,1 .
87 Contro le eresie, V, 6,1.
88 Ibid., 8, 2 .
32
stra ipostasi, cioè il composto di anima e di corpo, che, ricevendo lo
Spirito di Dio, costituisce l’uomo spirituale»89. «Tre cose costituisco
no l’uomo perfetto: la carne, l’anima e lo spirito»90. «Coloro che te
mono Dio, che credono all’avvento del suo Figlio e che, con la fede,
accolgono nel loro cuore lo Spirito di Dio, costoro saranno giusta
mente chiamati uomini “puri”, “spirituali” e “viventi per Dio”, per
ché essi hanno lo Spirito del Padre che purifica l’uomo e lo eleva alla
vita di Dio»91. «Ed è da queste due cose che è fatto l’uomo vivente: vi
vente grazie alla partecipazione dello Spirito, uomo per la sostanza del
la carne»92. «Senza lo Spirito di Dio, dunque, la carne è morta, priva
ta della vita, incapace di ereditare il regno di Dio [...]. Ma là dove è
lo Spirito del Padre, là è l’uomo vivente; la carne, posseduta in eredità
dallo Spirito, dimentica ciò che essa è per acquisire la qualità dello Spi
rito e divenire conforme al Verbo di Dio»93.
Come, secondo san Gregorio Palamas, la salute e la perfezione del
l’anima sono l’assimilazione al Cristo94, così per san Simeone il Nuo
vo Teologo, da un altro punto di vista, che va di pari passo con il
precedente, per l’anima la salute è la venuta e la presenza in essa del
lo Spirito Santo: «Quando egli viene, poiché scaccia ogni malattia e
ogni infermità nell’anima, è chiamato salvezza, perché ci concede la
salute dell’anima»95.
Secondo i Padri, la salute per l’uomo consiste, in maniera genera
le, nel trovarsi sotto ogni aspetto nello stato che corrisponde al fiori
re del suo essere totale, o in altri termini all’adeguarsi alla sua vera na
tura. Ora, la sua natura autentica e la sua vera vita, abbiamo detto,
consistono nel realizzare questa perfezione del proprio essere voluta
da Dio, conformandosi al Cristo nello Spirito. La vita naturale e nor
male dell’uomo è la vita in Cristo, ed è per questo che Tertulliano par
la dell’«anima naturalmente cristiana»96. L’uomo è naturalmente fatto
per tendere verso Dio. L’anima, scrive san Niceta Stetatos, «ha la pro
pria inclinazione naturalmente volta verso i beni divini», «la sua pro
pensione, sono le cose immortali»97. Sant’Antonio scrive allo stesso
89 ibid.
50 Ibid., 9 , 1.
»Ibid., 9 ,2 .
92 Ibid.
” Ibid, 9 ,3 .
94 Triadi, II, 1,42.
95 Trattati etici, VII, 359-361.
96Apologetico, XVII, 6.
97Sull’anima, 35.
33
modo: «Cercare Dio e servirlo rimane sempre per l’uomo una ricer
ca naturale»98. L’anima è portata naturalmente a conoscere e a rico
noscere Dio; è questo il suo stato normale, il segno della salute, co
me afferma Tertulliano: «L’anima [...] quando toma a se stessa, come
ndl’uscire dall’ubriachezza o dal sonno, o da qualche malattia, e quan
do essa è nel suo stato normale di salute, chiama Dio con questo so
lo Nome, perché è il nome proprio del vero Dio»99. La partecipazione
alla vita beata della Santissima Trinità è la normale finalità della na
tura e della vita umana. Sant’Antonio scrive a questo proposito: «L’amo
re che io ho per voi mi fa supplicare Dio di condurvi a considerare
l’invisibile come vostra eredità. Certamente, figli miei, questo non su
pera la nostra natura, ma normalmente la investe di dignità regale»100.
Lo stato normale per l’uomo è quello di essere con tutto il suo essere
totalmente unito a Dio: Adamo è stato creato per realizzare questo, e
il Cristo ricorderà all’uomo smarrito che il comandamento più gran
de è per lui, se vuole ritrovare la sua vera natura: «Amerai il Signore
tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
tua mente e con tutta la tua forza» (Me 12,30; Mt 22,37; cfr. Dt 6,5).
Appare così che è volgendo verso Dio tutte le proprie facoltà, per unir
si a lui attraverso di esse, che l’uomo ne fa un uso normale, confor
me alla loro natura.
È proprio questo che costituisce nell’uomo le virtù. Per questo mo
tivo san Basilio scrive: «Abbiamo ricevuto da Dio la tendenza natura
le a fare ciò che egli comanda [...]. È nell’usare [...] convenientemente
queste forze che noi viviamo santamente nella virtù [...]. Tale è, di
conseguenza, la definizione della virtù che Dio esige da noi: l’uso re
sponsabile di queste facoltà secondo l’ordine del Signore»101. In altri
termini, condurre una vita virtuosa consiste per l’uomo nel vivere in
conformità con la propria natura, cioè nel fare di tutte le sue facoltà
l’uso per il quale esse sono state create: orientarsi verso Dio e realiz
zare la sua somiglianza. L’identità tra lo stato di natura - la condizio
ne dell’Adamo primordiale e la condizione dell’uomo restaurato in
Cristo - e lo stato di virtù è costantemente affermato dai Padri: «Per
numerose che siano le virtù che noi mettiamo in pratica, le mettiamo
in pratica in conformità con la natura», scrive Evagrio102. «Quando ri
98Lettere, V, 4.
99Apologetico, XVÜ, 5.
100Loc. dt.
101Regole lunghe, 2.
102 Grande lettera a Melania 1’Anziana, II.
34
maniamo nella natura, siamo nella virtù», nota san Giovanni Dama
sceno103. E sant’Isacco il Siro dice la stessa cosa esplicitamente, cioè
che la virtù è lo stato naturale dell’anima104. San Doroteo di Gaza di
mostra ugualmente che le virtù «permettono di riprendersi e di ri
tornare allo stato di natura attraverso la pratica dei santi comanda-
menti di Cristo»105, e Giovanni il Solitario dice che quando l’uomo si
volge verso la sua anima attraverso le virtù «egli sta nell’ordine della
sua natura integrale»106.
La stessa cosa viene affermata dai Padri quando dicono che è a que
sto stato di virtù che corrisponde per l’uomo la vera salute: la virtù è
la vera salute naturale dell’anima, scrive san Doroteo di Gaza107, così
come san Basilio Magno108, Evagrio109, e san Massimo il Confessore che
precisa: «Ciò che la salute è per il corpo vivente, la virtù è per l’ani
ma»110. Sant’Isacco il Siro nota similmente: «La virtù è naturalmente
la salute dell’anima»111. Si può anche dire che la virtù per l’anima è più
che la salute per il corpo, perché, afferma san Basilio Magno, «le virtù
hanno molto maggiori affinità con l’anima che la salute con il corpo»112.
Solo attraverso la pratica delle virtù, in particolare di quella che è
loro coronamento, ossia la carità, l’uomo è reso capace della cono
scenza/contemplazione spirituale nella quale il suo spirito, ma anche
tutte le altre facoltà113, si esercitano conformemente alla finalità della
sua natura. Infatti l’uomo, ricorda san Simeone il Nuovo Teologo, «è
stato creato per contemplare la natura visibile e per essere iniziato al
mondo intelligibile»114. E Clemente d’Alessandria, che definisce l’uo
mo «vera pianta celeste»115, dice altresì che l’uomo è «nato per la con
templazione del cielo»116. Solo in questa attività che gli si addice pie
namente lo spirito dell’uomo e, attraverso di esso, l’anima, interamente,
103Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
104Discorsi ascetici, 83.
105Istruzioni spirituali, 1,10.
106Dialogue, éd. Hausherr, p. 64.
107 Istruzioni spirituali, XI, 112: «H male è la malatta dell’anima priva della sua salute natu
rale, cioè della virtù».
108Sull’Hexaemeron, IX, 4: «La virtù è come la salute dell’anima».
109Capitoli gnostici, 1,41. Cfr. anche Grande lettera a Melania l'Anziana, I.
110Centurie sulla carità, IV, 46.
111Discorsi ascetici, 83.
112Loc. cit.
113 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,15.
114 Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 3.
115Protreptico, X, 100,3.
n6Ibid
35
trovano la pienezza della loro salute. «Ciò che la salute [è] per il cor
po vivente, [...] la conoscenza [lo è] per lo spirito», osserva san Mas
simo117. «Quando la natura razionale riceverà la contemplazione che
la riguarda, allora anche tutta la potenza dello spirito sarà sana»,
scrive nello stesso senso Evagrio118, che considera la conoscenza spiri
tuale anche come «la salute dell’anima»119. San Talassio ripete: «La sa
lute dell’anima, è la conoscenza»120.
Questa contemplazione al suo primo grado è quella delle ragioni
Clógoi) spirituali delle creature, che i Padri chiamano «contemplazio
ne naturale» (physike theoria). Se questa dà all’uomo una vera cono
scenza degli esseri e soprattutto lo eleva fino al loro Autore, essa non
resta tuttavia che una conoscenza indiretta di Dio.
E nella conoscenza/contemplazione di Dio stesso, che è un dono di
Dio e si compie per mezzo dello Spirito, che l’uomo raggiunge il gra
do più alto di perfezione al quale egli è per natura chiamato, poiché è
in questa conoscenza, o piuttosto in questa «visione» di Dio, che si
realizza nella luce della grazia increata, che è pienamente deificato.
37
de di un altro»6. «Occorreva perciò - scrive san Giovanni Damasce
no - che l’uomo fosse innanzitutto messo alla prova: né provato né
tentato, l’uomo non è degno di alcun rispetto»7. «Una volta messo
alla prova», osserva san Gregorio Nazianzeno, l’anima «possederà l’og
getto della sua speranza come prezzo della sua virtù e non solo come
un dono di Dio»8.
Tutti i Padri insistono sul fatto che Adamo è stato creato comple
tamente buono da Dio. Nel paradiso terrestre, nella sua condizione
naturale, l’uomo viveva integralmente nel Bene9: non solo egli non
commetteva il male, ma lo ignorava, anche perché la tentazione gli da
va la conoscenza non del male stesso, ma solo della sua possibilità, ap
parendo la conoscenza stessa del male come conseguenza del peccato
(Gn 3,22) non già come suo principio. Nel paradiso, il male esisteva
solo nel serpente, incarnazione di Satana, e questo non poteva rag
giungere in alcun modo la creazione fintanto che Adamo ne rimane
va il re (cfr. Gn l,28-30)10; egli non possedeva alcun potere sul primo
uomo, non potendo fare altra cosa se non quella di tentarlo, rimanendo
questa tentazione senza alcuna conseguenza fintanto che questi rifiu
tava di acconsentirvi11.
Il diavolo diceva ad Adamo e a Eva: «Diventerete come dèi» (cfr.
Gn 3,5), ed è proprio in questo che consisteva la tentazione12. Adamo
era sicuramente destinato da Dio a diventare dio, ma per partecipa
zione a Dio stesso, in lui e per lui. Ciò che il serpente proponeva ad
Adamo ed Eva, era di diventare «come dèi (ds theoi)» (Gn 3,5), cioè
altri dèi, indipendentemente da Dio, ossia di essere dèi senza Dio. Ada
mo cedendo alla suggestione del Maligno, volle così farsi Dio da se
stesso, autodeificarsi: è in questo che consistette il suo peccato13. Que
st’affermazione di assoluta autonomia, questa volontà di superare Dio
e prendere il suo posto o di erigersi come un altro Dio di fronte a
lui, costituiva una negazione, un rifiuto di Dio. La partecipazione di
Adamo aña vita divina supponeva, lo abbiamo già detto, la collabora-
6ibid.
I Loc. cit.
8Discorso, II, 17. Cfr. Poesie, I, II, 9.
9Cfr. per esempio GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2. GIOVANNI DAMASCENO, Espo
sizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
10 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XI, 5.
II Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 22.
12 Cfr. M acario d ’E g u to , Omelie (Coll. El), 1 ,3 ,4 .
13 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XI, 2. Sim eone il N uovo T eo logo ,
Trattati etici, XQI, 60. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. IRE
NEO DI LlONE, Contro le eresie, V, 3,1. MACARIO d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 86.
38
zione della sua volontà libera: allontanandosi da Dio, egli si privò del
la grazia14che costituiva la vera vita della sua natura. Dio aveva detto
ad Adamo e a Èva del frutto dell’albero che stava nella parte interna
del giardino: «Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per
non morirne» (Gn 3,3); al contrario, il serpente aveva promesso: «Voi
non morirete affatto!» (Gn 3,4). Nelle conseguenze del peccato si ri
vela il carattere menzognero della promessa diabolica: essendosi stac
cato dalla Fonte di ogni vita, l’uomo cade nella morte: morte futura
del suo corpo (mentre quest’ultimo era stato creato potenzialmente
incorruttibile) e morte immediata della sua anima15. «Con il peccato,
scrive san Giovanni Damasceno, la morte è entrata nel mondo come
una bestia feroce e selvaggia, sconvolgendo la vita umana»16. E san
Gregorio Palamas aggiunge: «Dopo la trasgressione dei nostri ante
nati in paradiso [...], il peccato subentrò nella vita; quanto a noi sia
mo morti e, prima della morte corporea, noi subimmo la morte del
l’anima, cioè la separazione dell’anima da Dio»17.
Allontanandosi dal Principio del proprio essere come di ogni es
sere, l’uomo cade nel non-essere: «Privato del pensiero di Dio e vol
gendosi verso il nulla (perché il male è il non-essere e il bene è l’esse
re), gli uomini sono così per sempre privati dell’essere», scrive sant’A-
tanasio d’Alessandria18.
Da questo allontanamento, per l’uomo, deriva ogni male: per que
sto motivo egli perde tutti i beni divini dei quali già partecipava, e che
per natura era chiamato a possedere in pienezza. Infatti, «è da Dio che
tutto ciò che è buono trae la sua bontà: pertanto, chi si allontana da
lui va verso il male», annota san Giovanni Damasceno19. Allontanan
dosi da Dio, negandolo e ignorandolo, l’uomo si allontana dalla sua
natura autentica e dal suo vero fine, che è quello di assimilarsi a Dio
attraverso lo Spirito, sconvolge tutte le sue facoltà naturalmente orien
tate verso Dio, e fa così deviare le tendenze impresse nella sua natu
ra20. Ne derivano, in tutto il suo essere che smette di essere rivolto ver
so il suo scopo normale, attraverso la sua anima e il suo corpo che non
realizzano più la loro condizione naturale di unione con Dio, i disor
14M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 37; Omelie (Coll. E), XE.
15 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, E, 7,90. G regorio P alamas, Omelie,
11; 16; 32; Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 36; 51.
16 Op. cit., EI, 1.
17 Omelie, 11. Cfr. 16. Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 36; 51.
18Sull’Incarnazione del Verbo, 4.
19 Op. cit., IV, 20.
20 Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, VI, 97.
39
dini più gravi. San Massimo riassume così in cosa consiste questa ca
duta dell’uomo: «Colui che si allontana dal proprio principio mentre
è una particella di Dio a motivo della virtù che è in lui secondo la cau
sa che gli è stata data, è portato irrazionalmente iparalógos) verso il
non-essere; a ragione si dice che è decaduto, poiché non si muove
secondo il suo principio e la sua causa secondo la quale, nella quale,
e per la quale egli è giunto all’esistenza; è in un equilibrio instabile e
in un disordine spaventoso dell’anima e del corpo; egli diviene l’au
tore del decadimento della causa inerente e sempre identica a se stes
sa, verso il peggio attraverso una deviazione cui ha acconsentito.
Partendo, si dice che cade dall’alto, poiché avendo il potere di dirige
re il cammino della sua anima irresistibilmente verso Dio, egli ha vo
lontariamente scambiato il meglio e l’essere per il peggio e il non-es
sere»21.
È sempre in rapporto alla natura costitutiva dell’uomo, al suo do-
ver-essere teantropico, che i Padri definiscono il male e il peccato. È
un male e costituisce un peccato ogni azione che allontana l’uomo
da Dio e dal suo divenire dio (la deificazione alla quale l’uomo è per
natura chiamato), in altri termini, ogni azione per la quale l’uomo al
lontana le sue facoltà dal loro fine naturale. «Agire male, scrive Dio
nigi l’Areopagita, è uscire dalla buona via, contraddire la propria ve
ra intenzione, la propria natura, la propria causa, il proprio principio,
il proprio fine, la propria definizione, la propria volontà, in breve, la
propria stessa essenza»22. «Non è nell’essenza delle creature che si tro
va il male, ma nel loro movimento falso e irrazionale», scrive da par
te sua san Massimo23. «Si potrebbe dire, annota ancora, che il male
non è altra cosa se non la mancanza di dirigere verso il loro fine le
facoltà poste nella natura. O ancora, il male è un movimento irrazio
nale delle facoltà naturali che le conduce, secondo un giudizio sba
gliato, ad altra cosa che non il loro vero fine. Io intendo per “fine”
l’Autore di ogni creatura verso il quale tendono, in virtù della loro stes
sa natura, tutti gli esseri»24. Nell’allontanare l’uomo da Dio, il pecca
to stabilisce le sue facoltà in uno stato contro natura, e priva il suo es
sere intero dell’Essere e del Bene: è in questo stato che, per l’uomo,
consiste il male. «Il male non è altra cosa se non la privazione del be
21Ambigua, PG 91,1084D-1085A.
221 Nomi divini, IV, 32.
23 Centurie sulla carità, IV, 14.
24 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,253B.
40
ne e il cammino che devia dal secondo-natura verso il contro-natura»,
scrive san Giovanni Damasceno25. «Tutto dò che Dio ha fatto è mol
to buono, tutto ciò che persiste così come è stato creato è molto buo
no. Ciò che si separa volontariamente dal naturale e va contro natura
diviene cattivo. Tutto ciò che serve e obbedisce al Creatore è secondo
la natura. Quando una creatura, volontariamente, si ribella e disob
bedisce al suo Creatore, stabilisce il male in se stessa. Infatti il vizio
[...] è la deviazione volontaria del secondo-[natura] verso il contro
natura; è il peccato»26.
Dire che a motivo del peccato l’uomo è posto in uno stato contro
natura, vuol dire che allontanandosi da Dio egli si allontana da se stes
so, vive a fianco di ciò che egli è fondamentalmente, non conduce la
vita per la quale è fatto e pensa e agisce al contrario in un modo estra
neo alla sua vera condizione. In altre parole, l’uomo vive allora in uno
stato di alienazione. «Mentre noi apparteniamo a Dio per la nostra
stessa natura», scrive sant’Ireneo, l’apostasia «ci ha alienati contro la
nostra natura (alienavit nos contra naturam)»21. San Macario Magno
constata lo stesso stato di alienazione, pur esprimendosi in un altro
modo: «Dopo che Adamo ha trasgredito il comandamento, [...] egli
si ritrova come una seconda anima a fianco dell’anima»28. E sant’A-
tanasio constata che l’anima dimenticando, nel suo peccato, che essa
è a immagine di Dio, e non vedendo più il Verbo a somiglianza del
quale essa è stata fatta, esce da se stessa29.
Allontanandosi da Dio, l’uomo si priva da se stesso della condi
zione divina alla quale era stato promesso, e come dice in modo sor
prendente Clemente d’Alessandria, si lascia precipitare nella condi
zione di uomo30. Egli cade anche in uno stato infra-umano, perché, lo
abbiamo visto, la vera umanità esiste solo nella divino-umanità: l’uo
mo non può essere veramente uomo che in Dio, che nell’essere uomo
dio nello Spirito, a somiglianza del Cristo. Così i Padri paragonano
spesso la condizione dell’uomo caduto a quella degli animali31. San
25 Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
26Ibid. Cfr. II, 30. DOROTEO DI G aza scrive ugualmente: «Decaduto dal suo stato naturale
[l’uomo] si trovava nello stato contro natura» {Istruzioni spirituali, 1 ,1). Vedi anche ATANASIO
d ’A lessandria , Contro ipagani, 4.
27 Contro le eresie, V, 1, 1.
28 Omelie (Coll. II), XV, 35.
29 Contro ipagani, 8.
30Protreptico, IX, 83, 2.
31 Vedere per esempio: SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, XIII, 67-68. Cateche
si
Gregorio di Nissa per esempio dice: «L’uomo, avendo deposto la for
ma divina, è divenuto una bestia selvaggia a immagine della natura ani
male»32. E san Massimo osserva che l’uomo si è «“assimilato alle be
stie senza ragione” (Sai49[48],13), cercando, volendo e operando in
tutto come loro, e superandole anche in irrazionalità, avendo cambiato
la sua ragione naturale del secondo natura in contro natura»33.
Poiché l’uomo ha allontanato da Dio il suo spirito, quest’ultimo si
trova privato della vita divina. Egli si sconfessa34, in uno stato di tor
pore (cfr. Ir 29,10; Rm 11,8) e di oscurità35, ed è come morto. L’uomo
arriva così fino a perdere ogni nozione della sua funzione spirituale.
Amputato di questa, che costituiva la dimensione essenziale del suo
essere, per mezzo della quale egli dava luce, vita, senso e coesione a
tutte le sue facoltà, e che gli permettevano anche di crescere in Dio,
l’uomo si ritrova improvvisamente ridotto a una infima parte di se stes
so, non dispone più che di una debolissima parte delle sue possibilità.
Da uomo totale quale egli era - spirituale, psichico, corporeo -, l’uo
mo si ritrova a non essere più che psichico (lCor 2,14; Gd 19) e cor
poreo. Smette, allora, nella struttura stessa del suo essere e nell’ordi
ne delle sue facoltà, di essere uomo integrale, per non essere più che
un centesimo o un millesimo d’uomo (paragone che rende l’immagi
ne ma che in effetti non ha nessun significato, perché è in verità l’in
finito che l’uomo scambia per rivestire la condizione molto limitata di
uomo decaduto). In ogni caso, egli diviene uomo incompleto. Sant’I-
reneo sottolinea: «Quando lo Spirito viene meno all’anima, un tale uo
mo che rimane in tutta verità psichico e carnale, sarà imperfetto»36.
E ormai in un mondo ridotto, stretto e anche apparentemente chiu
so che l’uomo vive, conducendo un’esistenza rinchiusa nella dimen
sione del suo essere decaduto. La sua anima e il suo corpo, smetten
do di ricevere la loro vera vita (quella divina, che lo Spirito Santo co
municava loro) muoiono spiritualmente. Sant’Ireneo scrive ancora a
questo proposito: «Tre cose costituiscono l’uomo perfetto: la carne,
l’anima e lo Spirito. Una di esse salva e forma, ossia lo Spirito [...].
si, XXVm, 418-419. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 10. G re
gorio DI NlSSA, Trattato sulla verginità, IV, 5. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II,
52. N iceta Stetatos, Inanima, 34. Vedi anche: Sai 48,13.21. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll.
Ili), VIE, 3,1-5.
32 Omelie sul Cantico dei Cantici, Vili, GNO VI, p. 251.
33 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90, 253CD.
34 Cfr. ibid.
35 Cfr. MACARIO d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XLV, 1; Capitoli parafrasati, 37.
36Contro le eresie, V, 6, 1.
42
Coloro che non hanno l’elemento che salva e forma in vista della vita,
costoro si vedranno a buon diritto chiamare “carne e sangue”, poiché
essi non hanno lo Spirito di Dio in loro. Ecco perché, tra l’altro, essi
sono detti “morti” per il Signore: “Lascia, disse, che i morti seppelli
scano i loro morti” (Le 9,60), perché essi non hanno lo Spirito che
vivifica l’uomo»37. Partendo da un altro punto di vista, san Gregorio
Palamas giunge alla stessa conclusione relativamente a questa conse
guenza del peccato: «Quando l’anima lascia il corpo e si separa da es
so, il corpo muore; allo stesso modo, quando Dio lascia l’anima e si
separa da essa, l’anima muore»38. L’uomo così decaduto, proprio quan
do egli crede di vivere, e pensa anche di vivere talvolta intensamente,
vive in verità come un morto, è un morto vivente. San Simeone il Nuo
vo Teologo descrive in questo modo tale condizione degli uomini ca
duti così come essa appare a colui che è dotato di discernimento spi
rituale, ma di cui coloro che la subiscono non hanno coscienza: «I mor
ti, tra loro, non possono né vedersi, né compiangersi l’un l’altro, no.
Sono i viventi che, nel vederli, gemono. Perché essi vedono una stra
na meraviglia, uomini colpiti dalla morte che vivono, ossia che cam
minano, dei ciechi che credono di vedere e veri sordi che s’immagi
nano di sentire: essi vivono, vedono e sentono al modo delle bestie; es
si pensano come insensati nella loro coscienza inconsciente, nella loro
vita di cadaveri, perché è possibile vivere senza vivere, è possibile guar
dare senza vedere e sentire senza ascoltare»39.
A motivo del suo peccato, l’uomo si vota a ogni sorta di male, di
miserie e di sventure40 che non appartengono essenzialmente alla sua
natura e che non lo toccano fin quando egli vive in conformità ad es
sa, ma che non appaiono se non come conseguenze della sua colpa e
costituiscono il suo castigo. Nella perdita del centro spirituale del suo
essere, nella dislocazione della sua anima41, nella perdita delle sue for
ze essenziali42, nello sconvolgimento, nella perversione, nel danneg
giamento di tutte le sue facoltà, e nello stato di malattia e di soffe
renza che questo instaura, consiste principalmente questo castigo. Ciò
non è affatto inflitto da Dio, ma deriva naturalmente e necessariamente
” Ibtd.,9,1.
38 Omelie, 16. Sulla morte spirituale come conseguenza del peccato, vedi anche MACARIO
D’E gitto , Omelie (Coll, m), XVÜI, 1,3.
39Inni, 44,214-231.
40 Cfr. IRENEO Dì L ione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 17. TEOFILO d ’A n tio-
CHIA, AdAutolico, n, 25. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, I, 2; XHI, 39-73.
41 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH), XXIV, 3.
42Ibid
43
dalla caduta43, e allorquando Dio annuncia ad Adamo e a Èva i mali
che deriveranno dalla loro trasgressione (cfr. Gn 3,16-19), egli non li
produce, ma non fa altro che predirli e descriverli. L’uomo, constata
il salmista, «un pozzo ha intagliato ed ha scavato ed è caduto nella fos
sa che faceva. Ricade la sua nequizia sulla sua testa e sul suo capo la
sua violenza discende» (Sai 7,16-17). «La natura, scrive san Massi
mo, punisce coloro che cercano di violentarla nella misura in cui essi
si dedicano a un modo di vivere contro natura; essi non hanno più a
loro disposizione tutte le forze della natura così come essa stessa le
aveva donate loro; eccoli dunque diminuiti nella loro integrità e così
castigati»44. A motivo del peccato, la natura umana, constata ancora
san Massimo, «implacabilmente fa guerra contro se stessa»45, ed è da
diversi punti di vista che possiamo dire che ciò equivale per l’uomo
a un vero suicidio46.
Che l’uomo porti un così grave pregiudizio alla sua natura47e agi
sca così contro i suoi interessi più fondamentali48fino a mutilarsi da
sé e a immergere tutto il suo essere nel dolore, nel non-essere e nella
morte, allontanandosi dalla pienezza di vita e di gioia perfetta che gli
offriva la sua condizione originaria: ciò è con tutta evidenza la follia,
costatano i Padri. San Doroteo di Gaza scrive così: «Perché siamo ca
duti in questa miseria? Non è a causa [...] della nostra follia (aponota)?
[...] Perché questo? L’uomo non è stato creato nella pienezza del be
nessere, della gioia, del riposo e della gloria? Non era in paradiso? Gli
era stato ordinato “non fare questo”, ed egli l’ha fatto [...]. “L’uomo
è folle (moros), dice Dio, egli non sa essere felice”»49.
Se i Padri considerano così il peccato stesso come un atto di follia, es
si considerano ugualmente uno stato di follia lo stato di peccato nel qua
le vive l’umanità decaduta50. In questo essi seguono spesso le Sacre Scrit
43 Sant’Ireneo precisa: «A tutti coloro che si separano da lui, [Dio] infligge la separazione
che essi stessi hanno scelto. Ora, la separazione da Dio, è la morte; la separazione dalla luce, le
tenebre; la separazione da Dio, è la perdita di tutti i beni provenienti da lui. Coloro, dunque,
che per la loro apostasia hanno perduto tutto quello che abbiamo detto, sono immersi in tutti i
castighi: non che Dio li preceda per castigarli, ma il castigo li segue per il fatto stesso che essi so
no privati di ogni bene» (<Contro le eresie, V, 27, 2). Cfr. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedago
go, I, VIE, 69,1.
44Ambigua, Prologo.
45 Commento del Padre nostro, PG 90, 880A.
46Cfr. G regorio DI N issa, Discorso catechetico, Vili.
47 Cfr. Ireneo DI L ione , Contro le eresie, V, 3,1.
48Cfr. G regorio di N issa, Sulla verginità, XII, 2.
49Istruzioni spirituali, I, 8.
50«Siamo un popolo folle e insensato» non esita a dire Origene quando spiega le ragioni del
l’Incarnazione dà Cristo (Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 3). Altrove egli ricorda «il genere
44
ture (cfr. Pro 5,23; 9,4.6.13-18; 12,23; Qo 10,1-3) e particolarmente san
Paolo che scrive a riguardo di coloro che sono lontani da Dio: «I loro
ragionamenti divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò.
Ritenendosi sapienti, divennero sciocchi (emorànthèssan)» (Rm 1,21-22).
I Padri utilizzano molto spesso delle categorie mediche per indi
care il peccato ancestrale e le sue conseguenze: questo, essi afferma
no, costituisce una malattia molto grave che colpisce tutto l’essere del
l’uomo e lo priva della sua salute originale. San Gregorio di Nissa do
po aver ricordato che «ima volta il genere umano [...] godeva della
salute», ricorda il momento della caduta e constata: «A partire da qui
questa malattia mortale che è il peccato si installò nella natura uma
na»51. San Nicola Cabasilas scrive allo stesso modo: «Il giorno in cui
Adamo, consegnandosi allo spirito maligno, si è allontanato dal suo
Maestro, la sua anima ha perduto la salute e il benessere; fin da allo
ra anche il corpo è andato di pari passo con l’anima e ha subito la stes
sa sorte: esso è degenerato con lei»52. San Cirillo d’Alessandria si espri
me allo stesso modo: «La natura cadde malata di peccato per la di
sobbedienza di uno solo»53; «in Adamo, la natura dell’uomo cadde
malata di corruzione»54. Questa malattia e questa degenerazione, lo
vediamo ancora oggi, consistono essenzialmente in ciò che tutte le fa
coltà dell’uomo che erano fatte per rivolgersi a Dio e unirlo a lui, a
causa del peccato si sono allontanate da questo fine che è loro natu
rale e ormai funzionano contro natura, si muovono e si smarriscono
in direzioni opposte a quella del loro vero fine55, agendo così in modo
umano raggiunto dalla follia (memenós)», e particolarmente «coloro che», al m omento della ve
nuta del Cristo, «a causa della malattia della loro anima e del disordine (ékstasis) della loro ra
gione naturale erano ancora nemici [...] di D io» (<Contro Celso, IV, 19). Clemente d ’Alessandria
ricorda «l’irrazionalità (apónoia)» e «la follia (<ànoia) degli uomini» che rifiutano D io (Protrep-
ti co, IX, 83,1 e 84,1). A sua volta, san Barsanufìo così si esprime: «La follia ha generato la di
sobbedienza, e la disobbedienza la ferita. E dopo la ferita la stessa follia ha generato la negli
genza» {Lettere, 64). Vedi anche: MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 50. GIOVANNI CRI
SOSTOMO, Commento a san Matteo, IX, 6; Omelie sui demoni, 1,6; II, 3. ATANASIO D’ALESSANDRIA,
Contro ipagani, 4. TALASSIO, Centurie, I, 52. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26; 30; 44; 80;
81. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 192. GIOVANNI CARPAZIO, Capitoli di esortazione,
57. SIMEONE IL N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,5; m , 85; Catechesi, VI,
32-33; XV, 48-53. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 6; DI, 58; 59; 61. Altri riferimenti saranno da
ti nel prossimo capitolo, nel quale vedrem o che questi termini {manta, morìa, afrosyne, ànoia,
alogia, ecc.) sono frequentemente applicati agli atteggiamenti idolatrici degli uomini che si sono
allontanati dal vero Dio.
51 Omelia sul Padre nostro, IV, 2.
52La vita in Cristo, II, 38.
53 Commento alla lettera ai Romani, PG 74, 789.
54 Ibid.
55 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 4. G regorio di N issa , Omelie sul Padre
nostro, IV, 2.
45
disordinato, irrazionale, assurdo, insensato, folle. «Quando Dio si ri
tira», osserva san Giovanni Crisostomo, tutto viene sconvolto»56. E san
Gregorio di Nissa afferma esplicitamente che nell’usare contro natu
ra le facoltà della sua anima, l’uomo è àtopos57, cioè stravagante, as
surdo, insensato e allókotoì58, cioè di un’altra natura, estranea e stra
niera (possiamo arrivare a tradurre questo termine con «alienato»), a
tal punto, egli scrive, «che nessuno potrebbe esprimere come merite
rebbe la sua assurdità»59; «infatti è come se un soldato, equipaggian
dosi a rovescio, portasse il suo elmo a rovescio al punto da nascondersi
il viso e da lasciare il pennacchio inclinarsi all’indietro, è come se met
tesse i piedi nella corazza, adattasse i gambali al petto, prendesse ciò
che è a sinistra sul costato destro e gettasse l’armamento di destra sul
costato sinistro». «I mali che patirà verosimilmente in guerra questo
fante, conclude Gregorio, sono così quelli di cui patirà verosimilmen
te durante la sua vita colui che ha introdotto la confusione nel suo giu
dizio e invertito l’uso delle facoltà della sua anima»60.
47
simo precisa: «Il cattivo uso della facoltà razionale è l’ignoranza e la
demenza (aphrosynè)»8.
Mentre l’anima umana «è stata fatta per vedere Dio e per essere
illuminata da lui»9, a causa del peccato essa in realtà si è pervertita, si
è allontanata da Dio e dalle realtà spirituali per orientarsi verso realtà
sensibili e per considerare solo queste10.
Il peccato dell’uomo, tuttavia, non consiste nel considerare le realtà
sensibili. Dio gli ha dato l’intelligenza non solo affinché egli tenda al
la conoscenza di Dio stesso, ma anche perché egli conosca le creature
sensibili e intelligibili11. Prima della sua caduta Adamo dunque le co
nosceva, ma le conosceva solo da un punto di vista spirituale. Egli con
templava naturalmente ciò che i Padri chiamano le loro «ragioni» spi
rituali (lógoi); in altri termini, egli le percepiva nelle rispettive relazio
ni con il Creatore, le conosceva come aventi in lui il loro principio e il
loro fine; egli le vedeva tutte in Dio, come se esse ricevessero da Dio
il loro essere e le loro qualità, e vedeva in esse Dio presente con le sue
energie. Difatti, come sottolinea san Massimo, «il mondo intero ap
pare impresso misteriosamente nel sensibile in alcune forme simboli
che, per coloro che sanno vedere, e il mondo sensibile tutto intero è
in modo conoscibile contenuto nell’intelligibile e semplificato dall’in
telligenza nei lógoi. H mondo è nell’intelligibile attraverso i suoi lógoi
e questo è in quello attraverso le sue impronte. E la loro realtà è come
se fosse una ruota in una ruota secondo l’espressione impiegata dal
l’ammirevole e grande veggente Ezechiele (cfr. 1,16), quando parla, mi
sembra, dei due mondi. Le sue perfezioni visibili si vedono a partire
dalla creazione, grazie alle opere che le rendono visibili all’intelligen
za. Così parla il divino Apostolo (Rm 1,20). E se le cose non apparenti
si contemplano attraverso quelle apparenti, come è scritto, a mag
gior ragione, attraverso le non-apparenti, coloro che si dedicano alla
contemplazione spirituale avranno l’intelligenza di ciò che appare. Di
fatti, la visione simbolica delle cose intelligibili per mezzo di quelle vi*
sibili è scienza spirituale e intelligenza delle visibili per mezzo di quel
le invisibili»12.
Adamo, dice san Massimo, era anche destinato, al termine della sua
crescita spirituale a considerare le creature dal punto di vista di Dio
8 Centurie sulla carità, IH, 3. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima.
9 Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 1.
10 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 59.
11 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 83.
12Mistagogia, II.
48
stesso, ad attingere da esse «una conoscenza e un’informazione simili
a quella di Dio, perché, grazie alla deificazione della sua intelligenza e
alla tramutazione dei suoi sensi, l’uomo non sarebbe stato un sempli
ce uomo, ma un dio»13. L’uomo allora avrebbe potuto dire con il sag
gio Salomone: «Egli mi ha dato la vera conoscenza delle cose, per com
prendere il sistema dell'universo e la forza degli elementi, il principio,
la fíne e la metà dei tempi, [...] la natura degli animali [...], il potere
degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, le varietà delle piante e le
virtù delle radici; quanto è nascosto e manifesto ho conosciuto, per
ché la Sapienza, artefice di tutto, mi ha ammaestrato» (Sap 7,17-21).
Il peccato e il male, a questo livello, hanno significato, per Adamo
e per coloro che sono divenuti suoi imitatori, ignorare Dio e consi
derare gli esseri indipendentemente da lui, cioè considerarli non più
spiritualmente nella realtà intelligibile che vi si esprime secondo le
energie divine che vi si rivelano, ma carnalmente, nella loro sola ap
parenza sensibile14. L’albero della conoscenza del bene e del male, di
cui parla il libro della Genesi (cfr. 2,9), e che Dio proibisce ad Adamo
di toccare, pena la morte (cfr. 3,3), rappresenta, dice san Massimo, la
creazione visibile15: «Contemplata spiritualmente, essa è l’albero del
la conoscenza del bene; considerata sotto il suo aspetto materiale, è
l’albero della conoscenza del male. Essa diviene, infatti, un maestro
che insegna le passioni e conduce all’oblio di Dio coloro che hanno
solo rapporti corporei»16. Dio, vietando all’uomo di mangiare del frut
to dell’albero, gli aveva indicato il pericolo che vi era ad entrare in que
sta seconda forma di conoscenza che fino ad allora ignorava: egli do
veva innanzitutto crescere nella conoscenza del suo Creatore, dopo di
che solo lui avrebbe potuto gioire senza danno della creazione visibi
le17. Ma Adamo ha anticipato il processo e, a motivo del suo stato in
fantile, si è dimostrato incapace di assumere tale creazione spiritual
mente ed è caduto nel peccato.
Per mezzo del peccato, gli occhi spirituali di Adamo si chiudono, e
al loro posto si aprono gli occhi della carne. Infatti «vi sono, nota Ori-
gene, due tipi di occhi: gli uni si aprirono attraverso il peccato, gli altri
servivano ad Adamo e a Eva per vedere prima che questi si aprissero»18.
13 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90, 257D-260A.
14Cfr. Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 8.
15Loc. cit.
16Ibid.
17Cfr. Id., ibid.
18 Omelie sui Numeri, XVII.
49
Ricordando questi occhi carnali, cioè questo modo carnale di vedere la
realtà, la Scrittura afferma: «Si aprirono allora gli occhi di ambedue e
conobbero che erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne
fecero delle cinture» (Gn 3,7). Adamo ed Èva si videro allora nudi, pre
cisa in seguito il testo (ibid.), e sant’Atanasio commenta in questo mo
do: «Essi conobbero che erano nudi perché erano stati privati della con
templazione di Dio e perché avevano volto i loro pensieri nella dire
zione opposta»19. Parimenti, san Simeone nota questa deviazione della
conoscenza primordiale dell’uomo e la sua decadenza: «Al posto della
conoscenza divina e spirituale, [l’uomo] ricevette la conoscenza car
nale. Infatti, gli occhi della sua anima accecata, decaduta dalla vita im
mortale, si mise a guardare con gli occhi del corpo»20.
Va osservato che non è l’apertura degli occhi della carne che pro
voca la chiusura degli occhi spirituali, bensì l’inverso: è per mezzo del
l’ignoranza di Dio che, cessando di esistere la conoscenza secondo Dio,
prende il suo posto la conoscenza secondo la carne: «Il male, precisa
san Massimo, è l’ignoranza dell’Autore benefico delle creature. È que
sta ignoranza che ha, per un verso, ristretto lo spirito e, per un altro,
ha aperto ampiamente la via ai sensi, allontanando completamente
l’uomo dalla conoscenza divina per riempire la sua esistenza della
conoscenza appassionata delle cose sensibili»21. San Simeone il Nuo
vo Teologo afferma: «Se egli non fosse prima caduto dalla conoscen
za e dalla contemplazione di Dio, egli non sarebbe pervenuto a que
sta conoscenza»22. Questo può spiegarsi con il fatto che l’intelligen
za, cessando di conoscere Dio e, in modo generale, le realtà spirituali
o intelligibili, nondimeno resta portata a conoscere qualcosa, perché
essa continua secondo le esigenze della sua natura ad essere in movi
mento23: essa prende fin dall’inizio come oggetto le realtà sensibili (più
precisamente gli esseri considerati esclusivamente nella loro apparen
za sensibile), che sono le uniche ormai a poter essere percepite da
essa, poiché detta intelligenza ha negato, rifiutato o dimenticato le
altre, come dimostra san Massimo: «Ogni intelligenza umana sviata e
che si discosta dal suo movimento naturale, è mossa dalle passioni, dai
sensi e dalle cose sensibili, poiché anch’essa non ha più dove portar
19Contro i pagani, 3.
20 Catechesi, XV, 14-15. Cfr. Trattati etici, XDI, 54-56.
21 Loc. cit.
22 Catechesi, XV, 22-24.
23 Cfr. NlCETA STETATOS, Dell’anima, 42; 48; 55. ATANASIO d ’A lessandria, Contro ipagani, 4.
50
si, una volta venuto a mancare il movimento che conduce naturalmente
verso Dio»24.
Quando nel loro stato originale le facoltà cognitive dell’uomo ri
cevevano dallo Spirito la loro luce, e conoscevano così secondo la lo
ro natura e secondo la natura stessa degli esseri, allontanandosi da Dio,
è ai sensi che ormai saranno subordinate, e da essi riceveranno ogni
informazione: «Divenuto trasgressore e ignorante di Dio, l’uomo mi
se tutta la sua potenza intellettuale nella sensazione», scrive san Si
meone il Nuovo Teologo25. L’intelligenza dell’uomo fin da allora è
asservita a questo mondo26.
L’intelligenza si lascia condurre non solo dalle sensazioni, ma anche
da tutti i desideri passionali che appaiono nell’anima come effetto del
l’ignoranza, la quale è, afferma san Marco l’Eremita, «la causa di tut
ti i vizi»27, insieme all’oblio di Dio e alla negligenza nei suoi riguardi28.
Questi tre atteggiamenti negativi, che sono indissociabili e si sosten
gono mutuamente29, sono considerati da san Marco l’Eremita (e, nel
la sua scia, da Giovanni Damasceno)30come «i tre giganti potenti del
diavolo»31, le «passioni più profonde e più interiori all’anima»32, gra
zie alle quali «il resto delle passioni maliziose agiscono insinuandosi,
vivendo e trovando la loro forza nelle anime»33.
La conoscenza umana è, così, in stato di peccato, abbandonata al
le passioni, determinata da esse nel suo principio e nel suo fine34. Qué
ste passioni, infatti, «catturano l’intelligenza»35. A motivo dell’igno
ranza, della negligenza e dell’oblio di Dio e anche della sua sottomis
sione a tutte le altre passioni, l’intelligenza si oscura36, diviene cieca37,
viene fuorviata38, immerge l’anima nell’oscurità e pone tutto l’uomo in
un mondo di tenebre39. Catturata dalla sensazione, essa diviene per di
24Ambigua, 10, PG 91,1112A.
25 Catechesi, XV, 22-24.
26 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH), 5,4; Omelie (Coll. II), XXIV, 1.
27A Nicola, 3; 10.
28 Cfr. ibid, 10.
29Ibid., 13.
30Discorso utile all'anima.
31A Nicola, 13.
32Ibid., 10.
33Ibid., 13.
34Cfr. Atanasio d ’A lessandria, Contro ipagani, 8. G iovanni D amasceno , Esposizione esat
ta della fede ortodossa, II, 10. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, Prologo.
35 I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 85.
36Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 3; 10.
37 Ibid., 10. Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 57.
38ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 26.
39 Cfr. A ntonio l’E remita, Lettere, V, 1. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera agli
51
più pesante e spessa40. Essa diviene del tutto incapace di un giusto di-
scernimento41 e di vera conoscenza42. San Giovanni Crisostomo os
serva: «Come coloro che sono nelle tenebre ignorano la natura delle
cose, allo stesso modo coloro che vivono nel peccato non distinguono
le cose: essi corrono verso delle ombre come se fossero la realtà»43.
Sant’Isacco sottolinea, da parte sua, che le passioni distruggono la
salute naturale dell’intelligenza fino a renderla incapace di ogni co
noscenza spirituale: «Come il senso corporeo, quando viene messo sul
la via del vizio per una ragione o per l’altra, è privato della visione, co
sì l’intelligenza che è nella natura non è sana, la conoscenza non agi
sce in essa»44. Anche san Simeone il Nuovo Teologo esclama: «Quali
siano le cose visibili, o mio Dio, non posso dirlo [...], siamo tutti ca
duti nella vanità, incapaci di un giudizio vero sugli esseri»45. Essendosi
«lasciato prendere dalla conoscenza mondana», l’uomo non può «sfug
gire alle trappole dell’errore», ed egli produce «pensieri malati», os
serva sant’Isacco46.
L’uomo acquisisce, allora, una conoscenza più vicina a quella de
gli animali che a quella di un uomo vero. «Poiché egli ha commesso
un errore contro il Logos, l’uomo è considerato naturalmente priva
to di lògos [cioè della ragione], e assimilato alle bestie», scrive Cle
mente d’Alessandria47. E san Niceta Stetatos dice ugualmente dell’uomo
caduto: «Egli è mosso contro natura e non razionalmente (ou logikós),
vive contrariamente alla ragione, asservito alle sensazioni contrarie al
la sua dignità; [...] e per avere perduto l’attività naturale dell’intelli
genza, egli è assimilato agli esseri senza ragione a causa di questa con-
Efestm, xm , 1. MARCO L’Erem ita, A Nicola, 10; 12. L’affermazione che, a motivo del peccato,
l’uomo è entrato nelle tenebre, è frequente nella Sacra Scrittura: Is 9,1; Mt 4,16; Le 1,79;
11,34-36; Gv 1,5; 3,19; 8,12; 12,35; 12,46; A t26,18; Rm 1,21; 2,19; 13,12; Ef 4,18; 5,8; 5,11; Col
1,13; lTs5,4; lPt 2,9.
40 Cfr. GREGORIO di N issa, Sulla verginità, rv, 5; XI, 2, 2; Discorso catechetico, 8. ISACCO IL
SlRO, Discorsi ascetici, 26. EVAGRIO, Trattato sulla preghiera, 50. ORIGENE, Commento a Gio
vanni, II, VII, 57. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, III, 56. G iovan ni C assiano,
Conferenze, IX, 5; 6.
41 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, V, 4. ISACCO IL Siro , Discorsi asce
tici, 26. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 41.
42 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 20; IV, 65. G iovanni C lim aco, La
Scala, XV, 83. DOROTEO di G aza, Lettere, 2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulle Calende, 3;
Commento al Salmo 142,3; Omelia su 1 Corinzi, XI, 4; Omelia sulla lettera agli Efesini, XD3,1;
Commento a san Giovanni, V, 4. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, VII, 46.
43 Commento al Salmo 142, 3.
44 Discorsi ascetici, 69.
45 Inni, IV, 68-70.
46Discorsi ascetici, 19.
4711 Pedagogo, I, XM, 101,3-102,1.
52
dotta, perché la ragione in lui è morta, e perché la parte meno razio
nale dell’anima ha prevalso grazie a questa condotta»48.
Quando smette di vedere Dio negli esseri e gli esseri in Dio, l’uomo
perde la nozione del loro principio e del loro fine comune, smette di
coglierli nella loro unità fondamentale. Egli ne acquisisce allora una
conoscenza parziale, divisa, composita49. E se egli tende a riunificare la
sua conoscenza, può farlo solo per mezzo degli artifici prodotti dalla
sua ragione: questa, non essendo più informata spiritualmente, non ha
in effetti più altra risorsa se non quella di fondare il suo esercizio su
principi arbitrari che definisce essa stessa, o su intuizioni sensibili che
non presentano più alcun carattere di obiettività, nella misura in cui
sono relative alla percezione deformata dell’uomo decaduto.
L’alienazione dell’intelligenza nella sensazione corrisponde al gra
do più basso della caduta dello spirito fuori della conoscenza di Dio
e della contemplazione naturale. Il suo esercizio nell’attività razionale
divenuta autonoma è una tappa intermedia50, ma che costituisce ugual
mente per l’uomo una forma di alienazione della sua intelligenza51.
L’uomo caduto, molto spesso, riconosce solo l’uso razionale della
sua intelligenza, e può arrivare fino a considerarla come l’unico modo
di conoscenza autentica, persino possibile. Abbandonandosi a se stes
so, l’uomo conosce allora ciò che i Padri chiamano la «prigionia dei
pensieri», che può andare da forme di pensiero più empiriche e più
disorganizzate fino a costruzioni più elaborate di pensiero astratto.
Immergendosi nella sensazione, ma anche nell’attività della ragio
ne dispiegando una riflessione autonoma di carattere astratto, l’intel
ligenza si volge verso «l’esteriore». Non è solo da Dio che essa sepa
ra allora l’uomo, ma anche da se stesso. E ciò che i Padri indicano co
me la separazione dello spirito e del cuore. L’intelligenza, nel suo stato
naturale, è unita al cuore, il quale, in termini scritturistici e patristici
indica «l’uomo interiore», il centro ontologico dell’uomo e la radice
di tutte le sue facoltà. Quando egli esercita l’attività contemplativa che
corrisponde alla sua natura, lo spirito ha un movimento circolare52; ri
48Sull’anima, 34.
49 Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 ,253C.
50 Cfr. ELIA ECDICO, Capitoli gnostici, 1-2: «L’intelligenza è ora nell’ambito della fonte dei
pensieri, ora nell’ambito dei ragionamenti, ora nell’ambito dei sensi»; «l’intelligenza che non è
alla fonte dei pensieri è totalmente nei ragionamenti. E se essa è nei ragionamenti, non è alla fon
te dei pensieri. Entrata nei sensi, essa è al centro di tutte le cose».
51 Cfr. ibid., 4; 7.
52Cfr. D ionigi l’A reopagita, Sui Nomi divini, IV, 9. G regorio P alamas, Triadi, 1,2 ,5 . Ni-
CODEMO L’A giORITA, Enchiridion, 10.
53
mane all’interno del cuore e non si espande al di fuori53, ma «rientra
in se stesso e attraverso se stesso si eleva verso Dio»54. Abbandonan
do la sua attività contemplativa, l’intelligenza, non muovendosi più cir
colarmente ma in linea retta55, esce dal cuore, dunque dal centro spi
rituale dell’uomo e si diffonde all’esterno in una attività discorsiva nel
la quale essa si disperde e si divide56e rende l’uomo esteriore a se stesso
e a Dio57.
L’intelligenza, in questo stato, è in una condizione di costante di
strazione58, non smette di fluttuare, erra e vaga qua e là59e conosce uno
stato d’agitazione permanente60all’opposto dello stato di calma profon
do (hèsychia) che caratterizzava la sua attività contemplativa. I suoi
pensieri, prima concentrati e unificati, si dispiegano e scorrono, mol
teplici e diversi, in un flusso incessante, divenendo confusi e instabi
li61, si dividono62e si disperdono63, sfuggendo da ogni parte64, e con es
si trascinano e dividono tutto l’essere dell’uomo. San Massimo può co
sì ricordare «la dispersione dell’anima secondo le forme esteriori
dall’apparenza di cose sensibili»65, perché l’anima diviene molteplice
a immagine di una molteplicità sensibile che ha paradossalmente crea
ta da se stessa, e che è un’illusione che proviene dal fatto che essa si
è resa incapace di percepire l’unità oggettiva degli esseri per la sua
ignoranza della presenza in essi delle energie del Dio Uno.
Dalla separazione dello spirito e del cuore, vera schizofrenia spiri
tuale nel senso etimologico del termine poiché essa divide (schizei) il
cuore (phren) dell’uomo, risulta la divisione di tutta l’anima. A moti
vo dell’intelligenza che si disperde e si divide nella molteplicità dei
pensieri che essa produce e delle sensazioni che segue, tutte le facoltà,
tirate di qua e di là, e per di più titillate dalla molteplicità delle pas
sioni, si esercitano in sensi molteplici e spesso divergenti che fanno
dell’uomo un essere diviso a tutti i livelli.
55 Ibid.
54 B asilio di C esarea , Lettere, n, 2. G regorio P alamas , Triadi, I , 2 ,5 .
55Cfr. ibid,
56 B a silio di C esarea, loc. dt. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 23.
57 Cfr. N icodemo l’A giortta, Enchiridion, 10.
58 Vedi, tra gli altri, MACARIO d 'E gitto , Omelie (Coll. HI), XXV, 5 ,4 .
59 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), IV, 4. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 68.
60 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 19; 23; 24; 25.
61 M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n), XXXI, 6.
62 Cfr. N iceta S tetatos, Centurie, HI, 19.
65 Cfr. ibid., 2; 6.
61 M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n ), VI, 3.
65Mistagogia, XXIII, PG 91,697C.
54
L’ignoranza di Dio, lo si può notare, si rivela avere per l’uomo mol
teplici effetti patologici conformi all’importanza fondamentale che ri
vestiva per lui la conoscenza di Dio, tanto che san Marco l’Eremita
considera tale ignoranza come «la madre e la nutrice di tutti i mali»66.
E san Niceta Stetatos riassume così qualcuno dei suoi effetti: «L’i
gnoranza è una calamità e più che una calamità. Essa è veramente la
tenebra palpabile (cfr. Es 10,21). Essa oscura le anime nelle quali si
trova. Essa divide profondamente il pensiero e impedisce all’anima di
unirsi a Dio. Quanto si unisce a essa è disordine e sragione, perché es
sa rende l’uomo completamente irrazionale e insensibile [...]. Quan
do essa si spande e s’ispessisce, diviene per l’anima, che le è sottomessa,
un baratro infernale in cui sono tutti i tormenti, tutti i dolori, tutte le
tristezze, tutti i gemiti»67.
55
volontariamente attirata, ed è divenuto egli stesso inventore della ma
lizia72e non scopritore di una malizia creata da Dio [...]; è l’uomo che
in un certo modo è divenuto creatore e artefice del male»73. Così il ma
le è una creazione non di Dio, ma del diavolo e dell’uomo che colla-
bora con lui; è un prodotto della volontà diabolica e della volontà uma
na74, il che non sarebbe accaduto se il diavolo non si fosse allontanato
da Dio. Il diavolo si sarebbe limitato alla sua sola persona e a quelle
di altri angeli decaduti se l’uomo non avesse accettato di seguirlo. Il
male esisteva fin dall’origine come possibilità della libertà umana:
ciò era indispensabile perché questa fosse realmente perfetta; se l’uo
mo non avesse potuto fare il male, non sarebbe potuto essere total
mente libero. La libertà, tuttavia, aveva come condizione la semplice
possibilità del male, non l’attuazione di questa possibilità, non il com
pimento effettivo del male; questo non poteva, al contrario, come si
dimostrerà in seguito, che farla decadere dalla sua perfezione primi
tiva.
Il male non è solo un’invenzione; è un’invenzione fantasmatica. «Il
male, scrive sant’Atanasio, non è che una finzione dell’intelligenza uma
na»75. Il male, infatti, affermano con insistenza i Padri, non ha sostan
za, è puro non-essere76. Questo non significa che esso non esista in al
cun modo, ma che ha un’esistenza negativa: il male è non-essere in
quanto esso è, lo si è visto, ignoranza, negazione, rifiuto, oblio di
Dio che è l’Essere stesso, la fonte di ogni essere, e l’essere vero di ogni
cosa. Così scrive sant’Atanasio a questo proposito: «Privi del pensie
ro di Dio, gli uomini si sono anche privati per sempre dell’essere»77.
Allontanandosi da Dio, l’uomo, inevitabilmente «concepisce l’iniquità,
porta in seno nequizia e genera inganno» {Sai 7,15). Difatti l’uomo,
ignorando Dio, acquisisce una conoscenza delle cose che, non corri
spondendo più al loro vero essere, può essere considerato comeUna
finzione, un prodotto della sua immaginazione, un fantasma. «Gli uo
mini, scrive ancora sant’Atanasio, rifiutandosi di pensare il bene, si so
72 Q uest’ultima formula è ugualmente applicata al diavolo da GREGORIO DI NlSSA, Omelie
sul Cantico dei Cantici, IV, PG 44, 841B; Sulla perfezione, PG 46, 281B.
73Sulla verginità, XII, 2. L’uomo è altresì designato come «inventore dei mali» in IV, 5. Ve
di anche: Omelie sull’Ecclesiaste, VHI, 3; Omelie sul Cantico dei Cantici, II, PG 44, 796D.
74 Cfr. BASILIO DI C esarea, Omelie sull’Hexaemeron, II, 4.
75 Contro ipagani, 4. Cfr. ibid., 7; 8; Sull’Incarnazione del Verbo, 4; 5.
76 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 7. M assimo il C onfessore , Questioni a
TalassiOy Prologo, PG 90,253 AB. BASILIO DI CESAREA, Omelie sull’Hexaemeron, II, 4-5. GRE
GORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2. DIONIGI l’A reopagita , Sui Nomi divini, IV, 19-35.
77Sull’Incarnazione del Verbo, 4.
56
no messi a concepire e a immaginare cose che non esistono»78. Essen
do Dio l’unico essere che veramente e assolutamente è, come egli stes
so rivela a Mosè: «Io sono colui che sono» (Es 3,14), l’uomo che vive
al di fuori di lui non può conoscere altro che il nulla. «Allontanato dal
bene, scrive tra l’altro sant’Atanasio, e dimenticando che essa è ad im
magine di Dio buono, la potenza che è [nell’anima] non vede più il
Dio Verbo, a somiglianza del quale essa è stata fatta; uscendo da se
stessa, non pensa e non immagina altro se non il nulla»79. Infatti, non
percependo più né l’immagine di Dio che è in essa e che fondamen
talmente la costituisce, né le «ragioni» spirituali delle creature, l’uo
mo percepisce solo una vuota realtà. Conoscendosi e conoscendo gli
esseri al di fuori di Dio, egli conosce nel nulla. Vedendo la creazione
come se Dio ne fosse assente, mentre egli è «presente ovunque e riem
pie tutto», egli delira, e manifesta la sua follia: colui che nel suo cuo
re ha detto: «Non c’è Dio» è insensato, dice il salmista (Sai 13,1). An
che se, «dopo la creazione del mondo, Dio manifestò ad essi le sue
proprietà invisibili, come la sua eterna potenza e la sua divinità, che si
rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fatte» (Rm
1,20), l’uomo, avendo chiuso gli occhi del suo spirito, ignora tutto an
che quando crede di conoscere, prendendo come realtà il nulla che
ormai si offre alla conoscenza della sua intelligenza offuscata: «Quan
do il sole brilla e illumina tutta la terra con la sua luce, scrive sant’A-
tanasio, se un uomo si tappasse gli occhi immaginandosi che è nell’o
scurità mentre l’oscurità non esiste, e poi camminasse a caso come er
rando nell’oscurità, cadendo continuamente e andandosene verso il
precipizio, egli penserà che non fa giorno, ma che è buio, credereb
be di guardare ma non vedrà nulla. Così l’anima umana, tappandosi
gli occhi che le permettono di vedere Dio, ha concepito il male, e muo-
vendovisi, essa crederà di fare qualcosa mentre non fa nulla, perché
immagina solo il nulla. Essa non è rimasta quale è stata fatta, ma si mo
stra così come se si fosse impastata da sola. Infatti, essa è stata fatta
per vedere Dio e per essere illuminata da lui; ma anziché Dio, ella ri
cerca le cose corruttibili e le tenebre»80.
E, altresì, in un’altra maniera che la conoscenza dell’uomo diviene,
per il peccato, delirante. Allontanandosi da Dio, l’uomo giunge a con
siderare le creature in se stesse, indipendentemente dal loro Creatore,
78 Contro i pagani, 7.
79Ibid., 8.
80 Ibid.y 7. Si troverà una comparazione analoga in GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2.
57
perché crede che l’universo esista da se stesso. Ora, questo modo di
conoscere non è che immaginazione, illusione81, delirio: perché tutto
ciò che è, è opera di Dio e per Dio; ogni essere trae il suo senso, il suo
valore e la sua stessa realtà da Dio, principio e fine, alfa e omega di
ogni creatura. Ogni essere è per essenza relativo a Dio, e percepirlo al
di fuori di questa relazione, significa non conoscerlo così come egli è
realmente, ma al contrario così come egli non è. Il mondo che l’uomo
percepisce al di fuori di Dio non è che un fantasma, una finzione, il
prodotto di un certo tipo di delirio. Per questo sant’Atanasio scrive
a proposito di coloro che prendono in considerazione le opere senza
considerare Colui che le ha fatte: «Folli e ciechi! Come potrebbero as
solutamente conoscere un edificio, una nave, una lira, se non vi fosse
un carpentiere per costruire la nave, un architetto per costruire un edi
ficio, un artista per fabbricare la lira? Colui che pensasse così sarebbe
folle al di là di ogni follia; allo stesso modo, non mi sembra che ab
biano uno spirito sano coloro che non riconoscono Dio, che non ado
rano il Verbo, il Salvatore di tutti, Nostro Signore Gesù Cristo che per
mezzo del Padre ordina tutto, contiene tutto e provvede a tutto»82.
Avendo perduto il senso della relazione degli esseri con Dio, quin
di del loro carattere relativo, l’uomo ne fa inevitabilmente degli asso
luti, ed essi occupano allora nel suo spirito il posto del Dio che egli ha
negato83. Il culto delle creature rimpiazza così nell’uomo decaduto l’a
dorazione del Creatore. L’idolatria non consiste solo nelle forme reli
giose organizzate che essa spesso ha assunto, in cui alcune creature so
no esplicitamente definite come dèi, ma in ogni atteggiamento del
l’uomo di fronte a un essere in cui questo è preso come fine e si vede
conferire un senso ed un valore in se stesso, anziché questi gli siano ri
conosciuti in Dio; e anche in ogni attività, in ogni sforzo consacrato
a un essere preso in se stesso, anziché essere consacrati a Dio attra
verso di lui. Vi è atteggiamento idolatrico riguardo a un essere ogni
volta che questo smette di essere trasparente verso Dio, di rivelare Dio,
in altri termini, ogni volta che l’uomo smette di percepire le sue «ra
gioni» spirituali, di «leggervi» le energie divine presenti in lui e che
definiscono la sua vera natura. Questo essere allora nasconde Dio in
81 Cfr. G r e g o r io d i N issa, Vita à'Mosè, II, 203. San M acario d ’E g itto nota che «dopo
la trasgressione di Adamo, l’intelligenza è fissata e illusa in questo mondo» (Omelie [Coll. II],
XXIV, 1).
82 Contro i pagani, 47. Cfr. ANTONIO L’EREMITA: «Essi in seguito alla loro follia non cono
scevano Dio, non gli rendevano grazie come al loro Creatore» (Lettere, V, 3).
83 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 , 257B.
58
vece di manifestarlo, si chiude in qualche modo in sé invece di servi
re da piedistallo all’uomo per elevarsi fino al suo Creatore. È allora al
l’oggetto stesso, ridotto al nulla per la sua ignoranza, che l’uomo at
tribuisce gli onori che avrebbe dovuto, con la sua mediazione, ren
dere a Dio. San Paolo considera come una manifestazione di follia
l’atteggiamento degli uomini che agiscono così: «I loro ragionamenti
divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò. Ritenendosi sa
pienti, divennero sciocchi, e scambiarono la gloria di Dio incorrutti
bile con le sembianze di uomo corruttibile, di volatili, di quadrupe
di, di serpenti» (Rm 1,21-23). Sulla scia dell’Apostolo, i Padri sono
unanimi nel vedere nell’idolatria una forma di follia spirituale. Ad
esempio, sant’Atanasio scrive: «Gli uomini nella loro follia disprezza
rono il dono fatto loro, si allontanarono da Dio e sporcarono tal
mente la loro anima, che non solo essi dimenticarono l’idea di Dio, ma
essi si forgiarono altri dèi al suo posto. Essi si fecero degli idoli al
posto della verità, e preferirono il nulla al vero Dio, adorando la crea
tura al posto del Creatore»84. «Gli uomini, scrive ancora altrove, aven
do appreso ad immaginare il male che non esiste, si sono, nello stes
so modo, anche formati degli dèi che non esistono [...]. Nella loro fol
lia [...] dimenticando il pensiero e la conoscenza di Dio, non avendo
che una ragione accecata o piuttosto una sragione, essi si sono rap
presentati come divinità le cose apparenti, glorificando la creatura al
posto del Creatore [cfr. Rm 1,25] e divinizzando le opere, piuttosto
che colui che è la causa, il demiurgo e il Maestro, Dio»85. E più avan
ti annota ancora: «Mentre nulla sussiste al di fuori [del Verbo]: il
cielo e la terra e tutti gli esseri che essi contengono dipendono da
lui, tuttavia gli uomini, nella loro follia hanno respinto la conoscenza
e la devozione nei suoi riguardi, e hanno onorato ciò che non è al
posto di ciò che è, e in luogo di Dio, che è realmente, essi hanno di
vinizzato il nulla adorando la creatura al posto del Creatore, ed è qui
la follia»86.
84SullTncarnazione del Verbo, 11. Cfr. 15.
85 Contro ipagani, 8.
86Ibid., 47. Clemente d’Alessandria scrive allo stesso modo: «È solo la follia (mania), mi sem
bra, che riempie una vita consacrata di tale ardore per il culto della materia» (Protreptico, X, 99,
1). Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO: «Lasciando da parte il Creatore, [essi] hanno adorato il cielo
stesso^ questo avvenne a causa della loro imbecillità e della loro demenza» (Omelie sui demoni,
I, 6). E nel modo del tutto corrente che le forme idolatriche del paganesimo sono considerate
dai Padri come forme di follia. Vedi tra l’altro: Costituzioni apostoliche, V, 15,3. CLEMENTE D’A-
LESSANDRIA, Protreptico, X, 96,4; Storia dei monaci d'Egitto, Vita di Simeone il Vecchio, 2. Teo-
DORETO DI CIRO, Storia dei monaci di Siria, I, 4; VI, 4; Discorso sulla Provvidenza, II, 580A.
59
Adorando le creature al posto del Creatore, gli uomini hanno scam
biato la verità di Dio con la menzogna (cfr. Rm 1,25). Ignorando Dio
che èia Verità (cfr. Gv 1,9.17; 8,32; 14,17; 15,26; 16,13; E/4,21; lGv
5,6), l’uomo si priva di ogni possibilità di una conoscenza vera. Non
cogliendo più la realtà con il suo spirito nello Spirito, vede ogni cosa
attraverso il filtro deformante del peccato e delle passioni; egli acqui
sisce così, lo si è già detto, una falsa intelligenza; «i peccatori, scrive
Origene, non vedono con gli occhi buoni, ma con quelli della “filo
sofia [intelligenza della carne] ” (Col 2,8)»87, e per mezzo dei quali l’uo
mo credendo di vedere, è in realtà cieco (cfr. Is 6,9-10; Gv 9,39; 2Cor
4,4). L’uomo decaduto vive così in un mondo falso, irreale, creato per
lui, del quale ignora il vero significato degli esseri e non percepisce più
i veri rapporti che esistono tra loro. Questa confusione, peraltro, è ac
cresciuta dall’azione del diavolo, padre della menzogna (cfr. Gv 8,44),
che, come osserva san Giovanni Crisostomo, «turba così infelicemen
te il nostro spirito, e fa errare il nostro giudizio sul vero apprezzamento
delle cose»88. San Giovanni Crisostomo vede in tutto questo una
forma di follia, nei riguardi degli uomini peccatori: «Essi sono real
mente insensati [...], poiché non hanno mai imparato a conoscere la
vera natura delle cose»89.
L’uomo decaduto, lo si è detto, per la sua conoscenza divenuta car
nale, giudica queste cose solo secondo la loro apparenza sensibile, igno
rando ciò che esse sono per se stesse, nella loro essenza intelligibile.
Egli ha davanti alla sua intelligenza come un velo che gli impedisce di
cogliere ciò che è al di là dei fenomeni, cioè delle cose tali e quali es
se appaiono ai sensi; tale velo lo immerge costantemente nell’illusio
ne. «Il velo, nota san Massimo, è l’illusione prodotta dai sensi che
fissa l’attenzione dell’anima sulle apparenze superficiali degli oggetti
sensibili, e che sbarra il passaggio a quelle intelligibili»90. L’uomo, pren
dendo per vero essere ciò che gli appare, introduce la confusione più
totale nella sua percezione della realtà; egli scambia il falso per il vero
e il vero per il falso, il male per il bene e il bene per il male91. Egli con
sidera ciò che è meno reale (l’apparenza), come il più reale, e ciò che
è maggiormente reale (la realtà spirituale, intelligibile e divina) come
ciò che lo è di meno o anche come ciò che non lo è affatto. L’uomo
87 Omelie sui Numeri, XVII.
88 Consolazioni a Stagira, II, 2.
*9Ibid.
90Ambigua, 10, PG 91,1112B.
91 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, II, 3,73.
60
decaduto ha così una visione completamente rovesciata del reale;
egli conosce un mondo a rovescio: manifestazione evidente del suo de
lirio. «Essi sono più stupidi degli asini, scrive Giovanni Crisostomo,
poiché ritengono incerte alcune cose che sono più chiare di quelle che
vediamo con i nostri occhi»92. «Se non volete credere che ciò che è più
chiaro», egli aggiunge volendo rimettere i peccatori, ai quali si rivol
ge, sulla strada della conoscenza vera, «dovete credere piuttosto alle
cose invisibili che a quelle che vedete con i vostri occhi. Ciò che sem
bra un paradosso, è nondimeno una verità»93. Quanto a san Maca
rio, egli sottolinea il ruolo dell’azione demoniaca in questa confusio
ne e illusione: «A causa della trasgressione del comandamento, [l’ani
ma è] divenuta lo zimbello di tutte le potenze avverse. Infatti, esse
l’hanno fatta uscire dal suo buon senso, hanno intorpidito l’intelligenza
delle cose celesti al punto [...] che essa crede che ciò lo sia stato sin
dall’inizio»94.
Avendo perduto la conoscenza vera della realtà che possedeva
nello Spirito, e nondimeno avendo bisogno di conoscere, l’uomo de
caduto la sostituirà non con un’altra sola conoscenza, ma con cono
scenze di ogni sorta, corrispondenti alle molteplici apparenze nelle
quali egli ormai si muove. San Marco l’Eremita nota, così, che l’igno
ranza e l’oblio di Dio «ottenebrano l’anima di una orribile e instabile
curiosità»95. Ma le conoscenze che ne risultano sono parziali, instabi
li, diverse, ossia opposte, proprio come le realtà fenomeniche alle qua
li esse si applicano. L’uomo, in queste conoscenze sostitutive, è limi
tato a classificare le apparenze delle cose, non avendo queste appa
renze esse stesse alcuna obiettività, poiché sono definite attraverso
l’intelligenza decaduta e deformata del loro osservatore. La conoscenza
razionale che cerca di unificare la conoscenza, superando i rischi
della percezione sensibile, non può farlo, lo si è detto, se non artifi
cialmente, in virtù di convenzioni che essa si dà da se stessa come
base e che, dunque, le sono completamente relative96. Le diverse co
noscenze dell’uomo decaduto sono solo proiezioni illusorie della sua
conoscenza decaduta97e, laddove una obiettività o una verità sembra
92 Cfr. Commento a san Matteo, XIII, 5.
93Ibid.
94 Omelie (Coll. II), XLV, 5. Cfr. 1.
95A Nicola, 10.
96 Cfr. Archimandrita SOPHRONY, Starets Silouane, Paris et Sisteron 1973, p. 99. L’episte
mologia contemporanea riconosce, del resto, che la scienza non conosce la realtà tale quale es
sa è.
97Filosoficamente, è la concezione «idealista» della conoscenza che ha ragione, in quanto es-
61
essere raggiunta (come nella conoscenza scientifica), tale obiettività e
verità si riducono di fatto all’accordo provvisorio delle coscienze ope
ranti lo stesso tipo di proiezione e accordantesi in qualche modo nel
la loro comune decadenza. Tale proiezione può, peraltro, variare a se
conda dei valori ai quali si riferiscono queste coscienze e degli scopi
che esse perseguono. Le conoscenze scientifiche stesse non sono neu
tre, ma, come sottolinea san Gregorio Palamas (che in questo raggiunge
le riflessioni epistemologiche più moderne), sono relative «all’inten
zione di coloro che le usano», «appaiono secondo il pensiero di co
loro che le usano e prendono facilmente la forma che dà loro il pun
to di vista di quelli che le possiedono»98.
Questo è tanto più vero in quanto le conoscenze dell’uomo deca
duto si costituiscono non solo per colmare il vuoto dell’intelletto la
sciato dalla perdita della conoscenza spirituale, ma ancor più nel fine
di soddisfare bisogni molto spesso materiali, la maggior parte dei qua
li è definita dalle stesse passioni. «Quando la conoscenza segue il de
siderio della carne, scrive Isacco, prende su di essa la ricchezza, la
vanagloria, l’ornamento, il conforto del corpo, si attacca alla sapien
za razionale che si adatta al governo del mondo e non smette di in
ventare, rinnovare le tecniche e le scienze, sostiene tutto ciò che co
rona il corpo in questo mondo visibile»99.
Se queste diverse forme di conoscenza possono dare all’uomo l’il
lusione di conoscere veramente e possono colmare il vuoto che egli
prova, pertanto non gli sono di alcuna utilità fondamentale, perché
non gli servono affatto a realizzare il suo vero destino; esse non con
tribuiscono in alcun modo alla sua deificazione. La conoscenza car
nale, afferma sant’Isacco, «è chiamata conoscenza nuda, perché è spo
gliata di ogni preoccupazione per Dio e isterilisce l’intelligenza pri
vandola della ragione, fintanto che è dominata dal corpo. Essa non si
occupa che di questo mondo»100. Non dicendo nulla su Dio, non dice
nulla di essenziale sull’uomo né sugli esseri della creazione di cui es
sa ha l’incarico spirituale. «Questo modo di conoscere», afferma san
Simeone il Nuovo Teologo, «è in realtà l’ignoranza di tutto ciò che è
buono»101.
sa descrive, pur senza esserne cosciente, le condizioni di conoscenza dell’uomo decaduto. Solo
in Dio l’uomo può acquisire una conoscenza perfettamente adeguata al suo oggetto.
98 Triadi, 1,1, 6.
99Discorsi ascetici, 63.
m Ibid., 63.
101 Catechesi, XV, 20-21.
62
2. Patologia del desiderio e del godimento
a) La deviazione del desiderio e la perversione del godimento
L’uomo è stato creato per unirsi a Dio. La facoltà del desiderio [ap
petito, potenza o facoltà concupiscibile] (epithymia, epithymetikón,
epithymetike dynamis) è stata posta nella natura dell’uomo affinché
egli possa desiderare Dio, tendere ed elevarsi verso di lui, e unirsi a
lui102. E in ciò l’uso normale di questa facoltà, conforme alla natura di
questa105, e che contribuisce a costituire il suo stato di salute104. «L’oc
chio è stato creato per la luce, l’orecchio per i suoni, ogni cosa per il
suo fine, e il desiderio dell’anima per slanciarsi verso il Cristo», af
ferma san Nicola Cabasilas105. «Il Cristo, nostro Dio, è il fine di ogni
desiderio», afferma ugualmente san Simeone il Nuovo Teologo106. Unir
si a Dio è per l’uomo, conformemente alla finalità della sua natura stes
sa, dò che vi è di più desiderabile: «la pienezza del desiderabile, scri
ve san Basilio, è quella di divenire Dio»107.
Ad ogni desiderio è legato un piacere; dall’orientamento naturale
del suo desiderio di Dio, l’uomo riceve un intenso godimento spiri
tuale108. «Nell’organizzare la natura umana, ci insegna san Massimo,
Dio dotò il suo spirito di una potenza di piacere che lo rendeva ca
pace di godere ineffabilmente di lui»109. Tale «piacere {èdone) divino
102E importante sottolineare, nel quadro della nostra dimostrazione, che la maggior parte dei
Padri greci non riservano il termine epithumia ai desideri sensibili e non esitano ad utilizzarlo
per indicare il desiderio dell’uomo per Dio (oltre a Massimo il Confessore, vedi tra gli altri, T eo-
DORETO DI CIRO, Terapia delle malattie elleniche, V, 77). Non esitano neppure ad applicare il ter
mine èros all’amore dell’uomo per Dio (cfr. DIONIGI L’AREOPAGITA, Sui Nomi divini, IV, 12). Es
si usano ugualmente il termine èdone per indicare sia il godimento spirituale che il piacere sen
sibile: è in particolare il caso di Massimo il Confessore (vedi tra gli altri: Quindici capitoli, 14;
Questioni a Talassio, 1; 55; 58;). Vedi anche: ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 23. NlCETA Ste-
TATOS, Centurie, I, 68. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
103Cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 126. DIONIGI L’AREOPAGITA, Sui Nomi di
vini, IV, 16. MASSIMO IL C on fessore, Questioni a Talassio, Prologo; 49. ISAIA DI SCETE, Asceti-
con, II, 5. NlCETA S te ta to s, Centurie, 1 ,16.
104 N ic eta S te ta to s, Centurie, 1 ,15.
105 La vita in Cristo, II, 90.
106Catechesi, XX, 24-26.
107Sullo Spirito Santo, IX, 29.
108 Cfr. A tan asio d ’A lessan d ria, Contro i pagani, 2. M assimo i l C on fessore, Questioni a
Talassio, 55. H salmista dice: «Poni nel Signore la tua gioia» {Sai37[36],4). GREGORIO DI NlSSA
ricorda che Eden significa «godimento» (La creazione dell’uomo, XIX, PG 44,196D).
109 Questioni a Talassio, 61. Parlando della bontà del Verbo di Dio che s’incarna e restaura la
natura umana, san Macario d’Egitto scrive: è «come se essa ordinasse a[11’]anima di vivere nel
la sua divinità, di raggiungere la vita immortale, di godere il piacere incorruttibile e la gloria inef
fabile» {Capitoli parafrasati, 67).
63
e beato»110costituisce per l’uomo la gioia più alta, perché dalla sua par
tecipazione alla vita di Dio infinito, l’uomo trae un godimento infini
to - è quanto il Cristo chiama «la gioia piena» (Gv 15,11)111-, che egli
non potrebbe raggiungere in nessun’altro modo, perché ogni ogget
to al di fuori di Dio, essendo finito, non potrebbe portare che una gioia
parziale e limitata112. Per questo, così san Massimo annota: «Non vi è
che una sola felicità, la vita comune dell’anima con il Verbo»113; «l’u
nico piacere è l’accesso alle cose divine»114.
Adamo nel suo stato originale che, lo ricordiamo, costituisce per
tutta l’umanità lo stato normale, non desiderava null’altro che Dio
«orientasse verso di lui tutta la sua capacità d’amare»115 e che rice
vesse da lui ogni piacere, ogni gioia, ogni felicità. Dio era per l’uomo
l’unica fonte di godimento: «Egli trovava le sue delizie solo nel Si
gnore», afferma san Gregorio di Nissa116; non godeva affatto, in pa
radiso, di beni mescolati, precisa altrove, ma «il beneficio unico del
godimento concesso [all’uomo, era] il vero Bene stesso»117. In altri ter
mini, l’uomo, nel suo stato primordiale non conosceva alcun piacere
sensibile. «Il Verbo di Dio, che ha creato la natura umana, non ha isti
tuito con essa il piacere sensibile», fa notare san Massimo118.
II diavolo, geloso119del godimento spirituale al quale l’uomo era de
stinato, gli suggerì allora di allontanare da Dio il suo desiderio e di orien
tarlo in una direzione dalla quale Dio, mediante il comandamento
che gli aveva dato, lo aveva messo in guardia. «Il diavolo, spiega san
Massimo, con un inganno, ha convinto l’uomo di far passare il desi
derio del suo animo da ciò che era permesso a ciò che era proibito e di
volgersi verso la trasgressione del comando di Dio»120. L’uomo fu ten
tato dal Serpente di godere di altri piaceri a lui ancora sconosciuti ma
110GREGORIO DI N issa, Sulla verginità, V. Massimo il Confessore chiama ugualmente èdone
«la gioia dell’anima a proposito della virtù» (Questioni a Talassio, 58, scolio 22).
III Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, n, 92.
112Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 38.
113 Commento del Padre nostro, PG 90, 849CD.
114 Ibid., 901A. Vedi anche: EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, DI, 64; IV, 49; Trattato
pratico sulla vita monastica, 32. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, VI, 9,75,1. MACARIO D'E
GITTO, Capitoli parafrasati, 106.
115M assimo il C on fessore, Ambigua, 45, PG 9 1 ,1353C.
116Sulla verginità, XII, 4,8. Vedi anche: Discorso catechetico, 8; La creazione delluomo, XIX,
PG 44,197B; XX, PG 44,200C.
117La creazione dell’uomo, XIX, PG 44,197B.
118 Questioni a Talassio, 61.
119Questo elemento distintivo è spesso sottolineato dai Padri. Vedi per esempio: MASSIMO
IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, Prologo. GREGORIO DI NlSSA, Discorso catechetico, 6.
120Commento del Padre nostro, PG 90, 904C.
64
più immediatamente e facilmente accessibili121dei godimenti spiritua
li verso i quali la sua natura lo faceva tendere, ma ai quali egli ancora
non accedeva che parzialmente; il loro possesso perfetto non doveva
essere ottenuto che al termine della sua crescita spirituale. Questi pia
ceri, che il Maligno propose all’uomo, erano legati al desiderio di realtà
sensibili che l’uomo nel suo stato originale ignorava in quanto tali.
Adamo era destinato a godere delle stesse realtà sensibili (cfr. Gn
2,16)122, ma a gioirne spiritualmente, cioè in Dio, per mezzo delle lo
ro «ragioni» spirituali, dei loro lógoi. San Massimo ci insegna che Dio,
nel creare Adamo come «la creatura ultima, una specie di laboratorio
in cui tutto si concentra», lo ha introdotto «provvidenzialmente tra gli
esseri come legame naturale tra gli estremi» della creazione, donan
dogli la possibilità di possedere «naturalmente, nella sua situazione
mediana, ogni facoltà di unificazione grazie alla relazione delle sue par
ti con tutti gli estremi». Dio allora gli aveva dato come compito di «ren
dere manifesto il grande mistero del piano divino, nel condurre ar
moniosamente a buon fine l’unificazione reciproca degli estremi tra
gli esseri, dai più vicini ai più lontani, e dai minori ai più eccelsi, at
traverso una tensione la cui conclusione culminerà in Dio»123. Egli ave
va chiaramente come compito, per mezzo della conoscenza e della con
templazione dei lógoi delle creature e attraverso l’amore, di unificare
la creazione sensibile e di unire le sensibili e le intelligibili124.
Ma Adamo, facendo cattivo uso della sua libertà, si è allontanato da
questo compito che doveva alla fine unirlo a Dio e unire tutta la crea
zione in lui; egli ha così pervertito la sua natura; egli, afferma san Mas
simo, si è «messo in movimento contro la sua natura, di sua iniziativa
e follemente (anoetos), facendo un cattivo uso della facoltà naturale,
che gli era stata affidata nella sua costituzione in vista dell’unificazio
ne dei separati, per operare piuttosto la separazione degli uniti»125.
Adamo si è chiaramente messo a considerare e a desiderare le crea
ture e a volerne godere in esse stesse, e per lui stesso, egoisticamente,
cioè al di fuori di Dio, in altre parole e come dice san Massimo, a vo
lersi «impadronire delle cose di Dio senza Dio e prima di Dio e non
secondo Dio»126. Così, al desiderio e al piacere spirituali conformi al-
121 Cfr. A tan asio d ’A lessan dria, Contro i pagani, 3.
122Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), Xin, 1.
12>Ambigua, 41, PG 9 1,1305B. Cfr. 1305C.
124Cfr. Aid., 1305D-1308A.
125Ibid., 1308C.
126Ibid., 10,1156C.
65
la sua natura, egli ha sostituito un desiderio e un piacere carnale con
tro natura127. «Un piacere introdotto con l’inganno fu l’inizio della ca
duta», scrive san Gregorio di Nissa128. E san Cirillo di Scitopoli ag
giunge: «Alla bellezza intelligibile Adamo preferì ciò che era apparso
dilettevole ai suoi occhi carnali»129. Spiegando questo modo di proce
dere, san Massimo constata: «Il desiderio, attraverso la dolcezza del
piacere dei sensi, allontana lo spirito della percezione divina dagli in
telligibili che gli è connaturale»130.
Cessando di desiderare e di amare Dio, l’uomo viene preso da un
amore carnale per se stesso (che i Padri e in particolare san Massimo
chiamano filautia [phiìautta]) così come per la realtà sensibile, traen
do da se stesso ormai e da questa, principalmente attraverso i suoi sen
si e quindi il suo corpo, ogni godimento e ogni piacere131. «Gli uomi
ni, scrive sant’Atanasio, trascurando le realtà superiori e mostrando
si lenti ad afferrarle, cercheranno piuttosto quelle che sono a loro
più vicine. Ora, dò che è più vicino, sono il corpo e i sensi: così gli uo
mini allontanarono il loro spirito dagli intelligibili e si misero a con
siderare se stessi. Considerando se stessi, attaccandosi ai propri cor
pi e alle altre cose sensibili, ingannandosi, per così dire, nella loro cau
sa, giunsero a desiderare se stessi, preferendo il proprio bene alla
contemplazione delle realtà divine»132.
Questa deviazione del desiderio innato di Dio, questa conversione
della potenza del desiderio dell’uomo che l’allontana da Dio, verso il
quale era orientata naturalmente, per volgerla contro natura o «con
tro ragione»133verso la realtà sensibile considerata in se stessa, costi
127 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talassio, 61.
128Sulla verginità, XII, 4.
129 Vita di san Saba, 3.
130Commento del Padre nostro, PG 90, 888C. Vedi anche SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Ca
techesi, XV, 18-19.
131 Occorre sottolineare, con Giovanni Damasceno, che il piacere sensibile o carnale non è
solo corporeo: «Dei piaceri, alcuni riguardano l’anima, altri il corpo. Dei primi, vi sono quelli
che interessano solo l’anima stessa [...]. I piaceri del corpo sono detti tali, ma in realtà, lo sono
soltanto per la congiunzione anima-corpo, il che vale per il nutrimento, la sessualità, ecc., e non
si trova piacere che sia solamente fisico» (Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 13). MASSI
MO IL CONFESSORE spiega così il piacere sensibile e la sua relazione al desiderio sensibile: «H pia
cere [sensibile] non è altro che una sorta di sensazione formata nel senso da un oggetto sensi
bile, o, in altri termini, un modo di attività sensitiva corrispondente a un desiderio irrazionale,
e il senso messo in movimento nella linea del desiderio prodotto dal piacere quando percepi
sce il sensibile» (Ambigua, 10, PG 9 1 ,1112C).
132 Contro i pagani, 3.
133 Cfr. G iovan ni D am asceno, Discorso utile all’anima.
66
tuisce una perversione, uno snaturamento134, o una malattia di que
sta facoltà, che colpiscono, lo vedremo, tutta la natura dell'uomo.
Infatti, ricorda san Massimo, «il male è la mancanza nel dirigere ver
so il fine l’azione delle facoltà innate. Non è altro che questo. O an
cora: il male è il movimento irrazionale delle facoltà naturali verso
un’altra cosa diversa dal fine, secondo un giudizio errato. Io chiamo
fine la Causa degli esseri, verso il quale ogni cosa si porta per un de
siderio naturale»135. Correlativamente, il piacere sensibile appare co
me «l’energia dell’anima contro natura», piacere che, afferma san Mas
simo, «per formarsi non può avere altra origine se non la rinuncia del
l’anima, quando questa si scarica delle cose secondo la natura»136. E
per questo che i Padri spesso parlano della «malattia del piacere» e
considerano l’amore del piacere (philédonia) come una delle prime e
più importanti malattie spirituali dell’uomo decaduto137.
Ci si può domandare ora qual è la causa prima della caduta del
l’uomo: se è perché l’uomo orientando il proprio desiderio verso la
realtà sensibile ha ignorato Dio, o se è perché dopo aver ignorato Dio
si è rivolto verso questa. I Padri tendono a privilegiare la prima solu
zione, sottolineando l’immaturità e lo stato infantile dell’uomo nel Pa
radiso, che ha ceduto alla suggestione del Maligno di appropriarsi «be
ni» più facilmente e più immediatamente accessibili a lui. Abbiamo
appena visto sant’Atanasio sottolinearlo. San Massimo adotta una po
sizione simile: «Il Maligno, coprendo la sua gelosia con una maschera
di benevolenza, e convincendo fraudolentemente l’uomo a rivolgere
ü suo desiderio verso altra cosa che non la Causa degli esseri, è riu
scito a fabbricare l’ignoranza della Causa»138.
Ma è ugualmente possibile insistere sull’altro punto di vista. Vi è,
infatti, una interazione tra le due cause, una dialettica che san Massi
mo ricorda in quest’altro passo che descrive il processo della caduta,
in cui vediamo che il desiderio del sensibile e del suo godimento da
un lato, e l’ignoranza di Dio dall’altro, ma ugualmente questo deside-
68
I desideri sensibili, che appaiono nell’uomo decaduto e peccatore,
nella loro natura profonda non sono altro che questo stesso deside
rio che, distolto dal suo normale fine divino, si è orientato contro na
tura e reinvestito nella realtà sensibile dividendosi nella sua moltepli
cità.
Tutti i desideri dell’uomo decaduto appaiono così costituiti dalla
decadenza e dal reinvestimento patologico del desiderio naturale e ori
ginario di Dio, attraverso il suo allontanamento contro natura, attra
verso la sua perversione; essi ne sono dei surrogati, così il piacere sen
sibile che l’uomo ottiene per mezzo di essi non è che un simulacro e
una contraffazione del godimento spirituale e del vero bene143. Molti
insegnamenti patristici documentano questa concezione144. La rela
zione alla carne, scrive san Massimo, «divide l’amore che dobbiamo a
Dio solo»145. Origene, indicando le due direzioni divergenti che può
prendere l’unica facoltà erotica che è nell’uomo, scrive più precisa-
mente: «Uno dei movimenti dell’anima è l’amore. Noi ne usiamo per
amare bene quando amiamo la sapienza e la verità; ma quando il no
stro amore si abbassa a cose meno buone, è la carne e il sangue che
amiamo»146. Abba Isaia, in maniera più precisa, afferma: «Vi è nello
spirito il desiderio conforme alla natura, fonte di carità e a causa del
la quale Daniele è chiamato “uomo di desideri” (cfr. Dn 9,23). Que
sto desiderio, il nemico lo ha trasformato in desiderio vergognoso, che
ci porta a bramare tutto ciò che è impuro»147. San Gregorio di Nissa
si mostra del tutto esplicito quando ricorda coloro che «dopo aver ca
povolto ogni loro potenza di desiderio e deviato lo slancio148del loro
pensiero dalle realtà divine verso gli oggetti bassi e materiali, apriro
no alle passioni tutto il campo del loro interno, al punto da cessare
ogni movimento verso le realtà dell’alto, e a veder disseccare com
pletamente il desiderio [di Dio, delle realtà spirituali], il cui corso
rovesciato si è diretto verso le passioni»149. San Gregorio di Nissa al
trove parla anche dell’uomo che, «rubando l’amore dovuto a Dio so
143«Né l’amore né la gioia possono essere suscitati dai beni di questo mondo, i quali non so
no altro che contraffazioni, ciò che sembra buono è solo un simulacro del bene», scrive Nicola
Cabasilas {La vita in Cristo, II, 91).
144 In particolare la si troverà in GREGORIO DI NlSSA {Sulla verginità, V; VI, 2; IX, 1; XI, 3;
XVin, 3) e in MASSIMO IL CONFESSORE {Centurie sulla carità, III, 71; Questioni a Talassio, 49;
Commento del Padre nostro, PG 90, 896C).
145Ambigua, 10, PG 91,1144B.
146 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 1. Vedi anche Omelie sulla Genesi, 1,17.
147Asceticon, II, 5.
148 Orme, che possiamo anche tradurre con «impulso» o «desiderio».
149Sulla verginità, IX, 1.
69
lo, lo sperpera in passioni umane»150. Egli scrive ancora: «Superando
come bassi ed effimeri tutti gli oggetti che attirano i desideri degli uo
mini, che sono ritenuti belli e dunque ritenuti degni di zelo e di fa
vore, non dobbiamo sperperare in alcuno di essi la nostra potenza di
desiderio»151.
Una caratteristica essenziale della facoltà di desiderio, che testimo
nia che il desiderio dell’uomo è fondamentalmente unico, è quella che
saprà dividersi tra Dio e la realtà sensibile. «Uno stesso cuore, scrive
san Giovanni Crisostomo, non può bastare a più passioni. Una pas
sione scaccia l’altra, ed essendo divisa, diviene più debole: la passione
dominante attrae tutto a sé»152. A sua volta, Isacco il Siro annota: «Nes
suno può possedere insieme l’amore di Dio e il desiderio del mon
do»153. «La nostra potenza di desiderio, afferma più precisamente san
Gregorio di Nissa, non è di tale natura che possa nello stesso tempo
servire le voluttà corporee e il matrimonio spirituale»154. «L’occhio, in
fatti, egli spiega, non ha la capacità di vedere simultaneamente due co
se, a meno di applicarsi di volta in volta e separatamente a ciascuno
degli oggetti visibili; neanche la lingua potrà essere al servizio di idio
mi diversi, pronunciando nello stesso tempo parole ebraiche e paro
le greche; l’udito non ascolterà simultaneamente un racconto di avve
nimenti e un insegnamento didattico»155. È opportuno qui ricordare
l’insegnamento di san Paolo stesso: «La carne infatti ha desideri con
tro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poiché questi
due elementi sono contrapposti vicendevolmente, cosicché voi non fa
te ciò che vorreste» (Gal5,17). Possiamo così applicare a questo con
testo la parola del Cristo: «Nessuno può servire a due padroni; poiché
od odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e tra
scurerà l’altro» (Mi 6,24; Le 16,13).
Così, nell’investire il suo desiderio in un campo, l’uomo per questo
fatto stesso lo allontana automaticamente dall’altro. «La cura dell’uno
trascina necessariamente la separazione dall’altro», constata san Gre
gorio di Nissa156. Perciò, più l’uomo desidera e ama gli oggetti sensi
bili, meno desidera e ama Dio. «Da cosa deriva che il nostro amore
lso Ibid., 2.
151Ibid., XI, 3.
152 Commento a san Giovanni, II, 5.
153Discorsi ascetici, 4. Cfr. 44.
154Sulla verginità, XX, 3.
155Ibid., 2.
156Ibid.
70
per Gesù Cristo è così debole, si chiede san Giovanni Crisostomo, se
non dal fatto che noi esauriamo tutta la forza della nostra anima in va
ne passioni?»157. Colui che non desidera affatto Dio, necessariamente
desidera gli esseri sensibili e ama il mondo158: «Colui che non sa cam
minare sulla via spirituale [...] concentra tutti i suoi sforzi sulla carne»,
osserva san Massimo159. E san Gregorio Palamas constata che l’uomo
che non ama Dio con tutta la sua anima e con tutto il suo cuore «vol
teggia attraverso questo mondo ed esaurisce in favore di questo tutto
o quasi tutto l’amore di cui la sua anima è capace»160. Al contrario, co
lui che desidera e ama Dio veramente non saprà desiderare nessun og
getto sensibile né provare desideri passionali, perché egli investe in
Dio e nelle realtà spirituali tutta la potenza del suo desiderio. «Cam
minate sotto l’influsso dello Spirito e allora, non eseguirete le bramo
sie della carne» insegna l’apostolo san Paolo (Gal5,16), e san Diado
co di Foticea domanda: «In colui che si nutre dell’amore divino,
quale desiderio dei beni di questo mondo rimarrà?»161. «In coloro che
hanno elevato il loro spirito verso Dio ed esaltato la loro anima attra
verso la passione di Dio, [la carne] non possiede più desideri contra
ri allo spirito», afferma nello stesso senso san Gregorio Palamas162. San
Simeone il Nuovo Teologo, da parte sua, scrive: «L’anima unita a
Dio per mezzo dell’amore non potrà essere trascinata dai piaceri e da
gli appetiti del corpo, né verso alcun altro desiderio per alcunché di
visibile e anche d’invisibile, sia oggetto, sia passione, perché il dolce
amore di Dio tiene legato lo slancio del suo cuore, o per meglio dire,
ogni inclinazione della sua volontà. E questa, una volta unita al suo
Creatore, come dunque può essa bruciare di febbre per le cose del cor
po o realizzare, per poco che sia, i propri desideri? In nessun modo»163.
Il fatto che il desiderio, sviato da uno dei due campi (spirituale o
sensibile/carnale) in cui è investito, ora si trova necessariamente rein
vestito nel campo opposto, si spiega con il carattere mobile dell’ani
ma umana, con il fatto che l’uomo non può smettere di desiderare e
157 Commento a san Matteo, IV, 9.
158 Noi qui intendiamo il termine «mondo» nell’accezione spirituale tradizionale, secondo
cui esso indica la carne, le passioni.
159 Centurie sulla carità, IV, 65.
160 Triadi, II, 1,18.
161 Cento capitoli gnostici, 90.
162 Triadi, 1,2, 9.
163 Catechesi, XXV, 109-121. Cfr. IH, 175.
71
che dunque, se egli ritira il suo desiderio dall’oggetto sul quale era por
tato fino ad allora, prova immediatamente il bisogno di dargliene un
altro164. San Niceta Stetatos spiega: «Poiché l’anima per natura è mo
bile, è soggetta al cambiamento; se trascura l’assiduita alle cose divi
ne, essa cade allora nelle preoccupazioni terrene»165. È lo stesso ar
gomento che utilizza sant’Atanasio quando descrive la caduta origi
nale dell’uomo: «L’anima, egli scrive, è mobile per sua natura, e anche
se essa è distolta dal bene, non smette di essere in movimento. Essa,
dunque, si muove ma non più verso la virtù né per vedere Dio: vol
gendo il suo pensiero a ciò che non è, trasforma la potenza che è in es
sa e se ne serve per volgersi verso i desideri che ha immaginato, poi
ché essa è stata creata indipendente. Può essere incline verso il bene,
ma pure si allontana dal bene, e, allontanandosi dal bene, pensa a
cose del tutto opposte, perché essa non può assolutamente smettere
di essere in movimento, essendo per natura, come ho appena detto,
molto mobile»166.
Quando nel capitolo seguente avremo esaminato le diverse pas
sioni, vedremo che vi è un’economia del desiderio sul piano verticale
appena ricordato. Vedremo, altresì, che tale economia fa sì che il de
siderio si investa nelle realtà spirituali o nelle realtà sensibili, doven
dosi allontanare dalle une quando prende le altre per oggetto, anche
sul piano orizzontale, tra i diversi oggetti di passioni: investendosi in
una o più tra di esse ci si distoglierà pertanto dalle altre.
3. Patologia dell’aggressività
Accanto alla potenza di desiderio, o concupiscibile, prende posto
nell’anima umana la potenza, o facoltà, irascibile (thymós), Questa fa
coltà appartiene alla natura stessa dell’uomo; essa è una delle com
ponenti dell’anima umana fin dalla sua creazione.
a) La prima funzione dell’aggressività nell’uomo nel suo stato di s
lute (l’Adamo originale, l’uomo restaurato in Cristo), è quella di op
porsi a tutto ciò che può allontanarlo da Dio e dalla vita di deifica
zione alla quale Dio lo ha destinato per natura. Questa facoltà, dico
no i Padri, è stata messa da Dio nell’anima dell’uomo per permettergli
357Discorsi ascetici, 1. Q uesto punto sarà esaminato dettagliatamente nella VI parte, capito
lo 3 ,5 .
358 Capitoli, 3.
359 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 33.
360Ibid., 65.
361 Cfr. G re g o rio Palam as, Triadi, 1,2 ,2 3 .
362 Lettere, E, 4.
363 Cfr. E lia E cd ico, Capitoli gnostici, 12. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 60.
364 C a llis to II, Capitoli, 3.
365Cfr. D iad oco di F oticea, Cento capitoli gnostici, 56. B asilio di Cesarea, Regole lunghe, 6.
366Cfr. ISACCO IL SIRO, Discorsi ascetici, 8 e 10. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di
essere giustificati per le loro opere, 37.
101
la la grandezza di Dio». Egli ha una «memoria legata al genere di vi
ta che conduce [...]; non pensa alle cose di questo mondo, non se ne
ricorda»367. «Quando la memoria di Dio ha fatto dell'anima il suo
pascolo, essa cancella ogni altro ricordo», continua a dire ancora sant’I-
sacco in sintesi368.
La memoria dell’uomo, essendo totalmente occupata nel ricordo di
Dio, è, nello stato originario e normale della natura umana interamente
unificata, semplice e omogenea369. Tutti i pensieri dell’uomo vi si con
centrano verso dò che costituisce per il suo spirito l’unico oggetto d’at
tenzione. Nel ricordo di Dio, osserva san Giovanni Cassiano, l’uomo
«fìssa tutta la sua attenzione verso un fine unico verso il quale [egli]
fa attivamente convergere tutti i pensieri che si levano [...] nel suo spi
rito»370. La memoria appare allora stabile e immobile371, e conosce la
calma372.
Essendo la memoria totalmente occupata dal ricordo di Dio e quin
di «spogliata di ogni forma e di ogni figura», «il cuore è puro»373.
Grazie alla memoria di Dio, l’uomo si preserva da pensieri estranei
che gli suggerisce il Maligno374. Essa esclude ogni pensiero cattivo375
e non consente che alcuna disposizione al male si manifesti376. Essa co
stituisce un’arma contro i demoni377, permettendo all’uomo non solo
di non essere raggiunto dai loro attacchi, ma anche di dominarli e di
allontanarli378.
Mentre la memoria così utilizzata secondo la sua natura è in buona
salute, per mezzo del peccato invece essa agisce contro natura e si am
mala379. La sua malattia consiste, come per le facoltà precedentemen
te studiate, in una perversione, più precisamente in una inversione del
la sua attività: mentre nel normale stato della natura umana essa serve
367 Discorsi ascetici, 85.
368 Ibid.y 73.
369Cfr. G re g o rio i l Sinaita, Capitoli, 60-61.
370 Conferenze, XXIV, 6.
371 Cfr. G re g o rio i l Sematta, Capitoli, 61.
372 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 8.
373 M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull'economia, n, 82. Cfr. Simeone il
NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 32.
374 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), LEI, 16.
375 Cfr. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 5; 97.
376Ibid., 3.
377 Ibid., 33.
378Ibid., 81.
379 Sant’EsiCHIO DI B atos (Capitoli sulla vigilanza, 32) e san GREGORIO IL SlNATTA {Capito
li, 61), parlano esplicitamente della malattia della memoria.
102
esclusivamente, in conformità alla finalità della propria natura, al ri
cordo di Dio e del Bene, essendo per ciò stesso dimentica di ogni realtà
sensibile e di ogni male, a causa del peccato diviene al contrario, con
tro la propria natura, oblio di Dio e del Bene, e ricordo del male e del
le realtà sensibili580.
Questa malattia della memoria colpisce naturalmente lo spirito che
è suo organo: nella misura in cui esso ha dimenticato Dio, si ritrova
alienato in un’attività che gli è estranea e conosce l’asfissia e la morte
spirituali. E così che sant’Isacco scrive: «Ciò che accade al pesce quan
do è fuori dell’acqua così accade anche allo spirito quando è fuori del
la memoria di Dio e si disperde nella memoria del mondo»581. Tutte le
facoltà che ne dipendono direttamente subiscono similmente gli ef
fetti patologici della malattia della memoria. Per questo san Massimo
considera che l’oblio di Dio e del bene è, con l’ignoranza, la princi
pale passione/malattia della parte razionale dell’anima582.
L’oblio di Dio gioca nella caduta dell’uomo, assieme all’ignoranza
di Dio con la quale esso va di pari passo, un ruolo centrale. Per que
sto san Gregorio Palamas vede nell’abbandono della «memoria e del
la contemplazione di Dio» l’essenza del peccato ancestrale585. E san
Marco l’Eremita nota: «La scrittura dice: “Inferi e abisso sono davanti
al Signore” (Pro 15,11). Essa vuole parlare dell’ignoranza del cuore e
dell’oblio. È l’ignoranza che è l’inferno, e l’oblio la perdizione584, e tut
te e due uccidono l’uomo spiritualmente585. San Marco l’Eremita, e
sulla sua scia san Giovanni Damasceno, considerano, già lo abbiamo
messo in evidenza, che l’oblio (lethe) è, con l’ignoranza (àgnoia) e la
negligenza spirituale (rhathymia) uno dei «tre giganti del diavolo», dai
quali procedono tutte le passioni e tutti i mali che colpiscono l’uomo
decaduto586. San Marco l’Eremita descrive così queste tre malattie spi
rituali fondamentali e indissociabili, le loro relazioni e i loro effetti:
«Sono questi tre giganti estranei, potenti e forti che tu devi conside
rare; su di essi poggia tutta la potenza del nostro temibile nemico spi
rituale [...]. Quelli che consideriamo come i potenti giganti del Mal
380 Questa duplice polarità della memoria che si esercita «secondo natura» o «contro natu
ra» è ricordata proprio da sant’ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 65.
381 Discorsi ascetici, 43.
382 Cfr. Centurie sulla carità, I, 68. Cfr. anche, Questioni a Talassio, Prologo: «L’oblio dei
beni della natura è il vizio dell’anima dotata d’intelligenza».
383 Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 46. Cfr. 50.
384 La legge spirituale, 61-62.
385 Ibid., 62.
386 Cfr. M arco l ’Erem ita, A Nicola, 10-13. G iovanni D am asceno, Discorso utile aWanima.
103
vagio sono l’ignoranza, la madre di tutti i mali, l’oblio, sua sorella, suo
socio e suo aiuto, la negligenza, che tesse nell’anima un abito e un
velo tenebroso di nuvole nere; essa consolida e fortifica le altre due,
fornisce loro consistenza introducendo il male allo stato endemico e
radicandolo nell’anima particolarmente noncurante. Il resto delle pas
sioni cresce e si fortifica grazie alla negligenza, all’oblio e all’ignoran
za. Esse si sostengono mutuamente e non possono stare le une senza
le altre. La potenza delle forze nemiche si manifesta attraverso di es
se, come il vigore dei principi del male; attraverso di esse tutta l’ar
mata degli spiriti di malizia s’insinua, si afferma e può realizzare i pro
pri disegni»387.
Abbiamo visto che è difficile determinare nel processo della cadu
ta ciò che è primario: se è la seduzione del piacere sensibile che tra
scina l’uomo ad ignorare e a dimenticare Dio, o se al contrario è l’i
gnoranza e l’oblio di Dio che lo porta a rivolgersi verso la realtà sen
sibile. Vi è, lo abbiamo sottolineato, una dialettica di questi due
atteggiamenti, che giustifica che si metta avanti ora l’uno, ora l’altro.
Ad esempio, san Diadoco di Foticea privilegia la prima soluzione:
sedotti dal piacere sensibile, Adamo ed Èva dimenticano Dio. «Che la
vista, il gusto e tutti gli altri sensi, quando ne usiamo fuori misura, dis
sipino la memoria del cuore, la prima Èva ce lo insegna: infatti, fin
tanto che ella non ebbe guardato con piacere l’albero proibito, si ri
cordava coscenziosamente del precetto divino. Questo perché ella era
ancora come al riparo sotto le ali dell’amore divino [...]. Ma quando,
con piacere, ella ebbe visto l’albero, quando lo ebbe toccato con ar
dente desiderio, e poi ebbe gustato il suo frutto con intenso piacere
[...], ella diede tutto il suo desiderio al godimento del presente, coin
volgendo Adamo nella sua colpa per la dolce apparenza del frutto.
D’allora in poi, lo spirito umano non potè più che con pena ricor
darsi di Dio e dei suoi comandamenti»388. Altri Padri propongono il
processo inverso. Un apoftegma riferisce: «Gli Anziani dicevano: “Le
potenze di Satana che precedono ogni colpa sono triplici: l’oblio, la
negligenza, e il desiderio. Infatti, ogni volta che sopraggiunge l’oblio,
questo genera la negligenza, dalla negligenza procede il desiderio, e
il desiderio fa cadere l’uomo»389. Sant’Esichio di Batos dice allo stes
so modo: «Dall’oblio noi cadiamo nella negligenza, e dalla negligenza
™A Nicola, 12. C£r. 13.
388 Cento capitoli gnostici, 56.
389Apoftegmi, N 273.
104
nei [...] desideri fuori posto»390. E, a sua volta, san Macario: «Lo spi
rito che rifiuta il ricordo di Dio soccombe sia alla collera, sia alla con
cupiscenza»391. San Marco l’Eremita è molto più esplicito a questo
riguardo quando scrive in modo particolare: «Tutti coloro che di
menticano Dio divengono voluttuosi»392.
Avendo dimenticato Dio, la memoria si divide e si disperde, e vie
ne invasa e occupata da molteplici pensieri relativi alle cose del mon
do sensibile verso il quale l’uomo si è volto. «Il principio e la causa dei
pensieri, scrive san Gregorio il Sinaita, è, in seguito alla trasgressione,
l’esplosione della memoria semplice e omogenea. Nel divenire com
posta e diversa da semplice e omogenea qual era, ella ha perduto il ri
cordo di Dio e ha corrotto le sue potenze»393. Questa malattia della
memoria ha evidentemente delle ripercussioni su tutte le facoltà del
l’anima. Lo spirito, precedentemente occupato dal solo pensiero di
Dio, ora si trova incessantemente attraversato dal flusso dei ricordi
mondani che abbondano sempre più.
La memoria diviene, infatti, per l’uomo, insieme all’immaginazione,
la pricipale via attraverso la quale i pensieri estranei penetrano nel
suo cuore e occupano il suo spirito, una delle principali fonti «dei pen
sieri che [lo] alienano»394. E dalla memoria che l’uomo riceve la mag
gior parte delle rappresentazioni che costituiscono per lui altrettante
suggestioni/tentazioni. E soprattutto essa che fornisce al suo spirito
«pensieri semplici» che richiamano il suo attaccamento passionale395.
San Massimo insegna: «Tre vie danno accesso nello spirito ai pensieri
passionali: la sensazione, la costituzione fìsica, la memoria [...]. La me
moria, quando fa rinascere il ricordo degli oggetti che ci appassiona
no, suggerisce parimenti allo spirito pensieri passionali»396. Ma spesso
la memoria fornisce direttamente pensieri passionali397, come sottoli
nea san Talassio che vede in questa facoltà la principale fonte di quel
li, e i più temibili tra loro: «Vi sono tre cose attraverso cui tu ricevi i
pensieri passionali: i sensi, la memoria e la costituzione del corpo. I pen
sieri più spiacevoli sono quelli che provengono dalla memoria»398. La
390 Capitoli sulla vigilanza, 32.
391 Omelie (Coll. II), LIV, 10.
392Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 122.
393 Capitoli, 60.
394 Cfr. Isa cco i l Siro, Discorsi ascetici, 33.
395 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, 1, 84, HI, 42.
396Centurie sulla carità, II, 74.
397 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, n, 84.
398 Centurie, 1,46.
105
memoria produce particolarmente tali pensieri perché essa conserva i
ricordi delle colpe precedenti e i segni delle passioni precedentemen
te stabilite399, e soprattutto quelli del piacere che era a loro legato400, il
che dà alle sue rappresentazioni un forte potere di seduzione401. Allo
ra spesso la memoria è attivata ed eccitata dai demoni che cercano in
particolare di ricondurla a quei ricordi402.
Per tutti questi motivi, la memoria diviene nell’uomo decaduto una
delle cause principali per mezzo delle quali le passioni sono suscitate
e trattenute403. Ecco perché sant’Isacco vede in essa la sede delle pas
sioni, il luogo in cui possiamo trovarle tutte404.
E così che il «ricordo del male (mnemè toü kakoü)» diviene nel
l’uomo decaduto una abituale disposizione (mi)405. Il ricordo del ma
le si sostituisce, in gradi diversi, al ricordo del bene, l’unico, all’origi
ne, che occupava la memoria; per il fatto di non potervisi sostituire
completamente, gli lascia un posto più o meno ridotto.
Tutto ciò ha, in ogni caso, come effetto quello d’introdurre nella
memoria un’altra divisione che essa ignorava in origine, quella di scin
derla in due parti, come dice san Diadoco di Foticea: «Dopo che uno
scivolamento del nostro spirito lo ha messo in uno stato di doppia
scienza, è obbligato allora, anche se egli non vuole, ad avere nello stes
so istante pensieri buoni e cattivi [...]. A misura, infatti, che egli si af
fretta a concepire il bene, immediatamente si ricorda del male, per
ché, in seguito alla disobbedienza di Adamo, il ricordo dell’uomo si
viene a trovare scisso in un duplice pensiero»406.
Ricordo del bene e ricordo del male non si avvicinano solamente,
essi si mescolano, contribuendo ad accrescere la confusione che la me
moria e l’intelligenza ricevono già dai molteplici e diversi pensieri che
li investono407.
399 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 33. Evagrio Pontico osserva: «Se abbiamo dei ri
cordi passionali di una cosa, è perché ne abbiamo accolto prima gli oggetti con passione e, in
versamente, di tutti gli oggetti che accogliamo con passione avremo anche dei ricordi passio
nali» (Trattato pratico sulla vita monastica, 34).
400 Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 93. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, II, 19.
401 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 10.
402 Cfr. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 33. M arco l’E remita, A Nicola, 10. E vagrio P o n -
TICO, La preghiera, 10; 44-46.
403 Cfr. TALASSIO, Centurie, III, 32; IV, 16. Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca
rità, II, 85. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici, 33.
404 Cfr. Discorsi ascetici, 8.
405 Cfr. DlADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 3; 5; 83; Discorso per l'Ascensione, 6.
406 Cento capitoli gnostici, 88.
407 Sulla confusione della memoria, vedi ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 85.
106
Anche se l’uomo decaduto è, come afferma sant’Esichio di Batos,
«coperto da un abisso d’oblio»408, il ricordo di Dio e del bene, dopo
la colpa di Adamo non è reso impossibile, ma diviene più difficile.
«D’allora in avanti, scrive san Diadoco di Foticea, lo spirito umano
non può se non con pena ricordarsi di Dio e dei suoi comandamen
ti»409. «La disobbedienza, scrive allo stesso modo san Gregorio il Si-
naita, ha falsato i rapporti della memoria semplice con il bene; essa ha
corrotto le sue potenze e indebolito la sua attrazione naturale verso la
virtù»410. Infatti, come abbiamo già visto, lo spirito dell’uomo è inve
stito e occupato da una molteplicità di ricordi di oggetti di questo mon
do e di pensieri, passionali o meno, ma in ogni caso estranei a Dio. Ta
li ricordi arrivano allo spirito dell’uomo a motivo del suo attaccamento
a questo mondo, ma anche in ragione dell’azione dei demoni che cer
cano, particolarmente, attraverso questo mezzo, di tenerlo lontano da
Dio411. In ogni caso, in realtà, questi ricordi mondani escludono il ri
cordo di Dio. Il principio di economia messo in evidenza a proposi
to delle facoltà precedentemente studiate vale anche per la memoria:
più essa si ricorda di Dio meno si ricorda di questo mondo; inversa
mente, più essa si ricorda di questo mondo, meno si ricorda di Dio.
6. Patologia ddl’immagmazione
L’immaginazione (phantasia) è una facoltà di conoscenza dell’uo
mo412, una delle più elementari413.
La sua funzione naturale è quella di permettere all’uomo di rap
presentarsi le cose sensibili in quanto tali414. È, dunque, direttamente
408 Capitoli sulla vigilanza, 116.
409 Cento capitoli gnostici, 56.
410 Capitoli, 61.
411 Quest’azione si rivela chiaramente all’uomo che cerca nella preghiera di ritrovare Dio, co
me sottolinea in particolare Evagrio: «Il demonio, egli scrive, è terribilmente geloso dell’uomo
che prega e impiega tutti i mezzi per far fallire il suo scopo. Così non smette di ravvivare attra
verso la memoria il pensiero degli oggetti» {La preghiera, 46. Cfr. 44; 45; 68). Altrove, egli spie
ga più a lungo: «Quando i demoni ti vedono pieno di ardore per la vera preghiera, ti suggeri
scono il pensiero di certi oggetti che essi fanno apparire come necessari; e poi ben presto so
vreccitano il ricordo che vi si ricollega, spingendo l’intelligenza alla loro ricerca; poi, visto che
questa non li trova, si rattrista molto e si dispiace. Allora, al momento della preghiera, i demo
ni le ricordano gli oggetti delle sue ricerche e dei suoi ricordi, affinché l’intelligenza, fiaccata
da queste cose familiari, non raggiunga la preghiera fruttuosa» [tbid., 10).
412 Cfr. N ic eta S te ta to s, Lanima, 37.
413 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, n, 3 ,5 9 .
414 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 69.
107
legata alla sensazione415 e al sensibile416. Essa trasforma in immagini
le sensazioni e consente all’uomo di avere, sotto forma di immagine,
una rappresentazione di ciò che egli percepisce417. Gli permette al
tresì, insieme alla memoria, di rappresentarsi i ricordi che sussistono
di quanto egli ha percepito418.
Oltre a essere la facoltà di trasformare delle percezioni in immagi
ni corrispondenti e di riprodurle quando la memoria se ne ricorda,
l’immaginazione è altresì la capacità di produrre, associando più im
magini prese nella totalità o in parte, nuove immagini.
L’immaginazione può, così, assumere la triplice forma di un’imma
ginazione produttrice, di una immaginazione riproduttrice, e di una
immaginazione creatrice419, fondandosi ciascuna sulla precedente. Sot
to le sue due ultime forme, in condizioni particolari del sonno, essa
produce i sogni420.
Nella sua condizione primordiale, l’immaginazione dell’uomo era
esclusivamente legata alla sua rappresentazione delle creature sensibili
esistenti. Facoltà indispensabile nel quadro delle necessarie relazioni
con le creature, tuttavia, l’immaginazione non costituiva un ostacolo
alla relazione dell’uomo con Dio e non lo distoglieva da lui421. Difatti
l’uomo, essendo allora impassibile, nello stato in cui era stato creato,
ignorava «la cattiva immaginazione» che «si oppone [...] all’opera sem
plice e retta dello spirito»422: le immagini da lui prodotte rimanevano
«semplici», cioè, non erano legate ad alcuna passione423, sia per su
scitarla424, sia per essere da essa suscitate. Esse potevano così prende
re posto nel quadro della contemplazione naturale (physiche theoridf5,
415 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 17. NlCETA Ste -
TATOS, Inanima, 65. GREGORIO PALAMAS, Triadi, II, 3 ,5 9 .
416 Cfr. Pseudo-M assim o i l C on fessore, Scolti sui Nomi divini, P G 4 , 201A.
417 Cfr. ibid., 201B.
418Cfr. ibid. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici, 46.
419L’immaginazione creatrice indica, in senso ampio, la capacità di creazione o d’invenzione
dell’uomo, la quale spesso fa intervenire la ragione più che l’immaginazione propriamente det
ta. Noi qui considereremo solo l’immaginazione in senso stretto, cioè la capacità di produrre im
magini.
420Cfr. GREGORIO DI NlSSA, ha creazione dell’uomo, XIII, PG 44,168B.
421 Cfr. M assim o i l C on fessore, Ambigua, 45, P G 91,1353C.
422 C a llis to e Ig n a zio X a n to fu lo , Centuria, 64.
42’ Così san Massimo il Confessore constata che quando l’anima è «in buona salute, allora
le immagini» le appaiono «semplici e senza alcun turbamento» (Centurie sulla carità, I, 89).
Più avanti, egli parla di questa impassibilità di fronte alle immagini delle cose (ibid., 91).
424 Cfr. M assim o il C on fessore, Questioni a Talassio, 49.
425 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 64.
108
rimanendo trasparenti ai lógoi (o ragioni spirituali) degli esseri e alle
energie divine immediatamente percepite e contemplate dallo spirito
di Adamo nella sua rappresentazione delle creature e che gli serviva
no a lodare Dio nella sua creazione e a unire a lui questa, secondo il
suo disegno426. L’uomo nel suo stato originale disponeva, così, di una
«immaginazione buona»427, «volgendo al bene» i movimenti di que
sta428, nella misura in cui egli utilizzava le immagini delle creature per
elevarsi e per elevare queste ultime verso il loro Creatore.
Da questa «immaginazione buona» derivavano nel suo sonno i «so
gni buoni»429. Essendo l’uomo impassibile, questi sogni si caratteriz
zavano per la loro purezza, erano costituiti da immagini o da combi
nazioni di immagini «semplici», che testimoniavano la salute della sua
anima, come osserva san Massimo: «Quando l’anima inizia a sentirsi
in buona salute, allora le immagini, durante il sonno, cominciano ad
apparirgli semplici e senza turbamenti»430. Nel quadro della contem
plazione naturale, questi sogni prendevano per di più la forma di vi
sioni431, d’insiemi stabili e nettamente strutturati e ordinati di imma
gini432, ispirati da Dio e fomiti di un significato spirituale definito, ta
li da elevare l’uomo a Dio, a motivo del loro carattere simbolico, fin
nel sonno. Come san Massimo per i sogni «semplici», così san Dia
doco di Foticea fa notare che tali sogni testimoniano la salute dell’a
nima: «I sogni che appaiono all’anima nell’amore di Dio sono sicura
mente indizi di un’anima sana»433.
Trovando il suo posto nel quadro della contemplazione naturale,
l’immaginazione tuttavia doveva essere esclusa al di là di essa, nel qua
dro della conoscenza diretta di Dio, essendo Dio trascendente a ogni
essere, e dunque a ogni intellezione, a ogni pensiero, e afortiori a ogni
rappresentazione sotto forma d’immagine o di figura434. «Lo abbiamo
detto, nessuna immaginazione ha posto dinanzi a Dio. Dio, infatti, è
semplicemente, una volta per tutte, molto al di sopra di tutto, e al di
426 Cfr. M assim o i l C on fessore, Ambigua, 41, PG 9 1 ,1304D-1308B.
427 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 64.
428Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n, 56.
429 Sulla distinzione tra i «sogni buoni» e i «sogni cattivi», vedi DIADOCO DI FOUCEA, Cen
to capitoli gnostici, 38.
430Centurie sulla carità, 1 ,89.
431 Cfr. N ic eta S te ta to s, Centurie, E , 63.
4,2 Cfr. D ia d o co di F oticea, Cento capitoli gnostici, 37. N ic eta S teta to s, Centurie, n, 61; 63.
433 Cento capitoli gnostici, 37.
434 Cfr. D ia d o c o d i F o tic ea , Cento capitoli gnostici, 68. M assim o i l C on fessore, Centurie
sulla carità, IH, 49. DIONIGI L’AltEOPAGrrA, Sui Nomi divini, 1 ,5, P G 3 ,5 9 3 A.
109
là di ogni pensiero», scrive lo scoliaste di Dionigi l’Areopagita435. La
crescita spirituale dell’uomo implicava, dunque, il superamento di que
sta immaginazione buona, e nello stesso tempo, il superamento del
mondo sensibile. L’atteggiamento del primo uomo di fronte all’im
maginazione corrispondeva a quella che descrivono san Callisto e sant’I-
gnazio Xantopulo [Xanthopoulos] ricordando coloro che, rinnovati
dal Cristo, hanno ricuperato la condizione primordiale delTumanità e
s’incamminano, sulla stessa via del primo Adamo, verso la perfezio
ne alla quale Dio ha destinato l’uomo creandolo: «Coloro che hanno
progredito con il tempo rigettano ogni immaginazione, sia la buona
come la cattiva. Essi le allontanano. Come la cera fonde al fuoco, essi
le riducono in cenere e le consumano attraverso la preghiera pura, at
traverso la liberazione e lo spogliamento dello spirito da ogni figura,
dal momento che essi tendono semplicemente verso Dio, e [...] che
l’accolgono e si uniscono a lui nell’unità al di là delle forme»436. L’u
nione con Dio nella contemplazione è possibile, infatti, come vedre
mo più precisamente in seguito, solo nella preghiera pura, cioè pre
supponendo, da un lato, l’impassibilità, e dall’altro, l’assenza di ogni
rappresentazione quale che sia, di ogni pensiero e in primo luogo di
ogni immaginazione437che si riferisca non solo a cose sensibili e/o uma
ne438, ma anche a Dio stesso439.
A questo livello di contemplazione, l’immaginazione cessa di eser
citarsi anche nel sonno. L’uomo viene a trovarsi unito strettamente a
Dio permanentemente, e nel suo sonno stesso il suo spirito è sveglio.
Ai sogni si sostituiscono le visioni divine. «Colui che è illuminato dal
lo Spirito Santo [...] vede in realtà e in spirito, o che stia sveglio o
che dorma, questi beni che l’occhio non ha visto, e che l’orecchio non
ha udito, che non sono entrati nel cuore dell’uomo, e che gli stessi an
geli desiderano intravedere», scrive san Simeone il Nuovo Teolo
go440. Tuttavia, queste visioni non sono più immagini e non mettono
435Scolii sui Nomi divini, PG 4, 201C.
436 Centuria, 65.
437 Vedi per esempio: DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 59; 68. EVAGRIO PONTI-
CO, La preghiera, 66; Lettere, 39; Capitoli gnostici, I, 46. Vedi anche CALLISTO e IGNAZIO XAN
TOPULO, Centuria, 65, ove, a sostegno delle loro annotazioni, sono citati lunghi brani di Esi-
chio di Batos, di Diadoco di Foticea, di Basilio di Cesarea, di Evagrio Pontico e di Massimo il
Confessore.
438Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, ni, 49. E vagrio P ontico , Commen
to al salmo 140, éd. Pitra, p. 348. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, X X V ffl, 45.
439 Cfr. Apoftegmi, 181, 10. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 73. BASILIO DI CE
SAREA, Omelie sull’origine dell’uomo, 1 ,5.
440 Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 61. Cfr. 62.
110
più in gioco l’immaginazione441, ma sono prodotte nello spirito inoùs)
dell’uomo perfetto dallo Spirito Santo stesso442: ecco perché «non bi
sogna chiamar [li] sogni, ma più propriamente visioni e contempla
zioni»443.
A causa del peccato ancestrale, l’immaginazione diviene nell’uomo
uno strumento di separazione da Dio.
E per mezzo delle sue produzioni che l’uomo ormai riempirà di Dio
il suo spirito vuoto.
Questo è vero per l’immaginazione creatrice. Non si può non ri
cordare qui la spiegazione di sant’Atanasio secondo il quale l’anima,
non potendo rimanere immobile e senza oggetto dopo che l’uomo si
allontanò da Dio al quale la sua natura primaria lo destinava, prese ad
immaginare oggetti sui quali portarsi: «L’anima si muove, dunque, ma
non più verso la virtù né per vedere Dio: volgendo il suo pensiero a
ciò che non è, trasforma il potere che è in essa, e se ne serve per vol
gersi verso i desideri che ha immaginato t...]»444; «il male non viene da
Dio, non è in Dio, all’inizio non è esistito, non ha sostanza. Ma sono
gli uomini che, rifiutando di pensare al bene, si sono messi a conce
pire e ad immaginare a loro piacimento ciò che non esiste; [...] l’ani
ma umana, chiudendo gli occhi che le permettono di vedere Dio, ha
concepito il male, e muovendovisi, essa crede di fare qualcosa, men
tre non fa proprio nulla, perché essa immagina il nulla. Non è rimasta
quale è stata fatta, ma si mostra quale si è costruita. Difatti, essa è
stata costruita per vedere Dio e per essere illuminata da lui; ma inve
ce di Dio, essa ha cercato le tenebre e le cose corruttibili t...]»445.
E così che l’uomo, divenuto ignorante del mondo spirituale, si è co
struito con la sua intelligenza e immaginazione un mondo fantasmati-
co, al quale egli aderisce tanto più quanto più questo corrisponde ai
desideri sensibili e alle passioni che si sono sviluppate in lui. Per
questo l’uomo decaduto si trova alienato in un mondo irreale; è per
questo «che nulla di dò che appare nella vita appare quale veramen
te è, ma che, secondo le nostre immaginazioni ingannevoli, la vita ci
441 Cfr. G re g o rio Palam as, Triadi, n , 3 ,5 9 .
442 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, in , 61; 64. N ice-
TA S te ta to s, Centurie, H, 62. G r e g o r io PALAMAS, Triadi, II, 3 ,5 9 . Lo stesso si dica delle vi
sioni profetiche.
445 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 64.
444Discorso contro ipagani, 4.
445 Ibid., 7. Cfr. BASILIO DI C esarea, Lettere, CCXXX111,1: l’intelligenza, «essendo sempre
in movimento, spesso si forma immagini vane riguardo alle cose che non esistono».
Ili
mostra una cosa per un’altra, prendendosi gioco delle speranze dei
suoi pii ammiratori, nel camuffarsi sotto l’inganno delle apparenze»446.
Ma è anche con le immagini del mondo sensibile, che la sua imma
ginazione in combutta con la sua memoria gli rappresenta, che l’uo
mo decaduto ingombra il suo spirito da cui ha escluso Dio. Attaccato
passionalmente al mondo sensibile, ma a un mondo sensibile chiuso
su se stesso e che non svela più ai suoi occhi nulla del suo Creatore,
l’uomo decaduto si lascia completamente possedere da esso. Le im
magini che egli ha del mondo sensibile nella sua percezione, o i suoi
ricordi, non sono più come lo erano nell’Adamo primordiale, traspa
renti alle energie divine, non gli ricordano più Dio, né lo elevano più
verso di lui, ma sono interamente opache. In balia degli oggetti ri
dotti alla loro dimensione sensibile, l’uomo ha lo spirito continuamente
abitato o attraversato dalla folla dei loro pensieri e delle loro imma
gini. Ciò avviene non solo nello stato di veglia, ma anche nel sonno,
durante il quale è invaso dalle immaginazioni dei sogni447.
Lungi dal rimanere, secondo la sua natura, una facoltà di conoscenza
annessa, l’immaginazione, in collegamento con la memoria stessa per
vertita, domina lo spirito che essa trascina al suo seguito448e aliena449.
E così lo «spirito vagabonda da fantasmi a fantasmi, che si dissolvono
gli uni negli altri»450. L’immaginazione prende possesso dell’anima, in
vestendola di molti modi. «Questo perché, scrivono san Callisto e
sant’Ignazio Xantopulo, i divini Padri parlano di essa e contro di essa
in molti modi. Come il Dedalo del mito, questa immaginazione ha nu
merose forme, e come l’idra, ha molte teste. [...] E per mezzo di essa
che attraversano e passano gli infami uccisori che si uniscono e si me
scolano all’anima, che fanno di essa un nido di calabroni, una dimo
ra di pensieri sterili e passionali»451. In questo modo, non solo essa «si
oppone con tutta la sua forza alla preghiera pura»452, ma ancor più es
sa non lascia alcun posto nell’anima al pensiero e al ricordo di Dio che
normalmente dovrebbero occuparla. San Barsanufio paragona l’ani
ma, nel suo stato normale, cioè quando essa è tutta occupata dal ri
446G r e g o rio di N issa, Sulla verginità, HI, 4.
447 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 62.
448 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n , 56.
449 Sottolineiamo questa definizione di san Giovanni Climaco: «Un’immaginazione è un’a
lienazione dello spirito» (La Scala, IH, 37).
450G iovan ni i l S o lita r io , Dialogo, éd. Hausherr, p. 38.
451 Centuria, 64.
452 Ibid., 64.
112
cordo di Dio, a un quadro già dipinto dove nessuna forma né alcuna
figura, alcuna immagine, possono più trovarvi posto453. Nello stato di
decadenza dell’uomo avviene l’inverso: il quadro è interamente riem
pito dalle figure e dalle forme imposte dall’immaginazione e non la
scia più sussistere alcuno spazio libero per il pensiero di Dio.
Nella vita interiore dell’uomo decaduto, l’immaginazione occupa
un posto tanto più grande e gioca un ruolo tanto più malefico quan
to più essa si esercita in stretta relazione con le passioni. «Oggi, os
serva san Massimo, l’uomo nel suo movimento è posseduto dall’im
maginazione irrazionale delle passioni»454. Da un lato, l’immaginazio
ne suscita le passioni, offrendo ad esse i supporti sui quali esse possono
esercitarsi e svilupparsi455. Dall’altro lato e soprattutto, le passioni
suscitano l’attività e le produzioni dell’immaginazione: nutrendosi pri
ma di tutto dell’immaginario456, esse inducono quest’ultimo a gene
rare immagini (vecchie e nuove) che corrispondono loro e offrono lo
ro il piacere che esse ricercano457. San Massimo fa notare: «Come lo
spirito di un uomo affamato immagina il pane e quello di un uomo as
setato immagina l’acqua, così lo spirito di colui che è ghiotto immagi
na ogni sorta di nutrimento, lo spirito di colui che ama il piacere im
magina le forme femminili, lo spirito del vanitoso immagina gli onori
che provengono dagli uomini, lo spirito dell’astioso immagina come
vendicarsi di colui che lo ha offeso, lo spirito del geloso immagina co
me far del male a colui che invidia, e così via per tutte le altre passio
ni»458.
Questo avviene nello stato di veglia, ma anche nel sonno. «Vale lo
stesso modo» per i sogni malsani e «per le malattie del corpo, che non
si contraggono al momento in cui sembrano nascere, ma molto pri
ma», fa notare san Giovanni Cassiano: esse sono «i segni di un male
che covava interiormente [...] che il riposo del sonno fa apparire in su
perfìcie, rivelando la febbre nascosta delle passioni che abbiamo con
tratto in noi pascendoci per lungo tempo di pensieri malsani»459. Gli
asceti sanno da sempre che i sogni sono formati dall’immaginazione
453 Lettere, 193.
454Ambigua, 45, PG 91,1353C. Cfr. Centurie sulla carità, II, 56.
455 Cfr. Apoftegmi, II, 22. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 23. MAS
SIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 59; Centurie sulla carità, E, 56. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoli gnostici, 49.
456Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 8.
457 Cfr. ibid.
458 Centurie sulla carità, II, 68; 69; 85.
459Istituzioni cenobitiche, VI, 11.
113
in funzione delle disposizioni del corpo460 e dell’anima461, e in que
st’ultimo caso, sia come raccolta di residui mnemonici molto spesso
legati alle occupazioni e alle preoccupazioni dello stato di veglia pre
cedente462, sia come mezzi per soddisfare i desideri della potenza con
cupiscibile, sia, relativamente alla potenza irascibile, in risposta alla
sua collera o alla sua paura se si tratta di incubi. Anche san Simeone
il Nuovo Teologo nota che «ciò che occupa l’anima ed entra in essa
allo stato di veglia ritiene anche la sua immaginazione e il suo pen
siero durante il sonno»463. San Niceta Stetatos fa notare che, nei sogni,
«le immaginazioni dello spirito corrispondono alla disposizione del
l’uomo interiore e alle sue preoccupazioni»464. E san Massimo preci
sa: «Quando la concupiscenza (epthymia) è eccitata, lo spirito vede in
sogno ciò che costituisce la materia del piacere. Quando è l’irascibi
lità (thymós), vede ciò che provoca la paura»465. San Simeone il Nuo
vo Teologo scrive allo stesso modo: «Quando la parte concupiscibile
dell’anima (epithymetikón) è spinta verso le passioni, gli abbracci, le
voluttà e i godimenti della vita, l’anima percepisce le stesse cose nei
suoi sogni. Se la parte irascibile (<thymikón) la fa arrabbiare contro i
suoi simili, essa non sogna che irruzioni di fiere, battaglie e mischie di
serpenti e discute con i suoi avversari come davanti a un tribunale. Se
è la parte razionale (logistikón) che è esaltata dalla cenodossia o dal
l’orgoglio, l’anima s’immagina di avere le ali e volare nell’aria, di tro
neggiare su seggio elevato, o di camminare alla testa di un popolo da
vanti a un corteo di vetture»466. San Niceta Stetatos precisa ancora me
glio questa descrizione della relazione tra i sogni e le diverse passioni:
«Se si tiene l’anima nell’amore della materia e del piacere, si ricerca
con l’immaginazione il possesso delle cose, il conforto e il denaro, le
forme femminili, gli abbracci appassionati, si sporca la tunica e s’in
sudicia la carne. Se si ha l’anima avida e avara, si vede l’oro dovunque,
lo si esige, si abusa degli interessi, lo si raccoglie in uno scrigno, ma
si manca di compassione e si è condannati. Se si ha l’anima collerica e
gelosa, si è perseguitati dalle fiere e dai serpenti velenosi, e si è preda
degli spaventi e della paura. Se si ha l’anima gonfia di vanagloria, ci si
460 Cfr. G re g o rio DI N issa, La creazione dell’uomo, X m , PG 4 4 , 172D.
461 Cfr. ibid. 173C. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VI, 11. NICETA STETATOS,
Centurie, II, 60.
462 G regorio DI N issa , La creazione dell’uomo, xm, PG 44,172D.
463 Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 62.
464 Centurie, II, 60.
465 Centurie sulla carità, II, 69.
466 Capitoli teologici, gnostici e pratici, Ut, 63.
114
vede acclamati, circondati dal popolo, s’immaginano troni di potere e
di autorità. Si considera che si ha ciò che ancora non è, o almeno che
lo si avrà, e si è sempre all’erta. Se si ha l’anima orgogliosa e piena di
presunzione, ci si vede portati dalle vetture più brillanti. Si possono
avere persino delle ali e volare nell’aria. E tutti tremano di fronte alla
grandezza di questo potere»467. 1 sogni rivelano così con la loro pre
senza e con la loro forma la natura e la forza delle passioni dalle qua
li scaturiscono468, e perciò manifestano che l’anima è malata, e persi
no di quali malattie e in quale di alcune sue parti essa è più partico
larmente colpita, come fa notare Evagrio: «Quando nelle immaginazioni
del sonno, i demoni, attaccandosi alla parte concupiscibile, ci fanno
vedere raduni di amici, banchetti di parenti, cori di donne e altri spet
tacoli simili generatori di piacere; d fanno così vedere che noi acco
gliamo queste immagini con sollecitudine, ed è proprio in questa par
te che siamo malati e che la passione vi è forte. Quando, d’altra par
te, essi turbano la parte irascibile, obbligandoci a seguire vie scoscese,
facendo sorgere uomini armati, bestie velenose o carnivore, e noi sia
mo terrificati davanti a queste strade, e, perseguitati da queste bestie
e da questi uomini, fuggiamo, allora prendiamoci cura della parte ira
scibile»469.
I Padri sottolineano che, in questa duplice relazione dell’immagi
nazione con le passioni, i demoni giocano un ruolo molto importan
te, sia perché spingono l’uomo a immaginare in risposta alle sue pas
sioni e per loro mezzo, come abbiamo appena spiegato470, sia perché
suscitano direttamente in lui immagini e fantasmi471 al fine di attivare
le sue passioni472. In quest’ultimo caso, accade alle passioni di porre
nello spirito dell’uomo, nel sonno come nello stato di veglia, imma
gini che per lui sono del tutto nuove, che non sono relative ad alcu
na delle sue esperienze percettive presenti o passate473, che nemme
467 Centurie, II, 60.
468 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 54. GREGORIO DI NlSSA, La
creazione dell’uomo, XIII, PG 44, 172D; 173C.
469 Trattato pratico sulla vita monastica, 54. Vedi anche Pensieri, recensione lunga, 27.
470 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, n, 85.
471 Cfr. Storia dei monaci d’Egitto, Giovanni di Licopoli, 19. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen
turie sulla carità, II, 85.
472 Cfr. M assim o i l C on fessore, loc. dt.
473 Ciò appare in modo caratteristico in questo racconto degli Apoftegmi, n. 171: «Si racconta
di un vecchio che andò a Scete portando con sé un figlio molto giovane, il quale non sapeva co
sa fosse una donna. Quando dunque divenne uomo, i demoni gli mostrarono delle immagini
di donne, ed egli ne informò suo padre che se ne stupì. Una volta che salì in Egitto con suo pa-
115
no egli stesso ha mai create, e che in qualche modo s’impongono al
suo spirito474. Tali immagini hanno per scopo di far commettere al
l’uomo nuove colpe o di trascinarlo su cattive strade che non ha an
cora percorse. In tutti i casi, per i demoni si tratta di fuorviare l’uomo
e di mantenerlo lontano da Dio.
Le immaginazioni sembrano la principale forma che assumono le
suggestioni demoniache che spingono l’uomo al peccato475: se i pen
sieri (logistnot) spesso sono associati alle immaginazioni nei testi asce
tici, quelli si riducono spesso di fatto a queste, o hanno in esse la lo
ro origine. Perciò, l’immaginazione appare come la principale porta
d’ingresso nell’anima di tali suggestioni. «Essa è come un ponte sul
quale passano i demoni, i santi lo hanno detto», notano san Callisto
e sant’Ignazio Xantopulo476. E sant’Esichio di Batos scrive: «I demo
ni ci spingono sempre a peccare con l’immaginazione ingannevole»477;
«Satana senza l’immaginazione non può suscitare pensieri e presen
tarli allo spirito per ingannarlo»478.
L’immaginazione, in ogni caso, appare come lo strumento princi
pale dell’azione demoniaca sull’anima umana, nello stato di veglia, o
nel sonno: per mezzo di essa i demoni tormentano l’uomo479, cercan
do non solo, come abbiamo visto, di spingerlo a peccare e di risve
gliare o eccitare le sue passioni, ma anche di turbarlo in molti modi480,
di suscitare particolarmente in lui tristezza e ansietà481, d’ingannarlo482
e di fuorviarlo in illusioni diverse483, e persino di asservirlo484. Sant’E
sichio di Batos fa giocare all’immaginazione persino un ruolo di pri
mo piano nella caduta dell’uomo: «E così che [Satana] ha separato
Adamo da Dio, dandogli la possibilità d’immaginare che aveva la di
gnità divina. Ed è così che il nemico mentitore e scaltro continua a in
gannare i peccatori»485.
dre e vide delle donne, disse a suo padre: “Abba, queste sono le persone che vengono verso di
me di notte a Scete” [...]. E il vegliardo si stupì del fatto che i demoni nel deserto gli mostras
sero immagini di donne».
474 1 Padri sottolineano che è così che spesso si spiega la creazione artistica.
475 Vedi per esempio EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 67.
476 Centuria, 64.
477 Capitoli sulla vigilanza, 118.
478 Ibid.y 14.
479 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 118.
480Cfr. ibid.y 10; 70; Apoftegmi, II, 22. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. E), LI, 3.
481 Cfr. B arsanufio, Lettere, 70.
482 Cfr. ibid., 78. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 6; 14.
483 Cfr. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 38.
484 Cfr. G iu stin o, Apologia prima, 14.
485 Capitoli sulla vigilanza, 119.
116
Fin dalla sua creazione Adamo era tentato dal Maligno e, dunque,
conosceva queste suggestioni demoniache esercitate per mezzo del
l’immaginazione. Prima del peccato, egli rifiutava tuttavia di prestar
vi attenzione, di entrare in dialogo con esse e a fortiori di essere con
senziente. Ignorava così ogni «immaginazione cattiva»486, essendo la
sua immaginazione inattiva riguardo al male. L’uomo decaduto, al con
trario, si apre a queste suggestioni, facendole sue, ne nutre l’immagi
nazione, facendo nascere e sviluppando così la cattiva immaginazio
ne, che abbiamo descritta precedentemente, rendendosi allora pie
namente accessibile all’attività demoniaca e ai suoi effetti.
I Padri sottolineano, altresì, la responsabilità dell’uomo4®7nella per
versione della sua immaginazione che ne costituisce la malattia: pro
prio perché non è rimasto fedele al comandamento divino, non è ri
masto attento a Dio solo, non ha preservato il suo cuore da ogni pen
siero estraneo, in breve, perché non è rimasto sobrio e vigilante
{neptikós), l’uomo ha fatto dell’immaginazione, che gli era stata data
come un ponte verso Dio, «un ponte sul quale passano i demoni».
Fintanto che l’uomo decaduto non ritrova questa vigilanza che ca
ratterizza la sua natura nello stato di perfezione e di salute, il suo cuo
re resta aperto alle cattive suggestioni che il nemico gli insinua attra
verso il canale dell’immaginazione, egli si lascia invadere, di giorno co
me di notte, dalle immagini che trascinano il suo spirito alla deriva e
lo alienano, portandolo e tenendolo lontano da Dio.
Fintanto che l’uomo immagina ciò che lo allontana da Dio, mani
festa con questo che, non solo la sua immaginazione, ma anche la
sua anima è completamente malata.
117
seguenza il suo corpo così come la sua anima488, ed ha per missione
quella di compierne interamente la somiglianza, e come fine quello di
essere interamente deificato. La vita virtuosa, sottolineano i Padri, è
una vita alla quale il corpo partecipa. Non solo vi sono delle «virtù
corporali», ma il corpo partecipa alla maggior parte delle virtù del
l’anima. Alcuni carismi dello Spirito, fa notare san Gregorio Palamas,
«agiscono con la mediazione del corpo»489. Il corpo, in maniera ge
nerale, per mezzo delle sue facoltà ed energie, «partecipa anch’esso al
la santificazione»490. Agendo in collaborazione con l’anima e sotto la
sua direzione, esso riceve da questa la grazia dello Spirito. Il corpo è
chiamato ad essere deificato con l’anima491. «Come, scrive san Maca
rio, Dio ha creato il cielo e la terra perché l’uomo li abiti, così ha crea
to il corpo e l’anima dell’uomo affinché essi siano sua dimora, affin
ché egli abiti e riposi nel corpo come nella propria casa, avendo come
sposa piena di bellezza l’anima diletta»492. Sottolineando l’unità fon
damentale del composto umano, l’unità dell’anima e del corpo nella
persona umana e il loro comune destino, san Gregorio Palamas scri
ve: «Qual è la gioia, qual è il movimento del corpo che non sono un’at
tività comune all’anima e al corpo? [...] Esistono, infatti, delle passio
ni beate, attività comuni che non inchiodano lo Spirito alla carne,
ma che attirano la carne fino a una dignità prossima a quella dello Spi
rito e la obbligano, anch’essa, a volgersi verso l’alto. Quali sono? So
no le attività spirituali che non vengono dal corpo all’intelligenza
[...] ma discendono dall’intelligenza nel corpo, per trasformarlo in me
glio e deificarlo per mezzo di queste azioni e di queste passioni [...].
Negli uomini spirituali, la grazia dello Spirito, trasmessa al corpo at
traverso la mediazione dell’anima, dà anche ad esso l’esperienza del
le cose divine e gli permette di provare la stessa passione dell’anima
che possiede l’esperienza divina; quest’anima, poiché prova la passio
ne delle cose divine, senza dubbio possiede una parte appassionata,
degna di lode e divina [...]. Quando essa persegue questa attività bea
ta, deifica anche il corpo; il corpo allora non si muove, spinto dalle
488Cfr. IRENEO DI L ione , Contro le eresie, V, 6,1; 16,1; Dimostrazione della predicazione apo
stolicai, 11; 32; 97. GREGORIO PALAMAS, Prosopopea, PG 1 5 0 ,1361C. Ciò deriva dall’afferma
zione patristica corrente che l’uomo è stato creato a immagine di Dio-uomo.
489 Triadi, H, 2 ,13.
490 G re g o rio Palam as, Omelie, 12, PG 150,153C.
491 Cfr. MASSIMO IL C o n fesso re, Centurie sulla teologia e sulleconomia, n, 88. G re g o rio
Palam as, Triadi, ni, 3,12. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), IV, 3-4; XV, 38.
492 Omelie (Coll. E), XLIX, 4.
118
passioni corporee e materiali, [...] ma ritorna su se stesso, rigetta ogni
relazione con le cose cattive e ispira egli stesso la sua deificazione e
una deificazione inalienabile»493.
Una delle funzioni elementari del corpo è quella di servire da stru
mento all’anima nella relazione con la creazione materiale: attraverso
la mediazione dei sensi corporei essa prende conoscenza degli esseri
sensibili e per mezzo degli organi del corpo essa può entrare concre
tamente in relazione con loro e agire su di essi.
La percezione sensibile, porta della conoscenza degli esseri mate
riali, è un processo sia somatico che psichico. Alla sua base si trova
la sensazione, modificazione fìsica di un senso a contatto di un ogget
to che gli corrisponde. Attraverso questa è comunicata all’anima
un’informazione oggettiva quanto alle apparenze dell’oggetto. Inter
viene allora una seconda operazione in cui il dato sensoriale è inter
pretato da tutte le facoltà che, nell’anima, contribuiscono alla cono
scenza. In un complesso processo in cui intervengono l’intelligenza,
ma anche la memoria, l’immaginazione e il desiderio, l’oggetto così co
me è presentato dai sensi è situato nello spazio e in rapporto agli al
tri oggetti, ma anche designato, definito quanto alla sua natura, al suo
significato, alla sua funzione, al suo valore. Questa interpretazione che
costituisce l’essenza della percezione sensibile, pur assumendo come
base un dato oggettivo, quello della sensazione, non solo non si limi
ta a esso e non consiste nel fornirne in qualche modo una descrizione,
ma lo elabora in funzione dei valori del soggetto conoscente. In defi
nitiva, è da quest’ultimo più che dall’oggetto stesso che procede la per
cezione. È così che san Giovanni Crisostomo può scrivere: «I nostri
giudizi non si formano secondo la natura delle cose che ci colpiscono,
ma secondo il sentimento dell’anima che li vede con gli occhi»494. La
forma della percezione sensibile appare, perciò, inevitabilmente rela
tiva allo stato spirituale del soggetto percepiente, in dipendenza dallo
stato di tutte le facoltà che intervengono nel processo d’interpreta
zione che abbiamo ricordato; essa è funzione particolarmente di ciò
che, in modo generale, egli conosce, comprende, desidera, immagina,
ricorda...
Nello stato primo dell’uomo, tutte le sue facoltà erano ordinate a
Dio: per mezzo di esse Adamo percepiva in Dio tutti gli esseri della
493 Triadi, n, 2,12.
m Catechesi, II, 4.
119
creazione, riconosceva con il suo spirito, nella percezione di ciascu
no di essi, i loro lógoi o ragioni spirituali. La sua percezione sensibile
era così subordinata alla contemplazione naturale (theoria physike). In
questo modo, egli faceva di tutte le facoltà che intervengono nella per
cezione sensibile e, in primo luogo, di tutti i sensi, un uso normale, sa
no, conforme alla loro finalità naturale; per questo egli conservava l’a
nima pura, come indica san Massimo assegnando lo stesso compito al
l’uomo restaurato in Cristo: «Si conserva l’anima senza macchia per
l’amore secondo Dio [...] se si insegna ai sensi a percepire [...] il mon
do visibile e tutte le cose che esso contiene, perché essi trasmettono
all’anima la grandezza delle ragioni {lógoi) che sono al centro delle co
se»495. San Niceta Stetatos scrive nella stessa prospettiva: «Quando
lo spirito perviene alle cose soprannaturali, i sensi rimangono secon
do la natura. Essi si aprono alle cause fuori da ogni passione. Non cer
cano che le loro ragioni (lógoi) e le rispettive nature. Essi discemono
senza errore le loro energie e le loro qualità. Non sono colpiti, né so
no portati verso di esse contro natura»496.
Altrove san Niceta Stetatos insegna che in «tutte le azioni ramifi
cate nei sensi, la vista, l’udito, l’odorato, il gusto, il tatto, questi sono
mossi secondo la natura se comportano il meglio»497. E i Padri ricor
dano all’occorrenza qual è questo uso normale, conforme alla natu
ra, dei sensi. Sant’Atanasio precisa, così, che «il corpo ha gli occhi
allo scopo di vedere la creazione e conoscere il suo Creatore nell’or
dine armonioso di essa»498. Anche san Giovanni Crisostomo scrive:
«Gli occhi vi sono stati dati affinché, di fronte alla creazione, rendia
te gloria al Signore»499; o ancora: «L’occhio è fatto per celebrare il Crea
tore nel vedere le creature di Dio»500. E san Serapione di Thmuis ri
corda nella stessa prospettiva501 queste parole che il salmista rivolge a
Dio: «Sollevo gli occhi verso di te che abiti nei cieli. Ecco: come gli
occhi dei servi sono rivolti verso i loro padroni, [...] così i nostri occhi
sono rivolti al Signore, nostro Dio» (Sai 123[122],1-2). Allo stesso mo
do, le orecchie sono state create affinché l’uomo possa «ascoltare le
divine parole e le leggi di Dio»502e affinché egli possa ascoltare Dio in
495 Centurie sulla teologia e sull’economia, 1 ,14.
496 Centurie, I, 22.
497 Lànima, 31.
498 Contro i pagani, 4.
499 Omelie sui demoni, II, 3.
500 Omelie sulla Genesi, XXII, 3.
501 Lettere ai monaci, X.
502 Atanasio d’Alessandria, Contro ipagani, 4. Cfr. G regorio Palamas, Triadi, E, 2,20.
120
tutti i suoni del mondo. Ugualmente, l’odorato è stato concepito af
finché esso senta in ogni essere «il profumo di Cristo» (2Cor 2,15)50\
il gusto affinché in ogni alimento possa «gustare e vedere come è buo
no il Signore» (Sai34[33],9), e il tatto affinché tocchi in tutte le cose
il Verbo di Dio (cfr. lGv 1,1). In breve, la finalità dei sensi è quella
di contribuire a unire a Dio le creature sensibili, conformemente al
compito che Dio ha assegnato all’uomo nel crearlo504. Ecco perché san
Niceta Stetatos scrive: «Dotati di sensi, dobbiamo percepire bene le
cose sensibili, attraverso la loro bellezza elevarci verso il Creatore, e
ricondurre a lui la conoscenza irreprensibile delle cose»505.
Utilizzando i suoi sensi e subordinandoli al suo spirito nel con
templare le ragioni spirituali degli esseri, Adamo aveva di questi
una percezione obiettiva, li conosceva nella loro vera natura, discer
neva senza errore, come afferma san Niceta Stetatos, le loro energie
e qualità506.
Adamo ed Èva, prima del loro peccato, percepivano la realtà in mo
do identico, poiché tutte le loro facoltà e tutti i loro sensi erano inte
ramente accordati al Dio uno, e percepivano ogni cosa secondo lui.
Come i sensi, così tutti gli organi del corpo dell’uomo e il suo stato
paradisiaco si esercitavano secondo la loro natura e la loro vera fina
lità che è quella di agire secondo Dio e di operare in vista della deifi
cazione. Allo stesso modo devono esercitarsi nell’uomo rinnovato in
Cristo, ciò che fa dire all’Apostolo: «Vi esorto, in nome della miseri
cordia di Dio, a offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, san
to e gradito a Dio» (Rm 12,1).
Nell’essere umano così come voluto da Dio, le mani hanno la fun
zione di compiere in Dio le azioni necessarie, di servire la volontà di
vina, di agire per la giustizia, e in particolare di tendersi verso lui nel
la preghiera507. Allo stesso modo, i piedi hanno la funzione normale di
permettere all’uomo di andare per servire Dio e compiere il bene508. In
quanto alla lingua, ha la finalità di pronunciare parole di verità e quel
505 Cfr. SERAPIONE di T hmuiS, Lettera ai monaci, X.
504 Su questo compito che abbiamo già ricordato, cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 41,
PG 91,1308A.
505 Centurie, HI, 72.
506Ibid., 1,22.
507 Cfr. Atanasio d ’A lessandria, Contro i pagani, 4. G iovanni Crisostomo, loc. cit. M a
cario d ’Egitto, Lettera ai suoifigli, 14. SERAPIONE DI THMUIS, Lettera ai monaci, X. GREGORIO
Palamas, Triadi, II, 2,20.
508 Cfr. G iovanni C risostomo , loc. tit. M acario d ’E gitto , Lettera ai suoi figli, 14. S era-
pione di T hmuis , loc. dt. G regorio P alamas , loc. cit.
121
la di cantare costantemente la gloria del Creatore. Ogni organo del cor
po agisce in modo normale e sano quando tutto ciò si esercita in Dio,
si muove per Dio: il cuore servendo da centro alla preghiera e nel bat
tere per Dio nell’orazione; i polmoni nel ritmare questa...
In breve, il corpo è spiritualmente sano quando tende verso Dio at
traverso tutte le sue attività e così diviene il tempio dello Spirito San
to (ICor 6,19), quando i suoi sensi sono in «buon ordine»505, quando
tutti i suoi organi sono mezzi per condurre una vita virtuosa, sono vie
di contemplazione e strumenti dell’unione con Dio.
A causa del peccato, quest’ordine è capovolto. L’uomo, allonta
nandosi completamente da Dio, allontana i suoi sensi e tutti i suoi or
gani corporei dalla loro finalità naturale e normale, per rivolgerli con
tro natura verso il mondo sensibile. Così pervertiti e fuorviati510, essi
si ammalano511. L’uomo, sia sul piano del corpo che su quello dell’a
nima, viene a trovarsi alienato in una natura decaduta contraria alla
sua natura fondamentale e vera. Quando l’Apostolo parla dell’«uomo
vecchio», dice san Macario, «egli intende con questo un uomo com
pleto, che ha degli occhi oltre ai nostri occhi, una testa oltre alla no
stra, delle orecchie oltre alle nostre, delle mani oltre alle nostre mani,
dei piedi oltre ai nostri. Difatti, è l’uomo tutto intero, anima e corpo,
che il Maligno ha sporcato e capovolto; e ha rivestito l’uomo con un
“uomo vecchio” [...] che non si sottomette alla legge di Dio [...], in
modo che l’uomo non vede più come vuole, ma vede e sente in ma
niera perversa, i suoi piedi si affrettano a fare il male, le sue mani com
mettono l’iniquità e il suo cuore ha cattivi progetti»512.
Anziché fornire allo spirito materia per la sua contemplazione na
turale delle creature visibili, i sensi gli forniscono pretesti per molti
«pensieri materiali e vani»513. Anziché essere subordinati all’intelligenza
e contribuire alla sua elevazione verso Dio, essi l’attirano514e l’abbas
sano verso il mondo sensibile considerato in se stesso, lo alienano e lo
sottomettono a questo515, e così gli impediscono l’accesso alle realtà
509 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 58.
510Cfr. ibid.y 60.
511 Sant’Isacco il Siro parla esplicitamente della «malattia [dei] sensi» (Discorsi ascetici, 23),
della necessità per lo spirito dell’uomo decaduto «di aver sedato i sensi e di averli guariti dalla
malattia» {ibid., 30). Nel Discorso 1, egli parla della «malattia delle sensazioni».
512 Omelie (Coll. II), II, 2.
513 Cfr. EsiCHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 53.
5H Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 23.
515 E così che Niceta Stetatos parla della «schiavitù dei sensi» {Centurie, 1,20).
122
spirituali. È in questo senso che sant’Isacco il Siro parla della «ma
lattia delle sensazioni»516.
Anziché servire Dio e compiere la sua volontà, i sensi e gli organi
fisici dell’uomo decaduto entrano al servizio dei suoi desideri carna
li, gli servono a compiere il peccato e a trattenere le sue passioni517.
Egli li utilizza in primo luogo per ottenere la voluttà sensibile che egli
ricerca. Così egli si serve dei suoi occhi «in maniera perversa»518per
fornire alla sua cupidigia oggetti sensibili e godere di questi con lo
sguardo. Utilizza le sue orecchie, ugualmente «in maniera perversa»519,
per ascoltare le parole cattive e per goderne, per prestare attenzione
alle parole vane e per divertirvi il suo spirito. Il gusto entra al servi
zio della passione della gastrimargia. L’odorato è «rivolto verso la va
rietà dei profumi erotici»520. L’organo del tatto serve a molte passioni.
Lontane da Dio, le facoltà cognitive smettono di interpretare secondo
lo Spirito il dato sensibile. Non percependo più negli esseri le energie
divine che definiscono la loro autentica natura, l’uomo decaduto
non ne ha più una giusta percezione, obiettiva, cioè conforme alla
loro stessa realtà, adeguata a ciò che essi veramente sono. «Quasi
tutto ciò che noi vediamo, lo vediamo diversamente da quello che
è», constata sant’Ambrogio521. L’uomo percepisce gli esseri in funzio
ne dei suoi desideri sensibili, li situa e li ordina, dà loro senso e valo
re, in funzione delle sue passioni. Allora la percezione diviene sogget
tiva e variabile in quanto non si accorda più con la realtà stessa degli
oggetti sui quali essa si porta, ma costituisce una proiezione della co
scienza decaduta di ciascuno, e cambia secondo la forma, la riparti
zione e il grado dei suoi desideri passionali. Il fatto che, malgrado que
ste differenze, tutti gli uomini possono essere considerati grosso mo
do come coloro che percepiscono attraverso i sensi la realtà più o meno
nella stessa maniera, non significa affatto che la loro percezione sia
obiettiva, ma manifesta semplicemente l’accordo delle soggettività che
condividono un decadimento comune, l’unicità fondamentale delle
deformazioni subite dalla facoltà percettiva degli eredi di Adamo.
Gli organi del corpo, dal peccato, sono allo stesso modo distolti dal
la loro finalità originale, dalla loro normale funzione, e agiscono pa
516Discorsi ascetici, 1.
517Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, 50. Isacco IL Siro , Discorsi ascetici, 1.
518 Macario d ’Egitto, Omelie (Coll. II), n, 2.
™lbid.
520 Atanasio d ’Alessandria, op. cit., 5.
521 La morte è un bene, 10.
123
tologicamente. Nel descrivere le conseguenze del peccato ancestrale,
sant’Atanasio spiega come l’anima fece agire a rovescio tutte le fun
zioni corporee: «Così essa mise in movimento le mani verso lo scopo
opposto, facendo loro commettere l’omicidio»; distolse gli organi ses
suali «verso l’adulterio invece della procreazione legittima; quanto al
la lingua, le fece pronunciare, anziché parole di benedizione, maledi
zioni, ingiurie, falsi giuramenti»522; le mani, ancora una volta, le fece
colpire e derubare gli uomini, nostri simili523; i piedi, essa li rivolse «ver
so l’agilità per versare sangue (Sai 13,3 )524, lo stomaco verso l’ebbrez
za e una sazietà inappagata»525. San Giovanni Crisostomo scrive allo
stesso modo: «Guardiamo le nostre membra: anch’esse saranno cau
sa della nostra rovina, se non vi facciamo attenzione; questo non av
verrà per il fatto della loro natura, ma della nostra negligenza»526.
Esercitandosi così contro natura, i sensi e gli organi fisici agiscono
in modo insensato, folle. San Niceta Stetatos parla della «sragione»
dei sensi527. E sant’Atanasio scrive, sottolineando il coinvolgimento del
l’anima in questo deviamento: «Se un corridore salendo a cavallo nel
lo stadio dimenticasse lo scopo per cui deve correre e si allontanasse
per spingere semplicemente il suo cavallo per quanto egli può - e lo
può fintanto che lo vuole -, e a volte si lanciasse sui passanti, talvolta
si gettasse nei precipizi, lasciandosi condurre dalla rapidità del suo ca
vallo, pensando che a correre così non mancherà il suo scopo, così [fa
rebbe] l’anima che si allontanasse dalla via che conduce a Dio, e spin
gesse le membra del corpo al di fuori della via debita, o piuttosto si la
sciasse spingere con esse»528.
522 Contro ipagani, 5. Vedi anche Pro 6 , 17. GIOVANNI CRISOSTOMO, loc. cit.
523 L’autore dei Proverbi parla anche «delle mani che versano sangue innocente» (Pro 6,
17). Cfr. M acario d’E gitto, Omelie (Coll. II), n, 2.
5241 Proverbi ricordano, in modo più generale, i «piedi solleciti a correre al male» (Pro 6,18).
Cfr. M acario d’E gitto, loc. dt.
525 Contro i pagani, 5.
™Ibid.
527 Centurie, I, 6.
528Loc. dt.
124
PARTE SECONDA
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA
E PATOGENESI
DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
I
Distogliendo da Dio le diverse facoltà della sua anima e del suo cor
po e orientandole verso la realtà sensibile per ricercarvi il piacere, l’uo
mo fa nascere in sé le passioni (pathe), chiamate anche vizi {kaktai).
Queste, affermano unanimemente i Padri, nonfanno^garte della na
tura dell’uomo1. «Esse non sono state incluse nefimunagme"3n3fc>>>,
ncor3asanT?asilio2. «Le passioni non sono state create all’inizio con
la natura, altrimenti farebbero parte della sua definizione», scrive
san Massimo3. Esse sono, afferma san Niceta Stetatos, «assolutamen
te estranee, per nulla appartenenti alla natura dell’anima»4. Sant’Isac-
co il Siro osserva allo stesso modo: «Le passioni vengono ad aggiun
gersi [...]. Difatti l’anima è naturalmente impassibile [...]. Noi cre
diamo che Dio abbia fatto l’uomo a sua immagine: impassibile [...].
Quando, dunque, [l’anima] si lascia andare ai movimenti passionali,
essa è dichiaratamente al di fuori della sua natura. Ciò è quanto han
no affermato i padri adottivi della Chiesa. Le passioni sono entrate nel
l’anima in seguito, e non è giusto dire che esse sono ciò che è pro
prio dell’anima, mentre invece è l’anima a essere guidata dalle passio
ni. E chiaro, dunque, che l’anima è guidata da ciò che le è esterno e
non da ciò che le è proprio»5. «Lo stato contro natura dell’[anima] è
il movimento passionale. Ciò è quanto afferma il divino e grande Ba
silio. Quando l’anima è nel suo stato naturale, essa conduce la sua vi
ta verso l’alto. Quando essa è al di fuori della sua natura, viene a tro
varsi in basso sulla terra. Quando essa è in alto, si scopre impassibi-
1Oltre ai riferimenti dati sopra vedi: DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, XI, 134. GIO
VANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20. EVAGRIO PONTICO, Lettere,
18. A ntonio l’E remita, Lettere, 5; 5 bis.
2 Omelie sulla formazione dell’uomo, I, 8.
3 Questioni a Talassio, 1.
4L’anima, 69.
5Discorsi ascetici, 82.
127
le. Ma quando la natura è al di fuori del suo proprio ordine, allora le
passioni sono in essa»6. Altrove, lo stesso san Basilio scrive, usando un
lessico medico, come si noterà: «È chiaro che la salute esiste nella
natura prima dell’irruzione della malattia. Se è proprio così - ed è la
verità stessa -, la virtù è nell’anima naturalmente. Quanto avviene in
seguito è al di fuori della sua natura [...]. Dal momento che è a tutti
noto che la purezza è connaturale all’anima, occorre affermare che [le
passioni] non esistono naturalmente. Difatti la malattia è seconda, vie
ne dopo la salute»7. Quest’ultimo passaggio segue molto da vicino
un’osservazione di Evagrio: «Se la malattia è seconda in rapporto al
la salute, è evidente che anche la malizia è seconda in rapporto alla
virtù»8. San Giovanni Climaco, da parte sua, afferma: «Non vi è, a mo
tivo della sua stessa natura, né vizio né passione nella natura [del
l’uomo]; Dio, infatti, non è il creatore delle passioni»9; «Dio non è
né l’autore né il creatore del male; s’ingannano coloro che affermano
che [le] passioni sono connaturali all’anima»10.
Le passioni appaiono, perciò, come il prodotto di una invenzione
dell’uomo stesso, in conseguenta del peccato ancestrale. San Maca
rio insegna: è «per la disobbedienza del primo uomo [che] abbiamo
ricevuto in noi un elemento estraneo alla nostra natura, la malizia del
le passioni; passato nell’abitudine e nella predisposizione inveterata,
esso è divenuto come nostra natura»11. San Massimo scrive ugualmente:
«Io affermo, per averlo appreso dal grande Gregorio di Nissa, che le
passioni sono state introdotte e come innestate nella parte irraziona
le dell’anima a causa della caduta fuori della perfezione. È a motivo di
tale caduta che invece di portare l’immagine beata e divina, fin dal mo
mento della trasgressione l’uomo ha iniziato a rassomigliare chiara
mente e visibilmente agli animali senza ragione»12. Le passioni sono,
in altri termini, l’effetto di un cattivo uso del libero arbitrio dell’uo
mo, il frutto della sua volontà personale dissociata dalla sua volontà
naturale in armonia con quella di Dio. A questo proposito così scri
ve sant’Isacco: «Le passioni vengono dunque ad aggiungersi, e la cau
sa di questa aggiunta è nell’anima stessa»13. San Giovanni Damasceno
6 Ibid., 83.
7 Ibid.
8 Capitoli gnostici, 1,41.
9 La Scala, XXVI, 50.
10Ibid., 141.
11 Omelia (Coll. E), IV, 8.
12 Questioni a Talassio, 1.
13Discorsi ascetici, 82.
128
precisa: «Tutto ciò che Dio ha fatto è molto buono, tutto ciò che
permane come egli lo ha creato è molto buono. Ciò che si separa vo
lontariamente dal naturale e va contro natura diviene cattivo. Tutto
ciò che serve e obbedisce al Creatore è secondo la natura. Quando una
creatura, volontariamente, si rivolta contro e disobbedisce al suo Crea
tore, costruisce il male in se stessa»14.
Solo le virtù, lo abbiamo dimostrato, appartengono alla natura del
l’uomo, ed è allontanandosi dalle virtù che questi introduce in sé le
passioni, di modo che queste ultime debbono essere in primo luogo
definite negativamente come l’assenza, la mancanza delle virtù corri-
spondondenti, le quali costituiscono la somiglianza di Dio nell’uomo.
San Doroteo di Gaza spiega così: «Abbiamo bandito da noi le virtù
e introdotto al loro posto le passioni [...]. Avviene naturalmente che
noi possediamo le virtù che ci sono state date da Dio. Nel creare l’uo
mo, Dio le ha messe in lui secondo la parola: “Facciamo l’uomo a no
stra immagine e a nostra somiglianza” (Gn 1,26) [...]; “a nostra so
miglianza”, cioè secondo la virtù [...]. Dio, dunque, con la natura ci
ha donato le virtù. Le passioni, però, non sono naturali: non hanno né
essere, né sostanza, somigliano alle tenebre che non esistono per se
stesse, ma [...] esistono solo per la privazione della luce15. Allonta
nandosi dalle virtù per amore del piacere, l’anima ha provocato la na
scita delle passioni, poi le ha consolidate in sé»16. San Giovanni Da
masceno afferma la stessa cosa: «Il male non è nient’altro che l’allon
tanamento dal bene così come la tenebra è l’assenza di luce. Qò significa
che se noi, uomini, rimaniamo nel nostro stato naturale, allora siamo
nella virtù, ma se noi ci allontaniamo dallo stato naturale, giungiamo
a uno stato contro natura (parà physin), vale a dire ai vizi»17.
Le virtù costituiscono, lo abbiamo visto, nel funzionamento secon
do la loro natura, o in altre parole, secondo la finalità che Dio ha loro
assegnato nel creare la natura umana, delle facoltà, potenze o tenden
ze dell’uomo. Esse corrispondono all’uso e al significato normali e ra
zionali (logikós) di queste facoltà, che sono, lo abbiamo visto, quelli di
orientare e di elevare l’uomo verso Dio; logikós del resto, per i Padri,
significa conforme al Logos, all’immagine e alla somiglianza con cui
l’uomo è stato creato. Le passioni sono costituite, al contrario, dal fun
zionamento contro natura (cioè distolte dalla loro finalità naturale e
14Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
15 Doroteo rinvia a BASILIO DI CESAREA, Omelie suWHexaemeron, II, 5.
16Istruzioni spirituali, XII, 134.
17Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
129
normale, cioè da Dio) delle facoltà dell’anima e degli organi del cor
po18, dalla loro deviazione, dalla loro perversione, dal cattivo uso (parà-
chtèsis). San Giovanni Damasceno definisce, così, le passioni come una
«deviazione volontaria da secondo-natura a contro-natura»19. Anche
san Niceta Stetatos ritiene che le «passioni dell’anima [siano] susci
tate dalle potenze che vanno contro la sua natura»20. San Giovanni Cli-
maco scrive allo stesso modo: «Siamo noi stessi che abbiamo cam
biato in passioni le qualità costitutive della nostra natura»21. San Ta-
lassio parla ugualmente della trasformazione delle virtù in vizi22. E san
Basilio Magno spiega: «Abbiamo ricevuto da Dio la tendenza natu
rale a fare ciò che egli comanda [...]. NelTusare convenientemente e
legalmente queste forze noi viviamo santamente nella virtù; nel di
stoglierle dal loro fine, noi siamo, al contrario, portati verso il male.
Tale è, infatti, la definizione del vizio: l’uso, cattivo e contrario ai co-
mandamenti del Signore, delle facoltà che Dio ci ha donate per il be
ne, e tale, di conseguenza, è la definizione della virtù che Dio esige da
noi: l’uso coscienzioso di queste facoltà secondo l’ordine del Signo
re»23. San Gregorio Palamas insegna ugualmente che «il cattivo uso
delle potenze dell’anima genera passioni detestabili»24. E san Massi
mo, che afferma spesso il carattere contro natura delle passioni25, pre
cisa allo stesso modo: «Nulla di ciò che è, è cattivo, ma solo il cattivo
uso, a causa della negligenza del nostro spirito nel coltivarsi secondo
natura»26; «il peccato in ogni cosa, è il cattivo uso»27; «nella misura in
cui noi usiamo male le potenze della nostra anima: concupiscibile, ira
18È così che i Padri distinguono generalmente tra le «passioni dell’anima» e «le passioni del
corpo» (vedi EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35; 36. MASSIMO IL CON
FESSORE, Centurie sulla carità, I, 64. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 8. GIOVANNI DAMASCE
NO, Discorso utile all’anima. ELIA ECDICO, Capitoli gnostici, 122). Tuttavia, le passioni del corpo
hanno, come vedremo, il loro principio nell’anima, e quindi un certo numero di passioni im
plicano tanto l’anima che il corpo. Ogni passione, d’altra parte, implica in qualche misura la to
talità delle facoltà dell’anima (intelligenza, volontà, memoria, desiderio, irascibilità, immagina
zione, ecc.). Benché in senso stretto le passioni colpiscano essenzialmente «la parte passionale
dell’anima», costituita dalla facoltà di desiderio e dalla facoltà irascibile che sono le potenze pas
sionali {pathetikaì dynámeis), i Padri spesso parlano anche delle passioni della «parte razionale
dell’anima», la quale include l’intelligenza o spirito (nous).
19Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
20 Centurie, I, 37.
21 La Scala, XXVI, 141.
22 Cfr. Centurie, I, 89.
23Regole lunghe, 2.
24 Triadi, II, 2,19.
25 Cfr. Centurie sulla carità, II, 16; Questioni a Talassio, 55. Lo scoliaste di quest’opera parla
abitualmente di «passioni contro natura» (tbid. 39, scolio 4 e 9; 51, scolio 4).
26 Centurie sulla carità, DI, 4.
27 Ihid., 86.
130
scibile e razionale, i vizi s’installano in essa»28. Anche su questo pun
to vi è un insegnamento di Evagrio. Questi, che constata che i vizi
distruggono «le attività naturali dell’anima»29, spiega più dettagliata-
mente: «Se tutta la malizia è generata dall’intelligenza, dalla potenza
irascibile, e dalla potenza concupiscibile, e se, queste potenze, ci è pos
sibile usarle bene o male, è evidente dunque che attraverso l’uso
contro natura di queste parti [dell’anima] ci giungono i mali. E se è
così, non vi è nulla che è stato creato da Dio che sia cattivo»30. Ori-
gene ugualmente constata: «Tutti i movimenti dell’anima, Dio, l’Au
tore di tutte le cose le ha create per il bene. Ma in pratica, accade
che gli oggetti buoni ci conducono al peccato, perché noi li usiamo
male»31. E così che san Massimo può far notare che al diavolo, «che
ha concentrato la lotta contro la virtù e la conoscenza», è sufficiente
«scombussolare l’anima per mezzo delle potenze che sono in essa», in
citando l’uomo a pervertire il loro uso, ad invertire il significato del lo
ro esercizio32.
Poiché le passioni sono costituite per l’allontanamento delle facoltà
dal loro scopo divino normale e per l’uso contro natura di queste in
vista del conseguimento del piacere sensibile, esse sono movimenti sre
golati e irrazionali dell’anima: «La passione», scrive san Massimo, «è
un movimento dell’anima contro natura, in seguito a un amore irra
zionale o a un’avversione irriflessiva per un oggetto sensibile qualun
que»33.
Per questo motivo, ma anche a causa di tutti gli altri turbamenti che
le sono inerenti e i numerosi sregolamenti che esse producono all’a
nima, le passioni possono a giusto titolo essere considerate come for
me di follia. Sant’Atanasio d’Alessandria parla così di «uomini cadu
ti nella follia delle passioni»34. San Giovanni Crisostomo afferma: «I
vizi non sono che follia»35; altrove spiega: «Ogni passione funesta ge
nerata nella nostra anima produce in noi una sorta di ubriachezza [...]
e offusca la nostra ragione. Perché l’ubriachezza non è null’altro che
la deviazione dello spirito dalle sue vie naturali, la deviazione dei ra-
28lbid., 3.
29 Capitoli gnostici, IV, 22.
30lbid., DI, 59.
31 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 1. Vedi anche GREGORIO DI NlSSA, La creazione del
l’uomo, XVHI, PG 44,193B.
32 Cfr. Questioni a Talassio, 50.
33 Centurie sulla carità, II, 16. Cfr. CLEMENTE D’ALESSANDKIA, Stromata, E, Xm, 59,6; 61,2.
34 Contro i pagani, 19.
35 Omelie sulla lettera ai Colossesi, IX, 1.
131
gionamenti e la perdita della coscienza»36. Già l’Ecclesiaste scriveva:
«Mi detti a riflettere per riconoscere il male come follia (aphrosynè)»
(Qo 125). Frequentemente, i Padri presentano la vita nel peccato e le
passioni come uno stato di follia37.
Ancora più frequentemente, usano il termine malattia per indica
re le passioni e i peccati abituali che ne derivano. Il termine greco
pàthos che indica la passione, ha la radice in comune con i termini
pàthé e pàthèma che significano «malattia»; l’accostamento tra queste
nozioni è praticamente sempre implicito, ma molte volte i Padri lo sta
biliscono esplicitamente. «Praticando il male, scrive per esempio san
Doroteo di Gaza, prendiamo un’abitudine strana e contro natura, con
traiamo una sorta di malattia cronica»38. Le passioni sono «le malattie
dell’anima (psychès nósoi}», afferma più nettamente Gemente d’Ales
sandria39. Sant’Ammona le descrive allo stesso modo40. San Niceta Ste-
tatos parla della «malattia delle passioni»41, come anche san Macario42.
«L’anima, questi scrive, è caduta dopo la trasgressione del comanda
mento, nella malattia delle passioni»43; Dio «sa a quali mali l’anima sia
sottomessa, come sia impedita a compiere le opere della vita e come
sia divenuta preda della malattia opprimente delle passioni disono
ranti»44. Evagrio definisce «la malizia», opposta alla virtù e ritenuta di
conseguenza come l’insieme delle passioni, «malattia dell’anima»45.
San Massimo insegna: «Ciò che la salute e la malattia sono per il cor
po del vivente [...], la virtù e il vizio [lo sono] in rapporto all’anima»46.
E sant’Isacco il Siro scrive allo stesso modo: «Avviene per le cose
36 Catechesi battesimali, V, 4. Cfr. 5; 6; Omelie sui demoni, 1,7; Commento a san Matteo, IX,
1; Omelie su 1 Corinzi, IX, 1; 4.
37 Cfr. G regorio DI N issa , Sulla verginità, IV, 3. B arsanufio , Lettere, 17 (Questione); 62;
97; 98; 201; 250. TEODORETO DI CIRO, Discorso sulla Provvidenza, I, PG 83, 560A. ERMA, Il
Pastore, Similitudini, VI, 5, 3; IX, 22, 3. GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi battesimali, VI, 22.
G iustino , Dialogo, 95. M etodio d ’O limpo , Il Banchetto, V, 5. Simeone il N uovo T eologo ,
Catechesi, XV, 48; 53; Inni, XX, 126-127. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,34.
38Istruzioni spirituali, XI, 122. Cfr. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 463.
39Protreptico, XI, 115,2.
40 Lettere, XEI, 5 (versione siriaca).
41 Centurie, II, 22. Cfr. tutto il capitolo, in cui le passioni sono presentate come malattie,
così come nella Centuria I, 34; 35; 51.
42 Omelie (Coll. HI), XXV, 2,1.
43Ibid., x x v n , 2; 4. In questo stesso passo, dice anche, «l’anima giace nella malattia del pec
cato».
44 Ibid.y XXVI, 3, 4. Le passioni appaiono considerate anche come malattie in: Capitoli pa
rafrasati, 41; 100; Omelie (Coll. Ili), VII, 7,2; Omelie (Coll. II), IV, 26-27; LIII, 11.
45 Capitoli gnostici, I, 41. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Omelie sull’Hexaemeron, IX, 4: «Il male
è sempre un’infermità dell’anima, e la virtù ne è la salute».
46 Centurie sulla carità, IV, 46.
132
dell’anima ciò che avviene per le cose del corpo. Se, dunque, la virtù
è naturalmente la salute dell’anima, le passioni ne sono la malattia»47.
«Se l’anima non si purifica dalle passioni, non guarisce dalle malattie
del peccato», egli aggiunge48. «Vi sono molte malattie nell’anima», scri
ve Origene prima di elencare, a titolo di esempio, differenti passioni49.
Tutti questi esempi riportati finora sono solo alcuni tra quelli che ve
dremo nell’esaminare ogni passione50.
I Padri si sono messi a classificare queste passioni/malattie, elabo
rando così una vera nosografia spirituale. San Giovanni Cassiano spie
ga come sia possibile distinguerle e classificarle in riferimento alle dif
ferenti «parti» dell’anima o facoltà che esse colpiscono, ricorrendo,
per la sua dimostrazione, a una precisa comparazione con le malattie
fisiche: «Tutti i vizi, egli scrive, hanno una stessa fonte e un’identica
origine. Ma, secondo la parte, e per così dire, il membro che è vizia
to nell’anima, essa riceve i diversi vocaboli delle passioni e delle ma
lattie spirituali. L’analogia delle affezioni fisiche fa talvolta da prova.
Difatti, benché la causa sia unica, essa non cessa di diversificarsi in dif
ferenti tipi di malattia, a seconda del membro che ne è colpito. Se l’u
more del peccato assedia la testa, che è come la cittadella del corpo,
dà luogo alla cefalgia; se esso invade le orecchie o gli occhi, si ha l’o
talgia o l’oftalmia; se esso si porta alle articolazioni o alle estremità del
le mani, è la malattia articolare, o la gotta delle mani; se esso scende
fino alle estremità dei piedi, l’affezione cambia nome per chiamarsi
podagra o gotta dei piedi. Per una stessa fonte di umore maligno si
usano vocaboli diversi a seconda delle parti o delle membra colpite.
Parimenti, circa le cose visibili che passano alle invisibili, possiamo ben
credere che l’energia dei vizi sia similmente localizzata nelle diverse
parti e, per così dire, nelle membra dell’anima. Ora i sapienti vi di
stinguono tre facoltà: quella razionale, quella irascibile e quella con
cupiscibile. L’una o l’altra sarà necessariamente alterata tutte le volte
che il male ci attaccherà. Quando, dunque, la passione cattiva tocca
qualcuna di queste potenze, è secondo l’alterazione che essa vi de
47 Discorsi ascetici, 83. Tutto il discorso è fondato su questo paragone.
48Ibid.y86. Allo stesso modo troveremo che le passioni sono considerate malattie nei Discorsi,
26,30, e a più riprese nella Lettera 4, in cui santTsacco il Siro scrive particolarmente: «La mali
zia è una malattia dell’anima»; «fintanto che l’anima è nella malattia delle passioni, non sente ciò
che è spirituale».
49 Omelie sui Numeri, XXVII, 12. Vedi anche La preghiera, 29.
50 Sulle passioni considerate globalmente come malattie, vedi anche GIOVANNI DAMASCENO,
Discorso utile allanima.
133
termina, che il vizio particolare riceve la sua denominazione»51. In que
sto testo, che possiamo considerare rappresentativo del modo di ve
dere dei Padri, la passione appare chiaramente concepita e definita co
me malattia non in modo allegorico o semplicemente per dare un’im
magine, e neanche in virtù di una semplice comparazione, ma, come
precisa lo stesso san Giovanni Cassiano, a motivo dell’analogia vera,
ontologica, che esiste tra le affezioni del corpo e quelle dell’anima, e
che autorizza a parlare delle une e delle altre in termini medici iden
tici. Nella maggior parte dei casi in cui vedremo i Padri usare, per de
scrivere le passioni, il vocabolario abitualmente applicato alla patolo
gia del corpo, dovremo sapere che non si tratta di figure retoriche, ma
di un modo di esprimersi perfettamente adeguato alla realtà che essi
vogliono descrivere, ossia di un modo preciso e diretto per dire le co
se così come sono. L’analogia che vige tra i due ordini di realtà per
metterà all’inizio di descrivere le affezioni somatiche in termini riser
vati, eventualmente, alle malattie dell’anima; e se è attraverso il voca
bolario della patologia corporea che i mali dell’anima sono generalmente
presentati, è più facile andare dal visibile all’invisibile che non l’in
verso, particolarmente quando si tratta d’istruire coloro che hanno po
ca familiarità con le realtà spirituali.
Molte passioni/malattie possono colpire l’anima dell’uomo deca
duto, in corrispondenza ai movimenti patologici di cui sono suscetti
bili le sue diverse facoltà, potendo per di più alcuni di questi movi
menti combinarsi tra loro. San Giovanni Cassiano offre così questa
classificazione per illustrare le sue argomentazioni sopra citate: «Se
la peste viziosa infetta la parte razionale, genera la cenodossia52, l’e
saltazione, l’orgoglio, la presunzione, la durezza, l’eresia. Se ferisce la
parte irascibile, essa partorisce il furore, l’impazienza, la tristezza,
l’acedia, la pusillanimità, la crudeltà. Se corrompe la parte concupi
scibile, produce la gastrimargia53, l’impurità, l’amore del denaro, l’a
varizia, desideri perniciosi e terreni»54. San Giovanni Damasceno, che
utilizza, nel suo Discorso utile all’anima, lo stesso principio di classi
ficazione, fornisce una lista più dettagliata55. In un altro punto dello
stesso Discorso, presenta un catalogo ancora più lungo sulla base del
la distinzione delle passioni dell’anima e delle passioni del corpo: «Le
51 Conferenze, XXIV, 15.
52 Cioè la vanagloria o vanità.
53 O golosità.
54Loc. cit.
55 Cfr. Discorso utile all’anima.
134
passioni dell’anima sono l’oblio, la negligenza e l’ignoranza, questi tre
vizi attraverso cui l’occhio dell’anima - l’intelligenza - accecato è
sottomesso a tutte le passioni, che sono l’empietà, la falsa opinione,
cioè ogni eresia, la bestemmia, la frenesia, la collera, l’acredine, l’im
peto d’ira, l’odio per gli uomini, il rancore, la calunnia, la condanna,
la tristezza irrazionale, la paura, la viltà, la disputa, la rivalità, la gelo
sia, la vanità, l’orgoglio, l’ipocrisia, la menzogna, l’infedeltà, l’avidità,
l’amore per le creature, le inclinazioni passionali, il possesso delle
cose terrene, l’acedia, la bassezza d’animo, l’ingratitudine, la mormo
razione, l’alienazione, la presunzione, l’arroganza, la millanteria, l’a
more del potere, il desiderio di piacere agli uomini, l’astuzia, l’impu
denza, l’insensibilità, l’adulazione, l’ipocrisia, la dissimulazione, la dop
piezza, il consenso che la parte passionale dell’anima dà ai peccati, la
pratica continua di questi peccati, la dispersione dei pensieri, la fi-
lautia [...], l’amore per il denaro [...], la malignità e la cattiveria. Le
passioni del corpo sono la golosità, l’ingordigia, l’ubriachezza [...], la
lussuria, l’adulterio, l’impudicizia, l’impurità, il godimento, l’amore di
ogni sorta di piaceri, la corruzione dei bambini, [...] le cattive brame
e tutte le passioni infami contro natura; il furto, il sacrilegio, il bri
gantaggio, l’omicidio e ogni licenza e godimento delle volontà della
carne per confortare sempre più il corpo; gli oracoli, i sortilegi, i pre
sagi, gli aruspici, l’amore dello sfarzo, la frivolezza, l’indolenza, [...]
l’ozio deplorevole, le distrazioni, i giochi d’azzardo, il cattivo uso pas
sionale dei piaceri del mondo, la vita che ama il corpo»56. Quanto a
san Massimo il Confessore, adottando completamente la classificazione
stabilita sulla base delle tre funzioni principali dell’anima, elabora pa
rallelamente una classificazione delle passioni in altre tre categorie:
quelle che derivano dalla ricerca del piacere, quelle che provengono
dall’evitare la sofferenza e, infine, quelle che sono nate dalla congiun
zione di queste due tendenze. «Nel cercare di ottenere il piacere e di
evitare la sofferenza, egli scrive, l’uomo inventa forme diverse e nu
merose di passioni corruttrici, per esempio se per il piacere si coltiva
l’amore di sé (philautta), si suscitano in sé la golosità, l’orgoglio, la va
nità, la presunzione, l’avarizia, l’avidità, la tirannia, l’arroganza, l’o
stentazione, la crudeltà, il furore, il sentimento di superiorità, la te
stardaggine, il disprezzo degli altri, l’ingiuria, l’empietà, i costumi li
cenziosi, la prodigalità, la depravazione, la frivolezza, la millanteria,
l’indolenza, l’insulto, l’oltraggio, la prolissità, il pettegolezzo, l’osce-
*lbid.
135
nità, e altri vizi di questo genere. Ma se l’amore di sé (philautia) è schiac
ciato dalla sofferenza, questo fa nascere la collera, l’invidia, l’odio, l’o
stilità, il rancore, l’oltraggio, la maldicenza, la calunnia, la tristezza,
la disperazione, lo sconforto, la falsa accusa della Provvidenza divina,
la noncuranza, la negligenza, lo scoraggiamento, la prostrazione, la pu
sillanimità, la lamentela, la malinconia, l’acredine, la gelosia, e tutti gli
altri vizi dovuti alla privazione del piacere. La mescolanza sofferenza-
piacere, che genera la malevolenza e la cattiveria, fa nascere in noi
l’ipocrisia, l’ironia, l’astuzia, la dissimulazione, l’adulazione, la com
piacenza, e tutti gli altri vizi nati da questo miscuglio»57. «Mi è im
possibile», aggiunge san Massimo, «elencare tutti questi vizi ed esa
minare le forme sotto le quali essi appaiono»58: questa lista, dunque,
malgrado la sua lunghezza è solo parziale, proprio come quella di
san Giovanni Damasceno citata precedentemente; essa offre solo
una semplice idea dell’immensa folla di passioni che possono colpire
l’uomo decaduto.
Tra queste diverse malattie spirituali ce ne sono, tuttavia, alcune che
sono più fondamentali di altre, più generali, e generiche (genikotatoi)59;
quest’ultimo termine significa che esse contengono in qualche modo
e generano tutte le altre60.
Le principali passioni sono otto. Evagrio ne dà il seguente elenco:
«In tutto sono otto i pensieri generici che comprendono tutti i pen
sieri: il primo è quello della gastrimargia (gastrimargia), poi viene quel
lo della lussuria (pometa), il terzo è quello della filargiria (philargyria)61,
ü quarto è quello della tristezza (lype), il quinto quello della collera
(orge), il sesto quello dell’acedia (akedta), il settimo quello della ce-
nodossia (kenodoxia), l’ottavo quello dell’orgoglio (yperèpham'a)»62.
Quest’elenco fissato da Evagrio è divenuto tradizionale nell’ascetica
ortodossa63.
57 Questioni a Talassio, Prefazione.
*Ibid.
59 EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 6. Troviamo l’espressione già im
piegata da C lem en te d ’A lessan dria, Il Pedagogo, I, xm , 101,1.
60 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 6.
61 O avarizia.
62 Trattato pratico sulla vita monastica, 5.
63 Lo troviamo particolarmente in: GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 2; Istituzioni ceno
bitiche, V, 1. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVII, 43, XX, 1; XXVI, 2; 33. G re g o rio M agno,
Moralia su Giobbe, XXXI, 45. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima. N ilo SORSKY,
Regola, V. Sull’origine di questa classificazione vedi I. HAUSHERR, «L’origine de la théorie orien
tale de huit péchés capitaux», in Orientalia christiana, XXX, 3, 1933, pp. 164-175, ripreso in
Études de spititualité orientale, Roma 1969, pp. 11-22.
136
Le otto passioni generiche corrispondono alle sette nazioni da
vincere oltre l’Egitto già vinto, di cui parla il Deuteronomio il X)M. Tal
volta, i Padri uniscono in un solo vizio l’orgoglio e la cenodossia,
ammettendo per questo fatto solo sette passioni65, passioni che corri
spondono allora ai sette demoni di cui parla il Vangelo (cfr. Mt 12,45;
Me 16,9; Le 8,2; 11.26)66.
All’origine di queste otto passioni principali e di tutti gli altri vizi
che ne derivano, si trova la filautia (philautia) o amore egoistico di sé.
Tutte le passioni derivano dalla filautia67, ma questa causa in primo
luogo tre passioni fondamentali che precedono e generano le altre
cinque delle otto principali, poi tutte le altre: sono la gastrimargia, la
fQargiria e la cenodossia68. «La filautia, l’ho ripetuto più volte, scrive
san Massimo, è all’origine di tutti i pensieri passionali. Da essa na
scono, infatti, i tre vizi generici della cupidigia: gastrimargia, filargi-
ria, cenodossia»69. Tutto ciò corrisponde all’insegnamento di Evagrio:
«Dei demoni che si oppongono alla pràxis70, i primi a farci guerra so
no quelli che hanno l’incarico degli appetiti della gastrimargia, quel
li che suggeriscono la filargiria e quelli che invitano alla gloria uma
na. Tutti gli altri vengono dopo»71. «Ecco perché, fa notare, il dia
volo insinuò questi tre pensieri al Salvatore, invitandolo prima di tutto
a cambiare le pietre in pane, in secondo luogo promettendogli il mon
do se si fosse prostrato ad adorarlo, in terzo luogo dicendogli che sa
rebbe stato glorificato se lo avesse ascoltato»72. Queste tre passioni
primordiali sono in qualche modo le più immediate, quelle che ap
paiono in primo luogo e sono le più diffuse tra gli uomini. Queste so
no anche quelle che aprono la porta a tutte le altre: «Nulla cade sot
to il potere di un demonio se non è stato all’inizio ferito da questi tre
capifila», osserva Evagrio73. Vedremo, del resto fintanto che l’uomo
non li ha vinti, non'può essere liberato dalle altre passioni; al con
64 Cfr. G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 17-18.
65Cfr. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 1.
“ Vedi anche Ap 17,3.9.
67 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, in, 56. Talassio, Centurie, IH, 86.
ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 71. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all'anima. ESICHIO DI
Batos, Capitoli sulla vigilanza, 202. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 6.
68 Cfr. Massimo i l C onfessore, Centurie sulla carità, II, 56; IH, 56. Talassio, Centurie,
HI, 87-90. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 1; XXVI, 2; 33; 93.
69 Centurie sulla carità, DI, 56. Vedi anche TALASSIO, Centurie, HI, 87.
70 Questo termine, lo vedremo, indica tradizionalmente la vita ascetica.
71Sui diversi pensieri della malvagità, 1.
n Ibid.
7J Loc. cit.
137
trario, quando egli li ha vinti, può facilmente eliminare le passioni che
rimangono74.
Queste tre passioni principali hanno tre discendenti immediati, ci
insegna san Massimo: «Dalla gastrimargia nasce la lussuria, dalla fi-
largiria la pleonessia75, dalla cenodossia nasce l’orgoglio»76. Tutte le al
tre passioni vengono indifferentemente da tutte queste77.
Segnaliamo, tuttavia, che quest’ordine di produzione non ha un va
lore assoluto, ma è solo indicativo di ciò che avviene generalmente, e
che tale passione conduce a talaltra col favorirla anziché col causarla,
in senso vero e proprio. Se è vero, d’altra parte, che una passione apre
la porta a un’altra (per esempio la gastrimargia alla lussuria), essa non
è l’unico fattore che la favorisce.
In linea generale, la classificazione delle passioni che abbiamo
presentato non potrà essere limitativa ed esclusiva, come abbiamo già
fatto notare, e non deve in alcun caso essere compresa in modo rigi
do e scolastico. D’altronde, i Padri offrono, talvolta parallelamente,
elenchi di diverse passioni secondo le circostanze del loro insegna
mento78. Tali classificazioni non hanno valore assoluto, ma costitui
scono, ai fini dell’insegnamento spirituale e della pratica ascetica, stru
menti comodi. Noi stessi ricorreremo a tali classificazioni in quanto ci
permettono una comprensione più agevole delle cose e un approccio
più semplice di una realtà complessa e multiforme.
D’altra parte, è evidente che i tipi di filiazione tra le passioni, che
abbiamo mostrato, indicano solo tendenze generali e non escludono
altri modi di generazione né altri generi di relazioni. Abitualmente i
Padri insegnano anche che le passioni sono tutte in relazione le une
alle altre, s’implicano e si rafforzano mutuamente, affermando che ogni
passione genera tutte le altre79. San Marco l’Eremita scrive: «Non d
deve sembrare strano l’essere attratti con violenza non solo dai pen
sieri che amiamo, ma anche da quelli che odiamo; nella misura in cui
vi è una cattiva affinità tra essi, le suggestioni cooperano ai nostri de
74 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 2.
75 O cupidigia.
76 Centurie sulla carità, Ut, 56. Cfr. TALASSIO, Centurie, DI, 89.
77 Cfr. M assimo i l C on fessore, loc. tit. T alassio, Centurie, III, 89-90.
78 Vedi tra l’altro, 2Tm 3,2. M a ca r io D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XL, 1. GREGORIO DI
NlSSA, Sulla verginità, IV, 5. BARSANUFIO, Lettere, 137 bis. MARCO L’EREMITA, La legge spiritua
le, 136; A Nicola, 4. G iovanni C um aco, La Scala, XXII, 5. G iovanni D am asceno, Discorso uti
le aU’anima. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 30.
79 Oltre agli autori citati infra, vedi GREGORIO M agn o, Moralia su Giobbe, VII, 8. GIOVAN
NI C lim aco, La Scala, XXII, 5. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, DI, 56. M acario
d ’E g itto , Omelie (Coll. II), XL, 1. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 96.
138
sideri e reciprocamente; quando un pensiero si è attardato in colui che
10 accarezza, esso lo fa passare alla fine al seguente, cosicché è guida
to alla stessa maniera dal secondo, senza che vi presti attenzione, in
trodotto a forza per la sua relazione con il primo»80. San Gregorio di
Nissa insiste ancor più a lungo su questa interdipendenza delle pas
sioni che fa sì che esse si richiamino tra loro: «Questi mali, per così di
re, si tengono l’un l’altro, tanto che uno succede all’altro, mentre
l’ultimo, trascinato da una certa necessità di natura, entra inevitabil
mente con esso, come avviene per una catena quando si tira l’estre
mità: non è possibile che l’ultimo degli anelli rimanga immobile, ma
quello che si trova alla fine della catena si muove con il primo, poiché
11 movimento si propaga progressivamente e in maniera continua, a
partire dall’inizio, attraverso gli anelli intermedi. Così avviene per le
passioni umane: esse si tengono legate e unite le une alle altre, e quan
do una prende il sopravvento, la carovana degli altri mali entra nel
l’anima»81.
Occorre notare, peraltro, che l’ordine nel quale si presentano e si
generano le passioni varia a seconda delle persone. Così, osserva san
Giovanni Cassiano, «le otto passioni principali insieme fanno la guer
ra al genere umano, ma i loro attacchi non si presentano nello stesso
modo in tutti indistintamente»82. «Qui è lo spirito della lussuria che
ha il primo posto, là domina la collera. Lacènodossia rivendica lo scet
tro in questi; in quello l’orgoglio detiene la sovranità. E, benché cia
scuno di noi subisca gli assalti di tutti, non è nella stessa maniera né
secondo lo stesso ordine che ne siamo tormentati»83.
Come qui indica san Giovanni Cassiano, sarebbe illusorio per l’uo
mo decaduto credersi esente dalle passioni, o anche solo da tale o ta
laltra. Se qualche passione sembra non essere in noi, è perché essa non
ci appare o non si manifesta in quel momento; nondimeno essa esi
ste in un certo grado nell’anima e può manifestarsi in ogni istante nel
caso che si offrano le circostanze.
In ogni caso, vi è nell’anima un’economia delle passioni tale che
quando una passione esiste con poca intensità e sembra persino as
sente, la sua mancanza relativa è compensata dal più grande svilup
po di una o di molte altre. Possiamo così constatare a contrario che al
80II battesimo, 13.
81Sulla verginità, IV, 5.
82 Conferenze, V, 13.
83 Ibid.
139
cune persone nelle quali tale o talaltra passione è particolarmente svi
luppata sono pressoché esenti da altre passioni o almeno queste non
le abitano che in grado lieve84. Talvolta, la semplice attività intensa di
coloro che sono presi dagli affari e dalle occupazioni mondane basta
in genere a far scomparire in essi certe passioni; questo tuttavia è ve
ro solo provvisoriamente perché le possiamo vedere riapparire non
appena questa attività perde d’intensità. San Giovanni Climaco cita
un esempio di questo processo che ha potuto egli stesso osservare:
«Ho visto molte persone viventi nel mondo sfuggire alla tirannia dei
desideri carnali per il semplice fatto delle cure, delle preoccupazioni,
delle conversazioni e delle veglie dedite agli affari terreni; ma una vol
ta entrati nella vita monastica e liberi da ogni preoccupazione, essi si
sono lasciati lamentosamente corrompere dall’ardore del corpo»85.
Tra le diverse passioni, la cenodossia e l’orgoglio possiedono al più
alto grado la capacità di far scomparire altre passioni, prendendone il
loro posto. Così la cenodossia, in certi casi, appare come il nemico del
la gastrimargia86; essa spesso scaccia i pensieri di acedia e di tristezza87
ma anche la collera88 e la lussuria89. Anche l’orgoglio ha il potere di
scacciare dall’anima tutte le altre passioni e di occuparvi da solo tutto
il posto90, questo perché esso è il principio di tutte e in qualche mo
do le contiene tutte sinteticamente. L’uomo orgoglioso può così sem
brare esente da tutte le passioni tranne che dall’orgoglio. Tuttavia l’or
goglio non può essere rimpiazzato da alcun’altra passione e sussiste in
ogni uomo che non ne è stato liberato da Dio. «Accade talvolta, scri
ve san Giovanni Climaco, che le passioni si allontanino da alcuni fe
deli, e anche da alcuni infedeli salvo una sola [l’orgoglio]; e questo è
lasciato loro come il più grande di tutti i mali che, da solo, riempie il
posto di tutti gli altri»91.
Le passioni sono spesso chiamate dai Padri «pensieri» o «pensieri
passionali», «pensieri carnali», «pensieri maligni», perché si manifesta
84San Barsanufìo si mostra «stupefatto e sorpreso nel vedere come le persone del mondo che
hanno la passione del guadagno o della guerra» si mostrino esenti dalla passione del timore (Let
tere, 149).
85La Scala, II, 12.
86G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 10.
87 Cfr. ibià., XXVH, 45.
88Cfr. ibid., XXI, 25; 27.
89Cfr. EVAGRIO PONTTCO, Trattato pratico sulla vita monastica, 58.
90Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 63.
91 Ibid., XXV1,45. Cfr. XXn, 5.
140
no all’uomo prima di tutto come pensieri, che si traducano o meno in
seguito in azioni. «Non si peccherebbe mai con l’azione se non si pec
casse prima con il pensiero», osserva san Massimo92; «è il cattivo uso
dei pensieri che ha come conseguenza il cattivo uso delle cose», egli fa
ancora notare93. Le passioni, anche quando sembrano provenire dal cor
po, in verità hanno la loro origine nei pensieri dell’anima. Tutto «quel
lo che generalmente ci si immagina che il corpo ricerchi, scrive san Si
meone il Nuovo Teologo, non è il corpo ma l’anima che, per suo mez
zo, ricerca questo»94. Questi pensieri, attraverso cui si esprimono in
primo luogo le passioni, possono tuttavia, come vedremo in seguito, es
sere in un primo momente mconsci e si rivelano solo a certe condizioni.
Inoltre, le passioni sono frequentemente chiamate dai Padri «spiri
ti maligni», «spiriti cattivi» o «sjbiriti malvagi», perché esse sono ispi
rate e alimentate dai demoni e manifestano il loro grande influsso sul
l’anima dell’uomo. Ogni tipo di pensiero o di passione ha, peraltro,
secondo i Padri, un demone corrispondente. Per ogni passione, i de
moni possiedono in un certo modo l’anima e il corpo dell’uomo ed
esercitano su di essi un potere tirannico.
Le passioni sono anche indicate come «carne» (sdrx) o «mondo»
(.kósmos). Sant’Isacco il Siro scrive a questo proposito: «Il mondo
costituisce il nome globale che indica tutte le singole passioni. Quan
do vogliamo indicare globalmente le passioni, le chiamiamo “mondo”.
Ma quando vogliamo indicare uno per uno i nomi propri, le chia
miamo passioni»95. Come il termine «carne» nel vocabolario paolino96
e patristico non indica generalmente il corpo (soma) ma le passioni che
riguardano l’anima e il corpo come pure i soli pansieri passionali
dell’anima, così il termine «mondo» usato in questo contesto non in
dica la creazione bensì «la condotta carnale e la preoccupazione del
la carne»97. E quest’ultimo significato del termine «mondo» che tro
viamo in questo passo di san Giovanni: «Non amate il mondo, né
ciò che vi è nel mondo. Poiché tutto ciò che vi è nel mondo: la con
cupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, lo sfarzo della
ricchezza non è dal Padre, ma dal mondo» (lGv 2,15-16)98.
92 Centurie sulla carità, II, 78.
93 Ibid., 82.
94 Catechesi, XXV, 77-79.
95Discorsi ascetici, 30.
96Vedi J. BONSIRVEN, «Chair», in Dictionnaire de spiritualité, E, Paris 1953, col. 442. X. LÉON-
DUFOUR, Dictionnaire du Nouveau Testamenti Paris 1975, p. 159.
97 ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 30.
98 Possiamo vedere qui un altro tipo di classificazione delle passioni in tre grandi categorie.
141
Le passioni generano nell’anima ogni sorta di disordini, di scon
volgimenti, di scompigli. «Non appena una sola passione arriva a tur
bare l’ordine, scrive san Gregorio Magno, ve n’è subito un’altra pron
ta a causare danni. È in modo quanto mai pertinente che la Scrittura
(cfr. Is 34,14) afferma che i capi esortano e l’esercito lancia grida: dal
momento che, in realtà, i principali vizi, sotto un qualunque pretesto,
si sono incrostati nell’anima ingannata, l’innumerevole folla di quelli
che li seguono trascina quest’anima in ogni sorta di follie e la agita con
un clamore che possiamo definire bestiale»99; «l’anima sventurata che
si è lasciata avvincere, non fosse che per una sola volta da questi vizi
principali sotto i colpi dei peccati che si moltiplicano, diviene folle e
si ritrova devastata con ferocia bestiale», dice ancora Gregorio100.
Le passioni producono, allora, nell’anima uno stato di sofferenza
analogo a quello che possono produrre nel corpo le malattie fisiche.
San Doroteo di Gaza scrive a questo riguardo: «Se qualcuno si trova
ad avere un corpo melanconico, mal equilibrato, non è questo squili
brio che lo brucia, lo agita incessantemente e tormenta la sua vita? La
stessa cosa per l’anima soggetta alle passioni: non smette di essere tor
turata, la sventurata, dalla sua abitudine viziosa»101. San Giovanni Cri
sostomo afferma persino che «l’anima soffre più per i peccati di quan
to il corpo per le infermità»102.
Per guarire l’uomo dalle malattie che costituiscono le passioni,
per liberarlo dalla follia che queste generano e sollevarlo dalle soffe
renze che esse provocano, come pure d’altronde per preservarlo, è pri
ma di tutto indispensabile conoscerle bene. «Se non si sono prima de
scritte le varie forme di una malattia, se non si sono prima inventa
riate la sua origine e le sue cause, non si potranno applicare ai malati
i trattamenti adatti né permettere ai sani di conservarsi in buona
salute», afferma san Giovanni Cassiano103. Da parte sua, Giovanni
Crisostomo fa notare che «la Scrittura non si limita a far conoscere
[l’]errore [di qualcuno], ma lo istruisce allo stesso tempo sul motivo
che lo ha condotto a peccare: se essa si comporta in questo modo, è
allo scopo di garantire la salute a coloro che stanno bene contro il ri
schio di simili cadute. E così che agiscono i medici che visitano gli am
99Moralia su Giobbe, VII, 28.
m Ibid.
101 Istruzioni spirituali, XII, 127.
102 Omelie sulla lettera ai Romani, IV, 1.
103Istituzioni cenobitiche, VII, 13.
142
malati: anche prima di esaminare il male, essi ne cercano la causa, al
fine di reprimere il male fin dall’inizio»104.
«Mai le malattie potranno essere guarite, né trovati i rimedi ai fa
stidi della salute se prima non si sono cercate, in una investigazione
minuziosa, le loro origini e le loro cause», scrive ancora san Giovan
ni Cassiano105. San Giovanni Climaco afferma allo stesso modo: «Con
siglio a coloro che sono malati di cercare con cura molto precisa il me
todo che devono seguire per curarsi. Ora il primo punto del tratta
mento sta nel riconoscere la causa della propria malattia; quando si
sarà trovata questa, infatti, i malati riceveranno dalla Provvidenza di
Dio e dai loro medici spirituali il rimedio efficace»106. San Simeone il
Nuovo Teologo insegna allo stesso modo: «Il monaco non deve solo
conoscere e comprendere le modificazioni e le trasformazioni che
avvengono nella sua anima, ma anche le cause: quale può essere la
loro natura, da dove esse provengono»107.
Questo studio minuzioso delle cause e delle origini delle passioni
ha, d’altronde, per se stesso un valore terapeutico. San Giovanni Cas
siano riferisce che alcune persone sono state guarite dalle loro malat
tie spirituali per il semplice fatto di aver ascoltato i Padri spirituali spie
gare le diverse cause, forme e manifestazioni delle passioni/malattie,
e presentare i rimedi capaci a porvi fine. «Gli Anziani, scrive, hanno
l’abitudine di esporre tutto questo nelle loro conferenze, e ancor
più, nell’istruzione ai giovani. Molto spesso noi ne riconoscevamo al
cuni elementi in noi, mentre gli Anziani ne facevano l’esposizione com
pleta [...], e noi eravamo guariti apprendendo, senza proferire parola,
rimedi, e allo stesso tempo, le cause dei vizi che ci minacciavano»108.
La descrizione minuziosa e metodica delle passioni fatta dai Padri
si presenta come una vera nosologia e un’autentica semiologia medi
ca, destinate innanzitutto all’elaborazione metodica, rigorosa ed effi
cace della terapia delle malattie spirituali. Tale terapia incomincia, co
me abbiamo or ora visto, con la descrizione, in quanto questa consente
all’uomo di situarsi, di conoscere e di comprendere i movimenti del
la sua anima, di scoprire il loro significato profondo, e di prendere già
le distanze di fronte al male che lo colpisce o rischia di colpirlo, di non
essere più determinato ciecamente da meccanismi che egli ignora, che
104 Omelie su Ozia, HI, 4.
105Istituzioni cenobitiche, XH, 4.
m La Scala, VHI, 35.
107 Catechesi, XXV, 5-8. Cfr. 205-208.
108Istituzioni cenobitiche, V, 13.
143
lo turbano e lo fanno soffrire. Del resto, non sono solo le malattie
apparenti e facilmente curabili che i Padri descrivono, bensì anche
quelle che, presenti nel cuore, rimangono nascoste a quelli il cui di
scernimento spirituale non è penetrante, e quelle che esistono solo in
germe ma rischiano di svilupparsi se non vi si fa attenzione. Questa
nosologia e questa semiologia qui hanno ancora una funzione tera
peutica ma anche, e più in generale, profilattica. San Giovanni Cas
siano spiega a questo proposito: «Come il medico più sperimentato
generalmente non si accontenta di guarire le malattie presenti, ma, nel
la sua saggia esperienza precorre le malattie future e le previene con
prescrizioni e rimedi salutari, così questi autentici medici dell’anima,
distruggendo in anticipo nella conferenza spirituale, come mediante
un celeste antidoto, le malattie del cuore prima che esse appaiano, e
non consentendo che si sviluppino nello spirito dei giovani, svelano
loro la causa delle passioni che li minacciano e i rimedi che danno
loro la salute»109.
II
LA FILAUTIA
145
sue inclinazioni passionali»7. Qui per corpo s’intende non tanto lo stes
so composto somatico, così com’è stato creato da Dio all’origine,
sottomesso all’anima e spiritualizzato, i cui organi erano orientati ver
so Dio, quanto piuttosto il corpo decaduto al quale l’anima si subor
dina; attraverso i suoi sensi e le sue membra, esso diviene l’organo pri
mario della conoscenza e del godimento del mondo considerato da un
punto di vista esclusivamente sensibile, cioè indipendentemente da
Dio. In altre parole, il corpo qui indica ciò che l’Apostolo e la tradi
zione chiamano generalmente carne (sàrx). Ecco perché san Teodoro
di Edessa definisce la filautia come «disposizione passionale», e come
«soddisfazione concessa alle volontà carnali»8. San Niceta Stetatos scri
ve allo stesso modo: gli psichici, «dominati dalla filautia [...] pongono
ogni cura nella salute e nel godimento della carne»9. Più avanti, egli
sottolinea chiaramente la portata generale di questa passione: «La fi
lautia è l’amore insensato del corpo. Conduce [...] ad amare se stessi,
ad amare la propria anima, ad amare il proprio corpo»10.
San Massimo spiega questo processo, che conduce l’uomo dall’i
gnoranza di Dio alla filautia e dalla filautia alle passioni, in questi
termini: «Questa ignoranza [...] allontanò completamente l’uomo dal
la conoscenza divina per riempire la sua esistenza con la conoscenza
passionale delle cose sensibili. Abbandonato così liberamente alle
sole emozioni dei sensi come le bestie sprovviste d’intelligenza, l’uo
mo, allontanato dalla bellezza spirituale e divina, trova, attraverso
l’esperienza della parte esteriore e corporea della sua natura, una crea
zione che egli innalza al posto di Dio, perché essa corrisponde meglio
ai bisogni del suo corpo. Visto che il corpo è della stessa natura della
creazione elevata al posto del Creatore, l’uomo copre il proprio cor
po d’amore e di molte cure. Infatti, non si può adorare la creazione se
non curando il proprio corpo [...]. Votato alla servitù corruttrice del
suo corpo e imprigionato dalla filautia, l’uomo incessantemente lascia
che in lui si sviluppino le passioni del godimento e della sofferenza»11.
La filautia appare, infatti, fondamentalmente legata al piacere: essa
è ricerca del godimento sensibile, carnale, ricerca che, lo abbiamo vi-
rie, II, 4. T eodoro di E dessa , Cento capitoli, 93. G iovanni D amasceno , Discorso utile all’ani
ma. N iceta Stetatos, Centurie, 1 ,28.
7 G iovanni D amasceno , loc. cit.
* Cento capitoli, 96.
9 Centurie, II, 6.
mIbid„ 1 ,28.
11 Questioni a Talassio, Prologo.
146
sto, è determinante nel processo della caduta dell’uomo, in relazione
con l’ignoranza di Dio che la rafforza e che essa rafforza a sua volta.
San Massimo spiega: «Più l’uomo andava verso le cose sensibili, at
traverso i suoi soli sensi, più l’ignoranza di Dio lo opprimeva; più egli
era soggiogato dall’ignoranza di Dio, più si abbandonava al godimen
to delle cose materiali conosciute attraverso l’esperienza; più s’imbe
veva di questo godimento, più eccitava la sua filautia che ne era la con
seguenza; più coltivava la filautia, più inventava molteplici mezzi per
ottenere il piacere, frutto e scopo della filautia»12. Simultaneamente al
la ricerca incessante e multiforme del godimento, la filautia spingeva
l’uomo a evitare il dolore che inevitabilmente segue al piacere13. Dal
la reazione a questa duplice tendenza, secondo san Massimo, nasco
no tutte le passioni14. Avendo già ricordato precedentemente que
st’ultimo punto, esamineremo qui di seguito solo gli altri effetti pato
logici della filautia, che san Niceta Stetatos considera sia in ragione
delle sue conseguenze che della sua natura, come un «male immenso»15.
Poiché l’uomo non ha realtà vera se non in Dio, amandosi indi
pendentemente da Dio, egli non può amare veramente se stesso, e s’il
lude credendo di amarsi. San Teofilatto di Bulgaria scrive: «Filautico
è colui che aj^asob^estesso, di conseguenza gli capita di non avere
neanche amore per se»1®Ts/*
Non solo il filautico non si ama, ma^enzasa,gejlo si odia. Egli è, scri
ve san Massimo, «anwntgdisécontro se stesso»17. IraafS, negando Dio
attraverso l’amore esclusivo^se stesso18, nega se stesso nel suo esse
re essenziale, rinuncia al suo destino divino ^ ^ ^ x ^ ^ ^ a io iit^ d e l-
la sua vera vita, compiendo, come abbiamo già sottolineato, un suici-
àìospmtì^ìe?<<É veramente terribile», scrive san Massimo ricordando
la tilautiaT«far morire volontariamente, per amore delle cose corrutti
bili, la vita che abbiamo ricevuta da Dio attraverso il dono dello Spi
rito Santo»19. Così, l’uomo smette di praticare le virtù (che sono cor
relative al suo orientamento verso Dio) e apre la porta alle passioni, fa
cendosi il torto più grande, poiché queste introducono in lui altrettante
a lbid.
13 ibid.
Mibid.
15 Centurie, I, 28.
16Citato da I. HAUSHERR, Philautie..., o. c., p. 26.
17 Questioni a Talassio, Prefazione.
18Cfr. D iadoco DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 12.
19Lettere, 25, PG 91, 613D.
147
malattie, turbamenti, lacerazioni, sofferenze di ogni genere. Vivendo
nella fìlautia e nel suo corteo di passioni, «gli uomini», afferma san Mas
simo, «onorano la causa stessa dell’annientamento della loro esistenza
e perseguono essi stessi, senza saperlo, la causa della loro corruzione
[...]. Gli uomini come fiere distruggono la loro stessa natura»20.
«Oh la fìlautia, universale odiatrice]» scrivono Evagrio21, san Teo
doro di EdèsS'a22"e sàn"Gìòvanni Damasceno23: odiatrice di Dio, di
sé, ma anche del prossimo24.
L’amore di Dio e di sé in Dio, implica per l’uomo l’amore del suo
prossimo (cfr. 1Gv 5, 1), portatore come lui dell’immagine di Dio, chia
mato come lui ad essere figlio di Dio per adozione e dio per grazia;
ogni uomo è per lui un simile e un fratello nel quale ritrova Dio e si
ritrova o almeno ritrova un altro membro dello stesso corpo, un’altra
parte dell’unica natura umana. Ignorando Dio per mezzo della filau-
tia, l’uomo non può più amare veramente il suo prossimo, perché non
gli appare più ciò che fonda questo amore: egli non percepisce più il
legame trascendente che unisce gli uomini tra loro e con se stesso. Il
filautico, per la sua sragione {alogici, cioè per la sua non percezione del
Logos, principio di unità di ciò che è distante25 e, allo stesso tempo,
per mezzo deUa sua separazione dal Logos) provoca la divisione di ciò
che è unito. E così che la fìlautia è all’origine di «questa divisione
che regna ancora oggi nella natura»26. A causa di essa, «la natura uma
na si sbriciola in mille pezzi», afferma san Massimo il Confessore27, che
aggiunge: «È la fìlautia che ci ha allontanati a tradimento [...] da Dio
e dagli altri; [...] è essa che divise la natura unica in numerose parti»28.
Separandosi dagli altri per la fìlautia, l’uomo strappa le proprie mem
bra29. Ora, fa notare san Giovanni Crisostomo, «strappare le proprie
membra, è l’azione di un furioso e di un folle»30.
Non percependo più nel suo prossimo ciò che costituisce la sua
realtà profonda, e cessando di essergli unito spiritualmente, il filauti-
20ibid.
21Sentenze, PG 40,1269A.
22 Cento capitoli, 93.
23Sacra parallela, 13, PG 96, 421A.
24 Cfr. P ietro D amasceno , Libro, Esordio, Filocalia greca, t. 3, p. 14.
25 Cfr. M assimo IL C onfessore , Commento del Padre nostro, PG 90, 877B.
26Id., Questioni a Talassio, 64.
27 Ibid., Prologo.
28 Lettere, 27, PG 91, 620BC. Cfr. 2, PG 91, 396D.
29 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, XLVin, 3. Vedi anche Rm 12,5;
lCor 12,20.
™Ibid.
148
co si priva di ogni autentica relazione con lui. È allora che s’instaura
no tra gli uomini rapporti superficiali in cui regna la non conoscenza
reciproca, perfino l’ignoranza reciproca, l’insensibilità degli uni nei
confronti degli altri e l’assenza di vera comunicazione, fin nelle situa
zioni di prossimità obiettiva, come quelle della cellula familiare. Per il
fìlautico, gli altri uomini non sono il prossimo, fratelli e figli dello stes
so Padre che condividono in Dio la stessa natura, ma estranei (cfr. Col
1,21) e anche peggio: rivali e nemici (cfr. ibid).
Ma è così perché il fìlautico ricerca prima di ogni altra cosa il pro
prio piacere per mezzo di molteplici passioni che la fìlautia genera, per
ché questa si oppone all’amore del prossimo e condi^ce^odkrio.
Anziché mirare al vantaggio e al bene altrui, il fìlautico rirercalaffer-
mazione di se stesso e il proprio interesse. Allora, molto spesso il suo
prossimo è per lui un semplice mezzo per ottenere i piaceri che vuole
raggiungere e così il prossimo viene da lui ridotto al rango di oggetto.
Può anche essere per lui un concorrente, un rivale nell’affermazio
ne di se stesso e nella ricerca del piacere; in questo caso egli dirige ver
so di lui tutta la sua aggressività. È la fìlautia, dice san Massimo, «che,
per l’amore del piacere fece volgere gli uni contro gli altri la nostra po
tenza di collera inferocita»31. «La fìlautia, osserva ancora san Massimo,
«rese bestiale la più ammansita delle nature e divise l’umanità, essen
zialmente una, in numerose parti antagoniste o - l’espressione non è
peggiore - reciprocamente distruttrici»32. Anche in questo risiede la
divisione della natura umana ricordata prima; come fa notare lo stes
so santo: «La fìlautia degli uomini [...] li ha aizzati gli uni contro gli al
tri [...], di qui la divisione della natura unica in molte parti»33.
Là dove vi è l’amore di Dio, «Cristo è tutto in tutti» (Col3,11) «e
non c’è più greco o giudeo, circonciso o incirconciso, barbaro o scita,
schiavo o libero» {ibid), «né uomo né donna» (Gtf/3,28). Là dove re
gna la fìlautia, al contrario, non si vedono che opposizioni, divisioni,
rivalità, invidia, gelosia, discordie, inimicizie, litigi, aggressività, tutte
manifestazioni che sono i frutti di questa passione, proprio come la
non socievolezza34, l’ingiustizia35, lo sfruttamento di alcuni da parte di
altri36e anche gli omicidi37 e le guerre38.
j,pf_fpYP 27
32 Questioni a Talassio, 40, PG 90, 397C.
33Lettere,, 3, PG 91,408D.
34 Cfr. G iovanni D amasceno , Sacra parallela, 13, PG 96, 420D.
35Ibid.
36 Cfr. TEODORETO DI C iro , Discorso sulla Provvidenza, 7, PG 83, 669D-676B.
37 Cfr. M assimo IL C onfessore , Commento del Padre nostro, PG 90, 893A.
38Cfr. C lemente d ’A lessandria , Il Pedagogo, ET, II, 13,4.
149
La filautia appare, così, patogena su molti livelli ed è considerata
dai Padri, tanto nella sua natura che negli effetti, come indizio di un
uomo divenuto insensato” e come se essa stessa fosse insensata40, e
profondamente irrazionale41.
Questi effetti patogeni sono dovuti al fatto che essa stessa è una ma
lattia42. Tale malattia consiste nell’inversione contro natura di una ten
denza naturale dell’uomo: l’amore di sé virtuoso43 legato indissolu
bilmente all’amore di Dio e all’amore del prossimo. A questo riguar
do così scrive san Massimo: «Per mezzo della filautia, [...] il diavolo ci
lia decisamente separati da Dio e gli uni dagli altri: egli ha contorto
ciò che era dritto, ha in questo modo diviso la natura»44.
Nelle pagine che seguono prenderemo in esame le principali ma
lattie generate da questa malattia primaria e fondamentale.
39PIETRO D amasceno , Libro, Esordio, Philokalta tòn ieròn neptikòn, t. 3, p. 14: «L’insensa
to {apkròn) è fìlautico».
40 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,28: «La filautia è l’amore insensato del corpo».
41 Cfr. M assim o il C on fessore, Centurie sulla carità, n, 59. G iovan n i D am asceno, Sacra
parallela, 13, PG 96, 420D.
42 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll.n), Lm, 11; UV, 2. I sacco il Siro , Discorsi asce
tici, 26; 71. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, Lettera di commiato, 2.
43 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,260D, in cui questo
appare implicitamente.
44Lettere, 2,PG91,396D.
150
Ili
LA GASTRIMARGIA
153
mente che Dio ha creato gli alimenti perché vengano presi con animo
grato (cfr. lTm 4,3), consigliando di conseguenza: «Sia dunque che
mangiate, sia che beviate o qualsiasi cosa facciate, fate tutto per la glo
ria di Dio» (lCor 10,31). La gastrimargia costituisce una vera perver
sione di questa finalità essenziale del nutrimento che è quella di esse
re consumato eucaristicamente, poiché in questa passione l’uomo, an
ziché godere di tali alimenti in Dio e di godere di Dio attraverso di
essi, vuole godere degli alimenti per se stessi, al di fuori di Dio. Per
mezzo loro erige ima barriera tra se stesso e Dio, anziché usarli come
supporto per elevarsi a lui.
Nel rendere grazie a Dio per il cibo che gli concede, l’uomo santi
fica se stesso, e santifica particolarmente le funzioni della nutrizione
che sono in lui; egli si nutre così di Dio e nello stesso tempo di pane,
ed il suo nutrimento diviene così per lui doppiamente fonte di vita.
Egli santifica gli alimenti che prende (cfr. lTm 4,5) e, allo stesso tem
po, attraverso di essi, il cosmo che lo unisce a Dio, secondo la volontà
da lui manifestata al primo uomo. La gastrimargia, al contrario, se
para da Dio l’uomo e in lui le creature. Gli alimenti, anziché rivelare
Dio (sant’Isacco parla di «colui che ha visto il Signore nel suo nutri
mento»)15, anziché essere trasparenti alle sue energie e servire alla glo
rificazione di Dio e alla deificazione dell’uomo, divengono, a motivo
del peccato dell’uomo, per lui stesso e per il mondo, un ostacolo al
l’incontro con Dio. Cessando di essere fonte di vita, poiché essi non
sono più uniti alla sorgente della Vita per la perdita della loro fina
lità spirituale nell’uso perverso che ne fa l’uomo, essi divengono per
lui principio di morte anche quando egli crede di assicurarsi la vita per
loro mezzo16.
Alla luce di queste digressioni teologiche e antropologiche, la pas
sione della gastrimargia appare meno banale di come sarebbe potuta
sembrare a prima vista. Alcuni Padri giungono, del resto, fino a ve
dere in essa la fonte stessa del peccato originale17. Infatti, mangiando
il frutto dell’albero che Dio aveva proibito di toccare, Adamo volle go
dere al di fuori di Dio di questo alimento che, in realtà, simboleggia e
rappresenta tutto il mondo sensibile18. La gastrimargia, in questo fon
damento originale, manifesta chiaramente che essa opera una rottura,
15Discorsi ascetici, 43.
16Cfr. ibid.
17 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XIV, 38. G iovan ni C assiano, Conferenze, V, 4. C al-
LINICO, Vita dTpazio, XXIV, 73. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 85. NILO SORSKY, Regola, V.
18 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo.
154
una separazione dell’uomo da Dio, e significa la perdita della comu
nione divina per l’uomo e, in lui, per l’intero cosmo. La gravità di que
sta passione si rivela ancora di più nel fatto che essa è una delle tre ten
tazioni che Satana presenta al Cristo nel deserto (cfr. Mt 4,3). Resi
stendogli, il Cristo, nuovo Adamo, ristabilisce tra l’umanità e Dio e,
quindi, tra il cosmo e la divinità, la comunione che il primo Adamo
aveva rotto. Nell’opporre al diavolo che «l’uomo non vive di solo pa
ne, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», il Cristo restitui
sce all’uomo il suo vero centro. Egli non dice che l’uomo non si nutre
di pane, ma mostra la relazione necessaria che questi deve intratte
nere con il Verbo. Denuncia le dissociazioni e l’idolatria che il pec
cato aveva instaurato e ne guarisce la natura umana che ne è la vitti
ma. Libera, infine, l’umanità dalla tirannia che il diavolo, per mezzo
di queste passioni, gli faceva subire dopo la colpa originale.
La gastrimargia, attraverso tutti gli aspetti che abbiamo ricordato,
e in particolare per il motivo che essa costituisce una perversione del
l’uso naturale e normale del cibo, è definita dai Padri come malattia19.
San Giovanni Cassiano per esempio dice a proposito delle tre forme
di questa passione che egli ha descritte: «Vi sono tre focolai di ma
lattie dell’anima tanto temibili quanto numerose»20. Si comprende an
che come essa possa essere considerata da loro una forma di follia21.
San Doroteo di Gaza prende, peraltro, come argomento supplemen
tare l’origine stessa degli appellativi di «laimargia» e «gastrimargia»:
«Margainein significa negli autori pagani “essere fuori di sé” e l’in
sensato viene definito màrgos. Quando a qualcuno capita questa ma
lattia (nósos) e questa follia (manta) di volersi riempire il ventre, la chia
mano gastrimargia (,gastrimargia), cioè “follia del ventre”. Quando si
tratta solo del piacere della bocca la chiamano “laimargia” (laimargia),
cioè “follia della bocca”»22.
Malattia e follia, la gastrimargia non lo è solo per gli atteggiamenti
che essa rivela quanto ai suoi fondamenti; essa lo è anche in ragione
delle sue numerose conseguenze patologiche, e ciò a più livelli.
Oltre a tiranneggiare l’uomo, lo sottomette al desiderio e al piace
re di mangiare, lo rende indisponibile a Dio e lo allontana dal suo cen
tro; la gastrimargia ha, quindi, per la vita della sua anima numerosi ef
19D oroteo d i G aza, Istruzioni spirituali, XV, 161. G iovanni C assiano , Conferenze, VI, 11.
20Loc. cit.
21 Cfr. T eodoreto DI C iro , Discorso sulla Provvidenza, VI, PG 83,656CD. MASSIMO IL CON
FESSORE, Centurie sulla carità, E, 59.
22 Istruzioni spirituali, XV, 61.
155
fetti indesiderabili e, nello stesso tempo, mette in pericolo la salute del
suo corpo23.
I santi asceti sottolineano, prima di ogni cosa, che l’eccesso di cibo
o di bevande (qualunque esse siano) priva lo spirito di energia24e di vi
vacità25, lo appesantisce26, lo immerge in vino stato di oscurità27, di tor
pore e di sonno28, conseguenze che si ripercuotono su tutta l’anima.
«Appesantito dai molti dbi, il corpo rende lo spirito (noiìs) debole {deilós
[termine che significa anche: timido, floscio]) e pigro (dyskinetos [ter
mine che significa anche: difficile a muoversi, lento])», nota san Dia
doco di Foticea29. Un tale stato rende diffìcile il suo volo verso le realtà
spirituali, impedisce di condurre come si deve la lotta ascetica, rende
difficoltosa la preghiera30, genera la negligenza31, e indebolisce molto
l’uomo. Sant’Isacco scrive che allora «egli ha perso la metà della sua po
tenza, tanto che si può ben dire [...] che, prima di andare al combatti
mento, è già sottomesso senza aver lottato. E vinto dalla volontà rilas
sata della carne, senza che i suoi nemici si siano dati la minima pena»32.
Una tale disposizione ha anche per effetto quello di trascinare
verso il basso tutte le sue facoltà, orientando in primo luogo i suoi de
sideri verso preoccupazioni carnali. Tutte le passioni, e questa in
particolare, fa notare san Massimo, «incatenano lo spirito agli ogget
ti materiali, lo portano al livello della terra come farebbe una pietra
molto pesante che pesasse su di lui, pur essendo egli per natura più
leggero e più vivo del fuoco!»33. San Gregorio di Nissa, da parte sua,
ricorda «l’uomo dal pensiero appesantito che guarda in basso», e con
stata a suo riguardo: «Non vivendo che per il ventre e per ciò che fa
seguito al ventre, si ritrova lontano dalla vita di Dio»34.
In questa situazione, l’intelligenza, appesantita e soffocata, perde la
sua capacità di discernimento35o almeno questa si ritrova alterata e di
minuita. Il bisogno di mangiare e l’assopimento che ne consegue im
23 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 19; Omelie sul digiuno, 2.
24 I d ., Regole lunghe, 19; Omelie sul digiuno, 1.
25Id., Omelie sul digiuno, 1.
26 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, XV, 161; 162. CALLINICO, Vita dTpazio, XXTV,
70. Basilio di C esarea, Omelie sul digiuno, 1. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 26.
27ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 26.
2sIbid.
29 Cento capitoli gnostici, 45.
30Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 50. ISACCO EL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
31 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 34.
32Ibid., 69.
33 Centurie sulla carità, DI, 56.
34Sulla verginità, IV, 5. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
35GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 6; ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26; 69.
156
pediscono in particolare all’uomo di considerare le cose semplici
della fede, fa notare Abba Poemen36; i suoi giudizi perdono la loro
finezza; diviene incapace di un pensiero perspicace; il suo spirito,
nota san Giovanni Cassiano, «è come inebriato, [e] diviene vacillan
te e instabile»37.
L’abuso di cibo e di bevande provoca anche, osservano i Padri, «il
turbamento dei pensieri»38, il quale insudicia l’anima39. Una moltitudi
ne di pensieri passionali (logismoi) compaiono nell’anima e vengono a
macchiare e a offuscare lo spirito40. Sant’Isacco dice che l’effetto del
l’abuso di cibo «è quello di sregolare l’intelligenza che divaga ovunque
[...]: sono le immaginazioni impure [...] nella sozzura dei fantasmi e nel
la stravaganza delle immagini piene di cupidigia che attraversa l’ani
ma e vi compie quello che vuole con ogni impurità»41. H «ventre trop
po pieno, dice ancora, fa del cuore una quadruplice porta di fantasmi
deliranti»42. Così egli consiglia: «Non appesantire il tuo ventre per non
annegare nella confusione la tua intelligenza, per non essere tormen
tato dalla distrazione [...], per non offuscare la tua anima, per non
turbare i tuoi pensieri»43. E san Gregorio di Nissa spiega che «i piace
ri del mangiare e del bere, che portano a ingozzarsi di alimenti, per la
mancanza di misura, producono, necessariamente, nel corpo due mali
indipendenti dalla nostra volontà, in quanto la sazietà molto spesso ge
nera nell’uomo tali passioni. Perché dunque il nostro corpo rimanga
estremamente calmo e non sia turbato da nessun movimento passionale
che nasca dalla sazietà, occorre vegliare affinché non sia il piacere ma
l’utilità a definire in ogni caso la misura di una condotta temperante»44.
La gastrimargia apre così inevitabilmente la porta a una folla di pas
sioni e le sviluppa45. Ecco perché i Padri sono portati a considerarla
come la madre di tutte le passioni46e la fonte di tutti i mali47. Così san
36Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 134.
37 Loc. cit.
38ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 26 e 56.
39Cfr. ibid., 43; 69.
40 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 31.
41 Discorsi ascetici, 26.
42 Ibid.y 69.
43 lbid.y34.
44Sulla verginità, XXI, 2.
45 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 16. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
46 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 27. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 65. Cfr.
ibid., scolio 59. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIV, 38. BASILIO DI CESAREA, Omelia sul digiuno,
1. G iovanni C risostomo , Sulla verginità, 71. G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XXI,
45. N ilo Sorsky , Regola, V.
47 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XV, 161. CALLINICO, Vita d'Ipazio, XXIV, 72.
157
Giovanni Climaco redige una lunga lista dei germogli di questa pas
sione, a cui fa dire in ima prosopopea: «Il mio primogenito è il servo
della lussuria; dopo di lui viene per secondo l’indurimento del cuo
re, e il terzo è il sonno. Da me procedono un mare di pensieri, fiotti
di sozzure, un abisso d’impurità insospettate e innumerevoli. I miei fi
gli sono la pigrizia, il pettegolezzo, l’impertinenza, la burla, la buffo
neria, lo spirito di contraddizione, la rigidità, l’ostinazione, l’insensi
bilità, la schiavitù, lo spirito di sufficienza, la temerarietà, la millante
ria, tutte cose che trascinano al loro seguito l’impurità della preghiera,
il turbinio dei pensieri e, spesso, disgrazie improvvise e inaspettate, al
le quali è strettamente legata la disperazione, il più nefasto dei miei
germogli»48. Lo stesso santo annota, peraltro49, che questa passione ha
anche l’effetto di prosciugare le sante lacrime della penitenza di cui
vedremo ulteriormente tutta l’importanza. Ma la passione, che la ga
strimargia introduce principalmente e più immediatamente, è la lus
suria, come si è già potuto intrawedere dai testi prima citati50.
158
IV
LA LUSSURIA
159
ginità rimane la norma della perfezione. Tuttavia, a motivo della mol
tiplicazione dell’umanità nella nuova condizione in cui ora essa si tro
va, per questa ragione è benedetto da Dio (cfr. Gn 9,7) l’uso della ses
sualità nel quadro del matrimonio che non è affatto condannabile. I
Padri, seguendo l’esempio del Cristo che benedice con la sua pre
senza le nozze di Cana, nonché l’insegnamento dell’Apostolo (cfr.
Eb 13,4; lCor 7,28), ne riconoscono la totale legittimità e ne procla
mano anche il valore4, considerando che la sessualità è chiamata alla
stessa santificazione come tutte le altre funzioni dell’esistenza umana.
Nell’ambito del matrimonio, la passione della lussuria non consi
ste, dunque, nell’uso della funzione sessuale, ma nel suo uso perver
so, abusivo. La nozione di abuso, che troviamo spesso negli insegna-
menti dei Padri, non ha un significato quantitativo ma qualitativo: es
sa significa qui come altrove, un cattivo uso della funzione in questione,
una perversione, un uso contrario alla sua finalità naturale e, per que
sto, contro natura e anormale, in altre parole patologico. San Massi
mo, in maniera più precisa, così scrive a proposito di questa e altre
passioni: «Nulla, di ciò che è, è cattivo, ma lo è solo il cattivo uso (para-
chresis) in seguito alla negligenza del nostro spirito nel coltivarsi se
condo natura»5. Sant’Isacco il Siro, quando ricorda la passione della
lussuria, sviluppa un concetto simile, e di conseguenza sottolinea la re
sponsabilità dell’uomo nel controllo dei suoi movimenti naturali:
«Quando un uomo è mosso dalla cupidigia [...], non è la potenza
naturale che lo forza a uscire dai limiti naturali e ad allontanarsi dal
suo dovere. Ciò che lo fa uscire è quanto aggiungiamo alla natura
per soddisfare la nostra volontà, perché tutto ciò che Dio ha fatto, lo
ha fatto nella bellezza e nella misura. Se guardiamo correttamente la
misura che ci è impartita nelle cose che portiamo per natura, i movi
menti naturali non possono spingerci a uscire dalla via. H corpo non
agisce veramente se non nel buon ordine»6.
Vi è abuso, o più esattamente cattivo uso, quando l’uomo usa la sua
sessualità avendo di mira solo il piacere che vi si rapporta, quando egli
fa del piacere la finalità della sua attività in questo ambito7. Una tale
visione è perversa e patologica per diverse ragioni.
4 Vedi per esempio: G regokio DI NlSSA, Sulla verginità, VII. GKEGORIO N azianzeno , Di-
scorso, XXXVII, 9. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla verginità, 8; 9; 10; 25; Omelie su Ozia, DI, 3;
Omelie sulla Genesi, XXI, 4; Omelia sul matrimonio, 1,2. H Concilio di Gangres (IV secolo) nel
IV Canone condanna «ogni disprezzo dei rapporti coniugali».
5 Centurie sulla carità, DI, 4. Cfr. D, 17.
6Ibid.
7 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 17.
160
Innanzitutto, essa nega una delle finalità principali della funzione
sessuale, la più apparente e che è inscritta mila sua stessa natura: quel
la della procreazione8. Per questo san Massimo osserva, in modo ge
nerale, che «il vizio {kakta) è nel falso giudizio sulle rappresentazioni
e seguito dal cattivo uso delle cose», e che, per esempio, «per le rela
zioni con le donne, la regola del giudizio è che esse siano ordinate al
la procreazione. Se dunque si mira al piacere, si giudica male, eri
gendo a bene ciò che non lo è affatto, e, conseguenza necessaria, si
abusa della donna nelTunirsi a lei»9.
Questa finalità, tuttavia, per essenziale che sia, non è la sola10né la
più importante11. Nella specie umana, la procreazione può sembrare
più il risultato naturale dell’unione sessuale che non il fine stesso12. L’u
nione sessuale è, in primo luogo, uno dei modi dell’unione tra l’uomo
e la donna; essa è ima delle manifestazioni del loro amore reciproco;
traduce questo amore su un certo piano del loro essere, quello del cor
po13. È l’amore che costituisce la prima finalità dell’unione sessuale,
così come i molteplici benefìci spirituali che l’uomo può trarre da que
sto in seno al matrimonio insieme agli altri modi di unione coniuga
le14. Occorre, tuttavia, precisare che l’amore coniugale è visto, nella
prospettiva cristiana, come l’unione di due persone - cioè di due es
seri concepiti nella loro integralità, da un lato, e nella loro natura
spirituale dall’altro - in Cristo e in vista del Regno, unione sigillata
quanto a misura e a scopo dalla grazia dello Spirito conferito dal sa
cramento del matrimonio. Questo concetto subordina l’unione ses
suale, come tutti gli altri modi di unione degli sposi, alla dimensione
8 Cfr. C lem en te d ’A lessan d ria, II Pedagogo, n, X, 83,1; 92,2; Stromata, II, 143,3; 144;
in, 72,1. B a silio DI A ncira, Sulla verginità, 38. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, XV,
162. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, XVD, 1; Omelie sul matrimonio, 1,3; Sul
la verginità, 19. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 27.
9 Centurie sulla carità, II, 17.
10Cfr. B asilio di A ncira, Sulla verginità, 38. B asilio di C esarea, Omelia sulla martire Giu-
litta, 5, PG 31,248; Esortazione alla rinuncia e alla perfezione spirituale, 2, PG 31,629. GIOVANNI
CRISOSTOMO, Sulla verginità, 9; 19; 25; 26; 34; Omelie su Ozia, DI, 3; Omelie stilla Genesi, XXI,
4; Omelie sul matrimonio, 1,2; 3; HI, 5.
11 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sul matrimonio, 1,3; Sulla verginità, 19. Notiam o che
nessun testo neotestamentario concernente il matrimonio menziona la procreazione come lo sco
po o la giustificazione di questo.
12Ciò appare implicitamente nel testo del rituale del sacramento del matrimonio. Cfr. E. M er-
CENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, p. 405.
0 Cfr. B asilio d ’A ncira , Sulla verginità, 38.
14Cfr. ibid. BASILIO di C esarea, Omelie sulla martire Giulitta, 5, PG 31,248; Esortazione al
la rinuncia e alla perfezione spirituale, 2, PG 31,629. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla verginità, 9;
19; 25; 26; 34; Omelie su Ozia, IH, 3; Omelie sulla Genesi, XXI, 4; Omelie sul matrimonio, 1,2;
3; HI, 5.
161
spirituale del loro essere e del loro amore15. L’unione sessuale deve, co
sì, essere preceduta ontologicamente dall’unione spirituale che le con
ferisce senso e valore. Ed è solo a questo titolo che può essere rispet
tata la sua finalità come quella della natura degli esseri che essa met
te in relazione16.
Quando l’unione sessuale è vissuta indipendentemente dal suo con
testo spirituale e avviene solo in vista del piacere sensibile che pro
cura, inevitabilmente essa mutila l’uomo, pervertendo profondamen
te l’ordine normale del suo rapporto con Dio, con se stesso e con il
suo prossimo.
1) Il desiderio esclusivo del piacere sessuale, che caratterizza la lu
suria, mette in moto la potenza di desiderio [concupiscibile] dell’uo
mo e lo allontana da Dio che dovrebbe costituire il suo fíne essenzia
le. Accecato dal godimento sensibile che la sua passione gli procura,
l’uomo si priva del godimento spirituale dei beni superiori del Regno.
La lussuria, come tutte le altre passioni, opera, lo si vede, un rove
sciamento dei valori al livello più elevato. Fa passare Dio in secondo
piano, lo dimentica e lo nega ponendo al suo posto il piacere sensibi
le. Essa fa passare, in genere, nell’esistenza del passionale la carne avan
ti allo spirito: «La concupiscenza, scrive san Massimo, attrae gli esse
ri che sono tesi alla Causa e Natura unica, sola desiderabile [...], più
che quest’ultima. Per questo motivo, essa rende la carne più apprez
zabile dello spirito e il godimento di ciò che è visibile più gradito
della gloria e del fulgore dello spirito»17.
Nel suo uso normale, santificata dal sacramento del matrimonio, in
tegrata e trasfigurata spiritualmente dall’amore degli sposi vissuto in
Dio, la sessualità, come tutti gli altri modi di unione, è trasparenza di
Dio e realizza al suo livello e analogicamente18l’unione tra il Cristo e
la Chiesa (cfr. Ef 5 2 0-32), accedendo così a un senso mistico (cfr. Ef
5,32). Al contrario, nella lussuria, essa diviene per l’uomo un ostaco
lo all’incontro con Dio. Cessa di essere l’espressione, in un certo li
vello, dell’amore ancorato nello Spirito e dunque, in qualche modo,
di essere un atto spirituale perché spiritualizzato, per divenire un atto
15 Cfr. B asilio di A ncira , Sulla verginità, 38.
16Cfr. ibii.
17Commento del Padre nostro, PG 90, 888C.
18 L’analogia dell’unione sessuale e dell’unione spirituale è stata abbondantemente utilizza
ta nelle Sacre Scritture come anche negli scritti patristici. È questa che ispira il Cantico dei
Cantici tanto per fare un celebre esempio.
162
puramente carnale, ripiegato su se stesso, opaco a ogni trascendenza.
Il piacere visto come fine in sé diviene per l’uomo un assoluto che
esclude Dio e ne prende il suo posto. Per mezzo della lussuria, l’uo
mo fa della voluttà un idolo.
2) Di conseguenza, l’uomo non vede più il centro del suo essere ne
l’immagine di Dio di cui è portatore, ma nelle sue funzioni sessuali.
Egli in qualche modo si dedica a queste, proprio come colui che, do
minato dalla passione della gastrimargia dedica se stesso, lo abbiamo
visto, alle sue funzioni gustative e digestive. L’uomo viene, così, a
trovarsi decentrato e vive al di fuori di se stesso; è alienato. Non es
sendo, come dovrebbe, subordinata all’amore spirituale, la funzione
sessuale viene a occupare nell’uomo un posto smisurato, persino esclu
sivo, e sostituisce all’amore il desiderio bruto e istintivo.
L’uomo mette, così, come fa notare san Basilio di Andrà, la sua ani
ma dietro al suo corpo: «I corpi, alla ricerca del piacere, totalmente
presi da esso, uniscono le anime che sono in loro per metterle al ser
vizio della passione che li agita, [e] le anime [vanno] così a rimor
chio dei vizi della carne»19.
L’ordine delle facoltà umane viene, quindi, sconvolto e un profon
do squilibrio s’instaura nell’essere nella misura in cui l’intelligenza,
la volontà e l’affettività cessano di essere al servizio dello spirito, di es
sere informate e ordinate da questo, per mettersi al servizio del desi
derio sessuale alla ricerca del piacere. L’uomo, governato dall’istinto,
diventa simile all’animale20.
A causa della lussuria, molte funzioni fìsiche si allontanano dalla lo
ro normale finalità per divenire strumenti del piacere sessuale. Il
senso della vista, che nell’esercizio di questa passione gioca un ruolo
fondamentale, offre a questo riguardo un esempio particolarmente
istruttivo21. San Giovanni Cassiano mostra chiaramente come il carat
tere patologico in questi casi derivi da un uso contro natura, da una
perversione dell’esercizio della facoltà percettiva: «E malato e dan
neggiato dal tratto del desiderio sessuale il cuore che guarda con con
cupiscenza, falsando il dono della vista, concesso dal Creatore, nel far
lo servire alle sue cattive azioni»22.
19Sulla verginità, 38.
n,
20 Cfr. G regorio di N issa , Vita di Mosè, 302.
21 Cfr. Mt 5,27. B asilio di A ncira , Sulla verginità, 13. G iovanni C risostomo , Commento
a san Matteo, XVII, 1. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VI, 12.
22Loc. cit.
163
Si può dire che il corpo nella sua totalità viene a trovarsi distolto
dalla sua finalità naturale sotto l’effetto della lussuria. Il corpo del
l’uomo, ricordiamolo, è chiamato, come l’anima e con essa, a unirsi a
Dio per mezzo della virtù e ad essere santificato, deificato, glorificato,
e a manifestare fin da questo mondo la gloria di Dio e le primizie del
Regno per la presenza trasfigurante dello Spirito in lui. «Non sapete,
dice san Paolo, che il vostro corpo è santuario dello Spirito Santo che
è in voi, che avete da Dio? Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!»
(ICor 6,19-20). È chiaro, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, che
il corpo ha per finalità naturale, normale, quella di essere consacrato
a Dio, di glorificare Dio, e quella di essere pneumatoforo, proprio co
me l’anima alla quale egli è unito. D’altra parte, affermando che «il
corpo non è per l’impudicizia» (ICor 6,13), san Paolo manifesta chia
ramente che l’uomo ne fa un uso contro natura e anormale quando lo
affida a questa passione. Riducendo il proprio corpo a strumento di
piacere sessuale, l’uomo rinnega la sua dimensione spirituale e il suo
destino trascendente, disprezza l’immagine di Dio secondo cui è fat
to, e diviene così «dimentico della natura umana»23. Profana ciò che
per natura è sacro e deiforme, egli «viola il tempio di Dio»24, fa del
tempio dello Spirito Santo e di un luogo di preghiera un covo di bri
ganti, trasforma in meretrice (cfr. ICor 6,15)25 colui che con l’anima
è chiamato ad essere sposa del Cristo nella Chiesa e nel matrimonio
che è un’icona di questa26. L’uomo, nella lussuria, ignora la volontà
di Dio quanto all’uso del suo corpo (cfr. lTs 4,3-7): così «egli pecca
contro il proprio corpo» (ICor 6,18) e «disprezza Dio» stesso (lTs 4,8).
Per il fatto che la lussuria porta l’uomo a rinnegare la propria na
tura e a rinnegare Colui che dà essere, senso e vita, essa può essere
considerata come una fonte di morte per tutto l’essere27.
Le precedenti considerazioni sul corpo, tuttavia, non debbono far
ci dimenticare che esso non interviene sempre nella passione della lus
suria, o non interviene frequentemente se non in secondo luogo. La
sessualità umana è psichica prima di essere fisica. «La cupidigia che si
compie nel corpo non viene dal corpo», fa notare Clemente d’Ales
sandria28. Il corpo, molto spesso, è condotto a peccare partendo da un
23 G regorio di N issa , Vita diMosè, n, 302.
24 ORIGENE, Omelie sui Numeri, X, 1.
25 Ricordiamo che pomeia significa letteralmente «prostituzione».
26 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su Atti , XXVI, 4; Omelie sulla lettera ai Colossesi, VII,
5-6.
27 Cfr. Gc 1,14-15. Apoftegmi, serie alfabetica, M atoes, 8.
28Stromata, HI, 4.
164
desiderio che è nato nel cuore (cfr. Me 7,21) e si è sviluppato fino ad
implicare il passaggio all’atto fisico. La «cupidigia del cuore» sembra
contenere già in germe tutta la passione ed è persino capace di espri
mere già pienamente questa (cfr. Mt 5,28)29. É se è vero che in alcuni
casi il desiderio può essere suscitato nell’anima da impulsi fìsici30, si
può considerare che è ancora l’anima che conserva l’iniziativa, nella
misura in cui essa dispone di un potere di accettare che questi im
pulsi si sviluppino o, al contrario, di rifiutare di dar loro seguito31. Qua
lunque ne sia la causa, occorre sottolineare che la passione della lus
suria può esercitarsi nel pensiero32, per il godimento di rappresenta
zioni, e più precisamente di immagini. «Come, scrive san Massimo, il
corpo ha per mondo le cose, così lo spirito ha per mondo il pensie
ro. E come il corpo commette il peccato di fornicazione con il corpo
di una donna, così lo spirito pecca con la rappresentazione che si fa
della donna e del suo corpo, perché nell’immaginazione egli vede l’im
magine del suo corpo unito all’immagine del corpo della donna [...].
All’azione, che il corpo esercita concretamente sul mondo delle cose,
corrisponde l’azione dello spirito sul mondo delle rappresentazioni»33.
Quando le sue rappresentazioni non sono fomite dai sensi o dalla me
moria, esse possono essere forgiate dall’immaginazione sotto la spin
ta del desiderio34. Questo può anche dar luogo, per la forza di un de
siderio particolarmente potente, ma anche per una ispirazione diretta
dei demoni, a vere allucinazioni. Il demone della lussuria, fa notare
Evagrio, «fa dire all’anima certe parole e sentirne la risposta, proprio
come se l’oggetto fosse visibile e presente»35. Così la lussuria fa vive
re colui in cui essa risiede in un mondo di spettri e di fantasmi36, lo im
merge in un universo irreale, lo consegna al delirio e alle forze de
moniache.
L’amore è apertura all’altro e libero dono di sé. Ciascuna delle
29 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), XXVI, 13.
30 Come abbiamo segnalato alla fine dello studio sulla gastrimargia, a proposito di alcuni
effetti di questa sulla vita dell’anima attraverso la mediazione del corpo. Vedi anche, in una pro
spettiva più generale: ANTONIO L’EREMITA, Lettere, 1, 35-41. Apoftegmi, serie alfabetica, Anto
nio, 22.
31 E questa una concezione classica dell’ascetica ortodossa, sulla quale ritorneremo.
32Vedi per esempio: Apoftegmi, N 178. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 116. NlCE-
TA Stetatos, Centurie, E , 17.
33 Centurie sulla carità, EI, 53.
34Cfr. EVAGRIO P onttco, Antirreticos. Raccolta di testi biblici contro i demoni tentatori, E, 21;
Trattato pratico sulla vita monastica, 8.
35 Trattato pratico sulla vita monastica, 8.
36Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XVE, 2.
165
due persone che questo unisce si dona all’altra e la riceve in cambio.
In questa comunione, ciascuno si arricchisce e s’illumina in tutta la di
mensione del suo essere e fino all’infinità divina nella misura in cui,
come si è già detto, l’amore è alimentato dalla grazia e trova la sua fi
nalità nel Regno. La lussuria, al contrario, è un atteggiamento filauti-
co, rivela un amore egoista di sé. Ripiega su se stesso colui che essa
possiede e lo chiude totalmente all’altro. Impedisce ogni scambio poi
ché, sotto il suo influsso il passionale mira solo al proprio interesse,
non dà nulla all’altro e vuole ricevere unicamente da lui, ma questo
solo se risponde al suo desiderio passionale. Ciò che ottiene, egli lo
considera più come conclusione del proprio desiderio che come do
no dell’altro: il passionale dona l’altro a se stesso; l’altro non è per lui
che un semplice intermediario tra sé e se stesso. La lussuria così im
prigiona l’uomo nel suo io, più precisamente e ristrettamente, nel mon
do confinato e chiuso della sua sessualità carnale, dei suoi istinti e
dei suoi fantasmi, e lo chiude totalmente ai mondi infiniti dell’amore
e dello spirito.
3) Quando la lussuria è godimento di una rappresentazione im
maginaria dell’altro, questi non esiste come persona o come prossimo,
ma come oggetto fantasmatico, concepito per proiezione dei deside
ri del passionale. Una tale visione dell’altro non può mancare di aver
qualche incidenza sul modo in cui il passionale potrà considerare nel
la realtà gli esseri concreti che corrispondono alla sua passione. Vi sarà
inevitabilmente una sovrapposizione dell’immaginario sul reale, che
opera una visione di questo modificata da quello.
Ma la visione dell’altro nella realtà non è solo falsata attraverso un
immaginario che lo avrebbe preceduto. Quando la passione si eser
cita in una relazione diretta a una persona concreta e presente, essa
opera una riduzione di quest’ultima. L’altro, nella lussuria, non è in
contrato come persona, non è colto nella sua dimensione spirituale,
nella sua realtà fondamentale di creatura immagine di Dio: viene ri
dotto a ciò che, nella sua apparenza esteriore, può rispondere al de
siderio di godimento del passionale; per costui diviene un semplice
strumento di piacere, un oggetto. In alcuni casi, addirittura, la sua in
teriorità è negata come tutta la dimensione del suo essere che trascende
il piano sessuale, quella in particolare della coscienza, dell’affettività
superiore e della volontà. Il passionale, d’altra parte, ignora la libertà
dell’altro nella misura in cui non mira che alla soddisfazione del pro
prio desiderio, che si presenta spesso come una necessità assoluta che
166
ignora il desiderio dell’altro. L’altro, in conseguenza di tutto questo,
non è più riconosciuto, né rispettato nella sua alterità né nel caratte
re unico della sua realtà personale, che possono rivelarsi solo nell’e
spressione della sua libertà e nella manifestazione delle sfere superio
ri del suo essere. Ridotti dalla lussuria alla dimensione generica e
animale di una sessualità carnale, in realtà, gli esseri umani divengono
praticamente intercambiabili come oggetti.
Appare così che sotto l’effetto della lussuria, l’uomo veda il pros
simo come non è e non lo veda come è. In altre parole, acquisisce una
visione delirante di coloro che la sua passione gli fa incontrare. Allo
ra tutti i suoi rapporti con essi sono completamente pervertiti.
Il carattere patologico e patogeno della lussuria d è sufficientemente
chiaro, a diversi livelli, perché possiamo ben comprendere come i Pa
dri la qualifichino frequentemente come malattia e vedano in essa una
forma di follia.
«La concupiscenza è una malattia dell’anima (epithymia nósos estì
psychès)», scrive san Basilio ricordando in particolare quella che è al
l’opera in questa passione37. «È malato (aegrum) e ferito (saucium) dal
la passione, il cuore che guarda con concupiscenza (concupiscentia)»,
scrive san Giovanni Cassiano38, che altrove definisce la stessa passio
ne «malattia perniciosa {languori» o «malattia {morbus)» semplice-
mente40, e parla dello spirito reso malato {mens aegra) dai suoi colpi41.
Per descrivere questa passione, san Gregorio di Nissa parla di «ma
lattia del piacere {nósos tès èdonès)»42. San Giovanni Crisostomo che
la definisce, come san Giovanni Cassiano, «malattia perniciosa»43, d’al
tra parte afferma: «È una oftalmia tanto cattiva come la lussuria; af
fezione non degli occhi del corpo, ma degli occhi dell’anima»44.
La lussuria è molto spesso considerata anche come una forma di
follia. San Basilio vede nelle manifestazioni di questa passione «le ope
re di un’anima frenetica e smarrita»45, e san Giovanni Climaco scri
37Lettere CCCLXVI.
38Istituzioni cenobitiche, VI, 12.
” Ibid.
40Ibid..
41 Ibid,., VI, 3,1; 16.
42 Vita di Mosè, II, 301.
43 Omelie su 2 Corinzi, VIE, 6.
44 Omelie sulla penitenza, VI, 2. Sulla lussuria considerata come una malattia, vedi anche NlCE-
TA Stetatos, Centurie, E, 17.
45 Omelia: Non bisogna attaccarsi alle cose di questo secolo, 4, PG 31, 548.
167
ve: «Colui che ne è colpito [...] sembra aver perso la ragione e sem
brerebbe fuori di sé, perpetuamente inebriato di desiderio per le crea
ture»46. Lo stesso dice anche: «Il demone della lussuria spesso oscura
a tal punto la ragione che dovrebbe regnare sulle nostre azioni, che
ci persuade di fare alla presenza degli uomini stessi ciò che potreb
bero fare dei folli e insensati»47. San Giovanni Crisostomo si preoc
cupa di dimostrare come questa passione sconvolge la ragione del
l’uomo, oscura, agita, devasta e ossessiona la sua anima: «Come le nu
vole e la nebbia avvolgono gli occhi del corpo, così quando la passione
impura s’impadronisce dell’anima, le toglie la facoltà di prevedere, non
le permette di vedere nulla al di là dell’oggetto presente [...]; ma ti
ranneggiata da queste tentazioni, l’anima è facilmente soggiogata dal
peccato; [...] essa non ha più che un solo oggetto davanti agli occhi,
nello spirito, nel pensiero [...]. E come i ciechi, in piedi, all’aria aper
ta e a mezzogiorno, non ricevono affatto la luce del sole, poiché i lo
ro occhi sono chiusi, così gli sventurati in preda a questa malattia chiu
dono i loro orecchi ai numerosi e salutari insegnamenti che risuonano
intorno a essi»48. Lo stesso santo, in un altro punto, definisce la vo
luttà, presa di mira dalla lussuria, «madre della follia»49.
Gli insegnamenti patristici sulla lussuria mettono in risalto, come si
è già potuto notare nei brani presentati sopra, tre principali effetti pa
tologici di questa passione:
1) Un turbamento ed una agitazione dell’anima che accompagna
no il suo esercizio dalla nascita del desiderio fino all’appagamento di
questo.
2) Un’inquietudine che accompagna la passione fin dall’inizio, nel
la ricerca del suo oggetto e nell’elaborazione dei mezzi che permet
tono di raggiungerlo (con quanto ciò implica specialmente d’incer
tezza, di attesa ansiosa o di paura di mancarlo)50. E vi è anche inquie
tudine, che segue la soddisfazione, del desiderio51. Il piacere scompare
quasi subito dopo che è apparso e lascia nell’anima un gusto tanto più
amaro quanto più l’uomo ne aveva fatto un assoluto e ne attendeva
una soddisfazione piena e totale. Il passionale prova, allora, un senti
46La Scala, XV, 25.
47 Ibid., 83.
48 Omelie su 1 Corinzi, XI, 4. Cfr. 3.
49 Trattato della compunzione, I, 7.
50Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su 1 Corinzi, XXXVII, 4.
51 Ibid.
168
mento di frustrazione accompagnato da ansietà e, talvolta, anche da
angoscia. Rinnovando il piacere, sotto l’effetto della sua passione, egli
crede di poter rimediare a questo stato di sofferenza. Così il deside
rio, appena soddisfatto, nasce di nuovo con la sua parte d’inquietudi
ne. Questa inquietudine è tanto più grande quanto più l’esercizio del
la passione trattiene e rafforza la potenza del desiderio che l’esprime,
nello stesso tempo che accresce l’importanza concessa al piacere;
tutto ciò rende più dolorose, da un lato, le difficoltà inevitabilmente
incontrate a rinnovare la soddisfazione del desiderio tante volte quan
te la passione esige, e dall’altro lato, la delusione che risulta dal diva
rio tra ciò che il passionale attende dal piacere e ciò che questo ap
porta in realtà52.
3) Un oscuramento dello spirito, dell’intelligenza, della coscie
za53e una perdita di giudizio54.
Oltre a questi tre principali effetti, tale passione ha come conseguenza
l’intorpidimento dello spirito55 e l’appesantimento dell’anima56. Essa
esercita su colui che essa possiede una vera tirannia57, più di tutte le al
tre passioni, in ragione della sua straordinaria potenza. «Tra le nume
rose passioni che assediano il cuore umano, non ve ne è alcuna che ab
bia contro di noi una forza paragonabile a quella della frenesia della
voluttà», scrive san Gregorio di Nissa58. Per questo motivo, essa è
«un nemico difficile da combattere e da respingere»59, ma lo è anche
a causa della sorprendente rapidità d’azione del demone che l’ispira60.
Come tutte le altre passioni, essa distrugge le virtù61. Correlativa
mente, genera nell’anima ogni sorta di atteggiamenti viziosi e in parti
colare l’assenza di timore di Dio62, l’orrore della preghiera65, l’amore di
sé64, l’insensibilità65, l’attaccamento a questo mondo66, la disperazione67.
52 Su tutto questo vedi ibid., XXXVII, 3-4; Omelie su 1 Timoteo, II, 3.
53Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 83. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XXXI,
45. G iovanni C risostomo , Omelie su 1 Corinzi, XI, 4. N iceta Stetatos, Centurie, E, 17.
54 Cfr. G regorio M agno , loc. cit.
55 Cfr. G iovanni C risostomo , Trattato della compunzione, E, 3.
56Ibid.
57 G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XVE, 1; Omelie su 1 Corinzi, XI, 4.
58 Vita di Mosè, E, 301.
59Ibid.
60 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 51; La preghiera, 90.
61 Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXI, 12.
62 G iovanni C limaco , La Scala, XV, 25.
63Ibid.
64 G regorio M agno , loc. cit.
65 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 25.
66G regorio M a g n o , loc. cit.
67 Ibid.
169
Notiamo, per terminare, che la passione della lussuria è favorita nel
la sua nascita, nella sua sussistenza o nel suo sviluppo, principalmen
te da tre tipi di comportamenti passionali: l’orgoglio68e la vanagloria69;
il giudizio del prossimo70; l’abbondanza di nutrimento71 e di sonno72.
173
teriali alla propria anima15. Preoccupato di conservare i beni che sono
in suo possesso e di acquisirne di nuovi, non si prende nessuna cura
di questa e non si preoccupa della sua salvezza. Egli trascura, afferma
san Giovanni Cassiano, «la figura e l’immagine di Dio che dovrebbe
conservare immacolata in se stesso nel rendere culto a Dio»16: «Non
si può infatti amare nello stesso tempo la propria anima e il denaro»17.
Impegnato ad accrescere e custodire una ricchezza materiale, non può
sviluppare le sue potenzialità spirituali e realizzare la pienezza della
sua natura, e conservare così se stesso rinchiuso nei limiti del mondo
decaduto. Quand’anche egli creda di arricchirsi veramente, di con
quistare la sua libertà e assicurarsi da vivere ammassando tesori sulla
terra (cfr. Mt 6,19), egli inchioda e cede a questo mondo e alla «car
ne» tutto il suo essere e la sua esistenza, perché là dove è il tesoro del
l’uomo, là è il suo cuore (cfr. Mt 6,21). Egli così volge le spalle alle uni
che vere ricchezze (cfr. Mt 6,20) che provengono da Dio, si priva dei
tesori e della vita del Regno (¿bid.), votandosi infatti alla povertà spi
rituale e perdendo la sua vita invece di guadagnarla (cfr. Mt 16,25).
Anche quando pensa di trovare la gioia nel piacere che prova nel-
l’acquisire e possedere, egli si condanna all’insoddisfazione e, alla fi
ne, all’infelicità, perché questo piacere è instabile, imperfetto, passeg
gero e presto o tardi avrà fine (cfr. Mt 6,19; Le 12,16-20); ma soprat
tutto tale piacere prende il posto delle gioie spirituali, incompara
bilmente superiori e le sole in grado di soddisfare pienamente l’uomo,
che per contro è privato della beatitudine eterna.
Appare così chiaramente che, a causa della fQargiria e della pleo-
nessia, l’uomo, come dice san Giovanni Crisostomo, in diversi modi
si rende «nemico di se stesso»18.
Ma sono anche le relazioni dell’uomo con il suo prossimo ad esse
re gravemente sconvolte da queste due passioni.
Secondo i Padri, l’acquisto delle ricchezze avviene sempre a scapi
to degli altri19. Colui che possiede le ricchezze «s’appropria beni che
15 G iovan ni C risostom o, Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5.
16Istituzioni cenobitiche, VE, 7, 6.
17 G iovan ni C risostom o, Omelie sulla 1 Corinzi, XXHI, 6.
18Commento a san Matteo, LXXX, 4.
19Cfr. A mbrogio DI M ilano , Nabot il povero, 2; 56. GREOGORIO DI NiSSA, Sulla verginità,
IV, 1. BASILIO DI C esarea , Omelie contro la ricchezza, VI, 7; Omelie contro i ricchi, VII, 5.
G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XV, 19. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo
4,2. Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, IX, 101-102; 206-213.
174
non gli appartengono affatto»20 e priva il suo prossimo del denaro o
delle cose che egli possiede più di lui21. Così san Giovanni Crisostomo
può proclamare che «i ricchi e gli avari sono in un certo senso dei la
dri»22, e san Basilio li considera senza mezzi termini come depreda
tori e usurpatori23. In realtà, tutti gli uomini sono uguali: hanno tutti
la stessa natura, tutti sono fatti a immagine di Dio, tutti sono salvati
dal Cristo24. Il Creatore ha dato i beni di questo mondo in parti ugua
li a tutti gli uomini, senza alcuna eccezione, affinché essi ne godano
tutti in ugual modo25. Il fatto che alcuni acquistino e possiedano più
di altri va contro l’uguaglianza voluta da Dio nella ripartizione dei be
ni, e instaura uno stato anti-naturale e anormale. Un tale stato non esi
steva all’origine26; è comparso come conseguenza del peccato origina
le27; si è conservato e sviluppato grazie alle passioni e, in particolare, a
quelle della filargiria e della pleonessia28. In verità, tutti possono usa
re e godere delle cose, ma «non tutti possono esserne proprietari»29.
«Occorre usare la ricchezza nell’amministrazione e non nel godi
mento», scrive san Basilio30.
La ricchezza, sottolineano i Padri, è destinata ad essere condivisa,
ripartita equamente31. L’avaro e l’avido non rispettano questa fina
lità, il primo nel cercare e accumulare i beni in vista del suo godimento
ionicamente personale, il secondo nel conservare egoisticamente il de
naro. Tutti e due, così facendo, «trasgrediscono il limite normale»32,
perché pensano più a se stessi che al prossimo33 e contravvengono al
precetto fondamentale della carità: «Amerai il prossimo tuo come te
stesso»34. «È impossibile, scrive Evagrio, che la carità coesista in qual-
20 G regorio di N issa, Sulla verginità, IV, 3.
21 Ibid., 1. Cfr. anche GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla 1 Corinzi, XX IX, 8.
22 Omelie su Lazzaro, 1. Cfr. Omelie sulla 1 Corinzi, X, 4.
23 Omelie contro i ricchi, V E , 5; Omelie contro la ricchezza, VI, 5.
24 G regorio di N azianzo , Discorsi, XIV.
25 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo IV, 2. A m brogio di M ila n o , Nabot il
povero, 2. GREGORIO DI NAZIANZO, loc. cit. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, IX, 92ss.
26Cfr. G regorio di N azianzo , he. cit.
27Ibid.
2*Ibid.
29 S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, IX, 95-97.
30 Omelie contro i ricchi, VE, 3. Cfr. GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, XXVI, 11.
31Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla Genesi, XXXV, 5. Per questo motivo i Padri con
tinuano a invitare i ricchi a condividere le loro ricchezze, vedi per esempio: GREGORIO DI N a -
ZIANZO, Discorsi, XTV, 26. GREGORIO DI N issa , Sullamore dei poveri, I, 7. BASILIO DI CESAREA,
Omelie contro i ricchi, VII, 3. MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, V.
32B asilio di C esarea, Regole brevi, 48.
33Ibid. Vedi anche MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, V. NlCETA STETATOS, Centurie, 1, 14.
34 Cfr. B asilio di C esarea, Regole brevi, 48. N iceta Stetatos, Centurie, 1, 14.
175
cuno con le ricchezze»35. L’avaro e l’avido, mirando permanente-
mente a un godimento egoistico non hanno più in vista il prossimo,
cessano di considerarlo come un loro pari e un fratello. Essi rigettano
colui che condivide la loro natura, nota sant’Ambrogio36; escludono e
frustrano il loro prossimo della dignità che Dio gli conferisce e gli ri
fiutano il rango di loro associato, sottolinea san Giovanni Crisostomo57.
La filargiria e la pleonessia distruggono anche la carità, sconvolgo
no le relazioni con gli altri e conducono colui che da esse è abitato a
non vedere altro nel prossimo se non un ostacolo alla conservazione
delle ricchezze possedute o un mezzo per acquisirne di nuove. Ecco
perché san Giovanni Crisostomo sottolinea che «la filargiria ci attira
l’odio universale» e «ci fa detestare da tutti, dalle vittime dell’ingiu
stizia e da quelli stessi che le nostre ingiustizie non hanno calpesta
to»38. Il filargiro suscita l’odio, ma è egli stesso, sotto l’effetto della sua
passione, ad essere pieno di odio nei riguardi degli altri. Quando
non generano l’insensibilità di fronte al prossimo39, la filargiria e la
pleonessia generano l’avversione per gli altri uomini40e rendono an
che colui che esse possiedono impietoso41e crudele42. Esse provocano
continuamente contestazioni e dispute43. «Nelle ricchezze, sottolinea
san Giovanni Crisostomo, vi sono solo motivi d’afflizione, divisioni,
liti, trappole, odii, paure»44. E la filargiria, scrive san Giovanni Clima-
co, «che produce gli odii, le invidie, i risentimenti, le ingiurie, le cru
deltà e gli omicidi»45. Questa passione è anche fonte di guerre46. Quan
to alla pleonessia, san Gregorio di Nissa fa notare che essa scatena
«o la collera contro i propri pari, o il disprezzo degli inferiori, o l’in
vidia di ciò che ci supera; ora l’invidia si accompagna all’ipocrisia, que
sta all’asprezza, quest’ultima alla misantropia»47. Filargiria e pleones
sia possono giungere a rendere l’uomo completamente crudele48 e a
35 Trattato pratico sulla vita monastica, 18.
36Nabot il povero, 2.
37 Commento al Salmo 4,2.
38 Omelie sulla lettera aiFilippesi, XTV, 2. Cfr. Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4.
39Cfr. NlCETA STETATOS, Lettere, IV, 6.
40Vedi infra.
41 G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXXXHI, 2.
42 NlCETA STETATOS, Lettere, IV, 6.
43 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 22.
44 Commento a san Matteo, LXXXIII, 3.
45 Loc. cit., 24.
46Cfr. B asilio di C esarea, Omelie contro i ricchi, VII, 7. E sichio di Batos, Capitoli sulla vi
gilanza, 59.
47Sulla verginità, IV, 5.
48 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
176
farlo somigliare a un animale selvaggio e feroce49. In coloro che da que
ste passioni si lasciano profondamente invadere «tutto accade come
se essi cambiassero natura, perdendo tutti i tratti della loro specie per
mutarsi in mostri», scrive san Gregorio di Nissa50.
Per tutti questi motivi, i Padri affermano che la filargiria e la pleo-
nessia costituiscono vere e proprie malattie dell’anima51.
Essi insistono sul fatto che ciascuna, già grave in se stessa fin dal
l’origine, diviene particolarmente temibile perché quasi incurabile se
la lasciamo svilupparsi e radicarsi in noi: «Se non blocchiamo questa
passione fin dall’inizio, una volta entrata, essa ci darà una malattia che
non potrà più guarire», avverte san Giovanni Crisostomo52. San Gio
vanni Cassiano afferma alla stessa maniera: «Se per negligenza, le si è
concesso di entrare una volta nel cuore, essa diviene più pericolosa
delle altre malattie e più difficile da respingere»53. San Nilo Sorsky in
segna la stessa cosa: «Se questa malattia si radica in noi, allora essa è
peggiore di tutte le altre»54.
Tutti, concordemente, i Padri non esitano a vedere in queste due
passioni forme di follia55.
Filargiria e pleonessia hanno come caratteristica fondamentale quel
la di essere insaziabili; questo permette di comprendere una parte im
portante della loro patogenia. I Padri frequentemente mostrano che
queste passioni comportano una tendenza a svilupparsi sempre più,
che non conoscono mai uno scopo definitivo, e che esse non sono mai
appagate dagli oggetti ai quali si attaccano. Il desiderio che le sotten
49 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4; Commento a san Matteo, XX-
VHI, 5; Commento a san Giovanni, LXV, 3; Discorso: A chi non nuoce...
50Sullamore dei poveri, 2.
51 Cfr. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, IX, 6; LE, 6; Omelie sul tradimen
to di Giuda\ Omelie sulla 1 Corinzi, XI, 4; Discorso: A chi non nuoce... («Questa grave malat
tia, [...] questa malattia che rigetta ogni rimedio e attacca tutte le anime»); Commento a san Gio
vanni:, LXV, 3; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5; 6. BASILIO DI CESAREA, Lettere, CLXXXVIII,
14; Omelie contro le ricchezze, VI, 2. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VII, 2,14; Con
ferenze, IX, 5. G iovan n i C lim aco, La Scala, XVI, 1. N ic e ta S te ta to s, Centurie, II, 55. N il
Sorsky, Regola, V.
52 Omelie sulla 1 Corinzi, XI, 4.
53Istituzioni cenobitiche, VE, 2.
54Regola, V.
55Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Consolazioni a Stagira, II, 3; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5;
Commento a san Matteo, LII, 6; LXXXI, 3-4; Discorso: A chi non nuoce... ; SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Catechesi, IX, 227. T eodoreto DI CIRO, Discorso sulla Provvidenza, VI, PG 83,656CD.
ANDREA DI C reta, Grande canone penitenziale. BASILIO DI CESAREA, Omelie contro i ricchi, VII,
3; Omelie sul Salmo 14, II, 3.
177
de, non solo si esercita indefinitamente, ma si accresce sempre più a
misura della sua manifestazione e della sua realizzazione56. Per san Gio
vanni Crisostomo, filargiria e pleonessia sono ima «bulimia dell’ani
ma»: «Non vi è, egli scrive, malattia più crudele di questa fame in
cessante che i medici chiamano bulimia; pur mangiando a iosa, nulla
viene a calmarla. Trasportate una tale malattia del corpo all’anima; co
sa c’è di più spaventoso? Ora la bulimia dell’anima è l’avarizia; più
s’ingozza di alimenti, più essa desidera. Essa estende sempre più i suoi
desideri al di là di quanto essa possiede»57. Tale insaziabilità raggiun
ge, tra l’altro, sia i poveri che i ricchi58. Sottomessi a questa passione,
i poveri invidiano i ricchi, ma i ricchi invidiano quelli che sono anco
ra più ricchi di loro, perché, come osserva sant’Ambrogio, «ogni es
sere che possiede in abbondanza si ritiene sempre troppo povero»59.
In questajnsaziaBwtà si rivela il carattere tirannico della filargiria e
della pleonessia che rendono l’uomo schiavo dei beni che possiede60,
lo legano alle ricchezze che egli possiede o brama, lo trascinano in una
corsa senza fine alla ricerca di nuove acquisizioni, subordinando tut
te le sue facoltà ai loro scopi e ai loro oggetti61e l’assoggettano al de
monio più di tutte le altre passioni62. Filargiria e pleonessia privano
l’uomo della sua libertà, letteralmente lo alienano.
Il desiderio sempre inappagato di possedere di più, ma anche quel
lo di conservare ciò che si ha, provocano nell’anima, per tutte le ra
gioni ricordate sopra, un turbinio continuo, disagi e sconvolgimenti
permanenti. Per coloro che sono colpiti dalla filargiria e dalla pleo
nessia, «non c’è mai tranquillità, mai sicurezza per l’anima [...]; né la
notte né il giorno porta loro l’acquietamento [...]; essi sono tormen
tati da ogni parte», afferma san Giovanni Crisostomo63.
La filargiria e la pleonessia, prima di tutto, generano nell’anima uno
stato di paura, di ansia e persino d’angoscia. San Gregorio Magno de
scrive così lo stato interiore dell’avaro e dell’avido: «Quando egli ha
56 Cfr. G r e g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XV, 19. G iovan ni C risostom o, Omelie sul-
la Genesi, XXII. BASILIO DI CESAREA, Omelie contro la ricchezza, VI, 5; Omelie contro i ricchi,
VE, 5. A mbrogio di M ilano , Nabot il povero, 50; 4.
57 Omelie sulla 2 Timoteo, VII, 2.
58Cfr. G iovanni C risostomo , Discorso: A chi non nuoce...
59Nabot il povero, 50.
60«Gli avari sono schiavi dei loro beni», osserva Giovanni Crisostomo {Commento a san Mat
teo,, LXXXHI, 3).
61 Cfr. per esempio GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VII, 24.
62Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XHI, 4. G iovanni C limaco, La Sca
la, XVI, 1.
63 Commento al Salmo 142, 4. Cfr. Commento a san Matteo, LXXXHI, 3.
178
abbracciato un mucchio di cose nella sua avarizia, la sua stessa con
gestione lo opprime. Quando la sua unica ansia è quella di cercare e
conservare ciò che ha accumulato, questa sazietà lo angoscia. Il primo
dolore che egli prova è il fastidio per tutte le domande che gli pone
il suo desiderio smodato: come ottenere ciò che si augura? [...]. Una
volta poi soddisfatti questi desideri, insorge un altro dolore: l’inquie
tudine di preservare tutto ciò che con tanta pena egli ha acquisito64.
Egli è, dunque, esattamente oppresso da ogni sorta di dolori che so
no per quaggiù il castigo della sua cupidigia e la preoccupazione di
conservare ciò che possiede»65. San Giovanni Crisostomo descrive
allo stesso modo gli uomini sottomessi a queste passioni: «Essi sono
sempre nell’agitazione e la loro anima non ha riposo. La premura di
possedere ciò che ancora non hanno fa che considerino nulla quello
che hanno già. Da un lato, tramano nell’apprensione di perdere ciò
che già hanno accumulato e, dall’altro, lavorano per possedere altre
cose, il che vuol dire nuovi motivi di paura»66. L’ansia dell’avaro può
anche dipendere dalla costante volontà di acquistare o di vendere a
miglior prezzo, dalla convinzione di aver fatto cattivi affari, dalla pau
ra di non veder stimare ciò che possiede al prezzo che egli gli attri
buisce... Essa può evidentemente anche essere conseguente alla per
dita involontaria dei beni ai quali egli è attaccato.
All’ansia si aggiunge un altro effetto patologico fondamentale: la tri
stezza, lo stato depressivo dell’anima. Questo stato risulta molto spes
so dalla frustrazione del desiderio di possedere di più, dal sentimento
relativo di non avere abbastanza, o anche dall’idea che si rischia di per
dere ciò che si possiede, come dall’effettiva perdita delle cose. Poiché,
lo abbiamo visto, il desiderio di acquisire non conosce mai una sod
disfazione definitiva, la tristezza legata al suo inappagamento è con
tinua, così come quella che prova l’avaro quando teme di essere spo
gliato, nella misura in cui il rischio di perdere ciò che possiede è per
manente. Così, scrive san Giovanni Climaco, «come il mare non è mai
senza flutti e senza onde, allo stesso modo l’avaro non è mai senza tri
stezza»67.
Così in modo generale, il ricco è lontano dal trarre dalle cose che
possiede tutto il potere che si potrebbe credere. «Dov’è il piacere e
64 «Il ricco, anche quando non sperimenta alcuna perdita, ha paura di sperimentarla», os
serva nello stesso senso Giovanni Crisostomo (Omelie sulla lettera ai Romani, XXIV, 4).
65Moralia su Giobbe, XV, 19.
66 Commento a san Matteo, LXXXI, 4.
61La Scala, XVI, 21.
179
il riposo dello spirito che si trova nelle/ricchezze?», si chiede san Gio
vanni Crisostomo. «Per me, egli risponde, vi confesso che io vi trovo
solo motivi d’afflizione e di miseria!...] e un dispiacere che non dà af
fatto riposo»68. L’avaro, egli constata altrove, «è tutti i giorni schiac
ciato da nuove inquietudini e protesta che la vita gli è pesante»69. Egli
è «incapace di godere di ciò che ama». «Non solo gli avari si privano
della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piaci
mento, ma anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre
sete: vi può essere qualcosa di più penoso?»70. «L’attaccamento che
[i filargiri] hanno per le loro ricchezze, egli afferma, non è la prova
della soddisfazione che essi provano, ma della malattia e della srego
latezza del loro spirito»71.
L’ansia e la tristezza dell’avaro possono chiaramente tradursi in una
patologia a un tempo somatica e psichica72.
La fQargiria e la pleonessia generano e manifestano anche altri di
sturbi, di cui alcuni in particolare colpiscono la visione che l’uomo ha
della realtà e delle relazioni che egli intrattiene con questa.
La filargiria, come tutte le altre passioni, ottenebra l’anima e oscu
ra l’intelligenza73. «L’avaro vive nelle tenebre e diffonde una spessa
notte sul mondo [che egli vede]»74; per lui, «la visione dell’anima è
spenta», constata san Giovanni Crisostomo75, che afferma anche: «L’a
varizia è un terribile flagello: chiude gli occhi, tappa le orecchie di co
lui che ne è posseduto»76. Di conseguenza, l’avaro ha una visione
della realtà totalmente falsata: «L’avarizia è una specie di notte che
oscura tutte le cose, o piuttosto le fa vedere diverse da come sono», fa
ancora notare san Giovanni Crisostomo77, che altrove afferma che la
filargiria genera «il delirio»78.
Questa visione delirante della realtà si manifesta, in primo luogo,
nel modo di considerare il prossimo. Quest’ultimo, infatti, cessa di es
sere percepito nella sua vera realtà di persona a immagine di Dio,
per essere considerato esclusivamente attraverso il prisma deU’inte
68 Omelie sulla lettera ai Filippesi, XTV, 2.
69 Commento a san Matteo, XXXVIII, 3.
70 Omelie sulla 1 Corinzi, XXII, 5.
71 Commento a san Matteo, XXXVIII, 3.
72 Cfr. l’episodio riportato da LEONZIO DI NEAPOLIS, Vita di san Giovanni di Cipro, XXVII.
73 Cfr. ESICHIO di Batos, Capitoli sulla vigilanza, 57.
74 Omelie sulla lettera agli Efesini, XVIII, 4.
75 Omelie sulla 1 Corinzi, XXXIII, 6.
76 Commento a san Giovanni, LXV, 3.
77 Omelie sulla lettera agli Efesini, XVIII, 4.
78 Discorso: A chi non nuoce...
180
resse, per ritrovarsi ridotto a un mezzo di arricchimento, a un valore
finanziario, in breve, in ogni caso, a un oggetto. L’avarizia non per
mette a colui che ne è posseduto di avere nessuna attenzione, nessu
na considerazione per chicchessia, osserva san Giovanni Crisostomo79.
«Per l’avaro, gli uomini non sono uomini», egli afferma80.
Il carattere delirante della percezione che l’avaro ha della realtà si
manifesta anche nel modo di considerare gli stessi oggetti della ric
chezza. Colui che si attacca ai diversi beni materiali che costituisco
no le ricchezze accorda, infatti, a questi un’importanza e un valore che
eccedono quelli che hanno in realtà e, di conseguenza, presta loro
un’attenzione che per la verità questi non meritano. Per esempio,
l’oro o le pietre preziose, spesso i Padri ricordano, non sono che sem
plici sassi, cose terrene81, ed è per una sorta d’illusione e di delirio che
gli uomini possono annettere loro un altro valore e considerarli in un
altro modo. Lo stesso vale per tutte le altre ricchezze. Al contrario,
ci mostra san Simeone il Nuovo Teologo, «colui che ha sia preserva
to fin dall’inizio, sia ricordato e recuperato l’immagine e la somiglian
za [con Dio], ha ricevuto anche la facoltà di vedere tutto secondo na
tura. Egli vede tutte le cose tali e quali sono per natura [...]. Vede
l’oro e, lungi dall’attaccarsi al suo splendore, pensa che questa mate
ria proviene dalla terra e non è che polvere o pietra, che non potrà mai
cambiarsi in altra cosa. Egli vede l’argento, la perla, tutte le pietre pre
ziose, e lungi dall’avere i sensi catturati dal loro riverbero, non vede in
tutto questo che pietre come le altre, e tutto, allo stesso titolo, gli sem
bra melma. Vede abiti di lusso e, lungi dall’ammirarne i ricami, con
sidera che sono escrementi di bachi ed ha pietà di coloro che prova
no piacere e li ricercano come cose preziose»82.
L’uomo attaccato alle ricchezze delira anche per quanto annette lo
ro, di fatto, un valore assoluto, le considera come se esse fossero du
rature, addirittura eterne, mentre sono tutte periture, distruttibili (cfr.
Mt 6,19-20; Gc5,3)83. Lasciandosi ingannare, accecato dal piacere sen
sibile che si attacca alla loro passione, il fQargiro e l’avido vivono da
sempre nell’ignoranza dei veri beni, delle ricchezze autenticamente as
solute ed eterne. «Malgrado tutta la sua precarietà, noi ci aggrappia
79 Commento a san Giovanni, LXIII, 3.
80 Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4.
81 Cfr. A mbrogio di M ilano , Nabot il povero, 26. B asilio di C esarea, Omelie contro i ric
chi, VII, 7. G iovanni C risostomo , Omelie sulla 2 Timoteo, VII, 2.
82 Trattati etici, VI, 217-233.
83Vedi anche 1 Pt 1,18. GREGORIO DI NlSSA, Vita diMosè, II, 143.
181
mo alla prosperità di quaggiù con una tale frenesia, e ci lasciamo il
ludere da queste gioie ingannevoli al punto da non poter immagina
re nulla di più forte né di più grande se non i beni temporali», fa no
tare san Gregorio Nazianzeno84. «I nostri beni qui, egli ricorda, sono
fugaci e passeggeri e, come nel gioco dei dadi, essi passano di mano
in mano senza che noi possediamo qualcosa realmente»85. E, richia
mando l’uomo a una visione sana, affeqna: «Chi fuggirà questi beni
futili? Chi guarderà ai beni presenti come a beni caduchi? Chi di
stinguerà la realtà dall’apparenza? Chi saprà distinguere l’inganno dal
la verità?»86. L’avaro appare, così, come colui che baratta il presente
con l’eterno, il deperibile con l’immortale, il visibile con l’invisibile87,
i veri beni del Regno, il tesoro celeste (cfr. Mt 6,20; Le 12,33-34) con
i beni illusori, le false ricchezze di questo mondo. «Sono veramente
miserabili», scrive a proposito dei filargiri san Giovanni Crisostomo,
«[coloro che vogliono] scambiare il cielo con un po’ di terra e di
fango: essi sono simili a un re che, avendo scambiato il suo regno
con un letamaio, si gloria di questo scambio, come se questo letame
valesse di più della sua corona»88. E altrove sottolinea a proposito di
quelli che sono colpiti dalla stessa passione: «Coloro che vivono nel
le tenebre della irrazionalità non riconoscono più la vera natura delle
cose, essi si rotolano nella immondizia, e il letame non appare loro più
come letame; posseduti dall’avarizia, sono insensibili al cattivo odore
che quella emana»89. Egli nota ancora che l’avaro è vittima di un’illu
sione, allo stesso modo di colui che, nell’oscurità, scambia una corda
per un serpente e i suoi amici per nemici. E chiaro che per lui è un ve
ro delirio che la filargiria genera.
La follia, del resto, è nella paura che l’avaro prova all’idea di per
dere quanto possiede, come nella tristezza che l’accompagna. Queste,
infatti, non sono oggettivamente motivate, ma provengono dalle fal
se credenze che hanno la loro fonte unicamente nell’anima sregolata
del passionale, così come mostra san Giovanni Crisostomo: «Molti uo
mini giudicano male le cose di quaggiù, così essi cadono nello sco
raggiamento. E per questo che i folli si spaventano di ciò che non ha
nulla di spaventoso, temono cose che spesso non esistono affatto e fug-
84 Discorsi, XIV, 20.
85 Ibid.
*Ibid., 21.
87 Ibid.
88 Commento a san Matteo, LXIII, 4.
89 Commento al Salmo 9,1.
182
gono davanti alle ombre. Assomiglia a loro chi teme una perdita di de
naro. Questo timore, infatti, non è imputabile alla natura ma alla vo
lontà. Se in questo vi fosse un vero motivo d’afflizione, tutti quelli che
hanno delle perdite di denaro dovrebbero essere infelici: ma se la stes
sa disavventura non produce in noi la stessa sventura, ne consegue che
il principio dell’afflizione non è affatto nella natura delle cose, ma nel
la grossolanità dei nostri pensieri»90.
Il delirio si ritrova anche in un altro tratto patologico della filargi-
ria: il carattere ossessivo91 e quasi allucinatorio che essa attribuisce al
denaro e alle ricchezze materiali nello spirito di colui che essa abita.
Costui, infatti, ossessionato continuamente dal pensiero dei beni che
possiede o cerca di possedere, vede tutto attraverso di essi e deforma
così la realtà che percepisce. «Dovunque, dice san Basilio all’avaro,
non vedi che il tuo oro, lo immagini dovunque. L’oro ossessiona i tuoi
sogni la notte e ti abita di giorno. I folli non vedono il mondo reale,
ma le allucinazioni del loro cervello annebbiato. Allo stesso modo, il
tuo animo, preda della sua idea fissa, vede tutto oro, tutto argen
to»92. San Giovanni Crisostomo nota, in senso analogo, che l’uomo
colpito dalla filargiria e dalla pleonessia, sotto l’effetto del suo insa
ziabile desiderio, arriva fino a volere le cose che non esistono, e si por
ta in un mondo fantasmatico e allucinatorio93.
Il carattere patologico della filargiria e della pleonessia si rivela
anche nelle molteplici passioni/malattie che esse generano. Sulla scia
di san Paolo (cfr. lTm 6,10), i Padri affermano che la filargiria è la ra
dice e la madre di tutti i mali94. Così san Niceta Stetatos si chiede: «Se
questa malattia è un male tale da avere ricevuto il nome di seconda
idolatria, quale vizio non scaturirà dall’anima che da sola si procura
tale malattia?»95.
Filargiria e pleonessia, lo abbiamo dimostrato, distruggono la ca
rità: esse generano per ciò stesso tutte le passioni che le sono contra
rie: insensibilità, avversione, odio, inimicizia, risentimento, spirito di
90Loc. cit.
91 Cfr. B asilio di C esarea, Omelie contro la ricchezza, VII, 1.
92Ibid., VI, 1.
93 Cfr. Omelie su 1 Corinzi, VII, 2. Vedi anche ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 8.
94 GIOVANNI C risostomo , Commento a san Matteo, LUI, 4; Commento a san Giovanni,
XL, 4; LXEX, 1; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5. GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 152. E va-
GRIO PONTICO, Sui diversi pensieri della malvagità, 1, PG 79,1200. GIOVANNI CASSIANO, Istitu
zioni cenobitiche, VII, 2; 11. GREGORIO MAGNO, Moralia su Giobbe, XV, 19. TALASSIO, Centu
rie, 1,34. GIOVANNI D amasceno , Discorso utile all’anima. NlL SORSKY, Regola, V.
95 Centurie, II, 55.
183
contestazione e lite, crimini, ecc. Abbiamo visto anche che esse pro
ducono la paura e la tristezza. Occorre osservare che possono anche
generare nell’anima la collera96e diverse forme di violenza97, ma anche
la pigrizia98, l’orgoglio99, la vanità100, e quanto accompagna queste due
ultime passioni: la sicurezza di sé101, lo spirito di superiorità102, il di
sprezzo del prossimo103, l’irriverenza104, l’insolenza, l’arroganza105.
Per terminare, segnaliamo ciò che favorisce lo sviluppo della filar-
giria e della pleonessia. San Massimo ci insegna: «La filargiria ha tre
cause: il piacere, la vanagloria e la mancanza di fede. Quest’ultima è
più grave delle altre due»106. Quanto a san Giovanni Crisostomo, egli
offre le seguenti ragioni: «Voler prevalere sugli altri nel possesso dei
beni carnali non ha altro principio se non l’indebolimento della carità;
la cupidigia non ha altra fonte se non quella dell’orgoglio, dell’odio e
del disprezzo degli uomini»107.
195
sa alcuna, trova ogni cosa insulsa e insipida, non si aspetta più nulla
di nulla12.
L’acedia rende, allora, l’uomo instabile nel suo animo e nel suo cor
po13. Le sue facoltà divengono incostanti; il suo spirito, incapace di fis
sarsi; va da un oggetto all’altro. Soprattutto quando egli è solo, non
sopporta più di rimanere nel luogo in cui si trova: la passione lo spin
ge a uscirne14, a spostarsi, ad andare in uno o in diversi altri luoghi.
Talvolta, egli si mette ad errare e a vagabondare15. In maniera gene
rale, egli ricerca a ogni costo contatti con altri16. Tali contatti non so
no obiettivamente indispensabili ma indotti dalla passione: egli ne sen
te il bisogno e trova dei «buoni» pretesti per giustificarli17. Così stabi
lisce e intrattiene relazioni spesso futili che alimenta con discorsi vani18
in cui egli manifesta generalmente una vana curiosità19.
Può accadere che l’acedia ispiri, a colui che vi è soggetto, un’av
versione intensa e permanente per il luogo in cui risiede20, che gli dia
motivazioni per esserne scontento e lo porti a credere che starebbe
meglio altrove21. «Egli allora è portato a desiderare altri luoghi in cui
potrà trovare più facilmente ciò di cui ha bisogno»22. L’acedia può an
che condurlo a fuggire dalle sue attività, particolarmente dal suo la
voro, di cui essa lo rende insoddisfatto23, e lo conduce allora a ricer
carne altri, facendogli credere che questi saranno più interessanti e
lo renderanno più felice...
Tutti questi stati che si ricollegano all’acedia sono accompagnati da
inquietudine o ansia, che è, oltre il disgusto, un carattere fondamen
tale di questa passione24.
Il demone ddl’acedia si attacca soprattutto a coloro che si dedica
199
re le verità essenziali. «È veramente assopita riguardo a ogni contem
plazione delle virtù e a ogni visione dei sensi spirituali l’anima che è
stata ferita da questo turbamento», constata san Giovanni Cassiano55.
La conseguenza più grave è che l’uomo è, a causa di questa passione,
distolto e tenuto lontano dalla conoscenza di Dio56.
I Padri constatano, altresì, che l’acedia, che costituisce un rilassa
mento dell’anima57 e un lasciarsi andare dello spirito58, genera il vuo
to nell’anima59, porta l’uomo a una negligenza generalizzata60, lo ren
de debole1,1. Unita alla tristezza, essa l’accresce62, e allora può facil
mente condurre alla disperazione63. Da essa possono anche procedere
p^s^gi^bl^bni64e idee folli contro il Creatore65. Essa ha, come altre
conseguenze conosciute, quella di distruggere la compunzione, e di
rendere irritabili66. Da essa ancora, dice sant’Isacco, «proviene lo
spirito dTsrnarnrnento. che è l’origine di mille tentazioni»67.
A differenza di altre passioni principali, l’acedia non genera alcuna
passione particolare perché essa le produce quasi tutte. «Questo de
mone non è seguito immediatamente da nessun altro», afferma Eva-
grio68, che altrove spiega: «Il pensiero di acedia non è seguito da nes
sun altro pensiero, prima perché esso permane, poi perché esso ha
in sé quasi tutti i pensieri»69. San Massimo il Confessore dice ugual
mente che l’acedia «mette scompiglio in quasi tutte le passioni»70. San
Barsanufio afferma in modo più generale che «lo spirito d’acedia ge
nera ogni male»71. San GiovanarCUmaco nota, di conseguenza, tire
acedia,'per il monaco, è unaViortòche lo chiude da ogni lato»72, e
san Simeone il Nuovo Teologo ctmelude, allo stesso modo, che essa
55Istituzioni cenobitiche, XII, 4.
56Cfr. Apoftegmi, XI, 28.
57 Sim eone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 71. G iovanni C li-
MACO, La Scala, XIII, 2.
58G iovanni C limaco , La Scala, X m , 2.
59 S imeone il N uovo T eologo , loc. dt.
60Cfr. ibid., I, 72.
61 Cfr. ibid., 66.
62 Cfr. Nil SORSKY, Regola, V.
63 Simeone il N uovo T eologo , loc. dt., 72.
64 Cfr. ibid., 66. NlL SORSKY, Regola, V. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetid, 46.
65 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , loc. dt.
66G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16. I sacco il Siro , Discorsi ascetid, 46.
67 Discorsi ascetid, 46. Cfr. 55.
68 Trattato pratico sulla vita monastica, 12.
69 Commento al Salmo 139,3, PG 12,1664B.
70 Centurie sulla carità, I, 67.
71 Lettere, 13.
72 La Scala, XEH, 9.
200
«è la morte dell’anima e dello spirito»73. E aggiunge: «Se Dio lascias
se [questo demone] impiegare tutta la sua forza contro di noi, senza
dubbio nessun asceta si salverebbe»74.
Così, davanti all’ampiezza di questi effetti, i Padri affermano che
l’acedia è la più pesante, la più opprimente di tutte le passioni75, «la
più grave delle otto»76, che «non c’è passione peggiore di essa»77; ad
dirittura sant’Isacco dice che essa «fa assaporare l’inferno» all’anima78.
La patologia dell’acedia non può essere considerata, alla pari delle
passioni precedentemente esaminate, come costituita dalla perver
sione dell’uso di una facoltà particolare. San Massimo fa notare che
essa le implica tutte: «Tutte le altre passioni colpiscono nell’anima
sia la parte irascibile, sia quella concupiscibile, sia anche la parte ra
zionale [...]. L’acedia, da parte sua, se la prende con tutte le facoltà
dell’anima»79. Ma, d’altra parte, essa non è costituita dal loro uso con
tro natura, non avendo nella natura alcun fondamento positivo: Eva-
grio osserva che è conforme alla natura (katà phvsin) non averla affat-
j»80. In qualche modo, essa è l’intorpidimento e l’inattivazione, da
un lato, e la distrazione, dall’altro, di tutte le facoltà che contribui
scono alla vita spirituale dell’uomo. San Talassio esprime bene questo
aspetto nella sua dualità quando la definisce come «la negligenza
dell’anima». In una certa misurau&sa potrebbe essere considerata co-
me costituita dall’assenza di <¿zelo>nspirituale dato dallo Spirito sia al
primo uomo sia all’uomo rinn?JV3fo in Cristo, affinché essi compiano
con fervore il loro impegno spirituale.
25 Cfr. E vagrio P ontico , loc. cit. G iovanni C limaco , La Scala, Vin, 36; XXVI, 33. Do-
eoteo di G aza , loc. cit. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 , 75; IH, 20; IV, 41.
26 E vagrio P o ntico , loc. cit. G iovanni C limaco , La Scala, Vili, 36. D oroteo di G aza ,
Istruzioni spirituali, X, 108. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, III, 20; IV, 41.
27 G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 33.
28La Scala, VIII, 35.
29 G iovanni C limaco , La Scala, Vin, 36.
30 D oroteo d i G aza , Sentenze, 3.
31 Cfr. G iovanni C limaco, La Scala, v m , 36; XXII, 1.
32Sulla penitenza, IH.
206
niera più generale riguardo alla collera: «L’orgoglio soprattutto la con
solida e la fortifica»” . Quando l’uomo è ferito nel suo amor proprio,
quando si sente umiliato, offeso, non considerato (particolarmente
in rapporto all’immagine vantaggiosa che egli ha di se stesso e che egli
attende che gli altri gli riconoscano), egli si rivolge alle diverse forme
di collera. Benché ciò sembri essere la causa esteriore della collera e
motivarla veramente, non è, in realtà, che il rivelatore o il catalizzato-
re di una collera che procede direttamente dal soggetto stesso, dal suo
orgoglio. «Non sono le parole che ci feriscono, nota per esempio san
Basilio, è il nostro orgoglio che ci fa ribellare e la buona opinione
che abbiamo di noi stessi»34. Una prova a contrario ne è che l’umile ri
mane pacifico e dolce anche quando è aggredito con violenza. Per la
collera, il rancore, il desiderio di vendetta, l’uomo cerca allora di ri
stabilire di fronte a colui che lo ha offeso ed umiliato, e anche di fron
te a se stesso, l’immagine di se stesso alla quale si è attaccato, e che egli
sente deprezzata.
Queste ultime considerazioni non sono affatto in disaccordo con
quanto abbiamo detto precedentemente sull’importanza del ruolo che
il piacere gioca nella collera: l’uomo, come vedremo in seguito, trae
dalla cenodossia e dall’orgoglio un certo godimento che è minacciato,
sminuito e anche soppresso per le offese e le umiliazioni di ogni sor
ta. La collera appare, dunque, qui, molto chiaramente, ancora una vol
ta come una reazione di ribellione davanti alla perdita di un piacere,
ma ancora più spesso come una reazione di difesa per conservare il
piacere minacciato o per ritrovare il piacere perduto.
Come tutte le altre passioni, la collera, in tutte le sue forme, è rite
nuta dai Padri35 una malattia dell’anima. «E una malattia che ripu
gna tanto alla nostra natura quanto una malattia del corpo», scrive san
Giovanni Crisostomo36.
A motivo del disordine che essa instaura, è considerata soprattutto
come una forma di follia37. «Tra la collera e la follia, non vi è alcuna
33A Nicola, 8.
34 Omelie, 10, Sulla collera.
35Oltre alle citazioni che seguono, vedi: GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VITE, 2;
6. GIOVANNI C risostomo , Commento al Salmo 123,1; Commento a san Giovanni, V, 5; XLVIII,
3; Commento a san Matteo, X, 6; LX, 1. MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, III.
36 Omelie sugli Atti, XXXI, 4.
37Oltre alle citazioni che seguono, vedi: E rma, Il Pastore, Precetto, V, 2 , 4. METODIO DI OLIM
PO, Il banchetto, V, 5. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Salmo 123, 1; Omelie sugli Atti,
XXXI, 4. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, V, 45.
207
differenza», afferma san Giovanni Crisostomo38. «L’uomo in collera
somiglia moltissimo a un folle», dice ancora39. «La collera è una fol
lia momentanea», osserva a sua volta san Basilio40.
È evidentemente nelle sue manifestazioni acute e violente, e parti
colarmente quando essa assume la forma del furore, che la collera me
rita maggiormente di essere considerata come ima sorta di follia. San
Giovanni Climaco non esita a qualificarla come epilessia spirituale41.
San Gregorio Magno, presentando un quadro più preciso di questa
passione nelle manifestazioni parossistiche, fa apparire nettamente che
queste permettono di assimilarla a una forma di follia: «Punto dal pun
golo della collera, il cuore palpita, il corpo trema, la lingua balbetta, il
fuoco sale al viso, gli occhi scintillano: l’uomo diviene irriconoscibile
a quelli che lo conoscono. La bocca proferisce dei suoni, ma l’intelli
genza non sa più ciò che dice. In cosa dunque un uomo che non è più
cosciente di ciò che dice, differisce da un folle in trance? Così accade
spesso che la collera discenda fino nei polsi e insorga con una violen
za che è la misura stessa della sua insensatezza. Lo spirito non è più
capace di alcun controllo, perché è divenuto il giocattolo di una po
tenza che gli è estranea, e se la rabbia agisce sulle sue membra all’e
sterno facendo loro sopportare dei colpi, è perché interiormente es
sa tiene prigioniera l’anima che dovrebbe esserne la padrona»42.1
Padri mostrano spesso nello stesso senso in cosa colui che è preso da
queste forme violente di collera assomigli a un posseduto43; possia
mo ricordare, in questo caso, il legame diretto che essi vedono peral
tro tra alcune forme agitate di follia e la possessione diabolica.
Se la collera assomiglia e persino s’identifica con alcune forme di
follia e di possessione, è perché si ritrova sia in queste come in quelle
un gran numero di sintomi del tutto simili. Esaminiamo in dettaglio
questa patologia che si rivela in modo particolarmente netto nelle for
me più violente di collera, ma si ritrova anche in gradi diversi nelle al
tre manifestazioni di questa.
Sul piano del corpo, la collera, nelle sue manifestazioni acute, pro
voca un’agitazione caratteristica, facilmente percepibile all’esterno.
38 Commento a san Giovanni, XLVIII, 3.
39Ibid., IV, 5.
40 Omelie, 10., Sulla collera.
41 Cin. La Scala, VIE, 15.
42Moralia su Giobbe, V, 45.
43 Cfr. B asilio di C esarea , Omelie, 10, Sulla collera. G iovanni C risostomo , Commento a
san Giovanni, XLVIII, 3. EVAGRIO PONTICO, Lettere, 56; Capitoli gnostici, IH, 34.
208
San Giovanni Crisostomo44, ma soprattutto san Basilio45, ce ne dan
no una descrizione tipica, analoga a quella presentata da san Grego
rio Magno di cui abbiamo proposto prima lunghi brani. All'interno
del corpo, la collera si traduce attraverso turbe fisiologiche46. Le sue
forme represse e croniche implicano anche tali disordini47. Tutti que
sti disordini, che sconvolgono il funzionamento abituale del corpo,
sferrano dei colpi alla sua salute. San Giovanni Crisostomo lo fa no
tare: «La collera corrompe il corpo»48; «ne ho conosciuti molti che la
collera ha reso malati»49. Quanto a san Giovanni Climaco, egli con
stata le conseguenze che questa passione può avere sulle condotte nu
trizionali, generando sia un’anoressia che una bulimia50.
Ma è soprattutto nell’anima che la collera produce dei turbamenti
che permettono di considerarla come una grave malattia dell’anima
e come ima forma di follia. «La collera, più delle altre passioni, ha l’a
bitudine di turbare e sconvolgere l’anima», osserva san Diadoco di Fo-
ticea51, e sulla sua scia san Giovanni Climaco52. La collera, scrive a sua
volta san Gregorio Magno, «turba l’anima e, per così dire, la lacera e
la trancia»53, «getta in essa la confusione»54. «Essa devasta tutta anima,
la pone nella confusione», nota san Marco l’Eremita55. «Essa rovina
l’anima», «essa sconvolge da cima a fondo il suo normale stato», di
ce ugualmente san Giovanni Crisostomo56, che afferma altresì che ren
de l’anima deforme57, «attaccando ciò che ha di più sano, corrompendo
ciò che essa ha di più puro»58.
I turbamenti generati nell’anima dalla passione della collera sono
114 Cfr. Gb 5,2. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 75. G regorio M a g n o ,
Moralia su Giobbe, V, 45.
115Isaia di Scete, Asceticon, n, 8.
116Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V, 45. G iovanni Crisostomo, Commento a
san Matteo, XVI, 8.
117 Esicmo Dì Batos, Capitoli sulla vigilanza, 31. Cfr. 136.
118E vagrio PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 20. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen
turie sulla carità, III, 89.
119Evagrio P ontico, loc. dt., 23. M assimo il Confessore, loc. dt., 1,49.
120Cfr. M assimo il Confessore, Centurie sulla carità, m , 70.
121 Ibid.
215
IX
IL TIMORE
217
Eva: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi man
giarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente
morire» (Gn 2,17). Il timore (sia di morire che di essere separato da
Dio) era uno dei mezzi offerti da Dio all’uomo per aiutarlo a custo
dire il suo comandamento e a preservarsi dagli effetti della sua tra
sgressione.
2) Il secondo tipo di timore, che i Padri considerano una passi
ne, è una conseguenza del peccato ancestrale16. Si manifesta sempre
come una repulsione che l’uomo prova dinanzi a ciò che può cor
rompere e distruggere il suo essere: non si tratta più allora del suo
essere secondo Dio, bensì del suo essere decaduto al quale egli è at
taccato per mezzo della filautia. Questa seconda forma è sempre e in
nanzitutto timore della morte, ma non per la stessa ragione indicata
precedentemente. Essa prende le forme più svariate, e sarebbe noio
so elencarle qui17. Diciamo con san Massimo, per caratterizzarla, che
essa fa parte delle passioni dovute alla privazione del piacere, e come
la passione proviene dal fatto che la filautia si trova schiacciata da una
sofferenza dell’anima e del corpo18: l’uomo teme di perdere - e teme
quello che può fargli perdere - un oggetto sensibile19, il cui possesso
(reale o immaginariamente anticipato) gli procura una certa gioia sen
sibile. L’idea o il sentimento di questa possibile perdita genera nel suo
animo uno stato di malessere e di agitazione di cui egli risente gli ef
fetti anche sul piano fisico: «Sia l’anima che il corpo ricevono la pri
ma impressione di questo timore», e, in ogni modo, «essi se lo co
municano l’un l’altro», osserva san Giovanni Climaco20.
Il timore-passione rivela, in tutti i casi, un attaccamento al mondo:
ai beni di questo mondo e al loro godimento sensibile, e anche a
questa vita in quanto concepita come se dovesse servire a raggiunge
re questa specie di godimento. Si può ricollegare, perciò, a questa for
ma di timore ogni paura della morte che non sarà, come nell’ambito
del timore naturale, il timore di perdere la vita riconosciuta come un
bene conferito da Dio e che deve servire a unirsi a lui, ma come la per
35 ibid.
36Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 15.
37Ibid., m , 23.
38Discorsi ascetici, 21.
39La Scala, XX, 4.
40 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 72.
222
sare il loro allarme, così i peccatori diffidano continuamente anche
quando non sarà fatto loro nessun rimprovero. Ma il rimorso della co
scienza fa sì che tutto li spaventi, tutto è loro sospetto, per loro tutto
è pieno di timore e di terrore, anche se non vi è nulla che li inquieti»41.
Queste considerazioni non sembra che debbano applicarsi solo a co
loro che, pretendendo di vivere secondo i comandamenti o almeno co
noscendoli, li hanno trasgrediti e, di conseguenza, subiscono i rim
proveri della loro coscienza, ma anche a coloro che, vivendo al di fuo
ri della fede e nell’ignoranza dei suoi precetti, hanno tuttavia qualche
vago senso del loro stato di peccato. Sembra anche che il potere che
ha lo stato di peccato di suscitare il timore sotto forma di ansia e d’an
goscia sia tanto più forte quanto più il soggetto non ha preso chiara
mente coscienza della sua colpa. Ricordando «questo timore che l’a
nima prova della propria perversità», san Diadoco di Foticea consi
glia al cristiano di badare a confessare anche le sue colpe involontarie,
quelle di cui non ha coscienza innanzitutto, perché, egli scrive, «se non
confessiamo come dovremmo queste colpe [che ci sfuggono], sco
priremo in noi un sordo timore»42.
Il timore, come le altre passioni, è direttamente legato all’azione dei
demoni: essi contribuiscono alla comparsa del timore43; e approfitta
no ampiamente della sua esistenza perché il timore costituisce un
terreno particolarmente favorevole alla loro attività: nel timore hanno
un alleato, nota san Diadoco, ricordando particolarmente il timore le
gato al peccato44.
La pusillanimità
La pusillanimità (oligopsychta, deilia) spesso è considerata come una
forma della passione del timore45 e condivide dunque con quest’ulti
mo diverse caratteristiche descritte prima. Essa, tuttavia, possiede un
certo numero di tratti specifici e frequentemente le viene concesso un
posto importante a sé stante, il che ci obbliga a dedicarle qualche ri
flessione supplementare.
La passione della pusillanimità è definita da san Giovanni Dama
41 Commento a san Giovanni, V, 4. Cfr. Commento al Salmo 142,4.
42 Cento capitoli gnostici, 100.
43 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX, 9.
44 Loc. cit.
45 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 15.
223
sceno come «il timore di compiere un’azione»46. È un atteggiamento
di debolezza, di mancanza di coraggio di fronte a un dovere da com
piere. Essa, tuttavia, si distingue dalla viltà. Piuttosto è timidezza.
I Padri la considerano una malattia: Origene la fa figurare nella li
sta delle passioni che egli stesso chiama «malattie dell’anima»47, e un
apoftegma riferisce: «Un fratello venne a far visita ad Abba Vittore l’e-
sicasta alla laura di Elusa e gli disse: “Cosa debbo fare, Padre, per
ché sono preda della pusillanimità?”. Il Vegliardo rispose: “E una ma
lattia dell’anima”»48.
Poiché appartiene alla potenza irascibile dell’anima (thymós) la pu
sillanimità ne è una malattia: «Se la peste del vizio infetta la parte
irascibile, questa genera [tra l’altro] la pusillanimità», insegna san Gio
vanni Cassiano49.
Questa passione dai Padri viene anche assimilata a una forma di fol
lia: è il caso per esempio di san Giovanni Crisostomo50 che si riferi
sce a questa affermazione del libro dei Proverbi (14,29): «Chi è pusil
lanime mostra stoltezza».
Come tutte le altre passioni, la pusillanimità rivela particolarmen
te il suo carattere patologico nel fatto che essa è un atteggiamento
innaturale, che non corrisponde allo stato normativo nel quale l’uomo
è stato creato da Dio. Ecco quanto insegna san Paolo a tale riguardo:
«Iddio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di fortezza, di amo
re e di saggezza» (2Tm 1,7), essendo in particolare la fortezza la virtù
di cui la pusillanimità costituisce la mancanza. Mentre la fortezza è tra
i doni essenziali dello Spirito costitutivi dell’immagine di Dio destinati
a conseguire il loro pieno compimento nell’acquisizione della somi
glianza al Cristo, la pusillanimità ne è la negazione. Essa è apparsa nel
l’uomo come conseguenza del peccato ed è estranea alla sua vera na
tura; ecco perché san Barsanufio consiglia a uno dei suoi figli spiri
tuali: «Di’ alla pusillanimità: “Io ti sono estraneo”»51.
La pusillanimità in ogni caso è, come il timore, il segno di una man
canza di fede52. Mostrarsi pusillanime è non fidarsi dell’aiuto divino,
non fidarsi della forza dello Spirito che sostiene costantemente colui
«Ibid.
47 Omelie sui Numeri, XXVII, 12.
48Apoftegmi, J 750.
49 Conferenze, XXIV, 15. Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 70.
50 Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXII, 3.
51 Lettere, 31.
52 G iovanni C limaco , La Scala, XX, 1; 2.
224
che invoca Dio. Unito a Dio e assistito dalla sua grazia, contando quin
di sulla forza divina, l’uomo non deve temere di affrontare alcunché.
Secondo l’insegnamento del Cristo, se ha fede assoluta in Dio, egli è
capace di spostare le montagne.
Poiché spesso è dominato dalla sua immaginazione, l’uomo teme di
agire. La relazione della pusillanimità con l’immaginario, come nel ca
so del timore, è spesso sottolineata dai Padri. L’immaginazione, anche
in questo caso, deforma la realtà, presenta come difficile, temibile o
impossibile l’azione da compiere quando obiettivamente non è poi ta
le. Il soggetto della pusillanimità è vittima di un’illusione e, si po
trebbe dire, anche di un delirio. «La pusillanimità, osserva san Gio
vanni Climaco, ci fa temere e aspettare mali che non vanno né temu
ti né attesi»53. E Abba Vittore, sulla scia di quanto da lui affermato
precedentemente a riguardo della pusillanimità come malattia, scrive:
«Infatti, come coloro che hanno gli occhi malati credono di vedere più
luce quando soffrono di più, mentre coloro che hanno gli occhi sani
credono di vederne poca, così i pusillanimi sono presto sconvolti da
ima piccola prova e s’immaginano che questa sia una prova grande»54.
La pusillanimità può apparire come un atteggiamento infantile che
si è fissato e continua a persistere in modo anormale nell’adulto: «La
pusillanimità, scrive san Giovanni Climaco, è una disposizione pue
rile, in un’anima che non è più giovane»55.
Essa è essenzialmente legata alla passione della cenodossia56, al pun
to tale che possiamo affermare che «tutti coloro che sono pusillanimi
sono vanitosi»57.
La pusillanimità aliena l’uomo, esercitando su di lui un dominio po
tente58. E particolarmente temibile perché blocca il dinamismo del
l’uomo, frena i suoi slanci verso quanto può avere di migliore, rallen
ta o persino paralizza la sua attività, inibisce in molte circostanze l’e
sercizio delle sue facoltà. Ciò si rivela particolarmente grave quando
si tratta dell’attività spirituale. È chiaro che il diavolo ha un particola
re interesse nel suscitare e nell’insinuare questa passione che turba l’a
nima e le impedisce di compiere ciò per cui è stata fatta59.
55 Ibid., XX, 2.
54 Loc. cit.
55 La Scala, XX, 2.
56Ibid.
57Ibid., XX, 6.
58 Cfr. ibid, XX, 1.
59Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Teodora, 4.
225
X
LA CENODOSSIA
69ibid.
70 C£r. NiCETA Stetatos , Centurie, I , 14.
71 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X I, 28.
72Ibid., 6.
73 Omelie (Coll. DI), XXI, 3,2.
74Dialogue sur l’âme et les passions des hommes, éd. Hausherr, p. 52.
75 Cfr. N iceta Stetatos , Centurie, 1 ,14.
233
zione; e poiché essi non si dedicano a meditare queste cose, sono
sorpresi dall’amore per la lode reciproca, soprattutto perché l’uomo
non riflette abbastanza per dirsi: quale prezzo ha questa vanità che
m’imprigiona, al punto che la vista degli uomini mi sia preferibile a
quella di Dio, e che io sia avido dei loro elogi e non degli elogi di Dio,
come se la gloria che proviene da essi fosse superiore alla gloria che
proviene dal Maestro universale, come se ritenessi l’onore degli uo
mini equivalente all’onore degli angeli»76. 11 nome stesso della ceno-
dossia indica il suo carattere vano, futile, fragile, fugace, superficiale,
proprio come quello del mondo la cui figura passa (cfr. ICor 7,31), do
ve essa attinge ciò che l’alimenta e che i Padri, sulla scia del profeta
Isaia, paragonano al fiore del campo (cfr. Is 40,6-7), a un sogno e a
ogni sorta di altre realtà senza durata né consistenza. «Perché, si chie
de san Giovanni Crisostomo, corri dietro a un’ombra invece di sce
gliere la verità? Perché tu cerchi ciò che perisce, e non ciò che rima
ne? [...] Abbandona il fumo, la pura ombra, l’erba vile, le ragnatele.
Impossibile trovare una parola che esprima chiaramente questa mise
revole inconsistenza»77. «Le cose umane, egli dice ancora, non sono
che cenere e polvere; una polvere che il vento disperde; un’ombra, un
fumo; è la foglia che è il giocattolo del vento, è un fiore, un sogno,
un rumore che passa, un’aura leggera che svanisce nel nulla; è la piu
ma inconsistente che vola, l’acqua che scorre, è meno di tutto que
sto»78. Lo stesso Crisostomo continua a sottolineare, in rapporto con
le sue constatazioni, il carattere patologico dell’attaccamento a vane
realtà carnali. «La gloria è un nome e nient’altro che un nome [...].
Qual è dunque l’uomo insensato che si attacca a nomi senza realtà, a
fantasmi che bisognerà fuggire? [...] Così il profeta geme di vedere
tanta irrazionalità nella nostra vita. Simile a un uomo che, vedendo
qualcuno fuggire la luce e cercare le tenebre, gli dirà: “Perché fai que
sta follia?”, ancora il profeta ci domanda: “Perché prediligi la vanità
e cerchi la menzogna?”»79.
La cenodossia sembra includere una visione delirante della realtà
poiché, sotto il suo influsso, l’uomo smette di concedere realtà, valo
re e importanza a ciò che ne ha per conferirne a ciò che ne è sprovvi
sto; la sua visione del mondo è sconvolta, rovesciata; il suo spirito er
76Loc. cit., p. 54.
77 Omelie su questa parola: «Non temete affatto...» {Sai 48,17), I, 1.
78 Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 5. Vedi anche il seguito di questa omelia così come il
Commento a san Matteo, LXV, 5.
79 Commento al Salmo 4, 6.
234
ra nell’apprezzamento delle cose, in modo che egli sembra colpito dal
la follia: «Colui che è colpito da questa passione perde, per così dire,
la lucidità delle percezioni e non è meno colpito dei folli», constata
san Giovanni Crisostomo80. Questa percezione delirante della realtà
sotto l’effetto della cenodossia appare frequentemente nella realtà più
quotidiana e sotto forme spesso grossolane. San Massimo osserva, per
esempio, che «agli occhi dei genitori passionali, bambini deformi fino
al ridicolo sono fra tutti i più belli e ben fatti. Così a un’intelligenza
sciocca, le sue trovate, anche quando queste battono tutti i record del
la balordaggine, sembrano le più fini del mondo»81.
Questo non è vero solo per la prima specie della cenodossia. Anche
nella seconda, l’uomo manifesta una conoscenza delirante, soprattut
to di sé. «La vanagloria, scrive san Giovanni Climaco, è una passione
ingannevole che ci rappresenta diversamente da come siamo»82. Per
essa, infatti, l’uomo si attribuisce delle qualità e delle virtù che non
possiede e non vede i difetti e le passioni che in realtà gli sono pro
pri83. Ma egli s’illude anche quando si gloria delle virtù che possiede
veramente. Da un lato, infatti, si considera come sorgente e proprie
tario di queste virtù, mentre queste sono un dono di Dio e fonda
mentalmente appartengono a lui84. Dall’altro lato, come sottolinea san
Giovanni Climaco85, allorché l’uomo si gloria delle sue virtù, cessa di
essere virtuoso, e così si vanta di ciò che non possiede più.
La cenodossia vota colui che essa possiede a ogni sorta di male. Co
loro che agiscono con lo scopo di essere glorificati dagli uomini han
no già ricevuto la loro ricompensa, afferma il Cristo (cfr. Mt 6,2), il
quale rivolge anche questo ammonimento: «Guai a voi, quando tutti
gli uomini diranno bene di voi» (Le 6,26). «Dio ha disperso le ossa
di coloro che piacciono agli uomini», dice il salmista (Sai52[53],6).
«Sia in questa vita, sia nell’altra, sciagure e sofferenze seguono la ce
nodossia», scrive san Massimo86. San Giovanni Crisostomo evidenzia
che «il desiderio di onori è la fonte dei mali più grandi»87. E, a pro
posito della ricerca dei primi posti sotto l’influsso della cenodossia,
80 Catechesi battesimali, V, 6.
81 Centurie sulla carità, HI, 58.
82La Scala, XXI, 2.
83 Cfr. ibid.
84 Questo punto di vista sarà sviluppato nel capitolo 11, dedicato all’orgoglio.
85 La Scala, XXI, 10.
86 Centurie sulla carità, II, 65.
87 Commento a san Matteo, LXEL
235
egli osserva: «Questa passione è stranamente pericolosa»88. Quanto a
san Diadoco di Foticea, fa notare che i demoni prendono soprattut
to l’amore della gloria come occasione della loro perversità e che a cau
sa di questa «essi saltano nell’anima come da una finestra oscura e la
devastano»89.
Questa passione distrugge la pace interiore90, mettendo agitazione
nell’anima in diversi modi. «Essa introduce, osserva sant’Isacco, l’a
gitazione continua e la confusione dei pensieri»91. E san Marco l’Ere
mita nota: «Fin da quando percepisci un pensiero che ti fa balenare la
gloria umana, sappi che essa ti prepara la confusione»92.
Essa rende l’uomo prima di tutto preoccupato di ottenere l’am
mirazione e le lodi che desidera. Riempie così la sua anima di una
preoccupazione costante e lo porta a un’agitazione spesso febbrile e
ansiosa. Tale preoccupazione si moltiplica quando non arriva a essere
soddisfatta. Frequentemente accade che il vanitoso non solo non ri
ceve dagli altri l’attenzione e l’ammirazione da lui pregustate, ma in
contra anche il risultato contrario. La cenodossia, nota san Giovanni
Climaco, «spesso procura l’umiliazione anziché l’onore»93. E san Mar
co l’Eremita fa notare: «Quando vedi qualcuno schiacciato dal di
sprezzo, sappi che egli è pieno di pensieri di vanagloria»94. Al posto
delle lodi attese, egli non suscita nel migliore dei casi che l’indiffe
renza; ancor peggio, si attira l’odio, provoca l’invidia e la gelosia, fa
nascere critiche e sarcasmi, soprattutto quando la sua vanità si mani
festa nelle sue parole o traspare nei suoi atteggiamenti. Così san Gio
vanni Crisostomo rivolge questo avvertimento ai suoi uditori: «Fac
ciamo attenzione, fratelli miei, di non parlare favorevolmente di noi
stessi, poiché questa vanità ci rende odiosi agli uomini e abominevoli
davanti a Dio»95. Una tale situazione non può mancare di generare nel
l’uomo tristezza96e angoscia, perché, da una parte, esso è frustrato dal
piacere atteso dalla passione, e dall’altra parte, deve far fronte all’ag
gressività del suo ambiente, soffre per la perdita di relazioni armoniose
con questo, e deve preoccuparsi della ricerca più difficile di altri mez
88Ibid., LXV, 4.
89 Cento capitoli gnostici, 96.
90Apoftegmiy Vili, 6.
91 Discorsi ascetici, 23.
92 La legge spirituale, 92.
93 La Scala, XXI, 24.
94Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 118.
95 Commento a san Matteo, III, 5.
96 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 1,5.
236
zi che lo facciano ben figurare al fine di rimpiazzare quelli che han
no fallito.
Sotto l’influsso della cenodossia, l’uomo perde la sua autonomia e
si rende schiavo non solo della passione stessa, ma di tutti quelli di cui
essa ha bisogno per nutrirsi. San Giovanni Crisostomo sottolinea il ca
rattere particolarmente tirannico di questa passione che egli conside
ra come «l’ultima e la più miserabile delle servitù»97, e che giunge a
dominare le anime più grandi98. Come ogni altra passione, sottomette
l’uomo ai suoi desideri carnali specifici e al piacere che le è legato, ma
essa rende l’uomo anche dipendente dal riguardo e dalla considera
zione degli altri e schiavo di coloro ai quali egli cerca di piacere per
ché si aspetta le loro lodi. «Infelice me, scrive san Giovanni il Solita
rio: Dio mi ha creato libero, e su di me pesa il dominio di molta gen
te, poiché sono schiavo di tutti per il desiderio di piacere a tutti»99.
La cenodossia ha come ulteriore effetto pericoloso e temibile quel
lo di immergere l’uomo in un mondo di fantasmi. Sant’Isacco il Siro
osserva che coloro che si lasciano «guidare dalla vanità [...] perdono
la ragione»100. Sotto la sua ispirazione, infatti, l’uomo s’immagina di
avere ogni sorta di qualità, virtù, meriti, beni, ecc., s’immagina di
trovarsi in situazioni che gli valgono considerazioni e lodi. «La ceno
dossia, osserva sant’Isacco, inventa e immagina dei personaggi, e por
ta a desiderare e a progettare»101. Ciò ha come prima conseguenza pa
tologica quella di staccare l’uomo dalla realtà che vive, di allontanare
la sua attenzione da ciò che lo circonda, di rallentare la sua attività nei
suoi compiti più essenziali e di paralizzare il suo dinamismo vitale fi
no a porre la sua anima in uno stato di intorpidimento. Questi tratti
patologici sono così ricordati da san Giovanni Cassiano: «L’anima
infelice, caduta in un profondo torpore, è talmente spinta dalla ce
nodossia che, sedotta dalla dolcezza di questi pensieri e oppressa dal
le immagini, non può più in genere nemmeno essere attenta a ciò
che avviene davanti a lei e ai suoi fratelli, mentre trova il suo piacere
ad attaccarsi, come se queste fossero vere, alle cose che ha sognato nel
la divagazione dello spirito pur rimanendo sveglia»102. Questo susse
guirsi di fantasie può essere all’origine, se è mantenuto e sviluppato,
97 Commento a san Matteo, IV, 9.
98 Ibid.yLXV.
99 Loc. cit.t p. 52. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXV, 5.
100Discorsi ascetici, 5.
101 Ibid.y 8.
102Istituzioni cenobitiche, XI, 15.
237
di folate di vento deliranti acute o di allucinazioni. Evagrio constata:
«La cenodossia è l’origine delle illusioni dello spirito»103. Lo spiritua
le deve particolarmente temere questa via d’uscita, allorché dà libero
corso a questa passione e offre così un terreno favorevole al demone
della vanagloria che ha per abitudine quella di attaccare fortemente
nel momento della preghiera: «Una volta, scrive Evagrio, che l’intelli
genza è giunta alla preghiera pura e vera, i demoni non arrivano più a
essa dalla sinistra, ma dalla destra. Le rappresentano una visione illu
soria di Dio in qualche immagine piacevole per i sensi, in modo da far
le credere che ha raggiunto perfettamente lo scopo della preghiera.
Ora questa, diceva un ammirevole gnostico, è l’opera della passione
della cenodossia»104. Questa passione, spiega egli altrove, «spinge l’in
telligenza a tentare di circoscrivere la divinità in alcune immagini e for
me»105: i demoni vengono incontro a questa tendenza e vi rispondono
affinché colui che ha avuto la sfortuna di lasciarla sviluppare in sé si
smarrisca. Palladio, nella sua Storia Lausiaca, cita l’esempio di un mo
naco divenuto folle sotto l’ispirazione della vanagloria: «H suo giudi
zio, egli scrive, era alterato dal disordine della cenodossia»106.
Sul piano spirituale, gli effetti patologici della cenodossia sono an
che molto estesi. Essa introduce la morte spirituale dell’uomo107. Ac
ceca il suo spirito108, lo turba109, e riduce considerevolmente la sua co
noscenza110.
Distrugge tutte le virtù che l’uomo ha acquisite111e rende totalmente
inutili tutti gli sforzi ascetici112. A causa sua, fa notare san Massimo,
molte cose buone in se stesse cessano di esserlo113. L’ascesi e le virtù
che essa mira a sviluppare hanno infatti come funzione quella di uni
re l’uomo a Dio e di renderlo finalmente partecipe della gloria divina.
Per la cenodossia, l’uomo le allontana da questa finalità normale per
farle servire alla propria gloria, per suscitare una glorificazione che
103La preghiera, 116.
104Ibid, 72.
105Ibid., 116.
106Storia lausiaca, LVHI, 5.
107Cfr. Apoftegmi, Bu 1,121; Eth. 13,7. AMMONA, Lettera, I, 3.
108Cfr. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 103. E sich io di B atos, Capitoli sulla vigilan
za, 57.
109Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
110Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 15. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 58.
111 Cfr. G iovan n i C lim aco, La Scala, XXI, 10; 11. Apoftegmi, N 592, 30; CSP 4,19. GIO
VANNI C risostom o, Commento a san Matteo, m , 5. MACARIO d ’E g itto , Omelie (Coll. IH), XXI,
3,2.
112Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXI, 2; 7; 8.
113 Centurie sulla carità, II, 35. Vedi anche Questioni a Talassio, 56, PG 90,580B.
238
proviene dagli uomini o da se stesso e non da Dio come dovrebbe
essere. Questa perdita dei frutti dell’ascesi e delle virtù, oltre a costi
tuire in sé una catastrofe spirituale, ha come conseguenza inevitabile
quella di generare nell’anima uno stato di sofferenza: questa, privata
dei suoi beni più preziosi e del godimento spirituale che essa ne trar
rebbe, si ritrova vuota, smarrita, si riempie di turbamento e di in
quietudine, e si vede votata a una insoddisfazione permanente. Di
fatti, se il piacere che si collega alla cenodossia può per qualche tem
po colmare l’anima, non potrà per molto conservare questo potere, in
ragione, lo abbiamo detto, del suo carattere parziale, fugace, irreale,
come gli oggetti carnali dei quali si nutre, e alla fine immerge l’anima
nella delusione e nell’amarezza. «La cenodossia, scrive san Giovanni
Cassiano, è un nutrimento che lusinga l’anima per un certo tempo, ma
poi la rende vuota, senza virtù e nuda, lasciandola sterile e priva di tut
ti i frutti spirituali, in modo che non solo essa distrugge il merito di
penitenze considerevoli, ma procura anche supplizi più grandi»114.
Distruggendo le virtù acquisite, la cenodossia innanzitutto fa (riap
parire nell’anima le corrispondenti115passioni e in seguito apre la por
ta a tutte le altre passioni116.1 Padri, lo abbiamo visto, la annoverano
tra le tre passioni generiche, che sono la fonte di tutte le altre. San Mar
co l’Eremita la definisce «radice dei cattivi desideri»117, «causa di
tutti i vizi»118, «madre del male»119, e insegna che essa «conduce na
turalmente alla schiavitù del peccato»120. Essa introduce prima di
tutto l’orgoglio121: essa ne è il precursore122, l’inizio123, la madre124, co
me di tutte le passioni che le sono legate: la bestemmia125, il giudizio126
e il disprezzo degli altri127, lo spirito di dominio e l’amore del potere,
l’indurimento del cuore128, la disobbedienza129. Essa genera anche la
114Istituzioni cenobitiche, V, 21 (3).
115 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 15.
116Cfr. EVAGRIO PONTICO, Pensieri, 15. AMMONA, Istruzioni, IV, 28.
117La legge spirituale, 98.
118Ibid, 102.
119Ibid., 107. Cfr. Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 144.
120Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 143.
121 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 15. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica,
13. MASSIMO IL C on fessore, Centurie sulla carità, in, 61. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 23.
122G iovanni C limaco , La Scala, XX I, 2.
123Ibid, 1.
124Ibid, xxn, 2 .
125 Cfr. MARCO l’E remita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 80.
126Cfr. M arco l’E remita, La legge spirituale, 123.
127JEAN LE SOLITAIRE, Dialogue sur fame et les passions des hommes, éd. Hausherr, p. 52.
m Apoftegrni,Vm, 6.
129G iovanni C assiano , Conferenze, 15. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V IE, 43.
239
collera130e tutti i suoi satelliti: l’odio131, il rancore132, la gelosia133, le di
scordie134, le discussioni135. Da essa provengono anche: la menzogna136,
l’ipocrisia137, le parole vane138, la pusillanimità139, la lussuria140, la filar-
giria e la pleonessia141, e, come abbiamo già sottolineato, la tristezza142.
Per terminare, notiamo che i demoni giocano un ruolo molto atti
vo nella nascita e nello sviluppo della cenodossia143. Tutto ciò che si
accompagna alla vanagloria proviene dal demonio, insegna san Gio
vanni di Gaza144. E san Barsanufio afferma che i demoni favoriscono
questa passione allo scopo di far perire l’anima145. Se non l’introdu
cono, in ogni caso approfittano della sua nascita o della sua presenza
nell’anima per dedicarsi attraverso di essa alla loro attività distruttri
ce146. «E soprattutto l’amore della gloria che i demoni prendono come
occasione della loro malignità; attraverso questa saltano nelle anime
come da una finestra oscura e la devastano», scrive san Diadoco di Fo-
ticea147. Colui che accetta in sé questa passione compie così la volontà
del diavolo148per divenirne alla fine schiavo e giocattolo. «Colui che
ama essere glorificato dagli uomini [...] dedica la sua anima ai suoi ne
mici, e questi la dedicano a molti mali e se ne impadroniscono», os
serva Abba Isaia149.
Cfr. G iovan n i C lim aco, La Scala, X X I, 24. M acak io d ’E g itto , Omelie (Coll. II), V,
10. MARCO l ’Erem ita, La legge spirituale, 106. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 5. EsiCfflO DI
BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 59.
131 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 7. Esicmo di B atos, he. cit., 59.
Jean l e S o lita ire, loc. cit.
132 G iovanni C limaco , La Scala, XX I, 23.
133J ean le Solitaire, loc. cit., p. 52.
134 G re g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XXXI, 45.
135Ibid. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
136Apoftegmi, XV, 21. TALASSIO, Centurie, 1, 19.
137 GREGORIO M agn o, Moralia su Giobbe, XXXI, 45. T alassio, Centurie, 1, 19.
138G iovanni C limaco , La Scala, XI, 8. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
139G iovanni C limaco, La Scala, XX , 1; 2.
140Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 13. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 23.
141 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 83.
142 Cfr. Evagrio P ontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 13. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 1.
143 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, IH, 39; XXI, 11; XVII, 18-20; 27; 34. N ic eta S teta-
TOS, Centurie, I, 80.
144 Lettere, 477, Domanda.
145 Lettere, 259.
146Cfr. MARCO l’E remita, Controversia con un avvocato, 2.
147 Cento capitoli gnostici, 96. Cfr. EVAGRIO, La preghiera, 72.
148Apoftegmi, J 729.
149Apoftegmi, VIE, 7.
240
XI
L’ORGOGLIO
105 Trattato pratico sulla vita monastica, 14. Vedi anche: GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su
Ozia, III, 3. ERMA, Il Pastore, Similitudini, IX, 3.
106Loc. cit.
107Sui diversi pensieri della malvagità, 23.
108J. MUYLDERMANS, À travers la tradition manuscrite d’Évagre le Pontique, Louvain 1952,
p. 47,13-17.
109ìbid, 17-19.
254
phrenón a causa del loro orgoglio110. Un altro apoftegma riferisce an
che il caso di un monaco che «sotto l’effetto del gonfiamento dell’or
goglio, fu preso da uno spirito di Pitone»111. La Storia Lausiaca pre
senta anche due casi simili: quello di due monaci, Valente112ed Ero-
ne113, che, essendo prima caduti nell’orgoglio, sotto l’effetto di questa
passione si sono messi a delirare. Sappiamo, d’altra parte, che la pas
sione dell’orgoglio costituisce un terreno particolarmente favorevole
alle azioni che il diavolo intraprende per far smarrire gli spirituali con
false apparizioni, che hanno l’aspetto di vere allucinazioni. San Gio
vanni Climaco, nel capitolo della Scala in cui tratta dell’orgoglio, ri
corda questa situazione: «Quando il demonio ha costruito la sua di
mora nell’anima di coloro che sono divenuti suoi schiavi, appare lo
ro come in sogno, oppure quando questi sono svegli, appare sotto
l’immagine di un angelo di luce o sotto quella di un martire; allora sve
la loro alcuni segreti, e apparentemente concede qualche grazia straor
dinaria affinché questi poveri miserabili, essendo così ingannati, per
dano completamente la ragione»114.
L’orgoglio ha numerosi altri effetti patologici. Esso è, dicono i Pa
dri, la fonte iniziale di tutti i mali che avvengono all’uomo115. «Tutte le
cose cattive ci avvengono a causa del nostro orgoglio», spiega un
Anziano116. «L’orgoglio è la causa delle malattie più gravi», dice da par
te sua san Giovanni Cassiano117. «Il diluvio dei mali che inonda tutta
la terra non ha altra fonte se non l’orgoglio», afferma san Giovanni
Crisostomo118, che altrove dice che, a causa di questa passione, la vi
ta dell’uomo «è accompagnata da tanti dolori e miserie»119.
Nel rendere l’uomo estraneo a Dio120, l’orgoglio lo priva dell’aiuto
e dei beni divini121. Gli fa perdere la conoscenza spirituale122, poi tut
te le virtù che esso possedeva. «L’orgoglio, scrive san Gregorio Ma
110Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 37.
111Apoftegmi, K 300.
112 P alladio , Storia Lausiaca, 25.
113Ibid., 26.
114 La Scala, XXH, 19.
115Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 63. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su Ozia, IH, 3; Commento
a san Giovanni, IX, 2. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 85.
116Apoftegmi, XV, 115.
117Istituzioni cenobitiche, XII, 8.
118Commento a san Matteo, XV, 2.
119Ibid., LXV, 6.
120Apoftegmi, N 592/60.
121 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,492A; 493A. T alassio ,
Centurie, IV, 34.
122Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,493A.
255
gno, non si accontenta mai di distruggere una sola virtù; esso si erge
contro tutte le parti dell’anima e la corrompe allo stesso modo di una
malattia contagiosa e generalizzata che corrompe tutto il corpo»123. «È
una malattia infettiva e generalizzata che non si limita a contaminare
un solo membro, ma provoca la distruzione di tutto il corpo», scrive
san Giovanni Cassiano124, il quale nota ancora che l’orgoglio «distrugge
non solo come fanno gli altri vizi soltanto la virtù che gli è contraria,
cioè l’umiltà, ma le distrugge tutte nello stesso tempo»125. Quanto a
san Giovanni Crisostomo, sottolinea nello stesso senso che «questo vi
zio è sufficiente per guastare tutto ciò che vi è di buono in un’anima»126.
E san Giovanni Climaco osserva che «come le tenebre sono incom
patìbili con la luce, così l’orgoglio non si può conciliare con le virtù»127.
E evidente che, nel fare ciò, l’orgoglio apre la porta a tutte le pas
sioni128. L’insegnamento secondo cui l’orgoglio è il «principio»129, «la
radice, la fonte e il padre di ogni peccato»130, è costantemente presente
in tutta la tradizione. «L’orgoglio è il male culminante dell’uomo e la
radice e la fonte di tutti i peccati del mondo», afferma san Giovanni
Crisostomo131. «I sette vizi principali sono i germogli fuoriusciti diret
tamente da questa radice corrotta», scrive san Gregorio Magno132. E
san Giovanni Cassiano osserva: «Quantunque questa malattia sia l’ul
tima e venga alla fine della lista dei vizi, per la sua origine nel tempo,
essa occupa il primo posto»133.
Se possiamo dire che l’orgoglio è la causa di tutte le passioni, non
dimeno occorre sottolineare che ve ne sono alcune che gli sono più vi
cine e che esso genera più particolarmente, specialmente la collera134,
125 Moralia su Giobbe, XXXIV, 23.
124Istituzioni cenobitiche, XII, 3.
125Ibid.
126Commento a san Giovanni, XVI, 4. Cfr. Omelie su Ozia, ILE, 1; Omelie su 2 Tessalonicesi,
1, 2.
127La Scala, XXII, 26. Cfr. 13, 24.
128 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,493 A. A m mona , Istruzio
ni, IV, 28. S im eone il N uovo T eo lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 75. N iceta
STETATOS, Centurie, I, 84.
129Sir 10,13.
130GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, IX, 2. Giovanni Climaco l’afferma in
direttamente (vedi La Scala, XXII, 4).
131 Commento a san Matteo, XV, 2.
132Moralia su Giobbe, XXXI, 45. Cfr. XXIV, 23.
133 Istituzioni cenobitiche, XII, 1. Cfr. 6.
134G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXXIV, 45. G regorio di N issa , Sulla verginità,
IV, 5. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXV, 5; 6. G iovanni C limaco , La
Scala, XXII, 1; 31.
256
l’odio135, e ogni forma d’aggressività136, la durezza di cuore137, il giu
dizio del prossimo138, la maldicenza e la calunnia139, l’ipocrisia140, la tri
stezza141, l’invidia142, la gelosia143, la cupidigia144, la lussuria145, e come
abbiamo già sottolineato, la cenodossia146.
Questa passione è per l’anima una fonte continua di sofferenza147.
Diverse ragioni possono spiegare ciò. L’orgoglioso può soffrire del di
vario tra ciò che crede o vuole essere e ciò che sente di essere real
mente. Può soffrire altresì di veder minacciate o smentite l’immagine
lusinghiera che esso ha o vuole dare di se stesso, o la superiorità che
afferma in rapporto agli altri. Si mostra anche eternamente insoddi
sfatto nell’esaltazione che ricerca, perché mai potrà raggiungere la vet
ta e la sua pretesa non conosce fine148.
L’orgoglio distrugge così la pace interiore149, e immerge l’uomo in
imo stato di agitazione permanente. Ciò avviene soprattutto per il fat
to che l’uomo, di fronte ai suoi simili, raggiunge quasi sempre un ef
fetto contrario a quello che si aspettava: invece di considerazione, mol
to spesso egli raccoglie disprezzo e sarcasmi150. «Accade a colui che è
posseduto da questa passione tutto il contrario di ciò che desidera»,
nota san Giovanni Crisostomo. «Egli ha un’alta considerazione di sé.
Vuole essere onorato da tutti; al contrario egli è disprezzato da tutti
[...]. Sono tutti suoi nemici; non ha nessuno che lo sostenga»151.
Il timore che questi ha di veder contestata e disprezzata l’immagi
ne presuntuosa che ha di sé può inoltre renderlo diffidente, suscetti-
1,5 G iovanni C um aco , La Scala, XXII, 31.
m Cfr. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 27. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XXII, 31. T alassio, Centurie, IV, 29.
137G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 25. G iovanni C limaco, La Scala, XXII, 1.
138Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 1.
139G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
l40Ibid
141 E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 14. GIOVANNI CASSIANO, Istitu
zioni cenobitiche, XH, 29.
142 G iovanni C limaco , La Scala, XX II, 1. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16. G io
vanni CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXV, 5.
143 Cfr. T alassio , Centurie, 1 ,19.
144G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
145 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 22. G iovanni C limaco , La Scala, XV,
53. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 34.
146Oltre i riferimenti dati nel capitolo precedente, vedi: GIOVANNI CRISOSTOMO, Commen
to a san Matteo, LXV, 5; Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
147 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
m Ibid.
149Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Rufo, 1.
150Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su Ozia, HI, 4.
151 Commento a san Matteo, LXV, 6.
257
bile, sensibile e far nascere e sviluppare in lui il sentimento di perse
cuzione152, e turbare in quest’altro modo i suoi rapporti con il prossi
mo153. Questa suscettibilità lo spinge ancor più a mostrarsi aggressi
vo a sua volta di fronte a coloro che lo criticano o che egli suppone
che lo facciano154.
L’orgoglio non solo è una fonte frequente di conflitti con gli altri,
ma anche la causa che alimenta e impedisce di riarmonizzare le rela
zioni compromesse. L’orgoglio, quando non impedisce a colui che
ne è dominato di riconoscere dentro di sé i propri torti, lo trattiene
dal confessarli pubblicamente e dal chiedere perdono a colui che è sta
to leso155. Questo atteggiamento si manifesta, peraltro, sia di fronte a
Dio che al prossimo: l’orgoglio, sottolineano i Padri, porta l’uomo a
non vedere i suoi peccati, a dimenticarli156, e dunque a conservarli157,
e perpetua così lo stato di separazione da Dio. L’orgoglioso, al con
trario, non dimentica le offese degli altri nei suoi riguardi, e nutre
nel suo cuore un risentimento che diffonde nell’animo un turbamen
to doloroso e malsano.
Per terminare, ricordiamo che il diavolo nella genesi158e nello svi
luppo della malattia dell’orgoglio gioca un ruolo di primo piano. Que
sta passione offre a tutte le forme della sua azione un terreno parti
colarmente favorevole: essa è, dice san Giovanni Climaco, «il sostegno
dei demoni»159. Nell’orgoglio, l’uomo si mostra posseduto dal diavo
lo molto più che nelle altre passioni, a tal punto che il diavolo, poiché
domina completamente la sua anima, può permettersi peraltro di la
sciarlo in pace. L’orgoglioso, scrive san Giovanni Climaco, «non ha bi
sogno del demonio, perché egli è divenuto da se stesso un demone e
un nemico»160, e san Giovanni Crisostomo arriva a dire che l’orgo
glio «fa dell’uomo un demone»161. Precedentemente, abbiamo nota
to che è attraverso l’orgoglio che Satana e molti angeli sono divenuti
rispettivamente diavolo e demoni.
152Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 27.
153ìbid.
154 Ibid.
155Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 333.
156Cfr. GIOVANNI C limaco , La Scala, xxn, 1. E lia E cdico , Antologia, 37.
157Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 1.
158 Cfr. G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XXXIV, 23. G iovanni C assiano , Istituzio
ni cenobitiche, XII, 4. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXV, 5; Commento a
san Giovanni, IX, 2.
159La Scala, XXII, 25.
160Ibid, XXII, 25.
161 Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
258
XII
LA TRASMISSIONE DELLE MALATTIE SPIRITUALI
NELL’UMANITÀ DECADUTA
260
peccato personalmente, quando sono divenuti volontariamente suoi
imitatori, che hanno condiviso il suo errore, e per questo la sua col
pevolezza14. È in questo senso che occorre capire la parola di san Pao
lo: «Come a causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e at
traverso il peccato la morte, e così la morte dilagò su tutti gli uomini
per il fatto che tutti peccarono» (Rm 5,12)15.
È così che la Chiesa ortodossa, in linea con la maggioranza dei Pa
dri orientali, ritiene che i bambini nascono eredi delle conseguenze del
peccato ancestrale che colpiscono la natura, ma non del peccato an
cestrale stesso che è legato alla sola persona di Adamo16. Mentre la re
missione dei peccati è una delle funzioni del battesimo degli adulti, es
sa non è quella del battesimo dei bambini, sottolinea Teodoreto di Ci
ro: «Se il solo significato del battesimo fosse quello di rimettere i peccati,
perché battezzeremmo dei neonati che non hanno ancora assaporato
il peccato?»17.
Occorre, tuttavia, aggiungere che se gli uomini alla loro nascita non
ereditano il peccato di Adamo, e p&ssono essere considerati esenti
da ogni peccato personale, essi ereditarìo^nondimeno uno stato di pec
cato che colpisce la loro natura. È così che san Marco l’Eremita, pur
affermando che gli uomini non hanno ereditato il peccato personale
di Adamo, dice che in conseguenza di questo «tutti sono nati sotto il
peccato» (cfr. Rm 3,9)18, in altre parole, in stato di peccato. San Ci
rillo d’Alessandria dice la stessa cosa quando afferma, pur negando
che l’umanità abbia condiviso la colpa di Adamo, che essa «è malata
di peccato», ha condiviso «la sua natura caduta sotto la legge del pec
cato»19. E in questo senso che possiamo comprendere la parola del sai
14Cfr. ClRILLO d ’ALESSANDRIA, Commento alla lettera ai Romani, PG 74,784BC. FOZIO, Que
stione 84 ad Amfiloco, PG 84,552-556. MARCO L’EREMITA, Il battesimo, 29.
15Le ultime parole sono tradotte dalla Volgata: «In quo omnes peccaverunt», ove il relativo
è riferito ad Adamo. In Occidente, si è usata questa traduzione (di cui i migliori specialisti di
tutte le confessioni sono d’accordo oggi nel riconoscere l’inesattezza) per giustificare la dottri
na del peccato ereditato da Adamo e condiviso da tutti i suoi discendenti. Ora, l’originale gre
co eph’ói non può avere questo significato e giustifica la diversa concezione del peccato origi
nale sviluppata dai Padri greci. Vedi J. MEYENDORFF, «Eph’ói (Rm 5,12) chez Cyrille d’A-
lexandrie et Théodoret», in Studia patristica 4 ,1961, pp. 157-161; Initiation à la théologie byzjmtine,
Paris 1975, pp. 194-196.
16L’affermazione che i neonati sono esenti dal peccato si trova per esempio in: GREGORIO DI
N azianzo , Discorsi, XL, 23. GREGORIO DI NlSSA, Sui bambini che sono morti prematuramente,
PG 46,177-180. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XXVIII, 3. C irillo di G e
rusalemme , Catechesi battesimali, IV, 19.
17Compendium, 5 ,18, PG 83,512.
18Sulla penitenza, 10. Cfr. Sull’unione ipostatica, 8,18.
19Commento alla lettera ai Romani, PG 74, 789, citato sopra.
261
mista: «Nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito
mia madre» CW51[50],7). Questo stato di peccato indica la debolezza
della natura, la sua malattia, la sua infermità, la sua passibilità, la sua
corruttibilità20, la sua mortalità fisica, e in modo generale la sua mor
te spirituale, cioè la condizione di separazione da Dio, più precisa-
mente il suo stato di allontanamento da Dio. È così che san Marco l’E
remita scrive: «Essendo morto il primo uomo, cioè separato da Dio,
noi non possiamo, noi, vivere in Dio»21.
Questo stato di peccato che colpisce la natura tuttavia non è col
pevole fintanto che l’uomo non lo ha personalmente assunto. L’uo
mo nasce con una natura malata, passibile, corruttibile e mortale a
motivo del peccato di Adamo non del suo; lo stato di allontanamen
to da Dio nel quale egli si trova nascendo costituisce veramente uno
stato di peccato, ma che egli non ha personalmente scelto. Il suo è,
dunque, un peccato involontario, che non ha nulla in comune con
uno stato di allontanamento da Dio che sarebbe un rifiuto volonta
rio di Dio, e che quindi per questo sarebbe un peccato in senso pro
prio. San Massimo fa questa distinzione al livello di Adamo stesso:
«Per la sua corruzione, la volontà naturale di Adamo introdusse la
corruzione della natura che si vide privata della grazia dell’impassi
bilità e divenne peccato. Il primo peccato, molto colpevole, fu all’i
nizio lo scivolamento della sua inclinazione iniziale, predisposta al be
ne; il secondo, conseguenza del primo, fu la trasmutazione non col
pevole della natura dal suo stato d’incorruttibilità in quello di
corruttibilità. Infatti, il giorno in cui trasgredì il comandamento di
vino, il nostro antenato Adamo commise due peccati: uno colpevole,
l’altro non colpevole, conseguenza del primo. Il primo avvenne per
ché la volontà rifiutò, di buon grado, il bene; l’altro perché la natu
ra si vide, senza volerlo, privata dell’immortalità, in seguito al com
portamento della volontà»22.
Il neonato non è capace del peccato intenzionale e volontario, e non
può dunque esserne colpevole. E a partire dal momento in cui l’uomo
è nell’età di disporre della sua coscienza e del suo libero arbitrio che
può commettere un tale peccato, quindi di peccare «con una tra
sgressione simile a quella di Adamo» (Rm 5,14), di condividere la sua
20 Nel testo di Cirillo d’Alessandria al quale ci siamo riferiti prima, l’espressione «l’uomo si
ammala di corruzione» riprende l’espressione «la natura si ammala di peccato», citata qualche
rigo sopra e appare come suo equivalente.
21 II battesimo, 24.
22 Questioni a Talassio, 42.
262
colpevolezza e di divenire così corresponsabile delle conseguenze
del peccato ancestrale.
È innegabile, tuttavia, che la natura che l’uomo eredita comporti
ima certa tendenza al male, un’inclinazione (rhope) al peccato23. «L’im
pulso che trascina [...] al male è una malattia della nostra natura», scri
ve san Gregorio di Nissa24, e nota anche che dopo la trasgressione ada
mitica, nella nostra natura abbiamo «subito una trasformazione che ci
ha volti verso il male»25.
Questa inclinazione si manifesta in particolare nelle passioni, che la
natura dell’uomo eredita26e che si rivelano fm^dalla nascita di questi.
«Il disegno del cuore umano è malvagio fin dalTadtdescenza» è scrit
to nel libro della Genesi (8,21). San Giovanni Cassianofanotare che
i bambini manifestano molto presto movimenti passionali: «Non ve
diamo i primi moti della carne non solo nei bambini ancora nell’età
dell’innocenza e che non hanno ancora il discernimento del bene e del
male, ma anche nei più piccoli e in quelli che ancora sono lattanti?
Senza che vi sia in essi il minimo inizio di concupiscenza, essi testi
moniano tuttavia che tali movimenti sono naturalmente impressi nel
la loro carne. Constatiamo anche violenti accessi di collera nei picco
lissimi che, prima di conoscere la virtù della pazienza, sono già turba
ti dalle ingiurie che ricevono e si risentono di parole di canzonatura
che qualcuno rivolge loro prendendoli in giro. E talvolta, benché man
chi loro la forza di farlo, non manca loro il desiderio di vendetta ispi
rata dalla collera»27.
I Padri sottolineano spesso la pressione violenta che esercita que
sta tendenza al male, ossia il suo carattere tirannico, rafforzato dal
l’attività demoniaca che la sottende, e che costituisce una vera schia
vitù28; è la «legge del peccato» di cui parla san Paolo (cfr. Rm 7,14-24).
A questo proposito così scrive san Doroteo di Gaza: «E per una co-
r>Cfr. G regorio di N issa , Vita di Mosè, n, 32. T eodoreto di C iro , Commento al Salmo
50,1. G iovanni C assiano , Conferenze, HI, 12. C irillo d ’A lessandria , Commento alla lettera
ai Romani, V, 18. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 21.
24 Discorso catechetico, 16.
s ìbid, 8.
26 Sul carattere ereditario delle passioni vedi CIRILLO D’ALESSANDRIA, Commento a san Gio
vanni, XIX, 19; Commento alla lettera ai Romani, V, 18; VII, 15; Sull’adorazione in spirito e ve
rità, 10. T e o d o r e to d i Cmo, Commento al Salmo 50,7, PG 80,1245. M assim o i l C o n fesso
re, Questioni a Talassio, 21.
27 Istituzioni cenobitiche, VII, 3.
28 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21. S ofronio di G erusalemme, Ome
lia sull’Annunciazione, PG 84,3232B; Lettera sinodale, PG 87,3173D.
263
strizione tirannica che l’uomo era trascinato dal nemico, e anche quel
li che volevano evitare il peccato erano quasi obbligati a commetter
lo»29. Anche san Massimo insiste particolarmente sul potente dominio
che le potenze del male esercitano sull’uomo decaduto e sull’asservi-
mento quasi totale di questi30.
Certamente, l’uomo non è costretto a peccare; da un lato conti
nua a disporre del libero arbitrio31, e dall’altro, a beneficiare di un aiu
to di Dio se è disposto a riceverlo32. Ma la sua natura corrotta, cioè al
lontanata da Dio e volta verso il sensibile e il passibile, fa sì che egli
si lasci facilmente sedurre a peccare e a sviluppare le sue passioni nel
senso del male33. Cede tanto più facilmente alle tentazioni demonia
che quanto più la sua volontà è indebolita e malata34.
E così che molto spesso gli uomini si lasciano scivolare sul pendio
su cui li trascina la loro natura decaduta. Una volta che l’uomo si è la
sciato trascinare a peccare, le sue passioni si sviluppano, e lo spingo
no di più al peccato, il che rafforza le passioni35. La passibilità eredi
tata dalla natura, da peccato involontario quale essa era, diviene, per
il fatto che l’uomo vi si abbandona volontariamente, peccato in atto36.
Allo stesso modo, la corruttibilità e la mortalità, che all’origine erano
l’eredità involontaria del peccato di Adamo, divengono per gli uomi
ni una fonte di peccati personali, nella misura in cui costoro, temen
do la corruzione e la morte, cercano di preservare la loro vita abban
donandosi volontariamente alla voluttà37 e alle passioni, le quali con
fermano e rafforzano a loro volta la loro corruttibilità e mortalità38.
29Istruzioni spirituali, I, 4.
30Cfr. Questioni a Talassio, 21.
31 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro ipagani, 4; 7. G iovanni C risostomo , Omelie sul
la Genesi, XIX, 1. ClRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi battesimali, IV, 18-21. ClRILLO D’ALES
SANDRIA, Commento alla lettera ai Romani, V, 18.
32 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XIX, 1. G iovanni C assiano , Confe
renze, m , 12.
33 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
34 Cfr. G re g o rio DI N azian zo, Poesie, n, 1, 45. G re g o rio DI N issa, Omelie sul Padre no
stro, IV, 2. G iovan ni C assiano, Conferenze, ni, 12.
35 Cfr. M assimo il C onfessore, Questioni a Talassio, 21.
36Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera ai Romani, XIII, 1.
37Cfr. GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. MASSIMO IL CON
FESSORE, Questioni a Talassio, 21: «Dom inato senza volerlo dal timore della morte, [l’uomo] si
abbandona alla schiavitù del piacere, nella speranza di poter continuare a vivere».
38 La concezione che la tendenza al peccato sia legata alla mortalità è stata sviluppata so
prattutto da G iovan ni C risostom o (Omelie sulla lettera ai Romani, x m , 1) e T e o d o r e to di
C iro (Commento alla lettera ai Romani, V, 12). J. MEYENDORFF nella sua esposizione sul pecca
to originale (Initation à la théologie byiantine, Paris 1975, p. 195) abbonda in questo senso, giun
gendo fino a tradurre Rm 4,12 con: «La morte, a causa della quale tutti hanno peccato».
264
Peccando personalmente, l’uomo diviene imitatore di Adamo, re
sponsabile con lui e con tutti gli uomini che si abbandonano al pec
cato del decadimento della natura comune. È in questo senso che pos
siamo dire che gli uomini sono colpevoli con Adamo, che portano in
loro stessi il peccato di Adamo39. Così si spiega la visione pessimista
che sviluppa san Massimo, il quale in particolare sottolinea la dialet
tica del peccato e della passibilità, e l’asservimento di cui l’uomo alla
fine si rende prigioniero: «Il peccato, conseguenza diretta della di
sobbedienza, introduce nella natura umana la passibilità che ormai se
gna la legge della procreazione. Questa prima disobbedienza cresce
con la passibilità, e la natura umana si lega al male volontariamente
con legami così impossibili da sciogliere, che per l’uomo non vi è più
alcuna speranza di liberarsene»40. Nella descrizione che abbiamo da
to delle passioni, spesso abbiamo fatto apparire questa dialettica.
Dopo il peccato originale, Dio, attraverso la voce dei profeti, ha
continuato a dare agli uomini dei comandamenti, il che non avrebbe
avuto nessun senso se essi non avessero avuto la possibilità di com
pierli, e ciò dimostra che essi avevano la capacità di non lasciarsi tra
scinare in un tale processo41. Abbiamo, peraltro, notato che sotto que
sta Legge, nei limiti della natura decaduta, alcuni uomini avevano con
dotto una vita giusta e gradita a Dio. San Sofronio indica chiaramente
il potere che avevano gli uomini che vivevano sotto l’Antica Alleanza
di resistere alle passioni e la loro responsabilità di fronte ad esse: «Quan
to alle passioni [...], tutti ci hanno accusato: la Legge, castigando e fis
sando per ogni passione la pena appropriata, i Profeti nel comanda
re di astenersene e di appropriarsi il meglio, i giusti esortando ad ab
bandonarle, [...] i maestri nel mostrarci come fuggirle»42. San Giovanni
Crisostomo dice molto chiaramente, ricordando i figli d’Adamo: «Dio
che è buono per essenza non trascura nulla per condurci al bene, e
poiché egli conosce i sentimenti più intimi, i pensieri più segreti che
si agitano in fondo al nostro cuore, ci esorta, ci consiglia, previene i
nostri cattivi propositi. Non usa la costrizione, ma rimedi appropria
ti ai mali di ciascuno, e poi lascia tutto alla decisione del nostro libe
ro arbitrio»43.
” Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sul Padre nostro, V, 4.
40 Questioni a Talassio, 21.
41 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XIX, 1.
42 Ibid.
43 Omelie sulla Genesi, XIX, 1.
265
Resta tuttavia vero che, prima che il Verbo di Dio si fosse incarna
to e avesse compiuto la sua economia redentrice, gli uomini, anche i
più giusti, non potevano sfuggire allo stato di peccato nel quale il pec
cato ancestrale aveva posto la loro natura, continuavano a subire la ti
rannia della natura passibile e della sua tendenza al male, come quel
la della corruzione e della morte. Questo stato di peccato costituiva
una barriera che impediva all’umanità di appropriarsi la pienezza del
la grazia44. Solo il Cristo poteva guarire la natura umana dalla grave
malattia che la colpiva dopo il peccato di Adamo, restituirle la non
passibilità, l’incorruttibilità, e l’immortalità che essa possedeva nel suo
stato originale, e rimetterla sulla via della deificazione in vista della
quale era stata creata.
CONDIZIONI GENERALI
DELLA TERAPIA
IL CRISTO MEDICO
51 Ibid., 4.
Omelie su san Luca
52 Cfr. ORIGENE, Commento a san Giovanni
, X X X IV ; , X X , 28.
53 Su questo aspetto, vedi A. HARNACK, «Medizinisches aus der ältesten Kirchengeschichte»,
Texte und Untersuchungen , VHI, 4, Leipzig, 1892, pp. 125ss.
La prière des Églises de rite by-
54 Possiamo trovare i testi di questi rituali in E . MERCENIER,
zantin, 1.1, Chevetogne 1937.
55 Citiamo solamente qualche esempio tratto dai Vespri e dai Mattutini della Domenica: «P er
la colpa del nostro primo padre, Signore, siamo stati gravemente feriti; ma per le piaghe da cui
per noi tu fosti ferito, o Cristo, noi siamo guariti» (Canone del 1° Tono del Mattutino); «Tu gua
risci il m orso dato di buon grado con la tua passione subita volontariamente» (Canone del 2 °
Tono del M attutino); «Tutti siamo guariti per le tue ferite» (Stichi del 3° Tono dei Vespri); «Nel
seno della Vergine, o Maestro, tu hai guarito la nostra natura malata; o Verbo, tu l’hai unita al
la tua divinità immacolata, Punico rimedio efficace» (Canone del 3 ° Tono del Mattutino); «Si
gnore, tu hai guarito l’umanità dalla sua miseria, rinnovandola per mezzo del tuo sangue divi
no» (Canone del 4 ° Tono del M attutino); «Q uando sei salito sulla croce, tu mi hai guarito dal
le passioni, per la passione della tua carne immacolata, rivestita volontariamente» (ibid.).
56 Questioni a Talassio , 61, P G 90, 629C .
276
s
rigione, divenendo uomo senza cambiamenti^ senza trasformazioni
di alcun tipo»57.
Se egli è solo Dio, senza essere nello stesso tempo anche uomo, al
lora, afferma san Cirillo di Gerusalemme, «egli non ha assunto l’u
manità e noi restiamo estranei alla salvezza»58, perché, come afferma
san Gregorio Nazianzeno, «ciò che non è assunto non è guarito (tò gàr
apróslepton, atheràpeuton)»59, formula che riprende parola per paro
la san Giovanni Damasceno60, il quale afferma: «egli ha assunto tutto
affinché tutto fosse guarito»61. Il Cristo, infatti, guarisce «il simile con
il simile», cioè guarisce l’uomo facendosi uomo, rivestendo la natura
umana nella sua integralità. «L’infermità della nostra natura [...] non
potendo essere più grande, aveva bisogno del rimedio più grande. Ora
questo rimedio consisteva nel fatto che il Creatore divenisse uguale a
noi, sue creature, che Dio divenisse uomo come noi», scrive san So-
fronio di Gerusalemme62. Il Cristo, osserva san Giovanni Damasceno,
ci «guarisce» «con ciò che egli ha ricevuto da noi e come noi»63. Lo
stesso santo tra l’altro precisa64: «Tutta l’essenza divina si è unita com
pletamente a tutta la natura umana; infatti, di ciò che egli ha deposi
tato nella nostra natura, il Dio Verbo, che all’inizio ci ha modellati,
non ha evitato nulla, ma ha preso tutto, il corpo, l’anima, lo spirito, la
ragione, e le loro peculiarità [...]; egli mi ha assunto totalmente e si è
totalmente unito a me per donarmi una salvezza totale, perché non
può guarire quello che non ha assunto». «Egli ha assunto tutto affin
ché tutto fosse guarito», ripete più avanti65.
Il Cristo diviene, dunque, «per tutti tutto ciò che noi siamo: corpo,
anima, spirito»66, ed egli assume tutto quello che costituisce la nostra
natura umana.
Il Cristo, nato verginalmente e, pertanto, esente dagli effetti del pec
cato ancestrale, ha assunto la natura umana nello stato in cui Dio l’a
veva creata, tale e quale Adamo la possedeva all’origine: una natura ten
dente verso il bene ed esente da ogni tendenza al peccato, ma anche
57ibid.
58 Catechesi battesimali, XII, 1.
59 Lettere teologiche, I, 32.
60Esposizione esatta della fede ortodossa, U t, 18.
61 Ibid., 20.
62 Omelie su Giovanni 'Battista, P G 84, 3822B .
63Esposizione esatta della fede ortodossa, EOE, 1.
64Ibid., 6.
65Ibid., 20.
66 G regorio N azianzeno , Lettere teologiche, 1 ,32.
277
impassibile, incorruttibile e immortale67. È così che san Gregorio Na-
zianzeno esclama nella festa della Natività, per la quale la Chiesa cele
bra l’Incarnazione del Cristo: «Quante feste per celebrare i misteri cri
stiani! Ma di tutte queste, la più importante è quella di oggi: essa è il
mio compimento, il mio ritorno allo stato originale, all’antico Adamo»68.
La natura umana assunta dal Verbo era per sopraggiunta perfetta e
deificata da parte della sua unione ipostatica alla natura divina, poi
ché le energie della natura divina la penetravano completamente69, la
sciando tuttavia sussistere intatte le sue proprietà naturali. San Gre
gorio Nazianzeno, san Massimo e san Giovanni Damasceno ricorda
no la pericoresi che si compie nella persona del Cristo tra le sue due
nature70, che sono distinte ma non separate, unite sebbene non con
fuse. «Se diciamo, spiega san Giovanni Damasceno, che le due natu
re del Cristo si compenetrano l’un l’altra, sappiamo tuttavia che que
sta pericoresi è venuta dalla natura divina; difatti questa si diffonde e
penetra dovunque come vuole [...]. Essa trasmette alla carne la pro
pria gloria, rimanendo essa stessa impassibile»71. Nell’unione ipostati
ca tra la natura divina e quella umana, ossia nell’unire questa a quel
la nella persona del Verbo, il Cristo, attraverso la sua incarnazione, ha
rovesciato la prima delle tre barriere che separavano l’uomo da Dio:
la natura, il peccato, la morte72. Egli restituisce alla natura umana la
capacità di ricevere in sé la grazia divina increata dalla quale il pec
cato ancestrale l’aveva tenuta lontana.
Il Cristo, pertanto, aggiunge a questa assunzione naturale dell’u
manità un’assunzione economica”. Per amore degli uomini, egli pro
segue la sua kenosi, si abbassa volontariamente fino a rinunciare in
qualche modo a questa natura già impassibile, incorruttibile, immor
tale e deificata, per assumere la natura umana decaduta, come la
possiedono gli uomini che subiscono gli effetti del peccato originale;
in altri termini, egli prende su di sé la natura passibile, corruttibile e
mortale. Tuttavia, se egli assume queste conseguenze del peccato, e se
67 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
68Discorsi, XXXVIII, 16.
69 Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 17.
70 Cfr. G re g o rio N azian zen o, Lettere teologiche, 1 , 31. M assim o i l C on fessore, Disputa
con Pirro, P G 9 1 , 345D -348A .
71 Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 7. Cfr. 3.
72 Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, IH.
73 Questo concetto si ritrova in particolare in san Massimo il Confessore (vedi il nostro stu
dio: La divinitation de l’homme selon sainte Maxime le Confesseur, Paris 1996, pp. 318-319).
278
in questo senso egli diviene, come dice l’Apostolo, «peccato per noi»
{2Cor 5,21), egli non assume il peccato stesso74. «Egli è esente da col
pa e da corruzione, spiega san Gregorio Nazianzeno, perché in realtà
egli guarisce le passioni e le sozzure che ci vengono dal peccato. Ma,
se egli ha preso su di sé le nostre colpe e ha fatto sue le nostre malat
tie, non ha subito il danno al quale bisogna porre rimedio; difatti, se
egli è stato tentato in tutte le cose per essere simile a noi, egli non ha
affatto commesso il peccato»75.
Il Cristo assume, così, le passioni umane, ma senza la tendenza al
peccato76. In altri termini, egli assume «le passioni naturali e irre
prensibili»77, ma non le passioni cattive78.
Egli ha altresì assunto volontariamente la fame, la sete, la fatica, il
timore, la paura, le lacrime, il dolore, la sofferenza fin nella forma più
atroce e, infine, la morte, o per meglio dire, tutte le imperfezioni e i li
miti provenienti dal peccato, per poterci liberare da essi, da tutte le
malattie, dalle dobolezze e dalle infermità della nostra natura, e po
terci così guarire. A questo proposito osserva san Macario: «Ha dato
egli stesso i rimedi che guariscono e ha curato coloro che erano feriti
come se fosse egli stesso uno di loro»79. E sant’Antonio precisa: «A
causa della nostra follia, egli ha assunto la livrea della follia; a causa
della nostra debolezza, egli ha assunto la livrea della debolezza; a cau
sa della nostra indigenza, egli ha assunto la livrea dell’indigenza; a cau
sa della morte ormai nostra, egli ha assunto la livrea di un comune
mortale»80. La formula dei Padri, già citata prima, secondo cui dò che
non è assunto non è guarito, si applica non solo alla natura umana as
sunta in unione ipostatica dal Cristo totalmente, in corpo, anima e spi
rito, ma anche a questa natura nel suo modo di esistenza decaduta che
il Cristo, per questo motivo, si è ugualmente degnato di rivestire.
Il Cristo, in breve, assume le conseguenze del peccato per distrug
gerle in se stesso. Egli può farlo perché, essendo e rimanendo puro da
74 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
75 Discorsi, XLV, 13.
76 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
77 Cfr. G iovan n i D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, III, 2 0 . M assim o i l
C on fessore, Ambigua, 4 2 , PG 9 1 , 1316D . S o fr o n io di G erusalem m e, Lettera sinodale, PG
8 7 ,3 1 7 3 0
78 Cfr. M arco l ’Erem ita, A Nicola, 9. S o fr o n io di Gerusalem m e, Omelia su Giovanni Bat
tista, PG 8 7 , 3328B .
79 Omelie (Coll. H), X X V I, 25.
80Lettere, IV, 3.
279
ogni peccato, egli non lo subisce e non offre in se stesso alcun acces
so al male81, perché in tutte le tentazioni e le prove alle quali egli si sot
tomette volontariamente, conserva tutte le facoltà umane immutabil
mente orientate verso il bene, la sua volontà umana immutabilmente
sottomessa alla volontà divina. San Cirillo d’Alessandria scrive a que
sto riguardo: «L’anima divenuta quella del Verbo, che ignora la colpa,
possiede ormai a pieno titolo ima stabilità immutabile in ogni sorta di
bene; essa è incomparabilmente più forte del peccato, fino ad allora
nostro tiranno»82. E aggiunge: «Appropriandosi dell’anima umana, egli
l’ha fatta trionfare sul peccato, come impregnandola di una tintura,
della stabilità e dell’immutabilità della propria natura»83.
I Padri insistono particolarmente sul fatto che il Cristo ha conser
vato la sua volontà umana costantemente conforme alla sua volontà
divina. In altri termini, poiché la sua volontà divina è anche quella del
Padre che lo ha inviato, egli si è mostrato nella sua umanità costante-
mente e in tutto obbediente al Padre. E per dò stesso che egli ha gua
rito la nostra natura: perché è nella disobbedienza di Adamo a Dio che
è consistito il peccato originale, è alla separazione della volontà uma
na dalla volontà divina che sono dovute le funeste conseguenze, è da
questa deviazione originale che la natura umana è stata distolta dalla
sua finalità naturale e ha condotto un’esistenza anormale per la qua
le è stata privata della grazia e della vera vita. Come la disobbedienza
di Adamo ha separato l’uomo da Dio, così la perfetta obbedienza
del Cristo al Padre ha riconciliato l’uomo con Dio, ha ricostruito la
sua natura corrotta, ha completamente riunito l’uomo a Dio. «Come
uomo [il Cristo] ha sottomesso se stesso, in se stesso e per suo mezzo,
l’umano a Dio Padre», scrive san Giovanni Damasceno84. E san Gre
gorio di Nissa ricorda in questi termini la guarigione della nostra na
tura compiuta così dal Verbo incarnato: «La salute dell’anima sta nel
fatto che la volontà divina trova una strada facile in noi; mentre, al con
trario, cadere fuori da questa buona volontà è la malattia che condu
ce l’anima alla morte. Poiché, dunque, noi siamo malati, per aver ab
bandonato la vita sana che conducevamo in paradiso, poiché il vele
no della disobbedienza ci aveva riempiti fino all’orlo e poiché per esso
la nostra natura era in preda a questa malattia perniciosa e mortale,
81 Cfr. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 21.
82 Dialogo sull’Incarnazione dell’Unigenito, SC 97, p. 230.
83 Ibid.
84 Esposizione esatta della fede ortodossa, III, 18.
280
il vero medico è venuto, scacciando il male con i suoi contrari, se
condo la legge della medicina: gli uomini oppressi dall’infermità, per
ché si erano separati dalla volontà divina, eccoli di nuovo liberati da
ogni male, attraverso l’adesione ai desideri di Dio»85. San Giovanni
Damasceno afferma la stessa cosa in simili termini: «[Il Cristo] si fa
obbediente al Padre, guarendo la nostra disobbedienza»86. A sua
volta, san Cirillo d’Alessandria così scrive: «Come in Adamo la natu
ra umana cadde malata di corruzione a causa della disobbedienza [...],
così in Cristo essa ha ritrovato la salute; è infatti divenuta obbedien
te a Dio e Padre e non conobbe il peccato»87.
La guarigione della natura umana è operata dal Verbo incarnato
lungo tutta la sua missione terrena, attraverso tutte le sue azioni salvi
fiche.
Con il suo battesimo, benché egli sia puro di per sé, egli purifica
la natura umana, la rigenera e l’illumina, liberandola dall’influsso del
le potenze del male e dall’ignoranza di Dio88.
Accettando di essere tentato nel deserto secondo le sue passioni na
turali, ma resistendo vittoriosamente alle tentazioni e impedendo al
male di avere qualche accesso in lui89, egli libera l’uomo dal potere
tirannico delle potenze tentatrici90e dalle passioni dovute alla sete di
godimento91.
Accettando liberamente la sua passione e subendo volontariamente
la sofferenza nella sua natura umana passibile, egli la vince per mezzo
della sua natura divina impassibile, e libera l’uomo dal potere tirannico
che essa esercitava su di lui92, come pure dalle passioni che mirano di
rettamente ad evitare il dolore93 e da quelle che si sforzano di allegge
rirlo attraverso la ricerca del piacere94. Per questo la Chiesa canta: «Quan
do tu sei salito sulla croce, tu mi hai guarito dalle passioni attraverso
la passione della tua carne immacolata rivestita volontariamente»95. Il
85 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
86 Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 1.
87 Commento alla lettera ai Romani, PG 74,789.
88Vedi la liturgia dei Vespri e dei Mattutini della Festa della Teofania, in E. MERCENIER, La
prière des Églises de rite byzantin, t. II, 1, Chevetogne 1953, pp. 262-304.
89 Cfr. G iovanni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 20.
90 Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, 21.
91 Ibid.
92 Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, 61, 629C.
93 Cfr. 21.
ibid.,
94 Cfr. 61, PG 90, 629C.
ibid,
95 Mattutino della Domenica, 4° Tono, 4aode del Canone.
281
Cristo, guarendo l’uomo dalle sue passioni, gli fa recuperare l’uso nor
male delle sue facoltà, dà loro, in altre parole, la possibilità di orien
tarle verso Dio. Per questo così scrive san Massimo: «Colui che ha crea
to l’uomo [...] si fa egli stesso passione, per guarire le nostre passioni
con la sua passione. Cancellando nella carne le nostre passioni al di là
di ogni misura, nel suo amore per l’uomo rinnova nello Spirito le no
stre facoltà»96.
Tra tutti gli atti salvifici del Verbo incarnato, la sua passione, mor
te e risurrezione occupano un posto centrale. È attraverso di essi, in
fatti, che egli rovescia le due barriere restanti - quella del peccato e
quella della morte97-, e che ci riconcilia totalmente con Dio (cfr. Rm
5,10; 2Cor 5,18), restituendoci così una salute piena, quella della no
stra natura originale, conferendoci l’incorruttibilità e l’immortalità.
«Tutto ciò», scrive san Gregorio Nazianzeno nel ricordare la passio
ne, morte e risurrezione del Cristo, «era per Dio un mezzo per [...]
guarire la nostra debolezza ristabilendo il vecchio Adamo nello stato
dal quale era caduto e nel condurlo presso l’albero della vita»98.
Il mistero della redenzione rimane fondamentalmente incompren
sibile all’uomo. Nessuna spiegazione può decifrarlo adeguatamente.
La morte del Cristo sulla croce, in particolare, appariva, secondo le
parole di san Massimo, come un «giudizio di ogni giudizio»99. Così,
questo mistero deve, secondo la raccomandazione di san Gregorio Na
zianzeno, «essere venerato con rispetto nel silenzio»100. E, dunque, in
un atteggiamento apofatico che i Padri hanno l’abitudine di affron
tarlo, ricorrendo a immagini di cui occorre sempre misurare il carat
tere relativo e inadeguato.
Notiamo, tuttavia, che la prospettiva generalmente adottata dal cri
stianesimo occidentale che comprende la redenzione in categorie es
senzialmente etiche e giuridiche come «soddisfazione» o «remunera
zione», e che vede nel sacrificio del Cristo un debito che il Figlio pa
ga al Padre allo scopo di placare la sua collera o di «soddisfare» la sua
giustizia, è generalmente rimasta estranea alla visione dei Padri orien
tali e alla tradizione della Chiesa ortodossa. «Non è evidente», si chie
de san Gregorio Nazianzeno che rifiuta una tale concezione della re
denzione, «che il Padre accetti il sacrificio non perché lo esiga o ne
96 Centurie sulla teologia e sull’economia, IH, 14.
97 Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, HI.
98 Discorsi, IH, 25.
99 Questioni a Talassio, 4 3 , P G 9 0 , 40 8 D ; 6 1, 6 3 3 D ; 6 3 , 684A ; 685B .
100 Discorsi, XLV, 22.
282
senta qualche bisogno, ma per economia? Occorreva che l’umanità
fosse santificata da un Dio che avesse assunto la natura umana; oc
correva che egli stesso ci liberasse trionfando con la propria forza sul
tiranno, che egli ci richiamasse a lui per mezzo dei suo Figlio che è il
Mediatore che compie tutto secondo la volontà del Padre al quale è
obbediente in tutto»101. Non è, dunque, una «soddisfazione» giuridi
ca che il Cristo compie con la sua morte, bensì una restaurazione on
tologica della natura umana che egli ha assunto. E se solo il Figlio di
Dio può riscattare l’uomo e se per questo deve morire nella sua car
ne, ciò non è perché solo lui sarebbe in grado di pagare il debito del
l’umanità peccatrice verso Dio e solo la sua morte sarebbe capace di
pagare questo debito, ma perché solo Dio era così potente da porre
rimedio ai mali del genere umano. Questo sarebbe avvenuto solo as
sumendo la morte ed essendo «il solo che possiede l’immortalità» (lTm
6,16) poteva liberare l’uomo dalla morte: ciò che non era assunto non
poteva essere guarito, come sottolineano frequentemente i Padri.
Come la corruzione appariva alla maggior parte dei Padri una ma
lattia contratta dall’uomo in seguito al suo peccato e ima conseguen
za «naturale» e inevitabile di questo piuttosto che una punizione in
flitta da Dio, così la redenzione operata dal Cristo è da essi compre
sa come l’assunzione volontaria del Verbo fatto carne del destino
comune dell’umanità sofferente e mortale al fine di distruggervi, per
la potenza della sua divinità, le conseguenze del peccato, le malattie
spirituali, la corruzione e la morte e ridare, così, all’uomo una vita nuo
va in cui la sua natura avrebbe ritrovato in pieno la salute. Non sor
prende, così, veder ricordate in termini di terapia la passione e la mor
te salvifica del Cristo, e in termini di guarigione i loro benefici effetti
sul genere umano. La croce del Cristo, scrive sant’Atanasio, «è stata
per la natura la guarigione»102. «Le sue piaghe furono la nostra guari
gione», ribatte, da parte sua, in varie riprese, sant’Antonio l’Eremita103,
riprendendo questa profezia di Isaia: «Per le sue piaghe noi siamo sta
ti guariti» (Is 53,5). Origene si esprime in termini simili: «Per mezzo
della sua morte, egli ci purifica tutti, morte che ci è stata data come ri
medio (phdrmakon) contro le azioni avverse e il peccato»104. E la Chie
sa, nel Mattutino della festa dell’Esaltazione della Croce, celebra la
10>m .
102 Contro i pagani, 1.
103 Lettere, II, 2 ; I É , 2 ; IV, 2; V, 2 («per le sue piaghe, tutti noi siamo stati guariti»); V bis;
V, 3.
104 Commento a san Giovanni, I, 37.
283
Croce per mezzo della quale gli uomini «ricevono la guarigione del
l’anima e del corpo e di ogni malattia»105.
NeU’assumere volontariamente la morte, che è principio e conse
guenza del peccato, il Cristo, che è allo stesso tempo corruttibile e mor
tale nella nostra umanità, incorruttibile, immortale e padrone della
morte e della vita nella sua divinità, distrugge per tutti gli uomini la
corruzione, la morte, il peccato e le sue conseguenze.
Avendo nella sua umanità assunto volontariamente la morte, il
Salvatore, che era Dio, non ha lasciato alcun appiglio alla morte.
Quando il corpo del Salvatore fu deposto nel sepolcro, egli era cor
ruttibile, perché il Cristo aveva assunto la corruttibilità; in quanto,
però, corpo del Verbo incarnato, l’ipostasi divina del Verbo non era
separata da lui ma gli rimaneva unita106, e quindi rimase inaccessibile
alla corruzione.
Quando l’anima del Salvatore nello stesso tempo in cui soggiorna
va negli inferi, poiché rimaneva ipostaticamente unita al Verbo divi
no107, non lasciava alcun appiglio alle potenze che cercavano di im
padronirsene.
Presentandosi alla morte, alla corruzione e alle potenze infernali co
me un semplice mortale, egli le distrusse come Dio.
Ricorrendo al simbolismo, nell’impossibilità in cui è l’uomo di spie
gare razionalmente questa vittoria del Cristo, i Padri dicono spesso
che la morte, la corruzione e il diavolo sono stati presi in trappola. A
tale riguardo così scrive san Giovanni Damasceno: «La morte avanza,
inghiotte l’esca del corpo e si ferisce all’amo della divinità, che non ha
peccato affatto e avendo gustato il corpo che dona la vita, essa si
corrompe e vomita tutto quello che aveva un tempo inghiottito. Le te
nebre si cancellano quando giunge la luce, così scompare la corru
zione sotto l’attacco della vita»108. San Massimo mostra come già quan
do il Cristo è stato tentato nel deserto, ha fatto impigliare il diavolo
nelle proprie macchinazioni, presentandosi a lui come un semplice uo
mo, ma sventando i suoi attacchi, utilizza la stessa immagine che userà
san Giovanni Damasceno per mostrare come egli ha vinto nella mor
te le potenze del male109. Ed egli dimostra come per questo il Cristo
rovescia il processo della caduta: «Così colui che prima aveva sedotto
105 Tropario delle Lodi.
106 Cfr. GIOVANNI D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 27.
107 Ibid.
108 Esposizione esatta della fede ortodossa, HE, 27.
109 Questioni a Talassio, 6 4, P G 90, 713 AB.
284
l’uomo facendogli sperare la divinizzazione e lo aveva inghiottito, fu a
sua volta adescato dalla stessa carne dell’uomo e dovette vomitare ciò
che aveva inghiottito. La potenza divina si manifestò così con fulgore:
essa trionfò con la forza del vincitore servendosi come arma della
debolezza della natura vinta. Ormai è Dio che prevale con la sua na
tura umana, e non il diavolo con la promessa della natura divina fat
ta all’uomo»110. ""
Nella morte del Cristo muore definitivamente il vecchio uomo, l’an
tico Adamo, muore la forma decaduta e malata dell’umanità che su
bisce la tirannia del diavolo, del peccato e della morte. «Il nostro uo
mo vecchio fu crocifisso insieme con Cristo affinché fosse annullata la
forza del corpo del peccato» (Rtn 6,6). Una volta per tutte e per tut
ti, egli ha annullato il peccato con il suo sacrificio (cfr. Eb 9,26). «Per
distruggere con la morte colui che ha il potere sulla morte, cioè il dia
volo» (Eb 2,14), e «per liberare quelli che erano asserviti per tutta la
vita al timore della morte» (Eb 2,15). Per questo così scrive sant’Ata-
nasio: «Nello stesso essere s’incontrano due prodigi: la morte di tutti
si compie nel corpo del Signore, e, dall’altra parte, la morte e la cor
ruzione sono distrutte dal Verbo che abita in questo corpo»111.
Nella morte del Cristo, vengono distrutti il peccato, la corruzione,
la morte e la potenza del diavolo; l’uomo vecchio è mortificato, l’an
tica vita, relativa al peccato e sottomessa alla morte è distrutta, il dia
volo è incatenato e il suo potere annientato. Ma questo momento es
senziale e indispensabile della sua salvezza non basta da solo: «Se Cri
sto non è risorto, è inutile la vostra fede» (lCor 15,17). E solo nella
risurrezione del Cristo che egli trova il suo fine e il suo compimento:
è per essa che l’impassibilità, l’incorruttibilità e l’immortalità sono de
finitivamente acquisite dall’uomo112 ed egli può accedere a una vita
nuova. «Fummo sepolti con lui [...] nella sua morte, in modo che, co
me Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi ab
biamo un comportamento di vita del tutto nuovo», scrive l’Apostolo
(Rm 6,4). E san Gregorio Nazianzeno, a sua volta, afferma: «Il Cri
sto è uscito dalla tomba; siate liberati dalle catene del peccato: le por
te dell’inferno sono aperte e l’influsso della morte è distrutto: il vec
chio Adamo è confinato e il nuovo è compiuto [...]; una nuova crea-
uolbid.
111 Sull’Incarnazione del Verbo, 20.
112 Cfr. GIOVANNI D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 28.
285
tura è nata nel Cristo»113. Nel Cristo risuscitato, l’uomo è tornato alla
vita e «ora invece egli vive, e vive per Dio» (Rm 6,10).
L’opera redentrice del Cristo non è creazione, ma ricreazione, rin
novamento della natura dell’uomo, restaurazione dell’Adamo pri
mordiale a immagine e somiglianza di Dio, reintegrazione nell’uomo
del suo essere, del suo modo di esistere, della sua vita e del suo vero
destino. Nella sua natura, restaurata per mezzo dell’unione alla natu
ra divina nella persona del Cristo morto e risorto, l’uomo, di cui tutti
i mali sono stati consumati, ricupera in tutto il suo essere una piena
salute. In Cristo, egli ritorna ad essere un uomo normale. Ritrova le
sue facoltà nel loro stato originario, conforme alla loro natura, che è,
ricordiamolo, quello di essere orientato verso Dio. San Doroteo di Ga
za a proposito del Cristo così scrive: «Egli ha preso lo stesso nostro es
sere, le primizie della nostra natura, ed egli è divenuto un nuovo Ada
mo “a immagine di colui che lo ha creato” (Col3,10), restaurando lo
stato naturale, e rendendo alle facoltà la loro prima integrità»114. E mol
ti Padri sottolineano che il Salvatore, incarnandosi, ha ricondotto la
natura a se stessa e le ha anche ridato la salute della sua condizione
originale che Adamo aveva conosciuto in paradiso. Da parte sua, co
sì scrive san Giovanni Damasceno: «Noi siamo caduti, dopo la tra
sgressione da “secondo natura” in “contronatura”, e il Signore da “con
tro” a “secondo” la natura ci ha fatto risalire»115. Abba Isaia, a sua vol
ta, osserva: «Il Verbo fatto carne, cioè perfettamente uomo, diviene
simile a noi in tutto fuorché nel peccato, per ricondurre ciò che era
contro natura alla conformità con la natura attraverso il suo santo cor
po e, avendo pietà dell’uomo, egli lo fa tornare in paradiso»116.
Ma nello stesso tempo, il Cristo risuscitato rende in sé l’umanità re
staurata pienamente compiuta, cioè deificata. Dopo aver compiuto
la sua kenosi fino al punto più basso, quello della morte e della discesa
agli inferi liberamente assunte, il Cristo risale portando con sé e in sé
l’umanità guarita e liberata da tutti i suoi mali e a essa, con la sua ri
surrezione, apre l’accesso alla vita eterna. Per la sua ascensione, egli
eleva questa umanità deificata fino al Padre e la fa sedere alla sua de
stra117.
Discorsi,
115 G re g o rio N azian zen o, XLV, l .
114 Istruzioni spirituali, 1 , 4.
115 Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 7.
116 Discorsi, II, 2.
117 Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 1-2.
286
La salvezza che il Cristo ha compiuto, si estende a tutti gli uomini
di tutti i tempi. «Il Cristo si è manifestato col sacrifìcio di se stesso per
l’annullamento del peccato» (Eb 9,26); egli ha «trovato un riscatto eter
no» (Eb 9,12); «siamo stati santificati mediante l’offerta del corpo di
Gesù Cristo ima volta per sempre» (Eb 10,10). Come Adamo aveva
reso malata l’intera natura umana, così il Cristo, nuovo Adamo, ha gua
rito, salvato e deificato interamente la natura umana per tutti i tempi.
Tuttavia, la sua azione terapeutica non si applica solo alla.natura che
egli ricapitola in sé. Questa si applica anche a ogni persona che si ri
volge a lui: «Il Figlio di Dio che vive e agisce è ogni giorno occupato
nell’operare la salvezza di tutti», nota sant’Atanasio d’Alessandria118.
Egli compie tale salvezza nel rendere ciascuno personalmente parte
cipe di questa guarigione dell’intera natura che egli ha compiuto, mo
strandosi attento alle malattie di ciascuno, concedendo la sua grazia a
ogni persona secondo i suoi bisogni particolari e secondo il deside
rio che essa manifesta di ottenere le sue cure. Nicola Cabasilas scrive
a questo proposito: «Il Cristo è il Mediatore attraverso il quale ci so
no venuti tutti i beni che ci sono stati donati o, piuttosto, che ci ven
gono donati da Dio incessantemente. Difatti egli non si è acconten
tato di adempiere una volta per tutte al suo ruolo di Mediatore do
nandoci tutti i beni in vista dei quali egli adempiva tale ruolo, e di
ritirarsi in seguito: no, egli interviene incessantemente, e non a paro
le o con richieste come fanno gli ambasciatori, ma con azioni. Cos’è
questa azione? Quella di unirci a lui e, attraverso la sua persona, ren
derci partecipi delle grazie che gli sono proprie, secondo il merito di
ognuno e secondo il grado della sua purificazione»119. Sottolineando
quest’azione attuale del Cristo medico, san Giovanni Carpazio scrive:
«Il grande medico di coloro che soffrono è vicino. Egli ha preso su
di sé i nostri mali. Ci ha guariti, e ci ha guariti con le sue piaghe. Egli
è all’opera, egli applica ora i salutari rimedi»120. Quanto a san Massi
mo, egli dimostra che il medico celeste dà a ciascuno il rimedio ap
propriato. «Come i medici che curano i corpi non dànno a tutti lo stes
so e unico rimedio, così Dio che guarisce le malattie delle anime non
conosce un solo trattamento vantaggioso per tutti. Ma solo dando a
ogni anima ciò che le è necessario egli compie le guarigioni. Dun
que, noi che siamo curati così, rendiamo grazie»121.
118 SullTncamazione del Verbo, 31.
119 Spiegazione della divina liturgia, X LIV , 1.
120 Discorso ascetico.
121 Dieci capitoli, 5.
287
Il Cristo, quindi, è considerato medico non solo della natura uma
na in generale nell’ambito della teologia della redenzione dell’intera
umanità, ma è anche celebrato e invocato come tale da/per ogni per
sona desiderosa di ottenere da lui la guarigione dei suoi mali partico
lari o di quelli del suo prossimo, così come attestano molti testi pa
tristici122e liturgici. Egli qui è generalmente chiamato «medico eccel-
122 Cfr. C lem en te d i Roma, Lettera ai Corinzi, 5 9 ,4 . Ig n a zio d ’A n tio ch ia , Lettera agli E/e-
sini, VII, 2. GIUSTINO, Apologia seconda, 13; Lettera a Diogneto, IX , 6. IRENEO DI LlONE, Con
tro le eresie, III, 5 ,2 . TEOFILO d ’A ntìOCHIA, Ad Autolico, 1 ,7 («Se tu vuoi, puoi guarire; rimettiti
nelle mani del medico, egli opererà gli occhi della tua anima e del tuo cuore. Chi è il m edico?
È Dio che guarisce e vivifica attraverso il Verbo e la Sapienza»). CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il
Pedagogo, 1 , 1, 2 («H Verbo guarisce le nostre passioni»); 1, 4 (« È com e guaritore [...] che egli
prom ette la guarigione delle passioni che sono in noi»); 3 , 1 - 2 ; 3 , 3 («Così com e per i malati
del corpo si ha bisogno di un medico, per coloro la cui anima è debole, occorre un Pedagogo
affinché esso guarisca le nostre passioni»; 6 , 1 (« E cco il Verbo, nostro Pedagogo, che [...] cura
le passioni contro natura della nostra anima. In senso proprio, si chiama medicina la cura delle
malattie del corpo; è un’arte che viene insegnata dalla sapienza umana. M a il Verbo del Padre
è l’unico medico delle infermità morali dell’uomo; egli è il guaritore [...] che libera l’anima m a
lata»); 6 , 2 («L a medicina [secondo Dem ocrito] cura le malattie del corpo, ma è la sapienza che
libera l’anima dalle sue passioni. H nostro buon Pedagogo, proprio lui, che è la Sapienza e il Ver
bo del Padre, e che ha creato l’uomo, si prende cura della sua creatura interamente presa: ne cu
ra sia il corpo che l’anima, egli, il m edico dell’umanità, è capace di guarire tutto»); 6, 4 («Egli
guarisce l’anima in se stessa, con i suoi precetti e le sue grazie»); 5 1 ,1 («Il Verbo, che si m esco
la intimamente all’amore dell’uomo, guarisce le passioni allo stesso tem po che purifica dai pec
cati»); 83, 2 («N oi che in questa vita siamo malati [...], abbiamo bisogno del Salvatore. Ci ap
plica dolci rimedi, ma anche rimedi amari»); 8 3 ,3 ; 8 8 ,1 ; 1 0 0 ,1 («Il Verbo è stato chiamato Sal
vatore, egli che ha inventato per gli uomini questi rimedi spirituali [...]; ordina ciò da cui occorre
astenersi e porta ai malati tutti gli antidoti salutari»); 1 0 0 ,2 ; III, 7 0 ,1 ; 9 8 ,2 (« È lui che guarisce
Protreptico
i nostri corpi e le nostre anime, tutto l’uom o»); Quale ricco può es
, I, 8 , 2 ; X , 9 1 , 3;
sere salvato Strornati,
?, 29, 3 ; Scorpiace
I, 2 7. TERTULLIANO, (= medicina contro il m orso dello
Contro Marcione,
scorpione), 5 ; Contra Celso
HI, 17. ORIGENE, Omelie sul Levitico
, DI, 61; , VHI,
1; Omelie su Geremia Omelie su Ezechiele
, X V H I, 5 ; Omelie su Samuele
, 1 ,2 ; Ome , X X V IH , 6;
lie su Numeri , X X V II, 12 («Quale Signore? Colui che guarisce tutte le malattie [...]. Infatti vi
sono molte malattie nell’anima [...]. Quando, Signore Gesù, mi curerai per tutte queste malat
tie? Quando mi guarirai affinché io dica: "Benedici, anima mia, il Signore che guarisce tutte le
malattie” [Sai Omelie su san Luca
102,3 ]» ); Lettere,
, X m , 2-3. ANTONIO L’EREMITA, E , 2; IH, 2;
IV, 2; V, 2; V bis; VI, 2-3. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Sull'Incarnazione del Verbo Discorso , 18; 44;
contro ipagani, 1. METODIO D’OLIMPO, Sulla risurrezione dei corpi, Let
42. BASILIO DI CESAREA,
tere, Omelie
X L V I, 6 («Il grande m edico delle anime è p ron to a guarire il tu o m ale», e c c.);
contro i ricchi, VII, 1 («Il grande m edico delle anime vuole rendere l’uomo perfetto»). ClRILLO
DI GERUSALEMME, Catechesi battesimali, E , 6 («Le tue ferite non superano l’arte del medico. D o
na solamente te stesso con fede, di’ il tuo male al m edico»); X , 5 ; X II , 1, 6 -8. MACARIO d ’E-
GITTO, Capitoli parafrasati, 72 («Se il Cristo venuto tra noi curava e guariva i ciechi, i paralitici
e i sordi [...], quanto più curerà l’anima immortale che fu presa dalla malattia della malvagità e
dell’ignoranza»); 100 (l’anima povera in spirito «cerca il solo buon m edico e non si affida ad
altri che alle sue cure [...]. Il Signore viene a curarla, a guarirla, e la ristabilisce in una bellezza
impassibile e incorruttibile»); Omelie (Coll. II), IV, 25 («C om e, durante la sua perm anenza
sulla terra, nella sua dolce bontà, concedeva con liberalità, da buon e unico m edico, ciò che
essi desideravano a tutti coloro che venivano a lui e gli chiedevano soccorso e guarigione, così
egli agisce anche nel campo spirituale»); 27 («Egli è venuto a causa dei peccatori, [...] affinché
essi siano guariti nel credere in lui [...]. Egli è misericordioso, vivificante, guaritore di passioni
incurabili»); XV, 3 0 («il Cristo si porta accanto all’uomo malato [e] lo guarisce»), 47; X X V I, 23
(«Egli è chiamato medico, perché dona il rimedio celeste e divino e guarisce le passioni delTa-
288
lente», «il più grande dei medici», «il più abile dei medici», «il vero
medico», «il solo medico», «il principe dei medici», ecc., perché egli
è capace di guarire tutto: sia le malattie dell’anima che quelle del
corpo, fondamentalmente - cioè nelle loro stesse cause più profonde
e non solo nei sintomi -, e definitivamente. Difetti nessuna malattia
resiste alla sua terapia, il cui valore è assoluto, contrariamente a tutte
le terapie umane dagli effetti sempre incerti, parziali e provvisori e che,
soprattutto, si dimostrano incapaci di curare l’uomo totale e spiri
tuale. Così, ogni uomo che dispera della medicina umana o che non
ha trovato un medico capace di liberarlo dai suoi mali, può essere si
curo di trovare nel Cristo la guarigione da ogni malattia che lo colpi-
nima»); 25; 26; X X X , 9 («Vero m edico, il solo capace di guarire le nostre anime»); XLIV, 4;
XLVI, 2; Omelie (Coll. HI), VH, 7 ,2 («Il vero medico, il Cristo»); XXIV, 3; XXV, 3,2-3; XXVII,
2 ,4 («il Signore [...] vero medico»). GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, II, 25; V ili, 18; XIV, 37;
XXXVIH, 13; XLV, 9; 13; 26. GREGORIO DI NlSSA, Contro Eunomio, 3, PG 45, 612C; Omelie
sul Padre nostro, IV, 2 («Il vero m edico delle malattie dell’anima»). EVAGRIO PONTICO, Lettere,
42; Apoftegmi, Am 180,12; XVI, 18. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, VII, 30; XIX, 12 («A co
loro che cercano sinceramente il rimedio, la guarigione non mancherà di venire da parte del ve
ro medico delle anime», ecc.); Istituzioni cenobitiche, XH, 8. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla ver
ginità,, 17 (Egli agisce «com e il saggio m edico che diversifica le sue prescrizioni secondo lo sta
to del suo malato»); Omelia sul testo: «La porta è stretta...», 2; Omelie sulla penitenza, IV, 4
(«Correte dal m edico delle anime»); 7; 6; Commento al Salmo 6,3 ; Esortazioni a Teodoro, I, 4;
Omelie sulla Genesi, 1 ,1 («H m edico divino delle nostre anime»); X X X , 6 («Il m edico delle ani
me»); Omelie sui demoni, 1 ,5 («Dio è il vero medico, l’unico medico del corpo e dell’anima»);
6; Commento a san Matteo, XIH, 1 («Come un medico saggio»); XXVHI, 4 («Questo divino me
dico»); X X IX, 2. M arco l ’Erem ita, Sulla penitenza, 6 («M edico delle nostre anime»); Contro
versia con un avvocato, 20. TEODORETO DI CIRO, Storia dei monaci della Siria, XIV, 3; Discorso
sulla Provvidenza, X, P G 83, 749C; Terapia delle malattie elleniche, V, 4. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoli gnostici, 53. BARSANUFIO, Lettere, 59 («Coloro che si avvicinano al nostro gran
de m edico sono illuminati da lui ed egli li guarisce da tutte le loro malattie spirituali»); 61; 62;
107; 109; 199 («Gesù è m edico delle anime e dei corpi»); 532 («H grande m edico che porta le
nostre malattie»; «il grande m edico spirituale e celeste che guarisce sia le anime che il corpo»);
553. GIOVANNI DI G aza, Lettere, 170; 212; 463; 464; 617 («Il maestro e medico delle anime, G e
sù il Signore»). DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, I, 3; 4; 7; XI, 113. GIOVANNI CARPA-
ZIO, Discorso ascetico («il grande m edico di coloro che soffrono»). GIOVANNI MOSCO, Il prato
spirituale, 144 («Il grande m edico delle anime, il Cristo nostro Dio, è vicino, ed egli vuole gua
rirci»). ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 5; 25 («Egli viene in nostro soccorso come un medico
che opera nel momento della malattia grave e ristabilisce la salute»); 48 («Gloria al Maestro che
con aspri rimedi ci ha dato le delizie della salute»). MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca
rità, E , 39 («Come un m edico buono e caritatevole, [Dio] applica a ciascuno [...] il trattamen
to più conveniente»); 44 («Il m edico delle anime, con i suoi decreti, ha adattato il rimedio a
ciò che, nell’anima, è la radice delle passioni»); DI, 82. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esat
ta della fede ortodossa, D I, 1. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, VII, 263-276 («Co
perte le ferite, colpite da diverse malattie [...], noi chiediamo a colui che è il m edico delle anime
e dei corpi [...]; noi lo chiamiamo affinché egli venga a guarire il nostro cuore ferito e a dare la
salute alla nostra anima che giace sotto il giaciglio del peccato e della morte»). NlCETA STETA-
TOS, Centurie, II, 22 («il m edico delle nostre anime»); 23. ELIA ECDICO, Antologia gnomica,
33. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 52; IV, 14; 88; VI, 101; 103. GREGORIO PALAMAS,
Triadi, II, 1,40, 42 («Che essi credano al Cristo [...] come all’unico m edico degli spiriti»).
289
sce, qualunque ne sia la natura e la gravità, e una salute la cui qualità
supera infinitamente quella che sarebbe possibile ottenere coi mezzi
umani. Commentando i versetti 3 e 4 del Salmo 6 in cui il profeta Da
vide invoca Dio come medico, dicendo: «Guariscimi, o Signore, poi
ché inaridite sono le mie ossa. L’anima mia è molto turbata», san Gio
vanni Crisostomo stabilisce in tal senso un parallelo tra la medicina
umana e quella divina: «Spesso nelle malattie trattate dai medici il ma
lato fa gran conto della medicina e dei rimedi senza ottenervi nulla,
perché la sua costituzione è debole, perché l’arte della medicina è di
venuta impotente, perché i rimedi hanno perduto le loro virtù sotto
l’influsso di qualche congiuntura funesta. Non è così quando il me
dico è Dio; per poco che siate con lui, la vostra piaga sarà guarita in
fallibilmente. Difatti qui non si tratta di un artificio umano soggetto a
incertezza, ma di un’efficacia divina più forte delle costituzioni, delle
malattie, delle infermità morali e di tutte le imperfezioni. E per que
sto che Davide si rivolge a Dio come a un medico»123. E san Macario
dice nello stesso senso: «Il Signore stesso, mostrando l’impotenza
dei medici di allora, ha detto: “Sono sicuro che mi citerete il prover
bio: Medico, cura te stesso” (Le 4,23). Egli voleva dire: “Io non sono
come coloro che non possono guarire se stessi. Io sono il vero medi
co [...]. Posso guarire ogni malattia e ogni debolezza dell’anima (cfr.
Mt 10,1). Io sono l’Agnello immacolato che è stato immolato una vol
ta per tutte, e posso guarire tutti coloro che vengono a me”. Infatti, la
vera guarigione dell’anima può essere operata solo dal Signore»124.
Il Cristo, come medico misericordioso e compassionevole, vuole
elargire le sue cure a tutti gli uomini, senza escludere nessuno dalla
salvezza. Egli impiega tutti i suoi sforzi e dà prova della più grande pa
zienza riguardo a questi, anche se lo rinnegano e lo insultano con pa
role, pensieri e azioni. A coloro che sono vissuti fino ad allora nella
follia del peccato e sono malati di passioni, senza volgersi indietro, egli
concede il perdono e li chiama «alla salvezza che rende sani di spiri
to»125. «Un medico, fa notare san Giovanni Crisostomo, non ha lo sco
po di vendicarsi, ma quello di attrarci a lui. Un medico non si offen
de né si emoziona per le ingiurie dei malati in delirio, e non tralascia
nulla per impedire che si avviliscano, considerando non il vantaggio
personale ma il loro: se essi recuperano un po’ del loro buon senso e
123 Discorsi, II, 25.
124 Omelie (Coll. E ) , X LIV , 3.
125 C lem en te d ’A lessan d ria, Protreptico, X II, 1 1 8 ,5 .
290
la calma, il suo cuore si riempie di soddisfazione e di gioia, egli rad
doppia le cure e i rimedi; lungi dal trarre vendetta dalle loro ingiu
rie, egli aggiunge benefici su benefici, fino a quando riesce a ridare lo
ro la salute. Così Dio, quando cadiamo nell’ultima follia, non pensa di
vendicarsi per il passato, non dice nulla, non fa nulla che non tenda
a guarirci dalla nostra malattia»126.
291
II
LE TERAPIE SACRAMENTALI
1. Introduzione
Cristo, nella sua persona, ha operato la guarigione della natura uma
na e le ha dato ima vera sanità, totale e definitiva. Le persone umane
non possono godere di questi benefìci che egli ha fatto acquisire alla
natura umana ricapitolata in lui, se non a condizione di unirsi a lui.
Soltanto nella Chiesa, che è il corpo divino-umano del Cristo, può
realizzarsi questa unione. Soltanto per l’azione dello Spirito Santo
essa può compiersi.
Fondamentalmente nei sacramenti, per mezzo dell’energia dello Spi
rito Santo invocato dalla Chiesa, e attraverso i segni visibili che costi
tuiscono i riti, noi siamo posti in relazione ontologica con il Cristo stes
so, e divenendo membri della Chiesa, noi siamo a lui incorporati. At
traverso i sacramenti, noi diveniamo «membra dello stesso corpo» (E/
3,6; 5,30), siamo resi «partecipi di Cristo» (Eb 3,14) salvatore e deifi-
catore della nostra natura.
In altri termini, ricevendo i sacramenti, siamo innanzitutto, per la
grazia dello Spirito Santo, purificati e risanati: questa finalità che è pri
maria nel sacramento della penitenza e dell’unzione degli infermi, con
una funzione essenzialmente «riparatrice», è inoltre confermata negli
altri sacramenti, in particolare nel battesimo in cui l’uomo è guarito
dagli effetti del peccato ancestrale, e nell’Eucaristia, considerata tra
dizionalmente come un rimedio. E così che la maggior parte dei sa
cramenti, in gradi diversi, sono considerati dalla Chiesa come medi
camenti. A questo livello come ad altri, la Chiesa appariva, secondo
l’espressione di san Giovanni Crisostomo, come «un laboratorio spi
rituale, in cui si preparano medicamenti affinché si possa trovare qual
cosa per guarire le piaghe che il mondo ci infligge»1.
1 Commento a san Giovanni, II, 5.
292
Questa finalità terapeutica dei sacramenti consente a colui che li ri
ceve di aver accesso all’altra loro finalità, che è quella della ricezione
della grazia deificante.
Se è vero che, nella Chiesa, è in Cristo che noi siamo salvati e dei
ficati, è per mezzo dello Spirito che siamo uniti al Cristo, ed è nello
Spirito che il Cristo ci accorda la grazia divina salvifica e deificante.
Lo Spirito che il Padre ci comunica attraverso il Figlio, che il Figlio ci
invia da parte del Padre, e che unendoci al Figlio ci unisce al Padre,
questo stesso Spirito noi riceviamo attraverso i sacramenti: in quello
della crismazione che mira specificamente a comunicarlo al battezza
to, ma anche in tutti gli altri sacramenti, in particolare nel battesimo
e nell’Eucaristia. E così che i sacramenti ci rivestono non solo di Cri
sto, ma anche dello Spirito, e attraverso^ essi ci uniscono al Padre.
Attraverso i sacramenti, è la grazia comune del Padre, del Figlio e
dello Spirito che ci viene comunicata e che ci rende partecipi della vi
ta trinitaria. I sacramenti sono considerati meno come atti isolati che
ci conferiscono ciascuno una grazia particolare e più come aspetti
diversi del Mistero unico, secondo cui Dio trino comunica all’umanità
la grazia della salvezza e della deificazione.
E questa una delle ragioni per cui la Chiesa ortodossa non ha fis
sato in maniera precisa il numero dei sacramenti2. Nondimeno, pos
siamo riconoscere come i più importanti siano: il battesimo, la cri
smazione (alla quale corrisponde in Occidente la cresima o confer
mazione), l’Eucaristia, la penitenza, l’unzione degli infermi, il
matrimonio e l’ordinazione. Tra questi, il battesimo, la crismazione e
l’Eucaristia occupano un posto essenziale: sono i sacramenti dell’ini
ziazione cristiana: in essi è ricapitolata tutta l’economia divina3. Nella
Chiesa ortodossa, la crismazione è conferita subito dopo il battesimo
(questo fa sì che il termine «battesimo» venga generalmente usato per
indicare l’insieme di questi due sacramenti), e il nuovo battezzato e
unto con il crisma, divenuto membro a pieno titolo della Chiesa, vie
ne subito ammesso, per giovane che sia, alla comunione eucaristica,
l’iniziazione cristiana formando un tutt’uno indivisibile.
293
2.11 battesimo
Il battesimo è il primo e il fondamentale di tutti i sacramenti, poi
ché per suo mezzo l’uomo è incorporato al Cristo nella Chiesa e rice
ve dallo Spirito ciò che la sua opera salvifica ha fatto acquisire all’u
manità: da un lato, l’uomo è liberato dalle conseguenze del peccato
ancestrale, purificato dai suoi peccati, liberato dalla tirannia del dia
volo; dall’altro, restaurato nella sua natura, rinasce a una vita nuova.
a) La prima funzione del battesimo lo fa apparire come un rim
dio4, il primo dei rimedi sacramentali, quello che precede tutti gli al
tri cronologicamente e ontologicamente. Esso è «l’unico rimedio
(pharmàkon) capace di guarire», dice di esso san Clemente d’Ales-
sandria5, così come san Nicola Cabasilas6. E san Gregorio Nazianze-
no si rivolge in questi termini a colui che non ha ancora ricevuto que
sto sacramento: «Perché chiedere rimedi che non ti aiuteranno per
nulla? [...] Guarisci te stesso prima che la necessità non ti costringa;
abbi pietà di te: tu sei il solo medico della tua debolezza, procùrati da
te stesso il rimedio che ti salverà veramente»7.
Nel ricevere il battesimo, l’uomo viene a trovarsi in effetti guarito
da tutte le conseguenze patologiche del peccato ancestrale. Questa
funzione terapeutica del battesimo appare in tutto il rituale.
I riti d’esorcismo del catecumenato, che precedono il battesimo8,
significano già l’espulsione e l’allontanamento delle potenze demo
niache che esercitano la loro tirannia sulla natura decaduta. E il sa
cerdote vi invoca già il «Signore degli eserciti, Dio d’Israele, che gua
risce] ogni male e ogni malattia»9.
Poi, quando il sacerdote procede alla benedizione dell’acqua bat
tesimale, egli chiede a Dio che quest’acqua «sia santificata dalla po
tenza, dall’azione e dalla discesa dello Spirito Santo», affinché scenda
su di essa «l’operazione di purificazione della Trinità» ed essa sia «la
remissione dei peccati, la guarigione delle malattie, l’annientamento
dei demoni», «la liberazione dai legami». Dopo ciò, procedendo alla
4 Vedi per esempio: GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, XUI, 9; XII; XXXIV. GIOVANNI CRI-
SOSTOMO, Catechesi battesimali, E, 2. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, E, 43.
5II Pedagogo, I, VI, 2 9 , 5.
6La vita in Cristo, E, 52.
7Discorsi, X L , 12. Cfr. 9.
8 Cfr. E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, t . 1, Chevetogne, 1937, pp. 334-
341.
9 Preghiera del 3 ° esorcismo.
294
benedizione dell’olio con il quale il catecumeno sarà unto, egli chiede
a Dio che esso sia benedetto «dalla potenza, dall’azione e dalla di
scesa» dello Spirito Santo, affinché esso divenga particolarmente «la
guarigione di tutti i mali».
Ungendo, poi, il catecumeno nel nome del Pacare, del Figlio e del
lo Spirito Santo, successivamente sul petto e tra le spalle, sulle orec
chie, sulle mani e sui piedi, egli chiede che la prima di queste unzio
ni sia «per la guarigione dell’anima e del corpo». Dopo questa un
zione, il sacerdote procede alla triplice immersione del catecumeno
nell’acqua precedentemente benedetta, dicendo: «Il servo (o la serva)
di Dio N... è battezzato(a)10, nel nome del Padre, amen, e del Figlio,
amen, e dello Spirito Santo, amen». Questa triplice immersione, oltre
all’evidente significato trinitario, indica e compie ritualmente la par
tecipazione del battezzato alla morte del Cristo sepolto tre giorni nel
sepolcro con il suo corpo e disceso tre giorni agli inferi con la sua ani
ma11. Difatti, insegna l’Apostolo, «tutti quelli che fummo battezzati
per unirci a Cristo Gesù, fummo battezzati per unirci alla sua mor
te» (Rm 6,3).
Dal momento che è innestato dallo Spirito Santo nel Cristo vinci
tore del peccato, di tutte le malattie della natura decaduta, del diavo
lo, della corruzione e della morte, il battezzato è veramente purifica
to dai suoi peccati, guarito dalle malattie ereditate dal vecchio Ada
mo, liberato definitivamente dalla tirannia del nemico e dalla schiavitù
del peccato, liberato dal potere della corruzione e dalla morte. Par
tecipe della morte del Cristo, in lui il vecchio uomo muore, l’Adamo
vecchio scompare, il corpo del peccato è ridotto all’impotenza (cfr.
Rm 6,6). Il battesimo è un rimedio perché rende l’uomo partecipe di
questo rimedio che la morte del Cristo ha costituito per la natura uma
na. Ecco quanto osserva san Nicola Cabasilas a questo proposito: «Nu
merosi sono coloro che in ogni tempo hanno cercato un rimedio al ge
nere umano, ma solo la morte del Cristo ci ha restituito la vera vita e
la salvezza. Perciò, se si vuole rinascere a questa nuova nascita, vive
re di questa vita beata, e disporsi a recuperare la salute, non c’è altro
che assumere questo rimedio offerto dal Cristo»12.
10 E non «io ti battezzo», perché com e afferma san GIOVANNI CRISOSTOMO: «È D io che
battezza, non il sacerdote» (Commento a san Matteo, L, 3).
11 Cfr. B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 35. C irillo di G erusalemme, Cateche
si mistagogiche, II, 4. G iovanni CRISOSTOMO, PG 61,347.
12La vita in Cristo, II, 86.
295
b) La prima funzione del battesimo è legata indissolubilmente al
seconda ed ha in essa la sua finalità. D battezzato muore con il Cristo,
per risorgere con lui e condurre la vita nuova che la sua risurrezione
ha fatto acquisire all’umanità. «Fummo dunque sepolti con lui per il
battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto
dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un com
portamento di vita del tutto nuovo. Se infatti siamo diventati un me
desimo essere insieme con lui per l’affinità con la sua morte, lo sare
mo pure per l’affinità con la sua risurrezione» (Rm 6,4-5).
Questo sacramento rende colui che lo riceve partecipe indissolu
bilmente della morte e della risurrezione del Cristo13. Nello stesso tem
po in cui gli consente di morire alla sua vecchia condizione, gli offre
altresì la possibilità di rinascere a una vita nuova. La sua morte coin
cide con la sua nascita14. Nel momento in cui immerge il vecchio Ada
mo e le sue malattie, l’acqua del battesimo, per la grazia dello Spirito,
fa emergere l’uomo nuovo in piena salute. «Io sono liberato dai miei
crimini all’istante e ritrovo la salute istantaneamente», dice san Nico
la Cabasilas15.
Questo intreccio e, nello stesso tempo, questa finalità sono presen
ti in tutto il rito: nelle preghiere di benedizione dell’acqua e dell’olio,
nonché nell’azione rituale stessa. In primo luogo, l’unzione che co
munica lo Spirito Santo, fatta sul petto e tra le spalle «per la guarigione
dell’anima e del corpo», viene fatta in seguito sulle orecchie «con
l’olio della fede», sulle mani per la ri-unione al Creatore («Le tue
mani mi hanno creato e mi hanno plasmato»), e sui piedi affinché il
battezzato «cammini nella via dei [suoi] precetti». In seguito, nel mo
mento del battesimo propriamente detto, ciascuna delle tre immer
sioni che rendono il battezzato partecipe della morte del Cristo, è se
guita da una emersione che lo rende partecipe della sua risurrezione,
lo eleva alla vita nuova, incorruttibile e immortale che egli ha con
cesso all’umanità attraverso la sua risurrezione.
L’uomo per mezzo del battesimo diviene veramente una nuova crea
tura (cfr. 2Cor 5,17); egli è totalmente rigenerato e rinnovato (cfr. Tt
3,5). Mentre era morto e ridotto all’irrealtà dal peccato, il battesimo
13 Rm 6,3-5. G regorio N azianzeno , Discorsi, XL, 9. C irillo di G erusalemme, Catechesi
mistagogiche, DI, 2. Cfr. II, 6.
14Cfr. ibid.y E, 4.
15La vita in Cristo, E, 43.
296
gli ha ridato vita ed essere16. Mentre era schiavo del peccato e sotto
messo alla tirannia del nemico, il battesimo lo rende libero (cfr. Rm
6,6.14)17. Trovandosi immerso nelle tenebre dell’ignoranza di Dio, egli
riceve dallo Spirito l’illuminazione18. Gli si aprono di nuovo le porte
del paradiso19. È reintegrato nello stato adamico originale20, ritorna
nell’intimità con Dio, ritrova la familiarità che aveva con lui nel para
diso21. Egli acquista molto di più, perché, rivestito di Cristo (cfr. Gal
3,27), diviene direttamente partecipe di lui22 e conforme a lui23; allo
stesso tempo riceve lo Spirito Santo e da questi riceve il Padre24, di cui
ritorna ad essere figlio adottivo25. Entra nella famiglia di Dio26. Di
viene partecipe della vita divina, essendogli stata comunicata la pie
nezza della grazia trinitaria27.
Vediamo così perché il battesimo per l’uomo decaduto è il rimedio
per eccellenza. Egli è liberato per mezzo di esso dalla condizione in-
fra-umana e anti-naturale, in cui il peccato lo aveva ridotto, per tor
nare a essere un uomo vero e ritrovare la sua condizione normale, il
suo essere autentico. Il battesimo, scrive san Nicola Cabasilas, non è
altro che nascere secondo il Cristo e ricevere il nostro essere e la no
stra vera natura28. La vita nuova che il battesimo conferisce è, a diffe
renza della vita che lo ha preceduto, «una vita conforme alla nostra
natura», egli sottolinea ancora29. San Gregorio di Nissa osserva, nello
stesso senso, che coloro che armonizzano la loro vita con la purifica
zione del battesimo «s’incamminano verso ciò che costituisce il loro
16Cfr. ibid., 103.
17Cfr. M arco l ’Erem ita, II battesimo, 8; 13.
18Spesso i Padri danno il nome di photismós al battesimo (vedi in particolare: GIUSTINO, Apo
logia prima, 6. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, X L , 3 ; 4 ; 6. GREGORIO DI NlSSA, Su coloro
che parlano del battesimo, P G 4 6 , 4 3 2 A ; Discorso catechetico, 3 2 . DIONIGI L’AREOPAGITA, La
gerarchia ecclesiastica, IH, 1).
19B a silio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 36.
20Ibid., 35. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Inni, LV, 4 8-49.
21 Cfr. G re g o rio di N issa, Sul santo battesimo, P G 4 6 , 600A .
22 C ir illo di G erusalem m e, Catechesi mistagogiche, IH, 1.
23 Cfr. ibid. G iovan n i C risostom o, Catechesi battesimali, III, 5 . G iovan n i D am asceno,
Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, X X IV ,
172ss.
24 Cfr. M arco l ’Erem ita, Il battesimo, 18.
25 B a silio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 3 5 ; 36.
26 G regorio DI N issa, Discorso catechetico, 36.
27 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 85; Il bat
tesimo, 15; 16; 17; 30.
28 Cfr. La vita in Cristo, II, 8; 10; 15; 103.
29Ibid., 49.
297
essere profondo»30. E san Nicola Cabasilas scrive, inoltre, che il bat
tesimo «dispensa agli uomini la vita e l’esistenza vere»31.
Attraverso il battesimo, in realtà, non solo l’immagine di Dio che
era stata offuscata dal peccato ritrova la sua luminosità32, in quanto
«impressa più nettamente di prima»33, ma la somiglianza con Dio stes
so è restituita all’umanità nella condizione in cui essa la possedeva pri
ma della sua caduta34.
L’uomo ridiviene così se stesso e ritrova la salute della sua natura
originale e vera, e riceve di nuovo la possibilità di condurre un’esi
stenza veramente sana e normale, conforme alla finalità del suo esse
re, che è quella di vivere per Dio ed essere deificato da lui e in lui.
L’uomo smette di essere determinato, influenzato, illuso dalle po
tenze demoniache. Riprende possesso di sé, da posseduto e alienato
quale era prima; gli è restituita integralmente la sua libertà. «Rigene
rati dal santo battesimo, siamo affrancati e resi padroni di noi stessi.
E a meno che, volontariamente, obbediamo al nemico, in nessun
modo egli potrà avere su di noi un certo influsso», scrive san Simeo
ne il Nuovo Teologo35.
Liberato dal peccato e illuminato dallo Spirito Santo36, l’uomo è
guarito dalla conoscenza erronea e delirante prodotta dalle passioni e
acquista una conoscenza nuova37, secondo Dio, vera38. «Il battesimo
ci rende alla luce e ci allontana dal male delle tenebre», constata san
Nicola Cabasilas39, che aggiunge: «Esso apre gli occhi dell’anima da
vanti al raggio divino»40. E san Diadoco di Foticea, a sua volta, scrive:
«Come prima l’errore regnava sull’anima, così, dopo il battesimo, è la
verità che regna su di essa»41. Nel ritrovare la vera conoscenza, l’uo
mo ritrova nello stesso tempo «la sua vera vita»42 poiché la vita con
siste nel conoscere l’unico vero Dio (cfr. Gv 17,3 )43.
30Catechesi, XXXV.
31La vita in Cristo, II, 103.
32 D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 89.
33 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 30.
34 Cfr. G iovanni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13. TERTULLIANO,
Trattato sul battesimo, V, 7. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, II, 11.
35 Catechesi, V, 442ss.
36Cfr. B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 3 5 ,1 .5 9 . G iovanni C risostomo , Cate
chesi battesimale, 1 ,3. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, II, 14-15; Eb, 10,32.
37 Cfr. Col3,10.
38Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, II, 87-89.
}i)Ibid.., 15.
40Ibid., 101.
41 Cento capitoli gnostici, 76.
42 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 101.
43 Ibid.
298
Tutta la vita del battezzato è trasformata44. Egli diviene in tutto una
creatura nuova (cfr. 2Cor 5,17). «La grazia di Dio, nota san Giovanni
Crisostomo a questo proposito, ha rimodellato e rivoltato le anime e
le ha rese diverse da quello che erano»45. L’essere dell’uomo viene a
trovarsi riorganizzato e riceve un ordine e un senso superiori deifor
mi, conformi alla sua finalità. «Il giorno salutare del battesimo divie
ne per i cristiani un “giorno onomastico” perché essi sono allora crea
ti e formati, e perché la nostra vita amorfa e indeterminata prende for
ma e consistenza», scrive san Nicola Cabasilas46. L’uomo non è più
votato a condurre un’esistenza patologica alla quale lo destinava la sua
nascita nel peccato. Egli accede a un altro mondo e a un’altra esi
stenza: diviene cittadino del Regno, del quale il battesimo gli apre le
porte47. Attraverso il sacramento riceve «membra e sensi nuovi» che
lo preparano fin da ora alla sua condizione eterna48. «Per mezzo del
battesimo, osserva san Nicola Cabasilas, noi rinunciamo a uno stato
per ritrovarne un altro»49. «La rinascita diviene il sigillo, la salvaguar
dia e la luce di un’altra vita», scrive san Giovanni Damasceno50. Per
l’uomo nuovo, tutte «le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono na
te di nuove» (2Cor 5,11). E «questa novità di vita non conosce più la
vecchiaia, non è più soggetta al male, non è più preda dello scorag
giamento, non si appassisce con il tempo, non cede a nulla, nulla trion
fa su di essa», sottolinea san Giovanni Crisostomo51.
3. La crismazione
La crismazione (mymma) è inseparabile dal battesimo, e la Chiesa
ortodossa la conferisce subito dopo questo, secondo una tradizione
molto antica. La crismazione è infatti complementare, a tal punto che
san Simeone di Tessalonica può scrivere: «Colui che non riceve il sa
cro crisma non è perfettamente battezzato»52.
44 G r e g o rio N azian zen o, Discorso, X L n , 3.
45 Catachesi battesimali, IV, 14.
46La vita in Cristo, II, 14.
47 Cfr. Gv 3,3.5.
48 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 51.
49Ibid., 37.
50Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 9.
51 Catechesi battesimali, VE, 21.
521 sacramenti, 43 , PG 1 5 5 ,1 8 8 A.
299
Attraverso la crismazione, il battezzato riceve lo Spirito Santo53. Es
sa è in qualche modo la sua Pentecoste.
«La crismazione, sottolinea san Nicola Cabasilas, è un principio
di energia e di attività»54. Per mezzo di essa, il battezzato riceve dallo
Spirito Santo l’energia necessaria a far fruttificare la grazia ricevuta nel
battesimo, la forza di sviluppare attivamente i doni spirituali che gli
sono stati dati. Mentre il battesimo conferisce all’uomo l’essere e la vi
ta concedendogli di essere e di sussistere in Cristo55, «la crismazione
perfeziona il neofita, comunicandogli le energie e un’attività in rap
porto con questa vita»56, gli permette di crescere fino a raggiungere la
statura di uomo adulto, perfetto, cioè deificato in Cristo. L’opera di
vina che si manifesta in questo sacramento è, scrive Dionigi l’Areopa-
gita, «il principio di ogni perfezionamento e di ogni santificazione»57.
Il rito consiste essenzialmente nell’unzione del nuovo battezzato con
il santo crisma o myron, il quale, essendo stato consacrato, «non è più
con l’epiclesi un olio puro e semplice», ma «dono del Cristo, divenu
to per la presenza dello Spirito Santo efficace della sua divinità»58. Il
sacerdote effettua questa unzione tracciando il segno della croce
successivamente sulla fronte del battezzato, sugli occhi, sulle narici,
sulle labbra, sulle orecchie, sul petto, sulle mani e sui piedi, pronun
ciando a ciascuna unzione queste parole: «Il sigillo del dono dello Spi
rito Santo». E così che ogni facoltà dell’uomo riceve la grazia che gli
consente di volgersi verso Dio e di attivarsi pienamente in un senso
conforme alla sua volontà, beneficiando dell’assistenza dello Spirito,
della sua energia vivificante, santificante, illuminante e deificante. Ov
viamente, non sono solo gli organi unti che ricevono questo dono, ma
tutte le altre facoltà del corpo e anche e soprattutto dell’anima, per
ché scrive san Cirillo di Gerusalemme, «da questo crisma visibile il
corpo è unto, ma l’anima è santificata»59. L’unzione sulle diverse par
ti del corpo non ha solo un valore relativo a ciascuno: essa significa
che è l’uomo nella sua totalità che riceve la grazia divina vivificante, il
luminante e santificante, e che è in tutto il suo essere che è messa in
53Vedi per esempio: ClRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi mistagogiche, IH, 1-3. NICOLA C a-
BASILAS, La vita in Cristo, HI, 6; 8.
54Loc. cit., E, 5.
55Ibid., 1 , 19.
%ihid., m , i .
57 La gerarchia ecclesiastica, IV, m , 12, P G 3 ,4 8 5 A. Cfr. ClRILLO DI GERUSALEMME, Cateche
si mistagogiche, IH, 3.
58 C irillo di G erusalemme, loc. cit.
59Ibid.
300
attività. San Cirillo di Gerusalemme aggiunge altrove: «Questo dono
sacro è la salvaguardia spirituale del corpo e la salvezza dell’anima»60.
Rivestito, mediante la crismazione, della corazza e della panoplia
dello Spirito Santo61, l’uomo può camminare con sicurezza in questa
vita senza temere gli attacchi del nemico62e senza temere alcun altro
male, e può dire con l’Apostolo: «Tutto posso in Colui che mi dà
forza: il Cristo» (cfr. Fil 4,13)63. Guarito dall’astenia spirituale e da ogni
debolezza malsana generate dal peccato, vivificato nel suo desiderio,
fortificato nella sua volontà e in tutte le altre facoltà riorientate verso
Dio, l’uomo è reso pieno di zelo e di fervore64per agire, secondo la vo
lontà di Dio, nella via della virtù, in cui la sua natura trova piena sa
lute, realizzandosi conformemente alla sua finalità.
4. La penitenza
Con il sacramento della penitenza (exomológésis), i peccati che so
no stati commessi dopo il battesimo sono perdonati, e il penitente si
riconcilia con la Chiesa. Il peccatore, in uno spirito di pentimento che
manifesta il rimorso per le colpe commesse e la volontà di emendarsi,
confessa i suoi peccati a Dio alla presenza di un sacerdote, e riceve da
Dio, dal quale il sacerdote invoca il perdono, l’assoluzione dai suoi
peccati65. Egli riceve dal confessore anche dei consigli spirituali ap
propriati al suo stato, e alla fine una epitimia66, il cui scopo è quello di
aiutarlo a ritrovare la via delle virtù che aveva lasciato.
Ciò che colpisce subito, esaminando il concetto e la pratica cri
stiana del sacramento della penitenza, è il carattere medicinale che es
si rivestono. Non solo i Padri, ma anche tutta la tradizione della Chie
sa e i testi rituali e liturgici, ricordano in termini medici la forma e gli
effetti di questo sacramento come anche la funzione del sacerdote che
60Ibid., 7.
61 Ibid., 4.
62Ibtd.
63 Ibid.
64 Cfr. Rm 12,11.
65 A. Almazov scrive: «In Oriente, si è sempre ritenuto che l’assoluzione fosse espressa dal
la preghiera, e anche se si usava una formula esplicita, era però implicito che la remissione dei
peccati era attribuita a Dio stesso» (citato da J . MEYENDORFF,Initiation à la théologie byzantine,
Paris 1974, p. 260).
66 Esercizio penitenziale.
301
10 amministra. «Tu sei venuto dal medico; fa’ attenzione ad andartene
guarito», dice il confessore al penitente nella preghiera preliminare67.
Parlando del periodo bizantino, padre Jean Meyendorff scrive: «Con
fessione e penitenza erano innanzitutto interpretate come forme di
guarigione spirituale», questo derivava logicamente dal fatto che «nel
l’antropologia cristiana orientale, il peccato stesso è prima di tutto una
malattia»68. E P. Lain Entralgo nota nello stesso senso: «A metà del se
colo III, il peccatore e il peccato sono considerati come se si trattas
se di un malato e di una malattia. I testi che lo dimostrano sono nu
merosi e impressionanti»69. Secondo la Didascalia, il vescovo (al qua
le spettava nei primi secoli l’incarico di ascoltare le confessioni e di
dare l’assoluzione) dev’essere «come un medico che ha competenza e
compassione»70. Le Costituzioni apostoliche, che essenzialmente sono
una compilazione, fatta alla fíne del secolo IV, della Didascalia, della
Didaché e delle Diataxeis (o Tradizione apostolica), sviluppano lo
stesso concetto. Vi si trovano particolarmente questi consigli: «E ne
cessario soccorrere i malati, coloro che sono nel pericolo e quelli che
vacillano, e per quanto possibile guarirli per mezzo della predicazio
ne della Parola, e liberarli dalla morte. Infatti: “Non hanno bisogno
del medico i sani, ma i malati” (cfr. Mt 9,12)»71. «Che il vescovo [...]
accolga e curi coloro che si pentono dei loro peccati»72. «Che egli gua
risca [la pecora] che è malata [...]. Che medichi quella ferita, cioè quel
la che è smarrita, abbattuta, o schiacciata dai peccati, al punto di zop
picare sul cammino, egli la medichi con parole d’incoraggiamento, la
conforti per i suoi errori e le renda la speranza»73. E rivolgendosi al ve
scovo: «La Chiesa di Dio è la pace serena. Nell’assolvere i peccatori,
11 reintegri sani e irreprensibili [...]; come medico sperimentato e che
ha compassione, guarisci tutti coloro che sono oppressi dai loro pec
cati [...]. Poiché tu sei medico (iatrós) della Chiesa del Signore, assi
cura le cure adatte a ciascun malato, in ogni modo, cura, guarisci, e
reintegrali in buona salute nella Chiesa»74. «Come medico compas
67 Si può trovare il testo com pleto in E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin,
t.1, Chevetogne 1937, p. 365.
68Initiation à la théologie byzantine, Paris 1974, p. 261.
69Maladie et culpabilité, Paris 1970, p. 86. Per uno studio più completo su questa questio
ne del I e del IV secolo, vedi J. JANINI, «La penitencia medicinal desde la Didascalia apostolo-
rum a san Gregorio de Nisa», in Revista española de teología, 7,1947, p. 337-362.
70II, 20,7.
71II, 14,11.
72II, 24,2.
73II, 20, 3-4.
74II, 20,10-11.
302
sionevole, cura tutti i peccatori, sèrviti di metodi salutari per soccor
rerli, non solo tagliando, bruciando o applicando dei caustici, ma
anche col mettere bende e fasciature, somministrando rimedi dolci e
cicatrizzanti, inumidendo con parole incoraggianti. Ma se la ferita è
profonda, trattala con impiastri affinché i gonfiori si riducano al livel
lo della parte sana; se è infettata, allora purificala con caustici, cioè con
rimproveri; se è gonfia, riduci il gonfiore con un impiastro acido, os
sia con la minaccia del giudizio; se la piaga s’incancrenisce, cauteriz
zala ed estirpa l’ascesso infliggendo digiuni»75. Questi ultimi consigli
sono abbastanza vicini a quelli che san Cipriano di Cartagine dà al sa
cerdote quando questi gU chiede di mostrarsi di fronte alle malattie
dell’anima così energico e radicale come il medico di fronte agli asces
si del corpo: «H sacerdote del Signore deve usare rimedi curativi. È un
cattivo medico colui che tratta con dolcezza gli ascessi tumefatti e che
lascia il veleno proliferare nelle parti interne del corpo. La ferita dev’es
sere aperta e incisa e, dopo l’asportazione delle parti incancrenite, de
ve intervenire con una cura energica, anche se il malato protesta, gri
da e si lamenta perché non può sopportare il dolore; in seguito, egli
ringrazierà il medico dal momento che si sentirà in buona salute»76.
Molti altri Padri ricordano il sacramento e il ruolo del confessore in
termini simili. San Giovanni Crisostomo consiglia a coloro che hanno
peccato: «Entrate nella Chiesa, fatevi penitenza: là risiede il medico
che guarisce e non il giudice che condanna; là non esiste il castigo
del peccato, ma si ottiene la remissione»77. Sant’Anastasio il Sinaita,
da parte sua, raccomanda di «trovare un uomo spirituale sperimenta
to, capace di guarirci, purché ci confessiamo a lui»78.
Come il medico, così il confessore deve fare attenzione ad adatta
re in ogni caso il rimedio conveniente. Abbiamo visto quanto le Co
stituzioni apostoliche gli raccomandano: «Poiché tu sei medico della
Chiesa del Signore, assicura le cure adatte a ciascun malato»79. Ciò è
tanto più importante perché, come fa notare san Giovanni Climaco,
«talvolta, quello che è un rimedio buono per uno è veleno per l’al
tro; e, a volte, ciò che si somministra a una stessa persona gli serve
da rimedio se questo è al momento opportuno, ma dato fuori tempo
diviene veleno»80. A tale proposito cita degli esempi: «Ho visto un me-
75n, 40,5-7. Cfr. 7-8.
76Su coloro che hanno fallito, 14.
77 Trattato sulla penitenza, IH, 4.
78 PG 89,372.
79II, 20,11.
80La Scala, XXVI, 20.
303
dico inesperto che, nelTumiliare un malato profondamente abbattu
to, non riusciva che a gettarlo nella disperazione. E ho visto un me
dico esperto operare un cuore orgoglioso con lo scalpello dell’umilia
zione, e liberarlo di ogni sua infezione»81. E, dunque, necessario tener
conto «delle peculiarità individuali, sia della volontà di colui che com
mette il peccato, sia del luogo in cui lo commette, sia dei progressi spi
rituali di colui che lo commette e di molte altre circostanze»82. 11Con
cilio Trullano (692) pone l’accento su questa necessità, e lo fa utiliz
zando ugualmente nelle sue formulazioni termini che appartengono
all’ambiente della medicina, il che manifesta con evidenza che il con
cetto del peccato come malattia e del sacerdote come medico non è
un semplice simbolo tipico di qualche Padre, ma ha trovato conferma
in tutta la Chiesa e appartiene essenzialmente al modo stesso con cui
essa concepisce la natura di queste realtà: «Occorre che colui che ha
ricevuto da Dio il potere di sciogliere e legare, consideri la natura
del peccato e la ferma risoluzione di conversione in colui che ha pec
cato, e così dia un rimedio appropriato alla malattia: per paura che, se
in un modo o in un altro egli mancasse di misura, non pregiudichi la
salute di colui che è malato. Infatti, la malattia del peccato non è sem
plice, ma complessa e multiforme, quindi provoca molti sviluppi del
male: attraverso di essi, il male si diffonde ampiamente e continuerà
ad estendersi fino a che non venga fermato dall’intervento di un me
dico. Per questo, colui che professa la scienza della medicina dell’a
nima deve osservare innanzitutto le disposizioni di colui che ha pec
cato, e considerare se si orienta verso la guarigione o se, al contrario,
per il proprio modo di vivere, favorisce la malattia in se stesso; deve,
altresì, considerare se, nel tempo, lungo la sua vita, egli è preoccupa
to di mostrarsi ragionevole e convertirsi: e se egli non resiste al medi
co, e se la piaga dell’anima non aumenta per l’applicazione del rime
dio; e così occorre che la misericordia gli sia concessa secondo il me
rito. In realtà, Dio fa tutto, e anche colui al quale è stato affidato
l’incarico di pastore, per radunare le pecore smarrite, per curare co
lui che è stato ferito dal serpente, per non spingerlo attraverso i pre
cipizi della disperazione né tantomeno verso la distruzione della vita
e il disprezzo di sé allentando i freni: ma affinché lotti contro il male
unicamente per mezzo di medicamenti sia più forti e astringenti, sia
più dolci e più rassicuranti, e affinché egli lavori alla cicatrizzazione
81 Ibid., 21.
82Ibid., XV, 57.
304
della piaga, esaminando i frutti del pentimento, guidando e gover
nando saggiamente l’uomo che è chiamato a uno splendore superio
re. Occorre, infatti, sapere due cose: quelle che dipendono dallo stret
to diritto e quelle che appartengono all’uso comune; ora, per coloro
che non accettano le misure estreme, occorre seguire la tradizione, co
me ci insegna san Basilio»85. /
La confessione costituisce una terapia efficace in diversi modi e a
differenti livelli.
La confessione dei peccati, prima di tutto, è per se stessa liberato
ria. Fintanto che la colpa non è riconosciuta e anche rivelata agli altri,
essa si radica nell’anima, vi si sviluppa e vi si diffonde per contagio,
rodendo e avvelenando la vita interiore, causando dovunque consi
derevoli danni. Essa è per l’uomo un carico difficile da portare da
solo, tanto più che i suoi effetti si manifestano spesso attraverso tur
bamenti che egli può mal circoscrivere ed è impotente a dominare. Es
sa è principalmente fonte di ansia, persino d’angoscia, soprattutto in
ragione del senso di colpa che in genere l’accompagna, ma anche per
ché suscita e mantiene l’attività dei demoni che, approfittando di que
sto terreno favorevole, seminano il dubbio nell’anima con ogni mez
zo. Essa allora spesso conduce il soggetto a deprezzare se stesso, ad
avere una visione pessimistica del suo essere e della sua esistenza; ge
nera in lui uno stato di abbattimento e di scoraggiamento, e può nel
lo stesso tempo condurlo sino alla disperazione.
Attraverso l’incontro del sacerdote in seno al sacramento, il peni
tente trova la possibilità di rompere il suo isolamento, di uscire dalla
solitudine morbosa che offriva un terreno favorevole allo sviluppo dei
suoi mali. Parlando al sacerdote di ciò che lo turba, egli apre l’asces
so che lo rodeva segretamente. Questo semplice fatto di andare verso
l’altro, di osare di aprirsi a lui in tutta umiltà e vincendo ogni vergogna,
di accusarsi senza pietà davanti a lui superando ogni amor proprio,
costituisce già un passo importante per uscire dall’universo morboso
della colpa.
D’altra parte, confessare i mali di cui si soffre ha un effetto libera
torio. «Ti feci conoscere il mio peccato, non più nascosi la mia colpa
dicendo: “Riconosco, Signore, i miei errori” e tu perdonasti il mio pec
cato», afferma il Salmista (Sai 32[31],5).
C anone 102 del Concilio Trullano, in P. P. JOANNOU, Fonti, t. I X , Disciplina generale an
tica (II-IX s.), Roma
1962, pp. 2 3 9 -2 4 1 .
305
Confessando le sue malattie spirituali, il penitente le fa uscire da sé,
egli le oggettivizza e se ne dissocia; rompe i legami che lo univano ad
esse e lo alienavano. Così, le malattie spirituali cessano di abitare nel
suo mondo interiore e di essere parassite della sua anima per dive
nirgli ormai estranee. La strategia dei demoni viene sconvolta da que
sto fatto: essi non possono più agire nel segreto; il regno delle tenebre,
del quale sono i prìncipi, viene bruscamente illuminato, il loro potere
s’indebolisce perché sono svelate le loro vie. Si vedono espulsi dall’a
nima con il peccato che li nutriva.
La portata terapeutica della confessione è tanto più grande in quan
to, nella sua forma tradizionale - quale la Chiesa ortodossa ha sapu
to conservarla -, la confessione non consiste nell’elencazione arida e
stereotipata di una serie di peccati più o meno artificialmente costi
tuita. Il penitente confessa spontaneamente, in modo diretto e vivo, le
sue colpe e le sue mancanze riportando al confessore le circostanze af
finché questi possa meglio comprenderlo e dargli poi consigli più adat
ti alla sua situazione. Ma egli confessa altresì al sacerdote tutto ciò che
lo preoccupa, gli espone in modo libero e naturale tutti i problemi,
le difficoltà particolari che può incontrare nella sua vita quotidiana,
gli indica ciò che lo inquieta, l’angoscia, lo ossessiona, rivela le sue
preoccupazioni, le sofferenze, sceglie di esporgli al meglio i suoi stati
d’animo, gli confida le debolezze, gli apre la sua personalità, dispie
ga davanti a lui la sua vita in tutte le mancanze e imperfezioni.
Una tale apertura è facilitata dalla certezza che il penitente ha di be
neficiare della misericordia divina - questo gli viene ricordato dal sa
cerdote nelle preghiere preliminari -, ma anche dall’atteggiamento
di ascolto che dev’essere manifestato visibilmente dal confessore e dal
la compassione di cui deve dar prova. Il confessore, infatti, ha il do
vere di mostrarsi molto attento a tutto ciò che gli viene detto e, nello
stesso tempo, non emettere nessun giudizio su colui che gli si apre.
Deve lasciargli libertà assoluta quanto al modo in cui egli si esprime e
dimostrare nei suoi riguardi grande dolcezza e grande pazienza. I san
ti confessori, superando lo stadio della semplice «benevola neutralità»,
che ordinariamente caratterizza lo psicoterapeuta profano, dànno pro
va, nell’ascolto dei mali che vengono loro confidati, di una profonda
compassione, condividendo realmente le difficoltà e le sofferenze di
colui che ascoltano; manifestano, altresì, invisibilmente, l’amore spiri
tuale che essi provano per lui, come il padre davanti al figlio prodigo,
ad immagine del Cristo accanto al buon ladrone. Questo amore, lun
gi dall’essere opprimente ed invadente, possiede la dolcezza e la di
306
screzione della grazia consolatrice e materna del Paraclito e copre con
un balsamo riparatore il cuore ferito e oppresso dal peccato.
Questo atteggiamento del sacerdote, fatto di ascolto paziente e umi
le, che non giudica ma comprende, che è fatto di assoluta disponibi
lità per l’altro immediatamente ricevuto come fratello sofferente, che
è fatto anche di una vera compassione, permette di stabilire, nella
carità, una relazione più profonda e stretta; realizza subito il clima di
fiducia indispensabile all’efficacia della terapia in atto; e rende possi
bile una comunicazione di grande qualità, che consente al penitente
di non aver alcun timore né reticenza ad aprire il suo animo il più com
pletamente possibile e, così, ricevere nelle migliori condizioni le cure
adatte al suo stato d’animo.
Se il ruolo del confessore è essenzialmente, in un primo tempo, quel
lo di ascoltare; può essere anche, all’occorrenza, quello d’interroga
re, di precisare alcuni punti o chiarire alcuni dettagli se questo gli sem
bra necessario per comprendere meglio il penitente in vista di curar
lo meglio. H sacerdote deve, in ogni caso, farlo con tatto e discrezione,
in spirito di carità, atteggiamenti attraverso cui si manifesterà che la
sua intenzione è puramente quella di aiutare colui che è andato da lui;
eviterà di penetrare nel suo animo con forza; eviterà ogni irruzione
nella sua intimità, ogni vana curiosità, rispettando in modo assoluto la
sua libertà. Un tale intervento del sacerdote può apparire necessario
quando gli sembrerà che il penitente gli nasconde qualcosa, riferisce
in maniera incompleta qualche colpa o stato patologico, si mostra re
ticente o esitante al riguardo. La preghiera che precede la confessio
ne invita, peraltro, il penitente alla non omissione: «Non avere ver
gogna, non temere e non nascondermi nulla ma, senza reticenza, dim
mi tutto ciò che hai commesso per riceverne il perdono di Nostro
Signore Gesù Cristo»84. Tuttavia, alcuni peccati possono essere rima
sti nell’inconscio. Il confessore ha allora il compito di percepire gli at
teggiamenti passionali o gli stati d’animo che il penitente non vuole
o non può vedere in se stesso e, di conseguenza, non confessa. Alcu
ne passioni infatti - l’orgoglio e la cenodossia in modo particolare -,
così come l’azione dei demoni, possono offuscare la coscienza. Il con
fessore può allora conoscere lo stato inconfessato del penitente indi
rettamente, attraverso alcune parole, certe intonazioni della voce, al
cuni suoi silenzi, alcune esitazioni, ma anche attraverso alcuni atteg
giamenti o mimiche, nel riferirsi anche alla conoscenza che egli ha del
84 E. M ercenier, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, p. 365.
307
passato, della storia, della personalità del penitente. Egli può anche
averne una conoscenza diretta leggendo nel cuore del penitente, se ha
ricevuto da Dio, come nel caso di alcuni santi confessori, il carisma
della cardiognosia. In tutti i casi, il discernimento di cui dà prova il con
fessore, qualunque sia il suo grado e la sua finezza, appare come una
grazia divina legata al suo ministero e più o meno sviluppata secon
do il proprio livello di progresso spirituale. Il confessore non comu
nica sempre direttamente al penitente questa conoscenza che egli ha
di lui per queste vie, soprattutto nei casi in cui rischierebbe così di fe
rirlo. Piuttosto, solo al momento in cui gli darà i suoi consigli, potrà
farvi allusione o almeno ne terrà conto. Così il penitente potrà con sua
grande sorpresa ricevere raccomandazioni senza alcun legame con ciò
che ha detto confessandosi, e senza legami con la condizione che egli
credeva essere la sua.
In particolare, è in questa tappa della confessione, in cui il sacer
dote prodiga consigli spirituali a colui che ha confessato le sue colpe,
che la tradizione vede nel confessore un medico e nelle sue parole
un rimedio. In realtà, per il sacerdote si tratta, a quel punto, di con
siderare ed esporre la terapia da praticare per venire a capo delle
malattie che gli sono state rivelate o che egli ha da se stesso percepite.
Il sacerdote non svolge la funzione di uno che dà un insegnamento
generale, ma quella di determinare, in primo luogo, ciò che è più con
veniente alla persona che gli è accanto tenendo conto della sua per
sonalità, del genere di vita e di attività, delle possibilità, delle difficoltà
abituali, ecc., e anche del tipo di patologia che questa persona pre
senta. E augurabile, a questo riguardo, che il confessore conosca be
ne il penitente e possa seguire l’evoluzione del suo stato interiore af
finché possa correttamente giudicare la sua situazione particolare e il
progresso positivo o negativo della sua malattia. Per questa ragione, è
consigliato ai fedeli di confessarsi sempre dallo stesso sacerdote.
Tra il confessore e il penitente c’è una relazione personale che
s’instaura, non solo in quanto essa non è anonima per le ragioni che
abbiamo ora presentate, ma anche perché a questo stadio della con
fessione si stabilisce un vero dialogo. Il penitente può reagire a quan
to gli dice il sacerdote, interrogarlo, discutere in vista di approfondi
re alcuni punti, nella prospettiva di una migliore comprensione della
situazione e di una migliore strategia terapeutica. In questo dialogo
che si rivela tanto più profondo ed efficace in quanto si pone nello
stesso clima di fiducia, di semplicità e di carità come quello che pre
siedeva alla confessione delle colpe, il sacerdote non appare come un
308
maestro che dall’alto della sua cattedra offre un insegnamento dog
matico e astratto, ma come un padre che, con lo zelo, con la sapien
za e con l’amore che gli vengono dallo Spirito, incoraggia, esorta, con
sola, mette in guardia con severità o con dolcezza. Con i suoi consi
gli - che la preghiera accompagna e che per questa ragione e in ragione
anche dei carismi legati alla sua funzione dal sacramento che l’ha
istituito, recando con sé un valore non speculativo^ma pratico -, egli
prepara, a immagine di san Giovanni Battista, nell’anima del peniten
te, il ritorno del Signore, appianando i suoi sentieri, raddrizzando quan
to il peccato ha reso tortuoso.
Durante la confessione, il penitente dev’essere animato dal penti
mento. Questo atteggiamento - fatto sia del dispiacere di essersi pri
ma allontanato da Dio sia da una ferma volontà di emendarsi in fu
turo - lo rende particolarmente accogliente dei consigli dati dal sa
cerdote in vista della sua guarigione. Il prestigio collegato alla funzione
del confessore e, alla fine, la santità personale di questi, contribuisce
anche a questa ricettività.
Le parole pronunciate dal sacerdote non sono parole ordinarie, tan
to più che esse sono valorizzate dal fatto che sono proferite nell’am
bito del tempo e dello spazio ecclesiali, dal fatto che il sacerdote par
la non a suo nome ma a nome della Chiesa e rivela la parola e la gra
zia terapeutiche di Dio sotto l’ispirazione dello Spirito, che conferisce
a queste parole una forza e un’efficacia particolari, soprattutto se il pe
nitente si apre totalmente a esse e manifesta una ferma volontà di gua
rire.
Di fronte al confessore, il penitente non è più solo, sperduto, fra
stornato dagli effetti dei peccati: i consigli del sacerdote gli restitui
scono le norme vere e sicure che gli consentiranno di risituarsi, e di
sapere senza timore di sbagliarsi ciò che deve fare per ritrovare e con
servare la salute che aveva perduto. Questi consigli gli permettono es
senzialmente di ritrovare un giudizio e una vita giusti, conformi alla
volontà di Dio, gli ricordano lo scopo spirituale verso il quale deve
tendere, la norma della perfezione alla quale ogni cristiano è chiama
to a conformarsi, ma indicano anche le vie che gli permetteranno di
giungervi. Questi consigli, essenzialmente pratici, gli diranno, per esem
pio, come lottare contro tale tendenza morbosa di cui soffre, come far
fronte a tale impulso, come lottare contro tale passione, come giun
gere meglio a praticare tale virtù, come aggirare tale difficoltà che ri
trova regolarmente sul suo cammino o che può sopraggiungere in ta
le o talaltra circostanza.
309
L’epitimia, esercizio penitenziale dato alla fine dal confessore, ha lo
stesso senso terapeutico dei suoi consigli. Paul Evdokimov scrive a
questo riguardo: essa «non è un castigo; il momento giuridico della
“soddisfazione” è completamente assente. E un rimedio, e il padre spi
rituale cerca il rapporto organico tra il malato e il mezzo terapeutico.
Lo scopo è quello di porre il penitente nelle condizioni in cui non è
più sollecitato dal peccato. San Giovanni Crisostomo afferma: “Noi
non domandiamo se la ferita è stata fasciata spesso, ma se la cura ha
fatto bene. È lo stato del ferito che indica il momento di toglierla”.
Non si tratta dunque di fatti materiali da redimere, ma della loro fon
te da prosciugare»85.
Al momento dell’assoluzione sono perdonate dal Cristo, con la pre
ghiera del sacerdote, le colpe «volontarie o involontarie, coscie e in
conscie, quelle del giorno o della notte, quelle nello spirito e nei pen
sieri», e il penitente si riconcilia e si riunisce alla Chiesa86.
Nell’assoluzione, si manifesta e opera la grazia terapeutica del Cri
sto che distrugge ed elimina tutte le malattie del penitente e restaura
la sua anima, la restituisce alla salvezza e alla grazia che il battesimo gli
aveva date, ma dalle quali egli si è allontanato con le sue colpe.
Il momento dell’assoluzione è necessario per una guarigione vera e
profonda: il solo confessare le colpe allevia certo il malato, ma il pec
cato, benché sia in qualche modo esternato e oggettivizzato, conserva
ancora una certa potenza, ed è solo l’assoluzione che, distruggendo
lo con il perdono divino, lo pone totalmente fuori dalla condizione di
nuocere. Non basta dire al medico che si è malati e di quale male si
soffre per essere, per questo, guariti dalla malattia. Le parole inco
raggianti del medico e i suoi consigli non sono sufficienti, nemmeno
se questo costituisce un elemento importante della terapia. Ciò non
avverrà se non quando il male sarà distrutto dai medicamenti nelle sue
stesse radici: solo allora avviene la guarigione. L’assoluzione assicura
all’uomo che le sue malattie passate non esistono più, gli dà la garan
zia del perdono divino per tutte le sue colpe. Il penitente conosce al
lora una liberazione interiore, ritrova la pace e la gioia spirituali.
Il penitente, nella confessione, non è solo animato dal dispiacere
delle colpe commesse: vuole altresì ritrovarvi l’innocenza della sua na
tura restaurata dal battesimo e che ha perduto a causa del peccato, e
85 L’ortodossia, Neuchàtel 1965, p. 291.
86Vedi i formulari di assoluzione in E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1,
Chevetogne 1937, pp. 360-366.
310
vuole anche camminare di nuovo in purezza nelle vie di Dio. Così il
sacramento della penitenza appare essenzialmente volto verso il fu
turo. Esso permette all’uomo liberato dalle pastoie del peccato di non
essere più determinato dal male passato e lo rimette totalmente in pos
sesso di se stesso. Rimette a sua disposizione tutte le forze che gli
erano state date al momento del battesimo e della cresima, lo rinno
va in tutto l’essere, gli permette di essere nuovo, in Dio, padrone del
suo destino e di riprendere in novità di vita la via che lo conduce
verso la sanità in Cristo e all’assimilazione della pienezza della grazia
deificante. Il sacramento della penitenza è, come il battesimo ma a un
grado diverso, un rito di rinnovamento, che dà la morte ai soprassal
ti dell’«uomo vecchio» e fa dei suoi comportamenti malaticci un pas
sato superato, affinché riviva pienamente l’uomo nuovo del battesimo.
Dopo aver ricevuto l’assoluzione, il penitente deve baciare la cro
ce, segno della vittoria del Cristo sul peccato, sulla malattia e sulla mor
te, e baciare anche il Vangelo, segno della vita nuova in Cristo.
Per mezzo dell’assoluzione, il penitente è riconciliato e riunito alla
santa Chiesa di Cristo. Il peccato lo aveva separato dal Corpo di Cri
sto, dalla grazia, dalla comunione dei santi, dalla comunità ecclesiale.
Il sacramento abolisce queste separazioni, queste rotture patologiche
della relazione con Dio e con i fratelli, e trae il penitente fuori dal suo
isolamento mortale. Questi può, allora, ritrovare la piena comunione
con il sacramento dell’altare e con il «sacramento del fratello»; riprende
così il posto che gli spetta tra i figli di Dio. Ritrovando la fonte della
grazia dalla quale si era allontanato, può proseguire nello Spirito la sua
crescita teantropica, fino alla statura di uomo adulto in Cristo, ar
chetipo della sua natura, modello e principio della sua salute e della
sua santità.
5. L’Eucaristia
L’Eucaristia è il più grande dei sacramenti87. «Non si può dire di più
né aggiungervi nulla»88. Infatti, esso è «il mistero che ricapitola la to
talità della elargizione divina»89; in questo sacramento riceviamo,
non già solo, come negli altri sacramenti, «i doni dello Spirito, per ab
87 N icola C abasilas, La vita in Cristo, IV, 60.
mIbid.,-i.
® T eodoro Studita , Antirretico, IV, 9, PG 99,340.
311
bondanti che siano, ma il Benefattore stesso, il tesoro che racchiude
tutta la pienezza delle grazie»90; «si tratta di possedere il Risorto»91; «è
egli stesso che possediamo e non qualcosa di lui»92. Questo sacramento
costituisce anche il compimento di tutti gli altri sacramenti: quello ver
so il quale tutti gli altri tendono93.
Comunicando al corpo e al sangue del Cristo, poiché è in lui che
dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità (cfr. Col 2,9),
l’uomo riceve Dio stesso nella sua anima e nel suo corpo94. L’Eucari
stia non configura semplicemente l’uomo al Cristo come gli altri sa
cramenti, ma in realtà lo cristifica: «Chi si ciba della mia carne e be
ve il mio sangue rimane in me ed io in lui» (Gv 6,56). Il corpo e il san
gue del Cristo si diffonde in tutte le nostre membra, «così diveniamo
dei cristofori»95; «in questo modo, secondo il beato Pietro (cfr. 2Pt
1,4), diventiamo partecipi della natura divina», insegna san Cirillo di
Gerusalemme96. Attraverso questo sacramento, «Dio si mescola alla
nostra natura corruttibile al fine di deificare l’umanità facendole
condividere la sua divinità», osserva san Gregorio di Nissa97, che ag
giunge: «Come un po’ di lievito, secondo la parola dell’Apostolo (ICor
5,6), fermenta tutta la pasta, così il corpo elevato da Dio all’immor
talità, una volta introdotto nel nostro, lo cambia e lo trasforma nella
sua stessa sostanza»98.
Questo sacramento dà all’uomo il nutrimento che corrisponde al
la sua seconda nascita99, quella con la quale egli reintegra la sua vera
natura. E perfetto sotto tutti gli aspetti, osserva san Nicola Cabasilas,
«e non vi è più alcun bisogno dei fedeli al quale non risponda piena
mente»100.
Così i Padri vedono in esso non solo un rimedio101, ma il rimedio
per eccellenza, capace di guarire tutti i mali legati al peccato. «Non vi
90 N icola C abasilas, La vita in Cristo, IV, 1.
91 Ibid.
92Ibid., 8.
93 Ibid., 67.
94Ibid., 26.
95 C irillo di G erusalemme, Catechesi mistagogiche, IV, 3.
96Ibid.
97 Discorso catechetico, 37.
98 Ibid.
99 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13.
100La vita in Cristo, IV, 34. Cfr. 1; 3; 7.
101 Cfr. I gnazio d ’A ntiochia , Lettera agli Efesini, XX, 2. C lemente d ’A lessandria , Pro-
treptico, X, 106,2. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, IV, 35; 55. GREGORIO NAZIANZENO, Di
scorsi, Vili, 18. G iovanni C assiano , Conferenze, VE, 30.
312
è malattia che non ceda alla virtù di questo rimedio», afferma san Gio
vanni Crisostomo102. «Abbiamo gustato ciò che disgrega la nostra
natura, abbiamo necessariamente bisogno di ciò che riunisce gli ele
menti separati. Questo rimedio, penetrando in noi, scaccia, con il suo
effetto contrario, l’influsso funesto del veleno già introdotto nel no
stro corpo. Qual è dunque questo rimedio? Nient’altro che questo cor
po glorioso che si è mostrato più forte della morte, divenuto per noi
fonte di vita», scrive san Gregorio di Nissa103. San Nicola Cabasilas de
finisce l’Eucaristia come l’«unico rimedio ai mali della nostra natu
ra»104. «Dobbiamo ricorrere a questo rimedio non ima sola volta, ma
continuamente [...]; occorre che il medico ci prodighi continuamente
le sue cure per guarirci», aggiunge più avanti105. «Che le tue sante spe
cie guariscano la mia anima e il mio corpo», chiede al Cristo il fedele
prima di comunicarsi, in una preghiera composta da san Basilio106. La
stessa richiesta è espressa nella prima preghiera dopo la comunione107.
E ancora in un’altra preghiera, il cui autore è san Giovanni Crisosto
mo, il comunicando presenta al Cristo questo augurio: «Che la mia
anima e il mio corpo siano resi alla piena salute»108. San Giovanni di
Gaza, a proposito dei santi misteri, scrive: «I peccatori che si avvici
nano come dei feriti che hanno bisogno di soccorso, proprio questi
il Signore guarisce»109.
Il corpo e il sangue del Cristo ricevuti dal comunicando, per la pro
prietà che le sacre specie hanno di spandersi nel suo corpo e nella sua
anima e mescolarsi intimamente a essi110, manifestano il loro potere te
rapeutico in tutto l’essere. Essi purificano l’anima e il corpo del co
municando111 da ogni peccato e da ogni sozzura112, lo guariscono da
ogni malattia spirituale che ha potuto colpirlo dopo il battesimo per
sua negligenza nel comportarsi secondo i suoi doni. La penitenza e
317
Ili
1. La volontà dì guarire
Il battesimo, nota san Simeone il Nuovo Teologo, «non è sufficien
te da solo alla nostra salvezza»1. Possiamo dire la stessa cosa degli al
tri sacramenti e di tutti i sacramenti presi insieme. L’uomo che li ha ri
cevuti diviene effettivamente una creatura nuova, conforme al Cristo,
a condizione però che egli si apra con tutto il suo essere alla grazia che
gli è stata data dallo Spirito, e che volga tutte le sue facoltà e l’intera
sua vita verso Dio. In altri termini, le condizioni obiettive della nostra
guarigione e della nostra deificazione, che i sacramenti costituiscono,
devono accompagnarsi alle condizioni soggettive che sono la nostra li
bera partecipazione, la nostra collaborazione volontaria e personale. I
sacramenti ci conferiscono la vita in Cristo, ma con un certo concor
so dell’uomo, osserva san Nicola Cabasilas2, che aggiunge anche:
«La vita in Cristo risiede in una cooperazione del divino, che dipen
de propriamente da Dio, con l’umano, ossia con la nostra volontà, col
nostro sforzo, col nostro zelo»3.
Dio, rispettoso della libertà dell’uomo, non potrebbe, in realtà, im
porgli la sua grazia e trasformarlo senza che egli lo voglia con tutto il
suo essere; Dio non potrebbe sostituirsi all’uomo e agire al posto suo.
«L’uomo, scrive san Macario il Grande, possiede per natura l’attività
volontaria, ed è questa che Dio esige. La Scrittura prescrive, dun
que, che in primo luogo l’uomo rifletta e, dopo aver riflettuto, egli ami,
infine agisca volontariamente. Quanto alla mozione esercitata sull’in
telligenza, a supporto del lavoro, in vista del compimento dell’opera,
è la grazia di Dio che l’accorda a colui che vuole e che crede. La vo
1 Trattati etici, X, 448.
2 Cfr. La vita in Cristo, I, 66; Spiegazione della divina liturgia, 1,2.
3La vita in Cristo, 1,16.
318
lontà dell’uomo è, dunque, un ausiliario legato alla sua sostanza.
Senza questa volontà, Dio stesso non fa nulla, benché lo possa, per ri
spetto del libero arbitrio dell’uomo. L’efficacia dell’intervento di Dio
dipende, dunque, dalla volontà dell’uomo»4. In altre parole, benché
la guarigione e la salute abbiano la loro unica fonte nel Cristo e a noi
siano concesse solo nella Chiesa e dallo Spirito Santo, questo suppo
ne il consenso e anche la collaborazione attiva dell’uomo. Ciò esige,
come afferma san Macario il Grande, che l’uomo «ponga la propria
volontà in accordo con la grazia»5. Questo deve avvenire in una si
nergia tra la grazia divina e lo sforzo umano6. San Macario afferma che,
se l’anima «non collabora con la grazia dello Spirito che abita in es
sa, allora è spogliata vergognosamente e ignominiosamente della sua
dignità e privata della vita, poiché è divenuta [...] inadatta alla comu
nione con il re celeste»7. In tutti i sacramenti, e singolarmente nel bat
tesimo, Dio dona all’uomo la sua grazia senza alcuna restrizione. E
compito dell’uomo, però, non solo conservarla, ma anche appro
priarsene, assimilarla e farla fruttificare in lui aprendosi ad essa, la
sciandosi penetrare e trasformare da essa, sottomettendovisi, nel
porre tutto il suo essere e tutta la sua esistenza in accordo con essa8.
A proposito del battesimo, san Diadoco di Foticea osserva: «Noi sia
mo rigenerati per mezzo dell’acqua [...], dopo che siamo purificati nel
l’anima e nel corpo, almeno coloro che vanno verso Dio, con tutta la
volontà»9.
L’uomo, da una parte, deve sforzarsi di conservare la grazia ricevu
ta. A tale riguardo così scrive san Nicola Cabasilas: «La comunicazio
ne di questa vita dipende in origine esclusivamente dalla potenza del
Cristo; ma conservare questa vita una volta trasmessa, e mantenersi vi
vi, richiede anche la nostra cooperazione. Occorre, qui, il concorso
umano e lo sforzo personale per mantenere intatta, e conservare la gra
zia»10. Questo non significa che la grazia battesimale possa essere tol
4 Omelie (Coll. II), XXXVII, 10.
5Ibid., XV, 5.
6 Su questa nozione, sul suo significato, sul posto e sull’importanza che occupa nella tradi
zione teologica e ascetica ortodossa, vedi: V. LOSSKY, Théologie myistique de l’Église d’Orient,
Paris 1944, pp. 194-196. M. LOT-BORODINE, La déification de l’homme, Paris 1970, pp. 216-222.
H termine stesso di «sinergia» è frequentemente usato dai Padri, in particolare da san Macario
d’Egitto, da san Marco l’Eremita e da san Nicola Cabasilas.
7 Omelie (Coll. II), XV, 2.
8Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, 1,16. M acario d 'Egitto , Omelie (Coll. E), IX, 7.
9 Cento capitoli gnostici, 78.
10La vita in Cristo, VI, 1.
319
ta all’uomo: essa è inerente a colui che l’ha ricevuta qualunque cosa
egli divenga, come sottolinea in particolare san Serafino di Sarov11. Ma
l’uomo può perderla. È così che san Macario il Grande spiega: «Cosa
significa dunque questa parola: “Non spegnete lo Spirito” (lTs 5,19)?
Tale Spirito è inestinguibile e luminoso; ma sei tu che sei spento in rap
porto allo Spirito quando la tua volontà è negligente e quando non sei
in accordo con lui»12.
D’altra parte, l’uomo deve sforzarsi di sviluppare la grazia. Ciò non
significa che la grazia sia stata data in maniera limitata, che gli sia stata
data solo parzialmente. Al momento del battesimo, l’uomo riceve la
pienezza della grazia13. Ma gli resta il compito di sviluppare se stesso
in conformità con essa, in essa e per mezzo di essa. Ecco perché san
Gregorio di Nissa fa notare che «la trasformazione della nostra vita
operata dalla rigenerazione non può essere ima trasformazione se nul
la cambia nella nostra vita»14; arriva persino a dire che, «se la vita
che segue l’iniziazione non è diversa da quella che l’ha preceduta», se
in tutto il nostro essere e in tutta la nostra vita non ci sforziamo di
essere conformi all’immagine di Dio restaurata in noi, «l’acqua [del
battesimo], in questo caso, non è che acqua»15.
In altre parole, ciò che l’uomo è potenzialmente nella sua natura
per grazia, deve anche divenirlo personalmente e nelle azioni per la
sua volontà libera in tutto l’essere e in tutta la vita, perché, avverte san
Gregorio di Nissa: «Ciò che non siete divenuti, non lo sarete»16. Quan
to a san Diadoco di Foticea, egli precisa che il primo dei beni concessi
dalla grazia del battesimo è quello della restaurazione immediata
dell’immagine di Dio, il secondo bene, quello della somiglianza a Dio,
«per prodursi attende il nostro concorso»17.
San Marco l’Eremita è, senza dubbio, fra i Padri quello che ha
sottolineato più precisamente e più fortemente tutto questo, in parti
colare nel suo trattato sul battesimo18. Egli insiste sul fatto che «il san
in partenza deve fare colui che desidera essere guarito58. San Gio
vanni Crisostomo sottolinea che il semplice desiderio di guarire e il so
lo atto della nostra volontà sono sufficienti per ottenere dal Cristo la
salvezza dell’anima: questo dovrebbe spingerci a occuparci di risanarla,
mentre siamo portati piuttosto a dare tutte le cure al corpo, le cui ma
lattie sono pertanto meno gravi spiritualmente e la cui terapia implica
molte più preoccupazioni: «Non è sempre facile guarire i mali del cor
po, ma si può sempre facilmente rimediare ai mali dell’anima. Per le
infermità del corpo, occorrono dei rimedi e del denaro, ma la guari
gione dell’anima non esige né pratiche né spese. Quale fatica per chiu
dere le doloranti piaghe della carne [...]. Per l’anima, niente di tutto
questo; basta volerlo, basta desiderarlo, e tutto rientra in ordine [...].
Il Signore ha voluto che potessimo guarire facilmente questa parte di
noi stessi, la più preziosa, la più necessaria, senza spesa, senza dolore
[...]. Quando si tratta del corpo, non si bada al risparmio: si spendo
no soldi, si chiamano i medici, si sopportano le più crudeli sofferen
ze, e tuttavia le infermità non hanno nulla di spiacevole. Al contra
rio, noi disprezziamo l’anima, e questo avviene anche se non c’è bi
sogno di denaro, anche se non dobbiamo turbare il riposo di nessuno,
anche se non vi è alcun dolore da sopportare; sarebbe invece suffi
ciente una risoluzione, un atto di volontà per rendere all’anima tutta
la sua salute»59.
La volontà di guarire, tuttavia, deve manifestarsi non solo quando
si tratta di chiamare il medico, ma anche quando si tratta di applicare
i rimedi che egli raccomanda. «Se colui che è malato va a trovare il me
dico, occorre che osservi le prescrizioni del medico», fa notare san Bar-
sanufìo60, che osserva anche: «Chiunque va dal medico e non si confor
ma esattamente a quanto gli ha ordinato, non può essere liberato dal
suo male»61. San Giovanni Crisostomo insiste ugualmente sulla ne
cessità per il malato di collaborare con il medico e di favorire l’azione
dei suoi rimedi; e, nel caso di malattie spirituali, insiste di essere con
il Cristo e di voler con tutto il proprio essere ciò che egli vuole in vi
sta della nostra guarigione: «Distinguiamo queste tre cose quando si
tratta di guarire il corpo, o piuttosto ne distinguiamo quattro o cin
que: il medico, la sua arte, il malato, la malattia, la virtù dei rimedi;
58Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, XVII, 25-29.
59 Omelie sulle statue, Vili, 3.
60Lettere, 59.
61 Lettere, 61.
325
dall’opposizione di queste cose risulta una specie di combattimento;
se il medico, la medicina, i rimedi hanno come ausilio la volontà del
malato, essi trionfano sulla malattia. Se, al contrario, il malato rifiuta
di farsi curare, si consegna da se stesso alla malattia; talvolta, parteg
gia persino per essa contro il medico, i rimedi e la medicina, e allora
egli si uccide. La stessa cosa avviene nel caso presente; o piuttosto, è
qualcosa di ben più straordinario [...]. Quando il medico è Dio, per
poco che state con lui, la piaga è infallibilmente guarita»62. Dunque,
«se il nostro grande e celeste medico d ha dato i rimedi [...], dove tro
vare la causa della nostra perdita, se non nell’infermità della nostra vo
lontà?», si domanda san Barsanufio63.
L’uomo manifesta la sua volontà di guarire e concorre personal
mente alla terapia divina particolarmente con cinque atteggiamenti
spirituali fondamentali che condizionano la sua vita in Cristo, gli
permettono di ricevere, di assimilare e di far fruttificare la grazia te
rapeutica e salvifica conferita dallo Spirito nei sacramenti della Chie
sa: questi sono la fede, il pentimento, la preghiera, la speranza, e
l’osservanza dei comandamenti.
332
nostra autonomia e il nostro libero arbitrio, però, non sono affatto sop
pressi. «Dopo il battesimo, né Dio, né Satana possono fare violenza
alla volontà»115. Liberi di fare il bene conformemente alla grazia che
abbiamo ricevuto, lo siamo anche per il male116. Infatti, come spiega
san Nicola Cabasilas, «la virtù del battesimo non esercita pressioni sul
la nostra volontà, e non la soggioga; essa non impedisce di essere
cattivi persino a coloro che sono sotto il suo influsso; anche l’occhio
sano non vi può nulla quando il soggetto vuole rimanere nelle tene
bre»117.
Come aveva creato Adamo libero e gli aveva permesso di subire la
tentazione del serpente, così Dio lascia libero il neobattezzato e au
torizza i demoni a tentarlo, affinché non venga salvato contro la sua
volontà, ma possa manifestare, nel resistere alle tentazioni, tutta la
realtà della sua volontà di guarire in Cristo e il grado del suo attacca
mento a Dio118, affinché sia un libero collaboratore della sua guari
gione, della sua salvezza, e della sua deificazione, e si appropri per
sonalmente e volontariamente i doni ricevuti.
Se l’uomo si sforzasse con tutte le sue forze di conservare e assi
milare la grazia conferita nei sacramenti senza mai allontanarsi da que
sta via, rimarrebbe nello stato di salute e di purezza che il battesimo
ha ridato alla sua natura119.1 Padri fanno notare che non è impossi
bile a priori per l’uomo condurre una vita immune da peccato e fe
dele a tutti i comandamenti del Cristo120, ma che di fatto ben pochi
battezzati sono stati realmente coscienti di tutta la grazia che hanno
ricevuto. San Simeone a proposito del battesimo scrive: «Non tutti ab
biamo riconosciuto la grazia, l’illuminazione, la partecipazione, persi
no il semplice fatto di una simile nascita! No, ve ne sarà uno su mille
oppure su diecimila che lo abbia riconosciuto nella contemplazione
misteriosa, mentre gli altri, tutti, sono dei bambini nati morti che igno
rano colui che li ha messi al mondo»121. E san Nicola Cabasilas osser
va ugualmente a proposito della crismazione: «Ciò che la crismazione
procura tutti i giorni ai cristiani e in ogni tempo, sono i doni, così uti
115Ibid., 4.
116 Cfr. ibid., 6; 14. DIADOCO DI FOHCEA, Cento capitoli gnostici, 78. DOROTEO DI GAZA, Istru-
zioni spirituali, I, 5. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 89.
117La vita in Cristo, II, 60.
118Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 6; 13.
119Cfr. ibid.
120Cfr. ibid.\Sulla penitenza, X. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, X, 211-234. NI
COLA C abasilas , La vita in Cristo, VI, 4-5.
121Inni, L, 157-163.
333
li alle anime, della pietà, della preghiera, della carità, della purezza, e
altri doni, benché questo sfugga a molti fedeli, benché essi ignorino
l’efficacia di questo sacramento, benché, secondo l’espressione degli
Atti (19,2), essi non dubitino neanche che esista imo Spirito Santo,
non essendosi resi conto della ricezione dei doni»122.
Così, se gli effetti dei sacramenti non si fanno sentire in coloro
che li hanno ricevuti, se questi non hanno trovato in loro la salute che
i sacramenti concedono ma rimangono colpiti da malattie diverse, ciò
avviene perché essi non hanno avuto a riguardo le disposizioni spiri
tuali necessarie ad assimilare la grazia che questi trasmettono, perché
non si sono preparati sufficientemente a riceverla o non hanno mo
strato lo zelo necessario per conservarla, non si sono conservati nello
stato di purezza e di salute in cui erano stati posti, hanno ceduto vo
lontariamente alle suggestioni diaboliche e sono, con piacere, ritorna
ti al peccato123. Tutto questo è accaduto perché si sono mostrati in tut
to e per tutto negligenti nella pratica dei comandamenti124, l’unica che
permette alla grazia ricevuta misticamente col battesimo di manife
stare i suoi effetti. È questo un tema costante dell’insegnamento di san
Marco l’Eremita, che scrive in particolare: «La purificazione operata
dal battesimo, realizzata misticamente, si rivela efficace per mezzo del
la pratica dei comandamenti [...]. Noi siamo dominati dal peccato a
causa della nostra negligenza verso i comandamenti di colui che ci
ha purificati»125; coloro che sono sottomessi alle passioni «sono stati
liberati dal Cristo, ma essi stessi si sono asserviti ai vizi nel trascurare
di compiere tutti i comandamenti, e così si sono resi di nuovo dipen
denti da essi»126.
Affinché l’uomo non ignori per sempre la grazia del battesimo e
non perda per sempre la purezza, la salute e tutti i doni ricevuti in que
sto sacramento, ma al contrario possa ritrovarla, Dio ha offerto al pec
catore il rimedio della penitenza (metànoia). Come spiega san Gio
vanni Crisostomo: «Vi è un ritorno se lo vogliamo, ed è possibile tor
nare alla bellezza e allo splendore del tempo passato, se solo diamo il
nostro consenso [...]. L’anima, una volta sporcata e caduta nella bas
sezza e nella vergogna in seguito ai suoi numerosi peccati, può ben
122La vita in Cristo, IH, 10.
123 Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, passim. N icola C abasilas, La vita in Cristo, 1,34;
n, 103-104; m , 14.
124 Cfr. G iovanni C risostomo , Catechesi battesimali, IV, 23; V, 23; 26.
125II battesimo, 4.
126Ibid., 5. Cfr. 9.
334
presto tornare alla sua bellezza originaria se mostra un serio e since
ro pentimento»127. San Simeone il Nuovo Teologo scrive in proposito:
«Colui che dopo il battesimo si è sporcato con azioni sconvenienti e
iniquità [...] ha bisogno, per pentirsi, di penitenza in vista di ritrova
re da sé questa stessa dignità divina che ha perduto con la sua vita di
peccato»128. Lo stesso santo dice anche che Dio ha fatto dono agli uo
mini del rimedio (phàrmakorì) del pentimento, «affinché quelli che per
pigrizia o negligenza decadono dailla vita eterna ritornino di nuovo ad
essa attraverso la penitenza con ima gloria più brillante e più manife
sta»129. San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo offrono lo stesso inse
gnamento: «Nel seno di Dio, cioè nel bagno sacro del battesimo, noi
riceviamo il dono totalmente perfetto, quello della grazia divina. E
se in seguito, per il cattivo uso delle realtà temporali, per la preoccu
pazione delle cose dell’esistenza e per le nebbie delle passioni, rico
priamo questa grazia come non occorrerebbe, ci è possibile qui anco
ra, attraverso il pentimento e il compimento dei comandamenti del
l’opera divina, ritrovare subito, acquisire di nuovo questa gioiosa luce
soprannaturale e vederne più chiara la rivelazione»130.
San Giovanni Climaco può così scrivere che «la penitenza è una re
staurazione del battesimo»131e molti Padri arrivano a considerare que
sto atteggiamento spirituale come «un secondo battesimo»132. «La pe
nitenza, osserva sant’Isacco il Siro, è stata data agli uomini dopo il bat
tesimo. La penitenza è, infatti, una seconda nascita, che viene da Dio.
Ciò che abbiamo ricevuto in pegno nel battesimo, lo riceviamo come
un dono nella penitenza»133. Ciò non significa che la penitenza si
possa sostituire al battesimo o possa apportare qualche dono che que
sto non conferirebbe, in qualche modo completandolo: il battesimo,
lo abbiamo sottolineato, dà all’uomo tutto ciò che gli è necessario per
essere guarito e salvato, e il pentimento, per se stesso, senza il battesi
mo, non potrebbe né guarirlo né salvarlo134. Il ruolo della penitenza
127 Catechesi battesimali, V, 24. Cfr. VI, 23.
128 Catechesi, XXX, 129s.
129 Trattati etici, II, 7,305s. Cfr. ibid., XDI, 222s. Vedi anche MARCO L’EREMITA, Il battesimo, 9.
130 Centuria, 6.
m La Scala, V, 2.
132Vedi per esempio: GREGORIO PALAMAS, Triadi, E, 2,17. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi,
XXXIX, 17; XL, 31. GIOVANNI C limaco , La Scala, VII, 8. Questo tema è particolarmente svi
luppato da SlMEONE IL N uovo T eologo per esempio in: Catechesi, XXXII, 59s; 73 s; Capitoli
teologici, gnostici e pratici, 1,36; Inni, LV, 33. Vedi anche NlCETA STETATOS, Vita di Simeone, éd.
Hausherr, p. 125.
133Discorsi ascetici, 72.
134Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, Catechesi, XXIII, 82s.
335
dopo il battesimo è quello di permettere al cristiano di allontanarsi dal
peccato e dalle passioni nelle quali egli è ricaduto, di esserne purifi
cato e di nuovo guarito, di reintegrare così lo stato di grazia dato nel
sacramento, di far rivivere in lui questa grazia, di permettere di nuo
vo in lui la sua fruttificazione. Nel pentimento, l’uomo non ritrova un
altro battesimo e neanche il battesimo che ha ricevuto, perché in realtà
non lo ha mai perso, ma ritrova i frutti di ciò che egli aveva abban
donato in seguito alla sua indolenza, negligenza, e perché ritornato
al peccato e alle passioni.
La penitenza, beninteso, non riguarda solo il battezzato che ha pec
cato. Essa è indispensabile a ogni uomo, in qualunque condizione si
trovi, all’uomo che vuole allontanarsi dal peccato per volgersi verso
Dio. Essa riguarda, dunque, tanto colui che non è stato ancora bat
tezzato e che Dio chiama alla salvezza quanto colui che, già avanzato
sulla via della salvezza, non ha tuttavia ancora raggiunto la perfezio
ne. Praticamente, dunque, tutti gli uomini, e sempre, hanno bisogno
della penitenza135. È questa una condizione essenziale per la guari
gione dell’uomo decaduto; essa è uno dei principali fondamenti per il
suo ritorno alla salute e alla salvezza. Ecco perché la predicazione
del Vangelo, l’annuncio della Buona Novella della salvezza, è iniziata
con la predicazione del pentimento. Questa inaugura e caratterizza
l’insegnamento di san Giovanni Battista (cfr. Mt 3,8; Me 1,4-5; Le3,3.8).
E ugualmente attraverso di essa che, secondo gli evangelisti san Mat
teo e san Marco, inizia l’insegnamento pubblico del Cristo: «Gesù ini
ziò a predicare e a dire: “Convertitevi (metanoìete), poiché è vicino il
Regno dei cieli”» (Mt 4,17; cfr. Me 1,15). È così che, secondo il van
gelo di san Luca (cfr. 24,47), nel ricordare il pentimento, il Cristo rias
sume e chiude la sua missione in questo mondo prima della sua Ascen
sione. Nelle Sacre Scritture noi vediamo il Precursore, il Cristo e gli
Apostoli predicare costantemente il pentimento e presentarlo come
una pratica essenziale per la salvezza (cfr. Mt 3,2.11; 4,17; Me 1,4.15;
6,12; Le3,3.8; 5,32; 13,3.5; 15,7.10; 24,47; At2,38; 3,19; 5,31; 11,18;
13,24; 17,30; 19,4; 20,21; 26,20; Rm 2,4-5; 2Cor 7,10; 2Tm 2,25; Eb
6,1; 2Pt 3,9). San Simeone il Nuovo Teologo vede nel pentimento il
primo comandamento136. Fare penitenza è, secondo molti Padri, l’at
tività spirituale che deve primeggiare stalle altre, quella alla quale l’uo
mo deve innanzitutto, e quasi esclusivamente, consacrarsi, quella in
135 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 55.
136 Catechesi, XIV, 44-55.
336
cui può riassumersi tutto ciò che, da parte sua, egli deve compiere per
essere guarito e salvato137. San Talassio scrive a tale riguardo: «H Cri
sto è il Salvatore del mondo intero, e per la salvezza degli uomini ha
accordato loro il pentimento»138. E san Marco l’Eremita inizia così il
suo trattato sulla penitenza: «Nostro Signore Gesù Cristo [...], per la
salvezza di tutti adottò disposizioni conformi a quanto sapeva degno
di Dio, fondò la legge della libertà in diverse prescrizioni e fissò un
unico fine adatto a tutti quando egli disse: “Convertitevi”, affinché po
tessimo comprendere con questo che tutta la diversità dei comanda-
menti cessa per ridursi a un solo comandamento: quello della peni
tenza»139.
La penitenza è un atteggiamento interiore attraverso cui l’uomo
riconosce le sue colpe, o più in generale, il suo stato di peccato, se
ne allontana, ne chiede perdono a Dio e, nell’invocare il suo aiuto, ma
nifesta la sua volontà di non peccare più in futuro, di non rimanere se
parato da Dio, ma di ritornare a lui cambiando vita. I Padri vedono
nella penitenza un processo di conversione che guarda meno al pec
cato stesso e più al ritorno a Dio. Ciò che conta non è il passato, ma il
futuro, non è la malattia, ma la salute, non è la separazione da Dio, ma
la ri-unione a lui. Questa positività della penitenza si nota bene, per
esempio, nella definizione che ne dà san Giovanni Cassiano: «Essa
consiste d’ora in avanti nel non commettere i peccati di cui siamo pen
titi e di cui la nostra coscienza prova dispiacere»140; si trova anche nel
la risposta che Abba Poemen dà a un monaco che gli chiede che co-
s’è «il pentimento della colpa»: «Non commetterlo più in futuro»141.
Lo scopo fondamentale della penitenza è che vi sia un cambiamento,
una conversione (come indica l’etimologia stessa del termine metà-
noia). Cessando di peccare, rinunciando alle passioni per vivere se
condo Dio nella virtù, l’uomo manifesta il vero significato della peni
tenza, tanto che san Giovanni Climaco può così definirla: «Riconci
liazione con il Signore per mezzo della pratica delle buone opere
contrarie ai peccati nei quali si è caduti»142.
137Vedi per esempio: Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 161. ISACCO IL SlRO, Discorsi asce
tici, 34. G iovanni C limaco , La Scala, VE, 79.
138 Centurie, II, 76.
139Sulla penitenza, I.
140Conferenze, XX, 5.
141Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 122. Ripresa da BARSANUFIO, Lettere, 122.
142La Scala, V, 2.
337
Per l’uomo la penitenza inizia prima di tutto col riconoscere i pro
pri peccati. È questa una condizione indispensabile per superarli, per
esserne guarito, per essere salvato. Sant’Efrem da questo punto di vi
sta scrive che «l’inizio della salvezza è conoscere se stesso»143. Una
tale conoscenza si ottiene, in primo luogo, attraverso la pratica meto
dica dell’esame di coscienza. Abba Nisteros insegna che l’uomo «ogni
sera e ogni mattina deve ripetersi: “Cosa abbiamo fatto di quanto Dio
vuole, e cosa non abbiamo fatto di ciò che Dio non vuole?”, e agire
così per tutta la sua vita»144. «Così dev’essere la penitenza», conclude
un altro Anziano dopo aver dato lo stesso insegnamento e dando co
me riferimento la pratica di Abba Arsenio145. San Doroteo di Gaza, nel
ricordare queste raccomandazioni dei Padri del deserto, a sua volta in
vita «a esaminarci tutte le sei ore per conoscere come le abbiamo
trascorse e in cosa abbiamo peccato»146. San Giovanni Climaco pro
pone di fare il bilancio di tutte le ore della giornata per non dimenti
care nulla147. Infatti, come vedremo, questo esame dev’essere perma
nente, accompagnare ogni atto e ogni pensiero, e divenire, per chi mi
ra alla guarigione e alla salvezza, una preoccupazione continua. «La
penitenza, scrive san Giovanni Climaco, è un giudizio continuo che si
pronuncia contro se stessi; è la condizione di un’anima preoccupata
della cura di sé e del tutto libera da ogni altra cura»148. Questa presa
di coscienza del peccato costituisce un momento fondamentale della
penitenza, una condizione indispensabile del progresso spirituale e
una tappa essenziale del processo di guarigione. Essa permette, in
fatti, all’uomo di non essere più sottomesso ciecamente al suo pecca
to, di prendere le distanze di fronte ad esso, di dissociarsene, di non
considerare più la realtà dal punto di vista del peccato e del proprio
«io» decaduto, di uscire dal suo egocentrismo patologico. La sempli
ce presa di coscienza del peccato come tale è già catartica e liberatri
ce. «Beato te, scrive san Barsanufìo a un fratello, se ti rendi conto per
fettamente delle tue colpe, perché chiunque se ne rende conto le guar
da con grande orrore e se ne libera»149.
Il peccato, nella penitenza, non costituisce l’oggetto di un astratto
351
potente. «La preghiera è un rimedio», scrive san Giovanni Crisosto
mo237, che aggiunge: «La preghiera è un medicamento di salvezza»238;
«è qui la nostra salvezza, il medicamento delle nostre anime e il ri
medio ai mali che vi si sviluppano»239; «la potenza della preghiera [...]
guarisce le malattie»240. Quanto a sant’Isacco il Siro, egli osserva che
«la preghiera è l’aiuto alla malattia più grave»241. E san Giovanni Cli-
maco, in una prosopopea, fa dire alla preghiera: «Venite a me [...], e
troverete la guarigione delle vostre ferite»242. Quanto all’immenso po
tere della preghiera, san Giovanni Crisostomo non cessa di sottoli
neare: «Grande è il potere della preghiera»243; «nulla, vi dico, nulla è
più potente della preghiera ardente e pura; perché essa sola può li
berarci dai mali presenti»244; «ricorriamo costantemente a Dio, chie
diamogli ogni cosa, perché nulla vale di più della preghiera; essa ren
de possibile l’impossibile, facile ciò che è difficile, piano ciò che è ir
to di ostacoli»245. Poiché senza la preghiera nulla è possibile («perché
senza di me non potete far nulla», dice il Cristo \Gv 15,5]), per mez
zo di essa tutto è possibile all’uomo, perché questa gli permette d’in
vocare «colui che per la forza che opera in noi, ha potere di fare mol
to di più di quanto chiediamo o immaginiamo» (Ef 3,20).
Proprio perché il peccato e le passioni costituiscono la radice e le
forme di tutte le malattie, è chiedendo perdono e purificandosi che
l’uomo deve in primo luogo pregare Dio246. Origene osserva che in
ogni preghiera «ci si deve accusare a Dio dei propri peccati, con un
pentimento amaro, chiedendogli la guarigione dall’inclinazione che ci
trascina al male e il perdono delle colpe passate»247. Allora la poten
za terapeutica della preghiera si manifesta in primissimo luogo nella
guarigione dei peccati. «La preghiera, scrive san Giovanni Crisosto
mo, è un antidoto contro il peccato, un rimedio alle colpe commes
se»248. E altrove insegna: «Noi riceviamo tutti i giorni numerose feri-
237 Commento al Salmo 7 ,4 .
238 Omelie sulla lettera agli Ebrei, X X V II, 5.
239 Catechesi battesimali, V E , 25.
240 Omelie contro gli Anomei, V, 7.
241 Discorsi ascetici, 21.
242 La Scala, X X V III, 2.
243 Omelie sulla lettera agli Efesini, X X IV , 4.
244 Omelia: Contro coloro che abusano della parola dellApostolo, ecc., 12.
245 Omelie su Anna, IV, 5. Vedi anche: Omelie sulla Genesi, X L I X , 3; Omelie contro gli Ano
mei, VII, 7.
246 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 37.
247 La preghiera, 33.
248 Omelie sulla lettera agli Ebrei, X X V II, 5.
352
te; a tutte queste ferite applichiamo i rimedi che sono loro propri, la
preghiera. Difatti Dio, se lo preghiamo con spirito vigile, con animo
infiammato, con cuore ardente, può concederci il perdono, la remis
sione delle nostre colpe»249. La preghiera, osserva da parte sua san Gio
vanni Climaco, è «un rimedio sovrano per i peccati più gravi»250. E san
Nicola Cabasilas scrive: «Invochiamo il nome del Dio di bontà con vo
ce viva, con desiderio e col pensiero, al fine di applicare a tutto dò per
cui abbiamo peccato l’unico rimedio salutare»251. L’apostolo san Gio
vanni infatti insegna: «Vi sono rimessi i peccati nel suo Nome» (lGv
2,12). Più profondamente, la preghiera guarisce l’uomo dalle passio
ni, che sono le sue malattie, le estirpa completamente dal suo essere
e le annienta252fin nei loro effetti. Ma occorre notare che soprattutto
la preghiera continua possiede un tale potere, il che si comprende nel
la misura in cui, a differenza dei peccati che sono azioni precise, le pas
sioni costituiscono degli stati permanenti. «Il fatto d’invocare Dio con
tinuamente è un rimedio che sopprime tutte le passioni», scrive san
Barsanufio253, sottolineando che il modo di agire di questo rimedio ci
è incomprensibile: «Infatti come il medico applica il rimedio o il ca
taplasma sulla ferita del paziente e l’effetto è prodotto senza che il ma
lato sappia come, allo stesso modo il nome di Dio invocato annienta
tutte le passioni, anche se non sappiamo come»254.
La preghiera costituisce un «detersivo dell’anima»255fin nelle pie
ghe più oscure e segrete di questa. La preghiera ha il potere di rag
giungere e guarire i peccati e le passioni inconsci, perché essa solleci
ta l’intervento di Colui «che vede nel segreto» (Mt 6,18), «che scruta
i cuori» (Sai 7,10), «che metterà in luce i segreti delle tenebre e ma
nifesterà le intenzioni del cuore» (lCor 4,5), e che ha il potere di di
struggere ogni peccato e annientare ogni traccia di passione. Così il
cristiano che il peccato ha reso incapace di conoscere il suo «fondo
nascosto», ove risiedono le passioni segrete, nello stesso tempo in
cui egli deve fare penitenza a causa di queste, deve pregare Dio di
249 Omelie sulla Settimana Santa, 5.
250ha Scala, XXVHI, 2. Sul potere che la preghiera ha di purificare l’uomo dai suoi peccati,
vedi inoltre: GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi battesimali, VII, 25; Omelie sulla penitenza, HI,
4. M assimo i l C on fessore, Discorso ascetico, 41.
251 ha vita in Cristo, VI, 101.
252 Cfr. EVAGRIO PONTICO, ha preghiera, 83. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie contro gli
Anomei, VH, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 14. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, X, 10.
253 Lettere, 424.
254 Ibid.
255 G iovan ni C risostom o, Catechesi battesimali, VII, 25.
353
esserne guarito. È così che san Barsanufio scrive a questo proposito:
«Notte e giorno io prego per essere purificato dalle passioni visibili e
da quelle che sono nascoste»256.
La preghiera, mentre annienta le passioni, allo stesso tempo mette in
fuga quelle che sono all’inizio e che sono nell’anima i principali fauto
ri di turbamenti e la causa di tutte le sue malattie: il diavolo e i demo
ni257; essa dissipa tutti gli effetti patologici della loro azione258. La «pre
ghiera di Gesù» possiede a questo riguardo una particolare efficacia259.
Gli effetti terapeutici della preghiera sono numerosi e si fanno sen
tire in primo luogo sullo spirito (noùs). Per mezzo della preghiera, lo
Spirito, che il peccato aveva intorpidito e lasciato come morto, viene
risvegliato260, ritorna ad essere agile261, toma a rivivere262, perché «là è
la sua vita»263.
Cessa di essere alienato dal mondo sensibile e da quello delle vane
rappresentazioni per ritrovare se stesso264, esercitando l’attività che cor
risponde alla finalità della sua natura, perché, come fa notare Evagrio,
«lo spirito è naturalmente fatto per pregare Dio»265, «la preghiera fa
esercitare allo spirito l’attività che gli è propria»266, «la preghiera è l’at
tività che presiede alla dignità dello spirito, o per meglio dire, è l’uso
migliore e più adeguato di questo»267.
Per il fatto che lo spirito si esercita secondo la sua natura, e per
ché nel suo raccoglimento elimina ogni rappresentazione (immagine
o pensiero) estranea alla preghiera, e quindi concentra in questo tut
to il suo potere di riflessione e d’intellezione268, ritrova allora, come
nota Evagrio, «tutta la sua forza», «tutta la sua salute»269.
256Lettere, 65.
257Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVm, 66. G iovanni C risostom o, Omelie contro gli
Anomei, VII, 7.
258 Cfr. O rigene , La preghiera, 12.
259Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X , 7. N ilo d ’A ncera, Lettere, PG 7 9 ,260AB; 261D;
312CD; 392B; 396A; 400A.
260Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Settimana Santa, 4.
261 Id., Commento al Salmo 129,1.
262 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 29.
263 E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, IV, 62.
264 Cfr. T eoletto di F iladelfia , Nove capitoli, 1. C allisto e I gnazio X antopulo , Cen
turia, 19.
265 Trattato pratico sulla vita monastica, 49.
266La preghiera, 83.
267 Ibid., 84.
268 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, XXIV, 6.
269 Trattato pratico sulla vita monastica, 6, 5. L a seconda traduzione (per erròtai) è proposta
da I. Hausherr nel suo com m ento del trattato su La preghiera, p. 96.
354
E quando, nello stato decaduto della natura, egli «è in preda a
una perpetua ed estrema mobilità»270, subisce il movimento inces
sante dei pensieri che lo agitano, lo turbano e lo fanno errare e diva
gare, la preghiera lo porta fuori «dal suo smarrimento abituale, dalla
prigionia, dall’agitazione»271; lo raccoglie «fuori dal turbinio abituale
e dal suo vagabondare»272, e gli dà consistenza, lo dispone nella sta
bilità e nella sicurezza273. Questo stato è il risultato della sinergia, in
staurata nella preghiera, tra lo sforzo umano e la grazia divina; solo
quest’ultima può permettere all’uomo di dominare perfettamente l’at
tività del suo spirito. Qò risulta particolarmente evidente da quanto
insegna san Giovanni Climaco: «L’instabilità e l’incostanza è una
delle proprietà dello spirito umano. Ma Dio può consolidare e ren
dere costanti le cose più incostanti. Se tu non smetterai mai di com
battere per arrestare la mobilità del tuo spirito, Colui che impone con
fini alle onde del mare, verrà a darne anche alle agitazioni del tuo ani
mo, e dirà loro durante la tua preghiera: “Gli ingiunsi: fin qui arriverai
e non oltre” (Gb 38,11). È impossibile all’uomo incatenare lo spirito,
ma là dove è il Creatore dello spirito, tutte le cose gli sono sottomes
se»274.
Liberato da ogni agitazione, lo spirito conosce la pace275 e la co
munica, quando è unito al cuore, a tutta l’anima e al corpo stesso. Non
si tratta, tuttavia, della pace secondo la carne, accompagnata da vanità
e da orgoglio, che sopraggiunge quando i demoni smettono di com
battere l’anima perché essa compie la loro volontà276, bensì della pace
che viene dallo Spirito e che è accompagnata dall’umiltà e dalla pe
nitenza277.
La preghiera contribuisce a questa pacificazione dell’essere per mez
zo del potere che essa ha, d’altra parte, di dissipare il timore, e in par
ticolare la sua forma più sorda e insidiosa: l’angoscia, in quanto il
suo carattere immotivato rende difficile attaccarla frontalmente in mo
do antirretico, cioè opponendo degli argomenti. Molto spesso legata
a un’azione diretta dei demoni, essa può essere vinta con la preghie
270G iovanni C assiano , Conferenze, VII, 4.
271 C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 19. Cfr. 24.
272 Ibid., 25.
275 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 15. GIOVANNI CASSIANO, Con
ferenze, X, 14.
274 La Scala, XXVIII, 17.
275 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 69.
276Cfr. ibid., 47; Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
277 Cfr. Id., Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
355
ra. «Nel giorno dell’angustia chiamami ed io ti libererò, ma tu poi do
vrai onorarmi», dice il Signore (Sai50[49],15). Solo la forza di Dio che
l’uomo invoca nella preghiera può guarirlo da questa temibile malat
tia che s’insinua in ogni parte dell’anima e fin nel corpo, lasciando l’uo
mo abbandonato a se stesso tanto più impotente quanto più essa è fon
te d’impotenza. Così san Giovanni Climaco, seguendo il salmista, con
siglia a sua volta: «Flagella i tuoi nemici con il Nome di Gesù, perché
non vi è arma più potente in delo e sulla terra. Quando sarai guarito
da questa malattia, glorifica Colui che ti ha liberato»278.
La preghiera non solo mette fine al movimento dei pensieri, ma abo
lisce anche il loro molteplicarsi, poiché per mezzo dell’attenzione che
essa suppone, concentra tutti i pensieri in uno solo: quello di Dio, che
per tutte le facoltà dell’anima diviene l’unico scopo. Allora lo spirito
cessa di essere frammentato in tanti pensieri diversi che esso produ
ce nel suo stato di alienazione dal mondo sensibile, e l’anima di esse
re tirata in ogni senso dalle sue diverse facoltà che agiscono secondo
alcuni principi e in vista di fini diversi e incoerenti. Attraverso la
preghiera, avviene l’unificazione dello spirito279 e di tutta l’anima280.
Come osserva san Macario, l’anima, di cui il peccato aveva fatto una
casa in rovina, ritrova ordine e bellezza281.
Tutte le facoltà dell’anima in quanto partecipano alla preghiera,
quando lo spirito è unito al cuore, cessano di essere alienate dal mon
do sensibile e di esercitarsi contro natura, ma si rivolgono verso Dio e
ritrovano se stesse, nell’agire per lui, attività in vista della quale esse
sono state date all’uomo dal Creatore. Esse ritrovano la salute in que
sto esercizio conforme alla finalità della loro natura.
Così, come osserva Evagrio, la preghiera «guarisce la parte dell’a
nima che è sede delle passioni»282, cioè, da un lato, la potenza concu
piscibile cessa di bramare gli oggetti sensibili per non desiderare altro
che Dio, e dall’altro, la potenza irascibile cessa di esercitarsi contro il
prossimo o per ottenere gli oggetti sensibili bramati, per, mettersi in
vece a lottare contro i demoni ed i pensieri, sia i pensieri cattivi che i
pensieri semplici che cercano di distrarre lo spirito dalla preghiera e
di allontanare l’uomo da Dio.
Per essere pura, escludendo qualsiasi rappresentazione, e in pri
278La Scala, XX, 7.
279 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 23.
280 Cfr. T eoletto di F iladelfia , Sull’azione segreta.
m Omelie (Coll. E), XXXEI, 3.
282 Trattato pratico sulla vita monastica, 49. Cfr. 79.
356
mo luogo ogni immagine, la preghiera libera l’uomo dalla tirannia eser
citata su di lui dalla sua immaginazione, e lo guarisce da tutte le ma
nifestazioni patologiche di questa.
La preghiera guarisce anche la memoria. Questa, nello stato di pec
cato, è ricordo del mondo e, pertanto, oblio di Dio, rendendosi da
se stessa malata e rendendo con essa malate tutte le facoltà che essa
distoglie dalla vita spirituale. Ora, scrive sant’Esichio di Batos, «il ma
le che comportano l’oblio e le sue conseguenze si può guarire con una
custodia molto rigorosa dello spirito e con una continua invocazione
di Nostro Signore Gesù Cristo»283. Allora la memoria si trasforma, in
versamente diviene, nella preghiera, oblio del mondo e dei suoi mol
teplici pensieri, e «memoria di Dio (mnetnè theoù)»2*4; ritrova la sa
lute in questo esercizio che corrisponde alla finalità della sua natura,
esercizio che fa cessare l’alienazione per restituirla a se stessa. Difat
ti, la memoria nel suo stato di natura è semplice; ora il peccato, lo
abbiamo visto, ha provocato la sua esplosione e divisione in moltepli
ci ricordi; nella semplicità della preghiera, essa ritrova la sua unità ori
ginaria e naturale. A questo proposito così scrive san Gregorio il Si-
naita: «Il rimedio per liberare [la] memoria primordiale dalla memo
ria perniciosa e cattiva dei pensieri, è il ritorno alla semplicità originale.
[...] Il grande rimedio della memoria è il ricordo perseverante e im
mutabile di Dio nella preghiera»285. In questa attività che si addice per
fettamente alla sua natura, la memoria contribuisce alla guarigione di
tutta l’anima, di cui essa rimette le facoltà alla presenza di Dio. «E pro
prio di un uomo amico della virtù, spiega san Diadoco di Foticea, con
sumare incessantemente, attraverso il ricordo di Dio, ciò che vi è di
terreno nel suo cuore, affinché a poco a poco il male venga dissipato
con il ricordo del bene e l’anima ritorni perfettamente al suo fulgore
naturale con un accresciuto splendore»286. Al vertice di questo pro
cesso, l’affermazione di Evagrio che la preghiera pura unisce l’uomo
a Dio coincide con quella di sant’Isacco il Siro per il quale «l’unione
spirituale è la memoria allo stato puro»287.
Il corpo risente beneficamente degli effetti terapeutici della pre
ghiera. Il corpo, insieme all’anima, prende parte alla preghiera, le pre
283 Capitoli sulla vigilanza
, 32.
284 Questa espressione è frequentemente usata dai Padri e si ritrova costantemente nella Fi
localiaper indicare la preghiera e, in particolare, « L a preghiera di Gesù».
285Sentenze diverse, 62.
286 Cento capitoli gnostici
, 97. Cfr. 102.
287Discorsi ascetici, 1.
357
sta le sue proprie forze, adotta gli atteggiamenti convenienti a questa
attività, esercita le sue diverse facoltà per favorirla; in questo modo
prega esso stesso a sua misura e conformemente alle possibilità della
sua natura specifica288, in modo particolare nelle metanie289. «Il cor
po accompagna lo slancio dello spirito», osserva Gemente d’Alessan
dria290. La preghiera contribuisce, in questo modo, a compiere la rac
comandazione dell’Apostolo: «Vi esorto dunque, fratelli, in nome del
la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come un sacrifìcio vivente,
santo, gradito a Dio» (Rm 12,1). La preghiera è così una delle «atti
vità comuni all’anima e al corpo»291, specialmente nella preghiera esi-
casta, la «preghiera di Gesù», dove il corpo, e specificamente il suo
centro, il cuore, gioca un ruolo fondamentale. Il desiderio di Dio, che
vi si manifesta, «purifica tutte le facoltà e le potenze dell’anima e del
corpo»292. Per mezzo della purificazione dell’anima, ed in particolare
della parte soggetta alle passioni, si compie in realtà la purificazione
del corpo: «il corpo allora non si muove più spinto dalle passioni cor
poree e materiali, [...] ma ritorna in se stesso, respinge ogni relazione
con le cose cattive»293; come l’anima, esso «acquista l’inazione del ma
le»294. L’uomo diviene allora interamente, anima e corpo, ricettivo al
la grazia295. La grazia dello Spirito viene «trasmessa al corpo attraver
so la mediazione dell’anima»; «offre anche al corpo l’esperienza del
le cose divine, e gli permette di provare le stesse cose dell’anima [...]»296.
Il corpo partecipa così direttamente dell’ordine, dell’unificazione e
della pacificazione che la preghiera stabilisce nell’anima. Coinvolgen
do il corpo, la preghiera fa agire le sue diverse facoltà in vista di un so
lo e medesimo fine: Dio. Essa l’unifica così in se stesso, ma lo ri-uni-
fìca anche all’anima: grazie ad essa, l’uomo ritrova l’unità armoniosa
della sua costituzione psico-somatica naturale, e viene così abolito in
lui lo stato di separazione dell’anima e del corpo caratteristica della
natura decaduta. «Egli ritorna a sé», afferma san Gregorio Palamas;
288 Vedi per esempio: GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XV, 8 0; 81.
289 L e metanie sono delle prostrazioni che accompagnano la recita vocale o mentale di alcu
ne formule di preghiera. Distinguiamo le piccole metanie, che consistono nel curvare la testa e
il tronco, dalle grandi metanie che consistono in una prostrazione di tutto il corpo, con le m a
ni e la fronte che toccano il suolo.
250Stromata, V E , 4 0 ,3 .
291 G regorio P alamas , Triadi, II, 2 ,1 2 .
292 Ibid., IH, 3 ,1 2 .
295 Ibid., II, 2 ,1 2 .
294 ID.,Omelie, 12, P G 1 5 0 , 153C .
295 Triadi,
I d ., III, 3 ,1 2 .
2% Ibid., II, 2 ,1 2 .
358
in altri termini, cessa di essere alienato e malato agendo contro natu
ra, e ritrova la sua natura vera e recupera la salute spirituale eserci
tando le diverse facoltà in vista di Dio, loro vera finalità. La preghie
ra implica, infatti, per la concentrazione che esige, una «custodia dei
sensi» che allontana questi da un esercizio secondo la carne. Sono
ugualmente tutte le altre facoltà del corpo che la preghiera guarisce
facendole passare da un’attività indipendente da Dio a un esercizio se
condo Dio. Essa dona alla lingua la facoltà di parlare a Dio, ma anche
di Dio e in Dio con pace, dolcezza, coraggio, sapienza; alle orecchie,
la facoltà di essere «attente agli insegnamenti divini non solo per ascol
tarli, ma, come dice Davide, “per custodire la sua alleanza e ricor
darsi di osservare i suoi precetti” (cfr. Sai 103[102],18)»297. E anche
grazie ad essa che «le nostre mani e i nostri piedi sono al servizio
della volontà divina»298.
Da quanto detto in precedenza, risulta che la preghiera rende l’uo
mo veramente libero. Essa lo libera dalla sfera limitata e opprimente
del suo «io» decaduto per aprirlo all’infinità di Dio. Guarendo l’uo
mo dal peccato e dalle passioni essa lo libera dalla loro schiavitù299e
da tutti gli effetti patologici. L’uomo, secondo la parola dell’Aposto
lo, sperimenta «che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù del
la corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio» {Rm
8,21). La preghiera lo fa uscire dallo stato di alienazione in cui il
peccato lo aveva posto. L’uomo, infatti, non è più mosso da forze estra
nee, non è più sottomesso «alla legge del peccato che abitava in lui»
(cfr. Rm 7,17.20.23). Ritrova in Dio il suo vero essere e agisce così ve
ramente da se stesso. Il solo fatto di recuperare in Dio la sua natura
gli conferisce la libertà, perché questa consiste, ricorda san Gregorio
di Nissa, nell’identità con la propria natura e nella conformità con es
sa300. La preghiera rende l’uomo libero, perché riorienta il suo desi
derio e la sua volontà verso Dio, loro fine naturale, e perché la li
bertà consiste anche, come dice san Diadoco di Foticea, nella «volontà
di un’anima razionale pronta a muoversi verso il suo oggetto»301. In
fine, la preghiera libera l’uomo perché egli riceve per suo mezzo la lu
ce dello Spirito che, illuminando la sua intelligenza, lo libera dagli
2,7 Ibid., 2 ,20.
258 Ibid.
299 Vedi per esempio: GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Salmo 129,1. GIOVANNI C li-
MACO, La Scala, XXVm, 29.
300Cfr. Dialogo sull’anima e sulla risurrezione, 85.
501 Cento capitoli gnostici, 5.
359
errori, dalle illusioni, dai fantasmi e dai deliri imposti dalle sue facoltà
di conoscenza dal peccato e dalle passioni, e correlativamente gli con
cede la possibilità di conoscere, e lo abbiamo visto, secondo la forma
più elevata dell’intellezione, la verità che libera (cfr. Gv 8,31). Poiché
l’uomo nella preghiera conosce il vero Bene e vi tende senza riflettere
e senza esitare, la sua libertà qui non è quella, imperfetta, che delibe
ra, ma quella, perfetta, che si dirige immediatamente e spontaneamente
verso il Migliore302. Unito a Dio attraverso la preghiera, divenendo co
sì partecipe di lui, l’uomo entra «nella libertà della gloria dei figli di
Dio» (Rm 8,21), cioè diviene, per partecipazione energetica, libero del
la libertà di Dio stesso.
Oltre agli effetti terapeutici della preghiera, occorre sottolineare i
suoi molteplici effetti profilattici. «La preghiera, scrive san Giovanni
Crisostomo, è la custode della salute»303. «La preghiera è un gran be
ne, un bene salutare, un bene che custodisce le nostre anime», nota an
cora egli304. 1 Padri ne parlano frequentemente come di un’armatura305,
di uno scudo306, di un rifugio307, di un baluardo308. «Una fortezza è il
Nome del Signore; a lui ricorre il giusto ed è al sicuro» (Pro 18,10).
Il suo potere profilattico si manifesta in un duplice modo: «La pre
ghiera conserva intatti i nostri beni e allontana prontamente i mali»,
fa notare san Giovanni Crisostomo309.
La preghiera, in modo generale, fortifica l’uomo: essa è altresì la
fonte principale di ogni forza che questi può acquisire. «La forza
deU’esicasta sta nell’abbondanza della sua preghiera», osserva san Gio
vanni Climaco310. È soprattutto la preghiera che rende l’uomo capace,
al momento opportuno, di affrontare le tentazioni e resistere ad esse
vittoriosamente311, permettendogli così di evitare di ricadere nelle ma
lattie. «Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione» (Mt
26,41); «Pregate per non cadere in tentazione» (Le 22,40), raccoman
da il Cristo. Il potere profilattico della preghiera è così grande che
302 G iovan ni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, n, 22; IH, 14.
303 Omelie contro Anomei, VII, 7.
304 Omelie sulla lettera a Filemone, IH, 2.
305 G iovanni C risostomo , Omelie sull’iscrizione degli atti, V, 2.
306ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 21.
307 Ibid. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, X X X , 5.
308G iovanni C risostomo , Catechesi battesimali, VII, 25.
309 Omelie contro gli Anomei, VII, 7.
310La Scala, X X V II, 105.
311 G iovanni C risostom o, Omelie contro gli Anomei, 1 ,7; Omelie sugli Atti, HI, 1. E sichio
DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 61.
360
«è impossibile che un uomo che prega con debito fervore e invoca Dio
incessantemente cada nel peccato»312. La preghiera fervida, infatti, ot
tiene sempre l’aiuto della forza divina che permette all’uomo di far
fronte a qualsiasi avversario.
La lotta contro le tentazioni si ricollega sempre, in realtà, a una lot
ta contro i demoni che insinuano tali tentazioni. La preghiera fortifi
ca l’uomo in vista di questa lotta. Sta alla potenza irascibile dell’anima
condurre questo combattimento: la preghiera le fornirà le forze ne
cessarie per uscirne vittoriosa. Ma la preghiera fortifica e rende pru
dente anche lo spirito che «dirige le operazioni» dell’irascibilità «con
tro le potenze avverse»313, a favore di tutte le facoltà dell’anima314. L’uo
mo, di fronte a tutti gli attacchi dei suoi nemici, diviene allora invincibile
e sventa tutte le loro astuzie, fino alle più sottili, riducendole a totale
impotenza. «Colui che prega con tutto il cuore, starà immobile come
una colonna, e nessun demone si prenderà gioco di lui», scrive san
Giovanni Climaco315. La preghiera, di conseguenza, preserva l’uomo
da tutte le malattie e da tutte le forme di follia di cui i demoni sono
causa diretta. Essa lo preserva particolarmente dalla temibile angoscia
che essi cercano di insinuare nell’anima316.
La preghiera aiuta, dunque, l’uomo a distaccarsi progressivamen
te dal mondo317 e da se stesso. Difatti, scrive sant’Isacco il Siro, «la
preghiera è la morte dei pensieri provenienti dalla volontà della car
ne. Colui che prega è simile a colui che è morto ed è fuori dal mon
do. Perseverare nella preghiera «è rinunciare a se stessi»318. Essa fa
trionfare l’uomo sulla sua natura decaduta319e fa morire in lui l’uo
mo vecchio320. Contemporaneamente, essa lo riveste dell’uomo nuo
vo unendolo a Dio. Per mezzo del suo atto proprio di «conversazio
ne con Dio»321«la preghiera compie il sacramento della nostra unio
312 G iovanni C risostomo , Omelie su Anna, IV, 5.
313 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 4 9 ; 7 3; 89.
314 Cfr. ibid, 49.
315 La Scala, X V III, 3.
316Cfr. G iovanni C risostom o, Omelie su Anna, IV, 5. G iovanni C lim aco, La Scala, X X , 7.
317 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici; gnostici e pratici, 1 , 18. G iovan ni C ri
sostom o, Omelie contro gli Anomei, VII, 7 ; Commento al Salmo 129,1.
318Discorsi ascetici, 69.
319G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XLIX, 3.
320 Cfr. G iovanni di G aza, Lettere, 143. D iadoco di Foticea, Cento capitoli gnostici, 85.
ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 32.
321 E questa la definizione che ne dà EVAGRIO, La preghiera, 3 . Il term ine che egli usa:
omilta può essere tradotto anche con: la compagnia, il com m ercio abituale e intimo, la relazio
ne e la conversazione familiari. Una definizione simile è data da GIOVANNI CRISOSTOMO, Ome
lia sulla Genesi, X X X , 5. Vedi anche ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 35.
361
ne con Dio»322, e ci dà il potere di conoscere di nuovo lo stato di pros
simità e di familiarità che caratterizzava in paradiso la relazione tra
Adamo e il suo Creatore323. Tutto ciò si verifica anche perché, essen
do la preghiera il principio di tutte le virtù324, «è unione dell’anima
con Dio»325. Soprattutto per la virtù della carità, che la preghiera ha
più di ogni altro atteggiamento spirituale il potere di suscitare326e svi
luppare327, essa permette all’uomo di unirsi a Dio. «Preghiamo per
acquistare l’amore di Dio; [infatti], troviamo nella preghiera le cau
se che ci fanno amare Dio», scrive sant’Isacco il Siro328. «L’amore è il
frutto della preghiera», aggiunge ancora329. E san Massimo sottolinea
lo stretto legame che vige tra la carità e la preghiera pura: «Chi ama
sinceramente Dio prega assolutamente senza distrazione, e chi prega
assolutamente senza distrazione ama anche sinceramente Dio»330.
Ad ogni modo, «quando la preghiera penetra nell’anima, ogni virtù
entra con essa»331. Di conseguenza, l’uomo può per mezzo della pre
ghiera ritrovare la salute di ogni sua facoltà e di tutto il suo essere, e
può quindi godere in questo stato di «un’infinità di beni», di cui la
preghiera è il principio332.
Poiché, «attraverso la preghiera, il medico delle anime purifica lo
spirito»333, l’anima e il corpo dell’uomo, essa è per lui una delle prin
cipali vie d’accesso alla conoscenza spirituale. Guarendo l’uomo dal
le passioni, il Medico divino lo libera da ciò che gli impediva di co
noscere adeguatamente ogni realtà, inducendolo in errore, producen
do in lui ogni sorta di illusioni, e immergendolo totalmente nell’igno
ranza dell’essenziale. Purificato dalle passioni, l’uomo è pronto ad es
sere illuminato dallo Spirito Santo334. Ciò che prima era incompren
sibile all’uomo gli diviene comprensibile.
322 G regorio P alamas, La preghiera, P G 1 5 0 ,1117B.
325 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 80.
m San G regorio di Nissa la definisce «conduttrice del coro delle virtù» (Sulfine da perse
guire secondo Dio e la vera ascesi, 30 1 D ), e san Giovanni Clim aco la definisce «regina di tutte
le virtù» (La Scala, X X V III, 7 ).
325 G iovanni C um aco , La Scala, XXVIII, 1.
326Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie suUa carità, 1, 11. T eoletto di F iladelfia , No
ve capitoli, HI. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 57; 58.
327Cfr. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 4,2.
328Discorsi ascetici, 35.
™Ibid., 69.
330Centurie sulla carità, II, I.
331 Giovanni Crisostomo, citato da CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 29 .
332GIOVANNI Crisostomo, Catechesi battesimali, vn, 25. Cfr. Omelie contro gliAnomei, V, 7.
333 EVAGRIO P ontico , Sui diversi pensieri della malvagità, 3.
334 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie contro gliAnomei, in , 6; VII, 7. I sacco il S iro ,
Discorsi ascetici, 13.
362
Egli giunge, prima di tutto, a conoscere se stesso adeguatamente.
Sant’ Esichio di Batos osserva che solo la preghiera conferisce all’uo
mo «la conoscenza interiore»335. San Giovanni Climaco la considera
in questo senso come «il test dello stato della nostra anima»336. «La
preghiera ti farà conoscere lo stato della tua anima. I teologi, infatti,
chiamano la preghiera lo specchio del monaco», afferma il santo au
tore altrove337. Nella preghiera, lo Spirito Santo rende effettivamente
l’uomo consapevole di ciò che prima ignorava, gli dà la possibilità di
conoscere il suo «fondo nascosto» dove sussistono le «passioni segre
te»338, e nello stesso tempo gli fornisce il mezzo per rimediarvi. Co
me scrive Evagrio, l’anima agisce per mezzo del corpo, percepisce le
membra che sono malate, così lo spirito [...] [pregando], impara a co
noscere le sue potenze, e attraverso quelle che fanno da ostacolo sco
pre il comandamento capace di guarirla»339. L’uomo può, così, in
camminarsi verso la completa guarigione delle malattie della sua ani
ma e ritrovare la salute. Quando l’uomo prega profondamente, osserva
san Pietro Damasceno, «è allora che lo spirito inizia a vedere le pro
prie colpe come la sabbia del mare. E là l’origine dell’illuminazione
dell’anima, quindi il segno della sua salvezza»340. Correlativamente,
la preghiera permette all’uomo di accedere alla conoscenza della sua
vera natura e di vedersi nella sua realtà spirituale d’immagine di Dio341.
Essa appare, perciò, come una delle chiavi principali della conoscen
za adeguata del prossimo, ma anche di ogni realtà, perché «a colui che
conosce se stesso è data la conoscenza di tutto»342e «conoscere se stes
si è il compimento della conoscenza dell’universo»343.
Nello stesso tempo in cui la preghiera permette all’uomo di cono
scere se stesso, essa gli dà l’accesso, lo vedremo più avanti, alla cono
scenza di Dio nella forma più alta che questa può rivestire: quella che
Dio stesso dona per mezzo del suo Spirito344.
363
b) Il metodo di preghiera esicasta
Quanto detto finora può applicarsi alle diverse forme di preghiera,
ma riguarda in modo particolare e preminente la «preghiera di Gesù»
(Ièsoù euche) che nella spiritualità ortodossa occupa un posto fonda
mentale, essendo considerata la forma di preghiera più perfetta, quin
di inclusiva delle qualità di tutte le altre. E a questo tipo di preghiera
che i Padri concedono il nome di orazione (proseuche) in senso stret
to, ponendola al di sopra delle altre forme di preghiera e particolar
mente della salmodia345.
Tale preghiera, nella sua perfezione, ha un legame essenziale con la
contemplazione, di cui avremo modo di parlare al termine della no
stra opera come della «più elevata di tutte le azioni»346. Ma, nello stes
so tempo in cui questa prende posto in cima alla vita spirituale, ap
pare anche come una delle basi di questa, come uno dei principali mez
zi che permettono all’uomo, per la grazia di Dio, di essere purificato
dai suoi peccati, guarito dalle passioni e di acquistare le virtù. Essa è,
dicono san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo, «l’inizio di tutta l’ope
ra amata da Dio»347. Ecco perché non solo è opportuno, ma anche ne
cessario parlarne ora.
Questa preghiera ha la sua origine in una pratica che risale all’ini
zio del monacheSimo348 (alcuni Padri le attribuivano persino un’origi
ne apostolica), e che consiste nella ripetizione mentale349, incessante,
di una formula breve350di preghiera, dovendo questa brevità favorire
la continuità della preghiera e, nello stesso tempo, il raccoglimento ne
cessario affinché questa sia pura.
Diverse formule di preghiere brevi351sono state impiegate per que-
545 Cfr. E vaghio P o n tic o , La preghiera, 83; 85. GREGORIO i l SlNATTA, Sull’esicbia e i due mo-
di della preghiera, 5-9. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Metodo della santa orazione e attenzione,
éd. Hausherr, p. 167.
346GREGORIO IL SlNATTA, Come Vesicasta deve stare nella preghiera.
347 Centuria, 8.
348 Cfr. AGOSTINO. «Si dice che, in Egitto, i fratelli fanno delle preghiere frequenti ma mol
to brevi» (Lettere, 130, P L 3 3 , 5 01D ). Tale questione è stata studiata in particolare da I. H au -
SHERR, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960, pp. 123s.
349 Q uesto gli vale spesso il nome di krypte meléte (meditazione nascosta). A questo riguar
do vedi: I. HAUSHERR, op. cit., pp. 167-179.
350 Per questo motivo, essa è spesso chiamata «monologia» o «preghiera monologica» {pro
seuche monológistos). Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 5 2 ; XXVIII, 5 , 1 0 . ELIA ECDICO,
Antologia gnomica, 94; Capitoli gnostici, 65; 75. GREGORIO PALAMAS, Tre capitoli sulla preghie
ra e la purezza del cuore, 3. NlCODEMO L’AGIORITA, Enchiridion, 10.
351 Su questo argomento vedi: I. HAUSHERR, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960,
pp. 177-215.
364
sta pratica, ma una tra queste si è progressivamente imposta a parti
re dal V-VII secolo352fino a divenire la formula tradizionale della pre
ghiera di Gesù: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di
me»353.
Se quest’ultima formula alla fine ha «acquistato il monopolio», è
perché essa comporta molteplici vantaggi.
a) Costituisce una richiesta a Dio di aiuto, di misericordia e di
perdono totale (il greco elééson ha un significato più ampio di qual
siasi traduzione: «abbi pietà»), significato che in sostanza include le
formule evangeliche delle preghiere dei dieci lebbrosi (cfr. Le 17,13),
del cieco di Gerico (cfr. Le 18,38; Me 10,47), e dei due ciechi (cfr. Mt
20,30).
b) Ha un marcato carattere penitenziale, ancor più accresciuto quan
do gli si aggiunge la parola «peccatore», secondo l’esempio del pubbli
cano (cfr. Le 18,13): essa permette così di praticare quello che è, lo ab
biamo visto, uno dei primissimi comandamenti del Cristo: «Pentitevi
e fate penitenza!».
c) E confessione di fede, che include le principali verità della fede
cristiana354: l’affermazione che nell’unica Persona divina del Cristo so
no riunite la natura divina e quella umana, l’affermazione che Dio è
Trinità, l’affermazione che Gesù Cristo è il Salvatore. Infatti, nel chia
mare Gesù Cristo «Signore», essa confessa l’unicità della sua perso
na e la sua divinità; dicendo «Gesù», confessa la sua natura umana; di
cendo «Cristo», confessa le sue «due nature, quella divina e quella
umana, in una sola persona e una sola ipostasi»355; chiamandolo «Fi
glio di Dio», essa lo confessa come Figlio unigenito del Padre e con
367
centrazione evitando al pensiero di disperdersi e allo spirito di distrarsi,
il che rischia più facilmente di verificarsi nel caso di una formula di
preghiera più sviluppata. Essa risponde, così, perfettamente a questa
raccomandazione di san Giovanni Climaco: «Non cercare di parlare
troppo quando preghi, affinché il tuo spirito non si distragga nel cer
care le parole. Una sola parola del pubblicano placò Dio e un solo gri
do di fede salvò il ladrone. La loquacità nella preghiera spesso disperde
lo spirito e lo riempie d’immagini, mentre la monologia ordinariamente
lo raccoglie»568. San Giovanni Climaco ricorda, tra l’altro, a questo ri
guardo l’insegnamento di san Paolo: «Un grande esperto della pre
ghiera sublime e perfetta ha detto: “Preferisco dire cinque parole con
la mia intelligenza” (ICor 14,19)»369. Si noterà che proprio da cinque
parole è costituita la formula greca abbreviata della preghiera di Ge
sù: Kyrie lèsoti Xristé, eléèsón me.
Tuttavia, per giungere alla concentrazione richiesta, non basta la bre
vità della formula usata. Alla preghiera di Gesù si ricollegano un in
sieme di atteggiamenti spirituali, psichici e fisici che permetteranno
all’orante di giungere a una preghiera senza distrazione. La pratica del
la preghiera di Gesù è, infatti, legata secondo i Padri a un metodo370, di
cui uno degli elementi più conosciuti è quello di una tecnica psicofisica.
Porre in pratica questa tecnica suppone un certo numero di con
dizioni: l’isolamento371, il silenzio372, l’oscurità373, l’immobilità374, e la
posizione seduta375.
Lo scopo di questa tecnica è triplice:
a) Far partecipare il corpo alla preghiera e permettergli di riceve
ne dei benefici376.
m La Scala, XXVIII, 10.
369Ibid., XXVni, 22.
,70 Cfr. M arco l’E remtta, A Nicola, 12-13. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 18.
Uno dei principali trattati sulla preghiera di Gesù s’intitola: Méthodos tès iéras próseuchès.
371Cfr. SIMEONE IL N uovo T eologo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
164. N iceforo il S olitario , Trattato sulla sobrietà.
372 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , loc. cit. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria,
23; 24; 25. NlCODEMO L’AGIORITA, Enchiridion, 10.
373 Cfr. ibid.
374 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 24.
375 N iceforo il Solitario , Trattato sulla sobrietà. T eoletto di F iladelfia , Sull’azione se
greta. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
p. 164; 165. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 23; 25. G regorio il Sinaita , Sull’esi-
chia e i due modi della preghiera («Siediti su una sedia alta mezzo cubito»); Come l’esicasta de
ve stare nella preghiera.
376Cfr. G regorio P alamas, Triadi, II, 2,12.
368
b) Favorire la continuità della preghiera legandola al ritmo respi
ratorio. E così che molti Padri consigliano di legare la prima parte del
la formula: «Signore Gesù Cristo (Figlio di Dio)» all’inspirazione, e la
seconda parte: «abbi pietà di me (peccatore)» all’espirazione. A que
sto riguardo, però, esistono diversi metodi.
c) Favorire la concentrazione, il raccoglimento, l’attenzione377. È
questo il principale scopo che gli assegnano i Padri. San Callisto e
sant’Ignazio Xantopulo osservano: «I Padri divini non hanno visto al
tro in queste cose se non un aiuto per raccogliere lo spirito, farlo tor
nare in se stesso, al di fuori della sua abituale agitazione, e ridargli l’at
tenzione»378.
Raccogliere lo spirito, in altri termini, è fare tornare lo spirito nel
cuore.
Per comprendere cosa significa questo, occorre sapere che il ter
mine «cuore» nella lingua dell’ascetica ortodossa indica due realtà: una
realtà spirituale e una realtà fìsica. H cuore, da un lato, indica, confor
memente all’accezione principale neotestamentaria di questo termine,
l’uomo interiore379, l’insieme delle facoltà dell’anima380, più precisa-
mente la loro radice381. Esso è il centro ontologico dell’uomo, la sua
stessa interiorità; s’identifica con la sua persona. Dall’altro lato, il cuo
re indica, secondo l’accezione comune, l’organo corporeo.
Ora i Padri esicasti hanno constatato per esperienza che tra il cuo
re «spirituale» e il cuore fìsico, centro del corpo e principio della sua
vita, vi è una corrispondenza analogica, e in virtù dell’unità dell’ani
ma e del corpo nel composto umano, una connessione che consente
che il primo risieda nel secondo382e quello che colpisce l’uno colpisce
anche l’altro, benché il cuore spirituale sia per natura indipendente
dal cuore fisico.
Lo spirito stesso è uno degli organi del cuore spirituale383, il più im
portante, anche se talvolta viene chiamato «cuore» per metonimia,
,77 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 18.
378Ibtd., 24.
m Vedi per esempio: GREGORIO DI NlSSA, Omelie sulle Beatitudini, VI, 4. ISACCO IL SlRO,
Discorsi ascetici, 30. T eoletto DI FILADELFIA, Sull’attiviti segreta. NlCODEMO l’A giorita , En-
chiridion, 10.
,8° Cfr. SlMEONE IL N uovo T eologo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hau-
sherr, p. 164. NlCEFORO IL SOLITARIO, Trattato sulla sobrietà.
581 Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 83.
382 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,2 , 3. N iceforo il S olitario , Trattato sulla sobrietà.
N icodemo L’A giorita , Enchiridion, 10.
383 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 83.
369
benché l’appellativo di «occhio del cuore», che frequentemente gli vie
ne attribuito, sia più appropriato. Quantunque esso sia per natura in
corporeo e indipendente dal corpo, ha la sua sede nel cuore fìsico384.
Tuttavia, ordinariamente, lo spirito è separato dal cuore, si diffon
de e si disperde nei pensieri fuori da quest’ultimo, e da questo fuori
da se stesso. In ciò non vi è contraddizione, perché se lo spirito, per
sua natura o sua essenza iousia), ha sede nel cuore, per la sua attività
(ienérgeia), esso può allontanarsene385, più precisamente attraverso quel
la delle sue due forme di attività che san Dionigi l’Areopagita chia
ma «movimento in linea retta»386, e che corrisponde all’esercizio del
la ragione il cui organo è il cervello387. La seconda delle sue due atti
vità, che Dionigi chiama «circolare»388, «è [la sua] attività più eccellente
e la più propria»389: in questa attività esso «non si diffonde al di fuo
ri, ma rientra in sé»390, ritrova se stesso391, e rimane unito al cuore. È
così salvaguardato da ogni deviazione392.
È a questa seconda attività dello spirito che deve corrispondere la
preghiera. Affinché esso possa dedicarvisi esclusivamente, occorre che
cessi la prima. Occorre, detto in altre parole, «raccogliere lo spirito di
sperso al di fuori» e ricondurlo al di dentro, far rientrare lo spirito nel
cuore, e mantenervelo.
Basandosi sulla relazione che unisce, come abbiamo visto, il cuore
fìsico al cuore spirituale, i Padri esicasti consigliano il metodo psico
fisico, relazione che deve permettere, a colui che la pratica, di perve
nire più facilmente a «circoscrivere l’incorporeo nel [la] dimora cor
porea», come afferma san Giovanni Climaco393.
384 Cfr. GREGORIO Palam as, Triadi, I, 2 ,3 ; n, 2,27-30. L’unione dello spirito e del corpo, e
quindi del cuore, è messa alla prova come un fatto di esperienza, ma difficilmente spiegabile
concettualmente. E così che san Gregorio Palamas scrive: «Io credo che possiamo parlare del
“contatto”, delT“uso” e dell’“unione” che qui avvengono. Tuttavia, nessun uomo può conce
pire ed esprimere la qualità propria di queste relazioni tra la natura spirituale e quella fìsica o
il corpo» {Triadi, II, 2 ,2 8 . Crr. 29).
3 Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, 1,2,5. Questa distinzione tra la natura e l’attività è ri
presa anche in ibid., II, 25 e 26.
386Sui Nomi divini, IV, 9. Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 5. NlCODEMO L’AGIORITA,
Enchiridion, 10.
387 NlCODEMO L’A giORITA, Enchridion, 10.
388Sui Nomi divini, IV, 9. Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 5. NlCODEMO L’AGIORITA,
Enchiridion, 10.
389 G regorio P alamas , Triadi, 1,2,5.
m Ibid.
391 Cfr. B asilio di C esarea, Lettere, I. T eoletto di F iladelfia , Nove capitoli, 1. C allisto
e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 19. NlCODEMO L’A giORITA, Enchiridion, 10.
392 Cfr. D ionigi l’A reopagita , Sui Nomi divini, IV, 9. G regorio P alamas, Triadi, 1 ,2 ,5 .
N iceforo il Solitario , Trattato sulla sobrietà.
393 La Scala, XXVII, 7.
370
1) Questo metodo consiste, in primo luogo, nell’inclinare la testa
e poggiare il mento sul petto394, nel concentrare lo sguardo, chiuden
do gli occhi, sul luogo del cuore, o, come raccomanda san Simeone il
Nuovo Teologo, sull’ombelico395. San Gregorio Palamas giustifica
così questa pratica: «Colui che cerca di far tornare il suo spirito in se
stesso al fine di spingerlo non al movimento in linea retta, ma al mo
vimento circolare [...], non solo si raccoglierà così esteriormente su se
stesso, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento in
teriore che egli ricerca per il suo spirito; ma di più, dando una tale po
stura al suo corpo, egli rovescerà verso l’interno del cuore la potenza
dello spirito che passa attraverso la vista verso l’esterno»396.
2) Si tratta, d’altra parte, di rallentare il ritmo della respirazione, di
trattenere un po’ il respiro «in modo da non respirare agevolmente»397.
Questa pratica ha quattro ragioni d’essere.
a) Come osserva san Gregorio il Sinaita, «la tempesta dei soffi che
sale dal cuore oscura lo spirito e agita l’anima, la distrae, la consegna
prigioniera all’oblio, oppure le fa rivivere ogni sorta di cose in conti
nuazione e la getta insensibilmente in ciò che non è necessario»398. Se
una respirazione libera contribuisce alla dispersione dello spirito, al
contrario una respirazione repressa e trattenuta lo disciplina399. Pos
siamo constatare, fa notare san Gregoric\Palamas, che «l’andirivieni
del respiro diviene tranquillo quando ogni riflessione intensa, so
prattutto in coloro che, con il corpo e con lo spirito, sono in riposo»400.
Inversamente, il rallentamento della respirazione favorisce il raccogli
mento dello spirito401.
b) Il trattenere il respiro, e allo stesso tempo la posizione scomoda
del corpo, producono un certo disagio e anche un certo dolore402
che ha, secondo i Padri, effetti benefici. Da un lato, però, questo con
tribuisce anche al raccoglimento. «Controllare con misura la respira-
m NlCODEMO L’A g IORTTA, Enchiridion, 10.
395Metodo della santa orazione e l’attenzione, éd. Hausherr, p. 64: «Appoggia] la tua barba
sul petto e volg[i] rocchio corporeo con tutto lo spirito sul centro del ventre, ossia sull’ombe
lico».
396 Triadi, 1,2, 8.
397 SlMEONE IL N uovo T eo logo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
p. 164. G regorio il Sinaita , Sull’esichia e i due modi della preghiera.
398Loc. cit.
399GREGORIO IL SINAITA, Come l’esicasta deve stare nella preghiera.
400Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,2,7.
401 Ibid.
402 GREGORIO IL S inaita , Sull’esichia e i due modi della preghiera; Come l’esicasta deve stare
nella preghiera.
371
adone, spiega san Nicodemo l’Agiorita, tormenta, comprime, e di con
seguenza fa penare il cuore che non riceve l’aria richiesta per sua na
tura. Lo spirito, da parte sua, grazie a questo metodo, si raccoglie
più facilmente e ritorna al cuore, in ragione [...] della pena e del do
lore del cuore»403. Dall’altra, fa notare san Nicodemo, «questa pena
e questo dolore fanno vomitare [al cuore] l’amo avvelenato del pia
cere e del peccato che egli aveva ingoiato. E seguendo l’adagio dei vec
chi medici, il contrario guarisce il contrario»404.
c) «Il controllo della respirazione, come osserva ancora san Nico
demo l’Agiorita, affina il cuore duro e spesso. E gli elementi umidi del
cuore opportunamente compressi, riscaldati, in seguito a ciò, diven
gono più teneri, più sensibili, umili, meglio disposti alla compunzio
ne, e adatti a versare più facilmente le lacrime. Anche il cervello, d’al
tra parte, si affina e, nello stesso tempo, con esso, l’azione dello spiri
to che diviene uniforme, trasparente»405.
d) «Trattenendo il respiro, spiega san Nicodemo, tutte le altre po
tenze dell’anima si uniscono e tornano allo spirito e dallo spirito a
Dio»406. Detto in altre parole, il metodo contribuisce a che tutte le
facoltà siano unite nella preghiera e tese verso Dio, e a che l’uomo di
venga interamente preghiera e si unisca completamente a Dio.
3) Il metodo psico-fisico consiste, infine, nell’unire lo spirito al r
spiro e nello spingerlo a entrare con esso nel petto fino al luogo del
cuore407. San Niceforo il Solitario consiglia: «Raccogli il tuo spirito, in
troducilo - dico il tuo spirito - nelle narici; è il cammino che prende
il respiro per andare nel cuore. Spingilo, forzalo a discendere nel tuo
cuore mentre l’aria viene inspirata»408. E san Callisto e sant’Ignazio
Xantopulo raccomandano: «Raccogli il tuo spirito fuori del suo tur
binio abituale e il suo errare. Spingilo dolcemente all’interno del cuo
re con l’inspirazione. E conserva in esso la preghiera: “Signore Gesù
Cristo, abbi pietà di me”»409.
Notiamo che questa tecnica dev’essere in ogni caso praticata sotto la
direzione di un padre spirituale esperto, perché, nel caso contrario, ri-
schierebbe d’introdurre attraverso il corpo e la psiche gravi turbamenti.
389
17,5)511. È in questo, sottolinea sant’Isacco il Siro, che la speranza ve
ra e spirituale si distingue dalla speranza falsa e sviata512, dalla speran
za secondo questo mondo. Per questo san Barsanufio può così con
sigliare: «Ponendo la vostra speranza in lui, “non vi angustiate per il
domani” (Mt 6,34), perché sta a lui prendersi cura di noi. E se noi ab
biamo scaricato su di lui tutte le nostre preoccupazioni (cfr. lPt 5,7),
egli stesso si preoccuperà di noi, come egli vuole»513.
Mettendo in Dio la propria speranza, l’uomo non può essere de
luso, perché, come dice l’Apostolo, questa speranza «poi, non delu
de» (Rm 5,5). Mentre ogni altro oggetto della speranza sarebbe sot
tomesso all’instabilità delle cose di questo mondo e in modo genera
le sarebbe tributario dei loro limiti, la speranza nei beni divini è «solida»,
«sicura e al riparo da ogni cambiamento»514. «Se siete stati confusi, af
ferma san Giovanni Crisostomo, è perché non avete sperato come oc
correva, àvétè smèssQ di sperare, non avete atteso la fine, siete stati de
boli. Ormai agite diversamente»515.
La speranza è strettamente legata alla fede. Essa ne è, afferma l’au
tore della Lettera a Barnaba, l’inizio516. La fede suppone la speranza
poiché essa è, dice san Paolo, «garanzia delle cose sperate» (Eb 11,1).
Così, come fa notare san Simeone il Nuovo Teologo, «colui che è sen
za speranza è per ciò stesso senza fede»517. L’uomo non crederebbe ve
ramente in Colui che può guarirlo e salvarlo se non sperasse di rice
vere da lui la guarigione, la salute e la salvezza.
Al contrario, la speranza suppone la fede e scaturisce da essa518. San
Barsanufio scrive: «Se tu non credi, neppure speri»519. L’uomo non
può sperare di essere guarito se non credendo nella possibilità di po
terlo essere, se non ammettendo che la sua condizione non è senza ri
medio, e riconoscendo il Cristo come colui che lo può guarire qua
lunque sia il suo stato, in breve avendo fede nella sua onnipotenza
terapeutica e salvatrice.
511 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 117,3.
512 Cfr. Discorsi ascetici, 22.
51JLettere, 123. Cfr. 819.
514 G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 117,2.
515 Ibid.
516Lettera a Barnaba, II, 6.
517 Trattati etici, V, 141-142.
518 Cfr. Gal 5,5. POLICARPO DI SMIRNE, AiFilippesi, El, 2-3. ISACCO IL S iro , Discorsi asceti
ci, 22; 33. P ietro D amasceno , Libro, 1.
519Lettere, 231. Cfr. 43.
390
La speranza è anche strettamente legata alla penitenza. La penitenza
appare innanzitutto come una condizione della speranza520. Consta
tando la propria miseria spirituale, riconoscendo davanti a Dio il pro
prio stato di malattia, e chiedendo perdono per i suoi peccati, l’uomo
è portato a sperare che il Cristo sarà misericordioso nei suoi riguar
di, lo purificherà, e lo guarirà dalle sue malattie spirituali. D’altra par
te l’uomo non può sperare di essere guarito se non manifestando in
un atteggiamento di penitenza il desiderio di guarigione, perché Dio
non potrà guarire l’uomo contro la sua volontà e senza che questa par
tecipi attivamente al trattamento che egli usa. Solo nella penitenza l’uo
mo può avere la certezza del perdono e della guarigione521.
Inversamente, la speranza appare come la condizione della peni
tenza. ÈtfttQprio perehé l’uomo spera in,Dio che noi? rimane ancora-
to/ai suoi fallimenti passati né al suo stato patologico attuale, ma»cre-
dfcppssibile la sua guarigione; per questo-si rivolge versoGolui che
pjaèrperdonare i suoi peccati e liberarlo dalle sue malattie, ridargli la
salute e permettergli di condurre una vita nuova. «Il malfattore che
non si aspetta nessuna grazia sprofonda nella follia, invece colui che
ha speratone! perdono spesso arriva fino alla conversione», osserva
san Cirillo di Gerusalemme522.
In terzo luogo, la speranza è legata alla preghiera;- Da un lato essa
ne è la condizione: colui che prega spera di ricevere ciò che chiede.
Dall’altro, e inversamente, la speranza è un frutto della preghiera, in
particolare della preghiera continua523: la preghiera fa nascere la spe
ranza524, la fortifica e la rende costante525. Ciò è vero per la preghiera
di domanda, con la quale l’uomo sollecita il dono (cfr. 2Ts 2,16) di que
sta speranza; questo è vero anche per la preghiera di ringraziamento
per mezzo della quale l’uomo «consèrva in una memoria incessante
il-ticordo della bontà di Dio» e attende da essa nel futuro più di quan
to, malgrado la sua indegnità, egli ha già ricevuto nel passato526.
La speranza, infine, è legata alla pratica dei comandamenti: da un
lato, perché la virtù della speranza non può svilupparsi e sussistere
se non in collegamento con le altre virtù e a condizione anzitutto che
520 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, in, 51.
521 Cfr. G iustino , Dialogo, 141.
522 Catechesi battesimali, II, 5.
523 Cfr. MARCO l’E remita, Controversia con un avvocato, 8.
524 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 56.
525 Cfr. ibid., 33.
526 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 2.
391
l’uomo sia liberato dalle passioni che si oppongono a queste. Ecco per
ché san Simeone il Nuovo Teologo scrive: «Se si dimenticano i co-
mandamenti, si perde la speranza in Dio»527. Colui che non compie la
volontà di Dio, non si tiene lontano dal peccato e dalle passioni e non
si comporta virtuosamente, non può avere la speranza di essere gua
rito e salvato. San Giovanni Crisostomo, in un commento al salmo 4,
fa notare che Davide, «oltre alla conoscenza di Dio, ci prescrive una
vita pura, insegnandoci con questo a fondare la speranza della salvez
za non solo sulla bontà di Dio ma anche sulla virtù delle nostre azio
ni»528. «Dopo la misericordia di Dio, nessuno riponga la propria spe
ranza se non nella santità della sua vita», egli scrive ancora529. L’uo
mo non può sperare di condividere i beni del Regno se non a condizione
di vivere secondo Dio nel compimento dei suoi comandamenti. Oc
corre sottolineare che, tra le virtù, particolarmente due favoriscono la
speranza: la carità (cfr. lCor 13,7)530e l’umiltà531.
Dall’altro lato, e inversamente, la pratica dei comandamenti sup
pone la speranza. La speranza è in modo generale una delle molle fon
damentali della determinazione dell’uomo a vivere secondo Dio; es
sa risveglia il suo zelo532, lo dinamizza, lo fortifica533e gli dà la costan
za negli sforzi che compie per guarire e recuperare la salute in Cristo,
nel riorientare, per mezzo della pratica dei comandamenti, tutte le po
tenzialità del suo essere in direzione di Dio, che costituisce la loro fi
nalità naturale e normale. Colui che non spera nulla, che non si attende
la salute promessa dal Cristo, continua a vivere nel suo stato di ma
lattia e si abbandona sempre più alle passioni. Colui che, al contrario,
spera nella guarigione, agisce in vista di questa, si sforza in tutti i
modi di ottenerla dal Medico celeste, allontanandosi dal male per ri
volgersi verso di lui con tutto il suo essere e in ogni momento. «Chi
non si aspetta la salute accumula il male senza rendersene conto, men
tre colui che ha concepito la speranza della guarigione si cura da sé da
quel momento in poi», sottolinea san Cirillo di Gerusalemme534.
La speranza ha anche molti altri effetti. Possiamo innanzitutto ri
527 Capitoli teologia, gnostici e pratici, IH, 51.
528 Commento al Salmo 4 ,7.
529 Commento a san Matteo, V, 4.
530 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, V, 137-141.
531 Cfr. I d ., Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
532 Cfr. B asilio di C esarea , Regole brevi, 36.
533 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 58.
534 Catechesi battesimali, II, 5.
392
cordare l’aiuto che essa offre all’uomo nelle tribolazioni e nelle dif
ficoltà alle quali egli deve far fronte durante la sua esistenza terrena535,
dandogli in particolare la capacità di sopportarle pazientemente, os
sia con gioia (cfr. Rm 12,12). «La speranza allevia tutte le pene di
quaggiù», osserva san Giovanni Crisostomo536. «Nelle nostre afflizio
ni noi siamo sostenuti da speranze eterne, salde, incrollabili», dice an
cora537. «Il cristiano ha questo vantaggio, fa notare, che, sostenuto dal
la speranza dei beni futuri, si pone al di sopra di tutti i mali di que
sta vita»538. In tutte le prove che l’uomo incontra, la speranza costituisce
un rifugio, e anche il solo (cfr. Eb 6,18); essa è per l’anima uii’àncl-
sòlida (cfr. Eb 6,19) che la tiene attaccata a Dio anche in
mezzo alle più forti e violente tempeste. Proprio per questo appare
come una fonte di sicurezza539, quindi, di riposo540 e di pace. Sant’I-
sacco il Siro scrive a questo riguardo: «Quali che siano le vie su cui
camminano gli uomini nel mondo, essi non vi trovano la pace fintanto
che non avvicinano la speranza di Dio. Il cuore non è in pace, lon
tano dalle pene e dagli ostacoli, fintanto che non ha raggiunto la spe
ranza. Ma quando egli l’ha trovata, questa lo placa e lo colma di
gioia»541.
La speranza, inoltre, aiuta l’uomo a sopportare pazientemente le
pene dell’ascesi542, i cui frutti non sono immediati, e che per questo
motivo offrono un terreno propizio allo scoraggiamento. San Macario
il Grande scrive: «Colui che non ha dinanzi agli occhi [...] la speran
za, dicendosi: “Raggiungerò la liberazione e la vita”, non può sop
portare le tribolazioni, portare il fardello, prendere la via stretta. In
fatti, la presenza in lui della [...] speranza gli permetterà di soffrire e
sopportare le tribolazioni»543. «E la speranza, fa notare san Giovanni
Crisostomo, che, catena solida, sospesa e fissata ai cieli, sostiene le no
stre anime durante la traversata, eleva a poco a poco fino a quelle al
tezze quelli che si attaccano ad essa fortemente, e ci toglie dal turbi
nio delle miserie terrene»544.
555 Cfr. D oroteo DI Gaza, Lettere, 12; 197.
536Commento a san Giovanni, LXVII, 1. Cfr. Omelie sulla Genesi, XVII, 8.
537 Omelie sulle afflizioni, 1.
538 Omelie sulle statue, II, 3. Cfr. Commento al Salmo 110,1.
539 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera a Tito, VI, 4.
540 Cfr. D oroteo di G aza , Lettere, 14,199.
541 Discorsi ascetici, 58.
542 Cfr. ibià., 56. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 32; 33.
543 Omelie (Coll. II), XXVI, 11.
544Esortazioni a Teodoro, 1,2.
393
Dalla speranza l’uomo trae la fiducia545e la sicurezza (cfr. 2Cor 3,12;
Eb 3,6)546di cui ha bisogno per combattere la buona battaglia.
È sempre la speranza che gli permette di sfuggire al dubbio547, e al
la «dipsichia» malsana548, ragion per cui san Marco l’Eremita la chia
ma «speranza semplice» o «monologica»549.
Ma non si limitano qui gli effetti terapeutici di questa virtù. San Gre
gorio Nazianzeno afferma che «la speranza è un rimedio nelle malat
tie»550. Questo è vero per le malattie del corpo551, ma anche per quel
le spirituali.
La speranza è, in primo luogo, il rimedio specificamente adatto al
le passioni che le sono opposte. Essa è, come dice san Giovanni Cli-
maco, «l’antidoto alla disperazione»552, in particolare per ciò che l’uo
mo prova davanti al suo stato di malattia e di peccato: «La dispera
zione proviene da una moltitudine di peccati, da una coscienza
appesantita e da un insopportabile dolore, quando l’anima è coperta
da molte ferite, e, sotto questo peso, sprofonda nell’abisso della di
sperazione [...]. [Questa disperazione] potrà essere guarita da [...] una
speranza fedele»553.
La speranza a fortiori guarisce l’uomo dalla tristezza554, di cui ab
biamo visto che la disperazione costituisce una forma estrema. Un
apoftegma riferisce di un asceta, il quale, «vedendosi vinto dalla tri
stezza, come un medico esperto si mise a sperare e disse: “Ho fid|i-
tìà rièllfe misericòrdie di Dio e só die avrà certamente pietà di me”»®.
Essa guarisce anche dall’acedia556, che è vicina a queste due ultime pas
sioni. «Un monaco pieno di speranza uccide l’acedia, che respinge, ar
mato di questa spada», nota san Giovanni Climaco557. La speranza per
mette anche di evitare l’angoscia558.
Questa virtù gioca, inoltre, un ruolo fondamentale nella guarigione
545 Cfr. G r e g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, X X , 3.
546Cfr.ibid.
547 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 12, 3.
™Ibid.
549 Cfr. La legge spirituale, 10.
550Discorsi, XVII, 2.
551 San B arsanufio scrive così: «Se ti capita un indebolim ento o un’altra malattia, getta la
tua speranza nel tuo Maestro, e sarai sollevato» (Lettere, 32). Cfr. 508.
552 La Scala, XXX, 32.
553 G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 72.
554 Cfr. Sai 41,6. CIPRIANO DI CARTAGINE, Sulla morte, 2.
555Apoftegmi, N 585.
556Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 27. Apoftegmi, N 196.
557 La Scala, XXX, 34.
558 Cfr. C ipriano , Sulla morte, 2.
394
di tutte le altre malattie spirituali. San Marco l’Eremita sottolinea che
essa contribuisce a rigettare dal cuore i pensieri e i desideri passiona
li559. In genere essa incita l’uomo a purificarsi da ogni male per acce
dere ai beni in cui egli spera, per essere degno di unirsi a Colui nel
quale spera. «Chiunque ha questa speranza in lui, diventa puro co
me egli è puro» scrive san Giovanni (lGv 3,3). La speranza è una del
le condizioni generali per la guarigione spirituale dell’uomo perché è
per mezzo di essa che egli si volge verso il medico celeste560e si attac
ca alla sua parola, le cui «promesse guariscono le piaghe dei nostri er
rori»561. E per questo che Evagrio arriva a dire che dalla speranza e
dalla perseveranza «nasce l’impassibilità»562.
La speranza ha una funzione non solo terapeutica, ma anche profi
lattica. Essa è, come afferma l’Apostolo (cfr. lTs 5,8) un elmo che ri
copre e protegge la testa dell’uomo spirituale563. Essa lo preserva dal
le cadute, secondo la parola del salmista: «Non subiscono alcuna pe
na quanti in lui [Dio] si rifugiano» (Sai34[33],23). Essa lo protegge
contro gli attacchi dei demoni564. «Quando i nemici l’abbassano da
vanti a Dio, nota san Pietro Damasceno, egli si eleva per mezzo della
speranza, per non ricadere mai più cedendo allo sconforto, e mai più
disperare per la paura»565. In genere, «essa chiude l’ingresso del cuo
re a tutti i vizi»566.
Al tempo stesso in cui essa è una delle condizioni per la guarigione
dalle passioni e preserva l’uomo dal ricadérvi, la speranza è anche una
delle fonti dell’acquisto delle virtù567.
Occorre sottolineare soprattutto la stretta relazione che intercorre
con la più alta tra esse, e che le contiene tutte: la carità. Se, come ab
biamo visto, la speranza deriva dalla carità, inversamente, quella è con
dizione di questa. Solo dopo aver raggiunto la speranza, insegna san
Simeone il Nuovo Teologo, si può possedere «integralmente in essa
l’amore nei confronti di Dio. È impossibile, infatti, a ogni uomo ac
quisire l’amore perfetto riguardo a Dio se non per mezzo di una fede
559 Cfr. La legge spirituale, 14; Il battesimo, 28; Controversia con un avvocato, 17.
560 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 65.
561 A mbrogio DA M ilano , La morte è un bene, 20.
562 Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo.
563 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, VII, 5.
564 Cfr. Apoftegmiy Am 131,1.
565Libro, I.
566G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 6.
567 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 34;
La legge spirituale, 71.
395
sincera e una speranza ferma e incrollabile»568. San Giovanni Climaco
nota nello stesso senso: «Il venir meno della speranza è la scomparsa
dell’amore»569. Al contrario, «ciò che dà forza all’amore è la speran
za»570.
San Diadoco di Foticea definisce la speranza come «una emigra
zione amorosa dello spirito verso ciò che si spera»571. Infatti, quando
l’uomo possiede la speranza, in un certo senso egli già possiede in qual
che misura e anticipatamente i beni verso i quali essa conduce. È co
sì che san Giovanni Climaco scrive: «La speranza è un tesoro fatto di
tesori che ancora non appaiono»572, e ancora: «La speranza è un te
soro che già si possiede, prima dell’altro tesoro»573. Ecco perché alla
speranza si unisce la gioia spirituale574, primizia della beatitudine attesa.
Occorre sapere che la virtù non può essere acquisita dall’uomo co
me una realtà nuova, estranea, ed esterna a lui. San Massimo il Con
fessore fa notare che non si tratta di «aggiungere le virtù dall’esterno
e in modo accessorio»1, e san Giovanni Damasceno afferma che non
è questione di «acquisire la virtù come se questa fosse qualcosa ve
nuta dall’esterno»2. Sant’Antonio afferma la stessa cosa: «Essa non è
lontana da noi, non si forma fuori di noi, l’opera è in noi [...]. La virtù
non ha bisogno che della nostra buona volontà, poiché essa è in noi
e si forma in noi»3. Le virtù, infatti, sono costitutive, l’abbiamo visto,
della natura stessa dell’uomo: Dio le ha messe in lui fin dall’origine nel
crearlo a sua somiglianza. Questo stato, che l’uomo ha perduto dopo
il peccato originale, il Cristo lo ha restaurato, e ogni battezzato lo re
cupera. Se, tuttavia, l’uomo cede di nuovo al peccato e s’abbandona
alle passioni, le virtù non cessano, pertanto, di definire la sua vera na
tura; in verità, sono le passioni ad essergli estranee, provenienti dal
l’esterno4, gli sono sovraggiunte, mascherano la natura umana e le si
avvinghiano come parassiti. Tali passioni sono in rapporto alla natu
ra virtuosa come la ruggine è in rapporto con il ferro, fanno notare san
Massimo5 e san Giovanni Damasceno6. Mutuando un altro paragone
da san Gregorio di Nissa, esse sono l’abito imbrattato di terra che ri
copre l’uomo caduto nel pantano del peccato, e che nasconde - ma
non distrugge - la sua bellezza naturale7. Il ricorso alle nozioni di sa
lute e di malattia consente di comprendere ancor meglio le cose, poi-
1Disputa con Pirro, PG 91, 309C.
2Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 14.
3 Atanasio d ’A lessandria , Vita di Antonio, XX.
4 G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 14.
5Disputa con Pirro, PG 9 1 ,312A.
6Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 14. Vedi pure GREGORIO DI NlSSA, Trattato sul
la verginità, XII, 2.
7hoc. cit.
397
ché abbiamo visto che le virtù sono la salute dell’anima e le passioni
le sue malattie. Ora, occorre aver cura di rispettare l’ordine dei feno
meni: per l’anima come per il corpo, la salute è primaria, normale, co
stitutiva della natura, mentre la malattia viene dopo, s’introduce co
me un elemento estraneo, perturbatore. Ciò è quanto sottolinea Eva-
grio: «Se la morte è seconda in rapporto alla vita, e la malattia seconda
in rapporto alla salute, è evidente che anche la malizia è seconda in
rapporto alla virtù»8. Sant’Isacco il Siro ugualmente fa notare: «La
virtù è naturalmente la salute dell’anima, le passioni ne sono la malat
tia [...]. E chiaro che la salute esiste in natura prima dell’irruzione
del male. Se è proprio così - ed è vero -, la virtù è dunque natural
mente nell’anima. E quanto avviene in seguito è al di fuori della sua
natura»9. Così, come ci insegna san Doroteo di Gaza, vivere secondo
la virtù è semplicemente «recuperare il proprio stato, è ritornare alla
salute proprio come si recupera una vista normale dopo una malattia
degli occhi, o la salute propria e naturale dopo qualunque altra ma
lattia»10.
Abbiamo visto, infatti, studiando la patologia dell’uomo decaduto,
come le passioni, malattie dell’anima, si costituiscono a causa di una
perversione della natura dell’uomo, più precisamente per una devia
zione di tutte le sue facoltà, in origine e naturalmente volte verso Dio,
loro normale fine, ma allontanate da lui dal peccato per essere orien
tate contro natura e irrazionalmente verso le realtà sensibili.
E chiaro, perciò, che il ritorno alla salute per l’uomo consisterà
nel recuperare la sua natura originaria effettuando il movimento in
verso, cioè nell’allontanare tutte le sue facoltà dalle realtà carnali per
ri-portarle verso Dio. Si comprende con ciò come sia spesso in ter
mini di conversione nel senso etimologico della parola, cioè di capo-
volgimento, di cambiamento di orientazione, che le Sacre Scritture11e
8 Capitoli gnostici, 1,41.
9Discorsi ascetici, 83.
10Istruzioni spirituali, XI, 122.
111 termini più frequentemente usati sono: stréphò (girare, girare in senso contrario, ritor
nare), epistréphd (girare verso, dirigere verso, girare in senso contrario, ritornare, tornare sui pro
pri passi, tornare su se stessi, volgersi, voltarsi), epistropbe (azione di voltarsi, di rivolgersi). I ter
mini metanoéd e metànoia, che indicano un cambiamento di mentalità, di sentimenti, sono an
che molto usati, ma riguardano piuttosto l’atteggiamento interiore di pentimento, di penitenza,
che deve presiedere a questo cambiamento o ne è almeno la condizione, piuttosto che questo
cambiamento stesso da un punto di vista obiettivo. Alcuni passi uniscono le due nozioni, così
per esempio At 3,19: «Pentitevi e convertitevi (metanoesate kaì epistrépsate)». Epistréphd è
usato in: Mt 13,15; Me 4,12; Le 1,16-17; 22,32; At 3,19; 9,35; 11,21; 14,15; 15,19; 26,18.20; 28,27;
2Cor 3,16; lTs 1,9; Gc5,19.20; lPt2£5. Nell’Antico Testamento in: Is 6,10; 45,22; 55,7; Sir 17,25.
398
tutta la Tradizione ricordano la salvezza e definiscono le sue condi
zioni. Infatti, come il peccato, e in genere il male, consistono per l’uo
mo nell’allontanarsi da Dio volgendogli le spalle, così la salvezza, e
in modo generale il bene, consistono inversamente nell’awicinarsi a
lui volgendosi verso di lui con tutto il proprio essere.
Sant’Ireneo considera chiaramente che è in questo capovolgimen
to che vi è la condizione della guarigione dell’uomo: «Che il Signore
sia venuto come medico degli ammalati, egli stesso lo attesta [...]. Co
loro dunque che stanno male come si ristabiliranno? [...] Nel perse
verare nelle stesse disposizioni? O, al contrario, accettando un profon
do cambiamento e rivolgimento del loro vecchio modo di vivere con
cui hanno attirato su di sé una malattia tutt’altro che banale e nume
rosi peccati?»12.
Le facoltà umane sono state create da Dio in vista del Bene, e per
natura sono orientate verso i beni spirituali. L’uomo, in virtù della li
bertà di cui dispone, può mantenerle in questa direzione, e fame co
sì un uso normale, conforme alla loro natura, razionale, virtuosa, o, al
contrario, farne un cattivo uso, patologico, contrario alla natura, irra
zionale, passionale, rivolgendole verso i falsi beni sensibili. Lo ricor
diamo, per sottolinearlo ancora una volta, che le virtù e le passioni so
no definite dall’uso che l’uomo fa delle sue facoltà13, e dallo scopo ver
so il quale egli le fa tendere14. «È questo uso razionale o irrazionale che
noi facciamo delle cose che ci rende virtuosi o perversi», scrive san
Massimo15. Quanto a san Simeone il Nuovo Teologo, egli fa notare che
l’anima diviene cattiva se aderisce al male e, al contrario buona, se ade
risce al bene16. E san Giovanni Crisostomo nota che «dipende dunque
da noi usare le nostre membra per il peccato o per la giustizia»17.
«Nulla è cattivo tra le creature di Dio», precisa san Massimo18per
sottolineare che non sono le facoltà stesse che sono in causa ma solo
il modo di usarle. «Nella misura in cui, egli spiega, usiamo male le po
tenze [o parti] della nostra anima: concupiscibile, irascibile e razio-
12 Contro le eresie, in, 5,2.
13 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 75.
14Vedi per esempio ibid., E, 36.
15 Ibid., I, 92. Cfr. Ili, 1; 3. CLEMENTE D’ALESSANDRIA: «Ogni azione contraria al Verbo
giusto è una colpa. È proprio così che i filosofi pensano di poter definire le passioni più gene
rali»; al contrario, «la virtù è una disposizione dell’anima che ben si accorda con il Verbo in tut
ta la vita [...]. Il comportamento del cristiano è quello dell’attività di un’anima concorde con il
Verbo» {Il Pedagogo, I, xm, 101,1-2).
16Catechesi, XXV, 60s.
17 Omelie sulle statue, IV, 5.
18Centurie sulla carità, III, 3.
399
naie, le passioni si installano in essa [...]. Il loro buon uso, al contra
rio, produce [le virtù]»19. San Basilio spiega ugualmente che le «po
tenze dell’anima divengono gli strumenti del vizio o della virtù, a se
conda delle disposizioni dell’uomo che agisce. Se egli si serve della fa
coltà di desiderio [parte concupiscibile] per tuffarsi nei piaceri sensibili,
si renderà infame e abominevole; se, al contrario, se ne serve per in
fiammarsi nell’amore di Dio e di Nostro Salvatore Gesù Cristo, tutti i
suoi desideri saranno virtuosi e meriterà una felicità eterna»20. «Se
fate un buon uso della collera e se ve ne servite razionalmente, essa
si cambierà in forza, in pazienza e in costanza; ma se voi ne abusate,
essa si tradurrà in furore e in frenesia»21. «Occorre fare lo stesso ra
gionamento per la parte razionale: quando se ne usa bene, si diviene
saggi e prudenti; ma se ci si serve della propria ragione per nuocere al
prossimo, si diventa furbi, artificiosi e maligni»22.
Nelle virtù come nelle passioni, sono dunque gli stessi organi, po
tenze, facoltà, che sono all’opera: la virtù corrisponde al loro uso sa
no, conforme alla finalità naturale e normale, cioè orientata verso Dio;
la passione corrisponde al loro uso perverso, patologico, alla loro orien
tazione verso un fine che non è conforme alla loro natura e consiste in
una realtà sensibile o carnale. Per questa ragione, il passaggio dalle
passioni alle virtù non implica un non-uso, una mortificazione, ossia
una distruzione di questi organi, potenze o facoltà stesse, ma consi
ste nella loro riorientazione, nel rivolgerle verso il loro «oggetto» na
turale e primario: le realtà spirituali, il Bene, Dio. Ecco perché san Ni-
ceta Stetatos afferma esplicitamente: «Occorre, per le pene del pen
timento e la tensione dell’ascesi, rovesciare le potenze dell’anima e
renderle tali come Dio ce le ha date all’inizio quando creò Adamo»23.
San Massimo spiega da parte sua che, «depravato», l’uomo «segue le
cupidigie e gli impulsi della carne, mentre quando è virtuoso [...] si
sforza di volgere al bene i movimenti di questo genere che egli pro
va»24. «Gli uomini ferventi, egli aggiunge, si servono di queste passio
ni, non certo di queste passioni in quanto tali, ma dell’energia, della
potenza che serve loro di base, da un lato per far scomparire il male,
presente o futuro, dall’altro, per acquistare e conservare la virtù e la
19ibid.
20 Omelie, 10, Sulla collera.
21 Ibid.
22lbid.
23 Centurie, I. 17.
24 Centurie sulla carità, II, 56.
400
conoscenza, sull’esempio dei medici sapienti che trasformano in me
dicamenti lo stesso veleno della vipera. Per concludere, le passioni di
vengono buone in ragione del loro uso per chi sa sottomettere al
l’obbedienza del Cristo tutto il suo pensiero e tutta la sua volontà»25.
Possiamo perciò dire, con san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo, che
«l’anima perfetta è l’anima in cui la potenza delle passioni è totalmente
volta verso Dio»26.
L’Apostolo stesso invita i battezzati a una tale conversione a Dio con
tutte le proprie facoltà, conversione attraverso cui esse ritrovano l’or
dine virtuoso della loro natura: «Non presentate le vostre membra co
me armi di iniquità per il peccato, ma offrite voi stessi a Dio come
viventi dopo essere stati morti e le vostre membra come armi di giu
stizia per Iddio» (Rm 6,13); «come offriste le vostre membra in ser
vizio alla immondezza e all’iniquità per l’iniquità, così ora offrite le vo
stre membra in servizio della giustizia per la santificazione» (Rm 6,19).
Abbiamo visto che il peccato consiste in primo luogo in una igno
ranza di Dio, quando l’uomo distoglie le sue facoltà dalla conoscen
za di Dio per volgerle verso il mondo sensibile subordinandole ai sen
si. Egli dà così vita a una conoscenza fantasmatica e delirante, succe
danea della vera conoscenza. H ritorno degli organi di conoscenza alla
loro salute primitiva avviene secondo il movimento inverso, cioè al
lontanandosi dalle realtà sensibili per orientarsi di nuovo verso Dio.
«Come per mezzo del pensiero gli uomini si sono allontanati da Dio
e si sono creati degli dèi dal nulla, così essi possono per mezzo dello
spirito che è nella loro anima salire verso Dio e ritornare di nuovo ver
so Dio», scrive sant’Atanasio Magno [d’Alessandria]27. E san Massi
mo consiglia: «Per mezzo della ragione, in luogo dell’ignoranza, oc
corre porci alla ricerca di Dio solo sulla via della conoscenza»28.
In questo modo, gli organi di conoscenza non sono in nulla modi
ficati nella loro natura, ma solo riorientati nel loro esercizio, perché è
unicamente in funzione del loro orientamento che essi sono sani o ma
lati: «È per mezzo dell’intelligenza che diveniamo peggiori», ma è
ugualmente «per mezzo dell’intelligenza che diveniamo migliori», fa
notare sant’Isacco il Siro29, il quale di conseguenza osserva che dò che
25 Questioni a Talassio, 1, PG 90,269BC.
26 Centuria, 66.
27 Contro ipagani, 34.
28Lettere, 2,PG91,397B.
29Discorsi ascetici, 49.
401
«Dio vuole», è «il c a m b ia m e n t o dell’intelligenza», perché «solo un ta
le cambiamento può [...] essere ammesso davanti a Dio»30. E san Gre
gorio di Nissa constata che noi ritroviamo il Bene di Dio «ogni volta
che rivolgiamo la nostra ragione verso di lui»31. Si tratta, dunque, sem
plicemente di condurre gli organi della conoscenza ad esercitarsi se
condo la loro finalità normale, quella che corrisponde alla loro natu
ra. Così sant’Antonio dice: «Se l’anima conserva la sua parte intelli
gente conforme alla natura, si formerà la virtù. Essa è secondo natura
quando rimane come è stata fatta perché è stata fatta bella e giusta [...].
Per l’anima, essere giusta, vuol dire avere l’inteUigenza secondo na
tura, come fu creata, ma quando devia e si distorce in rapporto alla
natura, allora si parla di vizio dell’anima. La cosa non è dunque diffi
cile; se noi rimaniamo tali come siamo stati creati, siamo nella virtù»32.
Così la parte razionale dell’anima non deve essere mortificata33o soffo
cata, altrimenti l’uomo non avrà più alcun mezzo per contemplare le
realtà spirituali e conoscere Dio, ma deve solo essere utilizzata diver
samente: essa ritrova la sua «vera vita», nota san Gregorio Palamas,
consentendo di nuovo all’uomo di «consacrarsi alle contemplazioni
divine e di rivolgere inni di ringraziamento a Dio»34.
Non è solo la parte razionale dell’anima che è «migliorata» in quan
to riorientata verso la finalità originaria, naturale e normale, ma anche
tutte le altre facoltà, e ciò sotto la guida dello spirito. «Per mezzo del
l'autorità dello spirito, scrive san Gregorio Palamas, noi fissiamo la sua
legge a ogni potenza dell’anima, e a ciascun membro del corpo quan
to gli conviene»35.
La potenza di desiderio [concupiscibile] e quella aggressiva [ira
scibile] - la perversione delle quali è all’origine di molti turbamenti
e fonte della quasi totalità di queste malattie spirituali che sono le pas
sioni -, possono così, sotto la guida dello spirito e della ragione esse
re esse stesse riorientate verso Dio, ritornare ad essere sane essendo
rivolte verso la loro finalità originaria e naturale, che in primo luogo è
quella di desiderare e amare Dio, e in secondo luogo quella di lotta
re contro il male e in vista del bene, cioè lottare contro tutto ciò che
tende ad allontanare l’uomo da Dio, e per acquisire e conservare quan-
» ibid.
31 Trattato sulla verginità, XE, 2.
32 A tanasio d ’A lessandria , Vita di Antonio, 20.
33 G regorio P alamas , Triadi, n, 2 ,2 3 .
34 Ibid.
35Ibid
402
to permette di avvicinarsi e unirsi a lui. «È possibile, scrive san Mas
simo, “logizzare” le facoltà irrazionali dell’anima - voglio dire l’ira
scibilità e il desiderio -, armonizzarle con lo spirito attraverso la ra
gione»36. Dopo aver ricordato che i movimenti irrazionali dell’uomo
si sono trasformati in vizi per il cattivo uso dell’intelligenza, san Gre
gorio di Nissa nota ugualmente che, «inversamente, se la ragione im
pone il suo dominio ai suoi movimenti, dà a ciascuno di essi la forma
della virtù»37. «Tutti questi movimenti diretti in alto dall’attività su
periore dello spirito divengono conformi alla bellezza dell’immagine
divina», osserva ancora38. Origene concorda che è secondo l’uso ra
zionale o irrazionale che se ne fa, che la collera, il desiderio e tutto ciò
che si prova di simile, sono buoni o cattivi, e che dobbiamo dunque
sforzarci di acquisire «il senso del Cristo» per «trasformare» in vista
di Dio ciò che egli ci ha dato39.
Né tantomeno, il ritorno alla salute avviene per mezzo di una ini
bizione o una mortificazione delle facoltà in causa, ma per un cam
biamento del loro uso, per il loro riorientamento verso Dio sotto la
guida dello spirito. San Gregorio Palamas spiega molto categorica
mente che la terapia «non consiste nel far morire la parte passionale,
ma nel trasferirla dal male verso il bene, nel dirigerla, nella sua stessa
costituzione, verso le cose divine, dopo averla completamente allon
tanata dal male e volta verso il bene»40. Infatti, «è con questa facoltà
dell’anima che noi amiamo e che ci allontaniamo, che ci uniamo o che
rimaniamo estranei. Coloro che amano il bene, dunque, fanno una tra
sposizione 0metàthesis) di questa facoltà e non la fanno morire; non la
rinchiudono in loro stessi senza permetterle alcun movimento, ma la
fanno agire nell’amore verso Dio e il prossimo»41. L’uomo guarito dal
le malattie spirituali è perciò «colui che ha sottomesso i suoi appetiti
irascibile e concupiscibile, i quali costituiscono la parte passionale del
l’anima, alle facoltà di conoscenza, di giudizio e di ragionamento
dell’anima, come le persone passionali sottomettono la loro ragione
alle passioni»42. In questo modo, «si praticheranno le virtù corrispon
denti con la parte passionale dell’anima che agirà in conformità con il
36Ambigua, 6, PG 91,1068A.
37 La creazione ¿teli’uomo, XVHI.
38Ibid.
39 Omelie sulla Genesi, 1,17.
40 Triadi, H, 2,19.
41 Ibid., Ili, 3,15.
42Ibid., H, 2,19.
403
fine che Dio le ha proposto creandola»43. In altre parole, le sarà data
la possibilità di esercitarsi di nuovo correttamente. Se l’uomo inibis
se, mortificasse e distruggesse la parte passionale della sua anima, si
priverebbe delle facoltà e dell’energia che sole possono permettergli
di allontanarsi dal male e andare verso Dio: «Non vi sarebbe in lui,
nota san Gregorio Palamas, né movimento né azione per acquisire una
condizione divina, di relazioni a Dio e di disposizioni divine dello spi
rito»44. Nel sottomettere tale parte passionale, egli potrà al contrario
utilizzarla ai fini dello spirito, «andare convenientemente a Dio, e ten
dere verso di lui»45. «Gli uomini che hanno la passione del bello, scri
ve ancora, non fanno morire la parte passionale della loro anima,
rinchiudendola all’interno di loro stessi e lasciandola senza attività, né
movimento, perché allora essi non possederebbero più l’organo ne
cessario per amare il bene e odiare il male, non avrebbero più i mez
zi per divenire estranei al male per unirsi a Dio. Ecco cosa fanno
morire: le relazioni di questa potenza con le cose cattive, essi dirigo
no completamente la potenza verso l’amore di Dio, in conformità al
primo e grande comandamento: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tut
ta la tua forza” (Me 12,30). Quale potenza? La potenza della parte pas
sionale, evidentemente»46.
È chiaro, perciò, che il desiderio e l’amore di Dio non si compiono
per altra facoltà né per altra energia se non quella per la quale l’uomo
desidera e ama le realtà carnali, e che da questo punto di vista non vi
è alcuna differenza di natura tra il desiderio e l’amore di Dio e il de
siderio e l’amore delle realtà sensibili e carnali. Così Teodoreto di Ci
ro scrive: «L’appetito concupiscibile (epithymia) ha grandi vantaggi
[...]; grazie [ad esso] noi desideriamo le cose divine, [...] ossia desi
deriamo appassionatamente il Signore che è nei cieli, tendiamo alla
virtù, e tuttavia continuiamo a condurre la nostra vita, mangiando e
bevendo; ed è anche grazie ad esso che la razza si accresce per mez
zo della procreazione»47. Ciò che cambia tra i due modi di desiderio,
è solo l’orientamento che è dato all’unica potenza da cui essi proce
dono. Sottolineando questa unicità, san Massimo non esita a utilizza
re lo stesso termine «passione» (pàthos) per indicare sia l’amore car-
4>Ibid.
“ Ibid.
45 Ibid.
,
46Ibid., n , 2 23.
47 Terapia delle malattie elleniche, V, 77.
404
naie che la carità48, chiamando semplicemente «passione d’amore bia
simevole quella che occupa lo spirito verso le realtà materiali» e «pas
sione d’amore lodevole quella che l’unisce al divino»49.
E, dunque, dell’energia stessa dei desideri passionali, della forza
stessa della concupiscenza che si nutre il desiderio di Dio. «Nell’uo
mo il cui spirito è del tutto volto verso Dio, anche la cupidigia dà for
za all’amore bruciante per Dio», scrive san Massimo50, che nota an
cora: «L’anima si serve della sua concupiscenza [...] per mantenere il
suo desiderio»51. Di conseguenza, egli formula questo augurio: «Che
la potenza della concupiscenza lotti per desiderare Dio»52. E tra l’al
tro consiglia: «Occorre che la potenza di desiderio [appetito concu
piscibile], purificata dalla passione della filautia, diriga tutto il desi
derio solo verso Dio»53. Evagrio nota, nello stesso senso, che la po
tenza di desiderio dev’essere «tutta inclinata verso il Signore»54. Quanto
a San Gregorio di Nissa ricordando la passione dell’avidità (pleones-
sia) scrive: «Quanto a questa aspirazione insaziabile che è in ogni ani
ma, potente e smisurata, se qualcuno l’applica nel desiderio secondo
Dio, sarà dichiarato beato per questa cupidità»55. Abbiamo visto san
Basilio dichiarare nella stessa prospettiva: se l’uomo «si serve della fa
coltà concupiscibile per immergersi nei piaceri sensibili, sarà infame e
abominevole; se al contrario egli se ne serve per infiammarsi nell’a
more di Dio, e del nostro Salvatore Gesù Cristo, tutti i suoi desideri
saranno virtuosi e meriterà la felicità eterna»56.
Se è vitale non mortificare, non uccidere e neanche inibire, la potenza
di desiderio [concupiscibile], è perché essa non è solo la facoltà che ci
permette di amare Dio, ma anche, in modo generale, la forza dinami
ca di tutta la vita spirituale, il principio motore del ritorno a Dio (sot
to la guida dello spirito) di tutte le facoltà e attività dell’uomo. Così san
Gregorio di Nissa scrive: «Il desiderio è un’eccellente bestia da soma
che porta sulla sua schiena l’anima, conducendola verso le alture, quan
do essa è diretta verso i beni dell’alto dalle redini della ragione»57. E san
48 Centurie sulla carità, IH, 67 («questa felice passione della carità»).
49 Centurie sulla carità, Ut, 71.
™Ibid., 11,48.
51 Questioni a Talassio, 55, PG 90,544A.
52Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
53Lettere, 2, PG 91, 397B.
54 Capitoli gnostici, IV, 73.
55 Trattato sulla verginità, XVHI, 3.
56 Omelie, 10, Sulla collera.
57 Trattato sui Salmi, I, 8, PG 44, 477C.
405
Massimo precisa così il suo augurio precedentemente citato: «Che
tutto lo spirito si disponga in vista di Dio [...], bruciando d’affetto sen
sibile per il desiderio estremo della concupiscenza»58. Se la potenza di
desiderio possiede un tale potere, è perché tutte le facoltà le sono in
qualche modo legate, ma anche perché, quando questa ritrova il suo
orientamento naturale verso Dio e prende la forma della carità, que-
st’ultima costituisce, con la conoscenza59, il polo ordinatore e anima
tore della vita spirituale60. È in questo senso che san Gregorio Pala-
mas scrive: «Disposta così ad amare Dio, questa parte amante eleva al
di sopra delle cose terrene le altre potenze dell’anima e le volge verso
Dio»61.
È chiaro, altresì, che solo attraverso la conversione, il riorienta
mento della potenza di desiderio, la passione carnale diviene «pas
sione spirituale»62, diversamente detta virtù, essendo la sua energia
disinvestita degli oggetti sensibili che essa si era patologicamente da
ta per essere reinvestita verso gli oggetti divini che lo spirito le mo
stra. San Massimo spiega così che «l’uomo il cui spirito è compieta-
mente volto verso Dio [...], concentrando in sé tutta la forza delle sue
potenze inferiori, le ha volte verso un amore bruciante, insaziabile,
una carità senza limiti per Dio, convertendolo totalmente dal terreno
al divino»63. Egli nota ancora: «Negli uomini ferventi, persino le pas
sioni divengono buone: quando saggiamente le distaccano dagli og
getti corporei per trasportarle verso l’acquisizione dei beni celesti. Per
esempio, essi trasformano la passione del desiderio in un movimen
to spirituale che li eleva e li fa aspirare alle cose divine»64. San Gre
gorio di Nissa descrive lo stesso processo: «La nostra anima allonta
nerà dai beni corporei la sua potenza di amare per riportarla sulla
contemplazione spirituale e immateriale del Bello»65. San Giovanni
Climaco constata, nello stesso senso, che «l’amore delle delizie e dei
piaceri si cambia in amore verso Dio»66. E ci dà questo insegnamen
to: «Coloro che hanno iniziato a salire al cielo hanno bisogno di fa
re violenza a se stessi, e di offrirsi sempre [...] fino a che l’amore del
58 Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
59Cfr. Id., Centurie sulla carità, E, 28.
60 Ibid., 26.
61 Triadi, II, 2, 23.
62 ORIGENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, E, 2.
63 Centurie sulla carità, E, 48.
64 Questioni a Talassio, 1, PG 90, 269B.
65 Trattato sulla verginità, V.
«LaScala, I, 20.
406
le delizie e dei piaceri ai quali essi si erano abituati e l’insensibilità del
loro cuore mutano in un vero amore di Dio [...]»67. E nella stessa pro
spettiva che egli parla di «colui che bandisce l’amore sensuale per l’a
more divino»68. E per mostrare che una tale trasformazione include
le forme più passionali, più sensuali dell’amore, e fino alle più de
gradate, offre questa testimonianza: «Ho visto delle anime impure che
si davano con furore all’amore carnale; avendole l’esperienza di que
sto amore ricondotte al pentimento, riversarono tutto il loro amore
verso il Signore»69.
La conversione della potenza di desiderio si accompagna a un cam
biamento di forma del piacere che gli è correlativo poiché l’oggetto
del desiderio ha cambiato natura: il piacere sensuale fa posto al godi
mento spirituale. L’uomo conosce allora di nuovo la beatitudine per
la quale egli è fatto in virtù della sua stessa natura, e che Adamo provò
nel paradiso prima della sua caduta. Così san Massimo nota che gli uo
mini virtuosi, nello stesso momento in cui convertono la passione del
desiderio in un movimento spirituale verso le realtà divine, «trasfor
mano il piacere nel sano giubilo dell’energia volitiva dello spirito di
fronte ai divini carismi»70. San Gregorio di Nissa sottolinea allo stes
so modo: «Quando la ragione esercita la sua egemonia, [...] lo slancio
del desiderio ci procura un piacere divino e senza mescolanze»71.
Abbiamo visto san Basilio affermare che, se l’uomo, invece di usare la
sua facoltà di desiderio nel «tuffarsi nei piaceri sensibili», se ne serve
per amare Dio, questo gli vale «una felicità eterna»72.
Il secondo costitutivo essenziale della parte passionale dell’anima,
la potenza aggressiva o irascibile, ritrova la salute convertendosi sotto
la guida dello spirito e della ragione73. Divenuta malata, a causa del
peccato, essendosi allontanata dalla sua funzione naturale e utilizzata
in modo perverso nel respingere Dio e odiare il prossimo, nello stes
so tempo in cui deve lottare per acquisire e conservare i falsi beni sen
sibili, tale potenza ritorna sana mettendosi di nuovo, conformemente
alla sua finalità originaria, a combattere tutte le forme del male, cioè
a ib id .
“ LaScala, XV, 2.
m Ibid., V, 28.
70 Questioni a Talassio, 1, PG 90, 269B.
71Sull’anima e sulla risurrezione, 45.
72 Omelie, 10, Sulla collera.
73 Cfr. M assimo il C onfessore , Ambigua, 6, PG 91,1068A.
407
tutto quanto tende ad allontanare l’anima da Dio74, e a lottare per il
conseguimento e la conservazione dei beni spirituali75.
L’uomo virtuoso, a questo punto, si serve della stessa facoltà del
l’uomo passionale: è sempre la stessa potenza irascibile che è all’ope
ra, ma mentre quest’ultimo la usa per un fine carnale, il primo la usa
per un fine spirituale76, che è quello di «difendere amorosamente l’og
getto [divino] delle sue ricerche»77 e «divenire estraneo al male per
unirsi a Dio»78. È così che san Massimo consiglia: «Occorre che la po
tenza irascibile, liberata dalla tirannia, prenda a combattere solo per
Dio»79. In questo senso, l’aggressività persegue il medesimo fine del
la carità nello stesso momento in cui la serve. «Nell’uomo il cui spiri
to è completamente volto verso Dio, [...] anche la potenza irascibile si
porta verso la carità divina», fa notare san Massimo80.
La virtù dunque non consiste più ndl’inibire, nel mortificare o nel
sopprimere la potenza irascibile, perché l’uomo allora sarebbe priva
to dei mezzi per combattere che sono, lo vedremo poi, indispensabi
li alla sua vita spirituale (dove incontra, a tutti i livelli, molte forze
avverse), e sarebbe nello stesso tempo privato di un’energia che, in
sieme alla potenza di desiderio, costituisce un motore indispensabile
per questa stessa vita. Così, san Basilio fa notare: «Non avremo mai
per il peccato l’orrore che dobbiamo avere, se non siamo animati dal
l’indignazione della collera» e aggiunge che «essa serve all’anima co
me molla, le ispira forza, coraggio, costanza per condurre un’impre
sa fino alla fine; essa dà vigore e fermezza allo spirito [...]». Ecco
perché conclude: «Quando essa è sottomessa alla ragione, occorre
amarla così come si è obbligati a odiarla quando è irragionevole»81.
Quanto a san Diadoco di Foticea, egli l’oppone all’inerzia spirituale
che è uno stato patologico e paradossalmente passionale: «Colui dun
que che, mosso da zelo per la religione, usa saggiamente la collera, sen
za alcun dubbio sarà ritenuto di buona qualità sulla bilancia della re
tribuzione invece di colui che, per inerzia, non è mai mosso dalla
collera»82. Grazie all’aiuto della potenza irascibile tutte le facoltà, e
74 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, n , 2,19; 20.
75 Cfr. ibid., 19.
76Cfr. O rigene , Omelie sulla Genesi, XVII.
77 M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 55, PG 90,544A.
78 G regorio Palamas , Triadi, n, 2,23.
79 Lettere, 2, PG 91, 397B.
80 Centurie sulla carità, II, 48.
81 Omelie, 10, Sulla collera.
82 Centuria, 62.
408
in primo luogo la potenza concupiscibile, possono realizzare il loro
scopo che è quello dell’unione con Dio. Anche san Massimo formula
questo voto: «Che la potenza dell’aggressività lotti per desiderare Dio,
o piuttosto, per parlar chiaro, che lo spirito interamente si ordini in
vista di Dio essendo teso dal modo dell’aggressività come una corda»83.
Per il medesimo processo di conversione, tutte le altre facoltà e po
tenze dell’uomo, sia psichiche che fisiche, essendo ugualmente distol
te dal loro orientamento patologico verso oggetti carnali per essere
orientate verso il fine divino e spirituale84 che è loro naturale, ritrova
no un uso normale e sano. Tra queste, possiamo citare la memoria,
che, a causa del peccato divenuta memoria del male e ricordo di og
getti sensibili e carnali, ritrova la salute divenendo di nuovo, come
all’origine, memoria di Dio85. Possiamo anche citare affezioni impor
tanti come la tristezza e il timore: la prima, divenuta passione per es
sersi messa a piangere la perdita dei beni sensibili o la frustrazione di
desideri passionali, ritorna ad essere una virtù essendo riorientata ver
so un fine spirituale e utilizzata a piangere la perdita dei beni spirituali
dolendosi delle colpe nella penitenza e nella compunzione86; la seconda,
divenuta passione per essersi messa a temere la perdita dei beni sen
sibili, ridiventa, in quanto riorientata verso il fine spirituale proprio
della sua natura, la virtù del timore di Dio87.
Accade la stessa cosa per tutte le altre affezioni, tendenze, mozioni,
energie dell’anima, ma anche di «ciascun membro del corpo» che, «per
l’autorità dello spirito» passa dalla passione alla virtù essendo, nel suo
uso, ritornato verso Dio88. L’opera della virtù non deve maltrattare il
corpo, perché «il corpo non è una cosa cattiva»89, ma deve disto
glierlo dal compiere il peccato per restituirlo alla sua normale fun
zione di «tempio dello Spirito» (cfr. 1Cor 3,19)90.
In tutta la vita ascetica teantropica, che i Padri chiamano praxis,
l’uomo può effettuare verso Dio, con tutte le sue facoltà, questa tra
83 Commento del Padre nostro, PG 90, 891C.
84 Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, XVII.
85 G regorio P alamas , Triadi, II, 2,19; 23. D iadoco da F oticea , Cento capitoli gnostici,
5; 56.
86 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 1, PG 90,269B.
87Ibid.
88Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,2,2. N iceta Stetatos, Centurie, m, 72.
89G regorio P alamas, Triadi, 1,2,1.
90Ibid., 2, 1; 2.
409
smutazione delle passioni in virtù e ritrovare così la salute. Sono ora
le modalità della trasmutazione nella quale l’uomo riceve da Dio la
guarigione spirituale che esamineremo in particolare dopo averne pre
sentato le condizioni generali. Infatti, come scrive san Massimo, «bi
sogna considerare e studiare con vigilanza come l’anima compie con
venientemente il buon ritorno se, per giungere alla genesi e alla realtà
delle virtù, essa si serve delle cose a motivo delle quali in altri tempi
era nell’errore»91.
410
PARTE QUARTA
29 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n, 70. G iovan ni C lim aco, ha Scala,
xxvn, 32. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, XI, 113.
30 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, V, 23. D o r o te o di G aza, Istruzioni spirituali, XII,
133. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IV, 57; 72; 80; 86.
51Cfr. M assim o il C on fessore, op. tit., n, 3.
32 G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, XVIII, 4.
33 Catechesi, XIV, III-115.
418
spensabili affinché egli assimili la grazia, al contrario, solo la grazia per
mette la riuscita dei suoi sforzi (cfr. Mt 19,26; Me 10,27; Le 18,27); è
per essa che si compie molto bene sia la purificazione dalle passioni
che l’acquisizione delle virtù verso le quali l’uomo tende; è per mezzo
dello Spirito Santo che l’uomo è rinnovato, purificato, santificato e
condotto alla perfezione. Così sant’Antonio il Grande parla di «Spi
rito di conversione» che «viene in aiuto» a coloro che s’impegnano su
questa strada, che «li precede per rendere leggero il combattimento e
dolce l’opera della loro conversione», che «mostra loro le strade del-
l’ascesi, fìsica e interiore, come convertirsi e rimanere in Dio, loro Crea
tore, il che rende perfette le loro opere»34. Anche san Massimo ricor
da questa azione dello Spirito Santo: «Prima d’ogni cosa, egli spiega,
lo Spirito insegna agli uomini impegnati nella vita spirituale a volere
la mortificazione del peccato deliberato, a volere la restaurazione in
essi della disposizione alla virtù come la restaurazione della virtù de
liberata. In seguito, egli insegna loro a cercare i mezzi per giunger
vi», cioè «ciò che, per natura, è destinato a operare la mortificazione
del peccato e la risurrezione della virtù»35. Quest’ultima osservazione
offre a san Massimo l’occasione di ricordare che, in questa duplice
operazione, per l’uomo si tratta, con l’aiuto dello Spirito, di «realiz
zare una somiglianza perfetta con la morte del Cristo in ciò che ri
guarda la mortificazione del peccato, e una somiglianza perfetta con
la sua risurrezione in ciò che riguarda il compimento della virtù»36.
Ora abbiamo visto che nel battesimo l’uomo è stato reso dallo Spiri
to Santo partecipe della restaurazione della natura umana operata dal
Cristo nella sua persona: morto al peccato nella morte del Cristo,
egli è risuscitato alla virtù nella risurrezione dello stesso. Ma spetta al
l’uomo restaurato nella sua realtà d’immagine di Dio conservarsi pu
ro o ritrovare questa purezza, se egli l’ha perduta, e anche di cresce
re in Cristo per mezzo dello Spirito fino alla perfezione alla quale egli
è chiamato in Dio.
Il duplice movimento di conversione al divino che, per la grazia di
Dio, nella fede, nella penitenza, nella preghiera e nella pratica dei
comandamenti del Signore, consiste nella purificazione dalle passioni
e nell’acquisizione delle virtù, è designato dalla tradizione ascetica con
34Lettere, I, 2.
35 Questioni a Talassio, 59.
36Ibid.
419
il termine di praxis (praxis, praktike, praktike méthodos, praktike btos,
philosophia praktike, ecc.)37o anche di «ascesi» (dskèsis): quest’ultimo
termine dev’essere qui inteso nella sua accezione più ampia di prati
ca, allenamento, esercizio, modo di fare, di vivere... Poiché questo du
plice movimento suppone sempre degli sforzi, e anche una lotta, un
cambattimento (contro le passioni e i demoni, per mezzo delle virtù),
e questo permanentemente, i termini agon (lotta, combattimento) e
àthìesis (lotta, esercizio, allenamento) sono anche usati correntemente.
La praxis, nel suo duplice aspetto, si fonda sulla pratica dei co-
mandamenti38; essa ha come inizio la fede39e per fine da una parte l’im
passibilità (apàtheia) (stato in cui l’uomo è guarito dalle passioni)40e
dall’altra parte la carità perfetta41. La praxis è, infatti, via di purifica-,
zione (kàtharsis) dalle passioni fino alla loro completa eliminazione42
ma anche salita della scala (klimax) delle virtù fino al gradino più alto.
Il compimento delle due funzioni della praxis avviene, lo abbiamo
visto, non successivamente, ma simultaneamente, e in qualche modo
dialetticamente, contribuendo ciascuna in maniera indispensabile al
la realizzazione dell’altra; accade, infatti, nell’anima la stessa cosa
che avviene nel corpo: l’eliminazione della malattia e il ritorno alla sa
lute avvengono nello stesso momento, generandosi tutte e due reci
procamente. Così, nella ricerca che stiamo conducendo sulla guari
gione delle diverse malattie spirituali, ci sarà difficile per ciascuna dis
sociare la lotta contro la passione e l’acquisizione della virtù cor
rispondente. Tanto più che si aggiunge un’altra difficoltà: abbiamo vi
sto che le passioni sono tutte in relazione le une con le altre e s’im
plicano mutuamente, poiché ciascuna genera tutte le altre. Ciò com
porta, come conseguenza, che il combattimento contro una passione
particolare dovrà necessariamente accompagnarsi a un combattimen
to contro tutte le altre passioni, altrimenti rimarrà senza effetto43: la
passione combattuta da un lato riapparirà dall’altro, suscitata da una
o più passioni alle quali essa è legata e che avremo lasciate libere.
San Gregorio Magno fa notare che è uno dei significati di questo pas
420
so del libro di Giobbe: «le strade del loro cammino girano in circolo»
(Gb 6,18), che poi spiega così: «Non è raro che alcune persone si pre
parano a lottare con convinzione contro alcuni vizi ma dimenticano di
superarne altri: non resistendo a questi ultimi, essi si ritrovano di fron
te quelli che hanno già potuto superare [...]. Così, dunque, i vizi trat
tengono colui che vuole fuggirli grazie a una specie di patto di mu
tua assistenza: si dirà che essi recuperano sotto i loro colpi colui che li
aveva perduti, e che essi se lo passano l’un l’altro per vendicarsi. Sì,
per i peccatori, “le strade del loro cammino girano in circolo”: quan
do possono alzare un piede perché sono giunti a vincere un genere
di colpe, un altro vizio prende il potere, ed ecco nuovamente che s’im
pigliano in quello che erano riusciti ad eliminare»44.
Come le passioni, così le virtù sono organicamente legate tra loro.
«Una è la potenza della virtù», nota san Clemente d’Alessandria45.
«Una è la natura di tutte le virtù, anche se esse sembrano divise in nu
merose specie dai nomi differenti», nota anche san Giovanni Cassia-
no46. Anche Evagrio constata: «La virtù per natura è una, ma prende
una forma specifica in ciascuna delle potenze dell’anima»47. Di con
seguenza, Clemente d’Alessandria nota: «Le virtù si accompagnano
reciprocamente»48, e san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo: «Una virtù
dipende dall’altra»49. Ciò implica, da un lato, che non si può in verità
possederne una senza possederle tutte: «Le virtù non sono isolate l’u-
na dall’altra ed è impossibile afferrarne una, secondo tutto il rigore
della sua nozione, senza raggiungere così le altre, ma a una virtù tra
molte che entra in qualcuno seguono necessariamente le altre», os
serva san Gregorio di Nissa50. Tutto ciò comporta, dall’altro lato, co
me conseguenza che non si può veramente possedere una sola virtù se
non si possiedono tutte le altre, e che la mancanza di una sola virtù
mette in pericolo tutte le altre. «Ogni virtù, presa singolarmente, è tan
to più debole quanto più mancano tutte le altre», scrive san Gregorio
Magno che osserva ancora: «Una virtù isolata dalle altre, è perciò una
virtù che non esiste, o per meglio dire, in ogni caso, una virtù che è
ancora lontana dalla perfezione»51. «Colui che è vinto su un punto prò
44 Loc. cit.
45Stronzata, I, 20.
46Istruzioni cenobitiche, V, 11.
47 Trattato pratico sulla vita monastica, 98.
48Stromata, E, 18.
49 Centuria, 11.
50 Trattato sulla verginità, XV, 2.
51Moralia su Giobbe, XXE, Prologo.
421
vera così che non possiede perfettamente alcuna virtù [...]. Per alte
che siano le mura e solidamente chiuse le porte che proteggono una
città, il tradimento di una sola postierla, per piccola che sia, la conse
gnerà al saccheggio», fa notare, da parte sua, san Giovanni Cassiano52.
Così Evagrio, a colui che s’impegna sulla via del progresso spirituale,
dà questa raccomandazione: egli «badi, imbarcandosi, di non smar
rirsi e fare naufragio, ma abbia cura di praticare anche tutte le virtù,
perché esse si tengono l’un l’altra, e perché l’intelligenza viene abi
tualmente tradita da parte di quella che è in deficit»53.
L’interdipendenza delle virtù, come quella delle passioni, non esclu
de che un certo ordine possa essere definito benissimo per combat
tere queste come per acquistare quelle.
Abbiamo visto che è possibile indicare tra le numorose passioni che
possono colpire l’uomo, otto passioni principali o generiche, cioè cia
scuna capace di generarne un certo numero di altre e di servire loro
da comune denominatore. Abbiamo dimostrato che possiano distin
guere ulteriormente tra queste otto passioni tre passioni più fonda-
mentali ancora, da cui derivano tutte le altre, e abbiamo definito
l’ordine secondo cui le une generano le altre. Senza che questo sche
ma abbia un valore assoluto, la tradizione lo ha ritenuto come parti
colarmente adatto per la pratica spirituale. L’ordine così fissato rende
possibile la definizione di una strategia e di una tattica che si rivela pe
raltro tanto più necessaria quanto più virtù e passioni sono rispettiva
mente legate tra loro e quindi costantemente vi è il rischio di «fare nau
fragio»54nel partire «senza una direzione nella guerra contro le forze
opposte [...] alle virtù»55. «Occorre, dunque, dice Evagrio, guerreg
giare contro gli avversari con metodo»56. E importante, perciò, sape
re quali passioni devono essere combattute per prime.
Possono allora essere dati quattro principi fondamentali:
1) Occorre prima di tutto cominciare a combattere le passioni p
grossolane, più materiali, più legate al corpo (da cui la denominazio
ne corrente di «passioni corporee»), e pertanto le più apparenti: la ga-
strimargia e la lussuria. Si passerà da qui alle passioni meno visibili,
più interiori. Si terminerà con le più sottili e difficilmente riconosci
52 Istruzioni cenobitiche, V, 11.
53 Lo gnostico, 109.
54 E vagrio P ontico , Scolii ai Proverbi, XXIV, 6.
55 Ibid.
*Ibid.
422
bili sotto le loro molteplici maschere: la cenodossia e l’orgoglio. La ra
gione di quest’ordine è pedagogica - si va dal più accessibile al me
no accessibile -, ma si fonda soprattutto sul fatto che è impossibile sra
dicare le passioni spirituali più sottili se non sono già state estirpate le
passioni corporee più grossolane.
2) Occorre rispettare l’ordine seguente: gastrimargia, lussuria, fi-
largiria e pleonessia, collera, tristezza, acedia, cenodossia, orgoglio.
San Giovanni Cassiano scrive a questo proposito: «Qualunque sia la
diversità che i vizi presentano nella loro origine e il modo in cui essi si
consumano, i primi sei, cioè la gastrimargia, la lussuria, la fìlargiria, la
collera, la tristezza e l’acedia, sono legati l’uno all’altro da una sorta di
parentela e, per così dire, d’incatenamento mutuo, talmente che l’ab
bondanza dell’uno diviene il principio del successivo; lo straripamen
to della gastrimargia produce necessariamente la lussuria; la lussuria,
la fìlargiria; la fìlargiria, la collera; la collera, la tristezza; la tristezza,
l’acedia. Per questo è opportuno impiegare contro di essi un’unica e
medesima tattica: questa consiste nel cominciare dal vizio preceden
te la lotta contro il seguente [...]. Per vincere l’acedia occorre quindi
superare prima la tristezza; per bandire la tristezza, scacciare la col
lera, per spegnere la collera; calpestare la fìlargiria; per estirpare la
fìlargiria, reprimere la lussuria; per minare la lussuria, dominare la ga
strimargia. I due ultimi vizi, la cenodossia e l’orgoglio, sono similmente
uniti tra loro nel modo che ora diciamo: la crescita del primo diviene
l’origine del secondo, l’esuberanza della cenodossia accende il fuoco
dell’orgoglio». In questa serie come nella precedente, «la crescita del
l’uno produce il seguente, e diminuendo di forza, ce ne libera. In virtù
di questo principio, per bandire l’orgoglio, si deve innanzitutto soffo
care la cenodossia»57.
3) Abbiamo visto, tuttavia, che se gli «otto principali vizi insieme
fanno guerra a tutto il genere umano», «i loro attacchi non si presen
tano nella stessa maniera indistintamente in tutti»58. Di conseguenza,
dopo aver presentato il principio precedentemente esposto, san Gio
vanni Cassiano nondimeno fa notare che «l’ordine da seguire nella lot
ta non è identico per tutti»59: «L’attacco non si presenta uniformemente
nello stesso modo, e spetta a ciascuno ordinare il combattimento se
condo il nemico che lo incalza di più. Uno dovrà lottare innanzitutto
57 Conferenze, V, 10.
58Ibid., 13.
59 Ib id .y 27.
423
contro il vizio che è indicato terzo; un altro contro il quarto o il quin
to. Così, dunque, sarà secondo il vizio che in noi ha il primo posto e
secondo quanto esige il modo dell’attacco che dobbiamo regolare la
nostra tattica»60.
4) Tra le otto passioni generiche, vi sono tre passioni fondament
li che generano le altre cinque, ossia la gastrimargia, la filargiria e la
cenodossia61. È necessario che queste siano eliminate affinché lo siano
tutte le altre. «Colui che ha sbaragliato con l’aiuto dello Spirito di Dio
le tre passioni ha distrutto anche le altre cinque; ma colui che non s’im
pegna a vincere quelle non ne supererà nessuna», insegna san Gio
vanni Climaco62.
È necessario conoscere l’ordine definito da questi quattro principi
più come un ordine logico che non come un ordine cronologico:
non si tratta di combattere successivamente ogni passione ignorando
quelle che vengono dopo, poiché abbiamo notato che, dato il legame
organico intercorrente tra le passioni, un tale combattimento contro
una passione isolata si rivelerebbe vano; occorre condurre la lotta af
frontando tutte le passioni, ma insistendo maggiormente sulle pas
sioni più fondamentali, quelle che condizionano le altre e impedisco
no di raggiungerle profondamente fintanto che le stesse non siano di
strutte. Il carattere radicale della formula di san Giovanni Climaco,
precedentemente citata, ha soprattutto lo scopo di dimostrare che non
è importante affrontare le passioni derivate se prima non si sono com
battuti i loro «capifila». Questo non deve farci dimenticare che, lungi
dall’essere vinte in un sol colpo, le passioni non saranno distrutte se
non dopo che sono state combattute insieme e progressivamente in
debolite nel corso di una lotta sempre lunga.
L’acquisto delle virtù segue lo stesso ordine del combattimento con
tro le passioni, poiché queste, lo abbiamo visto, corrispondono a quel
le. Quest’ordine, come quello delle passioni, va dalle più facili alle più
difficili da raggiungere. «Le virtù si succedono luna all’altra, affinché
seguire la loro via non sia troppo pesante, e affinché possiamo rag
giungerle nell’ordine», spiega sant’Isacco63. Ma questo non è l’unico
motivo: lo stesso, principio delle passioni vale per le virtù: ogni virtù
60 Ibid, Cfr. 14.
61 EVAGRIO PONUCO, Sui diversi pensieri della malvagità, 1, PG 79,1200D. MASSIMO IL CON
FESSORE, Centurie sulla carità, II, 59; IH, 56. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXVI, 2.
“ LaScala, XXVI, 2.
63 Discorsi ascetici, 46.
424
conduce alla seguente64, «ogni virtù è la madre di quella che la segue»65;
e acquistare le virtù derivate senza aver prima cercato di acquistare
le virtù principali da cui esse procedono è inutile, e può persino, co
me sottolinea sant’Isacco il Siro, essere nocivo: «Se tu lasci la madre
che ha generato le virtù, e se tu parti alla ricerca dei figli prima di aver
scoperto la loro madre, queste virtù sono nel tuo animo come delle vi
pere»66. Quest’ordine, come quello del combattimento contro le pas
sioni, è meno cronologico che logico e, lungi dall’escludere che le virtù
devono essere praticate simultaneamente, vuole semplicemente sotto-
lineare le priorità. Così compreso, esso permette la definizione di una
scala (klimax)67di virtù, ciascuna corrispondente a un grado68che con
duce progressivamente l’uomo fino al sommo del suo sviluppo spiri
tuale. «Le sante virtù», osserva san Giovanni Climaco, «somigliano al
la scala di Giacobbe [...]. Difatti le virtù, conducendo ciascuna alla se
guente, portano colui che le sceglie fino al cielo»69. In realtà, come le
passioni non possono essere vinte in un sol colpo, così «l’anima non
accede in un sol colpo alla vetta; essa è condotta per piani successivi
verso le altezze della virtù [...]; il nostro progresso avviene dunque per
gradi», osserva san Gregorio Magno70 ricordando la parola del sal
mista: «Essi andranno di virtù in virtù» (Sai 84[83],8).
La pràxis ci appare, dunque, in definitiva, costitutiva di un vero me
todo71, sia per quanto riguarda la conoscenza della natura e dell’or
dine delle passioni e la maniera di combatterle72, in cui essa si presen
ta come un metodo propriamente terapeutico73, sia per quanto riguarda
la conoscenza della natura e dell’ordine delle virtù e il modo di pra
1. Introduzione
Poiché tutte le passioni derivano dalla malattia delle tre principali
potenze dell’anima, precisamente dalla perversione delle loro diverse
funzioni, la terapia spirituale consisterà nel rimettere in ordine queste
facoltà fondamentali. Restituendo a queste un uso conforme alla loro
natura, l’uomo recupera la salute, come sottolinea san Niceta Stetatos:
«Se l’irascibilità, il desiderio e la ragione dell’intelligenza si compor
tano e procedono da sé secondo la natura, rendono tutto l’uomo di
vino, simile a Dio, lo mantengono in salute e impediscono che si di
scosti dal cammino naturale»1.
Questo riordinamento avviene per mezzo dell’acquisto di tutte le
virtù, in primo luogo delle virtù dette principali o generiche (genikaì
aretai), non nel senso in cui esse generano tutte le altre, ma nel senso
in cui esse sono le condizioni della loro acquisizione e in qualche mo
do costituiscono la base di tutto l’edificio spirituale che esse devono
formare2.
La guarigione della parte concupiscibile (epithymetikón) dell’ani
ma, preposta al desiderio, incomincia a realizzarsi nella virtù della tem
peranza (enkràteid?', quella della parte irascibile (thymikón), nella virtù
del coraggio (andreta)4; quella della parte razionale (logistikón), nella
virtù della prudenza (phrónesis)5. A queste tre virtù generiche, i Pa-
1Centurie, 1,16.
2 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, n, 49.
3EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen
turie sulla carità, II, 79; I, 65.1 Padri citano spesso invece della enkràteia, la sdphrosynè. Que
sta è praticamente la stessa cosa, perché vedremo che questa è la forma compiuta di quella.
4 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Di
sputa con Vino, PG 91, 312A.
5 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen
turie sulla carità, III, 3; cfr. E, 79.
427
dii spesso ne aggiungono una quarta: la giustizia (dikaiosyne) il cui ruo
lo «è quello di realizzare una sorta di accordo e di armonia tra le par
ti dell’anima»6.
2. La temperanza
Abbiamo visto come a causa del peccato l’uomo abbia distolto da
Dio la sua potenza di desiderio [concupiscibile] per rivolgerla verso il
mondo sensibile, ricercando, anziché il godimento spirituale che Dio
gli offriva, il piacere sensibile. Abbiamo visto come molte malattie del
l’anima, molte passioni, provengano da questa perversione della po
tenza di desiderio e dall’attaccamento al piacere sensibile.
La guarigione dell’anima implica che l’uomo segua il percorso in
verso, cioè che egli allontani la sua potenza di desiderio dagli oggetti
sensibili e la rivolga verso Dio, che si distacchi correlativamente dai
piaceri sensibili e ritrovi le gioie spirituali che si confanno alla sua na
tura.
In questo processo terapeutico che dà la possibilità alla potenza di
desiderio, ma anche a tutte le facoltà che ne dipendono, di esercitarsi
di nuovo secondo la loro vera natura e la loro finalità normale, cioè
di ritrovare la salute, la virtù della temperanza (enkràteia) gioca un
ruolo fondamentale. Anche san Basilio Magno concorda nel ritener
la come «il principio della vita spirituale»7. E sant’Esichio di Batos, a
sua volta, osserva che: «Uno dei sapienti che conoscevano le cose di
Dio ha detto: “L’inizio del frutto è il fiore, e l’inizio dell’ascesi è la tem
peranza”»8. Anche Evagrio attribuisce a questa virtù una grande im
portanza, come fa per la carità9. Si può comprendere ciò, se si cono
sce il posto essenziale che la potenza di desiderio occupa tra le facoltà
dell’uomo, e il ruolo fondamentale che essa gioca nd processo sia del
la caduta sia della salvezza dell’uomo.
La virtù della temperanza consiste, infatti, essenzialmente in una
6 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. Sulle quattro virtù generiche,
vedi C lemente d ’A lessandria , Stromata, I. 20. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita
monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 79. GREGORIO MAGNO, Mo-
ralia su Giobbe, II, 49. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima. PILOTEO IL SlNAITA, Qua
ranta capitoli neptici [di sobrietà], 8. Non presenteremo la virtù della giustizia che i Padri in ge
nere si accontentano di menzionare.
7Regole lunghe, 17.
8 Capitoli sulla vigilanza, 66.
9Cfr. Lettere, 38, éd. Frankenberg, p. 585.
428
padronanza dell’appetito, o potenza, concupiscibile; essa si caratte
rizza in primo luogo per l’inibizione dei desideri carnali, passionali,
sensibili, e per la correlativa rinuncia ai piaceri a essi legati:
Nel senso più immediato e ristretto, essa è la padronanza dei desi
deri passionali del corpo10. E questa virtù che l’Apostolo manifesta
quando rivela: «Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schia
vitù» (lCor 9,27). I desideri passionali del corpo sono essenzialmen
te quelli che riguardano la nutrizione e la sessualità, ai quali si rap
portano rispettivamente le passioni della gastrimargia e della lussuria,
che i Padri chiamano «le passioni del corpo»11. In modo più genera
le, sono le passioni che implicano i sensi12.
Tuttavia, la temperanza non si limita alla sfera corporea. Intesa in
senso ampio, essa implica altresì il dominio dei desideri passionali del
l’anima13, desideri che entrano nella composizione di quasi tutte le al
tre passioni. Ecco quanto san Basilio scrive in proposito: «Non biso
gna considerare la temperanza in un solo genere [...]. Occorre consi
derarla anche in tutti i cattivi desideri che l’anima può provare»14. San
Giovanni Crisostomo insegna allo stesso modo: «La temperanza con
siste nel non lasciarsi trascinare da passione alcuna»15.
Possiamo così dire in modo generale con II Pastore di Erma che la
temperanza consiste nell’astenersi da ogni desiderio perverso16.
Correlativamente, la temperanza consiste nell’astenersi da ogni pia
cere irrazionale, cioè dai piaceri sensibili che sono naturalmente le
gati ai desideri passionali. Se essa riguarda innanzitutto i piaceri pro
vati dal corpo in relazione con, soprattutto, la gastrimargia e la lus
suria, non si limita a essi17, ma riguarda anche i piaceri provati dall’anima
in relazione con tutte le altre passioni avide di piacere18. E così che san
Basilio consiglia: «Per ciò che riguarda le passioni dell’anima, non vi
432
movimenti di questo genere che egli prova»43. La temperanza recupe
ra, dunque, in qualche modo l’energia della potenza di desiderio che
si era perduta nelle passioni dell’anima e del corpo alla ricerca del pia
cere, per farla servire all’acquisto dei beni spirituali. Così, a proposi
to del corpo, san Massimo osserva che chi lo tiene «al sicuro dal pia
cere come da una malattia, se ne fa un aiuto al servizio dei beni su
periori»44. E san Gregorio di Nissa illustra, sulla base di un esempio
molto materiale, la spiegazione di questo processo che la temperanza
compie, processo di riconcentrazione e di riconversione a Dio dell’e
nergia della potenza di desiderio dispersa dal peccato e alienata dalle
passioni. Mostra, tra l’altro, che alla temperanza basta contenere e ca
nalizzare questa energia, cioè impedire che si disperda, affinché essa
serva al bene ed elevi l’uomo verso Dio. Infatti, come abbiamo visto,
tutte le facoltà umane e particolarmente la potenza di desiderio, da
una parte sono per natura sempre in movimento e, dall’altra, non sa
prebbero dividersi tra le realtà spirituali e le realtà carnali che si esclu
dono a vicenda (cfr. Mt 6,24; Le 16,13; Gal 5,17)45; così, basta allon
tanare la potenza di desiderio delle une perché essa si volga verso le
altre. «Come, scrive san Gregorio, l’acqua chiusa in un condotto er
metico è spesso spinta verso l’alto, verticalmente, sotto la pressione
ascendente, mancandole la possibilità di spandersi altrove, e ciò mal
grado il suo movimento naturale che la porta verso il basso, così l’in
telligenza umana, strettamente canalizzata da ogni lato dalla tempe
ranza, sarà come portata verso il desiderio di beni superiori dalla sua
disposizione naturale a muoversi, in mancanza di sfoghi in cui di
sperdersi, perché l’essere in movimento perpetuo che ha ricevuto dal
suo Creatore una tale natura non può mai stabilizzarsi e, se le è im
pedito di usare il suo movimento nella direzione delle vanità, non ha
altre risorse se non quella di andare dritta alla realtà»46.
La temperanza, osserva Evagrio, «guarisce la parte desiderante del
l'anima»47. Essa la guarisce innanzitutto dalle passioni, dette «del cor
po»48, cioè principalmente dalla gastrimargia e dalla lussuria. Ma i suoi
434
sua finalità normale, un esercizio conforme alla ragione. «I movi
menti dell’anima sono razionali quando la sua parte concupiscibile è
retta dalla temperanza», sottolinea san Massimo59. Essa è, per questo
motivo, una virtù e fonte di virtù.
La virtù che le è più immediatamente legata, che è il segno della sua
completezza, è quella indicata in greco con il termine sôphrosynë, che
letteralmente significa «lo stato sano dello spirito o del cuore»60 o
anche lo stato di un’anima pura da ogni attaccamento ai piaceri sen
sibili qualunque essi siano, e che possiamo tradurre in questo conte
sto con «castità» o, meglio ancora, con «integrità spirituale»61.
Quanto al rapporto della temperanza con la castità, san Basilio scri
ve: «La temperanza non insegna la castità, essa la procura»62. «Colui
che si domina consapevolmente [...] attraverso la temperanza, spera
di ottenere la castità», osserva nello stesso senso san Doroteo di Gaza63.
Poiché la temperanza impedisce alla potenza di desiderio dell’ani
ma di dividersi e di disperdersi in molte passioni, e al contrario la riu
nisce e la volge in un solo desiderio verso Dio, essa riunifica non so
lo la potenza di desiderio, ma anche tutte le altre potenze che si allie
tano in essa o a causa di essa. Contribuisce, così, per gran parte, ad
eliminare le molte divisioni che l’uomo decaduto conosce e riporta
la sua anima all’unità e alla semplicità originaria64.
Poiché essa guarisce l’uomo dal peccato e dalle passioni, e in par
ticolare da quelle che lo tengono schiavo del piacere sensibile, la tem
peranza dà all’uomo la libertà. «La temperanza d libera perché è sia
medicina che potenza», osserva san Basilio65. Per essa, l’uomo ritrova
la propria autonomia spirituale, e questa lo assimila a Dio. «La tem
peranza, scrive san Basilio, è Dio, perché egli non desidera nulla ed ha
tutto in sé [...]. Poiché egli non manca di nulla, è in un’assoluta pie
nezza»66.
Poiché essa purifica la potenza di desiderio dalle passioni che oscu
rano l’intelligenza, contribuisce ad introdurre nell’uomo la conoscen
za spirituale. Gemente d’Alessandria la considera come il fondamen
59 Centurie sulla carità, IV, 15.
60 A. BAILLY, Dictionnaire grec-français, Paris 1950, p. 1892.
61 Per una giustificazione del significato ampio del termine, vedi R. PLUS e A. RAYEZ, «Cha
steté», in Dictionnaire de spiritualité, t. 2, Paris 1953, coll. 778-779.
62 Lettere, CCCLXVI.
63 Istruzioni spirituali, XIV, 153.
64 Cfr. AGOSTINO, Confessioni, X, 29.
65 Lettere, CCCLXVI.
66Ibid.
435
to della conoscenza di Dio67. E san Massimo la colloca accanto alla ca
rità che è, secondo tutti i Padri, la porta della conoscenza: «Guàrdati
dal dimenticare la carità e la temperanza, perché sono esse che, nel pu
rificare a fondo le potenze patetiche dell’anima, ti aprono costante-
mente il cammino della conoscenza»68; «il Salvatore ha detto: “Beati
i puri di cuore: perché essi vedranno Dio”. Essi lo vedranno, lui e i te
sori che sono in lui, quando per mezzo della carità e della temperan
za essi si purificheranno, e tanto meglio quanto più energico sarà il lo
ro sforzo di purificazione»69. Purificando l’uomo, la temperanza lo ren
de degno di avvicinarsi a Dio e di unirsi a lui, contribuisce a renderlo,
alla fine, pertecipe della vita divina, a renderlo incorruttibile a somi
glianza di Dio incorruttibile70.
3. La fortezza
Abbiamo visto che a causa del peccato la potenza irascibile si è am
malata, poiché l’uomo l’ha usata per compiere la volontà del diavolo
e dei demoni, per lottare per la realizzazione dei desideri della carne
nonché per l’acquisto e per la conservazione dei piaceri sensibili, per
favorire l’esercizio delle passioni e per soddisfare l’amore di sé.
Abbiamo visto, altresì, che la guarigione di questa facoltà non po
tremmo compierla inibendola o eliminandola. Questa facoltà non so
lo è utile71 e rende all’uomo grandi servigi72, come ricordano spesso i
Padri, ma essa è per lui uno strumento indispensabile per raggiunge
re i beni divini, secondo l’insegnamento dello stesso Cristo: «Il re
gno dei cieli è oggetto di violenza, e sono i violenti che se ne impa
droniscono» (Mi 11,12); «Il regno di Dio viene annunziato e ognuno
usa violenza per entrarci» (Le 16,16).
Non è opportuno, dunque, mortificare questa facoltà, ma conver
tirla per metterla in azione «in modo giusto, così come è stata creata
da Dio»73.
67 Stromata VII, 12.
,
68 Centurie sulla carità, IV, 57.
69 Ibid. Questo passo è ripreso testualmente da ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigi
, 72.
lanza, 75.
70 Cfr. B a silio di C esarea, Lettere, CCCLXVI.
71 Cfr. B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
72 B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera. D ia d o c o di F o tic ea , Cento capitoli gno
stici, 62. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 4 , 7. G iovan ni C assiano, Istituzioni ce
nobitiche, vin, 7.
73 Esicmo DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 126.
436
Innanzitutto, lottando contro il male in tutte le sue forme l’uomo
ridà alla potenza irascibile della sua anima l’uso che conviene alla
sua natura, che corrisponde alla sua normale finalità, e costituisce la
sua salute, perché è a questo scopo che gli è stata donata da Dio co
me un’arma74.
In primo luogo, si tratta di utilizzare la potenza irascibile per com
battere il peccato75e le passioni76, inclusa la passione della collera, co
stituita dall’uso perverso che se ne fa. Commentando questa racco
mandazione del salmista: «Adiratevi ma non peccate» (cfr. Sai 4,5), san
Giovanni Cassiano scrive: «Non dice con evidenza: Adiratevi contro
i vostri vizi e la vostra collera?»77. Occorre inoltre notare: «Persino l’ec
citazione della collera, lo si comprende, può esserci molto salutare per
ché, adirandoci contro i nostri vizi e i nostri errori, ci applichiamo piut
tosto alle virtù e agli esercizi spirituali»78.
L’irascibilità deve avere per funzione più generale la lotta contro
«l’uomo vecchio» e le sue cattive tendenze79, il combattimento contro
«l’uomo dei desideri della carne». «Dobbiamo attivare [...] la parte
irascibile dell’anima contro il nostro uomo esteriore [...]. Sta scritto:
“Siate in collera con il peccato”, cioè: “Siate in collera contro voi stes
si”», scrive sant’Esichio di Batos80.
La lotta contro le passioni, contro le cattive tendenze dell’uomo vec
chio, assume fondamentalmente la forma di una lotta interiore contro
i pensieri (logismot ) ispirati dai demoni, un combattimento contro le
tentazioni. Commentando il versetto 5 del salmo 4, san Giovanni Cas
siano scrive: «Ci è stato ordinato di “metterci in collera” per la nostra
salvezza contro noi stessi e le cattive suggestioni che salgono in nói, e
di “non peccare”, cioè d’impedire loro di nuocere»81. «La collera in
noi ha un servizio da rendere, ed è solo per questo che ci è utile e sa
lutare accoglierla: quando insorgiamo contro i movimenti lascivi del
nostro cuore», fa ancora notare san Giovanni Cassiano82.
74 D ia d o co di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 62. B asilio di C esarea, Omelie, X, Sulla col
lera.
75 Cfr. G iovanni i l S o lita rio , Dialogo sull anima e sulle passioni degli uomini, éd. Hausherr,
p. 90. B a silio di C esarea, Lettere, E.
76 B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
77 Istituzioni cenobitiche, VIE, 9. Cfr. ibid., 8.
78 Ibid., V H ,3,3.
79 Cfr. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, VIE, 9.
80 Capitoli sulla vigilanza, 126. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, loc. cit.
81 Istituzioni cenobitiche, VEI, 9.
82 Ibid., 1.
437
Questo combattimento è legato al combattimento contro il diavo
lo e i demoni stessi, che suggeriscono all’uomo il male, lo incitano a
compierlo, vogliono sottometterlo alla loro volontà. Per questo moti
vo, così scrive sant’Esichio di Batos: «Dobbiamo attivare [...] in ma
niera giusta, secondo natura [...] la parte irascibile [...], contro [...] Sa
tana, il Serpente»83. Evagrio afferma la stessa cosa: «Fa parte della na
tura della parte irascibile combattere contro i demoni»84. San Gregorio
di Nissa scrive allo stesso modo: «Quanto all’irascibilità, alla collera,
all’odio, occorre che esse usino la loro forza naturale contro il ladro,
contro il nemico che s’insinua all’interno per fard perdere il tesoro di
vino e viene al fine “di rubare, sgozzare, distruggere” (Gv 10,IO)»85.
San Basilio ricorda a questo riguardo le parole di Dio agli uomini ri
portate nel libro della Genesi: «Porrò una ostilità tra voi e il serpen
te» (cfr. Gn 3,15)86. Potremmo citare qui numerosi passi dd Salmi nd
quali vediamo il fedde impegnato, secondo il salmista, a manifestare
un tale odio riguardo ai demoni simboleggiati e indicati in modi di
versi («gli empi», «i peccatori», «i cattivi», «i nemici», «gli eserciti av
versi», «le nazioni straniere», «i prìndpi»...) e a chiedere a Dio di muo
vere contro di essi la sua collera per allontanarli, ridurli all’impotenza
o distruggerli.
Se l’uomo lotta così contro la volontà dd demoni è perché si com
pia in lui la volontà di Dio. Se egli lotta contro le passioni è per far po
sto in sé alle virtù. Se lotta contro le tendenze dell’uomo vecchio è per
poter divenire in Cristo un uomo nuovo. Così la lotta della potenza
irascibile contro le diverse forme del male appare come una lotta in
vista dd bene. «L’anima razionale agisce secondo la natura quando
la sua parte irascibile lotta per ottenere la virtù», scrive Evagrio87.
Lottare per la virtù, significa prima di tutto lottare per acquisirla:
la potenza irascibile qui sembra come un motore della vita spirituale,
una forza che tende tutta l’anima verso Dio88. A questo proposito co
sì scrive san Basilio: «Se voi fate un buon uso della collera e se ve ne
servite secondo le regole della ragione, essa si muterà in forza»89. Ma
438
la lotta serve anche per conservare la virtù: mentre la collera, nel suo
uso patologico combatte per la conservazione dei beni sensibili, nel
suo uso sano essa lotta affinché i beali spirituali ricevuti da Dio non
siano affatto strappati dal Nemico. È in questo senso che san Massir
mo consiglia: «Che la potenza dell’aggressività lotti per conservare
Dio»90. Nel lottare per i beni divini, la potenza irascibile lotta così «per
il piacere spirituale (pneumatikè edoné) e la beatitudine (makariótes)
che ne segue»91, anziché lottare come essa faceva nel suo uso patolo
gico in vista dei piaceri sensibili, essendo il suo principio quello «di
lottare in vista del piacere qualunque esso sia»92.
Occorre sottolineare che la collera corrispondente all’uso virtuoso
della parte irascibile, che serve a quanto san Paolo chiama «il buon
combattimento» (lTm 6,12; 2Tm 4,7) e che i Padri denominano «ira
scibilità saggia (sóphton thymós)»93, «giusta collera»94, si distingue dal
la collera-passione non solo per il suo scopo, ma anche per la forma.
Ed è per queste due ragioni che essa è una collera esente dal pecca
to, quella ricordata dal salmista quando dice: «Adiratevi ma non pec
cate» (cfr. Sai 4,5) o ancora, parlando dei nemici spirituali: «Di odio
pieno io li detesto» {Sai 139[138]>22). È infatti una collera dominata95,
esente da turbamento (atàrachos)96che è, quindi, interamente compa
tibile con l’impassibilità (apàtheia) che è il fine della praxis.
Nell’uso virtuoso, l’irascibilità può essere assimilata alla virtù della
fortezza, o coraggio (andretà). A questo proposito così scrive Evagrio:
«Quando la virtù è nella parte irascibile, essa si chiama fortezza»97, e
san Massimo, ugualmente: «La collera secondo la natura è fortezza»98.
Nel fame un uso passionale l’uomo rendeva malata la sua potenza
irascibile, e per essa tutta la sua anima, utilizzandola invece virtuosa
mente, egli le rende la salute e «se ne serve come un rimedio»99, ri
dandole così la sua funzione normale. Infatti, osserva san Giovanni
Crisostomo, «se la collera è stata posta in noi, non è perché peccassi
439
mo [...], non è affinché essa divenisse in noi una passione, un’infer
mità, ma affinché fosse un rimedio alle passioni»100.
La potenza irascibile ben usata appare così, nella via della guari
gione spirituale, come aiuto principale della ragione divenuta pru
dente101. Infatti la ragione, illuminata spiritualmente, può indicare la
via del bene e la lotta da condurre per progredirvi, ma essa stessa non
può imporre all’uomo di seguire questa via né di dare battaglia; la po
tenza irascibile è la forza di cui essa ha bisogno per fare tutto questo;
senza di essa, rimarrebbe impotente. San Basilio scrive a questo pro
posito: «Come un soldato docile agli ordini del suo capitano è sempre
pronto ad andare a soccorrere quelli che ne hanno bisogno, così la col
lera può aiutare la ragione a combattere il peccato. L’indignazione fa
da spinta all’anima, le ispira forza, coraggio, costanza nel portare a
compimento un’impresa; essa dà vigore e fermezza a uno spirito che
si lascia infiacchire dal piacere. Non avremo mai verso il peccato
l’orrore che dovremmo avere se non siamo animati dall’indignazione
e dalla collera; così, quando essa è sottomessa alla ragione, occorre
amarla tanto quanto si è obbligati a odiarla quando è irrazionale»102.
Molti Padri sottolineano, come san Basilio, il ruolo essenziale che
gioca la potenza irascibile restituita alla sua funzione normale per di
namizzare l’intera vita spirituale. «La collera [è uno] strumento utile
per risvegliare la nostra anima dagli eccessi di torpore»103e «per dar[le]
vigore»104, osserva san Giovanni Crisostomo. E san Massimo consiglia:
«Che tutto lo spirito si ordini in vista di Dio, teso dall’irascibilità co
me una corda»105.
Infatti, non vi è vita spirituale senza lotta; senza impegnare tutta la
propria forza, l’uomo non può ricevere la forza che Dio gli dà; senza
coraggio, egli non può opporsi agli attacchi permanenti dei nemici del
la sua salvezza, non può affrontare le molte trappole che essi gli ten
dono. Se la prudenza, come vedremo, deve illuminare il suo cammi
no, in gran parte è l’irascibilità che gli permette di progredire su que
sto cammino.
441
Comunque si presenti questa prima funzione, essa è assimilabile al
la virtù del discernimento (diakrisis-, discretio), ed è così che spesso la
designano i Padri110. È questa virtù, ricorda san Giovanni Cassia-
no111, che nel Vangelo è chiamata: «La lucerna del corpo è l’occhio»,
quando il Cristo insegna: «La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque
il tuo occhio è terso, tutto il tuo corpo sarà illuminato. Ma se per ca
so il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre» (Mt
6,22-23). «Essa infatti discerne tutti i pensieri dell’uomo e le sue azio
ni, esamina e vede nella luce ciò che dobbiamo fare»112. San Giovan
ni Climaco scrive allo stesso modo: «Il discernimento è una lampada
nelle tenebre [...], una luce per coloro la cui vista è debole»113; «se vo
gliamo definire in generale il discernimento, possiamo dire che è una
luce interiore che ci fa conoscere con certezza la volontà di Dio in ogni
momento, in ogni luogo, e in ogni azione»114. E questa virtù, egli fa an
cora notare, che il salmista ricorda quando chiede a Dio: «Insegnami
a fare la tua volontà perché tu sei il mio Dio» (Sai 143 [142], 10) e an
cora: «Fammi conoscere la via da percorrere: sì, verso di te elevo l’a
nima mia» (Sai 143[142],8)115.
Essa è, dunque, la guida che consente a colui che avanza nella via
spirituale di non smarrirsi e di evitare le cadute. «Essa è anche di cui
è scritto che è il governo della nostra vita», osserva san Giovanni Cas-
siano nel ricordare questo passo dei Proverbi: quando manca la pru
denza «un popolo decade» (Pro 11,14)116.
La prudenza è, di conseguenza, la protettrice delle virtù117 e, allo
stesso tempo, mette l’uomo al riparo dagli agguati del male. «Colui
che la segue, scrive san Basilio, non si allontana mai dalle opere della
virtù e non è mai trafitto dallo strale funesto del vizio»118. Parlando,
più in generale, la prudenza-discrezione permette all’uomo di cono
scere il suo stato interiore e di situarsi relativamente al suo progresso
110 Sull’equivalenza tra prudenza e discernimento, vedi A. CABASSUT, «Discrétion», in Dic-
tionnaire de spiritualité, t. 3, Paris 1957, coll. 1311-1313. Questa equivalenza spiega perché al
cuni Padri non parlano mai di «prudenza», ma di «discernimento» o di «discrezione» nel sen
so antico di questo termine.
111 Conferenze, E, 2.
n2Ibid.
113La Scala, XXVI, 122.
114 Ibid., 1.
115Ibid., 95.
116 Conferenze, E, 4.
117 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
118 Omelie, XII, 6.
442
spirituale, gli dà in particolare la possibilità di vedere il cammino per
corso e di misurare quello che gli resta da fare119.
La seconda funzione della prudenza consiste, come osserva Eva-
grio, nel «dirigere le operazioni contro le potenze avverse, proteggendo
le virtù, opponendosi ai vizi, regolando tutto ciò che è neutrale a se
conda delle circostanze»120, o ancora «opporsi all’irascibilità dei de
moni»121. La prudenza appare qui come il grande stratega del com
battimento che l’uomo, nella pràxis, inevitabilmente è portato a con
durre contro il diavolo e i demoni. Senza di essa, «non è possibile por
tare a compimento la lotta», afferma ancora Evagrio122. Occorre no
tare che il Cristo stesso raccomanda di munirsi della prudenza ricor
dando le difficoltà del percorso spirituale dovute in particolare ai
demoni: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dun
que prudenti come i serpenti» (Mt 10,16).
Questa seconda funzione della prudenza è strettamente legata alla
precedente, perché si tratta non solo di distinguere chiaramente ciò
che viene da Dio o dagli angeli da ciò che viene dai demoni, di osser
vare gli attacchi di quest’ultimi, ma anche di discemere i modi di que
sti attacchi (che possono essere complessi o molto vari), di eludere le
loro astuzie, essendo questo possibile solo attraverso la conoscenza si
cura della volontà di Dio che indica all’uomo il vero bene.
La prudenza ha, altresì, come funzione, di fronte alle altre poten
ze dell’anima, quella di affermare il carattere egemonico della parte
razionale (logistikón), di cui essa è la virtù sul piano della pràxis, e quin
di d’incitarle a subordinarsi ad essa nella guerra da condurre contro
i demoni e le passioni. In primo luogo essa guida, in questa attività, la
potenza irascibile123.
La prudenza, infine, ha come funzione, in maniera più generale,
quella di governare le diverse potenze dell’anima e di riordinarle fa
cendole agire secondo la loro vera natura124. Ecco perché sant’Esichio
di Batos consiglia: «Con sapienza e scienza, fissiamo la ragione sulle
due altre [parti dell’anima], la potenza irascibile e la potenza di desi
derio, per regolarle, ammonirle, riprenderle, comandarle, come un
446
me vedremo più precisamente in seguito, che egli manifesti la sua vi
ta interiore e gli confidi le sue malattie. In noi, osserva san Gregorio
Nazianzeno, «l’intelligenza e l’egoismo, come l’incapacità e il rifiuto
di lasciarci vincere facilmente, costituiscono il più grosso ostacolo al
la virtù. Si scatena una sorta di mobilitazione contro coloro che ven
gono in nostro aiuto. Noi impieghiamo tutto lo zelo che occorre per
svelare la malattia a chi deve curarla nel sottrarci al trattamento. Im
pieghiamo il nostro coraggio nel farci del male e la nostra scienza nel
lottare contro la nostra salute»4; nascondiamo le nostre colpe, o le giu
stifichiamo, «e ci ostiniamo [...] a non lasciarci curare dai rimedi di
saggezza che guariscono l’infermità dell’anima. O, ancora [...] mani
festiamo un’esplicita impudenza nei confronti del peccato e di colo
ro che hanno l’incarico di curarlo»5.
Ma credendo che si possa fare a meno di un padre spirituale, l’uo
mo inganna se stesso. Per colui che vuole giungere alla salvezza e al
termine della via spirituale, l’aiuto del padre spirituale costituisce una
necessità assoluta. San Giovanni Climaco scrive: «Si illudono coloro
che si fidano di se stessi e pensano di non aver bisogno di nessuno che
li guidi»6. San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo osservano: «Coloro
che vogliono camminare senza ricevere consigli seminano nella fatica
e nel sudore e spesso non fanno altro che sognare»7. Per questo san
Niceforo il Solitario consiglia: «Se non hai un maestro, devi cercarte
ne uno a ogni costo»8.
La necessità della direzione spirituale riguarda innanzitutto la dif
ficoltà che l’uomo ha di conoscere se stesso9 e di adeguarsi corretta-
mente, e questo fintanto che non raggiunge la purezza dell’impassibi
lità, la quale è, lo vedremo ulteriormente, la chiave della pienezza del
discernimento10e della conoscenza di sé. Fintanto che l’uomo è in ba
lia delle passioni, egli ha il giudizio falsato. Sotto il dominio della ce-
nodossia e dell’orgoglio, in particolare, è «pronto a vedere il peccato
degli altri, [ma] lento a riconoscere le proprie imperfezioni» come con
stata san Basilio11. Ora, lo abbiamo visto, è in gran parte da questo
riconoscimento che dipende il progresso spirituale. E, quando i Padri
4Discorsi, E, 19.
5Ibid., 20.
6La Scala, 1,18.
7 Centuria, 14.
8Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
9 Cfr. BASILIO DI C esarea , Omelie suWHexaemeron, IX, 6.
10 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, I.
11Ibid.
447
ricordano la necessità di conoscere se stessi, spesso intendono con que
sto «la conoscenza del proprio peccato». Ma in modo generale, tutte
le passioni oscurano e pervertono il giudizio dell’uomo, alterano la sua
capacità di discernimento del bene e del male, gli impediscono di ve
dere ciò che veramente gli conviene, di avere «una percezione certa
della volontà di Dio in ogni occasione, in ogni luogo e in ogni circo
stanza»12. Ecco perché Abba Zenone afferma che l’uomo «non deve
fidarsi di se stesso» e «non può soccorrere se stesso»13. San Doroteo
di Gaza consiglia la stessa cosa: «Non fidarti mai del tuo cuore, per
ché le antiche passioni lo hanno reso cieco»14; «essendo passionali, non
dobbiamo assolutamente fidarci del nostro cuore, perché una regola
distorta rende distorto anche ciò che è diritto»15. Seguendo il pro
prio giudizio, l’uomo non solo non riesce a vedere se stesso come è,
ma non può neanche conoscere con sicurezza quale via seguire, e ri
schia costantemente di allontanarsi dal retto cammino. Per questo san
Niceforo il Solitario consiglia: «E importante cercarsi un maestro in
fallibile: le sue lezioni ci insegneranno le nostre deviazioni a destra o
a sinistra [...]; la sua esperienza personale di queste prove ci illuminerà
a loro riguardo e ci mostrerà, escludendo ogni dubbio, il cammino spi
rituale che allora potremo percorrere senza difficoltà»16.
H ricorso a un padre spirituale si giustifica, per di più, con il peri
colo per l’uomo di seguire la propria volontà, la quale, nel suo stato
decaduto, tende a opporsi alla volontà di Dio. «Se un uomo non con
fida tutto ciò che è in lui, insegna san Doroteo di Gaza, il diavolo sco
prirà in lui una volontà propria [...] che gli [permetterà] di travol
gerlo [...]. Ogni volta che noi ci attacchiamo ostinatamente alla nostra
volontà [...], pensando in quel momento di fare cose meravigliose, ten
diamo delle trappole a noi stessi, e non ci accorgiamo che ci stiamo
perdendo. Come possiamo, infatti, conoscere la volontà di Dio, o cer
carla veramente, se fidiamo in noi stessi e teniamo ferma la nostra
volontà?»17. Affidarsi a un padre spirituale consentirà, dunque, di vin
cere questa volontà propria che, secondo la parola di Abba Poemen,
«è un muro di bronzo tra l’uomo e Dio»18. Ciò permetterà, altresì, di
12ibid.
13Apoftegmi, N 509-510.
14Lettere, II, 187.
15Sentenze, 2.
16Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
17Istruzioni spirituali, V, 62.
18Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 54.
448
acquisire la necessaria umiltà. San Giovanni di Gaza scrive a questo
proposito: «Se qualcuno ha l’idea di fare qualcosa di buono da se stes
so e non consulta i Padri, egli è al di fuori della legge e non fa nulla di
legittimo. Colui che, al contrario, li interroga, compie la Legge e i Pro
feti. Difatti, è un segno di umiltà interrogarli. E colui che agisce in que
sto modo imita il Cristo che si è umiliato fino a divenire schiavo. Si di
ce infatti, che un uomo senza consigliere è nemico di se stesso»19.
Il ricorso a un padre spirituale s’impone anche all’uomo che vuole
avanzare sulla via spirituale in ragione della sua ignoranza circa le trap
pole e i pericoli che vi incontrerà e i mezzi per affrontarli. Per questo
san Giovanni di Gaza consiglia: «Interroga i Padri spirituali, fa’ quel
lo che ti diranno. Non seguire il tuo giudizio, affinché non avvenga
che, per ignoranza, tu sia in pericolo»20. «Occorre, spiega san Marco
l’Eremita, che colui che vuole prendere la sua croce e seguire il Cristo
si preoccupi innanzitutto di acquistare la scienza e l’intelligenza at
traverso l’esame dei suoi pensieri [...]. Occorre che interroghi coloro
che hanno gli stessi sentimenti, che servono Dio in conformità d’ani
ma con noi e conducono la stessa lotta, affinché l’ignoranza della de
stinazione e dei mezzi non ci faccia camminare nelle tenebre o cam
minare senza luce e senza lampada. Colui che pratica l’idioritmia, os
sia conduce la vita a suo modo, cammina sprovvisto della scienza
evangelica, del discernimento e della direzione spirituale; incontra co
sì molti ostacoli e cade in tante fosse e trappole del diavolo; molte lo
fanno cadere, molte altre lo fanno smarrire ed egli è circondato da mol
tissimi pericoli senza conoscere la via d’uscita»21. «Il combattimento
diverrà più leggero, più chiaramente individuabile, egli aggiunge, se si
è molto attenti [...] soprattutto nel cercare di frequentare persone esper
te tra i Padri pieni di Spirito Santo, di vivere con loro, possibilmen
te, e di lasciarsi condurre da essi. Difatti colui che vive solo, in idio-
ritmia, senza controllo o con persone senza esperienza di lotta spiri
tuale, corre un grande pericolo. Egli si lascia ingannare dalle diverse
forme di guerra, perché le macchinazioni e le insidie nascoste del ma
le sono numerose, e varie le trappole tese da ogni parte dal nemico.
Ecco perché occorre fare ogni sforzo e combattere per frequentare uo
mini spirituali e intrattenersi spesso con essi affinché, anche se non si
possiede da sé la luce della vera scienza, perché si è ancora bambini
19Apoftegmi, N ili.
20Lettere, 702.
21A Nicola, 5.
449
e non si è ancora raggiunto il pieno sviluppo spirituale, se si va con co
lui che vi è giunto, non si camminerà nelle tenebre, non si correrà al
cun pericolo per le trappole e i trabocchetti del male, e non s’incap
perà nelle fiere spirituali che pascolano nell’oscurità, che rapiscono e
straziano quelli che camminano nel buio senza la lampada spirituale
della parola divina»22.
Considerati i molti pericoli cui si va incontro senza una direzione
spirituale, sono inevitabili le cadute, che rischiano talvolta di essere ir
rimediabili. L’Ecclesiaste lo sottolinea: «Guai a chi è solo, se cade non
c’è chi lo rialzi» (Qo 4,10). San Doroteo di Gaza insegna in questa stes
sa linea: «Nel libro dei Proverbi si legge: “Senza governo un popolo
decade, il benessere dipende dai molti consiglieri” (Pro 11,14). Esa
minate, fratelli, il senso di queste parole, e guardate cosa ci insegna
la santa Scrittura. Essa ci mette in guardia contro la fiducia in noi stes
si e contro l’illusione di ritenerci avveduti e capaci di dirigerci da so
li. Noi abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di guide dopo Dio.
Non vi è nulla di più miserevole e di più vulnerabile di coloro che non
hanno una guida e cadono come le foglie»23. Molti, infatti, come os
serva san Gregorio di Nissa, si sono illusi e sono caduti per mancan
za di una direzione spirituale adeguata24.
Non sono solo i «principianti» che hanno bisogno di tale direzio
ne, come si potrebbe credere, ma anche i «proficienti» più avveduti.
San Massimo scrive a questo proposito: «Il saggio non si attiene alle
sue ragioni. Si sente convinto della loro verità e della loro eccellen
za? Un motivo di più per diffidare del suo giudizio e per sottoporre
ad altri uomini avveduti le sue ragioni e i suoi pensieri, per non tro
varsi nel rischio di correre o di aver corso invano (cfr. Gal2,2)»25.1 ri
schi di smarrimento e di caduta, infatti, sono tanto più grandi quan
to più si progredisce. Le trappole tese dai demoni sono tanto più nu
merose e più sottili quanto più l’uomo avanza e si avvicina al termine,
e le vie che egli affronta sono sempre meno conosciute da lui, poiché
queste sono sempre più estranee a quelle del mondo alle quali egli era
fino ad allora abituato. Senza l’aiuto di un padre spirituale esperto che
conosca il cammino per averlo già percorso e che sappia quali ne so
no le trappole, all’uomo non è possibile giungere alla fine. San Gio
22 ibid., il.
23 Istruzioni spirituali, V, 61.
24 Trattato sulla verginità, XXIII, 3.
25 Centurie sulla carità, DI, 58.
450
vanni Climaco osserva giustamente che molti di coloro che «hanno in
trapreso il viaggio», «giunti a metà del cammino, si sono trovati in pe
ricolo o sono tornati indietro, perché non preparati alle tribolazioni»,
per mancanza di una valida direzione26.
Solo sottomettendosi a un Anziano, l’uomo potrà seguire sino alla fi
ne «senza errori né pericoli il cammino dei Padri»27; è qui l’unica via che
permette di raggiungere la perfezione, come spiega frequentemente san
Giovanni Cassiano: «Se vogliamo giungere a una perfezione autentica
nella virtù, è necessario obbedire a questi maestri e guide che, lungi dal
l’immaginaria in vuote discussioni, ne hanno realmente fatta l’esperienza
e possono insegnarcela, dirigerci e mostrarci il cammino più sicuro
per arrivarvi»28; «il Signore non mostra a nessuno il cammino della per
fezione, se, avendo accanto una persona che istruisce, si disprezza la
dottrina degli Anziani e la loro regola di vita, senza far caso a questa pa
rola, che dovrebbe pertanto essere osservata con zelo: “Interroga tuo
padre e te l’annuncerà, i tuoi Anziani e te lo diranno” (Dt 32,7)»29.
L’Anziano è un Padre (abbàs, pater) spirituale. Vuol dire che le re
lazioni dell’Anziano con colui che egli guida non assumono la forma
del maestro con il discepolo, ma quella di un padre con il figlio30. Que
ste relazioni hanno il loro archetipo in quelle del Padre celeste con gli
uomini che sono suoi figli per adozione, del «Padre dal quale ogni fa
miglia in cielo e sulla terra si denomina» (E/3,14-15). Ciò significa che
la relazione che unisce il padre spirituale al figlio spirituale è una re
lazione d’amore mutuo31. Ciò vuol dire, altresì, che la funzione del pa
dre spirituale non si limita ad essere, come quella di un maestro, una
funzione d’insegnamento. Il Padre spirituale, come indica il nome, ha
il compito essenziale di generare spiritualmente suo figlio, di farlo «na
scere dall’alto»32, e di aiutarlo a crescere fino a quando raggiunga la
statura di uomo adulto in Cristo, come indica l’Apostolo ai propri fi
gli spirituali: «Figli miei, per i quali soffro di nuovo le doglie del par
to, fino a che Cristo non sia formato in voi» (Gal 4,19). La sua fun
zione non è dunque speculativa, ma concreta.
41Apoftegmi, N 603.
42Apologia della vita monastica, II, 8.
43 La Scala, Vili, 35.
44 Ibid., 1,19.
45Ibid., IV, 68.
46Ibid., 11.
47Lettere, 457.
48Discorsi, II, 22.
49Ibid., 26.
50 Cfr. per esempio GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 78, in cui vediamo l’igumeno Gio
vanni dire ad uno dei suoi visitatori: «Così come vi sono molte specie di peccati, vi sono anche
molti rimedi. Se tu vuoi essere guarito, dimmi in tutta verità ciò che hai fatto, affinché io vi por
ti i rimedi appropriati».
51Sulla vita contemplativa, 2.
453
come osserva sant’Eusebio di Cesarea, «perché essi curano e guari
scono le anime di quelli che si rivolgono a loro»52.
Curare e guidare spiritualmente altri uomini non è cosa facile. La
complessità dell’anima umana, la sua stessa natura, l’altezza del fine
da raggiungere, il carattere molto spesso nascosto e impercettibile al
l’esterno delle realtà spirituali in causa, nonché la natura particolare
del combattimento da condurre contro avversari temibili e invisibili,
sono altrettante ragioni per le quali la medicina spirituale è un’arte ben
più difficile della medicina del corpo, come sottolinea san Gregorio
Nazianzeno: «In verità, mi sembra che quest’arte delle arti e scienza
delle scienze sia quella di condurre l’essere umano53, che è il più di
verso e il più complesso degli esseri. Si può comprendere facilmente
se si stabilisce un parallelo tra la medicina delle anime e la terapia
dei corpi. Più ci si rende conto di quanto vi sia di laborioso in que-
st’ultima, più il raffronto fa apparire quanto la medicina che noi pra
tichiamo richieda molto lavoro, e quanto più questa sia preziosa, a mo
tivo della natura dell’oggetto cui fa riferimento, delle risorse della scien
za che implica e del fine verso cui mira l’energia impiegata. Nel primo
caso, ci si preoccupa del corpo, cioè di una materia deperibile il cui
flusso corre via, materia chiamata in ogni modo a disfarsi e a subire la
sua condizione [...]. Nell’altra medicina, la sollecitudine è rivolta al
l’anima che viene da Dio, che è divina54, che quindi partecipa della no
biltà del cielo e si affretta a ritrovarla»55. «Aggiungiamo un altro mo
tivo: quest’ultima medicina [del corpo] non pratica molto l’analisi del
le profondità, la maggior parte della sua attività riguarda le apparenze,
mentre noi, impieghiamo tutte le nostre cure e tutto il nostro zelo nel
la ricerca dell’uomo che è nascosto in fondo al cuore, e ci battiamo
contro un nemico che conduce contro di noi una lotta e una guerra
interiori»56. «Tali sono le ragioni che ci fanno ritenere che la medicina
52Storia ecclesiastica, II, 17, 3.
53 San Nilo, constatando nello stesso senso che, «di tutte le opere, la più malagevole è quel
la di prendere cura delle anime», la chiama anche «l’arte delle arti» {Sulla pratica monastica, 21-
22, PG 79,748C-749B).
54Gregorio Nazianzeno con ciò non vuole dire che l’anima sia divina per natura, perché que
sto è un concetto estraneo al cristianesimo. La precisazione che egli dà subito dopo permette
peraltro di situare questa asserzione nel contesto ortodosso: l’anima è, con l’insieme del com
posto umano, chiamata ad essere deificata per grazia, a divenire divina per partecipazione. Ve
di il commento di san Massimo il Confessore in Ambigua 7, contro gli origenisti che hanno
cercato di usare questa formula in favore della loro concezione eterodossa.
55Discorsi, E, 16-17.
56Ibid., 19.
454
che pratichiamo è più laboriosa, e di gran lunga, più di quella che si
esercita sui corpi: anche questo le conferisce un valore più grande»57.
La difficoltà del compito fa sì che siano molto rari58coloro che so
no in grado di esercitarla, anche se molti se ne credono capaci, tanto
grandi sono i rischi di illusione al riguardo anche molto tempo dopo
che si è raggiunta l’impassibilità59. È per questo che necessariamente
si riscontrano in quest’ambito «molti ingannatori e falsi maestri»60.
Per essere guide e terapeuti spirituali autentici, è indispensabile ave
re la conoscenza di «sane dottrine», cioè essere perfettamente orto
dossi61, ed essere fedeli, nella pratica terapeutica, all’insegnamento de
gli antichi Padri62. San Gregorio di Nissa scrive a questo riguardo: «Co
me gli uomini hanno scoperto attraverso l’esperienza la medicina un
tempo ignorata e l’hanno vista rivelarsi progressivamente col favore di
alcune osservazioni, cosicché l’utile e il nocivo, riconosciuti dalla te
stimonianza dell’esperienza, si sono introdotti così nella dottrina di
quest’arte, e le osservazioni dei predecessori sono servite da norma per
il futuro; come, adesso, colui che si applica a quest’arte non è obbli
gato a giudicare con la propria esperienza l’efficacia dei medicamen
ti, se siano perniciosi o benigni, ma, dopo aver ricevuto da altri le
sue conoscenze, ha egli stesso praticato la sua arte con successo; così
avviene per la guarigione delle anime, intendo dire la filosofia63, per
mezzo della quale noi apprendiamo la terapia di ogni passione che col
pisce l’anima: non è affatto attraverso le congetture e le supposizioni
che bisogna cercare questa scienza, bensì attraverso una grande capa
cità d’imparare, accanto a colui che ha acquisito questa disposizione
con una lunga e ricca esperienza»64.
Questo, tuttavia, non può bastare. È importante, inoltre, che il
padre spirituale non solo conduca una vita conforme ai suoi insegna-
menti65, ma che egli abbia anche esperienza. È per questo motivo
che san Simeone il Nuovo Teologo avverte: «Non affidarti a un mae
57Ibid.
58 Cfr. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,6.
59 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Aritmetico, Cenodossia, 9.
60 Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 49.
61 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 97.
62 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 49. C allisto e
Ignazio X antopulo , Centuria, 14.
63 Sul significato cristiano che i Padri, ed in particolare i Padri cappadoci e Giovanni Criso
stomo, danno al termine «filosofia», vedi A.-M. MALINGREY, «Philosophie», Étude d’un groupe
de mots dans la Littérature greque des Présocratiques au IV6 siècle après J.C., Paris 1961, pp. 207s.
64 Trattato sulla verginità, XXIII, 2.
65 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria,, 14.
455
stro inesperto [...], perché egli ti inizierà alla vita diabolica piuttosto
che a quella evangelica»66. San Giovanni Cassiano, a sua volta, offre
questo consiglio: «Se vogliamo arrivare a un’autentica perfezione nel
la virtù, occorre che obbediamo a questi maestri e guide che, lungi dal
sognarla in vuote disquisizioni, ne hanno fatto realmente l’esperien
za»67. Se veramente per il padre spirituale si tratta di aver appreso da
gli Anziani, è la forma pratica che questo apprendimento deve avere
assunto: è la loro stessa esperienza che il padre spirituale deve aver ac
quisito nel condurre una vita simile alla loro68. Occorre che, sotto la
loro guida, il padre spirituale abbia egli stesso percorso tutto il cam
mino che egli ha il compito di aiutare i suoi figli spirituali a percorre
re69. Occorre che egli stesso abbia eluso le trappole e superato gli osta
coli che si presenteranno sul loro cammino, occorre che egli abbia subi
to vittoriosamente tutte le prove attraverso le quali essi dovranno
passare70, perché, ad immagine del Cristo, «per il fatto che ha soffer
to e che è stato provato» il padre spirituale «è capace di soccorrere
quelli che sono tentati» (cfr. £¿>2,18). Bisogna che egli abbia messo
ordine nella propria casa prima di pretendere di riordinare quella de
gli altri, come suggerisce l’Apostolo: «Se uno non sa governare la pro
pria famiglia come potrà aver cura della chiesa di Dio» (lTtn 3,5). È
necessario che abbia acquistato egli stesso tutte le virtù e le qualità che
i suoi figli spirituali devono acquistare71. In altri termini, occorre che
il medico spirituale sia stato egli stesso guarito e sia in buona salute af
finché la sua terapia sia efficace72. «Se nella tua casa regnano il disor
dine e l’indisciplina, la parola “Medico guarisci te stesso” sarà rivolta
contro di te da coloro che tu dirigi. Guariamo dunque noi stessi in pri
mo luogo», scrive san Basilio73. Ciò è in linea con l’insegnamento stes
so del Cristo che avverte: «Se un cieco fa da guida a un cieco, tutti e
due cadranno nella fossa» (Mt 15,14; cfr. Le 639), e che fa notare: «Co
me puoi dire al tuo fratello: “Lascia che tolga dal tuo occhio la pa
66 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,48.
67Istituzioni cenobitiche, XH, 5.
68 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, XIV, 5-13.
69 Giovanni Climaco, in un passo troppo lungo per poter essere citato qui, paragona il per
corso del padre spirituale a quello di Mosè che successivamente supera tutti gli ostacoli innal
zati contro di lui, ed è per questo reso capace di guidare i suoi fratelli, come Mosè ha guidato
il popolo di Dio (cfr. Lettera al Pastore, 101).
70 Cfr. NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
71 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 17.
72 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Antitetico, Cenodossia, 9. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 6;
Lettera al Pastore, 15. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, II, 13.
73 Omelie sull’origine dell’uomo, 1,19. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VITE, 5.
456
gliuzza”, mentre la trave è là nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la
trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello» (Mt 7,4-5; Le 6,42). In questa prospetti
va, san Nilo stigmatizza coloro che «si precipitano alla direzione spi
rituale di altri e si assumono la cura di guarire gli altri, mentre non
hanno ancora guarito le proprie cattive inclinazioni, e non saprebbe
ro dunque condurre nessuno a una vittoria che essi stessi non hanno
ancora riportato»74. Al contrario, osserva san Giovanni Climaco, co
loro che, colpiti da ogni forma di malattia, si sono impegnati a gua
rirne, «una volta tornati in salute, divengono medici [...] per tutti,
insegnando i sintomi di ciascuna malattia, poiché la loro esperienza
li rende capaci d’impedire agli altri di cadervi»75. Quanto a sant’An
tonio, egli sottolinea che è dopo aver soggiornato nel deserto ed es
sere stati guariti, che «gli antichi Padri sono divenuti medici e, dedi
candosi agli altri, li hanno guariti»76. E sant’Ammona, ricordando che
questi Padri «furono medici delle anime e poterono guarire le loro ma
lattie», constata che essi «non [vennero] inviati [agli uomini] se non
quando tutte le proprie malattie [furono] guarite», e che sarebbe
stato impossibile che Dio li avesse inviati se fossero stati ancora mala
ti77. Possiamo, così, infine, dire con san Giovanni Climaco che «il me
dico è colui che ha acquisito la salute [spirituale] dell’anima e del cor
po e che non ha [più] bisogno di alcun rimedio»78. Se si pretende di
essere medico spirituale senza rispondere a questa definizione, non
si può che cadere in malattie ancora più gravi79. Sant’Isacco constata
che molti, pretendendo di curare gli altri, «hanno dato la morte a se
stessi [...]. Difatti, essendo la loro anima ancora soggetta alla malattia,
non si prendono cura della propria salute. Essi si sono gettati nel
mare di questo mondo per guarire le anime degli altri, mentre essi stes
si erano ancora malati. Hanno perduto la loro anima lontani come so
no dalla speranza in Dio. Difatti la malattia dei loro sensi non ha po
tuto affrontare la fiamma delle cose che esasperano abitualmente la
piaga delle passioni, né resistervi»80. Per questo egli consiglia: «Se [...]
un uomo sente [...] che sta perdendo la propria salute nel guarire gli
81Ibid., 56.
82Ibid.
83 EVAGRIO PONTICO sottolinea questo legame {Aritmetico, Cenodossia, 9).
84 Discorsi ascetici, 56.
458
tuale, che vuole guarire le passioni dell’anima, con l’aiuto che gli vie
ne dall’esperienza»85.
Colui che vuole guarire gli altri, senza essere egli stesso perfetta
mente guarito, rischia non solo di aggravare le proprie malattie, ma
anche di far contrarre a coloro che vuole curare «malattie ancora più
gravi»86. Difatti non sapendo per esperienza in cosa consista la salute
né, pertanto, qual è la vera natura delle malattie, non è in grado di por
tarli alla guarigione e può dar loro solo consigli che li fa deviare; es
sendo sottomesso alle passioni, non può avere la purezza che permet
te di conoscere i cuori e di fare una diagnosi con conoscenza di cau
sa, nonché di prescrivere il trattamento adatto al malato. San Gregorio
Nazianzeno fa notare a questo proposito: «Nei trattamenti che prati
chiamo, un unico e stesso rimedio non è sempre e per tutti molto sa
lutare o molto rischioso [...]. Questo dipende, mi sembra, dalle cir
costanze, dagli avvenimenti e da ciò che permette il carattere dei pa
zienti. Abbracciare tutti questi elementi con grande precisione per
arrivare a far entrare tale medicina in un trattato, è impossibile, quali
che siano le cure e l’intelligenza che vi si apporta: sono gli avvenimenti
e la stessa esperienza che li fanno conoscere alla medicina e al medi
co»87. Ora, è importante che il medico sia sicuro e la sua esperienza
giusta, perché «in questo campo, se si propende in un senso o in un
altro per errore o per ignoranza, l’interessato e coloro che egli con
duce corrono il rischio non indifferente di cadere nel peccato»88.
È, dunque, per molteplici e sostanziali motivi che la condizione
prima richiesta dall’esercizio della paternità spirituale è il possesso
della salute spirituale. Questo vuol dire che, come risulta dalle con
siderazioni precedenti e come vedremo ulteriormente, il padre spi
rituale, per essere in grado di esercitare correttamente il suo compi
to di guida e di terapeuta, dev’essere puro da ogni passione89. San
Giovanni Climaco, per esempio, scrive: «Il medico dev’essere com
pletamente spogliato dalle passioni»90. Ed esclama: «Beati i medici
464
troduce o conclude i suoi discorsi con il suo padre. Del resto ciò è
quanto consiglia san Giovanni di Gaza: «È opportuno sollecitare la
preghiera dei nostri padri. Infatti sta scritto: “Pregate gli uni per gli al
tri” (Gc5,16), e anche: “Le persone sane non hanno bisogno del me
dico; sono i malati invece ad averne bisogno” (Le5,31) [...]. Per chie
dere la preghiera, di’ questo: “Abba, sto male, ti supplico, prega per
me perché tu sai che ho bisogno della misericordia di Dio”»127. Una
delle ragioni di questa richiesta è che «la preghiera del giusto» che è
il padre spirituale, «è molto potente» (Gc 5,16), la sua santità gli
consente di ottenere da Dio ciò che il suo figlio non è ancora degno
di ottenere. Ciò non dispensa quest’ultimo dal pregare egli stesso128;
egli sa che la sua richiesta sarà più efficace se chiede a Dio di esaudirlo
«per le preghiere del suo padre». In seguito potrà dire come questo
fratello: «Per le sue preghiere Dio mi ha reso la salute»129.
Il padre spirituale agisce anche con l’esempio che dà. Conforman
dosi perfettamente alla volontà di Dio, mostra ai suoi figli attraverso
ogni sua azione e ciascun atteggiamento e i modi d’essere come ci si
deve conformare. Come nota san Giovanni Climaco: «Tutti guardano
a lui come a un’immagine esemplare e considerano le sue parole e le
sue azioni come una regola e una norma»130. San Paolo stesso men
ziona il valore di questa esemplarità quando raccomanda: «Ricorda
tevi dei vostri capi, i quali vi hanno predicato la parola di Dio e, con
templando l’esito della loro maniera di vivere, imitatene la fede» (Eb
13,7). Anche questo è anche sottolineato dai Padri131.
Occorre notare che l’esempio che il padre spirituale offre con le sue
parole, le sue azioni e il suo atteggiamento, possiede un’efficacia tale
da trasformare coloro che entrano in contatto con lui. Il vero padre
spirituale possiede una forza carismatica132che si manifesta con la sem
plice presenza133, e di cui san Giovanni Climaco sottolinea il potere te
rapeutico134.
Questa forza carismatica che si sprigiona dal padre spirituale è la
manifestazione della grazia divina che abita in lui. Come ricordano
127Lettere, 544.
128Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 16.
129Apoftegmi, N 509-510.
130Lettera al Pastore, 27.
131 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Isacco delle Celle, 2; Arm. II318, (83) B. Si troveranno
delle osservazioni che vanno in questo senso in molti altri Apoftegmi e nelle Vite dei santi.
132Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 93.
133 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 27.
134Lettera al Pastore, 13.
465
spesso i Padri, l’Anziano parla e agisce secondo Dio; le sue parole e le
sue azioni sono ispirate dallo Spirito Santo: Dio parla per mezzo del
la sua bocca e agisce attraverso di lui135.
Questa forza carismatica dà al Padre un potere di azione eccezio
nale per venire in aiuto ai suoi figli in difficoltà nel cammino spiri
tuale136. È questa che gli consente «di guarire dalle malattie incurabi
li da molti altri»137. Occorre notare che spesso, e per umiltà, è «senza
che essi lo sentano e in segreto» che il padre spirituale «può dare
sollievo a coloro che soffrono»138.
Tuttavia, il padre spirituale non impone questa forza che egli pos
siede per dono di Dio. La sua azione non si esercita senza che il fi
glio spirituale, liberamente, la lasci agire in lui. Non solo essa non esclu
de, ma implica la sua collaborazione. Questo perché l’azione tera
peutica del padre spirituale si esercita prima di tutto attraverso un
trattamento che egli prescrive a suo figlio, e che questi ha il compito
di applicare, e che sarà tanto più efficace quanto più egli avrà cura di
metterlo in pratica.
Ciò che caratterizza sempre il trattamento prescritto dal padre spi
rituale, è che esso è perfettamente adattato alla personalità del mala
to, alla sua situazione particolare, al suo stato e alle sue disposizioni at
tuali139. Il padre spirituale, osserva san Giovanni Climaco, «deve osser
vare e adattare i rimedi in modo appropriato»140. «Nel trattamento
dei corpi, anche san Gregorio di Nissa lo afferma, lo scopo unico del
la medicina è quello di guarire il malato. Tuttavia, vi sono diversi generi
di trattamenti corrispondenti alle diverse malattie. Così, essendo le ma
lattie dell’anima anch’esse molto diverse, il modo di curarle dovrà es
sere appropriato affinché il rimedio agisca secondo la ragione del ma
le»141. E san Giovanni Crisostomo precisa: «Per la guarigione dell’ani
ma come per quella del corpo, non è sufficiente applicare il rimedio
appropriato al male, occorre anche applicarlo a tempo opportuno»142.
135Cfr. Apoftegmi, Am. 200,5. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 364; 369; 383. SIMEONE IL Nuo-
VO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,61.
136Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 3.
137lbidn 23.
m Ibid.,5 4.
139Cfr. IGNAZIO d’ANTIOCHIA, Lettera a Policarpo, II, 1. Apoftegmi, serie alfabetica, G iu
seppe di Panefo, 3; Poemen, 22. Ibid., Arm. II, 114 (40) A. GIOVANNI CLIMACO, Lettera al Pa
store, 16; 33; 55; 94. GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 78.
140Lettera al Pastore, 36.
141 Citato da P. LAIN ENTRALGO, Maladie et culpabilité, Paris 1970, p. 87.
142 Trattato sulla verginità, 17.
466
Ecco perché, come consiglia san Gregorio Nazianzeno, «il medico os
serverà i luoghi, le circostanze, le età, i momenti, e altre cose di que
sto genere»143. Infatti, egli spiega, «nei trattamenti che noi pratichiamo,
un unico e medesimo rimedio non è sempre e per gli stessi molto sa
lutare o molto azzardato [...]. Al contrario, tale regime è buono per
gli uni ed è loro utile, mentre il regime opposto ha lo stesso effetto su
gli altri. Gò dipende, mi sembra, dalle circostanze, dagli avvéniménti e
da ciò che dipende dal carattere dei pazienti. Abbracciare tutti questi
elementi con la maggiore esattezza per far entrare questa medicina in
un trattato, è impossibile, quali che siano le cure e l’intelligenza che vi
si apporta: saranno gli avvenimenti e l’esperienza stessa che li faranno
conoscere alla medicina e al medico»144. «Come, osserva ancora, non si
dànno al corpo gli stessi rimedi e gli stessi alimenti, ciascuno infatti ri
ceve il trattamento proprio secondo che sia in buona salute o soffra di
una malattia, così anche le anime sono curate secondo principi e me
todi differenti. La testimonianza dell’efficacia del trattamento è data
dagli stessi pazienti. La parola spinge alcuni, l’esempio regola altri. Il
pungolo è necessario a questi, il morso a quelli. Gli uni sono lenti e dif
ficilmente si lasciano spingere al bene: occorre invece che la scossa del
la parola svegli altri»145. «Ad alcuni è utile un elogio, ad altri il biasimo,
se lo si usa a proposito; ma dati in controtempo e in controsenso, tut
ti e due sono nocivi. Gli uni sono rimessi sul giusto cammino per un in
coraggiamento, gli altri attraverso una correzione»146. San Giovanni Cli-
maco constata: «Talvolta, ciò che è rimedio per uno è veleno per l’al
tro; e, qualche volta, ciò che si amministra a una stessa persona le serve
di rimedio se cade al momento opportuno, ma dato in controtempo di
viene veleno»147. A tal proposito dà questo esempio: «Ho visto un
medico inesperto che, nell’umiliare un malato già profondamente ab
battuto, lo gettò nella disperazione. Ed ho visto un medico esperto ope
rare un cuore orgoglioso con il coltello dell’umiliazione, e vuotarlo
così da ogni sua infezione»148. Altrove, egli consiglia: «Dobbiamo tener
conto dei luoghi, del genere di conversione e delle abitudini» dei ma
lati; «perché essi sono estremamente diversi e vari. Spesso, il più debole
si trova ad essere anche il più umile di cuore: egli deve dunque subire
143Discorsi, II, 18.
144Ibid., 33.
145Ibid., 30.
146Ibid., 31.
147La Scala, XXVI, 20.
148Ibid., 21.
467
un trattamento più dolce da parte dei medici spirituali. L’inverso è evi
dente»149.
Proprio perché egli è illuminato dall’esperienza personale, ma an
che perché è dotato di discernimento ed è illuminato dallo Spirito San
to, il medico spirituale è in grado di determinare il rimedio adegua
to150. Per queste ragioni, non sempre il rimedio corrisponde a quello
che il malato si aspettava.
In un certo numero di casi, «in cui il male è grave», «è necessario
un trattamento energico»151, che il medico spirituale deve applicare
con fermezza contro le reticenze del malato. Ciò è quanto nota per
esempio san Gpriano: «Il sacerdote del Signore deve impiegare dei ri
medi curativi. E un cattivo medico colui che tratta con dolcezza gli
ascessi tumefatti e che lascia proliferare il veleno nelle parti interne del
corpo. La ferita dev’essere aperta e incisa e, dopo l’asportazione del
le parti incancrenite, deve intervenire una cura energica, anche se il
malato protesta, grida e si lamenta perché non può sopportare il do
lore; in seguito, ringrazierà il medico quando si sentirà in buona sa
lute»152. San Giovanni Climaco non esita a consigliare al medico spi
rituale: «Tormenta il malato per un certo tempo affinché la sua ma
lattia non divenga cronica o egli ne muoia»153. Quanto a san Simeone
il Nuovo Teologo, nel caso in cui il malato rischiasse di impuntarsi con
tro un trattamento che sarebbe contrario alla sua attesa, benché real
mente adatto, e cercasse invece ciò che va contro il suo proprio inte
resse, egli consiglia il terapeuta di usare uno stratagemma: «Un ma
lato va a trovare il medico spirituale; inebetito dalla sofferenza, con lo
spirito turbato, piuttosto che una medicina, egli cerca ciò che gli fa
male, cioè ciò che aggrava il male e porta alla morte a breve termine
[...]. Quando il medico spirituale vede il fratello nello stato descritto,
non grida subito, non si sottrae affatto dicendo dentro di sé: “Ciò che
tu chiedi è cattivo e mortale e io rifiuto di darti l’aiuto necessario” [...].
Al contrario, lo trattiene, lo conforta, si mostra altresì pieno di carità
e di semplicità, per assicurarlo che è con i rimedi richiesti che egli lo
curerà esaudendo i suoi desideri. Vi sono dei malati gravemente col
piti nella loro anima i quali, pur subendo questi duri attacchi, cerca
no ciò che aggrava la malattia. E il male di ciascuno, forse, è che,
149Lettera al Pastore, 48.
150 Cfr. I sidoro di P elusio , Lettere, IV, 145. G iovanni di G aza , Lettere, 363.
151 G iovanni C limaco , La Scala, 1 ,34.
152Su coloro che hanno fallito, 14.
153Lettera al Pastore, 30.
468
laddove la dieta e l’astinenza da ciò che piace sarebbero necessari, si
cerca piuttosto di soddisfarsi con cibi nocivi e d’ingozzarsi in abbon
danza. È per questo, come ho appena detto, che il medico esperto non
acconsente subito alle richieste del paziente, ma promette di soddi
sfare tutte le sue esigenze; il malato, persuaso che va bene, persegue
l’oggetto dei suoi desideri, mentre il medico dissimula i medicamenti;
l’uno attende e pazienta tutto gioioso, l’altro, abile, davanti a lui mo
stra ciò che somiglia del tutto a quello che egli cerca, ma che, in fon
do, è del tutto diverso per gusto e di un’efficacia insospettata. Appe
na il malato accetta i rimedi, il solo contatto, contro ogni speranza, già
gli fa effetto; allo stesso tempo il gonfiore diminuisce subito, la ferita
scompare completamente e, ormai non sopporta nemmeno di pensa
re a ciò che prima infiammava la bramosia. Occorre vedere e ammi
rare questo miracolo assolutamente inspiegabile, così come è avvenu
to; senza altri contatti se non quello del soccorso e della vista dei
preparativi medici, [il medico] fa che la salute tomi ai malati, che i gon
fiori e le ferite si riducano, che il bruciore della sete si spenga; divo
rati, prima, dal desiderio di nutrimenti malsani e nocivi, i malati, al
contrario, ora desiderano quelli che sono proficui ed ecco che rac
contano a tutti i miracoli del medico e i procedimenti mirabolanti del
la sua arte»154.
Questi ultimi casi riguardano soprattutto precisi interventi medici
e non devono farci dimenticare che il trattamento spirituale nel suo
insieme esige, come abbiamo già detto, una collaborazione attiva e per
manente del malato. Questa suppone che nei riguardi del suo padre
spirituale egli abbia le disposizioni consone155. Dopo averlo scelto con
cura, dev’essergli fedele. «Sono meritevoli del più grande castigo da
parte di Dio quei malati che, dopo aver fatto l’esperienza di un me
dico e tratto profitto dalle sue cure, l’abbandonano per preferirgli
un altro prima della loro completa guarigione», scrive san Giovanni
Climaco156. Questa fedeltà è la condizione necessaria per una conti
nuità nella terapia, senza la quale questa non potrebbe essere efficace,
perché il trattamento che permette di acquisire la salute spirituale è
sempre lungo e può subire delle interruzioni.
Avendo precisato ciò, l’obbedienza appare come il primo dovere
154 Trattati etici, VI, 279ss.
155 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 39.
156La Scala, IV, 79. Cfr. 103.
469
del figlio spirituale riguardo al suo padre. L’Apostolo ci invita: «La
sciatevi persuadere dai vostri capi e siate sottomessi» (Eh 13,17). L’ob
bedienza spesso è presentata dai Padri come una via che dà accesso
diretto alla guarigione spirituale e alla salvezza157, e che conduce si
curamente agli stadi più avanzati della vita spirituale158, via che lo stes
so Cristo ha indicato nel farsi obbediente a suo Padre fino alla morte
di croce (cfr. Fil 2,8)159. San Giovanni Climaco parla di «rimedio del
l’obbedienza»160. L’obbedienza al padre spirituale aiuta l’uomo a ri
nunciare in particolare alla propria volontà161, che è una delle fonti
principali delle sue malattie, essendo il principio dell’orgoglio. Essa lo
aiuta, pertanto, ad acquistare l’umiltà162, che è, come vedremo, una
delle virtù fondamentali più importanti, la porta principale della gra
zia divina. Grazie ad essa, egli può giungere rapidamente alla noncu
ranza spirituale {amerimnia)m, che è un’assenza totale d’inquietudine
rispetto alle cose del mondo, quindi una forma di distacco da questo
a favore dell’attaccamento a Dio, ma anche uno stato di pace interio
re che corrisponde aWhesychia nel suo senso più elevato164.
L’obbedienza, occorre precisarlo, dev’essere totale; essa esclude che
si contraddica165 e anche che si giudichi il padre spirituale in qualsia
si cosa166. Implica che ci si affidi a lui in tutto167. Ciò significa che ci si
deve sottomettere al suo giudizio e alla sua volontà fin nelle azioni in
apparenza più insignificanti, ma la cui somma costituisce l’esistenza
umana e che sono di grande importanza per la giusta relazione del
l’uomo con Dio e per il suo progresso spirituale. «Nella misura del
possibile, occorre che il monaco confidi agli anziani il numero di pas
si che fa e il numero di gocce d’acqua che beve nella sua cella, per
157Cfr. DOROTEO DI G aza, Lettere, n, 187. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 14; 15.
158C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
155Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,62. C allisto e
I gnazio X antopulo , Centuria, 14.
160 La Scala, XXVI, 22.
161 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 15.
162 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, IV, 115. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria,
15. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,61.
165 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), LUI, 8.
164 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 14; 15.
165 Cfr. SlMEONE IL N uovo T eo logo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,55; Catechesi,
XX , 45s. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
166Cfr. D oroteo di G aza , Lettere, II, 187. M acakio d ’E gitto , Omelie (Coll. II), IH, 8. G io
vanni C limaco , La Scala, IV, 8. S im eone il N uo v o T eo lo g o , Capitoli teologici, gnostici e
pratici, 1 ,24; 25. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 14.
167 Cfr. Apoftegmi, 1090/4. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, V, 68; Lettere, II, 187.
M acario d ’Egitto, Omelie (Coll. II), L m , 8.
470
sapere se in ciò non s’inganni», arriva a dire sant’Antonio l’Eremita168.
A fortiori, il figlio spirituale deve confidare al suo padre ogni suo pen
siero, non deve nascondergli nulla della sua vita interiore, ma rimet
terla nelle sue mani169, poiché la manifestazione dei pensieri nell’am
bito della terapia e della direzione spirituale, lo vedremo, riveste un’im
portanza fondamentale. Qui ci basterà citare la seguente osservazione
di san Giovanni Climaco: «Il medico non può guarire il paziente se
questi non è venuto, prima di tutto, a consultarlo e non gli ha mostrato
le ferite con totale fiducia»170.
Come indicato da questa osservazione, l’obbedienza al padre spiri
tuale non è sottomissione a un’autorità che si impone. Essa è piutto
sto fondata sulla fede171, sulla fiducia172e soprattutto sull’amore173. Il
rispetto totale della libertà dei figli spirituali, del resto, costituisce una
qualità dei veri padri, i quali propongono più che imporre, raccoman
dano più che comandare, applicando il consiglio dell’apostolo Pietro:
«Pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato, sorvegliandolo non
per costrizione, ma di cuore secondo Dio; [...] non come se foste voi
i padroni nella porzione degli eletti, ma facendovi modelli del gregge»
(lPt 5,2), e progressivamente sapendo scomparire davanti ai loro figli
man mano che essi s’incamminano per arrivare alla statura di uomo
adulto in Cristo, applicando nei riguardi di ciascuno l’esempio di
san Giovanni Battista: «Egli deve crescere, io invece diminuire» (Gv
3,30).
168 Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 38. Cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Inni, IV, 25s.
169Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, loc. cit. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 15.
170 Lettera al Pastore, 39.
171 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
172Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 180. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 7.
173 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, Lettera al Pastore, 19. Si troveranno numerosi altri riferimenti
e citazioni in I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, pp. 201s.
471
IV
LA MANIFESTAZIONE DEI PENSIERI
Nel quadro della relazione tra figlio e padre spirituale, nonché del
la terapia spirituale alla quale essa dà luogo, la manifestazione dei pen
sieri (exagóreusis tòn logismón) gioca un ruolo fondamentale.
Questa pratica si presta ad essere accostata alla confessione. Essa se
ne distingue, però, notevolmente. Mentre la confessione è un sacra
mento, la manifestazione dei pensieri non lo è. Essa, dunque, non vie
ne rivolta necessariamente a un sacerdote, ma a un padre spirituale
che può essere un sacerdote, ma anche un semplice monaco, di cui so
lo le qualifiche spirituali autorizzano la funzione. E se spesso è la stes
sa persona, che si ha per padre spirituale ed è anche sacerdote, alla
quale si manifestano i propri pensieri e ci si confessa, talvolta è a due
diverse persone che si ricorre per queste due pratiche ben distinte.
Mentre la confessione consiste nel confessare i propri peccati a Dio in
presenza di un sacerdote - il quale, come dice il formulario ortodos
so della confessione, non è che un testimone - e nel riceverne l’asso
luzione, la manifestazione dei pensieri consiste nel raccontare al padre
spirituale i pensieri, che non sono necessariamente peccati, per con
sentirgli di conoscere il proprio stato interiore al fine di ricevere con
sigli appropriati per progredire nella via spirituale della guarigione e
della salvezza.
Il fatto che si tratti di manifestare dei «pensieri» potrebbe, per un
verso, suggerire di fare un accostamento almeno parziale di questa pra
tica alla pratica psicanalitica. Occorre, però, sottolineare ancora una
volta, una differenza fondamentale: non si tratta per colui che mani
festa i propri pensieri di rievocare il suo passato. I Padri proibiscono
in modo assoluto anche il ricordo dettagliato del passato a motivo dei
molti inconvenienti, ossia dei pericoli che esso rappresenta. San Mar
co l’Eremita, per esempio, scrive: «Arreca danno [...] ricordarsi in par
ticolare dei peccati passati, perché se essi generano tristezza, allonta
nano dalla speranza; se, al contrario, la loro rappresentazione lascia
472
senza dolore, riportano all’antica sozzura»1. E aggiunge: «Quando lo
spirito, grazie al rinnegamento di sé, si attacca unicamente alla spe
ranza, allora il nemico, sotto il pretesto della confessione, gli pone da
vanti agli occhi un’immagine dei peccati passati, per riaccendere le
passioni dimenticate per grazia di Dio e per fargli del male subdola
mente. Infatti, anche se lo spirito è in quel momento luminoso e pie
no di avversione per le passioni, diverrà necessariamente tenebroso,
una volta di nuovo implicato nelle azioni passate. Se la sua anima è
turbata e amica del piacere, non mancherà di soffermarsi con com
piacenza nelle suggestioni, in modo che simile reminiscenza sarà di fat
to una predisposizione al peccato piuttosto che una confessione»2.
I pensieri da manifestare al padre spirituale devono essere, dunque,
i pensieri attuali. Non importa quali, ma quelli che si ripetono o che
hanno una certa sussistenza nell’anima. San Giovanni di Gaza consi
glia a uno dei suoi corrispondenti: «Non bisogna interrogarsi per tut
ti i pensieri che nascono nel cuore, perché ve ne sono di passeggeri.
Ma occorre interrogarsi circa i pensieri che dimorano nell’uomo e gli
fanno guerra»3. «Se un pensiero persiste e ti fa guerra, dillo al tuo
padre», raccomanda anche san Barsanufio4. Sono questi, infatti, i pen
sieri che potranno dare al padre spirituale alcune indicazioni signifi
cative sullo stato, sulle tensioni, sugli impulsi, sulle disposizioni e
sulle tendenze interiori del figlio spirituale, tutte suggestioni alle qua
li è sottomesso, sia per sua cupidigia5, sia per l’azione diretta dei de
moni. I pensieri di questa natura sono ugualmente rivelatori dei pun
ti deboli dell’anima, delle sue zone fragili che i demoni prendono
più volentieri come punto d’attacco, delle regioni convalescenti dove
esiste un rischio di ricaduta, o più abitualmente delle sue parti anco
ra malate.
In senso più ampio, tuttavia, Yexagóreusis (il termine greco è più
ampio dell’espressione «manifestazione dei pensieri», che è la sua tra
duzione abituale) consiste nel rendere conto di ogni pensiero inquie
tante, di ogni stato inusitato, di ogni dubbio, di tutto ciò che può con
turbare o preoccupare. Per mezzo di tale manifestazione possiamo far
conoscere certi dettagli del nostro modo di esistenza per assicurarci
del loro valore, tenendo presente il loro influsso sulla vita spirituale.
1Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 139.
2Ibid., 140.
5Lettere, 165.
4Ibid., 215.
5Cfr. Gc 1,14. BARSANUFIO, Lettere, 256. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 45.
473
Le modalità pratiche della manifestazione dei pensieri sono varie.
Alcuni raccomandano di praticarla almeno ogni giorno. San Simeo
ne il Nuovo Teologo consiglia di ricorrervi ogni ora6. Essa si può an
che fare più frequentemente, e persino un numero indefinito di volte
nel corso di una stessa giornata, come ce lo dimostra l’esempio di quel
discepolo che va undici volte di seguito a trovare il suo Abba senza
che questi gliene faccia il minimo rimprovero7. La frequenza può an
che essere minore e deve dipendere solo dai pensieri stessi e dalle pos
sibilità materiali di entrare in contatto con il padre spirituale. In al
cuni monasteri, sono fissate delle ore per questa pratica. Se manca la
possibilità di contattare subito il padre spirituale, si raccomanda di an
notare per iscritto i pensieri man mano che si manifestano8, preci
sando il momento e le circostanze della loro comparsa, al fine di po
ter relazionare in seguito con tutta la precisione richiesta.
Questa pratica suppone evidentemente un’attenzione e una vigi
lanza di ogni istante circa gli stati e i movimenti della propria anima.
Ciò che importa, innanzitutto, è applicare la regola di non-omis-
sione: non nascondere nulla, sforzarsi di non dimenticare nulla, di non
eludere, deformare o mascherare, ma parlare in tutta libertà, senza al
cuna vergogna o timore. «Come a Dio, manifesta [al tuo padre spiri
tuale] i tuoi pensieri [...] senza nascondere nulla», consiglia san Si
meone il Nuovo Teologo9. «Non bisogna tacere alcune cose e dime al
tre, ma rivelare tutto e su tutto chiedere consiglio», raccomanda san
Doroteo di Gaza10. «Se tu interroghi un Anziano su un pensiero, ma
nifestagli il pensiero con libertà», consiglia Abba Isaia11. «La libertà ri
guardo ai pensieri, precisa san Giovanni di Gaza, sta, per colui che in
terroga, nello svelare completamente il pensiero a colui che egli inter
roga, nel non nasconderglielo in nulla, nel non alterarlo in alcun modo,
per vergogna, nel non attribuirlo a un altro, ma a se stesso, come è be
ne che sia. Questo danneggia piuttosto che mascherarlo»12. San Gio
vanni Cassiano insegna: «Non abbiamo mai troppo scrupolo nel ri
ferire agli Anziani i pensieri che nascono nel nostro cuore, malgrado
il velo con cui la falsa vergogna vorrebbe coprirli»13.
6 Catechesi, XXVI, 299-303.
7Vita dei Padri, V, 5, 13, PL 73, 876C-D.
8 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 43.
9 Inni,IV, 27-28.
10Istruzioni spirituali, V, 61.
11Asceticon, IV, 3.
12Lettere, 375.
13 Conferenze, II, 11. Cfr. Istituzioni cenobitiche, IV, 9.
474
Infatti, quando si tratta di manifestare i propri pensieri, occorre vin
cere numerose resistenze interiori dovute in particolare all’orgoglio14
e alla cenodossia15e, sulla base di queste due passioni, al timore di es
sere giudicati o vedersi rivolgere dei rimproveri16. Occorre vincere an
che le suggestioni dei demoni che si ostinano ad impedire questa pra
tica17 che essi temono particolarmente, poiché essa ha come effetto
quello di sventare le loro macchinazioni18. In genere, è nel tentare di
far credere alla sua inutilità che essi vi si oppongono, come ben di
mostra questa testimonianza di un fratello, che, d’altra parte, ha il me
rito di sottolineare quanto l’astensione da questa pratica ostacoli la
guarigione dell’uomo: «Avevo nell’anima una passione che mi domi
nava. Avendo sentito dire che Abba Zenone ne aveva guariti molti, co
sì volli andare a trovarlo e aprirmi a lui [...]. Spesso [...] partivo per
andare dall’Anziano per dirgli tutto, ma il nemico non mi lasciava par
lare mettendo nel mio cuore la vergogna e insinuandomi: “Poiché tu
sai come guarire da te, perché parlarne? Tu non ti trascuri, in realtà,
tu sai ciò che i Padri hanno detto”. Ecco cosa mi suggeriva l’avversa
rio affinché io non manifestassi la mia malattia al medico e non fossi
guarito [...]. Alla fine, afflitto e in lacrime, dissi alla mia anima: “Fi
no a quando, anima infelice, persisterai nel non voler essere guarita?
Le persone che vivono lontano vanno dall’Anziano e sono guarite e
tu, tu che abiti così vicino al medico, hai vergogna di farti curare?”»19.
La manifestazione dei pensieri non solo è utile, ma anche necessa
ria al progresso spirituale. San Basilio insegna: «Ciascuno [...] (se al
meno vuole realizzare progressi apprezzabili e vivere secondo i pre
cetti di Nostro Signore Gesù Cristo) deve evitare di tenere nascosto
nel tribunale della sua coscienza movimento alcuno. Al contrario,
occorre scoprire i segreti del cuore a coloro che hanno ricevuto la mis
sione di curare i malati con affetto e comprensione»20. Un Padre giun
ge persino ad affermare: «Non vi è altra via sicura di salvezza, se non
quella che ognuno confessi i propri pensieri a quei Padri che sono do
tati di discernimento»21. San Teodoro Studita afferma la stessa cosa
quando scrive: «Che tutti sappiano che, per la salvezza (ivi compresa
14 Cfr. Apoftegmi, 592/50.
15 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 24.
16 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, II, 12; 13.
17 Cfr. Apoftegmi, N 509-510. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 75.
18 Cfr. DOROTEO di G aza , Istruzioni spirituali, V, 64; 65; 66.
19Apoftegmi, 509-510.
20Regole lunghe, 26.
21 Apoftegmi, in P. EVERGETINOS, Synagogé, Costantinople 1861, p. 68, col. 1.
475
la perfezione), non vi è alcun mezzo comparabile alla manifestazione
dei pensieri, né così rapida»22.
È opportuno sottolineare in modo particolare il valore terapeuti
co e profilattico di questa pratica, che nell’ambito della medicina
spirituale riveste un’importanza di primo piano.
La manifestazione dei pensieri consente di ricevere dal padre spi
rituale indicazioni sul significato e sul valore spirituali di ciò che gli
riveliamo; consente, inoltre, di ricevere consigli sull’atteggiamento che
bisogna adottare. Impassibile e dotato di discernimento, il padre spi
rituale autentico è capace di dare su ciò di cui gli parliamo un giudi
zio obiettivo; illuminato dallo Spirito, è in grado di dare consigli op
portuni. Per esempio, egli può dire qual è la natura di tale pensiero,
cosa esso nasconde, quali conseguenze può avere, se è senza peso, op
pure cattivo, e in che modo perciò bisogna affrontarlo e lottare con
tro di esso. Tale idea, tale ispirazione, che porta a intraprendere una
certa azione, viene dai demoni o dobbiamo vedere un’ispirazione an
gelica e allora dobbiamo darle seguito? Tale rappresentazione, apparsa
più volte, il tale desiderio nato nel cuore in una certa circostanza, o
tale movimento dell’anima, sono essi innocenti, conformi alla volontà
divina, o senza importanza, o addirittura cattivi?23. Consultando il pro
prio padre spirituale, si otterrà una risposta sicura a questi interro
gativi, risposta che consentirà di sfuggire agli inconvenienti del dub
bio, agli errori e alle illusioni del proprio giudizio, alle trappole della
propria volontà, la quale conduce l’individuo a comportarsi secon
do le proprie norme e secondo i propri desideri anziché conformarsi
alla volontà divina. Del resto, è insistendo sui rischi che si corrono nel
seguire il proprio giudizio e la propria volontà che i Padri racco
mandano la pratica della manifestazione dei pensieri. Sant’Antonio
l’Eremita scrive a questo proposito: «Ho conosciuto dei monaci che,
dopo grandi fatiche, sono caduti e giunti alla follia per aver contato
sulle loro opere e per aver eluso con falsi ragionamenti il comanda
mento di colui che ha detto: Interroga tuo padre ed egli ti insegnerà»24.
San Pacomio riferisce che, per non aver rivelato il loro stato interiore
a un padre spirituale, «molti si sono uccisi, uno gettandosi dall’alto di
una roccia in un accesso di follia, un altro aprendosi il ventre con un
“ Ibid., N 509-510.
65Apojftegmi, serie alfabetica, Poemen, 80.
66P. E vergetdmos, Synagogé, Constantinople 1861, p. 68, col. 1.
67Cfr. SIMEONE Studita , citato da I. HAUSHERR, Introduzione alla Vie de Syméon le Nouveau
Théologien, pp. XLIX-L.
68Ibid., p. L.
69Ibid.
483
La manifestazione dei pensieri non è fine a se stessa. La sua effica
cia terapeutica non sta solo, ripetiamolo, sul procedimento conside
rato in se stesso, e non bisogna aspettarsi effetti immediati. La mani
festazione dei pensieri non potrà da sola guarire l’uomo. Solo mani
festati, i pensieri non perderebbero tutto il loro potere patogeno. I
pensieri che molte volte sono rinati rischiano di ripresentarsi di nuo
vo. Ciò che importa, dunque, molto spesso, è il loro destino. Manife
stare i propri pensieri consente soprattutto d’interrogare il padre
spirituale (i testi ascetici spesso mostrano l'equivalenza di queste due
espressioni) per conoscere la loro precisa natura e, soprattutto, per ot
tenere consigli sul modo di combatterli. Fatto questo, non rimane che
iniziare il combattimento.
V
IL COMBATTIMENTO CONTRO I PENSIERI
1. La lotta interiore
Nel contesto della strategia terapeutica che mira a guarire nell’uo
mo le malattie spirituali e a fargli recuperare la salute, la lotta {pale,
agón) contro i pensieri occupa un posto centrale.
Astenersi da ogni cattiva azione, non commettere più alcun pecca
to di azione, costituisce solo la prima tappa1e non è certo sufficiente2:
è opportuno astenersi anche da ogni cattivo pensiero3per evitare i pec
cati di pensiero4. «Vi prego, fratelli, reprimiamo i pensieri proprio co
me reprimiamo le azioni», consiglia un Anziano5. Ciò è tanto più ne
cessario in quanto tutti i peccati che l’uomo commette con le sue azio
ni hanno la loro fonte originaria in pensieri cattivi, in quanto questi
ultimi implicano quasi sempre quelle6, in quanto le manifestazioni este
riori delle passioni in azioni cattive hanno il loro principio nelle ma
nifestazioni interiori di quelle stesse passioni sotto forma di movimenti
interni, d’immaginazioni o di pensieri. «Fonte e principio di ogni pec
cato sono i pensieri cattivi», constata Origene7. «Tutti i peccati colpi
scono innanzitutto lo spirito sotto l’unica forma dei pensieri», sottoli
nea anche sant’Esichio di Batos8. E in questo modo, del resto, che i
demoni esercitano la loro azione sull’uomo9. «Coloro che perseguita
no incessantemente la nostra anima per farla cadere nel peccato con
1 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n , 87.
2Vedi per esempio la lunga avvertenza di FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 37.
3Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 37.
4 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Antitetico, Prefazione.
5Apoftegmi, N 220.
6 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, III, 52. E sichio di B atos , Capitoli
sulla vigilanza, 111.
7 Commento al Salmo 20,11, PG 27,129C.
8 Capitoli sulla vigilanza, 111. Vedi anche FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 33.
9Cfr. ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 174. Cfr. 173.
485
il pensiero e l’azione, utilizzano i pensieri passionali», fa notare san
Massimo10, il quale poi spiega: «Dalle passioni nascoste nell’anima i
demoni ricevono i mezzi per suscitare in noi i pensieri passionali. Poi,
attraverso questi pensieri, essi assalgono lo spirito e con grande forza
10 spingono a un atteggiamento di sottomissione al peccato. Una vol
ta dominato, essi lo conducono al peccato nei pensieri, poi, compiu
to questo peccato, lo precipitano [...] verso il peccato di azione»11. Or
dunque, «se non si pecca prima nei pensieri, non si peccherà mai
con le azioni»12.
Di conseguenza, occorre applicarsi al controllo dei pensieri se si
vuole porre fine ai peccati esterni e interni, ma anche se si vuole libe
rare l’anima dalle passioni. Sarebbe vano combattere le passioni solo
nelle loro manifestazioni esteriori, perché queste affondano le radici
nei pensieri, e se questi ultimi sussistono nell’anima, altre azioni ne
procederanno di nuovo, inevitabilmente. Ecco perché il Siracide scri
ve: «Chi porrà i flagelli nella mia mente ed insegnerà la sapienza al mio
cuore, perché siano severi con i miei errori ed io non tolleri i loro sba
gli? Così non si moltiplicheranno i miei errori e non si accresceranno
i miei peccati; non cadrò dinanzi ai miei oppressori e non si rallegrerà
11mio nemico» {Sir 23,2-3).
Sarebbe vano, d’altronde, credere - con il pretesto che le passioni
ci legano alle realtà sensibili e si applicano agli oggetti, o che esse so
no attivate dalla loro vista -, che basti allontanare gli oggetti o allon
tanarsi da essi per annientare le passioni. Infatti, non sono gli oggetti
in sé che sono cattivi: «Nulla è cattivo tra le creature di Dio», ricor
da san Massimo13. Ciò che è cattivo è il cattivo uso che facciamo degli
oggetti a motivo delle cattive rappresentazioni che noi abbiamo di es
si: «Il male è nel falso giudizio fatto sulle rappresentazioni e seguito
dal cattivo uso delle cose», «il cattivo uso degli oggetti è conseguen
za del cattivo uso delle rappresentazioni», «è quindi dallo spirito che
dipende il buono o il cattivo uso degli oggetti», osserva ancora san
Massimo14. Non è dunque agli oggetti che bisogna applicarsi, ma alle
loro rappresentazioni che sono in noi, le quali peraltro sono rese
presenti dalla memoria e dall’immaginazione anche quando gli ogget
ti che corrispondono loro sono assenti. È così che «i demoni attacca
10Centurie sulla carità, II, 20.
11Ibid., 31.
12Ibid., 78.
15Ibid., m , 3.
MIbid., E, 17; 73. Cfr. 83.
486
no [...] attraverso le rappresentazioni coloro che si sono separati da
gli oggetti»15, e «attraverso i pensieri ci fanno una guerra ben più du
ra che per mezzo degli oggetti stessi»16; «quanto più è facile il pecca
to nei pensieri che il peccato con le azioni, tanto più dura è la lotta
contro i pensieri che non la rinuncia agli oggetti»17.
I santi asceti, in particolare quelli che vivono nella solitudine, han
no constatato che le passioni si nutrono fondamentalmente di pensie
ri e d’immaginazioni, non solo di quelle che esse suscitano da se stes
se, ma anche di quelle che i demoni propongono all’uomo, e che,
peraltro, sono all’origine della nascita e dello sviluppo delle passioni
secondo un processo che descriveremo dopo. «Prima nascono i pen
sieri, poi si mostrano le passioni», constata san Doroteo di Gaza18.
Tutti questi motivi fanno sì che la principale occupazione dell’uo
mo desideroso di guarire e di salvarsi sia la lotta contro i pensieri19, lot
ta che i Padri chiamano anche «lotta interiore», «lotta invisibile», «lot
ta dello spirito», «lotta e guerra del cuore». Tale lotta costituisce l’asce
sa spirituale»20, l’«opera del cuore»21, l’unico mezzo per purificare
l’anima dal peccato e guarirla dalle passioni, non solo da quelle note
ma anche da quelle nascoste22.
Come tutti i Padri, anche san Giovanni Crisostomo sottolinea l’im
portanza e, nello stesso tempo, la durezza di questa lotta23: «Nessuna
nazione selvaggia [fa] una guerra così accanita come i cattivi pensieri
che rimangono nell’anima, come le passioni sregolate [...]; e ciò si
capisce, perché questi primi nemici ci attaccano dal di fuori, mentre
dall’interno i secondi ci fanno guerra. Ora, che i mali interiori sono
più disastrosi e perniciosi di quelli che vengono da fuori, è un’osser
vazione che possiamo fare costantemente [...]. Nulla è più fatale per
la salute, per l’energia del corpo, delle infermità che vi si sviluppano
71.
15 I b i d . ,
91.
16 I b i d . ,
H, 72.
17 l b i d . ,
18Istruzioni spirituali, XDI, 145. Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità,
IH, 20. Evagrio Pontico si chiede: «È la rappresentazione che fa scattare le passioni o sono le
passioni che fanno scattare la rappresentazione? Questa domanda esige una riflessione. Alcu
ni, in realtà, sono per la prima opinione, altri per la seconda» (Trattato pratico sulla vita mona
stica, 37). In realtà, questa divergenza d’opinioni non è reale: i due processi esistono e i Padri
evocano l’uno o l’altro a seconda dei casi, senza considerare pertanto l’uno esclusivo dell’altro.
19Vedi per esem pio BARSANUFIO, Lettere, 258.
20 FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 3.
21 ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 17.
22 Cfr. ibid.
23 Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 91; IV, 50. FlLOTEO IL Sl-
NAITA, Quaranta capitoli neptici, 1.
487
internamente; le città soffrono meno per la guerra esterna, che per i
loro dissensi interni; così anche l’anima non deve tanto temere le trap
pole che le vengono tese nel mondo quanto le malattie di cui essa stes
sa fornisce il germe»24. Per questo san Macario Magno insegna: «Oc
corre, dunque, che tutta la lotta dell’uomo si rivolga verso i suoi pen
sieri»25. Lo stesso santo osserva ancora: «Colui che vuole veramente
divenire cristiano, deve dedicarsi a una lotta non già carnale, ma spi
rituale, contro i pensieri [...]. E per mezzo di un tale combattimento
che egli potrà ottenere la purificazione»26.
Proprio perché i pensieri sono trattenuti, suscitati, se non propo
sti dai demoni, la lotta contro i pensieri appare allo stesso tempo co
me un combattimento contro i demoni (abbiamo visto, del resto, che
i Padri identificano spesso i pensieri passionali con gli stessi demoni).
L’Apostolo indica chiaramente questa lotta quando scrive: «Non lot
tiamo contro una natura umana mortale, ma contro i prìncipi, con
tro le potenze, contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro
gli spiriti maligni delle regioni celesti» (Ef 6,12). Questa lotta corri
sponde, a mo’ di una guerra difensiva, alla vera guerra offensiva,
permanente e senza pietà che i demoni intraprendono contro l’uomo
e che san Filoteo il Sinaita descrive così: «E una guerra che gli spiriti
del male conducono segretamente e che li mette alle prese con l’ani
ma attraverso i pensieri. Poiché la stessa anima è invisibile, queste po
tenze malefiche, si adattano alla sua natura, e conducono verso di es
sa una guerra invisibile. Si può così osservare, tra queste potenze e l’a
nima, armi, una battaglia campale, astuzie ingannevoli, una guerra
terribile, l’accanimento nel combattimento, e, da una parte e dall’al
tra, vittorie e sconfitte»27.
Il carattere sottile dei pensieri, le astuzie messe in opera dai demo
ni per sottomettersi gli uomini mediante tali astuzie, la difficoltà, in
breve, della lotta da condurre, ma anche l’importanza della posta in
gioco, fanno sì che «l’arte di combattere i pensieri» («arte» intesa nel
senso antico di «tecnica») venga ritenuta dai Padri «la scienza delle
scienze e l’arte delle arti»28. Ciò è tanto più vero in quanto gli stessi
Padri per i motivi sopra indicati hanno condotto a mettere a punto
una strategia molto precisa, basata su una conoscenza puntuale degli
24 Commento al Salmo 4,12.
25 Omelie (Coll. E), VI, 3.
26Ibid., LIE, 15.
27 Quaranta capitoli neptici, 7.
28 Le due espressioni citate sono di ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 121.
488
avversari e dei loro mezzi di azione, cioè della natura dei pensieri e del
processo della loro comparsa e insediamento nell’anima. Ciò è indi
spensabile, perché, affinché la lotta sia efficace e la vittoria sicura, «oc
corre, come dice Evagrio, guerreggiare con metodo contro gli avver
sari»29.
491
frettante tentazioni52.1 Padri sottolineano che l’azione demoniaca cre
sce e quindi i pensieri suggeriti si moltiplicano a misura del progresso
spirituale53. Un adagio dei Padri afferma che l’uomo deve «aspettarsi
la tentazione fino al suo ultimo respiro»54, che fino al suo ultimo re
spiro egli dovrà lottare contro i pensieri suggeriti dai demoni55. Giob
be diceva: «Tutta la vita degli uomini sulla terra non è forse tentazio
ne?» (Gb 7,1)56. «Fino alla morte l’uomo non può non avere dei pen
sieri», osserva nello stesso senso sant’Isacco il Siro57, e san Simeone il
Nuovo Teologo: «L’uomo ha sicuramente ricevuto il potere di non
compiere il male, ma non quello di non averne l’idea»58. «Come non
è possibile camminare sulla terra senza fendere l’aria, scrive a sua vol
ta sant’Esichio di Batos, così è impossibile che il cuore dell’uomo non
sia continuamente combattuto dai demoni o segretamente tormenta
to da essi»59. E san Giovanni Damasceno, ricordando in particolare gli
otto tipi di pensieri cattivi che corrispondono alle otto passioni prin
cipali, osserva: «Che questi otto pensieri ci turbino o non ci turbino
fa parte delle cose che non dipendono da noi»60.
Lo scopo perseguito dai demoni nel suscitare i pensieri nel cuore
dell’uomo è quello di far rimanere le passioni in colui che ne è abita
to e di spingerlo al peccato d’azione, oppure è quello di farle ritorna
re in colui che se ne era liberato; lo scopo può essere anche quello di
turbare la preghiera di quest’ultimo e di impedirgli di arrivare alla con
templazione61; in ogni caso, per i demoni si tratta di allontanare l’uo
mo da Dio62e di metterlo contro di lui. Da questo punto di vista, ogni
pensiero appare come una tentazione, tanto più che, come vedremo,
l’uomo ha in tutti i casi la possibilità di seguire il pensiero che gli si
presenta e fare così la volontà dei demoni, o respingerlo per fare la vo
lontà di Dio. Ogni pensiero che si presenta all’uomo appare così co
me una prova63 che può condurlo alla sua perdizione o alla sua sal
vezza, secondo la scelta che egli farà. Se l’uomo, cedendo alla tenta
52Cfr. Ammona , Lettere, XHI, 5. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XVI, 3.
53 Cfr. FE.OTEO IL S inaita , Quaranta capitoli neptici, XXVI.
54Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 4.
55 Vedi per esempio ibid., Agatone, 9; Teodoro di Fermé, 2.
56Cfr. ORIGENE, La preghiera, 29: «Tutta la vita dell’uomo è una continua tentazione».
57Discorsi ascetici, 83.
58 Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 31.
59 Capitoli sulla vigilanza, 114.
60Discorso utile all anima.
61 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 90.
62Ibid
63 Cfr. B arsanufio , Lettere, 39; 483.
492
zione che ogni pensiero costituisce, può perpetuare il suo stato mal
sano o ricadérvi, nel non cedervi egli, al contrario, può guarirne o evi
tare di ricadérvi. Prendendo in considerazione questo secondo aspet
to, sant’Isacco il Siro afferma: «La tentazione è utile a ogni uomo», e
scrive al riguardo: «Gloria al Maestro che nei rimedi più duri ci por
ta le delizie della salute!»64. Lo stesso santo apostolo Giacomo sotto-
linea questa funzione positiva della tentazione: «Beato l’uomo che so
stiene la tentazione, poiché una volta collaudato, riceverà la corona
della vita che Dio promise a quanti lo amano» (Gc 1,12). Quando ogni
pensiero che si presenta è per colui che è abitato dalle passioni un’oc
casione di esserne liberato65e purificato dai suoi peccati66, esso è, per
colui che vive secondo le virtù, un’occasione per fortificare queste, co
me scrive san Barsanufio a uno dei suoi figli spirituali: «Che la folla
delle passioni e dei fantasmi demoniaci non ti abbatta, ma credi che
essi non guadagnano niente nel tormentarci e nel metterci alla prova;
essi, al contrario, perfezionano la virtù se noi facciamo molta atten
zione nel conservare un po’ di resistenza [...]. Il contatto con il fuoco
fa sembrare l’oro più lucente, è così anche per l’accumulo delle ten
tazioni per il giusto»67. E sant’Ammona osserva: «La forza dello Spi
rito, dopo le tentazioni, dà ai santi un’altra grandezza e una forza mag
giore»68. In ogni caso, i Padri sottolineano che grazie alle tentazioni, e
quindi ai pensieri mediante i quali esse si presentano all’uomo, è pos
sibile il progresso spirituale. Così scrive sant’Ammona a questo pro
posito: «Se non vi assale nessuna tentazione, visibile o nascosta, non
potrete andare più avanti di dove siete»69. Sant’Antonio l’Eremita vi
vede anche una condizione necessaria alla salvezza: «Chiunque non
sia stato tentato, egli dice, non potrà entrare nel regno dei cieli. In
fatti è detto: “Sopprimi le tentazioni e nessuno è salvato”»70.
Dall’atteggiamento di fronte ai pensieri dipende, dunque, il desti
no spirituale dell’uomo.
E per mezzo del consenso ai pensieri che le passioni nascono e per
sistono, e i demoni prendono possesso dell’anima o continuano a per
manervi. Al contrario, sarà per il rifiuto dei pensieri che l’uomo, con
64 Discorsi ascetici, 48, citato da CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 16 J.
65 Cfr. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 130.
66 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 45.
67Lettere, 118. Cfr. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 130. AMMONA, Lettere, IX, 2; 3.
68Lettere, XHI, 6.
69Ibid., IX, 1.
70Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 5.
493
l’aiuto di Dio, può essere liberato dalle sue passioni e progredire nel
la virtù, unirsi a Dio e crescere in questa unione.
L’uomo, tuttavia, se non sta in guardia, presto si lascerà trascinare
dai pensieri che gli si presentano. Vi è un momento in cui il rifiuto del
pensiero è facile, un altro momento in cui è difficile, un altro in cui di
viene quasi impossibile.
Combattere i pensieri suppone una conoscenza precisa del modo
d’agire dei pensieri sull’anima e dell’atteggiamento dell’anima di fron
te ai pensieri. La tentazione, hanno osservato i Padri, obbedisce a un
meccanismo invariabile, che comporta momenti diversi che corri
spondono all’evoluzione dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti
del pensiero che gli è proposto.
497
La raccomandazione di essere attenti e vigilanti si trova frequente
mente nelle Sacre Scritture. Il Cristo stesso lo ha fatto in diverse ri
prese: «State attenti, vegliate [...], vegliate dunque [...]. Ciò che dico
a voi, lo dico a tutti: Vegliate» (Me 13,33.35.37); «Restate qui e ve
gliate» (Me 14,34); «Vegliate e pregate, affinché non entriate in ten
tazione» (Me 14,38); «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno tro
verà ancora svegli. Se arrivando nel mezzo della notte o prima dell’al
ba, troverà i suoi servi ancora svegli, beati loro» (Le 12,37-38); «Vegliate
in ogni momento, per avere la forza di sfuggire a tutti questi mali
che stanno per accadere e per comparire davanti al Figlio dell’uomo»
(Le 21,36). Anche l’apostolo Paolo così scrive a questo riguardo:
«Ritornate in voi (eknepsate) secondo giustizia e non peccate» (ICor
15,34); «Non dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo tempe
ranti» (1 Ti 5,6). E san Pietro aggiunge: «Siate saggi e sobri» (lPt 4,7);
«Siate sobri, vigilanti! Il vostro nemico, il diavolo, va in giro come
un leone ruggente cercando qualcuno da divorare» (lPt5,8). La stes
sa raccomandazione la ritroviamo innumerevoli volte nelle parole e
negli scritti dei Padri101. L’attenzione e la vigilanza sono presentate nel
le Vite dei santi come virtù che questi possiedono al più alto gra
do102. Questi due comportamenti molto simili (i due termini spesso so
no impiegati come sinonimi) costituiscono, infatti, una condizione di
ogni vita spirituale: è in gran parte per loro mezzo che l’uomo può,
per grazia divina, essere liberato dal male, evitare di ricadérvi e, cor
relativamente, unirsi strettamente a Dio e rimanere unito a lui (è que
sto il fine). E per questo motivo che Abba Poemen afferma: «La vi
gilanza, l’attenzione a se stessi come anche il discernimento sono le
guide dell’anima»103; arriva poi a dichiarare: «Noi non abbiamo biso
gno di null’altro se non di uno spirito vigilante»104.
101 Vedi tra gli altri: Apoftegmi, serie alfabetica, Poem en, 35; 137; 173; Rufo, 1. lbid., N 81;
N 537; N 653; Am 166,12. Prima vita di san Pacomio, 96. BARSANIMO, Lettere, 7; 10; 44; 45; 49;
53; 98; 106; 136; 137; 138; 187; 197; 203; 216; 235; 237; 240; 264; 267; 268; 269; 347; 379; 412;
418; 429; 454; 573; 613; 614; 615; 769. GIOVANNI DI GAZA, Lettere,, 291; 305; 342; 482; 575bis;
583; 770; 833. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, X , 112; X I, 114; Lettere, XIII. ISACCO
IL SlRO, Discorsi ascetici, 58; 60. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, II, 12; IV, 86; XXVI, 117. MAS
SIMO IL CONFESSORE, Discorso ascetico, 16. CALUNICO, Vita d Ipazioy50. ISAIA DI SCETE, Asceti-
con, XXVH , 18. GREGORIO P alamas , Triadi, I, 2, 9. San Basilio di Cesarea ha dedicato all’at
tenzione a sé un’intera omelia: Su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso.», P G 3 1 ,197C-218B.
EsiCHIO DI BATOS ha scritto un Discorso informa di capitoli sulla vigilanza e san FlLOTEO IL Sl-
NATTA, Quaranta capitoli neptici.
102 Vedi per esempio: ATANASIO DI ALESSANDRIA, Vita di Antonio, 9. Prima vita di san Paco-
miOy 72.
103Apoftegmiy serie alfabetica, Poemen, 35.
104Ibid.y 137.
498
Occorre, altresì, precisare che per essere pienamente efficaci, at
tenzione e vigilanza devono essere permanenti e senza cedimenti105.
Ciò non è certamente possibile immediatamente, ma occorre lavora
re per giungervi. I Padri affermano, sulla base della loro esperienza,
che l’uomo formato è capace di una tale attenzione e vigilanza dedi
candosi a diverse attività. A questo proposito così scrive san Giovan
ni di Gaza: «I perfetti sono perfettamente attenti a se stessi, come l’ar
tigiano che conosce perfettamente il suo mestiere. Se, mentre lavora,
gli capita di avere un colloquio con qualcuno, la conversazione non gli
impedisce allo stesso tempo di continuare a esercitare la sua arte»106.
Gli spirituali avanzati dànno prova di tale vigilanza anche durante il
sonno, come testimonia questo versetto del Cantico ricordato da san
Giovanni Climaco107: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (C/5,2),
e come afferma san Giovanni di Gaza: «Se il cuore veglia, il sonno del
corpo non esiste»108.
Essere attenti a se stessi, vegliare su se stessi, secondo la frequente
raccomandazione dei Padri, consiste in senso generale nell’occuparsi
di sé, cioè del proprio essere e del proprio destino spirituale piuttosto
che delle cose esteriori109. Più precisamente, consiste nel cercare di
(ri)conoscere le proprie malattie spirituali, che è la condizione della
guarigione: «Dovete applicarvi in ogni cosa a conoscere la situazione
e le malattie della vostra anima. Difatti molti hanno infermità perico
lose che non vengono riconosciute [...]. Dio ci ha avvertiti di non in
terferire nella guarigione degli altri, e di non metterci a studiare per
conoscere la natura delle loro malattie, ma di riservare una parte del
le nostre cure e della nostra applicazione per scavare nelle pieghe del
nostro cuore», afferma san Basilio110.
Più generalmente, vuol dire essere attenti a tutto l’essere, sorvegliare
sia il corpo che l’anima, il comportamento esteriore per evitare le azio
ni cattive, e la propria vita interiore per evitare i pensieri cattivi. È co
sì che è scritto nel libro dei Proverbi: «La via dei retti è fuggire il ma
le; chi vuol custodire la sua anima sorveglia la sua strada» (Pro 16,17).
E san Gregorio Palamas fa notare a questo riguardo: «“Bada a te”, di
105Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XX, 3. G iovanni C um aco , La Scala, XXVII,
39; 86. BARSANUFIO, Lettere, 269. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 459. Apoftegmi, N 427; N 529.
106Lettere, 459.
107Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVII, 18.
108Lettere, 519.
109Cfr. Apoftegmi, Collazione dei dodici anacoreti. BASHJO DI CESAREA, Omelia su queste pa
role: «Fa’ attenzione a te stesso».
110Loc. cit.
499
ce Mosè (Dt 15,9), cioè a te completamente: non a una sola parte di te
stesso dimenticando il resto [...]. Poni, dunque, questa attenzione sul
la tua anima e sul tuo corpo [...]. Affidati, in breve, a questa custodia,
a questa attenzione, non perdere il controllo di te stesso, o piuttosto
bada a te, veglia e sorvegliati! [...] “Se lo spirito di colui che domina”,
cioè quello degli spiriti cattivi e delle cattive passioni, “si leva contro
di te”, afferma PEcclesiaste, “non lasciare il tuo posto”, cioè non la
sciare senza sorveglianza nessuna parte della tua anima, nessun mem
bro del tuo corpo. Così, infatti, tu diverrai inaccessibile agli spiriti che
ti attaccano dal basso»111.
Tuttavia, poiché, come abbiamo visto, è dai pensieri che derivano
le azioni e soprattutto dipendono la nascita e la perpetuazione delle
passioni, è su essi che i Padri raccomandano in particolare di portare
l’attenzione e la vigilanza. E da questo, più propriamente, che dipen
de la guarigione spirituale dell’uomo, in quanto è soprattutto a que
sto livello che la vigilanza e l’attenzione appaiono come rimedi di gran
de importanza. In un’omelia su queste parole del Deuteronomio 4,9
e 15,9): «Bada a te», san Basilio dice: «Fate attenzione a voi stessi e
non nascondete nel vostro spirito cattivi pensieri [...]. Noi siamo fra
gili, e pecchiamo facilmente con i pensieri; è per questo che Dio, che
ha formato i nostri cuori, sapendo che i movimenti della nostra vo
lontà ci fanno cadere in molti disordini, ci ha raccomandato di con
servare in grande purezza la parte razionale dell’anima, perché è que
sta che governa e comanda. È necessario conservare con maggior cura
ciò che è più incline al peccato. I medici esperti, conoscendo il tem
peramento dei corpi deboli, prescrivono loro rimedi per fortificarli. E
per questo che Dio ci ha dato più mezzi per fortificare in noi la parte
più debole»112.
1) Essere attenti e vigili riguardo ai propri pensieri, vuol dire, in p
mo luogo, sorvegliare il proprio cuore continuamente in modo da po
ter osservare i pensieri che nascono in esso fin dal loro insorgere113ed
essere costantemente attenti sul modo di vigilare in modo da poter far
fronte agli attacchi improvvisi e imprevedibili del nemico114. Ecco per
500
ché la vigilanza spesso è chiamata «custodia del cuore»115; lo spirito
deve avere alla porta del cuore l’atteggiamento di una sentinella che
allo stesso tempo sorveglia il territorio circostante, facendo attenzio
ne al minimo movimento, alla minima cosa intravista, al minimo ru
more, e si pone in permanenza nella condizione d’intervenire. Riguardo
al primo punto, sant’Esichio di Batos così scrive: «Lo scopo [...] del
la vigilanza continua [...] è quello di vedere, sin da quando essi si
formano, i fantasmi dei pensieri nello spirito»116. Si tratta, afferma,
da parte sua, san Filoteo il Sinaita, di «sorveglia [re] rigorosamente i
raggiri delle potenze malevole e i loro attacchi sorti dall’immagina
zione»117. E san Basilio consiglia: «Girate gli occhi da ogni parte af
finché non siate colti di sorpresa»118. Riguardo al secondo punto, san
Gregorio Magno osserva: «La vigilanza dev’essere praticata in ogni
istante [...]. Occorre essere sempre sul piede di guerra, per ingaggia
re la lotta contro l’Avversario; la nostra diffidenza deve prevedere in
cessantemente le sue manovre occulte [...]. Se si vuole che la tenta
zione improvvisa e nascosta non ci sorprenda, vi è la necessità per
manente di tenerla distante con [...] la spada della nostra vigilanza»119.
La formula di un Anziano riassume questi due punti: «Il lavoro di
un monaco è quello di veder giungere da lontano i suoi pensieri»120.
Possiamo ricordare a questo proposito le parole del Cristo: «Se il pa
drone di casa conoscesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe
scassinare la casa» (Le 12,39).
2) Essere attenti e vigilanti, vuol dire, in secondo luogo, esamina
ogni pensiero fin da quando lo si è notato121, poi distinguere la sua na
tura in modo da vedere precisamente se si tratta di un pensiero buo
no, indifferente o cattivo122.
Nel ricordare la prima di queste due fasi, san Giovanni di Gaza con
115 Essa, a volte, è chiamata anche «custodia dello spirito» (cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli
sulla vigilanza, 113; 121. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 26). La prima espres
sione, però, è più adeguata, poiché la custodia dello spirito indica, in senso proprio, lo vedremo
ulteriormente, l’evitare ogni rappresentazione anche buona: questo evitare è la condizione del
la preghiera pura e senza distrazione. Su questa distinzione, vedi ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 3.
G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 61.
116 Capitoli sulla vigilanza, 153.
117 Quaranta capitoli neptici, 7.
118 Omelia su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso».
119Moralia su Giobbe, XX, 3.
120Apoftegmi, M 64.
121 Cfr. B ar sa nim o , Lettere, 85; 92.
122Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n ), VI, 3. B asilio di C esarea, Omelia su queste
parole «Fa’ attenzione a te stesso». GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, VII, 5. ISAIA DI SCETE, Asce-
ticon, XXVI, 19. ESICHIO DI B atos , Capitoli sulla vigilanza, 121.
501
sigila: «Per tutti i pensieri agisci allo stesso modo: appena il pensiero
arriva, esaminalo»123. Sant’Esichio di Batos descrive così la vigilanza:
«Essa è la concentrazione perseverante di un pensiero che sta di guar
dia alla porta del cuore. Un tale pensiero osserva i pensieri perfidi che
arrivano, ascolta ciò che essi dicono, guarda ciò che fanno questi as
sassini, e quale forma i demoni hanno inciso su di essi»124.
Questa prima fase, l’esame del pensiero, ha come finalità la secon
da: il discernimento della sua esatta natura. San Macario così scrive a
questo riguardo: «L’uomo di Dio non si applichi su un solo pensiero
senza fare discernimento»125. Dal canto suo, così osserva sant’Esichio
di Batos: «Devi vedere con lo sguardo penetrante e intenso dello spi
rito, per poter riconoscere i pensieri che vi entrano»126. Un apoftegma
precisa: «Gli Anziani dicevano: A ogni pensiero che giunge in te, de
vi dire: “Sei dei nostri, o vieni dal nemico?”. E certamente esso lo con
fesserà»127. Ecco un consiglio che testualmente dà Evagrio: «Sii tu il
portiere del tuo cuore, e a ogni pensiero che si presenta, rivolgi que
sta domanda: Sei dei nostri o degli avversari?»128. San Giovanni di Ga
za non dice altro che: «Custodire il proprio cuore, significa avere lo
spirito vigilante e lucido di colui che è in guerra [...]. Se vuoi sapere
con chi hai da fare, con un nemico o con un amico, lancia una pre
ghiera e interrogalo: “Sei dei nostri o dei nemici?”, ed esso ti dirà la
verità»129.
3) Se si tratta di un pensiero buono e indifferente, l’uomo può l
sciarlo penetrare in sé profondamente, perché non porterà conse
guenze, eccetto nel caso in cui è in stato di preghiera, perché alcuni di
tali pensieri ostacolano la preghiera pura. San Nilo Sorsky scrive a que
sto proposito: «Se non è durante la preghiera, ma nel corso di indi
spensabili occupazioni della vita, che entrano e rimangono nell’anima
[questo tipo di] pensieri, allora una tale situazione è senza peccato:
persino i santi hanno soddisfatto degnamente e senza colpa agli ob
blighi della vita del corpo. In ogni pensiero di questo genere, affer
mano i Padri, il nostro spirito, se guarda se stesso con atteggiamento
pio, rimane unito a Dio»130.
123Lettere, 86.
124 Capitoli sulla vigilanza, 6.
125 Omelie (Coll. E), LEI, 14.
126 Capitoli sulla vigilanza, 22.
127Apoftegmi, N 220.
128Antirretico, Orgoglio, 17.
129Lettere, 166.
m Regola, 1.
502
Non è così, però, nel caso si tratti di un pensiero cattivo. L’uomo
allora deve assolutamente evitare di abbandonarvisi, e rifiutarlo prima
di aver raggiunto, nel processo che abbiamo precedentemente de
scritto, lo stadio del consenso.
131 Ricordiamo che Evagrio Pontico ha scritto un trattato intitolato Antirretico, in 8 libri. È
una raccolta di testi biblici contro i demoni tentatori, riguardante gli otto vizi capitali. In tale
opera propone, per ogni rilevante tipo di pensiero, passi della Scrittura adatti a essergli opposti.
132 Omelie (Coll. II), LITE, 14.
133La Scala, XXVI, 62.
134Apoftegmiy serie alfabetica, Giuseppe di Panefo, 3.
135 Capitoli sulla vigilanza, 44.
503
Un tale modo di combattere i pensieri deve, tuttavia, essere riser
vato a coloro i quali sono sufficientemente avanzati spiritualmente per
non lasciarsi sedurre, in questa discussione, dagli argomenti del ne
mico e per non essere alla fine vinto136. Abba Giuseppe di Panefo
implicitamente lo riconosce, quando a un altro visitatore che gli pone
la stessa domanda, consiglia: «Non lasciare penetrare affatto [i pen
sieri] dentro di te»137. Quanto a san Giovanni di Gaza, egli scrive mol
to esplicitamente a uno dei suoi figli spirituali: «Il replicare non è
per tutti, ma per i potenti secondo Dio, a cui i demoni sono sottomessi.
Infatti, se qualcuno di coloro che non hanno questa potenza [di con
futazione] replica, i demoni lo tormentano deridendolo, per il fatto
che egli è in loro potere e [pretende di] replica [re] loro»138. San Bar-
sanufio scrive la stessa cosa a uno dei suoi discepoli: «Per quanto ri
guarda l’accoglienza di un pensiero che si presenta, è consentito solo
ai perfetti lasciarlo entrare e in seguito scacciarlo. Tu, dunque, non in
trodurre il fuoco nella tua foresta affinché essa non ne sia totalmente
consumata [...]. Non ti esercitare da solo nel turbamento, perché non
resisteresti a una tale tentazione»139. E commentando la duplice ri
sposta di Abba Giuseppe di Panefo, a proposito dei pensieri, afferma
inoltre: «Colui che è capace di resistere e lottare senza essere vinto li
lasci entrare, mentre il debole, che non ne è capace e darebbe piut
tosto il suo consenso», non deve farlo140. Anche se l’uomo non è vin
to, se non è sufficientemente forte, rischia di uscirne ferito o insudi
ciato, come sottolinea sant’Isacco il Siro che sconsiglia, per queste ra
gioni, tale procedimento di lotta: «Non abbiamo sempre il potere di
opporci, per fermarli, ai pensieri che ci combattono, ma ne riceviamo
spesso piaghe che non guariscono se non dopo lungo tempo. [...] [Di
scutere con i demoni] permette loro di armarsi contro di te: potranno
ferirti ben al di là di quanto potranno opporre loro la tua saggezza e
il tuo sentimento. Ma anche se tu li vincessi, la sozzura dei pensieri in
quinerebbe la tua riflessione, e ancora per lungo tempo tu dovrai sen
tire il loro cattivo odore»141.
Che questo modo di combattere sia riservato ai perfetti non signi
fica, tuttavia, che egli sia il più perfetto142: oltre al rischio di disfatta
136Cfr. Esicmo DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 44.
137Apoftegmi, serie alfabetica, Giuseppe di Panefo, 3.
138Lettere, 304.
U9ib id .,m .
140Ibid., 432.
141 Discorsi ascetici, 33.
142 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 62.
504
che esso comporta, autorizza un certo sviluppo della suggestione, che,
fa notare san Marco l’Eremita, si accompagna inevitabilmente a un
certo turbamento (parripismós)m che giustamente i perfetti evitano;
implica che si abbia un certo interesse a quel pensiero, che ci si sof
fermi su di esso, il che distoglie lo spirito dall’attenzione esclusiva che
esige la preghiera pura; infine, in una certa misura, fa il gioco dei de
moni: ciò è quanto san Giovanni di Gaza consiglia a uno dei suoi di
scepoli: «Non contraddire, perché è dò che essi desiderano e non smet
teranno mai»144.
Ecco perché è preferibile l’altro modo di combattere; peraltro, è
quello che i Padri raccomandano più frequentemente, in quanto es
so è più diretto ed efficace del precedente: sant’Isacco dice che nel-
l’usarlo «si è imboccato il cammino più breve, e si è evitato di errare
sulla via più lunga»145. Esso costituisce la «confutazione rapida».
b) Questo secondo modo di combattimento, che deriva da una fo
ma di esercizio della vigilanza, consiste nel non lasciare affatto entra
re il pensiero che si presenta146, e per fare ciò occorre rigettarlo (i Pa
dri dicono anche: reprimerlo, escluderlo, tagliar corto...) fin dal suo
nascere, nell’istante stesso del suo primo apparire, doè quando esso è
ancora una semplice suggestione147. «Occorre solo percepire [le sug
gestioni demoniache], e immediatamente respingerle, fin da quando
scaturiscono e attaccano», consiglia sant’Esichio di Batos148. San Filo-
teo il Sinaita, da parte sua, osserva: «Colui che resiste fin dall’inizio,
cioè fin dalla suggestione [...] ha tagliato corto con tutte le infamie»149.
I Padri insistono su questo: occorre non accogliere il seme del nemi
co150, e a fortiori non soffermarsi sull’immagine o sul pensiero sugge
rito dal nemico151. In ogni caso, «stessa regola: non lasciar perdurare
il pensiero», consiglia san Massimo152. Si tratta di bloccare nettamen
143Cfr. A Nicola, VE.
144Lettere, 166. Cfr. DOROTEO DI G aza , Lettere, Vm, 193.
145Discorsi ascetici, 83.
146Cfr. Barsanufio, Lettera, 257. Apoftegmi, X, 90. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli
neptici, 25.
147 Cfr. Esicrao DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 20; 22; 88. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta
capitoli neptici, 2; 26. Apoftegmi, serie alfabetica, G iuseppe di Panefo, 3. TEODORO DI SCETE,
ibid., N 220; N 275. BARSANUFIO, Lettere, 432. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità,
m , 52.
148 Capitoli sulla vigilanza, 44.
149 Quaranta capitoli neptici, 36.
150B arsanufio , Lettere, 256. C irillo di G erusalemme, Catechesi battesimali, n, 3.
151 G iovan ni di G aza, Lettere, 660. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, ni, 52.
ORIGENE, Commento ai Proverbi, 5, PG 1 7 ,176CD.
152 Centurie sulla carità, IH, 88.
505
te all’origine il processo della tentazione che abbiamo descritto pre
cedentemente. Sant’Esichio di Batos così scrive a questo riguardo: «Se
il nostro spirito è stato provato, se è stato istruito, se è nella condi
zione di custodire se stesso e di vedere in tutta purezza, come in un
cielo sereno, le immagini seduttrici e le illusioni degli spiriti cattivi,
spegne immantinente e con facilità [...] le frecce infiammate del dia
volo. Egli rifiuta di lasciarsi trasportare dall’immaginazione passio
nale. Non accetta che i nostri pensieri, abbandonandosi alla passione,
si conformino all’immagine che loro è apparsa, o s’intrattengono ami
chevolmente con essa, o vi si soffermino, o vi acconsentano»153. Al con
trario, lasciare che questo processo si sviluppi, è, se non proprio cor
rere verso la perdizione, almeno votarsi poco dopo a una lotta più du
ra e che si sarebbe potuta evitare. E così che san Cirillo di Gerusalemme
consiglia: «Non raccogliere il seme [...]. Prima che fiorisca, strappa il
male fino alle radici, affinché la tua indolenza originaria non ti co
stringa più tardi (cfr. Mt 3,10) a pensare di usare la scure e il fuoco.
Comincia col guarire i tuoi occhi malati in tempo opportuno, per non
dover cercare il medico una volta diventato cieco»154.
Secondo una simbologia frequentemente usata dai Padri, se si la
scia passare la testa del serpente, il suo corpo penetrerà facilmente.
Per questo san Giovanni Cassiano scrive: «Dobbiamo ricordarci con
tinuamente questo precetto: “Custodisci con cura il tuo cuore”, e, se
condo il comandamento principale di Dio, osservare con vigilanza la
testa del serpente, cioè l’inizio dei pensieri cattivi, attraverso i quali il
diavolo prova a insinuarsi nella nostra anima. Per la nostra negligen
za, non lasciamo invadere il nostro cuore da tutto il corpo di questo
serpente - che è poi il consenso alla tentazione -, perché è molto
evidente che, una volta introdotto, con il suo morso velenoso farà
perire il nostro spirito ormai suo prigioniero»155. Per questo motivo
così consiglia san Gregorio di Nissa: «Se vuoi evitare di vivere insie
me al rettile, guàrdati dalla testa, cioè dal primo attacco del male. E
a questo che si riferisce il comandamento illustrato dal Signore: “Ti
insidierà al tallone e tu mirerai alla sua testa” (cfr. Gn 3,15)»156. Un al
tro Padre spiega allo stesso modo: «I pensieri hanno una sola testa [...].
Se fin dall’inizio tu non riconosci nemmeno la testa per espellerla da
153 Capitoli sulla vigilanza, 143.
154 Catechesi battesimali, II, 3.
155 Istituzioni cenobitiche, VI, 13.
156 Omelie sul Padre nostro, IV, 6.
506
te, sarai preso e ingannato dagli altri pensieri successivi [...]. Se, dun
que, vuoi vincere le passioni, osserva sempre la testa dei pensieri e
quando avrai scoperto qual è, lotta solo contro di essa»157. Sant’Esi-
chio di Batos offre lo stesso consiglio: Fin dal momento in cui hai ri
conosciuto coloro che entrano, «devi subito, attraverso la confutazio
ne, schiacciare la testa del serpente»158.
I Padri chiamano simbolicamente le suggestioni: «testa del serpen
te», ma anche «primogeniti d’Egitto» (nel linguaggio spirituale l’E
gitto indica l’insieme delle passioni), o «bambini di Babilonia» (anche
Babilonia indica la terra delle passioni abitate dai demoni). E quando
essi consigliano di sterminare impietosamente i pensieri alla loro na
scita, essi ricordano spesso questi due versetti del Salmo 137 [136],
8-9: «Figlia di Babilonia, votata alla distruzione: beato chi ti ricambierà
quanto hai fatto a noi! Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà
contro la roccia»159. «La roccia», cioè, secondo l’interpretazione dei
Padri, il Cristo invocato nella preghiera.
157Apoftegmi, PA 72, 3 b.
158Capitoli sulla vigilanza, 22. Cfr. 178.
159Vedi per esempio EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 158.
160Cfr. D oroteo DI G aza , Lettere, Vili, 193. BARSANUFIO, Lettere, 660. ISACCO IL SlRO, 'Di
scorsi ascetici, 33. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 20; 105; 168; 182; 183; 189. FiLO-
TEO IL Sin ATTA, Quaranta capitoli neptici, 25.
161 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 135.
ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 176.
162 Cfr. AMMONA, Lettere, IX, 2. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere giustifi
cati per le loro opere, 98.
507
brevità della sua formula, essa può essere, opportunamente, opposta
istantaneamente alla suggestione e permettere all’uomo di essere co
sì rapido come questa nella sua reazione163; come afferma san Gio
vanni Climaco, essa permette di «respingere con una sola parola i pen
sieri nel momento stesso in cui si presentano»164. Dall’altro lato, la
continuità le permette di andare di pari passo con la vigilanza che
suppone questa stessa qualità. Infine e, soprattutto, il Nome di Gesù
che essa contiene è di grande forza contro i pensieri e contro coloro
che li suggeriscono, come afferma san Giovanni Climaco quando dà
questo consiglio: «Flagella i tuoi nemici con il Nome di Gesù, perché
non vi è arma più potente sia in cielo che sulla terra»165. È proprio per
questo che sant’Esichio di Batos raccomanda: «Per quanto spesso ac
cada ai cattivi pensieri di moltiplicarsi in noi, gettiamo in mezzo ad
essi l’invocazione del nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Li ve
dremo allora svanire immediatamente come il fumo nell’aria, come ci
ha insegnato l’esperienza»166. Egli stesso consiglia, d’altronde, di «gri
dare verso il Cristo [...] subito dopo la confutazione. Allora colui che
combatte vedrà il nemico dissiparsi con la sua immagine, come pol
vere al vento o fumo che svanisce, scacciato dal Nome adorabile di
Gesù»167.
Non si tratta, tuttavia, di una pratica magica: nell’invocare il Nome
di Gesù, l’uomo si rifugia nel Cristo168per riceverne protezione e
aiuto169; per mezzo della preghiera egli chiede - e se prega corretta-
mente riceve -, la grazia che lo aiuta e con la quale egli vince i nemi
ci170. Come afferma san Filoteo il Sinaita, è «Gesù invocato» che «scac
cia i demoni e i loro fantasmi»171.
Dinanzi ad avversari così astuti, senza la preghiera, l’uomo reste
rebbe limitato alle proprie forze, e queste non gli basterebbero per ot
tenere la vittoria172. Sant’Esichio di Batos raccomanda: «Se ci affidia
mo solo alla nostra vigilanza o alla nostra attenzione, saremo presto
travolti dai nemici, atterrati, noi cadremo. Ci impiglieremo sempre più
l6’ Cfr. E vagrio P ortico , La preghiera, 98.
164 G iovanni C um aco , La Scala, XXVm, 19. Cfr. F iloteo il Sinatta, Quaranta capitoli nep-
tiri, 2.
165La Scala, XX, 7. Cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 152.
166Capitoli sulla vigilanza, 98. Cfr. 174.
167Ibid., 20.
168Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 432.
169Cfr. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 130.
170Cfr. Esicm o DI Batos, Capitoli sulla vigilanza, 22; 26.
171 Quaranta capitoli neptici, 25. Cfr. 26. BARSANUFIO, Lettere, 39.
172 Cfr. EsiCfflO DI Batos, Capitoli sulla vigilanza, 24; 26; 42; 181.
508
nelle loro reti: cioè nei cattivi pensieri»173. «È impossibile scacciare la
suggestione cattiva senza l’invocazione di Gesù Cristo», egli arriva per
sino ad affermare174. Per mezzo della preghiera, infatti, l’uomo ottie
ne l’indispensabile aiuto di Dio, la cui onniscenza sventa le astuzie dei
demoni e la cui onnipotenza annienta la loro forza. «Che mai cessi [...]
la preghiera al Cristo Gesù nostro Dio. Infatti non troverai in tutta la
tua vita soccorso più forte, al di fuori di Gesù. Solo il Signore, poi
ché egli è Dio, conosce le furberie, le frodi e le astuzie dei demoni»,
scrive sant’Esichio di Batos175. «Ricorri a Dio contro [i tuoi nemici],
gettando la tua impotenza dinanzi alla sua presenza, perché egli può
non solo chiudere loro la bocca, ma anche ridurli all’impotenza», con
siglia da parte sua san Barsanufio176. E solo la preghiera che può non
solo respingere, ma distruggere il pensiero estraneo. «Ciò che spe-
gne e dissolve subito ogni pensiero, ogni parola, ogni fantasma, ogni
immagine, ogni male che suscitano in noi gli avversari, è l’invocazio
ne del Signore», scrive ancora sant’Esichio di Batos177. E san Filoteo il
Sinaita osserva allo stesso modo: «Il ricordo [...] di Gesù [...] dissipa
naturalmente tutti i sortilegi dei pensieri, le riflessioni, i ragionamen
ti, le immaginazioni, le forme tenebrose, in una parola, tutto quello
per cui il malfattore si prepara a combattere le anime e le affronta [...].
Se lo si invoca, Gesù consuma tutto facilmente»178.
Solo la preghiera può purificare totalmente il cuore179, cioè «di
struggere fino al marchio e all’impulso della passione stessa»180, e can
cellare completamente le tracce che i pensieri vi lasciano inevitabil
mente dopo il loro passaggio, soprattutto se ci si è lasciati andare a di
scutere con essi, e quindi a mescolarvi i propri pensieri181.
E così che, per mezzo della preghiera unita alla vigilanza, e in par
ticolare attraverso la preghiera di Gesù, «noi curiamo [...] la casa del
nostro cuore», dice sant’Esichio di Batos182, fino a fargli trovare la
salute perfetta.
Raggiungere questo scopo, tuttavia, esige molta pazienza, e la rac
173 Capitoli sulla vigilanza, 152. Cfr. 145; 169.
174Ibid., 142.
175Ibid., 39.
176Lettere, 166.
177 Capitoli sulla vigilanza, 153.
178 Quaranta capitoli neptici, 22.
179Cfr. Esicmo DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 28; 122; 152; 174.
180M arco l’E remita, A Nicola, 7.
181 Cfr. I d ., Capitoli neptici, 47.
182 Capitoli sulla vigilanza, 152.
509
comandazione di essere pazienti figura molto spesso insieme a quella
di essere vigilanti e di pregare183, essendo questo un atteggiamento in
dispensabile per condurre a buon fine la lotta contro i pensieri. Da
una parte, infatti, i pensieri riappaiono fintanto che non è distrutta la
loro radice, fintanto che sussistono nel cuore le disposizioni e predi
sposizioni sulla base delle quali essi nascono. Dall’altra parte, la lotta
eccita l’attività demoniaca e fa sovrabbondare le tentazioni. «Il Mali
gno si arma contro di noi quanto più noi resistiamo ai suoi attacchi»,
osserva san Macario184. La lotta contro i pensieri è, dunque, un’opera
di lungo respiro185, e ottenere una vittoria totale su certi pensieri esi
ge, talvolta, molte decine di anni di lotta assidua186, la quale è accom
pagnata inevitabilmente da sofferenza187. Durante tutto questo tempo,
lo scoraggiamento è in agguato permanente per colui che combatte.
La pazienza è, con la preghiera, un rimedio offerto all’uomo, come sot
tolinea sant’Ammona: «Sopportate [le tentazioni] fino a quando le su
pererete [...]. Ora, il rimedio per sopportare le tentazioni, è quello di
non scoraggiarvi e di pregare Dio rendendogli grazie con tutto il cuo
re, mostrando pazienza in tutto, così esse si allontaneranno da voi»188.
Con la preghiera, la pazienza appare come un mezzo sicuro per otte
nere la vittoria. «Fuggi la tentazione grazie alla pazienza e alla sup
plica», consiglia san Marco l’Eremita189. Ciò è conforme a quanto scri
ve l’apostolo san Giacomo: «Beato l’uomo che sostiene la tentazione,
poiché, ima volta collaudato, riceverà la corona della vita che Dio pro
mise a quanti lo amano» (Gc 1,12); è anche uno dei significati di
questa promessa del Cristo: «Chi avrà perseverato sino alla fine que
sti si salverà» (Mt 10,22)190.
L’uomo deve pregare per essere paziente, come deve pregare per
essere vigilante191: se la vigilanza suppone sforzo da parte dell’uomo,
per essere efficace essa deve esercitarsi in sinergia con la grazia di Dio192.
1,5 Cfr. D oroteo DI Gaza, Lettere, Vin, 193; x n i. Barsanufio, Lettere, 118.
184 Capitoli parafrasati, 132.
185 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola.
186 Vedi per esempio Apoftegmi, serie alfabetica, Isidoro, 3.
187 Cfr. G iovanni C arpazio, Capitoli ¿’esortazione, 30. M arco l ’Erem ita, Su coloro che pen
sano di essere giustificati per le loro opere, 68. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XIII, 144.
188Lettere, IX, 2.
189Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 98.
190Cfr. B arsanu fio, Lettere, 118.
191Cfr. M arco l ’Erem ita, Il battesimo, 23. EsiCfflO di B atos, Capitoli sulla vigilanza, 10; 94.
FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 25.
192 Cfr. Apoftegmi, N 437. ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 1. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni ce
nobitiche, XII, 6, 2.
510
È per questo che i Padri, nell’esortare l’uomo ad essere vigilante, ri
cordano che la vigilanza è un carisma193, e tanto più quanto più essa
è perfetta. Ora, è particolarmente per mezzo della preghiera, e so
prattutto per mezzo della preghiera di Gesù che l’uomo può ricevere
questa grazia194. Sant’Esichio di Batos scrive: «La preghiera fonda nel
lo spirito la vigilanza»195; «se tu vuoi [...] conoscere facilmente la vi
gilanza del cuore, fa’ che la preghiera di Gesù sia incollata al tuo re
spiro»196.
Se la vigilanza è il frutto della preghiera, nondimeno essa è favori
ta da alcuni atteggiamenti spirituali che in ogni caso devono accom
pagnarla e con i quali essa deve formare, perché si compia come con
viene «l’opera del cuore», un insieme indissociabile: il digiuno197, il si
lenzio198, la solitudine, il «ricordo della morte»199, e soprattutto il dolore
(pénthos) e l’umiltà200. Il dolore e la compunzione favoriscono parti
colarmente la vigilanza, nella misura in cui essi dànno all’uomo la pos
sibilità di avere in permanenza una coscienza acuta dei propri pecca
ti e delle passioni che abitano in lui. «Beato colui che ha sempre da
vanti agli occhi i suoi peccati, perché un tale uomo sarà sempre
vigilante», afferma un Padre201. E Abba Isaia scrive: «Il dolore è vigi
lanza perfetta: là dove non vi è dolore, non vi può essere vigilanza»202.
7. Effetti terapeutici
L’attenzione, la vigilanza e ciò che le accompagna appaiono come
la condizione di ogni progresso spirituale203, e in primo luogo della
guarigione spirituale dell’uomo. Essi sono, dice san Filoteo il Sinaita,
i «rimedi che salvano l’anima»204. Nello stesso tempo questi atteggia
menti sono costitutivi della salute spirituale dell’uomo. «La ricchez-
1,3 Cfr. B arSANUFIO, Lettere, 197; 267. M acakio d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), X X XI, 5.
m B aksanufio, Lettere, 197. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
155 Capitoli sulla vigilanza, 94.
m lbid„ 182. Cfr. 183.
1.7 Cfr. G iovanni C limaco , La. Scala, XIV, 21. F iloteo il S inaita , Quaranta capitoli nepti-
ci, 6; 15.
1.8 Cfr. F iloteo il S inaita , loc. tit., 6.
m Cfr. ibid., 2; 6; 13. Esicmo DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 17,155; 189.
200Cfr. F iloteo il S inaita, loc. dt., 11; 13; 14. E sichio di B atos, loc. cit., 152; 168; 176; 189.
201Apoftegmi, PE IH, 35,24-25.
202Asceticon, 30,4 B.
203 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, X , 104.
204 Quaranta capitoli neptici, 14.
511
za e la salute dell’anima sono fatte di vigilanza e di attenzione», scrive
sant’Isacco il Siro205.
Infatti, in questi atteggiamenti e in quelli che li accompagnano, lo
spirito «ritorna al suo proprio ordine»206, ritrova il suo stato normale
e la sua condizione naturale207. La vigilanza in particolare è, come di
ce san Filoteo il Sinaita, «il luogo dello spirito»208. Vladimiro Lossky
riassume bene l’insegnamento patristico quando afferma: «Lo spirito
umano, nel suo stato normale [...] è vigilante. Sono la sobrietà (népsis),
l’attenzione del cuore (kardiaké prosoché), la facoltà di giudizio e di di
scernimento delle cose spirituali (diàkrisis), che caratterizzano l’esse
re umano nel suo stato d’integrità»209.
Dire che lo spirito ritorna al suo ordine, che ritrova la sua norma
le attività, significa dire in particolare che smette di essere trascinato,
suo malgrado, dalle immagini e dai pensieri, di essere catturato da es
si, di essere sempre distratto, disperso, diviso, e infine reso loro schia
vo210, e attraverso di essi dei demoni211. La vigilanza ridona all’uomo la
perfetta padronanza dei suoi pensieri212, perché nessuno di essi or
mai sfugge alla sua attenzione, ma egli sottomette ciascuno di essi al
discernimento e l’accetta o lo rigetta secondo la sua natura buona o
cattiva. San Giovanni Cassiano scrive a questo proposito: «Il centu
rione del Vangelo è una felice figura dell’anima elevata a questa per
fezione [...]. Lungi dal lasciarsi trasportare da ogni pensiero che so
praggiunge, egli accoglieva quelli buoni e scacciava senza alcuna dif
ficoltà quelli cattivi, secondo il giudizio della sua prudenza [...]:
“Anch’io, benché subalterno, ho sotto di me dei soldati; se dico a uno:
va’! questo va; a un altro: vieni! egli viene; o al mio servo: fa’ questo!
egli lo fa” (Mi 8,9). Se, a nostra volta, lotteremo virilmente contro i
movimenti sregolati della nostra anima e contro i vizi, riusciremo a sot
tometterli alla nostra autorità e al nostro discernimento; se, militan
do nella nostra carne, possiamo spegnere le passioni, ridurre sotto il
205 Discorsi ascetici, 38.
206 EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 129. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 37.
207 Cfr. EsiCHlO d i B a to s, Capitoli sulla vigilanza, 129; 178.
208 Quaranta capitoli neptici, 19.
209 Théologie mystique de l’Église d’Orient, Paris 1944, p. 200.
210 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 172. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 25;
XI, 120. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll.), II, IV, 4; IX, 11. A mmona , Istruzioni, IV, 52. I sac
co IL SlRO, Discorsi ascetici, 8 e 60; Lettere, 3. Apoftegmi, P E 1 ,24 ,4 . BASILIO DI CESAREA, Ome
lia su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso». NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la cu
stodia del cuore.
211 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 36. Apoftegmi, PE 1 ,24, 4.
212 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, HI, 13.
512
controllo della ragione la truppa inconstante dei nostri pensieri, [...]
come premio per così eclatanti trionfi, ci vedremo elevati al rango di
questo centurione spirituale [...]. Saliti, come lui, a questa dignità
così alta, avremo il potere e la forza di comandare: i pensieri che noi
non vogliamo più seguire non ci trascineranno più; ma ci sarà con
sentito unirci a quelli che ci fanno pregustare le delizie dello spirito.
Alle suggestioni cattive comanderemo: “Andate via!”, ed esse se ne
andranno; a quelle buone diremo: “Venite!”, ed esse verranno»213.
E non sono solo i pensieri coscienti che l’uomo arriva a sottomet
tere al proprio giudizio e alla propria volontà, ma anche i pensieri che
prima erano in lui inconsci. Un’assidua pratica della vigilanza permette,
infatti, all’uomo di accedere al fondo nascosto della sua anima, di far
emergere il proprio inconscio spirituale alla superficie della sua co
scienza. E nota questa constatazione di Evagrio ripresa da san Massi
mo: «Numerose passioni sono nascoste nella nostra anima, che, anche
se ci sfuggono, ci vengono rivelate da tentazioni forti»214. La vigilan
za e la preghiera permettono all’uomo di scovarle, di purificarsene e
infine di preservarsene. E per questo che sant’Isacco scrive che «l’a
scesi dell’intelligenza [che] è opera del cuore [...] d preserva dalle pas
sioni segrete, perché non incontriamo nessuna di esse nel paese na
scosto, nel paese spirituale»215. Infatti, attraverso la pratica assidua del
la vigilanza e della preghiera, lo spirito si purifica, si affina e si acuisce216,
percepisce il minimo pensiero, e diventa capace di discernerne esat
tamente l’origine e la natura. Colui che combatte i pensieri, lo abbia
mo sottolineato, vede questi moltiplicarsi: gli appaiono allora pensie
ri che non aveva mai notato. La sua anima, che prima era come un la
go la cui superficie presentava un’acqua apparentemente calma e
limpida, sotto i colpi della vigilanza e della preghiera si agita e s’in
torbida, rivelando un contenuto torbido e nauseabondo, lasciando ap
parire in superficie i rifiuti e la putrefazione che essa celava nel suo
fondo. A questo proposito san Diadoco scrive: «Come gli occhi del
nostro corpo, quando sono in buono stato, possono vedere tutto, per
sino i moscerini e le zanzare che volteggiano nell’aria; mentre quando
sono velati da un turbamento [...], se si presenta a loro qualche gran
de oggetto, essi lo vedono confusamente, dal momento che i loro sen-
213 Conferenze, VII, 5.
214 E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, VI, 52. M assimo il C onfessore , Centurie sulla ca
rità, IV, 52.
215 Discorsi ascetici, 11.
216 Cfr. F iloteo IL Sinatta, Quaranta capitoli neptici, 28.
513
si visivi non percepiscono i piccoli; così avviene per l’anima: se essa in
debolisce con l’attenzione l’accecamento che le viene dall’amore del
mondo, essa considererà grandissime le sue cadute anche più lievi»217.
E san Filoteo il Sinaita, dopo aver sottolineato che l’anima dell’uomo
decaduto «è incatenata nell’oscurità e [che] i suoi occhi interiori so
no accecati», scrive: «Quando l’anima comincerà a pregare Dio e a ve
gliare grazie alla preghiera, allora, grazie alla preghiera, essa sarà li
berata dalle tenebre. È impossibile essere liberati in altro modo. In
fatti, allora, l’anima può riconoscere che vi è all’interno del cuore
un’altra lotta, un’altra opposizione nascosta, un’altra guerra contro i
pensieri degli spiriti del male»218. Lo stesso autore dice ancora: «La vi
gilanza illumina e purifica innanzitutto la coscienza. Poi, quando la co
scienza è stata purificata, come una luce occultata che si accende im
provvisamente, essa scaccia le grandi tenebre. E quando le tenebre so
no state scacciate da una continua e vera vigilanza, la coscienza rivela
di nuovo ciò che era nascosto»219.
La presa di coscienza e la padronanza di tutti i suoi pensieri con
tribuiscono a realizzare ciò che costituisce il principale effetto della
pratica assidua della vigilanza e della preghiera che va di pari passo
con essa; ossia l’uomo, per grazia di Dio, arriva sempre più ad aste
nersi dai peccati di azione e di pensiero, e a poco a poco si trova pu
rificato dai peccati passati, liberato da tutti i cattivi pensieri, guarito
da tutte le sue passioni, liberato da tutte le cattive disposizioni e pre
disposizioni, conscie e inconscie, in breve, liberato da ogni male che
era in lui220. E per questo che san Barsanufio raccomanda: «Sii vigi
lante per sterminare con forza le otto nazioni straniere»221, cioè le ot
to passioni principali, e per ciò stesso tutte quelle che ne procedono.
A proposito dell’attenzione, anche san Gregorio Palamas scrive: «Po
ni dunque questa attenzione sulla tua anima e sul tuo corpo: essa ti li
bererà facilmente dalle cattive passioni del corpo e dell’anima»222. «La
217 Cento capitoli gnostici, 27.
218 Quaranta capitoli neptici, 19.
219Ibid., 24.
220Cfr. G io v a n n i C assian o , Conferenze, VE, 5. M a c a r io d ’E g it t o , Omelie (Coll. E), LEI,
15. M a r co l ’E rem ita, A Nicola, 7. E sic h io d i B a to s, Capitoli sulla vigilanza, 1; 4; 51; 109; 111;
122; 154; 188. ISAIA DI SCETE, Asceticon, VIE, 60. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca
rità, E, 11. Apoftegmi, serie alfabetica, Teodora, 4. Ibid., Arm. II, 209. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoti gnostici, 23. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 24; 28. GIOVANNI
DAMASCENO, Discorso utile aWanima.
221 Lettere, 44.
222 Triadi, I, 2, 9.
514
purezza dei pensieri ha la sua origine nella sofferenza e nella vigilan
za», nota sant’Isacco223. «Se siamo attivi e molto vigilanti, non trove
remo sudiciume in noi stessi», afferma Abba Poemen224. E san Niceforo
il Solitario scrive: «L’attenzione è il segno della penitenza compiuta
[...], è lo spogliamento dalle sue passioni [...], è la certezza sicura del
perdono dei suoi peccati»225. San Diadoco di Foticea nota che l’ani
ma, «quando ha iniziato a purificarsi per l’intensità della sua atten
zione, sente allora, come un vero rimedio della vita, il timore divino
che la brucia, come attraverso l’azione dei suoi rimproveri, in un
fuoco d’impassibilità»226. Quanto a sant’Esichio di Batos, egli consi
dera la vigilanza e la preghiera come rimedi che permettono all’anima
di vomitare tutti i pensieri avvelenati che ha assorbito: «Come i cibi
nocivi danneggiano il corpo fin da quando li si ha assunti, ma colui
che ne ha mangiati può, grazie a qualche rimedio, vomitarli subito ap
pena sente il male e non riceverne nocumento, così lo spirito, quando
ha ricevuto e assimilato pensieri cattivi e sente il loro amaro, li vomi
ta facilmente e li rigetta completamente, per mezzo della preghiera
di Gesù detta dal fondo del cuore. Ciò è quanto, grazie a Dio [...], l’e
sperienza ha fatto conprendere a coloro che sono vigilanti»227.
Infatti, la liberazione dai pensieri cattivi e dalle passioni avviene pro
gressivamente. Se l’uomo si applica con pazienza e assiduità e in ma
niera sistematica e costante a rigettare i pensieri fin dalla loro appari
zione, riduce a poco a poco il loro numero e la loro forza e indeboli
sce a poco a poco le passioni228, da cui essi procedono o che ne proce
dono, perché queste non trovano più nell’uomo il nutrimento che per
metteva loro di sussistere. «I cattivi pensieri, se parli loro e se ti com
piaci in essi, spingeranno sempre più le radici nel tuo cuore, cresce
ranno e non se ne andranno più dal tuo cuore. Se, al contrario, non
parli loro, e se, anziché compiacerli, tu li hai in odio, periranno e usci
ranno dal tuo cuore», afferma un Anziano229.
Questa pratica permette, dunque, non solo di respingere i pensieri ma
di arrivare fino a eliminarli e di distruggere le passioni stesse230, e que
sto fino alla loro origine prima e fino a tutti i segni che essi hanno po
223Discorsi ascetici, 30.
224Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 173.
225 Trattato sulla vigilanza e sulla custodia del cuore.
226 Cento capitoli gnostici, 17.
227 Capitoli sulla vigilanza, 188.
228 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 11.
229Apoftegmi, Eth. Coll. 14,47. Cfr. ibid., serie alfabetica, Poemen, 15; 20.
230 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 48.
515
tuto lasciare nell’anima231. È per questo motivo che così scrive sant’Esi-
chio di Batos: «Se è osservata da noi, come si deve, la purezza del cuore,
cioè la sorveglianza e la custodia dello spirito [...], essa esclude dal cuo
re tutte le passioni e tutto il male fino alla radice»232. È per questo che
egli definisce così la vigilanza: «Un metodo spirituale che, con l’aiuto di
Dio, libera interamente l’uomo dai pensieri e dalle parole passionali co
me dalle azioni cattive, se è perseguita per lungo tempo e ardentemen
te»; «è questa, aggiunge, che è propriamente la purezza del cuore»233.
Liberando l’uomo dalle sue passioni, la vigilanza, insieme alla pre
ghiera, contribuisce a collocare le virtù al loro posto254. «L’attenzione,
dice san Niceforo il Solitario, ci fa spogliare delle passioni per rive
stirci delle virtù»235. E sant’Esichio di Batos insegna: «La vigilanza è la
guida di tutte le virtù e di tutti i comandamenti di Dio»236.
Questa funzione terapeutica della vigilanza, che libera l’uomo dal
le malattie spirituali, quali sono le passioni, per ristabilire in lui la sa
lute delle virtù, ne costituisce, tuttavia, solo il primo aspetto. Una vol
ta acquistata la salute, all’uomo rimane il compito di preservarla: la vi
gilanza e l’attenzione servono proprio a questo. Tale funzione profilattica
può essere molto chiaramente indicata da queste espressioni: «custo
dia del cuore» (phylake kardtas) e «custodia dello spirito» (phylache o
terésis noós), che sono praticamente sinonimi237, ma che i Padri utiliz
zano indicandone la diversa connotazione238. In un certo senso, la vi
gilanza (che, ricordiamolo, è indissociabile dalla preghiera che l’ac
compagna) è sempre profilattica: nel caso dell’uomo che lotta contro
le passioni, si tratta di evitare ogni pensiero che servirebbe ad ali
mentarle; nel caso di colui che se ne è liberato, si tratta di evitare ogni
pensiero che le reintrodurrebbe nel suo cuore. Ma, nel primo caso,
2” Cfr. Me 13,35-36; lTs 5,6. BARSANUFIO, Lettere, 197. BASILIO DI CESAREA, Omelia su
queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso».
254 Cfr. EsiCfflO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 86.
255Apoftegmi, serie alfabetica, Orsirio, 2. Ibid., N 273. ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 102; 120;
129. M a r c o l ’E rem ita, A Nicola, 12-13.
256Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 197; 573. MACARIO i l GRANDE, Omelie (Coll. E ), IV, 5.
257 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 197; 259. AMMONA, Lettere, X, 5. Apoftegmi, serie alfabetica,
Orsirio, 2; Sindetico, 17. Ibid., N 273; N 401. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 120.
M a r co l ’E rem ita, A Nicola, 12-13.
258Cfr. G iovan ni di G aza, Lettere, 660. Isa cco i l Siro, Discorsi ascetici, 73. G iovanni C li-
MACO, La Scala, X X V E , 9. Apoftegmi, P E 1 ,2 4 ,4 .
259 M arco l’E remita, A Nicola, 12-13.
260Discorso utile all’anima.
261A Nicola, 12-13.
519
VI
TERAPIA COADIUVANTE: L’ASCESI CORPORALE
44 ibid.
45 Istruzioni spirituali, II, 19. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 57.
46 D o ro te o di G aza, loc. cit. Cfr. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 16.
47Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 44.
48 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 27.
49 Ibid., 71.
50 Ibid
526
la filautia, si spiega per il fatto che esse sono antagoniste del piacere
di cui esse si nutrono. E per questo che san Talassio scrive: «Il lungo
amore per la pena (philoponia) bandisce l’amore del piacere (phile-
doniaW1. E ancora: «La vita dura e l’afflizione - o volontarie o susci
tate dalla Provvidenza - cancellano il piacere»52. «Le afflizioni ucci
dono il piacere delle passioni, mentre il conforto lo nutre e lo accre
sce», scrive da parte sua sant’Isacco53. E san Niceta Stetatos consiglia:
«Colui che si è asservito fino alla sazietà ai piaceri e alle opere del cor
po, si dedichi fino alla sazietà alle pene dell’ascesi nel sudore della
vita dura. La sazietà rovesci allora [...] la sazietà, il dolore il piacere,
e le fatiche del corpo il conforto»54. E così che per mezzo dell’ascesi
l’uomo diviene allora progressivamente insensibile agli appetiti car
nali55. San Massimo, che, lo abbiamo visto, attribuisce nel processo
della caduta dell’uomo un ruolo fondamentale alla ricerca del piacere
e all’allontanamento del dolore, vede nelle sofferenze volontarie del-
l’ascesi e nelle sofferenze involontarie assunte come quelle56, un mez
zo privilegiato del ritorno dell’uomo al suo stato originale57. A que
sto proposito egli scrive: «Ingannati all’inizio dall’illusione del piace
re, abbiamo preferito la morte alla vera vita. Abbiamo, dunque, cono
sciuto con gratitudine la pena del corpo che distrugge il piacere. Poi
ché dunque la morte del piacere fa scomparire con sé la morte che
questo aveva suscitato, riceviamo per contro, tornando in noi, la vita
[...]»58. Mentre dalla ricerca del piacere e dall’allontanamento del
dolore derivano tutte le passioni, l’accettazione delle sofferenze per
mette l’eliminazione delle passioni e l’acquisto delle virtù: «Se, quan
do la carne è trattata bene, la forza del peccato ha l’abitudine di cre
scere, ne segue allora che la forza della virtù si eleva naturalmente e
a buon diritto quando la carne è maltrattata»59; «Lottare nelle pene è
il combattimento della virtù, il prezzo della vittoria che porta, in co
loro che dànno prova di pazienza, l’impassibilità dell’anima»60.
In modo particolare, l’ascesi riduce le passioni che nascono dalla
531
Nissa e san Basilio di Andrà mettono molto in guardia contro que
sto pericolo86. L’ultimo dd due scrive in particolare: «Se il dominio dd
corpo sull’anima è un impedimento all’acquisto del bene, d’altro la
to la sua debolezza, quando fa sì che lo strumento corporeo sia inca
pace di servire i desideri dell’anima, elimina allo stesso modo la cor
sa al bene»87. San Gregorio Magno consiglia in questa prospettiva: «At
traverso l’ascesi sono i vizi della carne che si vogliono estirpare, non
la carne stessa. Ciascuno deve rendersi padrone dd suo corpo, ma con
una moderazione tale che la carne, rivoltandosi, non arrivi a spinger
ci a commettere qualche colpa, e che essa conservi abbastanza vitalità
per continuare efficacemente a compiere bene ciò che deve fare»88.
La finalità dell’ascesi fisica, che è quella di favorire la vita spiritua
le, non deve dunque mai essere persa di vista. Lo scopo ultimo dd-
l’ascesi, dice san Gregorio di Nissa, «è quello di mirare non a oppri
mere il corpo, ma a facilitare le funzioni dell’anima»89. Sulla base di
questo principio, la regola pratica dell’ascesi dev’essere, come indica
san Gregorio di Nissa, quella «di guardarsi anche dalle mancanze di
moderazione da una parte e dall’altra vegliando affinché la prosperità
della carne non seppellisca lo spirito (noùs) e affinché, al contrario,
la sua estenuazione gratuita non lo debiliti totalmente, non lo pro
stri, lasciandolo assorbito dalle sofferenze fisiche. Sarebbe opportuno,
altresì, ricordarsi della saggia prescrizione che vieta anche di voltarsi
a destra o nella direzione opposta (cfr. Pro 4,27)»90. Si tratterà di fare
in modo «che l’abbondanza non abbia nulla di troppo e che l’indi
genza non manchi di nulla» (cfr. 2Cor 8,15; Es 16,18), «ma eliminan
do ciò che passa la misura nell’uno o nell’altro senso, si avrà cura di
aggiungere ciò che manca, e ci si guarderà con uguale zelo da ciò
che rende il corpo inutilizzabile nell’uno e nell’altro caso: non spin
gendo affatto la carne, per un benessere eccessivo, all’indisciplina e al
l’indocilità, né rendendola, con un’oppressione eccessiva, malsana, de
bole e senza vigore per il servizio che essa deve rendere»91. Le stesse
raccomandazioni sono fomite da san Basilio di Andrà92 che scrive in
particolare: «Con questo rivestimento [il corpo], al quale ci unisce un
86 G regorio di N issa, Trattato sulla verginità, XII, 1. B asilio d ’A ncira, Trattato sulla ver-
ginità, 8.
87 Loc. cit., 10. Cfr. 11.
88Moralia su Giobbe, L X X , 41. Cfr. X X X , 18.
89 Trattato sulla verginità, X X H , 2.
90Ibid)XXE>l.
91 Ibid., X X H , 2. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Sermone ascetico, III, PG 31, 876D.
92 Trattato sulla verginità, 8-11.
532
legame naturale, occorre avanzare nella corsa della virtù, evitando
sia di troppo rilasciare le briglie sia di tirarle molto forte. Così per que
sta ragione, è opportuno esaminare accuratamente lo stato nel quale
si trova il corpo»93.
Questo esame e la definizione della giusta misura dell’ascesi fisica
provengono da una delle funzioni della virtù della prudenza, cioè
del discernimento spirituale94, di cui abbiamo già parlato.
93 Ibid., 8. Il grande asceta, che è sant’Arsenio, invita ad altrettanta moderazione nella sua
Lettera (71; 72). Vedi anche TALASSIO, Centurie, DI, 12.
94Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, II, 16s. Occorre notare che il termine discretio, usa
to da san Giovanni Cassiano, possiede il duplice significato di «discernimento» (che corrispon
de al greco diàkrisis) e di «misura» (che corrisponde al greco métron). Vedi l’articolo «Discre
tio», in Dictionnaire de spiritualité, t. 3, col. 1311s.
533
PARTE QUINTA
18Istituzioni cenobitiche, V, 8.
19Lettere, 155.
20 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XXX, 18.
21 Cfr. DIADOCO DI Foticea, Cento capitoli gnostici, 45; 48; 49.
22 Istituzioni cenobitiche, V, 5.
23 Ibid., 6.
24Regole lunghe, 19. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, V, 5.
540
In tali condizioni, è compito della coscienza di ciascuno valutare ciò
che conviene alla propria situazione. Per questo san Giovanni Cassia-
no osserva che si deve «ricercare la perfezione della temperanza [...]
innanzitutto nella testimonianza della coscienza»25. È questa che deve
dar prova di discernimento indispensabile26. San Doroteo di Gaza
insiste sull’importanza di un tale discernimento: «Chiunque vuol es
sere purificato dai peccati [...] deve innanzitutto guardarsi dalla man
canza di discernimento nel nutrirsi, perché, secondo i Padri, la man
canza di discernimento nella nutrizione genera ogni sorta di male nel
l’uomo»27. Si tratta, infatti, di determinare se lo stato attuale del corpo
favorisce la vita spirituale o se, al contrario, la ostacola. Gli ostacoli so
no, da una parte, la troppo grande forza del corpo e, dall’altra, una
troppo grande debolezza, cose che costituiscono i due eccessi da evi
tare. E opportuno, dunque, nutrire di più il corpo se esso sembra ina
datto ad esercitare il suo ruolo nella vita spirituale e se esso indeboli
sce l’anima anziché sostenerla, se la deprime e polarizza la sua atten
zione invece di stimolarla; al contrario, è opportuno ridurre la propria
alimentazione se per la sua eccessiva forza il corpo appesantisce l’ani
ma e favorisce la nascita e lo sviluppo di pensieri e moti passionali28.
Sant’Ipazio così insegna a tale proposito: «Noi ordiniamo di gover
nare il corpo, affinché esso non sia appesantito dagli alimenti e non
faccia affondare l’anima nei peccati, e, d’altra parte, non si rinsecchi
sca e si accasci ed impedisca all’anima di dedicarsi alle cose spiritua
li. L’anima, però, deve contrastare il corpo, in modo che, quando que
sto s’indebolisce, essa gli ceda qualcosa, e quando esso riprende ener
gia, essa tiri le briglie»29. San Doroteo di Gaza precisa nello stesso
senso: «Mangia secondo il bisogno colui che, essendosi fissata una ra
zione giornaliera, la diminuisce, se, per Pappesantimento che questa
gli procura, si rende conto che occorre toglierne qualcosa. Se, al con
trario, questa razione, lungi dall’appesantirlo, non sostiene il suo
corpo e dev’essere leggermente aumentata, vi aggiunge un piccolo sup
plemento. In questo modo, egli valuta correttamente i suoi bisogni e,
in seguito, si conforma a ciò che è stato fissato, non per il piacere,
ma allo scopo di mantenere la forza del suo corpo»50.
25Loc. cit., 9.
26Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXX, 18.
27Istruzioni spirituali, XV, 161.
28Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 45. G regorio M ag no , Moralia su Giob
be,, XXX, 18.
29 CALLINICO, Vita d'Ipazio, XXIV, 70-71.
30Istruzioni spirituali, XV, 162.
541
2) Nell’esaminare la passione della gastrimargia, abbiamo visto ch
il suo carattere patologico riguarda non solo il fatto che essa costitui
sce una perversione, un uso contro natura, della funzione nutritiva,
ma altresì e soprattutto il fatto che essa allontana l’uomo da Dio.
Abbiamo visto come la gastrimargia costituisca in fondo un atteggia
mento idolatrico, poiché l’uomo fa delle sue funzioni gustative e di
gestive il centro del suo essere e della loro soddisfazione un soggetto
di preoccupazione e, talvolta, anche uno degli scopi essenziali della
sua esistenza, dando ad essi il posto che naturalmente spetta a Dio.
La terapia della gastrimargia può consistere solo in una conversio
ne, in un cambiamento di atteggiamento che permetta all’uomo di ri
dare il primo posto al desiderio di Dio, all’attenzione a Dio, e consi
derare che Dio è per lui l’unico assoluto, il solo vero fine della propria
esistenza, che è a lui «che spetta ogni gloria, onore e adorazione», e
che i beni spirituali che riceviamo da lui sono gli unici che servono ve
ramente alla natura dell’uomo, e sono perfetti. Per questo, san Gio
vanni Cassiano afferma per mezzo «del desiderio di perfezione» l’uo
mo deve sforzarsi di «spegnere la concupiscenza del mangiare»31e che
egli non può liberarsi dalla schiavitù della carne e vincere la passione
se non concentrando il suo sguardo sulle realtà spirituali32. E precisa:
«In effetti, non potremo mai disprezzare il piacere dei cibi terreni, se
il nostro spirito non si applica alla contemplazione divina e non trova
piuttosto la sua gioia nell’amore della virtù e nella bellezza del cibo ce
leste»33. San Barsanufìo, a sua volta, osserva che colui che «ricerca le
cose di lassù, pensa alle cose di lassù, medita le cose di lassù», costui
«dimentica “di mangiare il suo pane” (cfr. Sai 102[101] ,5)»; in altre
parole, non dimostra più attaccamento né attenzione al nutrimento34.
E rendendo grazie a Dio, quando si nutre, che l’uomo dimostra l’at
tenzione e l’adorazione dovute solo a Dio e può mettere fine alla
passione. Abbiamo visto, infatti, che, nella passione della gastrimar
gia, l’uomo gode degli alimenti al di fuori di Dio, considerandoli in se
stessi e facendoli servire esclusivamente al proprio piacere. Ora, gli ali
menti sono creati (in modo diretto o indiretto) da Dio che ne ha fat
to dono agli uomini: ecco perché essi non hanno valore in se stessi ma
in quanto riferimento a Dio, e sono destinati a essere consumati eu
caristicamente. Per questo san Paolo insegna che Dio li «creò perché
31 Istituzioni cenobitiche, V, 14.
32Ibid., 16.
33Ibid., 14.
34 Lettere, 154.
542
fossero presi con animo grato dai fedeli e da quelli che hanno cono
sciuto la verità» (lTm 4,3). L’uomo guarisce dalla passione e ritrova
un atteggiamento virtuoso attraverso un cambiamento radicale del suo
atteggiamento che gli fa smettere di considerare il cibo per se stesso
e usarlo per il proprio piacere, per considerarlo, al contrario, in Dio,
per rapportarlo a lui e a lui rendere grazie. Per questo san Paolo con
siglia: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la glo
ria di Dio» (lCor 10,31)35. Consumando gli alimenti in questo modo,
l’uomo li santifica (cfr. lTm 4,5) e con essi tutto il cosmo creato che
essi rappresentano. Nello stesso tempo, e soprattutto, santifica se stes
so, non solo sopprimendo la barriera che la gastrimargia poneva tra
lui e Dio, ma unendosi di più a Dio ogni volta che gli rende grazie.
La gastrimargia non ha la sua origine nei bisogni del corpo, ma in
alcuni desideri che provengono dal cuore, cioè dall’uomo interiore. Es
sa consiste in un certo atteggiamento di fronte agli alimenti e in un cer
to modo di considerare la nutrizione. Essa risiede essenzialmente in una
ricerca del piacere legato alla qualità o/e alla quantità degli alimenti,
che spesso porta l’uomo a nutrirsi eccessivamente, cioè al di là dello
stesso fabbisogno. Pertanto, la lotta contro questa passione e la sua gua
rigione passano, come abbiamo già visto, attraverso il discernimento
e il dominio dei pensieri36, che va di pari passo con la vigilanza37.
D’altra parte, però, è fuori dubbio che la gastrimargia sia una «pas
sione fisica», cioè fa parte di quelle passioni che hanno una relazione
diretta ed essenziale con il corpo, non solo perché tali passioni non
possono manifestarsi se non per suo mezzo, ma anche perché esso con
tribuisce a suscitarle. Ora queste passioni, come afferma san Giovan
ni Cassiano, «non guariscono se non mediante un duplice trattamen
to»38. In altri termini, la terapia praticata a livello dell’anima dev’esse
re completata da una terapia da applicarsi allo stesso corpo. A questo
proposito san Giovanni Cassiano così scrive: «La gastrimargia e la lus
suria [...] risvegliandosi varie volte senza che la volontà vi abbia pre
so parte, per l’istigazione e per il prurito della stessa carne, hanno bi
sogno tuttavia, per consumarsi, di un oggetto esteriore, e non arriva
no all’effetto se non mediante un’azione del corpo [...]. Proprio perché
” Cfr. Basilio di C esarea, Regole lunghe, 18. D iadoco di Foucea , Cento capitoli gnostì-
ci, 43. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XV, 162.
36Su quest’ultimo punto, vedi per esempio GIOVANNI DI G aza, Lettere, 161; 163.
37 Cfr. G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 4. G iovanni di G aza, Lettere, 163.
38 Conferenze, V, 4.
543
esse non si consumano se non per il ministero della carne, questi due
vizi39richiedono specialmente, oltre alla terapia spirituale dell’anima,
la pratica della temperanza del corpo»40, cioè di quanto precedente-
mente abbiamo definito ascesi fisica. È così che i digiuni41, le veglie42,
il lavoro manuale43 possono, a seconda dei casi e delle circostanze44,
contribuire alla guarigione della gastrimargia.
La lettura della Scrittura45, la meditazione sulla morte46costituisco
no preziose terapie di sostegno. E, come nella lotta contro tutte le al
tre passioni, la compunzione del cuore, attraverso la quale l’uomo, da
vanti a Dio, piange per le sue colpe, si dissocia dalla passione e ma
nifesta la volontà di rinunciarvi47, gioca un ruolo fondamentale, così
come, ben inteso, la preghiera con la quale egli chiede l’aiuto di Dio48.
Così san Giovanni Climaco, in una prosopopea, fa dire alla gastri
margia: «Colui che ha ricevuto il Consolatore implora la sua assi
stenza contro di me; ed egli, così invocato, non mi permette di agire
in modo passionale»49, il che si accorda con l’affermazione di san Pao
lo che la temperanza è un «frutto dello Spirito» {Gal5,22).
Abbiamo visto, esaminando la passione della gastrimargia, che es
sa è per l’anima e per il corpo dell’uomo fonte di un gran numero di
mali. I Padri la considerano «l’origine di tutte le altre passioni»50e «la
distruttrice di tutti i frutti delle virtù»51. Va da sé, dunque, che la pra
tica della virtù della temperanza permette l’eliminazione di questi ma
li52e di queste passioni53 e, inversamente, «procura la salute»54 e si ri
vela il principio di molti beni55 e di virtù56.
39L’autore ricorda la lussuria e, nello stesso tempo, la gastrimargia.
40 Conferenze, V, 4.
41 Ibid.; Istituzioni cenobitiche, V, 14.
42Id., Conferenze, V, 4; Istituzioni cenobitiche, V, 14; 20. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIV, 29.
43 G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 4. G iovanni Climaco, loc. dt.
44 Cfr. G iovanni Climaco, loc. dt.
45 Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, V, 14; Conferenze, V, 4.
46Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XIV, 34; 38; VI, 14.
47 Cfr. G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, V, 14. G iovanni d i G aza , Lettere, 462.
BARSANUFIO, Lettere, 604.
48 Cfr. G iovanni di G aza, Lettere, 163. Barsanufio, Lettere, 328.
49 G iovanni Climaco, La Scala, XIV, 38.
30Ibid., 35.
51 M assim o il C onfessore , Questioni a Talassio, 65, P G 9 0,768A.
52 Callinico, Vita dTpazio, XXIV, 62.
53Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 86. Gregorio Nazianzeno consiglia:
«Comanda allo stomaco e comanderai alle altre tue passioni» {Poesie, II, n, 6).
54 Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18.
55 Callinico, Vita dTpazio, XXTV, 62; 72.
56Cfr. G iovanni C risostom o , Trattato sulla verginità, 71. G regorio d i N issa , Omelie sul
Cantico dei Cantid, XII.
544
Abbiamo evidenziato, in primo luogo, che la gastrimargia stabilisce
una serie di ostacoli alla vita spirituale, poiché essa ha come effetto
d’immergere l’anima nel torpore, d’ispessire e appesantire lo spirito,
di rallentare i suoi movimenti, impedendogli di condurre come si con
viene la lotta, riducendo e alterando la sua capacità di discernimento
e rendendo difficile la preghiera. La temperanza permette di togliere
questi ostacoli57, e quindi ha l’effetto di «facilitare le funzioni dell’a
nima»58, in particolare di rendere lo spirito più vigile, più dinamico,
di rafforzare le capacità di discernimento e di comprensione59, di fa
vorire la compunzione60e la preghiera61.
Abbiamo visto, inoltre, che la gastrimargia suscita e nutre numero
se passioni al primo posto delle quali c’è la lussuria. La temperanza ha
l’effetto di «domare le passioni del corpo»62 e, alla fine, permette di
annientarle63, ma contribuisce altresì a ridurre le passioni dell’anima,
in particolare la cenodossia64, l’orgoglio e la filautia65, e favorisce il ri
stabilimento delle virtù contrarie66: continenza e castità67per quanto
riguarda la lussuria, l’umiltà68per quanto riguarda l’orgoglio. Mentre
la gastrimargia suscita e alimenta innumerevoli pensieri passionali, la
temperanza contribuisce a «conservare lo spirito libero di fronte agli
oggetti e alle loro rappresentazioni»69, ad instaurare nell’anima la cal
ma e la stabilità, e a purificare il cuore70, il che aiuta l’uomo ad arri
vare a una preghiera pura e a ritrovare una vera conoscenza71.
57Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 18. C allinico , Vita d’Ipazio, XXIV, 24; 70.
58G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, XXII, 2.
59 Cfr. C allinico , Vita d'Ipazio, XXIV, 24,63.
“ Cfr. G iovanni Climaco, La Scala, XIV, 22.
61 Cfr. ibid., x x v n i, 14.
62 Callinico, Vita d’Ipazio, XXIV, 63.
6S EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35. BASILIO DI CESAREA, Regole
lunghe, 16.
64 G iovanni Climaco, La Scala, XXVI, 161.
65M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 8.
66G iovanni Crisostomo, Trattato sulla verginità, 71.
67 Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18. Giovanni Climaco, La Scala, XIV, 6. Cfr. Mas
simo IL CONFESSORE, Discorso ascetico, 23.
68Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XIV, 24; XXVI, 161.
® M assimo il Confessore, Centurie sulla carità, in, 39.
70 Cfr. C a llin ico , Vita d’Ipazio, XXIV, 63. G io v ann i C assia no , Istituzioni cenobitiche, V,
22. M assimo il C onfessore , loc. cit., IV, 72. E sichio d i B atos , Capitoli sulla vigilanza, 75.
71 Cfr. Callinico, Vita d’Ipazio, XXIV, 63. Clemente d ’Alessandria, Stromata, VII, 12.
M assimo il C onfessore, Centurie sulla carità, IV, 57.
545
II
TERAPIA DELLA LUSSURIA
LA CONTINENZA E LA CASTITÀ
10Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11; 20; Conferenze, V, 10; XXII, 3.
11 Conferenze, XXII, 6.
12Ibid., V, 4.
13 Cfr. G io v ann i C lim aco , La Scala, V, 30. M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità,
n, 19; III, 13.
14 Conferenze, V, 4.
15Istituzioni cenobitiche, VI, 3.
16 Cfr. ibid., VI, 12. BASILIO DI A ncira , Trattato sulla verginità 4; 5; 13; 14.
17 Cfr. G io v ann i C a ssia n o , Istituzioni cenobitiche, VI, 1; 2. G io v ann i C lim aco , La Scala,
XV, 16.
548
psichica forse più ancora che fisica. Ecco perché è opportuno com
battere la lussuria sul piano dell’anima forse ancor più che sul piano
del corpo. Il Nemico, osserva san Giovanni Cassiano, «ci attacca su
un duplice fronte. Occorre, dunque, resistergli su due fronti; e sicco
me egli trae la sua forza o la sua debolezza sia dal corpo che dall’ani
ma, allo stesso modo può essere respinto solo da coloro che combat
tono su tutti e due i piani»18. Tutti i Padri insistono sul fatto che la ca
stità non consiste solo né principalmente nella continenza corporea19
e che questa è inutile se l’anima rimane sede di desideri e d’immagi
nazioni impure. Poiché «la cupidigia che si compie con il corpo non
viene dal corpo»20, il principio della castità è essenzialmente nell’ani
ma, e consiste principalmente neU’«integrità del cuore»21. Poiché i de
sideri, i pensieri passionali, le immaginazioni e i fantasmi nascono
dal cuore (cfr. Mt 15,19), è nella «custodia del cuore» che consiste la
terapia principale della lussuria. San Giovanni Cassiano scrive a que
sto riguardo: «Occorre in primo luogo porre rimedio a ciò da cui si sa
vche deriva la fonte della vita e della morte, come dice Salomone: “Con
ogni cura custodisci il tuo cuore, perché da lui sgorga la vita” (Pro
4,23). Infatti, la carne obbedisce alla decisione e al comando del cuo
re»22. Questa pratica, che suppone il discernimento e la vigilanza-so-
brietà spirituali, consiste, lo abbiamo visto, nel respingere pensieri, ri
cordi e immagini cattivi fin dal momento in cui insorgono, quando es
si non sono che suggestioni, per evitare di acconsentirvi e di gioirne
e di fare così spazio alla passione prima nell’anima poi nel corpo23. Nel
la lotta contro questa passione in particolare, a motivo della sua gran
de forza, è opportuno preferire il rifiuto immediato delle suggestioni
alla confutazione antirretica dei pensieri, come insegna san Giovanni
Climaco: «Non sperare di respingere il demone della lussuria con la
discussione e la contraddizione, perché, avendo come arma la natura,
egli troverà buone ragioni»24.
18Istituzioni cenobitiche, VI, 1.
19Vedi, per esempio, GIOVANNI CASSIANO istituzioni cenobitiche, VI, 4; Conferenze, XII, 10-
11; Xm, 5) il quale sottolinea che la continenza in qualche modo non è che l’inizio della castità,
una «certa castità parziale»; la vera castità suppone «la purezza costante del corpo» e inoltre e
soprattutto «la purezza interiore dell’anima». Vedi anche Apoftegmi, N 178.
20C lemente d ’A lessandria , Stronzata, ni, 4.
21 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 19. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 8.
22 Istituzioni cenobitiche, VI, 2.
23 Cfr. Apoftegmi, serie degli anonim i, 31; 33; 46; 52; 53. BARSANIMO, Lettere, 86; 248; 256.
G iovanni d i G aza , Lettere, 180. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 6. G iovanni C assiano , Isti
tuzioni cenobitiche, VI, 9.
24 La Scala, XV, 22.
549
È opportuno naturalmente accompagnare alla custodia del cuore
anche la preghiera, in particolare la preghiera monologica25: queste
due attività, lo abbiamo dimostrato, sono indissociabili. Quando la
preghiera monologica non è ben fissata nel cuore, è utile aggiungervi
la «preghiera del corpo», poiché anche questa contribuisce a preser
vare l’uomo da tale passione26. «Coloro che non hanno ancora rag
giunto la vera preghiera del cuore», scrive san Giovanni Climaco, «tro
veranno aiuto nello sforzo doloroso della preghiera corporea; voglio
dire: stendere le mani, battersi il petto, levare verso il cielo uno sguar
do limpido, gemere profondamente, ripetere continuamente delle me-
tanie»27. Anche la salmodia si rivela molto efficace contro questa ma
lattia28.
Il ruolo della preghiera, del resto, consiste soprattutto nel chiedere
a Dio la grazia senza la quale tutti gli sforzi umani per vincere questa
passione appaiono derisori e non possono portare ad alcun risultato
finale, perché la castità è sempre un dono di Dio29. San Giovanni Cli
maco scrive a questo riguardo: «Corre invano chi ha deciso di com
battere contro la carne e vincerla da solo»30. E ancora: «Che nessuno
di quelli che si sono esercitati con successo nella castità creda di aver
la raggiunta solo con le proprie forze. Infatti, è impossibile vincere la
propria natura. Quando la natura è vinta, vi si deve riconoscere la pre
senza di Colui che è al di sopra della natura»31. E san Giovanni Cas-
siano consiglia: «Se desideriamo [...] combattere con le regole della
lotta spirituale, concentriamo tutti i nostri sforzi nel dominare que
sto spirito impuro, ponendo la nostra fiducia non nelle nostre forze
- perché l’attività umana non ne sarebbe mai capace -, ma nell’aiuto
del Signore. Infatti, l’anima sarà necessariamente attaccata da questo
vizio per così lungo tempo che essa non riconoscerà che conduce una
guerra al di sopra delle sue forze e che la sua pena e la sua applica
zione a questa lotta non possono ottenere la vittoria se il Signore non
25 Cfr. Apoftegmi, serie degli anonimi, 35; 52. Ibid., PEII 28, 30. GIOVANNI CASSIANO, Isti
tuzioni cenobitiche, V, 10. Cfr. VI, 1. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 10; 52. MASSIMO IL CON
FESSORE, Centurie sulla carità, I, 45; II, 19. BARSANUFIO, Lettere, 248; 255; 256; 258. GIOVANNI
DI G aza , Lettere, 180.
26 Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 80.
27 La Scala, XV, 81.
28Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,45. Apoftegmi, serie degli anonimi, 32.
29Cfr. C lemente d i R om a , Lettera ai Corinzi, 38,2. G iovanni C u m a c o , La Scala, XV, 79; 81.
G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 11; 13. B arsanufio , Lettere, 255; 500. GIOVANNI
DI G aza , Lettere, 503; 660. Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 21. Ibid., Eth. Coll., 13,33.
™La Scala, XV, 23.
31Ibid., 5. Cfr. 79.
550
viene in suo aiuto e la protegge»32; «tra [il] lavoro continuo, occorre
imparare dalla maestra, che è l’esperienza, che [la castità] è un dono
generoso della grazia divina»33.
Altre due attività spirituali contribuiscono a guarire l’uomo dalla
lussuria, e in particolare a preservarlo dai pensieri (logismot) che que
sta suscita: la lettura e la meditazione attente delle Sacre Scritture34
(che san Giovanni Cassiano annovera tra i rimedi dell’anima)35, e «il
ricordo della morte»36, che san Giovanni Climaco considera come uno
dei migliori aiuti terapeutici accanto alla preghiera monologica.371 Pa
dri vedono anche nell’obbedienza al Padre spirituale38e nella pratica
regolare della «manifestazione dei pensieri»39i mezzi per vincere la
passione e per acquistare la castità.
Proprio perché tutte le passioni sono collegate tra loro, la terapia
della lussuria non può essere slegata da quella delle altre passioni40,
in particolare di quelle che favoriscono direttamente le sue manife
stazioni. E per questo che la lotta contro la lussuria deve accompagnarsi
in primo luò^o alla lotta contro la gastrimargia, come abbiamo già vi
sto, ma anche alla lotta contro l’orgoglio41 e alla cenodossia, al giudi
zio del prossimo, all’acedia, alla collera42, alla parresia (cioè l’eccessiva
familiarità verso il prossimo)43, alla cenologia (o passione delle vane pa
role)44, e alla filargiria45, alle quali questa è immediatamente legata.
Essendo le virtù collegate tra di loro, l’acquisizione della castità non
può che andare di pari passo con la pratica delle altre virtù46, in par
ticolare di quelle che le sono direttamente legate. «Soprattutto una ve
ra umiltà»47: gli Anziani «affermavano che non si può possedere la ca
32Istituzioni cenobitiche, VI, 5. Cfr. Conferenze, XII, 15; 16.
33 Conferenze, XII, 4.
34 GIOVANNI C assia no , Istituzioni cenobitiche, VI, 1; 2; Conferenze, V, 4; XII, 4.
35 Conferenze, V, 4.
36Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, Ricapitolazione, 5. D iad o co d i F oticea , Cento capitoli
gnostici, 99.
37La Scala, XV, 52.
38G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, V. 10. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 36.
39Cfr. Apoftegmi, N 165.
40 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11; VI, 2; 23.
41 Cfr. ibid., V, 11.
42 Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 23; Conferenze, XII, 6; 15. GIOVAN
NI C lim aco , La Scala, XV, 12. D iad o co d i F oticea , Cento capitoli gnostici, 99.
43 Cfr. G iovanni d i G aza , Lettere, 261.
44 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, P oem en, 62. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, XII, 15.
45 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11.
46 Cfr. ibid, 10-11.
47 Cfr. ibid., VI, 1. Vedi anche: V, 10; VI, 23; Conferenze, XII, 4. GIOVANNI CLIMACO, La Sca
la, XV, 12; 13. BARSANUFIO, Lettere, 255; 256. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,33.
551
stità se innanzitutto non si è posto nel proprio cuore come fondamento
solido l'umiltà»48. Ma anche la pazienza49 e la dolcezza50 sono fonda-
mentali: «Più si cresce in dolcezza e in pazienza, più si guadagna nel
la purezza del corpo», scrive san Giovanni Cassiano51, che aggiunge:
«Nelle lotte che la passione suscita nella nostra carne, il trionfo si ot
tiene solo se si rivestono le armi della dolcezza»52; e più avanti: «U ri
medio più efficace per il cuore umano è la pazienza»53.
La totale astinenza monastica acquista senso nel fondamento e nel
la finalità del monacheSimo che è la consacrazione totale di sé a Dio.
11 monaco non si sposa per non avere altra preoccupazione che quel
la di Dio, per poter consacrare solo a lui tutta la sua capacità di desi
derio e d’amore, tutta la sua intelligenza, tutta la sua forza. «Chi non
è sposato, sottolinea san Paolo, si preoccupa delle cose del Signore,
come possa piacere al Signore» (ICor 7,32), «la donna non sposata si
preoccupa delle cose del Signore» (ICor 7,34); l’uno e l’altra sono «sen
za preoccupazioni» davanti alle cose di questo mondo (cfr. ICor 7,32).
Al contrario, «lo sposato si preoccupa delle cose del mondo, come
possa piacere alla moglie [...] e la sposata si preoccupa delle cose del
mondo, come piacere al marito» {ICor 7,33-34). Se l’Apostolo «pen
sa sia bene» per l’uomo e per la donna il rimanere soli (cfr. ICor 7,26),
è per «condurli a ciò che [...] conduce al Signore senza distrazioni»
{ICor 7,35).
Abbiamo visto che i Padri concordano nel dire che il desiderio ses
suale non è originario nella natura umana e non gli appartiene nella
sua essenza, ma è comparso come conseguenza della caduta54quando
Adamo ed Èva smisero di volgere ogni loro desiderio solo verso Dio.
«La verginità, scrive san Giovanni Damasceno, era originaria e inna
ta nella natura degli uomini. Nel paradiso, la verginità era la condi
zione normale»55 e, osserva san Giovanni Crisostomo, Adamo ed
Èva ci «vivevano come due angeli»56. E per questo che i Padri vedo
48 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 18.
49 Cfr. ibid., 23; Conferenze, XII, 6.
50Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XII, 6.
51 Ibid.
52 Ibid.
5} Ibid.
54 Cfr. parte prima, cap. DI, 2, b.
55Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 24. Cfr. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi,
XXV, 92-108.
56 Omelie sulla Genesi, XVIII, 4.
552
no nella verginità un mezzo per l’uomo di recuperare lo stato paradi
siaco della sua natura” , uno stato che lo assimila alla condizione an
gelica58e prefigura la vita celeste59, secondo le parole del Cristo: «Nel
la risurrezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli
di Dio in Cielo» (Mt 22,30). Ecco perché questo stato possiede non
solo «la palma della priorità nel tempo»60, ma anche una incontesta
bile superiorità in rapporto a quello del matrimonio; dei due esso è il
più perfetto.
Ciò non significa, tuttavia, che il cristianesimo condanni o disprez
zi il matrimonio: i Padri pur lodando l’eminenza della verginità e del
celibato monastico, esaltano il valore del matrimonio che il Cristo stes
so ha, del resto, santificato con la sua presenza e con il primo miracolo
della sua vita pubblica alle nozze di Cana. Occorre notare, altresì, che
la maggior parte degli scritti patristici sulla verginità comporta, paral
lelamente alla lode di essa, un’apologia del matrimonio. Benché essi
riconoscano che «il matrimonio è buono» e anche «santo», tuttavia ri
tengono «la verginità migliore»61, constatando che essa è un fatto di
élite. Non si può biasimare colui che si sposa, afferma san Giovanni
Crisostomo, «non gli si può rimproverare di rinchiudersi in una sfe
ra più modesta»62. San Paolo, infatti, raccomanda il matrimonio «per
condiscendenza» (lCor 7,6), a coloro che «ardono» e «non sanno con
tenersi» (ICor 7,9), per evitare il rischio della lussuria (lCor 7,2), e
consiglia agli sposi: «Non privatevi l’un l’altro [...] perché Satana non
vi tenti per la vostra incontinenza» (lCor 7,5)63. San Giovanni Da
masceno così scrive sull’argomento: «Il matrimonio è buono, smorza
la lussuria e la smania del desiderio per mezzo di relazioni legittime
evitando le follie di azioni contro natura. Il matrimonio è buono per
coloro che non hanno il dominio di se stessi; ma è migliore la vergi
nità che accresce la fecondità dell’anima»64.
57 Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, III, 6; Omelie sul Cantico dei Cantici, 2; La preghiera,
XXV, 3. GREGORIO DI N issa , Trattato sulla verginità, XII, 4.
58 Cfr. G iovanni C risostomo , Trattato sulla verginità, 11-12. G iovanni D amasceno , Espo
sizione esatta della fede ortodossa, IV, 24. GREGORIO DI NlSSA, Trattato sulla verginità, II, 3; IV,
8. B asilio d ’A ncira , Trattato sulla verginità, 51. B asilio d i C esarea , Lettere, XLVI, 2.
59ORIGENE, Frammenti su Romani, 29.
60 G iovanni C risostomo , Trattato sulla verginità, 11-12.
61 Ihid., 13. Cfr. 11. GIOVANNI D am asceno scrive: «La verginità è m igliore di ciò che è
buono, perché nella virtù vi sono dei gradi, elevati o inferiori [...]» (Esposizione esatta della fede
ortodossa, IV, 24).
62 Trattato sulla verginità, 10.
63 Cfr. ihid.
64 Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 24.
553
È opportuno, tuttavia, sottolineare che il celibato e la castità mo
nastica hanno valore solo se sono consacrati a Dio e hanno come fi
nalità un’unione più perfetta con lui. A questo riguardo san Giovan
ni Crisostomo osserva che la verginità non è un bene in sé, che solo
l’intenzionalità decide del suo valore, ed essa è «sterile e infruttuosa
tra i pagani in quanto questi la praticano non in vista di Dio»65. Per
questo, egli stigmatizza duramente l’atteggiamento di coloro per cui
essa non è che un mezzo per sfuggire al matrimonio anziché servire al
l’unione celeste66, arrivando a dire che in questo caso «la verginità [è]
più vergognosa del libertinaggio»67. La verginità, dunque, non ha va
lore per se stessa, ma in quanto permette all’uomo di donarsi com
pletamente a Dio. «Parlando di verginità, osserva san Giovanni Cri
sostomo, l’Apostolo difatti fa consistere l’eccellenza non tanto nella
castità del corpo quanto nella facilità che ci dona di consacrarci a Dio
e di dedicarci alla pietà», e aggiunge che coloro «che fanno voto di ca
stità si propongono non solo di conservarsi puri, ma soprattutto di non
occuparsi d’altro che delle cose di Dio, di dedicarsi interamente al suo
servizio»68. Da parte sua, sant’Agostino così consiglia alle vergini: «Che
[il Cristo] occupi nella vostra anima tutto il posto che voi non avete
voluto lasciar prendere dal matrimonio»69. Il matrimonio appare co
me uno stato inferiore al precedente stato verginale nella misura in cui
non permette una consacrazione a Dio così totale, in cui il desiderio e
la capacità d’amore dell’uomo non possono investirsi in Dio così
pienamente. «Nel matrimonio, la virtù ci diviene tanto meno agevole
quanto più le cure di una sposa e la preoccupazione sollecita verso i
figli fermano la nostra anima nelle sue aspirazioni verso il cielo e la
conducono forzatamente verso le preoccupazioni terrene», osserva san
Giovanni Crisostomo70.
2. La castità coniugale
La natura della castità nell’uomo sposato differisce in parte da quel
la propria del celibato.
65 Trattato sulla verginità, 4.
66 Cfr. ibid., 1; 8.
67 Ibid., 8.
68 Trattato contro le seconde nozze, II, 3.
69Sulla santa verginità, 56.
70 Trattato sulla verginità, 44.
554
Mentre in quest’ultimo caso essa presuppone un’astinenza totale,
nell’ambito del matrimonio cristiano, a motivo del suo carattere stret
tamente monogamico, non si richiede una tale astinenza se non ri
guardo a ogni forma di sessualità extra coniugale, costituendo già il
semplice desiderio un adulterio: «Avete inteso che fu detto: non farai
adulterio. Io invece vi dico che chiunque guarda una donna per de
siderarla, già ha commesso adulterio con essa nel suo cuore» (Mt 5,27-
28). La terapia o la profilassi della lussuria a questo livello suppon
gono la pratica di alcuni mezzi descritti in precedenza, in particolare
«la custodia dello sguardo», e innanzitutto la «custodia del cuore»,
«perché dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, procedono i cattivi
pensieri: le fornicazioni [...], gli adulteri [...], le impudicizie» (Me7,21-
22; Mt 15,19). San Giovanni Crisostomo fa notare che il Cristo, nel
sottolineare il ruolo fondamentale che gioca il desiderio, fornisce il
mezzo di applicarsi al fondamento stesso della malattia: «Non è solo
il male, ma la radice del male che [Gesù] esclude; perché la radice del
l’adulterio è la cupidigia impudica: il Signore corregge dunque non
solo l’adulterio, ma anche la brama. I medici si preoccupano della cau
sa stessa della malattia [...]. E proprio quello che fa Gesù Cristo»71.
Ma la lussuria non è affatto legata all’unione coniugale e questa, al
contrario, appare come un mezzo per evitarla. La maggior parte dei
Padri vedono nel matrimonio, per coloro che non possono rimanere
continenti, un rimedio alla lussuria; è qui, secondo loro, una delle pri
me finalità dell’unione coniugale. Questo punto di vista è del tutto
conforme all’insegnamento di san Paolo: «A motivo delle impudicizie
ciascuno abbia la sua moglie, e ogni donna il suo marito» (lCor 7,2);
«non privatevi l’un l’altro [...] perché Satana non vi tenti per la vostra
incontinenza» (lCorl ,5)\«ai celibi e alle vedove dico che è cosa buo
na per loro rimanere come sono io; ma se non sanno contenersi, si spo
sino; è meglio sposarsi che ardere» (lCor 7,8-9).
La «castità coniugale», che i Padri ricordano sulla scia dell’Aposto
lo quando egli raccomanda: «Il matrimonio sia tenuto in onore in
tutte le cose. E il talamo sia incontaminato» (Eb 13,4), non significa
l’astinenza sessuale. L’unione sessuale appartiene essenzialmente al ma
trimonio. L’Apostolo scrive con sufficiente chiarezza: «H marito renda
alla moglie ciò che le è dovuto; egualmente anche la moglie al ma
rito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito;
allo stesso modo il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la
71 Omelie sulla penitenza, VI, 2.
555
moglie. Non privatevi l’un l’altro, se non di comune accordo, tempo
raneamente, per attendere alla preghiera, e poi ritornate a stare insie
me [...]» (lCor 7,3-5). L’astinenza, questo insegnamento di san Paolo
10 indica, conserva un posto nell’ambito stesso della vita coniugale, ma
solo per un certo tempo, e in rapporto a precise esigenze spirituali72.
San Gregorio di Nissa arriva persino a scrivere che «colui che pratica
[la continenza] in eccesso ha “la coscienza malata”, come afferma l’A
postolo» (cfr. lTm 4,2), poiché egli «disprezza il matrimonio»73.
Esiste una unione sessuale casta; è possibile agli sposi di unirsi «sen
za tradire nella loro unione le regole della castità», come scrive Cle
mente d’Alessandria74che arriva a scrivere di coloro che denigrano l’u
nione sessuale: «Poiché essi trovano impure le loro relazioni carnali,
alle quali essi devono la loro esistenza, come sfuggiranno essi stessi al
l’impurità?»75. Lo stesso Clemente d’Alessandria fa, altresì, notare che
11matrimonio e la vita spirituale santificano l’uso della sessualità: «Per
quelli che sono stati santificati, santo è il seme. E non deve solo esse
re santificato tra noi lo spirito, ma anche i costumi, la vita, il corpo»76.
I Padri sottolineano frequentemente che la sessualità in sé non è cat
tiva, che tutto dipende dal modo in cui se ne usa. «Quando la pra
tica è buona e casta, l’oggetto è alla fine buono, è cattivo quando es
sa è cattiva e sregolata», osserva san Metodio di Olimpo77. E san Do
roteo di Gaza fa notare: «Nell’uso legittimo del matrimonio e nella
fornicazione, l’atto è lo stesso, è l’intenzione che fa la differenza»78.
Abbiamo visto, analizzando la passione della lussuria, che ciò che
la caratterizza è un abuso della funzione sessuale che consiste nell’u
so di questa in vista del piacere sensibile. Ora si tratta di una perver
sione di questa funzione nella misura in cui essa è destinata per natu
ra alla procreazione, e più fondamentalmente ad essere una delle
72 E così che la Chiesa ortodossa raccomanda l’astinenza sessuale e, allo stesso tempo, il di
giuno il mercoledì e venerdì (in cui si fa memoria delle sofferenze e della crocifissione del Cri
sto) e durante le quattro quaresime annuali. Una tale «astinenza periodica», osserva san GRE
GORIO NAZIANZENO, seguendo l’Apostolo, deve essere «costruita su un consenso mutuo per
attendere insieme alla preghiera, la più preziosa delle attività», e precisa: «Questa non è una leg
ge, ma un consiglio» (Discorso, XL, 18). Quest’ultima sottolineatura traduce l’assenza di giuri
dicità della tradizione ortodossa a questo riguardo, che si appella alla coscienza degli sposi per
giudicare ciò che conviene meglio spiritualmente. La stessa condizione di spirito si manifesta nel
l’insegnamento di san GIOVANNI CRISOSTOMO (vedi per esempio Omelie su 1 Corinzi, XIX, 2).
73 Vita di Mosè, II, 289. Cfr. Trattato sulla verginità, VE, 2.
74Stronzata, HI, 6.
75 Ibid.
76Ibid.
77 II Banchetto, II, 5.
78Istruzioni spirituali, XV, 162.
556
manifestazioni dell’amore che la sposa e lo sposo hanno l’una per l’al
tro, in relazione di dipendenza con gli altri modi della loro unione e
in particolare con la dimensione spirituale di questa. La terapia della
lussuria e l’acquisizione della castità in questo ambito devono consi
stere, dunque, prima di tutto, in un ristabilimento di questa finalità
naturale e normale dell’uso della sessualità.
Il primo principio è, per gli sposi, di non unirsi solo per il piacere
sensibile, di non fare della voluttà lo scopo e l’oggetto ddla loro unio
ne79. Essi devono vegliare per non lasciarsi dominare dal piacere80, per
non legarsi ad esso, e persino non ricercarlo, e infine arrivare a non
avere più per esso alcuna attrazione. «Fintanto che rimane qualche at
trazione per la voluttà, non si è casti», scrive san Giovanni Cassiano81.
Questo non significa il rifiuto e l’esclusione del piacere naturalmente
legato all’unione sessuale, ma il distacco nei suoi riguardi, il rifiuto di
fame un assoluto. Il piacere deve apparire come un effetto dell’unio
ne, come qualcosa che è dato in più.
Lungi dall’essere ricercata per se stessa e in vista del piacere che es
sa procura, l’unione sessuale deve prendere posto nell’ambito dell’a
more mutuo degli sposi, deve realizzare sul piano del corpo una unio
ne analoga a quella che si compie sul piano delle anime, e deve per
mettere l’unione totale, facendo diventare i due sposi, secondo la parola
della Scrittura, «una sola carne», una sola anima e un solo spirito. La
castità coniugale suppone che questa unione dei corpi non costituisca
né un assoluto né un fine in sé, ma sia perfettamente integrata e su
bordinata all’unione psichica degli sposi, e più ancora alla loro unio
ne spirituale. San Basilio d’Ancira scrive a questo proposito: «Quan
do la ragione, nell’anima, tiene per prima le anime sotto il suo con
trollo, e annoda tra esse legami per ciò che è chiaramente essenziale,
è naturale che la loro unione preliminare si accompagni anche all’u
nione legittima dei corpi nei quali esse risiedono. Ma, quando le ani
me si propongono in primo luogo altre cose, e quando i corpi, in ri
cerca di piacere, presi da ciò che stanno facendo, uniscono le anime
che sono in essi per metterle al servizio della passione che li agita, il
fatto che le anime vadano a rimorchio dei vizi della carne rende ille
gittima l’unione sessuale»82.
La castità coniugale suppone, altresì, che l’uomo non sia dominato
” Cfr. ibid. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n , 17.
80 Cfr. GREGORIO DI N issa , Trattato sulla verginità, VII, 2.
81 Conferenze, XII, 10.
82 Trattato sulla verginità, 38.
557
dal desiderio e dalle pulsioni sessuali, e che l’unione degli sposi non
sia monopolio di questi. Clemente d’Alessandria pone questo princi
pio: «Non fate nulla sotto la spinta del desiderio»83. Ciò che deve pre
siedere all’unione degli sposi non è l’istinto, manifestazione imperso
nale della natura biologica, e neanche il desiderio, ma l’amore. In que
sto senso, la castità coniugale presuppone una certa continenza, che
consiste in un dominio di sé che permette di frenare i movimenti istin
tivi, moderare i desideri e astenersi da ogni pensiero o immaginazio
ne che possono essere loro legati. Per questo san Gregorio di Nissa
raccomanda «di usare il matrimonio con moderazione e misura»84, «ri
guardo e ritegno»85; san Gregorio Nazianzeno, da parte sua, sottoli
nea la necessità di essere ponderati ed evitare di lasciare troppo spa
zio alla carne86. Ciò è indispensabile perché l’unione non sia un sem
plice mezzo per soddisfare il desiderio, perché siano rispettate la persona
e la libertà del coniuge. Ma ciò è anche necessario affinché l’uomo non
divenga «interamente carne e sangue»87e non smetta sia nella vita per
sonale, che nella stessa vita coniugale, di dare il primato all’aspetto spi
rituale88. Difatti, «non è insignificante il pericolo», osserva san Gre
gorio di Nissa, che l’uomo, «ingannato dall’esperienza della voluttà,
non stimi più alcun bene, all’infuori di quello che si assapora attra
verso la carne con un certo attaccamento passionale, e che egli di
venga del tutto carnale per avere completamente distolto il suo spiri
to dal desiderio dei beni incorporei, dando la caccia in tutti i modi a
quanto queste cose offrono di gradevole, al punto da essere “amanti
del piacere più che di Dio” (2Tm 3,4)»89. Particolarmente temibile è
la forza dell’abitudine che unisce l’uomo alla voluttà, osserva san Gre
gorio di Nissa, il quale ricorda l’esempio di molte persone che, «una
volta in possesso di tale esperienza, dopo aver rivolto tutta la loro po
tenza di desiderio verso queste cose [...] e dopo aver fatto derivare
lo slancio del loro pensiero dalle realtà divine verso [...] [queste], apri
ranno pienamente alle passioni il campo della loro interiorità, al pun
to da smettere ogni movimento verso le realtà celesti e vedere dissec
carsi completamente questo desiderio, il cui corso rovesciato si è ri
83Stromata, III, 6.
84 Trattato sulla verginità, VII, 3.
85Ibid., VIE.
Discorsi, XXXVII, 9.
87 Cfr. G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, vni.
™lbid.
89Ibid.
558
volto verso le passioni»90. Ecco perché egli dà questo precetto: «Ec
co ciò che sappiamo riguardo al matrimonio: occorre cedere il passo
alla cura e al desiderio delle cose divine»91.
La lussuria, infatti, ha la caratteristica di separare l’uomo da Dio.
La castità, al contrario, ha lo scopo e l’effetto di riunirlo a lui. «La
castità, scrive san Giovanni Climaco, è unione intima con Dio»92. Quan
do nella lussuria il desiderio viene allontanato da Dio e dalle realtà spi
rituali e viene reinvestito nelle realtà carnali per ricercare il piacere
sensibile, uno degli scopi essenziali della continenza e della castità è
permettergli di ritrovare il proprio investimento normale e naturale in
Dio. Infatti, come abbiamo dimostrato studiando l’economia del de
siderio, quest’ultimo non può essere investito in oggetti diversi senza
doversi dividere e senza dover privare l’uno di ciò che dà all’altro.
La continenza e la castità nel matrimonio hanno in particolare il ruo
lo di stabilire un’economia del desiderio in maniera tale che esso
non si investa a tal punto nella sessualità da esaurirsi in essa e cessare
perciò di avere come oggetto essenziale le realtà spirituali93.
Questo ci permette di comprendere che la terapia della lussuria e
l’acquisizione della castità consistono in realtà in una conversione
del desiderio, in modo tale che l’amore spirituale prenda il posto
dell’amore carnale. Così si può comprendere la celebre affermazione
di san Giovanni Climaco: «È casto colui che bandisce l’eros sensuale
attraverso l’eros divino e spegne il fuoco terreno con il fuoco del cie
lo»94. Ed è proprio questo che permette allo stesso autore di affer
mare: «Che l’amore carnale ci serva da modello per il nostro deside
rio di Dio»95, e altrove: «Beato colui che non ha una passione meno
violenta per Dio che quella dell’innamorato per la sua amata»96. «Ho
visto, egli scrive ancora nello stesso senso, anime impure che si dedi
cavano con furore all’amore carnale; avendole l’esperienza di questo
amore condotte al pentimento, esse hanno riversato tutto il loro amo
re sul Signore; superando allora ogni timore, si spronavano insazia
bilmente ad amare Dio. Ecco perché il Signore, parlando della casta
90 Ibid., IX, 1.
91 Ibid., VH, 3.
92 La Scala, XV, 35.
9JVedi l’illustrazione che di questo principio dà GREGORIO DI NlSSA, Trattato sulla verginità,
vm.
94 La Scala, XV, 2.
95 Ibid., XXVI, 34.
%Ibid., XXX, 11.
55 9
peccatrice, non dice che ha timore, ma che essa ha molto amato, e che
ha potuto facilmente scacciare l’amore con l’amore (cfr. Le 7,47)»97.
Nella vita coniugale, mentre la lussuria implica un amore dell’al
tro al di fuori di Dio, un amore puramente carnale, cioè opaco alle
energie divine, al contrario la castità implica un amore dell’altro in Dio
e un amore di Dio nell’altro. La castità realizza la trasfigurazione
dell’amore, lo fa accedere al piano spirituale in cui diviene interamente
trasparente a Dio, gli dà un senso mistico (cfr. Ef5,32), permetten
dogli di realizzare analogicamente il mistero dell’amore del Cristo e
della Chiesa, come sottolinea san Paolo nella lettera agli Efesini che
viene letta al momento della celebrazione del matrimonio: «Mariti,
amate le vostre mogli come il Cristo ha amato la Chiesa» (5,25); «per
questo l’uomo si unirà alla sua donna e i due formeranno una sola car
ne. Questo mistero è grande: io lo dico riferendomi al Cristo e alla
Chiesa» (5,31-32).
La castità, monastica o coniugale che sia, non può essere conside
rata come acquisita se non quando è divenuta abituale e permanen
te98, quando non esige più nessuna lotta, e si accompagna a una tran
quillità inalterabile. «Tale è, osserva san Giovanni Cassiano, la con
sumazione della vera castità: essa non deve più combattere i moti e
la concupiscenza carnali, ma li detesta con orrore totale, e si conserva
in costante e inviolabile purezza»99.
Uno dei segni è l’impassibilità dello sguardo e del cuore davanti agli
oggetti che possono scatenare la passione100. San Giovanni Climaco
nota che è casto «colui che possiede permanentemente una perfetta
insensibilità alla vista degli esseri sensibili e corporei, qualunque dif
ferenza essi abbiano di bellezza o di sesso»101, e inoltre che «la regola
e la caratteristica della perfetta e purissima castità è quella di rimane
re pressappoco nelle stesse disposizioni davanti a corpi animati o ina
nimati, di creature razionali o di quelle che sono sprovviste della ra
gione»102. E dire: «Beato in verità colui che ha raggiunto una insensi
bilità perfetta dinanzi a ogni corpo, a ogni carne e a ogni bellezza»105.
97 Ibtd., V, 28.
98 Cfr. B asilio d i C esarea , Lettere, H G io v ann i C lim aco , La Scala, XV, 3.
99 Conferenze, XII, 11.
100Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
m La Scala, XV, 3.
m Ibid., 4.
103Ibid., 7.
560
In Cristo, «non esiste uomo o donna» (Gal 3,28), cioè la differenza
sessuale è abolita non solo in quanto principio di divisione, di oppo
sizione, di dominio, ma anche in quanto fonte di desidèrio sensuale
e di passione. L’altro è colto nella sua realtà fondamentale di persona
che porta nella sua natura l’immagine di Dio; diviene icona di Dio, tra
sparente a lui, soggetto a glorificarlo. San Giovanni Climaco offre la
testimonianza più alta di questa virtù: «Mi hanno raccontato un fat
to che denota una purezza suprema e straordinaria. Qualcuno, mi dis
sero, avendo visto un corpo di singolare bellezza, ebbe l’occasione di
adorare e glorificare con le sue lodi la suprema bellezza di cui questa
non era che l’opera, e solo attraverso questa visione si sentì traspor
tato dal fuoco dell’amore divino, e si sciolse in ruscelli di lacrime. Fu
una meraviglia straordinaria vedere che ciò che avrebbe potuto far ca
dere un altro in un precipizio, aveva procurato una corona di gloria
a questi [...]»104.
Uno degli effetti considerevoli della castità è quello di porre nell’a
nima la stabilità e la pace105.
Essa contribuisce anche ad abolire le tensioni e le divisioni che si
manifestano tra l’anima e il corpo e a ristabilire tra loro l’armonia106.
La castità è una delle porte della carità107. Essa è anche una delle
condizioni fondamentali della conoscenza spirituale108. In modo ge
nerale, questa virtù appare per l’uomo una delle principali fonti di san
tificazione109; è per suo mezzo, in particolare, che lo Spirito Santo110e
il Cristo111dimorano nel cuore dell’uomo e che questi è assimilato non
solo agli angeli112ma a Dio stesso113.
La castità appare allora come la fonte delle gioie spirituali incom
parabilmente più elevate dei piaceri sensibili ai quali colui che l’ha ac
quisita ha rinunciato114.
m Ibid., 58.
105Cfr. G io v ann i C assiano , Conferenze, xn, 11; 13.
106Cfr. ibid., 11.
107Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, 1,45.
108 Cfr. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche,VI, 18; V, 33.
109Cfr. ibid.y VI, 15.
m Ibid.
111 Ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 2.
112 Cfr. G iovan ni C lim aco, loc. cit. G iovan ni C assiano, Conferenze, XH, 14.
113 G iovanni C lim aco, La Scala, XV, 35.
114 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, XII, 5; 10; 11.
561
Ili
562
mono la ragione come medicina, prometto loro grandi possibilità di
salute con la grazia di Dio», aggiunge san Giovanni Crisostomo alle
considerazioni citate in precedenza5, invitando i suoi uditori a medi
tare sull’esempio, fornito dalle Sacre Scritture, di tutti «coloro che so
no caduti nel male e sono guariti»6.
Perché questa speranza sbocci, occorre utilizzare un certo nume
ro di precisi mezzi terapeutici. E per questo che san Giovanni Criso
stomo propone di «prescrivere una regola dettagliata, secondo l’uso
dei medici»7.
E necessario innanzitutto, per colui che vuole essere guarito dalla
filargiria e dalla pleonessia, conoscere bene queste passioni e i loro ef
fetti nefasti, essendo tale conoscenza il primo elemento della terapia.
Per questo i Padri, nell’insegnamento che riguarda tali malattie, si pre
murano di far precedere la prescrizione dei rimedi da una minuziosa
nosologia. San Giovanni Climaco introduce così il capitolo della Sca
la ad esse dedicato: «Diciamo, prima di tutto, qualche parola sulla ma
lattia, poi parleremo dei rimedi che la guariscono»8. San Giovanni Cri
sostomo, a proposito della filargiria, afferma più esplicitamente: «Qua
le follia è questa malattia! Che malattia! Ma, direte voi, non si tratta
solo di accusare i malati, bensì di guarirli dalle loro passioni. E come
guarirli, se non dimostrando loro che la loro passione è ignobile e pro
cura mali incalcolabili»9. Lo stesso autore osserva altrove che è neces
sario al malato «non pensare solo a quelli che sono guariti dal male,
ma anche alle sofferenze di coloro che vi hanno perseverato»10. Nel
capitolo delle Istituzioni cenobitiche dedicato alla filargiria, san Gio
vanni Cassiano scrive: «Se non si conoscono le varie forme di una ma
lattia, se non si individuano sia l’origine che le cause, non si potrà
applicare ai malati il trattamento adatto né permettere ai sani di con
servarsi in buona salute. Gli anziani, che hanno una grande esperien
za in questo genere di cadute, hanno l’abitudine di esporre ciò nelle
loro conferenze [...]. Molto spesso, ne riconoscevamo alcuni elemen
ti in noi stessi mentre gli anziani ne facevano un’esposizione comple
ta come se essi stessi fossero stati turbati da queste passioni, e, senza
dover arrossire dalla vergogna, noi eravamo guariti apprendendo sen
5 ib id .
6 ib id .
1ib id .
'LaScala, XVI, 1.
9 Omelie su 1 Corinzi, XXHI, 5.
10Ibid., XI, 5.
563
za dire nulla i rimedi nello stesso tempo che le cause dei vizi che ci mi
nacciavano»11. Nel prendere coscienza del danno della malattia, il ma
lato è portato ad allontanarsi fermamente dalla malattia e a ricercare
ardentemente la guarigione; nelTacquisire una conoscenza approfon
dita, egli non ne ignora più nessun meccanismo e così si ritrova me
glio armato per combatterla.
La terapia della filargiria e della pleonessia suppone, in secondo luo
go, che si prenda coscienza di quanto siano vani gli oggetti da esse per
seguiti. San Giovanni Crisostomo afferma che occorre «comprendere
il nulla delle cose, sapere che la ricchezza è un servo sfuggente e in
grato, che immerge i suoi possessori in una molteplicità di mali»12. Oc
corre riconoscere, come fa notare san Simeone il Nuovo Teologo, «che
ogni cosa è come un’ombra e che le cose visibili passano», e merita de
riso il «giocare con un’ombra e considerare un tesoro ciò che passa»,
imitando quel bambino che attinge acqua con un secchio bucato13. Là
caducità dell’esistenza umana, la morte che vi pone un termine, ren
dono alla fine vano il possesso delle cose materiali anche di quelle più
durature14. Del resto, sono proprio la fuga e la brevità del tempo, e
di conseguenza la provvisorietà di ogni cosa sottoposta alla sua con
dizione, che l’Apostolo ricorda per invitare al distacco dai beni di que
sto mondo: «Questo vi dico, o fratelli: il tempo ha avuto una svolta;
d’ora innanzi quelli che comprano siano come non possedessero; quel
li che usano del mondo, come non ne usassero a fondo: perché passa
la figura di questo mondo» (lCor 7,29-31).
Per mettere fine alla filargiria e alla pleonessia, occorre, in terzo luo
go, che l’uomo si sforzi di accontentarsi di ciò che possiede; tale com
portamento gli consente di contrastare queste due passioni che, al con
trario, lo spingono a possedere o ad acquistare molto più dei suoi bi
sogni. E per questo che san Paolo consiglia: «La condotta sia lontana
dall’avarizia, contenti delle cose che abbiamo al presente. Infatti Dio
stesso ha detto: Io non ti lascerò mai, né ti abbandonerò» (Eb 13,5).
In questo modo, l’Apostolo indica che una quarta condizione del
la vittoria sulla filargiria e pleonessia è l’acquisizione di una solida fe
de in Dio. Lo stesso afferma esplicitamente san Giovanni Climaco:
«Una fede incrollabile taglia ogni preoccupazione alla radice»15.
11Istituzioni cenobitiche, VII, 13.
12 Omelie su 1 Corinzi, XI, 5.
13 Catechesi, XIX, 140-143.
14 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Giovanni, LV, 3.
15La Scala, XVI, 23.
564
Abbiamo visto che vi è, alla base di queste due passioni, un’in
quietudine dell’uomo di fronte a un futuro che non conosce né può
controllare, il tentativo cioè, per mezzo della conservazione o l’ac
quisto di molti beni materiali, di assicurare in qualche modo questo
futuro, confidando nelle proprie ricchezze anziché attendere da Dio
l’aiuto necessario. Per poter guarire da queste passioni, è indispensa
bile allora che l’uomo, dopo aver preso coscienza dell’impossibilità di
trovare nei beni materiali una vera sicurezza, rimetta tutta la propria
fiducia e speranza in Dio, e di conseguenza impegni tutte le sue for
ze per accedere al suo Regno, per appropriarsi, anziché ricchezze ma
teriali vane e passeggere, ricchezze spirituali durature e sicure che egli
dà a coloro che tendono a lui. E proprio questo l’insegnamento del
Cristo: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o
berrete; per il vostro corpo di come vestirvi [...]. Chi di voi, per quan
to si dia da fare, è capace di aggiungere un solo cubito alla propria sta
tura? [...] Non vi angustiate, dunque, dicendo: che mangeremo? che
berremo? di che ci vestiremo? tutte queste cose le ricercano i gentili.
Ora sa il Padre vostro celeste che avete bisogno di tutte queste cose.
Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste altre co
se vi saranno date in sovrappiù» (Mt 6,25-33). «Non vi affannate ad
accumulare tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano, do
ve ladri scassinano e portano via. Accumulatevi tesori in cielo, dove ti
gnola e ruggine non consumano né ladri scassinano e portano via» (Mt
6,19-20). E in questa prospettiva che san Giovanni Crisostomo consi
glia: «Rimettiamoci [al nostro Maestro] in ogni cosa e non lasciamo
ci affatto dilaniare dalle preoccupazioni di questa vita»; «se diamo la
priorità ai beni spirituali, non avremo alcun imbarazzo per i beni ma
teriali, perché Dio ce li concederà»16; «tendiamo con tutto il nostro
spirito verso i beni spirituali e consideriamo il resto come secondario
in rapporto al godimento dei beni futuri, al fine di ricevere in ab
bondanza i beni presenti, quelli della promessa»17.
L’uomo, d’altronde, può constatare che più si attacca ai beni spiri
tuali, più acquisisce nei riguardi dei beni sensibili una delle virtù op
poste alla filargiria e alla pleonessia: il distacco. «Colui che ha gustato
le cose celesti disprezza con facilità quelle terrene», sottolinea san Gio
vanni Climaco18, che aggiunge: «Un focherello basta a bruciare molto
16Catechesi battesimali, Vili, 19.
17Ibid., 24.
18La Scala, XVI, 17.
565
legno; e con l’aiuto di una sola virtù, sfuggiamo a tutte le passioni che
ora abbiamo elencato. Questa virtù si chiama il distacco; essa è gene
rata dall’esperienza e dal gusto di Dio [,..]»19.
Per attaccarsi ai beni spirituali, occorre innanzitutto che l’uomo ab
bia preso coscienza che esistono «un’altra bellezza, altre ricchezze, al
tri godimenti, superiori»20, «vere ricchezze che procurano un godi
mento immortale»21, che non vi è alcuna ricchezza superiore alla glo
ria e al Regno di Dio e che meriti di essere preferita a essi22. Ma prendere
coscienza di tutto questo non è realmente possibile, come indicato da
san Giovanni Climaco, se non attraverso un’esperienza delle realtà spi
rituali alla quale l’uomo può accedere solo quando cessa di condurre
una vita completamente carnale e si unisce a Dio attraverso l’amore
e la pratica dei comandamenti. Solo «il gusto di Dio», come afferma
in maniera molto concreta san Giovanni Climaco, gli permette di misu
rare, in paragone ai beni divini, lo scarso valore dei «beni» sensibili.
Il fatto che il distacco circa i beni sensibili sia correlativo all’attac
camento ai beni spirituali, e viceversa, si spiega, come abbiamo più
volte sottolineato, perché il desiderio non può rivolgersi simultanea
mente a due «oggetti» antagonisti, come giustamente insegna lo stes
so Cristo a proposito della filargiria: «Nessuno può servire a due pa
droni; poiché od odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà al
l’uno e trascurerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt
6,24) (in aramaico mamòn significa «ricchezza»). E con ciò si com
prende che l’uomo non può unirsi a Dio fintanto che è attaccato alle
ricchezze materiali, il che ci consente di ricordare che lo scopo della
guarigione dalla filargiria e dalla pleonessia è quello di permettere al
l’uomo di unirsi a Dio, di amarlo, con tutta la sua intelligenza, con tut
ta la sua anima e con tutte le sue forze, di liberare tutte le sue facoltà
dall’attaccamento alle ricchezze sensibili affinché queste possano con
sacrarsi a Dio, secondo la loro finalità naturale. La situazione spirituale
e il destino di tutto l’uomo dipendono dal tipo di ricchezze che egli
desidera acquisire e alle quali egli si attacca; la questione fondamen
tale qui è di sapere se egli ammassa «tesori sulla terra» (Mt 6,19) o «te
sori in cielo» (Mt 6,20), perché, il Cristo dice: «Dov’è il tuo tesoro, lì
sarà pure il tuo cuore» (Mt 6,21).
15Ibid., 26.
20 G iovan ni C risostom o, Omelie su 1 Corinzi, XXin, 5.
21 Ibid., XI, 5.
22 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, HI, 662-668.
566
La guarigione dalla filargiria e dalla pleonessia implica, lo vediamo,
una conversione del desiderio, un riorientamento della facoltà di de
siderio [concupiscibile] e della potenza d’amore dell’uomo dalle ric
chezze di questo mondo verso Dio e i beni spirituali. Come guarire
dalla filargiria e dalla pleonessia? «Si può guarire, risponde san Gio
vanni Crisostomo, se si sostituisce a questo amore [per il denaro] un
altro amore, cioè il desiderio delle cose del cielo»23.
Per mezzo di questa conversione, alle passioni della filargiria e del
la pleonessia si sostituiscono le virtù opposte del non-possedere e del
l’elemosina.
1. Il non-possedere
Poiché la filargiria è attaccamento al denaro e, più ampiamente, ai
beni materiali che si possiedono - e la pleonessia testimonia lo stesso
attaccamento nel desiderio di possederne di più -, le virtù che sono
loro immediatamente opposte e permettono più direttamente di sfug
gire loro sono naturalmente il non-possedere e il non-acquisire questi
beni. Tali virtù significano il rifiuto volontario di possedere e acqui
sire qualunque cosa, ad eccezione di ciò che è strettamente indispen
sabile all’esistenza24.
Il non-possedere (aktémosynè) nell’ambito del monacheSimo è pra
ticato nel suo significato più immediato e s’identifica con la povertà
materiale. È indispensabile, però, in ogni caso, che esso costituisca
contemporaneamente una disposizione interiore, un atteggiamento
spirituale riguardo ai beni materiali. Esso non consiste solo nel non
averli, poiché abbiamo visto, esaminando le due passioni, che un ric
co può essere esente da queste e un povero esserne posseduto. Si può
non avere nulla ed essere assillati dallo spirito di possesso, e, inversa
mente, si può avere senza possedere, cioè senza essere attaccato a ciò
che si ha. In quanto atteggiamento spirituale di distacco nei riguardi
di ciò che si possiede, il non-possedere ha anche un senso al di fuori
dell’ambito monastico, che san Paolo ricorda quando consiglia a co
loro che vivono nel mondo: «Quelli che comprano siano come non
possedessero; quelli che usano del mondo, come non ne usassero a
23 Commento a san Matteo, IX, 6.
24 Vedi per esempio: GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VE, 21; 29. ISACCO IL Sl-
RO, Discorsi ascetici, 33. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 2 Corinzi, XX, 1.
567
fondo» (lCor 7,30-31). È vero, tuttavia, che questa virtù non può tro
vare la sua perfezione se non nella concretizzazione, secondo l'inse
gnamento dello stesso Cristo: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quel
lo che hai e dallo ai poveri» (Mi 19,21).
Il non-possedere si manifesta interiormente come assenza di preoc
cupazione riguardo ai beni materiali. «Il non-possedere, scrive san Gio
vanni Climaco, è l’abbandono di ogni preoccupazione [delle cose di
questo mondo], una liberazione da tutte le inquietudini della vita [...]»25.
E evidente che questa assenza di preoccupazione e di pensieri può es
sere veramente realizzata solo da colui che concretamente ha rinun
ciato a ogni possesso e a ogni acquisizione.
Ciò che è fondamentale nella lotta contro la filargiria e la pleones-
sia, e acquisire questa virtù di non-possedere, è affrontare la causa stes
sa del male eliminando dall’anima, e ciò fin dalla sua prima manife
stazione, ogni desiderio di possesso, come insegna san Giovanni Cas-
siano: «Occorre non solo evitare di possedere denaro, ma estirparne
completamente il desiderio dall’anima. Infatti non occorre tanto evi
tare gli effetti della filargiria quanto sopprimere radicalmente la ten
denza verso di essa: non servirebbe a nulla non possedere il denaro se
poi avessimo in noi il desiderio di possederne»26; «infatti persino co
lui che non possiede denaro può essere fQargiro e non trarre alcun pro
fitto dal suo spogliamento perché non ha potuto estirpare la cupidi
gia»27. Poiché questa si caratterizza per l’assenza di ogni desiderio, pen
siero o immaginazione relativi al possesso o all’acquisizione di ricchezze
materiali, la virtù del non-possedere appare come un elemento della
virtù fondamentale della «povertà spirituale» (cfr. Mi 5,3), che consi
ste più in generale nello spogliamento di ogni pensiero passionale, qua
lunque esso sia.
2. L’elemosina
Abbiamo visto che la filargiria e la pleonessia costituiscono un’ap
propriazione egoista delle ricchezze a scapito del prossimo, e che es
se instaurano uno stato anormale nella misura in cui contraddicono
l’eguaglianza voluta da Dio nella ripartizione delle ricchezze in ra
gione dell’eguaglianza fondamentale di tutti gli uomini. Mentre il de
25 La Scala, XVI, 11.
26Istituzioni cenobitiche, VII, 21.
27Ibid., 22.
568
naro e i beni materiali normalmente devono servire a soddisfare i bi
sogni essenziali dell’uomo, questi, con la passione della filargiria e del
la pleonessia ne perverte la funzione conferendo loro un valore in sé
e facendoli servire al proprio godimento. In questo modo, l’uomo ces
sa anche di considerare il prossimo, respinge colui che condivide la
sua natura, rifiuta, come dice san Giovanni Crisostomo, di associarlo
a sé. La filargiria e la pleonessia contrastano così, e anche in molti mo
di, la carità.
Ecco perché la carità appare uno dei principali rimedi per queste
due passioni, sotto una delle sue forme28 che è ad esse specificamen
te opposta: l’elemosina. La carità, infatti, disprezza la ricchezza29e la
distrugge30, perché essa è amore di Dio e del prossimo, e tale amore
è inconciliabile con l’amore delle ricchezze, quindi lo esclude31. Per
questo Abba Isaia consiglia: «Amiamo la carità verso i poveri, affin
ché essa ci salvi dalla filargiria»32.
La virtù dell’elemosina (eìeèmosyne) raccomandata più volte da Cri
sto (cfr. Mt 5,42; 6,2; 10,18; 19,21; Le3,11; 6,30.38; 12,33;Mc 10,21)
e molte volte ricordata nelle lettere di san Paolo (cfr. Rm 12,8; ICor
16,1-3; 2Cor 8,3-15; 9,8; Gal2,10) e negli Atti degli Apostoli (cfr. At
3,26; 4,35; 10,2.4; 20,35), consiste nel condividere i propri beni33, nel
dare il sovrappiù a coloro che sono nel bisogno (cfr. Le 3,11; 2Cor 8,13-
15)34, e persino del necessario a coloro che non ne hanno (cfr. Me 12,43-
44)35. Essa si oppone direttamente alla filargiria che tende, al contra
rio, alla conservazione di queste ricchezze, e a fortiori alla pleonessia,
la quale mira solo all’appropriazione di nuovi beni. Essa appare così
come il rimedio per eccellenza di queste due malattie dell’anima. «Il
medico delle nostre anime è il Cristo, che sa tutto e che dà per cia
scuna passione il rimedio appropriato [...]: l’elemosina contro la fi
largiria», scrive san Doroteo di Gaza36. Questo rimedio, tuttavia, è par
28 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 3.
29M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,72.
30 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 18.
31 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 3.
32Asceticon, 16.
53 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito di fede», II, 9;
Commento a san Matteo, XLV, 2; LEI, 2.
34 Cfr. Isacco IL Siro, Discorsi ascetici, 33. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia su questo testo:
«Occorre che vi siano divisioni», 9; Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4; XXVIII, 4.
35 Colui che dona del suo necessario è naturalmente più vicino alla perfezione di questa virtù
rispetto a colui che dà il superfluo. Colui che dona del suo necessario mette in pratica, afferma
san GIOVANNI C risostomo (Commento a san Giovanni, LX, 4), «la grande misericordia».
36Istruzioni spirituali, XI, 113.
569
ticolarmente adatto a coloro che, vivendo nel mondo, possiedono qual
che cosa, e non riguarda, nel suo significato principale, il monaco che
vive il non-possedere nulla in senso stretto37 e che dispone come ri
medio, lo abbiamo visto, della povertà volontaria. È in un secondo si
gnificato che l’elemosina resta per lui un dovere: cioè quello di di
stribuire la parola di Dio e i beni spirituali che egli riceve nel suo stato38.
Occorre notare, del resto, che il termine greco eleèmosynè non si
gnifica solo elemosina, ma anche pietà, compassione. In altri termini,
essa implica in ogni modo una condivisione spirituale e, nello stesso
tempo, una condivisione di beni materiali, ed è solo a questo titolo che
fa parte della carità, e che essa non consiste solo in un’azione o in una
serie di azioni (i Padri insistono sulla necessità di praticarla regolar
mente, quotidianamente)39, ma in una disposizione interiore perma
nente, caratteristica di ogni virtù. Tale disposizione, che accompagna
il dono, è più importante del dono stesso (è in questo senso che il Cri
sto raccomanda: «Date in elemosina ciò che sta dentro» [cfr. Le 11,41])
ed è essa che decide alla fine il suo valore spirituale e definisce il
vantaggio spirituale che l’uomo ne trae. Infatti, i Padri lo sottolinea
no, la finalità dell’elemosina non consiste unicamente nell’aiuto dato
al povero, ma consiste anche, e principalmente, nel bene spirituale,
nella formazione e nella trasformazione spirituale di colui che dà. San
Giovanni Crisostomo arriva a dire: «E molto meno per il sollievo del
l’indigenza che Dio ha ordinato l’elemosina, che per il vantaggio di co
loro che la fanno»40. Colui che dà trae dal dono un vantaggio ben
più grande di colui che lo riceve41, viene affermato da san Paolo stes
so quando scrive: «C’è più felicità a dare che a ricevere» (At 20,35). Il
dono, infatti, per colui che lo riceve, ha un valore essenzialmente
materiale e scompare appena consumato, mentre per il donatore è una
fonte di beni spirituali imperituri. Su questo san Giovanni Crisosto
mo continua a ripetere, per scuotere il suo uditorio, che colui che fa
l’elemosina presta con gli interessi e tesaurizza profitti immensi. Ciò
37 Vedi per esempio ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 33.
38 Cfr. ibid., 23. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 26. DOROTEO DI GAZA,
Istruzioni spirituali, XIV, 157; 158. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XXXI, 74-88.
39Vedi per esempio GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito
di fede», IH, 12. Giovanni Crisostomo abitualmente associa l’elemosina con l’olio delle vergini
sagge della parabola (cfr. ibid.\ Commento a san Matteo, L, 4; Commento a san Giovanni, XXEH,
3; LX, 4).
40 Omelie sull’elemosina, IV. Cfr. Omelie su 1 Corinzi, XXI, 6; Omelie sulla lettera ai Roma
ni, XIX, 7.
41 Cfr. G io v a n n i C riso sto m o , Omelie sull’elemosina, V.
570
concorda con l’insegnamento del Cristo stesso: «La tua elemosina ri
manga nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ri
compensa» (Mt 6,4); «vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un
tesoro in cielo» (Mt 19,21) e con quanto afferma san Paolo: che i ric
chi siano «disposti a partecipare agli altri i loro beni, mettendosi da
parte un bel capitale per il futuro» (lTm 6,18).
Non è l’importanza materiale dell’elemosina che costituisce il suo
valore. Occorre solo che essa sia proporzionata ai mezzi di colui che
dona (cfr. 2Cor 8,3.11; Me 12,43-44)42. San Giovanni Crisostomo con
tinuamente rassicura coloro che hanno pochi mezzi, sottolineando che
Dio tiene conto prima di tutto della buona volontà che questi dimo
strano e della purezza della loro intenzione43. In ogni caso, resta fon
damentale che una delle principali finalità dell’elemosina, lo ripetia
mo, è la guarigione e il progresso spirituale di colui che dona, come
sottolinea chiaramente san Giovanni Crisostomo rivolgendosi a tutti:
il Signore «non considera solo l’azione ma guarda alla volontà». Di
cendo: «Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomi
ni per essere da loro ammirati» (Mt 6,1), egli assicura che «non è so
lo l’azione esteriore, ma l’intenzione segreta che egli giudicherà»; ciò
che egli chiede, è «la rettitudine della volontà e la purezza dell’inten
zione. Infatti Dio vuole guarire la vostra anima attraverso l’elemosi
na e liberarla dalle sue malattie»44. Così, come dice ancora lo stesso
santo, «la virtù dell’elemosina non consiste solo nel dare, ma nel do
nare nel modo e per il fine che Dio ci chiede»45.
Per avere un valore spirituale, l’elemosina dev’essere fatta in mo
do disinteressato, cioè il donatore non deve aspettarsi alcun vantaggio
di nessun genere, soprattutto quello che deriva dall’auto-soddisfazio-
ne. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» raccomanda
il Cristo (Mt 10,8), che altrove mette più volte in guardia contro la va
nagloria che si mescola con molta facilità alla pratica dell’elemosina:
«Quando tu fai l’elemosina, non metterti a suonare la tromba davan
ti a te, come fanno gli ipocriti [...] per averne gloria presso gli uomi
ni. Ma mentre fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa
la tua destra, in modo che la tua elemosina rimanga nel segreto» (Mt
6,2-4; cfr. Le 18,12).
42 Cfr. Id., Omelie su Atti, XXI, 5; Omelie sulla lettera ai Romani, XIX, 7; Omelie sulla let
tera ai Colossesi, I, 6; Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4.
43 Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4; Omelie contro gliAnomei, VDI, 2; Omelie sulla Gene
si, LV, 4; Omelie su Atti, XXI, 5.
44 Commento a san Matteo, XIX, 1.
45 Ibid.
571
Colui che dona, d’altra parte, deve farlo senza alcuna reticenza,
sia riguardo ai beni da cui si separa sia riguardo alla qualità di colui al
quale dona; al contrario, egli deve farlo con liberalità; solo a questo ti
tolo vi sarà veramente elemosina, afferma san Giovanni Crisostomo46.
Ecco perché l’Apostolo consiglia di dare «senza calcolo» (Rm 12,8),
«non con tristezza né per forza» (2Cor 9,7), «di buon cuore» (lTm
6,17-18; Col3,23) e «con gioia» (2Cor 9,7)47. È così importante do
nare con gioia che san Giovanni Crisostomo arriva ad affermare che
è questa «la natura dell’elemosina»48; l’elemosina, egli fa notare, «non
è il dono, ma la sollecitudine e la gioia nel donare»49. Tale gioia, in
fatti, testimonia che l’elemosina procede realmente da uno spirito di
carità; essa è, afferma san Giovanni Crisostomo, «la gioia della carità
che si espande»50.
L’elemosina non ha valore spirituale se non in quanto forma e ma
nifestazione della carità, nella misura in cui questa è condivisione e do
no per amore di Dio e del prossimo, essendo le due cose legate in
dissolubilmente. L’amore di Dio fonda, infatti, l’amore del prossimo
e costituisce la sua finalità ultima. San Giovanni Crisostomo a pro
posito dell’elemosina scrive: «Ciò che occorre avere è l’amore di
Dio. Sia questo il movente che ci faccia agire sempre»51. Al contra
rio, l’amore del prossimo e l’elemosina, che in parte lo manifesta, so
no la condizione dell’amore di Dio, come scrive l’apostolo san Gio
vanni: «Se vino dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è men
titore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare
Dio che non vede» (lGv 4,20) e: «Se uno possiede le ricchezze del
mondo e, vedendo il proprio fratello che si trova nel bisogno, gli chiu
de il cuore, come l’amore di Dio può essere in lui?» (lGv 3,17). Es
sendo l’uomo creato ad immagine di Dio, figlio di Dio e fratello di Cri
sto per adozione, destinato a divenire dio per grazia, tutto ciò che è
fatto al prossimo è fatto a Dio, tutto ciò che reca danno al prossimo
colpisce Dio stesso, come il Cristo dice chiaramente ricordando tut
te le azioni di misericordia a favore del prossimo: «In verità vi dico:
46Cfr., Omelie su 2 Corinzi, XVI, 4.
47 A questo proposito, Giovanni Crisostomo fa notare che, se Dio nel raccomandare l’ele
mosina avesse mirato solo al sollievo dei poveri, egli avrebbe raccomandato solo di donare, sen
za chiedere di farlo con gioia: tale precisazione testimonia con evidenza che a Dio interessa an
che, nel fare elemosina, lo stato spirituale di colui che dona (cfr. Omelie sull’elemosina, IV).
48 Ibid., IV.
49 Omelie sulla lettera ai Filippesi, 1,4.
50 Omelie sulla Genesi, LV, 4.
51 Omelie sulla lettera agli Ebrei, I, 4. Cfr. Omelie sulla Genesi, XXXI, 7.
572
tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratel
li, l’avete fatto a me [...]. Ciò che non avete fatto a uno di questi più
piccoli non l’avete fatto a me» (Mt 25,40-46). L’elemosina suppone
la consapevolezza di dare a Dio stesso52nello stesso tempo che si dà al
prossimo. San Giovanni Crisostomo arriva a dire a questo proposito:
«Non vi è nessuna differenza tra dare a un povero o a Gesù Cristo»53,
precisando poi: «Quando dunque diamo l’elemosina a un povero, do
niamogliela come a Gesù Cristo»54.
In quanto forma della carità, l’elemosina suppone anche la coscien
za e il sentimento dell’unicità della natura umana, dell’eguaglianza fon
damentale e della solidarietà di tutti gli uomini che condividono la stes
sa natura55. A tale proposito san Doroteo di Gaza insegna che «dob
biamo fare l’elemosina [...] avendo compassione gli uni degli altri co
me delle proprie membra»56. Per questo motivo, l’elemosina deve eser
citarsi indifferentemente verso tutti gli uomini che sono nel bisogno o
che solo ne fanno una richiesta, indipendentemente da ogni conside
razione di qualità, di dignità o di merito57. «Da’ a chiunque ti chiede»,
raccomanda il Cristo (Le 6,30; cfr. Mt 5,42). Facendo così, l’uomo si
conforma alla volontà di Dio, diviene simile a lui nel suo modo di agi
re e di essere; diviene veramente figlio del Padre «che è nei cieli, il qua
le fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giu
sti come sugli empi» (Mt 5,45). «Colui che, facendo l’elemosina, vuo
le imitare Dio, non fa differenza tra buono o cattivo, onesto o disonesto,
visto che sono nella necessità. A tutti dona allo stesso modo, a ciascu
no secondo i suoi bisogni», scrive in questo senso san Massimo58.
Il non-possedere e l’elemosina appaiono come rimedi non solo per
la filargiria e per la pleonessia, ma per tutti i mali che queste due pas
sioni generano.
Abbiamo visto che uno degli effetti di queste passioni è sempre quel
52 Vedi per esempio GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, L, 4, in cui dà questa
interpretazione della parola del Cristo «i poveri li avete sempre con voi, me invece non mi avre
te sempre» (Mt 26,11): «Dobbiamo avere una cura particolare nel fare l’elemosina a Gesù Cri
sto [nel farla al prossimo], perché noi non lo avremo sempre nella veste del povero, ma solo du
rante questa vita».
53 Ibid., LXXXVIH, 3.
54Ibid.
55 Vedi in particolare GREGORIO M a g n o , Moralia su Giobbe, XXI, 16-19.
56Istruzioni spirituali, XIV, 157.
57 Cfr. I s a c c o IL S iro , Discorsi ascetici, 23. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie: «Perché noi ab
biamo uno stesso spirito di fede», II, 7; Omelie sulla lettera ai Romani, XTV, 9.
58 Centurie sulla carità, 1,24.
573
lo di turbare l’anima, di renderla preda di molte preoccupazioni, d’in
quietudini, di tormenti, di porla continuamente in uno stato di timo
re, d’ansia e d’angoscia. La loro guarigione pone naturalmente fine a
questo stato patologico. «Colui che ha vinto questa passione [della fi-
largiria] ha tagliato la radice di tutte le inquietudini e di tutti i turba
menti dello spirito», scrive san Giovanni Climaco59. Il non-possedere,
in modo particolare, pone fine al turbamento interiore e stabilisce l’a
nima nella pace60: essa è, afferma lo stesso santo, «una liberazione da
tutte le inquietudini della vita»61. «Nulla, quanto la povertà volonta
ria, rende lo spirito sereno», nota dal canto suo sant’Isacco il Siro62.
Liberando l’uomo dalle preoccupazioni inevitabilmente legate a
ogni possesso, essa lo libera radicalmente dalla sua alienazione dovu
ta ai beni terreni; gli consente di preoccuparsi esclusivamente di Dio
ed essere pienamente disponibile per lui. Distaccandolo dai beni sen
sibili, la povertà gli permette di legarsi, secondo la finalità della sua na
tura, ai beni spirituali. Il Cristo stesso presenta la povertà volontaria
come la via della perfezione affrontata da coloro che vogliono se
guirlo veramente, cioè unirsi subito e pienamente a lui: «Se vuoi es
sere perfetto, va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri [...]. Poi vie
ni e seguimi» (Mi 19,21).
Quanto all’elemosina, san Giovanni Crisostomo la presenta molte
volte come un «rimedio» potente63 che permette di recuperare «la ve
ra salute»64. «Dio, egli scrive, vuole guarire la vostra anima per mez
zo dell’elemosina e liberarla così dalle sue malattie»65. «Guardiamo
ci, scrive ancora, dal disprezzare [...] questo rimedio delle nostre feri
te. Ecco, infatti, il rimedio salutare per eccellenza che farà scomparire
le ulcere dalle nostre anime, fino alle tracce di tutte le cicatrici»66; «com
prendete la potenza di questo rimedio? Applichiamolo dunque a noi
stessi»67. Egli, perciò, presenta i poveri come «i medici delle nostre ani
me»68, affermando in particolare: «Essi sono i medici delle vostre fe
59La Scala, XVI, 7. Cfr. 24.
60 Cfr. ibid.y 13.
61 Ibid., 11. Cfr. G iovanni C risostom o , Trattato sulla verginità, 69. Apoftegmi, PA, App. 4.
62Discorsi ascetici, 23.
63Cfr. Omelie sulla Genesi, LV, 4; Omelie sui demoni, II, 6; Omelie: «Perché noi abbiamo uno
stesso spinto difede, 1,8; Commento a san Matteo, LXXVII, 5; Commento a san Giovanni, LXXXI,
3; Omelie sulla lettera aiFilippesi, I, 4; Omelie sulla lettera a Tito, VI, 3.
64 Omelie sui demoni, II, 6.
65 Commento a san Matteo, XIX, 1.
66 Omelie sulla Genesi, LV, 3.
67 Ibid., 4.
68 Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito di fede», IH, 11.
574
rite, e le mani che vi tendono sono i rimedi che essi vi offrono. La ma
no che il medico stende verso il malato, i rimedi che egli presenta non
lo guariscono così bene quanto il povero che tende la mano verso di
voi e nel ricevere la vostra elemosina fa scomparire i vostri mali»69. Oc
corre notare che l’elemosina, benché sia con il non-possedere il ri
medio specifico della fQargiria e della pleonessia, contribuisce ugual
mente a liberare l’uomo dalle altre sue malattie spirituali. Essa è,
scrive san Giovanni Crisostomo, uno di «questi rimedi [per mezzo dei
quali] facciamo morire tutte queste passioni che avvelenano la no
stra anima»70.
L’elemosina, come il non-possedere, libera l’uomo dalla sua aliena
zione a motivo del denaro e delle ricchezze terrene. Gli permette, al
tresì, di ritrovare di fronte ad esse un atteggiamento normale, di ces
sare di goderne egoisticamente per ritornare l’amministratore dei be
ni dati da Dio a tutti gli uomini71, ossia di ridistribuire ciò che ha
ricevuto da Dio (cfr. Mt 10,8) a questo scopo72.
D’altra parte, essa guarisce l’uomo da tutti gli atteggiamenti pato
logici che la fQargiria e la pleonessia generano nell’ambito dei suoi rap
porti con gli altri uomini. Essa lo libera soprattutto dalla sua insensi
bilità73, essendo, tra l’altro una delle finalità che Dio conferisce all’e
lemosina, quella di «insegnarci a compatire i mali del prossimo»74. Essa
lo libera, altresì, dalle diverse forme di aggressività generate da queste
due passioni: essa è, osserva san Massimo, «il trattamento della colle
ra»75. Praticata con umiltà, elimina ogni disprezzo del prossimo e, al
contrario, implica il suo rispetto76. Ristabilisce tra l’uomo e i suoi si
mili il legame della carità, contribuendo a porre fine alla divisione del
la natura umana provocata dalle passioni e a riportarla alla sua unità
essenziale. A questo proposito possiamo ricordare un passo degli At
ti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che avevano abbracciato
la fede aveva un cuore e un’anima sola. Non v’era nessuno che rite
nesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra
578
sfugge a tutte le bramosie diviene inaccessibile a ogni tristezza del mon
do»5, e più avanti consiglia: «Contro [...] la tristezza, disprezza [...] gli
oggetti materiali»6. San Giovanni Climaco constata allo stesso modo:
«L’uomo che è arrivato a detestare il mondo è sfuggito alla tristezza,
ma colui che è attaccato a qualsiasi cosa visibile non si è ancora libe
rato dalla tristezza. Infatti, come non rattristarsi se si è privati di ciò
che si ama?»7. Anche Evagrio osserva: «Colui che fugge tutti i piace
ri terreni è una cittadella inaccessibile al demone della tristezza. La tri
stezza, in realtà, è la frustrazione di un piacere, presente o atteso, ed è
impossibile respingere questo nemico se abbiamo un attaccamento
passionale per questo o quel bene terreno; infatti, esso frappone la sua
rete e produce la tristezza proprio là dove vede che è diretta la no
stra inclinazione»8. Poiché ogni passione ha come suo fondamento un
desiderio carnale e la ricerca del piacere sensibile, ne segue che la te
rapia della tristezza è relativa alla terapia delle altre passioni. Evagrio
spiega: «La tristezza sopraggiunge quando non otteniamo ciò che
desideriamo carnalmente; ora a ogni passione è legato un desiderio:
colui che ha vinto le passioni non sarà dominato dalla tristezza [...].
Colui che domina le passioni domina la tristezza, ma colui che è vin
to dal piacere non sfuggirà ai suoi lacci. Colui che ama il mondo sarà
molte volte rattristato [...]. Ma colui che disprezza i piaceri terreni non
sarà più turbato dai pensieri tristi»9.
L’uomo sottomesso alla carne è avido non solo di beni materiali, ma
anche di onori e di gloria umana, e abbiamo notato, esaminando la
passione della tristezza, lo stretto legame che questa ha con la passio
ne della cenodossia, poiché la delusione nella ricerca degli onori e del
la gloria in questo mondo è una causa frequente di tristezza tanto
per coloro che li possiedono già ma ne desiderano di maggiori, che
per coloro che aspirano a uscire dall’oscurità. In questo caso, la tera
pia della tristezza implica il disprezzo di questa gloria e di questi ono
ri mondani10o, per meglio dire, implica una totale indifferenza nei lo
ro riguardi, o che se ne sia beneficiati o che se ne sia privati: «Contro
la tristezza, disprezza la gloria [e] l’oscurità», consiglia san Massimo11.
172 Cfr. P ietro D am asceno , Libro, I. G iovanni C risostom o , Omelie sulla lettera ai Filippe-
sì, ni, 4.
600
V
TERAPIA DELL’ACEDIA
28 Trattato pratico sulla vita monastica, 27. Evagrio Pontico consiglia lo stesso trattamento an-
tirretico e propone lo stesso passo della Scrittura in Antirretico, VI, 20.
29 Cfr. Apoftegmi, XXI, 7.
30La Scala, XHI, 16.
31 Ibid.
32Apoftegmi, PA 32, le.
33Ibid., 16.
34La Scala, Xm, 15. Cfr. XXVII, 84.
35A una vergine, 39, éd. Gressmann, p. 149. Cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 27.
36Antirretico, VI, 10, éd. Frankenberg, p. 522, 32-35. Cfr. 19, éd. Frankenberg, p. 524, 20-
22: «Per l’anima che immagina che le lacrime non servono a nulla nella lotta contro Pacedia e
che non si ricorda di Davide che faceva questo mentre diceva: “Pane son diventate per me le
mie lacrime, giorno e notte” CW41[42],4)».
37 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XIII, 16.
605
gliere le occasioni» come afferma l’Apostolo (cfr. Ef 5,16), e a vivere
così ogni momento con il massimo d’intensità spirituale, evitando il
peccato, praticando i comandamenti divini e affidandosi compieta-
mente a Dio. Il «ricordo della morte» è particolarmente efficace nel
caso dell’acedia nella misura in cui questa costituisce uno stato d’in
differenza, di letargo e di pigrizia spirituale, rende l’uomo negligente
di fronte alla salvezza e lo spinge ad attività, spostamenti e relazioni
futili che costituiscono, dal punto di vista spirituale, ima distrazione e
una perdita di tempo. Un Apoftegma riferisce: «Chiesero a un Anzia
no: “Perché non sei mai scoraggiato?”. Ed egli rispose: “Perché ogni
giorno mi aspetto di morire”»38. Sant’Antonio l’Eremita insegna a que
sto proposito: «Per non essere negligenti, è bene meditare sulla pa
rola dell’Apostolo: “Ogni giorno io affronto la morte” (lCor 15,31).
Infatti, se viviamo come se dovessimo morire ogni giorno, non pec
cheremmo mai. Ecco cosa occorre comprendere con ciò: ogni giorno,
al nostro risveglio, pensiamo che noi non vivremo fino a sera e, anche,
quando siamo sul punto di coricarci, pensiamo che non ci risvegliere-
mo»39. Evagrio consiglia nel suo Antirretico di opporre ai pensieri di
acedia questi versetti della Scrittura: «Come l’erba sono i giorni del
l’uomo, come il fiore del campo così egli fiorisce, lo sfiora il vento ed
egli scompare, il suo posto più non si trova» (Sai 103 [102] ,15-16)40
e: «I nostri giorni sulla terra sono come un’ombra» (Gb 8,9); «Sono
poca cosa i giorni della mia esistenza» (Gb 10,20)41. A questo riguar
do, egli ricorda l’insegnamento del suo Padre spirituale: «Ecco cosa
diceva il nostro maestro molto santo e molto esperto: occorre che il
monaco sia sempre pronto, come se dovesse morire l’indomani [...].
Ciò, infatti, diceva, estirpa i pensieri dalTacedia e rende il monaco più
zelante [..,]»42. Ciò si giustifica attraverso le precedenti considerazio
ni, ma anche per il fatto che, come nota Evagrio altrove, il demone
dell’acedia «mette davanti [all’uomo] quanto sia lunga la durata del
la vita»43 cercando di ispirargli con questo l’abbattimento e il disgusto
dinanzi alle difficoltà future, e particolarmente dinanzi «alle fatiche
dell’ascesi»44.
38Apoftegmi, XXI, 7.
39 Vita di Antonio, 19.
40Antirretico, VI, 25.
41 Ibid., VI, 32; 33.
42 Trattato pratico sulla vita monastica, 29.
43 Ibid., 12.
44 Ibid.
606
Anche il timore di Dio costituisce un antidoto potente contro que
sta passione; «nulla è così efficace», afferma san Giovanni Climaco45.
Tra i rimedi prescritti dai Padri, occorre inoltre citare il lavoro
manuale46. Questo, infatti, può aiutare l’uomo a evitare la noia, l’in-
stabilità, il torpore e la sonnolenza che in parte sono costitutive di que
sta passione. Può contribuire a stabilire o a mantenere l’assiduità, la
continuità di presenza, di sforzo e di attenzione che suppone la vita
spirituale e che l’acedia tende a rompere. Prima di ogni cosa, il lavo
ro si oppone direttamente all ozio, che è una delle forme principali che
può assumere l’acedia, e che è fonte di innumerevoli mali. Riferen
dosi all’insegnamento di san Paolo, san Giovanni Cassiano presenta
ampiamente il lavoro manuale come un rimedio alTacedia che egli con
sidera essenzialmente sotto quest’ultima forma. «Il beato Apostolo,
egli scrive, sia che abbia visto come questa malattia che nasce dallo
spirito di acedia cominci già ad insinuarsi, sia che per la rivelazione
dello Spirito Santo egli abbia previsto che questa si sarebbe diffusa, si
affretta, come un autentico medico spirituale, a prevenirla con il ri
medio salutare dei suoi precetti. Scrivendo, infatti, ai Tessalonicesi,
egli rinforza prima di tutto, come medico molto competente, la de
bolezza dei suoi malati con la terapia attraente e dolce della sua pa
rola. Egli inizia col parlare della carità e, su questo punto, rivolge lo
ro delle lodi, fino a quando la ferita mortale addolcita da questa me
dicazione che lenisce possa supportare più facilmente i rimedi più
energici, una volta soppressa l’irritazione del tumore»47. Dopo aver co
sì sottolineato l’approccio terapeutico dell’Apostolo, san Giovanni Cas
siano pone in evidenza i precetti che costituiscono i rimedi proposti:
1) «Studiatevi di vivere tranquilli» (cfr. 1Ts 4,11) cioè, egli commenta,
«rimanete nelle vostre cèlle e non lasciatevi turbare dai diversi rumo
ri [...]»; 2) «Attendete ai vostri negozi» (cfr. lTs 4,11), cioè «non de
siderate interrogarvi con curiosità su ciò che si fa nel mondo né, spian
do il modo in cui vivono alcuni, darvi pena nel criticare i vostri fratelli
piuttosto che correggervi e applicarvi alle virtù»; 3) «Lavorate con le
vostre mani come vi abbiamo raccomandato» (cfr. Ìli 4,11). Poi, san
Giovanni Cassiano ricorda e commenta48l’esempio che san Paolo, nel
la seconda lettera ai Tessalonicesi, ci dà della propria condotta: «Voi
56 Cfr. EVAGRIO P o n t ic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 12. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 72. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 136.
57 Cfr. E vagrio P o n tic o , loc. dt.
610
VI
TERAPIA DELLA COLLERA
LA DOLCEZZA E LA PAZIENZA
142 Ibid., in , 90. Cfr. E vagrio PONTICO, Ai monaci, 14. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spiri-
tuali, VHI, 94.
143 Centurie sulla carità, III, 13.
626
y
VII
TERAPIA DELLA PAURA
IL TIMORE DI DIO
cario d’Egitto (Apoftegmi, Eth. Path. 417) e san Giovanni Climaco (La Scala, 1,29). Vedi an
che Apoftegmi, XV, 127.
24 La Scala, VI, 10.
25 Ibid., XX, 11. Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 100.
26Apoftegmi, serie alfabetica, Serapione, 3.
27 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 68. Cfr. 69.
28 Per il Nuovo Testamento, vedi: Le 18,24; 23,40; At 9,31; 10,2.22; 13,16.26; Rm 3,18;
2Cor 5,11; l,l;E f 5,21; FU 2,12; lPt 1,17; 2,17; Ap 14,7; 15,4; 19,5.
29Vedi, per esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Euprepio, 6.
30Istituzioni cenobitiche, IV, 43.
31 Lettere, 397.
32Discorsi ascetici, 1.
631
Vi sono, tuttavia, due forme di timore di Dio33, corrispondenti a due
gradi di questa virtù34.
a) La prima forma deriva dal timore del giudizio divino, attuale
o futuro36e dalle pene che ne possono seguire37e che i Padri indicano
spesso con il nome di «castigo». Abbiamo dimostrato, d’altronde38,
che con questo termine non bisogna intendere la punizione che un
Dio vendicatore e crudele infliggerà a coloro che trasgrediscono la leg
ge, ma le sofferenze interiori, legate allo stato di separazione da Dio
e alla privazione dei beni spirituali, ai quali l’uomo stesso si condanna
con il suo peccato e di cui il giudizio divino non fa che rivelare la pie
na misura39.
Questa prima forma di timore è «il timore iniziale», quello che
conoscono i principianti40. È così che è scritto: «Principio di sapien
za è il timore del Signore» (.Sai 111[110],10; cfr. Pro 1,7; 9,10).
Tre ragioni, osservano i Padri, possono allontanare l’uomo dal
male e unirlo a Dio: il timore del castigo, la speranza dei beni futuri,
l’amore di Dio41. Le prime due «sono tipiche degli uomini che cerca
no di progredire»42, ma sono ancora servi (cfr. Gal 4,1); la terza ca
ratterizza i perfetti; «essa è propria di Dio e di coloro che hanno ac
quisito la sua somiglianza»43, di coloro che non sono più suoi servi ma
suoi amici e suoi figli (cfr. Gal 4,7). «Se dunque, scrive san Giovanni
Cassiano, qualcuno vuole tendere alla perfezione, partito dal primo
grado, che è quello del timore, essendo propriamente servile, [...] egli
si eleverà con un progresso continuo fino alle vie superiori della spe
33 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 , 81; 82. G iovan ni C assiano, Con-
ferenze, XI, 6; 7; 13. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, IV, 47-49.
34 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, X I, 6; 7; 13. D oro teo d i G aza , loc. dt,
35 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VH, 13.
36 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Elia, 1: «Abba Elia dice: “Per parte mia temo tre cose: il
m omento in cui la mia anima uscirà dal corpo, quando dovrò comparire davanti a D io e quan
do sarà emessa la sentenza contro di m e”».
37 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 ,81; 82. G iovan ni C assiano, Con
ferenze, XI, 6; 13. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, IV, 47-49. GREGORIO DI NlSSA, Ome
lie sul Cantico dei Cantici, I. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VII, 13; XXVII, 75.
38 Tbéologie de la maladie, Paris 1991, pp. 32-33.
39 A questo riguardo, vedi CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo, I, 6 9 ,1 . IRENEO DI LlO-
NE, Contro le eresie, V, 27, 2; 28, 1.
40 G iovanni C assiano , Conferenze, X I, 13. B arsanufio , Istruzioni spirituali, IV, 47. B asilio
d i C esarea , Regole lunghe, 4.
41 Cfr. B asilio di C esarea , loc. dt., Prologo. G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 6. D o
roteo DI G aza , Istruzioni spirituali, IV, 48-49.
42 G iovanni C assia no , Conferenze, X I, 6.
43Ibid.
632
ranza, poi da lì al terzo gradc» che è quello dell’amore [...]. Sforziamoci
dunque con un ardore totale di salire dal timore alla speranza, dalla
speranza alla carità di Dio e all’amore delle virtù»44.
Vediamo che quando i Padri affermano che questa prima forma
di timore è tipica dei principianti, essi con questo intendono coloro
che non hanno ancora raggiunto la perfezione, che non sono ancora
santi. E dunque, questo timore, anche spirituali proficienti possono
e persino devono provarlo45. San Doroteo di Gaza non esita a dire ai
suoi monaci: «Questo timore iniziale è dunque nostro»46.
Tale timore, tuttavia, è chiamato ad essere abolito e superato nella
perfezione dell’amore, come ci insegna l’apostolo san Giovanni: «Nel
l’amore non vi è timore; anzi il perfetto amore scaccia il timore, per
ché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nell’amo
re» (lGv 4,18). Alla sua scuola san Massimo scrive: «Il primo tipo di
timore, la carità perfetta lo scaccia dall’anima che, possedendolo, non
teme più il castigo»47. Per questo sant’Antonio il Grande può dire:
«Ormai, non temo più Dio, io lo amo; perché l’amore scaccia il ti
more»48.
Occorre notare, però, che solo la carità perfetta, come sottolinea
no di proposito l’apostolo san Giovanni e i Padri, rende caduco que
sto timore. Fintanto che l’uomo non è totalmente purificato dalle sue
passioni, non ha acquistato l’impassibilità e non ha raggiunto la per
fezione dell’amore, il timore conserva la sua ragion d’essere e resta
prezioso per lui. San Diadoco di Foticea scrive molto chiaramente:
«Il timore riguarda coloro che ancora si purificano e si accompagna
a una carità mediocre; l’amore perfetto appartiene a coloro che sono
già purificati, nei quali non vi è più timore. Infatti, “il perfetto amo
re [dice la Scrittura] scaccia il timore” (lGv 4,18) [...]. Altrove, la
Scrittura dice: “Temete il Signore, o suoi santi” (Sai34[33],10); e an
cora: “Amate il Signore, voi tutti suoi devoti” CW 31 [30],24), affin
ché si sappia bene che solo ai giusti che si purificano ancora, appar
tiene il timore, come è stato detto, con un amore mediocre; invece,
per coloro che sono purificati, c’è l’amore perfetto: in essi, non vi è
più il pensiero di un timore qualunque, ma un ardore incessante e un
44 Ibid., 7.
45 San Giovanni Climaco lo afferma molte volte e in termini forti. Vedi La Scala, VII, 13;
XXVH, 75; XXVHI, 8; 33; XXX, 11.
46Istruzioni spirituali, IV, 49.
47 Centurie sulla carità, I, 82. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 10.
48Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 32.
633
attaccamento continuo dell’anima a Dio per l’azione dello Spirito San
to [,..]»49.
Se il timore resiste fintanto che l’amore non ha raggiunto la sua per
fezione, è perché esso contribuisce per gran parte a purificare l’uomo
e così a fargli ottenere l’impassibilità che condiziona questa perfezio
ne, a tal punto che possiamo dire che senza aver prima acquistato que
sto timore (questa acquisizione peraltro suppone una certa purifica
zione), l’uomo non può accedere all’amore perfetto. Sant’Isacco lo af
ferma categoricamente, egli che vede in particolare in esso il motore e
la guida per il pentimento, organo principale della purificazione del
l’anima: «Come non è possibile attraversare un grande mare senza na
ve, così nessuno può giungere all’amore senza il timore. Il mare che
dà nausea, che ci separa dal paradiso spirituale, può però essere at
traversato solo sulla nave del pentimento condotto dai rematori del ti
more. Ma se questi rematori del timore non governano la nave del pen
timento, per mezzo della quale attraversiamo il mare di questo mon
do per andare a Dio, noi siamo inghiottiti nelle acque nauseabonde.
Il pentimento è la nave. Il timore è il suo pilota. E l’amore è il porto
divino»50. San Massimo, da parte sua, osserva che «questo timore ge
nera [...] l’impassibilità, madre della carità»51. E san Diadoco di Foti-
cea scrive molto precisamente: «Nessuno può amare Dio nel senso del
cuore se non ha prima cominciato a temerlo con tutto il suo cuore; in
fatti, purificata dall’azione del timore e come ammorbidita, l’anima ar
riva a praticare l’amore. Ma essa non potrà arrivare completamente al
timore di Dio nel modo suddetto, se non si allontana da tutte le preoc
cupazioni temporali; infatti quando lo spirito si è posto in una grande
pace e in un grande distacco, allora il timore di Dio lo tormenta, pu
rificandolo, in un sentimento profondo, da tutto lo spessore terreno,
per condurlo così a un grande amore della bontà di Dio»52. Ed egli
conclude: «Dobbiamo avere, dunque, come suprema e perpetua gioia
prima di tutto il timore di Dio, poi la carità che compie la legge della
perfezione in Cristo»53.
San Gregorio Palamas sottolinea ugualmente il ruolo educatore e
purificatore indispensabile del timore, e vede in esso il principio e la
condizione per l’accesso all’amore, quindi alla stessa contemplazione
49 Cento capitoli gnostici, 16.
50Discorsi ascetici, 72.
51 Centurie sulla carità, I, 81.
52 Cento capitoli gnostici, 16. Cfr. 17.
53Ibid.
634
di Dio: «L’educazione che purifica l’anima, [ha per] principio il timore
di Dio (cfr. Pro 1,7), che fa nascere la preghiera continua a Dio nella
compunzione e nel compimento dei precetti evangelici. Una volta ri
stabilita la riconciliazione per mezzo della preghiera e del compimen
to dei comandamenti, il timore si muta in amore e il dolore della
preghiera, trasformato in gioia, fa apparire il fiore dell’illuminazione»54.
Sant’Isacco il Siro insegna ugualmente che il timore è la condizione si
ne qua non della perfezione della vita virtuosa, dell’amore e della co
noscenza di Dio, quindi la via spirituale obbligata per tutti coloro che
vogliono giungere allo scopo: «La conoscenza spirituale segue per na
tura l’opera delle virtù. Ma il timore e l’amore precedono l’una e l’al
tra. E lo stesso timore precede l’amore. Chiunque afferma impuden
temente che è possibile acquistare le ultime avanti di aver lavorato ai
primi, senza alcun dubbio fonda qui la perdizione della sua anima. In
fatti, questa è la via del Signore: l’opera delle virtù e la conoscenza spi
rituale nascono dal timore e dall’amore»55.
b) La seconda forma di timore è inerente alla carità perfetta56. Es
deriva dall’amore di Dio mentre la prima forma di timore è stata ban
dita da questo. E il timore di essere separato o allontanato da Dio, il
timore di essere privato della «familiarità con l’amore»57. Come af
ferma molto giustamente Clemente d’Alessandria, «ciò che si teme
[per mezzo di esso] non è Dio, ma di essere separati da Dio»58. «Co
lui, spiega san Doroteo di Gaza, che possiede l’amore vero, “l’amore
perfetto”, come dice san Giovanni, questo amore lo porta al timore
perfetto. Difatti, egli teme e custodisce la volontà di Dio [...], per
ché, avendo gustato la dolcezza di essere con Dio, come abbiamo det
to, egli teme di perderla, teme di esserne privato»59. E san Giovanni
Cassiano descrive molto a lungo questo timore, citando i passi delle
Sacre Scritture in cui esso viene ricordato: «Fondati sulla perfezione
di questa carità, ci si eleverà necessariamente a un grado ancora più
eccellente e più sublime che è il timore d’amore. Questo non nasce
dalla paura del castigo né dal desiderio della ricompensa, ma dalla
54 Triadi, 1,1, 7.
55Discorsi ascetici, 44.
56 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 13. M assimo il C onfessore , Centurie sulla
carità, I, 81; 82.
57 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,81.
58Stromata, II, 8,40.
59Istruzioni spirituali, IV, 47.
635
grandezza stessa dell’amore. Si tratta di questa mescolanza di rispetto
e d’affetto attento che un figlio ha per un padre pieno d’indulgenza,
un fratello per il fratello, l’amico per il proprio amico, la sposa per il
suo sposo. Il timore non impedisce né colpi né rimproveri; ciò che te
me è di ferire l’amore, anche con la ferita più leggera. In ogni atto, per
sino in ogni parola, lo si vede costantemente carico di tenerezza, nel
la paura che il fervore dell’amore non s’intiepidisca nei suoi riguardi
per poco che sia»60.
Questa seconda forma di timore appare anche come «il timore per
fetto»61, «quello dei santi giunti alla perfezione e alla vetta dell’amo
re santo»62.1 santi, nota san Doroteo di Gaza, «fanno la volontà di Dio
non più per timore di un castigo [...] ma per amore [...], temendo di
fare qualcosa contro la volontà di Colui che essi amano [...]. I santi
non agiscono più per timore, ma temono per amore»63. Così san Gio
vanni Cassiano fa notare che «sono i santi, e non i peccatori, che gli
oracoli profetici invitano a questo timore: “Temete il Signore, tutti voi
che siete santi”, dice il Salmista, “non c’è indigenza per quelli che lo
temono” (Sai 34[33],10). È certo che nulla manca alla perfezione di
questo timore per colui che teme il Signore [...]. È lo stesso timore d’a
more di cui parla il profeta, quando descrive lo Spirito settiforme che
senza alcun dubbio è disceso sulTuomo-Dio, secondo l’economia del
l’Incarnazione: “Riposerà sopra di lui, dice, lo Spirito del Signore, spi
rito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Ir 11,2), poi alla fine,
come il coronamento di tutti questi doni: “Troverà compiacenza nel
timore del Signore” (Is 11,3). In queste parole occorre innanzitutto
considerare bene ciò che egli non dice: “Lo spirito di timore del Si
gnore riposerà su di lui” come lo aveva fatto per gli altri doni, ma di
ce: “Lo spirito di timore del Signore lo riempirà”. Questo Spirito, in
realtà, si effonde con una tale abbondanza che, quando si è impos
sessato di un’anima, non la possiede solo in parte, ma completamen
te. È logico. Essendo tutt’uno con la carità che non passerà mai, non
solo riempie, ma possiede inseparabilmente e per sempre colui di
cui si è impossessato [...]. Tale è il timore dei perfetti di cui è detto che
fu riempito l’uomo-Dio, che non era venuto solo per riscattarci, ma
® Conferenze, XI, 13.
61 Vedi Doroteo di Gaza, (Istruzioni spirituali, IV, 47 e 48), il cui insegnamento su tale que
stione corrisponde in ogni punto a quello di san Giovanni Cassiano.
62Ibid., IV, 47. Cfr. 48.
a Ibid., 49.
636
I
doveva anche offrire nella sua persona il tipo di perfezione e il pro
totipo delle virtù»64.
È indispensabile sapere, e san Doroteo di Gaza vi insiste, che nes
suno può giungere a questo timore perfetto senza avere prima cono
sciuto la prima forma di timore: «È impossibile pervenire al timore
perfetto senza passare per il timore iniziale»65, «perché è detto: “Prin
cipio di sapienza è il timore del Signore” (Sai 111 [110],10), e ancora:
“Il timore del Signore è l’inizio e la fine” (cfr. Pro 1,7; 9,10; 22,4Ì»66.
Per questo, colui che non ha ancora raggiunto la salute nell’im
passibilità né la perfezione nell’amore, deve cercare di acquistare il ti
more iniziale. Infatti, contrariamente al timore-passione, il timore di
Dio non è spontaneo nell’uomo, ma è una virtù che egli deve sfor
zarsi di acquisire con l’aiuto di Dio. Ecco perché esso è d’altronde og
getto di un comandamento: «Temi Dio [...] perché l’uomo è tutto qui»
(Qo 12,13); «Con timore e tremore lavorate alla vostra salvezza» (FU
2,12); «Comportatevi nel tempo del vostro passaggio sulla terra con
un senso di timore» (lPt 1,17). L’uomo non potrà progredire sulla via
della pràxis senza essere permanentemente «fornito» di questa di
sposizione interiore, come dice per mezzo di immagini san Barsanu-
fio: «Quando si intraprende un viaggio, mettiamo dei sandali [...].
La preparazione materiale deve far pensare alla preparazione spiri
tuale. Occorre prendere dei sandali spirituali, cioè la preparazione del
timore di Dio, ricordandosi che si deve compiere tutto secondo il ti
more di Dio»67.
Quali sono le condizioni per acquistare il timore di Dio?
Esso «procede dalla fede»68. D’altra parte, è legato direttamente
alla pratica dei comandamenti69, come afferma il salmista: «Beato
l’uomo che teme il Signore, nei suoi precetti trova molto diletto»
(Sai 112[111],1); «Beati tutti quelli che temono il Signore e cammi
nano nelle sue vie» (Sai 128[127],1) e l’Ecclesiaste: «Temi Dio e os
serva i suoi comandamenti» (Qo 12,13). E per questo che i Padri in
tendono spesso per timore di Dio la stessa pratica dei comandamen-
637
ti70. Difatti, l’uomo manifesta il vero possesso di questa virtù solo confor
mandosi alla volontà di Dio espressa nei comandamenti. Anche gli
stessi demoni temono Dio, ma di un timore non virtuoso, perché, se
suppone il riconoscimento della sua onnipotenza, non si accompagna
al compimento della sua volontà.
Il distacco da questo mondo, l’incuranza spirituale dinanzi alle
cose terrene ne sono un’altra condizione71. Anche la meditazione
della morte72 e del fine ultimo73, come la solitudine74, che sono molto
legate agli atteggiamenti precedenti, lo favoriscono allo stesso modo
dell’esamé di coscienza75, il regolare riconoscimento del proprio stato
di peccato76, la sofferenza77 e le lacrime78.1 Padri raccomandano an
che a coloro che cercano di acquistare questa virtù di frequentare as
siduamente uno spirituale che già lo possiede79.
Non bisogna, però, dimenticare che, in quanto virtù, il timore di
Dio è una manifestazione della grazia, e se gli sforzi dell’uomo sono in
dispensabili per acquistarlo, esso è tuttavia sempre un dono di Dio e
dunque deve essere chiesto con la preghiera80. È soprattutto con la
preghiera che l’uomo può ricevere la purificazione che gli permette di
provare il timore di Dio, che egli è incapace di provare da solo anche
nei gradi più elementari, tanto egli è totalmente sottomesso alle pas
sioni. Ecco perché «il timore iniziale» stesso suppone già un certo svi
luppo spirituale, e appare anche come una virtù posseduta non dai
principianti in senso stretto, ma piuttosto dai proficienti. San Diado
co scrive, utilizzando un linguaggio esplicitamente medico: «Come
le ferite del corpo, quando sono sporche e trascurate, non sentono il
beneficio del rimedio che i medici applicano, ma una volta lavate sen
tono l’azione del rimedio con progressi rapidi verso la guarigione, co
sì l’anima, fintanto che è senza cure e ricoperta dalla lebbra delle pas
sioni, non può sentire il timore di Dio, nemmeno se la si minaccia sen
za tregua del terribile e potente tribunale di Dio. Ma quando essa ha
70Vedi, per esempio, MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 48.
71 Cfr. I d ., Discorso ascetico, 18. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 16.
72Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VE, 13. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52.
73 Cfr. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 1. D oroteo di G aza , loc. cit.
74 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 56.
75 Cfr. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52.
76 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 29.
77 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 96.
78 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, V E, 61.
79Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52; Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 67.
80 Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 17. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici,
56. BARSANUFIO, Lettere, 393.
638
cominciato a purificarsi con una preghiera intensa, allora, come un ve
ro rimedio di vita, essa sente il timore divino che la brucia, attraver
so l’azione dei suoi rimproveri, in un fuoco d’impassibilità»81.
Gli effetti del timore di Dio82 sono particolarmente numerosi e
importanti, nella misura in cui esso costituisce una delle basi e una del
le condizioni della vita spirituale, tanto che san Giovanni Crisosto
mo afferma: «Voi avete un tesoro più abbondante di tutte le ricchez
ze [...]: il timore di Dio»83.
Prima di tutto esso allontana84l’uomo dal male come ci insegna Sa
lomone (cfr. Pro 15,27; 8,13). Esso purifica l’uomo da ogni peccato e
da ogni passione85, e a questo titolo appare come un «rimedio»86glo
bale. San Giovanni Cassiano lo considera la croce sulla quale l’asceta
deve morire al mondo87. E san Diadoco di Foticea osserva, sottoli
neando il suo valore terapeutico: «Come un vero rimedio di vita»,
esso «brucia [l’anima] per mezzo dell’azione dei suoi rimproveri [...].
Così ormai, [l’anima] viene purificata a poco a poco e cammina verso
la purificazione perfetta»88. San Gregorio Palamas vede in esso «il prin
cipio» della «educazione che purifica l’anima»89, ciò «la libera da
tutto e la pulisce [...] per farne una tavoletta pronta a ricevere i cari
smi dello Spirito»90.
L’azione terapeutica del timore di Dio si rivela particolarmente ef
ficace contro le passioni che soffocano l’anima e paralizzano la vita spi
rituale: l’acedia («nulla è così efficace per scacciarla]», insegna san Gio
vanni Climaco)91, l’oblio e la negligenza92, la pusillanimità e l’abbatti
mento93, la durezza del cuore94nel senso ascetico di insensibilità spirituale.
10 Cfr. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 41. Macakio d’E gitto, Omelie (Coll, n), LV, 4.
11 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
12 Cfr. G iovan n i C assiano, Istituzioni cenobitiche, X I , 18. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
X X I , 19.
13Cfr. G iovanni C assiano, loc. dt., 19. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 90.
14Cfr. M a c a r io d ’E g it t o , Omelie (Coll. HI), X X I , 3 . 2 . Apoftegmi, Arm n, 250.
15Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, X I, 6.
16Cfr. G iovanni C risostom o, Commento a san Matteo, X I X , 2.
17 Centurie sulla carità, HI, 62.
18 Ibid., IV, 43.
646
nulla nel tuo corpo, attraverso una qualsiasi apparenza esteriore, o una
parola, o un’allusione sottintesa»19; «dovunque andrai, nasconderai il
tuo modo di vivere»20. Egli scrive inoltre: «L’inizio della vittoria sulla
cenodossia è il controllo della lingua»21. Ciò implica a fortiori il rifiu
to di insegnare agli altri e persino di annunciare la parola, come sot
tolinea san Macario il Grande: «Colui che è invitato a parlare e viene
costretto ad annunciare la parola deve rattristarsene, fuggire la cosa
come il fuoco e respingere il pensiero al fine di sfuggirvi e di non ca
dere nella cenodossia a causa della sua parola»22. A questo proposito
cita23l’esempio di Mosè che, pregato da Dio stesso di annunciare la
parola a Israele, «se ne scusò dicendo: “Io non sono un parlatore”»
(cfr. Es 4,10), l’esempio di Geremia che ugualmente si scusò dicendo:
«Non so parlare perché sono ragazzo» (cfr. Ger 1,6), e l’esempio di
san Paolo che scrive: «Malgrado me sono depositario di un mandato»
(cfr. iCor 9,17). Negli Apoftegmi si ritrovano numerosi esempi di Pa
dri che rifiutano di parlare o non rispondono alle domande di coloro
che sono venuti ad interrogarli se non dopo che questi hanno a lungo
insistito.
Colui che vuole vincere la cenodossia deve non solo nascondere la
sua ascesi, le sue virtù e la sua eventuale sapienza, ma anche non na
scondere agli altri le proprie colpe, a condizione tuttavia che ciò non
causi loro dei torti. San Giovanni Climaco consiglia in questa pro
spettiva: «Non nascondere una colpa umiliante con il pretesto di evi
tare lo scandalo; tuttavia, non è forse possibile usare questo rimedio
in ogni caso; questo dipende dalla natura della colpa»24. In generale,
ed è questo un rimedio fondamentale contro la cenodossia, l’uomo de
ve accettare di essere umiliato, e ricercare anche ciò che può procu
rargli il disprezzo. «L’inizio della vittoria sulla cenodossia è [...] l’a
more per le umiliazioni», scrive san Giovanni Climaco25. Per questo
un Anziano consiglia: se il diavolo «viene a farti perdere nella ceno
dossia, compi un’azione o assumi davanti agli uomini un atteggiamento
tale che essi ti disprezzino, perché, sappilo bene, Satana non è mai tan
to desolato come quando l’uomo desidera l’umiliazione e il disprez
2. Terapia dell’orgoglio
Abbiamo visto, esaminando la cenodossia e l’orgoglio, che queste
passioni sono così simili tra loro che alcuni Padri non ritengono in
dispensabile esaminarle separatamente. Per quanto ci riguarda, se
guendo l’esempio di altri Padri, abbiamo considerato che fosse utile
distinguerle e presentare le caratteristiche specifiche di ciascuna di es
se. Ciò implica che esamineremo separatamente anche le loro terapie.
Ma la loro vicinanza renderà inevitabili alcuni accostamenti, quindi al
cune ripetizioni.
La terapia dell’orgoglio, come quella della cenodossia, suppone pre
liminarmente una conoscenza dettagliata della passione, quantunque
l’orgoglio non sia così sottile, multiforme e ingannatore come la ce-
* La Scala, XX1,29.
47Istruzioni spirituali, XI, 113. Cfr. II, 29.
48 Conferenze, XXIV, 16. Cfr. 15.
49 La Scala, XXV, 4.
50Centurie sulla carità, I, 80.
651
nodossia. Per questo, san Giovanni Cassiano che considera la nosolo
gia un elemento fondamentale della terapia di quella51, a proposito del
l'orgoglio osserva che è importante conoscerne soprattutto l’eziologia:
«Impareremo come evitare il veleno così pericoloso di questa malat
tia ricercandone le cause e l’origine. Mai infatti le malattie potranno
essere guarite, né trovati i rimedi ai disturbi della salute se non si ri
cerca, prima di tutto, con una investigazione minuziosa, la loro origi
ne e le loro cause»52.
La conoscenza generale della malattia dà all’uomo, in ogni caso, la
possibilità di riconoscere in sé questa passione così capace di farsi igno
rare o dimenticare. Tale capacità di riconoscimento è evidentemente
una condizione della terapia, perché colui che non si ritiene malato
non cercherà la guarigione. San Giovanni Climaco, a proposito di co
loro che sono accecati al punto da non avere coscienza dell’orgoglio
che è in loro, osserva: «Per questi malati vi sarà poca speranza di sal
vezza»53.
Vigilanza e discernimento permettono di individuare la malattia fin
dal primo manifestarsi, e di evitare che si diffonda al punto da dive
nire quasi incurabile. A questo proposito così scrive san Giovanni Cas
siano: «Si può essere totalmente indenni da questa malattia mortale se
però ci si mette in guardia prima che i suoi pericolosi assalti abbiano
già avuto potere su di noi; occorre quindi che un saggio e prudente
discernimento prevenga ciò che potremmo indicare come le sue avan
guardie»54. Fintanto che la malattia è contenuta in certi limiti, la sua
terapia è possibile agli sforzi umani, che perciò devono praticarsi in
molte direzioni.
Sapere che l’orgoglio, come la cenodossia, rendono vani tutti i no
stri sforzi presenti o passati, e tolgono ogni valore alle virtù che si pos
sono avere, avere coscienza del rigore del giudizio divino circa gli or
gogliosi, della privazione della grazia e delle pene che risultano da que
sta passione possono contribuire a vincerla55. È così che san Basilio,
alla domanda: «Come guarire gli orgogliosi?» risponde: «Essi guari
scono per mezzo della fede in Colui che ha detto: “Dio resiste ai su
perbi e dà la grazia agli umili” (Gc 4,6)56, in altre parole, per il timo-
51 Cfr. Istituzioni cenobitiche, XI.
52ibid., xn, 4 , 2.
53 La Scala, XXH, 14-15.
54Istituzioni cenobitiche, X H , 29.
55Vedi per esempio G iovanni CRISOSTOMO, Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
56Regole brevi, 35.
652
re della sentenza in jétti s’incorre a causa dell’orgoglio»57. Lo stesso Cri
sto si impegna a segnalare le conseguenze nefaste dell’orgoglio, di
cendo più volte: «Chi si esalterà sarà umiliato» (Mi 23,12; Le 18,14),
indicando che il fariseo, malgrado le proprie virtù, non sarà giustifi
cato, a causa dell’orgoglio (cfr. Le 18,9-14).
Come nota san Basilio, il timore di Dio, però, non basterà a cura
re la malattia. Poiché l’orgoglio consiste, in genere, in un innalzamento
di sé in rapporto ad altri uomini e in rapporto a Dio, non si potrà gua
rirne se non sforzandosi in ogni circostanza di evitare di esaltarsi, di
struggendo l’abituale disposizione (éxis) della passione per mezzo di
uno smorzamento progressivo dell’atteggiamento che lo caratterizza.
Ciò implica che si dia prova di una costante vigilanza interiore, e che
si eviti anche di frequentare uomini manifestamente sotto il potere
di questa passione. È per questo che san Basilio completa così la sua
risposta: «Non ci si può liberare da questa passione se non astenen
dosi da ogni esercizio di superiorità, come non si disimpara una lin
gua o un mestiere se non smettendo del tutto non solo di praticare o
di parlare noi stessi, ma anche di sentir parlare e vedere praticare gli
altri»58.
Saremo aiutati in questo compito considerando la vanità e la vacuità
delle cose sulle quali l’uomo, nella passione, fonda la sua superiorità:
instabilità di tutte le cose umane, fugacia delle ricchezze, del potere,
debolezza e fragilità dell’uomo stesso sottomesso in questo mondo al
la malattia, all’invecchiamento e alla morte, e che senza Dio non è che
«terra e cenere, ombra e fumo»59.
L’orgoglio si traduce attraverso un certo numero di atteggiamenti:
fiducia in se stessi, autosoddisfazione, arroganza, sicurezza, pretesa di
sapere, fiducia nel proprio giudizio, certezza di avere ragione, mania
di giustificarsi, spirito di contraddizione, voglia d’insegnare, di coman
dare, rifiuto di sottomettersi. Solo sforzandosi di adottare atteggia
menti contrari l’uomo potrà, su questo piano, combattere l’orgoglio:
odio della volontà propria60, sfiducia del proprio giudizio61, rinuncia
all’autogiustificazione, biasimo di sé62, rifiuto del contraddire, rifiuto
57 ibid.
58ibid.
59Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie su Atti, XXX, 3; Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2; Ome
lie su Ozia, IV, 4; Commento a san Giovanni, XXXEI, 3.
60 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,10.
61 Ibid.
62 Cfr. ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 31.
653
d’insegnare e di comandare, atteggiamenti che si trovano tutti realiz
zati nell’obbedienza63 al Padre spirituale, e che permettono all’uomo,
come dice san Doroteo di Gaza, «di riprendersi e tornare allo stato
naturale»64.
Per evitare la prima forma d’orgoglio che consiste nel considerarsi
superiori agli altri, o almeno ad alcuni, e a disprezzarli, l’uomo dovrà
impegnarsi innanzitutto a notare in essi ciò in cui costoro gli sono
superiori, rifiutando di vedere i loro difetti e valorizzando le loro qua
lità65. È soprattutto in questo senso che possiamo dire con san Mas
simo che «la carità sopprime l’orgoglio»66. L’uomo dovrà persino giun
gere a considerarsi inferiore a tutti, come insegna san Doroteo di Ga
za: «Ritenersi al di sopra di tutti [si oppone] alla prima forma di or
goglio. Infatti, colui che si ritiene al di sopra di tutti, come potrà cre
dersi più grande di un fratello, elevarsi in qualcosa, biasimare o di
sprezzare qualcuno?»67.
Il ricordo dei suoi peccati contribuisce a togliergli quel senso di su
periorità rivelando la sua miseria spirituale68. Il suo orgoglio si riduce
tanto più quanto più questa consapevolezza è accompagnata dalla com
punzione69e dal biasimo di sé70.
L’accettazione, ossia la ricerca delle umiliazioni sotto forme diver
se, permette anche la guarigione della passione. San Doroteo di Ga
za così scrive a questo riguardo: «Sii convinto che disprezzo e oltrag
gi sono per la tua anima rimedi al suo orgoglio, e prega per coloro che
ti maltrattano, come se fossero delle vere medicine»71.
Vivere ignorato dagli uomini aiuta a trattare la forma d’orgoglio più
esterna, come sottolinea san Giovanni Climaco: «L’orgoglio visibile
guarisce per mezzo di una situazione oscura»72.
Condurre una vita dura e umiliante contribuisce altresì a combat
tere questa malattia73. Abbiamo visto, in verità, nel capitolo dedicato
all’ascesi fisica, come l’anima sia, in una certa misura, colpita da quel-
® Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXII, 15; 3 1.
64Istruzioni spirituali, 1,10.
65 Vedi, per esempio, GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
66 Centurie sulla carità, IV, 61.
67Istruzioni spirituali, II, 38.
68II ricordo delle colpe è uno dei principali rimedi consigliati da Evagrio Pontico contro l’or
goglio (cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 33).
69 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXII, 31.
70 Cfr. ibid. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1,10.
71 Lettere, 2.
72 La Scala, Ricapitolazione, 13.
73 Cfr. ibid, XXII, 15.
654
lo che fa o subisce il corpo, e come, più in generale, le condizioni ma
teriali di esistenza dell’uomo abbiano una certa incidenza sul suo
stato interiore. Le sofferenze fisiche e le diverse prove che l’uomo può
essere portato a subire nel suo corpo lo purificano dalla sua passione
nella misura in cui esse gli fanno constatare la sua debolezza e fragi
lità, e riducono l’illusione di auto-sufficienza legata all’orgoglio.
Nella misura in cui l’orgoglio consiste nell’immaginare un’esalta
zione per le qualità naturali che si possiedono, il rimedio sta nel rico
noscere che ogni bene viene da Dio, che ogni qualità ha la sua fonte
nel Creatore della nostra natura. A questo riguardo è bene meditare
la parola dell’Apostolo: «Chi ti distingue? Che cosa possiedi che non
abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto perché te ne vanti come se non
l’avessi ricevuto?» (ICor 4,7). In questa prospettiva, Evagrio fa nota
re all’orgoglioso: «Tu sei la creatura di Dio: non ripudiare il tuo Crea
tore»74. E san Giovanni Climaco: «Tutto ciò che ti è venuto dopo la
tua nascita, così come la tua nascita stessa, è Dio che te l’ha donato»75.
Lo stesso autore osserva che «quando il nostro pensiero non si eleva
più riguardo ai doni naturali, è segno che esso inizia a recuperare la
salute»76.
Ma l’orgoglio consiste soprattutto, per lo spirituale, nell’esaltarsi a
motivo delle sue virtù. Il rimedio consisterà allora nel ricordo dei pro
pri peccati, già menzionati a proposito della prima forma d’orgoglio.
E, anche ammesso che queste virtù siano reali, colui che si eleva così
prenderà facilmente coscienza della sua mediocrità, e ridurrà così la
sua passione, considerando la perfezione dei santi77, il che sarà favori
to dalla frequente e attenta lettura delle Vite dei Padri78.
Il rimedio essenziale consiste, tuttavia, nel riconoscere che «ogni
donazione buona e ogni dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal
Padre delle luci» (Gc 1,16-17) e nell’attribuire a Dio quanto si è potu
to fare di bene, come anche tutte le virtù che eventualmente si pos
siedono e tutte le azioni buone e i pensieri buoni che da esse proce
dono79. È opportuno qui ricordare anche la parola dell’Apostolo cita
ta precedentemente, come consiglia san Giovanni Climaco parafra
655
sandola un po’: «Cosa hai tu che non abbia ricevuto come un dono
gratuito, sia da Dio stesso, sia grazie all’aiuto e alle preghiere degli
altri?»80. Evagrio fa notare ugualmente: «Tu non hai nulla che non ab
bia ricevuto da Dio [...]. Riconosci colui che ti ha donato e non ti esal
ta prima [...]. Tu sei aiutato da Dio, non rinnegare il tuo benefatto
re»81. E san Giovanni Cassiano insegna: «Potremo sfuggire alla trap
pola che questo spirito ci tende nella sua malizia se, a proposito di
ciascuna delle virtù nelle quali abbiamo l’impressione di aver pro
gredito, diciamo questa parola dell’Apostolo: “Non io, ma la grazia di
Dio con me” (ICor 15,10) e: “Per grazia di Dio sono quello che sono”
(ICor 15,1o)»82. Le stesse facoltà con le quali, in noi, si esercita l’ascesi
e si praticano le virtù, devono essere attribuite a Dio. Anche san Gio
vanni Climaco scrive ironicamente: «Tutte le virtù che hai acquistato
senza l’aiuto della tua intelligenza, solo quelle ti appartengono! Difatti,
è Dio che ti ha donato l’intelligenza. Tutte le vittorie che hai riporta
to senza la collaborazione del tuo corpo, sono solo questi i risultati dei
tuoi sforzi! Difatti il tuo stesso corpo è opera di Dio, non opera tua»83.
Le forze attraverso le quali le nostre facoltà sono messe in moto, il prin
cipio stesso di tutte le nostre azioni hanno la loro fonte prima in Dio,
come insegna l’Apostolo: «E Dio colui che suscita tra voi il volere e
l’agire in vista dei suoi amabili disegni» (FU 2,13).
Il rimedio consiste anche nel riconoscere che ogni progresso spiri
tuale che si è compiuto è avvenuto per grazia di Dio, nel sentire che
senza l’aiuto di Dio si è incapaci di fare qualsiasi cosa buona e con
servare i beni spirituali acquisiti84, nel considerare che i nostri sforzi
e le nostre sofferenze, se sono indispensabili, nondimeno non basta
no a ottenere una qualunque cosa, ma che tutto ci è dato da Dio, sen
za la cui grazia siamo ridotti in totale impotenza85, nell’essere conti
nuamente consapevoli che «l’iniziativa non è dell’uomo che vuole o
che corre, ma di Dio» (Rm 9,16) e che, «se il Signore non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la
città, invano veglia il custode» (Sai 127[126],1). San Giovanni Cas
siano a questo proposito consiglia: «In ogni nostra azione, occorre non
“ La Scala, XV, 79.
81 Gli otto spiriti della malvagità, 17.
82Istituzioni cenobitiche, XII, 9.
83 La Scala, XXH, 16.
84 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 33; Gli otto spiriti della mal
vagità, 17.
85 San GIOVANNI CASSIANO sviluppa lungamente questo punto istituzioni cenobitiche, XII,
9-15).
656
solo sentire ma riconoscere che “io non posso fare nulla da me stes
so” (Gv 5,30)... “ma il Padre, che è in me, è all’opera fino a ora e an
ch’io sono all’opera” (cfr. Gv 5,17)»86. Il rimedio, infine, consiste nel
prendere coscienza che senza l’aiuto e la protezione di Dio, sarem
mo sommersi dalle forze del male e dovremmo cedere ai ripetuti at
tacchi dei nostri nemici spirituali87. San Giovanni Cassiano consiglia:
«Impariamo, avvertendo in ogni azione la nostra debolezza e il suo
aiuto, a proclamare quotidianamente: “Venni spinto con forza perché
cadessi; ma il Signore è venuto in mio aiuto. Mia forza e mio canto è
il Signore, egli si è fatto salvezza per me” (Sai 118[117],13-14)»88.
La preghiera, soprattutto se permanente, costituisce il rimedio fon
damentale per l’orgoglio nella misura in cui l’uomo, quando prega,
chiede l’aiuto, il soccorso e la protezione di Dio e, di conseguenza, non
può non avere coscienza che ciò che egli ottiene in risposta alla sua
preghiera viene da Dio come dono, e non è attribuibile alle proprie
forze né ai propri meriti. La preghiera di ringraziamento permette
altresì di vincere la passione nella misura in cui, per suo mezzo, l’uo
mo, se la pratica con cuore contrito e umiliato, e non come il fariseo,
riconosce immediatamente Dio e non se stesso, come principio e fi
ne dei beni che possiede, e allora non si considera altro che l’inde
gno depositario di questi beni89. Ciò è quanto spiega san Doroteo di
Gaza: «La preghiera continua [...] si oppone alla seconda specie d’or
goglio [...]. Colui che prega Dio continuamente, qualsiasi opera buo
na gli sia concesso di compiere, egli ne conosce la fonte e non può
inorgoglirsi né attribuirla alle proprie forze. Attribuisce a Dio ogni
opera buona, e non smette di ringraziarlo e invocarlo, temendo che la
perdita di tale aiuto non lasci apparire la sua debolezza e impotenza»90.
Ma, beninteso, il ruolo della preghiera è anche quello di chiedere l’aiu
to a Dio per la guarigione da questa stessa passione che, più delle al
tre passioni, può sfuggire totalmente all’azione terapeutica degli uo
mini, come afferma frequentemente san Giovanni Climaco: «L’orgo
glio invisibile, solo Colui che è eternamente invisibile può guarirlo»91;
«gli uomini possono guarire i voluttuosi; gli angeli, i cattivi; ma gli or
gogliosi solo da Dio possono essere guariti»92.
86Ibid., 17.
87 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 33.
88Istituzioni cenobitiche, XII, 17.
89Cfr. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XH, 18.
90Ibid., 11,38.
91 La Scala, Ricapitolazione, 13.
92Ibid., XXVI, 164. Cfr. XXE, 10; 30.
657
La maggior parte dei mezzi per guarire l’orgoglio presentati sopra so
no anche, come vedremo, mezzi per acquistare l’umiltà. Difatti, l’umiltà,
in verità, costituisce il principale rimedio all’orgoglio in quanto è la virtù
che gli è opposta ed è chiamata a sostituirsi ad esso. San Gregorio di
Nissa fa notare: «L’umiltà rovinerà la superbia, la modestia guarirà l’or
goglio malsano»93. San Barsanufio scrive: «H nostro grande e celeste me
dico ci ha donato rimedi e cataplasmi [...]. Prima di tutto, ci ha dato l’u
miltà che scaccia ogni orgoglio»94. San Giovanni Cassiano afferma la
stessa cosa: «Il creatore dell’universo e il suo medico, Dio, sapendo che
l’orgoglio è la causa delle malattie più gravi, si preoccupa di guarire i
contrari con i contrari, in modo che chi era caduto per orgoglio venga
rialzato dall’umiltà»95; inoltre: «Se la peste del vizio infetta la parte ra
zionale, vi genera la cenodossia, l’esaltazione, l’orgoglio, la presunzione
[...]. Applicate, dunque, alle membra o alla parte della vostra anima che
abbiamo detto particolarmente ferita, il rimedio della vera umiltà»96.
San Doroteo di Gaza si esprime in termini simili: il Cristo «d mostra la
causa del disprezzo e delle trasgressioni dei precetti di Dio; egli ce ne
fornisce così il rimedio affinché possiamo obbedire ed essere salvati.
Qual è dunque questo rimedio e qual è la causa del disprezzo? Ascol
tate quanto dice nostro Signore: “Imparate da me che sono mite ed umi
le di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mi 11,29). Ecco che
in breve, con poche parole, egli ci mostra la radice e la causa di tutti i
mali, il suo rimedio, fonte di tutti i beni; egli ci mostra che è l’esaltazione
che ci ha fatto cadere, e che è impossibile ottenere misericordia se non
con la disposizione contraria, che è quella dell’umiltà»97.
3. L’umiltà
L’umiltà (tapeinophrosynè) si oppone nello stesso tempo alla ceno
dossia e all’orgoglio. E, così, come vi sono due forme di orgoglio, pos
siamo distinguere due forme di umiltà corrispondenti: l’umiltà nei con
fronti degli uomini e l’umiltà nei confronti di Dio98. Benché questa sia
il fine di quella, essa non potrà fame a meno. Per questo san Barsanu-
93 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
94 Lettere, 61.
95 Istituzioni cenobitiche, XII, 8.
96Conferenze, XXIV, 15-16.
97Istruzioni spirituali, 1,7. Vedi anche GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXII, 31; XV, 79. MAS
SIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 80.
98 Cfr. DOROTEO di G aza, Istruzioni spirituali, II, 31; 33.
658
fio è attento nel consigliare: «Umiliati veramente non solo davanti a
Dio, ma anche davanti agli uomini»99. San Giovanni Cassiano osserva
che «nessuno può raggiungere la perfezione della purezza se non at
traverso la vera umiltà che dimostra ai suoi fratelli prima di tutto e
quindi a Dio»100.
Prima di presentare ciascuna di queste due forme di umiltà, notia
mo che questa, in genere, consiste per l’uomo nel riconoscere i propri
limiti101, la propria debolezza102, la propria impotenza103, la propria
ignoranza104. E questa una delle definizioni patristiche fondamentali
di tale virtù recensite da san Giovanni Climaco105. «Un uomo che è ar
rivato a conoscere la misura della sua debolezza ha toccato la perfe
zione dell’umiltà», scrive sant’Isacco il Siro106.
L’umiltà, tuttavia, non consiste solo nel riconoscere e nell’assume-
re una debolezza e una mediocrità reali ma anche, quando si possie
dono alcune qualità, ndl’abbassarsi volontariamente: è questa, fa no
tare san Giovanni Crisostomo, la definizione stessa del termine tapei-
nophrosyné107. L’umiltà egli dice, «consiste nel riconoscersi come un
nulla malgrado la grandezza e il numero dei meriti»108, inoltre: «la
vera umiltà consiste nelTabbassarsi [...] quando si hanno occasioni per
innalzarsi»109. «In verità l’umile, scrive anche sant’Isacco il Siro, è co
lui che ha segretamente motivi per inorgoglirsi e non lo fa, ma non ve
de in questo nulla di più in sé che un po’ di terra»110.
L’umile non si stima per nulla111e non fa alcun caso a sé112. «Egli ri
tiene se stesso come un uomo da nulla»113. Arriva persino a svaloriz
zarsi. «L’umile vede se stesso come un uomo spregevole», scrive an
cora sant’Isacco114. E san Giovanni Climaco sottolinea: «L’umiltà è un
abisso di disprezzo di sé»115.
99 Lettere, 102.
100Istituzioni cenobitiche, X II, 23. Cfr. 32.
101 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), LIV, 6.
102 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 21.
103Cfr. G iovanni C lim aco, loc. tit. M assimo i l C o nfessore, Centurie sulla carità, 1, 87.
104Cfr. M assimo i l C onfessore, loc. dt. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 20.
105La Scala, XXV, 3.
106Discorsi ascetid, 73.
107 Omelie sulla lettera ai Filippesi, VI, 2.
108 Omelie contro gli Anomei, V, 6.
109 Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5.
110Discorsi ascetid, 20.
111 Cfr. Apoftegmi, XV, 26.
112Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 82.
113 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetid, 20.
114ìbid.
115La Scala, XXV, 26.
659
L’umiltà si caratterizza così per un «distacco da sé in ogni cosa»116.
Tale distacco da sé si traduce in una rinuncia alla propria volontà117
che arriva fino all’odio di questa118e che i Padri considerano come ca
ratteristica fondamentale dell’umiltà al punto da identificarla con ta
le rinuncia119.
Si traduce anche nell’assenza di fiducia in sé e nella diffidenza ri
guardo al proprio giudizio120, qualità prossime alla precedente e spes
so citate con essa, e da cui derivano l’obbedienza pronta al Padre spi
rituale121, e nei rapporti con gli altri la rinuncia a giustificarsi e imporre
il proprio parere122, l’abbandono di ogni spirito di contestazione e op
posizione123, rinuncia a contraddire124e anche a discutere125, quindi un
atteggiamento spesso silenzioso126. Poiché questi atteggiamenti si ma
nifestano prima di tutto nei riguardi del Padre spirituale127, essi testi
moniano l’umiltà non solo davanti agli uomini, ma anche di fronte a
Dio di cui il Padre spirituale è il testimone e colui che ne indica la vo
lontà.
In particolare, di fronte al prossimo, l’umiltà consiste per l’uomo,
all’opposto del primo tipo di orgoglio, non solo nel non considerarsi
superiore agli altri128, ma anche nel considerare gli altri superiori a
sé. È questo l’insegnamento di san Paolo che raccomanda: «Con umiltà
ritenete gli altri migliori di voi» (FU 2,3). I Padri, naturalmente, ri
prendono questo insegnamento. Così alla domanda: «Che cos’è l’u
miltà?», san Basilio Magno risponde immediatamente: «L’umiltà con
siste, secondo il comandamento dell’Apostolo, nel considerare gli al
tri al di sopra di sé»129. San Doroteo di Gaza insegna: «Il primo [tipo
di umiltà] consiste nel ritenere il proprio fratello più intelligente di sé
116 G iovanni di G aza , Lettere, 278.
117 Cfr. GIOVANNI Cassiano, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2. B arsanuh o, Lettere, 379. Apof-
tegmi, XV, 26.
118 Cfr. G iovanni C um aco, La Scala, XXV, 51. D o ro te o di G aza, Istruzioni spirituali, 1 ,10.
119 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. G iovanni di G aza, Lettere, 278; 462.
120 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. D o r o te o di G aza, Istruzioni spirituali, I,
10. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
121 Cfr. Apoftegmi, XV, 26. G iovanni CASSIANO, loc. cit. GIOVANNI Clim aco, La Scala, XXV, 8.
122 Cfr. Apoftegmi, XV, 26. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1 ,10.
123 Cfr. G io v a n n i C lim aco , La Scala, X X II, 6. Apoftegmi, serie alfabetica, M atoes, 11.
Ibid., Anon, 199.
124 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 8; 48. Apoftegmi, XV, 26.
125 Cfr. Apoftegmi, sertie alfabetica, Matoes, 11. Ibid., N 330; XV, 26.
126 Cfr. Apoftegmi, N 318; N 321; N 330. Ibid., XV, 26. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni ce
nobitiche, IV, 39,2.
127 Vedi per esempio GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
128 Cfr. M assimo i l C onfessore, Centurie sulla carità, 1 ,87.
129 Regole brevi, 198.
660
e del tutto superiore»130. San Giovanni Crisostomo dice: «La vera umiltà
consiste nel cedere a coloro che sono al di sotto di noi, e nel preferi
re a noi quelli che sembrano inferiori a noi. Se riflettiamo bene, pen
seremo che nessuno ci è inferiore, ma crederemo che tutti ci supera
no»131. San Giovanni Climaco nel capitolo che egli dedica all’umiltà
osserva: «Se, dal profondo del cuore, riteniamo che il nostro prossi
mo è migliore di noi in tutto, è perché la misericordia ci è vicina»132.
Un tale atteggiamento tuttavia potrebbe sembrare orgoglioso se, nel
considerare gli altri come superiori a sé, ci si considerasse importanti.
Per questo i Padri dicono anche, e molto spesso, seguendo peraltro di
rettamente l’insegnamento del Cristo (cfr. Me 9,35), che l’umiltà con
siste nel considerarsi inferiori a tutti, e nel ritenersi l’ultimo degli uo
mini133. Al grado più elevato dell’umiltà l’uomo si considera non solo
inferiore ai suoi simili, ma inferiore anche a tutti gli esseri della natura134.
Mentre l’orgoglioso, ritenendosi superiore agli altri, li disprezza, l’u
mile al contrario, considerandosi inferiore a tutti, considera se stesso
e solo lui degno di essere disprezzato, e assume senza dispiacere e tur
bamento tutte le forme di umiliazione che provengono da altri135. San
Giovanni Cassiano consiglia: «Ritenendoci inferiori a tutti, soffriremo
con grande pazienza i trattamenti degli uomini, per quanto ingiusti,
mortificanti e penosi siano, ritenendo che ci vengono da uomini che
sono superiori a noi»136. Tra l’altro, egli osserva che uno dei segni per
cui si riconosce l’umiltà è quello che «non ci si affligge delle ingiurie
che si ricevono»137.
«E l’umiliazione che mette alla prova il cuore», osserva san Gio
vanni Climaco138: l’uomo può essere umile nei suoi pensieri, ma solo
l’assenza di turbamento quando sarà sottomesso all’umiliazione rive
lerà che è umile veramente.
11 segno di un’umiltà ancora più grande è quello di accettare que
sta umiliazione con gioia139.
130Istruzioni spirituali, E, 33.
131 Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5.
132La Scala, XXV, 31.
133Ibid., 3. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, II, 33. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe,
13. Ibid., N 323. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2; XII, 33. GIOVANNI CRI
SOSTOMO, Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5; Omelia sull'umiltà, 2.
134 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 276. Apoftegmi, sede alfabetica, Sisoe, 13.
135 Cfr. G iovan ni di G aza, Lettere, 278. Apoftegmi, N 324; N 325.
136Istituzioni cenobitiche, XII, 33.
137Ibid., IV, 39,2.
m La Scala, XXV, 33.
m Ibid., XXV, 1.
661
L’umile, del resto, non sopporta di essere valorizzato in rapporto
agli altri e non si accontenta di sopportare e persino di accogliere con
gioia il disprezzo, ma lo ricerca. A questo proposito così scrive san
Giovanni Climaco: «Se il carattere estremo dell’orgoglio è quello di
fingere per trarre gloria dalle virtù che non abbiamo, ne consegue che
il segno dell’umiltà più profonda sarà quello di simulare talvolta, al fi
ne di deprezzare noi stessi, i difetti da cui siamo esenti»140.
Accettare senza turbamento l’iuniliazione, significa escludere, da
vanti a chi ci ha umiliati, ogni reazione di collera, ogni rancore e ani
mosità. San Giovanni Climaco osserva che una delle proprietà del
l’umiltà è «la perdita di ogni irritabilità»141. «L’umiltà non s’incolleri
sce e non mette in collera nessuno», constata un Padre142. «Umiltà,
vuol dire lasciare la collera», afferma un altro143. E Abba Isaia: «L’u
miltà [...] è pacifica verso tutti gli uomini»144.
A colui che lo disprezza o l’offende, l’umile perdona subito. «Chie
sero a un Anziano: “Che cos’è l’umiltà?”. L’Anziano rispose: “Se tuo
fratello pecca contro di te e tu lo perdoni prima che venga a chieder
telo”»145. Il vero umile, dice san Giovanni Climaco, è «colui che, of
feso da un altro, non lascia che la sua carità diminuisca verso di lui»146.
E a un Anziano, al quale chiesero: «Cos’è l’umiltà?», rispose ancora più
positivamente: «E fare del bene a coloro che ti fanno del male»147.
L’umile si mostra devoto e sottomesso verso tutti, diviene servo di
tutti148 sull’esempio del Cristo e secondo le sue raccomandazioni:
«Se uno vuole essere primo, sia ultimo di tutti e servo di tutti» (Me
9,35); «se uno tra voi vuole essere grande, sia vostro servo, e chi tra
voi vuole essere primo, sia schiavo di tutti. Infatti il Figlio dell’uomo
non è venuto per essere servito ma per servire» (Me 10,43-45; cfr. Mt
20,26-28; Le 22,26-27).
Di fronte a Dio, l’umiltà consiste innanzitutto nel riconoscersi pec
catori149. San Doroteo di Gaza, nell'Istruzione che dedica all’umiltà ri
140Ibid., 41.
141Ibid., XXV, 7. Cfr. 4; 8.
142Apoftegmi, N 115. Cfr. XV, 26.
145 I b i d . , Eth. Pat., 438.
144Ibid.,] 716.
145Ibid., N 304. Cfr. anche GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 3.
'«LaScala, XXI, 17.
147Apoftegmi, P 263.
148 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie contro gli Anomei, VOI, 6. M acario d ’E gitto , Ca
pitoli parafrasati, 86.
149Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 20.
662
corda che più i santi si avvicinano a Dio, più essi si scoprono pecca
tori150. L’umiltà è anche, insegna Abba Isaia: «Considerarsi come il più
peccatore di tutti gli uomini»151. «E ritenersi il più grande dei pecca
tori», osserva anche san Giovanni Climaco nella sua recensione delle
grandi definizioni patristiche di questa virtù152. Questa considerazio
ne dei propri peccati si accompagna naturalmente al biasimo e alla
condanna di sé153.
L’umiltà consiste, inoltre, nel non ricordare continuamente le pro
prie opere buone e nel rifiutare di porre in risalto le proprie even
tuali virtù154. L’umiltà qui realizza una condizione di spogliamento,
di nudità interiore. Per questo san Giovanni Crisostomo, quasi ogni
volta in cui parla di questa virtù, l’accosta alla povertà spirituale che il
Cristo pone al primo posto tra le beatitudini: «Beati i poveri in spiri
to, perché di essi è il regno dei cieli» (Mi 5,3). «Chi sono quelli che
Gesù chiama i poveri in spirito? Sono gli umili [...]», egli dice155. E
sant’Isacco il Siro, considerando questo stato nella sua perfezione, scri
ve che il vero umile arriva fino a voler «divenire nella creazione co
me colui che non è, come colui che non è mai venuto all’essere, to
talmente sconosciuto, anche dalla propria stessa anima»156.
A un livello più modesto, san Giovanni Climaco constata che «a
mano a mano che questa regina delle virtù progredisce nella nostra
anima e cresce spiritualmente, noi siamo portati a considerare come
nulla [...] tutto il bene da noi compiuto»157. L’umile si considera così
un servo inutile158, come raccomandato dal Cristo: «Quando avrete
fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Ab
biamo fatto quello che dovevamo fare» (Le 17,10). Egli si considera
anche un cattivo operaio159 e «si disprezza come se non avesse fatto
nulla di buono davanti a Dio»160.
150Istruzioni spirituali, E, 33. Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Matoes, 2.
151Apoftegmi, XV, 26.
152La Scala, XXV, 3.
153 Cfr. D oroteo DI G aza, Istruzioni spirituali, 1 , 10. GIOVANNI ClIMACO, La Scala, XXV, 31;
52. BARSANUFIO, Lettere, 411.
154Cfr. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, in, 5; Omelie sui cambiamenti di
nome, IV, 6. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 3; 26.
155 Commento a san Matteo, XV, 1.
156Discorsi ascetici, 81.
157La Scala, XXV, 4. Cfr. 7.
158 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sui cambiamenti di nome, IV, 6; Commento su san
Matteo, III, 5.
159Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, IV, 3 9 ,2 .
160Apoftegmi, XV, 26.
663
Di conseguenza, l’umile considera che non merita tutti i beni che
possiede161, che non ne è degno162, e ne è debitore163. Egli riconosce
che senza Dio non avrebbe potuto fare nulla di buono.
Ciò ci porta a un’altra grande definizione classica dell’umiltà, la più
importante di tutte e, in qualche modo, il loro coronamento: essa è
«un riconoscimento della grazia divina e della misericordia divina»164,
più precisamente, essa consiste nel riconoscere che senza l’aiuto e il
soccorso di Dio non si sarebbe potuto e non si potrebbe mai fare nul
la di buono165, che ogni bene che noi abbiamo, qualunque esso sia, vie
ne da lui e in nessun modo è attribuibile a noi, che ogni progresso com
piuto è avvenuto grazie a lui, che ogni qualità od ogni virtù che pos
sediamo è un dono della sua grazia, non è affatto imputabile al nostro
valore o merito, e non può essere conservato senza il suo costante aiu
to166. L’umiltà ritorna così ad attribuire a Dio tutto dò che si ha di buo
no e quanto si fa di bene167. «Tale è, dice san Doroteo di Gaza, la per
fetta umiltà dei santi»168. È in questa prospettiva che san Barsanufio
consiglia: «Se ti capita qualche bene, devi riconoscere che è il dono
gratuito di Dio che ti viene dalla sua bontà»169. San Macario il Gran
de descrive bene questo atteggiamento: «Anche se pratica tutte le virtù,
l’anima che ama Dio ha l’abitudine di non attribuire nulla a se stes
sa, ma di riportare tutto a Dio [...]. Infatti, tutto ciò che l’uomo ha,
tutti questi beni apparenti con i quali ciascuno può fare del bene, la
terra e quanto è in essa, il corpo e l’anima stessi, tutto è di Dio. Lo stes
so essere, l’uomo lo ha per grazia. Cosa gli rimane, dunque, di proprio
di cui ragionevolmente potrebbe vantarsi o giustificarsi? Tuttavia, Dio
riceve dagli uomini questa immensa gratitudine, ciò che a lui piace
maggiormente tra tutto quello che gli offriamo: che l’anima [...] rap
porti solo a Dio quanto essa può fare di bene, tutta la pena che si dà
per lui, tutto quanto comprende, tutto quanto conosce, e che attri
buisce completamente a lui»170.
L’umiltà appare qui indissodabile dalla preghiera. Innanzitutto dal
161 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IV, 3 9 ,2 .
162 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 4; 35.
165 Ibid.
164 Ibid., XXV, 3.
165 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 23.
166Cfr. ibid.,3 3 .
167 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, E , 33.
m Ibid.
m Lettere, 412.
1,0 Capitoli parafrasati, 123.
664
la preghiera di domanda, perché con essa l’uomo dimostra che egli
non conta affatto sulle proprie forze, riconosce la sua impotenza nel
realizzare da sé ciò che chiede, e al contrario dimostra che è solo da
Dio che attende ogni bene. Riconosce altresì che non può né compiere
né conservare nulla senza l’aiuto, il soccorso e la protezione di Dio. E
se egli prega costantemente, egli non può non avere coscienza che tut
to ciò che riceve, lo riceve da Dio in risposta alla sua preghiera, non
in ragione dei suoi meriti, ma come un dono gratuito. È per questo
motivo che san Massimo scrive: «L’umiltà è una preghiera continua,
nelle lacrime e nello sforzo. Essa è continuamente elevata a Dio, un
grido di aiuto; essa non vi permette di porre sicurezza, imprudente
mente, sulla vostra potenza o sapienza [...]»m. San Doroteo di Gaza
si esprime allo stesso modo: «E chiaro che l’uomo umile e pio, sapendo
che non può fare nulla di bene alla sua anima senza l’aiuto e la pro
tezione di Dio, non smette mai d’invocarlo affinché sia misericordio
so, e colui che prega Dio continuamente, per qualche opera buona che
gli è concesso di compiere, ne riconosce la fonte [...]. E a Dio che at
tribuisce ogni opera buona, e non smette di ringraziarlo e di invocar
lo, temendo che la perdita di tale aiuto non lasci apparire la sua de
bolezza e impotenza. Così l’umiltà lo fa pregare e la preghiera lo ren
de umile [,..]»172.
L’umiltà, comunque, si accompagna soprattutto alla preghiera di
ringraziamento con la quale l’uomo attribuisce immediatamente a Dio
le sue buone azioni e i beni di qualsiasi natura che egli ha ricevuti, con
siderandosi semplicemente un intermediario e depositario, si mostra
riconoscente verso di lui, e lo loda come la fonte unica di ogni bene173.
Notiamo, infine, che l’umiltà è inseparabile anche dalla contrizio
ne del cuore, dalla penitenza e dalla compunzione. Infatti se, descri
vendo l’umiltà, abbiamo sempre parlato di riconoscimento (della su
periorità degli altri, della propria inferiorità, del proprio stato di pec
cato, dell’impotenza a fare il bene e a conservarlo, di Dio come uni
ca origine del bene che possediamo e che facciamo, ecc.), non si trat
ta di un riconoscimento astratto, ma di un riconoscimento che viene
dal cuore, di un riconoscimento che più precisamente, procede, da
«un cuore contrito e umiliato» CW51[50],19). Questo anche con lo
171 Centurie sulla carità, I, 87.
172Istruzioni spirituali. E, 38.
173Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), LE, 6. M assimo il C onfessore , Centurie sul
la carità, I, 48. B arsanufio , Lettere, 411.
665
scopo di far comprendere che i Padri spesso assimilano l'umiltà e la
contrizione del cuore174. San Giovanni Climaco definisce l’umiltà «l’at
teggiamento di un’anima contrita»175. Commentando il passo del sal
mo 50 che abbiamo appena citato, san Giovanni Crisostomo osserva
che il salmista esige per questo «un grado avanzato dell’umiltà, una
“contrizione”»176. E chiedendosi, peraltro, chi sono quelli che Gesù
chiama «poveri in spirito», risponde: «Sono gli umili e coloro che han
no il cuore contrito. Infatti, con il termine spirito, egli intende il cuo
re e la volontà»177. Più avanti precisa: «L’umiltà ha molti gradi [...]. Da
vide loda questa umiltà perfetta, che non consiste solo in un abbas
samento, ma in una completa contrizione del cuore, quando egli dice:
“H mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito, un cuore contrito ed
umiliato tu non disprezzi, o Dio”» (5^/51[50],19)178. San Giovanni
Climaco fa notare che se la penitenza, la compunzione e l’umiltà si di
stinguono tra loro e si differenziano, ciò avviene tra i principianti,
ma per i proficienti «questa santa corda a tre fili [...] si risolve in una
sola entità che ha stessa potenza e stessa operazione, cioè quella di ac
quisire caratteri e qualità propri, e ciò che [si] indica come il segno di
uno dei suoi elementi si trova ad essere anche il segno degli altri»179.
I modi per acquisire l’umiltà si identificano quasi con i mezzi pra
ticati per guarire dalla cenodossia e dall’orgoglio. Abbiamo visto, in
fatti, che in modo generale la riduzione di una passione implica l’ac
quisizione della virtù corrispondente, e viceversa. I Padri ricordano
sia i mezzi per lottare contro la passione sia i mezzi per acquistare la
virtù, perché nel processo spirituale possiamo distinguere, come ab
biamo dimostrato, un momento negativo e uno positivo, secondo la
parola del salmista: «Allontànati dal male e fa’ il bene». Ma i mezzi in
dicati nei due casi sono praticamente gli stessi e i due momenti del
processo vanno di pari passo.
Così per acquistare l’umiltà i Padri raccomandano principalmente
174 Doroteo di Gaza, per esempio, usa indifferentemente l’una o l’altra espressione: «Senza
umiltà, è impossibile obbedire ai comandamenti o raggiungere un bene qualsiasi, come dice Ab-
ba Marco [l’Eremita]: “Senza contrizione del cuore, è impossibile liberarsi del male, è assolu
tamente impossibile acquistare una virtù”. È dunque attraverso la contrizione del cuore che si
accolgono i comandamenti, che ci si allontana dal male, che si acquistano le virtù» {Istruzioni
spirituali, I, 10).
175La Scala, XXV, 3.
176 Omelie sulla lettera ai Filippesi, V, 2.
177 Commento a san Matteo, XV, 1.
m lbid., 2.
179La Scala, XXV, 6. Cfr. 7.
666
di: non prestare attenzione alle colpe del prossimo, non giudicarlo180;
dar prova di carità verso di lui in ogni circostanza181, considerarlo co
me superiore a sé182 e soprattutto considerare se stessi inferiori a lui,
comunque sia183. Colui che vuole diventare umile deve anche nascon
dere agli altri e a se stesso le proprie qualità e virtù184, riconoscere la
propria debolezza185, prestare attenzione ai propri peccati186, ricordarsi
costantemente dei propri peccati187, biasimarsi e condannarsi188. La
compunzione e i pianti appaiono allora come una via privilegiata per
raccesso all’umiltà189. E opportuno, inoltre, abituarsi a sopportare da
parte di altri disprezzo, ingiurie e umiliazioni diverse190, e per questo
ricercarli191. La rinuncia alla propria volontà192, e l’obbedienza193, che
più vi contribuisce, costituiscono anche i modi essenziali per acqui
stare questa virtù. Anche le sofferenze fìsiche194, e le prove di ogni ge
nere195, favoriscono questa acquisizione, così come l’allontanamento
dal mondo, il distacco196, il non possedere197, la semplicità in ogni am
bito198, la volontà di essere sconosciuto e guarito199, il silenzio200, e la
180 Cfr. Apoftegmi, N 323; N 330. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 81. GIOVANNI CLIMACO,
La Scala, XXV, 18; 27.
181 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, ni, 14.
182Cfr. EsiCfflO Di BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64.
183 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 13; Titoe, 7. Ibid., N 323; N 330; Arm II, 318
(83). ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 5. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64. SlMEONE
il Nuovo T eologo , Inni, V, 13-14.
184Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXV, 64.
185Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 16.
186Cfr. Apoftegmi, N 323; N 330.
187 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 33. GIOVANNI CLIMACO, La
Scala, XXn, 21; XXV, 35. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 20; 81. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 4.
188Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 18.
189 Cfr. Isacco IL Siro, Discorsi ascetici, 21; 37; 48. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli
teologici, gnostici e pratici, III, 23. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 6. GIOVANNI CRISOSTO
MO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 4.
190Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 150. GIOVANNI DI GAZA, Lettere, 278; 307. ISACCO IL SlRO, Di
scorsi ascetici, 37.
191 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 5.
192Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 166. BARSANUFIO, Lettere, 150. DOROTEO DI GA
ZA, Lettera ai commiato, 2. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32.
193Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 25. Ibid., Arm II, 269. ISACCO IL SlRO, Discor
si ascetici, 81. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32. GIOVANNI DI GAZA, Lette
re, 278. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 61.
194Cfr. Apoftegmi, N 323. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, E, 39. GIOVANNI CLIMA-
CO, La Scala, XXV, 61. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 21.
193 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 21; 37.
196Cfr. ibid, 81. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 31; 32.
197Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64; 65. G iovanni C assiano , loc. dt., 64.
198Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64. I sacco il Siro , Discorsi ascetid, 81.
199Cfr. I sacco il Siro , loc. dt.
200 Cfr. ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64.
667
solitudine201. Vi conducono anche le virtù della temperanza202, della
dolcezza203, del timore di Dio204e della carità205. Beninteso, la preghie
ra gioca un ruolo essenziale206, tanto più che l’umiltà appare sempre
come dono di Dio, una virtù che si può apprendere solo da lui, co
me afferma il Cristo: «Imparate da me che sono mite e umile di cuo
re» (Mt 11,29)207. Per questa ultima ragione i Padri raccomandano,
inoltre, di considerare l’esempio dei santi208e di frequentare uomini
che possiedono questa virtù209, ma soprattutto di prendere come mo
dello il Cristo che ne fornisce l’esempio più completo attraverso la sua
kenosi, l’accettazione di una vita povera e oscura, l’accettazione con
sapevole e silenziosa degli oltraggi e delle ingiurie nell’ora della sua
passione, la sua obbedienza perfetta al Padre suo210. Fedele al coman
damento del Cristo: «Imparate da me» l’umiltà (cfr. Mt 11,29), sant’I-
sacco consiglia: «Guarda cosa ha fatto per acquisirla Colui che ha pre
scritto l’umiltà e donato questa grazia. Sii come lui e la troverai»211.
Nell’ambito della pràxis, l’umiltà è chiamata a occupare un posto
fondamentale. Essa è, con la carità, la virtù cristiana per eccellenza.
Così san Giovanni Crisostomo non esita a dire: «Il fondamento della
nostra filosofia è l’umiltà»212. E il fondamento di tutto l’edificio spiri
tuale che l’uomo ha il compito di edificare213, il principio stesso della
vita spirituale. Ciò si comprende perché l’orgoglio, che sta all’origine
della caduta dell’uomo, è il principio dell’esistenza decaduta. Così l’uo
mo non può sperare di ricostruire se stesso se non prendendo come
base l’umiltà che è rimedio all’orgoglio, quindi una delle principali
201 Cfr. G iov ann i C lim aco , loc. tit. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 81.
202 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Titoe, 7.
203 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 31.
204 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,48.
205 Cfr. ibid, IH, 14.
206 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Titoe, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 21. DOROTEO DI
G aza, Istruzioni spirituali, II, 38.
207 Cfr. Mt 11,29. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 3; 68. Isacco il Siro , Discorsi asceti
ci, 20.
208Cfr. B arsanufio , Lettere, 62. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 33.
209Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
210Cfr. Apoftegmi, Arm II, 318 (84). BARSANUFIO, Lettere, 150. GIOVANNI CASSIANO, Istitu
zioni cenobitiche, XII, 8; 33. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 86. GIOVANNI CRISOSTO
MO, Omelie su 2 Tessalonicesi, I, 2. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 35.
211 Discorsi ascetici, 20.
212 Omelia sull’umiltà, 2. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 44. SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Catechesi, XX, 204-207.
213 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 21. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Gio
vanni, x x x m ,3 .
668
fonti di guarigione. «È a questa umiltà, spiega san Giovanni Criso
stomo, che Gesù Cristo dà il primo posto nelle sue beatitudini, per
ché questo diluvio di mali che inonda tutta la terra non ha affatto al
tra fonte se non quella dell’orgoglio [...]. Visto che l’orgoglio era, per
così dire, il male culminante dell’uomo, e radice e fonte di tutti i pec
cati del mondo, Gesù Cristo, per guarirlo con un rimedio contrario,
stabilisce innanzitutto questa legge dell’umiltà, come fondamento in
crollabile dell’edificio che egli vuole costruire. Quando questo fonda
mento sarà posto, colui che costruisce potrà senza timore elevare il re
sto dell’edificio; ma, se viene a mancare, l’edificio giungesse anche fi
no al cielo, necessariamente crollerebbe e cadrebbe in rovina»214.
San Doroteo di Gaza insegna: il Cristo «ci mostra la causa che del
disprezzo e della trasgressione dei precetti di Dio [ossia l’orgoglio];
egli ce ne fornisce il rimedio affinché noi possiamo obbedire ed esse
re salvati. Qual è dunque questo rimedio e qual è la causa del disprezzo?
Ascoltate quanto dice nostro Signore stesso: “Imparate da me che so
no mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt
11,29). Ecco come brevemente, con una sola parola, egli d mostra la
radice e la causa di tutti i mali, con il suo rimedio, fonte di tutti i be
ni; egli ci mostra che è l’esaltazione che ci fa cadere, e che è impossi
bile ottenere misericordia se non con la disposizione contraria, che è
l’umiltà»215. Nella misura in cui l’orgoglio è la causa prima della ca
duta, l’umiltà si presenta come la causa prima della salvezza. Così
san Giovanni Climaco scrive: «Se solo questa passione [dell’orgoglio]
senza il concorso di un’altra, ha fatto cadere dal cielo, possiamo chie
derà se non sarebbe possibile salire al deio solo per mezzo dell’umiltà,
senza l’aiuto di alcuna altra virtù»216. Questa in ogni caso è la condi
zione sine qua non della salvezza217: «Senza di essa, nulla entrerà mai
nella camera nuziale», scrive san Giovanni Climaco218, che la presen
ta, peraltro, come «la porta dd Regno»219. Senza di essa, non solo non
è possibile nessuna perfezione220, ma l’uomo rimane separato da Dio,
come afferma categoricamente san Macario il Grande: «Là dove non
c’è l’umiltà, non c’è nemmeno Dio»221. Abba Isaia insegna: «Prima
214 Commento a san Matteo, XV, 2.
215 Istruzioni spirituali, I, 7.
216La Scala, XXII, 12. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 48.
217 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XLVII, 4.
218 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 49.
219Ibid.f 30.
220Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 21. Apoftegmi, 1,16.
221Apoftegmi, Arm II, 279.
669
di tutto abbiamo bisogno dell’umiltà»222. Non si può acquistare vera
mente alcuna virtù senza di essa223. Nessuna virtù può sussistere sen
za di essa224. Abba Teodoro afferma: «Chi non ha l'umiltà non ha com
piuto nessun comandamento. Infatti, senza umiltà nessuna virtù è gra
dita a Colui che le ama, il Cristo»225. San Giovanni Crisostomo afferma:
«Costruire su un altro fondamento vuol dire condannarsi a non fare
nulla di duraturo e lavorare invano»226. Sant’Isacco il Siro afferma la
stessa cosa: «Fintanto che l’uomo non si fa umile, non riceve il salario
per il proprio lavoro. La ricompensa non è data all’opera, ma all’u
miltà. Colui che dimentica la seconda perde la prima [...]. Per mezzo
dell’umiltà è data la grazia. La ricompensa dunque non viene dalla
virtù né dalla pena che ci si dà per essa, ma dall’umiltà. Se non si ha
l’umiltà, l’opera della virtù è vana»227; «le opere senza [l’umiltà] non
servono a nulla [...]. Al di fuori di essa, tutte le nostre opere sono va
ne, sono vane tutte le virtù, e sono vane tutte le pene»228. «Il lavoro ve
ro non esiste senza umiltà»229, e senza umiltà nessuna virtù è vera230.
Possiamo, dunque, dire con san Gregorio Magno che «il fondamento
essenziale di una virtù è l’umiltà»231, e si comprende perché i Padri
considerano l’umiltà come base, ma anche testa, madre, causa, di tut
te le altre virtù232.
Nella guarigione spirituale dell’uomo l’umiltà gioca un ruolo con
siderevole.
Senza di essa, «è impossibile essere liberati dal male»233. Per suo
mezzo più che per ogni altro l’uomo può essere guarito da tutti i suoi
mali234. San Giovanni Climaco a questo riguardo cita l’esempio di Ma-
nasse: «Manasse commise peccati come nessun altro uomo [...]. Il mon
222Asceticon, HI, 1. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 49.
223 Cfr. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32. GIOVANNI CRISOSTOMO, Com
mento a san Matteo, XV, 2.
224 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelia sull’umiltà, 2. D oroteo di G aza , Istruzioni spiri
tuali, II, 28.
225Apoftegmi, Arm E, 319 (aggiunta a Teodoro 18).
226 Omelie sul cambiamento del nome, IV, 6.
227 Discorsi ascetici, 37.
228 Ibid., 48.
229G iovanni di G aza , Lettere, 277.
230 G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XXXV, 7.
231 MoraHa su Giobbe, XXVE, 46.
232 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Matteo, EI, 5; XLVE, 3; Omelie sulla let
tera ai Filippesi, V, 2; Consolazioni a Stagira, I, 9.
233 D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, 1,10.
234 Cfr. ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 63.
670
do intero avrebbe potuto digiunare per lui, egli non avrebbe pagato
degnamente il suo crimine. Ma l’umiltà ebbe il potere di guarire in lui
ciò che era incurabile»235. Essa è uno dei rimedi principali dati dal Cri
sto agli uomini per guarirli dalle loro malattie spirituali. Per questo un
Padre consiglia: «Riuniamo i rimedi dell’anima cioè [...] l’umiltà
[...], perché il più grande medico delle anime, il Cristo nostro Dio è
vicino, ed Egli vuole guarirci. Non disdegnamelo»236. L’umiltà, in realtà,
permette all’uomo di ottenere il perdono di tutte le sue colpe, di es
sere purificato da tutti i suoi peccati237 e di essere liberato da tutte le
sue passioni238. San Giovanni Climaco scrive: «Il rimedio contro tut
te le passioni, di cui abbiamo parlato, è l’umiltà. Coloro che hanno ot
tenuto questa virtù le hanno vinte tutte»239. Ma senza di essa l’uomo
non può vincerne nessuna240. Senza di essa l’uomo non può preten
dere di raggiungere la purezza241.
L’umiltà appare come la sola virtù che permette di vincere il dia
volo e i demoni nel combattimento spirituale242. Infatti, è la sola virtù
che essi siano incapaci di acquistare243. Così un apoftegma riferisce che
un demone disse a san Macario: «Tutto ciò che voi avete, lo abbiamo
anche noi; voi vi distinguete solo per l’umiltà»244. Per questo può es
sere considerata la sola virtù che salva l’uomo245. Per suo mezzo, l’uo
mo può eludere tutte le astuzie e le trappole dei demoni, può far fron
te efficacemente alle tentazioni e affrontare vittoriosamente gli attac
chi del nemico. Abba Antonio dice: «Vidi tutte le reti del nemico di
spiegate in terra, e gemendo dissi: “Chi dunque riuscirà a passare ol
tre queste trappole?”. Ed intesi una voce rispondermi: “l’umiltà”»246.
Anche san Giovanni Climaco, citando in questo senso il salmista, sot-
2.5 La Scala, XXV, 58.
2.6 G iovanni M osco , Il prato spirituale, 144.
257 Cfr. Isa cco IL Siro, Discorsi ascetici, 48. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 1 Corinzi, I,
2. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 75. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca
rità, 1 ,76. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXV, 9.
2,8 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 ,76. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o ,
Catechesi, XX, 204-207. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 9. BARSANUFIO, Lettere, 226; 239.
ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 75. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul cambiamen
to del nome, IV, 6.
m La Scala, XXV1,33.
240 Cfr. I sacco IL S iro , Discorsi ascetici, 48.
241 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 23.
242 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 11. San Barsanufio lo chiama «il rogo dei de
moni» (Lettere, 229).
20 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 17.
244Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 35.
245 Cfr. ibid., Teodora, 7.
246Ibid., Antonio, 7. Isaia Dì SCETE, Asceticon, HI, 3.
671
tolinea il potere profilattico dell’umiltà: «L’umiltà è “una torre muni
ta in faccia al nemico” {Sai 61 [60],4). “Non trionferà il nemico sul
l’umile e il figlio - o piuttosto il pensiero - d’iniquità non l’opprimerà.
Annienterò davanti a lui i suoi avversari e colpirò quelli che lo odia
no” {Sai 89[88],23.24)»247. Un altro Padre dice la stessa cosa: «Se sia
mo umili, il Signore allontanerà da noi il nemico e ci aiuterà a custo
dire la nostra anima in ogni momento»248. San Doroteo afferma: «Es
sa protegge l’anima da ogni passione e tentazione [...]. In verità, nulla
è più potente dell’umiltà»249. Colui che la possiede non potrà cadere,
constata san Barsanufio250.
Poiché essa lo purifica da ogni passione e lo preserva da ogni at
tacco del nemico, ma anche perché essa gli dà «la forza del cuore»251
e gli sottomette ogni cosa sottomettendo la sua anima a Dio252, l’umiltà
permette all’uomo di essere senza paura, senza timore e senza turba
mento, e di conoscere la pace interiore253. Così sant’Isacco il Siro scri
ve: «Nell’umile non vi è mai precipitazione, fretta, confusione, nessun
pensiero bruciante e opprimente. Ma egli rimane sempre nella pace.
Se il fuoco del cielo è sulla terra, l’umile non teme. Non sempre l’uo
mo calmo è umile, ma ogni uomo umile è calmo [...]. L’umile è sem
pre in pace, perché non c’è nulla che agita o turba la sua riflessione»254.
L’umiltà permette all’uomo di assumere, senza esserne colpito, tutte
le prove e le sofferenze che gli arrivano»255.
L’umiltà appare, così, come la madre dell’impassibilità256. Questa,
lo vedremo, non è solo assenza di passione, è altresì il possesso di tut
te le virtù. Ora, l’umiltà, l’abbiamo visto, è la condizione di tutte le
virtù, ciò che fa in modo che esse siano veramente virtù; ed essa non
è solo la base, ma con la carità è anche il coronamento dell’edificio spi
rituale. Possiamo dire che essa implica e suppone tutte le virtù. Così
scrive a questo proposito Abba Teodoro: «L’umiltà è il compimento
dei comandamenti; è sull’umiltà che Dio riposa (cfr. Is 66,2); chi vive
247La Scala, XXV, 26.
248Apoftegmiy Eth. Pat., 179.
249 Istruzioni spirituali, II, 30.
250 Lettere, 70.
251 ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 81.
252Ibid., 16.
233 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 82.
254 Discorsi ascetici, 81.
255 Cfr. ibid. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, X X XI, 40.
256 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXI, 32 («l’umiltà è la madre della perfetta impassi
bilità»); XXV, 9; 36. SlMEONE IL NUOVO T eologo , Catechesi, XX, 204-207 («è l’umiltà che pro
cura la celeste e angelica impassibilità»).
672
l’umiltà osserva tutti i comandamenti»257. Sant’Isacco il Siro fa nota
re che essa «ingloba tutto in sé», «per questo non è possibile consi
derare umile il primo venuto»: l’umiltà nella sua perfezione è la sola
virtù che «i santi perfetti ricevono quando hanno condotto a buon
fine l’ascesi della loro vita»; essa «è data solo a coloro che giungono
alla perfezione della virtù per mezzo della forza della grazia»258.
Guarendo l’uomo da tutte le sue passioni e inglobando tutte le virtù,
l’umiltà gli permette di recuperare la sua natura originaria, di ridiven
tare veramente uomo. San Doroteo di Gaza dice che essa permette al
l’uomo «di riprendersi e tornare allo stato naturale»259. Nel fare ciò,
essa gli permette di ritornare alla salute. E così che san Giovanni
Crisostomo constata che «l’umiltà risana [l’anima]»260.
L’umiltà appare così come «madre, radice, alimento, legame e base
di ogni bene»261.
Essa non solo è, come abbiamo visto, fonte di pace interiore, ma
anche di vera vita, di gioia spirituale, all’opposto dell’orgoglio che è
principio di morte e di privazione della gioia autentica262. Essa eleva
l’uomo alla carità263 che è, come vedremo, la vetta della pràxis. E an
che una delle condizioni principali per accedere alla conoscenza spi
rituale264. Sant’Isacco il Siro scrive: colui che possiede l’umiltà per
fetta «è entrato nel mistero di tutte le nature spirituali, egli porta in sé
la sapienza della creazione con ogni precisione, e tuttavia considera
che non conosce nulla [...]. Ora è proprio qui quanto aveva detto la
Sacra Scrittura: i misteri sono rivelati agli umili. Agli umili è dato di
ricevere in se stessi questo Spirito delle rivelazioni che scopre i mi
steri. Per questo alcuni santi hanno detto che l’umiltà eleva l’anima al
la contemplazione divina»265. L’umiltà permette allora all’uomo di fa
re l’esperienza della luce ineffabile266, che lo rende partecipe della glo
ria divina267. E così, sulla scia di Salomone, c’è chi afferma: «L’umile
257Apoftegmi, Arm II, 319 (aggiunta a Teodora 18).
258Discorsi ascetici, 20.
259Istruzioni spirituali, 1,10.
260 Omelie sulla lettera ai Filippesi, VE, 5.
261 G iovanni C risostom o , Omelie su Atti , XXX, 3. Cfr. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 21.
BARSANUFIO, Lettere, 226. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, I, 7.
262 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, I, 8.
263 Cfr. GIOVANNI C assia no , Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
264 Cfr. MASSIMO il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 57. ISACCO IL S iro , Discorsi asce
tici, 16.
265Discorsi ascetici, 20.
266Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XXV, 27.
267 Cfr. D oroteo d i G aza , Istruzioni spirituali, I, 8.
673
di spirito avrà l’onore» (Pro 29,23), sant’Isacco il Siro consiglia: «Di
scendi al di sotto di te stesso, e vedrai la gloria di Dio. Infatti, là do
ve germoglia l’umiltà, là si diffonde la gloria di Dio»268. In questo vi si
riscontra uno degli effetti della promessa del Cristo: «Chi si umilierà
sarà esaltato» (Mt 23,11).
Se gli effetti dell’umiltà sono così importanti, è perché essa è per
l’uomo una delle principali fonti dell’accoglienza della grazia divina269,
così come l’orgoglio era una delle principali cause della sua privazio
ne. Il salmista constata: «Un cuore spezzato e umiliato, Dio non lo di
sprezza», e Dio stesso dice per bocca d’Isaia: «Verso chi volgerò lo
sguardo? Verso il povero» (Is 66,2). «Dio elargisce la sua benevolen
za agli umili» insegnano i santi apostoli Pietro (lPt 5,5) e Giacomo
(cfr. Gc 4,6), seguendo l’autore del libro dei Proverbi (cfr. Pro 3,34).
Abbiamo visto che è per mezzo dell’umiltà che le virtù hanno valore,
sebbene sant’Isacco il Siro non esiti a dire che è «per mezzo dell’u
miltà [che] è data la grazia»270, e che «davanti alla grazia corre l’u
miltà»271. Ciò si spiega soprattutto con il fatto che l’umiltà è il rico
noscimento da parte dell’uomo della sua debolezza, del proprio nul
la, e nello stesso tempo il riconoscimento dell’onnipotenza di Dio. Con
l’umiltà, l’uomo rinuncia alla propria volontà rendendosi totalmente
permeabile all’azione della volontà divina; cessa di essere attaccato a
se stesso, e si apre alla grazia che chiede con la preghiera e di cui si
sforza di essere degno praticando i comandamenti divini. San Maca
rio in questo senso scrive: «Anche se pratica tutte le virtù, l’anima che
ama Dio ha l’abitudine di non attribuirsi nulla, ma di rapportare tut
to a Dio. Allora Dio, a sua volta, attento alla salute e alla rettitudine
dell’intelligenza e della conoscenza di tale anima, le concede tutto»272.
E per quest’ultimo motivo che l’umiltà, assieme alla carità, appare
come la virtù che più unisce l’uomo a Dio273.
268Discorsi ascetici, 5.
269 Cfr. D oro teo DI G aza , Istruzioni spirituali, II, 29. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXI,
32. GIOVANNI C risostom o , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2; Commento al Salmo 9, 6. BARSANU-
FIO, Lettere, 214.
270Discorsi ascetici, 37.
271 Ibid., 73.
272 Capitoli parafrasati, 123.
273Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,11. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 48; 20.
M acario d ’E g itt o , Capitoli parafrasati, 86.
674
PARTE SESTA
LA SALUTE RITROVATA
I
L’IMPASSIBILITÀ
82Ibid., 19.
85 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, VI, 20-22.
84 Capitoli gnostici, I, 37.
85 G iovanni C limaco , La Scala, XX IX, 9.
86 Cfr. ibid., 11. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 254-255; VI, 350-359.
87 La Scala, XXIX, 10.
88 Centurie, II, 91.
89 Trattato pratico sulla vita monastica, 56. Cfr. 55. Commento al Salmo 114, 7.
90 Centurie, E, 2.
91 Centurie sulla carità, I, 89.
687
rispondente alla loro vera finalità, quella che è conforme alla loro na
tura. L’impassibilità appare, così, come lo stato in cui l’uomo recupe
ra la propria natura, è liberato dall’alienazione precedente e ritrova se
stesso, reintegra il suo essere vero e originale, poiché egli è impassi
bile per natura ed è stato creato virtuoso da Dio92. A questo proposi
to Doroteo di Gaza nota che «vi furono amici di Dio che, dopo il san
to battesimo, non solo rinunciarono ad atti passionali, ma vollero vin
cere le passioni stesse e divenire impassibili [...], avendo come scopo
quello di purificarsi da “ogni macchia della carne e dello spirito”,
come dice l’Apostolo (2Cor 7,1), e sapendo che è per mezzo dell’os
servanza dei comandamenti che l’anima si purifica, e lo spirito, puri
ficato anch’esso per così dire, recupera la vista e ritorna al suo stato
naturale»93. San Gregorio di Nissa scrive allo stesso modo: «Coloro
che avranno armonizzato la loro vita con la purificazione del battesi
mo s’incamminano verso ciò che costituisce il loro profondo essere.
Ora, alla purezza è strettamente unita l’impassibilità»94. «Lo spirito
agisce secondo la natura quando tiene le passioni assoggettate», scri
ve san Massimo95, il quale osserva anche che l’anima «agisce secondo
la sua natura quando le sue potenze passionali - [ossia] l’irascibile e il
concupiscibile - di fronte agli oggetti e alle loro rappresentazioni ri
mangono in pace»96da un lato, e sono totalmente orientate verso Dio,
dall’altro97. San Niceta Stetato, da parte sua, osserva che l’impassibi
lità «rende alle potenze dell’anima il loro movimento naturale»98.
Si può dire così che con l’impassibilità l’uomo ritrova la perfezione
della sua natura, la statura di uomo perfetto in Cristo (cfr. Ef 4,13)".
Infatti, «l’anima perfetta è quella la cui potenza passionale agisce na
turalmente», scrive Evagrio100, cosa che ripete san Massimo più espli
citamente: «L’anima è perfetta quando la sua potenza passionale si è
completamente rivolta verso Dio»101, formula che riprendono testual
mente anche san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo102.
92 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 82; 83.
93 Istruzioni spirituali, I, 11.
94 Discorso catechetico, 35.
95 Centurie sulla carità, IV, 45.
96 Ihid., IH, 35.
97 Cfr. M assim o il C o nfessore , Centurie sulla carità, ni, 98. E vagrio P o n t ic o , Trattato
pratico sulla vita monastica, 87; Capitoli gnostici, IV, 73.
98 Centurie, I, 89.
99 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 364ss.
100Capitoli gnostici, DI, 16.
101 Centurie sulla carità, III, 98.
102 Centuria, 66.
688
Per mezzo dell’impassibilità l’uomo recupera la libertà in quanto
non è più sottomesso alle passioni, ai moti, ai desideri e ai pensieri pas
sionali103, ma anche perché egli si volge spontaneamente al bene, co
sa in cui consiste, lo abbiamo visto, la vera libertà. A questo proposi
to san Doroteo di Gaza nota che l’impassibilità permette all’uomo di
essere «perfettamente affrancato e liberato»104. San Simeone il Nuovo
Teologo indica così l’impassibile: «Colui che ha ricevuto da Dio il go
dimento della libertà dello Spirito»105. La libertà è talmente legata al
l’impassibilità che molti Padri usano frequentemente il termine «li
bertà» (eleutheria) per indicare l’impassibilità106, e molti traduttori non
esitano a tradurre il termine apàtheia con l’espressione «libertà inte
riore»107.
L’impassibilità, oltre a dare all’uomo la vera libertà, stabilisce nella
sua anima la vera pace, fa regnare nel cuore dell’uomo la pace di Dio
(cfr. Col 3,15). La calma (hèsychta) e il riposo (anàpausis) spirituali ap
paiono infatti come caratteristiche fondamentali dell’impassibilità a tal
punto che anch’essi servono spesso a indicarla108. Così Evagrio defi
nisce l’impassibilità come «lo stato tranquillo dell’anima razionale»109,
san Massimo come «uno stato di pace»110, san Niceta Stetato come «lo
stato pacifico dello spirito»111. La salute costituita dall’impassibilità ap
pare, perciò, per una parte legata a questo stato di riposo, di tranquillità
e di pace. Evagrio scrive: «Come il malato ritorna in salute, l’anima ri
torna al suo riposo»112, e sant’Isacco il Siro osserva: «La pace è la sa
lute perfetta della coscienza»113. L’impassibile, infatti, «in fondo alla
103Cfr. G io v ann i C risostom o , Paragone tra il solitario e il re, 1; 2.
104Istruzioni spirituali, I, 20.
105 Trattati etici, IV, 230-232. Cfr. 200-203.
106Vedi per esempio NlCETA STETATOS, Centurie, I, 1. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trat
tati etici, IV, 198; VI, 36-38.
107In particolare J. Pegon nella sua traduzione di Centurie sulla carità di san Massimo il Con
fessore, (SC 9).
108 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico, 73; Capitoli gnostici, IV, 44. Giovanni Cassiano,
che non usa né apàtheia né impassibilitas, utilizza spesso l’espressione «tranquillitas mentis». Ma
la pace, il riposo, la tranquillità non bastano da soli a caratterizzare l’impassibilità. Ecco per
ché Giovanni Cassiano traduce questo termine con diverse altre espressioni, soprattutto con «pu-
ritas mentis». Tale precisazione è necessaria perché l’uomo potrebbe, per mezzo di una tecnica
mentale, arrivare ad una certa pace interiore (che, è vero, non sarebbe però la vera pace) senza
essere veramente apathes, senza essere allo stesso tempo puro e virtuoso. Si noti tra l’altro che
Yhèsychza conosce forme e gradi diversi, ed è al grado più elevato che corrisponde Vapàtheia (ve
di I. H ausherr , Hésychasme et prière, Roma 1966, pp. 163s).
109Riflessioni, éd. Muyldermans, p. 38.
110Centurie sulla carità, I, 36; 44. Cfr. II, 87.
111 Cfr. Centurie, I, 89.
112 Commento al Salmo 114,1.
113Discorsi ascetici, 58.
689
sua anima tiene le sue passioni nella calma completa»114, «conserva la
pace dell’anima di fronte alle rappresentazioni impure»115, e non è più
sottomesso interiormente all’agitazione patologica che ne derivava.
D’altra parte, l’impassibilità, in quanto corrisponde all’eliminazione
delle passioni, significa la fine di tutti i conflitti e di tutte le divisioni
che esse generavano nell’anima e, in quanto corrisponde al possesso
delle virtù, stabilisce nel loro posto la concordia e l’armonia interiori
legate a queste ultime. «Nulla dà più abitualmente la pace, scrive san
Giovanni Crisostomo, che il possesso della virtù che espelle dal nostro
cuore le passioni e i turbamenti che queste vi formano e impedisce al
l’uomo di essere in guerra con se stesso»116. L’impassibilità, come af
ferma san Niceta Stetato, «sottomette e placa ciò che era diviso»117, e
lo riunifica, perché mette fine alla divisione e alla dispersione dei pen
sieri, dei desideri e delle sensazioni dell’uomo, pone fine alla diver
genza delle sue facoltà svendute alla carne attraverso le passioni118, per
farle convergere, nelle virtù, verso un solo fine che le riunifica, cioè
Dio. L’impassibilità significa la fine del vagabondaggio terreno dello
spirito: «Lo spirito vaga quando è passionale, cioè esso non si ferma
nel soddisfare ogni sorta di desiderio; ma si astiene dal traviamento
quando è divenuto impassibile»119. L’impassibilità, al contrario, signi
fica una sua stabile concentrazione sulle realtà spirituali e il ritorno nel
cuore da cui si era separata. Ciò fa dire a san Giovanni Climaco: «Per
impassibilità non intendo altro che il cielo dello spirito stabilito nel
mio cuore»120, essendo lo stesso cuore ridiventato, per mezzo della pu
rificazione dalle passioni e l’acquisto delle virtù, il luogo in cui l’uomo
ritrova Dio.
Acquistando l’impassibilità, l’uomo è reso partecipe di una pro
prietà divina fondamentale. Per questo san Giovanni Climaco intito
la il Grado XXIX della Scala: «Della divina impassibilità, imitatrice di
Dio». Per mezzo dell’impassibilità, l’uomo acquista la somiglianza con
Dio121, e se egli può divenire impassibile, è perché ciò corrisponde
1MM assim o il C o n fe s s o r e , Centurie sulla carità, n, 98.
m lbid„ 87.
116Commento al Salmo 4 ,11.
117 Centurie, II, 91.
118 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), XXXI, 6.
119Capitoli gnostici, I, 85.
120La Scala, XXIX, 1.
121 Cfr. C lem ente d ’A lessandria , Stromata, E, 20,103,1.
690
alla natura che Dio, creandolo, ha donato a colui che egli ha fatto a
sua immagine122, e che è destinato a divenire dio per grazia123. Le ca
ratteristiche dell’impassibilità che rendono l’uomo simile a Dio non
solo sono l’assenza di ogni passione riguardo alle realtà sensibili124e
il possesso delle virtù, ma anche la libertà e l’immutabilità125. Per que
sto san Massimo nota che l’impassibile, con il suo spirito, «ha anco
rato tutta la potenza della sua anima all’immobile libertà divina»126, e
che «ormai egli appartiene completamente al Bene stabile, permanente
e sempre uguale a se stesso a causa della sua natura» e che «con que
sto Bene egli rimane totalmente immutabile»127.
L’impassibilità permette all’uomo di accedere alla carità perfetta.
Evagrio nota che essa la genera128. San Massimo scrive: «L’impassibi
lità produce l’amore perfetto»129; «colui che è giunto alla vetta del
l’impassibilità possiede la carità perfetta»130.
L’impassibilità appare, d’altra parte, come ciò che permette all’uo
mo di accedere alla contemplazione (theórìa) e alla conoscenza {gnò-
sis) spirituali: alla contemplazione naturale (theórìa phystke) prima di
tutto, che è la conoscenza delle ragioni spirituali (lógoi) degli esseri;
poi alla conoscenza di Dio (theologia)m.
L’impassibilità è la condizione sine qua non di questa conoscenza
superiore132. A questo proposito san Massimo scrive: «Il cammino del
la conoscenza è l’impassibilità [...]. Senza [di essa] non vedremo mai
il Signore»133. Infatti, per conoscere le realtà spirituali, e a fortiori Dio
stesso, l’uomo deve necessariamente essere puro (cfr. Mt 5,8); «la pu
rezza perfetta è il fondamento della teologia»134. Ora, solo nell’im
passibilità egli raggiunge questa purezza perfetta. Ma si può anche di
re che, in quanto essa è pieno possesso delle virtù, l’impassibilità è la
fonte della conoscenza spirituale, perché è solo nella perfezione delle
122I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 82.
123 Cfr. S im eone il N uo v o T e o l o g o , Trattati etici, V I, 193s.
124 Cfr. ibid, 192-193.
125 Cfr. ibid, IV, 666.
126Commento del Padre nostro, PG 90, 888A.
127 Questioni a Talassio, PG 90,260C. Vedi anche Commento del Padre nostro, PG 90,885D-
888A.
128Cfr. Specchio dei monaci, 67; Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo, 8; 81.
129Centurie sulla carità, IV, 91. Cfr. I, 2.
130Ibid., II, 30. Cfr. Centurie sulla carità, IV, 42; 92.
131 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 1. GREGORIO PALAMAS, Triadi, II, 2, 19.
132 Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, HI, 5,43,1.
133 Centurie sulla carità, IV, 58. Cfr. I, 85; 86.
134 G iovanni C lim aco , La Scala, XXX, 21.
691
virtù che l’uomo può conoscere Dio. È per questo che san Massimo
scrive: «Come ricompensa, il duro sforzo della virtù ottiene l’impas
sibilità e la conoscenza»135.
Se, tuttavia, l’impassibilità è fonte di conoscenza, non lo è che in
direttamente. In verità, è dalla carità stessa che procede la conoscen
za, scopo della pràxis. Infatti, se l’impassibilità è «il fiore della praxis»,
è la carità che ne è il termine.
704
rità nei riguardi del prossimo dimenticando l’amore di Dio. Questo
avvertimento è proprio necessario, perché, come fa notare Origene nel
commentare questo passo del Cantico dei Cantici in cui il Signore di
ce: «ordina in me la carità» (cfr. Ct 2,4), se «la carità dei santi è ordi
nata», «molto spesso la carità di tante persone è disordinata. Ciò che
dev’essere amato per primo, essi lo amano come secondo, e ciò che es
si devono amare come secondo lo amano come primo»86. Anche sant’I-
sacco il Siro precisa che «è bello e degno di lode l’amore del prossi
mo se la preoccupazione che noi ne abbiamo non ci distrae dall’a
more di Dio» e che «è dolce la relazione che abbiamo con i fratelli
spirituali, se nello stesso tempo possiamo conservare la relazione che
ci unisce a Dio»87. E san Macario scrive più precisamente: «L’uomo ri
cerchi innanzitutto il santo amore [di Dio], che è il primo e il più gran
de dei comandamenti [...]. Attraverso di esso, è facile adempiere il se
condo comandamento, voglio dire l’amore del prossimo. Ciò che è pri
mo deve, infatti, essere preferito al resto e suscitare uno sforzo più
grande: così ciò che è secondo seguirà ciò che è primo. Ma se qual
cuno dimentica questo primo e grande comandamento - voglio dire
l’amore di Dio - [...] e se tale uomo non vuole accontentarsi che del
la cura esteriore del secondo - il servizio del prossimo -, gli è impos
sibile praticare correttamente e con purezza il primo»88.
Ma questo non significa, tuttavia, che l’amore del prossimo debba
in qualche modo essere assorbito e dissolto per l’amore di Dio: ciò al
limite potrebbe significare che l’amore di Dio basta e dispensa dal
l’amore del prossimo. Vedremo che lo stesso amore di Dio suppone
ed implica l’amore del prossimo e ne è inseparabile. Così come l’a
more di Dio non è riducibile all’amore del prossimo, l’amore del pros
simo non è riducibile all’amore di Dio perché il prossimo possiede per
la sua stessa qualità di persona un’autonomia e una sussistenza chia
mata ad affermarsi e non a dissolversi in Dio, e ciò, attraverso la gra
zia, per l’eternità, di modo che sia l’amore di Dio sia l’amore del pros
simo non avranno fine (cfr. ICor 13,8), e nell’uno come nell’altro «non
cesseremo mai di progredire, sia nel secolo presente, che nei secoli fu
turi»89.
Infatti, la carità è fondamentalmente una nella sua natura, nella sua
86 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 8.
87Discorsi ascetici, 73.
88Capitoli parafrasati, 11.
89G iovanni C lim aco , La Scala, XXVI, 138. Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla ca
rità, HI, 100.
705
origine e nel suo fine: è lo stesso amore che assume la sua fonte in Dio
e ha Dio come fine. Perciò san Massimo scrive a questo riguardo: «Non
esiste un amore per Dio e un altro per il prossimo, ma esso è unico e
identico a se stesso nella sua totalità, ed è dovuto a Dio»90.
3. L’amore di Dio
L’amore di Dio non può essere ridotto a un sentimento. Benché fac
cia intervenire in primo piano le facoltà affettive dell’uomo, la sua po
tenza di desiderio (epithymetikón) e d’amore (erdtike dynamisf1non
si limita ad esse, ma fa intervenire la totalità dell’essere, implica tutte
le sue «potenze» o facoltà. Il Cristo lo indica chiaramente: «Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con
tutta la tua mente» (Mt 22,37); «Amerai il Signore tuo Dio con tutto
il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta
la tua forza» (Me 12,29; cfr. Le 20,27). Come abbiamo visto prece
dentemente, la carità è legata a tutte le virtù, e quindi all’uso norma
le di tutte le «potenze» o facoltà dell’uomo.
Prima di tutto si è sorpresi, leggendo i Padri, di constatare che que
sti parlano relativamente poco della carità. Una prima ragione è che
la carità non consiste semplicemente in parole, ma anche e soprat
tutto in azioni (interiori ed esteriori). Una seconda ragione è che «l’a
more di Dio non si insegna»92. Una terza ragione è che la carità, nelle
sue forme superiori, è ineffabile. Una quarta ragione è che l’amore di
Dio consiste essenzialmente nel compiere la sua volontà93, e pertanto
nel praticare i suoi comandamenti. Ecco perché parlare della pratica
dei comandamenti, della lotta contro le passioni e dell’acquisto delle
virtù, come fanno i santi asceti nella maggior parte del loro insegna
mento, implicitamente significa parlare della carità, sulla quale è in
centrata tutta la vita ascetica, verso la quale converge tutta la praxis.
Che l’amore di Dio consista nel compiere i suoi comandamenti, il
Cristo stesso ce lo insegna: «Se mi amate, osservate i miei comanda-
menti» (Gv 14,15); «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è lui che
90Lettere, 2.
91 Vedi, per esempio, SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, IV, 575. GIOVANNI C li-
maco , La Scala, V, 28. B asilio di C esarea , Regole lunghe, 2.
92 B asilio di C esarea, Regole lunghe, 2.
93Cfr. Id., Regole brevi, 157; 211. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, m , 10. ORI-
GENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, PG 13,164.
706
mi ama» (Gv 14,21); «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola»
(Gv 14,23); «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei coman
damenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comanda-
menti del Padre mio e rimango nel suo amore» {Gv 15,9-10). L’apo
stolo san Giovanni dice: «Chi osserva la sua parola, veramente l’a
more di Dio in lui è perfetto. Da ciò noi conosciamo di essere in lui»
(1 Gì» 2,5), e più esplicitamente ancora: «Questo è l’amore di Dio:
osservare i suoi comandamenti» (lGv 5,3; cfr. 5,2).
L’amore di Dio consiste nella pratica di tutti i comandamenti sen
za eccezione, ma in primo luogo in quello di amare il prossimo, poi
ché questo è «il secondo» comandamento dato dal Cristo (cfr. Mi 22,39)
e il più grande dopo quello dell’amore verso Dio (cfr. Me 12,31). Co
sì come l’amore del prossimo è indissociabile dall’amore di Dio e, per
essere vero, lo presuppone, l’amore di Dio presuppone l’amore del
prossimo e ne è indissociabile. Nessuno può amare Dio senza amare
il prossimo. «Se uno dice: “Amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è
mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può
amare Dio che non vede. E noi abbiamo da lui questo comandamen
to: chi ama Dio ami anche il proprio fratello» (lGv 4,20-21). L’amore
del prossimo appare come la conseguenza e il compimento dell’amo
re di Dio94. «Chi ama Dio non può non amare anche ciascun uomo co
me se stesso»; «chi ama Dio ama anche il suo prossimo senza riserve»,
afferma san Massimo95. Ma nello stesso tempo l’amore di Dio appare
come una conseguenza dell’amore del prossimo96, nella misura in cui
quello non è possibile se non è preceduto da questo97. A questo ri
guardo san Massimo osserva: «“Se mi amate”, dice il Signore, “os
servate i miei comandamenti” (Gv 14,15). “Questo è il mio coman
damento: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,12). Colui, dunque, che
non ama il suo prossimo non osserva il comandamento, e chi non os
serva il comandamento non potrà amare il Maestro»98; e arriva a di
re: «Chi constata nel suo cuore una traccia d’inimicizia verso qualcu
no, per un’offesa qualsiasi, è completamente estraneo all’amore di
Dio»99. La prova dell’amore di Dio è l’amore del prossimo100.
94 B asilio di C esarea , Regole lunghe, 1; 3.
95 Centurie sulla carità, 1 ,13; 23.
96 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 3.
97Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX X, 26. M assimo il C onfessore , Discorso ascetico, 7.
98 Centurie sulla carità, 1 ,16.
"Ibid., 15.
100 G iovanni C limaco , La Scala, X X X, 26. M assimo il C onfessore , Discorsi ascetici, 7; Let
tere, 2.
707
L’amore di Dio e l’amore del prossimo, dunque, «sono insepara
bili» e «legati insieme come con una catena»101. Anzi di più: essi si con
dizionano e s’implicano reciprocamente. San Doroteo propone un’im
magine che fa ben comprendere questa interdipendenza. «Suppone
te un cerchio [...]. Immaginate che questo cerchio sia il mondo; il centro
di questo cerchio, Dio, e i raggi le diverse vie o modi di vivere degli
uomini. Quando i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano
verso il centro del cerchio, nella misura in cui essi penetrano all’inter
no, essi si avvicinano gli uni agli altri nello stesso tempo che a Dio. Più
essi si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio. Voi capire
te che avviene la stessa cosa nel senso inverso, quando ci si allontana
da Dio per ritirarsi verso l’esterno: è evidente allora che, più ci si al
lontana da Dio, più ci si allontana gli uni dagli altri, e che più ci si al
lontana gli uni dagli altri, più ci si allontana anche da Dio. Tale è la na
tura della carità. Nella misura in cui siamo all’esterno e non amiamo
Dio, nella stessa misura noi sperimentiamo un allontanamento riguardo
al prossimo. Ma se amiamo Dio, quanto più ci avviciniamo a Dio at
traverso la carità per lui, tanto più siamo uniti alla carità del prossimo,
e quanto più siamo uniti al prossimo, tanto più lo siamo a Dio»102.
Poiché l’amore di Dio consiste essenzialmente nel compimento del
la sua volontà e nella pratica dei suoi comandamenti, ne segue che è
conformandosi ai precetti divini che l’uomo acquista la carità103, o an
cora, poiché proprio quello è il fine della pratica dei comandamenti,
purificandosi dalle passioni e acquistando le virtù104. All’inizio della
nostra esposizione abbiamo ricordato il legame fondamentale che vi
ge tra la carità e l’insieme delle virtù, legame che l’Apostolo sottolinea
caratterizzando la carità (cfr. lCor 13,4-7)105, ma anche tra la carità e
l’assenza di passioni, che l’Apostolo indica nello stesso brano106. È per
questo che i Padri presentano costantemente la purezza e l’impassibi
lità (da cui dipende il possesso di tutte le virtù nella loro perfezione)
101 G iovanni C risostomo, Commento a san Giovanni, LXXVH, 1.
102 Istruzioni spirituali, VI, 78.
103 Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 5. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), V, 9; IX,
10. S im eone il N uo v o T eo l o g o , Trattati etici, IV, 563-567.
104 Su quest’ultimo punto, vedi MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,11.
105 «La carità è paziente, è piena di bontà, gioisce della verità, scusa tutto, crede tutto, spe
ra tutto, sopporta tutto».
106«La carità non è affatto invidiosa, la carità non si vanta affatto, non si gonfia di orgoglio,
non fa nulla di disonesto, non cerca il suo interesse, non si adira, non sospetta il male, non
gioisce per l’ingiustizia».
708
come la condizione essenziale della carità. La carità dell’uomo cresce
a misura della sua purezza e della sua impassibilità, e raggiunge la
carità perfetta quando diviene del tutto puro e impassibile107. San Gio
vanni Climaco scrive: «La carità è prima di tutto il rifiuto di ogni pen
siero iniquo, perché “la carità non manca di rispetto” (lCor 13,5)»108.
San Diadoco di Foticea, a sua volta, afferma: «L’amore perfetto ap
partiene a quelli che sono già purificati»109. «La carità è figlia dell’im
passibilità»110; «per mezzo dell’impassibilità avete acquistato la carità»,
scrive Evagrio111. Anche san Massimo osserva: «La carità nasce dal
l’impassibilità»112. San Giovanni Climaco arriva a dire che «la carità
e l’impassibilità [...] non si distinguono che per il nome»113.
Poiché tutte le passioni sono nate dal fatto che l’uomo si è allonta
nato da Dio per attaccarsi a se stesso e al mondo e costituiscono le mo
dalità di questo attaccamento, è evidente che la carità, la quale inve
ce è attaccamento a Dio, non è possibile se non nella misura in cui
l’uomo si purifica dalle passioni, e si distacca da sé e dal mondo. Lo
abbiamo dimostrato: amore di Dio e amore del mondo sono incom
patibili e si escludono l’un l’altro. «Nessuno può possedere insieme
l’amore di Dio e il desiderio del mondo», scrive sant’Isacco il Siro114.
L’amore di Dio suppone, dunque, il rifiuto di ogni attaccamento al
mondo e a se stessi115. «Non c’è altro percorso verso l’amore spiri
tuale», afferma sant’Isacco116. Quanto alla necessità della rinuncia al
l’amore (passionale) di sé, san Diadoco di Foticea scrive: «Colui che
ama se stesso non può amare Dio; ma colui che non ama se stesso [...]
questi ama Dio»117. E san Massimo consiglia: «Non amare te stesso e
amerai Dio»118. Per quanto riguarda l’amore del mondo (espressione
che del resto include l’amore di sé) Evagrio scrive: «L’amore di que
sto mondo è nemico di Dio (cfr. Gc 4,4). Se il nostro Dio è amore
come è scritto (cfr. lGv 4,8), dunque l’amore di questo mondo catti
LA CONOSCENZA
1. Introduzione
La carità perfetta è considerata tradizionalmente come il punto d’ar
rivo della pràxis. Alla pràxis seguono la conoscenza (gnòsis) e la con
templazione (thedria) spirituali.
La conoscenza/contemplazione1è il fine della pràxis. Il progetto
di Dio, come indica l’Apostolo, è quello «che tutti gli uomini si salvi
no e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4). San Macario il
Grande fa notare che «tutto lo sforzo e il lavoro dei Padri, e quello del
Signore stesso, tendono a questo: che Dio sia conosciuto dagli uomi
ni»2. Evagrio aggiunge che tutto ciò che è stato creato lo è stato per la
conoscenza di Dio3.
Sul piano della guarigione spirituale dell’uomo, la conoscenza/con-
templazione appare il complemento indispensabile della pràxis. «L’a
zione dei comandamenti, scrive Evagrio, non basta a guarire perfetta
mente le potenze dell’anima, se le contemplazioni che vi corrispondono
non si avvicendano nello spirito»4. Infatti, «la pràxis è il metodo spiri
tuale che purifica la parte passionale dell’anima»5, ed è indispensabile
aggiungervi la contemplazione, la quale, lo vedremo, guarisce la parte
razionale dell’anima (logistikón) liberandola dall’oblio e dall’ignoranza6.
1Assimiliamo qui la thedria alla gnòsis\ esse hanno infatti acquisito nell’ambito della spiri
tualità cristiana significati quasi equivalenti (vedi a questo proposito J. LEMAÌTRE [pseudonimo
di I. Hausherr], «Contemplation chez les orientaux chrétiens», in Dictionnaire de spiritualité,
1.1, 1953, coll. 1762s). Poiché vi sono, come vedremo, molti gradi di conoscenza/contempla
zione, saremo condotti in seguito, per comodità, a distinguerli usando termini diversi, mentre i
Padri lo fanno ognuno a modo suo, essendo gli schemi a questo riguardo molteplici, pur corri
spondendo l’uno all’altro.
2 Omelie (Coll. II), LUI, 4.
3Capitoli gnostici, 1,50; 87.
4 Trattato pratico sulla vita monastica, 79.
5Ibid.y 78.
6 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 5.
723
«La pràxis e la contemplazione non esistono l’una senza l’altra»7. La
contemplazione è indispensabile alla pràxis come la pràxis alla con
templazione, sottolinea lo scoliaste delle Questioni a Talassio, spie
gando l’insegnamento di san Massimo a questo proposito: «Colui che
ha mostrato la conoscenza incarnata per mezzo della pràxis e la pràxis
vivificata dalla conoscenza, ha trovato il modo esatto della vera teur
gia. Ma colui che porta in sé solo una delle due separata dall’altra, o
fa della conoscenza un’immaginazione inconsistente o della pràxis
un simulacro. Infatti la conoscenza priva della pràxis non differisce in
nulla dall’immaginazione: essa non ha in sé questa pràxis che la fon
da. E la pràxis priva della ragione non è altro che un simulacro: essa
non ha la conoscenza che vivifica»8. «Il mistero della nostra salvezza,
afferma san Massimo, mostra che la pràxis è una contemplazione atti
va, e che la contemplazione è una pràxis iniziata»9.
Se la conoscenza/contemplazione è il fine della pràxis nonché il suo
compimento, la pràxis appare come la condizione della conoscen
za/contemplazione10. E questa che permette di accedervi. San Grego
rio Nazianzeno consiglia: «Vuoi divenire un giorno teologo e degno
della divinità? Osserva i comandamenti, progredisci per mezzo del
l’osservanza dei precetti, perché la pràxis è il mezzo per avvicinarsi al
la contemplazione»11. «Colui che cerca il Signore attraverso la con
templazione senza la pràxis non lo troverà», afferma san Massimo, per
ché «non ha cercato il Signore con il timore del Signore», «cioè per
mezzo della pratica dei comandamenti»12. E solo «attraverso la pràxis
e i santi combattimenti» dell’ascesi, che si può «raggiungere la cono
scenza» spirituale, insegna san Simeone il Nuovo Teologo13. Ciò non
significa che la pràxis divenga inefficiente con il sopraggiungere della
conoscenza/contemplazione: essa ne è la condizione permanente; è es
sa che le permette di mantenersi e che è il pegno del suo valore. Le
opere della pràxis sono i frutti che rivelano quanto vale l’albero, os
serva Clemente d’Alessandria14. E san Massimo arriva persino a dire
che la conoscenza «non serve a nulla» se non è tesa verso l’energia dei
7 ORIGENE, frammenti su Luca, 72.
8 Questioni a Talassio, 63, Scolio 32, PG 90,689D-692A (= Scolio 9, CCSG 22, p. 183).
9 Questioni a Talassio, 63, PG 90, 681A.
10Cfr. ORIGINE, Omelie su Luca, 1. NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la custodia del
cuore, PG 147,948A.
11Discorsi ascetici, XX, 12.
12 Questioni a Talassio, 48, PG 90, 440A.
13 Capitoli teologici, gnostici e pratici, E, 10.
14Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, EI, 5.
724
comandamenti»15. San Marco l’Eremita scrive: «La conoscenza non
è ancora sicura se non si concretizza nelle opere proprie, anche se
essa è reale, perché la pràxis è l’affermazione di ogni cosa»16. San Gio
vanni Carpazio osserva, nella stessa prospettiva, che «la conoscenza
più vera è la pràxis» ed egli consiglia: «Sforzatevi dunque di dare si
gnificato con le opere alla fede e alla conoscenza. Infatti colui che, de
dicatosi solo alla conoscenza, è stato accecato, si sentirà dire: “Essi
professano bensì di conoscere Dio, ma con le loro opere lo negano”
(Ti 1,16)»17.
Il fatto che la conoscenza/contemplazione sia fondata sulla pràxis
riguarda il carattere specifico della conoscenza spirituale, che non ha
nulla in comune con alcuna conoscenza mondana di qualunque natu
ra essa sia, fosse anche quella delle «sapienze» (cfr. ICor 1,19-25). Que
sta opposizione tra la conoscenza spirituale e la conoscenza secondo
questo mondo è sottolineata da san Paolo (cfr. ICor 1,19-25; 2,4-13;
8,2), e dai Padri18, che mettono in guardia contro il rischio di scam
biare per conoscenza/contemplazione spirituale ciò che non lo è, e che
essi chiamano spesso «conoscenza semplice» (lògos philós)19. Questi
ultimi fanno spesso notare che molti, compresi i credenti, i teologi, e
i più avanzati nella vita spirituale, s’illudono nel credere di possedere
una tale conoscenza mentre non ne hanno in verità che una pseudo
conoscenza {pseudonymos gnósis, gnòsis pseudès, pseudognósia)20, una
conoscenza immaginaria21, e non sono che degli «ignoranti nella co
noscenza»22. Allo stesso modo molti credono di avere raggiunto la ve
ra contemplazione, mentre contemplano solo alla maniera dei demo
ni23 e la loro contemplazione ha per oggetto solo i fantasmi che essi
stessi hanno suscitato24e i concetti che la loro ragione ha prodotto. La
conoscenza spirituale è all’opposto delle investigazioni dell’intelligen
15 Centurie sulla teologia e sull’economia, I, 22.
16Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 12.
17 Capitoli sulla vigilanza, 17.
18Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 1; 19. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati teolo
gici, 1 ,27ls. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, VI, 2.
19Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, HI, 5. M assimo il C onfessore , Questioni a Ta-
lassio, 31, PG 90 ,3 7 2 A. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere giustificati per le lo
ro opere, 7; 11.
20Cfr. lTm 6,20. EVAGRIO PONTICO, Ai monaci, 43. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. SlMEONE IL
N u o v o T eologo , Trattati teologici, I, 271s; Trattati etici, 1 ,184-185; IX, 105-106. GREGORIO
PALAMAS, Triadi, 1 ,1, 2; 12.
21 Cfr. Isacco il Siro , Lettere, 4.
22 EVAGRIO PONTICO, Lettere, 62.
23 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, VI, 2.
24 Cfr. I sacco il Siro , Lettere, 4.
725
za, che cerca di soddisfare la propria curiosità25. Essa non è il frutto
dello studio né di una qualsiasi ricerca; essa non procede dalla spe
culazione intellettuale. Essa non è il frutto della riflessione. Non è nem
meno una conoscenza concettuale e teorica. San Simeone il Nuovo
Teologo, per esempio, denuncia la «stupidità» e P«accecamento» di
coloro che «suppongono in modo insensato» che essa «sia identica al
l’elaborazione di concetti prodotti dal loro pensiero»26. Lungi dall’i-
dentifìcarsi con una qualsiasi forma di conoscenza mondana, la cono
scenza spirituale implica che vi si rinunci, che si escluda ogni sapien
za di questo mondo27. Sant’Isacco il Siro così scrive a questo riguardo:
«Credi tu veramente che colui che ha la conoscenza del mondo possa
ricevere una tale conoscenza spirituale? Non solo gli è impossibile
ricevere in tale condizione la conoscenza spirituale, ma non può nem
meno sentirla [...]. Non è possibile che essa sia data a coloro che si
sforzano di acquistarla solo per mezzo dello studio. Se alcuni tra lo
ro vogliono avvicinarsi a questa conoscenza dello Spirito, non posso
no farlo neanche per poco, fintanto che non hanno rinunciato allo stu
dio, ai raggiri sottili della sua ricerca, alle complessità del suo metodo,
e non conservano un cuore di bambino. L’abitudine e i pensieri che lo
studio genera sono un grande impedimento, fintanto che non sono sta
ti cancellati a poco a poco. Infatti la conoscenza spirituale è semplice
[...]. Fintanto che l’intelligenza non è stata liberata dai numerosi pen
sieri, fintanto che non ha raggiunto la semplicità della purezza, essa
non può percepire la conoscenza spirituale»28.
Si comprende, così, perché una tale conoscenza non suppone al
cuna particolare qualificazione intellettuale né è riservata solo a qual
che iniziato29: per accedervi «la sapienza dei saggi» è inutile, e «nulla
l’intelligenza degli intelligenti» (cfr. lCor l,19ss.). Essa può essere rag
giunta da analfabeti30, spesso più adatti ad accedervi di coloro che, se
dotti dalle proprie capacità intellettuali, s’impegolano nel campo
25 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X VI, 85.
26 Trattati etici, IX, 28s. Cfr. Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,100.
27 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XVII, 15.
28Discorsi ascetici, 19.
29 Lo stesso Clemente d’Alessandria afferma: «Gli uni non sono dunque “gnostici”, mentre
gli altri sarebbero “psichici”, nel Logos stesso, tutti coloro che hanno deposto i desideri della
carne sono tutti uguali, tutti “pneumatici” agli occhi del Signore» {IlPedagogo, I, VI, 31,2). Cfr.
ibid, 33,3.
30 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Arsenio, 6. GlUSTINO, Apologia prima, 60. NlCETA STE-
TATOS, Vita di Simeone il Nuovo Teologo, 135. Ricordiamo che negli Atti i santi apostoli Pietro
e Giovanni sono definiti «uomini illetterati e semplici» {At 4,13).
726
della pseudo-conoscenza. Essa si rivela a tutti coloro che, nel timore
di Dio e nella pratica dei comandamenti in una vita di ascesi, hanno
raggiunto la purezza, la semplicità e l’umiltà del cuore31. Vi è, del re
sto, un legame molto stretto tra la vera conoscenza/contemplazione
e l’umiltà, mentre, al contrario la pseudo-conoscenza appare legata al
l’orgoglio, da cui essa procede e che accresce (cfr. ICor 8,1)32.
Se tutti possono a priori accedere alla conoscenza/contemplazione,
non è perché essa è relativa alle capacità intellettuali dell’uomo, ma è,
a gradi diversi come vedremo e sempre in una certa misura, un dono
di Dio, una rivelazione dello Spirito Santo33. Tuttavia, ricevono que
sto dono solo coloro che con l’ascesi teantropica se ne sono resi de
gni, perché lo Spirito si rivela solo ai puri di cuore34. Ecco perché una
delle principali condizioni per l’accesso alla conoscenza/contempla-
zione è l’impassibilità35. Essa suppone correlativamente il possesso di
tutte le virtù (essa ne è, dice Evagrio, «il frutto»36) e in primissimo luo
go della carità, che è l’altra condizione principale per riceverla37.
Si comprende, allora, come la conoscenza spirituale non sia una co
noscenza teorica, ma una conoscenza sperimentale38, non solo per
ché è una conoscenza intuitiva che mette l’uomo direttamente in con
tatto con ciò che egli conosce, ma anche e soprattutto perché è fon
data sulla totalità dell’esperienza spirituale dell’uomo39, e l’uomo vi fa
l’esperienza della grazia40 che l’informa, e persino, a un livello supe
riore, la costituisce.
In realtà, nella conoscenza/contemplazione vi sono dei gradi, di cui
due sono i principali. Il grado inferiore è costituito dalla contempla
31 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, m , 22.
32 Cfr. ID., Trattati etici, 1, 271s; Trattati etici, 1 ,12,184-185.
33 Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, IV, 40; Lettere, 62. ISACCO IL SlRO, Discorsi asce
tici, 37. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 80; 101. G regorio di N azianzo , Discorsi, HI,
1. GIUSTINO, Apologia prima, 60. Cfr. ICor 2,4-5. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talas-
sio, 54, PG 9 0 ,512B; 65, PG 90, 737A.
34 Cfr. S im eo ne il N uo v o T e o l o g o , Trattati etici, 1 ,27ls; 1 ,12,184-185. A tanasio d ’A-
LESSANDRIA, SullTncamazione del Verbo, 57. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 19.
35 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,85-86.
36 Trattato pratico sulla vita monastica, 90.
37 Cfr. ICor 2,9. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, P rologo, 8; Lettere,
62. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,12; 46; 47.
38Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,22. M acario d ’E
gitto , Omelie (Coll. II), LIII, 4.
39 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 1. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 80; 101;
Omelie (Coll. II), LEI, 4. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 9. SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,100.
40 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. II), LIE, 4.
727
zione naturale (physiche theòria)-, il grado superiore è costituito dalla
contemplazione/conoscenza di Dio (spesso chiamata theologia, il ter
mine «teologia» ha qui un’accezione radicalmente diversa da quella
assunta in Occidente)41. L’accesso a questo secondo grado, la cui na
tura differisce considerevolmente da quella del primo e che si situa
molto al di sopra di esso, esige che l’uomo abbia acquisito nell’ascesi
teantropica, come per giungere al primo, la purezza dell’impassibi
lità e la totalità delle virtù, al primo posto delle quali vi è la carità,
ma in modo preminente, in altre parole che egli abbia raggiunto,
nell’unione con Dio, un più alto grado di perfezione.
2. La contemplazione naturale
L’uomo giunto alla carità dopo aver acquistato l’impassibilità, ac
cede immediatamente alla conoscenza/contemplazione naturale (gnó-
sis physiche, physiche theóriaf2. Questa consiste nella conoscenza/con
templazione degli esseri naturali, cioè delle creature43. Essa compor
ta perciò due gradi: il più basso è costituito dalla conoscenza/con-
templazione degli esseri corporei, il più alto dalla conoscenza/con-
templazione degli esseri invisibili, incorporei e intelligibili44.
Possiamo distinguervi un terzo grado, costituito dalla conoscen
za/contemplazione dell’«economia divina»45, della Provvidenza e del
41Ricordiamo a questo proposito la definizione di Evagrio Pontico: «Il cristianesimo è la dot
trina del Cristo nostro Salvatore, che si compone della pràxis, della fìsica e della teologia» {Trat
tato pratico sulla vita monastica, 1). Lo stesso altrove afferma: «La scienza della nostra salvezza
è costituita da queste tre cose» {Capitoli gnostici, 1,10). Questa suddivisione, che si trova già in
Clemente d’Alessandria {Strornata, I, 28) e in Origine {Omelie sul Cantico dei Cantici, Prologo)
è stata ripresa da san Massimo il Confessore ed è diventata classica nella spiritualità ortodossa.
Un buon numero di scritti ascetici s’intitola Centurie (o Capitoli) pratiche (o etiche), fisiche e teo
logiche {o gnostiche). Secondo la classificazione di Evagrio Pontico, physike theòria e theologia
(o physike e theologike) costituiscono insieme la gnòstike (cfr. Trattato pratico sulla vita mona
stica, Prologo, 9), il che ci rimanda allo schema bipartito pràxis (o praktike) e theòria (o gnò-
sis), schema egualmente diventato classico (la Filocalia lo riprende nel suo stesso titolo). Su que
sto schema^ sulle sue origini e sui suoi significati precedenti, vedi A. e C. GUILLAUMONT, intro
duzione a ÉVAGRE LE PONTIQUE, Tratte pratique, SC 170, pp. 38s.
42Cfr. EVAGRIO P o n u c o , Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo 8: «La carità è la por
ta della conoscenza naturale».
43 Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, 1,10; V, 30; VI, 1. M assimo il C onfessore , Cen
turie sulla carità, I, 87. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. GREGORIO DI NlSSA, Vita diMosè, II, 154; 169.
Essa è chiamata con diversi nomi: gnòsis physike, physike, gnósis tòn óntòn {Sap 7,17), theòria
tòn óntòn, theòria tòn gegonótòn.
44 Cfr. E vagrio P o ntico , Capitoli gnostici, 1,27; 74. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, I, 94; E, 26. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4.
45 I sacco il Siro , loc. dt.
728
Giudizio divino nella creazione46, come anche del senso profondo e
nascosto delle Sacre Scritture47.
L’uomo è elevato in questi gradi di contemplazione naturale pro
porzionalmente al grado di purezza e di perfezione nella virtù che egli
ha raggiunto attraverso il faticoso lavoro della praxis**. A ogni tappa
che egli raggiunge, Dio gli concede, senza che se lo aspetti, e senza che
la ricerchi, la conoscenza corrispondente49.
In ogni caso, la conoscenza/contemplazione naturale consiste nel
la conoscenza/contemplazione dei lógoi degli esseri50, cioè delle loro
ragioni spirituali nascoste51, della loro essenza spirituale52, del loro prin
cipio, della loro causa53 e del loro fine in Dio54, del loro senso spiri
tuale55, di ciò che costituisce il loro rapporto con Dio, delle energie di
vine alle quali essi partecipano56, del marchio che il Creatore ha la
sciato in essi57. Sono questi i lógoi degli esseri creati che l’Apostolo
ricorda quando parla delle «perfezioni invisibili di Dio», della «sua
potenza eterna» e della «sua divinità» «dopo la creazione del mon
do, che si rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fat
te» (Rm 1,20), e che permettono all’uomo privo di passioni di perce
pire Dio attraverso la creazione58. Sono questi stessi lógoi, che egli ri
corda, secondo Evagrio, quando parla «della multiforme sapienza
divina» (E/3,10) che Dio ha messo negli esseri59. È per questo che,
46Cfr. EVAGRIO P onttco , Capitoli gnostici, 1,27; Commento ai Salmi, PG 12,1661C.
47 Cfr. I sacco il Siro , Lettere 4. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 32, PG 90,
372BC; 65, PG 90,745D.
48 Cfr. M assimo il C onfessore , loc. cit., 47; 65, PG 90,737A.
49Cfr. Id., Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,16; Centurie sulla carità, I, 95.
50Cfr. E vagrio P o n t ic o , Capitoli gnostici, 1,10; IV, 40. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, I, 98-99. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati teologici, I, 197-198. NlCETA S te -
TATOS, Centurie, II, 67; III, 43.
51 Cfr. M assim o IL C on fessore, Ambigua, 10, PG 91, 1116D; Questioni a Talassio, 32, PG
90, 372BC.
52 Precisiamo ogni volta «spirituale», perché, come sottolinea san Massimo il Confessore,
questi lógoi hanno una natura diversa dai «lógoi fìsici delle cose», dalla loro essenza, dalla loro
definizione, dalla loro forma nel senso aristotelico del termine; questi ultimi lógoi sono ancora
la «superficie» delle cose (Questioni a Talassio, 65, 744D-745D).
53 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,98-99; Questioni a Talassio, 13, PG
90,293D-296A.
54 Cfr. ID., Questioni a Talassio, 13, PG 90,293D-296A; 32, PG 90, 372BA.
55 Cfr. Id., Centurie sulla carità, I, 98.
56Cfr. GREGORIO DI N issa , Omelie sulle Beatitudini, VI, 3.
57 Cfr. Id., Sull’Hexaemeron, PG 44, 73A.
58Cfr. Atanasio d ’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, 12.
59 Cfr. EVAGRIO P o n t ic o , Capitoli gnostici, IV, 7. E spesso in quest’ultimo modo che i Pa
dri evocano i lógoi, come san Massimo il Confessore, che parla di essi come «della sapienza di
vina invisibilmente intima alle creature» (Questioni a Talassio, 51, PG 90,481C); poiché la co
noscenza che l’uomo ne ha è correlativamente qualificata come «sapienza», il termine gnósis in
dica allora la conoscenza di Dio.
729
con sant’Isacco il Siro, si può definire la contemplazione naturale co
me «la sensazione dei misteri divini nascosti nelle cose e nelle cause»60.
Nella conoscenza/contemplazione del mondo sensibile, questo ces
sa di essere opaco, chiuso su se stesso; gli esseri sensibili divengono
completamente trasparenti alla loro realtà intelligibile e spirituale61, in
modo tale che il mondo sensibile è percepito nel mondo intelligibile
e il mondo intelligibile nel mondo sensibile come spiega lo scoliaste
delle Questioni a Talassio di san Massimo: «Colui che ha l’intelligen
za del mondo sensibile contempla il mondo intelligibile. Egli si raffi
gura gli intelligibili attraverso i sensi rappresentandoseli, e costruisce
secondo l’intelligenza le ragioni che ha contemplato e trasporta ver
so i sensi, in molti modi, la costituzione del mondo intelligibile, e ver
so l’intelligibile la costituzione così complessa del mondo sensibile.
Egli considera i sensi nel mondo intelligibile trasportando attraverso
le ragioni il mondo sensibile verso l’intelligenza. E considera l’intelli
genza nel mondo sensibile inserendo attraverso le forme, con scienza,
il mondo intelligibile nei sensi»62. San Massimo spiega tutto questo
in modo più semplice, mostrando chiaramente come, per colui che è
giunto alla conoscenza/contemplazione naturale, il mondo sensibile è
divenuto interamente un simbolo del mondo intelligibile, e come ogni
suo oggetto non cessi di rivelarglielo63: «Tutto il mondo intelligibile
appare, a coloro che sono capaci di vedere, misteriosamente impres
so in tutto il mondo sensibile, attraverso forme simboliche. Il mondo
sensibile, al contrario, è in modo conoscibile presente all’interno di
tutto il mondo intelligibile, ma semplificato, per l’intelligenza, dai ló-
goi. Questo in quello attraverso i lógoi; quello in questo attraverso le
impronte. La loro realtà è una come sarebbe una ruota in una ruota
secondo quanto dice l’ammirevole e grande veggente Ezechiele (cfr.
Ez 1,16) parlando, mi sembra, dei due mondi. E ancora: le sue perfe
zioni visibili si vedono a partire dalla creazione, grazie alle opere che
le fanno vedere all’intelligenza (cfr. Rm 1,20). Così parla il divino Apo
stolo. Infatti, le cose non apparenti si vedono grazie a quelle apparenti,
come è scritto, e afortiori le apparenti saranno pensate grazie alle non
apparenti da coloro che si applicano alla contemplazione spirituale.
Per questo motivo, la contemplazione simbolica degli intelligibili per
60 Discorsi ascetici, 30.
61 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, V, 57.
62 Questioni a Talassio, 63, Scolio 47, PG 90, 692D-693A (= Scolio 18, CCSG 22, p. 185).
63 Vedi anche MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), LIE, 15.
730
mezzo dei visibili è scienza spirituale e intelligenza dei visibili attra
verso gli invisibili»64.
Si vede, allora, tutto quello che separa la percezione della realtà che
possiede colui che è adatto alla conoscenza/contemplazione naturale
da quella che ha l’uomo decaduto. Fintanto che l’uomo rimane sotto
messo alle passioni, resta schiavo della realtà sensibile, la sola che co
stituisce l’oggetto della sua percezione. Esaminando le passioni, ab
biamo mostrato come, sotto l’influsso di queste, l’uomo non solo non
considera altro che l’aspetto superficiale e visibile delle cose65 e per
cepisce il mondo come una realtà chiusa in se stessa, non rinviando a
null’altro che a se stessa, ma ne ha per di più e in conseguenza una co
noscenza totalmente falsata, una conoscenza che abbiamo persino po
tuto a più riprese definire delirante. Fintanto che l’uomo non è libe
rato dalle passioni, percepisce e conosce gli esseri in funzione delle
passioni che sono in lui; egli entra in relazione con essi secondo un
modo, determinato da queste passioni, che ne fa esclusivamente per
le stesse passioni oggetti di godimento. Ricordando questa afferma
zione di san Gregorio Nazianzeno che «la carne è una nebbia e un ve
lo», san Massimo spiega: «La nebbia è la passione carnale che ottene
bra la facoltà dominante dell’anima, il velo è l’illusione prodotta dai
sensi che fissa l’attenzione dell’anima sulle apparenze superficiali de
gli oggetti sensibili e sbarra il passaggio alle intelligibili. Di conseguenza,
avviene che essa dimentica i beni naturali ed esercita tutta la sua atti
vità sui sensibili, per trovarvi eccitazioni, bramosie e piaceri sconve
nienti»66. Il raggiungimento dell’impassibilità porta alla soppressione
di questa barriera che arrestava «il movimento dello spirito attraver
so i sensi verso gli intelligibili»67, che impediva allo spirito di perce
pire attraverso gli esseri sensibili le energie divine, alle quali essi par
tecipano, e teneva lo stesso spirito inchiodato all’«aspetto superficia
le e visibile delle cose»68; il raggiungimento dell’impassibilità segna così
la fine delle relazioni perverse che, di conseguenza, l’uomo intratte
neva con esse. Coloro che hanno raggiunto questo stadio della cono
scenza/contemplazione naturale, perché sono impassibili, hanno, co
me afferma san Massimo, «rifiutato completamente la sensazione con
i sensibili quanto alla relazione attuale esistente nelle disposizioni»69,
64Mistagogia, 2.
65 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 90,452AB.
66Ambigua, 10, PG 91,1112AB.
67 M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 90,452B.
68 Ibid.
69Ambigua, 10, PG 91,1193D.
731
cioè quanto alle passioni. L’uomo, allora, non percepisce più gli esse
ri, relativamente al piacere che, secondo le sue passioni, egli può trar
ne o al dolore che, secondo queste stesse passioni, egli può subirne,
ma «concepisce di tutte le cose pensieri puri»70. Egli non le coglie più
nel loro aspetto esteriore, sensibile e superficiale71, ma le percepisce
nella realtà e nel significato profondi, che esse hanno in rapporto a
Dio. «Liberato da ogni errore»72, accede alla conoscenza vera di tutti
gli esseri, la quale gli rivela un mondo nuovo, molto diverso da quel
lo, fantasmatico, suscitato dalle sue passioni. «Lo spirito che si è spo
gliato delle passioni e vede le intellezioni degli esseri non riceve vera
mente i simulacri che (arrivano) attraverso i sensi; ma è come se un al
tro mondo fosse creato dalla sua conoscenza», osserva Evagrio73. «Colui
che ricerca impassibilmente trova nella contemplazione naturale la ve
rità che è al centro degli esseri», scrive lo scoliaste delle Questioni a
Talassio14; e anche san Massimo afferma che egli conosce «il vero si
gnificato degli esseri»75e «vede le cose secondo la loro natura»76. Eva
grio definisce questa tappa in maniera simile come «l’impassibilità del
l’anima accompagnata dalla conoscenza vera degli esseri»77. Forte di
questa conoscenza e dando più importanza a queste «ragioni nasco
ste sotto le apparenze» che alle «forme apparenti» degli esseri78, l’uo
mo si comporta riguardo alle creature e riguardo a Dio come si deve.
«Colui che pratica alla perfezione le virtù e ha acquisito il tesoro del
la conoscenza vede ormai le cose secondo la loro natura e, di conse
guenza, agisce e pensa sempre secondo un retto giudizio, senza mai
ingannarsi», scrive san Massimo79.
Percependo tutte le creature nella loro relazione con il Creatore,
l’uomo diviene allora capace di una scelta totale della realtà che pri
ma conosceva solo in parte80, e di una visione unificata del mondo che
prima egli percepiva come diviso81. Facendo così, afferma san Massi
mo, l’uomo realizza il compito che Dio gli aveva affidato creandolo,
70 M acario d 'E g itto , Omelie (Coll, n), LEI, 15.
71 Cfr. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 32, PG 90, 372BC.
72 Ibid.
73 Capitoli gnostici, V, 12.
74 Questioni a Talassio, 59, S colio 2.
75 Questioni a Talassio, 48.
76 Centurie sulla carità, I, 92.
77 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 2.
78 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 9 0 ,460A.
79 Centurie sulla carità, I, 92.
80Cfr. E vagrio P o n tic o , Capitoli gnostici, n, 28.
81 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, 32, PG 9 0 ,372BC.
732
cioè quello di realizzare in sé l’unione con Dio, l’unificazione della
creazione, «ren[dendo] la creazione visibile completamente indivisa
in se stessa»82, e «unendo inoltre gli intelligibili e i sensibili, renden
do] una tutta la creazione, non più divisa per lui secondo conoscen
za e ignoranza, perché la sua conoscenza gnostica dei ìógoi nelle cose
sarà divenuta indefettibilmente uguale a quella degli angeli»83.
La conoscenza/contemplazione degli esseri sensibili condiziona e
apre all’uomo l’accesso alla contemplazione delle nature incorporee e
intelligibili84. Quest’ultima include, da una parte, la conoscenza/con-
templazione degli angeli e la conoscenza dei demoni85 e, dall’altra, la
conoscenza degli esseri umani nella realtà intelligibile del loro spirito.
L’uomo acquista allora la conoscenza vera del prossimo86, e soprattutto
la conoscenza vera di sé87. San Niceta Stetato sottolinea chiaramente
che questa è condizionata dalla conoscenza dei lógoi degli esseri, ed
è solo a questo livello che la si può ottenere: «Colui che per mezzo del
la purezza è giunto alla conoscenza degli esseri conosce se stesso [...].
Ma colui che non ha ancora raggiunto i lógoi stessi della creazione, del
le cose divine e umane, conosce ciò che è intorno a lui e ciò che è al
di fuori di lui, ma egli non si conosce assolutamente»88. Nello stesso
tempo, però, fanno notare i Padri, la conoscenza di sé è una chiave per
la conoscenza di tutto89e gioca per questo fatto un ruolo centrale.
La conoscenza di sé alla quale l’uomo accede è la conoscenza «di
ciò che egli è secondo la sua natura spirituale»90, cioè da un lato del
suo essere spirituale91, dell’immagine di Dio92 che fondamentalmente
costituisce la sua natura e, dall’altro, del suo nulla nei riguardi di Dio
in quanto creatura, e in quanto uomo decaduto e lontano da Dio. I
Padri insistono soprattutto su questo secondo aspetto93, come san Gio
82 Massimo i l C onfessore, Ambigua, 41, PG 91,1305D-1308A.
85Ibid., 1308A.
84M assimo il C onfessore, Questioni a Talassio, 58, PG 9 0 ,597A.
85 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 67.
86Cfr. ibid.
87Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, n, 36.
88Ibid.
89 Cfr. G iovanni C risostomo, Commento a san Matteo, XXV, 4. Isacco il Siro, Discorsi
ascetici, 16.
90A n to n io l ’Erem ita, Lettere, 1 ,1.
91 Cfr. ibid., IV, 7.
92 N ic e ta S te ta to s, Centurie, n, 37.
95 Cfr. GREGORIO Palam as, Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 29, PG 1 5 0 ,1140C. GIO
VANNI C um aco, La Scala, XXV, 38. NICETA STETATOS, Centurie, II, 35; 39. Cfr. SIMEONE IL NUO
VO T eolo go , Trattati etici, IX, 443s.
733
vanni Crisostomo il quale osserva: «Nessuno si conosce più perfetta
mente di colui che crede di essere un nulla»94.1 Padri fanno apparire
la penitenza e l’umiltà come la condizione sine qua non della cono
scenza autentica di sé fino alle alte sfere spirituali95. Avendo così «una
corretta conoscenza del [suo] stato»96, l’uomo «conosce anche le altre
creature che Dio ha tratto dal nulla»97, e «conosce egualmente l’eco
nomia della salvezza realizzata dal Creatore, e tutto ciò egli ha fatto
per le sue creature»98.
Chiave per la conoscenza degli esseri creati, la conoscenza di sé lo
è anche per la conoscenza di Dio. «Chi conosce se stesso conosce
anche Dio», scrive sant’Antonio l’Eremita99. L’uomo, infatti, mentre
accede alla conoscenza della sua essenza come essere creato a imma
gine di Dio, accede alla conoscenza del suo Creatore in quanto tale,
e della sua Provvidenza, percependo che egli lo ha tratto dal nulla, ma
anche che egli lo ha, come la natura che gli ha dato creandolo, reso
adatto ad essere deificato per grazia. Egli lo riconosce come suo Sal
vatore, tanto più che correlativamente egli ha una chiara conoscenza
della sua debolezza, della sua miseria e del suo nulla spirituale.
La conoscenza di sé dà un accesso più facile e più diretto sia alla
conoscenza/contemplazione di Dio che alla conoscenza delle creatu
re, come fa notare san Basilio: «Il cielo e la terra sono meno adatti a
farci conoscere Dio di quanto lo è la nostra costituzione, per colui che
si esamina con intelligenza. È ciò che dice il profeta: “Stupenda è
per me la tua conoscenza” (Sai 139 [138] ,6)»100. Infatti, l’uomo è la so
la tra tutte le creature che sia costituita a immagine di Dio. Avendo
raggiunto la purezza dell’impassibilità, il suo spirito è capace di per
cepire chiaramente in sé questa immagine di Dio, di vedere così in sé
come un riflesso di Dio, di vedere Dio come in uno specchio (cfr. lCor
13,12), e ciò tanto più in quanto, attraverso l’acquisizione delle virtù,
egli possiede inoltre la somiglianza con Dio. L’anima, scrive san Gre
gorio di Nissa, «se si libera dall’agitazione delle passioni, ritorna in
sé e si conosce nella sua vera natura»; «contemplerà allora il Model
lo per la propria bellezza come in uno specchio e un’immagine»101. Al
94 Commento a san Matteo, XXV, 4.
95 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati teologici, 1,250s; Trattati etici, IX, 443s. Ni-
CETA Stetatos, Centurie, II, 35; 38, 39.
96 A n to n io l ’E rem ita, Lettere, 1,4.
97 Ibid., IV, 7.
98 Ibid., 1,1; 4.
99 Ibid., VE.
100 Omelie suU’Hexaemeron, IX, 6.
101Sull’anima e la risurrezione.
734
trove, egli spiega: «L’uomo interiore, il cuore, [...] una volta liberato
della ruggine che sporcava la sua bellezza, ritroverà l’immagine origi
nale. Così l’uomo, guardandosi, vedrà in sé Colui che egli cerca. Ed
ecco la gioia suprema che riempie il suo cuore purificato: guarda la
propria purezza e scopre nell’immagine il Modello. Quando si guar
da il sole in uno specchio, anche senza alzare gli occhi verso il cielo, si
vede il sole nello splendore dello specchio, ugualmente bene come
se si guardasse lo stesso disco solare. Non potrete contemplare la lu
ce in se stessa. Ma se ritrovate la grazia dell’immagine deposta in voi
fin dall’inizio, avrete in voi l’oggetto dei vostri desideri»102.
In conclusione, la conoscenza/contemplazione naturale permette
all’uomo di recuperare la conoscenza vera della totalità del mondo
creato. Attraverso di essa, l’uomo è guarito da «questa malattia che è
l’ignoranza della causa degli esseri»103; egli è liberato in dò che lo ri
guarda dalla conoscenza falsata, ossia delirante, che il peccato e le pas
sioni avevano generato in lui. In questa vera conoscenza egli ritrova la
salute, essendo la conoscenza vera «la salute dell’anima», come dice
Evagrio104. E, come nota anche san Massimo, «dò che la salute e la ma
lattia sono per il corpo vivente, [...] la conoscenza e l’ignoranza lo
sono in rapporto allo spirito»105.
Per suo mezzo, l’uomo è guarito nelle sue stesse facoltà di cono
scenza che si erano pervertite e alienate nella pseudo-conoscenza di
un mondo ridotto alle apparenze sensibili e si erano sottomesse alle
passioni. Evagrio sottolinea che, mentre «la carità [guarisce] la parte
irascibile dell’anima, e la castità la parte concupiscibile», «la cono
scenza guarisce l’intelligenza»106. L’intelligenza (nous) dell’uomo ri
trova la salute nella misura in cui, per la contemplazione naturale,
essa si volge verso Dio e si esercita di nuovo secondo la finalità della
sua natura, che è quella di conoscere e contemplare Dio: nella con
templazione naturale, infatti, essa contempla Dio negli esseri e gli es
seri in Dio. A questo stadio si applica già, anche se parzialmente, que
sta osservazione di Evagrio: «Quando la natura razionale riceverà la
contemplazione che la riguarda, allora sarà sana anche tutta la po
tenza dell’intelligenza»107.
102 Omelie sulle beatitudini, VI, 4.
103 Cfr. M assim o i l C on fessore,Questioni a Talassio, 32, PG 9 0 , 372BC.
104 Capitoli gnostici, II, 8.
105 Centurie sulla carità, IV, 46.
106Capitoli gnostici, HE, 35.
107Ibid., n, 15.
735
L’uomo ritrova anche questa finalità della sua natura che è quella
di rendere gloria a Dio, e dò nell’incontro con ogni essere. Infatti, que
sto è il fine principale della conoscenza/contemplazione naturale, co
me afferma l’Apostolo (cfr. Rm 1,21), e come osserva san Massimo108:
«Se mai i santi hanno acconsentito allo spettacolo degli esseri, essi non
si sono fermati a contemplarli e a conoscerli, come noi, soprattutto per
attaccamento alla materia, ma per lodare in molti modi il Dio pre
sente e che appare in tutto e dovunque, per ammassare grandi tesori
di meraviglia e numerosi soggetti di dossologia»109. È così, osserva an
cora san Massimo, che l’uomo «raccoglie come dei doni da offrire a
Dio da parte della creazione, i lógoi spirituali degli esseri»110.
Questo ci permette di sottolineare che, in realtà, è a Dio che si
trova ordinata la contemplazione naturale, e che, anziché contempla
zione della natura o degli esseri, sarebbe meglio dire «contemplazio
ne di Dio attraverso la natura e attraverso gli esseri». Infatti, la con
templazione naturale ha per finalità ultima la conoscenza/contem-
plazione di Dio e sfocia naturalmente in essa111.
Tuttavia, essa non basta a costituirla. Se comporta una certa cono
scenza di Dio, poiché gli esseri che essa ha per oggetto sono conosciuti
in Dio e Dio in essi, essa è una conoscenza analogica di Dio, relativa
alle creature, che è limitata dai limiti di queste, che resta relativa alle
loro forme, diversità, e questo tanto più in quanto esse appartengo
no al mondo sensibile. Anche la conoscenza che l’uomo può avere in
sé di Dio è una conoscenza speculare che porta solo su un riflesso, in
cui egli vede Dio solo «in modo oscuro» e «in parte» (lCor 13,12). Es
sa non è la conoscenza di Dio in quanto egli è trascendente a ogni crea
tura. Per questo sant’Isacco il Siro scrive: «La conoscenza delle crea
ture, per dolce che sia, non è mai che l’ombra della conoscenza [...].
Una tale contemplazione nutre lo spirito mentre attende che questo
possa ricevere una contemplazione più alta»112. La finalità della cono
scenza della natura creata è quella di elevare l’uomo fino a Colui che
ne è l’Autore113 e che è al di sopra di essa114. È per questo che, se al-
108 Vedi anche GREGORIO PALAMAS, Triadi, 1 ,1,20.
m Ambigua, 10, PG 91,1113D-1116A.
110 Questioni a Talassio, 51, PG 90, 481C.
111 Cfr. D io n ig i l ’A re o p a g ita , Lettere, V II, PG 3 ,1080B. I s a c c o i l S iro , Lettere, 4. M as
sim o IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 86; Questioni a Talassio, 63. SIMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 15.
112Lettere, 4.
113 D io n ig i l ’A reo p a g ita , Lettere, VE, 2. Cfr. M assim o i l C o n fe sso r e , Questioni a Talas
sio, 63.
114 Cfr. S im eon e i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, E, 15.
736
cuni sono tentati di rimanere a questo stadio, vanno fuori strada115(per
ché è a questo livello che si trova il principale pericolo di smarrirsi sul
la via della conoscenza)116, o non arrivano ad elevarsi al di sopra, men
tre lo spirituale esperto, una volta che è «libero da ogni passione, si
slancia verso la contemplazione degli esseri e, al di là, verso la cono
scenza della Santissima Trinità»117. Lo spirituale non fa altro che at
traversare, senza attardarvisi, quest’ambito delle contemplazioni na
turali118, non ritrovandole, se non per necessità, nella misura in cui egli
vive ancora in questo mondo. Infatti, il tetto dell’edificio spirituale è
«la conoscenza divina di Dio» stesso119.
3. La conoscenza/visione di Dio
Se la conoscenza/contemplazione della Santissima Trinità120segue
alla conoscenza/contemplazione degli esseri creati, ciò non è in con
tinuità ma in rottura con quest’ultima. Difatti, fintanto che l’uomo con
templa gli oggetti e si occupa dei loro lógoi, questi «anche se sono del
le semplici espressioni, nondimeno, in quanto considerazioni di og
getti, imprimono una forma allo spirito e lo allontanano da Dio»121.
«La Santissima Trinità, sottolinea Evagrio, non è una realtà mescola
ta alla contemplazione» naturale, «ciò accade solo alle cose create»122.
Poiché Dio è infinitamente trascendente a ogni essere creato, la sua
contemplazione esclude ogni immagine e ogni rappresentazione, an
che se semplici, di qualsiasi oggetto, foss’anche intelligibile125. È per
questo che san Simeone il Nuovo Teologo scrive: «Lo sviluppo della
conoscenza di Dio diviene la causa della nostra ignoranza di tutti gli
altri esseri»124. La conoscenza/contemplazione di Dio presuppone
Yapóthesis noèmàtòn, cioè l’allontanamento, l’abbandono di tutte le
115 Cfr. I s a c c o i l S iro , Lettere, 4.
116 Cfr. M assim o i l C o n fe s s o r e , Questioni a Talassio, 63, PG 9 0 ,673C.
1,7 Id., Centurie sulla carità, 1,86.
118Questo permette di comprendere perché la maggior parte dei Padri (in particolare Si
meone il Nuovo Teologo, Niceta Stetatos, Gregorio Palamas), pur menzionando questo grado
della contemplazione naturale nel titolo stesso dei loro scritti ascetici, le accordano solo un ruo
lo molto secondario.
1,9 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, IX , 459-460.
120 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 3; Capitoli gnostici, 1 ,70; II,
4; V, 57. Isa cco i l Siro, Lettere, 4.
121 E vagrio P o n tic o , La preghiera, 56.
122Capitoli gnostici, V, 55.
123 Cfr. E vagrio P o n tic o , La preghiera, 57.
12,1Capitoli teologici, gnostici e pratici, H, 2.
737
intellezioni ricevute nella contemplazione naturale, e a fortiori di tut
te le rappresentazioni e i pensieri di una natura inferiore a queste125.
Essa implica, per ciò stesso, la rinuncia a ogni conoscenza umana,
perché questa porta necessariamente su un essere. Ora Dio, che è il
limitato, è al di là di ogni essere, è dunque necessariamente inacces
sibile a una tale conoscenza126. Ecco perché l’Apostolo scrive: «Se al
cuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora appreso come bi
sogna sapere» (ICor 8,2); e per indicare paradossalmente il mezzo per
accedere alla conoscenza perfetta di Dio precisa (cfr. ICor 13,10-12):
«la conoscenza sarà abolita» (cfr. ICor 13,8). La conoscenza di Dio
può essere quindi solo una conoscenza al di là di ogni conoscenza
(umana)127, la quale presuppone che l’uomo sia in uno stato di non
conoscenza o di inconoscibilità (agnosia, agnota)m. Come afferma san
Gregorio Palamas129, sulla scia di Dionigi l’Areopagita130e di molti Pa
dri131, essa avviene «quando vi è la cessazione di ogni attività intellet
tuale».
Non bisognerà, pertanto, credere che la conoscenza di Dio consi
sta nella inconoscenza stessa. «La sola negazione, afferma san Gre
gorio Palamas, non basta all’intelligenza {nous) per raggiungere le co
se sopra-intelligibili; l’elevazione attraverso la negazione [...] porta so
lo all’immagine dell’ineffabile contemplazione e della realizzazione del
lo spirito in questa contemplazione; essa non è in se stessa questa rea
lizzazione»132. «Dio non è solo al di sopra della conoscenza, ma al di
sopra dell’inconoscenza»133, come pure non è solo al di là dell’essere,
ma anche al di là del non-essere134. «E gli uomini che venerano la so
125Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassici, 25, PG 90,332C; 65, PG 90,756C;
Ambigua, 1, PG 90,1077B; 10, PG 91,1141B; 1193D; 51, PG 91,1372B; 71, PG 91,1413CD;
Centurie sulla teologia e sull’economia, I, 83.
126Cfr. D ionigi l’A reopagita , Sui Nomi divini, 1,4-5, PG 3,593AB.
127Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,3,4. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 66.
128 Vedi per esempio GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIII, 60. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sutla carità, III, 45.
129 Triadi, 1,3,17; 18.
130Cfr. Sui Nomi divini, 1,5, PG 3,593BC.
131 San Massimo il Confessore, per esempio, scrive che per unirsi a Dio che «supera ogni
ragione e conoscenza, occorre superare in uno slancio irresistibile il sensibile e l’intelligibile, [...]
essere spogliati totalmente di ogni energia dei sensi, del pensiero e dell’intelligenza {nous), per
incontrare ineffabilmente e nell’ignoranza le delizie divine, al di sopra del pensiero e dell’intel
ligenza» {Ambigua, 10, PG 91, 1153BC). Vedi anche Questioni e dubbi, 73; Ambigua, 10, PG
91,1113B; 15, PG 91,1220B; 20, PG 91,1237D; 1241AB; Questioni a Talassio, 22, PG 90,321A;
54, PG 90, 504C; 60, PG 90, 621C-624A; Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,54; 55; 2;
Opuscoli teologici e polemici, 20, PG 91, 229A.
132 Triadi, 1,3,19.
133 Ibid., 4.
134Vedi per esempio DIONIGI l’A reopagua , Teologia mistica, 1,1.
738
la contemplazione apofatica, che non credono all’esistenza di alcuna
attività, né di alcuna visione che sia al di là di essa [...], non vedono,
propriamente parlando, non conoscono nulla e sono privi di cono
scenza e di visione»135. «La contemplazione non è, dunque, solo spo-
gliamento e negazione, ma è una unione e una divinizzazione che so
praggiungono [...] dopo lo spogliamento»136.
Se l’uomo può conoscere Dio, ma non lo può fare con le proprie
facoltà di conoscenza, né tantomeno per mezzo ddl’inconoscenza stes
sa che ne è la condizione, il solo modo di accedere a una tale cono
scenza è che Dio si riveli a lui, e dunque sia la fonte e il principio di
questa conoscenza, perché «se Dio è invisibile alle creature, egli non
è invisibile a se stesso»137. Ciò è quanto scrive l’Apostolo quando af
ferma alla fine del passo precedentemente citato: «Allora conoscerò
come sono conosciuto» (lCor 13,12), e altrove più esplicitamente: «Chi
conobbe la mente (noùs) del Signore da poterlo dirigere? Ora noi ab
biamo la mente di Cristo» (1Cor 2,16). E ancora: quelle cose «che mai
entrarono in cuore di uomo, ciò Dio ha preparato per quelli che lo
amano, Dio lo ha rivelato a noi mediante lo Spirito; lo Spirito infatti
scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (lCor 2,9-10). Agli spi
rituali che ne sono degni, che sono puri e amano perfettamente Dio,
la conoscenza/contemplazione «arriva misticamente e indicibilmente
per la grazia di Dio»138, «infatti, se tutta la loro attività intellettuale è
ferma, come [...] vedranno Dio se non per mezzo della potenza dello
Spirito?», fa notare san Gregorio Palamas139. La conoscenza/con-
templazione di Dio è, dunque, l’opera della potenza divina stessa140;
essa è data all’uomo da Dio; è una grazia, una «rivelazione dei miste
ri»141 che l’uomo riceve da Dio nel Cristo per mezzo dello Spirito, o
per mezzo del Cristo, nello Spirito142.
E vero che la conoscenza/contemplazione naturale (spesso chiamata
«sapienza» perché è la conoscenza/contemplazione della Sapienza di
155 G regorio Palamas, Triadi, n , 3,53.
156Ibid., 1,3,17.
13?lbid., 37.
m lbid„ 17.
m Ibid., 18.
140Cfr. G iustin o , Apologia prima, 60.
141 I sacco IL Siro , Discorsi ascetici, 37. Cfr. Discorsi ascetici, 66. SlMEONE IL NUOVO TEO
LOGO, Catechesi, XXIV, 54-55.
142 Cfr. MACARIO IL G rande, Capitoli parafrasati, 101; Omelie (Coll. II), IX, 7; XVIII, 5. Sl
MEONE IL Nuovo T e o lo g o , Catechesi, XXXIH, 107s. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, II,
20. MASSIMO IL C on fessore, Centurie sulla carità, n, 26; Questioni a Talassio, 59, PG 90,604BC.
ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 66; Lettere, 4. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 3,17.
739
Dio nelle creature e nell’ordine generale del mondo) è anch’essa rive
lata. È «il Signore [che] dona sapienza, dalla sua bocca viene scienza
e intelligenza», dice l’autore ispirato dei Proverbi (Pro 2,6). Ecco per
ché spesso, evocando la conoscenza/contemplazione sotto le sue due
forme, la Scrittura o i Padri dicono che essa è data all’uomo per gra
zia143, nel Cristo, per lo Spirito144. «Senza il Signore Gesù e l’opera
zione della potenza divina, nessuno può conoscere la sapienza e i mi
steri di Dio», sottolinea san Macario145. E, a sua volta, san Diadoco
di Foticea; «La sapienza e la conoscenza sono i doni di un solo e me
desimo Spirito»146.
Vi è tuttavia una differenza fondamentale tra la conoscenza/con
templazione naturale e la conoscenza/contemplazione di Dio: nella
prima, l’uomo conosce per mezzo della potenza del proprio spirito il
luminato dallo Spirito Santo; nella seconda, l’uomo non conosce più
attraverso il proprio spirito né attraverso alcuna delle sue facoltà che
si rivelano allora tutte inadeguate, ma per mezzo dello Spirito Santo
stesso. Evagrio sottolinea bene questa differenza: «Avere la conoscenza
delle cose naturali è possibile allo spirito, ma conoscere la Santissima
Trinità non solo non è possibile allo spirito, ma è una grazia sovrab
bondante di Dio»147. Nel secondo caso, «l’uomo non vede né attra
verso l’intelligenza (noùs) né attraverso il corpo, ma attraverso lo Spi
rito», osserva san Gregorio Palamas148, che aggiunge: «E evidente che
questa illuminazione supera [...] ogni conoscenza, anche se la si chia
ma “conoscenza” (gnósis) e “intellezione” (nóesis), perché è lo Spiri
to che la dona all’intelligenza (nous)»149. Colui che è l’oggetto della vi
sione, cioè Dio, è lui che la procura150. «I santi vedono nello Spirito»151.
L’Apostolo indica chiaramente questa distinzione dei due modi di co
noscenza: «Chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito
dell’uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai co
nosciuti se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spi
145 Cfr. E vagrio P o n tic o , Lo gnostico, 107. Isa cco IL Siro, Discorsi ascetici, 66.
144 Cfr. Ef 1,17. Isa cco i l Siro, Lettere, 4. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 59,
PG 90,605B; 63, PG 80,673C. NlCETA S eta to s, Centurie, n, 67; IH, 46. GIOVANNI CLIMACO,
Lettera al Pastore, 100. GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, E, 39. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO,
Trattati etici, V, 419s; Catechesi, XXXIII, 89-97. MACARIO D'EGITTO, Omelie (Coll. HI), XVI, 3.
145 Omelie (Coll. E), XVE, 10.
146Cento capitoli gnostici, 9.
147Capitoli gnostici, V, 79.
148 Triadi, 1,3,21.
149Ibid., 52.
m Ihid.
151 I d ., Contro Achindinos, IV, 16.
740
rito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio» (ICor 2,11-12). Ri
ferendosi a questo passo, san Macario d’Egitto nota che colui che è
degno della conoscenza di Dio diventa partecipe «dell’intelligenza che
non è di questo mondo» e si differenzia «in tutto da tutti gli uomini
che hanno lo spirito del mondo»152. E san Massimo precisa così la dif
ferenza di origine dei due gradi di conoscenza: «Le facoltà che cer
cano e sondano le cose divine, la natura degli uomini le ha ricevute in
deposito dal Creatore, fondamentalmente, al momento del suo pas
saggio all’essere. Ma le rivelazioni del divino, è la potenza del Santis
simo Spirito che le compie per grazia, quando essa viene ad abitare in
noi»153. Nella prima forma di conoscenza, l’uomo resta esterno a Dio
e lo conosce indirettamente; nella seconda, conosce Dio direttamente
attraverso Dio che è in lui154: «H Signore [...] giunge direttamente nel
l’intelligenza per inserirvi a suo piacimento la conoscenza», osserva
Evagrio155. San Gregorio Palamas così spiega a questo riguardo: «Poi
ché ogni uomo possiede i sensi e una intelligenza (noùs) come fa
coltà naturali di conoscenza, come queste facoltà possono permet
terci di conoscere Dio che non è né sensibile né intelligibile? Per nes
suna altra via, certamente, se non quella degli esseri sensibili e
intelligibili: queste facoltà costituiscono, in realtà, dei mezzi per co
noscere gli esseri; esse sono limitate dagli esseri e manifestano il divi
no a partire da questi esseri. Ma coloro che possiedono non solo le fa
coltà di sensazione e d’intellezione, ma che hanno anche ottenuto la
grazia spirituale e soprannaturale, non saranno limitati dagli esseri nel
la loro conoscenza, ma conosceranno anche spiritualmente, al di so
pra dei sensi e dell’intelligenza, che Dio è Spirito, perché essi diven
gono totalmente Dio e conoscono Dio in Dio»156.
L’anima vede, dunque, Dio con un occhio diverso da quello che gli
permette di conoscerlo e di contemplarlo negli esseri creati157. A que
sto grado superiore della conoscenza/contemplazione, in realtà, os
serva san Simeone il Nuovo Teologo, «noi riceviamo l’intelligenza del
Cristo e attraverso di essa vediamo Dio»158. E san Gregorio Palamas
152Omelie (Coll. II), IX, 7.
153 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 604BC.
154 Cfr. G r e g o r io Palam as, Triadi, II, 3,16. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talas
sio, 63, PG 90, 673C.
155La preghiera, 63. Cfr. Capitoli gnostici, II, 20.
156Triadi, II, 3, 68. Cfr. 17.
157Ibid., 17.
158Catechesi, XXTV, 82s. La medesima affermazione si trova in san NlCETA STETATOS, Cen
turie, IH, 46.
741
sottolinea che quelli che hanno raggiunto queste altezze «acquistano
lo Spirito incomprensibile e, attraverso di lui, essi vedono, intendo
no e comprendono»159.
«Solo la sapienza divina accorda la grazia della teologia mistica»,
sottolinea lo scoliaste delle Questioni a Talassio160. Non può essere al
trimenti, perché tutte le facoltà dell’uomo, compresa la più alta fra es
se, lo spirito (noùs), essendo create e appartenendo all’ambito della
natura, non possiedono la capacità di comprendere ciò che supera la
natura, come spiega san Massimo: «A questo punto, come tutti gli es
seri finiti, noi cessiamo di possedere le nostre facoltà e diveniamo qual
cosa che le nostre facoltà naturali non potrebbero mai produrre, per
ché la natura umana non possiede affatto la capacità di comprendere
dò che è al di sopra della natura. In realtà, nessuna creatura può ot
tenere da sé la deificazione, perché è incapace di comprendere Dio.
Solo la grazia divina può operare la deificazione, secondo i meriti di
ciascuno, irradiare la natura con la luce soprannaturale ed elevarla,
con l’eccellenza della sua luce, al di là dd propri limiti»161. È solo per
un dono di Dio che l’uomo, essere creato, può essere reso capace di
conoscere l’increato, spiega nello stesso senso san Simeone il Nuovo
Teologo: «Se paragoniamo gli esseri prodotti al produttore, coloro che
hanno cominciato ad esistere a colui che è da sempre, il creato all’in
creato, all’essere senza inizio coloro che hanno ricevuto l’esistenza nd
tempo, come questi potrebbero percepire in qualche modo la natura,
la grandezza e il modo della sua nascita? Mai, se dò non avviene pre
cisamente nd modo in cui l’Autore degli esseri creati [vuole rivdar-
si]: come egli stesso accorda a ciascuno il soffio della vita, lo spirito
(noùs) e la ragione, così egli accorda anche per amore degli uomini,
per quanto sia opportuno, il dono di conoscerlo. Altrimenti, come po
trai dire che l’essere creato da Dio conosce il suo creatore? Al di là
di ciò, non c’è mezzo per giungervi, e nessuno assolutamente ne è
capace»162.
Quando l’uomo conosce Dio, è dunque lo Spirito che conosce in
lui, e non le sue facoltà di conoscenza, non il proprio spirito. Occor
re altresì ammettere, tuttavia, che le sue facoltà partecipano in certo
modo a questa conoscenza, perché, altrimenti, non si potrebbe dire
159 Triadi, I, 3, 18.
160 Questioni a Talassio, 63, Scolio 17, PG 90,689A (= Scolio 4, CCSG 22, p. 181).
161 Questioni a Talassio, 22.
162 Trattati teologici, 1,179-189.
742
che l’uomo conosce, ed egli sarebbe in un certo senso escluso dalla co
noscenza che avverrebbe per mezzo di Dio indipendentemente da lui.
San Massimo, fa notare che, da una parte, «non è per se stesso» che
lo Spirito conosce, «perché egli è Dio e al di là di ogni conoscenza»,
ma proprio per noi163, e, dall’altra parte, che «la grazia divina non ope
ra le illuminazioni della conoscenza se non vi è nessuno a ricevere, at
traverso una potenza naturale, l’illuminazione»164. E, pur precisando
che i santi «non hanno acquistato la vera conoscenza delle cose [di
vine] per mezzo delle proprie capacità e senza l’aiuto della grazia del
lo Spirito», egli scrive: «Si può dire che la grazia abbia prodotto au
tomaticamente la conoscenza dei misteri nei santi, cioè senza che le fa
coltà naturali di questi ultimi siano disposte a ricevere tale cono
scenza»165. Occorre, dunque, precisare che l’uomo riceve questa co
noscenza nei propri organi, in primo luogo e principalmente nel suo
spirito (nous)166, ma anche in tutta la sua anima167e nel suo corpo168.
Tuttavia, non è per l’energia propria di questi organi che egli conosce,
ma per mezzo della sola energia divina169. San Massimo spiega con mol
ta precisione questo concetto: «L’intelligenza del Cristo che ricevono
i santi [...] non è data quando manca la potenza spirituale in noi, né
per completare la nostra propria intelligenza, né per passare con l’es
senza e l’ipostasi nella nostra intelligenza, ma per illuminare la poten
za della nostra intelligenza con la sua propria qualità, e per condurla
ad essa affinché la nostra acquisti la stessa energia»170.
Questa conoscenza/contemplazione che trascende ogni modo di
conoscenza umana, che supera le capacità di «tutte le nostre facoltà
sensitive e intellettive»171, «che si compie al di sopra dell’intelligenza
(nous) e della conoscenza (gnòsis)»172, è dunque impropriamente chia
mata conoscenza, sensazione (aisthésis) o intellezione (noesis)m. San
163 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 608B.
164Ibid., Scolio 1, PG 90, 617B (= Scolio 1, CCSG, 22, p. 67).
165 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 605B.
166Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,3,33; 35. G regorio N azianzeno , Discorsi, XLV, 3.
Simeone IL N uovo T eologo , Inni, xxxm, 63-64; XXXIX, 61-62; Catechesi, XV, 71-72.
167 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull economia, II, 88. G regorio
Palamas , Triadi, 1,3,37. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, 71s; XVI, 85; Inni, XXV, 61.
168Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,33; 37. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teo
logia e sull*economia, II, 88. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XV, 7 ls; Rendimento di
grazie, 1,170-171; Inni, XXV, 61.
169Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla teologia e sull'economia, II, 83; 88.
170Centurie sulla teologia e suWeconomia, II, 83.
171 G regorio P alamas , Triadi, II, 3 ,3 9 .
172Ibid., 68.
173Cfr. ibid, I, 3,18; 33; 52; II, 3, 17; 39; 47; HI, 2, 14.
743
Gregorio Palamas scrive in particolare: «Noi rifiutiamo di chiamare
questa contemplazione conoscenza (gnósis) [...]. Questa contempla
zione non è una conoscenza: [...] non bisogna considerarla come tale
e parlarne come di una conoscenza [...], a meno che non vogliamo im
piegare [questo termine] in maniera impropria ed equivoca; [...] non
solo non bisogna considerarla come una conoscenza, ma bisogna cre
derla prima d’ogni cosa superiore a ogni conoscenza e a ogni con
templazione che dipenderebbe dalla conoscenza»174. Se i termini «co
noscenza» o «intellezione» continuano ad esserle applicati, ciò non
può essere che «per metafora» e «per omonimia»175. E preferibile il
termine «visione» (órasis), ma nell’usarlo occorre sapere che anche
questo termine è improprio nella misura in cui non si tratta né di
una visione sensibile né di una visione intellettuale176, poiché l’uomo
non vede né attraverso i suoi sensi né per la sua intelligenza (noùs)177,
ma per una visione spirituale (pneumatike)m. Difatti egli vede per mez
zo dello Spirito179, perciò la natura e il modo di tale visione sono in
comprensibili e indicibili180.
Gò che l’uomo vede, quando si dice (impropriamente) che egli ve
de Dio, è una Luce, nella quale Dio manifesta e comunica le sue ener
gie. L’uomo non può conoscere Dio se non in queste energie181, perché
l’essenza divina gli è assolutamente inaccessibile182. Così Dio rimane in
visibile in sé183, e colui che ha raggiunto il grado più alto della cono
174 Ibid., n, 3,17.
m lbid., 39.
176Cfr. G r e g o r io P alam as, Triadi, 1,3,21; II, 3,31.
177Ibid.
178Cfr. ibid, 1,3,21; 30.
179Cfr. ibid., II, 3,31.
Cfr. ibid., I, 3,21.
181Cfr. ibid., in, 2,14. BASILIO DI CESAREA, Lettere, CCXXXIV, PG 32,869AB. MASSIMO IL
CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,100; II, 27; IV, 7. Sulla distinzione ortodossa dell’essenza e
delle energie di Dio, vedi V. LOSSKY, Théologie mystique de l'Eglise d’Orient, Paris 1944, pp. 65-
86. Questa distinzione che è fatta esplicitamente dalla maggior parte dei Padri greci (in parti
colare da Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore,
Giovanni Damasceno) è stata formulata in modo molto preciso da san Gregorio Palamas, sul
quale si potrà consultare J. MEYNDORFF, Introduction à l’étude de Grégoire Palamas, Paris 1959,
pp. 279s. Ricordiamo solo che le energie sono le processioni, le forze, le operazioni attraverso
cui Dio si manifesta e si comunica al di fuori della sua essenza, e ciò senza che egli se ne trovi
diviso o sminuito.
182Vedi tra gli altri: BASILIO d i CESAREA, Lettere, CCXXXIV, PG 32,869AB. GREGORIO N a-
ZIANZÉNO, Discorsi, xxvm, 4. GIOVANNI D am a scen o , Esposizione esatta della fede ortodossa,
1,10. M assim o i l C o n fe s s o r e , Centurie sulla carità, 1,96; 100; n, 27; IV, 7. G r e g o r io P a la -
mas, Triadi, IH, 2,14.
1,5 G regorio P alamas , Triadi, 1,3,9.
744
scenza vede «Dio [solo] attraverso una rivelazione che conviene a Dio
e proporzionata a se stesso»184, rivelazione che è precisamente quella
della Luce divina increata che manifesta la gloria di Dio. «Dio è luce
(lGv 1,5) e la sua visione è una luce» scrive san Simeone il Nuovo Teo
logo185; «è la luce evidentemente che introduce in noi la conoscenza; in
fatti, non vi è altro mezzo per conoscere Dio, se non quello della con
templazione della luce che emana da lui»186. Lo stesso autore aggiunge:
«Noi testimoniamo che Dio è luce; che quelli che sono ritenuti degni
di vederlo lo hanno contemplato come luce; che quelli che lo hanno ri
cevuto lo hanno ricevuto come luce, perché davanti a lui cammina la
luce della sua gloria ed è impossibile che egli appaia senza luce; che
quelli che non hanno visto la sua luce, non l’hanno visto, perché è lui
la luce; che quelli che non hanno ricevuto la luce non hanno ancora
ricevuto la grazia, perché quelli che hanno ricevuto la grazia hanno ri
cevuto la luce di Dio e Dio stesso»187. Questa Luce è la grazia188che si
rivela e si comunica all’uomo, ma anche la grazia o la potenza per mez
zo della quale egli conosce Dio. Ciò è quanto afferma il salmista: «Al
la tua luce noi vedremo la luce» (Sai36[35],10). Ciò è quanto ricorda
anche l’Apostolo: «Dio che disse: “Brilli la luce nelle tenebre” è brilla
to nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divi
na che rifulge sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). San Gregorio Palamas scri
ve a questo riguardo: «La luce spirituale non è solo l’oggetto della vi
sione, ma essa è anche la facoltà che permette di vedere»189; «la luce
della conoscenza è comunicata dalla presenza della luce della grazia»190.
184Ibid., 4.
185 Trattati etici, V, 176. Cfr. Trattati teologici, Ut, 137-144. Dio, dice ancora Simeone, è «egli
stesso tutta luce», in lui «non esiste la minima traccia di notte, alcun velo di oscurità, assoluta-
mente nessuno» (Inni, XII, 54-56). La «Tenebra» che la Scrittura (Sai 17,12; cfr. Es 19-20) e che
alcuni Padri ricordano nell’ambito della conoscenza di Dio si riferisce all’uomo e non a Dio. Es
sa può assumere diversi significati, ma corrisponde soprattutto al momento apofatico della co
noscenza di Dio. Essa spesso significa l’oscurità legata all’inconoscenza. L’espressione «Dio ha
fatto delle Tenebre il suo eremo» in genere significa che egli abita là dove non ha accesso la
nostra conoscenza umana. (Cfr. V. LOSSKY, «“Ténèbre” et “Lumière” dans la connaissance de
Dieu», in À l’image et à la ressemblance de Dieu, Paris 1967, pp. 25-37; Théologie mystique de
l’Église d’Orient, Paris 1944, pp. 21-41). Colui al quale appare la Luce divina può, tuttavia, per
cepirla «nella Tenebra» (le due realtà sono spesso ricordate simultaneamente, per esempio da
DIONIGI L’AREOPAGITA, Teologia mistica, 1,1). Per mezzo di questa Tenebra, Dio protegge
l’uomo dall’abbagliamento prodotto dalla Luce (cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati
etici, I, 12, 129-133. GREGORIO PALAMAS, Omelie, 34). È lui che «stabilisce queste tenebre che
coprono non il suo essere, ma la nostra persona» (SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, loc. cit.).
186lbid., 255-257.
187 Catechesi, XXVIII, 109-116.
188 GREGORIO P alamas , Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 69; 93.
189 Triadi, IH, 2,14.
m lbid., 1,3,3.
745
Questa luce non è né sensibile191 né intellettuale192; è una luce in
creata di natura spirituale193; correlativamente, essa non è «né una sen
sazione né una intellezione, ma una potenza spirituale, distinta, nella
sua trascendenza, da tutte le facoltà cognitive create»194. Quando l’uo
mo conosce per mezzo di questa luce, non conosce né secondo il mo
do di una sensazione né secondo il modo di una intellezione; pertan
to, lo abbiamo detto, tutte le sue facoltà partecipano di questa cono
scenza: egli conosce innanzitutto e soprattutto con la sua intelligenza
{nous), ma anche con la sua anima e con il suo corpo195, i suoi stessi
occhi percepiscono questa Luce. Ciò può avvenire perché le sue fa
coltà, a questo punto, sono trasformate dalla grazia, da questa Luce,
per la potenza dello Spirito Santo, in modo da essere capaci di per
cepire questa Luce e vedere per suo mezzo secondo un modo che
supera la loro propria natura. «Vi darò un cuore nuovo e metterò den
tro di voi uno spirito nuovo», dice il Signore (Ez 36,26). I santi, scri
ve san Gregorio Palamas, sono «trasformati dalla potenza dello Spiri
to; essi ricevono una potenza che prima non possedevano; divengono
Spirito e vedono nello Spirito»196. San Massimo osserva la stessa cosa
quando afferma: «Dio appare allora nell’anima e nel corpo, perché
le caratteristiche della loro natura sono vinte dalla sovrabbondanza
della gloria»197. San Simeone il Nuovo Teologo si rivolge così a Dio:
«Chi dopo averti visto, dopo essere stato sensibilmente illuminato dal
la tua gloria, dalla tua luce divina, non è stato cambiato nella sua in
telligenza, nella sua anima, nel suo cuore, e non ha ottenuto il favore
straordinario, o Salvatore, di vedere e intendere in maniera diversa?
Difatti, l’intelligenza è immersa nella tua luce, essa diviene luminosa,
è trasformata in luce, simile alla tua gloria, essa si chiama tua intelli
genza; colui che è stato gratificato fino ad arrivare a questo stato, sì al
lora egli merita di possedere la tua intelligenza, egli diviene insepara
bilmente uno con Te»198. Le facoltà umane, sotto l’azione dello Spiri-
1,1 Cfr. GREGORIO Palam as, Tomo agioritìco, P G 1 5 0 ,1233D; Omelie, 34. SIMEONE IL NU
VO T e o lo g o , Inni, xxxm , 45-46; 53-57.
m Cfr. G reg o k io Palam as, loc. cit.
l9> Cfr. ibid. G re g o rio N azian zen o, Discorsi, XL, 6.
154 G regorio P alamas , Triadi, in, 2 ,1 4 .
195 Vedi riferimenti supra.
m'Contro Akindinos, IV, 16. Cfr. SIMEONE IL NUOVO T eo logo , Capitoli teologia, gnostici
e pratici, II, 3.
w Centurie sulla teologia e sull’economia, II, 88. Citato da GREGORIO Palamas nelle sue Tria
di, 1 ,3 ,3 7 .
198 Inni, XX XIX , 56-66.
746
to, accedono così a un altro modo di esistenza; esse divengono facoltà
divino-umane. È così che san Macario insegna a questo riguardo: «Le
nostre anime devono cambiare e passare dal loro stato attuale a un al
tro stato, in una natura divina199, e divenire nuove [...]. Il Signore è ve
nuto per cambiare e ricreare le nostre anime, per renderle partecipi
della natura divina, come sta scritto (cfr. 2Pt 1,4), per dare alla no
stra anima un’anima celeste, ossia lo spirito della divinità, [...] affin
ché noi potessimo vivere la vita eterna»200.
Ecco perché questa Luce della grazia riempie l’uomo compieta-
mente, fa sì che l’uomo «sia tutto come una luce»201, che l’uomo tutto
intero conosca per mezzo di essa. «Allora, o miracolo, è Dio che
guard[a] non solo attraverso l’anima che è in noi, ma anche attraver
so il nostro corpo. Ecco perché noi [vediamo] allora distintamente,
per mezzo dei nostri stessi organi fìsici, la luce divina e inaccessibile»,
afferma san Gregorio Palamas202. E anche per questa luce che l’uo
mo viene completamente divinizzato. Infatti, è per questa luce che egli
è perfettamente unito a Dio, che viene comunicata a lui la grazia dei
ficante. Per questo motivo san Gregorio Palamas preferisce parlare,
come fa san Dionigi l’Areopagita203, di unione piuttosto che di cono
scenza204. L’uomo, in realtà, è assimilato a ciò che egli vede e a ciò at
traverso cui egli vede205. «Colui che partecipa dell’energia divina di
viene egli stesso in qualche modo luce», scrive san Gregorio Palamas206;
divenendo interamente luce, l’uomo è reso simile a ciò che egli vede,
egli vi si unisce senza mescolanze207. «Per la grazia, Dio abbraccia to
talmente coloro che ne sono degni, e i santi abbracciano Dio nella sua
pienezza», osserva ancora lo stesso santo208, che, seguendo san Mas
simo, aggiunge: «Dio e i santi hanno una sola e medesima energia»209.
Anche san Simeone il Nuovo Teologo ricorda questa unione deificante
751
si è reso ricettivo della potenza dello Spirito divino»240. Possiamo di
re, altresì, che in e per questa Luce Dio si unisce a coloro che sono
uniti a lui. È così, per esempio, che san Massimo scrive: «Per ottene
re il dono della conoscenza divina, occorrerà [...] essere in Dio»241. Op
pure, come afferma san Gregorio Palamas: coloro che conoscono Dio
lo conoscono «perché uniti a lui, essi hanno già assunto l’aspetto di
Dio»242. San Gregorio di Nissa afferma ancora più nettamente: «Non
è possibile che sia mai unito alla luce colui che non brilla del riflesso
di questa luce»243.
Ora è per la purezza interiore che l’uomo è degno di ricevere lo Spi
rito Santo; è per le virtù che egli acquista l’aspetto di Dio244e si unisce
a lui. E, come abbiamo visto, la purezza, che l’uomo raggiunge nel
l’impassibilità, e il possesso delle virtù si ottengono osservando i co-
mandamenti. La visione di Dio e la deificazione appaiono, dunque,
beni indissociabili dalla pràxis, da tutta la vita ascetica, e dalle lotte,
dai sudori e dalle pene che essa inevitabilmente implica245. Sottoli
neando chiaramente il carattere sinergico dell’unione con Dio e del
lo sforzo umano per aprirsi alla grazia, san Macario così scrive: «La
presenza nell’uomo dell’energia della grazia di Dio e il dono dello Spi
rito Santo, che un’anima fedele è ritenuta degna di ricevere, si acqui
stano attraverso molte lotte, molta pazienza, sopportazione, tentazio
ni e prove, l’uso della libera volontà dovendo essere messo alla prova
da molte tribolazioni. Quando l’anima non rattrista più in nulla lo Spi
rito Santo, ma entra in armonia con la grazia attraverso la pratica di
tutti i comandamenti, allora ottiene di essere liberata dalle passioni, di
ricevere la pienezza dell’adozione filiale dallo Spirito, la sapienza che
si esprime in modo misterioso (cfr. lCor 2,14), la ricchezza spirituale
e l’intelligenza che non è di questo mondo, di cui i veri cristiani di
vengono partecipi»246.
Che la purezza sia la principale condizione per ricevere da Dio
l’illuminazione della visione di Dio viene affermato dallo stesso Cri
sto: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). I Padri lo
240G r e g o rio Palam as, Triadi, 1 ,3 ,1 7 .
241 Centurie sulla carità, II, 26.
242 Triadi, HI, 3 , 12. Cfr. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, XLV, 3*
243Sulfine da perseguire secondo Dio.
244 Ibid.
245Cfr. S im eone il N u o v o T eo l o g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, n, 10; IH, 22. M a
cario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), XVII, 4.
246 Omelie (Coll. II), IX, 7.
752
ricordano quasi tutte le volte che evocano la conoscenza di Dio247.
«Questa illuminazione [...] è inaccessibile al cuore dei fedeli stessi, a
meno che essi non siano stati purificati», afferma san Gregorio Pala-
mas248. «La contemplazione spirituale agisce in noi nell’ambito della
purezza»249, insegna sant’Isacco il Siro, il quale aggiunge che, se la pu
rezza non è in essa, l’anima è come un’atmosfera piena di nuvole che
nascondono la luce del sole e le impediscono di giungere fino ad es
sa250. Dio, che è Luce, rende partecipi i fedeli del proprio splendore
«secondo la misura della loro purificazione», osserva san Simeone il
Nuovo Teologo251, che scrive ancora: «La conoscenza [dei] misteri ap
partiene a coloro il cui spirito è illuminato ogni istante dallo Spirito
Santo a motivo della purezza della loro anima»252. E san Niceta Ste-
tatos osserva: «La conoscenza di Dio, di cui si può dire che è una fon
te radiosa e infinita di luce, rende divinamente luminose le anime nel
le quali essa si trova per mezzo della purezza»253. Infatti, come dice san
Gregorio Nazianzeno, «solo la purezza può avvicinare Colui che è pu
ro»254; solo essa ci rende degni di ricevere lo Spirito Santo.
La purezza, di cui si tratta qui, non è solo quella dell’intelligenza,
frutto dell’eliminazione di ogni rappresentazione, immaginazione o
pensiero, dell’allontanamento di ogni intellezione. La contemplazio
ne richiede, certo, uno «spirito nudo», relativamente per ciò che ri
guarda la contemplazione naturale255, che ammette rappresentazioni
semplici, totalmente per ciò che riguarda la contemplazione di Dio.
Questo spogliamento e questa nudità, per quanto necessari256, non ba
stano tuttavia per ottenere la visione di Dio257 e, del resto, sono ac
cessibili ai principianti per mezzo di una semplice tecnica mentale258.
247 Cfr. G io v ann i C lim aco , La Scala, VII, 60; XXX, 21. G regorio N azia nzen o , Discorsi,
XLV, 3. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 67; Lettere, 4, passim. MACARIO D’EGIITO, Omelie (Coll.
E ), X V H , 4; L E I, 4. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, HE, 23.
N iceta S tetatos , Centurie, n, 67; H I, 19-20. GREGORIO PALAMAS, Teofane, P G 150, 956B; A
Xene, P G 150,1064D; 1085A; Capitoli sulla preghiera, P G 150,1117C; U 20C -1121A ; Triadi, I,
1,7; 3,9; 52. ATANASIO D’ALESSANDRIA, SullTncamazione del Verbo, 57. EVAGRIO PONTICO, Ca
pitoli gnostici, IV, 90; Lettere, 62. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,32.
m Triadi, 1,3,52.
249 Lettere, 4.
250Discorsi ascetici, 69.
251 Catechesi, XV, 68-70. Cfr. Trattati etici, X, 32-33.
252 Trattati etici, IX, 68-70. Cfr. ibid., 59-68.
253 Centurie, III, 19.
254 Discorsi ascetici, E, 39.
255 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, EI, 21.
256Cfr. ibid., 19; Lettere, 41; 58. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e
pratici, II, 17.
257 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,19; IE, 3,12.
258Cfr. ibid, Et, 3,12.
753
L’uomo deve aver acquisito preliminarmente questa forma di pu
rificazione, quella delle sue passioni, che «libera effettivamente lo spi
rito in rapporto a tutto»259. Una tale purezza, per di più, coinvolge l’uo
mo nella totalità del suo essere. Si tratta, dunque, di purificare «tutte
le disposizioni e tutte le potenze dell’anima e del corpo»260. È solo a
questa condizione che lo spirito sarà veramente puro e degno di esse
re abitazione della grazia; a questa stessa condizione, lo saranno anche
l’anima e il corpo che, lo abbiamo visto, sono ugualmente chiamati a
partecipare alla visione di Dio, e a essere deificati. Per questo, i Padri,
quando ricordano la visione di Dio, parlano correlativamente del
l’impassibilità come della sua condizione sine qua non261.
La purezza che l’uomo raggiunge nell’impassibilità è il frutto della
pratica dei comandamenti. E per questo che esiste un legame diretto
tra la conoscenza di Dio e la pratica dei comandamenti, apparendo
questa ugualmente come la condizione di quella. Il Cristo, che è la ve
ra Luce (cfr. Gv 1,9), che presenta se stesso come la Verità (cfr. Gv
14,6), che promette agli uomini la venuta dello Spirito di verità (cfr.
Gv 14,17; 15,26; 16,13) e che dice a suo Padre: «Questa è la vita eter
na: che conoscano te, il solo vero Dio» (Gv 17,3), egli stesso ci inse
gna: «Se rimanete nella mia parola, siete veramente miei discepoli e
conoscerete la verità» (Gv 8,31-32). E ancora: «Se qualcuno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Anche l’apostolo san Gio
vanni indica tale legame: «Da questo noi sappiamo di conoscerlo, se
osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: lo conosco, ma non osser
va i suoi comandamenti, è un mentitore e la verità non è in lui» (lGv
2,3-4). E il salmista, rivolgendosi a Dio, esclama: «Insegnami buon sen
so e conoscenza: sì, sto saldo nei tuoi precetti» (Sal 119[118],66); «dai
tuoi comandi ricevo intelligenza» (ibid., 104). I Padri, da parte loro,
insistono particolarmente su questa relazione. San Macario il Gran
de osserva che, se noi non conosciamo Dio, in altri termini se non spe
rimentiamo l’energia della grazia, è solo per le nostre mancanze, per
ché «Egli dice di manifestarsi a coloro che [...] osservano i suoi co-
mandamenti» (cfr. Gv 14,21)262. Sant’Isacco il Siro così scrive a tale
m Ibid.,l,},2 1.
260Ibid., m, 3 , 12.
261 Cfr. E vagrio P o n t ic o , Capitoli gnostici, V, 75; V I, 83. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. GIO
VANNI C lim aco , La Scala, X X V II, 27. M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,85-86;
ni, 70. N iceta S tetatos, Centurie, 1,89; II, 91. GREGORIO PALAMAS, Triadi, E, 3,11.
262 Omelie (Coll. II), LEI, 4. Cfr. LIV, 5; 8.
754
proposito: «Con l’osservanza dei comandamenti è dato allo spirito la
grazia della contemplazione mistica e della rivelazione della conoscenza
dello Spirito»263; «se tu desideri contemplare i misteri, metti in prati
ca in te i comandamenti»264. E questo il motivo conduttore dell’inse
gnamento di san Simeone il Nuovo Teologo: il Signore, egli osserva,
benedice «coloro che, per la pratica precedente dei comandamenti,
hanno meritato di vedere e hanno contemplato in sé la luce rischia
rante e scintillante dello Spirito»265; «per mezzo dei comandamenti ci
viene aperta la porta della conoscenza»266; colui che «è stato elevato al
vertice della contemplazione per mezzo della pratica dei comanda-
menti, costui vede Dio in persona»267; «non si può arrivare a contem
plarlo altrimenti che per l’esatta osservanza dei suoi comandamenti,
occorre cioè che la loro pratica non sia intaccata da alcuna alterazio
ne operata dalla negligenza o dal disprezzo, ma portata a termine con
cura fervente. Di conseguenza, “tutti coloro che si atterranno a que
sta regola non saranno lontani dal regno dei cieli” (cfr. Me 12,34); in
proporzione del loro fervore e della loro pratica [...], presto o tardi,
più o meno, avranno il salario della visione di Dio e diventeranno par
tecipi della sua natura divina; saranno manifestamente dèi per ado
zione e figli di Dio in Gesù Cristo»268; «là dove i comandamenti sono
osservati esattamente, ivi sarà la manifestazione del Salvatore»269. An
che san Gregorio Palamas non cessa di ripeterlo: «La vera conoscen
za, l’unione e l’assimilazione a Dio non arrivano che per l’osservanza
dei comandamenti»270; «secondo le promesse di Dio, sarà solo il com
pimento dei comandamenti che procura la venuta, l’inabitazione e l’ap
parizione di Dio»271; «abbiamo fede in Colui che ha condiviso la no
stra natura e l’ha gratificata della gloria della sua propria natura, e chie
diamoci come la si acquisisce e come la si vede. Come? Con l’osservanza
dei divini comandamenti»272; «noi pensiamo che i comandamenti di
Dio diano la conoscenza, non solo, ma anche la deificazione»273.
Tra i comandamenti ve n’è uno che occupa, relativamente alla vi-
263 Lettere, 4.
264 Ibid.
265 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,4.
266 Catechesi, XXIV, 58-60.
267 Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 8.
268 Trattati teologici, II, 304s.
269 Trattati etici, V, 129s.
270 Triadi, II, 3, 75.
m Ibid., 3 ,11.
272 Ibid., 3,16.
273 Ibid., 3,17.
755
sione di Dio, un posto centrale, e che il Cristo ricorda molte volte:
quello della penitenza. Sant’Isacco il Siro afferma che è «attraverso
la penitenza [che] riceviamo come una grazia la conoscenza spiritua
le»274. Questo legame tra la visione di Dio e la penitenza è stabilito in
modo costante da san Simeone il Nuovo Teologo275, che scrive in par
ticolare: «Il frutto e il lavoro proprio della penitenza, ecco dò che scac
cia l’ignoranza e procura nello stesso tempo la conoscenza. Per co
noscenza io intendo innanzitutto quella di noi stessi e di ciò che ci
riguarda, poi quella di ciò che ci supera e dei misteri divini, che sono
invisibili e inconoscibili per coloro che non hanno fatto penitenza»276.
La pratica dei comandamenti, come abbiamo visto, non ha solo la
funzione di purificare l’uomo e di condurlo sino all’impassibilità; es
sa ha correlativamente il compito di permettergli di recuperare le virtù
e di farle crescere in lui. Ora il possesso delle virtù gioca ugualmente
un ruolo fondamentale nell’accesso alla conoscenza di Dio. É per mez
zo delle virtù, infatti, che l’uomo acquista la somiglianza con Dio e si
unisce ontologicamente a lui. Come abbiamo detto precedentemente,
è nella misura in cui l’uomo si unisce a Dio che Dio si unisce a lui, Da
qui il legame diretto che stabiliscono, inoltre, i Padri tra la conoscen
za/visione di Dio e le virtù, frutti della pratica dei comandamenti277.
La conoscenza è il «frutto delle virtù», nota Evagrio278. «La conoscenza
spirituale segue per natura la pratica delle virtù», scrive anche sant’I-
sacco il Siro279. «Veramente beati e seguaci ferventi della vita e del go
dimento soprannaturale sono coloro che, votandosi all’ardore della fe
de e alla condotta virtuosa, hanno ricevuto attraverso l’esperienza e la
percezione la conoscenza celeste dei misteri dello Spirito», afferma san
Macario280. «Dai comandamenti nascono le virtù e, da queste, la rive
lazione dei misteri», scrive san Simeone il Nuovo Teologo281, il cui ca
pitolo 12 del I Trattato etico è intitolato: «Non spetta ai non iniziati
scrutare i misteri nascosti del Regno dei cieli senza la pratica prelimi
nare dei comandamenti e il progresso nella virtù fino alla perfezione».
274 Discorsi ascetici, 18.
275Vedi tra gli altri: Inni, XV, 257-261; Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 22; Trattati teo
logici, I, 250s; 27 ls; Trattati etici, IX, 462s.
276 Trattati teologici, 1,304-308.
277 Cfr. Eh 12,14. GREGORIO N azia nzen o , Discorsi, XVI, 2.
278 Trattato pratico sulla vita monastica, 90. Cfr. Capitoli gnostici, V, 66.
279Discorsi ascetici, 44.
280 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 101.
281 Catechesi, XXIV, 54-55.
756
Ed egli offre questa immagine: la conoscenza di Dio è il tetto dell’e
difìcio spirituale, il quale non può poggiare che sulle mura delle virtù282.
San Gregorio Palamas da parte sua spiega: «E nello stare vicino a Dio
con la virtù e unito a lui con lo spirito che si otterrà la manifestazio
ne di questo splendore che si offre agli sguardi di tutti coloro che ten
dono continuamente verso Dio [...]»283.
Ricordiamo che tra le virtù ve ne sono due che giocano un ruolo
particolarmente importante nell’accesso alla conoscenza/visione di
Dio: l’umiltà e la carità, che san Simeone qualifica come «deificanti»284.
«La vera umiltà genera la conoscenza», scrive sant’Isacco il Siro285.
«La conoscenza di Dio significa che è conosciuto da Dio colui che si
edifica in essa attraverso l’umiltà», spiega san Niceta Stetato286. Infat
ti, è solo se si è svuotato di sé che l’uomo può essere riempito dello
Spirito Santo che gli permette di conoscere Dio; è solo se egli si è an
nullato davanti a Dio che può ricevere la sua energia che lo unisce a
lui. «Colui che non possiede queste disposizioni non può unirsi allo
Spirito Santo e, se non è unito a lui dopo la purificazione, non può
inoltre raggiungere la conoscenza e la contemplazione di Dio», inse
gna san Simeone il Nuovo Teologo287. Questi, d’altronde, mostra che
l’uomo progredisce nella conoscenza in proporzione al suo progresso
nell’umiltà, tanto che la più alta conoscenza e la più alta umiltà fini
scono per coincidere, ragion per cui l’uomo, «quando è giunto alla mi
sura della pienezza della conoscenza del Cristo ed ha assimilato il Cri
sto stesso e per davvero l’intelligenza del Cristo, [...] ha la convinzio
ne di non sapere e di non possedere assolutamente nulla e si ritiene
un servo vile e inutile» e ritiene anche «che non vi è nel mondo un uo
mo più peccatore di lui»288.
Il ruolo della carità è ancora più importante. Sintesi e vertice di tut
te le virtù, è veramente dalla sua perfezione che deriva la conoscen
za, perché è attraverso di essa che si compie l’unione con Dio nella
quale l’uomo riceve da Lui questa conoscenza. Tale legame tra la ca
rità, frutto della pratica dei comandamenti, e la conoscenza, è indi
cata chiaramente dallo stesso Cristo: «Chi ha i miei comandamenti e
759
essere, sono suscettìbili di crescere all’infinito302. Questo vale per tut
te le virtù303.
760
nella quale, come nota sant’Isacco il Siro, «si compiono» e «hanno il
loro fine» «tutti i modi e tutte le forme con le quali gli uomini prega
no Dio»311. Evagrio arriva a identificarle312, in particolare nella sua ce
lebre formula: «Se tu sei teologo, preghi veramente; e se preghi vera
mente, tu sei teologo»313, il teologo sta ad indicare colui che è giunto
alla theologia nel significato antico di questo termine, cioè alla cono
scenza/visione di Dio. Sant’Isacco sottolinea che, in ogni caso, la
grazia di questa conoscenza, che si compie attraverso lo Spirito, «è ac
cordata a coloro che ne sono degni, al momento della preghiera. Essa
ha la sua fonte nella preghiera. Essa non ha altro luogo che questo tem
po per abitare in noi con tutta la sua gloria, secondo la testimonian
za dei Padri. Per questo è chiamata con il nome di preghiera fin dal
momento in cui lo spirito è condotto a questa beatitudine attraverso
la preghiera, perché la preghiera è la fonte e una tale grazia non ha un
luogo in altri tempi, come dimostrano gli scritti dei Padri»314.
Questi ritengono che tutta la vita ascetica debba tendere a ottene
re (perché è un carisma315) tale preghiera316. È così che la preghiera
contribuisce per gran parte a condurre l’uomo all’impassibilità e al
possesso di tutte le virtù, e che l’impassibilità e le virtù (in particola
re la carità317), una volta stabilite nell’uomo, gli permettono di acce
dere alla preghiera pura318.
La preghiera pura, infatti, si definisce innanzitutto come una pre
ghiera dell’uomo purificato da ogni passione e da ogni rappresenta
zione (immagine o pensiero) cattiva319. E quanto ricorda l’Apostolo
quando invita a pregare «in ogni luogo, innalzando verso il cielo ma
ni pure, senza collera e spirito di contesa» (lTm 2,8). La purificazio
762
Per questo san Gregorio il Sinaita consiglia: «Con il concorso della
preghiera, disprezza ogni rappresentazione sensibile o intellettuale
che salirà dal tuo cuore»326; anche «se dei concetti buoni delle cose si
presentano a te, non prestarvi attenzione»327. Anche sant’Esichio di
Batos afferma: «Veglia per non avere nel cuore alcun pensiero né ir
razionale né razionale»328, per «preservare [il tuo] cuore da ogni pen
siero, quand’anche possa sembrare buono»329. «Come il corpo, quan
do muore, si separa totalmente dalle cose del mondo, così l’anima che
si applica a rimanere in questo stato altissimo della preghiera, e che
muore, si separa da tutti i pensieri del mondo», scrive san Massimo330.
Evagrio consiglia la stessa cosa: «Sforzati di rendere il tuo spirito, al
momento della preghiera, sordo e muto, e potrai pregare»331. Devo
no essere escluse anche le rappresentazioni sensibili o intelligibili pro
prie della contemplazione naturale. Evagrio a questo proposito scri
ve: «Anche se lo spirito non si sofferma sui pensieri semplici, non per
questo ha già raggiunto il luogo della preghiera; infatti lo spirito
può essere nella contemplazione degli oggetti e occuparsi delle loro
ragioni, le quali, anche se sono espressioni semplici, nondimeno, in
quanto considerazioni d’oggetti, imprimono ima forma allo spirito e
lo portano lontano da Dio»332. In breve, «la preghiera è abbandono
delle rappresentazioni (apóthesis noèmatòn)»m, soppressione di tut
ti i pensieri334. Dio si fa conoscere all’uomo solo se prega in questa
condizione335, perché «la contemplazione di Dio non conduce su nul
la che imprima una forma nello spirito (noùs)», nota Evagrio336, il qua
le ricorda che Dio è al di là di ogni figura337. «L’illuminazione appa
re allo spirito puro nella misura in cui esso si è liberato da tutte le rap
presentazioni e da ogni forma», scrive da parte sua san Gregorio
326SulVesichia e i due modi della preghiera, 9. Vedi anche Come Vesicasta deve stare nella
preghiera.
327SulVesichia e i due modi della preghiera, 2.
328Capitoli sulla vigilanza, 49.
329Ibid., 20.
330 Centurie sulla carità, I, 6 2 . Cfr. EVAGRIO PONTICO, Sui diversi pensieri della malvagità,
recensione lunga, 39.
331 La preghiera, 11.
332Ibid., 56. Cfr. 57. Sui diversi pensieri della malvagità, recensione lunga, 39.
333 E v a g r io P o n t ic o , La preghiera, 70. Cfr. 69; Lettere, 58; 61. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sulla carità, IV, 42.
334 Cfr. M assim o i l C on fessore, Discorso ascetico, 19. E vagrio P o n tic o , Capitoli gnostici,
Pseudo supplemento, 29.
335 Cfr. E vagrio P ontico , Lettere, 58.
336Ibid., 39. Cfr. La preghiera, 66.
337 La preghiera, 67.
763
Palamas338. Questi non cessa di affermare, nella linea di tutta la Tra
dizione, che Dio è radicalmente trascendente a ogni essere e inac
cessibile a tutte le facoltà della conoscenza umana339. San Nicodemo
l’Agiorita raccomanda, in questa linea, di applicare l’attenzione alla
preghiera «rimanendo senza immagini né figure, non immaginando
né pensando qualunque cosa d’altro, sensibile o intellettiva, esteriore
o interiore, fosse questo anche qualcosa di buono. Dio è al di fuori di
tutto il sensibile e di tutto l’intelligibile, al di sopra di tutto questo; lo
spirito dunque che vuole unirsi a Dio attraverso la preghiera deve usci
re sia dal sensibile che dall’intelligibile, superare tutto ciò per otte
nere l’unione divina»340. Ne segue che anche ogni rappresentazione
delle realtà spirituali deve, per questo motivo, essere esclusa. Per evi
tare il rischio d’illusione che sta in agguato nei confronti dell’orante
a questo stadio, san Gregorio il Sinaita consiglia: «Se vogliamo sco
prire e conoscere la verità senza rischio d’errore, cerchiamo di non
avere che l’operazione del cuore assolutamente senza forma o figu
ra, di non riflettere nella nostra immaginazione né forma né impres
sione di sedicenti cose sante, di non contemplare alcuna luce, perché
l’errore, soprattutto all’inizio, ha l’abitudine di trarre in inganno lo
spirito dei monaci esperti attraverso questi fantasmi menzogneri»341.
Per questo raccomanda ancora: «Se tu pratichi come si deve Yhesy-
chta nell’attesa dell’unione a Dio, non lasciare mai che un oggetto sen
sibile o intelligibile, esteriore o interiore, fosse pure l’immagine del
Cristo, o la pretesa forma di un angelo o di santi, o anche una luce,
s’inscriva o si disegni nel tuo spirito»342. Diverse forme straordinarie
possono, in realtà, essere percepite nel tempo della preghiera, forme
suscitate dai demoni343, e anche diverse apparizioni luminose che so
no di natura ben diversa dalla luce della grazia increata nella quale
Dio si rivela, ma che nondimeno l’orante rischia di confondere con
essa. H rifiuto di ogni forma che si manifesta, l’astensione da ogni rap
presentazione di qualunque natura, costituisce la migliore protezione
contro questo genere d’illusioni.
Nella realizzazione di questa radicale «eliminazione dei pensieri»,
di questo vuoto totale di ogni rappresentazione consiste il secondo
Dialogo, Coisl. 99, fol. 40 v.
333839Vedi anche TEOLETTO DI FILADELFIA, Sullazione segreta.
340Enchiridion, 10.
341 Sull1esichia e la preghiera.
342 Come Vesicasta deve stare nella preghiera.
343 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 67; 68; 72.
764
aspetto del ruolo della vigilanza, raccomandate anche dall’apostolo
Pietro quando consiglia: «Siate vigilanti per poter pregare» (lPt 4,7).
La vigilanza assume qui, da una parte, la forma della «custodia dei sen
si»344, che esclude ogni sensazione, principio di molte rappresentazio
ni «materiali e vane» che sono per lo spirito altrettanti «ladri»345, e an
che se esse sono senza passione, rendono l’uomo presente a questo
mondo e gli impediscono di esserlo pienamente a Dio. Dall’altra par
te, essa prende la forma della «custodia dello spirito»346, che esclude
ogni immaginazione, ricordo, concetto, ogni intuizione intellettuale,
in breve, ogni rappresentazione di qualsiasi natura347. Questa custodia
dello spirito si realizza nello stesso modo della custodia del cuore
che abbiamo preso in esame precedentemente, cioè nel rifiutare la rap
presentazione fin dalla sua apparizione, non lasciandole alcuna possi
bilità di soffermarsi e di svilupparsi, ogni discussione con essa essen
do qui è esclusa. Quanto alla custodia dei sensi, essa può avvenire
solo nell’isolamento, nell’oscurità e nel silenzio, condizioni che ab
biamo ricordato nel presentare la preghiera di Gesù.
Questo secondo aspetto del ruolo della vigilanza completa il primo,
ma sarebbe per se stesso insufficiente348e presuppone necessariamen
te il precedente. L’uomo per mezzo di una tecnica puramente men
tale può giungere al vuoto dello spirito con l’annullamento di ogni rap
presentazione. È anche una cosa relativamente facile questa purifica
zione dello spirito349, e accessibile ai principianti, come fa notare san
Gregorio Palamas350. Ma essa da sola non serve a nulla e non dà affatto
accesso alla conoscenza di Dio né all’unione con lui. Essa non può ar
rivarvi, per la grazia di Dio, se non è stata preceduta dalla purifica
zione del cuore, «da tutte le facoltà e potenze dell’anima e del cor
po»351. San Gregorio Palamas spiega in realtà che se «l’attività (enér-
geia) dello spirito si regola e si purifica facilmente» quando ci si astiene
da ogni pensiero, «la potenza (dynamis) che produce questa attività
344 Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 1; 53. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capi
toli neptici, 27.
345Cfr. EsiCHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 53. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico,
15. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, Pseudo supplemento, 18.
346Cfr. E sichio DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 3; 109; 157; 168; 171. GIOVANNI CLIMACO,
La Scala, XXVI, 61. DlADOCO di FOTICEA, Capitoli sulla vigilanza, 97. La custodia dello spirito
è anche chiamata, ma meno adeguatamente in questo contesto, «custodia del cuore».
347Vedi tra gli altri CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 20; 25; 48.
348Cfr. G regorio P alamas, Triadi, HI, 3,12.
349 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 83.
m Ibid.
351 Ibid.
765
non è purificata se non quando lo sono anche le altre potenze. Infat
ti l’anima è un’essenza dalle molteplici potenze; se un male deriva da
una di queste potenze, essa è completamente sporcata: tutte comuni
cano nella stessa unità. Per il fatto che ogni potenza ha la sua attività,
è possibile, con una certa applicazione, purificare per qualche tempo
un’attività qualunque. Ciò nonostante, la potenza non ne sarà purifi
cata, poiché comunica con le altre ed essa è così piuttosto impura che
pura»352. Detto altrimenti, quando lo spirito è puro da ogni rappre
sentazione, se le altre facoltà del cuore non sono purificate esse stesse
dalle passioni, lo spirito partecipa della loro impurità, egli stesso è mac
chiato dalle passioni che attaccano le facoltà. Ora, sottolinea san Gre
gorio Palamas, «uno spirito legato alle passioni non potrà aspirare al
l’unione divina. Fintanto che lo spirito prega in questa specie di di
sposizione, non ottiene misericordia»353. In altre parole, l’unione con
Dio ha per condizione indispensabile l’impassibilità, che deriva, lo ab
biamo visto, dalla pratica dei divini comandamenti e implica tutta la
vita virtuosa di cui san Gregorio Palamas sottolinea anche la necessità
per «disporre l’uomo a ricevere Dio»354. San Simeone il Nuovo Teo
logo sottolinea a lungo la necessità di rispettare quest’ordine, e di sa
lire sulla scala dal basso in alto prendendo in prestito successivamen
te ciascuno dei pioli355. Osserva, altresì, di cominciare la costruzione
della casa spirituale dalle fondamenta e non dal tetto356, cosa che, per
quanto bene sia fatta, non potrà tenere se dette fondamenta non sono
prima d’ogni cosa solidamente costruite.
Eliminando dal cuore e dallo spirito ogni rappresentazione, la vigi
lanza costruisce allora nell’uomo il perfetto silenzio dei pensieri e delle
facoltà che i Padri indicano con il termine di hesychta357nella sua acce
zione più alta, cioè di silenzio che predispone a ricevere la conoscenza358.
Abbiamo visto, infatti, che la conoscenza/visione di Dio si compie
al di là di ogni modo di conoscenza umana, che consiste in una visio
352 Tre capitoli sulla preghiera e la purezza del cuore, 3.
353 Ibid., 1.
354 Ibid.
355Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr, pp. 166s.
m Ibid., pp. 171-172.
357 Cfr. E sicm o DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 103; 115. GREGORIO IL SlNATTA, SulVesi-
chia e i due modi della preghiera, 9. Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 69, in cui il termine
èremia è usato nello stesso senso.
358 Cfr. D iadoco DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 9. E sicm o DI B atos, Capitoli sulla vi
gilanza, 7; 10.
766
ne al dì là di ogni sensazione e in una conoscenza al di là di ogni in
tellezione, conoscenza realizzata dallo Spirito Santo stesso utilizzando
le facoltà dell’uomo, dopo averle trasformate per renderle atte al suo
operare in esse. Ciò suppone, dunque, che l’uomo rinunci a ogni sen
sazione, a ogni modo d’intellezione propria, qualunque essa sia. I san
ti, scrive san Gregorio Palamas, «trascendono ogni conoscenza con la
preghiera ininterrotta e immateriale: essi allora iniziano a intrawede-
re Dio»359. San Massimo sottolinea nello stesso senso: «La grazia del
la preghiera unisce lo spirito a Dio, e, per questo, lo sottrae a ogni
altro pensiero. Lo spirito, intrattenendosi allora con Dio, nella sua nu
dità, diviene deiforme»360. Sant’Isacco il Siro nota più precisamente:
«Quando l’anima è condotta dall’energia dello Spirito verso le cose
divine, i sensi e le loro energie ci sono inutili, così come ci sono inu
tili le potenze dell’anima spirituale quando, per mezzo dell’unione in
comprensibile, questa si fa simile alla Divinità e viene a trovarsi illu
minata nei suoi movimenti dal raggio della luce più alta»361. Quanto
a sant’Esichio di Batos, egli sottolinea il ruolo ddla vigilanza in que
sto accesso dell’uomo, nella preghiera, all’esperienza della visione del
la luce divina362: «La custodia dello spirito sia chiamata con i suoi
nomi propri che le dànno tutto il suo senso: fonte di luce, fonte di ba
gliori, effusione luminosa, portatrice di fuoco [...]. Per queste luci fiam
meggianti che nascono da esse, occorre [...] chiamare con nomi pre
ziosi questa virtù [...]. Coloro che l’amano possono [...] contemplare
i misteri e divenire teologi. Divenuti contemplativi, essi nuotano in
questa luce purissima e infinita, la toccano con ineffabili sfioramenti,
rimangono e vivono con essa, perché alla fine essi hanno assaporato
quanto è buono il Signore»363. San Filoteo il Sinaita sottolinea ugual
mente il potere della vigilanza e dell’attenzione congiunte alla pre
ghiera: «Se queste vanno di pari passo nel corso dei giorni, l’atten
zione e la preghiera sono simili al carro di fuoco di Elia: esse elevano
nell’alto del cielo colui che trasportano [...]. Se questi, con cuore fe
lice, porta o si sforza di portare a buon fine la vigilanza, [...] nell’or
dine della contemplazione e dell’elevazione mistiche, il suo cuore di
viene lo spazio di Dio che nulla può contenere»364.
m Triadi, II, 3,11.
360Discorso ascetico, 24.
361 Discorsi ascetici, 32.
362 Su questo argomento, vedi anche FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 24; 27.
363 Capitoli sulla vigilanza, 171. Cfr. 166.
364 Ibid., 21.
767
Occorre, tuttavia, ricordare che se l’uomo può avere l’esperienza
della conoscenza/visione di Dio solo alle condizioni ricordate in pre
cedenza, e in particolare quella della perfetta vigilanza e attenzione,
questa esperienza non ne è l’effetto automatico e come determinato
da una tecnica, ma resta un dono gratuito di Dio a colui che ha fatto
gli sforzi necessari per esserne degno. Ecco perché sant’Esichio di Ba
tos precisa: «Quando lo spirito è completamente spoglio di tutti i pen
sieri e delle forme che questi impongono, allora la beata luce della Di
vinità lo illuminerà, se però, grazie al vuoto di tutti i pensieri, questo
splendore si rivela improvvisamente all’intelligenza pura»365. Insegnando
altrove che «la virtù dell’attenzione fa abbondare ogni bene [nel] cuo
re», fino a permettere all’uomo, alla fine, di vedere «chiaramente in
ispirito il Cristo [...] con suo Padre consostanziale e lo Spirito Santo
adorabile», egli precisa: «O piuttosto è Nostro Signore Gesù Cristo,
senza il quale non possiamo fare nulla, che ti darà queste cose»366.1
Padri fanno inoltre notare che il momento in cui la grazia della visio
ne di Dio è concessa all’uomo è totalmente imprevedibile, sottolineando
con ciò anche la sua gratuità. San Gregorio il Sinaita riferisce queste
parole di sant’Isacco il Siro: «Le cose divine vengono da sole, tu ne
ignori l’ora»367.
Quanto abbiamo detto in precedenza sullo spogliamento dei pen
sieri attraverso la vigilanza e l’attenzione, non deve farci dimenticare
che la funzione delle sue attitudini è correlativamente quella di con
sentire all’uomo di concentrare tutta la sua potenza riflessiva nell’u
nico pensiero della preghiera, e di realizzare una preghiera pura da
ogni pensiero estraneo a Dio368; è in questo senso che la preghiera pu
ra è chiamata dai Padri anche «preghiera senza distrazione (aperispà-
stds)»}m. Sant’Isacco il Siro scrive: «La preghiera è pura, o non è pu
ra. Ecco come possiamo riconoscerla. Se nel tempo in cui lo spirito
[prega] [...] si mescola ad esso un pensiero estraneo o una distrazio
ne, si dice che la preghiera allora non è pura»370. E, alla domanda per
ché è proprio nel tempo della preghiera che è data all’uomo la grazia
m I b i d ., 89.
Ibid., 117.
367SuWesichia e i due modi della preghiera, 10.
368 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 5. G iovanni C assiano, Conferenze, XXIV, 6. Si
m eone IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, IH, 32.
369Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 1; 5.
370Discorsi ascetici, 32.
768
della conoscenza/visione di Dio, egli risponde: «Perché in questo, più
che in ogni altro momento, l’uomo è preparato e condotto a volgere
verso Dio tutta la sua attenzione, desiderando e ricevendo la sua pietà
[...]. Nel tempo della preghiera, lo spirito contemplativo è attento so
lo a Dio, tende verso di lui con tutti i suoi movimenti, e non cessa di
rivolgergli con fervore e calore le suppliche del cuore. È, dunque, in
questo tempo in cui l’anima si applica all’unico necessario che dovrà
sgorgare la benevolenza divina»371. Ecco perché i Padri raccomanda
no costantemente di essere attenti alla preghiera372, perché la preghie
ra pura deriva anche dall’attenzione373. Qui l’attenzione assume la for
ma di una perfetta attenzione a Dio, e la vigilanza consiste nel veglia
re per essere sempre completamente presenti a lui374. Attenzione e
vigilanza perseguono come fine il perfetto raccoglimento dello spiri
to375 e, più ancora, la concentrazione di tutte le facoltà dell’uomo in
Dio nella preghiera. Abbiamo visto, infatti, che uno degli effetti che
cerca di ottenere il «metodo di orazione esicasta» è quello dell’unio
ne tra spirito e cuore nella preghiera, in modo che tutto l’uomo (con
tutte le facoltà della sua anima e del suo corpo) preghi con purezza e
divenga totalmente preghiera pura.
Quando, dunque, i Padri dicono che la conoscenza/visione di Dio
è data all’uomo che ha raggiunto lo stato della preghiera pura, essi in
tendono con questo, da una parte, lo stato di un uomo che prega con
il cuore puro da ogni passione e con lo spirito puro da ogni rappre
sentazione, e, dall’altra parte, lo stato di un uomo perfettamente at
tento a Dio376, ossia di un uomo in cui non solo tutto il potere del pen
siero è concentrato nella preghiera e attraverso essa in Dio, ma in cui,
inoltre, tutto l’essere, attraverso il cuore che è il suo centro e al quale
lo spirito è unito, è divenuto preghiera. È così che l’uomo intero può
,71 Ibid.
372Vedi per esempio Apoftegmi, XI, 87. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 90; 94. Fl-
LOTEO IL S in AITA, Quaranta capitoli neptici, 4. L’associazione dei termini proseuche e prosoche
è molto frequente. La troviamo in particolare nel titolo del celebre trattato falsamente attribui
to a SlMEONE IL N uovo T eologo : Metodo della santa orazione e attenzione.
373 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 149.
374 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 4; 7; 106. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla Genesi, XXX,
5; Omelia sulla Settimana Santa, 5; Commento a san Matteo, XLX, 2. CALLINICO, Vita di Ipazio,
48. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), IX, 11. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnosti
ci, 56. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,8; HI, 50-51. E sicm o di B atos, Capitoli
sulla vigilanza, 98.
375 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVIII, 34.
376 E così che san Niceforo il Solitario scrive: «L’attenzione è il principio della contempla
zione o, meglio, la sua base permanente» (Trattato sulla vigilanza).
769
ricevere questa visione/contemplazione, e può completamente, spiri
to, anima e corpo, essere deificato da essa.
È in queste condizioni che l’anima, come afferma san Gregorio Pa-
lamas, «servendosi della preghiera come di una serratura, penetra gra
zie a essa [nei] misteri che l’occhio non ha visto [...], manifestati dal
solo Spirito a coloro che ne sono degni»377. Al vertice della preghiera
pura, possiamo distinguere due stati, spiega san Massimo: «Indizi del
primo stato: lo spirito si raccoglie, si astrae da tutti i pensieri del mon
do e, nel pensiero che Dio è presente - ed egli in realtà lo è -, prega
senza distrazioni né turbamenti»378. Quando l’uomo che ha raggiunto
questo stato è ritenuto degno da Dio, egli accede al secondo, il quale
è il dono, che appare bruscamente e in modo imprevedibile, della vi
sione di Dio nella luce. «Indizi [di questo] secondo stato: lo spirito è
rapito, nello slancio stesso della preghiera, dall’infinita luce di Dio;
perde ogni senso e di se stesso e degli altri esseri, eccetto di Colui che
con l’amore opera in lui questa illuminazione»379.
770
le cose divine, è la potenza dello Spirito Santissimo che le compie per
grazia, quando essa viene ad abitare in noi. Ma all’inizio, a causa del
peccato, il Maligno ha inchiodato queste facoltà alla natura delle cose
visibili. Così, non vi era un solo uomo che ascoltasse e cercasse Dio,
perché tutto quanto riguardava la natura aveva la potenza della sua in
telligenza e della sua ragione rinchiusa nella manifestazione delle co
se sensibili, e non possedeva alcuna nozione delle cose elevate sopra
i sensi. È, dunque, a giusto titolo che la grazia dello Spirito Santissi
mo, in coloro che non si erano deliberatamente sottomessi all’errore
nella loro vita interiore, ha ristabilito la potenza che era stata inchio
data alle cose materiali, dopo averla da esse distaccata. Dotati di que
sta facoltà nel suo stato originale di purezza, questi uomini hanno pri
ma pregato e poi hanno cercato di scoprire e di conoscere, con l’aiu
to della grazia. In seguito, essi hanno potuto cercare e conoscere più
profondamente: per la grazia stessa dello Spirito»380. Altri Padri sot
tolineano ugualmente la necessità per le facoltà umane, e in partico
lare per lo spirito (noiis), di essere purificate, di ritrovare la loro con
dizione naturale, in altri termini di essere in buona salute, al fine di es
sere disposte a ricevere l’energia dello Spirito Santo che opererà
nell’anima la conoscenza/visione di Dio. «La luce del sole attrae l’oc
chio sano. Allo stesso modo la conoscenza di Dio attrae naturalmen
te a sé, con la carità, lo spirito purificato», nota san Massimo381. San
Basilio Magno si esprime in modo simile: «Come la potenza di vede
re risiede nell’occhio sano, così l’energia dello Spirito è nell’anima pu
rificata»382. Sant’Isacco il Siro così scrive a questo proposito: «La con
templazione mistica si rivela allo spirito dopo che l’anima ha recupe
rato la salute»383; «lo spirito che vede i misteri nascosti dello Spirito,
se però ha conservato in sé la salute della sua natura, contempla per
fettamente la gloria del Cristo»384.
E i Padri ricordano che la salute dell’anima, che dispone l’uomo
al dono della conoscenza di Dio, è il frutto dell’ascesi. «La cono
scenza nasce dalla salute dell’anima» e «la salute dell’anima è una po
tenza che proviene da una lunga pazienza», osserva sant’Isacco385. A
407Lettere, 84.
m Ibid., 4.
775
CONCLUSIONE
Sacra Scrittura
Antico Testamento: La versione di base è l’antica versione greca dei Settan
ta, testo di riferimento per i Padri greci e ancora oggi per la Chiesa orto
dossa. Testo stabilito da A. Rahlfs, Septuaginta, Stuttgart 1926.
Nuovo Testamento: Testo greco stabilito da E. Nesde e K. Aland, Novum Te-
stamentum Graece, Stuttgart 1963.
Testi conciliari
D enzinger (H.), Enchiridion symbolorum, Freiburg im Breisgau 196534.
MANSI (J. D.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima colleetio, Firenze
1759s.
Testi liturgici
La prière des Églises de rite byzantin: L'office divin, la liturgie, les sacrements,
Chevetogne 1937; Les fêtes fixes, Chevetogne 1953; Les fêtes mobiles, Che-
vetogne 1948; LOffice selon les huit tons, Chevetogne 1972; La prière des
heures, Chevetogne 1975.
Fond patristiche
Vengono indicati i nomi ed eventualmente soprannome/i dell’autore, testo/i di riferimento,
traduzione/i francesi utilizzate dall’autore nella presente opera; le versioni italiane vengono in
dicate tra parentesi quadre: [...].
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lano 1995].
Introduzione pag. 5
PASTE PRIMA
PREMESSE ANTROPOLOGICHE
SALUTE ORIGINALE E ORIGINE DELLE MALATTIE
PARTESECONDA
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI
DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
810
PARTETERZA
CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
PARTEQUARTA
APPLICAZIONE DELLA TERAPIA
PARTE QUINTA
TERAPIA DELLE PASSIONI E ACQUISTO DELLE VIRTÙ
PARTE SESTA
LA SALUTE RITROVATA
Conclusione » 777
Bibliografia » 783
813