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Jean-Claude Larchet

TERAPIA-------
DELLE MALATTIE
SPIRITUALI
Un introduzione alla tradizione ascetica
della Chiesa ortodossa

SAN PAOLO
Spiritualità

Dalle origini del cristianesimo, la “salute” è stata considerata


dai Padri della Chiesa come una guarigione portata dal Cristo,
medico delle anime e dei corpi, all’umanità malata. Tale conce­
zione, che trova nella Sacra Scrittura e nella liturgia un solido
fondamento, è stata fatta propria dalla tradizione ascetica del­
l’Oriente cristiano, al punto da costituire un vero metodo dia­
gnostico e terapeutico delle malattie spirituali.
Questo metodo fu messo a punto nel corso del tempo, sulla
base dell’antropologia cristiana elaborata dai Padri, da genera­
zioni di spirituali, ! quali hanno esplorato l’anima umana nei suoi
angoli più reconditi, hanno appreso a dominare tutti i suoi mo­
vimenti e si sono impegnati a trasformarla. Tale metodo ha pro­
gressivamente raggiunto una coerenza, una precisione e una pro­
fondità che ci lasciano sbalorditi.
E quanto viene messo in luce con estremo rigore e notevole
chiarezza in questo studio, veramente originale, che costituisce!
una vasta sintesi degli insegnamenti patristici e ascetici orientali
dal II al XVI secolo. È una rinnovata visione della dottrina cri­
stiana della “salute” che ci viene offerta da questo voluminoso
trattato, teorico e pratico ad un tempo, di psicologia e di medici­
na spirituali. Esso è una vera summa, di cui finora non esisteva
l’eguale, della spiritualità ortodossa.

ISBN 88-215-4930-5

€ 42,00
Titolo originale delTopera:
Thérapeutique des maladies spirituelles. Une introduction
à la tradition ascétique de l'Église orthodoxe
»Les Éditions du Cerf, Paris 19973

Traduzione dal francese


di Luigi Borriello

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2003


Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 -10153 Torino
INTRODUZIONE

H fine del cristianesimo è la deificazione dell’uomo. «Dio si è fatto


uomo perché l’uomo divenga dio»: questa è la formula con la quale i
Padri1, per secoli, hanno molte volte riassunto il significato dell’In­
carnazione del Verbo.
Unendo nella sua Persona divina, senza confondere né separare la
natura divina da quella umana, il Cristo ha ricondotto questa al suo
stato primitivo, apparendo così come nuovo Adamo, e inoltre l’ha ri­
condotta alla perfezione alla quale essa è destinata: la perfetta somi­
glianza con Dio, la partecipazione alla natura divina (2Pt 1,4). Egli ha
così permesso a ogni persona umana che, nella Chiesa suo corpo, è
unita a lui per mezzo dello Spirito, di divenire dio per grazia.
Nell’economia della Santissima Trinità, che mira alla deificazione
dell’uomo e in questi all’unione con Dio di tutti gli esseri della crea­
zione2, l’opera propriamente redentrice del Cristo, che in particolare
consiste nella sua passione, morte e risurrezione, costituisce un mo­
mento essenziale, quello della nostra salvezza: per suo mezzo il Dio-
uomo ha liberato la natura umana dalla tirannia del diavolo e dei de­
moni, ha distrutto il potere del peccato, e ha vinto la morte, abolendo
così tutte le barriere che dopo il peccato originale separavano l’uo­
mo da Dio e gli impedivano di unirsi pienamente a lui.
Come ha fatto notare Vladimir Lossky3, il pensiero teologico occi­
dentale ha interpretato quest’opera redentrice e salvifica del Cristo in
termini essenzialmente giuridici.
1Per esempio: IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, V, Prefazione. A tanasio d ’A lessandria ,
Discorso contro gli Ariani, I, 54. GREGORIO NAZIANZENO, Poesie dogmatiche, X, 5-9. BASILIO
di C esarea, citato da G regorio N azianzeno , Discorsi, XLm, 48. G regorio di N b sa , Discorso
catechetico, XXV. ClRILLO D’ALESSANDRIA, Il Cristo è uno, SC 97, p. 328.
2 È questo uno dei principali temi dell’opera di san Massimo il Confessore. Vedi il nostro
studio: ha divinisation de l’homme selon saint Maxime le Confesseur, Paris 1996, pp. 83-123.
Su questo tema nei suoi predecessori, vedi ibid., pp. 20-59.
À Vimage et àia ressemblance de Dieu, Paris 1967, pp. 95-108.
5
La comprensione della redenzione in termini di riscatto trova sicu­
ramente il suo fondamento nelle Sacre Scritture e, in particolare,
nelle lettere di san Paolo. Ma ciò non deve farci dimenticare che, co­
me fa notare Vladimir Lossky, «in generale, nei Padri come nelle Scrit­
ture, troviamo molte immagini per esprimere il mistero della nostra
salvezza compiuta dal Cristo. Così, nel Vangelo, il Buon Pastore è
un’immagine “bucolica” dell’opera del Cristo; l’uomo forte, vinto da
qualcuno più forte di lui alza le sue armi e distrugge il suo dominio,
è un’immagine bellica che ritorna spesso nei Padri e nella liturgia: il
Cristo vittorioso su Satana, che spezza le porte dell’inferno e fa della
croce la sua bandiera. Un’immagine medica, quella della natura ma­
lata guarita dall’antidoto della salvezza; un’immagine che si potrebbe
chiamare “diplomatica” - quella della scaltrezza divina che sventa l’a­
stuzia del demonio, ecc.»4. Certo, «l’immagine impiegata molto spes­
so, attinta da san Paolo nell’Antico Testamento, è tratta dall’ambito
delle relazioni giuridiche», ma «assunta in questo senso particolare, la
redenzione è un’immagine giuridica dell’opera del Cristo, accanto a
molte altre immagini possibili»; «impiegando il termine redenzione
[...], nel senso di un termine generico che indica l’opera salvifica del
Cristo in tutta la sua ampiezza, non bisogna dimenticare che questa
espressione giuridica ha un carattere figurato: il Cristo è redentore al­
lo stesso titolo che è un guerriero vittorioso sulla morte, un sacrifica­
tore perfetto, ecc.»5. L’esclusivo uso dell’immagine del riscatto e la sua
comprensione in un senso troppo stretto manifesta subito le sue in­
sufficienze e porta anche a inconseguenze teologiche, come ha parti­
colarmente sottolineato san Gregorio Nazianzeno6.
Uno dei nostri intenti, in quest’opera, è quello di mostrare tutta
l’importanza che riveste nella tradizione ortodossa ciò che Vladimir
Lossky chiama «immagine medica». Se i Padri, come vedremo, ne han­
no fatto un uso così frequente nei loro insegnamenti, se la si ritrova in
moltissimi testi liturgici in uso nella Chiesa ortodossa come nel testo
del rituale della maggior parte dei suoi sacramenti, se molti Concili
l’hanno inserita nei loro canoni, in breve se essa è accolta da tutta la
Tradizione, è perché essa costituisce, noi lo dimostreremo, una ma­
niera particolarmente adeguata di rappresentare il modo della nostra
salvezza, con un valore almeno equivalente a quello del riscatto.
4 Loc. c i t pp. 97-98.
5Ibid., p. 98.
6 Discorsi, XLV, 22.
6
Questa immagine possiede, peraltro, un fondamento scritturistico
particolarmente solido. Il Redentore è anche il Salvatore; se noi siamo
riscattati, siamo anche salvati: ora si dimentica troppo spesso che il
verbo som (salvare), frequentemente usato nel Nuovo Testamento, si­
gnifica, non solo «liberare» o «trarre fuori da un pericolo», ma an­
che «guarire», e che il termine sòtèria (salvezza) indica non solo la li­
berazione, ma anche la guarigione7. Il nome stesso di Gesù significa
«Jhwh salva» (cfr. Mt 1,21; At 4,12), in altre parole, dunque: «guari­
sce». E il Cristo presenta se stesso, molto direttamente, come un me­
dico (cfr. Mt 8,16-17; 9,12; Me 2,17; Le4,18.23). Del resto, è come ta­
le che spesso i profeti lo annunciano (cfr. Is 53,5; Sai 102,3) e che gli
evangelisti lo caratterizzano (cfr. Mt 8,16-17); la stessa parabola evan­
gelica del Buon Samaritano può essere a buon diritto considerata co­
me una rappresentazione del Cristo Medico8. Durante la sua vita ter­
rena, infine, diversi suoi contemporanei andarono da lui come verso
un medico9.
I Padri, quasi unanimemente, e fin dai primi secoli, gli attribui­
ranno in modo corrente il nome di Medico, aggiungendovi spesso i
qualificativi di «grande», «celeste», «supremo», precisando inoltre, se­
condo il contesto: «dei corpi», «delle anime», più frequentemente «del­
le anime e dei corpi», sottolineando che è tutto l’uomo che egli è ve­
nuto a guarire. Questa definizione appare al centro stesso della litur­
gia di san Giovanni Crisostomo e nella maggior parte delle formule
sacramentali. La si ritrova costantemente in quasi tutti i servizi litur­
gici della Chiesa ortodossa e in molte formule di preghiera.
Se il Cristo appare come un medico e la salvezza che egli porta
come una guarigione, ciò vuol dire che l’umanità è malata. Osser­
vando nello stato adamico primordiale lo stato di salute dell’umanità,
i Padri e tutta la Tradizione vedono nello stato di peccato che carat­
terizza l’umanità decaduta in seguito al peccato originale uno stato
di malattia multiforme che colpisce l’uomo in tutto il suo essere. Que­
sta concezione di un’umanità malata di peccato trova un fondamen­
to scritturistico (Mie 7,2; Is 1,6; Ger 8,22; 28,9; Sai 13,7; 143,5) ap­
profondito dai Padri. Questi, sulla scia dei profeti, ricordano l’impo­
7 Si può sottolineare che questo duplice significato si ritrova in copto, e ai nostri giorni nel­
la lingua italiana in cui «salute» indica sia «salvezza» che «salute».
8 Cfr. ORIGENE, Omelie su san Luca, XXXIV; Commento a san Giovanni, XX, 28.
9Cfr. A. H arnak , Medicinisches aus der ältesten Kirchengeschichte, TU VIH, 4, Leipzig 1892,
pp. 37-147.
7
tenza degli uomini dell’Antica Alleanza a trovare un rimedio ai loro
mali, tanto questi sono gravi; ricordano, altresì, la loro invocazione a
Dio lungo le generazioni e la risposta favorevole di Dio che ha volu­
to l’Incarnazione del Verbo l’unico, perché Dio, in grado di compie­
re la guarigione che essi attendevano.
È così che in questi momenti diversi, l’opera salvifica di Dio-uo-
mo appare come il processo della guarigione, nella sua persona, del­
l’intera umanità che egli ha assunto e della restituzione all’umanità del­
lo stato di salute spirituale che essa ha in origine conosciuto. In que­
sto modo, il Cristo ha portato alla perfezione della deificazione la natura
umana così restaurata.
Questa salute/guarigione di tutta l’umanità e la sua deificazione com­
piuta nella persona del Verbo di Dio incarnato sono offerte dallo Spi­
rito Santo a ogni battezzato che nella Chiesa si unisce al Cristo. Ma
tutto ciò è in potenza nel battezzato: questi deve assimilare tale dono
in tutto il suo essere. In questo consiste il ruolo della vita spirituale e
dell’ascesi.
L’ascesi nella Chiesa ortodossa non ha quel senso stretto che spes­
so le viene assegnato in Occidente. Indica piuttosto ciò che ogni cri­
stiano deve compiere per beneficiare effettivamente della salvezza por­
tata dal Cristo. Agli occhi della grande Tradizione della Chiesa orto­
dossa, l’opera della salvezza appare come una sinergia tra la grazia
divina donata dallo Spirito Santo e lo sforzo che ogni battezzato de­
ve personalmente compiere per aprirsi a questa grazia e appropriar­
sene, sforzo che si compie in tutta la vita, in ogni momento e in tutti
gli atti dell’esistenza. Del resto, il termine greco askèsis significa: «eser­
cizio», «allenamento», «pratica», «genere di vita». Più ancora che que­
sto, i termini che gli corrispondono in russo: podvig, podvijnitchest-
vo, derivati dal verbo slavo po-dvizatsia che significa: «muoversi in
avanti», «andare avanti», traducono una concezione principalmente
dinamica della vita spirituale e rivelano che questa è concepita come
un processo di crescita, cioè quello dell’attualizzazione progressiva del­
la grazia ricevuta nei sacramenti e in particolare nel battesimo, o an­
cora quello dell’assimilazione progressiva della grazia dello Spirito che
incorpora effettivamente il battezzato al Cristo morto e risorto, per­
mettendogli di appropriarsi personalmente la natura umana restaura­
ta e deificata nella persona di Dio-uomo.
Attraverso l’ascesi teantropica il cristiano, per la grazia dello Spiri­
to, muore, risorge ed è glorificato con il Cristo; cessa di essere un
8
uomo decaduto e diviene un «uomo nuovo»; si spoglia deU’«uomo
vecchio» e si «riveste del Cristo»; attualizza lo scambio che il battesi­
mo ha potenzialmente realizzato in lui della natura decaduta con la
natura restaurata e deificata in Cristo.
La salvezza operata dal Cristo essendo concepita dalla Tradizione
come guarigione della natura umana malata nonché come restaura­
zione della salute primordiale, è logico che l’ascesi, per mezzo della
quale l’uomo fa sua questa grazia, venga altresì considerata come un
processo di guarigione dell’uomo e del suo ritorno alla salute.
Si è colpiti, leggendo i Padri, nel constatare che questi, senza ec­
cezione e molto frequentemente, ricorrono a categorie mediche per
descrivere le diverse modalità dell’ascesi, al punto tale che questa è
sembrata poter essere sistematicamente presentata come una terapia
perfettamente elaborata, definendosi peraltro l’ascesi stessa, al pari
della medicina, come un’arte nel senso antico di «tecnica» (questo del
resto è un altro significato del termine greco àskèsis), e anche, secon­
do un’espressione divenuta tradizionale, come «l’arte delle arti e la
scienza delle scienze». Gli insegnamenti patristici presentano, altresì,
l’ascesi usando le categorie della lotta, del combattimento (àthlésis e
agon, che hanno questo significato oltre quello di «sforzo» e di «alle­
namento», apparendo spesso come degli equivalenti di àskèsis): ma noi
possiamo osservare, senza pretendere di ricondurre queste ultime
categorie alle precedenti, che esse ne sono complementari, poiché la
medicina ha lo scopo di attaccarsi alle cause delle malattie, di lottare
contro le malattie, e di vincerle, utilizzando l’attuazione di una strate­
gia e l’impiego di un arsenale terapeutico, ecc.
L’espressione delle modalità della salvezza dell’uomo in termini di
terapia e di guarigione è spesso considerata da alcuni studiosi con­
temporanei come una semplice immagine. Questo in qualche caso è
vero, ma in molti altri occorre parlare di un simbolo, fondato sull’a­
nalogia naturale che vige tra le malattie corporee o psichiche e le
malattie spirituali. Ci proponiamo di dimostrare che le categorie me­
diche usate si applicano direttamente al loro oggetto e sono perfetta­
mente adeguate alla sua stessa natura: la natura umana decaduta è ve­
ramente malata spiritualmente, ed è una vera guarigione di questa che
si realizza nel Cristo per lo Spirito per mezzo della vita sacramentale
e dell’ascesi.
Vi è certamente qualche difficoltà ad ammetterlo: l’uomo decadu­
to è spontaneamente incosciente del suo stato spirituale; le sue malat­
9
tie in quanto spirituali non sono apparenti come le malattie fisiche o
le malattie mentali. Ed è a questo livello che la simbologia gioca un
ruolo indispensabile.
È nostro intento, però, in questa ricerca, dimostrare come l’asceti­
ca ortodossa presenti una descrizione molto dettagliata della condi­
zione di malattia dell’uomo decaduto, descrizione che costituisce,
sul piano spirituale in cui essa si situa, una vera semiologia e anche, in
ragione del suo carattere sistematico e coerente, un’autentica nosolo­
gia medica. Questo appare in particolare nella classificazione e nella
descrizione delle passioni (della loro natura, delle loro cause e degli
effetti) che i Padri indicano costantemente ed esplicitamente come
«malattie spirituali»: il termine pàthos, che significa «malattia», porta
già in sé questa connotazione.
Una tale nosologia è necessaria per considerare in modo efficace la
terapia e ottenere la guarigione, cose che costituiscono lo scopo del-
l’ascesi. Ci proponiamo di mostrare, quindi, che è in modo del tutto
sistematico e metodico che l’ascetica ortodossa presenta questa tera­
pia, il che la fa apparire come una vera medicina spirituale dell’uo­
mo totale. Vedremo, del resto, che coloro che si dedicano all’ascesi so­
no solitamente indicati nei testi patristici come terapeuti; terapeuti
di se stessi innanzitutto, poi, quando sono progrediti sulla via dell’a-
scesi e sufficientemente esperti, di coloro che vengono a chiedere lo­
ro l’aiuto per guarire dalle malattie proprie: è così che nei testi patri­
stici, i Padri spirituali sono abitualmente chiamati «medici».
Tuttavia, se la definizione della terapia spirituale presuppone una
precisa conoscenza delle malattie e delle loro cause, questa stessa co­
noscenza esige che si abbia una nozione precisa di ciò che è la malat­
tia dell’uomo, poiché la nozione di malattia non acquista il suo senso
se non in rapporto a questa. La terapia, in quanto mira al ristabilimento
o all’acquisizione della salute, suppone anche che questa sia chiara­
mente definita. Ecco perché inizieremo col presentare la concezione
patristica di salute dell’uomo, concezione che ci guiderà lungo tutta la
nostra ricerca.
La nozione che l’antropologia ortodossa ha della salute dell’uomo
è indissociabile da quella di una natura umana ideale posseduta dal­
l’Adamo originale e, dovendo essere condotta da lui, nella sinergia tra
la sua libera volontà e la grazia divina, alla sua perfezione, quella del­
la deificazione. Ciò vuol dire che la natura umana ha un senso, che si
trova nelle sue diverse componenti: essa è naturalmente orientata ver­
so Dio ed ha come destino di trovare in lui il proprio compimento.
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Mostreremo come, secondo l’antropologia ascetica ortodossa, l’uomo
è in uno stato di salute quando realizza il suo destino e quando le
sue facoltà si esercitano conformemente a questa finalità naturale, e
come il peccato, concepito quale separazione da Dio, allontanando
l’uomo da questo fine che gli è essenziale, instaura in lui uno stato mul­
tiforme di malattia, che si caratterizza particolarmente con l’uso per­
verso, contro natura, di tutte le sue facoltà. Vedremo, perciò, come l’a­
scesi teantropica per mezzo della quale l’uomo si converte ontologi­
camente, costituisce una vera terapia in quanto essa gli permette di
riallontanarsi da questo stato patologico contro natura e di recupera­
re la salute della sua natura originale nel ritornare verso Dio.
PARTE PRIMA

PREMESSE ANTROPOLOGICHE
SALUTE ORIGINALE
E ORIGINE DELLE MALATTIE
I
LA SALUTE ORIGINALE DELL’UOMO

I Padri accomunano la salute dell’uomo allo stato di perfezione al


quale egli è destinato per sua natura. Ora, la perfezione per l’essere
umano consiste nell’essere deificato: è iscritto nella sua stessa natura
divenire dio per grazia. Dio, infatti, ha creato l’uomo a sua immagine
e somiglianza (cfr. Gn 1,26) e gli ha dato, fin dall’origine, iscrivendo­
la nel suo stesso essere, la possibilità di conformarsi totalmente a lui.
«Io riflettei: Siete dèi», ci dice attraverso la voce del salmista (Sai
82[81],6). L’uomo è una creatura che ha ricevuto il comandamento di
divenire Dio, afferma san Basilio Magno1. E san Gregorio Nazianze-
no scrive: «Quando il Figlio immortale [...] ebbe creato l’uomo, gli
diede come fine quello di essere egli stesso dio»2.
Al momento della sua creazione, l’uomo possedeva già una certa
perfezione; quella innanzitutto delle sue facoltà spirituali, e in parti­
colare la sua intelligenza, imitazione di quella di Dio3, capace di fargli
conoscere il suo Creatore; la sua volontà libera creata a immagine di
quella di Dio e che lo rende capace di orientare tutto il suo essere ver­
so di Dio. Tutte le sue potenze di desiderio e d’amore, tratti riprodotti
in lui della carità divina4, gli permettono di unirsi a Dio.
La perfezione delle sue facoltà proviene, da una parte, dal fatto che
esse sono create da Dio ad immagine delle sue stesse facoltà e che
sono nell’uomo un’icona delle facoltà divine, e dall’altra, dal fatto che
creano in lui la capacità di assimilarsi completamente a Dio, a condi­
zione tuttavia che non si allontanino da lui pur se ne hanno la li­
bertà, ma si aprano permanentemente e totalmente alla sua grazia.
La relativa perfezione, che l’uomo possedeva al momento della sua
1 Citato da GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, X IH I, 48.
2Poesie, I, I, vm .
3 Cfr. per esempio GREGORIO DI NlSSA, La creazione dell’uomo, V, PG 4 4 , 137BC. NlCETA
S te ta to s, Centurie, IH, 4; 12.
4 Ibid.

15
creazione, non consiste solo nella semplice capacità, conferitagli dal­
le sue facoltà, di unirsi a Dio: Adamo fu creato realizzando già, in qual­
che misura, la somiglianza a Dio che aveva l’incombenza di portare a
compimento. Fin dall’origine, egli era rivolto verso Dio5 e possede­
va, nella sua stessa natura, creata a immagine di Dio, tutte le virtù. San
Gregorio di Nissa scrive: «È ad immagine di Dio che l’uomo è stato
creato, il che equivale a dire: [Dio] ha reso la natura umana partecipe
di ogni bene. [...] C’è in noi, dunque, ogni sorta di bene, ogni virtù,
ogni sapienza e tutto ciò che si può pensare di meglio»6. San Doro-
teo di Gaza insegna la stessa cosa: «Dio ha fatto l’uomo a sua imma­
gine, cioè [...] rivestito di ogni virtù»7. In san Giovanni Damasceno
si legge: «Dio ha fatto l’uomo [...] adorno di ogni virtù e ricco di ogni
bene»8. Anche san Massimo annota: «Le virtù sono inerenti all’anima
a motivo della creazione»9.
E, dunque, per natura che l’uomo è virtuoso: «Per natura posse­
diamo le virtù che ci sono state date da Dio. Creando l’uomo, Dio le
ha poste in lui»; «Dio, dunque, ci ha dato le virtù con la materia», pre­
cisa san Doroteo di Gaza10. «La virtù è connaturale all’anima», os­
serva sant’Isacco il Siro11. «Le virtù sono naturali nell’uomo», scrive
ancora san Giovanni Damasceno12.
I Padri, nel sottolineare particolarmente il fatto che le virtù sono
inerenti alla stessa natura dell’uomo e non qualità che gli saranno, in
un modo o nell’altro, date in aggiunta, hanno tuttavia a questo riguardo
una concezione dinamica: le virtù non sono date all’uomo piena­
mente compiute; esse appartengono alla sua natura solo in quanto è
nella sua finalità realizzarle, in quanto esse costituiscono il compimento
e la perfezione di questa natura, ma la loro realizzazione suppone la
partecipazione attiva dell’uomo al disegno di Dio, la collaborazione di
tutte le sue facoltà alla volontà divina, la libera apertura del suo esse­
re totale alla grazia di Dio. L’uomo è stato creato con la possibilità di
realizzare queste virtù e iniziandone già la realizzazione. Egli le pos­

5 Cfr. M assimo il C onfessore , Ambigua, 48, PG 91,1361 A; Questioni a Talassio, 40, PG


90,396A.
6La creazione dell’uomo, IV, PG 44,136CD. Cfr. ibid., 184B.
7Istruzioni spirituali, I, 1.
8Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12.
9Disputa con Pirro, PG 91, 309C. Cfr. Centurie sulla carità, III, 27. Vedi anche ANTONIO
E remita, Lettere, 1,1. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 90.
10Istruzioni spirituali, XII, 134.
11 Discorsi ascetici, 83.
12Esposizione esatta della fede ortodossa, ITE, 14.
16
sedeva in germe13, ma doveva farle crescere per portarle al loro com­
pimento. E in questo senso che i Padri interpretarono il comanda­
mento divino dato ad Adamo ed Èva: «Siate fecondi e moltiplicatevi»
(Gn 1,28). Ed è per questo che essi dicono che, in paradiso, «l’uomo
era molto piccolo, perché era bambino e doveva, sviluppandosi, giun­
gere allo stato adulto»14. Per manifestare questo carattere dinamico
dell’acquisizione delle virtù e della deificazione, la maggior parte dei
Padri, a differenza di san Gregorio di Nissa, distingue l’immagine e la
somiglianza. In base a questa distinzione, l’immagine di Dio nell’uo­
mo definisce l’insieme delle possibilità di realizzare la somiglianza, la
potenzialità della somiglianza a Dio, mentre la somiglianza è costitui­
ta dal compimento dell’immagine; consiste cioè nel fiorire di questa
conforme alla sua natura integrale; sta nella realizzazione della sua per­
fezione. Mentre l’immagine è attuale, la somiglianza è virtuale, essa
si realizzerà attraverso la libera partecipazione dell’uomo alla grazia
deificante di Dio. Ecco ciò che afferma san Basilio Magno: «“Creia­
mo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”: noi possediamo l’una
per creazione, acquisteremo l’altra per mezzo della volontà. Nella pri­
ma struttura, ci è dato di essere nati ad immagine di Dio; per mezzo
della volontà si forma in noi l’essere a somiglianza di Dio. Ciò che pro­
viene dalla volontà, la nostra natura lo possiede in potenza, ma è agen­
do che noi ce lo procuriamo. Se creandoci il Signore non avesse pre­
so in anticipo la precauzione di dire “creiamo” e “a somiglianza”, se
non ci avesse gratificati con la potenza di divenire a somiglianza, con
le nostre capacità non avremmo mai attinto la somiglianza a Dio. Ma
ecco che egli ci ha creati capaci in potenza di somigliare a lui. Do­
nandoci la potenza di somigliare a Dio, ha permesso che fossimo gli
artefici della somiglianza a Dio, affinché ci giunga la ricompensa del
nostro lavoro, affinché non fossimo come quegli oggetti usciti dalla
mano del pittore, oggetti inerti, perché il risultato della nostra somi­
glianza non vada a lode di un altro. Infatti, quando tu vedi il ritratto
esattamente conforme al modello, tu non lodi il ritratto, ma ammiri
il pittore. Così, dunque, affinché sia io oggetto d’ammirazione e non
un altro, egli mi ha lasciato il compito di diventare a somiglianza di
Dio. Infatti, per mezzo dell’immagine, io possiedo l’essere razionale,

13Cfr. per esempio GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, II, 17; EVAGRIO PONTICO, Centurie
gnostiche, I, 39.
14 Cfr. IRENEO DI LIONE, Dimostrazione della predicazione apostolica, 12; Contro le eresie,
IV, 38, .1-2. T eofilo d ’A ntiochia , A Autolico, II, 25. M acario d 'E gitto , Capitoli parafrasati,
50; M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 ,257D.

17
e divento a somiglianza divenendo cristiano»15. San Gregorio Nazian-
zeno afferma, in maniera simile, la necessaria partecipazione dell’uo­
mo all’acquisizione del dono che Dio gli ha fatto. Egli scrive così: «L’a­
nima avrà l’oggetto della sua speranza come prezzo della sua virtù, e
non solo come dono di Dio. E proprio in ciò che occorre portare la
bontà al suo culmine come se il bene fosse anche nostra proprietà. Un
bene che non è solo un seme affidato alla natura, ma che è anche l’og­
getto di una cultura che dipende dalla nostra volontà»16.
I Padri che distinguono tra l’immagine e la somiglianza ricollegano
le virtù alla somiglianza17, volendo così dimostrare che queste devono
rivelarsi e svilupparsi dinamicamente attraverso la partecipazione at­
tiva e la costante collaborazione dell’uomo alla grazia deificante della
Santissima Trinità. Non si potrà, tuttavia, far corrispondere la distin­
zione immagine-somiglianza a una distinzione natura-sovranatura, in
cui la somiglianza sarebbe una sovranatura che si aggiungerebbe,
per grazia di Dio, a una natura che potrebbe essere concepita indi­
pendentemente da essa e che costituirebbe l’immagine. È naturale nel­
l’uomo, secondo i Padri, non solo l’immagine, ma anche la somiglianza:
è nella natura stessa dell’uomo somigliare a Dio; è nella stessa natura
dell’immagine condurre a termine la sua perfezione nella realizzazio­
ne della sua somiglianza, e l’uomo è stato creato, lo ripetiamo, per rea­
lizzare già naturalmente questa somiglianza per mezzo della virtù del­
l’immagine. La somiglianza non è un’aggiunta a una natura che po­
trebbe esistere normalmente indipendentemente da essa, ma uno
sviluppo della natura data nell’immagine. L’uomo, attraverso l’im­
magine di Dio che è in lui, è naturalmente, sebbene virtualmente, per­
fetto18ed è naturalmente capace di realizzare tale virtualità, di assi­
milarsi a Dio, perché tale è la finalità normale della sua esistenza, il
normale destino della sua stessa natura. E questo il senso dei coman­
damenti divini: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28); «Siate san­
ti per me, perché santo sono io» (Lv 20,26); «Siate perfetti, come per­
fetto è il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). Possiamo dunque di­
re, in senso dinamico, che l’uomo è naturalmente deiforme19.
15 Omelie sullorigine dell uomo, 1,16.
16Discorsi, II, 17. Cfr. Poesie, I, n, 9,90-91. Vedi anche GIOVANNI DAMASCENO, Discorso uti­
le all’anima.
17Per esempio, GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12. MAS­
SIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, DI, 25; Centurie sulla teologia e reconomiay1 ,13. DO­
ROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XII, 134. NlCETA STETATOS, Centurie, III, 8; 11.
18Cfr. GREGORIO DI N issa , Omelie sul Cantico dei Cantici, XV.
19Cfr. V. LOSSKY, Théologie mystique de VÉglise d’Orient, Paris 1944, pp. 96-97. M. L ot-Bo -
RODINE, La déification de l’homme, Paris 1970, pp. 188-191.

18
La somiglianza con Dio, se era stata data in potenza e si trovava
spontaneamente abbozzata nell’immagine, supponeva, per essere com­
piuta nella sua perfezione, che Adamo stesso volesse realizzarla inte­
gralmente. Frutto della collaborazione della volontà umana con la gra­
zia di Dio, essa non poteva essere che opera teantropica, realizzazio­
ne comune di Dio e dell’uomo volto verso di lui. L’uomo, infatti, in
virtù della perfezione che Dio aveva voluto per lui e iscritto nella sua
immagine in lui, possedeva una libertà totale che gli consentiva di unir­
si a Dio, ma anche di rifiutare di collaborare con lui per realizzare il
suo disegno20. Tuttavia, Dio gli aveva dato un ordine (cfr. Gn 2,16-17)
per aiutarlo a usare bene la sua libertà. Questa si manifestava in tutta
la perfezione della sua natura originaria, nella sua vera finalità, fino a
che si realizzava nella scelta costante e unica di Dio. Attraverso que­
sta scelta stabilmente mantenuta con il libero arbitrio, Adamo si con­
servava nel bene in cui era stato creato e se l’appropriava sempre più.
In questo stato primordiale, in cui realizzava la finalità vera della
sua natura, Adamo pregava Dio continuamente, lodando e glorificando
sempre il suo Creatore21, conformemente alla volontà di quest’ultimo22.
Coltivando con la sua anima pensieri divini e nutrendosi di essi23,
egli viveva in permanenza nella contemplazione di Dio24. Riconoscendo
la presenza dell’energia divina nelle creature, egli si elevava per mez­
zo di queste al Creatore25 e le elevava a sua volta verso Dio, lui che
ne era stato costituito re, realizzando così la sua funzione di «mediato­
re tra Dio e la materia»26, compiendo la missione che gli era stata asse­
gnata da Dio di unire il mondo sensibile al mondo intelligibile, di «riu­
nire per mezzo dell’amore la natura creata con la natura increata fa­
cendole apparire nell’unità e nell’identità»27. Vedendo Dio continua-
mente in ogni essere, egli lo vedeva anche in se stesso, perché la purez­
za della sua anima gli permetteva di contemplarvelo come in uno spec­
chio28. Egli poteva anche godere della visione di Dio a faccia a faccia29.
20Cfr. GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12.
21 Cfr. D oroteo di G aza, Istruzioni spirituali, 1, 1. G iovanni D amasceno , loc. cit., 11; 30.
22 G iovanni D amasceno , loc. cit., il.
23 Cfr. ibid., 30.
24 Cfr. A tan asio d ’A lessan dria, Contro ipagani, 2.
25 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 30.
26 GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. Cfr. 12. GREGORIO
NAZIANZENO, Discorsi, XXXVIII, 11; XLV, 7.
27 M assimo il C onfessore , Ambigua, 41.
28Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 2.
29 Cfr. GREGORIO DI N issa, Discorso catecheticOy 6. Sulla visione di Dio da parte di Adamo
vedi anche MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XLV, 1.
19
«Non essendovi nulla che gli impedisse di conoscere il divino, scrive
sant’Atanasio di Alessandria, la sua purezza gli permetteva di con­
templare continuamente l’immagine del Padre, il Verbo di Dio»30. Ada­
mo in questo stato «dimorava in Dio che dimorava in lui»31. Così, tut­
ti i Padri ci presentano il primo uomo che intrattiene con Dio relazioni
di familiarità (parrésta) e il libro della Genesi ce lo mostra mentre con­
versa ogni giorno con lui, in tutta libertà, nel paradiso. Circondato dal­
la grazia divina32, viveva in uno stato permanente di intenso godimento
spirituale: i Padri ricordano costantemente la dolcezza, le delizie, la
gioia, la felicità, la fortuna unite alla sua contemplazione33e derivanti
da questa relazione stretta con Dio che gli consentiva di partecipare
alla stessa beatitudine della vita divina. L’uomo, afferma sant’Atana­
sio di Alessandria, viveva allora «la sua vera vita»34, cioè quella per la
quale egli è stato creato, quella che costituisce la finalità normale
della sua vera natura.
Poiché Adamo unificava se stesso e unificava tutti gli altri esseri in
lui attraverso la continua contemplazione in ogni cosa di Dio Uno, non
vi erano affatto allora divisioni né nello stesso uomo, né tra l’uomo e
i suoi simili35, né tra l’uomo e gli altri esseri, né tra gli esseri stessi. Re­
gnava la pace in tutti e in tutto. L’uomo conduceva in paradiso una vi­
ta «senza tristezza, né dolore, né preoccupazioni»36; «possedendo i do­
ni di Dio e la potenza propria proveniente dal Verbo del Padre, [...]
egli viveva una vita senza inquietudini»37; «non doveva temere nessu­
na malattia interiore: nella sua carne una perfetta salute, nella sua ani­
ma una serenità perfetta»38; «febbre, agitazione, follia irrazionale e avi­
dità delle viscere, nulla di tutto questo esisteva: la vita era per lui
senza amarezza e l’esistenza senza tristezza»39.
Nel paradiso, l’uomo aveva «facoltà sane e stabili, nel loro stato na­
turale»40 e, mantenendosi nello stato naturale in cui era stato creato,
stato di unione permanente con Dio, egli possedeva l’integrità di que­
30 Contro i pagani, 2.
31 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 11.
32Ibid.
33 Cfr. ibid., 30. ATANASIO d ’A lessandria , Sull*Incarnazione del Verbo, 3; Contro i pagani,
2. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1 ,1.
34SuWlncarnazione del Verbo, 3.
35 Èva che rappresenta sia la sposa di Adamo che il suo prossimo.
36Atanasio d ’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, 3.
37Id., Contro i pagani, 2.
38A gostino d ’I ppona , La città di Dio, XIV, 26.
39 Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, XXV, 92-94.
40 I saia di Scete , Asceticon, II, 2.
20
ste facoltà41. «Un tempo, afferma san Gregorio di Nissa, il genere uma­
no così come lo si può concepire godeva della salute, perché gli ele­
menti - voglio dire i moti dell’anima - erano equilibrati secondo le leg­
gi della virtù»42.
Lo stato paradisiaco, in cui l’uomo viveva secondo la sua natura pri­
mordiale, appariva così come uno stato di salute, in cui l’uomo igno­
rava ogni forma di malattia sia nell’anima che nel corpo, e in cui egli
conduceva una vita totalmente normale, poiché conforme alla sua na­
tura e alla finalità vera di essa.
Con il peccato originale, Adamo si è allontanato dalla via in cui Dio
lo aveva posto al momento della sua creazione. L’uomo ha mancato lo
scopo che la sua stessa natura gli assegnava. Avendo smesso di ten­
dere con tutto il suo essere verso Dio e di aprire tutte le sue facoltà al­
la grazia increata di Dio, lo specchio della sua anima si è oscurato e ha
smesso di riflettere il suo Creatore. Poiché Adamo ha smesso di esse­
re partecipe della Fonte di ogni perfezione, in lui le virtù si sono in­
debolite ed egli ha perduto la somiglianza con Dio che aveva iniziato
a realizzare fin dal momento della sua creazione. L’immagine di Dio,
che non si può più perdere, sussiste nell’uomo decaduto43, ma non es­
sendo più iUuminata dall’unione attiva dell’uomo con Dio, non tro­
vando più il suo compimento nella realizzazione della somiglianza che
costituisce la sua finalità vera, essa è snaturata44 e velata45. Mentre il
cammino dell’uomo verso la sua perfezione nella luce dello Spirito la
rendeva splendente, il peccato di botto l’oscurò. L’uomo, da quel mo­
mento dimentica qual è la sua vera natura, ignora il suo vero destino,
non sa più quale sia la sua vera vita e perde ogni nozione della sua
salute originaria.
Benché l’umanità abbia potuto in seguito, grazie alle voci ispirate dei
profeti, ritrovare in qualche misura il senso di Dio, essa raggiunge solo
«un’ombra dei beni futuri, non l’immagine stessa delle cose» (Eb 10,1).
Solo per mezzo dell’Incarnazione del Cristo l’umanità viene pie-
41 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,1.
42 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
43 Vedi per esempio: ORIGENE, Omelie sulla Genesi, XIII, 4. MACARIO d ’EGITTO, Omelie
(Coll. Ili), XXVI, 5 , 1. G r e g o r io di N azian zo, Discorsi, XXVI, 10. G iovan ni D am asceno,
Discorso utile all’anima. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, V, 395-445. GREGORIO PALA-
MAS, Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 39.
44 G regorio di N azianzo , Discorsi, XXVI, 10.
45 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH) XXVI, 4 ,4 ; 5 ,1 .

21
riamente reintegrata nella sua natura originale e l’uomo ritrova la pos­
sibilità di realizzare la perfezione alla quale il Creatore lo ha destina­
to. Il Cristo, divenuto perfettamente uomo senza smettere di essere
Dio, restituisce alla natura umana, attraverso l’unione con essa della
sua natura divina nella sua Persona, la pienezza e l’integrità della sua
perfezione originaria condotta al suo compimento. È allora, per mez­
zo di Dio stesso nella Persona del suo Figlio, che si realizza imme­
diatamente e si rivela a tutti il destino ultimo dell’umanità, la perfe­
zione della natura umana unita intimamente e totalmente a Dio. Ada­
mo era solo «figura del futuro» (Rm 5,14), perché egli è venuto meno
al suo destino finale: il Cristo manifesta il compimento della promes­
sa, la porta alla sua perfezione. «Solo il Salvatore è il primo ad avere
realizzato l’uomo autentico e perfetto», scrive san Nicola Cabasilas46.
Immagine del Dio invisibile (cfr. Col 1,15), «irraggiamento della glo­
ria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3) nella quale abita corpo­
ralmente la pienezza della divinità (cfr. Col 2,9), Cristo rivela il senso
profondo della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio:
nella sua natura umana si manifesta la natura divina legata ad essa sen­
za separazione né confusione. Egli è il modello visibile e compiuto del­
l’Uomo Nuovo (cfr. E f 2,5), nel quale l’umanità decaduta è chiamata
a rinnovarsi, del quale ogni uomo è invitato a riprodurre l’immagine
(Rm 8,29) e ad acquisire la somiglianza47. Egli affermerà con la sua du­
plice natura di Dio-uomo che l’uomo è destinato ad essere uomo-dio:
«Dio si è fatto uomo affinché l’uomo possa divenire dio», proclama­
no i Padri48. In Cristo, Dio presenta se stesso all’uomo come norma
della sua perfezione e del suo destino; egli gli mostra con evidenza che
la sua natura è teantropica; gli rivela che l’uomo non è perfetto se non
unito a Dio - poiché nella Persona del Cristo è attraverso l’unione
alla natura divina che la natura umana è resa perfetta -, e che è solo
attraverso l’assimilazione al Cristo che l’uomo può realizzare in se stes­
so tale perfezione teantropica. L’uomo non è veramente uomo se
non essendo dio in Cristo.
Il Cristo è chiamato secondo Adamo non in quanto egli porterà al­
l’uomo un’altra natura e un altro destino diversi da quelli assegnati
46La vita in Cristo, VI, 94.
47 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 9.
48 Cfr. IRENEO DI L ione , Contro le eresie, V, Prefazione. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Sull'In­
carnazione del Verbo, 54. GREGORIO DI NAZIANZO, Poesie dogmatiche, X, 5-9. GREGORIO DI NlS-
SA, Discorso catechetico, 25; 27. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, V, 56-58. NICOLA
C abasilas, La vita in Cristo, VI, 64.

22
al primo Adamo, ma in quanto viene a compiere lui stesso quello
che Adamo per sua colpa non ha realizzato49.1 Padri affermano che
è ad immagine stessa del Logos, del Verbo di Dio, che Adamo è sta­
to creato50, e che il mistero stesso della creazione dell’uomo ad imma­
gine del Logos si riallaccia al mistero dell’adozione filiale dell’uomo
con Dio nel suo Figlio. Non vi è per l’uomo, fin dalla sua creazione,
che un solo fine naturale: la somiglianza al Cristo, norma del compi­
mento della sua natura, pienamente e chiaramente rivelata nell’In­
carnazione del Figlio. L’uomo è stato creato come essere «logico» (lo-
gikós) cioè razionale, ma più fondamentalmente come un essere cri­
stologico; logikós nei Padri significava conforme al Logos, al Verbo di
Dio. E i Padri arrivano ad affermare che l’uomo è stato creato non so­
lo ad immagine del Logos incarnato, del Cristo Dio e uomo, e che
esso ha fin dalla sua creazione come suo destino, per sua stessa natu­
ra, il tendere con tutto il suo essere ad assimilarsi attivamente al Cri­
sto51. San Nicola Cabasilas scrive: «La natura umana è stata creata
fin dall’origine in vista dell’Uomo Nuovo, l’intelligenza e il desiderio
dell’uomo sono stati creati per il Cristo: abbiamo ricevuto l’intelligenza
per conoscere il Cristo, il desiderio perché fossimo attratti verso di lui
e la memoria per portarlo in noi. Questo tanto più in quanto egli ha
fatto da modello per la nostra creazione. Infatti, non è il vecchio Ada­
mo che è stato figura (paràdeigma) del Nuovo, ma il Nuovo dell’anti­
co (cfr. Rm 5,14). Noi, che lo riconosciamo come nostro antenato, con­
sideriamo il primo Adamo l’archetipo della natura umana; ma per Co­
lui che ha davanti agli occhi tutti gli esseri, prima ancora che questi
esistessero, l’antenato non è che l’imitazione del nuovo Adamo. Egli
è stato creato a immagine e somiglianza di quest’ultimo»52. San Ni­
cola Cabasilas potrà perciò scrivere: «L’uomo tende verso il Cristo non
solo a causa della divinità di Nostro Signore, ma anche a causa di que-
st’altra natura [quella umana] che egli possiede»53. San Gregorio Pa-
lamas insegna allo stesso modo: «Già la formazione stessa dell’uomo
fin dall’origine, creata ad immagine di Dio, è stata in vista del Cristo,
49 Cfr. N icola C abasilas , La vita in Cristo, VI, 93-94.
50 Vedi per esempio: OsiGENE, Omelie sulla Genesi, 1,13. CntlLLO d ’A lessandma , Spiega-
zione dei dogmi, IV, ed. Pusey, t. V, p. 558. TERTULLIANO, La risurrezione, VI, 3-5. IRENEO DI LlO-
NE, Contro le eresie, V, 16, 2. ATANASIO D’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, HI; Con­
tro i pagani, 2.
51 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, in), XX, 1,2.
52La vita in Cristo, VI, 91-93.
53Ibid., 97.
23
affinché l’uomo potesse a tempo debito comprendere in sé l’Archeti­
po; allo stesso modo, il comando in paradiso è stato dato per questo
motivo»54.
Il Cristo si rivela così, da sempre, il principio e il termine (cfr. lCor
8,6; Ap 22,13) della natura umana e in essa di ogni creatura, come
afferma in particolare san Massimo il Confessore, che, a proposito del­
l’unione nella Persona del Cristo della natura divina e della natura
umana, scrive: «Ecco il fíne beato in vista del quale ogni cosa fu co­
stituita. Ecco il progetto che Dio concepì prima della stessa creazione
degli esseri [...]. A questo fine Dio creò le essenze degli esseri. Così
la ricapitolazione in Dio di ogni creatura si rivela come il termine sia
dell’azione provvidenziale di Dio sia degli esseri che ne beneficiano.
Il Verbo, Dio per essenza, si fece uomo e divenne l’annunciatore di
questa volontà divina. Fece apparire il fondo più intimo dell’amore
del Padre e fece vedere in lui il fine per il quale tutte le creature fu­
rono create. D’altronde, è per il Cristo, in altri termini per il mistero
cristico, che il tempo e ciò che esso contiene ricevettero il loro inizio
e la loro fine»55. Queste affermazioni, per quanto riguarda l’uomo, con­
cordano con l’insegnamento di san Paolo: il Padre «ci elesse in lui pri­
ma della creazione del mondo, perché fossimo santi e irreprensibili
davanti a lui nell’amore, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi,
tramite Gesù Cristo» (E /1,4-5) e «coloro che da sempre egli ha fatto
oggetto delle sue premure, li ha anche predeterminati ad essere confor­
mi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra mol­
ti fratelli» (Rm 8,29); così il Cristo potrà divenire «tutto in tutti»
(Co/3,11).
Nella Persona del Cristo si esprimono, dunque, totalmente il prin­
cipio e il termine della natura dell’uomo, apparendo chiaramente il
suo essere autentico e il suo vero destino. L’immagine di Dio, oscu­
rata nell’umanità dal peccato di Adamo, è rimanifestata in Colui che
è senza peccato, con maggior fulgore di quanto essa non fosse in Ada­
mo prima della sua caduta: poiché in Cristo l’immagine di Dio si ri­
vela nella sua perfezione compiuta, totalmente attualizzata dalla rea­
lizzazione totale della somiglianza dell’uomo con Dio che si compie
nella sua Persona per mezzo dell’unione della natura divina alla natu­
ra umana. L’immagine e la somiglianza di Dio nell’uomo sono mani­
festate dal suo stesso Creatore, il Logos di Dio fatto carne, egli stesso
54 Omelia sull’Epifania.
55 Questioni a Talassio, 60, PG 90, 621AB.
24
immagine perfetta del Padre, tali e quali egli le ha volute fin dall’ori­
gine, nel loro compimento totale e definitivo. In Adamo appariva so­
lo l’immagine del Modello; in Cristo si mostra il Modello stesso; nel­
la Persona del Cristo, il Modello si unisce all’immagine - senza confon­
dersi con essa e senza esserne mai più separato - e la restaura e la
conduce alla sua perfezione attraverso questa stessa unione. Sant’Ire-
neo così scrive a proposito di questa manifestazione splendente del­
l’immagine e della somiglianza, e di questa rivelazione dell’uomo-dio
nel Dio-uomo: «La verità di tutto questo apparve quando il Verbo di
Dio si fece uomo, rendendosi simile all’uomo e rendendo l’uomo si­
mile a lui, perché, per mezzo della somiglianza con il Figlio, l’uomo
divenisse prezioso agli occhi del Padre. Nei tempi antichi, infatti, si di­
ceva che l’uomo era stato fatto a immagine di Dio, ma tutto questo
non appariva, perché il Verbo era ancora invisibile, Verbo divino, a
immagine del quale l’uomo era stato fatto: peraltro, è per questo
motivo che la somiglianza si era facilmente perduta. Ma, quando il Ver­
bo di Dio si fece carne, confermò l’una e l’altra; egli fece apparire l’im­
magine in tutta la sua verità, divenendo egli stesso ciò che era la sua
immagine e ristabilì la somiglianza in maniera stabile, rendendo l’uo­
mo completamente simile al Padre invisibile per mezzo del Verbo, d’al-
lora in poi visibile»56.
Nel Cristo è, così, rivelato chiaramente all’uomo l’archetipo della
sua vera natura, il modello che fin dalla sua creazione e per la sua stes­
sa natura è destinato a compiere57, «essendo il Cristo, fa notare san Ni­
cola Cabasilas, il solo e il primo ad aver realizzato l’uomo autentico e
perfetto quanto al comportamento, alla vita e sotto ogni aspetto»58.
Schiudere il proprio essere, realizzarsi, vivere in conformità con la sua
natura, ma anche vivere in modo perfetto, consiste perciò, chiaramente,
per l’uomo nel somigliare al Cristo, nell’assimilarsi a lui e nel divenire
dio in lui59. Solo nell’unione al Cristo l’uomo trova la pienezza del suo
essere, l’integrità e l’integralità della sua natura, il senso vero, primo e
ultimo del suo destino, la perfezione della sua attività e della sua vita
intera. Solo in Cristo l’uomo può essere se stesso, può essere piena­
56 Contro le eresie, V, 16, 2.
57 «Egli è l’archetipo di ciò che noi siamo», scrive san Gregorio di Nazianzo.
58La vita in Cristo, VI, 94.
59 SlMEONE IL N uovo T eo logo scrive: «Coloro che sono stati giudicati degni di essere
uniti a lui [...], questi divengono anche dio per adozione, simili al Figlio di Dio. Quale meravi­
glia! Il Padre li riveste del loro primo vestito, di quel mantello di cui il Signore era rivestito
prima della fondazione del mondo, perché è detto: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cri­
sto, siete stati rivestiti del Cristo”» (Trattati etici, IV, 586-592).
25
mente uomo e realizzare la propria vera natura in tutte le sue dimen­
sioni: «Il Figlio, afferma san Massimo, restituisce la natura a se stes­
sa»60; e san Gregorio Nazianzeno aggiunge: «Attraverso il Cristo vie­
ne restaurata l’integrità della nostra natura».
Infatti l’uomo è per natura, nella sua origine, nella struttura del suo
essere e nel suo destino, un essere cristologico e teocentrico: solo
volgendosi verso Dio egli diviene veramente uomo61; solo unendosi to­
talmente al Cristo, egli può essere realmente uomo (óntds ànthtopos
secondo l’espressione di san Gregorio di Nissa), e diremo uomo nor­
male (poiché normalmente uomo), e trovarsi in uno stato di piena
salute: «l’assimilazione al Cristo, cioè la salute e la perfezione dell’a­
nima», scrive san Gregorio Palamas62.
Al di fuori del Cristo, l’uomo non è né veramente né pienamente
uomo; egli è al di qua della sua natura, vive amputato di una parte di
se stesso, rimane in uno stato di alienazione, come dimostreremo in
seguito. Solo divenendo Dio per mezzo dell’adozione filiale in Cristo,
l’uomo diviene uomo integrale, uomo perfetto, si dimostra adeguato
alla sua autentica natura: infatti, non è di natura umana perfetta se non
in unione con la natura divina, cosa che troviamo compiuta nella Per­
sona del Cristo e che ogni uomo può realizzare per assimilazione ap­
punto al Cristo. L’uomo, lo ripetiamo, è per natura teantropico: se egli
non è uomo-Dio a somiglianza del Dio-uomo, non è nemmeno uomo;
l’uomo definito in se stesso, indipendentemente dalla sua relazione a
Dio, inscritta nella sua stessa natura, è un essere non-umano; non vi
è natura umana pura: o l’uomo è uomo-dio o non è.
Così le Sacre Scritture e la Tradizione paragonano spesso lo stato
dell’uomo, che non si è ancora conformato al Cristo, che non ha an­
cora attualizzato pienamente le potenzialità della sua natura attraver­
so la realizzazione della somiglianza a Dio, a uno stato di infanzia. L’u­
nione progressiva al Cristo è definita come uno stato di crescita, e il
compimento di tale unione nella sua perfezione è paragonato allo sta­
to adulto, chiamato anche stato di uomo completo o di uomo perfet­
to. San Paolo si esprime così a questo riguardo: «La costruzione del
Corpo di Cristo, fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della
conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, a quello sviluppo che
realizza la pienezza del Cristo, affinché non siamo più dei bambini [...]
60 Commento del Padre nostro, PG 90, 877D.
61 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4; Omelia sulle Calende, 3.
62 Trìadi, II, 1,42.
26
vivendo invece la verità nell’amore, cresciamo sotto ogni aspetto in co­
lui che è il capo, Cristo» (E/4,12-15)63. E consiglia: «Siate uomini»
(lCor 16,13). Anche san Simeone il Nuovo Teologo, usando la stessa
immagine, scrive che colui che progredisce sulla via dell’unione al Cri­
sto, «ogni giorno persegue la sua crescita spirituale, eliminando ogni
traccia d’infantilismo e progredendo verso la perfezione compiuta del­
l'uomo. Ecco perché, secondo la misura della sua età [spirituale], egli
vede cambiare le facoltà e le operazioni della sua anima e guadagna in
virilità [adulta] e in vigore»64.
Così, l’uomo è chiamato a divenire perfetto ad immagine e somi­
glianza del Cristo (cfr. Col 1,28; Eb 10,14; 12,2; 12,23; Gc 1,4), in lui
e per lui («siate perfetti» Mt 5,48), e a divenire in questo modo par­
tecipe della natura divina (cfr. 2Pt 1,4). «Coloro che da sempre egli ha
fatto oggetto delle sue premure, li ha anche predeterminati ad essere
conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito
tra molti fratelli» (Rm 8,29). «Per noi, scrive Clemente d’Alessandria,
[il Cristo] è l’immagine senza macchia; con tutte le nostre forze, oc­
corre sforzarsi di rendere la nostra immagine simile a lui»65. Sant’Ire-
neo aggiunge: «È divenendo imitatori delle sue azioni ed esecutori del­
le sue parole che noi siamo in comunione con lui e per questo noi sia­
mo nuovamente creati, riceviamo da colui che è perfetto da prima di
ogni creazione la crescita, da colui che solo è buono ed eccellente, la
somiglianza con lui stesso»66. Quanto a sant’Isacco il Siro, egli fa no­
tare che «i nostri Padri [...] per giungere alla perfezione e alla somi­
glianza [con Dio] non smettono di accogliere in se stessi, totalmente,
la vita del Signore Gesù Cristo»67.
È attraverso la pratica delle virtù che l’uomo acquista la somi­
glianza al Cristo68. L’uomo, lo abbiamo visto, possiede fin dalla crea­
zione nella sua stessa natura tutte le virtù che formano l’immagine di
Dio in lui; ma queste gli sono date in germe, ed egli ha il compito di
farle crescere fino a far raggiungere loro il pieno sviluppo: in ciò con-
° Cfr. anche: lCor 14,20; Eb 5,13-14; Ga/4,3.
64 Catechesi, XIV, 111-116. Questo paragone sarà usato anche da san BARSANUFIO, Lettere,
457. C lemente d ’A lessandria scrive a proposito dei filosofi pagani: «Sono dei fanciulli fin
quando non sono resi adulti dal Cristo» (Stronzata^ 1,53,2).
65II pedagogo, I, n, 4, 2.
66 Contro le eresie, V, 1,1.
67Discorsi ascetici, 81.
68 Cfr. C lemente d ’A lessandria, Il pedagogo, I, xn, 99,1. N iceta Stetatos, Centurie, HI,
11. A mbrogio di M ilano , La morte è un bene, 17.
27
siste la realizzazione della somiglianza. In Cristo si rivelano l’archeti­
po, il principio e il termine stesso di ogni virtù. Le virtù date alla na­
tura dell’uomo al momento della creazione e sviluppate con la sua li­
bera partecipazione alla grazia deificante di Dio, appaiono, fin da quel
momento, solo partecipazione a quelle del Cristo, come afferma san
Massimo il Confessore: «Se l’essenza della virtù in ogni uomo è sen­
za dubbio il Verbo di Dio (perché l’essenza - o la realtà - di tutte le
virtù, è Nostro Signore Gesù Cristo stesso, come è scritto: Egli è sta­
to fatto per noi e giustizia e santificazione e redenzione [cfr. ICor 1,30],
queste cose essendo evidentemente dette di lui in modo categorico, in
quanto egli è la Sapienza stessa e la Giustizia e la Santità), ogni uomo
che partecipa alla virtù secondo un comportamento dato partecipa,
senza contestazione alcuna, di Dio, l’Essenza delle virtù, in quanto egli
ha con volontà sincera coltivato il seme naturale del bene e reso il ter­
mine identico al principio ed il principio identico al termine, o piut­
tosto ha mostrato l’identità reale dell’inizio e del termine, in perfetto
accordo con Dio; infatti, l’inizio e il termine di ogni cosa sono il di­
segno di Dio su tale cosa: egli è l’inizio in quanto all’essere aggiunge
il bene naturale, per partecipazione; egli è il termine in quanto, se­
condo questa partecipazione, attraverso una decisione del libero ar­
bitrio, l’uomo termina la lodevole corsa che conduce a tale partecipa­
zione, corsa grazie alla quale egli diviene dio ricevendo da Dio di es­
sere dio, perché al bene naturale secondo l’immagine, egli ha aggiunto
per mezzo della libera volontà la somiglianza costituita attraverso le
virtù, operante, secondo l’orientamento della natura, il ritorno al suo
principio e all’intimità con lui»69.
Nella creazione e nella deificazione, il Figlio di Dio gioca un ruolo
particolare e fondamentale. Il disegno di Dio sull’uomo si rivela e si
compie nel mondo in quanto «mistero di Cristo» {Ef3,4; Col 1,27; 2,2;
4,3; lTm 3,16). Ma nel mistero di Cristo si rivela e si compie il mi­
stero dell’economia trinitaria. La creazione dell’uomo e la sua deifi­
cazione sembrano essere opera comune della santa e vivificante Tri­
nità, opera della volontà benevola del Padre (cfr. Ef 1,5.9; Mt 11,26;
Ap 4,11) che compie ipostaticamente e auturgicamente (autourghikós)70
il Figlio (cfr. Eb 10,7; Gv 1,3.4.34; 5,30) e alla quale coopera lo Spiri­
to Santo che vivifica, santifica, conduce alla perfezione (cfr. Gn 1,2; Le
1,35; 4*2,4-38; 2Cor 13,13; E /l,3-14; Tt 3,4-6; ICor 6,11; 12,3-13;
®Ambigua, 7, PG 91,1081C-1084A.
70 Questo termine significa letteralmente: «Con il proprio lavoro».
28
2Cor 3-6). Così ogni Persona divina della Santissima Trinità apporta
alla realizzazione dell’economia divina il suo contributo particolare,
partecipa e coopera secondo la sua ipostasi specifica, ma l’opera di cia­
scuna di esse è costantemente legata a quella delle altre due nel com­
pimento della volontà comune. La creazione dell’uomo (come quella
del mondo) ai Padri sembrava, così, avere la sua fonte nel gran con­
siglio preeterno della santa e consostanziale Trinità. I Padri e tutta la
tradizione ecclesiale vedevano nel plurale della formula «Facciamo
l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza» (Gn
1,26), un’espressione del carattere trinitario della creazione dell’uo­
mo. È ugualmente il Gran Consiglio Trinitario che ha voluto che l’uo­
mo divenisse partecipe della vita eterna e beata della divina Trinità.
Così i Padri affermano che l’uomo è creato a immagine del Figlio di
Dio: infatti, afferma san Cirillo d’Alessandria, «poiché dovremo es­
sere chiamati a essere figli di Dio, ci è tanto più necessario divenire a
immagine del Figlio perché l’impronta della filiazione ci sia utile»71; in
lui egli è, infatti, creato a immagine della Trinità: «Se l’uomo è creato
ad immagine del Figlio», scrive ancora san Cirillo, «sarà anche in que­
sto caso a immagine di Dio, perché in lui risplendono le caratteristi­
che di tutta la Trinità consostanziale, perché la divinità è una per na­
tura nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo»72. Il Cristo «è l’im­
magine del Dio invisibile» (Col 1,15), l’irraggiamento della gloria e
l’impronta della sostanza del Padre (cfr. Eb 1,3). Il Figlio, per mezzo
della sua Incarnazione, fa conoscere il Padre (cfr. Mt 11,27; Gv 8,19;
14,6-7.9). E in Cristo, è all’immagine perfetta del Padre che l’uomo è
invitato a conformarsi: «Sarete perfetti, come perfetto è il Padre vo­
stro che è nei cieli» (Mi 5,48); «Siate misericordiosi come Dio, vo­
stro Padre, è misericordioso» (Le 6,36). Ogni dono che l’uomo rice­
ve, ogni perfezione, ogni virtù alla quale egli partecipa in Cristo ha la
sua fonte nel Padre: «Ogni donazione buona e ogni dono perfetto vie­
ne dall’alto, discendendo dal Padre delle luci» (Gc 1,16-17). Così il
Cristo, in lui, ci unisce al Padre. Ma egli ci unisce anche allo Spirito
Santo, perché è in seno alla stessa vita trinitaria che il Cristo ci vuole
introdurre chiamandoci ad essere «partecipi della natura divina» (2Pt
1,4). E le virtù (chiamate anche perfezioni, grazie, energie), per mez­
zo delle quali avviene questa partecipazione, sono la gloria, la luce,
la grazia, le energie, le perfezioni, le virtù comuni a tutte le Persone
71 Explication des dogmes, éd. Pusey, t. V, p. 558.
12Ibid
29
della Trinità (cfr. 2Cor 13,13). È così che i Padri possono riferirle tan­
to al Padre, come alla loro fonte, tanto al Figlio, come a colui che le
manifesta ipostaticamente e vi fa partecipare gli uomini che hanno fe­
de in lui, e tanto allo Spirito Santo in quanto egli ne è il portatore e il
donatore. E i Padri alcune volte le chiamano luce o gloria del Padre,
altre volte grazia, luce o gloria del Figlio, altre volte ancora grazia del­
lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo, in quanto portatore e donatore di
queste grazie, virtù, o energie increate, talvolta ne riceve il nome ed è
chiamato così: Spirito di Grazia, Spirito di Sapienza, Spirito di For­
tezza, Spirito di Gloria, Spirito di Conoscenza, Spirito di Timore di
Dio, Spirito di Verità (cfr. Is 42,1-4; 61,1; Mt 12,18; Gv 14,17; 15,26;
Ef 1,17; Eb 2,4; Gal 5,22; 2Tm 1,7; lPt 4,14; ecc.). Anche il profeta
Isaia e l’Apocalisse parlano dello Spirito al plurale: i sette spiriti divi­
ni (cfr. Is 11,1-3; Ap 1,4; 3,1; 4,5; 5,6), ciò che, secondo i Padri, indi­
ca le energie o grazie dello Spirito Santo73. Ecco perché si può dire an­
che, come fa san Macario l’Egiziano, che l’uomo è stato creato «ad im­
magine dello Spirito»74, affermazione che unisce l’insegnamento di
sant’Ireneo75a quello dei primi Padri, che vedono lo Spirito Santo nel
soffio di vita immesso nell’uomo al momento della sua creazione
(cfr. Gn 2,7).
L’attribuzione delle stesse virtù dell’uomo al Cristo e allo Spirito
Santo rivela che esse sono energie comuni alle tre Persone della divi­
na Trinità, ma anche nella creazione e nella deificazione dell’uomo, il
Figlio e lo Spirito cooperano strettamente nella realizzazione della vo­
lontà del Padre, che è nello stesso tempo la loro volontà. Sant’Ireneo
dice che il Figlio e lo Spirito sono le «mani del Padre»76. Così l’uomo
e tutte le cose sono state create per mezzo del Figlio (cfr. Gv 1,3), ma
nello Spirito: «Il Padre ha creato ogni cosa per mezzo del Verbo nel­
lo Spirito, scrive sant’Atanasio d’Alessandria, perché là dove è il Ver­
bo, vi è anche lo Spirito, e ciò che produce il Padre riceve la sua esi­
stenza per mezzo del Verbo nello Spirito Santo»77. Secondo la volontà
del Padre, l’azione del Figlio è quella di donare l’essere alle creature,
e l’azione dello Spirito è quella di perfezionarle78. Ogni virtù nell’uo­
73 Cfr. G r e g o r io d i N azian zo, Discorsi, XLI, 3. G r e g o r io Palam as, Sull’unione e la di-
sfinzione, 33.
74 Omelie (Coll. HI), XXVI, 7, 2. Cfr. Omelie (Coll. II), XLVI, 5-6.
75 Dio, dice, «ha deposto nell’anima le esigenze della virtù, il giudizio, la scienza, la ragione,
la fede, l’amore e tutti gli altri doni che sono immagini dello Spirito» {Contro le eresie, V, 6,1).
16Ibid.
77 Lettere a Serapione, DI, 5.
78 B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XVI, 38.
30
mo riceve così il suo essere dal Figlio, ma è vivificata, santificata,
perfezionata per mezzo dello Spirito Santo a nome del Padre. Così,
l’immagine e la somiglianza di Dio nell’uomo è voluta dal Padre,
realizzata dal Figlio, compiuta nello Spirito Santo e da lui portata a
perfezione. L’opera è compiuta dal Cristo nella sua Incarnazione con
la collaborazione dello Spirito Santo79. Il Cristo permette all’uomo, che
si volge verso di lui, di ricevere lo Spirito Santo, e lo Spirito unisce
l’uomo al Cristo, e per mezzo di lui al Padre. Lo Spirito comunica a
ogni membro del Corpo del Cristo la pienezza della divinità. È per
mezzo di lui che l’uomo realizza in Cristo la somiglianza con Dio80per­
ché è attraverso di lui che si comunica e si compie ogni dono (lCor
12,11) e ogni virtù. Egli è, afferma san Basilio, «la fonte di santifica­
zione»81. E lui che mostra al credente «l’immagine dell’Invisibile» e,
«nella beata contemplazione dell’immagine», l’indicibile bellezza del­
l’Archetipo»82. Per mezzo di lui, «i proficienti divengono perfetti»83.
E lui che deifica84l’uomo, rendendolo conforme al Cristo e in lui al
Padre. «Egli è la nostra perfezione», scrive san Gregorio Nazianzeno85.
Solo nello Spirito Santo, dunque, l’uomo può realizzare l’Archeti­
po della sua natura, cioè assimilarsi al Cristo. Perché il Cristo viva in
lui, occorre che lo Spirito viva in lui, che egli divenga pneumatoforo.
L’acquisizione della somiglianza al Cristo e l’acquisizione dello Spiri­
to Santo vanno di pari passo e si condizionano reciprocamente. E
vivendo in Cristo che il cristiano riceve lo Spirito inviato dal Padre a
nome del Figlio (cfr. Gv 14,26), ed è vivendo nello Spirito che egli si
unisce al Cristo attraverso la partecipazione alle virtù del Cristo, do­
ni dello Spirito.
Perché l’uomo raggiunga la perfezione del suo essere in Cristo, rea­
lizzi integralmente la sua natura di cui questi è la norma, il principio
e il termine, e così trovi la sua salvezza, la sua vera vita e la sua totale
salute, deve vivere secondo lo Spirito, condurre un’esistenza spirituale.
L’uomo è stato creato come spirito, anima e corpo, perché egli vi
accolga lo Spirito e sia così completamente spiritualizzato, viva in tut­
79 Cfr. ibid., 39.
90Ibid., IX, 22.
81 Ibid., XVI, 38.
82Ibid., IX, 22. San Basilio dice ancora: «Il nostro spirito, illuminato dallo Spirito, fissa il suo
sguardo sul Figlio, e in questi, come in un’immagine, contempla il Padre» {Lettere, CCXXVI).
83Sullo Spirito Santo, loc. cit.
84Cfr. G regorio di N azianzo , Discorsi, XXXI, 29, PG 36,159BC. C irillo d ’A lessandria ,
Dialoghi sulla Trinità, VE.
85 Loc. cit.
31
to il suo essere nello Spirito. Solo assolvendo a questo compito, l’uo­
mo realizza il suo destino, vive conformemente alla sua vera natura:
«L’uomo vero che è in noi è l’uomo spirituale», scrive Gemente d’A-
lessandria86. L’uomo non è pienamente uomo e non vive realmente
se non vive nello Spirito, altrimenti egli è un uomo incompleto, im­
perfetto, e tutto il suo essere è come morto. Sant’Ireneo lo afferma con
particolare chiarezza: «L’Apostolo dice: “Annunziamo una sapienza a
quelli che sono perfetti” (lCor 2,6). Con il nome di “perfetti”, egli in­
dica coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio [...]. Questi uomi­
ni, l’Apostolo li chiama anche “spirituali”; spirituali, essi lo sono per
una partecipazione dello Spirito [...]. Quando lo Spirito, unendosi al­
l’anima, si è integrato all’opera modellata, grazie a questa effusione
dello Spirito viene a essere realizzato l’uomo spirituale e perfetto, pro­
prio quello che è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Quan­
do, al contrario, lo Spirito viene a mancare all’anima, un tale uomo,
rimanendo in tutta verità psichico e carnale, sarà imperfetto, posse­
dendo sì l’immagine di Dio nell’opera modellata, ma non avendo ri­
cevuto la somiglianza per mezzo dello Spirito [...]. Infatti, la carne
modellata solo su se stessa non è l’uomo perfetto: essa è il corpo del­
l’uomo, quindi solo una parte dell’uomo. L’anima da sola non è l’uo­
mo: infatti, essa non è che l’anima dell’uomo, dunque una parte del­
l’uomo. Neanche lo spirito è l’uomo: gli si dà il nome di spirito, non
quello di uomo. Ed è l’aggregazione e l’unione di tutte queste cose che
costituisce l’uomo perfetto. Ecco perché l’Apostolo, indicando se stes­
so, ha chiaramente definito l’uomo perfetto e spirituale, beneficiario
della salvezza, quando dice nella sua prima lettera ai Tessalonicesi:
“Che il Dio della pace vi santifichi in modo che voi siate pienamente
compiuti, che il vostro essere integrale - cioè il vostro spirito, la vo­
stra anima e il vostro corpo - sia conservato irreprensibile per l’av­
vento del Signore Gesù” [...]. Sono dunque perfetti coloro che, con­
temporaneamente, possiedono lo Spirito di Dio dimorante sempre con
loro, e si mantengono irreprensibili nelle loro anime e nel loro cor­
po, cioè conservano la fede verso Dio e la giustizia verso il prossimo»87.
«Coloro dunque che possiedono la caparra dello Spirito e che, lungi
dall’asservirle alle bramosie della carne, si sottomettono allo Spirito
e vivono in tutto secondo la ragione, l’Apostolo li chiama a buon di­
ritto “spirituali”, poiché lo Spirito di Dio abita in loro»88ed «è la no­
86 Stromata, H, IX, 4 2 ,1 .
87 Contro le eresie, V, 6,1.
88 Ibid., 8, 2 .

32
stra ipostasi, cioè il composto di anima e di corpo, che, ricevendo lo
Spirito di Dio, costituisce l’uomo spirituale»89. «Tre cose costituisco­
no l’uomo perfetto: la carne, l’anima e lo spirito»90. «Coloro che te­
mono Dio, che credono all’avvento del suo Figlio e che, con la fede,
accolgono nel loro cuore lo Spirito di Dio, costoro saranno giusta­
mente chiamati uomini “puri”, “spirituali” e “viventi per Dio”, per­
ché essi hanno lo Spirito del Padre che purifica l’uomo e lo eleva alla
vita di Dio»91. «Ed è da queste due cose che è fatto l’uomo vivente: vi­
vente grazie alla partecipazione dello Spirito, uomo per la sostanza del­
la carne»92. «Senza lo Spirito di Dio, dunque, la carne è morta, priva­
ta della vita, incapace di ereditare il regno di Dio [...]. Ma là dove è
lo Spirito del Padre, là è l’uomo vivente; la carne, posseduta in eredità
dallo Spirito, dimentica ciò che essa è per acquisire la qualità dello Spi­
rito e divenire conforme al Verbo di Dio»93.
Come, secondo san Gregorio Palamas, la salute e la perfezione del­
l’anima sono l’assimilazione al Cristo94, così per san Simeone il Nuo­
vo Teologo, da un altro punto di vista, che va di pari passo con il
precedente, per l’anima la salute è la venuta e la presenza in essa del­
lo Spirito Santo: «Quando egli viene, poiché scaccia ogni malattia e
ogni infermità nell’anima, è chiamato salvezza, perché ci concede la
salute dell’anima»95.
Secondo i Padri, la salute per l’uomo consiste, in maniera genera­
le, nel trovarsi sotto ogni aspetto nello stato che corrisponde al fiori­
re del suo essere totale, o in altri termini all’adeguarsi alla sua vera na­
tura. Ora, la sua natura autentica e la sua vera vita, abbiamo detto,
consistono nel realizzare questa perfezione del proprio essere voluta
da Dio, conformandosi al Cristo nello Spirito. La vita naturale e nor­
male dell’uomo è la vita in Cristo, ed è per questo che Tertulliano par­
la dell’«anima naturalmente cristiana»96. L’uomo è naturalmente fatto
per tendere verso Dio. L’anima, scrive san Niceta Stetatos, «ha la pro­
pria inclinazione naturalmente volta verso i beni divini», «la sua pro­
pensione, sono le cose immortali»97. Sant’Antonio scrive allo stesso
89 ibid.
50 Ibid., 9 , 1.
»Ibid., 9 ,2 .
92 Ibid.
” Ibid, 9 ,3 .
94 Triadi, II, 1,42.
95 Trattati etici, VII, 359-361.
96Apologetico, XVII, 6.
97Sull’anima, 35.
33
modo: «Cercare Dio e servirlo rimane sempre per l’uomo una ricer­
ca naturale»98. L’anima è portata naturalmente a conoscere e a rico­
noscere Dio; è questo il suo stato normale, il segno della salute, co­
me afferma Tertulliano: «L’anima [...] quando toma a se stessa, come
ndl’uscire dall’ubriachezza o dal sonno, o da qualche malattia, e quan­
do essa è nel suo stato normale di salute, chiama Dio con questo so­
lo Nome, perché è il nome proprio del vero Dio»99. La partecipazione
alla vita beata della Santissima Trinità è la normale finalità della na­
tura e della vita umana. Sant’Antonio scrive a questo proposito: «L’amo­
re che io ho per voi mi fa supplicare Dio di condurvi a considerare
l’invisibile come vostra eredità. Certamente, figli miei, questo non su­
pera la nostra natura, ma normalmente la investe di dignità regale»100.
Lo stato normale per l’uomo è quello di essere con tutto il suo essere
totalmente unito a Dio: Adamo è stato creato per realizzare questo, e
il Cristo ricorderà all’uomo smarrito che il comandamento più gran­
de è per lui, se vuole ritrovare la sua vera natura: «Amerai il Signore
tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
tua mente e con tutta la tua forza» (Me 12,30; Mt 22,37; cfr. Dt 6,5).
Appare così che è volgendo verso Dio tutte le proprie facoltà, per unir­
si a lui attraverso di esse, che l’uomo ne fa un uso normale, confor­
me alla loro natura.
È proprio questo che costituisce nell’uomo le virtù. Per questo mo­
tivo san Basilio scrive: «Abbiamo ricevuto da Dio la tendenza natura­
le a fare ciò che egli comanda [...]. È nell’usare [...] convenientemente
queste forze che noi viviamo santamente nella virtù [...]. Tale è, di
conseguenza, la definizione della virtù che Dio esige da noi: l’uso re­
sponsabile di queste facoltà secondo l’ordine del Signore»101. In altri
termini, condurre una vita virtuosa consiste per l’uomo nel vivere in
conformità con la propria natura, cioè nel fare di tutte le sue facoltà
l’uso per il quale esse sono state create: orientarsi verso Dio e realiz­
zare la sua somiglianza. L’identità tra lo stato di natura - la condizio­
ne dell’Adamo primordiale e la condizione dell’uomo restaurato in
Cristo - e lo stato di virtù è costantemente affermato dai Padri: «Per
numerose che siano le virtù che noi mettiamo in pratica, le mettiamo
in pratica in conformità con la natura», scrive Evagrio102. «Quando ri­
98Lettere, V, 4.
99Apologetico, XVÜ, 5.
100Loc. dt.
101Regole lunghe, 2.
102 Grande lettera a Melania 1’Anziana, II.
34
maniamo nella natura, siamo nella virtù», nota san Giovanni Dama­
sceno103. E sant’Isacco il Siro dice la stessa cosa esplicitamente, cioè
che la virtù è lo stato naturale dell’anima104. San Doroteo di Gaza di­
mostra ugualmente che le virtù «permettono di riprendersi e di ri­
tornare allo stato di natura attraverso la pratica dei santi comanda-
menti di Cristo»105, e Giovanni il Solitario dice che quando l’uomo si
volge verso la sua anima attraverso le virtù «egli sta nell’ordine della
sua natura integrale»106.
La stessa cosa viene affermata dai Padri quando dicono che è a que­
sto stato di virtù che corrisponde per l’uomo la vera salute: la virtù è
la vera salute naturale dell’anima, scrive san Doroteo di Gaza107, così
come san Basilio Magno108, Evagrio109, e san Massimo il Confessore che
precisa: «Ciò che la salute è per il corpo vivente, la virtù è per l’ani­
ma»110. Sant’Isacco il Siro nota similmente: «La virtù è naturalmente
la salute dell’anima»111. Si può anche dire che la virtù per l’anima è più
che la salute per il corpo, perché, afferma san Basilio Magno, «le virtù
hanno molto maggiori affinità con l’anima che la salute con il corpo»112.
Solo attraverso la pratica delle virtù, in particolare di quella che è
loro coronamento, ossia la carità, l’uomo è reso capace della cono­
scenza/contemplazione spirituale nella quale il suo spirito, ma anche
tutte le altre facoltà113, si esercitano conformemente alla finalità della
sua natura. Infatti l’uomo, ricorda san Simeone il Nuovo Teologo, «è
stato creato per contemplare la natura visibile e per essere iniziato al
mondo intelligibile»114. E Clemente d’Alessandria, che definisce l’uo­
mo «vera pianta celeste»115, dice altresì che l’uomo è «nato per la con­
templazione del cielo»116. Solo in questa attività che gli si addice pie­
namente lo spirito dell’uomo e, attraverso di esso, l’anima, interamente,
103Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
104Discorsi ascetici, 83.
105Istruzioni spirituali, 1,10.
106Dialogue, éd. Hausherr, p. 64.
107 Istruzioni spirituali, XI, 112: «H male è la malatta dell’anima priva della sua salute natu­
rale, cioè della virtù».
108Sull’Hexaemeron, IX, 4: «La virtù è come la salute dell’anima».
109Capitoli gnostici, 1,41. Cfr. anche Grande lettera a Melania l'Anziana, I.
110Centurie sulla carità, IV, 46.
111Discorsi ascetici, 83.
112Loc. cit.
113 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,15.
114 Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 3.
115Protreptico, X, 100,3.
n6Ibid
35
trovano la pienezza della loro salute. «Ciò che la salute [è] per il cor­
po vivente, [...] la conoscenza [lo è] per lo spirito», osserva san Mas­
simo117. «Quando la natura razionale riceverà la contemplazione che
la riguarda, allora anche tutta la potenza dello spirito sarà sana»,
scrive nello stesso senso Evagrio118, che considera la conoscenza spiri­
tuale anche come «la salute dell’anima»119. San Talassio ripete: «La sa­
lute dell’anima, è la conoscenza»120.
Questa contemplazione al suo primo grado è quella delle ragioni
Clógoi) spirituali delle creature, che i Padri chiamano «contemplazio­
ne naturale» (physike theoria). Se questa dà all’uomo una vera cono­
scenza degli esseri e soprattutto lo eleva fino al loro Autore, essa non
resta tuttavia che una conoscenza indiretta di Dio.
E nella conoscenza/contemplazione di Dio stesso, che è un dono di
Dio e si compie per mezzo dello Spirito, che l’uomo raggiunge il gra­
do più alto di perfezione al quale egli è per natura chiamato, poiché è
in questa conoscenza, o piuttosto in questa «visione» di Dio, che si
realizza nella luce della grazia increata, che è pienamente deificato.

117 Centurie sulla carità, IV, 46.


118 Capitoli gnostici, E, 15.
119Ibid.y 8.
120 Centurie, II, 2.
36
II
L’ORIGINE PRIMARIA DELLE MALATTIE
IL PECCATO ANCESTRALE

La realizzazione della somiglianza con Dio, benché inserita nel­


l’immagine, era proposta alla libera volontà di Adamo, avendo come
guida il comandamento divino. Ma, con la sua libertà, Adamo aveva
la possibilità di seguire un’altra via, quella «di lasciare il bene, an­
dando verso il male separandosi da Dio per scelta deliberata»1. Il
serpente rivelò e propose quest’altra possibilità che costituì per il pri­
mo uomo una tentazione permanente. Questa tentazione aveva co­
me funzione quella di mettere costantemente alla prova la sua volontà
e, così, dare forza e valore alla sua scelta di Dio. Senza questa possi­
bilità di compiere il male, infatti, Adamo non sarebbe stato totalmen­
te libero, poiché la via della deificazione si sarebbe presentata come
l’unica possibile, quindi come necessaria e imposta dalla sua natura.
Dio, volendo l’uomo perfetto, lo aveva dotato, creandolo a sua im­
magine, di una libertà assoluta che gli permetteva di partecipare egli
stesso alla propria deificazione2e di appropriarsi egli stesso in Dio la
somiglianza acquisita5. Se la realizzazione della somiglianza fosse sta­
ta data da compiere all’uomo senz’altra scelta possibile, gli sarebbe
stata tolta la possibilità di essere realmente virtuoso, perché, come no­
ta san Giovanni Damasceno, «là dove vi è la necessità, non vi po­
trebbe essere virtù»4. La tentazione era, dunque, implicata dal fatto
stesso dell’esistenza di un’assoluta libertà per l’uomo e dalla volontà
di Dio che voleva appunto «che ci venga la ricompensa del nostro
lavoro»5 e «che il risultato della nostra somiglianza non si volga a lo­
1G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, n, 12.
2 Cfr. B asilio di C esarea , Omelie sullorigine dell’uomo, 1, 16.
3Ibid
4 Loc. cit. San Gregorio di Nissa scrive allo stesso modo: «Ciò che è stato creato sotto ogni
aspetto a immagine della divinità doveva possedere nella sua natura una volontà libera e indi-
pendente, affinché la partecipazione ai vantaggi divini fosse la ricompensa della sua virtù» (Di­
scorso catechetico, V).
5 B asilio di C esarea, loc. cit.

37
de di un altro»6. «Occorreva perciò - scrive san Giovanni Damasce­
no - che l’uomo fosse innanzitutto messo alla prova: né provato né
tentato, l’uomo non è degno di alcun rispetto»7. «Una volta messo
alla prova», osserva san Gregorio Nazianzeno, l’anima «possederà l’og­
getto della sua speranza come prezzo della sua virtù e non solo come
un dono di Dio»8.
Tutti i Padri insistono sul fatto che Adamo è stato creato comple­
tamente buono da Dio. Nel paradiso terrestre, nella sua condizione
naturale, l’uomo viveva integralmente nel Bene9: non solo egli non
commetteva il male, ma lo ignorava, anche perché la tentazione gli da­
va la conoscenza non del male stesso, ma solo della sua possibilità, ap­
parendo la conoscenza stessa del male come conseguenza del peccato
(Gn 3,22) non già come suo principio. Nel paradiso, il male esisteva
solo nel serpente, incarnazione di Satana, e questo non poteva rag­
giungere in alcun modo la creazione fintanto che Adamo ne rimane­
va il re (cfr. Gn l,28-30)10; egli non possedeva alcun potere sul primo
uomo, non potendo fare altra cosa se non quella di tentarlo, rimanendo
questa tentazione senza alcuna conseguenza fintanto che questi rifiu­
tava di acconsentirvi11.
Il diavolo diceva ad Adamo e a Eva: «Diventerete come dèi» (cfr.
Gn 3,5), ed è proprio in questo che consisteva la tentazione12. Adamo
era sicuramente destinato da Dio a diventare dio, ma per partecipa­
zione a Dio stesso, in lui e per lui. Ciò che il serpente proponeva ad
Adamo ed Eva, era di diventare «come dèi (ds theoi)» (Gn 3,5), cioè
altri dèi, indipendentemente da Dio, ossia di essere dèi senza Dio. Ada­
mo cedendo alla suggestione del Maligno, volle così farsi Dio da se
stesso, autodeificarsi: è in questo che consistette il suo peccato13. Que­
st’affermazione di assoluta autonomia, questa volontà di superare Dio
e prendere il suo posto o di erigersi come un altro Dio di fronte a
lui, costituiva una negazione, un rifiuto di Dio. La partecipazione di
Adamo aña vita divina supponeva, lo abbiamo già detto, la collabora-
6ibid.
I Loc. cit.
8Discorso, II, 17. Cfr. Poesie, I, II, 9.
9Cfr. per esempio GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2. GIOVANNI DAMASCENO, Espo­
sizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
10 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XI, 5.
II Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 22.
12 Cfr. M acario d ’E g u to , Omelie (Coll. El), 1 ,3 ,4 .
13 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XI, 2. Sim eone il N uovo T eo logo ,
Trattati etici, XQI, 60. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. IRE­
NEO DI LlONE, Contro le eresie, V, 3,1. MACARIO d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 86.

38
zione della sua volontà libera: allontanandosi da Dio, egli si privò del­
la grazia14che costituiva la vera vita della sua natura. Dio aveva detto
ad Adamo e a Èva del frutto dell’albero che stava nella parte interna
del giardino: «Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per
non morirne» (Gn 3,3); al contrario, il serpente aveva promesso: «Voi
non morirete affatto!» (Gn 3,4). Nelle conseguenze del peccato si ri­
vela il carattere menzognero della promessa diabolica: essendosi stac­
cato dalla Fonte di ogni vita, l’uomo cade nella morte: morte futura
del suo corpo (mentre quest’ultimo era stato creato potenzialmente
incorruttibile) e morte immediata della sua anima15. «Con il peccato,
scrive san Giovanni Damasceno, la morte è entrata nel mondo come
una bestia feroce e selvaggia, sconvolgendo la vita umana»16. E san
Gregorio Palamas aggiunge: «Dopo la trasgressione dei nostri ante­
nati in paradiso [...], il peccato subentrò nella vita; quanto a noi sia­
mo morti e, prima della morte corporea, noi subimmo la morte del­
l’anima, cioè la separazione dell’anima da Dio»17.
Allontanandosi dal Principio del proprio essere come di ogni es­
sere, l’uomo cade nel non-essere: «Privato del pensiero di Dio e vol­
gendosi verso il nulla (perché il male è il non-essere e il bene è l’esse­
re), gli uomini sono così per sempre privati dell’essere», scrive sant’A-
tanasio d’Alessandria18.
Da questo allontanamento, per l’uomo, deriva ogni male: per que­
sto motivo egli perde tutti i beni divini dei quali già partecipava, e che
per natura era chiamato a possedere in pienezza. Infatti, «è da Dio che
tutto ciò che è buono trae la sua bontà: pertanto, chi si allontana da
lui va verso il male», annota san Giovanni Damasceno19. Allontanan­
dosi da Dio, negandolo e ignorandolo, l’uomo si allontana dalla sua
natura autentica e dal suo vero fine, che è quello di assimilarsi a Dio
attraverso lo Spirito, sconvolge tutte le sue facoltà naturalmente orien­
tate verso Dio, e fa così deviare le tendenze impresse nella sua natu­
ra20. Ne derivano, in tutto il suo essere che smette di essere rivolto ver­
so il suo scopo normale, attraverso la sua anima e il suo corpo che non
realizzano più la loro condizione naturale di unione con Dio, i disor­
14M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 37; Omelie (Coll. E), XE.
15 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, E, 7,90. G regorio P alamas, Omelie,
11; 16; 32; Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 36; 51.
16 Op. cit., EI, 1.
17 Omelie, 11. Cfr. 16. Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 36; 51.
18Sull’Incarnazione del Verbo, 4.
19 Op. cit., IV, 20.
20 Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, VI, 97.

39
dini più gravi. San Massimo riassume così in cosa consiste questa ca­
duta dell’uomo: «Colui che si allontana dal proprio principio mentre
è una particella di Dio a motivo della virtù che è in lui secondo la cau­
sa che gli è stata data, è portato irrazionalmente iparalógos) verso il
non-essere; a ragione si dice che è decaduto, poiché non si muove
secondo il suo principio e la sua causa secondo la quale, nella quale,
e per la quale egli è giunto all’esistenza; è in un equilibrio instabile e
in un disordine spaventoso dell’anima e del corpo; egli diviene l’au­
tore del decadimento della causa inerente e sempre identica a se stes­
sa, verso il peggio attraverso una deviazione cui ha acconsentito.
Partendo, si dice che cade dall’alto, poiché avendo il potere di dirige­
re il cammino della sua anima irresistibilmente verso Dio, egli ha vo­
lontariamente scambiato il meglio e l’essere per il peggio e il non-es­
sere»21.
È sempre in rapporto alla natura costitutiva dell’uomo, al suo do-
ver-essere teantropico, che i Padri definiscono il male e il peccato. È
un male e costituisce un peccato ogni azione che allontana l’uomo
da Dio e dal suo divenire dio (la deificazione alla quale l’uomo è per
natura chiamato), in altri termini, ogni azione per la quale l’uomo al­
lontana le sue facoltà dal loro fine naturale. «Agire male, scrive Dio­
nigi l’Areopagita, è uscire dalla buona via, contraddire la propria ve­
ra intenzione, la propria natura, la propria causa, il proprio principio,
il proprio fine, la propria definizione, la propria volontà, in breve, la
propria stessa essenza»22. «Non è nell’essenza delle creature che si tro­
va il male, ma nel loro movimento falso e irrazionale», scrive da par­
te sua san Massimo23. «Si potrebbe dire, annota ancora, che il male
non è altra cosa se non la mancanza di dirigere verso il loro fine le
facoltà poste nella natura. O ancora, il male è un movimento irrazio­
nale delle facoltà naturali che le conduce, secondo un giudizio sba­
gliato, ad altra cosa che non il loro vero fine. Io intendo per “fine”
l’Autore di ogni creatura verso il quale tendono, in virtù della loro stes­
sa natura, tutti gli esseri»24. Nell’allontanare l’uomo da Dio, il pecca­
to stabilisce le sue facoltà in uno stato contro natura, e priva il suo es­
sere intero dell’Essere e del Bene: è in questo stato che, per l’uomo,
consiste il male. «Il male non è altra cosa se non la privazione del be­
21Ambigua, PG 91,1084D-1085A.
221 Nomi divini, IV, 32.
23 Centurie sulla carità, IV, 14.
24 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,253B.
40
ne e il cammino che devia dal secondo-natura verso il contro-natura»,
scrive san Giovanni Damasceno25. «Tutto dò che Dio ha fatto è mol­
to buono, tutto ciò che persiste così come è stato creato è molto buo­
no. Ciò che si separa volontariamente dal naturale e va contro natura
diviene cattivo. Tutto ciò che serve e obbedisce al Creatore è secondo
la natura. Quando una creatura, volontariamente, si ribella e disob­
bedisce al suo Creatore, stabilisce il male in se stessa. Infatti il vizio
[...] è la deviazione volontaria del secondo-[natura] verso il contro­
natura; è il peccato»26.
Dire che a motivo del peccato l’uomo è posto in uno stato contro
natura, vuol dire che allontanandosi da Dio egli si allontana da se stes­
so, vive a fianco di ciò che egli è fondamentalmente, non conduce la
vita per la quale è fatto e pensa e agisce al contrario in un modo estra­
neo alla sua vera condizione. In altre parole, l’uomo vive allora in uno
stato di alienazione. «Mentre noi apparteniamo a Dio per la nostra
stessa natura», scrive sant’Ireneo, l’apostasia «ci ha alienati contro la
nostra natura (alienavit nos contra naturam)»21. San Macario Magno
constata lo stesso stato di alienazione, pur esprimendosi in un altro
modo: «Dopo che Adamo ha trasgredito il comandamento, [...] egli
si ritrova come una seconda anima a fianco dell’anima»28. E sant’A-
tanasio constata che l’anima dimenticando, nel suo peccato, che essa
è a immagine di Dio, e non vedendo più il Verbo a somiglianza del
quale essa è stata fatta, esce da se stessa29.
Allontanandosi da Dio, l’uomo si priva da se stesso della condi­
zione divina alla quale era stato promesso, e come dice in modo sor­
prendente Clemente d’Alessandria, si lascia precipitare nella condi­
zione di uomo30. Egli cade anche in uno stato infra-umano, perché, lo
abbiamo visto, la vera umanità esiste solo nella divino-umanità: l’uo­
mo non può essere veramente uomo che in Dio, che nell’essere uomo­
dio nello Spirito, a somiglianza del Cristo. Così i Padri paragonano
spesso la condizione dell’uomo caduto a quella degli animali31. San
25 Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
26Ibid. Cfr. II, 30. DOROTEO DI G aza scrive ugualmente: «Decaduto dal suo stato naturale
[l’uomo] si trovava nello stato contro natura» {Istruzioni spirituali, 1 ,1). Vedi anche ATANASIO
d ’A lessandria , Contro ipagani, 4.
27 Contro le eresie, V, 1, 1.
28 Omelie (Coll. II), XV, 35.
29 Contro ipagani, 8.
30Protreptico, IX, 83, 2.
31 Vedere per esempio: SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, XIII, 67-68. Cateche­
si
Gregorio di Nissa per esempio dice: «L’uomo, avendo deposto la for­
ma divina, è divenuto una bestia selvaggia a immagine della natura ani­
male»32. E san Massimo osserva che l’uomo si è «“assimilato alle be­
stie senza ragione” (Sai49[48],13), cercando, volendo e operando in
tutto come loro, e superandole anche in irrazionalità, avendo cambiato
la sua ragione naturale del secondo natura in contro natura»33.
Poiché l’uomo ha allontanato da Dio il suo spirito, quest’ultimo si
trova privato della vita divina. Egli si sconfessa34, in uno stato di tor­
pore (cfr. Ir 29,10; Rm 11,8) e di oscurità35, ed è come morto. L’uomo
arriva così fino a perdere ogni nozione della sua funzione spirituale.
Amputato di questa, che costituiva la dimensione essenziale del suo
essere, per mezzo della quale egli dava luce, vita, senso e coesione a
tutte le sue facoltà, e che gli permettevano anche di crescere in Dio,
l’uomo si ritrova improvvisamente ridotto a una infima parte di se stes­
so, non dispone più che di una debolissima parte delle sue possibilità.
Da uomo totale quale egli era - spirituale, psichico, corporeo -, l’uo­
mo si ritrova a non essere più che psichico (lCor 2,14; Gd 19) e cor­
poreo. Smette, allora, nella struttura stessa del suo essere e nell’ordi­
ne delle sue facoltà, di essere uomo integrale, per non essere più che
un centesimo o un millesimo d’uomo (paragone che rende l’immagi­
ne ma che in effetti non ha nessun significato, perché è in verità l’in­
finito che l’uomo scambia per rivestire la condizione molto limitata di
uomo decaduto). In ogni caso, egli diviene uomo incompleto. Sant’I-
reneo sottolinea: «Quando lo Spirito viene meno all’anima, un tale uo­
mo che rimane in tutta verità psichico e carnale, sarà imperfetto»36.
E ormai in un mondo ridotto, stretto e anche apparentemente chiu­
so che l’uomo vive, conducendo un’esistenza rinchiusa nella dimen­
sione del suo essere decaduto. La sua anima e il suo corpo, smetten­
do di ricevere la loro vera vita (quella divina, che lo Spirito Santo co­
municava loro) muoiono spiritualmente. Sant’Ireneo scrive ancora a
questo proposito: «Tre cose costituiscono l’uomo perfetto: la carne,
l’anima e lo Spirito. Una di esse salva e forma, ossia lo Spirito [...].
si, XXVm, 418-419. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 10. G re­
gorio DI NlSSA, Trattato sulla verginità, IV, 5. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II,
52. N iceta Stetatos, Inanima, 34. Vedi anche: Sai 48,13.21. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll.
Ili), VIE, 3,1-5.
32 Omelie sul Cantico dei Cantici, Vili, GNO VI, p. 251.
33 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90, 253CD.
34 Cfr. ibid.
35 Cfr. MACARIO d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XLV, 1; Capitoli parafrasati, 37.
36Contro le eresie, V, 6, 1.
42
Coloro che non hanno l’elemento che salva e forma in vista della vita,
costoro si vedranno a buon diritto chiamare “carne e sangue”, poiché
essi non hanno lo Spirito di Dio in loro. Ecco perché, tra l’altro, essi
sono detti “morti” per il Signore: “Lascia, disse, che i morti seppelli­
scano i loro morti” (Le 9,60), perché essi non hanno lo Spirito che
vivifica l’uomo»37. Partendo da un altro punto di vista, san Gregorio
Palamas giunge alla stessa conclusione relativamente a questa conse­
guenza del peccato: «Quando l’anima lascia il corpo e si separa da es­
so, il corpo muore; allo stesso modo, quando Dio lascia l’anima e si
separa da essa, l’anima muore»38. L’uomo così decaduto, proprio quan­
do egli crede di vivere, e pensa anche di vivere talvolta intensamente,
vive in verità come un morto, è un morto vivente. San Simeone il Nuo­
vo Teologo descrive in questo modo tale condizione degli uomini ca­
duti così come essa appare a colui che è dotato di discernimento spi­
rituale, ma di cui coloro che la subiscono non hanno coscienza: «I mor­
ti, tra loro, non possono né vedersi, né compiangersi l’un l’altro, no.
Sono i viventi che, nel vederli, gemono. Perché essi vedono una stra­
na meraviglia, uomini colpiti dalla morte che vivono, ossia che cam­
minano, dei ciechi che credono di vedere e veri sordi che s’immagi­
nano di sentire: essi vivono, vedono e sentono al modo delle bestie; es­
si pensano come insensati nella loro coscienza inconsciente, nella loro
vita di cadaveri, perché è possibile vivere senza vivere, è possibile guar­
dare senza vedere e sentire senza ascoltare»39.
A motivo del suo peccato, l’uomo si vota a ogni sorta di male, di
miserie e di sventure40 che non appartengono essenzialmente alla sua
natura e che non lo toccano fin quando egli vive in conformità ad es­
sa, ma che non appaiono se non come conseguenze della sua colpa e
costituiscono il suo castigo. Nella perdita del centro spirituale del suo
essere, nella dislocazione della sua anima41, nella perdita delle sue for­
ze essenziali42, nello sconvolgimento, nella perversione, nel danneg­
giamento di tutte le sue facoltà, e nello stato di malattia e di soffe­
renza che questo instaura, consiste principalmente questo castigo. Ciò
non è affatto inflitto da Dio, ma deriva naturalmente e necessariamente
” Ibtd.,9,1.
38 Omelie, 16. Sulla morte spirituale come conseguenza del peccato, vedi anche MACARIO
D’E gitto , Omelie (Coll, m), XVÜI, 1,3.
39Inni, 44,214-231.
40 Cfr. IRENEO Dì L ione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 17. TEOFILO d ’A n tio-
CHIA, AdAutolico, n, 25. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, I, 2; XHI, 39-73.
41 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH), XXIV, 3.
42Ibid
43
dalla caduta43, e allorquando Dio annuncia ad Adamo e a Èva i mali
che deriveranno dalla loro trasgressione (cfr. Gn 3,16-19), egli non li
produce, ma non fa altro che predirli e descriverli. L’uomo, constata
il salmista, «un pozzo ha intagliato ed ha scavato ed è caduto nella fos­
sa che faceva. Ricade la sua nequizia sulla sua testa e sul suo capo la
sua violenza discende» (Sai 7,16-17). «La natura, scrive san Massi­
mo, punisce coloro che cercano di violentarla nella misura in cui essi
si dedicano a un modo di vivere contro natura; essi non hanno più a
loro disposizione tutte le forze della natura così come essa stessa le
aveva donate loro; eccoli dunque diminuiti nella loro integrità e così
castigati»44. A motivo del peccato, la natura umana, constata ancora
san Massimo, «implacabilmente fa guerra contro se stessa»45, ed è da
diversi punti di vista che possiamo dire che ciò equivale per l’uomo
a un vero suicidio46.
Che l’uomo porti un così grave pregiudizio alla sua natura47e agi­
sca così contro i suoi interessi più fondamentali48fino a mutilarsi da
sé e a immergere tutto il suo essere nel dolore, nel non-essere e nella
morte, allontanandosi dalla pienezza di vita e di gioia perfetta che gli
offriva la sua condizione originaria: ciò è con tutta evidenza la follia,
costatano i Padri. San Doroteo di Gaza scrive così: «Perché siamo ca­
duti in questa miseria? Non è a causa [...] della nostra follia (aponota)?
[...] Perché questo? L’uomo non è stato creato nella pienezza del be­
nessere, della gioia, del riposo e della gloria? Non era in paradiso? Gli
era stato ordinato “non fare questo”, ed egli l’ha fatto [...]. “L’uomo
è folle (moros), dice Dio, egli non sa essere felice”»49.
Se i Padri considerano così il peccato stesso come un atto di follia, es­
si considerano ugualmente uno stato di follia lo stato di peccato nel qua­
le vive l’umanità decaduta50. In questo essi seguono spesso le Sacre Scrit­
43 Sant’Ireneo precisa: «A tutti coloro che si separano da lui, [Dio] infligge la separazione
che essi stessi hanno scelto. Ora, la separazione da Dio, è la morte; la separazione dalla luce, le
tenebre; la separazione da Dio, è la perdita di tutti i beni provenienti da lui. Coloro, dunque,
che per la loro apostasia hanno perduto tutto quello che abbiamo detto, sono immersi in tutti i
castighi: non che Dio li preceda per castigarli, ma il castigo li segue per il fatto stesso che essi so­
no privati di ogni bene» (<Contro le eresie, V, 27, 2). Cfr. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedago­
go, I, VIE, 69,1.
44Ambigua, Prologo.
45 Commento del Padre nostro, PG 90, 880A.
46Cfr. G regorio DI N issa, Discorso catechetico, Vili.
47 Cfr. Ireneo DI L ione , Contro le eresie, V, 3,1.
48Cfr. G regorio di N issa, Sulla verginità, XII, 2.
49Istruzioni spirituali, I, 8.
50«Siamo un popolo folle e insensato» non esita a dire Origene quando spiega le ragioni del­
l’Incarnazione dà Cristo (Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 3). Altrove egli ricorda «il genere
44
ture (cfr. Pro 5,23; 9,4.6.13-18; 12,23; Qo 10,1-3) e particolarmente san
Paolo che scrive a riguardo di coloro che sono lontani da Dio: «I loro
ragionamenti divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò.
Ritenendosi sapienti, divennero sciocchi (emorànthèssan)» (Rm 1,21-22).
I Padri utilizzano molto spesso delle categorie mediche per indi­
care il peccato ancestrale e le sue conseguenze: questo, essi afferma­
no, costituisce una malattia molto grave che colpisce tutto l’essere del­
l’uomo e lo priva della sua salute originale. San Gregorio di Nissa do­
po aver ricordato che «ima volta il genere umano [...] godeva della
salute», ricorda il momento della caduta e constata: «A partire da qui
questa malattia mortale che è il peccato si installò nella natura uma­
na»51. San Nicola Cabasilas scrive allo stesso modo: «Il giorno in cui
Adamo, consegnandosi allo spirito maligno, si è allontanato dal suo
Maestro, la sua anima ha perduto la salute e il benessere; fin da allo­
ra anche il corpo è andato di pari passo con l’anima e ha subito la stes­
sa sorte: esso è degenerato con lei»52. San Cirillo d’Alessandria si espri­
me allo stesso modo: «La natura cadde malata di peccato per la di­
sobbedienza di uno solo»53; «in Adamo, la natura dell’uomo cadde
malata di corruzione»54. Questa malattia e questa degenerazione, lo
vediamo ancora oggi, consistono essenzialmente in ciò che tutte le fa­
coltà dell’uomo che erano fatte per rivolgersi a Dio e unirlo a lui, a
causa del peccato si sono allontanate da questo fine che è loro natu­
rale e ormai funzionano contro natura, si muovono e si smarriscono
in direzioni opposte a quella del loro vero fine55, agendo così in modo
umano raggiunto dalla follia (memenós)», e particolarmente «coloro che», al m omento della ve­
nuta del Cristo, «a causa della malattia della loro anima e del disordine (ékstasis) della loro ra­
gione naturale erano ancora nemici [...] di D io» (<Contro Celso, IV, 19). Clemente d ’Alessandria
ricorda «l’irrazionalità (apónoia)» e «la follia (<ànoia) degli uomini» che rifiutano D io (Protrep-
ti co, IX, 83,1 e 84,1). A sua volta, san Barsanufìo così si esprime: «La follia ha generato la di­
sobbedienza, e la disobbedienza la ferita. E dopo la ferita la stessa follia ha generato la negli­
genza» {Lettere, 64). Vedi anche: MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 50. GIOVANNI CRI­
SOSTOMO, Commento a san Matteo, IX, 6; Omelie sui demoni, 1,6; II, 3. ATANASIO D’ALESSANDRIA,
Contro ipagani, 4. TALASSIO, Centurie, I, 52. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26; 30; 44; 80;
81. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 192. GIOVANNI CARPAZIO, Capitoli di esortazione,
57. SIMEONE IL N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,5; m , 85; Catechesi, VI,
32-33; XV, 48-53. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 6; DI, 58; 59; 61. Altri riferimenti saranno da­
ti nel prossimo capitolo, nel quale vedrem o che questi termini {manta, morìa, afrosyne, ànoia,
alogia, ecc.) sono frequentemente applicati agli atteggiamenti idolatrici degli uomini che si sono
allontanati dal vero Dio.
51 Omelia sul Padre nostro, IV, 2.
52La vita in Cristo, II, 38.
53 Commento alla lettera ai Romani, PG 74, 789.
54 Ibid.
55 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 4. G regorio di N issa , Omelie sul Padre
nostro, IV, 2.
45
disordinato, irrazionale, assurdo, insensato, folle. «Quando Dio si ri­
tira», osserva san Giovanni Crisostomo, tutto viene sconvolto»56. E san
Gregorio di Nissa afferma esplicitamente che nell’usare contro natu­
ra le facoltà della sua anima, l’uomo è àtopos57, cioè stravagante, as­
surdo, insensato e allókotoì58, cioè di un’altra natura, estranea e stra­
niera (possiamo arrivare a tradurre questo termine con «alienato»), a
tal punto, egli scrive, «che nessuno potrebbe esprimere come merite­
rebbe la sua assurdità»59; «infatti è come se un soldato, equipaggian­
dosi a rovescio, portasse il suo elmo a rovescio al punto da nascondersi
il viso e da lasciare il pennacchio inclinarsi all’indietro, è come se met­
tesse i piedi nella corazza, adattasse i gambali al petto, prendesse ciò
che è a sinistra sul costato destro e gettasse l’armamento di destra sul
costato sinistro». «I mali che patirà verosimilmente in guerra questo
fante, conclude Gregorio, sono così quelli di cui patirà verosimilmen­
te durante la sua vita colui che ha introdotto la confusione nel suo giu­
dizio e invertito l’uso delle facoltà della sua anima»60.

56 Omelie sulla lettera ai Romani, IV, 1.


57Sulla verginità, XVIII, 3.
*Ibid.
59Ibid
mIbid
46
Ili

PATOLOGIA DELL’UOMO DECADUTO

1. Patologia della conoscenza


a) La perversione e la decadenza della conoscenza e dei suoi organi
I Padri constatano che, nell’uomo decaduto, la conoscenza e i suoi
organi sono malati. «Come si può parlare di salute per l’anima razio­
nale, quando questa è malata nella sua facoltà di conoscenza?», si chie­
de san Gregorio Palamas1.
Questa malattia consiste fondamentalmente nell’ignoranza di Dio.
Adamo, dice san Massimo, «era malato per l’ignoranza della sua pro­
pria causa»2. Infatti, egli fa notare, «quello che la salute e la malattia
sono per il corpo vivente [...], la conoscenza e l’ignoranza lo sono in
rapporto allo spirito»3. Parimenti, Evagrio considera «l’ignoranza» di
Dio come «malattia dell’anima»4più fondamentale, mentre al contra­
rio «la conoscenza è la salute dell’anima»5. Infatti, l’intelligenza del­
l’uomo è fatta naturalmente per ricercare le cose divine e per tende­
re alla conoscenza di Dio6; solo quando quest’ultima esercita questa
attività, propria alla sua natura, essa è «sana»7. Allontanandosi da Dio,
ella si ammala, perché smette di avere un’attività conforme alla sua fi­
nalità naturale esercitandosi contro natura. E per questo che san Mas-
1 Triadi, II, 17. Parlano ugualm ente delP«intelligenza malata»: ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 30. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 26.
2 Questioni a Talassio, Prologo. Cfr. ibid., 52: «Eravamo malati d ’ignoranza com e non si
doveva».
3Centurie sulla carità, VI, 46.
4 Capitoli gnostici, II, 8.
5 Talassio , Centurie, n, 2. Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, n, 8.
6 Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, 59, PG 90, 604B; Centurie sulla carità,
IV, 15; 44. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 84. NlCETA STETATOS, Centurie, HE, 12.
7 E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, II, 15.

47
simo precisa: «Il cattivo uso della facoltà razionale è l’ignoranza e la
demenza (aphrosynè)»8.
Mentre l’anima umana «è stata fatta per vedere Dio e per essere
illuminata da lui»9, a causa del peccato essa in realtà si è pervertita, si
è allontanata da Dio e dalle realtà spirituali per orientarsi verso realtà
sensibili e per considerare solo queste10.
Il peccato dell’uomo, tuttavia, non consiste nel considerare le realtà
sensibili. Dio gli ha dato l’intelligenza non solo affinché egli tenda al­
la conoscenza di Dio stesso, ma anche perché egli conosca le creature
sensibili e intelligibili11. Prima della sua caduta Adamo dunque le co­
nosceva, ma le conosceva solo da un punto di vista spirituale. Egli con­
templava naturalmente ciò che i Padri chiamano le loro «ragioni» spi­
rituali (lógoi); in altri termini, egli le percepiva nelle rispettive relazio­
ni con il Creatore, le conosceva come aventi in lui il loro principio e il
loro fine; egli le vedeva tutte in Dio, come se esse ricevessero da Dio
il loro essere e le loro qualità, e vedeva in esse Dio presente con le sue
energie. Difatti, come sottolinea san Massimo, «il mondo intero ap­
pare impresso misteriosamente nel sensibile in alcune forme simboli­
che, per coloro che sanno vedere, e il mondo sensibile tutto intero è
in modo conoscibile contenuto nell’intelligibile e semplificato dall’in­
telligenza nei lógoi. H mondo è nell’intelligibile attraverso i suoi lógoi
e questo è in quello attraverso le sue impronte. E la loro realtà è come
se fosse una ruota in una ruota secondo l’espressione impiegata dal­
l’ammirevole e grande veggente Ezechiele (cfr. 1,16), quando parla, mi
sembra, dei due mondi. Le sue perfezioni visibili si vedono a partire
dalla creazione, grazie alle opere che le rendono visibili all’intelligen­
za. Così parla il divino Apostolo (Rm 1,20). E se le cose non apparenti
si contemplano attraverso quelle apparenti, come è scritto, a mag­
gior ragione, attraverso le non-apparenti, coloro che si dedicano alla
contemplazione spirituale avranno l’intelligenza di ciò che appare. Di­
fatti, la visione simbolica delle cose intelligibili per mezzo di quelle vi*
sibili è scienza spirituale e intelligenza delle visibili per mezzo di quel­
le invisibili»12.
Adamo, dice san Massimo, era anche destinato, al termine della sua
crescita spirituale a considerare le creature dal punto di vista di Dio
8 Centurie sulla carità, IH, 3. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima.
9 Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 1.
10 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 59.
11 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 83.
12Mistagogia, II.
48
stesso, ad attingere da esse «una conoscenza e un’informazione simili
a quella di Dio, perché, grazie alla deificazione della sua intelligenza e
alla tramutazione dei suoi sensi, l’uomo non sarebbe stato un sempli­
ce uomo, ma un dio»13. L’uomo allora avrebbe potuto dire con il sag­
gio Salomone: «Egli mi ha dato la vera conoscenza delle cose, per com­
prendere il sistema dell'universo e la forza degli elementi, il principio,
la fíne e la metà dei tempi, [...] la natura degli animali [...], il potere
degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, le varietà delle piante e le
virtù delle radici; quanto è nascosto e manifesto ho conosciuto, per­
ché la Sapienza, artefice di tutto, mi ha ammaestrato» (Sap 7,17-21).
Il peccato e il male, a questo livello, hanno significato, per Adamo
e per coloro che sono divenuti suoi imitatori, ignorare Dio e consi­
derare gli esseri indipendentemente da lui, cioè considerarli non più
spiritualmente nella realtà intelligibile che vi si esprime secondo le
energie divine che vi si rivelano, ma carnalmente, nella loro sola ap­
parenza sensibile14. L’albero della conoscenza del bene e del male, di
cui parla il libro della Genesi (cfr. 2,9), e che Dio proibisce ad Adamo
di toccare, pena la morte (cfr. 3,3), rappresenta, dice san Massimo, la
creazione visibile15: «Contemplata spiritualmente, essa è l’albero del­
la conoscenza del bene; considerata sotto il suo aspetto materiale, è
l’albero della conoscenza del male. Essa diviene, infatti, un maestro
che insegna le passioni e conduce all’oblio di Dio coloro che hanno
solo rapporti corporei»16. Dio, vietando all’uomo di mangiare del frut­
to dell’albero, gli aveva indicato il pericolo che vi era ad entrare in que­
sta seconda forma di conoscenza che fino ad allora ignorava: egli do­
veva innanzitutto crescere nella conoscenza del suo Creatore, dopo di
che solo lui avrebbe potuto gioire senza danno della creazione visibi­
le17. Ma Adamo ha anticipato il processo e, a motivo del suo stato in­
fantile, si è dimostrato incapace di assumere tale creazione spiritual­
mente ed è caduto nel peccato.
Per mezzo del peccato, gli occhi spirituali di Adamo si chiudono, e
al loro posto si aprono gli occhi della carne. Infatti «vi sono, nota Ori-
gene, due tipi di occhi: gli uni si aprirono attraverso il peccato, gli altri
servivano ad Adamo e a Eva per vedere prima che questi si aprissero»18.
13 Questioni a Talassio, Prologo, PG 90, 257D-260A.
14Cfr. Atanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 8.
15Loc. cit.
16Ibid.
17Cfr. Id., ibid.
18 Omelie sui Numeri, XVII.
49
Ricordando questi occhi carnali, cioè questo modo carnale di vedere la
realtà, la Scrittura afferma: «Si aprirono allora gli occhi di ambedue e
conobbero che erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne
fecero delle cinture» (Gn 3,7). Adamo ed Èva si videro allora nudi, pre­
cisa in seguito il testo (ibid.), e sant’Atanasio commenta in questo mo­
do: «Essi conobbero che erano nudi perché erano stati privati della con­
templazione di Dio e perché avevano volto i loro pensieri nella dire­
zione opposta»19. Parimenti, san Simeone nota questa deviazione della
conoscenza primordiale dell’uomo e la sua decadenza: «Al posto della
conoscenza divina e spirituale, [l’uomo] ricevette la conoscenza car­
nale. Infatti, gli occhi della sua anima accecata, decaduta dalla vita im­
mortale, si mise a guardare con gli occhi del corpo»20.
Va osservato che non è l’apertura degli occhi della carne che pro­
voca la chiusura degli occhi spirituali, bensì l’inverso: è per mezzo del­
l’ignoranza di Dio che, cessando di esistere la conoscenza secondo Dio,
prende il suo posto la conoscenza secondo la carne: «Il male, precisa
san Massimo, è l’ignoranza dell’Autore benefico delle creature. È que­
sta ignoranza che ha, per un verso, ristretto lo spirito e, per un altro,
ha aperto ampiamente la via ai sensi, allontanando completamente
l’uomo dalla conoscenza divina per riempire la sua esistenza della
conoscenza appassionata delle cose sensibili»21. San Simeone il Nuo­
vo Teologo afferma: «Se egli non fosse prima caduto dalla conoscen­
za e dalla contemplazione di Dio, egli non sarebbe pervenuto a que­
sta conoscenza»22. Questo può spiegarsi con il fatto che l’intelligen­
za, cessando di conoscere Dio e, in modo generale, le realtà spirituali
o intelligibili, nondimeno resta portata a conoscere qualcosa, perché
essa continua secondo le esigenze della sua natura ad essere in movi­
mento23: essa prende fin dall’inizio come oggetto le realtà sensibili (più
precisamente gli esseri considerati esclusivamente nella loro apparen­
za sensibile), che sono le uniche ormai a poter essere percepite da
essa, poiché detta intelligenza ha negato, rifiutato o dimenticato le
altre, come dimostra san Massimo: «Ogni intelligenza umana sviata e
che si discosta dal suo movimento naturale, è mossa dalle passioni, dai
sensi e dalle cose sensibili, poiché anch’essa non ha più dove portar­
19Contro i pagani, 3.
20 Catechesi, XV, 14-15. Cfr. Trattati etici, XDI, 54-56.
21 Loc. cit.
22 Catechesi, XV, 22-24.
23 Cfr. NlCETA STETATOS, Dell’anima, 42; 48; 55. ATANASIO d ’A lessandria, Contro ipagani, 4.
50
si, una volta venuto a mancare il movimento che conduce naturalmente
verso Dio»24.
Quando nel loro stato originale le facoltà cognitive dell’uomo ri­
cevevano dallo Spirito la loro luce, e conoscevano così secondo la lo­
ro natura e secondo la natura stessa degli esseri, allontanandosi da Dio,
è ai sensi che ormai saranno subordinate, e da essi riceveranno ogni
informazione: «Divenuto trasgressore e ignorante di Dio, l’uomo mi­
se tutta la sua potenza intellettuale nella sensazione», scrive san Si­
meone il Nuovo Teologo25. L’intelligenza dell’uomo fin da allora è
asservita a questo mondo26.
L’intelligenza si lascia condurre non solo dalle sensazioni, ma anche
da tutti i desideri passionali che appaiono nell’anima come effetto del­
l’ignoranza, la quale è, afferma san Marco l’Eremita, «la causa di tut­
ti i vizi»27, insieme all’oblio di Dio e alla negligenza nei suoi riguardi28.
Questi tre atteggiamenti negativi, che sono indissociabili e si sosten­
gono mutuamente29, sono considerati da san Marco l’Eremita (e, nel­
la sua scia, da Giovanni Damasceno)30come «i tre giganti potenti del
diavolo»31, le «passioni più profonde e più interiori all’anima»32, gra­
zie alle quali «il resto delle passioni maliziose agiscono insinuandosi,
vivendo e trovando la loro forza nelle anime»33.
La conoscenza umana è, così, in stato di peccato, abbandonata al­
le passioni, determinata da esse nel suo principio e nel suo fine34. Qué­
ste passioni, infatti, «catturano l’intelligenza»35. A motivo dell’igno­
ranza, della negligenza e dell’oblio di Dio e anche della sua sottomis­
sione a tutte le altre passioni, l’intelligenza si oscura36, diviene cieca37,
viene fuorviata38, immerge l’anima nell’oscurità e pone tutto l’uomo in
un mondo di tenebre39. Catturata dalla sensazione, essa diviene per di
24Ambigua, 10, PG 91,1112A.
25 Catechesi, XV, 22-24.
26 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. IH), 5,4; Omelie (Coll. II), XXIV, 1.
27A Nicola, 3; 10.
28 Cfr. ibid, 10.
29Ibid., 13.
30Discorso utile all'anima.
31A Nicola, 13.
32Ibid., 10.
33Ibid., 13.
34Cfr. Atanasio d ’A lessandria, Contro ipagani, 8. G iovanni D amasceno , Esposizione esat­
ta della fede ortodossa, II, 10. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, Prologo.
35 I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 85.
36Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 3; 10.
37 Ibid., 10. Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 57.
38ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 26.
39 Cfr. A ntonio l’E remita, Lettere, V, 1. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera agli
51
più pesante e spessa40. Essa diviene del tutto incapace di un giusto di-
scernimento41 e di vera conoscenza42. San Giovanni Crisostomo os­
serva: «Come coloro che sono nelle tenebre ignorano la natura delle
cose, allo stesso modo coloro che vivono nel peccato non distinguono
le cose: essi corrono verso delle ombre come se fossero la realtà»43.
Sant’Isacco sottolinea, da parte sua, che le passioni distruggono la
salute naturale dell’intelligenza fino a renderla incapace di ogni co­
noscenza spirituale: «Come il senso corporeo, quando viene messo sul­
la via del vizio per una ragione o per l’altra, è privato della visione, co­
sì l’intelligenza che è nella natura non è sana, la conoscenza non agi­
sce in essa»44. Anche san Simeone il Nuovo Teologo esclama: «Quali
siano le cose visibili, o mio Dio, non posso dirlo [...], siamo tutti ca­
duti nella vanità, incapaci di un giudizio vero sugli esseri»45. Essendosi
«lasciato prendere dalla conoscenza mondana», l’uomo non può «sfug­
gire alle trappole dell’errore», ed egli produce «pensieri malati», os­
serva sant’Isacco46.
L’uomo acquisisce, allora, una conoscenza più vicina a quella de­
gli animali che a quella di un uomo vero. «Poiché egli ha commesso
un errore contro il Logos, l’uomo è considerato naturalmente priva­
to di lògos [cioè della ragione], e assimilato alle bestie», scrive Cle­
mente d’Alessandria47. E san Niceta Stetatos dice ugualmente dell’uomo
caduto: «Egli è mosso contro natura e non razionalmente (ou logikós),
vive contrariamente alla ragione, asservito alle sensazioni contrarie al­
la sua dignità; [...] e per avere perduto l’attività naturale dell’intelli­
genza, egli è assimilato agli esseri senza ragione a causa di questa con-
Efestm, xm , 1. MARCO L’Erem ita, A Nicola, 10; 12. L’affermazione che, a motivo del peccato,
l’uomo è entrato nelle tenebre, è frequente nella Sacra Scrittura: Is 9,1; Mt 4,16; Le 1,79;
11,34-36; Gv 1,5; 3,19; 8,12; 12,35; 12,46; A t26,18; Rm 1,21; 2,19; 13,12; Ef 4,18; 5,8; 5,11; Col
1,13; lTs5,4; lPt 2,9.
40 Cfr. GREGORIO di N issa, Sulla verginità, rv, 5; XI, 2, 2; Discorso catechetico, 8. ISACCO IL
SlRO, Discorsi ascetici, 26. EVAGRIO, Trattato sulla preghiera, 50. ORIGENE, Commento a Gio­
vanni, II, VII, 57. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, III, 56. G iovan ni C assiano,
Conferenze, IX, 5; 6.
41 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, V, 4. ISACCO IL Siro , Discorsi asce­
tici, 26. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 41.
42 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 20; IV, 65. G iovanni C lim aco, La
Scala, XV, 83. DOROTEO di G aza, Lettere, 2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulle Calende, 3;
Commento al Salmo 142,3; Omelia su 1 Corinzi, XI, 4; Omelia sulla lettera agli Efesini, XD3,1;
Commento a san Giovanni, V, 4. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, VII, 46.
43 Commento al Salmo 142, 3.
44 Discorsi ascetici, 69.
45 Inni, IV, 68-70.
46Discorsi ascetici, 19.
4711 Pedagogo, I, XM, 101,3-102,1.
52
dotta, perché la ragione in lui è morta, e perché la parte meno razio­
nale dell’anima ha prevalso grazie a questa condotta»48.
Quando smette di vedere Dio negli esseri e gli esseri in Dio, l’uomo
perde la nozione del loro principio e del loro fine comune, smette di
coglierli nella loro unità fondamentale. Egli ne acquisisce allora una
conoscenza parziale, divisa, composita49. E se egli tende a riunificare la
sua conoscenza, può farlo solo per mezzo degli artifici prodotti dalla
sua ragione: questa, non essendo più informata spiritualmente, non ha
in effetti più altra risorsa se non quella di fondare il suo esercizio su
principi arbitrari che definisce essa stessa, o su intuizioni sensibili che
non presentano più alcun carattere di obiettività, nella misura in cui
sono relative alla percezione deformata dell’uomo decaduto.
L’alienazione dell’intelligenza nella sensazione corrisponde al gra­
do più basso della caduta dello spirito fuori della conoscenza di Dio
e della contemplazione naturale. Il suo esercizio nell’attività razionale
divenuta autonoma è una tappa intermedia50, ma che costituisce ugual­
mente per l’uomo una forma di alienazione della sua intelligenza51.
L’uomo caduto, molto spesso, riconosce solo l’uso razionale della
sua intelligenza, e può arrivare fino a considerarla come l’unico modo
di conoscenza autentica, persino possibile. Abbandonandosi a se stes­
so, l’uomo conosce allora ciò che i Padri chiamano la «prigionia dei
pensieri», che può andare da forme di pensiero più empiriche e più
disorganizzate fino a costruzioni più elaborate di pensiero astratto.
Immergendosi nella sensazione, ma anche nell’attività della ragio­
ne dispiegando una riflessione autonoma di carattere astratto, l’intel­
ligenza si volge verso «l’esteriore». Non è solo da Dio che essa sepa­
ra allora l’uomo, ma anche da se stesso. E ciò che i Padri indicano co­
me la separazione dello spirito e del cuore. L’intelligenza, nel suo stato
naturale, è unita al cuore, il quale, in termini scritturistici e patristici
indica «l’uomo interiore», il centro ontologico dell’uomo e la radice
di tutte le sue facoltà. Quando egli esercita l’attività contemplativa che
corrisponde alla sua natura, lo spirito ha un movimento circolare52; ri­
48Sull’anima, 34.
49 Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 ,253C.
50 Cfr. ELIA ECDICO, Capitoli gnostici, 1-2: «L’intelligenza è ora nell’ambito della fonte dei
pensieri, ora nell’ambito dei ragionamenti, ora nell’ambito dei sensi»; «l’intelligenza che non è
alla fonte dei pensieri è totalmente nei ragionamenti. E se essa è nei ragionamenti, non è alla fon­
te dei pensieri. Entrata nei sensi, essa è al centro di tutte le cose».
51 Cfr. ibid., 4; 7.
52Cfr. D ionigi l’A reopagita, Sui Nomi divini, IV, 9. G regorio P alamas, Triadi, 1,2 ,5 . Ni-
CODEMO L’A giORITA, Enchiridion, 10.

53
mane all’interno del cuore e non si espande al di fuori53, ma «rientra
in se stesso e attraverso se stesso si eleva verso Dio»54. Abbandonan­
do la sua attività contemplativa, l’intelligenza, non muovendosi più cir­
colarmente ma in linea retta55, esce dal cuore, dunque dal centro spi­
rituale dell’uomo e si diffonde all’esterno in una attività discorsiva nel­
la quale essa si disperde e si divide56e rende l’uomo esteriore a se stesso
e a Dio57.
L’intelligenza, in questo stato, è in una condizione di costante di­
strazione58, non smette di fluttuare, erra e vaga qua e là59e conosce uno
stato d’agitazione permanente60all’opposto dello stato di calma profon­
do (hèsychia) che caratterizzava la sua attività contemplativa. I suoi
pensieri, prima concentrati e unificati, si dispiegano e scorrono, mol­
teplici e diversi, in un flusso incessante, divenendo confusi e instabi­
li61, si dividono62e si disperdono63, sfuggendo da ogni parte64, e con es­
si trascinano e dividono tutto l’essere dell’uomo. San Massimo può co­
sì ricordare «la dispersione dell’anima secondo le forme esteriori
dall’apparenza di cose sensibili»65, perché l’anima diviene molteplice
a immagine di una molteplicità sensibile che ha paradossalmente crea­
ta da se stessa, e che è un’illusione che proviene dal fatto che essa si
è resa incapace di percepire l’unità oggettiva degli esseri per la sua
ignoranza della presenza in essi delle energie del Dio Uno.
Dalla separazione dello spirito e del cuore, vera schizofrenia spiri­
tuale nel senso etimologico del termine poiché essa divide (schizei) il
cuore (phren) dell’uomo, risulta la divisione di tutta l’anima. A moti­
vo dell’intelligenza che si disperde e si divide nella molteplicità dei
pensieri che essa produce e delle sensazioni che segue, tutte le facoltà,
tirate di qua e di là, e per di più titillate dalla molteplicità delle pas­
sioni, si esercitano in sensi molteplici e spesso divergenti che fanno
dell’uomo un essere diviso a tutti i livelli.
55 Ibid.
54 B asilio di C esarea , Lettere, n, 2. G regorio P alamas , Triadi, I , 2 ,5 .
55Cfr. ibid,
56 B a silio di C esarea, loc. dt. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 23.
57 Cfr. N icodemo l’A giortta, Enchiridion, 10.
58 Vedi, tra gli altri, MACARIO d 'E gitto , Omelie (Coll. HI), XXV, 5 ,4 .
59 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), IV, 4. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 68.
60 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 19; 23; 24; 25.
61 M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n), XXXI, 6.
62 Cfr. N iceta S tetatos, Centurie, HI, 19.
65 Cfr. ibid., 2; 6.
61 M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n ), VI, 3.
65Mistagogia, XXIII, PG 91,697C.
54
L’ignoranza di Dio, lo si può notare, si rivela avere per l’uomo mol­
teplici effetti patologici conformi all’importanza fondamentale che ri­
vestiva per lui la conoscenza di Dio, tanto che san Marco l’Eremita
considera tale ignoranza come «la madre e la nutrice di tutti i mali»66.
E san Niceta Stetatos riassume così qualcuno dei suoi effetti: «L’i­
gnoranza è una calamità e più che una calamità. Essa è veramente la
tenebra palpabile (cfr. Es 10,21). Essa oscura le anime nelle quali si
trova. Essa divide profondamente il pensiero e impedisce all’anima di
unirsi a Dio. Quanto si unisce a essa è disordine e sragione, perché es­
sa rende l’uomo completamente irrazionale e insensibile [...]. Quan­
do essa si spande e s’ispessisce, diviene per l’anima, che le è sottomessa,
un baratro infernale in cui sono tutti i tormenti, tutti i dolori, tutte le
tristezze, tutti i gemiti»67.

b) Il male come invenzione.


Nasata di una conoscenza fantasmatica.
La percezione delirante della realtà nell’uomo decaduto
«Il male non viene da Dio, non è in Dio, non esisteva all’inizio»68.
Dio non ha creato il male. Tutti gli esseri erano all’origine intera­
mente buoni e vivevano totalmente nel bene. Adamo, lo abbiamo vi­
sto, all’inizio era esente da ogni male. Certamente il male esisteva in
paradiso nella persona del Serpente, del diavolo, ma questo male non
affliggeva l’uomo né la creazione e il diavolo stesso era stato creato
buono da Dio, ed è per sua libera volontà che egli è decaduto dalla
sua condizione originaria di arcangelo ed è divenuto cattivo69. Il ma­
le, dicono i Padri, è un’invenzione: «Invenzione del diavolo, della sua
libertà»70, prima di tutto; in secondo luogo, invenzione dell’uomo che
fu sedotto da Satana a seguire la sua stessa strada, cioè ad allontanar­
si come lui da Dio71. «Questa disgrazia che domina ora l’umanità, scri­
ve san Gregorio di Nissa, è l’uomo che, deviato da un inganno, l’ha
66A Nicola, 10. Cit. 12.
67 Centurie, IH, 19.
68 A ta n a sio d ’A le ssa n d r ia , Contro ipagani, 7. Cfr. B a silio d i C esarea, Omelie sul-
l’Hexaemeron, II, 4. DIONIGI L’A reopaGITA, Sui Nomi divini, IV, 21.
69 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20. D ionigi l’A-
REOPAGUA, Sui Nomi divini, IV, 23.
70Ibid.
71 Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 30. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,253 B.

55
volontariamente attirata, ed è divenuto egli stesso inventore della ma­
lizia72e non scopritore di una malizia creata da Dio [...]; è l’uomo che
in un certo modo è divenuto creatore e artefice del male»73. Così il ma­
le è una creazione non di Dio, ma del diavolo e dell’uomo che colla-
bora con lui; è un prodotto della volontà diabolica e della volontà uma­
na74, il che non sarebbe accaduto se il diavolo non si fosse allontanato
da Dio. Il diavolo si sarebbe limitato alla sua sola persona e a quelle
di altri angeli decaduti se l’uomo non avesse accettato di seguirlo. Il
male esisteva fin dall’origine come possibilità della libertà umana:
ciò era indispensabile perché questa fosse realmente perfetta; se l’uo­
mo non avesse potuto fare il male, non sarebbe potuto essere total­
mente libero. La libertà, tuttavia, aveva come condizione la semplice
possibilità del male, non l’attuazione di questa possibilità, non il com­
pimento effettivo del male; questo non poteva, al contrario, come si
dimostrerà in seguito, che farla decadere dalla sua perfezione primi­
tiva.
Il male non è solo un’invenzione; è un’invenzione fantasmatica. «Il
male, scrive sant’Atanasio, non è che una finzione dell’intelligenza uma­
na»75. Il male, infatti, affermano con insistenza i Padri, non ha sostan­
za, è puro non-essere76. Questo non significa che esso non esista in al­
cun modo, ma che ha un’esistenza negativa: il male è non-essere in
quanto esso è, lo si è visto, ignoranza, negazione, rifiuto, oblio di
Dio che è l’Essere stesso, la fonte di ogni essere, e l’essere vero di ogni
cosa. Così scrive sant’Atanasio a questo proposito: «Privi del pensie­
ro di Dio, gli uomini si sono anche privati per sempre dell’essere»77.
Allontanandosi da Dio, l’uomo, inevitabilmente «concepisce l’iniquità,
porta in seno nequizia e genera inganno» {Sai 7,15). Difatti l’uomo,
ignorando Dio, acquisisce una conoscenza delle cose che, non corri­
spondendo più al loro vero essere, può essere considerato comeUna
finzione, un prodotto della sua immaginazione, un fantasma. «Gli uo­
mini, scrive ancora sant’Atanasio, rifiutandosi di pensare il bene, si so­
72 Q uest’ultima formula è ugualmente applicata al diavolo da GREGORIO DI NlSSA, Omelie
sul Cantico dei Cantici, IV, PG 44, 841B; Sulla perfezione, PG 46, 281B.
73Sulla verginità, XII, 2. L’uomo è altresì designato come «inventore dei mali» in IV, 5. Ve­
di anche: Omelie sull’Ecclesiaste, VHI, 3; Omelie sul Cantico dei Cantici, II, PG 44, 796D.
74 Cfr. BASILIO DI C esarea, Omelie sull’Hexaemeron, II, 4.
75 Contro ipagani, 4. Cfr. ibid., 7; 8; Sull’Incarnazione del Verbo, 4; 5.
76 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro i pagani, 7. M assimo il C onfessore , Questioni a
TalassiOy Prologo, PG 90,253 AB. BASILIO DI CESAREA, Omelie sull’Hexaemeron, II, 4-5. GRE­
GORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2. DIONIGI l’A reopagita , Sui Nomi divini, IV, 19-35.
77Sull’Incarnazione del Verbo, 4.
56
no messi a concepire e a immaginare cose che non esistono»78. Essen­
do Dio l’unico essere che veramente e assolutamente è, come egli stes­
so rivela a Mosè: «Io sono colui che sono» (Es 3,14), l’uomo che vive
al di fuori di lui non può conoscere altro che il nulla. «Allontanato dal
bene, scrive tra l’altro sant’Atanasio, e dimenticando che essa è ad im­
magine di Dio buono, la potenza che è [nell’anima] non vede più il
Dio Verbo, a somiglianza del quale essa è stata fatta; uscendo da se
stessa, non pensa e non immagina altro se non il nulla»79. Infatti, non
percependo più né l’immagine di Dio che è in essa e che fondamen­
talmente la costituisce, né le «ragioni» spirituali delle creature, l’uo­
mo percepisce solo una vuota realtà. Conoscendosi e conoscendo gli
esseri al di fuori di Dio, egli conosce nel nulla. Vedendo la creazione
come se Dio ne fosse assente, mentre egli è «presente ovunque e riem­
pie tutto», egli delira, e manifesta la sua follia: colui che nel suo cuo­
re ha detto: «Non c’è Dio» è insensato, dice il salmista (Sai 13,1). An­
che se, «dopo la creazione del mondo, Dio manifestò ad essi le sue
proprietà invisibili, come la sua eterna potenza e la sua divinità, che si
rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fatte» (Rm
1,20), l’uomo, avendo chiuso gli occhi del suo spirito, ignora tutto an­
che quando crede di conoscere, prendendo come realtà il nulla che
ormai si offre alla conoscenza della sua intelligenza offuscata: «Quan­
do il sole brilla e illumina tutta la terra con la sua luce, scrive sant’A-
tanasio, se un uomo si tappasse gli occhi immaginandosi che è nell’o­
scurità mentre l’oscurità non esiste, e poi camminasse a caso come er­
rando nell’oscurità, cadendo continuamente e andandosene verso il
precipizio, egli penserà che non fa giorno, ma che è buio, credereb­
be di guardare ma non vedrà nulla. Così l’anima umana, tappandosi
gli occhi che le permettono di vedere Dio, ha concepito il male, e muo-
vendovisi, essa crederà di fare qualcosa mentre non fa nulla, perché
immagina solo il nulla. Essa non è rimasta quale è stata fatta, ma si mo­
stra così come se si fosse impastata da sola. Infatti, essa è stata fatta
per vedere Dio e per essere illuminata da lui; ma anziché Dio, ella ri­
cerca le cose corruttibili e le tenebre»80.
E, altresì, in un’altra maniera che la conoscenza dell’uomo diviene,
per il peccato, delirante. Allontanandosi da Dio, l’uomo giunge a con­
siderare le creature in se stesse, indipendentemente dal loro Creatore,
78 Contro i pagani, 7.
79Ibid., 8.
80 Ibid.y 7. Si troverà una comparazione analoga in GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, XII, 2.

57
perché crede che l’universo esista da se stesso. Ora, questo modo di
conoscere non è che immaginazione, illusione81, delirio: perché tutto
ciò che è, è opera di Dio e per Dio; ogni essere trae il suo senso, il suo
valore e la sua stessa realtà da Dio, principio e fine, alfa e omega di
ogni creatura. Ogni essere è per essenza relativo a Dio, e percepirlo al
di fuori di questa relazione, significa non conoscerlo così come egli è
realmente, ma al contrario così come egli non è. Il mondo che l’uomo
percepisce al di fuori di Dio non è che un fantasma, una finzione, il
prodotto di un certo tipo di delirio. Per questo sant’Atanasio scrive
a proposito di coloro che prendono in considerazione le opere senza
considerare Colui che le ha fatte: «Folli e ciechi! Come potrebbero as­
solutamente conoscere un edificio, una nave, una lira, se non vi fosse
un carpentiere per costruire la nave, un architetto per costruire un edi­
ficio, un artista per fabbricare la lira? Colui che pensasse così sarebbe
folle al di là di ogni follia; allo stesso modo, non mi sembra che ab­
biano uno spirito sano coloro che non riconoscono Dio, che non ado­
rano il Verbo, il Salvatore di tutti, Nostro Signore Gesù Cristo che per
mezzo del Padre ordina tutto, contiene tutto e provvede a tutto»82.
Avendo perduto il senso della relazione degli esseri con Dio, quin­
di del loro carattere relativo, l’uomo ne fa inevitabilmente degli asso­
luti, ed essi occupano allora nel suo spirito il posto del Dio che egli ha
negato83. Il culto delle creature rimpiazza così nell’uomo decaduto l’a­
dorazione del Creatore. L’idolatria non consiste solo nelle forme reli­
giose organizzate che essa spesso ha assunto, in cui alcune creature so­
no esplicitamente definite come dèi, ma in ogni atteggiamento del­
l’uomo di fronte a un essere in cui questo è preso come fine e si vede
conferire un senso ed un valore in se stesso, anziché questi gli siano ri­
conosciuti in Dio; e anche in ogni attività, in ogni sforzo consacrato
a un essere preso in se stesso, anziché essere consacrati a Dio attra­
verso di lui. Vi è atteggiamento idolatrico riguardo a un essere ogni
volta che questo smette di essere trasparente verso Dio, di rivelare Dio,
in altri termini, ogni volta che l’uomo smette di percepire le sue «ra­
gioni» spirituali, di «leggervi» le energie divine presenti in lui e che
definiscono la sua vera natura. Questo essere allora nasconde Dio in­
81 Cfr. G r e g o r io d i N issa, Vita à'Mosè, II, 203. San M acario d ’E g itto nota che «dopo
la trasgressione di Adamo, l’intelligenza è fissata e illusa in questo mondo» (Omelie [Coll. II],
XXIV, 1).
82 Contro i pagani, 47. Cfr. ANTONIO L’EREMITA: «Essi in seguito alla loro follia non cono­
scevano Dio, non gli rendevano grazie come al loro Creatore» (Lettere, V, 3).
83 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 9 0 , 257B.
58
vece di manifestarlo, si chiude in qualche modo in sé invece di servi­
re da piedistallo all’uomo per elevarsi fino al suo Creatore. È allora al­
l’oggetto stesso, ridotto al nulla per la sua ignoranza, che l’uomo at­
tribuisce gli onori che avrebbe dovuto, con la sua mediazione, ren­
dere a Dio. San Paolo considera come una manifestazione di follia
l’atteggiamento degli uomini che agiscono così: «I loro ragionamenti
divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò. Ritenendosi sa­
pienti, divennero sciocchi, e scambiarono la gloria di Dio incorrutti­
bile con le sembianze di uomo corruttibile, di volatili, di quadrupe­
di, di serpenti» (Rm 1,21-23). Sulla scia dell’Apostolo, i Padri sono
unanimi nel vedere nell’idolatria una forma di follia spirituale. Ad
esempio, sant’Atanasio scrive: «Gli uomini nella loro follia disprezza­
rono il dono fatto loro, si allontanarono da Dio e sporcarono tal­
mente la loro anima, che non solo essi dimenticarono l’idea di Dio, ma
essi si forgiarono altri dèi al suo posto. Essi si fecero degli idoli al
posto della verità, e preferirono il nulla al vero Dio, adorando la crea­
tura al posto del Creatore»84. «Gli uomini, scrive ancora altrove, aven­
do appreso ad immaginare il male che non esiste, si sono, nello stes­
so modo, anche formati degli dèi che non esistono [...]. Nella loro fol­
lia [...] dimenticando il pensiero e la conoscenza di Dio, non avendo
che una ragione accecata o piuttosto una sragione, essi si sono rap­
presentati come divinità le cose apparenti, glorificando la creatura al
posto del Creatore [cfr. Rm 1,25] e divinizzando le opere, piuttosto
che colui che è la causa, il demiurgo e il Maestro, Dio»85. E più avan­
ti annota ancora: «Mentre nulla sussiste al di fuori [del Verbo]: il
cielo e la terra e tutti gli esseri che essi contengono dipendono da
lui, tuttavia gli uomini, nella loro follia hanno respinto la conoscenza
e la devozione nei suoi riguardi, e hanno onorato ciò che non è al
posto di ciò che è, e in luogo di Dio, che è realmente, essi hanno di­
vinizzato il nulla adorando la creatura al posto del Creatore, ed è qui
la follia»86.
84SullTncarnazione del Verbo, 11. Cfr. 15.
85 Contro ipagani, 8.
86Ibid., 47. Clemente d’Alessandria scrive allo stesso modo: «È solo la follia (mania), mi sem­
bra, che riempie una vita consacrata di tale ardore per il culto della materia» (Protreptico, X, 99,
1). Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO: «Lasciando da parte il Creatore, [essi] hanno adorato il cielo
stesso^ questo avvenne a causa della loro imbecillità e della loro demenza» (Omelie sui demoni,
I, 6). E nel modo del tutto corrente che le forme idolatriche del paganesimo sono considerate
dai Padri come forme di follia. Vedi tra l’altro: Costituzioni apostoliche, V, 15,3. CLEMENTE D’A-
LESSANDRIA, Protreptico, X, 96,4; Storia dei monaci d'Egitto, Vita di Simeone il Vecchio, 2. Teo-
DORETO DI CIRO, Storia dei monaci di Siria, I, 4; VI, 4; Discorso sulla Provvidenza, II, 580A.

59
Adorando le creature al posto del Creatore, gli uomini hanno scam­
biato la verità di Dio con la menzogna (cfr. Rm 1,25). Ignorando Dio
che èia Verità (cfr. Gv 1,9.17; 8,32; 14,17; 15,26; 16,13; E/4,21; lGv
5,6), l’uomo si priva di ogni possibilità di una conoscenza vera. Non
cogliendo più la realtà con il suo spirito nello Spirito, vede ogni cosa
attraverso il filtro deformante del peccato e delle passioni; egli acqui­
sisce così, lo si è già detto, una falsa intelligenza; «i peccatori, scrive
Origene, non vedono con gli occhi buoni, ma con quelli della “filo­
sofia [intelligenza della carne] ” (Col 2,8)»87, e per mezzo dei quali l’uo­
mo credendo di vedere, è in realtà cieco (cfr. Is 6,9-10; Gv 9,39; 2Cor
4,4). L’uomo decaduto vive così in un mondo falso, irreale, creato per
lui, del quale ignora il vero significato degli esseri e non percepisce più
i veri rapporti che esistono tra loro. Questa confusione, peraltro, è ac­
cresciuta dall’azione del diavolo, padre della menzogna (cfr. Gv 8,44),
che, come osserva san Giovanni Crisostomo, «turba così infelicemen­
te il nostro spirito, e fa errare il nostro giudizio sul vero apprezzamento
delle cose»88. San Giovanni Crisostomo vede in tutto questo una
forma di follia, nei riguardi degli uomini peccatori: «Essi sono real­
mente insensati [...], poiché non hanno mai imparato a conoscere la
vera natura delle cose»89.
L’uomo decaduto, lo si è detto, per la sua conoscenza divenuta car­
nale, giudica queste cose solo secondo la loro apparenza sensibile, igno­
rando ciò che esse sono per se stesse, nella loro essenza intelligibile.
Egli ha davanti alla sua intelligenza come un velo che gli impedisce di
cogliere ciò che è al di là dei fenomeni, cioè delle cose tali e quali es­
se appaiono ai sensi; tale velo lo immerge costantemente nell’illusio­
ne. «Il velo, nota san Massimo, è l’illusione prodotta dai sensi che
fissa l’attenzione dell’anima sulle apparenze superficiali degli oggetti
sensibili, e che sbarra il passaggio a quelle intelligibili»90. L’uomo, pren­
dendo per vero essere ciò che gli appare, introduce la confusione più
totale nella sua percezione della realtà; egli scambia il falso per il vero
e il vero per il falso, il male per il bene e il bene per il male91. Egli con­
sidera ciò che è meno reale (l’apparenza), come il più reale, e ciò che
è maggiormente reale (la realtà spirituale, intelligibile e divina) come
ciò che lo è di meno o anche come ciò che non lo è affatto. L’uomo
87 Omelie sui Numeri, XVII.
88 Consolazioni a Stagira, II, 2.
*9Ibid.
90Ambigua, 10, PG 91,1112B.
91 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, II, 3,73.
60
decaduto ha così una visione completamente rovesciata del reale;
egli conosce un mondo a rovescio: manifestazione evidente del suo de­
lirio. «Essi sono più stupidi degli asini, scrive Giovanni Crisostomo,
poiché ritengono incerte alcune cose che sono più chiare di quelle che
vediamo con i nostri occhi»92. «Se non volete credere che ciò che è più
chiaro», egli aggiunge volendo rimettere i peccatori, ai quali si rivol­
ge, sulla strada della conoscenza vera, «dovete credere piuttosto alle
cose invisibili che a quelle che vedete con i vostri occhi. Ciò che sem­
bra un paradosso, è nondimeno una verità»93. Quanto a san Maca­
rio, egli sottolinea il ruolo dell’azione demoniaca in questa confusio­
ne e illusione: «A causa della trasgressione del comandamento, [l’ani­
ma è] divenuta lo zimbello di tutte le potenze avverse. Infatti, esse
l’hanno fatta uscire dal suo buon senso, hanno intorpidito l’intelligenza
delle cose celesti al punto [...] che essa crede che ciò lo sia stato sin
dall’inizio»94.
Avendo perduto la conoscenza vera della realtà che possedeva
nello Spirito, e nondimeno avendo bisogno di conoscere, l’uomo de­
caduto la sostituirà non con un’altra sola conoscenza, ma con cono­
scenze di ogni sorta, corrispondenti alle molteplici apparenze nelle
quali egli ormai si muove. San Marco l’Eremita nota, così, che l’igno­
ranza e l’oblio di Dio «ottenebrano l’anima di una orribile e instabile
curiosità»95. Ma le conoscenze che ne risultano sono parziali, instabi­
li, diverse, ossia opposte, proprio come le realtà fenomeniche alle qua­
li esse si applicano. L’uomo, in queste conoscenze sostitutive, è limi­
tato a classificare le apparenze delle cose, non avendo queste appa­
renze esse stesse alcuna obiettività, poiché sono definite attraverso
l’intelligenza decaduta e deformata del loro osservatore. La conoscenza
razionale che cerca di unificare la conoscenza, superando i rischi
della percezione sensibile, non può farlo, lo si è detto, se non artifi­
cialmente, in virtù di convenzioni che essa si dà da se stessa come
base e che, dunque, le sono completamente relative96. Le diverse co­
noscenze dell’uomo decaduto sono solo proiezioni illusorie della sua
conoscenza decaduta97e, laddove una obiettività o una verità sembra
92 Cfr. Commento a san Matteo, XIII, 5.
93Ibid.
94 Omelie (Coll. II), XLV, 5. Cfr. 1.
95A Nicola, 10.
96 Cfr. Archimandrita SOPHRONY, Starets Silouane, Paris et Sisteron 1973, p. 99. L’episte­
mologia contemporanea riconosce, del resto, che la scienza non conosce la realtà tale quale es­
sa è.
97Filosoficamente, è la concezione «idealista» della conoscenza che ha ragione, in quanto es-
61
essere raggiunta (come nella conoscenza scientifica), tale obiettività e
verità si riducono di fatto all’accordo provvisorio delle coscienze ope­
ranti lo stesso tipo di proiezione e accordantesi in qualche modo nel­
la loro comune decadenza. Tale proiezione può, peraltro, variare a se­
conda dei valori ai quali si riferiscono queste coscienze e degli scopi
che esse perseguono. Le conoscenze scientifiche stesse non sono neu­
tre, ma, come sottolinea san Gregorio Palamas (che in questo raggiunge
le riflessioni epistemologiche più moderne), sono relative «all’inten­
zione di coloro che le usano», «appaiono secondo il pensiero di co­
loro che le usano e prendono facilmente la forma che dà loro il pun­
to di vista di quelli che le possiedono»98.
Questo è tanto più vero in quanto le conoscenze dell’uomo deca­
duto si costituiscono non solo per colmare il vuoto dell’intelletto la­
sciato dalla perdita della conoscenza spirituale, ma ancor più nel fine
di soddisfare bisogni molto spesso materiali, la maggior parte dei qua­
li è definita dalle stesse passioni. «Quando la conoscenza segue il de­
siderio della carne, scrive Isacco, prende su di essa la ricchezza, la
vanagloria, l’ornamento, il conforto del corpo, si attacca alla sapien­
za razionale che si adatta al governo del mondo e non smette di in­
ventare, rinnovare le tecniche e le scienze, sostiene tutto ciò che co­
rona il corpo in questo mondo visibile»99.
Se queste diverse forme di conoscenza possono dare all’uomo l’il­
lusione di conoscere veramente e possono colmare il vuoto che egli
prova, pertanto non gli sono di alcuna utilità fondamentale, perché
non gli servono affatto a realizzare il suo vero destino; esse non con­
tribuiscono in alcun modo alla sua deificazione. La conoscenza car­
nale, afferma sant’Isacco, «è chiamata conoscenza nuda, perché è spo­
gliata di ogni preoccupazione per Dio e isterilisce l’intelligenza pri­
vandola della ragione, fintanto che è dominata dal corpo. Essa non si
occupa che di questo mondo»100. Non dicendo nulla su Dio, non dice
nulla di essenziale sull’uomo né sugli esseri della creazione di cui es­
sa ha l’incarico spirituale. «Questo modo di conoscere», afferma san
Simeone il Nuovo Teologo, «è in realtà l’ignoranza di tutto ciò che è
buono»101.
sa descrive, pur senza esserne cosciente, le condizioni di conoscenza dell’uomo decaduto. Solo
in Dio l’uomo può acquisire una conoscenza perfettamente adeguata al suo oggetto.
98 Triadi, 1,1, 6.
99Discorsi ascetici, 63.
m Ibid., 63.
101 Catechesi, XV, 20-21.
62
2. Patologia del desiderio e del godimento
a) La deviazione del desiderio e la perversione del godimento
L’uomo è stato creato per unirsi a Dio. La facoltà del desiderio [ap­
petito, potenza o facoltà concupiscibile] (epithymia, epithymetikón,
epithymetike dynamis) è stata posta nella natura dell’uomo affinché
egli possa desiderare Dio, tendere ed elevarsi verso di lui, e unirsi a
lui102. E in ciò l’uso normale di questa facoltà, conforme alla natura di
questa105, e che contribuisce a costituire il suo stato di salute104. «L’oc­
chio è stato creato per la luce, l’orecchio per i suoni, ogni cosa per il
suo fine, e il desiderio dell’anima per slanciarsi verso il Cristo», af­
ferma san Nicola Cabasilas105. «Il Cristo, nostro Dio, è il fine di ogni
desiderio», afferma ugualmente san Simeone il Nuovo Teologo106. Unir­
si a Dio è per l’uomo, conformemente alla finalità della sua natura stes­
sa, dò che vi è di più desiderabile: «la pienezza del desiderabile, scri­
ve san Basilio, è quella di divenire Dio»107.
Ad ogni desiderio è legato un piacere; dall’orientamento naturale
del suo desiderio di Dio, l’uomo riceve un intenso godimento spiri­
tuale108. «Nell’organizzare la natura umana, ci insegna san Massimo,
Dio dotò il suo spirito di una potenza di piacere che lo rendeva ca­
pace di godere ineffabilmente di lui»109. Tale «piacere {èdone) divino
102E importante sottolineare, nel quadro della nostra dimostrazione, che la maggior parte dei
Padri greci non riservano il termine epithumia ai desideri sensibili e non esitano ad utilizzarlo
per indicare il desiderio dell’uomo per Dio (oltre a Massimo il Confessore, vedi tra gli altri, T eo-
DORETO DI CIRO, Terapia delle malattie elleniche, V, 77). Non esitano neppure ad applicare il ter­
mine èros all’amore dell’uomo per Dio (cfr. DIONIGI L’AREOPAGITA, Sui Nomi divini, IV, 12). Es­
si usano ugualmente il termine èdone per indicare sia il godimento spirituale che il piacere sen­
sibile: è in particolare il caso di Massimo il Confessore (vedi tra gli altri: Quindici capitoli, 14;
Questioni a Talassio, 1; 55; 58;). Vedi anche: ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 23. NlCETA Ste-
TATOS, Centurie, I, 68. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
103Cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 126. DIONIGI L’AREOPAGITA, Sui Nomi di­
vini, IV, 16. MASSIMO IL C on fessore, Questioni a Talassio, Prologo; 49. ISAIA DI SCETE, Asceti-
con, II, 5. NlCETA S te ta to s, Centurie, 1 ,16.
104 N ic eta S te ta to s, Centurie, 1 ,15.
105 La vita in Cristo, II, 90.
106Catechesi, XX, 24-26.
107Sullo Spirito Santo, IX, 29.
108 Cfr. A tan asio d ’A lessan d ria, Contro i pagani, 2. M assimo i l C on fessore, Questioni a
Talassio, 55. H salmista dice: «Poni nel Signore la tua gioia» {Sai37[36],4). GREGORIO DI NlSSA
ricorda che Eden significa «godimento» (La creazione dell’uomo, XIX, PG 44,196D).
109 Questioni a Talassio, 61. Parlando della bontà del Verbo di Dio che s’incarna e restaura la
natura umana, san Macario d’Egitto scrive: è «come se essa ordinasse a[11’]anima di vivere nel­
la sua divinità, di raggiungere la vita immortale, di godere il piacere incorruttibile e la gloria inef­
fabile» {Capitoli parafrasati, 67).
63
e beato»110costituisce per l’uomo la gioia più alta, perché dalla sua par­
tecipazione alla vita di Dio infinito, l’uomo trae un godimento infini­
to - è quanto il Cristo chiama «la gioia piena» (Gv 15,11)111-, che egli
non potrebbe raggiungere in nessun’altro modo, perché ogni ogget­
to al di fuori di Dio, essendo finito, non potrebbe portare che una gioia
parziale e limitata112. Per questo, così san Massimo annota: «Non vi è
che una sola felicità, la vita comune dell’anima con il Verbo»113; «l’u­
nico piacere è l’accesso alle cose divine»114.
Adamo nel suo stato originale che, lo ricordiamo, costituisce per
tutta l’umanità lo stato normale, non desiderava null’altro che Dio
«orientasse verso di lui tutta la sua capacità d’amare»115 e che rice­
vesse da lui ogni piacere, ogni gioia, ogni felicità. Dio era per l’uomo
l’unica fonte di godimento: «Egli trovava le sue delizie solo nel Si­
gnore», afferma san Gregorio di Nissa116; non godeva affatto, in pa­
radiso, di beni mescolati, precisa altrove, ma «il beneficio unico del
godimento concesso [all’uomo, era] il vero Bene stesso»117. In altri ter­
mini, l’uomo, nel suo stato primordiale non conosceva alcun piacere
sensibile. «Il Verbo di Dio, che ha creato la natura umana, non ha isti­
tuito con essa il piacere sensibile», fa notare san Massimo118.
II diavolo, geloso119del godimento spirituale al quale l’uomo era de­
stinato, gli suggerì allora di allontanare da Dio il suo desiderio e di orien­
tarlo in una direzione dalla quale Dio, mediante il comandamento
che gli aveva dato, lo aveva messo in guardia. «Il diavolo, spiega san
Massimo, con un inganno, ha convinto l’uomo di far passare il desi­
derio del suo animo da ciò che era permesso a ciò che era proibito e di
volgersi verso la trasgressione del comando di Dio»120. L’uomo fu ten­
tato dal Serpente di godere di altri piaceri a lui ancora sconosciuti ma
110GREGORIO DI N issa, Sulla verginità, V. Massimo il Confessore chiama ugualmente èdone
«la gioia dell’anima a proposito della virtù» (Questioni a Talassio, 58, scolio 22).
III Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, n, 92.
112Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 38.
113 Commento del Padre nostro, PG 90, 849CD.
114 Ibid., 901A. Vedi anche: EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, DI, 64; IV, 49; Trattato
pratico sulla vita monastica, 32. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, VI, 9,75,1. MACARIO D'E­
GITTO, Capitoli parafrasati, 106.
115M assimo il C on fessore, Ambigua, 45, PG 9 1 ,1353C.
116Sulla verginità, XII, 4,8. Vedi anche: Discorso catechetico, 8; La creazione delluomo, XIX,
PG 44,197B; XX, PG 44,200C.
117La creazione dell’uomo, XIX, PG 44,197B.
118 Questioni a Talassio, 61.
119Questo elemento distintivo è spesso sottolineato dai Padri. Vedi per esempio: MASSIMO
IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, Prologo. GREGORIO DI NlSSA, Discorso catechetico, 6.
120Commento del Padre nostro, PG 90, 904C.
64
più immediatamente e facilmente accessibili121dei godimenti spiritua­
li verso i quali la sua natura lo faceva tendere, ma ai quali egli ancora
non accedeva che parzialmente; il loro possesso perfetto non doveva
essere ottenuto che al termine della sua crescita spirituale. Questi pia­
ceri, che il Maligno propose all’uomo, erano legati al desiderio di realtà
sensibili che l’uomo nel suo stato originale ignorava in quanto tali.
Adamo era destinato a godere delle stesse realtà sensibili (cfr. Gn
2,16)122, ma a gioirne spiritualmente, cioè in Dio, per mezzo delle lo­
ro «ragioni» spirituali, dei loro lógoi. San Massimo ci insegna che Dio,
nel creare Adamo come «la creatura ultima, una specie di laboratorio
in cui tutto si concentra», lo ha introdotto «provvidenzialmente tra gli
esseri come legame naturale tra gli estremi» della creazione, donan­
dogli la possibilità di possedere «naturalmente, nella sua situazione
mediana, ogni facoltà di unificazione grazie alla relazione delle sue par­
ti con tutti gli estremi». Dio allora gli aveva dato come compito di «ren­
dere manifesto il grande mistero del piano divino, nel condurre ar­
moniosamente a buon fine l’unificazione reciproca degli estremi tra
gli esseri, dai più vicini ai più lontani, e dai minori ai più eccelsi, at­
traverso una tensione la cui conclusione culminerà in Dio»123. Egli ave­
va chiaramente come compito, per mezzo della conoscenza e della con­
templazione dei lógoi delle creature e attraverso l’amore, di unificare
la creazione sensibile e di unire le sensibili e le intelligibili124.
Ma Adamo, facendo cattivo uso della sua libertà, si è allontanato da
questo compito che doveva alla fine unirlo a Dio e unire tutta la crea­
zione in lui; egli ha così pervertito la sua natura; egli, afferma san Mas­
simo, si è «messo in movimento contro la sua natura, di sua iniziativa
e follemente (anoetos), facendo un cattivo uso della facoltà naturale,
che gli era stata affidata nella sua costituzione in vista dell’unificazio­
ne dei separati, per operare piuttosto la separazione degli uniti»125.
Adamo si è chiaramente messo a considerare e a desiderare le crea­
ture e a volerne godere in esse stesse, e per lui stesso, egoisticamente,
cioè al di fuori di Dio, in altre parole e come dice san Massimo, a vo­
lersi «impadronire delle cose di Dio senza Dio e prima di Dio e non
secondo Dio»126. Così, al desiderio e al piacere spirituali conformi al-
121 Cfr. A tan asio d ’A lessan dria, Contro i pagani, 3.
122Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), Xin, 1.
12>Ambigua, 41, PG 9 1,1305B. Cfr. 1305C.
124Cfr. Aid., 1305D-1308A.
125Ibid., 1308C.
126Ibid., 10,1156C.
65
la sua natura, egli ha sostituito un desiderio e un piacere carnale con­
tro natura127. «Un piacere introdotto con l’inganno fu l’inizio della ca­
duta», scrive san Gregorio di Nissa128. E san Cirillo di Scitopoli ag­
giunge: «Alla bellezza intelligibile Adamo preferì ciò che era apparso
dilettevole ai suoi occhi carnali»129. Spiegando questo modo di proce­
dere, san Massimo constata: «Il desiderio, attraverso la dolcezza del
piacere dei sensi, allontana lo spirito della percezione divina dagli in­
telligibili che gli è connaturale»130.
Cessando di desiderare e di amare Dio, l’uomo viene preso da un
amore carnale per se stesso (che i Padri e in particolare san Massimo
chiamano filautia [phiìautta]) così come per la realtà sensibile, traen­
do da se stesso ormai e da questa, principalmente attraverso i suoi sen­
si e quindi il suo corpo, ogni godimento e ogni piacere131. «Gli uomi­
ni, scrive sant’Atanasio, trascurando le realtà superiori e mostrando­
si lenti ad afferrarle, cercheranno piuttosto quelle che sono a loro
più vicine. Ora, dò che è più vicino, sono il corpo e i sensi: così gli uo­
mini allontanarono il loro spirito dagli intelligibili e si misero a con­
siderare se stessi. Considerando se stessi, attaccandosi ai propri cor­
pi e alle altre cose sensibili, ingannandosi, per così dire, nella loro cau­
sa, giunsero a desiderare se stessi, preferendo il proprio bene alla
contemplazione delle realtà divine»132.
Questa deviazione del desiderio innato di Dio, questa conversione
della potenza del desiderio dell’uomo che l’allontana da Dio, verso il
quale era orientata naturalmente, per volgerla contro natura o «con­
tro ragione»133verso la realtà sensibile considerata in se stessa, costi­
127 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talassio, 61.
128Sulla verginità, XII, 4.
129 Vita di san Saba, 3.
130Commento del Padre nostro, PG 90, 888C. Vedi anche SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Ca­
techesi, XV, 18-19.
131 Occorre sottolineare, con Giovanni Damasceno, che il piacere sensibile o carnale non è
solo corporeo: «Dei piaceri, alcuni riguardano l’anima, altri il corpo. Dei primi, vi sono quelli
che interessano solo l’anima stessa [...]. I piaceri del corpo sono detti tali, ma in realtà, lo sono
soltanto per la congiunzione anima-corpo, il che vale per il nutrimento, la sessualità, ecc., e non
si trova piacere che sia solamente fisico» (Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 13). MASSI­
MO IL CONFESSORE spiega così il piacere sensibile e la sua relazione al desiderio sensibile: «H pia­
cere [sensibile] non è altro che una sorta di sensazione formata nel senso da un oggetto sensi­
bile, o, in altri termini, un modo di attività sensitiva corrispondente a un desiderio irrazionale,
e il senso messo in movimento nella linea del desiderio prodotto dal piacere quando percepi­
sce il sensibile» (Ambigua, 10, PG 9 1 ,1112C).
132 Contro i pagani, 3.
133 Cfr. G iovan ni D am asceno, Discorso utile all’anima.

66
tuisce una perversione, uno snaturamento134, o una malattia di que­
sta facoltà, che colpiscono, lo vedremo, tutta la natura dell'uomo.
Infatti, ricorda san Massimo, «il male è la mancanza nel dirigere ver­
so il fine l’azione delle facoltà innate. Non è altro che questo. O an­
cora: il male è il movimento irrazionale delle facoltà naturali verso
un’altra cosa diversa dal fine, secondo un giudizio errato. Io chiamo
fine la Causa degli esseri, verso il quale ogni cosa si porta per un de­
siderio naturale»135. Correlativamente, il piacere sensibile appare co­
me «l’energia dell’anima contro natura», piacere che, afferma san Mas­
simo, «per formarsi non può avere altra origine se non la rinuncia del­
l’anima, quando questa si scarica delle cose secondo la natura»136. E
per questo che i Padri spesso parlano della «malattia del piacere» e
considerano l’amore del piacere (philédonia) come una delle prime e
più importanti malattie spirituali dell’uomo decaduto137.
Ci si può domandare ora qual è la causa prima della caduta del­
l’uomo: se è perché l’uomo orientando il proprio desiderio verso la
realtà sensibile ha ignorato Dio, o se è perché dopo aver ignorato Dio
si è rivolto verso questa. I Padri tendono a privilegiare la prima solu­
zione, sottolineando l’immaturità e lo stato infantile dell’uomo nel Pa­
radiso, che ha ceduto alla suggestione del Maligno di appropriarsi «be­
ni» più facilmente e più immediatamente accessibili a lui. Abbiamo
appena visto sant’Atanasio sottolinearlo. San Massimo adotta una po­
sizione simile: «Il Maligno, coprendo la sua gelosia con una maschera
di benevolenza, e convincendo fraudolentemente l’uomo a rivolgere
ü suo desiderio verso altra cosa che non la Causa degli esseri, è riu­
scito a fabbricare l’ignoranza della Causa»138.
Ma è ugualmente possibile insistere sull’altro punto di vista. Vi è,
infatti, una interazione tra le due cause, una dialettica che san Massi­
mo ricorda in quest’altro passo che descrive il processo della caduta,
in cui vediamo che il desiderio del sensibile e del suo godimento da
un lato, e l’ignoranza di Dio dall’altro, ma ugualmente questo deside-

1,4 Cfr. NlCETA Stetatos, Centurie, 1,15; 16.


135 Questioni a Talassio, Prologo. Cfr. DIONIGI l ’A reopagita, Sui Nomi divini, IV, 16.
136 Questioni a Talassio, 58.
137 Si troverà l’amore del piacere esplicitamente considerato come una malattia in: Apofteg-
mi, XV, 136. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, XI, 113; Lettere, 7,192. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Centurie sulla carità, II, 44; 70. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all anima. N l­
CETA S te ta to s, Centurie, n, 22.
138 Questioni a Talassio, Prologo. Cfr. 65.
67
rio e la filautia, si accrescono correlativamente, si condizionano reci­
procamente e si rafforzano mutuamente: «Più l’uomo andava verso le
cose sensibili attraverso i suoi soli mezzi, più l’opprimeva l’ignoranza
di Dio; più era soggiogato dall’ignoranza di Dio, più si abbandonava
al godimento delle cose materiali conosciute empiricamente; più egli
s’impregnava di questo godimento, più eccitava la filautia che ne era
la conseguenza; più coltivava la filautia, più inventava molteplici mo­
di per ottenere il piacere, frutto e scopo dell’amore di sé»139.
Le molteplici forme di desiderio, attraverso le quali l’uomo deca­
duto cerca in diversi modi di ottenere il piacere sensibile al quale
egli vota ormai la sua esistenza, ma anche i mezzi che mette in opera
psicologicamente e fisicamente per allontanare il dolore sia fìsico che
psichico che, come vedremo in seguito, vi si riallaccia, costituiscono
le passioni. Queste appaiono come invenzioni dell’uomo per rispon­
dere ai suoi nuovi bisogni. «Cercando di ottenere il piacere e di evi­
tare la sofferenza, spinto dalla filautia, l’uomo inventa forme diverse e
innumerevoli di passioni corruttrici», scrive san Massimo140 che più
avanti aggiunge: «I vizi si presentano sotto molteplici e varie forme,
secondo il legame di ciascuno con la natura umana [...]. Essi obbli­
gano l’uomo, assoggettato al desiderio del godimento e al timore
della sofferenza, a servirli e a inventare numerose forme di passioni se­
guendo le possibilità offerte dalle circostanze e dai mezzi»141.

b) Economia del desiderio


I desideri spirituali, convergendo nel desiderio di Dio, e i desideri
sensibili «carnali», non costituiscono come si potrebbe credere a pri­
ma vista due specie di desideri diversi per la loro provenienza: l’uomo
nel suo essere possiede un’unica potenza di desiderio [concupiscibi­
le] (epithymia, epithymètikón, epithymètiche dynamis)u2.
Nell’uomo che abbiamo definito normale (Adamo prima del suo
peccato, il santo, uomo restaurato in Cristo), questa facoltà di deside­
rio, conformemente alla sua natura, è interamente volta verso Dio, «og­
getto» naturale e normale del desiderio umano.
139Ibid., Prologo.
140Ibid. Cfr. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 102. G iovanni D am asceno, Discorso uti­
le all9anima. TEOGNOSTO, Sull’azione e la contemplazione, 4.
141Ibid.
142 Cfr. T e o d o r e to DI CIRO, Terapia delle malattie elleniche, V, 77.

68
I desideri sensibili, che appaiono nell’uomo decaduto e peccatore,
nella loro natura profonda non sono altro che questo stesso deside­
rio che, distolto dal suo normale fine divino, si è orientato contro na­
tura e reinvestito nella realtà sensibile dividendosi nella sua moltepli­
cità.
Tutti i desideri dell’uomo decaduto appaiono così costituiti dalla
decadenza e dal reinvestimento patologico del desiderio naturale e ori­
ginario di Dio, attraverso il suo allontanamento contro natura, attra­
verso la sua perversione; essi ne sono dei surrogati, così il piacere sen­
sibile che l’uomo ottiene per mezzo di essi non è che un simulacro e
una contraffazione del godimento spirituale e del vero bene143. Molti
insegnamenti patristici documentano questa concezione144. La rela­
zione alla carne, scrive san Massimo, «divide l’amore che dobbiamo a
Dio solo»145. Origene, indicando le due direzioni divergenti che può
prendere l’unica facoltà erotica che è nell’uomo, scrive più precisa-
mente: «Uno dei movimenti dell’anima è l’amore. Noi ne usiamo per
amare bene quando amiamo la sapienza e la verità; ma quando il no­
stro amore si abbassa a cose meno buone, è la carne e il sangue che
amiamo»146. Abba Isaia, in maniera più precisa, afferma: «Vi è nello
spirito il desiderio conforme alla natura, fonte di carità e a causa del­
la quale Daniele è chiamato “uomo di desideri” (cfr. Dn 9,23). Que­
sto desiderio, il nemico lo ha trasformato in desiderio vergognoso, che
ci porta a bramare tutto ciò che è impuro»147. San Gregorio di Nissa
si mostra del tutto esplicito quando ricorda coloro che «dopo aver ca­
povolto ogni loro potenza di desiderio e deviato lo slancio148del loro
pensiero dalle realtà divine verso gli oggetti bassi e materiali, apriro­
no alle passioni tutto il campo del loro interno, al punto da cessare
ogni movimento verso le realtà dell’alto, e a veder disseccare com­
pletamente il desiderio [di Dio, delle realtà spirituali], il cui corso
rovesciato si è diretto verso le passioni»149. San Gregorio di Nissa al­
trove parla anche dell’uomo che, «rubando l’amore dovuto a Dio so­
143«Né l’amore né la gioia possono essere suscitati dai beni di questo mondo, i quali non so­
no altro che contraffazioni, ciò che sembra buono è solo un simulacro del bene», scrive Nicola
Cabasilas {La vita in Cristo, II, 91).
144 In particolare la si troverà in GREGORIO DI NlSSA {Sulla verginità, V; VI, 2; IX, 1; XI, 3;
XVin, 3) e in MASSIMO IL CONFESSORE {Centurie sulla carità, III, 71; Questioni a Talassio, 49;
Commento del Padre nostro, PG 90, 896C).
145Ambigua, 10, PG 91,1144B.
146 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 1. Vedi anche Omelie sulla Genesi, 1,17.
147Asceticon, II, 5.
148 Orme, che possiamo anche tradurre con «impulso» o «desiderio».
149Sulla verginità, IX, 1.
69
lo, lo sperpera in passioni umane»150. Egli scrive ancora: «Superando
come bassi ed effimeri tutti gli oggetti che attirano i desideri degli uo­
mini, che sono ritenuti belli e dunque ritenuti degni di zelo e di fa­
vore, non dobbiamo sperperare in alcuno di essi la nostra potenza di
desiderio»151.
Una caratteristica essenziale della facoltà di desiderio, che testimo­
nia che il desiderio dell’uomo è fondamentalmente unico, è quella che
saprà dividersi tra Dio e la realtà sensibile. «Uno stesso cuore, scrive
san Giovanni Crisostomo, non può bastare a più passioni. Una pas­
sione scaccia l’altra, ed essendo divisa, diviene più debole: la passione
dominante attrae tutto a sé»152. A sua volta, Isacco il Siro annota: «Nes­
suno può possedere insieme l’amore di Dio e il desiderio del mon­
do»153. «La nostra potenza di desiderio, afferma più precisamente san
Gregorio di Nissa, non è di tale natura che possa nello stesso tempo
servire le voluttà corporee e il matrimonio spirituale»154. «L’occhio, in­
fatti, egli spiega, non ha la capacità di vedere simultaneamente due co­
se, a meno di applicarsi di volta in volta e separatamente a ciascuno
degli oggetti visibili; neanche la lingua potrà essere al servizio di idio­
mi diversi, pronunciando nello stesso tempo parole ebraiche e paro­
le greche; l’udito non ascolterà simultaneamente un racconto di avve­
nimenti e un insegnamento didattico»155. È opportuno qui ricordare
l’insegnamento di san Paolo stesso: «La carne infatti ha desideri con­
tro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poiché questi
due elementi sono contrapposti vicendevolmente, cosicché voi non fa­
te ciò che vorreste» (Gal5,17). Possiamo così applicare a questo con­
testo la parola del Cristo: «Nessuno può servire a due padroni; poiché
od odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e tra­
scurerà l’altro» (Mi 6,24; Le 16,13).
Così, nell’investire il suo desiderio in un campo, l’uomo per questo
fatto stesso lo allontana automaticamente dall’altro. «La cura dell’uno
trascina necessariamente la separazione dall’altro», constata san Gre­
gorio di Nissa156. Perciò, più l’uomo desidera e ama gli oggetti sensi­
bili, meno desidera e ama Dio. «Da cosa deriva che il nostro amore

lso Ibid., 2.
151Ibid., XI, 3.
152 Commento a san Giovanni, II, 5.
153Discorsi ascetici, 4. Cfr. 44.
154Sulla verginità, XX, 3.
155Ibid., 2.
156Ibid.
70
per Gesù Cristo è così debole, si chiede san Giovanni Crisostomo, se
non dal fatto che noi esauriamo tutta la forza della nostra anima in va­
ne passioni?»157. Colui che non desidera affatto Dio, necessariamente
desidera gli esseri sensibili e ama il mondo158: «Colui che non sa cam­
minare sulla via spirituale [...] concentra tutti i suoi sforzi sulla carne»,
osserva san Massimo159. E san Gregorio Palamas constata che l’uomo
che non ama Dio con tutta la sua anima e con tutto il suo cuore «vol­
teggia attraverso questo mondo ed esaurisce in favore di questo tutto
o quasi tutto l’amore di cui la sua anima è capace»160. Al contrario, co­
lui che desidera e ama Dio veramente non saprà desiderare nessun og­
getto sensibile né provare desideri passionali, perché egli investe in
Dio e nelle realtà spirituali tutta la potenza del suo desiderio. «Cam­
minate sotto l’influsso dello Spirito e allora, non eseguirete le bramo­
sie della carne» insegna l’apostolo san Paolo (Gal5,16), e san Diado­
co di Foticea domanda: «In colui che si nutre dell’amore divino,
quale desiderio dei beni di questo mondo rimarrà?»161. «In coloro che
hanno elevato il loro spirito verso Dio ed esaltato la loro anima attra­
verso la passione di Dio, [la carne] non possiede più desideri contra­
ri allo spirito», afferma nello stesso senso san Gregorio Palamas162. San
Simeone il Nuovo Teologo, da parte sua, scrive: «L’anima unita a
Dio per mezzo dell’amore non potrà essere trascinata dai piaceri e da­
gli appetiti del corpo, né verso alcun altro desiderio per alcunché di
visibile e anche d’invisibile, sia oggetto, sia passione, perché il dolce
amore di Dio tiene legato lo slancio del suo cuore, o per meglio dire,
ogni inclinazione della sua volontà. E questa, una volta unita al suo
Creatore, come dunque può essa bruciare di febbre per le cose del cor­
po o realizzare, per poco che sia, i propri desideri? In nessun modo»163.
Il fatto che il desiderio, sviato da uno dei due campi (spirituale o
sensibile/carnale) in cui è investito, ora si trova necessariamente rein­
vestito nel campo opposto, si spiega con il carattere mobile dell’ani­
ma umana, con il fatto che l’uomo non può smettere di desiderare e
157 Commento a san Matteo, IV, 9.
158 Noi qui intendiamo il termine «mondo» nell’accezione spirituale tradizionale, secondo
cui esso indica la carne, le passioni.
159 Centurie sulla carità, IV, 65.
160 Triadi, II, 1,18.
161 Cento capitoli gnostici, 90.
162 Triadi, 1,2, 9.
163 Catechesi, XXV, 109-121. Cfr. IH, 175.
71
che dunque, se egli ritira il suo desiderio dall’oggetto sul quale era por­
tato fino ad allora, prova immediatamente il bisogno di dargliene un
altro164. San Niceta Stetatos spiega: «Poiché l’anima per natura è mo­
bile, è soggetta al cambiamento; se trascura l’assiduita alle cose divi­
ne, essa cade allora nelle preoccupazioni terrene»165. È lo stesso ar­
gomento che utilizza sant’Atanasio quando descrive la caduta origi­
nale dell’uomo: «L’anima, egli scrive, è mobile per sua natura, e anche
se essa è distolta dal bene, non smette di essere in movimento. Essa,
dunque, si muove ma non più verso la virtù né per vedere Dio: vol­
gendo il suo pensiero a ciò che non è, trasforma la potenza che è in es­
sa e se ne serve per volgersi verso i desideri che ha immaginato, poi­
ché essa è stata creata indipendente. Può essere incline verso il bene,
ma pure si allontana dal bene, e, allontanandosi dal bene, pensa a
cose del tutto opposte, perché essa non può assolutamente smettere
di essere in movimento, essendo per natura, come ho appena detto,
molto mobile»166.
Quando nel capitolo seguente avremo esaminato le diverse pas­
sioni, vedremo che vi è un’economia del desiderio sul piano verticale
appena ricordato. Vedremo, altresì, che tale economia fa sì che il de­
siderio si investa nelle realtà spirituali o nelle realtà sensibili, doven­
dosi allontanare dalle une quando prende le altre per oggetto, anche
sul piano orizzontale, tra i diversi oggetti di passioni: investendosi in
una o più tra di esse ci si distoglierà pertanto dalle altre.

c) Patologia del desiderio e del godimento nell’uomo decaduto


Parlando del desiderio degenerato dell’uomo decaduto, san Basilio
Magno scrive: «Il desiderio è la malattia dell’anima (epithymia nósos
estìpsychis)»167. Malattia dell’anima, il desiderio lo è in molti modi.
Allontanando il suo desiderio da Dio che ne è il fine proprio168, na­
turale, normale, per orientarlo verso se stesso e gli esseri sensibili e nel
goderne al di fuori di Dio, l’uomo indubbiamente ne cambia l’uso169,
164Cfr. ORIGENE, Omelie sui Numeri, XX, 2. GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, VI, 2.
16511anima, 48. Cfr. 41.
166Contro i pagani, 4.
167Lettere, 366.
168 Cfr. G re g o rio DI N issa, Sulla verginità, xvm, 2; 3.
169Ibid., 3.
72
non lo dirige più conformemente verso la sua natura170, agisce contro
natura. NeU’affidare alla sensibilità la sua potenza naturale di deside­
rio, l’uomo «si trovò orientato, contrariamente alla sua natura, verso
il sensibile per mezzo del piacere che agiva in lui», spiega san Massi­
mo171. E san Niceta Stetatos scrive: «Se egli desidera i doni di Dio sta­
bili che rimangono per sempre, [...] allora l’uomo è mosso secondo
natura»; «se egli nutre desideri portati verso la materia, volti verso il
fugace, senza durata [...], allora egli è mosso contro natura e non ra­
zionalmente»172. Non razionalmente, cioè contrariamente alla ragione
(lògos) che in ultima analisi è, secondo la prospettiva patristica, confor­
mità al Logos, al Verbo. In altri termini, distogliendo il suo desiderio
dal Cristo, l’uomo sragiona, si comporta in maniera insensata, folle173.
È per questo che san Massimo, a proposito del desiderio dell’uomo
distolto dal suo scopo divino, parla dello «slancio contro natura che
getta nel sensibile lo spirito in follia»174.
Il desiderio rivoltato fa vivere l’uomo in un mondo a rovescio, in
cui i valori sono capovolti, in cui le cose hanno perso il loro ordine au­
tentico e le vere proporzioni: «infatti, esso rende gli esseri che sono
grazie alla Causa e Natura unica, la sola desiderabile [...], più deside­
rabile di questa», e «per questo rende la carne più apprezzabile dello
spirito, e il godimento di ciò che è visibile più gradevole della gloria e
del fulgore dell’intelligenza»175; l’uomo teme e respinge le cose desi­
derabili, mentre consacra ogni sua cura alle cose indesiderabili176, con­
stata san Massimo. L’uomo decaduto si mette così a vivere in pieno
delirio.
Tanto più che, nel perdere il senso del vero Dio, egli giunge, nel
nuovo orientamento del suo desiderio e nella scoperta di nuovi godi­
menti, ad assolutizzare i desideri e i piaceri sensibili, e attraverso essi
i loro oggetti, che egli pone così al posto di Dio, come spiega san Mas­
simo: «Abbandonato alle sole emozioni dei sensi sull’esempio delle
bestie prive d’intelligenza, l’uomo allontanato dalla bellezza spiritua­
le e divina, trova attraverso l’esperienza della parte esteriore e corpo-
mibid.
171 Questioni a Talassio, 61.
112L'anima, 33; 34.
173 Ecco perché Giovanni Crisostomo potrà dire: «Noi che abbiamo affidato i nostri cuori
non all’amore insensato, ma al più nobile, al più elevato degli amori» (,Sulla compunzione, 1,2).
174 Questioni a Talassio, 61.
175 M assimo IL C on fessore, Commento del Padre nostro, PG 90, 888C.
176 Questioni a Talassio, Prologo.
73
rea della sua natura, una creazione che egli eleva al posto di Dio,
perché essa risponde meglio ai bisogni del suo corpo»177. L’uomo al­
lora si fa delle realtà sensibili una moltitudine di falsi dèi, di idoli, che
sono della stessa natura dei suoi desideri perversi e a loro misura.
In queste relazioni con le creature, l’uomo non ha più come scopo
Dio, ma il proprio piacere, e non ha altra norma se non i propri desi­
deri sensibili. Egli non considera né tratta più gli esseri relativamente
al loro lógoi, alle loro «ragioni spirituali», ma relativamente al grado
del suo desiderio nei loro riguardi, ed è dall’intensità del piacere che
può trarre da essi che definisce la loro importanza e misura il loro
valore. Il mondo diviene, così, per l’uomo una proiezione fantasma-
tica dei suoi desideri, le creature mezzi per soddisfare le sue passio­
ni, strumenti del godimento sensibile. Le relazioni dell’uomo con tut­
ti gli esseri della creazione e con gli stessi suoi simili vengono così a
trovarsi degenerate, poiché questi, perdendo ai suoi occhi il loro va­
lore spirituale, si vedono ridotti a oggetti di godimento dati in pasto
alle sue molteplici passioni. I rapporti tra gli esseri umani divengono
in fondo rapporti da oggetto a oggetto, affidati ai capricci dei desi­
deri e dei piaceri sensibili.
Mosso dal suo desiderio pervertito, l’uomo s’inganna costantemente
nella definizione e nella ricerca del suo bene, e del bene in generale.
Desiderando Dio, l’uomo desiderava il vero Bene, e giudicava tutto
esclusivamente in funzione di lui. Non conoscendo e non desideran­
do che Dio, egli rigettava il male. A causa del peccato, egli gusta il frut­
to dell’albero della conoscenza del bene e del male: per il suo desi­
derio del godimento sensibile, egli lascia il Bene assoluto e unico per
fare l’esperienza del male e inaugurare un modo di esistenza in cui il
bene e il male per lui arrivano a confondersi. Egli «accumula in sé,
scrive san Massimo, una conoscenza confusa del bene e del male, pro­
dotta per esperienza esclusiva dei sensi»178. Il male, nella coscienza del­
l’uomo decaduto, non è più considerato come tale, ma è spesso scam­
biato per il bene. Nello stato di caduta, è il piacere che diviene il cri­
terio del bene: la conoscenza del bene e del male, che gli uomini
acquistano con il loro peccato, non indica più la vera conoscenza né
il discernimento che essi avevano quando conoscevano il vero Bene
e rifiutavano il male, ma piuttosto, come fa notare san Gregorio di Nis-
sa, «una disposizione interiore di fronte a ciò che a [loro] è gradevo-
1,7ibid.
mibid.
74
le»179. L’uomo può così indicare e ricercare come bene ciò che gli è
gradito per la sola ragione che questo gli è gradito, anche quando que­
sto gli è obiettivamente nocivo, e fuggire come male ciò che gli è obiet­
tivamente un bene per la sola ragione che ciò gli causa, sul piano
della sensibilità, un disappunto. Bene e male sono così definiti sog­
gettivamente a partire dal desiderio sensibile e in funzione del piace­
re ricercato, e l’uomo opera continuamente una confusione tra dò che
gli appare, relativamente al suo desiderio decaduto, essere il bene, e il
bene reale e vero. A questo proposito così scrive san Gregorio Pala-
mas: «L’uomo, afferrato e condotto dai desideri cattivi, tende verso dò
che gli sembra bello e manifesta con le sue azioni che ignora dò che è
il vero Bello; l’uomo posseduto da una collera mal posta lotta per ciò
che gli sembra essere il Bene; ogni uomo, senza eccezione di alcuno,
se è attaccato a tona cattiva vita, si vota a ciò che gli appare come Mi­
gliore, e non a dò che lo è realmente»180. L’espressione usata dalla Scrit­
tura di «conoscenza dd bene e dd male» per indicare l’atteggiamen­
to nuovo che l’uomo acquista con il suo peccato non significa altro,
secondo san Gregorio di Nissa, che questa confusione del falso be­
ne, verso il quale si volge il desiderio sensibile, con il vero bene: «Da­
to che, dunque, la maggior parte delle persone, egli scrive, pone il be­
ne in ciò che affascina i sensi e che una stessa parola indica il bene rea­
le e il bene apparente, il desiderio, che va verso il male come se fosse
un bene, è chiamato dalla Scrittura la “conoscenza dd bene e dd ma­
le”, volendo dire con questo termine “conoscenza” tale disposizione
interiore e tale mescolanza»181.
Questo stato in cui l’uomo confonde il male con il bene, e scam­
bia l’uno per l’altro, può essere considerato come un vero stato di de­
lirio, cosa che nota a suo modo sant’Atanasio: «Vedendo che il pia­
cere era un bene per lei, l’anima nd suo errore, abusò dd nome dd
bene, e pensò che il piacere era il bene assoluto e vero: proprio come
un uomo che, colpito da demenza, redama una spada per colpire qud-
li che incontra e crede che questo sia saggezza»182. San Gregorio di
Nissa afferma frequentemente che l’uomo a questo punto è vittima di
una illusione183. Le cose che per noi sono l’occasione dd male «all’i­
179La creazione dell’uomo, XX, PG 44,197CD.
180 Triadi, II, 3,73.
181 La creazione dell’uomo, XX, PG 44, 200B.
182 Contro i pagani, 4.
183Gregorio di Nissa impiega varie volte il termine apdtè nelle sue Omelie sull’Ecclesiaste. Nel
trattatato Sulla verginità (XIII, 1), egli parla delle «illusioni del gusto e della vista».
15
nizio sembrano desiderabili e sono cercate come un bene a causa di
un inganno», egli scrive184. Il «male, nelle sue profondità, tiene la mor­
te come una trappola nascosta, ma ricorrendo all’inganno fa appari­
re un’immagine di bene», aggiunge ancora il santo autore185. Di que­
sta illusione, egli spiega, il diavolo è l’ispiratore: «Accadde che l’intel­
ligenza, indotta in errore nel suo desiderio del vero bene, fosse sviata
verso ciò che non è; ingannata dal promotore e consigliere del vizio,
essa si lasciò persuadere che il bene era tutto l’opposto del bene»186. Il
Maligno si presenta come un incantatore che strega letteralmente l’uo­
mo consenziente, «facendo brillare la grazia esteriore delle apparenze
e, come un ciarlatano, affascina il nostro gusto per qualche piacere dei
sensi»187.
L’uomo, sotto il dominio di questa illusione, si pone in un mondo
di apparenze, non vedendo e non considerando che la realtà sensibi­
le come la sola che gli indica il suo desiderio decaduto, e crede che
non esista il bene al di fuori di questa. «L’anima, scrive sant’Atanasio,
pone il suo piacere nelle passioni del corpo e nei soli beni presenti;
guardando le loro apparenze, crede che non esista altro se non quel­
lo che si vede, e che solo le cose passeggere e corporee siano il bene»188.
Questa riduzione della realtà a ima parte di se stessa, e la visione fal­
sata che ne risulta, appare anche come uno stato delirante introdotto
dal decadimento del desiderio, tanto più che l’uomo, nel desiderare
gli esseri secondo la loro apparenza sensibile e al di fuori di Dio, e nel
pretendere di goderne in loro stessi, desidera e gode di un fantasma,
si attacca a qualcosa che non ha un’esistenza reale, come abbiamo già
dimostrato.
La perversione della loro facoltà di desiderio ha per gli uomini al­
tre conseguenze particolarmente gravi. «La loro vita, scrive san Mas­
simo, diventa deplorevole»189. Essi si mettono, infatti, a elevare a dèi e
ad adorare le passioni che Dio aveva loro proibito persino di conce­
pire190; «essi onorano, così, scrive ancora, la causa stessa dell’annien­
tamento della loro esistenza e inseguono essi stessi, senza volerlo, la
184 La creazione dell’uomo, XX, PG 44, 200B.
185Ibid.y 200A.
186Discorso catechetico, XXE.
187La creazione dell’uomo, XX, PG 44, 200C.
188 Contro i pagani, 8.
189 Questioni a Talassio, Prologo.
190Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, xm, 101-107.
76
causa della loro corruzione»191. L’uomo decaduto, con i suoi desideri
contro natura, si autodistrugge. «Gli uomini, come dei selvaggi, divo­
rano la loro stessa natura», constata san Massimo192. Per il piacere sen­
sibile, l’uomo avvelena se stesso, nota altrove193. «L’anima è strozzata
dal fuoco dei piaceri del corpo», afferma da parte sua san Marco l’E­
remita194.
Quanto a san Gregorio di Nissa, egli afferma che «l’impulso che
trascina verso il male gli esseri viventi è una malattia della nostra na­
tura»195. Infatti, allontanando il suo desiderio da Dio e abbandonan­
dosi ai desideri sensibili, l’uomo non perverte e rende malata solo la
stessa potenza di desiderio, ma introduce il turbamento in tutto il suo
essere, in particolare facendo funzionare tutte le sue facoltà a rovescio,
in modo disordinato, sregolato. Dedicando tutte le sue cure alle cose
indesiderabili, l’uomo, sottolinea san Massimo, «altera le facoltà del
suo animo, che segue le cose deperibili senza discernimento e senza
avere coscienza della sua perdizione in seguito al totale accecamento
nei riguardi della verità»196.
Uno dei turbamenti più notevoli che l’uomo deve subire è la con­
fusione delle sue facoltà. San Massimo pensa così che il vitello d’oro,
che simboleggia la realtà sensibile eretta a idolo, rappresenta nello stes­
so tempo «la mescolanza e la confusione delle facoltà naturali tra lo­
ro»; o piuttosto, egli dice, «è una congiunzione passionale e stolta, che
determina lo stolto scompiglio delle passioni contro natura»197.
Gli effetti del capovolgimento del desiderio si fanno sentire in­
nanzitutto sull’intelligenza. Abbiamo esaminato la sua patologia nel
capitolo precedente. Notiamo qui solo che, accecata dal piacere198, e
ingannata da esso199, l’intelligenza non esercita più la sua funzione na­
turale di conoscenza, di contemplazione e di discernimento200, nem­
meno quella, che gli è ugualmente naturale, di governo della potenza
di desiderio; al contrario, lasciandosi catturare da questa201, essa si po­
191 Questioni a Talassio, Prologo.
m Ibid.
193Ambigua, 10, PG 91,1156C.
194A Nicola, 7.
195Discorso catechetico, XVI.
196 Questioni a Talassio, Prologo.
197Ibid., 16, CCSG 7, p. 105.
198Cfr. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 103.
199Cfr. TALASSIO, Centurie, IV, 15.
200 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 18.
201 Cfr. M arco l ’Erem ita, A Nicola, 7.
ne al suo servizio202e ormai dedica a una delle sue attività principali la
ricerca e la messa in opera dei mezzi che permettono di ottenere i pia­
ceri sensibili che essa brama.
Un altro effetto patologico fondamentale della perversione della po­
tenza di desiderio è la divisione delle facoltà dell’uomo e, in primo luo­
go, del desiderio. Nella condizione originaria di Adamo, il desiderio
dell’uomo, avendo per unico oggetto Dio e, tendendo incessantemente
e totalmente verso di lui, era perfettamente unificato; l’uomo non
desiderava null’altro che Dio, non aveva che un solo desiderio, quel­
lo di Dio. Allontanandosi da Dio, il desiderio perde la sua unità, e nel
volgersi verso il mondo sensibile considerato indipendentemente da
Dio, esso si disperde nella molteplicità che l’intelligenza decaduta
ormai vi vede. Esso diviene multiforme, si divide in una moltitudine
di desideri particolari eterogenei e talvolta anche contraddittori.
«Discostandosi dalla considerazione del desiderio dell’Uno e del­
l’Essere, voglio dire di Dio, gli uomini s’impegnano in diversi e mol­
teplici desideri corporei», scrive sant’Atanasio203. Correlativamente,
l’uomo smette di avere un godimento stabile e unico, per conoscere la
molteplicità dei piaceri sensibili: «Presa dal piacere, l’anima cerca di
procurarseli in molti modi», nota ancora sant’Atanasio204.
Trascinata da tutte le parti dai molteplici desideri sensibili, l’ani­
ma si disperde completamente da ogni parte e si divide. L’intelligen­
za va in molte direzioni, scivolando e disperdendosi a ogni istante ver­
so ciò che piace ai sensi205. «L’intelligenza, osserva Evagrio, vagabon­
da quando è presa dalle passioni, ed è irrefrenabile quando realizza
l’oggetto costitutivo dei suoi desideri»206. Trascinata dal turbine in­
cessantemente rinnovato dai desideri, essa perde la stabilità e la pace
che possedeva quando esercitava la sua normale attività di contem­
plazione del divino, e si trova trascinata in un flusso incessante e agi­
tato senza sosta.
L’anima si ritrova divisa non solo per la molteplicità dei desideri che
la abitano, ma anche per la dualità di cui la segna la conoscenza del
bene e del male che essa ha acquisito per mezzo del peccato. «A mi­
sura che l’uomo si affretta a concepire il bene, osserva san Diadoco di
202 Cfr. N ic e ta S te ta to s, Centurie, E l, 94-95.
203 Contro ipagani, 3.
204Ibid.y 4.
205 Cfr. G re g o rio di N issa, Sulla verginità, VI, 2.
206 Capitoli gnostici, I, 85.
78
Foticea, si ricorda subito del male, perché in seguito alla disobbedienza
di Adamo, il suo ricordo è scisso come in un doppio pensiero»207.
In maniera generale, l’uomo, preso dai desideri e dai piaceri sensi­
bili, vi si aliena completamente. «Coloro che si abbandonano ai pia­
ceri sensibili e corruttibili esauriscono tutto il desiderio della loro ani­
ma nella carne e divengono così interamente carne», scrive san Gre­
gorio Palamas208. Perciò, essi ne subiscono i limiti e le vicissitudini. «La
potenza del peccato [...], attraverso il piacere, trascina realmente l’a­
nima verso la miseria della carne così vicina», nota san Massimo209.
Dall’assoggettamento alla carne per mezzo del piacere nell’uomo so­
praggiungono la corruzione e la morte210. «Ingannati all’inizio dall’il­
lusione del piacere noi abbiamo preferito la morte alla vita»; «il pia­
cere è la madre della morte», dice ancora san Massimo211.
Da spirituale che egli era nella sua natura originale, l’uomo, per la
perversione del suo desiderio, fa di se stesso un essere psichico, car­
nale, e perdendo la caratteristica della sua natura essenziale212, si ren­
de simile agli animali213; «l’istinto brutale e irrazionale, spingendoli al­
l’impurità, rende gli uomini dimentichi della natura umana»214; «l’a­
nima si china verso i piaceri del corpo come le bestie sul loro foraggio»215.
Avendo distolto la sua potenza di desiderio da Dio per volgerla ver­
so le realtà sensibili in vista di trovarvi un piacere più accessibile e im­
mediato, l’uomo vede la sua speranza di godimento profondamente
delusa. Da quando egli ha fatto l’esperienza del piacere sensibile, ap­
pare in realtà il dolore.
L’uomo, nel suo stato originario ignorava il dolore216: il godimento
spirituale che egli provava nell’unione con la Santissima Trinità ne era
totalmente esente. Ma, a causa del peccato, cessando di essere spiri­
tuale per divenire sensibile, ormai il piacere si accompagna inevitabil­
mente al dolore217. «L’uomo apprese per esperienza che ogni piacere,
207 Cento capitoli gnostici, 88.
208 Triadi, 1,2, 9. Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 10, PG 91,1112C.
209 Questioni a Talassio, Prologo.
210Cfr. MASSIMO IL C on fessore, Questioni a Talassio, 61. Cfr. ibid.y scolio 11.
211 Centurie sulla teologia e l'economia, DI, 18.
212 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,15.
213 Cfr. G r e g o rio di N issa, Vita diMosè, n, 302.
214Ibid.
215 Id., Sulla verginità, IV, 5.
216Cfr. M assim o IL C on fessore, Questioni a Talassio, 61.
217Cfr. M assimo IL C on fessore, Questioni a Talassio, 58; 61. NlCETA S te ta to s, Centurie, I,
23; 68. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 42.
79
decisamente, ha come conseguenza il dolore», osserva san Massimo218.
Non è solo del dolore fìsico che l’uomo fa esperienza, ma anche e
soprattutto di una sofferenza psichica e morale che prende la forma
della tristezza. «La tristezza (lype) dell’anima è la fine del piacere dei
sensi, perché la tristezza dell’anima è suscitata dal piacere», nota lo
scoliaste delle Questioni a Talassici119. Nel volgere allo stesso tempo la
sua facoltà di desiderio e l’intelligenza verso il sensibile e nell’inve-
stirvela, l’uomo dà a questa un oggetto che non corrisponde più alla
sua finalità e non è più proporzionato alla sua natura. «L’intelligen­
za, scrive san Massimo, agisce contrariamente alla sua natura quando
si attacca al superficiale, cioè al sensibile e al corporeo; d’aflora in
poi essa diviene generatrice di tristezza dell’anima, fustigata e senza
tregua dalla sferza della coscienza»220.
Ma questa tristezza proviene altresì dal fatto che l’oggetto del desi­
derio e il piacere ottenuti sono completamente sproporzionati alla na­
tura della facoltà di desiderio e al suo godimento al quale essa è de­
stinata. Abbiamo visto che il desiderio dell’uomo è stato creato in vista
di Dio. «La nostra capacità di desiderio è stata adattata e proporzionata
all’immensità di questo oggetto dei nostri desideri», precisa san Ni­
cola Cabasilas221. Dio, egli scrive, «ha adattato se stesso e la nostra ani­
ma, e la nostra potenza di desiderio, e tutto il nostro essere»222; «è in
funzione del Cristo che è stato creato il cuore umano, come un im­
menso scrigno, vasto assai per contenere Dio stesso»223. Allo stesso mo­
do, lo abbiamo visto, l’uomo aveva per natura una capacità di gode­
re proporzionata ai beni divini che gli erano stati promessi. Avendo al­
lontanato da Dio la sua potenza di desiderio per orientarla verso gli
oggetti sensibili, egli non offre più a questa che oggetti finiti, parzia­
li, limitati, relativi. Continuando, tuttavia, a desiderare l’infinito e l’as­
soluto, perché a motivo della caduta la sua facoltà di desiderio non ha
cambiato natura ma solo orientamento e resta proporzionata al suo
oggetto divino originario e normale, l’uomo inevitabilmente è votato
all’insoddisfazione. Nessuna realtà di questo mondo, necessariamen­
te finita, è in grado di rispondere al desiderio infinito di infinito che è
in lui. «La nostra capacità di desiderio [...], noi constatiamo che nel­
218 Questioni a Talassio, Prologo.
219Ibid., 58, scolio 3. Cfr. ibid., 58.
220 Questioni a Talassio, 58.
221 La vita in Cristo, VII, 60.
222 Ibid., 61.
223 Ibid., II, 90.
80
la natura nulla la colma, ma tutto è insufficiente rispetto ad essa», ri­
leva san Nicola Cabasilas224. Al desiderio infinito di godimento che esi­
ste nell’uomo come appartenente alla sua stessa natura, non corri­
spondono più che piaceri limitati e caduchi, piaceri che appena con­
sumati lasciano in lui un vuoto doloroso. «Nulla quaggiù ci sazia, nulla
appaga i nostri desideri, siamo sempre assetati, come se non raggiun­
gessimo mai l’oggetto delle nostre aspirazioni. Poiché l’anima umana
ha sete d’infinito, come potrà bastarle il mondo che passa? Qò è quan­
to il Salvatore fa intendere alla Samaritana: “Colui che beve di que­
st’acqua, avrà ancora sete” (Gv 4,13)»225.
Deluso dopo la soddisfazione di ogni suo desiderio sensibile, con­
tinuando a risentire nel più profondo di se stesso una mancanza, una
inadeguatezza tra la realtà raggiunta e le sue aspirazioni fondamenta­
li (che egli risente senza tuttavia conoscerne il senso vero), corre da un
oggetto all’altro, esaurisce una dopo l’altra le diverse sfere di questo
mondo, senza mai trovare un termine definitivo alla sua ricerca. «Qua­
li che siano i beni di cui siamo favoriti, constata san Nicola Cabasi­
las, quand’anche si possedessero tutti i beni di questo mondo, si por­
ta lo sguardo più lontano, e, attraverso i beni presenti, s’inseguono i
beni assenti; in breve, nulla appaga il nostro desiderio, nulla placa la
nostra sete di gioia, nulla sazia pienamente la nostra capacità di gioi­
re»226. L’uomo decaduto vive, così, in uno stato di frustrazione per­
manente, di insoddisfazione ontologica perpetua. Anche se la soddi­
sfazione di qualche desiderio gli dà di tanto in tanto, per un istante,
l’illusione di aver trovato quello che cercava, l’oggetto di desiderio,
che egli per un momento aveva scambiato per un assoluto, finisce per
rivelarglisi nei suoi limiti e nel suo carattere relativo; e si scopre tutto
il vuoto che lo separa dall’assoluto vero. Allora si fa più intensa nel suo
cuore la tristezza, espressione della sua inquietudine dinanzi a que­
sto vuoto che egli avverte, manifestazione della frustrazione profonda
che egli prova. Egli crede di poter porre rimedio a questa frustrazio­
ne attraverso la stessa frustrazione che, per la verità, ne è la causa:
invece di riconoscere che questo vuoto che egli avverte dentro è quel­
lo dell’assenza di Dio in lui, e che di conseguenza solo Dio è capace
di colmare (cfr. Gv 4,14), egli vuole vedervi un richiamo al possesso
e al godimento di nuovi oggetti sensibili che, egli crede sempre, po-
224 Ibid., vn, 60.
225 Ibid., n, 90.
226Ibid., vn, 60.
81
iranno soddisfarlo. Per evitare il dolore che segue ogni piacere e per
mettere fine alla frustrazione profonda del suo desiderio d’infinito go­
dimento, l’uomo decaduto persevera incessantemente, nella sua corsa
sfrenata dei desideri, alla ricerca di nuovi piaceri, colleziona e mol­
tiplica i piaceri per tentare di ricostituire la totalità, la continuità e l’as­
solutezza di cui egli conserva la nostalgia, credendo, nella sua illusio­
ne, di trovare l’infinito nell’indefinito. Ricordando la relazione tra il
dolore e il piacere nella sensibilità dell’uomo decaduto, san Massimo
scrive: «Poiché il piacere scompare con i mezzi che lo producono e
poiché all’esperienza del piacere segue sempre la sofferenza, l’uomo
andava tanto più violentemente verso il piacere quanto più tentava
di evitare la sofferenza. Con questa tattica pensava di poter separare
l’uno dall’altro e conservare per sé solo il piacere, legato all’amore di
sé (philautia), e totalmente liberato dal dolore. Ma, sotto l’effetto
della passione, ignorava che è naturalmente impossibile che il piacere
vada mai senza il dolore. Difatti la pena che genera il dolore è stata
mescolata al piacere, anche se quelli che lo provano sembrano di­
menticarlo, dal momento che, sotto l’effetto della passione, prevale il
piacere»227. Sforzandosi di evitare il dolore attraverso la ripetizione e
la moltiplicazione dei piaceri, osserva san Massimo, l’uomo al con­
trario accresce solo la sua sofferenza: «In un certo modo, infatti, noi
aumentiamo, la pena che, secondo la natura, ci vota al dolore, nello
sforzarci di lenire questo dolore con il piacere. Volendo sfuggire alla
sensazione del dolore, fuggiamo verso il piacere, quando cerchiamo
di alleviare la natura oppressa dalla violenza del dolore. Ma, nello sfor­
zarci di attutire attraverso il piacere i movimenti del dolore, confer­
miamo inoltre l’appoggio che questi movimenti hanno dato al piace­
re, incapaci come siamo di avere in noi il piacere libero dal dolore e
dalle pene»228.
Detto altrimenti e paradossalmente, l’uomo partito alla ricerca del
piacere non trova sempre, alla fine, che il dolore sotto tutte le forme.
San Massimo sottolinea più volte che l’uomo, nella sua ricerca di go­
dimento, inevitabilmente fallisce nel suo scopo, e ciò fino al punto
da non poter nemmeno godere, come avrebbe voluto, della sensazio­
ne stessa229. Il tentativo dell’uomo di trovare la felicità al di fuori di
Dio fin dall’inizio era destinato all’insuccesso, necessariamente, per­
227 Questioni a Talassio, Prologo.
m Ibid.,61.
229Ambigua, 10, PG 91.1156C.
82
ché esso corrisponde in realtà a una impossibilità, come sottolinea san
Massimo: «Il tentativo di possedere indipendentemente da Dio, di pre­
ferire a Dio, non secondo la volontà di Dio, i doni di Dio, era una
cosa impossibile»250.
Q si può domandare, perciò, come Adamo, e coloro che lo hanno
imitato, abbiano potuto scambiare la beatitudine divina, alla quale la
loro natura stessa li destinava, per i piaceri incommensurabilmente in­
feriori che essi potevano trarre dalla realtà sensibile, con tutte le con­
seguenze negative che questo comportava. Dopo aver messo a con­
fronto i beni sensibili e i beni spirituali, san Giovanni Crisostomo non
può non vedere che una manifestazione di follia nell’atteggiamento
che consiste nel preferire i primi ai secondi: «Il piacere, egli scrive, non
è che un godimento effimero. Sì, il piacere si dilegua rapidamente, e
noi non potremmo fissarlo neanche per un istante. Difatti tale è il
destino delle cose umane e sensibili. Appena le possediamo esse ci
sfuggono [...]. Non ci offrono nulla di solido né di sicuro; nulla di sta­
bile e di permanente. Esse scorrono via più rapidamente dell’acqua
dei fiumi e lasciano vuoti e indigenti tutti coloro che le ricercano con
forte zelo. Al contrario, i beni spirituali ci presentano un carattere del
tutto diverso. Essi sono solidi, sicuri, costanti ed eterni. [Non è] dun­
que una strana follia scambiare un godimento passeggero con beni im­
mutabili, piaceri momentanei con una felicità immortale, e voluttà fri­
vole e passeggere con una felicità vera ed eterna?»231.

3. Patologia dell’aggressività
Accanto alla potenza di desiderio, o concupiscibile, prende posto
nell’anima umana la potenza, o facoltà, irascibile (thymós), Questa fa­
coltà appartiene alla natura stessa dell’uomo; essa è una delle com­
ponenti dell’anima umana fin dalla sua creazione.
a) La prima funzione dell’aggressività nell’uomo nel suo stato di s
lute (l’Adamo originale, l’uomo restaurato in Cristo), è quella di op­
porsi a tutto ciò che può allontanarlo da Dio e dalla vita di deifica­
zione alla quale Dio lo ha destinato per natura. Questa facoltà, dico­
no i Padri, è stata messa da Dio nell’anima dell’uomo per permettergli

231 Omelie sulla Genesi, 1,4.


83
di lottare contro il male, più precisamente di respingere gli attacchi
dei demoni, di combattere le tentazioni, di rifiutare e di distruggere i
cattivi pensieri che i suoi nemici spirituali gli suggeriscono232. Adamo
ed Èva, nel paradiso, furono tentati dal diavolo. Essi si servirono di
questa facoltà per custodire il comando che Dio aveva loro dato, in al­
tri termini, per mantenersi sulla via sulla quale Dio li aveva posti nel
crearli, per rimanere uniti a Dio e crescere in lui spiritualmente. Per
mezzo di questa facoltà, che Dio aveva posto nella loro anima, essi po­
tevano opporsi alla tentazione, respingere le suggestioni del Maligno
ed evitare così di cadere nel male. «E come un’arma, dice san Diado­
co di Foticea, che il Creatore ha dato alla nostra natura la collera mi­
tigata»233. Se Èva se ne fosse servita contro il Serpente, non sarebbe
stata dominata dal piacere passionale234. Anche sant’Esichio di Batos
nota che questa facoltà «ci è stata data da Dio come un’armatura e co­
me un arco»235, ed egli parla della messa in opera «in maniera giusta,
secondo la natura [dell’]elemento irascibile contro [...] Satana, il
Serpente»236. San Gregorio di Nissa scrive più precisamente: «In quan­
to all’aggressività (thymós), alla collera (orge), all’odio (misos), occor­
re che queste potenze veglino alla porta come cani da guardia con il
solo scopo di resistere al peccato, che esse usino la loro forza natura­
le contro il ladro, contro il nemico che s’intrufola all’interno perché si
perda il tesoro divino e viene al fine di rubare, uccidere e distrugge­
re»237. San Niceta Stetatos nota allo stesso modo: «Se il desiderio e la
ragione tendono secondo la natura verso il divino, la collera è per es­
se un’arma di giustizia contro il serpente che mormora solo nella co­
scienza e le suggerisce di prendere la sua parte dei piaceri della car­
ne»238. «La natura della potenza irascibile dell’anima (thymós)», pre­
cisa lo stesso Evagrio, «è quella di combattere i demoni»239; «l’uso che
dobbiamo fare della parte irascibile è quello di: combattere il Serpente
con odio»240. «L’aggressività (thymós) buona è una facoltà dell’anima
idonea a distruggere i cattivi pensieri», nota altrove241.
2,2 Cfr. E vagrio P o n tico , Pensieri, 17. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 62. E
CfflOdi Batos, Capitoli sulla vigilanza, 31.
233 Loc. cit.
234 Ibid.
235 Capitoli sulla vigilanza, 31.
2ì6Ibid., 126.
237Sulla verginità, XVIII, 3.
238 Lànima, 57. Cfr. 33.
239 Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
240Id., A Eulogio, 10.
241 Pseudo-supplemento, 9, éd. Frankenberg, 431.
84
Per mezzo di questa facoltà usata conformemente alla sua natura
originale, l’uomo spirituale, allontanando tutti gli ostacoli, si può man­
tenere, senza deviare, sulla via dell’unione con Dio. L’anima, scrive san
Massimo, «si serve della potenza irascibile per difendere con amore
l’oggetto delle sue ricerche»242; di qui il consiglio: «La nostra ragione
si metta in movimento per cercare Dio e [...] la potenza dell’aggres­
sività lotti per conservarla»243.
Grazie all’azione della potenza irascibile, l’uomo può, in modo par­
ticolare, conservare il suo desiderio sempre teso verso Dio, impeden­
dogli di volgersi verso le realtà sensibili in cui la tentazione cerca di
trascinarlo. A questo proposito così scrive san Macario: «Quando si
sollevano le passioni, le persone sensate non le ascoltano, ma si irri­
tano contro i cattivi desideri e dichiarano loro guerra»244. Questo at­
teggiamento è nell’uomo spirituale una disposizione necessaria e abi­
tuale, constata san Diadoco di Foticea245, il quale afferma che la col­
lera per questa ragione, in quest’uso normale che corrisponde alla sua
natura, rende il servizio più grande all’anima246. L’insegnamento di san
Giovanni Cassiano è in questa stessa linea247.
Grazie alla lotta che l’uomo spirituale conduce con l’aiuto della sua
potenza irascibile, o aggressiva, egli può conservarsi puro spiritual-
mente: «Vi è nello spirito la collera conforme alla natura, scrive Abba
Isaia, e, senza collera, non vi sarebbe nessuna purezza nell’uomo se
egli non si irritasse contro tutto ciò che il nemico semina in lui»248.
La potenza irascibile risulta particolarmente utile nella preghiera,
quando, per giungere a una contemplazione pura, l’uomo deve re­
spingere tutti i pensieri che cercano di allontanarlo da Dio. A questo
proposito così scrive Evagrio: «Quando sei tentato, non pregare pri­
ma di aver rivolto con collera qualche parola a colui che ti opprime.
Se tu dici qualcosa con collera ai pensieri, tu confondi e fai scompa­
rire le rappresentazioni suggerite dagli avversari»249.
Con la sua aggressività ben utilizzata, l’uomo, resistendo da ogni
parte alla prova della tentazione, rivela la misura e il vero valore del
suo attaccamento a Dio. «Vi è nello spirito l’odio conforme alla na­
242 Questioni a Talassio, 55.
243 Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
244 M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), XV, 51.
245 Cento capitoli gnostici, 43.
246Ibid.y62.
247 Cfr. Istituzioni cenobitiche, VE, 3,3; Vili, 7-8.
248Asceticon, II, 7.
249 Trattato pratico sulla vita monastica, 42.
85
tura, e senza odio per l’inimicizia, l’onore non si rivela all’anima», scri­
ve Abba Isaia250.
b) Il secondo uso naturale e normale della potenza aggressiva co
siste nel permettere all’uomo di lottare per ottenere i beni spirituali
verso i quali egli tende per natura251, per raggiungere il regno dei cie­
li al quale egli è destinato, perché, secondo le parole del Cristo: «Il re­
gno dei cieli è oggetto di violenza; e i violenti se ne impadroniscono»
(Mi 11,12); «Il regno di Dio viene annunziato e ognuno si sforza per
entrarci» (Le 16,16). A tutti, dunque, è permesso fare tutti gli sforzi ri­
chiesti per compiere il proprio compito, o in altri termini, per cre­
scere spiritualmente e acquistare la somiglianza con Dio. È in questo
senso che scrive Evagrio: «L’anima razionale agisce secondo la natu­
ra quando la sua parte irascibile lotta per la virtù»252. Questa facoltà
permette all’uomo di orientare e di elevare tutte le sue facoltà verso
Dio. Il suo spirito in primo luogo. E così che san Massimo consiglia:
«Che lo spirito (noùs) si ordini tutto in vista di Dio, teso per mezzo
dell’aggressività come una corda»253. L’aggressività gli permette altre­
sì di mobilitare verso Dio tutte le forze della sua potenza di desiderio,
di «confortare il desiderio»254, di «concentrare», come dice san Mas­
simo, «il movimento di desiderio verso l’amore divino»255. Ed essa gli
consente di lottare per il godimento spirituale verso il quale egli ten­
de. È in questo senso che Evagrio afferma che «la natura della po­
tenza irascibile è quella di lottare in vista del piacere», intendendo con
ciò «il piacere spirituale e la beatitudine che lo segue»256. «Lottare per
il piacere» significa lottare per acquisirlo, ma anche per preservarlo;
la seconda funzione dell’aggressività sembra qui strettamente legata
alla prima257. E per questo che Evagrio scrive ancora: «Gli angeli ci
suggeriscono il piacere spirituale e la beatitudine che lo segue, per esor­
tarci a volgere la nostra irascibilità contro i demoni»258.
La potenza aggressiva, quando si esercita in tutti questi modi, pren­
250Asceticon, II, 8.
251 Cfr. M assim o IL C on fessore, Questioni a Talassio, 39. Cfr. ibid., scolio 1.
252 Trattato pratico sulla vita monastica, 86.
253 Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
254 Questioni a Talassio, 49, scolio 6.
255 Ibid., 49.
256 Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
257 Cfr. Id., ibid.
™Ibid.
86
de la forma di ima collera virtuosa, saggia e santa, quella di cui il sal­
mista raccomanda di fare uso quando dice: «Montate in collera, ma
non peccate» (Sai 4,5). Quando l’uomo usa così questa facoltà, confor­
memente alla natura e alla finalità normale di questa, egli è sensato259
e «cammina rettamente»260.
A motivo del peccato, tuttavia, l’uomo perverte questa facoltà, di­
stogliendola da quest’uso normale e buono per fame un uso contro
natura261 e irrazionale262. È così che questa facoltà si ammala: «La fa­
coltà aggressiva (thymós) impura è una potenza dell’anima malata»,
scrive Evaglio263.
Invece di combattere per ottenere e conservare i beni spirituali, es­
sa lotta in realtà ormai solo per ottenere e conservare i pseudo-beni
sensibili verso i quali l’uomo ha rivolto la sua intelligenza e ai quali egli
ha fissato il suo desiderio264. Essa si pone completamente al servizio
dei desideri sensibili che animano l’uomo decaduto265, e si dedica al­
la ricerca e alla conservazione del piacere che vi si ricollega. I Padri
spesso alludono alla realizzazione fondamentale che esiste tra l’ag­
gressività e il piacere. San Doroteo di Gaza, per esempio, afferma che
la collera ha come causa «particolarmente l’amore del piacere
(philèdoma)»266. Nell’uomo decaduto, l’aggressività conserva la sua
funzione di lotta per il piacere poiché, come dice Evagrio, la sua na­
tura «è quella di lottare in vista del piacere, qualunque esso sia», ma
l’uomo si era allontanato dai beni divini ed essendosi così privato del
godimento spirituale, allora è il piacere sensibile, carnale, che essa si
attiva a raggiungere e a salvaguardare.
Abbiamo visto che l’esperienza del piacere sensibile è seguita ine­
vitabilmente da quella del dolore fisico, ma anche e soprattutto psi­
cologico e morale. E così che nell’uomo decaduto la potenza irasci­
bile è utilizzata non solo per lottare in vista di ottenere e di preserva­
re il piacere, ma anche per fuggire questo dolore267, per evitare più
generalmente ogni piacere e ogni sofferenza268.
259 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. II), XV, 51.
260NlCETA Stetatos, Centurie, 1 ,15.
261 Cfr. ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 31. ISACCO IL SntO, Discorsi ascetici, 27.
262Cfr. Esicrao d i B atos, loc. cit. O rigen e, Omelie sulla Genesi, 1 ,17.
263Pseudo-supplemento, 9, éd. Frankenberg, p. 431.
264 Cfr. N ic eta S te ta to s, Lanima, 34.
265 Cfr. A tan asio d ’A lessan d ria, Contro i pagani, 3.
266Istruzioni spirituali, XII, 131.
267 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talassio, Prologo.
268lbid.
87
La realizzazione di questa finalità contro natura implica una seconda
forma di perversione della potenza irascibile. Cessando di usarla per
combattere i demoni e le loro tentazioni poiché ormai egli acconsen­
te alle loro suggestioni e compie la loro volontà, l’uomo la rivolge con­
tro i suoi simili nella misura in cui vede in essi sia degli ostacoli alla
realizzazione dei suoi desideri sensibili e al conseguimento dei piace­
ri ai quali mirano, sia delle cause di sofferenza relativamente all’amo­
re egoista che porta a se stesso. «Abbiamo preferito le cose materiali
e profane al comandamento dell’amore, e, perché noi vi siamo attac­
cati, lottiamo contro gli uomini, quando dovremmo preferire l’amo­
re per tutti gli uomini a tutte le cose visibili», spiega san Massimo269
che incrimina principalmente la filautia, la quale «per ottenere un po’
di piacere, ci incita gli uni contro gli altri come dei selvaggi»270. Quan­
to a Evagrio, egli insiste sul ruolo istigatore giocato dai demoni. A que­
sto proposito, egli scrive, «ci trascinano verso i desideri del mondo e
costringono la parte irascibile a combattere gli uomini andando con­
tro la sua natura»271.
I Padri sono unanimi nel sottolineare, inoltre, il carattere contro na­
tura e irrazionale di quest’uso della potenza irascibile che corrispon­
de a una vera perversione di questa facoltà, distolta dalla sua finalità
naturale e normale e rivolta verso uno scopo che le è contrario. E in
questi stessi termini che si esprime Evagrio quando consiglia: «Non
distogliere l’uso che tu fai della potenza irascibile fino a farne un uso
contro natura neU’irritarti contro tuo fratello»272. «La natura ha im­
presso in noi i moti della collera perché ce ne servissimo contro il ser­
pente infernale nostro nemico e noi ce ne serviamo contro i nostri fra­
telli», constata con amarezza san Giovanni Climaco273. E Abba Isaia
osserva: «La collera conforme alla natura [...] per noi si è mutata in
collera contro il prossimo per tutti i moventi irrazionali e vani»274; «l’o­
dio conforme alla natura [...] per noi è stato rivolto contro natura; es­
so ci fa odiare e disprezzare il prossimo»275. Anche sant’Esichio di Ba­
tos parla della «collera diretta contro natura verso gli uomini»276. San
Niceta Stetatos, dopo aver fatto notare che «se l’uomo arma la sua col­
269Discorso ascetico, 7.
270 Lettere, 28, PG 91, 620C.
271 Loc. cit.
272A Eulogio, 10.
273 La Scala, XXVI, 141.
274Asceticon, II, 7.
275 lbid., 8.
276 Capitoli sulla vigilanza, 136.
88
lera solo contro l’antico serpente allora egli è mosso secondo la sua na­
tura»277, afferma anche il carattere anti-naturale del nuovo orienta­
mento che il peccato imprime a questo movimento dell’anima e pro­
clama ugualmente il suo carattere irrazionale: «Se [l’uomo] arma la
sua collera contro i suoi simili [...], allora egli è mosso non razional­
mente (ou logikós), ma egli vive contrariamente alla ragione (alógps)»278,
cioè, ancora, in maniera insensata, folle.
Ancora più folle è l’uso della potenza irascibile che l’uomo può
fare contro Dio. Quando questa era stata posta nella sua natura affin­
ché egli potesse lottare contro tutto ciò che cerca di allontanarlo da
Dio, per il peccato egli giunge fino a fame un uso inverso, servendo­
sene contro tutto dò che può avvicinarlo a Dio, talvolta arrivando a
volgerla contro Dio stesso. Così san Barsanufio fa notare: «Invece del­
l’odio secondo Dio, quello che odia il male, [il diavolo] non ha get­
tato in noi l’odio perverso che odia il bene e Dio stesso?»279.
Possiamo ora notare che lo stesso principio di economia che noi ab­
biamo messo in evidenza a proposito della potenza di desiderio vale
per la potenza aggressiva: vi è nell’uomo una sola facoltà irascibile, su­
scettibile di due usi, più precisamente di due orientamenti contrad­
dittori e incompatibili. E così che san Gregorio di Nissa nota a que­
sto proposito: «La natura umana, in ogni modo, opta tra due dire­
zioni contrarie»280. Parimenti Evagrio constata che è nella «natura
dell’elemento irascibile [...] lottare in vista del piacere qualunque es­
so sia»m . Ma, lo abbiamo dimostrato, uno dei suoi orientamenti cor­
risponde alla sua finalità naturale, è normale e costituisce la sua salu­
te, l’altro la distoglie dalla sua finalità normale, la fa agire contro la sua
natura e costituisce la sua malattia.
La potenza aggressiva infatti è legata, quanto all’orientamento che
riceve, all’orientamento che l’uomo dà alle due altre principali poten­
ze della sua anima: l’intelligenza e il desiderio, di cui ella contribui­
sce a realizzare gli scopi. Ciò è quanto dimostra san Niceta Stetato.
«La potenza aggressiva, egli scrive, sta tra il desiderio e la ragione del­
l’anima. Essa è come un’arma in ciascuno nel suo movimento contro
277 11anima, 33.
278Ibid., 34.
279Lettere, 97.
280 Omelie sulle beatitudini, II, 3.
281 Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
89
natura o secondo natura. Quando il desiderio e la ragione si muovo­
no secondo la natura verso il divino, la potenza aggressiva è in ciascuno
un’arma di giustizia solo contro il Serpente che insinua e propone di
prendere parte ai piaceri della carne e di godere della gloria degli
uomini. Ma quando il desiderio e la ragione si allontanano dal loro
movimento naturale, quando essi snaturano le loro potenze, quando
dalla considerazione delle cose divine essi si portano verso le cose uma­
ne, la potenza aggressiva è un’arma d’ingiustizia che serve il peccato.
Allora con tale arma il desiderio e la ragione combattono e attaccano
coloro che cercano di rovesciare le loro pulsioni e le loro cupidigie»282.
Vedremo che nell’uomo decaduto è nella passione della collera (nel
senso ampio che i Padri danno a questo termine) che la potenza ag­
gressiva malata viene investita maggiormente. È allora che esaminere­
mo i suoi numerosi effetti patologici.
4. Patologia della libertà
L’uomo è stato creato libero, cioè dispone di una volontà indipen­
dente, avendo il potere di autodeterminarsi e di non essere sotto­
messo ad alcuna necessità283. La libertà (eleutherìa) è una delle pro­
prietà della natura divina, e nel creare l’uomo a sua immagine, Dio ha
posto questa proprietà in lui284. San Gregorio di Nissa osserva: «Se ci
fosse qualche necessità nel dirigere la vita umana, su questo punto, sa­
rebbe una menzogna, poiché essa sarebbe alterata da una differenza
con il suo modello. Come potremmo chiamare immagine della natu­
ra sovrana ciò che fosse sotto il giogo, la schiavitù delle necessità? Ciò
che è stato creato in tutto a immagine della divinità doveva possede­
re nella sua natura una volontà libera e indipendente»285.
Accordando alla natura umana la libertà, Dio ha voluto renderla
partecipe della propria perfezione286. «Per mezzo della libertà, affer­
282 Centurie, 1,16.
283Cfr. GREGORIO DI N issa , ha creazione dell'uomo, XVI, PG 44,184B; Discorso catechetico,
5; 30. B asilio di C esarea, Omelia: Dio non è l'autore del male. G iovanni D amasceno , Espo­
sizione esatta della fede orodossa, II, 12; 25. MASSIMO IL CONFESSORE, Disputa con Pirro, PG
91,324D. TALASSIO, Centurie, E, 16. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. E), XV, 23; 25; 40. IRE­
NEO DI LlONE, Contro le eresie, IV, 37, 1; 4.
284 C ir illo d ’A lessandria, Glaphyra sulla Genesi, PG 69, 24C. G iovanni D am asceno, Espo­
sizione esatta della fede ortodossa, IH, 14.
285 Discorso catechetico, 5.
286 Cfr. M assimo il C onfessore , Disputa con Pirro, PG 91,304C. G regorio di N issa , La
creazione dell'uomo, XVI, PG 4 4,184B.
90
ma san Gregorio di Nissa, l’uomo è deiforme, perché l’indipendenza
e l’autonomia sono tipiche della beatitudine divina»287. «È per mezzo
della libertà che l’uomo è uguale a Dio (isótheos)», egli arriva a scri­
vere288. Queste ultime affermazioni indicano che è essenzialmente per
mezzo della sua libertà che l’uomo è a immagine di Dio; tali afferma­
zioni non sono in contraddizione con la concezione tradizionale, se­
condo cui è per mezzo del suo spirito che l’uomo è a immagine di Dio:
la libertà è, infatti, una facoltà dello spirito stesso. La volontà (thélèsis),
osserva san Massimo, «è volontà dell’anima spirituale»285; il movimento
libero caratterizza la natura della vita della natura spirituale290. E san
Gregorio di Nissa osserva allo stesso modo che «la libertà di scelta
(proairesis), facoltà esente da schiavitù e libera, [è] fondata sull’indi­
pendenza della nostra intelligenza»291.
Creando l’uomo libero, Dio voleva che il bene acquisito dall’uomo,
che si sarebbe unito a lui per mezzo della realizzazione della somi­
glianza, fosse veramente suo. Dio, insegna san Gregorio Nazianzeno,
«ha onorato l’uomo nel conferirgli la libertà affinché il bene appar­
tenga proprio a colui che lo sceglie, non meno che a colui che pose
le primizie del bene nella sua natura»292. All’obiezione comune che Dio
non avrebbe dovuto creare gli uomini liberi affinché essi non potes­
sero cadere nel male, sant’Ireneo risponde: «In una tale ipotesi [...],
la comunione con Dio sarebbe stata senza valore e non vi sarebbe sta­
to nulla di desiderabile nel bene da essi acquisito senza movimento né
preoccupazione né applicazione da parte loro e sarebbe sorto auto­
maticamente e senza sforzo»; nel possedere «il bene automaticamen­
te e non per libera scelta, [...] essi non avrebbero compreso neanche
l’eccellenza del bene e non avrebbero potuto gioirne»293. San Macario,
da parte sua, fa notare: «Se tu non gli attribuisci una natura dotata
di libertà, tu rendi l’uomo del tutto indegno di lode. In verità, ciò che
è buono ed eccellente per natura non è degno di lode [...]. In realtà,
non è degno di lode [...] il bene che non proviene da una libera scel­
ta»294. E san Gregorio di Nissa scrive: «Ciò che è stato creato in tutto
a immagine della divinità doveva possedere nella sua natura una vo­
287Discorso sulla morte, PG 46,524A.
m lbid.
289 Opuscoli teologici e polemici, 1, PG 91,21D. Cfr. Disputa con Pirro, PG 91, 293B.
290Disputa con Pirro, PG 91, 301AB.
291 Discorso catechetico, XXX.
292Discorsi, XLV, PG 36, 632C.
293 Ireneo di L ione , Contro le eresie, IV, 37,6.
294 Omelie (Coll. II), XXVII, 21.
91
lontà libera e indipendente, affinché la partecipazione ai vantaggi di­
vini fosse la ricompensa della sua virtù»295. L’uomo non avrebbe po­
tuto veramente diventare Dio se gli fosse mancata una delle caratte­
ristiche essenziali della natura divina: la libertà, e d’altra parte, non sa­
rebbe realmente virtuoso se le virtù gli fossero state in qualche modo
imposte, se non le avesse acquisite per mezzo della libera apertura del­
la sua volontà alla grazia santificante di Dio. «Là dove vi è necessità,
nota san Giovanni Damasceno, non potrebbe esserci virtù»296.
Nel normale stato della sua creazione, la libertà (eleutheria) consi­
ste per l’uomo nel non essere determinato che da sé, cioè nell’agire se­
condo la sua natura. «La libertà è identità e conformità con la natu­
ra», scrive san Gregorio di Nissa297. San Massimo afferma, allo stesso
modo, che essa consiste per l’uomo nell’accordare la sua disposizione
del volere personale, o «volontà gnomica» (thélèma gmmikón), con la
sua volontà naturale (thélèma physikón), la quale tende verso il Bene
e al compimento della natura in Dio, suo principio e fine298. La libertà,
detto altrimenti, consiste per ciascuno nel fare costantemente la scel­
ta del Bene, nell’optare sempre per Dio.
Abbiamo mostrato come la natura dell’uomo è quella di tendere
verso Dio al fine di divenire dio. È, dunque, nel mantenere tutte le sue
facoltà, conformemente alla loro natura, orientate verso Dio, e nel rea­
lizzare la somiglianza al Logos, che l’uomo può essere veramente se
stesso, agire conformemente alla sua natura, non essere determinato
da nulla di esteriore o di estraneo a se stesso. Nelle virtù, lo abbiamo
altresì mostrato, sta la vera natura dell’uomo; è attraverso le virtù
che egli compie in sé l’immagine di Dio, realizzando così la somiglianza.
Nel vivere secondo le virtù, l’uomo non solo conduce una vita in cui
egli è se stesso, agisce secondo ciò che egli è, è mosso dalla sua natu­
ra senza essere condotto da nulla di esteriore o di estraneo che s’im­
pone a lui o condiziona il suo volere, ma agisce altresì in conformità
con Dio stesso, partecipa della sua volontà sovrana e della sua libertà
assoluta. L’uomo unito a Dio attraverso la sua virtù, essendo così
deificato, è libero della libertà di Dio: è «la libertà della gloria dei fi­
gli di Dio» di cui parla san Paolo (Rm 8,21).
San Gregorio di Nissa insegna, così, che in questi tre principi che
295 Discorso catechetico, 5.
296Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 12.
297Dialogo sull’anima e sulla risurrezione, 85, PG 46, 101D.
298 Vedi in particolare: Opuscoli teologici e polemici, 1, PG 91, 12C-13A; 17C; Lettere, 2,
PG 91, 396C. Ambigua, 10, PG 91,1116B; Commento del Padre nostro, PG 90, 880A; 905A.
92
s’implicano reciprocamente e significano in fondo la stessa cosa: so­
miglianza a Dio, vita nella virtù e conformità alla propria natura, per
l’uomo risiede la vera libertà. «La libertà, egli scrive, è la somiglianza
con ciò che è senza padrone, con il sovrano, somiglianza che ci è sta­
ta donata da Dio in origine. Ora, da una parte, poiché la libertà è l’i­
dentità con la propria natura e la conformità con essa, ne consegue
che tutto ciò che è libero si unisce con il suo simile. Ma, dall’altra par­
te, poiché la virtù è senza padrone, ne segue ugualmente che in essa
risiede la libertà, perché la libertà è senza padrone. Ora, poiché la na­
tura divina è fonte di ogni virtù, in Dio si uniscono coloro che si sono
purificati dal male affinché Dio sia tutto in tutti»299.
Conformandosi, dunque, ai comandamenti divini che gli indicano
come crescere nelle virtù e come unirsi sempre più strettamente a Dio,
l’uomo può realizzare la sua libertà in tutta la sua perfezione. E per
questo che san Marco l’Eremita chiama i comandamenti «comanda-
menti di libertà», «opera di libertà» o, sulla scia di san Giacomo (Gc
2,12), «legge della libertà»300; ed è per lo stesso motivo che sant’Ago­
stino può scrivere: «Non vi è che una vera libertà: quella dei beati e di
coloro che aderiscono alla legge divina»301. Tutto questo segue l’inse­
gnamento del Cristo Gesù: «Se rimanete nella mia parola, [...] cono­
scerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31).
«La libertà è la volontà di un’anima razionale pronta a muoversi
verso il suo oggetto», afferma san Diadoco di Foticea302. Questa libertà
era quella di Adamo nel paradiso. La sua volontà realizzava il suo sco­
po naturale che è quello di tendere verso il meglio303e si portava spon­
taneamente verso il bene in un movimento senza turbamenti304. Co­
noscendo il vero bene e non volendo conoscere che quello, l’uomo
vi si dirigeva senza esitazione; egli non valutava il bene e il male, il prò
e il contro, il migliore e il meno buono. Sapendo dov’è il bene vero e
rifiutando assolutamente il male, egli non scelse nel senso abituale di
questo termine, non esaminava più alcuna possibilità, non rifletteva:
si portava spontaneamente verso il bene, realizzando in quest’uso del­
la sua libertà la somiglianza con il suo archetipo divino perché, scri­
ve san Giovanni Damasceno, «occorre sapere che in Dio si può par­
299Dialogo sull'anima e sulla risurrezione, 85.
300 Cfr. U battesimo, 5-1, 8.
301Sul libero arbitrio, 1 ,15.
302 Cento capitoli gnostici, 5.
303 Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sul Cantico dei Cantici, II, PG 44,796D.
304 Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla carità, I, 36; Ambigua, 45, PG 91,1353CD.
93
lare di intenzione ma non propriamente di scelta. Dio non riflette; la
riflessione spetta all’ignoranza e non si riflette quando si conosce»305.
Ad Adamo, nel suo stato d’innocenza, poteva applicarsi ciò che dice
il profeta Isaia: «Prima di conoscere, l’adolescente rigetterà il male e
sceglierà il bene; perché prima che l’adolescente sappia ciò che è be­
ne e ciò che è male, egli rigetterà il male per sciegliere il bene» (cfr.
li 7,15-16).
Adamo era stato creato da Dio in via di deificazione e tendente co­
sì spontaneamente verso il bene. È liberamente che egli si manteneva
in questa via, perché aveva, oltre a questa possibilità «di rimanere
nel bene e di progredirvi, sostenuto dalla grazia divina», anche quel­
la «di lasciare il bene, andando verso il male nel separarsi da Dio,
per scelta deliberata»306, «era capace di cedere all’assalto di Satana o
di non cedervi e ne aveva la facoltà»307. Tuttavia, Dio gli aveva dato,
contemporaneamente a questa libertà, la conoscenza del suo buon uso
e della sua funzione normale. Gli aveva indicato il mezzo per eserci­
tarla in tutta la sua perfezione attraverso il comando di non mangia­
re del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (cfr.
Gn 2,17). «Sapendo, scrive sant’Atanasio, che la volontà dell’uomo
poteva essere incline nei due sensi, egli lo prevenne e gli impose una
legge, fortificò la grazia che gli aveva dato»308.
L’uomo era, tuttavia, costantemente tentato dal diavolo di fare del­
la sua libertà un uso diverso da quello che Dio, volendo che egli fos­
se realmente libero e che conoscesse il vero bene nel compimento in­
tegrale di se stesso e nello sviluppo perfetto della sua natura, gli ave­
va indicato. La tentazione, fintanto che Adamo non vi cedeva, aveva
del resto un ruolo positivo: essa permetteva che la deificazione fosse
voluta realmente dall’uomo e che questi manifestasse così il suo vero
valore. «Occorreva che l’uomo fosse innanzitutto messo alla prova»,
scrive san Giovanni Damasceno. «Né messo alla prova, né tentato,
l’uomo non è degno ad alcun titolo. Condotto alla perfezione per mez­
zo della tentazione nel rispetto del comando di Dio, avrebbe cono­
sciuto l’incorruttibilità a prezzo della sua virtù»309. Nella tentazione la
libertà si rivela veramente come tale, poiché, da un lato, vi si rivelano
305 Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 22.
m Ibid„ II, 12.
307M arco l’E remita, Il battesimo, 22. Cfr. Ireneo di Lio ne , Contro le eresie, IV, 37,2. M a ­
cario D’EGITTO, Omelie (Coll. E), XV, 25; 36; 40; XXVE, 10; 11.
308Sull’incarnazione del Verbo, 3.
309Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 30.
94
le altre sue possibilità, e dall’altro, la volontà vi è messa alla prova e
mostra qual è la misura dell’attaccamento a Dio, attraverso la forza del
rifiuto che essa oppone a tutto quanto cerca di allontanarla da lui.
L’uomo, malgrado tutti i beni che Dio gli offriva, cedette alla ten­
tazione diabolica. Utilizzò il suo libero arbitrio allontanandosi da Dio,
prendendo parte al male che gli suggeriva il Maligno, introducendolo
in sé e nella creazione.
Tutti i Padri insistono sul fatto che il male, nell’uomo ma anche nel
mondo, è un prodotto del cattivo uso della libertà dell’uomo; il male
è stato concepito, immaginato, inventato, creato e poi realizzato da
una cattiva scelta del libero arbitrio dell’uomo, della sua volontà per­
sonale o, secondo la terminologia di san Massimo, «gnomico»310. «Non
esiste il male al di fuori di una scelta», afferma san Gregorio di Nis-
sa311; «è la libera scelta che dà la consistenza [al male]»312; è l’uso col­
pevole del nostro libero arbitrio che «ha generato gli slanci verso il
male», egli afferma ancora313; «la responsabilità dei mali ricade, dun­
que, sulla nostra imprudenza che ha scelto il peggio invece del me­
glio»314. Sant’Antonio constata, ugualmente, a proposito dei mali che
colpiscono l’uomo decaduto: «Così tutto ciò che è al di fuori della no­
stra natura proviene dal nostro libero arbitrio»315.
Allontanandosi da Dio, Adamo cessa di possedere una libertà si­
mile a quella del suo archetipo divino. Egli non è più libero della li­
bertà di Dio. La promessa del Serpente si realizza: egli è come Dio;
acquista, infatti, una forma di libertà che gli permette di determinar­
si riferendosi solo a se stesso e gli dà l’impressione che è assolutamente
autonomo, che basta a se stesso e può definirsi secondo una misura
propria. Per mezzo di questa libertà, egli fa di se stesso un dio che vuo­
le essere totalmente indipendente dal vero Dio. Ma così l’uomo s’il­
lude profondamente. La libertà che la caduta lascia sussistere è, infatti,
una libertà che lo perde316proprio quando egli crede di trovare per
mezzo di essa il suo sviluppo. Per mezzo di questa libertà decaduta,
egli è come Dio, ma non dio, mentre, al contrario, la sua libertà ori­
310 Oltre i riferimenti dati infra, vedi MARCO L’EREMITA, II battesimo, 22.
311Sulla verginità, XII, 2. Cfr. Discorso catechetico, 7.
312Discorso catechetico, 5.
313 Omelie suWEcclesiaste, VIE, 3. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Omelia: Dio non è il creatore del
male.
314 I d ., Discorso catechetico, V.
315Lettere, 5 bis.
316Cfr. M acario d 'E gitto , Omelie (Coll. E), XV, 23.
95
ginale orientata verso Dio gli permetteva di divenire veramente dio
per grazia. L’uomo, nel suo peccato, fa un uso patologico della libertà
che gli era stata data per volgersi volontariamente verso Dio: la sua
anima, dice sant’Atanasio, «non sa che essa non è stata creata sem­
plicemente per muoversi, ma per muoversi verso il termine che gli oc­
corre; ed è da questo che siamo avvertiti dalla parola dell’Apostolo:
“Tutto mi è lecito, ma non tutto giova” (lCor 6,12)»317.
San Massimo mostra che l’uomo, a motivo del peccato, dissocia e
mette in disaccordo il suo libero arbitrio, la sua «volontà gnomica»,
dalla sua volontà naturale, e che per ciò stesso si allontana dalla sua
natura318; si allontana con tutte le facoltà del suo essere da una vita
conforme alla sua natura per condurre una vita contro natura; si al­
lontana dal Bene per entrare in tutte le forme del male e così si auto­
distrugge. «Quando all’inizio il diavolo seduttore [...] ingannò l’uomo
con la seduzione del piacere, egli separò la nostra volontà da Dio e da­
gli altri. Distruggendo la rettitudine della nostra volontà egli ha, in que­
sto modo, diviso la natura e l’ha lacerata in una moltitudine di opi­
nioni e di immaginazioni; egli ha, nel corso del tempo, elevato a legge
la ricerca e la scoperta di ogni sorta di male, assistito in questo dalle
nostre potenze; e affinché il male resti in tutti gli uomini, il diavolo
lo colloca in essi su questa opposizione inconciliabile della volontà che
gli aveva permesso di persuadere insidiosamente l’uomo di allonta­
narsi una volta dal movimento della sua natura»319. Vincolato dal suo
libero arbitrio contro la sua natura sulla via del male, l’uomo è per­
ciò trascinato da esso, come fa notare san Gregorio di Nissa: «Se la
creatura agisce secondo natura, il cambiamento [in essa] avviene in­
cessantemente nel senso del meglio; ma se essa si è allontanata dalla
diritta via, è trascinata verso lo stato opposto da un movimento inin­
terrotto»320.
Quando nel suo stato primitivo Adamo non voleva conoscere altro
che Dio e vivere solo per somigliare a lui, il suo libero arbitrio, lo ab­
biamo visto, si accordava con la sua volontà naturale, non si allonta­
nava dalla norma o lògos della sua natura, si orientava spontaneamente
verso il Bene. Nell’acquistare, per mezzo del suo peccato, la cono­
scenza del bene e del male, l’esercizio del suo libero arbitrio smette di
317 Contro i pagani, 4.
318Cfr. Commento del Padre nostro, PG 90, 880A; 893B; 905A; Questioni a Talassio, 42; Let­
tere, 2.
319Lettere, 2.
320Discorso ascetico, Vili.
96
essere semplice, si dispiega in discussioni incerte e si perde nella
dualità confusa del bene e del male. Offuscato dalle passioni, ingan­
nato dalla sua immaginazione, l’uomo, infatti, non riconosce più im­
mediatamente il bene; confondendo il bene e il male, scambiando spes­
so il male per il bene e il bene per il male, egli è sottomesso nelle sue
scelte al rischio costante d’ingannarsi321.
Questa libertà deliberativa è una forma alterata della libertà che
l’uomo possedeva all’origine nella sua unione con Dio. Essa ne è, al­
tresì, la negazione, poiché l’uomo decaduto, avendola dissociata dal­
la volontà naturale tendente verso il bene, la utilizza per compiere il
male e così la fa servire, paradossalmente, al suo stesso assoggetta­
mento. Essendosi allontanato dalla propria natura, l’uomo non è più
mosso da sé ma da ciò che gli è estraneo; egli è posto contro natura,
cioè verso il male.
Per l’uso perverso della sua libertà, l’uomo diviene schiavo del pec­
cato (cfr. Gv 8,34; 2Pt 2,19; Rm 6,20; Is 61,1; Rm 6,6.17; 8,21; Gal5,1),
prigioniero dei desideri e dei piaceri sensibili verso i quali egli si è vol­
to (Tt 3,3; Rm 6,19), asservito a false divinità che egli si è fatto delle
creature (Gal 4,3.8-9). I Padri non cessano di dimostrare come l’uo­
mo decaduto, anche quando crede di essere libero o di liberarsi, sia
infatti schiavo. «La fine di questa libertà intempestiva è una dura schia­
vitù», nota sant’Isacco il Siro322. L’uomo decaduto vive, infatti, in­
chiodato alla carne323, è dominato dalla legge di questa324, è asservito
ai suoi sensi325, subisce la tirannia dei suoi desideri326, è assoggettato al­
la ricerca del godimento e al timore della sofferenza327, è il servo dei
suoi vizi328, in breve, è lo schiavo delle sue passioni329. Queste eserci­
tano su di lui una vera tirannia di cui la sua anima è prigioniera330. In
questo stato, l’uomo non è più se stesso. Egli vive totalmente in di­
321 Cfr. M assim o i l C on fessore, Ambigua, 45, PG 9 1 ,1353C.
322 Discorsi ascetici, 42.
323 Cfr. G regorio N azianzeno , Discorso, XXXVH, 11.
324 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, HI, 76.
325 Cfr. I d ., L'anima, 34.
326Cfr. C lem en te d ’A lessan dria, Stromata, HI, 7.
327 Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, Prologo.
328Ibid.
329Questa affermazione, che segue l’insegnamento scritturistico di cui sono stati fomiti i da­
ti prima, è molto frequente nei Padri. La ritroveremo molte volte nel capitolo seguente. Vedi per
esempio: MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, III, 12. SlMEONE IL NUOVO TEOLO­
GO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 78. NlCETA STETATOS, Lanima, 57; Centurie, DI, 75.
D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,122. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, II, 144,3.
G iustino , Apologia prima, 53.
330Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVII, 42.
97
pendenza dalle passioni che il suo peccato ha introdotte in lui. Mos­
so da queste tendenze estranee alla sua natura originale ed essenzia­
le, l’uomo è alienato. Non è più lui precisamente parlando che agisce,
ma la legge del peccato che abita in lui (Rm 7,17.20.23).
Schiavo delle sue passioni, l’uomo lo è anche del diavolo e dei de­
moni. Non solo egli è influenzato, ma anche dominato e schiacciato
dalla tirannia del Maligno”1. Sant’Isacco osserva che «colui che non
sottomette a Dio la sua volontà si sottomette al suo avversario»352. San
Macario descrive così questa duplice schiavitù che l’uomo subisce da
parte delle passioni e delle potenze del male: «Dopo la caduta e l’e­
spulsione dal paradiso terrestre, l’uomo è incatenato da una duplice
serie di legami. Gli uni vengono dalla vita stessa, dagli intrighi che le
passioni comportano, dall’amore per tutte le cose visibili. All’interno,
l’anima è avviluppata, circuita, incarcerata dagli spiriti malefici che
la mantengono nelle tenebre»333. Evidentemente, vi è una relazione di­
retta tra queste due serie di legami: è perché l’uomo vive nel male che
le potenze demoniache hanno su di lui un tale potere; per le sue pas­
sioni, egli si apre a tali potenze, le fa vivere in sé334.
In questo stato, non rimane più gran cosa della libertà primitiva del­
l’uomo. Quando in Dio e nella virtù, l’uomo muoveva se stesso se­
condo la sua natura e partecipava della sovrana volontà di Dio, essen­
dosi allontanato da questi e vivendo contro natura, non è più veramente
egli stesso che agisce ma una natura estranea che ha preso possesso di
lui, quella appunto costituita dalle passioni, che hanno, a causa del pec­
cato, ricoperto la sua vera natura, la tiranneggiano e la condizionano.

5. Patologia della memoria


La memoria è stata data all’uomo fin dal momento della sua crea­
zione, affinché, per mezzo di essa, egli possa ricordarsi continua-
mente di Dio ed essere così unito a lui permanentemente con il suo
spirito e il suo cuore. «Abbiamo ricevuto la memoria per portare il
Cristo in noi», scrive san Nicola Cabasilas335. Il ricordo di Dio appa­
riva così all’uomo come una norma. A questo proposito così scrive san
351 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Catechesi, V, 409-413.
332Discorsi ascetici, 42.
333 Omelie (Coll. E), XXI, 2.
334 Cfr. ibid.
335La vita in Cristo, VI, 91.
98
Macario: «Occorre che il cristiano abbia sempre il ricordo di Dio»356.
E san Gregorio Nazianzeno: «Dobbiamo ricordarci di Dio molto
più frequentemente dei nostri respiri; e, se si può dire, non dobbiamo
fare null’altro che questo»337.
Il ricordo di Dio implica, a un primo livello, il ricordo dei coman­
damenti per mezzo dei quali l’uomo si unisce a lui nel compiere la sua
volontà: ricordo del comandamento dato da Dio nel paradiso ad Ada­
mo ed Èva338; ricordo dei comandamenti del Cristo all’uomo restau­
rato dal Verbo incarnato339. Questo implica, pertanto, «la memoria del­
le virtù», la quale non lascia spazio alcuno alle passioni340.
Come indicato da quest’ultimo punto, il «ricordo di Dio (mnemè
theoù)», è anche il ricordo dei benefici di Dio341, attraverso cui si
rende grazie a lui. San Marco l’Eremita vi insiste particolarmente: «Ec­
co, egli scrive, ciò che dev’essere il punto di partenza di una condot­
ta vantaggiosa secondo Dio: occorre ripassare sempre nella memoria
e conservare in un’incessante meditazione il ricordo della bontà di Dio
che ha organizzato il corso della tua vita secondo il suo disegno, dei
suoi benefìci che mirano alla salvezza della tua anima; non lasciar oscu­
rare la memoria dal vizio, fonte d’indifferenza, né perdere il ricordo
della moltitudine e dell’importanza delle sue grazie e, di conseguen­
za, non trascorrere il resto del tempo senza profitto, nell’ingratitudi­
ne. Difatti, questo ricordo incessante esercita il cuore a mo’ di un pun­
giglione: lo spinge in ogni momento alla confessione, all’umiltà, al ren­
dimento di grazie con un’anima macerata, a un grande zelo verso il
bene, per offrire in cambio un modo di vita, dei costumi profittevoli
e ogni virtù secondo Dio»; colui che «non lascia cadere nell’oblio ta­
li benefici [...] si orienta verso la buonissima ascesi della virtù e verso
ogni opera di giustizia con un ardore sempre sostenuto e sempre di­
sposto ad eseguire la volontà di Dio»342.
Questa forma di «ricordo di Dio» sfocia naturalmente nella sua for­
ma principale, quella della preghiera continua che i Padri indicano
abitualmente con questa espressione343. Questa, sottolinea san Diado-
3!é Omelie (Coll. E), XLEI, 3. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Lettere, XXE; Regole lunghe, 5. O ri-
GENE, Omelie sui Numeri, XXIV, 2.
337Discorsi, XXVII, 4.
338Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 56.
™Ibid.
340 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 56.
341 Vedi anche BASILIO DI CESAREA, Regole brevi, 294.
342A Nicola, 2.
343 Vedi a questo riguardo, I. HAUSHERR, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960,
99
co di Foticea, è per lo spirito che «esige da noi un’opera che deve sod­
disfare il suo bisogno di attività», «l’unica occupazione che risponde
interamente al suo scopo»344. Essa costituisce nello stesso tempo «la
sua propria attività»345, la sola attività che corrisponde alla sua natura.
«La preghiera fa esercitare all’intelligenza l’attività che le è propria»,
nota Evagrio346, che sottolinea ancora: «La preghiera è l’attività che
presiede all’inteUigenza, o in altre parole, all’impiego migliore e ade­
guato di questa»347. Adamo, che, nel paradiso, «viveva nella preghie­
ra»348, praticava questa memoria ininterrotta di Dio349. Ugualmente i
santi, che reintegrano in Cristo la condizione primaria di Adamo e «si
avvicinano alla perfezione, hanno continuamente nel cuore il ricordo
del Signore Gesù»350.
Per mezzo di questa memoria continua di Dio l’uomo può, infatti,
conformemente alla finalità della sua natura, unirsi a lui. «L’unione
spirituale è la memoria allo stato puro», scrive sant’Isacco il Siro351.
Attraverso il ricordo di Dio, l’uomo è fortificato nella custodia e
nella pratica dei comandamenti; egli può, in altri termini, preservarsi
dalle passioni e far crescere in sé le virtù352.
Il ricordo di Dio è, in modo particolare, la condizione dell’amore
di Dio353, che esso ricordo ha la proprietà di suscitare e di far cresce­
re354, andando sempre di pari passo con l’amore355. Ciò è vero, in pri­
mo luogo, nella sua forma più compiuta, che è quella della preghiera
continua, ma anche del ricordo dei benefici di Dio. E così che san Mar­
co l’Eremita consiglia: «Conserva davanti agli occhi i beni ricevuti dal­
la tua nascita fino a ora, sia corporali sia spirituali, medita su di essi e
ripetili, secondo quanto è scritto: “Non tenere in oblio nessuno dei
pp. 156s. e H. J. SlÈBEN, «Mnèmè Theou», in Dictionnaire de spiritualité, X, 1980, coll. 1407-
1414.
344 Cento capitoli gnostici, 59.
345Ibid.y 61.
346La preghiera, 83.
347Ibid.y84.
348DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,1. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esat­
ta della fede ortodossayII, 11.
349 Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 56. G regorio il S inaita , Capitoli,
60-61.
350 D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostidy 88.
351Discorsi ascetici, 1.
352 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 33.
353 Cfr. M acario d ’E gitto , Discorsi (Coll. I), XXXn, 3.
354Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi asceticiy 85. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostidy 32.
G re g o rio P alamas , Triadi, II, 2 ,1 9 .
355 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratidy 1 ,93.
100
suoi benefìci” (Sai 103[102],2), affinché essi ti portino ad amare Dio
prontamente e facilmente [...] perché, spontaneamente, al ricordo di
questi benefici e ancor più sotto un impulso proveniente dall’alto, il
tuo cuore sia ferito d’amore e di desiderio»356.
Il ricordo continuo di Dio nella preghiera costituisce così per l’uo­
mo la chiave d’accesso alla contemplazione che, scrive sant’Isacco,
«trova in lui la materia sulla quale gli è dato di basarsi»357. San Calli­
sto II il Patriarca dice allo stesso modo che esso «fa riflettere nello spi­
rito purificato i raggi divini»358. La memoria accompagna l’attività del­
lo spirito fino ai gradi più alti della vita spirituale359. Ed è altresì «nel­
la sua memoria», afferma sant’Isacco, che l’uomo «è rapito più in alto
della natura» nella conoscenza/visione di Dio che lo Spirito gli co­
munica360.
Per mezzo della memoria di Dio, l’uomo conserva Dio all’interno
del suo spirito361 e lo fa dimorare nel suo cuore. «Ciò significa allog­
giare Dio, scrive san Basilio, avere, per mezzo del ricordo, il suo Dio
stabilito in sé. Così noi diventiamo il tempio di Dio fin quando le preoc­
cupazioni terrene non interrompono la continuità di questo ricordo»362.
Per questo stesso motivo, il ricordo di Dio è per l’uomo che lo pos­
siede la fonte di una gioia intensa363, «fa nascere nell’anima un’indici­
bile felicità»364, come dice il salmista: «Penso a Dio e sono nella gioia»
(cfr. Sai 77 [76] ,4).
Per mezzo del ricordo permanente di Dio, l’uomo pensa «alla sola
cosa necessaria» e conduce un’esistenza tutta centrata su Dio, confor­
memente alla finalità della sua natura. In altre parole, la memoria di
Dio implica l’oblio del mondo365, l’assenza di ogni ricordo sensibile e
mondano366. Implica ugualmente per l’uomo l’oblio di sé. L’uomo spi­
rituale, scrive sant’Isacco, «dimentica se stesso. Non si ricorda affatto
di questo secolo; non smette di meditare e di concepire quanto rive­

357Discorsi ascetici, 1. Q uesto punto sarà esaminato dettagliatamente nella VI parte, capito­
lo 3 ,5 .
358 Capitoli, 3.
359 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 33.
360Ibid., 65.
361 Cfr. G re g o rio Palam as, Triadi, 1,2 ,2 3 .
362 Lettere, E, 4.
363 Cfr. E lia E cd ico, Capitoli gnostici, 12. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 60.
364 C a llis to II, Capitoli, 3.
365Cfr. D iad oco di F oticea, Cento capitoli gnostici, 56. B asilio di Cesarea, Regole lunghe, 6.
366Cfr. ISACCO IL SIRO, Discorsi ascetici, 8 e 10. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di
essere giustificati per le loro opere, 37.
101
la la grandezza di Dio». Egli ha una «memoria legata al genere di vi­
ta che conduce [...]; non pensa alle cose di questo mondo, non se ne
ricorda»367. «Quando la memoria di Dio ha fatto dell'anima il suo
pascolo, essa cancella ogni altro ricordo», continua a dire ancora sant’I-
sacco in sintesi368.
La memoria dell’uomo, essendo totalmente occupata nel ricordo di
Dio, è, nello stato originario e normale della natura umana interamente
unificata, semplice e omogenea369. Tutti i pensieri dell’uomo vi si con­
centrano verso dò che costituisce per il suo spirito l’unico oggetto d’at­
tenzione. Nel ricordo di Dio, osserva san Giovanni Cassiano, l’uomo
«fìssa tutta la sua attenzione verso un fine unico verso il quale [egli]
fa attivamente convergere tutti i pensieri che si levano [...] nel suo spi­
rito»370. La memoria appare allora stabile e immobile371, e conosce la
calma372.
Essendo la memoria totalmente occupata dal ricordo di Dio e quin­
di «spogliata di ogni forma e di ogni figura», «il cuore è puro»373.
Grazie alla memoria di Dio, l’uomo si preserva da pensieri estranei
che gli suggerisce il Maligno374. Essa esclude ogni pensiero cattivo375
e non consente che alcuna disposizione al male si manifesti376. Essa co­
stituisce un’arma contro i demoni377, permettendo all’uomo non solo
di non essere raggiunto dai loro attacchi, ma anche di dominarli e di
allontanarli378.
Mentre la memoria così utilizzata secondo la sua natura è in buona
salute, per mezzo del peccato invece essa agisce contro natura e si am­
mala379. La sua malattia consiste, come per le facoltà precedentemen­
te studiate, in una perversione, più precisamente in una inversione del­
la sua attività: mentre nel normale stato della natura umana essa serve
367 Discorsi ascetici, 85.
368 Ibid.y 73.
369Cfr. G re g o rio i l Sinaita, Capitoli, 60-61.
370 Conferenze, XXIV, 6.
371 Cfr. G re g o rio i l Sematta, Capitoli, 61.
372 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 8.
373 M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull'economia, n, 82. Cfr. Simeone il
NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 32.
374 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), LEI, 16.
375 Cfr. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 5; 97.
376Ibid., 3.
377 Ibid., 33.
378Ibid., 81.
379 Sant’EsiCHIO DI B atos (Capitoli sulla vigilanza, 32) e san GREGORIO IL SlNATTA {Capito­
li, 61), parlano esplicitamente della malattia della memoria.
102
esclusivamente, in conformità alla finalità della propria natura, al ri­
cordo di Dio e del Bene, essendo per ciò stesso dimentica di ogni realtà
sensibile e di ogni male, a causa del peccato diviene al contrario, con­
tro la propria natura, oblio di Dio e del Bene, e ricordo del male e del­
le realtà sensibili580.
Questa malattia della memoria colpisce naturalmente lo spirito che
è suo organo: nella misura in cui esso ha dimenticato Dio, si ritrova
alienato in un’attività che gli è estranea e conosce l’asfissia e la morte
spirituali. E così che sant’Isacco scrive: «Ciò che accade al pesce quan­
do è fuori dell’acqua così accade anche allo spirito quando è fuori del­
la memoria di Dio e si disperde nella memoria del mondo»581. Tutte le
facoltà che ne dipendono direttamente subiscono similmente gli ef­
fetti patologici della malattia della memoria. Per questo san Massimo
considera che l’oblio di Dio e del bene è, con l’ignoranza, la princi­
pale passione/malattia della parte razionale dell’anima582.
L’oblio di Dio gioca nella caduta dell’uomo, assieme all’ignoranza
di Dio con la quale esso va di pari passo, un ruolo centrale. Per que­
sto san Gregorio Palamas vede nell’abbandono della «memoria e del­
la contemplazione di Dio» l’essenza del peccato ancestrale585. E san
Marco l’Eremita nota: «La scrittura dice: “Inferi e abisso sono davanti
al Signore” (Pro 15,11). Essa vuole parlare dell’ignoranza del cuore e
dell’oblio. È l’ignoranza che è l’inferno, e l’oblio la perdizione584, e tut­
te e due uccidono l’uomo spiritualmente585. San Marco l’Eremita, e
sulla sua scia san Giovanni Damasceno, considerano, già lo abbiamo
messo in evidenza, che l’oblio (lethe) è, con l’ignoranza (àgnoia) e la
negligenza spirituale (rhathymia) uno dei «tre giganti del diavolo», dai
quali procedono tutte le passioni e tutti i mali che colpiscono l’uomo
decaduto586. San Marco l’Eremita descrive così queste tre malattie spi­
rituali fondamentali e indissociabili, le loro relazioni e i loro effetti:
«Sono questi tre giganti estranei, potenti e forti che tu devi conside­
rare; su di essi poggia tutta la potenza del nostro temibile nemico spi­
rituale [...]. Quelli che consideriamo come i potenti giganti del Mal­
380 Questa duplice polarità della memoria che si esercita «secondo natura» o «contro natu­
ra» è ricordata proprio da sant’ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 65.
381 Discorsi ascetici, 43.
382 Cfr. Centurie sulla carità, I, 68. Cfr. anche, Questioni a Talassio, Prologo: «L’oblio dei
beni della natura è il vizio dell’anima dotata d’intelligenza».
383 Capitolifisici, teologici, etici e pratici, 46. Cfr. 50.
384 La legge spirituale, 61-62.
385 Ibid., 62.
386 Cfr. M arco l ’Erem ita, A Nicola, 10-13. G iovanni D am asceno, Discorso utile aWanima.

103
vagio sono l’ignoranza, la madre di tutti i mali, l’oblio, sua sorella, suo
socio e suo aiuto, la negligenza, che tesse nell’anima un abito e un
velo tenebroso di nuvole nere; essa consolida e fortifica le altre due,
fornisce loro consistenza introducendo il male allo stato endemico e
radicandolo nell’anima particolarmente noncurante. Il resto delle pas­
sioni cresce e si fortifica grazie alla negligenza, all’oblio e all’ignoran­
za. Esse si sostengono mutuamente e non possono stare le une senza
le altre. La potenza delle forze nemiche si manifesta attraverso di es­
se, come il vigore dei principi del male; attraverso di esse tutta l’ar­
mata degli spiriti di malizia s’insinua, si afferma e può realizzare i pro­
pri disegni»387.
Abbiamo visto che è difficile determinare nel processo della cadu­
ta ciò che è primario: se è la seduzione del piacere sensibile che tra­
scina l’uomo ad ignorare e a dimenticare Dio, o se al contrario è l’i­
gnoranza e l’oblio di Dio che lo porta a rivolgersi verso la realtà sen­
sibile. Vi è, lo abbiamo sottolineato, una dialettica di questi due
atteggiamenti, che giustifica che si metta avanti ora l’uno, ora l’altro.
Ad esempio, san Diadoco di Foticea privilegia la prima soluzione:
sedotti dal piacere sensibile, Adamo ed Èva dimenticano Dio. «Che la
vista, il gusto e tutti gli altri sensi, quando ne usiamo fuori misura, dis­
sipino la memoria del cuore, la prima Èva ce lo insegna: infatti, fin­
tanto che ella non ebbe guardato con piacere l’albero proibito, si ri­
cordava coscenziosamente del precetto divino. Questo perché ella era
ancora come al riparo sotto le ali dell’amore divino [...]. Ma quando,
con piacere, ella ebbe visto l’albero, quando lo ebbe toccato con ar­
dente desiderio, e poi ebbe gustato il suo frutto con intenso piacere
[...], ella diede tutto il suo desiderio al godimento del presente, coin­
volgendo Adamo nella sua colpa per la dolce apparenza del frutto.
D’allora in poi, lo spirito umano non potè più che con pena ricor­
darsi di Dio e dei suoi comandamenti»388. Altri Padri propongono il
processo inverso. Un apoftegma riferisce: «Gli Anziani dicevano: “Le
potenze di Satana che precedono ogni colpa sono triplici: l’oblio, la
negligenza, e il desiderio. Infatti, ogni volta che sopraggiunge l’oblio,
questo genera la negligenza, dalla negligenza procede il desiderio, e
il desiderio fa cadere l’uomo»389. Sant’Esichio di Batos dice allo stes­
so modo: «Dall’oblio noi cadiamo nella negligenza, e dalla negligenza
™A Nicola, 12. C£r. 13.
388 Cento capitoli gnostici, 56.
389Apoftegmi, N 273.
104
nei [...] desideri fuori posto»390. E, a sua volta, san Macario: «Lo spi­
rito che rifiuta il ricordo di Dio soccombe sia alla collera, sia alla con­
cupiscenza»391. San Marco l’Eremita è molto più esplicito a questo
riguardo quando scrive in modo particolare: «Tutti coloro che di­
menticano Dio divengono voluttuosi»392.
Avendo dimenticato Dio, la memoria si divide e si disperde, e vie­
ne invasa e occupata da molteplici pensieri relativi alle cose del mon­
do sensibile verso il quale l’uomo si è volto. «Il principio e la causa dei
pensieri, scrive san Gregorio il Sinaita, è, in seguito alla trasgressione,
l’esplosione della memoria semplice e omogenea. Nel divenire com­
posta e diversa da semplice e omogenea qual era, ella ha perduto il ri­
cordo di Dio e ha corrotto le sue potenze»393. Questa malattia della
memoria ha evidentemente delle ripercussioni su tutte le facoltà del­
l’anima. Lo spirito, precedentemente occupato dal solo pensiero di
Dio, ora si trova incessantemente attraversato dal flusso dei ricordi
mondani che abbondano sempre più.
La memoria diviene, infatti, per l’uomo, insieme all’immaginazione,
la pricipale via attraverso la quale i pensieri estranei penetrano nel
suo cuore e occupano il suo spirito, una delle principali fonti «dei pen­
sieri che [lo] alienano»394. E dalla memoria che l’uomo riceve la mag­
gior parte delle rappresentazioni che costituiscono per lui altrettante
suggestioni/tentazioni. E soprattutto essa che fornisce al suo spirito
«pensieri semplici» che richiamano il suo attaccamento passionale395.
San Massimo insegna: «Tre vie danno accesso nello spirito ai pensieri
passionali: la sensazione, la costituzione fìsica, la memoria [...]. La me­
moria, quando fa rinascere il ricordo degli oggetti che ci appassiona­
no, suggerisce parimenti allo spirito pensieri passionali»396. Ma spesso
la memoria fornisce direttamente pensieri passionali397, come sottoli­
nea san Talassio che vede in questa facoltà la principale fonte di quel­
li, e i più temibili tra loro: «Vi sono tre cose attraverso cui tu ricevi i
pensieri passionali: i sensi, la memoria e la costituzione del corpo. I pen­
sieri più spiacevoli sono quelli che provengono dalla memoria»398. La
390 Capitoli sulla vigilanza, 32.
391 Omelie (Coll. II), LIV, 10.
392Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 122.
393 Capitoli, 60.
394 Cfr. Isa cco i l Siro, Discorsi ascetici, 33.
395 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, 1, 84, HI, 42.
396Centurie sulla carità, II, 74.
397 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, n, 84.
398 Centurie, 1,46.
105
memoria produce particolarmente tali pensieri perché essa conserva i
ricordi delle colpe precedenti e i segni delle passioni precedentemen­
te stabilite399, e soprattutto quelli del piacere che era a loro legato400, il
che dà alle sue rappresentazioni un forte potere di seduzione401. Allo­
ra spesso la memoria è attivata ed eccitata dai demoni che cercano in
particolare di ricondurla a quei ricordi402.
Per tutti questi motivi, la memoria diviene nell’uomo decaduto una
delle cause principali per mezzo delle quali le passioni sono suscitate
e trattenute403. Ecco perché sant’Isacco vede in essa la sede delle pas­
sioni, il luogo in cui possiamo trovarle tutte404.
E così che il «ricordo del male (mnemè toü kakoü)» diviene nel­
l’uomo decaduto una abituale disposizione (mi)405. Il ricordo del ma­
le si sostituisce, in gradi diversi, al ricordo del bene, l’unico, all’origi­
ne, che occupava la memoria; per il fatto di non potervisi sostituire
completamente, gli lascia un posto più o meno ridotto.
Tutto ciò ha, in ogni caso, come effetto quello d’introdurre nella
memoria un’altra divisione che essa ignorava in origine, quella di scin­
derla in due parti, come dice san Diadoco di Foticea: «Dopo che uno
scivolamento del nostro spirito lo ha messo in uno stato di doppia
scienza, è obbligato allora, anche se egli non vuole, ad avere nello stes­
so istante pensieri buoni e cattivi [...]. A misura, infatti, che egli si af­
fretta a concepire il bene, immediatamente si ricorda del male, per­
ché, in seguito alla disobbedienza di Adamo, il ricordo dell’uomo si
viene a trovare scisso in un duplice pensiero»406.
Ricordo del bene e ricordo del male non si avvicinano solamente,
essi si mescolano, contribuendo ad accrescere la confusione che la me­
moria e l’intelligenza ricevono già dai molteplici e diversi pensieri che
li investono407.
399 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 33. Evagrio Pontico osserva: «Se abbiamo dei ri­
cordi passionali di una cosa, è perché ne abbiamo accolto prima gli oggetti con passione e, in­
versamente, di tutti gli oggetti che accogliamo con passione avremo anche dei ricordi passio­
nali» (Trattato pratico sulla vita monastica, 34).
400 Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 93. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, II, 19.
401 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 10.
402 Cfr. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 33. M arco l’E remita, A Nicola, 10. E vagrio P o n -
TICO, La preghiera, 10; 44-46.
403 Cfr. TALASSIO, Centurie, III, 32; IV, 16. Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca­
rità, II, 85. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici, 33.
404 Cfr. Discorsi ascetici, 8.
405 Cfr. DlADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 3; 5; 83; Discorso per l'Ascensione, 6.
406 Cento capitoli gnostici, 88.
407 Sulla confusione della memoria, vedi ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 85.
106
Anche se l’uomo decaduto è, come afferma sant’Esichio di Batos,
«coperto da un abisso d’oblio»408, il ricordo di Dio e del bene, dopo
la colpa di Adamo non è reso impossibile, ma diviene più difficile.
«D’allora in avanti, scrive san Diadoco di Foticea, lo spirito umano
non può se non con pena ricordarsi di Dio e dei suoi comandamen­
ti»409. «La disobbedienza, scrive allo stesso modo san Gregorio il Si-
naita, ha falsato i rapporti della memoria semplice con il bene; essa ha
corrotto le sue potenze e indebolito la sua attrazione naturale verso la
virtù»410. Infatti, come abbiamo già visto, lo spirito dell’uomo è inve­
stito e occupato da una molteplicità di ricordi di oggetti di questo mon­
do e di pensieri, passionali o meno, ma in ogni caso estranei a Dio. Ta­
li ricordi arrivano allo spirito dell’uomo a motivo del suo attaccamento
a questo mondo, ma anche in ragione dell’azione dei demoni che cer­
cano, particolarmente, attraverso questo mezzo, di tenerlo lontano da
Dio411. In ogni caso, in realtà, questi ricordi mondani escludono il ri­
cordo di Dio. Il principio di economia messo in evidenza a proposi­
to delle facoltà precedentemente studiate vale anche per la memoria:
più essa si ricorda di Dio meno si ricorda di questo mondo; inversa­
mente, più essa si ricorda di questo mondo, meno si ricorda di Dio.

6. Patologia ddl’immagmazione
L’immaginazione (phantasia) è una facoltà di conoscenza dell’uo­
mo412, una delle più elementari413.
La sua funzione naturale è quella di permettere all’uomo di rap­
presentarsi le cose sensibili in quanto tali414. È, dunque, direttamente
408 Capitoli sulla vigilanza, 116.
409 Cento capitoli gnostici, 56.
410 Capitoli, 61.
411 Quest’azione si rivela chiaramente all’uomo che cerca nella preghiera di ritrovare Dio, co­
me sottolinea in particolare Evagrio: «Il demonio, egli scrive, è terribilmente geloso dell’uomo
che prega e impiega tutti i mezzi per far fallire il suo scopo. Così non smette di ravvivare attra­
verso la memoria il pensiero degli oggetti» {La preghiera, 46. Cfr. 44; 45; 68). Altrove, egli spie­
ga più a lungo: «Quando i demoni ti vedono pieno di ardore per la vera preghiera, ti suggeri­
scono il pensiero di certi oggetti che essi fanno apparire come necessari; e poi ben presto so­
vreccitano il ricordo che vi si ricollega, spingendo l’intelligenza alla loro ricerca; poi, visto che
questa non li trova, si rattrista molto e si dispiace. Allora, al momento della preghiera, i demo­
ni le ricordano gli oggetti delle sue ricerche e dei suoi ricordi, affinché l’intelligenza, fiaccata
da queste cose familiari, non raggiunga la preghiera fruttuosa» [tbid., 10).
412 Cfr. N ic eta S te ta to s, Lanima, 37.
413 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, n, 3 ,5 9 .
414 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 69.

107
legata alla sensazione415 e al sensibile416. Essa trasforma in immagini
le sensazioni e consente all’uomo di avere, sotto forma di immagine,
una rappresentazione di ciò che egli percepisce417. Gli permette al­
tresì, insieme alla memoria, di rappresentarsi i ricordi che sussistono
di quanto egli ha percepito418.
Oltre a essere la facoltà di trasformare delle percezioni in immagi­
ni corrispondenti e di riprodurle quando la memoria se ne ricorda,
l’immaginazione è altresì la capacità di produrre, associando più im­
magini prese nella totalità o in parte, nuove immagini.
L’immaginazione può, così, assumere la triplice forma di un’imma­
ginazione produttrice, di una immaginazione riproduttrice, e di una
immaginazione creatrice419, fondandosi ciascuna sulla precedente. Sot­
to le sue due ultime forme, in condizioni particolari del sonno, essa
produce i sogni420.
Nella sua condizione primordiale, l’immaginazione dell’uomo era
esclusivamente legata alla sua rappresentazione delle creature sensibili
esistenti. Facoltà indispensabile nel quadro delle necessarie relazioni
con le creature, tuttavia, l’immaginazione non costituiva un ostacolo
alla relazione dell’uomo con Dio e non lo distoglieva da lui421. Difatti
l’uomo, essendo allora impassibile, nello stato in cui era stato creato,
ignorava «la cattiva immaginazione» che «si oppone [...] all’opera sem­
plice e retta dello spirito»422: le immagini da lui prodotte rimanevano
«semplici», cioè, non erano legate ad alcuna passione423, sia per su­
scitarla424, sia per essere da essa suscitate. Esse potevano così prende­
re posto nel quadro della contemplazione naturale (physiche theoridf5,

415 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 17. NlCETA Ste -
TATOS, Inanima, 65. GREGORIO PALAMAS, Triadi, II, 3 ,5 9 .
416 Cfr. Pseudo-M assim o i l C on fessore, Scolti sui Nomi divini, P G 4 , 201A.
417 Cfr. ibid., 201B.
418Cfr. ibid. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici, 46.
419L’immaginazione creatrice indica, in senso ampio, la capacità di creazione o d’invenzione
dell’uomo, la quale spesso fa intervenire la ragione più che l’immaginazione propriamente det­
ta. Noi qui considereremo solo l’immaginazione in senso stretto, cioè la capacità di produrre im­
magini.
420Cfr. GREGORIO DI NlSSA, ha creazione dell’uomo, XIII, PG 44,168B.
421 Cfr. M assim o i l C on fessore, Ambigua, 45, P G 91,1353C.
422 C a llis to e Ig n a zio X a n to fu lo , Centuria, 64.
42’ Così san Massimo il Confessore constata che quando l’anima è «in buona salute, allora
le immagini» le appaiono «semplici e senza alcun turbamento» (Centurie sulla carità, I, 89).
Più avanti, egli parla di questa impassibilità di fronte alle immagini delle cose (ibid., 91).
424 Cfr. M assim o il C on fessore, Questioni a Talassio, 49.
425 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 64.
108
rimanendo trasparenti ai lógoi (o ragioni spirituali) degli esseri e alle
energie divine immediatamente percepite e contemplate dallo spirito
di Adamo nella sua rappresentazione delle creature e che gli serviva­
no a lodare Dio nella sua creazione e a unire a lui questa, secondo il
suo disegno426. L’uomo nel suo stato originale disponeva, così, di una
«immaginazione buona»427, «volgendo al bene» i movimenti di que­
sta428, nella misura in cui egli utilizzava le immagini delle creature per
elevarsi e per elevare queste ultime verso il loro Creatore.
Da questa «immaginazione buona» derivavano nel suo sonno i «so­
gni buoni»429. Essendo l’uomo impassibile, questi sogni si caratteriz­
zavano per la loro purezza, erano costituiti da immagini o da combi­
nazioni di immagini «semplici», che testimoniavano la salute della sua
anima, come osserva san Massimo: «Quando l’anima inizia a sentirsi
in buona salute, allora le immagini, durante il sonno, cominciano ad
apparirgli semplici e senza turbamenti»430. Nel quadro della contem­
plazione naturale, questi sogni prendevano per di più la forma di vi­
sioni431, d’insiemi stabili e nettamente strutturati e ordinati di imma­
gini432, ispirati da Dio e fomiti di un significato spirituale definito, ta­
li da elevare l’uomo a Dio, a motivo del loro carattere simbolico, fin
nel sonno. Come san Massimo per i sogni «semplici», così san Dia­
doco di Foticea fa notare che tali sogni testimoniano la salute dell’a­
nima: «I sogni che appaiono all’anima nell’amore di Dio sono sicura­
mente indizi di un’anima sana»433.
Trovando il suo posto nel quadro della contemplazione naturale,
l’immaginazione tuttavia doveva essere esclusa al di là di essa, nel qua­
dro della conoscenza diretta di Dio, essendo Dio trascendente a ogni
essere, e dunque a ogni intellezione, a ogni pensiero, e afortiori a ogni
rappresentazione sotto forma d’immagine o di figura434. «Lo abbiamo
detto, nessuna immaginazione ha posto dinanzi a Dio. Dio, infatti, è
semplicemente, una volta per tutte, molto al di sopra di tutto, e al di
426 Cfr. M assim o i l C on fessore, Ambigua, 41, PG 9 1 ,1304D-1308B.
427 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 64.
428Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n, 56.
429 Sulla distinzione tra i «sogni buoni» e i «sogni cattivi», vedi DIADOCO DI FOUCEA, Cen­
to capitoli gnostici, 38.
430Centurie sulla carità, 1 ,89.
431 Cfr. N ic eta S te ta to s, Centurie, E , 63.
4,2 Cfr. D ia d o co di F oticea, Cento capitoli gnostici, 37. N ic eta S teta to s, Centurie, n, 61; 63.
433 Cento capitoli gnostici, 37.
434 Cfr. D ia d o c o d i F o tic ea , Cento capitoli gnostici, 68. M assim o i l C on fessore, Centurie
sulla carità, IH, 49. DIONIGI L’AltEOPAGrrA, Sui Nomi divini, 1 ,5, P G 3 ,5 9 3 A.
109
là di ogni pensiero», scrive lo scoliaste di Dionigi l’Areopagita435. La
crescita spirituale dell’uomo implicava, dunque, il superamento di que­
sta immaginazione buona, e nello stesso tempo, il superamento del
mondo sensibile. L’atteggiamento del primo uomo di fronte all’im­
maginazione corrispondeva a quella che descrivono san Callisto e sant’I-
gnazio Xantopulo [Xanthopoulos] ricordando coloro che, rinnovati
dal Cristo, hanno ricuperato la condizione primordiale delTumanità e
s’incamminano, sulla stessa via del primo Adamo, verso la perfezio­
ne alla quale Dio ha destinato l’uomo creandolo: «Coloro che hanno
progredito con il tempo rigettano ogni immaginazione, sia la buona
come la cattiva. Essi le allontanano. Come la cera fonde al fuoco, essi
le riducono in cenere e le consumano attraverso la preghiera pura, at­
traverso la liberazione e lo spogliamento dello spirito da ogni figura,
dal momento che essi tendono semplicemente verso Dio, e [...] che
l’accolgono e si uniscono a lui nell’unità al di là delle forme»436. L’u­
nione con Dio nella contemplazione è possibile, infatti, come vedre­
mo più precisamente in seguito, solo nella preghiera pura, cioè pre­
supponendo, da un lato, l’impassibilità, e dall’altro, l’assenza di ogni
rappresentazione quale che sia, di ogni pensiero e in primo luogo di
ogni immaginazione437che si riferisca non solo a cose sensibili e/o uma­
ne438, ma anche a Dio stesso439.
A questo livello di contemplazione, l’immaginazione cessa di eser­
citarsi anche nel sonno. L’uomo viene a trovarsi unito strettamente a
Dio permanentemente, e nel suo sonno stesso il suo spirito è sveglio.
Ai sogni si sostituiscono le visioni divine. «Colui che è illuminato dal­
lo Spirito Santo [...] vede in realtà e in spirito, o che stia sveglio o
che dorma, questi beni che l’occhio non ha visto, e che l’orecchio non
ha udito, che non sono entrati nel cuore dell’uomo, e che gli stessi an­
geli desiderano intravedere», scrive san Simeone il Nuovo Teolo­
go440. Tuttavia, queste visioni non sono più immagini e non mettono
435Scolii sui Nomi divini, PG 4, 201C.
436 Centuria, 65.
437 Vedi per esempio: DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 59; 68. EVAGRIO PONTI-
CO, La preghiera, 66; Lettere, 39; Capitoli gnostici, I, 46. Vedi anche CALLISTO e IGNAZIO XAN­
TOPULO, Centuria, 65, ove, a sostegno delle loro annotazioni, sono citati lunghi brani di Esi-
chio di Batos, di Diadoco di Foticea, di Basilio di Cesarea, di Evagrio Pontico e di Massimo il
Confessore.
438Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, ni, 49. E vagrio P ontico , Commen­
to al salmo 140, éd. Pitra, p. 348. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, X X V ffl, 45.
439 Cfr. Apoftegmi, 181, 10. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 73. BASILIO DI CE­
SAREA, Omelie sull’origine dell’uomo, 1 ,5.
440 Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 61. Cfr. 62.
110
più in gioco l’immaginazione441, ma sono prodotte nello spirito inoùs)
dell’uomo perfetto dallo Spirito Santo stesso442: ecco perché «non bi­
sogna chiamar [li] sogni, ma più propriamente visioni e contempla­
zioni»443.
A causa del peccato ancestrale, l’immaginazione diviene nell’uomo
uno strumento di separazione da Dio.
E per mezzo delle sue produzioni che l’uomo ormai riempirà di Dio
il suo spirito vuoto.
Questo è vero per l’immaginazione creatrice. Non si può non ri­
cordare qui la spiegazione di sant’Atanasio secondo il quale l’anima,
non potendo rimanere immobile e senza oggetto dopo che l’uomo si
allontanò da Dio al quale la sua natura primaria lo destinava, prese ad
immaginare oggetti sui quali portarsi: «L’anima si muove, dunque, ma
non più verso la virtù né per vedere Dio: volgendo il suo pensiero a
ciò che non è, trasforma il potere che è in essa, e se ne serve per vol­
gersi verso i desideri che ha immaginato t...]»444; «il male non viene da
Dio, non è in Dio, all’inizio non è esistito, non ha sostanza. Ma sono
gli uomini che, rifiutando di pensare al bene, si sono messi a conce­
pire e ad immaginare a loro piacimento ciò che non esiste; [...] l’ani­
ma umana, chiudendo gli occhi che le permettono di vedere Dio, ha
concepito il male, e muovendovisi, essa crede di fare qualcosa, men­
tre non fa proprio nulla, perché essa immagina il nulla. Non è rimasta
quale è stata fatta, ma si mostra quale si è costruita. Difatti, essa è
stata costruita per vedere Dio e per essere illuminata da lui; ma inve­
ce di Dio, essa ha cercato le tenebre e le cose corruttibili t...]»445.
E così che l’uomo, divenuto ignorante del mondo spirituale, si è co­
struito con la sua intelligenza e immaginazione un mondo fantasmati-
co, al quale egli aderisce tanto più quanto più questo corrisponde ai
desideri sensibili e alle passioni che si sono sviluppate in lui. Per
questo l’uomo decaduto si trova alienato in un mondo irreale; è per
questo «che nulla di dò che appare nella vita appare quale veramen­
te è, ma che, secondo le nostre immaginazioni ingannevoli, la vita ci
441 Cfr. G re g o rio Palam as, Triadi, n , 3 ,5 9 .
442 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, in , 61; 64. N ice-
TA S te ta to s, Centurie, H, 62. G r e g o r io PALAMAS, Triadi, II, 3 ,5 9 . Lo stesso si dica delle vi­
sioni profetiche.
445 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 64.
444Discorso contro ipagani, 4.
445 Ibid., 7. Cfr. BASILIO DI C esarea, Lettere, CCXXX111,1: l’intelligenza, «essendo sempre
in movimento, spesso si forma immagini vane riguardo alle cose che non esistono».
Ili
mostra una cosa per un’altra, prendendosi gioco delle speranze dei
suoi pii ammiratori, nel camuffarsi sotto l’inganno delle apparenze»446.
Ma è anche con le immagini del mondo sensibile, che la sua imma­
ginazione in combutta con la sua memoria gli rappresenta, che l’uo­
mo decaduto ingombra il suo spirito da cui ha escluso Dio. Attaccato
passionalmente al mondo sensibile, ma a un mondo sensibile chiuso
su se stesso e che non svela più ai suoi occhi nulla del suo Creatore,
l’uomo decaduto si lascia completamente possedere da esso. Le im­
magini che egli ha del mondo sensibile nella sua percezione, o i suoi
ricordi, non sono più come lo erano nell’Adamo primordiale, traspa­
renti alle energie divine, non gli ricordano più Dio, né lo elevano più
verso di lui, ma sono interamente opache. In balia degli oggetti ri­
dotti alla loro dimensione sensibile, l’uomo ha lo spirito continuamente
abitato o attraversato dalla folla dei loro pensieri e delle loro imma­
gini. Ciò avviene non solo nello stato di veglia, ma anche nel sonno,
durante il quale è invaso dalle immaginazioni dei sogni447.
Lungi dal rimanere, secondo la sua natura, una facoltà di conoscenza
annessa, l’immaginazione, in collegamento con la memoria stessa per­
vertita, domina lo spirito che essa trascina al suo seguito448e aliena449.
E così lo «spirito vagabonda da fantasmi a fantasmi, che si dissolvono
gli uni negli altri»450. L’immaginazione prende possesso dell’anima, in­
vestendola di molti modi. «Questo perché, scrivono san Callisto e
sant’Ignazio Xantopulo, i divini Padri parlano di essa e contro di essa
in molti modi. Come il Dedalo del mito, questa immaginazione ha nu­
merose forme, e come l’idra, ha molte teste. [...] E per mezzo di essa
che attraversano e passano gli infami uccisori che si uniscono e si me­
scolano all’anima, che fanno di essa un nido di calabroni, una dimo­
ra di pensieri sterili e passionali»451. In questo modo, non solo essa «si
oppone con tutta la sua forza alla preghiera pura»452, ma ancor più es­
sa non lascia alcun posto nell’anima al pensiero e al ricordo di Dio che
normalmente dovrebbero occuparla. San Barsanufio paragona l’ani­
ma, nel suo stato normale, cioè quando essa è tutta occupata dal ri­
446G r e g o rio di N issa, Sulla verginità, HI, 4.
447 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 62.
448 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n , 56.
449 Sottolineiamo questa definizione di san Giovanni Climaco: «Un’immaginazione è un’a­
lienazione dello spirito» (La Scala, IH, 37).
450G iovan ni i l S o lita r io , Dialogo, éd. Hausherr, p. 38.
451 Centuria, 64.
452 Ibid., 64.
112
cordo di Dio, a un quadro già dipinto dove nessuna forma né alcuna
figura, alcuna immagine, possono più trovarvi posto453. Nello stato di
decadenza dell’uomo avviene l’inverso: il quadro è interamente riem­
pito dalle figure e dalle forme imposte dall’immaginazione e non la­
scia più sussistere alcuno spazio libero per il pensiero di Dio.
Nella vita interiore dell’uomo decaduto, l’immaginazione occupa
un posto tanto più grande e gioca un ruolo tanto più malefico quan­
to più essa si esercita in stretta relazione con le passioni. «Oggi, os­
serva san Massimo, l’uomo nel suo movimento è posseduto dall’im­
maginazione irrazionale delle passioni»454. Da un lato, l’immaginazio­
ne suscita le passioni, offrendo ad esse i supporti sui quali esse possono
esercitarsi e svilupparsi455. Dall’altro lato e soprattutto, le passioni
suscitano l’attività e le produzioni dell’immaginazione: nutrendosi pri­
ma di tutto dell’immaginario456, esse inducono quest’ultimo a gene­
rare immagini (vecchie e nuove) che corrispondono loro e offrono lo­
ro il piacere che esse ricercano457. San Massimo fa notare: «Come lo
spirito di un uomo affamato immagina il pane e quello di un uomo as­
setato immagina l’acqua, così lo spirito di colui che è ghiotto immagi­
na ogni sorta di nutrimento, lo spirito di colui che ama il piacere im­
magina le forme femminili, lo spirito del vanitoso immagina gli onori
che provengono dagli uomini, lo spirito dell’astioso immagina come
vendicarsi di colui che lo ha offeso, lo spirito del geloso immagina co­
me far del male a colui che invidia, e così via per tutte le altre passio­
ni»458.
Questo avviene nello stato di veglia, ma anche nel sonno. «Vale lo
stesso modo» per i sogni malsani e «per le malattie del corpo, che non
si contraggono al momento in cui sembrano nascere, ma molto pri­
ma», fa notare san Giovanni Cassiano: esse sono «i segni di un male
che covava interiormente [...] che il riposo del sonno fa apparire in su­
perfìcie, rivelando la febbre nascosta delle passioni che abbiamo con­
tratto in noi pascendoci per lungo tempo di pensieri malsani»459. Gli
asceti sanno da sempre che i sogni sono formati dall’immaginazione
453 Lettere, 193.
454Ambigua, 45, PG 91,1353C. Cfr. Centurie sulla carità, II, 56.
455 Cfr. Apoftegmi, II, 22. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 23. MAS­
SIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 59; Centurie sulla carità, E, 56. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoli gnostici, 49.
456Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 8.
457 Cfr. ibid.
458 Centurie sulla carità, II, 68; 69; 85.
459Istituzioni cenobitiche, VI, 11.
113
in funzione delle disposizioni del corpo460 e dell’anima461, e in que­
st’ultimo caso, sia come raccolta di residui mnemonici molto spesso
legati alle occupazioni e alle preoccupazioni dello stato di veglia pre­
cedente462, sia come mezzi per soddisfare i desideri della potenza con­
cupiscibile, sia, relativamente alla potenza irascibile, in risposta alla
sua collera o alla sua paura se si tratta di incubi. Anche san Simeone
il Nuovo Teologo nota che «ciò che occupa l’anima ed entra in essa
allo stato di veglia ritiene anche la sua immaginazione e il suo pen­
siero durante il sonno»463. San Niceta Stetatos fa notare che, nei sogni,
«le immaginazioni dello spirito corrispondono alla disposizione del­
l’uomo interiore e alle sue preoccupazioni»464. E san Massimo preci­
sa: «Quando la concupiscenza (epthymia) è eccitata, lo spirito vede in
sogno ciò che costituisce la materia del piacere. Quando è l’irascibi­
lità (thymós), vede ciò che provoca la paura»465. San Simeone il Nuo­
vo Teologo scrive allo stesso modo: «Quando la parte concupiscibile
dell’anima (epithymetikón) è spinta verso le passioni, gli abbracci, le
voluttà e i godimenti della vita, l’anima percepisce le stesse cose nei
suoi sogni. Se la parte irascibile (<thymikón) la fa arrabbiare contro i
suoi simili, essa non sogna che irruzioni di fiere, battaglie e mischie di
serpenti e discute con i suoi avversari come davanti a un tribunale. Se
è la parte razionale (logistikón) che è esaltata dalla cenodossia o dal­
l’orgoglio, l’anima s’immagina di avere le ali e volare nell’aria, di tro­
neggiare su seggio elevato, o di camminare alla testa di un popolo da­
vanti a un corteo di vetture»466. San Niceta Stetatos precisa ancora me­
glio questa descrizione della relazione tra i sogni e le diverse passioni:
«Se si tiene l’anima nell’amore della materia e del piacere, si ricerca
con l’immaginazione il possesso delle cose, il conforto e il denaro, le
forme femminili, gli abbracci appassionati, si sporca la tunica e s’in­
sudicia la carne. Se si ha l’anima avida e avara, si vede l’oro dovunque,
lo si esige, si abusa degli interessi, lo si raccoglie in uno scrigno, ma
si manca di compassione e si è condannati. Se si ha l’anima collerica e
gelosa, si è perseguitati dalle fiere e dai serpenti velenosi, e si è preda
degli spaventi e della paura. Se si ha l’anima gonfia di vanagloria, ci si
460 Cfr. G re g o rio DI N issa, La creazione dell’uomo, X m , PG 4 4 , 172D.
461 Cfr. ibid. 173C. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VI, 11. NICETA STETATOS,
Centurie, II, 60.
462 G regorio DI N issa , La creazione dell’uomo, xm, PG 44,172D.
463 Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 62.
464 Centurie, II, 60.
465 Centurie sulla carità, II, 69.
466 Capitoli teologici, gnostici e pratici, Ut, 63.
114
vede acclamati, circondati dal popolo, s’immaginano troni di potere e
di autorità. Si considera che si ha ciò che ancora non è, o almeno che
lo si avrà, e si è sempre all’erta. Se si ha l’anima orgogliosa e piena di
presunzione, ci si vede portati dalle vetture più brillanti. Si possono
avere persino delle ali e volare nell’aria. E tutti tremano di fronte alla
grandezza di questo potere»467. 1 sogni rivelano così con la loro pre­
senza e con la loro forma la natura e la forza delle passioni dalle qua­
li scaturiscono468, e perciò manifestano che l’anima è malata, e persi­
no di quali malattie e in quale di alcune sue parti essa è più partico­
larmente colpita, come fa notare Evagrio: «Quando nelle immaginazioni
del sonno, i demoni, attaccandosi alla parte concupiscibile, ci fanno
vedere raduni di amici, banchetti di parenti, cori di donne e altri spet­
tacoli simili generatori di piacere; d fanno così vedere che noi acco­
gliamo queste immagini con sollecitudine, ed è proprio in questa par­
te che siamo malati e che la passione vi è forte. Quando, d’altra par­
te, essi turbano la parte irascibile, obbligandoci a seguire vie scoscese,
facendo sorgere uomini armati, bestie velenose o carnivore, e noi sia­
mo terrificati davanti a queste strade, e, perseguitati da queste bestie
e da questi uomini, fuggiamo, allora prendiamoci cura della parte ira­
scibile»469.
I Padri sottolineano che, in questa duplice relazione dell’immagi­
nazione con le passioni, i demoni giocano un ruolo molto importan­
te, sia perché spingono l’uomo a immaginare in risposta alle sue pas­
sioni e per loro mezzo, come abbiamo appena spiegato470, sia perché
suscitano direttamente in lui immagini e fantasmi471 al fine di attivare
le sue passioni472. In quest’ultimo caso, accade alle passioni di porre
nello spirito dell’uomo, nel sonno come nello stato di veglia, imma­
gini che per lui sono del tutto nuove, che non sono relative ad alcu­
na delle sue esperienze percettive presenti o passate473, che nemme­
467 Centurie, II, 60.
468 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 54. GREGORIO DI NlSSA, La
creazione dell’uomo, XIII, PG 44, 172D; 173C.
469 Trattato pratico sulla vita monastica, 54. Vedi anche Pensieri, recensione lunga, 27.
470 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, n, 85.
471 Cfr. Storia dei monaci d’Egitto, Giovanni di Licopoli, 19. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen­
turie sulla carità, II, 85.
472 Cfr. M assim o i l C on fessore, loc. dt.
473 Ciò appare in modo caratteristico in questo racconto degli Apoftegmi, n. 171: «Si racconta
di un vecchio che andò a Scete portando con sé un figlio molto giovane, il quale non sapeva co­
sa fosse una donna. Quando dunque divenne uomo, i demoni gli mostrarono delle immagini
di donne, ed egli ne informò suo padre che se ne stupì. Una volta che salì in Egitto con suo pa-
115
no egli stesso ha mai create, e che in qualche modo s’impongono al
suo spirito474. Tali immagini hanno per scopo di far commettere al­
l’uomo nuove colpe o di trascinarlo su cattive strade che non ha an­
cora percorse. In tutti i casi, per i demoni si tratta di fuorviare l’uomo
e di mantenerlo lontano da Dio.
Le immaginazioni sembrano la principale forma che assumono le
suggestioni demoniache che spingono l’uomo al peccato475: se i pen­
sieri (logistnot) spesso sono associati alle immaginazioni nei testi asce­
tici, quelli si riducono spesso di fatto a queste, o hanno in esse la lo­
ro origine. Perciò, l’immaginazione appare come la principale porta
d’ingresso nell’anima di tali suggestioni. «Essa è come un ponte sul
quale passano i demoni, i santi lo hanno detto», notano san Callisto
e sant’Ignazio Xantopulo476. E sant’Esichio di Batos scrive: «I demo­
ni ci spingono sempre a peccare con l’immaginazione ingannevole»477;
«Satana senza l’immaginazione non può suscitare pensieri e presen­
tarli allo spirito per ingannarlo»478.
L’immaginazione, in ogni caso, appare come lo strumento princi­
pale dell’azione demoniaca sull’anima umana, nello stato di veglia, o
nel sonno: per mezzo di essa i demoni tormentano l’uomo479, cercan­
do non solo, come abbiamo visto, di spingerlo a peccare e di risve­
gliare o eccitare le sue passioni, ma anche di turbarlo in molti modi480,
di suscitare particolarmente in lui tristezza e ansietà481, d’ingannarlo482
e di fuorviarlo in illusioni diverse483, e persino di asservirlo484. Sant’E­
sichio di Batos fa giocare all’immaginazione persino un ruolo di pri­
mo piano nella caduta dell’uomo: «E così che [Satana] ha separato
Adamo da Dio, dandogli la possibilità d’immaginare che aveva la di­
gnità divina. Ed è così che il nemico mentitore e scaltro continua a in­
gannare i peccatori»485.
dre e vide delle donne, disse a suo padre: “Abba, queste sono le persone che vengono verso di
me di notte a Scete” [...]. E il vegliardo si stupì del fatto che i demoni nel deserto gli mostras­
sero immagini di donne».
474 1 Padri sottolineano che è così che spesso si spiega la creazione artistica.
475 Vedi per esempio EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 67.
476 Centuria, 64.
477 Capitoli sulla vigilanza, 118.
478 Ibid.y 14.
479 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 118.
480Cfr. ibid.y 10; 70; Apoftegmi, II, 22. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. E), LI, 3.
481 Cfr. B arsanufio, Lettere, 70.
482 Cfr. ibid., 78. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 6; 14.
483 Cfr. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 38.
484 Cfr. G iu stin o, Apologia prima, 14.
485 Capitoli sulla vigilanza, 119.
116
Fin dalla sua creazione Adamo era tentato dal Maligno e, dunque,
conosceva queste suggestioni demoniache esercitate per mezzo del­
l’immaginazione. Prima del peccato, egli rifiutava tuttavia di prestar­
vi attenzione, di entrare in dialogo con esse e a fortiori di essere con­
senziente. Ignorava così ogni «immaginazione cattiva»486, essendo la
sua immaginazione inattiva riguardo al male. L’uomo decaduto, al con­
trario, si apre a queste suggestioni, facendole sue, ne nutre l’immagi­
nazione, facendo nascere e sviluppando così la cattiva immaginazio­
ne, che abbiamo descritta precedentemente, rendendosi allora pie­
namente accessibile all’attività demoniaca e ai suoi effetti.
I Padri sottolineano, altresì, la responsabilità dell’uomo4®7nella per­
versione della sua immaginazione che ne costituisce la malattia: pro­
prio perché non è rimasto fedele al comandamento divino, non è ri­
masto attento a Dio solo, non ha preservato il suo cuore da ogni pen­
siero estraneo, in breve, perché non è rimasto sobrio e vigilante
{neptikós), l’uomo ha fatto dell’immaginazione, che gli era stata data
come un ponte verso Dio, «un ponte sul quale passano i demoni».
Fintanto che l’uomo decaduto non ritrova questa vigilanza che ca­
ratterizza la sua natura nello stato di perfezione e di salute, il suo cuo­
re resta aperto alle cattive suggestioni che il nemico gli insinua attra­
verso il canale dell’immaginazione, egli si lascia invadere, di giorno co­
me di notte, dalle immagini che trascinano il suo spirito alla deriva e
lo alienano, portandolo e tenendolo lontano da Dio.
Fintanto che l’uomo immagina ciò che lo allontana da Dio, mani­
festa con questo che, non solo la sua immaginazione, ma anche la
sua anima è completamente malata.

7. Patologia dei sensi e delle funzioni corporee


Non è solo a livello delle facoltà dell’anima che il peccato ancestrale
introduce cambiamenti, produce deviazioni, genera malattie: le fun­
zioni corporali e i sensi, il modo in cui l’uomo si serve dei diversi or­
gani del suo corpo e i modi della sua percezione sensibile sono an-
ch’essi pervertiti e per questo si ammalano.
L’uomo è stato creato completamente a immagine di Dio, di con­
486 Cfr. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 64.
487 Lettere, 102. Vedi anche NlCETA STETATOS, Centurie, 1 ,5.

117
seguenza il suo corpo così come la sua anima488, ed ha per missione
quella di compierne interamente la somiglianza, e come fine quello di
essere interamente deificato. La vita virtuosa, sottolineano i Padri, è
una vita alla quale il corpo partecipa. Non solo vi sono delle «virtù
corporali», ma il corpo partecipa alla maggior parte delle virtù del­
l’anima. Alcuni carismi dello Spirito, fa notare san Gregorio Palamas,
«agiscono con la mediazione del corpo»489. Il corpo, in maniera ge­
nerale, per mezzo delle sue facoltà ed energie, «partecipa anch’esso al­
la santificazione»490. Agendo in collaborazione con l’anima e sotto la
sua direzione, esso riceve da questa la grazia dello Spirito. Il corpo è
chiamato ad essere deificato con l’anima491. «Come, scrive san Maca­
rio, Dio ha creato il cielo e la terra perché l’uomo li abiti, così ha crea­
to il corpo e l’anima dell’uomo affinché essi siano sua dimora, affin­
ché egli abiti e riposi nel corpo come nella propria casa, avendo come
sposa piena di bellezza l’anima diletta»492. Sottolineando l’unità fon­
damentale del composto umano, l’unità dell’anima e del corpo nella
persona umana e il loro comune destino, san Gregorio Palamas scri­
ve: «Qual è la gioia, qual è il movimento del corpo che non sono un’at­
tività comune all’anima e al corpo? [...] Esistono, infatti, delle passio­
ni beate, attività comuni che non inchiodano lo Spirito alla carne,
ma che attirano la carne fino a una dignità prossima a quella dello Spi­
rito e la obbligano, anch’essa, a volgersi verso l’alto. Quali sono? So­
no le attività spirituali che non vengono dal corpo all’intelligenza
[...] ma discendono dall’intelligenza nel corpo, per trasformarlo in me­
glio e deificarlo per mezzo di queste azioni e di queste passioni [...].
Negli uomini spirituali, la grazia dello Spirito, trasmessa al corpo at­
traverso la mediazione dell’anima, dà anche ad esso l’esperienza del­
le cose divine e gli permette di provare la stessa passione dell’anima
che possiede l’esperienza divina; quest’anima, poiché prova la passio­
ne delle cose divine, senza dubbio possiede una parte appassionata,
degna di lode e divina [...]. Quando essa persegue questa attività bea­
ta, deifica anche il corpo; il corpo allora non si muove, spinto dalle

488Cfr. IRENEO DI L ione , Contro le eresie, V, 6,1; 16,1; Dimostrazione della predicazione apo­
stolicai, 11; 32; 97. GREGORIO PALAMAS, Prosopopea, PG 1 5 0 ,1361C. Ciò deriva dall’afferma­
zione patristica corrente che l’uomo è stato creato a immagine di Dio-uomo.
489 Triadi, H, 2 ,13.
490 G re g o rio Palam as, Omelie, 12, PG 150,153C.
491 Cfr. MASSIMO IL C o n fesso re, Centurie sulla teologia e sulleconomia, n, 88. G re g o rio
Palam as, Triadi, ni, 3,12. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), IV, 3-4; XV, 38.
492 Omelie (Coll. E), XLIX, 4.
118
passioni corporee e materiali, [...] ma ritorna su se stesso, rigetta ogni
relazione con le cose cattive e ispira egli stesso la sua deificazione e
una deificazione inalienabile»493.
Una delle funzioni elementari del corpo è quella di servire da stru­
mento all’anima nella relazione con la creazione materiale: attraverso
la mediazione dei sensi corporei essa prende conoscenza degli esseri
sensibili e per mezzo degli organi del corpo essa può entrare concre­
tamente in relazione con loro e agire su di essi.
La percezione sensibile, porta della conoscenza degli esseri mate­
riali, è un processo sia somatico che psichico. Alla sua base si trova
la sensazione, modificazione fìsica di un senso a contatto di un ogget­
to che gli corrisponde. Attraverso questa è comunicata all’anima
un’informazione oggettiva quanto alle apparenze dell’oggetto. Inter­
viene allora una seconda operazione in cui il dato sensoriale è inter­
pretato da tutte le facoltà che, nell’anima, contribuiscono alla cono­
scenza. In un complesso processo in cui intervengono l’intelligenza,
ma anche la memoria, l’immaginazione e il desiderio, l’oggetto così co­
me è presentato dai sensi è situato nello spazio e in rapporto agli al­
tri oggetti, ma anche designato, definito quanto alla sua natura, al suo
significato, alla sua funzione, al suo valore. Questa interpretazione che
costituisce l’essenza della percezione sensibile, pur assumendo come
base un dato oggettivo, quello della sensazione, non solo non si limi­
ta a esso e non consiste nel fornirne in qualche modo una descrizione,
ma lo elabora in funzione dei valori del soggetto conoscente. In defi­
nitiva, è da quest’ultimo più che dall’oggetto stesso che procede la per­
cezione. È così che san Giovanni Crisostomo può scrivere: «I nostri
giudizi non si formano secondo la natura delle cose che ci colpiscono,
ma secondo il sentimento dell’anima che li vede con gli occhi»494. La
forma della percezione sensibile appare, perciò, inevitabilmente rela­
tiva allo stato spirituale del soggetto percepiente, in dipendenza dallo
stato di tutte le facoltà che intervengono nel processo d’interpreta­
zione che abbiamo ricordato; essa è funzione particolarmente di ciò
che, in modo generale, egli conosce, comprende, desidera, immagina,
ricorda...
Nello stato primo dell’uomo, tutte le sue facoltà erano ordinate a
Dio: per mezzo di esse Adamo percepiva in Dio tutti gli esseri della
493 Triadi, n, 2,12.
m Catechesi, II, 4.
119
creazione, riconosceva con il suo spirito, nella percezione di ciascu­
no di essi, i loro lógoi o ragioni spirituali. La sua percezione sensibile
era così subordinata alla contemplazione naturale (theoria physike). In
questo modo, egli faceva di tutte le facoltà che intervengono nella per­
cezione sensibile e, in primo luogo, di tutti i sensi, un uso normale, sa­
no, conforme alla loro finalità naturale; per questo egli conservava l’a­
nima pura, come indica san Massimo assegnando lo stesso compito al­
l’uomo restaurato in Cristo: «Si conserva l’anima senza macchia per
l’amore secondo Dio [...] se si insegna ai sensi a percepire [...] il mon­
do visibile e tutte le cose che esso contiene, perché essi trasmettono
all’anima la grandezza delle ragioni {lógoi) che sono al centro delle co­
se»495. San Niceta Stetatos scrive nella stessa prospettiva: «Quando
lo spirito perviene alle cose soprannaturali, i sensi rimangono secon­
do la natura. Essi si aprono alle cause fuori da ogni passione. Non cer­
cano che le loro ragioni (lógoi) e le rispettive nature. Essi discemono
senza errore le loro energie e le loro qualità. Non sono colpiti, né so­
no portati verso di esse contro natura»496.
Altrove san Niceta Stetatos insegna che in «tutte le azioni ramifi­
cate nei sensi, la vista, l’udito, l’odorato, il gusto, il tatto, questi sono
mossi secondo la natura se comportano il meglio»497. E i Padri ricor­
dano all’occorrenza qual è questo uso normale, conforme alla natu­
ra, dei sensi. Sant’Atanasio precisa, così, che «il corpo ha gli occhi
allo scopo di vedere la creazione e conoscere il suo Creatore nell’or­
dine armonioso di essa»498. Anche san Giovanni Crisostomo scrive:
«Gli occhi vi sono stati dati affinché, di fronte alla creazione, rendia­
te gloria al Signore»499; o ancora: «L’occhio è fatto per celebrare il Crea­
tore nel vedere le creature di Dio»500. E san Serapione di Thmuis ri­
corda nella stessa prospettiva501 queste parole che il salmista rivolge a
Dio: «Sollevo gli occhi verso di te che abiti nei cieli. Ecco: come gli
occhi dei servi sono rivolti verso i loro padroni, [...] così i nostri occhi
sono rivolti al Signore, nostro Dio» (Sai 123[122],1-2). Allo stesso mo­
do, le orecchie sono state create affinché l’uomo possa «ascoltare le
divine parole e le leggi di Dio»502e affinché egli possa ascoltare Dio in
495 Centurie sulla teologia e sull’economia, 1 ,14.
496 Centurie, I, 22.
497 Lànima, 31.
498 Contro i pagani, 4.
499 Omelie sui demoni, II, 3.
500 Omelie sulla Genesi, XXII, 3.
501 Lettere ai monaci, X.
502 Atanasio d’Alessandria, Contro ipagani, 4. Cfr. G regorio Palamas, Triadi, E, 2,20.
120
tutti i suoni del mondo. Ugualmente, l’odorato è stato concepito af­
finché esso senta in ogni essere «il profumo di Cristo» (2Cor 2,15)50\
il gusto affinché in ogni alimento possa «gustare e vedere come è buo­
no il Signore» (Sai34[33],9), e il tatto affinché tocchi in tutte le cose
il Verbo di Dio (cfr. lGv 1,1). In breve, la finalità dei sensi è quella
di contribuire a unire a Dio le creature sensibili, conformemente al
compito che Dio ha assegnato all’uomo nel crearlo504. Ecco perché san
Niceta Stetatos scrive: «Dotati di sensi, dobbiamo percepire bene le
cose sensibili, attraverso la loro bellezza elevarci verso il Creatore, e
ricondurre a lui la conoscenza irreprensibile delle cose»505.
Utilizzando i suoi sensi e subordinandoli al suo spirito nel con­
templare le ragioni spirituali degli esseri, Adamo aveva di questi
una percezione obiettiva, li conosceva nella loro vera natura, discer­
neva senza errore, come afferma san Niceta Stetatos, le loro energie
e qualità506.
Adamo ed Èva, prima del loro peccato, percepivano la realtà in mo­
do identico, poiché tutte le loro facoltà e tutti i loro sensi erano inte­
ramente accordati al Dio uno, e percepivano ogni cosa secondo lui.
Come i sensi, così tutti gli organi del corpo dell’uomo e il suo stato
paradisiaco si esercitavano secondo la loro natura e la loro vera fina­
lità che è quella di agire secondo Dio e di operare in vista della deifi­
cazione. Allo stesso modo devono esercitarsi nell’uomo rinnovato in
Cristo, ciò che fa dire all’Apostolo: «Vi esorto, in nome della miseri­
cordia di Dio, a offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, san­
to e gradito a Dio» (Rm 12,1).
Nell’essere umano così come voluto da Dio, le mani hanno la fun­
zione di compiere in Dio le azioni necessarie, di servire la volontà di­
vina, di agire per la giustizia, e in particolare di tendersi verso lui nel­
la preghiera507. Allo stesso modo, i piedi hanno la funzione normale di
permettere all’uomo di andare per servire Dio e compiere il bene508. In
quanto alla lingua, ha la finalità di pronunciare parole di verità e quel­
505 Cfr. SERAPIONE di T hmuiS, Lettera ai monaci, X.
504 Su questo compito che abbiamo già ricordato, cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 41,
PG 91,1308A.
505 Centurie, HI, 72.
506Ibid., 1,22.
507 Cfr. Atanasio d ’A lessandria, Contro i pagani, 4. G iovanni Crisostomo, loc. cit. M a­
cario d ’Egitto, Lettera ai suoifigli, 14. SERAPIONE DI THMUIS, Lettera ai monaci, X. GREGORIO
Palamas, Triadi, II, 2,20.
508 Cfr. G iovanni C risostomo , loc. tit. M acario d ’E gitto , Lettera ai suoi figli, 14. S era-
pione di T hmuis , loc. dt. G regorio P alamas , loc. cit.

121
la di cantare costantemente la gloria del Creatore. Ogni organo del cor­
po agisce in modo normale e sano quando tutto ciò si esercita in Dio,
si muove per Dio: il cuore servendo da centro alla preghiera e nel bat­
tere per Dio nell’orazione; i polmoni nel ritmare questa...
In breve, il corpo è spiritualmente sano quando tende verso Dio at­
traverso tutte le sue attività e così diviene il tempio dello Spirito San­
to (ICor 6,19), quando i suoi sensi sono in «buon ordine»505, quando
tutti i suoi organi sono mezzi per condurre una vita virtuosa, sono vie
di contemplazione e strumenti dell’unione con Dio.
A causa del peccato, quest’ordine è capovolto. L’uomo, allonta­
nandosi completamente da Dio, allontana i suoi sensi e tutti i suoi or­
gani corporei dalla loro finalità naturale e normale, per rivolgerli con­
tro natura verso il mondo sensibile. Così pervertiti e fuorviati510, essi
si ammalano511. L’uomo, sia sul piano del corpo che su quello dell’a­
nima, viene a trovarsi alienato in una natura decaduta contraria alla
sua natura fondamentale e vera. Quando l’Apostolo parla dell’«uomo
vecchio», dice san Macario, «egli intende con questo un uomo com­
pleto, che ha degli occhi oltre ai nostri occhi, una testa oltre alla no­
stra, delle orecchie oltre alle nostre, delle mani oltre alle nostre mani,
dei piedi oltre ai nostri. Difatti, è l’uomo tutto intero, anima e corpo,
che il Maligno ha sporcato e capovolto; e ha rivestito l’uomo con un
“uomo vecchio” [...] che non si sottomette alla legge di Dio [...], in
modo che l’uomo non vede più come vuole, ma vede e sente in ma­
niera perversa, i suoi piedi si affrettano a fare il male, le sue mani com­
mettono l’iniquità e il suo cuore ha cattivi progetti»512.
Anziché fornire allo spirito materia per la sua contemplazione na­
turale delle creature visibili, i sensi gli forniscono pretesti per molti
«pensieri materiali e vani»513. Anziché essere subordinati all’intelligenza
e contribuire alla sua elevazione verso Dio, essi l’attirano514e l’abbas­
sano verso il mondo sensibile considerato in se stesso, lo alienano e lo
sottomettono a questo515, e così gli impediscono l’accesso alle realtà
509 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 58.
510Cfr. ibid.y 60.
511 Sant’Isacco il Siro parla esplicitamente della «malattia [dei] sensi» (Discorsi ascetici, 23),
della necessità per lo spirito dell’uomo decaduto «di aver sedato i sensi e di averli guariti dalla
malattia» {ibid., 30). Nel Discorso 1, egli parla della «malattia delle sensazioni».
512 Omelie (Coll. II), II, 2.
513 Cfr. EsiCHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 53.
5H Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 23.
515 E così che Niceta Stetatos parla della «schiavitù dei sensi» {Centurie, 1,20).
122
spirituali. È in questo senso che sant’Isacco il Siro parla della «ma­
lattia delle sensazioni»516.
Anziché servire Dio e compiere la sua volontà, i sensi e gli organi
fisici dell’uomo decaduto entrano al servizio dei suoi desideri carna­
li, gli servono a compiere il peccato e a trattenere le sue passioni517.
Egli li utilizza in primo luogo per ottenere la voluttà sensibile che egli
ricerca. Così egli si serve dei suoi occhi «in maniera perversa»518per
fornire alla sua cupidigia oggetti sensibili e godere di questi con lo
sguardo. Utilizza le sue orecchie, ugualmente «in maniera perversa»519,
per ascoltare le parole cattive e per goderne, per prestare attenzione
alle parole vane e per divertirvi il suo spirito. Il gusto entra al servi­
zio della passione della gastrimargia. L’odorato è «rivolto verso la va­
rietà dei profumi erotici»520. L’organo del tatto serve a molte passioni.
Lontane da Dio, le facoltà cognitive smettono di interpretare secondo
lo Spirito il dato sensibile. Non percependo più negli esseri le energie
divine che definiscono la loro autentica natura, l’uomo decaduto
non ne ha più una giusta percezione, obiettiva, cioè conforme alla
loro stessa realtà, adeguata a ciò che essi veramente sono. «Quasi
tutto ciò che noi vediamo, lo vediamo diversamente da quello che
è», constata sant’Ambrogio521. L’uomo percepisce gli esseri in funzio­
ne dei suoi desideri sensibili, li situa e li ordina, dà loro senso e valo­
re, in funzione delle sue passioni. Allora la percezione diviene sogget­
tiva e variabile in quanto non si accorda più con la realtà stessa degli
oggetti sui quali essa si porta, ma costituisce una proiezione della co­
scienza decaduta di ciascuno, e cambia secondo la forma, la riparti­
zione e il grado dei suoi desideri passionali. Il fatto che, malgrado que­
ste differenze, tutti gli uomini possono essere considerati grosso mo­
do come coloro che percepiscono attraverso i sensi la realtà più o meno
nella stessa maniera, non significa affatto che la loro percezione sia
obiettiva, ma manifesta semplicemente l’accordo delle soggettività che
condividono un decadimento comune, l’unicità fondamentale delle
deformazioni subite dalla facoltà percettiva degli eredi di Adamo.
Gli organi del corpo, dal peccato, sono allo stesso modo distolti dal­
la loro finalità originale, dalla loro normale funzione, e agiscono pa­
516Discorsi ascetici, 1.
517Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, 50. Isacco IL Siro , Discorsi ascetici, 1.
518 Macario d ’Egitto, Omelie (Coll. II), n, 2.
™lbid.
520 Atanasio d ’Alessandria, op. cit., 5.
521 La morte è un bene, 10.
123
tologicamente. Nel descrivere le conseguenze del peccato ancestrale,
sant’Atanasio spiega come l’anima fece agire a rovescio tutte le fun­
zioni corporee: «Così essa mise in movimento le mani verso lo scopo
opposto, facendo loro commettere l’omicidio»; distolse gli organi ses­
suali «verso l’adulterio invece della procreazione legittima; quanto al­
la lingua, le fece pronunciare, anziché parole di benedizione, maledi­
zioni, ingiurie, falsi giuramenti»522; le mani, ancora una volta, le fece
colpire e derubare gli uomini, nostri simili523; i piedi, essa li rivolse «ver­
so l’agilità per versare sangue (Sai 13,3 )524, lo stomaco verso l’ebbrez­
za e una sazietà inappagata»525. San Giovanni Crisostomo scrive allo
stesso modo: «Guardiamo le nostre membra: anch’esse saranno cau­
sa della nostra rovina, se non vi facciamo attenzione; questo non av­
verrà per il fatto della loro natura, ma della nostra negligenza»526.
Esercitandosi così contro natura, i sensi e gli organi fisici agiscono
in modo insensato, folle. San Niceta Stetatos parla della «sragione»
dei sensi527. E sant’Atanasio scrive, sottolineando il coinvolgimento del­
l’anima in questo deviamento: «Se un corridore salendo a cavallo nel­
lo stadio dimenticasse lo scopo per cui deve correre e si allontanasse
per spingere semplicemente il suo cavallo per quanto egli può - e lo
può fintanto che lo vuole -, e a volte si lanciasse sui passanti, talvolta
si gettasse nei precipizi, lasciandosi condurre dalla rapidità del suo ca­
vallo, pensando che a correre così non mancherà il suo scopo, così [fa­
rebbe] l’anima che si allontanasse dalla via che conduce a Dio, e spin­
gesse le membra del corpo al di fuori della via debita, o piuttosto si la­
sciasse spingere con esse»528.

522 Contro ipagani, 5. Vedi anche Pro 6 , 17. GIOVANNI CRISOSTOMO, loc. cit.
523 L’autore dei Proverbi parla anche «delle mani che versano sangue innocente» (Pro 6,
17). Cfr. M acario d’E gitto, Omelie (Coll. II), n, 2.
5241 Proverbi ricordano, in modo più generale, i «piedi solleciti a correre al male» (Pro 6,18).
Cfr. M acario d’E gitto, loc. dt.
525 Contro i pagani, 5.
™Ibid.
527 Centurie, I, 6.
528Loc. dt.
124
PARTE SECONDA

NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA
E PATOGENESI
DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
I

LE PASSIONI, MALATTIE SPIRITUALI

Distogliendo da Dio le diverse facoltà della sua anima e del suo cor­
po e orientandole verso la realtà sensibile per ricercarvi il piacere, l’uo­
mo fa nascere in sé le passioni (pathe), chiamate anche vizi {kaktai).
Queste, affermano unanimemente i Padri, nonfanno^garte della na­
tura dell’uomo1. «Esse non sono state incluse nefimunagme"3n3fc>>>,
ncor3asanT?asilio2. «Le passioni non sono state create all’inizio con
la natura, altrimenti farebbero parte della sua definizione», scrive
san Massimo3. Esse sono, afferma san Niceta Stetatos, «assolutamen­
te estranee, per nulla appartenenti alla natura dell’anima»4. Sant’Isac-
co il Siro osserva allo stesso modo: «Le passioni vengono ad aggiun­
gersi [...]. Difatti l’anima è naturalmente impassibile [...]. Noi cre­
diamo che Dio abbia fatto l’uomo a sua immagine: impassibile [...].
Quando, dunque, [l’anima] si lascia andare ai movimenti passionali,
essa è dichiaratamente al di fuori della sua natura. Ciò è quanto han­
no affermato i padri adottivi della Chiesa. Le passioni sono entrate nel­
l’anima in seguito, e non è giusto dire che esse sono ciò che è pro­
prio dell’anima, mentre invece è l’anima a essere guidata dalle passio­
ni. E chiaro, dunque, che l’anima è guidata da ciò che le è esterno e
non da ciò che le è proprio»5. «Lo stato contro natura dell’[anima] è
il movimento passionale. Ciò è quanto afferma il divino e grande Ba­
silio. Quando l’anima è nel suo stato naturale, essa conduce la sua vi­
ta verso l’alto. Quando essa è al di fuori della sua natura, viene a tro­
varsi in basso sulla terra. Quando essa è in alto, si scopre impassibi-
1Oltre ai riferimenti dati sopra vedi: DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, XI, 134. GIO­
VANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20. EVAGRIO PONTICO, Lettere,
18. A ntonio l’E remita, Lettere, 5; 5 bis.
2 Omelie sulla formazione dell’uomo, I, 8.
3 Questioni a Talassio, 1.
4L’anima, 69.
5Discorsi ascetici, 82.
127
le. Ma quando la natura è al di fuori del suo proprio ordine, allora le
passioni sono in essa»6. Altrove, lo stesso san Basilio scrive, usando un
lessico medico, come si noterà: «È chiaro che la salute esiste nella
natura prima dell’irruzione della malattia. Se è proprio così - ed è la
verità stessa -, la virtù è nell’anima naturalmente. Quanto avviene in
seguito è al di fuori della sua natura [...]. Dal momento che è a tutti
noto che la purezza è connaturale all’anima, occorre affermare che [le
passioni] non esistono naturalmente. Difatti la malattia è seconda, vie­
ne dopo la salute»7. Quest’ultimo passaggio segue molto da vicino
un’osservazione di Evagrio: «Se la malattia è seconda in rapporto al­
la salute, è evidente che anche la malizia è seconda in rapporto alla
virtù»8. San Giovanni Climaco, da parte sua, afferma: «Non vi è, a mo­
tivo della sua stessa natura, né vizio né passione nella natura [del­
l’uomo]; Dio, infatti, non è il creatore delle passioni»9; «Dio non è
né l’autore né il creatore del male; s’ingannano coloro che affermano
che [le] passioni sono connaturali all’anima»10.
Le passioni appaiono, perciò, come il prodotto di una invenzione
dell’uomo stesso, in conseguenta del peccato ancestrale. San Maca­
rio insegna: è «per la disobbedienza del primo uomo [che] abbiamo
ricevuto in noi un elemento estraneo alla nostra natura, la malizia del­
le passioni; passato nell’abitudine e nella predisposizione inveterata,
esso è divenuto come nostra natura»11. San Massimo scrive ugualmente:
«Io affermo, per averlo appreso dal grande Gregorio di Nissa, che le
passioni sono state introdotte e come innestate nella parte irraziona­
le dell’anima a causa della caduta fuori della perfezione. È a motivo di
tale caduta che invece di portare l’immagine beata e divina, fin dal mo­
mento della trasgressione l’uomo ha iniziato a rassomigliare chiara­
mente e visibilmente agli animali senza ragione»12. Le passioni sono,
in altri termini, l’effetto di un cattivo uso del libero arbitrio dell’uo­
mo, il frutto della sua volontà personale dissociata dalla sua volontà
naturale in armonia con quella di Dio. A questo proposito così scri­
ve sant’Isacco: «Le passioni vengono dunque ad aggiungersi, e la cau­
sa di questa aggiunta è nell’anima stessa»13. San Giovanni Damasceno
6 Ibid., 83.
7 Ibid.
8 Capitoli gnostici, 1,41.
9 La Scala, XXVI, 50.
10Ibid., 141.
11 Omelia (Coll. E), IV, 8.
12 Questioni a Talassio, 1.
13Discorsi ascetici, 82.
128
precisa: «Tutto ciò che Dio ha fatto è molto buono, tutto ciò che
permane come egli lo ha creato è molto buono. Ciò che si separa vo­
lontariamente dal naturale e va contro natura diviene cattivo. Tutto
ciò che serve e obbedisce al Creatore è secondo la natura. Quando una
creatura, volontariamente, si rivolta contro e disobbedisce al suo Crea­
tore, costruisce il male in se stessa»14.
Solo le virtù, lo abbiamo dimostrato, appartengono alla natura del­
l’uomo, ed è allontanandosi dalle virtù che questi introduce in sé le
passioni, di modo che queste ultime debbono essere in primo luogo
definite negativamente come l’assenza, la mancanza delle virtù corri-
spondondenti, le quali costituiscono la somiglianza di Dio nell’uomo.
San Doroteo di Gaza spiega così: «Abbiamo bandito da noi le virtù
e introdotto al loro posto le passioni [...]. Avviene naturalmente che
noi possediamo le virtù che ci sono state date da Dio. Nel creare l’uo­
mo, Dio le ha messe in lui secondo la parola: “Facciamo l’uomo a no­
stra immagine e a nostra somiglianza” (Gn 1,26) [...]; “a nostra so­
miglianza”, cioè secondo la virtù [...]. Dio, dunque, con la natura ci
ha donato le virtù. Le passioni, però, non sono naturali: non hanno né
essere, né sostanza, somigliano alle tenebre che non esistono per se
stesse, ma [...] esistono solo per la privazione della luce15. Allonta­
nandosi dalle virtù per amore del piacere, l’anima ha provocato la na­
scita delle passioni, poi le ha consolidate in sé»16. San Giovanni Da­
masceno afferma la stessa cosa: «Il male non è nient’altro che l’allon­
tanamento dal bene così come la tenebra è l’assenza di luce. Qò significa
che se noi, uomini, rimaniamo nel nostro stato naturale, allora siamo
nella virtù, ma se noi ci allontaniamo dallo stato naturale, giungiamo
a uno stato contro natura (parà physin), vale a dire ai vizi»17.
Le virtù costituiscono, lo abbiamo visto, nel funzionamento secon­
do la loro natura, o in altre parole, secondo la finalità che Dio ha loro
assegnato nel creare la natura umana, delle facoltà, potenze o tenden­
ze dell’uomo. Esse corrispondono all’uso e al significato normali e ra­
zionali (logikós) di queste facoltà, che sono, lo abbiamo visto, quelli di
orientare e di elevare l’uomo verso Dio; logikós del resto, per i Padri,
significa conforme al Logos, all’immagine e alla somiglianza con cui
l’uomo è stato creato. Le passioni sono costituite, al contrario, dal fun­
zionamento contro natura (cioè distolte dalla loro finalità naturale e
14Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
15 Doroteo rinvia a BASILIO DI CESAREA, Omelie suWHexaemeron, II, 5.
16Istruzioni spirituali, XII, 134.
17Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
129
normale, cioè da Dio) delle facoltà dell’anima e degli organi del cor­
po18, dalla loro deviazione, dalla loro perversione, dal cattivo uso (parà-
chtèsis). San Giovanni Damasceno definisce, così, le passioni come una
«deviazione volontaria da secondo-natura a contro-natura»19. Anche
san Niceta Stetatos ritiene che le «passioni dell’anima [siano] susci­
tate dalle potenze che vanno contro la sua natura»20. San Giovanni Cli-
maco scrive allo stesso modo: «Siamo noi stessi che abbiamo cam­
biato in passioni le qualità costitutive della nostra natura»21. San Ta-
lassio parla ugualmente della trasformazione delle virtù in vizi22. E san
Basilio Magno spiega: «Abbiamo ricevuto da Dio la tendenza natu­
rale a fare ciò che egli comanda [...]. NelTusare convenientemente e
legalmente queste forze noi viviamo santamente nella virtù; nel di­
stoglierle dal loro fine, noi siamo, al contrario, portati verso il male.
Tale è, infatti, la definizione del vizio: l’uso, cattivo e contrario ai co-
mandamenti del Signore, delle facoltà che Dio ci ha donate per il be­
ne, e tale, di conseguenza, è la definizione della virtù che Dio esige da
noi: l’uso coscienzioso di queste facoltà secondo l’ordine del Signo­
re»23. San Gregorio Palamas insegna ugualmente che «il cattivo uso
delle potenze dell’anima genera passioni detestabili»24. E san Massi­
mo, che afferma spesso il carattere contro natura delle passioni25, pre­
cisa allo stesso modo: «Nulla di ciò che è, è cattivo, ma solo il cattivo
uso, a causa della negligenza del nostro spirito nel coltivarsi secondo
natura»26; «il peccato in ogni cosa, è il cattivo uso»27; «nella misura in
cui noi usiamo male le potenze della nostra anima: concupiscibile, ira­
18È così che i Padri distinguono generalmente tra le «passioni dell’anima» e «le passioni del
corpo» (vedi EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35; 36. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Centurie sulla carità, I, 64. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 8. GIOVANNI DAMASCE­
NO, Discorso utile all’anima. ELIA ECDICO, Capitoli gnostici, 122). Tuttavia, le passioni del corpo
hanno, come vedremo, il loro principio nell’anima, e quindi un certo numero di passioni im­
plicano tanto l’anima che il corpo. Ogni passione, d’altra parte, implica in qualche misura la to­
talità delle facoltà dell’anima (intelligenza, volontà, memoria, desiderio, irascibilità, immagina­
zione, ecc.). Benché in senso stretto le passioni colpiscano essenzialmente «la parte passionale
dell’anima», costituita dalla facoltà di desiderio e dalla facoltà irascibile che sono le potenze pas­
sionali {pathetikaì dynámeis), i Padri spesso parlano anche delle passioni della «parte razionale
dell’anima», la quale include l’intelligenza o spirito (nous).
19Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20.
20 Centurie, I, 37.
21 La Scala, XXVI, 141.
22 Cfr. Centurie, I, 89.
23Regole lunghe, 2.
24 Triadi, II, 2,19.
25 Cfr. Centurie sulla carità, II, 16; Questioni a Talassio, 55. Lo scoliaste di quest’opera parla
abitualmente di «passioni contro natura» (tbid. 39, scolio 4 e 9; 51, scolio 4).
26 Centurie sulla carità, DI, 4.
27 Ihid., 86.
130
scibile e razionale, i vizi s’installano in essa»28. Anche su questo pun­
to vi è un insegnamento di Evagrio. Questi, che constata che i vizi
distruggono «le attività naturali dell’anima»29, spiega più dettagliata-
mente: «Se tutta la malizia è generata dall’intelligenza, dalla potenza
irascibile, e dalla potenza concupiscibile, e se, queste potenze, ci è pos­
sibile usarle bene o male, è evidente dunque che attraverso l’uso
contro natura di queste parti [dell’anima] ci giungono i mali. E se è
così, non vi è nulla che è stato creato da Dio che sia cattivo»30. Ori-
gene ugualmente constata: «Tutti i movimenti dell’anima, Dio, l’Au­
tore di tutte le cose le ha create per il bene. Ma in pratica, accade
che gli oggetti buoni ci conducono al peccato, perché noi li usiamo
male»31. E così che san Massimo può far notare che al diavolo, «che
ha concentrato la lotta contro la virtù e la conoscenza», è sufficiente
«scombussolare l’anima per mezzo delle potenze che sono in essa», in­
citando l’uomo a pervertire il loro uso, ad invertire il significato del lo­
ro esercizio32.
Poiché le passioni sono costituite per l’allontanamento delle facoltà
dal loro scopo divino normale e per l’uso contro natura di queste in
vista del conseguimento del piacere sensibile, esse sono movimenti sre­
golati e irrazionali dell’anima: «La passione», scrive san Massimo, «è
un movimento dell’anima contro natura, in seguito a un amore irra­
zionale o a un’avversione irriflessiva per un oggetto sensibile qualun­
que»33.
Per questo motivo, ma anche a causa di tutti gli altri turbamenti che
le sono inerenti e i numerosi sregolamenti che esse producono all’a­
nima, le passioni possono a giusto titolo essere considerate come for­
me di follia. Sant’Atanasio d’Alessandria parla così di «uomini cadu­
ti nella follia delle passioni»34. San Giovanni Crisostomo afferma: «I
vizi non sono che follia»35; altrove spiega: «Ogni passione funesta ge­
nerata nella nostra anima produce in noi una sorta di ubriachezza [...]
e offusca la nostra ragione. Perché l’ubriachezza non è null’altro che
la deviazione dello spirito dalle sue vie naturali, la deviazione dei ra-
28lbid., 3.
29 Capitoli gnostici, IV, 22.
30lbid., DI, 59.
31 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 1. Vedi anche GREGORIO DI NlSSA, La creazione del­
l’uomo, XVHI, PG 44,193B.
32 Cfr. Questioni a Talassio, 50.
33 Centurie sulla carità, II, 16. Cfr. CLEMENTE D’ALESSANDKIA, Stromata, E, Xm, 59,6; 61,2.
34 Contro i pagani, 19.
35 Omelie sulla lettera ai Colossesi, IX, 1.
131
gionamenti e la perdita della coscienza»36. Già l’Ecclesiaste scriveva:
«Mi detti a riflettere per riconoscere il male come follia (aphrosynè)»
(Qo 125). Frequentemente, i Padri presentano la vita nel peccato e le
passioni come uno stato di follia37.
Ancora più frequentemente, usano il termine malattia per indica­
re le passioni e i peccati abituali che ne derivano. Il termine greco
pàthos che indica la passione, ha la radice in comune con i termini
pàthé e pàthèma che significano «malattia»; l’accostamento tra queste
nozioni è praticamente sempre implicito, ma molte volte i Padri lo sta­
biliscono esplicitamente. «Praticando il male, scrive per esempio san
Doroteo di Gaza, prendiamo un’abitudine strana e contro natura, con­
traiamo una sorta di malattia cronica»38. Le passioni sono «le malattie
dell’anima (psychès nósoi}», afferma più nettamente Gemente d’Ales­
sandria39. Sant’Ammona le descrive allo stesso modo40. San Niceta Ste-
tatos parla della «malattia delle passioni»41, come anche san Macario42.
«L’anima, questi scrive, è caduta dopo la trasgressione del comanda­
mento, nella malattia delle passioni»43; Dio «sa a quali mali l’anima sia
sottomessa, come sia impedita a compiere le opere della vita e come
sia divenuta preda della malattia opprimente delle passioni disono­
ranti»44. Evagrio definisce «la malizia», opposta alla virtù e ritenuta di
conseguenza come l’insieme delle passioni, «malattia dell’anima»45.
San Massimo insegna: «Ciò che la salute e la malattia sono per il cor­
po del vivente [...], la virtù e il vizio [lo sono] in rapporto all’anima»46.
E sant’Isacco il Siro scrive allo stesso modo: «Avviene per le cose

36 Catechesi battesimali, V, 4. Cfr. 5; 6; Omelie sui demoni, 1,7; Commento a san Matteo, IX,
1; Omelie su 1 Corinzi, IX, 1; 4.
37 Cfr. G regorio DI N issa , Sulla verginità, IV, 3. B arsanufio , Lettere, 17 (Questione); 62;
97; 98; 201; 250. TEODORETO DI CIRO, Discorso sulla Provvidenza, I, PG 83, 560A. ERMA, Il
Pastore, Similitudini, VI, 5, 3; IX, 22, 3. GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi battesimali, VI, 22.
G iustino , Dialogo, 95. M etodio d ’O limpo , Il Banchetto, V, 5. Simeone il N uovo T eologo ,
Catechesi, XV, 48; 53; Inni, XX, 126-127. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,34.
38Istruzioni spirituali, XI, 122. Cfr. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 463.
39Protreptico, XI, 115,2.
40 Lettere, XEI, 5 (versione siriaca).
41 Centurie, II, 22. Cfr. tutto il capitolo, in cui le passioni sono presentate come malattie,
così come nella Centuria I, 34; 35; 51.
42 Omelie (Coll. HI), XXV, 2,1.
43Ibid., x x v n , 2; 4. In questo stesso passo, dice anche, «l’anima giace nella malattia del pec­
cato».
44 Ibid.y XXVI, 3, 4. Le passioni appaiono considerate anche come malattie in: Capitoli pa­
rafrasati, 41; 100; Omelie (Coll. Ili), VII, 7,2; Omelie (Coll. II), IV, 26-27; LIII, 11.
45 Capitoli gnostici, I, 41. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Omelie sull’Hexaemeron, IX, 4: «Il male
è sempre un’infermità dell’anima, e la virtù ne è la salute».
46 Centurie sulla carità, IV, 46.
132
dell’anima ciò che avviene per le cose del corpo. Se, dunque, la virtù
è naturalmente la salute dell’anima, le passioni ne sono la malattia»47.
«Se l’anima non si purifica dalle passioni, non guarisce dalle malattie
del peccato», egli aggiunge48. «Vi sono molte malattie nell’anima», scri­
ve Origene prima di elencare, a titolo di esempio, differenti passioni49.
Tutti questi esempi riportati finora sono solo alcuni tra quelli che ve­
dremo nell’esaminare ogni passione50.
I Padri si sono messi a classificare queste passioni/malattie, elabo­
rando così una vera nosografia spirituale. San Giovanni Cassiano spie­
ga come sia possibile distinguerle e classificarle in riferimento alle dif­
ferenti «parti» dell’anima o facoltà che esse colpiscono, ricorrendo,
per la sua dimostrazione, a una precisa comparazione con le malattie
fisiche: «Tutti i vizi, egli scrive, hanno una stessa fonte e un’identica
origine. Ma, secondo la parte, e per così dire, il membro che è vizia­
to nell’anima, essa riceve i diversi vocaboli delle passioni e delle ma­
lattie spirituali. L’analogia delle affezioni fisiche fa talvolta da prova.
Difatti, benché la causa sia unica, essa non cessa di diversificarsi in dif­
ferenti tipi di malattia, a seconda del membro che ne è colpito. Se l’u­
more del peccato assedia la testa, che è come la cittadella del corpo,
dà luogo alla cefalgia; se esso invade le orecchie o gli occhi, si ha l’o­
talgia o l’oftalmia; se esso si porta alle articolazioni o alle estremità del­
le mani, è la malattia articolare, o la gotta delle mani; se esso scende
fino alle estremità dei piedi, l’affezione cambia nome per chiamarsi
podagra o gotta dei piedi. Per una stessa fonte di umore maligno si
usano vocaboli diversi a seconda delle parti o delle membra colpite.
Parimenti, circa le cose visibili che passano alle invisibili, possiamo ben
credere che l’energia dei vizi sia similmente localizzata nelle diverse
parti e, per così dire, nelle membra dell’anima. Ora i sapienti vi di­
stinguono tre facoltà: quella razionale, quella irascibile e quella con­
cupiscibile. L’una o l’altra sarà necessariamente alterata tutte le volte
che il male ci attaccherà. Quando, dunque, la passione cattiva tocca
qualcuna di queste potenze, è secondo l’alterazione che essa vi de­
47 Discorsi ascetici, 83. Tutto il discorso è fondato su questo paragone.
48Ibid.y86. Allo stesso modo troveremo che le passioni sono considerate malattie nei Discorsi,
26,30, e a più riprese nella Lettera 4, in cui santTsacco il Siro scrive particolarmente: «La mali­
zia è una malattia dell’anima»; «fintanto che l’anima è nella malattia delle passioni, non sente ciò
che è spirituale».
49 Omelie sui Numeri, XXVII, 12. Vedi anche La preghiera, 29.
50 Sulle passioni considerate globalmente come malattie, vedi anche GIOVANNI DAMASCENO,
Discorso utile allanima.
133
termina, che il vizio particolare riceve la sua denominazione»51. In que­
sto testo, che possiamo considerare rappresentativo del modo di ve­
dere dei Padri, la passione appare chiaramente concepita e definita co­
me malattia non in modo allegorico o semplicemente per dare un’im­
magine, e neanche in virtù di una semplice comparazione, ma, come
precisa lo stesso san Giovanni Cassiano, a motivo dell’analogia vera,
ontologica, che esiste tra le affezioni del corpo e quelle dell’anima, e
che autorizza a parlare delle une e delle altre in termini medici iden­
tici. Nella maggior parte dei casi in cui vedremo i Padri usare, per de­
scrivere le passioni, il vocabolario abitualmente applicato alla patolo­
gia del corpo, dovremo sapere che non si tratta di figure retoriche, ma
di un modo di esprimersi perfettamente adeguato alla realtà che essi
vogliono descrivere, ossia di un modo preciso e diretto per dire le co­
se così come sono. L’analogia che vige tra i due ordini di realtà per­
metterà all’inizio di descrivere le affezioni somatiche in termini riser­
vati, eventualmente, alle malattie dell’anima; e se è attraverso il voca­
bolario della patologia corporea che i mali dell’anima sono generalmente
presentati, è più facile andare dal visibile all’invisibile che non l’in­
verso, particolarmente quando si tratta d’istruire coloro che hanno po­
ca familiarità con le realtà spirituali.
Molte passioni/malattie possono colpire l’anima dell’uomo deca­
duto, in corrispondenza ai movimenti patologici di cui sono suscetti­
bili le sue diverse facoltà, potendo per di più alcuni di questi movi­
menti combinarsi tra loro. San Giovanni Cassiano offre così questa
classificazione per illustrare le sue argomentazioni sopra citate: «Se
la peste viziosa infetta la parte razionale, genera la cenodossia52, l’e­
saltazione, l’orgoglio, la presunzione, la durezza, l’eresia. Se ferisce la
parte irascibile, essa partorisce il furore, l’impazienza, la tristezza,
l’acedia, la pusillanimità, la crudeltà. Se corrompe la parte concupi­
scibile, produce la gastrimargia53, l’impurità, l’amore del denaro, l’a­
varizia, desideri perniciosi e terreni»54. San Giovanni Damasceno, che
utilizza, nel suo Discorso utile all’anima, lo stesso principio di classi­
ficazione, fornisce una lista più dettagliata55. In un altro punto dello
stesso Discorso, presenta un catalogo ancora più lungo sulla base del­
la distinzione delle passioni dell’anima e delle passioni del corpo: «Le
51 Conferenze, XXIV, 15.
52 Cioè la vanagloria o vanità.
53 O golosità.
54Loc. cit.
55 Cfr. Discorso utile all’anima.
134
passioni dell’anima sono l’oblio, la negligenza e l’ignoranza, questi tre
vizi attraverso cui l’occhio dell’anima - l’intelligenza - accecato è
sottomesso a tutte le passioni, che sono l’empietà, la falsa opinione,
cioè ogni eresia, la bestemmia, la frenesia, la collera, l’acredine, l’im­
peto d’ira, l’odio per gli uomini, il rancore, la calunnia, la condanna,
la tristezza irrazionale, la paura, la viltà, la disputa, la rivalità, la gelo­
sia, la vanità, l’orgoglio, l’ipocrisia, la menzogna, l’infedeltà, l’avidità,
l’amore per le creature, le inclinazioni passionali, il possesso delle
cose terrene, l’acedia, la bassezza d’animo, l’ingratitudine, la mormo­
razione, l’alienazione, la presunzione, l’arroganza, la millanteria, l’a­
more del potere, il desiderio di piacere agli uomini, l’astuzia, l’impu­
denza, l’insensibilità, l’adulazione, l’ipocrisia, la dissimulazione, la dop­
piezza, il consenso che la parte passionale dell’anima dà ai peccati, la
pratica continua di questi peccati, la dispersione dei pensieri, la fi-
lautia [...], l’amore per il denaro [...], la malignità e la cattiveria. Le
passioni del corpo sono la golosità, l’ingordigia, l’ubriachezza [...], la
lussuria, l’adulterio, l’impudicizia, l’impurità, il godimento, l’amore di
ogni sorta di piaceri, la corruzione dei bambini, [...] le cattive brame
e tutte le passioni infami contro natura; il furto, il sacrilegio, il bri­
gantaggio, l’omicidio e ogni licenza e godimento delle volontà della
carne per confortare sempre più il corpo; gli oracoli, i sortilegi, i pre­
sagi, gli aruspici, l’amore dello sfarzo, la frivolezza, l’indolenza, [...]
l’ozio deplorevole, le distrazioni, i giochi d’azzardo, il cattivo uso pas­
sionale dei piaceri del mondo, la vita che ama il corpo»56. Quanto a
san Massimo il Confessore, adottando completamente la classificazione
stabilita sulla base delle tre funzioni principali dell’anima, elabora pa­
rallelamente una classificazione delle passioni in altre tre categorie:
quelle che derivano dalla ricerca del piacere, quelle che provengono
dall’evitare la sofferenza e, infine, quelle che sono nate dalla congiun­
zione di queste due tendenze. «Nel cercare di ottenere il piacere e di
evitare la sofferenza, egli scrive, l’uomo inventa forme diverse e nu­
merose di passioni corruttrici, per esempio se per il piacere si coltiva
l’amore di sé (philautta), si suscitano in sé la golosità, l’orgoglio, la va­
nità, la presunzione, l’avarizia, l’avidità, la tirannia, l’arroganza, l’o­
stentazione, la crudeltà, il furore, il sentimento di superiorità, la te­
stardaggine, il disprezzo degli altri, l’ingiuria, l’empietà, i costumi li­
cenziosi, la prodigalità, la depravazione, la frivolezza, la millanteria,
l’indolenza, l’insulto, l’oltraggio, la prolissità, il pettegolezzo, l’osce-
*lbid.
135
nità, e altri vizi di questo genere. Ma se l’amore di sé (philautia) è schiac­
ciato dalla sofferenza, questo fa nascere la collera, l’invidia, l’odio, l’o­
stilità, il rancore, l’oltraggio, la maldicenza, la calunnia, la tristezza,
la disperazione, lo sconforto, la falsa accusa della Provvidenza divina,
la noncuranza, la negligenza, lo scoraggiamento, la prostrazione, la pu­
sillanimità, la lamentela, la malinconia, l’acredine, la gelosia, e tutti gli
altri vizi dovuti alla privazione del piacere. La mescolanza sofferenza-
piacere, che genera la malevolenza e la cattiveria, fa nascere in noi
l’ipocrisia, l’ironia, l’astuzia, la dissimulazione, l’adulazione, la com­
piacenza, e tutti gli altri vizi nati da questo miscuglio»57. «Mi è im­
possibile», aggiunge san Massimo, «elencare tutti questi vizi ed esa­
minare le forme sotto le quali essi appaiono»58: questa lista, dunque,
malgrado la sua lunghezza è solo parziale, proprio come quella di
san Giovanni Damasceno citata precedentemente; essa offre solo
una semplice idea dell’immensa folla di passioni che possono colpire
l’uomo decaduto.
Tra queste diverse malattie spirituali ce ne sono, tuttavia, alcune che
sono più fondamentali di altre, più generali, e generiche (genikotatoi)59;
quest’ultimo termine significa che esse contengono in qualche modo
e generano tutte le altre60.
Le principali passioni sono otto. Evagrio ne dà il seguente elenco:
«In tutto sono otto i pensieri generici che comprendono tutti i pen­
sieri: il primo è quello della gastrimargia (gastrimargia), poi viene quel­
lo della lussuria (pometa), il terzo è quello della filargiria (philargyria)61,
ü quarto è quello della tristezza (lype), il quinto quello della collera
(orge), il sesto quello dell’acedia (akedta), il settimo quello della ce-
nodossia (kenodoxia), l’ottavo quello dell’orgoglio (yperèpham'a)»62.
Quest’elenco fissato da Evagrio è divenuto tradizionale nell’ascetica
ortodossa63.
57 Questioni a Talassio, Prefazione.
*Ibid.
59 EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 6. Troviamo l’espressione già im­
piegata da C lem en te d ’A lessan dria, Il Pedagogo, I, xm , 101,1.
60 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 6.
61 O avarizia.
62 Trattato pratico sulla vita monastica, 5.
63 Lo troviamo particolarmente in: GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 2; Istituzioni ceno­
bitiche, V, 1. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVII, 43, XX, 1; XXVI, 2; 33. G re g o rio M agno,
Moralia su Giobbe, XXXI, 45. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima. N ilo SORSKY,
Regola, V. Sull’origine di questa classificazione vedi I. HAUSHERR, «L’origine de la théorie orien­
tale de huit péchés capitaux», in Orientalia christiana, XXX, 3, 1933, pp. 164-175, ripreso in
Études de spititualité orientale, Roma 1969, pp. 11-22.
136
Le otto passioni generiche corrispondono alle sette nazioni da
vincere oltre l’Egitto già vinto, di cui parla il Deuteronomio il X)M. Tal­
volta, i Padri uniscono in un solo vizio l’orgoglio e la cenodossia,
ammettendo per questo fatto solo sette passioni65, passioni che corri­
spondono allora ai sette demoni di cui parla il Vangelo (cfr. Mt 12,45;
Me 16,9; Le 8,2; 11.26)66.
All’origine di queste otto passioni principali e di tutti gli altri vizi
che ne derivano, si trova la filautia (philautia) o amore egoistico di sé.
Tutte le passioni derivano dalla filautia67, ma questa causa in primo
luogo tre passioni fondamentali che precedono e generano le altre
cinque delle otto principali, poi tutte le altre: sono la gastrimargia, la
fQargiria e la cenodossia68. «La filautia, l’ho ripetuto più volte, scrive
san Massimo, è all’origine di tutti i pensieri passionali. Da essa na­
scono, infatti, i tre vizi generici della cupidigia: gastrimargia, filargi-
ria, cenodossia»69. Tutto ciò corrisponde all’insegnamento di Evagrio:
«Dei demoni che si oppongono alla pràxis70, i primi a farci guerra so­
no quelli che hanno l’incarico degli appetiti della gastrimargia, quel­
li che suggeriscono la filargiria e quelli che invitano alla gloria uma­
na. Tutti gli altri vengono dopo»71. «Ecco perché, fa notare, il dia­
volo insinuò questi tre pensieri al Salvatore, invitandolo prima di tutto
a cambiare le pietre in pane, in secondo luogo promettendogli il mon­
do se si fosse prostrato ad adorarlo, in terzo luogo dicendogli che sa­
rebbe stato glorificato se lo avesse ascoltato»72. Queste tre passioni
primordiali sono in qualche modo le più immediate, quelle che ap­
paiono in primo luogo e sono le più diffuse tra gli uomini. Queste so­
no anche quelle che aprono la porta a tutte le altre: «Nulla cade sot­
to il potere di un demonio se non è stato all’inizio ferito da questi tre
capifila», osserva Evagrio73. Vedremo, del resto fintanto che l’uomo
non li ha vinti, non'può essere liberato dalle altre passioni; al con­
64 Cfr. G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 17-18.
65Cfr. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 1.
“ Vedi anche Ap 17,3.9.
67 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, in, 56. Talassio, Centurie, IH, 86.
ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 71. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all'anima. ESICHIO DI
Batos, Capitoli sulla vigilanza, 202. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 6.
68 Cfr. Massimo i l C onfessore, Centurie sulla carità, II, 56; IH, 56. Talassio, Centurie,
HI, 87-90. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 1; XXVI, 2; 33; 93.
69 Centurie sulla carità, DI, 56. Vedi anche TALASSIO, Centurie, HI, 87.
70 Questo termine, lo vedremo, indica tradizionalmente la vita ascetica.
71Sui diversi pensieri della malvagità, 1.
n Ibid.
7J Loc. cit.
137
trario, quando egli li ha vinti, può facilmente eliminare le passioni che
rimangono74.
Queste tre passioni principali hanno tre discendenti immediati, ci
insegna san Massimo: «Dalla gastrimargia nasce la lussuria, dalla fi-
largiria la pleonessia75, dalla cenodossia nasce l’orgoglio»76. Tutte le al­
tre passioni vengono indifferentemente da tutte queste77.
Segnaliamo, tuttavia, che quest’ordine di produzione non ha un va­
lore assoluto, ma è solo indicativo di ciò che avviene generalmente, e
che tale passione conduce a talaltra col favorirla anziché col causarla,
in senso vero e proprio. Se è vero, d’altra parte, che una passione apre
la porta a un’altra (per esempio la gastrimargia alla lussuria), essa non
è l’unico fattore che la favorisce.
In linea generale, la classificazione delle passioni che abbiamo
presentato non potrà essere limitativa ed esclusiva, come abbiamo già
fatto notare, e non deve in alcun caso essere compresa in modo rigi­
do e scolastico. D’altronde, i Padri offrono, talvolta parallelamente,
elenchi di diverse passioni secondo le circostanze del loro insegna­
mento78. Tali classificazioni non hanno valore assoluto, ma costitui­
scono, ai fini dell’insegnamento spirituale e della pratica ascetica, stru­
menti comodi. Noi stessi ricorreremo a tali classificazioni in quanto ci
permettono una comprensione più agevole delle cose e un approccio
più semplice di una realtà complessa e multiforme.
D’altra parte, è evidente che i tipi di filiazione tra le passioni, che
abbiamo mostrato, indicano solo tendenze generali e non escludono
altri modi di generazione né altri generi di relazioni. Abitualmente i
Padri insegnano anche che le passioni sono tutte in relazione le une
alle altre, s’implicano e si rafforzano mutuamente, affermando che ogni
passione genera tutte le altre79. San Marco l’Eremita scrive: «Non d
deve sembrare strano l’essere attratti con violenza non solo dai pen­
sieri che amiamo, ma anche da quelli che odiamo; nella misura in cui
vi è una cattiva affinità tra essi, le suggestioni cooperano ai nostri de­
74 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 2.
75 O cupidigia.
76 Centurie sulla carità, Ut, 56. Cfr. TALASSIO, Centurie, DI, 89.
77 Cfr. M assimo i l C on fessore, loc. tit. T alassio, Centurie, III, 89-90.
78 Vedi tra l’altro, 2Tm 3,2. M a ca r io D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XL, 1. GREGORIO DI
NlSSA, Sulla verginità, IV, 5. BARSANUFIO, Lettere, 137 bis. MARCO L’EREMITA, La legge spiritua­
le, 136; A Nicola, 4. G iovanni C um aco, La Scala, XXII, 5. G iovanni D am asceno, Discorso uti­
le aU’anima. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 30.
79 Oltre agli autori citati infra, vedi GREGORIO M agn o, Moralia su Giobbe, VII, 8. GIOVAN­
NI C lim aco, La Scala, XXII, 5. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, DI, 56. M acario
d ’E g itto , Omelie (Coll. II), XL, 1. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 96.

138
sideri e reciprocamente; quando un pensiero si è attardato in colui che
10 accarezza, esso lo fa passare alla fine al seguente, cosicché è guida­
to alla stessa maniera dal secondo, senza che vi presti attenzione, in­
trodotto a forza per la sua relazione con il primo»80. San Gregorio di
Nissa insiste ancor più a lungo su questa interdipendenza delle pas­
sioni che fa sì che esse si richiamino tra loro: «Questi mali, per così di­
re, si tengono l’un l’altro, tanto che uno succede all’altro, mentre
l’ultimo, trascinato da una certa necessità di natura, entra inevitabil­
mente con esso, come avviene per una catena quando si tira l’estre­
mità: non è possibile che l’ultimo degli anelli rimanga immobile, ma
quello che si trova alla fine della catena si muove con il primo, poiché
11 movimento si propaga progressivamente e in maniera continua, a
partire dall’inizio, attraverso gli anelli intermedi. Così avviene per le
passioni umane: esse si tengono legate e unite le une alle altre, e quan­
do una prende il sopravvento, la carovana degli altri mali entra nel­
l’anima»81.
Occorre notare, peraltro, che l’ordine nel quale si presentano e si
generano le passioni varia a seconda delle persone. Così, osserva san
Giovanni Cassiano, «le otto passioni principali insieme fanno la guer­
ra al genere umano, ma i loro attacchi non si presentano nello stesso
modo in tutti indistintamente»82. «Qui è lo spirito della lussuria che
ha il primo posto, là domina la collera. Lacènodossia rivendica lo scet­
tro in questi; in quello l’orgoglio detiene la sovranità. E, benché cia­
scuno di noi subisca gli assalti di tutti, non è nella stessa maniera né
secondo lo stesso ordine che ne siamo tormentati»83.
Come qui indica san Giovanni Cassiano, sarebbe illusorio per l’uo­
mo decaduto credersi esente dalle passioni, o anche solo da tale o ta­
laltra. Se qualche passione sembra non essere in noi, è perché essa non
ci appare o non si manifesta in quel momento; nondimeno essa esi­
ste in un certo grado nell’anima e può manifestarsi in ogni istante nel
caso che si offrano le circostanze.
In ogni caso, vi è nell’anima un’economia delle passioni tale che
quando una passione esiste con poca intensità e sembra persino as­
sente, la sua mancanza relativa è compensata dal più grande svilup­
po di una o di molte altre. Possiamo così constatare a contrario che al­
80II battesimo, 13.
81Sulla verginità, IV, 5.
82 Conferenze, V, 13.
83 Ibid.
139
cune persone nelle quali tale o talaltra passione è particolarmente svi­
luppata sono pressoché esenti da altre passioni o almeno queste non
le abitano che in grado lieve84. Talvolta, la semplice attività intensa di
coloro che sono presi dagli affari e dalle occupazioni mondane basta
in genere a far scomparire in essi certe passioni; questo tuttavia è ve­
ro solo provvisoriamente perché le possiamo vedere riapparire non
appena questa attività perde d’intensità. San Giovanni Climaco cita
un esempio di questo processo che ha potuto egli stesso osservare:
«Ho visto molte persone viventi nel mondo sfuggire alla tirannia dei
desideri carnali per il semplice fatto delle cure, delle preoccupazioni,
delle conversazioni e delle veglie dedite agli affari terreni; ma una vol­
ta entrati nella vita monastica e liberi da ogni preoccupazione, essi si
sono lasciati lamentosamente corrompere dall’ardore del corpo»85.
Tra le diverse passioni, la cenodossia e l’orgoglio possiedono al più
alto grado la capacità di far scomparire altre passioni, prendendone il
loro posto. Così la cenodossia, in certi casi, appare come il nemico del­
la gastrimargia86; essa spesso scaccia i pensieri di acedia e di tristezza87
ma anche la collera88 e la lussuria89. Anche l’orgoglio ha il potere di
scacciare dall’anima tutte le altre passioni e di occuparvi da solo tutto
il posto90, questo perché esso è il principio di tutte e in qualche mo­
do le contiene tutte sinteticamente. L’uomo orgoglioso può così sem­
brare esente da tutte le passioni tranne che dall’orgoglio. Tuttavia l’or­
goglio non può essere rimpiazzato da alcun’altra passione e sussiste in
ogni uomo che non ne è stato liberato da Dio. «Accade talvolta, scri­
ve san Giovanni Climaco, che le passioni si allontanino da alcuni fe­
deli, e anche da alcuni infedeli salvo una sola [l’orgoglio]; e questo è
lasciato loro come il più grande di tutti i mali che, da solo, riempie il
posto di tutti gli altri»91.
Le passioni sono spesso chiamate dai Padri «pensieri» o «pensieri
passionali», «pensieri carnali», «pensieri maligni», perché si manifesta­

84San Barsanufìo si mostra «stupefatto e sorpreso nel vedere come le persone del mondo che
hanno la passione del guadagno o della guerra» si mostrino esenti dalla passione del timore (Let­
tere, 149).
85La Scala, II, 12.
86G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 10.
87 Cfr. ibià., XXVH, 45.
88Cfr. ibid., XXI, 25; 27.
89Cfr. EVAGRIO PONTTCO, Trattato pratico sulla vita monastica, 58.
90Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 63.
91 Ibid., XXV1,45. Cfr. XXn, 5.
140
no all’uomo prima di tutto come pensieri, che si traducano o meno in
seguito in azioni. «Non si peccherebbe mai con l’azione se non si pec­
casse prima con il pensiero», osserva san Massimo92; «è il cattivo uso
dei pensieri che ha come conseguenza il cattivo uso delle cose», egli fa
ancora notare93. Le passioni, anche quando sembrano provenire dal cor­
po, in verità hanno la loro origine nei pensieri dell’anima. Tutto «quel­
lo che generalmente ci si immagina che il corpo ricerchi, scrive san Si­
meone il Nuovo Teologo, non è il corpo ma l’anima che, per suo mez­
zo, ricerca questo»94. Questi pensieri, attraverso cui si esprimono in
primo luogo le passioni, possono tuttavia, come vedremo in seguito, es­
sere in un primo momente mconsci e si rivelano solo a certe condizioni.
Inoltre, le passioni sono frequentemente chiamate dai Padri «spiri­
ti maligni», «spiriti cattivi» o «sjbiriti malvagi», perché esse sono ispi­
rate e alimentate dai demoni e manifestano il loro grande influsso sul­
l’anima dell’uomo. Ogni tipo di pensiero o di passione ha, peraltro,
secondo i Padri, un demone corrispondente. Per ogni passione, i de­
moni possiedono in un certo modo l’anima e il corpo dell’uomo ed
esercitano su di essi un potere tirannico.
Le passioni sono anche indicate come «carne» (sdrx) o «mondo»
(.kósmos). Sant’Isacco il Siro scrive a questo proposito: «Il mondo
costituisce il nome globale che indica tutte le singole passioni. Quan­
do vogliamo indicare globalmente le passioni, le chiamiamo “mondo”.
Ma quando vogliamo indicare uno per uno i nomi propri, le chia­
miamo passioni»95. Come il termine «carne» nel vocabolario paolino96
e patristico non indica generalmente il corpo (soma) ma le passioni che
riguardano l’anima e il corpo come pure i soli pansieri passionali
dell’anima, così il termine «mondo» usato in questo contesto non in­
dica la creazione bensì «la condotta carnale e la preoccupazione del­
la carne»97. E quest’ultimo significato del termine «mondo» che tro­
viamo in questo passo di san Giovanni: «Non amate il mondo, né
ciò che vi è nel mondo. Poiché tutto ciò che vi è nel mondo: la con­
cupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, lo sfarzo della
ricchezza non è dal Padre, ma dal mondo» (lGv 2,15-16)98.
92 Centurie sulla carità, II, 78.
93 Ibid., 82.
94 Catechesi, XXV, 77-79.
95Discorsi ascetici, 30.
96Vedi J. BONSIRVEN, «Chair», in Dictionnaire de spiritualité, E, Paris 1953, col. 442. X. LÉON-
DUFOUR, Dictionnaire du Nouveau Testamenti Paris 1975, p. 159.
97 ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 30.
98 Possiamo vedere qui un altro tipo di classificazione delle passioni in tre grandi categorie.
141
Le passioni generano nell’anima ogni sorta di disordini, di scon­
volgimenti, di scompigli. «Non appena una sola passione arriva a tur­
bare l’ordine, scrive san Gregorio Magno, ve n’è subito un’altra pron­
ta a causare danni. È in modo quanto mai pertinente che la Scrittura
(cfr. Is 34,14) afferma che i capi esortano e l’esercito lancia grida: dal
momento che, in realtà, i principali vizi, sotto un qualunque pretesto,
si sono incrostati nell’anima ingannata, l’innumerevole folla di quelli
che li seguono trascina quest’anima in ogni sorta di follie e la agita con
un clamore che possiamo definire bestiale»99; «l’anima sventurata che
si è lasciata avvincere, non fosse che per una sola volta da questi vizi
principali sotto i colpi dei peccati che si moltiplicano, diviene folle e
si ritrova devastata con ferocia bestiale», dice ancora Gregorio100.
Le passioni producono, allora, nell’anima uno stato di sofferenza
analogo a quello che possono produrre nel corpo le malattie fisiche.
San Doroteo di Gaza scrive a questo riguardo: «Se qualcuno si trova
ad avere un corpo melanconico, mal equilibrato, non è questo squili­
brio che lo brucia, lo agita incessantemente e tormenta la sua vita? La
stessa cosa per l’anima soggetta alle passioni: non smette di essere tor­
turata, la sventurata, dalla sua abitudine viziosa»101. San Giovanni Cri­
sostomo afferma persino che «l’anima soffre più per i peccati di quan­
to il corpo per le infermità»102.
Per guarire l’uomo dalle malattie che costituiscono le passioni,
per liberarlo dalla follia che queste generano e sollevarlo dalle soffe­
renze che esse provocano, come pure d’altronde per preservarlo, è pri­
ma di tutto indispensabile conoscerle bene. «Se non si sono prima de­
scritte le varie forme di una malattia, se non si sono prima inventa­
riate la sua origine e le sue cause, non si potranno applicare ai malati
i trattamenti adatti né permettere ai sani di conservarsi in buona
salute», afferma san Giovanni Cassiano103. Da parte sua, Giovanni
Crisostomo fa notare che «la Scrittura non si limita a far conoscere
[l’]errore [di qualcuno], ma lo istruisce allo stesso tempo sul motivo
che lo ha condotto a peccare: se essa si comporta in questo modo, è
allo scopo di garantire la salute a coloro che stanno bene contro il ri­
schio di simili cadute. E così che agiscono i medici che visitano gli am­
99Moralia su Giobbe, VII, 28.
m Ibid.
101 Istruzioni spirituali, XII, 127.
102 Omelie sulla lettera ai Romani, IV, 1.
103Istituzioni cenobitiche, VII, 13.
142
malati: anche prima di esaminare il male, essi ne cercano la causa, al
fine di reprimere il male fin dall’inizio»104.
«Mai le malattie potranno essere guarite, né trovati i rimedi ai fa­
stidi della salute se prima non si sono cercate, in una investigazione
minuziosa, le loro origini e le loro cause», scrive ancora san Giovan­
ni Cassiano105. San Giovanni Climaco afferma allo stesso modo: «Con­
siglio a coloro che sono malati di cercare con cura molto precisa il me­
todo che devono seguire per curarsi. Ora il primo punto del tratta­
mento sta nel riconoscere la causa della propria malattia; quando si
sarà trovata questa, infatti, i malati riceveranno dalla Provvidenza di
Dio e dai loro medici spirituali il rimedio efficace»106. San Simeone il
Nuovo Teologo insegna allo stesso modo: «Il monaco non deve solo
conoscere e comprendere le modificazioni e le trasformazioni che
avvengono nella sua anima, ma anche le cause: quale può essere la
loro natura, da dove esse provengono»107.
Questo studio minuzioso delle cause e delle origini delle passioni
ha, d’altronde, per se stesso un valore terapeutico. San Giovanni Cas­
siano riferisce che alcune persone sono state guarite dalle loro malat­
tie spirituali per il semplice fatto di aver ascoltato i Padri spirituali spie­
gare le diverse cause, forme e manifestazioni delle passioni/malattie,
e presentare i rimedi capaci a porvi fine. «Gli Anziani, scrive, hanno
l’abitudine di esporre tutto questo nelle loro conferenze, e ancor
più, nell’istruzione ai giovani. Molto spesso noi ne riconoscevamo al­
cuni elementi in noi, mentre gli Anziani ne facevano l’esposizione com­
pleta [...], e noi eravamo guariti apprendendo, senza proferire parola,
rimedi, e allo stesso tempo, le cause dei vizi che ci minacciavano»108.
La descrizione minuziosa e metodica delle passioni fatta dai Padri
si presenta come una vera nosologia e un’autentica semiologia medi­
ca, destinate innanzitutto all’elaborazione metodica, rigorosa ed effi­
cace della terapia delle malattie spirituali. Tale terapia incomincia, co­
me abbiamo or ora visto, con la descrizione, in quanto questa consente
all’uomo di situarsi, di conoscere e di comprendere i movimenti del­
la sua anima, di scoprire il loro significato profondo, e di prendere già
le distanze di fronte al male che lo colpisce o rischia di colpirlo, di non
essere più determinato ciecamente da meccanismi che egli ignora, che
104 Omelie su Ozia, HI, 4.
105Istituzioni cenobitiche, XH, 4.
m La Scala, VHI, 35.
107 Catechesi, XXV, 5-8. Cfr. 205-208.
108Istituzioni cenobitiche, V, 13.
143
lo turbano e lo fanno soffrire. Del resto, non sono solo le malattie
apparenti e facilmente curabili che i Padri descrivono, bensì anche
quelle che, presenti nel cuore, rimangono nascoste a quelli il cui di­
scernimento spirituale non è penetrante, e quelle che esistono solo in
germe ma rischiano di svilupparsi se non vi si fa attenzione. Questa
nosologia e questa semiologia qui hanno ancora una funzione tera­
peutica ma anche, e più in generale, profilattica. San Giovanni Cas­
siano spiega a questo proposito: «Come il medico più sperimentato
generalmente non si accontenta di guarire le malattie presenti, ma, nel­
la sua saggia esperienza precorre le malattie future e le previene con
prescrizioni e rimedi salutari, così questi autentici medici dell’anima,
distruggendo in anticipo nella conferenza spirituale, come mediante
un celeste antidoto, le malattie del cuore prima che esse appaiano, e
non consentendo che si sviluppino nello spirito dei giovani, svelano
loro la causa delle passioni che li minacciano e i rimedi che danno
loro la salute»109.
II
LA FILAUTIA

La fìlautia {philautia)1è considerata da molti Padri l’origine di tut­


ti i mali dell’anima2, la madre di tutte le passioni3, e in primo luogo
delle tre passioni generiche dalle quali sono derivate tutte le altre:
gastrimargia, filargiria e cenodossia. «Incontestabilmente è essa, scri­
ve san Massimo, che genera la follia dei tre pensieri primi e fonda-
mentali»4.
Vi è una forma di fìlautia virtuosa5, che appartiene alla natura del­
l’uomo, raccomandata dal Cristo nell’ambito del primo comandamento:
«Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 19,19; 22,39; Le 10,27);
consiste nell’amare se stessi come creature ad immagine di Dio e, quin­
di, ad amarsi in Dio e ad amare Dio in sé. La filautia-passione è una
perversione di questa fìlautia virtuosa e consiste, al contrario, nell’a-
mor proprio nel senso primo e non edulcorato di questo termine, cioè
nell’amore egoista di sé, nell’amore dell’io decaduto, allontanato da
Dio e volto verso il mondo sensibile, che conduce, perciò, una vita car­
nale e non spirituale. Per quest’ultimo motivo, la fìlautia è general­
mente definita come un amore o una passione per il corpo6e «per le
1Questa passione è ricordata da quasi tutti i Padri (san Paolo stesso adopera il termine «fì-
lautico (philautoi)» [2Tm 3,2]). Ma, senza dubbio, è san Massimo il Confessore che gli attri­
buisce un posto importante, a tal punto che I. Hausherr è partito da esso per studiare l'insie­
me della spiritualità massimiana (Philautie. De la tendresse poursoi à la charitéselon Saint Maxi­
me le Confesseur, Roma 1952).
2 Cfr. TALASSIO, Centurie, II, 4.
3Cfr. M assimo IL C onfessore , Centurie sulla carità, n, 59; m , 8; 56; 57; 59; Questioni a Ta-
lassio, Prologo; Lettere, 2, PG 91,397A, D . TALASSIO, Centurie, II, 1; 4; IH, 79; 86; 87. EVAGRIO
PONTICO, Sentenze, 59-60. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima. EsiCfflO DI BATOS,
Capitoli sulla vigilanza, 202. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,28; E, 6. ISACCO IL SlRO, Discorsi asce­
tici, 71. TEODORO DI ÉDESSA, Cento capitoli, 65. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, lettera
di commiato, 2.
4 Centurie sulla carità, II, 59. Cfr. Et, 56. TALASSIO, Centurie, EI, 87-88.
5 Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 90, 260CD, che oppone
alla «fìlautia perversa», «cattiva» la «buona e spirituale fìlautia».
6 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 8; 59; EI, 8; 57. T alassio , Centu-

145
sue inclinazioni passionali»7. Qui per corpo s’intende non tanto lo stes­
so composto somatico, così com’è stato creato da Dio all’origine,
sottomesso all’anima e spiritualizzato, i cui organi erano orientati ver­
so Dio, quanto piuttosto il corpo decaduto al quale l’anima si subor­
dina; attraverso i suoi sensi e le sue membra, esso diviene l’organo pri­
mario della conoscenza e del godimento del mondo considerato da un
punto di vista esclusivamente sensibile, cioè indipendentemente da
Dio. In altre parole, il corpo qui indica ciò che l’Apostolo e la tradi­
zione chiamano generalmente carne (sàrx). Ecco perché san Teodoro
di Edessa definisce la filautia come «disposizione passionale», e come
«soddisfazione concessa alle volontà carnali»8. San Niceta Stetatos scri­
ve allo stesso modo: gli psichici, «dominati dalla filautia [...] pongono
ogni cura nella salute e nel godimento della carne»9. Più avanti, egli
sottolinea chiaramente la portata generale di questa passione: «La fi­
lautia è l’amore insensato del corpo. Conduce [...] ad amare se stessi,
ad amare la propria anima, ad amare il proprio corpo»10.
San Massimo spiega questo processo, che conduce l’uomo dall’i­
gnoranza di Dio alla filautia e dalla filautia alle passioni, in questi
termini: «Questa ignoranza [...] allontanò completamente l’uomo dal­
la conoscenza divina per riempire la sua esistenza con la conoscenza
passionale delle cose sensibili. Abbandonato così liberamente alle
sole emozioni dei sensi come le bestie sprovviste d’intelligenza, l’uo­
mo, allontanato dalla bellezza spirituale e divina, trova, attraverso
l’esperienza della parte esteriore e corporea della sua natura, una crea­
zione che egli innalza al posto di Dio, perché essa corrisponde meglio
ai bisogni del suo corpo. Visto che il corpo è della stessa natura della
creazione elevata al posto del Creatore, l’uomo copre il proprio cor­
po d’amore e di molte cure. Infatti, non si può adorare la creazione se
non curando il proprio corpo [...]. Votato alla servitù corruttrice del
suo corpo e imprigionato dalla filautia, l’uomo incessantemente lascia
che in lui si sviluppino le passioni del godimento e della sofferenza»11.
La filautia appare, infatti, fondamentalmente legata al piacere: essa
è ricerca del godimento sensibile, carnale, ricerca che, lo abbiamo vi-

rie, II, 4. T eodoro di E dessa , Cento capitoli, 93. G iovanni D amasceno , Discorso utile all’ani­
ma. N iceta Stetatos, Centurie, 1 ,28.
7 G iovanni D amasceno , loc. cit.
* Cento capitoli, 96.
9 Centurie, II, 6.
mIbid„ 1 ,28.
11 Questioni a Talassio, Prologo.
146
sto, è determinante nel processo della caduta dell’uomo, in relazione
con l’ignoranza di Dio che la rafforza e che essa rafforza a sua volta.
San Massimo spiega: «Più l’uomo andava verso le cose sensibili, at­
traverso i suoi soli sensi, più l’ignoranza di Dio lo opprimeva; più egli
era soggiogato dall’ignoranza di Dio, più si abbandonava al godimen­
to delle cose materiali conosciute attraverso l’esperienza; più s’imbe­
veva di questo godimento, più eccitava la sua filautia che ne era la con­
seguenza; più coltivava la filautia, più inventava molteplici mezzi per
ottenere il piacere, frutto e scopo della filautia»12. Simultaneamente al­
la ricerca incessante e multiforme del godimento, la filautia spingeva
l’uomo a evitare il dolore che inevitabilmente segue al piacere13. Dal­
la reazione a questa duplice tendenza, secondo san Massimo, nasco­
no tutte le passioni14. Avendo già ricordato precedentemente que­
st’ultimo punto, esamineremo qui di seguito solo gli altri effetti pato­
logici della filautia, che san Niceta Stetatos considera sia in ragione
delle sue conseguenze che della sua natura, come un «male immenso»15.
Poiché l’uomo non ha realtà vera se non in Dio, amandosi indi­
pendentemente da Dio, egli non può amare veramente se stesso, e s’il­
lude credendo di amarsi. San Teofilatto di Bulgaria scrive: «Filautico
è colui che aj^asob^estesso, di conseguenza gli capita di non avere
neanche amore per se»1®Ts/*
Non solo il filautico non si ama, ma^enzasa,gejlo si odia. Egli è, scri­
ve san Massimo, «anwntgdisécontro se stesso»17. IraafS, negando Dio
attraverso l’amore esclusivo^se stesso18, nega se stesso nel suo esse­
re essenziale, rinuncia al suo destino divino ^ ^ ^ x ^ ^ ^ a io iit^ d e l-
la sua vera vita, compiendo, come abbiamo già sottolineato, un suici-
àìospmtì^ìe?<<É veramente terribile», scrive san Massimo ricordando
la tilautiaT«far morire volontariamente, per amore delle cose corrutti­
bili, la vita che abbiamo ricevuta da Dio attraverso il dono dello Spi­
rito Santo»19. Così, l’uomo smette di praticare le virtù (che sono cor­
relative al suo orientamento verso Dio) e apre la porta alle passioni, fa­
cendosi il torto più grande, poiché queste introducono in lui altrettante

a lbid.
13 ibid.
Mibid.
15 Centurie, I, 28.
16Citato da I. HAUSHERR, Philautie..., o. c., p. 26.
17 Questioni a Talassio, Prefazione.
18Cfr. D iadoco DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 12.
19Lettere, 25, PG 91, 613D.
147
malattie, turbamenti, lacerazioni, sofferenze di ogni genere. Vivendo
nella fìlautia e nel suo corteo di passioni, «gli uomini», afferma san Mas­
simo, «onorano la causa stessa dell’annientamento della loro esistenza
e perseguono essi stessi, senza saperlo, la causa della loro corruzione
[...]. Gli uomini come fiere distruggono la loro stessa natura»20.
«Oh la fìlautia, universale odiatrice]» scrivono Evagrio21, san Teo­
doro di EdèsS'a22"e sàn"Gìòvanni Damasceno23: odiatrice di Dio, di
sé, ma anche del prossimo24.
L’amore di Dio e di sé in Dio, implica per l’uomo l’amore del suo
prossimo (cfr. 1Gv 5, 1), portatore come lui dell’immagine di Dio, chia­
mato come lui ad essere figlio di Dio per adozione e dio per grazia;
ogni uomo è per lui un simile e un fratello nel quale ritrova Dio e si
ritrova o almeno ritrova un altro membro dello stesso corpo, un’altra
parte dell’unica natura umana. Ignorando Dio per mezzo della filau-
tia, l’uomo non può più amare veramente il suo prossimo, perché non
gli appare più ciò che fonda questo amore: egli non percepisce più il
legame trascendente che unisce gli uomini tra loro e con se stesso. Il
filautico, per la sua sragione {alogici, cioè per la sua non percezione del
Logos, principio di unità di ciò che è distante25 e, allo stesso tempo,
per mezzo deUa sua separazione dal Logos) provoca la divisione di ciò
che è unito. E così che la fìlautia è all’origine di «questa divisione
che regna ancora oggi nella natura»26. A causa di essa, «la natura uma­
na si sbriciola in mille pezzi», afferma san Massimo il Confessore27, che
aggiunge: «È la fìlautia che ci ha allontanati a tradimento [...] da Dio
e dagli altri; [...] è essa che divise la natura unica in numerose parti»28.
Separandosi dagli altri per la fìlautia, l’uomo strappa le proprie mem­
bra29. Ora, fa notare san Giovanni Crisostomo, «strappare le proprie
membra, è l’azione di un furioso e di un folle»30.
Non percependo più nel suo prossimo ciò che costituisce la sua
realtà profonda, e cessando di essergli unito spiritualmente, il filauti-
20ibid.
21Sentenze, PG 40,1269A.
22 Cento capitoli, 93.
23Sacra parallela, 13, PG 96, 421A.
24 Cfr. P ietro D amasceno , Libro, Esordio, Filocalia greca, t. 3, p. 14.
25 Cfr. M assimo IL C onfessore , Commento del Padre nostro, PG 90, 877B.
26Id., Questioni a Talassio, 64.
27 Ibid., Prologo.
28 Lettere, 27, PG 91, 620BC. Cfr. 2, PG 91, 396D.
29 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, XLVin, 3. Vedi anche Rm 12,5;
lCor 12,20.
™Ibid.
148
co si priva di ogni autentica relazione con lui. È allora che s’instaura­
no tra gli uomini rapporti superficiali in cui regna la non conoscenza
reciproca, perfino l’ignoranza reciproca, l’insensibilità degli uni nei
confronti degli altri e l’assenza di vera comunicazione, fin nelle situa­
zioni di prossimità obiettiva, come quelle della cellula familiare. Per il
fìlautico, gli altri uomini non sono il prossimo, fratelli e figli dello stes­
so Padre che condividono in Dio la stessa natura, ma estranei (cfr. Col
1,21) e anche peggio: rivali e nemici (cfr. ibid).
Ma è così perché il fìlautico ricerca prima di ogni altra cosa il pro­
prio piacere per mezzo di molteplici passioni che la fìlautia genera, per­
ché questa si oppone all’amore del prossimo e condi^ce^odkrio.
Anziché mirare al vantaggio e al bene altrui, il fìlautico rirercalaffer-
mazione di se stesso e il proprio interesse. Allora, molto spesso il suo
prossimo è per lui un semplice mezzo per ottenere i piaceri che vuole
raggiungere e così il prossimo viene da lui ridotto al rango di oggetto.
Può anche essere per lui un concorrente, un rivale nell’affermazio­
ne di se stesso e nella ricerca del piacere; in questo caso egli dirige ver­
so di lui tutta la sua aggressività. È la fìlautia, dice san Massimo, «che,
per l’amore del piacere fece volgere gli uni contro gli altri la nostra po­
tenza di collera inferocita»31. «La fìlautia, osserva ancora san Massimo,
«rese bestiale la più ammansita delle nature e divise l’umanità, essen­
zialmente una, in numerose parti antagoniste o - l’espressione non è
peggiore - reciprocamente distruttrici»32. Anche in questo risiede la
divisione della natura umana ricordata prima; come fa notare lo stes­
so santo: «La fìlautia degli uomini [...] li ha aizzati gli uni contro gli al­
tri [...], di qui la divisione della natura unica in molte parti»33.
Là dove vi è l’amore di Dio, «Cristo è tutto in tutti» (Col3,11) «e
non c’è più greco o giudeo, circonciso o incirconciso, barbaro o scita,
schiavo o libero» {ibid), «né uomo né donna» (Gtf/3,28). Là dove re­
gna la fìlautia, al contrario, non si vedono che opposizioni, divisioni,
rivalità, invidia, gelosia, discordie, inimicizie, litigi, aggressività, tutte
manifestazioni che sono i frutti di questa passione, proprio come la
non socievolezza34, l’ingiustizia35, lo sfruttamento di alcuni da parte di
altri36e anche gli omicidi37 e le guerre38.
j,pf_fpYP 27
32 Questioni a Talassio, 40, PG 90, 397C.
33Lettere,, 3, PG 91,408D.
34 Cfr. G iovanni D amasceno , Sacra parallela, 13, PG 96, 420D.
35Ibid.
36 Cfr. TEODORETO DI C iro , Discorso sulla Provvidenza, 7, PG 83, 669D-676B.
37 Cfr. M assimo IL C onfessore , Commento del Padre nostro, PG 90, 893A.
38Cfr. C lemente d ’A lessandria , Il Pedagogo, ET, II, 13,4.
149
La filautia appare, così, patogena su molti livelli ed è considerata
dai Padri, tanto nella sua natura che negli effetti, come indizio di un
uomo divenuto insensato” e come se essa stessa fosse insensata40, e
profondamente irrazionale41.
Questi effetti patogeni sono dovuti al fatto che essa stessa è una ma­
lattia42. Tale malattia consiste nell’inversione contro natura di una ten­
denza naturale dell’uomo: l’amore di sé virtuoso43 legato indissolu­
bilmente all’amore di Dio e all’amore del prossimo. A questo riguar­
do così scrive san Massimo: «Per mezzo della filautia, [...] il diavolo ci
lia decisamente separati da Dio e gli uni dagli altri: egli ha contorto
ciò che era dritto, ha in questo modo diviso la natura»44.
Nelle pagine che seguono prenderemo in esame le principali ma­
lattie generate da questa malattia primaria e fondamentale.

39PIETRO D amasceno , Libro, Esordio, Philokalta tòn ieròn neptikòn, t. 3, p. 14: «L’insensa­
to {apkròn) è fìlautico».
40 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, 1,28: «La filautia è l’amore insensato del corpo».
41 Cfr. M assim o il C on fessore, Centurie sulla carità, n, 59. G iovan n i D am asceno, Sacra
parallela, 13, PG 96, 420D.
42 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll.n), Lm, 11; UV, 2. I sacco il Siro , Discorsi asce­
tici, 26; 71. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, Lettera di commiato, 2.
43 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,260D, in cui questo
appare implicitamente.
44Lettere, 2,PG91,396D.
150
Ili

LA GASTRIMARGIA

La gastrimargia (gastrimargia) può essere definita come la ricerca


del piacere di mangiare, in altre parole il desiderio di mangiare in vi­
sta del piacere, o ancora, negativamente in rapporto alla virtù della
quale essa costituisce la negazione, l’intemperanza della bocca e del
ventre.
Questa passione ha due forme principali: può puntare essenzial­
mente sulla qualità degli alimenti, e allora è ricerca di cibi saporiti,
fini, delicati; è desiderio che gli alimenti siano preparati con cura; op­
pure punta principalmente sulla loro quantità, a allora è desiderio di
mangiare molto1. Nel primo caso, è il piacere della bocca, del gusto,
che innanzitutto è ricercato; nel secondo caso, è il piacere del ventre
o degli organi della digestione in genere. Nei due casi, vi è la ricerca
di un certo tipo di piacere corporeo, questo perché la gastrimargia può
essere classificata tra le «passioni del corpo».
Ma per quanto il corpo sia direttamente coinvolto, la gastrimargia
non nasce dai suoi bisogni: prova ne è che spesso il desiderio supera
il bisogno, talvolta anche da molto lontano, principalmente nel caso
della bulimia2. Ciò permette di considerarla anche come una passione
dell’anima. Evagrio, tra l’altro, la chiama pensiero passionale3, come
anche san Massimo4. Il corpo interviene, infatti, come strumento di
compimento del desiderio dell’anima5. Evagrio può così scrivere: «Co­
1E Doroteo di Gaza che fa questa distinzione. Egli chiama laimargia la prima forma, gastri­
margia propriamente detta la seconda forma {Istruzioni spirituali, XV, 161). Giovanni Cassiano
aggiunge un’altra forma che egli pone al primo posto (Conferenze, V, 11; Istituzioni cenobiti­
che, V, 23): il desiderio di anticipare il momento del pasto. Quanto a Gregorio Magno, egli di­
stingue cinque modi di manifestazione della gastrimargia (Moralia su Giobbe, XXX, 18), il pri­
mo corrisponde alla prima forma citata da Giovanni Cassiano, e le altre quattro possono esse­
re ripartite tra le due grandi categorie distinte da Doroteo.
2 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 30.
3 Trattato pratico sulla vita monastica, 6; 7.
4 Centurie sulla carità, II, 59.
5 Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, XXV, 75-79.
151
loro che hanno il torto di nutrire troppo bene la loro carne [...], si
preoccuppato di se stessi e non di essa»6.
Non è l’idea che il nutrimento sia in sé impuro e cattivo o che la
funzione stessa della nutrizione comporti qualche male che fa consi­
derare la gastrimargia come una passione; difatti, come dice il Cri­
sto, «non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo» (Mt 15,11), e
come ci insegna l’Apostolo, «ogni cosa creata da Dio è buona, e nien­
te è da spregiare, qualora venga preso con animo grato» (lTm 4,4).
Detestare gli alimenti per se stessi, come cose cattive, sarebbe «un abo­
minio e pura diavoleria», precisa san Diadoco di Foticea7, che aggiunge:
«Mangiare e bere rendendo grazie a Dio di tutto ciò che ci si serve o
ci si miscela non si oppone affatto alla regola della scienza, perché “tut­
to è buono” (cfr. Gn 1,31)»8.
Questa passione non consiste, dunque, nel nutrimento in sé, nella
sua qualità, ma nel modo di usarne, come avverte san Gregorio Ma­
gno: «Il vizio non sta nel nutrimento, ma nel modo di sorbirlo. Ecco
perché è del tutto possibile prendere cibi fini senza alcuna colpa, men­
tre mangiare cose più grossolane può essere intaccato da colpa»9.
Tuttavia, non è affatto nell’atto stesso di mangiare che si trova la
passione, ma nell’intenzione che presiede e nel fine che gli viene as­
segnato dall’uomo. «Nell’uso del nutrimento, c’è una stessa azione del
mangiare per bisogno e del mangiare per il piacere, ma il peccato è so­
lo nell’intenzione», precisa san Doroteo di Gaza10. La passione risie­
de, dunque, in un certo atteggiamento dell’uomo di fronte al cibo e al
nutrimento, più precisamente in un allontanamento, da parte sua, dal­
la finalità naturale di questi. E, infatti, per uno scopo preciso che gli
alimenti sono stati dati da Dio agli uomini; farli servire ad altri fini, è
pervertirne l’uso, è fame un cattivo uso. «Le cose che mangiamo, scri­
ve san Massimo, sono state create per un duplice fine: per alimentar­
ci e farci da rimedio11. Mangiare per altri motivi, è fare un cattivo
uso di quanto Dio ci ha dato per la nostra necessità»12. L’uomo, dun­
que, rispetta la finalità naturale degli alimenti e del nutrimento quan­
do si nutre per necessità, per mantenere o preservare la vita del suo

6 Trattato pratico sulla vita monastica, 53.


7 Cento capitoli gnostici, 43.
8Ibid., 44.
9Moralia su Giobbe, XXX, 18.
10Istruzioni spirituali, XV, 162.
11 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 7.
12 Centurie sulla carità, Ut, 86.
152
corpo, per conservare o ritrovare la sua salute, ma fa del nutrimento
e della funzione nutritiva, che è in lui, un uso contro natura quando
egli ne fa un mezzo di piacere13.
La gastrimargia non consiste, dunque, nel desiderio dello stesso nu­
trimento, ma nel desiderio del piacere che si può provare nel consu­
marlo. Ecco perché l’abuso che costituisce la passione non consiste so­
lo nel nutrirsi al di là di ciò che è strettamente necessario ai bisogni
del corpo, ma anche nel ricercare il piacere in queste stesse cose ne­
cessarie.
Per mezzo della passione della gastrimargia, l’uomo compie il ma­
le, perché ricercando la voluttà nel nutrimento, egli fa passare il de­
siderio del cibo e del piacere che prova nel consumarlo davanti al
desiderio di Dio, e nell’abbandonarsi a questo piacere carnale si al­
lontana e si priva del godimento dei beni spirituali che sono superio­
ri a quello.
L’atteggiamento gastrimargico in fondo è idolatrico: gli uomini che
si abbandonano a esso «hanno il loro ventre come dio», afferma san
Paolo (cfr. Fil 3,19). «Il ventre è un dio sensibile per coloro che sono
schiavi del loro stomaco», annota sulla sua scia san Gregorio Palamas14.
Per la gastrimargia, infatti, l’uomo sacrifica al suo ventre e alla sua boc­
ca invece di sacrificare a Dio. Egli fa del senso del gusto e delle sue
funzioni nutritive il centro del suo essere, l’essenziale di se stesso, e in
qualche modo si riduce a essi. Egli fa del nutrimento un importante
oggetto di preoccupazione, persino quasi esclusivo in alcuni casi,
trascurando ciò che in primo luogo e quasi esclusivamente dovrebbe
interessarlo e occuparlo. E al nutrimento che egli rende il culto do­
vuto solo a Dio, è su di esso che pone e riconduce i suoi desideri di
cui solo Dio dovrebbe essere l’oggetto. D’altra parte, attraverso la pas­
sione della gastrimargia, il nutrimento acquista un valore per se stes­
so e serve al piacere sensibile anziché essere considerato come un
dono di Dio e di servire alla glorificazione di Colui che l’ha creato. An­
che in questo consiste l’allontanamento dalla sua finalità naturale
che è quella di rendere grazie a Dio. Il Cristo stesso rivela questa fi­
nalità e ci dà l’esempio dell’atteggiamento normale quando egli rende
grazie al Padre prima di distribuire il cibo a coloro che lo circonda­
no (cfr. Mt 15,36; Me 8,6; Gv 6,11; 6,23). San Paolo afferma chiara-
u Cfr. G r e g o rio M agn o, loc. cit. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, V, 7; 8; 14.
DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XV, 162.
14 Triadi, II, 3, 6.

153
mente che Dio ha creato gli alimenti perché vengano presi con animo
grato (cfr. lTm 4,3), consigliando di conseguenza: «Sia dunque che
mangiate, sia che beviate o qualsiasi cosa facciate, fate tutto per la glo­
ria di Dio» (lCor 10,31). La gastrimargia costituisce una vera perver­
sione di questa finalità essenziale del nutrimento che è quella di esse­
re consumato eucaristicamente, poiché in questa passione l’uomo, an­
ziché godere di tali alimenti in Dio e di godere di Dio attraverso di
essi, vuole godere degli alimenti per se stessi, al di fuori di Dio. Per
mezzo loro erige ima barriera tra se stesso e Dio, anziché usarli come
supporto per elevarsi a lui.
Nel rendere grazie a Dio per il cibo che gli concede, l’uomo santi­
fica se stesso, e santifica particolarmente le funzioni della nutrizione
che sono in lui; egli si nutre così di Dio e nello stesso tempo di pane,
ed il suo nutrimento diviene così per lui doppiamente fonte di vita.
Egli santifica gli alimenti che prende (cfr. lTm 4,5) e, allo stesso tem­
po, attraverso di essi, il cosmo che lo unisce a Dio, secondo la volontà
da lui manifestata al primo uomo. La gastrimargia, al contrario, se­
para da Dio l’uomo e in lui le creature. Gli alimenti, anziché rivelare
Dio (sant’Isacco parla di «colui che ha visto il Signore nel suo nutri­
mento»)15, anziché essere trasparenti alle sue energie e servire alla glo­
rificazione di Dio e alla deificazione dell’uomo, divengono, a motivo
del peccato dell’uomo, per lui stesso e per il mondo, un ostacolo al­
l’incontro con Dio. Cessando di essere fonte di vita, poiché essi non
sono più uniti alla sorgente della Vita per la perdita della loro fina­
lità spirituale nell’uso perverso che ne fa l’uomo, essi divengono per
lui principio di morte anche quando egli crede di assicurarsi la vita per
loro mezzo16.
Alla luce di queste digressioni teologiche e antropologiche, la pas­
sione della gastrimargia appare meno banale di come sarebbe potuta
sembrare a prima vista. Alcuni Padri giungono, del resto, fino a ve­
dere in essa la fonte stessa del peccato originale17. Infatti, mangiando
il frutto dell’albero che Dio aveva proibito di toccare, Adamo volle go­
dere al di fuori di Dio di questo alimento che, in realtà, simboleggia e
rappresenta tutto il mondo sensibile18. La gastrimargia, in questo fon­
damento originale, manifesta chiaramente che essa opera una rottura,
15Discorsi ascetici, 43.
16Cfr. ibid.
17 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XIV, 38. G iovan ni C assiano, Conferenze, V, 4. C al-
LINICO, Vita dTpazio, XXIV, 73. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 85. NILO SORSKY, Regola, V.
18 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo.

154
una separazione dell’uomo da Dio, e significa la perdita della comu­
nione divina per l’uomo e, in lui, per l’intero cosmo. La gravità di que­
sta passione si rivela ancora di più nel fatto che essa è una delle tre ten­
tazioni che Satana presenta al Cristo nel deserto (cfr. Mt 4,3). Resi­
stendogli, il Cristo, nuovo Adamo, ristabilisce tra l’umanità e Dio e,
quindi, tra il cosmo e la divinità, la comunione che il primo Adamo
aveva rotto. Nell’opporre al diavolo che «l’uomo non vive di solo pa­
ne, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», il Cristo restitui­
sce all’uomo il suo vero centro. Egli non dice che l’uomo non si nutre
di pane, ma mostra la relazione necessaria che questi deve intratte­
nere con il Verbo. Denuncia le dissociazioni e l’idolatria che il pec­
cato aveva instaurato e ne guarisce la natura umana che ne è la vitti­
ma. Libera, infine, l’umanità dalla tirannia che il diavolo, per mezzo
di queste passioni, gli faceva subire dopo la colpa originale.
La gastrimargia, attraverso tutti gli aspetti che abbiamo ricordato,
e in particolare per il motivo che essa costituisce una perversione del­
l’uso naturale e normale del cibo, è definita dai Padri come malattia19.
San Giovanni Cassiano per esempio dice a proposito delle tre forme
di questa passione che egli ha descritte: «Vi sono tre focolai di ma­
lattie dell’anima tanto temibili quanto numerose»20. Si comprende an­
che come essa possa essere considerata da loro una forma di follia21.
San Doroteo di Gaza prende, peraltro, come argomento supplemen­
tare l’origine stessa degli appellativi di «laimargia» e «gastrimargia»:
«Margainein significa negli autori pagani “essere fuori di sé” e l’in­
sensato viene definito màrgos. Quando a qualcuno capita questa ma­
lattia (nósos) e questa follia (manta) di volersi riempire il ventre, la chia­
mano gastrimargia (,gastrimargia), cioè “follia del ventre”. Quando si
tratta solo del piacere della bocca la chiamano “laimargia” (laimargia),
cioè “follia della bocca”»22.
Malattia e follia, la gastrimargia non lo è solo per gli atteggiamenti
che essa rivela quanto ai suoi fondamenti; essa lo è anche in ragione
delle sue numerose conseguenze patologiche, e ciò a più livelli.
Oltre a tiranneggiare l’uomo, lo sottomette al desiderio e al piace­
re di mangiare, lo rende indisponibile a Dio e lo allontana dal suo cen­
tro; la gastrimargia ha, quindi, per la vita della sua anima numerosi ef­
19D oroteo d i G aza, Istruzioni spirituali, XV, 161. G iovanni C assiano , Conferenze, VI, 11.
20Loc. cit.
21 Cfr. T eodoreto DI C iro , Discorso sulla Provvidenza, VI, PG 83,656CD. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Centurie sulla carità, E, 59.
22 Istruzioni spirituali, XV, 61.
155
fetti indesiderabili e, nello stesso tempo, mette in pericolo la salute del
suo corpo23.
I santi asceti sottolineano, prima di ogni cosa, che l’eccesso di cibo
o di bevande (qualunque esse siano) priva lo spirito di energia24e di vi­
vacità25, lo appesantisce26, lo immerge in vino stato di oscurità27, di tor­
pore e di sonno28, conseguenze che si ripercuotono su tutta l’anima.
«Appesantito dai molti dbi, il corpo rende lo spirito (noiìs) debole {deilós
[termine che significa anche: timido, floscio]) e pigro (dyskinetos [ter­
mine che significa anche: difficile a muoversi, lento])», nota san Dia­
doco di Foticea29. Un tale stato rende diffìcile il suo volo verso le realtà
spirituali, impedisce di condurre come si deve la lotta ascetica, rende
difficoltosa la preghiera30, genera la negligenza31, e indebolisce molto
l’uomo. Sant’Isacco scrive che allora «egli ha perso la metà della sua po­
tenza, tanto che si può ben dire [...] che, prima di andare al combatti­
mento, è già sottomesso senza aver lottato. E vinto dalla volontà rilas­
sata della carne, senza che i suoi nemici si siano dati la minima pena»32.
Una tale disposizione ha anche per effetto quello di trascinare
verso il basso tutte le sue facoltà, orientando in primo luogo i suoi de­
sideri verso preoccupazioni carnali. Tutte le passioni, e questa in
particolare, fa notare san Massimo, «incatenano lo spirito agli ogget­
ti materiali, lo portano al livello della terra come farebbe una pietra
molto pesante che pesasse su di lui, pur essendo egli per natura più
leggero e più vivo del fuoco!»33. San Gregorio di Nissa, da parte sua,
ricorda «l’uomo dal pensiero appesantito che guarda in basso», e con­
stata a suo riguardo: «Non vivendo che per il ventre e per ciò che fa
seguito al ventre, si ritrova lontano dalla vita di Dio»34.
In questa situazione, l’intelligenza, appesantita e soffocata, perde la
sua capacità di discernimento35o almeno questa si ritrova alterata e di­
minuita. Il bisogno di mangiare e l’assopimento che ne consegue im­
23 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 19; Omelie sul digiuno, 2.
24 I d ., Regole lunghe, 19; Omelie sul digiuno, 1.
25Id., Omelie sul digiuno, 1.
26 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, XV, 161; 162. CALLINICO, Vita dTpazio, XXTV,
70. Basilio di C esarea, Omelie sul digiuno, 1. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 26.
27ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 26.
2sIbid.
29 Cento capitoli gnostici, 45.
30Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 50. ISACCO EL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
31 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 34.
32Ibid., 69.
33 Centurie sulla carità, DI, 56.
34Sulla verginità, IV, 5. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
35GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 6; ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26; 69.
156
pediscono in particolare all’uomo di considerare le cose semplici
della fede, fa notare Abba Poemen36; i suoi giudizi perdono la loro
finezza; diviene incapace di un pensiero perspicace; il suo spirito,
nota san Giovanni Cassiano, «è come inebriato, [e] diviene vacillan­
te e instabile»37.
L’abuso di cibo e di bevande provoca anche, osservano i Padri, «il
turbamento dei pensieri»38, il quale insudicia l’anima39. Una moltitudi­
ne di pensieri passionali (logismoi) compaiono nell’anima e vengono a
macchiare e a offuscare lo spirito40. Sant’Isacco dice che l’effetto del­
l’abuso di cibo «è quello di sregolare l’intelligenza che divaga ovunque
[...]: sono le immaginazioni impure [...] nella sozzura dei fantasmi e nel­
la stravaganza delle immagini piene di cupidigia che attraversa l’ani­
ma e vi compie quello che vuole con ogni impurità»41. H «ventre trop­
po pieno, dice ancora, fa del cuore una quadruplice porta di fantasmi
deliranti»42. Così egli consiglia: «Non appesantire il tuo ventre per non
annegare nella confusione la tua intelligenza, per non essere tormen­
tato dalla distrazione [...], per non offuscare la tua anima, per non
turbare i tuoi pensieri»43. E san Gregorio di Nissa spiega che «i piace­
ri del mangiare e del bere, che portano a ingozzarsi di alimenti, per la
mancanza di misura, producono, necessariamente, nel corpo due mali
indipendenti dalla nostra volontà, in quanto la sazietà molto spesso ge­
nera nell’uomo tali passioni. Perché dunque il nostro corpo rimanga
estremamente calmo e non sia turbato da nessun movimento passionale
che nasca dalla sazietà, occorre vegliare affinché non sia il piacere ma
l’utilità a definire in ogni caso la misura di una condotta temperante»44.
La gastrimargia apre così inevitabilmente la porta a una folla di pas­
sioni e le sviluppa45. Ecco perché i Padri sono portati a considerarla
come la madre di tutte le passioni46e la fonte di tutti i mali47. Così san
36Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 134.
37 Loc. cit.
38ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 26 e 56.
39Cfr. ibid., 43; 69.
40 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 31.
41 Discorsi ascetici, 26.
42 Ibid.y 69.
43 lbid.y34.
44Sulla verginità, XXI, 2.
45 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 16. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
46 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 27. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 65. Cfr.
ibid., scolio 59. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIV, 38. BASILIO DI CESAREA, Omelia sul digiuno,
1. G iovanni C risostomo , Sulla verginità, 71. G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XXI,
45. N ilo Sorsky , Regola, V.
47 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XV, 161. CALLINICO, Vita d'Ipazio, XXIV, 72.
157
Giovanni Climaco redige una lunga lista dei germogli di questa pas­
sione, a cui fa dire in ima prosopopea: «Il mio primogenito è il servo
della lussuria; dopo di lui viene per secondo l’indurimento del cuo­
re, e il terzo è il sonno. Da me procedono un mare di pensieri, fiotti
di sozzure, un abisso d’impurità insospettate e innumerevoli. I miei fi­
gli sono la pigrizia, il pettegolezzo, l’impertinenza, la burla, la buffo­
neria, lo spirito di contraddizione, la rigidità, l’ostinazione, l’insensi­
bilità, la schiavitù, lo spirito di sufficienza, la temerarietà, la millante­
ria, tutte cose che trascinano al loro seguito l’impurità della preghiera,
il turbinio dei pensieri e, spesso, disgrazie improvvise e inaspettate, al­
le quali è strettamente legata la disperazione, il più nefasto dei miei
germogli»48. Lo stesso santo annota, peraltro49, che questa passione ha
anche l’effetto di prosciugare le sante lacrime della penitenza di cui
vedremo ulteriormente tutta l’importanza. Ma la passione, che la ga­
strimargia introduce principalmente e più immediatamente, è la lus­
suria, come si è già potuto intrawedere dai testi prima citati50.

*L a Scala, XIV, 38.


49 Ibid., 22.
50Su questa filiazione, vedi per esempio: M assimo IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,85;
II, 60; IH, 7; 57. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 1; 38; XIV, 21; 23, 32. GIOVANNI CASSIA-
NO, Conferenze, V, 10; 26; Istituzioni cenobitiche, V, 6; 11; 21. BARSANUFIO, Lettere, 503. TALAS-
SIO, Centurie, HI, 54. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26; 43; 69; 85. NILO SORSKY, Regola, V.

158
IV
LA LUSSURIA

La passione della lussuria (pomeia) consiste nell’uso patologico che


l’uomo fa della sua sessualità1.
Prima di ogni altra considerazione, occorre precisare che l’uso del­
la sessualità non è affatto originario nella natura umana; esso è apparso
nell’umanità solo come una conseguenza del peccato dei nostri pro­
genitori. Quando Adamo ed Èva si allontanarono da Dio si deside­
rarono e si unirono sessualmente, d insegnano i Padri nel riferirsi al­
le indicazioni della Scrittura (cfr. Gn 3,16; 4,1). Ecco perché san Gio­
vanni Damasceno predsa: «La verginità era originaria e innata nella
natura degli uomini. Nel paradiso, la verginità era lo stato normale.
Quando, per la trasgressione, la morte entrò nel mondo, solo allora
Adamo conobbe la sua donna ed essa generò»2. Anche san Giovanni
Crisostomo insegna: «Fu solo dopo la loro disobbedienza e il loro esi­
lio che Adamo ed Èva ebbero dd rapporti. Prima, essi vivevano come
angeli [...]. Così, nell’ordine del tempo, la verginità possiede la palma
della priorità»3.
Nello stato dell’umanità conseguente alla caduta originale, la ver-
1H termine pomeia significa letteralmente prostituzione. Ma i Padri includono in questo vo­
cabolo tutte le forme di passioni sessuali. Il termine italiano «lussuria» - come il corrisponden­
te francese luxure - ci sembra, in mancanza di meglio, il più adeguato per tradurre questa no­
zione, che i dizionari moderni definiscono «ricerca, o brama sfrenata, dei piaceri sessuali».
2Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 20. Cfr. II, 12; 20.
3 Omelie sulla Genesi, XVIII, 4. Cfr. Sulla verginità, 14. Si troverà lo stesso insegnamento
in IRENEO DI LIONE, Dimostrazione della predicazione apostolica, 14; 17. GREGORIO DI NlSSA, La
creazione dell’uomo, XVII. ClRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi, XII, 5. ATANASIO D’A leSSAN-
DRIA, Commento al Salmo 50,7. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 56. GIOVANNI DA­
MASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 12; 20; IV, 20. SlMEONE IL NUOVO TEOLO­
GO, Catechesi, XXV, 92-108, ecc. I Padri affermano che se gli uomini fossero rimasti nel loro sta­
to primordiale, D io li avrebbe m oltiplicati secondo un m odo non sessuale (vedi MASSIMO IL
CONFESSORE, Questioni e difficoltà, I, 3; Ambigua, 41, P G 9 1 ,1309A). Creando gli uom ini,
D io li ha dotati di organi sessuali, in previsione delle necessità derivanti dalla caduta, di cui
egli aveva la prescienza, benché questa non fosse predeterminata, e anche perché la verginità
non fosse loro imposta per natura, ma risultasse da una scelta personale, la quale doveva darle
forza e valore (vedi GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla verginità, 17; Omelie sulla Genesi, XVIII, 4).

159
ginità rimane la norma della perfezione. Tuttavia, a motivo della mol­
tiplicazione dell’umanità nella nuova condizione in cui ora essa si tro­
va, per questa ragione è benedetto da Dio (cfr. Gn 9,7) l’uso della ses­
sualità nel quadro del matrimonio che non è affatto condannabile. I
Padri, seguendo l’esempio del Cristo che benedice con la sua pre­
senza le nozze di Cana, nonché l’insegnamento dell’Apostolo (cfr.
Eb 13,4; lCor 7,28), ne riconoscono la totale legittimità e ne procla­
mano anche il valore4, considerando che la sessualità è chiamata alla
stessa santificazione come tutte le altre funzioni dell’esistenza umana.
Nell’ambito del matrimonio, la passione della lussuria non consi­
ste, dunque, nell’uso della funzione sessuale, ma nel suo uso perver­
so, abusivo. La nozione di abuso, che troviamo spesso negli insegna-
menti dei Padri, non ha un significato quantitativo ma qualitativo: es­
sa significa qui come altrove, un cattivo uso della funzione in questione,
una perversione, un uso contrario alla sua finalità naturale e, per que­
sto, contro natura e anormale, in altre parole patologico. San Massi­
mo, in maniera più precisa, così scrive a proposito di questa e altre
passioni: «Nulla, di ciò che è, è cattivo, ma lo è solo il cattivo uso (para-
chresis) in seguito alla negligenza del nostro spirito nel coltivarsi se­
condo natura»5. Sant’Isacco il Siro, quando ricorda la passione della
lussuria, sviluppa un concetto simile, e di conseguenza sottolinea la re­
sponsabilità dell’uomo nel controllo dei suoi movimenti naturali:
«Quando un uomo è mosso dalla cupidigia [...], non è la potenza
naturale che lo forza a uscire dai limiti naturali e ad allontanarsi dal
suo dovere. Ciò che lo fa uscire è quanto aggiungiamo alla natura
per soddisfare la nostra volontà, perché tutto ciò che Dio ha fatto, lo
ha fatto nella bellezza e nella misura. Se guardiamo correttamente la
misura che ci è impartita nelle cose che portiamo per natura, i movi­
menti naturali non possono spingerci a uscire dalla via. H corpo non
agisce veramente se non nel buon ordine»6.
Vi è abuso, o più esattamente cattivo uso, quando l’uomo usa la sua
sessualità avendo di mira solo il piacere che vi si rapporta, quando egli
fa del piacere la finalità della sua attività in questo ambito7. Una tale
visione è perversa e patologica per diverse ragioni.
4 Vedi per esempio: G regokio DI NlSSA, Sulla verginità, VII. GKEGORIO N azianzeno , Di-
scorso, XXXVII, 9. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla verginità, 8; 9; 10; 25; Omelie su Ozia, DI, 3;
Omelie sulla Genesi, XXI, 4; Omelia sul matrimonio, 1,2. H Concilio di Gangres (IV secolo) nel
IV Canone condanna «ogni disprezzo dei rapporti coniugali».
5 Centurie sulla carità, DI, 4. Cfr. D, 17.
6Ibid.
7 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 17.
160
Innanzitutto, essa nega una delle finalità principali della funzione
sessuale, la più apparente e che è inscritta mila sua stessa natura: quel­
la della procreazione8. Per questo san Massimo osserva, in modo ge­
nerale, che «il vizio {kakta) è nel falso giudizio sulle rappresentazioni
e seguito dal cattivo uso delle cose», e che, per esempio, «per le rela­
zioni con le donne, la regola del giudizio è che esse siano ordinate al­
la procreazione. Se dunque si mira al piacere, si giudica male, eri­
gendo a bene ciò che non lo è affatto, e, conseguenza necessaria, si
abusa della donna nelTunirsi a lei»9.
Questa finalità, tuttavia, per essenziale che sia, non è la sola10né la
più importante11. Nella specie umana, la procreazione può sembrare
più il risultato naturale dell’unione sessuale che non il fine stesso12. L’u­
nione sessuale è, in primo luogo, uno dei modi dell’unione tra l’uomo
e la donna; essa è ima delle manifestazioni del loro amore reciproco;
traduce questo amore su un certo piano del loro essere, quello del cor­
po13. È l’amore che costituisce la prima finalità dell’unione sessuale,
così come i molteplici benefìci spirituali che l’uomo può trarre da que­
sto in seno al matrimonio insieme agli altri modi di unione coniuga­
le14. Occorre, tuttavia, precisare che l’amore coniugale è visto, nella
prospettiva cristiana, come l’unione di due persone - cioè di due es­
seri concepiti nella loro integralità, da un lato, e nella loro natura
spirituale dall’altro - in Cristo e in vista del Regno, unione sigillata
quanto a misura e a scopo dalla grazia dello Spirito conferito dal sa­
cramento del matrimonio. Questo concetto subordina l’unione ses­
suale, come tutti gli altri modi di unione degli sposi, alla dimensione
8 Cfr. C lem en te d ’A lessan d ria, II Pedagogo, n, X, 83,1; 92,2; Stromata, II, 143,3; 144;
in, 72,1. B a silio DI A ncira, Sulla verginità, 38. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, XV,
162. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, XVD, 1; Omelie sul matrimonio, 1,3; Sul­
la verginità, 19. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 27.
9 Centurie sulla carità, II, 17.
10Cfr. B asilio di A ncira, Sulla verginità, 38. B asilio di C esarea, Omelia sulla martire Giu-
litta, 5, PG 31,248; Esortazione alla rinuncia e alla perfezione spirituale, 2, PG 31,629. GIOVANNI
CRISOSTOMO, Sulla verginità, 9; 19; 25; 26; 34; Omelie su Ozia, DI, 3; Omelie stilla Genesi, XXI,
4; Omelie sul matrimonio, 1,2; 3; HI, 5.
11 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sul matrimonio, 1,3; Sulla verginità, 19. Notiam o che
nessun testo neotestamentario concernente il matrimonio menziona la procreazione come lo sco­
po o la giustificazione di questo.
12Ciò appare implicitamente nel testo del rituale del sacramento del matrimonio. Cfr. E. M er-
CENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, p. 405.
0 Cfr. B asilio d ’A ncira , Sulla verginità, 38.
14Cfr. ibid. BASILIO di C esarea, Omelie sulla martire Giulitta, 5, PG 31,248; Esortazione al­
la rinuncia e alla perfezione spirituale, 2, PG 31,629. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla verginità, 9;
19; 25; 26; 34; Omelie su Ozia, IH, 3; Omelie sulla Genesi, XXI, 4; Omelie sul matrimonio, 1,2;
3; HI, 5.
161
spirituale del loro essere e del loro amore15. L’unione sessuale deve, co­
sì, essere preceduta ontologicamente dall’unione spirituale che le con­
ferisce senso e valore. Ed è solo a questo titolo che può essere rispet­
tata la sua finalità come quella della natura degli esseri che essa met­
te in relazione16.
Quando l’unione sessuale è vissuta indipendentemente dal suo con­
testo spirituale e avviene solo in vista del piacere sensibile che pro­
cura, inevitabilmente essa mutila l’uomo, pervertendo profondamen­
te l’ordine normale del suo rapporto con Dio, con se stesso e con il
suo prossimo.
1) Il desiderio esclusivo del piacere sessuale, che caratterizza la lu
suria, mette in moto la potenza di desiderio [concupiscibile] dell’uo­
mo e lo allontana da Dio che dovrebbe costituire il suo fíne essenzia­
le. Accecato dal godimento sensibile che la sua passione gli procura,
l’uomo si priva del godimento spirituale dei beni superiori del Regno.
La lussuria, come tutte le altre passioni, opera, lo si vede, un rove­
sciamento dei valori al livello più elevato. Fa passare Dio in secondo
piano, lo dimentica e lo nega ponendo al suo posto il piacere sensibi­
le. Essa fa passare, in genere, nell’esistenza del passionale la carne avan­
ti allo spirito: «La concupiscenza, scrive san Massimo, attrae gli esse­
ri che sono tesi alla Causa e Natura unica, sola desiderabile [...], più
che quest’ultima. Per questo motivo, essa rende la carne più apprez­
zabile dello spirito e il godimento di ciò che è visibile più gradito
della gloria e del fulgore dello spirito»17.
Nel suo uso normale, santificata dal sacramento del matrimonio, in­
tegrata e trasfigurata spiritualmente dall’amore degli sposi vissuto in
Dio, la sessualità, come tutti gli altri modi di unione, è trasparenza di
Dio e realizza al suo livello e analogicamente18l’unione tra il Cristo e
la Chiesa (cfr. Ef 5 2 0-32), accedendo così a un senso mistico (cfr. Ef
5,32). Al contrario, nella lussuria, essa diviene per l’uomo un ostaco­
lo all’incontro con Dio. Cessa di essere l’espressione, in un certo li­
vello, dell’amore ancorato nello Spirito e dunque, in qualche modo,
di essere un atto spirituale perché spiritualizzato, per divenire un atto
15 Cfr. B asilio di A ncira , Sulla verginità, 38.
16Cfr. ibii.
17Commento del Padre nostro, PG 90, 888C.
18 L’analogia dell’unione sessuale e dell’unione spirituale è stata abbondantemente utilizza­
ta nelle Sacre Scritture come anche negli scritti patristici. È questa che ispira il Cantico dei
Cantici tanto per fare un celebre esempio.
162
puramente carnale, ripiegato su se stesso, opaco a ogni trascendenza.
Il piacere visto come fine in sé diviene per l’uomo un assoluto che
esclude Dio e ne prende il suo posto. Per mezzo della lussuria, l’uo­
mo fa della voluttà un idolo.
2) Di conseguenza, l’uomo non vede più il centro del suo essere ne
l’immagine di Dio di cui è portatore, ma nelle sue funzioni sessuali.
Egli in qualche modo si dedica a queste, proprio come colui che, do­
minato dalla passione della gastrimargia dedica se stesso, lo abbiamo
visto, alle sue funzioni gustative e digestive. L’uomo viene, così, a
trovarsi decentrato e vive al di fuori di se stesso; è alienato. Non es­
sendo, come dovrebbe, subordinata all’amore spirituale, la funzione
sessuale viene a occupare nell’uomo un posto smisurato, persino esclu­
sivo, e sostituisce all’amore il desiderio bruto e istintivo.
L’uomo mette, così, come fa notare san Basilio di Andrà, la sua ani­
ma dietro al suo corpo: «I corpi, alla ricerca del piacere, totalmente
presi da esso, uniscono le anime che sono in loro per metterle al ser­
vizio della passione che li agita, [e] le anime [vanno] così a rimor­
chio dei vizi della carne»19.
L’ordine delle facoltà umane viene, quindi, sconvolto e un profon­
do squilibrio s’instaura nell’essere nella misura in cui l’intelligenza,
la volontà e l’affettività cessano di essere al servizio dello spirito, di es­
sere informate e ordinate da questo, per mettersi al servizio del desi­
derio sessuale alla ricerca del piacere. L’uomo, governato dall’istinto,
diventa simile all’animale20.
A causa della lussuria, molte funzioni fìsiche si allontanano dalla lo­
ro normale finalità per divenire strumenti del piacere sessuale. Il
senso della vista, che nell’esercizio di questa passione gioca un ruolo
fondamentale, offre a questo riguardo un esempio particolarmente
istruttivo21. San Giovanni Cassiano mostra chiaramente come il carat­
tere patologico in questi casi derivi da un uso contro natura, da una
perversione dell’esercizio della facoltà percettiva: «E malato e dan­
neggiato dal tratto del desiderio sessuale il cuore che guarda con con­
cupiscenza, falsando il dono della vista, concesso dal Creatore, nel far­
lo servire alle sue cattive azioni»22.
19Sulla verginità, 38.
n,
20 Cfr. G regorio di N issa , Vita di Mosè, 302.
21 Cfr. Mt 5,27. B asilio di A ncira , Sulla verginità, 13. G iovanni C risostomo , Commento
a san Matteo, XVII, 1. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VI, 12.
22Loc. cit.
163
Si può dire che il corpo nella sua totalità viene a trovarsi distolto
dalla sua finalità naturale sotto l’effetto della lussuria. Il corpo del­
l’uomo, ricordiamolo, è chiamato, come l’anima e con essa, a unirsi a
Dio per mezzo della virtù e ad essere santificato, deificato, glorificato,
e a manifestare fin da questo mondo la gloria di Dio e le primizie del
Regno per la presenza trasfigurante dello Spirito in lui. «Non sapete,
dice san Paolo, che il vostro corpo è santuario dello Spirito Santo che
è in voi, che avete da Dio? Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!»
(ICor 6,19-20). È chiaro, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, che
il corpo ha per finalità naturale, normale, quella di essere consacrato
a Dio, di glorificare Dio, e quella di essere pneumatoforo, proprio co­
me l’anima alla quale egli è unito. D’altra parte, affermando che «il
corpo non è per l’impudicizia» (ICor 6,13), san Paolo manifesta chia­
ramente che l’uomo ne fa un uso contro natura e anormale quando lo
affida a questa passione. Riducendo il proprio corpo a strumento di
piacere sessuale, l’uomo rinnega la sua dimensione spirituale e il suo
destino trascendente, disprezza l’immagine di Dio secondo cui è fat­
to, e diviene così «dimentico della natura umana»23. Profana ciò che
per natura è sacro e deiforme, egli «viola il tempio di Dio»24, fa del
tempio dello Spirito Santo e di un luogo di preghiera un covo di bri­
ganti, trasforma in meretrice (cfr. ICor 6,15)25 colui che con l’anima
è chiamato ad essere sposa del Cristo nella Chiesa e nel matrimonio
che è un’icona di questa26. L’uomo, nella lussuria, ignora la volontà
di Dio quanto all’uso del suo corpo (cfr. lTs 4,3-7): così «egli pecca
contro il proprio corpo» (ICor 6,18) e «disprezza Dio» stesso (lTs 4,8).
Per il fatto che la lussuria porta l’uomo a rinnegare la propria na­
tura e a rinnegare Colui che dà essere, senso e vita, essa può essere
considerata come una fonte di morte per tutto l’essere27.
Le precedenti considerazioni sul corpo, tuttavia, non debbono far­
ci dimenticare che esso non interviene sempre nella passione della lus­
suria, o non interviene frequentemente se non in secondo luogo. La
sessualità umana è psichica prima di essere fisica. «La cupidigia che si
compie nel corpo non viene dal corpo», fa notare Clemente d’Ales­
sandria28. Il corpo, molto spesso, è condotto a peccare partendo da un
23 G regorio di N issa , Vita diMosè, n, 302.
24 ORIGENE, Omelie sui Numeri, X, 1.
25 Ricordiamo che pomeia significa letteralmente «prostituzione».
26 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su Atti , XXVI, 4; Omelie sulla lettera ai Colossesi, VII,
5-6.
27 Cfr. Gc 1,14-15. Apoftegmi, serie alfabetica, M atoes, 8.
28Stromata, HI, 4.
164
desiderio che è nato nel cuore (cfr. Me 7,21) e si è sviluppato fino ad
implicare il passaggio all’atto fisico. La «cupidigia del cuore» sembra
contenere già in germe tutta la passione ed è persino capace di espri­
mere già pienamente questa (cfr. Mt 5,28)29. É se è vero che in alcuni
casi il desiderio può essere suscitato nell’anima da impulsi fìsici30, si
può considerare che è ancora l’anima che conserva l’iniziativa, nella
misura in cui essa dispone di un potere di accettare che questi im­
pulsi si sviluppino o, al contrario, di rifiutare di dar loro seguito31. Qua­
lunque ne sia la causa, occorre sottolineare che la passione della lus­
suria può esercitarsi nel pensiero32, per il godimento di rappresenta­
zioni, e più precisamente di immagini. «Come, scrive san Massimo, il
corpo ha per mondo le cose, così lo spirito ha per mondo il pensie­
ro. E come il corpo commette il peccato di fornicazione con il corpo
di una donna, così lo spirito pecca con la rappresentazione che si fa
della donna e del suo corpo, perché nell’immaginazione egli vede l’im­
magine del suo corpo unito all’immagine del corpo della donna [...].
All’azione, che il corpo esercita concretamente sul mondo delle cose,
corrisponde l’azione dello spirito sul mondo delle rappresentazioni»33.
Quando le sue rappresentazioni non sono fomite dai sensi o dalla me­
moria, esse possono essere forgiate dall’immaginazione sotto la spin­
ta del desiderio34. Questo può anche dar luogo, per la forza di un de­
siderio particolarmente potente, ma anche per una ispirazione diretta
dei demoni, a vere allucinazioni. Il demone della lussuria, fa notare
Evagrio, «fa dire all’anima certe parole e sentirne la risposta, proprio
come se l’oggetto fosse visibile e presente»35. Così la lussuria fa vive­
re colui in cui essa risiede in un mondo di spettri e di fantasmi36, lo im­
merge in un universo irreale, lo consegna al delirio e alle forze de­
moniache.
L’amore è apertura all’altro e libero dono di sé. Ciascuna delle
29 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), XXVI, 13.
30 Come abbiamo segnalato alla fine dello studio sulla gastrimargia, a proposito di alcuni
effetti di questa sulla vita dell’anima attraverso la mediazione del corpo. Vedi anche, in una pro­
spettiva più generale: ANTONIO L’EREMITA, Lettere, 1, 35-41. Apoftegmi, serie alfabetica, Anto­
nio, 22.
31 E questa una concezione classica dell’ascetica ortodossa, sulla quale ritorneremo.
32Vedi per esempio: Apoftegmi, N 178. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 116. NlCE-
TA Stetatos, Centurie, E , 17.
33 Centurie sulla carità, EI, 53.
34Cfr. EVAGRIO P onttco, Antirreticos. Raccolta di testi biblici contro i demoni tentatori, E, 21;
Trattato pratico sulla vita monastica, 8.
35 Trattato pratico sulla vita monastica, 8.
36Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XVE, 2.
165
due persone che questo unisce si dona all’altra e la riceve in cambio.
In questa comunione, ciascuno si arricchisce e s’illumina in tutta la di­
mensione del suo essere e fino all’infinità divina nella misura in cui,
come si è già detto, l’amore è alimentato dalla grazia e trova la sua fi­
nalità nel Regno. La lussuria, al contrario, è un atteggiamento filauti-
co, rivela un amore egoista di sé. Ripiega su se stesso colui che essa
possiede e lo chiude totalmente all’altro. Impedisce ogni scambio poi­
ché, sotto il suo influsso il passionale mira solo al proprio interesse,
non dà nulla all’altro e vuole ricevere unicamente da lui, ma questo
solo se risponde al suo desiderio passionale. Ciò che ottiene, egli lo
considera più come conclusione del proprio desiderio che come do­
no dell’altro: il passionale dona l’altro a se stesso; l’altro non è per lui
che un semplice intermediario tra sé e se stesso. La lussuria così im­
prigiona l’uomo nel suo io, più precisamente e ristrettamente, nel mon­
do confinato e chiuso della sua sessualità carnale, dei suoi istinti e
dei suoi fantasmi, e lo chiude totalmente ai mondi infiniti dell’amore
e dello spirito.
3) Quando la lussuria è godimento di una rappresentazione im
maginaria dell’altro, questi non esiste come persona o come prossimo,
ma come oggetto fantasmatico, concepito per proiezione dei deside­
ri del passionale. Una tale visione dell’altro non può mancare di aver
qualche incidenza sul modo in cui il passionale potrà considerare nel­
la realtà gli esseri concreti che corrispondono alla sua passione. Vi sarà
inevitabilmente una sovrapposizione dell’immaginario sul reale, che
opera una visione di questo modificata da quello.
Ma la visione dell’altro nella realtà non è solo falsata attraverso un
immaginario che lo avrebbe preceduto. Quando la passione si eser­
cita in una relazione diretta a una persona concreta e presente, essa
opera una riduzione di quest’ultima. L’altro, nella lussuria, non è in­
contrato come persona, non è colto nella sua dimensione spirituale,
nella sua realtà fondamentale di creatura immagine di Dio: viene ri­
dotto a ciò che, nella sua apparenza esteriore, può rispondere al de­
siderio di godimento del passionale; per costui diviene un semplice
strumento di piacere, un oggetto. In alcuni casi, addirittura, la sua in­
teriorità è negata come tutta la dimensione del suo essere che trascende
il piano sessuale, quella in particolare della coscienza, dell’affettività
superiore e della volontà. Il passionale, d’altra parte, ignora la libertà
dell’altro nella misura in cui non mira che alla soddisfazione del pro­
prio desiderio, che si presenta spesso come una necessità assoluta che
166
ignora il desiderio dell’altro. L’altro, in conseguenza di tutto questo,
non è più riconosciuto, né rispettato nella sua alterità né nel caratte­
re unico della sua realtà personale, che possono rivelarsi solo nell’e­
spressione della sua libertà e nella manifestazione delle sfere superio­
ri del suo essere. Ridotti dalla lussuria alla dimensione generica e
animale di una sessualità carnale, in realtà, gli esseri umani divengono
praticamente intercambiabili come oggetti.
Appare così che sotto l’effetto della lussuria, l’uomo veda il pros­
simo come non è e non lo veda come è. In altre parole, acquisisce una
visione delirante di coloro che la sua passione gli fa incontrare. Allo­
ra tutti i suoi rapporti con essi sono completamente pervertiti.
Il carattere patologico e patogeno della lussuria d è sufficientemente
chiaro, a diversi livelli, perché possiamo ben comprendere come i Pa­
dri la qualifichino frequentemente come malattia e vedano in essa una
forma di follia.
«La concupiscenza è una malattia dell’anima (epithymia nósos estì
psychès)», scrive san Basilio ricordando in particolare quella che è al­
l’opera in questa passione37. «È malato (aegrum) e ferito (saucium) dal­
la passione, il cuore che guarda con concupiscenza (concupiscentia)»,
scrive san Giovanni Cassiano38, che altrove definisce la stessa passio­
ne «malattia perniciosa {languori» o «malattia {morbus)» semplice-
mente40, e parla dello spirito reso malato {mens aegra) dai suoi colpi41.
Per descrivere questa passione, san Gregorio di Nissa parla di «ma­
lattia del piacere {nósos tès èdonès)»42. San Giovanni Crisostomo che
la definisce, come san Giovanni Cassiano, «malattia perniciosa»43, d’al­
tra parte afferma: «È una oftalmia tanto cattiva come la lussuria; af­
fezione non degli occhi del corpo, ma degli occhi dell’anima»44.
La lussuria è molto spesso considerata anche come una forma di
follia. San Basilio vede nelle manifestazioni di questa passione «le ope­
re di un’anima frenetica e smarrita»45, e san Giovanni Climaco scri­

37Lettere CCCLXVI.
38Istituzioni cenobitiche, VI, 12.
” Ibid.
40Ibid..
41 Ibid,., VI, 3,1; 16.
42 Vita di Mosè, II, 301.
43 Omelie su 2 Corinzi, VIE, 6.
44 Omelie sulla penitenza, VI, 2. Sulla lussuria considerata come una malattia, vedi anche NlCE-
TA Stetatos, Centurie, E, 17.
45 Omelia: Non bisogna attaccarsi alle cose di questo secolo, 4, PG 31, 548.
167
ve: «Colui che ne è colpito [...] sembra aver perso la ragione e sem­
brerebbe fuori di sé, perpetuamente inebriato di desiderio per le crea­
ture»46. Lo stesso dice anche: «Il demone della lussuria spesso oscura
a tal punto la ragione che dovrebbe regnare sulle nostre azioni, che
ci persuade di fare alla presenza degli uomini stessi ciò che potreb­
bero fare dei folli e insensati»47. San Giovanni Crisostomo si preoc­
cupa di dimostrare come questa passione sconvolge la ragione del­
l’uomo, oscura, agita, devasta e ossessiona la sua anima: «Come le nu­
vole e la nebbia avvolgono gli occhi del corpo, così quando la passione
impura s’impadronisce dell’anima, le toglie la facoltà di prevedere, non
le permette di vedere nulla al di là dell’oggetto presente [...]; ma ti­
ranneggiata da queste tentazioni, l’anima è facilmente soggiogata dal
peccato; [...] essa non ha più che un solo oggetto davanti agli occhi,
nello spirito, nel pensiero [...]. E come i ciechi, in piedi, all’aria aper­
ta e a mezzogiorno, non ricevono affatto la luce del sole, poiché i lo­
ro occhi sono chiusi, così gli sventurati in preda a questa malattia chiu­
dono i loro orecchi ai numerosi e salutari insegnamenti che risuonano
intorno a essi»48. Lo stesso santo, in un altro punto, definisce la vo­
luttà, presa di mira dalla lussuria, «madre della follia»49.
Gli insegnamenti patristici sulla lussuria mettono in risalto, come si
è già potuto notare nei brani presentati sopra, tre principali effetti pa­
tologici di questa passione:
1) Un turbamento ed una agitazione dell’anima che accompagna­
no il suo esercizio dalla nascita del desiderio fino all’appagamento di
questo.
2) Un’inquietudine che accompagna la passione fin dall’inizio, nel­
la ricerca del suo oggetto e nell’elaborazione dei mezzi che permet­
tono di raggiungerlo (con quanto ciò implica specialmente d’incer­
tezza, di attesa ansiosa o di paura di mancarlo)50. E vi è anche inquie­
tudine, che segue la soddisfazione, del desiderio51. Il piacere scompare
quasi subito dopo che è apparso e lascia nell’anima un gusto tanto più
amaro quanto più l’uomo ne aveva fatto un assoluto e ne attendeva
una soddisfazione piena e totale. Il passionale prova, allora, un senti­
46La Scala, XV, 25.
47 Ibid., 83.
48 Omelie su 1 Corinzi, XI, 4. Cfr. 3.
49 Trattato della compunzione, I, 7.
50Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su 1 Corinzi, XXXVII, 4.
51 Ibid.
168
mento di frustrazione accompagnato da ansietà e, talvolta, anche da
angoscia. Rinnovando il piacere, sotto l’effetto della sua passione, egli
crede di poter rimediare a questo stato di sofferenza. Così il deside­
rio, appena soddisfatto, nasce di nuovo con la sua parte d’inquietudi­
ne. Questa inquietudine è tanto più grande quanto più l’esercizio del­
la passione trattiene e rafforza la potenza del desiderio che l’esprime,
nello stesso tempo che accresce l’importanza concessa al piacere;
tutto ciò rende più dolorose, da un lato, le difficoltà inevitabilmente
incontrate a rinnovare la soddisfazione del desiderio tante volte quan­
te la passione esige, e dall’altro lato, la delusione che risulta dal diva­
rio tra ciò che il passionale attende dal piacere e ciò che questo ap­
porta in realtà52.
3) Un oscuramento dello spirito, dell’intelligenza, della coscie
za53e una perdita di giudizio54.
Oltre a questi tre principali effetti, tale passione ha come conseguenza
l’intorpidimento dello spirito55 e l’appesantimento dell’anima56. Essa
esercita su colui che essa possiede una vera tirannia57, più di tutte le al­
tre passioni, in ragione della sua straordinaria potenza. «Tra le nume­
rose passioni che assediano il cuore umano, non ve ne è alcuna che ab­
bia contro di noi una forza paragonabile a quella della frenesia della
voluttà», scrive san Gregorio di Nissa58. Per questo motivo, essa è
«un nemico difficile da combattere e da respingere»59, ma lo è anche
a causa della sorprendente rapidità d’azione del demone che l’ispira60.
Come tutte le altre passioni, essa distrugge le virtù61. Correlativa­
mente, genera nell’anima ogni sorta di atteggiamenti viziosi e in parti­
colare l’assenza di timore di Dio62, l’orrore della preghiera65, l’amore di
sé64, l’insensibilità65, l’attaccamento a questo mondo66, la disperazione67.
52 Su tutto questo vedi ibid., XXXVII, 3-4; Omelie su 1 Timoteo, II, 3.
53Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 83. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XXXI,
45. G iovanni C risostomo , Omelie su 1 Corinzi, XI, 4. N iceta Stetatos, Centurie, E, 17.
54 Cfr. G regorio M agno , loc. cit.
55 Cfr. G iovanni C risostomo , Trattato della compunzione, E, 3.
56Ibid.
57 G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XVE, 1; Omelie su 1 Corinzi, XI, 4.
58 Vita di Mosè, E, 301.
59Ibid.
60 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 51; La preghiera, 90.
61 Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXI, 12.
62 G iovanni C limaco , La Scala, XV, 25.
63Ibid.
64 G regorio M agno , loc. cit.
65 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 25.
66G regorio M a g n o , loc. cit.
67 Ibid.
169
Notiamo, per terminare, che la passione della lussuria è favorita nel­
la sua nascita, nella sua sussistenza o nel suo sviluppo, principalmen­
te da tre tipi di comportamenti passionali: l’orgoglio68e la vanagloria69;
il giudizio del prossimo70; l’abbondanza di nutrimento71 e di sonno72.

68Apoftegmi, N 592/24. CIRILLO DI SCITOPOLI, Vita di Sabba, XLIX (139). GIOVANNI C u -


MACO, La Scala, XV, 53. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VI, 1,18. ISACCO IL Smo,
Discorsi ascetici, 34.
69 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 79. Apoftegmi, loc. cit.
70 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 53. Apoftegmi, loc. cit. B arsanufio , Lettere, 240.
711 riferimenti sono stati dati nel capitolo precedente.
72Apoftegmi, N 592/24.
170
V
LA FILARGIRIA E LA PLEONESSIA

La filargiria (philargyria) indica, in modo generale, un attaccamen­


to al denaro e alle diverse forme di ricchezza materiale. Tale attacca­
mento si manifesta nel godimento provato nel possederli, nella preoc­
cupazione di conservarli, nella difficoltà che si prova nel separarse­
ne, nella pena che si sente nel donare1.
Quanto alla pleonessia (pleonexta), consiste essenzialmente nella vo­
lontà di acquisire nuovi beni, nel desiderio di possederne di più. Men­
tre abitualmente si traduce il termine philargyria con «avarizia» (que­
sta nozione dev’essere intesa in un senso più ampio di quello che l’u­
so corrente gli conferisce nella lingua attuale), si rende generalmente
pleonexta con «avidità», «invidia», «bramosia», «cupidigia».
Pur rappresentando due atteggiamenti passionali differenti, la fi­
largiria e la pleonessia possono essere studiate insieme nella misura in
cui, da un lato, procedono tutte e due dallo stesso attaccamento pas­
sionale ai beni materiali e, dall’altro, in realtà spesso vanno di pari pas­
so, poiché l’una implica l’altra2.
Qui s’impone un’osservazione analoga a quella fatta nei capitoli pre­
cedenti: ciò che è in causa in queste passioni non sono né il denaro né
i beni materiali in se stessi, ma l’atteggiamento perverso dell’uomo nei
loro confronti. La finalità del denaro e dei beni materiali è quella di
essere usati dall’uomo per soddisfare i bisogni relativi alla sua sussi­
stenza. L’avido e l’avaro non rispettano questa finalità e adottano nei
lóro riguardi un atteggiamento patologico conferendo loro valore per
se stessi anziché attribuire loro un valore utilitario, e godendo non del
loro uso ma del loro possesso3. Anche san Massimo sottolinea, a tale

1 Cfr. M assimo i l Confessore, Centurie sulla carità, HI, 17-18.


2Ibid., 18.
3Su quest’ultimo aspetto, vedi GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXXX3II,
2. B asilio di C esarea, Omelie contro i ricchi, VII, 2.
171
proposito, che «nulla è cattivo tra le creature di Dio»4, che la passio­
ne è dovuta al cattivo uso che facciamo delle potenze della nostra ani­
ma5, e, nella circostanza, dalla facoltà concupiscibile6. Così, scrive san
Massimo, dò che è un male, «non sono le ricchezze, ma l’avarizia [...].
Nulla, di ciò che è, è cattivo, ma solo il cattivo uso (paràchrèsis), in se­
guito alla negligenza dd nostro spirito nd coltivarsi secondo la natura»7.
È questo cattivo uso della facoltà concupisdbile, ma anche di tutte
le altre facoltà che esse implicano, che costituisce fondamentalmente
il carattere patologico della filargiria e della pleonessia.
Ma questo cattivo uso non si definisce solo rdativamente ai beni
materiali. Si definisce, più fondamentalmente, in rdazione a Dio, e im­
plica anche le rdazioni dell’uomo con se stesso e con il prossimo.
Mentre nd suo stato originario l’uomo investiva totalmente il suo
desiderio in Dio e s’impegnava a conservare le ricchezze spirituali da
lui ricevute e ad acquisirne di nuove, conformandosi in tutto questo
alla finalità naturale della sua facoltà concupiscibile, in queste pas­
sioni egli allontana il suo desiderio da questa finalità normale per ri-
vorgerlo verso i soli beni materiali, e ne usa contro natura per acqui­
sirli e conservarli. L’amore di Dio e l’attaccamento ai beni spirituali,
da un lato, l’amore per il denaro e l’attaccamento ai beni materiali, dal­
l’altro, si fondano sulla stessa facoltà concupiscibile dell’uomo: ecco
perché sono incompatibili e si esdudono l’un l’altro, come d dice lo
stesso Cristo: «Nessuno può servire a due padroni; poiché od odierà
l’uno e amerà l’altro, oppure preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non
potete servire Dio e mammona» {Le 16,13; Mt 6,24). L’uomo si al­
lontana tanto più da Dio quanto più si attacca al denaro e si mostra
avido di ricchezze materiali, «questo amore, vittorioso su ogni altro
amore, scacda dall’anima ogni altro desiderio», come annota san Gio­
vanni Crisostomo8. San Niceta Stetatos a questo riguardo scrive: la
filargiria «indta gli uomini a preferire l’amore dd denaro all’amore dd
Cristo, essa pone il Creatore della materia più in basso della stessa ma­
teria, persuade ad adorare questa piuttosto che Dio»9. «Se ti piace es­
sere amico di Cristo, disprezzerai, dunque, l’oro e la sua cupidigia. Di-
4 Centurie sulla carità, III, 3.
5Ibid.
6Ibid., 4.
7 Ibid.
8Discorso: A colui che non nuoce a se stesso...
9 Centurie, II, 55.
172
fatti essa volge verso se stessa il pensiero di colui che ama, e lo sottrae
al dolcissimo amore di Gesù»10.
È così che nella vita dell’avaro e dell’avido, il denaro e le diverse
forme di ricchezza occupano il posto dovuto a Dio e divengono per
essi veri idoli. «La cupidigia è una idolatria», «il cupido è un idolatra»,
afferma san Paolo (cfr. Col3,5; E/5,5), e sulla sua scia i Padri11. Co­
lui che è vittima di queste passioni, certo, non si rende conto del suo
atteggiamento idolatrico, e se è vero che da un punto di vista esterio­
re e formale non adora le ricchezze come gli idolatri adorano i loro
idoli nel quadro di un culto costituito, in fondo egli ha lo stesso at­
teggiamento12: infatti concede loro la stessa importanza, ossia la stes­
sa sacralità, dà prova nei loro riguardi della stessa attenzione, porta lo­
ro lo stesso rispetto, manifesta la stessa venerazione, e anche se non
offre loro sacrifìci materiali, consacra loro molto di più spendendo per
esse ogni sua energia, tutte le sue forze e tutto il suo tempo; immola
loro la sua anima13.
La filargiria e la pleonessia, anche se non sono sufficientemente svi­
luppate da escludere totalmente Dio, rivelano una mancanza di fede
e di speranza in lui. Da un lato, nel suo atteggiamento, l’uomo dimo­
stra che «egli spera più nel suo denaro che in Dio»14e si preoccupa di
acquisire beni fidandosi solo di se stesso, mentre Dio ne provvede a
coloro che chiedono con fede (cfr. Mt 6,31-34). D’altra parte, l’uo­
mo pretende con questo di prevedere e assicurare, quindi in qualche
modo di dominare un futuro che, in realtà, non gli appartiene, ed ela­
bora progetti vani anziché rimettersi completamente alla volontà di­
vina (cfr. Le 12,16-21). Allora cessa di vedere in Dio il suo unico soc­
corritore e, di conseguenza, non invoca il suo aiuto; e, per un altro ver­
so, si dà un’illusoria impressione d’indipendenza e di dominio assoluto
della sua esistenza. Così egli si separa da Dio.
Il carattere patologico della filargiria e della pleonessia si manifesta
anche e, di conseguenza, nei rapporti dell’uomo con se stesso. Sotto­
messo da queste due passioni, egli manca della più elementare carità
riguardo a se stesso. Egli, infatti, preferisce il denaro e le ricchezze ma-
mIbid., 56.
11 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VII, 7 ,5 . GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XVI,
2. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 55.
12 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, LXV, 3.
n Ibid.
14 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, m , 18.

173
teriali alla propria anima15. Preoccupato di conservare i beni che sono
in suo possesso e di acquisirne di nuovi, non si prende nessuna cura
di questa e non si preoccupa della sua salvezza. Egli trascura, afferma
san Giovanni Cassiano, «la figura e l’immagine di Dio che dovrebbe
conservare immacolata in se stesso nel rendere culto a Dio»16: «Non
si può infatti amare nello stesso tempo la propria anima e il denaro»17.
Impegnato ad accrescere e custodire una ricchezza materiale, non può
sviluppare le sue potenzialità spirituali e realizzare la pienezza della
sua natura, e conservare così se stesso rinchiuso nei limiti del mondo
decaduto. Quand’anche egli creda di arricchirsi veramente, di con­
quistare la sua libertà e assicurarsi da vivere ammassando tesori sulla
terra (cfr. Mt 6,19), egli inchioda e cede a questo mondo e alla «car­
ne» tutto il suo essere e la sua esistenza, perché là dove è il tesoro del­
l’uomo, là è il suo cuore (cfr. Mt 6,21). Egli così volge le spalle alle uni­
che vere ricchezze (cfr. Mt 6,20) che provengono da Dio, si priva dei
tesori e della vita del Regno (¿bid.), votandosi infatti alla povertà spi­
rituale e perdendo la sua vita invece di guadagnarla (cfr. Mt 16,25).
Anche quando pensa di trovare la gioia nel piacere che prova nel-
l’acquisire e possedere, egli si condanna all’insoddisfazione e, alla fi­
ne, all’infelicità, perché questo piacere è instabile, imperfetto, passeg­
gero e presto o tardi avrà fine (cfr. Mt 6,19; Le 12,16-20); ma soprat­
tutto tale piacere prende il posto delle gioie spirituali, incompara­
bilmente superiori e le sole in grado di soddisfare pienamente l’uomo,
che per contro è privato della beatitudine eterna.
Appare così chiaramente che, a causa della fQargiria e della pleo-
nessia, l’uomo, come dice san Giovanni Crisostomo, in diversi modi
si rende «nemico di se stesso»18.
Ma sono anche le relazioni dell’uomo con il suo prossimo ad esse­
re gravemente sconvolte da queste due passioni.
Secondo i Padri, l’acquisto delle ricchezze avviene sempre a scapi­
to degli altri19. Colui che possiede le ricchezze «s’appropria beni che
15 G iovan ni C risostom o, Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5.
16Istituzioni cenobitiche, VE, 7, 6.
17 G iovan ni C risostom o, Omelie sulla 1 Corinzi, XXHI, 6.
18Commento a san Matteo, LXXX, 4.
19Cfr. A mbrogio DI M ilano , Nabot il povero, 2; 56. GREOGORIO DI NiSSA, Sulla verginità,
IV, 1. BASILIO DI C esarea , Omelie contro la ricchezza, VI, 7; Omelie contro i ricchi, VII, 5.
G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XV, 19. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo
4,2. Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, IX, 101-102; 206-213.
174
non gli appartengono affatto»20 e priva il suo prossimo del denaro o
delle cose che egli possiede più di lui21. Così san Giovanni Crisostomo
può proclamare che «i ricchi e gli avari sono in un certo senso dei la­
dri»22, e san Basilio li considera senza mezzi termini come depreda­
tori e usurpatori23. In realtà, tutti gli uomini sono uguali: hanno tutti
la stessa natura, tutti sono fatti a immagine di Dio, tutti sono salvati
dal Cristo24. Il Creatore ha dato i beni di questo mondo in parti ugua­
li a tutti gli uomini, senza alcuna eccezione, affinché essi ne godano
tutti in ugual modo25. Il fatto che alcuni acquistino e possiedano più
di altri va contro l’uguaglianza voluta da Dio nella ripartizione dei be­
ni, e instaura uno stato anti-naturale e anormale. Un tale stato non esi­
steva all’origine26; è comparso come conseguenza del peccato origina­
le27; si è conservato e sviluppato grazie alle passioni e, in particolare, a
quelle della filargiria e della pleonessia28. In verità, tutti possono usa­
re e godere delle cose, ma «non tutti possono esserne proprietari»29.
«Occorre usare la ricchezza nell’amministrazione e non nel godi­
mento», scrive san Basilio30.
La ricchezza, sottolineano i Padri, è destinata ad essere condivisa,
ripartita equamente31. L’avaro e l’avido non rispettano questa fina­
lità, il primo nel cercare e accumulare i beni in vista del suo godimento
ionicamente personale, il secondo nel conservare egoisticamente il de­
naro. Tutti e due, così facendo, «trasgrediscono il limite normale»32,
perché pensano più a se stessi che al prossimo33 e contravvengono al
precetto fondamentale della carità: «Amerai il prossimo tuo come te
stesso»34. «È impossibile, scrive Evagrio, che la carità coesista in qual-
20 G regorio di N issa, Sulla verginità, IV, 3.
21 Ibid., 1. Cfr. anche GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla 1 Corinzi, XX IX, 8.
22 Omelie su Lazzaro, 1. Cfr. Omelie sulla 1 Corinzi, X, 4.
23 Omelie contro i ricchi, V E , 5; Omelie contro la ricchezza, VI, 5.
24 G regorio di N azianzo , Discorsi, XIV.
25 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo IV, 2. A m brogio di M ila n o , Nabot il
povero, 2. GREGORIO DI NAZIANZO, loc. cit. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, IX, 92ss.
26Cfr. G regorio di N azianzo , he. cit.
27Ibid.
2*Ibid.
29 S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, IX, 95-97.
30 Omelie contro i ricchi, VE, 3. Cfr. GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, XXVI, 11.
31Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla Genesi, XXXV, 5. Per questo motivo i Padri con­
tinuano a invitare i ricchi a condividere le loro ricchezze, vedi per esempio: GREGORIO DI N a -
ZIANZO, Discorsi, XTV, 26. GREGORIO DI N issa , Sullamore dei poveri, I, 7. BASILIO DI CESAREA,
Omelie contro i ricchi, VII, 3. MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, V.
32B asilio di C esarea, Regole brevi, 48.
33Ibid. Vedi anche MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, V. NlCETA STETATOS, Centurie, 1, 14.
34 Cfr. B asilio di C esarea, Regole brevi, 48. N iceta Stetatos, Centurie, 1, 14.
175
cuno con le ricchezze»35. L’avaro e l’avido, mirando permanente-
mente a un godimento egoistico non hanno più in vista il prossimo,
cessano di considerarlo come un loro pari e un fratello. Essi rigettano
colui che condivide la loro natura, nota sant’Ambrogio36; escludono e
frustrano il loro prossimo della dignità che Dio gli conferisce e gli ri­
fiutano il rango di loro associato, sottolinea san Giovanni Crisostomo57.
La filargiria e la pleonessia distruggono anche la carità, sconvolgo­
no le relazioni con gli altri e conducono colui che da esse è abitato a
non vedere altro nel prossimo se non un ostacolo alla conservazione
delle ricchezze possedute o un mezzo per acquisirne di nuove. Ecco
perché san Giovanni Crisostomo sottolinea che «la filargiria ci attira
l’odio universale» e «ci fa detestare da tutti, dalle vittime dell’ingiu­
stizia e da quelli stessi che le nostre ingiustizie non hanno calpesta­
to»38. Il filargiro suscita l’odio, ma è egli stesso, sotto l’effetto della sua
passione, ad essere pieno di odio nei riguardi degli altri. Quando
non generano l’insensibilità di fronte al prossimo39, la filargiria e la
pleonessia generano l’avversione per gli altri uomini40e rendono an­
che colui che esse possiedono impietoso41e crudele42. Esse provocano
continuamente contestazioni e dispute43. «Nelle ricchezze, sottolinea
san Giovanni Crisostomo, vi sono solo motivi d’afflizione, divisioni,
liti, trappole, odii, paure»44. E la filargiria, scrive san Giovanni Clima-
co, «che produce gli odii, le invidie, i risentimenti, le ingiurie, le cru­
deltà e gli omicidi»45. Questa passione è anche fonte di guerre46. Quan­
to alla pleonessia, san Gregorio di Nissa fa notare che essa scatena
«o la collera contro i propri pari, o il disprezzo degli inferiori, o l’in­
vidia di ciò che ci supera; ora l’invidia si accompagna all’ipocrisia, que­
sta all’asprezza, quest’ultima alla misantropia»47. Filargiria e pleones­
sia possono giungere a rendere l’uomo completamente crudele48 e a
35 Trattato pratico sulla vita monastica, 18.
36Nabot il povero, 2.
37 Commento al Salmo 4,2.
38 Omelie sulla lettera aiFilippesi, XTV, 2. Cfr. Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4.
39Cfr. NlCETA STETATOS, Lettere, IV, 6.
40Vedi infra.
41 G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXXXHI, 2.
42 NlCETA STETATOS, Lettere, IV, 6.
43 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 22.
44 Commento a san Matteo, LXXXIII, 3.
45 Loc. cit., 24.
46Cfr. B asilio di C esarea, Omelie contro i ricchi, VII, 7. E sichio di Batos, Capitoli sulla vi­
gilanza, 59.
47Sulla verginità, IV, 5.
48 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
176
farlo somigliare a un animale selvaggio e feroce49. In coloro che da que­
ste passioni si lasciano profondamente invadere «tutto accade come
se essi cambiassero natura, perdendo tutti i tratti della loro specie per
mutarsi in mostri», scrive san Gregorio di Nissa50.
Per tutti questi motivi, i Padri affermano che la filargiria e la pleo-
nessia costituiscono vere e proprie malattie dell’anima51.
Essi insistono sul fatto che ciascuna, già grave in se stessa fin dal­
l’origine, diviene particolarmente temibile perché quasi incurabile se
la lasciamo svilupparsi e radicarsi in noi: «Se non blocchiamo questa
passione fin dall’inizio, una volta entrata, essa ci darà una malattia che
non potrà più guarire», avverte san Giovanni Crisostomo52. San Gio­
vanni Cassiano afferma alla stessa maniera: «Se per negligenza, le si è
concesso di entrare una volta nel cuore, essa diviene più pericolosa
delle altre malattie e più difficile da respingere»53. San Nilo Sorsky in­
segna la stessa cosa: «Se questa malattia si radica in noi, allora essa è
peggiore di tutte le altre»54.
Tutti, concordemente, i Padri non esitano a vedere in queste due
passioni forme di follia55.
Filargiria e pleonessia hanno come caratteristica fondamentale quel­
la di essere insaziabili; questo permette di comprendere una parte im­
portante della loro patogenia. I Padri frequentemente mostrano che
queste passioni comportano una tendenza a svilupparsi sempre più,
che non conoscono mai uno scopo definitivo, e che esse non sono mai
appagate dagli oggetti ai quali si attaccano. Il desiderio che le sotten­
49 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4; Commento a san Matteo, XX-
VHI, 5; Commento a san Giovanni, LXV, 3; Discorso: A chi non nuoce...
50Sullamore dei poveri, 2.
51 Cfr. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, IX, 6; LE, 6; Omelie sul tradimen­
to di Giuda\ Omelie sulla 1 Corinzi, XI, 4; Discorso: A chi non nuoce... («Questa grave malat­
tia, [...] questa malattia che rigetta ogni rimedio e attacca tutte le anime»); Commento a san Gio­
vanni:, LXV, 3; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5; 6. BASILIO DI CESAREA, Lettere, CLXXXVIII,
14; Omelie contro le ricchezze, VI, 2. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VII, 2,14; Con­
ferenze, IX, 5. G iovan n i C lim aco, La Scala, XVI, 1. N ic e ta S te ta to s, Centurie, II, 55. N il
Sorsky, Regola, V.
52 Omelie sulla 1 Corinzi, XI, 4.
53Istituzioni cenobitiche, VE, 2.
54Regola, V.
55Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Consolazioni a Stagira, II, 3; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5;
Commento a san Matteo, LII, 6; LXXXI, 3-4; Discorso: A chi non nuoce... ; SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Catechesi, IX, 227. T eodoreto DI CIRO, Discorso sulla Provvidenza, VI, PG 83,656CD.
ANDREA DI C reta, Grande canone penitenziale. BASILIO DI CESAREA, Omelie contro i ricchi, VII,
3; Omelie sul Salmo 14, II, 3.
177
de, non solo si esercita indefinitamente, ma si accresce sempre più a
misura della sua manifestazione e della sua realizzazione56. Per san Gio­
vanni Crisostomo, filargiria e pleonessia sono ima «bulimia dell’ani­
ma»: «Non vi è, egli scrive, malattia più crudele di questa fame in­
cessante che i medici chiamano bulimia; pur mangiando a iosa, nulla
viene a calmarla. Trasportate una tale malattia del corpo all’anima; co­
sa c’è di più spaventoso? Ora la bulimia dell’anima è l’avarizia; più
s’ingozza di alimenti, più essa desidera. Essa estende sempre più i suoi
desideri al di là di quanto essa possiede»57. Tale insaziabilità raggiun­
ge, tra l’altro, sia i poveri che i ricchi58. Sottomessi a questa passione,
i poveri invidiano i ricchi, ma i ricchi invidiano quelli che sono anco­
ra più ricchi di loro, perché, come osserva sant’Ambrogio, «ogni es­
sere che possiede in abbondanza si ritiene sempre troppo povero»59.
In questajnsaziaBwtà si rivela il carattere tirannico della filargiria e
della pleonessia che rendono l’uomo schiavo dei beni che possiede60,
lo legano alle ricchezze che egli possiede o brama, lo trascinano in una
corsa senza fine alla ricerca di nuove acquisizioni, subordinando tut­
te le sue facoltà ai loro scopi e ai loro oggetti61e l’assoggettano al de­
monio più di tutte le altre passioni62. Filargiria e pleonessia privano
l’uomo della sua libertà, letteralmente lo alienano.
Il desiderio sempre inappagato di possedere di più, ma anche quel­
lo di conservare ciò che si ha, provocano nell’anima, per tutte le ra­
gioni ricordate sopra, un turbinio continuo, disagi e sconvolgimenti
permanenti. Per coloro che sono colpiti dalla filargiria e dalla pleo­
nessia, «non c’è mai tranquillità, mai sicurezza per l’anima [...]; né la
notte né il giorno porta loro l’acquietamento [...]; essi sono tormen­
tati da ogni parte», afferma san Giovanni Crisostomo63.
La filargiria e la pleonessia, prima di tutto, generano nell’anima uno
stato di paura, di ansia e persino d’angoscia. San Gregorio Magno de­
scrive così lo stato interiore dell’avaro e dell’avido: «Quando egli ha
56 Cfr. G r e g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XV, 19. G iovan ni C risostom o, Omelie sul-
la Genesi, XXII. BASILIO DI CESAREA, Omelie contro la ricchezza, VI, 5; Omelie contro i ricchi,
VE, 5. A mbrogio di M ilano , Nabot il povero, 50; 4.
57 Omelie sulla 2 Timoteo, VII, 2.
58Cfr. G iovanni C risostomo , Discorso: A chi non nuoce...
59Nabot il povero, 50.
60«Gli avari sono schiavi dei loro beni», osserva Giovanni Crisostomo {Commento a san Mat­
teo,, LXXXHI, 3).
61 Cfr. per esempio GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VII, 24.
62Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XHI, 4. G iovanni C limaco, La Sca­
la, XVI, 1.
63 Commento al Salmo 142, 4. Cfr. Commento a san Matteo, LXXXHI, 3.
178
abbracciato un mucchio di cose nella sua avarizia, la sua stessa con­
gestione lo opprime. Quando la sua unica ansia è quella di cercare e
conservare ciò che ha accumulato, questa sazietà lo angoscia. Il primo
dolore che egli prova è il fastidio per tutte le domande che gli pone
il suo desiderio smodato: come ottenere ciò che si augura? [...]. Una
volta poi soddisfatti questi desideri, insorge un altro dolore: l’inquie­
tudine di preservare tutto ciò che con tanta pena egli ha acquisito64.
Egli è, dunque, esattamente oppresso da ogni sorta di dolori che so­
no per quaggiù il castigo della sua cupidigia e la preoccupazione di
conservare ciò che possiede»65. San Giovanni Crisostomo descrive
allo stesso modo gli uomini sottomessi a queste passioni: «Essi sono
sempre nell’agitazione e la loro anima non ha riposo. La premura di
possedere ciò che ancora non hanno fa che considerino nulla quello
che hanno già. Da un lato, tramano nell’apprensione di perdere ciò
che già hanno accumulato e, dall’altro, lavorano per possedere altre
cose, il che vuol dire nuovi motivi di paura»66. L’ansia dell’avaro può
anche dipendere dalla costante volontà di acquistare o di vendere a
miglior prezzo, dalla convinzione di aver fatto cattivi affari, dalla pau­
ra di non veder stimare ciò che possiede al prezzo che egli gli attri­
buisce... Essa può evidentemente anche essere conseguente alla per­
dita involontaria dei beni ai quali egli è attaccato.
All’ansia si aggiunge un altro effetto patologico fondamentale: la tri­
stezza, lo stato depressivo dell’anima. Questo stato risulta molto spes­
so dalla frustrazione del desiderio di possedere di più, dal sentimento
relativo di non avere abbastanza, o anche dall’idea che si rischia di per­
dere ciò che si possiede, come dall’effettiva perdita delle cose. Poiché,
lo abbiamo visto, il desiderio di acquisire non conosce mai una sod­
disfazione definitiva, la tristezza legata al suo inappagamento è con­
tinua, così come quella che prova l’avaro quando teme di essere spo­
gliato, nella misura in cui il rischio di perdere ciò che possiede è per­
manente. Così, scrive san Giovanni Climaco, «come il mare non è mai
senza flutti e senza onde, allo stesso modo l’avaro non è mai senza tri­
stezza»67.
Così in modo generale, il ricco è lontano dal trarre dalle cose che
possiede tutto il potere che si potrebbe credere. «Dov’è il piacere e
64 «Il ricco, anche quando non sperimenta alcuna perdita, ha paura di sperimentarla», os­
serva nello stesso senso Giovanni Crisostomo (Omelie sulla lettera ai Romani, XXIV, 4).
65Moralia su Giobbe, XV, 19.
66 Commento a san Matteo, LXXXI, 4.
61La Scala, XVI, 21.
179
il riposo dello spirito che si trova nelle/ricchezze?», si chiede san Gio­
vanni Crisostomo. «Per me, egli risponde, vi confesso che io vi trovo
solo motivi d’afflizione e di miseria!...] e un dispiacere che non dà af­
fatto riposo»68. L’avaro, egli constata altrove, «è tutti i giorni schiac­
ciato da nuove inquietudini e protesta che la vita gli è pesante»69. Egli
è «incapace di godere di ciò che ama». «Non solo gli avari si privano
della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piaci­
mento, ma anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre
sete: vi può essere qualcosa di più penoso?»70. «L’attaccamento che
[i filargiri] hanno per le loro ricchezze, egli afferma, non è la prova
della soddisfazione che essi provano, ma della malattia e della srego­
latezza del loro spirito»71.
L’ansia e la tristezza dell’avaro possono chiaramente tradursi in una
patologia a un tempo somatica e psichica72.
La fQargiria e la pleonessia generano e manifestano anche altri di­
sturbi, di cui alcuni in particolare colpiscono la visione che l’uomo ha
della realtà e delle relazioni che egli intrattiene con questa.
La filargiria, come tutte le altre passioni, ottenebra l’anima e oscu­
ra l’intelligenza73. «L’avaro vive nelle tenebre e diffonde una spessa
notte sul mondo [che egli vede]»74; per lui, «la visione dell’anima è
spenta», constata san Giovanni Crisostomo75, che afferma anche: «L’a­
varizia è un terribile flagello: chiude gli occhi, tappa le orecchie di co­
lui che ne è posseduto»76. Di conseguenza, l’avaro ha una visione
della realtà totalmente falsata: «L’avarizia è una specie di notte che
oscura tutte le cose, o piuttosto le fa vedere diverse da come sono», fa
ancora notare san Giovanni Crisostomo77, che altrove afferma che la
filargiria genera «il delirio»78.
Questa visione delirante della realtà si manifesta, in primo luogo,
nel modo di considerare il prossimo. Quest’ultimo, infatti, cessa di es­
sere percepito nella sua vera realtà di persona a immagine di Dio,
per essere considerato esclusivamente attraverso il prisma deU’inte­
68 Omelie sulla lettera ai Filippesi, XTV, 2.
69 Commento a san Matteo, XXXVIII, 3.
70 Omelie sulla 1 Corinzi, XXII, 5.
71 Commento a san Matteo, XXXVIII, 3.
72 Cfr. l’episodio riportato da LEONZIO DI NEAPOLIS, Vita di san Giovanni di Cipro, XXVII.
73 Cfr. ESICHIO di Batos, Capitoli sulla vigilanza, 57.
74 Omelie sulla lettera agli Efesini, XVIII, 4.
75 Omelie sulla 1 Corinzi, XXXIII, 6.
76 Commento a san Giovanni, LXV, 3.
77 Omelie sulla lettera agli Efesini, XVIII, 4.
78 Discorso: A chi non nuoce...
180
resse, per ritrovarsi ridotto a un mezzo di arricchimento, a un valore
finanziario, in breve, in ogni caso, a un oggetto. L’avarizia non per­
mette a colui che ne è posseduto di avere nessuna attenzione, nessu­
na considerazione per chicchessia, osserva san Giovanni Crisostomo79.
«Per l’avaro, gli uomini non sono uomini», egli afferma80.
Il carattere delirante della percezione che l’avaro ha della realtà si
manifesta anche nel modo di considerare gli stessi oggetti della ric­
chezza. Colui che si attacca ai diversi beni materiali che costituisco­
no le ricchezze accorda, infatti, a questi un’importanza e un valore che
eccedono quelli che hanno in realtà e, di conseguenza, presta loro
un’attenzione che per la verità questi non meritano. Per esempio,
l’oro o le pietre preziose, spesso i Padri ricordano, non sono che sem­
plici sassi, cose terrene81, ed è per una sorta d’illusione e di delirio che
gli uomini possono annettere loro un altro valore e considerarli in un
altro modo. Lo stesso vale per tutte le altre ricchezze. Al contrario,
ci mostra san Simeone il Nuovo Teologo, «colui che ha sia preserva­
to fin dall’inizio, sia ricordato e recuperato l’immagine e la somiglian­
za [con Dio], ha ricevuto anche la facoltà di vedere tutto secondo na­
tura. Egli vede tutte le cose tali e quali sono per natura [...]. Vede
l’oro e, lungi dall’attaccarsi al suo splendore, pensa che questa mate­
ria proviene dalla terra e non è che polvere o pietra, che non potrà mai
cambiarsi in altra cosa. Egli vede l’argento, la perla, tutte le pietre pre­
ziose, e lungi dall’avere i sensi catturati dal loro riverbero, non vede in
tutto questo che pietre come le altre, e tutto, allo stesso titolo, gli sem­
bra melma. Vede abiti di lusso e, lungi dall’ammirarne i ricami, con­
sidera che sono escrementi di bachi ed ha pietà di coloro che prova­
no piacere e li ricercano come cose preziose»82.
L’uomo attaccato alle ricchezze delira anche per quanto annette lo­
ro, di fatto, un valore assoluto, le considera come se esse fossero du­
rature, addirittura eterne, mentre sono tutte periture, distruttibili (cfr.
Mt 6,19-20; Gc5,3)83. Lasciandosi ingannare, accecato dal piacere sen­
sibile che si attacca alla loro passione, il fQargiro e l’avido vivono da
sempre nell’ignoranza dei veri beni, delle ricchezze autenticamente as­
solute ed eterne. «Malgrado tutta la sua precarietà, noi ci aggrappia­
79 Commento a san Giovanni, LXIII, 3.
80 Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4.
81 Cfr. A mbrogio di M ilano , Nabot il povero, 26. B asilio di C esarea, Omelie contro i ric­
chi, VII, 7. G iovanni C risostomo , Omelie sulla 2 Timoteo, VII, 2.
82 Trattati etici, VI, 217-233.
83Vedi anche 1 Pt 1,18. GREGORIO DI NlSSA, Vita diMosè, II, 143.
181
mo alla prosperità di quaggiù con una tale frenesia, e ci lasciamo il­
ludere da queste gioie ingannevoli al punto da non poter immagina­
re nulla di più forte né di più grande se non i beni temporali», fa no­
tare san Gregorio Nazianzeno84. «I nostri beni qui, egli ricorda, sono
fugaci e passeggeri e, come nel gioco dei dadi, essi passano di mano
in mano senza che noi possediamo qualcosa realmente»85. E, richia­
mando l’uomo a una visione sana, affeqna: «Chi fuggirà questi beni
futili? Chi guarderà ai beni presenti come a beni caduchi? Chi di­
stinguerà la realtà dall’apparenza? Chi saprà distinguere l’inganno dal­
la verità?»86. L’avaro appare, così, come colui che baratta il presente
con l’eterno, il deperibile con l’immortale, il visibile con l’invisibile87,
i veri beni del Regno, il tesoro celeste (cfr. Mt 6,20; Le 12,33-34) con
i beni illusori, le false ricchezze di questo mondo. «Sono veramente
miserabili», scrive a proposito dei filargiri san Giovanni Crisostomo,
«[coloro che vogliono] scambiare il cielo con un po’ di terra e di
fango: essi sono simili a un re che, avendo scambiato il suo regno
con un letamaio, si gloria di questo scambio, come se questo letame
valesse di più della sua corona»88. E altrove sottolinea a proposito di
quelli che sono colpiti dalla stessa passione: «Coloro che vivono nel­
le tenebre della irrazionalità non riconoscono più la vera natura delle
cose, essi si rotolano nella immondizia, e il letame non appare loro più
come letame; posseduti dall’avarizia, sono insensibili al cattivo odore
che quella emana»89. Egli nota ancora che l’avaro è vittima di un’illu­
sione, allo stesso modo di colui che, nell’oscurità, scambia una corda
per un serpente e i suoi amici per nemici. E chiaro che per lui è un ve­
ro delirio che la filargiria genera.
La follia, del resto, è nella paura che l’avaro prova all’idea di per­
dere quanto possiede, come nella tristezza che l’accompagna. Queste,
infatti, non sono oggettivamente motivate, ma provengono dalle fal­
se credenze che hanno la loro fonte unicamente nell’anima sregolata
del passionale, così come mostra san Giovanni Crisostomo: «Molti uo­
mini giudicano male le cose di quaggiù, così essi cadono nello sco­
raggiamento. E per questo che i folli si spaventano di ciò che non ha
nulla di spaventoso, temono cose che spesso non esistono affatto e fug-
84 Discorsi, XIV, 20.
85 Ibid.
*Ibid., 21.
87 Ibid.
88 Commento a san Matteo, LXIII, 4.
89 Commento al Salmo 9,1.
182
gono davanti alle ombre. Assomiglia a loro chi teme una perdita di de­
naro. Questo timore, infatti, non è imputabile alla natura ma alla vo­
lontà. Se in questo vi fosse un vero motivo d’afflizione, tutti quelli che
hanno delle perdite di denaro dovrebbero essere infelici: ma se la stes­
sa disavventura non produce in noi la stessa sventura, ne consegue che
il principio dell’afflizione non è affatto nella natura delle cose, ma nel­
la grossolanità dei nostri pensieri»90.
Il delirio si ritrova anche in un altro tratto patologico della filargi-
ria: il carattere ossessivo91 e quasi allucinatorio che essa attribuisce al
denaro e alle ricchezze materiali nello spirito di colui che essa abita.
Costui, infatti, ossessionato continuamente dal pensiero dei beni che
possiede o cerca di possedere, vede tutto attraverso di essi e deforma
così la realtà che percepisce. «Dovunque, dice san Basilio all’avaro,
non vedi che il tuo oro, lo immagini dovunque. L’oro ossessiona i tuoi
sogni la notte e ti abita di giorno. I folli non vedono il mondo reale,
ma le allucinazioni del loro cervello annebbiato. Allo stesso modo, il
tuo animo, preda della sua idea fissa, vede tutto oro, tutto argen­
to»92. San Giovanni Crisostomo nota, in senso analogo, che l’uomo
colpito dalla filargiria e dalla pleonessia, sotto l’effetto del suo insa­
ziabile desiderio, arriva fino a volere le cose che non esistono, e si por­
ta in un mondo fantasmatico e allucinatorio93.
Il carattere patologico della filargiria e della pleonessia si rivela
anche nelle molteplici passioni/malattie che esse generano. Sulla scia
di san Paolo (cfr. lTm 6,10), i Padri affermano che la filargiria è la ra­
dice e la madre di tutti i mali94. Così san Niceta Stetatos si chiede: «Se
questa malattia è un male tale da avere ricevuto il nome di seconda
idolatria, quale vizio non scaturirà dall’anima che da sola si procura
tale malattia?»95.
Filargiria e pleonessia, lo abbiamo dimostrato, distruggono la ca­
rità: esse generano per ciò stesso tutte le passioni che le sono contra­
rie: insensibilità, avversione, odio, inimicizia, risentimento, spirito di
90Loc. cit.
91 Cfr. B asilio di C esarea, Omelie contro la ricchezza, VII, 1.
92Ibid., VI, 1.
93 Cfr. Omelie su 1 Corinzi, VII, 2. Vedi anche ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 8.
94 GIOVANNI C risostomo , Commento a san Matteo, LUI, 4; Commento a san Giovanni,
XL, 4; LXEX, 1; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5. GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 152. E va-
GRIO PONTICO, Sui diversi pensieri della malvagità, 1, PG 79,1200. GIOVANNI CASSIANO, Istitu­
zioni cenobitiche, VII, 2; 11. GREGORIO MAGNO, Moralia su Giobbe, XV, 19. TALASSIO, Centu­
rie, 1,34. GIOVANNI D amasceno , Discorso utile all’anima. NlL SORSKY, Regola, V.
95 Centurie, II, 55.
183
contestazione e lite, crimini, ecc. Abbiamo visto anche che esse pro­
ducono la paura e la tristezza. Occorre osservare che possono anche
generare nell’anima la collera96e diverse forme di violenza97, ma anche
la pigrizia98, l’orgoglio99, la vanità100, e quanto accompagna queste due
ultime passioni: la sicurezza di sé101, lo spirito di superiorità102, il di­
sprezzo del prossimo103, l’irriverenza104, l’insolenza, l’arroganza105.
Per terminare, segnaliamo ciò che favorisce lo sviluppo della filar-
giria e della pleonessia. San Massimo ci insegna: «La filargiria ha tre
cause: il piacere, la vanagloria e la mancanza di fede. Quest’ultima è
più grave delle altre due»106. Quanto a san Giovanni Crisostomo, egli
offre le seguenti ragioni: «Voler prevalere sugli altri nel possesso dei
beni carnali non ha altro principio se non l’indebolimento della carità;
la cupidigia non ha altra fonte se non quella dell’orgoglio, dell’odio e
del disprezzo degli uomini»107.

96 Cfr. G iovan n i C assiano, Conferenze, V, 10. G r e g o r io d i N issa, Sulla verginità, IV, 5.


ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 59. NlCETA S te ta to s, L’anima, 56. GIOVANNI C li-
MACO, La Scala, XVI, 21.
97 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, X X X I, 45. Esicrao di B atos , Capitoli sulla
vigilanza, 59.
98 G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 9 , 1; 11; Omelie sulla 1 Corinzi, XXIII, 5.
99 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 9 , 1; 11; Commento a Isaia, IH, 7.
100 G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 9 , 11.
101 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VII, 8.
102G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XXXVII, 5.
m Ibid.
104 G iovanni C assiano , loc. cit.
105Ibid. G iovanni C risostomo , Omelie sulla 1 Corinzi, IX, 4.
106Centurie sulla carità, HI, 17.
107 Omelie sulla lettera agli Efesini, XVHI, 3.
184
VI
LA TRISTEZZA

L’uomo, nella sua condizione paradisiaca, non conosceva la tristez­


za (iype)1. Questa comparve dopo la colpa adamica2. Essa è in relazione
allo stato di decadimento nel quale si trova l’uomo. Non costituisce,
dunque, un atteggiamento che appartiene alla natura primaria e fon­
damentale dell’uomo3. Tuttavia, benché conseguente alla colpa ada­
mica, la tristezza non è ipso facto una passione cattiva e non è nem­
meno esterna alla natura dell’uomo.
Occorre, infatti, distinguere due forme di tristezza4. La prima fa par­
te di quanto i Padri chiamano «le passioni naturali e irreprensibili»5,
doè quelle che si sono integrate alla natura dell’uomo in seguito al pec­
cato originale, e benché testimonino la sua caduta relativamente al suo
stato primario di perfezione, non sono cattive6. La forma di tristezza
che fa parte di queste passioni naturali, non solo è «irreprensibile»,
ma può e deve servire da base a una virtù: la «tristezza secondo Dio»
(2Cor 7, IO)7, che permette all’uomo di affliggersi sul suo stato di de­
cadimento, di piangere i suoi peccati, di rattristarsi della perdita del­
la perfezione originaria, di soffrire di essere lontano da Dio8, e che co­
stituisce lo stato di penitenza, di lutto spirituale (pénthos), di com­
punzione (katànyxis) e trova la sua espressione nel dono delle lacrime.
Questa virtù è indispensabile all’uomo decaduto per ritrovare la via
del Regno e reintegrare in Cristo lo stato edenico. E così che san Mas-
1Cfr. Apoftegmi, N 561. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Sull’lncamazione del Verbo, 3. GIOVAN­
NI C risostomo , Omelie sulle statue, XI, 2.
2 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, m), XXVIII, 1,2. M assimo il C onfessore , Que­
stioni a Talassio, 1, PG 90,269A.
3Cfr. Apoftegmi, N 561. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 1, PG 90,269A.
4 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 58, PG 90,592D; 593B; 596A.
5 G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, m , 20.
6Ibid.
7 Cfr. N ic eta S te ta to s, Centurie, I, 60. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 136.
8Cfr. Apoftegmi, N 561. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XXIX, 215-234.
185
simo scrive a tale proposito: «Negli uomini ferventi, anche le passio­
ni divengono buone quando [...] le assumono per acquistare le cose
del cielo. La stessa cosa avviene quando [...] facciamo della tristezza
il pentimento che ci corregge dal male presente»9.
La seconda forma di tristezza, che è l’oggetto della presente ricer­
ca, è, al contrario, una passione, ima malattia dell’anima, costituita dal
cattivo uso della tristezza precedentemente ricordata. Anziché utiliz­
zare la tristezza per piangere i propri peccati, per affliggersi del suo al­
lontanamento da Dio e della perdita dei beni spirituali, l’uomo, al con­
trario, l’usa per piangere la perdita dei beni sensibili10, si affligge di
non aver potuto soddisfare tale desiderio od ottenere tale piacere at­
teso, o anche di aver subito tale dispiacere nei rapporti con i suoi si­
mili. Egli fa, dunque, della tristezza un uso contro natura, cioè anor­
male11. Ciò è quanto constata san Giovanni Crisostomo: «Non è af­
fatto l’avversità ma solo il peccato che deve provocare la tristezza. Ma
l’uomo capovolge quest’ordine e confonde i tempi: moltiplica dunque
i suoi peccati e non ne recepisce alcun dolore, e quando egli riceve non
importa quale dispiacere, si scoraggia»12. È così che la tristezza divie­
ne «una passione non meno grave e spiacevole della collera e della vo­
luttà e porta agli stessi risultati, dal momento che non la usiamo af­
fatto secondo le regole della ragione e della prudenza»13.
L’uomo manifesta, in questa passione, un comportamento doppia­
mente patologico: da un lato, perché non si affligge, come invece do­
vrebbe continuamente fare, per quanto in verità costituisce una si­
tuazione affliggente - il suo stato di decadenza, di peccato, di malat­
tia e dall’altro, egli si rattrista a proposito di oggetti, di stati, di
situazioni, ecc., che non lo meritano realmente14. La facoltà di affli­
zione di cui l’uomo dispone non solo non gli serve, come Dio aveva
voluto facendogliene dono, per prendere le distanze dal suo stato di
peccato, ma al contrario viene utilizzata fuori tempo, in modo assur­
do e insensato in rapporto alla sua naturale finalità, a manifestare il
suo attaccamento al mondo, e paradossalmente entra al servizio del
peccato.

9 Questioni a Talassio, 1, PG 90, 269B.


10Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 58, PG 90,592D; 593B; 596A.
11 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 5 8 ,5 9 3 A.
12 Consolazioni a Stagira, IH, 13.
13Ibid., 14.
14Va da sé che non includiamo in questa categoria la tristezza con la quale Puomo si afflig­
ge dei mali che colpiscono il prossimo e che è una delle forme della compassione.
186
La tristezza {lype) appare come uno stato dell’anima fatto, oltre ciò
che questo termine può indicare, di scoraggiamento15, di astenia16, di
pesantezza e di dolore psichico, d’abbattimento17, di sgomento18, d’op­
pressione19, di depressione20, accompagnato frequentemente da ansia
o anche da angoscia21.
Questo stato può avere molteplici cause, ma esso è sempre costi­
tuito da una reazione patologica della facoltà irascibile e/o dalla fa­
coltà concupiscibile dell’anima, ed è essenzialmente legato alla con­
cupiscenza o/e alla collera. «La tristezza, spiega Evagrio, soprag­
giunge talvolta per una frustrazione dei desideri (stérèsis tòn epithymióri),
talvolta essa è anche una conseguenza della collera»22. Ma essa può an­
che essere prodotta nell’anima da un’azione diretta dei demoni, o
ancora vi può nascere senza un motivo apparente. Esamineremo in
particolare queste diverse eziologie.
1) La causa più frequente della tristezza è la frustrazione di uno
più desideri. «La tristezza è costituita dall’insoddisfazione di un de­
siderio carnale», sottolinea Evagrio23. San Giovanni Cassiano nota
ugualmente che la tristezza «proviene talvolta dal fatto che ci vedia­
mo delusi in una speranza che avevamo»24, e che una delle sue prin­
cipali specie «segue un desiderio contrastato»25. Poiché «ogni desi­
derio è legato a ogni passione»26, ogni passione può costantemente pro­
durre la tristezza; «colui che ama il mondo sarà rattristato molte volte»,
afferma ancora Evagrio27. Essendo il piacere legato al desiderio, si può
ancora dire, con lo stesso autore, che «la tristezza è la frustrazione di
un piacere (stèresis edonès) presente o atteso»28. San Massimo29 e san
Talassio30danno la stessa definizione. Abbiamo visto che san Massimo
15 Cfr. G iovanni C risostomo , Consolazioni a Stagira, n i, 13.
l6Ibid.
17Cfr. DOROTEO DI Gaza, Istruzioni spirituali, V, 67.
l*Ibid.
19Ibid.
20 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX, 1.
21 Cfr. DOROTEO DI Gaza, Istruzioni spirituali, V, 67.
22 Trattato pratico sulla vita monastica, X.
23 Gli otto spiriti della malvagità, 11, PG 79,1156D.
24 Istituzioni cenobitiche, IX, 4.
25 Conferenze, V, 11.
26 E vagrio P ontico , Gli otto spiriti della malvagità, 11, P G 79,1156D.
27Loc. cit.
28 Trattato pratico sulla vita monastica, 19.
29 Cfr. Questioni a Talassio, 58, PG 90,593A.
30 Centurie, I, 75.
187
sottolinea il fatto che il piacere sensibile è inevitabilmente seguito
dal dolore, essendo quest’ultimo molto spesso più psichico che fìsico,
ossia, detto altrimenti, prende la forma della tristezza. Ecco perché san
Massimo dice che la tristezza «è la fine del piacere sensibile»31.
Poiché detta tristezza è il risultato della frustrazione di un deside­
rio carnale (nel senso ampio del termine) e del piacere che vi si ricol­
lega, essa manifesta in colui che essa affligge un attaccamento ai beni
sensibili, ai valori di questo mondo. Ecco perché Evagrio sottolinea
che essa è legata a tutte le passioni nella misura in cui esse implicano
la cupidigia32e scrive: «E impossibile respingere questo nemico se ab­
biamo un attaccamento passionale per questo o quel bene terreno»33.
San Doroteo di Gaza scrive allo stesso modo: «Colui che non disprezza
ogni cosa materiale [...] non può [...] liberarsi della tristezza»34. E
san Giovanni Climaco osserva: «L’uomo che è arrivato a detestare il
mondo è sfuggito alla tristezza. Ma colui che è attaccato a una qual­
siasi cosa visibile non è ancora liberato dalla tristezza. Difatti come
non rattristarsi se si è privati di ciò che si ama?»35. Lo stesso autore
fa notare ancora: «Se qualcuno crede di non avere nessun attaccamento
a qualcosa e, nondimeno, avverte una certa tristezza nel suo cuore
quando ne viene privato, non vi è assolutamente un’illusione più
perfetta né più sicura della sua»36.
Così vediamo spesso la tristezza provocata dalla perdita di un bene
sensibile57, da un qualunque danno che si subisce su questo stesso pia­
no38. L’attaccamento passionale dell’uomo alla sua vita terrena e a ciò
che essa comporta di soddisfacente per le sue passioni può anche far
nascere la tristezza nella prova o il pensiero di tutto ciò che può met­
terla in pericolo: la malattia39, tutti i mali ai quali si trova esposto40, la
morte41.
La tristezza può anche essere suscitata dalla voglia di qualche bene
materiale o morale posseduto da altri42.
31 Questioni a Talassio, 58, PG 90,592D.
32 Cfr. Gli otto spiriti della malvagità, 11-12.
33 Trattato pratico sulla vita monastica, 19.
34Sentenze, 3.
35La Scala, Et, 11.
36Ibid, 17.
37 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, V, 4; VII, 1.
38Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 11.
39G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, V E , 1.
40Ibid
41 Ibid., V, 4. G regorio DI N issa , Sulla verginità, in, 3; 9.
42Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 91.
188
La tristezza può anche avere come causa una delusione nella ri­
cerca di onori, e quindi sembra necessariamente legata alla cenodossia43.
Notiamo, inoltre, che la tristezza può non essere provocata dalla
frustrazione di un desiderio particolare, che si riferisce a un oggetto
ben determinato: essa può essere legata a una insoddisfazione gene­
rale, a un senso di frustrazione globale che si riferisce all’intera esi­
stenza e rivela che i desideri profondi e fondamentali della persona
(del cui vero significato questa non ha necessariamente una coscienza
chiara) non sono soddisfatti.
2) La seconda causa della tristezza è la collera. «La tristezza, c’i
segna Evagrio, proviene da pensieri di collera»; «infatti, egli spiegarla
collera è un desiderio di vendetta, e la vendetta non soddisfatta produce
la tristezza»44. San Massimo si esprime allo stesso modo: «Tristezza e
rancore vanno di pari passo. Se, dunque, lo spirito prova tristezza a
raffigurarsi il volto di un fratello, questa è la prova che egli nutre del
rancore contro di lui»45. San Giovanni Cassiano afferma, ugualmente,
senza meglio precisare: «La tristezza talvolta proviene dal fatto che noi
stessi ci siamo messi in collera»46; una sorta di tristezza «segue la col­
lera che si spegne», nota ancora47.
La tristezza può essere in relazione con altri sentimenti oltre quel­
lo del rancore: spesso essa nasce in modo particolare dal sentimento
di collera eccessivo o sproporzionato rispetto a ciò che l’ha causata, o
che al contrario non è stato sufficiente in quanto non ha manifestato,
con abbastanza chiarezza, ciò che si prova o non ha provocato, in
colui o in coloro ai quali essa si rivolgeva, la reazione che ci si aspet­
tava.
La tristezza può anche essere prodotta da un’offesa o da ciò che il
soggetto crede esser tale: «Quando ci feriscono o riteniamo di essere
feriti, siamo nella tristezza», constata san Giovanni Damasceno48.
In quasi tutti questi casi, detta passione rivela un attaccamento a se
stessa ed è legata alla vanità e all’orgoglio, come peraltro la collera che
43 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 1. EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità,
XE, PG 79,1158B.
44 Gli otto spinti della malvagità, 11, PG 79,1156BC. Cfr. Trattato pratico sulla vita mona­
stica, 19; 25.
45 Centurie sulla carità, m , 89. Cfr. 96.
46Istituzioni cenobitiche, IX, 4.
47 Conferenze, V, 11.
48Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 16. Cfr. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensa­
no di essere giustificati dalle loro opere, 180.
189
la segue. Essa presenta una reazione dell’io frustrato nel desiderio di
affermazione di se stesso (in ciò questa seconda eziologia si collega al­
la prima) e considerato meno di quanto egli si reputi49. Il rancore, al
quale spesso si riallaccia la tristezza, è d’altronde il risentimento del­
l’orgoglio ferito, e la collera, fonte della stessa passione, esprime fre­
quentemente una volontà di riaffermazione, di rivalutazione, di rias­
sicurazione dell’io di fronte a se stesso e agli altri. La tristezza si rive­
la, allora, essere l’espressione del sentimento di fallimento o d’impotenza
che prova l’io in questo tentativo di riabilitazione di sé.
3) Talvolta, tuttavia, la tristezza sembra immotivata. «Accade, os­
serva san Giovanni Cassiano, che siamo pieni di angoscia improvvisa
e senza motivo; ci sentiamo oppressi da una tristezza che è senza
nessun motivo»50. Lo stesso santo altrove afferma che vi sono due spe­
cie di tristezza: la prima comporta tutte le forme che abbiamo esami­
nato precedentemente, «l’altra proviene da un’ansia o da una dispe­
razione senza ragioni»51. Allora diviene un po’ più preciso il limite tra
questa specie di tristezza e la passione dell’acedia che esamineremo
nel prossimo capitolo.
4) Occorre sapere che i demoni giocano un ruolo importante nel­
la nascita, nello sviluppo e nella perpetuazione di tutte le forme di tri­
stezza, e particolarmente di quella che abbiamo presentato ultima­
mente. Se questa è detta immotivata, è perché non ha relazione di­
retta con un’azione precisa della persona che essa affligge; perché non
è, come le precedenti, il frutto dell’insoddisfazione di un desiderio o
di un movimento di collera, ma non perché non avrebbe assolutamente
alcuna causa. I Padri riconoscono, infatti, che essa frequentemente è
prodotta da un intervento diabolico. San Giovanni Cassiano sottoli­
nea così che «talvolta, senza alcuna causa apparente che ci provoca a
questa caduta, la malizia del nemico ci opprime improvvisamente»52.
San Giovanni Crisostomo, analizzando lo stato del suo amico Stagira
che soffriva di una profonda tristezza, sottolinea anche, molto spesso,
il ruolo dell’influsso demoniaco53. Egli scrive più propriamente: «Il de­
monio avviluppa il tuo spirito con le sue nere sciagure come con una
49 Cfr. B arsanufio , Lettere, 698. DOROTEO DI G aza , Sentenze, 3.
50 Conferenze, V, 11.
51 Ibid.
52Istituzioni cenobitiche, IX, 4. Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, V, 67.
53 Consolazioni a Stagira, 1,1; II, 1.
190
profonda oscurità, e si sforza di rapirti i pensieri che potrebbero ras­
sicurarti contro te stesso. Ma trovando allora la tua anima sola, egli
la schiaccia con colpi e piaghe»54.
L’irruzione di un sentimento di tristezza nell’anima è, tra l’altro, uno
degli effetti più immediati dell’azione diabolica. «I pensieri che ven­
gono dai demoni sono prima di tutto torbidi e mescolati a tristezza»,
nota san Barsanufio55. E si può inversamente dire che ogni stato di tri­
stezza nell’anima è in tutte le circostanze il segno di un’azione demo­
niaca. «Tutto quello che si fa con turbamento e tristezza viene dai de­
moni», dice ancora il Grande Anziano56.
Quantunque alcuni avvenimenti esterni possano suscitare e moti­
vare la tristezza, occorre sottolineare, in verità, che non è in questi che
essa ha la sua fonte: essi ne sono l’occasione, non la causa, che è uni­
camente nell’anima stessa dell’uomo, più precisamente nell’atteggia­
mento che egli adotta sia di fronte agli avvenimenti esterni sia di fron­
te a se stesso. Egli, dunque, è il responsabile della tristezza che lo col­
pisce, e le circostanze esterne e i mali stessi che può aver subito non
potranno fondamentalmente servirgli a scusarlo. «Le nostre gioie e le
nostre tristezze, scrive san Giovanni Crisostomo, vengono meno dal­
la natura stessa delle cose che dalle nostre proprie disposizioni. Se
queste sono saggiamente regolate, avremo sempre nel nostro cuore
una grandissima contentezza. Le malattie del corpo hanno come cau­
sa piuttosto qualche disordine interno che non l’intemperie dell’aria
o un’altra influenza esteriore; a maggior ragione avviene così anche
per le malattie dell’anima. Difatti, se quelle del corpo sono appan­
naggio della nostra natura, le altre dipendono solo dalla nostra vo­
lontà»57.
Anche quando sono i demoni a suscitare o a instaurare stati di tri­
stezza, essi non possono farlo se non perché trovano nell’anima un ter­
reno favorevole e beneficiano di una certa partecipazione (più o me­
no cosciente) della volontà dell’uomo. Così san Giovanni Crisostomo
può dire a Stagira: «Il demonio non è affatto in te l’autore di questo
oscuro dispiacere, ma questo stesso dispiacere viene in aiuto al de­
monio, e ti suggerisce questi cattivi pensieri»58. Spesso la tristezza pree-
54Ibid, n, 1.
55Lettere, 124. Cfr. 70.
56Ibid., 433.
57 Omelie sulle statue, 1,3.
58 Consolazioni a Stagira, II, 1. Cfr. DI, 13.
191
siste all'intervento diretto del diavolo, il quale non fa altro che ap­
profittare della situazione per sviluppare la passione.
La passione della tristezza può prendere la forma estrema della
disperazione (apógndsisY9 E lì una delle sue manifestazioni partico­
larmente gravi. «Una tristezza troppo grande è pericolosa, fa notare
san Giovanni Crisostomo, così pericolosa che può perfino causare la
morte; ecco perché san Paolo diceva: “perché non soccomba sotto un
dolore troppo forte” (2Cor 2J)»60.
Il diavolo gioca un ruolo particolarmente importante nella nascita
della disperazione, e può provocare nell’anima, attraverso questo
stato, conseguenze catastrofiche. «H demonio, scrive san Giovanni Cri­
sostomo, non ha nelle mani armi più temibili della disperazione; così
gli facciamo meno piacere nel peccare che nel disperare»61. In que­
sto stato, infatti, l’uomo fondamentalmente dispera di Dio e, pertan­
to, si separa da lui. Per questo, lascia campo libero all’azione del dia­
volo, si affida con piedi e mani legate al suo potere e si vota alla mor­
te spirituale. «La tristezza del mondo genera la morte», afferma san
Paolo (2Cor 7,IO)62. Sotto l’effetto della disperazione (e talvolta anche
della semplice tristezza), l’uomo spesso è portato ad abbandonarsi al­
le passioni deprimenti, pensando che queste potranno portare rime­
dio al suo stato non foss’altro perché gli risparmiano la coscienza di
questo. Così l’Apostolo constata: «Divenuti insensibili, si sono ab­
bandonati agli stravizi, fino a commettere con insaziabile frenesia ogni
genere di immondezza» (Ef 4,19). San Gregorio Magno nota, sulla sua
scia, che la tristezza «fa scorrere la deviazione dello spirito verso le co­
se proibite»63.
Fonte di morte spirituale, la disperazione può anche indurre l’uo­
mo a dare la morte al suo corpo: spingendolo a non aspettarsi più nul­
la dalla vita, essa imprime nel suo animo idee di suicidio e lo porta a
realizzarle64. San Giovanni Crisostomo, per spiegare questo fatto, so­
stiene la possibilità di un intervento diabolico, ma afferma che in ogni
59 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X V I, 72. S im eone il N uo v o T eo lo go , Capitoli
teologici, gnostici e pratici, I, 72. N el SORSKY, Regola, V.
60 Commento a san Giovanni, LXXVIII, 1.
61 Omelie sulla penitenza, 1,2.
62 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, 60. EsiCfflO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 135. NlL
SORSKY, Regola, V.
63Moralia su Giobbe, XXXI, 45.
64 Lo si nota in Stagira, l’amico di san Giovanni Crisostomo, che è ossessionato da idee sui­
cide, ed è sul punto di uccidersi (cfr. Consolazioni a Stagira, 1,1 e 2; II, 1).
192
caso esso non è la sola causa, volendo insistere ancora di più sulla re­
sponsabilità dell’uomo stesso: «Questi pensieri funesti, scrive a Sta-
gira, non provengono solo dal demonio, ma molto più dalla tua ma­
linconia. Sì, questa oscura tristezza li provoca ben più che lo spirito
cattivo, e forse essa ne è l’unica causa. È certo, infatti, che molti, al
di fuori di questa ossessione diabolica, provano questa mania di sui­
cidio in seguito a violente sofferenze»65. «Una profonda tristezza, di­
ce ancora, anche senza il concorso del demonio, genera i mali più gran­
di [...]. E sotto la pressione di un oscuro abbattimento che alcuni scia­
gurati si appendono a una corda, si trapassano con un pugnale, si
buttano nell’acqua, ricorrono a ogni altro genere di morte violenta.
Quelli stessi nei quali si rivela l’azione dello spirito cattivo devono ac­
cusare, per la loro perdita, meno lui che non la tirannia e l’eccesso del­
le loro sciagure»66.
Per tutte queste ragioni, la tristezza è considerata dai Padri come
una malattia dell’anima67, la cui importanza è grande e gli effetti po­
tenti. A fortiori, è la stessa cosa per la disperazione68. «Grande è il do­
minio della tristezza, dice san Giovanni Crisostomo: è una malattia
dello spirito che richiede molta forza per resistergli coraggiosamente
e per respingere ciò che essa ha di cattivo»69.
I Padri spesso presentano questa passione come una forma di fol­
lia, stato che si manifesta in maniera particolarmente netto nella di­
sperazione. San Sindetico, ricordando «la tristezza che viene dal ne­
mico», dice anche che essa è «piena di follia»70. E san Giovanni Cas-
siano fa notare che «se la lasciamo a poco a poco impadronirsi della
nostra anima, in circostanze diverse, allora essa turba e deprime (la-
befactat et deprimiti il nostro spirito»; «una volta [colui che essa af­
fligge] reso incapace di prendere una decisione salutare e privato del­
la pace del cuore, essa ne fa un folle [...] che abbatte e sommerge
sotto una disperazione penosa»71.
65 Consolazioni a Stagira, II, 1.
66Ibid.
67 Cfr. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IX, 2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie
sulle statue, XVIII, 3; Consolazioni a Stagira, IH, 14. EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della mal­
vagità, 12, PG 79,1158B; 1158C. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 19.
68 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Esortazioni a Teodoro, 1,1 («Questo genere di malattia»).
69 Commento a san Giovanni, LXXVUI, 1. Egli dice anche che è una ferita, una piaga del-
Panima (Omelie sulle statue, VI).
70Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21.
71 Istituzioni cenobitiche, IX, 1. Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Consolazioni a Stagira, 1,1.
193
Gli effetti patologici della tristezza sono importanti e temibili. «La
tristezza ne ha perduti molti», constata l’Ecclesiastico (Sir 3023). San
Giovanni Crisostomo non esita a dire: «Una profonda tristezza ci è
ben più nociva di tutti gli attacchi dello spirito cattivo»72.
Non solo «la tristezza è un ostacolo a tutti i beni»”, ma essa intro­
duce nell’anima molti mali. San Nilo Sorsky la considera anche co­
me «la radice di ogni male»74.
Oltre al fatto che essa genera quasi inevitabilmente la disperazio­
ne con le sue gravi conseguenze, se la si lascia sviluppare, tale passio­
ne produce fin dalle sue prime manifestazioni atteggiamenti passionali
come l’acredine75, la cattiveria76, il rancore77, l’amarezza78, il risenti­
mento79 (che, lo abbiamo visto, lo genera, ma che essa accresce a sua
volta), l’impazienza80. Per questo fatto, essa turba gravemente le rela­
zioni dell’uomo con il suo prossimo81.
Notiamo ancora che, come tutte le altre passioni, la tristezza riem­
pie l’anima di oscurità82, ricoprendo in primo luogo lo spirito di tene­
bre, accecando l’intelligenza, e riducendo considerevolmente la sua fa­
coltà di discernimento83. Uno dei suoi effetti specifici è quello di ap­
pesantire l’anima84. Essa produce, tra l’altro, in tutto l’uomo imo stato
di astenia e di tiepidezza85, lo rende pusillanime86e paralizza la sua at­
tività87. Quest’ultimo effetto si rivela particolarmente grave sul piano
spirituale in cui priva l’uomo di tutto il suo dinamismo, ostacola i suoi
sforzi ascetici, «scompiglia la preghiera»88, soprattutto quando questa
segue a una colpa89.

72 Consolazioni a Stagira, III, 13.


73 EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità, 11.
74Regola, V.
75 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX, 11.
76 G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XXXI, 45.
77Ibid.
7*Ibid.
79 G iovanni C assiano , Conferenze, XVI. G regorio M ag n o , loc. dt.
80G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX, 11.
81 Cfr. ibid, 4.
82G iovanni C limaco , La Scala, Ricapitolazione, 19.
83 Cfr. E vagrio P ontico , Gli otto spiriti della malvagità, 12.
84 I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 8.
85 Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXXI, 45. N il S orsky, Regola, V.
86G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX, 11.
87 Cfr. ibid. N il Sorsky , Regola, V.
88 E vagrio P ontico , Ai monad, 56. Cfr. Gli otto spiriti della malvagità, 11.
89Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, V, 33.
194
VII
L’ACEDIA

L’acedia (akedia) è vicina alla tristezza1, al punto tale che la tradi­


zione ascetica di cui san Gregorio Magno è l’ispiratore in Occidente,
riunisce queste due passioni in una sola2. La tradizione ascetica orien­
tale tuttavia le distingue3.
H termine greco akedia, che è ripreso in latino sotto la forma di ace-
dia, in italiano moderno è reso con «accidia»: in realtà è difficile dar­
ne una traduzione sia semplice che completa; i termini «pigrizia» o
«noia», con i quali spesso è tradotto, non esprimono che una parte
della realtà complessa che esso indica.
L’acedia corrisponde sicuramente a un certo stato di pigrizia4 e a
uno stato di noia, ma anche di disgusto, di avversione, di stanchezza,
e anche di abbattimento5, di scoraggiamento6, di languore, di torpore,
di indolenza, di assopimento, di sonnolenza7, di pesantezza del corpo8
e dell’anima9, essendo l’acedia capace anche di spingere l’uomo al son­
no10senza che egli sia realmente affaticato11.
Vi è nell’acedia un’insoddisfazione vaga e generale. L’uomo, allor­
ché è sotto il dominio di questa passione, non ha più il gusto per co-
1 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 1.
2 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, X X X I, 85.
3Oltre a Evagrio e Giovanni Cassiano, vedi: ATANASIO d ’A lessandria, Vita di Antonio, 36.
PALLADE, Vie de Jean Chrysostome, éd. Collman-Norton, p. 133. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen­
turie sulla carità, 1 , 67. GIOVANNI C limaco , La Scala, XIII.
4 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
5 Cfr. ERMA, Il Pastore, Visione III, 11,3.
6 Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,66.
7 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
8 Cfr. A rsenio , Lettere, 19. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pra­
tici, 1 ,66; 71. G iovanni C limaco , La Scala, X m , 8.
9 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 8.
10 Cfr. S im eone il N uovo T eo logo , Capitoli teologici; gnostici e pratici, 1 ,71. G iovanni
CASSIANO, Conferenze, V, 11.
11 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XIII, 12 e 8.

195
sa alcuna, trova ogni cosa insulsa e insipida, non si aspetta più nulla
di nulla12.
L’acedia rende, allora, l’uomo instabile nel suo animo e nel suo cor­
po13. Le sue facoltà divengono incostanti; il suo spirito, incapace di fis­
sarsi; va da un oggetto all’altro. Soprattutto quando egli è solo, non
sopporta più di rimanere nel luogo in cui si trova: la passione lo spin­
ge a uscirne14, a spostarsi, ad andare in uno o in diversi altri luoghi.
Talvolta, egli si mette ad errare e a vagabondare15. In maniera gene­
rale, egli ricerca a ogni costo contatti con altri16. Tali contatti non so­
no obiettivamente indispensabili ma indotti dalla passione: egli ne sen­
te il bisogno e trova dei «buoni» pretesti per giustificarli17. Così stabi­
lisce e intrattiene relazioni spesso futili che alimenta con discorsi vani18
in cui egli manifesta generalmente una vana curiosità19.
Può accadere che l’acedia ispiri, a colui che vi è soggetto, un’av­
versione intensa e permanente per il luogo in cui risiede20, che gli dia
motivazioni per esserne scontento e lo porti a credere che starebbe
meglio altrove21. «Egli allora è portato a desiderare altri luoghi in cui
potrà trovare più facilmente ciò di cui ha bisogno»22. L’acedia può an­
che condurlo a fuggire dalle sue attività, particolarmente dal suo la­
voro, di cui essa lo rende insoddisfatto23, e lo conduce allora a ricer­
carne altri, facendogli credere che questi saranno più interessanti e
lo renderanno più felice...
Tutti questi stati che si ricollegano all’acedia sono accompagnati da
inquietudine o ansia, che è, oltre il disgusto, un carattere fondamen­
tale di questa passione24.
Il demone ddl’acedia si attacca soprattutto a coloro che si dedica­

12DIADOCO DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 58.


13Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 6; Conferenze, V, 16.
14Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 11.
15Tanto nell’immaginazione che fisicamente. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 16;
Istituzioni cenobitiche, X, 6.
16Istituzioni cenobitiche, X, 2 (3).
17Ibid.
18Conferenze, V, 16.
19Ibid.
20 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 12; Antirretico, VI, 26. GIO­
VANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 2 (1).
21 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 2 (2). A rsenio , Lettera, 57.
22 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 12. Cfr. Antirretico, VI, 33.
23 Trattato pratico sulla vita monastica, 12; Antirretico, VI, 28.
24 Giovanni Cassiano la definisce più volte come «taedium sive anxietas cordis» (.Istituzioni
cenobitiche, V, 1; X, 1; Conferenze, V, 2). Cfr. anche: Conferenze, V, 16; XXIV, 5; Istituzioni ce­
nobitiche, X, 2 (3).
196
no alla vita spirituale: esso cerca di allontanarli dalle vie dello Spiri­
to, d’impedire in diversi modi le attività che una tale vita comporta
e, particolarmente, di nuocere alla regolarità e alla costanza della di­
sciplina ascetica di cui ha bisogno25, di rompere il silenzio e la stabi­
lità che la favoriscono26. Per questo, san Giovanni Crisostomo la pre­
senta come «un rilassamento dell’anima, un lasciarsi andare dello spi­
rito, la negligenza dell’ascesi»27. Essa rende lo spirituale «muto e senza
coraggio per tutto il lavoro che deve fare su di lui, gli impedisce di sof­
fermarvisi e di applicarvisi»28. Sotto l’influsso di questa passione, il suo
spirito «diviene ozioso e incapace di ogni attività spirituale»29; diviene
indifferente a tutta l’opera di Dio30, cessa di desiderare i beni futu­
ri31, giunge perfino a disprezzare i beni spirituali32. Tutti i Padri ve­
dono nell’acedia uno dei principali ostacoli alla preghiera33. San Gio­
vanni Climaco la definisce come «un languore nella salmodia, una de­
bolezza nella preghiera»34. «H demone ddl’acedia si attacca abitualmente
soprattutto a coloro che sono avanti nella preghiera o che vi sono as­
sidui», nota san Simeone il Nuovo Teologo35. E molti sottolineano che
è soprattutto nell’ora della preghiera che essa genera il torpore nell’a­
nima e nel corpo e spinge l’uomo al sonno: «Quando non è l’ora del­
la salmodia, l’acedia non compare. E quando l’ufficio è terminato, i
nostri occhi si riaprono», scrive san Giovanni Climaco36. Ma «quando
arriva il tempo dell’ufficio e della preghiera, [questo demone] inizia
di nuovo a renderci il corpo pesante. E quando preghiamo, c’immer­
ge nel sonno, e con degli sbadigli che ci suscita nel frattempo, c’im­
pedisce di pronunciare alcuni versetti per intero», constata ancora Gio­
vanni Climaco37.
Se è vero che l’acedia colpisce proprio coloro che si sforzano di sot­
tomettersi a una disciplina spirituale regolare, che riducono per que­
sto motivo allo stretto necessario le loro attività esterne e i loro spo­
25Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,66; 71.
26Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 3.
27 La Scala, XQI, 2.
28G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, X , 2 (1).
29Ibid,( 3).
30ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 26.
31 D iadoco di F otiCEA, Cento capitoli gnostici, 58.
}2Ibid
33 Cfr. A rsenio , Lettera, 19. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 57.
»La Scala, XIII, 3.
35 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,73. Cfr. 66.
36La Scala, XIII, 12.
37 Ibid, 8.
197
stamenti, o anche ricercano il silenzio e la solitudine, è altrettanto
vero che più l’uomo si regola spiritualmente e si isola per dedicarsi nel
silenzio alla preghiera che l’unisce a Dio, più egli è attaccato da que­
sta passione particolarmente temuta dagli eremiti. Per di più, essa non
lascia in pace nemmeno coloro che vivono al di fuori di ogni disci­
plina o anche di ogni attività spirituale. È sotto altre forme che essa se
la prende con essi, come fa notare sant’Isacco il Siro: a «coloro che
conducono la loro vita nelle opere del corpo», «giunge un’altra ace­
día, che è visibile agli occhi di tutti»38. Questa acedia prende la for­
ma di un senso, spesso oscuro e confuso, d’insoddisfazione, di di­
sgusto, di noia, di stanchezza, rispetto a essi stessi, dell’esistenza39, del
loro ambiente, del luogo in cui risiedono, del loro lavoro o anche di
una qualunque altra attività40. Essi sono, altresì, colpiti da una inquie­
tudine senza ragione, da un’ansia generalizzata, o da un’angoscia
episodica o continua. Generalmente essi si ritrovano presi, correlati­
vamente, da uno stato di torpore, da un appesantimento psichico e fì­
sico, da un affaticamento generale e costante provato senza un moti­
vo particolare, da una sonnolenza periodica o permanente dell’ani­
ma e del corpo. Spesso, parallelamente, e per scongiurare in qualche
modo i suoi stati penosi, l’acedia li spinge a molteplici attività, a spo­
stamenti non indispensabili, a frequentazioni inutili, e a tutto ciò per
cui sembra loro di poter sfuggire all’angoscia e alla noia, di fuggire la
solitudine e di colmare l’insoddisfazione che avvertono. Spesso, quan­
do essi vogliono o credono così di sentirsi soddisfatti e ritrovare se stes­
si, in realtà non fanno altro che allontanarsi da se stessi e dal loro do-
ver-essere spirituale, dalla loro natura e dal vero destino, e per dò stes­
so da ogni soddisfazione piena e intera.
Per coloro che conducono una vita ascetica, gli attacchi di questo
demone, le manifestazioni di queste passioni, raggiungono il loro mas­
simo d’intensità verso mezzogiorno. «E soprattutto all’incirca verso
l’ora sesta41, scrive san Giovanni Cassiano, che [questo avversario] tur­
ba [i solitari] eccitando a ore fìsse, come una febbre che ritorna pe­
riodicamente, la loro anima malata con gli ardori che essa vi accen­
de. Qualcuno tra gli anziani dichiara che è questo il “demone di mez­
38Discorsi ascetici, 57.
39Cfr. Diadoco di Foticea: «Lo spirito di acedia valorizza questa vita temporanea» (Cento ca­
pitoli gnostici, 58).
40 Cfr. san Poemen: «L’acedia si presenta ogni volta che si comincia qualcosa» (.Apoftegmi,
serie alfabetica, Poemen, 157).
41 Mezzogiorno. San Giovanni Climaco la situa in questo momento {La Scala, XIII, 5).
198
zodì” di cui parla il salmo 91 (90)»42. Tra questi anziani, occorre cita­
re Evagrio, il quale afferma: «Il demone delTacedia, chiamato anche
“demone di mezzogiorno [meridiano]”, attacca il monaco verso l’o­
ra quarta43 e assedia la sua anima fino all’ora ottava44»45.
Ciò che distingue essenzialmente l’acedia dalla tristezza, è che
nulla di preciso la motiva, che «lo spirito è turbato senza ragione», co­
me dice san Giovanni Cassiano46. Ma che essa non abbia un motivo
non significa che non abbia una causa. L’eziologia demoniaca, come
indicano le note precedenti, è preponderante47. Essa suppone, tutta­
via, per poter agire, un terreno favorevole. Il fatto di essere attaccato
al piacere e d’essere sotto l’influsso della tristezza ne costituisce una
forma di cui san Talassio sottolinea l’importanza48. «L’acedia è la ne­
gligenza dell’anima. È negligente l’anima che è malata dell’amore del
piacere», nota ancora49. Quanto a san Macario, egli incrimina la man­
canza di fede50. E sant’Isacco sottolinea che nell’uomo spirituale «l’ac­
cidia viene dalla distrazione dell’intelligenza»51.
La precedente descrizione dei turbamenti che caratterizzano l’a-
cedia, ci permette di comprendere perché i Padri considerano l’ace-
dia ima malattia dell’anima52.
I suoi numerosi effetti patologici non fanno che confermare questo
modo di considerarla.
II principale di questi effetti è un oscuramento generalizzato del­
l’anima: l’acedia rende lo spirito inoùs) oscuro53, lo acceca e ricopre di
tenebre tutta l’anima54. Allora l’anima dmene incapace di apprende­
42 Istituzioni cenobitiche, X, 1.
43 Ore 10.
44 Ore 14.
45 Trattato pratico sulla vita monastica, 12. Nel capitolo 36, Evagrio usa solo questa espres­
sione: «Demone di mezzogiorno», per indicare l’acedia.
46Istituzioni cenobitiche, X, 2 (3).
47 Cfr. anche MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 129. NlL SORSKY, Regola, V.
48 Centurie, I, 90.
49Ibid.,11151.
50 Capitoli parafrasati, 49.
51 Discorsi ascetici, 33.
52 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, X, 1; 2 (4); 3; 4; 5; 7; 25. EVAGRIO PON-
TICO, Gli otto spiriti della malvagità, 13-14. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 49. MASSI­
MO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 67. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 46. TALASSIO, Cen­
turie, IH, 51.
53 Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,66.
54 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, X , 2 (3), (9). Simeone il N uovo T eo ­
logo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,71. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 51.

199
re le verità essenziali. «È veramente assopita riguardo a ogni contem­
plazione delle virtù e a ogni visione dei sensi spirituali l’anima che è
stata ferita da questo turbamento», constata san Giovanni Cassiano55.
La conseguenza più grave è che l’uomo è, a causa di questa passione,
distolto e tenuto lontano dalla conoscenza di Dio56.
I Padri constatano, altresì, che l’acedia, che costituisce un rilassa­
mento dell’anima57 e un lasciarsi andare dello spirito58, genera il vuo­
to nell’anima59, porta l’uomo a una negligenza generalizzata60, lo ren­
de debole1,1. Unita alla tristezza, essa l’accresce62, e allora può facil­
mente condurre alla disperazione63. Da essa possono anche procedere
p^s^gi^bl^bni64e idee folli contro il Creatore65. Essa ha, come altre
conseguenze conosciute, quella di distruggere la compunzione, e di
rendere irritabili66. Da essa ancora, dice sant’Isacco, «proviene lo
spirito dTsrnarnrnento. che è l’origine di mille tentazioni»67.
A differenza di altre passioni principali, l’acedia non genera alcuna
passione particolare perché essa le produce quasi tutte. «Questo de­
mone non è seguito immediatamente da nessun altro», afferma Eva-
grio68, che altrove spiega: «Il pensiero di acedia non è seguito da nes­
sun altro pensiero, prima perché esso permane, poi perché esso ha
in sé quasi tutti i pensieri»69. San Massimo il Confessore dice ugual­
mente che l’acedia «mette scompiglio in quasi tutte le passioni»70. San
Barsanufio afferma in modo più generale che «lo spirito d’acedia ge­
nera ogni male»71. San GiovanarCUmaco nota, di conseguenza, tire
acedia,'per il monaco, è unaViortòche lo chiude da ogni lato»72, e
san Simeone il Nuovo Teologo ctmelude, allo stesso modo, che essa
55Istituzioni cenobitiche, XII, 4.
56Cfr. Apoftegmi, XI, 28.
57 Sim eone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 71. G iovanni C li-
MACO, La Scala, XIII, 2.
58G iovanni C limaco , La Scala, X m , 2.
59 S imeone il N uovo T eologo , loc. dt.
60Cfr. ibid., I, 72.
61 Cfr. ibid., 66.
62 Cfr. Nil SORSKY, Regola, V.
63 Simeone il N uovo T eologo , loc. dt., 72.
64 Cfr. ibid., 66. NlL SORSKY, Regola, V. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetid, 46.
65 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , loc. dt.
66G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16. I sacco il Siro , Discorsi ascetid, 46.
67 Discorsi ascetid, 46. Cfr. 55.
68 Trattato pratico sulla vita monastica, 12.
69 Commento al Salmo 139,3, PG 12,1664B.
70 Centurie sulla carità, I, 67.
71 Lettere, 13.
72 La Scala, XEH, 9.
200
«è la morte dell’anima e dello spirito»73. E aggiunge: «Se Dio lascias­
se [questo demone] impiegare tutta la sua forza contro di noi, senza
dubbio nessun asceta si salverebbe»74.
Così, davanti all’ampiezza di questi effetti, i Padri affermano che
l’acedia è la più pesante, la più opprimente di tutte le passioni75, «la
più grave delle otto»76, che «non c’è passione peggiore di essa»77; ad­
dirittura sant’Isacco dice che essa «fa assaporare l’inferno» all’anima78.
La patologia dell’acedia non può essere considerata, alla pari delle
passioni precedentemente esaminate, come costituita dalla perver­
sione dell’uso di una facoltà particolare. San Massimo fa notare che
essa le implica tutte: «Tutte le altre passioni colpiscono nell’anima
sia la parte irascibile, sia quella concupiscibile, sia anche la parte ra­
zionale [...]. L’acedia, da parte sua, se la prende con tutte le facoltà
dell’anima»79. Ma, d’altra parte, essa non è costituita dal loro uso con­
tro natura, non avendo nella natura alcun fondamento positivo: Eva-
grio osserva che è conforme alla natura (katà phvsin) non averla affat-
j»80. In qualche modo, essa è l’intorpidimento e l’inattivazione, da
un lato, e la distrazione, dall’altro, di tutte le facoltà che contribui­
scono alla vita spirituale dell’uomo. San Talassio esprime bene questo
aspetto nella sua dualità quando la definisce come «la negligenza
dell’anima». In una certa misurau&sa potrebbe essere considerata co-
me costituita dall’assenza di <¿zelo>nspirituale dato dallo Spirito sia al
primo uomo sia all’uomo rinn?JV3fo in Cristo, affinché essi compiano
con fervore il loro impegno spirituale.

73 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,74.


74 Ibid.
75 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,67.
76 G iovanni C limaco , La Scala, XIII, 11.
77Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 157.
78 Discorsi ascetici, 46.
79 Centurie sulla carità, I, 67. Cfr. EVAGRIO PONTICO, Commento al Salmo 139, 3, P G 12,
1664B; Trattato pratico sulla vita monastica, 70.
80 Gli otto spiriti della malvagità, 13.
201
Vili
LA COLLERA

La passione della collera (orge) procede dalla potenza irascibile [ap­


petito o facoltà irascibile] dell’anima (thymós), e comprende tutte le
manifestazioni patologiche dell’aggressività.
La potenza irascibile, lo abbiamo visto, è stata data da Dio all’uo­
mo al momento della sua creazione, e fa parte della sua stessa natu­
ra. Secondo il disegno del Creatore, essa doveva avere come funzione
quella di permettere all’uomo di lottare contro le tentazioni e il ten­
tatore, di evitare il peccato e il male: essendo stata così, fin dall’origi­
ne, definita la sua finalità naturale e il suo uso normale. Ma, lo ab­
biamo dimostrato, l’uomo, attraverso il peccato, ha allontanato que­
sta facoltà da tale finalità, e invece di utilizzarla per combattere il
Maligno, l’ha volta contro il suo prossimo, facendo di questa un uso
contro natura. E quest’uso contro natura della potenza irascibile che
costituisce la passione della collera sotto tutte le sue forme e che ne fa
una malattia dell’anima. Ciò è stato sufficientemente sviluppato nella
prima parte del nostro studio1, ragion per cui non ci ritorneremo so­
pra ora.
La collera appare come una passione tutte le volte che questa pren­
de il prossimo come oggetto. Per questo, nessun motivo di nessun ge­
nere potrebbe legittimarla2. E contro il Maligno che occorre mettersi
in collera non contro colui che ne è la vittima, perché, dice l’Aposto­
lo: «Infatti non lottiamo contro una natura umana mortale, ma contro
i prìncipi, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo
oscuro, contro gli spiriti maligni delle regioni celesti» (Ef 6,12). È con­
tro il peccato che bisogna combattere, non contro colui che lo com­
mette: «Odia la malattia, non il malato», raccomanda san Sindetico3.
1Al capitolo 3,3.
2Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 24. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, Vili,
21 ; 22 .
3Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 23.
202
Ciò che la tradizione ascetica pone sotto il nome di «collera» non
consiste solo in queste manifestazioni violente, esteriorizzate, che or­
dinariamente poniamo sotto il suo nome e che generalmente sono epi­
sodiche e colpiscono particolarmente alcuni individui dal tempera­
mento detto collerico: i Padri la concepiscono come una passione svi­
luppata come le altre, e radunano ugualmente sotto questo termine
tutte le forme di aggressività, esteriori o interiori, esplicite o nasco­
ste, grossolane o sottili, di cui l’uomo è capace, e che hanno in modo
generale il prossimo come oggetto. Così, accanto a ciò che abitual­
mente chiamiamo collera, e che costituisce la manifestazione più este­
riore, visibile e violenta di questa, la forma acuta della passione dove
«il thymós scoppia e si dispiega»4 i Padri5 distinguono principalmen­
te: il risentimento (mènis) - che è una «collera trattenuta», che dura
sotto una forma più interiorizzata e più nascosta, e che ha come fon­
damento il ricordo di un’offesa, di ima umiliazione, d’ingiustizie su­
bite -, il rancore (mnèsikakia), l’odio {misos, kótos), e così tutte le for­
me di rancore, di ostilità, di animosità, d’inimicizia, in breve, di cat­
tiveria. Il cattivo umore, l’acredine, le forme più o meno sviluppate
d’irritazione (oxycholia) e le manifestazioni d’impazienza, già fanno
parte di questa passione6. Allo stesso modo, vi si ricollegano l’indi­
gnazione e le beffe, gli scherni e l’ironia riguardo alle persone. Vi si
possono collegare anche i sensi, benché poco sviluppati, di malevo­
lenza, dai più grossolani - che si traducono nella cattiveria e nella
volontà aperta di nuocere -, ai più sottili, che possono consistere, da
un lato, nel rallegrarsi (anche per un solo momento) di un male o di
una delusione che colpisce il prossimo, e dall’altro, nel non affligger­
si delle pene che gli sopraggiungono, o persino a non gioire della sua
felicità7. A proposito di questi sentimenti spesso molto sottili, molto
interiori e non percepiti da colui in cui essi allignano, le forme estre­
me di violenza, come le diverse rivalità8, lotte, aggressioni, combatti­
menti e perfino crimini9o guerre, possono anche derivare dalla pas­
4G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 16.
5Vedi per esempio: Ef 4,31. Col3,8. GIOVANNI DAMASCENO, loc. cit. EVAGRIO PONTICO, Trat­
tato pratico sulla vita monastica, 11. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VIE, 5. GIOVANNI CASSIANO,
Conferenze, V, 11. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, Vili, 89; 91; 93. BASILIO DI CESAREA,
Omelie, 10, Sulla collera.
6 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, VII, 90. ERMA, Il Pastore, Precetti, V, 2.
7 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, VE, 93.
8 B asilio di C esarea , loc. cit.
9Ibid. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Mat­
teo, XVI, 6.
203
sione della collera nel senso ampio in cui l’intende la tradizione asce­
tica. Vediamo, dunque, che essa include una vastissima gamma di sta­
ti e di reazioni umane, e si comprende come possa essere presente nel­
l’uomo decaduto quasi permanentemente allo stesso titolo delle altre
passioni.
I Padri notano che, in ogni forma di collera, l’uomo prova un certo
piacere che lo fa riagganciare ad essa. «Poco le importa il male che l’a­
nima fa a se stessa», osserva san Giovanni Crisostomo: «Essa si tramuta,
diventa una sorta di piacere che occorre soddisfare a ogni costo. Sì,
questo infiammarsi del cuore non è senza un certo piacere, esercita an­
che sull’anima una tirannia più forte di ogni altro piacere»10. San Gio­
vanni Climaco nota ugualmente allo stesso proposito del ricordo del­
le ingiurie e del rancore: «E un dolore sensibile e pungente che uno
non cessa di amare a causa della dolcezza che trova nell’amarezza stes­
sa della collera»11. Ma qui si tratta di una relazione seconda al piace­
re, che permette di comprendere come il piacere possa intrattenere la
collera (e singolarmente il rancore) non come condiziona la sua appa­
rizione. È in un legame preliminare e più fondamentale del piacere con
la collera che si può cogliere l’origine delle diverse manifestazioni di
questa passione. Evagrio, facendo proprio l’intento di un altro Padre,
afferma: «Io so che la collera si agita sempre riguardo ai piaceri»12. San
Massimo13e san Doroteo14vedono ugualmente nell’amore del piacere
ifilèdonia) una causa fondamentale della collera. Questa nasce nell’uo­
mo quando è afflitto per non poter raggiungere il piacere che ricerca15,
ma ugualmente e principalmente quando egli si trova, si sente, o teme
di essere privato di un piacere di cui godeva, e «quando dunque l’a­
more dell’io (filautia) viene a trovarsi ferito dalla sofferenza»16. Essa si
rivolge allora contro quella che è, o sembra essere, la causa della fru­
strazione, o che nondimeno la minaccia, o sembra minacciarla. Ecco
perché Evagrio definisce così la collera: «Un movimento contro colui
che ha fatto un torto o che sembra averlo fatto»17.
10 Trattato sul sacerdozio, IH, 14.
"La Scala, IX, 2.
12La preghiera, 99.
13 Centurie sulla carità, 1,51.
14Istruzioni spirituali, XII, 131.
15Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, m , 20. Atanasio d ’A lessandria, Con­
tro i pagani, 3.
16 MASSIMO IL C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo.
17 Trattato pratico sulla vita monastica, 11.
204
Il piacere sensibile è correlativo al desiderio sensibile. Il desiderio
dei beni sensibili e l’attaccamento a questi sono, dunque, cause del tut­
to fondamentali della collera. Nondimeno, ciò permette di compren­
dere quest’altra affermazione di Evagrio: «Sopprimo desideri per esclu­
dere i pretesti della collera»18. Lo stesso Evagrio scrive altrove: «Tu
non ammetterai mai la cupidigia, perché è essa che fornisce materia
alla collera»19. Sant’Isacco il Siro scrive allo stesso modo: «Se ci at­
tacchiamo alle cose sensibili (queste cose che suscitano l’aggressività
contro natura) [...] noi cambiamo [...] la dolcezza naturale in rudez­
za»20. In tutto questo possiamo cogliere un eco dell’insegnamento di
san Giacomo: «Donde provengono le guerre e le battaglie tra di voi?
Non provengono forse dalle vostre bramosie di piacere, che si com­
battono tra loro nelle vostre membra?» (Gc 4,1).
Per amore dei beni materiali e dei piaceri che gli procurano, e
perché li preferisce ai beni e alle gioie spirituali, l’uomo cade nella pas­
sione della collera, così come afferma chiaramente san Massimo: «Ab­
biamo preferito le cose materiali e profane al comandamento dell’a­
more e, poiché vi siamo attaccati, lottiamo contro gli uomini mentre
dovremmo preferire l’amore per tutti a tutte le cose visibili e persino
al nostro corpo»21. Lo stesso autore spiega ancora: «Per il fatto che sia­
mo presi dall’amore delle cose materiali e dall’attrazione del piacere e
preferiamo tutto questo al comandamento dell’amore, non siamo ca­
paci di amare coloro che ci odiano; piuttosto ci capita di opporci a co­
loro che ci amano, a causa di queste stesse cose»22.
L’amore delle cose sensibili e dei relativi piaceri si manifesta in mo­
do diversificato, lo abbiamo visto, nelle passioni. Vi sono, secondo una
concezione ascetica classica, tre grandi categorie di passioni o tre ge­
neri principali di attaccamenti alla realtà sensibile, categorie che pos­
sono costituire per l’uomo pretesti per la collera23, se egli viene pri­
vato del piacere che questi gli procurano, o è minacciato di perderli,
o è impedito a raggiungerli: l’attaccamento al nutrimento (passione
della gastrimargia)24; l’attaccamento al denaro, alle ricchezze e più in
18 Ibid., 99.
19La preghiera, 27.
20Discorsi ascetici, 27.
21 Libro ascetico, 7.
22 Ibid., 8.
23 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Dei diversi pensieri della malvagità, 1; Lettere, 39; Antirretico, Col­
lera, 30. G iovanni C limaco , La Scala, VIE, 36; XXVI, 33.
24 E vagrio P ontico , loc. cit. G iovanni C limaco , La Scala, Vili, 36. D oroteo di G aza ,
Istruzioni spirituali, E, 29.
205
generale agli oggetti materiali (passione della filargiria e della pleo-
nessia)25; l’attaccamento a se stesso (passione della cenodossia26 e
dell’orgoglio)27.
Tuttavia, queste finora esposte non sono che le fonti più importan­
ti e più frequenti e diffuse: la collera può avere numerosissime cause
difficili da circoscrivere in modo semplice, come afferma san Giovanni
Climaco nell’esprimersi, una volta ancora, con un linguaggio di me­
dicina spirituale: «La febbre del corpo è sempre della stessa natura,
ma il suo calore è lontano dall’avere sempre la stessa origine, può pro­
cedere da molteplici cause. Allo stesso modo, il ribollimento della col­
lera e i suoi movimenti, come senza dubbio quelli delle nostre altre
passioni, possono avere cause e origini diverse. E per questo che è im­
possibile prescrivere una regola unica a loro riguardo. Consiglierei
piuttosto a ciascuno di quelli che ne sono ammalati di ricercare con
grandissima cura il metodo da seguire per curarsi. Il primo punto
del trattamento è quello di conoscere la causa della malattia; quando
questa sarà trovata, infatti, i malati riceveranno dalla provvidenza di
Dio e dai loro medici spirituali il rimedio efficace»28.
Oltre alle passioni precedentemente citate, occorre altresì presen­
tare tra le cause principali la passione della lussuria29e l’eccesso di ri­
poso concesso al corpo30. Quest’ultima eziologia si può comprendere
allo stesso modo di quella che costituisce l’intemperanza: nel riposa­
re, come nel nutrire troppo il corpo, si fornisce a questo un capitale
di energia che potrà facilmente essere usato per fortificare la potenza
aggressiva, o irascibile, dell’anima, nello stesso tempo che si allenta
l’attenzione dello spirito e la tensione della volontà che la controllano
e la dominano. Questa, tuttavia, non è che una ragione fra le altre.
Tra tutte le fonti della collera che abbiamo messo in evidenza, è cer­
to che la cenodossia e l’orgoglio costituiscono la più fondamentale31.
San Marco l’Eremita scrive riguardo all’odio: «Questa malattia col­
pisce quelli che perseguono la preminenza negli onori»32. E in ma­

25 Cfr. E vagrio P ontico , loc. cit. G iovanni C limaco , La Scala, Vin, 36; XXVI, 33. Do-
eoteo di G aza , loc. cit. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 , 75; IH, 20; IV, 41.
26 E vagrio P o ntico , loc. cit. G iovanni C limaco , La Scala, Vili, 36. D oroteo di G aza ,
Istruzioni spirituali, X, 108. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, III, 20; IV, 41.
27 G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 33.
28La Scala, VIII, 35.
29 G iovanni C limaco , La Scala, Vin, 36.
30 D oroteo d i G aza , Sentenze, 3.
31 Cfr. G iovanni C limaco, La Scala, v m , 36; XXII, 1.
32Sulla penitenza, IH.
206
niera più generale riguardo alla collera: «L’orgoglio soprattutto la con­
solida e la fortifica»” . Quando l’uomo è ferito nel suo amor proprio,
quando si sente umiliato, offeso, non considerato (particolarmente
in rapporto all’immagine vantaggiosa che egli ha di se stesso e che egli
attende che gli altri gli riconoscano), egli si rivolge alle diverse forme
di collera. Benché ciò sembri essere la causa esteriore della collera e
motivarla veramente, non è, in realtà, che il rivelatore o il catalizzato-
re di una collera che procede direttamente dal soggetto stesso, dal suo
orgoglio. «Non sono le parole che ci feriscono, nota per esempio san
Basilio, è il nostro orgoglio che ci fa ribellare e la buona opinione
che abbiamo di noi stessi»34. Una prova a contrario ne è che l’umile ri­
mane pacifico e dolce anche quando è aggredito con violenza. Per la
collera, il rancore, il desiderio di vendetta, l’uomo cerca allora di ri­
stabilire di fronte a colui che lo ha offeso ed umiliato, e anche di fron­
te a se stesso, l’immagine di se stesso alla quale si è attaccato, e che egli
sente deprezzata.
Queste ultime considerazioni non sono affatto in disaccordo con
quanto abbiamo detto precedentemente sull’importanza del ruolo che
il piacere gioca nella collera: l’uomo, come vedremo in seguito, trae
dalla cenodossia e dall’orgoglio un certo godimento che è minacciato,
sminuito e anche soppresso per le offese e le umiliazioni di ogni sor­
ta. La collera appare, dunque, qui, molto chiaramente, ancora una vol­
ta come una reazione di ribellione davanti alla perdita di un piacere,
ma ancora più spesso come una reazione di difesa per conservare il
piacere minacciato o per ritrovare il piacere perduto.
Come tutte le altre passioni, la collera, in tutte le sue forme, è rite­
nuta dai Padri35 una malattia dell’anima. «E una malattia che ripu­
gna tanto alla nostra natura quanto una malattia del corpo», scrive san
Giovanni Crisostomo36.
A motivo del disordine che essa instaura, è considerata soprattutto
come una forma di follia37. «Tra la collera e la follia, non vi è alcuna
33A Nicola, 8.
34 Omelie, 10, Sulla collera.
35Oltre alle citazioni che seguono, vedi: GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VITE, 2;
6. GIOVANNI C risostomo , Commento al Salmo 123,1; Commento a san Giovanni, V, 5; XLVIII,
3; Commento a san Matteo, X, 6; LX, 1. MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, III.
36 Omelie sugli Atti, XXXI, 4.
37Oltre alle citazioni che seguono, vedi: E rma, Il Pastore, Precetto, V, 2 , 4. METODIO DI OLIM­
PO, Il banchetto, V, 5. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Salmo 123, 1; Omelie sugli Atti,
XXXI, 4. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, V, 45.
207
differenza», afferma san Giovanni Crisostomo38. «L’uomo in collera
somiglia moltissimo a un folle», dice ancora39. «La collera è una fol­
lia momentanea», osserva a sua volta san Basilio40.
È evidentemente nelle sue manifestazioni acute e violente, e parti­
colarmente quando essa assume la forma del furore, che la collera me­
rita maggiormente di essere considerata come ima sorta di follia. San
Giovanni Climaco non esita a qualificarla come epilessia spirituale41.
San Gregorio Magno, presentando un quadro più preciso di questa
passione nelle manifestazioni parossistiche, fa apparire nettamente che
queste permettono di assimilarla a una forma di follia: «Punto dal pun­
golo della collera, il cuore palpita, il corpo trema, la lingua balbetta, il
fuoco sale al viso, gli occhi scintillano: l’uomo diviene irriconoscibile
a quelli che lo conoscono. La bocca proferisce dei suoni, ma l’intelli­
genza non sa più ciò che dice. In cosa dunque un uomo che non è più
cosciente di ciò che dice, differisce da un folle in trance? Così accade
spesso che la collera discenda fino nei polsi e insorga con una violen­
za che è la misura stessa della sua insensatezza. Lo spirito non è più
capace di alcun controllo, perché è divenuto il giocattolo di una po­
tenza che gli è estranea, e se la rabbia agisce sulle sue membra all’e­
sterno facendo loro sopportare dei colpi, è perché interiormente es­
sa tiene prigioniera l’anima che dovrebbe esserne la padrona»42.1
Padri mostrano spesso nello stesso senso in cosa colui che è preso da
queste forme violente di collera assomigli a un posseduto43; possia­
mo ricordare, in questo caso, il legame diretto che essi vedono peral­
tro tra alcune forme agitate di follia e la possessione diabolica.
Se la collera assomiglia e persino s’identifica con alcune forme di
follia e di possessione, è perché si ritrova sia in queste come in quelle
un gran numero di sintomi del tutto simili. Esaminiamo in dettaglio
questa patologia che si rivela in modo particolarmente netto nelle for­
me più violente di collera, ma si ritrova anche in gradi diversi nelle al­
tre manifestazioni di questa.
Sul piano del corpo, la collera, nelle sue manifestazioni acute, pro­
voca un’agitazione caratteristica, facilmente percepibile all’esterno.
38 Commento a san Giovanni, XLVIII, 3.
39Ibid., IV, 5.
40 Omelie, 10., Sulla collera.
41 Cin. La Scala, VIE, 15.
42Moralia su Giobbe, V, 45.
43 Cfr. B asilio di C esarea , Omelie, 10, Sulla collera. G iovanni C risostomo , Commento a
san Giovanni, XLVIII, 3. EVAGRIO PONTICO, Lettere, 56; Capitoli gnostici, IH, 34.
208
San Giovanni Crisostomo44, ma soprattutto san Basilio45, ce ne dan­
no una descrizione tipica, analoga a quella presentata da san Grego­
rio Magno di cui abbiamo proposto prima lunghi brani. All'interno
del corpo, la collera si traduce attraverso turbe fisiologiche46. Le sue
forme represse e croniche implicano anche tali disordini47. Tutti que­
sti disordini, che sconvolgono il funzionamento abituale del corpo,
sferrano dei colpi alla sua salute. San Giovanni Crisostomo lo fa no­
tare: «La collera corrompe il corpo»48; «ne ho conosciuti molti che la
collera ha reso malati»49. Quanto a san Giovanni Climaco, egli con­
stata le conseguenze che questa passione può avere sulle condotte nu­
trizionali, generando sia un’anoressia che una bulimia50.
Ma è soprattutto nell’anima che la collera produce dei turbamenti
che permettono di considerarla come una grave malattia dell’anima
e come ima forma di follia. «La collera, più delle altre passioni, ha l’a­
bitudine di turbare e sconvolgere l’anima», osserva san Diadoco di Fo-
ticea51, e sulla sua scia san Giovanni Climaco52. La collera, scrive a sua
volta san Gregorio Magno, «turba l’anima e, per così dire, la lacera e
la trancia»53, «getta in essa la confusione»54. «Essa devasta tutta anima,
la pone nella confusione», nota san Marco l’Eremita55. «Essa rovina
l’anima», «essa sconvolge da cima a fondo il suo normale stato», di­
ce ugualmente san Giovanni Crisostomo56, che afferma altresì che ren­
de l’anima deforme57, «attaccando ciò che ha di più sano, corrompendo
ciò che essa ha di più puro»58.
I turbamenti generati nell’anima dalla passione della collera sono

44 Commento a san Giovanni, IV, 5.


45 Omelie, 10, Sulla collera.
46 Cfr. G iovanni D am asceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 16. G regorio
N azianzeno , Poesie morali, XXV, 35-40, PG 37,816A. B asilio di C esarea, Commento a Isaia,
PG 30,424A. GREGORIO DI N issa , La creazione dell’uomo, XII; Omelie sul Padre nostro, P G 44,
1164C; Sull’anima e sulla risurrezione, 38. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, Vili, 90.
Vedi anche: EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 11. GIOVANNI CLIMACO, La
Scala, VHI, 6.
47 Cfr. ÉVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 11.
48 Commento a san Giovanni, XXVI, 3.
49 Omelie sugli Atti, VI, 4.
50La Scala, VIH, 22.
51 Cento capitoli gnostici, 62.
52La Scala, Ricapitolazione, 32. Cfr. VIE, 18.
53Moralia su Giobbe, V, 45.
54 Ibid.
55A Nicola, 8.
56 Trattato sul sacerdozio, DI, 13.
57 Commento a san Giovanni, XLVIII, 3.
58 Commento a san Matteo, IV, 9.
209
molti. Essa turba innanzitutto l’uso della ragione al punto che sembra
escluderla59. «L’aggressività distrugge tirannicamente l’esercizio della
ragione e fa uscire il pensiero dalla legge della natura», scrive san Mas­
simo60. «Questa passione bandisce la ragione, interdice all’uomo l’uso
del ragionamento», nota da parte sua san Basilio61.
«Essendo allora la [sua] ragione seppellita nell’ubriachezza e nelle
tenebre»62, l’uomo diviene incapace di giudicare correttamente le co­
se63. Per questo così scrive san Giovanni Cassiano: «Fintanto che la
collera occupa il nostro cuore e acceca il nostro occhio interiore, noi
non possiamo giudicare con discernimento [...]. Non possiamo più es­
sere capaci di ottenere la vera luce spirituale, poiché, dice la Scrittu­
ra, “s’è spento nel dolore il mio occhio” {Sai 30[31],10); noi non sa­
remo nemmeno capaci di ottenere la maturità del giudizio [...], per­
ché “chi è pronto all’ira commette ogni stoltezza” (Pro 14,17)»64.
«Niente turba la chiarezza dell’intelligenza, niente offusca la pene-
trazione dello spirito come la collera», constata ugualmente san Gio­
vanni Crisostomo65.
Di conseguenza, l’uomo vede le cose in funzione di ciò che la sua
collera indica; la sua ragione è totalmente al servizio della sua passio­
ne66. Tutta la conoscenza che egli ha della realtà è così turbata, anche
se da un punto di vista esteriore le sue facoltà cognitive sembrano espli­
carsi in modo corretto e se sembra che egli rimanga capace di ragio­
namenti formalmente validi67. L’uomo in preda all’aggressività cessa
allora di percepire il reale così com’è per vederlo come non è: la sua
passione provoca in lui una conoscenza delirante e in relazione a ciò
modifica il suo modo di comportarsi di fronte alla realtà. «In verità, la
collera non è meno folle del delirio, afferma san Giovanni Crisosto­
mo: guardate come il demonio getta le sue vittime nel delirio, le priva
assolutamente della ragione, persuade loro che sia tutto il contrario di
dò che i loro occhi consigliano. Essi non vedono nulla, non fanno nul­
59Cfr. B asilio DI CESAREA, Omelie, 10, Sulla collera. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sugli
Atti, VI, 4. San Gregorio Nazianzeno parla della «collera insensata che sconvolge la ragione»
{Discorsi, XXV, 7).
60 Commento del Padre nostro, PG 90, 888C.
61 Omelie, 10, Sulla collera.
62G iovanni C risostomo , Commento a san Giovanni, IV, 5. M arco l’E remita, A Nicola, 8.
63 Ibid.
64 Istituzioni cenobitiche, VIE, 1.
65 Trattato sul sacerdozio, HI, 14.
66Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V, 45.
67 Cfr. ibid.
210
la in modo razionale; si direbbe che essi non abbiano più né senso
né giudizio [...]; la collera li soggioga»68. Lo stesso santo scrive an­
che, comparando la collera all’ubriachezza che egli ha detto che non
essere altro che «la deviazione dello spirito al di fuori delle sue vie na­
turali, la deviazione del ragionamento, la perdita della coscienza»69:
«In cosa coloro che sono in collera e quelli che sono ebbri di furore
sono in una situazione meno grave di quelli che sono ubriachi di vi­
no? Essi, infatti, dànno prova di una tale smoderatezza quando si sca­
tenano contro tutti, senza controllare le parole, senza più saper di­
stinguere le persone. Così come i folli (mainómenoi) e i frenetici si get­
tano nei precipizi senza rendersene conto, così coloro che sono in
collera o assaliti dal furore»70. San Basilio nota, come san Giovanni
Crisostomo71, che, sotto l’effetto della collera, l’uomo cessa di rispet­
tare i valori più fondamentali sia in se stesso che negli altri, arrivan­
do persino ad ignorare il suo prossimo e non curando i suoi interessi
più elementari72. Il delirio generato dalla collera ha anche come ef­
fetto quello di modificare la proporzione delle cose che l’uomo per­
cepisce: gli avvenimenti non sono più percepiti né vissuti secondo le
loro vere dimensioni, ma sono, per alcuni, smisuratamente e ingiusta­
mente ingranditi, mentre per altri, contemporaneamente, sono occul­
tati o essi vedono la loro importanza diminuita73.
Un altro aspetto patologico essenziale che permette di assimilare la
collera a una forma di follia o a uno stato di possessione è l’aliena­
zione che ne deriva: colui che è vittima di questa passione non si con­
trolla più, non sembra più agire sotto la guida del suo spirito e sotto
l’impulso della propria volontà, ma si ritrova determinato a pensare
e ad agire sotto la pressione di ima forza esterna a se stesso, la cui
padronanza sembra sfuggirgli completamente, forza che tiranneggia
la sua anima e il suo corpo74. L’uomo diviene letteralmente il giocat­
tolo della propria passione75.
Una tale alienazione, tuttavia, non è legata solo alle forme violente
della collera: la si può anche constatare nelle manifestazioni di ran-
68 Omelie sulla Genesi, LUI, 5.
69 Catechesi battesimale, V, 4.
70Ibid., 5.
71 Trattato sul sacerdozio, DI, 13.
72 Omelie, 10, Sulla collera.
73 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XVI, 8.
74 Cfr. ibid., IV, 9; Trattato sul sacerdozio, DI, 13. BASILIO DI CESAREA, Omelie, 10, Sulla col­
lera. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V, 45.
75 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,51. G regorio M agno , loc. tit.
211
core o di sordo odio, in cui tutte le facoltà dell’uomo sono concentrate
sull’oggetto contro il quale si esercitano questi modi della passione,
e in cui il soggetto è come determinato a ricordarsi permanentemen­
te dell’offesa ricevuta e a definire o ridefinire costantemente i mezzi
per vendicarsene76. Anche nei casi in cui la collera non è che ima sem­
plice irritazione, l’uomo nel suo comportamento sembra determina­
to da una forza esterna e che in parte gli sfugge, quello che, per esem­
pio, egli riconosce quando dice di essere «di cattivo umore».
Infine, un ultimo sintomo patologico, essenziale nella collera, è quel­
lo dell’agitazione psicomotoria che lo caratterizza in gradi diversi77 e
lo avvicina, anche, a molte manifestazioni di follia e a stati di posses­
sione diabolica. Il comportamento dell’uomo, che ne è vittima, di­
viene confuso, disordinato: costui si dedica alle azioni più strane, azio­
ni che egli sconfesserà nel suo stato normale. «Coloro che si lasciano
sorprendere dalla collera sono capaci di ogni sorta di disordini e di
impeti d’ira», constata san Basilio; «è impossibile raccontare tutte le
stravaganze che fa un uomo in questo stato; egli corre senza ordine e
senza una meta», «si precipita e corre con impetuosità», «egli attacca
tutti quelli che incontra»78.
La collera, dicono i Padri, è per l’anima come un veleno79per mez­
zo del quale il diavolo la corrode crudelmente dall’interno80. Il ricor­
do delle ingiurie, il risentimento, particolarmente il rancore, sono
come un veleno che s’insinua facilmente in ogni parte dell’anima81 e
avvelena il cuore82.1 Padri la paragonano anche a un «verme che
corrode lo spirito»83o a un fuoco che tutto divora84. Nel trattenere in
sé la collera, il risentimento, il rancore e l’odio, l’uomo si strugge e si
autodistrugge. «Voi credete di vendicarvi del vostro nemico e vi tor­
mentate da voi stessi», constata san Giovanni Crisostomo; «il vostro
risentimento è un carnefice che vi portate dovunque dentro di voi, è
un avvoltoio che strappa le vostre viscere»85.
76 Cfr. B a silio d i C esarea, Omelìe, 10, Sulla collera.
77 Cfr. GREGORIO M ag n o , Moralia su Giobbe, V, 45; XX XI, 45.
78 Omelie, 10, Sulla collera.
79 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Matteo, LXXXI, 2; Commento a san Gio­
vanni, XXVI, 3. G iovanni C limaco , La Scala, IX, 2.
80 Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,47.
81 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, XXVI, 3.
82 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, IX, 2.
83 Ibid.
84 G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XX, 6; Commento a san Giovanni, XXVI, 3.
85 Omelie sulle statue, XX, 2.
212
L’uomo, sotto l’influsso dei suoi atteggiamenti passionali non ha più
pace, ma si trova immerso in uno stato di pena e d’inquietudine per­
manente86. «Un furioso non può godere la pace; colui che ha un ne­
mico e che conserva contro di lui odio non godrà mai», afferma san
Giovanni Crisostomo87. «L’uomo agitato», dice ancora, «si rende de­
gno di mille supplizi: perpetuamente agitato da pensieri tumultuosi,
notte e giorno nel turbamento e nelle angosce dell’anima, soffre quag­
giù tormenti anticipatori dell’inferno»88.
Sul piano più fondamentale, quello della relazione dell’uomo con
Dio, la passione della collera rivela di avere effetti particolarmente no­
civi. In primo luogo, essa separa l’uomo da Dio89. Essa non si oppo­
ne solo alla «collera onorevole», di cui prende il posto; c’è un’altra
virtù importante, naturale all’anima90, che essa viene a colpire91 e di­
struggere92: la dolcezza, forma della carità, per mezzo della quale, in
particolare, l’uomo somiglia a Dio. Così, scrive san Gregorio Magno,
«il peccato di collera, annichilendo la dolcezza della nostra anima, vi
corrompe la somiglianza con l’immagine divina»93. In altri termini, que­
sto significa che lo Spirito Santo cessa di rimanere nell’uomo94, lo spi­
rito demoniaco richiamato dall’atteggiamento dell’uomo ne prende
il suo posto95. Privato dello Spirito che le conferiva particolarmente
ordine e unità, l’anima viene a trovarsi disorganizzata e divisa: «Non
appena l’anima viene privata dello Spirito Santo, osserva san Grego­
rio Magno, si vede trascinata in una evidente follia, e dispersa dal­
l’intimo dei suoi pensieri fino nelle sue espressioni più superficiali»96.
Lo stesso santo aveva notato precedentemente che «quando la colle­
ra viene a colpire la dolcezza dell’anima, essa la turba, e, per così di­
re, la lacera e la fa a pezzi, in modo da dividerla contro se stessa»97.
Una volta che si è ritirato lo Spirito Santo che la illuminava, l’anima si
ritrova improvvisamente immersa nelle tenebre98. Innanzitutto sono
86 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, IX , 5.
87 Loc. cit.
88Commento a san Giovanni, XLVIII, 3.
89 B asilio di C esarea, loc. cit.
90G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XV, 11.
91 G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, V, 45.
92 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 20.
93Loc. cit.
94 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VIE, 18. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, V, 45.
G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, Vili, 12. B asilio di C esarea, he. cit.
95 G iovanni C assiano , loc. dt. B asilio di C esarea, he. cit.
96Moralia su Giobbe, V, 45.
97 Ibid.
98 Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, vm , 22. Isacco IL Siro , Discorsi asceti­
ci, 27.
213
gli occhi del cuore che si ritrovano offuscati": l’uomo allora si allon­
tana dalla vera scienza100. «Dio priva dell’irraggiamento della sua co­
noscenza lo spirito che la collera ottenebra con la sua confusione», no­
ta san Gregorio Magno101. Lo spirito è incapace di contemplazio­
ne102. «Quale che sia la sua causa, il movimento della collera, nel suo
ribollimento, acceca gli occhi del cuore e vi introduce la “trave” mor­
tale di una malattia più grave, impedendole di contemplare il sole di
giustizia», scrive san Giovanni Cassiano103. Ed Evagrio: «Come quel­
li che hanno la vista malata e guardando il sole sono impacciati dalle
lacrime e vedono nell’aria delle allucinazioni, così l’intelligenza (mùs),
quando è turbata dalla collera, è incapace di scrutare attraverso la con­
templazione spirituale, ma essa vede come una nube posata sugli og­
getti che cerca di guardare»104. Più precisamente, l’uomo diviene in­
capace di percepire la presenza del Cristo in sé105.
Ne segue, secondo quanto detto finora, che la collera costituisce un
ostacolo alla preghiera106, che, afferma Evagrio, è proprio «un germo­
glio della dolcezza e dell’assenza della collera»107. «Opprimendo lo sta­
to di preghiera»108, la collera distrugge la salvezza dell’anima legata a
quello, e impedisce all’uomo di condurre la vita per la quale è stato
fatto.
Quando la collera sviluppa e rafforza l’aggressività cattiva109, s’in­
debolisce altrettanto l’aggressività virtuosa data all’uomo per lottare
contro il male. La forza dell’anima perde la conoscenza della lotta spi­
rituale110e allora si ritrova paralizzata111. L’anima diviene impotente112
e ogni sforzo di ricostruzione per lei si rivela difficile113.
” Giovanni Climaco, La Scala, V in, 26. Giovanni Cassiano, he. cit. Evagrio P ontico,
Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
100 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 24. ESICHIO DI BATOS, Capitoli
sulla vigilanza, 136.
101Moralia su Giobbe, V, 45.
102Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, ni, 20.
103Istituzioni cenobitiche, Vm, 6.
104 Capitoli gnostici, IV, 63.
105 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, IV, 76.
106Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 13; 21; 22; Sui diversipensieri della malvagità, 32; Trat­
tato pratico della vita monastica, 23. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,49; IH, 20.
107Sulla preghiera, 14.
108Ibid., 27.
109Evagrio P ontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 20. Cfr. Simeone il N uovo T eo­
logo, Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 47.
110ESICHIO di BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 31.
111 G iovanni Crisostomo, Commento a san Matteo, IV, 9.
112Ibid.
113Cfr. Simeone il N uovo Teologo, Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,47.
214
Tutte queste conseguenze, aggiunte a quelle descritte precedente-
mente, sono catastrofiche per l’uomo: la collera, in definitiva, com­
porta la sua morte spirituale114, dato che essa scaccia da lui tutte le
virtù115e distrugge in primo luogo la carità116. Conformemente alla sua
normale finalità, cessando di distruggere i pensieri demoniaci, «essa
distrugge allo stesso modo i pensieri buoni che sono in noi»117.
Essa genera correlativamente una folla di passioni. Tra le princi­
pali, citiamo la tristezza118, l’acedia119, la pusillanimità120e l’orgoglio121.

114 Cfr. Gb 5,2. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 75. G regorio M a g n o ,
Moralia su Giobbe, V, 45.
115Isaia di Scete, Asceticon, n, 8.
116Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V, 45. G iovanni Crisostomo, Commento a
san Matteo, XVI, 8.
117 Esicmo Dì Batos, Capitoli sulla vigilanza, 31. Cfr. 136.
118E vagrio PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 20. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen­
turie sulla carità, III, 89.
119Evagrio P ontico, loc. dt., 23. M assimo il Confessore, loc. dt., 1,49.
120Cfr. M assimo il Confessore, Centurie sulla carità, m , 70.
121 Ibid.
215
IX
IL TIMORE

I Padri classificano tra le passioni il timore (phóbos) e tutti gli stati


affini e ne costituiscono alcune forme o gradi, come la paura, lo spa­
vento, il terrore, ma anche l’ansia, l’angoscia, la disperazione1.
Generalmente, il timore è provocato dal rischio di una privazione
o di una sofferenza2, dall’idea o dal sentimento che si perderà o che si
potrà perdere ciò che si desidera, o dò a cui si è attaccati3.
Tuttavia, il timore così definito può essere tanto ima virtù che una
passione. «Se il timore è anche una passione, non ogni timore è una
passione», osserva Clemente d’Alessandria4. Occorre, dunque, distin­
guere due tipi di timore.
1) Il primo, che Dio ha messo nell’uomo nd crearlo e che appa
tiene alla sua natura, ha una duplice forma.
a) La sua prima forma è una forza che attacca l’uomo al suo stes
essere5 e gli fa temere di perdersi anima e corpo. Per mezzo di que­
sto timore nelle sue manifestazioni più dementari, egli si attacca alla
vita, all’essere e paventa tutto ciò che potrebbe corrompere e rovina­
re questi beni; prova repulsione riguardo al non essere, come spiega
san Massimo, il quale sottolinea che questa tendenza appartiene alla
natura stessa dell’uomo: questi ha «la potenza di attaccarsi all’essere e
non al non essere, ed [...] è una proprietà secondo la natura di que­
sta potenza la tendenza verso ciò che è atto a conservare l’essere e la
repulsione verso ciò che è atto a distruggerla»6; essa fa parte dd ló-
goi che Dio «ha inserito [nella natura umana] con la creazione»7. «Il
1Cfr. G iovanni D amasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 15; 12.
2 Cfr. ibid.yE, 12.
3Cfr. Atanasio d ’Alessandria, Contro i pagani, 3.
4Stronzata, E, 8,40.
5G iovanni D amasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, EI, 23.
6M assimo il Confessore, Disputa con Pirro, PG 91,297CD.
7Ibid.
216
timore secondo natura, egli aggiunge, è la potenza di attaccarsi al­
l’essere secondo la repulsione [di ciò che tende a distruggerlo]»8. Que­
sto timore, dice anche san Giovanni Damasceno, «è repulsione per
tutto quello che distrugge»9; essa corrisponde, potremmo dire, all’i­
stinto di conservazione10, all’istinto vitale, alla tendenza innata che ab­
biamo a perseverare nell’essere e a perpetuare la nostra esistenza.
Essa si manifesta soprattutto come timore della morte, tendenza na­
turale dal momento che il Creatore ci ha donato la vita perché la con­
servassimo11e dal momento che la corruzione e la morte costituisco­
no fenomeni antinaturali.
b) La seconda forma è quella del «timore di Dio», che nel su
grado più elementare è il timore del castigo divino12e nel grado più
elevato è quello del timore di essere separato da Dio13. Questa se­
conda forma di timore è legata naturalmente alla precedente: l’uomo
attaccato al suo essere e alla sua vita e che teme di perdere tali beni,
se conosce la loro vera natura, non può che temere di essere separa­
to da Dio che ne è il principio e la fine, la sorgente e il senso. Ancor
più che la vita biologica, l’uomo cosciente della sua realtà fondamen­
tale teme di perdere la vita in Dio. E così che nell’uomo spirituale il
timore della morte è eclissato dal timore di Dio, cioè dal timore di tut­
to ciò che può separarlo da Dio, ossia del peccato e del Maligno che
causano la morte dell’anima (cfr. Mt 10,28; Le 12,5), l’unica morte che
sia veramente da temere poiché essa toglie definitivamente ogni vita,
mentre la morte biologica separa solo temporaneamente l’anima dal
corpo e ne distrugge solo la forma terrena e corrotta dell’esistenza.
Ü primo tipo di timore, che abbiamo presentato sotto le sue due
forme, costituisce una virtù14che Adamo possedeva nel suo stato ori­
ginario. Adamo, infatti, era destinato a divenire immortale per grazia,
ma poteva morire per il suo libero arbitrio se si fosse opposto, a cau­
sa di questo, alla volontà di Dio15. È così che Dio disse ad Adamo e a
8 lbid., 297C.
9Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 23.
10lbid.
11lbid.
12Cfr. Massimo il Confessore, Questioni a Talassio, 1, PG 90,269B.
13 Clemente d’Alessandria, per esempio, scrive: «Il timore di Dio è esente da passione, per­
ché ciò che si teme non è Dio, ma essere separati da Dio» CStronzata, II, 8,40). Non si può non
considerare che questa è la virtù che Adamo possedeva nel suo stato originario, perché egli era
animato dall’amore, e come dice san Giovanni, «il perfetto amore scaccia il timore» (lGv 4,18).
Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 38.
14 Cfr. M assimo IL Confessore, Questioni a Talassio, 1, PG 90,269B.
15Vedi per esempio: ATANASIO D’ALESSANDRIA, SullTncamazione del Verbo, 4. GREGORIO Pa -
lamas, Omelie, 29, PG 150,369C; 31, PG 150,388D.

217
Eva: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi man­
giarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente
morire» (Gn 2,17). Il timore (sia di morire che di essere separato da
Dio) era uno dei mezzi offerti da Dio all’uomo per aiutarlo a custo­
dire il suo comandamento e a preservarsi dagli effetti della sua tra­
sgressione.
2) Il secondo tipo di timore, che i Padri considerano una passi
ne, è una conseguenza del peccato ancestrale16. Si manifesta sempre
come una repulsione che l’uomo prova dinanzi a ciò che può cor­
rompere e distruggere il suo essere: non si tratta più allora del suo
essere secondo Dio, bensì del suo essere decaduto al quale egli è at­
taccato per mezzo della filautia. Questa seconda forma è sempre e in­
nanzitutto timore della morte, ma non per la stessa ragione indicata
precedentemente. Essa prende le forme più svariate, e sarebbe noio­
so elencarle qui17. Diciamo con san Massimo, per caratterizzarla, che
essa fa parte delle passioni dovute alla privazione del piacere, e come
la passione proviene dal fatto che la filautia si trova schiacciata da una
sofferenza dell’anima e del corpo18: l’uomo teme di perdere - e teme
quello che può fargli perdere - un oggetto sensibile19, il cui possesso
(reale o immaginariamente anticipato) gli procura una certa gioia sen­
sibile. L’idea o il sentimento di questa possibile perdita genera nel suo
animo uno stato di malessere e di agitazione di cui egli risente gli ef­
fetti anche sul piano fisico: «Sia l’anima che il corpo ricevono la pri­
ma impressione di questo timore», e, in ogni modo, «essi se lo co­
municano l’un l’altro», osserva san Giovanni Climaco20.
Il timore-passione rivela, in tutti i casi, un attaccamento al mondo:
ai beni di questo mondo e al loro godimento sensibile, e anche a
questa vita in quanto concepita come se dovesse servire a raggiunge­
re questa specie di godimento. Si può ricollegare, perciò, a questa for­
ma di timore ogni paura della morte che non sarà, come nell’ambito
del timore naturale, il timore di perdere la vita riconosciuta come un
bene conferito da Dio e che deve servire a unirsi a lui, ma come la per­

16Cfr. Massimo il Confessore, Questioni a Talassio, 1, PG 9 0 ,269A.


17Sui motivi possibili, vedi in particolare GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fe­
de ortodossa, HE, 23.
18Cfr. Questioni a Talassio, Prologo.
19 H termine «oggetto» è qui inteso in senso ampio e non semplicemente come cosa mate­
riale.
20La Scala, XX, 9.
218
dita dei piaceri sensibili che la vita consente di godere in questo mon­
do. Questa relazione essenziale della passione del timore alla vita se­
condo questo mondo, alla vita carnalmente concepita e vissuta, è va­
lorizzata frequentemente dall’insegnamento dei Padri. Sant’Isacco scri­
ve a questo proposito: «Quando [l’uomo] rimane nella conoscenza e
nella vita del corpo, egli teme la morte»21. Un apoftegma afferma: «Do­
mandarono a un Anziano: “Perché ho paura quando cammino nel de­
serto?”. Ed egli rispose: “Perché tu sei ancora vivo!”»22. E un altro:
«Un fratello domandò a un Anziano: “Perché il timore s’impadroni­
sce di me quando mi capita di uscire da solo di notte?”. L’Anziano ri­
spose: “Perché la vita di questo mondo per te ha ancora valore”»23.
Mentre il primo tipo di timore è «secondo natura»24, questo secondo
tipo di timore, che è una passione cattiva, è «contro natura (para
physin)»25e «irrazionale (paràlogos)»26. Essa proviene dal fatto che l’uo­
mo ha allontanato la duplice finalità naturale e normale dal timore che
l’univa al suo vero essere e a Dio, per farlo divenire timore di perde­
re il suo essere decaduto, di essere separato dal mondo sensibile, di
perdere la vita passionale e il piacere che vi si ricollega. Anziché te­
mere ciò che minaccia il suo essere e, soprattutto il suo essere spiri­
tuale, l’uomo teme tutto ciò che mette in pericolo la sua esistenza sen­
sibile e le gioie che ne trae.
Qui appare, inoltre, che il timore secondo Dio e il timore «mon­
dano» non costituiscono due atteggiamenti diversi per loro natura, ma
lo stesso atteggiamento fondamentale orientato verso due fini diversi.
Ciò risulta chiaramente dagli insegnamenti dei Padri in cui questi due
timori sono presentati come esclusivi l’imo dell’altro: se si teme qual­
cosa di questo mondo è perché non si teme Dio; inversamente, colui
che teme Dio non ha nulla da temere: «Colui che è il servo di Dio te­
me lui solo [...], ma colui che non lo teme spesso teme anche la pro­
pria ombra», scrive per esempio san Giovanni Climaco27. È anche per
questa ragione che i Padri dicono che la passione-timore è favorita dal­
la sterilità dell’anima28, a causa della perdita della presenza divina in
21 Discorsi ascetici, 38. Cfr. 63.
22Apoftegmi, N 90.
23 Ibid., Bu E, 190.
24 Cfr. Massimo il Confessore, Disputa con Pirro, PG 91,297CD.
25 Ibid. G iovanni D amasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 23.
26Ibid.
27 La Scala, XX, 11.
28Ibid., 10.
219
essa: «Ho avuto paura perché io sono nudo», confessa Adamo dopo
il suo peccato (Gn 3,10).
Come tutte le altre passioni, il timore appare agli occhi dei Padri
come ima malattia29, per la fondamentale ragione che ora abbiamo pre­
sentato (vale a dire la perversione di una disposizione naturale virtuosa
in una passione contro natura), ma anche a causa di tutti i turbamen­
ti che lo costituiscono e che esso genera.
Prima di tutto, il timore rivela una relazione patologica dell’uomo
con Dio. Temendo di perdere qualche bene di questo mondo e qual­
che piacere sensibile invece di temere di perdere Dio e così di perde­
re se stesso, l’uomo si allontana da Dio, fonte della sua vita, princi­
pio e fine dell’essere, senso della sua esistenza, e pone il centro delle
sue preoccupazioni nella realtà sensibile che per lui diviene l’Assolu­
to. Tutto il processo del peccato originale, lo si può notare, si ritrova
in questo atteggiamento, con, evidentemente, tutte le sue conseguenze.
Ma Dio, nel timore, non è solo dimenticato come principio e fine
dell’essere e della vita, come senso e centro dell’esistenza: egli è anche
negato, ignorato, rifiutato nell’azione provvidenziale e nella prote­
zione benevola che egli esercita nei riguardi di ogni essere. Il timore
rivela l’illusione che l’uomo ha di essere affidato a se stesso, di non po­
ter o di non dover contare che sulle proprie forze, di essere privato
dell’aiuto di Dio. «Chiesero a un Anziano: “Perché ho paura cammi­
nando nel deserto?”. Egli disse: “Perché tu credi di essere solo, e non
vedi che c’è Dio con te”»30. L’insegnamento del Cristo stesso denun­
cia questa illusione nel ricordare all’uomo che Dio si prende cura di
lui continuamente (cfr. Mt 10,29-31; Le 12,6-7). Così, il timore, lo se­
gna con la mancanza di fede nella Provvidenza divina: «Perché siete
paurosi? Non avete ancora fede?», disse il Cristo ai suoi discepoli im­
pauriti da una tempesta (Me 4,36-40).
Il timore, inoltre, rivela una mancanza di fede nei beni spirituali,
perché se l’uomo fosse attaccato ad essi, temerebbe solo di perdere
questi: «L’unico dolore, scrive san Massimo, è la perdita delle cose di­
vine»31. Infatti, questi beni sono i soli ad avere per l’uomo un valore
assoluto ed un’importanza vitale. L’uomo che si affida a Dio, dive­
nendo partecipe della risurrezione del Cristo e della vita divina, non
29 Cfr. ibid., XX, 7.
30Apoftegmi, Arm II, 17.
31 Commento del Padre nostro, PG 90, 901A.
220
deve più temere per la sua anima o per il suo corpo nessun danno,
nemmeno la morte che uccide provvisoriamente il corpo ma non può
fare nulla di più (cfr. Mt 10,28; Le 12,4). Colui che si unisce a Dio tro­
va in lui tutti i beni e non teme di essere spogliato di alcun bene sen­
sibile.
Temere significa non avere fede nei beni spirituali, che sono gli uni­
ci valori reali, e allo stesso tempo accordare una vana fede ai beni sen­
sibili la cui realtà è illusoria, beni che passano come il fiore del prato,
beni che sono tesori che la ruggine e la tignola consumano e i ladri ru­
bano (cfr. Mt 6,19; Le 12,33). L’uomo, presto o tardi, a motivo del
loro carattere passeggero o a causa della propria morte, li perderà, co­
sì come il piacere che è legato al loro possesso, piacere che peraltro,
lo abbiamo visto, è esso stesso ben poca cosa in confronto al godi­
mento dei beni del Regno. Proprio perché l’uomo decaduto si sbaglia
sulla vera realtà degli oggetti e dei piaceri sensibili ai quali egli è at­
taccato, può essere preda del timore: se ne conoscesse la natura, la lo­
ro perdita gli sarebbe indifferente.
Un’altra ragione per la quale il timore appare come un atteggia­
mento insensato è la sua totale inutilità. Con il timore l’uomo non può
impedire che gli capiti qualunque cosa, né può evitare il pericolo o
la privazione che egli teme, supposto che essi gli debbano accadere
realmente: «Chi di voi, dice il Cristo, per quanto si dia da fare, è ca­
pace di aggiungere un solo cubito alla propria statura?» (Mt 627). San
Giovanni Damasceno, al timore e alla preoccupazione inefficaci che il
Cristo condanna con le sue parole, oppone la spensieratezza efficace
di colui che si rimette per ogni cosa alla Provvidenza divina32.
Il carattere patologico del timore appare anche nella parte più o me­
no importante dell’immaginario che generalmente essa comporta. At­
traverso la sua immaginazione, l’uomo deforma la realtà, le attribuisce
una dimensione che questa non ha, ingrandendo per esempio i peri­
coli, o credendo imminente la perdita di qualche oggetto33. Ma l’im­
maginazione si rappresenta così delle realtà che non esistono: costruisce,
anticipa e fa ammettere come sicuri, nel presente o in un futuro pros­
simo, avvenimenti che non esistono e di cui nessun motivo obiettivo
permette di assicurare la realizzazione. San Giovanni Climaco può co­
sì dare questa definizione del timore: «Il timore è una falsa preveg­
genza e una vana apprensione di pericoli immaginari»34. E aggiunge,
,2 Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 23.
” Cfr. Clemente d ’Alessandria, Stromata, II, 8,40.
"La Scala, XX., 3.
221
sottolineando come il timore rimetta in questione le cose più sicure in
nome di ciò che teme, e il ruolo che vi prende l’immaginazione: «Il ti­
more è una privazione di ogni sicurezza nelle stesse cose più sicure»35.
Deformazione della realtà, non percezione di ciò che è, percezione
di una realtà inesistente: questi sono i tratti che definiscono il delirio.
Il timore rivela sempre che, nel modo in cui il reale è percepito e vis­
suto, l’immaginazione ha superato le altre facoltà e impone loro le sue
rappresentazioni. «Lo spavento viene da un’immaginazione troppo
potente», osserva san Giovanni Damasceno36. Quando la paura o lo
spavento, benché comportino molto spesso una forte dose d’imma­
ginazione, sono parzialmente motivati obiettivamente, la maggior par­
te delle forme del timore, e particolarmente l’ansia e l’angoscia, si ca­
ratterizzano per un’assenza di ragioni obiettive che possano fondar­
le, per l’influsso dell’irrazionale su colui che ne è il soggetto37. Le facoltà
che permetterebbero all’uomo di considerare le cose e gli avvenimen­
ti secondo le loro proporzioni sono, nel timore, come soffocate. «Il ti­
more», sottolinea l’autore del libro della Sapienza, «non è altro che
l’abbandono degli aiuti del ragionamento» (Sap 17,12).
Il timore, alla sua nascita e nel suo sviluppo, può essere suscitato
o favorito da diverse passioni. In primo luogo, esso è legato all’orgo­
glio. Sant’Isacco il Siro osserva: «Colui che manca di umiltà è privo di
perfezione. E colui che è privo di perfezione ha sempre paura»38. E
san Giovanni Climaco scrive: «L’anima schiava dell’orgoglio è schia­
va della pusillanimità; piena di fiducia vana in se stessa, si spaventa del
minimo rumore e dell’ombra stessa delle creature»39.
Il timore è anche legato, molto chiaramente, alla passione della viltà,
come ricorda san Simeone il Nuovo Teologo40.
Il timore, in generale, può nascere da uno stato di peccato, secon­
do l’insegnamento dell’Apostolo: «Tribolazioni e angustie cadranno
su ciascun essere umano che attua il male» (Rm 2,9). San Giovanni
Crisostomo fa notare: «Colui che vive nel peccato è nel timore per­
petuo; e come coloro che sono in cammino, in una notte oscura in cui
la luna non brilla, tremano sempre anche se non vi è nessuno a cau­

35 ibid.
36Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 15.
37Ibid., m , 23.
38Discorsi ascetici, 21.
39La Scala, XX, 4.
40 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 72.
222
sare il loro allarme, così i peccatori diffidano continuamente anche
quando non sarà fatto loro nessun rimprovero. Ma il rimorso della co­
scienza fa sì che tutto li spaventi, tutto è loro sospetto, per loro tutto
è pieno di timore e di terrore, anche se non vi è nulla che li inquieti»41.
Queste considerazioni non sembra che debbano applicarsi solo a co­
loro che, pretendendo di vivere secondo i comandamenti o almeno co­
noscendoli, li hanno trasgrediti e, di conseguenza, subiscono i rim­
proveri della loro coscienza, ma anche a coloro che, vivendo al di fuo­
ri della fede e nell’ignoranza dei suoi precetti, hanno tuttavia qualche
vago senso del loro stato di peccato. Sembra anche che il potere che
ha lo stato di peccato di suscitare il timore sotto forma di ansia e d’an­
goscia sia tanto più forte quanto più il soggetto non ha preso chiara­
mente coscienza della sua colpa. Ricordando «questo timore che l’a­
nima prova della propria perversità», san Diadoco di Foticea consi­
glia al cristiano di badare a confessare anche le sue colpe involontarie,
quelle di cui non ha coscienza innanzitutto, perché, egli scrive, «se non
confessiamo come dovremmo queste colpe [che ci sfuggono], sco­
priremo in noi un sordo timore»42.
Il timore, come le altre passioni, è direttamente legato all’azione dei
demoni: essi contribuiscono alla comparsa del timore43; e approfitta­
no ampiamente della sua esistenza perché il timore costituisce un
terreno particolarmente favorevole alla loro attività: nel timore hanno
un alleato, nota san Diadoco, ricordando particolarmente il timore le­
gato al peccato44.

La pusillanimità
La pusillanimità (oligopsychta, deilia) spesso è considerata come una
forma della passione del timore45 e condivide dunque con quest’ulti­
mo diverse caratteristiche descritte prima. Essa, tuttavia, possiede un
certo numero di tratti specifici e frequentemente le viene concesso un
posto importante a sé stante, il che ci obbliga a dedicarle qualche ri­
flessione supplementare.
La passione della pusillanimità è definita da san Giovanni Dama­
41 Commento a san Giovanni, V, 4. Cfr. Commento al Salmo 142,4.
42 Cento capitoli gnostici, 100.
43 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX, 9.
44 Loc. cit.
45 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 15.
223
sceno come «il timore di compiere un’azione»46. È un atteggiamento
di debolezza, di mancanza di coraggio di fronte a un dovere da com­
piere. Essa, tuttavia, si distingue dalla viltà. Piuttosto è timidezza.
I Padri la considerano una malattia: Origene la fa figurare nella li­
sta delle passioni che egli stesso chiama «malattie dell’anima»47, e un
apoftegma riferisce: «Un fratello venne a far visita ad Abba Vittore l’e-
sicasta alla laura di Elusa e gli disse: “Cosa debbo fare, Padre, per­
ché sono preda della pusillanimità?”. Il Vegliardo rispose: “E una ma­
lattia dell’anima”»48.
Poiché appartiene alla potenza irascibile dell’anima (thymós) la pu­
sillanimità ne è una malattia: «Se la peste del vizio infetta la parte
irascibile, questa genera [tra l’altro] la pusillanimità», insegna san Gio­
vanni Cassiano49.
Questa passione dai Padri viene anche assimilata a una forma di fol­
lia: è il caso per esempio di san Giovanni Crisostomo50 che si riferi­
sce a questa affermazione del libro dei Proverbi (14,29): «Chi è pusil­
lanime mostra stoltezza».
Come tutte le altre passioni, la pusillanimità rivela particolarmen­
te il suo carattere patologico nel fatto che essa è un atteggiamento
innaturale, che non corrisponde allo stato normativo nel quale l’uomo
è stato creato da Dio. Ecco quanto insegna san Paolo a tale riguardo:
«Iddio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di fortezza, di amo­
re e di saggezza» (2Tm 1,7), essendo in particolare la fortezza la virtù
di cui la pusillanimità costituisce la mancanza. Mentre la fortezza è tra
i doni essenziali dello Spirito costitutivi dell’immagine di Dio destinati
a conseguire il loro pieno compimento nell’acquisizione della somi­
glianza al Cristo, la pusillanimità ne è la negazione. Essa è apparsa nel­
l’uomo come conseguenza del peccato ed è estranea alla sua vera na­
tura; ecco perché san Barsanufio consiglia a uno dei suoi figli spiri­
tuali: «Di’ alla pusillanimità: “Io ti sono estraneo”»51.
La pusillanimità in ogni caso è, come il timore, il segno di una man­
canza di fede52. Mostrarsi pusillanime è non fidarsi dell’aiuto divino,
non fidarsi della forza dello Spirito che sostiene costantemente colui

«Ibid.
47 Omelie sui Numeri, XXVII, 12.
48Apoftegmi, J 750.
49 Conferenze, XXIV, 15. Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 70.
50 Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXII, 3.
51 Lettere, 31.
52 G iovanni C limaco , La Scala, XX, 1; 2.
224
che invoca Dio. Unito a Dio e assistito dalla sua grazia, contando quin­
di sulla forza divina, l’uomo non deve temere di affrontare alcunché.
Secondo l’insegnamento del Cristo, se ha fede assoluta in Dio, egli è
capace di spostare le montagne.
Poiché spesso è dominato dalla sua immaginazione, l’uomo teme di
agire. La relazione della pusillanimità con l’immaginario, come nel ca­
so del timore, è spesso sottolineata dai Padri. L’immaginazione, anche
in questo caso, deforma la realtà, presenta come difficile, temibile o
impossibile l’azione da compiere quando obiettivamente non è poi ta­
le. Il soggetto della pusillanimità è vittima di un’illusione e, si po­
trebbe dire, anche di un delirio. «La pusillanimità, osserva san Gio­
vanni Climaco, ci fa temere e aspettare mali che non vanno né temu­
ti né attesi»53. E Abba Vittore, sulla scia di quanto da lui affermato
precedentemente a riguardo della pusillanimità come malattia, scrive:
«Infatti, come coloro che hanno gli occhi malati credono di vedere più
luce quando soffrono di più, mentre coloro che hanno gli occhi sani
credono di vederne poca, così i pusillanimi sono presto sconvolti da
ima piccola prova e s’immaginano che questa sia una prova grande»54.
La pusillanimità può apparire come un atteggiamento infantile che
si è fissato e continua a persistere in modo anormale nell’adulto: «La
pusillanimità, scrive san Giovanni Climaco, è una disposizione pue­
rile, in un’anima che non è più giovane»55.
Essa è essenzialmente legata alla passione della cenodossia56, al pun­
to tale che possiamo affermare che «tutti coloro che sono pusillanimi
sono vanitosi»57.
La pusillanimità aliena l’uomo, esercitando su di lui un dominio po­
tente58. E particolarmente temibile perché blocca il dinamismo del­
l’uomo, frena i suoi slanci verso quanto può avere di migliore, rallen­
ta o persino paralizza la sua attività, inibisce in molte circostanze l’e­
sercizio delle sue facoltà. Ciò si rivela particolarmente grave quando
si tratta dell’attività spirituale. È chiaro che il diavolo ha un particola­
re interesse nel suscitare e nell’insinuare questa passione che turba l’a­
nima e le impedisce di compiere ciò per cui è stata fatta59.

55 Ibid., XX, 2.
54 Loc. cit.
55 La Scala, XX, 2.
56Ibid.
57Ibid., XX, 6.
58 Cfr. ibid, XX, 1.
59Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Teodora, 4.
225
X
LA CENODOSSIA

La cenodossia (kenodoxta), abitualmente denominata vanagloria o


vanità, è una passione particolarmente importante e fonte di numero­
se altre malattie dell’anima.
San Giovanni Cassiano osserva che «essa varia molto le sue forme
e si divide in diverse specie», ma «tuttavia si riduce a due generi»1, che
sono come due gradi della stessa.
1) La prima specie di vanità «concepisce,esaltazione per piaceri c
nali e apparenti»2. Questa è la forma di cenodossia più grossolana,
quella che colpisce l’uomo decaduto più immediatamente, più facil­
mente e più abitualmente. Essa consiste nel mostrarsi fiera e nel glo­
riarsi dei beni che si possiedono o che si crede di possedere, nonché
nel desiderare di essere visti, considerati, ammirati3, stimati, onorati,
lodati, persino adulati dagli altri uomini“'.
I beni di cui il vanitoso si mostra fiero a questo livello hanno co­
me caratteristica comune quella di essere carnali5, terreni6, perciò l’uo­
mo si aspetta dal loro possesso una considerazione e una gloria esclu­
sivamente umane7.
II vanitoso può, così, glorificarsi e desiderare l’ammirazione degli
altri per i doni che la natura gli ha concessi8come la bellezza (reale o
presunta) del suo corpo9o della sua voce10per esempio, ma anche per
1Conferenze, V, 11.
2Ibid.
3G regorio M agno , Moralia su Giobbe, VIE, 43-44.
4 Cfr. Gv 5,44; lTs 2,6. BASILIO DI CESAREA, Regole brevi, 36. Apoftegmi, N 479. GIOVANNI
DI G aza , Lettere, 460; 261.
5G iovanni C assiano , Conferenze, V, 11.
6 Cfr. Fil 3,19.
7 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXI, 6.
8Cfr. ibid., XXI, 26; 31; XXV, 22. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, II, 32.
9 Cfr. D oroteo di G aza , loc. cit.
10Ibid.
226
il portamento, la prestanza11, e tutto ciò che contribuisce a dargli
una bella apparenza (abiti12, profumi, gioielli13, ecc.).
Egli può anche gloriarsi e aspettarsi la considerazione per la sua abi­
lità manuale o il suo savoir-faire in questo o quel campo14.
La cenodossia, inoltre, porta l’uomo a esaltarsi e a farsi ammirare
per le ricchezze e i beni materiali che ha potuto accumulare. La ce­
nodossia, in questo modo, può costituire un motore della passióne del­
la filargiria, potendo quest’ultima, in cambio, portare l’uomo alla ce­
nodossia. San Massimo scrive a questo riguardo: «Cenodossia e filar­
giria si generano l’un l’altra. Il vanitoso accumula il denaro; il ricco è
vanitoso»15. Il piacere del lusso e del fasto appare legato alle due pas­
sioni: suscitato dalla cenodossia16e supponendo la filargiria, esso le ac­
cresce a sua volta quando è soddisfatto.
Spesso l’uomo è spinto dalla cenodossia anche quando vuole rag­
giungere una situazione e un rango sociale elevati17.
Questa passione lo lega, altresì, al potere sotto tutte le sue forme18,
e frequentemente è la causa della sua ricerca; essa allora è l’alleato e il
motore delle due passioni che i Padri chiamano «amore del potere»
(filarchta)19e «spirito di dominio». E chiaro che colui che ha il pote­
re e che è posseduto dalla cenodossia cerca di essere ammirato e lo­
dato, ma si sforza costantemente anche di piacere per trattenere e far
crescere questa ammirazione allo scopo di conservare il potere, le pre­
rogative che vi si ricollegano, e i vantaggi che egli ne trae.
Su un piano più sottile, in quanto esso si situa meno nel campo del­
le apparenze e della materialità delle precedenti benché sia quasi al­
trettanto esteso, la cenodossia per colui che ne è il soggetto consiste
nel mostrarsi fiero delle sue qualità intellettuali (della sua intelligenza,
della sua immaginazione, della sua memoria, ecc., ma anche della
sua conoscenza o del suo sapere, della padronanza del linguaggio, del­
la capacità di parlare o scrivere bene, ecc.)20 e nel cercare per questo
" Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, in, 84. G iovanni Climaco, La Scala, XXI, 4.
12 DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, II, 32. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXI, 4; 5.
15 G iovanni Climaco, La Scala, XXI, 4.
14 D oroteo DI G aza, Istruzioni spirituali, II, 32. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla vanagloria, 13.
15 Centurie sulla carità, IH, 83.
16JEAN LE SOLITAIRE, Dialogue sur l’âme et les passions des hommes, éd. Hausherr, p. 54.
17M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IH, 84. Cfr. D o r o te o d i G aza, Istruzioni
spirituali, II, 32.
18J ean LE S o lita ir e , Dialogue sur l’âme et les passions des hommes, éd. Hausherr, pp. 55-56.
19G r e g o r io d i N issa, Sulla verginità, IV, 5.
20Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, ni, 84. Giovanni Climaco, La Scala,
XXI, 31.
227
l’attenzione, l’ammirazione e le lodi degli altri. Sembra che l’ambizio­
ne nel campo intellettuale e culturale come anche nel campo politico
o finanziario21 sia molto spesso un prodotto della cenodossia.
2) La seconda specie di cenodossia, individuata da san Giovan
Cassiano, «si gonfia del desiderio di una fama vana per i beni spirituali
e nascosti»22. Nell’uomo spirituale ancora sottomesso alle passioni, es­
sa coesiste con la prima specie o prende il suo posto quando l’uomo
ha superato ogni attaccamento ai beni mondani. Essa consiste per
lui nel glorificarsi da sé o davanti agli altri uomini per le sue virtù o
per la sua ascesa e nel ricercare per mezzo loro l’ammirazione e le lo­
di degli altri23. Così, quando l’uomo si sforza di combattere le altre pas­
sioni e pratica le virtù di cui esse sono la negazione, egli viene a tro­
varsi particolarmente assediato da questo secondo grado di cenodos­
sia. A questo proposito, san Giovanni Climaco fa notare che «il demone
della vanagloria sente ima gioia particolare quando vede moltiplicar­
si le virtù»24, e che, proprio come «la formica aspetta che avvenga la
raccolta e il grano sia maturo, così la vanagloria aspetta che tutte le no­
stre ricchezze spirituali siano ammassate»25. Evagrio constata, allo stes­
so modo, che «tra i pensieri, solo quello della cenodossia e quello del­
l’orgoglio sopraggiungono dopo la disfatta degli altri pensieri»26e che
«la disfatta degli altri demoni fa crescere questo pensiero»27. Anche
san Massimo fa notare: «Se tu vinci le passioni più vergognose [...],
subito ti assalgono i pensieri della vanagloria»28. La cenodossia allora
è capace di prendere da sola, nell’uomo, il posto di tutte le altre pas­
sioni riunite.
La cenodossia possiede un potere straordinario. H suo carattere sot­
tile29, la sua capacità di rivestirsi di varie forme30, di scivolare dovun­
21 Cfr. G iovanni Crisostomo, Consolazioni a Stagira, E, 3.
22 Conferenze, V, 11.
23Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, m , 84. Evagrio P ontico, Trattato pra­
tico sulla vita monastica, 13; cfr. 31.
24La Scala, XXI, 3.
25Ibid., 2.
26Riflessioni, 57.
27Sui diversi pensieri della malvagità, 15.
28 Centurie sulla carità, IH, 59.
29 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 13. GIOVANNI CASSIANO,
Istituzioni cenobitiche, XI, 1. Nil SORSKY, Regola, V.
30 Cfr. G iovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, XI, 1; 3; 4. Evagrio P ontico, Lettere,
51. G iovanni Climaco, La Scala, XXI, 5.
228
que e di attaccare l’uomo da diversi lati, la rendono particolarmente
difficile da percepire51 e da combattere32. In realtà, tutto può costi­
tuire per l’uomo un soggetto di vanità. A questo riguardo, Evagrio si
stupisce dell’abilità dei demoni di approfittare di questa situazione33
di cui egli fornisce esempi caratteristici34, come anche san Giovanni
Cassiano35 e san Giovanni Climaco. «Gli anziani, scrive san Giovan­
ni Cassiano, hanno graziosamente descritto la natura di questa malat­
tia paragonandola a una cipolla: quando le si toglie una pelle, se ne ri­
trova subito un’altra, e per tante che se ne tolgono, altrettante se ne
ritrovano»36. E san Giovanni Climaco spiega: «Il sole brilla per tutti
allo stesso modo, e la vanagloria trova gioia per tutte le nostre attività.
Per esempio, traggo vanità dal mio digiuno, poi, quando lo sospen­
do per non essere notato, mi glorio della mia prudenza. Quando por­
to abiti belli, sono vinto dalla vanagloria, e quando ne indosso di po­
veri, ne traggo ancora vanità. Quando parlo sono vinto da essa, e quan­
do sono in silenzio, ancora essa mi domina. E come quelle trappole a
tre punte; in qualunque modo tu le getti, rimane sempre dritta una
delle punte»37. Allora, constata Evagrio, «è difficile sfuggire alla va­
nità, perché per quanto faccia per sbarazzartene diventa per te una
nuova fonte di vanità»38. La sottigliezza della cenodossia è tale che può
portare l’uomo, paradossalmente, a mostrarsi zelante nell’ascesF, a
combattere alcune passioni40e a praticare alcune virtù41, come a otte­
nere alcuni doni42. Occorre, tuttavia, aggiungere che ogni ascesi fatta
sotto l’impulso della cenodossia si rivela vana e definitiva43, così come
le virtù praticate in questo modo sono illusorie44e solo apparenti i do­
ni ottenuti45: così vediamo uomini raggiungere risultati spirituali sor­
prendenti nel tempo in cui si dedicano all’ascesi sotto la spinta della
31 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XI, 1.
32Ibid., 4. EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 30.
33Lettere,, 51.
34Ibid.
35Istituzioni cenobitiche, XI, 4.
36Loc. cit.
37La Scala, XXI, 5.
38 Trattato pratico sulla vita monastica, 30.
39DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, E, 32.
40 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XIV, 10; XX I, 25; 27; X X V E, 45.
41 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), V, 10. G iovanni C limaco , La Scala, XXI, 25.
D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, II, 32.
42Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, V E, 30.
43 Cfr. ibid., II, 10. Apoftegmi, N 550.
44Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, E , 10; XI, 37; 44.
45 Cfr. ibid., V E , 30.
229
cenodossia, ma penare miseramente e inaridirsi quando sono posti nel­
le condizioni in cui questa passione che li ispirava non può più esse­
re esercitata46. Inoltre, i beni, così acquisiti, non solo non hanno nes­
sun valore davanti a Dio, ma sono anche «simili alle ingiustizie», co­
me sottolinea san Macario47, che ricorda questa parola del salmista:
«Egli ha disperso le ossa di coloro che vogliono piacere agli uomini»
CW52[53],6)48.
Come da tutte le passioni, l’uomo trae dalla cenodossia un certo
piacere49che lo lega fortemente ad essa e per il conseguimento del qua­
le è pronto a tutto, paradossalmente anche a soffrire50. A causa di que­
sto piacere spesso potente che mantiene la sua filautia51, l’uomo si de­
dica alla vanagloria52.
La cenodossia è considerata dai Padri una malattia53e una forma di
follia54. San Giovanni Crisostomo, per esempio, scrive chiaramente:
«La cenodossia è ima sorta di follia (mania tis estin e kenodoxia)»55.
Occorre notare56che san Paolo stesso insegna che è una follia gloriar­
si di se stessi (cfr. 2Cor 12,11), e nota altresì che il demone della ce­
nodossia pone l’uomo fuori di sé, lacera il suo spirito e, dopo essersi
impadronito della sua anima, «turba la sua ragione fino al delirio»57.
Il carattere patologico della cenodossia, come quello di tutte le al­
tre passioni, sta essenzialmente nel fatto che essa è costituita dalla per­
versione di un atteggiamento naturale e normale, dalla deviazione del
suo esercizio «secondo natura», conforme alla sua finalità essenziale,

46 Cfr. ibid., II, 9. Apoftegmi, N 550.


47 Omelie (Coll. E), V, 10; Capitoli parafrasati, 56. Cfr. Omelie (Coll. II), LIV, 2.
48Vedi anche AMMONA, Lettera, DI, 1-2.
49 Cfr. G iovanni C risostomo , Sulla vanagloria, 13. M arco l’E remita, A Nicola, 3.
50 Cfr. G iovanni C risostomo , Consolazioni a Stagira, E , 3.
51 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo.
52 Cfr. G regorio di N issa, Sulla verginità, IV, 5.
53 Cfr. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XI, 4. MASSIMO IL CONFESSORE, Centu­
rie sulla teologia e Veconomia, I, 27; Questioni a Talassio, 56, Scolio 8. GIOVANNI CRISOSTOMO,
Commento a san Matteo, XIX, 1. GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, E, 51. GIOVANNI CLIMACO,
La Scala, XXV, 22. ORIGENE, La preghiera, 19. AMMONA, Lettera, XE, 5.
54Cfr. ERMA, Il Pastore, SimiHtudini, VII, 4. GIOVANNI CRISOSTOMO, Consolazioni a Stagira,
E, 3; Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXI, 1; Commento a san Matteo, IE, 5; IV, 10; Sulla vana­
gloria, 8; 16. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 59. G regorio di N issa , Sulla
verginità, IV, 2. GREGORIO MAGNO, Moralia su Giobbe, VIE, 43. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO,
Catechesi, XVE, 85. JEAN LE SOLITAIRE, Dialogue sur l’àme et les passions des hommes, éd. Hau-
sherr, p. 51.
55Sulla vanagloria, 10.
56Commento al Salmo 130.
57Sulla vanagloria, 2.
230
a un esercizio «contro natura». Dio ha dato alla natura dell’uomo la
possibilità di tendere verso la gloria: ma è la gloria divina che era de­
stinato a ottenere attraverso la sua unione con Dio, non la gloria uma­
na che la passione ricerca, e che la tradizione chiama «vantarsi se­
condo la carne» (cfr. 2Cor 11,18). «Non è la gloria che è male, bensì
la vanagloria», scrive san Massimo. Quest’ultimo afferma qui la stes­
sa cosa per le altre passioni, ossia che ciò che è cattivo, «è il cattivo
uso, conseguenza della negligenza del nostro spirito a coltivarsi se­
condo natura»58, dopo aver affermato che «nella misura in cui noi usia­
mo male le potenze della nostra anima i vizi s’installano in essa»59. San
Giovanni Climaco insegna allo stesso modo: «Naturalmente la no­
stra anima nutre amore per la gloria, ma tale amore dev’essere rivol­
to alla gloria del cielo e non a quella della terra»60. Questa distinzio­
ne tra le due forme di gloria, quella che proviene da Dio e quella che
proviene dagli uomini, si ritrova in molti testi in cui si tratta della ce-
nodossia61. La troviamo illustrata nel vangelo di san Giovanni (cfr. Gv
12,43); san Paolo vi si riferisce implicitamente quando dice di gloriarsi
in Gesù Cristo pur mettendo in guardia contro il pericolo che vi sa­
rebbe nel gloriarsi al di fuori di Dio (cfr. Fil3,3; Gal 6,14). San Gio­
vanni Climaco precisa chiaramente: «Vi è una gloria che viene da Dio,
secondo la parola della Scrittura: “Glorificherò coloro che mi glorifi­
cano”, dice il Signore (IRe [ISatn] 2,30). Vi è una gloria che provie­
ne solo dalla malizia artificiosa del demonio»62. «Chi si gloria, si glori
nel Signore», ripete per due volte l’apostolo Paolo (ICor 1,31; 2Cor
10,17). La gloria che l’uomo riceve da Dio per partecipazione alla sua
gloria nell’unione al Cristo, è la sola che, scrive Origene, «ne merita
veramente il nome»63. È la sola ad essere reale, vera, assoluta, eterna.
D’altra parte, è la sola che corrisponde alla finalità della natura uma­
na e che sia a misura della grandezza che Dio ha voluto conferire al­
l’uomo. Essa è, afferma san Giovanni Crisostomo, «la gloria propria
della dignità dell’uomo»64.
Essendosi allontanato da Dio a causa del peccato, l’uomo allo stes­
so momento ha smesso di tendere verso questa gloria alla quale la sua

58 Centurie sulla carità, DI, 4.


” Ibid.,l.
60La Scala, XXVI, 141.
61 Oltre ai testi citati infra, vedi SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, 1,12,194-195.
“ LaScala, XXI, 36.
63 La preghiera, 19.
64 Commento a san Matteo, IV, 10.
231
natura lo destina. Nel continuare naturalmente ad avere desiderio di
gloria, egli allora si è rivolto al mondo sensibile per cercare di soddi­
sfare questa tendenza che è in lui. Nella gloria del mondo, «secondo
la carne», egli trova dei succedanei della gloria celeste e spirituale che
ha perso di vista. «Dopo aver perduto la gloria propria della dignità
dell’uomo, egli cerca ovunque una gloria spregevole e degna del mas­
simo disprezzo», scrive san Giovanni Crisostomo65. La ricerca della
gloria del mondo appare, così, come il modo con cui l’uomo compensa
miseramente in sé l’assenza della gloria celeste e di ciò che, unendo­
lo a Dio, lo rende partecipe di questa gloria divina, ossia le virtù. San
Doroteo di Gaza scrive a questo proposito: «Coloro che desiderano
la gloria somigliano a un uomo nudo che cerca incessantemente un
brandello di stoffa, o non importa cosa, per coprire la sua indecenza.
Così colui che è denudato delle virtù cerca la gloria degli uomini»66.
La cenodossia, appare dunque, tutto sommato, costituita da una per­
versione, da un allontanamento patologico della tendenza naturale del­
l’uomo verso la glorificazione, e come un comportamento patologico
della sostituzione conseguente a una frustrazione ontologica. Il fatto
che ancora una volta si tratta di una stessa tendenza orientata in due
sensi opposti e non di due tendenze di diversa essenza che possono
coesistere indipendentemente l’una dall’altra, risulta chiaramente dal­
le molteplici affermazioni dei Padri. Questi, infatti, continuamente os­
servano che la ricerca della gloria celeste e quella della vanagloria so­
no antagoniste e si escludono tra loro, poiché lo sviluppo dell’una si
traduce in un indebolimento dell’altra67.
Possiamo aggiungere che la cenodossia costituisce, in un altro sen­
so ancora, una perversione della natura, se questo termine va inteso in
senso molto generale per indicare tutti i beni che l’uomo ha ricevuto
da Dio, sia che si tratti delle sue qualità naturali o acquisite, o delle sue
virtù, o anche dei beni materiali che egli possiede. Usando questi be­
ni per la sua gloria anziché farli servire esclusivamente alla gloria di
Dio, l’uomo, scrive san Massimo, «falsa la natura e la virtù stessa»68.
Egli spiega, in particolare, che l’ostentazione, composta dalla ceno-
65ibid.
66Istruzioni spirituali, E, 35.
67 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, Ricapitolazione, 35; XXI, 29; 31. GREGORIO MAGNO,
Moralia su Giobbe, VIE, 43. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 5. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO,
Catechesi, XVE, 87-89. Apoftegmi, XV, 21; cfr. VIE, 18. GREGORIO DI NlSSA, Sulla verginità, IV,
2. ORIGENE, La preghiera, 19. AMMONA, Istruzioni, IE, 5. TEOGNOSTO, Sull'azione e la contem­
plazione, 1.
68 Questioni a Talassio, 64, PG 90, 716B.
232
dossia e dall’orgoglio, «nutre verso la natura l’avversione alienante con
la quale essa manipola contro natura, attraverso un cattivo uso, tutte
le cose della natura»69.
La cenodossia immerge l’uomo nell’illusione e nel delirio: è que­
sto uno dei suoi effetti patologici fondamentali, che giustifica come es­
sa sia così spesso qualificata dai Padri come «follia».
Essa rivela che l’uomo cessa di avere fede in Dio, constatano i Pa­
dri70, seguendo in questo l’insegnamento del Cristo stesso che chiede:
«Come potete credere voi, che vi glorificate gli uni gli altri e non cer­
cate la gloria che viene dal solo Dio?» (Gv 5,44). Essa, al contrario,
traduce un attaccamento al mondo71: colui che è soggetto alla ceno­
dossia pone fede negli uomini dai quali si aspetta attenzione, stima,
ammirazione, lodi, e tutto ciò che può suscitare in essi questi atteg­
giamenti nei suoi confronti. Ecco perché san Giovanni Climaco defi­
nisce il vanitoso idolatra72, come anche san Macario che osserva: «I
suoi dèi sono gli uomini che fanno il suo elogio»73.
All’origine della cenodossia, scrive Giovanni il Solitario, vi è «l’i­
gnoranza di questa vita»74; è questa che fonda l’illusione di cui è vit­
tima il vanitoso. Questi, infatti, ignora il valore vero delle cose dalle
quali trae gloria come anche il valore di questa stessa gloria. Egli at­
tribuisce alle cose una realtà e un’importanza di cui esse in verità so­
no sprovviste75. Egli si comporta come se queste avessero un valore as­
soluto e duraturo, mentre sono molto fragili, provvisorie. Ignora che
solo la gloria divina è perfetta ed eterna, e che i motivi spirituali di glo­
rificazione in Dio sono gli unici ad essere autenticamente reali. Gio­
vanni il Solitario scrive: «Gli uomini non comprendono la fragilità dei
beni [di questa vita] né la vanità della gloria che ne deriva, ed essi non
percepiscono l’eccellenza delle opere di Dio, né la sapienza della sua
Provvidenza, né la piccolezza della natura degli uomini, che prima an­
cora di fiorire appassiscono, prima di arrivare alla potenza si dissol­
vono e prima di elevarsi sono umiliati, la cui condizione naturale è sog­
getta a ogni mutamento, e tutte le produzioni destinate alla dissolu­

69ibid.
70 C£r. NiCETA Stetatos , Centurie, I , 14.
71 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X I, 28.
72Ibid., 6.
73 Omelie (Coll. DI), XXI, 3,2.
74Dialogue sur l’âme et les passions des hommes, éd. Hausherr, p. 52.
75 Cfr. N iceta Stetatos , Centurie, 1 ,14.

233
zione; e poiché essi non si dedicano a meditare queste cose, sono
sorpresi dall’amore per la lode reciproca, soprattutto perché l’uomo
non riflette abbastanza per dirsi: quale prezzo ha questa vanità che
m’imprigiona, al punto che la vista degli uomini mi sia preferibile a
quella di Dio, e che io sia avido dei loro elogi e non degli elogi di Dio,
come se la gloria che proviene da essi fosse superiore alla gloria che
proviene dal Maestro universale, come se ritenessi l’onore degli uo­
mini equivalente all’onore degli angeli»76. 11 nome stesso della ceno-
dossia indica il suo carattere vano, futile, fragile, fugace, superficiale,
proprio come quello del mondo la cui figura passa (cfr. ICor 7,31), do­
ve essa attinge ciò che l’alimenta e che i Padri, sulla scia del profeta
Isaia, paragonano al fiore del campo (cfr. Is 40,6-7), a un sogno e a
ogni sorta di altre realtà senza durata né consistenza. «Perché, si chie­
de san Giovanni Crisostomo, corri dietro a un’ombra invece di sce­
gliere la verità? Perché tu cerchi ciò che perisce, e non ciò che rima­
ne? [...] Abbandona il fumo, la pura ombra, l’erba vile, le ragnatele.
Impossibile trovare una parola che esprima chiaramente questa mise­
revole inconsistenza»77. «Le cose umane, egli dice ancora, non sono
che cenere e polvere; una polvere che il vento disperde; un’ombra, un
fumo; è la foglia che è il giocattolo del vento, è un fiore, un sogno,
un rumore che passa, un’aura leggera che svanisce nel nulla; è la piu­
ma inconsistente che vola, l’acqua che scorre, è meno di tutto que­
sto»78. Lo stesso Crisostomo continua a sottolineare, in rapporto con
le sue constatazioni, il carattere patologico dell’attaccamento a vane
realtà carnali. «La gloria è un nome e nient’altro che un nome [...].
Qual è dunque l’uomo insensato che si attacca a nomi senza realtà, a
fantasmi che bisognerà fuggire? [...] Così il profeta geme di vedere
tanta irrazionalità nella nostra vita. Simile a un uomo che, vedendo
qualcuno fuggire la luce e cercare le tenebre, gli dirà: “Perché fai que­
sta follia?”, ancora il profeta ci domanda: “Perché prediligi la vanità
e cerchi la menzogna?”»79.
La cenodossia sembra includere una visione delirante della realtà
poiché, sotto il suo influsso, l’uomo smette di concedere realtà, valo­
re e importanza a ciò che ne ha per conferirne a ciò che ne è sprovvi­
sto; la sua visione del mondo è sconvolta, rovesciata; il suo spirito er­
76Loc. cit., p. 54.
77 Omelie su questa parola: «Non temete affatto...» {Sai 48,17), I, 1.
78 Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 5. Vedi anche il seguito di questa omelia così come il
Commento a san Matteo, LXV, 5.
79 Commento al Salmo 4, 6.
234
ra nell’apprezzamento delle cose, in modo che egli sembra colpito dal­
la follia: «Colui che è colpito da questa passione perde, per così dire,
la lucidità delle percezioni e non è meno colpito dei folli», constata
san Giovanni Crisostomo80. Questa percezione delirante della realtà
sotto l’effetto della cenodossia appare frequentemente nella realtà più
quotidiana e sotto forme spesso grossolane. San Massimo osserva, per
esempio, che «agli occhi dei genitori passionali, bambini deformi fino
al ridicolo sono fra tutti i più belli e ben fatti. Così a un’intelligenza
sciocca, le sue trovate, anche quando queste battono tutti i record del­
la balordaggine, sembrano le più fini del mondo»81.
Questo non è vero solo per la prima specie della cenodossia. Anche
nella seconda, l’uomo manifesta una conoscenza delirante, soprattut­
to di sé. «La vanagloria, scrive san Giovanni Climaco, è una passione
ingannevole che ci rappresenta diversamente da come siamo»82. Per
essa, infatti, l’uomo si attribuisce delle qualità e delle virtù che non
possiede e non vede i difetti e le passioni che in realtà gli sono pro­
pri83. Ma egli s’illude anche quando si gloria delle virtù che possiede
veramente. Da un lato, infatti, si considera come sorgente e proprie­
tario di queste virtù, mentre queste sono un dono di Dio e fonda­
mentalmente appartengono a lui84. Dall’altro lato, come sottolinea san
Giovanni Climaco85, allorché l’uomo si gloria delle sue virtù, cessa di
essere virtuoso, e così si vanta di ciò che non possiede più.
La cenodossia vota colui che essa possiede a ogni sorta di male. Co­
loro che agiscono con lo scopo di essere glorificati dagli uomini han­
no già ricevuto la loro ricompensa, afferma il Cristo (cfr. Mt 6,2), il
quale rivolge anche questo ammonimento: «Guai a voi, quando tutti
gli uomini diranno bene di voi» (Le 6,26). «Dio ha disperso le ossa
di coloro che piacciono agli uomini», dice il salmista (Sai52[53],6).
«Sia in questa vita, sia nell’altra, sciagure e sofferenze seguono la ce­
nodossia», scrive san Massimo86. San Giovanni Crisostomo evidenzia
che «il desiderio di onori è la fonte dei mali più grandi»87. E, a pro­
posito della ricerca dei primi posti sotto l’influsso della cenodossia,
80 Catechesi battesimali, V, 6.
81 Centurie sulla carità, HI, 58.
82La Scala, XXI, 2.
83 Cfr. ibid.
84 Questo punto di vista sarà sviluppato nel capitolo 11, dedicato all’orgoglio.
85 La Scala, XXI, 10.
86 Centurie sulla carità, II, 65.
87 Commento a san Matteo, LXEL
235
egli osserva: «Questa passione è stranamente pericolosa»88. Quanto a
san Diadoco di Foticea, fa notare che i demoni prendono soprattut­
to l’amore della gloria come occasione della loro perversità e che a cau­
sa di questa «essi saltano nell’anima come da una finestra oscura e la
devastano»89.
Questa passione distrugge la pace interiore90, mettendo agitazione
nell’anima in diversi modi. «Essa introduce, osserva sant’Isacco, l’a­
gitazione continua e la confusione dei pensieri»91. E san Marco l’Ere­
mita nota: «Fin da quando percepisci un pensiero che ti fa balenare la
gloria umana, sappi che essa ti prepara la confusione»92.
Essa rende l’uomo prima di tutto preoccupato di ottenere l’am­
mirazione e le lodi che desidera. Riempie così la sua anima di una
preoccupazione costante e lo porta a un’agitazione spesso febbrile e
ansiosa. Tale preoccupazione si moltiplica quando non arriva a essere
soddisfatta. Frequentemente accade che il vanitoso non solo non ri­
ceve dagli altri l’attenzione e l’ammirazione da lui pregustate, ma in­
contra anche il risultato contrario. La cenodossia, nota san Giovanni
Climaco, «spesso procura l’umiliazione anziché l’onore»93. E san Mar­
co l’Eremita fa notare: «Quando vedi qualcuno schiacciato dal di­
sprezzo, sappi che egli è pieno di pensieri di vanagloria»94. Al posto
delle lodi attese, egli non suscita nel migliore dei casi che l’indiffe­
renza; ancor peggio, si attira l’odio, provoca l’invidia e la gelosia, fa
nascere critiche e sarcasmi, soprattutto quando la sua vanità si mani­
festa nelle sue parole o traspare nei suoi atteggiamenti. Così san Gio­
vanni Crisostomo rivolge questo avvertimento ai suoi uditori: «Fac­
ciamo attenzione, fratelli miei, di non parlare favorevolmente di noi
stessi, poiché questa vanità ci rende odiosi agli uomini e abominevoli
davanti a Dio»95. Una tale situazione non può mancare di generare nel­
l’uomo tristezza96e angoscia, perché, da una parte, esso è frustrato dal
piacere atteso dalla passione, e dall’altra parte, deve far fronte all’ag­
gressività del suo ambiente, soffre per la perdita di relazioni armoniose
con questo, e deve preoccuparsi della ricerca più difficile di altri mez­
88Ibid., LXV, 4.
89 Cento capitoli gnostici, 96.
90Apoftegmiy Vili, 6.
91 Discorsi ascetici, 23.
92 La legge spirituale, 92.
93 La Scala, XXI, 24.
94Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 118.
95 Commento a san Matteo, III, 5.
96 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 1,5.
236
zi che lo facciano ben figurare al fine di rimpiazzare quelli che han­
no fallito.
Sotto l’influsso della cenodossia, l’uomo perde la sua autonomia e
si rende schiavo non solo della passione stessa, ma di tutti quelli di cui
essa ha bisogno per nutrirsi. San Giovanni Crisostomo sottolinea il ca­
rattere particolarmente tirannico di questa passione che egli conside­
ra come «l’ultima e la più miserabile delle servitù»97, e che giunge a
dominare le anime più grandi98. Come ogni altra passione, sottomette
l’uomo ai suoi desideri carnali specifici e al piacere che le è legato, ma
essa rende l’uomo anche dipendente dal riguardo e dalla considera­
zione degli altri e schiavo di coloro ai quali egli cerca di piacere per­
ché si aspetta le loro lodi. «Infelice me, scrive san Giovanni il Solita­
rio: Dio mi ha creato libero, e su di me pesa il dominio di molta gen­
te, poiché sono schiavo di tutti per il desiderio di piacere a tutti»99.
La cenodossia ha come ulteriore effetto pericoloso e temibile quel­
lo di immergere l’uomo in un mondo di fantasmi. Sant’Isacco il Siro
osserva che coloro che si lasciano «guidare dalla vanità [...] perdono
la ragione»100. Sotto la sua ispirazione, infatti, l’uomo s’immagina di
avere ogni sorta di qualità, virtù, meriti, beni, ecc., s’immagina di
trovarsi in situazioni che gli valgono considerazioni e lodi. «La ceno­
dossia, osserva sant’Isacco, inventa e immagina dei personaggi, e por­
ta a desiderare e a progettare»101. Ciò ha come prima conseguenza pa­
tologica quella di staccare l’uomo dalla realtà che vive, di allontanare
la sua attenzione da ciò che lo circonda, di rallentare la sua attività nei
suoi compiti più essenziali e di paralizzare il suo dinamismo vitale fi­
no a porre la sua anima in uno stato di intorpidimento. Questi tratti
patologici sono così ricordati da san Giovanni Cassiano: «L’anima
infelice, caduta in un profondo torpore, è talmente spinta dalla ce­
nodossia che, sedotta dalla dolcezza di questi pensieri e oppressa dal­
le immagini, non può più in genere nemmeno essere attenta a ciò
che avviene davanti a lei e ai suoi fratelli, mentre trova il suo piacere
ad attaccarsi, come se queste fossero vere, alle cose che ha sognato nel­
la divagazione dello spirito pur rimanendo sveglia»102. Questo susse­
guirsi di fantasie può essere all’origine, se è mantenuto e sviluppato,
97 Commento a san Matteo, IV, 9.
98 Ibid.yLXV.
99 Loc. cit.t p. 52. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXV, 5.
100Discorsi ascetici, 5.
101 Ibid.y 8.
102Istituzioni cenobitiche, XI, 15.
237
di folate di vento deliranti acute o di allucinazioni. Evagrio constata:
«La cenodossia è l’origine delle illusioni dello spirito»103. Lo spiritua­
le deve particolarmente temere questa via d’uscita, allorché dà libero
corso a questa passione e offre così un terreno favorevole al demone
della vanagloria che ha per abitudine quella di attaccare fortemente
nel momento della preghiera: «Una volta, scrive Evagrio, che l’intelli­
genza è giunta alla preghiera pura e vera, i demoni non arrivano più a
essa dalla sinistra, ma dalla destra. Le rappresentano una visione illu­
soria di Dio in qualche immagine piacevole per i sensi, in modo da far­
le credere che ha raggiunto perfettamente lo scopo della preghiera.
Ora questa, diceva un ammirevole gnostico, è l’opera della passione
della cenodossia»104. Questa passione, spiega egli altrove, «spinge l’in­
telligenza a tentare di circoscrivere la divinità in alcune immagini e for­
me»105: i demoni vengono incontro a questa tendenza e vi rispondono
affinché colui che ha avuto la sfortuna di lasciarla sviluppare in sé si
smarrisca. Palladio, nella sua Storia Lausiaca, cita l’esempio di un mo­
naco divenuto folle sotto l’ispirazione della vanagloria: «H suo giudi­
zio, egli scrive, era alterato dal disordine della cenodossia»106.
Sul piano spirituale, gli effetti patologici della cenodossia sono an­
che molto estesi. Essa introduce la morte spirituale dell’uomo107. Ac­
ceca il suo spirito108, lo turba109, e riduce considerevolmente la sua co­
noscenza110.
Distrugge tutte le virtù che l’uomo ha acquisite111e rende totalmente
inutili tutti gli sforzi ascetici112. A causa sua, fa notare san Massimo,
molte cose buone in se stesse cessano di esserlo113. L’ascesi e le virtù
che essa mira a sviluppare hanno infatti come funzione quella di uni­
re l’uomo a Dio e di renderlo finalmente partecipe della gloria divina.
Per la cenodossia, l’uomo le allontana da questa finalità normale per
farle servire alla propria gloria, per suscitare una glorificazione che
103La preghiera, 116.
104Ibid, 72.
105Ibid., 116.
106Storia lausiaca, LVHI, 5.
107Cfr. Apoftegmi, Bu 1,121; Eth. 13,7. AMMONA, Lettera, I, 3.
108Cfr. M arco l ’Erem ita, La legge spirituale, 103. E sich io di B atos, Capitoli sulla vigilan­
za, 57.
109Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
110Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 15. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 58.
111 Cfr. G iovan n i C lim aco, La Scala, XXI, 10; 11. Apoftegmi, N 592, 30; CSP 4,19. GIO­
VANNI C risostom o, Commento a san Matteo, m , 5. MACARIO d ’E g itto , Omelie (Coll. IH), XXI,
3,2.
112Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXI, 2; 7; 8.
113 Centurie sulla carità, II, 35. Vedi anche Questioni a Talassio, 56, PG 90,580B.
238
proviene dagli uomini o da se stesso e non da Dio come dovrebbe
essere. Questa perdita dei frutti dell’ascesi e delle virtù, oltre a costi­
tuire in sé una catastrofe spirituale, ha come conseguenza inevitabile
quella di generare nell’anima uno stato di sofferenza: questa, privata
dei suoi beni più preziosi e del godimento spirituale che essa ne trar­
rebbe, si ritrova vuota, smarrita, si riempie di turbamento e di in­
quietudine, e si vede votata a una insoddisfazione permanente. Di­
fatti, se il piacere che si collega alla cenodossia può per qualche tem­
po colmare l’anima, non potrà per molto conservare questo potere, in
ragione, lo abbiamo detto, del suo carattere parziale, fugace, irreale,
come gli oggetti carnali dei quali si nutre, e alla fine immerge l’anima
nella delusione e nell’amarezza. «La cenodossia, scrive san Giovanni
Cassiano, è un nutrimento che lusinga l’anima per un certo tempo, ma
poi la rende vuota, senza virtù e nuda, lasciandola sterile e priva di tut­
ti i frutti spirituali, in modo che non solo essa distrugge il merito di
penitenze considerevoli, ma procura anche supplizi più grandi»114.
Distruggendo le virtù acquisite, la cenodossia innanzitutto fa (riap­
parire nell’anima le corrispondenti115passioni e in seguito apre la por­
ta a tutte le altre passioni116.1 Padri, lo abbiamo visto, la annoverano
tra le tre passioni generiche, che sono la fonte di tutte le altre. San Mar­
co l’Eremita la definisce «radice dei cattivi desideri»117, «causa di
tutti i vizi»118, «madre del male»119, e insegna che essa «conduce na­
turalmente alla schiavitù del peccato»120. Essa introduce prima di
tutto l’orgoglio121: essa ne è il precursore122, l’inizio123, la madre124, co­
me di tutte le passioni che le sono legate: la bestemmia125, il giudizio126
e il disprezzo degli altri127, lo spirito di dominio e l’amore del potere,
l’indurimento del cuore128, la disobbedienza129. Essa genera anche la
114Istituzioni cenobitiche, V, 21 (3).
115 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 15.
116Cfr. EVAGRIO PONTICO, Pensieri, 15. AMMONA, Istruzioni, IV, 28.
117La legge spirituale, 98.
118Ibid, 102.
119Ibid., 107. Cfr. Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 144.
120Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 143.
121 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 15. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica,
13. MASSIMO IL C on fessore, Centurie sulla carità, in, 61. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 23.
122G iovanni C limaco , La Scala, XX I, 2.
123Ibid, 1.
124Ibid, xxn, 2 .
125 Cfr. MARCO l’E remita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 80.
126Cfr. M arco l’E remita, La legge spirituale, 123.
127JEAN LE SOLITAIRE, Dialogue sur fame et les passions des hommes, éd. Hausherr, p. 52.
m Apoftegrni,Vm, 6.
129G iovanni C assiano , Conferenze, 15. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, V IE, 43.
239
collera130e tutti i suoi satelliti: l’odio131, il rancore132, la gelosia133, le di­
scordie134, le discussioni135. Da essa provengono anche: la menzogna136,
l’ipocrisia137, le parole vane138, la pusillanimità139, la lussuria140, la filar-
giria e la pleonessia141, e, come abbiamo già sottolineato, la tristezza142.
Per terminare, notiamo che i demoni giocano un ruolo molto atti­
vo nella nascita e nello sviluppo della cenodossia143. Tutto ciò che si
accompagna alla vanagloria proviene dal demonio, insegna san Gio­
vanni di Gaza144. E san Barsanufio afferma che i demoni favoriscono
questa passione allo scopo di far perire l’anima145. Se non l’introdu­
cono, in ogni caso approfittano della sua nascita o della sua presenza
nell’anima per dedicarsi attraverso di essa alla loro attività distruttri­
ce146. «E soprattutto l’amore della gloria che i demoni prendono come
occasione della loro malignità; attraverso questa saltano nelle anime
come da una finestra oscura e la devastano», scrive san Diadoco di Fo-
ticea147. Colui che accetta in sé questa passione compie così la volontà
del diavolo148per divenirne alla fine schiavo e giocattolo. «Colui che
ama essere glorificato dagli uomini [...] dedica la sua anima ai suoi ne­
mici, e questi la dedicano a molti mali e se ne impadroniscono», os­
serva Abba Isaia149.

Cfr. G iovan n i C lim aco, La Scala, X X I, 24. M acak io d ’E g itto , Omelie (Coll. II), V,
10. MARCO l ’Erem ita, La legge spirituale, 106. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 5. EsiCfflO DI
BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 59.
131 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 7. Esicmo di B atos, he. cit., 59.
Jean l e S o lita ire, loc. cit.
132 G iovanni C limaco , La Scala, XX I, 23.
133J ean le Solitaire, loc. cit., p. 52.
134 G re g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XXXI, 45.
135Ibid. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
136Apoftegmi, XV, 21. TALASSIO, Centurie, 1, 19.
137 GREGORIO M agn o, Moralia su Giobbe, XXXI, 45. T alassio, Centurie, 1, 19.
138G iovanni C limaco , La Scala, XI, 8. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
139G iovanni C limaco, La Scala, XX , 1; 2.
140Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 13. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 23.
141 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 83.
142 Cfr. Evagrio P ontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 13. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 1.
143 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, IH, 39; XXI, 11; XVII, 18-20; 27; 34. N ic eta S teta-
TOS, Centurie, I, 80.
144 Lettere, 477, Domanda.
145 Lettere, 259.
146Cfr. MARCO l’E remita, Controversia con un avvocato, 2.
147 Cento capitoli gnostici, 96. Cfr. EVAGRIO, La preghiera, 72.
148Apoftegmi, J 729.
149Apoftegmi, VIE, 7.
240
XI
L’ORGOGLIO

L’orgoglio (;yperéfernia) è molto simile alla cenodossia, a tal punto


che molti Padri non hanno ritenuto necessario esaminare separatamente
queste due passioni1; essi prendono in esame così solo sette passioni
generiche anziché otto. Se si considera, infatti, l’ordine delle passioni
dal punto di vista della lotta e del progresso ascetico, quello che va
dalle passioni più grossolane a quelle che sono più sottili e più diffì­
cili da vincere, l’orgoglio allora viene dopo la vanagloria. Considerato
sotto quest’angolazione, esso si presenta come il vertice o il prodotto
di questa passione al suo maggior grado di sviluppo. Ecco cosa scri­
ve san Giovanni Climaco a questo proposito: «Non vi è altra differenza
tra queste due passioni se non quella che s’incontra tra un bambino
e un uomo, tra il frumento e il pane. Difatti, la cenodossia è l’inizio
dell’orgoglio e l’orgoglio è la fine e la consumazione della cenodos­
sia»2. Dalla cenodossia a un certo grado nasce inevitabilmente l’or­
goglio3: «La crescita della prima diviene l’origine del secondo», sot­
tolinea san Giovanni Cassiano4. Anche san Giovanni di Gaza osserva
che «se la cenodossia aumenta, arriva l’orgoglio»5. San Giovanni Cli­
maco fa notare, d’altra parte, che nessuno, dopo aver vinto la vana­
gloria, conserva ancora l’orgoglio6.
Tuttavia, da un altro punto di vista, meno definito dalla pratica asceti­
ca, e che considera le passioni secondo il loro grado di gravità, andan­
do dalle più originarie e fondamentali a quelle che derivano da queste7,
1Come fa notare san GIOVANNI CLIMACO {La Scala, XXI, 1), che cita per esem pio G rego­
rio Magno.
2 Ibid., cfr. 35; 45.
3Cfr. ibid., xxxn, 31. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, HI, 56.
4 Conferenze, V, 10.
5Lettere, 460.
6La Scala, XXI, 1.
7 È il punto di vista soprattutto di Gregorio M agno (vedi per esempio, Moralia su Giobbe,
XXXE, 45).
241
l’orgoglio appare la prima di tutte le passioni, che genera in primo luo­
go la cenodossia e instaura, per questa ragione, con essa legami privi­
legiati e stretti.
Se a un certo livello il limite tra la cenodossia e l’orgoglio appare in­
definito, questo livello è essenzialmente quello in cui avviene - qua­
lunque sia il senso in cui lo si considera - il passaggio dall’una di que­
ste passioni all’altra; per il resto, ciascuna possiede alcuni tratti spe­
cifici che ora andremo a definire per l’orgoglio, come abbiamo fatto
per la cenodossia.
Come la cenodossia, l’orgoglio comporta due forme o componen­
ti8. Una si manifesta in particolare nei rapporti dell’uomo con i suoi
simili9; l’altra riguarda innanzitutto la relazione dell’uomo con Dio10.
1) La prima forma di orgoglio consiste per l’uomo nel credersi s
periore agli altri uomini o quantomeno al tale o al talaltro di essi11, ma
anche nel ricercare questa superiorità se non pensa già di possederla12.
In ogni caso, l’orgoglio consiste nell’esaltarsi13sia senza motivo parti­
colare, sia - ed è il più frequente dei casi - per gli stessi motivi che fan­
no da pretesto alla cenodossia, e che abbiamo presentato precedente-
mente (qualità fisiche, intellettuali, spirituali, rango sociale, ricchezza,
ecc.)14. In questa esaltazione, la persona orgogliosa stima e ammira se
stessa15, si felicita e si loda interiormente16. Ritroviamo questi atteg­
giamenti nella cenodossia, ma in quest’ultima passione l’uomo piut­
tosto attende le lodi dagli altri mentre nell’orgoglio egli piuttosto se le
attribuisce da sé, benché questi due processi si verifichino nell’ima e
nell’altra passione.
Esaltandosi, l’orgoglioso, corrispettivamente abbassa il suo prossi­
8 Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 1; Conferenze, V, 12. DOROTEO DI
G aza, Istruzioni spirituali, II, 31.
9 Cfr. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 2.
10Ibid.
11Cfr. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, E, 31. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sul­
la carità, III, 87. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXV, 5. ELIA ECDICO, An­
tologia, 38.
12San Gregorio di Nissa definisce l’orgoglio come la «volontà di superare gli altri» (Sulla ver­
ginità, IV, 2). Vedi anche BASILIO DI CESAREA, Regola breve, 35. GIOVANNI CRISOSTOMO, Ome­
lie sulla 2 Tessalonicesi, 1,2.
13 B a silio di C esarea, loc. d t, 55. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, EI, 84.
14Cfr. M assimo i l C on fessore, loc. dt. D o r o te o di G aza, Istruzioni spirituali, E, 32.
15M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, Et, 84. G reg o rio M agno, Moralia su Giob­
be, XXXIV, 23.
16G regorio M agno , loc. dt.
242
mo. Lo guarda dall’alto17, lo disprezza18e giunge fino «a non fare al­
cun caso di lui, come se questi non fosse nessuno»19, atteggiamenti che
costituiscono un altro tratto fondamentale di questa prima forma di
orgoglio.
L’orgoglio spinge l’uomo a misurarsi con il suo prossimo20e, prima
di affermare la sua superiorità in rapporto a lui, ad affermare ciò che
10 distingue, a credersi fondamentalmente diverso. L’archetipo di que­
sto atteggiamento d è presentato nel Vangelo con l’esempio del fari­
seo che dice: «Io non sono come gli altri uomini [...], e neppure come
questo pubblicano» (Le 18,11). L’uomo, a causa dell’orgoglio, prova
11bisogno di confrontarsi21, di stabilire gerarchie, prima di conclude­
re la sua superiorità, assoluta o relativa, in tale o talaltro campo, cioè
in tutti quelli che egli si rappresenta. Per questo, è portato partico­
larmente a giudicare con sfavore il suo prossimo22 e a criticare quasi
sistematicamente il suo modo di pensare e di vivere23.
Questa forma di orgoglio si traduce in un certo numero di atteg­
giamenti che contribuiscono, anch’essi, a definirla. La persona orgo­
gliosa, nota san Basilio, «fa sfoggio di dò che ha e si sforza di sembrare
più di quanto sia in realtà»24. In questa occasione come in altre, egli si
mostra arrogante25, infatuato e contento di sé26, pieno di sicurezza27 e
di fiduda in se stesso28. A ciò s’aggiunge, spesso, la pretesa di sapere
tutto29 e la sicurezza, quasi costante, di avere ragione30; da ciò pro­
vengono la mania di giustificarsi31, lo spirito di contraddizione32 (pur
esse caratteristiche di questa passione), nonché la volontà d’insegna­
17 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 14.
18DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, E , 31. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca­
rità, II, 38; III, 84. TALASSIO, Centurie, IV, 29. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXII, 1-2. GIO­
VANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla 2 Tessalonicesi, 1,2.
19DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, II, 31.
20 Cfr. Apoftegmiy serie alfabetica, Pafnuzio, 3.
21 Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, I, 83.
22Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala,, XXII, 1. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), XXVII, 6.
23 Cfr. G re g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XXXIV, 23.
24Regola breve, 55.
25 B a silio di C esarea, loc. cit. Cfr. Erma, Il Pastore, Similitudini, IX, 1-2.
26 E rma, Il Pastore, loc. cit., 1.
27 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, m , 87.
28Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,10.
29Cfr. Il Pastore d’Erma, Similitudini, IX, 1.
30 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,46.
31 DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1,10. GIOVANNI DI G aza, Lettere, 333. GIOVAN­
NI C lim aco, La Scala, IV, 53.
32 G iovan ni C lim aco, La Scala, XXII, 6. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici,
gnostici e pratici, 1 ,46.
243
re33 e di comandare34. L’orgoglio rende colui che ne è colpito cieco ai
propri difetti35, gli fa rifiutare a priori ogni critica e odiare ogni rim­
provero e ogni correzione36, e gli rende intollerabile ricevere comandi
e doversi sottomettere a chicchessia37. Tale passione si rivela anche in
una certa aggressività: talvolta, è l’ironia che ne è l’espressione, ma an­
che l’acredine nelle risposte alle domande degli altri38, il silenzio ri­
spettato in alcune circostanze39, un’animosità generale40, il desiderio di
oltraggiare il prossimo e la facilità nel farlo41. Questa aggressività si ma­
nifesta regolarmente in risposta alle minime critiche rivolte dagli altri42.
2) Mentre la prima forma dell’orgoglio eleva l’uomo di fronte ai su
simili, la seconda forma lo eleva di fronte a Dio, lo erge contro di lui43.
L’orgoglio appare, allora, come una passione di estrema gravità: tutti
i Padri non smettono di affermare che essa è la peggiore di tutte44e di
ricordare che essa ha provocato la caduta di Satana e degli angeli di­
venuti dèmoni45, poi la caduta dell’uomo stesso46. Ed è proprio nell’a­
nalisi delle cause di questa caduta originale che si può vedere netta­
mente ciò che costituisce il fondamento e l’essenza dell’orgoglio. Ab­
biamo già avuto l’opportunità di dimostrare che il peccato originale
ha costituito, tanto per l’uomo che per il diavolo, l’autodeificarsi, il ri­
vendicare per sé un’autonomia assoluta nel farsi passare come Dio, nel
pretendere di trarre da sé ogni qualità, nel ricercare una gloria prò­
33 ERMA, II Pastore, Similitudini, IX, 2.
34G iovan ni C lim aco, La Scala, XXII, 8.
35 Cfr. Elia ECDICO, Antologia gnomica, 38.
36Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXII, 2; 11.
37Ibid., 7; 31.
38Cfr. G re g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, XXXIV, 23. G iovan ni C assiano, Istituzioni
cenobitiche, XII, 29.
39Cfr. G regorio M agno , loc. dt.
40 Cfr. TALASSIO, Centurie, IV, 29. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXII, 31.
41 G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 29. G re g o rio M agno, Moralia su Giob­
be, XXXIV, 23.
42 Cfr. ibid.
43 Cfr. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, II, 31. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni ceno­
bitiche, XII, 2; 7. G iovanni C lim aco, La Scala, XXII, 1; 31.
44 Vedi per esempio Apoftegmi, N 558; N 641. GIOVANNI C lim aco, La Scala, XXI, 45; XX-
VI, 45.
45Cfr. Apoftegmi, N 558; XVII, 32. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 4. GIO­
VANNI C lim aco, La Scala, XXII, 12; XXVI, 45. G iovan ni C risostom o, Omelie su Ozia, m , 3;
Commento a san Matteo, XV, 2; LXV, 6; Commento a san Giovanni, IX, 2; XVI, 4.
46G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 4-5. M acario d ’E g itto , Capitoli para­
frasati, 86,115; Omelie (Coll. DI), 1,3,4; Omelie (Coll. II), XXVH, 6. GIOVANNI CRISOSTOMO,
Commento a san Matteo, XV, 2; LXV, 6; Commento a san Giovanni, IX, 2. DOROTEO DI G aza,
Istruzioni spirituali, I, 8. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXII, 31.
244
pria, nel fare di sé un centro assoluto e neU’affermare in ogni cosa la
propria superiorità. San Giovanni Cassiano spiega così il peccato e la
caduta di Satana: «Costui ha creduto di ricevere dalla potenza della
sua natura e non dalla generosità divina lo splendore della sapienza e
la bellezza delle virtù di cui la grazia del creatore l’aveva ornato. In­
fatuato da questa ragione, come se non avesse bisogno del soccorso
divino per perseverare in questa purezza, egli si ritenne simile a Dio,
pretendendo che, come Dio, non avesse bisogno di nessuno; ripose fi­
ducia nella capacità del suo libero arbitrio, nel credere di potersi pro­
curare così in abbondanza quanto esige la perfezione nella virtù e la
beatitudine eterna. Solo questo pensiero fu la causa della sua cadu­
ta»47. Lo stesso santo cita48questo versetto del salmista: «Ecco l’uomo
che non pose Dio qual suo rifugio, ma mise la sua fiducia nell’ab­
bondanza delle sue ricchezze, cercando asilo nei suoi averi» (Sai
52[51],9). Ricorda, inoltre, che il peccato è consistito per l’uomo nel
cedere alla tentazione diabolica che prometteva: «Voi diventerete co­
me Dio»49. «Immaginandosi di divenire Dio, perse la condizione che
possedeva», nota san Giovanni Crisostomo50, il quale fa notare che
questo stesso peccato si perpetua in seguito all’influsso del diavolo
in tutti gli uomini che adottano un atteggiamento orgoglioso: «Que­
sto angelo orgoglioso li fa cadere poi nella stessa empietà ingannan­
doli con l’illusione che essi diverranno simili a Dio»51.
L’orgoglio si presenta, dunque, come una negazione o un rifiuto
di Dio52, che talvolta può, come nel caso di Satana, assumere nell’uo­
mo la forma di una rivolta aperta53, ma si manifesta molto spesso in
modo meno eclatante come «un rifiuto dell’aiuto divino è la presun­
tuosa fiducia nelle proprie forze»54. L’orgoglioso rifiuta di considera­
re che Dio è l’autore della sua natura, il principio e la fine del suo es­
sere, e anche la fonte di tutte le qualità e di tutti i beni che egli pos­
siede, per poi attribuirseli55.
Per la maggior parte del tempo, è quest’ultima forma che assume
47 Istituzioni cenobitiche, XII, 4 (2). Cfr. 5.
48Ibid., 4.
49Ibid
50 Commento a san Matteo, XV, 2. Cfr. Commento a san Giovanni, IX, 2.
51 Commento a san Matteo, XV, 2.
52 G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 1.
53 Cfr. ibid.y 31.
54Ibid, XXE, 2.
55Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, 64, PG 90,716B. M acario d ’E g itto ,
Omelie (Coll. II),LIV,4.
245
tale passione nello spirituale; essa ha la tendenza ad attaccare parti­
colarmente l’uomo spirituale56, al quale fa credere che è lui stesso la
fonte delle proprie virtù e la causa delle sue buone opere, portando­
lo correlativamente a non riconoscere l’aiuto di Dio57. La seconda for­
ma d’orgoglio, scrive san Doroteo, consiste «neU’attribuire le buone
opere a se stessi e non a Dio»58. Troviamo lo stesso insegnamento in
Evagrio59e in san Massimo60. Secondo quest’ultimo, l’orgoglioso è co­
lui «che si gonfia dei beni dati da Dio, come se questi provenissero
dalle proprie azioni giuste »61. Diamo prova di orgoglio, dice ancora,
se pensiamo «che possedere la virtù e la conoscenza è un fatto nostro,
secondo natura, e non ci viene dalla grazia»62. Detto in altre parole, lo
spirituale si dimostra orgoglioso se rappresenta le proprie virtù come
espressione del proprio valore e prodotto dei suoi meriti, mentre esse
non sono altro che la partecipazione alle perfezioni divine e sono un
dono dello Spirito; è come se egli s’immaginasse, sotto l’effetto di que­
sta passione, che ha ottenuto con le sue sole forze la vittoria sulle pas­
sioni che stanno in lui, mentre la vittoria viene da Dio65.
Comprendiamo allora perché i Padri notano che questa seconda
forma di orgoglio «attacca soprattutto coloro che hanno tratto profit­
to in qualche virtù»64e appare con maggior veemenza quando gli al­
tri vizi sono estirpati65. San Giovanni Crisostomo giunge perfino a
dire: «Gli altri mali provengono in noi dalla nostra negligenza, men­
tre, questo male, lo contraiamo facendo il bene»66. Allora l’orgoglio da
solo occuperà nell’anima il posto di tutte le passioni vinte67.
Non è solo nella situazione in cui le passioni sono state combattu­
te e annientate che l’orgoglio può rimpiazzarle, ma anche quando, per
una qualsiasi ragione, esse sonnecchiano o si nascondono senza tutta­
via smettere di esistere o di essere sminuite se non apparentemente.
56 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 12.
57Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 14; Antirretico, VOI, 25. MAS­
SIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, n, 38; in, 84.
58Istruzioni spirituali, E, 31. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. E), LIV, 4.
59 Trattato pratico sulla vita monastica, XIV; Antirretico, VEI, 25.
60 Centurie sulla carità, E, 38; HI, 84.
61 Questioni a Talassio, 52, PG 90,492A. Cfr. 493A.
62Ibid, 493C.
63 E vagrio P o n tic o , Antirretico, VIE, 25. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talassio,
52, PG 90,493A.
64 G iovanni C assiano , Conferenze, V, 12.
65 Cfr. ibid., 10. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, E, 59. G iovan ni C assiano,
Istituzioni cenobitiche, XE, 24.
66 Omelie su Ozia, JE, 1.
67 M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, EI, 59.
246
Ecco perché san Massimo nota che «quando le passioni sonnecchia­
no, l’orgoglio sorge, sia da cause inconsce, sia da un attacco subdolo
dei demoni»68, e san Giovanni Climaco precisa, ricordando la stessa
passione: «Accade che tutte le passioni si ritraggono da alcuni fedeli,
e anche da alcuni infedeli, salvo una sola; e questa gli viene lasciata co­
me il più grande di tutti i mali che, da solo, rimpiazza tutti gli al­
tri»69.
Già da queste considerazioni, dunque, notiamo che, se la seconda
forma d’orgoglio minaccia particolarmente gli spirituali, avremmo tor­
to di credere che questa risparmi gli altri uomini. Se essa spesso si fa
notare meno in questi, è perché essa è diffusa in tutto il loro essere, e
consiste infatti nel mantenere il loro stato di separazione da Dio. Vi­
vere al di fuori di Dio, condurre un’esistenza totalmente autonoma,
indipendente da lui e affermarsi come unico principio e fine della pro­
pria esistenza, è una manifestazione di questo orgoglio fondamentale
che perpetua il peccato ancestrale. Ogni uomo, fin tanto che vive al di
fuori di Dio, Lo ignora o Lo dimentica anche se per poco tempo,
implicitamente Lo nega e prende il suo posto dando prova così del­
l’orgoglio che lo abita. L’uomo, possiamo dire, si rivela orgoglioso a
un certo grado fintanto che rimane in uno stato di relativa separazio­
ne da Dio; solo il santo che ha realizzato l’unione totale a Dio e gli è
totalmente trasparente, sfugge a questa passione, mentre tutti gli al­
tri uomini ne restano vittime, anche se lo ignorano o lo negano: «Cre­
dere che non si è orgogliosi è ima delle più chiare manifestazioni che
10 si è», fa notare san Giovanni Climaco70.
Le due forme di orgoglio che abbiamo presentate, pur essendo mol­
to diverse, non sono però separate e indipendenti. Sono come le due
facce dell’orgoglio e sono sempre presenti insieme nell’uomo deca­
duto, anche se in certi casi può sembrare che una prenda più posto ri­
spetto all’altra. Se è vero che la prima forma fa ergere l’uomo contro
i suoi simili, mentre la seconda lo pone contro Dio71, ciascuna, in realtà,
nota san Giovanni Cassiano, rivolge l’uomo sia contro Dio sia contro
11prossimo72, perché è evidente che l’atteggiamento dell’uomo nei ri­
guardi dei suoi simili in fondo è relativo al suo atteggiamento di fron­
68 Ibid., n, 40.
69La Scala, XXVI, 45.
70Jfó£,XXII, 14.
71 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 2.
11Ibid.
247
te a Dio, e viceversa73. È chiaro, d’altra parte, che la prima forma di
orgoglio ha origine e fondamento nella seconda. Se l’uomo infatti ele­
va, stima e ammira se stesso, è perché non riconosce che le qualità,
le virtù e tutti i beni che può possedere e che crede di avere da se stes­
so, gli vengono invece da Dio. Se egli abbassa gli altri, in parte è per
la stessa ragione: disprezzare gli altri perché non hanno saputo ben
agire, per esempio, come san Massimo74 constata, equivale ad attri­
buire le buone azioni alle proprie forze invece di rapportarle a Dio.
Credersi superiore agli altri, cercare di superarli, porsi in cima o rite­
nersi il centro in ogni circostanza, attribuirsi ogni qualità e virtù o al­
meno alcune a un grado elevato, equivale d’altra parte, per l’orgoglioso,
all’autodeifìcarsi, a far di sé un piccolo dio, e a prendere così il posto
dell’unico vero Dio che è l’assoluto vero, il sommo e il centro, il prin­
cipio e la fine, il significato e il valore di ogni cosa, la fonte e il fon­
damento di ogni bene, di ogni qualità o virtù, principio di ogni per­
fezione. Proprio perché egli fa di se stesso un assoluto, l’orgoglioso
non ammette rivali, non sopporta raffronti che siano a suo svantaggio,
teme tutto ciò che può contraddire la stima che egli ha di sé. E altre­
sì per questo motivo e per ben affermare davanti a se stesso e davan­
ti agli altri la superiorità che si attribuisce, che egli critica impietosa­
mente e sistematicamente il prossimo, lo disprezza, lo sminuisce. Di
fronte a tutto ciò che può, secondo lui, rimettere in causa questa su­
periorità egli si mostra aspro e aggressivo, volendo a ogni costo pro­
teggere l’immagine vantaggiosa che egli ha e vuole dare di se stesso.
Se disprezza il suo prossimo e lo sminuisce, è anche perché nega Dio
mettendosi al suo posto, e per questo nega l’immagine di Dio nei suoi
simili che fa di ciascuno un figlio di Dio in potenza e gli conferisce per
partecipazione la dignità e la superiorità di Dio stesso. È perché egli
cessa di venerare il suo prossimo come essere a immagine di Dio, e
dunque di venerare Dio in lui, che egli è portato, secondo le parole di
san Doroteo, «a non far caso di lui come se fosse un nulla»75. E per­
ché l’orgoglioso ha fede nelle proprie forze invece di avere fiducia nel­
la grazia divina e riconoscere che senza di essa non può nulla, e per­
ché, d’altra parte, egli afferma la sua assoluta autonomia, rifiutando di
vedere in Dio il suo principio e il fine, è per questo che egli si mostra
pieno d’arroganza e di sufficienza. Sostituendo e opponendo la sua
73 Cfr. lGv 4,20-21.
74 Centurie sulla carità, II, 38.
75 Istruzioni spirituali, II, 31.
248
volontà a quella di Dio e facendo di essa un assoluto, si comprende
come egli pretenda di comandare e si rifiuti di obbedire o di sotto­
mettersi a chicchessia. E anche perché egli non riconosce nel Cristo
l’archetipo della sua natura, ma prende se stesso come norma e riferi­
mento in tutto, che egli si fa misura di ogni cosa, pretende di giudi­
care tutto e sapere tutto, si crede sapiente, vuole avere ragione, ha la
pretesa d’insegnare e non sopporta di essere contraddetto. Ecco per­
ché, generalmente, l’orgoglioso è vuoto di Dio ed è pieno di sé.
L’orgoglio secondo i Padri passa per una malattia76«terribile»77,
«molto grande e molto crudele»78, una «malattia mortale»79. L’orgo­
glio, scrive san Gregorio Magno, «corrompe l’anima alla maniera di
una malattia contagiosa e diffusa che corrompe tutto il corpo»80. San
Giovanni Crisostomo afferma ugualmente che «ciò che è l’infiamma­
zione per il corpo, l’orgoglio lo è per le anime»81.
I Padri considerano anche, molto spesso, questa passione come una
forma di follia82. Ricordando il peccato originale e le sue conseguenze
catastrofiche, san Doroteo di Gaza scrive: «Perché siamo caduti in que­
sta miseria? Non è forse a causa del nostro orgoglio? A causa della no­
stra follia (apónoia)? [...] “L’uomo è folle (mdrós)” dice Dio nel vede­
re questa insolenza»83. San Giovanni Crisostomo afferma decisamen­
te: «L’orgoglio non è altro che un rovesciamento dello spirito, una
grandissima e crudelissima malattia che proviene unicamente dalla de­
menza: difatti non c’è nulla di più insensato dell’uomo orgoglioso»84.
76H termine è usato per esempio da: GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XI, 10 (3);
XII, 1; 4. GIOVANNI C risostom o, Commento a Isaia, in, 8; Omelie su Ozia, IH, 1; 3; Commen­
to a san Giovanni, XVI, 4. LEONZIO DI NEAPOLIS, Vita di san Giovanni di Cipro, 42. MASSIMO IL
C on fessore, Questioni a Talassio, 6 4 ,708C. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 53. Isa cco IL Si-
RO, Lettere, IV.
77 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 87.
78 G iovan ni C risostom o, Commento a san Giovanni, XVI, 4.
79 G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, xn, 29.
80Moralia su Giobbe, XXXIV, 23. La stessa affermazione si trova in GIOVANNI CASSIANO, loc.
cit., 3.
81 Omelie sulla 1 Timoteo, XVII, 1.
82Oltre i riferimenti dati infra vedi ERMA, Il Pastore, Similitudini, IX, 2; 3. BARSANUFIO, Let­
tere, 424. G iovanni C lim aco, La Scala, XX , 1. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 34; 62. E lia Ec-
DICO, Antologia, 37.
83 Istruzioni spirituali, I, 8.
84 Commento a san Giovanni, XXVI, 4. Giovanni Crisostomo usa spesso la parola apónoia,
che significa sragione, per indicare l’orgoglio. Vedi per esempio: Commento a Isaia, IH, 6; Ca­
techesi battesimali, V, 4. A. WENGER (in: GIOVANNI CRISOSTOMO, Otto catechesi battesimali, SC
n. 50 bis, nota 3, p. 202) scrive anche: «Crisostomo dà abitualmente come sinonimo di apónoia
il termine di yperèphania [...]. E Field ha ragione di scrivere: aapónoia, superbia, arrogantia. Hoc
sensu semper, nifallor, apud Chrysostomum occurif (PG 58, 924)».
249
Lo stesso santo nota ancora che «colui che è preso da questa passio­
ne non è meno colpito dei folli (mainoménoi) »85.
Da dove proviene il carattere patologico dell’orgoglio? Possiamo
vedere in esso il risultato di una perversione della tendenza fonda-
mentale della natura umana. L’uomo, lo abbiamo visto, è stato crea­
to per elevarsi a Dio e alla fine unirsi a lui nella pienezza dell’amore
e della conoscenza.
Questa sua elevazione a Dio, l’uomo era destinato a compierla in
Dio, attraverso la realizzazione della somiglianza con Dio sulla base
delle virtù che erano state messe in germe nella sua natura, e appro­
priandosi progressivamente la grazia data dallo Spirito. Nella sinergia
dei propri sforzi e della grazia divina, ossia in collaborazione o in coo­
perazione con Dio, l’uomo era destinato ad elevarsi. Questa eleva­
zione di sé doveva compiersi in unione con il suo simile, e integrare
l’intero cosmo in modo da unirlo in lui a Dio86. Ora l’uomo ha scon­
volto questa tendenza naturale, nell’autoelevarsi, nel voler divenire,
secondo la promessa del serpente, «come un dio», da solo e senza Dio,
con le sue sole forze e senza la grazia. NeU’affermarsi e nell’elevarsi
senza Dio, egli si è affermato ed elevato contro Dio. D’altra parte,
invece di affermarsi e di elevarsi verso Dio in comunione con il suo si­
mile, l’uomo si è affermato ed elevato contro di lui, dividendo così l’u­
nicità della natura umana.
Possiamo altresì notare, al fondamento dell’orgoglio, un’altra per­
versione, relativa a quella che abbiamo appena ricordato. L’atteggia­
mento normale dell’uomo, quando fa o constata in sé qualche bene, è
quello di riferirlo a Dio, di vedervi un dono e di rendere grazie al
donatore, al principio e al fine di questo bene come di ogni bene. Il
Cristo stesso ci dà l’esempio di questo atteggiamento normale nel di­
re a un uomo che lo chiama «Maestro buono»: «Perché mi chiami buo­
no? Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio» (Me 10,18). L’or­
goglioso capovolge questo atteggiamento: riferisce a se stesso il bene,
se ne fa egli stesso il principio e il fine, e rende grazie a se stesso87. È
così, dice san Massimo, «che noi usiamo il bene perché divenga il
male»88.
85 Catechesi battesimali, V, 6.
86 Su questa elevazione vedi MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 41, PG 91,1305A-1308B.
87 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 64, PG 90,716B.
88Itó.,52, PG90,493C.
250
Il carattere patologico dell’orgoglio contiene anche altre caratteri­
stiche. Alla base di tutte le forme di questa passione, vi è, sottolinea­
no i Padri, un’ignoranza. «Non è la conoscenza che conduce alla
vertigine dell’orgoglio, ma l’ignoranza», afferma san Giovanni Criso­
stomo89. Questa ignoranza è evidentemente in primo luogo ignoranza
di Dio. «Il principio dell’orgoglio, è quello di misconoscere il Signo­
re», leggiamo nell’Ecclesiastico (Sir 10,12), insegnamento che san Gio­
vanni Crisostomo cita varie volte90. Questa ignoranza originaria ge­
nera nell’orgoglioso una percezione delirante della realtà. H primo dan­
no che subisce colui che è sottomesso all’orgoglio «è quello di essere
accecato e di perdere la rettitudine del suo giudizio», constata san Gre­
gorio Magno91. E san Giovanni Crisostomo afferma, allo stesso modo,
che «colui che è colpito da questa passione perde, per così dire, la
lucidità delle percezioni»92.
E innanzitutto una conoscenza delirante di se stesso che questa pas­
sione dà all’uomo. L’orgolioso, infatti, si eleva, si afferma superiore, si
crede di essere qualcosa o qualcuno e pensa di avere questa o quella
qualità, mentre al difuori di Dio l’uomo «non è che terra»93 e non ha
che «beni» eminentemente fragili, provvisori, destinati a scomparire,
fondamentalmente irreali. «Perché si esalta chi è terra e cenere? An­
cora in vita vomita gli intestini», si domanda, stupito, il Siracide {Sir
10,9). E san Giovanni Crisostomo afferma in senso analogo: «Colui
che si eleva per cose che non hanno nulla di reale, che gonfia il suo
cuore per un’ombra, per il fiore dell’erba (cfr. lPt 1,24) [...] non è il
più ridicolo di tutti gli uomini? Simile a un povero che, soffrendo la
fame continuamente, si gloriasse d’aver avuto una volta durante la not­
te un sogno piacevole»94.
Questo delirio dell’orgoglioso nella conoscenza che ha di sé appa­
re con evidenza quando si attribuisce infatti qualità che non possiede
e quando si rivela a tutti un divario stridente tra ciò che pensa di sé e
la realtà. San Giovanni Climaco nota questo divario in una definizione
che dà di questa passione: «L’orgoglio è un’estrema povertà dell’anima
che s’immagina di essere ricca, e scambia le sue tenebre per luce»95.
89 Omelie su 1 Timoteo, XVII, 1.
90 Omelie su 2 Tessalonicesi, I, 2; Commento a san Giovanni, XVI, 4.
91Moralia su Giobbe, XXXIV, 23.
92 Catechesi battesimali, V, 6.
93 G iovan ni C lim aco, La Scala, XXII, 18.
94 Commento a san Giovanni, XVI, 4.
95 La Scala, XXII, 23.
251
Ma anche quando l’uomo si eleva per qualità che possiede real­
mente, egli delira nell’attribuirle a se stesso mentre queste gli vengo­
no da Dio e non le possiede se non per partecipazione alle perfezio­
ni di Dio. «Che cosa possiedi, domanda san Paolo, che non l’abbia ri­
cevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi
ricevuto?» (lCor 4,7)%. Quando fa qualcosa di buono, l’uomo in qual­
che modo non è che un intermediario e non deve, per questo moti­
vo, concepire un’elevazione97. Ciò non è vero solo per le buone azio­
ni che egli può di sé compiere, ma anche per ogni buona disposizio­
ne, per ogni qualità o virtù che egli può avere, perché come abbiamo
dimostrato, esse gli sono state conferite dal suo Creatore ed è solo per
la grazia divina che queste possono svilupparsi. Nell’attribuirle a se
stesso, l’orgoglioso aggrava il suo delirio poiché infatti, implicita­
mente, egli si ritiene Dio. «Tu aumenti la tua condanna nell’osare at­
tribuirti ciò per cui dovresti piuttosto rendere grazie a Dio», scrive san
Barsanufio98. E san Giovanni Climaco sottolinea la follia di un tale at­
teggiamento: «E vergognoso gloriarsi di un ornamento che non ci ap­
partiene; ma è la più grande follia far mostra dei doni di Dio»99.
La vera conoscenza di sé consiste, per l’uomo, nel sapere che non
ha nulla da sé, indipendentemente da Dio. E in questo senso che san
Giovanni Crisostomo dice che «nessuno si conosce più perfettamen­
te se non colui che crede di essere un nulla»100. L’orgoglioso che, in
tutti i modi che abbiamo presentati, pensa di essere da se stesso qual­
cosa e ne concepisce un’elevazione, dà prova della più totale ignoranza
di sé, cosa che fa dire a san Giovanni Crisostomo che «l’orgoglioso è
sconosciuto a se stesso»101. Abbiamo visto che a questo proposito si
può arrivare fino a dire veramente che l’orgoglioso delira o in ogni ca­
so, come dice lo stesso san Paolo, s’illude: «Se uno pensa di essere
qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso» (Gal 6,3). Ignoran­
do ciò che egli è e percependo in modo delirante la sua realtà, l’or­
goglioso non potrà avere che una conoscenza falsata degli altri esseri102.
L’orgoglioso, innanzitutto, disconosce il prossimo. Abbiamo avu­
to l’occasione di dire prima che, se egli abbassa il prossimo e lo di­
96Vedi su quest’argomento: GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 1 Timoteo, XVII, 1. BAR­
SANUFIO, Lettere, 409; 412.
97 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Pietro il Pionita, 4. BARSANUFIO, Lettere, 411.
98 Lettere, 412.
” La Scala, XI01,16.
100Commento a san Matteo, XXV, 4.
,0! Ibid.
m Cfr. ibid.
252
sprezza, è perché ignora la sua grandezza e la sua dignità di creatura
a immagine di Dio, e non lo riconosce come suo fratello in Cristo. I
suoi rapporti con lui perciò vengono ad essere turbati in molti modi.
In particolare, anziché elevare suo fratello in Dio, eleva se stesso, e ri­
duce suo fratello a un mezzo della propria glorificazione o a uno spec­
chio che gli riflette non l’immagine di Dio, ma la sua immagine, quel­
la che almeno egli si fa di sé e si aspetta che gliela si rinvìi. D’altra par­
te, anziché viver l’altro come prossimo in Dio, di considerarlo in lui
come un simile e come un fratello, l’orgoglioso cerca di distinguersi,
di affermare la sua singolarità e la sua superiorità in un modo di rela­
zione che assume la forma della opposizione. Ogni uomo, è vero, è
unico, è una persona distinta dalle altre, cioè ha un modo proprio di
realizzare la natura umana e di manifestare l’immagine divina103, ed è
chiamato a sviluppare carismi propri104; vi sono così differenze tra gli
uomini, alcuni dei quali manifestano più qualità e doni degli altri.
Tali differenze, tuttavia, trovano in Dio la loro unità fondamentale (cfr.
ICor 12,4-6.11). Nell’ambito di sani rapporti, l’unicità di ogni perso­
na si afferma in relazione con quella degli altri non sotto la forma di
una opposizione bensì di una complementarità, in vista dell’utilità co­
mune (cfr. ICor 12,7) nell’unità della comunità umana, il cui archeti­
po è la Chiesa, corpo del Cristo. Ogni membro ha la sua funzione, la
sua utilità, la sua importanza e non può pretendere di far a meno de­
gli altri (ICor 12,21). Nessuno è disprezzabile e di minor valore o di­
gnità, e quelli che hanno il minor numero di qualità o di doni sono i
più considerevoli (cfr. ICor 12,22-25). L’orgoglioso, anziché utilizza­
re i propri carismi per aiutare le membra del corpo che ne sono sprov­
viste, entrando così con esse in una realtà unitiva di complementarità
vissuta in Dio in un sentimento di umiltà e di fraternità, distoglie que­
sti doni dalla finalità normale e li usa egoisticamente per affermare la
sua singolarità in opposizione al prossimo e per porsi in cima a una
gerarchia in cui riduce gli altri ad essere i gradini più bassi privi di va­
lore. Le differenze e anche le ineguaglianze, invece di essere abolite in
Dio nell’unità del corpo, sono al contrario evidenziate. Il prossimo di­
viene un rivale. L’orgoglio qui si rivela come causa di separazione e di­
visione, fattore di perturbazione delle relazioni tra gli uomini, e di con­
seguenza fonte di mali innumerevoli.
Reso incapace dall’orgoglio di volgersi verso Dio e di aprirsi vera-
105Cfr. V. LOSSKY, À l’ìmage et àia ressemblance de Dieu, Paris 1967, pp. 109s.
104Cfr. ICor 12.
253
mente al prossimo, l’uomo si ripiega su se stesso, si rinchiude nel ri­
stretto universo del suo io che egli esalta. In tutte le sue reazioni, egli
rimane prigioniero di se stesso. L’orgoglio allora costituisce ima nega­
zione della carità, e dunque istituisce la distruzione di tutti i rapporti
armoniosi che questa permette con Dio e, in questi, con se stesso e il
prossimo. L’orgoglioso capovolge la capacità d’amore che Dio ha da­
to all’uomo affinché egli si unisca a lui, allontanandola dalla sua fina­
lità normale per volgerla verso se stesso. L’orgoglioso ama il suo io e
non ama che questo. L’orgoglio, lo si vede, qui è assimilato alla filautia.
Tutti i Padri, abbiamo detto, considerano l’orgoglio una passione
estremamente grave. Questa gravità si manifesta soprattutto nei suoi
effetti patologici che si rivelano particolarmente temibili. «Il demone
dell’orgoglio, scrive Evagrio, è quello che conduce l’anima alla cadu­
ta più grave»105. Costituendo in se stesso una forma di follia, l’orgoglio
può condurre colui che è sua vittima a stati acuti e tipici della follia
nel senso usuale di questo termine. Evagrio, in particolare, pone in evi­
denza questo aspetto e vede nella follia uno sbocco di questa passio­
ne: «In seguito vengono lo smarrimento dello spirito (ékstasis phrenón),
la follia (manta), e la visione di una folla di demoni nell’aria»106. E al­
trove osserva: «Subito [in seguito ai pensieri di cenodossia] insorge
il demone dell’orgoglio, che invia lampi incessanti nell’aria della cel­
la e dragoni alati, e causa quello che è l’ultimo dei mali, la privazione
di spirito (stérèsis phrenón)»107. In un capitolo della recensione lunga
del trattato da cui è presa quest’ultima citazione108, Evagrio dice che
l’orgoglio porta a uno stato di smarrimento (ékstasis) dove il monaco
«vede nell’aria della cella un fuoco di lampi brillanti, la notte, lungo
i muri, e tutta la sua abitazione piena di Etiopi» (i quali nel linguaggio
ascetico dell’epoca indicano simbolicamente i demoni). Nel descri­
vere il seguito di questa situazione109, egli scrive ancora: «Egli allora
cade nello smarrimento (ékstasis), e sotto l’effetto della paura, esalta­
to, dimentica la condizione umana». Un apoftegma riferisce il caso
di monaci che, dopo una lunga ascesi, sono così caduti nell'ékstasis

105 Trattato pratico sulla vita monastica, 14. Vedi anche: GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su
Ozia, III, 3. ERMA, Il Pastore, Similitudini, IX, 3.
106Loc. cit.
107Sui diversi pensieri della malvagità, 23.
108J. MUYLDERMANS, À travers la tradition manuscrite d’Évagre le Pontique, Louvain 1952,
p. 47,13-17.
109ìbid, 17-19.
254
phrenón a causa del loro orgoglio110. Un altro apoftegma riferisce an­
che il caso di un monaco che «sotto l’effetto del gonfiamento dell’or­
goglio, fu preso da uno spirito di Pitone»111. La Storia Lausiaca pre­
senta anche due casi simili: quello di due monaci, Valente112ed Ero-
ne113, che, essendo prima caduti nell’orgoglio, sotto l’effetto di questa
passione si sono messi a delirare. Sappiamo, d’altra parte, che la pas­
sione dell’orgoglio costituisce un terreno particolarmente favorevole
alle azioni che il diavolo intraprende per far smarrire gli spirituali con
false apparizioni, che hanno l’aspetto di vere allucinazioni. San Gio­
vanni Climaco, nel capitolo della Scala in cui tratta dell’orgoglio, ri­
corda questa situazione: «Quando il demonio ha costruito la sua di­
mora nell’anima di coloro che sono divenuti suoi schiavi, appare lo­
ro come in sogno, oppure quando questi sono svegli, appare sotto
l’immagine di un angelo di luce o sotto quella di un martire; allora sve­
la loro alcuni segreti, e apparentemente concede qualche grazia straor­
dinaria affinché questi poveri miserabili, essendo così ingannati, per­
dano completamente la ragione»114.
L’orgoglio ha numerosi altri effetti patologici. Esso è, dicono i Pa­
dri, la fonte iniziale di tutti i mali che avvengono all’uomo115. «Tutte le
cose cattive ci avvengono a causa del nostro orgoglio», spiega un
Anziano116. «L’orgoglio è la causa delle malattie più gravi», dice da par­
te sua san Giovanni Cassiano117. «Il diluvio dei mali che inonda tutta
la terra non ha altra fonte se non l’orgoglio», afferma san Giovanni
Crisostomo118, che altrove dice che, a causa di questa passione, la vi­
ta dell’uomo «è accompagnata da tanti dolori e miserie»119.
Nel rendere l’uomo estraneo a Dio120, l’orgoglio lo priva dell’aiuto
e dei beni divini121. Gli fa perdere la conoscenza spirituale122, poi tut­
te le virtù che esso possedeva. «L’orgoglio, scrive san Gregorio Ma­
110Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 37.
111Apoftegmi, K 300.
112 P alladio , Storia Lausiaca, 25.
113Ibid., 26.
114 La Scala, XXH, 19.
115Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 63. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su Ozia, IH, 3; Commento
a san Giovanni, IX, 2. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 85.
116Apoftegmi, XV, 115.
117Istituzioni cenobitiche, XII, 8.
118Commento a san Matteo, XV, 2.
119Ibid., LXV, 6.
120Apoftegmi, N 592/60.
121 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,492A; 493A. T alassio ,
Centurie, IV, 34.
122Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,493A.
255
gno, non si accontenta mai di distruggere una sola virtù; esso si erge
contro tutte le parti dell’anima e la corrompe allo stesso modo di una
malattia contagiosa e generalizzata che corrompe tutto il corpo»123. «È
una malattia infettiva e generalizzata che non si limita a contaminare
un solo membro, ma provoca la distruzione di tutto il corpo», scrive
san Giovanni Cassiano124, il quale nota ancora che l’orgoglio «distrugge
non solo come fanno gli altri vizi soltanto la virtù che gli è contraria,
cioè l’umiltà, ma le distrugge tutte nello stesso tempo»125. Quanto a
san Giovanni Crisostomo, sottolinea nello stesso senso che «questo vi­
zio è sufficiente per guastare tutto ciò che vi è di buono in un’anima»126.
E san Giovanni Climaco osserva che «come le tenebre sono incom­
patìbili con la luce, così l’orgoglio non si può conciliare con le virtù»127.
E evidente che, nel fare ciò, l’orgoglio apre la porta a tutte le pas­
sioni128. L’insegnamento secondo cui l’orgoglio è il «principio»129, «la
radice, la fonte e il padre di ogni peccato»130, è costantemente presente
in tutta la tradizione. «L’orgoglio è il male culminante dell’uomo e la
radice e la fonte di tutti i peccati del mondo», afferma san Giovanni
Crisostomo131. «I sette vizi principali sono i germogli fuoriusciti diret­
tamente da questa radice corrotta», scrive san Gregorio Magno132. E
san Giovanni Cassiano osserva: «Quantunque questa malattia sia l’ul­
tima e venga alla fine della lista dei vizi, per la sua origine nel tempo,
essa occupa il primo posto»133.
Se possiamo dire che l’orgoglio è la causa di tutte le passioni, non­
dimeno occorre sottolineare che ve ne sono alcune che gli sono più vi­
cine e che esso genera più particolarmente, specialmente la collera134,
125 Moralia su Giobbe, XXXIV, 23.
124Istituzioni cenobitiche, XII, 3.
125Ibid.
126Commento a san Giovanni, XVI, 4. Cfr. Omelie su Ozia, ILE, 1; Omelie su 2 Tessalonicesi,
1, 2.
127La Scala, XXII, 26. Cfr. 13, 24.
128 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 52, PG 90,493 A. A m mona , Istruzio­
ni, IV, 28. S im eone il N uovo T eo lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 75. N iceta
STETATOS, Centurie, I, 84.
129Sir 10,13.
130GIOVANNI C risostomo , Commento a san Giovanni, IX, 2. Giovanni Climaco l’afferma in­
direttamente (vedi La Scala, XXII, 4).
131 Commento a san Matteo, XV, 2.
132Moralia su Giobbe, XXXI, 45. Cfr. XXIV, 23.
133 Istituzioni cenobitiche, XII, 1. Cfr. 6.
134G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXXIV, 45. G regorio di N issa , Sulla verginità,
IV, 5. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXV, 5; 6. G iovanni C limaco , La
Scala, XXII, 1; 31.
256
l’odio135, e ogni forma d’aggressività136, la durezza di cuore137, il giu­
dizio del prossimo138, la maldicenza e la calunnia139, l’ipocrisia140, la tri­
stezza141, l’invidia142, la gelosia143, la cupidigia144, la lussuria145, e come
abbiamo già sottolineato, la cenodossia146.
Questa passione è per l’anima una fonte continua di sofferenza147.
Diverse ragioni possono spiegare ciò. L’orgoglioso può soffrire del di­
vario tra ciò che crede o vuole essere e ciò che sente di essere real­
mente. Può soffrire altresì di veder minacciate o smentite l’immagine
lusinghiera che esso ha o vuole dare di se stesso, o la superiorità che
afferma in rapporto agli altri. Si mostra anche eternamente insoddi­
sfatto nell’esaltazione che ricerca, perché mai potrà raggiungere la vet­
ta e la sua pretesa non conosce fine148.
L’orgoglio distrugge così la pace interiore149, e immerge l’uomo in
imo stato di agitazione permanente. Ciò avviene soprattutto per il fat­
to che l’uomo, di fronte ai suoi simili, raggiunge quasi sempre un ef­
fetto contrario a quello che si aspettava: invece di considerazione, mol­
to spesso egli raccoglie disprezzo e sarcasmi150. «Accade a colui che è
posseduto da questa passione tutto il contrario di ciò che desidera»,
nota san Giovanni Crisostomo. «Egli ha un’alta considerazione di sé.
Vuole essere onorato da tutti; al contrario egli è disprezzato da tutti
[...]. Sono tutti suoi nemici; non ha nessuno che lo sostenga»151.
Il timore che questi ha di veder contestata e disprezzata l’immagi­
ne presuntuosa che ha di sé può inoltre renderlo diffidente, suscetti-
1,5 G iovanni C um aco , La Scala, XXII, 31.
m Cfr. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 27. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XXII, 31. T alassio, Centurie, IV, 29.
137G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 25. G iovanni C limaco, La Scala, XXII, 1.
138Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 1.
139G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16.
l40Ibid
141 E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 14. GIOVANNI CASSIANO, Istitu­
zioni cenobitiche, XH, 29.
142 G iovanni C limaco , La Scala, XX II, 1. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 16. G io ­
vanni CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXV, 5.
143 Cfr. T alassio , Centurie, 1 ,19.
144G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
145 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 22. G iovanni C limaco , La Scala, XV,
53. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 34.
146Oltre i riferimenti dati nel capitolo precedente, vedi: GIOVANNI CRISOSTOMO, Commen­
to a san Matteo, LXV, 5; Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
147 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1 ,2.
m Ibid.
149Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Rufo, 1.
150Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su Ozia, HI, 4.
151 Commento a san Matteo, LXV, 6.
257
bile, sensibile e far nascere e sviluppare in lui il sentimento di perse­
cuzione152, e turbare in quest’altro modo i suoi rapporti con il prossi­
mo153. Questa suscettibilità lo spinge ancor più a mostrarsi aggressi­
vo a sua volta di fronte a coloro che lo criticano o che egli suppone
che lo facciano154.
L’orgoglio non solo è una fonte frequente di conflitti con gli altri,
ma anche la causa che alimenta e impedisce di riarmonizzare le rela­
zioni compromesse. L’orgoglio, quando non impedisce a colui che
ne è dominato di riconoscere dentro di sé i propri torti, lo trattiene
dal confessarli pubblicamente e dal chiedere perdono a colui che è sta­
to leso155. Questo atteggiamento si manifesta, peraltro, sia di fronte a
Dio che al prossimo: l’orgoglio, sottolineano i Padri, porta l’uomo a
non vedere i suoi peccati, a dimenticarli156, e dunque a conservarli157,
e perpetua così lo stato di separazione da Dio. L’orgoglioso, al con­
trario, non dimentica le offese degli altri nei suoi riguardi, e nutre
nel suo cuore un risentimento che diffonde nell’animo un turbamen­
to doloroso e malsano.
Per terminare, ricordiamo che il diavolo nella genesi158e nello svi­
luppo della malattia dell’orgoglio gioca un ruolo di primo piano. Que­
sta passione offre a tutte le forme della sua azione un terreno parti­
colarmente favorevole: essa è, dice san Giovanni Climaco, «il sostegno
dei demoni»159. Nell’orgoglio, l’uomo si mostra posseduto dal diavo­
lo molto più che nelle altre passioni, a tal punto che il diavolo, poiché
domina completamente la sua anima, può permettersi peraltro di la­
sciarlo in pace. L’orgoglioso, scrive san Giovanni Climaco, «non ha bi­
sogno del demonio, perché egli è divenuto da se stesso un demone e
un nemico»160, e san Giovanni Crisostomo arriva a dire che l’orgo­
glio «fa dell’uomo un demone»161. Precedentemente, abbiamo nota­
to che è attraverso l’orgoglio che Satana e molti angeli sono divenuti
rispettivamente diavolo e demoni.
152Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 27.
153ìbid.
154 Ibid.
155Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 333.
156Cfr. GIOVANNI C limaco , La Scala, xxn, 1. E lia E cdico , Antologia, 37.
157Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 1.
158 Cfr. G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, XXXIV, 23. G iovanni C assiano , Istituzio­
ni cenobitiche, XII, 4. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, LXV, 5; Commento a
san Giovanni, IX, 2.
159La Scala, XXII, 25.
160Ibid, XXII, 25.
161 Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
258
XII
LA TRASMISSIONE DELLE MALATTIE SPIRITUALI
NELL’UMANITÀ DECADUTA

Le passioni, la corruzione e la morte costituiscono le conseguenze


del peccato ancestrale che si trasmettono di generazione in genera­
zione nell’umanità decaduta, e fanno di questa un’umanità malata.
A causa del suo peccato personale, Adamo ha orientato la sua na­
tura in senso contrario a quello che il Creatore le aveva dato nel crear­
la, le ha conferito un modo di esistenza anti-naturale e irrazionale, il
quale si manifesta nelle passioni, orientamento contro natura dell’uso
delle sue facoltà, e ha per conseguenza la corruttibilità e la morte. Poi­
ché Adamo era la «radice» della natura umana1, il prototipo dell’u­
manità che egli conteneva in sé tutta intera2, egli ha trasmesso lo sta­
to decaduto della sua natura a tutti i suoi discendenti.
Questa trasmissione avviene essenzialmente per eredità biologica3.
San Gregorio di Nissa dice esplicitamente: «E come se gli uomini, che
all’inizio, per la trasgressione, accolsero il peccato facendo entrare la
malattia, avessero tessuto il male nella nostra sostanza. La natura vuo­
le che ogni specie animale si perpetui col trasmettere la propria ere­
dità ai suoi piccoli»; e ancora, «gli uomini nascono dagli uomini e
nascendo portano le deficienze degli uomini»4. San Gregorio Palamas
spiega, nello stesso senso, che non vivendo più secondo Dio, l’uomo
«non può generare esseri simili a Dio, ma simili a se stesso, vecchi e
sottoposti alla corruzioneSVCosì^ogni uomo eredita nascendo, in­
scritte nella sua natura stessa, le conseguenze del peccato di Adamo.
1 M arco l’E remita, Sull’unione ipostatica, 18. Cfr. G regorio Palamas , Omelie, 52.
2Cfr. G regorio DI N issa , La creazione dell’uomo, XVI, P G 44,185B; XXII, 204CD. GRE­
GORIO P alamas, Omelie, 5, P G 150,64-65.
3 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21, PG 90,312B-313A; 61,628C; 632A.
G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, E, 30. GREGORIO P alamas , Ome­
lie, 5, P G 150,64B. TEODORETO DI C iro , Commento alla lettera ai Romani, P G 80,1245A.
4 Omelie sulle beatitudini, VI, 5. Cfr. M assimo IL CONFESSORE, Questioni a Talassico, 61, PG
90,632A.
5 Omelie, 54. Cfr. 43.
259
Tuttavia, sottolineano i Padri orientali6, gli uomini non ereditano lo
stesso peccato di Adamo, essendo questo peccato la sua colpa perso­
nale. E in questo senso che l’Apostolo dice che «a causa della colpa di
uno solo si ebbe in tutti gli uomini ima condanna» (Rm 5,18), che «per
la caduta di uno i molti morirono» (Rm 5,15), e che «la morte esercitò
il suo dominio [...] anche su coloro che non peccarono con una tra­
sgressione simile a quella di Adamo» (Rm 5,14). E quando l’Aposto­
lo dice che «a causa della disobbedienza di un solo uomo, i molti fu­
rono costituiti peccatori» (Rm 5,19), quest’ultima espressione indica
le conseguenze del peccato di Adamo e non il suo peccato7. San Ci­
rillo d’Alessandria scrive in questo senso: «La natura si ammalò di pec­
cato per la disobbedienza di uno solo, cioè Adamo. Così la moltitu­
dine fu costituita peccatrice: non perché abbia condiviso l’errore di
Adamo - essa ancora non esisteva -, ma perché condivideva la sua na­
tura caduta sotto la legge del peccato»8. E san Marco l’Eremita affer­
ma molto chiaramente: «Noi non abbiamo ereditato la trasgressione,
poiché Adamo stesso non l’ha commessa per necessità, bensì volon­
tariamente, ma abbiamo ereditato la morte9, necessariamente, poiché
essa ha dominato su di lui per necessità e ha anche regnato su coloro
che non avevano peccato a somiglianza di Adamo»10; «abbiamo dun­
que ereditato solo la morte di Adamo»11.
In altre parole, la trasgressione o il peccato in atto (amartia) è sem­
pre personale, lo è per il fatto del libero arbitrio individuale, e la na­
tura non lo eredita12. Ecco perché i Padri orientali riconoscono che gli
uomini, prima ancora della venuta del Cristo avevano la possibilità
di non peccare, come testimoniano i numerosi giusti dell’Antico Te­
stamento13.
E solo nella misura in cui i discendenti di Adamo hanno essi stessi
6 Noi precisiamo «orientali», perché la tradizione occidentale, nata da sant’Agostino, diverge
sensibilmente sui punti evocati in questo capitolo. Su quest’argomento vedi J. MEYENDORFF, Ini-
tiation à la théologie byzantine, Paris 1975, pp. 192-198; J. S. ROMANIDIS, Il peccato ancestrale,
Atene 1957 (in greco).
7 Vedi il commento di san GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera ai Romani, X, 2; 3.
Occorre notare che san Paolo usa un’espressione simile quando dice del Cristo «che non co­
nobbe peccato», che Dio «lo fece peccato per noi» (2Cor5,21).
8 Commento alla lettera ai Romani, PG 74, 789. Cfr. T eofilatto DI BULGARIA, Commento
alla lettera ai Romani, PG 124, 404C.
9 Occorre intendere con questo non solo la morte biologica ma la morte spirituale.
10II battesimo, 24.
11Ibid., 29.
12Cfr. ibid., 24.
13 Cfr. TEODORETO DI CIRO, Commento alla lettera ai Romani, PG 82,104. MARCO L'ERE­
MITA, Il battesimo, 29.

260
peccato personalmente, quando sono divenuti volontariamente suoi
imitatori, che hanno condiviso il suo errore, e per questo la sua col­
pevolezza14. È in questo senso che occorre capire la parola di san Pao­
lo: «Come a causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e at­
traverso il peccato la morte, e così la morte dilagò su tutti gli uomini
per il fatto che tutti peccarono» (Rm 5,12)15.
È così che la Chiesa ortodossa, in linea con la maggioranza dei Pa­
dri orientali, ritiene che i bambini nascono eredi delle conseguenze del
peccato ancestrale che colpiscono la natura, ma non del peccato an­
cestrale stesso che è legato alla sola persona di Adamo16. Mentre la re­
missione dei peccati è una delle funzioni del battesimo degli adulti, es­
sa non è quella del battesimo dei bambini, sottolinea Teodoreto di Ci­
ro: «Se il solo significato del battesimo fosse quello di rimettere i peccati,
perché battezzeremmo dei neonati che non hanno ancora assaporato
il peccato?»17.
Occorre, tuttavia, aggiungere che se gli uomini alla loro nascita non
ereditano il peccato di Adamo, e p&ssono essere considerati esenti
da ogni peccato personale, essi ereditarìo^nondimeno uno stato di pec­
cato che colpisce la loro natura. È così che san Marco l’Eremita, pur
affermando che gli uomini non hanno ereditato il peccato personale
di Adamo, dice che in conseguenza di questo «tutti sono nati sotto il
peccato» (cfr. Rm 3,9)18, in altre parole, in stato di peccato. San Ci­
rillo d’Alessandria dice la stessa cosa quando afferma, pur negando
che l’umanità abbia condiviso la colpa di Adamo, che essa «è malata
di peccato», ha condiviso «la sua natura caduta sotto la legge del pec­
cato»19. E in questo senso che possiamo comprendere la parola del sai­
14Cfr. ClRILLO d ’ALESSANDRIA, Commento alla lettera ai Romani, PG 74,784BC. FOZIO, Que­
stione 84 ad Amfiloco, PG 84,552-556. MARCO L’EREMITA, Il battesimo, 29.
15Le ultime parole sono tradotte dalla Volgata: «In quo omnes peccaverunt», ove il relativo
è riferito ad Adamo. In Occidente, si è usata questa traduzione (di cui i migliori specialisti di
tutte le confessioni sono d’accordo oggi nel riconoscere l’inesattezza) per giustificare la dottri­
na del peccato ereditato da Adamo e condiviso da tutti i suoi discendenti. Ora, l’originale gre­
co eph’ói non può avere questo significato e giustifica la diversa concezione del peccato origi­
nale sviluppata dai Padri greci. Vedi J. MEYENDORFF, «Eph’ói (Rm 5,12) chez Cyrille d’A-
lexandrie et Théodoret», in Studia patristica 4 ,1961, pp. 157-161; Initiation à la théologie byzjmtine,
Paris 1975, pp. 194-196.
16L’affermazione che i neonati sono esenti dal peccato si trova per esempio in: GREGORIO DI
N azianzo , Discorsi, XL, 23. GREGORIO DI NlSSA, Sui bambini che sono morti prematuramente,
PG 46,177-180. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XXVIII, 3. C irillo di G e ­
rusalemme , Catechesi battesimali, IV, 19.
17Compendium, 5 ,18, PG 83,512.
18Sulla penitenza, 10. Cfr. Sull’unione ipostatica, 8,18.
19Commento alla lettera ai Romani, PG 74, 789, citato sopra.
261
mista: «Nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito
mia madre» CW51[50],7). Questo stato di peccato indica la debolezza
della natura, la sua malattia, la sua infermità, la sua passibilità, la sua
corruttibilità20, la sua mortalità fisica, e in modo generale la sua mor­
te spirituale, cioè la condizione di separazione da Dio, più precisa-
mente il suo stato di allontanamento da Dio. È così che san Marco l’E­
remita scrive: «Essendo morto il primo uomo, cioè separato da Dio,
noi non possiamo, noi, vivere in Dio»21.
Questo stato di peccato che colpisce la natura tuttavia non è col­
pevole fintanto che l’uomo non lo ha personalmente assunto. L’uo­
mo nasce con una natura malata, passibile, corruttibile e mortale a
motivo del peccato di Adamo non del suo; lo stato di allontanamen­
to da Dio nel quale egli si trova nascendo costituisce veramente uno
stato di peccato, ma che egli non ha personalmente scelto. Il suo è,
dunque, un peccato involontario, che non ha nulla in comune con
uno stato di allontanamento da Dio che sarebbe un rifiuto volonta­
rio di Dio, e che quindi per questo sarebbe un peccato in senso pro­
prio. San Massimo fa questa distinzione al livello di Adamo stesso:
«Per la sua corruzione, la volontà naturale di Adamo introdusse la
corruzione della natura che si vide privata della grazia dell’impassi­
bilità e divenne peccato. Il primo peccato, molto colpevole, fu all’i­
nizio lo scivolamento della sua inclinazione iniziale, predisposta al be­
ne; il secondo, conseguenza del primo, fu la trasmutazione non col­
pevole della natura dal suo stato d’incorruttibilità in quello di
corruttibilità. Infatti, il giorno in cui trasgredì il comandamento di­
vino, il nostro antenato Adamo commise due peccati: uno colpevole,
l’altro non colpevole, conseguenza del primo. Il primo avvenne per­
ché la volontà rifiutò, di buon grado, il bene; l’altro perché la natu­
ra si vide, senza volerlo, privata dell’immortalità, in seguito al com­
portamento della volontà»22.
Il neonato non è capace del peccato intenzionale e volontario, e non
può dunque esserne colpevole. E a partire dal momento in cui l’uomo
è nell’età di disporre della sua coscienza e del suo libero arbitrio che
può commettere un tale peccato, quindi di peccare «con una tra­
sgressione simile a quella di Adamo» (Rm 5,14), di condividere la sua
20 Nel testo di Cirillo d’Alessandria al quale ci siamo riferiti prima, l’espressione «l’uomo si
ammala di corruzione» riprende l’espressione «la natura si ammala di peccato», citata qualche
rigo sopra e appare come suo equivalente.
21 II battesimo, 24.
22 Questioni a Talassio, 42.
262
colpevolezza e di divenire così corresponsabile delle conseguenze
del peccato ancestrale.
È innegabile, tuttavia, che la natura che l’uomo eredita comporti
ima certa tendenza al male, un’inclinazione (rhope) al peccato23. «L’im­
pulso che trascina [...] al male è una malattia della nostra natura», scri­
ve san Gregorio di Nissa24, e nota anche che dopo la trasgressione ada­
mitica, nella nostra natura abbiamo «subito una trasformazione che ci
ha volti verso il male»25.
Questa inclinazione si manifesta in particolare nelle passioni, che la
natura dell’uomo eredita26e che si rivelano fm^dalla nascita di questi.
«Il disegno del cuore umano è malvagio fin dalTadtdescenza» è scrit­
to nel libro della Genesi (8,21). San Giovanni Cassianofanotare che
i bambini manifestano molto presto movimenti passionali: «Non ve­
diamo i primi moti della carne non solo nei bambini ancora nell’età
dell’innocenza e che non hanno ancora il discernimento del bene e del
male, ma anche nei più piccoli e in quelli che ancora sono lattanti?
Senza che vi sia in essi il minimo inizio di concupiscenza, essi testi­
moniano tuttavia che tali movimenti sono naturalmente impressi nel­
la loro carne. Constatiamo anche violenti accessi di collera nei picco­
lissimi che, prima di conoscere la virtù della pazienza, sono già turba­
ti dalle ingiurie che ricevono e si risentono di parole di canzonatura
che qualcuno rivolge loro prendendoli in giro. E talvolta, benché man­
chi loro la forza di farlo, non manca loro il desiderio di vendetta ispi­
rata dalla collera»27.
I Padri sottolineano spesso la pressione violenta che esercita que­
sta tendenza al male, ossia il suo carattere tirannico, rafforzato dal­
l’attività demoniaca che la sottende, e che costituisce una vera schia­
vitù28; è la «legge del peccato» di cui parla san Paolo (cfr. Rm 7,14-24).
A questo proposito così scrive san Doroteo di Gaza: «E per una co-
r>Cfr. G regorio di N issa , Vita di Mosè, n, 32. T eodoreto di C iro , Commento al Salmo
50,1. G iovanni C assiano , Conferenze, HI, 12. C irillo d ’A lessandria , Commento alla lettera
ai Romani, V, 18. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 21.
24 Discorso catechetico, 16.
s ìbid, 8.
26 Sul carattere ereditario delle passioni vedi CIRILLO D’ALESSANDRIA, Commento a san Gio­
vanni, XIX, 19; Commento alla lettera ai Romani, V, 18; VII, 15; Sull’adorazione in spirito e ve­
rità, 10. T e o d o r e to d i Cmo, Commento al Salmo 50,7, PG 80,1245. M assim o i l C o n fesso ­
re, Questioni a Talassio, 21.
27 Istituzioni cenobitiche, VII, 3.
28 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21. S ofronio di G erusalemme, Ome­
lia sull’Annunciazione, PG 84,3232B; Lettera sinodale, PG 87,3173D.
263
strizione tirannica che l’uomo era trascinato dal nemico, e anche quel­
li che volevano evitare il peccato erano quasi obbligati a commetter­
lo»29. Anche san Massimo insiste particolarmente sul potente dominio
che le potenze del male esercitano sull’uomo decaduto e sull’asservi-
mento quasi totale di questi30.
Certamente, l’uomo non è costretto a peccare; da un lato conti­
nua a disporre del libero arbitrio31, e dall’altro, a beneficiare di un aiu­
to di Dio se è disposto a riceverlo32. Ma la sua natura corrotta, cioè al­
lontanata da Dio e volta verso il sensibile e il passibile, fa sì che egli
si lasci facilmente sedurre a peccare e a sviluppare le sue passioni nel
senso del male33. Cede tanto più facilmente alle tentazioni demonia­
che quanto più la sua volontà è indebolita e malata34.
E così che molto spesso gli uomini si lasciano scivolare sul pendio
su cui li trascina la loro natura decaduta. Una volta che l’uomo si è la­
sciato trascinare a peccare, le sue passioni si sviluppano, e lo spingo­
no di più al peccato, il che rafforza le passioni35. La passibilità eredi­
tata dalla natura, da peccato involontario quale essa era, diviene, per
il fatto che l’uomo vi si abbandona volontariamente, peccato in atto36.
Allo stesso modo, la corruttibilità e la mortalità, che all’origine erano
l’eredità involontaria del peccato di Adamo, divengono per gli uomi­
ni una fonte di peccati personali, nella misura in cui costoro, temen­
do la corruzione e la morte, cercano di preservare la loro vita abban­
donandosi volontariamente alla voluttà37 e alle passioni, le quali con­
fermano e rafforzano a loro volta la loro corruttibilità e mortalità38.

29Istruzioni spirituali, I, 4.
30Cfr. Questioni a Talassio, 21.
31 Cfr. A tanasio d ’A lessandria , Contro ipagani, 4; 7. G iovanni C risostomo , Omelie sul­
la Genesi, XIX, 1. ClRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi battesimali, IV, 18-21. ClRILLO D’ALES­
SANDRIA, Commento alla lettera ai Romani, V, 18.
32 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XIX, 1. G iovanni C assiano , Confe­
renze, m , 12.
33 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
34 Cfr. G re g o rio DI N azian zo, Poesie, n, 1, 45. G re g o rio DI N issa, Omelie sul Padre no­
stro, IV, 2. G iovan ni C assiano, Conferenze, ni, 12.
35 Cfr. M assimo il C onfessore, Questioni a Talassio, 21.
36Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera ai Romani, XIII, 1.
37Cfr. GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Questioni a Talassio, 21: «Dom inato senza volerlo dal timore della morte, [l’uomo] si
abbandona alla schiavitù del piacere, nella speranza di poter continuare a vivere».
38 La concezione che la tendenza al peccato sia legata alla mortalità è stata sviluppata so­
prattutto da G iovan ni C risostom o (Omelie sulla lettera ai Romani, x m , 1) e T e o d o r e to di
C iro (Commento alla lettera ai Romani, V, 12). J. MEYENDORFF nella sua esposizione sul pecca­
to originale (Initation à la théologie byiantine, Paris 1975, p. 195) abbonda in questo senso, giun­
gendo fino a tradurre Rm 4,12 con: «La morte, a causa della quale tutti hanno peccato».
264
Peccando personalmente, l’uomo diviene imitatore di Adamo, re­
sponsabile con lui e con tutti gli uomini che si abbandonano al pec­
cato del decadimento della natura comune. È in questo senso che pos­
siamo dire che gli uomini sono colpevoli con Adamo, che portano in
loro stessi il peccato di Adamo39. Così si spiega la visione pessimista
che sviluppa san Massimo, il quale in particolare sottolinea la dialet­
tica del peccato e della passibilità, e l’asservimento di cui l’uomo alla
fine si rende prigioniero: «Il peccato, conseguenza diretta della di­
sobbedienza, introduce nella natura umana la passibilità che ormai se­
gna la legge della procreazione. Questa prima disobbedienza cresce
con la passibilità, e la natura umana si lega al male volontariamente
con legami così impossibili da sciogliere, che per l’uomo non vi è più
alcuna speranza di liberarsene»40. Nella descrizione che abbiamo da­
to delle passioni, spesso abbiamo fatto apparire questa dialettica.
Dopo il peccato originale, Dio, attraverso la voce dei profeti, ha
continuato a dare agli uomini dei comandamenti, il che non avrebbe
avuto nessun senso se essi non avessero avuto la possibilità di com­
pierli, e ciò dimostra che essi avevano la capacità di non lasciarsi tra­
scinare in un tale processo41. Abbiamo, peraltro, notato che sotto que­
sta Legge, nei limiti della natura decaduta, alcuni uomini avevano con­
dotto una vita giusta e gradita a Dio. San Sofronio indica chiaramente
il potere che avevano gli uomini che vivevano sotto l’Antica Alleanza
di resistere alle passioni e la loro responsabilità di fronte ad esse: «Quan­
to alle passioni [...], tutti ci hanno accusato: la Legge, castigando e fis­
sando per ogni passione la pena appropriata, i Profeti nel comanda­
re di astenersene e di appropriarsi il meglio, i giusti esortando ad ab­
bandonarle, [...] i maestri nel mostrarci come fuggirle»42. San Giovanni
Crisostomo dice molto chiaramente, ricordando i figli d’Adamo: «Dio
che è buono per essenza non trascura nulla per condurci al bene, e
poiché egli conosce i sentimenti più intimi, i pensieri più segreti che
si agitano in fondo al nostro cuore, ci esorta, ci consiglia, previene i
nostri cattivi propositi. Non usa la costrizione, ma rimedi appropria­
ti ai mali di ciascuno, e poi lascia tutto alla decisione del nostro libe­
ro arbitrio»43.
” Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sul Padre nostro, V, 4.
40 Questioni a Talassio, 21.
41 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XIX, 1.
42 Ibid.
43 Omelie sulla Genesi, XIX, 1.
265
Resta tuttavia vero che, prima che il Verbo di Dio si fosse incarna­
to e avesse compiuto la sua economia redentrice, gli uomini, anche i
più giusti, non potevano sfuggire allo stato di peccato nel quale il pec­
cato ancestrale aveva posto la loro natura, continuavano a subire la ti­
rannia della natura passibile e della sua tendenza al male, come quel­
la della corruzione e della morte. Questo stato di peccato costituiva
una barriera che impediva all’umanità di appropriarsi la pienezza del­
la grazia44. Solo il Cristo poteva guarire la natura umana dalla grave
malattia che la colpiva dopo il peccato di Adamo, restituirle la non
passibilità, l’incorruttibilità, e l’immortalità che essa possedeva nel suo
stato originale, e rimetterla sulla via della deificazione in vista della
quale era stata creata.

44 Cfr. V. LOSSKY, Théologie mystique de l’Église d'Orient, Paris 1944, p. 129.


266
PARTE TERZA

CONDIZIONI GENERALI
DELLA TERAPIA
IL CRISTO MEDICO

«Che il Signore sia venuto come medico, egli stesso lo attesta», fa


notare sant’Ireneo1. Egli dice infatti pubblicamente: «Non hanno bi­
sogno del medico i sani, ma i malati [...]. Non sono venuto a chiama­
re i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,12.13; Me 2,17; Le 7,21); e: «Sono
sicuro che mi citerete il proverbio: “Medico, cura te stesso”» (Le 4,23);
e ancora: «Lo Spirito del Signore è sopra di me [...]. Mi ha inviato per
liberare coloro che sono oppressi» (Le 4,18).
Conformemente a questo insegnamento del Cristo su se stesso, i Pa­
dri e tutta la tradizione ecclesiale vedono in lui un medico inviato dal
Padre per guarire gli uomini malati dalle conseguenze del peccato ori­
ginale e per far ritrovare alla natura umana la sua salute originaria.
Prima dell’Incarnazione del Verbo, Dio era già considerato come
Colui che «guarisce da ogni malattia» (Sai 103 [102] ,3)2. E secondo i
Padri, i profeti - Mosè in particolare -, furono inviati dallo Spirito
di Dio come medici per curare Israele malato del peccato3, ma non po­
terono far nulla davanti alla gravità della malattia e alla profondità del­
la ferita inferta all’umanità decaduta. «I profeti, scrive san Cirillo di
Gerusalemme, furono inviati con Mosè per guarire Israele: ma essi,
pur curando tra le lacrime, non arrivarono a vincere il male [...]. Gran­
de era la ferita dell’umanità; dalla testa ai piedi in essi non c’era un
pezzo sano; non vi era dove applicare un cataplasma, né olio, né ben­
da»4. San Doroteo di Gaza scrive allo stesso modo: «Dio inviò dei pro­
feti, ma nemmeno questi poterono far nulla, perché il male superava
ogni limite. Secondo la parola di Isaia: “Niente vi è d’intatto; ferite, li­
vidure e piaghe aperte non sono state pulite né fasciate né lenite con
1Contro le eresie, m , 5 , 2.
2Vedi anche: Ger 17,14; SzV34,17; 38,2.
3Cfr. OKIGENE, Omelie su Geremia, XIV, 1-2. GREGORIO DI NlSSA, Vita di Mosè, E, 261; 272;
278.
4 Catechesi battesimale, XH, 6-7.
269
olio” (Is 1,6). In altri termini, il male non è parziale né localizzato, ma
diffuso in tutto il corpo, avvolge l’anima completamente e racchiude
tutte le sue facoltà. “Niente vi è d’intatto” ecc., poiché tutto era as­
servito al peccato, tutto era in suo potere. Geremia poteva così affer­
mare: “Abbiamo curato Babilonia, ma non è guarita” (Ger51,9W. An­
che san Macario d’Egitto scrive: «Nel momento della trasgressione di
Adamo, il nemico si era impegnato a ferire e a ottenebrare l’uomo
interiore [...]. Ormai i suoi occhi erano fissi sul male e sulle passioni,
rimanendo chiusi ai beni celesti. Egli era così gravemente ferito che
nessuno era capace di guarirlo [...]. Nessun giusto, né i padri, né i pro­
feti, né i patriarchi, hanno potuto guarire l’anima che aveva ricevuto
in origine la ferita inguaribile delle cattive passioni. E venuto Mosè,
ma non ha potuto procurare la completa guarigione. Sacerdoti, offer­
te, decime, giorni di riposo, noviluni, purificazioni, sacrifici, olocau­
sti, e tutti gli altri mezzi di giustificazione esistenti al tempo della Leg­
ge; tuttavia neanche [...] tutta la giustizia [dell’anima] poteva guarir­
la»6. Nella maggior parte delle sue Lettere, sant’Antonio l’Eremita
riprende questo tema, ogni volta negli stessi termini di patologia e di
terapia. «Nel suo amore instancabile, egli scrive, il Creatore desidera­
va visitarci nelle malattie e nello smarrimento: egli suscitò Mosè il le­
gislatore»7. «Questo Mosè, che pose le fondamenta della Casa della
verità, volle guarire questa profonda ferita e ricondurci alla comu­
nione originale. Non vi riuscì e se ne andò. Dopo di lui vennero i pro­
feti: essi si rimisero a costruire su queste fondamenta senza arrivare a
guarire la profonda piaga dei membri della famiglia umana; dovette­
ro riconoscere la loro impotenza»8. «Ciascuno, rivestito dello Spiri­
to, constatò che la piaga era incurabile, e che nessuna creatura pote­
va guarirla»9. «L’assemblea dei santi a sua volta si riunì e la sua pre­
ghiera si elevò verso il Creatore: “Non c’è più balsamo in Galaad? Non
c’è più ivi alcun medico? Perché, allora, non migliora la ferita della fi­
glia del mio popolo?” (Ger 8,22). “In quanto a noi, abbiamo curato
Babilonia: ma non è guarita! Lasciatela. Torniamo ciascuno al proprio
paese” {Ger 51,9)»10. San Nicola Cabasilas osserva, proprio come
5Istruzioni spirituali, I, 3.
6 Omelie (Coll. II), XX, 4-6.
7 Lettere, II, 2. Cfr. IV, 2: «Vedendo questa ferita incurabile ed estremamente grave, Dio,
nella sua clemenza, ha visitato le sue creature».
8Ibid., IH, 2 .
9Ibid.t H, 2.
10ibid., in, 2.
270
sant’Antonio11, che la legge era stata data dai profeti agli uomini come
mezzo di guarigione ma, egli constata, «ciò che poteva la legge contro
i nostri mali, era quello di predisporci alla salute e renderci degni del­
le cure del medico», ma essa non poteva costituire una medicazione
sufficiente12. San Macario sottolinea la stessa cosa: «Come l’ombra non
compie azioni né guarisce dalla sofferenza, così la Legge antica è sta­
ta incapace di guarire le ferite e le malattie dell’anima, perché non ave­
va vita»13. E san Gregorio Nazianzeno: «Rimproverato prima in mol­
ti modi per i suoi numerosi peccati che irrompevano come polloni di
una cattiva radice, condotto per diverse ragioni e in varie circostanze
dalla parola, dalla legge, dai profeti, dai benefici, dalle minacce, dai
castighi, dai segni [...], l’uomo ebbe [...] bisogno di un rimedio più ef­
ficace per guarire dai mali che non facevano che peggiorare»14.
Secondo Origene, gli stessi angeli «volevano offrire il loro aiuto agli
uomini e concedere loro la salute guarendoli dalle malattie [...]. Essi
dunque aiutarono gli uomini compatibilmente con le loro forze»15. Ma,
proprio come i profeti, gli angeli si sono rivelati impotenti a causa del­
la cattiva volontà degli uomini nel voler guarire («essi hanno fatto
ciò che era in loro potere per guarire gli uomini, ma gli uomini non
hanno voluto ricevere la guarigione»)16soprattutto a motivo della par­
ticolare gravità della malattia che aveva colpito l’umanità decaduta:
«Videro i loro rimedi molto inferiori a ciò che esigeva la guarigione
degli uomini»17.
Occorreva all’umanità, come afferma san Giovanni Climaco, un me­
dico e un chirurgo la cui abilità fosse proporzionata all’importanza del­
le malattie e delle piaghe18. Solo il Cristo, essendo Dio, poteva, facen­
dosi uomo pur rimanendo Dio, essere questo medico efficace. Ed è in
quanto tale che il Padre, mosso da pietà per il genere umano e rispon­
dendo alla voce supplichevole dei profeti e dell’assemblea dei santi, lo
inviò tra gli uomini. San Cirillo di Gerusalemme così continua: «Dopo
di ciò i profeti, estenuati dalle lacrime dissero: “Chi darà a Sion la sal­
vezza?” (cfr. Sai 14[13],7) [...]. E un altro profeta supplica in questi ter­
11ibid.
12La vita in Cristo, 1,14.
13 Omelie (Coll. II), XXXII, 5.
14Discorsi, XLV, 9; XXXVIII, 13.
15 Omelie su san Luca, XIII, 2. Sugli angeli guaritori, vedi: Gv 5,4. GIOVANNI CLIMACO, La
scala, 1,19.
16 Omelie su san Luca, XHI, 3.
17Ibid., 2.
18La Scala, 1,19.
271
mini: “Signore, piega i tuoi cieli e scendi” {Sai 144[143],5). Le ferite
dell’umanità superano i nostri rimedi [...]. La nostra miseria non può
essere ricostruita da noi; sei tu che servi per rialzarci»19. «Il Signore
esaudì la preghiera dei profeti. Il Padre non disprezzo la nostra razza
ferita. Egli inviò dal cielo il suo Figlio come medico»20. «Riconosciamo
la presenza del re e medico», «perché il re Gesù, sul punto di dare del­
le cure, si rivestì dell’umanità e guarì ciò che era malato»21. «Pur rima­
nendo [Dio], pur conservando in verità la gloria immutabile della fi­
gliolanza, egli nondimeno si adattò come abilissimo medico alle no­
stre debolezze», scrive ancora22san Grillo. Allo stesso modo san Doroteo
di Gaza afferma: «Nella sua bontà e nel suo amore per gli uomini,
Dio inviò il suo Figlio unigenito perché solo Dio poteva guarire e vin­
cere questo male. I profeti non lo ignoravano. Davide lo diceva chia­
ramente: “[...] Risveglia la tua potenza e vieni in nostro soccorso” {Sai
80[79],3), “Signore, piega i tuoi cieli e scendi” {Sai 144[143]>5), e tan­
te altre cose simili [...]. Il Signore nostro dunque è venuto, facendosi
uomo per noi, “per guarire, afferma san Gregorio23, il simile con il si­
mile, l’anima con l’anima, la carne con la carne”»24. Sant’Ammona scri­
ve: «Il Padre ha inviato dal cielo il suo proprio Figlio perché guarisse
tutte le infermità e tutte le malattie degli uomini»25. Sant’Antonio l’E­
remita, in molte sue Lettere, riprende continuamente questo tema:
- «La piaga era incurabile e nessuna creatura poteva guarirla, se non
il Figlio unigenito, impronta fedele del Padre; lui il Salvatore, è un me­
dico esperto: essi [i profeti] lo sapevano. Si riunirono, dunque, e
presentarono a Dio, attraverso i membri di questa famiglia di cui
facciamo parte, ima preghiera unanime [...]. Allora Dio, traboccante
d’amore, venne a noi»26.
- «Da questa supplica che i santi rivolgevano alla bontà del Padre
riguardo al suo Figlio unigenito - perché nessuna creatura è capace di
guarire la ferita profonda dell’uomo, lui solo lo poteva venendo a
noi - il Padre fu toccato e disse: “Figlio dell’uomo, [...] prendi su di
te questa missione”»27.
19Catechesi battesimali, XII, 7.
20Ibid., 8.
21 Ibid., 1.
22Ibid., X, 5.
23 Cfr. G kegorio N azianzeno , Discorsi, XXVIII, 13; XLV, 9.
24Istruzioni spirituali, I, 4.
25 Lettere, 12,3.
26Lettere, II, 2.
27Ibid., m, 2.
272
- «Tutta l’assemblea dei santi si è riunita e reclama dalla bontà del
Padre un Salvatore che venga a salvarci perché egli è “il solo Medico
che possa guarire la nostra ferita profonda”». «Per volontà del Padre,
si è privato della sua gloria: essendo Dio, prese l’aspetto del servitore
e diede la vita per i nostri peccati»28.
- «Vedendo che i santi, o piuttosto, che tutte le sue creature non
arrivavano a guarire la profonda ferita delle loro membra e conosce­
vano l’infermità del loro spirito, egli, il Padre delle creature, manife­
stò loro misericordia e, nel suo grande amore, non risparmiò il Figlio
unigenito che egli consegnò a causa dei nostri peccati per la salvezza
di tutti»29.
- «Le viscere [del Creatore] si commossero nei nostri riguardi. Nel­
la sua bontà, egli volle ricondurci allo stato originale che non sareb­
be mai dovuto scomparire. Non si risparmiò ma rese visita alle sue
creature per salvarle»30.
- «Coloro che erano rivestiti dello Spirito compresero che nessuna
creatura poteva guarire questa profonda ferita, se non la bontà del Pa­
dre che è il Figlio unigenito, inviate» per salvare il mondo. È lui il gran­
de medico che può guarirci da questa profonda ferita. Così pregaro­
no Dio e la sua bontà»31. «Il Creatore constatò che la piaga s’infetta­
va e che era necessario ricorrere a un medico: Gesù, creatore degli
uomini, vieni ancora a guarirli»32.
Quanto a san Macario il Grande scrive: «La ferita inguaribile da cui
siamo stati colpiti [...] solo il Signore poteva guarirla. E per questo che
egli è venuto di persona, perché nessuno degli anziani, né la Legge, né
i profeti, erano capaci di porvi rimedio. Solo lui, venendo, ha guarito
questa inguaribile ferita dell’anima»33. Egli, altrove, osserva che l’uo­
mo «era così gravemente ferito che nessuno era capace di guarirlo,
se non il Signore. Solo lui ne ha la possibilità. È venuto egli stesso e ha
“tolto il peccato del mondo” (Gv 1,29)». Mentre tutti erano impotenti,
«è stato necessario che il Salvatore venisse, lui, il vero medico, che gua­
risce gratuitamente [...]. Solo lui ha consumato la grande e salutare re­
denzione e la guarigione dell’anima. E lui che l’ha liberata dalla schia­
vitù, fatta uscire dalle tenebre, glorificata con la propria luce»34. In
28Ibid., IV, 2.
29Ibid., V, 2.
w Ibid., V bis.
51Ibid., VI, 2.
52Ibid.
” Omelie (Coll. II), XXX, 8.
»Ibid., XX, 5-6.
273
un’altra omelia, egli dice ancora: «Quando Adamo violò il comanda­
mento e divenne trasgressore, i figli della notte - cioè gli spiriti del ma­
le - ruppero le membra dell’anima e la lasciarono senza forze e senza
vigore verso il bene, offuscandola e stravolgendola senza rimedio; non
fu possibile a nessun patriarca o profeta guarirla: ne era capace solo il
Signore che l’aveva creata. Ed è per questo che, nella sua infinita bontà,
egli venne in una tale abiezione e umiltà per risollevare l’anima cadu­
ta nella perversità»35.
Non sono solo gli autori che abbiamo appena citato, ma anche tut­
ti i Padri che vedono nel Cristo un medico venuto tra gli uomini per
guarirli dalle malattie e dalla follia costituite dal peccato e dalle sue
conseguenze, e che ricordano la salvezza che egli apporta in termini
di terapia e di guarigione, e questo fin dai primi secoli. Così, per esem­
pio, sant’Ignazio d’Antiochia scrive agli Efesini: «Non vi è che un
solo medico (iatrós), del corpo e dell’anima, generato e non creato, ve­
nuto nella carne, Dio, nella morte vita vera, nato da Maria e nato da
Dio, nostro Signore»36. San Giustino dice del Cristo: «Egli si è fatto
uomo per noi per guarirci dai nostri mali nel prendervi parte»37. L’au­
tóre della Lettera a Diogneto scrive: Dio «nel corso del tempo ha con­
vinto la nostra natura della propria impotenza nell’ottenere la vita; ora
egli ci ha mostrato il Salvatore che ha la potenza di salvare anche ciò
che non poteva esserlo: attraverso questo duplice mezzo, ha voluto che
noi avessimo fede nella sua bontà e che vedessimo in lui [...] un me­
dico»38. «Gesù fu il solo medico delle nostre ferite» osserva Clemente
d’Alessandria39, che aggiunge: «Dio paternamente cerca la sua crea­
tura, la guarisce dalla sua caduta»40. Nella sua omelia per la Festa del­
la Teofania in cui la Chiesa celebra l’arrivo di Dio presso gli uomini,
san Gregorio Nazianzeno scrive: «Festeggiamo la nostra guarigione
dalla malattia»41, e ancora: «Vediamo [in questa festa] le opere della
guarigione»42. San Gregorio di Nissa afferma: «Il vero medico delle
” Omelie (Coll. IH), XXIV, 3-4. Vedi anche: ibid, XXV, 3,2.3; Omelie (Coll. II), XV, 47:
«Egli stesso ha lavato le ferite degli uomini, li ha guariti e li ha introdotti nella sua celeste camera
nuziale»; XLVIII, 3: «H Signore è venuto quaggiù per guarire [...] le anime dei fedeli [dalle] pas­
sioni incurabili e per purificarle da ogni sporcizia della lebbra della malvagità, proprio lui, l’u­
nico vero medico e guaritore».
36Lettera agli Efesini, VII, 2.
37Apologia seconda, 13.
38Lettera a Diogneto, IX, 6.
39 Quale ricco può essere salvato?, 29.
40Protreptico, X, 91, 3.
41 Discorsi, XXXVIII, 4.
42Ibid.
274
malattie dell’anima che, a causa di coloro che erano malati, ha preso
parte alla vita degli uomini, sopprime la causa del male per ricon­
durci alla salvezza»43. E più avanti: «Poiché eravamo malati per aver
abbandonato la vita sana che conducevamo in paradiso, [...] il vero
medico è venuto, scacciando il male con i suoi contrari, conforme­
mente a dò che prescrive l’arte medica»44. San Giovanni Damasceno
intitola un capitolo de L’esposizione efytta della fede ortodossa, ove
ricorda l’incarnazione salvatrice del Cristo: «Economia e terapia divi­
ne in vista della nostra salvezza»45; ivi scrive in particolare: «H Cristo
si fa obbediente al Padre, guarendo la nostra disobbedienza». E mol­
ti Padri ricordano la profezia di Isaia riguardante il Cristo: «Egli portò
le nostre infermità, e si addossò i nostri dolori» (Is 53,4).
Il peccato dell’uomo e le sue conseguenze appaiono come una
malattia, ma anche, l’abbiamo visto, ima follia multiforme. Non sor­
prende, allora, che il Cristo sia considerato come Colui che è venuto
per «riformare l’uomo smembrato [...] e ricordare alla creatura la
deviazione del suo spirito»46. Origene scrive senza mezzi termini: «Il
genere umano, colpito dalla follia, doveva essere guarito attraverso i
mezzi che il Logos riteneva utili per ricondurre i folli al buon senso»47.
Clemente d’Alessandria può così invitare «colui che sragiona (para-
nooùnta) alla salvezza che rende sani di spirito (sophronousan)»4S.
Come abbiamo già fatto notare, il nome stesso di Gesù {Jeshüa) si­
gnifica «Jhwh salva» (cfr. Mt 1,21; At 4,12). Il verbo ebraico jasha, che
significa «salva», ha come corrispondente greco il verbo sozein, usa­
to frequentemente nel Nuovo Testamento, che significa non solo «li­
berare» o «trarre da un pericolo», ma anche «guarire»; parimenti, il
termine sotèria (salvezza) indica non solo la liberazione, ma anche la
guarigione49. Possiamo stabilire il parallelo Ièsous-iàomai. Ecco perché
san Grillo di Gerusalemme fa notare: «Gesù secondo gli ebrei è ugua­
le a Salvatore, ma secondo la lingua greca, è uguale a medico»50. Per
43 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
44Ibid.
45Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 1.
46 S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, 1,2.
47 Contro Celso, IV, 19.
48Protreptico, XII, 118,5.
49 Cfr. X.L. DUFOUR, Dictionnaire du Nouveau Testamenti Paris 1975, pp. 485-486. P. Ev-
DOKIMOV, Les àges de la vie spirituel, Paris 1969, pp. 169-170.1. HAUSHERR, Études de spiritua-
lité orientale, Roma 1964, pp. 317-318. Abbiamo già evidenziato che questo duplice significato
lo troviamo in copto e nella lingua italiana, in cui «la salute» è riferita sia alla salute spirituale
che a quella fisica.
50 Catechesi battesimale, X, 13.
275
questo motivo, egli aggiunge: «Egli è chiamato “Gesù” proprio a pro­
posito: questo appellativo gli appartiene, perché egli salva guarendo»51.
Abbiamo già sottolineato che il Cristo presenta se stesso, molto diret­
tamente, come medico (cfr. Mt 8,16-17; 9,12; Me2,17; Le4,18.23; 7,31),
ed è come tale che spesso i profeti lo annunciano (cfr. Is 53,5; Sai
103 [102],3) e che gli evangelisti lo caratterizzano (cfr. Mt 8,1.6-7). Se­
condo Origene, la stessa parabola evangelica del buon samaritana può
essere considerata come ima rappresentazione del Cristo-Medico52?Ri­
cordiamo, infine, che molti suoi contemporanei durante la sua vita ter­
rena sono andati da lui come da un medico53.
La Chiesa ortodossa ha integrato questo modo di considerare il Cri­
sto e questa concezione medica della salvezza che egli porta, nell’in­
sieme dei suoi riti sacramentali54e dei servizi liturgici55. Al centro stes­
so della divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, il Cristo è invo­
cato come «Medico delle nostre anime e dei nostri corpi».
Proprio per il fatto che egli è Dio e uomo, che unisce nella sua uni­
ca persona divina le due nature, divina e umana, il Cristo, Verbo in­
carnato, può operare questa guarigione della natura umana malata dal
peccato e dalle sue funeste conseguenze.
La guarigione dell’uomo decaduto comportava che il Signore si fa­
cesse uomo, e assumesse veramente la natura umana. E in questo sen­
so che san Massimo scrive: «Occorreva - e occorreva veramente - che
il Signore che è sapiente, giusto e potente per natura, nella sua sapienza,
non ignorasse il modo della guarigione»56; e più avanti precisa: «Il
Signore ha manifestato la ragione della sapienza nel modo della gua­

51 Ibid., 4.
Omelie su san Luca
52 Cfr. ORIGENE, Commento a san Giovanni
, X X X IV ; , X X , 28.
53 Su questo aspetto, vedi A. HARNACK, «Medizinisches aus der ältesten Kirchengeschichte»,
Texte und Untersuchungen , VHI, 4, Leipzig, 1892, pp. 125ss.
La prière des Églises de rite by-
54 Possiamo trovare i testi di questi rituali in E . MERCENIER,
zantin, 1.1, Chevetogne 1937.
55 Citiamo solamente qualche esempio tratto dai Vespri e dai Mattutini della Domenica: «P er
la colpa del nostro primo padre, Signore, siamo stati gravemente feriti; ma per le piaghe da cui
per noi tu fosti ferito, o Cristo, noi siamo guariti» (Canone del 1° Tono del Mattutino); «Tu gua­
risci il m orso dato di buon grado con la tua passione subita volontariamente» (Canone del 2 °
Tono del M attutino); «Tutti siamo guariti per le tue ferite» (Stichi del 3° Tono dei Vespri); «Nel
seno della Vergine, o Maestro, tu hai guarito la nostra natura malata; o Verbo, tu l’hai unita al­
la tua divinità immacolata, Punico rimedio efficace» (Canone del 3 ° Tono del Mattutino); «Si­
gnore, tu hai guarito l’umanità dalla sua miseria, rinnovandola per mezzo del tuo sangue divi­
no» (Canone del 4 ° Tono del M attutino); «Q uando sei salito sulla croce, tu mi hai guarito dal­
le passioni, per la passione della tua carne immacolata, rivestita volontariamente» (ibid.).
56 Questioni a Talassio , 61, P G 90, 629C .

276
s
rigione, divenendo uomo senza cambiamenti^ senza trasformazioni
di alcun tipo»57.
Se egli è solo Dio, senza essere nello stesso tempo anche uomo, al­
lora, afferma san Cirillo di Gerusalemme, «egli non ha assunto l’u­
manità e noi restiamo estranei alla salvezza»58, perché, come afferma
san Gregorio Nazianzeno, «ciò che non è assunto non è guarito (tò gàr
apróslepton, atheràpeuton)»59, formula che riprende parola per paro­
la san Giovanni Damasceno60, il quale afferma: «egli ha assunto tutto
affinché tutto fosse guarito»61. Il Cristo, infatti, guarisce «il simile con
il simile», cioè guarisce l’uomo facendosi uomo, rivestendo la natura
umana nella sua integralità. «L’infermità della nostra natura [...] non
potendo essere più grande, aveva bisogno del rimedio più grande. Ora
questo rimedio consisteva nel fatto che il Creatore divenisse uguale a
noi, sue creature, che Dio divenisse uomo come noi», scrive san So-
fronio di Gerusalemme62. Il Cristo, osserva san Giovanni Damasceno,
ci «guarisce» «con ciò che egli ha ricevuto da noi e come noi»63. Lo
stesso santo tra l’altro precisa64: «Tutta l’essenza divina si è unita com­
pletamente a tutta la natura umana; infatti, di ciò che egli ha deposi­
tato nella nostra natura, il Dio Verbo, che all’inizio ci ha modellati,
non ha evitato nulla, ma ha preso tutto, il corpo, l’anima, lo spirito, la
ragione, e le loro peculiarità [...]; egli mi ha assunto totalmente e si è
totalmente unito a me per donarmi una salvezza totale, perché non
può guarire quello che non ha assunto». «Egli ha assunto tutto affin­
ché tutto fosse guarito», ripete più avanti65.
Il Cristo diviene, dunque, «per tutti tutto ciò che noi siamo: corpo,
anima, spirito»66, ed egli assume tutto quello che costituisce la nostra
natura umana.
Il Cristo, nato verginalmente e, pertanto, esente dagli effetti del pec­
cato ancestrale, ha assunto la natura umana nello stato in cui Dio l’a­
veva creata, tale e quale Adamo la possedeva all’origine: una natura ten­
dente verso il bene ed esente da ogni tendenza al peccato, ma anche
57ibid.
58 Catechesi battesimali, XII, 1.
59 Lettere teologiche, I, 32.
60Esposizione esatta della fede ortodossa, U t, 18.
61 Ibid., 20.
62 Omelie su Giovanni 'Battista, P G 84, 3822B .
63Esposizione esatta della fede ortodossa, EOE, 1.
64Ibid., 6.
65Ibid., 20.
66 G regorio N azianzeno , Lettere teologiche, 1 ,32.
277
impassibile, incorruttibile e immortale67. È così che san Gregorio Na-
zianzeno esclama nella festa della Natività, per la quale la Chiesa cele­
bra l’Incarnazione del Cristo: «Quante feste per celebrare i misteri cri­
stiani! Ma di tutte queste, la più importante è quella di oggi: essa è il
mio compimento, il mio ritorno allo stato originale, all’antico Adamo»68.
La natura umana assunta dal Verbo era per sopraggiunta perfetta e
deificata da parte della sua unione ipostatica alla natura divina, poi­
ché le energie della natura divina la penetravano completamente69, la­
sciando tuttavia sussistere intatte le sue proprietà naturali. San Gre­
gorio Nazianzeno, san Massimo e san Giovanni Damasceno ricorda­
no la pericoresi che si compie nella persona del Cristo tra le sue due
nature70, che sono distinte ma non separate, unite sebbene non con­
fuse. «Se diciamo, spiega san Giovanni Damasceno, che le due natu­
re del Cristo si compenetrano l’un l’altra, sappiamo tuttavia che que­
sta pericoresi è venuta dalla natura divina; difatti questa si diffonde e
penetra dovunque come vuole [...]. Essa trasmette alla carne la pro­
pria gloria, rimanendo essa stessa impassibile»71. Nell’unione ipostati­
ca tra la natura divina e quella umana, ossia nell’unire questa a quel­
la nella persona del Verbo, il Cristo, attraverso la sua incarnazione, ha
rovesciato la prima delle tre barriere che separavano l’uomo da Dio:
la natura, il peccato, la morte72. Egli restituisce alla natura umana la
capacità di ricevere in sé la grazia divina increata dalla quale il pec­
cato ancestrale l’aveva tenuta lontana.
Il Cristo, pertanto, aggiunge a questa assunzione naturale dell’u­
manità un’assunzione economica”. Per amore degli uomini, egli pro­
segue la sua kenosi, si abbassa volontariamente fino a rinunciare in
qualche modo a questa natura già impassibile, incorruttibile, immor­
tale e deificata, per assumere la natura umana decaduta, come la
possiedono gli uomini che subiscono gli effetti del peccato originale;
in altri termini, egli prende su di sé la natura passibile, corruttibile e
mortale. Tuttavia, se egli assume queste conseguenze del peccato, e se
67 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
68Discorsi, XXXVIII, 16.
69 Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 17.
70 Cfr. G re g o rio N azian zen o, Lettere teologiche, 1 , 31. M assim o i l C on fessore, Disputa
con Pirro, P G 9 1 , 345D -348A .
71 Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 7. Cfr. 3.
72 Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, IH.
73 Questo concetto si ritrova in particolare in san Massimo il Confessore (vedi il nostro stu­
dio: La divinitation de l’homme selon sainte Maxime le Confesseur, Paris 1996, pp. 318-319).

278
in questo senso egli diviene, come dice l’Apostolo, «peccato per noi»
{2Cor 5,21), egli non assume il peccato stesso74. «Egli è esente da col­
pa e da corruzione, spiega san Gregorio Nazianzeno, perché in realtà
egli guarisce le passioni e le sozzure che ci vengono dal peccato. Ma,
se egli ha preso su di sé le nostre colpe e ha fatto sue le nostre malat­
tie, non ha subito il danno al quale bisogna porre rimedio; difatti, se
egli è stato tentato in tutte le cose per essere simile a noi, egli non ha
affatto commesso il peccato»75.
Il Cristo assume, così, le passioni umane, ma senza la tendenza al
peccato76. In altri termini, egli assume «le passioni naturali e irre­
prensibili»77, ma non le passioni cattive78.
Egli ha altresì assunto volontariamente la fame, la sete, la fatica, il
timore, la paura, le lacrime, il dolore, la sofferenza fin nella forma più
atroce e, infine, la morte, o per meglio dire, tutte le imperfezioni e i li­
miti provenienti dal peccato, per poterci liberare da essi, da tutte le
malattie, dalle dobolezze e dalle infermità della nostra natura, e po­
terci così guarire. A questo proposito osserva san Macario: «Ha dato
egli stesso i rimedi che guariscono e ha curato coloro che erano feriti
come se fosse egli stesso uno di loro»79. E sant’Antonio precisa: «A
causa della nostra follia, egli ha assunto la livrea della follia; a causa
della nostra debolezza, egli ha assunto la livrea della debolezza; a cau­
sa della nostra indigenza, egli ha assunto la livrea dell’indigenza; a cau­
sa della morte ormai nostra, egli ha assunto la livrea di un comune
mortale»80. La formula dei Padri, già citata prima, secondo cui dò che
non è assunto non è guarito, si applica non solo alla natura umana as­
sunta in unione ipostatica dal Cristo totalmente, in corpo, anima e spi­
rito, ma anche a questa natura nel suo modo di esistenza decaduta che
il Cristo, per questo motivo, si è ugualmente degnato di rivestire.
Il Cristo, in breve, assume le conseguenze del peccato per distrug­
gerle in se stesso. Egli può farlo perché, essendo e rimanendo puro da
74 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
75 Discorsi, XLV, 13.
76 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 21.
77 Cfr. G iovan n i D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, III, 2 0 . M assim o i l
C on fessore, Ambigua, 4 2 , PG 9 1 , 1316D . S o fr o n io di G erusalem m e, Lettera sinodale, PG
8 7 ,3 1 7 3 0
78 Cfr. M arco l ’Erem ita, A Nicola, 9. S o fr o n io di Gerusalem m e, Omelia su Giovanni Bat­
tista, PG 8 7 , 3328B .
79 Omelie (Coll. H), X X V I, 25.
80Lettere, IV, 3.
279
ogni peccato, egli non lo subisce e non offre in se stesso alcun acces­
so al male81, perché in tutte le tentazioni e le prove alle quali egli si sot­
tomette volontariamente, conserva tutte le facoltà umane immutabil­
mente orientate verso il bene, la sua volontà umana immutabilmente
sottomessa alla volontà divina. San Cirillo d’Alessandria scrive a que­
sto riguardo: «L’anima divenuta quella del Verbo, che ignora la colpa,
possiede ormai a pieno titolo ima stabilità immutabile in ogni sorta di
bene; essa è incomparabilmente più forte del peccato, fino ad allora
nostro tiranno»82. E aggiunge: «Appropriandosi dell’anima umana, egli
l’ha fatta trionfare sul peccato, come impregnandola di una tintura,
della stabilità e dell’immutabilità della propria natura»83.
I Padri insistono particolarmente sul fatto che il Cristo ha conser­
vato la sua volontà umana costantemente conforme alla sua volontà
divina. In altri termini, poiché la sua volontà divina è anche quella del
Padre che lo ha inviato, egli si è mostrato nella sua umanità costante-
mente e in tutto obbediente al Padre. E per dò stesso che egli ha gua­
rito la nostra natura: perché è nella disobbedienza di Adamo a Dio che
è consistito il peccato originale, è alla separazione della volontà uma­
na dalla volontà divina che sono dovute le funeste conseguenze, è da
questa deviazione originale che la natura umana è stata distolta dalla
sua finalità naturale e ha condotto un’esistenza anormale per la qua­
le è stata privata della grazia e della vera vita. Come la disobbedienza
di Adamo ha separato l’uomo da Dio, così la perfetta obbedienza
del Cristo al Padre ha riconciliato l’uomo con Dio, ha ricostruito la
sua natura corrotta, ha completamente riunito l’uomo a Dio. «Come
uomo [il Cristo] ha sottomesso se stesso, in se stesso e per suo mezzo,
l’umano a Dio Padre», scrive san Giovanni Damasceno84. E san Gre­
gorio di Nissa ricorda in questi termini la guarigione della nostra na­
tura compiuta così dal Verbo incarnato: «La salute dell’anima sta nel
fatto che la volontà divina trova una strada facile in noi; mentre, al con­
trario, cadere fuori da questa buona volontà è la malattia che condu­
ce l’anima alla morte. Poiché, dunque, noi siamo malati, per aver ab­
bandonato la vita sana che conducevamo in paradiso, poiché il vele­
no della disobbedienza ci aveva riempiti fino all’orlo e poiché per esso
la nostra natura era in preda a questa malattia perniciosa e mortale,
81 Cfr. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 21.
82 Dialogo sull’Incarnazione dell’Unigenito, SC 97, p. 230.
83 Ibid.
84 Esposizione esatta della fede ortodossa, III, 18.

280
il vero medico è venuto, scacciando il male con i suoi contrari, se­
condo la legge della medicina: gli uomini oppressi dall’infermità, per­
ché si erano separati dalla volontà divina, eccoli di nuovo liberati da
ogni male, attraverso l’adesione ai desideri di Dio»85. San Giovanni
Damasceno afferma la stessa cosa in simili termini: «[Il Cristo] si fa
obbediente al Padre, guarendo la nostra disobbedienza»86. A sua
volta, san Cirillo d’Alessandria così scrive: «Come in Adamo la natu­
ra umana cadde malata di corruzione a causa della disobbedienza [...],
così in Cristo essa ha ritrovato la salute; è infatti divenuta obbedien­
te a Dio e Padre e non conobbe il peccato»87.
La guarigione della natura umana è operata dal Verbo incarnato
lungo tutta la sua missione terrena, attraverso tutte le sue azioni salvi­
fiche.
Con il suo battesimo, benché egli sia puro di per sé, egli purifica
la natura umana, la rigenera e l’illumina, liberandola dall’influsso del­
le potenze del male e dall’ignoranza di Dio88.
Accettando di essere tentato nel deserto secondo le sue passioni na­
turali, ma resistendo vittoriosamente alle tentazioni e impedendo al
male di avere qualche accesso in lui89, egli libera l’uomo dal potere
tirannico delle potenze tentatrici90e dalle passioni dovute alla sete di
godimento91.
Accettando liberamente la sua passione e subendo volontariamente
la sofferenza nella sua natura umana passibile, egli la vince per mezzo
della sua natura divina impassibile, e libera l’uomo dal potere tirannico
che essa esercitava su di lui92, come pure dalle passioni che mirano di­
rettamente ad evitare il dolore93 e da quelle che si sforzano di allegge­
rirlo attraverso la ricerca del piacere94. Per questo la Chiesa canta: «Quan­
do tu sei salito sulla croce, tu mi hai guarito dalle passioni attraverso
la passione della tua carne immacolata rivestita volontariamente»95. Il
85 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
86 Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 1.
87 Commento alla lettera ai Romani, PG 74,789.
88Vedi la liturgia dei Vespri e dei Mattutini della Festa della Teofania, in E. MERCENIER, La
prière des Églises de rite byzantin, t. II, 1, Chevetogne 1953, pp. 262-304.
89 Cfr. G iovanni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 20.
90 Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, 21.
91 Ibid.
92 Cfr. M assimo i l C on fessore, Questioni a Talassio, 61, 629C.
93 Cfr. 21.
ibid.,
94 Cfr. 61, PG 90, 629C.
ibid,
95 Mattutino della Domenica, 4° Tono, 4aode del Canone.
281
Cristo, guarendo l’uomo dalle sue passioni, gli fa recuperare l’uso nor­
male delle sue facoltà, dà loro, in altre parole, la possibilità di orien­
tarle verso Dio. Per questo così scrive san Massimo: «Colui che ha crea­
to l’uomo [...] si fa egli stesso passione, per guarire le nostre passioni
con la sua passione. Cancellando nella carne le nostre passioni al di là
di ogni misura, nel suo amore per l’uomo rinnova nello Spirito le no­
stre facoltà»96.
Tra tutti gli atti salvifici del Verbo incarnato, la sua passione, mor­
te e risurrezione occupano un posto centrale. È attraverso di essi, in­
fatti, che egli rovescia le due barriere restanti - quella del peccato e
quella della morte97-, e che ci riconcilia totalmente con Dio (cfr. Rm
5,10; 2Cor 5,18), restituendoci così una salute piena, quella della no­
stra natura originale, conferendoci l’incorruttibilità e l’immortalità.
«Tutto ciò», scrive san Gregorio Nazianzeno nel ricordare la passio­
ne, morte e risurrezione del Cristo, «era per Dio un mezzo per [...]
guarire la nostra debolezza ristabilendo il vecchio Adamo nello stato
dal quale era caduto e nel condurlo presso l’albero della vita»98.
Il mistero della redenzione rimane fondamentalmente incompren­
sibile all’uomo. Nessuna spiegazione può decifrarlo adeguatamente.
La morte del Cristo sulla croce, in particolare, appariva, secondo le
parole di san Massimo, come un «giudizio di ogni giudizio»99. Così,
questo mistero deve, secondo la raccomandazione di san Gregorio Na­
zianzeno, «essere venerato con rispetto nel silenzio»100. E, dunque, in
un atteggiamento apofatico che i Padri hanno l’abitudine di affron­
tarlo, ricorrendo a immagini di cui occorre sempre misurare il carat­
tere relativo e inadeguato.
Notiamo, tuttavia, che la prospettiva generalmente adottata dal cri­
stianesimo occidentale che comprende la redenzione in categorie es­
senzialmente etiche e giuridiche come «soddisfazione» o «remunera­
zione», e che vede nel sacrificio del Cristo un debito che il Figlio pa­
ga al Padre allo scopo di placare la sua collera o di «soddisfare» la sua
giustizia, è generalmente rimasta estranea alla visione dei Padri orien­
tali e alla tradizione della Chiesa ortodossa. «Non è evidente», si chie­
de san Gregorio Nazianzeno che rifiuta una tale concezione della re­
denzione, «che il Padre accetti il sacrificio non perché lo esiga o ne
96 Centurie sulla teologia e sull’economia, IH, 14.
97 Cfr. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, HI.
98 Discorsi, IH, 25.
99 Questioni a Talassio, 4 3 , P G 9 0 , 40 8 D ; 6 1, 6 3 3 D ; 6 3 , 684A ; 685B .
100 Discorsi, XLV, 22.

282
senta qualche bisogno, ma per economia? Occorreva che l’umanità
fosse santificata da un Dio che avesse assunto la natura umana; oc­
correva che egli stesso ci liberasse trionfando con la propria forza sul
tiranno, che egli ci richiamasse a lui per mezzo dei suo Figlio che è il
Mediatore che compie tutto secondo la volontà del Padre al quale è
obbediente in tutto»101. Non è, dunque, una «soddisfazione» giuridi­
ca che il Cristo compie con la sua morte, bensì una restaurazione on­
tologica della natura umana che egli ha assunto. E se solo il Figlio di
Dio può riscattare l’uomo e se per questo deve morire nella sua car­
ne, ciò non è perché solo lui sarebbe in grado di pagare il debito del­
l’umanità peccatrice verso Dio e solo la sua morte sarebbe capace di
pagare questo debito, ma perché solo Dio era così potente da porre
rimedio ai mali del genere umano. Questo sarebbe avvenuto solo as­
sumendo la morte ed essendo «il solo che possiede l’immortalità» (lTm
6,16) poteva liberare l’uomo dalla morte: ciò che non era assunto non
poteva essere guarito, come sottolineano frequentemente i Padri.
Come la corruzione appariva alla maggior parte dei Padri una ma­
lattia contratta dall’uomo in seguito al suo peccato e ima conseguen­
za «naturale» e inevitabile di questo piuttosto che una punizione in­
flitta da Dio, così la redenzione operata dal Cristo è da essi compre­
sa come l’assunzione volontaria del Verbo fatto carne del destino
comune dell’umanità sofferente e mortale al fine di distruggervi, per
la potenza della sua divinità, le conseguenze del peccato, le malattie
spirituali, la corruzione e la morte e ridare, così, all’uomo una vita nuo­
va in cui la sua natura avrebbe ritrovato in pieno la salute. Non sor­
prende, così, veder ricordate in termini di terapia la passione e la mor­
te salvifica del Cristo, e in termini di guarigione i loro benefici effetti
sul genere umano. La croce del Cristo, scrive sant’Atanasio, «è stata
per la natura la guarigione»102. «Le sue piaghe furono la nostra guari­
gione», ribatte, da parte sua, in varie riprese, sant’Antonio l’Eremita103,
riprendendo questa profezia di Isaia: «Per le sue piaghe noi siamo sta­
ti guariti» (Is 53,5). Origene si esprime in termini simili: «Per mezzo
della sua morte, egli ci purifica tutti, morte che ci è stata data come ri­
medio (phdrmakon) contro le azioni avverse e il peccato»104. E la Chie­
sa, nel Mattutino della festa dell’Esaltazione della Croce, celebra la
10>m .
102 Contro i pagani, 1.
103 Lettere, II, 2 ; I É , 2 ; IV, 2; V, 2 («per le sue piaghe, tutti noi siamo stati guariti»); V bis;
V, 3.
104 Commento a san Giovanni, I, 37.

283
Croce per mezzo della quale gli uomini «ricevono la guarigione del­
l’anima e del corpo e di ogni malattia»105.
NeU’assumere volontariamente la morte, che è principio e conse­
guenza del peccato, il Cristo, che è allo stesso tempo corruttibile e mor­
tale nella nostra umanità, incorruttibile, immortale e padrone della
morte e della vita nella sua divinità, distrugge per tutti gli uomini la
corruzione, la morte, il peccato e le sue conseguenze.
Avendo nella sua umanità assunto volontariamente la morte, il
Salvatore, che era Dio, non ha lasciato alcun appiglio alla morte.
Quando il corpo del Salvatore fu deposto nel sepolcro, egli era cor­
ruttibile, perché il Cristo aveva assunto la corruttibilità; in quanto,
però, corpo del Verbo incarnato, l’ipostasi divina del Verbo non era
separata da lui ma gli rimaneva unita106, e quindi rimase inaccessibile
alla corruzione.
Quando l’anima del Salvatore nello stesso tempo in cui soggiorna­
va negli inferi, poiché rimaneva ipostaticamente unita al Verbo divi­
no107, non lasciava alcun appiglio alle potenze che cercavano di im­
padronirsene.
Presentandosi alla morte, alla corruzione e alle potenze infernali co­
me un semplice mortale, egli le distrusse come Dio.
Ricorrendo al simbolismo, nell’impossibilità in cui è l’uomo di spie­
gare razionalmente questa vittoria del Cristo, i Padri dicono spesso
che la morte, la corruzione e il diavolo sono stati presi in trappola. A
tale riguardo così scrive san Giovanni Damasceno: «La morte avanza,
inghiotte l’esca del corpo e si ferisce all’amo della divinità, che non ha
peccato affatto e avendo gustato il corpo che dona la vita, essa si
corrompe e vomita tutto quello che aveva un tempo inghiottito. Le te­
nebre si cancellano quando giunge la luce, così scompare la corru­
zione sotto l’attacco della vita»108. San Massimo mostra come già quan­
do il Cristo è stato tentato nel deserto, ha fatto impigliare il diavolo
nelle proprie macchinazioni, presentandosi a lui come un semplice uo­
mo, ma sventando i suoi attacchi, utilizza la stessa immagine che userà
san Giovanni Damasceno per mostrare come egli ha vinto nella mor­
te le potenze del male109. Ed egli dimostra come per questo il Cristo
rovescia il processo della caduta: «Così colui che prima aveva sedotto
105 Tropario delle Lodi.
106 Cfr. GIOVANNI D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 27.
107 Ibid.
108 Esposizione esatta della fede ortodossa, HE, 27.
109 Questioni a Talassio, 6 4, P G 90, 713 AB.

284
l’uomo facendogli sperare la divinizzazione e lo aveva inghiottito, fu a
sua volta adescato dalla stessa carne dell’uomo e dovette vomitare ciò
che aveva inghiottito. La potenza divina si manifestò così con fulgore:
essa trionfò con la forza del vincitore servendosi come arma della
debolezza della natura vinta. Ormai è Dio che prevale con la sua na­
tura umana, e non il diavolo con la promessa della natura divina fat­
ta all’uomo»110. ""
Nella morte del Cristo muore definitivamente il vecchio uomo, l’an­
tico Adamo, muore la forma decaduta e malata dell’umanità che su­
bisce la tirannia del diavolo, del peccato e della morte. «Il nostro uo­
mo vecchio fu crocifisso insieme con Cristo affinché fosse annullata la
forza del corpo del peccato» (Rtn 6,6). Una volta per tutte e per tut­
ti, egli ha annullato il peccato con il suo sacrificio (cfr. Eb 9,26). «Per
distruggere con la morte colui che ha il potere sulla morte, cioè il dia­
volo» (Eb 2,14), e «per liberare quelli che erano asserviti per tutta la
vita al timore della morte» (Eb 2,15). Per questo così scrive sant’Ata-
nasio: «Nello stesso essere s’incontrano due prodigi: la morte di tutti
si compie nel corpo del Signore, e, dall’altra parte, la morte e la cor­
ruzione sono distrutte dal Verbo che abita in questo corpo»111.
Nella morte del Cristo, vengono distrutti il peccato, la corruzione,
la morte e la potenza del diavolo; l’uomo vecchio è mortificato, l’an­
tica vita, relativa al peccato e sottomessa alla morte è distrutta, il dia­
volo è incatenato e il suo potere annientato. Ma questo momento es­
senziale e indispensabile della sua salvezza non basta da solo: «Se Cri­
sto non è risorto, è inutile la vostra fede» (lCor 15,17). E solo nella
risurrezione del Cristo che egli trova il suo fine e il suo compimento:
è per essa che l’impassibilità, l’incorruttibilità e l’immortalità sono de­
finitivamente acquisite dall’uomo112 ed egli può accedere a una vita
nuova. «Fummo sepolti con lui [...] nella sua morte, in modo che, co­
me Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi ab­
biamo un comportamento di vita del tutto nuovo», scrive l’Apostolo
(Rm 6,4). E san Gregorio Nazianzeno, a sua volta, afferma: «Il Cri­
sto è uscito dalla tomba; siate liberati dalle catene del peccato: le por­
te dell’inferno sono aperte e l’influsso della morte è distrutto: il vec­
chio Adamo è confinato e il nuovo è compiuto [...]; una nuova crea-
uolbid.
111 Sull’Incarnazione del Verbo, 20.
112 Cfr. GIOVANNI D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 28.

285
tura è nata nel Cristo»113. Nel Cristo risuscitato, l’uomo è tornato alla
vita e «ora invece egli vive, e vive per Dio» (Rm 6,10).
L’opera redentrice del Cristo non è creazione, ma ricreazione, rin­
novamento della natura dell’uomo, restaurazione dell’Adamo pri­
mordiale a immagine e somiglianza di Dio, reintegrazione nell’uomo
del suo essere, del suo modo di esistere, della sua vita e del suo vero
destino. Nella sua natura, restaurata per mezzo dell’unione alla natu­
ra divina nella persona del Cristo morto e risorto, l’uomo, di cui tutti
i mali sono stati consumati, ricupera in tutto il suo essere una piena
salute. In Cristo, egli ritorna ad essere un uomo normale. Ritrova le
sue facoltà nel loro stato originario, conforme alla loro natura, che è,
ricordiamolo, quello di essere orientato verso Dio. San Doroteo di Ga­
za a proposito del Cristo così scrive: «Egli ha preso lo stesso nostro es­
sere, le primizie della nostra natura, ed egli è divenuto un nuovo Ada­
mo “a immagine di colui che lo ha creato” (Col3,10), restaurando lo
stato naturale, e rendendo alle facoltà la loro prima integrità»114. E mol­
ti Padri sottolineano che il Salvatore, incarnandosi, ha ricondotto la
natura a se stessa e le ha anche ridato la salute della sua condizione
originale che Adamo aveva conosciuto in paradiso. Da parte sua, co­
sì scrive san Giovanni Damasceno: «Noi siamo caduti, dopo la tra­
sgressione da “secondo natura” in “contronatura”, e il Signore da “con­
tro” a “secondo” la natura ci ha fatto risalire»115. Abba Isaia, a sua vol­
ta, osserva: «Il Verbo fatto carne, cioè perfettamente uomo, diviene
simile a noi in tutto fuorché nel peccato, per ricondurre ciò che era
contro natura alla conformità con la natura attraverso il suo santo cor­
po e, avendo pietà dell’uomo, egli lo fa tornare in paradiso»116.
Ma nello stesso tempo, il Cristo risuscitato rende in sé l’umanità re­
staurata pienamente compiuta, cioè deificata. Dopo aver compiuto
la sua kenosi fino al punto più basso, quello della morte e della discesa
agli inferi liberamente assunte, il Cristo risale portando con sé e in sé
l’umanità guarita e liberata da tutti i suoi mali e a essa, con la sua ri­
surrezione, apre l’accesso alla vita eterna. Per la sua ascensione, egli
eleva questa umanità deificata fino al Padre e la fa sedere alla sua de­
stra117.
Discorsi,
115 G re g o rio N azian zen o, XLV, l .
114 Istruzioni spirituali, 1 , 4.
115 Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 7.
116 Discorsi, II, 2.
117 Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 1-2.

286
La salvezza che il Cristo ha compiuto, si estende a tutti gli uomini
di tutti i tempi. «Il Cristo si è manifestato col sacrifìcio di se stesso per
l’annullamento del peccato» (Eb 9,26); egli ha «trovato un riscatto eter­
no» (Eb 9,12); «siamo stati santificati mediante l’offerta del corpo di
Gesù Cristo ima volta per sempre» (Eb 10,10). Come Adamo aveva
reso malata l’intera natura umana, così il Cristo, nuovo Adamo, ha gua­
rito, salvato e deificato interamente la natura umana per tutti i tempi.
Tuttavia, la sua azione terapeutica non si applica solo alla.natura che
egli ricapitola in sé. Questa si applica anche a ogni persona che si ri­
volge a lui: «Il Figlio di Dio che vive e agisce è ogni giorno occupato
nell’operare la salvezza di tutti», nota sant’Atanasio d’Alessandria118.
Egli compie tale salvezza nel rendere ciascuno personalmente parte­
cipe di questa guarigione dell’intera natura che egli ha compiuto, mo­
strandosi attento alle malattie di ciascuno, concedendo la sua grazia a
ogni persona secondo i suoi bisogni particolari e secondo il deside­
rio che essa manifesta di ottenere le sue cure. Nicola Cabasilas scrive
a questo proposito: «Il Cristo è il Mediatore attraverso il quale ci so­
no venuti tutti i beni che ci sono stati donati o, piuttosto, che ci ven­
gono donati da Dio incessantemente. Difatti egli non si è acconten­
tato di adempiere una volta per tutte al suo ruolo di Mediatore do­
nandoci tutti i beni in vista dei quali egli adempiva tale ruolo, e di
ritirarsi in seguito: no, egli interviene incessantemente, e non a paro­
le o con richieste come fanno gli ambasciatori, ma con azioni. Cos’è
questa azione? Quella di unirci a lui e, attraverso la sua persona, ren­
derci partecipi delle grazie che gli sono proprie, secondo il merito di
ognuno e secondo il grado della sua purificazione»119. Sottolineando
quest’azione attuale del Cristo medico, san Giovanni Carpazio scrive:
«Il grande medico di coloro che soffrono è vicino. Egli ha preso su
di sé i nostri mali. Ci ha guariti, e ci ha guariti con le sue piaghe. Egli
è all’opera, egli applica ora i salutari rimedi»120. Quanto a san Massi­
mo, egli dimostra che il medico celeste dà a ciascuno il rimedio ap­
propriato. «Come i medici che curano i corpi non dànno a tutti lo stes­
so e unico rimedio, così Dio che guarisce le malattie delle anime non
conosce un solo trattamento vantaggioso per tutti. Ma solo dando a
ogni anima ciò che le è necessario egli compie le guarigioni. Dun­
que, noi che siamo curati così, rendiamo grazie»121.
118 SullTncamazione del Verbo, 31.
119 Spiegazione della divina liturgia, X LIV , 1.
120 Discorso ascetico.
121 Dieci capitoli, 5.

287
Il Cristo, quindi, è considerato medico non solo della natura uma­
na in generale nell’ambito della teologia della redenzione dell’intera
umanità, ma è anche celebrato e invocato come tale da/per ogni per­
sona desiderosa di ottenere da lui la guarigione dei suoi mali partico­
lari o di quelli del suo prossimo, così come attestano molti testi pa­
tristici122e liturgici. Egli qui è generalmente chiamato «medico eccel-
122 Cfr. C lem en te d i Roma, Lettera ai Corinzi, 5 9 ,4 . Ig n a zio d ’A n tio ch ia , Lettera agli E/e-
sini, VII, 2. GIUSTINO, Apologia seconda, 13; Lettera a Diogneto, IX , 6. IRENEO DI LlONE, Con­
tro le eresie, III, 5 ,2 . TEOFILO d ’A ntìOCHIA, Ad Autolico, 1 ,7 («Se tu vuoi, puoi guarire; rimettiti
nelle mani del medico, egli opererà gli occhi della tua anima e del tuo cuore. Chi è il m edico?
È Dio che guarisce e vivifica attraverso il Verbo e la Sapienza»). CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il
Pedagogo, 1 , 1, 2 («H Verbo guarisce le nostre passioni»); 1, 4 (« È com e guaritore [...] che egli
prom ette la guarigione delle passioni che sono in noi»); 3 , 1 - 2 ; 3 , 3 («Così com e per i malati
del corpo si ha bisogno di un medico, per coloro la cui anima è debole, occorre un Pedagogo
affinché esso guarisca le nostre passioni»; 6 , 1 (« E cco il Verbo, nostro Pedagogo, che [...] cura
le passioni contro natura della nostra anima. In senso proprio, si chiama medicina la cura delle
malattie del corpo; è un’arte che viene insegnata dalla sapienza umana. M a il Verbo del Padre
è l’unico medico delle infermità morali dell’uomo; egli è il guaritore [...] che libera l’anima m a­
lata»); 6 , 2 («L a medicina [secondo Dem ocrito] cura le malattie del corpo, ma è la sapienza che
libera l’anima dalle sue passioni. H nostro buon Pedagogo, proprio lui, che è la Sapienza e il Ver­
bo del Padre, e che ha creato l’uomo, si prende cura della sua creatura interamente presa: ne cu­
ra sia il corpo che l’anima, egli, il m edico dell’umanità, è capace di guarire tutto»); 6, 4 («Egli
guarisce l’anima in se stessa, con i suoi precetti e le sue grazie»); 5 1 ,1 («Il Verbo, che si m esco­
la intimamente all’amore dell’uomo, guarisce le passioni allo stesso tem po che purifica dai pec­
cati»); 83, 2 («N oi che in questa vita siamo malati [...], abbiamo bisogno del Salvatore. Ci ap­
plica dolci rimedi, ma anche rimedi amari»); 8 3 ,3 ; 8 8 ,1 ; 1 0 0 ,1 («Il Verbo è stato chiamato Sal­
vatore, egli che ha inventato per gli uomini questi rimedi spirituali [...]; ordina ciò da cui occorre
astenersi e porta ai malati tutti gli antidoti salutari»); 1 0 0 ,2 ; III, 7 0 ,1 ; 9 8 ,2 (« È lui che guarisce
Protreptico
i nostri corpi e le nostre anime, tutto l’uom o»); Quale ricco può es­
, I, 8 , 2 ; X , 9 1 , 3;
sere salvato Strornati,
?, 29, 3 ; Scorpiace
I, 2 7. TERTULLIANO, (= medicina contro il m orso dello
Contro Marcione,
scorpione), 5 ; Contra Celso
HI, 17. ORIGENE, Omelie sul Levitico
, DI, 61; , VHI,
1; Omelie su Geremia Omelie su Ezechiele
, X V H I, 5 ; Omelie su Samuele
, 1 ,2 ; Ome­ , X X V IH , 6;
lie su Numeri , X X V II, 12 («Quale Signore? Colui che guarisce tutte le malattie [...]. Infatti vi
sono molte malattie nell’anima [...]. Quando, Signore Gesù, mi curerai per tutte queste malat­
tie? Quando mi guarirai affinché io dica: "Benedici, anima mia, il Signore che guarisce tutte le
malattie” [Sai Omelie su san Luca
102,3 ]» ); Lettere,
, X m , 2-3. ANTONIO L’EREMITA, E , 2; IH, 2;
IV, 2; V, 2; V bis; VI, 2-3. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Sull'Incarnazione del Verbo Discorso , 18; 44;
contro ipagani, 1. METODIO D’OLIMPO, Sulla risurrezione dei corpi, Let­
42. BASILIO DI CESAREA,
tere, Omelie
X L V I, 6 («Il grande m edico delle anime è p ron to a guarire il tu o m ale», e c c.);
contro i ricchi, VII, 1 («Il grande m edico delle anime vuole rendere l’uomo perfetto»). ClRILLO
DI GERUSALEMME, Catechesi battesimali, E , 6 («Le tue ferite non superano l’arte del medico. D o­
na solamente te stesso con fede, di’ il tuo male al m edico»); X , 5 ; X II , 1, 6 -8. MACARIO d ’E-
GITTO, Capitoli parafrasati, 72 («Se il Cristo venuto tra noi curava e guariva i ciechi, i paralitici
e i sordi [...], quanto più curerà l’anima immortale che fu presa dalla malattia della malvagità e
dell’ignoranza»); 100 (l’anima povera in spirito «cerca il solo buon m edico e non si affida ad
altri che alle sue cure [...]. Il Signore viene a curarla, a guarirla, e la ristabilisce in una bellezza
impassibile e incorruttibile»); Omelie (Coll. II), IV, 25 («C om e, durante la sua perm anenza
sulla terra, nella sua dolce bontà, concedeva con liberalità, da buon e unico m edico, ciò che
essi desideravano a tutti coloro che venivano a lui e gli chiedevano soccorso e guarigione, così
egli agisce anche nel campo spirituale»); 27 («Egli è venuto a causa dei peccatori, [...] affinché
essi siano guariti nel credere in lui [...]. Egli è misericordioso, vivificante, guaritore di passioni
incurabili»); XV, 3 0 («il Cristo si porta accanto all’uomo malato [e] lo guarisce»), 47; X X V I, 23
(«Egli è chiamato medico, perché dona il rimedio celeste e divino e guarisce le passioni delTa-

288
lente», «il più grande dei medici», «il più abile dei medici», «il vero
medico», «il solo medico», «il principe dei medici», ecc., perché egli
è capace di guarire tutto: sia le malattie dell’anima che quelle del
corpo, fondamentalmente - cioè nelle loro stesse cause più profonde
e non solo nei sintomi -, e definitivamente. Difetti nessuna malattia
resiste alla sua terapia, il cui valore è assoluto, contrariamente a tutte
le terapie umane dagli effetti sempre incerti, parziali e provvisori e che,
soprattutto, si dimostrano incapaci di curare l’uomo totale e spiri­
tuale. Così, ogni uomo che dispera della medicina umana o che non
ha trovato un medico capace di liberarlo dai suoi mali, può essere si­
curo di trovare nel Cristo la guarigione da ogni malattia che lo colpi-

nima»); 25; 26; X X X , 9 («Vero m edico, il solo capace di guarire le nostre anime»); XLIV, 4;
XLVI, 2; Omelie (Coll. HI), VH, 7 ,2 («Il vero medico, il Cristo»); XXIV, 3; XXV, 3,2-3; XXVII,
2 ,4 («il Signore [...] vero medico»). GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, II, 25; V ili, 18; XIV, 37;
XXXVIH, 13; XLV, 9; 13; 26. GREGORIO DI NlSSA, Contro Eunomio, 3, PG 45, 612C; Omelie
sul Padre nostro, IV, 2 («Il vero m edico delle malattie dell’anima»). EVAGRIO PONTICO, Lettere,
42; Apoftegmi, Am 180,12; XVI, 18. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, VII, 30; XIX, 12 («A co­
loro che cercano sinceramente il rimedio, la guarigione non mancherà di venire da parte del ve­
ro medico delle anime», ecc.); Istituzioni cenobitiche, XH, 8. GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla ver­
ginità,, 17 (Egli agisce «com e il saggio m edico che diversifica le sue prescrizioni secondo lo sta­
to del suo malato»); Omelia sul testo: «La porta è stretta...», 2; Omelie sulla penitenza, IV, 4
(«Correte dal m edico delle anime»); 7; 6; Commento al Salmo 6,3 ; Esortazioni a Teodoro, I, 4;
Omelie sulla Genesi, 1 ,1 («H m edico divino delle nostre anime»); X X X , 6 («Il m edico delle ani­
me»); Omelie sui demoni, 1 ,5 («Dio è il vero medico, l’unico medico del corpo e dell’anima»);
6; Commento a san Matteo, XIH, 1 («Come un medico saggio»); XXVHI, 4 («Questo divino me­
dico»); X X IX, 2. M arco l ’Erem ita, Sulla penitenza, 6 («M edico delle nostre anime»); Contro­
versia con un avvocato, 20. TEODORETO DI CIRO, Storia dei monaci della Siria, XIV, 3; Discorso
sulla Provvidenza, X, P G 83, 749C; Terapia delle malattie elleniche, V, 4. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoli gnostici, 53. BARSANUFIO, Lettere, 59 («Coloro che si avvicinano al nostro gran­
de m edico sono illuminati da lui ed egli li guarisce da tutte le loro malattie spirituali»); 61; 62;
107; 109; 199 («Gesù è m edico delle anime e dei corpi»); 532 («H grande m edico che porta le
nostre malattie»; «il grande m edico spirituale e celeste che guarisce sia le anime che il corpo»);
553. GIOVANNI DI G aza, Lettere, 170; 212; 463; 464; 617 («Il maestro e medico delle anime, G e­
sù il Signore»). DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, I, 3; 4; 7; XI, 113. GIOVANNI CARPA-
ZIO, Discorso ascetico («il grande m edico di coloro che soffrono»). GIOVANNI MOSCO, Il prato
spirituale, 144 («Il grande m edico delle anime, il Cristo nostro Dio, è vicino, ed egli vuole gua­
rirci»). ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 5; 25 («Egli viene in nostro soccorso come un medico
che opera nel momento della malattia grave e ristabilisce la salute»); 48 («Gloria al Maestro che
con aspri rimedi ci ha dato le delizie della salute»). MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca­
rità, E , 39 («Come un m edico buono e caritatevole, [Dio] applica a ciascuno [...] il trattamen­
to più conveniente»); 44 («Il m edico delle anime, con i suoi decreti, ha adattato il rimedio a
ciò che, nell’anima, è la radice delle passioni»); DI, 82. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esat­
ta della fede ortodossa, D I, 1. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, VII, 263-276 («Co­
perte le ferite, colpite da diverse malattie [...], noi chiediamo a colui che è il m edico delle anime
e dei corpi [...]; noi lo chiamiamo affinché egli venga a guarire il nostro cuore ferito e a dare la
salute alla nostra anima che giace sotto il giaciglio del peccato e della morte»). NlCETA STETA-
TOS, Centurie, II, 22 («il m edico delle nostre anime»); 23. ELIA ECDICO, Antologia gnomica,
33. N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 52; IV, 14; 88; VI, 101; 103. GREGORIO PALAMAS,
Triadi, II, 1,40, 42 («Che essi credano al Cristo [...] come all’unico m edico degli spiriti»).

289
sce, qualunque ne sia la natura e la gravità, e una salute la cui qualità
supera infinitamente quella che sarebbe possibile ottenere coi mezzi
umani. Commentando i versetti 3 e 4 del Salmo 6 in cui il profeta Da­
vide invoca Dio come medico, dicendo: «Guariscimi, o Signore, poi­
ché inaridite sono le mie ossa. L’anima mia è molto turbata», san Gio­
vanni Crisostomo stabilisce in tal senso un parallelo tra la medicina
umana e quella divina: «Spesso nelle malattie trattate dai medici il ma­
lato fa gran conto della medicina e dei rimedi senza ottenervi nulla,
perché la sua costituzione è debole, perché l’arte della medicina è di­
venuta impotente, perché i rimedi hanno perduto le loro virtù sotto
l’influsso di qualche congiuntura funesta. Non è così quando il me­
dico è Dio; per poco che siate con lui, la vostra piaga sarà guarita in­
fallibilmente. Difatti qui non si tratta di un artificio umano soggetto a
incertezza, ma di un’efficacia divina più forte delle costituzioni, delle
malattie, delle infermità morali e di tutte le imperfezioni. E per que­
sto che Davide si rivolge a Dio come a un medico»123. E san Macario
dice nello stesso senso: «Il Signore stesso, mostrando l’impotenza
dei medici di allora, ha detto: “Sono sicuro che mi citerete il prover­
bio: Medico, cura te stesso” (Le 4,23). Egli voleva dire: “Io non sono
come coloro che non possono guarire se stessi. Io sono il vero medi­
co [...]. Posso guarire ogni malattia e ogni debolezza dell’anima (cfr.
Mt 10,1). Io sono l’Agnello immacolato che è stato immolato una vol­
ta per tutte, e posso guarire tutti coloro che vengono a me”. Infatti, la
vera guarigione dell’anima può essere operata solo dal Signore»124.
Il Cristo, come medico misericordioso e compassionevole, vuole
elargire le sue cure a tutti gli uomini, senza escludere nessuno dalla
salvezza. Egli impiega tutti i suoi sforzi e dà prova della più grande pa­
zienza riguardo a questi, anche se lo rinnegano e lo insultano con pa­
role, pensieri e azioni. A coloro che sono vissuti fino ad allora nella
follia del peccato e sono malati di passioni, senza volgersi indietro, egli
concede il perdono e li chiama «alla salvezza che rende sani di spiri­
to»125. «Un medico, fa notare san Giovanni Crisostomo, non ha lo sco­
po di vendicarsi, ma quello di attrarci a lui. Un medico non si offen­
de né si emoziona per le ingiurie dei malati in delirio, e non tralascia
nulla per impedire che si avviliscano, considerando non il vantaggio
personale ma il loro: se essi recuperano un po’ del loro buon senso e
123 Discorsi, II, 25.
124 Omelie (Coll. E ) , X LIV , 3.
125 C lem en te d ’A lessan d ria, Protreptico, X II, 1 1 8 ,5 .

290
la calma, il suo cuore si riempie di soddisfazione e di gioia, egli rad­
doppia le cure e i rimedi; lungi dal trarre vendetta dalle loro ingiu­
rie, egli aggiunge benefici su benefici, fino a quando riesce a ridare lo­
ro la salute. Così Dio, quando cadiamo nell’ultima follia, non pensa di
vendicarsi per il passato, non dice nulla, non fa nulla che non tenda
a guarirci dalla nostra malattia»126.

126 Esortazioni a Teodoro, 1 ,4.

291
II
LE TERAPIE SACRAMENTALI

1. Introduzione
Cristo, nella sua persona, ha operato la guarigione della natura uma­
na e le ha dato ima vera sanità, totale e definitiva. Le persone umane
non possono godere di questi benefìci che egli ha fatto acquisire alla
natura umana ricapitolata in lui, se non a condizione di unirsi a lui.
Soltanto nella Chiesa, che è il corpo divino-umano del Cristo, può
realizzarsi questa unione. Soltanto per l’azione dello Spirito Santo
essa può compiersi.
Fondamentalmente nei sacramenti, per mezzo dell’energia dello Spi­
rito Santo invocato dalla Chiesa, e attraverso i segni visibili che costi­
tuiscono i riti, noi siamo posti in relazione ontologica con il Cristo stes­
so, e divenendo membri della Chiesa, noi siamo a lui incorporati. At­
traverso i sacramenti, noi diveniamo «membra dello stesso corpo» (E/
3,6; 5,30), siamo resi «partecipi di Cristo» (Eb 3,14) salvatore e deifi-
catore della nostra natura.
In altri termini, ricevendo i sacramenti, siamo innanzitutto, per la
grazia dello Spirito Santo, purificati e risanati: questa finalità che è pri­
maria nel sacramento della penitenza e dell’unzione degli infermi, con
una funzione essenzialmente «riparatrice», è inoltre confermata negli
altri sacramenti, in particolare nel battesimo in cui l’uomo è guarito
dagli effetti del peccato ancestrale, e nell’Eucaristia, considerata tra­
dizionalmente come un rimedio. E così che la maggior parte dei sa­
cramenti, in gradi diversi, sono considerati dalla Chiesa come medi­
camenti. A questo livello come ad altri, la Chiesa appariva, secondo
l’espressione di san Giovanni Crisostomo, come «un laboratorio spi­
rituale, in cui si preparano medicamenti affinché si possa trovare qual­
cosa per guarire le piaghe che il mondo ci infligge»1.
1 Commento a san Giovanni, II, 5.

292
Questa finalità terapeutica dei sacramenti consente a colui che li ri­
ceve di aver accesso all’altra loro finalità, che è quella della ricezione
della grazia deificante.
Se è vero che, nella Chiesa, è in Cristo che noi siamo salvati e dei­
ficati, è per mezzo dello Spirito che siamo uniti al Cristo, ed è nello
Spirito che il Cristo ci accorda la grazia divina salvifica e deificante.
Lo Spirito che il Padre ci comunica attraverso il Figlio, che il Figlio ci
invia da parte del Padre, e che unendoci al Figlio ci unisce al Padre,
questo stesso Spirito noi riceviamo attraverso i sacramenti: in quello
della crismazione che mira specificamente a comunicarlo al battezza­
to, ma anche in tutti gli altri sacramenti, in particolare nel battesimo
e nell’Eucaristia. E così che i sacramenti ci rivestono non solo di Cri­
sto, ma anche dello Spirito, e attraverso^ essi ci uniscono al Padre.
Attraverso i sacramenti, è la grazia comune del Padre, del Figlio e
dello Spirito che ci viene comunicata e che ci rende partecipi della vi­
ta trinitaria. I sacramenti sono considerati meno come atti isolati che
ci conferiscono ciascuno una grazia particolare e più come aspetti
diversi del Mistero unico, secondo cui Dio trino comunica all’umanità
la grazia della salvezza e della deificazione.
E questa una delle ragioni per cui la Chiesa ortodossa non ha fis­
sato in maniera precisa il numero dei sacramenti2. Nondimeno, pos­
siamo riconoscere come i più importanti siano: il battesimo, la cri­
smazione (alla quale corrisponde in Occidente la cresima o confer­
mazione), l’Eucaristia, la penitenza, l’unzione degli infermi, il
matrimonio e l’ordinazione. Tra questi, il battesimo, la crismazione e
l’Eucaristia occupano un posto essenziale: sono i sacramenti dell’ini­
ziazione cristiana: in essi è ricapitolata tutta l’economia divina3. Nella
Chiesa ortodossa, la crismazione è conferita subito dopo il battesimo
(questo fa sì che il termine «battesimo» venga generalmente usato per
indicare l’insieme di questi due sacramenti), e il nuovo battezzato e
unto con il crisma, divenuto membro a pieno titolo della Chiesa, vie­
ne subito ammesso, per giovane che sia, alla comunione eucaristica,
l’iniziazione cristiana formando un tutt’uno indivisibile.

2 Cfr. a questo riguardo: J . MEYENDORFF, Initiation à la théologie byzantine, Paris 1975,


pp. 253-255. P. EVDOKIMOV, L’Orthodoxie, Neuchâtel 1965, pp. 2 6 2 -265.
3 Cfr. G r e g o rio P alamas, Omelie, 60.

293
2.11 battesimo
Il battesimo è il primo e il fondamentale di tutti i sacramenti, poi­
ché per suo mezzo l’uomo è incorporato al Cristo nella Chiesa e rice­
ve dallo Spirito ciò che la sua opera salvifica ha fatto acquisire all’u­
manità: da un lato, l’uomo è liberato dalle conseguenze del peccato
ancestrale, purificato dai suoi peccati, liberato dalla tirannia del dia­
volo; dall’altro, restaurato nella sua natura, rinasce a una vita nuova.
a) La prima funzione del battesimo lo fa apparire come un rim
dio4, il primo dei rimedi sacramentali, quello che precede tutti gli al­
tri cronologicamente e ontologicamente. Esso è «l’unico rimedio
(pharmàkon) capace di guarire», dice di esso san Clemente d’Ales-
sandria5, così come san Nicola Cabasilas6. E san Gregorio Nazianze-
no si rivolge in questi termini a colui che non ha ancora ricevuto que­
sto sacramento: «Perché chiedere rimedi che non ti aiuteranno per
nulla? [...] Guarisci te stesso prima che la necessità non ti costringa;
abbi pietà di te: tu sei il solo medico della tua debolezza, procùrati da
te stesso il rimedio che ti salverà veramente»7.
Nel ricevere il battesimo, l’uomo viene a trovarsi in effetti guarito
da tutte le conseguenze patologiche del peccato ancestrale. Questa
funzione terapeutica del battesimo appare in tutto il rituale.
I riti d’esorcismo del catecumenato, che precedono il battesimo8,
significano già l’espulsione e l’allontanamento delle potenze demo­
niache che esercitano la loro tirannia sulla natura decaduta. E il sa­
cerdote vi invoca già il «Signore degli eserciti, Dio d’Israele, che gua­
risce] ogni male e ogni malattia»9.
Poi, quando il sacerdote procede alla benedizione dell’acqua bat­
tesimale, egli chiede a Dio che quest’acqua «sia santificata dalla po­
tenza, dall’azione e dalla discesa dello Spirito Santo», affinché scenda
su di essa «l’operazione di purificazione della Trinità» ed essa sia «la
remissione dei peccati, la guarigione delle malattie, l’annientamento
dei demoni», «la liberazione dai legami». Dopo ciò, procedendo alla
4 Vedi per esempio: GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, XUI, 9; XII; XXXIV. GIOVANNI CRI-
SOSTOMO, Catechesi battesimali, E, 2. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, E, 43.
5II Pedagogo, I, VI, 2 9 , 5.
6La vita in Cristo, E, 52.
7Discorsi, X L , 12. Cfr. 9.
8 Cfr. E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, t . 1, Chevetogne, 1937, pp. 334-
341.
9 Preghiera del 3 ° esorcismo.

294
benedizione dell’olio con il quale il catecumeno sarà unto, egli chiede
a Dio che esso sia benedetto «dalla potenza, dall’azione e dalla di­
scesa» dello Spirito Santo, affinché esso divenga particolarmente «la
guarigione di tutti i mali».
Ungendo, poi, il catecumeno nel nome del Pacare, del Figlio e del­
lo Spirito Santo, successivamente sul petto e tra le spalle, sulle orec­
chie, sulle mani e sui piedi, egli chiede che la prima di queste unzio­
ni sia «per la guarigione dell’anima e del corpo». Dopo questa un­
zione, il sacerdote procede alla triplice immersione del catecumeno
nell’acqua precedentemente benedetta, dicendo: «Il servo (o la serva)
di Dio N... è battezzato(a)10, nel nome del Padre, amen, e del Figlio,
amen, e dello Spirito Santo, amen». Questa triplice immersione, oltre
all’evidente significato trinitario, indica e compie ritualmente la par­
tecipazione del battezzato alla morte del Cristo sepolto tre giorni nel
sepolcro con il suo corpo e disceso tre giorni agli inferi con la sua ani­
ma11. Difatti, insegna l’Apostolo, «tutti quelli che fummo battezzati
per unirci a Cristo Gesù, fummo battezzati per unirci alla sua mor­
te» (Rm 6,3).
Dal momento che è innestato dallo Spirito Santo nel Cristo vinci­
tore del peccato, di tutte le malattie della natura decaduta, del diavo­
lo, della corruzione e della morte, il battezzato è veramente purifica­
to dai suoi peccati, guarito dalle malattie ereditate dal vecchio Ada­
mo, liberato definitivamente dalla tirannia del nemico e dalla schiavitù
del peccato, liberato dal potere della corruzione e dalla morte. Par­
tecipe della morte del Cristo, in lui il vecchio uomo muore, l’Adamo
vecchio scompare, il corpo del peccato è ridotto all’impotenza (cfr.
Rm 6,6). Il battesimo è un rimedio perché rende l’uomo partecipe di
questo rimedio che la morte del Cristo ha costituito per la natura uma­
na. Ecco quanto osserva san Nicola Cabasilas a questo proposito: «Nu­
merosi sono coloro che in ogni tempo hanno cercato un rimedio al ge­
nere umano, ma solo la morte del Cristo ci ha restituito la vera vita e
la salvezza. Perciò, se si vuole rinascere a questa nuova nascita, vive­
re di questa vita beata, e disporsi a recuperare la salute, non c’è altro
che assumere questo rimedio offerto dal Cristo»12.

10 E non «io ti battezzo», perché com e afferma san GIOVANNI CRISOSTOMO: «È D io che
battezza, non il sacerdote» (Commento a san Matteo, L, 3).
11 Cfr. B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 35. C irillo di G erusalemme, Cateche­
si mistagogiche, II, 4. G iovanni CRISOSTOMO, PG 61,347.
12La vita in Cristo, II, 86.
295
b) La prima funzione del battesimo è legata indissolubilmente al
seconda ed ha in essa la sua finalità. D battezzato muore con il Cristo,
per risorgere con lui e condurre la vita nuova che la sua risurrezione
ha fatto acquisire all’umanità. «Fummo dunque sepolti con lui per il
battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto
dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un com­
portamento di vita del tutto nuovo. Se infatti siamo diventati un me­
desimo essere insieme con lui per l’affinità con la sua morte, lo sare­
mo pure per l’affinità con la sua risurrezione» (Rm 6,4-5).
Questo sacramento rende colui che lo riceve partecipe indissolu­
bilmente della morte e della risurrezione del Cristo13. Nello stesso tem­
po in cui gli consente di morire alla sua vecchia condizione, gli offre
altresì la possibilità di rinascere a una vita nuova. La sua morte coin­
cide con la sua nascita14. Nel momento in cui immerge il vecchio Ada­
mo e le sue malattie, l’acqua del battesimo, per la grazia dello Spirito,
fa emergere l’uomo nuovo in piena salute. «Io sono liberato dai miei
crimini all’istante e ritrovo la salute istantaneamente», dice san Nico­
la Cabasilas15.
Questo intreccio e, nello stesso tempo, questa finalità sono presen­
ti in tutto il rito: nelle preghiere di benedizione dell’acqua e dell’olio,
nonché nell’azione rituale stessa. In primo luogo, l’unzione che co­
munica lo Spirito Santo, fatta sul petto e tra le spalle «per la guarigione
dell’anima e del corpo», viene fatta in seguito sulle orecchie «con
l’olio della fede», sulle mani per la ri-unione al Creatore («Le tue
mani mi hanno creato e mi hanno plasmato»), e sui piedi affinché il
battezzato «cammini nella via dei [suoi] precetti». In seguito, nel mo­
mento del battesimo propriamente detto, ciascuna delle tre immer­
sioni che rendono il battezzato partecipe della morte del Cristo, è se­
guita da una emersione che lo rende partecipe della sua risurrezione,
lo eleva alla vita nuova, incorruttibile e immortale che egli ha con­
cesso all’umanità attraverso la sua risurrezione.
L’uomo per mezzo del battesimo diviene veramente una nuova crea­
tura (cfr. 2Cor 5,17); egli è totalmente rigenerato e rinnovato (cfr. Tt
3,5). Mentre era morto e ridotto all’irrealtà dal peccato, il battesimo
13 Rm 6,3-5. G regorio N azianzeno , Discorsi, XL, 9. C irillo di G erusalemme, Catechesi
mistagogiche, DI, 2. Cfr. II, 6.
14Cfr. ibid.y E, 4.
15La vita in Cristo, E, 43.
296
gli ha ridato vita ed essere16. Mentre era schiavo del peccato e sotto­
messo alla tirannia del nemico, il battesimo lo rende libero (cfr. Rm
6,6.14)17. Trovandosi immerso nelle tenebre dell’ignoranza di Dio, egli
riceve dallo Spirito l’illuminazione18. Gli si aprono di nuovo le porte
del paradiso19. È reintegrato nello stato adamico originale20, ritorna
nell’intimità con Dio, ritrova la familiarità che aveva con lui nel para­
diso21. Egli acquista molto di più, perché, rivestito di Cristo (cfr. Gal
3,27), diviene direttamente partecipe di lui22 e conforme a lui23; allo
stesso tempo riceve lo Spirito Santo e da questi riceve il Padre24, di cui
ritorna ad essere figlio adottivo25. Entra nella famiglia di Dio26. Di­
viene partecipe della vita divina, essendogli stata comunicata la pie­
nezza della grazia trinitaria27.
Vediamo così perché il battesimo per l’uomo decaduto è il rimedio
per eccellenza. Egli è liberato per mezzo di esso dalla condizione in-
fra-umana e anti-naturale, in cui il peccato lo aveva ridotto, per tor­
nare a essere un uomo vero e ritrovare la sua condizione normale, il
suo essere autentico. Il battesimo, scrive san Nicola Cabasilas, non è
altro che nascere secondo il Cristo e ricevere il nostro essere e la no­
stra vera natura28. La vita nuova che il battesimo conferisce è, a diffe­
renza della vita che lo ha preceduto, «una vita conforme alla nostra
natura», egli sottolinea ancora29. San Gregorio di Nissa osserva, nello
stesso senso, che coloro che armonizzano la loro vita con la purifica­
zione del battesimo «s’incamminano verso ciò che costituisce il loro
16Cfr. ibid., 103.
17Cfr. M arco l ’Erem ita, II battesimo, 8; 13.
18Spesso i Padri danno il nome di photismós al battesimo (vedi in particolare: GIUSTINO, Apo­
logia prima, 6. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, X L , 3 ; 4 ; 6. GREGORIO DI NlSSA, Su coloro
che parlano del battesimo, P G 4 6 , 4 3 2 A ; Discorso catechetico, 3 2 . DIONIGI L’AREOPAGITA, La
gerarchia ecclesiastica, IH, 1).
19B a silio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 36.
20Ibid., 35. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Inni, LV, 4 8-49.
21 Cfr. G re g o rio di N issa, Sul santo battesimo, P G 4 6 , 600A .
22 C ir illo di G erusalem m e, Catechesi mistagogiche, IH, 1.
23 Cfr. ibid. G iovan n i C risostom o, Catechesi battesimali, III, 5 . G iovan n i D am asceno,
Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, X X IV ,
172ss.
24 Cfr. M arco l ’Erem ita, Il battesimo, 18.
25 B a silio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 3 5 ; 36.
26 G regorio DI N issa, Discorso catechetico, 36.
27 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le opere, 85; Il bat­
tesimo, 15; 16; 17; 30.
28 Cfr. La vita in Cristo, II, 8; 10; 15; 103.
29Ibid., 49.
297
essere profondo»30. E san Nicola Cabasilas scrive, inoltre, che il bat­
tesimo «dispensa agli uomini la vita e l’esistenza vere»31.
Attraverso il battesimo, in realtà, non solo l’immagine di Dio che
era stata offuscata dal peccato ritrova la sua luminosità32, in quanto
«impressa più nettamente di prima»33, ma la somiglianza con Dio stes­
so è restituita all’umanità nella condizione in cui essa la possedeva pri­
ma della sua caduta34.
L’uomo ridiviene così se stesso e ritrova la salute della sua natura
originale e vera, e riceve di nuovo la possibilità di condurre un’esi­
stenza veramente sana e normale, conforme alla finalità del suo esse­
re, che è quella di vivere per Dio ed essere deificato da lui e in lui.
L’uomo smette di essere determinato, influenzato, illuso dalle po­
tenze demoniache. Riprende possesso di sé, da posseduto e alienato
quale era prima; gli è restituita integralmente la sua libertà. «Rigene­
rati dal santo battesimo, siamo affrancati e resi padroni di noi stessi.
E a meno che, volontariamente, obbediamo al nemico, in nessun
modo egli potrà avere su di noi un certo influsso», scrive san Simeo­
ne il Nuovo Teologo35.
Liberato dal peccato e illuminato dallo Spirito Santo36, l’uomo è
guarito dalla conoscenza erronea e delirante prodotta dalle passioni e
acquista una conoscenza nuova37, secondo Dio, vera38. «Il battesimo
ci rende alla luce e ci allontana dal male delle tenebre», constata san
Nicola Cabasilas39, che aggiunge: «Esso apre gli occhi dell’anima da­
vanti al raggio divino»40. E san Diadoco di Foticea, a sua volta, scrive:
«Come prima l’errore regnava sull’anima, così, dopo il battesimo, è la
verità che regna su di essa»41. Nel ritrovare la vera conoscenza, l’uo­
mo ritrova nello stesso tempo «la sua vera vita»42 poiché la vita con­
siste nel conoscere l’unico vero Dio (cfr. Gv 17,3 )43.
30Catechesi, XXXV.
31La vita in Cristo, II, 103.
32 D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 89.
33 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 30.
34 Cfr. G iovanni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13. TERTULLIANO,
Trattato sul battesimo, V, 7. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, II, 11.
35 Catechesi, V, 442ss.
36Cfr. B asilio di C esarea, Sullo Spirito Santo, XV, 3 5 ,1 .5 9 . G iovanni C risostomo , Cate­
chesi battesimale, 1 ,3. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, II, 14-15; Eb, 10,32.
37 Cfr. Col3,10.
38Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, II, 87-89.
}i)Ibid.., 15.
40Ibid., 101.
41 Cento capitoli gnostici, 76.
42 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 101.
43 Ibid.
298
Tutta la vita del battezzato è trasformata44. Egli diviene in tutto una
creatura nuova (cfr. 2Cor 5,17). «La grazia di Dio, nota san Giovanni
Crisostomo a questo proposito, ha rimodellato e rivoltato le anime e
le ha rese diverse da quello che erano»45. L’essere dell’uomo viene a
trovarsi riorganizzato e riceve un ordine e un senso superiori deifor­
mi, conformi alla sua finalità. «Il giorno salutare del battesimo divie­
ne per i cristiani un “giorno onomastico” perché essi sono allora crea­
ti e formati, e perché la nostra vita amorfa e indeterminata prende for­
ma e consistenza», scrive san Nicola Cabasilas46. L’uomo non è più
votato a condurre un’esistenza patologica alla quale lo destinava la sua
nascita nel peccato. Egli accede a un altro mondo e a un’altra esi­
stenza: diviene cittadino del Regno, del quale il battesimo gli apre le
porte47. Attraverso il sacramento riceve «membra e sensi nuovi» che
lo preparano fin da ora alla sua condizione eterna48. «Per mezzo del
battesimo, osserva san Nicola Cabasilas, noi rinunciamo a uno stato
per ritrovarne un altro»49. «La rinascita diviene il sigillo, la salvaguar­
dia e la luce di un’altra vita», scrive san Giovanni Damasceno50. Per
l’uomo nuovo, tutte «le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono na­
te di nuove» (2Cor 5,11). E «questa novità di vita non conosce più la
vecchiaia, non è più soggetta al male, non è più preda dello scorag­
giamento, non si appassisce con il tempo, non cede a nulla, nulla trion­
fa su di essa», sottolinea san Giovanni Crisostomo51.

3. La crismazione
La crismazione (mymma) è inseparabile dal battesimo, e la Chiesa
ortodossa la conferisce subito dopo questo, secondo una tradizione
molto antica. La crismazione è infatti complementare, a tal punto che
san Simeone di Tessalonica può scrivere: «Colui che non riceve il sa­
cro crisma non è perfettamente battezzato»52.
44 G r e g o rio N azian zen o, Discorso, X L n , 3.
45 Catachesi battesimali, IV, 14.
46La vita in Cristo, II, 14.
47 Cfr. Gv 3,3.5.
48 N ic o la C abasilas, La vita in Cristo, II, 51.
49Ibid., 37.
50Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 9.
51 Catechesi battesimali, VE, 21.
521 sacramenti, 43 , PG 1 5 5 ,1 8 8 A.
299
Attraverso la crismazione, il battezzato riceve lo Spirito Santo53. Es­
sa è in qualche modo la sua Pentecoste.
«La crismazione, sottolinea san Nicola Cabasilas, è un principio
di energia e di attività»54. Per mezzo di essa, il battezzato riceve dallo
Spirito Santo l’energia necessaria a far fruttificare la grazia ricevuta nel
battesimo, la forza di sviluppare attivamente i doni spirituali che gli
sono stati dati. Mentre il battesimo conferisce all’uomo l’essere e la vi­
ta concedendogli di essere e di sussistere in Cristo55, «la crismazione
perfeziona il neofita, comunicandogli le energie e un’attività in rap­
porto con questa vita»56, gli permette di crescere fino a raggiungere la
statura di uomo adulto, perfetto, cioè deificato in Cristo. L’opera di­
vina che si manifesta in questo sacramento è, scrive Dionigi l’Areopa-
gita, «il principio di ogni perfezionamento e di ogni santificazione»57.
Il rito consiste essenzialmente nell’unzione del nuovo battezzato con
il santo crisma o myron, il quale, essendo stato consacrato, «non è più
con l’epiclesi un olio puro e semplice», ma «dono del Cristo, divenu­
to per la presenza dello Spirito Santo efficace della sua divinità»58. Il
sacerdote effettua questa unzione tracciando il segno della croce
successivamente sulla fronte del battezzato, sugli occhi, sulle narici,
sulle labbra, sulle orecchie, sul petto, sulle mani e sui piedi, pronun­
ciando a ciascuna unzione queste parole: «Il sigillo del dono dello Spi­
rito Santo». E così che ogni facoltà dell’uomo riceve la grazia che gli
consente di volgersi verso Dio e di attivarsi pienamente in un senso
conforme alla sua volontà, beneficiando dell’assistenza dello Spirito,
della sua energia vivificante, santificante, illuminante e deificante. Ov­
viamente, non sono solo gli organi unti che ricevono questo dono, ma
tutte le altre facoltà del corpo e anche e soprattutto dell’anima, per­
ché scrive san Cirillo di Gerusalemme, «da questo crisma visibile il
corpo è unto, ma l’anima è santificata»59. L’unzione sulle diverse par­
ti del corpo non ha solo un valore relativo a ciascuno: essa significa
che è l’uomo nella sua totalità che riceve la grazia divina vivificante, il­
luminante e santificante, e che è in tutto il suo essere che è messa in
53Vedi per esempio: ClRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi mistagogiche, IH, 1-3. NICOLA C a-
BASILAS, La vita in Cristo, HI, 6; 8.
54Loc. cit., E, 5.
55Ibid., 1 , 19.
%ihid., m , i .
57 La gerarchia ecclesiastica, IV, m , 12, P G 3 ,4 8 5 A. Cfr. ClRILLO DI GERUSALEMME, Cateche­
si mistagogiche, IH, 3.
58 C irillo di G erusalemme, loc. cit.
59Ibid.
300
attività. San Cirillo di Gerusalemme aggiunge altrove: «Questo dono
sacro è la salvaguardia spirituale del corpo e la salvezza dell’anima»60.
Rivestito, mediante la crismazione, della corazza e della panoplia
dello Spirito Santo61, l’uomo può camminare con sicurezza in questa
vita senza temere gli attacchi del nemico62e senza temere alcun altro
male, e può dire con l’Apostolo: «Tutto posso in Colui che mi dà
forza: il Cristo» (cfr. Fil 4,13)63. Guarito dall’astenia spirituale e da ogni
debolezza malsana generate dal peccato, vivificato nel suo desiderio,
fortificato nella sua volontà e in tutte le altre facoltà riorientate verso
Dio, l’uomo è reso pieno di zelo e di fervore64per agire, secondo la vo­
lontà di Dio, nella via della virtù, in cui la sua natura trova piena sa­
lute, realizzandosi conformemente alla sua finalità.

4. La penitenza
Con il sacramento della penitenza (exomológésis), i peccati che so­
no stati commessi dopo il battesimo sono perdonati, e il penitente si
riconcilia con la Chiesa. Il peccatore, in uno spirito di pentimento che
manifesta il rimorso per le colpe commesse e la volontà di emendarsi,
confessa i suoi peccati a Dio alla presenza di un sacerdote, e riceve da
Dio, dal quale il sacerdote invoca il perdono, l’assoluzione dai suoi
peccati65. Egli riceve dal confessore anche dei consigli spirituali ap­
propriati al suo stato, e alla fine una epitimia66, il cui scopo è quello di
aiutarlo a ritrovare la via delle virtù che aveva lasciato.
Ciò che colpisce subito, esaminando il concetto e la pratica cri­
stiana del sacramento della penitenza, è il carattere medicinale che es­
si rivestono. Non solo i Padri, ma anche tutta la tradizione della Chie­
sa e i testi rituali e liturgici, ricordano in termini medici la forma e gli
effetti di questo sacramento come anche la funzione del sacerdote che

60Ibid., 7.
61 Ibid., 4.
62Ibtd.
63 Ibid.
64 Cfr. Rm 12,11.
65 A. Almazov scrive: «In Oriente, si è sempre ritenuto che l’assoluzione fosse espressa dal­
la preghiera, e anche se si usava una formula esplicita, era però implicito che la remissione dei
peccati era attribuita a Dio stesso» (citato da J . MEYENDORFF,Initiation à la théologie byzantine,
Paris 1974, p. 260).
66 Esercizio penitenziale.

301
10 amministra. «Tu sei venuto dal medico; fa’ attenzione ad andartene
guarito», dice il confessore al penitente nella preghiera preliminare67.
Parlando del periodo bizantino, padre Jean Meyendorff scrive: «Con­
fessione e penitenza erano innanzitutto interpretate come forme di
guarigione spirituale», questo derivava logicamente dal fatto che «nel­
l’antropologia cristiana orientale, il peccato stesso è prima di tutto una
malattia»68. E P. Lain Entralgo nota nello stesso senso: «A metà del se­
colo III, il peccatore e il peccato sono considerati come se si trattas­
se di un malato e di una malattia. I testi che lo dimostrano sono nu­
merosi e impressionanti»69. Secondo la Didascalia, il vescovo (al qua­
le spettava nei primi secoli l’incarico di ascoltare le confessioni e di
dare l’assoluzione) dev’essere «come un medico che ha competenza e
compassione»70. Le Costituzioni apostoliche, che essenzialmente sono
una compilazione, fatta alla fíne del secolo IV, della Didascalia, della
Didaché e delle Diataxeis (o Tradizione apostolica), sviluppano lo
stesso concetto. Vi si trovano particolarmente questi consigli: «E ne­
cessario soccorrere i malati, coloro che sono nel pericolo e quelli che
vacillano, e per quanto possibile guarirli per mezzo della predicazio­
ne della Parola, e liberarli dalla morte. Infatti: “Non hanno bisogno
del medico i sani, ma i malati” (cfr. Mt 9,12)»71. «Che il vescovo [...]
accolga e curi coloro che si pentono dei loro peccati»72. «Che egli gua­
risca [la pecora] che è malata [...]. Che medichi quella ferita, cioè quel­
la che è smarrita, abbattuta, o schiacciata dai peccati, al punto di zop­
picare sul cammino, egli la medichi con parole d’incoraggiamento, la
conforti per i suoi errori e le renda la speranza»73. E rivolgendosi al ve­
scovo: «La Chiesa di Dio è la pace serena. Nell’assolvere i peccatori,
11 reintegri sani e irreprensibili [...]; come medico sperimentato e che
ha compassione, guarisci tutti coloro che sono oppressi dai loro pec­
cati [...]. Poiché tu sei medico (iatrós) della Chiesa del Signore, assi­
cura le cure adatte a ciascun malato, in ogni modo, cura, guarisci, e
reintegrali in buona salute nella Chiesa»74. «Come medico compas­
67 Si può trovare il testo com pleto in E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin,
t.1, Chevetogne 1937, p. 365.
68Initiation à la théologie byzantine, Paris 1974, p. 261.
69Maladie et culpabilité, Paris 1970, p. 86. Per uno studio più completo su questa questio­
ne del I e del IV secolo, vedi J. JANINI, «La penitencia medicinal desde la Didascalia apostolo-
rum a san Gregorio de Nisa», in Revista española de teología, 7,1947, p. 337-362.
70II, 20,7.
71II, 14,11.
72II, 24,2.
73II, 20, 3-4.
74II, 20,10-11.
302
sionevole, cura tutti i peccatori, sèrviti di metodi salutari per soccor­
rerli, non solo tagliando, bruciando o applicando dei caustici, ma
anche col mettere bende e fasciature, somministrando rimedi dolci e
cicatrizzanti, inumidendo con parole incoraggianti. Ma se la ferita è
profonda, trattala con impiastri affinché i gonfiori si riducano al livel­
lo della parte sana; se è infettata, allora purificala con caustici, cioè con
rimproveri; se è gonfia, riduci il gonfiore con un impiastro acido, os­
sia con la minaccia del giudizio; se la piaga s’incancrenisce, cauteriz­
zala ed estirpa l’ascesso infliggendo digiuni»75. Questi ultimi consigli
sono abbastanza vicini a quelli che san Cipriano di Cartagine dà al sa­
cerdote quando questi gU chiede di mostrarsi di fronte alle malattie
dell’anima così energico e radicale come il medico di fronte agli asces­
si del corpo: «H sacerdote del Signore deve usare rimedi curativi. È un
cattivo medico colui che tratta con dolcezza gli ascessi tumefatti e che
lascia il veleno proliferare nelle parti interne del corpo. La ferita dev’es­
sere aperta e incisa e, dopo l’asportazione delle parti incancrenite, de­
ve intervenire con una cura energica, anche se il malato protesta, gri­
da e si lamenta perché non può sopportare il dolore; in seguito, egli
ringrazierà il medico dal momento che si sentirà in buona salute»76.
Molti altri Padri ricordano il sacramento e il ruolo del confessore in
termini simili. San Giovanni Crisostomo consiglia a coloro che hanno
peccato: «Entrate nella Chiesa, fatevi penitenza: là risiede il medico
che guarisce e non il giudice che condanna; là non esiste il castigo
del peccato, ma si ottiene la remissione»77. Sant’Anastasio il Sinaita,
da parte sua, raccomanda di «trovare un uomo spirituale sperimenta­
to, capace di guarirci, purché ci confessiamo a lui»78.
Come il medico, così il confessore deve fare attenzione ad adatta­
re in ogni caso il rimedio conveniente. Abbiamo visto quanto le Co­
stituzioni apostoliche gli raccomandano: «Poiché tu sei medico della
Chiesa del Signore, assicura le cure adatte a ciascun malato»79. Ciò è
tanto più importante perché, come fa notare san Giovanni Climaco,
«talvolta, quello che è un rimedio buono per uno è veleno per l’al­
tro; e, a volte, ciò che si somministra a una stessa persona gli serve
da rimedio se questo è al momento opportuno, ma dato fuori tempo
diviene veleno»80. A tale proposito cita degli esempi: «Ho visto un me-
75n, 40,5-7. Cfr. 7-8.
76Su coloro che hanno fallito, 14.
77 Trattato sulla penitenza, IH, 4.
78 PG 89,372.
79II, 20,11.
80La Scala, XXVI, 20.
303
dico inesperto che, nelTumiliare un malato profondamente abbattu­
to, non riusciva che a gettarlo nella disperazione. E ho visto un me­
dico esperto operare un cuore orgoglioso con lo scalpello dell’umilia­
zione, e liberarlo di ogni sua infezione»81. E, dunque, necessario tener
conto «delle peculiarità individuali, sia della volontà di colui che com­
mette il peccato, sia del luogo in cui lo commette, sia dei progressi spi­
rituali di colui che lo commette e di molte altre circostanze»82. 11Con­
cilio Trullano (692) pone l’accento su questa necessità, e lo fa utiliz­
zando ugualmente nelle sue formulazioni termini che appartengono
all’ambiente della medicina, il che manifesta con evidenza che il con­
cetto del peccato come malattia e del sacerdote come medico non è
un semplice simbolo tipico di qualche Padre, ma ha trovato conferma
in tutta la Chiesa e appartiene essenzialmente al modo stesso con cui
essa concepisce la natura di queste realtà: «Occorre che colui che ha
ricevuto da Dio il potere di sciogliere e legare, consideri la natura
del peccato e la ferma risoluzione di conversione in colui che ha pec­
cato, e così dia un rimedio appropriato alla malattia: per paura che, se
in un modo o in un altro egli mancasse di misura, non pregiudichi la
salute di colui che è malato. Infatti, la malattia del peccato non è sem­
plice, ma complessa e multiforme, quindi provoca molti sviluppi del
male: attraverso di essi, il male si diffonde ampiamente e continuerà
ad estendersi fino a che non venga fermato dall’intervento di un me­
dico. Per questo, colui che professa la scienza della medicina dell’a­
nima deve osservare innanzitutto le disposizioni di colui che ha pec­
cato, e considerare se si orienta verso la guarigione o se, al contrario,
per il proprio modo di vivere, favorisce la malattia in se stesso; deve,
altresì, considerare se, nel tempo, lungo la sua vita, egli è preoccupa­
to di mostrarsi ragionevole e convertirsi: e se egli non resiste al medi­
co, e se la piaga dell’anima non aumenta per l’applicazione del rime­
dio; e così occorre che la misericordia gli sia concessa secondo il me­
rito. In realtà, Dio fa tutto, e anche colui al quale è stato affidato
l’incarico di pastore, per radunare le pecore smarrite, per curare co­
lui che è stato ferito dal serpente, per non spingerlo attraverso i pre­
cipizi della disperazione né tantomeno verso la distruzione della vita
e il disprezzo di sé allentando i freni: ma affinché lotti contro il male
unicamente per mezzo di medicamenti sia più forti e astringenti, sia
più dolci e più rassicuranti, e affinché egli lavori alla cicatrizzazione

81 Ibid., 21.
82Ibid., XV, 57.
304
della piaga, esaminando i frutti del pentimento, guidando e gover­
nando saggiamente l’uomo che è chiamato a uno splendore superio­
re. Occorre, infatti, sapere due cose: quelle che dipendono dallo stret­
to diritto e quelle che appartengono all’uso comune; ora, per coloro
che non accettano le misure estreme, occorre seguire la tradizione, co­
me ci insegna san Basilio»85. /
La confessione costituisce una terapia efficace in diversi modi e a
differenti livelli.
La confessione dei peccati, prima di tutto, è per se stessa liberato­
ria. Fintanto che la colpa non è riconosciuta e anche rivelata agli altri,
essa si radica nell’anima, vi si sviluppa e vi si diffonde per contagio,
rodendo e avvelenando la vita interiore, causando dovunque consi­
derevoli danni. Essa è per l’uomo un carico difficile da portare da
solo, tanto più che i suoi effetti si manifestano spesso attraverso tur­
bamenti che egli può mal circoscrivere ed è impotente a dominare. Es­
sa è principalmente fonte di ansia, persino d’angoscia, soprattutto in
ragione del senso di colpa che in genere l’accompagna, ma anche per­
ché suscita e mantiene l’attività dei demoni che, approfittando di que­
sto terreno favorevole, seminano il dubbio nell’anima con ogni mez­
zo. Essa allora spesso conduce il soggetto a deprezzare se stesso, ad
avere una visione pessimistica del suo essere e della sua esistenza; ge­
nera in lui uno stato di abbattimento e di scoraggiamento, e può nel­
lo stesso tempo condurlo sino alla disperazione.
Attraverso l’incontro del sacerdote in seno al sacramento, il peni­
tente trova la possibilità di rompere il suo isolamento, di uscire dalla
solitudine morbosa che offriva un terreno favorevole allo sviluppo dei
suoi mali. Parlando al sacerdote di ciò che lo turba, egli apre l’asces­
so che lo rodeva segretamente. Questo semplice fatto di andare verso
l’altro, di osare di aprirsi a lui in tutta umiltà e vincendo ogni vergogna,
di accusarsi senza pietà davanti a lui superando ogni amor proprio,
costituisce già un passo importante per uscire dall’universo morboso
della colpa.
D’altra parte, confessare i mali di cui si soffre ha un effetto libera­
torio. «Ti feci conoscere il mio peccato, non più nascosi la mia colpa
dicendo: “Riconosco, Signore, i miei errori” e tu perdonasti il mio pec­
cato», afferma il Salmista (Sai 32[31],5).
C anone 102 del Concilio Trullano, in P. P. JOANNOU, Fonti, t. I X , Disciplina generale an­
tica (II-IX s.), Roma
1962, pp. 2 3 9 -2 4 1 .

305
Confessando le sue malattie spirituali, il penitente le fa uscire da sé,
egli le oggettivizza e se ne dissocia; rompe i legami che lo univano ad
esse e lo alienavano. Così, le malattie spirituali cessano di abitare nel
suo mondo interiore e di essere parassite della sua anima per dive­
nirgli ormai estranee. La strategia dei demoni viene sconvolta da que­
sto fatto: essi non possono più agire nel segreto; il regno delle tenebre,
del quale sono i prìncipi, viene bruscamente illuminato, il loro potere
s’indebolisce perché sono svelate le loro vie. Si vedono espulsi dall’a­
nima con il peccato che li nutriva.
La portata terapeutica della confessione è tanto più grande in quan­
to, nella sua forma tradizionale - quale la Chiesa ortodossa ha sapu­
to conservarla -, la confessione non consiste nell’elencazione arida e
stereotipata di una serie di peccati più o meno artificialmente costi­
tuita. Il penitente confessa spontaneamente, in modo diretto e vivo, le
sue colpe e le sue mancanze riportando al confessore le circostanze af­
finché questi possa meglio comprenderlo e dargli poi consigli più adat­
ti alla sua situazione. Ma egli confessa altresì al sacerdote tutto ciò che
lo preoccupa, gli espone in modo libero e naturale tutti i problemi,
le difficoltà particolari che può incontrare nella sua vita quotidiana,
gli indica ciò che lo inquieta, l’angoscia, lo ossessiona, rivela le sue
preoccupazioni, le sofferenze, sceglie di esporgli al meglio i suoi stati
d’animo, gli confida le debolezze, gli apre la sua personalità, dispie­
ga davanti a lui la sua vita in tutte le mancanze e imperfezioni.
Una tale apertura è facilitata dalla certezza che il penitente ha di be­
neficiare della misericordia divina - questo gli viene ricordato dal sa­
cerdote nelle preghiere preliminari -, ma anche dall’atteggiamento
di ascolto che dev’essere manifestato visibilmente dal confessore e dal­
la compassione di cui deve dar prova. Il confessore, infatti, ha il do­
vere di mostrarsi molto attento a tutto ciò che gli viene detto e, nello
stesso tempo, non emettere nessun giudizio su colui che gli si apre.
Deve lasciargli libertà assoluta quanto al modo in cui egli si esprime e
dimostrare nei suoi riguardi grande dolcezza e grande pazienza. I san­
ti confessori, superando lo stadio della semplice «benevola neutralità»,
che ordinariamente caratterizza lo psicoterapeuta profano, dànno pro­
va, nell’ascolto dei mali che vengono loro confidati, di una profonda
compassione, condividendo realmente le difficoltà e le sofferenze di
colui che ascoltano; manifestano, altresì, invisibilmente, l’amore spiri­
tuale che essi provano per lui, come il padre davanti al figlio prodigo,
ad immagine del Cristo accanto al buon ladrone. Questo amore, lun­
gi dall’essere opprimente ed invadente, possiede la dolcezza e la di­
306
screzione della grazia consolatrice e materna del Paraclito e copre con
un balsamo riparatore il cuore ferito e oppresso dal peccato.
Questo atteggiamento del sacerdote, fatto di ascolto paziente e umi­
le, che non giudica ma comprende, che è fatto di assoluta disponibi­
lità per l’altro immediatamente ricevuto come fratello sofferente, che
è fatto anche di una vera compassione, permette di stabilire, nella
carità, una relazione più profonda e stretta; realizza subito il clima di
fiducia indispensabile all’efficacia della terapia in atto; e rende possi­
bile una comunicazione di grande qualità, che consente al penitente
di non aver alcun timore né reticenza ad aprire il suo animo il più com­
pletamente possibile e, così, ricevere nelle migliori condizioni le cure
adatte al suo stato d’animo.
Se il ruolo del confessore è essenzialmente, in un primo tempo, quel­
lo di ascoltare; può essere anche, all’occorrenza, quello d’interroga­
re, di precisare alcuni punti o chiarire alcuni dettagli se questo gli sem­
bra necessario per comprendere meglio il penitente in vista di curar­
lo meglio. H sacerdote deve, in ogni caso, farlo con tatto e discrezione,
in spirito di carità, atteggiamenti attraverso cui si manifesterà che la
sua intenzione è puramente quella di aiutare colui che è andato da lui;
eviterà di penetrare nel suo animo con forza; eviterà ogni irruzione
nella sua intimità, ogni vana curiosità, rispettando in modo assoluto la
sua libertà. Un tale intervento del sacerdote può apparire necessario
quando gli sembrerà che il penitente gli nasconde qualcosa, riferisce
in maniera incompleta qualche colpa o stato patologico, si mostra re­
ticente o esitante al riguardo. La preghiera che precede la confessio­
ne invita, peraltro, il penitente alla non omissione: «Non avere ver­
gogna, non temere e non nascondermi nulla ma, senza reticenza, dim­
mi tutto ciò che hai commesso per riceverne il perdono di Nostro
Signore Gesù Cristo»84. Tuttavia, alcuni peccati possono essere rima­
sti nell’inconscio. Il confessore ha allora il compito di percepire gli at­
teggiamenti passionali o gli stati d’animo che il penitente non vuole
o non può vedere in se stesso e, di conseguenza, non confessa. Alcu­
ne passioni infatti - l’orgoglio e la cenodossia in modo particolare -,
così come l’azione dei demoni, possono offuscare la coscienza. Il con­
fessore può allora conoscere lo stato inconfessato del penitente indi­
rettamente, attraverso alcune parole, certe intonazioni della voce, al­
cuni suoi silenzi, alcune esitazioni, ma anche attraverso alcuni atteg­
giamenti o mimiche, nel riferirsi anche alla conoscenza che egli ha del
84 E. M ercenier, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, p. 365.
307
passato, della storia, della personalità del penitente. Egli può anche
averne una conoscenza diretta leggendo nel cuore del penitente, se ha
ricevuto da Dio, come nel caso di alcuni santi confessori, il carisma
della cardiognosia. In tutti i casi, il discernimento di cui dà prova il con­
fessore, qualunque sia il suo grado e la sua finezza, appare come una
grazia divina legata al suo ministero e più o meno sviluppata secon­
do il proprio livello di progresso spirituale. Il confessore non comu­
nica sempre direttamente al penitente questa conoscenza che egli ha
di lui per queste vie, soprattutto nei casi in cui rischierebbe così di fe­
rirlo. Piuttosto, solo al momento in cui gli darà i suoi consigli, potrà
farvi allusione o almeno ne terrà conto. Così il penitente potrà con sua
grande sorpresa ricevere raccomandazioni senza alcun legame con ciò
che ha detto confessandosi, e senza legami con la condizione che egli
credeva essere la sua.
In particolare, è in questa tappa della confessione, in cui il sacer­
dote prodiga consigli spirituali a colui che ha confessato le sue colpe,
che la tradizione vede nel confessore un medico e nelle sue parole
un rimedio. In realtà, per il sacerdote si tratta, a quel punto, di con­
siderare ed esporre la terapia da praticare per venire a capo delle
malattie che gli sono state rivelate o che egli ha da se stesso percepite.
Il sacerdote non svolge la funzione di uno che dà un insegnamento
generale, ma quella di determinare, in primo luogo, ciò che è più con­
veniente alla persona che gli è accanto tenendo conto della sua per­
sonalità, del genere di vita e di attività, delle possibilità, delle difficoltà
abituali, ecc., e anche del tipo di patologia che questa persona pre­
senta. E augurabile, a questo riguardo, che il confessore conosca be­
ne il penitente e possa seguire l’evoluzione del suo stato interiore af­
finché possa correttamente giudicare la sua situazione particolare e il
progresso positivo o negativo della sua malattia. Per questa ragione, è
consigliato ai fedeli di confessarsi sempre dallo stesso sacerdote.
Tra il confessore e il penitente c’è una relazione personale che
s’instaura, non solo in quanto essa non è anonima per le ragioni che
abbiamo ora presentate, ma anche perché a questo stadio della con­
fessione si stabilisce un vero dialogo. Il penitente può reagire a quan­
to gli dice il sacerdote, interrogarlo, discutere in vista di approfondi­
re alcuni punti, nella prospettiva di una migliore comprensione della
situazione e di una migliore strategia terapeutica. In questo dialogo
che si rivela tanto più profondo ed efficace in quanto si pone nello
stesso clima di fiducia, di semplicità e di carità come quello che pre­
siedeva alla confessione delle colpe, il sacerdote non appare come un
308
maestro che dall’alto della sua cattedra offre un insegnamento dog­
matico e astratto, ma come un padre che, con lo zelo, con la sapien­
za e con l’amore che gli vengono dallo Spirito, incoraggia, esorta, con­
sola, mette in guardia con severità o con dolcezza. Con i suoi consi­
gli - che la preghiera accompagna e che per questa ragione e in ragione
anche dei carismi legati alla sua funzione dal sacramento che l’ha
istituito, recando con sé un valore non speculativo^ma pratico -, egli
prepara, a immagine di san Giovanni Battista, nell’anima del peniten­
te, il ritorno del Signore, appianando i suoi sentieri, raddrizzando quan­
to il peccato ha reso tortuoso.
Durante la confessione, il penitente dev’essere animato dal penti­
mento. Questo atteggiamento - fatto sia del dispiacere di essersi pri­
ma allontanato da Dio sia da una ferma volontà di emendarsi in fu­
turo - lo rende particolarmente accogliente dei consigli dati dal sa­
cerdote in vista della sua guarigione. Il prestigio collegato alla funzione
del confessore e, alla fine, la santità personale di questi, contribuisce
anche a questa ricettività.
Le parole pronunciate dal sacerdote non sono parole ordinarie, tan­
to più che esse sono valorizzate dal fatto che sono proferite nell’am­
bito del tempo e dello spazio ecclesiali, dal fatto che il sacerdote par­
la non a suo nome ma a nome della Chiesa e rivela la parola e la gra­
zia terapeutiche di Dio sotto l’ispirazione dello Spirito, che conferisce
a queste parole una forza e un’efficacia particolari, soprattutto se il pe­
nitente si apre totalmente a esse e manifesta una ferma volontà di gua­
rire.
Di fronte al confessore, il penitente non è più solo, sperduto, fra­
stornato dagli effetti dei peccati: i consigli del sacerdote gli restitui­
scono le norme vere e sicure che gli consentiranno di risituarsi, e di
sapere senza timore di sbagliarsi ciò che deve fare per ritrovare e con­
servare la salute che aveva perduto. Questi consigli gli permettono es­
senzialmente di ritrovare un giudizio e una vita giusti, conformi alla
volontà di Dio, gli ricordano lo scopo spirituale verso il quale deve
tendere, la norma della perfezione alla quale ogni cristiano è chiama­
to a conformarsi, ma indicano anche le vie che gli permetteranno di
giungervi. Questi consigli, essenzialmente pratici, gli diranno, per esem­
pio, come lottare contro tale tendenza morbosa di cui soffre, come far
fronte a tale impulso, come lottare contro tale passione, come giun­
gere meglio a praticare tale virtù, come aggirare tale difficoltà che ri­
trova regolarmente sul suo cammino o che può sopraggiungere in ta­
le o talaltra circostanza.
309
L’epitimia, esercizio penitenziale dato alla fine dal confessore, ha lo
stesso senso terapeutico dei suoi consigli. Paul Evdokimov scrive a
questo riguardo: essa «non è un castigo; il momento giuridico della
“soddisfazione” è completamente assente. E un rimedio, e il padre spi­
rituale cerca il rapporto organico tra il malato e il mezzo terapeutico.
Lo scopo è quello di porre il penitente nelle condizioni in cui non è
più sollecitato dal peccato. San Giovanni Crisostomo afferma: “Noi
non domandiamo se la ferita è stata fasciata spesso, ma se la cura ha
fatto bene. È lo stato del ferito che indica il momento di toglierla”.
Non si tratta dunque di fatti materiali da redimere, ma della loro fon­
te da prosciugare»85.
Al momento dell’assoluzione sono perdonate dal Cristo, con la pre­
ghiera del sacerdote, le colpe «volontarie o involontarie, coscie e in­
conscie, quelle del giorno o della notte, quelle nello spirito e nei pen­
sieri», e il penitente si riconcilia e si riunisce alla Chiesa86.
Nell’assoluzione, si manifesta e opera la grazia terapeutica del Cri­
sto che distrugge ed elimina tutte le malattie del penitente e restaura
la sua anima, la restituisce alla salvezza e alla grazia che il battesimo gli
aveva date, ma dalle quali egli si è allontanato con le sue colpe.
Il momento dell’assoluzione è necessario per una guarigione vera e
profonda: il solo confessare le colpe allevia certo il malato, ma il pec­
cato, benché sia in qualche modo esternato e oggettivizzato, conserva
ancora una certa potenza, ed è solo l’assoluzione che, distruggendo­
lo con il perdono divino, lo pone totalmente fuori dalla condizione di
nuocere. Non basta dire al medico che si è malati e di quale male si
soffre per essere, per questo, guariti dalla malattia. Le parole inco­
raggianti del medico e i suoi consigli non sono sufficienti, nemmeno
se questo costituisce un elemento importante della terapia. Ciò non
avverrà se non quando il male sarà distrutto dai medicamenti nelle sue
stesse radici: solo allora avviene la guarigione. L’assoluzione assicura
all’uomo che le sue malattie passate non esistono più, gli dà la garan­
zia del perdono divino per tutte le sue colpe. Il penitente conosce al­
lora una liberazione interiore, ritrova la pace e la gioia spirituali.
Il penitente, nella confessione, non è solo animato dal dispiacere
delle colpe commesse: vuole altresì ritrovarvi l’innocenza della sua na­
tura restaurata dal battesimo e che ha perduto a causa del peccato, e
85 L’ortodossia, Neuchàtel 1965, p. 291.
86Vedi i formulari di assoluzione in E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1,
Chevetogne 1937, pp. 360-366.
310
vuole anche camminare di nuovo in purezza nelle vie di Dio. Così il
sacramento della penitenza appare essenzialmente volto verso il fu­
turo. Esso permette all’uomo liberato dalle pastoie del peccato di non
essere più determinato dal male passato e lo rimette totalmente in pos­
sesso di se stesso. Rimette a sua disposizione tutte le forze che gli
erano state date al momento del battesimo e della cresima, lo rinno­
va in tutto l’essere, gli permette di essere nuovo, in Dio, padrone del
suo destino e di riprendere in novità di vita la via che lo conduce
verso la sanità in Cristo e all’assimilazione della pienezza della grazia
deificante. Il sacramento della penitenza è, come il battesimo ma a un
grado diverso, un rito di rinnovamento, che dà la morte ai soprassal­
ti dell’«uomo vecchio» e fa dei suoi comportamenti malaticci un pas­
sato superato, affinché riviva pienamente l’uomo nuovo del battesimo.
Dopo aver ricevuto l’assoluzione, il penitente deve baciare la cro­
ce, segno della vittoria del Cristo sul peccato, sulla malattia e sulla mor­
te, e baciare anche il Vangelo, segno della vita nuova in Cristo.
Per mezzo dell’assoluzione, il penitente è riconciliato e riunito alla
santa Chiesa di Cristo. Il peccato lo aveva separato dal Corpo di Cri­
sto, dalla grazia, dalla comunione dei santi, dalla comunità ecclesiale.
Il sacramento abolisce queste separazioni, queste rotture patologiche
della relazione con Dio e con i fratelli, e trae il penitente fuori dal suo
isolamento mortale. Questi può, allora, ritrovare la piena comunione
con il sacramento dell’altare e con il «sacramento del fratello»; riprende
così il posto che gli spetta tra i figli di Dio. Ritrovando la fonte della
grazia dalla quale si era allontanato, può proseguire nello Spirito la sua
crescita teantropica, fino alla statura di uomo adulto in Cristo, ar­
chetipo della sua natura, modello e principio della sua salute e della
sua santità.

5. L’Eucaristia
L’Eucaristia è il più grande dei sacramenti87. «Non si può dire di più
né aggiungervi nulla»88. Infatti, esso è «il mistero che ricapitola la to­
talità della elargizione divina»89; in questo sacramento riceviamo,
non già solo, come negli altri sacramenti, «i doni dello Spirito, per ab­
87 N icola C abasilas, La vita in Cristo, IV, 60.
mIbid.,-i.
® T eodoro Studita , Antirretico, IV, 9, PG 99,340.

311
bondanti che siano, ma il Benefattore stesso, il tesoro che racchiude
tutta la pienezza delle grazie»90; «si tratta di possedere il Risorto»91; «è
egli stesso che possediamo e non qualcosa di lui»92. Questo sacramento
costituisce anche il compimento di tutti gli altri sacramenti: quello ver­
so il quale tutti gli altri tendono93.
Comunicando al corpo e al sangue del Cristo, poiché è in lui che
dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità (cfr. Col 2,9),
l’uomo riceve Dio stesso nella sua anima e nel suo corpo94. L’Eucari­
stia non configura semplicemente l’uomo al Cristo come gli altri sa­
cramenti, ma in realtà lo cristifica: «Chi si ciba della mia carne e be­
ve il mio sangue rimane in me ed io in lui» (Gv 6,56). Il corpo e il san­
gue del Cristo si diffonde in tutte le nostre membra, «così diveniamo
dei cristofori»95; «in questo modo, secondo il beato Pietro (cfr. 2Pt
1,4), diventiamo partecipi della natura divina», insegna san Cirillo di
Gerusalemme96. Attraverso questo sacramento, «Dio si mescola alla
nostra natura corruttibile al fine di deificare l’umanità facendole
condividere la sua divinità», osserva san Gregorio di Nissa97, che ag­
giunge: «Come un po’ di lievito, secondo la parola dell’Apostolo (ICor
5,6), fermenta tutta la pasta, così il corpo elevato da Dio all’immor­
talità, una volta introdotto nel nostro, lo cambia e lo trasforma nella
sua stessa sostanza»98.
Questo sacramento dà all’uomo il nutrimento che corrisponde al­
la sua seconda nascita99, quella con la quale egli reintegra la sua vera
natura. E perfetto sotto tutti gli aspetti, osserva san Nicola Cabasilas,
«e non vi è più alcun bisogno dei fedeli al quale non risponda piena­
mente»100.
Così i Padri vedono in esso non solo un rimedio101, ma il rimedio
per eccellenza, capace di guarire tutti i mali legati al peccato. «Non vi
90 N icola C abasilas, La vita in Cristo, IV, 1.
91 Ibid.
92Ibid., 8.
93 Ibid., 67.
94Ibid., 26.
95 C irillo di G erusalemme, Catechesi mistagogiche, IV, 3.
96Ibid.
97 Discorso catechetico, 37.
98 Ibid.
99 GIOVANNI D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13.
100La vita in Cristo, IV, 34. Cfr. 1; 3; 7.
101 Cfr. I gnazio d ’A ntiochia , Lettera agli Efesini, XX, 2. C lemente d ’A lessandria , Pro-
treptico, X, 106,2. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, IV, 35; 55. GREGORIO NAZIANZENO, Di­
scorsi, Vili, 18. G iovanni C assiano , Conferenze, VE, 30.
312
è malattia che non ceda alla virtù di questo rimedio», afferma san Gio­
vanni Crisostomo102. «Abbiamo gustato ciò che disgrega la nostra
natura, abbiamo necessariamente bisogno di ciò che riunisce gli ele­
menti separati. Questo rimedio, penetrando in noi, scaccia, con il suo
effetto contrario, l’influsso funesto del veleno già introdotto nel no­
stro corpo. Qual è dunque questo rimedio? Nient’altro che questo cor­
po glorioso che si è mostrato più forte della morte, divenuto per noi
fonte di vita», scrive san Gregorio di Nissa103. San Nicola Cabasilas de­
finisce l’Eucaristia come l’«unico rimedio ai mali della nostra natu­
ra»104. «Dobbiamo ricorrere a questo rimedio non ima sola volta, ma
continuamente [...]; occorre che il medico ci prodighi continuamente
le sue cure per guarirci», aggiunge più avanti105. «Che le tue sante spe­
cie guariscano la mia anima e il mio corpo», chiede al Cristo il fedele
prima di comunicarsi, in una preghiera composta da san Basilio106. La
stessa richiesta è espressa nella prima preghiera dopo la comunione107.
E ancora in un’altra preghiera, il cui autore è san Giovanni Crisosto­
mo, il comunicando presenta al Cristo questo augurio: «Che la mia
anima e il mio corpo siano resi alla piena salute»108. San Giovanni di
Gaza, a proposito dei santi misteri, scrive: «I peccatori che si avvici­
nano come dei feriti che hanno bisogno di soccorso, proprio questi
il Signore guarisce»109.
Il corpo e il sangue del Cristo ricevuti dal comunicando, per la pro­
prietà che le sacre specie hanno di spandersi nel suo corpo e nella sua
anima e mescolarsi intimamente a essi110, manifestano il loro potere te­
rapeutico in tutto l’essere. Essi purificano l’anima e il corpo del co­
municando111 da ogni peccato e da ogni sozzura112, lo guariscono da
ogni malattia spirituale che ha potuto colpirlo dopo il battesimo per
sua negligenza nel comportarsi secondo i suoi doni. La penitenza e

102 Commento a san Matteo, IV, 9.


103Discorso catechetico, 37.
104La vita in Cristo, IV, 23.
105Ibid., 35.
106 Testo in E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, C hevetogne 1 937,
pp. 308-309.
107Ibid., p. 318.
108Ibid., p. 311.
109Lettere, 464.
110Cfr. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Giovanni, X LV I, 3.
111 BASILIO DI C esarea, Seconda preghiera prima della comunione, in E. MERCENIER, op. cit.,
p. 308.
112Giovanni Damasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13. N icola Cabasilas,
La vita in Cristo, IV, 5 1.
313
la lotta contro i peccati costituiscono già certamente dei rimedi, ma si
dimostrano inefficaci se non vi si aggiunge questa terapia fondamen­
tale che costituisce l’Eucaristia113. Le sante specie, nota san Nicola Ca-
basilas, hanno il potere di «riparare [in noi] l’immagine [di Dio] appena
questa sta per deformarsi»114, di «restaurare la bellezza della nostra
anima»115, di «guarire la nostra materia allorché sta per corrompersi»116
e di «raddrizzare la nostra volontà che si è piegata»117. Esse riunifica­
no l’essere umano diviso, sconquassato dal peccato, e gli restituisco­
no l’integrità. «Abbiamo assaporato ciò che disgrega la nostra natura,
abbiamo bisogno necessariamente di ciò che ne riunifichi gli elemen­
ti separati», scrive san Gregorio di Nissa ricordando questo rimedio
eucaristico118. Tali divine specie, hanno, inoltre, come affermano le pre­
ghiere che precedono e seguono la comunione, il potere di far scom­
parire completamente i falsi ragionamenti dell’uomo119, i suoi cattivi
pensieri120, nonché di ostacolare tutte le cattive abitudini121. Esse lo
proteggono contro ogni male e contro tutti gli attacchi diabolici122. Es­
se sono la salvaguardia dell’anima e del corpo123.
Questo alimento che nutre l’anima e il corpo124li sostiene125, li for­
tifica126e li rafforza127. Inoltre, pacifica le facoltà spirituali128. Mentre la
separazione da Dio aveva dato la morte all’uomo, questo sacramento
ristabilisce la comunione e gli restituisce la vita (cfr. Gv 6,57). Per l’uo­
mo rappresenta anche l’unica fonte di vita (cfr. Gv 6,52). «Spetta esclu­
sivamente al sacramento dell’altare far rivivere coloro che hanno ceduto
al peccato e sono morti per il peccato», scrive san Nicola Cabasilas129.
113 N ic o la C abasilas, loc. cit., 23.
,u Ibid„ 35.
115 Ibid., 52.
116 lbid., 35.
117 Ibid.
118Discorso catechetico, 37.
119 GIOVANNI C risostom o, Quinta preghiera prima della comunione, in E. MERCENIER, op.
cit», p. 311.
& Ibid.
121 GIOVANNI C risostom o, Terza preghiera prima della comunione, ibid.
122Ibid.
123 GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13.
124G iustino , Apologia prima, 66. Ireneo di L ione , Contro le eresie, V, 2,2-3. G iovanni C ri­
sostomo , Commento a san Giovanni, XLVI, 3.
125 GIOVANNI D amasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13.
126G iovan n i C risostom o, Quinta preghiera prima della comunione, in E. M ercenier, op.
cit., p. 311. Iren eo di L ione, Contro le eresie, V, 2 ,2-3.
127Ireneo di L ione , Contro le eresie, V, 2 ,3 .
128 GIOVANNI C risostom o, Quinta preghiera prima della comunione, in E. MERCENIER, op.
cit., p. 311.
159La vita in Cristo, IV, 12.
314
Donando all’uomo Colui che è il principio di ogni vita e la vita stessa,
vivifica il suo essere a un importante grado: attraverso questo sacra­
mento, l’uomo riceve da Dio, Cristo stesso (cfr. Gv 6,57), la stessa vita
divina. «Senza dubbio il nutrimento materiale fa vivere, spiega san
Nicola Cabasilas, ma non alle stesse condizioni del pane eucaristico: di-
fatti, non avendo la vita in se stesso, esso non ci comunica la vita da se
stesso [...], mentre il pane di vita ha la vita nel Cristo stesso, ed è per
mezzo di lui che vivono coloro che vi si comunicano». Nel primo caso,
«la natura materiale è assimilata da colui che l’assimila [...]. Nella co­
munione, avviene il contrario: è il Pane di vita che cambia, trasforma
e assimila a sé colui che lo mangia»130. La comunione permette così al­
l’uomo di vivere eternamente (cfr. Gv 6,51.58)131, rendendolo incor­
ruttibile132. È per questo che Clemente d’Alessandria lo chiama «ri­
medio (phàrmakon) d’immortalità»133, così come sant’Ignazio d’An-
tiochia134 che lo definisce anche «antidoto per non morire, bensì per
vivere in Gesù Cristo per sempre»135.

6. L’unzione dei malati


Il sacramento dell’unzione, detto anche sacramento «dell’olio san­
to», è un sacramento specificamente destinato ai malati.
E presente già nei vangeli e numerose guarigioni operate dagli Apo­
stoli sono legate ad esso: «Ungevano con olio molti malati e li guari­
vano», riferisce san Marco (Me 6,13). E il santo apostolo Giacomo
ne riferisce e ne raccomanda l’uso ecclesiale in questi termini: «C’è
qualcuno ammalato? Chiami gli anziani della comunità ed essi pre­
ghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. La
preghiera della fede lo salverà nella sua difficoltà; il Signore lo solle­
verà; e se avrà commesso dei peccati, gli saranno rimessi» (Gc 5,14-
15). La Chiesa perpetua questa pratica apostolica amministrando il sa­
cramento dell’olio santo non solo ai moribondi, ma anche a tutti i ma­
lati che lo chiedono, anche se il loro stato non presenta alcun carattere
di gravità, tanto che esso può essere amministrato un numero indefi-
1,0 Ibid., 37.
131 Cfr. G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 13.
132 Contro le eresie, V, 2,3. GREGORIO DI NlSSA, Discorso catechetico, 37.
133 Protreptico, X, 106,2.
134Lettera agli Efesini, XX, 2.
135Ibid.
315
nito di volte. Se questo sacramento si rivolge prima di tutto a coloro
che sono malati nel corpo, ha anche come scopo, ed è questo che giu­
stifica il fatto che lo presentiamo qui, quello della guarigione delle ma­
lattie spirituali. Ecco perché la Chiesa russa lo dispensa a tutti i suoi
fedeli il giovedì santo, e la Chiesa greca celebra correntemente l’uffi­
cio del sacramento nelle famiglie e lo dispensa al di fuori di ogni ca­
so di malattia fisica; molti vecchi eucologi prescrivevano, del resto,
l’unzione a tutti coloro che assistevano al rito.
Nella sua forma normale, esso è amministrato da un’assemblea di
sette sacerdoti, che sono gli anziani ipresbytéroi) della Chiesa come ri­
corda l’apostolo Giacomo. Il rito è costituito da tre grandi parti di cui
noi ricordiamo solo gli aspetti più salienti136.
La prima parte è un «ufficio di consolazione» (paràklesis) per colui
che sta per ricevere il sacramento.
La seconda parte ha per oggetto la benedizione dell’olio santo che
sarà utilizzato per le unzioni. Dopo aver pregato «perché quest’olio
sia benedetto dalla potenza, dall’azione e dalla venuta dello Spirito
Santo», i sette sacerdoti, successivamente, fanno questa preghiera: «Si­
gnore, nella tua pietà e compassione guarisci i tormenti delle nostre
anime e dei nostri corpi, [...] santifica quest’olio affinché divenga un
rimedio per coloro che ne sono unti e faccia cessare ogni sofferenza,
ogni sozzura carnale o spirituale, e ogni male».
La terza grande parte dell’ufficio è dedicata all’unzione del malato
da parte di ciascun sacerdote.
Ogni unzione è preceduta dalla lettura di un brano di un’epistola e
da un brano di Vangelo; la Chiesa ha riservato per queste quattordici
letture i passi principali delle Sacre Scritture che riguardano la malat­
tia e la guarigione, considerate sia dal punto di vista del malato che da
quello di coloro che lo circondano137.
Poi, ogni sacerdote che procede all’unzione recita una preghiera.
Le sette preghiere (diverse) che saranno così recitate, occupano in seno
all’ufficio un posto essenziale. Ricordando la misericordia e la com­

136Si troverà la descrizione dettagliata e il testo completo della liturgia in E. M ercenier, La


prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, pp. 417-446. Nel caso in cui non è pos­
sibile riunire sette sacerdoti, tre, due o anche uno solo, possono compiere il rito. D’altra parte,
per i casi di necessità esiste un ufficio abbreviato (vedi ibid., pp. 246-247).
137 Prima della prima unzione: Gc 5,10-16 e Le 10,25-37; prima della seconda: Rm 15,1-7 e
Le 19,1-10; prima della terza unzione: ICor 12,27-13,8 e Mt 10,1 e 5-8; prima della quarta: 2Cor
6,16-7,1 e Mt 8,14-23; prima della quinta: 2Cor 1,8-11 e Mt 25,1-13; prima della sesta: Gal5,22-
6,2 e Mt 15,21-28; prima della settima: lTs 5,14-23 e Mt 9,9-13.
316
passione che Dio ha sempre manifestato verso gli uomini, tali preghiere
gli chiedono la preservazione della vita del malato, il conforto nelle
sue sofferenze, la guarigione e la fortificazione del suo corpo, ma nel­
lo stesso tempo e soprattutto, il perdono dei peccati, la fortificazione
spirituale, la sua salute e santificazione, la rigenerazione di tutto l’es­
sere e il rinnovamento della sua vita in Cristo. Ogni preghiera insiste
particolarmente sull’uno o l’altro di questi aspetti, ma tutte associa­
no la consolazione dell’anima a quella del corpo, e legano la guarigio­
ne spirituale a quella fisica, sottolineando, senza sottovalutare il valo­
re di questa, l’importanza più fondamentale di quella.
Segue, allora, l’unzione che accompagna questa preghiera: «Padre
santo, medico delle anime e dei corpi, che hai inviato il tuo Figlio uni­
genito Nostro Signore Gesù Cristo per guarire ogni male e liberare
dalla morte, guarisci così il tuo servo N... dalla sua debolezza sia del
corpo che dello spirito, per la grazia del tuo Cristo, e conserva la vita
a quest’uomo [...], perché tu sei la fonte delle guarigioni, o Dio no­
stro».
Poi, i sette sacerdoti procedono insieme all’imposizione del santo
Vangelo aperto sul capo del malato recitando una preghiera peniten­
ziale con la quale essi chiedono a Dio la remissione dei peccati. Tut­
to l’ufficio è, del resto, segnato da un forte carattere penitenziale,
che si spiega innanzitutto con il fatto che il sacramento ha per scopo
non solo la guarigione delle malattie fisiche, ma anche, come abbiamo
sottolineato, la guarigione delle malattie spirituali e il perdono dei pec­
cati, conformemente alla prescrizione di san Giacomo e al duplice si­
gnificato del verbo sozein che egli usa: «La preghiera della fede gua­
rirà/salverà il malato e il Signore lo risolleverà: e se egli ha commesso
dei peccati, gli saranno perdonati».

317
Ili

LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE


E LA SALUTE IN CRISTO

1. La volontà dì guarire
Il battesimo, nota san Simeone il Nuovo Teologo, «non è sufficien­
te da solo alla nostra salvezza»1. Possiamo dire la stessa cosa degli al­
tri sacramenti e di tutti i sacramenti presi insieme. L’uomo che li ha ri­
cevuti diviene effettivamente una creatura nuova, conforme al Cristo,
a condizione però che egli si apra con tutto il suo essere alla grazia che
gli è stata data dallo Spirito, e che volga tutte le sue facoltà e l’intera
sua vita verso Dio. In altri termini, le condizioni obiettive della nostra
guarigione e della nostra deificazione, che i sacramenti costituiscono,
devono accompagnarsi alle condizioni soggettive che sono la nostra li­
bera partecipazione, la nostra collaborazione volontaria e personale. I
sacramenti ci conferiscono la vita in Cristo, ma con un certo concor­
so dell’uomo, osserva san Nicola Cabasilas2, che aggiunge anche:
«La vita in Cristo risiede in una cooperazione del divino, che dipen­
de propriamente da Dio, con l’umano, ossia con la nostra volontà, col
nostro sforzo, col nostro zelo»3.
Dio, rispettoso della libertà dell’uomo, non potrebbe, in realtà, im­
porgli la sua grazia e trasformarlo senza che egli lo voglia con tutto il
suo essere; Dio non potrebbe sostituirsi all’uomo e agire al posto suo.
«L’uomo, scrive san Macario il Grande, possiede per natura l’attività
volontaria, ed è questa che Dio esige. La Scrittura prescrive, dun­
que, che in primo luogo l’uomo rifletta e, dopo aver riflettuto, egli ami,
infine agisca volontariamente. Quanto alla mozione esercitata sull’in­
telligenza, a supporto del lavoro, in vista del compimento dell’opera,
è la grazia di Dio che l’accorda a colui che vuole e che crede. La vo­
1 Trattati etici, X, 448.
2 Cfr. La vita in Cristo, I, 66; Spiegazione della divina liturgia, 1,2.
3La vita in Cristo, 1,16.
318
lontà dell’uomo è, dunque, un ausiliario legato alla sua sostanza.
Senza questa volontà, Dio stesso non fa nulla, benché lo possa, per ri­
spetto del libero arbitrio dell’uomo. L’efficacia dell’intervento di Dio
dipende, dunque, dalla volontà dell’uomo»4. In altre parole, benché
la guarigione e la salute abbiano la loro unica fonte nel Cristo e a noi
siano concesse solo nella Chiesa e dallo Spirito Santo, questo suppo­
ne il consenso e anche la collaborazione attiva dell’uomo. Ciò esige,
come afferma san Macario il Grande, che l’uomo «ponga la propria
volontà in accordo con la grazia»5. Questo deve avvenire in una si­
nergia tra la grazia divina e lo sforzo umano6. San Macario afferma che,
se l’anima «non collabora con la grazia dello Spirito che abita in es­
sa, allora è spogliata vergognosamente e ignominiosamente della sua
dignità e privata della vita, poiché è divenuta [...] inadatta alla comu­
nione con il re celeste»7. In tutti i sacramenti, e singolarmente nel bat­
tesimo, Dio dona all’uomo la sua grazia senza alcuna restrizione. E
compito dell’uomo, però, non solo conservarla, ma anche appro­
priarsene, assimilarla e farla fruttificare in lui aprendosi ad essa, la­
sciandosi penetrare e trasformare da essa, sottomettendovisi, nel
porre tutto il suo essere e tutta la sua esistenza in accordo con essa8.
A proposito del battesimo, san Diadoco di Foticea osserva: «Noi sia­
mo rigenerati per mezzo dell’acqua [...], dopo che siamo purificati nel­
l’anima e nel corpo, almeno coloro che vanno verso Dio, con tutta la
volontà»9.
L’uomo, da una parte, deve sforzarsi di conservare la grazia ricevu­
ta. A tale riguardo così scrive san Nicola Cabasilas: «La comunicazio­
ne di questa vita dipende in origine esclusivamente dalla potenza del
Cristo; ma conservare questa vita una volta trasmessa, e mantenersi vi­
vi, richiede anche la nostra cooperazione. Occorre, qui, il concorso
umano e lo sforzo personale per mantenere intatta, e conservare la gra­
zia»10. Questo non significa che la grazia battesimale possa essere tol­
4 Omelie (Coll. II), XXXVII, 10.
5Ibid., XV, 5.
6 Su questa nozione, sul suo significato, sul posto e sull’importanza che occupa nella tradi­
zione teologica e ascetica ortodossa, vedi: V. LOSSKY, Théologie myistique de l’Église d’Orient,
Paris 1944, pp. 194-196. M. LOT-BORODINE, La déification de l’homme, Paris 1970, pp. 216-222.
H termine stesso di «sinergia» è frequentemente usato dai Padri, in particolare da san Macario
d’Egitto, da san Marco l’Eremita e da san Nicola Cabasilas.
7 Omelie (Coll. II), XV, 2.
8Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, 1,16. M acario d 'Egitto , Omelie (Coll. E), IX, 7.
9 Cento capitoli gnostici, 78.
10La vita in Cristo, VI, 1.
319
ta all’uomo: essa è inerente a colui che l’ha ricevuta qualunque cosa
egli divenga, come sottolinea in particolare san Serafino di Sarov11. Ma
l’uomo può perderla. È così che san Macario il Grande spiega: «Cosa
significa dunque questa parola: “Non spegnete lo Spirito” (lTs 5,19)?
Tale Spirito è inestinguibile e luminoso; ma sei tu che sei spento in rap­
porto allo Spirito quando la tua volontà è negligente e quando non sei
in accordo con lui»12.
D’altra parte, l’uomo deve sforzarsi di sviluppare la grazia. Ciò non
significa che la grazia sia stata data in maniera limitata, che gli sia stata
data solo parzialmente. Al momento del battesimo, l’uomo riceve la
pienezza della grazia13. Ma gli resta il compito di sviluppare se stesso
in conformità con essa, in essa e per mezzo di essa. Ecco perché san
Gregorio di Nissa fa notare che «la trasformazione della nostra vita
operata dalla rigenerazione non può essere ima trasformazione se nul­
la cambia nella nostra vita»14; arriva persino a dire che, «se la vita
che segue l’iniziazione non è diversa da quella che l’ha preceduta», se
in tutto il nostro essere e in tutta la nostra vita non ci sforziamo di
essere conformi all’immagine di Dio restaurata in noi, «l’acqua [del
battesimo], in questo caso, non è che acqua»15.
In altre parole, ciò che l’uomo è potenzialmente nella sua natura
per grazia, deve anche divenirlo personalmente e nelle azioni per la
sua volontà libera in tutto l’essere e in tutta la vita, perché, avverte san
Gregorio di Nissa: «Ciò che non siete divenuti, non lo sarete»16. Quan­
to a san Diadoco di Foticea, egli precisa che il primo dei beni concessi
dalla grazia del battesimo è quello della restaurazione immediata
dell’immagine di Dio, il secondo bene, quello della somiglianza a Dio,
«per prodursi attende il nostro concorso»17.
San Marco l’Eremita è, senza dubbio, fra i Padri quello che ha
sottolineato più precisamente e più fortemente tutto questo, in parti­
colare nel suo trattato sul battesimo18. Egli insiste sul fatto che «il san­

11Conversazione con Motovilov.


12 Omelie (Coll. E), XXVII, 9.
13 Cfr. MARCO L’EREMITA, Il battesimo, 15; 16; 17; 30; Su coloro che pensano di essere giusti­
ficati per le loro opere, 85.
14Discorso catechetico, 40.
15Ibid.
16Ibid. Sulla distinzione precedente, vedi: MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 6,
PG 90, 280CD.
17Cento capitoli gnostici, 89.
18Ricordiamo che san Marco l’Eremita, come del resto tutti i Padri, per «battesimo» inten­
dono generalmente l’insieme che costituisce sia il battesimo che la crismazione.
320
to battesimo è perfetto»19: l’uomo vi riceve la grazia perfetta dallo Spi­
rito20, quella della completa purificazione21, della totale liberazione22,
della piena santificazione23. Se dopo essere stati battezzati continuia­
mo a peccare, a vivere nelle passioni, a subire gli effetti del male, ad
essere malati spiritualmente, questo non è per nulla imputabile al
fatto che noi continuiamo a subire le conseguenze del peccato origi­
nale, poiché ne siamo stati lavati, né al fatto che ci sarebbe imposto
dal diavolo, poiché siamo stati liberati dalla sua tirannia. Questo è do­
vuto solo alla nostra negligenza, alla nostra responsabilità. La grazia
che abbiamo ricevuto è perfetta, siamo noi che ci dimostriamo im­
perfetti relativamente ad essa24. La grazia che possediamo in pienez­
za non si svela e non manifesta la sua azione se non nella misura del­
la nostra fede, della nostra speranza, e in modo generale della nostra
osservanza dei comandamenti25. Al momento del battesimo, Dio ci ha
dato la pienezza della sua grazia: questa rimane in noi, ma non s’im­
pone. Rispettoso della nostra libertà, Dio non ci forza a riceverne gli
effetti26. L’uomo è perfettamente purificato dal battesimo, ma rimane
libero di peccare e, se pecca, si sporca come prima27. Gli è, dunque,
necessario lottare per non tornare indietro e non ricadere nei peccati
e nelle passioni28. Ogni errore compiuto dopo il battesimo non è do­
vuto all’imperfezione di questo, ma alla mancanza di fede e alla ne­
gligenza nel vivere i comandamenti29. Dobbiamo accusare noi stessi
delle nostre colpe e non Adamo né Satana, perché siamo stati, per il
battesimo, completamente liberati dalla tendenza al male ereditato dal
peccato originale30e da ogni timore tirannico esercitato dal diavolo31.
Disponiamo di piena libertà, e le colpe che commettiamo dopo il bat­
tesimo sono dovute solo al cattivo uso di tale libertà32. Dopo il batte­
simo, continuiamo ad essere tentati33, non possiamo impedire ciò, per­
19II battesimo, 2.
20Ibid., 15; 16; 17; 30; Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 85.
21 Cfr. Il battesimo, 4.
22 Ibid., 8; 13; 15.
23 Cfr. ibid., 15.
24 Cfr. ibid., 16.
25 Cfr. ibid.
26Cfr. ibid., 4; 22.
27 La penitenza, 12.
28 Cfr. Il battesimo, 7.
29 Cfr. ibid, 4; 11.
30Cfr. ibid., 9; 11.
31 Cfr. ibid, 4; 13; 22.
32Cfr. ibid, 5; 6; 8; 14.
33 Cfr. ibid., 13; 22.
321
ché la tentazione viene dal diavolo: in questo non abbiamo quindi al­
cuna responsabilità34, ma spetta a noi respingere le suggestioni del ma­
le. Siamo totalmente liberi di fronte alla tentazione35, il battesimo ci ha
dato il potere di resistere vittoriosamente al tentatore36. Nulla di quan­
to non accettiamo può colpirci e rimanere in noi37. Se cediamo alle ten­
tazioni, è perché le vogliamo proprio, e questo in tutta libertà.
Il peccato torna ad agire in noi solo perché ci siamo messi ad amar­
lo38. Ciò è dovuto alla nostra negligenza39. L’attività del male che per­
siste in noi ha due cause: l’abbandono dei comandamenti e le cattive
azioni commesse volontariamente dopo il battesimo40. Evitare il male
totalmente è, dunque, possibile per la grazia del battesimo, è persino
anche acquisito, ma la conservazione della purezza che ci è stata data
richiede, in un atteggiamento di fede e di speranza, la resistenza alle
tentazioni e la pratica attiva dei comandamenti.
Parimenti, la manifestazione della grazia santificante e deificante,
che ci è stata data in pienezza ma misticamente (mystikòs) nel batte­
simo, richiede anche il nostro sforzo. Essa non si svela né si rivela ef­
fettivamente (energós), né fa sentire i suoi effetti, se non nella misura
della nostra fede41, della nostra speranza42, e della nostra pratica dei
comandamenti43. E così che se questa grazia non può crescere in noi
- perché è perfetta e non le manca nulla che potrebbe esserle ag­
giunto dai nostri sforzi -, noi possiamo crescere in essa44. Le virtù che
potremo acquisire non saranno che lo svelamento progressivo di que­
sta grazia battesimale, relativamente alla pratica dei comandamenti45.
Possiamo dire la stessa cosa per quanto concerne l’Eucaristia: ben­
ché doni al battezzato il Cristo stesso in pienezza e lo diffonda in
tutte le membra del suo corpo e in tutte le facoltà della sua anima, es­
34 Cfr. ibid., 25.
35 Cfr. ibid., 22.
36Cfr. ibid., 11.
37 Cfr. ibid., 8.
38 Cfr. ibid., 8; 12.
39Cfr. ibid., 9; 11.
40Cfr. ibid., 9.
41 Cfr. ibid, 15; 16.
42 Cfr. ibid., 15.
43 Cfr. ibid, 15; 16.
44 Cfr. ibid, 17; 30.
45Cfr. ibid, 16. Cfr. 30, ove questo concetto è riassunto. San Simeone il Nuovo Teologo, avre­
mo l'opportunità di dimostrarlo in seguito, sviluppa una concezione simile, in particolare in Trat­
tati etici, Xffl, 236-250.
322
sa non agisce automaticamente e in qualche modo magicamente. Dio,
non forza mai l’uomo, e l’azione del sacramento è relativa alle dispo­
sizioni spirituali di colui che lo riceve: il sacramento possiede di per sé
un potere, ma questo non viene esercitato se il comunicando non è di­
sposto a riceverlo come conviene. Le preghiere che precedono46la co­
munione sottolineano anche che «colui che si comunica indegnamen­
te mangia e beve la propria condanna». E le stesse preghiere, così
come quelle che seguono la comunione, invitano il cristiano ad aprir­
si con tutto il suo essere a Colui che riceve e a mostrarsi pienamente
accogliente di fronte alla sua azione terapeutica e santificante, ad
agire in modo da assimilare il dono ricevuto. Come la grazia battesi­
male, così la grazia eucaristica è data in pienezza a tutti i comunican­
di, ma si manifesta in essi diversamente, proporzionatamente alla qua­
lità della loro disposizione e alla pratica dei comandamenti47. Qò spie­
ga, come osserva san Nicola Cabasilas, «che ci sono alcuni che con­
servano i segni della malattia e le cicatrici delle vecchie ferite se non
se ne sono sufficientemente preoccupati di curarle e se la loro prepa­
razione non è stata in relazione con l’energia del rimedio»48.
Le stesse osservazioni possono applicarsi a tutti gli altri sacramen­
ti. San Massimo scrive in modo generale: «Ognuno di noi possiede l’e­
nergia manifesta dello Spirito in proporzione alla fede che è in lui. Co­
sì, ciascuno è l’amministratore della propria grazia»49. Possiamo, dun­
que, dire con san Giovanni Crisostomo: «Dopo la grazia di Dio, tutto
dipende da noi e dalla nostra applicazione»50.
Non basta che vi sia un medico onnipotente, capace di guarire
tutto, perché l’uomo sia ipso facto liberato dai suoi mali. Occorre an­
che che egli ricorra a lui. Occorre ancora, prima di questo, che egli de­
sideri di ritrovare la salute. L’uomo, per ottenere dal Cristo la guari­
gione dalle sue malattie, deve innanzitutto voler guarire; egli deve an­
che volgersi verso di lui e invocarlo con tutte le sue forze, perché,
osserva san Giovanni Crisostomo, «il Medico divino non ci guarisce
malgrado noi»51, e Teodoreto di Ciro scrive: «Il medico delle anime
non fa pressione su quelli che non vogliono approfittare delle sue
46Cfr. E. MERCENIER, La prière des Églises de rite byzantin, 1.1, Chevetogne 1937, pp. 299-320.
47 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull'economia, n, 56.
48La vita in Cristo, IV, 55.
49 Questioni a Talassio, 54, PG 90,516D.
50 Catechesi battesimale, V, 24.
51 Commento a san Matteo, XXVIII, 4.
323
cure»52. Così è indispensabile, in primo luogo, che l’uomo non rifiuti
di considerare il suo stato, di vedere le sue malattie e, se egli ne pren­
de coscienza, non rifiuti o almeno non trascuri di far appello a colui
che può porvi rimedio. «A coloro che cercano sinceramente il rime­
dio, scrive san Giovanni Cassiano, la guarigione non può mancare di
venire da parte del vero medico delle anime, a quelli soprattutto che
non chiudono gli occhi sulle loro malattie, per scoraggiamento o tra­
scuratezza ma, lungi dal nascondere le ferite o respingere insolente-
mente il trattamento [...], ricorrono con animo umile e vigilante al me­
dico celeste, per le malattie che l’ignoranza, l’errore e una cattiva ne­
cessità ha fatto loro contrarre»53.
Nessun male è incurabile per il Medico celeste; basta che l’uomo si
rivolga a lui e si rimetta a lui in tutta fiducia perché ne sia liberato. «Le
tue ferite non superano la bravura del medico. Dona solo te stesso con
fede, di’ il tuo male al medico», raccomanda san Cirillo di Gerusa­
lemme54. San Basilio scrive la stessa cosa: «Il grande Medico delle ani­
me è pronto a guarire il tuo male [...]. Se tu doni te stesso, egli non
esiterà»55. Anche san Macario ricorda questa condizione minima del­
la guarigione, che è quella di fare appello al medico: «Se [il] cieco non
avesse gridato, se l’emorroissa non si fosse avvicinata al Signore, essi
non sarebbero stati guariti»56. E sottolinea che ogni uomo, anche il più
indebolito dalla malattia, è in grado quanto meno di adempiere que­
sta condizione: «Se si è colpiti da una malattia o dalla febbre, ecco che
il corpo è steso sul letto, senza poter fare nessun lavoro di questa ter­
ra; ma nello stesso tempo, la lingua parla di questo lavoro, e lo spiri­
to non rimane in riposo: [...] egli si mette alla ricerca del medico e
invia i suoi amici a cercarlo. Allo stesso modo, dopo la trasgressione
del comandamento, l’anima è caduta nella malattia delle passioni; è ri­
masta senza alcun vigore. Ma se si avvicina al Signore, se crede di
poter ottenere l’aiuto e rinnega la sua prima e detestabile vita, anche
se l’anima giace nella malattia del peccato senza poter compiere le ope­
re della vita in verità, conserva sempre il potere di preoccuparsi della
vita, di supplicare il Signore, di cercare il vero medico»57.
51 tratta, tutto sommato, di un modo di procedere poco costoso che
52 Terapia delle malattie elleniche, V, 4.
53 Conferenze, XIX, 12.
MCatechesi battesimali, II, 6.
55 Lettere, XLVI, 6.
56 Omelie (Coll. II), XX, 8.
57 Omelie (Coll, ffl), XXVII, 2,4.
324
\

in partenza deve fare colui che desidera essere guarito58. San Gio­
vanni Crisostomo sottolinea che il semplice desiderio di guarire e il so­
lo atto della nostra volontà sono sufficienti per ottenere dal Cristo la
salvezza dell’anima: questo dovrebbe spingerci a occuparci di risanarla,
mentre siamo portati piuttosto a dare tutte le cure al corpo, le cui ma­
lattie sono pertanto meno gravi spiritualmente e la cui terapia implica
molte più preoccupazioni: «Non è sempre facile guarire i mali del cor­
po, ma si può sempre facilmente rimediare ai mali dell’anima. Per le
infermità del corpo, occorrono dei rimedi e del denaro, ma la guari­
gione dell’anima non esige né pratiche né spese. Quale fatica per chiu­
dere le doloranti piaghe della carne [...]. Per l’anima, niente di tutto
questo; basta volerlo, basta desiderarlo, e tutto rientra in ordine [...].
Il Signore ha voluto che potessimo guarire facilmente questa parte di
noi stessi, la più preziosa, la più necessaria, senza spesa, senza dolore
[...]. Quando si tratta del corpo, non si bada al risparmio: si spendo­
no soldi, si chiamano i medici, si sopportano le più crudeli sofferen­
ze, e tuttavia le infermità non hanno nulla di spiacevole. Al contra­
rio, noi disprezziamo l’anima, e questo avviene anche se non c’è bi­
sogno di denaro, anche se non dobbiamo turbare il riposo di nessuno,
anche se non vi è alcun dolore da sopportare; sarebbe invece suffi­
ciente una risoluzione, un atto di volontà per rendere all’anima tutta
la sua salute»59.
La volontà di guarire, tuttavia, deve manifestarsi non solo quando
si tratta di chiamare il medico, ma anche quando si tratta di applicare
i rimedi che egli raccomanda. «Se colui che è malato va a trovare il me­
dico, occorre che osservi le prescrizioni del medico», fa notare san Bar-
sanufìo60, che osserva anche: «Chiunque va dal medico e non si confor­
ma esattamente a quanto gli ha ordinato, non può essere liberato dal
suo male»61. San Giovanni Crisostomo insiste ugualmente sulla ne­
cessità per il malato di collaborare con il medico e di favorire l’azione
dei suoi rimedi; e, nel caso di malattie spirituali, insiste di essere con
il Cristo e di voler con tutto il proprio essere ciò che egli vuole in vi­
sta della nostra guarigione: «Distinguiamo queste tre cose quando si
tratta di guarire il corpo, o piuttosto ne distinguiamo quattro o cin­
que: il medico, la sua arte, il malato, la malattia, la virtù dei rimedi;
58Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, XVII, 25-29.
59 Omelie sulle statue, Vili, 3.
60Lettere, 59.
61 Lettere, 61.
325
dall’opposizione di queste cose risulta una specie di combattimento;
se il medico, la medicina, i rimedi hanno come ausilio la volontà del
malato, essi trionfano sulla malattia. Se, al contrario, il malato rifiuta
di farsi curare, si consegna da se stesso alla malattia; talvolta, parteg­
gia persino per essa contro il medico, i rimedi e la medicina, e allora
egli si uccide. La stessa cosa avviene nel caso presente; o piuttosto, è
qualcosa di ben più straordinario [...]. Quando il medico è Dio, per
poco che state con lui, la piaga è infallibilmente guarita»62. Dunque,
«se il nostro grande e celeste medico d ha dato i rimedi [...], dove tro­
vare la causa della nostra perdita, se non nell’infermità della nostra vo­
lontà?», si domanda san Barsanufio63.
L’uomo manifesta la sua volontà di guarire e concorre personal­
mente alla terapia divina particolarmente con cinque atteggiamenti
spirituali fondamentali che condizionano la sua vita in Cristo, gli
permettono di ricevere, di assimilare e di far fruttificare la grazia te­
rapeutica e salvifica conferita dallo Spirito nei sacramenti della Chie­
sa: questi sono la fede, il pentimento, la preghiera, la speranza, e
l’osservanza dei comandamenti.

2 . Il rimedio della fede


La fede appare come l’inizio della vita nuova che l’uomo è chiamato
a condurre in Dio. Essa è il motore potentissimo di cui l’uomo dispo­
ne per condurla64.
Abbiamo visto che la fede è un atteggiamento di cui il battezzato
deve dar prova perché egli possa conservare la grazia che ha ricevuto,
e perché questa si manifesti effettivamente in lui65.
Per colui che non è stato battezzato o, che, dopo esserlo stato, è
ricaduto nella malattia, la fede è la condizione primaria della guari­
gione. L’uomo malato non solo deve volgersi verso il Cristo, ma deve
anche avere fede in lui. Per mezzo della fede, egli lo riconosce come
il solo terapeuta capace di dare rimedi veri e propri ai suoi mali, de­
ve aver fede nella sua chiamata, e avere la certezza di ricevere dal Cri­
sto la guarigione e la salvezza.

62 Commento al Salmo 6y3.


63Lettere, 61.
64 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 30.
65 Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 15; 30.
326
Tale atteggiamento suppone in partenza uno sforzo dell’uomo de­
caduto per superare lo stato di negligenza, persino d’indifferenza, ri­
guardo alla sua condizione di decadimento e alle malattie spirituali,
come pure per vincere le resistenze che le passioni oppongono alla gra­
zia terapeutica e salvifica di Dio. Sant’Agostino ci rivela che vi sono
resistenze al Dio medico tali da impedire all’uomo di essere liberato
dai mali che lo hanno colpito prima della conversione: «La mia anima
malata che non poteva trovare la guarigione se non nella fede, si ri­
fiutava di guarire: essa resisteva alle tue mani, o mio Dio»66.
Orientando nella fede il desiderio e la volontà verso il Cristo, l’uo­
mo restituisce alla prima il suo «oggetto» naturale e alla seconda la sua
normale finalità. Nell’atto stesso della fede avviene la guarigione del­
le sue facoltà che il peccato aveva reso malate pervertendone l’uso.
La fede, tuttavia, benché implichi permanentemente il desiderio e
soprattutto la volontà67- al punto tale che la si può definire come un
«consenso volontario dell’anima»68-, è correlativamente anche co­
noscenza. Essa è, scrive san Paolo, «garanzia delle cose sperate, pro­
va per le realtà che non si vedono» (Eb 11,1). Essa è una certa cono­
scenza anticipata e indiretta delle realtà spirituali, secondo il modo che
si addice loro, prima che avvenga la conoscenza/esperienza diretta69,
che ne sarà il frutto70 quando la crescita del credente giungerà al suo
termine. E la conoscenza che l’uomo acquisisce per mezzo dell’ade­
sione volontaria dell’intelligenza e di tutte le sue facoltà alla verità ri­
velata dallo Spirito Santo agli uomini, per mezzo della parola del
Cristo, per la testimonianza degli apostoli, dei profeti, dei santi71.
Nella misura in cui la fede orienta l’uomo verso Dio e l’unisce a lui,
lo libera e lo preserva dall’attaccamento patologico a se stesso, cioè
dalla filautia72.
Ma è soprattutto nella conoscenza, che essa costituisce e che a un
tempo conferisce all’uomo, che appare la sua funzione terapeutica: co­
me l’ignoranza è per l’uomo la causa prima della sua caduta e delle sue
malattie, così la conoscenza che egli acquista nella fede è il principio
della sua guarigione. La fede lo guarisce da ciò che san Giovanni Car-
66 Confessioni, VI, 4.
67 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici. III, 83.
68T eodoreto DI CIRO, Terapie delle malattie elleniche, I, 91.
69 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelia su: «Perché abbiamo uno stesso spirito di fede», I, 4.
T eodoreto di C iro , loc. cit., 92; 94; 116.
70 Cfr. Gv 11,40. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 25.
71 Cfr. NICOLA C abasilas, La vita in Cristo, E , 79.
72 Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, I, 28.
327
pazio chiama «la malattia dell’incredulità»73. Essendosi ammalato per
aver ignorato Dio, l’uomo ritrova la salute nel riconoscerlo per mezzo
della fede. «La conoscenza di Dio basta alla salute dell’anima», inse­
gna uno dei Padri74, e san Giustino scrive nello stesso senso: «Come il
bene del corpo è la salute, così il bene dell’anima è la conoscenza di
Dio»75. Se l’uomo, dopo essere stato nell’ignoranza e nell’errore, «gui­
dato dalla fede nel Signore vede il modo di riconoscere l’unico vero
Dio, non ritrova già la guarigione e la salute?», si domanda da parte
sua san Pacomio76.
Togliendo dallo spirito dell’uomo uno dei principali veli che gli im­
pediscono di vedere77, la fede in una certa misura lo libera dall’igno­
ranza, e, in ogni caso, da ogni conoscenza erronea riguardante Dio
se essa stessa è autentica78. Con la fede, come osserva anche Teodo-
reto di Ciro, vengono eliminate tutte le false conoscenze che erano nel­
l'anima e vi costituivano un vero focolaio d’infezione per far posto al­
la conoscenza divina79. Attraverso la fede, tutte le facoltà intellettive
dell’uomo sono, dunque, purificate, sanate, e rese alla sapienza che te­
stimonia il loro funzionamento normale. Così Teodoreto di Ciro no­
ta che, per il suo insegnamento, il Signore «rese piene di sapienza le
persone che un tempo erano squilibrate e folli»80.
Conoscendo per fede Colui che è la verità (cfr. Gv 14,6), l’uomo ri­
trova la sua vera libertà (cfr. Gv 8,32). Conoscendo di nuovo Dio, egli
ritrova la vera conoscenza di sé; riconosce «di chi egli è figlio»81e «qual
è la sua natura»82. Egli si riconosce come immagine di Dio destinata
ad acquistare la sua somiglianza. Riconosce la dimensione spirituale
della quale era stato amputato il suo essere a causa del peccato, e in
essa, la sua umanità integrale.
Per la fede, percepisce il vero significato della sua esistenza. Allo­
ra è libero dalle illusioni e dai modi di procedere che l’ignoranza
della vita generava, come dal sentimento di assurdità, dall’angocia83,
73 Capitoli d'esortazione, 46.
74Apoftegmi, X, 141.
75Frammento IX, éd. Otto, p. 258.
76 Prima vita di Pacomio, 47.
77 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, XXXIII, 90s.
78 G regorio P alamas, Triadi, n, 3 ,4 2 .
79 Terapia delle malattie elleniche, I, 85-88.
80 Terapia delle malattie elleniche, IV, 3.
81 G re g o rio DI N issa, Discorso catechetico, 38.
82Ibid.
83 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento al salmo 115.
328
persino dalla disperazione di cui l’uomo, di conseguenza, poteva ri­
sentire. Egli «lascia i flutti di una vita instabile e mutevole per entrare
nella vita immutabile»84e allora trova la pace85, la stabilità, condizioni
primordiali della sua salute. Sottomesso al dubbio, l’uomo non pote­
va che rimanere sottoposto alla malattia. Colui che «è esitante nella fe­
de, il male, proprio per questo trionfa su di lui», scrive san Barsanu-
fìo86. La fede pone fine al dubbio, all’incertezza, alle esitazioni, alle ir­
resolutezze patologiche che rendono l’uomo «simile a un’onda del
mare spinta e sbattuta dal vento», «instabile in tutte le sue vie» (Gc
1,6.8). Quando essa è forte, profonda, intera, totale, compiuta, gua­
risce l’anima dalla dipsichia, malattia questa che colpisce coloro che,
essendo la loro fede imperfetta, rimangono divisi nelle loro intenzio­
ni e azioni, conservano l’anima divisa tra Dio e il mondo, a meno che
non si diano subito, completamente e con piena fiducia al Cristo87.
" G regorio di N issa, Discorso catechetico, 39.
85 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie su queste parole: «Sappiate che negli ultimi giorni...».
86Lettere, 526.
87 La dipsichia (dipsychta) non è una malattia dell’uomo decaduto in genere, ma una malat­
tia dell’uomo credente, la cui fede, lo abbiamo detto, è debole, imperfetta. In altri termini, es­
sa è la manifestazione di ciò che Isacco chiama «una fede malata» (cfr. Discorsi ascetici, 12; 26).
Per questa ragione, non l’abbiamo né esaminata né ricordata nel capitolo precedente dedicato
alla patologia dell’uomo decaduto, ma preferiamo parlarne in questo capitolo dedicato alla fe­
de, che essa riguarda specificamente. E abbastanza difficile studiare questa malattia in dettaglio,
perché i Padri la ricordano molto raramente e senza mai farne una descrizione precisa. Il ter­
mine dtpsychos si ritrova nella lettera di san Giacomo in due luoghi (1,8 e 4,8), come anche nel
Salmo 11,1. Ritroviamo i termini dipsychta, dtpsychos, dipsychein in particolare negli scritti dei
Padri apostolici: nella Didaché (IV, 4), nella Lettera di Barnaba (XIX, 5), nelle lettere di CLE­
MENTE DI ROMA {Lettera 1 ai Corinzi, XI, 2; XIII, 2; Lettera 2 ai Corinzi, XI, 2; XIX, 2), e so­
prattutto ne II Pastore di ERMA (dipsychta: Visioni, II, 2,4; DI, 7,1; 10,9; 11,2; Precetti, IX, 1;
6; 7; 9; 12; X, 1,1; 2,2; Dtpsychos: Visioni, DI, 4,3; Precetti, V, 2,1; XI, 13; XE, 4,2; Similitu­
dini, 1,1; VIE, 7,1; 2; IX, 18,3). Li troviamo talvolta anche negli scritti patristici di epoca suc­
cessiva, in G iovanni C risostomo (Commento al Salmo 11,2), in B arsanuho (Lettere, 72; 846),
in C irillo di S citopoli (Vita di Giovanni l’Esicasta, XXIII), G iovanni C limaco (La Scala,
XXVI, 26; 102), SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO (<Catechesi, XXVEI, 236; Trattati etici, X, 900).
Questa nozione la troviamo anche in forma latina in san GIOVANNI CASSIANO (Istituzioni ceno­
bitiche VII, 15, 2, «duplex cor» e «duplex animus»). A partire dalle brevi annotazioni che con­
tengono questi diversi passi, possiamo dire che la dipsichia appare ai Padri come fondamental­
mente «cattiva e insensata» (ERMA, Il Pastore, Precetti, IX, 9). Essa rende l’uomo insensato (asyne-
tos) (ibt’d., 18,9), lo fa agire male a sua insaputa (CLEMENTE DA ROMA, Lettera 2 ai Corinzi, XIX,
2), lo fa fallire nelle sue azioni (ERMA, Il Pastore, Precetti, X, 2,2), lo conduce ad abbandonare
la via della verità (ibid., Visioni, III, 7, 1); essa corrompe il suo spirito e lo rende atsenico
(ibid., 11,2); essa tiene l’uomo nella pigrizia e nella negligenza (SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO,
Trattati etici, X, 900-901); impedisce all’uomo di comunicare con Dio (ibid.), lo mantiene in uno
stato tra la vita e la morte, non gli permette di essere pienamente vivo (ERMA, Il Pastore, Simili­
tudini, VEI, 7,1); generalmente, essa è legata alla cenodossia (ibid., Precetti, XI, 13; GIOVANNI
CLIMACO, La Scala, XXVI, 26); essa è sorella della tristezza (ERMA, Il Pastore, Precetti, IX, 2,1);
impedisce all’uomo di combattere adeguatamente in vista di Dio (GIOVANNI CASSIANO, Istitu­
zioni cenobitiche, VE, 15,2); vota l’uomo alla sventura (CLEMENTE DI ROMA, Lettera 1 ai Corinzi,
XIII, 2; XXIII, 2). Alla luce di queste diverse caratteristiche, appare chiaramente che l’acco-
329
Poiché la fede insegna all’uomo la conoscenza non solo di sé ma an­
che di ogni cosa, essa diviene per lui una guida sicura88. Lo sostiene in
tutto e gli permette in ogni circostanza di orientarsi rettamente89, di
evitare ogni smarrimento, «di non essere trascinato da tutti i venti
secondo la sorte aleatoria degli uomini non consolidati nella fede90».
Essa è, dicono i Padri con insistenza, «un appiglio solido e un porto
sicuro»91. È una corazza (cfr. lTs 5,8) che protegge l’uomo e lo rende
forte. Grazie ad essa, egli può superare gli ostacoli più diffìcili, fino a
«spostare le montagne» (cfr. Mt 17,20; 21,1; lCor 13,2). A colui che
la possiede, «nulla sarà impossibile» (Mt 17,20). «Essa non permette
che la nostra anima sia oppressa da nessun male presente e allevia le
sue miserie con la speranza del futuro», osserva san Giovanni Criso­
stomo92. «Con essa, egli dice ancora, la sfortuna più grande non d farà
precipitare nella disperazione»93. Proprio come san Giovanni Criso­
stomo, san Barsanufio94, sant’Isacco il Siro95, san Pietro Damasce­
no96, sottolineano questo potere che la fede ha di suscitare la speranza.
Mentre le facoltà dell’uomo erano state divise e disperse dal pec­
cato, la fede, nell’orientarle verso il Cristo come verso un polo unico
e unendo tutto l’essere dell’uomo - e non solo il suo desiderio, la sua
volontà e la sua intelligenza - alla sua Persona, riunifica l’anima e la
ristruttura. Grazie all’«energica tensione del suo volere verso l’Uno,
tutto quanto era nell’uomo disordine si riordina»97. Tutte le facoltà ri­
trovano in Dio, al quale l’uomo si unisce per la fede, la loro normale
finalità e la loro salute, che si esercitano nell’armonia e nella pace, il­
luminandosi in conformità alla loro natura.
Mentre l’uomo a causa del peccato era morto, a causa della fede egli
rivive (cfr. Gv 3,15.36; 8,24; 11,25-26; 17,3; Rm 1,17; Eb 10,38) una
vita che non avrà fine, la vita vera che il Cristo ha restituito all’urna-
stamento della dipsichia alla schizofrenia, per seducente che sia a prima vista, non potrà mai su­
perare il quadro di una prossimità etimologica - dipsychia letteralmente significa: «anima dop­
pia», e schizofrenia: «anima divisa» o «cuore diviso» -, perché la cesura di cui si tratta nell’u­
no e nell’altro caso si situa su piani radicalmente diversi, benché si possa parlare nei due casi
di «personalità divisa».
88G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 115.
89G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 11.
90 GIOVANNI C risostomo , Omelie su queste parole: «Sappiate che negli ultimi giorni...»,
91 lhid.
92 Omelia su: «Abbiamo uno stesso spirito di fede», I, 4.
93 Commento al Salmo 115,3.
94Lettere, 231.
95 Discorsi ascetici, 22; 33; 58.
96Libro, I.
97 D ionigi l’A reopagita , La gerarchia ecclesiastica, E, m, 8, PG 3 , 404C.
330
nità e che è data dallo Spirito. L’angoscia della morte cessa allora di
stringerlo e di paralizzarlo. Cessa di essere un «morto vivente» per di­
venire vivo per l’eternità. Per la fede, l’uomo vecchio lascia il posto al­
l’uomo nuovo nato da Dio (cfr. lGv 5,1).
La fede è, per l’uomo, la condizione e la porta della salvezza98, per­
ché è per essa che egli aderisce con tutto il suo essere all’opera salvi­
fica del Cristo, si unisce alla sua persona, si apre alla sua grazia e ne
diviene collaboratore. Così è per questa fede e proporzionatamente ad
essa99 che l’uomo malato riceve dal Cristo il perdono dei peccati, la
guarigione da tutte le sue malattie e la vera salute100. A colui che ha fe­
de in lui, Cristo concede la guarigione delle malattie del corpo e del­
l’anima. «Se si ha fede in colui che è venuto a guarire nella folla ogni
malattia e ogni infermità, egli è capace di guarire non solo le malattie
fisiche, ma anche quelle dell’uomo interiore», scrive san Barsanufio101.
Si comprende, ora, perché la fede appaia come uno dei «legami del­
la salute e della salvezza», così come sottolinea Clemente d’Alessan-
dria102, mentre molti altri Padri affermano in termini inequivocabili la
sua funzione e il suo valore terapeutico. Tertulliano la considera l’an­
tidoto per eccellenza103. Sant’Agostino, confessando i peccati della sua
vita passata, riconosceva: «Potevo essere guarito solo credendo»104, e
osserva che Dio «ha preparato il rimedio della fede e lo ha prodigato
alle malattie della terra conferendogli una potente efficacia»105. Teo-
doreto di Ciro fa notare nello stesso senso che «Dio viene in aiuto a
coloro che desiderano farsi curare donando loro la fede»106. Origene
sottolinea che già i beati profeti «toccavano il Verbo attraverso la fe­
de, cosicché da lui giungeva loro una emanazione per guarirli»107. E
san Barsanufio constata che «la nostra fede perfetta si riflette nella gua­
rigione»108.
Occorre, tuttavia, notare che vi sono molti gradi di fede, e che vi è
98 Cfr. Me 5,34; 10,52; Le 7,50; 8,12; 8,48; 8,50; 17,19; 18,42; Rm 3,22; 3,25-28; 3,30; Gai
2,16; 3,24; 3,24; 3,26; Ef 2,8; lPt 1,5; 1,9.
w Cfr. Mt 8,13; 9,29; Me 11,22-24; Ai 14,9.
100Cfr. Mt 9,2; 9,22; Me 2,5; Le 5,20; 17,19; 18,42; At 3,16; 10,43; 15,9; 26,18.
101 Lettere, 526.
102 Quale ricco potrà salvarsi?, 29.
103Scorpiace, 15.
104 Confessioni, VI, 4.
105Ibid.
106 Terapia delle malattie elleniche, I, 87.
107 Contro Celso, I, 48.
108Lettere, 526.
331
grande distanza tra le sue prime manifestazioni e il suo compimento,
tra lo sforzo per credere a ciò che non si vede e il senso di totale cer­
tezza109, e ancor più tra la prima adesione alla parola di Dio in cui si
trova una conoscenza esteriore e molto parziale, e la visione di Dio che
i Padri assimilano così alla fede posseduta nella sua perfezione110. Tra
questi due estremi, vi sono tutti i gradi dell’adesione esistenziale a Dio
che si raggiunge con la pratica dei comandamenti, che dipende an-
ch’essa dalla fede, e fonda altresì l’unica vera fede111.
Colui che crede, ma rimane malato spiritualmente, è colui che non
ha che una fede nuda, cioè senza la pratica dei comandamenti. Una ta­
le fede, infatti, non è sufficiente per ricevere da Dio la guarigione, co­
me sottolinea san Macario: «Chiunque non s’avvicina al Signore e non
lo supplica con la piena certezza della fede non ottiene la guarigione.
Perché in realtà, mentre [il cieco e l’emorroissa] sono stati guariti su­
bito grazie alla loro fede, noi non siamo ancora divenuti veramente ve­
denti e non siamo ancora stati guariti dalle nostre passioni segrete? [...]
È a causa della nostra mancanza di fede, a causa dell’esitazione, per­
ché non amiamo [il Signore] con tutto il cuore e non crediamo vera­
mente in lui, che non abbiamo ancora ottenuto la guarigione spiri­
tuale e la salvezza. Crediamo dunque in lui, avviciniamoci veramente
a lui, affinché egli operi rapidamente in noi la vera guarigione»112.

3. Il rimedio del pentimento


II battesimo purifica l’uomo da tutti i suoi peccati. Dopo aver ri­
cevuto questo sacramento, in lui non rimane nulla che non sia per­
donato, purificato, guarito. Tuttavia, il battesimo toglie il peccato, ma
non la possibilità di peccare. Mette fine alla tirannia del diavolo e dei
demoni, ma non impedisce a questi di tentare l’uomo, né all’uomo di
abbandonarsi alla loro volontà. Ciò che il battesimo dà a colui che lo
riceve, è di non essere più sottomesso contro il suo volere113, di poter
resistere alle loro suggestioni e di non essere colpito da esse114. La

109 Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, 1 ,30.


110 Cfr. G re g o rio Palam as, Triadi, II, 3 ,4 0 .
III Cfr. TEOGNOSTO, Sull’azione e la contemplazione, 39. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 22.
112 Omelie (Coll. II), XX, 8.
Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, ni, 89. M arco l’E-
REMTTA, Il battesimo, 22.
114 Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 8; 10; 12; 22; 23.

332
nostra autonomia e il nostro libero arbitrio, però, non sono affatto sop­
pressi. «Dopo il battesimo, né Dio, né Satana possono fare violenza
alla volontà»115. Liberi di fare il bene conformemente alla grazia che
abbiamo ricevuto, lo siamo anche per il male116. Infatti, come spiega
san Nicola Cabasilas, «la virtù del battesimo non esercita pressioni sul­
la nostra volontà, e non la soggioga; essa non impedisce di essere
cattivi persino a coloro che sono sotto il suo influsso; anche l’occhio
sano non vi può nulla quando il soggetto vuole rimanere nelle tene­
bre»117.
Come aveva creato Adamo libero e gli aveva permesso di subire la
tentazione del serpente, così Dio lascia libero il neobattezzato e au­
torizza i demoni a tentarlo, affinché non venga salvato contro la sua
volontà, ma possa manifestare, nel resistere alle tentazioni, tutta la
realtà della sua volontà di guarire in Cristo e il grado del suo attacca­
mento a Dio118, affinché sia un libero collaboratore della sua guari­
gione, della sua salvezza, e della sua deificazione, e si appropri per­
sonalmente e volontariamente i doni ricevuti.
Se l’uomo si sforzasse con tutte le sue forze di conservare e assi­
milare la grazia conferita nei sacramenti senza mai allontanarsi da que­
sta via, rimarrebbe nello stato di salute e di purezza che il battesimo
ha ridato alla sua natura119.1 Padri fanno notare che non è impossi­
bile a priori per l’uomo condurre una vita immune da peccato e fe­
dele a tutti i comandamenti del Cristo120, ma che di fatto ben pochi
battezzati sono stati realmente coscienti di tutta la grazia che hanno
ricevuto. San Simeone a proposito del battesimo scrive: «Non tutti ab­
biamo riconosciuto la grazia, l’illuminazione, la partecipazione, persi­
no il semplice fatto di una simile nascita! No, ve ne sarà uno su mille
oppure su diecimila che lo abbia riconosciuto nella contemplazione
misteriosa, mentre gli altri, tutti, sono dei bambini nati morti che igno­
rano colui che li ha messi al mondo»121. E san Nicola Cabasilas osser­
va ugualmente a proposito della crismazione: «Ciò che la crismazione
procura tutti i giorni ai cristiani e in ogni tempo, sono i doni, così uti­
115Ibid., 4.
116 Cfr. ibid., 6; 14. DIADOCO DI FOHCEA, Cento capitoli gnostici, 78. DOROTEO DI GAZA, Istru-
zioni spirituali, I, 5. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 89.
117La vita in Cristo, II, 60.
118Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 6; 13.
119Cfr. ibid.
120Cfr. ibid.\Sulla penitenza, X. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, X, 211-234. NI­
COLA C abasilas , La vita in Cristo, VI, 4-5.
121Inni, L, 157-163.
333
li alle anime, della pietà, della preghiera, della carità, della purezza, e
altri doni, benché questo sfugga a molti fedeli, benché essi ignorino
l’efficacia di questo sacramento, benché, secondo l’espressione degli
Atti (19,2), essi non dubitino neanche che esista imo Spirito Santo,
non essendosi resi conto della ricezione dei doni»122.
Così, se gli effetti dei sacramenti non si fanno sentire in coloro
che li hanno ricevuti, se questi non hanno trovato in loro la salute che
i sacramenti concedono ma rimangono colpiti da malattie diverse, ciò
avviene perché essi non hanno avuto a riguardo le disposizioni spiri­
tuali necessarie ad assimilare la grazia che questi trasmettono, perché
non si sono preparati sufficientemente a riceverla o non hanno mo­
strato lo zelo necessario per conservarla, non si sono conservati nello
stato di purezza e di salute in cui erano stati posti, hanno ceduto vo­
lontariamente alle suggestioni diaboliche e sono, con piacere, ritorna­
ti al peccato123. Tutto questo è accaduto perché si sono mostrati in tut­
to e per tutto negligenti nella pratica dei comandamenti124, l’unica che
permette alla grazia ricevuta misticamente col battesimo di manife­
stare i suoi effetti. È questo un tema costante dell’insegnamento di san
Marco l’Eremita, che scrive in particolare: «La purificazione operata
dal battesimo, realizzata misticamente, si rivela efficace per mezzo del­
la pratica dei comandamenti [...]. Noi siamo dominati dal peccato a
causa della nostra negligenza verso i comandamenti di colui che ci
ha purificati»125; coloro che sono sottomessi alle passioni «sono stati
liberati dal Cristo, ma essi stessi si sono asserviti ai vizi nel trascurare
di compiere tutti i comandamenti, e così si sono resi di nuovo dipen­
denti da essi»126.
Affinché l’uomo non ignori per sempre la grazia del battesimo e
non perda per sempre la purezza, la salute e tutti i doni ricevuti in que­
sto sacramento, ma al contrario possa ritrovarla, Dio ha offerto al pec­
catore il rimedio della penitenza (metànoia). Come spiega san Gio­
vanni Crisostomo: «Vi è un ritorno se lo vogliamo, ed è possibile tor­
nare alla bellezza e allo splendore del tempo passato, se solo diamo il
nostro consenso [...]. L’anima, una volta sporcata e caduta nella bas­
sezza e nella vergogna in seguito ai suoi numerosi peccati, può ben
122La vita in Cristo, IH, 10.
123 Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, passim. N icola C abasilas, La vita in Cristo, 1,34;
n, 103-104; m , 14.
124 Cfr. G iovanni C risostomo , Catechesi battesimali, IV, 23; V, 23; 26.
125II battesimo, 4.
126Ibid., 5. Cfr. 9.
334
presto tornare alla sua bellezza originaria se mostra un serio e since­
ro pentimento»127. San Simeone il Nuovo Teologo scrive in proposito:
«Colui che dopo il battesimo si è sporcato con azioni sconvenienti e
iniquità [...] ha bisogno, per pentirsi, di penitenza in vista di ritrova­
re da sé questa stessa dignità divina che ha perduto con la sua vita di
peccato»128. Lo stesso santo dice anche che Dio ha fatto dono agli uo­
mini del rimedio (phàrmakorì) del pentimento, «affinché quelli che per
pigrizia o negligenza decadono dailla vita eterna ritornino di nuovo ad
essa attraverso la penitenza con ima gloria più brillante e più manife­
sta»129. San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo offrono lo stesso inse­
gnamento: «Nel seno di Dio, cioè nel bagno sacro del battesimo, noi
riceviamo il dono totalmente perfetto, quello della grazia divina. E
se in seguito, per il cattivo uso delle realtà temporali, per la preoccu­
pazione delle cose dell’esistenza e per le nebbie delle passioni, rico­
priamo questa grazia come non occorrerebbe, ci è possibile qui anco­
ra, attraverso il pentimento e il compimento dei comandamenti del­
l’opera divina, ritrovare subito, acquisire di nuovo questa gioiosa luce
soprannaturale e vederne più chiara la rivelazione»130.
San Giovanni Climaco può così scrivere che «la penitenza è una re­
staurazione del battesimo»131e molti Padri arrivano a considerare que­
sto atteggiamento spirituale come «un secondo battesimo»132. «La pe­
nitenza, osserva sant’Isacco il Siro, è stata data agli uomini dopo il bat­
tesimo. La penitenza è, infatti, una seconda nascita, che viene da Dio.
Ciò che abbiamo ricevuto in pegno nel battesimo, lo riceviamo come
un dono nella penitenza»133. Ciò non significa che la penitenza si
possa sostituire al battesimo o possa apportare qualche dono che que­
sto non conferirebbe, in qualche modo completandolo: il battesimo,
lo abbiamo sottolineato, dà all’uomo tutto ciò che gli è necessario per
essere guarito e salvato, e il pentimento, per se stesso, senza il battesi­
mo, non potrebbe né guarirlo né salvarlo134. Il ruolo della penitenza
127 Catechesi battesimali, V, 24. Cfr. VI, 23.
128 Catechesi, XXX, 129s.
129 Trattati etici, II, 7,305s. Cfr. ibid., XDI, 222s. Vedi anche MARCO L’EREMITA, Il battesimo, 9.
130 Centuria, 6.
m La Scala, V, 2.
132Vedi per esempio: GREGORIO PALAMAS, Triadi, E, 2,17. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi,
XXXIX, 17; XL, 31. GIOVANNI C limaco , La Scala, VII, 8. Questo tema è particolarmente svi­
luppato da SlMEONE IL N uovo T eologo per esempio in: Catechesi, XXXII, 59s; 73 s; Capitoli
teologici, gnostici e pratici, 1,36; Inni, LV, 33. Vedi anche NlCETA STETATOS, Vita di Simeone, éd.
Hausherr, p. 125.
133Discorsi ascetici, 72.
134Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, Catechesi, XXIII, 82s.
335
dopo il battesimo è quello di permettere al cristiano di allontanarsi dal
peccato e dalle passioni nelle quali egli è ricaduto, di esserne purifi­
cato e di nuovo guarito, di reintegrare così lo stato di grazia dato nel
sacramento, di far rivivere in lui questa grazia, di permettere di nuo­
vo in lui la sua fruttificazione. Nel pentimento, l’uomo non ritrova un
altro battesimo e neanche il battesimo che ha ricevuto, perché in realtà
non lo ha mai perso, ma ritrova i frutti di ciò che egli aveva abban­
donato in seguito alla sua indolenza, negligenza, e perché ritornato
al peccato e alle passioni.
La penitenza, beninteso, non riguarda solo il battezzato che ha pec­
cato. Essa è indispensabile a ogni uomo, in qualunque condizione si
trovi, all’uomo che vuole allontanarsi dal peccato per volgersi verso
Dio. Essa riguarda, dunque, tanto colui che non è stato ancora bat­
tezzato e che Dio chiama alla salvezza quanto colui che, già avanzato
sulla via della salvezza, non ha tuttavia ancora raggiunto la perfezio­
ne. Praticamente, dunque, tutti gli uomini, e sempre, hanno bisogno
della penitenza135. È questa una condizione essenziale per la guari­
gione dell’uomo decaduto; essa è uno dei principali fondamenti per il
suo ritorno alla salute e alla salvezza. Ecco perché la predicazione
del Vangelo, l’annuncio della Buona Novella della salvezza, è iniziata
con la predicazione del pentimento. Questa inaugura e caratterizza
l’insegnamento di san Giovanni Battista (cfr. Mt 3,8; Me 1,4-5; Le3,3.8).
E ugualmente attraverso di essa che, secondo gli evangelisti san Mat­
teo e san Marco, inizia l’insegnamento pubblico del Cristo: «Gesù ini­
ziò a predicare e a dire: “Convertitevi (metanoìete), poiché è vicino il
Regno dei cieli”» (Mt 4,17; cfr. Me 1,15). È così che, secondo il van­
gelo di san Luca (cfr. 24,47), nel ricordare il pentimento, il Cristo rias­
sume e chiude la sua missione in questo mondo prima della sua Ascen­
sione. Nelle Sacre Scritture noi vediamo il Precursore, il Cristo e gli
Apostoli predicare costantemente il pentimento e presentarlo come
una pratica essenziale per la salvezza (cfr. Mt 3,2.11; 4,17; Me 1,4.15;
6,12; Le3,3.8; 5,32; 13,3.5; 15,7.10; 24,47; At2,38; 3,19; 5,31; 11,18;
13,24; 17,30; 19,4; 20,21; 26,20; Rm 2,4-5; 2Cor 7,10; 2Tm 2,25; Eb
6,1; 2Pt 3,9). San Simeone il Nuovo Teologo vede nel pentimento il
primo comandamento136. Fare penitenza è, secondo molti Padri, l’at­
tività spirituale che deve primeggiare stalle altre, quella alla quale l’uo­
mo deve innanzitutto, e quasi esclusivamente, consacrarsi, quella in
135 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 55.
136 Catechesi, XIV, 44-55.

336
cui può riassumersi tutto ciò che, da parte sua, egli deve compiere per
essere guarito e salvato137. San Talassio scrive a tale riguardo: «H Cri­
sto è il Salvatore del mondo intero, e per la salvezza degli uomini ha
accordato loro il pentimento»138. E san Marco l’Eremita inizia così il
suo trattato sulla penitenza: «Nostro Signore Gesù Cristo [...], per la
salvezza di tutti adottò disposizioni conformi a quanto sapeva degno
di Dio, fondò la legge della libertà in diverse prescrizioni e fissò un
unico fine adatto a tutti quando egli disse: “Convertitevi”, affinché po­
tessimo comprendere con questo che tutta la diversità dei comanda-
menti cessa per ridursi a un solo comandamento: quello della peni­
tenza»139.
La penitenza è un atteggiamento interiore attraverso cui l’uomo
riconosce le sue colpe, o più in generale, il suo stato di peccato, se
ne allontana, ne chiede perdono a Dio e, nell’invocare il suo aiuto, ma­
nifesta la sua volontà di non peccare più in futuro, di non rimanere se­
parato da Dio, ma di ritornare a lui cambiando vita. I Padri vedono
nella penitenza un processo di conversione che guarda meno al pec­
cato stesso e più al ritorno a Dio. Ciò che conta non è il passato, ma il
futuro, non è la malattia, ma la salute, non è la separazione da Dio, ma
la ri-unione a lui. Questa positività della penitenza si nota bene, per
esempio, nella definizione che ne dà san Giovanni Cassiano: «Essa
consiste d’ora in avanti nel non commettere i peccati di cui siamo pen­
titi e di cui la nostra coscienza prova dispiacere»140; si trova anche nel­
la risposta che Abba Poemen dà a un monaco che gli chiede che co-
s’è «il pentimento della colpa»: «Non commetterlo più in futuro»141.
Lo scopo fondamentale della penitenza è che vi sia un cambiamento,
una conversione (come indica l’etimologia stessa del termine metà-
noia). Cessando di peccare, rinunciando alle passioni per vivere se­
condo Dio nella virtù, l’uomo manifesta il vero significato della peni­
tenza, tanto che san Giovanni Climaco può così definirla: «Riconci­
liazione con il Signore per mezzo della pratica delle buone opere
contrarie ai peccati nei quali si è caduti»142.

137Vedi per esempio: Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 161. ISACCO IL SlRO, Discorsi asce­
tici, 34. G iovanni C limaco , La Scala, VE, 79.
138 Centurie, II, 76.
139Sulla penitenza, I.
140Conferenze, XX, 5.
141Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 122. Ripresa da BARSANUFIO, Lettere, 122.
142La Scala, V, 2.
337
Per l’uomo la penitenza inizia prima di tutto col riconoscere i pro­
pri peccati. È questa una condizione indispensabile per superarli, per
esserne guarito, per essere salvato. Sant’Efrem da questo punto di vi­
sta scrive che «l’inizio della salvezza è conoscere se stesso»143. Una
tale conoscenza si ottiene, in primo luogo, attraverso la pratica meto­
dica dell’esame di coscienza. Abba Nisteros insegna che l’uomo «ogni
sera e ogni mattina deve ripetersi: “Cosa abbiamo fatto di quanto Dio
vuole, e cosa non abbiamo fatto di ciò che Dio non vuole?”, e agire
così per tutta la sua vita»144. «Così dev’essere la penitenza», conclude
un altro Anziano dopo aver dato lo stesso insegnamento e dando co­
me riferimento la pratica di Abba Arsenio145. San Doroteo di Gaza, nel
ricordare queste raccomandazioni dei Padri del deserto, a sua volta in­
vita «a esaminarci tutte le sei ore per conoscere come le abbiamo
trascorse e in cosa abbiamo peccato»146. San Giovanni Climaco pro­
pone di fare il bilancio di tutte le ore della giornata per non dimenti­
care nulla147. Infatti, come vedremo, questo esame dev’essere perma­
nente, accompagnare ogni atto e ogni pensiero, e divenire, per chi mi­
ra alla guarigione e alla salvezza, una preoccupazione continua. «La
penitenza, scrive san Giovanni Climaco, è un giudizio continuo che si
pronuncia contro se stessi; è la condizione di un’anima preoccupata
della cura di sé e del tutto libera da ogni altra cura»148. Questa presa
di coscienza del peccato costituisce un momento fondamentale della
penitenza, una condizione indispensabile del progresso spirituale e
una tappa essenziale del processo di guarigione. Essa permette, in­
fatti, all’uomo di non essere più sottomesso ciecamente al suo pecca­
to, di prendere le distanze di fronte ad esso, di dissociarsene, di non
considerare più la realtà dal punto di vista del peccato e del proprio
«io» decaduto, di uscire dal suo egocentrismo patologico. La sempli­
ce presa di coscienza del peccato come tale è già catartica e liberatri­
ce. «Beato te, scrive san Barsanufìo a un fratello, se ti rendi conto per­
fettamente delle tue colpe, perché chiunque se ne rende conto le guar­
da con grande orrore e se ne libera»149.
Il peccato, nella penitenza, non costituisce l’oggetto di un astratto

145 Éd. Assemani, 1.1, p. 254.


144Apoftegmi, serie alfabetica, Nisteros, 6.
145Apoftegmi, N 264. Cfr. BARSANUFÌO, Lettere, 395.
146Istruzioni spirituali, XI, 117.
147La Scala, IV, 126.
148Ibid., V, 2.
149Lettere, 498.
338
riconoscimento. La penitenza implica, infatti, che l’uomo senta dolo­
rosamente lo stato di peccato nel quale si trova. E in questo senso che
san Giovanni Climaco dice che esso è «una ferita dell’anima avverti­
ta fortemente»150. In un tale atteggiamento, come afferma il salmista,
10 spirito dev’essere contrito, affranto e umiliato (cfr. Sai 51[50],19).
Questa è la contrizione del cuore senza la quale, insegna san Barsa-
nufio, «nessuno può essere guarito dalle passioni»151. Tale dolore, tut­
tavia, non ha nessun rapporto con quello che è prodotto dal rimor­
so, stato patologico in cui il peccatore rimane rinchiuso nel suo pec­
cato, con gli occhi fìssi su se stesso, ed è passivo di fronte ad esso. Nel
rimorso, l’uomo perpetua il peccato sotto un altro aspetto, si rende
malato in un altro modo. Rimane incentrato sulla colpa commessa e
sul suo stato, non arriva a distaccarsene. Nel pentimento, al contrario,
11peccatore ha di mira Dio. Non è a causa del peccato stesso che egli
sente il dolore, non è per il suo «io» ferito che egli si mostra triste: se
soffre, è perché a causa della sua colpa si è separato da Dio, perché il
suo stato di peccato lo tiene lontano da lui. La penitenza esclude co­
sì ogni sentimento patologico di colpevolezza che angoscerebbe o pa­
ralizzerebbe colui che lo prova.
Nello stesso tempo in cui riconosce il suo peccato, l’uomo, nella pe­
nitenza, ne chiede perdono a Dio e manifesta la sua volontà di unirsi
di nuovo a lui152. Lungi dal limitarsi ad essere la constatazione di un
fallimento e di rimanere fisso su se stesso, la penitenza si manifesta al­
lora come un atteggiamento di superamento del peccato. Essa appare
così come uno dei motori essenziali del progresso spirituale e del cam­
mino dell’uomo verso la salute. Per essa l’uomo si allontana dal suo
passato, quello dell’uomo vecchio, per tendere verso il futuro, quello
dell’uomo nuovo che egli è chiamato a divenire. Per la penitenza, egli
non cessa di trascendere le sue imperfezioni, e di superare se stesso in
vista di Dio. «Dimenticando il passato, mi protendo verso l’avvenire»,
confida san Paolo (Fi73,13). Non è rimanendo fìsso su ciò che egli ha
fatto o è stato secondo la condizione dell’uomo decaduto, ma nel ten­
dere verso ciò che dev’essere secondo Dio, che l’uomo può ottenere
la guarigione e la salvezza.
Poiché l’uomo, per mezzo della penitenza, si vede sempre in ritar­
150La Scala, V, 2.
151Lettere, 256.
152Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XI, 117. GIOVANNI CUMACO, La Scala, V, 3.
339
do, allora egli progredisce, constata san Barsanufio153. Da un punto di
vista pratico, questo progresso si constata per la diminuzione del nu­
mero dei peccati che l’uomo compiva, e per l’indebolimento e la ri­
duzione delle sue passioni. Clemente d’Alessandria osserva, ripren­
dendo le parole di un Anziano: «Il pentimento testimonia una grande
sagacia: quando infatti ci si pente di quanto si è commesso, non lo si
fa né lo si dice più, e nel mortificare l’anima a proposito delle sue col­
pe, si compie il bene»154. Spesso il progresso va lentamente, ma si mi­
sura con il tempo, se si persevera con pazienza nell’atteggiamento pe­
nitenziale. San Doroteo di Gaza constata che «se ci si esamina ogni
giorno», come egli raccomanda, «applicandosi a pentirsi delle proprie
colpe e correggendosi, si inizia a diminuire la frequenza del peccato:
per esempio, otto volte invece di nove. In questo modo, progredendo
a poco a poco con l’aiuto di Dio, si impedirà alle passioni di fortifi­
carsi in sé»155. Esaminandosi in ogni istante, pentendosi sistematica-
mente dei propri peccati e opponendo a ciascuno dei propri pensieri
passionali un atteggiamento di penitenza, l’uomo può giungere a
vincere progressivamente, con la grazia di Dio, tutte le passioni che lo
abitano, e a guarire così da tutte le sue malattie spirituali.
Va sottolineato che si deve portare il pentimento non solo sulle azio­
ni o sui pensieri peccaminosi particolari. L’uomo deve far penitenza
per il suo stato di peccato in generale. Il cristiano, dicono i Padri,
deve conservare, in permanenza, una vera memoria delle proprie
colpe156. Non si tratta di ricordarsi di tutti i peccati che si è potuto com­
mettere in tutti i dettagli delle loro circostanze - ciò rischerebbe di ri­
tuffare il pensiero negli stessi peccati -, ma di avere coscienza che si
è peccato e che si può peccare di nuovo nella stessa maniera o in un’al­
tra. Si tratta, in altre parole, di riconoscere il proprio stato di debo­
lezza, d’insufficienza e di allontanamento da Dio. Avere coscienza de­
gli errori passati ha come fine il diffidarne e l’evitarli nel presente e nel
futuro dissociandosi dalle passioni da cui essi procedono e invocan­
do, per ottenere questo, la grazia di Dio. Sant’Isacco il Siro, in que­
st’ottica, definisce la penitenza come «una continua supplica, una sup­
plica di ogni momento [...] per chiedere [a Dio] l’assoluzione del pas­
sato», ma altresì «l’afflizione nella quale noi guardiamo le cose del
153 Lettere, 410.
154Stromata, II, 12.
155Istruzioni spirituali, XI, 120.
156Vedi per esempio: BARSANUFIO, Lettere, 428. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla peni­
tenza, VII, 4.
340
futuro»157. San Giovanni Crisostomo afferma la stessa cosa quando
scrive: «Occorre che teniamo sempre presente il ricordo dei nostri pec­
cati, anche dopo esserne purificati [...]. Il ricordo del passato è la
salvaguardia del futuro»158.
Occorre, in breve, far penitenza anche se non si ha in vista qualche
peccato particolare. I Padri fanno, peraltro, notare che l’uomo s’illu­
derebbe nel credersi senza peccato159. Il libro dei Proverbi sottolinea
che persino «il giusto pecca sette volte al giorno» (cfr. Pro 24,16). Cre­
dere che si è senza peccato dimostra solo l’ignoranza dello stato in cui
si è. Ecco perché i Padri raccomandano di far penitenza dei peccati di
cui si è consapevoli, ma anche di quelli di cui si è inconsapevoli160. Co­
me indica lo stesso san Giovanni, «se diciamo di non avere peccato,
inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (lGv 1,8). Del resto, il
peccato non consiste solo nel compiere il male, ma anche nell’omet-
tere di fare il bene (cfr. Gc 4,17)161. E peccato, nel vero senso del ter­
mine, ogni azione od ogni pensiero per i quali l’uomo, volontariamente,
si allontana dalla volontà di Dio. Ma è peccato anche ogni negligen­
za nel compiere questa. Ora, fa notare san Marco l’Eremita, «nessuno
può essere riconosciuto innocente nel tempo, non avendo mai di­
menticato i precetti» del Signore162. Occorre aggiungere a questo che
nell’uomo quanto lo tiene lontano da Dio costituisce uno stato di pec­
cato. L’uomo può, dunque, considerarsi come in uno stato di peccato
fintanto che non è unito a Dio, fintanto che non ha realizzato una pie­
na conformità al Cristo. La penitenza è, dunque, «necessaria a tutti»163,
ed è una penitenza di tutti gli istanti che raccomandano i Padri. «Oc­
corre sapere che, durante le ventiquattro ore del giorno e della not­
te, abbiamo bisogno di penitenza», scrive sant’Isacco il Siro164. L’uo­
mo in ogni pensiero e in ogni azione deve constatare la propria in­
sufficienza, deve considerare che egli è al di sotto di quanto dovrebbe
essere secondo Dio, e di ciò che sarebbe se avesse realizzato, in una
157Discorsi ascetici, 50.
158 Omelie sulla penitenza, VII, 4.
159Vedi per esempio: MARCO L’EREMITA, Sulla penitenza, XII.
160Vedi per esempio: BARSANUFIO, Lettere, 394. La preghiera che precede immediatamente
la comunione eucaristica chiede a Dio il perdono dei peccati commessi «consciamente o in­
consciamente».
161 Cfr. M assimo il C onfessore , Discorsi ascetici, 30.
162Sulla penitenza, XII.
163Ibid.
164Discorsi ascetici, 50. Cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XXV, 58. «Io, confida
abba Sisoe, dormo nel ricordo del mio peccato e nel ricordo del mio peccato mi risveglio» (Apof-
tegmi, serie alfabetica, Sisoe, 36).
341
unione totale a Dio, lo stato di perfezione al quale è chiamato per
natura. Per questo san Barsanufio consiglia: «In ogni cosa condanna
te stesso sempre come peccatore e trasgressore»165, e ancora: «Dob­
biamo sempre essere persuasi che noi pecchiamo in tutto, in parole,
in opere e nei pensieri»166.
Dal pentimento continuo nascono il lutto (pénthos) e la compun­
zione (katànyxis), i quali fanno nascere le lacrime (dakrua)167. Questi
tre stati, che analizzeremo ulteriormente, costituiscono il compimen­
to della penitenza168; l’ultimo è un dono dello Spirito che ottengono
solo pochi uomini, ma ai quali gli insegnamenti pratici sulla peniten­
za accordano un’importanza fondamentale.
La penitenza è considerata dai Padri come un rimedio di prim’or-
dine. Molto spesso essi ricordano in termini medici questo atteggia­
mento spirituale169. Anche san Simeone il Nuovo Teologo parla del «ri­
medio iphàrmakon) salutare della penitenza», concesso da Dio agli uo­
mini170. Questo modo di considerare la penitenza da un punto di vista
medico è costante in san Giovanni Crisostomo, il quale per esempio171
scrive: «La penitenza è la guarigione del peccato»172; «il peccato è la
piaga, la penitenza è il rimedio»173; «ciò che la piaga e il rimedio so­
no per il corpo, il peccato e la penitenza lo sono per l’anima»174; «usia­
mo il rimedio che salva, la penitenza, o piuttosto, riceviamo dalla
mano stessa di Dio questa penitenza che deve guarirci»175; «riceviamo,
fratelli miei, la penitenza, il rimedio che ci salverà, come il rimedio che
distruggerà i nostri peccati»176; «siete tutti peccatori, non disperatevi:
non mi stanco affatto di offrirvi questo rimedio per lenire i vostri
mali»177; «per sostenere il mio discorso, vi mostro non un uomo solo,
165Lettere, 214.
Ibid., 442.
167Vedi per esempio: SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, IV, 494s; XXV, 58. B arsa-
NUFIO, Lettere, 242; 428.
m Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 23.
169Oltre ai riferimenti dati prima, vedi GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, XIX, 12 (citato
infra)-, XX, 8.
170 Trattati etici, n, 7 ,305s.
171 Oltre ai riferimenti dati infra, vedi: Omelie sulla penitenza, V, 2; VII, 1; 2; Vili, 1; 4; 9;
Trattato sulla compunzione, II, 1; Omelie sulle statue, V, 4; Omelie sui demoni, II, 5.
172 Omelie sulla penitenza, VII, 1.
173Ibid., 2.
m Ibid.
175Ibid., 3.
176Ibid.
177Ibid., VHI, 1.
342
non due, non tre, ma migliaia di uomini coperti di piaghe e ulcere,
macchiati da mille crimini, e che sono stati guariti dalla penitenza, in
modo che non è rimasta né cicatrice, né traccia dei loro vecchi ma­
li»178; «anche quando si sarà ricoperti dalle piaghe del peccato, se si
farà penitenza [...], Dio le farà scomparire in modo che non compa­
rirà né cicatrice, né traccia, né indizio»179; «se Dio vede i peccatori di­
sposti a fare penitenza, quand’anche fossero carichi di crimini, rico­
perti da ulcere, egli li tratta e li guarisce senza che rimanga alcuna ci­
catrice, traccia, segno dei loro peccati»180; «siate convinti di tutta
l’efficacia del rimedio della penitenza»181.
La penitenza appare come un rimedio perché l’uomo per mezzo di
essa ottiene da Dio la purificazione dai propri peccati, ma anche la
guarigione delle sue malattie spirituali quali le passioni, come indica­
no molti insegnamenti patristici citati precedentemente. Perseguita a
lungo e vissuta profondamente, la penitenza permette all’uomo di ac­
cedere a poco a poco all’impassibilità182, stato in cui egli recupera ima
piena libertà e una piena salute, e che gli è impossibile raggiungere
senza di essa183.
Per mezzo del perdono dei suoi peccati e la guarigione delle sue
passioni che gli procura la penitenza, l’uomo può ritrovare la pace in­
teriore. «Torniamo a Dio attraverso la penitenza ed egli pacificherà
tutto», scrive san Barsanufìo184. E san Doroteo di Gaza constata: «E
attraverso la contrizione del cuore che si toma alla fine al proprio ri­
poso»185.
Nella misura in cui l’uomo guarisce dalle sue passioni, torna a ri­
vivere secondo le virtù. Può allora di nuovo condurre un’esistenza sa­
na, normale, conforme alla sua autentica natura. San Giovanni Da­
masceno dice, a questo proposito, che il pentimento «è il ritorno di
quanto è contrario alla natura verso ciò che gli è proprio»186. La pe­
nitenza appare, del resto, come l’unica via possibile che permette al­
l’uomo peccatore di ricuperare le virtù, ed è, a giusto titolo, che mol­
ti Padri la considerano come il primo comandamento, poiché essa è
178Ibid., 3.
m Ibid„ 4.
180lbid., 4.
181 Ibid.
182 Cfr. M arco l’Eremita, Sulla penitenza, VII.
18) Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, V, 1059s.
184Lettere, 786.
185Istruzioni spirituali, 1,10.
186Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
343
anche la condizione della pratica di tutte le altre virtù. Solo allonta­
nandosi dalle passioni, dissociandosi dal male, implorando Dio per il
perdono dei propri peccati, percependo dolorosamente la propria mi­
seria per il fatto di essere separato da Dio, l’uomo può avvertire la ne­
cessità, il bisogno di volgersi verso la grazia divina e aprirsi pienamente
allo Spirito Santo, che è la sorgente di ogni virtù. Solo spogliandosi
delle tuniche del peccato e delle passioni, l’uomo può rivestirsi della
grazia che compone le virtù dell’uomo nuovo e sano in Cristo. Si com­
prende allora perché i Padri vedano nel pentimento, nella compun­
zione e nelle lacrime le basi per il compimento di tutte le virtù187.
Grazie alla penitenza, avendo l’uomo ritrovato le virtù, ritrova la
vera vita. «I pianti, scrive san Giovanni Crisostomo, ridanno la vita a
ciò che ndl’anina era morto»188. «Il pentimento», aggiunge, «risuscita
colui che è morto spiritualmente»189. L’assenza del pentimento, al con­
trario, vota l’uomo a rimanere nella morte. «Se non vi convertirete, pe­
rirete tutti», insegna lo stesso Cristo (cfr. Le 13,3.5).
Quando l’anima si è deformata in tutti i modi nel lasciare la via giu­
sta della virtù, «la penitenza la risana»190in tutte le sue facoltà. Il
pentimento costituisce, in particolare, una terapia fondamentale del­
le sue facoltà di conoscenza rese malate dalle passioni. Nel fare peni­
tenza, l’uomo cessa di essere accecato nella conoscenza che ha della
realtà e in primo luogo di se stesso. Nel riconoscersi peccatore, pren­
dendo coscienza della propria miseria, egli prende coscienza del suo
stato di separazione da Dio, riconosce le sue deviazioni in relazione
a lui. È nella penitenza che gli uomini resi folli e insensati (mórot kaì
asynetot) dal peccato «riconoscono la propria follia (aphrosyne)», os­
serva il Pastore di Erma191. Nella pratica continua del pentimento, l’uo­
mo giunge a conoscersi sempre meglio, a percepire sempre più sot­
tilmente il male che è in lui fino a discernere le più piccole colpe, le
più piccole manchevolezze192. Egli nota, allora, nella sua anima alcune
malattie che rimangono invisibili e ignote a colui che continua inve­
ce a vivere nel peccato. Nel fare penitenza anche per le colpe incon­
187 Cfr. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, I, 10. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen,
121; 138. MARCO l'E rem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 197.
E frem i l Siro, éd. Assemani, 1.1, p. 44. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, IV, 404;
409; 670ss.
188 Omelie sulla penitenza, VIE, 4.
m Ibid.
190 E vagrio P ontico , Ai monaci, 53.
191 II Pastore d'Erma, Similitudini, IX, 23.
192Cfr. DIADOCO DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 21.
344
sapevoli193e involontarie194, scaccia via il peccato e colpisce la malattia
nei particolari più nascosti, più sottili e più segreti195, e per il potere
della grazia divina che egli invoca nello stesso tempo, li scova, poi li
espelle dalla sua anima.
Questa conoscenza del suo stato patologico, che l’uomo acquista
nella penitenza, è una condizione indispensabile per la sua guarigio­
ne. Perché possa chiedere al Medico divino e ricevere da lui le cure
adatte alla sua anima, egli deve innanzitutto constatare quanto essa sia
malata. «Come accetterà di essere curato colui che non si lascia af­
fatto convincere che giace malato e ferito?», si chiede san Simeone il
Nuovo Teologo196. Così san Giovanni Crisostomo dà questo consiglio:
«Riconosciamo francamente quello che siamo e dò che sono le piaghe
della nostra anima: è il modo di porvi rimedio; colui che non conosce
il suo male non si cura della sua infermità»197. Abbiamo già detto che
Dio, rispettoso della libertà dell’uomo, non lo guarisce suo malgrado,
ma attende che egli manifesti il desiderio d’essere curato da lui, e in­
voca l’aiuto della sua grazia terapeutica. Se l’uomo fa questo, allora
Dio lo guarisce immancabilmente198. Ora, è proprio nella penitenza
che l’uomo, riconoscendo la propria malattia, chiama in soccorso il
Medico celeste per ottenerne la guarigione, e la riceve. «A coloro
che cercano sinceramente il rimedio, scrive san Giovanni Cassiano, la
guarigione non può mancare di giungere da parte dd vero Medico dd-
le anime, soprattutto a quelli che non chiudono gli occhi sulle loro ma­
lattie, per scoraggiamento o negligenza, ma, lungi dal nascondere le
loro ferite o respingere insolentemente il trattamento della penitenza,
ricorrono con animo umile e quindi vigile al medico cdeste»199.
Non è solo per la conoscenza di sé, ma anche per la conoscenza ve­
ra di ogni realtà, ivi comprese alcune realtà spirituali più alte, che la
penitenza costituisce una via d’accesso. Colui che fa penitenza, infat­
ti, è purificato da Dio dai suoi peccati e dalle sue passioni, ed il vdo
che oscurava le sue facoltà di conoscenza è tolto a poco a poco; la sua
intelligenza è allora rischiarata dallo Spirito nella misura della sua pu­
rificazione. «L’uomo per mezzo dd pentimento acquista di nuovo lo

m Cfr. B aìSANUFIO, Lettere, 394.


194 Cfr. DIADOCO DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 100.
195Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XX , 7.
196Catechesi, VII, 89-90.
197 Omelie sui demoni, E, 5.
198Cfr. Apoftegmi, 1627 D (Zenone).
199Conferenze, XIX, 12.
345
splendore che gli è proprio. La penitenza è la porta che fa uscire dal­
le tenebre per entrare nella luce», osserva san Simeone il Nuovo Teo­
logo200, il quale precisa: «Il frutto e il lavoro proprio della penitenza,
ecco precisamente ciò che scaccia l’ignoranza e procura allo stesso tem­
po la conoscenza. Per conoscenza, io intendo innanzitutto quella di
noi stessi e di ciò che ci riguarda, e poi di ciò che ci supera e dei mi­
steri divini che sono invisibili e inconoscibili a coloro che non fanno
penitenza [...]. Le verità divine [...] sono rivelate solo a coloro che han­
no fatto penitenza con ardore e che una penitenza sincera ha conve­
nientemente purificati, e ciò in proporzione e a misura della loro pe­
nitenza e della loro purificazione. È ad essi che sono rivelate le profon­
dità dello Spirito [...]. Ma per tutti gli altri, queste verità rimangono
inconoscibili e nascoste»201.
Da questo passo risulta che la conoscenza di sé e di Dio alla quale
l’uomo accede attraverso la penitenza non è una conoscenza teorica,
astratta, ma una conoscenza esistenziale, una conoscenza, ispirata dal­
lo Spirito, dell’intelligenza unita al cuore. La penitenza, del resto,
appariva ai Padri come una via diretta per operare nell’uomo la riu­
nificazione di queste due facoltà, unite e che agiscono di comune ac­
cordo nella sua natura originaria, ma dissociate nello stato di peccato,
e che costituiscono nel suo essere una frattura e una divisione pato­
logiche fondamentali.
Questa riunificazione è una delle condizioni essenziali per giunge­
re a una preghiera autentica e pura, attività in cui l’intelligenza si eser­
cita secondo la sua finalità naturale e ritrova un uso normale. Se la
compunzione favorisce la preghiera202, la rende fruttuosa203 e deve in
ogni caso esserle unita204, è perché l’uomo, con questo atteggiamento,
non solo è purificato, ma si fa anche umile, sente profondamente, at­
traverso l’esperienza dolorosa della sua miseria e del suo allontana­
mento da Dio, il bisogno di lui, e così si apre pienamente alla sua gra­
zia; è così che questo atteggiamento permette alla preghiera di non es­
sere solo intellettuale, ma d’impegnare tutto l’essere dell’uomo, il cui
centro è il cuore.
Riportando l’uomo a Dio, con il favore della sua preghiera, la pe­
200Catechesi, XXVIII, 127-128.
201 Trattati teologici, 1,304s. Cfr. Catechesi, IV, 676s.
202 Cfr. G regorio P alamas, Triadi, E, 2,17. G iovanni C limaco , La Scala, V, 53. G iovan ­
ni CASSIANO, Conferenze, IX, 26.
203 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Varenetica, éd. Frankenberg, p. 556; Trattato della preghiera, 6.
204 Cfr. per esempio: BARSANUFIO, Lettere, 509.
346
nitenza permette ad esso di beneficiare in ogni circostanza dell’aiuto
di Dio205. L’uomo può così far fronte alle diverse difficoltà interiori ed
esteriori come ai diversi pericoli che incontra. La compunzione ha d’al­
tronde l’effetto di fortificare l’anima. È così che il salmista scrive: «Pa­
ne son diventate per me le mie lacrime, di giorno e di notte» (Sai
42[41],4).
La compunzione accresce così la resistenza dell’uomo ai pensieri at­
traverso cui i demoni gli suggeriscono il peccato. Essa costituisce, di­
cono i Padri, lana potente arma per far fronte alle tentazioni206. La pe­
nitenza, del resto, ha il potere di ridurre all’impotenza i demoni fau­
tori di turbamenti, e allontanarli dall’anima. «Chi possiede le lacrime
vere accompagnate da compunzione [...] non è vinto in nessun com­
battimento [...]. Esse sono uno scudo sul quale ricadono i dardi in­
fiammati del diavolo (cfr. E f 6,16). Chi le ha non riceverà assoluta-
mente alcun danno dalla lotta», scrive san Barsanufio207. «Il diavolo
fugge sempre davanti alla punta acuminata della penitenza», nota da
parte sua san Giovanni Crisostomo208. E san Giovanni Climaco fa di­
re ai demoni: «Non vi è che una sola cosa che rende la nostra poten­
za impotente e tutti i nostri sforzi inutili [...]: se non smetti di biasi­
marti davanti al Signore, tu ci troverai così deboli come una tela di ra­
gno»209. Vediamo, dunque, che la penitenza possiede, oltre alla sua
funzione terapeutica, una funzione profilattica. Abba Poemen dice:
«Se un uomo accusa se stesso, è protetto dappertutto»210. «Le lacrime
versate continuamente in nome di Dio proteggono l’uomo che ne ha
il dono», scrive san Barsanufio211, il quale fa notare che quando l’uo­
mo è giunto all’impassibilità, è sempre la penitenza che lo tiene fuori
dall’attacco delle passioni212.
Vediamo, dunque, quanto la penitenza costituisca per l’uomo, a tut­
ti i livelli della sua vita spirituale, un compito essenziale, a tal punto
che san Giovanni Climaco scrive: «Noi non saremo affatto biasimati,
quando la nostra anima uscirà da questo mondo, per non aver fatto
miracoli, o per non aver affatto penetrato le verità sublimi della teo­
205 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 170.
206Vedi per esempio: Apoftegmi, Eth. Coll., 13,25.
207Lettere, 461.
208 Omelie sulla penitenza, IH, 4. Cfr. II, 1.
209La Scala, XXII, 31.
210Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 96.
211 Lettere, 461.
212 Catechesi, IV, 1054s.
347
logia, o per non esserci elevati ad alte contemplazioni, ma dovremo
certamente rendere conto a Dio per non aver pianto incessantemente
i nostri peccati»213. Sant’Isacco il Siro, con una formula del tutto sor­
prendente, pone la penitenza tra i più alti e necessari atteggiamenti
spirituali: «Colui che conosce i suoi peccati è più grande di colui che
risuscita i morti con la preghiera. Colui che geme per un’ora sulla
sua anima è più grande di colui che serve il mondo intero con la sua
contemplazione. Colui al quale è stato dato di conoscersi è più gran­
de di colui al quale è stato concesso di vedere gli angeli»214.

4. Il rimedio della preghiera


a) Il ruolo della preghiera e i suoi effetti terapeutici
Per mezzo della fede, l’uomo riconosce Cristo come suo Dio e co­
me l’ionico medico capace di guarire. Per mezzo della penitenza, si vol­
ge a lui pentendosi delle proprie colpe per ottenerne il perdono, si
riavvicina a lui riconoscendo il suo stato di malattia per ottenerne la
guarigione, manifesta davanti a lui la coscienza, dolente per le sue
insufficienze, per riavvicinarsi a lui e non allontanarsene più. La pre­
ghiera appare come il complemento di questi due atteggiamenti: per
mezzo di essa, l’uomo invoca l’aiuto di Dio per ottenere le cure di cui
ha bisogno, essere guarito e purificato, aprirsi alla sua grazia, e unirsi
a lui.
Soprattutto attraverso la preghiera l’uomo può mettersi alla pre­
senza di Dio, entrare in relazione con lui e unirsi a lui. Essa è, scrive
san Gregorio Palamas, «il legame che unisce le creature al loro crea­
tore»215. Certamente, un tale legame si stabilisce attraverso la ricezio­
ne dei sacramenti, ed in particolare quelli del battesimo, della cri-
smazione e dell’Eucaristia, sacramenti che restituiscono all’uomo lo
splendore originario dell’immagine di Dio e il ristabilimento nella sua
somiglianza, conferendogli la pienezza della grazia. Ma questo rista­
bilimento avviene, lo abbiamo visto, potenzialmente, o come dice san
Marco l’Eremita, «misticamente». Al cristiano non resta altro che
appropriarsi personalmente la grazia ricevuta, assimilarla, attualizzar-
m La Scab, V11,79.
214 Discorsi ascetici, 34.
215 Tre capitoli sulla preghiera e la purezza del cuore, 1.
348
la in sé, crescere in essa e per mezzo di essa. La preghiera è indispen­
sabile a quest’opera e vi gioca perfino un ruolo essenziale216. È per mez­
zo di essa, infatti, che egli può instaurare una relazione personale
con Dio presente in lui con la sua grazia, dare il suo libero consenso
alla trasformazione salvifica che egli opera attraverso di essa, diveni­
re collaboratore cosciente e volontario della salvezza e della deifica­
zione che egli realizza nel Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Da
quel momento in poi lo scopo che l’uomo persegue con la preghiera
non è quello di far venire Dio a lui, ma quello di avvicinarsi a lui,
non perché egli è lontano, ma perché, sia che egli si è allontanato da
lui con il peccato, sia che egli non si è appropriato la grazia ricevuta,
rimane lo stesso lontano da lui e rimane estraneo a Colui che gli è
più intimo, e che è persino, come scrive san Nicola Cabasilas, più vi­
cino di quanto lo sia il suo stesso cuore217. «Noi supplichiamo Dio,
scrive san Gregorio Palamas, non per attrarre Dio verso di noi, per­
ché egli è dovunque, ma per elevare noi stessi verso di lui, con la sup­
plica che gli rivolgiamo, e per tornare a lui»218. San Dionigi l’Areopa-
gita dice la stessa cosa in altri termini: «Se è vero che la Santissima Tri­
nità è presente in ogni essere, ogni essere non risiede in essa. Ma
solo per mezzo di sante preghiere [...] noi dimoreremo in essa»219. La
preghiera appare così come il principio dell’appropriazione di ogni
grazia220.
Dio concede la sua grazia permanentemente, ma non la impone. Ri­
spettoso com’è della libertà dell’uomo, egli aspetta che questa gli ven­
ga da lui richiesta. La preghiera costituisce il mezzo di questa richie­
sta, in cui si afferma in piena coscienza la volontà libera dell’uomo. Fin
da quando l’uomo si rivolge a Dio, questi esaudisce la sua preghiera:
il Cristo stesso e gli Apostoli ce lo ricordano continuamente: «Chie­
dete e vi sarà dato. Chi chiede riceve» (Mt 7,7-8). «Tutto quello che
chiederete con fede nella preghiera, l’otterrete» (Mt 21,22). «Chie­
dete e vi sarà dato; perché chiunque chiede ottiene» (Le 11,9-10).
«Quanto chiederete nel mio nome lo farò» (Gv 14,13). «Se mi chie­
derete qualcosa nel mio nome, io lo farò» (Gv 14,14). «Qualunque co­
sa gli chiediamo, la riceviamo da lui» (lGv 3,22). Lo stesso Cristo ci
dice che la grazia, quindi il dono, sono già presenti in noi: «Tutto quel­
216 Cfr. GREGORIO IL S inatta, Sull’esichia e sulla preghiera.
217 La vita in Cristo, VI, 98.
218 Triadi, II, 1,30.
219Sui Nomi divini, El, 1, PG 3, 680B.
220Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 32.
349
lo che chiedete nella preghiera, credete di averlo già ottenuto» (Me
11,24). Se l’uomo non si è impossessato di questa grazia presente in
lui, è perché egli non si è aperto ad essa, non si è volto con la preghiera
verso Colui che gliel’ha donata e che è presente in essa e con essa:
«Non avete perché non chiedete», ci rivela l’apostolo san Giacomo
(0:4,2).
Perché la preghiera venga esaudita deve, tuttavia, essere fatta «co­
me si deve»221: se «chiedete ma non ricevete», è «perché chiedete ma­
le» ci dice san Giacomo (Gc 4,3).
La preghiera dev’essere fatta con fede (cfr. Mt 21,22). La penitenza
costituisce un atteggiamento ugualmente primario e indispensabile, al
punto tale che i Padri vedono in essa un elemento costitutivo essenziale
della preghiera, che san Giovanni Cassiano arriva a definire come «il
grido del peccatore toccato da compunzione»222. Evagrio scrive nello
stesso senso: «Il carattere proprio della preghiera è quello di una gra­
vità rispettosa accompagnata da compunzione e da dolore dell’anima
nella confessione delle proprie colpe, fatta con gemiti segreti»223. Sen­
za un tale atteggiamento di penitenza, la preghiera non potrà essere ef­
ficace224. Per potersi avvicinare a Dio, l’uomo deve, in verità, conside­
rare la distanza che lo separa da lui; per poter ricevere la guarigione dei
suoi mali, deve prima riconoscerli e pentirsi delle colpe che ne sono
la causa; per accedere alla grazia, deve fare innanzitutto l’esperienza
dolorosa del bisogno che egli ne ha. Oltre alla fede e alla penitenza, le
condizioni di una preghiera efficace sono: l’attenzione225, la vigilanza
e la sobrietà (népsisf26, il fervore227, l’assiduità228, l’umiltà229, e prima d’o­
221 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 4 , 2.
222 Conferenze, IX, 11.
223 La preghiera, 42. Cfr. ORIGENE, La preghiera, 33.
224 Cfr. I sacco il S iro , Lettere, 4.
225 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXVII, 5; Omelie sulla Ge­
nesi, XXX, 5; Omelie contro gli Anomei, V, 6; VII, 7; Omelia su Anna, IV, 6; Commento al Sal­
mo 4,2; Commento a san Matteo, XEX, 2. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 35. Q uesto atteggia­
mento e il seguente saranno esaminati in dettaglio in seguito.
226Cfr. Col 4,2; 2Pt 4,7. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla Genesi, XXX, 5; Omelia sulla
Settimana Santa; Omelie contro gli Anomei, VII, 7; Omelie sulla lettera agli Efesini, XXTV, 3.
ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 35.
227 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie contro gli Anomei, V, 6; VII, 7; Omelie su Anna, IV,
6; Commento a san Matteo, XXVII, 5; XXIII, 4; Omelia sulla Settimana Santa. MACARIO D'E­
GITTO, Omelie (Coll. II), XXXI, 4.
228Cfr. Rm 12,12; Col 4,2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXVH, 5;
Omelie sulla lettera agli Efesini, XXIV, 3; Commento al Salmo 7, 4; Commento a san Matteo,
XXIII, 4. G iovanni C assiano , Conferenze, IX, 4.
229 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXVII, 5; Commento al Sal­
mo 4, 3; 4; Commento al Salmo 9, 6. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 21.
350
gni cosa la purezza di cuore230. Occorre, altresì, che l’oggetto della ri­
chiesta sia conforme alla volontà di Dio231, il quale vuole il nostro be­
ne, i nostri veri interessi.
Essendo la preghiera il principio dell’acquisto di ogni grazia, essa è
anche il principio della guarigione dell’uomo malato e del suo ritorno
a esser sano.
Per mezzo della preghiera, l’uomo si rivolge a Cristo-Medico per
ottenere da lui la guarigione dei suoi mali. Solo in Dio egli può tro­
vare il soccorso e l’aiuto di cui egli ha bisogno nella malattia. «Sap­
piamo bene, scrive san Barsanufio, che quelli che sono malati hanno
sempre bisogno del medico e dei suoi rimedi [...]. Per questo il pro­
feta scriveva: “Tu sei stato un rifugio per noi di generazione in gene­
razione” (Sai 90[89],1). E se egli è nostro rifugio, ricordiamoci che egli
ha detto: “Nel giorno dell’angustia chiamami ed io ti libererò, ma tu
poi dovrai onorarmi” (Sai50[49],15)»232. San Giovanni Crisostomo
osserva che il tempo della preghiera è quello in cui possiamo «mo­
strare le nostre piaghe al Medico e ottenerne la completa guarigio­
ne»233. Per questo così si rivolge a coloro che sono resi ammalati dal
peccato: «Non cercare rifugio negli uomini, non guardare a un soc­
corso perituro; ma lasciando da parte questo, corri con il pensiero al
medico delle anime. L’unico che può dare rimedio alle ferite del tuo
cuore è Colui che ha fatto ciascuno di noi e che conosce tutte le no­
stre opere. Basta gridare dal fondo del cuore verso di lui e offrirgli le
nostre lacrime»234. Quanto a san Giovanni Climaco, egli raccomanda
a colui che prega di prendere come modello dell’atteggiamento da
adottare, «il modo in cui i malati, che stanno per essere amputati o
cauterizzati, implorano il chirurgo»235.
In risposta alla sua preghiera, l’uomo riceve dal Cristo le cure adat­
te al suo stato e ottiene la guarigione dalle proprie malattie. Non sor­
prende, allora, che i Padri la considerino un rimedio236particolarmente
230 Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXVII, 5; Omelie sulla peni­
tenza, IV, 12; Commento al Salmo 3,3; Commento a Isaia, I, 5; Commento a san Matteo, LI, 1;
Omelie sulla 1 Timoteo, VIE, 1. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 4.
231 Cfr. lGv, 5,14.
232 Lettere 424.
233 Omelie sulla Genesi, XXX, 5.
234 Omelie sulla penitenza, IV, 4.
2” La Scala, XXVUl, 8.
236 B arsanufio , Lettere, 424. G iovanni C limaco , La Scala, XXVIII, 2. G iovanni C riso ­
stomo , Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXVII, 5; Catechesi battesimali, VE, 25.

351
potente. «La preghiera è un rimedio», scrive san Giovanni Crisosto­
mo237, che aggiunge: «La preghiera è un medicamento di salvezza»238;
«è qui la nostra salvezza, il medicamento delle nostre anime e il ri­
medio ai mali che vi si sviluppano»239; «la potenza della preghiera [...]
guarisce le malattie»240. Quanto a sant’Isacco il Siro, egli osserva che
«la preghiera è l’aiuto alla malattia più grave»241. E san Giovanni Cli-
maco, in una prosopopea, fa dire alla preghiera: «Venite a me [...], e
troverete la guarigione delle vostre ferite»242. Quanto all’immenso po­
tere della preghiera, san Giovanni Crisostomo non cessa di sottoli­
neare: «Grande è il potere della preghiera»243; «nulla, vi dico, nulla è
più potente della preghiera ardente e pura; perché essa sola può li­
berarci dai mali presenti»244; «ricorriamo costantemente a Dio, chie­
diamogli ogni cosa, perché nulla vale di più della preghiera; essa ren­
de possibile l’impossibile, facile ciò che è difficile, piano ciò che è ir­
to di ostacoli»245. Poiché senza la preghiera nulla è possibile («perché
senza di me non potete far nulla», dice il Cristo \Gv 15,5]), per mez­
zo di essa tutto è possibile all’uomo, perché questa gli permette d’in­
vocare «colui che per la forza che opera in noi, ha potere di fare mol­
to di più di quanto chiediamo o immaginiamo» (Ef 3,20).
Proprio perché il peccato e le passioni costituiscono la radice e le
forme di tutte le malattie, è chiedendo perdono e purificandosi che
l’uomo deve in primo luogo pregare Dio246. Origene osserva che in
ogni preghiera «ci si deve accusare a Dio dei propri peccati, con un
pentimento amaro, chiedendogli la guarigione dall’inclinazione che ci
trascina al male e il perdono delle colpe passate»247. Allora la poten­
za terapeutica della preghiera si manifesta in primissimo luogo nella
guarigione dei peccati. «La preghiera, scrive san Giovanni Crisosto­
mo, è un antidoto contro il peccato, un rimedio alle colpe commes­
se»248. E altrove insegna: «Noi riceviamo tutti i giorni numerose feri-
237 Commento al Salmo 7 ,4 .
238 Omelie sulla lettera agli Ebrei, X X V II, 5.
239 Catechesi battesimali, V E , 25.
240 Omelie contro gli Anomei, V, 7.
241 Discorsi ascetici, 21.
242 La Scala, X X V III, 2.
243 Omelie sulla lettera agli Efesini, X X IV , 4.
244 Omelia: Contro coloro che abusano della parola dellApostolo, ecc., 12.
245 Omelie su Anna, IV, 5. Vedi anche: Omelie sulla Genesi, X L I X , 3; Omelie contro gli Ano­
mei, VII, 7.
246 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 37.
247 La preghiera, 33.
248 Omelie sulla lettera agli Ebrei, X X V II, 5.
352
te; a tutte queste ferite applichiamo i rimedi che sono loro propri, la
preghiera. Difatti Dio, se lo preghiamo con spirito vigile, con animo
infiammato, con cuore ardente, può concederci il perdono, la remis­
sione delle nostre colpe»249. La preghiera, osserva da parte sua san Gio­
vanni Climaco, è «un rimedio sovrano per i peccati più gravi»250. E san
Nicola Cabasilas scrive: «Invochiamo il nome del Dio di bontà con vo­
ce viva, con desiderio e col pensiero, al fine di applicare a tutto dò per
cui abbiamo peccato l’unico rimedio salutare»251. L’apostolo san Gio­
vanni infatti insegna: «Vi sono rimessi i peccati nel suo Nome» (lGv
2,12). Più profondamente, la preghiera guarisce l’uomo dalle passio­
ni, che sono le sue malattie, le estirpa completamente dal suo essere
e le annienta252fin nei loro effetti. Ma occorre notare che soprattutto
la preghiera continua possiede un tale potere, il che si comprende nel­
la misura in cui, a differenza dei peccati che sono azioni precise, le pas­
sioni costituiscono degli stati permanenti. «Il fatto d’invocare Dio con­
tinuamente è un rimedio che sopprime tutte le passioni», scrive san
Barsanufio253, sottolineando che il modo di agire di questo rimedio ci
è incomprensibile: «Infatti come il medico applica il rimedio o il ca­
taplasma sulla ferita del paziente e l’effetto è prodotto senza che il ma­
lato sappia come, allo stesso modo il nome di Dio invocato annienta
tutte le passioni, anche se non sappiamo come»254.
La preghiera costituisce un «detersivo dell’anima»255fin nelle pie­
ghe più oscure e segrete di questa. La preghiera ha il potere di rag­
giungere e guarire i peccati e le passioni inconsci, perché essa solleci­
ta l’intervento di Colui «che vede nel segreto» (Mt 6,18), «che scruta
i cuori» (Sai 7,10), «che metterà in luce i segreti delle tenebre e ma­
nifesterà le intenzioni del cuore» (lCor 4,5), e che ha il potere di di­
struggere ogni peccato e annientare ogni traccia di passione. Così il
cristiano che il peccato ha reso incapace di conoscere il suo «fondo
nascosto», ove risiedono le passioni segrete, nello stesso tempo in
cui egli deve fare penitenza a causa di queste, deve pregare Dio di
249 Omelie sulla Settimana Santa, 5.
250ha Scala, XXVHI, 2. Sul potere che la preghiera ha di purificare l’uomo dai suoi peccati,
vedi inoltre: GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi battesimali, VII, 25; Omelie sulla penitenza, HI,
4. M assimo i l C on fessore, Discorso ascetico, 41.
251 ha vita in Cristo, VI, 101.
252 Cfr. EVAGRIO PONTICO, ha preghiera, 83. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie contro gli
Anomei, VH, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 14. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, X, 10.
253 Lettere, 424.
254 Ibid.
255 G iovan ni C risostom o, Catechesi battesimali, VII, 25.
353
esserne guarito. È così che san Barsanufio scrive a questo proposito:
«Notte e giorno io prego per essere purificato dalle passioni visibili e
da quelle che sono nascoste»256.
La preghiera, mentre annienta le passioni, allo stesso tempo mette in
fuga quelle che sono all’inizio e che sono nell’anima i principali fauto­
ri di turbamenti e la causa di tutte le sue malattie: il diavolo e i demo­
ni257; essa dissipa tutti gli effetti patologici della loro azione258. La «pre­
ghiera di Gesù» possiede a questo riguardo una particolare efficacia259.
Gli effetti terapeutici della preghiera sono numerosi e si fanno sen­
tire in primo luogo sullo spirito (noùs). Per mezzo della preghiera, lo
Spirito, che il peccato aveva intorpidito e lasciato come morto, viene
risvegliato260, ritorna ad essere agile261, toma a rivivere262, perché «là è
la sua vita»263.
Cessa di essere alienato dal mondo sensibile e da quello delle vane
rappresentazioni per ritrovare se stesso264, esercitando l’attività che cor­
risponde alla finalità della sua natura, perché, come fa notare Evagrio,
«lo spirito è naturalmente fatto per pregare Dio»265, «la preghiera fa
esercitare allo spirito l’attività che gli è propria»266, «la preghiera è l’at­
tività che presiede alla dignità dello spirito, o per meglio dire, è l’uso
migliore e più adeguato di questo»267.
Per il fatto che lo spirito si esercita secondo la sua natura, e per­
ché nel suo raccoglimento elimina ogni rappresentazione (immagine
o pensiero) estranea alla preghiera, e quindi concentra in questo tut­
to il suo potere di riflessione e d’intellezione268, ritrova allora, come
nota Evagrio, «tutta la sua forza», «tutta la sua salute»269.
256Lettere, 65.
257Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVm, 66. G iovanni C risostom o, Omelie contro gli
Anomei, VII, 7.
258 Cfr. O rigene , La preghiera, 12.
259Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X , 7. N ilo d ’A ncera, Lettere, PG 7 9 ,260AB; 261D;
312CD; 392B; 396A; 400A.
260Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Settimana Santa, 4.
261 Id., Commento al Salmo 129,1.
262 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 29.
263 E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, IV, 62.
264 Cfr. T eoletto di F iladelfia , Nove capitoli, 1. C allisto e I gnazio X antopulo , Cen­
turia, 19.
265 Trattato pratico sulla vita monastica, 49.
266La preghiera, 83.
267 Ibid., 84.
268 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, XXIV, 6.
269 Trattato pratico sulla vita monastica, 6, 5. L a seconda traduzione (per erròtai) è proposta
da I. Hausherr nel suo com m ento del trattato su La preghiera, p. 96.

354
E quando, nello stato decaduto della natura, egli «è in preda a
una perpetua ed estrema mobilità»270, subisce il movimento inces­
sante dei pensieri che lo agitano, lo turbano e lo fanno errare e diva­
gare, la preghiera lo porta fuori «dal suo smarrimento abituale, dalla
prigionia, dall’agitazione»271; lo raccoglie «fuori dal turbinio abituale
e dal suo vagabondare»272, e gli dà consistenza, lo dispone nella sta­
bilità e nella sicurezza273. Questo stato è il risultato della sinergia, in­
staurata nella preghiera, tra lo sforzo umano e la grazia divina; solo
quest’ultima può permettere all’uomo di dominare perfettamente l’at­
tività del suo spirito. Qò risulta particolarmente evidente da quanto
insegna san Giovanni Climaco: «L’instabilità e l’incostanza è una
delle proprietà dello spirito umano. Ma Dio può consolidare e ren­
dere costanti le cose più incostanti. Se tu non smetterai mai di com­
battere per arrestare la mobilità del tuo spirito, Colui che impone con­
fini alle onde del mare, verrà a darne anche alle agitazioni del tuo ani­
mo, e dirà loro durante la tua preghiera: “Gli ingiunsi: fin qui arriverai
e non oltre” (Gb 38,11). È impossibile all’uomo incatenare lo spirito,
ma là dove è il Creatore dello spirito, tutte le cose gli sono sottomes­
se»274.
Liberato da ogni agitazione, lo spirito conosce la pace275 e la co­
munica, quando è unito al cuore, a tutta l’anima e al corpo stesso. Non
si tratta, tuttavia, della pace secondo la carne, accompagnata da vanità
e da orgoglio, che sopraggiunge quando i demoni smettono di com­
battere l’anima perché essa compie la loro volontà276, bensì della pace
che viene dallo Spirito e che è accompagnata dall’umiltà e dalla pe­
nitenza277.
La preghiera contribuisce a questa pacificazione dell’essere per mez­
zo del potere che essa ha, d’altra parte, di dissipare il timore, e in par­
ticolare la sua forma più sorda e insidiosa: l’angoscia, in quanto il
suo carattere immotivato rende difficile attaccarla frontalmente in mo­
do antirretico, cioè opponendo degli argomenti. Molto spesso legata
a un’azione diretta dei demoni, essa può essere vinta con la preghie­
270G iovanni C assiano , Conferenze, VII, 4.
271 C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 19. Cfr. 24.
272 Ibid., 25.
275 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 15. GIOVANNI CASSIANO, Con­
ferenze, X, 14.
274 La Scala, XXVIII, 17.
275 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 69.
276Cfr. ibid., 47; Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
277 Cfr. Id., Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
355
ra. «Nel giorno dell’angustia chiamami ed io ti libererò, ma tu poi do­
vrai onorarmi», dice il Signore (Sai50[49],15). Solo la forza di Dio che
l’uomo invoca nella preghiera può guarirlo da questa temibile malat­
tia che s’insinua in ogni parte dell’anima e fin nel corpo, lasciando l’uo­
mo abbandonato a se stesso tanto più impotente quanto più essa è fon­
te d’impotenza. Così san Giovanni Climaco, seguendo il salmista, con­
siglia a sua volta: «Flagella i tuoi nemici con il Nome di Gesù, perché
non vi è arma più potente in delo e sulla terra. Quando sarai guarito
da questa malattia, glorifica Colui che ti ha liberato»278.
La preghiera non solo mette fine al movimento dei pensieri, ma abo­
lisce anche il loro molteplicarsi, poiché per mezzo dell’attenzione che
essa suppone, concentra tutti i pensieri in uno solo: quello di Dio, che
per tutte le facoltà dell’anima diviene l’unico scopo. Allora lo spirito
cessa di essere frammentato in tanti pensieri diversi che esso produ­
ce nel suo stato di alienazione dal mondo sensibile, e l’anima di esse­
re tirata in ogni senso dalle sue diverse facoltà che agiscono secondo
alcuni principi e in vista di fini diversi e incoerenti. Attraverso la
preghiera, avviene l’unificazione dello spirito279 e di tutta l’anima280.
Come osserva san Macario, l’anima, di cui il peccato aveva fatto una
casa in rovina, ritrova ordine e bellezza281.
Tutte le facoltà dell’anima in quanto partecipano alla preghiera,
quando lo spirito è unito al cuore, cessano di essere alienate dal mon­
do sensibile e di esercitarsi contro natura, ma si rivolgono verso Dio e
ritrovano se stesse, nell’agire per lui, attività in vista della quale esse
sono state date all’uomo dal Creatore. Esse ritrovano la salute in que­
sto esercizio conforme alla finalità della loro natura.
Così, come osserva Evagrio, la preghiera «guarisce la parte dell’a­
nima che è sede delle passioni»282, cioè, da un lato, la potenza concu­
piscibile cessa di bramare gli oggetti sensibili per non desiderare altro
che Dio, e dall’altro, la potenza irascibile cessa di esercitarsi contro il
prossimo o per ottenere gli oggetti sensibili bramati, per, mettersi in­
vece a lottare contro i demoni ed i pensieri, sia i pensieri cattivi che i
pensieri semplici che cercano di distrarre lo spirito dalla preghiera e
di allontanare l’uomo da Dio.
Per essere pura, escludendo qualsiasi rappresentazione, e in pri­
278La Scala, XX, 7.
279 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 23.
280 Cfr. T eoletto di F iladelfia , Sull’azione segreta.
m Omelie (Coll. E), XXXEI, 3.
282 Trattato pratico sulla vita monastica, 49. Cfr. 79.
356
mo luogo ogni immagine, la preghiera libera l’uomo dalla tirannia eser­
citata su di lui dalla sua immaginazione, e lo guarisce da tutte le ma­
nifestazioni patologiche di questa.
La preghiera guarisce anche la memoria. Questa, nello stato di pec­
cato, è ricordo del mondo e, pertanto, oblio di Dio, rendendosi da
se stessa malata e rendendo con essa malate tutte le facoltà che essa
distoglie dalla vita spirituale. Ora, scrive sant’Esichio di Batos, «il ma­
le che comportano l’oblio e le sue conseguenze si può guarire con una
custodia molto rigorosa dello spirito e con una continua invocazione
di Nostro Signore Gesù Cristo»283. Allora la memoria si trasforma, in­
versamente diviene, nella preghiera, oblio del mondo e dei suoi mol­
teplici pensieri, e «memoria di Dio (mnetnè theoù)»2*4; ritrova la sa­
lute in questo esercizio che corrisponde alla finalità della sua natura,
esercizio che fa cessare l’alienazione per restituirla a se stessa. Difat­
ti, la memoria nel suo stato di natura è semplice; ora il peccato, lo
abbiamo visto, ha provocato la sua esplosione e divisione in moltepli­
ci ricordi; nella semplicità della preghiera, essa ritrova la sua unità ori­
ginaria e naturale. A questo proposito così scrive san Gregorio il Si-
naita: «Il rimedio per liberare [la] memoria primordiale dalla memo­
ria perniciosa e cattiva dei pensieri, è il ritorno alla semplicità originale.
[...] Il grande rimedio della memoria è il ricordo perseverante e im­
mutabile di Dio nella preghiera»285. In questa attività che si addice per­
fettamente alla sua natura, la memoria contribuisce alla guarigione di
tutta l’anima, di cui essa rimette le facoltà alla presenza di Dio. «E pro­
prio di un uomo amico della virtù, spiega san Diadoco di Foticea, con­
sumare incessantemente, attraverso il ricordo di Dio, ciò che vi è di
terreno nel suo cuore, affinché a poco a poco il male venga dissipato
con il ricordo del bene e l’anima ritorni perfettamente al suo fulgore
naturale con un accresciuto splendore»286. Al vertice di questo pro­
cesso, l’affermazione di Evagrio che la preghiera pura unisce l’uomo
a Dio coincide con quella di sant’Isacco il Siro per il quale «l’unione
spirituale è la memoria allo stato puro»287.
Il corpo risente beneficamente degli effetti terapeutici della pre­
ghiera. Il corpo, insieme all’anima, prende parte alla preghiera, le pre­
283 Capitoli sulla vigilanza
, 32.
284 Questa espressione è frequentemente usata dai Padri e si ritrova costantemente nella Fi­
localiaper indicare la preghiera e, in particolare, « L a preghiera di Gesù».
285Sentenze diverse, 62.
286 Cento capitoli gnostici
, 97. Cfr. 102.
287Discorsi ascetici, 1.
357
sta le sue proprie forze, adotta gli atteggiamenti convenienti a questa
attività, esercita le sue diverse facoltà per favorirla; in questo modo
prega esso stesso a sua misura e conformemente alle possibilità della
sua natura specifica288, in modo particolare nelle metanie289. «Il cor­
po accompagna lo slancio dello spirito», osserva Gemente d’Alessan­
dria290. La preghiera contribuisce, in questo modo, a compiere la rac­
comandazione dell’Apostolo: «Vi esorto dunque, fratelli, in nome del­
la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come un sacrifìcio vivente,
santo, gradito a Dio» (Rm 12,1). La preghiera è così una delle «atti­
vità comuni all’anima e al corpo»291, specialmente nella preghiera esi-
casta, la «preghiera di Gesù», dove il corpo, e specificamente il suo
centro, il cuore, gioca un ruolo fondamentale. Il desiderio di Dio, che
vi si manifesta, «purifica tutte le facoltà e le potenze dell’anima e del
corpo»292. Per mezzo della purificazione dell’anima, ed in particolare
della parte soggetta alle passioni, si compie in realtà la purificazione
del corpo: «il corpo allora non si muove più spinto dalle passioni cor­
poree e materiali, [...] ma ritorna in se stesso, respinge ogni relazione
con le cose cattive»293; come l’anima, esso «acquista l’inazione del ma­
le»294. L’uomo diviene allora interamente, anima e corpo, ricettivo al­
la grazia295. La grazia dello Spirito viene «trasmessa al corpo attraver­
so la mediazione dell’anima»; «offre anche al corpo l’esperienza del­
le cose divine, e gli permette di provare le stesse cose dell’anima [...]»296.
Il corpo partecipa così direttamente dell’ordine, dell’unificazione e
della pacificazione che la preghiera stabilisce nell’anima. Coinvolgen­
do il corpo, la preghiera fa agire le sue diverse facoltà in vista di un so­
lo e medesimo fine: Dio. Essa l’unifica così in se stesso, ma lo ri-uni-
fìca anche all’anima: grazie ad essa, l’uomo ritrova l’unità armoniosa
della sua costituzione psico-somatica naturale, e viene così abolito in
lui lo stato di separazione dell’anima e del corpo caratteristica della
natura decaduta. «Egli ritorna a sé», afferma san Gregorio Palamas;
288 Vedi per esempio: GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XV, 8 0; 81.
289 L e metanie sono delle prostrazioni che accompagnano la recita vocale o mentale di alcu­
ne formule di preghiera. Distinguiamo le piccole metanie, che consistono nel curvare la testa e
il tronco, dalle grandi metanie che consistono in una prostrazione di tutto il corpo, con le m a­
ni e la fronte che toccano il suolo.
250Stromata, V E , 4 0 ,3 .
291 G regorio P alamas , Triadi, II, 2 ,1 2 .
292 Ibid., IH, 3 ,1 2 .
295 Ibid., II, 2 ,1 2 .
294 ID.,Omelie, 12, P G 1 5 0 , 153C .
295 Triadi,
I d ., III, 3 ,1 2 .
2% Ibid., II, 2 ,1 2 .

358
in altri termini, cessa di essere alienato e malato agendo contro natu­
ra, e ritrova la sua natura vera e recupera la salute spirituale eserci­
tando le diverse facoltà in vista di Dio, loro vera finalità. La preghie­
ra implica, infatti, per la concentrazione che esige, una «custodia dei
sensi» che allontana questi da un esercizio secondo la carne. Sono
ugualmente tutte le altre facoltà del corpo che la preghiera guarisce
facendole passare da un’attività indipendente da Dio a un esercizio se­
condo Dio. Essa dona alla lingua la facoltà di parlare a Dio, ma anche
di Dio e in Dio con pace, dolcezza, coraggio, sapienza; alle orecchie,
la facoltà di essere «attente agli insegnamenti divini non solo per ascol­
tarli, ma, come dice Davide, “per custodire la sua alleanza e ricor­
darsi di osservare i suoi precetti” (cfr. Sai 103[102],18)»297. E anche
grazie ad essa che «le nostre mani e i nostri piedi sono al servizio
della volontà divina»298.
Da quanto detto in precedenza, risulta che la preghiera rende l’uo­
mo veramente libero. Essa lo libera dalla sfera limitata e opprimente
del suo «io» decaduto per aprirlo all’infinità di Dio. Guarendo l’uo­
mo dal peccato e dalle passioni essa lo libera dalla loro schiavitù299e
da tutti gli effetti patologici. L’uomo, secondo la parola dell’Aposto­
lo, sperimenta «che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù del­
la corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio» {Rm
8,21). La preghiera lo fa uscire dallo stato di alienazione in cui il
peccato lo aveva posto. L’uomo, infatti, non è più mosso da forze estra­
nee, non è più sottomesso «alla legge del peccato che abitava in lui»
(cfr. Rm 7,17.20.23). Ritrova in Dio il suo vero essere e agisce così ve­
ramente da se stesso. Il solo fatto di recuperare in Dio la sua natura
gli conferisce la libertà, perché questa consiste, ricorda san Gregorio
di Nissa, nell’identità con la propria natura e nella conformità con es­
sa300. La preghiera rende l’uomo libero, perché riorienta il suo desi­
derio e la sua volontà verso Dio, loro fine naturale, e perché la li­
bertà consiste anche, come dice san Diadoco di Foticea, nella «volontà
di un’anima razionale pronta a muoversi verso il suo oggetto»301. In­
fine, la preghiera libera l’uomo perché egli riceve per suo mezzo la lu­
ce dello Spirito che, illuminando la sua intelligenza, lo libera dagli
2,7 Ibid., 2 ,20.
258 Ibid.
299 Vedi per esempio: GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Salmo 129,1. GIOVANNI C li-
MACO, La Scala, XXVm, 29.
300Cfr. Dialogo sull’anima e sulla risurrezione, 85.
501 Cento capitoli gnostici, 5.
359
errori, dalle illusioni, dai fantasmi e dai deliri imposti dalle sue facoltà
di conoscenza dal peccato e dalle passioni, e correlativamente gli con­
cede la possibilità di conoscere, e lo abbiamo visto, secondo la forma
più elevata dell’intellezione, la verità che libera (cfr. Gv 8,31). Poiché
l’uomo nella preghiera conosce il vero Bene e vi tende senza riflettere
e senza esitare, la sua libertà qui non è quella, imperfetta, che delibe­
ra, ma quella, perfetta, che si dirige immediatamente e spontaneamente
verso il Migliore302. Unito a Dio attraverso la preghiera, divenendo co­
sì partecipe di lui, l’uomo entra «nella libertà della gloria dei figli di
Dio» (Rm 8,21), cioè diviene, per partecipazione energetica, libero del­
la libertà di Dio stesso.
Oltre agli effetti terapeutici della preghiera, occorre sottolineare i
suoi molteplici effetti profilattici. «La preghiera, scrive san Giovanni
Crisostomo, è la custode della salute»303. «La preghiera è un gran be­
ne, un bene salutare, un bene che custodisce le nostre anime», nota an­
cora egli304. 1 Padri ne parlano frequentemente come di un’armatura305,
di uno scudo306, di un rifugio307, di un baluardo308. «Una fortezza è il
Nome del Signore; a lui ricorre il giusto ed è al sicuro» (Pro 18,10).
Il suo potere profilattico si manifesta in un duplice modo: «La pre­
ghiera conserva intatti i nostri beni e allontana prontamente i mali»,
fa notare san Giovanni Crisostomo309.
La preghiera, in modo generale, fortifica l’uomo: essa è altresì la
fonte principale di ogni forza che questi può acquisire. «La forza
deU’esicasta sta nell’abbondanza della sua preghiera», osserva san Gio­
vanni Climaco310. È soprattutto la preghiera che rende l’uomo capace,
al momento opportuno, di affrontare le tentazioni e resistere ad esse
vittoriosamente311, permettendogli così di evitare di ricadere nelle ma­
lattie. «Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione» (Mt
26,41); «Pregate per non cadere in tentazione» (Le 22,40), raccoman­
da il Cristo. Il potere profilattico della preghiera è così grande che
302 G iovan ni D am asceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, n, 22; IH, 14.
303 Omelie contro Anomei, VII, 7.
304 Omelie sulla lettera a Filemone, IH, 2.
305 G iovanni C risostomo , Omelie sull’iscrizione degli atti, V, 2.
306ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 21.
307 Ibid. G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, X X X , 5.
308G iovanni C risostomo , Catechesi battesimali, VII, 25.
309 Omelie contro gli Anomei, VII, 7.
310La Scala, X X V II, 105.
311 G iovanni C risostom o, Omelie contro gli Anomei, 1 ,7; Omelie sugli Atti, HI, 1. E sichio
DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 61.

360
«è impossibile che un uomo che prega con debito fervore e invoca Dio
incessantemente cada nel peccato»312. La preghiera fervida, infatti, ot­
tiene sempre l’aiuto della forza divina che permette all’uomo di far
fronte a qualsiasi avversario.
La lotta contro le tentazioni si ricollega sempre, in realtà, a una lot­
ta contro i demoni che insinuano tali tentazioni. La preghiera fortifi­
ca l’uomo in vista di questa lotta. Sta alla potenza irascibile dell’anima
condurre questo combattimento: la preghiera le fornirà le forze ne­
cessarie per uscirne vittoriosa. Ma la preghiera fortifica e rende pru­
dente anche lo spirito che «dirige le operazioni» dell’irascibilità «con­
tro le potenze avverse»313, a favore di tutte le facoltà dell’anima314. L’uo­
mo, di fronte a tutti gli attacchi dei suoi nemici, diviene allora invincibile
e sventa tutte le loro astuzie, fino alle più sottili, riducendole a totale
impotenza. «Colui che prega con tutto il cuore, starà immobile come
una colonna, e nessun demone si prenderà gioco di lui», scrive san
Giovanni Climaco315. La preghiera, di conseguenza, preserva l’uomo
da tutte le malattie e da tutte le forme di follia di cui i demoni sono
causa diretta. Essa lo preserva particolarmente dalla temibile angoscia
che essi cercano di insinuare nell’anima316.
La preghiera aiuta, dunque, l’uomo a distaccarsi progressivamen­
te dal mondo317 e da se stesso. Difatti, scrive sant’Isacco il Siro, «la
preghiera è la morte dei pensieri provenienti dalla volontà della car­
ne. Colui che prega è simile a colui che è morto ed è fuori dal mon­
do. Perseverare nella preghiera «è rinunciare a se stessi»318. Essa fa
trionfare l’uomo sulla sua natura decaduta319e fa morire in lui l’uo­
mo vecchio320. Contemporaneamente, essa lo riveste dell’uomo nuo­
vo unendolo a Dio. Per mezzo del suo atto proprio di «conversazio­
ne con Dio»321«la preghiera compie il sacramento della nostra unio­
312 G iovanni C risostomo , Omelie su Anna, IV, 5.
313 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 4 9 ; 7 3; 89.
314 Cfr. ibid, 49.
315 La Scala, X V III, 3.
316Cfr. G iovanni C risostom o, Omelie su Anna, IV, 5. G iovanni C lim aco, La Scala, X X , 7.
317 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici; gnostici e pratici, 1 , 18. G iovan ni C ri­
sostom o, Omelie contro gli Anomei, VII, 7 ; Commento al Salmo 129,1.
318Discorsi ascetici, 69.
319G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XLIX, 3.
320 Cfr. G iovanni di G aza, Lettere, 143. D iadoco di Foticea, Cento capitoli gnostici, 85.
ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 32.
321 E questa la definizione che ne dà EVAGRIO, La preghiera, 3 . Il term ine che egli usa:
omilta può essere tradotto anche con: la compagnia, il com m ercio abituale e intimo, la relazio­
ne e la conversazione familiari. Una definizione simile è data da GIOVANNI CRISOSTOMO, Ome­
lia sulla Genesi, X X X , 5. Vedi anche ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 35.
361
ne con Dio»322, e ci dà il potere di conoscere di nuovo lo stato di pros­
simità e di familiarità che caratterizzava in paradiso la relazione tra
Adamo e il suo Creatore323. Tutto ciò si verifica anche perché, essen­
do la preghiera il principio di tutte le virtù324, «è unione dell’anima
con Dio»325. Soprattutto per la virtù della carità, che la preghiera ha
più di ogni altro atteggiamento spirituale il potere di suscitare326e svi­
luppare327, essa permette all’uomo di unirsi a Dio. «Preghiamo per
acquistare l’amore di Dio; [infatti], troviamo nella preghiera le cau­
se che ci fanno amare Dio», scrive sant’Isacco il Siro328. «L’amore è il
frutto della preghiera», aggiunge ancora329. E san Massimo sottolinea
lo stretto legame che vige tra la carità e la preghiera pura: «Chi ama
sinceramente Dio prega assolutamente senza distrazione, e chi prega
assolutamente senza distrazione ama anche sinceramente Dio»330.
Ad ogni modo, «quando la preghiera penetra nell’anima, ogni virtù
entra con essa»331. Di conseguenza, l’uomo può per mezzo della pre­
ghiera ritrovare la salute di ogni sua facoltà e di tutto il suo essere, e
può quindi godere in questo stato di «un’infinità di beni», di cui la
preghiera è il principio332.
Poiché, «attraverso la preghiera, il medico delle anime purifica lo
spirito»333, l’anima e il corpo dell’uomo, essa è per lui una delle prin­
cipali vie d’accesso alla conoscenza spirituale. Guarendo l’uomo dal­
le passioni, il Medico divino lo libera da ciò che gli impediva di co­
noscere adeguatamente ogni realtà, inducendolo in errore, producen­
do in lui ogni sorta di illusioni, e immergendolo totalmente nell’igno­
ranza dell’essenziale. Purificato dalle passioni, l’uomo è pronto ad es­
sere illuminato dallo Spirito Santo334. Ciò che prima era incompren­
sibile all’uomo gli diviene comprensibile.
322 G regorio P alamas, La preghiera, P G 1 5 0 ,1117B.
325 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 80.
m San G regorio di Nissa la definisce «conduttrice del coro delle virtù» (Sulfine da perse­
guire secondo Dio e la vera ascesi, 30 1 D ), e san Giovanni Clim aco la definisce «regina di tutte
le virtù» (La Scala, X X V III, 7 ).
325 G iovanni C um aco , La Scala, XXVIII, 1.
326Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie suUa carità, 1, 11. T eoletto di F iladelfia , No­
ve capitoli, HI. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 57; 58.
327Cfr. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 4,2.
328Discorsi ascetici, 35.
™Ibid., 69.
330Centurie sulla carità, II, I.
331 Giovanni Crisostomo, citato da CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 29 .
332GIOVANNI Crisostomo, Catechesi battesimali, vn, 25. Cfr. Omelie contro gliAnomei, V, 7.
333 EVAGRIO P ontico , Sui diversi pensieri della malvagità, 3.
334 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie contro gliAnomei, in , 6; VII, 7. I sacco il S iro ,
Discorsi ascetici, 13.
362
Egli giunge, prima di tutto, a conoscere se stesso adeguatamente.
Sant’ Esichio di Batos osserva che solo la preghiera conferisce all’uo­
mo «la conoscenza interiore»335. San Giovanni Climaco la considera
in questo senso come «il test dello stato della nostra anima»336. «La
preghiera ti farà conoscere lo stato della tua anima. I teologi, infatti,
chiamano la preghiera lo specchio del monaco», afferma il santo au­
tore altrove337. Nella preghiera, lo Spirito Santo rende effettivamente
l’uomo consapevole di ciò che prima ignorava, gli dà la possibilità di
conoscere il suo «fondo nascosto» dove sussistono le «passioni segre­
te»338, e nello stesso tempo gli fornisce il mezzo per rimediarvi. Co­
me scrive Evagrio, l’anima agisce per mezzo del corpo, percepisce le
membra che sono malate, così lo spirito [...] [pregando], impara a co­
noscere le sue potenze, e attraverso quelle che fanno da ostacolo sco­
pre il comandamento capace di guarirla»339. L’uomo può, così, in­
camminarsi verso la completa guarigione delle malattie della sua ani­
ma e ritrovare la salute. Quando l’uomo prega profondamente, osserva
san Pietro Damasceno, «è allora che lo spirito inizia a vedere le pro­
prie colpe come la sabbia del mare. E là l’origine dell’illuminazione
dell’anima, quindi il segno della sua salvezza»340. Correlativamente,
la preghiera permette all’uomo di accedere alla conoscenza della sua
vera natura e di vedersi nella sua realtà spirituale d’immagine di Dio341.
Essa appare, perciò, come una delle chiavi principali della conoscen­
za adeguata del prossimo, ma anche di ogni realtà, perché «a colui che
conosce se stesso è data la conoscenza di tutto»342e «conoscere se stes­
si è il compimento della conoscenza dell’universo»343.
Nello stesso tempo in cui la preghiera permette all’uomo di cono­
scere se stesso, essa gli dà l’accesso, lo vedremo più avanti, alla cono­
scenza di Dio nella forma più alta che questa può rivestire: quella che
Dio stesso dona per mezzo del suo Spirito344.

335 Capitoli sulla vigilanza, 61.


m La Scala, XXVIH, 1.
337 Ibid., yi.
338 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 17.
339 Trattato pratico sulla vita monastica, 82.
340Libro, I.
341 Cfr. E sichio di B atos, Capitoli sulla vigilanza, 61.
342ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 16. Stessa affermazione in PIETRO DAMASCENO, Libro, II.
G iovanni Crisostomo, Commento a san Matteo, XXV, 4.
343 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 16.
344 Ibid., 32.

363
b) Il metodo di preghiera esicasta
Quanto detto finora può applicarsi alle diverse forme di preghiera,
ma riguarda in modo particolare e preminente la «preghiera di Gesù»
(Ièsoù euche) che nella spiritualità ortodossa occupa un posto fonda­
mentale, essendo considerata la forma di preghiera più perfetta, quin­
di inclusiva delle qualità di tutte le altre. E a questo tipo di preghiera
che i Padri concedono il nome di orazione (proseuche) in senso stret­
to, ponendola al di sopra delle altre forme di preghiera e particolar­
mente della salmodia345.
Tale preghiera, nella sua perfezione, ha un legame essenziale con la
contemplazione, di cui avremo modo di parlare al termine della no­
stra opera come della «più elevata di tutte le azioni»346. Ma, nello stes­
so tempo in cui questa prende posto in cima alla vita spirituale, ap­
pare anche come una delle basi di questa, come uno dei principali mez­
zi che permettono all’uomo, per la grazia di Dio, di essere purificato
dai suoi peccati, guarito dalle passioni e di acquistare le virtù. Essa è,
dicono san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo, «l’inizio di tutta l’ope­
ra amata da Dio»347. Ecco perché non solo è opportuno, ma anche ne­
cessario parlarne ora.
Questa preghiera ha la sua origine in una pratica che risale all’ini­
zio del monacheSimo348 (alcuni Padri le attribuivano persino un’origi­
ne apostolica), e che consiste nella ripetizione mentale349, incessante,
di una formula breve350di preghiera, dovendo questa brevità favorire
la continuità della preghiera e, nello stesso tempo, il raccoglimento ne­
cessario affinché questa sia pura.
Diverse formule di preghiere brevi351sono state impiegate per que-
545 Cfr. E vaghio P o n tic o , La preghiera, 83; 85. GREGORIO i l SlNATTA, Sull’esicbia e i due mo-
di della preghiera, 5-9. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Metodo della santa orazione e attenzione,
éd. Hausherr, p. 167.
346GREGORIO IL SlNATTA, Come Vesicasta deve stare nella preghiera.
347 Centuria, 8.
348 Cfr. AGOSTINO. «Si dice che, in Egitto, i fratelli fanno delle preghiere frequenti ma mol­
to brevi» (Lettere, 130, P L 3 3 , 5 01D ). Tale questione è stata studiata in particolare da I. H au -
SHERR, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960, pp. 123s.
349 Q uesto gli vale spesso il nome di krypte meléte (meditazione nascosta). A questo riguar­
do vedi: I. HAUSHERR, op. cit., pp. 167-179.
350 Per questo motivo, essa è spesso chiamata «monologia» o «preghiera monologica» {pro­
seuche monológistos). Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 5 2 ; XXVIII, 5 , 1 0 . ELIA ECDICO,
Antologia gnomica, 94; Capitoli gnostici, 65; 75. GREGORIO PALAMAS, Tre capitoli sulla preghie­
ra e la purezza del cuore, 3. NlCODEMO L’AGIORITA, Enchiridion, 10.
351 Su questo argomento vedi: I. HAUSHERR, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960,
pp. 177-215.

364
sta pratica, ma una tra queste si è progressivamente imposta a parti­
re dal V-VII secolo352fino a divenire la formula tradizionale della pre­
ghiera di Gesù: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di
me»353.
Se quest’ultima formula alla fine ha «acquistato il monopolio», è
perché essa comporta molteplici vantaggi.
a) Costituisce una richiesta a Dio di aiuto, di misericordia e di
perdono totale (il greco elééson ha un significato più ampio di qual­
siasi traduzione: «abbi pietà»), significato che in sostanza include le
formule evangeliche delle preghiere dei dieci lebbrosi (cfr. Le 17,13),
del cieco di Gerico (cfr. Le 18,38; Me 10,47), e dei due ciechi (cfr. Mt
20,30).
b) Ha un marcato carattere penitenziale, ancor più accresciuto quan­
do gli si aggiunge la parola «peccatore», secondo l’esempio del pubbli­
cano (cfr. Le 18,13): essa permette così di praticare quello che è, lo ab­
biamo visto, uno dei primissimi comandamenti del Cristo: «Pentitevi
e fate penitenza!».
c) E confessione di fede, che include le principali verità della fede
cristiana354: l’affermazione che nell’unica Persona divina del Cristo so­
no riunite la natura divina e quella umana, l’affermazione che Dio è
Trinità, l’affermazione che Gesù Cristo è il Salvatore. Infatti, nel chia­
mare Gesù Cristo «Signore», essa confessa l’unicità della sua perso­
na e la sua divinità; dicendo «Gesù», confessa la sua natura umana; di­
cendo «Cristo», confessa le sue «due nature, quella divina e quella
umana, in una sola persona e una sola ipostasi»355; chiamandolo «Fi­
glio di Dio», essa lo confessa come Figlio unigenito del Padre e con­

352Cfr. B. K rivochÉINE, «Date du texte traditionnel de la “Prière de Jésus”», in Messager de


l’exarchat du Patriarche russe en Europe occidentale, 7-8,1951, pp. 55-59. San Marco d’Efeso af­
ferma l’origine apostolica di questa formula («Sulle parole della santa preghiera: Signore Gesù
Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me», testo presentato come anonimo nella Filocalia, t. V,
pp. 63-68). Un’affermazione simile figura in CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 50.
353 Questa formula è talvolta ampliata con l’aggiunta della parola «peccatore» (uso russo) e,
talvolta, sintetizzata sotto la forma: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me». La tesi del MO­
NACO DELLA CHIESA D’ORIENTE (L. G illet) nella sua opera La prière de Jésus (Chevetogne 1947,
19634), secondo cui essa potrebbe essere ridotta al solo Nome di Gesù è sprovvista di fonda­
mento tradizionale come ha dimostrato I. H aushekr (la cui opera citata sopra mira a confuta­
re questa tesi), e come ha sottolineato Basile Krivochéine nella recensione che egli ha fatto di
quest’opera (Messager de l’exarchat du Patriarche russe en Europe occidentale, 46-47,1964,
pp. 80-183). Vedi anche a questo riguardo: A. SCRIMA, «Réflexion sur les rythmes et la fonction
de la tradition athonite», in Le Millénaire du Mont-Athos, t. II, Chevetogne 1964, pp. 301-324.
354 Essa è commentata in questo senso nel testo già citato della Filocalia intitolato: Sulle pa­
role della santa preghiera, Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, ahhi pietà di me.
™Ibid.
365
fessa di nuovo la sua divinità; con quest’ultima espressione essa invo­
ca il Padre; nello stesso tempo, essa implica lo Spirito Santo, poiché
nessuno può dire «“Gesù Signore” se non in virtù dello Spirito San­
to» (lCor 12,3). Infine, dicendo «abbi pietà di me», implicitamente
essa confessa che Gesù Cristo è l’unico Salvatore. Ecco perché, co­
me fa notare il Pellegrino russo, «i Padri dicono che la Preghiera di
Gesù è la sintesi di tutto il Vangelo»356.
d) Attraverso questa stessa confessione, essa è persino lode e ado­
razione.
e) Essa include il nome di Gesù. Questo è unito alla stessa Persona
di Cristo, partecipa della sua potenza, mette alla sua presenza e rende
partecipe della sua energia colui che lo invoca come si deve, così co­
me un’icona mette colui che la venera alla presenza della Persona che
essa rappresenta e lo rende partecipe delle energie che essa stessa ma­
nifesta.
f) Per questo motivo, il Nome che è al di sopra di ogni nome pos­
siede una particolare efficacia per combattere i nemici spirituali del­
l’uomo. A tutti è nota la celebre raccomandazione di san Giovanni Cli-
maco: «Flagella i tuoi nemici con il Nome di Gesù, perché non vi è ar­
ma più potente in cielo e sulla terra»357. Tale Nome possiede anche
l’efficacia per elevare l’uomo fino alle vette della vita spirituale.
In quanto preghiera breve, la preghiera di Gesù ha due vantaggi
principali.
a) Facilmente memorizzabile e potendo essere recitata mentalme
te, con facilità, rapidamente ed in ogni circostanza, essa permette an­
cor più facilmente di compiere il comandamento del Cristo di «pre­
gare sempre, senza stancarsi mai» (Le 18,1) e la raccomandazione del­
l’Apostolo che ricorda: «Pregate senza interruzione» (Ili 5,17), che
i Padri hanno preso alla lettera, cercando di sperimentare in se stessi
uno stato permanente (katàstasis, status) ed effettivo di preghiera
che consiste nell’atto di una preghiera ininterrotta (adiàleiptos).
La pratica della preghiera di Gesù consiste, in effetti, nel ripetere
la formula il maggior numero di volte possibile, fino a quando essa di­
venga così frequente come i movimenti della respirazione o i battiti
del cuore, e prosegua così, fin nel sonno358, un continuo «ricordo di
356Racconti di un pellegrino russo, Secondo racconto.
357La Scala, XX, 7. Cfr. EsiCfflO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 152; 174.
358 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVII, 88. C allisto e I gnazio X antopulo , Centu­
ria,, 25.
366
Dio» (mneniè theoü), secondo il nome che le dànno comunemente i
Padri. Ecco perché san Giovanni Climaco consiglia: «Fa’ entrare in te
con l’aria che respiri, inseparabilmente, le parole di colui che ha det­
to: “Chi avrà perseverato sino alla fíne, questi si salverà” (Mt 10,22)»359;
«il ricordo di Dio faccia un tutt’uno con il tuo respiro»360. Sant’Esi-
chio di Batos, che da parte sua riprende diverse volte quest’ultima rac­
comandazione361, osserva che in ima tale preghiera, «senza stancarsi
mai né interrompersi, l’anima respira e invoca sempre Cristo Gesù, Fi­
glio di Dio e Dio egli stesso»362. E aggiunge: «Beato veramente colui
che con tutta la riflessione del suo spirito è incollato alla preghiera di
Gesù e lo invoca continuamente nel suo cuore, come l’aria si unisce al
nostro corpo e la fiamma ai ceri»363.
Questa ripetizione all’inizio fatta vocalmente, poi mentalmente364,
nella sua perfezione è fatta spontaneamente dal cuore stesso, di qui
il nome di «preghiera del cuore» che talvolta le è dato.
b) L’uomo ha come compito, secondo la raccomandazione dell’A
postolo, oltre quello di pregare continuamente (cfr. iTs 5,17) anche
quello di offrire a Dio una «preghiera pura» (cfr. 2Tm 2,22). E questo
lo scopo che i Padri assegnano a tutta l’ascesi365, e noi vedremo più
avanti che è a una tale preghiera che è legata la conoscenza/visione di
Dio, fine ultimo di tutta la vita cristiana.
Sant’Isacco il Siro osserva: «Tutte le forme che può assumere la pre­
ghiera hanno il loro effetto e il loro fine nella preghiera pura»366. Ve­
dremo in seguito cosa è una preghiera pura in tutte le accezioni di que­
sto aggettivo. Vorremmo solo ricordare qui il suo significato più ele­
mentare, legato al carattere stesso della preghiera di Gesù: si tratta
di una preghiera senza distrazione (aperispastos), di una preghiera al­
la quale non si mescola alcun pensiero estraneo al suo proprio conte­
nuto367. Ciò suppone una concentrazione perfetta dello spirito, un rac­
coglimento totale di tutte le facoltà dell’uomo.
In quanto preghiera breve, la preghiera di Gesù favorisce tale con-
La Scala, IV, 122.
355960Ibid., XXVII, 62.
361 Capitoli sulla vigilanza, 100. Cfr. 182; 183; 189.
362Ibid., 5. Cfr. 187: «Respirando continuamente il Cristo Gesù».
363 Ibid., 196.
364 Cfr. GREGORIO IL S inatta, Come Vesicasta deve stare nella preghiera.
365 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, IX, 2.
366Discorsi ascetici, 32.
367 Cfr. ibid. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 69; La preghiera, 34 a.
B arsanufio, Lettere, 150.

367
centrazione evitando al pensiero di disperdersi e allo spirito di distrarsi,
il che rischia più facilmente di verificarsi nel caso di una formula di
preghiera più sviluppata. Essa risponde, così, perfettamente a questa
raccomandazione di san Giovanni Climaco: «Non cercare di parlare
troppo quando preghi, affinché il tuo spirito non si distragga nel cer­
care le parole. Una sola parola del pubblicano placò Dio e un solo gri­
do di fede salvò il ladrone. La loquacità nella preghiera spesso disperde
lo spirito e lo riempie d’immagini, mentre la monologia ordinariamente
lo raccoglie»568. San Giovanni Climaco ricorda, tra l’altro, a questo ri­
guardo l’insegnamento di san Paolo: «Un grande esperto della pre­
ghiera sublime e perfetta ha detto: “Preferisco dire cinque parole con
la mia intelligenza” (ICor 14,19)»369. Si noterà che proprio da cinque
parole è costituita la formula greca abbreviata della preghiera di Ge­
sù: Kyrie lèsoti Xristé, eléèsón me.
Tuttavia, per giungere alla concentrazione richiesta, non basta la bre­
vità della formula usata. Alla preghiera di Gesù si ricollegano un in­
sieme di atteggiamenti spirituali, psichici e fisici che permetteranno
all’orante di giungere a una preghiera senza distrazione. La pratica del­
la preghiera di Gesù è, infatti, legata secondo i Padri a un metodo370, di
cui uno degli elementi più conosciuti è quello di una tecnica psicofisica.
Porre in pratica questa tecnica suppone un certo numero di con­
dizioni: l’isolamento371, il silenzio372, l’oscurità373, l’immobilità374, e la
posizione seduta375.
Lo scopo di questa tecnica è triplice:
a) Far partecipare il corpo alla preghiera e permettergli di riceve
ne dei benefici376.
m La Scala, XXVIII, 10.
369Ibid., XXVni, 22.
,70 Cfr. M arco l’E remtta, A Nicola, 12-13. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 18.
Uno dei principali trattati sulla preghiera di Gesù s’intitola: Méthodos tès iéras próseuchès.
371Cfr. SIMEONE IL N uovo T eologo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
164. N iceforo il S olitario , Trattato sulla sobrietà.
372 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , loc. cit. C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria,
23; 24; 25. NlCODEMO L’AGIORITA, Enchiridion, 10.
373 Cfr. ibid.
374 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 24.
375 N iceforo il Solitario , Trattato sulla sobrietà. T eoletto di F iladelfia , Sull’azione se­
greta. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
p. 164; 165. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 23; 25. G regorio il Sinaita , Sull’esi-
chia e i due modi della preghiera («Siediti su una sedia alta mezzo cubito»); Come l’esicasta de­
ve stare nella preghiera.
376Cfr. G regorio P alamas, Triadi, II, 2,12.
368
b) Favorire la continuità della preghiera legandola al ritmo respi­
ratorio. E così che molti Padri consigliano di legare la prima parte del­
la formula: «Signore Gesù Cristo (Figlio di Dio)» all’inspirazione, e la
seconda parte: «abbi pietà di me (peccatore)» all’espirazione. A que­
sto riguardo, però, esistono diversi metodi.
c) Favorire la concentrazione, il raccoglimento, l’attenzione377. È
questo il principale scopo che gli assegnano i Padri. San Callisto e
sant’Ignazio Xantopulo osservano: «I Padri divini non hanno visto al­
tro in queste cose se non un aiuto per raccogliere lo spirito, farlo tor­
nare in se stesso, al di fuori della sua abituale agitazione, e ridargli l’at­
tenzione»378.
Raccogliere lo spirito, in altri termini, è fare tornare lo spirito nel
cuore.
Per comprendere cosa significa questo, occorre sapere che il ter­
mine «cuore» nella lingua dell’ascetica ortodossa indica due realtà: una
realtà spirituale e una realtà fìsica. H cuore, da un lato, indica, confor­
memente all’accezione principale neotestamentaria di questo termine,
l’uomo interiore379, l’insieme delle facoltà dell’anima380, più precisa-
mente la loro radice381. Esso è il centro ontologico dell’uomo, la sua
stessa interiorità; s’identifica con la sua persona. Dall’altro lato, il cuo­
re indica, secondo l’accezione comune, l’organo corporeo.
Ora i Padri esicasti hanno constatato per esperienza che tra il cuo­
re «spirituale» e il cuore fìsico, centro del corpo e principio della sua
vita, vi è una corrispondenza analogica, e in virtù dell’unità dell’ani­
ma e del corpo nel composto umano, una connessione che consente
che il primo risieda nel secondo382e quello che colpisce l’uno colpisce
anche l’altro, benché il cuore spirituale sia per natura indipendente
dal cuore fisico.
Lo spirito stesso è uno degli organi del cuore spirituale383, il più im­
portante, anche se talvolta viene chiamato «cuore» per metonimia,
,77 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 18.
378Ibtd., 24.
m Vedi per esempio: GREGORIO DI NlSSA, Omelie sulle Beatitudini, VI, 4. ISACCO IL SlRO,
Discorsi ascetici, 30. T eoletto DI FILADELFIA, Sull’attiviti segreta. NlCODEMO l’A giorita , En-
chiridion, 10.
,8° Cfr. SlMEONE IL N uovo T eologo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hau-
sherr, p. 164. NlCEFORO IL SOLITARIO, Trattato sulla sobrietà.
581 Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 83.
382 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,2 , 3. N iceforo il S olitario , Trattato sulla sobrietà.
N icodemo L’A giorita , Enchiridion, 10.
383 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 83.

369
benché l’appellativo di «occhio del cuore», che frequentemente gli vie­
ne attribuito, sia più appropriato. Quantunque esso sia per natura in­
corporeo e indipendente dal corpo, ha la sua sede nel cuore fìsico384.
Tuttavia, ordinariamente, lo spirito è separato dal cuore, si diffon­
de e si disperde nei pensieri fuori da quest’ultimo, e da questo fuori
da se stesso. In ciò non vi è contraddizione, perché se lo spirito, per
sua natura o sua essenza iousia), ha sede nel cuore, per la sua attività
(ienérgeia), esso può allontanarsene385, più precisamente attraverso quel­
la delle sue due forme di attività che san Dionigi l’Areopagita chia­
ma «movimento in linea retta»386, e che corrisponde all’esercizio del­
la ragione il cui organo è il cervello387. La seconda delle sue due atti­
vità, che Dionigi chiama «circolare»388, «è [la sua] attività più eccellente
e la più propria»389: in questa attività esso «non si diffonde al di fuo­
ri, ma rientra in sé»390, ritrova se stesso391, e rimane unito al cuore. È
così salvaguardato da ogni deviazione392.
È a questa seconda attività dello spirito che deve corrispondere la
preghiera. Affinché esso possa dedicarvisi esclusivamente, occorre che
cessi la prima. Occorre, detto in altre parole, «raccogliere lo spirito di­
sperso al di fuori» e ricondurlo al di dentro, far rientrare lo spirito nel
cuore, e mantenervelo.
Basandosi sulla relazione che unisce, come abbiamo visto, il cuore
fìsico al cuore spirituale, i Padri esicasti consigliano il metodo psico­
fisico, relazione che deve permettere, a colui che la pratica, di perve­
nire più facilmente a «circoscrivere l’incorporeo nel [la] dimora cor­
porea», come afferma san Giovanni Climaco393.
384 Cfr. GREGORIO Palam as, Triadi, I, 2 ,3 ; n, 2,27-30. L’unione dello spirito e del corpo, e
quindi del cuore, è messa alla prova come un fatto di esperienza, ma difficilmente spiegabile
concettualmente. E così che san Gregorio Palamas scrive: «Io credo che possiamo parlare del
“contatto”, delT“uso” e dell’“unione” che qui avvengono. Tuttavia, nessun uomo può conce­
pire ed esprimere la qualità propria di queste relazioni tra la natura spirituale e quella fìsica o
il corpo» {Triadi, II, 2 ,2 8 . Crr. 29).
3 Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, 1,2,5. Questa distinzione tra la natura e l’attività è ri­
presa anche in ibid., II, 25 e 26.
386Sui Nomi divini, IV, 9. Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 5. NlCODEMO L’AGIORITA,
Enchiridion, 10.
387 NlCODEMO L’A giORITA, Enchridion, 10.
388Sui Nomi divini, IV, 9. Cfr. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 5. NlCODEMO L’AGIORITA,
Enchiridion, 10.
389 G regorio P alamas , Triadi, 1,2,5.
m Ibid.
391 Cfr. B asilio di C esarea, Lettere, I. T eoletto di F iladelfia , Nove capitoli, 1. C allisto
e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 19. NlCODEMO L’A giORITA, Enchiridion, 10.
392 Cfr. D ionigi l’A reopagita , Sui Nomi divini, IV, 9. G regorio P alamas, Triadi, 1 ,2 ,5 .
N iceforo il Solitario , Trattato sulla sobrietà.
393 La Scala, XXVII, 7.
370
1) Questo metodo consiste, in primo luogo, nell’inclinare la testa
e poggiare il mento sul petto394, nel concentrare lo sguardo, chiuden­
do gli occhi, sul luogo del cuore, o, come raccomanda san Simeone il
Nuovo Teologo, sull’ombelico395. San Gregorio Palamas giustifica
così questa pratica: «Colui che cerca di far tornare il suo spirito in se
stesso al fine di spingerlo non al movimento in linea retta, ma al mo­
vimento circolare [...], non solo si raccoglierà così esteriormente su se
stesso, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento in­
teriore che egli ricerca per il suo spirito; ma di più, dando una tale po­
stura al suo corpo, egli rovescerà verso l’interno del cuore la potenza
dello spirito che passa attraverso la vista verso l’esterno»396.
2) Si tratta, d’altra parte, di rallentare il ritmo della respirazione, di
trattenere un po’ il respiro «in modo da non respirare agevolmente»397.
Questa pratica ha quattro ragioni d’essere.
a) Come osserva san Gregorio il Sinaita, «la tempesta dei soffi che
sale dal cuore oscura lo spirito e agita l’anima, la distrae, la consegna
prigioniera all’oblio, oppure le fa rivivere ogni sorta di cose in conti­
nuazione e la getta insensibilmente in ciò che non è necessario»398. Se
una respirazione libera contribuisce alla dispersione dello spirito, al
contrario una respirazione repressa e trattenuta lo disciplina399. Pos­
siamo constatare, fa notare san Gregoric\Palamas, che «l’andirivieni
del respiro diviene tranquillo quando ogni riflessione intensa, so­
prattutto in coloro che, con il corpo e con lo spirito, sono in riposo»400.
Inversamente, il rallentamento della respirazione favorisce il raccogli­
mento dello spirito401.
b) Il trattenere il respiro, e allo stesso tempo la posizione scomoda
del corpo, producono un certo disagio e anche un certo dolore402
che ha, secondo i Padri, effetti benefici. Da un lato, però, questo con­
tribuisce anche al raccoglimento. «Controllare con misura la respira-
m NlCODEMO L’A g IORTTA, Enchiridion, 10.
395Metodo della santa orazione e l’attenzione, éd. Hausherr, p. 64: «Appoggia] la tua barba
sul petto e volg[i] rocchio corporeo con tutto lo spirito sul centro del ventre, ossia sull’ombe­
lico».
396 Triadi, 1,2, 8.
397 SlMEONE IL N uovo T eo logo , Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr,
p. 164. G regorio il Sinaita , Sull’esichia e i due modi della preghiera.
398Loc. cit.
399GREGORIO IL SINAITA, Come l’esicasta deve stare nella preghiera.
400Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,2,7.
401 Ibid.
402 GREGORIO IL S inaita , Sull’esichia e i due modi della preghiera; Come l’esicasta deve stare
nella preghiera.
371
adone, spiega san Nicodemo l’Agiorita, tormenta, comprime, e di con­
seguenza fa penare il cuore che non riceve l’aria richiesta per sua na­
tura. Lo spirito, da parte sua, grazie a questo metodo, si raccoglie
più facilmente e ritorna al cuore, in ragione [...] della pena e del do­
lore del cuore»403. Dall’altra, fa notare san Nicodemo, «questa pena
e questo dolore fanno vomitare [al cuore] l’amo avvelenato del pia­
cere e del peccato che egli aveva ingoiato. E seguendo l’adagio dei vec­
chi medici, il contrario guarisce il contrario»404.
c) «Il controllo della respirazione, come osserva ancora san Nico­
demo l’Agiorita, affina il cuore duro e spesso. E gli elementi umidi del
cuore opportunamente compressi, riscaldati, in seguito a ciò, diven­
gono più teneri, più sensibili, umili, meglio disposti alla compunzio­
ne, e adatti a versare più facilmente le lacrime. Anche il cervello, d’al­
tra parte, si affina e, nello stesso tempo, con esso, l’azione dello spiri­
to che diviene uniforme, trasparente»405.
d) «Trattenendo il respiro, spiega san Nicodemo, tutte le altre po­
tenze dell’anima si uniscono e tornano allo spirito e dallo spirito a
Dio»406. Detto in altre parole, il metodo contribuisce a che tutte le
facoltà siano unite nella preghiera e tese verso Dio, e a che l’uomo di­
venga interamente preghiera e si unisca completamente a Dio.
3) Il metodo psico-fisico consiste, infine, nell’unire lo spirito al r
spiro e nello spingerlo a entrare con esso nel petto fino al luogo del
cuore407. San Niceforo il Solitario consiglia: «Raccogli il tuo spirito, in­
troducilo - dico il tuo spirito - nelle narici; è il cammino che prende
il respiro per andare nel cuore. Spingilo, forzalo a discendere nel tuo
cuore mentre l’aria viene inspirata»408. E san Callisto e sant’Ignazio
Xantopulo raccomandano: «Raccogli il tuo spirito fuori del suo tur­
binio abituale e il suo errare. Spingilo dolcemente all’interno del cuo­
re con l’inspirazione. E conserva in esso la preghiera: “Signore Gesù
Cristo, abbi pietà di me”»409.
Notiamo che questa tecnica dev’essere in ogni caso praticata sotto la
direzione di un padre spirituale esperto, perché, nel caso contrario, ri-
schierebbe d’introdurre attraverso il corpo e la psiche gravi turbamenti.

403 Enchiridion, 10.


404 Ibid.
405 Ibid.
406 Ibid.
407 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 20; 23.
408 Trattato sulla vigilanza e la custodia del cuore.
409 Centuria, 25.
372
Dopo aver presentato i principi del metodo psico-fisico, occorre
sottolineare che questo non è assolutamente indispensabile e non ha
che un ruolo ausiliare410.1 Padri gli attribuiscono un ruolo essenzial­
mente propedeutico e lo consigliano soprattutto ai principianti411. Es­
si riconoscono che si può giungere allo stesso risultato per altre vie.
Per questo, san Niceforo il Solitario, uno dei principali promotori di
questo metodo, così scrive: «Se, malgrado tutti gli sforzi, tu non arri­
vi a penetrare nelle parti del cuore seguendo le mie indicazioni, fa’ co­
me ti dico e, con l’aiuto di Dio, raggiungerai il tuo scopo [...]. Dopo
aver bandito dal[la] ragione ogni pensiero (tu puoi, basta volerlo) da’
ad essa il “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” e costringila a gri­
dare interiormente, escludendo ogni altro pensiero, queste parole.
Quando, con il tempo, tu sarai padrone di questa pratica, essa sicura­
mente ti aprirà l’ingresso del cuore, così come ti ho già detto»412.
In ogni caso, nessun metodo potrebbe essere considerato una tec­
nica suscettibile di produrre da sé effetti spirituali, i quali possono es­
sere il frutto solo della grazia divina. Ciò che importa per ricevere que­
sta grazia, sono la fede e il fervore che l’uomo manifesta verso Dio nel­
la sua preghiera, non il metodo in sé, che è solo un aiuto il cui ruolo
si limita a facilitare l’attenzione413.
Il metodo fisico facilita l’accesso dello spirito al cuore, ma non
per questo lo rende più facile. Non in tutti i casi, e anche dopo mol­
to tempo, e dopo molti esercizi, si può giungere a pregare continua-
mente e in maniera pura nel cuore414; occorre altresì precisare che que­
sta è una grazia alla quale accedono solo pochi spirituali415, appena un
paio per generazione, afferma sant’Isacco il Siro416.
La preghiera di Gesù, infatti, è indissolubilmente legata all’insieme
della vita ascetica, di cui essa è sia lo scopo che il fine. In quanto mo­
do di pregare, essa ne è, come ogni altra forma di preghiera, anche la
condizione. In quanto questa è, in tutta la sua perfezione, preghiera
pura permanente, presuppone al contrario come condizione tutta una
410Cfr. ibid., 24.
411 Cfr. GREGORIO IL Sinaita , Come l’esicasta deve stare nella preghiera. CALLISTO e IGNA­
ZIO XANTOPULO, Centuria, 23; 24. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 7-8. NlCODEMO L’AGIORI-
TA, Enchiridion, 10.
412 Trattato sulla sobrietà.
413 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 24.
414 Cfr. ibid, 52. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 2, 8; Tre capitoli, 2.
415 C a llis to e Ig n a zio X a n to p u lo , Centuria, 52. Esicmo di B atos, Capitoli sulla vigilan­
za, 1; 115. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IV, 51.
416Discorsi ascetici, 32.
373
vita ascetica; esige che siano state superate con successo tutte le tap­
pe della praxis. Riguardo a queste condizioni spirituali, il metodo psi­
co-fìsico è del tutto accessorio417: esso non avrebbe nessuna utilità se
queste non fossero messe insieme.
Tra le condizioni che devono necessariamente accompagnare la pre­
ghiera di Gesù, occorre citare in primo luogo la vigilanza (nèpsis), che
esamineremo in seguito, per mezzo della quale si compiono allo stes­
so tempo la custodia del cuore e quella dello spirito, la cui funzione
è rispettivamente quella di purificare il cuore da ogni pensiero pas­
sionale, e quella di purificare lo spirito da ogni rappresentazione
(immagine o pensiero) estranea al contenuto stesso della preghiera.
Occorre citare anche la compunzione418, l’umiltà419e l’amore di Dio420
ai quali i Padri riconoscono un ruolo essenziale e indispensabile.
Bisogna, però, sottolineare che la pratica della preghiera di Gesù
esige nello stesso tempo che sia condotta la lotta contro tutte le pas­
sioni fino all’impassibilità421e che correlativamente siano praticate tut­
te le altre virtù422. In altre parole, tale preghiera è indissociabile dalla
pratica attiva di tutti i comandamenti divini423.

5.11 rimedio dei comandamenti


La fede, il pentimento, la preghiera, insieme alla ricezione dei sa­
cramenti, non bastano alla salvezza dell’uomo e alla sua deificazione,
se essi non si accompagnano all’osservanza dei comandamenti divini.
Le Sacre Scritture e tutta la Tradizione ci ricordano costantemen­
te che, per avere un certo peso e realizzarsi pienamente, la fede deve
417 Del resto, nella Filocalia, la descrizione di questo occupa solo alcune pagine, mentre la
presentazione di quella ne occupa centinaia. Il florilegio realizzato da J. GuiLLARD con il titolo
di Petite philocalie de la prière du coeur produce una falsa impressione a causa della preferenza
che dà all’aspetto «metodico», o in altri termini, all’aspetto «ascetico», e perché considera
quasi esclusivamente i passi centrati sulla preghiera stessa ignorandone il vasto contesto che ri­
guarda le indispensabili condizioni spirituali.
418Vedi tra l’altro: TEOLETTO DI FILADELFIA, Sull’azione segreta. CALLISTO e IGNAZIO XAN-
TOPULO, Centuria, 25; 80; 81. Questi ultimi scrivono in particolare: «Se tu non hai la compun­
zione, sappi allora che hai la vanità» {Centuria, 25).
419Vedi tra l’altro: TEOLETTO DI FILADELFIA, Sull’azione segreta. CALLISTO e IGNAZIO XAN-
TOPULO, Centuria, 25; 45.
420Cfr. T eoletto di F iladelfia, Sull’azione segreta. N icodemo l’A giortta, Enchiridion, 10.
421 Vedi per esempio: SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Metodo della santa orazione e attenzio­
ne, éd. Hausherr, p. 163. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 86; 87.
422Vedi tra gli altri TEOLETTO DI FILADELFIA, Nove capitoli, 3.
423Vedi tra gli altri ibid., 5.
374
manifestarsi nella pratica dei comandamenti. Il santo apostolo Giaco­
mo insegna: «Così anche la fede, se non ha le opere, di per se stessa
è senza vita» (Gc 2,17); «come il corpo senza lo spirito è morto, così
è morta anche la fede senza le opere» (Gc 2,26); «la fede senza le ope­
re è inerte» (Gc 2,20); «l’uomo viene giustificato in base alle opere e
non soltanto in base alla fede» (Gc 2,24). Sant’Isacco, riprendendo
questo insegnamento, così scrive: «La fede ha bisogno anche delle ope­
re»424. San Giovanni Damasceno afferma la stessa cosa: «La fede è
resa perfetta da ciò che il Cristo ha istituito [...], venerando e prati­
cando i suoi comandamenti»425. «Che nessuno si fidi esclusivamente
della fede nel Cristo», insegna san Simeone il Nuovo Teologo426 che
arriva persino ad affermare: «Senza fede (àpistoi) sono coloro che si
appoggiano solo sulla fede»427. San Marco l’Eremita assimila «la fede
in Gesù» alla «pratica dei suoi comandamenti»428. E san Giovanni Cri­
sostomo, dopo aver detto ugualmente che «la fede da sola non basta
per essere salvato», precisa: «Occorre aggiungere a questa fede il re­
golamento di tutta la vita e il cambiamento del proprio modo di vi­
vere»429. In questa decisione di ordinare il proprio essere e la propria
esistenza in conformità ai comandamenti del Cristo l’uomo manifesta
concretamente la sua volontà di essere guarito e salvato; dimostra che
la sua guarigione e la sua salvezza non sono per lui l’oggetto di un sem­
plice desiderio, ma che egli vi tende con tutto il suo essere e con tut­
ta la sua vita, impegnandosi realmente nel camminare nelle loro vie.
Il pentimento, che con la fede è uno dei fondamenti della salvezza
al punto tale che il Cristo, predicandolo, inaugura (cfr. Mt 4,17; Me
1,15) e chiude (cfr. Le 24,47) la sua vita pubblica, è non solo il di­
spiacere di uno stato di peccato passato e presente, ma anche la vo­
lontà di allontanarsene e di cambiare vita (è una delle connotazioni del
termine metànoia). La pratica dei comandamenti appare, dunque, co­
me il suo prolungamento necessario, se non come uno dei suoi attri­
buti essenziali.
Anche la preghiera, per fondamentale che sia, non basta alla sal­
vezza dell’uomo, come ci insegna il Cristo stesso: «Non chiunque mi

424 Discorsi ascetici, 22.


425 Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 10.
426Cfr. Trattati etici, X, 197s.
427 Inni, L, 218.
428 Cfr. Il battesimo, 26.
429 Commento a san Matteo, XI, 7. Vedi anche MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di
essere giustificati per le loro opere, 17.
375
dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la vo­
lontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). La preghiera dell’uomo
è esaudita a condizione che egli metta in pratica i comandamenti di
Dio: «Qualunque cosa gli chiediamo, la riceviamo da lui, poiché noi
osserviamo i suoi comandamenti e facciamo ciò che è gradito davan­
ti a lui» (lGv 3,22). «La fedeltà ai precetti del Cristo», come osserva
Origene, «fa dunque parte integrante della preghiera»430.
Il battesimo stesso non è nulla senza la pratica dei comandamen­
ti431. Difatti, se l’uomo riceve con il battesimo la pienezza della grazia,
questa non produce i suoi effetti su di lui se egli non pratica i co-
mandamenti. Ecco perché san Marco l’Eremita scrive: «Il santo bat­
tesimo è perfetto, ma non rende perfetto colui che non mette in pra­
tica i comandamenti»432. E, altrove, precisa: «La grazia è stata data mi­
sticamente a coloro che sono stati battezzati nel Cristo; essa si dimostra
efficace in proporzione della pratica dei comandamenti»433; «se non
mettiamo in pratica i comandamenti di Dio, la grazia che ci è stata da­
ta non si rivela»434. San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo spiegano:
«Essendo il Cristo, perfetto Dio, ha dato ai battezzati la grazia perfetta
dello Spirito Santo, alla quale noi non abbiamo nulla da aggiungere.
Ma essa ci è stata rivelata, manifestata nella misura in cui osserviamo
i comandamenti»435. 1 comandamenti per se stessi non salvano e non
deificano l’uomo, perché è per la grazia, dono di Dio, che il credente
viene salvato e deificato (cfr. Ef 2,8-9). Nello stesso tempo, però, la
pratica dei comandamenti è indispensabile alla salvezza e alla deifi­
cazione dell’uomo, perché è per mezzo di tale pratica che egli può con­
servare questa grazia che riceve nei sacramenti, assimilarla e crescere
in essa, nonché ritrovarla nel caso che egli se ne sia allontanato.
Come il comandamento divino nel paradiso aiutò Adamo a non al­
lontanarsi dalla via della deificazione in cui era stato posto da Dio
fin dalla sua creazione e gli permetteva di conservare la sua natura nel
suo stato originale436, così i comandamenti del Cristo hanno come pri­
ma funzione quella di aiutare il battezzato a rimanere nella sua con­

430La preghiera, 12.


431 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, VII, ls.
43211 battesimo, 2.
433Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 56. Cfr. Il battesimo, 14; 15.
43411 battesimo, 17.
435 Centuria, 6.
436Cfr. G regorio P alamas, Omelie, 54.
376
dizione di uomo nuovo e a conservare i doni ricevuti. «La grazia di
Dio è conservata dall’osservanza dei comandamenti»437, osserva san Si­
meone il Nuovo Teologo. Tale conservazione avviene in modo del tut­
to oggettivo, ma affinché l’uomo l’assuma personalmente e ne viva ef­
fettivamente, occorrono il suo consenso, la sua libera partecipazione,
la sua volontaria collaborazione, perché Dio, se ci dona la sua grazia,
non ce la impone, non forza la nostra volontà, ma rispetta la nostra li­
bertà438. Ora, solo attraverso la pratica dei comandamenti possono ma­
nifestarsi tale partecipazione e tale collaborazione dell’uomo. È per i
divini comandamenti del Cristo «che il battezzato conserva la grazia
dello Spirito Santo, se solo egli vuole osservarli», osserva san Pietro
Damasceno439. 1 comandamenti aiutano, così, l’uomo a conservare la
salute spirituale che egli ha ritrovato, conservandosi puro da ogni ma­
le e perseverando nella vita nuova in cui è stato introdotto440. Ecco per­
ché così scrive san Marco l’Eremita: «Noi che abbiamo avuto l’ono­
re di ricevere il bagno della rinascita, pratichiamo il bene, non per da­
re qualcosa in cambio, ma per conservare puro il dono che ci è stato
fatto»441. Altrove, egli spiega ancora: «A coloro che hanno ricevuto il
potere di praticare i comandamenti, in quanto credenti, si raccoman­
da di dover lottare per non tornare indietro, [...] per non tornare
mai [al peccato]»442. Il salmista sottolinea ripetutamente questa fun­
zione profilattica dei comandamenti: «Non dovrò arrossire se avrò ob­
bedito ai tuoi precetti» (Sai 119[118],6); «Hanno teso lacci gli empi
contro di me, ma non ho deviato dai tuoi comandi» (Sai 119[118],110);
«Grande pace per chi ama la tua legge; non c’è per loro alcun inciampo»
{Sai 119[118],165). San Diadoco di Foticea scrive allo stesso modo:
«Se qualcuno non cessa di pensare a Dio e non trascura di praticare
i suoi santi comandamenti, non cadrà in cedimento volontario o in­
volontario»443. I comandamenti, perciò, non devono affatto essere con­
cepiti come degli obblighi - e ancor meno come proibizioni o tabù -
di tipo legalista, ma piuttosto come dei «parapetti» che impediscono
all’uomo di ritornare alla «follia del peccato», di ricadere nelle ma­
lattie spirituali quali le passioni. Ecco perché san Simeone fa sottil­

437 Capitoli teologici, gnostici e pratici, IH, 51.


438Cfr. M arco l’E remita, Il battesimo, 6.
439 Libro, Esordio.
440Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, n, 7 , 296s; Xin, 198-221.
441Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 22.
442II battesimo, 7.
443 Cento capitoli gnostici, 100.
377
mente notare che si tratta, piuttosto che di custodirli, di proteggersi
attraverso i comandamenti444. Questi, tuttavia, meritano il loro no­
me, perché gli atteggiamenti e i comportamenti che essi prescrivono,
se corrispondono, come vedremo, alla natura profonda e vera dell’uo­
mo restaurato in sé dal battesimo, non sono pertanto spontanei, nel­
la misura in cui essi contraddicono le tendenze della natura decadu­
ta e dell’ambiente circostante. «Trovo in me questa legge: che quando
voglio compiere il bene, è il male che incombe su di me. Mi compiaccio
della legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma vedo una legge diversa
nelle mie membra che osteggia la legge della mia mente e mi rende
schiavo alla legge del peccato che sta nelle mie membra» (Rm 7,21-23).
I comandamenti permettono al battezzato non solo di conservare
i doni ricevuti, ma anche di farli crescere in lui, di far fruttificare i ta­
lenti (cfr. Mt25y14-29; Me 19,12-27), che gli sono stati dati dallo Spi­
rito. La vita spirituale dell’uomo dopo il battesimo e la crismazione,
dev’essere, infatti, una vita di sviluppo, di progresso, di crescita che si
compie per opera dello Spirito, fino al raggiungimento della statura di
uomo adulto in Cristo (cfr. E/4,13), fino alla realizzazione della so­
miglianza perfetta con Dio. Questa crescita assume la forma di una
appropriazione, di un’assimilazione sempre più grande, sempre più
profonda, della grazia ricevuta nei sacramenti. Ora, la pratica dei co-
mandamenti è indispensabile per tale opera. San Macario il Grande
scrive: «Colui che vuole ottenere da [Dio] la grazia celeste dello Spi­
rito, crescere e divenire perfetto nello Spirito Santo, deve farsi violenza
per praticare tutti i comandamenti di Dio»445. Infatti, l’assimilazione
della grazia, la sua appropriazione, il suo frutto, necessitano della col­
laborazione attiva dell’uomo all’azione dello Spirito: non solo del li­
bero consenso, ma anche della sua effettiva partecipazione, median­
te tutte le facoltà del suo essere, in tutte le attività della sua vita, in tut­
te le sfere della sua esistenza, il che si compie con la pratica dei coman­
damenti. Senza di questa, la grazia rimane esterna non già all’uomo,
ma per l’uomo; egli non può unirsi ad essa, svilupparsi in essa e per
essa, renderla attiva e viva per se stesso, renderla pienamente ope­
rante nel suo essere, essere effettivamente trasformato da essa, mani­
festarla concretamente e realmente nelle sue azioni e nella sua vita.
Pertanto, gli effetti della grazia, oggettivamente e pienamente presen­
444 Trattati etici, E, 7. Cfr. PIETRO DAMASCENO, Libro, Esordio.
445 Omelie (Coll. II), XIX, 7.
378
ti nell’uomo, non gli si manifestano se non in proporzione all’atten­
zione e allo zelo che egli mette nel praticare i comandamenti, alle di­
sposizioni che egli dimostra concretamente nel vivere in conformità
con essi446. Per questo, san Simeone il Nuovo Teologo osserva che co­
loro che non provano gli effetti del battesimo sono «infermi perché
non praticano i comandamenti»447. San Marco l’Eremita, lo abbiamo
visto, non smette di ripetere che l’uomo riceve nel battesimo la pie­
nezza della grazia, ma la riceve «misticamente», e questa non si rive­
la effettivamente, né manifesta i suoi effetti in lui se non in propor­
zione della pratica dei comandamenti448. La grazia perfetta dello Spi­
rito ci è stata data: non può quindi crescere in noi; ma siamo noi che
dobbiamo crescere in essa449. «H santo battesimo, egli scrive, nei no­
stri riguardi è perfetto, ma noi non lo siamo in rapporto ad esso. Tu,
dunque, o uomo battezzato in Cristo, esercita semplicemente la po­
tenza che hai ricevuto e prepàrati alla manifestazione intima di colui
che abita in te»450. E così che, «nella misura in cui, con la fede, met­
tiamo in pratica i comandamenti, l’azione dello Spirito produce i suoi
frutti particolari in noi»451.
Solo praticando i comandamenti, l’uomo può divenire figlio di Dio
(cfr. Le20,36; Rm 8,14; Gal3,26) per adozione (cfr. Rm 8,15; Gal4,5;
Ef 1,5) e dio per grazia. «Per la grazia, Dio ha dato a tutti il potere di
divenire figli di Dio (cfr. Gv 1,12) nell’osservare i comandamenti di­
vini», scrive san Pietro Damasceno452. 1 comandamenti sono, infatti,
l’espressione della volontà di Dio, pienamente rivelata e perfettamen­
te compiuta dal Cristo. Vivendo in conformità ad essi, l’uomo cessa di
compiere la propria volontà453 che lo isola e lo rende estraneo a Dio,
mentre invece compie la volontà di Dio, e in questo si rende simile al
Cristo conformando pienamente la sua volontà umana alla sua volontà
divina e facendosi in tutto obbediente al Padre. Egli diviene così suo
fratello: «Chi fa la volontà di Dio, questi è mio fratello» (Me 3,35;
cfr. Mt 12,50). Possiamo ugualmente dire che i comandamenti fanno
dell’uomo un figlio di Dio per adozione perché per mezzo di essi l’uo­
mo adotta un comportamento degno del figlio riguardo a suo padre,
446 Cfr. N icola C abasilas, La vita in Cristo, IH, 1.
447Inni, L, 167. Cfr. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, Ut, 14.
448Cfr. Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 56; Il battesimo, 10; 17; 30.
449 Cfr. Il battesimo, 17.
450Ibid., 16.
451 Ibid.
452Libro, Esordio.
453 Cfr. ibid.
379
testimoniando veramente, concretamente, ontologicamente, la sua fe­
de in lui («Tutti siete figli di Dio in Cristo Gesù mediante la fede»,
proclama san Paolo [Gtf/3,26]) e anche il suo amore per lui: «Questo
è l’amore di Dio: osservare i suoi comandamenti» (lGv 5,3); «Chi ha
i miei comandamenti e li osserva, è lui che mi ama» (Gv 14,21), inse­
gna il Cristo. A questo amore di figlio per suo Padre, corrisponde
l’amore del Padre per il figlio adottato, e del Figlio per il suo fratello
adottivo: «Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio ed io lo amerò
e manifesterò a lui me stesso» (Gv 14,21). E per l’invio dello Spirito
Santo che il Cristo si manifesta e manifesta il Padre a colui che testi­
monia il suo amore per Dio nel praticare i suoi comandamenti. «Se mi
amate, osservate i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli
vi darà un altro Paradito, affinché sia sempre con voi, lo Spirito di ve­
rità» (Gv 14,15-17). Il fedde può allora gridare con il salmista: «Apro
andante la mia bocca: sì, io bramo i tuoi precetti» (Sai 119[118],131).
I comandamenti sono, dunque, il principio della santificazione e
della deificazione operata nell’uomo dallo Spirito Santo, in quanto è
praticandoli che l’uomo si apre all’azione dello Spirito e attraverso que­
sta si unisce al Cristo e in lui al Padre. Si possono, allora, con san Cal­
listo e sant’Ignazio Xantopulo considerare i comandamenti come «dd-
ficanti»454, e osservare con san Simeone il Nuovo Teologo che i bat­
tezzati «acquistano la santità attraverso la pratica dd comandamenti»455.
Sant’Isacco il Siro scrive categoricamente: «Colui che non ha custo­
dito i comandamenti e non ha seguito le orme dd beati Apostoli non
è degno di essere chiamato santo»456.
San Pietro Damasceno giunge persino ad affermare che i coman­
damenti «sono la grazia di Dio»457, e san Marco l’Eremita arriva a scri­
vere: «H Signore sta nascosto nd suoi comandamenti e lo si trova nd-
la misura in cui lo si cerca»458; «non dire: “Ho seguito i comandamenti
e non ho trovato il Signore”»459.
Tutto ciò lo si può comprendere in rdazione alle considerazioni
precedenti, ma anche tenendo chiaramente presente che i coman­
damenti non sono un codice giuridico, né un insieme di prescrizio­
ni morali astratte e definite a priori, o anche elaborate a partire da
454 Centuria, 4.
455 Trattati etici, X, 435-436.
456Lettere, 4.
457 Libro, Esordio.
458La legge spirituale, 191.
459Ibid., 192.
380
una esperienza umana per considerevole che sia, e che non sono
affatto precetti della stessa natura di quelli che i sapienti di questo
mondo insegnano, e di cui san Paolo invita a non fidarsi: «Badate
che nessuno vi faccia sua preda con la “filosofia”, questo fatuo in­
ganno che si ispira alle tradizioni umane, agli elementi del mondo»
{Col 2,8). Lo stesso Cristo sottolinea la vacuità e l’inanità fonda-
mentali di queste ultime dicendo di coloro che le professano: «In­
vano, mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono pre­
cetti di uomini» (Aie 7,7; Ài/ 15,9). Questi non possono salvare, per­
ché sono solo umani. «Non confidate nei potenti, in un figlio d’uomo
che non dà la salvezza» dice il salmista {Sai 146[145],3). I coman­
damenti del Cristo, al contrario, hanno un potere salvifico e deifi­
cante perché sono per natura divino-umani, in quanto fondati sulla
Persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo. Così san Paolo oppo­
ne a chi si appoggia «alle tradizioni umane, agli elementi del mon­
do», colui che si appoggia «al Cristo» {Col 2,8), aggiungendo im­
mediatamente: «poiché è in lui che dimora corporalmente tutta la
pienezza della divinità» {Col 2,9), dopo aver detto prima questo: «Co­
me dunque avete ricevuto il Cristo Gesù, il Signore, in lui continuate
a vivere, radicati e sopraelevati su di lui e consolidati nella fede co­
me siete stati istruiti» {Col 2,6-7).
Nel dare i comandamenti, Cristo non offre solo dei precetti, ma
compiendoli in se stesso perfettamente, egli dimostra con le sue pa­
role, con le sue azioni, e tutto il suo modo di essere, gli archetipi de­
gli atteggiamenti e dei comportamenti umani nella loro forma perfet­
ta, totalmente sana e santa, cioè teantropica. Ci fa vedere nella sua Per­
sona nella quale egli ha unito la natura umana alla natura divina, l’uomo
vero, «l’uomo nuovo» CE/2,15), «creato secondo Dio» {Ef4,24), «che
si rinnova per una più piena conoscenza, a immagine di colui che lo
ha creato» {Col3,10), il nuovo Adamo, non solo restaurato, ma anche
reso perfetto da questa unione a Dio pienamente compiuta. E se noi
stessi pratichiamo questi comandamenti, egli ci permette di confor­
marci realmente a lui, di somigliargli pienamente, di essere gli «imita­
tori di Dio» CE/5,1), e questo non in maniera estrinseca, come si
imiterebbe un sapiente o un eroe, ma molto più di rivestirci di lui (cfr.
Gal3,27), di comunicare alla sua umanità deificata, di essere resi «par­
tecipi della natura divina» {2Pt 1,4). Lo scoliaste delle Questioni a Ta-
lassio scrive in modo molto categorico: «Il Verbo di Dio si rivela in co­
loro che mettono in pratica la pràxis, prendendo corpo nei coman­
damenti. Ed è per mezzo dei comandamenti che nella sua persona di
381
Verbo egli conduce al Padre coloro che agiscono»460. Con la pratica
dei comandamenti unita alla ricezione dei divini sacramenti, possiamo
vivere la vita divina: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comanda-
menti», insegna il Signore (Mt 19,17), che aggiunge: «H comandamento
del Padre è vita eterna» (Gv 12,50); possiamo proclamare con il sal­
mista: «Non mi dimenticherò mai i tuoi comandi, poiché con essi mi
hai ridato la vita» (Sai 119[118],93) e con l’Apostolo: «Vivo, però non
più io, ma vive in me Cristo» (Gal 2,20).
La pratica dei comandamenti ci permette, per mezzo dello Spirito
Santo, di essere assimilati al Cristo e di avere accesso al Padre nel Cri­
sto (cfr. Gv 14,7), facendoci così giungere a una vera conoscenza di
Dio461. Questo legame diretto tra la pratica dei comandamenti e la co­
noscenza della verità è frequentemente ricordata dal salmista: «La via
della fedeltà ho scelto, ho preferito i tuoi giudizi» (Sai 119[118] ,30);
«Insegnami buon senso e conoscenza: sì, sto saldo nei tuoi precetti»
(Sai 119[118],66); «Dai tuoi comandi ricevo intelligenza» (Sai
119[118],104), il che significa non solo che i comandamenti sono ve­
ridici, ma anche che essi procedono dalla Verità e ad essa riconduco­
no. Vedremo più avanti che la pratica dei comandamenti permette al­
l’uomo di accedere fino alla conoscenza più alta, alla visione di Dio lu­
minosa e deificante che si compie per mezzo dello Spirito Santo in
coloro che sono degni di ricevere questo dono462.
Se una tale conoscenza è riservata a coloro che sono perfetti, non­
dimeno, come nota san Simeone il Nuovo Teologo, Dio si rivela e si
fa conoscere in qualche misura a tutti quelli che osservano i suoi co-
mandamenti, «secondo la capacità di ciascuno»463.
In ogni caso, l’osservanza dei comandamenti rimane l’unico crite­
rio di tutta la conoscenza vera di Dio, come sottolinea il santo apo­
stolo Giovanni: «Da questo noi sappiamo di conoscerlo: se osservia­
mo i suoi comandamenti. Chi dice: lo conosco, ma non osserva i suoi
comandamenti, è un mentitore e la verità non è in lui» (lGv 2,3-4). In
particolare, si tratta della pratica dei primi due comandamenti: l’amore
di Dio e l’amore del prossimo (cfr. Mt 22,40; Me 12,30-31), ai quali
peraltro possono ricondursi tutti gli altri (cfr. Mt 22,40; cfr. Rm 13,9).
Tali comandamenti ci danno l’accesso alla conoscenza di Dio464, poi­
460 Questioni a Talassio, 25, scolio 3.
461 Cfr. TALASSIO, Centurie, IV, 21.
462 Cfr. I sacco il S iro , Lettere, 4. G regorio P alamas, Triadi, E, 3,16; 17; 75.
463 Trattati etici, X, 408, 418.
464 Cfr. G regorio P alamas, Triadi, II, 3,77.
382
ché Dio è amore: «Chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non
ama non ha conosciuto Dio, poiché Dio è amore» (lGv 4,7-8).
Se il ruolo dei comandamenti è quello di permettere al battezzato
di conservare i doni ricevuti e di farli fruttificare, è anche quello di
permettergli di ritrovarli nella misura in cui, essendosi abbandonato
volontariamente dopo il battesimo al peccato e alle passioni, se ne è
allontanato. San Marco l’Eremita spiega che l’uomo dopo essere sta­
to battezzato è perfettamente purificato da ogni peccato e liberato
da ogni passione, e che, se egli ricade, ciò avviene solo in ragione
della sua negligenza nel praticare i comandamenti, gli unici che pos­
sono permettergli di accordarsi con la grazia ricevuta, di acquistare ef­
fettivamente questa purezza che gli era stata concessa465. E del tutto
naturale, dunque, che praticando i comandamenti l’uomo possa ri­
trovare questa purezza e farla sua, e, più generalmente, egli possa ri­
cuperare tutti i doni ricevuti nel battesimo. San Callisto e sant’Ignazio
Xantopulo forniscono un insegnamento simile a quello di san Marco:
«L’inizio di tutto ciò che si fa in Dio [...] sta nello sforzarci, in ogni
maniera e con tutte le nostre forze, di vivere secondo le leggi di tutti
i comandamenti deificanti del Salvatore»; «il termine e il frutto è quel­
lo di tornare alla grazia perfetta dello Spirito che ci è stato dato nel
battesimo e che è in noi [...]. Ma la grazia è ricoperta dalle passioni.
Essa è disvelata dall’opera dei comandamenti divini. Praticando tutti
questi comandamenti, per quanto possibile, occorre sforzarci con tut­
ti i mezzi per liberare in noi la manifestazione dello Spirito, e vederla
molto chiaramente»466. In questa prospettiva, i Padri sottolineano la
funzione purificatrice dei comandamenti riguardo ai peccati e alle pas­
sioni467. Per questo così scrive san Doroteo di Gaza: «Conoscendo la
nostra debolezza e prevedendo che, anche dopo il battesimo, com­
metteremo ancora il peccato, Dio nella sua bontà ci ha dato dei santi
comandamenti che ci purificano. Così noi possiamo, se lo vogliamo,
essere di nuovo purificati attraverso la pratica dei comandamenti»468.
I comandamenti, purificando l’uomo da ogni male e, facendogli ri­
trovare la grazia che è in lui, per ciò stesso gli ridanno la salute spiri­
465 II battesimo, 4. Cfr. ibid.,5; 6.
466 Centuria, 4; 7. Cfr. 6.
467 Cfr. G re g o rio N azian zen o, Discorsi, XXXIX, 8. M assimo i l C on fessore, Centurie sul­
la teologia e sull’economia, 1,16. TALASSIO, Centurie, II, 13; 25; 77; IH, 6; IV, 54; 55. SlMEONE IL
Nuovo T e o lo g o , Catechesi, XIV, 70-76.
468Istruzioni spirituali, I, 5. Cfr. 7.
383
tuale della sua natura originale che il battesimo gli ha fatto recupera­
re. «Tu sai, dice sant’Isacco il Siro, che il male è entrato in noi con la
trasgressione dei comandamenti. È, dunque, chiaro che sarà nell’os­
servanza degli stessi comandamenti che si recupera la salute. Se noi
non ci mettiamo all’opera, se non camminiamo fin dalla partenza su
questa via che conduce alla purezza, non potremo né desiderare, né
sperare nella purificazione dell’anima. E non dire che Dio può, anche
senza l’opera dei comandamenti, concederci per grazia la purificazio­
ne dell’anima»469. L’avvento del Cristo, egli fa notare, «aveva un uni­
co scopo: purificare l’anima, togliere da essa il male della prima tra­
sgressione, restituirla al suo stato originale. Egli ci ha dato i coman­
damenti [...] per guarirci dalle nostre passioni. E evidente che i
comandamenti servono per combattere le passioni e guarire l’anima
che ha trasgredito»470. E altrove egli nota ancora: «L’anima riceve la
salute osservando la Legge. Infatti, colui che con la pratica dei co-
mandamenti e con le opere più dure della vera vita ha vinto le pas­
sioni, sappia che riceve la salute dell’anima osservando la Legge»471.
San Gregorio Palamas afferma la stessa cosa: «Non sarà altro se non
per il compimento dei comandamenti di Dio che l’anima acquista la
salute»472; «la salute e la perfezione dell’anima non si compiono se non
nell’amore e nell’osservanza dei suoi comandamenti»473.
Si comprende, perciò, che i Padri considerano i comandamenti co­
me rimedi nel senso proprio del termine e riconoscono in essi ima fun­
zione e un valore terapeutico di primaria importanza. Per san Si­
meone il Nuovo Teologo, essi sono i rimedi (phàrmaka) che l’uomo
applica alla sua anima malata di passioni474. Lo stesso scrive san Mas­
simo: «Il medico delle anime, con i suoi decreti, adatta il rimedio a ciò
che, nell’anima, è radice delle passioni»475. Sant’Isacco il Siro è molto
più esplicito a questo riguardo: «Il Signore ci ha dato i comandamen­
ti come rimedi per purificarci dalle passioni e dalle colpe»476; «ciò che
i rimedi sono per il corpo malato, i comandamenti lo sono per l’ani­
ma colpita dalle passioni»477; «l’opera nascosta dei comandamenti gua-
m Lettere, 4.
m lbii.
471 Ibid.
472 Triadi, II, 3,17.
m Ibid., I, 42.
474 Catechesi, XIV, 88. Cfr. Trattati etici, IX, 462-463.
475 Centurie sulla carità, II, 44.
476Lettere, 4.
477Ibid.
384
risce la potenza dell’anima»478; «i comandamenti spirituali, i coman­
damenti che l’anima osserva nella considerazione del timore di Dio, la
rinnovano, la santificano, e curano segretamente tutte le sue membra.
È chiaro che ogni comandamento guarisce nell’anima dolcemente ogni
passione. Colui che è guarito e colui che guarisce sentono questa ener­
gia come la sentiva la donna che perdeva il sangue»479. Anche per
san Giovanni Crisostomo la Legge è il «rimedio dell’anima»480, e per
san Gregorio Nazianzeno «una medicina dolce e umana», che il Cri­
sto ci ha dato «per sostenerci», preferita a un trattamento violento che
non avrebbe richiesto la nostra partecipazione481. Quanto a Clemen­
te d’Alessandria, egli scrive: «Il Verbo è stato chiamato Salvatore, lui
che ha inventato per gli uomini questi rimedi spirituali per dar loro un
significato morale giusto e condurli alla salvezza [...]; egli ordina co­
se da cui bisogna astenersi e offre ai malati tutti gli antidoti salutari.
Quando il medico non dà alcun rimedio per la salute, i malati si la­
mentano: come non avremmo noi una grandissima riconoscenza per
il divin Pedagogo, poiché egli non osserva il silenzio, ma, evidenzian­
do le manchevolezze che conducono alla rovina, al contrario le de­
nuncia [...] e insegna i precetti adatti per una retta vita»482. San Doro­
teo di Gaza fa, inoltre, notare che il Cristo «ci fornisce il rimedio»
alla trasgressione dei precetti divini affinché possiamo essere salvati483;
sottolinea altresì nel suo insegnamento il valore eminente del medico
(il Cristo) e dei rimedi (i comandamenti) di cui dispone il cristiano che,
afferma, è ingiustificato se non ottiene la guarigione: «Per la debo­
lezza del corpo, noi troviamo diverse ragioni: o i rimedi non agiscono,
perché sono troppo vecchi; o il medico non ha esperienza e dà un ri­
medio invece di un altro, o il malato è disobbediente e non osserva
le sue prescrizioni. Ma per l’anima, non è così: non possiamo dire, in­
fatti, che il medico sia inesperto e che non abbia dato i rimedi giusti,
poiché il medico delle nostre anime, è il Cristo, che sa tutto, che dà a
ciascuna passione il rimedio appropriato, voglio dire i comandamen­
ti [...]. Questo medico, dunque, è molto esperto. D’altra parte, non
possiamo dire che i rimedi siano inefficaci perché troppo vecchi. I co-
mandamenti del Cristo non invecchiano mai: essi si rinnovano, nella
m ibid.
m ibid.
480 Trattato sulla verginità, 17.
481 Discorsi, XLV, 12.
482 II Pedagogo, I, xn, 100,1-2.
483 Istruzioni spirituali, I, 7.
385
misura in cui servono. Non vi è, dunque, altro ostacolo alla salvezza
dell’anima se non la propria sregolatezza»484.
La pratica dei comandamenti guarisce l’uomo dalle sue passioni, gua­
rendo in primo luogo le sue facoltà dalla depravazione da cui, l’ab­
biamo visto, queste passioni sono nate. San Doroteo di Gaza osserva
che «Dio ci ha dato dei precetti che ci purificano [...] dalle cattive di­
sposizioni del nostro uomo interiore»485. E san Filoteo il Sinaita scrive
più precisamente: «Tutti i comandamenti del Vangelo divino sembra­
no dare delle leggi e sanare le tre facoltà dell’anima [concupiscibile, ira­
scibile e razionale] in coloro che essi reggono con i loro ordini. O piut­
tosto, non solo sembrano sanare, ma sanano veramente le tre facoltà»486.
«Chi conosce la potenza dei comandamenti di Dio, e chi comprende
le facoltà dell’anima, e come quelli guariscono queste?» si chiede nel­
lo stesso senso Evagrio487. Poiché le malattie spirituali dell’uomo si so­
no verificate per il fatto che egli si è allontanato da Dio, la guarigione
prende la forma di un ritorno dell’uomo a Dio, del riorientamento ver­
so Dio di tutte le sue facoltà in tutti gli atteggiamenti e le attività della
sua esistenza. Attraverso la pratica dei comandamenti avviene una ri-
costruzione delle vie dell’uomo, che può rinunciare ai nascondigli nei
quali il suo peccato lo ha introdotto, e condurre una vita retta, cioè pie­
namente conforme alla volontà di Dio, così come si esprime il salmista:
«In che modo potrà un giovane [cioè l’uomo che non ha ancora rag­
giunto la statura d’uomo adulto in Cristo] tener puro il suo sentiero?
Custodendo le tue parole» (Sai 119[118],9); «Insegnami [...] buon sen­
so e conoscenza: sì, sto saldo nei tuoi precetti» (Sai 119[118],66); «Per
questo reputo retti tutti i tuoi comandi, mentre detesto ogni sentiero
di menzogna» (Sai 119[118],128). Sant’Isacco il Siro osserva la stessa
cosa, quando scrive: «E per restaurare l’anima che il Cristo ha dato la
legge dei comandamenti»488. Sottolineando questa finalità operante dei
comandamenti, e respingendo ogni rispetto od ogni pratica formali­
sta di detti comandamenti che non avrebbero come effetto quello di
trasformare l’uomo, arriva a scrivere: «Il Cristo esige più la restaura­
zione dell’anima che non l’opera dei comandamenti»489.
484lbid., XI, 113.
m Ibid„ 7.
486 Quaranta capitoli neptici, 16.
487 Capitoli gnostici, II, 9. Cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 54; 79.
488Discorsi ascetici, 37.
m Ibid.
386
Nel riordinare e nel conformare il proprio essere a Dio con la pra­
tica dei comandamenti, l’uomo compie ciò per cui è stato creato,
realizza la finalità normale della sua natura, e fa ciò che egli può es­
sere e fare di meglio, cioè s’incammina verso la perfezione alla quale
Dio lo chiama (cfr. Mt 5,48); si adegua alla sua vera natura, quella che
Adamo possedeva nel paradiso ma che ha alterato con la sua colpa,
quella natura che il Cristo ha ridato all’umanità nel ricondurla in lui
al suo compimento, quella natura che egli stesso ha rivestito nel bat­
tesimo avendo come compito di assimilarla personalmente. Vi è una
stretta correlazione tra la vera natura dell’uomo e la natura dei co-
mandamenti che Dio gli dà, e che manifesta una volta di più che
questi non sono principi astratti o esigenze a priori, ideali senza rap­
porto con i bisogni, con le potenzialità e con il destino dell’uomo,
ma corrispondono profondamente a quanto egli è ontologicamente,
come spiega san Gregorio Palamas: «Il Signore, che ha fatto i nostri
cuori e conosce tutto, quando si è incarnato ed è disceso sulla terra fa­
cendoci rinascere e salvandoci, noi che eravamo decaduti, ha esigito
da noi ciò che aveva posto nelle nostre anime fin dall’inizio, al mo­
mento della creazione. Infatti, egli ha creato l’uomo in modo tale che
questi sia adeguato all’insegnamento che in seguito egli avrebbe por­
tato sulla terra; è per questo che ora, quando egli è venuto sulla ter­
ra, ha dato dei comandamenti che corrispondono alla nostra natura
da lui creata fin dalle origini»490.
I comandamenti appaiono, perciò, come mezzi dati all’uomo dal
Cristo per permettergli di recuperare la sua autentica natura491 e ri­
trovare lo stato di salute primordiale, ossia per vivere secondo le virtù,
perché abbiamo visto che le virtù appartengono alla natura stessa del­
l’uomo e sono costitutive della sua salvezza.
I comandamenti sono, insomma, uniti in una relazione molto stret­
ta alle virtù poiché la loro funzione è: eliminare ciò che le ostacola, os­
sia i peccati e le passioni; preservarle una volta recuperate; assicurare la
loro crescita e condurle alla perfezione. «Le cause delle virtù sono i co-
mandamenti», nota san Talassio492. «Dai comandamenti nascono le virtù
[...]. E attraverso la pratica dei comandamenti che avviene l’esercizio
delle virtù», scrive allo stesso modo san Simeone il Nuovo Teologo493.

450 Omelie, XL, 1.


491 Cfr. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1 ,10-11.
452Centurie, HI, 81.
m Catechesi, XXtV, 54-57.
387
E, infine, pratica dei comandamenti e vita secondo le virtù si identifi­
cano, perché le virtù corrispondono al compimento dei comanda-
menti. «Attraverso la pratica delle virtù si verifica la pienezza dei co-
mandamenti», nota ancora san Simeone494.

6. Il rimedio della speranza


La speranza (elpis) è un’altra condizione fondamentale della gua­
rigione spirituale dell’uomo e della sua salvezza. Dio «salva coloro che
confidano in lui», afferma il profeta Daniele (Dn 13,60) e l’Apostolo:
«Fummo salvati nella speranza» (Rm 8,24)495. Con la fede e la carità,
la speranza è una delle tre virtù fondamentali (cfr. ICor 13,13) che com­
prendono tutte le altre e ne assicurano l’unione496. Clemente d’Ales-
sandria dice che essa è, con la fede e la carità, uno dei «legami della
salute e della salvezza»497.
La speranza consiste nell’attendere che si realizzi ciò che si desi­
dera e che non si ha ancora498 o, come afferma san Giovanni Criso­
stomo, nell’«attendere ciò che non si riceve subito, [nell’] attendere
con fiducia senza mai scoraggiarsi»499. Ciò suppone la perseveranza
(ypomone), forma di pazienza alla quale la speranza è strettamente le­
gata (cfr. Rm 5,3-4; 12,12; lTs 1,3): «Se noi speriamo ciò che non ve­
diamo, stiamo in attesa mediante la costanza» scrive l’Apostolo (Rm
8,25).
La speranza cristiana ha per oggetto Dio stesso (cfr. lTm 4,10; lPt
1,21), particolarmente il Cristo (cfr. Ef 1,12; Rm 15,12; Is 42,4), il Dio
uomo, l’artefice della nostra salvezza, colui che ci invia lo Spirito San­
to e ci dà accesso al Padre: «Gesù Cristo, nostra speranza» (lTm 1,1).
La speranza consiste principalmente nell’attesa fiduciosa della sal­
vezza (cfr. Rm 8,24; lTs5,8)m e dei beni futuri501, particolarmente del­
la risurrezione (cfr. At 23,6; 24,15; ICor 15,19), della vita eterna (cfr.
494 Ibid., 58-59. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 37.
495 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera ai Romani, XIV, 6.
496 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX X , 1.
497 Quale ricco potrà salvarsi?, 29.
498 Cfr. Rm 8,24.
499 Commento al Salmo 146,2.
500 Cfr. C lemente d ’A lessandria , Il Pedagogo, I, x, 9 1 ,2 . G iovanni C risostomo , Com­
mento al Salmo 4 ,7.
501 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 58.
388
TV 1,2; 3,7)502, e della visione beata della gloria di Dio (cfr. lGv 3,2;
Rw 5,2; 2Cor 3,12; Co/1,27), perché, come dice l’Apostolo, «se aves­
simo speranza in Cristo soltanto in questa vita, saremmo i più mise­
rabili di tutti gli uomini» (lCor 15,19).
Se la speranza consiste nel raggiungere la pienezza di questi beni
nei secoli futuri, consiste tuttavia anche nel raggiungere quaggiùSprfi
jnizie Ecco perché l’apostolo san Pietro, da parte sua, scrive: «Spera­
te completamente nella grazia che vi viene portata nella manifestazio­
ne di Gesù Cristo» (lPt 1,13). Generalmente, la speranza può essere
definita anche come «l’attesa dei beni»503, a condizione che si tratti non
dei beni di questo mondo, ma dei beni spirituali, dei beni divini per
mezzo dei quali noi siamo salvati e deificati. Difatti la speranza non
guarda «alle cose visibili, ma a quelle invisibili» che «sono eterne» (cfr.
2Cor 4,18)™.
La speranza consiste, dunque, così neU’aspettare da Dio l’aiuto di cui
si ha bisogno, nella certezza che egli non mancherà di concederlo, se­
condo la sua parola: «Non ti deluderò né ti abbandonerò» (Gs 1,5)505.
Questa speranza è preziosa quando nel momento culminante della ma­
lattia, nel più profondo dello sgomento ogni via d’uscita sembra chiu­
sa, come sottolinea san Pietro Damasceno: «Spera in [Dio] e, in un mo­
do o in un altro, egli agirà [...]. Nel suo amore per l’uomo, attraverso la
speranza, egU aprirà un’altra via che tu ighori, per salvare la tua anima
prigioniera. Solò, ntìn dimenticare Colui che, può guarirti»506. La spe­
ranza è, in questo caso, tanto più necessaria quanto più l’aiuto divino
non è sempre accolto dall’uomo fin dal momento che lo ha richiesto. E
qui, in particolare, che la perseveranza si rivela vicina alla speranza, e
che questa appare come la capacità di «rimanere ferma tra i mali»507.
Più in generale, la speranza consiste, nelTattendere ogni bene esclu­
sivamente da Dio508, e quindi nell’affidarsi solo a lui per ogni biso­
gno e ogni preoccupazione509, non aspettandosi da questo mondo al­
cun bene510né alcun aiuto da parte degli uomini (cfr. Sai 118[117],8-
9; 145,3), nel non riporre affatto la propria fiducia in se stesso (cfr. Ger
502 Cfr. B asilio di C esarea , Lettere, CXL, 1.
n,
505 Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, 9.
504 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera ai Romani, XIV, 6.
505 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 826. CLEMENTE DI Roma , Lettera ai Corinzi, XI, 1.
Libro, I.
506
507 G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 117,).
508 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 22.
5C" Cfr. P ietro D amasceno , Libro, I.
510 Cfr. lTm 6,17. GREGORIO M agno , Moralia su Giobbe, XXII, 2.

389
17,5)511. È in questo, sottolinea sant’Isacco il Siro, che la speranza ve­
ra e spirituale si distingue dalla speranza falsa e sviata512, dalla speran­
za secondo questo mondo. Per questo san Barsanufio può così con­
sigliare: «Ponendo la vostra speranza in lui, “non vi angustiate per il
domani” (Mt 6,34), perché sta a lui prendersi cura di noi. E se noi ab­
biamo scaricato su di lui tutte le nostre preoccupazioni (cfr. lPt 5,7),
egli stesso si preoccuperà di noi, come egli vuole»513.
Mettendo in Dio la propria speranza, l’uomo non può essere de­
luso, perché, come dice l’Apostolo, questa speranza «poi, non delu­
de» (Rm 5,5). Mentre ogni altro oggetto della speranza sarebbe sot­
tomesso all’instabilità delle cose di questo mondo e in modo genera­
le sarebbe tributario dei loro limiti, la speranza nei beni divini è «solida»,
«sicura e al riparo da ogni cambiamento»514. «Se siete stati confusi, af­
ferma san Giovanni Crisostomo, è perché non avete sperato come oc­
correva, àvétè smèssQ di sperare, non avete atteso la fine, siete stati de­
boli. Ormai agite diversamente»515.
La speranza è strettamente legata alla fede. Essa ne è, afferma l’au­
tore della Lettera a Barnaba, l’inizio516. La fede suppone la speranza
poiché essa è, dice san Paolo, «garanzia delle cose sperate» (Eb 11,1).
Così, come fa notare san Simeone il Nuovo Teologo, «colui che è sen­
za speranza è per ciò stesso senza fede»517. L’uomo non crederebbe ve­
ramente in Colui che può guarirlo e salvarlo se non sperasse di rice­
vere da lui la guarigione, la salute e la salvezza.
Al contrario, la speranza suppone la fede e scaturisce da essa518. San
Barsanufio scrive: «Se tu non credi, neppure speri»519. L’uomo non
può sperare di essere guarito se non credendo nella possibilità di po­
terlo essere, se non ammettendo che la sua condizione non è senza ri­
medio, e riconoscendo il Cristo come colui che lo può guarire qua­
lunque sia il suo stato, in breve avendo fede nella sua onnipotenza
terapeutica e salvatrice.
511 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 117,3.
512 Cfr. Discorsi ascetici, 22.
51JLettere, 123. Cfr. 819.
514 G iovanni C risostomo , Commento al Salmo 117,2.
515 Ibid.
516Lettera a Barnaba, II, 6.
517 Trattati etici, V, 141-142.
518 Cfr. Gal 5,5. POLICARPO DI SMIRNE, AiFilippesi, El, 2-3. ISACCO IL S iro , Discorsi asceti­
ci, 22; 33. P ietro D amasceno , Libro, 1.
519Lettere, 231. Cfr. 43.
390
La speranza è anche strettamente legata alla penitenza. La penitenza
appare innanzitutto come una condizione della speranza520. Consta­
tando la propria miseria spirituale, riconoscendo davanti a Dio il pro­
prio stato di malattia, e chiedendo perdono per i suoi peccati, l’uomo
è portato a sperare che il Cristo sarà misericordioso nei suoi riguar­
di, lo purificherà, e lo guarirà dalle sue malattie spirituali. D’altra par­
te l’uomo non può sperare di essere guarito se non manifestando in
un atteggiamento di penitenza il desiderio di guarigione, perché Dio
non potrà guarire l’uomo contro la sua volontà e senza che questa par­
tecipi attivamente al trattamento che egli usa. Solo nella penitenza l’uo­
mo può avere la certezza del perdono e della guarigione521.
Inversamente, la speranza appare come la condizione della peni­
tenza. ÈtfttQprio perehé l’uomo spera in,Dio che noi? rimane ancora-
to/ai suoi fallimenti passati né al suo stato patologico attuale, ma»cre-
dfcppssibile la sua guarigione; per questo-si rivolge versoGolui che
pjaèrperdonare i suoi peccati e liberarlo dalle sue malattie, ridargli la
salute e permettergli di condurre una vita nuova. «Il malfattore che
non si aspetta nessuna grazia sprofonda nella follia, invece colui che
ha speratone! perdono spesso arriva fino alla conversione», osserva
san Cirillo di Gerusalemme522.
In terzo luogo, la speranza è legata alla preghiera;- Da un lato essa
ne è la condizione: colui che prega spera di ricevere ciò che chiede.
Dall’altro, e inversamente, la speranza è un frutto della preghiera, in
particolare della preghiera continua523: la preghiera fa nascere la spe­
ranza524, la fortifica e la rende costante525. Ciò è vero per la preghiera
di domanda, con la quale l’uomo sollecita il dono (cfr. 2Ts 2,16) di que­
sta speranza; questo è vero anche per la preghiera di ringraziamento
per mezzo della quale l’uomo «consèrva in una memoria incessante
il-ticordo della bontà di Dio» e attende da essa nel futuro più di quan­
to, malgrado la sua indegnità, egli ha già ricevuto nel passato526.
La speranza, infine, è legata alla pratica dei comandamenti: da un
lato, perché la virtù della speranza non può svilupparsi e sussistere
se non in collegamento con le altre virtù e a condizione anzitutto che

520 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, in, 51.
521 Cfr. G iustino , Dialogo, 141.
522 Catechesi battesimali, II, 5.
523 Cfr. MARCO l’E remita, Controversia con un avvocato, 8.
524 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 56.
525 Cfr. ibid., 33.
526 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola, 2.
391
l’uomo sia liberato dalle passioni che si oppongono a queste. Ecco per­
ché san Simeone il Nuovo Teologo scrive: «Se si dimenticano i co-
mandamenti, si perde la speranza in Dio»527. Colui che non compie la
volontà di Dio, non si tiene lontano dal peccato e dalle passioni e non
si comporta virtuosamente, non può avere la speranza di essere gua­
rito e salvato. San Giovanni Crisostomo, in un commento al salmo 4,
fa notare che Davide, «oltre alla conoscenza di Dio, ci prescrive una
vita pura, insegnandoci con questo a fondare la speranza della salvez­
za non solo sulla bontà di Dio ma anche sulla virtù delle nostre azio­
ni»528. «Dopo la misericordia di Dio, nessuno riponga la propria spe­
ranza se non nella santità della sua vita», egli scrive ancora529. L’uo­
mo non può sperare di condividere i beni del Regno se non a condizione
di vivere secondo Dio nel compimento dei suoi comandamenti. Oc­
corre sottolineare che, tra le virtù, particolarmente due favoriscono la
speranza: la carità (cfr. lCor 13,7)530e l’umiltà531.
Dall’altro lato, e inversamente, la pratica dei comandamenti sup­
pone la speranza. La speranza è in modo generale una delle molle fon­
damentali della determinazione dell’uomo a vivere secondo Dio; es­
sa risveglia il suo zelo532, lo dinamizza, lo fortifica533e gli dà la costan­
za negli sforzi che compie per guarire e recuperare la salute in Cristo,
nel riorientare, per mezzo della pratica dei comandamenti, tutte le po­
tenzialità del suo essere in direzione di Dio, che costituisce la loro fi­
nalità naturale e normale. Colui che non spera nulla, che non si attende
la salute promessa dal Cristo, continua a vivere nel suo stato di ma­
lattia e si abbandona sempre più alle passioni. Colui che, al contrario,
spera nella guarigione, agisce in vista di questa, si sforza in tutti i
modi di ottenerla dal Medico celeste, allontanandosi dal male per ri­
volgersi verso di lui con tutto il suo essere e in ogni momento. «Chi
non si aspetta la salute accumula il male senza rendersene conto, men­
tre colui che ha concepito la speranza della guarigione si cura da sé da
quel momento in poi», sottolinea san Cirillo di Gerusalemme534.
La speranza ha anche molti altri effetti. Possiamo innanzitutto ri­
527 Capitoli teologia, gnostici e pratici, IH, 51.
528 Commento al Salmo 4 ,7.
529 Commento a san Matteo, V, 4.
530 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, V, 137-141.
531 Cfr. I d ., Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
532 Cfr. B asilio di C esarea , Regole brevi, 36.
533 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 58.
534 Catechesi battesimali, II, 5.
392
cordare l’aiuto che essa offre all’uomo nelle tribolazioni e nelle dif­
ficoltà alle quali egli deve far fronte durante la sua esistenza terrena535,
dandogli in particolare la capacità di sopportarle pazientemente, os­
sia con gioia (cfr. Rm 12,12). «La speranza allevia tutte le pene di
quaggiù», osserva san Giovanni Crisostomo536. «Nelle nostre afflizio­
ni noi siamo sostenuti da speranze eterne, salde, incrollabili», dice an­
cora537. «Il cristiano ha questo vantaggio, fa notare, che, sostenuto dal­
la speranza dei beni futuri, si pone al di sopra di tutti i mali di que­
sta vita»538. In tutte le prove che l’uomo incontra, la speranza costituisce
un rifugio, e anche il solo (cfr. Eb 6,18); essa è per l’anima uii’àncl-
sòlida (cfr. Eb 6,19) che la tiene attaccata a Dio anche in
mezzo alle più forti e violente tempeste. Proprio per questo appare
come una fonte di sicurezza539, quindi, di riposo540 e di pace. Sant’I-
sacco il Siro scrive a questo riguardo: «Quali che siano le vie su cui
camminano gli uomini nel mondo, essi non vi trovano la pace fintanto
che non avvicinano la speranza di Dio. Il cuore non è in pace, lon­
tano dalle pene e dagli ostacoli, fintanto che non ha raggiunto la spe­
ranza. Ma quando egli l’ha trovata, questa lo placa e lo colma di
gioia»541.
La speranza, inoltre, aiuta l’uomo a sopportare pazientemente le
pene dell’ascesi542, i cui frutti non sono immediati, e che per questo
motivo offrono un terreno propizio allo scoraggiamento. San Macario
il Grande scrive: «Colui che non ha dinanzi agli occhi [...] la speran­
za, dicendosi: “Raggiungerò la liberazione e la vita”, non può sop­
portare le tribolazioni, portare il fardello, prendere la via stretta. In­
fatti, la presenza in lui della [...] speranza gli permetterà di soffrire e
sopportare le tribolazioni»543. «E la speranza, fa notare san Giovanni
Crisostomo, che, catena solida, sospesa e fissata ai cieli, sostiene le no­
stre anime durante la traversata, eleva a poco a poco fino a quelle al­
tezze quelli che si attaccano ad essa fortemente, e ci toglie dal turbi­
nio delle miserie terrene»544.
555 Cfr. D oroteo DI Gaza, Lettere, 12; 197.
536Commento a san Giovanni, LXVII, 1. Cfr. Omelie sulla Genesi, XVII, 8.
537 Omelie sulle afflizioni, 1.
538 Omelie sulle statue, II, 3. Cfr. Commento al Salmo 110,1.
539 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera a Tito, VI, 4.
540 Cfr. D oroteo di G aza , Lettere, 14,199.
541 Discorsi ascetici, 58.
542 Cfr. ibià., 56. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 32; 33.
543 Omelie (Coll. II), XXVI, 11.
544Esortazioni a Teodoro, 1,2.
393
Dalla speranza l’uomo trae la fiducia545e la sicurezza (cfr. 2Cor 3,12;
Eb 3,6)546di cui ha bisogno per combattere la buona battaglia.
È sempre la speranza che gli permette di sfuggire al dubbio547, e al­
la «dipsichia» malsana548, ragion per cui san Marco l’Eremita la chia­
ma «speranza semplice» o «monologica»549.
Ma non si limitano qui gli effetti terapeutici di questa virtù. San Gre­
gorio Nazianzeno afferma che «la speranza è un rimedio nelle malat­
tie»550. Questo è vero per le malattie del corpo551, ma anche per quel­
le spirituali.
La speranza è, in primo luogo, il rimedio specificamente adatto al­
le passioni che le sono opposte. Essa è, come dice san Giovanni Cli-
maco, «l’antidoto alla disperazione»552, in particolare per ciò che l’uo­
mo prova davanti al suo stato di malattia e di peccato: «La dispera­
zione proviene da una moltitudine di peccati, da una coscienza
appesantita e da un insopportabile dolore, quando l’anima è coperta
da molte ferite, e, sotto questo peso, sprofonda nell’abisso della di­
sperazione [...]. [Questa disperazione] potrà essere guarita da [...] una
speranza fedele»553.
La speranza a fortiori guarisce l’uomo dalla tristezza554, di cui ab­
biamo visto che la disperazione costituisce una forma estrema. Un
apoftegma riferisce di un asceta, il quale, «vedendosi vinto dalla tri­
stezza, come un medico esperto si mise a sperare e disse: “Ho fid|i-
tìà rièllfe misericòrdie di Dio e só die avrà certamente pietà di me”»®.
Essa guarisce anche dall’acedia556, che è vicina a queste due ultime pas­
sioni. «Un monaco pieno di speranza uccide l’acedia, che respinge, ar­
mato di questa spada», nota san Giovanni Climaco557. La speranza per­
mette anche di evitare l’angoscia558.
Questa virtù gioca, inoltre, un ruolo fondamentale nella guarigione
545 Cfr. G r e g o rio M agn o, Moralia su Giobbe, X X , 3.
546Cfr.ibid.
547 Cfr. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 12, 3.
™Ibid.
549 Cfr. La legge spirituale, 10.
550Discorsi, XVII, 2.
551 San B arsanufio scrive così: «Se ti capita un indebolim ento o un’altra malattia, getta la
tua speranza nel tuo Maestro, e sarai sollevato» (Lettere, 32). Cfr. 508.
552 La Scala, XXX, 32.
553 G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 72.
554 Cfr. Sai 41,6. CIPRIANO DI CARTAGINE, Sulla morte, 2.
555Apoftegmi, N 585.
556Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 27. Apoftegmi, N 196.
557 La Scala, XXX, 34.
558 Cfr. C ipriano , Sulla morte, 2.
394
di tutte le altre malattie spirituali. San Marco l’Eremita sottolinea che
essa contribuisce a rigettare dal cuore i pensieri e i desideri passiona­
li559. In genere essa incita l’uomo a purificarsi da ogni male per acce­
dere ai beni in cui egli spera, per essere degno di unirsi a Colui nel
quale spera. «Chiunque ha questa speranza in lui, diventa puro co­
me egli è puro» scrive san Giovanni (lGv 3,3). La speranza è una del­
le condizioni generali per la guarigione spirituale dell’uomo perché è
per mezzo di essa che egli si volge verso il medico celeste560e si attac­
ca alla sua parola, le cui «promesse guariscono le piaghe dei nostri er­
rori»561. E per questo che Evagrio arriva a dire che dalla speranza e
dalla perseveranza «nasce l’impassibilità»562.
La speranza ha una funzione non solo terapeutica, ma anche profi­
lattica. Essa è, come afferma l’Apostolo (cfr. lTs 5,8) un elmo che ri­
copre e protegge la testa dell’uomo spirituale563. Essa lo preserva dal­
le cadute, secondo la parola del salmista: «Non subiscono alcuna pe­
na quanti in lui [Dio] si rifugiano» (Sai34[33],23). Essa lo protegge
contro gli attacchi dei demoni564. «Quando i nemici l’abbassano da­
vanti a Dio, nota san Pietro Damasceno, egli si eleva per mezzo della
speranza, per non ricadere mai più cedendo allo sconforto, e mai più
disperare per la paura»565. In genere, «essa chiude l’ingresso del cuo­
re a tutti i vizi»566.
Al tempo stesso in cui essa è una delle condizioni per la guarigione
dalle passioni e preserva l’uomo dal ricadérvi, la speranza è anche una
delle fonti dell’acquisto delle virtù567.
Occorre sottolineare soprattutto la stretta relazione che intercorre
con la più alta tra esse, e che le contiene tutte: la carità. Se, come ab­
biamo visto, la speranza deriva dalla carità, inversamente, quella è con­
dizione di questa. Solo dopo aver raggiunto la speranza, insegna san
Simeone il Nuovo Teologo, si può possedere «integralmente in essa
l’amore nei confronti di Dio. È impossibile, infatti, a ogni uomo ac­
quisire l’amore perfetto riguardo a Dio se non per mezzo di una fede
559 Cfr. La legge spirituale, 14; Il battesimo, 28; Controversia con un avvocato, 17.
560 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 65.
561 A mbrogio DA M ilano , La morte è un bene, 20.
562 Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo.
563 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, VII, 5.
564 Cfr. Apoftegmiy Am 131,1.
565Libro, I.
566G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 6.
567 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 34;
La legge spirituale, 71.
395
sincera e una speranza ferma e incrollabile»568. San Giovanni Climaco
nota nello stesso senso: «Il venir meno della speranza è la scomparsa
dell’amore»569. Al contrario, «ciò che dà forza all’amore è la speran­
za»570.
San Diadoco di Foticea definisce la speranza come «una emigra­
zione amorosa dello spirito verso ciò che si spera»571. Infatti, quando
l’uomo possiede la speranza, in un certo senso egli già possiede in qual­
che misura e anticipatamente i beni verso i quali essa conduce. È co­
sì che san Giovanni Climaco scrive: «La speranza è un tesoro fatto di
tesori che ancora non appaiono»572, e ancora: «La speranza è un te­
soro che già si possiede, prima dell’altro tesoro»573. Ecco perché alla
speranza si unisce la gioia spirituale574, primizia della beatitudine attesa.

568 Trattati etici, 1,12,16-18. Cfr. ibid., V, 143-145.


569La Scala, XXX, 33.
570Ibid., 29.
571 Cento capitoli gnostici, Prologo.
572La Scala, XXX, 30.
573Ibid., 30.
574 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XX, 3.
396
IV
IL PROCESSO DELLA GUARIGIONE:
LA CONVERSIONE INTERIORE

Occorre sapere che la virtù non può essere acquisita dall’uomo co­
me una realtà nuova, estranea, ed esterna a lui. San Massimo il Con­
fessore fa notare che non si tratta di «aggiungere le virtù dall’esterno
e in modo accessorio»1, e san Giovanni Damasceno afferma che non
è questione di «acquisire la virtù come se questa fosse qualcosa ve­
nuta dall’esterno»2. Sant’Antonio afferma la stessa cosa: «Essa non è
lontana da noi, non si forma fuori di noi, l’opera è in noi [...]. La virtù
non ha bisogno che della nostra buona volontà, poiché essa è in noi
e si forma in noi»3. Le virtù, infatti, sono costitutive, l’abbiamo visto,
della natura stessa dell’uomo: Dio le ha messe in lui fin dall’origine nel
crearlo a sua somiglianza. Questo stato, che l’uomo ha perduto dopo
il peccato originale, il Cristo lo ha restaurato, e ogni battezzato lo re­
cupera. Se, tuttavia, l’uomo cede di nuovo al peccato e s’abbandona
alle passioni, le virtù non cessano, pertanto, di definire la sua vera na­
tura; in verità, sono le passioni ad essergli estranee, provenienti dal­
l’esterno4, gli sono sovraggiunte, mascherano la natura umana e le si
avvinghiano come parassiti. Tali passioni sono in rapporto alla natu­
ra virtuosa come la ruggine è in rapporto con il ferro, fanno notare san
Massimo5 e san Giovanni Damasceno6. Mutuando un altro paragone
da san Gregorio di Nissa, esse sono l’abito imbrattato di terra che ri­
copre l’uomo caduto nel pantano del peccato, e che nasconde - ma
non distrugge - la sua bellezza naturale7. Il ricorso alle nozioni di sa­
lute e di malattia consente di comprendere ancor meglio le cose, poi-
1Disputa con Pirro, PG 91, 309C.
2Esposizione esatta della fede ortodossa, DI, 14.
3 Atanasio d ’A lessandria , Vita di Antonio, XX.
4 G iovanni D amasceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, HI, 14.
5Disputa con Pirro, PG 9 1 ,312A.
6Esposizione esatta della fede ortodossa, IH, 14. Vedi pure GREGORIO DI NlSSA, Trattato sul­
la verginità, XII, 2.
7hoc. cit.
397
ché abbiamo visto che le virtù sono la salute dell’anima e le passioni
le sue malattie. Ora, occorre aver cura di rispettare l’ordine dei feno­
meni: per l’anima come per il corpo, la salute è primaria, normale, co­
stitutiva della natura, mentre la malattia viene dopo, s’introduce co­
me un elemento estraneo, perturbatore. Ciò è quanto sottolinea Eva-
grio: «Se la morte è seconda in rapporto alla vita, e la malattia seconda
in rapporto alla salute, è evidente che anche la malizia è seconda in
rapporto alla virtù»8. Sant’Isacco il Siro ugualmente fa notare: «La
virtù è naturalmente la salute dell’anima, le passioni ne sono la malat­
tia [...]. E chiaro che la salute esiste in natura prima dell’irruzione
del male. Se è proprio così - ed è vero -, la virtù è dunque natural­
mente nell’anima. E quanto avviene in seguito è al di fuori della sua
natura»9. Così, come ci insegna san Doroteo di Gaza, vivere secondo
la virtù è semplicemente «recuperare il proprio stato, è ritornare alla
salute proprio come si recupera una vista normale dopo una malattia
degli occhi, o la salute propria e naturale dopo qualunque altra ma­
lattia»10.
Abbiamo visto, infatti, studiando la patologia dell’uomo decaduto,
come le passioni, malattie dell’anima, si costituiscono a causa di una
perversione della natura dell’uomo, più precisamente per una devia­
zione di tutte le sue facoltà, in origine e naturalmente volte verso Dio,
loro normale fine, ma allontanate da lui dal peccato per essere orien­
tate contro natura e irrazionalmente verso le realtà sensibili.
E chiaro, perciò, che il ritorno alla salute per l’uomo consisterà
nel recuperare la sua natura originaria effettuando il movimento in­
verso, cioè nell’allontanare tutte le sue facoltà dalle realtà carnali per
ri-portarle verso Dio. Si comprende con ciò come sia spesso in ter­
mini di conversione nel senso etimologico della parola, cioè di capo-
volgimento, di cambiamento di orientazione, che le Sacre Scritture11e
8 Capitoli gnostici, 1,41.
9Discorsi ascetici, 83.
10Istruzioni spirituali, XI, 122.
111 termini più frequentemente usati sono: stréphò (girare, girare in senso contrario, ritor­
nare), epistréphd (girare verso, dirigere verso, girare in senso contrario, ritornare, tornare sui pro­
pri passi, tornare su se stessi, volgersi, voltarsi), epistropbe (azione di voltarsi, di rivolgersi). I ter­
mini metanoéd e metànoia, che indicano un cambiamento di mentalità, di sentimenti, sono an­
che molto usati, ma riguardano piuttosto l’atteggiamento interiore di pentimento, di penitenza,
che deve presiedere a questo cambiamento o ne è almeno la condizione, piuttosto che questo
cambiamento stesso da un punto di vista obiettivo. Alcuni passi uniscono le due nozioni, così
per esempio At 3,19: «Pentitevi e convertitevi (metanoesate kaì epistrépsate)». Epistréphd è
usato in: Mt 13,15; Me 4,12; Le 1,16-17; 22,32; At 3,19; 9,35; 11,21; 14,15; 15,19; 26,18.20; 28,27;
2Cor 3,16; lTs 1,9; Gc5,19.20; lPt2£5. Nell’Antico Testamento in: Is 6,10; 45,22; 55,7; Sir 17,25.
398
tutta la Tradizione ricordano la salvezza e definiscono le sue condi­
zioni. Infatti, come il peccato, e in genere il male, consistono per l’uo­
mo nell’allontanarsi da Dio volgendogli le spalle, così la salvezza, e
in modo generale il bene, consistono inversamente nell’awicinarsi a
lui volgendosi verso di lui con tutto il proprio essere.
Sant’Ireneo considera chiaramente che è in questo capovolgimen­
to che vi è la condizione della guarigione dell’uomo: «Che il Signore
sia venuto come medico degli ammalati, egli stesso lo attesta [...]. Co­
loro dunque che stanno male come si ristabiliranno? [...] Nel perse­
verare nelle stesse disposizioni? O, al contrario, accettando un profon­
do cambiamento e rivolgimento del loro vecchio modo di vivere con
cui hanno attirato su di sé una malattia tutt’altro che banale e nume­
rosi peccati?»12.
Le facoltà umane sono state create da Dio in vista del Bene, e per
natura sono orientate verso i beni spirituali. L’uomo, in virtù della li­
bertà di cui dispone, può mantenerle in questa direzione, e fame co­
sì un uso normale, conforme alla loro natura, razionale, virtuosa, o, al
contrario, farne un cattivo uso, patologico, contrario alla natura, irra­
zionale, passionale, rivolgendole verso i falsi beni sensibili. Lo ricor­
diamo, per sottolinearlo ancora una volta, che le virtù e le passioni so­
no definite dall’uso che l’uomo fa delle sue facoltà13, e dallo scopo ver­
so il quale egli le fa tendere14. «È questo uso razionale o irrazionale che
noi facciamo delle cose che ci rende virtuosi o perversi», scrive san
Massimo15. Quanto a san Simeone il Nuovo Teologo, egli fa notare che
l’anima diviene cattiva se aderisce al male e, al contrario buona, se ade­
risce al bene16. E san Giovanni Crisostomo nota che «dipende dunque
da noi usare le nostre membra per il peccato o per la giustizia»17.
«Nulla è cattivo tra le creature di Dio», precisa san Massimo18per
sottolineare che non sono le facoltà stesse che sono in causa ma solo
il modo di usarle. «Nella misura in cui, egli spiega, usiamo male le po­
tenze [o parti] della nostra anima: concupiscibile, irascibile e razio-
12 Contro le eresie, in, 5,2.
13 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 75.
14Vedi per esempio ibid., E, 36.
15 Ibid., I, 92. Cfr. Ili, 1; 3. CLEMENTE D’ALESSANDRIA: «Ogni azione contraria al Verbo
giusto è una colpa. È proprio così che i filosofi pensano di poter definire le passioni più gene­
rali»; al contrario, «la virtù è una disposizione dell’anima che ben si accorda con il Verbo in tut­
ta la vita [...]. Il comportamento del cristiano è quello dell’attività di un’anima concorde con il
Verbo» {Il Pedagogo, I, xm, 101,1-2).
16Catechesi, XXV, 60s.
17 Omelie sulle statue, IV, 5.
18Centurie sulla carità, III, 3.
399
naie, le passioni si installano in essa [...]. Il loro buon uso, al contra­
rio, produce [le virtù]»19. San Basilio spiega ugualmente che le «po­
tenze dell’anima divengono gli strumenti del vizio o della virtù, a se­
conda delle disposizioni dell’uomo che agisce. Se egli si serve della fa­
coltà di desiderio [parte concupiscibile] per tuffarsi nei piaceri sensibili,
si renderà infame e abominevole; se, al contrario, se ne serve per in­
fiammarsi nell’amore di Dio e di Nostro Salvatore Gesù Cristo, tutti i
suoi desideri saranno virtuosi e meriterà una felicità eterna»20. «Se
fate un buon uso della collera e se ve ne servite razionalmente, essa
si cambierà in forza, in pazienza e in costanza; ma se voi ne abusate,
essa si tradurrà in furore e in frenesia»21. «Occorre fare lo stesso ra­
gionamento per la parte razionale: quando se ne usa bene, si diviene
saggi e prudenti; ma se ci si serve della propria ragione per nuocere al
prossimo, si diventa furbi, artificiosi e maligni»22.
Nelle virtù come nelle passioni, sono dunque gli stessi organi, po­
tenze, facoltà, che sono all’opera: la virtù corrisponde al loro uso sa­
no, conforme alla finalità naturale e normale, cioè orientata verso Dio;
la passione corrisponde al loro uso perverso, patologico, alla loro orien­
tazione verso un fine che non è conforme alla loro natura e consiste in
una realtà sensibile o carnale. Per questa ragione, il passaggio dalle
passioni alle virtù non implica un non-uso, una mortificazione, ossia
una distruzione di questi organi, potenze o facoltà stesse, ma consi­
ste nella loro riorientazione, nel rivolgerle verso il loro «oggetto» na­
turale e primario: le realtà spirituali, il Bene, Dio. Ecco perché san Ni-
ceta Stetatos afferma esplicitamente: «Occorre, per le pene del pen­
timento e la tensione dell’ascesi, rovesciare le potenze dell’anima e
renderle tali come Dio ce le ha date all’inizio quando creò Adamo»23.
San Massimo spiega da parte sua che, «depravato», l’uomo «segue le
cupidigie e gli impulsi della carne, mentre quando è virtuoso [...] si
sforza di volgere al bene i movimenti di questo genere che egli pro­
va»24. «Gli uomini ferventi, egli aggiunge, si servono di queste passio­
ni, non certo di queste passioni in quanto tali, ma dell’energia, della
potenza che serve loro di base, da un lato per far scomparire il male,
presente o futuro, dall’altro, per acquistare e conservare la virtù e la
19ibid.
20 Omelie, 10, Sulla collera.
21 Ibid.
22lbid.
23 Centurie, I. 17.
24 Centurie sulla carità, II, 56.
400
conoscenza, sull’esempio dei medici sapienti che trasformano in me­
dicamenti lo stesso veleno della vipera. Per concludere, le passioni di­
vengono buone in ragione del loro uso per chi sa sottomettere al­
l’obbedienza del Cristo tutto il suo pensiero e tutta la sua volontà»25.
Possiamo perciò dire, con san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo, che
«l’anima perfetta è l’anima in cui la potenza delle passioni è totalmente
volta verso Dio»26.
L’Apostolo stesso invita i battezzati a una tale conversione a Dio con
tutte le proprie facoltà, conversione attraverso cui esse ritrovano l’or­
dine virtuoso della loro natura: «Non presentate le vostre membra co­
me armi di iniquità per il peccato, ma offrite voi stessi a Dio come
viventi dopo essere stati morti e le vostre membra come armi di giu­
stizia per Iddio» (Rm 6,13); «come offriste le vostre membra in ser­
vizio alla immondezza e all’iniquità per l’iniquità, così ora offrite le vo­
stre membra in servizio della giustizia per la santificazione» (Rm 6,19).
Abbiamo visto che il peccato consiste in primo luogo in una igno­
ranza di Dio, quando l’uomo distoglie le sue facoltà dalla conoscen­
za di Dio per volgerle verso il mondo sensibile subordinandole ai sen­
si. Egli dà così vita a una conoscenza fantasmatica e delirante, succe­
danea della vera conoscenza. H ritorno degli organi di conoscenza alla
loro salute primitiva avviene secondo il movimento inverso, cioè al­
lontanandosi dalle realtà sensibili per orientarsi di nuovo verso Dio.
«Come per mezzo del pensiero gli uomini si sono allontanati da Dio
e si sono creati degli dèi dal nulla, così essi possono per mezzo dello
spirito che è nella loro anima salire verso Dio e ritornare di nuovo ver­
so Dio», scrive sant’Atanasio Magno [d’Alessandria]27. E san Massi­
mo consiglia: «Per mezzo della ragione, in luogo dell’ignoranza, oc­
corre porci alla ricerca di Dio solo sulla via della conoscenza»28.
In questo modo, gli organi di conoscenza non sono in nulla modi­
ficati nella loro natura, ma solo riorientati nel loro esercizio, perché è
unicamente in funzione del loro orientamento che essi sono sani o ma­
lati: «È per mezzo dell’intelligenza che diveniamo peggiori», ma è
ugualmente «per mezzo dell’intelligenza che diveniamo migliori», fa
notare sant’Isacco il Siro29, il quale di conseguenza osserva che dò che
25 Questioni a Talassio, 1, PG 90,269BC.
26 Centuria, 66.
27 Contro ipagani, 34.
28Lettere, 2,PG91,397B.
29Discorsi ascetici, 49.
401
«Dio vuole», è «il c a m b ia m e n t o dell’intelligenza», perché «solo un ta­
le cambiamento può [...] essere ammesso davanti a Dio»30. E san Gre­
gorio di Nissa constata che noi ritroviamo il Bene di Dio «ogni volta
che rivolgiamo la nostra ragione verso di lui»31. Si tratta, dunque, sem­
plicemente di condurre gli organi della conoscenza ad esercitarsi se­
condo la loro finalità normale, quella che corrisponde alla loro natu­
ra. Così sant’Antonio dice: «Se l’anima conserva la sua parte intelli­
gente conforme alla natura, si formerà la virtù. Essa è secondo natura
quando rimane come è stata fatta perché è stata fatta bella e giusta [...].
Per l’anima, essere giusta, vuol dire avere l’inteUigenza secondo na­
tura, come fu creata, ma quando devia e si distorce in rapporto alla
natura, allora si parla di vizio dell’anima. La cosa non è dunque diffi­
cile; se noi rimaniamo tali come siamo stati creati, siamo nella virtù»32.
Così la parte razionale dell’anima non deve essere mortificata33o soffo­
cata, altrimenti l’uomo non avrà più alcun mezzo per contemplare le
realtà spirituali e conoscere Dio, ma deve solo essere utilizzata diver­
samente: essa ritrova la sua «vera vita», nota san Gregorio Palamas,
consentendo di nuovo all’uomo di «consacrarsi alle contemplazioni
divine e di rivolgere inni di ringraziamento a Dio»34.
Non è solo la parte razionale dell’anima che è «migliorata» in quan­
to riorientata verso la finalità originaria, naturale e normale, ma anche
tutte le altre facoltà, e ciò sotto la guida dello spirito. «Per mezzo del­
l'autorità dello spirito, scrive san Gregorio Palamas, noi fissiamo la sua
legge a ogni potenza dell’anima, e a ciascun membro del corpo quan­
to gli conviene»35.
La potenza di desiderio [concupiscibile] e quella aggressiva [ira­
scibile] - la perversione delle quali è all’origine di molti turbamenti
e fonte della quasi totalità di queste malattie spirituali che sono le pas­
sioni -, possono così, sotto la guida dello spirito e della ragione esse­
re esse stesse riorientate verso Dio, ritornare ad essere sane essendo
rivolte verso la loro finalità originaria e naturale, che in primo luogo è
quella di desiderare e amare Dio, e in secondo luogo quella di lotta­
re contro il male e in vista del bene, cioè lottare contro tutto ciò che
tende ad allontanare l’uomo da Dio, e per acquisire e conservare quan-
» ibid.
31 Trattato sulla verginità, XE, 2.
32 A tanasio d ’A lessandria , Vita di Antonio, 20.
33 G regorio P alamas , Triadi, n, 2 ,2 3 .
34 Ibid.
35Ibid
402
to permette di avvicinarsi e unirsi a lui. «È possibile, scrive san Mas­
simo, “logizzare” le facoltà irrazionali dell’anima - voglio dire l’ira­
scibilità e il desiderio -, armonizzarle con lo spirito attraverso la ra­
gione»36. Dopo aver ricordato che i movimenti irrazionali dell’uomo
si sono trasformati in vizi per il cattivo uso dell’intelligenza, san Gre­
gorio di Nissa nota ugualmente che, «inversamente, se la ragione im­
pone il suo dominio ai suoi movimenti, dà a ciascuno di essi la forma
della virtù»37. «Tutti questi movimenti diretti in alto dall’attività su­
periore dello spirito divengono conformi alla bellezza dell’immagine
divina», osserva ancora38. Origene concorda che è secondo l’uso ra­
zionale o irrazionale che se ne fa, che la collera, il desiderio e tutto ciò
che si prova di simile, sono buoni o cattivi, e che dobbiamo dunque
sforzarci di acquisire «il senso del Cristo» per «trasformare» in vista
di Dio ciò che egli ci ha dato39.
Né tantomeno, il ritorno alla salute avviene per mezzo di una ini­
bizione o una mortificazione delle facoltà in causa, ma per un cam­
biamento del loro uso, per il loro riorientamento verso Dio sotto la
guida dello spirito. San Gregorio Palamas spiega molto categorica­
mente che la terapia «non consiste nel far morire la parte passionale,
ma nel trasferirla dal male verso il bene, nel dirigerla, nella sua stessa
costituzione, verso le cose divine, dopo averla completamente allon­
tanata dal male e volta verso il bene»40. Infatti, «è con questa facoltà
dell’anima che noi amiamo e che ci allontaniamo, che ci uniamo o che
rimaniamo estranei. Coloro che amano il bene, dunque, fanno una tra­
sposizione 0metàthesis) di questa facoltà e non la fanno morire; non la
rinchiudono in loro stessi senza permetterle alcun movimento, ma la
fanno agire nell’amore verso Dio e il prossimo»41. L’uomo guarito dal­
le malattie spirituali è perciò «colui che ha sottomesso i suoi appetiti
irascibile e concupiscibile, i quali costituiscono la parte passionale del­
l’anima, alle facoltà di conoscenza, di giudizio e di ragionamento
dell’anima, come le persone passionali sottomettono la loro ragione
alle passioni»42. In questo modo, «si praticheranno le virtù corrispon­
denti con la parte passionale dell’anima che agirà in conformità con il
36Ambigua, 6, PG 91,1068A.
37 La creazione ¿teli’uomo, XVHI.
38Ibid.
39 Omelie sulla Genesi, 1,17.
40 Triadi, H, 2,19.
41 Ibid., Ili, 3,15.
42Ibid., H, 2,19.
403
fine che Dio le ha proposto creandola»43. In altre parole, le sarà data
la possibilità di esercitarsi di nuovo correttamente. Se l’uomo inibis­
se, mortificasse e distruggesse la parte passionale della sua anima, si
priverebbe delle facoltà e dell’energia che sole possono permettergli
di allontanarsi dal male e andare verso Dio: «Non vi sarebbe in lui,
nota san Gregorio Palamas, né movimento né azione per acquisire una
condizione divina, di relazioni a Dio e di disposizioni divine dello spi­
rito»44. Nel sottomettere tale parte passionale, egli potrà al contrario
utilizzarla ai fini dello spirito, «andare convenientemente a Dio, e ten­
dere verso di lui»45. «Gli uomini che hanno la passione del bello, scri­
ve ancora, non fanno morire la parte passionale della loro anima,
rinchiudendola all’interno di loro stessi e lasciandola senza attività, né
movimento, perché allora essi non possederebbero più l’organo ne­
cessario per amare il bene e odiare il male, non avrebbero più i mez­
zi per divenire estranei al male per unirsi a Dio. Ecco cosa fanno
morire: le relazioni di questa potenza con le cose cattive, essi dirigo­
no completamente la potenza verso l’amore di Dio, in conformità al
primo e grande comandamento: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tut­
ta la tua forza” (Me 12,30). Quale potenza? La potenza della parte pas­
sionale, evidentemente»46.
È chiaro, perciò, che il desiderio e l’amore di Dio non si compiono
per altra facoltà né per altra energia se non quella per la quale l’uomo
desidera e ama le realtà carnali, e che da questo punto di vista non vi
è alcuna differenza di natura tra il desiderio e l’amore di Dio e il de­
siderio e l’amore delle realtà sensibili e carnali. Così Teodoreto di Ci­
ro scrive: «L’appetito concupiscibile (epithymia) ha grandi vantaggi
[...]; grazie [ad esso] noi desideriamo le cose divine, [...] ossia desi­
deriamo appassionatamente il Signore che è nei cieli, tendiamo alla
virtù, e tuttavia continuiamo a condurre la nostra vita, mangiando e
bevendo; ed è anche grazie ad esso che la razza si accresce per mez­
zo della procreazione»47. Ciò che cambia tra i due modi di desiderio,
è solo l’orientamento che è dato all’unica potenza da cui essi proce­
dono. Sottolineando questa unicità, san Massimo non esita a utilizza­
re lo stesso termine «passione» (pàthos) per indicare sia l’amore car-
4>Ibid.
“ Ibid.
45 Ibid.
,
46Ibid., n , 2 23.
47 Terapia delle malattie elleniche, V, 77.
404
naie che la carità48, chiamando semplicemente «passione d’amore bia­
simevole quella che occupa lo spirito verso le realtà materiali» e «pas­
sione d’amore lodevole quella che l’unisce al divino»49.
E, dunque, dell’energia stessa dei desideri passionali, della forza
stessa della concupiscenza che si nutre il desiderio di Dio. «Nell’uo­
mo il cui spirito è del tutto volto verso Dio, anche la cupidigia dà for­
za all’amore bruciante per Dio», scrive san Massimo50, che nota an­
cora: «L’anima si serve della sua concupiscenza [...] per mantenere il
suo desiderio»51. Di conseguenza, egli formula questo augurio: «Che
la potenza della concupiscenza lotti per desiderare Dio»52. E tra l’al­
tro consiglia: «Occorre che la potenza di desiderio [appetito concu­
piscibile], purificata dalla passione della filautia, diriga tutto il desi­
derio solo verso Dio»53. Evagrio nota, nello stesso senso, che la po­
tenza di desiderio dev’essere «tutta inclinata verso il Signore»54. Quanto
a San Gregorio di Nissa ricordando la passione dell’avidità (pleones-
sia) scrive: «Quanto a questa aspirazione insaziabile che è in ogni ani­
ma, potente e smisurata, se qualcuno l’applica nel desiderio secondo
Dio, sarà dichiarato beato per questa cupidità»55. Abbiamo visto san
Basilio dichiarare nella stessa prospettiva: se l’uomo «si serve della fa­
coltà concupiscibile per immergersi nei piaceri sensibili, sarà infame e
abominevole; se al contrario egli se ne serve per infiammarsi nell’a­
more di Dio, e del nostro Salvatore Gesù Cristo, tutti i suoi desideri
saranno virtuosi e meriterà la felicità eterna»56.
Se è vitale non mortificare, non uccidere e neanche inibire, la potenza
di desiderio [concupiscibile], è perché essa non è solo la facoltà che ci
permette di amare Dio, ma anche, in modo generale, la forza dinami­
ca di tutta la vita spirituale, il principio motore del ritorno a Dio (sot­
to la guida dello spirito) di tutte le facoltà e attività dell’uomo. Così san
Gregorio di Nissa scrive: «Il desiderio è un’eccellente bestia da soma
che porta sulla sua schiena l’anima, conducendola verso le alture, quan­
do essa è diretta verso i beni dell’alto dalle redini della ragione»57. E san
48 Centurie sulla carità, IH, 67 («questa felice passione della carità»).
49 Centurie sulla carità, Ut, 71.
™Ibid., 11,48.
51 Questioni a Talassio, 55, PG 90,544A.
52Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
53Lettere, 2, PG 91, 397B.
54 Capitoli gnostici, IV, 73.
55 Trattato sulla verginità, XVHI, 3.
56 Omelie, 10, Sulla collera.
57 Trattato sui Salmi, I, 8, PG 44, 477C.
405
Massimo precisa così il suo augurio precedentemente citato: «Che
tutto lo spirito si disponga in vista di Dio [...], bruciando d’affetto sen­
sibile per il desiderio estremo della concupiscenza»58. Se la potenza di
desiderio possiede un tale potere, è perché tutte le facoltà le sono in
qualche modo legate, ma anche perché, quando questa ritrova il suo
orientamento naturale verso Dio e prende la forma della carità, que-
st’ultima costituisce, con la conoscenza59, il polo ordinatore e anima­
tore della vita spirituale60. È in questo senso che san Gregorio Pala-
mas scrive: «Disposta così ad amare Dio, questa parte amante eleva al
di sopra delle cose terrene le altre potenze dell’anima e le volge verso
Dio»61.
È chiaro, altresì, che solo attraverso la conversione, il riorienta­
mento della potenza di desiderio, la passione carnale diviene «pas­
sione spirituale»62, diversamente detta virtù, essendo la sua energia
disinvestita degli oggetti sensibili che essa si era patologicamente da­
ta per essere reinvestita verso gli oggetti divini che lo spirito le mo­
stra. San Massimo spiega così che «l’uomo il cui spirito è compieta-
mente volto verso Dio [...], concentrando in sé tutta la forza delle sue
potenze inferiori, le ha volte verso un amore bruciante, insaziabile,
una carità senza limiti per Dio, convertendolo totalmente dal terreno
al divino»63. Egli nota ancora: «Negli uomini ferventi, persino le pas­
sioni divengono buone: quando saggiamente le distaccano dagli og­
getti corporei per trasportarle verso l’acquisizione dei beni celesti. Per
esempio, essi trasformano la passione del desiderio in un movimen­
to spirituale che li eleva e li fa aspirare alle cose divine»64. San Gre­
gorio di Nissa descrive lo stesso processo: «La nostra anima allonta­
nerà dai beni corporei la sua potenza di amare per riportarla sulla
contemplazione spirituale e immateriale del Bello»65. San Giovanni
Climaco constata, nello stesso senso, che «l’amore delle delizie e dei
piaceri si cambia in amore verso Dio»66. E ci dà questo insegnamen­
to: «Coloro che hanno iniziato a salire al cielo hanno bisogno di fa­
re violenza a se stessi, e di offrirsi sempre [...] fino a che l’amore del­
58 Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.
59Cfr. Id., Centurie sulla carità, E, 28.
60 Ibid., 26.
61 Triadi, II, 2, 23.
62 ORIGENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, E, 2.
63 Centurie sulla carità, E, 48.
64 Questioni a Talassio, 1, PG 90, 269B.
65 Trattato sulla verginità, V.
«LaScala, I, 20.
406
le delizie e dei piaceri ai quali essi si erano abituati e l’insensibilità del
loro cuore mutano in un vero amore di Dio [...]»67. E nella stessa pro­
spettiva che egli parla di «colui che bandisce l’amore sensuale per l’a­
more divino»68. E per mostrare che una tale trasformazione include
le forme più passionali, più sensuali dell’amore, e fino alle più de­
gradate, offre questa testimonianza: «Ho visto delle anime impure che
si davano con furore all’amore carnale; avendole l’esperienza di que­
sto amore ricondotte al pentimento, riversarono tutto il loro amore
verso il Signore»69.
La conversione della potenza di desiderio si accompagna a un cam­
biamento di forma del piacere che gli è correlativo poiché l’oggetto
del desiderio ha cambiato natura: il piacere sensuale fa posto al godi­
mento spirituale. L’uomo conosce allora di nuovo la beatitudine per
la quale egli è fatto in virtù della sua stessa natura, e che Adamo provò
nel paradiso prima della sua caduta. Così san Massimo nota che gli uo­
mini virtuosi, nello stesso momento in cui convertono la passione del
desiderio in un movimento spirituale verso le realtà divine, «trasfor­
mano il piacere nel sano giubilo dell’energia volitiva dello spirito di
fronte ai divini carismi»70. San Gregorio di Nissa sottolinea allo stes­
so modo: «Quando la ragione esercita la sua egemonia, [...] lo slancio
del desiderio ci procura un piacere divino e senza mescolanze»71.
Abbiamo visto san Basilio affermare che, se l’uomo, invece di usare la
sua facoltà di desiderio nel «tuffarsi nei piaceri sensibili», se ne serve
per amare Dio, questo gli vale «una felicità eterna»72.
Il secondo costitutivo essenziale della parte passionale dell’anima,
la potenza aggressiva o irascibile, ritrova la salute convertendosi sotto
la guida dello spirito e della ragione73. Divenuta malata, a causa del
peccato, essendosi allontanata dalla sua funzione naturale e utilizzata
in modo perverso nel respingere Dio e odiare il prossimo, nello stes­
so tempo in cui deve lottare per acquisire e conservare i falsi beni sen­
sibili, tale potenza ritorna sana mettendosi di nuovo, conformemente
alla sua finalità originaria, a combattere tutte le forme del male, cioè
a ib id .
“ LaScala, XV, 2.
m Ibid., V, 28.
70 Questioni a Talassio, 1, PG 90, 269B.
71Sull’anima e sulla risurrezione, 45.
72 Omelie, 10, Sulla collera.
73 Cfr. M assimo il C onfessore , Ambigua, 6, PG 91,1068A.
407
tutto quanto tende ad allontanare l’anima da Dio74, e a lottare per il
conseguimento e la conservazione dei beni spirituali75.
L’uomo virtuoso, a questo punto, si serve della stessa facoltà del­
l’uomo passionale: è sempre la stessa potenza irascibile che è all’ope­
ra, ma mentre quest’ultimo la usa per un fine carnale, il primo la usa
per un fine spirituale76, che è quello di «difendere amorosamente l’og­
getto [divino] delle sue ricerche»77 e «divenire estraneo al male per
unirsi a Dio»78. È così che san Massimo consiglia: «Occorre che la po­
tenza irascibile, liberata dalla tirannia, prenda a combattere solo per
Dio»79. In questo senso, l’aggressività persegue il medesimo fine del­
la carità nello stesso momento in cui la serve. «Nell’uomo il cui spiri­
to è completamente volto verso Dio, [...] anche la potenza irascibile si
porta verso la carità divina», fa notare san Massimo80.
La virtù dunque non consiste più ndl’inibire, nel mortificare o nel
sopprimere la potenza irascibile, perché l’uomo allora sarebbe priva­
to dei mezzi per combattere che sono, lo vedremo poi, indispensabi­
li alla sua vita spirituale (dove incontra, a tutti i livelli, molte forze
avverse), e sarebbe nello stesso tempo privato di un’energia che, in­
sieme alla potenza di desiderio, costituisce un motore indispensabile
per questa stessa vita. Così, san Basilio fa notare: «Non avremo mai
per il peccato l’orrore che dobbiamo avere, se non siamo animati dal­
l’indignazione della collera» e aggiunge che «essa serve all’anima co­
me molla, le ispira forza, coraggio, costanza per condurre un’impre­
sa fino alla fine; essa dà vigore e fermezza allo spirito [...]». Ecco
perché conclude: «Quando essa è sottomessa alla ragione, occorre
amarla così come si è obbligati a odiarla quando è irragionevole»81.
Quanto a san Diadoco di Foticea, egli l’oppone all’inerzia spirituale
che è uno stato patologico e paradossalmente passionale: «Colui dun­
que che, mosso da zelo per la religione, usa saggiamente la collera, sen­
za alcun dubbio sarà ritenuto di buona qualità sulla bilancia della re­
tribuzione invece di colui che, per inerzia, non è mai mosso dalla
collera»82. Grazie all’aiuto della potenza irascibile tutte le facoltà, e
74 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, n , 2,19; 20.
75 Cfr. ibid., 19.
76Cfr. O rigene , Omelie sulla Genesi, XVII.
77 M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 55, PG 90,544A.
78 G regorio Palamas , Triadi, n, 2,23.
79 Lettere, 2, PG 91, 397B.
80 Centurie sulla carità, II, 48.
81 Omelie, 10, Sulla collera.
82 Centuria, 62.
408
in primo luogo la potenza concupiscibile, possono realizzare il loro
scopo che è quello dell’unione con Dio. Anche san Massimo formula
questo voto: «Che la potenza dell’aggressività lotti per desiderare Dio,
o piuttosto, per parlar chiaro, che lo spirito interamente si ordini in
vista di Dio essendo teso dal modo dell’aggressività come una corda»83.
Per il medesimo processo di conversione, tutte le altre facoltà e po­
tenze dell’uomo, sia psichiche che fisiche, essendo ugualmente distol­
te dal loro orientamento patologico verso oggetti carnali per essere
orientate verso il fine divino e spirituale84 che è loro naturale, ritrova­
no un uso normale e sano. Tra queste, possiamo citare la memoria,
che, a causa del peccato divenuta memoria del male e ricordo di og­
getti sensibili e carnali, ritrova la salute divenendo di nuovo, come
all’origine, memoria di Dio85. Possiamo anche citare affezioni impor­
tanti come la tristezza e il timore: la prima, divenuta passione per es­
sersi messa a piangere la perdita dei beni sensibili o la frustrazione di
desideri passionali, ritorna ad essere una virtù essendo riorientata ver­
so un fine spirituale e utilizzata a piangere la perdita dei beni spirituali
dolendosi delle colpe nella penitenza e nella compunzione86; la seconda,
divenuta passione per essersi messa a temere la perdita dei beni sen­
sibili, ridiventa, in quanto riorientata verso il fine spirituale proprio
della sua natura, la virtù del timore di Dio87.
Accade la stessa cosa per tutte le altre affezioni, tendenze, mozioni,
energie dell’anima, ma anche di «ciascun membro del corpo» che, «per
l’autorità dello spirito» passa dalla passione alla virtù essendo, nel suo
uso, ritornato verso Dio88. L’opera della virtù non deve maltrattare il
corpo, perché «il corpo non è una cosa cattiva»89, ma deve disto­
glierlo dal compiere il peccato per restituirlo alla sua normale fun­
zione di «tempio dello Spirito» (cfr. 1Cor 3,19)90.
In tutta la vita ascetica teantropica, che i Padri chiamano praxis,
l’uomo può effettuare verso Dio, con tutte le sue facoltà, questa tra­
83 Commento del Padre nostro, PG 90, 891C.
84 Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, XVII.
85 G regorio P alamas , Triadi, II, 2,19; 23. D iadoco da F oticea , Cento capitoli gnostici,
5; 56.
86 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 1, PG 90,269B.
87Ibid.
88Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,2,2. N iceta Stetatos, Centurie, m, 72.
89G regorio P alamas, Triadi, 1,2,1.
90Ibid., 2, 1; 2.
409
smutazione delle passioni in virtù e ritrovare così la salute. Sono ora
le modalità della trasmutazione nella quale l’uomo riceve da Dio la
guarigione spirituale che esamineremo in particolare dopo averne pre­
sentato le condizioni generali. Infatti, come scrive san Massimo, «bi­
sogna considerare e studiare con vigilanza come l’anima compie con­
venientemente il buon ritorno se, per giungere alla genesi e alla realtà
delle virtù, essa si serve delle cose a motivo delle quali in altri tempi
era nell’errore»91.

91 Questioni a Talassio, Prologo, P G 9 0 , 252A .

410
PARTE QUARTA

APPLICAZIONE DELLA TERAPIA


I
IL DUPLICE MOVIMENTO
DELLA CONVERSIONE INTERIORE
LAPRÀXIS

La conversione delle potenze, facoltà, energie, mozioni dell’uomo


attraverso cui avviene il passaggio dalla malattia delle passioni alla
salute delle virtù si compie in due movimenti simultanei: il primo con­
siste nell’allontanarle dal male, o, per dirla in altri termini, nel cessare
di farne un cattivo uso, nel disinvestirle dalle realtà carnali; il secon­
do, nel volgerle verso le realtà spirituali, nel reinvestirle in Dio. Que­
sto duplice movimento si contrappone al duplice movimento attra­
verso cui l’uomo ha causato la propria caduta e che perpetua in ogni
peccato, secondo il quale egli si allontana da Dio e allo stesso tempo
si volge verso le realtà carnali.
E a questo duplice movimento salutare che Dio invita l’uomo per
bocca del salmista e del santo apostolo Pietro: «Discòstati dal male e
fa il bene» (Sai37[36],27; lPi 3,10). «In altre parole, commenta san
Massimo, combatti i tuoi nemici, cioè le passioni» e «lotta per acqui­
stare le virtù»1.
Il primo di questi due movimenti consiste, in altri termini, in un di­
stacco di fronte al male, distacco che si compie, secondo le parole di
san Paolo, in una crocifissione della carne «con le sue passioni e i suoi
desideri» (Gal 5,24) o anche in una mortificazione delle «membra ter­
rene» (Colò$)• Ripetiamolo, con questo non si deve intendere la cro­
cifissione e la mortificazione delle potenze, facoltà, energie dell’anima
e del corpo, perché se esse sono supporto e veicolo delle passioni, lo
sono anche - e ancor più fondamentalmente, poiché questo corri­
sponde alla loro natura - delle virtù. Il termine «carne», ricordiamo­
lo, non indica il corpo, ma «la legge del peccato» (Rtn 8,2), che è sia
nell’anima sia nel corpo dell’uomo decaduto e sottomesso al male2. Si
1 Centurie sulla carità, II, 11. Vedi anche: DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, XII, 133.
Basilio di C esarea, Regole brevi, 5.
2 Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,2,1-2.
413
tratta, dunque, di far morire, le relazioni di queste potenze con le co­
se cattive3: non dò per cui l’uomo compie il male e si attacca alle realtà
carnali, ma questo stesso compimento e attaccamento. «La prescri­
zione di crocifìggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri, non
l’abbiamo ricevuta per uccidere noi stessi nel far morire ogni attività
dd corpo e ogni potenza dell’anima, ma per respingere ogni deside­
rio e ogni azione cattiva», osserva san Gregorio Palamas4. Anche Ab-
ba Isaia afferma che non si tratta di «sopprimere» tutti i desideri, ben­
sì «i desideri secondo la carne»5; egli sottolinea, inoltre, che si può ap­
plicare a tutte le potenze dell’anima e dd corpo: si tratta di eliminare
solo ogni uso carnale di ciascuna di esse, di mortificare l’orientamen­
to perverso verso gli oggetti e i godimenti sensibili, orientamento che
costituisce proprio le passioni. Ecco perché i Padri spesso parlano nd-
lo stesso senso di «mortificare le passioni» o anche di «sopprimere le
passioni»6; con quest’ultima espressione, essi invitano con molta na­
turalezza a ricorrere a concetti chirurgici: «essendo le passioni un’ul­
cera della verità, occorre annullarle sopprimendole con l’amputazio­
ne», scrive Clemente d’Alessandria7.
Questa operazione, attraverso cui l’uomo fa violenza a se stesso (cfr.
Mt 11,12; Le 16,16), costituisce, se egli vuole guarire da tutte le sue
malattie e raggiungere la salute e gli altri beni dd Regno, il suo com­
pito primario. Ritrovare la salute suppone, prima di tutto, che si com­
batta ciò che la altera. «Niente è più urgente che separarci innanzi­
tutto dalle passioni e dalle malattie», fa notare Clemente d’Alessan­
dria, che consiglia di conseguenza: «Sforziamoci di peccare il meno
possibile»8. «Se l’anima non si purifica da ogni passione, non guarisce
dalle malattie dd peccato», scrive da parte sua sant’Isacco il Siro9. E
san Giovanni Mosco riporta questo insegnamento di Giovanni di Ci-
sico che è nella stessa linea: «Colui che vuole acquistare una virtù non
vi perviene se non inizia ad avere in orrore il vizio che gli è opposto»10.
Le virtù non possono apparire fin quando le passioni prendono il lo­
ro posto e le ricoprono. Infatti, spiega sant’Isacco il Siro, «le passio­
3Cfr. ibid., II, 2,23.
4 Triadi, II, 2,24.
5Asceticon, II, 4.
6Vedi per esempio MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, HI, 68.
7II Pedagogo, I, vm, 64,3.
*Ibid., n, 4, 2.
9Discorsi ascetici, 86.
10II prato spirituale, 187.
414
ni sono un muro davanti alle virtù nascoste dell’anima. Se esse non co­
minciano a cadere [...], le virtù nascoste all’interno di queste non si la­
sciano vedere [...]. Nessuno vede il sole nelle tenebre, né la virtù del­
l’anima fintanto che in essa rimane il turbamento delle passioni»11.
Poiché le virtù corrispondono allo stato naturale dell’uomo, e le pas­
sioni a uno stato anti-naturale, possiamo dire che il ritorno dell’uomo
allo stato che gli è naturale non è possibile se non con l’eliminazione
di ciò che in lui è contro natura. «E con lo spogliamento da ogni ele­
mento estraneo che avviene questo ritorno dell’anima allo stato che le
è proprio e naturale», fa notare san Gregorio di Nissa12. Abba Isaia
scrive nello stesso senso: «Colui che vuole arrivare a essere conforme
alla propria natura esclude tutte le sue volontà secondo la carne, fino
a essere ristabilito nello stato naturale»13. A questo scopo, osserva san
Giovanni Damasceno, sono ordinate le diverse pratiche ascetiche: «L’a­
scesi e le sue prove sono concepite non per acquistare la virtù come
se quest’ultima fosse qualcosa venuto daU’estemo, ma al contrario per
scacciare da sé le passioni antinaturali venute da fuori; è un po’ co­
me la ruggine del ferro: non gli è naturale ma viene per la negligen­
za; con un po’ di fatica, noi la togliamo e riportiamo alla luce lo splen­
dore naturale del ferro»14. Anche questo, ricordiamolo, è uno degli
scopi principali che la pratica dei comandamenti persegue. Sant’I-
sacco ci ricorda che «al ricco che lo interrogava per sapere come ere­
ditare la vita eterna, il Signore dice chiaramente: “Osserva i coman­
damenti” (cfr. Le 10,25). E quando gli chiese quali erano i comanda-
menti, egli rispose di allontanarsi innanzitutto dalle opere cattive»15.
San Paolo stesso insegna che per essere «adatto per ogni opera buo­
na», occorre che l’uomo «si conservi puro» (cfr. 2Tm 2,21), che per
poter rivestire «l’uomo nuovo», l’uomo virtuoso, sano e perfetto a so­
miglianza di Cristo, deve innanzitutto spogliarsi dell’«uomo vecchio»,
cioè, osserva sant’Isacco, delle passioni16: «Spogliatevi dell’uomo
vecchio, quello del precedente comportamento che si corrompe in­
seguendo seducenti brame, rinnovatevi nello spirito della vostra men­
te, e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e
nella santità della verità» (E/4,22-24).
11Discorsi ascetici, 68.
12 Trattato sulla verginità, XII, 2.
13Discorsi ascetici, E, 4.
14Esposizione esatta della fede ortodossa, EI, 14.
15Lettere, 4.
l6Ibid.
415
Questo primo movimento della conversione spirituale, tuttavia, non
è sufficiente. Non basta, infatti, allontanarsi dal male per volgersi ver­
so il bene. A questo proposito così fa notare san Massimo: «Aver esclu­
so le passioni non significa averle completamente volte verso il divi­
no»17. Così, ricordando il salmo già citato (37 [36] ,27), san Doroteo di
Gaza sottolinea che «chiunque vuole essere salvato deve non solo star
lontano dal male, ma fare anche il bene»18. Il Cristo pone come con­
dizione di accesso al Regno che ciascuno non solo prenda la propria
croce, ma anche lo segua (cfr. Mt 10,38): «Se uno vuol venire dietro
a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mi 16,24).
Egli stesso formula la raccomandazione di fare il bene (cfr. Le 6,35; Gv
5,29), così come gli Apostoli che lo seguivano19.
Nell’orientamento positivo di tutte le sue facoltà e potenze verso le
realtà spirituali, in altre parole, nella pratica attiva delle virtù, si rea­
lizza questa raccomandazione di fare il bene e si compie il secondo
movimento della conversione spirituale. Così spiega, a questo riguar­
do, san Doroteo di Gaza: «Abbiamo bandito le virtù e introdotto al
loro posto le passioni. Dobbiamo parimenti fare uno sforzo non solo
per scacciare le passioni, ma anche per reintrodurre le virtù e ristabi­
lirle nel loro proprio luogo»20.
I due movimenti sono complementari non solo nel senso in cui il
secondo deve seguire il primo affinché la conversione sia portata a ter­
mine, ma anche nel senso in cui ciascuno permette il compimento del­
l’altro. Abbiamo visto che il primo è la condizione indispensabile del
secondo; occorre aggiungere che il secondo è una condizione del
primo. Questo si spiega con il principio di economia che abbiamo
esposto a proposito del desiderio; esiste un’incompatibilità tra il desi­
derio della carne e il desiderio dei beni spirituali: essi sono esclusivi
l’uno dell’altro, come insegna l’Apostolo: «La carne ha desideri con­
tro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poiché questi
due elementi sono contrapposti vicendevolmente» (Gal 5,17; cfr. Rm
8,7 e Gal 5,16). Questo è vero anche delle altre potenze o facoltà
dell’anima, la cui energia, investita da un oggetto, diviene indisponi­
17 Centurie sulla carità, m , 68. Vedi anche: SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologi-
ci, gnostici e pratici, I, 88.
18Istruzioni spirituali, XII, 133.
19 Cfr. Rm 2,10; 13,3; Gal 6,10; E/2,10; 6,8; Coll, 10; lTm5,10; 6,8; Tt 3,1; Fm 6; lPt 2,15.20;
3,6.11; 4,19; 3Gv 11.
20 Istruzioni spirituali, XII, 134.
416
bile per un altro, e a fortiori per quello che gli è opposto: «Nessuno
può servire a due padroni; poiché od odierà l’uno e amerà l’altro,
oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro» (Mt 6,24). Possiamo
anche applicare rispettivamente alle virtù e alle passioni ciò che sant’I-
reneo dice della vita e della morte spirituali (ciò è tanto più giustifi­
cato in quanto le passioni sono, lo abbiamo visto, la morte dell’anima,
mentre le virtù ne sono la vita): «Queste cose si cedono mutuamente
il posto, e l’una e l’altra non potrebbero rimanere nello stesso luogo,
ma l’una è espulsa dall’altra e, per il fatto che una è presente, l’altra è
distrutta»21. Così le passioni, fintanto che sussistono, impediscono
alle virtù di apparire: occorre, dunque, lottare contro quelle per su­
scitare queste. Inversamente, la comparsa delle virtù, quindi la prati­
ca del bene, fanno scomparire le passioni. Sant’Ireneo prosegue col
dire: «Se dunque la morte impadronendosi dell’uomo ha espulso da
lui la vita e ha fatto di esso un morto, a maggior ragione la vita, im­
padronendosi dell’uomo espellerà la morte e renderà l’uomo vivo»22.
Evagrio osserva che gli uomini virtuosi «imbavagliano tutte le pas­
sioni irrazionali del corpo ed escludono i vizi dall’anima per mezzo
della partecipazione al bene»23. E san Simeone scrive: «A misura che
il sole si alza, l’oscurità indietreggia e svanisce; lo stesso avviene quan­
do brilla la virtù, il male è scacciato come l’oscurità»24. Quanto a san
Massimo, egli fa notare che «se l’amore di Dio prende il sopravvento
nell’uomo, esso lo libera da tutti i legami passionali che soggiogano il
suo spirito e gli fa disprezzare tutti gli oggetti sensibili»25. Questo cor­
risponde all’insegnamento dello stesso san Paolo: «Camminate sotto
l’influsso dello Spirito e allora non eseguirete le bramosie della carne»
(Gal 5,16), insegnamento ripreso da san Gregorio Palamas in questi
termini: «In coloro che hanno elevato il loro spirito verso Dio ed esal­
tato la loro anima per la passione di Dio, [la carne] non possiede più
desideri contrari allo spirito»26.
In questa prospettiva, le virtù appaiono come mezzi per sottomet­
tere27, espellere28le passioni, o, secondo la terminologia medica, che
21 Contro le eresie, V, 12, 1.
22Ibid.
23 Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo, 6.
24 Catechesi, XVII, 15s.
25 Centurie sulla carità, II, 3.
26 Triadi, 1,2 , 9.
27 ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 83.
28G iovanni C assiano , Conferenze, V, 23.
417
corrisponde al nostro punto di vista, come rimedi29o, più esattamen­
te, come antidoti di tali passioni, poiché a ciascuna di esse corrispon­
de la virtù che le è opposta30, essendo la virtù l’uso buono, naturale,
sano, la passione l’uso cattivo, contro natura, patologico, di una cer­
ta facoltà o potenza dell’anima31. Si possiede, così, «l’oggetto cercato
per esclusione progressiva del suo contrario»32.
Può sembrare incongruente affermare, come abbiamo fatto, da una
parte, che l’eliminazione delle passioni restituisca l’uomo al suo stato
naturale e faccia riapparire le virtù, e dall’altra, che una pratica attiva
del bene sia necessaria per acquistare queste virtù: se le virtù sono là,
si potrebbe dire, perché è necessario ancora uno sforzo per possederle?
Ricordiamo che, all’origine, le virtù sono per l’uomo germi che spet­
ta alla sua libera volontà - collaborando con la grazia -, far crescere
in lui, un dono della grazia che egli ha come compito di assimilare, il
che avviene per mezzo della pratica del bene, per mezzo della colla­
borazione attiva di tutte le sue facoltà, in ciascuna delle loro attività,
con la volontà di Dio, per mezzo della concreta realizzazione del pro­
getto divino inscritto nella natura umana. La conversione spirituale av­
viene, dunque, nell’ambito di un processo dinamico di crescita che
fa passare l’uomo dallo stato d’infanzia a quello di uomo adulto, per­
fetto e vero, realizzando la pienezza del Cristo (cfr. E/4,12-15). «Ogni
giorno, scrive san Simeone il Nuovo Teologo, l’essere umano prose­
gue la sua crescita spirituale, eliminando ogni traccia d’infantilismo e
progredendo verso la perfezione completa dell’uomo. Per questo a mi­
sura della sua età, egli vede cambiare le potenze e le energie della
sua anima»33.
Questo processo di crescita, come quello della conversione spiri­
tuale che lo sottende, è, occorre sottolinearlo, teantropico: suppone la
sinergia dello sforzo umano e della grazia divina. Nel corso delle
precedenti considerazioni, abbiamo insistito soprattutto sul primo fat­
tore, ma occorre aver coscienza che se gli sforzi dell’uomo sono indi­

29 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, n, 70. G iovan ni C lim aco, ha Scala,
xxvn, 32. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, XI, 113.
30 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, V, 23. D o r o te o di G aza, Istruzioni spirituali, XII,
133. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IV, 57; 72; 80; 86.
51Cfr. M assim o il C on fessore, op. tit., n, 3.
32 G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, XVIII, 4.
33 Catechesi, XIV, III-115.
418
spensabili affinché egli assimili la grazia, al contrario, solo la grazia per­
mette la riuscita dei suoi sforzi (cfr. Mt 19,26; Me 10,27; Le 18,27); è
per essa che si compie molto bene sia la purificazione dalle passioni
che l’acquisizione delle virtù verso le quali l’uomo tende; è per mezzo
dello Spirito Santo che l’uomo è rinnovato, purificato, santificato e
condotto alla perfezione. Così sant’Antonio il Grande parla di «Spi­
rito di conversione» che «viene in aiuto» a coloro che s’impegnano su
questa strada, che «li precede per rendere leggero il combattimento e
dolce l’opera della loro conversione», che «mostra loro le strade del-
l’ascesi, fìsica e interiore, come convertirsi e rimanere in Dio, loro Crea­
tore, il che rende perfette le loro opere»34. Anche san Massimo ricor­
da questa azione dello Spirito Santo: «Prima d’ogni cosa, egli spiega,
lo Spirito insegna agli uomini impegnati nella vita spirituale a volere
la mortificazione del peccato deliberato, a volere la restaurazione in
essi della disposizione alla virtù come la restaurazione della virtù de­
liberata. In seguito, egli insegna loro a cercare i mezzi per giunger­
vi», cioè «ciò che, per natura, è destinato a operare la mortificazione
del peccato e la risurrezione della virtù»35. Quest’ultima osservazione
offre a san Massimo l’occasione di ricordare che, in questa duplice
operazione, per l’uomo si tratta, con l’aiuto dello Spirito, di «realiz­
zare una somiglianza perfetta con la morte del Cristo in ciò che ri­
guarda la mortificazione del peccato, e una somiglianza perfetta con
la sua risurrezione in ciò che riguarda il compimento della virtù»36.
Ora abbiamo visto che nel battesimo l’uomo è stato reso dallo Spiri­
to Santo partecipe della restaurazione della natura umana operata dal
Cristo nella sua persona: morto al peccato nella morte del Cristo,
egli è risuscitato alla virtù nella risurrezione dello stesso. Ma spetta al­
l’uomo restaurato nella sua realtà d’immagine di Dio conservarsi pu­
ro o ritrovare questa purezza, se egli l’ha perduta, e anche di cresce­
re in Cristo per mezzo dello Spirito fino alla perfezione alla quale egli
è chiamato in Dio.
Il duplice movimento di conversione al divino che, per la grazia di
Dio, nella fede, nella penitenza, nella preghiera e nella pratica dei
comandamenti del Signore, consiste nella purificazione dalle passioni
e nell’acquisizione delle virtù, è designato dalla tradizione ascetica con
34Lettere, I, 2.
35 Questioni a Talassio, 59.
36Ibid.
419
il termine di praxis (praxis, praktike, praktike méthodos, praktike btos,
philosophia praktike, ecc.)37o anche di «ascesi» (dskèsis): quest’ultimo
termine dev’essere qui inteso nella sua accezione più ampia di prati­
ca, allenamento, esercizio, modo di fare, di vivere... Poiché questo du­
plice movimento suppone sempre degli sforzi, e anche una lotta, un
cambattimento (contro le passioni e i demoni, per mezzo delle virtù),
e questo permanentemente, i termini agon (lotta, combattimento) e
àthìesis (lotta, esercizio, allenamento) sono anche usati correntemente.
La praxis, nel suo duplice aspetto, si fonda sulla pratica dei co-
mandamenti38; essa ha come inizio la fede39e per fine da una parte l’im­
passibilità (apàtheia) (stato in cui l’uomo è guarito dalle passioni)40e
dall’altra parte la carità perfetta41. La praxis è, infatti, via di purifica-,
zione (kàtharsis) dalle passioni fino alla loro completa eliminazione42
ma anche salita della scala (klimax) delle virtù fino al gradino più alto.
Il compimento delle due funzioni della praxis avviene, lo abbiamo
visto, non successivamente, ma simultaneamente, e in qualche modo
dialetticamente, contribuendo ciascuna in maniera indispensabile al­
la realizzazione dell’altra; accade, infatti, nell’anima la stessa cosa
che avviene nel corpo: l’eliminazione della malattia e il ritorno alla sa­
lute avvengono nello stesso momento, generandosi tutte e due reci­
procamente. Così, nella ricerca che stiamo conducendo sulla guari­
gione delle diverse malattie spirituali, ci sarà difficile per ciascuna dis­
sociare la lotta contro la passione e l’acquisizione della virtù cor­
rispondente. Tanto più che si aggiunge un’altra difficoltà: abbiamo vi­
sto che le passioni sono tutte in relazione le une con le altre e s’im­
plicano mutuamente, poiché ciascuna genera tutte le altre. Ciò com­
porta, come conseguenza, che il combattimento contro una passione
particolare dovrà necessariamente accompagnarsi a un combattimen­
to contro tutte le altre passioni, altrimenti rimarrà senza effetto43: la
passione combattuta da un lato riapparirà dall’altro, suscitata da una
o più passioni alle quali essa è legata e che avremo lasciate libere.
San Gregorio Magno fa notare che è uno dei significati di questo pas­

37 Si troverà la storia di questa nozione nelle sue diverse forme nell’introduzione di A. e C.


GUILLAUMONT al Trattato pratico di EVAGRIO PONTICO, SC 170, pp. 38-63.
38 E vaGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 81.
39Ibid. TALASSIO, Centurie, IV, 57.
40 E vagrio PONTICO, loc. cit.
41 Ibid. TALASSIO, Centurie, IV, 57.
42 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 87; ho gnostico, 151.
43 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, v n , 28.

420
so del libro di Giobbe: «le strade del loro cammino girano in circolo»
(Gb 6,18), che poi spiega così: «Non è raro che alcune persone si pre­
parano a lottare con convinzione contro alcuni vizi ma dimenticano di
superarne altri: non resistendo a questi ultimi, essi si ritrovano di fron­
te quelli che hanno già potuto superare [...]. Così, dunque, i vizi trat­
tengono colui che vuole fuggirli grazie a una specie di patto di mu­
tua assistenza: si dirà che essi recuperano sotto i loro colpi colui che li
aveva perduti, e che essi se lo passano l’un l’altro per vendicarsi. Sì,
per i peccatori, “le strade del loro cammino girano in circolo”: quan­
do possono alzare un piede perché sono giunti a vincere un genere
di colpe, un altro vizio prende il potere, ed ecco nuovamente che s’im­
pigliano in quello che erano riusciti ad eliminare»44.
Come le passioni, così le virtù sono organicamente legate tra loro.
«Una è la potenza della virtù», nota san Clemente d’Alessandria45.
«Una è la natura di tutte le virtù, anche se esse sembrano divise in nu­
merose specie dai nomi differenti», nota anche san Giovanni Cassia-
no46. Anche Evagrio constata: «La virtù per natura è una, ma prende
una forma specifica in ciascuna delle potenze dell’anima»47. Di con­
seguenza, Clemente d’Alessandria nota: «Le virtù si accompagnano
reciprocamente»48, e san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo: «Una virtù
dipende dall’altra»49. Ciò implica, da un lato, che non si può in verità
possederne una senza possederle tutte: «Le virtù non sono isolate l’u-
na dall’altra ed è impossibile afferrarne una, secondo tutto il rigore
della sua nozione, senza raggiungere così le altre, ma a una virtù tra
molte che entra in qualcuno seguono necessariamente le altre», os­
serva san Gregorio di Nissa50. Tutto ciò comporta, dall’altro lato, co­
me conseguenza che non si può veramente possedere una sola virtù se
non si possiedono tutte le altre, e che la mancanza di una sola virtù
mette in pericolo tutte le altre. «Ogni virtù, presa singolarmente, è tan­
to più debole quanto più mancano tutte le altre», scrive san Gregorio
Magno che osserva ancora: «Una virtù isolata dalle altre, è perciò una
virtù che non esiste, o per meglio dire, in ogni caso, una virtù che è
ancora lontana dalla perfezione»51. «Colui che è vinto su un punto prò­
44 Loc. cit.
45Stronzata, I, 20.
46Istruzioni cenobitiche, V, 11.
47 Trattato pratico sulla vita monastica, 98.
48Stromata, E, 18.
49 Centuria, 11.
50 Trattato sulla verginità, XV, 2.
51Moralia su Giobbe, XXE, Prologo.
421
vera così che non possiede perfettamente alcuna virtù [...]. Per alte
che siano le mura e solidamente chiuse le porte che proteggono una
città, il tradimento di una sola postierla, per piccola che sia, la conse­
gnerà al saccheggio», fa notare, da parte sua, san Giovanni Cassiano52.
Così Evagrio, a colui che s’impegna sulla via del progresso spirituale,
dà questa raccomandazione: egli «badi, imbarcandosi, di non smar­
rirsi e fare naufragio, ma abbia cura di praticare anche tutte le virtù,
perché esse si tengono l’un l’altra, e perché l’intelligenza viene abi­
tualmente tradita da parte di quella che è in deficit»53.
L’interdipendenza delle virtù, come quella delle passioni, non esclu­
de che un certo ordine possa essere definito benissimo per combat­
tere queste come per acquistare quelle.
Abbiamo visto che è possibile indicare tra le numorose passioni che
possono colpire l’uomo, otto passioni principali o generiche, cioè cia­
scuna capace di generarne un certo numero di altre e di servire loro
da comune denominatore. Abbiamo dimostrato che possiano distin­
guere ulteriormente tra queste otto passioni tre passioni più fonda-
mentali ancora, da cui derivano tutte le altre, e abbiamo definito
l’ordine secondo cui le une generano le altre. Senza che questo sche­
ma abbia un valore assoluto, la tradizione lo ha ritenuto come parti­
colarmente adatto per la pratica spirituale. L’ordine così fissato rende
possibile la definizione di una strategia e di una tattica che si rivela pe­
raltro tanto più necessaria quanto più virtù e passioni sono rispettiva­
mente legate tra loro e quindi costantemente vi è il rischio di «fare nau­
fragio»54nel partire «senza una direzione nella guerra contro le forze
opposte [...] alle virtù»55. «Occorre, dunque, dice Evagrio, guerreg­
giare contro gli avversari con metodo»56. E importante, perciò, sape­
re quali passioni devono essere combattute per prime.
Possono allora essere dati quattro principi fondamentali:
1) Occorre prima di tutto cominciare a combattere le passioni p
grossolane, più materiali, più legate al corpo (da cui la denominazio­
ne corrente di «passioni corporee»), e pertanto le più apparenti: la ga-
strimargia e la lussuria. Si passerà da qui alle passioni meno visibili,
più interiori. Si terminerà con le più sottili e difficilmente riconosci­
52 Istruzioni cenobitiche, V, 11.
53 Lo gnostico, 109.
54 E vagrio P ontico , Scolii ai Proverbi, XXIV, 6.
55 Ibid.
*Ibid.
422
bili sotto le loro molteplici maschere: la cenodossia e l’orgoglio. La ra­
gione di quest’ordine è pedagogica - si va dal più accessibile al me­
no accessibile -, ma si fonda soprattutto sul fatto che è impossibile sra­
dicare le passioni spirituali più sottili se non sono già state estirpate le
passioni corporee più grossolane.
2) Occorre rispettare l’ordine seguente: gastrimargia, lussuria, fi-
largiria e pleonessia, collera, tristezza, acedia, cenodossia, orgoglio.
San Giovanni Cassiano scrive a questo proposito: «Qualunque sia la
diversità che i vizi presentano nella loro origine e il modo in cui essi si
consumano, i primi sei, cioè la gastrimargia, la lussuria, la fìlargiria, la
collera, la tristezza e l’acedia, sono legati l’uno all’altro da una sorta di
parentela e, per così dire, d’incatenamento mutuo, talmente che l’ab­
bondanza dell’uno diviene il principio del successivo; lo straripamen­
to della gastrimargia produce necessariamente la lussuria; la lussuria,
la fìlargiria; la fìlargiria, la collera; la collera, la tristezza; la tristezza,
l’acedia. Per questo è opportuno impiegare contro di essi un’unica e
medesima tattica: questa consiste nel cominciare dal vizio preceden­
te la lotta contro il seguente [...]. Per vincere l’acedia occorre quindi
superare prima la tristezza; per bandire la tristezza, scacciare la col­
lera, per spegnere la collera; calpestare la fìlargiria; per estirpare la
fìlargiria, reprimere la lussuria; per minare la lussuria, dominare la ga­
strimargia. I due ultimi vizi, la cenodossia e l’orgoglio, sono similmente
uniti tra loro nel modo che ora diciamo: la crescita del primo diviene
l’origine del secondo, l’esuberanza della cenodossia accende il fuoco
dell’orgoglio». In questa serie come nella precedente, «la crescita del­
l’uno produce il seguente, e diminuendo di forza, ce ne libera. In virtù
di questo principio, per bandire l’orgoglio, si deve innanzitutto soffo­
care la cenodossia»57.
3) Abbiamo visto, tuttavia, che se gli «otto principali vizi insieme
fanno guerra a tutto il genere umano», «i loro attacchi non si presen­
tano nella stessa maniera indistintamente in tutti»58. Di conseguenza,
dopo aver presentato il principio precedentemente esposto, san Gio­
vanni Cassiano nondimeno fa notare che «l’ordine da seguire nella lot­
ta non è identico per tutti»59: «L’attacco non si presenta uniformemente
nello stesso modo, e spetta a ciascuno ordinare il combattimento se­
condo il nemico che lo incalza di più. Uno dovrà lottare innanzitutto
57 Conferenze, V, 10.
58Ibid., 13.
59 Ib id .y 27.

423
contro il vizio che è indicato terzo; un altro contro il quarto o il quin­
to. Così, dunque, sarà secondo il vizio che in noi ha il primo posto e
secondo quanto esige il modo dell’attacco che dobbiamo regolare la
nostra tattica»60.
4) Tra le otto passioni generiche, vi sono tre passioni fondament
li che generano le altre cinque, ossia la gastrimargia, la filargiria e la
cenodossia61. È necessario che queste siano eliminate affinché lo siano
tutte le altre. «Colui che ha sbaragliato con l’aiuto dello Spirito di Dio
le tre passioni ha distrutto anche le altre cinque; ma colui che non s’im­
pegna a vincere quelle non ne supererà nessuna», insegna san Gio­
vanni Climaco62.
È necessario conoscere l’ordine definito da questi quattro principi
più come un ordine logico che non come un ordine cronologico:
non si tratta di combattere successivamente ogni passione ignorando
quelle che vengono dopo, poiché abbiamo notato che, dato il legame
organico intercorrente tra le passioni, un tale combattimento contro
una passione isolata si rivelerebbe vano; occorre condurre la lotta af­
frontando tutte le passioni, ma insistendo maggiormente sulle pas­
sioni più fondamentali, quelle che condizionano le altre e impedisco­
no di raggiungerle profondamente fintanto che le stesse non siano di­
strutte. Il carattere radicale della formula di san Giovanni Climaco,
precedentemente citata, ha soprattutto lo scopo di dimostrare che non
è importante affrontare le passioni derivate se prima non si sono com­
battuti i loro «capifila». Questo non deve farci dimenticare che, lungi
dall’essere vinte in un sol colpo, le passioni non saranno distrutte se
non dopo che sono state combattute insieme e progressivamente in­
debolite nel corso di una lotta sempre lunga.
L’acquisto delle virtù segue lo stesso ordine del combattimento con­
tro le passioni, poiché queste, lo abbiamo visto, corrispondono a quel­
le. Quest’ordine, come quello delle passioni, va dalle più facili alle più
difficili da raggiungere. «Le virtù si succedono luna all’altra, affinché
seguire la loro via non sia troppo pesante, e affinché possiamo rag­
giungerle nell’ordine», spiega sant’Isacco63. Ma questo non è l’unico
motivo: lo stesso, principio delle passioni vale per le virtù: ogni virtù
60 Ibid, Cfr. 14.
61 EVAGRIO PONUCO, Sui diversi pensieri della malvagità, 1, PG 79,1200D. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Centurie sulla carità, II, 59; IH, 56. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXVI, 2.
“ LaScala, XXVI, 2.
63 Discorsi ascetici, 46.
424
conduce alla seguente64, «ogni virtù è la madre di quella che la segue»65;
e acquistare le virtù derivate senza aver prima cercato di acquistare
le virtù principali da cui esse procedono è inutile, e può persino, co­
me sottolinea sant’Isacco il Siro, essere nocivo: «Se tu lasci la madre
che ha generato le virtù, e se tu parti alla ricerca dei figli prima di aver
scoperto la loro madre, queste virtù sono nel tuo animo come delle vi­
pere»66. Quest’ordine, come quello del combattimento contro le pas­
sioni, è meno cronologico che logico e, lungi dall’escludere che le virtù
devono essere praticate simultaneamente, vuole semplicemente sotto-
lineare le priorità. Così compreso, esso permette la definizione di una
scala (klimax)67di virtù, ciascuna corrispondente a un grado68che con­
duce progressivamente l’uomo fino al sommo del suo sviluppo spiri­
tuale. «Le sante virtù», osserva san Giovanni Climaco, «somigliano al­
la scala di Giacobbe [...]. Difatti le virtù, conducendo ciascuna alla se­
guente, portano colui che le sceglie fino al cielo»69. In realtà, come le
passioni non possono essere vinte in un sol colpo, così «l’anima non
accede in un sol colpo alla vetta; essa è condotta per piani successivi
verso le altezze della virtù [...]; il nostro progresso avviene dunque per
gradi», osserva san Gregorio Magno70 ricordando la parola del sal­
mista: «Essi andranno di virtù in virtù» (Sai 84[83],8).
La pràxis ci appare, dunque, in definitiva, costitutiva di un vero me­
todo71, sia per quanto riguarda la conoscenza della natura e dell’or­
dine delle passioni e la maniera di combatterle72, in cui essa si presen­
ta come un metodo propriamente terapeutico73, sia per quanto riguarda
la conoscenza della natura e dell’ordine delle virtù e il modo di pra­

64 G iovan ni C lim aco, La Scala, IX, 1.


65 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 68.
66Ibid.,
67 È il titolo del celebre trattato ascetico di san Giovanni soprannominato per questo moti­
vo «Climaco», cioè «della scala».
68 II trattato di san Giovanni Climaco per questo motivo è suddiviso non in capitoli ma in
gradi.
69La Scala, IX, 1.
70Moralia su Giobbe, XXII, 20.
71Vedi per esempio ÉVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 78: praktike esti
méthodos pneumatike\ ecc. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 5.
72 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Scolii ai Proverbi, PG 17, 225: «Occorre combattere con metodo
contro gli avversari».
73 Cfr. G regorio DI N issa , Discorso catechetico, 8. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, XIX,
14. Molti altri passi degli scritti dei Padri, che saranno citati in seguito, dimostrano che essi con­
siderano la pràxis come un metodo terapeutico delle passioni indicate sempre, lo abbiamo visto,
come «malattie dell’anima».
425
ticarle: «La perfezione attiva», osserva san Giovanni Cassiano, «con­
siste in due punti: il primo è quello di conoscere la natura dei vizi e il
metodo per guarire; il secondo quello di discemere l’ordine delle virtù
e conformare [...] la nostra anima alla loro perfezione»74.
La nosografia e la semiologia delle passioni sono già state definite.
Non resta che presentare il metodo terapeutico che vi si applica e i
mezzi per ritornare alla salute delle virtù e per condurla alla sua pie­
nezza in Dio.

74 Conferenze, XIV, 10.


426
II
CENNI DI TERAPIA DELLE FACOLTÀ FONDAMENTALI
DELL’ANIMA
PRATICA DELLE VIRTÙ GENERICHE

1. Introduzione
Poiché tutte le passioni derivano dalla malattia delle tre principali
potenze dell’anima, precisamente dalla perversione delle loro diverse
funzioni, la terapia spirituale consisterà nel rimettere in ordine queste
facoltà fondamentali. Restituendo a queste un uso conforme alla loro
natura, l’uomo recupera la salute, come sottolinea san Niceta Stetatos:
«Se l’irascibilità, il desiderio e la ragione dell’intelligenza si compor­
tano e procedono da sé secondo la natura, rendono tutto l’uomo di­
vino, simile a Dio, lo mantengono in salute e impediscono che si di­
scosti dal cammino naturale»1.
Questo riordinamento avviene per mezzo dell’acquisto di tutte le
virtù, in primo luogo delle virtù dette principali o generiche (genikaì
aretai), non nel senso in cui esse generano tutte le altre, ma nel senso
in cui esse sono le condizioni della loro acquisizione e in qualche mo­
do costituiscono la base di tutto l’edificio spirituale che esse devono
formare2.
La guarigione della parte concupiscibile (epithymetikón) dell’ani­
ma, preposta al desiderio, incomincia a realizzarsi nella virtù della tem­
peranza (enkràteid?', quella della parte irascibile (thymikón), nella virtù
del coraggio (andreta)4; quella della parte razionale (logistikón), nella
virtù della prudenza (phrónesis)5. A queste tre virtù generiche, i Pa-
1Centurie, 1,16.
2 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, n, 49.
3EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen­
turie sulla carità, II, 79; I, 65.1 Padri citano spesso invece della enkràteia, la sdphrosynè. Que­
sta è praticamente la stessa cosa, perché vedremo che questa è la forma compiuta di quella.
4 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Di­
sputa con Vino, PG 91, 312A.
5 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Cen­
turie sulla carità, III, 3; cfr. E, 79.
427
dii spesso ne aggiungono una quarta: la giustizia (dikaiosyne) il cui ruo­
lo «è quello di realizzare una sorta di accordo e di armonia tra le par­
ti dell’anima»6.

2. La temperanza
Abbiamo visto come a causa del peccato l’uomo abbia distolto da
Dio la sua potenza di desiderio [concupiscibile] per rivolgerla verso il
mondo sensibile, ricercando, anziché il godimento spirituale che Dio
gli offriva, il piacere sensibile. Abbiamo visto come molte malattie del­
l’anima, molte passioni, provengano da questa perversione della po­
tenza di desiderio e dall’attaccamento al piacere sensibile.
La guarigione dell’anima implica che l’uomo segua il percorso in­
verso, cioè che egli allontani la sua potenza di desiderio dagli oggetti
sensibili e la rivolga verso Dio, che si distacchi correlativamente dai
piaceri sensibili e ritrovi le gioie spirituali che si confanno alla sua na­
tura.
In questo processo terapeutico che dà la possibilità alla potenza di
desiderio, ma anche a tutte le facoltà che ne dipendono, di esercitarsi
di nuovo secondo la loro vera natura e la loro finalità normale, cioè
di ritrovare la salute, la virtù della temperanza (enkràteia) gioca un
ruolo fondamentale. Anche san Basilio Magno concorda nel ritener­
la come «il principio della vita spirituale»7. E sant’Esichio di Batos, a
sua volta, osserva che: «Uno dei sapienti che conoscevano le cose di
Dio ha detto: “L’inizio del frutto è il fiore, e l’inizio dell’ascesi è la tem­
peranza”»8. Anche Evagrio attribuisce a questa virtù una grande im­
portanza, come fa per la carità9. Si può comprendere ciò, se si cono­
sce il posto essenziale che la potenza di desiderio occupa tra le facoltà
dell’uomo, e il ruolo fondamentale che essa gioca nd processo sia del­
la caduta sia della salvezza dell’uomo.
La virtù della temperanza consiste, infatti, essenzialmente in una
6 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. Sulle quattro virtù generiche,
vedi C lemente d ’A lessandria , Stromata, I. 20. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita
monastica, 89. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 79. GREGORIO MAGNO, Mo-
ralia su Giobbe, II, 49. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile all’anima. PILOTEO IL SlNAITA, Qua­
ranta capitoli neptici [di sobrietà], 8. Non presenteremo la virtù della giustizia che i Padri in ge­
nere si accontentano di menzionare.
7Regole lunghe, 17.
8 Capitoli sulla vigilanza, 66.
9Cfr. Lettere, 38, éd. Frankenberg, p. 585.
428
padronanza dell’appetito, o potenza, concupiscibile; essa si caratte­
rizza in primo luogo per l’inibizione dei desideri carnali, passionali,
sensibili, e per la correlativa rinuncia ai piaceri a essi legati:
Nel senso più immediato e ristretto, essa è la padronanza dei desi­
deri passionali del corpo10. E questa virtù che l’Apostolo manifesta
quando rivela: «Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schia­
vitù» (lCor 9,27). I desideri passionali del corpo sono essenzialmen­
te quelli che riguardano la nutrizione e la sessualità, ai quali si rap­
portano rispettivamente le passioni della gastrimargia e della lussuria,
che i Padri chiamano «le passioni del corpo»11. In modo più genera­
le, sono le passioni che implicano i sensi12.
Tuttavia, la temperanza non si limita alla sfera corporea. Intesa in
senso ampio, essa implica altresì il dominio dei desideri passionali del­
l’anima13, desideri che entrano nella composizione di quasi tutte le al­
tre passioni. Ecco quanto san Basilio scrive in proposito: «Non biso­
gna considerare la temperanza in un solo genere [...]. Occorre consi­
derarla anche in tutti i cattivi desideri che l’anima può provare»14. San
Giovanni Crisostomo insegna allo stesso modo: «La temperanza con­
siste nel non lasciarsi trascinare da passione alcuna»15.
Possiamo così dire in modo generale con II Pastore di Erma che la
temperanza consiste nell’astenersi da ogni desiderio perverso16.
Correlativamente, la temperanza consiste nell’astenersi da ogni pia­
cere irrazionale, cioè dai piaceri sensibili che sono naturalmente le­
gati ai desideri passionali. Se essa riguarda innanzitutto i piaceri pro­
vati dal corpo in relazione con, soprattutto, la gastrimargia e la lus­
suria, non si limita a essi17, ma riguarda anche i piaceri provati dall’anima
in relazione con tutte le altre passioni avide di piacere18. E così che san
Basilio consiglia: «Per ciò che riguarda le passioni dell’anima, non vi

10Cfr. B a silio di C esarea, Regole lunghe, 17; Lettere, CCCLXVI.


11 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35-36. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sulla carità, 1 ,64.
12 Cfr. Basilio di C esarea, Regole lunghe, 16.
13 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelia sulla risurrezione dei morti, 2.
14Lettere, 366.
15 Omelie sulla lettera a Tito, II, 12. Diadoco da Foticea nota ugualmente che «la temperan­
za è una denominazione comune a tutte le virtù» (Cento capitoli gnostici, 42).
16E rma, Il Pastore, Visioni, IH, 8,4. Sulla portata generale della temperanza, vedi anche: DO­
ROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XV, 164. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, IV,
80. TALASSIO, Centurie, 1,24.
17 Cfr. Clemente d ’Àlessandria, Stromata, HI, 1; 7. Basilio di Cesarea, Lettere, 366; Re­
gole lunghe, 16.
18Cfr. Clemente d ’Alessandria, Stromata, in, 7.
429
è che una misura per fissare la temperanza: è la rinuncia totale a tut­
te quelle passioni che tendono al piacere colpevole»19.
Occorre notare che la temperanza si esercita su tutte le manifesta­
zioni corporee o psichiche che possono rispondere ai desideri passio­
nali e alla loro ricerca di piacere: essa mira dunque a dominare le pul­
sioni del corpo20, ma anche, e prima di tutto, i pensieri21e i fantasmi22.
La temperanza assume così la forma di una «custodia dell’anima»
e «custodia del corpo».
Dire che la temperanza ha come scopo quello di mortificare la po­
tenza concupiscibile23non significa, lo abbiamo visto, che bisogna eli­
minare ogni forma di desiderio, rinunciare all’uso della potenza di de­
siderio: si tratta, invece, di eliminare solo i desideri passionali, di ri­
nunciare a ogni uso contro natura, quindi perverso, della potenza di
desiderio. Astenersi dal piacere non significa affatto rinunciare a ogni
godimento, bensì astenersi solo dal piacere sensibile. Allo stesso mo­
do, mortificare il corpo significa far morire solo le passioni che si ra­
dicano sulle sue tendenze. «Il rifiuto opposto al corpo» con il quale
san Basilio definisce la temperanza24 non è il rifiuto del corpo (igno­
randolo o disprezzandolo, per esempio), bensì il rifiuto di attaccarsi a
esso con passione. Come ricorda san Gregorio Palamas commentan­
do san Paolo (cfr. Rm 7,24): «Il corpo non è una cosa cattiva»; l’A­
postolo «mostra che egli accusa non già la carne ma il desiderio so­
praggiunto [...] a causa del peccato»25. Quando san Basilio definisce
la temperanza come «la rinuncia alle cose belle»26, egli intende con
questo la rinuncia non alle cose stesse, ma al piacere sensibile che si
può trarre da esse.
Se bisogna rifiutare ogni piacere sensibile, è in ragione della rela­
zione essenziale che il peccato instaura con esso. Abbiamo visto, in­
fatti, che se l’uomo fa delle sue facoltà un uso contro natura, dando
luogo alle passioni, ciò avviene perché, essendosi allontanato da Dio,
egli ha ceduto all’attrazione del piacere sensibile. Poiché «quasi tutti
19Regole lunghe, 19.
20 B asilio di C esarea, Lettere, 366. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 56.
21 Cfr. B asilio di C esarea , Lettere, 366. G iovanni C risostomo , Omelia sulla risurrezione
dei morti, 2.
22 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, E, 6.
23 Ibid., IV, 80. Cfr. Discorso ascetico, 19; 23.
24 Lettere, 366.
25 Triadi, II, 2,1.
26Regole lunghe, 17.
430
i peccati hanno come causa il piacere»27, l’astensione dal piacere che
realizza la temperanza è un mezzo indispensabile per lottare contro
il peccato e le passioni per eliminarli28. Ciò è quanto spiega san Basi­
lio: «La temperanza è la distruzione del peccato, l’annientamento del­
le passioni, la mortificazione del corpo, fin negli appetiti e nei desi­
deri, è il principio della vita spirituale [...], perché essa spezza in sé il
pungiglione della voluttà. Il piacere è, infatti, la grande attrattiva del
male che rende, noi uomini, così inclini al peccato, e per mezzo del
quale tutta l’anima è attratta verso la morte come da un amo. Non
lasciandoci indebolire dal peccato, né curvarci sotto il suo giogo, si
sfugge, grazie alla temperanza, a ogni colpa»29.
Il desiderio passionale non è tale se non per il fatto che tende, at­
traverso il suo oggetto, al piacere sensibile, anziché tendere ai beni spi­
rituali. Abbiamo visto che gli oggetti non sono mai cattivi in se stes­
si, ma lo possono essere di riflesso se tale è il fine che l’uomo perse­
gue attraverso di essi o l’uso che egli ne fa. Ecco perché, come afferma
san Giovanni Cassiano, non si tratta tanto di astenersi dalle cose quan­
to di trattenere, nei loro riguardi, il movimento della passione che ci
porta al piacere sensibile30. Quanto a san Massimo, egli distingue gli
oggetti, la loro rappresentazione e la passione che vi si ricollega. Ora,
egli precisa, «la lotta [dev’essere] diretta [unicamente] contro la pas­
sione»31. «Lo spirito amico di Dio non combatte gli oggetti né la loro
rappresentazione, ma le passioni che si collegano a queste rappre­
sentazioni»32. Ciò che costituisce la temperanza è, dunque, l’assenza
dell’attaccamento agli oggetti, e ancor più l’assenza di passione di fron­
te alla loro rappresentazione: la temperanza, egli scrive, «conserva lo
spirito libero di fronte agli oggetti e alla loro rappresentazione»33; «è
bene non avere nessun attaccamento agli oggetti; ma è molto meglio
restare senza passione davanti alla loro rappresentazione»34.
Il principio della temperanza consiste nel non avere come scopo il
piacere nell’uso delle cose35. La temperanza allontana il desiderio dal
27M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 41. Cfr. E vagrio P o n u c o , Trattato pra-
tico sulla vita monastica, 75.
28 Cfr. TEOGNOSTO, Sullazione e la contemplazione, 4.
29Regole lunghe, 17.
30Cfr. Conferenze, V, 19.
31Ibid.
32 Centurie sulla carità, HE, 40.
33Ibid., 39.
34Ibid., 38.
35 Cfr. GREGORIO DI N issa , Trattato sulla verginità, XIX, 2.
431
piacere sensibile, gli impedisce di essere un desiderio di piacere, e ge­
neralmente lo libera da tutte le sue forme patologiche.
Ma ciò non costiuisce affatto un fine in sé, né lo scopo ultimo del­
la temperanza. Questa ha innanzitutto come scopo il dominio del
desiderio, il riprenderne possesso, sottomettendolo alla ragione36, il re­
golarlo37, il comandarlo. Ecco perché il termine enkràteia si traduce
anche con «dominio di sé». Se la temperanza libera il desiderio dalla
sua servitù alla carne mettendo fine al suo uso passionale, è per ridar­
gli la sua finalità normale, conforme alla sua natura e alla ragione38, e
in ultima analisi, come suggerisce quest’ultimo termine, al Logos. In
altre parole, è per riorientarlo e in definitiva canalizzarlo verso Dio e
verso il godimento dei beni spirituali ai quali egli fa partecipare l’uo­
mo che si unisce a lui. La temperanza sarebbe vana se non permettesse
al desiderio dell’uomo di ritrovare Dio. Così Clemente d’Alessandria
precisa: «La temperanza non è virtuosa se l’amore di Dio non la ispi­
ra»39; «abbracciamo la temperanza per amore del Signore»40. San Ba­
silio osserva parimenti che se la temperanza è, secondo la definizione
già citata, «il rifiuto opposto al corpo», essa è altresì «l’adesione data
a Dio»41.
La guarigione della potenza di desiderio dell’anima, lo abbiamo già
notato, avviene per mezzo della conversione. San Massimo spiega
così il processo di tale conversione: dopo che il diavolo ebbe persua­
so l’uomo «a deviare il suo desiderio da ciò che gli era permesso ver­
so ciò che gli era proibito», particolarmente verso la passione pri­
mordiale e generica della filautia, «fu necessario [...] che il concupi­
scibile, purificato dall’affezione dell’amore egoistico, dirigesse il proprio
desiderio solo verso Dio»42. E altrove, dopo aver ricordato il proces­
so della decadenza delle facoltà umane, egli osserva il ruolo che gio­
ca la temperanza nel loro ritorno a un uso virtuoso: «Depravato, lo
spirito segue il corpo che i sensi trascinano sulla china delle proprie
bramosie e dei propri piaceri, e acconsente all’immaginazione e agli
impulsi. Virtuoso, conserva la temperanza, resiste alle immaginazioni
e agli impulsi passionali; inoltre, egli si sforza di volgere al bene i

36 Cfr. C lem en te d ’A lessan d ria, Stromata, n i, 7.


37 M assim o i l C on fessore, Centurie sulla cariti, IV, 15.
38 Cfr. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IV, 15.
39 Stromata, HI, 6.
« Ibid., 1.
” Lettere, CCCLXVI.
42 Lettere, 2.

432
movimenti di questo genere che egli prova»43. La temperanza recupe­
ra, dunque, in qualche modo l’energia della potenza di desiderio che
si era perduta nelle passioni dell’anima e del corpo alla ricerca del pia­
cere, per farla servire all’acquisto dei beni spirituali. Così, a proposi­
to del corpo, san Massimo osserva che chi lo tiene «al sicuro dal pia­
cere come da una malattia, se ne fa un aiuto al servizio dei beni su­
periori»44. E san Gregorio di Nissa illustra, sulla base di un esempio
molto materiale, la spiegazione di questo processo che la temperanza
compie, processo di riconcentrazione e di riconversione a Dio dell’e­
nergia della potenza di desiderio dispersa dal peccato e alienata dalle
passioni. Mostra, tra l’altro, che alla temperanza basta contenere e ca­
nalizzare questa energia, cioè impedire che si disperda, affinché essa
serva al bene ed elevi l’uomo verso Dio. Infatti, come abbiamo visto,
tutte le facoltà umane e particolarmente la potenza di desiderio, da
una parte sono per natura sempre in movimento e, dall’altra, non sa­
prebbero dividersi tra le realtà spirituali e le realtà carnali che si esclu­
dono a vicenda (cfr. Mt 6,24; Le 16,13; Gal 5,17)45; così, basta allon­
tanare la potenza di desiderio delle une perché essa si volga verso le
altre. «Come, scrive san Gregorio, l’acqua chiusa in un condotto er­
metico è spesso spinta verso l’alto, verticalmente, sotto la pressione
ascendente, mancandole la possibilità di spandersi altrove, e ciò mal­
grado il suo movimento naturale che la porta verso il basso, così l’in­
telligenza umana, strettamente canalizzata da ogni lato dalla tempe­
ranza, sarà come portata verso il desiderio di beni superiori dalla sua
disposizione naturale a muoversi, in mancanza di sfoghi in cui di­
sperdersi, perché l’essere in movimento perpetuo che ha ricevuto dal
suo Creatore una tale natura non può mai stabilizzarsi e, se le è im­
pedito di usare il suo movimento nella direzione delle vanità, non ha
altre risorse se non quella di andare dritta alla realtà»46.
La temperanza, osserva Evagrio, «guarisce la parte desiderante del­
l'anima»47. Essa la guarisce innanzitutto dalle passioni, dette «del cor­
po»48, cioè principalmente dalla gastrimargia e dalla lussuria. Ma i suoi

43 Centurie sulla carità, 13,56.


44 Ibid., 1,21.
45 Cfr. G re g o rio Dì N issa, Trattato sulla verginità, XX , 2-3.
46 Trattato sulla verginità, VI, 2.
47 Capitoli gnostici, m , 35.
48 M assimo IL C on fessore, Centurie sulla carità, I, 64. Cfr. I, 65; rv, 57; IV, 80; IV, 86; Di­
scorso ascetico, 23; 19. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35.
433
effetti terapeutici si estendono anche a tutte le passioni dell’anima. San
Basilio scrive così, in modo generale, che «la temperanza è la distru­
zione del peccato, l’annientamento delle passioni»49. Essa appare tut­
tavia, più particolarmente, come uno dei rimedi fondamentali della fi-
lautia, l’amore passionale di sé50, origine di tutte le passioni, e della
passione che le è immediatamente legata, così come a tutte le passio­
ni che derivano da essa: l’amore del piacere (philèdonta). «Il medico
delle nostre anime, è il Cristo, che [...] dà a ciascuna passione il ri­
medio appropriato [...]: la temperanza contro l’amore del piacere»,
osserva san Doroteo di Gaza51.
La temperanza non guarisce solo la parte desiderante dell’anima,
ma contribuisce altresì alla guarigione di tutte le sue facoltà. Sviando
il desiderio e le altre potenze del piacere sensibile, la temperanza le
raddrizza, le fa passare dal loro cattivo orientamento contro natura a
un orientamento conforme alla loro natura, alla loro finalità norma­
le. «Per mezzo della temperanza», osserva san Massimo, l’uomo «rad­
drizza i sentieri tortuosi delle passioni volontarie, cioè i movimenti del
piacere»52.
Oltre alla sua funzione terapeutica, la temperanza ha una funzio­
ne profilattica. Preserva l’uomo da ogni colpa perché, mortificando in
lui la concupiscenza, lo rende insensibile a ciò che la sollecita53, ma an­
che perché spezzando in lui il pungiglione della voluttà, gli toglie ogni
attrazione al peccato54. Come afferma san Massimo, «la temperanza
conserva lo spirito libero di fronte agli oggetti e alle loro rappresen­
tazioni»55. Essa toglie ai demoni ogni potere di turbare l’anima, sia nel­
lo stato di veglia che nel sonno56. Allora essa mantiene nella pace la
potenza concupiscibile dell’anima57.
Se il desiderio passionale è la malattia dell’anima, «la temperanza
ne è la salute», scrive san Basilio58. Per mezzo della temperanza, infatti,
la parte concupiscibile dell’anima ritrova l’ordine della sua natura e la

49Regole lunghe, 17. Cfr. TALASSIO, Centurie, 1,11; 14; 93.


50 Cfr. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, II, 59; m , 8.
51 Istruzioni Spirituali, XI, 113. Cfr. B a silio DI CESAREA, loc. cit. CLEMENTE D’ALESSANDRIA,
Stronzata, DI, 7.
52 Questioni a Talassio, 46, PG 90, 429A. Cfr. 428B.
53Cfr. G re g o rio di N issa, Vita di Mosè, n, 274.
54 Cfr. B a silio di C esarea, Regole lunghe, 17.
55 Centurie sulla carità, IH, 39.
56 M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, n , 85.
57 Cfr. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, IV, 79.
58 Lettere, CCCLXVI.

434
sua finalità normale, un esercizio conforme alla ragione. «I movi­
menti dell’anima sono razionali quando la sua parte concupiscibile è
retta dalla temperanza», sottolinea san Massimo59. Essa è, per questo
motivo, una virtù e fonte di virtù.
La virtù che le è più immediatamente legata, che è il segno della sua
completezza, è quella indicata in greco con il termine sôphrosynë, che
letteralmente significa «lo stato sano dello spirito o del cuore»60 o
anche lo stato di un’anima pura da ogni attaccamento ai piaceri sen­
sibili qualunque essi siano, e che possiamo tradurre in questo conte­
sto con «castità» o, meglio ancora, con «integrità spirituale»61.
Quanto al rapporto della temperanza con la castità, san Basilio scri­
ve: «La temperanza non insegna la castità, essa la procura»62. «Colui
che si domina consapevolmente [...] attraverso la temperanza, spera
di ottenere la castità», osserva nello stesso senso san Doroteo di Gaza63.
Poiché la temperanza impedisce alla potenza di desiderio dell’ani­
ma di dividersi e di disperdersi in molte passioni, e al contrario la riu­
nisce e la volge in un solo desiderio verso Dio, essa riunifica non so­
lo la potenza di desiderio, ma anche tutte le altre potenze che si allie­
tano in essa o a causa di essa. Contribuisce, così, per gran parte, ad
eliminare le molte divisioni che l’uomo decaduto conosce e riporta
la sua anima all’unità e alla semplicità originaria64.
Poiché essa guarisce l’uomo dal peccato e dalle passioni, e in par­
ticolare da quelle che lo tengono schiavo del piacere sensibile, la tem­
peranza dà all’uomo la libertà. «La temperanza d libera perché è sia
medicina che potenza», osserva san Basilio65. Per essa, l’uomo ritrova
la propria autonomia spirituale, e questa lo assimila a Dio. «La tem­
peranza, scrive san Basilio, è Dio, perché egli non desidera nulla ed ha
tutto in sé [...]. Poiché egli non manca di nulla, è in un’assoluta pie­
nezza»66.
Poiché essa purifica la potenza di desiderio dalle passioni che oscu­
rano l’intelligenza, contribuisce ad introdurre nell’uomo la conoscen­
za spirituale. Gemente d’Alessandria la considera come il fondamen­
59 Centurie sulla carità, IV, 15.
60 A. BAILLY, Dictionnaire grec-français, Paris 1950, p. 1892.
61 Per una giustificazione del significato ampio del termine, vedi R. PLUS e A. RAYEZ, «Cha­
steté», in Dictionnaire de spiritualité, t. 2, Paris 1953, coll. 778-779.
62 Lettere, CCCLXVI.
63 Istruzioni spirituali, XIV, 153.
64 Cfr. AGOSTINO, Confessioni, X, 29.
65 Lettere, CCCLXVI.
66Ibid.

435
to della conoscenza di Dio67. E san Massimo la colloca accanto alla ca­
rità che è, secondo tutti i Padri, la porta della conoscenza: «Guàrdati
dal dimenticare la carità e la temperanza, perché sono esse che, nel pu­
rificare a fondo le potenze patetiche dell’anima, ti aprono costante-
mente il cammino della conoscenza»68; «il Salvatore ha detto: “Beati
i puri di cuore: perché essi vedranno Dio”. Essi lo vedranno, lui e i te­
sori che sono in lui, quando per mezzo della carità e della temperan­
za essi si purificheranno, e tanto meglio quanto più energico sarà il lo­
ro sforzo di purificazione»69. Purificando l’uomo, la temperanza lo ren­
de degno di avvicinarsi a Dio e di unirsi a lui, contribuisce a renderlo,
alla fine, pertecipe della vita divina, a renderlo incorruttibile a somi­
glianza di Dio incorruttibile70.

3. La fortezza
Abbiamo visto che a causa del peccato la potenza irascibile si è am­
malata, poiché l’uomo l’ha usata per compiere la volontà del diavolo
e dei demoni, per lottare per la realizzazione dei desideri della carne
nonché per l’acquisto e per la conservazione dei piaceri sensibili, per
favorire l’esercizio delle passioni e per soddisfare l’amore di sé.
Abbiamo visto, altresì, che la guarigione di questa facoltà non po­
tremmo compierla inibendola o eliminandola. Questa facoltà non so­
lo è utile71 e rende all’uomo grandi servigi72, come ricordano spesso i
Padri, ma essa è per lui uno strumento indispensabile per raggiunge­
re i beni divini, secondo l’insegnamento dello stesso Cristo: «Il re­
gno dei cieli è oggetto di violenza, e sono i violenti che se ne impa­
droniscono» (Mi 11,12); «Il regno di Dio viene annunziato e ognuno
usa violenza per entrarci» (Le 16,16).
Non è opportuno, dunque, mortificare questa facoltà, ma conver­
tirla per metterla in azione «in modo giusto, così come è stata creata
da Dio»73.
67 Stromata VII, 12.
,
68 Centurie sulla carità, IV, 57.
69 Ibid. Questo passo è ripreso testualmente da ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigi­
, 72.
lanza, 75.
70 Cfr. B a silio di C esarea, Lettere, CCCLXVI.
71 Cfr. B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
72 B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera. D ia d o c o di F o tic ea , Cento capitoli gno­
stici, 62. G iovan ni C risostom o, Commento al Salmo 4 , 7. G iovan ni C assiano, Istituzioni ce­
nobitiche, vin, 7.
73 Esicmo DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 126.

436
Innanzitutto, lottando contro il male in tutte le sue forme l’uomo
ridà alla potenza irascibile della sua anima l’uso che conviene alla
sua natura, che corrisponde alla sua normale finalità, e costituisce la
sua salute, perché è a questo scopo che gli è stata donata da Dio co­
me un’arma74.
In primo luogo, si tratta di utilizzare la potenza irascibile per com­
battere il peccato75e le passioni76, inclusa la passione della collera, co­
stituita dall’uso perverso che se ne fa. Commentando questa racco­
mandazione del salmista: «Adiratevi ma non peccate» (cfr. Sai 4,5), san
Giovanni Cassiano scrive: «Non dice con evidenza: Adiratevi contro
i vostri vizi e la vostra collera?»77. Occorre inoltre notare: «Persino l’ec­
citazione della collera, lo si comprende, può esserci molto salutare per­
ché, adirandoci contro i nostri vizi e i nostri errori, ci applichiamo piut­
tosto alle virtù e agli esercizi spirituali»78.
L’irascibilità deve avere per funzione più generale la lotta contro
«l’uomo vecchio» e le sue cattive tendenze79, il combattimento contro
«l’uomo dei desideri della carne». «Dobbiamo attivare [...] la parte
irascibile dell’anima contro il nostro uomo esteriore [...]. Sta scritto:
“Siate in collera con il peccato”, cioè: “Siate in collera contro voi stes­
si”», scrive sant’Esichio di Batos80.
La lotta contro le passioni, contro le cattive tendenze dell’uomo vec­
chio, assume fondamentalmente la forma di una lotta interiore contro
i pensieri (logismot ) ispirati dai demoni, un combattimento contro le
tentazioni. Commentando il versetto 5 del salmo 4, san Giovanni Cas­
siano scrive: «Ci è stato ordinato di “metterci in collera” per la nostra
salvezza contro noi stessi e le cattive suggestioni che salgono in nói, e
di “non peccare”, cioè d’impedire loro di nuocere»81. «La collera in
noi ha un servizio da rendere, ed è solo per questo che ci è utile e sa­
lutare accoglierla: quando insorgiamo contro i movimenti lascivi del
nostro cuore», fa ancora notare san Giovanni Cassiano82.

74 D ia d o co di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 62. B asilio di C esarea, Omelie, X, Sulla col­
lera.
75 Cfr. G iovanni i l S o lita rio , Dialogo sull anima e sulle passioni degli uomini, éd. Hausherr,
p. 90. B a silio di C esarea, Lettere, E.
76 B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
77 Istituzioni cenobitiche, VIE, 9. Cfr. ibid., 8.
78 Ibid., V H ,3,3.
79 Cfr. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, VIE, 9.
80 Capitoli sulla vigilanza, 126. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, loc. cit.
81 Istituzioni cenobitiche, VEI, 9.
82 Ibid., 1.

437
Questo combattimento è legato al combattimento contro il diavo­
lo e i demoni stessi, che suggeriscono all’uomo il male, lo incitano a
compierlo, vogliono sottometterlo alla loro volontà. Per questo moti­
vo, così scrive sant’Esichio di Batos: «Dobbiamo attivare [...] in ma­
niera giusta, secondo natura [...] la parte irascibile [...], contro [...] Sa­
tana, il Serpente»83. Evagrio afferma la stessa cosa: «Fa parte della na­
tura della parte irascibile combattere contro i demoni»84. San Gregorio
di Nissa scrive allo stesso modo: «Quanto all’irascibilità, alla collera,
all’odio, occorre che esse usino la loro forza naturale contro il ladro,
contro il nemico che s’insinua all’interno per fard perdere il tesoro di­
vino e viene al fine “di rubare, sgozzare, distruggere” (Gv 10,IO)»85.
San Basilio ricorda a questo riguardo le parole di Dio agli uomini ri­
portate nel libro della Genesi: «Porrò una ostilità tra voi e il serpen­
te» (cfr. Gn 3,15)86. Potremmo citare qui numerosi passi dd Salmi nd
quali vediamo il fedde impegnato, secondo il salmista, a manifestare
un tale odio riguardo ai demoni simboleggiati e indicati in modi di­
versi («gli empi», «i peccatori», «i cattivi», «i nemici», «gli eserciti av­
versi», «le nazioni straniere», «i prìndpi»...) e a chiedere a Dio di muo­
vere contro di essi la sua collera per allontanarli, ridurli all’impotenza
o distruggerli.
Se l’uomo lotta così contro la volontà dd demoni è perché si com­
pia in lui la volontà di Dio. Se egli lotta contro le passioni è per far po­
sto in sé alle virtù. Se lotta contro le tendenze dell’uomo vecchio è per
poter divenire in Cristo un uomo nuovo. Così la lotta della potenza
irascibile contro le diverse forme del male appare come una lotta in
vista dd bene. «L’anima razionale agisce secondo la natura quando
la sua parte irascibile lotta per ottenere la virtù», scrive Evagrio87.
Lottare per la virtù, significa prima di tutto lottare per acquisirla:
la potenza irascibile qui sembra come un motore della vita spirituale,
una forza che tende tutta l’anima verso Dio88. A questo proposito co­
sì scrive san Basilio: «Se voi fate un buon uso della collera e se ve ne
servite secondo le regole della ragione, essa si muterà in forza»89. Ma

83Capitoli sulla vigilanza , 126.


84Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
85Trattato sulla verginità , XVIII, 3.
86Omelie , X, Sulla collera.
87Trattato pratico sulla vita monastica, 86.
88 Cfr. MASSIMO IL C on fessore, Centurie sulla carità, n , 48; Commento del Padre nostro, PG
90, 896C.
89Omelie , X, Sulla collera.

438
la lotta serve anche per conservare la virtù: mentre la collera, nel suo
uso patologico combatte per la conservazione dei beni sensibili, nel
suo uso sano essa lotta affinché i beali spirituali ricevuti da Dio non
siano affatto strappati dal Nemico. È in questo senso che san Massir
mo consiglia: «Che la potenza dell’aggressività lotti per conservare
Dio»90. Nel lottare per i beni divini, la potenza irascibile lotta così «per
il piacere spirituale (pneumatikè edoné) e la beatitudine (makariótes)
che ne segue»91, anziché lottare come essa faceva nel suo uso patolo­
gico in vista dei piaceri sensibili, essendo il suo principio quello «di
lottare in vista del piacere qualunque esso sia»92.
Occorre sottolineare che la collera corrispondente all’uso virtuoso
della parte irascibile, che serve a quanto san Paolo chiama «il buon
combattimento» (lTm 6,12; 2Tm 4,7) e che i Padri denominano «ira­
scibilità saggia (sóphton thymós)»93, «giusta collera»94, si distingue dal­
la collera-passione non solo per il suo scopo, ma anche per la forma.
Ed è per queste due ragioni che essa è una collera esente dal pecca­
to, quella ricordata dal salmista quando dice: «Adiratevi ma non pec­
cate» (cfr. Sai 4,5) o ancora, parlando dei nemici spirituali: «Di odio
pieno io li detesto» {Sai 139[138]>22). È infatti una collera dominata95,
esente da turbamento (atàrachos)96che è, quindi, interamente compa­
tibile con l’impassibilità (apàtheia) che è il fine della praxis.
Nell’uso virtuoso, l’irascibilità può essere assimilata alla virtù della
fortezza, o coraggio (andretà). A questo proposito così scrive Evagrio:
«Quando la virtù è nella parte irascibile, essa si chiama fortezza»97, e
san Massimo, ugualmente: «La collera secondo la natura è fortezza»98.
Nel fame un uso passionale l’uomo rendeva malata la sua potenza
irascibile, e per essa tutta la sua anima, utilizzandola invece virtuosa­
mente, egli le rende la salute e «se ne serve come un rimedio»99, ri­
dandole così la sua funzione normale. Infatti, osserva san Giovanni
Crisostomo, «se la collera è stata posta in noi, non è perché peccassi­

90 Commento del Padre nostro, PG 90, 896C.


91 EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 24.
92Ibid.
93 D ia d o c o di F o u c e a , Cento capitoli gnostici, 62.
94 G iovanni C risostom o, Commento al Salmo 4 , 7.
95 Cfr. D ia d o c o di F o ticea , Cento capitoli gnostici, 62. B a silio di C esarea, Omelie, X, Sul­
la collera.
96 Cfr. B a silio di C esarea, loc. cit.
97 Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
98 Disputa con Pirro, PG 91, 309C.
99 B a silio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.

439
mo [...], non è affinché essa divenisse in noi una passione, un’infer­
mità, ma affinché fosse un rimedio alle passioni»100.
La potenza irascibile ben usata appare così, nella via della guari­
gione spirituale, come aiuto principale della ragione divenuta pru­
dente101. Infatti la ragione, illuminata spiritualmente, può indicare la
via del bene e la lotta da condurre per progredirvi, ma essa stessa non
può imporre all’uomo di seguire questa via né di dare battaglia; la po­
tenza irascibile è la forza di cui essa ha bisogno per fare tutto questo;
senza di essa, rimarrebbe impotente. San Basilio scrive a questo pro­
posito: «Come un soldato docile agli ordini del suo capitano è sempre
pronto ad andare a soccorrere quelli che ne hanno bisogno, così la col­
lera può aiutare la ragione a combattere il peccato. L’indignazione fa
da spinta all’anima, le ispira forza, coraggio, costanza nel portare a
compimento un’impresa; essa dà vigore e fermezza a uno spirito che
si lascia infiacchire dal piacere. Non avremo mai verso il peccato
l’orrore che dovremmo avere se non siamo animati dall’indignazione
e dalla collera; così, quando essa è sottomessa alla ragione, occorre
amarla tanto quanto si è obbligati a odiarla quando è irrazionale»102.
Molti Padri sottolineano, come san Basilio, il ruolo essenziale che
gioca la potenza irascibile restituita alla sua funzione normale per di­
namizzare l’intera vita spirituale. «La collera [è uno] strumento utile
per risvegliare la nostra anima dagli eccessi di torpore»103e «per dar[le]
vigore»104, osserva san Giovanni Crisostomo. E san Massimo consiglia:
«Che tutto lo spirito si ordini in vista di Dio, teso dall’irascibilità co­
me una corda»105.
Infatti, non vi è vita spirituale senza lotta; senza impegnare tutta la
propria forza, l’uomo non può ricevere la forza che Dio gli dà; senza
coraggio, egli non può opporsi agli attacchi permanenti dei nemici del­
la sua salvezza, non può affrontare le molte trappole che essi gli ten­
dono. Se la prudenza, come vedremo, deve illuminare il suo cammi­
no, in gran parte è l’irascibilità che gli permette di progredire su que­
sto cammino.

100 Commento al Salmo 4,7.


di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
101 B a silio
102 Ibid.
103 Commento al Salmo 4, 8.
104 Ibid.
105 Commento del Padre nostro, PG 91, 896C.
440
4. La prudenza
Abbiamo visto come il peccato renda malate le facoltà della cono­
scenza umana. L’uomo, allontanandosi da Dio per volgersi verso le
realtà sensibili, è divenuto ignorante di Dio e della vera natura degli
esseri creati. Solo dopo essere stato liberato da tutte le passioni, al ter­
mine dunque della pràxis, l’uomo potrà essere guarito da questa du­
plice ignoranza: da quella delle ragioni spirituali delle creature prima,
egli allora ritroverà la sapienza (sophta); da quella di Dio poi, in una
conoscenza (gnósis) che riceverà dallo Spirito se ne è degno. Solo al­
lora troverà la perfetta salute delle sue facoltà di conoscenza.
Ma al livello stesso della pràxis, e fin dall’inizio della sua messa in
pratica, egli deve ritrovare il buon uso delle sue facoltà di conoscenza
di cui ha bisogno: questo buon uso si manifesta in primo luogo nella
virtù della prudenza (phrónésis)m.
Abbiamo visto che, in seguito al peccato, l’uomo ha acquisito una
conoscenza confusa del bene e del male, prendendo come criterio il
piacere e il dolore anziché la volontà di Dio: egli si è così allontanato
dalla prudenza107 diventando insensato (àphmn), cadendo in uno sta­
to di follia (aphrosynè). Se egli vuole avanzare sulla via della conver­
sione spirituale, che consiste ndl’allontanarsi dal male e fare il bene,
dev’essere di nuovo capace di distinguerli nettamente e senza ingan­
narsi.
La prima funzione della prudenza sta quindi nel distinguere il be­
ne dal male e da ciò che non è né l’uno né l’altro108. A un livello su­
periore, consiste nella capacità di distinguere nettamente soprattut­
to, tra le manifestazioni della vita interiore, ciò che proviene da Dio
o dai suoi angeli e ciò che procede dal diavolo o dai demoni109. Essa
corrisponde allora molto precisamente al «discernimento degli spiri­
ti», di cui parla l’apostolo Paolo (lCor 12,10).
Il ruolo della prudenza consiste, più in generale, nel discernimento
in ogni circostanza della volontà di Dio.
106A questo riguardo e sulla distinzione prudenza-saggezza, vedi EVAGRIO PONTICO, Tratta­
to pratico sulla vita monastica, 73 e il com m ento di A. e C. GUILLAUMONT nella loro introdu­
zione a questo trattato, SC 170, pp. 661-663; 684-685.
107 Cfr. G re g o rio DI NiSSA, Discorso catechetico, 8.
108 Cfr. E vagrio P o n tic o , Commento al Salmo 37, 6. BASILIO di CESAREA, Omelie, XII, 6,
PG 3 1 ,397C. G re g o rio i l Taum aturgo, Ringraziamento a Origene, 122; cfr. 123. M assim o i l
CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 24. M acario D’E g itto , Capitoli parafrasati, 45.
109 Cfr. ISACCO i l Smo, Discorsi ascetici, 26. M acario d 'E g itto , loc. cit. G iovanni Cassia-
NO, Conferenze, 1 ,19.

441
Comunque si presenti questa prima funzione, essa è assimilabile al­
la virtù del discernimento (diakrisis-, discretio), ed è così che spesso la
designano i Padri110. È questa virtù, ricorda san Giovanni Cassia-
no111, che nel Vangelo è chiamata: «La lucerna del corpo è l’occhio»,
quando il Cristo insegna: «La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque
il tuo occhio è terso, tutto il tuo corpo sarà illuminato. Ma se per ca­
so il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre» (Mt
6,22-23). «Essa infatti discerne tutti i pensieri dell’uomo e le sue azio­
ni, esamina e vede nella luce ciò che dobbiamo fare»112. San Giovan­
ni Climaco scrive allo stesso modo: «Il discernimento è una lampada
nelle tenebre [...], una luce per coloro la cui vista è debole»113; «se vo­
gliamo definire in generale il discernimento, possiamo dire che è una
luce interiore che ci fa conoscere con certezza la volontà di Dio in ogni
momento, in ogni luogo, e in ogni azione»114. E questa virtù, egli fa an­
cora notare, che il salmista ricorda quando chiede a Dio: «Insegnami
a fare la tua volontà perché tu sei il mio Dio» (Sai 143 [142], 10) e an­
cora: «Fammi conoscere la via da percorrere: sì, verso di te elevo l’a­
nima mia» (Sai 143[142],8)115.
Essa è, dunque, la guida che consente a colui che avanza nella via
spirituale di non smarrirsi e di evitare le cadute. «Essa è anche di cui
è scritto che è il governo della nostra vita», osserva san Giovanni Cas-
siano nel ricordare questo passo dei Proverbi: quando manca la pru­
denza «un popolo decade» (Pro 11,14)116.
La prudenza è, di conseguenza, la protettrice delle virtù117 e, allo
stesso tempo, mette l’uomo al riparo dagli agguati del male. «Colui
che la segue, scrive san Basilio, non si allontana mai dalle opere della
virtù e non è mai trafitto dallo strale funesto del vizio»118. Parlando,
più in generale, la prudenza-discrezione permette all’uomo di cono­
scere il suo stato interiore e di situarsi relativamente al suo progresso
110 Sull’equivalenza tra prudenza e discernimento, vedi A. CABASSUT, «Discrétion», in Dic-
tionnaire de spiritualité, t. 3, Paris 1957, coll. 1311-1313. Questa equivalenza spiega perché al­
cuni Padri non parlano mai di «prudenza», ma di «discernimento» o di «discrezione» nel sen­
so antico di questo termine.
111 Conferenze, E, 2.
n2Ibid.
113La Scala, XXVI, 122.
114 Ibid., 1.
115Ibid., 95.
116 Conferenze, E, 4.
117 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
118 Omelie, XII, 6.
442
spirituale, gli dà in particolare la possibilità di vedere il cammino per­
corso e di misurare quello che gli resta da fare119.
La seconda funzione della prudenza consiste, come osserva Eva-
grio, nel «dirigere le operazioni contro le potenze avverse, proteggendo
le virtù, opponendosi ai vizi, regolando tutto ciò che è neutrale a se­
conda delle circostanze»120, o ancora «opporsi all’irascibilità dei de­
moni»121. La prudenza appare qui come il grande stratega del com­
battimento che l’uomo, nella pràxis, inevitabilmente è portato a con­
durre contro il diavolo e i demoni. Senza di essa, «non è possibile por­
tare a compimento la lotta», afferma ancora Evagrio122. Occorre no­
tare che il Cristo stesso raccomanda di munirsi della prudenza ricor­
dando le difficoltà del percorso spirituale dovute in particolare ai
demoni: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dun­
que prudenti come i serpenti» (Mt 10,16).
Questa seconda funzione della prudenza è strettamente legata alla
precedente, perché si tratta non solo di distinguere chiaramente ciò
che viene da Dio o dagli angeli da ciò che viene dai demoni, di osser­
vare gli attacchi di quest’ultimi, ma anche di discemere i modi di que­
sti attacchi (che possono essere complessi o molto vari), di eludere le
loro astuzie, essendo questo possibile solo attraverso la conoscenza si­
cura della volontà di Dio che indica all’uomo il vero bene.
La prudenza ha, altresì, come funzione, di fronte alle altre poten­
ze dell’anima, quella di affermare il carattere egemonico della parte
razionale (logistikón), di cui essa è la virtù sul piano della pràxis, e quin­
di d’incitarle a subordinarsi ad essa nella guerra da condurre contro
i demoni e le passioni. In primo luogo essa guida, in questa attività, la
potenza irascibile123.
La prudenza, infine, ha come funzione, in maniera più generale,
quella di governare le diverse potenze dell’anima e di riordinarle fa­
cendole agire secondo la loro vera natura124. Ecco perché sant’Esichio
di Batos consiglia: «Con sapienza e scienza, fissiamo la ragione sulle
due altre [parti dell’anima], la potenza irascibile e la potenza di desi­
derio, per regolarle, ammonirle, riprenderle, comandarle, come un

1,9 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 1.


120 Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
121 Ibid., 73.
m Ibid.
123 Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 34.
124 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico, 73; 88.
443
re comanda i suoi servi»125. Quest’ultima funzione è legata direttamente
alle precedenti. Da ima parte, «forzando le potenze dell’anima ad agi­
re secondo la natura»126la prudenza può meglio «opporsi all’irasci­
bilità dei demoni»127, perché lo scopo principale da essi perseguito e
il risultato essenziale della loro azione è quello di trascinare le diver­
se facoltà dell’uomo ad allontanarsi da Dio, quindi a esercitarsi con­
tro natura. Dall’altra parte, solo sulla base della distinzione del bene
e del male è possibile il riorientamento delle diverse potenze dell’a­
nima, perché questo riorientamento le fa passare da un uso contro na­
tura a un uso conforme alla loro natura, da viziose che erano le ren­
de virtuose. Evagrio così scrive a questo riguardo: «Le potenze che,
secondo l’uso che se ne fa, sono buone o cattive, dànno origine alla
virtù e al vizio. E proprio della prudenza usare le potenze in vista di
uno dei due fini»128.
Si comprende adesso come la prudenza-discrezione possa essere
considerata da san Giovanni Cassiano «la madre e la custode [...] di
tutte le virtù»129, ma altresì «la fonte, in qualche modo, e la radice di
tutte le virtù»150. San Giovanni Damasceno e sant’Isacco vedono in es­
sa anche «la più grande di tutte le virtù»131: in realtà, essa è una delle
virtù che condiziona, come abbiamo già detto, l’acquisizione di tutte
le altre; non avendola come guida, l’uomo rischia di non giungere mai
allo scopo, dal momento che sono molte le difficoltà che egli deve af­
frontare e che, per mezzo di essa, Dio gli permette di evitare.
Si comprende, anche, perché la prudenza-discrezione possa essere
considerata un mezzo essenziale per la guarigione dell’uomo. Così san
Giovanni Climaco scrive a questo riguardo: «Colui che possiede la
prudenza-discrezione è uno sterminatore della malattia e un restaura­
tore della salute»132. Infatti, da una parte essa costituisce un uso se­
condo Dio, quindi conforme alla sua natura sana, della parte raziona­
le dell’anima e, dall’altra parte, essa guarisce tale parte dalla follia che
costituisce il suo uso perverso. «Nella misura in cui noi usiamo male
le potenze della nostra anima [...] i vizi si insediano in essa: nella
125 Capitoli sulla vigilanza, 126. Cfr. GREGORIO DI NlSSA, Trattato sulla vigilanza, XVIII, 3.
126EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 73.
127Ibid.
128 Trattato pratico sulla vita monastica, 88.
129Conferenze, II, 4.
m Ibid., 9.
131 GIOVANNI D amasceno , Discorsi utili all’anima. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 7. Cfr.
ibid., 18.
132La Scala, XXVI, 122.
444
parte razionale, l’ignoranza e la follia [...]. Il loro buon uso, al con­
trario, produce [in tale parte] conoscenza e prudenza», ricorda san
Massimo133. San Basilio ugualmente, dopo aver notato che le potenze
dell’anima «divengono strumenti del vizio o della virtù secondo le di­
sposizioni di colui che agisce», scrive, relativamente alla potenza ra­
zionale: «Quando se ne usa bene, si diviene saggio e prudente»134. Fol­
lia e prudenza, dunque, si corrispondono e si oppongono, e prendo­
no il posto l’una dell’altra a seconda che l’uomo allontana la sua ragione
da Dio o la rivolge verso di Lui, sebbene l’assenza dell’una implichi la
presenza dell’altra e reciprocamente. Così san Massimo osserva che
«chi non è insensato è prudente»135.
La prudenza contribuisce a ridare la salute non solo alle facoltà
intellettuali, ma anche alle altre facoltà: in virtù del suo ruolo di gui­
da, indicando loro la via del bene, essa le aiuta a riorientarsi verso Dio,
a esercitarsi di nuovo nel senso conforme alla loro finalità naturale,
quindi a ritrovare la salute. Possiamo, perciò, dire con san Giovanni
Climaco che essa costituisce «una via di ritorno per gli smarriti»136.

133 Centurie sulla carità, IH, 3.


134 Omelie, X, Sulla collera.
135Disputa con Pirro, PG 91, 309C.
136La Scala, XXVI, 122.
445
Ili

IL RUOLO TERAPEUTICO DEL PADRE SPIRITUALE

Il discernimento spirituale, così come lo intendono molto spesso i


Padri, è un carisma1che l’uomo riceve quando raggiunge i gradi più
alti della vita ascetica, quando egli perviene al termine della prdxis2
ed ha raggiunto l’impassibilità3. Infatti, fintanto che le passioni sussi­
stono in lui, in qualunque grado sia, il suo giudizio è falsato e la sua
capacità di discernimento alterata.
L’uomo, tuttavia, fin dall’inizio della sua vita spirituale deve poter
trovare sicuramente il suo cammino, evitare i pericoli e le trappole che
lo minacciano da ogni parte, deve sapere a ogni istante ciò che deve
fare per compiere la volontà di Dio e non smarrirsi su vie avverse. Fin
dalla partenza, egli deve, e può in una certa misura, praticare la virtù
della prudenza, che egli acquisisce in particolar modo attraverso la
preghiera e l’attenta lettura delle Sacre Scritture. Ma nei suoi primi
gradi, questa non basta a dargli tutta la luce di cui ha bisogno per pro­
gredire sul cammino pieno di imboscate della pràxis. Egli ha bisogno
di una guida esperta che possa sopperire a dò che manca ancora al di-
scernimento. Tale guida viene chiamata padre spirituale (penumatikòs
pater) dalla tradizione o anche l’Anziano (géron, in russo: starec). Il suo
ruolo non si limita a quello dell’insegnamento e della direzione: la tradi­
zione ascetica, unanimemente, lo considera come un terapeuta, capa­
ce di guarire colui che si affida alle sue cure, e di condurlo alla salute.
L’uomo, all’inizio della vita spirituale, prova sempre qualche reti­
cenza e manifesta qualche resistenza nell’afBdarsi a un padre spirituale,
a lasciarsi guidare e curare da lui, in particolare perché ciò esige, co­

1 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, E , 1.


2 A questo riguardo è significativo che san GIOVANNI CLIMACO parli di discernimento solo
al gradino XXVI della sua Scala, la quale ha trenta gradini.
3 TEOGNOSTO, Sullazione e la contemplazione, 37.

446
me vedremo più precisamente in seguito, che egli manifesti la sua vi­
ta interiore e gli confidi le sue malattie. In noi, osserva san Gregorio
Nazianzeno, «l’intelligenza e l’egoismo, come l’incapacità e il rifiuto
di lasciarci vincere facilmente, costituiscono il più grosso ostacolo al­
la virtù. Si scatena una sorta di mobilitazione contro coloro che ven­
gono in nostro aiuto. Noi impieghiamo tutto lo zelo che occorre per
svelare la malattia a chi deve curarla nel sottrarci al trattamento. Im­
pieghiamo il nostro coraggio nel farci del male e la nostra scienza nel
lottare contro la nostra salute»4; nascondiamo le nostre colpe, o le giu­
stifichiamo, «e ci ostiniamo [...] a non lasciarci curare dai rimedi di
saggezza che guariscono l’infermità dell’anima. O, ancora [...] mani­
festiamo un’esplicita impudenza nei confronti del peccato e di colo­
ro che hanno l’incarico di curarlo»5.
Ma credendo che si possa fare a meno di un padre spirituale, l’uo­
mo inganna se stesso. Per colui che vuole giungere alla salvezza e al
termine della via spirituale, l’aiuto del padre spirituale costituisce una
necessità assoluta. San Giovanni Climaco scrive: «Si illudono coloro
che si fidano di se stessi e pensano di non aver bisogno di nessuno che
li guidi»6. San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo osservano: «Coloro
che vogliono camminare senza ricevere consigli seminano nella fatica
e nel sudore e spesso non fanno altro che sognare»7. Per questo san
Niceforo il Solitario consiglia: «Se non hai un maestro, devi cercarte­
ne uno a ogni costo»8.
La necessità della direzione spirituale riguarda innanzitutto la dif­
ficoltà che l’uomo ha di conoscere se stesso9 e di adeguarsi corretta-
mente, e questo fintanto che non raggiunge la purezza dell’impassibi­
lità, la quale è, lo vedremo ulteriormente, la chiave della pienezza del
discernimento10e della conoscenza di sé. Fintanto che l’uomo è in ba­
lia delle passioni, egli ha il giudizio falsato. Sotto il dominio della ce-
nodossia e dell’orgoglio, in particolare, è «pronto a vedere il peccato
degli altri, [ma] lento a riconoscere le proprie imperfezioni» come con­
stata san Basilio11. Ora, lo abbiamo visto, è in gran parte da questo
riconoscimento che dipende il progresso spirituale. E, quando i Padri
4Discorsi, E, 19.
5Ibid., 20.
6La Scala, 1,18.
7 Centuria, 14.
8Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
9 Cfr. BASILIO DI C esarea , Omelie suWHexaemeron, IX, 6.
10 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, I.
11Ibid.
447
ricordano la necessità di conoscere se stessi, spesso intendono con que­
sto «la conoscenza del proprio peccato». Ma in modo generale, tutte
le passioni oscurano e pervertono il giudizio dell’uomo, alterano la sua
capacità di discernimento del bene e del male, gli impediscono di ve­
dere ciò che veramente gli conviene, di avere «una percezione certa
della volontà di Dio in ogni occasione, in ogni luogo e in ogni circo­
stanza»12. Ecco perché Abba Zenone afferma che l’uomo «non deve
fidarsi di se stesso» e «non può soccorrere se stesso»13. San Doroteo
di Gaza consiglia la stessa cosa: «Non fidarti mai del tuo cuore, per­
ché le antiche passioni lo hanno reso cieco»14; «essendo passionali, non
dobbiamo assolutamente fidarci del nostro cuore, perché una regola
distorta rende distorto anche ciò che è diritto»15. Seguendo il pro­
prio giudizio, l’uomo non solo non riesce a vedere se stesso come è,
ma non può neanche conoscere con sicurezza quale via seguire, e ri­
schia costantemente di allontanarsi dal retto cammino. Per questo san
Niceforo il Solitario consiglia: «E importante cercarsi un maestro in­
fallibile: le sue lezioni ci insegneranno le nostre deviazioni a destra o
a sinistra [...]; la sua esperienza personale di queste prove ci illuminerà
a loro riguardo e ci mostrerà, escludendo ogni dubbio, il cammino spi­
rituale che allora potremo percorrere senza difficoltà»16.
H ricorso a un padre spirituale si giustifica, per di più, con il peri­
colo per l’uomo di seguire la propria volontà, la quale, nel suo stato
decaduto, tende a opporsi alla volontà di Dio. «Se un uomo non con­
fida tutto ciò che è in lui, insegna san Doroteo di Gaza, il diavolo sco­
prirà in lui una volontà propria [...] che gli [permetterà] di travol­
gerlo [...]. Ogni volta che noi ci attacchiamo ostinatamente alla nostra
volontà [...], pensando in quel momento di fare cose meravigliose, ten­
diamo delle trappole a noi stessi, e non ci accorgiamo che ci stiamo
perdendo. Come possiamo, infatti, conoscere la volontà di Dio, o cer­
carla veramente, se fidiamo in noi stessi e teniamo ferma la nostra
volontà?»17. Affidarsi a un padre spirituale consentirà, dunque, di vin­
cere questa volontà propria che, secondo la parola di Abba Poemen,
«è un muro di bronzo tra l’uomo e Dio»18. Ciò permetterà, altresì, di

12ibid.
13Apoftegmi, N 509-510.
14Lettere, II, 187.
15Sentenze, 2.
16Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
17Istruzioni spirituali, V, 62.
18Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 54.
448
acquisire la necessaria umiltà. San Giovanni di Gaza scrive a questo
proposito: «Se qualcuno ha l’idea di fare qualcosa di buono da se stes­
so e non consulta i Padri, egli è al di fuori della legge e non fa nulla di
legittimo. Colui che, al contrario, li interroga, compie la Legge e i Pro­
feti. Difatti, è un segno di umiltà interrogarli. E colui che agisce in que­
sto modo imita il Cristo che si è umiliato fino a divenire schiavo. Si di­
ce infatti, che un uomo senza consigliere è nemico di se stesso»19.
Il ricorso a un padre spirituale s’impone anche all’uomo che vuole
avanzare sulla via spirituale in ragione della sua ignoranza circa le trap­
pole e i pericoli che vi incontrerà e i mezzi per affrontarli. Per questo
san Giovanni di Gaza consiglia: «Interroga i Padri spirituali, fa’ quel­
lo che ti diranno. Non seguire il tuo giudizio, affinché non avvenga
che, per ignoranza, tu sia in pericolo»20. «Occorre, spiega san Marco
l’Eremita, che colui che vuole prendere la sua croce e seguire il Cristo
si preoccupi innanzitutto di acquistare la scienza e l’intelligenza at­
traverso l’esame dei suoi pensieri [...]. Occorre che interroghi coloro
che hanno gli stessi sentimenti, che servono Dio in conformità d’ani­
ma con noi e conducono la stessa lotta, affinché l’ignoranza della de­
stinazione e dei mezzi non ci faccia camminare nelle tenebre o cam­
minare senza luce e senza lampada. Colui che pratica l’idioritmia, os­
sia conduce la vita a suo modo, cammina sprovvisto della scienza
evangelica, del discernimento e della direzione spirituale; incontra co­
sì molti ostacoli e cade in tante fosse e trappole del diavolo; molte lo
fanno cadere, molte altre lo fanno smarrire ed egli è circondato da mol­
tissimi pericoli senza conoscere la via d’uscita»21. «Il combattimento
diverrà più leggero, più chiaramente individuabile, egli aggiunge, se si
è molto attenti [...] soprattutto nel cercare di frequentare persone esper­
te tra i Padri pieni di Spirito Santo, di vivere con loro, possibilmen­
te, e di lasciarsi condurre da essi. Difatti colui che vive solo, in idio-
ritmia, senza controllo o con persone senza esperienza di lotta spiri­
tuale, corre un grande pericolo. Egli si lascia ingannare dalle diverse
forme di guerra, perché le macchinazioni e le insidie nascoste del ma­
le sono numerose, e varie le trappole tese da ogni parte dal nemico.
Ecco perché occorre fare ogni sforzo e combattere per frequentare uo­
mini spirituali e intrattenersi spesso con essi affinché, anche se non si
possiede da sé la luce della vera scienza, perché si è ancora bambini
19Apoftegmi, N ili.
20Lettere, 702.
21A Nicola, 5.
449
e non si è ancora raggiunto il pieno sviluppo spirituale, se si va con co­
lui che vi è giunto, non si camminerà nelle tenebre, non si correrà al­
cun pericolo per le trappole e i trabocchetti del male, e non s’incap­
perà nelle fiere spirituali che pascolano nell’oscurità, che rapiscono e
straziano quelli che camminano nel buio senza la lampada spirituale
della parola divina»22.
Considerati i molti pericoli cui si va incontro senza una direzione
spirituale, sono inevitabili le cadute, che rischiano talvolta di essere ir­
rimediabili. L’Ecclesiaste lo sottolinea: «Guai a chi è solo, se cade non
c’è chi lo rialzi» (Qo 4,10). San Doroteo di Gaza insegna in questa stes­
sa linea: «Nel libro dei Proverbi si legge: “Senza governo un popolo
decade, il benessere dipende dai molti consiglieri” (Pro 11,14). Esa­
minate, fratelli, il senso di queste parole, e guardate cosa ci insegna
la santa Scrittura. Essa ci mette in guardia contro la fiducia in noi stes­
si e contro l’illusione di ritenerci avveduti e capaci di dirigerci da so­
li. Noi abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di guide dopo Dio.
Non vi è nulla di più miserevole e di più vulnerabile di coloro che non
hanno una guida e cadono come le foglie»23. Molti, infatti, come os­
serva san Gregorio di Nissa, si sono illusi e sono caduti per mancan­
za di una direzione spirituale adeguata24.
Non sono solo i «principianti» che hanno bisogno di tale direzio­
ne, come si potrebbe credere, ma anche i «proficienti» più avveduti.
San Massimo scrive a questo proposito: «Il saggio non si attiene alle
sue ragioni. Si sente convinto della loro verità e della loro eccellen­
za? Un motivo di più per diffidare del suo giudizio e per sottoporre
ad altri uomini avveduti le sue ragioni e i suoi pensieri, per non tro­
varsi nel rischio di correre o di aver corso invano (cfr. Gal2,2)»25.1 ri­
schi di smarrimento e di caduta, infatti, sono tanto più grandi quan­
to più si progredisce. Le trappole tese dai demoni sono tanto più nu­
merose e più sottili quanto più l’uomo avanza e si avvicina al termine,
e le vie che egli affronta sono sempre meno conosciute da lui, poiché
queste sono sempre più estranee a quelle del mondo alle quali egli era
fino ad allora abituato. Senza l’aiuto di un padre spirituale esperto che
conosca il cammino per averlo già percorso e che sappia quali ne so­
no le trappole, all’uomo non è possibile giungere alla fine. San Gio­

22 ibid., il.
23 Istruzioni spirituali, V, 61.
24 Trattato sulla verginità, XXIII, 3.
25 Centurie sulla carità, DI, 58.
450
vanni Climaco osserva giustamente che molti di coloro che «hanno in­
trapreso il viaggio», «giunti a metà del cammino, si sono trovati in pe­
ricolo o sono tornati indietro, perché non preparati alle tribolazioni»,
per mancanza di una valida direzione26.
Solo sottomettendosi a un Anziano, l’uomo potrà seguire sino alla fi­
ne «senza errori né pericoli il cammino dei Padri»27; è qui l’unica via che
permette di raggiungere la perfezione, come spiega frequentemente san
Giovanni Cassiano: «Se vogliamo giungere a una perfezione autentica
nella virtù, è necessario obbedire a questi maestri e guide che, lungi dal­
l’immaginaria in vuote discussioni, ne hanno realmente fatta l’esperienza
e possono insegnarcela, dirigerci e mostrarci il cammino più sicuro
per arrivarvi»28; «il Signore non mostra a nessuno il cammino della per­
fezione, se, avendo accanto una persona che istruisce, si disprezza la
dottrina degli Anziani e la loro regola di vita, senza far caso a questa pa­
rola, che dovrebbe pertanto essere osservata con zelo: “Interroga tuo
padre e te l’annuncerà, i tuoi Anziani e te lo diranno” (Dt 32,7)»29.
L’Anziano è un Padre (abbàs, pater) spirituale. Vuol dire che le re­
lazioni dell’Anziano con colui che egli guida non assumono la forma
del maestro con il discepolo, ma quella di un padre con il figlio30. Que­
ste relazioni hanno il loro archetipo in quelle del Padre celeste con gli
uomini che sono suoi figli per adozione, del «Padre dal quale ogni fa­
miglia in cielo e sulla terra si denomina» (E/3,14-15). Ciò significa che
la relazione che unisce il padre spirituale al figlio spirituale è una re­
lazione d’amore mutuo31. Ciò vuol dire, altresì, che la funzione del pa­
dre spirituale non si limita ad essere, come quella di un maestro, una
funzione d’insegnamento. Il Padre spirituale, come indica il nome, ha
il compito essenziale di generare spiritualmente suo figlio, di farlo «na­
scere dall’alto»32, e di aiutarlo a crescere fino a quando raggiunga la
statura di uomo adulto in Cristo, come indica l’Apostolo ai propri fi­
gli spirituali: «Figli miei, per i quali soffro di nuovo le doglie del par­
to, fino a che Cristo non sia formato in voi» (Gal 4,19). La sua fun­
zione non è dunque speculativa, ma concreta.

26Lettera al Pastore, 37.


27 D oroteo di Gaza, Lettere, III, 187.
28Istituzioni cenobitiche, XII, 15.
29 Conferenze, II, 15.
30 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 57; 58.
31 Cfr. ibid., 19.
32Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, E, 54.
451
Questo ruolo fattivo si manifesta anche nelle cure concrete che egli
rivolge al suo figlio che va da lui in stato di malattia in vista di ottenere
la guarigione. Infatti, se il padre spirituale è una guida33, non lo sarà
nel dare indicazioni astratte. Egli non mostra il buon cammino su una
carta: ma fa il cammino in compagnia di suo figlio, portandolo sulle
spalle34, e lo aiuta concretamente a non allontanarsi dalla via diritta,
a discernere e superare gli ostacoli, a percorrere fino alla fine le diverse
tappe. Ora i principali ostacoli del progresso spirituale sono costitui­
ti dalle passioni, che sono, come abbiamo mostrato, altrettante malat­
tie spirituali. Ecco perché il ruolo del padre spirituale, nell’aiutare la
persona colpita da tali malattie a liberarsene, assume fondamental­
mente un carattere terapeutico35. L’esercizio della paternità spirituale
è così, molto spesso, assimilato dai Padri a una medicina delle anime
analoga alla medicina del corpo36. Per questo, frequentemente, nei te­
sti ascetici il padre spirituale è chiamato «medico spirituale» o sem­
plicemente «medico»37, oppure il contesto lo fa esplicitamente appa­
rire come tale38. Sant’Atanasio d’Alessandria dice che sant’Antonio
«era veramente stimato come medico in Egitto»39. Sant’Ammona, più
in generale, dice dei Padri del deserto che «Dio li ha inviati in mezzo
agli uomini, perché posseggono tutte le virtù, affinché [...] guariscano
le loro malattie», e poi precisa: «perché essi furono medici delle ani­
me e poterono guarire le loro malattie»40. Abba Antonio ugualmente
afferma che: «Gli antichi padri sono andati nel deserto e sono stati
33 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, 1 ,18.
34 I d ., Lettera al Pastore, 93.
35 Cfr. Id., La Scala, I ,19.
36II parallelo è ampiamente sviluppato da san GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, II, 13-33.
37 È una costante nella Scala di GIOVANNI CLIMACO (I, 19; 33; 34; IV, 6; 13; 14; 68; 69; 77;
79; 103; 127; VIE, 35; XXIII, 1; XXVI, 11; 21), e maggiormente nella sua Lettera al Pastore (4;
13; 14; 21; 23; 26; 35; 48; 88). Vedi, oltre ai riferimenti dati sopra: GIOVANNI CASSIANO, Istitu­
zioni cenobitiche, XH, 20. CIPRIANO DI CARTAGINE, Su coloro che hanno fallito, 14. GREGORIO
NAZIANZENO, Discorsi, E, passim. B ar sa nim o , Lettere, 62; 269. Nel Typikon del monastero di
Prodromo troviamo questa formulazione caratteristica: «Voglio che vi siano dei padri spiritua­
li in monastero, affinché colui che ciascuno avrà scelto scopra le piaghe secondo la tradizione
dei santi canoni, per ricevere conformemente a ciascuna specie di ferita il soccorso adeguato da
parte dei medici spirituali [...]. [Difatti] è molto utile avere il medico presso di sé» {Le Typikon
du monastére du Prodrome, cap. 13, in Byzantion, 12,1937, p. 50).
38 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Nistero il Cenobita, 1. ClRILLO DI SCITOPOLI, Vita di Eu-
timio, XIX; Storia dei monaci d'Egitto, Giovanni di Licopoli, 64. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
IV, 131; XXVI, 20; Lettera al Pastore, 9; 14. Typikon di san Mammas, cap. 29 (citato da I. HAU-
SHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, p. 114); Typikon di Evergeti, cap. 17
(«Tu, padre spirituale, [...] riconduci i malati alla salute») {ibid., p. 142).
39 Vita di Antonio, 87. Macario dice di lui: «Ecco il mio medico e guaritore» {Virtù di san Ma­
cario, éd. Amélineau, p. 121). ,
40Lettere, XII, 2.
452
guariti; sono divenuti medici e, chinandosi sugli altri, li hanno guari­
ti»41. San Giovanni Crisostomo osserva che il monaco esperto «arri­
verà a guarire completamente» colui che va da lui42. San Giovanni Cli-
maco afferma che «le malattie riceveranno dalla provvidenza di Dio e
dai loro medici spirituali il rimedio efficace»45e ricorda «quelli che so­
no guariti dalle passioni dell’anima per mezzo delle cure dei medici»44.
Egli consiglia: «Metti a nudo la tua piaga davanti al medico»45, perché
egli constata che «senza l’aiuto di un medico, sono rari quelli che gua­
riscono»46. San Giovanni di Gaza consiglia a uno dei corrispondenti:
«Ricorri [ai santi] come qualcuno che non sta bene e che ha bisogno
del medico [...]. E sèrviti di essi, fino a che Dio ti conduca alla salute
perfetta»47. San Gregorio Nazianzeno parla dei sacerdoti che eserci­
tano l’ufficio di padri spirituali come di «coloro ai quali è stato affi­
dato l’esercizio della medicina»48, e dice inoltre: «Di questa medicina
[spirituale] noi siamo [noi sacerdoti] i servi e i collaboratori»49. Al­
cuni Padri spirituali presentano se stessi esplicitamente o implicita­
mente come medici50. Ne troviamo alcuni esempi antichi, precedenti
persino al cristianesimo: i membri della comunità di asceti di cui Fi­
lone d’Alessandria ci riferisce la vita chiamavano se stessi «terapeuti»,
gli uomini, e «terapeutridi», le donne: «L’opzione di questi filosofi»,
scrive Filone, «si nota subito dal nome che essi portano: terapeuti e
terapeutridi è il loro vero nome, prima di tutto perché la terapia che
essi professano è superiore a quella praticata nelle loro città: questa
cura solo il corpo, l’altra anche le anime in preda a queste malattie dif­
ficili da guarire, che [...] la moltitudine infinita delle [...] passioni e
delle altre miserie fanno abbattere appunto sulle anime»51. Ed essi si
dànno questo nome non solo perché cercano, per la vita che condu­
cono, di guarire se stessi dalle proprie malattie spirituali, ma anche,

41Apoftegmi, N 603.
42Apologia della vita monastica, II, 8.
43 La Scala, Vili, 35.
44 Ibid., 1,19.
45Ibid., IV, 68.
46Ibid., 11.
47Lettere, 457.
48Discorsi, II, 22.
49Ibid., 26.
50 Cfr. per esempio GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 78, in cui vediamo l’igumeno Gio­
vanni dire ad uno dei suoi visitatori: «Così come vi sono molte specie di peccati, vi sono anche
molti rimedi. Se tu vuoi essere guarito, dimmi in tutta verità ciò che hai fatto, affinché io vi por­
ti i rimedi appropriati».
51Sulla vita contemplativa, 2.
453
come osserva sant’Eusebio di Cesarea, «perché essi curano e guari­
scono le anime di quelli che si rivolgono a loro»52.
Curare e guidare spiritualmente altri uomini non è cosa facile. La
complessità dell’anima umana, la sua stessa natura, l’altezza del fine
da raggiungere, il carattere molto spesso nascosto e impercettibile al­
l’esterno delle realtà spirituali in causa, nonché la natura particolare
del combattimento da condurre contro avversari temibili e invisibili,
sono altrettante ragioni per le quali la medicina spirituale è un’arte ben
più difficile della medicina del corpo, come sottolinea san Gregorio
Nazianzeno: «In verità, mi sembra che quest’arte delle arti e scienza
delle scienze sia quella di condurre l’essere umano53, che è il più di­
verso e il più complesso degli esseri. Si può comprendere facilmente
se si stabilisce un parallelo tra la medicina delle anime e la terapia
dei corpi. Più ci si rende conto di quanto vi sia di laborioso in que-
st’ultima, più il raffronto fa apparire quanto la medicina che noi pra­
tichiamo richieda molto lavoro, e quanto più questa sia preziosa, a mo­
tivo della natura dell’oggetto cui fa riferimento, delle risorse della scien­
za che implica e del fine verso cui mira l’energia impiegata. Nel primo
caso, ci si preoccupa del corpo, cioè di una materia deperibile il cui
flusso corre via, materia chiamata in ogni modo a disfarsi e a subire la
sua condizione [...]. Nell’altra medicina, la sollecitudine è rivolta al­
l’anima che viene da Dio, che è divina54, che quindi partecipa della no­
biltà del cielo e si affretta a ritrovarla»55. «Aggiungiamo un altro mo­
tivo: quest’ultima medicina [del corpo] non pratica molto l’analisi del­
le profondità, la maggior parte della sua attività riguarda le apparenze,
mentre noi, impieghiamo tutte le nostre cure e tutto il nostro zelo nel­
la ricerca dell’uomo che è nascosto in fondo al cuore, e ci battiamo
contro un nemico che conduce contro di noi una lotta e una guerra
interiori»56. «Tali sono le ragioni che ci fanno ritenere che la medicina
52Storia ecclesiastica, II, 17, 3.
53 San Nilo, constatando nello stesso senso che, «di tutte le opere, la più malagevole è quel­
la di prendere cura delle anime», la chiama anche «l’arte delle arti» {Sulla pratica monastica, 21-
22, PG 79,748C-749B).
54Gregorio Nazianzeno con ciò non vuole dire che l’anima sia divina per natura, perché que­
sto è un concetto estraneo al cristianesimo. La precisazione che egli dà subito dopo permette
peraltro di situare questa asserzione nel contesto ortodosso: l’anima è, con l’insieme del com­
posto umano, chiamata ad essere deificata per grazia, a divenire divina per partecipazione. Ve­
di il commento di san Massimo il Confessore in Ambigua 7, contro gli origenisti che hanno
cercato di usare questa formula in favore della loro concezione eterodossa.
55Discorsi, E, 16-17.
56Ibid., 19.
454
che pratichiamo è più laboriosa, e di gran lunga, più di quella che si
esercita sui corpi: anche questo le conferisce un valore più grande»57.
La difficoltà del compito fa sì che siano molto rari58coloro che so­
no in grado di esercitarla, anche se molti se ne credono capaci, tanto
grandi sono i rischi di illusione al riguardo anche molto tempo dopo
che si è raggiunta l’impassibilità59. È per questo che necessariamente
si riscontrano in quest’ambito «molti ingannatori e falsi maestri»60.
Per essere guide e terapeuti spirituali autentici, è indispensabile ave­
re la conoscenza di «sane dottrine», cioè essere perfettamente orto­
dossi61, ed essere fedeli, nella pratica terapeutica, all’insegnamento de­
gli antichi Padri62. San Gregorio di Nissa scrive a questo riguardo: «Co­
me gli uomini hanno scoperto attraverso l’esperienza la medicina un
tempo ignorata e l’hanno vista rivelarsi progressivamente col favore di
alcune osservazioni, cosicché l’utile e il nocivo, riconosciuti dalla te­
stimonianza dell’esperienza, si sono introdotti così nella dottrina di
quest’arte, e le osservazioni dei predecessori sono servite da norma per
il futuro; come, adesso, colui che si applica a quest’arte non è obbli­
gato a giudicare con la propria esperienza l’efficacia dei medicamen­
ti, se siano perniciosi o benigni, ma, dopo aver ricevuto da altri le
sue conoscenze, ha egli stesso praticato la sua arte con successo; così
avviene per la guarigione delle anime, intendo dire la filosofia63, per
mezzo della quale noi apprendiamo la terapia di ogni passione che col­
pisce l’anima: non è affatto attraverso le congetture e le supposizioni
che bisogna cercare questa scienza, bensì attraverso una grande capa­
cità d’imparare, accanto a colui che ha acquisito questa disposizione
con una lunga e ricca esperienza»64.
Questo, tuttavia, non può bastare. È importante, inoltre, che il
padre spirituale non solo conduca una vita conforme ai suoi insegna-
menti65, ma che egli abbia anche esperienza. È per questo motivo
che san Simeone il Nuovo Teologo avverte: «Non affidarti a un mae­
57Ibid.
58 Cfr. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,6.
59 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Aritmetico, Cenodossia, 9.
60 Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 49.
61 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 97.
62 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 49. C allisto e
Ignazio X antopulo , Centuria, 14.
63 Sul significato cristiano che i Padri, ed in particolare i Padri cappadoci e Giovanni Criso­
stomo, danno al termine «filosofia», vedi A.-M. MALINGREY, «Philosophie», Étude d’un groupe
de mots dans la Littérature greque des Présocratiques au IV6 siècle après J.C., Paris 1961, pp. 207s.
64 Trattato sulla verginità, XXIII, 2.
65 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria,, 14.
455
stro inesperto [...], perché egli ti inizierà alla vita diabolica piuttosto
che a quella evangelica»66. San Giovanni Cassiano, a sua volta, offre
questo consiglio: «Se vogliamo arrivare a un’autentica perfezione nel­
la virtù, occorre che obbediamo a questi maestri e guide che, lungi dal
sognarla in vuote disquisizioni, ne hanno fatto realmente l’esperien­
za»67. Se veramente per il padre spirituale si tratta di aver appreso da­
gli Anziani, è la forma pratica che questo apprendimento deve avere
assunto: è la loro stessa esperienza che il padre spirituale deve aver ac­
quisito nel condurre una vita simile alla loro68. Occorre che, sotto la
loro guida, il padre spirituale abbia egli stesso percorso tutto il cam­
mino che egli ha il compito di aiutare i suoi figli spirituali a percorre­
re69. Occorre che egli stesso abbia eluso le trappole e superato gli osta­
coli che si presenteranno sul loro cammino, occorre che egli abbia subi­
to vittoriosamente tutte le prove attraverso le quali essi dovranno
passare70, perché, ad immagine del Cristo, «per il fatto che ha soffer­
to e che è stato provato» il padre spirituale «è capace di soccorrere
quelli che sono tentati» (cfr. £¿>2,18). Bisogna che egli abbia messo
ordine nella propria casa prima di pretendere di riordinare quella de­
gli altri, come suggerisce l’Apostolo: «Se uno non sa governare la pro­
pria famiglia come potrà aver cura della chiesa di Dio» (lTtn 3,5). È
necessario che abbia acquistato egli stesso tutte le virtù e le qualità che
i suoi figli spirituali devono acquistare71. In altri termini, occorre che
il medico spirituale sia stato egli stesso guarito e sia in buona salute af­
finché la sua terapia sia efficace72. «Se nella tua casa regnano il disor­
dine e l’indisciplina, la parola “Medico guarisci te stesso” sarà rivolta
contro di te da coloro che tu dirigi. Guariamo dunque noi stessi in pri­
mo luogo», scrive san Basilio73. Ciò è in linea con l’insegnamento stes­
so del Cristo che avverte: «Se un cieco fa da guida a un cieco, tutti e
due cadranno nella fossa» (Mt 15,14; cfr. Le 639), e che fa notare: «Co­
me puoi dire al tuo fratello: “Lascia che tolga dal tuo occhio la pa­
66 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,48.
67Istituzioni cenobitiche, XH, 5.
68 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Catechesi, XIV, 5-13.
69 Giovanni Climaco, in un passo troppo lungo per poter essere citato qui, paragona il per­
corso del padre spirituale a quello di Mosè che successivamente supera tutti gli ostacoli innal­
zati contro di lui, ed è per questo reso capace di guidare i suoi fratelli, come Mosè ha guidato
il popolo di Dio (cfr. Lettera al Pastore, 101).
70 Cfr. NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
71 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 17.
72 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Antitetico, Cenodossia, 9. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 6;
Lettera al Pastore, 15. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, II, 13.
73 Omelie sull’origine dell’uomo, 1,19. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VITE, 5.
456
gliuzza”, mentre la trave è là nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la
trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello» (Mt 7,4-5; Le 6,42). In questa prospetti­
va, san Nilo stigmatizza coloro che «si precipitano alla direzione spi­
rituale di altri e si assumono la cura di guarire gli altri, mentre non
hanno ancora guarito le proprie cattive inclinazioni, e non saprebbe­
ro dunque condurre nessuno a una vittoria che essi stessi non hanno
ancora riportato»74. Al contrario, osserva san Giovanni Climaco, co­
loro che, colpiti da ogni forma di malattia, si sono impegnati a gua­
rirne, «una volta tornati in salute, divengono medici [...] per tutti,
insegnando i sintomi di ciascuna malattia, poiché la loro esperienza
li rende capaci d’impedire agli altri di cadervi»75. Quanto a sant’An­
tonio, egli sottolinea che è dopo aver soggiornato nel deserto ed es­
sere stati guariti, che «gli antichi Padri sono divenuti medici e, dedi­
candosi agli altri, li hanno guariti»76. E sant’Ammona, ricordando che
questi Padri «furono medici delle anime e poterono guarire le loro ma­
lattie», constata che essi «non [vennero] inviati [agli uomini] se non
quando tutte le proprie malattie [furono] guarite», e che sarebbe
stato impossibile che Dio li avesse inviati se fossero stati ancora mala­
ti77. Possiamo, così, infine, dire con san Giovanni Climaco che «il me­
dico è colui che ha acquisito la salute [spirituale] dell’anima e del cor­
po e che non ha [più] bisogno di alcun rimedio»78. Se si pretende di
essere medico spirituale senza rispondere a questa definizione, non
si può che cadere in malattie ancora più gravi79. Sant’Isacco constata
che molti, pretendendo di curare gli altri, «hanno dato la morte a se
stessi [...]. Difatti, essendo la loro anima ancora soggetta alla malattia,
non si prendono cura della propria salute. Essi si sono gettati nel
mare di questo mondo per guarire le anime degli altri, mentre essi stes­
si erano ancora malati. Hanno perduto la loro anima lontani come so­
no dalla speranza in Dio. Difatti la malattia dei loro sensi non ha po­
tuto affrontare la fiamma delle cose che esasperano abitualmente la
piaga delle passioni, né resistervi»80. Per questo egli consiglia: «Se [...]
un uomo sente [...] che sta perdendo la propria salute nel guarire gli

74Sulla pratica monastica, 23, PG 79,749C-752A.


75 La Scala, XXVI, 11.
76Apo/tegmi, N 603.
77 Lettere, IV, 2.
78 Lettera al Pastore, 4.
79 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 25. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 58.
80Discorsi ascetici, 21.
457
altri, [...] un tale uomo si ricordi della parola dell’Apostolo che esor­
ta e dice: “Il cibo solido è dei perfetti” (Eh 5,14); torni egli indietro
per non ascoltare il Cristo che gli dice come nell’esempio: “Medico,
cura te stesso” (Le 4,23). Condanni se stesso, conservi la sua forza [...].
Difatti anch’egli è malato, e più dei malati ha bisogno di essere gua­
rito»81; «quando si accorgerà che la sua anima è sana, serva allora gli
altri, e li guarisca con la propria salute»82.
Il rischio di aggravare le proprie malattie, in cui incorre colui che
vuole guarire gli altri anziché guarire se stesso, significa che egli non è
ancora guarito, in particolare per quanto riguarda la funzione di gui­
da e terapeuta spirituale che tende inevitabilmente a far sorgere e
sviluppare queste due grandi e gravi passioni come la cenodossia83 e
l’orgoglio, essendo quest’ultima, lo abbiamo visto, una frequente cau­
sa di caduta per spirituali molto avanzati.
Colui che non è, egli stesso, in buona salute, rischia, d’altra parte,
di essere contaminato o almeno colpito dalle malattie degli altri. E per
questo che sant’Isacco il Siro ci insegna: «Il nutrimento solido [della
paternità spirituale] è per coloro che sono sani, per quelli che hanno
i sensi esercitati, e che possono mangiare di tutto. Voglio dire che es­
si possono sopportare le aggressioni che subiscono tutti i sensi, e che
il loro cuore non viene deteriorato da tutto ciò che incontrano nell’e­
sercizio della perfezione»84. E san Simeone il Nuovo Teologo consta­
ta che solo i santi possono rimanere liberi dalle passioni che trattano
e non essere affatto turbati da esse: «Il pensiero dei santi, pur se vie­
ne a chinarsi sul pantano delle passioni e delle vergogne umane, non
ne viene insudiciato, perché la loro intelligenza è libera ed estranea a
ogni cupidigia delle passioni. Se l’intelligenza decide, all’occorrenza,
d’intraprendere l’esame di tali stati, essa lo fa col solo scopo di osser­
vare e comprendere i movimenti disordinati delle passioni e dei loro
effetti, per sapere da dove derivano e quali ne siano, di conseguenza,
i rimedi che li neutralizzano come sentiamo dire che fanno i medici e
come abbiamo sentito dire dagli anziani: essi sezionavano i cadaveri
per comprendere la struttura del corpo, per rendersi conto così del­
l’organizzazione interna dei vivi e tentare in altri la cura di mali na­
scosti. Tale è, insomma, il metodo che pratica anche il medico spiri­

81Ibid., 56.
82Ibid.
83 EVAGRIO PONTICO sottolinea questo legame {Aritmetico, Cenodossia, 9).
84 Discorsi ascetici, 56.
458
tuale, che vuole guarire le passioni dell’anima, con l’aiuto che gli vie­
ne dall’esperienza»85.
Colui che vuole guarire gli altri, senza essere egli stesso perfetta­
mente guarito, rischia non solo di aggravare le proprie malattie, ma
anche di far contrarre a coloro che vuole curare «malattie ancora più
gravi»86. Difatti non sapendo per esperienza in cosa consista la salute
né, pertanto, qual è la vera natura delle malattie, non è in grado di por­
tarli alla guarigione e può dar loro solo consigli che li fa deviare; es­
sendo sottomesso alle passioni, non può avere la purezza che permet­
te di conoscere i cuori e di fare una diagnosi con conoscenza di cau­
sa, nonché di prescrivere il trattamento adatto al malato. San Gregorio
Nazianzeno fa notare a questo proposito: «Nei trattamenti che prati­
chiamo, un unico e stesso rimedio non è sempre e per tutti molto sa­
lutare o molto rischioso [...]. Questo dipende, mi sembra, dalle cir­
costanze, dagli avvenimenti e da ciò che permette il carattere dei pa­
zienti. Abbracciare tutti questi elementi con grande precisione per
arrivare a far entrare tale medicina in un trattato, è impossibile, quali
che siano le cure e l’intelligenza che vi si apporta: sono gli avvenimenti
e la stessa esperienza che li fanno conoscere alla medicina e al medi­
co»87. Ora, è importante che il medico sia sicuro e la sua esperienza
giusta, perché «in questo campo, se si propende in un senso o in un
altro per errore o per ignoranza, l’interessato e coloro che egli con­
duce corrono il rischio non indifferente di cadere nel peccato»88.
È, dunque, per molteplici e sostanziali motivi che la condizione
prima richiesta dall’esercizio della paternità spirituale è il possesso
della salute spirituale. Questo vuol dire che, come risulta dalle con­
siderazioni precedenti e come vedremo ulteriormente, il padre spi­
rituale, per essere in grado di esercitare correttamente il suo compi­
to di guida e di terapeuta, dev’essere puro da ogni passione89. San
Giovanni Climaco, per esempio, scrive: «Il medico dev’essere com­
pletamente spogliato dalle passioni»90. Ed esclama: «Beati i medici

85 Trattati etici, VI, 258s.


86N ilo L’A sceta, Sulla pratica monastica, 20-21, PG 79,748C-749B.
87Discorsi, E, 33.
88Ibid., 4.
89 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 6; Lettera al Pastore, 9; 49; 57; 97. GREGORIO N a-
ZIANZENO, Discorsi, II, 78. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, I,
48; 49.
90Lettera al Pastore, 21.
459
che non sono soggetti alle nausee e i superiori che possiedono l’im­
passibilità»91.
È l’impassibilità che permette al padre spirituale di essere illumi­
nato da Dio nella sua funzione, di ricevere la luce dallo Spirito senza
l’aiuto del quale non potrebbe essere un terapeuta efficace e una
guida autentica, ma «un cieco che guida un altro cieco»92. «Colui
che non ha in sé la luce dello Spirito Santo», spiega san Simeone il
Nuovo Teologo, è come colui che cammina nell’oscurità con una lam­
pada spenta. Egli «non può vedere bene le proprie azioni, né avere
la sicurezza che queste siano conformi al volere di Dio. Quanto a gui­
dare gli altri, o a indicare loro la volontà di Dio, prima di tutto non ne
è capace, non di più di quanto sia degno di ricevere i pensieri di altri
[...] fino a quando non possieda, in maniera splendente, la luce [...].
“Chi cammina nelle tenebre non sa dove va” (Gv 12,35). Se dunque
quest’uomo non sa dove va, come mostrerà il cammino agli altri?»93.
L’illuminazione dello Spirito Santo conferisce al padre spirituale un
potere che è particolarmente necessario per il suo ruolo: quello della
cardiognosia. Questo carisma spirituale gli permette di leggere nei cuo­
ri, di conoscere direttamente e nella sua intimità «l’uomo interiore»,
e di superare così il piano delle apparenze spesso ingannevoli, fino a
percepire nel suo figlio spirituale ciò che questi ignora, le sue malat­
tie inconsce, le sue tendenze e i suoi «pensieri» segreti. «Colui che è
perfettamente purificato vede l’anima del suo prossimo, non in se stes­
sa, ma nelle disposizioni in cui essa si trova», nota san Giovanni Cli-
maco94. E san Simeone il Nuovo Teologo osserva: «Colui che vede in
modo spirituale e sente allo stesso modo, quando scorge qualcuno, lo
incontra e l’intrattiene frequentemente, vede la sua anima, se non quan­
to alla sua essenza, per lo meno quanto al suo stato; vede altresì qua­
li sono le sue qualità e disposizioni. Se dunque egli è stato ritenuto de­
gno di entrare in comunione con lo Spirito Santo, è nella visione stes­
sa dello Spirito che trova questa conoscenza»95. Tale conoscenza ca­
rismatica non serve affatto al padre spirituale per giudicare e a fortio-
ri per condannare il suo figlio spirituale (la sua impassibilità lo pre­
munisce contro questo); essa gli consente solo di emettere una dia­
gnosi più corretta sul suo stato e per determinare così il trattamento
91 Ibid., 15.
92 Cfr. Afe 15,14. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 50.
93 Catechesi, XXXIII, 31s. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, Lettera al Pastore, 5.
94 La Scala, XXVI, 79. Cfr. 64.
95 Catechesi, XXVm, 348s.
460
che meglio conviene. Il padre spirituale, come afferma sant’Ireneo,
«manifesta i segreti degli uomini esclusivamente per il loro profitto»96.
Tuttavia, il discernimento non è l’unica qualità che deve avere il pa­
dre spirituale. Se, giunto all’impassibilità, egli possiede tutte le virtù
(essendo questo stato, come vedremo, correlativo a quella qualità), ne
consegue che proprio queste lo caratterizzano più particolarmente nel
suo ruolo.
Occorre citare, in primo luogo, l’umiltà, che è condizione e segno
della paternità spirituale autentica97. Tale umiltà si traduce particolar­
mente nel sentimento che il padre spirituale ha di essere egli stesso
peccatore, e di esserlo altrettanto quanto colui che cura e guida98, il
che lo porta, di conseguenza, a provare una pena equivalente a quel­
la che quest’ultimo prova. Per questo san Giovanni Crisostomo os­
serva: «Negli interventi sul corpo, colui che taglia sul vivo non sente
il dolore dell’operazione; l’infelice che viene operato è l’unico ad es­
sere lacerato da acuti dolori. Lo stesso non avviene per il trattamen­
to delle anime [...]: colui che parla è il primo a provare pena, quan­
do deve riprendere gli altri»99.
All’umiltà nel padre spirituale è strettamente legata, lo vediamo, la
compassione che prova riguardo a coloro che egli cura100. Questa è ac­
compagnata da una totale abnegazione che porta il padre spirituale a
«dimenticare completamente la sua persona a vantaggio di ciò che è uti­
le agli altri»101, a «dare la sua anima per l’anima del prossimo»102. Tale
compassione lo fa sentire responsabile di coloro che si affidano a lui per
essere curati103, lo conduce a portare il loro fardello104secondo il con­
siglio dell’Apostolo (cfr. Gal 6,2) e ad assumere le loro malattie105, a so­
miglianza del Cristo che ha assunto su di sé le malattie degli uomini.
96 Contro le eresie, V, 6,1.
97Cfr. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,6. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 15. CAL­
LISTO e I gnazio X antopulo , Centuria, 14.
98 Cfr. GIOVANNI C limaco , Lettera al Pastore, 29. Possiamo constatare, leggendo gli apof­
tegmi, che i Padri introducono frequentemente la risposta che essi danno a coloro che sono
venuti per consultarli con la formula: «Perdonami...».
99 Omelia: Quanto è pericoloso parlare per piacere..., 1.
100Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 315. D oroteo di G aza, Istruzioni spirituali, VI, 76. G io ­
vanni CASSIANO, Conferenze, II, 13. GIOVANNI CRISOSTOMO, loc. cit.
101 G regorio N azianzeno , Discorsi, E , 54.
102G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 51.
103 Sulla responsabilità del padre spirituale, vedi per esempio: GIOVANNI CLIMACO, La Sca­
la, IV, 55; Lettera al Pastore, 56; 57; 60.
104Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 60.
105 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 58. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia: Quanto è peri­
coloso parlare per piacere..., 1.
461
La compassione è una delle manifestazioni della carità che anima il
vero padre spirituale106. Tale compassione si traduce anche in una di­
sponibilità di ogni momento107, in una grande pazienza, in profonda
dolcezza108e indulgenza. I santi, fa notare san Doroteo di Gaza, «non
odiano il peccatore, non lo giudicano, non lo sfuggono. Al contrario,
10 compatiscono, lo esortano, lo consolano, lo curano come un mem­
bro malato; fanno di tutto per salvarlo»109. Del resto, questo atteggia­
mento è la condizione per una terapia efficace, come sottolinea sant’I-
sacco il Siro: «Se tu desideri guarire i malati, sappi che gli uomini col­
piti dalla malattia hanno bisogno più di essere curati che castigati [...].
11principio della sapienza di Dio sono l’indulgenza e la dolcezza, virtù
proprie di una grande anima che fa sue le malattie degli altri. Sta scrit­
to infatti: “Voi che siete forti, portate le fragilità dei deboli” (cfr. Rm
15,1), e ancora: “Correggete con spirito di mitezza” {Gal 6,1) colui che
ha sbagliato»110. San Simeone il Nuovo Teologo, pur ricordando le stes­
se virtù, insiste sulle qualità della comprensione e dell’accoglienza che
il vero padre spirituale deve possedere: «Un malato va a trovare il me­
dico spirituale [...]. Il medico umano compatisce ed esamina questo
malato; comprende la debolezza del fratello, l’infiammazione del
male, il gonfiore; vede che il malato è in potere della morte [...]. Quan­
do il medico spirituale vede suo fratello nelle condizioni sopra de­
scritte, non si mette subito a gridare né si sottrae affatto dicendo: “Ciò
che tu chiedi è cattivo e mortale e io rifiuto di darti questo soccorso”,
affinché non avvenga che, sentendo ciò, il malato fugga e vada pres­
so un altro medico senza esperienza di questi mali: ne morirebbe su­
bito. Al contrario, lo intrattiene, lo conforta, si mostra pieno sia di ca­
rità che di semplicità [...]»1U.
Lungi dal selezionare i figli spirituali, il padre spirituale deve ac­
cogliere senza discriminazioni tutti coloro che si rivolgono a lui ed eser­
citare particolare sollecitudine, secondo l’esempio del Cristo, verso i
più malati, cioè verso coloro che hanno più bisogno del medico (cfr.
Mt 9,12)m. San Giovanni Climaco consiglia: «Nulla dimostra l’amo­

106 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 28.


107Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Giovanni Colobos, 19. BARSANUFIO, Lettere, 484.
108 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 14.
109Istruzioni spirituali, VI, 76.
110 Discorsi ascetici, 58. Sull’efficacia terapeutica della pazienza, vedi Apoftegmi, serie alfa­
betica, Isidoro, 1.
111 Trattati etici, VI, 279s.
112 Cfr. IGNAZIO DjA n tio ch ia , Lettera a Policarpo, n, 1.
462
re degli uomini e la bontà verso di noi del nostro Creatore meglio
del fatto di aver lasciato le novantanove pecore per cercare quella che
si era smarrita (cfr. Le 15,4). Sii dunque attento, venerato padre, ed
esercita tutto il tuo zelo, tutta la carità, tutto il fervore, tutte le cure,
tutte le suppliche davanti a Dio, a favore di colui che è completamente
smarrito e lacerato dentro. Difatti quando le malattie e le ferite sono
gravi, proprio in quel momento, senza alcun dubbio, sono concesse
grandi ricompense»113. Il valore del terapeuta e della guida spirituale
si riconoscono, peraltro, dalla capacità di riportare alla salute i più ma­
lati e alla perfezione i meno dotati, come fa notare san Giovanni Cli-
maco114. Questi aggiunge che «il medico saprà che Dio gli ha dato la
saggezza, quando potrà guarire malattie incurabili da molti altri»115.
Colui che vuole ottenere la salute e la perfezione spirituali deve cer­
care un terapeuta e una guida che possieda tutte queste qualità, ben
sapendo che tali uomini sono rari e che ogni generazione ne ha con­
tati pochissimi. San Giovanni Climaco consiglia, a più riprese, di far
bene attenzione alla scelta del padre spirituale. Occorre, prima di im­
pegnarsi, egli dice, esaminare, scrutare, per evitare di cadere «su un
malato invece che su un medico, su di un uomo soggetto alle passio­
ni invece che su di un uomo impassibile»116. In ogni caso, «l’abilità del
medico dev’essere proporzionata alla corruzione delle nostre piaghe»117.
E «quando un medico ci confessa la sua impotenza, è necessario tro­
varne un altro»118. Il criterio del valore del medico sta, in ogni caso,
nell’efficacia del trattamento che egli prescrive e specificamente nei ri­
sultati che egli ottiene curando l’orgoglio, vero cancro dell’anima: «Se
ti capita di trovare un ospedale e un medico sconosciuti, comportati
come un semplice passante, e sonda segretamente tutti quelli che vi si
trovano. E quando comincerai a sentire qualche beneficio per le tue
malattie dalle cure ricevute da questi uomini dell’arte e da questi in­
fermieri, e soprattutto, se essi ti procurano il rimedio che cercavi con­
tro l’esaltazione dello spirito, allora va’ avanti, acquistalo con l’oro del­
l’umiltà e firma il contratto sulla pergamena dell’obbedienza»119.

113 Lettera al Pastore, 79.


114 Cfr. G iovan ni C lim aco, Lettera al Pastore, 24.
115Ibid., 23.
116La Scala, IV, 6.
117 Ibid., 1,19.
118Ibid., IV, 77.
119Ibid., IV, 103.
463
Avendo presentato i requisiti che deve avere il padre spirituale, oc­
corre ora mostrare come si esplica la sua azione terapeutica.
Innanzitutto, è per mezzo della parola che il medico spirituale cu­
ra i suoi figli, perché come dice l’autore ispirato dei Proverbi: «La lin­
gua dei saggi guarisce» (Pro 12,18). Anche gli Apoftegmi d mostrano,
in effetti, che la maggior parte dei visitatori dei Padri del deserto si ri­
volgono ad essi in questi termini: «Padre, dicci una parola di salvez­
za». Essi con questo non chiedono consigli teorici, ma un vero sollie­
vo per le loro anime. E il potere terapeutico della parola dei Padri si
manifesta spesso immediatamente, come appare nelle Vite dei santi e
in parecchi Apoftegmi, ove leggiamo di visitatori che vanno dagli
Anziani in condizioni di tristezza, di abbattimento o d’inquietudine
e ne ritornano pieni di pace e di gioia (cfr. Pro 12,25)120. Evagrio, nel
riferire di una visita fatta in compagnia di altri fratelli a san Macario,
ricorda «le parole piene di vita e di guarigione per le [loro] anime che
aveva detto [loro] il grande Abba»121.
Con le sue parole il padre spirituale incoraggia122suo figlio, «lo esor­
ta, lo consola, lo cura come un membro malato»123. Se gli dà un inse­
gnamento, questo non ha un carattere astratto e speculativo, ma con­
creto ed efficace. San Giovanni Cassiano sottolinea il potere tera­
peutico124, ma anche profilattico di tale insegnamento: «Come i medici
più esperti non si accontentano generalmente di guarire le malattie
presenti ma, nella loro saggia esperienza, vanno alle malattie future e
le prevengono con prescrizioni e rimedi salutari, così questi autentici
medici delle anime, distruggendo in anticipo, nella conferenza spiri­
tuale, come con un celeste antidoto, le malattie del cuore prima che
queste compaiano; impedendo che esse si sviluppino nello spirito
dei giovani, svelano loro le cause delle passioni che li minacciano e i
rimedi che restituiscono la salute»125.
Il padre spirituale non cura solo con le parole. Manifestando ver­
so i suoi figli una preoccupazione incessante, prega per loro126, affin­
ché agisca su di essi la grazia terapeutica di Dio. «Padre, prega per
me»: è la formula con cui, molto frequentemente, il figlio spirituale in­
120 Vedi per esempio ATANASIO D’A lesSANDFIA, Vita di Antonio, 87.
121Apoftegmi, Am. 222,5.
122 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XIII,146. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Vita di
Antonio, 15.
123 DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, VI, 76.
124 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 81.
125Istituzioni cenobitiche, XI, 2.
126 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 65.

464
troduce o conclude i suoi discorsi con il suo padre. Del resto ciò è
quanto consiglia san Giovanni di Gaza: «È opportuno sollecitare la
preghiera dei nostri padri. Infatti sta scritto: “Pregate gli uni per gli al­
tri” (Gc5,16), e anche: “Le persone sane non hanno bisogno del me­
dico; sono i malati invece ad averne bisogno” (Le5,31) [...]. Per chie­
dere la preghiera, di’ questo: “Abba, sto male, ti supplico, prega per
me perché tu sai che ho bisogno della misericordia di Dio”»127. Una
delle ragioni di questa richiesta è che «la preghiera del giusto» che è
il padre spirituale, «è molto potente» (Gc 5,16), la sua santità gli
consente di ottenere da Dio ciò che il suo figlio non è ancora degno
di ottenere. Ciò non dispensa quest’ultimo dal pregare egli stesso128;
egli sa che la sua richiesta sarà più efficace se chiede a Dio di esaudirlo
«per le preghiere del suo padre». In seguito potrà dire come questo
fratello: «Per le sue preghiere Dio mi ha reso la salute»129.
Il padre spirituale agisce anche con l’esempio che dà. Conforman­
dosi perfettamente alla volontà di Dio, mostra ai suoi figli attraverso
ogni sua azione e ciascun atteggiamento e i modi d’essere come ci si
deve conformare. Come nota san Giovanni Climaco: «Tutti guardano
a lui come a un’immagine esemplare e considerano le sue parole e le
sue azioni come una regola e una norma»130. San Paolo stesso men­
ziona il valore di questa esemplarità quando raccomanda: «Ricorda­
tevi dei vostri capi, i quali vi hanno predicato la parola di Dio e, con­
templando l’esito della loro maniera di vivere, imitatene la fede» (Eb
13,7). Anche questo è anche sottolineato dai Padri131.
Occorre notare che l’esempio che il padre spirituale offre con le sue
parole, le sue azioni e il suo atteggiamento, possiede un’efficacia tale
da trasformare coloro che entrano in contatto con lui. Il vero padre
spirituale possiede una forza carismatica132che si manifesta con la sem­
plice presenza133, e di cui san Giovanni Climaco sottolinea il potere te­
rapeutico134.
Questa forza carismatica che si sprigiona dal padre spirituale è la
manifestazione della grazia divina che abita in lui. Come ricordano
127Lettere, 544.
128Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 16.
129Apoftegmi, N 509-510.
130Lettera al Pastore, 27.
131 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Isacco delle Celle, 2; Arm. II318, (83) B. Si troveranno
delle osservazioni che vanno in questo senso in molti altri Apoftegmi e nelle Vite dei santi.
132Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 93.
133 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 27.
134Lettera al Pastore, 13.
465
spesso i Padri, l’Anziano parla e agisce secondo Dio; le sue parole e le
sue azioni sono ispirate dallo Spirito Santo: Dio parla per mezzo del­
la sua bocca e agisce attraverso di lui135.
Questa forza carismatica dà al Padre un potere di azione eccezio­
nale per venire in aiuto ai suoi figli in difficoltà nel cammino spiri­
tuale136. È questa che gli consente «di guarire dalle malattie incurabi­
li da molti altri»137. Occorre notare che spesso, e per umiltà, è «senza
che essi lo sentano e in segreto» che il padre spirituale «può dare
sollievo a coloro che soffrono»138.
Tuttavia, il padre spirituale non impone questa forza che egli pos­
siede per dono di Dio. La sua azione non si esercita senza che il fi­
glio spirituale, liberamente, la lasci agire in lui. Non solo essa non esclu­
de, ma implica la sua collaborazione. Questo perché l’azione tera­
peutica del padre spirituale si esercita prima di tutto attraverso un
trattamento che egli prescrive a suo figlio, e che questi ha il compito
di applicare, e che sarà tanto più efficace quanto più egli avrà cura di
metterlo in pratica.
Ciò che caratterizza sempre il trattamento prescritto dal padre spi­
rituale, è che esso è perfettamente adattato alla personalità del mala­
to, alla sua situazione particolare, al suo stato e alle sue disposizioni at­
tuali139. Il padre spirituale, osserva san Giovanni Climaco, «deve osser­
vare e adattare i rimedi in modo appropriato»140. «Nel trattamento
dei corpi, anche san Gregorio di Nissa lo afferma, lo scopo unico del­
la medicina è quello di guarire il malato. Tuttavia, vi sono diversi generi
di trattamenti corrispondenti alle diverse malattie. Così, essendo le ma­
lattie dell’anima anch’esse molto diverse, il modo di curarle dovrà es­
sere appropriato affinché il rimedio agisca secondo la ragione del ma­
le»141. E san Giovanni Crisostomo precisa: «Per la guarigione dell’ani­
ma come per quella del corpo, non è sufficiente applicare il rimedio
appropriato al male, occorre anche applicarlo a tempo opportuno»142.

135Cfr. Apoftegmi, Am. 200,5. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 364; 369; 383. SIMEONE IL Nuo-
VO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,61.
136Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 3.
137lbidn 23.
m Ibid.,5 4.
139Cfr. IGNAZIO d’ANTIOCHIA, Lettera a Policarpo, II, 1. Apoftegmi, serie alfabetica, G iu­
seppe di Panefo, 3; Poemen, 22. Ibid., Arm. II, 114 (40) A. GIOVANNI CLIMACO, Lettera al Pa­
store, 16; 33; 55; 94. GIOVANNI MOSCO, Il prato spirituale, 78.
140Lettera al Pastore, 36.
141 Citato da P. LAIN ENTRALGO, Maladie et culpabilité, Paris 1970, p. 87.
142 Trattato sulla verginità, 17.
466
Ecco perché, come consiglia san Gregorio Nazianzeno, «il medico os­
serverà i luoghi, le circostanze, le età, i momenti, e altre cose di que­
sto genere»143. Infatti, egli spiega, «nei trattamenti che noi pratichiamo,
un unico e medesimo rimedio non è sempre e per gli stessi molto sa­
lutare o molto azzardato [...]. Al contrario, tale regime è buono per
gli uni ed è loro utile, mentre il regime opposto ha lo stesso effetto su­
gli altri. Gò dipende, mi sembra, dalle circostanze, dagli avvéniménti e
da ciò che dipende dal carattere dei pazienti. Abbracciare tutti questi
elementi con la maggiore esattezza per far entrare questa medicina in
un trattato, è impossibile, quali che siano le cure e l’intelligenza che vi
si apporta: saranno gli avvenimenti e l’esperienza stessa che li faranno
conoscere alla medicina e al medico»144. «Come, osserva ancora, non si
dànno al corpo gli stessi rimedi e gli stessi alimenti, ciascuno infatti ri­
ceve il trattamento proprio secondo che sia in buona salute o soffra di
una malattia, così anche le anime sono curate secondo principi e me­
todi differenti. La testimonianza dell’efficacia del trattamento è data
dagli stessi pazienti. La parola spinge alcuni, l’esempio regola altri. Il
pungolo è necessario a questi, il morso a quelli. Gli uni sono lenti e dif­
ficilmente si lasciano spingere al bene: occorre invece che la scossa del­
la parola svegli altri»145. «Ad alcuni è utile un elogio, ad altri il biasimo,
se lo si usa a proposito; ma dati in controtempo e in controsenso, tut­
ti e due sono nocivi. Gli uni sono rimessi sul giusto cammino per un in­
coraggiamento, gli altri attraverso una correzione»146. San Giovanni Cli-
maco constata: «Talvolta, ciò che è rimedio per uno è veleno per l’al­
tro; e, qualche volta, ciò che si amministra a una stessa persona le serve
di rimedio se cade al momento opportuno, ma dato in controtempo di­
viene veleno»147. A tal proposito dà questo esempio: «Ho visto un
medico inesperto che, nell’umiliare un malato già profondamente ab­
battuto, lo gettò nella disperazione. Ed ho visto un medico esperto ope­
rare un cuore orgoglioso con il coltello dell’umiliazione, e vuotarlo
così da ogni sua infezione»148. Altrove, egli consiglia: «Dobbiamo tener
conto dei luoghi, del genere di conversione e delle abitudini» dei ma­
lati; «perché essi sono estremamente diversi e vari. Spesso, il più debole
si trova ad essere anche il più umile di cuore: egli deve dunque subire
143Discorsi, II, 18.
144Ibid., 33.
145Ibid., 30.
146Ibid., 31.
147La Scala, XXVI, 20.
148Ibid., 21.
467
un trattamento più dolce da parte dei medici spirituali. L’inverso è evi­
dente»149.
Proprio perché egli è illuminato dall’esperienza personale, ma an­
che perché è dotato di discernimento ed è illuminato dallo Spirito San­
to, il medico spirituale è in grado di determinare il rimedio adegua­
to150. Per queste ragioni, non sempre il rimedio corrisponde a quello
che il malato si aspettava.
In un certo numero di casi, «in cui il male è grave», «è necessario
un trattamento energico»151, che il medico spirituale deve applicare
con fermezza contro le reticenze del malato. Ciò è quanto nota per
esempio san Gpriano: «Il sacerdote del Signore deve impiegare dei ri­
medi curativi. E un cattivo medico colui che tratta con dolcezza gli
ascessi tumefatti e che lascia proliferare il veleno nelle parti interne del
corpo. La ferita dev’essere aperta e incisa e, dopo l’asportazione del­
le parti incancrenite, deve intervenire una cura energica, anche se il
malato protesta, grida e si lamenta perché non può sopportare il do­
lore; in seguito, ringrazierà il medico quando si sentirà in buona sa­
lute»152. San Giovanni Climaco non esita a consigliare al medico spi­
rituale: «Tormenta il malato per un certo tempo affinché la sua ma­
lattia non divenga cronica o egli ne muoia»153. Quanto a san Simeone
il Nuovo Teologo, nel caso in cui il malato rischiasse di impuntarsi con­
tro un trattamento che sarebbe contrario alla sua attesa, benché real­
mente adatto, e cercasse invece ciò che va contro il suo proprio inte­
resse, egli consiglia il terapeuta di usare uno stratagemma: «Un ma­
lato va a trovare il medico spirituale; inebetito dalla sofferenza, con lo
spirito turbato, piuttosto che una medicina, egli cerca ciò che gli fa
male, cioè ciò che aggrava il male e porta alla morte a breve termine
[...]. Quando il medico spirituale vede il fratello nello stato descritto,
non grida subito, non si sottrae affatto dicendo dentro di sé: “Ciò che
tu chiedi è cattivo e mortale e io rifiuto di darti l’aiuto necessario” [...].
Al contrario, lo trattiene, lo conforta, si mostra altresì pieno di carità
e di semplicità, per assicurarlo che è con i rimedi richiesti che egli lo
curerà esaudendo i suoi desideri. Vi sono dei malati gravemente col­
piti nella loro anima i quali, pur subendo questi duri attacchi, cerca­
no ciò che aggrava la malattia. E il male di ciascuno, forse, è che,
149Lettera al Pastore, 48.
150 Cfr. I sidoro di P elusio , Lettere, IV, 145. G iovanni di G aza , Lettere, 363.
151 G iovanni C limaco , La Scala, 1 ,34.
152Su coloro che hanno fallito, 14.
153Lettera al Pastore, 30.
468
laddove la dieta e l’astinenza da ciò che piace sarebbero necessari, si
cerca piuttosto di soddisfarsi con cibi nocivi e d’ingozzarsi in abbon­
danza. È per questo, come ho appena detto, che il medico esperto non
acconsente subito alle richieste del paziente, ma promette di soddi­
sfare tutte le sue esigenze; il malato, persuaso che va bene, persegue
l’oggetto dei suoi desideri, mentre il medico dissimula i medicamenti;
l’uno attende e pazienta tutto gioioso, l’altro, abile, davanti a lui mo­
stra ciò che somiglia del tutto a quello che egli cerca, ma che, in fon­
do, è del tutto diverso per gusto e di un’efficacia insospettata. Appe­
na il malato accetta i rimedi, il solo contatto, contro ogni speranza, già
gli fa effetto; allo stesso tempo il gonfiore diminuisce subito, la ferita
scompare completamente e, ormai non sopporta nemmeno di pensa­
re a ciò che prima infiammava la bramosia. Occorre vedere e ammi­
rare questo miracolo assolutamente inspiegabile, così come è avvenu­
to; senza altri contatti se non quello del soccorso e della vista dei
preparativi medici, [il medico] fa che la salute tomi ai malati, che i gon­
fiori e le ferite si riducano, che il bruciore della sete si spenga; divo­
rati, prima, dal desiderio di nutrimenti malsani e nocivi, i malati, al
contrario, ora desiderano quelli che sono proficui ed ecco che rac­
contano a tutti i miracoli del medico e i procedimenti mirabolanti del­
la sua arte»154.
Questi ultimi casi riguardano soprattutto precisi interventi medici
e non devono farci dimenticare che il trattamento spirituale nel suo
insieme esige, come abbiamo già detto, una collaborazione attiva e per­
manente del malato. Questa suppone che nei riguardi del suo padre
spirituale egli abbia le disposizioni consone155. Dopo averlo scelto con
cura, dev’essergli fedele. «Sono meritevoli del più grande castigo da
parte di Dio quei malati che, dopo aver fatto l’esperienza di un me­
dico e tratto profitto dalle sue cure, l’abbandonano per preferirgli
un altro prima della loro completa guarigione», scrive san Giovanni
Climaco156. Questa fedeltà è la condizione necessaria per una conti­
nuità nella terapia, senza la quale questa non potrebbe essere efficace,
perché il trattamento che permette di acquisire la salute spirituale è
sempre lungo e può subire delle interruzioni.
Avendo precisato ciò, l’obbedienza appare come il primo dovere
154 Trattati etici, VI, 279ss.
155 Cfr. G iovanni C limaco , Lettera al Pastore, 39.
156La Scala, IV, 79. Cfr. 103.
469
del figlio spirituale riguardo al suo padre. L’Apostolo ci invita: «La­
sciatevi persuadere dai vostri capi e siate sottomessi» (Eh 13,17). L’ob­
bedienza spesso è presentata dai Padri come una via che dà accesso
diretto alla guarigione spirituale e alla salvezza157, e che conduce si­
curamente agli stadi più avanzati della vita spirituale158, via che lo stes­
so Cristo ha indicato nel farsi obbediente a suo Padre fino alla morte
di croce (cfr. Fil 2,8)159. San Giovanni Climaco parla di «rimedio del­
l’obbedienza»160. L’obbedienza al padre spirituale aiuta l’uomo a ri­
nunciare in particolare alla propria volontà161, che è una delle fonti
principali delle sue malattie, essendo il principio dell’orgoglio. Essa lo
aiuta, pertanto, ad acquistare l’umiltà162, che è, come vedremo, una
delle virtù fondamentali più importanti, la porta principale della gra­
zia divina. Grazie ad essa, egli può giungere rapidamente alla noncu­
ranza spirituale {amerimnia)m, che è un’assenza totale d’inquietudine
rispetto alle cose del mondo, quindi una forma di distacco da questo
a favore dell’attaccamento a Dio, ma anche uno stato di pace interio­
re che corrisponde aWhesychia nel suo senso più elevato164.
L’obbedienza, occorre precisarlo, dev’essere totale; essa esclude che
si contraddica165 e anche che si giudichi il padre spirituale in qualsia­
si cosa166. Implica che ci si affidi a lui in tutto167. Ciò significa che ci si
deve sottomettere al suo giudizio e alla sua volontà fin nelle azioni in
apparenza più insignificanti, ma la cui somma costituisce l’esistenza
umana e che sono di grande importanza per la giusta relazione del­
l’uomo con Dio e per il suo progresso spirituale. «Nella misura del
possibile, occorre che il monaco confidi agli anziani il numero di pas­
si che fa e il numero di gocce d’acqua che beve nella sua cella, per

157Cfr. DOROTEO DI G aza, Lettere, n, 187. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 14; 15.
158C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
155Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,62. C allisto e
I gnazio X antopulo , Centuria, 14.
160 La Scala, XXVI, 22.
161 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 15.
162 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, IV, 115. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria,
15. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,61.
165 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), LUI, 8.
164 Cfr. C allisto e Ignazio X antopulo , Centuria, 14; 15.
165 Cfr. SlMEONE IL N uovo T eo logo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,55; Catechesi,
XX , 45s. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
166Cfr. D oroteo di G aza , Lettere, II, 187. M acakio d ’E gitto , Omelie (Coll. II), IH, 8. G io ­
vanni C limaco , La Scala, IV, 8. S im eone il N uo v o T eo lo g o , Capitoli teologici, gnostici e
pratici, 1 ,24; 25. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 14.
167 Cfr. Apoftegmi, 1090/4. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, V, 68; Lettere, II, 187.
M acario d ’Egitto, Omelie (Coll. II), L m , 8.
470
sapere se in ciò non s’inganni», arriva a dire sant’Antonio l’Eremita168.
A fortiori, il figlio spirituale deve confidare al suo padre ogni suo pen­
siero, non deve nascondergli nulla della sua vita interiore, ma rimet­
terla nelle sue mani169, poiché la manifestazione dei pensieri nell’am­
bito della terapia e della direzione spirituale, lo vedremo, riveste un’im­
portanza fondamentale. Qui ci basterà citare la seguente osservazione
di san Giovanni Climaco: «Il medico non può guarire il paziente se
questi non è venuto, prima di tutto, a consultarlo e non gli ha mostrato
le ferite con totale fiducia»170.
Come indicato da questa osservazione, l’obbedienza al padre spiri­
tuale non è sottomissione a un’autorità che si impone. Essa è piutto­
sto fondata sulla fede171, sulla fiducia172e soprattutto sull’amore173. Il
rispetto totale della libertà dei figli spirituali, del resto, costituisce una
qualità dei veri padri, i quali propongono più che imporre, raccoman­
dano più che comandare, applicando il consiglio dell’apostolo Pietro:
«Pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato, sorvegliandolo non
per costrizione, ma di cuore secondo Dio; [...] non come se foste voi
i padroni nella porzione degli eletti, ma facendovi modelli del gregge»
(lPt 5,2), e progressivamente sapendo scomparire davanti ai loro figli
man mano che essi s’incamminano per arrivare alla statura di uomo
adulto in Cristo, applicando nei riguardi di ciascuno l’esempio di
san Giovanni Battista: «Egli deve crescere, io invece diminuire» (Gv
3,30).

168 Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 38. Cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Inni, IV, 25s.
169Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, loc. cit. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 15.
170 Lettera al Pastore, 39.
171 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , Centuria, 15.
172Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 180. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 7.
173 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, Lettera al Pastore, 19. Si troveranno numerosi altri riferimenti
e citazioni in I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, pp. 201s.
471
IV
LA MANIFESTAZIONE DEI PENSIERI

Nel quadro della relazione tra figlio e padre spirituale, nonché del­
la terapia spirituale alla quale essa dà luogo, la manifestazione dei pen­
sieri (exagóreusis tòn logismón) gioca un ruolo fondamentale.
Questa pratica si presta ad essere accostata alla confessione. Essa se
ne distingue, però, notevolmente. Mentre la confessione è un sacra­
mento, la manifestazione dei pensieri non lo è. Essa, dunque, non vie­
ne rivolta necessariamente a un sacerdote, ma a un padre spirituale
che può essere un sacerdote, ma anche un semplice monaco, di cui so­
lo le qualifiche spirituali autorizzano la funzione. E se spesso è la stes­
sa persona, che si ha per padre spirituale ed è anche sacerdote, alla
quale si manifestano i propri pensieri e ci si confessa, talvolta è a due
diverse persone che si ricorre per queste due pratiche ben distinte.
Mentre la confessione consiste nel confessare i propri peccati a Dio in
presenza di un sacerdote - il quale, come dice il formulario ortodos­
so della confessione, non è che un testimone - e nel riceverne l’asso­
luzione, la manifestazione dei pensieri consiste nel raccontare al padre
spirituale i pensieri, che non sono necessariamente peccati, per con­
sentirgli di conoscere il proprio stato interiore al fine di ricevere con­
sigli appropriati per progredire nella via spirituale della guarigione e
della salvezza.
Il fatto che si tratti di manifestare dei «pensieri» potrebbe, per un
verso, suggerire di fare un accostamento almeno parziale di questa pra­
tica alla pratica psicanalitica. Occorre, però, sottolineare ancora una
volta, una differenza fondamentale: non si tratta per colui che mani­
festa i propri pensieri di rievocare il suo passato. I Padri proibiscono
in modo assoluto anche il ricordo dettagliato del passato a motivo dei
molti inconvenienti, ossia dei pericoli che esso rappresenta. San Mar­
co l’Eremita, per esempio, scrive: «Arreca danno [...] ricordarsi in par­
ticolare dei peccati passati, perché se essi generano tristezza, allonta­
nano dalla speranza; se, al contrario, la loro rappresentazione lascia
472
senza dolore, riportano all’antica sozzura»1. E aggiunge: «Quando lo
spirito, grazie al rinnegamento di sé, si attacca unicamente alla spe­
ranza, allora il nemico, sotto il pretesto della confessione, gli pone da­
vanti agli occhi un’immagine dei peccati passati, per riaccendere le
passioni dimenticate per grazia di Dio e per fargli del male subdola­
mente. Infatti, anche se lo spirito è in quel momento luminoso e pie­
no di avversione per le passioni, diverrà necessariamente tenebroso,
una volta di nuovo implicato nelle azioni passate. Se la sua anima è
turbata e amica del piacere, non mancherà di soffermarsi con com­
piacenza nelle suggestioni, in modo che simile reminiscenza sarà di fat­
to una predisposizione al peccato piuttosto che una confessione»2.
I pensieri da manifestare al padre spirituale devono essere, dunque,
i pensieri attuali. Non importa quali, ma quelli che si ripetono o che
hanno una certa sussistenza nell’anima. San Giovanni di Gaza consi­
glia a uno dei suoi corrispondenti: «Non bisogna interrogarsi per tut­
ti i pensieri che nascono nel cuore, perché ve ne sono di passeggeri.
Ma occorre interrogarsi circa i pensieri che dimorano nell’uomo e gli
fanno guerra»3. «Se un pensiero persiste e ti fa guerra, dillo al tuo
padre», raccomanda anche san Barsanufio4. Sono questi, infatti, i pen­
sieri che potranno dare al padre spirituale alcune indicazioni signifi­
cative sullo stato, sulle tensioni, sugli impulsi, sulle disposizioni e
sulle tendenze interiori del figlio spirituale, tutte suggestioni alle qua­
li è sottomesso, sia per sua cupidigia5, sia per l’azione diretta dei de­
moni. I pensieri di questa natura sono ugualmente rivelatori dei pun­
ti deboli dell’anima, delle sue zone fragili che i demoni prendono
più volentieri come punto d’attacco, delle regioni convalescenti dove
esiste un rischio di ricaduta, o più abitualmente delle sue parti anco­
ra malate.
In senso più ampio, tuttavia, Yexagóreusis (il termine greco è più
ampio dell’espressione «manifestazione dei pensieri», che è la sua tra­
duzione abituale) consiste nel rendere conto di ogni pensiero inquie­
tante, di ogni stato inusitato, di ogni dubbio, di tutto ciò che può con­
turbare o preoccupare. Per mezzo di tale manifestazione possiamo far
conoscere certi dettagli del nostro modo di esistenza per assicurarci
del loro valore, tenendo presente il loro influsso sulla vita spirituale.
1Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 139.
2Ibid., 140.
5Lettere, 165.
4Ibid., 215.
5Cfr. Gc 1,14. BARSANUFIO, Lettere, 256. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 45.
473
Le modalità pratiche della manifestazione dei pensieri sono varie.
Alcuni raccomandano di praticarla almeno ogni giorno. San Simeo­
ne il Nuovo Teologo consiglia di ricorrervi ogni ora6. Essa si può an­
che fare più frequentemente, e persino un numero indefinito di volte
nel corso di una stessa giornata, come ce lo dimostra l’esempio di quel
discepolo che va undici volte di seguito a trovare il suo Abba senza
che questi gliene faccia il minimo rimprovero7. La frequenza può an­
che essere minore e deve dipendere solo dai pensieri stessi e dalle pos­
sibilità materiali di entrare in contatto con il padre spirituale. In al­
cuni monasteri, sono fissate delle ore per questa pratica. Se manca la
possibilità di contattare subito il padre spirituale, si raccomanda di an­
notare per iscritto i pensieri man mano che si manifestano8, preci­
sando il momento e le circostanze della loro comparsa, al fine di po­
ter relazionare in seguito con tutta la precisione richiesta.
Questa pratica suppone evidentemente un’attenzione e una vigi­
lanza di ogni istante circa gli stati e i movimenti della propria anima.
Ciò che importa, innanzitutto, è applicare la regola di non-omis-
sione: non nascondere nulla, sforzarsi di non dimenticare nulla, di non
eludere, deformare o mascherare, ma parlare in tutta libertà, senza al­
cuna vergogna o timore. «Come a Dio, manifesta [al tuo padre spiri­
tuale] i tuoi pensieri [...] senza nascondere nulla», consiglia san Si­
meone il Nuovo Teologo9. «Non bisogna tacere alcune cose e dime al­
tre, ma rivelare tutto e su tutto chiedere consiglio», raccomanda san
Doroteo di Gaza10. «Se tu interroghi un Anziano su un pensiero, ma­
nifestagli il pensiero con libertà», consiglia Abba Isaia11. «La libertà ri­
guardo ai pensieri, precisa san Giovanni di Gaza, sta, per colui che in­
terroga, nello svelare completamente il pensiero a colui che egli inter­
roga, nel non nasconderglielo in nulla, nel non alterarlo in alcun modo,
per vergogna, nel non attribuirlo a un altro, ma a se stesso, come è be­
ne che sia. Questo danneggia piuttosto che mascherarlo»12. San Gio­
vanni Cassiano insegna: «Non abbiamo mai troppo scrupolo nel ri­
ferire agli Anziani i pensieri che nascono nel nostro cuore, malgrado
il velo con cui la falsa vergogna vorrebbe coprirli»13.
6 Catechesi, XXVI, 299-303.
7Vita dei Padri, V, 5, 13, PL 73, 876C-D.
8 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 43.
9 Inni,IV, 27-28.
10Istruzioni spirituali, V, 61.
11Asceticon, IV, 3.
12Lettere, 375.
13 Conferenze, II, 11. Cfr. Istituzioni cenobitiche, IV, 9.
474
Infatti, quando si tratta di manifestare i propri pensieri, occorre vin­
cere numerose resistenze interiori dovute in particolare all’orgoglio14
e alla cenodossia15e, sulla base di queste due passioni, al timore di es­
sere giudicati o vedersi rivolgere dei rimproveri16. Occorre vincere an­
che le suggestioni dei demoni che si ostinano ad impedire questa pra­
tica17 che essi temono particolarmente, poiché essa ha come effetto
quello di sventare le loro macchinazioni18. In genere, è nel tentare di
far credere alla sua inutilità che essi vi si oppongono, come ben di­
mostra questa testimonianza di un fratello, che, d’altra parte, ha il me­
rito di sottolineare quanto l’astensione da questa pratica ostacoli la
guarigione dell’uomo: «Avevo nell’anima una passione che mi domi­
nava. Avendo sentito dire che Abba Zenone ne aveva guariti molti, co­
sì volli andare a trovarlo e aprirmi a lui [...]. Spesso [...] partivo per
andare dall’Anziano per dirgli tutto, ma il nemico non mi lasciava par­
lare mettendo nel mio cuore la vergogna e insinuandomi: “Poiché tu
sai come guarire da te, perché parlarne? Tu non ti trascuri, in realtà,
tu sai ciò che i Padri hanno detto”. Ecco cosa mi suggeriva l’avversa­
rio affinché io non manifestassi la mia malattia al medico e non fossi
guarito [...]. Alla fine, afflitto e in lacrime, dissi alla mia anima: “Fi­
no a quando, anima infelice, persisterai nel non voler essere guarita?
Le persone che vivono lontano vanno dall’Anziano e sono guarite e
tu, tu che abiti così vicino al medico, hai vergogna di farti curare?”»19.
La manifestazione dei pensieri non solo è utile, ma anche necessa­
ria al progresso spirituale. San Basilio insegna: «Ciascuno [...] (se al­
meno vuole realizzare progressi apprezzabili e vivere secondo i pre­
cetti di Nostro Signore Gesù Cristo) deve evitare di tenere nascosto
nel tribunale della sua coscienza movimento alcuno. Al contrario,
occorre scoprire i segreti del cuore a coloro che hanno ricevuto la mis­
sione di curare i malati con affetto e comprensione»20. Un Padre giun­
ge persino ad affermare: «Non vi è altra via sicura di salvezza, se non
quella che ognuno confessi i propri pensieri a quei Padri che sono do­
tati di discernimento»21. San Teodoro Studita afferma la stessa cosa
quando scrive: «Che tutti sappiano che, per la salvezza (ivi compresa
14 Cfr. Apoftegmi, 592/50.
15 Cfr. AMMONA, Istruzioni, IV, 24.
16 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, II, 12; 13.
17 Cfr. Apoftegmi, N 509-510. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IV, 75.
18 Cfr. DOROTEO di G aza , Istruzioni spirituali, V, 64; 65; 66.
19Apoftegmi, 509-510.
20Regole lunghe, 26.
21 Apoftegmi, in P. EVERGETINOS, Synagogé, Costantinople 1861, p. 68, col. 1.

475
la perfezione), non vi è alcun mezzo comparabile alla manifestazione
dei pensieri, né così rapida»22.
È opportuno sottolineare in modo particolare il valore terapeuti­
co e profilattico di questa pratica, che nell’ambito della medicina
spirituale riveste un’importanza di primo piano.
La manifestazione dei pensieri consente di ricevere dal padre spi­
rituale indicazioni sul significato e sul valore spirituali di ciò che gli
riveliamo; consente, inoltre, di ricevere consigli sull’atteggiamento che
bisogna adottare. Impassibile e dotato di discernimento, il padre spi­
rituale autentico è capace di dare su ciò di cui gli parliamo un giudi­
zio obiettivo; illuminato dallo Spirito, è in grado di dare consigli op­
portuni. Per esempio, egli può dire qual è la natura di tale pensiero,
cosa esso nasconde, quali conseguenze può avere, se è senza peso, op­
pure cattivo, e in che modo perciò bisogna affrontarlo e lottare con­
tro di esso. Tale idea, tale ispirazione, che porta a intraprendere una
certa azione, viene dai demoni o dobbiamo vedere un’ispirazione an­
gelica e allora dobbiamo darle seguito? Tale rappresentazione, apparsa
più volte, il tale desiderio nato nel cuore in una certa circostanza, o
tale movimento dell’anima, sono essi innocenti, conformi alla volontà
divina, o senza importanza, o addirittura cattivi?23. Consultando il pro­
prio padre spirituale, si otterrà una risposta sicura a questi interro­
gativi, risposta che consentirà di sfuggire agli inconvenienti del dub­
bio, agli errori e alle illusioni del proprio giudizio, alle trappole della
propria volontà, la quale conduce l’individuo a comportarsi secon­
do le proprie norme e secondo i propri desideri anziché conformarsi
alla volontà divina. Del resto, è insistendo sui rischi che si corrono nel
seguire il proprio giudizio e la propria volontà che i Padri racco­
mandano la pratica della manifestazione dei pensieri. Sant’Antonio
l’Eremita scrive a questo proposito: «Ho conosciuto dei monaci che,
dopo grandi fatiche, sono caduti e giunti alla follia per aver contato
sulle loro opere e per aver eluso con falsi ragionamenti il comanda­
mento di colui che ha detto: Interroga tuo padre ed egli ti insegnerà»24.
San Pacomio riferisce che, per non aver rivelato il loro stato interiore
a un padre spirituale, «molti si sono uccisi, uno gettandosi dall’alto di
una roccia in un accesso di follia, un altro aprendosi il ventre con un

22 Grandi catechesi, éd. Papadopoulos-Kerameus, p. 176.


2} Si troveranno numerosissimi esempi di manifestazione dei pensieri e di interrogazioni del
padre spirituale nella corrispondenza tra san Barsanufio e san Giovanni di Gaza.
24Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 37.
476
coltello, altri in altri modi. Difatti, manca gravemente chi non rivela
subito il proprio male a colui che ha la conoscenza»25. Tali errori so­
no attribuibili molto spesso all’azione dei demoni, alla quale l’uomo
dà facile accesso per l’attaccamento alla propria volontà. «Se un uo­
mo non confida tutto ciò che ha dentro di sé, [...] il diavolo scoprirà
in lui una volontà propria che gli permetterà di sconvolgerlo», avver­
te san Doroteo di Gaza26. Egli osserva, inoltre, che colui «che si affi­
da totalmente al proprio pensiero», «il nemico lo sconvolge a suo pia­
cimento»27. La manifestazione dei pensieri attraverso cui l’uomo si ri­
mette al giudizio e alla volontà del suo padre spirituale, appare perciò
come una profilassi efficace di tutti i turbamenti che può generare
in questo contesto l’azione demoniaca. «Questa disciplina, scrive
san Giovanni Cassiano, non insegnerà solo [...] a camminare bene sul
sentiero del vero discernimento; [vi] si guadagnerà anche una reale
immunità riguardo a tutte le astuzie e alle insidie del nemico. E im­
possibile cadere nell’illusione se si fa, non già del proprio giudizio, ma
degli esempi degli Anziani la regola della propria vita; e tutta l’astu­
zia del demonio non prevarrà contro l’ignoranza di un uomo che è,
peraltro, incapace di nascondere per falsa vergogna i pensieri che na­
scono nel suo cuore e si affida al maturo apprezzamento degli Anzia­
ni, per sapere se egli deve ammetterli o respingerli»28. A questo pro­
posito così consiglia san Doroteo di Gaza: «Che l’anima si ponga al
sicuro manifestando tutto e lasciandosi dire da qualcuno competen­
te: “Fa’ questo, non fare quello; tale cosa è buona, talaltra è cattiva;
questo è secondo giustizia, quello è volontà propria”, e ancora: “Non
è il momento di fare ciò”; un’altra volta: “Ora è il tempo”: allora il
diavolo non troverà più con quale pretesto nuocere all’anima né co­
me farla cadere, poiché essa è costantemente guidata e protetta da
ogni parte»29.
Gli stessi pensieri nascosti fungono, d’altronde, da appoggio all’a­
zione dei demoni, e la maggior parte di questi pensieri sono stati
suggeriti da loro a tale scopo. Così il patriarca Antonio Studita fa no­
tare che nulla dà tanto potere ai demoni e alle suggestioni nemiche
quanto il fatto di trattenerli nel cuore30, e Abba Poemen, riferendo
25 Prima Vita di Pacomio, 96.
26Istruzioni spirituali, V, 62.
27Ibid., 63.
28 Conferenze, II, 10.
29Istruzioni spirituali, V, 64.
30 Citato da I. H au SHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, p. 159.
477
di un insegnamento di Abba Giovanni Colobos, afferma che, conse­
guentemente, «il nemico non gioisce d’altro quanto di coloro che non
manifestano i loro pensieri»31. Anche san Teodoro Studita afferma:
«Voi sapete quanto sono numerose le insidie e le astuzie del diavolo.
Nulla vi sfuggirà se non manifestando i propri pensieri»32.
La manifestazione dei pensieri permette in particolare di evitare i
peccati che sono generati dai pensieri nascosti. «Da dove vengono tra
voi [...] le azioni irrazionali [...]? Non è perché voi non manifestate,
ma nascondete i vostri cattivi pensieri?», si chiede san Teodoro Stu­
dita33, che aggiunge: «L’inizio e la radice delle colpe che commettiamo
stanno nel cattivo pensiero»34. La manifestazione dei pensieri permette
anche d’impedire il rafforzamento delle passioni esistenti o l’affer­
mazione di nuove passioni prodotte dal libero corso lasciato alla loro
ripetizione.
Tale manifestazione permette, infine, di evitare che sussistano nel­
l’anima pensieri che la rodono e la distruggono, e che in ogni caso ab­
biano sulla vita interiore diversi effetti patologici proprio perché que­
sti resterebbero nascosti. I pensieri non manifestati continuano, infat­
ti, a vivere nell’anima, spesso sordamente e impercettibilmente, si
ancorano ad essa, vi si sviluppano, e l’awelenano a poco a poco. Essi
finiscono per porla in uno stato di prigionia dal quale sarà tanto più
difficile per il soggetto uscirne fuori quanto più tempo sarà rimasto
senza reagire e quanto più egli avrà tardato a manifestarli. Per que­
sto motivo, san Giovanni Cassiano parla della «tirannia dei pensieri
nascosti»35. Un Anziano riassume così tutto questo: «Se tu sei assilla­
to da pensieri impuri, non nasconderli, ma dilli subito al tuo padre spi­
rituale [...]. Difatti nella misura in cui si nascondono i propri pensie­
ri, essi si moltiplicano e acquistano forza [...]. E come un verme in un
legno, così il cattivo pensiero corrode il cuore»36. San Teodoro Studi­
ta consiglia allo stesso modo: «Vi esorto a far conoscere, secondo la
parola della Scrittura (cfr. lCor 14,26) i segreti del cuore. Difatti, è im­
possibile che una pianta che ha un verme non muoia lentamente ro­
sa da esso; né che un’anima che trattiene in sé una serpe, voglio dire
qualcosa di non manifestato, non impudritisca, non si riempia di
31Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 103.
32 Grandi catechesi, éd. Papadopoulos-Kerameus, p. 533.
33 Piccole catechesi, éd. Auvray, p. 464.
34 lbid.
35 Conferenze, II, 11.
36Apoftegmi, N. 592/50
478
vermi, e non finisca per corrompersi completamente. Vi supplico, dun­
que, respingete, ognuno di voi, il roditore nascosto in voi»37.
I Padri insistono su questo: colui che non manifesta i suoi pensieri
si ammala, o mantiene o aggrava le sue malattie. «Colui che nasconde
[i suoi cattivi pensieri al suo padre spirituale] si smarrisce subito in de­
serti senza vie d’uscita», osserva san Giovanni Climaco38. La non ma­
nifestazione dei pensieri sviluppa malattie in rapporto diretto con que­
sti; sembra, inoltre, necessariamente legata all’orgoglio che essa raffor­
za, come osserva un Padre: «Colui che nasconde i suoi pensieri si
ammala d’orgoglio»39. Ecco perché san Pacomio insegna: «E un gran­
de errore non dichiarare subito il proprio male a colui che ne ha la
scienza prima che la malattia divenga cronica»40.
La manifestazione dei pensieri è, dunque, l’unico mezzo con il qua­
le l’uomo può proteggersi contro le malattie che lo minacciano e an­
che guarire dalle malattie che ha già contratto. «Colui che si astiene
dal dire i propri pensieri rimane senza rimedio», osserva san Gio­
vanni di Gaza41. San Giovanni Cassiano dice la stessa cosa quando af­
ferma: «Quando soffochiamo i nostri cattivi pensieri e ci vergogniamo
di farli conoscere agli Anziani, ci priviamo della possibilità di ottene­
re il rimedio»42. Al contrario, «colui che non teme di rivelare i suoi
pensieri ai Padri li scaccia lontano da sé», insegna sant’Ammona43. San
Giovanni Climaco fa notare: «Manifestando le nostre piaghe [...], non
si aggraveranno ma, al contrario, guariranno»44. Infatti, così come un
serpente che esce dalla tana fugge subito correndo, così il cattivo pen­
siero, appena manifestato, si dissipa [...]. Chi manifesta i propri pen­
sieri guarisce rapidamente», dice un altro Padre45. E il Typikón del mo­
nastero di santa Maria Evergetis a Costantinopoli dichiara: «Ora è il
tempo della manifestazione dei pensieri e della medicazione delle ma­
lattie della vostra anima [...]. Dichiarate chiaramente [le vostre ma­
lattie] affinché [...] arriviate alla piena salute dell’anima»46.
La guarigione è in parte dovuta al fatto stesso della manifestazio­
37 Grandi catechesi, éd. Papadopoulos-Kerameus, p. 623.
38La Scala, IV, 51.
39Apoftegmi, 592/50.
40Prima Vita di Pacomio, 96.
41 Lettere, 320.
42 Conferenze, II, 12.
43 Istruzioni spirituali, IV, 24.
44 La Scala, IV, 12.
45Apoftegmi, 592/50.
46 Typikón di Evergetis, cap. citato da I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois,
Roma 1955, p. 226.
479
ne. Colui che ha appena manifestato i suoi pensieri si sente liberato
dall’oppressione, dall’oscurità che essi provocavano in lui, è solleva­
to dall’inquietudine, dal timore, dalle tribolazioni interiori, persino
dall’angoscia e dalla disperazione che è loro legata, prova un senti­
mento di consolazione e di pace, si sente leggero e gioioso47. «Cosa vi
è di più luminoso di un’anima sempre dedita a questo esercizio? Lo
sanno coloro che l’hanno sperimentato: quale speranza, quale sicu­
rezza, quale libertà essi acquistano! E, ancora, quale assenza di ti­
more [...], sollievo dalle lotte, tranquillità dei pensieri e, infine, qua­
le purezza d’anima!», afferma il patriarca Antonio Studita48.1 Padri
insistono in particolare sullo stato di sicurezza spirituale (amerimnta)
procurata dalla pratica abituale àél’exagóreusis. Ricordando l’epoca
in cui aveva come padre spirituale san Giovanni di Gaza, san Doro­
teo scrive: «Non avevo nessuna tribolazione, alcuna preoccupazio­
ne. Se mi capitava di aver un pensiero, prendevo la mia tavoletta e
scrivevo all’Anziano [...] e non avevo finito di scrivere che sentivo sol­
lievo e profitto. Tali erano la mia mancanza di preoccupazioni [ame-
rimnia) e la mia pace (anàpausis)»49. «Confidavo tutto all’Anziano, Ab-
ba Giovanni, egli riferisce, e mai mi permettevo di far qualcosa senza
il suo consenso [...]. Mai mi permettevo di seguire il mio pensiero sen­
za prendere consiglio. E credetemi, fratelli, ero in grande pace, in gran­
de sicurezza»50.
Questi effetti, in qualche modo immediati, della manifestazione dei
pensieri, non devono farci dimenticare che gran parte della sua effi­
cacia terapeutica è dovuta ai consigli del padre spirituale che tale pra­
tica suscita. Grazie alle indicazioni fornite dal figlio spirituale, il padre
è in grado di conoscere esattamente lo stato interiore di questi, di fa­
re una diagnosi precisa e decidere il trattamento adeguato. Senza que­
sto, l’uomo non avrebbe mai l’opportunità di guarire. «Ciò che pos­
siamo vedere nelle malattie del corpo», scrive il patriarca Antonio Stu­
dita, «si verifica anche nei mali dell’anima: il medico dà i suoi rimedi
e applica la sua cura nel posto che ha ben diagnosticato e vede con i
suoi occhi. Ma colui che pensa a modo suo e agisce secondo le pro­
prie idee, senza far conoscere la malattia della sua anima ai padri spi­
rituali attraverso la manifestazione dei pensieri, si attira il penoso ver­

47 Se ne troveranno numerose testimonianze negli Apoftegmi.


48 Citato da I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, p. 159.
49Istruzioni spirituali, 1,25.
50Ibid., V, 66. Cfr.68.
480
detto: “Guai a quelli che sono saggi ai loro sguardi, e intelligenti da­
vanti a loro stessi!” (Is 5,21)»51.
In particolare, grazie a una manifestazione frequente e continua dei
pensieri, il padre spirituale potrà praticare il trattamento spesso lun­
go che porterà alla guarigione di tutte le malattie dell’anima, perché
conoscerà allora precisamente e globalmente lo stato, le tendenze e l’e­
voluzione del malato. E in questo senso che san Giovanni Cassiano
scrive ricordando molte passioni: «Più sovente sono manifestati que­
sti disturbi, più velocemente si giunge a guarirne»52.
Così ricorriamo al padre spirituale, al quale manifestiamo i nostri
pensieri come verso un medico53. San Basilio raccomanda di scoprire
i segreti del cuore «a coloro che hanno ricevuto la missione di curare
i malati»54. San Giovanni Climaco consiglia: «Scopri, metti a nudo la
tua piaga davanti al medico e digli senza vergogna: “Ecco la mia feri­
ta, padre, ecco la mia piaga”»55, e san Barsanufio: «Di’ al tuo padre il
pensiero che in te si attarda e che ti fa guerra ed egli ti guarirà»56. «Ma­
nifestiamo ai nostri Anziani tutti i segreti della nostra anima, e andia­
mo con fiducia a cercare da loro il rimedio alle nostre ferite», racco­
manda san Giovanni Cassiano57. Questa concezione medica del padre
spirituale si traduce nelle formule di un buon numero di Typikd58. Il
Typikón del monastero del Precursore presso Serres, in Macedonia,
esige «che vi siano dei padri spirituali nel monastero perché a colui
che ciascuno avrà scelto, egli scopra le sue ferite conformemente alla
tradizione dei santi canoni, per ricevere a seconda della ferita l’aiuto
adatto da parte dei medici spirituali. Le ferite, sono i pensieri [...]. E,
dunque, molto utile avere il medico presso di sé»59. La Typikè Diàtaxis
del monastero della Santissima Madre di Dio di Machaera, al capito­
lo 11 dedicato alla manifestazione dei pensieri, dichiara che «colui che
esercita questo ruolo [...] deve porre la cura più attenta ad ascoltare
coloro che vogliono confessarsi e ispirare a ciascuno il rimedio ap­
propriato»; se i pensieri che sono «facili da sopprimere e non causa­

51 Citato da I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, p. 159.


52Istituzioni cenobitiche, VI, 3.
53Vedi per esempio Apoftegmi, N 509-510.
54Regole lunghe, 26.
55La Scala, IV, 68.
56Lettere, 215.
57 Conferenze, II, 13.
58 Un Typikón è una raccolta di regole che organizzano in maniera pratica la vita di un mo­
nastero.
59Le Typikón du monastére du Prodrome, cap. 13, in Byzantion, 12,1937, p. 50.
481
no turbamento persistente» potranno essere ascoltati da fratelli qua­
lificati che egli avrà delegato a questo compito, «dovranno essergli
riferiti i pensieri che richiedono un trattamento medico più attento»
ed egli «applicherà il trattamento adeguato»60.
Il padre spirituale esercita la sua funzione di terapeuta nell’ambito
dell’exagóreusis, offrendo un ascolto attento e benevolo, consolando
ed esortando colui che si è affidato a lui, prendendo su di sé le diffi­
coltà che il suo figlio spirituale gli manifesta e anche pregando per lui.
Spesso i Padri sottolineano questo ruolo d’intercessore del padre
spirituale nel contesto della manifestazione dei pensieri e attribui­
scono, perciò, l’efficacia terapeutica di questa pratica a un intervento
della grazia divina che risponde alle preghiere appunto del padre spi­
rituale61. Ecco perché san Besanufio precisa: «Di’ il tuo pensiero al Pa­
dre ed egli ti guarirà da parte di Dio»62. E un fratello dice la stessa co­
sa in questi termini: «Dio mi ha guarito per le preghiere dell’Anziano»63.
Tutto questo suppone, tuttavia, che colui che manifesta i propri pen­
sieri abbia verso il suo padre spirituale, e attraverso lui verso Dio, le
disposizioni richieste; che egli lo faccia in particolare con fede e com­
punzione, e con tutto il cuore, come sottolinea questo esempio offer­
to da un apoftegma: «Un giorno, due fratelli [...] s’incontrano, e uno
dice all’altro: “Mi piacerebbe andare da Abba Zenone e sottoporgli
un pensiero”. L’altro risponde: “Anch’io voglio parlargli di un mio
pensiero”. Essi dunque andarono insieme e, ciascuno a sua volta, ma­
nifestò i propri pensieri. Il primo si prostrò dinanzi all’Anziano e lo
supplicò con molte lacrime. L’Anziano gli disse: “Va’, non scoraggiarti,
non parlar male di nessuno e non dimenticare la tua preghiera”. Il fra­
tello se ne andò e fu guarito. L’altro manifestò il suo pensiero e disse:
“Prega per me”, ma non lo chiese con insistenza. Qualche tempo
dopo, i due ebbero l’occasione di incontrarsi di nuovo e uno disse
all’altro: “Quando siamo andati dall’Anziano gli hai manifestato il pen­
siero che dicesti di volergli dire?”. “Sì” dice l’altro. E chiede: “Ti ha
fatto bene manifestarglielo?”. L’altro gli dice: “Sì, per le preghiere del­
l’Anziano Dio mi ha guarito”. Ed egli rispose: “Io ho fatto di tutto per
aprirmi a lui ma non ho sentito alcun risultato dalla cura”. Colui che

60 Citato da I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, p. 219.


61 Vedi per esempio Apoftegmi, N 509-510. BARSANUno, Lettere, 215.
62Lettere, 215.
63Apoftegmi, N 509-510.
482
ne aveva tratto profitto gli disse: “E come hai supplicato l’Anziano?”.
L’altro rispose: “Prega per me perché ho questo pensiero”. “Ed io,
soggiunse l’altro, nel fargli la mia confessione, ho bagnato i suoi piedi
con le lacrime, supplicandolo di pregare per me; e, per le sue preghiere,
Dio mi ha ridato la salute”»64.
Perché la manifestazione dei pensieri costituisca una terapia effica­
ce, è indispensabile che colui che va a consultarsi abbia una totale fi­
ducia in colui al quale si rivolge. «Verso colui nel quale il tuo cuore
non ha completa fiducia, non affidargli la tua coscienza», raccoman­
da Abba Poemen65. Egli deve dunque in partenza scegliere con mol­
ta cura, ma dopo è indispensabile che applichi scrupolosamente i trat­
tamenti che gli proporrà. E per questo che un Padre consiglia: «Co­
me si fa quando si tratta di medici del corpo, occorre innanzitutto
sperimentare la capacità di colui che s’incontra e solo in seguito sve­
largli i traumi della propria anima; non contraddire i suoi metodi te­
rapeutici, ma accoglierli con riconoscenza, anche se in primo momento
fanno soffrire»66. E proprio la fiducia che, oltre a favorire la confes­
sione dei pensieri dando la certezza che non si sarà giudicati né con­
dannati da colui che ascolta, permette di applicare il trattamento che
egli raccomanda, senza esitare e senza che si manifesti il dubbio quan­
to al suo valore, quali che siano le apparenze.
E altresì importante che la manifestazione dei pensieri sia sempre
fatta al medesimo padre spirituale e che si rimanga fedeli a questi67.1
Padri mettono in guardia contro ogni desiderio di cambiamento, per­
ché questo testimonia una reticenza nociva, corrisponde pressoché
sempre a una suggestione demoniaca68e rischia di condurre all’ag­
gravamento dei mali69. Manifestare i propri pensieri sempre allo stes­
so padre permette di assicurare la continuità richiesta dal trattamen­
to. Il padre spirituale, in questo modo, può ben conoscere colui che
gli apre il suo cuore, conoscere quali sono i suoi punti forti e quelli de­
boli, le sue difficoltà, le tendenze profonde, il suo tipo di evoluzione,
ecc., fare così una diagnosi e stabilire una terapia basata sulla cono­
scenza globale della sua personalità.

“ Ibid., N 509-510.
65Apojftegmi, serie alfabetica, Poemen, 80.
66P. E vergetdmos, Synagogé, Constantinople 1861, p. 68, col. 1.
67Cfr. SIMEONE Studita , citato da I. HAUSHERR, Introduzione alla Vie de Syméon le Nouveau
Théologien, pp. XLIX-L.
68Ibid., p. L.
69Ibid.
483
La manifestazione dei pensieri non è fine a se stessa. La sua effica­
cia terapeutica non sta solo, ripetiamolo, sul procedimento conside­
rato in se stesso, e non bisogna aspettarsi effetti immediati. La mani­
festazione dei pensieri non potrà da sola guarire l’uomo. Solo mani­
festati, i pensieri non perderebbero tutto il loro potere patogeno. I
pensieri che molte volte sono rinati rischiano di ripresentarsi di nuo­
vo. Ciò che importa, dunque, molto spesso, è il loro destino. Manife­
stare i propri pensieri consente soprattutto d’interrogare il padre
spirituale (i testi ascetici spesso mostrano l'equivalenza di queste due
espressioni) per conoscere la loro precisa natura e, soprattutto, per ot­
tenere consigli sul modo di combatterli. Fatto questo, non rimane che
iniziare il combattimento.
V
IL COMBATTIMENTO CONTRO I PENSIERI

1. La lotta interiore
Nel contesto della strategia terapeutica che mira a guarire nell’uo­
mo le malattie spirituali e a fargli recuperare la salute, la lotta {pale,
agón) contro i pensieri occupa un posto centrale.
Astenersi da ogni cattiva azione, non commettere più alcun pecca­
to di azione, costituisce solo la prima tappa1e non è certo sufficiente2:
è opportuno astenersi anche da ogni cattivo pensiero3per evitare i pec­
cati di pensiero4. «Vi prego, fratelli, reprimiamo i pensieri proprio co­
me reprimiamo le azioni», consiglia un Anziano5. Ciò è tanto più ne­
cessario in quanto tutti i peccati che l’uomo commette con le sue azio­
ni hanno la loro fonte originaria in pensieri cattivi, in quanto questi
ultimi implicano quasi sempre quelle6, in quanto le manifestazioni este­
riori delle passioni in azioni cattive hanno il loro principio nelle ma­
nifestazioni interiori di quelle stesse passioni sotto forma di movimenti
interni, d’immaginazioni o di pensieri. «Fonte e principio di ogni pec­
cato sono i pensieri cattivi», constata Origene7. «Tutti i peccati colpi­
scono innanzitutto lo spirito sotto l’unica forma dei pensieri», sottoli­
nea anche sant’Esichio di Batos8. E in questo modo, del resto, che i
demoni esercitano la loro azione sull’uomo9. «Coloro che perseguita­
no incessantemente la nostra anima per farla cadere nel peccato con
1 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n , 87.
2Vedi per esempio la lunga avvertenza di FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 37.
3Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1, 37.
4 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Antitetico, Prefazione.
5Apoftegmi, N 220.
6 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, III, 52. E sichio di B atos , Capitoli
sulla vigilanza, 111.
7 Commento al Salmo 20,11, PG 27,129C.
8 Capitoli sulla vigilanza, 111. Vedi anche FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 33.
9Cfr. ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 174. Cfr. 173.
485
il pensiero e l’azione, utilizzano i pensieri passionali», fa notare san
Massimo10, il quale poi spiega: «Dalle passioni nascoste nell’anima i
demoni ricevono i mezzi per suscitare in noi i pensieri passionali. Poi,
attraverso questi pensieri, essi assalgono lo spirito e con grande forza
10 spingono a un atteggiamento di sottomissione al peccato. Una vol­
ta dominato, essi lo conducono al peccato nei pensieri, poi, compiu­
to questo peccato, lo precipitano [...] verso il peccato di azione»11. Or
dunque, «se non si pecca prima nei pensieri, non si peccherà mai
con le azioni»12.
Di conseguenza, occorre applicarsi al controllo dei pensieri se si
vuole porre fine ai peccati esterni e interni, ma anche se si vuole libe­
rare l’anima dalle passioni. Sarebbe vano combattere le passioni solo
nelle loro manifestazioni esteriori, perché queste affondano le radici
nei pensieri, e se questi ultimi sussistono nell’anima, altre azioni ne
procederanno di nuovo, inevitabilmente. Ecco perché il Siracide scri­
ve: «Chi porrà i flagelli nella mia mente ed insegnerà la sapienza al mio
cuore, perché siano severi con i miei errori ed io non tolleri i loro sba­
gli? Così non si moltiplicheranno i miei errori e non si accresceranno
i miei peccati; non cadrò dinanzi ai miei oppressori e non si rallegrerà
11mio nemico» {Sir 23,2-3).
Sarebbe vano, d’altronde, credere - con il pretesto che le passioni
ci legano alle realtà sensibili e si applicano agli oggetti, o che esse so­
no attivate dalla loro vista -, che basti allontanare gli oggetti o allon­
tanarsi da essi per annientare le passioni. Infatti, non sono gli oggetti
in sé che sono cattivi: «Nulla è cattivo tra le creature di Dio», ricor­
da san Massimo13. Ciò che è cattivo è il cattivo uso che facciamo degli
oggetti a motivo delle cattive rappresentazioni che noi abbiamo di es­
si: «Il male è nel falso giudizio fatto sulle rappresentazioni e seguito
dal cattivo uso delle cose», «il cattivo uso degli oggetti è conseguen­
za del cattivo uso delle rappresentazioni», «è quindi dallo spirito che
dipende il buono o il cattivo uso degli oggetti», osserva ancora san
Massimo14. Non è dunque agli oggetti che bisogna applicarsi, ma alle
loro rappresentazioni che sono in noi, le quali peraltro sono rese
presenti dalla memoria e dall’immaginazione anche quando gli ogget­
ti che corrispondono loro sono assenti. È così che «i demoni attacca­
10Centurie sulla carità, II, 20.
11Ibid., 31.
12Ibid., 78.
15Ibid., m , 3.
MIbid., E, 17; 73. Cfr. 83.
486
no [...] attraverso le rappresentazioni coloro che si sono separati da­
gli oggetti»15, e «attraverso i pensieri ci fanno una guerra ben più du­
ra che per mezzo degli oggetti stessi»16; «quanto più è facile il pecca­
to nei pensieri che il peccato con le azioni, tanto più dura è la lotta
contro i pensieri che non la rinuncia agli oggetti»17.
I santi asceti, in particolare quelli che vivono nella solitudine, han­
no constatato che le passioni si nutrono fondamentalmente di pensie­
ri e d’immaginazioni, non solo di quelle che esse suscitano da se stes­
se, ma anche di quelle che i demoni propongono all’uomo, e che,
peraltro, sono all’origine della nascita e dello sviluppo delle passioni
secondo un processo che descriveremo dopo. «Prima nascono i pen­
sieri, poi si mostrano le passioni», constata san Doroteo di Gaza18.
Tutti questi motivi fanno sì che la principale occupazione dell’uo­
mo desideroso di guarire e di salvarsi sia la lotta contro i pensieri19, lot­
ta che i Padri chiamano anche «lotta interiore», «lotta invisibile», «lot­
ta dello spirito», «lotta e guerra del cuore». Tale lotta costituisce l’asce­
sa spirituale»20, l’«opera del cuore»21, l’unico mezzo per purificare
l’anima dal peccato e guarirla dalle passioni, non solo da quelle note
ma anche da quelle nascoste22.
Come tutti i Padri, anche san Giovanni Crisostomo sottolinea l’im­
portanza e, nello stesso tempo, la durezza di questa lotta23: «Nessuna
nazione selvaggia [fa] una guerra così accanita come i cattivi pensieri
che rimangono nell’anima, come le passioni sregolate [...]; e ciò si
capisce, perché questi primi nemici ci attaccano dal di fuori, mentre
dall’interno i secondi ci fanno guerra. Ora, che i mali interiori sono
più disastrosi e perniciosi di quelli che vengono da fuori, è un’osser­
vazione che possiamo fare costantemente [...]. Nulla è più fatale per
la salute, per l’energia del corpo, delle infermità che vi si sviluppano
71.
15 I b i d . ,
91.
16 I b i d . ,
H, 72.
17 l b i d . ,
18Istruzioni spirituali, XDI, 145. Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità,
IH, 20. Evagrio Pontico si chiede: «È la rappresentazione che fa scattare le passioni o sono le
passioni che fanno scattare la rappresentazione? Questa domanda esige una riflessione. Alcu­
ni, in realtà, sono per la prima opinione, altri per la seconda» (Trattato pratico sulla vita mona­
stica, 37). In realtà, questa divergenza d’opinioni non è reale: i due processi esistono e i Padri
evocano l’uno o l’altro a seconda dei casi, senza considerare pertanto l’uno esclusivo dell’altro.
19Vedi per esem pio BARSANUFIO, Lettere, 258.
20 FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 3.
21 ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 17.
22 Cfr. ibid.
23 Vedi anche MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 91; IV, 50. FlLOTEO IL Sl-
NAITA, Quaranta capitoli neptici, 1.

487
internamente; le città soffrono meno per la guerra esterna, che per i
loro dissensi interni; così anche l’anima non deve tanto temere le trap­
pole che le vengono tese nel mondo quanto le malattie di cui essa stes­
sa fornisce il germe»24. Per questo san Macario Magno insegna: «Oc­
corre, dunque, che tutta la lotta dell’uomo si rivolga verso i suoi pen­
sieri»25. Lo stesso santo osserva ancora: «Colui che vuole veramente
divenire cristiano, deve dedicarsi a una lotta non già carnale, ma spi­
rituale, contro i pensieri [...]. E per mezzo di un tale combattimento
che egli potrà ottenere la purificazione»26.
Proprio perché i pensieri sono trattenuti, suscitati, se non propo­
sti dai demoni, la lotta contro i pensieri appare allo stesso tempo co­
me un combattimento contro i demoni (abbiamo visto, del resto, che
i Padri identificano spesso i pensieri passionali con gli stessi demoni).
L’Apostolo indica chiaramente questa lotta quando scrive: «Non lot­
tiamo contro una natura umana mortale, ma contro i prìncipi, con­
tro le potenze, contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro
gli spiriti maligni delle regioni celesti» (Ef 6,12). Questa lotta corri­
sponde, a mo’ di una guerra difensiva, alla vera guerra offensiva,
permanente e senza pietà che i demoni intraprendono contro l’uomo
e che san Filoteo il Sinaita descrive così: «E una guerra che gli spiriti
del male conducono segretamente e che li mette alle prese con l’ani­
ma attraverso i pensieri. Poiché la stessa anima è invisibile, queste po­
tenze malefiche, si adattano alla sua natura, e conducono verso di es­
sa una guerra invisibile. Si può così osservare, tra queste potenze e l’a­
nima, armi, una battaglia campale, astuzie ingannevoli, una guerra
terribile, l’accanimento nel combattimento, e, da una parte e dall’al­
tra, vittorie e sconfitte»27.
Il carattere sottile dei pensieri, le astuzie messe in opera dai demo­
ni per sottomettersi gli uomini mediante tali astuzie, la difficoltà, in
breve, della lotta da condurre, ma anche l’importanza della posta in
gioco, fanno sì che «l’arte di combattere i pensieri» («arte» intesa nel
senso antico di «tecnica») venga ritenuta dai Padri «la scienza delle
scienze e l’arte delle arti»28. Ciò è tanto più vero in quanto gli stessi
Padri per i motivi sopra indicati hanno condotto a mettere a punto
una strategia molto precisa, basata su una conoscenza puntuale degli
24 Commento al Salmo 4,12.
25 Omelie (Coll. E), VI, 3.
26Ibid., LIE, 15.
27 Quaranta capitoli neptici, 7.
28 Le due espressioni citate sono di ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 121.
488
avversari e dei loro mezzi di azione, cioè della natura dei pensieri e del
processo della loro comparsa e insediamento nell’anima. Ciò è indi­
spensabile, perché, affinché la lotta sia efficace e la vittoria sicura, «oc­
corre, come dice Evagrio, guerreggiare con metodo contro gli avver­
sari»29.

2 . La duplice orìgine dei pensieri


È bene sapere anzitutto che l’origine dei pensieri è duplice: le di­
sposizioni e le predisposizioni dell’uomo da una parte, l’attività de­
moniaca dall’altra30.
Le disposizioni dell’uomo sono le sue passioni, le quali, come ab­
biamo visto, si manifestano innanzitutto e principalmente attraverso i
pensieri. Le predisposizioni sono costituite dal «ricordo del male», at­
traverso la traccia lasciata nell’anima da passioni, colpe, o negligenze
passate31. Ecco perché san Marco l’Eremita definisce la predisposi­
zione come «una reminiscenza involontaria delle cattive azioni prece­
denti»32. I pensieri e le immagini passionali sono, peraltro, essenzial­
mente forniti dalla memoria33 e dall’immaginazione (essendo questa
legata a quella). Può, dunque, esservi una predisposizione anche quan­
do l’uomo si è dissociato dalla passione corrispondente o non com­
mette più da lungo tempo la colpa che l’ha stabilita nell’anima. A que­
sto proposito Evagrio scrive: «Se di una cosa abbiamo un ricordo pas­
sionale, è perché prima abbiamo accolto gli oggetti con passione e,
inversamente, di tutti gli oggetti, che accogliamo con passione, abbia­
mo ricordi passionali»34. E san Marco l’Eremita, che più di altri ha in­
sistito sull’importanza delle predisposizioni, precisa: «La passione che
ha conquistato un campo di operazione, con la complicità della vo­
lontà, più tardi si risveglierà violentemente, anche in colui che non
vuole più avere parte con essa»35; «quando avremo eliminato dal no­
stro spirito ogni male deliberato, dovremo combattere le passioni al­
le quali siamo predisposti»36; «non dire: “Ciò che non voglio accade
29 Commento ai Proverbi, XXIV, 6, PG 1 7 , 225.
30Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 88.
31 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 256. DIADOCO DI FOTICEA, loc. cit.
32La legge spirituale, 140.
33Vedi per esempio MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 74.
34 Trattato pratico sulla vita monastica, 34.
35Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 78.
36La legge spirituale, 139.
489
lo stesso”. Se tu non apprezzi le conseguenze, sei tuttavia compiacen­
te con le cause»37; «quando constati che pulsioni nascoste agiscono nel
tuo profondo e inclinano verso la passione lo spirito che godeva del­
la tranquillità, sappi che lo stesso spirito altre volte le ha comandate,
messe all’opera e immesse nel cuore»38. In altre parole, oltre ai pen­
sieri attualmente volontari, vi sono nell’anima pensieri attualmente in­
volontari, ma che un tempo sono stati volontari, che in quanto con­
seguenze non sono volontari, ma le cui cause sono volontarie39. È
per questo che san Marco l’Eremita aggiunge: «Noi amiamo le cause
dei pensieri che si formano nostro malgrado, ed è per questo che es­
si nascono in noi; ma nel caso di pensieri volontari, è chiaro che non
solo amiamo le cause, ma anche il loro oggetto»40; «i pensieri invo­
lontari nascono da un peccato precedente, quelli volontari dalla libe­
ra scelta della propria volontà; di conseguenza è chiaro che i secondi
sono responsabili dei primi»41.
L’altra fonte dei pensieri è l’attività demoniaca42, la quale si eserci­
ta sull’anima indirettamente, per mezzo del corpo43 (per mezzo dei sen­
si, ma anche per mezzo delle mozioni o pulsioni interne), o diretta-
mente, soprattutto per mezzo della memoria e dell’immaginazione44.
Quest’uso, da parte dei demoni, delle facoltà umane per suscitare i
pensieri fa sì che «noi li sentiamo tutti come se provenissero dal cuo­
re», come fa notare san Diadoco di Foticea45, mentre per alcuni di es­
si, non è così.
I pensieri passionali sono suscitati molto spesso dai demoni sulla
base delle disposizioni e/o delle predisposizioni dell’uomo, come
afferma l’apostolo san Giacomo: «Ciascuno è tentato, adescato e se­
dotto dalla sua concupiscenza» (Gc 1,14)46, o secondo sant’Isacco il
Siro che scrive: «In tutte le tentazioni, condanna te stesso perché cau­
37 Ibid, 143.
58Ibid., 180.
39 Cfr. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere giustificatiper le loro opere, 96; 111.
40 Ibid, 79.
41 Ibid, 78.
42 Cfr. B arsanu fio, Lettere, 51. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 88. MACARIO
D’EGITTO, Omelie (Coll. Ili), XXV, 1,2. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere
giustificati per le loro opere, 135. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 83; Apoftegmi, serie degli ano­
nimi, 143. C ir illo di G erusalem m e, Catechesi, II, 3.
43 Vedi per esempio MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 74.
44Cfr. EsiCHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 118; 119. FlLOTEO IL SlNAlTA, Quaranta ca­
pitoli neptici, 1.
45 Cento capitoli gnostici, 88.
46Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 44. BARSANUFIO, Lettere, 256.
490
sa di quelle che ti capitano»47. Infatti, «dalle passioni nascoste nel­
l’anima i demoni ricevono i mezzi per suscitare in noi i pensieri pas­
sionali», sottolinea molto precisamente san Massimo48. E san Gio­
vanni Cassiano osserva che l’anima, proprio come il corpo, è attac­
cata dalla malattia laddove essa presenta uno o più punti deboli:
«Anche qui, accade come per il corpo umano. Quando capita un’oc­
casione spiacevole, [...] sono le parti più deboli che si lasciano scalfi­
re e soccombono immediatamente; ed è solo quando la malattia vi
si è stabilita che essa contamina le parti rimaste sane. La stessa cosa
è per la nostra anima. Se sopraggiunge qualche vizio, essa sarà fatal­
mente attaccata nella parte che, più delicata e più debole, offre mi­
nore resistenza agli assalti violenti del nemico e correrà il rischio di
essere colpita là dove la sentinella, poco vigile, apre al tradimento un
più facile accesso [...]. E con questo mezzo che la perfida malignità
delle potenze spirituali s’industria a tentarci. Tali potenze tendono le
loro trappole insidiose soprattutto verso la parte dell’anima dove la
sentono più malata»49.
Occorre, tuttavia, sapere che i demoni possono anche proporre
all’uomo pensieri e immagini senza rapporto con le sue disposizioni o
predisposizioni, anche se egli s’illude ancora che queste rappresenta­
zioni vengono da se stesso, come fa notare san Macario il Grande: «Vi
è una potenza avversa, quella della malizia, che disorientando segre­
tamente il genere umano lo conduce verso il male, e gli insegna invi­
sibilmente, nel cuore, ogni sorta di empietà. Per questo, gli uomini non
fanno altro se non quello che è stato loro suggerito segretamente, al li­
vello della libera volontà di ciascuno; la maggior parte di essi non san­
no da dove vengono queste suggestioni, ma credono a una tendenza
naturale, a causa dell’abitudine di veder scaturire dal loro cuore i pen­
sieri cattivi contro natura»50.
L’azione demoniaca a questo riguardo non risparmia alcun uomo,
adattandosi al livello spirituale di ciascuno51. E così che gli stessi san­
ti, che per ascesi teantropica hanno raggiunto l’impassibilità e ottenuto
la purificazione delle loro colpe passate, in breve, nei quali non sus­
sistono né disposizioni né predisposizioni, devono far fronte a quei
pensieri proposti dai demoni, e che allora costituiscono per essi al-
47 Discorsi ascetici, 80.
48 Centurie sulla carità, E, 31.
49 Conferenze, XXIV, 17.
50 Omelie (Coll. EI), XXV, 1, 2.
51 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, E, 90.

491
frettante tentazioni52.1 Padri sottolineano che l’azione demoniaca cre­
sce e quindi i pensieri suggeriti si moltiplicano a misura del progresso
spirituale53. Un adagio dei Padri afferma che l’uomo deve «aspettarsi
la tentazione fino al suo ultimo respiro»54, che fino al suo ultimo re­
spiro egli dovrà lottare contro i pensieri suggeriti dai demoni55. Giob­
be diceva: «Tutta la vita degli uomini sulla terra non è forse tentazio­
ne?» (Gb 7,1)56. «Fino alla morte l’uomo non può non avere dei pen­
sieri», osserva nello stesso senso sant’Isacco il Siro57, e san Simeone il
Nuovo Teologo: «L’uomo ha sicuramente ricevuto il potere di non
compiere il male, ma non quello di non averne l’idea»58. «Come non
è possibile camminare sulla terra senza fendere l’aria, scrive a sua vol­
ta sant’Esichio di Batos, così è impossibile che il cuore dell’uomo non
sia continuamente combattuto dai demoni o segretamente tormenta­
to da essi»59. E san Giovanni Damasceno, ricordando in particolare gli
otto tipi di pensieri cattivi che corrispondono alle otto passioni prin­
cipali, osserva: «Che questi otto pensieri ci turbino o non ci turbino
fa parte delle cose che non dipendono da noi»60.
Lo scopo perseguito dai demoni nel suscitare i pensieri nel cuore
dell’uomo è quello di far rimanere le passioni in colui che ne è abita­
to e di spingerlo al peccato d’azione, oppure è quello di farle ritorna­
re in colui che se ne era liberato; lo scopo può essere anche quello di
turbare la preghiera di quest’ultimo e di impedirgli di arrivare alla con­
templazione61; in ogni caso, per i demoni si tratta di allontanare l’uo­
mo da Dio62e di metterlo contro di lui. Da questo punto di vista, ogni
pensiero appare come una tentazione, tanto più che, come vedremo,
l’uomo ha in tutti i casi la possibilità di seguire il pensiero che gli si
presenta e fare così la volontà dei demoni, o respingerlo per fare la vo­
lontà di Dio. Ogni pensiero che si presenta all’uomo appare così co­
me una prova63 che può condurlo alla sua perdizione o alla sua sal­
vezza, secondo la scelta che egli farà. Se l’uomo, cedendo alla tenta­
52Cfr. Ammona , Lettere, XHI, 5. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XVI, 3.
53 Cfr. FE.OTEO IL S inaita , Quaranta capitoli neptici, XXVI.
54Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 4.
55 Vedi per esempio ibid., Agatone, 9; Teodoro di Fermé, 2.
56Cfr. ORIGENE, La preghiera, 29: «Tutta la vita dell’uomo è una continua tentazione».
57Discorsi ascetici, 83.
58 Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 31.
59 Capitoli sulla vigilanza, 114.
60Discorso utile all anima.
61 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 90.
62Ibid
63 Cfr. B arsanufio , Lettere, 39; 483.
492
zione che ogni pensiero costituisce, può perpetuare il suo stato mal­
sano o ricadérvi, nel non cedervi egli, al contrario, può guarirne o evi­
tare di ricadérvi. Prendendo in considerazione questo secondo aspet­
to, sant’Isacco il Siro afferma: «La tentazione è utile a ogni uomo», e
scrive al riguardo: «Gloria al Maestro che nei rimedi più duri ci por­
ta le delizie della salute!»64. Lo stesso santo apostolo Giacomo sotto-
linea questa funzione positiva della tentazione: «Beato l’uomo che so­
stiene la tentazione, poiché una volta collaudato, riceverà la corona
della vita che Dio promise a quanti lo amano» (Gc 1,12). Quando ogni
pensiero che si presenta è per colui che è abitato dalle passioni un’oc­
casione di esserne liberato65e purificato dai suoi peccati66, esso è, per
colui che vive secondo le virtù, un’occasione per fortificare queste, co­
me scrive san Barsanufio a uno dei suoi figli spirituali: «Che la folla
delle passioni e dei fantasmi demoniaci non ti abbatta, ma credi che
essi non guadagnano niente nel tormentarci e nel metterci alla prova;
essi, al contrario, perfezionano la virtù se noi facciamo molta atten­
zione nel conservare un po’ di resistenza [...]. Il contatto con il fuoco
fa sembrare l’oro più lucente, è così anche per l’accumulo delle ten­
tazioni per il giusto»67. E sant’Ammona osserva: «La forza dello Spi­
rito, dopo le tentazioni, dà ai santi un’altra grandezza e una forza mag­
giore»68. In ogni caso, i Padri sottolineano che grazie alle tentazioni, e
quindi ai pensieri mediante i quali esse si presentano all’uomo, è pos­
sibile il progresso spirituale. Così scrive sant’Ammona a questo pro­
posito: «Se non vi assale nessuna tentazione, visibile o nascosta, non
potrete andare più avanti di dove siete»69. Sant’Antonio l’Eremita vi
vede anche una condizione necessaria alla salvezza: «Chiunque non
sia stato tentato, egli dice, non potrà entrare nel regno dei cieli. In­
fatti è detto: “Sopprimi le tentazioni e nessuno è salvato”»70.
Dall’atteggiamento di fronte ai pensieri dipende, dunque, il desti­
no spirituale dell’uomo.
E per mezzo del consenso ai pensieri che le passioni nascono e per­
sistono, e i demoni prendono possesso dell’anima o continuano a per­
manervi. Al contrario, sarà per il rifiuto dei pensieri che l’uomo, con
64 Discorsi ascetici, 48, citato da CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 16 J.
65 Cfr. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 130.
66 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 45.
67Lettere, 118. Cfr. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 130. AMMONA, Lettere, IX, 2; 3.
68Lettere, XHI, 6.
69Ibid., IX, 1.
70Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 5.
493
l’aiuto di Dio, può essere liberato dalle sue passioni e progredire nel­
la virtù, unirsi a Dio e crescere in questa unione.
L’uomo, tuttavia, se non sta in guardia, presto si lascerà trascinare
dai pensieri che gli si presentano. Vi è un momento in cui il rifiuto del
pensiero è facile, un altro momento in cui è difficile, un altro in cui di­
viene quasi impossibile.
Combattere i pensieri suppone una conoscenza precisa del modo
d’agire dei pensieri sull’anima e dell’atteggiamento dell’anima di fron­
te ai pensieri. La tentazione, hanno osservato i Padri, obbedisce a un
meccanismo invariabile, che comporta momenti diversi che corri­
spondono all’evoluzione dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti
del pensiero che gli è proposto.

3. Il meccanismo della tentazione


Le diverse tappe della tentazione71 sono:
1) La suggestione o attacco (prosbole). San Filoteo il Sinaita dà una
definizione ripresa da san Giovanni Climaco72: «E un semplice pen­
siero, o meglio l’immagine di una cosa, che è nata nel cuore come
un’apparizione fortuita e che si mostra improvvisamente allo spirito»73.
È, afferma san Giovanni Damasceno, «semplicemente ciò che ci pro­
pone il nemico»74. San Marco l’Eremita definisce la suggestione come
«la semplice rappresentazione dell’opera cattiva»75. Definendola, tra
l’altro, come «un movimento del cuore senza immagine»76, non vuol
dire che non vi siano immagini in assoluto (perché questo contraddi­
rebbe la sua definizione precedente), ma che questa immagine (o que­
sto pensiero) non conosce allora nessuno sviluppo, e per questo è as­
similabile in qualche modo a un movimento o un «impulso primo»77.
2) Il legame (syndyasmós). San Giovanni Damasceno lo definisce

71 Si troverà la descrizione o l’evocazione in particolare in GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV,


74. MARCO L’EREMITA, La legge spirituale, 140-142; Il battesimo, 8-13; 16; 22-30; Su coloro che
pensano di essere giustificati per le loro opere, 211. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 43;
46. F iloteo il Sinaita , Quaranta capitoli neptici, 34; 35. G iovanni D amasceno , Discorso uti­
le all'anima. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 84. NlL SORSKY, Regola, 1.
72 G iovanni C limaco , La Scala, XV, 74.
73 Quaranta capitoli neptici, 35.
74Discorso utile all'anima.
75 II battesimo, 22.
76La legge spirituale, 141.
77 II battesimo, 10.
494
come «l’accoglienza del pensiero che il nemico ci ha suggerito»78e san
Giovanni Climaco, più precisamente, come «una conversazione con
ciò che si è appena manifestato [...], accompagnata o non da passio­
ne»79. Come indicato da quest’ultima precisazione, è necessario di­
stinguere due gradi di legame: un primo grado che è la semplice con­
versazione (omilia) con il pensiero, in cui l’uomo si sofferma sul pen­
siero e lo trattiene discutendo con esso, ma «senza passionalità»,
cioè senza in alcun modo legarsi ad esso; poi un secondo grado che
costituisce il legame propriamente detto, in cui l’uomo entra veramente
in relazione con il pensiero, si attacca e si unisce ad esso prendendo­
vi piacere80. L’uomo, allora, fa notare sant’Esichio di Batos, mescola i
propri pensieri e le proprie immagini ai pensieri e alle immagini del­
la suggestione demoniaca81. A motivo di questa unione, l’immagine o
il pensiero demoniaco «cresce sempre più, e si dilata fino a sembrare
desiderabile, bello e piacevole allo spirito»82, che non è lontano allo­
ra dal lasciarsi catturare da esso. A questo stadio, tuttavia, se l’uomo
si unisce al pensiero, non vi aderisce ancora, non l’accetta ancora pie­
namente.
3) Il consenso (synkatàthesis) «è assenso dell’anima, accompagnata
dal diletto, a ciò che gli è proposto»83. E a questo stadio che l’uomo
dà il suo pieno assenso a ciò che gli viene proposto, accetta di segui­
re il pensiero e di agire secondo esso, abbandonandosi pienamente
al piacere che questo gli procura.
4) La schiavitù {aichmalosia). Avendo dato il suo pieno consenso
al pensiero, l’uomo ne diviene schiavo. San Giovanni Climaco defi­
nisce la schiavitù come «un trascinamento violento e involontario del
cuore; o anche un attacco permanente all’oggetto in questione che di­
strugge l’eccellente condizione della nostra anima»84.
5) L'adempimento (enérgeia). San Giovanni Damasceno lo definisce
come «l’atto stesso del pensiero passionale al quale abbiamo accon­
78 Discorso utile all’anima.
79 GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 74. Filoteo il Sinaita dà la stessa definizione: «L’ade­
sione è intrattenersi, in maniera appassionata o meno, con ciò che è apparso» (Quaranta capi­
toli neptici, 35).
80 Cfr. Il battesimo, 11. Cfr. Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 211.
G iovanni D amasceno , Discorso utile all’anima.
81 Capitoli sulla vigilanza, 43; 46.
82Ibid., 144.
83G iovanni C um aco , La Scala, XV, 74. Cfr. F iloteo il Sinatta, Quaranta capitoli neptici, 35.
M arco l’E remita, La legge spirituale, 93. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,84.
84 G iovanni C limaco , La Scala, XV, 74. Cfr. F iloteo il Sinaita , loc. dt.
495
sentito»85. Avendo dato il suo consenso al pensiero e fattosi prigionie­
ro di questo, l’uomo passa all’azione, compie il peccato in opere86.
6) La passione {pàthos). La ripetizione del consenso a un pensie
dello stesso tipo fa nascere la passione corrispondente o la rafforza
se essa è già installata. San Giovanni Climaco dà questa definizione:
«La passione, in senso stretto, è un male che da lungo tempo ha col­
pito segretamente l’anima e che, ormai, le ha fatto contrarre un lega­
me intimo con essa e l’ha stabilita come in una disposizione abituale,
in virtù della quale vi si trasporta da sé, spontaneamente e per affi­
nità»87.
Da un’estremità all’altra di questa catena, la colpevolezza dell’uo­
mo non è la stessa.
1) La suggestione è senza peccato (anamàrtéton)®', essa non è col­
pevole85. Abbiamo visto, infatti, che non dipende da noi non essere
tentati, che esula dal nostro potere non essere messi in presenza di sug­
gestioni da parte dei demoni. Non potremo essere ritenuti responsa­
bili perché non dipende dalla nostra volontà90. Adamo in paradiso era
assalito dalle suggestioni dei demoni91, e lo stesso è stato per Cristo,
che pure non ha mai peccato92.
2) Il legame. Esso può essere senza peccato, perché al primo grado
di questo stadio, l’uomo può intrattenersi con il pensiero senza at-
taccarvisi affatto e, come vedremo, con lo scopo di respingerlo. San
Giovanni Climaco fa, però, notare che esso non è sempre senza pec­
cato93: al secondo grado di questo stadio, lo abbiamo visto, vi è già
un’unione con il pensiero in cui l’uomo prende un certo piacere. Es­
so, tuttavia, non è completamente un peccato94nella misura in cui l’uo­
mo non ha ancora acconsentito al pensiero.
3) Il consenso. Questa è la tappa che costituisce veramente il pec­
cato. E questo consenso che i demoni cercano di ottenere95.
Fintanto che l’uomo non ha dato il suo consenso al pensiero, rimane
85Discorso utile all anima.
86Cfr. ESICHIO di Batos, Capitoli sulla vigilanza, 43; 46.
87G iovanni C limaco, La Scala, XV, 74. Cfr. F iloteo il Sinatta, Quaranta capitoli neptici, 35.
88 G iovanni C limaco , La Scala, XV, 74. F iloteo il Sinaita , Quaranta capitoli neptici, 35.
89 M arco l’E remita, La legge spirituale, 142.
90 Cfr. Id., Il battesimo, 23.
91 Cfr. tbid., 22.
92 Cfr. Id., Sull'unione ipostatica, 28.
93 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 74.
94 F iloteo il Sinatta, Quaranta capitoli neptici, 35.
95 M arco l’E remita, La legge spirituale, 93.
496
libero, e sfugge al potere dei demoni, i quali si limitano alla sugge­
stione96. Una volta dato il suo consenso, la colpa è definitivamente com­
messa, l’uomo è schiavo del pensiero, viene a trovarsi, suo malgrado,
trascinato, e non può più fare nulla per ritornare indietro97.
Se i Padri descrivono così dettagliatamente il processo della tenta­
zione, è per sottolineare che, se non dipende da noi essere messi in
presenza delle suggestioni, dipende però interamente da noi accoglierle
o respingerle98; è dimostrato chiaramente dunque che fino a un certo
punto di questo processo, ossia quello del consenso, è totalmente in
nostro potere evitare di essere sottomessi ai pensieri; infine, è per
farci sapere che a partire da questo punto noi perdiamo tale potere,
affinché possiamo intervenire in tempo. San Giovanni Crisostomo co­
sì scrive a questo riguardo: «Tra i cattivi pensieri, alcuni non supera­
no nemmeno la soglia della nostra anima, se abbiamo saputo munir­
la di buone difese; altri, dopo che sono nati in noi, crescono, se non
facciamo attenzione, ma, se sappiamo prevenire il loro progresso, sa­
ranno subito soffocati e imprigionati. Altri, infine, nascono, cresco­
no e si sviluppano in cattive azioni, rovinano completamente la salute
della nostra anima, dal momento in cui la nostra negligenza ha supe­
rato i limiti»99. La conoscenza di questo processo permette, dunque,
tutto sommato, di applicare una strategia adeguata per sconfìggere i
pensieri e gli attacchi demoniaci che li ispirano.

4. La strategia spirituale. Vigilanza e attenzione


In questa strategia, giocano un ruolo primordiale due comporta­
menti: la vigilanza (nèpsis)m e l’attenzione (prosoche).
96 Cfr. C ir illo di G erusalem m e, Catechesi battesimali, IV, 21. D o r o te o di G aza, Istruzioni
spirituali, xni, 143. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, VII, 8.
97 Cfr. D o r o te o DI G aza, Istruzioni spirituali, xm , 143.
98Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, 1, 17. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita
monastica, 6. Apoftegmi, serie alfabetica, Poem en, 28. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso utile
all’anima.
99 Omelie su Ozia, IV, 5.
100 H termine nèj>sis, che significa nello stesso tem po vigilanza e sobrietà, etimologicamente
deriva dal verbo nephein, che significa essere sobrio in opposizione al verbo methyein, che si­
gnifica essere ubriaco (cfr. I. HAUSHERR, Hésycasme et priire, Roma 1966, p. 226). Poiché oc­
correrebbe, per essere precisi, usare espressioni com e «vigilante sobrietà», o m eglio «sobria vi­
gilanza», per rendere questo termine, noi continuerem o, salvo eccezione, pur tenendo conto
di quest’altra connotazione, ad usare il termine «vigilanza», essendo questa nozione la più im ­
portante delle due e coprendo più ampiamente l’ambito semantico del termine népsis.

497
La raccomandazione di essere attenti e vigilanti si trova frequente­
mente nelle Sacre Scritture. Il Cristo stesso lo ha fatto in diverse ri­
prese: «State attenti, vegliate [...], vegliate dunque [...]. Ciò che dico
a voi, lo dico a tutti: Vegliate» (Me 13,33.35.37); «Restate qui e ve­
gliate» (Me 14,34); «Vegliate e pregate, affinché non entriate in ten­
tazione» (Me 14,38); «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno tro­
verà ancora svegli. Se arrivando nel mezzo della notte o prima dell’al­
ba, troverà i suoi servi ancora svegli, beati loro» (Le 12,37-38); «Vegliate
in ogni momento, per avere la forza di sfuggire a tutti questi mali
che stanno per accadere e per comparire davanti al Figlio dell’uomo»
(Le 21,36). Anche l’apostolo Paolo così scrive a questo riguardo:
«Ritornate in voi (eknepsate) secondo giustizia e non peccate» (ICor
15,34); «Non dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo tempe­
ranti» (1 Ti 5,6). E san Pietro aggiunge: «Siate saggi e sobri» (lPt 4,7);
«Siate sobri, vigilanti! Il vostro nemico, il diavolo, va in giro come
un leone ruggente cercando qualcuno da divorare» (lPt5,8). La stes­
sa raccomandazione la ritroviamo innumerevoli volte nelle parole e
negli scritti dei Padri101. L’attenzione e la vigilanza sono presentate nel­
le Vite dei santi come virtù che questi possiedono al più alto gra­
do102. Questi due comportamenti molto simili (i due termini spesso so­
no impiegati come sinonimi) costituiscono, infatti, una condizione di
ogni vita spirituale: è in gran parte per loro mezzo che l’uomo può,
per grazia divina, essere liberato dal male, evitare di ricadérvi e, cor­
relativamente, unirsi strettamente a Dio e rimanere unito a lui (è que­
sto il fine). E per questo motivo che Abba Poemen afferma: «La vi­
gilanza, l’attenzione a se stessi come anche il discernimento sono le
guide dell’anima»103; arriva poi a dichiarare: «Noi non abbiamo biso­
gno di null’altro se non di uno spirito vigilante»104.
101 Vedi tra gli altri: Apoftegmi, serie alfabetica, Poem en, 35; 137; 173; Rufo, 1. lbid., N 81;
N 537; N 653; Am 166,12. Prima vita di san Pacomio, 96. BARSANIMO, Lettere, 7; 10; 44; 45; 49;
53; 98; 106; 136; 137; 138; 187; 197; 203; 216; 235; 237; 240; 264; 267; 268; 269; 347; 379; 412;
418; 429; 454; 573; 613; 614; 615; 769. GIOVANNI DI GAZA, Lettere,, 291; 305; 342; 482; 575bis;
583; 770; 833. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, X , 112; X I, 114; Lettere, XIII. ISACCO
IL SlRO, Discorsi ascetici, 58; 60. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, II, 12; IV, 86; XXVI, 117. MAS­
SIMO IL CONFESSORE, Discorso ascetico, 16. CALUNICO, Vita d Ipazioy50. ISAIA DI SCETE, Asceti-
con, XXVH , 18. GREGORIO P alamas , Triadi, I, 2, 9. San Basilio di Cesarea ha dedicato all’at­
tenzione a sé un’intera omelia: Su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso.», P G 3 1 ,197C-218B.
EsiCHIO DI BATOS ha scritto un Discorso informa di capitoli sulla vigilanza e san FlLOTEO IL Sl-
NATTA, Quaranta capitoli neptici.
102 Vedi per esempio: ATANASIO DI ALESSANDRIA, Vita di Antonio, 9. Prima vita di san Paco-
miOy 72.
103Apoftegmiy serie alfabetica, Poemen, 35.
104Ibid.y 137.
498
Occorre, altresì, precisare che per essere pienamente efficaci, at­
tenzione e vigilanza devono essere permanenti e senza cedimenti105.
Ciò non è certamente possibile immediatamente, ma occorre lavora­
re per giungervi. I Padri affermano, sulla base della loro esperienza,
che l’uomo formato è capace di una tale attenzione e vigilanza dedi­
candosi a diverse attività. A questo proposito così scrive san Giovan­
ni di Gaza: «I perfetti sono perfettamente attenti a se stessi, come l’ar­
tigiano che conosce perfettamente il suo mestiere. Se, mentre lavora,
gli capita di avere un colloquio con qualcuno, la conversazione non gli
impedisce allo stesso tempo di continuare a esercitare la sua arte»106.
Gli spirituali avanzati dànno prova di tale vigilanza anche durante il
sonno, come testimonia questo versetto del Cantico ricordato da san
Giovanni Climaco107: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (C/5,2),
e come afferma san Giovanni di Gaza: «Se il cuore veglia, il sonno del
corpo non esiste»108.
Essere attenti a se stessi, vegliare su se stessi, secondo la frequente
raccomandazione dei Padri, consiste in senso generale nell’occuparsi
di sé, cioè del proprio essere e del proprio destino spirituale piuttosto
che delle cose esteriori109. Più precisamente, consiste nel cercare di
(ri)conoscere le proprie malattie spirituali, che è la condizione della
guarigione: «Dovete applicarvi in ogni cosa a conoscere la situazione
e le malattie della vostra anima. Difatti molti hanno infermità perico­
lose che non vengono riconosciute [...]. Dio ci ha avvertiti di non in­
terferire nella guarigione degli altri, e di non metterci a studiare per
conoscere la natura delle loro malattie, ma di riservare una parte del­
le nostre cure e della nostra applicazione per scavare nelle pieghe del
nostro cuore», afferma san Basilio110.
Più generalmente, vuol dire essere attenti a tutto l’essere, sorvegliare
sia il corpo che l’anima, il comportamento esteriore per evitare le azio­
ni cattive, e la propria vita interiore per evitare i pensieri cattivi. È co­
sì che è scritto nel libro dei Proverbi: «La via dei retti è fuggire il ma­
le; chi vuol custodire la sua anima sorveglia la sua strada» (Pro 16,17).
E san Gregorio Palamas fa notare a questo riguardo: «“Bada a te”, di­
105Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XX, 3. G iovanni C um aco , La Scala, XXVII,
39; 86. BARSANUFIO, Lettere, 269. GIOVANNI DI G aza , Lettere, 459. Apoftegmi, N 427; N 529.
106Lettere, 459.
107Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVII, 18.
108Lettere, 519.
109Cfr. Apoftegmi, Collazione dei dodici anacoreti. BASHJO DI CESAREA, Omelia su queste pa­
role: «Fa’ attenzione a te stesso».
110Loc. cit.
499
ce Mosè (Dt 15,9), cioè a te completamente: non a una sola parte di te
stesso dimenticando il resto [...]. Poni, dunque, questa attenzione sul­
la tua anima e sul tuo corpo [...]. Affidati, in breve, a questa custodia,
a questa attenzione, non perdere il controllo di te stesso, o piuttosto
bada a te, veglia e sorvegliati! [...] “Se lo spirito di colui che domina”,
cioè quello degli spiriti cattivi e delle cattive passioni, “si leva contro
di te”, afferma PEcclesiaste, “non lasciare il tuo posto”, cioè non la­
sciare senza sorveglianza nessuna parte della tua anima, nessun mem­
bro del tuo corpo. Così, infatti, tu diverrai inaccessibile agli spiriti che
ti attaccano dal basso»111.
Tuttavia, poiché, come abbiamo visto, è dai pensieri che derivano
le azioni e soprattutto dipendono la nascita e la perpetuazione delle
passioni, è su essi che i Padri raccomandano in particolare di portare
l’attenzione e la vigilanza. E da questo, più propriamente, che dipen­
de la guarigione spirituale dell’uomo, in quanto è soprattutto a que­
sto livello che la vigilanza e l’attenzione appaiono come rimedi di gran­
de importanza. In un’omelia su queste parole del Deuteronomio 4,9
e 15,9): «Bada a te», san Basilio dice: «Fate attenzione a voi stessi e
non nascondete nel vostro spirito cattivi pensieri [...]. Noi siamo fra­
gili, e pecchiamo facilmente con i pensieri; è per questo che Dio, che
ha formato i nostri cuori, sapendo che i movimenti della nostra vo­
lontà ci fanno cadere in molti disordini, ci ha raccomandato di con­
servare in grande purezza la parte razionale dell’anima, perché è que­
sta che governa e comanda. È necessario conservare con maggior cura
ciò che è più incline al peccato. I medici esperti, conoscendo il tem­
peramento dei corpi deboli, prescrivono loro rimedi per fortificarli. E
per questo che Dio ci ha dato più mezzi per fortificare in noi la parte
più debole»112.
1) Essere attenti e vigili riguardo ai propri pensieri, vuol dire, in p
mo luogo, sorvegliare il proprio cuore continuamente in modo da po­
ter osservare i pensieri che nascono in esso fin dal loro insorgere113ed
essere costantemente attenti sul modo di vigilare in modo da poter far
fronte agli attacchi improvvisi e imprevedibili del nemico114. Ecco per­

111 Triadi, 1,2,9.


112Loc. cit.
113 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 85. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, III, 43; Lettere, I.
Esicmo DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 14; 44. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli nepti-
ci, 25.
114 Cfr. BASILIO DI C esarea , Omelia su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso».

500
ché la vigilanza spesso è chiamata «custodia del cuore»115; lo spirito
deve avere alla porta del cuore l’atteggiamento di una sentinella che
allo stesso tempo sorveglia il territorio circostante, facendo attenzio­
ne al minimo movimento, alla minima cosa intravista, al minimo ru­
more, e si pone in permanenza nella condizione d’intervenire. Riguardo
al primo punto, sant’Esichio di Batos così scrive: «Lo scopo [...] del­
la vigilanza continua [...] è quello di vedere, sin da quando essi si
formano, i fantasmi dei pensieri nello spirito»116. Si tratta, afferma,
da parte sua, san Filoteo il Sinaita, di «sorveglia [re] rigorosamente i
raggiri delle potenze malevole e i loro attacchi sorti dall’immagina­
zione»117. E san Basilio consiglia: «Girate gli occhi da ogni parte af­
finché non siate colti di sorpresa»118. Riguardo al secondo punto, san
Gregorio Magno osserva: «La vigilanza dev’essere praticata in ogni
istante [...]. Occorre essere sempre sul piede di guerra, per ingaggia­
re la lotta contro l’Avversario; la nostra diffidenza deve prevedere in­
cessantemente le sue manovre occulte [...]. Se si vuole che la tenta­
zione improvvisa e nascosta non ci sorprenda, vi è la necessità per­
manente di tenerla distante con [...] la spada della nostra vigilanza»119.
La formula di un Anziano riassume questi due punti: «Il lavoro di
un monaco è quello di veder giungere da lontano i suoi pensieri»120.
Possiamo ricordare a questo proposito le parole del Cristo: «Se il pa­
drone di casa conoscesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe
scassinare la casa» (Le 12,39).
2) Essere attenti e vigilanti, vuol dire, in secondo luogo, esamina
ogni pensiero fin da quando lo si è notato121, poi distinguere la sua na­
tura in modo da vedere precisamente se si tratta di un pensiero buo­
no, indifferente o cattivo122.
Nel ricordare la prima di queste due fasi, san Giovanni di Gaza con­
115 Essa, a volte, è chiamata anche «custodia dello spirito» (cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli
sulla vigilanza, 113; 121. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 26). La prima espres­
sione, però, è più adeguata, poiché la custodia dello spirito indica, in senso proprio, lo vedremo
ulteriormente, l’evitare ogni rappresentazione anche buona: questo evitare è la condizione del­
la preghiera pura e senza distrazione. Su questa distinzione, vedi ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 3.
G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 61.
116 Capitoli sulla vigilanza, 153.
117 Quaranta capitoli neptici, 7.
118 Omelia su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso».
119Moralia su Giobbe, XX, 3.
120Apoftegmi, M 64.
121 Cfr. B ar sa nim o , Lettere, 85; 92.
122Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll, n ), VI, 3. B asilio di C esarea, Omelia su queste
parole «Fa’ attenzione a te stesso». GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, VII, 5. ISAIA DI SCETE, Asce-
ticon, XXVI, 19. ESICHIO DI B atos , Capitoli sulla vigilanza, 121.
501
sigila: «Per tutti i pensieri agisci allo stesso modo: appena il pensiero
arriva, esaminalo»123. Sant’Esichio di Batos descrive così la vigilanza:
«Essa è la concentrazione perseverante di un pensiero che sta di guar­
dia alla porta del cuore. Un tale pensiero osserva i pensieri perfidi che
arrivano, ascolta ciò che essi dicono, guarda ciò che fanno questi as­
sassini, e quale forma i demoni hanno inciso su di essi»124.
Questa prima fase, l’esame del pensiero, ha come finalità la secon­
da: il discernimento della sua esatta natura. San Macario così scrive a
questo riguardo: «L’uomo di Dio non si applichi su un solo pensiero
senza fare discernimento»125. Dal canto suo, così osserva sant’Esichio
di Batos: «Devi vedere con lo sguardo penetrante e intenso dello spi­
rito, per poter riconoscere i pensieri che vi entrano»126. Un apoftegma
precisa: «Gli Anziani dicevano: A ogni pensiero che giunge in te, de­
vi dire: “Sei dei nostri, o vieni dal nemico?”. E certamente esso lo con­
fesserà»127. Ecco un consiglio che testualmente dà Evagrio: «Sii tu il
portiere del tuo cuore, e a ogni pensiero che si presenta, rivolgi que­
sta domanda: Sei dei nostri o degli avversari?»128. San Giovanni di Ga­
za non dice altro che: «Custodire il proprio cuore, significa avere lo
spirito vigilante e lucido di colui che è in guerra [...]. Se vuoi sapere
con chi hai da fare, con un nemico o con un amico, lancia una pre­
ghiera e interrogalo: “Sei dei nostri o dei nemici?”, ed esso ti dirà la
verità»129.
3) Se si tratta di un pensiero buono e indifferente, l’uomo può l
sciarlo penetrare in sé profondamente, perché non porterà conse­
guenze, eccetto nel caso in cui è in stato di preghiera, perché alcuni di
tali pensieri ostacolano la preghiera pura. San Nilo Sorsky scrive a que­
sto proposito: «Se non è durante la preghiera, ma nel corso di indi­
spensabili occupazioni della vita, che entrano e rimangono nell’anima
[questo tipo di] pensieri, allora una tale situazione è senza peccato:
persino i santi hanno soddisfatto degnamente e senza colpa agli ob­
blighi della vita del corpo. In ogni pensiero di questo genere, affer­
mano i Padri, il nostro spirito, se guarda se stesso con atteggiamento
pio, rimane unito a Dio»130.
123Lettere, 86.
124 Capitoli sulla vigilanza, 6.
125 Omelie (Coll. E), LEI, 14.
126 Capitoli sulla vigilanza, 22.
127Apoftegmi, N 220.
128Antirretico, Orgoglio, 17.
129Lettere, 166.
m Regola, 1.
502
Non è così, però, nel caso si tratti di un pensiero cattivo. L’uomo
allora deve assolutamente evitare di abbandonarvisi, e rifiutarlo prima
di aver raggiunto, nel processo che abbiamo precedentemente de­
scritto, lo stadio del consenso.

5. Il rigetto dei pensieri cattivi


Per respingere il pensiero cattivo quando si presenta, si possono as­
sumere due comportamenti:
a) Il primo, che possiamo chiamare «antirretico», consiste nell’a
torizzare il pensiero a penetrare più a fondo, fino al primo grado del­
lo stadio del legame (syndyasmós) in cui s’impegna con esso, come ab­
biamo già visto, in una discussione (omilia) sprovvista di ogni passio­
ne. Allora per l’uomo si tratta, nell’ambito di questa discussione con il
pensiero, di contraddirlo e confutarlo, in una confutazione (antirrèsis)
che consiste nell’opporgli diversi argomenti, i quali, in pratica, sono,
molto spesso, brevi brani delle Sacre Scritture che gli rispondono esat­
tamente131. L’uomo deve, allora, scrive san Macario, «ruminare le pa­
role dei comandamenti di Dio, ed esercitarvi il suo spirito. Tutto que­
sto affinché il pensiero antagonista e devoto che è in noi prevalga sul
pensiero cattivo [...]»132. Di questo comportamento, osserva san Gio­
vanni Climaco, «ci rende testimonianza [...] colui che dichiara: “A chi
mi insulta saprò rispondere” (Sai 119[118],42) per confutarli; e an­
cora: “Ci hai reso capaci di confutare i nostri vicini” (Sai 80[79,7)»133.
Ecco perché Abba Giuseppe di Panefo consiglia ad alcuni che gli
domandano come fare quando i pensieri si avvicinano: «Lasciali en­
trare e combatti contro di essi»; e giustifica così questo consiglio: «Se
essi entrano, e se combatti contro di essi dando e ricevendo dei colpi,
essi ti renderanno più esperto»134. Sant’Esichio di Batos insegna ugual­
mente: «Quando lo spirito [...] ha acquistato l’abitudine incessante al­
la lotta che gli permette di riconoscere veramente i pensieri, [...] allo­
ra deve lasciarli entrare con conoscenza di causa e denunciarli»135.

131 Ricordiamo che Evagrio Pontico ha scritto un trattato intitolato Antirretico, in 8 libri. È
una raccolta di testi biblici contro i demoni tentatori, riguardante gli otto vizi capitali. In tale
opera propone, per ogni rilevante tipo di pensiero, passi della Scrittura adatti a essergli opposti.
132 Omelie (Coll. II), LITE, 14.
133La Scala, XXVI, 62.
134Apoftegmiy serie alfabetica, Giuseppe di Panefo, 3.
135 Capitoli sulla vigilanza, 44.
503
Un tale modo di combattere i pensieri deve, tuttavia, essere riser­
vato a coloro i quali sono sufficientemente avanzati spiritualmente per
non lasciarsi sedurre, in questa discussione, dagli argomenti del ne­
mico e per non essere alla fine vinto136. Abba Giuseppe di Panefo
implicitamente lo riconosce, quando a un altro visitatore che gli pone
la stessa domanda, consiglia: «Non lasciare penetrare affatto [i pen­
sieri] dentro di te»137. Quanto a san Giovanni di Gaza, egli scrive mol­
to esplicitamente a uno dei suoi figli spirituali: «Il replicare non è
per tutti, ma per i potenti secondo Dio, a cui i demoni sono sottomessi.
Infatti, se qualcuno di coloro che non hanno questa potenza [di con­
futazione] replica, i demoni lo tormentano deridendolo, per il fatto
che egli è in loro potere e [pretende di] replica [re] loro»138. San Bar-
sanufio scrive la stessa cosa a uno dei suoi discepoli: «Per quanto ri­
guarda l’accoglienza di un pensiero che si presenta, è consentito solo
ai perfetti lasciarlo entrare e in seguito scacciarlo. Tu, dunque, non in­
trodurre il fuoco nella tua foresta affinché essa non ne sia totalmente
consumata [...]. Non ti esercitare da solo nel turbamento, perché non
resisteresti a una tale tentazione»139. E commentando la duplice ri­
sposta di Abba Giuseppe di Panefo, a proposito dei pensieri, afferma
inoltre: «Colui che è capace di resistere e lottare senza essere vinto li
lasci entrare, mentre il debole, che non ne è capace e darebbe piut­
tosto il suo consenso», non deve farlo140. Anche se l’uomo non è vin­
to, se non è sufficientemente forte, rischia di uscirne ferito o insudi­
ciato, come sottolinea sant’Isacco il Siro che sconsiglia, per queste ra­
gioni, tale procedimento di lotta: «Non abbiamo sempre il potere di
opporci, per fermarli, ai pensieri che ci combattono, ma ne riceviamo
spesso piaghe che non guariscono se non dopo lungo tempo. [...] [Di­
scutere con i demoni] permette loro di armarsi contro di te: potranno
ferirti ben al di là di quanto potranno opporre loro la tua saggezza e
il tuo sentimento. Ma anche se tu li vincessi, la sozzura dei pensieri in­
quinerebbe la tua riflessione, e ancora per lungo tempo tu dovrai sen­
tire il loro cattivo odore»141.
Che questo modo di combattere sia riservato ai perfetti non signi­
fica, tuttavia, che egli sia il più perfetto142: oltre al rischio di disfatta
136Cfr. Esicmo DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 44.
137Apoftegmi, serie alfabetica, Giuseppe di Panefo, 3.
138Lettere, 304.
U9ib id .,m .
140Ibid., 432.
141 Discorsi ascetici, 33.
142 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 62.
504
che esso comporta, autorizza un certo sviluppo della suggestione, che,
fa notare san Marco l’Eremita, si accompagna inevitabilmente a un
certo turbamento (parripismós)m che giustamente i perfetti evitano;
implica che si abbia un certo interesse a quel pensiero, che ci si sof­
fermi su di esso, il che distoglie lo spirito dall’attenzione esclusiva che
esige la preghiera pura; infine, in una certa misura, fa il gioco dei de­
moni: ciò è quanto san Giovanni di Gaza consiglia a uno dei suoi di­
scepoli: «Non contraddire, perché è dò che essi desiderano e non smet­
teranno mai»144.
Ecco perché è preferibile l’altro modo di combattere; peraltro, è
quello che i Padri raccomandano più frequentemente, in quanto es­
so è più diretto ed efficace del precedente: sant’Isacco dice che nel-
l’usarlo «si è imboccato il cammino più breve, e si è evitato di errare
sulla via più lunga»145. Esso costituisce la «confutazione rapida».
b) Questo secondo modo di combattimento, che deriva da una fo
ma di esercizio della vigilanza, consiste nel non lasciare affatto entra­
re il pensiero che si presenta146, e per fare ciò occorre rigettarlo (i Pa­
dri dicono anche: reprimerlo, escluderlo, tagliar corto...) fin dal suo
nascere, nell’istante stesso del suo primo apparire, doè quando esso è
ancora una semplice suggestione147. «Occorre solo percepire [le sug­
gestioni demoniache], e immediatamente respingerle, fin da quando
scaturiscono e attaccano», consiglia sant’Esichio di Batos148. San Filo-
teo il Sinaita, da parte sua, osserva: «Colui che resiste fin dall’inizio,
cioè fin dalla suggestione [...] ha tagliato corto con tutte le infamie»149.
I Padri insistono su questo: occorre non accogliere il seme del nemi­
co150, e a fortiori non soffermarsi sull’immagine o sul pensiero sugge­
rito dal nemico151. In ogni caso, «stessa regola: non lasciar perdurare
il pensiero», consiglia san Massimo152. Si tratta di bloccare nettamen­
143Cfr. A Nicola, VE.
144Lettere, 166. Cfr. DOROTEO DI G aza , Lettere, Vm, 193.
145Discorsi ascetici, 83.
146Cfr. Barsanufio, Lettera, 257. Apoftegmi, X, 90. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli
neptici, 25.
147 Cfr. Esicrao DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 20; 22; 88. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta
capitoli neptici, 2; 26. Apoftegmi, serie alfabetica, G iuseppe di Panefo, 3. TEODORO DI SCETE,
ibid., N 220; N 275. BARSANUFIO, Lettere, 432. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità,
m , 52.
148 Capitoli sulla vigilanza, 44.
149 Quaranta capitoli neptici, 36.
150B arsanufio , Lettere, 256. C irillo di G erusalemme, Catechesi battesimali, n, 3.
151 G iovan ni di G aza, Lettere, 660. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, ni, 52.
ORIGENE, Commento ai Proverbi, 5, PG 1 7 ,176CD.
152 Centurie sulla carità, IH, 88.
505
te all’origine il processo della tentazione che abbiamo descritto pre­
cedentemente. Sant’Esichio di Batos così scrive a questo riguardo: «Se
il nostro spirito è stato provato, se è stato istruito, se è nella condi­
zione di custodire se stesso e di vedere in tutta purezza, come in un
cielo sereno, le immagini seduttrici e le illusioni degli spiriti cattivi,
spegne immantinente e con facilità [...] le frecce infiammate del dia­
volo. Egli rifiuta di lasciarsi trasportare dall’immaginazione passio­
nale. Non accetta che i nostri pensieri, abbandonandosi alla passione,
si conformino all’immagine che loro è apparsa, o s’intrattengono ami­
chevolmente con essa, o vi si soffermino, o vi acconsentano»153. Al con­
trario, lasciare che questo processo si sviluppi, è, se non proprio cor­
rere verso la perdizione, almeno votarsi poco dopo a una lotta più du­
ra e che si sarebbe potuta evitare. E così che san Cirillo di Gerusalemme
consiglia: «Non raccogliere il seme [...]. Prima che fiorisca, strappa il
male fino alle radici, affinché la tua indolenza originaria non ti co­
stringa più tardi (cfr. Mt 3,10) a pensare di usare la scure e il fuoco.
Comincia col guarire i tuoi occhi malati in tempo opportuno, per non
dover cercare il medico una volta diventato cieco»154.
Secondo una simbologia frequentemente usata dai Padri, se si la­
scia passare la testa del serpente, il suo corpo penetrerà facilmente.
Per questo san Giovanni Cassiano scrive: «Dobbiamo ricordarci con­
tinuamente questo precetto: “Custodisci con cura il tuo cuore”, e, se­
condo il comandamento principale di Dio, osservare con vigilanza la
testa del serpente, cioè l’inizio dei pensieri cattivi, attraverso i quali il
diavolo prova a insinuarsi nella nostra anima. Per la nostra negligen­
za, non lasciamo invadere il nostro cuore da tutto il corpo di questo
serpente - che è poi il consenso alla tentazione -, perché è molto
evidente che, una volta introdotto, con il suo morso velenoso farà
perire il nostro spirito ormai suo prigioniero»155. Per questo motivo
così consiglia san Gregorio di Nissa: «Se vuoi evitare di vivere insie­
me al rettile, guàrdati dalla testa, cioè dal primo attacco del male. E
a questo che si riferisce il comandamento illustrato dal Signore: “Ti
insidierà al tallone e tu mirerai alla sua testa” (cfr. Gn 3,15)»156. Un al­
tro Padre spiega allo stesso modo: «I pensieri hanno una sola testa [...].
Se fin dall’inizio tu non riconosci nemmeno la testa per espellerla da
153 Capitoli sulla vigilanza, 143.
154 Catechesi battesimali, II, 3.
155 Istituzioni cenobitiche, VI, 13.
156 Omelie sul Padre nostro, IV, 6.
506
te, sarai preso e ingannato dagli altri pensieri successivi [...]. Se, dun­
que, vuoi vincere le passioni, osserva sempre la testa dei pensieri e
quando avrai scoperto qual è, lotta solo contro di essa»157. Sant’Esi-
chio di Batos offre lo stesso consiglio: Fin dal momento in cui hai ri­
conosciuto coloro che entrano, «devi subito, attraverso la confutazio­
ne, schiacciare la testa del serpente»158.
I Padri chiamano simbolicamente le suggestioni: «testa del serpen­
te», ma anche «primogeniti d’Egitto» (nel linguaggio spirituale l’E­
gitto indica l’insieme delle passioni), o «bambini di Babilonia» (anche
Babilonia indica la terra delle passioni abitate dai demoni). E quando
essi consigliano di sterminare impietosamente i pensieri alla loro na­
scita, essi ricordano spesso questi due versetti del Salmo 137 [136],
8-9: «Figlia di Babilonia, votata alla distruzione: beato chi ti ricambierà
quanto hai fatto a noi! Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà
contro la roccia»159. «La roccia», cioè, secondo l’interpretazione dei
Padri, il Cristo invocato nella preghiera.

6. H ruolo della preghiera e della pazienza


Nel combattimento contro i pensieri, che la confutazione sia «lun­
ga» o «rapida», la preghiera gioca, in realtà, insieme all’attenzione e
alla vigilanza, un ruolo indispensabile. Lo stesso Cristo le associa: «Ve­
gliate e pregate, affinché non entriate in tentazione» (Mi 26,41; Me
14,38; cfr. Le 22,40.46). I Padri non fanno che ripetere il suo coman­
damento160, così spesso che la preghiera appare, con la vigilanza, co­
me la principale arma di cui l’uomo dispone per affrontare vittoriosa­
mente le tentazioni e coloro che le suscitano161, come il principale ri­
medio contro i pensieri cattivi162.
I Padri molto spesso consigliano di ricorrere alla «preghiera di Ge­
sù», che presenta in quest’ambito diversi vantaggi. Da un lato, per la

157Apoftegmi, PA 72, 3 b.
158Capitoli sulla vigilanza, 22. Cfr. 178.
159Vedi per esempio EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 158.
160Cfr. D oroteo DI G aza , Lettere, Vili, 193. BARSANUFIO, Lettere, 660. ISACCO IL SlRO, 'Di­
scorsi ascetici, 33. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 20; 105; 168; 182; 183; 189. FiLO-
TEO IL Sin ATTA, Quaranta capitoli neptici, 25.
161 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 135.
ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 176.
162 Cfr. AMMONA, Lettere, IX, 2. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere giustifi­
cati per le loro opere, 98.
507
brevità della sua formula, essa può essere, opportunamente, opposta
istantaneamente alla suggestione e permettere all’uomo di essere co­
sì rapido come questa nella sua reazione163; come afferma san Gio­
vanni Climaco, essa permette di «respingere con una sola parola i pen­
sieri nel momento stesso in cui si presentano»164. Dall’altro lato, la
continuità le permette di andare di pari passo con la vigilanza che
suppone questa stessa qualità. Infine e, soprattutto, il Nome di Gesù
che essa contiene è di grande forza contro i pensieri e contro coloro
che li suggeriscono, come afferma san Giovanni Climaco quando dà
questo consiglio: «Flagella i tuoi nemici con il Nome di Gesù, perché
non vi è arma più potente sia in cielo che sulla terra»165. È proprio per
questo che sant’Esichio di Batos raccomanda: «Per quanto spesso ac­
cada ai cattivi pensieri di moltiplicarsi in noi, gettiamo in mezzo ad
essi l’invocazione del nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Li ve­
dremo allora svanire immediatamente come il fumo nell’aria, come ci
ha insegnato l’esperienza»166. Egli stesso consiglia, d’altronde, di «gri­
dare verso il Cristo [...] subito dopo la confutazione. Allora colui che
combatte vedrà il nemico dissiparsi con la sua immagine, come pol­
vere al vento o fumo che svanisce, scacciato dal Nome adorabile di
Gesù»167.
Non si tratta, tuttavia, di una pratica magica: nell’invocare il Nome
di Gesù, l’uomo si rifugia nel Cristo168per riceverne protezione e
aiuto169; per mezzo della preghiera egli chiede - e se prega corretta-
mente riceve -, la grazia che lo aiuta e con la quale egli vince i nemi­
ci170. Come afferma san Filoteo il Sinaita, è «Gesù invocato» che «scac­
cia i demoni e i loro fantasmi»171.
Dinanzi ad avversari così astuti, senza la preghiera, l’uomo reste­
rebbe limitato alle proprie forze, e queste non gli basterebbero per ot­
tenere la vittoria172. Sant’Esichio di Batos raccomanda: «Se ci affidia­
mo solo alla nostra vigilanza o alla nostra attenzione, saremo presto
travolti dai nemici, atterrati, noi cadremo. Ci impiglieremo sempre più
l6’ Cfr. E vagrio P ortico , La preghiera, 98.
164 G iovanni C um aco , La Scala, XXVm, 19. Cfr. F iloteo il Sinatta, Quaranta capitoli nep-
tiri, 2.
165La Scala, XX, 7. Cfr. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 152.
166Capitoli sulla vigilanza, 98. Cfr. 174.
167Ibid., 20.
168Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 432.
169Cfr. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 130.
170Cfr. Esicm o DI Batos, Capitoli sulla vigilanza, 22; 26.
171 Quaranta capitoli neptici, 25. Cfr. 26. BARSANUFIO, Lettere, 39.
172 Cfr. EsiCfflO DI Batos, Capitoli sulla vigilanza, 24; 26; 42; 181.
508
nelle loro reti: cioè nei cattivi pensieri»173. «È impossibile scacciare la
suggestione cattiva senza l’invocazione di Gesù Cristo», egli arriva per­
sino ad affermare174. Per mezzo della preghiera, infatti, l’uomo ottie­
ne l’indispensabile aiuto di Dio, la cui onniscenza sventa le astuzie dei
demoni e la cui onnipotenza annienta la loro forza. «Che mai cessi [...]
la preghiera al Cristo Gesù nostro Dio. Infatti non troverai in tutta la
tua vita soccorso più forte, al di fuori di Gesù. Solo il Signore, poi­
ché egli è Dio, conosce le furberie, le frodi e le astuzie dei demoni»,
scrive sant’Esichio di Batos175. «Ricorri a Dio contro [i tuoi nemici],
gettando la tua impotenza dinanzi alla sua presenza, perché egli può
non solo chiudere loro la bocca, ma anche ridurli all’impotenza», con­
siglia da parte sua san Barsanufio176. E solo la preghiera che può non
solo respingere, ma distruggere il pensiero estraneo. «Ciò che spe-
gne e dissolve subito ogni pensiero, ogni parola, ogni fantasma, ogni
immagine, ogni male che suscitano in noi gli avversari, è l’invocazio­
ne del Signore», scrive ancora sant’Esichio di Batos177. E san Filoteo il
Sinaita osserva allo stesso modo: «Il ricordo [...] di Gesù [...] dissipa
naturalmente tutti i sortilegi dei pensieri, le riflessioni, i ragionamen­
ti, le immaginazioni, le forme tenebrose, in una parola, tutto quello
per cui il malfattore si prepara a combattere le anime e le affronta [...].
Se lo si invoca, Gesù consuma tutto facilmente»178.
Solo la preghiera può purificare totalmente il cuore179, cioè «di­
struggere fino al marchio e all’impulso della passione stessa»180, e can­
cellare completamente le tracce che i pensieri vi lasciano inevitabil­
mente dopo il loro passaggio, soprattutto se ci si è lasciati andare a di­
scutere con essi, e quindi a mescolarvi i propri pensieri181.
E così che, per mezzo della preghiera unita alla vigilanza, e in par­
ticolare attraverso la preghiera di Gesù, «noi curiamo [...] la casa del
nostro cuore», dice sant’Esichio di Batos182, fino a fargli trovare la
salute perfetta.
Raggiungere questo scopo, tuttavia, esige molta pazienza, e la rac­
173 Capitoli sulla vigilanza, 152. Cfr. 145; 169.
174Ibid., 142.
175Ibid., 39.
176Lettere, 166.
177 Capitoli sulla vigilanza, 153.
178 Quaranta capitoli neptici, 22.
179Cfr. Esicmo DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 28; 122; 152; 174.
180M arco l’E remita, A Nicola, 7.
181 Cfr. I d ., Capitoli neptici, 47.
182 Capitoli sulla vigilanza, 152.
509
comandazione di essere pazienti figura molto spesso insieme a quella
di essere vigilanti e di pregare183, essendo questo un atteggiamento in­
dispensabile per condurre a buon fine la lotta contro i pensieri. Da
una parte, infatti, i pensieri riappaiono fintanto che non è distrutta la
loro radice, fintanto che sussistono nel cuore le disposizioni e predi­
sposizioni sulla base delle quali essi nascono. Dall’altra parte, la lotta
eccita l’attività demoniaca e fa sovrabbondare le tentazioni. «Il Mali­
gno si arma contro di noi quanto più noi resistiamo ai suoi attacchi»,
osserva san Macario184. La lotta contro i pensieri è, dunque, un’opera
di lungo respiro185, e ottenere una vittoria totale su certi pensieri esi­
ge, talvolta, molte decine di anni di lotta assidua186, la quale è accom­
pagnata inevitabilmente da sofferenza187. Durante tutto questo tempo,
lo scoraggiamento è in agguato permanente per colui che combatte.
La pazienza è, con la preghiera, un rimedio offerto all’uomo, come sot­
tolinea sant’Ammona: «Sopportate [le tentazioni] fino a quando le su­
pererete [...]. Ora, il rimedio per sopportare le tentazioni, è quello di
non scoraggiarvi e di pregare Dio rendendogli grazie con tutto il cuo­
re, mostrando pazienza in tutto, così esse si allontaneranno da voi»188.
Con la preghiera, la pazienza appare come un mezzo sicuro per otte­
nere la vittoria. «Fuggi la tentazione grazie alla pazienza e alla sup­
plica», consiglia san Marco l’Eremita189. Ciò è conforme a quanto scri­
ve l’apostolo san Giacomo: «Beato l’uomo che sostiene la tentazione,
poiché, ima volta collaudato, riceverà la corona della vita che Dio pro­
mise a quanti lo amano» (Gc 1,12); è anche uno dei significati di
questa promessa del Cristo: «Chi avrà perseverato sino alla fine que­
sti si salverà» (Mt 10,22)190.
L’uomo deve pregare per essere paziente, come deve pregare per
essere vigilante191: se la vigilanza suppone sforzo da parte dell’uomo,
per essere efficace essa deve esercitarsi in sinergia con la grazia di Dio192.
1,5 Cfr. D oroteo DI Gaza, Lettere, Vin, 193; x n i. Barsanufio, Lettere, 118.
184 Capitoli parafrasati, 132.
185 Cfr. M arco l’E remita, A Nicola.
186 Vedi per esempio Apoftegmi, serie alfabetica, Isidoro, 3.
187 Cfr. G iovanni C arpazio, Capitoli ¿’esortazione, 30. M arco l ’Erem ita, Su coloro che pen­
sano di essere giustificati per le loro opere, 68. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XIII, 144.
188Lettere, IX, 2.
189Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 98.
190Cfr. B arsanu fio, Lettere, 118.
191Cfr. M arco l ’Erem ita, Il battesimo, 23. EsiCfflO di B atos, Capitoli sulla vigilanza, 10; 94.
FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 25.
192 Cfr. Apoftegmi, N 437. ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 1. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni ce­
nobitiche, XII, 6, 2.
510
È per questo che i Padri, nell’esortare l’uomo ad essere vigilante, ri­
cordano che la vigilanza è un carisma193, e tanto più quanto più essa
è perfetta. Ora, è particolarmente per mezzo della preghiera, e so­
prattutto per mezzo della preghiera di Gesù che l’uomo può ricevere
questa grazia194. Sant’Esichio di Batos scrive: «La preghiera fonda nel­
lo spirito la vigilanza»195; «se tu vuoi [...] conoscere facilmente la vi­
gilanza del cuore, fa’ che la preghiera di Gesù sia incollata al tuo re­
spiro»196.
Se la vigilanza è il frutto della preghiera, nondimeno essa è favori­
ta da alcuni atteggiamenti spirituali che in ogni caso devono accom­
pagnarla e con i quali essa deve formare, perché si compia come con­
viene «l’opera del cuore», un insieme indissociabile: il digiuno197, il si­
lenzio198, la solitudine, il «ricordo della morte»199, e soprattutto il dolore
(pénthos) e l’umiltà200. Il dolore e la compunzione favoriscono parti­
colarmente la vigilanza, nella misura in cui essi dànno all’uomo la pos­
sibilità di avere in permanenza una coscienza acuta dei propri pecca­
ti e delle passioni che abitano in lui. «Beato colui che ha sempre da­
vanti agli occhi i suoi peccati, perché un tale uomo sarà sempre
vigilante», afferma un Padre201. E Abba Isaia scrive: «Il dolore è vigi­
lanza perfetta: là dove non vi è dolore, non vi può essere vigilanza»202.

7. Effetti terapeutici
L’attenzione, la vigilanza e ciò che le accompagna appaiono come
la condizione di ogni progresso spirituale203, e in primo luogo della
guarigione spirituale dell’uomo. Essi sono, dice san Filoteo il Sinaita,
i «rimedi che salvano l’anima»204. Nello stesso tempo questi atteggia­
menti sono costitutivi della salute spirituale dell’uomo. «La ricchez-
1,3 Cfr. B arSANUFIO, Lettere, 197; 267. M acakio d ’E gitto , Omelie (Coll. E ), X X XI, 5.
m B aksanufio, Lettere, 197. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 26.
155 Capitoli sulla vigilanza, 94.
m lbid„ 182. Cfr. 183.
1.7 Cfr. G iovanni C limaco , La. Scala, XIV, 21. F iloteo il S inaita , Quaranta capitoli nepti-
ci, 6; 15.
1.8 Cfr. F iloteo il S inaita , loc. tit., 6.
m Cfr. ibid., 2; 6; 13. Esicmo DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 17,155; 189.
200Cfr. F iloteo il S inaita, loc. dt., 11; 13; 14. E sichio di B atos, loc. cit., 152; 168; 176; 189.
201Apoftegmi, PE IH, 35,24-25.
202Asceticon, 30,4 B.
203 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, X , 104.
204 Quaranta capitoli neptici, 14.
511
za e la salute dell’anima sono fatte di vigilanza e di attenzione», scrive
sant’Isacco il Siro205.
Infatti, in questi atteggiamenti e in quelli che li accompagnano, lo
spirito «ritorna al suo proprio ordine»206, ritrova il suo stato normale
e la sua condizione naturale207. La vigilanza in particolare è, come di­
ce san Filoteo il Sinaita, «il luogo dello spirito»208. Vladimiro Lossky
riassume bene l’insegnamento patristico quando afferma: «Lo spirito
umano, nel suo stato normale [...] è vigilante. Sono la sobrietà (népsis),
l’attenzione del cuore (kardiaké prosoché), la facoltà di giudizio e di di­
scernimento delle cose spirituali (diàkrisis), che caratterizzano l’esse­
re umano nel suo stato d’integrità»209.
Dire che lo spirito ritorna al suo ordine, che ritrova la sua norma­
le attività, significa dire in particolare che smette di essere trascinato,
suo malgrado, dalle immagini e dai pensieri, di essere catturato da es­
si, di essere sempre distratto, disperso, diviso, e infine reso loro schia­
vo210, e attraverso di essi dei demoni211. La vigilanza ridona all’uomo la
perfetta padronanza dei suoi pensieri212, perché nessuno di essi or­
mai sfugge alla sua attenzione, ma egli sottomette ciascuno di essi al
discernimento e l’accetta o lo rigetta secondo la sua natura buona o
cattiva. San Giovanni Cassiano scrive a questo proposito: «Il centu­
rione del Vangelo è una felice figura dell’anima elevata a questa per­
fezione [...]. Lungi dal lasciarsi trasportare da ogni pensiero che so­
praggiunge, egli accoglieva quelli buoni e scacciava senza alcuna dif­
ficoltà quelli cattivi, secondo il giudizio della sua prudenza [...]:
“Anch’io, benché subalterno, ho sotto di me dei soldati; se dico a uno:
va’! questo va; a un altro: vieni! egli viene; o al mio servo: fa’ questo!
egli lo fa” (Mi 8,9). Se, a nostra volta, lotteremo virilmente contro i
movimenti sregolati della nostra anima e contro i vizi, riusciremo a sot­
tometterli alla nostra autorità e al nostro discernimento; se, militan­
do nella nostra carne, possiamo spegnere le passioni, ridurre sotto il
205 Discorsi ascetici, 38.
206 EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 129. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 37.
207 Cfr. EsiCHlO d i B a to s, Capitoli sulla vigilanza, 129; 178.
208 Quaranta capitoli neptici, 19.
209 Théologie mystique de l’Église d’Orient, Paris 1944, p. 200.
210 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 172. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 25;
XI, 120. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll.), II, IV, 4; IX, 11. A mmona , Istruzioni, IV, 52. I sac ­
co IL SlRO, Discorsi ascetici, 8 e 60; Lettere, 3. Apoftegmi, P E 1 ,24 ,4 . BASILIO DI CESAREA, Ome­
lia su queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso». NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la cu­
stodia del cuore.
211 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 36. Apoftegmi, PE 1 ,24, 4.
212 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, HI, 13.
512
controllo della ragione la truppa inconstante dei nostri pensieri, [...]
come premio per così eclatanti trionfi, ci vedremo elevati al rango di
questo centurione spirituale [...]. Saliti, come lui, a questa dignità
così alta, avremo il potere e la forza di comandare: i pensieri che noi
non vogliamo più seguire non ci trascineranno più; ma ci sarà con­
sentito unirci a quelli che ci fanno pregustare le delizie dello spirito.
Alle suggestioni cattive comanderemo: “Andate via!”, ed esse se ne
andranno; a quelle buone diremo: “Venite!”, ed esse verranno»213.
E non sono solo i pensieri coscienti che l’uomo arriva a sottomet­
tere al proprio giudizio e alla propria volontà, ma anche i pensieri che
prima erano in lui inconsci. Un’assidua pratica della vigilanza permette,
infatti, all’uomo di accedere al fondo nascosto della sua anima, di far
emergere il proprio inconscio spirituale alla superficie della sua co­
scienza. E nota questa constatazione di Evagrio ripresa da san Massi­
mo: «Numerose passioni sono nascoste nella nostra anima, che, anche
se ci sfuggono, ci vengono rivelate da tentazioni forti»214. La vigilan­
za e la preghiera permettono all’uomo di scovarle, di purificarsene e
infine di preservarsene. E per questo che sant’Isacco scrive che «l’a­
scesi dell’intelligenza [che] è opera del cuore [...] d preserva dalle pas­
sioni segrete, perché non incontriamo nessuna di esse nel paese na­
scosto, nel paese spirituale»215. Infatti, attraverso la pratica assidua del­
la vigilanza e della preghiera, lo spirito si purifica, si affina e si acuisce216,
percepisce il minimo pensiero, e diventa capace di discernerne esat­
tamente l’origine e la natura. Colui che combatte i pensieri, lo abbia­
mo sottolineato, vede questi moltiplicarsi: gli appaiono allora pensie­
ri che non aveva mai notato. La sua anima, che prima era come un la­
go la cui superficie presentava un’acqua apparentemente calma e
limpida, sotto i colpi della vigilanza e della preghiera si agita e s’in­
torbida, rivelando un contenuto torbido e nauseabondo, lasciando ap­
parire in superficie i rifiuti e la putrefazione che essa celava nel suo
fondo. A questo proposito san Diadoco scrive: «Come gli occhi del
nostro corpo, quando sono in buono stato, possono vedere tutto, per­
sino i moscerini e le zanzare che volteggiano nell’aria; mentre quando
sono velati da un turbamento [...], se si presenta a loro qualche gran­
de oggetto, essi lo vedono confusamente, dal momento che i loro sen-
213 Conferenze, VII, 5.
214 E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, VI, 52. M assimo il C onfessore , Centurie sulla ca­
rità, IV, 52.
215 Discorsi ascetici, 11.
216 Cfr. F iloteo IL Sinatta, Quaranta capitoli neptici, 28.

513
si visivi non percepiscono i piccoli; così avviene per l’anima: se essa in­
debolisce con l’attenzione l’accecamento che le viene dall’amore del
mondo, essa considererà grandissime le sue cadute anche più lievi»217.
E san Filoteo il Sinaita, dopo aver sottolineato che l’anima dell’uomo
decaduto «è incatenata nell’oscurità e [che] i suoi occhi interiori so­
no accecati», scrive: «Quando l’anima comincerà a pregare Dio e a ve­
gliare grazie alla preghiera, allora, grazie alla preghiera, essa sarà li­
berata dalle tenebre. È impossibile essere liberati in altro modo. In­
fatti, allora, l’anima può riconoscere che vi è all’interno del cuore
un’altra lotta, un’altra opposizione nascosta, un’altra guerra contro i
pensieri degli spiriti del male»218. Lo stesso autore dice ancora: «La vi­
gilanza illumina e purifica innanzitutto la coscienza. Poi, quando la co­
scienza è stata purificata, come una luce occultata che si accende im­
provvisamente, essa scaccia le grandi tenebre. E quando le tenebre so­
no state scacciate da una continua e vera vigilanza, la coscienza rivela
di nuovo ciò che era nascosto»219.
La presa di coscienza e la padronanza di tutti i suoi pensieri con­
tribuiscono a realizzare ciò che costituisce il principale effetto della
pratica assidua della vigilanza e della preghiera che va di pari passo
con essa; ossia l’uomo, per grazia di Dio, arriva sempre più ad aste­
nersi dai peccati di azione e di pensiero, e a poco a poco si trova pu­
rificato dai peccati passati, liberato da tutti i cattivi pensieri, guarito
da tutte le sue passioni, liberato da tutte le cattive disposizioni e pre­
disposizioni, conscie e inconscie, in breve, liberato da ogni male che
era in lui220. E per questo che san Barsanufio raccomanda: «Sii vigi­
lante per sterminare con forza le otto nazioni straniere»221, cioè le ot­
to passioni principali, e per ciò stesso tutte quelle che ne procedono.
A proposito dell’attenzione, anche san Gregorio Palamas scrive: «Po­
ni dunque questa attenzione sulla tua anima e sul tuo corpo: essa ti li­
bererà facilmente dalle cattive passioni del corpo e dell’anima»222. «La
217 Cento capitoli gnostici, 27.
218 Quaranta capitoli neptici, 19.
219Ibid., 24.
220Cfr. G io v a n n i C assian o , Conferenze, VE, 5. M a c a r io d ’E g it t o , Omelie (Coll. E), LEI,
15. M a r co l ’E rem ita, A Nicola, 7. E sic h io d i B a to s, Capitoli sulla vigilanza, 1; 4; 51; 109; 111;
122; 154; 188. ISAIA DI SCETE, Asceticon, VIE, 60. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca­
rità, E, 11. Apoftegmi, serie alfabetica, Teodora, 4. Ibid., Arm. II, 209. DIADOCO DI FOTICEA,
Cento capitoti gnostici, 23. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 24; 28. GIOVANNI
DAMASCENO, Discorso utile aWanima.
221 Lettere, 44.
222 Triadi, I, 2, 9.
514
purezza dei pensieri ha la sua origine nella sofferenza e nella vigilan­
za», nota sant’Isacco223. «Se siamo attivi e molto vigilanti, non trove­
remo sudiciume in noi stessi», afferma Abba Poemen224. E san Niceforo
il Solitario scrive: «L’attenzione è il segno della penitenza compiuta
[...], è lo spogliamento dalle sue passioni [...], è la certezza sicura del
perdono dei suoi peccati»225. San Diadoco di Foticea nota che l’ani­
ma, «quando ha iniziato a purificarsi per l’intensità della sua atten­
zione, sente allora, come un vero rimedio della vita, il timore divino
che la brucia, come attraverso l’azione dei suoi rimproveri, in un
fuoco d’impassibilità»226. Quanto a sant’Esichio di Batos, egli consi­
dera la vigilanza e la preghiera come rimedi che permettono all’anima
di vomitare tutti i pensieri avvelenati che ha assorbito: «Come i cibi
nocivi danneggiano il corpo fin da quando li si ha assunti, ma colui
che ne ha mangiati può, grazie a qualche rimedio, vomitarli subito ap­
pena sente il male e non riceverne nocumento, così lo spirito, quando
ha ricevuto e assimilato pensieri cattivi e sente il loro amaro, li vomi­
ta facilmente e li rigetta completamente, per mezzo della preghiera
di Gesù detta dal fondo del cuore. Ciò è quanto, grazie a Dio [...], l’e­
sperienza ha fatto conprendere a coloro che sono vigilanti»227.
Infatti, la liberazione dai pensieri cattivi e dalle passioni avviene pro­
gressivamente. Se l’uomo si applica con pazienza e assiduità e in ma­
niera sistematica e costante a rigettare i pensieri fin dalla loro appari­
zione, riduce a poco a poco il loro numero e la loro forza e indeboli­
sce a poco a poco le passioni228, da cui essi procedono o che ne proce­
dono, perché queste non trovano più nell’uomo il nutrimento che per­
metteva loro di sussistere. «I cattivi pensieri, se parli loro e se ti com­
piaci in essi, spingeranno sempre più le radici nel tuo cuore, cresce­
ranno e non se ne andranno più dal tuo cuore. Se, al contrario, non
parli loro, e se, anziché compiacerli, tu li hai in odio, periranno e usci­
ranno dal tuo cuore», afferma un Anziano229.
Questa pratica permette, dunque, non solo di respingere i pensieri ma
di arrivare fino a eliminarli e di distruggere le passioni stesse230, e que­
sto fino alla loro origine prima e fino a tutti i segni che essi hanno po­
223Discorsi ascetici, 30.
224Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 173.
225 Trattato sulla vigilanza e sulla custodia del cuore.
226 Cento capitoli gnostici, 17.
227 Capitoli sulla vigilanza, 188.
228 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 11.
229Apoftegmi, Eth. Coll. 14,47. Cfr. ibid., serie alfabetica, Poemen, 15; 20.
230 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 48.

515
tuto lasciare nell’anima231. È per questo motivo che così scrive sant’Esi-
chio di Batos: «Se è osservata da noi, come si deve, la purezza del cuore,
cioè la sorveglianza e la custodia dello spirito [...], essa esclude dal cuo­
re tutte le passioni e tutto il male fino alla radice»232. È per questo che
egli definisce così la vigilanza: «Un metodo spirituale che, con l’aiuto di
Dio, libera interamente l’uomo dai pensieri e dalle parole passionali co­
me dalle azioni cattive, se è perseguita per lungo tempo e ardentemen­
te»; «è questa, aggiunge, che è propriamente la purezza del cuore»233.
Liberando l’uomo dalle sue passioni, la vigilanza, insieme alla pre­
ghiera, contribuisce a collocare le virtù al loro posto254. «L’attenzione,
dice san Niceforo il Solitario, ci fa spogliare delle passioni per rive­
stirci delle virtù»235. E sant’Esichio di Batos insegna: «La vigilanza è la
guida di tutte le virtù e di tutti i comandamenti di Dio»236.
Questa funzione terapeutica della vigilanza, che libera l’uomo dal­
le malattie spirituali, quali sono le passioni, per ristabilire in lui la sa­
lute delle virtù, ne costituisce, tuttavia, solo il primo aspetto. Una vol­
ta acquistata la salute, all’uomo rimane il compito di preservarla: la vi­
gilanza e l’attenzione servono proprio a questo. Tale funzione profilattica
può essere molto chiaramente indicata da queste espressioni: «custo­
dia del cuore» (phylake kardtas) e «custodia dello spirito» (phylache o
terésis noós), che sono praticamente sinonimi237, ma che i Padri utiliz­
zano indicandone la diversa connotazione238. In un certo senso, la vi­
gilanza (che, ricordiamolo, è indissociabile dalla preghiera che l’ac­
compagna) è sempre profilattica: nel caso dell’uomo che lotta contro
le passioni, si tratta di evitare ogni pensiero che servirebbe ad ali­
mentarle; nel caso di colui che se ne è liberato, si tratta di evitare ogni
pensiero che le reintrodurrebbe nel suo cuore. Ma, nel primo caso,

231 Cfr. M arco l’Eremita, A Nicola, 7.


232 Capitoli sulla vigilanza, 113. Cfr. 137.
233Ibid, 1.
234 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, X, 105. I saia DI SCETE, Asceticon, 30, 5D .
235 Trattato sulla vigilanza e sulla custodia del cuore.
236 Capitoli sulla vigilanza, 3.
237 Cfr. N iceforo il S olitario , Sulla vigilanza e la custodia del cuore.
238 Per la prima espressione vedi tra gli altri: Pro 4,23. ATANASIO D’ALESSANDRIA, Vita di
Antonio, 21. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), IV, 4. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici,
VI, 52. G io v a n n i d i G a za , Lettere, 166. B a r sa n u fio , Lettere, 454. D o r o t e o d i G a za , Istru­
zioni spirituali, III, 46. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 23. Per la seconda espres­
sione: DIADOCO DI F o tic e a , Cento capitoli gnostici, 97. EsiCHIO DI B a to s, Capitoli sulla vigi­
lanza, 113; 157; 168. FlLOTEO IL SlNAITA, Quaranta capitoli neptici, 26. L’espressione «custodia
dello spirito» s’applica tuttavia, anche e soprattutto, a un altro livello, come vedremo in seguito.
516
la profilassi è uno degli elementi della terapia, mentre nel secondo, si
tratta essenzialmente di evitare ogni ricaduta e conservare quanto ac­
quisito239, ossia la salute dell’anima. Ciò è quanto sottolinea esplicita­
mente san Barsanufio: «Rimaniamo nella preghiera per non ricadere
nelle stesse passioni o in altre. Se qualcuno, nel mangiare qualche cibo
si è rovinato lo stomaco, il fegato o l’intestino, una volta guarito per
la competenza e per le cure del medico, egli non si trascura per non
peggiorare, ricordandosi del pericolo passato, conformemente a ciò che
diceva il Signore a colui che era stato guarito da lui: “Ecco che sei gua­
rito. Non peccare più, perché non ti avvenga di peggio” (Gv 5,15)»240.
San Doroteo di Gaza osserva la stessa cosa, anche se a un livello più
generale: quanto al corpo, «se si vive in modo disordinato, senza vigi­
lare sulla salute, si produce sia una pletora sia una carenza (di umo­
ri), e da qui segue uno squilibrio»; la stessa cosa avviene per l’anima:
se l’uomo «manca di vigilanza e non si riguarda, si allontana facilmente
dal cammino, sia a destra che a sinistra [...] e provoca questa malattia
che è il male»241. Sant’Isacco il Siro scrive con molta precisione: «La
ricchezza e la salute dell’anima sono fatte di sobrietà vigile e di atten­
zione. Fintanto che un uomo vive, ha bisogno della sobrietà vigile, del­
l’attenzione, di stare all’erta, per custodire il suo tesoro. Ma se egli tra­
scura queste condizioni, si ammala e il suo tesoro gli sarà rubato»242.
Lo abbiamo già detto: l’uomo non può sfuggire alla tentazione, e
non può evitare che i demoni gli suggeriscano dei pensieri. Una vol­
ta acquisito, però, per mezzo della vigilanza e della preghiera, il po­
tere di sapersi custodire, diviene capace di essere totalmente indiffe­
rente a ciò che gli propongono i demoni243 e di opporre a questi un
forte disprezzo244 senza essere minimamente colpito né turbato dalle
loro suggestioni, non abbandonando il suo posto (cfr. Qo 10,4) e di­
cendo come il salmista: «Taccio; non apro la mia bocca» (Sai39[38],10).
Quando l’uomo, dopo aver a lungo combattuto, ha ottenuto, per gra­
zia di Dio, la vittoria definitiva sui suoi avversari, conoscerà allora una
pace profonda245. Non solo il suo spirito, ma anche tutte le sue facoltà
239 Cfr. Apoftegmi, N 473.
240Lettere, 347.
241 Istruzioni spirituali, X, 106.
242Discorsi ascetici, 38.
243 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 62.
244 Cfr. ibid. Atanasio d ’A lessandria , Vita di Antonio, 9. '
245 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 87. G iovanni C risostomo , Com­
mento al Salmo 4 ,12; Commento al Salmo 124,1.
517
interiori rimangono nella calma246. Poiché questa pace interiore deri­
va dalla pratica della vigilanza, e a un tempo dalla padronanza dei pen­
sieri, dall’eliminazione delle passioni, dalla vittoria sui demoni, dalla
calma delle facoltà e dal silenzio dei pensieri che risultano da tutto
questo, tale pace interiore corrisponde a uno dei principali significati
del termine hèsychta, che molto spesso s’incontra nei testi ascetici247.1
Padri considerano Vhèsychta un effetto tanto caratteristico della vigi­
lanza248 da ritenere il compimento di questa come un sinonimo di
quella249.
In questo capitolo, abbiamo considerato essenzialmente la vigilan­
za come mezzo di lotta contro i pensieri passionali e come mezzo
per purificarne il cuore. Vedremo in seguito che la vigilanza ha an­
che la funzione di evitare le rappresentazioni, le immagini o i pensie­
ri, sia indifferenti che buoni: è questa una condizione, che completa
la precedente, della preghiera pura e della contemplazione. È questa
seconda funzione che si chiama propriamente «custodia dello spiri­
to», mentre la prima si chiama, in senso stretto, «custodia del cuore».
L'hèsychta che ne risulta significa allora il silenzio di ogni rappresen­
tazione qualunque essa sia, pace totale dello spirito esclusivamente e
imperturbabilmente occupato nel pensiero di Dio in un cuore purifi­
cato.
L’attenzione diviene allora attenzione a Dio. E la vigilanza, il cui no­
me stesso vuol dire «stare in guardia», non significa più solo stare in
guardia in rapporto a sé e alla custodia di sé, ma in rapporto a Dio e
alla custodia di Dio in sé. È in questo duplice significato che i Padri
considerano che la vigilanza realizza lo stare in guardia dello spirito250,
e anche san Giovanni Climaco è dello stesso avviso quando scrive:
«L’amico dell'hèsychta è colui il cui pensiero [è] sempre in guardia»251,
che ha «uno spirito sempre in guardia»252.
Qui si manifesta un altro effetto fondamentale della vigilanza: gua­
246Cfr. EsiCfflO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 178.
247 Sui diversi^significati di questo termine vedasi lo studio molto completo di I. HAUSHERR,
«L’hésychasme. Etude de spiritualité», in Hésychasme et prière, Roma 1966, pp. 163-237.
248 Cfr. FlLOTEO IL S in a tta, Quaranta capitoli neptici, 3. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vi­
gilanza, 7.
249Cfr. EsiCfflO di B atos, loc. cit., 3; 5; 10; 15; 27. N iceforo il Solitario, Sulla vigilanza e
la custodia del cuore.
250Cfr. ISACCO IL S iro, Discorsi ascetici, 73. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptid, 27.
251 La Scala, XXVII, 3.
252Ibid, 39.
518
rire l’uomo, sostituendo in lui i diversi stati patologici che il peccato
aveva stabilito in lui e che sono, nei riguardi del suo vero essere, e
soprattutto di Dio: il sonno spirituale253, l’indifferenza254, l’oblio255, l’in­
dolenza256, la negligenza257, la distrazione258, l’incoscienza e l’ignoran­
za259, ove i tre più importanti (ai quali si possono ricondurre gli altri)
sono l’oblio, la negligenza e l’ignoranza, che san Marco l’Eremita
(seguito da san Giovanni Damasceno)260 chiama «i tre giganti stra­
nieri» o «le tre potenze giganti del diavolo», grazie ai quali, egli af­
ferma, «il resto delle passioni cresce e si fortifica», per mezzo dei qua­
li «tutto l’esercito degli spiriti del male si insinua, si afferma e può rea­
lizzare i suoi disegni, ma senza [i quali] esso non può mantenersi»261.
Si vede, dunque, come sia fondamentale il ruolo che la vigilanza e
le virtù affini svolgono nella guarigione spirituale dell’uomo e nel
suo ritorno alla salute.

2” Cfr. Me 13,35-36; lTs 5,6. BARSANUFIO, Lettere, 197. BASILIO DI CESAREA, Omelia su
queste parole: «Fa’ attenzione a te stesso».
254 Cfr. EsiCfflO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 86.
255Apoftegmi, serie alfabetica, Orsirio, 2. Ibid., N 273. ESICHIO DI BATOS, loc. cit., 102; 120;
129. M a r c o l ’E rem ita, A Nicola, 12-13.
256Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 197; 573. MACARIO i l GRANDE, Omelie (Coll. E ), IV, 5.
257 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 197; 259. AMMONA, Lettere, X, 5. Apoftegmi, serie alfabetica,
Orsirio, 2; Sindetico, 17. Ibid., N 273; N 401. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 120.
M a r co l ’E rem ita, A Nicola, 12-13.
258Cfr. G iovan ni di G aza, Lettere, 660. Isa cco i l Siro, Discorsi ascetici, 73. G iovanni C li-
MACO, La Scala, X X V E , 9. Apoftegmi, P E 1 ,2 4 ,4 .
259 M arco l’E remita, A Nicola, 12-13.
260Discorso utile all’anima.
261A Nicola, 12-13.
519
VI
TERAPIA COADIUVANTE: L’ASCESI CORPORALE

Abbiamo visto che, in senso ampio, la nozione di ascesi può esse­


re assimilata a quella di pràxis, che indica il duplice movimento at­
traverso cui l’uomo si purifica dalle passioni e acquista le virtù.
Tuttavia, poiché l’uomo deve far fronte, in primo luogo, alle pas­
sioni dette «del corpo», ma incontra anche nella sua vita spirituale
ostacoli dovuti a certi stati corporei, spesso l’ascesi è intesa, in senso
più ristretto, come un insieme di pratiche o di esercizi che coinvol­
gono immediatamente il corpo. Si parla allora generalmente di «asce­
si fìsica», distinguendola dall’«ascesi interiore» (talvolta chiamata «asce­
si del cuore»)1, che essa precede logicamente ma non cronologica­
mente. E a questa ascesi fìsica che l’Apostolo si riferisce quando scrive:
«Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù» (ICor 9,27).
Sopra tutte le pratiche che la costituiscono, occorre citare il digiu­
no, le veglie, i lavori faticosi2, le metanie (o prostrazioni)3. Vi si pos­
sono, però, assimilare anche tutte le mortificazioni alle quali l’uomo si
sottopone volontariamente4, o che accetta quando queste sopraggiun­
gono senza che le abbia ricercate5, come per esempio le malattie, le af­
flizioni e le diverse tribolazioni che può subire lungo tutta la sua esi­
stenza terrena. A questo proposito così scrive l’Apostolo: «In ogni
cosa d presentiamo come ministri di Dio, con molta fortezza, nelle tri­
bolazioni, nelle angustie, nelle ansie, nelle percosse, nelle carceri, nelle
sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni» (2Cor 6,4-5); e anco­
ra: «Sono stato nella fatica e nel travaglio, esposto a veglie senza nu-

1Vedi per esempio ANTONIO L'Erem ita, Lettere, 1,2.


2Vedi tra gli altri: Am m ona, Istruzioni, II, 5. NlL SORSKY, Regola, IV.
3Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 8. NlL SORSKY, Regola, IV.
4San Giovanni Damasceno ne offre un lungo elenco (Discorso utile all’anima, in PhilokaMa,
t. H, p. 232).
5 Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, II, 9. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 47,
PG 9 0 , 428AB. GIOVANNI CARPAZIO, Capitoli di esortazione, 21.
520
mero, fame e sete, digiuno frequente, freddo e nudità» (2Cor 11,27; cfr.
113-26).
Queste pratiche ascetiche non sono fine a se stesse, e la sofferenza
più o meno grande che le accompagna molto spesso non è affatto le­
gata a una volontà di autopunizione, di espiazione, o di «soddisfa­
zione».
Esse consistono, certamente, nell’indebolire il corpo6 e nell’assu-
merne le sofferenze, ma hanno altresì lo scopo di sottometterlo all’a­
nima, alla ragione, allo spirito7; di purificarlo8, per mortificare le pas­
sioni9 che sono ad esso legate; e, attraverso di esso, di purificare l’a­
nima; infine, di abolire alcuni stati che possono ostacolare alcune
funzioni dell’anima e costituire un disagio per la vita spirituale. In ogni
caso, l’ascesi fisica è al servizio dell’ascesi interiore. In qualche mo­
do, essa gioca il ruolo di una terapia coadiuvante. Per questo i Padri
considerano le sofferenze da essa generate come rimedi. Ecco quanto
scrive a questo riguardo sant’Elia l’Ecdico: «Allontànati [dalla tua ma­
lattia] usando rimedi drastici con l’amore della sofferenza (phibponta),
se hai cura della salute della tua anima»10.
I Padri considerano come rimedi anche quelle sofferenze che arri­
vano all’uomo dall’esterno, involontariamente, e che egli assume allo
stesso modo delle precedenti. Se Dio non sempre le vuole (perché spes­
so queste sono manifestazioni del male), egli nondimeno vuole che,
quando sopraggiungono, l’uomo le volga a suo profitto spirituale. E
per questo che sant’Isacco il Siro parla di queste «prove» come «dei
molti rimedi [che] il Medico vero invia per la salute del[l’]uomo in­
teriore»11. Ed egli dice, rivolgendosi a Dio: «Tu hai voluto che io trag­
ga il mio bene dalle mie prove e che la mia anima sia conservata sana
presso di te»12. San Massimo, da parte sua, ricordando le sofferenze
volontarie e involontarie, sottolinea che quest’ultime sono inviate da
Dio a ciuscuno secondo la forma più appropriata per la sua guari­
gione. «Come i medici che curano il corpo non dànno a tutti un uni­
co e medesimo rimedio, così Dio, che guarisce le malattie dell’anima,
non conosce un trattamento uguale per tutti, ma quando egli ha at­

6 A ntonio l’E remita, Lettere, 1 ,2.


7 Cfr. TALASSIO, Centurie, II, 5. NlL SORSKY, Regola, IV.
8Cfr. A ntonio l’E remita, Lettere, 1 ,2.
9Ibid.
10Antologia gnomica, 32.
11Discorsi ascetici, 8.
12Ibid., 50.
521
tribuito a ciascuna anima ciò che le è necessario, egli compie le guari­
gioni. Noi che siamo curati in questo modo, rendiamo, quindi, grazie,
anche se ciò che ci capita è una dura prova»13. E san Marco l’Eremi­
ta osserva: «Tuttavia quando un’anima sprofondata nel peccato non
accetta le tribolazioni che le capitano, allora gli angeli dicono a suo ri­
guardo: “Abbiamo curato Babilonia ed essa non è stata guarita”»14.
I Padri sottolineano, tra l’altro, che tanto più l’uomo subisce soffe­
renze involontarie quanto meno ha sottomesso se stesso alle sofferen­
ze dell’ascesi15, il che costituisce non un castigo per la sua negligenza,
ma un dono della provvidenza di Dio per permettergli di ricevere be­
ni spirituali che altrimenti gli sarebbero inaccessibili. Essi insistono sul
fatto che non è possibile all’uomo, senza pena e senza sofferenza,
non solo essere purificato dalla benché minima passione ma anche ac­
quistare la benché minima virtù, passare dallo stato di creatura deca­
duta a quello di «creatura nuova». «La conversione, il passaggio dal
contro-natura al secondo-natura, avviene attraverso l’ascesi e le soffe­
renze», nota san Giovanni Damasceno16. Sant’Isacco il Siro lo ripete
molte volte: «I comandamenti di Dio si realizzano nelle afflizioni e nei
tormenti»17; «L’origine della virtù è la via stretta della sofferenza»18; «Le
virtù sono legate alle afflizioni. Colui che si libera dalle afflizioni si li­
bera inevitabilmente dalla virtù. Se tu desideri la virtù, accetta di es­
sere trattato duramente»19. «Non ti meravigliare, quando inizi ad
avere la virtù, se da ogni parte ti assalgono la durezza e la violenza del­
le afflizioni. Infatti, una virtù che non fosse praticata nella difficoltà
non potrebbe essere una virtù. E proprio questa difficoltà che fa sì che
la si chiami virtù come ha detto san Giovanni: “La virtù deriva abi­
tualmente dalla difficoltà. Quando è legata al conforto, è biasimevo­
le”. Anche il beato Marco l’Eremita ha detto: “Ogni virtù è tale se è
una croce”»20. Ancora più grande è la sofferenza necessaria alla puri­
ficazione delle passioni che l’acquisizione delle virtù presuppone, co­
me sottolinea san Giovanni Cassiano: «Ci costerà due volte di più di
lavoro e di sofferenza espellere i vizi che acquistare le virtù»21. Si trat­
13Dieci capitoli, 5.
14Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 75.
15Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, II, 9.
16Esposizione esatta della fede ortodossa, II, 30.
17Discorsi ascetici, 27.
18Ibid
19Ibid., 37.
20Ibid., 19.
21 Conferenze, XIV, 3.
522
ta, infatti, per l’uomo di rompere i legami che lo legano molto forte­
mente a questo mondo, di rinunciare a quelle tendenze che sono co­
stitutive della sua natura decaduta e che sono per lui come una seconda
natura, tanto più che esse si sono incrostate e fortificate con l’abitu­
dine. San Giovanni Climaco ricorda che l’uomo è qui nella situazio­
ne di un grande malato che non potrebbe ottenere un miglioramento
immediato del suo stato: «Colui che ha sofferto una lunga malattia non
potrà recuperare la salute in un istante; allo stesso modo è impossibi­
le dominare in un sol colpo le passioni o anche soltanto una sola pas­
sione»22. San Gregorio di Nissa si pone ugualmente da un punto di vi­
sta medico per ricordare il carattere inevitabile delle sofferenze e dei
dolori legati al trattamento e in parte spiegarli: paragonando le pas­
sioni a delle verruche (paragone pienamente giustificato nella misura
in cui le passioni sono, in rapporto alla natura originale dell’uomo, del­
le escrescenze patologiche, delle aggiunte contro natura), egli scrive:
«A motivo della grande affinità che si è stabilita tra l’anima e il male,
ecco cosa avviene: l’incisione della verruca provoca un vivo dolore al­
la superficie del corpo: infatti ciò che si è sviluppato nella natura
contro la natura stessa entra nella sostanza per una sorta di simpatia,
e si produce una mescolanza inattesa dell’elemento estraneo con il no­
stro proprio essere, di modo che il fatto di separare l’elemento con­
tro natura provoca una sensazione dolorosa e acuta»23.
Posti questi preliminari, è necessario presentare con più precisione
le finalità dell’ascesi fisica e di ciò che può sostituirla.
Lo scopo più immediato dell’ascesi fisica è quello di porre fine al­
la sottomissione antinaturale dell’anima al corpo, di liberare l’anima
dal dominio del corpo, di sottomettere il corpo e l’anima alla sovra­
nità dello spirito. Per questo san Talassio scrive: «È proprio della na­
tura razionale sottomettersi alla ragione e trattare con durezza e as­
servire il corpo»24.
Abbiamo visto, infatti, come il peccato e le passioni abbiano as­
servito l’anima contro natura alle cupidigie del corpo e come da quel
momento l’abbiano alienata. In un certo modo, nota san Doroteo di
Gaza, essa «si è trovata ad essere una sola cosa con il corpo, divenu­
ta interamente carne»25. Ora, nota da parte sua, sant’Isacco, «quan­
22La Scala, Ricapitolazione, 57.
23Discorso catechetico, 8.
24 Centurie, II, 5.
25 Istruzioni spirituali, II, 39.
523
do l’anima vive la stessa vita del corpo, non è questo il suo stato na­
turale»26. Perché possa ritrovare il suo stato naturale e vivere spiri­
tualmente, cioè in sottomissione allo Spirito, è indispensabile che ri­
trovi la sua indipendenza in rapporto al corpo e il dominio di questo27.
Il regno dello spirito suppone «la crocifissione del corpo»28. Nel mo­
mento in cui cessa di essere sottomessa al corpo, di essere dominata
dalle sue preoccupazioni, di dedicare le sue capacità a soddisfare le
sue brame, di essere disturbata da esso, l’anima conoscerà una vita
nuova in cui potrà sbocciare pienamente nel senso e sotto la forma
adatti alla propria natura29.
Il dominio del corpo, dunque, non è qui ricercato per se stesso
come in alcune pratiche non cristiane, i cui precetti «hanno in verità
un’apparenza di sapienza per quanto riguarda sia il culto volontario
dell’umiltà che il trattamento rigoroso del corpo», ma in fondo sono
«senza valore» e servono solo «a saziare la carne» come insegna l’A­
postolo (Col2,23). Ciò a cui mira l’ascesi fisica cristiana è la pietà, co­
me dice ancora l’Apostolo, perché «l’esercizio corporale» in sé «è uti­
le a poco, mentre la pietà è utile a tutto» (lTm 4,8).
Abbiamo mostrato altrove30come la sofferenza legata alle malattie
del corpo poteva essere assunta spiritualmente in Cristo e acquisire
così una funzione purificatrice. Le stesse osservazioni possono essere
fatte a proposito delle sofferenze che accompagnano l’ascesi. I Padri
sottolineano il potere che esse hanno, per grazia di Dio, di purificare
l’uomo dai suoi peccati e dalle passioni31. «Il dolore fisico che pro­
viene dal digiuno, dalle veglie e da altre pratiche simili», «è il solo [...]
che fa morire la peccabilità del corpo», nota san Gregorio Palamas32.
E san Niceta Stetato: «Noi siamo purificati dalle sozzure del peccato
o per mezzo delle sofferenze volontarie o attraverso quelle che ci ar­
rivano nostro malgrado»33. Questo insegnamento è conforme al con­
siglio dell’apostolo Pietro: «Avendo Cristo sofferto nella carne, ar­
matevi anche voi della stessa mentalità, perché chi soffre nella carne
ha rotto col peccato» (lPt 4,1).
26Discorsi ascetici, 83.
27 Cfr. ibid., 16.
2SIbid
29Ibid.
30Nella nostra opera Théologie de la maladie, Paris 1991.
31 Cfr. TALASSIO, Centurie, IH, 14. ELIA ECDICO, Antologia gnomica, 34. NlL SORSKY, Rego­
la, TV.
32 Triadi, II, 2, 6.
33 Centurie, II, 9.
524
Per quanto riguarda le «passioni fisiche», cioè le passioni imme­
diatamente legate al corpo, come la gastrimargia e la lussuria, occorre
sottolineare che l’ascesi fisica è indispensabile per ridurle34. «La ga­
strimargia e la lussuria [...] hanno bisogno, per consumarsi, di un og­
getto esteriore, e giungono all’effetto solo mediante un’azione del cor­
po», ricorda san Giovanni Cassiano35. Mentre le passioni «nate su isti­
gazione solo dell’anima», «non reclamano allora che semplici rimedi
dell’anima»36, le «passioni corporee» «non guariscono se non attra­
verso un duplice trattamento»37. «Non basta, per frenarne gli attacchi,
l’applicazione dello spirito - come avviene ordinariamente per la
collera, la tristezza e gli altri vizi, in cui, senza affliggere la carne, la so­
la industria dell’anima sa guadagnare la vittoria -, occorrono anche la
mortificazione fisica, le veglie, i digiuni, il lavoro che affatica il cor­
po, ai quali si aggiungerà la fuga dalle occasioni. L’anima e il corpo
concorrono alla loro nascita; non le si potrà vincere senza che sia l’u-
na che l’altro vi concorrano»38. L’ascesi fisica appare qui come la com­
pagna indispensabile della temperanza39, che essa, peraltro, contri­
buisce a stabilire nell’anima40.
Benché l’ascesi fisica si applichi essenzialmente alle «passioni fisi­
che», ha tuttavia un ruolo non trascurabile da giocare nella lotta con­
tro le «passioni dell’anima». Questo può certo sembrare strano. Ecco
perché i Padri, prima di dare i loro insegnamenti su questo punto,
riconoscono generalmente che ciò suscita interrogativi. Così san Do­
roteo di Gaza: «Quale influsso può avere il lavoro del corpo su una
disposizione dell’anima?»41; «Come le fatiche del corpo sono virtù del­
l'anima?»42.
La risposta a queste domande si trova nel legame che unisce il cor­
po all’anima nelle condizioni di esistenza terrena del «composto uma­
no». L’anima, scrive sant’Isacco il Siro, «partecipa naturalmente alle
afflizioni del corpo, poiché il suo movimento è stato legato a quello
del corpo da una sapienza incomprensibile»43; «essa vive la vita stes­
34 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 17.
35 Conferenze, IV, 4.
ò6Ibid.
37Ibid.
»ibid.
39Ibid
40 Cfr. GREGORIO DI N issa, Omelie sul Cantico dei Cantici, 8; 9; Omelie sulle beatitudini, 2.
EvAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 94.
41 Istruzioni spirituali, II, 39.
42Ibid, 38.
43 Discorsi ascetici, 83.
525
sa del corpo»44. D’altra parte possiamo dire, e più in generale, che le
condizioni di esistenza materiale dell’uomo hanno una certa inciden­
za sul suo stato interiore. San Doroteo di Gaza fa notare: «Le dispo­
sizioni dell’anima non sono le stesse nel sano o nel malato, in colui che
ha fame e in colui che è sazio. Esse non sono affatto le stesse in un uo­
mo che viaggia a cavallo o in un uomo che cavalca un asino, in colui
che siede su un trono o in colui che siede per terra, in colui che in­
dossa dei bei vestiti o in colui che è vestito miseramente»45. Così l’a­
nima risente di tutto ciò che fa o subisce il corpo46, e questo principio
vale anche nell’altro senso. «La sofferenza accolta di buon grado» nel­
lo spirito o nel corpo, nota san Marco l’Eremita, «lavora per il part­
ner , quella del pensiero per il corpo, quella del corpo per il pensiero»47.
Studiando il processo della caduta, abbiamo visto come l’uomo si
sia allontanato dalle realtà spirituali per volgersi verso quelle sensibi­
li, cedendo attraverso la mediazione dei sensi all’attrazione del piace­
re, provando allora per il suo corpo un amore irrazionale e sforzan­
dosi di soddisfarne le brame (cfr. Rtn 13,14), cioè cadendo nella fi-
lautia, madre di tutte le passioni. L’ascesi fìsica contribuisce a rovesciare
questo processo. Questo legame naturale dell’anima e del corpo, che
ha permesso al peccato di stabilire e rafforzare le passioni, essa lo
usa al contrario per ridurre le passioni e ristabilire le virtù48.
Trattando duramente il corpo (cfr. lCor 9,27), l’ascesi si oppone di­
rettamente alla filautia e colpisce in un sol colpo le passioni che essa
genera, favorendo correlativamente la nascita delle virtù corrispon­
denti. «La filautia precede tutte le passioni. E il disprezzo del riposo
del corpo precede tutte le virtù», osserva sant’Isacco49. Egli dice an­
che, per sottolineare il valore terapeutico delle sofferenze che l’uomo
impone a se stesso, ma anche di quelle che arrivano dall’esterno e che
egli assume allo stesso modo delle prime: «Come i rimedi purificano
e scacciano dal corpo gli umori cattivi, così anche la violenza dei tor­
menti purifica e scaccia dal cuore i vizi»50.
Questo contributo essenziale delle sofferenze dell’ascesi alla gua­
rigione dalle passioni e, in primo luogo, quella della loro madre, cioè

44 ibid.
45 Istruzioni spirituali, II, 19. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 57.
46 D o ro te o di G aza, loc. cit. Cfr. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 16.
47Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 44.
48 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 27.
49 Ibid., 71.
50 Ibid
526
la filautia, si spiega per il fatto che esse sono antagoniste del piacere
di cui esse si nutrono. E per questo che san Talassio scrive: «Il lungo
amore per la pena (philoponia) bandisce l’amore del piacere (phile-
doniaW1. E ancora: «La vita dura e l’afflizione - o volontarie o susci­
tate dalla Provvidenza - cancellano il piacere»52. «Le afflizioni ucci­
dono il piacere delle passioni, mentre il conforto lo nutre e lo accre­
sce», scrive da parte sua sant’Isacco53. E san Niceta Stetatos consiglia:
«Colui che si è asservito fino alla sazietà ai piaceri e alle opere del cor­
po, si dedichi fino alla sazietà alle pene dell’ascesi nel sudore della
vita dura. La sazietà rovesci allora [...] la sazietà, il dolore il piacere,
e le fatiche del corpo il conforto»54. E così che per mezzo dell’ascesi
l’uomo diviene allora progressivamente insensibile agli appetiti car­
nali55. San Massimo, che, lo abbiamo visto, attribuisce nel processo
della caduta dell’uomo un ruolo fondamentale alla ricerca del piacere
e all’allontanamento del dolore, vede nelle sofferenze volontarie del-
l’ascesi e nelle sofferenze involontarie assunte come quelle56, un mez­
zo privilegiato del ritorno dell’uomo al suo stato originale57. A que­
sto proposito egli scrive: «Ingannati all’inizio dall’illusione del piace­
re, abbiamo preferito la morte alla vera vita. Abbiamo, dunque, cono­
sciuto con gratitudine la pena del corpo che distrugge il piacere. Poi­
ché dunque la morte del piacere fa scomparire con sé la morte che
questo aveva suscitato, riceviamo per contro, tornando in noi, la vita
[...]»58. Mentre dalla ricerca del piacere e dall’allontanamento del
dolore derivano tutte le passioni, l’accettazione delle sofferenze per­
mette l’eliminazione delle passioni e l’acquisto delle virtù: «Se, quan­
do la carne è trattata bene, la forza del peccato ha l’abitudine di cre­
scere, ne segue allora che la forza della virtù si eleva naturalmente e
a buon diritto quando la carne è maltrattata»59; «Lottare nelle pene è
il combattimento della virtù, il prezzo della vittoria che porta, in co­
loro che dànno prova di pazienza, l’impassibilità dell’anima»60.
In modo particolare, l’ascesi riduce le passioni che nascono dalla

51 Centurie, HI, 10.


52 Ibid., I, 33.
53Discorsi ascetici, 27.
54 Centurie, I, 86.
55 Cfr. Storia dei monaci d’Egitto, Giovanni di Licopolis, 29.
56Cfr. Questioni a Talassio, 4 7 , P G 9 0 , 4 2 8 A-B.
57 Cfr. Dieci capitoli, 8.
58Ibid,3.
59 Ibid., 4.
60 Ibid., 2. Cfr. N iceta Stetatos , Centurie, 1,2 5 ; 29.
527
parte passionale dell’anima (costituita, ricordiamolo, dalla potenza ira­
scibile e dalla potenza concupiscibile), il cui legame con il corpo è il
più immediato. È per questo che Evagrio insegna che il lavoro, il di­
giuno, le veglie «guariscono la parte passionale dell’anima»61. San Mas­
simo, ugualmente, considera queste pratiche come «rimedi»62. Sant’E-
sichio di Batos, da parte sua, scrive: «L’ascesi fìsica, voglio dire il di­
giuno, la temperanza, il dormire sul duro, lo stare in piedi, la veglia e
tutte le altre cose che colpiscono naturalmente il corpo, calmano la sua
parte passionale liberandolo dal peccato attivo. Queste cose [...] edu­
cano il nostro uomo esteriore e ci difendono dalle passioni attive»63.
Sono le passioni della potenza concupiscibile le più suscettibili di
essere contenute e ridotte attraverso l’ascesi fisica: «Alcuni rimedi im­
mobilizzano le passioni, impediscono loro di mettersi in moto e di in­
tensificarsi [...]. Così il digiuno, la sofferenza (kópos)M, le veglie, im­
pediscono alla cupidigia di prendere forza, scrive san Massimo65. Ed
Evagrio: «Quando la concupiscenza è infiammata, la fame, la pena (kó­
pos) e la solitudine la spengono»66. Questo effetto dell’ascesi sulla
potenza concupiscibile è correlativo al potere che l’ascesi ha di ri­
durre l’attrazione che esercita sull’uomo il piacere sensibile. «Se la po­
tenza concupiscibile dell’anima è troppo spesso eccitata, essa crea una
propensione abituale per il piacere, di cui si faticherà a disfarsi [...]. H
rimedio [...] è quello della pratica assidua del digiuno, delle veglie e
della preghiera», nota san Massimo67.
Gli effetti dell’ascesi, se si manifestano prima di tutto sulla parte
passionale dell’anima, si fanno vedere anche sulla sua parte razionale,
in particolare nella lotta contro l’orgoglio e la cenodossia che sono le
passioni sue proprie, e nell’acquisizione correlativa della virtù dell’u­
miltà. «Il cammino che conduce all’umiltà è quello del lavoro fisi­
co», insegna un Anziano68. Il legame tra ciò che il corpo subisce per il
fatto dell’ascesi e ciò che l’anima prova correlativamente appare qui
molto chiaramente. «Perché si dice che i lavori fisici portano l’anima
61 Trattato pratico sulla vita monastica, 49.
62 Centurie sulla carità, II, 47.
63 Capitoli sulla vigilanza, 112.
64 H termine kópos indica il lavoro duro, ma anche, in maniera più generale, l’austerità del
genere di vita, il disagio, ecc. Vedi: A e C . GUILLAUMONT, Introduzione a ÉVAGRE, Traitéprati-
que, SC 171, p. 53 7 , n. 15.
65 Centurie sulla carità, II, 47.
66 Trattato pratico sulla vita monastica, 15.
67 Centurie sulla carità, II, 70.
68Apoftegmi, N 323.
528
all’umiltà?», si chiede san Doroteo di Gaza69 a proposito dell’affer­
mazione precedente. E risponde: «L’anima infelice soffre con il cor­
po, ed essa stessa risente di tutto ciò che esso fa [...]. Il lavoro umilia
il corpo, e quando il corpo è umiliato, lo è anche l’anima, in modo che
l’Anziano ha avuto ragione di dire che anche il lavoro fisico conduce
all’umiltà»70.
Mentre un corpo troppo ben nutrito e riposato dà all’uomo una fal­
sa impressione di pienezza e di autonomia che introduce in lui l’or­
goglio, l’ascesi, indebolendo il suo corpo, gli fa sentire la sua reale fra­
gilità, la debolezza della sua natura attuale, il carattere effimero della
sua esistenza fisica e terrena, la relatività del suo essere, e lo conduce
così all’umiltà. «Più aumentano le sofferenze, più diminuisce la suffi­
cienza», fa notare sant’Isacco71.
Nello stesso tempo e per la stessa ragione, l’ascesi fisica conduce
l’anima a un atteggiamento di compunzione72, sentimento doloroso
che l’uomo ha del suo stato di peccato, della sua debolezza spirituale,
e della distanza che lo separa da Dio.
Essa ha, inoltre, l’effetto di ridurre il numero, il movimento e la for­
za dei pensieri passionali che si presentano all’intelligenza73 e contri­
buisce a stabilire la calma (hèsychta) in questa, perché, nota sant’I-
sacco, «i pensieri non possono divagare nel vuoto quando il corpo è
afflitto. Quando si sopportano nella gioia le pene e i tormenti, si pos­
sono'decisamente frenare i pensieri»74.
Vediamo, dunque, che l’ascesi fisica non educa solo «l’uomo este­
riore» e non lo preserva solo dalle «passioni attive», come sottolinea­
to da sant’Esichio di Batos, ma purifica anche l’uomo interiore aiu­
tandolo a lottare contro i pensieri.
Tutti questi effetti ddl’ascesi fisica favoriscono la preghiera, non so­
lo perché essi l’inducono, ma anche perché contribuiscono alla sua pu­
rezza. Perciò san Gregorio Palamas scrive: «Noi abbiamo certamen­
te bisogno del dolore fisico che viene dal digiuno, dalle veglie e da
altre pratiche simili se ci applichiamo alla preghiera. Infatti, solo que­
sto dolore fa morire la peccaminosità del corpo e rende più moderati
69Istruzioni spirituali, II, 38; 39.
70Ibid, 39.
71 Discorsi ascetici, 27.
72 Cfr. G regorio P alamas, Triadi, n, 2,6.
73 Cfr. Isacco il Siro , Discorsi ascetici, 27. G regorio P alamas, Triadi, II, 2 , 6.
74Discorsi ascetici, 27.
529
e deboli i pensieri che provocano le passioni brutali. Inoltre, all’inizio,
è questo che porta la santa compunzione, che cancella così il sudi­
ciume passato, che attrae più di ogni altra cosa il favore divino e pro­
voca una buona disposizione alla preghiera. Infatti “Un cuore con­
trito tu non disprezzi, o Dio” secondo Davide (Sal51[50],19) e, se­
condo Gregorio il Teologo, “non possiamo servire Dio se non per
mezzo della mortificazione”75. Ecco perché il Signore ha insegnato nel
Vangelo che la preghiera può molto quando è unita al digiuno»76.
L’ascesi fisica non contribuisce solo a purificare lo spirito, essa lo
affina anche, e lo rende più leggero e più atto a tutte le sue funzioni
spirituali77. Il digiuno e le veglie in particolare hanno questo effetto.
Nel purificare e nell’affinare lo spirito, l’ascesi fisica contribuisce
a istradarlo verso la contemplazione78. La sofferenza che gli è legata
è la condizione provvisoria per accedere al godimento dei beni del Re­
gno che lo ricompenserà infinitamente: «Le sofferenze del tempo pre­
sente non hanno un valore proporzionato alla gloria che si manifesterà
in noi» (Rtn 8,18).
Perché l’ascesi fisica sia seguita da tutti questi effetti, è indispen­
sabile che essa sia compiuta con moderazione. Se l’ascesi implica un
certo indebolimento del corpo, non deve però né maltrattarlo né de­
bilitarlo79.
Abbiamo sottolineato più volte che il cristianesimo non comporta
in verità alcun disprezzo del corpo, ma, al contrario, invita al suo ri­
spetto in quanto membro che partecipa interamente del composto
umano creato da Dio e buono per natura nella sua integralità, e anche
in quanto destinato a risuscitare e a conoscere, con l’anima, la deifi­
cazione. Il corpo in sé non è un ostacolo alla vita spirituale e non è
né una prigione né una tomba per l’anima, se non quando questa si
sottomette alle cupidigie passionali del corpo. Ed è contro queste che
la lotta deve essere orientata. «Non lottiamo contro una natura uma­
na mortale» ci insegna san Paolo {Ef 6,12), che consiglia: «Ciascuno
di voi sappia tenere il proprio corpo in santità e onore, non abban­
donandosi alle passioni come fanno i pagani che non conoscono Dio»
(lTs 4,4-5). E Abba Poemen afferma: «Non abbiamo imparato a uc­
75 Discorsi, X X IV , 11.
76 Triadi, 13, 2, 6.
77 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 91.
78 ISACCO IL SIRO, Discorsi ascetici, 9.
79 Cfr. GREGORIO DI N issa, Trattato sulla verginità, XXH, 1.
530
cidere il nostro corpo, ma a uccidere le nostre passioni»80. E dicendo
ancora: «Se con lo spirito ucciderete le azioni del corpo, vivrete» (Rtn
8,13), l’Apostolo indica da una parte che l’ascesi non mira al corpo
stesso ma alle sue passioni, e, dall’altra parte, che il suo fine ultimo è
la vita in Dio. Lottare contro il corpo, questo sarebbe ingannarsi sul­
l’avversario e ignorare la finalità vera dell’ascesi. E per questo che san
Paolo, pur dicendo: «Tratto duramente il mio corpo» (ICor 9,27), sot­
tolinea: «Nessuno mai ha odiato la propria carne, al contrario la trat­
ta con cura, come anche il Cristo la sua Chiesa» (£/5,29)81.
Il corpo nella vita spirituale dev’essere il collaboratore dell’anima.
Egli stesso deve compiere la volontà di Dio e servire l’anima in tutta
l’ampiezza delle sue relazioni con essa, aiutandola con tutte le sue for­
ze. Ecco perché, in tale prospettiva, l’uomo deve non solo non odia­
re il suo corpo, ma anche, come dice san Massimo, «amarlo, ma sen­
za passione; mantenerlo, ma come semplice servitore delle cose divi­
ne»82. Anche san Basilio di Ancira consiglia di curare il corpo come
un aiuto senza il quale la vita spirituale sarebbe impossibile: «Occor­
re avere cura anche del corpo, non perché è il corpo, ma al fine di ave­
re un aiuto, dico io, per la filosofia83, sia di essere in grado di leggere
i filosofi, sia di concentrare come occorre nella preghiera lo spirito che
langue nel corpo, sia, in modo generale, di fare tutto ciò che riguar­
da la filosofia»84. Nel brano della sua Regola in cui ricorda l’ascesi fi­
sica, san Nil Sorsky consiglia a questo riguardo: «Se il corpo è inca­
pace, è opportuno fortificarlo per quanto è necessario»85.
Debilitare il corpo sarebbe renderlo inadatto al suo compito spiri­
tuale e dò significherebbe indebolire l’anima (visto il legame che li uni­
sce); vorrebbe dire anche, in alcuni casi, trascinarlo al peccato. Un’a-
scesi fisica mal condotta ed eccessiva, anziché contribuire all’indebo­
limento delle passioni, rischia di suscitarle e di dar loro forza, anziché
elevare lo spirito, di abbassarlo a preoccupazioni terrene, a motivo, in
particolare, dd dolore sentito che, se è troppo forte, può diventare os­
sessionante e richiamare su di sé tutta l’attenzione. San Gregorio di
80Apoftegmiy serie alfabetica, Poemen, 184.
81 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, DI, 9.
82Ibid. .
83 Ricordiamo che, nel linguaggio patristico, «la filosofia» indica generalmente la vita spiri­
tuale, più precisamente la pràxis o l’ascesi nel senso ampio del termine e «i filosofi» coloro che
conducono una tale vita. Cfr. A.-M . MALINGREY, «Pbilosopbia». Étude d’un groupe de mots dans
la Littérature grecque des Présocratiques au IV6 siècle après J.-C, Paris 1961.
84 Trattato sulla verginità, 11.
85 Regola, IV.

531
Nissa e san Basilio di Andrà mettono molto in guardia contro que­
sto pericolo86. L’ultimo dd due scrive in particolare: «Se il dominio dd
corpo sull’anima è un impedimento all’acquisto del bene, d’altro la­
to la sua debolezza, quando fa sì che lo strumento corporeo sia inca­
pace di servire i desideri dell’anima, elimina allo stesso modo la cor­
sa al bene»87. San Gregorio Magno consiglia in questa prospettiva: «At­
traverso l’ascesi sono i vizi della carne che si vogliono estirpare, non
la carne stessa. Ciascuno deve rendersi padrone dd suo corpo, ma con
una moderazione tale che la carne, rivoltandosi, non arrivi a spinger­
ci a commettere qualche colpa, e che essa conservi abbastanza vitalità
per continuare efficacemente a compiere bene ciò che deve fare»88.
La finalità dell’ascesi fisica, che è quella di favorire la vita spiritua­
le, non deve dunque mai essere persa di vista. Lo scopo ultimo dd-
l’ascesi, dice san Gregorio di Nissa, «è quello di mirare non a oppri­
mere il corpo, ma a facilitare le funzioni dell’anima»89. Sulla base di
questo principio, la regola pratica dell’ascesi dev’essere, come indica
san Gregorio di Nissa, quella «di guardarsi anche dalle mancanze di
moderazione da una parte e dall’altra vegliando affinché la prosperità
della carne non seppellisca lo spirito (noùs) e affinché, al contrario,
la sua estenuazione gratuita non lo debiliti totalmente, non lo pro­
stri, lasciandolo assorbito dalle sofferenze fisiche. Sarebbe opportuno,
altresì, ricordarsi della saggia prescrizione che vieta anche di voltarsi
a destra o nella direzione opposta (cfr. Pro 4,27)»90. Si tratterà di fare
in modo «che l’abbondanza non abbia nulla di troppo e che l’indi­
genza non manchi di nulla» (cfr. 2Cor 8,15; Es 16,18), «ma eliminan­
do ciò che passa la misura nell’uno o nell’altro senso, si avrà cura di
aggiungere ciò che manca, e ci si guarderà con uguale zelo da ciò
che rende il corpo inutilizzabile nell’uno e nell’altro caso: non spin­
gendo affatto la carne, per un benessere eccessivo, all’indisciplina e al­
l’indocilità, né rendendola, con un’oppressione eccessiva, malsana, de­
bole e senza vigore per il servizio che essa deve rendere»91. Le stesse
raccomandazioni sono fomite da san Basilio di Andrà92 che scrive in
particolare: «Con questo rivestimento [il corpo], al quale ci unisce un
86 G regorio di N issa, Trattato sulla verginità, XII, 1. B asilio d ’A ncira, Trattato sulla ver-
ginità, 8.
87 Loc. cit., 10. Cfr. 11.
88Moralia su Giobbe, L X X , 41. Cfr. X X X , 18.
89 Trattato sulla verginità, X X H , 2.
90Ibid)XXE>l.
91 Ibid., X X H , 2. Cfr. BASILIO DI CESAREA, Sermone ascetico, III, PG 31, 876D.
92 Trattato sulla verginità, 8-11.
532
legame naturale, occorre avanzare nella corsa della virtù, evitando
sia di troppo rilasciare le briglie sia di tirarle molto forte. Così per que­
sta ragione, è opportuno esaminare accuratamente lo stato nel quale
si trova il corpo»93.
Questo esame e la definizione della giusta misura dell’ascesi fisica
provengono da una delle funzioni della virtù della prudenza, cioè
del discernimento spirituale94, di cui abbiamo già parlato.

93 Ibid., 8. Il grande asceta, che è sant’Arsenio, invita ad altrettanta moderazione nella sua
Lettera (71; 72). Vedi anche TALASSIO, Centurie, DI, 12.
94Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, II, 16s. Occorre notare che il termine discretio, usa­
to da san Giovanni Cassiano, possiede il duplice significato di «discernimento» (che corrispon­
de al greco diàkrisis) e di «misura» (che corrisponde al greco métron). Vedi l’articolo «Discre­
tio», in Dictionnaire de spiritualité, t. 3, col. 1311s.
533
PARTE QUINTA

TERAPIA DELLE PASSIONI


E ACQUISTO DELLE VIRTÙ
536
I
TERAPIA DELLA GASTRIMARGIA
LA TEMPERANZA

L’azione terapeutica, che mira a guarire l’uomo dalle malattie spi­


rituali, deve in primo luogo applicarsi alla passione della gastrimargia:
da una parte, perché questa passione è la più grossolana, la più pri­
mitiva, dall’altra, perché la vittoria su di essa condiziona in larga mi­
sura la lotta contro le altre passioni. A questo proposito san Gregorio
Magno così scrive: «Nessuno può prendere il sopravvento nella lotta
^spirituale se non ha prima di tutto dominato in sé il nemico che si
camuffa nei suoi appetiti della gola. E un’illusione voler ingaggiare la
lotta contro potenze lontane, quando si è dominati da quelle che so­
no molto vicine [...]. Alcuni uomini, ignorando la tattica da seguire nel
combattimento, trascurano di dominare la loro golosità, mentre si lan­
ciano in lotte spirituali: talvolta essi non tralasciano di realizzare cose
importanti che richiedono molta forza di carattere, ma, essendo do­
minati dalla gola, le attrazioni della carne fanno perdere loro tutto il
profitto di quanto hanno realizzato con coraggio»1.
1) NelTesaminare la passione della gastrimargia, abbiamo visto c
questa consiste in primo luogo nel desiderio degli alimenti non con
il solo scopo del nutrimento, ma in vista del piacere che essi procu­
rano, e che questo piacere è ricercato sia per mezzo della qualità sia
per mezzo della quantità, il che, in tutti e due i casi, costituisce ima ve­
ra perversione della funzione nutritiva, un allontanamento dalla sua
finalità naturale e normale. La terapia della gastrimargia e la correla­
tiva acquisizione della virtù della temperanza (intesa in senso stretto)2,
1Moralia su Giobbe, XXX, 18. Troviamo lo stesso insegnamento in GIOVANNI CASSIANO, Isti­
tuzioni cenobitiche, V, 13-16.
2 H termine «temperanza» (<enkràteia) è usato quasi esclusivamente nel senso stretto di virtù
specificamente opposta alla passione della gastrimargia, da un certo numero di Padri, in parti­
colare da EVAGRIO PONTICO (cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 89; Commento ai Salmi,
45, 2, PG 12,1433B) e da san BARSANUFIO (cfr. Lettere, 86; 154; 159; 160; 255; 323; 546, ecc.).
537
che le è opposta, consisteranno innanzitutto nelToperare un rovescia­
mento di questo atteggiamento. In altri termini, consisteranno nel pren­
dere il nutrimento esclusivamente per bisogno, cioè unicamente in vi­
sta di assicurare la vita e di mantenere o di ristabilire la salute del cor­
po, evitando, da una parte, ogni ricerca di voluttà sensibile e, dall’altra,
ogni eccesso riguardante la stretta necessità3. A tale proposito san Ba­
silio così scrive: «L’obiettivo della temperanza lo si realizza in questo
modo: da un lato, usando secondo i propri bisogni le cose molto sem­
plici, necessarie alla vita, evitando ogni sazietà, e, dall’altro, astenen­
dosi da tutto ciò che riguarda solo il piacere»4. Alla domanda: «Come
può la temperanza spegnere la concupiscenza?», san Massimo risponde
così: «Incitando a eliminare tutto ciò che non risponde a un bisogno,
ma che procura solo piacere. La temperanza permette di concedersi
solo ciò che è necessario per vivere; essa ricerca non il piacevole ma
l’utile, e commisura al solo bisogno il cibo e le bevande»5.
La terapia della gastrimargia e la pratica della temperanza non po­
trebbero, dunque, consistere nell’astensione pura e semplice dal cibo.
Non si tratta, perciò, di astenersi dal cibo - san Basilio ricorda a que­
sto proposito che «ogni cosa creata da Dio è buona» e non dovrebbe
essere rifiutata6-, ma di assumerne senza passione7. Non si tratta af­
fatto di odiare il cibo, ma solo il relativo desiderio passionale. San Dia­
doco di Foticea scrive molto chiaramente: «Gli atleti devono allenar­
si a odiare tutti i desideri irrazionali tanto da contrarre l’abitudine di
questo odio; ma a proposito degli alimenti, bisogna osservare la tem­
peranza in modo da non arrivare a detestarne alcuno, il che è un abo­
minio e una pura diavoleria»8.
La lotta contro la passione si compie principalmente con la rinun­
cia al piacere sensibile che la suscita e la nutre. Tale rinuncia si rea­
lizza innanzitutto evitando le occasioni che favoriscono la gola e ri­
fiutando la ricerca di cibi gustosi9. Ma sussiste una difficoltà nel fatto
che il piacere è naturalmente legato alla funzione nutritiva. Occorre
allora sforzarsi, come raccomanda san Gregorio Magno, di dissocia­
3L’insegnamento di tutti i Padri si riassume essenzialmente in questi principi. Vedi per esem­
pio: G iovanni Crisostomo, Omelia: A colui che non nuoce a se stesso..., 7. G iovanni di G a­
za, Lettere, 161. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89. GREGORIO MAGNO,
Moralia su Giobbe, XXX, 18.
4Regole lunghe, 18. Cfr. 17; 19; Lettere, XXII.
5Discorso ascetico, 23. Vedi anche DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 44; 51.
6Regole lunghe, 18.
7 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 19.
8 Cento capitoli gnostici, 43.
9Cfr. D oroteo DI G aza, Istruzioni spirituali, XV, 161. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIV, 13.
538
re il piacere dal bisogno10badando a non legarsi al primo. San Gre­
gorio di Nissa scrive allo stesso modo: «L’uomo temperante deve usa­
re questa regola per la sua stessa vita: non legare mai la propria anima
a un oggetto o a qualche porzione di piacere che vi si trovi unita, e so­
prattutto deve guardarsi dal piacere del gusto [...]. Affinché il nostro
corpo rimanga estremamente calmo e non sia turbato da nessuno di
quei moti passionali che nascono dalla sazietà, occorre vegliare ac-
ché non sia il piacere ma l’utilità che in ogni caso determina la misu­
ra della condotta temperante e il limite del godimento. E se il gradi­
mento è strettamente mescolato all’utilità [...], non bisogna respinge­
re l’utilità a causa del godimento che l’accompagna, né, sicuramente,
perseguire in primo luogo il piacere, ma è opportuno, scegliendo ciò
che vi è di utile in ogni cosa, disprezzare ciò che affascina i sensi»11. Si
può qui intravedere che ciò che è cattivo, in realtà, non è il piacere
in se stesso, ma la ricerca del piacere e l’attaccamento a esso che co­
stituiscono la passione. Per questo motivo, san Giovanni Cassiano fa
potare: «Il piacere che proviamo naturalmente nel mangiare non è un
male essenziale; [...] se esso non si accompagna ad intemperanza [...]
o a qualche altro vizio, non si può dire che sia cattivo»12. In senso stret­
to, dunque, la temperanza consiste, piuttosto che neU’astenersi dal pia­
cere, a non ricercarlo e a non attaccarsi ad esso, e più fondamental­
mente a non prestargli alcuna attenzione. È in questo senso che Abba
Poemen consiglia: «Mangia senza mangiare, bevi senza bere»13.
Poiché la gastrimargia non riguarda solo la qualità degli alimenti, ma
anche la quantità, i Padri raccomandano nello stesso tempo di evitare
ogni eccesso14e offrono come principio concreto di applicazione quel­
lo di non mangiare né bere a sazietà15e di rimanere sempre con un po’
di fame e di sete16. A questo riguardo san Giovanni Cassiano così scri­
ve: «La regola generale da seguire per la temperanza consiste nel con­
cedersi [...] il nutrimento che basta per sostenere il corpo, non abba­
stanza per saziarlo»17. E altrove: «La sentenza dei Padri è profonda­
mente giustificata e provata dall’esperienza: la misura [...] della

10Moralia su Giobbe, XXX, 18.


11 Trattato sulla verginità, XXI, 2. Cfr. 3.
12 Conferenze, XXI, 15.
13Apoftegmi, Eth. Coll., 14, 63.
14 Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18. D oroteo di G aza, Istruzioni spirituali, XV, 161.
15 Cfr. Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18; 19. Evagrio P ontico, Trattato pratico sulla
vita monastica, 16. BARSANUFIO, Lettere, 154.
16Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 7. Isaia di Scete , Asceticon, IV, 44.
17Conferenze, II, 22.
539
temperanza consiste nella privazione che ci s’impone sulla quantità di
cibo; e la perfezione di questa virtù, alla quale occorre tendere, è la stes­
sa per tutti: sospendere di mangiare dò che siamo costretti ad assumere
per sostenere il nostro corpo rimanendo ancora con un po’ di fame»18.
San Giovanni di Gaza insegna: «Quanto alla misura della temperanza,
i Padri dicono che, sia per il mangiare, sia per il bere, occorre rimane­
re un poco al di qua, cioè non riempirsi il ventre né di cibo né di be­
vande»19. Non mangiare a sazietà contribuisce ad allontanare il piace­
re sensibile la cui ricerca porta a superare i limiti dd necessario20, ma
anche ad evitare le ripercussioni indesiderabili sullo stato dell’anima e
gli inconvenienti per la vita spirituale di un nutrimento e di una be­
vanda troppo abbondanti; rimanere con un po’ di fame e di sete per­
mette, al contrario, di beneficiare di alcuni effetti positivi dd digiuno,
anche se non si tratta di un digiuno in senso stretto21. Per questo san
Giovanni Cassiano raccomanda: «Che nessuno [...] mangi a sazietà. In­
fatti, non è solo la qualità, ma anche la quantità di nutrimento che smor­
za la vivadtà dd cuore, appesantisce lo spirito quanto il corpo e attiz­
za il fuoco bruciante dd vizi»22, perché «lo spirito, appesantito dal nu­
trimento, non può più osservare la regola dd discernimento [...], così
tutti gli eccessi di nutrimento lo rendono barcollante e instabile»23.
Se la regola di non ricercare la voluttà non pone alcun problema,
quella di attenersi a ciò che è utile, di limitarsi al necessario e osser­
vare la giusta misura, non è generalizzabile perché queste nozioni so­
no rdative a ciascuno. San Basilio osserva così che è impossibile de­
finire una norma valida per tutti: «Quanto agli alimenti, poiché i di­
versi bisogni differiscono per gli uni e per gli altri secondo l’età, le
occupazioni e la costituzione fisica, occorrono regimi e trattamenti di­
versi. Ne risulta che non si può, in una sola regola, abbracciare tutte
quelle che s’impongono nell’esercizio della devozione [...]. A questo
proposito ricorda ciò che è scritto negli Atti: “Ne facevano parte a tut­
ti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,45)»24. Il problema si pone fin
dal momento in cui si cerca di determinare la misura di ciò che è uti­
le e necessario, dove si ferma il necessario e dove comincia l’eccesso.

18Istituzioni cenobitiche, V, 8.
19Lettere, 155.
20 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, XXX, 18.
21 Cfr. DIADOCO DI Foticea, Cento capitoli gnostici, 45; 48; 49.
22 Istituzioni cenobitiche, V, 5.
23 Ibid., 6.
24Regole lunghe, 19. Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, V, 5.
540
In tali condizioni, è compito della coscienza di ciascuno valutare ciò
che conviene alla propria situazione. Per questo san Giovanni Cassia-
no osserva che si deve «ricercare la perfezione della temperanza [...]
innanzitutto nella testimonianza della coscienza»25. È questa che deve
dar prova di discernimento indispensabile26. San Doroteo di Gaza
insiste sull’importanza di un tale discernimento: «Chiunque vuol es­
sere purificato dai peccati [...] deve innanzitutto guardarsi dalla man­
canza di discernimento nel nutrirsi, perché, secondo i Padri, la man­
canza di discernimento nella nutrizione genera ogni sorta di male nel­
l’uomo»27. Si tratta, infatti, di determinare se lo stato attuale del corpo
favorisce la vita spirituale o se, al contrario, la ostacola. Gli ostacoli so­
no, da una parte, la troppo grande forza del corpo e, dall’altra, una
troppo grande debolezza, cose che costituiscono i due eccessi da evi­
tare. E opportuno, dunque, nutrire di più il corpo se esso sembra ina­
datto ad esercitare il suo ruolo nella vita spirituale e se esso indeboli­
sce l’anima anziché sostenerla, se la deprime e polarizza la sua atten­
zione invece di stimolarla; al contrario, è opportuno ridurre la propria
alimentazione se per la sua eccessiva forza il corpo appesantisce l’ani­
ma e favorisce la nascita e lo sviluppo di pensieri e moti passionali28.
Sant’Ipazio così insegna a tale proposito: «Noi ordiniamo di gover­
nare il corpo, affinché esso non sia appesantito dagli alimenti e non
faccia affondare l’anima nei peccati, e, d’altra parte, non si rinsecchi­
sca e si accasci ed impedisca all’anima di dedicarsi alle cose spiritua­
li. L’anima, però, deve contrastare il corpo, in modo che, quando que­
sto s’indebolisce, essa gli ceda qualcosa, e quando esso riprende ener­
gia, essa tiri le briglie»29. San Doroteo di Gaza precisa nello stesso
senso: «Mangia secondo il bisogno colui che, essendosi fissata una ra­
zione giornaliera, la diminuisce, se, per Pappesantimento che questa
gli procura, si rende conto che occorre toglierne qualcosa. Se, al con­
trario, questa razione, lungi dall’appesantirlo, non sostiene il suo
corpo e dev’essere leggermente aumentata, vi aggiunge un piccolo sup­
plemento. In questo modo, egli valuta correttamente i suoi bisogni e,
in seguito, si conforma a ciò che è stato fissato, non per il piacere,
ma allo scopo di mantenere la forza del suo corpo»50.
25Loc. cit., 9.
26Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, XXX, 18.
27Istruzioni spirituali, XV, 161.
28Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 45. G regorio M ag no , Moralia su Giob­
be,, XXX, 18.
29 CALLINICO, Vita d'Ipazio, XXIV, 70-71.
30Istruzioni spirituali, XV, 162.
541
2) Nell’esaminare la passione della gastrimargia, abbiamo visto ch
il suo carattere patologico riguarda non solo il fatto che essa costitui­
sce una perversione, un uso contro natura, della funzione nutritiva,
ma altresì e soprattutto il fatto che essa allontana l’uomo da Dio.
Abbiamo visto come la gastrimargia costituisca in fondo un atteggia­
mento idolatrico, poiché l’uomo fa delle sue funzioni gustative e di­
gestive il centro del suo essere e della loro soddisfazione un soggetto
di preoccupazione e, talvolta, anche uno degli scopi essenziali della
sua esistenza, dando ad essi il posto che naturalmente spetta a Dio.
La terapia della gastrimargia può consistere solo in una conversio­
ne, in un cambiamento di atteggiamento che permetta all’uomo di ri­
dare il primo posto al desiderio di Dio, all’attenzione a Dio, e consi­
derare che Dio è per lui l’unico assoluto, il solo vero fine della propria
esistenza, che è a lui «che spetta ogni gloria, onore e adorazione», e
che i beni spirituali che riceviamo da lui sono gli unici che servono ve­
ramente alla natura dell’uomo, e sono perfetti. Per questo, san Gio­
vanni Cassiano afferma per mezzo «del desiderio di perfezione» l’uo­
mo deve sforzarsi di «spegnere la concupiscenza del mangiare»31e che
egli non può liberarsi dalla schiavitù della carne e vincere la passione
se non concentrando il suo sguardo sulle realtà spirituali32. E precisa:
«In effetti, non potremo mai disprezzare il piacere dei cibi terreni, se
il nostro spirito non si applica alla contemplazione divina e non trova
piuttosto la sua gioia nell’amore della virtù e nella bellezza del cibo ce­
leste»33. San Barsanufìo, a sua volta, osserva che colui che «ricerca le
cose di lassù, pensa alle cose di lassù, medita le cose di lassù», costui
«dimentica “di mangiare il suo pane” (cfr. Sai 102[101] ,5)»; in altre
parole, non dimostra più attaccamento né attenzione al nutrimento34.
E rendendo grazie a Dio, quando si nutre, che l’uomo dimostra l’at­
tenzione e l’adorazione dovute solo a Dio e può mettere fine alla
passione. Abbiamo visto, infatti, che, nella passione della gastrimar­
gia, l’uomo gode degli alimenti al di fuori di Dio, considerandoli in se
stessi e facendoli servire esclusivamente al proprio piacere. Ora, gli ali­
menti sono creati (in modo diretto o indiretto) da Dio che ne ha fat­
to dono agli uomini: ecco perché essi non hanno valore in se stessi ma
in quanto riferimento a Dio, e sono destinati a essere consumati eu­
caristicamente. Per questo san Paolo insegna che Dio li «creò perché
31 Istituzioni cenobitiche, V, 14.
32Ibid., 16.
33Ibid., 14.
34 Lettere, 154.
542
fossero presi con animo grato dai fedeli e da quelli che hanno cono­
sciuto la verità» (lTm 4,3). L’uomo guarisce dalla passione e ritrova
un atteggiamento virtuoso attraverso un cambiamento radicale del suo
atteggiamento che gli fa smettere di considerare il cibo per se stesso
e usarlo per il proprio piacere, per considerarlo, al contrario, in Dio,
per rapportarlo a lui e a lui rendere grazie. Per questo san Paolo con­
siglia: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la glo­
ria di Dio» (lCor 10,31)35. Consumando gli alimenti in questo modo,
l’uomo li santifica (cfr. lTm 4,5) e con essi tutto il cosmo creato che
essi rappresentano. Nello stesso tempo, e soprattutto, santifica se stes­
so, non solo sopprimendo la barriera che la gastrimargia poneva tra
lui e Dio, ma unendosi di più a Dio ogni volta che gli rende grazie.
La gastrimargia non ha la sua origine nei bisogni del corpo, ma in
alcuni desideri che provengono dal cuore, cioè dall’uomo interiore. Es­
sa consiste in un certo atteggiamento di fronte agli alimenti e in un cer­
to modo di considerare la nutrizione. Essa risiede essenzialmente in una
ricerca del piacere legato alla qualità o/e alla quantità degli alimenti,
che spesso porta l’uomo a nutrirsi eccessivamente, cioè al di là dello
stesso fabbisogno. Pertanto, la lotta contro questa passione e la sua gua­
rigione passano, come abbiamo già visto, attraverso il discernimento
e il dominio dei pensieri36, che va di pari passo con la vigilanza37.
D’altra parte, però, è fuori dubbio che la gastrimargia sia una «pas­
sione fisica», cioè fa parte di quelle passioni che hanno una relazione
diretta ed essenziale con il corpo, non solo perché tali passioni non
possono manifestarsi se non per suo mezzo, ma anche perché esso con­
tribuisce a suscitarle. Ora queste passioni, come afferma san Giovan­
ni Cassiano, «non guariscono se non mediante un duplice trattamen­
to»38. In altri termini, la terapia praticata a livello dell’anima dev’esse­
re completata da una terapia da applicarsi allo stesso corpo. A questo
proposito san Giovanni Cassiano così scrive: «La gastrimargia e la lus­
suria [...] risvegliandosi varie volte senza che la volontà vi abbia pre­
so parte, per l’istigazione e per il prurito della stessa carne, hanno bi­
sogno tuttavia, per consumarsi, di un oggetto esteriore, e non arriva­
no all’effetto se non mediante un’azione del corpo [...]. Proprio perché
” Cfr. Basilio di C esarea, Regole lunghe, 18. D iadoco di Foucea , Cento capitoli gnostì-
ci, 43. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XV, 162.
36Su quest’ultimo punto, vedi per esempio GIOVANNI DI G aza, Lettere, 161; 163.
37 Cfr. G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 4. G iovanni di G aza, Lettere, 163.
38 Conferenze, V, 4.
543
esse non si consumano se non per il ministero della carne, questi due
vizi39richiedono specialmente, oltre alla terapia spirituale dell’anima,
la pratica della temperanza del corpo»40, cioè di quanto precedente-
mente abbiamo definito ascesi fisica. È così che i digiuni41, le veglie42,
il lavoro manuale43 possono, a seconda dei casi e delle circostanze44,
contribuire alla guarigione della gastrimargia.
La lettura della Scrittura45, la meditazione sulla morte46costituisco­
no preziose terapie di sostegno. E, come nella lotta contro tutte le al­
tre passioni, la compunzione del cuore, attraverso la quale l’uomo, da­
vanti a Dio, piange per le sue colpe, si dissocia dalla passione e ma­
nifesta la volontà di rinunciarvi47, gioca un ruolo fondamentale, così
come, ben inteso, la preghiera con la quale egli chiede l’aiuto di Dio48.
Così san Giovanni Climaco, in una prosopopea, fa dire alla gastri­
margia: «Colui che ha ricevuto il Consolatore implora la sua assi­
stenza contro di me; ed egli, così invocato, non mi permette di agire
in modo passionale»49, il che si accorda con l’affermazione di san Pao­
lo che la temperanza è un «frutto dello Spirito» {Gal5,22).
Abbiamo visto, esaminando la passione della gastrimargia, che es­
sa è per l’anima e per il corpo dell’uomo fonte di un gran numero di
mali. I Padri la considerano «l’origine di tutte le altre passioni»50e «la
distruttrice di tutti i frutti delle virtù»51. Va da sé, dunque, che la pra­
tica della virtù della temperanza permette l’eliminazione di questi ma­
li52e di queste passioni53 e, inversamente, «procura la salute»54 e si ri­
vela il principio di molti beni55 e di virtù56.
39L’autore ricorda la lussuria e, nello stesso tempo, la gastrimargia.
40 Conferenze, V, 4.
41 Ibid.; Istituzioni cenobitiche, V, 14.
42Id., Conferenze, V, 4; Istituzioni cenobitiche, V, 14; 20. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIV, 29.
43 G iovanni Cassiano, Conferenze, V, 4. G iovanni Climaco, loc. dt.
44 Cfr. G iovanni Climaco, loc. dt.
45 Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, V, 14; Conferenze, V, 4.
46Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XIV, 34; 38; VI, 14.
47 Cfr. G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, V, 14. G iovanni d i G aza , Lettere, 462.
BARSANUFIO, Lettere, 604.
48 Cfr. G iovanni di G aza, Lettere, 163. Barsanufio, Lettere, 328.
49 G iovanni Climaco, La Scala, XIV, 38.
30Ibid., 35.
51 M assim o il C onfessore , Questioni a Talassio, 65, P G 9 0,768A.
52 Callinico, Vita dTpazio, XXIV, 62.
53Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 86. Gregorio Nazianzeno consiglia:
«Comanda allo stomaco e comanderai alle altre tue passioni» {Poesie, II, n, 6).
54 Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18.
55 Callinico, Vita dTpazio, XXTV, 62; 72.
56Cfr. G iovanni C risostom o , Trattato sulla verginità, 71. G regorio d i N issa , Omelie sul
Cantico dei Cantid, XII.
544
Abbiamo evidenziato, in primo luogo, che la gastrimargia stabilisce
una serie di ostacoli alla vita spirituale, poiché essa ha come effetto
d’immergere l’anima nel torpore, d’ispessire e appesantire lo spirito,
di rallentare i suoi movimenti, impedendogli di condurre come si con­
viene la lotta, riducendo e alterando la sua capacità di discernimento
e rendendo difficile la preghiera. La temperanza permette di togliere
questi ostacoli57, e quindi ha l’effetto di «facilitare le funzioni dell’a­
nima»58, in particolare di rendere lo spirito più vigile, più dinamico,
di rafforzare le capacità di discernimento e di comprensione59, di fa­
vorire la compunzione60e la preghiera61.
Abbiamo visto, inoltre, che la gastrimargia suscita e nutre numero­
se passioni al primo posto delle quali c’è la lussuria. La temperanza ha
l’effetto di «domare le passioni del corpo»62 e, alla fine, permette di
annientarle63, ma contribuisce altresì a ridurre le passioni dell’anima,
in particolare la cenodossia64, l’orgoglio e la filautia65, e favorisce il ri­
stabilimento delle virtù contrarie66: continenza e castità67per quanto
riguarda la lussuria, l’umiltà68per quanto riguarda l’orgoglio. Mentre
la gastrimargia suscita e alimenta innumerevoli pensieri passionali, la
temperanza contribuisce a «conservare lo spirito libero di fronte agli
oggetti e alle loro rappresentazioni»69, ad instaurare nell’anima la cal­
ma e la stabilità, e a purificare il cuore70, il che aiuta l’uomo ad arri­
vare a una preghiera pura e a ritrovare una vera conoscenza71.

57Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 18. C allinico , Vita d’Ipazio, XXIV, 24; 70.
58G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, XXII, 2.
59 Cfr. C allinico , Vita d'Ipazio, XXIV, 24,63.
“ Cfr. G iovanni Climaco, La Scala, XIV, 22.
61 Cfr. ibid., x x v n i, 14.
62 Callinico, Vita d’Ipazio, XXIV, 63.
6S EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 35. BASILIO DI CESAREA, Regole
lunghe, 16.
64 G iovanni Climaco, La Scala, XXVI, 161.
65M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IH, 8.
66G iovanni Crisostomo, Trattato sulla verginità, 71.
67 Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18. Giovanni Climaco, La Scala, XIV, 6. Cfr. Mas­
simo IL CONFESSORE, Discorso ascetico, 23.
68Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XIV, 24; XXVI, 161.
® M assimo il Confessore, Centurie sulla carità, in, 39.
70 Cfr. C a llin ico , Vita d’Ipazio, XXIV, 63. G io v ann i C assia no , Istituzioni cenobitiche, V,
22. M assimo il C onfessore , loc. cit., IV, 72. E sichio d i B atos , Capitoli sulla vigilanza, 75.
71 Cfr. Callinico, Vita d’Ipazio, XXIV, 63. Clemente d ’Alessandria, Stromata, VII, 12.
M assimo il C onfessore, Centurie sulla carità, IV, 57.
545
II
TERAPIA DELLA LUSSURIA
LA CONTINENZA E LA CASTITÀ

La terapia della lussuria segue immediatamente la terapia della ga-


strimargia nella misura in cui la lussuria è, come la gastrimargia, una
«passione corporea» e fa parte delle passioni grossolane e primitive,
alle quali è opportuno applicarsi prima d’ogni cosa, ma anche nella
misura in cui la lussuria è direttamente legata alla gastrimargia, che
spesso condiziona la sua comparsa1.
La terapia della lussuria si rivela particolarmente difficile; essa ri­
chiede molta forza e applicazione e prende molto tempo, come osserva
san Giovanni Cassiano: «La seconda lotta, secondo l’insegnamento ri­
cevuto dai nostri Padri, è contro lo spirito della lussuria. Questa lot­
ta dura a lungo ed è più tenace di tutte le altre, e sono pochi coloro
che riportano una vittoria totale. È una lotta terribile»2.
La virtù che si oppone alla lussuria è la castità (sophrosyné, casti-
tas) nel senso stretto di questo termine. Possiamo distinguere due mo­
di di vivere la castità: la castità nell’ambito del monacheSimo, del ce­
libato o della vedovanza3, e la castità nell’ambito del matrimonio. Que­
sti due modi, se differiscono nella loro forma, nondimeno mirano allo
stesso scopo, che, da un lato, è quello di stabilire nel corpo e nell’a­
nima la purezza (agneta), senza la quale l’uomo non può unirsi a Dio,
e, dall’altro, permettere all’uomo di consacrare a Dio e non più alla
«carne» tutta la sua potenza di desiderio e d’amore.
1 Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11; 20; Conferenze, V, 10; XXII, 6.
2 Istituzioni cenobitiche, VI, 1.
3La chiameremo «castità monastica», dal momento che il monacheSimo sta ad indicare eti­
mologicamente lo stato di colui che resta solo. Ricordiamo che nella Chiesa ortodossa, il celi­
bato non costituisce una norma, ma uno stato provvisorio nell’attesa di un impegno sia nella via
del matrimonio sia nella via del monacheSimo, che sono le due vie spirituali possibili. Citando
i Padri, useremo anche il termine «verginità» (partenza), come fanno alcuni Padri, intendendo­
lo nel suo significato più ampio di «una perfetta continenza», di «una assoluta rinuncia all’e­
sercizio della sessualità» (M. AUBINEAU, Introduzione a GRÉGOIRE DE NYSSE, Traité de la virgi­
nità, SC 119, p. 147).
546
I. La castità monastica
Occorre, innanzitutto, ricordare che nella prospettiva cristiana, la
sessualità non può avere senso ed esercitarsi correttamente e normal­
mente se non nell’ambito dell’amore coniugale, ecco perché essa è a
priori esclusa dall’ambito del celibato e della vita monastica. Per que­
sto motivo, la virtù della castità che, intesa in senso stretto, si oppo­
ne alla passione della lussuria, presuppone e indica, in quest’ultimo
ambito, una totale astinenza da ogni atto e, prima di tutto, da ogni de­
siderio sessuale, poiché, qualunque sia la loro forma, questi scaturi­
scono solo dalla passione. Questa totale astinenza presuppone essa
stessa una perfetta continenza (enkràteia, continentia), cioè la capacità
di dominare e reprimere totalmente le pulsioni e i desideri sessuali.
Nella misura in cui la sessualità è legata alla riproduzione della spe­
cie, essa assume la forma di un istinto particolarmente potente e for­
temente ancorato alla natura attuale dell’umanità, il che rende l’asti-
'oenza totale particolarmente diffìcile da realizzare e spiega la durata e
la difficoltà della lotta da condurre.
Poiché la lussuria è una passione che il corpo contribuisce a susci­
tare e a realizzare, la sua terapia «richiede in maniera particolare, ol­
tre i rimedi spirituali, la pratica della temperanza [fisica]»4. È per que­
sto che i digiuni5, le veglie6, il lavoro faticoso7, che mortificano il cor­
po, sono per il monaco mezzi essenziali per far fronte alle tentazioni,
per essere continente, per osservare l’astinenza e vincere su questo pia­
no la lussuria. Queste tre pratiche mirano a indebolire il corpo in mo­
do da privarlo di una energia eccessiva che potrebbe essere facil­
mente investita nella sessualità, ma ciascuna di esse ha una sua finalità
specifica. H lavoro manuale ha lo scopo di evitare l’ozio che favorisce
la nascita di pensieri passionali e di fantasmi8. Le veglie hanno lo
scopo di ridurre il sonno, il cui eccesso favorisce la lussuria9. Quanto
1 G iovanni C assiano, Conferenze, V, 4. Cfr. G iovanni di G aza, Lettere, 248.
5Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 1-2; Conferenze, V, 4; VII, 2; XII, 4; 5;
15. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 12. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,45;
II, 19; III, 13. Apoftegmi, serie degli anonimi, 51. Ihid., Eth. Coll., 13, 33. EVAGRIO PONTICO,
Trattato pratico sulla vita monastica, 17. B arsanufio , Lettere, 255.
6 Cfr. G io v ann i C a ssia n o , Conferenze, V, 4; VII, 2; XII, 4,5; 15. G io v ann i C lim aco , La
Scala, XV, 12; XIX, 4. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 45; II, 19; III, 13.
Apoftegmi, serie degli anonim i, 51.
7 Cfr. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 4; XEI, 4; 5; Istituzioni cenobitiche, V, 10; VI, 1.
G iovanni C limaco , La Scala, XV, 12. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, II, 19; IH,
13. Apoftegmi, serie degli anonim i, 36.
8 Cfr. G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, VI, 1.
9Vedi per esempio Apoftegmi, N 592/24.
547
al digiuno, esso occupa un posto sempre più rilevante nella misura
in cui l’eccesso di cibo appare come uno dei principali fattori che fa­
voriscono la lussuria. Ecco perché, del resto, la terapia della lussuria
non può essere intrapresa se non dopo quella della gastrimargia, per­
ché è impossibile annullare quella se non si è prima vinta questa10. A
questo proposito, rilevando alcune manifestazioni della lussuria, san
Giovanni Cassiano osserva quanto segue: «La scienza dei medici spi­
rituali si dedica innanzituto a considerare la prima causa di simili ma­
lattie, che consiste nell’eccesso di nutrimento»11.
A queste pratiche ascetiche occorre aggiungere «il fuggire le occa­
sioni»12che si realizza essenzialmente ritirandosi nella solitudine13. «E
necessario sottrarre alla concupiscenza gli oggetti naturalmente allet­
tanti, affinché essa non si precipiti a soddisfarli»14, scrive san Giovan­
ni Cassiano che aggiunge: «Questa malattia [la lussuria], oltre alla mor­
tificazione del corpo e alla contrizione del cuore, esige anche la soli­
tudine e la calma per poter smorzare la febbre cattiva delle passioni
e guarire completamente. Come, molto spesso, è utile a coloro che sof­
frono di una determinata malattia non mostrare a essi neppure i cibi
che farebbero loro male, onde evitare di far nascere in loro un desi­
derio che sarebbe fatale, così la calma e la solitudine sono molto utili
per combattere queste malattie particolari, affinché lo spirito malato,
senza più essere disturbato da molte immagini, possa giungere a una
visione interiore più pura e sradicare più facilmente il fuoco pesti­
lenziale della concupiscenza»15. Se non è possibile l’isolamento, è in­
dispensabile una rigorosa «custodia dei sensi», particolarmente la cu­
stodia dello sguardo che è con il tatto quello dei sensi che suscita più
facilmente la passione16.
Questi mezzi, tuttavia, se costituiscono un aiuto prezioso e spesso
indispensabile, non bastano affatto a vincere la passione17. La prima
ragione di questa insufficienza è il fatto che la sede della funzione ses­
suale non è solo il corpo ma anche l’anima, che la sessualità umana è

10Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11; 20; Conferenze, V, 10; XXII, 3.
11 Conferenze, XXII, 6.
12Ibid., V, 4.
13 Cfr. G io v ann i C lim aco , La Scala, V, 30. M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità,
n, 19; III, 13.
14 Conferenze, V, 4.
15Istituzioni cenobitiche, VI, 3.
16 Cfr. ibid., VI, 12. BASILIO DI A ncira , Trattato sulla verginità 4; 5; 13; 14.
17 Cfr. G io v ann i C a ssia n o , Istituzioni cenobitiche, VI, 1; 2. G io v ann i C lim aco , La Scala,
XV, 16.
548
psichica forse più ancora che fisica. Ecco perché è opportuno com­
battere la lussuria sul piano dell’anima forse ancor più che sul piano
del corpo. Il Nemico, osserva san Giovanni Cassiano, «ci attacca su
un duplice fronte. Occorre, dunque, resistergli su due fronti; e sicco­
me egli trae la sua forza o la sua debolezza sia dal corpo che dall’ani­
ma, allo stesso modo può essere respinto solo da coloro che combat­
tono su tutti e due i piani»18. Tutti i Padri insistono sul fatto che la ca­
stità non consiste solo né principalmente nella continenza corporea19
e che questa è inutile se l’anima rimane sede di desideri e d’immagi­
nazioni impure. Poiché «la cupidigia che si compie con il corpo non
viene dal corpo»20, il principio della castità è essenzialmente nell’ani­
ma, e consiste principalmente neU’«integrità del cuore»21. Poiché i de­
sideri, i pensieri passionali, le immaginazioni e i fantasmi nascono
dal cuore (cfr. Mt 15,19), è nella «custodia del cuore» che consiste la
terapia principale della lussuria. San Giovanni Cassiano scrive a que­
sto riguardo: «Occorre in primo luogo porre rimedio a ciò da cui si sa
vche deriva la fonte della vita e della morte, come dice Salomone: “Con
ogni cura custodisci il tuo cuore, perché da lui sgorga la vita” (Pro
4,23). Infatti, la carne obbedisce alla decisione e al comando del cuo­
re»22. Questa pratica, che suppone il discernimento e la vigilanza-so-
brietà spirituali, consiste, lo abbiamo visto, nel respingere pensieri, ri­
cordi e immagini cattivi fin dal momento in cui insorgono, quando es­
si non sono che suggestioni, per evitare di acconsentirvi e di gioirne
e di fare così spazio alla passione prima nell’anima poi nel corpo23. Nel­
la lotta contro questa passione in particolare, a motivo della sua gran­
de forza, è opportuno preferire il rifiuto immediato delle suggestioni
alla confutazione antirretica dei pensieri, come insegna san Giovanni
Climaco: «Non sperare di respingere il demone della lussuria con la
discussione e la contraddizione, perché, avendo come arma la natura,
egli troverà buone ragioni»24.
18Istituzioni cenobitiche, VI, 1.
19Vedi, per esempio, GIOVANNI CASSIANO istituzioni cenobitiche, VI, 4; Conferenze, XII, 10-
11; Xm, 5) il quale sottolinea che la continenza in qualche modo non è che l’inizio della castità,
una «certa castità parziale»; la vera castità suppone «la purezza costante del corpo» e inoltre e
soprattutto «la purezza interiore dell’anima». Vedi anche Apoftegmi, N 178.
20C lemente d ’A lessandria , Stronzata, ni, 4.
21 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 19. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 8.
22 Istituzioni cenobitiche, VI, 2.
23 Cfr. Apoftegmi, serie degli anonim i, 31; 33; 46; 52; 53. BARSANIMO, Lettere, 86; 248; 256.
G iovanni d i G aza , Lettere, 180. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 6. G iovanni C assiano , Isti­
tuzioni cenobitiche, VI, 9.
24 La Scala, XV, 22.
549
È opportuno naturalmente accompagnare alla custodia del cuore
anche la preghiera, in particolare la preghiera monologica25: queste
due attività, lo abbiamo dimostrato, sono indissociabili. Quando la
preghiera monologica non è ben fissata nel cuore, è utile aggiungervi
la «preghiera del corpo», poiché anche questa contribuisce a preser­
vare l’uomo da tale passione26. «Coloro che non hanno ancora rag­
giunto la vera preghiera del cuore», scrive san Giovanni Climaco, «tro­
veranno aiuto nello sforzo doloroso della preghiera corporea; voglio
dire: stendere le mani, battersi il petto, levare verso il cielo uno sguar­
do limpido, gemere profondamente, ripetere continuamente delle me-
tanie»27. Anche la salmodia si rivela molto efficace contro questa ma­
lattia28.
Il ruolo della preghiera, del resto, consiste soprattutto nel chiedere
a Dio la grazia senza la quale tutti gli sforzi umani per vincere questa
passione appaiono derisori e non possono portare ad alcun risultato
finale, perché la castità è sempre un dono di Dio29. San Giovanni Cli­
maco scrive a questo riguardo: «Corre invano chi ha deciso di com­
battere contro la carne e vincerla da solo»30. E ancora: «Che nessuno
di quelli che si sono esercitati con successo nella castità creda di aver­
la raggiunta solo con le proprie forze. Infatti, è impossibile vincere la
propria natura. Quando la natura è vinta, vi si deve riconoscere la pre­
senza di Colui che è al di sopra della natura»31. E san Giovanni Cas-
siano consiglia: «Se desideriamo [...] combattere con le regole della
lotta spirituale, concentriamo tutti i nostri sforzi nel dominare que­
sto spirito impuro, ponendo la nostra fiducia non nelle nostre forze
- perché l’attività umana non ne sarebbe mai capace -, ma nell’aiuto
del Signore. Infatti, l’anima sarà necessariamente attaccata da questo
vizio per così lungo tempo che essa non riconoscerà che conduce una
guerra al di sopra delle sue forze e che la sua pena e la sua applica­
zione a questa lotta non possono ottenere la vittoria se il Signore non
25 Cfr. Apoftegmi, serie degli anonimi, 35; 52. Ibid., PEII 28, 30. GIOVANNI CASSIANO, Isti­
tuzioni cenobitiche, V, 10. Cfr. VI, 1. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XV, 10; 52. MASSIMO IL CON­
FESSORE, Centurie sulla carità, I, 45; II, 19. BARSANUFIO, Lettere, 248; 255; 256; 258. GIOVANNI
DI G aza , Lettere, 180.
26 Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 80.
27 La Scala, XV, 81.
28Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,45. Apoftegmi, serie degli anonimi, 32.
29Cfr. C lemente d i R om a , Lettera ai Corinzi, 38,2. G iovanni C u m a c o , La Scala, XV, 79; 81.
G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 11; 13. B arsanufio , Lettere, 255; 500. GIOVANNI
DI G aza , Lettere, 503; 660. Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 21. Ibid., Eth. Coll., 13,33.
™La Scala, XV, 23.
31Ibid., 5. Cfr. 79.
550
viene in suo aiuto e la protegge»32; «tra [il] lavoro continuo, occorre
imparare dalla maestra, che è l’esperienza, che [la castità] è un dono
generoso della grazia divina»33.
Altre due attività spirituali contribuiscono a guarire l’uomo dalla
lussuria, e in particolare a preservarlo dai pensieri (logismot) che que­
sta suscita: la lettura e la meditazione attente delle Sacre Scritture34
(che san Giovanni Cassiano annovera tra i rimedi dell’anima)35, e «il
ricordo della morte»36, che san Giovanni Climaco considera come uno
dei migliori aiuti terapeutici accanto alla preghiera monologica.371 Pa­
dri vedono anche nell’obbedienza al Padre spirituale38e nella pratica
regolare della «manifestazione dei pensieri»39i mezzi per vincere la
passione e per acquistare la castità.
Proprio perché tutte le passioni sono collegate tra loro, la terapia
della lussuria non può essere slegata da quella delle altre passioni40,
in particolare di quelle che favoriscono direttamente le sue manife­
stazioni. E per questo che la lotta contro la lussuria deve accompagnarsi
in primo luò^o alla lotta contro la gastrimargia, come abbiamo già vi­
sto, ma anche alla lotta contro l’orgoglio41 e alla cenodossia, al giudi­
zio del prossimo, all’acedia, alla collera42, alla parresia (cioè l’eccessiva
familiarità verso il prossimo)43, alla cenologia (o passione delle vane pa­
role)44, e alla filargiria45, alle quali questa è immediatamente legata.
Essendo le virtù collegate tra di loro, l’acquisizione della castità non
può che andare di pari passo con la pratica delle altre virtù46, in par­
ticolare di quelle che le sono direttamente legate. «Soprattutto una ve­
ra umiltà»47: gli Anziani «affermavano che non si può possedere la ca­
32Istituzioni cenobitiche, VI, 5. Cfr. Conferenze, XII, 15; 16.
33 Conferenze, XII, 4.
34 GIOVANNI C assia no , Istituzioni cenobitiche, VI, 1; 2; Conferenze, V, 4; XII, 4.
35 Conferenze, V, 4.
36Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, Ricapitolazione, 5. D iad o co d i F oticea , Cento capitoli
gnostici, 99.
37La Scala, XV, 52.
38G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, V. 10. G iovanni C lim aco , La Scala, XV, 36.
39Cfr. Apoftegmi, N 165.
40 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11; VI, 2; 23.
41 Cfr. ibid., V, 11.
42 Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 23; Conferenze, XII, 6; 15. GIOVAN­
NI C lim aco , La Scala, XV, 12. D iad o co d i F oticea , Cento capitoli gnostici, 99.
43 Cfr. G iovanni d i G aza , Lettere, 261.
44 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, P oem en, 62. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, XII, 15.
45 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, V, 11.
46 Cfr. ibid, 10-11.
47 Cfr. ibid., VI, 1. Vedi anche: V, 10; VI, 23; Conferenze, XII, 4. GIOVANNI CLIMACO, La Sca­
la, XV, 12; 13. BARSANUFIO, Lettere, 255; 256. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,33.
551
stità se innanzitutto non si è posto nel proprio cuore come fondamento
solido l'umiltà»48. Ma anche la pazienza49 e la dolcezza50 sono fonda-
mentali: «Più si cresce in dolcezza e in pazienza, più si guadagna nel­
la purezza del corpo», scrive san Giovanni Cassiano51, che aggiunge:
«Nelle lotte che la passione suscita nella nostra carne, il trionfo si ot­
tiene solo se si rivestono le armi della dolcezza»52; e più avanti: «U ri­
medio più efficace per il cuore umano è la pazienza»53.
La totale astinenza monastica acquista senso nel fondamento e nel­
la finalità del monacheSimo che è la consacrazione totale di sé a Dio.
11 monaco non si sposa per non avere altra preoccupazione che quel­
la di Dio, per poter consacrare solo a lui tutta la sua capacità di desi­
derio e d’amore, tutta la sua intelligenza, tutta la sua forza. «Chi non
è sposato, sottolinea san Paolo, si preoccupa delle cose del Signore,
come possa piacere al Signore» (ICor 7,32), «la donna non sposata si
preoccupa delle cose del Signore» (ICor 7,34); l’uno e l’altra sono «sen­
za preoccupazioni» davanti alle cose di questo mondo (cfr. ICor 7,32).
Al contrario, «lo sposato si preoccupa delle cose del mondo, come
possa piacere alla moglie [...] e la sposata si preoccupa delle cose del
mondo, come piacere al marito» {ICor 7,33-34). Se l’Apostolo «pen­
sa sia bene» per l’uomo e per la donna il rimanere soli (cfr. ICor 7,26),
è per «condurli a ciò che [...] conduce al Signore senza distrazioni»
{ICor 7,35).
Abbiamo visto che i Padri concordano nel dire che il desiderio ses­
suale non è originario nella natura umana e non gli appartiene nella
sua essenza, ma è comparso come conseguenza della caduta54quando
Adamo ed Èva smisero di volgere ogni loro desiderio solo verso Dio.
«La verginità, scrive san Giovanni Damasceno, era originaria e inna­
ta nella natura degli uomini. Nel paradiso, la verginità era la condi­
zione normale»55 e, osserva san Giovanni Crisostomo, Adamo ed
Èva ci «vivevano come due angeli»56. E per questo che i Padri vedo­
48 G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VI, 18.
49 Cfr. ibid., 23; Conferenze, XII, 6.
50Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XII, 6.
51 Ibid.
52 Ibid.
5} Ibid.
54 Cfr. parte prima, cap. DI, 2, b.
55Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 24. Cfr. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi,
XXV, 92-108.
56 Omelie sulla Genesi, XVIII, 4.
552
no nella verginità un mezzo per l’uomo di recuperare lo stato paradi­
siaco della sua natura” , uno stato che lo assimila alla condizione an­
gelica58e prefigura la vita celeste59, secondo le parole del Cristo: «Nel­
la risurrezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli
di Dio in Cielo» (Mt 22,30). Ecco perché questo stato possiede non
solo «la palma della priorità nel tempo»60, ma anche una incontesta­
bile superiorità in rapporto a quello del matrimonio; dei due esso è il
più perfetto.
Ciò non significa, tuttavia, che il cristianesimo condanni o disprez­
zi il matrimonio: i Padri pur lodando l’eminenza della verginità e del
celibato monastico, esaltano il valore del matrimonio che il Cristo stes­
so ha, del resto, santificato con la sua presenza e con il primo miracolo
della sua vita pubblica alle nozze di Cana. Occorre notare, altresì, che
la maggior parte degli scritti patristici sulla verginità comporta, paral­
lelamente alla lode di essa, un’apologia del matrimonio. Benché essi
riconoscano che «il matrimonio è buono» e anche «santo», tuttavia ri­
tengono «la verginità migliore»61, constatando che essa è un fatto di
élite. Non si può biasimare colui che si sposa, afferma san Giovanni
Crisostomo, «non gli si può rimproverare di rinchiudersi in una sfe­
ra più modesta»62. San Paolo, infatti, raccomanda il matrimonio «per
condiscendenza» (lCor 7,6), a coloro che «ardono» e «non sanno con­
tenersi» (ICor 7,9), per evitare il rischio della lussuria (lCor 7,2), e
consiglia agli sposi: «Non privatevi l’un l’altro [...] perché Satana non
vi tenti per la vostra incontinenza» (lCor 7,5)63. San Giovanni Da­
masceno così scrive sull’argomento: «Il matrimonio è buono, smorza
la lussuria e la smania del desiderio per mezzo di relazioni legittime
evitando le follie di azioni contro natura. Il matrimonio è buono per
coloro che non hanno il dominio di se stessi; ma è migliore la vergi­
nità che accresce la fecondità dell’anima»64.
57 Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, III, 6; Omelie sul Cantico dei Cantici, 2; La preghiera,
XXV, 3. GREGORIO DI N issa , Trattato sulla verginità, XII, 4.
58 Cfr. G iovanni C risostomo , Trattato sulla verginità, 11-12. G iovanni D amasceno , Espo­
sizione esatta della fede ortodossa, IV, 24. GREGORIO DI NlSSA, Trattato sulla verginità, II, 3; IV,
8. B asilio d ’A ncira , Trattato sulla verginità, 51. B asilio d i C esarea , Lettere, XLVI, 2.
59ORIGENE, Frammenti su Romani, 29.
60 G iovanni C risostomo , Trattato sulla verginità, 11-12.
61 Ihid., 13. Cfr. 11. GIOVANNI D am asceno scrive: «La verginità è m igliore di ciò che è
buono, perché nella virtù vi sono dei gradi, elevati o inferiori [...]» (Esposizione esatta della fede
ortodossa, IV, 24).
62 Trattato sulla verginità, 10.
63 Cfr. ihid.
64 Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 24.
553
È opportuno, tuttavia, sottolineare che il celibato e la castità mo­
nastica hanno valore solo se sono consacrati a Dio e hanno come fi­
nalità un’unione più perfetta con lui. A questo riguardo san Giovan­
ni Crisostomo osserva che la verginità non è un bene in sé, che solo
l’intenzionalità decide del suo valore, ed essa è «sterile e infruttuosa
tra i pagani in quanto questi la praticano non in vista di Dio»65. Per
questo, egli stigmatizza duramente l’atteggiamento di coloro per cui
essa non è che un mezzo per sfuggire al matrimonio anziché servire al­
l’unione celeste66, arrivando a dire che in questo caso «la verginità [è]
più vergognosa del libertinaggio»67. La verginità, dunque, non ha va­
lore per se stessa, ma in quanto permette all’uomo di donarsi com­
pletamente a Dio. «Parlando di verginità, osserva san Giovanni Cri­
sostomo, l’Apostolo difatti fa consistere l’eccellenza non tanto nella
castità del corpo quanto nella facilità che ci dona di consacrarci a Dio
e di dedicarci alla pietà», e aggiunge che coloro «che fanno voto di ca­
stità si propongono non solo di conservarsi puri, ma soprattutto di non
occuparsi d’altro che delle cose di Dio, di dedicarsi interamente al suo
servizio»68. Da parte sua, sant’Agostino così consiglia alle vergini: «Che
[il Cristo] occupi nella vostra anima tutto il posto che voi non avete
voluto lasciar prendere dal matrimonio»69. Il matrimonio appare co­
me uno stato inferiore al precedente stato verginale nella misura in cui
non permette una consacrazione a Dio così totale, in cui il desiderio e
la capacità d’amore dell’uomo non possono investirsi in Dio così
pienamente. «Nel matrimonio, la virtù ci diviene tanto meno agevole
quanto più le cure di una sposa e la preoccupazione sollecita verso i
figli fermano la nostra anima nelle sue aspirazioni verso il cielo e la
conducono forzatamente verso le preoccupazioni terrene», osserva san
Giovanni Crisostomo70.

2. La castità coniugale
La natura della castità nell’uomo sposato differisce in parte da quel­
la propria del celibato.
65 Trattato sulla verginità, 4.
66 Cfr. ibid., 1; 8.
67 Ibid., 8.
68 Trattato contro le seconde nozze, II, 3.
69Sulla santa verginità, 56.
70 Trattato sulla verginità, 44.
554
Mentre in quest’ultimo caso essa presuppone un’astinenza totale,
nell’ambito del matrimonio cristiano, a motivo del suo carattere stret­
tamente monogamico, non si richiede una tale astinenza se non ri­
guardo a ogni forma di sessualità extra coniugale, costituendo già il
semplice desiderio un adulterio: «Avete inteso che fu detto: non farai
adulterio. Io invece vi dico che chiunque guarda una donna per de­
siderarla, già ha commesso adulterio con essa nel suo cuore» (Mt 5,27-
28). La terapia o la profilassi della lussuria a questo livello suppon­
gono la pratica di alcuni mezzi descritti in precedenza, in particolare
«la custodia dello sguardo», e innanzitutto la «custodia del cuore»,
«perché dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, procedono i cattivi
pensieri: le fornicazioni [...], gli adulteri [...], le impudicizie» (Me7,21-
22; Mt 15,19). San Giovanni Crisostomo fa notare che il Cristo, nel
sottolineare il ruolo fondamentale che gioca il desiderio, fornisce il
mezzo di applicarsi al fondamento stesso della malattia: «Non è solo
il male, ma la radice del male che [Gesù] esclude; perché la radice del­
l’adulterio è la cupidigia impudica: il Signore corregge dunque non
solo l’adulterio, ma anche la brama. I medici si preoccupano della cau­
sa stessa della malattia [...]. E proprio quello che fa Gesù Cristo»71.
Ma la lussuria non è affatto legata all’unione coniugale e questa, al
contrario, appare come un mezzo per evitarla. La maggior parte dei
Padri vedono nel matrimonio, per coloro che non possono rimanere
continenti, un rimedio alla lussuria; è qui, secondo loro, una delle pri­
me finalità dell’unione coniugale. Questo punto di vista è del tutto
conforme all’insegnamento di san Paolo: «A motivo delle impudicizie
ciascuno abbia la sua moglie, e ogni donna il suo marito» (lCor 7,2);
«non privatevi l’un l’altro [...] perché Satana non vi tenti per la vostra
incontinenza» (lCorl ,5)\«ai celibi e alle vedove dico che è cosa buo­
na per loro rimanere come sono io; ma se non sanno contenersi, si spo­
sino; è meglio sposarsi che ardere» (lCor 7,8-9).
La «castità coniugale», che i Padri ricordano sulla scia dell’Aposto­
lo quando egli raccomanda: «Il matrimonio sia tenuto in onore in
tutte le cose. E il talamo sia incontaminato» (Eb 13,4), non significa
l’astinenza sessuale. L’unione sessuale appartiene essenzialmente al ma­
trimonio. L’Apostolo scrive con sufficiente chiarezza: «H marito renda
alla moglie ciò che le è dovuto; egualmente anche la moglie al ma­
rito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito;
allo stesso modo il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la
71 Omelie sulla penitenza, VI, 2.
555
moglie. Non privatevi l’un l’altro, se non di comune accordo, tempo­
raneamente, per attendere alla preghiera, e poi ritornate a stare insie­
me [...]» (lCor 7,3-5). L’astinenza, questo insegnamento di san Paolo
10 indica, conserva un posto nell’ambito stesso della vita coniugale, ma
solo per un certo tempo, e in rapporto a precise esigenze spirituali72.
San Gregorio di Nissa arriva persino a scrivere che «colui che pratica
[la continenza] in eccesso ha “la coscienza malata”, come afferma l’A­
postolo» (cfr. lTm 4,2), poiché egli «disprezza il matrimonio»73.
Esiste una unione sessuale casta; è possibile agli sposi di unirsi «sen­
za tradire nella loro unione le regole della castità», come scrive Cle­
mente d’Alessandria74che arriva a scrivere di coloro che denigrano l’u­
nione sessuale: «Poiché essi trovano impure le loro relazioni carnali,
alle quali essi devono la loro esistenza, come sfuggiranno essi stessi al­
l’impurità?»75. Lo stesso Clemente d’Alessandria fa, altresì, notare che
11matrimonio e la vita spirituale santificano l’uso della sessualità: «Per
quelli che sono stati santificati, santo è il seme. E non deve solo esse­
re santificato tra noi lo spirito, ma anche i costumi, la vita, il corpo»76.
I Padri sottolineano frequentemente che la sessualità in sé non è cat­
tiva, che tutto dipende dal modo in cui se ne usa. «Quando la pra­
tica è buona e casta, l’oggetto è alla fine buono, è cattivo quando es­
sa è cattiva e sregolata», osserva san Metodio di Olimpo77. E san Do­
roteo di Gaza fa notare: «Nell’uso legittimo del matrimonio e nella
fornicazione, l’atto è lo stesso, è l’intenzione che fa la differenza»78.
Abbiamo visto, analizzando la passione della lussuria, che ciò che
la caratterizza è un abuso della funzione sessuale che consiste nell’u­
so di questa in vista del piacere sensibile. Ora si tratta di una perver­
sione di questa funzione nella misura in cui essa è destinata per natu­
ra alla procreazione, e più fondamentalmente ad essere una delle
72 E così che la Chiesa ortodossa raccomanda l’astinenza sessuale e, allo stesso tempo, il di­
giuno il mercoledì e venerdì (in cui si fa memoria delle sofferenze e della crocifissione del Cri­
sto) e durante le quattro quaresime annuali. Una tale «astinenza periodica», osserva san GRE­
GORIO NAZIANZENO, seguendo l’Apostolo, deve essere «costruita su un consenso mutuo per
attendere insieme alla preghiera, la più preziosa delle attività», e precisa: «Questa non è una leg­
ge, ma un consiglio» (Discorso, XL, 18). Quest’ultima sottolineatura traduce l’assenza di giuri­
dicità della tradizione ortodossa a questo riguardo, che si appella alla coscienza degli sposi per
giudicare ciò che conviene meglio spiritualmente. La stessa condizione di spirito si manifesta nel­
l’insegnamento di san GIOVANNI CRISOSTOMO (vedi per esempio Omelie su 1 Corinzi, XIX, 2).
73 Vita di Mosè, II, 289. Cfr. Trattato sulla verginità, VE, 2.
74Stronzata, HI, 6.
75 Ibid.
76Ibid.
77 II Banchetto, II, 5.
78Istruzioni spirituali, XV, 162.
556
manifestazioni dell’amore che la sposa e lo sposo hanno l’una per l’al­
tro, in relazione di dipendenza con gli altri modi della loro unione e
in particolare con la dimensione spirituale di questa. La terapia della
lussuria e l’acquisizione della castità in questo ambito devono consi­
stere, dunque, prima di tutto, in un ristabilimento di questa finalità
naturale e normale dell’uso della sessualità.
Il primo principio è, per gli sposi, di non unirsi solo per il piacere
sensibile, di non fare della voluttà lo scopo e l’oggetto ddla loro unio­
ne79. Essi devono vegliare per non lasciarsi dominare dal piacere80, per
non legarsi ad esso, e persino non ricercarlo, e infine arrivare a non
avere più per esso alcuna attrazione. «Fintanto che rimane qualche at­
trazione per la voluttà, non si è casti», scrive san Giovanni Cassiano81.
Questo non significa il rifiuto e l’esclusione del piacere naturalmente
legato all’unione sessuale, ma il distacco nei suoi riguardi, il rifiuto di
fame un assoluto. Il piacere deve apparire come un effetto dell’unio­
ne, come qualcosa che è dato in più.
Lungi dall’essere ricercata per se stessa e in vista del piacere che es­
sa procura, l’unione sessuale deve prendere posto nell’ambito dell’a­
more mutuo degli sposi, deve realizzare sul piano del corpo una unio­
ne analoga a quella che si compie sul piano delle anime, e deve per­
mettere l’unione totale, facendo diventare i due sposi, secondo la parola
della Scrittura, «una sola carne», una sola anima e un solo spirito. La
castità coniugale suppone che questa unione dei corpi non costituisca
né un assoluto né un fine in sé, ma sia perfettamente integrata e su­
bordinata all’unione psichica degli sposi, e più ancora alla loro unio­
ne spirituale. San Basilio d’Ancira scrive a questo proposito: «Quan­
do la ragione, nell’anima, tiene per prima le anime sotto il suo con­
trollo, e annoda tra esse legami per ciò che è chiaramente essenziale,
è naturale che la loro unione preliminare si accompagni anche all’u­
nione legittima dei corpi nei quali esse risiedono. Ma, quando le ani­
me si propongono in primo luogo altre cose, e quando i corpi, in ri­
cerca di piacere, presi da ciò che stanno facendo, uniscono le anime
che sono in essi per metterle al servizio della passione che li agita, il
fatto che le anime vadano a rimorchio dei vizi della carne rende ille­
gittima l’unione sessuale»82.
La castità coniugale suppone, altresì, che l’uomo non sia dominato
” Cfr. ibid. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n , 17.
80 Cfr. GREGORIO DI N issa , Trattato sulla verginità, VII, 2.
81 Conferenze, XII, 10.
82 Trattato sulla verginità, 38.
557
dal desiderio e dalle pulsioni sessuali, e che l’unione degli sposi non
sia monopolio di questi. Clemente d’Alessandria pone questo princi­
pio: «Non fate nulla sotto la spinta del desiderio»83. Ciò che deve pre­
siedere all’unione degli sposi non è l’istinto, manifestazione imperso­
nale della natura biologica, e neanche il desiderio, ma l’amore. In que­
sto senso, la castità coniugale presuppone una certa continenza, che
consiste in un dominio di sé che permette di frenare i movimenti istin­
tivi, moderare i desideri e astenersi da ogni pensiero o immaginazio­
ne che possono essere loro legati. Per questo san Gregorio di Nissa
raccomanda «di usare il matrimonio con moderazione e misura»84, «ri­
guardo e ritegno»85; san Gregorio Nazianzeno, da parte sua, sottoli­
nea la necessità di essere ponderati ed evitare di lasciare troppo spa­
zio alla carne86. Ciò è indispensabile perché l’unione non sia un sem­
plice mezzo per soddisfare il desiderio, perché siano rispettate la persona
e la libertà del coniuge. Ma ciò è anche necessario affinché l’uomo non
divenga «interamente carne e sangue»87e non smetta sia nella vita per­
sonale, che nella stessa vita coniugale, di dare il primato all’aspetto spi­
rituale88. Difatti, «non è insignificante il pericolo», osserva san Gre­
gorio di Nissa, che l’uomo, «ingannato dall’esperienza della voluttà,
non stimi più alcun bene, all’infuori di quello che si assapora attra­
verso la carne con un certo attaccamento passionale, e che egli di­
venga del tutto carnale per avere completamente distolto il suo spiri­
to dal desiderio dei beni incorporei, dando la caccia in tutti i modi a
quanto queste cose offrono di gradevole, al punto da essere “amanti
del piacere più che di Dio” (2Tm 3,4)»89. Particolarmente temibile è
la forza dell’abitudine che unisce l’uomo alla voluttà, osserva san Gre­
gorio di Nissa, il quale ricorda l’esempio di molte persone che, «una
volta in possesso di tale esperienza, dopo aver rivolto tutta la loro po­
tenza di desiderio verso queste cose [...] e dopo aver fatto derivare
lo slancio del loro pensiero dalle realtà divine verso [...] [queste], apri­
ranno pienamente alle passioni il campo della loro interiorità, al pun­
to da smettere ogni movimento verso le realtà celesti e vedere dissec­
carsi completamente questo desiderio, il cui corso rovesciato si è ri­

83Stromata, III, 6.
84 Trattato sulla verginità, VII, 3.
85Ibid., VIE.
Discorsi, XXXVII, 9.
87 Cfr. G regorio DI N issa , Trattato sulla verginità, vni.
™lbid.
89Ibid.
558
volto verso le passioni»90. Ecco perché egli dà questo precetto: «Ec­
co ciò che sappiamo riguardo al matrimonio: occorre cedere il passo
alla cura e al desiderio delle cose divine»91.
La lussuria, infatti, ha la caratteristica di separare l’uomo da Dio.
La castità, al contrario, ha lo scopo e l’effetto di riunirlo a lui. «La
castità, scrive san Giovanni Climaco, è unione intima con Dio»92. Quan­
do nella lussuria il desiderio viene allontanato da Dio e dalle realtà spi­
rituali e viene reinvestito nelle realtà carnali per ricercare il piacere
sensibile, uno degli scopi essenziali della continenza e della castità è
permettergli di ritrovare il proprio investimento normale e naturale in
Dio. Infatti, come abbiamo dimostrato studiando l’economia del de­
siderio, quest’ultimo non può essere investito in oggetti diversi senza
doversi dividere e senza dover privare l’uno di ciò che dà all’altro.
La continenza e la castità nel matrimonio hanno in particolare il ruo­
lo di stabilire un’economia del desiderio in maniera tale che esso
non si investa a tal punto nella sessualità da esaurirsi in essa e cessare
perciò di avere come oggetto essenziale le realtà spirituali93.
Questo ci permette di comprendere che la terapia della lussuria e
l’acquisizione della castità consistono in realtà in una conversione
del desiderio, in modo tale che l’amore spirituale prenda il posto
dell’amore carnale. Così si può comprendere la celebre affermazione
di san Giovanni Climaco: «È casto colui che bandisce l’eros sensuale
attraverso l’eros divino e spegne il fuoco terreno con il fuoco del cie­
lo»94. Ed è proprio questo che permette allo stesso autore di affer­
mare: «Che l’amore carnale ci serva da modello per il nostro deside­
rio di Dio»95, e altrove: «Beato colui che non ha una passione meno
violenta per Dio che quella dell’innamorato per la sua amata»96. «Ho
visto, egli scrive ancora nello stesso senso, anime impure che si dedi­
cavano con furore all’amore carnale; avendole l’esperienza di questo
amore condotte al pentimento, esse hanno riversato tutto il loro amo­
re sul Signore; superando allora ogni timore, si spronavano insazia­
bilmente ad amare Dio. Ecco perché il Signore, parlando della casta

90 Ibid., IX, 1.
91 Ibid., VH, 3.
92 La Scala, XV, 35.
9JVedi l’illustrazione che di questo principio dà GREGORIO DI NlSSA, Trattato sulla verginità,
vm.
94 La Scala, XV, 2.
95 Ibid., XXVI, 34.
%Ibid., XXX, 11.
55 9
peccatrice, non dice che ha timore, ma che essa ha molto amato, e che
ha potuto facilmente scacciare l’amore con l’amore (cfr. Le 7,47)»97.
Nella vita coniugale, mentre la lussuria implica un amore dell’al­
tro al di fuori di Dio, un amore puramente carnale, cioè opaco alle
energie divine, al contrario la castità implica un amore dell’altro in Dio
e un amore di Dio nell’altro. La castità realizza la trasfigurazione
dell’amore, lo fa accedere al piano spirituale in cui diviene interamente
trasparente a Dio, gli dà un senso mistico (cfr. Ef5,32), permetten­
dogli di realizzare analogicamente il mistero dell’amore del Cristo e
della Chiesa, come sottolinea san Paolo nella lettera agli Efesini che
viene letta al momento della celebrazione del matrimonio: «Mariti,
amate le vostre mogli come il Cristo ha amato la Chiesa» (5,25); «per
questo l’uomo si unirà alla sua donna e i due formeranno una sola car­
ne. Questo mistero è grande: io lo dico riferendomi al Cristo e alla
Chiesa» (5,31-32).
La castità, monastica o coniugale che sia, non può essere conside­
rata come acquisita se non quando è divenuta abituale e permanen­
te98, quando non esige più nessuna lotta, e si accompagna a una tran­
quillità inalterabile. «Tale è, osserva san Giovanni Cassiano, la con­
sumazione della vera castità: essa non deve più combattere i moti e
la concupiscenza carnali, ma li detesta con orrore totale, e si conserva
in costante e inviolabile purezza»99.
Uno dei segni è l’impassibilità dello sguardo e del cuore davanti agli
oggetti che possono scatenare la passione100. San Giovanni Climaco
nota che è casto «colui che possiede permanentemente una perfetta
insensibilità alla vista degli esseri sensibili e corporei, qualunque dif­
ferenza essi abbiano di bellezza o di sesso»101, e inoltre che «la regola
e la caratteristica della perfetta e purissima castità è quella di rimane­
re pressappoco nelle stesse disposizioni davanti a corpi animati o ina­
nimati, di creature razionali o di quelle che sono sprovviste della ra­
gione»102. E dire: «Beato in verità colui che ha raggiunto una insensi­
bilità perfetta dinanzi a ogni corpo, a ogni carne e a ogni bellezza»105.

97 Ibtd., V, 28.
98 Cfr. B asilio d i C esarea , Lettere, H G io v ann i C lim aco , La Scala, XV, 3.
99 Conferenze, XII, 11.
100Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
m La Scala, XV, 3.
m Ibid., 4.
103Ibid., 7.
560
In Cristo, «non esiste uomo o donna» (Gal 3,28), cioè la differenza
sessuale è abolita non solo in quanto principio di divisione, di oppo­
sizione, di dominio, ma anche in quanto fonte di desidèrio sensuale
e di passione. L’altro è colto nella sua realtà fondamentale di persona
che porta nella sua natura l’immagine di Dio; diviene icona di Dio, tra­
sparente a lui, soggetto a glorificarlo. San Giovanni Climaco offre la
testimonianza più alta di questa virtù: «Mi hanno raccontato un fat­
to che denota una purezza suprema e straordinaria. Qualcuno, mi dis­
sero, avendo visto un corpo di singolare bellezza, ebbe l’occasione di
adorare e glorificare con le sue lodi la suprema bellezza di cui questa
non era che l’opera, e solo attraverso questa visione si sentì traspor­
tato dal fuoco dell’amore divino, e si sciolse in ruscelli di lacrime. Fu
una meraviglia straordinaria vedere che ciò che avrebbe potuto far ca­
dere un altro in un precipizio, aveva procurato una corona di gloria
a questi [...]»104.
Uno degli effetti considerevoli della castità è quello di porre nell’a­
nima la stabilità e la pace105.
Essa contribuisce anche ad abolire le tensioni e le divisioni che si
manifestano tra l’anima e il corpo e a ristabilire tra loro l’armonia106.
La castità è una delle porte della carità107. Essa è anche una delle
condizioni fondamentali della conoscenza spirituale108. In modo ge­
nerale, questa virtù appare per l’uomo una delle principali fonti di san­
tificazione109; è per suo mezzo, in particolare, che lo Spirito Santo110e
il Cristo111dimorano nel cuore dell’uomo e che questi è assimilato non
solo agli angeli112ma a Dio stesso113.
La castità appare allora come la fonte delle gioie spirituali incom­
parabilmente più elevate dei piaceri sensibili ai quali colui che l’ha ac­
quisita ha rinunciato114.

m Ibid., 58.
105Cfr. G io v ann i C assiano , Conferenze, xn, 11; 13.
106Cfr. ibid., 11.
107Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, 1,45.
108 Cfr. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche,VI, 18; V, 33.
109Cfr. ibid.y VI, 15.
m Ibid.
111 Ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XV, 2.
112 Cfr. G iovan ni C lim aco, loc. cit. G iovan ni C assiano, Conferenze, XH, 14.
113 G iovanni C lim aco, La Scala, XV, 35.
114 Cfr. G iovan ni C assiano, Conferenze, XII, 5; 10; 11.
561
Ili

TERAPIA DELLA FILARGIRIA E DELLA PLEONESSIA


IL NON-POSSEDERE E L’ELEMOSINA

La filargiria e la pleonessia, lo abbiamo già visto, hanno come ca­


rattere fondamentale quello di essere insaziabili. Mentre il corpo im­
pone alcuni limiti ai desideri che sottendono la gastrimargia e la lus­
suria, il desiderio che è alla base della filargiria e della pleonessia si ac­
cresce tanto più quanto più è soddisfatto, e queste passioni divengono
tanto più difficili da curare quanto più le si è lasciate sviluppare. E per
questo che i Padri, prima di considerare i rimedi che possono esser lo­
ro applicati, invitano a una rigorosa profilassi. A questo riguardo co­
sì scrive san Giovanni Crisostomo: «Vi esorto a eliminare questo ma­
le fin dall’inizio. Come la febbre quando è all’inizio non procura una
sete bruciante, ma quando aumenta accende un fuoco, essa ne causa
una che non può più spegnersi, in modo tale che neanche un’abbon­
dante bevanda potrà più spegnerla, e non fa che attizzare la fornace;
la stessa cosa avviene in questa passione: se non la estirpiamo fin dal
principio, se non le chiudiamo la porta dell’anima, una volta entrata,
ci procurerà una malattia che non potrà più guarire [...]. Supplico,
dunque, coloro che ancora non conoscono questa malattia di guar­
darsene»1. San Giovanni Cassiano fa notare che, se è necessario pro­
cedere così di fronte a tutte le passioni, ciò s’impone maggiormente
nei riguardi della filargiria2: «Quanto più è facile stare in guardia con­
tro [questa malattia] e respingerla, tanto più, se per negligenza la si fa
entrare nel cuore, diviene pericolosa, superando tutte le altre malat­
tie, e difficile da respingere»3.
Coloro nei quali queste passioni sono già sviluppate non devono,
tuttavia, disperare della loro guarigione: è questo U primo principio
della terapia4: «Coloro che sono colpiti [da questa malattia], se assu­
1Omelie su 1 Corinzi, XI, 4-5.
2 Cfr. Istituzioni cenobitiche, VI, 21.
3Ibid.y2.
4 G iovanni C risostomo , Omelie su 1 Corinzi, XI, 5.

562
mono la ragione come medicina, prometto loro grandi possibilità di
salute con la grazia di Dio», aggiunge san Giovanni Crisostomo alle
considerazioni citate in precedenza5, invitando i suoi uditori a medi­
tare sull’esempio, fornito dalle Sacre Scritture, di tutti «coloro che so­
no caduti nel male e sono guariti»6.
Perché questa speranza sbocci, occorre utilizzare un certo nume­
ro di precisi mezzi terapeutici. E per questo che san Giovanni Criso­
stomo propone di «prescrivere una regola dettagliata, secondo l’uso
dei medici»7.
E necessario innanzitutto, per colui che vuole essere guarito dalla
filargiria e dalla pleonessia, conoscere bene queste passioni e i loro ef­
fetti nefasti, essendo tale conoscenza il primo elemento della terapia.
Per questo i Padri, nell’insegnamento che riguarda tali malattie, si pre­
murano di far precedere la prescrizione dei rimedi da una minuziosa
nosologia. San Giovanni Climaco introduce così il capitolo della Sca­
la ad esse dedicato: «Diciamo, prima di tutto, qualche parola sulla ma­
lattia, poi parleremo dei rimedi che la guariscono»8. San Giovanni Cri­
sostomo, a proposito della filargiria, afferma più esplicitamente: «Qua­
le follia è questa malattia! Che malattia! Ma, direte voi, non si tratta
solo di accusare i malati, bensì di guarirli dalle loro passioni. E come
guarirli, se non dimostrando loro che la loro passione è ignobile e pro­
cura mali incalcolabili»9. Lo stesso autore osserva altrove che è neces­
sario al malato «non pensare solo a quelli che sono guariti dal male,
ma anche alle sofferenze di coloro che vi hanno perseverato»10. Nel
capitolo delle Istituzioni cenobitiche dedicato alla filargiria, san Gio­
vanni Cassiano scrive: «Se non si conoscono le varie forme di una ma­
lattia, se non si individuano sia l’origine che le cause, non si potrà
applicare ai malati il trattamento adatto né permettere ai sani di con­
servarsi in buona salute. Gli anziani, che hanno una grande esperien­
za in questo genere di cadute, hanno l’abitudine di esporre ciò nelle
loro conferenze [...]. Molto spesso, ne riconoscevamo alcuni elemen­
ti in noi stessi mentre gli anziani ne facevano un’esposizione comple­
ta come se essi stessi fossero stati turbati da queste passioni, e, senza
dover arrossire dalla vergogna, noi eravamo guariti apprendendo sen­
5 ib id .
6 ib id .
1ib id .
'LaScala, XVI, 1.
9 Omelie su 1 Corinzi, XXHI, 5.
10Ibid., XI, 5.
563
za dire nulla i rimedi nello stesso tempo che le cause dei vizi che ci mi­
nacciavano»11. Nel prendere coscienza del danno della malattia, il ma­
lato è portato ad allontanarsi fermamente dalla malattia e a ricercare
ardentemente la guarigione; nelTacquisire una conoscenza approfon­
dita, egli non ne ignora più nessun meccanismo e così si ritrova me­
glio armato per combatterla.
La terapia della filargiria e della pleonessia suppone, in secondo luo­
go, che si prenda coscienza di quanto siano vani gli oggetti da esse per­
seguiti. San Giovanni Crisostomo afferma che occorre «comprendere
il nulla delle cose, sapere che la ricchezza è un servo sfuggente e in­
grato, che immerge i suoi possessori in una molteplicità di mali»12. Oc­
corre riconoscere, come fa notare san Simeone il Nuovo Teologo, «che
ogni cosa è come un’ombra e che le cose visibili passano», e merita de­
riso il «giocare con un’ombra e considerare un tesoro ciò che passa»,
imitando quel bambino che attinge acqua con un secchio bucato13. Là
caducità dell’esistenza umana, la morte che vi pone un termine, ren­
dono alla fine vano il possesso delle cose materiali anche di quelle più
durature14. Del resto, sono proprio la fuga e la brevità del tempo, e
di conseguenza la provvisorietà di ogni cosa sottoposta alla sua con­
dizione, che l’Apostolo ricorda per invitare al distacco dai beni di que­
sto mondo: «Questo vi dico, o fratelli: il tempo ha avuto una svolta;
d’ora innanzi quelli che comprano siano come non possedessero; quel­
li che usano del mondo, come non ne usassero a fondo: perché passa
la figura di questo mondo» (lCor 7,29-31).
Per mettere fine alla filargiria e alla pleonessia, occorre, in terzo luo­
go, che l’uomo si sforzi di accontentarsi di ciò che possiede; tale com­
portamento gli consente di contrastare queste due passioni che, al con­
trario, lo spingono a possedere o ad acquistare molto più dei suoi bi­
sogni. E per questo che san Paolo consiglia: «La condotta sia lontana
dall’avarizia, contenti delle cose che abbiamo al presente. Infatti Dio
stesso ha detto: Io non ti lascerò mai, né ti abbandonerò» (Eb 13,5).
In questo modo, l’Apostolo indica che una quarta condizione del­
la vittoria sulla filargiria e pleonessia è l’acquisizione di una solida fe­
de in Dio. Lo stesso afferma esplicitamente san Giovanni Climaco:
«Una fede incrollabile taglia ogni preoccupazione alla radice»15.
11Istituzioni cenobitiche, VII, 13.
12 Omelie su 1 Corinzi, XI, 5.
13 Catechesi, XIX, 140-143.
14 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Giovanni, LV, 3.
15La Scala, XVI, 23.
564
Abbiamo visto che vi è, alla base di queste due passioni, un’in­
quietudine dell’uomo di fronte a un futuro che non conosce né può
controllare, il tentativo cioè, per mezzo della conservazione o l’ac­
quisto di molti beni materiali, di assicurare in qualche modo questo
futuro, confidando nelle proprie ricchezze anziché attendere da Dio
l’aiuto necessario. Per poter guarire da queste passioni, è indispensa­
bile allora che l’uomo, dopo aver preso coscienza dell’impossibilità di
trovare nei beni materiali una vera sicurezza, rimetta tutta la propria
fiducia e speranza in Dio, e di conseguenza impegni tutte le sue for­
ze per accedere al suo Regno, per appropriarsi, anziché ricchezze ma­
teriali vane e passeggere, ricchezze spirituali durature e sicure che egli
dà a coloro che tendono a lui. E proprio questo l’insegnamento del
Cristo: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o
berrete; per il vostro corpo di come vestirvi [...]. Chi di voi, per quan­
to si dia da fare, è capace di aggiungere un solo cubito alla propria sta­
tura? [...] Non vi angustiate, dunque, dicendo: che mangeremo? che
berremo? di che ci vestiremo? tutte queste cose le ricercano i gentili.
Ora sa il Padre vostro celeste che avete bisogno di tutte queste cose.
Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste altre co­
se vi saranno date in sovrappiù» (Mt 6,25-33). «Non vi affannate ad
accumulare tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano, do­
ve ladri scassinano e portano via. Accumulatevi tesori in cielo, dove ti­
gnola e ruggine non consumano né ladri scassinano e portano via» (Mt
6,19-20). E in questa prospettiva che san Giovanni Crisostomo consi­
glia: «Rimettiamoci [al nostro Maestro] in ogni cosa e non lasciamo­
ci affatto dilaniare dalle preoccupazioni di questa vita»; «se diamo la
priorità ai beni spirituali, non avremo alcun imbarazzo per i beni ma­
teriali, perché Dio ce li concederà»16; «tendiamo con tutto il nostro
spirito verso i beni spirituali e consideriamo il resto come secondario
in rapporto al godimento dei beni futuri, al fine di ricevere in ab­
bondanza i beni presenti, quelli della promessa»17.
L’uomo, d’altronde, può constatare che più si attacca ai beni spiri­
tuali, più acquisisce nei riguardi dei beni sensibili una delle virtù op­
poste alla filargiria e alla pleonessia: il distacco. «Colui che ha gustato
le cose celesti disprezza con facilità quelle terrene», sottolinea san Gio­
vanni Climaco18, che aggiunge: «Un focherello basta a bruciare molto
16Catechesi battesimali, Vili, 19.
17Ibid., 24.
18La Scala, XVI, 17.
565
legno; e con l’aiuto di una sola virtù, sfuggiamo a tutte le passioni che
ora abbiamo elencato. Questa virtù si chiama il distacco; essa è gene­
rata dall’esperienza e dal gusto di Dio [,..]»19.
Per attaccarsi ai beni spirituali, occorre innanzitutto che l’uomo ab­
bia preso coscienza che esistono «un’altra bellezza, altre ricchezze, al­
tri godimenti, superiori»20, «vere ricchezze che procurano un godi­
mento immortale»21, che non vi è alcuna ricchezza superiore alla glo­
ria e al Regno di Dio e che meriti di essere preferita a essi22. Ma prendere
coscienza di tutto questo non è realmente possibile, come indicato da
san Giovanni Climaco, se non attraverso un’esperienza delle realtà spi­
rituali alla quale l’uomo può accedere solo quando cessa di condurre
una vita completamente carnale e si unisce a Dio attraverso l’amore
e la pratica dei comandamenti. Solo «il gusto di Dio», come afferma
in maniera molto concreta san Giovanni Climaco, gli permette di misu­
rare, in paragone ai beni divini, lo scarso valore dei «beni» sensibili.
Il fatto che il distacco circa i beni sensibili sia correlativo all’attac­
camento ai beni spirituali, e viceversa, si spiega, come abbiamo più
volte sottolineato, perché il desiderio non può rivolgersi simultanea­
mente a due «oggetti» antagonisti, come giustamente insegna lo stes­
so Cristo a proposito della filargiria: «Nessuno può servire a due pa­
droni; poiché od odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà al­
l’uno e trascurerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt
6,24) (in aramaico mamòn significa «ricchezza»). E con ciò si com­
prende che l’uomo non può unirsi a Dio fintanto che è attaccato alle
ricchezze materiali, il che ci consente di ricordare che lo scopo della
guarigione dalla filargiria e dalla pleonessia è quello di permettere al­
l’uomo di unirsi a Dio, di amarlo, con tutta la sua intelligenza, con tut­
ta la sua anima e con tutte le sue forze, di liberare tutte le sue facoltà
dall’attaccamento alle ricchezze sensibili affinché queste possano con­
sacrarsi a Dio, secondo la loro finalità naturale. La situazione spirituale
e il destino di tutto l’uomo dipendono dal tipo di ricchezze che egli
desidera acquisire e alle quali egli si attacca; la questione fondamen­
tale qui è di sapere se egli ammassa «tesori sulla terra» (Mt 6,19) o «te­
sori in cielo» (Mt 6,20), perché, il Cristo dice: «Dov’è il tuo tesoro, lì
sarà pure il tuo cuore» (Mt 6,21).

15Ibid., 26.
20 G iovan ni C risostom o, Omelie su 1 Corinzi, XXin, 5.
21 Ibid., XI, 5.
22 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, HI, 662-668.
566
La guarigione dalla filargiria e dalla pleonessia implica, lo vediamo,
una conversione del desiderio, un riorientamento della facoltà di de­
siderio [concupiscibile] e della potenza d’amore dell’uomo dalle ric­
chezze di questo mondo verso Dio e i beni spirituali. Come guarire
dalla filargiria e dalla pleonessia? «Si può guarire, risponde san Gio­
vanni Crisostomo, se si sostituisce a questo amore [per il denaro] un
altro amore, cioè il desiderio delle cose del cielo»23.
Per mezzo di questa conversione, alle passioni della filargiria e del­
la pleonessia si sostituiscono le virtù opposte del non-possedere e del­
l’elemosina.

1. Il non-possedere
Poiché la filargiria è attaccamento al denaro e, più ampiamente, ai
beni materiali che si possiedono - e la pleonessia testimonia lo stesso
attaccamento nel desiderio di possederne di più -, le virtù che sono
loro immediatamente opposte e permettono più direttamente di sfug­
gire loro sono naturalmente il non-possedere e il non-acquisire questi
beni. Tali virtù significano il rifiuto volontario di possedere e acqui­
sire qualunque cosa, ad eccezione di ciò che è strettamente indispen­
sabile all’esistenza24.
Il non-possedere (aktémosynè) nell’ambito del monacheSimo è pra­
ticato nel suo significato più immediato e s’identifica con la povertà
materiale. È indispensabile, però, in ogni caso, che esso costituisca
contemporaneamente una disposizione interiore, un atteggiamento
spirituale riguardo ai beni materiali. Esso non consiste solo nel non
averli, poiché abbiamo visto, esaminando le due passioni, che un ric­
co può essere esente da queste e un povero esserne posseduto. Si può
non avere nulla ed essere assillati dallo spirito di possesso, e, inversa­
mente, si può avere senza possedere, cioè senza essere attaccato a ciò
che si ha. In quanto atteggiamento spirituale di distacco nei riguardi
di ciò che si possiede, il non-possedere ha anche un senso al di fuori
dell’ambito monastico, che san Paolo ricorda quando consiglia a co­
loro che vivono nel mondo: «Quelli che comprano siano come non
possedessero; quelli che usano del mondo, come non ne usassero a
23 Commento a san Matteo, IX, 6.
24 Vedi per esempio: GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, VE, 21; 29. ISACCO IL Sl-
RO, Discorsi ascetici, 33. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 2 Corinzi, XX, 1.

567
fondo» (lCor 7,30-31). È vero, tuttavia, che questa virtù non può tro­
vare la sua perfezione se non nella concretizzazione, secondo l'inse­
gnamento dello stesso Cristo: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quel­
lo che hai e dallo ai poveri» (Mi 19,21).
Il non-possedere si manifesta interiormente come assenza di preoc­
cupazione riguardo ai beni materiali. «Il non-possedere, scrive san Gio­
vanni Climaco, è l’abbandono di ogni preoccupazione [delle cose di
questo mondo], una liberazione da tutte le inquietudini della vita [...]»25.
E evidente che questa assenza di preoccupazione e di pensieri può es­
sere veramente realizzata solo da colui che concretamente ha rinun­
ciato a ogni possesso e a ogni acquisizione.
Ciò che è fondamentale nella lotta contro la filargiria e la pleones-
sia, e acquisire questa virtù di non-possedere, è affrontare la causa stes­
sa del male eliminando dall’anima, e ciò fin dalla sua prima manife­
stazione, ogni desiderio di possesso, come insegna san Giovanni Cas-
siano: «Occorre non solo evitare di possedere denaro, ma estirparne
completamente il desiderio dall’anima. Infatti non occorre tanto evi­
tare gli effetti della filargiria quanto sopprimere radicalmente la ten­
denza verso di essa: non servirebbe a nulla non possedere il denaro se
poi avessimo in noi il desiderio di possederne»26; «infatti persino co­
lui che non possiede denaro può essere fQargiro e non trarre alcun pro­
fitto dal suo spogliamento perché non ha potuto estirpare la cupidi­
gia»27. Poiché questa si caratterizza per l’assenza di ogni desiderio, pen­
siero o immaginazione relativi al possesso o all’acquisizione di ricchezze
materiali, la virtù del non-possedere appare come un elemento della
virtù fondamentale della «povertà spirituale» (cfr. Mi 5,3), che consi­
ste più in generale nello spogliamento di ogni pensiero passionale, qua­
lunque esso sia.
2. L’elemosina
Abbiamo visto che la filargiria e la pleonessia costituiscono un’ap­
propriazione egoista delle ricchezze a scapito del prossimo, e che es­
se instaurano uno stato anormale nella misura in cui contraddicono
l’eguaglianza voluta da Dio nella ripartizione delle ricchezze in ra­
gione dell’eguaglianza fondamentale di tutti gli uomini. Mentre il de­
25 La Scala, XVI, 11.
26Istituzioni cenobitiche, VII, 21.
27Ibid., 22.
568
naro e i beni materiali normalmente devono servire a soddisfare i bi­
sogni essenziali dell’uomo, questi, con la passione della filargiria e del­
la pleonessia ne perverte la funzione conferendo loro un valore in sé
e facendoli servire al proprio godimento. In questo modo, l’uomo ces­
sa anche di considerare il prossimo, respinge colui che condivide la
sua natura, rifiuta, come dice san Giovanni Crisostomo, di associarlo
a sé. La filargiria e la pleonessia contrastano così, e anche in molti mo­
di, la carità.
Ecco perché la carità appare uno dei principali rimedi per queste
due passioni, sotto una delle sue forme28 che è ad esse specificamen­
te opposta: l’elemosina. La carità, infatti, disprezza la ricchezza29e la
distrugge30, perché essa è amore di Dio e del prossimo, e tale amore
è inconciliabile con l’amore delle ricchezze, quindi lo esclude31. Per
questo Abba Isaia consiglia: «Amiamo la carità verso i poveri, affin­
ché essa ci salvi dalla filargiria»32.
La virtù dell’elemosina (eìeèmosyne) raccomandata più volte da Cri­
sto (cfr. Mt 5,42; 6,2; 10,18; 19,21; Le3,11; 6,30.38; 12,33;Mc 10,21)
e molte volte ricordata nelle lettere di san Paolo (cfr. Rm 12,8; ICor
16,1-3; 2Cor 8,3-15; 9,8; Gal2,10) e negli Atti degli Apostoli (cfr. At
3,26; 4,35; 10,2.4; 20,35), consiste nel condividere i propri beni33, nel
dare il sovrappiù a coloro che sono nel bisogno (cfr. Le 3,11; 2Cor 8,13-
15)34, e persino del necessario a coloro che non ne hanno (cfr. Me 12,43-
44)35. Essa si oppone direttamente alla filargiria che tende, al contra­
rio, alla conservazione di queste ricchezze, e a fortiori alla pleonessia,
la quale mira solo all’appropriazione di nuovi beni. Essa appare così
come il rimedio per eccellenza di queste due malattie dell’anima. «Il
medico delle nostre anime è il Cristo, che sa tutto e che dà per cia­
scuna passione il rimedio appropriato [...]: l’elemosina contro la fi­
largiria», scrive san Doroteo di Gaza36. Questo rimedio, tuttavia, è par­
28 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 3.
29M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,72.
30 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 18.
31 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 3.
32Asceticon, 16.
53 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito di fede», II, 9;
Commento a san Matteo, XLV, 2; LEI, 2.
34 Cfr. Isacco IL Siro, Discorsi ascetici, 33. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia su questo testo:
«Occorre che vi siano divisioni», 9; Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4; XXVIII, 4.
35 Colui che dona del suo necessario è naturalmente più vicino alla perfezione di questa virtù
rispetto a colui che dà il superfluo. Colui che dona del suo necessario mette in pratica, afferma
san GIOVANNI C risostomo (Commento a san Giovanni, LX, 4), «la grande misericordia».
36Istruzioni spirituali, XI, 113.
569
ticolarmente adatto a coloro che, vivendo nel mondo, possiedono qual­
che cosa, e non riguarda, nel suo significato principale, il monaco che
vive il non-possedere nulla in senso stretto37 e che dispone come ri­
medio, lo abbiamo visto, della povertà volontaria. È in un secondo si­
gnificato che l’elemosina resta per lui un dovere: cioè quello di di­
stribuire la parola di Dio e i beni spirituali che egli riceve nel suo stato38.
Occorre notare, del resto, che il termine greco eleèmosynè non si­
gnifica solo elemosina, ma anche pietà, compassione. In altri termini,
essa implica in ogni modo una condivisione spirituale e, nello stesso
tempo, una condivisione di beni materiali, ed è solo a questo titolo che
fa parte della carità, e che essa non consiste solo in un’azione o in una
serie di azioni (i Padri insistono sulla necessità di praticarla regolar­
mente, quotidianamente)39, ma in una disposizione interiore perma­
nente, caratteristica di ogni virtù. Tale disposizione, che accompagna
il dono, è più importante del dono stesso (è in questo senso che il Cri­
sto raccomanda: «Date in elemosina ciò che sta dentro» [cfr. Le 11,41])
ed è essa che decide alla fine il suo valore spirituale e definisce il
vantaggio spirituale che l’uomo ne trae. Infatti, i Padri lo sottolinea­
no, la finalità dell’elemosina non consiste unicamente nell’aiuto dato
al povero, ma consiste anche, e principalmente, nel bene spirituale,
nella formazione e nella trasformazione spirituale di colui che dà. San
Giovanni Crisostomo arriva a dire: «E molto meno per il sollievo del­
l’indigenza che Dio ha ordinato l’elemosina, che per il vantaggio di co­
loro che la fanno»40. Colui che dà trae dal dono un vantaggio ben
più grande di colui che lo riceve41, viene affermato da san Paolo stes­
so quando scrive: «C’è più felicità a dare che a ricevere» (At 20,35). Il
dono, infatti, per colui che lo riceve, ha un valore essenzialmente
materiale e scompare appena consumato, mentre per il donatore è una
fonte di beni spirituali imperituri. Su questo san Giovanni Crisosto­
mo continua a ripetere, per scuotere il suo uditorio, che colui che fa
l’elemosina presta con gli interessi e tesaurizza profitti immensi. Ciò
37 Vedi per esempio ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 33.
38 Cfr. ibid., 23. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 26. DOROTEO DI GAZA,
Istruzioni spirituali, XIV, 157; 158. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XXXI, 74-88.
39Vedi per esempio GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito
di fede», IH, 12. Giovanni Crisostomo abitualmente associa l’elemosina con l’olio delle vergini
sagge della parabola (cfr. ibid.\ Commento a san Matteo, L, 4; Commento a san Giovanni, XXEH,
3; LX, 4).
40 Omelie sull’elemosina, IV. Cfr. Omelie su 1 Corinzi, XXI, 6; Omelie sulla lettera ai Roma­
ni, XIX, 7.
41 Cfr. G io v a n n i C riso sto m o , Omelie sull’elemosina, V.
570
concorda con l’insegnamento del Cristo stesso: «La tua elemosina ri­
manga nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ri­
compensa» (Mt 6,4); «vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un
tesoro in cielo» (Mt 19,21) e con quanto afferma san Paolo: che i ric­
chi siano «disposti a partecipare agli altri i loro beni, mettendosi da
parte un bel capitale per il futuro» (lTm 6,18).
Non è l’importanza materiale dell’elemosina che costituisce il suo
valore. Occorre solo che essa sia proporzionata ai mezzi di colui che
dona (cfr. 2Cor 8,3.11; Me 12,43-44)42. San Giovanni Crisostomo con­
tinuamente rassicura coloro che hanno pochi mezzi, sottolineando che
Dio tiene conto prima di tutto della buona volontà che questi dimo­
strano e della purezza della loro intenzione43. In ogni caso, resta fon­
damentale che una delle principali finalità dell’elemosina, lo ripetia­
mo, è la guarigione e il progresso spirituale di colui che dona, come
sottolinea chiaramente san Giovanni Crisostomo rivolgendosi a tutti:
il Signore «non considera solo l’azione ma guarda alla volontà». Di­
cendo: «Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomi­
ni per essere da loro ammirati» (Mt 6,1), egli assicura che «non è so­
lo l’azione esteriore, ma l’intenzione segreta che egli giudicherà»; ciò
che egli chiede, è «la rettitudine della volontà e la purezza dell’inten­
zione. Infatti Dio vuole guarire la vostra anima attraverso l’elemosi­
na e liberarla dalle sue malattie»44. Così, come dice ancora lo stesso
santo, «la virtù dell’elemosina non consiste solo nel dare, ma nel do­
nare nel modo e per il fine che Dio ci chiede»45.
Per avere un valore spirituale, l’elemosina dev’essere fatta in mo­
do disinteressato, cioè il donatore non deve aspettarsi alcun vantaggio
di nessun genere, soprattutto quello che deriva dall’auto-soddisfazio-
ne. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» raccomanda
il Cristo (Mt 10,8), che altrove mette più volte in guardia contro la va­
nagloria che si mescola con molta facilità alla pratica dell’elemosina:
«Quando tu fai l’elemosina, non metterti a suonare la tromba davan­
ti a te, come fanno gli ipocriti [...] per averne gloria presso gli uomi­
ni. Ma mentre fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa
la tua destra, in modo che la tua elemosina rimanga nel segreto» (Mt
6,2-4; cfr. Le 18,12).
42 Cfr. Id., Omelie su Atti, XXI, 5; Omelie sulla lettera ai Romani, XIX, 7; Omelie sulla let­
tera ai Colossesi, I, 6; Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4.
43 Omelie sulla lettera agli Ebrei, 1,4; Omelie contro gliAnomei, VDI, 2; Omelie sulla Gene­
si, LV, 4; Omelie su Atti, XXI, 5.
44 Commento a san Matteo, XIX, 1.
45 Ibid.
571
Colui che dona, d’altra parte, deve farlo senza alcuna reticenza,
sia riguardo ai beni da cui si separa sia riguardo alla qualità di colui al
quale dona; al contrario, egli deve farlo con liberalità; solo a questo ti­
tolo vi sarà veramente elemosina, afferma san Giovanni Crisostomo46.
Ecco perché l’Apostolo consiglia di dare «senza calcolo» (Rm 12,8),
«non con tristezza né per forza» (2Cor 9,7), «di buon cuore» (lTm
6,17-18; Col3,23) e «con gioia» (2Cor 9,7)47. È così importante do­
nare con gioia che san Giovanni Crisostomo arriva ad affermare che
è questa «la natura dell’elemosina»48; l’elemosina, egli fa notare, «non
è il dono, ma la sollecitudine e la gioia nel donare»49. Tale gioia, in­
fatti, testimonia che l’elemosina procede realmente da uno spirito di
carità; essa è, afferma san Giovanni Crisostomo, «la gioia della carità
che si espande»50.
L’elemosina non ha valore spirituale se non in quanto forma e ma­
nifestazione della carità, nella misura in cui questa è condivisione e do­
no per amore di Dio e del prossimo, essendo le due cose legate in­
dissolubilmente. L’amore di Dio fonda, infatti, l’amore del prossimo
e costituisce la sua finalità ultima. San Giovanni Crisostomo a pro­
posito dell’elemosina scrive: «Ciò che occorre avere è l’amore di
Dio. Sia questo il movente che ci faccia agire sempre»51. Al contra­
rio, l’amore del prossimo e l’elemosina, che in parte lo manifesta, so­
no la condizione dell’amore di Dio, come scrive l’apostolo san Gio­
vanni: «Se vino dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è men­
titore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare
Dio che non vede» (lGv 4,20) e: «Se uno possiede le ricchezze del
mondo e, vedendo il proprio fratello che si trova nel bisogno, gli chiu­
de il cuore, come l’amore di Dio può essere in lui?» (lGv 3,17). Es­
sendo l’uomo creato ad immagine di Dio, figlio di Dio e fratello di Cri­
sto per adozione, destinato a divenire dio per grazia, tutto ciò che è
fatto al prossimo è fatto a Dio, tutto ciò che reca danno al prossimo
colpisce Dio stesso, come il Cristo dice chiaramente ricordando tut­
te le azioni di misericordia a favore del prossimo: «In verità vi dico:
46Cfr., Omelie su 2 Corinzi, XVI, 4.
47 A questo proposito, Giovanni Crisostomo fa notare che, se Dio nel raccomandare l’ele­
mosina avesse mirato solo al sollievo dei poveri, egli avrebbe raccomandato solo di donare, sen­
za chiedere di farlo con gioia: tale precisazione testimonia con evidenza che a Dio interessa an­
che, nel fare elemosina, lo stato spirituale di colui che dona (cfr. Omelie sull’elemosina, IV).
48 Ibid., IV.
49 Omelie sulla lettera ai Filippesi, 1,4.
50 Omelie sulla Genesi, LV, 4.
51 Omelie sulla lettera agli Ebrei, I, 4. Cfr. Omelie sulla Genesi, XXXI, 7.
572
tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratel­
li, l’avete fatto a me [...]. Ciò che non avete fatto a uno di questi più
piccoli non l’avete fatto a me» (Mt 25,40-46). L’elemosina suppone
la consapevolezza di dare a Dio stesso52nello stesso tempo che si dà al
prossimo. San Giovanni Crisostomo arriva a dire a questo proposito:
«Non vi è nessuna differenza tra dare a un povero o a Gesù Cristo»53,
precisando poi: «Quando dunque diamo l’elemosina a un povero, do­
niamogliela come a Gesù Cristo»54.
In quanto forma della carità, l’elemosina suppone anche la coscien­
za e il sentimento dell’unicità della natura umana, dell’eguaglianza fon­
damentale e della solidarietà di tutti gli uomini che condividono la stes­
sa natura55. A tale proposito san Doroteo di Gaza insegna che «dob­
biamo fare l’elemosina [...] avendo compassione gli uni degli altri co­
me delle proprie membra»56. Per questo motivo, l’elemosina deve eser­
citarsi indifferentemente verso tutti gli uomini che sono nel bisogno o
che solo ne fanno una richiesta, indipendentemente da ogni conside­
razione di qualità, di dignità o di merito57. «Da’ a chiunque ti chiede»,
raccomanda il Cristo (Le 6,30; cfr. Mt 5,42). Facendo così, l’uomo si
conforma alla volontà di Dio, diviene simile a lui nel suo modo di agi­
re e di essere; diviene veramente figlio del Padre «che è nei cieli, il qua­
le fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giu­
sti come sugli empi» (Mt 5,45). «Colui che, facendo l’elemosina, vuo­
le imitare Dio, non fa differenza tra buono o cattivo, onesto o disonesto,
visto che sono nella necessità. A tutti dona allo stesso modo, a ciascu­
no secondo i suoi bisogni», scrive in questo senso san Massimo58.
Il non-possedere e l’elemosina appaiono come rimedi non solo per
la filargiria e per la pleonessia, ma per tutti i mali che queste due pas­
sioni generano.
Abbiamo visto che uno degli effetti di queste passioni è sempre quel­
52 Vedi per esempio GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Matteo, L, 4, in cui dà questa
interpretazione della parola del Cristo «i poveri li avete sempre con voi, me invece non mi avre­
te sempre» (Mt 26,11): «Dobbiamo avere una cura particolare nel fare l’elemosina a Gesù Cri­
sto [nel farla al prossimo], perché noi non lo avremo sempre nella veste del povero, ma solo du­
rante questa vita».
53 Ibid., LXXXVIH, 3.
54Ibid.
55 Vedi in particolare GREGORIO M a g n o , Moralia su Giobbe, XXI, 16-19.
56Istruzioni spirituali, XIV, 157.
57 Cfr. I s a c c o IL S iro , Discorsi ascetici, 23. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie: «Perché noi ab­
biamo uno stesso spirito di fede», II, 7; Omelie sulla lettera ai Romani, XTV, 9.
58 Centurie sulla carità, 1,24.
573
lo di turbare l’anima, di renderla preda di molte preoccupazioni, d’in­
quietudini, di tormenti, di porla continuamente in uno stato di timo­
re, d’ansia e d’angoscia. La loro guarigione pone naturalmente fine a
questo stato patologico. «Colui che ha vinto questa passione [della fi-
largiria] ha tagliato la radice di tutte le inquietudini e di tutti i turba­
menti dello spirito», scrive san Giovanni Climaco59. Il non-possedere,
in modo particolare, pone fine al turbamento interiore e stabilisce l’a­
nima nella pace60: essa è, afferma lo stesso santo, «una liberazione da
tutte le inquietudini della vita»61. «Nulla, quanto la povertà volonta­
ria, rende lo spirito sereno», nota dal canto suo sant’Isacco il Siro62.
Liberando l’uomo dalle preoccupazioni inevitabilmente legate a
ogni possesso, essa lo libera radicalmente dalla sua alienazione dovu­
ta ai beni terreni; gli consente di preoccuparsi esclusivamente di Dio
ed essere pienamente disponibile per lui. Distaccandolo dai beni sen­
sibili, la povertà gli permette di legarsi, secondo la finalità della sua na­
tura, ai beni spirituali. Il Cristo stesso presenta la povertà volontaria
come la via della perfezione affrontata da coloro che vogliono se­
guirlo veramente, cioè unirsi subito e pienamente a lui: «Se vuoi es­
sere perfetto, va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri [...]. Poi vie­
ni e seguimi» (Mi 19,21).
Quanto all’elemosina, san Giovanni Crisostomo la presenta molte
volte come un «rimedio» potente63 che permette di recuperare «la ve­
ra salute»64. «Dio, egli scrive, vuole guarire la vostra anima per mez­
zo dell’elemosina e liberarla così dalle sue malattie»65. «Guardiamo­
ci, scrive ancora, dal disprezzare [...] questo rimedio delle nostre feri­
te. Ecco, infatti, il rimedio salutare per eccellenza che farà scomparire
le ulcere dalle nostre anime, fino alle tracce di tutte le cicatrici»66; «com­
prendete la potenza di questo rimedio? Applichiamolo dunque a noi
stessi»67. Egli, perciò, presenta i poveri come «i medici delle nostre ani­
me»68, affermando in particolare: «Essi sono i medici delle vostre fe­
59La Scala, XVI, 7. Cfr. 24.
60 Cfr. ibid.y 13.
61 Ibid., 11. Cfr. G iovanni C risostom o , Trattato sulla verginità, 69. Apoftegmi, PA, App. 4.
62Discorsi ascetici, 23.
63Cfr. Omelie sulla Genesi, LV, 4; Omelie sui demoni, II, 6; Omelie: «Perché noi abbiamo uno
stesso spinto difede, 1,8; Commento a san Matteo, LXXVII, 5; Commento a san Giovanni, LXXXI,
3; Omelie sulla lettera aiFilippesi, I, 4; Omelie sulla lettera a Tito, VI, 3.
64 Omelie sui demoni, II, 6.
65 Commento a san Matteo, XIX, 1.
66 Omelie sulla Genesi, LV, 3.
67 Ibid., 4.
68 Omelie: «Perché noi abbiamo uno stesso spirito di fede», IH, 11.
574
rite, e le mani che vi tendono sono i rimedi che essi vi offrono. La ma­
no che il medico stende verso il malato, i rimedi che egli presenta non
lo guariscono così bene quanto il povero che tende la mano verso di
voi e nel ricevere la vostra elemosina fa scomparire i vostri mali»69. Oc­
corre notare che l’elemosina, benché sia con il non-possedere il ri­
medio specifico della fQargiria e della pleonessia, contribuisce ugual­
mente a liberare l’uomo dalle altre sue malattie spirituali. Essa è,
scrive san Giovanni Crisostomo, uno di «questi rimedi [per mezzo dei
quali] facciamo morire tutte queste passioni che avvelenano la no­
stra anima»70.
L’elemosina, come il non-possedere, libera l’uomo dalla sua aliena­
zione a motivo del denaro e delle ricchezze terrene. Gli permette, al­
tresì, di ritrovare di fronte ad esse un atteggiamento normale, di ces­
sare di goderne egoisticamente per ritornare l’amministratore dei be­
ni dati da Dio a tutti gli uomini71, ossia di ridistribuire ciò che ha
ricevuto da Dio (cfr. Mt 10,8) a questo scopo72.
D’altra parte, essa guarisce l’uomo da tutti gli atteggiamenti pato­
logici che la fQargiria e la pleonessia generano nell’ambito dei suoi rap­
porti con gli altri uomini. Essa lo libera soprattutto dalla sua insensi­
bilità73, essendo, tra l’altro una delle finalità che Dio conferisce all’e­
lemosina, quella di «insegnarci a compatire i mali del prossimo»74. Essa
lo libera, altresì, dalle diverse forme di aggressività generate da queste
due passioni: essa è, osserva san Massimo, «il trattamento della colle­
ra»75. Praticata con umiltà, elimina ogni disprezzo del prossimo e, al
contrario, implica il suo rispetto76. Ristabilisce tra l’uomo e i suoi si­
mili il legame della carità, contribuendo a porre fine alla divisione del­
la natura umana provocata dalle passioni e a riportarla alla sua unità
essenziale. A questo proposito possiamo ricordare un passo degli At­
ti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che avevano abbracciato
la fede aveva un cuore e un’anima sola. Non v’era nessuno che rite­
nesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra

69 Omelie su 1 Timoteo, XIV, 2.


70 Commento a san Matteo, IV, 9.
71 Cfr. B a silio di C esarea, Omelie contro i ricchi, VE, 3. G iovan ni C risostom o, Omelie su
Lazzaro, E, 4-5.
72 Cfr. G iovanni C risostom o, loc. cit., n, 5.
73 Cfr. I sacco IL S ir o , Discorsi ascetici, 79. GREGORIO MAGNO, Moralia su Giobbe, X X I,
16-19.
74 G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XIX, 7.
75 Centurie sulla carità, I, 29. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XVI, 22.
76 Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, X X I, 16-19.
575
loro comune» {Al 4,32). San Giovanni Crisostomo così commenta que­
sto brano: «Guardate all’utilità dell’elemosina [...]: subito le anime si
uniscono»; «è l’elemosina che unisce in un solo corpo le membra di
Gesù Cristo»77.
Essa costituisce, così, uno dei principali rimedi alla tristezza78nel­
la misura in cui questa spesso ha per causa la filargiria e la pleonessia.
L’elemosina ha, inoltre, come effetto fondamentale di permettere al­
l’uomo di ricevere da Dio il perdono dei suoi peccati e di essere puri­
ficato nell’anima, come sottolineano i Padri79sulla scia del Siracide che
afferma: «L’elemosina espia i peccati» {Sir 3,29), e del profeta Danie­
le che consiglia: «Riscatta i tuoi peccati con la giustizia e le tue colpe
con la misericordia verso i poveri» (Dn 4,24). «Non vi sono peccati che
l’elemosina non possa purificare e non possa distruggere. Ogni pec­
cato è al di sotto di essa, ed essa è il rimedio sovrano contro ogni feri­
ta», insegna san Giovanni Crisostomo80, che osserva ancora: «È il ri­
medio delle nostre colpe; è essa che lava le sozzure della nostra anima»81.
San Giovanni Crisostomo vede, del resto, nell’elemosina la com­
pagna necessaria alla penitenza82, che essa ha la proprietà di rendere
più fruttuosa: «È l’elemosina che fa produrre al rimedio della peni­
tenza il pieno e completo effetto. I rimedi ordinati dai medici spesso
si compongono di alcune piante, tra le quali ve ne è una che è più sa­
lutare delle altre. E così anche per il rimedio della penitenza. Tra gli
ingredienti che la compongono, si trova una pianta più efficace di tut­
te le altre e che è tutto. Questa pianta si chiama elemosina»83.
Per questo e altri motivi, l’elemosina ha, inoltre, per effetto quello
di favorire la preghiera e contribuire a renderla pura84e feconda85.
In modo generale, essa nutre, fortifica e illumina l’anima86 ed è
per questa fonte di gioia spirituale87.
77 Omelie sulla lettera a Tito, VI, 3.
78 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 11.
79 Cfr. DOROTEO di G aza , Istruzioni spirituali, XIV, 156. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie
sulla penitenza, HI, 1; Catechesi battesimali, VII, 27; Omelie su: «Perché noi abbiamo uno stesso
spirito di fede», I, 9; III, 12; Omelie sulla Genesi, XXXI, 7; LV, 4; Commento a san Matteo,
LXXVII, 5; Commento a san Giovanni, LXXX3,3.
80 Omelie su Atti, XXV, 3. Cfr. Omelie sulla lettera a Tito, VI, 2.
81 Omelie sulla lettera a Tito, VI, 3.
82 Omelie sulla penitenza, VE, 6.
83 Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 4.
84 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XVI, 14. G iovanni C risostomo , Commento al Salmo
140,5.
85 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Timoteo, VI, 3.
86Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Giovanni, XXTV, 3; LXXXI, 3.
87 Cfr. ibid, XL, 4.
576
Mentre «il non-possedere fortifica l’umiltà»88, l’elemosina svilup­
pa la carità di cui essa è il frutto89.
Praticando l’elemosina, l’uomo imita Dio90, si mostra veramente suo
figlio adottivo91 e si assimila a lui. «È specialmente questa virtù che
imita Dio; essa è tipica di Dio che ha detto: “Siate misericordiosi co­
me Dio, vostro Padre, è misericordioso” (Le 6,36)», insegna san Do­
roteo di Gaza92. San Giovanni Crisostomo afferma la stessa cosa: «So­
no solo l’elemosina e la misericordia che ci rendono simili a Dio»95.
Realizzando così la finalità della sua natura, l’uomo, che la filargiria e
la pleonessia avevano reso inumano e simile a un animale feroce, tor­
na ad essere veramente un uomo: «L’elemosina è un grande bene
[...] e quando la pratichiamo, essa ci rende simili a Dio per quanto è
possibile, perché è soprattutto essa che fa l’uomo», afferma in que­
sto senso san Giovanni Crisostomo94, che aggiunge: «Non stupitevi
che sia proprio dell’uomo essere caritatevole, poiché questo è tipico
di Dio stesso»95.

88 G iovan ni C lim aco, La Scala, XXV, 64. Cfr. ibid., 65.


89 Cfr. Isaia DI S c e te, Discorsi ascetici, 16; 55.
50Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1,24.
91 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla lettera ai Filippesi, Prefazione, 3.
92Istruzioni spirituali, XIV, 156.
93 Omelie su 2 Timoteo, VI, 3.
94 Omelie su 2 Corinzi, XVI, 4.
95 Commento a san Matteo, LUI, 5.
IV
TERAPIA DELLA TRISTEZZA
IL DOLORE, LA COMPUNZIONE E LA GIOIA

La terapia della tristezza, più di tutte le altre passioni, suppone la


coscienza di essere malati e la volontà di guarire. Difatti, non è raro,
come osserva specialmente san Giovanni Crisostomo1, che il malato si
compiaccia di questo male, ne tragga il «benefìcio secondario» di un
certo godimento morboso, e si abbandoni quindi passivamente al suo
stato, senza tra l’altro accorgersi che è preda di una passione partico­
larmente grave per i suoi effetti nefasti su tutta la vita spirituale. Per
questo, san Giovanni Cassiano, dopo aver ricordato questi effetti pre­
giudizievoli, scrive: «Se vogliamo combattere la lotta spirituale secon­
do le regole, è necessario guarire questa malattia con molte più pre­
cauzioni che per le precedenti»2. San Giovanni Crisostomo, da parte
sua, insiste sulla necessità «di volere e di augurarsi la guarigione»; scri­
ve in particolare: «E molto utile, per dissipare la tristezza, dolersene
fortemente»3.
Nella parte dedicata alla nosologia, abbiamo visto che la tristezza
può avere cause diverse. In ogni caso, è opportuna una terapia speci­
fica.
1) La prima causa possibile della tristezza è la frustrazione di u
piacere presente o atteso, quindi, più propriamente la perdita di un
bene sensibile, la frustrazione di un desiderio o la delusione di una
speranza carnali. Nel caso di tale eziologia, la terapia della tristezza im­
plica essenzialmente la rinuncia ai desideri e ai piaceri «carnali», e cor­
relativamente, il distacco circa tutti i «beni» sensibili, arrivando fino
al disprezzo di questi4. San Massimo osserva a questo riguardo: «Chi
1Consolazioni a Stagira, m , 14.
2Istituzioni cenobitiche, IX, 1-2.
3Consolazioni a Stagira, DI, 14.
4 Cfr. D oroteo di G aza , Sentenze, 3.

578
sfugge a tutte le bramosie diviene inaccessibile a ogni tristezza del mon­
do»5, e più avanti consiglia: «Contro [...] la tristezza, disprezza [...] gli
oggetti materiali»6. San Giovanni Climaco constata allo stesso modo:
«L’uomo che è arrivato a detestare il mondo è sfuggito alla tristezza,
ma colui che è attaccato a qualsiasi cosa visibile non si è ancora libe­
rato dalla tristezza. Infatti, come non rattristarsi se si è privati di ciò
che si ama?»7. Anche Evagrio osserva: «Colui che fugge tutti i piace­
ri terreni è una cittadella inaccessibile al demone della tristezza. La tri­
stezza, in realtà, è la frustrazione di un piacere, presente o atteso, ed è
impossibile respingere questo nemico se abbiamo un attaccamento
passionale per questo o quel bene terreno; infatti, esso frappone la sua
rete e produce la tristezza proprio là dove vede che è diretta la no­
stra inclinazione»8. Poiché ogni passione ha come suo fondamento un
desiderio carnale e la ricerca del piacere sensibile, ne segue che la te­
rapia della tristezza è relativa alla terapia delle altre passioni. Evagrio
spiega: «La tristezza sopraggiunge quando non otteniamo ciò che
desideriamo carnalmente; ora a ogni passione è legato un desiderio:
colui che ha vinto le passioni non sarà dominato dalla tristezza [...].
Colui che domina le passioni domina la tristezza, ma colui che è vin­
to dal piacere non sfuggirà ai suoi lacci. Colui che ama il mondo sarà
molte volte rattristato [...]. Ma colui che disprezza i piaceri terreni non
sarà più turbato dai pensieri tristi»9.
L’uomo sottomesso alla carne è avido non solo di beni materiali, ma
anche di onori e di gloria umana, e abbiamo notato, esaminando la
passione della tristezza, lo stretto legame che questa ha con la passio­
ne della cenodossia, poiché la delusione nella ricerca degli onori e del­
la gloria in questo mondo è una causa frequente di tristezza tanto
per coloro che li possiedono già ma ne desiderano di maggiori, che
per coloro che aspirano a uscire dall’oscurità. In questo caso, la tera­
pia della tristezza implica il disprezzo di questa gloria e di questi ono­
ri mondani10o, per meglio dire, implica una totale indifferenza nei lo­
ro riguardi, o che se ne sia beneficiati o che se ne sia privati: «Contro
la tristezza, disprezza la gloria [e] l’oscurità», consiglia san Massimo11.

5 Centurie sulla carità, 1,22.


6 Ibidem , 13.
7La Scala, E, 11.
8 Trattato pratico sulla vita monastica, 19.
9 Gli otto spiriti della malvagità, 11-12, PG 7 9 ,1156D; 1157BC.
10Cfr. D o r o te o DI G aza , Sentenze, 3.
11 Centurie sulla carità, EI, 13.
579
2) Una seconda causa importante della tristezza è la collera, sia ch
essa ne sia il risultato, o che sia conseguenza di un’offesa subita, nel
qual caso frequentemente assume la forma del rancore.
I Padri sottolineano che la causa della tristezza non è in coloro con­
tro cui siamo in collera e di fronte ai quali proviamo rancore, nem­
meno in coloro che ci hanno offesi, ma solo in noi. Porre fine, in que­
sto caso, a ogni relazione con le persone suddette non potrebbe, di
conseguenza, costituire una terapia adeguata. Così scrive a questo pro­
posito san Giovanni Cassiano: «Dio, il creatore di ogni cosa, sapendo
meglio di chiunque altro come guarire la sua creatura e che non è nel­
le cose ma in noi stessi che risiedono la radice e la causa dei nostri
errori, non ci ha ordinato di allontanarci dai nostri fratelli, né di evi­
tare coloro che riteniamo di avere offesi o dai quali ci crediamo offe­
si»12. La frequentazione degli altri, in questo caso, permette, al con­
trario, una guarigione più rapida che non la solitudine nella misura in
cui essa costituisce per l’uomo una prova che lo mette direttamente
a confronto con le difficoltà che sono all’origine della tristezza che egli
sente, e gli permette così di rimediarvi più facilmente e più rapida­
mente. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello che queste difficoltà di­
vengano più o meno inconsce pur rimanendo del tutto attive e man­
tenendo l’uomo immerso nella tristezza; d’altra parte, sappiamo che il
ricordo delle ingiurie, il risentimento, il rancore, e in genere tutte le
conseguenze della collera tendono non a ridursi spontaneamente,
ma al contrario a svilupparsi sordamente, a rafforzarsi sotto la spinta
dell’immaginazione, a spandersi come un veleno e ad avvelenare a po­
co a poco tutta l’anima. Per questo san Giovanni Cassiano scrive che
la tristezza fa parte di alcune passioni che, «guarite dalla meditazio­
ne del cuore e da una vigilanza prolungata, lo sono anche per la fre­
quentazione dei fratelli e dalla loro costante provocazione: quanto più
spesso questi turbamenti sono manifestati e ci vengono rimproverati,
più presto si guarisce»13. Egli, altrove, nota anche che per queste pas­
sioni «lo stare con gli altri non nuoce; al contrario, offre maggiori van­
taggi a chi desidera veramente correggersi. Tali passioni si scoprono
frequentando gli uomini e proprio perché esse si manifestano più fre­
quentemente tra le occasioni, esse permettono una guarigione più
rapida»14.
12Istituzioni cenobitiche, IX, 7.
15Ibid., VI, 3.
MConferenze, V, 4. Cfr. XIX, 6.
580
È in tale prospettiva che i Padri raccomandano non solo di non vo­
lerne a colui che ci offende, ma anche di considerarlo un benefattore,
come un medico che opera per la guarigione dell’anima, e di ringra­
ziarlo. Se un fratello «ti ingiuria o ti affligge in qualche modo, racco­
manda un Anziano15, prega per lui come hanno detto i Padri, convin­
to che egli ti procura grandi benefìci e che egli è un medico che gua­
risce in te l’amore per il piacere». Un altro Anziano consiglia: «Se qual­
cuno conserva il ricordo di qualcuno che lo ha afflitto, offeso o in­
sultato, deve ricordarsi di lui come di un medico inviato dal Cristo e
considerarlo un benefattore. Infatti se tu ti affliggi in queste circo­
stanze, è perché la tua anima è malata. In realtà, se tu non fossi mala­
to, non soffriresti. Devi dunque ringraziare questo fratello, poiché gra­
zie a lui tu conosci la malattia, devi pregare per lui e ricevere ciò che ti
viene da lui come un rimedio offertoti dal Signore. Se, al contrario, t’in­
quieti con lui, è come se dicessi a Gesù: “Non voglio i tuoi rimedi”»16.
In ogni caso, occorre perdonare l’offensore, abbandonare ogni ran­
core contro di lui e, al contrario, dar prova nei suoi riguardi di bene­
volenza e di carità. E soprattutto pregando per lui che si può realiz­
zare tale atteggiamento e, così, porre fine alla tristezza17. «Tristezza e
rancore vanno di pari passo», spiega san Massimo; «se dunque lo spi­
rito prova tristezza nel rappresentarsi il volto di un fratello, questa è
la prova che si ha rancore verso di lui»18. «Provi rancore verso qual­
cuno? Prega per lui, e spezzerai lo slancio della passione, perché la
preghiera purifica da ogni amarezza il ricordo del male che quest’uo­
mo ti ha fatto. Poi, pervenuto alla carità e alla benevolenza per il pros­
simo, eliminerai dal tuo animo ogni traccia di passione»19.
Piuttosto che accusare chi offende, colui che è stato offeso deve ac­
cusare se stesso, sia che si riconosca meritevole dell’offesa a motivo del
suo stato di peccato, sia che riconosca di averlo provocato con una pa­
rola, un atteggiamento o un gesto sconveniente per l’altro20. Per que­
sto san Doroteo di Gaza insegna che «se si esamina con timore di Dio
e si scruta accuratamente la propria coscienza, ci si troverà in ogni mo­
do responsabili»21. In tutti i casi, egli spiega, «la causa del turbamen­

15Apoftegmi, XV, 136.


16Ibid., XVI, 17.
17Cfr. Nil SORSKY, Regola, V.
18Centurie sulla carità, Ut, 89.
19Ibid., 90.
20Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, VE, 82.
21 Ibid.
581
to [che si prova dopo un’offesa], se la ricerchiamo accuratamente, sta
sempre nel fatto che non si accusa se stessi. Da questo deriva che noi
abbiamo questa oppressione e non troviamo mai pace. Non c’è da stu­
pirsi se tutti i santi dicono che non esiste altra via se non quella [...].
Se non si segue questa via, non si smetterà mai di far soffrire e di sof­
frire, perdendo così tutta la fatica fatta. Quale gioia, invece, quale ri­
poso non troverà, dovunque vada, colui che accusa se stesso, come ha
detto Abba Poemen! Se gli capita un danno, un oltraggio o una qua­
lunque pena, a priori egli se ne riterrà degno e non sarà mai turbato.
Vi è forse uno stato che sia più esente di questo da preoccupazioni?»22.
3) Abbiamo visto che accanto alle forme di tristezza di cui è poss
bile determinare la causa con precisione, esiste una tristezza «immo­
tivata», che può apparire nell’anima senza ragione, e che nella mag­
gior parte dei casi è suscitata da un intervento demoniaco più diretto
che non per le altre. Non è possibile, in questo caso, individuare un
rimedio specifico; occorre, allora, mettere in opera una terapia di ca­
rattere generale, la stessa che peraltro completa le terapie definite per
le forme di tristezza prese in considerazione precedentemente.
E importante che colui che è sotto il dominio della tristezza non si
ripieghi su se stesso, il che favorirebbe lo sviluppo di questa malattia,
ma riveli la sua condizione e manifesti i suoi pensieri a spirituali esper­
ti e s’intrattenga con essi23. Egli potrà così essere liberato da questi pen­
sieri24e ascoltare parole consolatrici che costituiranno per lui un aiu­
to insostituibile. San Giovanni Crisostomo sottolinea, così, il valore te­
rapeutico del discorso spirituale per coloro che soffrono di tristezza:
«Fintanto che questa ferita della tristezza non sarà chiusa, vi si appli­
cherà il rimedio della consolazione. Se infatti i medici curano le pia­
ghe del corpo fino a quando ogni dolore sarà cessato, non dobbiamo
agire allo stesso modo riguardo ai mali dell’anima? La piaga delle
vostre anime è la tristezza, e occorre versarvi continuamente l’acqua
benefica di dolci parole. Sì, esse placano i moti dell’anima, meglio di
un’acqua tiepida che addolcisce i tumori della carne. I medici hanno
bisogno di una spugna, noi applichiamo il rimedio con le parole: noi
non abbiamo bisogno di fuoco, come i medici per riscaldare l’acqua;
è la grazia dello Spirito Santo che scalda i nostri discorsi. Ancora og­
22Ibid., 81.
23 Cfr. N el Sorsky, Regola, V.
24 Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 136.
582
gi, cerchiamo di consolarvi. Se non lo facessimo, dove trovereste confor­
to ai vostri mali?»25.
L’uomo può, altresì, trovare l’aiuto e la consolazione di cui ha bi­
sogno nella lettura e nella meditazione di passi appropriati delle Sacre
Scritture26, che costituiscono un rimedio tanto più efficace quanto più
è accompagnato dalla preghiera. Per dissipare la vostra tristezza, con­
siglia a Stagira san Giovanni Crisostomo, «unite ai ragionamenti un’as­
sidua preghiera. Per mezzo di questo duplice rimedio Davide [...] placò
i suoi dolori e consolò i dispiaceri. Pregava dicendo: “Le afflizioni si
sono moltiplicate in fondo al mio cuore; liberami dai mali che mi af­
fliggono”, rivolgendo a se stesso questo pio e religioso discorso: “Per­
ché ti abbatti, anima mia, e fremi dentro di me? Spera nel Signore,
perché ancora potrò lodarlo” (Sai24[25],17; 43 [42],5). Ritornò a pre­
gare [...] e poi riprese coraggio»27.
La preghiera, in tutte le sue forme, costituisce, infatti, il rimedio
principale alla tristezza, qualunque ne sia l’origine. «La preghiera è
l’antidoto alla tristezza e allo scoraggiamento», insegna san Nilo28.
Se la salmodia si rivela un modo di pregare particolarmente effica­
ce contro la tristezza che viene direttamente dai demoni29, la preghie­
ra del cuore, praticata con vigilanza e attenzione, è il rimedio per ec­
cellenza di tutte le forme di tristezza. San Giovanni Cassiano osserva
che la tristezza fa parte di quelle passioni che vengono «guarite dalla
meditazione del cuore e da una vigilanza prolungata»30; più avanti pre­
cisa: «Ecco come potremo allontanare da noi questa funesta passione:
mantenendo [...] il nostro spirito sempre occupato nella meditazione
spirituale. E in questo modo, infatti, che potremo vincere ogni gene­
re di tristezza, sia che provenga dalla collera, dalla perdita di un gua­
dagno, da un danno subito, da un’ingiuria che ci affligge, sia che la
concepiamo senza alcun motivo ragionevole, o che ci trascini a una
mortale disperazione»31.
La lotta contro la passione della tristezza e la vittoria su questa pas­

25 Omelie sulle statue, VI, 1.


26 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Aritmetico, Tristezza.
27 Consolazioni a Stagira, ITE, 14.
28Apoftegmi, serie alfabetica, Nilo, 3. Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 16. EsiCfflO DI
BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 135.
29 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21.
30Istituzioni cenobitiche, VI, 3.
31Ibid., IX, 13.
583
sione non permette immediatamente all’uomo di accedere allo stato
che costituisce il contrario della tristezza, ossia la gioia. L’uomo non
deve tendere ad essere liberato dalla tristezza-passione se non per far
posto a un’altra forma di tristezza, virtuosa questa, la sola che gli per­
mette di conoscere la gioia vera. E solo di quest’ultima forma di tri­
stezza che è detto: «La vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20).
Abbiamo sottolineato, esaminando la passione della tristezza, che
questa infatti si è costituita per la perversione della tristezza virtuosa.
Mentre la tristezza-passione (che i Padri indicano generalmente con
il termine lyptt) consiste nell’affliggersi per la frustrazione dei deside­
ri carnali, della perdita dei beni e dei piaceri sensibili, o delle offese
subite, la tristezza virtuosa, invece, chiamata anch’essa dolore, affli­
zione (pénthos; luctus), compunzione (katányxis; compunctioY2 consi­
ste in primo luogo per l’uomo nell’affliggersi di essere separato o al­
lontanato da Dio33, di essere privato dei beni spirituali34, nel provare
pena, nell’essere dolorosamente colpito, a causa del proprio stato di
decadenza in generale o dei propri peccati in particolare, nel piange­
re le proprie colpe presenti e passate, conscie o inconscie35. Essa ap­
pare allora come uno stato spirituale direttamente legato al penti­
mento36, di cui gemiti e lacrime sono le manifestazioni37.
32 E molto difficile distinguere il péntkos dalla katányxis al punto tale che I. H au SHERR, nel
magistrale studio che ha dedicato a tale questione {Pénthos. La doctrine de la componction dans
rOrient chrétien, Roma 1944), considera la katányxis come «un sinonimo, o quasi, di pénthos»
(p. 15), e dice che «in pratica [questi due termini] vanno tanto insieme che la metonimia li ha
resi sinonimi» (p. 16). Da qui proviene una incertezza nelle traduzioni. Mentre alcuni traduco­
no pénthos con «afflizione» e katányxis con «compunzione», altri fanno l’inverso. Possiamo di­
re, tuttavia, che vi è in katányxis una connotazione di rincrescimento più affermata che in pénthos,
connotazione che la rende più vicina di quest’ultimo alla nozione di contrizione. Essa differi­
sce tuttavia dalla contrizione per il sentimento di dolore, di pena che la caratterizza essenzial­
mente (cfr. p. 31).
33Cfr. E frem IL SlRO, Omelie su Isaia, XXVI, 10. GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla com­
punzione, 10.
34Cfr. G iovanni C risostom o , Trattato sulla compunzione, 1,10. G regorio di N issa , Ome­
lie sulle Beatitudini, HI, 3-5.
35Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VE, 25. GIO­
VANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla compunzione, 1,10; Consolazioni a Stagira, IH, 13; 14; Omelie
sulla penitenza, VII, 6; Omelie sui santi martiri, 3. BARSANUno, Lettere, 237; 394; 682. Su tutto
ciò, si troveranno abbondanti ulteriori riferimenti nell’opera citata di I. HAUSHERR, pp. 35-50.
36Vi è tra essi una relazione di reciprocità che fa sì che si suscitino e si rafforzino mutua­
mente. È così che i Padri sottolineano, talvolta, sulla scorta di san Paolo (2Cor 7,10) che la tri­
stezza secondo Dio provoca il pentimento (vedi per esempio BARSANUFIO, Lettere, 242) e talal­
tra che essa è generata dal pentimento (vedi per esempio, Vita di san Cirillo il Fileota, citato da
I. HAUSHERR, Pénthos, p. 26).
37 Su quest’ultimo punto, vedi per esempio GIOVANNI DI GAZA, Lettere, 462, e soprattutto
285.1. HAUSHERR considera «le lacrime» praticamente come sinonimo di «dolore» e di «com­
punzione» {op. cit., p. 16). Questo è vero solo per un tipo di lacrime. Difatti i Padri ne distin-
584
In secondo luogo, essa consiste nell’affliggersi di vedere il prossimo
lontano da Dio, privato dei beni spirituali, e nel rattristarsi per le sue
colpe e le sue debolezze38.
Solitamente i Padri oppongono le due forme di tristezza; essi sot­
tolineano i difetti della prima e invitano a rinunciarvi, incitando ad ac­
quistare la seconda di cui essi giustificano l’uso e mostrano il valore
e persino la necessità per la vita spirituale e l’opera di salvezza, e che
essi chiamano per questo come fa l’Apostolo (cfr. 2Cor 7,9-11) «tri­
stezza secondo Dio», o anche «tristezza amata da Dio»39, «tristezza sa­
lutare»40, «santa tristezza», «tristezza proficua»41, «tristezza utile», «bel­
la tristezza»42, «tristezza gradevole»43, «tristezza beata»44, ecc. È que­
sta che san Paolo ricorda quando scrive: «Ho un grande dolore, un
travaglio continuo nel mio cuore» (Rm 9,2). È anche quella che l’Ec-
clesiaste invita a possedere quando scrive: «Il pensiero del sapiente è
rivolto alla casa in cordoglio» (Qo 7,4).
San Paolo stesso stabilisce esplicitamente questa opposizione, scri­
vendo: «La tristezza secondo Dio genera ravvedimento che porta a sal­
vezza e di cui non ci si pente; ma la tristezza del mondo genera la mor­
te» (2Cor 7,8-10). Sulla sua scia, anche san Sindetico insegna: «Vi è
una tristezza utile e una distruttrice. È tipico della prima, piangere i
propri peccati e affliggersi della debolezza del prossimo, per non al­
lontanarsi dal proprio intento e unirsi alla bontà perfetta. Ma vi è an­
che la tristezza che arriva dal nemico [...]. Occorre dunque scacciare
questo spirito [...]»45. Anche san Massimo oppone alla «tristezza in-
guono molte. Noi qui prenderemo in considerazione solo quelle che sono legate alla compun­
zione. Non daremo uno spazio a parte a ciò che per convenzione chiamiamo «il carisma delle
lacrime», perché, da un lato, tutte le lacrime spirituali possono essere considerate come un do­
no di Dio, mentre, dall’altro, questa espressione non indica altro che le lacrime in quanto sono
divenute pure e incessanti. Ci si potrà riferire a questo riguardo allo studio classico di M. L ot -
BORODINE, «Le mystère du “don des larmes” dans l’Orient chrétien», in Supplément à La Vie
spirituelle, 48,1936, pp. 65-110, ripreso in La douloureusejoie, Bellefontaine 1974, pp. 131-195.
38Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21. GIOVANNI CRISOSTOMO, Consolazioni a Sta­
gna, III, 14; Omelie sulle statue, XVIII, 2; 3; Omelie sulla lettera agli Ebrei, XV, 4; Omelie sulla
lettera ai Filippesi, IH, 4. BASILIO DI CESAREA, Regole brevi, 31; Omelie sulla santa martire Giu-
litta, 9. G iovan ni C assiano, Conferenze, IX, 29. T e o d o r o S tu d ita, Piccole catechesi, éd. Au-
vray, p. 25. PIETRO DAMASCENO, Libro, I.
39 D iad o co di F oticea , Cento capitoli gnostici, 60.
40 Questa formula appare come una sintesi di 2Cor 7,10. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
VII, 55. G iovanni C assiano , Conferenze, V, 23.
41 M assimo il C o nfessore , Questioni a Talassio, 58.
42 Cfr. G iovanni C risostom o , Omelie sulla penitenza, V H , 6.
43 D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 50.
44 G iovanni C lim aco , La Scala, VU, 11.
45Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21.
585
sensata di molti, che mette la morte nell’anima per passioni insoddi­
sfatte o per oggetti materiali assenti, perché i loro slanci vanno contro
natura a ciò che non si deve, e le loro repulsioni contro ciò che oc­
corre», oppone, dicevamo, «la tristezza vantaggiosa», «questa tri­
stezza razionale, approvata da coloro che sono saggi nelle cose divi­
ne»46. E altrove scrive: «Chi ama Dio [...] non si rattrista contro nes­
suno per motivi di ordine temporale. Egli non inspira e non sente che
una sola tristezza, ma è quella salutare»47. San Giovanni Crisostomo
consiglia: «O fedele, bandisci la tua tristezza presente per rivestire qud-
l’altra tristezza che l’Apostolo chiama tristezza secondo Dio, tristez­
za capace di operare la nostra salute durevole: in altre parole, il pen­
timento dei peccati che tu hai commesso»48. Altrove precisa: Gesù Cri­
sto «proclama beati coloro che piangono, ma non quelli che lo fanno
per ragioni umane, come la perdita di un bene temporale, ma quelli
che hanno la compunzione cristiana, che piangono le loro miserie, che
espiano i loro peccati e anche quelli degli altri»49. Quanto a san Gio­
vanni Cassiano, scrive: «Occorre respingere indistintamente ogni tri­
stezza come tristezza del secolo, che genera la morte, e bandirla dal
nostro cuore», «ad eccezione di quella suscitata da una salutare pe­
nitenza, dalla ricerca della perfezione o dal desiderio dei beni futuri»50.
Non si tratta, dunque, di abolire ogni forma di tristezza, ma solo
quella della tristezza-passione. E ancora, porre fine alla passione non
significa porre fine alla funzione stessa ma guarirla, al fine di permet­
terle di ritrovare il suo uso naturale e normale ed esercitarsi di nuo­
vo in modo salutare. Inoltre, la guarigione assume la forma di un rio­
rientamento, di una conversione di questa funzione, del suo uso pas­
sionale contro natura nell’uso virtuoso che le conviene. San Gregorio
di Nissa ne parla in maniera esplicita: dopo aver affermato che «l’in­
telligenza deve ben ordinare tutte le cose nel nostro intimo e utilizza­
re secondo il loro proprio fine e in vista del bene ogni potenza del­
l’anima che il Creatore ha fabbricato perché ci servisse come strumento
e utensile», scrive: «In quanto al bene prezioso della tristezza, occor­
re munirsene al momento propizio del pentimento dei peccati [...],
perché non è mai utile se non per un tale servizio»51. San Giovanni Cri­
46 Questioni a Talassio, 58, PG 90,597B.
47 Centurie sulla carità, I, 41.
48 Omelie sulla consolazione della morte, II, 8.
49 Omelie sulla lettera ai Filippesi, XIV, 1.
™Ibid., 12.
51 Trattato sulla verginità, XXVIII, 3.
586
sostomo, sottolineando che: «dipende da noi mettere le membra al ser­
vizio del peccato o della giustizia»52, osserva allo stesso modo che la
tristezza non dev’essere respinta, ma usata secondo le regole della
ragione e della prudenza53. Egli scrive in particolare: «Il peccatore [...]
deve ricorrere alla tristezza per liberare la sua anima e ricondurla a
uno stato migliore»54. «Il Signore, egli spiega, ha voluto che la tri­
stezza fosse ima delle passioni [naturali] dell’uomo [...], affinché que­
sti ne traesse preziosi vantaggi. Come ottenerli? Nel rattristarci per ra­
gioni legittime. Ora non è affatto l’avversità, ma solo il peccato che de­
ve provocare questa tristezza»55. Altrove egli sottolinea: «Grande è il
dominio della tristezza: è una malattia spirituale che richiede molta
forza per resisterle coraggiosamente e per rifiutare ciò che essa ha di
cattivo, dopo aver preso ciò che essa ha di utile, perché essa ha la sua
utilità. Infatti, quando abbiamo peccato, solo allora la tristezza è buo­
na e utile; ma essa è inutile quando è causata da calamità umane»56.
San Barsanufio consiglia più laconicamente: «Non bisogna assoluta-
mente rattristarsi per qualcosa di questo mondo, ma unicamente per
il peccato»57.
La tristezza virtuosa non è, dunque, fondamentalmente di natura
diversa dalla tristezza-passione; essa non ne differisce che per il fine
che l’uomo le assegna, o per l’oggetto al quale la rivolge. Ma questo
fíne le dà, nell’uno o nell’altro caso, una forma diversa. San Giovan­
ni Cassiano presenta così le rispettive caratteristiche: mentre la tri­
stezza-passione «è aspra, impaziente, intrattabile, piena di rancore, di
amarezza sterile e di una penosa disperazione», mentre essa «paraliz­
za l’attività di colui di cui essa si è impadronita e lo distoglie dalla sof­
ferenza salutare, perché è irrazionale», al contrario, la «tristezza che
“genera un ravvedimento che porta a salvezza” (2Cor 7,10) è obbe­
diente, affabile, umile, dolce, piena di soavità e di pazienza, perché pro­
viene dall’amore di Dio. Per desiderio di perfezione, essa si estende
senza stancarsi a tutti i dolori del corpo e alla contrizione dello spiri­
to; gioiosa in qualche modo, e fortificata dal suo progresso, essa con­
serva sempre la propria amabilità e la grandezza d’animo, possedendo
essa stessa tutti i frutti dello Spirito Santo che l’Apostolo enumera: “a­
52 Omelie sulle statue, IV, 5.
53 Consolazioni a Stagira, III, 14.
54Ibid.
” Ibid., 13.
56 Commento a san Giovanni, LXXVIII, 1.
57Lettere, 682.
587
more, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza,
padronanza di sé” {Gal 5,22-23)»58.
Non si tratta per l’uomo solo di affliggersi dei peccati attuali, ma,
lo abbiamo detto, del suo stato di decadenza, di separazione da Dio,
o almeno dell’allontanamento da Dio. È per questo che la tristezza spi­
rituale dev’essere permanente. Dobbiamo «sempre avere il pénthos»,
insegna Abba Pastor59. E un altro Anziano afferma: «Come noi por­
tiamo dovunque l’ombra del nostro corpo, così dobbiamo avere con
noi, in ogni luogo, le lacrime della compunzione»60. San Giovanni Cri­
sostomo afferma la stessa cosa: «È sempre tempo di lacrime»61. San
Giovanni Climaco scrive: «La vera compunzione è un dolore dell’a­
nima che non le permette alcuna distrazione, che non le lascia con­
cedersi alcun riposo, ma che le rappresenta in ogni momento la sua
dissoluzione»62. Inoltre, egli osserva che «il pénthos è il dolore dive­
nuto naturale in un’anima infuocata d’amore»63.
La finalità della tristezza secondo Dio, è quella del raggiungimento
della perfezione64, e ciò che la motiva, è il desiderio di questa perfe­
zione65e della beatitudine futura66. Ora, più l’uomo si avvicina a Dio,
più ha coscienza di esserne lontano67, più egli avanza sulla via della
perfezione, meno ha l’impressione di acquisirla, più è purificato dai
suoi peccati, più si vede peccatore e sente il bisogno di fare penitenza
e piangere i suoi peccati68. La tristezza secondo Dio, dunque, lungi dal
diminuire con il progresso spirituale, al contrario, si accresce come in­
dica san Giovanni Climaco: «L’afflizione è una sofferenza divenuta co­
me naturale a un’anima penitente, che ogni giorno aggiunge dolore a
dolore, come una donna nei dolori del parto»69.
Come tutte le virtù, la tristezza è un dono di Dio70. Come tutte le
58Istituzioni cenobitiche, IX, 11.
59Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 26.
60Apoftegmi, N 140.
61 Omelie sulla lettera agli Ebrei, XV, 4. Cfr. Trattato sulla compunzione, I, 9.
“ LaScala, VII,31.
63 Ibid., VII, 57.
64 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 21.
65 Cfr. G iovanni C assia no , Istituzioni cenobitiche, IX, 10; 11; 13.
66G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX, 10.
67 Vedi per esempio Abba Matoe: «Più un uomo si avvicina a Dio più si scopre peccatore»
(Apoftegmi, serie alfabetica, Matoe, 2).
68Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 14. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 15.
69Ibid., 67.
70 Cfr. G io v a n n i C lim a c o , La Scala, VII, 54. B a s ilio d i C esa rea , Regole brevi, 16. Apof­
tegmi, N 521; N 537. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 7. E frem IL SlRO, Sermone ascetico, éd.
Assemani, 1.1, p. 60.
588
virtù, tuttavia, suppone lo sforzo incessante dell’uomo per assimilare
e conservare questo dono. A differenza della tristezza-passione, essa
non è uno stato che l’uomo subisce passivamente, in alcuni momenti
più che in altri, ma un atteggiamento ascetico che egli deve suscitare
e conservare costantemente con un serio lavorio. In questa sinergia tra
la grazia divina e la volontà umana, è frequente che Dio prenda l’ini­
ziativa; ma, insegna san Basilio, è per stimolare la volontà dell’uomo,
perché «l’anima quando ha gustato la dolcezza di tale tristezza si af­
fretta a nutrirla», o per mostrargli che «se l’anima aveva un po’ più ze­
lo, essa potrebbe sempre essere in questo stato»71. Se in questo caso
l’uomo non può conservarla, ciò è dovuto solo alla sua negligenza72,
e se in modo generale egli non può acquisirla, ciò testimonia solo una
mancanza di attenzione e di sforzo da parte sua73. Ugualmente san Bar-
sanufìo constata che le lacrime non vengono all’uomo «se non con pe­
na, attraverso molta assiduità e resistenza»74. San Callisto e sant’I-
gnazio Xantopulo sottolineano che queste sono il frutto di una lotta75.
San Giovanni Climaco insiste sulla necessità di un esercizio assiduo
per acquisire questa virtù76, ma anche e soprattutto per conservarla77.
Un tale sforzo rimane necessario fintanto che questa non è solidamente
radicata ed è divenuta abituale78.
Per ottenere una compunzione permanente, l’uomo deve innanzi­
tutto avere coscienza incessante dei suoi peccati79. Tale atteggiamen­
to, di cui il salmista offre l’esempio nel dire: «La mia colpa io cono­
sco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» {Sai 51[50],5), costituisce
ciò che i Padri spesso chiamano «il ricordo dei propri peccati». Ecco
perché un Padre consiglia: «Persistiamo nel ricordo dei nostri pecca­
ti e avremo un grande dolore nei nostri cuori»80. Da parte sua, così
scrive san Barsanufio: «È dalla continuità del ricordo che giunge al­
l’uomo la compunzione». Ciò, tuttavia, non significa necessariamente
avere coscienza o ricordo di peccati particolari, ma piuttosto la con­
71Regole brevi, 16.
72 Ibid.
73 Ibid.
74 Lettere, 257.
75 Centuria, 25.
76La Scala, VII, 70.
77 Ibid., 11. Cfr. 22.
78 Ibid., 1.
79 Cfr. B arsanufio , Lettere, 242. G iovanni C risostomo , Omelie sulla penitenza, VE, 4; Trat­
tato sulla compunzione, II, 4. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, IX , 26; 28; 29. CALLISTO e IGNA­
ZIO X an to pu lo , Centuria, 25.
80Apoftegmi, Bu II, 175.
589
sapevolezza di essere peccatori, come precisa san Barsanufio: «Per
ricordo dei peccati io intendo non che ci si ricordi in particolare di
ognuno di essi, nel qual caso l’intrusione dell’avversario produrreb­
be una nuova schiavitù, ma che ci si ricordi solo che siamo indebitati
con il peccato»81. Per ottenere la compunzione, l’uomo deve indub­
biamente accompagnare il ricordo dei suoi peccati con ciò che i Padri
chiamano comunemente condanna di sé82.
Essendo la compunzione un dono di Dio e non imponendo Dio i
suoi doni, l’uomo deve pregare per chiederla e ottenerla83.
Poste queste due condizioni, appare subito che una delle principa­
li fonti della compunzione è il timore di Dio84. San Pietro Damasceno
intitola un capitolo del suo Libro: «Che il timore generi il dolore»85,
e san Giovanni Crisostomo insegna: «Là dove vi è il timore, vi saran­
no lacrime sincere e abbondanti, gemiti pieni di compunzione»86. Lo
stesso autore dice anche: «Quando le lacrime provengono dal timore
di Dio, esse durano sempre»87.
La tristezza secondo Dio è generata anche dal ricordo della mor­
te88, dal pensiero del giudizio futuro89, dall’incertezza della salvezza,
dal timore delle pene dell’infemo90e dalla coscienza del fatto che «co­
lui che non piange su di sé quaggiù dovrà piangere eternamente nel­
l’aldilà»91.
Anche la salmodia e le letture spirituali (specialmente la lettura del­
81 Lettere, 428.
82 Cfr. ibid., 242. GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla compunzione, II, 4.
83 Cfr. I sacco IL S iro , Discorsi ascetici, 85. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 5. E frem IL Sl-
RO, Sermone ascetico, éd. Assemani, 1.1, p. 60. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 73.
84 Cfr. G io v a n n i CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IV, 43. MASSIMO IL CONFESSORE, Di­
scorso ascetico, 27. BARSANUFIO, Lettere, 395; 397. AMMONA, Lettere, II, 1. ISACCO IL SlRO, Di­
scorsi ascetici, 37. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 23. GRE­
GORIO PALAMAS, Triadi, II, 6,16.
85Libro, 1,14.
86 Omelie sulle statue, XV, 1.
87 Omelie sulla lettera ai Filippesi, IH, 4.
88 Cfr. B arsanufio , Lettere, 242. C allisto e Ig n a zio X a n to pu lo , Centuria, 25.
89 Cfr. B ar san ufio , Lettere, 242; 257; 428. GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, IX , 29. GIO­
VANNI C lim aco , La Scala, VE, 12. Apoftegmi, serie alfabetica, Evagrio P ontico, 1. SlMEONE IL
NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, H I, 23.
90 Cfr. B ar sa n u fio , Lettere, 257; 428. G io v ann i C lim ac o , La Scala, VII, 12. M assim o il
CONFESSORE, Discorso ascetico, 27. Apoftegmi, serie alfabetica, Evagrio, 1. GREGORIO DI NlSSA,
Omelie sulle beatitudini, III, 2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla compunzione, 1,10; E, 4.
G io v a n n i C a ssia n o , Conferenze, IX, 29. S im e o n e il N u o v o T e o l o g o , Capitoli teologici,
gnostici e pratici, IH, 23. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 25.
91Apoftegmi, serie alfabetica, Arsenio, 41.
590
le Vite dei santi)92, praticate con attenzione e raccoglimento, la favori­
scono93. Così come la suscitano la manifestazione dei pensieri e gli
incontri con persone spirituali progredite94.
Anche la povertà materiale95, la solitudine, il silenzio (essendo que­
ste due ultime nozioni generalmente riassunte con il termine hésychia)96
contribuiscono alla sua acquisizione e alla sua conservazione.
Mentre la tristezza-passione indebolisce l’uomo, lo rode, distrug­
ge la sua vita interiore, e, come dice san Paolo in una parola, «genera
la morte» (2Cor 7,10), la tristezza virtuosa non ha affatto questi ef­
fetti. «Vi siete rattristati secondo Dio per non venire puniti» precisa
san Paolo (2Cor 7,9). «La tristezza secondo Dio non se la prende
con l’uomo» fa notare Abba Isaia97; essa non suscita nell’uomo ango­
scia e non lo deprime. Al contrario, costituisce per lui un motore es­
senziale e indispensabile per la sua vita spirituale. È con questo scopo
che Dio l’ha posta nella natura dell’uomo. «Dio ha voluto che la tri­
stezza fosse una delle passioni [naturali] dell’uomo affinché egli ne
traesse preziosi vantaggi», scrive san Giovanni Crisostomo98. E un An­
ziano non esita ad affermare: «Dal dolore proviene ogni bene»99.
La tristezza è per l’uomo, prima di tutto, una via essenziale al pen­
timento che gli permette di ottenere da Dio il perdono dei propri pec­
cati e la guarigione dalle passioni. Per ciò stesso essa è la condizione
della sua salvezza. Ecco cosa afferma un Anziano: «Per essere salva­
ti, occorre conservare il dolore con una compunzione senza misura»100,
e Abba Poemen dice ancora più categoricamente: «Piangere è la via
che ci indicano la Scrittura e i Padri quando dicono: “Piangete!”. In­
fatti, non vi è altra via che questa»101. La stessa cosa afferma san Si­
92 Cfr. Apoftegmi, N 553.
93 Cfr. BARSANUHO, Lettere, 482. DlADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 73. GIOVANNI
CASSIANO, Conferenze, IX, 26.
94 Cfr. GIOVANNI C a ssia no , Conferenze, IX, 26. Apoftegmi, PE II, 32. Numerosi apofteg­
mi lo sottolineano, dicendo di colui che manifesta i suoi pensieri ad un Anziano o riceve da lui
un insegnamento: «Egli fu toccato dalla compunzione».
95 Cfr. Apoftegmi, N 588; N 592/10; N 592/63.
96 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VE, 68. A m m o n a , Istruzioni, IV, 60. Apoftegmi, Bu II,
175; N 588; N 560.
97Asceticon, XVI, 42.
98 Consolazioni a Stagira, HI, 13.
99Apoftegmi, QRT 33.
100Apoftegmi, N 460.
101Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 121.
591
meone il Nuovo Teologo: «Sopprimi le lacrime: tu hai nello stesso mo­
mento soppresso la purificazione; e senza purificazione non vi è nes­
suno che si salvi»102. Tutto ciò è in linea con l’insegnamento di san Pao­
lo, quando afferma: «Godo per la vostra tristezza perché vi siete rat­
tristati per convertirvi [...]. La tristezza secondo Dio genera ravve­
dimento che porta a salvezza» (2Cor 7,9-10). Anche san Simeone il
Nuovo Teologo non esita ad affermare: «Prima del dolore e delle la­
crime, non vi è in noi che pentimento»103, mentre Abba Poemen vi ve­
de il solo mezzo per essere liberati dal peccato104. San Giovanni Cri­
sostomo continua a sottolineare il potere purificatore del pénthos: «Tu
hai peccato? Sta’ nel dolore e il peccato scomparirà», perché «il pénthos
cancella il peccato»105. «La tristezza che ha il peccato come soggetto
purifica da questo peccato»106. «Se ci si rattrista dopo aver peccato, il
peccato scompare, la colpa è riparata»107. Lo stesso autore indica che
questa è la finalità vera e principale della tristezza, ed è per questo che
Dio l’ha donata all’uomo: «Essa non ha altra forza se non quella di di­
struggere il peccato cancellandolo; Dio non l’ha creata per alcun altro
fine»108. Considerandola esplicitamente come rimedio, egli dimostra
che questo non potrà essere efficace se non di fronte al peccato, al qua­
le esso sembra specificamente adatto: «I medicamenti sono stati fatti
in vista di malattie che possono guarire, e non per quelle che essi non
possono affatto curare [...]. Applichiamo alla tristezza ciò che ora è
stato detto, e troveremo che questa non ha alcun effetto sui diversi
infortuni della vita, e che il solo male da cui essa possa guarirci, è il
peccato. E certo, dunque, che essa è destinata unicamente a liberar­
cene»109. Quanto a Evagrio, egli, secondo la stessa prospettiva medi­
ca, considera le lacrime che versiamo piangendo i nostri peccati come
«l’antidoto alle passioni»110. «Nulla distrugge le passioni come il do­
lore», afferma nello stesso senso sant’Isacco il Siro111. E sant’Ammo-
na insegna più in generale: «Il pénthos in modo imperturbabile scac­
cia tutti i peccati»112. Così anche san Giovanni Climaco: «Le lacrime
102 Catechesi, XXIX, 251-152.
103 Capitoli teologici’ gnostici e pratici, DI, 23.
104 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 121. Vedi anche Apoftegmi, IH, 22.
105 Omelie sulla penitenza, E, 3.
106 Omelie sulle statue, XVEI, 3. Cfr. VE, 1.
107Ibid., V, 4.
m Ibid.
m Ibid.
110La preghiera, 8.
111 Discorsi ascetici, 2.
112Istruzioni spirituali, IV, 14.
592
vere distruggono tutte le impurità visibili o nascoste»113. Così possia­
mo dire con sant’Isacco che «è attraverso il dolore che si giunge alla
purezza dell’anima»114.
Le lacrime hanno un tale potere di purificazione e di guarigione che
i Padri non esitano a considerarle come l’acqua di un nuovo battesi­
mo che cancella le colpe commesse dopo il primo e permettono di re­
cuperare la grazia115 battesimale. A questo proposito san Simeone
così scrive: «Senza lacrime, non si è proprio mai sentito dire che un’a­
nima sia stata purificata dalle sozzure del peccato quando essa ha pec­
cato dopo il battesimo»116. Per questo san Giovanni Climaco osa af­
fermare: «È più grande dello stesso battesimo questa fonte di lacri­
me che zampilla dopo il battesimo [...]. Il battesimo, infatti, ci purifica
dai peccati che lo hanno preceduto, mentre le lacrime cancellano tut­
te le colpe che commettiamo in seguito. Visto che tutti noi riceviamo
il battesimo nell’infanzia, noi lo sporchiamo in seguito; ma per mezzo
delle lacrime, noi lo rinnoviamo nella sua purezza originale»117.
Ecco perché le lacrime contribuiscono ampiamente a condurre l’uo­
mo all’impassibilità118. Sant’Isacco a questo proposito così scrive: «Non
è possibile che un uomo afflitto continuamente nel dolore sia turba­
to dalle passioni. Vivere nel dolore e piangere sono il carisma stesso
degli impassibili. Se le lacrime non solo possono condurre all’impas­
sibilità colui che momentaneamente vive nel dolore e piange, ma pos­
sono anche purificare la sua intelligenza e liberarla dal ricordo delle
passioni, cosa dire di coloro che notte e giorno si dedicano coscien­
temente a quest’opera?»119. L’uomo allora conosce la pace dei pen­
sieri, la pace vera e perfetta dell’anima120, che da questo punto di vista
possiamo considerare un effetto del pénthos121. E la purezza del cuo­
re e dell’intelligenza come questa pace dei pensieri, acquisite attraverso
il dolore, la compunzione e le lacrime, gli aprono le porte della con­
115La Scala, VII, 35. Cfr. ibid., 37; XXVI, 151.
114Discorsi ascetici, 85.
1,5 Cfr. G regorio N azianzeno , Discorsi, XXXIX, 17; XL, 8-9. I sacco IL S iro , Discorsi asce­
tici, 72. G iovanni D am asceno , Esposizione esatta della fede ortodossa, IV, 9. TEODORO STUDI-
TA, Grandi catechesi, 27. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI,
45; Catechesi, XXXII. NlCETA STETATOS, Vita di Simeone il Nuovo Teologo, 90.
116Catechesi, XXIX, 191-192.
w La Scala, VU, 8.
118Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VII, 37. Cfr. 58.
119Discorsi ascetici, 85.
120Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
121 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 9; 15.
593
templazione dei misteri e della conoscenza vera di Dio122, secondo la
promessa stessa del Cristo: «Beati gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio» (Mt 5,9); «Beati i puri di cuore, perché vedran­
no Dio» (Mt 5,8). Ecco perché parlando del dolore e delle lacrime,
sant’Isacco il Siro precisa: «Tutti i santi cercano di entrare da lì»123.
Per l’uomo, la purificazione dai peccati e dalle passioni non è l’u­
nico vantaggio che deriva dalla tristezza secondo Dio. Quest’ultima
contribuisce, inoltre, ad accrescere il timore e il desiderio di Dio e ren­
de zelante l’uomo nella sua vita spirituale, come dice l’Apostolo: «Ve­
dete, invece, quella tristezza secondo Dio quanta sollecitudine! [...]
Quali scuse, quanta indignazione, quale desiderio, quale affetto, qua­
le punizione» (2Cor 7,11). «Nulla ci risveglia alla spiritualità e ci fa vi­
vere in questo stato, come il dolore», afferma, sulla scia dell’Aposto­
lo, sant’Isacco il Siro124. In altri termini, questa virtù libera l’anima dal­
l’insensibilità, dall’aridità e dalla durezza che il peccato le aveva fatto
contrarre125. Essa aiuta l’uomo ad essere costantemente vigile126. Do­
vendo sempre accompagnare la preghiera127, essa la favorisce128e con­
tribuisce a renderla feconda. Evagrio così consiglia a tale proposito:
«All’inizio della preghiera, spingi la tua anima a versare lacrime e al­
la compunzione, affinché tutta la tua preghiera divenga fruttuosa»129;
e ancora: «Usa le lacrime per riuscire in tutte le tue richieste, perché
il tuo Signore si compiace molto nel ricevere una preghiera fatta nel­
le lacrime»130. E sant’Isacco vede nelle lacrime un compimento della
preghiera131, nonché un segno che la preghiera è già stata esaudita132.
Legata profondamente all’umiltà, suscitata da essa, la compunzione
ne è anche una fonte essenziale133, e persino, dice san Simeone il Nuo­
vo Teologo, la condizione sine qua non134. Essa è, infatti, una via d’ac­
122Cfr. ibid., 85.
123 Ibid.
124Ibid., 2.
125 Cfr. E vagrio P o n tic o , La preghiera, 5. Sim eone IL N u ovo T e o lo g o , Capitoli teologi­
ci, gnostici e pratici, IH, 23.
126G iovanni C limaco , La Scala, VII, 2.
127Vedi per esempio EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 6; Sui diversi pensieri della malvagità,
éd. Muyldermans, 35; A una vergine, 25. ISACCO IL SlRO Discorsi ascetici, 85.
128Vedi per esempio GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXVIII, 14.
129E vagrio P ontico , Parenetica, éd. Frankenberg, p. 60.
130La preghiera, 6.
131 Discorsi ascetici, 34.
U2Ibid., 33.
133Cfr. ibid, 37. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VII, 10.
134 Capitoli teologici, gnostici e pratici, m , 23.
594
cesso a tutte le virtù e permette di svilupparle tutte135. Abba Mosè co­
sì insegna a questo riguardo: «Per mezzo delle lacrime si acquistano
le virtù come per mezzo delle lacrime si ottiene il perdono dei pecca­
ti»136. E sant’Antonio: «Chi vuole progredire nell’edificazione delle
virtù, progredirà per mezzo dei pianti e delle lacrime»137. Abba Poe-
men considera la tristezza come «la sola via» per fare questo138, come
sant’Isacco quando scrive: «L’anima che ha ricevuto la preoccupa­
zione della virtù [...] non può rimanere un giorno senza tristezza. In­
fatti le virtù sono legate alle afflizioni. Colui che si libera dalle affli­
zioni inevitabilmente si separa dalla virtù»139.
In realtà, un effetto caratteristico della tristezza secondo Dio è la sua
dolcezza consolatrice, che paradossalmente toglie al dolore e all’affli­
zione il loro carattere di sofferenza, e appare come un segno manifesto
dell’aiuto divino e della presenza della grazia nell’anima. Per questo
san Giovanni Crisostomo fa notare: «Il frutto [dei] gemiti è grande,
grande è la loro dolcezza persuasiva e consolante [...]. Infatti, i conti­
nui gemiti producono la consolazione»140. E san Giovanni Climaco scri­
ve: «L’abisso dell’afflizione vede la consolazione [...]. L’aiuto divino è
un rinnovamento dell’anima abbattuta dal dispiacere, che, in modo me­
raviglioso, rende indolore le lacrime dolorose»141. Ciò concorda natu­
ralmente con l’insegnamento del Cristo: «Beati quelli che piangono
perché saranno consolati» (Mi 5,4), il Cristo che già aveva detto per la
bocca del profeta Isaia: «Il Signore mi unse, mi inviò [...] a fasciare
quelli dal cuore spezzato [...], per consolare tutti gli afflitti [...], per da­
re loro [...] olio di letizia invece di un abito di lutto» (Is 61,1-3).
In effetti, non è solo la consolazione che Dio concede all’uomo af­
flitto, bensì anche la gioia spirituale, che è l’effetto più caratteristico
del dolore, della compunzione e delle lacrime142, come indica lo stes­
so Cristo: «Voi piangerete e gemerete [...], vi rattristerete, ma la vostra
tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Così i Padri spesso chiama­
no la tristezza secondo Dio, paradossalmente, «tristezza gioiosa»143.
135 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 12.
136Apoftegmi, DI, 22.
137 Vita dei Padri, VH, 38, PL 73,1055C.
138Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 12.
139Discorsi ascetici, 37.
140 Omelia sui santi martiri, 3.
141 La Scala, VE, 60.
142 Cfr. AMMONA, Lettere, E , 1.
143 G iovanni C limaco , La Scala, VII, 11. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IX,
11; Conferenze, V, 23, «tristezza piena di vera gioia».
595
Abba Isaia molto semplicemente afferma: «La tristezza secondo Dio
è gioia»144. San Giovanni Climaco, che non esita a intitolare il Grado
VII della sua Scala: «Dell’afflizione (pénthos) che produce gioia», sot­
tolinea il paradosso: «Quando considero la natura della compunzio­
ne, sono colpito da stupore: come ciò che chiamiamo afflizione e tri­
stezza può contenere nascosta, nel suo seno, tanta gioia e allegria?»145.
E arriva a constatare che «colui che avanza in ima continua afflizio­
ne secondo Dio trascorre ogni giorno della sua vita in una festa spiri­
tuale»146. San Giovanni Cassiano nota la stessa cosa: «Spesso, è con
una gioia ineffabile e con trasporti spirituali che si rivela la presenza
salutare della compunzione; poiché l’immensità stessa della gioia la
rende intollerabile, essa scoppia in grandi grida che portano fino alla
cella vicina la notizia della nostra felicità e della nostra ebbrezza»147.
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo constata: «La tristezza che ha
il peccato come soggetto [...] ci procura una grande gioia»148; «la tri­
stezza secondo Dio genera solo piacere e gioia. Lo sanno bene le ani­
me che pregano con dolore, e che versano le lacrime di penitenza. Da
quale gioia sono inondate!»149. Altrove, egli precisa che il Cristo «pro­
clama beati coloro che piangono non quelli che lo fanno per qualche
ragione umana [...], ma quelli che hanno la compunzione cristiana»,
e fa notare che la gioia che san Paolo raccomanda quando scrive: «Sia­
te sempre allegri» (Ftl 4,4), «lungi dall’essere contraria a queste lacri­
me, si genera alla loro fonte pura e feconda. Piangere le proprie mi­
serie vere, e confessarle, vuol dire crearsi gioia e felicità»150.
Il fatto che la tristezza produca la gioia e la possibilità paradossale
per questi due stati di coesistere nell’anima, possono spiegarsi in mol­
ti modi.
Occorre, innanzitutto, notare allora che non è per la stessa ragio­
ne che l’uomo si affligge e gioisce. «E possibile, fa notare san Giovanni
Crisostomo, essere nel lutto per i propri peccati ed essere nella gioia
a causa del Cristo»151.
144Asceticon, XVI, 42.
145La Scala, V E , 54.
146Ibid., 41.
147 Conferenze, IX, 27. Cfr. 28.
148 Omelie sulle statue, X V H 3,3.
149Ibid. Cfr. Omelie sui santi martiri, 3.
150 Omelie sulla lettera ai Filippesi, XTV, 1. Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talas-
sio, 58.
151Loc. cit.
596
Occorre notare, inoltre, che rattristandosi spiritualmente, l’uomo
compie la volontà di Dio, e che ciò è già una causa di gioia152.
Un’altra ragione è che, al contrario della tristezza-passione che ge­
nera la disperazione, la tristezza secondo Dio si accompagna alla spe­
ranza. Nello stesso tempo in cui l’uomo si affligge per i propri pec­
cati e per i propri mali spirituali, manifesta la sua speranza di riceve­
re da Dio perdono e guarigione. È questa, come afferma san Nilo, una
delle fonti della gioia che avverte colui che si rattrista: «Il lamento
sui peccati comporta una tristezza molto dolce e un’amarezza simile
al miele, perché è condita con una speranza buona ed eccellente. È
per questo che essa nutre il corpo e fa brillare di gioia il fondo del­
l’anima»153. San Gregorio di Nissa osserva la stessa cosa: «Come non
chiamare beata [la tristezza secondo Dio], quando questa riconosce il
male e piange una vita peccaminosa? In un membro necrotizzato a
causa di un incidente, la paralisi è il segno che una parte del corpo sta
morendo. Se l’arte del medico riesce a restituire a questo membro la
sensibilità, medico e malato gioiscono insieme, anche se si tratta di una
sensazione di dolore, perché si può intravedere la guarigione»154.
Occorre aggiungere, più profondamente, che più l’uomo si rattri­
sta del suo peccato e si umilia davanti a Dio, più si apre e fa spazio
in sé alla grazia divina che gli comunica lo Spirito Santo, il Consola­
tore (cfr. 2Ts 2,16), la fonte di ogni gioia (cfr. Gal5,22).
La gioia dello spirito che l’uomo sente non è affatto paragonabile a
quella che può sentire per ragioni mondane, ed essa si sostituisce
nell’anima al piacere legato alle passioni. Si tratta in questo, lo sotto­
lineano i Padri, della «vera gioia»155, di una gioia divina, della gioia nel
Signore (cfr. Sai 33 [32] ,21; Ftl 4,4), che è un attributo della grazia stes­
sa156, che procura all’uomo la gioia adatta alla sua natura, che corri­
sponde allo stato di salute del suo essere nella sua condizione natu­
rale, e che è il segno che l’uomo è ritornato ad essere la dimora di Dio,
il luogo dove operano le sue energie deificanti.
Occorre ricordare che la tristezza e le lacrime non lasciano l’uomo
quando egli raggiunge la perfezione. Il carisma delle lacrime appare
persino, lo abbiamo detto, come un segno di questa perfezione. Così
scrive a questo proposito sant’Isacco il Siro: «E nell’afflizione e nella
152Cfr. I saia d i S cete , Asceticon, XVI, 42.
Lettere, 1 ,220, P G 79,164. Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulle statue, XVHI, 3.
154 Omelie sulle Beatitudini, IH, 2. Cfr. ISAIA DI SCETE, Asceticon, X V I, 22.
155Vedi per esempio GIOVANNI CASSIANO, Conferenze, V, 23.
156Notiamo che i termini greci ehara e chàris hanno la stessa radice.
597
sofferenza che tutti i santi hanno lasciato questa vita [...]. Beati i cuo­
ri puri, perché non c’è tempo in cui essi non godano di queste deli­
zie delle lacrime, e in tali delizie essi vedono sempre il Signore. Men­
tre le lacrime sono ancora nei loro occhi, è concesso loro di vedere le
rivelazioni di Dio nelle altezze della loro preghiera»157.
Ciò è dovuto al fatto che, come dice altrove sant’Isacco, «la perfe­
zione degli stessi perfetti è imperfetta»158. È solo dopo la risurrezione
che una perfezione totale sarà concessa da Dio all’uomo, e potranno
infine cessare tristezza, gemiti e pianti (cfr. Is 35,10; Ap 7,17; 21,4), per­
ché è solo allora che il peccato, che è la ragione della sofferenza, del­
la compunzione e delle lacrime, sarà definitivamente distrutto159.
Tuttavia, solo ai santi, che conoscono la gioia che procede dal do­
lore, è concesso di fare anche l’esperienza di una gioia che non è le­
gata ad esso e che è primizia della beatitudine del secolo futuro160. Inol­
tre, è dato a coloro che possiedono il carisma delle lacrime di com­
punzione, e con questo hanno raggiunto la purezza, di conoscere un
altro genere di lacrime, che sono l’espressione di questa gioia pura, e
che sono legate alla contemplazione dei misteri divini161. Questa gioia
e queste lacrime beatifiche, però, non sono date loro continuamente
e non sostituiscono mai definitivamente le altre.
Perciò, per tutti, il dolore e la compunzione restano essenziali in
questa vita: sant’Isacco lo sottolinea a lungo e con forza162e san Gio­
vanni Climaco scrive: «Quando la nostra anima lascerà questo mon­
do, noi non dovremo rispondere per non aver operato miracoli, per
non essere stati teologi, né di non aver raggiunto la contemplazione,
ma dovremo inevitabilmente rendere conto a Dio per non avere inin­
terrottamente praticato il pénthos»16\
In precedenza, abbiamo ricordato soprattutto la tristezza che con­
siste per l’uomo nel piangere per i propri peccati. Questo non deve
farci dimenticare che c’è una seconda forma di tristezza, che consiste
nell’affliggersi per i peccati del prossimo.
157Discorsi ascetici, 85.
158Ibid., 55.
159Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VII, 50. N iceta Stetatos, Vita di Simeone il Nuovo
Teologo, 69-70.
160 Sulle due qualità di gioia, vedi per esempio DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnosti­
ci, 60.
161 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, IX, 29.
162Discorsi ascetici, 85.
163La Scala, VII, 79.
598
Questa seconda manifestazione della tristezza è molto importante.
San Clemente di Roma osserva che è proprio della condotta normale
del cristiano piangere sui peccati del prossimo e fare proprie le sue de­
bolezze164. E san Teodoro Studita fa notare che da veri discepoli del
Cristo, che si è dimostrato compassionevole verso tutti gli uomini, «noi
non dobbiamo occuparci solo di noi stessi, ma anche affliggerci e pre­
gare per il mondo intero»165.
Questa seconda forma di tristezza deriva in parte dalla prima. La
compunzione, infatti, porta l’uomo a piangere per i peccati del suo pros­
simo quanto piange per i suoi166, tanto più che essa gli dà la capacità
di percepire in sé tutta l’estensione della miseria dell’umanità deca­
duta e separata da Dio167. Il santo penitente, piangendo su di sé, pian­
ge sull’umanità, non solo perché si sente colpevole davanti a tutti, per
tutti e per tutto, ma anche perché, nella sua grande compassione, si
pone al posto di ogni uomo peccatore, ne prova tutti i mali e li pren­
de su di sé.
I vantaggi spirituali che questa afflizione compassionevole procu­
ra all’uomo, sono analoghi a quelli che egli riceve da Dio praticando
la compunzione. «Il vero cristiano s’affligge per la caduta dei fratelli,
e questa tristezza gli accorda le grazie e l’amicizia del Signore», osser­
va san Giovanni Crisostomo168.
Essa gli consente, altresì, di ricevere il perdono dei propri peccati
e di essere guarito dalle proprie passioni. A questo riguardo san Ba­
silio consiglia: «Occorre che noi piangiamo con quelli che piangono;
quando vedrai tuo fratello gemere per i peccati che egli ha commes­
so, piangi con lui. E così ti correggerai vedendo le colpe altrui; infat­
ti colui che versa lacrime sui peccati altrui guarisce se stesso pian­
gendo per suo fratello»169.
La compassione stimola, inoltre, la vita spirituale e favorisce l’ac­
quisto delle virtù170. E per mezzo di essa anche l’uomo riceve da Dio
la consolazione e la gioia spirituali171.
Se i Padri, tuttavia, non si prolungano sui suoi effetti, è perché que­

164Lettera ai Corinzi, II, 6.


165Piccole catechesi, éd. Auvray, p. 25.
166Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, IV, 42.
167Cfr. TEODORO S tudita , Piccole catechesi, éd. Auvray, p. 25.
168 Omelie sulle statue, XVD3,2.
169 Omelie sulla santa martire Giulitta, 9.
170Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XVm, 3.
171Ibid.
599
sti sono identici a una parte di quelli che genera la carità, essendo la
tristezza provata per le colpe altrui molto vicina alla compassione e
poiché essa deriva per gran parte dalla compassione172che è una for­
ma della carità. Ci si consenta, dunque, per il resto, di rinviare a ciò
che sarà detto ulteriormente su questa virtù.

172 Cfr. P ietro D am asceno , Libro, I. G iovanni C risostom o , Omelie sulla lettera ai Filippe-
sì, ni, 4.

600
V
TERAPIA DELL’ACEDIA

Descrivendo la passione dell’acedia, abbiamo visto che essa ha la


peculiarità di coinvolgere tutte le facoltà dell’anima e di mettere in mo­
to quasi tutte le passioni; questo significa, di conseguenza, la morte di
tutte le virtù. Così, a differenza delle altre passioni, l’acedià non può
essere guarita né sostituita da una virtù che le sarebbe specificamen­
te opposta. «Tutte le altre passioni possono essere distrutte da una de­
terminata virtù, ma l’acedia [...] è una morte che chiude [l’uomo] da
ogni parte», insegna san Giovanni Climaco1. Questa peculiarità ne­
cessita 3Funa terapia multiforme, come sottolinea san Giovanni Cas-
siano: colui «che vuole condurre secondo le regole la lotta per la per­
fezione deve [...] combattere su.tutti i fronti questo spirito pernicioso
dell’acedia»2.
La terapia suppone che il male sia stato messo alloscoperto e sia
stato individuato come tale, perché questa passione ha Ìa caratteristi­
ca di essereìmmotivata, quindi, di essere spesso inconscia o incom­
prensibile. Ciò è tanto più vero in quanto uno dei suoi principali ef-
fetti è quello di accecare lo spirito e di rendere l’anima completamente
oscura., Per questo san Giovanni Cassiano scrive persino che colui che
vuole combattere in modo appropriato «deve affrettarsi ad estirpare
questa malattia dal segreto della sua anima»3. E Abba Poemen, da par­
te sua, osserva che «seTuomo la riconosce per quello che essa è, egli
ottiene la pace»4.
Poiché, da un lato, la passione si manifesta, soprattutto per i soli-
1La Scala, XIII, 9.
2Istituzioni cenobitiche, X, 5.
3Ibid.
4Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 157.
601
tari, nel bisogno di lasciare la propria cella, di spostarsi, di entrare in
contatto con gli altri, si tratta innanzitutto di riconoscere che le giu­
stificazioni di questo bisogno che l’uomo si rappresenta non sono che
vani pretesti dettati dalla passione stessa. Ciò l’aiuterà a non cedere a
questo bisogno. I Padri, infatti, unanimemente raccomandano, quan­
do si presenta la passione sotto questa forma, di combattere per resi­
sterle, sforzandosi prima d’ogni cosa di non lasciare per nessun mo-
tivo il luogo in cui ci si trova. «Non bisogna",lcrr7e"Evagrio, lasciare
la cerni nell’ora delle tentazioni, per quanto possano essere plausibili
i pretesti che ci si fabbrica, ma occorre rimanere seduti all’interno, es­
sere pazienti, e accogliere coraggiosamente gli assalitori, tutti, ma so­
prattutto il demone dell’acedia «Quando lo spirito dell’acedia
ti assale, non lasciare la casa e non schivare la lotta [...]», consiglia an­
cora6. Anche san Giovanni Cassiano osserva che l’uomo deve com­
battere lo spirito dell’acedia in modo tale che «non si lasci scacciare
come un fuggiasco dal recinto del suo romitaggio con un qualsiasi pio
pretesto»7.
Quando l’acedia si manifesta sotto forma di una tendenza all’asso­
pimento, è opportuno ugualmente resisterle sforzandosi di non ce­
dere al torpore o al sonno8. In ogni caso, sottolinea san Giovanni Cas­
siano, «l’esperienza prova che non si sfugge alla tentazione dell’acedia
fuggendo, ma occorre superarla resistendole»9.
Cedere all’acedia sarebbe in ogni caso una cattiva soluzione che non
farebbe altro che accrescere il male. «Assalita dal [le] astuzie del ne­
mico, l’anima infelice oppressa dallo spirito dell’acedia [...] è portata
sia a cedere al sonno, sia a lasciare i confini della sua cella e a cercare
nella visita di un fratello un rimedio alla tentazione. Ma il rimedio che
in quel momento l’anima usa la renderà ancora più malata poco do­
po. Infatti, l’avversario attaccherà più violentemente colui che sa già
che volterà le spalle subito dopo aver ingaggiato la lotta, e che egli ve­
de sperare la salvezza non dalla vittoria o dalla lotta, ma dalla fuga»,
osserva san Giovanni Cassiano10. Questi, altrove, dice di coloro che
l’acedia attacca: «Se essi si concedono la libertà di uscire troppo spes­
so, susciteranno contro di sé un flagello più terribile, proprio laddove
5 Trattato pratico sulla vita monastica, 28.
6Ai monaci, 55, éd. Gressmann, p. 157.
7Istituzioni cenobitiche, X, 5. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 57. NlL SORSKY, Regola, V.
8 Cfr. G iovanni C assiano, loc. cit., X, 3; 5.
9 Ibid., X, 25.
10Ibid., 3.
602
essi pensano di trovare un rimedio. Così alcuni malati s’immaginano
di spegnere gli ardori della febbre prendendo dell’acqua fresca. Ma
è evidente che questa riaccende il fuoco interiore piuttosto che spe­
gnerlo; il sollievo di un istante sarà seguito da un dolore più vivo»11.
Come la causa dell’acedia è all’interno dell’uomo e non nella sua
condizione di eremita, così il principio della guarigione di questa
malattia è da ricercare nel rapporto dell’uomo con se stesso e non
nei suoi rapporti con gli altri, essendo l’impressione di poter ricevere
un aiuto dagli altri, nella maggior parte dei casi, fallace. Sant’Isacco
il Siro così scrive a questo proposito: «La salute e la guarigione del­
l’uomo, la cui anima è ottenebrata, gli vengono òaH'hésychta12. E qui
la sua consolazione. Nessuno riceve mai nel rapporto con gli uomini
la luce della consolazione, né viene mai guarito dalle relazioni che in­
trattiene con essi. L’acectia non lo lascia che per un solo momento per
assalirlo poi con più violenza. Beato colui che sopporta tali tentazioni
rimanendo nella sua cella»13.
Certo, i Padri ammettono che in alcuni casi «è del tutto necessa­
rio incontrare un uomo illuminato che ha esperienza di queste cose,
per ricevere da lui la luce e la forza»14. Ma questo non può essere
che un’eccezione15. Così Nil Sorsky lo consiglia solo con molte riser­
ve: «Talvolta si ha bisogno, come dice san Basilio Magno16, di entrare
in contatto e in conversazione con un uomo esperto ed edificante, per­
ché una visita al momento giusto e con buone intenzioni, una con­
versazione moderata con quest’uomo senza futilità né chiacchiere, non
solo possono scacciare dall’anima l’acedia nascosta in essa, ma pro­
curargli anche un certo sollievo e ridargli forza e zelo per il combat­
timento successivo [...]. Tuttavia i Padri, dopo aver riflettuto sulla co­
sa, alla luce della loro esperienza, dicono che, al momento della ten­
tazione, è meglio rimanere nella propria cella, senza separarsi dal-
l’hésychta»17. E nella lotta solitaria e nel resistere alla passione che l’uo­
mo trova maggior profitto18, perché attraverso questo combattimento
la sua anima è messa alla prova e fortificata. Per questo Evagrio seri-
11 Conferenze, XXIV, 5.
12 Ricordiamo che il termine greco esychta significa sia silenzio, sia calma (esteriore e inte­
riore) o solitudine.
1} Discorsi ascetici, 57.
14Ibid. Cfr. BASILIO di C esarea, Costituzioni monastiche, VE, 2, PG 31,1368A.
15 Cfr. I sacco il S iro , loc. tit.
16Costituzioni monastiche, VII, 2.
17Regola, V.
18Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 57.
603
ve: «Quando lo spirito deU’acedia ti assale, non lasciare la tua casa, e
non schivare, al momento opportuno, la lotta proficua, perché, co­
me si purifica l’argento, così il tuo cuore sarà reso brillante»19; e ag­
giunge: «Non bisogna abbandonare la cella nell’ora della tentazione
[...], ma accogliere coraggiosamente gli assalitori, tutti, ma soprattut­
to il demone dell’acedia che, in quanto è il più pesante di tutti, mette
l’anima alla prova al massimo grado»20. Dal canto suo, così osserva
sant’Isacco: «Beato colui che sopporta tali tentazioni rimanendo nel­
la sua cella, perché, come dicono i Padri, grandi saranno la stabilità
e la potenza alle quali dopo questo egli giungerà»21.
Tuttavia, la resistenza alla passione non dà mai un frutto immedia­
to. La vittoria sull’acedia suppone quasi sempre una lotta lunga e as­
sidua22. Per questo la terapia esige innanzitutto che si dia prova di pa­
zienza e di perseveranza. La virtù della pazienza appare persino come
uno dei principali rimedi a questa passione23. «L’acedia è repressa dal­
la pazienza (ypomone)», scrive Evagrio24. E san Massimo sottolinea
che questa terapia ci è stata data dallo stesso Cristo: «L’acedia, che
coinvolge tutte le potenze dell’anima, mette in moto contempora­
neamente quasi tutte le passioni; ed è perciò che, fra tutte, è quella più
temibile. Preziosa, dunque, la parola del Maestro che gli oppone il ri­
medio: “Con la vostra pazienza salverete le vostre anime” (Le 21,19)»25.
La speranza appare come un altro rimedio fondamentale che deve
essere unito alla pazienza26. Un uomo «pieno di speranza è l’assassino
dell’acedia, che egli respinge armato di questa spada», afferma san Gio­
vanni Climaco27. Evagrio, a questo proposito, consiglia quanto se­
gue: «Quando ci scontriamo con il demone dell’acedia, [...] semi­
nando in noi buone speranze, con Davide pronunciamo questo in­
cantesimo: “Perché ti abbatti, anima mia, e fremi dentro di me? Spe­
ra in Dio, perché ancora potrò lodarlo, salvezza del mio volto e mio
19Ai monaci, 55, éd. Gressmann, p. 157.
20 Trattato pratico sulla vita monastica, 28.
21 Discorsi ascetici, 57.
22 Cfr. ibid.
23 Cfr. M acario d ’E g itto , Capitoli parafrasati, 129. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXVII,
84. BARSANUFIO, Lettere, 13. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, XII, 133. NlL SORSKY, Re­
gola, V.
24Ai monaci, PG 79, 1236A. Cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 28.
25 Centurie sulla carità, I, 67.
26 Cfr. M acario d ’E g itto , Capitoli parafrasati, 129. G iovanni C lim aco, La Scala, XXVII,
84. N il SORSKY, Regola, V.
27 La Scala, XXX, 34.
604
Dio” (Sai 42[41],6)»28. La speranza da praticare non è solo quella di
essere in un tempo più o meno lungo liberato dalla passione e di ot­
tenere sollievo29, mavanche quella dei beni futuri la quale, osserva
san Giovanni Climaco, costituisce il giudizio su questa passione30che
«annienta completamente»31.
Un terzo rimedio essenziale è il pentimento, il dolore e la compun­
zione. Se l’uomo «si ricorda dei suoi peccati, Dio è il suo aiuto in tut­
to ed egli non soffre più l’acedia», insegna un Anziano32. «Questo ti­
ranno sia soggiogato dal ricordo dei peccati», consiglia da parte sua
san Giovanni Climaco33, che aggiunge: «Colui che piange su se stes­
so non conosce l’acedia»34. Le lacrime che seguono il pentimento e
la sofferenza spirituale appaiono evidentemente come un rimedio an­
cora più potente. «L’acedia è repressa dalle lacrime», osserva Evagrio35,
il quale scrive anche: «Versare lacrime è un grande rimedio contro le
visioni della notte generate daU’acedia. Ora, questo rimedio, egli lo ap­
plicava saggiamente alle sue passioni dicendo: “A causa del mio ge­
mere io sono consunto, inondo ogni notte il mio giaciglio e irrigo di
lacrime il mio letto” (Sai 6,7)»36.
Un altro rimedio importante è quello del «ricordo della morte»
(;mnemé thanàtouY1, pratica ascetica fondamentale che consiste per
l’uomo nel ricordarsi continuamente che egli è mortale e che la sua
morte può arrivare in ogni momento. A questo «ricordo della morte»
si ricollega il consiglio, spesso formulato dai Padri, di «vivere ogni gior­
no come se fosse l’ultimo», consiglio che tiene presente non tanto il
fatto di preparare l’uomo a morire bene quanto di aiutarlo a vivere be­
ne. Il «ricordo della morte» ha, in realtà, la funzione principale di aiu­
tare l’uomo a non sciupare il tempo prezioso per la salvezza, a «co­

28 Trattato pratico sulla vita monastica, 27. Evagrio Pontico consiglia lo stesso trattamento an-
tirretico e propone lo stesso passo della Scrittura in Antirretico, VI, 20.
29 Cfr. Apoftegmi, XXI, 7.
30La Scala, XHI, 16.
31 Ibid.
32Apoftegmi, PA 32, le.
33Ibid., 16.
34La Scala, Xm, 15. Cfr. XXVII, 84.
35A una vergine, 39, éd. Gressmann, p. 149. Cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 27.
36Antirretico, VI, 10, éd. Frankenberg, p. 522, 32-35. Cfr. 19, éd. Frankenberg, p. 524, 20-
22: «Per l’anima che immagina che le lacrime non servono a nulla nella lotta contro Pacedia e
che non si ricorda di Davide che faceva questo mentre diceva: “Pane son diventate per me le
mie lacrime, giorno e notte” CW41[42],4)».
37 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XIII, 16.

605
gliere le occasioni» come afferma l’Apostolo (cfr. Ef 5,16), e a vivere
così ogni momento con il massimo d’intensità spirituale, evitando il
peccato, praticando i comandamenti divini e affidandosi compieta-
mente a Dio. Il «ricordo della morte» è particolarmente efficace nel
caso dell’acedia nella misura in cui questa costituisce uno stato d’in­
differenza, di letargo e di pigrizia spirituale, rende l’uomo negligente
di fronte alla salvezza e lo spinge ad attività, spostamenti e relazioni
futili che costituiscono, dal punto di vista spirituale, ima distrazione e
una perdita di tempo. Un Apoftegma riferisce: «Chiesero a un Anzia­
no: “Perché non sei mai scoraggiato?”. Ed egli rispose: “Perché ogni
giorno mi aspetto di morire”»38. Sant’Antonio l’Eremita insegna a que­
sto proposito: «Per non essere negligenti, è bene meditare sulla pa­
rola dell’Apostolo: “Ogni giorno io affronto la morte” (lCor 15,31).
Infatti, se viviamo come se dovessimo morire ogni giorno, non pec­
cheremmo mai. Ecco cosa occorre comprendere con ciò: ogni giorno,
al nostro risveglio, pensiamo che noi non vivremo fino a sera e, anche,
quando siamo sul punto di coricarci, pensiamo che non ci risvegliere-
mo»39. Evagrio consiglia nel suo Antirretico di opporre ai pensieri di
acedia questi versetti della Scrittura: «Come l’erba sono i giorni del­
l’uomo, come il fiore del campo così egli fiorisce, lo sfiora il vento ed
egli scompare, il suo posto più non si trova» (Sai 103 [102] ,15-16)40
e: «I nostri giorni sulla terra sono come un’ombra» (Gb 8,9); «Sono
poca cosa i giorni della mia esistenza» (Gb 10,20)41. A questo riguar­
do, egli ricorda l’insegnamento del suo Padre spirituale: «Ecco cosa
diceva il nostro maestro molto santo e molto esperto: occorre che il
monaco sia sempre pronto, come se dovesse morire l’indomani [...].
Ciò, infatti, diceva, estirpa i pensieri dalTacedia e rende il monaco più
zelante [..,]»42. Ciò si giustifica attraverso le precedenti considerazio­
ni, ma anche per il fatto che, come nota Evagrio altrove, il demone
dell’acedia «mette davanti [all’uomo] quanto sia lunga la durata del­
la vita»43 cercando di ispirargli con questo l’abbattimento e il disgusto
dinanzi alle difficoltà future, e particolarmente dinanzi «alle fatiche
dell’ascesi»44.

38Apoftegmi, XXI, 7.
39 Vita di Antonio, 19.
40Antirretico, VI, 25.
41 Ibid., VI, 32; 33.
42 Trattato pratico sulla vita monastica, 29.
43 Ibid., 12.
44 Ibid.
606
Anche il timore di Dio costituisce un antidoto potente contro que­
sta passione; «nulla è così efficace», afferma san Giovanni Climaco45.
Tra i rimedi prescritti dai Padri, occorre inoltre citare il lavoro
manuale46. Questo, infatti, può aiutare l’uomo a evitare la noia, l’in-
stabilità, il torpore e la sonnolenza che in parte sono costitutive di que­
sta passione. Può contribuire a stabilire o a mantenere l’assiduità, la
continuità di presenza, di sforzo e di attenzione che suppone la vita
spirituale e che l’acedia tende a rompere. Prima di ogni cosa, il lavo­
ro si oppone direttamente all ozio, che è una delle forme principali che
può assumere l’acedia, e che è fonte di innumerevoli mali. Riferen­
dosi all’insegnamento di san Paolo, san Giovanni Cassiano presenta
ampiamente il lavoro manuale come un rimedio alTacedia che egli con­
sidera essenzialmente sotto quest’ultima forma. «Il beato Apostolo,
egli scrive, sia che abbia visto come questa malattia che nasce dallo
spirito di acedia cominci già ad insinuarsi, sia che per la rivelazione
dello Spirito Santo egli abbia previsto che questa si sarebbe diffusa, si
affretta, come un autentico medico spirituale, a prevenirla con il ri­
medio salutare dei suoi precetti. Scrivendo, infatti, ai Tessalonicesi,
egli rinforza prima di tutto, come medico molto competente, la de­
bolezza dei suoi malati con la terapia attraente e dolce della sua pa­
rola. Egli inizia col parlare della carità e, su questo punto, rivolge lo­
ro delle lodi, fino a quando la ferita mortale addolcita da questa me­
dicazione che lenisce possa supportare più facilmente i rimedi più
energici, una volta soppressa l’irritazione del tumore»47. Dopo aver co­
sì sottolineato l’approccio terapeutico dell’Apostolo, san Giovanni Cas­
siano pone in evidenza i precetti che costituiscono i rimedi proposti:
1) «Studiatevi di vivere tranquilli» (cfr. 1Ts 4,11) cioè, egli commenta,
«rimanete nelle vostre cèlle e non lasciatevi turbare dai diversi rumo­
ri [...]»; 2) «Attendete ai vostri negozi» (cfr. lTs 4,11), cioè «non de­
siderate interrogarvi con curiosità su ciò che si fa nel mondo né, spian­
do il modo in cui vivono alcuni, darvi pena nel criticare i vostri fratelli
piuttosto che correggervi e applicarvi alle virtù»; 3) «Lavorate con le
vostre mani come vi abbiamo raccomandato» (cfr. Ìli 4,11). Poi, san
Giovanni Cassiano ricorda e commenta48l’esempio che san Paolo, nel­
la seconda lettera ai Tessalonicesi, ci dà della propria condotta: «Voi

45 La Scala, XXVII, 75.


46 Cfr. ibid., XIII, 16. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, X, 7-24.
47Istituzioni cenobitiche, X, 7.
lbid., 7-9.
607
stessi sapete in che modo dovete imitarci, poiché non fummo degli
oziosi in mezzo a voi [...] lavorando notte e giorno per non essere di
peso a nessuno» (2Ts 3,8). E dopo aver citato la continuazione di que­
sto passo in cui san Paolo ricorda «coloro che vivono disordinatamente,
non lavorando affatto, ma impicciandosi di tutto» (2Ts 3,11), san Gio­
vanni Cassiano fa notare che l’Apostolo «si affretta a suggerire ora la
correzione adatta [...]. Ancora una volta egli ritrova la misericordia
[...] di un medico compassionevole e [...] porta loro la guarigione con
questo consiglio salutare: “A questi tali comandiamo e li ammoniamo
nel Signore Gesù Cristo che mangino il proprio pane, lavorando sen­
za chiasso” (2Ts 3,12). Attraverso il solo precetto salutare del lavoro,
come un medico molto esperto, egli guarisce la causa di tutte queste
piaghe che si sviluppano sull’ozio, sapendo che tutte le malattie che
pullulano su uno stesso ceppo scompariranno ben presto, una volta
soppressa la causa della malattia principale»49. Nello stesso momento
in cui egli sottolinea il valore terapeutico dei consigli di san Paolo re­
lativi al lavoro manuale, san Giovanni Cassiano indica il loro valore
profilattico: «Nondimeno, come un medico molto prudente e previ­
dente, non contento di cercare di guarire le ferite dei malati, offre an­
che raccomandazioni adatte a chi sta bene, affinché questi possano
continuare a conservarsi in salute»50. Per concludere il suo insegna­
mento su questo punto, san Giovanni Cassiano cita l’esempio di Ab-
ba Paolo che, benché vivesse in un luogo molto lontano da ogni città
dove avrebbe potuto vendere il prodotto del suo lavoro, s’impose non­
dimeno per ogni giorno una certa quantità di lavoro «e quando la sua
grotta era piena del lavoro di tutto l’anno, una volta l’anno bruciava
questo lavoro che gli era costato tante fatiche», e conclude: «Così, per
provare chiaramente che, senza lavoro manuale, il monaco non può
né rimanere stabile né elevarsi un giorno alla vetta della perfezione,
egli lavorava, benché non ne avesse bisogno per nutrirsi, ma solo per
purificare il suo cuore, per impedire la divagazione dei pensieri, per
perseverare nella sua cella e riportare una completa vittoria sull’ace-
dia stessa»51.
La preghiera, infine, costituisce il più valido di tutti i rimedi contro
mIbid., 14.
50Ibid., 15.
51 Ibid., 24. Sul significato generale del lavoro manuale nell’ambito della vita ascetica si può
leggere lo studio di A. GUILLAUMONT, «Le travail manuel dans le monachisme ancien. Conte-
station et valorisation», in Aux origines du monachisme chrétien, Bellefontaine 1979, pp. 117-
126.
608
l’acedia52, perché l’uomo può essere totalmente liberato da questa pas­
sione solo per grazia di Dio, che può ricevere solo chiedendola con la
preghiera. Senza quest’ultimo rimedio, tutti gli altri hanno un'effica­
cia solo parziale; al contrario, è dalla preghiera che traggono tutta la
loro forza. Ecco perché la lotta contro la passione, la resistenza che le
si oppone, la pazienza di cui si dà prova, la speranza che si manife­
sta, il dolore e le lacrime, il ricordo della morte, il lavoro manuale, de­
vono essere accompagnati dalla preghiera che li fonda in Dio e fa
che questi non siano più mezzi semplicemente umani.
Una difficoltà, tuttavia, riguarda il fatto che Facedia spinge l’uo-
mo ad abbandonare la preghiera e gli impedisce di ricorrervi. Allora,
è essenziale che l’uomo resista con tutte le sue forze a questa tenta­
zione e conservi la preghiera se non l’ha ancora abbandonata, o la ri­
prenda se già Tha perduta. La pratica simultanea delle prostrazioni è
particolarmente raccomandata nel caso delTacedia, perché questa pra­
tica fa immediatamente partecipare alla preghiera il corpo - mentre la
passione intorpidisce nello stesso momento il corpo e l’anima - e con­
tribuisce a tirar fuori e il corpo e l’anima dal loro letargo. San Simeo­
ne il Nuovo Teologo raccomanda così: «Poiché tu conosci la causa
di questo stato e da dove è venuto, ritorna con coraggio al posto do­
ve tu preghi abitualmente; prostrati dinanzi al Dio della misericordia;
chiedi con lacrime e gemiti nell’afflizione del tuo cuore di essere li­
berato da questo peso dell’acedia e dei cattivi pensieri; se ti batti con
forza e perseveranza, otterrai ben presto di essere liberato»53.
La salmodia appare cò^me una forma di preghiera particolarmente
efficace contro Facedia54, così come la preghiera del cuore praticata con
vigilanza e attenzione, come sottolinea san Diadoco di Foticea: «Sfug­
giremo a questa impressione di tiepidezza e di debolezza se assegnia­
mo al nostro spirito limiti ben stretti e dirigiamo il nostro sguardo so­
lo sul ricordo di Dio; solo così, infatti, lo spirito tornerà rapidamente
al suo fervore e potrà sottrarsi a questa dissipazione irrazionale»55.
La vittoria sull’acedia lascia all’uomo una certa tregua nella lotta
spirituale. Poiché Facedia contiene in sé, in un certo senso, tutte le pas­
sioni, nessuna di esse appare immediatamente dopo che essa è stata

52 Cfr. E vagrio P o n t ic o , La preghiera, 16. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XD3, 16.


53 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 66. Cfr. N il SORSKY, Regola, V.
54 Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XIII, 16.
55 Cento capitoli gnostici, 58.
609
distrutta. «Questo demone non è subito seguito da altri: uno stato di
tranquillità [...] invade l’anima dopo la lotta», osserva Evagrio56.
Oltre a questa pace, l’effetto principale della vittoria su questa pas­
sione è quello di «una gioia ineffabile» che riempie l’anima57.

56 Cfr. EVAGRIO P o n t ic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 12. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 72. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 136.
57 Cfr. E vagrio P o n tic o , loc. dt.
610
VI
TERAPIA DELLA COLLERA
LA DOLCEZZA E LA PAZIENZA

Poiché l’amore del piacere iphilèdoma) costituisce una causa fonda-


mentale dell’uso patologico della potenza irascibile, è innanzitutto es­
so che occorre estirpare se si vuole guarire dalla passione della collera1.
Essendo l’amore del piacere essenzialmente legato ai desideri sen­
sibili, la terapia della collera suppone una mortificazione della concu­
piscenza2. A tale proposito così osserva san Massimo: «Noi assopiamo
i latrati sconvenienti dell’aggressività (thymós) che non ha più, per ec­
citarla e persuaderla di lasciarsi vincere dai piaceri familiari, la con­
cupiscenza [...]. Infatti, l’aggressività che, per natura, viene in aiuto
della concupiscenza, cessa naturalmente d’infuriarsi quando vede la
concupiscenza mortificata»3.
Affinché l’uomo sia guarito dalla collera, è dunque necessario che
abbia vinto le passioni legate alla concupiscenza, in particolare la ga-
strimargia, la lussuria e la filargiria che sono cause frequenti di questa
passione, e che egli pratichi le virtù che ad esse sono opposte. I Padri
insistono in particolare sulla lotta contro la filargiria, e paradossalmente
presentano l’elemosina come rimedio essenziale della collera. Eva-
grio scrive a questo riguardo: «Occorre avvicinarsi al Medico delle ani­
me, che guarisce la parte irascibile per mezzo dell’elemosina»4. San
Massimo, il quale osserva che «certi rimedi [...] indeboliscono e ridu-
1 Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 99. DOROTEO DI G aza , Istru-
zioni spirituali, XII, 131. La questione della terapia della collera è stata parzialmente esaminata
nella IV parte, cap. II, 3, nella prospettiva della terapia della potenza irascibile da cui procede
direttamente la passione della collera. Abbiamo dimostrato, in particolare, che la terapia im­
plica una conversione dell’elemento irascibile che consiste nell’allontanarlo dal prossimo per ap­
plicarlo esclusivamente al male, ai demoni, alle passioni, al peccato, e che alla collera-passione
poteva essere così sostituita una collera virtuosa. Non torneremo qui su questo aspetto, ma con­
sidereremo la terapia della collera e le virtù che le sono opposte sotto l’angolazione della rela­
zione al prossimo, di cui la prospettiva precedente non aveva tenuto conto.
2 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 27.
3Commento del Padre nostro, PG 90, 885AB.
4Sui diversi pensieri della malvagità, 3.
611
cono le passioni», precisa che per la collera è opportuna l’elemosina5:
«L’elemosina è la cura per la collera»6.
L’elemosina appare, d’altronde, come una manifestazione della
carità, la quale costituisce uno dei principali antìdoti della collera, poi­
ché, al contrario, questa attacca il prossimo, manifestandosi come odio
per quest’ultimo»7. «La carità guarisce la parte irascibile dell’ani­
ma», constata Evagrio8, il quale aggiunge: «La parte irascibile ha bi­
sogno di rimedi più grandi della parte concupiscibile: per questo la
carità è definita “grande” (ICor 13,13), perché è il freno della parte
irascibile»9. Ciò è quanto afferma anche san Massimo: «Le passioni
della parte irascibile dell’anima [...] sono le più difficili da combatte­
re. Ecco perché è anche più energico il rimedio che il Signore ha da­
to contro la collera: il precetto della carità»10. Lo stesso santo scrive an­
cora: «Se la potenza irascibile è continuamente turbata [...], il rimedio
è costituito dalla bontà, dalla beneficenza, dalla carità e dalla miseri­
cordia»11. Evagrio sottolinea, inoltre, che la compassione diminuisce
l’irascibilità12e osserva: «Quando la parte irascibile è agitata, è la mi­
sericordia a calmarla»13. San Doroteo di Gaza insegna che «là dove
si trovano compassione e carità, la collera e il rancore non possono
prevalere»14. San Giovanni Climaco, che raccomanda di unire la ca­
rità alla dolcezza e alla pazienza15, afferma categoricamente l’efficacia
di questo rimedio: «Colui che ha un vero amore per il prossimo ha
bandito la collera dalla sua anima»16; «un banchetto al quale la carità
invita i suoi nemici dissipa la collera»17. San Massimo, evocando il ran­
core, afferma la stessa cosa: «Giunto alla carità e alla benevolenza per
il prossimo, tu eliminerai dalla tua anima ogni traccia di passione»18.
E, in maniera più generale, consiglia: «Vinci l’odio con la carità»19.
5 Centurie sulla carità, II, 47.
6Ibid., I, 79. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, IX, 6.
7 Su questa opposizione, vedi per esem pio EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita
monastica, 76.
8 Capitoli gnostici, IH, 35.
9 Trattato pratico sulla vita monastica, 38. Cfr. ibid., 15. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO,
Centuria, 78.
10Centurie sulla carità, I, 66.
11Ibid., E, 70.
12 Trattato pratico sulla vita monastica, 20.
13Ibid.
14Istruzioni spirituali, Vm, 94.
15La Scala, VIU, 36.
16Ibid., IX, 5.
17Ibid., 6.
18Centurie sulla carità, IH, 90.
19Ibid., IV, 12.
612
Poiché, d’altra parte, la collera procede dall’orgoglio e dalla ceno-
dossia, è applicandoci a queste due passioni che possiamo guarirne.
San Massimo, che presenta la cenodossia come una delle ragioni per
le quali «la potenza irascibile si turba», sottolinea la necessità di sop­
primere questa causa20della malattia e afferma che, se non si giunge a
disprezzare la gloria, è «impossibile annullarci pretesti della collera»21.
Anche san Giovanni Crisostomo insiste sul ruolo eziologico dell’or­
goglio e sulla necessità di applicarsi ad esso: «Per le malattie dell’ani­
ma, i nostri discorsi hanno due obblighi da compiere: prima guarire
la malattia, poi, dopo la guarigione, impedire le ricadute. Attualmen­
te, cerchiamo un metodo per una difficile terapia; non si tratta anco­
ra di buona salute. Come estirpare questo difetto deplorevole? Co­
me smorzare questa febbre crudele della collera? Vediamo da dove
proviene e distruggiamo la causa. Da dove viene di solito? Da un ec­
cesso di arroganza e d’orgoglio. Sopprimiamo questa causa, e la ma­
lattia scomparirà»22. Ora è l’umiltà che costituisce, come vedremo, l’an­
tidoto della cenodossia e dell’orgoglio. Per guarire dalla collera, oc­
corre dunque acquistare l’umiltà. Poiché la collera è «il sintomo di un
grandissimo orgoglio, la conversione esige molta umiltà», fa notare san
Giovanni Climaco23, il quale osserva che l’umiltà conduce «a bandire
dalla nostra anima tutti i moti e i trasporti della collera»24: «Come le
tenebre si dissipano allorché appare la luce, così il profumo dell’umiltà
fa svanire ogni traccia di amarezza e d’irascibilità»25. Quanto a san Gre­
gorio di Nissa, egli scrive: «L’umiltà è la madre della dolcezza del cuo­
re. Se tu chiudi la porta all’orgoglio, la collera non riesce ad entrare.
Brutalità e ignominia provocano questa malattia nei violenti. Ma l’i­
gnominia non colpisce colui che pratica l’umiltà»26. Occorre «vivere
profondamente l’umiltà del cuore. Coloro che sono radicati in questa
esperienza non forniscono nella loro anima alcuna apertura alla colle­
ra»27. A questo proposito san Doroteo di Gaza riferisce queste paro­
le di un Anziano: «L’umiltà non s’irrita contro nessuno»28.
Così, colui che vuole trovare rapidamente la guarigione deve non
20Ibid., Ili, 20. Cfr. 13; IV, 41.
21 Ibtd., 1,75. Cfr. D oro teo d i G aza, Sentenze, in, 202.
22 Omelie su Atti, XXXII, 3.
2Ì La Scala, VIH, 16.
2i Ibid., XXV, 4.
25Ibid., VIE, 9.
26 Omelie sulle Beatitudini, II, 5.
27Ibid.
n Apoftegmi, P E I,45.
613
solo accettare le umiliazioni, ma persino cercarle, e abituarsi a sop­
portarle fino a quando egli non sia divenuto insensibile ad esse. «L’as­
senza di collera, scrive san Giovanni Climaco, è un desiderio insazia­
bile di umiliazioni [...]. L’assenza di collera è una sconfitta della na­
tura divenuta insensibile alle ingiurie»29. In questa prospettiva, colui
che proferisce le ingiurie gioca, senza volerlo, il ruolo di un medico
dell’anima, come fa notare un Anziano nel sottolineare il legame di
questa terapia con quelle, in precedenza ricordate, dell’eliminazione
del piacere da un lato, e della carità dall’altro: «Se tono dei tuoi fratel­
li t’ingiuria o ti affligge, prega per lui come hanno detto i Padri, con­
vinto che egli ti procuri grandi benefici e che è un medico che guari­
sce in te l’amore del piacere. Con questo s’indebolirà la tua collera, es­
sendo la carità, per i santi Padri, un freno alla collera»30.
Il potere terapeutico dell’umiltà è rafforzato quando vi si aggiun­
gono la penitenza e la compunzione. San Giovanni Climaco insegna
così che la penitenza e le lacrime formano con l’umiltà un «trittico»,
e che «la prima e la più grande proprietà di questa eminente ed ec­
cellente trinità è l’accettazione piena della gioia dell’umiliazione, che
l’anima riceve e accoglie, con le mani tese, come un rimedio che confor­
ta e cauterizza le sue malattie e le sue colpe gravi. La seconda proprietà
è la perdita di ogni irritabilità nonché la modestia che accompagna
questa pacificazione»31. Lo stesso autore, altrove, osserva il potere che
le lacrime di compunzione hanno di ridurre la collera: «Come l’acqua
che si spande a poco a poco sul fuoco, spegnendo alla fine tutta la fiam­
ma, così le lacrime che provengono da un vero dolore dei propri pec­
cati estinguono tutte le fiamme della collera e del furore»32. San Si­
meone, riprendendo questa immagine, così scrive: «Chi dunque, af­
fliggendosi ogni giorno, può continuare a vivere in collera invece di
diventare dolce? Come l’acqua, in realtà, cola sulla fiamma di un fo­
colare, così l’afflizione e le lacrime spengono il furore dell’anima, e
questo a tal punto che l’uomo che vi si è a lungo abbandonato può ve­
dere la sua anima irascibile trasformarsi e giungere a una calma im­
mutabile»33. Compiuta la guarigione, l’afflizione gioca un ruolo profi­
lattico. San Giovanni Climaco constata «che la collera è trattenuta dal-
La Scala, V111,2.
30Apoftegmi, XV, 136.
31 La Scala, XXV, 7.
3332ibid,
., vin , ì.
Catechesi, XXXI, 57-66.
614
le lacrime come da un freno»34. San Giovanni Cassiano indica anche
il potere che ha la compunzione di allontanare «ogni agitazione e ogni
turbamento della collera»35.
A tutti i rimedi precedentemente citati, occorre evidentemente ag­
giungere la preghiera. San Giovanni Cassiano osserva che la collera,
come tutte le altre passioni, «è guarita dalla meditazione del cuore»36.
E san Nilo insegna la stessa cosa quando afferma che «la preghiera è
il germe dell’assenza della collera»37. Tra tutte le forme di preghiera
è la salmodia quella che possiede la più grande forza per calmare la
parte irascibile dell’aninìà^quando questa è agitata dalla collera38. «La
salmodia, constata san Basilio, rende le anime serene, procura la pa­
ce, calma il tumulto e l’onda lunga dei pensieri. Addolcisce ciò che
nell’anima è irritato e mette ordine in ciò che è sregolato»39.
Su un altro piano, la terapia della collera consiste, beninteso, nello
sforzo di astenersi dal fame uso contro il prossimo verso il quale essa
è spontaneamente rivolta. E il primo consiglio che offre san Doroteo
di Gaza: qualcuno «era collerico? Che non si irriti più»40. L’uomo
deve per questo avere chiaramente coscienza che nulla, mai, giustifi­
ca la collera contro il prossimo. Ecco perché san Giovanni Cassiano
scrive: «H rimedio perfetto contro questa malattia è prima di tutto cre­
dere che non ci è mai permesso di essere in collera, sia per una causa
giusta che ingiusta»41. Questo è in linea con l’insegnamento dello stes­
so Cristo che afferma: «Chiunque si adira con il suo fratello sarà sot­
toposto al giudizio» {Mt 5,22).
I Padri insistono, d’altronde, sul fatto che le eventuali azioni o paro­
le cattive degli altri nei nostri confronti non potrebbero affatto giu­
stificare e nemmeno spiegare la collera, ragion per cui occorre cercare
la causa esclusivamente in noi stessi. Ciò implica che è in noi stessi che
occorre cercare i mezzi per uscirne invece di attenderli da altri. «Non
sono le parole che ci feriscono, è il nostro orgoglio che ci rivolta, e la
buona opinione che noi abbiamo di noi stessi», sottolinea san Basilio42.
54La Scala, VIE, 33.
35 Istituzioni cenobitiche, VIH, 9.
36ìbid.y VI, 3.
37Apoftegmi, serie alfabetica, Nilo, 2.
38Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 15.
39 Omelia sul Salmo 1,2, PG 29, 212C.
40Istruzioni spirituali, XII, 133.
41 Ibid., v m , 22.
42 Omelie, X, Sulla collera.
615
Per questo san Giovanni Cassiano consiglia: «Non facciamo dunque
dipendere il nostro progresso nella pace interiore dalla volontà degli
altri, che non è mai in nostro potere. Essa deve piuttosto dipendere
da noi stessi. Così il non irritarci non deve venire dalla perfezione
degli altri, ma dalla nostra virtù, e questa virtù non si acquista attra­
verso la pazienza degli altri, ma con la propria longanimità»43. Occor­
re, d’altronde, sottolineare «che non basta che non vi sia nessuno con­
tro cui irritarci, poiché [...] possiamo essere in collera anche contro gli
oggetti insensibili»44. Ecco perché la fuga dagli altri non potrebbe
costituire una valida terapia45, perché essa lascerebbe sussistere la cau­
sa vera della collera, che è interiore.
Non irritarsi più suppone, dunque, prima di tutto imo sforzo per
soffocare l’irascibilità, per costringerla a non manifestarsi. San Basilio
consiglia: «Appena sentirete i primi assalti, trattenetela, assoggettate­
la alla ragione come si trattiene un cavallo con il morso»46.
Occorre, in primo luogo, esercitare un dominio sulle azioni e sulle
parole attraverso cui la collera tende ad esprimersi: è sforzandosi di
conservare il silenzio che si raggiunge più facilmente questo scopo.
San Callisto e sant’Ignazio Xantopulo ricordano questo insegnamen­
to dei Padri: «Il freno della parte irascibile è il silenzio opportuno»47.
«L’inizio della vittoria sulla collera è il silenzio delle labbra quando il
cuore è agitato», insegna da parte sua san Giovanni Climaco48, il
quale sottolinea che «colui che difficilmente è portato a parlare, diffi­
cilmente è portato ad agitarsi per la collera»49. Notiamo en passant che
il silenzio costituisce anche l’atteggiamento migliore da adottare di
fronte alla collera altrui, ed è proprio esso che contribuisce di più a
spegnerla50.
Il trattenere la collera, però, non dev’essere fatto in modo da evita­
re solo le sue manifestazioni esteriori, la sua espressione in parole e in
azioni. Esso deve avvenire innanzitutto a livello di pensiero. Al silen­
zio delle parole bisogna aggiungere «il silenzio dei pensieri»51. Occorre
allora applicare ciò che è raccomandato nella Scrittura: «Non odiare
43 Istituzioni cenobitiche, VHI, 17.
44 Ibid., VIE, 19, 3.
45 Cfr. ibid.
46 Omelie, X, Sulla collera.
47 Centuria, 78.
48 G iovanni C limaco , La Scala, VIE, 4.
49lbid.yXXVE, 6.
50Cfr. B asilio di C esarea, Omelie, X, Sulla collera.
51 La Scala, VIE, 4.
616
il tuo fratello nel tuo cuore» (Lv 19,17), perché è dal cuore che proce­
dono i disegni perversi, i cattivi pensieri (cfr. Mt 15,18-19; Me 2,21), e
da questi procedono le parole e le azioni. È a questo livello che l’uo­
mo può al meglio dominare il processo della collera ed evitare che que­
sto si sviluppi52. Per questo san Basilio consiglia: «Occorre soffocare
la collera alla sua nascita»53.
Non autorizzare alcuna manifestazione della collera a livello dei pen­
sieri e, afortiori, a livello delle parole e delle azioni, suppone che si dia
prova di una costante attenzione. Come insegna san Giovanni Cassia-
no, la collera non può esseré\«guarita [che] con una prolungata vigi­
lanza»54.
È molto importante soffocare gli stessi pensieri non solo perché es­
si sono la fonte di tutte le manifestazioni della collera, ma anche per­
ché questa passione può, soprattutto sotto la forma dell’asprezza, del
risentimento, del rancore, condurre una vita esclusivamente interiore.
Essa continua ad esistere in questo modo, danneggiando la vita di tut­
ta l’anima, tanto più che non ha potuto manifestarsi all’esterno. A que­
sto proposito così insegna san Giovanni Cassiano: «Non basta estir­
pare la collera dalle nostre azioni, occorre altresì strapparla comple­
tamente dal fondo della nostra anima [...]. Infatti, la parola evangelica
d ordina di tagliare le radici dei vizi piuttosto che i loro frutti. E lo spi­
rito potrà rimanere costantemente in una totale pazienza e sanità quan­
do la collera sarà stata scacciata non alla superfìcie dei comportamenti,
ma all’interno dei pensieri»55.
La padronanza dei pensieri appare come la principale via terapeu­
tica nel caso in cui la collera assume la forma interiorizzata dell’odio
o del rancore. Nella misura in cui questi sono legati a offese subite, il
primo atteggiamento da adottare è quello di «dimenticare le ingiurie»,
in altri termini il perdono. San Massimo lo considera come uno dei
«rimedi» fondamentali che «immobilizzano» la collera, le «impedi­
scono di mettersi in moto e di intensificarsi»56. E questo un insegna­
mento costante delle Scritture: «Il cammino di coloro che conservano
il ricordo di una cattiva azione tende alla morte» (Pro 12,28); «Non
serbare rancore ai figli del tuo popolo» (Lv 19,18).
52 Cfr. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, VIH, 91.
53 Omelie, X, Sulla collera.
54 Istituzioni cenobitiche, VI, 3.
55 Ibid., VIII,20,1-2.
56 Centurie sulla carità, E, 7.
617
A questo rimedio ne deve essere aggiunto un altro: la riconciliazio­
ne con il prossimo, secondo quanto raccomanda il Cristo: «Se dunque
tu sei per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi che tuo fra­
tello ha qualcosa a tuo carico, lascia la tua offerta davanti all’altare e
va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; dopo verrai a offrire il tuo do­
no. Mettiti d’accordo con il tuo avversario subito, mentre sei per via
con lui» (Mi 5,23-25). San Giovanni Crisostomo insiste sul valore te­
rapeutico di questo insegnamento: il Cristo, egli dice, «sapeva che que­
sta passione aveva bisogno di un pronto rimedio. E come un medico
abile non dà solo profilassi contro le malattie, ma le guarisce anche
quando esse sono già sviluppate, Gesù Cristo fa la stessa cosa»57. San
Giovanni Cassiano commenta allo stesso modo questa raccomanda­
zione del Cristo: «Il medico delle anime che conosce i segreti del cuo­
re, volendo strappare perfino le occasioni di collera, non d obbliga so­
lo, quando siamo stati offesi, a perdonare ai nostri fratelli, a riconci­
liarci con essi e a non conservare nessun ricordo dell’ingiuria ricevuta;
ma ci comanda nello stesso modo, se sappiamo che essi hanno moti­
vo di risentimento giustificato o non contro di noi, di abbandonare la
nostra offerta, cioè le nostre preghiere, e di dar loro innanzitutto sod­
disfazione, e una volta placato il nostro fratello, offrire a Dio il sacri­
ficio senza macchia della nostra preghiera»58. Riconciliarci con gli al­
tri suppone che assumiamo la parte di responsabilità che ci tocca qua­
si sempre quando il prossimo è irritato contro di noi. Ecco perché
occorre prima di tutto biasimare se stessi59e chiedere perdono al fra­
tello per essere stati per lui occasione di irritazione60.
Non basta, però, all’uomo rinunciare a ogni forma di collera nei
confronti del prossimo. Gli è necessario sostituire alla passione la virtù
che le è opposta. Ora, riguardo al prossimo, la virtù opposta alla col­
lera, è in primo luogo la dolcezza (praiótes)61. Così san Doroteo di Ga­
za, dopo aver consigliato: «Qualcuno è collerico? Che non s’irriti più...»,
aggiunge: «Ma acquisti anche la dolcezza»62. «Come combattere [la
collera]? [...]. Con la dolcezza; combattere vuol dire essere dalla par­
57 Commento a san Matteo, XVI, 10.
58Istituzioni cenobitiche, VHI, 14.
59Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, VIE, 90.
60 Cfr. ibid., 90-94.
61 Vedi per esempio DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XE, 133. GREGORIO DI NlSSA,
Omelie sulle beatitudini, E, 3.
62 Istruzioni spirituali, XE, 133.
618
te opposta», precisa san Giovanni Crisostomo63. Essendo la collera e
la dolcezza antagoniste, si escludono a vicenda. «La natura umana,
in ogni modo, opta fra due direzioni contrarie: la collera o la dolcez­
za», fa notare san Gregorio di Nissa64. Così, come la collera scaccia
la dolcezza, la dolcezza possiede il potere di distruggere la collera e le
impedisce di rinascere. «La dolcezza schiaccia la collera», osserva san
Giovanni Crisostomo65. Evagrio sottolinea allo stesso modo che «la
dolcezza diminuisce [l’irascibilità]»66e consiglia: «Che [l’anima] re­
prima la sua parte irascibile con la dolcezza»67, e inoltre: «Insegna que­
sta dolcezza ai tuoi fratelli affinché ritornino con disagio alla collera»68.
San Giovanni Climaco, a sua volta, scrive: «La dolcezza è una roccia
che domina il mare dell’irascibilità e contro la quale s’infrangono
tutte le onde che la colpiscono senza mai smuoverla»69.
La dolcezza spirituale non ha nulla da vedere con l’indolenza né
la mollezza70. Non è un atteggiamento passivo, ma attivo. È uno sta­
to di stabilità dell’anima71, di serenità, vicina all’impassibilità quando
essa raggiunge il suo compimento72. San Giovanni Climaco la defini­
sce così: «La dolcezza è uno stato immobile dell’anima che rimane
uguale a se stessa tanto nelle umiliazioni quanto davanti alle lodi»73.
Vediamo dunque che essa va contro non solo alla collera, ma anche
ad altre pasioni che, nell’ambito delle relazioni con il prossimo, pos­
sono turbare l’anima. Occorre, però, aggiungere che essa è, altresì, una
virtù positiva riguardo allo stesso prossimo, virtù che si traduce attra­
verso la preghiera per esso e con un atteggiamento generale di carità.
«La dolcezza sta, quando siamo tormentati dal prossimo, nel pregare
per esso senza essere sensibili (ai suoi modi di fare) e sinceramente»,
afferma san Giovanni Climaco74, il quale aggiunge: «Il segno della dol­
63 Omelie su Atti, XVII, 3.
64 Omelie sulle beatitudini, II, 3.
65 Omelie su Atti, XV, 4. Cfr. XLVIII, 3.
66 Trattato pratico sulla vita monastica, 20.
67 Lettere, 19. Vedi anche Sui diversi pensieri della malvagità, recensione lunga, 27: «cal­
mando la parte irascibile con la dolcezza [...]».
68Lettere, 56.
69La Scala, XXIV, 4.
70 Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sulle Beatitudini, II, 2. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie
su Atti, XLVm, 3.
71 G regorio di N issa, loc. dt.
72 Cfr. Giovanni Climaco, La Scala, VIE, 33; 4.
73 Ibid., Vili, 3. Troviamo una definizione pressoché identica al Grado XXTV, 2: «La dol­
cezza è uno stato immutabile dello spirito (nous) che rimane sempre lo stesso tanto negli onori
quanto nelle umiliazioni».
74 La Scala, XXIV, 3.
619
cezza suprema è quello di conservare un cuore pieno di serenità e di
carità verso colui che ci ha offeso alla sua stessa presenza»75.
È soprattutto con la preghiera che la dolcezza può essere acqui­
stata e praticata76. Le sue altre fonti sono la carità77, di cui essa è una
particolare forma, il digiuno78, la pazienza79, la compunzione e le la­
crime80.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che gli sforzi umani non basta­
no ad acquistarla: essa è un dono di Dio; san Paolo la cita tra i frutti
dello Spirito (cfr. Gal 5,22). Ma l’uomo riceve questo dono solo se lo
chiede (cfr. lTm 6,11; Col3,12).
La dolcezza costituisce un rimedio non solo per la collera ma per
tutte le malattie dell’anima, secondo l’insegnamento dei Proverbi: «L’uo­
mo dolce è la medicina del cuore» (Pro 14,30). «Non è solo la collera,
la tristezza, l’acedia, la cenodossia o l’orgoglio che essa estirpa, ma con­
temporaneamente anche il piacere e tutti i vizi», scrive san Giovanni
Cassiano81, il quale sottolinea inoltre il potere profilattico di questa
virtù: «Colui che è sempre dolce non s’infiamma per la collera né si
consuma nelle angosce dell’acedia e della tristezza né si dissipa nelle
futili ricerche della cenodossia né si eleva nel gonfiore dell’orgoglio»82.
Contribuendo ad estirpare dall’anima diverse passioni e in primis­
simo luogo la collera, la dolcezza libera l’anima dal turbamento che es­
se le causano e la preserva da ogni turbamento futuro83, rendondola,
in particolare, invulnerabile a ogni insulto, a ogni parola che ferisce84.
Così la dolcezza costituisce per l’azione dei demoni un impedimento
importante85. Evagrio afferma persino che è la virtù che essi temono
di più di trovare nell’uomo86. Ciò si comprende soprattutto perché la
collera è un atteggiamento che caratterizza particolarmente i demoni
75 Ibid., Vili, 17.
76 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, N ilo , 2. CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 78.
77 Cfr. C allisto e I gnazio X antopulo , loc. cit.
n Ibid.
79lbid.
80 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VIE, 1.
81 Conferenze, XII, 6. San Giovanni Cassiano dice questo della penitenza, ma in un passo egli
considera contemporaneamente la dolcezza e la pazienza come se egli non facesse affatto diffe­
renza tra queste due virtù.
82Ibid.
85 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,80.
84 G iovanni C limaco , La Scala, IV, 2.
85 Cfr. ibid., XXIV, 6.
86Cfr. Sui diversi pensieri della malvagità, 14, PG 79,1216CD.
620
e attraverso il quale, quindi, l’uomo assomiglia a loro87(cfr. Sai58[57],5);
la dolcezza, al contrario, allontana l’uomo dallo stato demoniaco e lo
riavvicina alla condizione angelica88.
Contribuendo a guarire l’uomo da diverse passioni, la dolcezza gli
permette di accedere, correlativamente, a una molteplicità di beni.
Essa è una fonte di calma, di riposo e di pace interiori89. Rende
l’anima più forte, in particolare di fronte agli attacchi di altri90. Dà
all’uomo fiducia nella preghila91. Soprattutto appare come un «fon­
damento del discernimento» spirituale, come osserva san Giovanni
Climaco92: «Il Signore condurrà i miti sulla via del giudizio (cfr. Sai
25 [24],9) o piuttosto del discernimento»93. Essa è anche una fonte di
saggezza. E scritto, infatti, che Dio «farà camminare i miti nella sua
giustizia e ad essi insegnerà la sua giustizia» (cfr. Sai25[24],9). Il sal­
mista dice ancora che «la mitezza ci viene donata e noi siamo am­
maestrati» (cfr. Sai90[89],10). Evagrio a questo proposito scrive a uno
dei suoi corrispondenti: «Sono persuaso che la tua dolcezza è stata per
te causa di grande scienza. Infatti, non c’è nessuna virtù che generi
la sapienza come questa dolcezza per mezzo della quale Mosè fu lo­
dato come il più mite degli uomini»94.
Le virtù suscitate dalla dolcezza sono numerose: essa è «la porta o
piuttosto la madre della carità»95, «il sostegno della pazienza»96, «la
collaboratrice della semplicità»97, fonte di castità98, così come «il pre­
cursore di ogni umiltà»99, virtù alla quale essa è strettamente legata e
che, tra l’altro, contribuisce a consolidarla100.
La dolcezza è per l’anima fonte di gioia spirituale101, primizia della
beatitudine promessa ai miti secondo la parola del Cristo: «Beati i mi­
87 Cfr. EVAGRIO P ontico, Capitoli gnostici, I, 68; IH, 34; V, 11; Lettere, 56.
88 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXIV, 6.
89Cfr. S im eone il N uo v o T e o lo g o , Catechesi, XXXVI, 16. G iovanni C risostom o , Com­
mento a san Matteo, LXI, 5. GREGORIO DI NlSSA, Omelie sulle beatitudini, II, 5.
90 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulla lettera agli Ebrei, xxn, 2.
91 G iovanni C limaco , La Scala, XXIV, 5.
92Ibid.
93 Ibid., XXIV, 10.
94 Lettere, 36. Cfr. 41. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXIV, 10.
95 G iovanni C limaco , loc. cit., 5.
96Ibid.
97 Ibid., 6.
98 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, xn, 6.
99 G iovanni C limaco , La Scala, XXIV, 1.
100 Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sulle Beatitudini, II, 5. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XXV, 12.
101 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, LXI, 5.
621
ti, perché erediteranno la terra» (M/5,5). La terra, cosa vuol dire? «Il
cuore che porta i frutti della grazia» commentano san Callisto e sant’I-
gnazio Xantopulo102, o ancora: il Regno dei cieli103di cui i santi godo­
no già in parte quaggiù. Il fine della dolcezza, scrive san Gregorio di
Nissa, è «la beatitudine e l’eredità dei cieli nel Cristo Gesù»104. Per
mezzo della dolcezza, infatti, l’uomo è reso simile al Cristo105, perché
questa è la virtù eristica per eccellenza (cfr. Mt 11,29; 21,5; 2Cor 10,1).
Alla dolcezza i Padri spesso associano la pazienza, che possiede lo
stesso potere di opporsi alla collera e preservarne l’anima. A questo pro­
posito così fa notare san Giovanni Crisostomo: «La collera è un fuo­
co, una fiamma che afferra, morde e brucia. Spegniamola con la dol­
cezza e la pazienza»106. E san Giovanni Climaco consiglia: «Che la ti­
rannia della collera sia legata con le catene della dolcezza [e] stroncata
dai colpi dalla pazienza»107. Anche san Massimo vede in queste due virtù
terapie e profilassi associate: «Certi rimedi immobilizzano le passioni,
impediscono di mettersi in movimento e di intensificarsi [...]. Quanto
alla collera: la pazienza, [...] la dolcezza l’immobilizzano, le impedi­
scono di prendere forza»108. Quanto a san Giovanni Cassiano, egli le as­
socia praticamente tutte e due in un unico rimedio: «Appare evidente
che il rimedio più efficace per il cuore umano è la pazienza, secondo
la parola di Salomone: “Vita del corpo è un cuore benigno” (Pro 14,30)».
Dopo aver evidenziato che la pazienza estirpa la collera, ma anche altre
passioni, egli prosegue: «Colui che è sempre dolce e tranquillo non si
infiamma di collera [...]. In verità, il saggio ha ben ragione di dire: “È
meglio un uomo lento all’ira che un eroe, e chi domina il suo spirito vai
più di chi conquista una città” (Pro 16,32)»109. Così egli considera la pa­
zienza come la virtù che si oppone per eccellenza alla collera: se «la col­
lera distrugge la pazienza»110, inversamente la pazienza scaccia la colle­
ra: «Che i vizi cedano la vittoria al popolo d’Israele, cioè alle virtù che
sono loro opposte [...], la pazienza rivendichi il posto della collera»111.
102 Centuria, 77.
103 Cfr. G regorio DI N issa , Omelie sulle Beatitudini, n, 1.
104 Ibid., 4.
105 Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, X XIV, 6.
106 Omelie sulla lettera agli Ebrei, XXII, 3.
107La Scala, VIH, 36.
108 Centurie sulla carità, II, 47.
109 Conferenze, XII, 6.
110Istituzioni cenobitiche, XII, 3,2.
111 Conferenze, V, 23.
622
La pazienza112 consiste r^el sopportare con calma i mali che ci ven­
gono inflitti dalle circostanze o da altri, e in particolare, in quest’ulti­
mo caso, nel sopportare senza turbamento critiche, oltraggi, insulti, o
altre parole che feriscono113. San Massimo ne dà questa definizione:
«Essa consiste nel rimanere costanti nell’avversità, nel sopportare i ma­
li, sostenere fino alla fine la tentazione, nel non farsi sorprendere dal­
la collera, nel non lasciar sfuggire una parola sotto i colpi dell’emo­
zione né sospettare né pensare qualcosa che sia indegno di un uomo
timorato di Dio»114. E san Giovanni Cassiano aggiunge a sua volta:
«Nessuno ignora che “pazienza” viene da “patire” e “sostenere”. È
chiaro, pertanto, che merita di essere chiamato paziente solo colui che
sopporta, senza reagire, i maltrattamenti che gli sono stati inflitti»115.
Quanto a san Giovanni Crisostomo, egli sottolinea: «L’uomo vera­
mente paziente sostiene senza piegarsi il peso delle avversità»116; l’uo­
mo paziente è come in un porto dove egli gode di una calma profon­
da: il danno che voi gli causate non potrà smuovere questa roccia; i
vostri oltraggi non potranno scuotere questa torre»117.
La virtù della pazienza si acquista prima di tutto con l’amore di Dio,
che conduce in particolare a prendere in tutto come modello il Cristo
che, «davanti all’ingratitudine e alle bestemmie, ha conservato la pa­
zienza; oltraggiato e messo a morte, è rimasto paziente senza mai re­
spingere il male su nessuno»118. «Chi possiede l’amore di Dio, scrive
san Massimo, non faticherà a seguire il Signore suo Dio, come dice il
divino Geremia, ma sopporta generosamente pene, critiche, violenze,
senza voler il minimo male a nessuno»119.
112 La pazienza è una virtù particolarmente ricca e multiforme, come potremo rendercene
conto, per esempio, nel leggere la descrizione che ne fa san Cipriano {Il beneficio della pazienza,
20). Così la prenderemo in considerazione solo nella misura in cui essa concerne la collera. I Pa­
dri greci usano due termini per indicare la pazienza, makrothymia e ypomone. Makrothymia, più
correttamente tradotta con «longanimità», significa piuttosto il fatto di sopportare le ingiurie e
le sofferenze morali; ypomone indica piuttosto la «perseveranza», in altri termini, la capacità di
perseguire un’opera malgrado le difficoltà, ma indica anche la pazienza propriamente detta, cioè
la capacità di attendere con calma ciò che tarda ad arrivare. Nell’uso corrente, i due termini
sono impiegati indifferentemente nell’uno o nell’altro senso.
113Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, IV, 2. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, VE,
3,1; Conferenze, XVIII, 13-14.
114Discorso ascetico, 21.
115 Conferenze, XVÉl, 13.
116 Omelie su Atti, VI, 4.
117 Omelie su 1 Corinzi, XXXDI, 1.
118 M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 5. Cfr. G iovanni C risostom o , Com­
mento a san Giovanni, LXXXTV, 1.
119 Centurie sulla carità, I, 88.
623
Anche la pazienza procede dall’amore del prossimo120, ma soprat­
tutto, e prima di tutto dall’umiltà, al punto tale che san Giovanni Cas-
siano afferma che essa «non viene da nessuna altra fonte»121.
La pazienza è una delle virtù che meglio contribuiscono alla salvezza
dell’uomo. «E con la pazienza che salverete le vostre anime» (Le 11,19).
Essa è un rimedio fondamentale a tutte le malattie dell’anima122, e non
solo alla collera. «E evidente, scrive san Giovanni Cassiano, che il ri­
medio più efficace per il cuore umano, è la pazienza»123. Essa possie­
de anche un potere profilattico importante. «Essa non guarda solo ciò
che è buono per noi; ma ci difende da ciò che ci è contrario», nota san
Cipriano124. E san Giovanni Crisostomo evidenzia che la pazienza «li­
bera l’anima dagli spiriti maligni»125e la protegge anche dai loro strali126.
Nello stesso tempo che essa libera e protegge l’uomo dal male, è
per lui «la fonte di ogni bene»127. Contribuisce dunque ampiamente a
ristabilire la salute nell’anima.
Innanzitutto, fornisce all’anima l’energia che le occorre per lottare
e fare gli sforzi necessari al suo progresso spirituale128. «Essa dona ima
forza invincibile», osserva san Giovanni Crisostomo129. Poiché libera
l’anima dalla collera e dal turbamento delle altre passioni che essa con­
tribuisce a ridurre; apporta inoltre all’anima la pace e la stabilità130.
Correlativamente, appare come il principio di numerose virtù131.
Contribuisce in particolare a conservare la castità132. Rende inflessi-
bile la temperanza133. Appare, altresì, come una virtù unificante, che
ristabilisce e mantiene la concordia tra gli uomini134, come san Paolo
indica consigliando: «Sopportatevi a vicenda con amore, preoccupa­
ti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace» (Ef 4,2).

Omelie su 1 Corinzi, XXXin, 1.


120 Cfr. G io v a n n i C riso sto m o ,
121 Istituzioni cenobitiche, VII, 31. Cfr. IV, 32, 9.
122 Cfr. C ipriano di C artagine, II beneficio della pazienza, 20.
123 Conferenze, XII, 6.
124II beneficio della pazienza, 14.
125 Commento a san Giovanni, LXXXIV, 1.
126Cfr. Omelie su 1 Corinzi, XXXIII, L
l27Ibid.
128Cfr. CIPRIANO, Il beneficio della pazienza, 17. Cfr. 14.
129Lettere a Olimpiade, VII, 4.
130Cfr. CIPRIANO, Il beneficio della pazienza, 17. GIOVANNI CRISOSTOMO, Lettere a Olimpia­
de, VII, 4. Cfr. Omelie su Atti, VII, 4.
131 Cfr. G iovanni C risostomo , Lettere a Olimpiade, VII, 4.
132Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XII, 6. C ipriano , Il beneficio della pazienza, 20.
133 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, P rologo, 8.
134 Cfr. G regorio M ag n o , Moralia su Giobbe, LXXII, 21. G iovanni C assiano , Istituzioni
cenobitiche, IX, 7. CIPRIANO, Il beneficio della pazienza, 15.
624
Dalla pazienza, infine, derivano la consolazione e la gioia spiritua­
le. Sant’Isacco il Siro così scrive a questo proposito: «Quando la pa­
zienza cresce nelle nostre anime, è questo il segno che abbiamo se­
gretamente ricevuto la grazia della consolazione. La potenza della pa­
zienza è più forte delle forme di gioia che cadono nel cuore»135.
Alla dolcezza e alla pazienza, i Padri raccomandano di aggiungere
la carità, che così diviene la terza virtù opposta alla passione della col­
lera136.
Occorre notare che vi è uno stretto rapporto tra la carità e la pa­
zienza. Da una parte, la carità implica la pazienza, essendo questa una
qualità di quella, come sottolinea san Paolo che scrive: «La carità non
si adira» (lCor 13,4). Così alla domanda: «Come può la carità domi­
nare la collera?», san Massimo risponde: «Perché il suo compito è quel­
lo di essere misericordiosa e far del bene al prossimo, essere paziente
nei suoi riguardi e sopportare tutto quanto dobbiamo subire [...]. Con
questi mezzi, la carità domina la collera in colui che l’ha raggiunta»137.
San Cipriano, commentando la frase di san Paolo, sottolinea che la ca­
rità non può conservarsi fermamente se non a condizione di essere tem­
prati in una pazienza a tutta prova138. D’altra parte, la pazienza per es­
sere realmente virtuosa, suppone la carità, perché, come osserva san
Giovanni Crisostomo, «la pazienza potrebbe essere un cammino ver­
so la vendetta», un «attizzare la fiamma della collera nelle anime irri­
tate», e anche un «portare al rancore»139, il che permette di dire che «la
pazienza senza la generosità è un difetto»140. Ecco perché, come egli fa
notare, l’Apostolo dopo aver detto: «la carità non si adira», aggiunge:
la carità «è benigna» (lCor 13,4), e ancora: «la carità non è invidio­
sa», e consiglia peraltro: «Sopportatevi a vicenda con amore» (E/4,2).
H mezzo più diretto per giungere a questa carità verso il prossimo
è quello di pregare per lui. «Tuo fratello, scrive san Massimo, è stato
per te un’occasione di prova e la tristezza ti ha portato all’odio. Non
lasciarti vincere dall’odio, ma trionfa sull’odio per mezzo della ca­
rità. Ed ecco come: pregando Dio sinceramente per lui»141. Lo stesso

135Discorsi ascetici, 73.


136Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, VIE, 36.
137Discorso ascetico, 20.
138II beneficio della pazienza, 15.
139 Omelie su 1 Corinzi, XXXDI, 1.
140Ibid.
141 Centurie sulla carità, IV, 12.
625
autore consiglia anche: «Provi del rancore contro qualcuno? Prega per
lui e spezzerai lo slancio della passione»142. E ancora: «Contro il ri­
sentimento, prega per colui che ti ha offeso e sarai liberato»143.
Quanto alla natura e agli effetti della carità, li esamineremo quan­
do sarà giunto il momento di presentare questa virtù nella sua totalità.

142 Ibid., in , 90. Cfr. E vagrio PONTICO, Ai monaci, 14. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spiri-
tuali, VHI, 94.
143 Centurie sulla carità, III, 13.

626
y
VII
TERAPIA DELLA PAURA
IL TIMORE DI DIO

Il timore e gli stati che possono essergli collegati, come la paura,


l’inquietudine, l’ansia, l’angoscia, la disperazione sono, lo abbiamo vi­
sto, fondamentalmente legati a un attaccamento ai beni sensibili. L’uo­
mo non può dunque esserne guarito che distaccandosi da questo mon­
do1, affidando tutte le sue preoccupazioni a Dio, avendo la ferma spe­
ranza che, nella sua provvidenza, egli prowederà a tutti i suoi bisogni.
E quanto insegna il Cristo stesso: «Non vi angustiate, dunque, di­
cendo: che mangeremo? che berremo? di che ci vestiremo? tutte que­
ste cose le ricercano i gentili. Ora sa il Padre vostro celeste che avete
bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il Regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste altre cose vi saranno date in sovrappiù. Non vi
angustiate dunque per il domani» (Mi 6,31-34). In questa prospettiva
sant’Isacco consiglia: «Se tu credi che Dio ti custodisce nella sua prov­
videnza, perché t’inquieti e ti preoccupi di cose che passano e dei bi­
sogni della carne? [...] Rivolgi al Signore la tua preoccupazione, ed egli
ti nutrirà. Nessuna minaccia ti colpirà più»2; «avvicinati, egli dice, spe­
ra in me, e tu sarai alleviato in ogni attività e in ogni timore»3.
La fonte primaria del timore è, lo abbiamo visto, la mancanza di fe­
de. Il timore viene, dunque, abolito nel cuore dell’uomo nella misura
della sua fede in Dio. Una «fede inflessibile, osserva Evagrio, non am­
mette assolutamente alcun accesso al timore»4. Colui che crede fer­
mamente in Dio e nella sua provvidenza è sicuro di ricevere da lui,
in tutte le circostanze, aiuto e protezione, e non ha più quindi da te­
mere né circostanze, né avversario qualunque, né la morte stessa. San
Paolo ricorda che «Dio stesso ha detto: Io non ti lascerò né ti abban-
1 Cfr. G iovan ni C risostom o, Omelie sulle statue, XVIII, 4.
2Discorsi ascetici, 5.
3Ibid., 58.
4 Capitoli gnostici, IV, 48.
627
donerò» e che «possiamo dire con fiducia: il Signore è mio aiuto, non
temerò» (Eb 13,5-6). E il salmista osserva: «Il Signore è mia luce e mia
salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è il baluardo della mia vita, di
chi avrò paura? [...] Se si accampa contro di me un esercito, non te­
me il mio cuore» {Sai27[26], 1.3); «Non temere il terrore improvviso
né la tempesta da parte degli empi quando si avvicina; perché il Si­
gnore sarà il tuo baluardo, proteggerà dal laccio il tuo piede» {Pro 3,25-
26); «Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun ma­
le, perché tu sei con me» {Sai23[22],4).
Non è la fede per se stessa che libera l’uomo dal timore, ma Dio
che, in risposta a questa fede gli offre il suo aiuto e il suo soccorso5.
Sant’Isacco il Siro così scrive a tale proposito: «Quando il suo cuore
teme e trema al di fuori di ogni serenità, [l’uomo] comprende allora e
sa che questo timore del suo cuore significa e rivela che egli ha in­
condizionatamente bisogno che un altro lo aiuti [...]. E detto che sal­
va solo l’aiuto di Dio»6.
Questo aiuto, nella fede [certezza] che Dio può accordarglielo, e
nella speranza che egli glielo darà, l’uomo deve chiederlo attraverso la
preghiera7. Occorre notare che è la «preghiera di Gesù» contro il ti­
more e tutte le passioni che al timore sono collegate (inquietudine,
paura, ansia, angoscia) il rimedio più efficace. San Giovanni Climaco
consiglia in questi termini: «Flagella i tuoi nemici con il nome di Ge­
sù, perché non vi è arma più potente né in cielo né sulla terra. Quan­
do tu sarai guarito da questa malattia [del timore], glorifica colui che
ti ha liberato. Se gli rendi grazie, egli ti proteggerà sempre»8. Evagrio
osserva: «Chi si sforza nella preghiera pura sentirà rumori e fracassi,
voci e insulti; ma egli non crollerà, né perderà il suo sangue freddo,
dicendo a Dio: “Non temerò alcun male, perché tu sei con me” e al­
tre parole simili»9. Lo stesso constata ancora: «Colui la cui intelligen­
za è sempre volta verso Dio, la parte irascibile piena del ricordo di Dio,
e l’intera parte concupiscibile tesa verso di lui, per costui è del tutto
naturale non temere coloro che si aggirano intorno al nostro corpo,
ossia i nemici ribelli»10. La preghiera del cuore permette, infatti, al­
l’uomo di essere unito a Dio continuamente e di beneficiare costan­
5Cfr. G iovanni d i G aza , Lettere, 131. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 5.
6Discorsi ascetici, 21.
7 Cfr. ibid.
8La Scala. XX, 7.
9La preghiera, 97.
10Capitoli gnostici, IV, 73.
628
temente del suo soccorso; da allora in poi nessun motivo di timore po­
trà sorprenderlo. «Un Anziano diceva: “Che tu sia addormentato o
sveglio, qualunque cosa tu faccia, se Dio è davanti ai tuoi occhi, il
nemico non può batterti. Se il tuo pensiero rimane in Dio, anche la
forza di Dio rimane in te”»11. E l’uomo conosce tanto meno il timore
quanto più la sua preghiera è pura. «Il segno che si è giunti alla pre­
ghiera perfetta, è non essere più turbato, anche se il mondo intero ci
attacca», scrive san Barsanufio12. La scomparsa del timore e delle pas­
sioni connesse deriva qui dalla presenza permanente della forza divi­
na nell’uomo, grazie alla preghiera continua. L’uomo, però, può an­
che essere liberato da queste passioni da una preghiera specifica. A ta­
le proposito così scrive Giovanni il Solitario: «Per mezzo della richiesta
fatta al Cristo, possiamo ricevere forza e soccorso contro le nostre an­
gosce»13. Un apoftegma riferisce che «chiesero ad Abba Teodoro: “Se
sopravvenisse improvvisamente una catastrofe, avresti paura, Abba?”.
Il vegliardo rispose: “Anche se il cielo e la terra entrassero in colli­
sione, Teodoro non avrebbe paura”. Egli aveva, infatti, pregato Dio di
togliergli la paura»14.
La terapia del timore suppone correlativamente la rinuncia del­
l’uomo alla sua volontà e un atteggiamento di umiltà. Così a un fra­
tello che gli domanda: «Dimmi come posso essere salvato in questo
momento, perché un pensiero d’inquietudine è sorto nel mio cuo­
re», san Barsanufio risponde: «In ogni momento, se l’uomo può sop­
primere in tutto la sua volontà [e] conservare un cuore umile [...], egli
può essere salvato dalla grazia di Dio. E dovunque egli sia, l’inquie­
tudine non s’impadronisce di lui»15. Il timore, lo abbiamo visto, è le­
gato all’orgoglio, e fintanto che l’uomo pone la sua fiducia nelle pro­
prie forze è soggetto a questa passione. Per poterla vincere per mezzo
della forza di Dio stesso, per ricevere questa forza e conservarla, l’uo­
mo deve rinunciare a se stesso, riconoscere la propria impotenza, al­
trimenti l’energia divina non potrà trovare posto in lui. Per questo
sant’Isacco raccomanda a colui che vuole essere liberato dal timore di
pregare prima di tutto per acquistare l’umiltà: «Più egli prega, più il
suo cuore si fa umile [...]. Quando l’uomo si è fatto umüe, subito la
11Apoftegmi, N 377.
12Lettere, 150.
13Dialogo sull’anima e sulle passioni degli uomini, éd. Hausherr, p. 94.
14Apoftegmi, serie alfabetica, Teodoro di Fermé, 24.
15Lettere, 150.
629
compassione lo circonda, e il cuore allora sente il soccorso divino. Sco­
pre che in lui sale una forza, la forza della fiducia»16.
È anche con l’amore che l’uomo può vincere il timore: quello esclu­
de questo, secondo la parola dell’apostolo san Giovanni: «Nell’amo­
re non vi è timore; anzi il perfetto amore scaccia il timore» (lGv 4,18).
Avendo constatato che «nella misura in cui la carità scompare, il ti­
more emerge», san Giovanni Climaco insegna, come già san Giovan­
ni, che colui che è «pieno di carità [...] non prova timore»17. Ciò si ap­
plica all’amore del prossimo: colui che ama il fratello non conosce più
il timore a suo riguardo. Ma questo insegnamento concerne princi­
palmente l’amore di Dio che esclude tutte le forme di timore mon­
dano e, in particolare, la paura della morte che spesso è alla loro ori­
gine18. Nell’amore di Dio, l’uomo riceve «la forza della fiducia» vit­
toriosa di ogni timore19. Egli è sottomesso a Colui a cui tutte le cose
sono sottomesse e nulla potrà fargli torto20. Per l’amore, l’uomo vive
ormai nell’intimità di Dio, lontano da tutte le cose terrene, esteriori
o interiori, che possono suscitare il timore, e gode dei beni spirituali
che non possono essergli rubati. «Lungo tutto il tempo che sei tra gli
uomini, aspèttati tribolazioni, pericoli e l’assalto dei venti spirituali.
Ma quando sarai giunto a ciò che ti è stato preparato, allora sarai sen­
za alcun timore», nota san Barsanufìo21.
Occorre, tuttavia, sottolineare che, se l’uomo deve tendere ad es­
sere guarito dalla passione del timore, non deve per questo rigettare
ogni timore dalla sua anima, perché «non ogni timore è una passio­
ne»22. C’è un timore virtuoso, lo abbiamo già visto, che Dio ha dato
all’uomo come mezzo di salvezza, e che i Padri per questo chiamano
«timore salutare», «salutare ansia», e altre espressioni simili. Questo
timore costituisce ciò che la tradizione ascetica chiama il «timore di
Dio». Il timore-passione deve scomparire per far posto a questo ti­
more virtuoso. Le due forme di timore si fondano, infatti, sulla stes­
sa tendenza naturale dell’uomo ad avere timore23. Ma questa tenden­
16Discorsi ascetici, 21.
17La Scala, XXX, 10.
18 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 58.
19Cfr. ibid., 21.
20 Cfr. Barsanufìo , Lettere, 196.
21 Ibid., 8.
22 C lemente d ’A lessandria , Stronzata, E , 8,4 0 .
23 Ciò permette a molti Padri di consigliare: «Temiamo Dio quanto temiamo gli animali [sel­
vaggi]». Questa formula è usata in particolare da due dei più grandi maestri dell’ascesi: san Ma-
630
za, nel primo caso, si è applicata a questo mondo invece di applicarsi
a Dio come voleva la sua stessa natura. Per l’uomo si tratta di con­
vertirla, di ri-volgerla a Dio. Le due forme di timore, in quanto si fon­
dano sulla stessa tendenza, si escludono l’un l’altra. Mentre il timo­
re-passione escludeva il timore di Dio, questo, quando l’uomo lo ac­
quisisce, esclude quello. È per ciò che uno dei rimedi fondamentali
della passione del timore è il timore di Dio che, a mano a mano che
esso cresce nell’uomo, la riduce prendendo il suo posto. È così che il
Siracide constata: «Chi teme il Signore non avrà timore né paura» {Sir
34,14). San Giovanni Climaco, ricordando il timore di Dio, scrive:
«Questo timore [...] bandisce ogni altro timore»24. Lo stesso autore di­
ce ancora: «Colui che è divenuto servo del Signore non teme che il suo
maestro; ma colui che ancora non lo teme, spesso ha paura anche del­
la sua ombra»25. Abba Serapione fa notare che, se l’uomo «è attento a
[Dio] nel timore in ogni momento, non può temere nulla dal nemi­
co»26. Quanto a san Simeone il Nuovo Teologo, egli constata che «co­
lui che teme Dio non teme gli attacchi dei demoni, né i loro assalti im­
potenti, né le minacce dei cattivi»27.
Il timore di Dio può essere considerato, a ben guardare, come una
virtù fondamentale. Le allusioni a questa virtù sono frequenti nelle Sa­
cre Scritture28, e i Padri presentano il possederla come una condizio­
ne di salvezza29. San Giovanni Cassiano così scrive a questo proposi­
to: «Il principio della nostra salvezza e della nostra sapienza è, se­
condo la Scrittura, “il timore del Signore”»30. San Barsanufio afferma:
«Se non testimoniamo nelle nostre opere il ricordo del timore di Dio
e della compunzione che ne deriva, saremo condannati»31. Sant’Isac-
co, da parte sua, afferma: «L’inizio della vera vita dell’uomo è il ti­
more di Dio»32.

cario d’Egitto (Apoftegmi, Eth. Path. 417) e san Giovanni Climaco (La Scala, 1,29). Vedi an­
che Apoftegmi, XV, 127.
24 La Scala, VI, 10.
25 Ibid., XX, 11. Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 100.
26Apoftegmi, serie alfabetica, Serapione, 3.
27 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 68. Cfr. 69.
28 Per il Nuovo Testamento, vedi: Le 18,24; 23,40; At 9,31; 10,2.22; 13,16.26; Rm 3,18;
2Cor 5,11; l,l;E f 5,21; FU 2,12; lPt 1,17; 2,17; Ap 14,7; 15,4; 19,5.
29Vedi, per esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Euprepio, 6.
30Istituzioni cenobitiche, IV, 43.
31 Lettere, 397.
32Discorsi ascetici, 1.
631
Vi sono, tuttavia, due forme di timore di Dio33, corrispondenti a due
gradi di questa virtù34.
a) La prima forma deriva dal timore del giudizio divino, attuale
o futuro36e dalle pene che ne possono seguire37e che i Padri indicano
spesso con il nome di «castigo». Abbiamo dimostrato, d’altronde38,
che con questo termine non bisogna intendere la punizione che un
Dio vendicatore e crudele infliggerà a coloro che trasgrediscono la leg­
ge, ma le sofferenze interiori, legate allo stato di separazione da Dio
e alla privazione dei beni spirituali, ai quali l’uomo stesso si condanna
con il suo peccato e di cui il giudizio divino non fa che rivelare la pie­
na misura39.
Questa prima forma di timore è «il timore iniziale», quello che
conoscono i principianti40. È così che è scritto: «Principio di sapien­
za è il timore del Signore» (.Sai 111[110],10; cfr. Pro 1,7; 9,10).
Tre ragioni, osservano i Padri, possono allontanare l’uomo dal
male e unirlo a Dio: il timore del castigo, la speranza dei beni futuri,
l’amore di Dio41. Le prime due «sono tipiche degli uomini che cerca­
no di progredire»42, ma sono ancora servi (cfr. Gal 4,1); la terza ca­
ratterizza i perfetti; «essa è propria di Dio e di coloro che hanno ac­
quisito la sua somiglianza»43, di coloro che non sono più suoi servi ma
suoi amici e suoi figli (cfr. Gal 4,7). «Se dunque, scrive san Giovanni
Cassiano, qualcuno vuole tendere alla perfezione, partito dal primo
grado, che è quello del timore, essendo propriamente servile, [...] egli
si eleverà con un progresso continuo fino alle vie superiori della spe­
33 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 , 81; 82. G iovan ni C assiano, Con-
ferenze, XI, 6; 7; 13. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, IV, 47-49.
34 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, X I, 6; 7; 13. D oro teo d i G aza , loc. dt,
35 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VH, 13.
36 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Elia, 1: «Abba Elia dice: “Per parte mia temo tre cose: il
m omento in cui la mia anima uscirà dal corpo, quando dovrò comparire davanti a D io e quan­
do sarà emessa la sentenza contro di m e”».
37 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 ,81; 82. G iovan ni C assiano, Con­
ferenze, XI, 6; 13. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, IV, 47-49. GREGORIO DI NlSSA, Ome­
lie sul Cantico dei Cantici, I. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, VII, 13; XXVII, 75.
38 Tbéologie de la maladie, Paris 1991, pp. 32-33.
39 A questo riguardo, vedi CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo, I, 6 9 ,1 . IRENEO DI LlO-
NE, Contro le eresie, V, 27, 2; 28, 1.
40 G iovanni C assiano , Conferenze, X I, 13. B arsanufio , Istruzioni spirituali, IV, 47. B asilio
d i C esarea , Regole lunghe, 4.
41 Cfr. B asilio di C esarea , loc. dt., Prologo. G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 6. D o ­
roteo DI G aza , Istruzioni spirituali, IV, 48-49.
42 G iovanni C assia no , Conferenze, X I, 6.
43Ibid.
632
ranza, poi da lì al terzo gradc» che è quello dell’amore [...]. Sforziamoci
dunque con un ardore totale di salire dal timore alla speranza, dalla
speranza alla carità di Dio e all’amore delle virtù»44.
Vediamo che quando i Padri affermano che questa prima forma
di timore è tipica dei principianti, essi con questo intendono coloro
che non hanno ancora raggiunto la perfezione, che non sono ancora
santi. E dunque, questo timore, anche spirituali proficienti possono
e persino devono provarlo45. San Doroteo di Gaza non esita a dire ai
suoi monaci: «Questo timore iniziale è dunque nostro»46.
Tale timore, tuttavia, è chiamato ad essere abolito e superato nella
perfezione dell’amore, come ci insegna l’apostolo san Giovanni: «Nel­
l’amore non vi è timore; anzi il perfetto amore scaccia il timore, per­
ché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nell’amo­
re» (lGv 4,18). Alla sua scuola san Massimo scrive: «Il primo tipo di
timore, la carità perfetta lo scaccia dall’anima che, possedendolo, non
teme più il castigo»47. Per questo sant’Antonio il Grande può dire:
«Ormai, non temo più Dio, io lo amo; perché l’amore scaccia il ti­
more»48.
Occorre notare, però, che solo la carità perfetta, come sottolinea­
no di proposito l’apostolo san Giovanni e i Padri, rende caduco que­
sto timore. Fintanto che l’uomo non è totalmente purificato dalle sue
passioni, non ha acquistato l’impassibilità e non ha raggiunto la per­
fezione dell’amore, il timore conserva la sua ragion d’essere e resta
prezioso per lui. San Diadoco di Foticea scrive molto chiaramente:
«Il timore riguarda coloro che ancora si purificano e si accompagna
a una carità mediocre; l’amore perfetto appartiene a coloro che sono
già purificati, nei quali non vi è più timore. Infatti, “il perfetto amo­
re [dice la Scrittura] scaccia il timore” (lGv 4,18) [...]. Altrove, la
Scrittura dice: “Temete il Signore, o suoi santi” (Sai34[33],10); e an­
cora: “Amate il Signore, voi tutti suoi devoti” CW 31 [30],24), affin­
ché si sappia bene che solo ai giusti che si purificano ancora, appar­
tiene il timore, come è stato detto, con un amore mediocre; invece,
per coloro che sono purificati, c’è l’amore perfetto: in essi, non vi è
più il pensiero di un timore qualunque, ma un ardore incessante e un
44 Ibid., 7.
45 San Giovanni Climaco lo afferma molte volte e in termini forti. Vedi La Scala, VII, 13;
XXVH, 75; XXVHI, 8; 33; XXX, 11.
46Istruzioni spirituali, IV, 49.
47 Centurie sulla carità, I, 82. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 10.
48Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio, 32.
633
attaccamento continuo dell’anima a Dio per l’azione dello Spirito San­
to [,..]»49.
Se il timore resiste fintanto che l’amore non ha raggiunto la sua per­
fezione, è perché esso contribuisce per gran parte a purificare l’uomo
e così a fargli ottenere l’impassibilità che condiziona questa perfezio­
ne, a tal punto che possiamo dire che senza aver prima acquistato que­
sto timore (questa acquisizione peraltro suppone una certa purifica­
zione), l’uomo non può accedere all’amore perfetto. Sant’Isacco lo af­
ferma categoricamente, egli che vede in particolare in esso il motore e
la guida per il pentimento, organo principale della purificazione del­
l’anima: «Come non è possibile attraversare un grande mare senza na­
ve, così nessuno può giungere all’amore senza il timore. Il mare che
dà nausea, che ci separa dal paradiso spirituale, può però essere at­
traversato solo sulla nave del pentimento condotto dai rematori del ti­
more. Ma se questi rematori del timore non governano la nave del pen­
timento, per mezzo della quale attraversiamo il mare di questo mon­
do per andare a Dio, noi siamo inghiottiti nelle acque nauseabonde.
Il pentimento è la nave. Il timore è il suo pilota. E l’amore è il porto
divino»50. San Massimo, da parte sua, osserva che «questo timore ge­
nera [...] l’impassibilità, madre della carità»51. E san Diadoco di Foti-
cea scrive molto precisamente: «Nessuno può amare Dio nel senso del
cuore se non ha prima cominciato a temerlo con tutto il suo cuore; in­
fatti, purificata dall’azione del timore e come ammorbidita, l’anima ar­
riva a praticare l’amore. Ma essa non potrà arrivare completamente al
timore di Dio nel modo suddetto, se non si allontana da tutte le preoc­
cupazioni temporali; infatti quando lo spirito si è posto in una grande
pace e in un grande distacco, allora il timore di Dio lo tormenta, pu­
rificandolo, in un sentimento profondo, da tutto lo spessore terreno,
per condurlo così a un grande amore della bontà di Dio»52. Ed egli
conclude: «Dobbiamo avere, dunque, come suprema e perpetua gioia
prima di tutto il timore di Dio, poi la carità che compie la legge della
perfezione in Cristo»53.
San Gregorio Palamas sottolinea ugualmente il ruolo educatore e
purificatore indispensabile del timore, e vede in esso il principio e la
condizione per l’accesso all’amore, quindi alla stessa contemplazione
49 Cento capitoli gnostici, 16.
50Discorsi ascetici, 72.
51 Centurie sulla carità, I, 81.
52 Cento capitoli gnostici, 16. Cfr. 17.
53Ibid.
634
di Dio: «L’educazione che purifica l’anima, [ha per] principio il timore
di Dio (cfr. Pro 1,7), che fa nascere la preghiera continua a Dio nella
compunzione e nel compimento dei precetti evangelici. Una volta ri­
stabilita la riconciliazione per mezzo della preghiera e del compimen­
to dei comandamenti, il timore si muta in amore e il dolore della
preghiera, trasformato in gioia, fa apparire il fiore dell’illuminazione»54.
Sant’Isacco il Siro insegna ugualmente che il timore è la condizione si­
ne qua non della perfezione della vita virtuosa, dell’amore e della co­
noscenza di Dio, quindi la via spirituale obbligata per tutti coloro che
vogliono giungere allo scopo: «La conoscenza spirituale segue per na­
tura l’opera delle virtù. Ma il timore e l’amore precedono l’una e l’al­
tra. E lo stesso timore precede l’amore. Chiunque afferma impuden­
temente che è possibile acquistare le ultime avanti di aver lavorato ai
primi, senza alcun dubbio fonda qui la perdizione della sua anima. In­
fatti, questa è la via del Signore: l’opera delle virtù e la conoscenza spi­
rituale nascono dal timore e dall’amore»55.
b) La seconda forma di timore è inerente alla carità perfetta56. Es
deriva dall’amore di Dio mentre la prima forma di timore è stata ban­
dita da questo. E il timore di essere separato o allontanato da Dio, il
timore di essere privato della «familiarità con l’amore»57. Come af­
ferma molto giustamente Clemente d’Alessandria, «ciò che si teme
[per mezzo di esso] non è Dio, ma di essere separati da Dio»58. «Co­
lui, spiega san Doroteo di Gaza, che possiede l’amore vero, “l’amore
perfetto”, come dice san Giovanni, questo amore lo porta al timore
perfetto. Difatti, egli teme e custodisce la volontà di Dio [...], per­
ché, avendo gustato la dolcezza di essere con Dio, come abbiamo det­
to, egli teme di perderla, teme di esserne privato»59. E san Giovanni
Cassiano descrive molto a lungo questo timore, citando i passi delle
Sacre Scritture in cui esso viene ricordato: «Fondati sulla perfezione
di questa carità, ci si eleverà necessariamente a un grado ancora più
eccellente e più sublime che è il timore d’amore. Questo non nasce
dalla paura del castigo né dal desiderio della ricompensa, ma dalla

54 Triadi, 1,1, 7.
55Discorsi ascetici, 44.
56 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 13. M assimo il C onfessore , Centurie sulla
carità, I, 81; 82.
57 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,81.
58Stromata, II, 8,40.
59Istruzioni spirituali, IV, 47.
635
grandezza stessa dell’amore. Si tratta di questa mescolanza di rispetto
e d’affetto attento che un figlio ha per un padre pieno d’indulgenza,
un fratello per il fratello, l’amico per il proprio amico, la sposa per il
suo sposo. Il timore non impedisce né colpi né rimproveri; ciò che te­
me è di ferire l’amore, anche con la ferita più leggera. In ogni atto, per­
sino in ogni parola, lo si vede costantemente carico di tenerezza, nel­
la paura che il fervore dell’amore non s’intiepidisca nei suoi riguardi
per poco che sia»60.
Questa seconda forma di timore appare anche come «il timore per­
fetto»61, «quello dei santi giunti alla perfezione e alla vetta dell’amo­
re santo»62.1 santi, nota san Doroteo di Gaza, «fanno la volontà di Dio
non più per timore di un castigo [...] ma per amore [...], temendo di
fare qualcosa contro la volontà di Colui che essi amano [...]. I santi
non agiscono più per timore, ma temono per amore»63. Così san Gio­
vanni Cassiano fa notare che «sono i santi, e non i peccatori, che gli
oracoli profetici invitano a questo timore: “Temete il Signore, tutti voi
che siete santi”, dice il Salmista, “non c’è indigenza per quelli che lo
temono” (Sai 34[33],10). È certo che nulla manca alla perfezione di
questo timore per colui che teme il Signore [...]. È lo stesso timore d’a­
more di cui parla il profeta, quando descrive lo Spirito settiforme che
senza alcun dubbio è disceso sulTuomo-Dio, secondo l’economia del­
l’Incarnazione: “Riposerà sopra di lui, dice, lo Spirito del Signore, spi­
rito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Ir 11,2), poi alla fine,
come il coronamento di tutti questi doni: “Troverà compiacenza nel
timore del Signore” (Is 11,3). In queste parole occorre innanzitutto
considerare bene ciò che egli non dice: “Lo spirito di timore del Si­
gnore riposerà su di lui” come lo aveva fatto per gli altri doni, ma di­
ce: “Lo spirito di timore del Signore lo riempirà”. Questo Spirito, in
realtà, si effonde con una tale abbondanza che, quando si è impos­
sessato di un’anima, non la possiede solo in parte, ma completamen­
te. È logico. Essendo tutt’uno con la carità che non passerà mai, non
solo riempie, ma possiede inseparabilmente e per sempre colui di
cui si è impossessato [...]. Tale è il timore dei perfetti di cui è detto che
fu riempito l’uomo-Dio, che non era venuto solo per riscattarci, ma
® Conferenze, XI, 13.
61 Vedi Doroteo di Gaza, (Istruzioni spirituali, IV, 47 e 48), il cui insegnamento su tale que­
stione corrisponde in ogni punto a quello di san Giovanni Cassiano.
62Ibid., IV, 47. Cfr. 48.
a Ibid., 49.
636
I
doveva anche offrire nella sua persona il tipo di perfezione e il pro­
totipo delle virtù»64.
È indispensabile sapere, e san Doroteo di Gaza vi insiste, che nes­
suno può giungere a questo timore perfetto senza avere prima cono­
sciuto la prima forma di timore: «È impossibile pervenire al timore
perfetto senza passare per il timore iniziale»65, «perché è detto: “Prin­
cipio di sapienza è il timore del Signore” (Sai 111 [110],10), e ancora:
“Il timore del Signore è l’inizio e la fine” (cfr. Pro 1,7; 9,10; 22,4Ì»66.
Per questo, colui che non ha ancora raggiunto la salute nell’im­
passibilità né la perfezione nell’amore, deve cercare di acquistare il ti­
more iniziale. Infatti, contrariamente al timore-passione, il timore di
Dio non è spontaneo nell’uomo, ma è una virtù che egli deve sfor­
zarsi di acquisire con l’aiuto di Dio. Ecco perché esso è d’altronde og­
getto di un comandamento: «Temi Dio [...] perché l’uomo è tutto qui»
(Qo 12,13); «Con timore e tremore lavorate alla vostra salvezza» (FU
2,12); «Comportatevi nel tempo del vostro passaggio sulla terra con
un senso di timore» (lPt 1,17). L’uomo non potrà progredire sulla via
della pràxis senza essere permanentemente «fornito» di questa di­
sposizione interiore, come dice per mezzo di immagini san Barsanu-
fio: «Quando si intraprende un viaggio, mettiamo dei sandali [...].
La preparazione materiale deve far pensare alla preparazione spiri­
tuale. Occorre prendere dei sandali spirituali, cioè la preparazione del
timore di Dio, ricordandosi che si deve compiere tutto secondo il ti­
more di Dio»67.
Quali sono le condizioni per acquistare il timore di Dio?
Esso «procede dalla fede»68. D’altra parte, è legato direttamente
alla pratica dei comandamenti69, come afferma il salmista: «Beato
l’uomo che teme il Signore, nei suoi precetti trova molto diletto»
(Sai 112[111],1); «Beati tutti quelli che temono il Signore e cammi­
nano nelle sue vie» (Sai 128[127],1) e l’Ecclesiaste: «Temi Dio e os­
serva i suoi comandamenti» (Qo 12,13). E per questo che i Padri in­
tendono spesso per timore di Dio la stessa pratica dei comandamen-

64 Conferenze, XI, 13.


65 Istruzioni spirituali, IV, 47.
66Ibid., 49.
67 Lettere, 393.
68 ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 1. Cfr. 18. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teolo­
gici, gnostici e pratici, 1,5.
69 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento al Salmo 111, 1; Commento al Salmo 127,1.

637
ti70. Difatti, l’uomo manifesta il vero possesso di questa virtù solo confor­
mandosi alla volontà di Dio espressa nei comandamenti. Anche gli
stessi demoni temono Dio, ma di un timore non virtuoso, perché, se
suppone il riconoscimento della sua onnipotenza, non si accompagna
al compimento della sua volontà.
Il distacco da questo mondo, l’incuranza spirituale dinanzi alle
cose terrene ne sono un’altra condizione71. Anche la meditazione
della morte72 e del fine ultimo73, come la solitudine74, che sono molto
legate agli atteggiamenti precedenti, lo favoriscono allo stesso modo
dell’esamé di coscienza75, il regolare riconoscimento del proprio stato
di peccato76, la sofferenza77 e le lacrime78.1 Padri raccomandano an­
che a coloro che cercano di acquistare questa virtù di frequentare as­
siduamente uno spirituale che già lo possiede79.
Non bisogna, però, dimenticare che, in quanto virtù, il timore di
Dio è una manifestazione della grazia, e se gli sforzi dell’uomo sono in­
dispensabili per acquistarlo, esso è tuttavia sempre un dono di Dio e
dunque deve essere chiesto con la preghiera80. È soprattutto con la
preghiera che l’uomo può ricevere la purificazione che gli permette di
provare il timore di Dio, che egli è incapace di provare da solo anche
nei gradi più elementari, tanto egli è totalmente sottomesso alle pas­
sioni. Ecco perché «il timore iniziale» stesso suppone già un certo svi­
luppo spirituale, e appare anche come una virtù posseduta non dai
principianti in senso stretto, ma piuttosto dai proficienti. San Diado­
co scrive, utilizzando un linguaggio esplicitamente medico: «Come
le ferite del corpo, quando sono sporche e trascurate, non sentono il
beneficio del rimedio che i medici applicano, ma una volta lavate sen­
tono l’azione del rimedio con progressi rapidi verso la guarigione, co­
sì l’anima, fintanto che è senza cure e ricoperta dalla lebbra delle pas­
sioni, non può sentire il timore di Dio, nemmeno se la si minaccia sen­
za tregua del terribile e potente tribunale di Dio. Ma quando essa ha
70Vedi, per esempio, MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 48.
71 Cfr. I d ., Discorso ascetico, 18. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 16.
72Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, VE, 13. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52.
73 Cfr. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 1. D oroteo di G aza , loc. cit.
74 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 56.
75 Cfr. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52.
76 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 29.
77 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 96.
78 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, V E, 61.
79Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, IV, 52; Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 67.
80 Cfr. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 17. ISACCO il Siro , Discorsi ascetici,
56. BARSANUFIO, Lettere, 393.

638
cominciato a purificarsi con una preghiera intensa, allora, come un ve­
ro rimedio di vita, essa sente il timore divino che la brucia, attraver­
so l’azione dei suoi rimproveri, in un fuoco d’impassibilità»81.
Gli effetti del timore di Dio82 sono particolarmente numerosi e
importanti, nella misura in cui esso costituisce una delle basi e una del­
le condizioni della vita spirituale, tanto che san Giovanni Crisosto­
mo afferma: «Voi avete un tesoro più abbondante di tutte le ricchez­
ze [...]: il timore di Dio»83.
Prima di tutto esso allontana84l’uomo dal male come ci insegna Sa­
lomone (cfr. Pro 15,27; 8,13). Esso purifica l’uomo da ogni peccato e
da ogni passione85, e a questo titolo appare come un «rimedio»86glo­
bale. San Giovanni Cassiano lo considera la croce sulla quale l’asceta
deve morire al mondo87. E san Diadoco di Foticea osserva, sottoli­
neando il suo valore terapeutico: «Come un vero rimedio di vita»,
esso «brucia [l’anima] per mezzo dell’azione dei suoi rimproveri [...].
Così ormai, [l’anima] viene purificata a poco a poco e cammina verso
la purificazione perfetta»88. San Gregorio Palamas vede in esso «il prin­
cipio» della «educazione che purifica l’anima»89, ciò «la libera da
tutto e la pulisce [...] per farne una tavoletta pronta a ricevere i cari­
smi dello Spirito»90.
L’azione terapeutica del timore di Dio si rivela particolarmente ef­
ficace contro le passioni che soffocano l’anima e paralizzano la vita spi­
rituale: l’acedia («nulla è così efficace per scacciarla]», insegna san Gio­
vanni Climaco)91, l’oblio e la negligenza92, la pusillanimità e l’abbatti­
mento93, la durezza del cuore94nel senso ascetico di insensibilità spirituale.

81 Cento capitoli gnostici, 17.


82In ciò che segue considereremo essenzialmente gli effetti della prima forma di timore, per­
ché la seconda supera l’ambito della prdxis.
83 Omelia sulle Calende, 3.
84 Cfr. G iovanni C assiano , Conferenze, XI, 6.
,
85 Cfr. G iovan n i C risostom o, Omelie sulle statue, XV, 1. G iovan n i C lim aco, La Scala
x x v m , 33.
86II termine viene usato da san GIOVANNI CRISOSTOMO, loc. cit., 2. Quanto a Diadoco di Fo­
ticea, definisce il timore di Dio come «vero rimedio di vita» {Cento capitoli gnostici, 17).
87 Istituzioni cenobitiche, IV, 35.
88 Cento capitoli gnostici, 17.
89 Triadi, 1,1,7.
90Ibid.
91 La Scala, XXVH, 75.
92 Cfr. B arsanufio , Lettere, 226.
93 Cfr. ibid, 149.
94 Cfr. ibid., 600.
639
Esso purifica l’anima anche da tutti i desideri carnali95, da tutti i
pensieri96e immaginazioni97cattive. Eliminandoli del tutto dall’anima,
esso preserva l’uomo da un loro ritorno. San Basilio così scrive al ri­
guardo: «Il timore inibisce ogni suggestione passionale [...]. Là dov’è
il timore di Dio, tutto il sudiciume della passione viene espulso dai no­
stri pensieri»98. San Giovanni Crisostomo sottolinea anche questa fun­
zione profilattica: «Dov’è il timore i desideri cattivi sono repressi, le
passioni sregolate vengono bandite; e così come, quando una casa è
guardata ininterrottamente da ima squadra di soldati, né briganti, né
assassini, né alcun altro malfattore oseranno avvicinarsi: così quando
il timore s’impadronisce delle nostre anime, nessuna passione disone­
sta vi entra facilmente, tutte fuggono e si ritirano, scacciate da ogni
parte dalla forza imperiosa di un salutare spavento»99. Il timore allon­
tana dall’anima anche ogni cruccio e ogni preoccupazione terrena100.
Il timore contribuisce, dunque, all’opera essenziale che è la cu­
stodia del cuore, condizione della preghiera pura, dell’amore per­
fetto e della vera contemplazione di Dio. Origene arriva a scrivere:
«Nulla custodisce il nostro cuore come il timore di Dio»101. E san Bar-
sanufio ricorda i «perfetti, che sono capaci di governare il loro spi­
rito e conservarlo nel timore di Dio, affinché non se ne vada alla de­
riva e non sia inghiottito da una distrazione profonda o dai fanta­
smi»102.
Il timore di Dio «non solo scaccia dal nostro cuore le passioni, ma
vi introduce tutte le virtù»103. Abba Giacomo ci insegna: «Come una
lampada illumina una camera oscura, così il timore di Dio, quando pe­
netra nel cuore dell’uomo, lo illumina e gli insegna tutte le virtù»104. E
san Giovanni Crisostomo afferma: «Nulla fa crescere e fiorire di più
la virtù di un timore continuo»105.
Il timore di Dio appare come la condizione e il principio di ogni vi­
95 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XV, 1. G iovanni C limaco , La Scala,
X X V m ,3 3 .
96 Cfr. G iovanni C risostomo , loc. dt. G iovanni C limaco , La Scala, X X V m , 33.
97 Cfr. BAUSAMMO, Lettere, 431.
98 Omelie sull’origine dell’uomo, E, 11. Cfr. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, IV, 49.
99 Omelie sulle statue, XV, 1.
100Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X V in , 33.
101 Commento al Salmo 140,3, PG 12,1666A.
102Lettere, 431. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 1.
105 G iovanni C risostomo , Omelie sulle statue, XV, 1.
104Apoftegmi, serie alfabetica, Giacomo, 5.
m lbid.
640
ta virtuosa106. Esso precède l’opera delle virtù, e le virtù nascono da
esso, e così senza di esso non è possibile acquistarle, afferma catego­
ricamente sant’Isacco il Siro107. San Giovanni Crisostomo insegna: «Si
è così lontani dal fare il bene quando non si prova questo sentimento,
come lo si è dal fare il male quando lo si prova»108.
Proprio perché allontana l’uomo dal male e lo purifica, il timore gli
permette di accedere al bene, come indicato esplicitamente da san Pao­
lo quando consiglia: «Purifichiamoci da ogni macchia della carne e
dello spirito, portando a compimento la santità, nel timore del Signo­
re» (2Cor 7,1). Ma è anche, più positivamente, in quanto esso favori­
sce la pratica dei comandamenti109. «Beato l’uomo che teme il Signo­
re» dice il salmista (Sai 112[111],1). Perché? «Perché egli si applica
con zelo all’osservanza dei suoi comandamenti», risponde san Basi­
lio riprendendo il salmo. Infatti, «coloro che vivono nel timore non
potranno né omettere, né osservare negligentemente uno solo dei
comandamenti dati loro»110.
II timore di Dio conferma la fede111da cui esso procede, e che è il
fondamento stesso della vita spirituale. Aggiunto a questa fede, esso dà
all’uomo «la forza d’intraprendere ogni cosa, anche ciò che sembra dif­
ficile o impossibile alla maggior parte degli uomini»112, lo rende fer­
mo e risoluto nelle sue vie113, «fortifica il suo cuore»114, e questo tanto
più in quanto gli dà una fiducia incrollabile in Dio115. Per dò stesso l’uo­
mo riceve dal timore una grande stabilità interiore, sia di fronte ai
tormenti di questa vita sia di fronte ai nemici che egli deve affrontare
sulla via spirituale, mentre, al contrario, è tanto più dominato dal cam­
biamento e dall’alienazione quanto più l’ha abbandonato il timore116.
Se il timore è favorito dal pentimento, dalla compunzione e dalle
lacrime, esso appare in cambio come una fonte di questi atteggiamenti
penitenziali, come un fattore che li sviluppa e li rafforza117.
106Cfr. G iovanni C risostom o , Omelie sulle statue, XV, 2. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 1.
107 Discorsi ascetici, 44.
108 Omelie sulle statue, XV, 1.
109 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, Prologo. G reg o rio Palam as, Triadi, 1 ,1,7. Apof-
tegmi, serie alfabetica, Giacomo, 5.
m Ibid.
III EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, P rologo, 8.
112 S im eone il N u o v o T eo l o g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 , 69.
113 Ibid.
114 G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, VI, 13,2.
115 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 , 81.
116 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 1.
117 Cfr. ibid., 72; 18. BARSANUFIO, Lettere, 397. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulle statue,
XV, 1; Omelie sulla lettera ai Filippesi, HI, 4.
641
Il timore favorisce la preghiera e la rende fervente118. Rende fe­
conda la preghiera di richiesta: «È una grande gioia che qualcuno chie­
da una cosa per timore di Dio, costui è certo che la sua richiesta sarà
esaudita», scrive san Barsanufio119. Dal timore procede anche la pre­
ghiera di lode, così che è scritto: «Innalzate lodi al nostro Dio, [...] voi
che lo temete» (Ap 19,5); «Temete il Signore e dategli gloria» (Ap 14,7).
È sempre il timore che «fa nascere la preghiera continua a Dio nella
compunzione e il compimento dei precetti evangelici», osserva san
Gregorio Palamas120. Esso contribuisce a rendere pura ogni forma di
preghiera nella misura in cui genera nell’anima la sobrietà121.
Il timore di Dio appare soprattutto come una fonte essenziale di
umiltà122, al punto tale che, a un fratello che gli chiede «in quale mo­
do l’uomo arriva all’umiltà», Abba Cronio risponde: «Per mezzo del
timore di Dio»123.
Ma, come abbiamo spiegato prima, esso conduce l’uomo soprat­
tutto alla carità, coronamento di tutte le virtù124.
Dalla purificazione dalle passioni, dall’impassibilità, e correlativa­
mente dalla pratica dei comandamenti, dalla vita secondo le virtù in
cima alle quali c’è l’amore, procede la conoscenza spirituale. Il timo­
re di Dio appare, così, indirettamente come la condizione indispen­
sabile e il principio di questa, e in particolare del suo primo grado,
quello della sapienza. Ecco perché più volte nelle Sacre Scritture si di­
ce che «principio di sapienza è il timore del Signore» (Sai 111[110],10;
cfr. Pro 1,7; 9,10) e il salmista dice ancora che hanno «buon senno co­
loro che lo praticano» (Sai 111[110],10). In questa prospettiva, san
Giovanni Crisostomo afferma categoricamente: «Colui che è virtuoso
e che teme Dio è il più saggio degli uomini» e ancora: «Colui che te­
me Dio possiede la sapienza»125. San Gregorio Palamas vede nel ti­
more di Dio il principio non solo della sapienza ma anche della con­
templazione divina126. E sant’Isacco il Siro indica chiaramente il pro­
cesso attraverso cui il timore conduce alla conoscenza: «Dalla fede
118Cfr. Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, XV, 1.
119Lettere, 262.
120 Triadi, 1 ,1, 7.
121 M assimo il C onfessore , Discorsi ascetici, 18.
122 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, II, 3,4.
123Apoftegmi, serie alfabetica, Cronio, 3.
124 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, X X V , 29; X X X , 21. Isa cc o i l Siro, Discorsi ascetici,
44; 72.
125 Commento a san Giovanni, X L I , 3.
126 Triadi, 1 ,1, 7.
642
nasce il timore di Did Ora quando questo accompagna le opere e si
eleva, per poco che sia, verso il compimento, esso genera la conoscenza
spirituale [...]. La fede suscita in noi il timore, e il timore ci spinge a
pentirci e a metterci all’opera. Così è concessa all’uomo la conoscen­
za spirituale, che è la sensazione dei misteri, la quale genera la fede
della vera contemplazione. Tuttavia, la conoscenza spirituale non na­
sce così semplicemente dalla sola fede pura, ma la fede genera il ti­
more di Dio, e nel timore di Dio, quando iniziamo ad agire per suo
mezzo, dall’energia di questo timore nasce la conoscenza spirituale,
come ha detto san Giovanni Crisostomo: “Quando qualcuno mette in
atto la volontà di seguire il timore di Dio e la corretta sapienza, egli ri­
ceve subito la rivelazione dei misteri”»127. E san Giovanni Cassiano
sottolinea che il timore di Dio è necessario non solo per acquistare la
conoscenza, ma anche per conservarla: «Uno dei profeti ne ha ben
espresso la grandezza: “Ricchezza salutare sarà la saggezza e la cono­
scenza; il timore del Signore sarà il suo tesoro” (Ir 33,6). Non avreb­
be potuto sottolineare con maggiore evidenza la sua dignità né il suo
valore, se non nel dire che le ricchezze della nostra salvezza, che con­
sistono nella vera sapienza e nella scienza di Dio, non si conservano
che per mezzo di esso»128.
Beninteso, la conoscenza spirituale non è il frutto del timore di Dio,
ma appare come un dono gratuito di Dio in risposta alla preghiera e
a tutti gli sforzi ascetici dell’uomo, opera nella quale, lo abbiamo vi­
sto, il timore gioca un ruolo primario. Ecco perché sant’Isacco il Si­
ro si prende la cura di precisare: «Non è il timore di Dio che genera
questa conoscenza spirituale [...]. Ma tale conoscenza è offerta come
un dono allorché si mette in opera il timore di Dio»129.
Le considerazioni precedenti ci permettono altresì di comprende­
re perché i Padri considerano il timore di Dio come se fosse per l’uo­
mo una fonte di gioia spirituale. Sulla scia del salmista che esclama:
«Beato l’uomo che teme il Signore» {Sai 112[111],1), san Giovanni
Crisostomo afferma: «L’uomo felice è unicamente colui che teme il Si­
gnore»130; «colui che teme Dio [...] gode di una vera e solida felicità»131;
«nel timore del Signore consiste la vera felicità»132.
127Discorsi ascetici, 18.
128Conferenze, XI, 13.
129Discorsi ascetici, 18.
130Catechesi battesimali, II, 1.
131 Commento al Salmo 127,1.
132Commento al Salmo 111,1.
643
Vili

TERAPIA DELLA CENODOSSIA E DELL’ORGOGLIO


L’UMILTÀ

1. Terapia della cenodossia


Abbiamo visto, descrivendo la cenodossia, che questa è una pas­
sione particolarmente sottile, difficile da riconoscere, suscettibile di ri­
vestire forme molteplici e attaccare l’uomo da diverse parti. Per que­
sto san Giovanni Climaco la considera come «la più diffìcile e la più
pericolosa di tutte le trappole».
La terapia di questa malattia spirituale si rivela subito particolar­
mente delicata, tanto più che essa si alimenta persino di ciò che si fa
per combatterla ed è rafforzata dalla sua disfatta, come spiega san Gio­
vanni Cassiano: «Tutti i vizi, una volta dominati, deperiscono, e quan­
do sono stati vinti s’indeboliscono di giorno in giorno [...]. La ceno­
dossia, una volta abbattuta, si riprende per attaccarci più aspramente,
e allora quando la si crede spenta trova nella lotta contro di essa un
supplemento di forza. Gli altri vizi generalmente non attaccano se non
coloro che essi hanno già vinto; ma questo vizio perseguita più aspra­
mente i suoi vincitori, e più lo si schiaccia energicamente, più appro­
fitta della fierezza del suo vincitore per attaccarlo con più violenza»1.
Così «la cenodossia [...] raggira più spietatamente coloro che non se
l’aspettano e non vigilano su di essa»2.
Colui che intraprende la terapia della cenodossia dovrà, dunque,
dar prova, dall’inizio fino alla fine, di grande discernimento spiritua­
le3e di vigilanza costante4.
Una conoscenza dettagliata della passione, delle sue molteplici sfac­
cettature, dei suoi sotterfugi e delle sue trappole, come dei mezzi che
permettono di eludere le astuzie, costituisce fin dall’inizio un elemen­
1Istituzioni cenobitiche, XI, 7.
2Ibid.y 9.
3 Cfr. ibid., 4.
4 Cfr. ibid., 19. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 90. G iovan ni di G aza, Lettere, 234.
644
to fondamentale della sua profilassi come della sua terapia. Per que­
sto motivo, i Padri ritengono necessario mettere a disposizione di
coloro che sono alla loro scuola tali mezzi, come sottolinea san Gio­
vanni Cassiano: «Come i più esperti tra i medici non si accontentano
in genere solo di guarire le malattie presenti ma, nella loro sapiente
esperienza, vanno incontro alle malattie future e le prevengono con
prescrizioni e rimedi salutari, così, questi veri medici delle anime, di­
struggendo anticipatamente nella conferenza spirituale, come per un
celeste antidoto, le malattie del cuore prima che esse appaiano, e
non permettendo che si sviluppino nello spirito dei giovani, svelano
loro sia la causa delle passioni che li minacciano sia i rimedi che ri­
danno la salute»5. «Mentre essi rivelano le illusioni di tutte le passio­
ni, quelle tipiche dei principianti e quelle dei ferventi, i giovani ven­
gono istruiti sui segreti delle loro lotte viste come in uno specchio, e
imparano a conoscere le cause e i rimedi dei vizi dai quali sono scos­
si; apprendono così, anche prima che questi si producano, come oc­
corre premunirsi contro le lotte future e affrontarle da veri lottatori»6.
L’uomo sarà stimolato a combattere questa passione se prende co­
scienza dei rischi nei quali incorrerà, in particolare quello di perdere
totalmente il beneficio delle pene che egli ha fino ad allora sopporta­
to così come tutte le virtù che ha acquistato7, e di vedersi poi alla fi­
ne ridotto a nulla, secondo la parola del salmista: «Dio ha disperso le
ossa di coloro che piacciono agli uomini» {Sai 53 [52] ,6). Alla lotta con­
tribuiscono così la meditazione e il timore del giudizio divino per il
presente e per il futuro8, giudizio cui si riferisce in particolare questa
parola del Cristo: «Chiunque si innalza sarà abbassato» {Le 14,11).
Proprio perché la cenodossia è ricerca della gloria umana, mon­
dana, terrena, l’uomo che vuole vincere questa passione deve rico­
noscere la vanità di tale gloria, prendendo coscienza, in particolare,
dell’inconsistenza dei suoi fondamenti e della nullità dei fini che per­
segue, come molte volte sottolineano i Padri9. La morte rivela la
piena misura della vanità e caducità delle cose terrene che la ceno­
dossia ha per oggetto; nello stesso tempo, essa è il momento crucia­
le in cui il giudizio divino viene manifestato all’uomo. Ecco perché il
5Istituzioni cenobitiche, XI, 17,2.
6Ibid., 17,1.
7Cfr. ibid., 19.
8Cfr. ibid. G iovanni C limaco, La Scala, XXI, 41. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), LV, 4.
9 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 5; Omelia su questa paro­
la: «Non temete...», 1,1; Commento a san Matteo, LXV, 5; Commento al Salmo 4, 6.
645
«ricordo della morte» è, anch’esso, un’arma efficace contro questa
passione10.
Poiché la cenodossia è ricerca di considerazione, di fama, di onore,
di gloria, è necessario rinunciare a tutto ciò che può esserne la fonte
o l’occasione. Occorre sfuggire coloro che sono manifestamente sot­
to il suo dominio11e che costituiscono un esempio infelice. Bisogna ri­
fiutare per se stessa ogni funzione onorata dagli uomini, in particola­
re a motivo del potere o del prestigio che essa conferisce, respingere
ogni distinzione che può attirare ammirazione o lodi12. Poiché la ce­
nodossia consiste nel desiderio di essere notati, è opportuno evitare
ciò che può farci notare dagli altri, tanto nelle parole come nelle azio­
ni o nei comportamenti13. Colui che vuole essere liberato della ceno­
dossia deve, al contrario, fare tutto per divenire o per restare ignora­
to dagli uomini14. Possono contribuire a questo fine la scelta di una
condizione oscura, e la ricerca della solitudine15.
Abbiamo visto che la cenodossia consiste nell’esaltarsi non solo per
mezzo dei «beni» mondani, ma anche per mezzo di beni spirituali, nel
gloriarsi davanti ad altri o davanti a se stessi della propria ascesi e del­
le proprie virtù. E questa la forma più sottile della passione, ma anche
la più temibile, che sta sempre in agguato dell’uomo spirituale. Essa
dev’essere combattuta in diversi modi.
Di fronte ad altri uomini, dai quali la cenodossia attende ammira­
zione e lodi, è meglio non lasciar vedere la propria ascesi né le virtù
che si possiedono né le azioni che le manifestano16. E in questa linea
che san Massimo scrive: «La cenodossia è soppressa dall’azione na­
scosta»17. E inoltre: «Quello della cenodossia è un duro combattimento.
Ci si può liberare per mezzo della pratica nascosta delle virtù [...]»18.
Si deve badare, controllando accuratamente il comportamento e le pa­
role, di non lasciar nulla trapelare del proprio stato interiore, senza ri­
velare nulla della propria vita spirituale. Ecco perché san Giovanni
Climaco consiglia: «Sii zelante nella tua anima senza manifestare

10 Cfr. Giovanni Climaco, La Scala, XXI, 41. Macakio d’E gitto, Omelie (Coll, n), LV, 4.
11 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
12 Cfr. G iovan n i C assiano, Istituzioni cenobitiche, X I , 18. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
X X I , 19.
13Cfr. G iovanni C assiano, loc. dt., 19. G iovan ni C lim aco, La Scala, IV, 90.
14Cfr. M a c a r io d ’E g it t o , Omelie (Coll. HI), X X I , 3 . 2 . Apoftegmi, Arm n, 250.
15Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, X I, 6.
16Cfr. G iovanni C risostom o, Commento a san Matteo, X I X , 2.
17 Centurie sulla carità, HI, 62.
18 Ibid., IV, 43.

646
nulla nel tuo corpo, attraverso una qualsiasi apparenza esteriore, o una
parola, o un’allusione sottintesa»19; «dovunque andrai, nasconderai il
tuo modo di vivere»20. Egli scrive inoltre: «L’inizio della vittoria sulla
cenodossia è il controllo della lingua»21. Ciò implica a fortiori il rifiu­
to di insegnare agli altri e persino di annunciare la parola, come sot­
tolinea san Macario il Grande: «Colui che è invitato a parlare e viene
costretto ad annunciare la parola deve rattristarsene, fuggire la cosa
come il fuoco e respingere il pensiero al fine di sfuggirvi e di non ca­
dere nella cenodossia a causa della sua parola»22. A questo proposito
cita23l’esempio di Mosè che, pregato da Dio stesso di annunciare la
parola a Israele, «se ne scusò dicendo: “Io non sono un parlatore”»
(cfr. Es 4,10), l’esempio di Geremia che ugualmente si scusò dicendo:
«Non so parlare perché sono ragazzo» (cfr. Ger 1,6), e l’esempio di
san Paolo che scrive: «Malgrado me sono depositario di un mandato»
(cfr. iCor 9,17). Negli Apoftegmi si ritrovano numerosi esempi di Pa­
dri che rifiutano di parlare o non rispondono alle domande di coloro
che sono venuti ad interrogarli se non dopo che questi hanno a lungo
insistito.
Colui che vuole vincere la cenodossia deve non solo nascondere la
sua ascesi, le sue virtù e la sua eventuale sapienza, ma anche non na­
scondere agli altri le proprie colpe, a condizione tuttavia che ciò non
causi loro dei torti. San Giovanni Climaco consiglia in questa pro­
spettiva: «Non nascondere una colpa umiliante con il pretesto di evi­
tare lo scandalo; tuttavia, non è forse possibile usare questo rimedio
in ogni caso; questo dipende dalla natura della colpa»24. In generale,
ed è questo un rimedio fondamentale contro la cenodossia, l’uomo de­
ve accettare di essere umiliato, e ricercare anche ciò che può procu­
rargli il disprezzo. «L’inizio della vittoria sulla cenodossia è [...] l’a­
more per le umiliazioni», scrive san Giovanni Climaco25. Per questo
un Anziano consiglia: se il diavolo «viene a farti perdere nella ceno­
dossia, compi un’azione o assumi davanti agli uomini un atteggiamento
tale che essi ti disprezzino, perché, sappilo bene, Satana non è mai tan­
to desolato come quando l’uomo desidera l’umiliazione e il disprez­

19La Scala, IV, 91.


20Ibid., XXI, 36.
21 Ibid., 39.
22 Omelie (Coll. E), LV, 2.
23Ibid.
»La Scala, XXI, 39.
25Ibid.
647
zo»26. E san Giovanni Climaco osserva che «Dio gioisce quando ci ve­
de correre incontro alle umiliazioni, per reprimere, battere e annien­
tare la vana stima di noi stessi»27. Lo stesso autore rivela che alcuni igu-
meni o Padri spirituali sono propensi a umiliare coloro che non lo fan­
no da sé, allo scopo di guarirli dalla cenodossia: «Avendo notato che
alcuni amano mostrarsi quando dei secolari vengono al monastero, i
medici infliggevano loro davanti ai visitatori le più gravi ingiurie e
ingiungevano loro i servizi più umilianti»28. L’umiliazione può, del re­
sto, essere usata con lo stesso scopo da Dio stesso, come nota ancora
san Giovanni Climaco: «Il Signore spesso toglie ai vanitosi la va­
nagloria con qualche umiliazione che capita loro»29.
Per questo l’uomo deve vedere nelle diverse umiliazioni che subi­
sce (disprezzo, ingiurie, ecc.) dei rimedi provvidenziali, e in colui che
lo ha afflitto, leso, disprezzato o insultato, come un medico che gli
ha rivelato la sua malattia e gli ha dato i mezzi per guarire dalla ce­
nodossia. A questo riguardo un Padre consiglia: «Se qualcuno con­
serva il ricordo di un fratello che lo ha afflitto, leso o insultato, deve
ricordarsi di lui come di un medico inviato dal Cristo e considerarlo
come un benefattore: se ti affliggi in queste circostanze, è perché la tua
anima è malata. In realtà, se non fossi malato, non soffriresti. Devi,
dunque, ringraziare questo fratello poiché, grazie a lui, tu scopri la tua
malattia; devi pregare per lui e ricevere ciò che viene da lui come ri­
medio datoti dal Signore stesso. Se, al contrario, sei adirato contro di
lui, è come se dicessi a Gesù: “Non voglio ricevere i tuoi rimedi, pre­
ferisco che la cancrena rimanga nelle mie ferite”»30. E più avanti: «Se
vuoi essere guarito da queste terribili ferite dell’anima, devi soppor­
tare ciò che il medico t’impone. Non è certo con piacere che colui che
è malato nel suo corpo subisce un’amputazione o prende una purga;
ne conserva anche un cattivo ricordo, e tuttavia, persuaso che senza
questo trattamento non può essere liberato dalla sua malattia, sopporta
ciò che il medico gli impone. Egli sa che con un piccolo inconve­
niente sarà liberato da una lunga malattia. Il cauterio di Gesù, è co­
lui che, insultandoti o causandoti un torto, ti libera dalla vanagloria»31.
Lo stesso autore per ciò che lo riguarda personalmente afferma: «Io
26Apoftegmi, N 592/54.
27 La Scala, XXV, 42.
28 Ibid., IV, 36.
29Ibid., XXI, 38.
30Apoftegmi, XVI, 17.
31 Ibid., 18.
648
non accuso quelli che mi rimproverano ma li dichiaro miei benefatto­
ri e non respingo il medico delle anime che apporta un rimedio umi­
liante alla mia anima impura e orgogliosa»32.
Il segno che l’uomo è guarito dalla cenodossia sta nel fatto che
egli non prova nessuna sofferenza nell’essere umiliato in pubblico33,
non ha più rancore incontrando colui che lo ha offeso, disprezzato, in­
sultato, che ha detto o ancora dice male di lui34; al contrario, lo rin­
grazia come se fosse un benefattore, sull’esempio dell’Anziano prece­
dentemente citato. In questa prospettiva, si può comprendere la se­
guente affermazione di san Massimo: «L’amore del prossimo [...] rende
indifferenti alla gloria»35.
Assumere, e anche ricercare le umiliazioni, guarisce l’uomo dalla
cenodossia in quanto essa ricerca la gloria mondana, l’ammirazione
o solo la stima degli altri. Ma la cenodossia è anche una passione per
mezzo della quale l’uomo si stima, si ammira e onora se stesso, e si glo­
ria. Per combatterla a questo livello, l’uomo deve prima di tutto igno­
rare la propria ascesi e le proprie virtù, nascondere a se stesso ciò
che c’è di buono in lui e il bene che ha fatto36. San Giovanni Criso­
stomo fa notare che il Cristo, «dopo aver biasimato la vanità [...] dà il
rimedio a un’anima colpita da questo male [raccomandando]: [...]
“Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra” (Mt 6,3)»37.
Anche quando avrà compiuto tutta la volontà di Dio, l’uomo do­
vrà, come raccomanda il Cristo (cfr. Le 17,10), considerarsi un servo
inutile, che non ha fatto nulla di più di quanto doveva fare: questo è
anche un altro mezzo proposto dai Padri per evitare la cenodossia38.
Ma molto prima di ciò, l’uomo deve esaminare la propria coscien­
za e considerare quanto è lontano dall’aver compiuto tutti i coman­
damenti39. Prima ancora, deve ricordarsi dei suoi peccati e piangerli,
ciò estirperà la cenodossia sia in rapporto a se stesso che agli altri. «Se
non perdiamo di vista i nostri peccati, i beni esteriori non potranno
mai esaltare le nostre anime. Le ricchezze, la potenza, il rango supe­
riore, le dignità, gli onori non avranno su di noi alcuna influenza», fa
32Ibid., 19.
33 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX I, 39.
34 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 43.
35Ibid., 75.
36 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, X IX, 2.
37Ibid.
38 Cfr. Apoftegmi, N 2 9 9 .
39Ibid.
649
notare san Giovanni Crisostomo40. E san Giovanni Climaco così con­
siglia: «Quando i nostri adulatori [...] cominciano a lodarci, riportia­
mo brevemente alla memoria i molti peccati commessi, e ci ricono­
sceremo indegni di ciò che viene detto o fatto in nostro onore»41.
Notiamo, infine, il ruolo essenziale che la preghiera gioca nella gua­
rigione dalla cenodossia42come da ogni passione. Per mezzo della pre­
ghiera, l’uomo riceve da Dio l’aiuto senza il quale egli è impotente nel
vincere qualsiasi passione. Ma nel caso della cenodossia, egli riceve an­
che il discernimento che gli è necessario per eludere tutte le trappole
che questa gli tende. La preghiera gli permette altresì di staccarsi da
questo mondo che la cenodossia ha come oggetto, e di unirsi a Dio.
Essa, infine, gli permette di glorificare Dio riconoscendo che «a lui
spettano ogni gloria, onore e adorazione».
Abbiamo osservato che la gloria che viene dagli uomini e quella che
viene da Dio sono antagoniste ed esclusive l’una dell’altra. Se l’uomo
deve rinunciare a ogni gloria umana, è per aver accesso alla gloria di­
vina alla quale lo destina la sua natura. Fintanto che egli rimane at­
taccato alla gloria terrena non potrà mai gustare la gloria celeste. «Co­
me il fuoco non genera la neve, così coloro che cercano la gloria quag­
giù non ne godranno lassù», osserva san Giovanni Climaco43. Ecco
perché l’umiliazione è la via obbligata, la condizione indispensabile
per partecipare alla gloria divina. E in questo senso che un Anziano con­
siglia: «Se vuoi essere conosciuto da Dio, devi essere ignorato dagli
uomini»44. L’uomo, lo abbiamo visto, per natura tende alla gloria, ma
la gloria che viene da Dio è la sola che gli conviene veramente. Per
questo egli deve glorificarsi solamente in Dio, conformemente alla pa­
rola dell’Apostolo: «Glorificandoci in Cristo Gesù, non riponiamo la
nostra fiducia nella carne» (FU3,3), e secondo la promessa di Dio: «Io
onorerò quelli che mi onorano» (lSam 2,30). Alla sua ricerca della
«gloria secondo la carne» (cfr. 2Cor 11,18) deve sostituirsi la ricerca
della «gloria che viene dal solo Dio» (Gv 5,44). Origene così consiglia
a questo proposito: «Disprezzate ogni gloria che viene dagli uomini
per cercare solo quella che ne merita veramente il nome, gloria che so­
lo Dio dispensa a coloro che ne sono degni»45.
40 Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 5.
41 La Scala, XXI, 42. Cfr. 41.
42 Cfr. ibid, 41. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, IV, 43.
43 La Scala, Ricapitolazione, 35.
44Apoftegmi, Arm II, 250.
45 La preghiera, 19.
650
Più l’uomo tende a|ìa gloria divina, più egli si disinteressa della glo­
ria che viene dagli uomini. Ecco perché l’amore di Dio e la sua gloria
appaiono come un mezzo per liberare l’anima dalla cenodossia. Per
questo san Giovanni Climaco consiglia: «Sforziamoci di gustare solo
la gloria dell’alto. Infatti, colui che l’ha gustata disprezzerà ogni gloria
terrena»46.
Non è meno vero che l’antidoto specifico della cenodossia è l’u­
miltà. San Doroteo di Gaza scrive a questo proposito: «Il medico del­
le nostre anime è il Cristo, che sa tutto e che dà a ciascuna passione
il rimedio appropriato, voglio dire i suoi comandamenti: contro la ce­
nodossia, l’umiltà»47. San Giovanni Cassiano consiglia allo stesso
modo soprattutto a proposito della cenodossia: «Applicate dunque al
membro o alla parte della vostra anima che abbiamo detto specifica­
mente ferita, il rimedio della vera umiltà»48. San Giovanni Climaco
scrive: «Non appena [...] la santa umiltà inizia a fiorire in noi, noi ci
mettiamo subito [...] a odiare ogni gloria e ogni lode umana»49. E, a
sua volta, san Massimo: «L’umiltà libera lo spirito [...] dalla cenodos­
sia»50. In seguito vedremo che molti mezzi raccomandati dai Padri per
lottare contro la cenodossia sono mezzi raccomandati da loro anche
per acquistare l’umiltà.

2. Terapia dell’orgoglio
Abbiamo visto, esaminando la cenodossia e l’orgoglio, che queste
passioni sono così simili tra loro che alcuni Padri non ritengono in­
dispensabile esaminarle separatamente. Per quanto ci riguarda, se­
guendo l’esempio di altri Padri, abbiamo considerato che fosse utile
distinguerle e presentare le caratteristiche specifiche di ciascuna di es­
se. Ciò implica che esamineremo separatamente anche le loro terapie.
Ma la loro vicinanza renderà inevitabili alcuni accostamenti, quindi al­
cune ripetizioni.
La terapia dell’orgoglio, come quella della cenodossia, suppone pre­
liminarmente una conoscenza dettagliata della passione, quantunque
l’orgoglio non sia così sottile, multiforme e ingannatore come la ce-
* La Scala, XX1,29.
47Istruzioni spirituali, XI, 113. Cfr. II, 29.
48 Conferenze, XXIV, 16. Cfr. 15.
49 La Scala, XXV, 4.
50Centurie sulla carità, I, 80.
651
nodossia. Per questo, san Giovanni Cassiano che considera la nosolo­
gia un elemento fondamentale della terapia di quella51, a proposito del­
l'orgoglio osserva che è importante conoscerne soprattutto l’eziologia:
«Impareremo come evitare il veleno così pericoloso di questa malat­
tia ricercandone le cause e l’origine. Mai infatti le malattie potranno
essere guarite, né trovati i rimedi ai disturbi della salute se non si ri­
cerca, prima di tutto, con una investigazione minuziosa, la loro origi­
ne e le loro cause»52.
La conoscenza generale della malattia dà all’uomo, in ogni caso, la
possibilità di riconoscere in sé questa passione così capace di farsi igno­
rare o dimenticare. Tale capacità di riconoscimento è evidentemente
una condizione della terapia, perché colui che non si ritiene malato
non cercherà la guarigione. San Giovanni Climaco, a proposito di co­
loro che sono accecati al punto da non avere coscienza dell’orgoglio
che è in loro, osserva: «Per questi malati vi sarà poca speranza di sal­
vezza»53.
Vigilanza e discernimento permettono di individuare la malattia fin
dal primo manifestarsi, e di evitare che si diffonda al punto da dive­
nire quasi incurabile. A questo proposito così scrive san Giovanni Cas­
siano: «Si può essere totalmente indenni da questa malattia mortale se
però ci si mette in guardia prima che i suoi pericolosi assalti abbiano
già avuto potere su di noi; occorre quindi che un saggio e prudente
discernimento prevenga ciò che potremmo indicare come le sue avan­
guardie»54. Fintanto che la malattia è contenuta in certi limiti, la sua
terapia è possibile agli sforzi umani, che perciò devono praticarsi in
molte direzioni.
Sapere che l’orgoglio, come la cenodossia, rendono vani tutti i no­
stri sforzi presenti o passati, e tolgono ogni valore alle virtù che si pos­
sono avere, avere coscienza del rigore del giudizio divino circa gli or­
gogliosi, della privazione della grazia e delle pene che risultano da que­
sta passione possono contribuire a vincerla55. È così che san Basilio,
alla domanda: «Come guarire gli orgogliosi?» risponde: «Essi guari­
scono per mezzo della fede in Colui che ha detto: “Dio resiste ai su­
perbi e dà la grazia agli umili” (Gc 4,6)56, in altre parole, per il timo-
51 Cfr. Istituzioni cenobitiche, XI.
52ibid., xn, 4 , 2.
53 La Scala, XXH, 14-15.
54Istituzioni cenobitiche, X H , 29.
55Vedi per esempio G iovanni CRISOSTOMO, Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
56Regole brevi, 35.
652
re della sentenza in jétti s’incorre a causa dell’orgoglio»57. Lo stesso Cri­
sto si impegna a segnalare le conseguenze nefaste dell’orgoglio, di­
cendo più volte: «Chi si esalterà sarà umiliato» (Mi 23,12; Le 18,14),
indicando che il fariseo, malgrado le proprie virtù, non sarà giustifi­
cato, a causa dell’orgoglio (cfr. Le 18,9-14).
Come nota san Basilio, il timore di Dio, però, non basterà a cura­
re la malattia. Poiché l’orgoglio consiste, in genere, in un innalzamento
di sé in rapporto ad altri uomini e in rapporto a Dio, non si potrà gua­
rirne se non sforzandosi in ogni circostanza di evitare di esaltarsi, di­
struggendo l’abituale disposizione (éxis) della passione per mezzo di
uno smorzamento progressivo dell’atteggiamento che lo caratterizza.
Ciò implica che si dia prova di una costante vigilanza interiore, e che
si eviti anche di frequentare uomini manifestamente sotto il potere
di questa passione. È per questo che san Basilio completa così la sua
risposta: «Non ci si può liberare da questa passione se non astenen­
dosi da ogni esercizio di superiorità, come non si disimpara una lin­
gua o un mestiere se non smettendo del tutto non solo di praticare o
di parlare noi stessi, ma anche di sentir parlare e vedere praticare gli
altri»58.
Saremo aiutati in questo compito considerando la vanità e la vacuità
delle cose sulle quali l’uomo, nella passione, fonda la sua superiorità:
instabilità di tutte le cose umane, fugacia delle ricchezze, del potere,
debolezza e fragilità dell’uomo stesso sottomesso in questo mondo al­
la malattia, all’invecchiamento e alla morte, e che senza Dio non è che
«terra e cenere, ombra e fumo»59.
L’orgoglio si traduce attraverso un certo numero di atteggiamenti:
fiducia in se stessi, autosoddisfazione, arroganza, sicurezza, pretesa di
sapere, fiducia nel proprio giudizio, certezza di avere ragione, mania
di giustificarsi, spirito di contraddizione, voglia d’insegnare, di coman­
dare, rifiuto di sottomettersi. Solo sforzandosi di adottare atteggia­
menti contrari l’uomo potrà, su questo piano, combattere l’orgoglio:
odio della volontà propria60, sfiducia del proprio giudizio61, rinuncia
all’autogiustificazione, biasimo di sé62, rifiuto del contraddire, rifiuto

57 ibid.
58ibid.
59Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie su Atti, XXX, 3; Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2; Ome­
lie su Ozia, IV, 4; Commento a san Giovanni, XXXEI, 3.
60 Cfr. D oroteo DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,10.
61 Ibid.
62 Cfr. ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XXII, 31.
653
d’insegnare e di comandare, atteggiamenti che si trovano tutti realiz­
zati nell’obbedienza63 al Padre spirituale, e che permettono all’uomo,
come dice san Doroteo di Gaza, «di riprendersi e tornare allo stato
naturale»64.
Per evitare la prima forma d’orgoglio che consiste nel considerarsi
superiori agli altri, o almeno ad alcuni, e a disprezzarli, l’uomo dovrà
impegnarsi innanzitutto a notare in essi ciò in cui costoro gli sono
superiori, rifiutando di vedere i loro difetti e valorizzando le loro qua­
lità65. È soprattutto in questo senso che possiamo dire con san Mas­
simo che «la carità sopprime l’orgoglio»66. L’uomo dovrà persino giun­
gere a considerarsi inferiore a tutti, come insegna san Doroteo di Ga­
za: «Ritenersi al di sopra di tutti [si oppone] alla prima forma di or­
goglio. Infatti, colui che si ritiene al di sopra di tutti, come potrà cre­
dersi più grande di un fratello, elevarsi in qualcosa, biasimare o di­
sprezzare qualcuno?»67.
Il ricordo dei suoi peccati contribuisce a togliergli quel senso di su­
periorità rivelando la sua miseria spirituale68. Il suo orgoglio si riduce
tanto più quanto più questa consapevolezza è accompagnata dalla com­
punzione69e dal biasimo di sé70.
L’accettazione, ossia la ricerca delle umiliazioni sotto forme diver­
se, permette anche la guarigione della passione. San Doroteo di Ga­
za così scrive a questo riguardo: «Sii convinto che disprezzo e oltrag­
gi sono per la tua anima rimedi al suo orgoglio, e prega per coloro che
ti maltrattano, come se fossero delle vere medicine»71.
Vivere ignorato dagli uomini aiuta a trattare la forma d’orgoglio più
esterna, come sottolinea san Giovanni Climaco: «L’orgoglio visibile
guarisce per mezzo di una situazione oscura»72.
Condurre una vita dura e umiliante contribuisce altresì a combat­
tere questa malattia73. Abbiamo visto, in verità, nel capitolo dedicato
all’ascesi fisica, come l’anima sia, in una certa misura, colpita da quel-
® Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXII, 15; 3 1.
64Istruzioni spirituali, 1,10.
65 Vedi, per esempio, GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2.
66 Centurie sulla carità, IV, 61.
67Istruzioni spirituali, II, 38.
68II ricordo delle colpe è uno dei principali rimedi consigliati da Evagrio Pontico contro l’or­
goglio (cfr. Trattato pratico sulla vita monastica, 33).
69 Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXII, 31.
70 Cfr. ibid. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1,10.
71 Lettere, 2.
72 La Scala, Ricapitolazione, 13.
73 Cfr. ibid, XXII, 15.
654
lo che fa o subisce il corpo, e come, più in generale, le condizioni ma­
teriali di esistenza dell’uomo abbiano una certa incidenza sul suo
stato interiore. Le sofferenze fisiche e le diverse prove che l’uomo può
essere portato a subire nel suo corpo lo purificano dalla sua passione
nella misura in cui esse gli fanno constatare la sua debolezza e fragi­
lità, e riducono l’illusione di auto-sufficienza legata all’orgoglio.
Nella misura in cui l’orgoglio consiste nell’immaginare un’esalta­
zione per le qualità naturali che si possiedono, il rimedio sta nel rico­
noscere che ogni bene viene da Dio, che ogni qualità ha la sua fonte
nel Creatore della nostra natura. A questo riguardo è bene meditare
la parola dell’Apostolo: «Chi ti distingue? Che cosa possiedi che non
abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto perché te ne vanti come se non
l’avessi ricevuto?» (ICor 4,7). In questa prospettiva, Evagrio fa nota­
re all’orgoglioso: «Tu sei la creatura di Dio: non ripudiare il tuo Crea­
tore»74. E san Giovanni Climaco: «Tutto ciò che ti è venuto dopo la
tua nascita, così come la tua nascita stessa, è Dio che te l’ha donato»75.
Lo stesso autore osserva che «quando il nostro pensiero non si eleva
più riguardo ai doni naturali, è segno che esso inizia a recuperare la
salute»76.
Ma l’orgoglio consiste soprattutto, per lo spirituale, nell’esaltarsi a
motivo delle sue virtù. Il rimedio consisterà allora nel ricordo dei pro­
pri peccati, già menzionati a proposito della prima forma d’orgoglio.
E, anche ammesso che queste virtù siano reali, colui che si eleva così
prenderà facilmente coscienza della sua mediocrità, e ridurrà così la
sua passione, considerando la perfezione dei santi77, il che sarà favori­
to dalla frequente e attenta lettura delle Vite dei Padri78.
Il rimedio essenziale consiste, tuttavia, nel riconoscere che «ogni
donazione buona e ogni dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal
Padre delle luci» (Gc 1,16-17) e nell’attribuire a Dio quanto si è potu­
to fare di bene, come anche tutte le virtù che eventualmente si pos­
siedono e tutte le azioni buone e i pensieri buoni che da esse proce­
dono79. È opportuno qui ricordare anche la parola dell’Apostolo cita­
ta precedentemente, come consiglia san Giovanni Climaco parafra­

74 Gli otto spiriti della malvagità, 17.


75 La Scala, XXH, 16.
76Ibid, XXV, 22.
77 Cfr. G iovan ni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 15. GIOVANNI CLIMACO, La Scala,
XXII, 21.
78 G iovanni C lim aco, La Scala, XXH, 21; 15.
79 Cfr. M assimo i l C onfessore, Centurie sulla carità, in, 62.

655
sandola un po’: «Cosa hai tu che non abbia ricevuto come un dono
gratuito, sia da Dio stesso, sia grazie all’aiuto e alle preghiere degli
altri?»80. Evagrio fa notare ugualmente: «Tu non hai nulla che non ab­
bia ricevuto da Dio [...]. Riconosci colui che ti ha donato e non ti esal­
ta prima [...]. Tu sei aiutato da Dio, non rinnegare il tuo benefatto­
re»81. E san Giovanni Cassiano insegna: «Potremo sfuggire alla trap­
pola che questo spirito ci tende nella sua malizia se, a proposito di
ciascuna delle virtù nelle quali abbiamo l’impressione di aver pro­
gredito, diciamo questa parola dell’Apostolo: “Non io, ma la grazia di
Dio con me” (ICor 15,10) e: “Per grazia di Dio sono quello che sono”
(ICor 15,1o)»82. Le stesse facoltà con le quali, in noi, si esercita l’ascesi
e si praticano le virtù, devono essere attribuite a Dio. Anche san Gio­
vanni Climaco scrive ironicamente: «Tutte le virtù che hai acquistato
senza l’aiuto della tua intelligenza, solo quelle ti appartengono! Difatti,
è Dio che ti ha donato l’intelligenza. Tutte le vittorie che hai riporta­
to senza la collaborazione del tuo corpo, sono solo questi i risultati dei
tuoi sforzi! Difatti il tuo stesso corpo è opera di Dio, non opera tua»83.
Le forze attraverso le quali le nostre facoltà sono messe in moto, il prin­
cipio stesso di tutte le nostre azioni hanno la loro fonte prima in Dio,
come insegna l’Apostolo: «E Dio colui che suscita tra voi il volere e
l’agire in vista dei suoi amabili disegni» (FU 2,13).
Il rimedio consiste anche nel riconoscere che ogni progresso spiri­
tuale che si è compiuto è avvenuto per grazia di Dio, nel sentire che
senza l’aiuto di Dio si è incapaci di fare qualsiasi cosa buona e con­
servare i beni spirituali acquisiti84, nel considerare che i nostri sforzi
e le nostre sofferenze, se sono indispensabili, nondimeno non basta­
no a ottenere una qualunque cosa, ma che tutto ci è dato da Dio, sen­
za la cui grazia siamo ridotti in totale impotenza85, nell’essere conti­
nuamente consapevoli che «l’iniziativa non è dell’uomo che vuole o
che corre, ma di Dio» (Rm 9,16) e che, «se il Signore non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la
città, invano veglia il custode» (Sai 127[126],1). San Giovanni Cas­
siano a questo proposito consiglia: «In ogni nostra azione, occorre non
“ La Scala, XV, 79.
81 Gli otto spiriti della malvagità, 17.
82Istituzioni cenobitiche, XII, 9.
83 La Scala, XXH, 16.
84 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 33; Gli otto spiriti della mal­
vagità, 17.
85 San GIOVANNI CASSIANO sviluppa lungamente questo punto istituzioni cenobitiche, XII,
9-15).
656
solo sentire ma riconoscere che “io non posso fare nulla da me stes­
so” (Gv 5,30)... “ma il Padre, che è in me, è all’opera fino a ora e an­
ch’io sono all’opera” (cfr. Gv 5,17)»86. Il rimedio, infine, consiste nel
prendere coscienza che senza l’aiuto e la protezione di Dio, sarem­
mo sommersi dalle forze del male e dovremmo cedere ai ripetuti at­
tacchi dei nostri nemici spirituali87. San Giovanni Cassiano consiglia:
«Impariamo, avvertendo in ogni azione la nostra debolezza e il suo
aiuto, a proclamare quotidianamente: “Venni spinto con forza perché
cadessi; ma il Signore è venuto in mio aiuto. Mia forza e mio canto è
il Signore, egli si è fatto salvezza per me” (Sai 118[117],13-14)»88.
La preghiera, soprattutto se permanente, costituisce il rimedio fon­
damentale per l’orgoglio nella misura in cui l’uomo, quando prega,
chiede l’aiuto, il soccorso e la protezione di Dio e, di conseguenza, non
può non avere coscienza che ciò che egli ottiene in risposta alla sua
preghiera viene da Dio come dono, e non è attribuibile alle proprie
forze né ai propri meriti. La preghiera di ringraziamento permette
altresì di vincere la passione nella misura in cui, per suo mezzo, l’uo­
mo, se la pratica con cuore contrito e umiliato, e non come il fariseo,
riconosce immediatamente Dio e non se stesso, come principio e fi­
ne dei beni che possiede, e allora non si considera altro che l’inde­
gno depositario di questi beni89. Ciò è quanto spiega san Doroteo di
Gaza: «La preghiera continua [...] si oppone alla seconda specie d’or­
goglio [...]. Colui che prega Dio continuamente, qualsiasi opera buo­
na gli sia concesso di compiere, egli ne conosce la fonte e non può
inorgoglirsi né attribuirla alle proprie forze. Attribuisce a Dio ogni
opera buona, e non smette di ringraziarlo e invocarlo, temendo che la
perdita di tale aiuto non lasci apparire la sua debolezza e impotenza»90.
Ma, beninteso, il ruolo della preghiera è anche quello di chiedere l’aiu­
to a Dio per la guarigione da questa stessa passione che, più delle al­
tre passioni, può sfuggire totalmente all’azione terapeutica degli uo­
mini, come afferma frequentemente san Giovanni Climaco: «L’orgo­
glio invisibile, solo Colui che è eternamente invisibile può guarirlo»91;
«gli uomini possono guarire i voluttuosi; gli angeli, i cattivi; ma gli or­
gogliosi solo da Dio possono essere guariti»92.
86Ibid., 17.
87 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 33.
88Istituzioni cenobitiche, XII, 17.
89Cfr. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, XH, 18.
90Ibid., 11,38.
91 La Scala, Ricapitolazione, 13.
92Ibid., XXVI, 164. Cfr. XXE, 10; 30.
657
La maggior parte dei mezzi per guarire l’orgoglio presentati sopra so­
no anche, come vedremo, mezzi per acquistare l’umiltà. Difatti, l’umiltà,
in verità, costituisce il principale rimedio all’orgoglio in quanto è la virtù
che gli è opposta ed è chiamata a sostituirsi ad esso. San Gregorio di
Nissa fa notare: «L’umiltà rovinerà la superbia, la modestia guarirà l’or­
goglio malsano»93. San Barsanufio scrive: «H nostro grande e celeste me­
dico ci ha donato rimedi e cataplasmi [...]. Prima di tutto, ci ha dato l’u­
miltà che scaccia ogni orgoglio»94. San Giovanni Cassiano afferma la
stessa cosa: «Il creatore dell’universo e il suo medico, Dio, sapendo che
l’orgoglio è la causa delle malattie più gravi, si preoccupa di guarire i
contrari con i contrari, in modo che chi era caduto per orgoglio venga
rialzato dall’umiltà»95; inoltre: «Se la peste del vizio infetta la parte ra­
zionale, vi genera la cenodossia, l’esaltazione, l’orgoglio, la presunzione
[...]. Applicate, dunque, alle membra o alla parte della vostra anima che
abbiamo detto particolarmente ferita, il rimedio della vera umiltà»96.
San Doroteo di Gaza si esprime in termini simili: il Cristo «d mostra la
causa del disprezzo e delle trasgressioni dei precetti di Dio; egli ce ne
fornisce così il rimedio affinché possiamo obbedire ed essere salvati.
Qual è dunque questo rimedio e qual è la causa del disprezzo? Ascol­
tate quanto dice nostro Signore: “Imparate da me che sono mite ed umi­
le di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mi 11,29). Ecco che
in breve, con poche parole, egli ci mostra la radice e la causa di tutti i
mali, il suo rimedio, fonte di tutti i beni; egli ci mostra che è l’esaltazione
che ci ha fatto cadere, e che è impossibile ottenere misericordia se non
con la disposizione contraria, che è quella dell’umiltà»97.
3. L’umiltà
L’umiltà (tapeinophrosynè) si oppone nello stesso tempo alla ceno­
dossia e all’orgoglio. E, così, come vi sono due forme di orgoglio, pos­
siamo distinguere due forme di umiltà corrispondenti: l’umiltà nei con­
fronti degli uomini e l’umiltà nei confronti di Dio98. Benché questa sia
il fine di quella, essa non potrà fame a meno. Per questo san Barsanu-
93 Omelie sul Padre nostro, IV, 2.
94 Lettere, 61.
95 Istituzioni cenobitiche, XII, 8.
96Conferenze, XXIV, 15-16.
97Istruzioni spirituali, 1,7. Vedi anche GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXII, 31; XV, 79. MAS­
SIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 80.
98 Cfr. DOROTEO di G aza, Istruzioni spirituali, II, 31; 33.

658
fio è attento nel consigliare: «Umiliati veramente non solo davanti a
Dio, ma anche davanti agli uomini»99. San Giovanni Cassiano osserva
che «nessuno può raggiungere la perfezione della purezza se non at­
traverso la vera umiltà che dimostra ai suoi fratelli prima di tutto e
quindi a Dio»100.
Prima di presentare ciascuna di queste due forme di umiltà, notia­
mo che questa, in genere, consiste per l’uomo nel riconoscere i propri
limiti101, la propria debolezza102, la propria impotenza103, la propria
ignoranza104. E questa una delle definizioni patristiche fondamentali
di tale virtù recensite da san Giovanni Climaco105. «Un uomo che è ar­
rivato a conoscere la misura della sua debolezza ha toccato la perfe­
zione dell’umiltà», scrive sant’Isacco il Siro106.
L’umiltà, tuttavia, non consiste solo nel riconoscere e nell’assume-
re una debolezza e una mediocrità reali ma anche, quando si possie­
dono alcune qualità, ndl’abbassarsi volontariamente: è questa, fa no­
tare san Giovanni Crisostomo, la definizione stessa del termine tapei-
nophrosyné107. L’umiltà egli dice, «consiste nel riconoscersi come un
nulla malgrado la grandezza e il numero dei meriti»108, inoltre: «la
vera umiltà consiste nelTabbassarsi [...] quando si hanno occasioni per
innalzarsi»109. «In verità l’umile, scrive anche sant’Isacco il Siro, è co­
lui che ha segretamente motivi per inorgoglirsi e non lo fa, ma non ve­
de in questo nulla di più in sé che un po’ di terra»110.
L’umile non si stima per nulla111e non fa alcun caso a sé112. «Egli ri­
tiene se stesso come un uomo da nulla»113. Arriva persino a svaloriz­
zarsi. «L’umile vede se stesso come un uomo spregevole», scrive an­
cora sant’Isacco114. E san Giovanni Climaco sottolinea: «L’umiltà è un
abisso di disprezzo di sé»115.
99 Lettere, 102.
100Istituzioni cenobitiche, X II, 23. Cfr. 32.
101 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), LIV, 6.
102 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 21.
103Cfr. G iovanni C lim aco, loc. tit. M assimo i l C o nfessore, Centurie sulla carità, 1, 87.
104Cfr. M assimo i l C onfessore, loc. dt. Isacco i l Siro, Discorsi ascetici, 20.
105La Scala, XXV, 3.
106Discorsi ascetid, 73.
107 Omelie sulla lettera ai Filippesi, VI, 2.
108 Omelie contro gli Anomei, V, 6.
109 Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5.
110Discorsi ascetid, 20.
111 Cfr. Apoftegmi, XV, 26.
112Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 82.
113 ISACCO IL Siro, Discorsi ascetid, 20.
114ìbid.
115La Scala, XXV, 26.
659
L’umiltà si caratterizza così per un «distacco da sé in ogni cosa»116.
Tale distacco da sé si traduce in una rinuncia alla propria volontà117
che arriva fino all’odio di questa118e che i Padri considerano come ca­
ratteristica fondamentale dell’umiltà al punto da identificarla con ta­
le rinuncia119.
Si traduce anche nell’assenza di fiducia in sé e nella diffidenza ri­
guardo al proprio giudizio120, qualità prossime alla precedente e spes­
so citate con essa, e da cui derivano l’obbedienza pronta al Padre spi­
rituale121, e nei rapporti con gli altri la rinuncia a giustificarsi e imporre
il proprio parere122, l’abbandono di ogni spirito di contestazione e op­
posizione123, rinuncia a contraddire124e anche a discutere125, quindi un
atteggiamento spesso silenzioso126. Poiché questi atteggiamenti si ma­
nifestano prima di tutto nei riguardi del Padre spirituale127, essi testi­
moniano l’umiltà non solo davanti agli uomini, ma anche di fronte a
Dio di cui il Padre spirituale è il testimone e colui che ne indica la vo­
lontà.
In particolare, di fronte al prossimo, l’umiltà consiste per l’uomo,
all’opposto del primo tipo di orgoglio, non solo nel non considerarsi
superiore agli altri128, ma anche nel considerare gli altri superiori a
sé. È questo l’insegnamento di san Paolo che raccomanda: «Con umiltà
ritenete gli altri migliori di voi» (FU 2,3). I Padri, naturalmente, ri­
prendono questo insegnamento. Così alla domanda: «Che cos’è l’u­
miltà?», san Basilio Magno risponde immediatamente: «L’umiltà con­
siste, secondo il comandamento dell’Apostolo, nel considerare gli al­
tri al di sopra di sé»129. San Doroteo di Gaza insegna: «Il primo [tipo
di umiltà] consiste nel ritenere il proprio fratello più intelligente di sé
116 G iovanni di G aza , Lettere, 278.
117 Cfr. GIOVANNI Cassiano, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2. B arsanuh o, Lettere, 379. Apof-
tegmi, XV, 26.
118 Cfr. G iovanni C um aco, La Scala, XXV, 51. D o ro te o di G aza, Istruzioni spirituali, 1 ,10.
119 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. G iovanni di G aza, Lettere, 278; 462.
120 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 3. D o r o te o di G aza, Istruzioni spirituali, I,
10. G iovanni C assiano, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
121 Cfr. Apoftegmi, XV, 26. G iovanni CASSIANO, loc. cit. GIOVANNI Clim aco, La Scala, XXV, 8.
122 Cfr. Apoftegmi, XV, 26. DOROTEO DI G aza, Istruzioni spirituali, 1 ,10.
123 Cfr. G io v a n n i C lim aco , La Scala, X X II, 6. Apoftegmi, serie alfabetica, M atoes, 11.
Ibid., Anon, 199.
124 Cfr. G iovanni C lim aco, La Scala, XXV, 8; 48. Apoftegmi, XV, 26.
125 Cfr. Apoftegmi, sertie alfabetica, Matoes, 11. Ibid., N 330; XV, 26.
126 Cfr. Apoftegmi, N 318; N 321; N 330. Ibid., XV, 26. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni ce­
nobitiche, IV, 39,2.
127 Vedi per esempio GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
128 Cfr. M assimo i l C onfessore, Centurie sulla carità, 1 ,87.
129 Regole brevi, 198.

660
e del tutto superiore»130. San Giovanni Crisostomo dice: «La vera umiltà
consiste nel cedere a coloro che sono al di sotto di noi, e nel preferi­
re a noi quelli che sembrano inferiori a noi. Se riflettiamo bene, pen­
seremo che nessuno ci è inferiore, ma crederemo che tutti ci supera­
no»131. San Giovanni Climaco nel capitolo che egli dedica all’umiltà
osserva: «Se, dal profondo del cuore, riteniamo che il nostro prossi­
mo è migliore di noi in tutto, è perché la misericordia ci è vicina»132.
Un tale atteggiamento tuttavia potrebbe sembrare orgoglioso se, nel
considerare gli altri come superiori a sé, ci si considerasse importanti.
Per questo i Padri dicono anche, e molto spesso, seguendo peraltro di­
rettamente l’insegnamento del Cristo (cfr. Me 9,35), che l’umiltà con­
siste nel considerarsi inferiori a tutti, e nel ritenersi l’ultimo degli uo­
mini133. Al grado più elevato dell’umiltà l’uomo si considera non solo
inferiore ai suoi simili, ma inferiore anche a tutti gli esseri della natura134.
Mentre l’orgoglioso, ritenendosi superiore agli altri, li disprezza, l’u­
mile al contrario, considerandosi inferiore a tutti, considera se stesso
e solo lui degno di essere disprezzato, e assume senza dispiacere e tur­
bamento tutte le forme di umiliazione che provengono da altri135. San
Giovanni Cassiano consiglia: «Ritenendoci inferiori a tutti, soffriremo
con grande pazienza i trattamenti degli uomini, per quanto ingiusti,
mortificanti e penosi siano, ritenendo che ci vengono da uomini che
sono superiori a noi»136. Tra l’altro, egli osserva che uno dei segni per
cui si riconosce l’umiltà è quello che «non ci si affligge delle ingiurie
che si ricevono»137.
«E l’umiliazione che mette alla prova il cuore», osserva san Gio­
vanni Climaco138: l’uomo può essere umile nei suoi pensieri, ma solo
l’assenza di turbamento quando sarà sottomesso all’umiliazione rive­
lerà che è umile veramente.
11 segno di un’umiltà ancora più grande è quello di accettare que­
sta umiliazione con gioia139.
130Istruzioni spirituali, E, 33.
131 Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5.
132La Scala, XXV, 31.
133Ibid., 3. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, II, 33. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe,
13. Ibid., N 323. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2; XII, 33. GIOVANNI CRI­
SOSTOMO, Omelie sulla Genesi, XXXIII, 5; Omelia sull'umiltà, 2.
134 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 276. Apoftegmi, sede alfabetica, Sisoe, 13.
135 Cfr. G iovan ni di G aza, Lettere, 278. Apoftegmi, N 324; N 325.
136Istituzioni cenobitiche, XII, 33.
137Ibid., IV, 39,2.
m La Scala, XXV, 33.
m Ibid., XXV, 1.
661
L’umile, del resto, non sopporta di essere valorizzato in rapporto
agli altri e non si accontenta di sopportare e persino di accogliere con
gioia il disprezzo, ma lo ricerca. A questo proposito così scrive san
Giovanni Climaco: «Se il carattere estremo dell’orgoglio è quello di
fingere per trarre gloria dalle virtù che non abbiamo, ne consegue che
il segno dell’umiltà più profonda sarà quello di simulare talvolta, al fi­
ne di deprezzare noi stessi, i difetti da cui siamo esenti»140.
Accettare senza turbamento l’iuniliazione, significa escludere, da­
vanti a chi ci ha umiliati, ogni reazione di collera, ogni rancore e ani­
mosità. San Giovanni Climaco osserva che una delle proprietà del­
l’umiltà è «la perdita di ogni irritabilità»141. «L’umiltà non s’incolleri­
sce e non mette in collera nessuno», constata un Padre142. «Umiltà,
vuol dire lasciare la collera», afferma un altro143. E Abba Isaia: «L’u­
miltà [...] è pacifica verso tutti gli uomini»144.
A colui che lo disprezza o l’offende, l’umile perdona subito. «Chie­
sero a un Anziano: “Che cos’è l’umiltà?”. L’Anziano rispose: “Se tuo
fratello pecca contro di te e tu lo perdoni prima che venga a chieder­
telo”»145. Il vero umile, dice san Giovanni Climaco, è «colui che, of­
feso da un altro, non lascia che la sua carità diminuisca verso di lui»146.
E a un Anziano, al quale chiesero: «Cos’è l’umiltà?», rispose ancora più
positivamente: «E fare del bene a coloro che ti fanno del male»147.
L’umile si mostra devoto e sottomesso verso tutti, diviene servo di
tutti148 sull’esempio del Cristo e secondo le sue raccomandazioni:
«Se uno vuole essere primo, sia ultimo di tutti e servo di tutti» (Me
9,35); «se uno tra voi vuole essere grande, sia vostro servo, e chi tra
voi vuole essere primo, sia schiavo di tutti. Infatti il Figlio dell’uomo
non è venuto per essere servito ma per servire» (Me 10,43-45; cfr. Mt
20,26-28; Le 22,26-27).
Di fronte a Dio, l’umiltà consiste innanzitutto nel riconoscersi pec­
catori149. San Doroteo di Gaza, nell'Istruzione che dedica all’umiltà ri­
140Ibid., 41.
141Ibid., XXV, 7. Cfr. 4; 8.
142Apoftegmi, N 115. Cfr. XV, 26.
145 I b i d . , Eth. Pat., 438.
144Ibid.,] 716.
145Ibid., N 304. Cfr. anche GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 3.
'«LaScala, XXI, 17.
147Apoftegmi, P 263.
148 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelie contro gli Anomei, VOI, 6. M acario d ’E gitto , Ca­
pitoli parafrasati, 86.
149Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 20.
662
corda che più i santi si avvicinano a Dio, più essi si scoprono pecca­
tori150. L’umiltà è anche, insegna Abba Isaia: «Considerarsi come il più
peccatore di tutti gli uomini»151. «E ritenersi il più grande dei pecca­
tori», osserva anche san Giovanni Climaco nella sua recensione delle
grandi definizioni patristiche di questa virtù152. Questa considerazio­
ne dei propri peccati si accompagna naturalmente al biasimo e alla
condanna di sé153.
L’umiltà consiste, inoltre, nel non ricordare continuamente le pro­
prie opere buone e nel rifiutare di porre in risalto le proprie even­
tuali virtù154. L’umiltà qui realizza una condizione di spogliamento,
di nudità interiore. Per questo san Giovanni Crisostomo, quasi ogni
volta in cui parla di questa virtù, l’accosta alla povertà spirituale che il
Cristo pone al primo posto tra le beatitudini: «Beati i poveri in spiri­
to, perché di essi è il regno dei cieli» (Mi 5,3). «Chi sono quelli che
Gesù chiama i poveri in spirito? Sono gli umili [...]», egli dice155. E
sant’Isacco il Siro, considerando questo stato nella sua perfezione, scri­
ve che il vero umile arriva fino a voler «divenire nella creazione co­
me colui che non è, come colui che non è mai venuto all’essere, to­
talmente sconosciuto, anche dalla propria stessa anima»156.
A un livello più modesto, san Giovanni Climaco constata che «a
mano a mano che questa regina delle virtù progredisce nella nostra
anima e cresce spiritualmente, noi siamo portati a considerare come
nulla [...] tutto il bene da noi compiuto»157. L’umile si considera così
un servo inutile158, come raccomandato dal Cristo: «Quando avrete
fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Ab­
biamo fatto quello che dovevamo fare» (Le 17,10). Egli si considera
anche un cattivo operaio159 e «si disprezza come se non avesse fatto
nulla di buono davanti a Dio»160.
150Istruzioni spirituali, E, 33. Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Matoes, 2.
151Apoftegmi, XV, 26.
152La Scala, XXV, 3.
153 Cfr. D oroteo DI G aza, Istruzioni spirituali, 1 , 10. GIOVANNI ClIMACO, La Scala, XXV, 31;
52. BARSANUFIO, Lettere, 411.
154Cfr. GIOVANNI C risostom o, Commento a san Matteo, in, 5; Omelie sui cambiamenti di
nome, IV, 6. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 3; 26.
155 Commento a san Matteo, XV, 1.
156Discorsi ascetici, 81.
157La Scala, XXV, 4. Cfr. 7.
158 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Omelie sui cambiamenti di nome, IV, 6; Commento su san
Matteo, III, 5.
159Cfr. GIOVANNI C assiano , Istituzioni cenobitiche, IV, 3 9 ,2 .
160Apoftegmi, XV, 26.
663
Di conseguenza, l’umile considera che non merita tutti i beni che
possiede161, che non ne è degno162, e ne è debitore163. Egli riconosce
che senza Dio non avrebbe potuto fare nulla di buono.
Ciò ci porta a un’altra grande definizione classica dell’umiltà, la più
importante di tutte e, in qualche modo, il loro coronamento: essa è
«un riconoscimento della grazia divina e della misericordia divina»164,
più precisamente, essa consiste nel riconoscere che senza l’aiuto e il
soccorso di Dio non si sarebbe potuto e non si potrebbe mai fare nul­
la di buono165, che ogni bene che noi abbiamo, qualunque esso sia, vie­
ne da lui e in nessun modo è attribuibile a noi, che ogni progresso com­
piuto è avvenuto grazie a lui, che ogni qualità od ogni virtù che pos­
sediamo è un dono della sua grazia, non è affatto imputabile al nostro
valore o merito, e non può essere conservato senza il suo costante aiu­
to166. L’umiltà ritorna così ad attribuire a Dio tutto dò che si ha di buo­
no e quanto si fa di bene167. «Tale è, dice san Doroteo di Gaza, la per­
fetta umiltà dei santi»168. È in questa prospettiva che san Barsanufio
consiglia: «Se ti capita qualche bene, devi riconoscere che è il dono
gratuito di Dio che ti viene dalla sua bontà»169. San Macario il Gran­
de descrive bene questo atteggiamento: «Anche se pratica tutte le virtù,
l’anima che ama Dio ha l’abitudine di non attribuire nulla a se stes­
sa, ma di riportare tutto a Dio [...]. Infatti, tutto ciò che l’uomo ha,
tutti questi beni apparenti con i quali ciascuno può fare del bene, la
terra e quanto è in essa, il corpo e l’anima stessi, tutto è di Dio. Lo stes­
so essere, l’uomo lo ha per grazia. Cosa gli rimane, dunque, di proprio
di cui ragionevolmente potrebbe vantarsi o giustificarsi? Tuttavia, Dio
riceve dagli uomini questa immensa gratitudine, ciò che a lui piace
maggiormente tra tutto quello che gli offriamo: che l’anima [...] rap­
porti solo a Dio quanto essa può fare di bene, tutta la pena che si dà
per lui, tutto quanto comprende, tutto quanto conosce, e che attri­
buisce completamente a lui»170.
L’umiltà appare qui indissodabile dalla preghiera. Innanzitutto dal­
161 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, IV, 3 9 ,2 .
162 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 4; 35.
165 Ibid.
164 Ibid., XXV, 3.
165 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 23.
166Cfr. ibid.,3 3 .
167 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, E , 33.
m Ibid.
m Lettere, 412.
1,0 Capitoli parafrasati, 123.
664
la preghiera di domanda, perché con essa l’uomo dimostra che egli
non conta affatto sulle proprie forze, riconosce la sua impotenza nel
realizzare da sé ciò che chiede, e al contrario dimostra che è solo da
Dio che attende ogni bene. Riconosce altresì che non può né compiere
né conservare nulla senza l’aiuto, il soccorso e la protezione di Dio. E
se egli prega costantemente, egli non può non avere coscienza che tut­
to ciò che riceve, lo riceve da Dio in risposta alla sua preghiera, non
in ragione dei suoi meriti, ma come un dono gratuito. È per questo
motivo che san Massimo scrive: «L’umiltà è una preghiera continua,
nelle lacrime e nello sforzo. Essa è continuamente elevata a Dio, un
grido di aiuto; essa non vi permette di porre sicurezza, imprudente­
mente, sulla vostra potenza o sapienza [...]»m. San Doroteo di Gaza
si esprime allo stesso modo: «E chiaro che l’uomo umile e pio, sapendo
che non può fare nulla di bene alla sua anima senza l’aiuto e la pro­
tezione di Dio, non smette mai d’invocarlo affinché sia misericordio­
so, e colui che prega Dio continuamente, per qualche opera buona che
gli è concesso di compiere, ne riconosce la fonte [...]. E a Dio che at­
tribuisce ogni opera buona, e non smette di ringraziarlo e di invocar­
lo, temendo che la perdita di tale aiuto non lasci apparire la sua de­
bolezza e impotenza. Così l’umiltà lo fa pregare e la preghiera lo ren­
de umile [,..]»172.
L’umiltà, comunque, si accompagna soprattutto alla preghiera di
ringraziamento con la quale l’uomo attribuisce immediatamente a Dio
le sue buone azioni e i beni di qualsiasi natura che egli ha ricevuti, con­
siderandosi semplicemente un intermediario e depositario, si mostra
riconoscente verso di lui, e lo loda come la fonte unica di ogni bene173.
Notiamo, infine, che l’umiltà è inseparabile anche dalla contrizio­
ne del cuore, dalla penitenza e dalla compunzione. Infatti se, descri­
vendo l’umiltà, abbiamo sempre parlato di riconoscimento (della su­
periorità degli altri, della propria inferiorità, del proprio stato di pec­
cato, dell’impotenza a fare il bene e a conservarlo, di Dio come uni­
ca origine del bene che possediamo e che facciamo, ecc.), non si trat­
ta di un riconoscimento astratto, ma di un riconoscimento che viene
dal cuore, di un riconoscimento che più precisamente, procede, da
«un cuore contrito e umiliato» CW51[50],19). Questo anche con lo
171 Centurie sulla carità, I, 87.
172Istruzioni spirituali. E, 38.
173Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), LE, 6. M assimo il C onfessore , Centurie sul­
la carità, I, 48. B arsanufio , Lettere, 411.
665
scopo di far comprendere che i Padri spesso assimilano l'umiltà e la
contrizione del cuore174. San Giovanni Climaco definisce l’umiltà «l’at­
teggiamento di un’anima contrita»175. Commentando il passo del sal­
mo 50 che abbiamo appena citato, san Giovanni Crisostomo osserva
che il salmista esige per questo «un grado avanzato dell’umiltà, una
“contrizione”»176. E chiedendosi, peraltro, chi sono quelli che Gesù
chiama «poveri in spirito», risponde: «Sono gli umili e coloro che han­
no il cuore contrito. Infatti, con il termine spirito, egli intende il cuo­
re e la volontà»177. Più avanti precisa: «L’umiltà ha molti gradi [...]. Da­
vide loda questa umiltà perfetta, che non consiste solo in un abbas­
samento, ma in una completa contrizione del cuore, quando egli dice:
“H mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito, un cuore contrito ed
umiliato tu non disprezzi, o Dio”» (5^/51[50],19)178. San Giovanni
Climaco fa notare che se la penitenza, la compunzione e l’umiltà si di­
stinguono tra loro e si differenziano, ciò avviene tra i principianti,
ma per i proficienti «questa santa corda a tre fili [...] si risolve in una
sola entità che ha stessa potenza e stessa operazione, cioè quella di ac­
quisire caratteri e qualità propri, e ciò che [si] indica come il segno di
uno dei suoi elementi si trova ad essere anche il segno degli altri»179.
I modi per acquisire l’umiltà si identificano quasi con i mezzi pra­
ticati per guarire dalla cenodossia e dall’orgoglio. Abbiamo visto, in­
fatti, che in modo generale la riduzione di una passione implica l’ac­
quisizione della virtù corrispondente, e viceversa. I Padri ricordano
sia i mezzi per lottare contro la passione sia i mezzi per acquistare la
virtù, perché nel processo spirituale possiamo distinguere, come ab­
biamo dimostrato, un momento negativo e uno positivo, secondo la
parola del salmista: «Allontànati dal male e fa’ il bene». Ma i mezzi in­
dicati nei due casi sono praticamente gli stessi e i due momenti del
processo vanno di pari passo.
Così per acquistare l’umiltà i Padri raccomandano principalmente
174 Doroteo di Gaza, per esempio, usa indifferentemente l’una o l’altra espressione: «Senza
umiltà, è impossibile obbedire ai comandamenti o raggiungere un bene qualsiasi, come dice Ab-
ba Marco [l’Eremita]: “Senza contrizione del cuore, è impossibile liberarsi del male, è assolu­
tamente impossibile acquistare una virtù”. È dunque attraverso la contrizione del cuore che si
accolgono i comandamenti, che ci si allontana dal male, che si acquistano le virtù» {Istruzioni
spirituali, I, 10).
175La Scala, XXV, 3.
176 Omelie sulla lettera ai Filippesi, V, 2.
177 Commento a san Matteo, XV, 1.
m lbid., 2.
179La Scala, XXV, 6. Cfr. 7.
666
di: non prestare attenzione alle colpe del prossimo, non giudicarlo180;
dar prova di carità verso di lui in ogni circostanza181, considerarlo co­
me superiore a sé182 e soprattutto considerare se stessi inferiori a lui,
comunque sia183. Colui che vuole diventare umile deve anche nascon­
dere agli altri e a se stesso le proprie qualità e virtù184, riconoscere la
propria debolezza185, prestare attenzione ai propri peccati186, ricordarsi
costantemente dei propri peccati187, biasimarsi e condannarsi188. La
compunzione e i pianti appaiono allora come una via privilegiata per
raccesso all’umiltà189. E opportuno, inoltre, abituarsi a sopportare da
parte di altri disprezzo, ingiurie e umiliazioni diverse190, e per questo
ricercarli191. La rinuncia alla propria volontà192, e l’obbedienza193, che
più vi contribuisce, costituiscono anche i modi essenziali per acqui­
stare questa virtù. Anche le sofferenze fìsiche194, e le prove di ogni ge­
nere195, favoriscono questa acquisizione, così come l’allontanamento
dal mondo, il distacco196, il non possedere197, la semplicità in ogni am­
bito198, la volontà di essere sconosciuto e guarito199, il silenzio200, e la
180 Cfr. Apoftegmi, N 323; N 330. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 81. GIOVANNI CLIMACO,
La Scala, XXV, 18; 27.
181 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, ni, 14.
182Cfr. EsiCfflO Di BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64.
183 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 13; Titoe, 7. Ibid., N 323; N 330; Arm II, 318
(83). ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 5. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64. SlMEONE
il Nuovo T eologo , Inni, V, 13-14.
184Cfr. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXV, 64.
185Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 16.
186Cfr. Apoftegmi, N 323; N 330.
187 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 33. GIOVANNI CLIMACO, La
Scala, XXn, 21; XXV, 35. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 64. ISACCO IL SlRO, Discorsi
ascetici, 20; 81. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 4.
188Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 18.
189 Cfr. Isacco IL Siro, Discorsi ascetici, 21; 37; 48. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli
teologici, gnostici e pratici, III, 23. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 6. GIOVANNI CRISOSTO­
MO, Omelie sulla lettera agli Ebrei, IX, 4.
190Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 150. GIOVANNI DI GAZA, Lettere, 278; 307. ISACCO IL SlRO, Di­
scorsi ascetici, 37.
191 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 5.
192Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 166. BARSANUFIO, Lettere, 150. DOROTEO DI GA­
ZA, Lettera ai commiato, 2. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32.
193Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico, 25. Ibid., Arm II, 269. ISACCO IL SlRO, Discor­
si ascetici, 81. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32. GIOVANNI DI GAZA, Lette­
re, 278. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 61.
194Cfr. Apoftegmi, N 323. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, E, 39. GIOVANNI CLIMA-
CO, La Scala, XXV, 61. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 21.
193 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 21; 37.
196Cfr. ibid, 81. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 31; 32.
197Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64; 65. G iovanni C assiano , loc. dt., 64.
198Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64. I sacco il Siro , Discorsi ascetid, 81.
199Cfr. I sacco il Siro , loc. dt.
200 Cfr. ibid. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 64.
667
solitudine201. Vi conducono anche le virtù della temperanza202, della
dolcezza203, del timore di Dio204e della carità205. Beninteso, la preghie­
ra gioca un ruolo essenziale206, tanto più che l’umiltà appare sempre
come dono di Dio, una virtù che si può apprendere solo da lui, co­
me afferma il Cristo: «Imparate da me che sono mite e umile di cuo­
re» (Mt 11,29)207. Per questa ultima ragione i Padri raccomandano,
inoltre, di considerare l’esempio dei santi208e di frequentare uomini
che possiedono questa virtù209, ma soprattutto di prendere come mo­
dello il Cristo che ne fornisce l’esempio più completo attraverso la sua
kenosi, l’accettazione di una vita povera e oscura, l’accettazione con­
sapevole e silenziosa degli oltraggi e delle ingiurie nell’ora della sua
passione, la sua obbedienza perfetta al Padre suo210. Fedele al coman­
damento del Cristo: «Imparate da me» l’umiltà (cfr. Mt 11,29), sant’I-
sacco consiglia: «Guarda cosa ha fatto per acquisirla Colui che ha pre­
scritto l’umiltà e donato questa grazia. Sii come lui e la troverai»211.
Nell’ambito della pràxis, l’umiltà è chiamata a occupare un posto
fondamentale. Essa è, con la carità, la virtù cristiana per eccellenza.
Così san Giovanni Crisostomo non esita a dire: «Il fondamento della
nostra filosofia è l’umiltà»212. E il fondamento di tutto l’edificio spiri­
tuale che l’uomo ha il compito di edificare213, il principio stesso della
vita spirituale. Ciò si comprende perché l’orgoglio, che sta all’origine
della caduta dell’uomo, è il principio dell’esistenza decaduta. Così l’uo­
mo non può sperare di ricostruire se stesso se non prendendo come
base l’umiltà che è rimedio all’orgoglio, quindi una delle principali
201 Cfr. G iov ann i C lim aco , loc. tit. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 81.
202 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Titoe, 7.
203 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 31.
204 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,48.
205 Cfr. ibid, IH, 14.
206 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Titoe, 7. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 21. DOROTEO DI
G aza, Istruzioni spirituali, II, 38.
207 Cfr. Mt 11,29. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 3; 68. Isacco il Siro , Discorsi asceti­
ci, 20.
208Cfr. B arsanufio , Lettere, 62. GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 33.
209Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 5.
210Cfr. Apoftegmi, Arm II, 318 (84). BARSANUFIO, Lettere, 150. GIOVANNI CASSIANO, Istitu­
zioni cenobitiche, XII, 8; 33. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 86. GIOVANNI CRISOSTO­
MO, Omelie su 2 Tessalonicesi, I, 2. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 35.
211 Discorsi ascetici, 20.
212 Omelia sull’umiltà, 2. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 44. SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Catechesi, XX, 204-207.
213 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 21. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Gio­
vanni, x x x m ,3 .
668
fonti di guarigione. «È a questa umiltà, spiega san Giovanni Criso­
stomo, che Gesù Cristo dà il primo posto nelle sue beatitudini, per­
ché questo diluvio di mali che inonda tutta la terra non ha affatto al­
tra fonte se non quella dell’orgoglio [...]. Visto che l’orgoglio era, per
così dire, il male culminante dell’uomo, e radice e fonte di tutti i pec­
cati del mondo, Gesù Cristo, per guarirlo con un rimedio contrario,
stabilisce innanzitutto questa legge dell’umiltà, come fondamento in­
crollabile dell’edificio che egli vuole costruire. Quando questo fonda­
mento sarà posto, colui che costruisce potrà senza timore elevare il re­
sto dell’edificio; ma, se viene a mancare, l’edificio giungesse anche fi­
no al cielo, necessariamente crollerebbe e cadrebbe in rovina»214.
San Doroteo di Gaza insegna: il Cristo «ci mostra la causa che del
disprezzo e della trasgressione dei precetti di Dio [ossia l’orgoglio];
egli ce ne fornisce il rimedio affinché noi possiamo obbedire ed esse­
re salvati. Qual è dunque questo rimedio e qual è la causa del disprezzo?
Ascoltate quanto dice nostro Signore stesso: “Imparate da me che so­
no mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt
11,29). Ecco come brevemente, con una sola parola, egli d mostra la
radice e la causa di tutti i mali, con il suo rimedio, fonte di tutti i be­
ni; egli ci mostra che è l’esaltazione che ci fa cadere, e che è impossi­
bile ottenere misericordia se non con la disposizione contraria, che è
l’umiltà»215. Nella misura in cui l’orgoglio è la causa prima della ca­
duta, l’umiltà si presenta come la causa prima della salvezza. Così
san Giovanni Climaco scrive: «Se solo questa passione [dell’orgoglio]
senza il concorso di un’altra, ha fatto cadere dal cielo, possiamo chie­
derà se non sarebbe possibile salire al deio solo per mezzo dell’umiltà,
senza l’aiuto di alcuna altra virtù»216. Questa in ogni caso è la condi­
zione sine qua non della salvezza217: «Senza di essa, nulla entrerà mai
nella camera nuziale», scrive san Giovanni Climaco218, che la presen­
ta, peraltro, come «la porta dd Regno»219. Senza di essa, non solo non
è possibile nessuna perfezione220, ma l’uomo rimane separato da Dio,
come afferma categoricamente san Macario il Grande: «Là dove non
c’è l’umiltà, non c’è nemmeno Dio»221. Abba Isaia insegna: «Prima
214 Commento a san Matteo, XV, 2.
215 Istruzioni spirituali, I, 7.
216La Scala, XXII, 12. Cfr. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 48.
217 Cfr. G iovanni C risostomo , Commento a san Matteo, XLVII, 4.
218 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 49.
219Ibid.f 30.
220Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 21. Apoftegmi, 1,16.
221Apoftegmi, Arm II, 279.
669
di tutto abbiamo bisogno dell’umiltà»222. Non si può acquistare vera­
mente alcuna virtù senza di essa223. Nessuna virtù può sussistere sen­
za di essa224. Abba Teodoro afferma: «Chi non ha l'umiltà non ha com­
piuto nessun comandamento. Infatti, senza umiltà nessuna virtù è gra­
dita a Colui che le ama, il Cristo»225. San Giovanni Crisostomo afferma:
«Costruire su un altro fondamento vuol dire condannarsi a non fare
nulla di duraturo e lavorare invano»226. Sant’Isacco il Siro afferma la
stessa cosa: «Fintanto che l’uomo non si fa umile, non riceve il salario
per il proprio lavoro. La ricompensa non è data all’opera, ma all’u­
miltà. Colui che dimentica la seconda perde la prima [...]. Per mezzo
dell’umiltà è data la grazia. La ricompensa dunque non viene dalla
virtù né dalla pena che ci si dà per essa, ma dall’umiltà. Se non si ha
l’umiltà, l’opera della virtù è vana»227; «le opere senza [l’umiltà] non
servono a nulla [...]. Al di fuori di essa, tutte le nostre opere sono va­
ne, sono vane tutte le virtù, e sono vane tutte le pene»228. «Il lavoro ve­
ro non esiste senza umiltà»229, e senza umiltà nessuna virtù è vera230.
Possiamo, dunque, dire con san Gregorio Magno che «il fondamento
essenziale di una virtù è l’umiltà»231, e si comprende perché i Padri
considerano l’umiltà come base, ma anche testa, madre, causa, di tut­
te le altre virtù232.
Nella guarigione spirituale dell’uomo l’umiltà gioca un ruolo con­
siderevole.
Senza di essa, «è impossibile essere liberati dal male»233. Per suo
mezzo più che per ogni altro l’uomo può essere guarito da tutti i suoi
mali234. San Giovanni Climaco a questo riguardo cita l’esempio di Ma-
nasse: «Manasse commise peccati come nessun altro uomo [...]. Il mon­
222Asceticon, HI, 1. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 49.
223 Cfr. G iovanni CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, XII, 32. GIOVANNI CRISOSTOMO, Com­
mento a san Matteo, XV, 2.
224 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelia sull’umiltà, 2. D oroteo di G aza , Istruzioni spiri­
tuali, II, 28.
225Apoftegmi, Arm E, 319 (aggiunta a Teodoro 18).
226 Omelie sul cambiamento del nome, IV, 6.
227 Discorsi ascetici, 37.
228 Ibid., 48.
229G iovanni di G aza , Lettere, 277.
230 G iovanni C risostomo , Omelie sulla Genesi, XXXV, 7.
231 MoraHa su Giobbe, XXVE, 46.
232 Cfr. GIOVANNI C risostomo , Commento a san Matteo, EI, 5; XLVE, 3; Omelie sulla let­
tera ai Filippesi, V, 2; Consolazioni a Stagira, I, 9.
233 D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, 1,10.
234 Cfr. ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 63.
670
do intero avrebbe potuto digiunare per lui, egli non avrebbe pagato
degnamente il suo crimine. Ma l’umiltà ebbe il potere di guarire in lui
ciò che era incurabile»235. Essa è uno dei rimedi principali dati dal Cri­
sto agli uomini per guarirli dalle loro malattie spirituali. Per questo un
Padre consiglia: «Riuniamo i rimedi dell’anima cioè [...] l’umiltà
[...], perché il più grande medico delle anime, il Cristo nostro Dio è
vicino, ed Egli vuole guarirci. Non disdegnamelo»236. L’umiltà, in realtà,
permette all’uomo di ottenere il perdono di tutte le sue colpe, di es­
sere purificato da tutti i suoi peccati237 e di essere liberato da tutte le
sue passioni238. San Giovanni Climaco scrive: «Il rimedio contro tut­
te le passioni, di cui abbiamo parlato, è l’umiltà. Coloro che hanno ot­
tenuto questa virtù le hanno vinte tutte»239. Ma senza di essa l’uomo
non può vincerne nessuna240. Senza di essa l’uomo non può preten­
dere di raggiungere la purezza241.
L’umiltà appare come la sola virtù che permette di vincere il dia­
volo e i demoni nel combattimento spirituale242. Infatti, è la sola virtù
che essi siano incapaci di acquistare243. Così un apoftegma riferisce che
un demone disse a san Macario: «Tutto ciò che voi avete, lo abbiamo
anche noi; voi vi distinguete solo per l’umiltà»244. Per questo può es­
sere considerata la sola virtù che salva l’uomo245. Per suo mezzo, l’uo­
mo può eludere tutte le astuzie e le trappole dei demoni, può far fron­
te efficacemente alle tentazioni e affrontare vittoriosamente gli attac­
chi del nemico. Abba Antonio dice: «Vidi tutte le reti del nemico di­
spiegate in terra, e gemendo dissi: “Chi dunque riuscirà a passare ol­
tre queste trappole?”. Ed intesi una voce rispondermi: “l’umiltà”»246.
Anche san Giovanni Climaco, citando in questo senso il salmista, sot-
2.5 La Scala, XXV, 58.
2.6 G iovanni M osco , Il prato spirituale, 144.
257 Cfr. Isa cco IL Siro, Discorsi ascetici, 48. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su 1 Corinzi, I,
2. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 75. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla ca­
rità, 1 ,76. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXV, 9.
2,8 Cfr. M assim o i l C o n fesso re, Centurie sulla carità, 1 ,76. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o ,
Catechesi, XX, 204-207. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXV, 9. BARSANUFIO, Lettere, 226; 239.
ESICHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 75. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul cambiamen­
to del nome, IV, 6.
m La Scala, XXV1,33.
240 Cfr. I sacco IL S iro , Discorsi ascetici, 48.
241 Cfr. G iovanni C assiano , Istituzioni cenobitiche, XII, 23.
242 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 11. San Barsanufio lo chiama «il rogo dei de­
moni» (Lettere, 229).
20 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXV, 17.
244Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 35.
245 Cfr. ibid., Teodora, 7.
246Ibid., Antonio, 7. Isaia Dì SCETE, Asceticon, HI, 3.
671
tolinea il potere profilattico dell’umiltà: «L’umiltà è “una torre muni­
ta in faccia al nemico” {Sai 61 [60],4). “Non trionferà il nemico sul­
l’umile e il figlio - o piuttosto il pensiero - d’iniquità non l’opprimerà.
Annienterò davanti a lui i suoi avversari e colpirò quelli che lo odia­
no” {Sai 89[88],23.24)»247. Un altro Padre dice la stessa cosa: «Se sia­
mo umili, il Signore allontanerà da noi il nemico e ci aiuterà a custo­
dire la nostra anima in ogni momento»248. San Doroteo afferma: «Es­
sa protegge l’anima da ogni passione e tentazione [...]. In verità, nulla
è più potente dell’umiltà»249. Colui che la possiede non potrà cadere,
constata san Barsanufio250.
Poiché essa lo purifica da ogni passione e lo preserva da ogni at­
tacco del nemico, ma anche perché essa gli dà «la forza del cuore»251
e gli sottomette ogni cosa sottomettendo la sua anima a Dio252, l’umiltà
permette all’uomo di essere senza paura, senza timore e senza turba­
mento, e di conoscere la pace interiore253. Così sant’Isacco il Siro scri­
ve: «Nell’umile non vi è mai precipitazione, fretta, confusione, nessun
pensiero bruciante e opprimente. Ma egli rimane sempre nella pace.
Se il fuoco del cielo è sulla terra, l’umile non teme. Non sempre l’uo­
mo calmo è umile, ma ogni uomo umile è calmo [...]. L’umile è sem­
pre in pace, perché non c’è nulla che agita o turba la sua riflessione»254.
L’umiltà permette all’uomo di assumere, senza esserne colpito, tutte
le prove e le sofferenze che gli arrivano»255.
L’umiltà appare, così, come la madre dell’impassibilità256. Questa,
lo vedremo, non è solo assenza di passione, è altresì il possesso di tut­
te le virtù. Ora, l’umiltà, l’abbiamo visto, è la condizione di tutte le
virtù, ciò che fa in modo che esse siano veramente virtù; ed essa non
è solo la base, ma con la carità è anche il coronamento dell’edificio spi­
rituale. Possiamo dire che essa implica e suppone tutte le virtù. Così
scrive a questo proposito Abba Teodoro: «L’umiltà è il compimento
dei comandamenti; è sull’umiltà che Dio riposa (cfr. Is 66,2); chi vive
247La Scala, XXV, 26.
248Apoftegmiy Eth. Pat., 179.
249 Istruzioni spirituali, II, 30.
250 Lettere, 70.
251 ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 81.
252Ibid., 16.
233 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 82.
254 Discorsi ascetici, 81.
255 Cfr. ibid. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, X X XI, 40.
256 Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXI, 32 («l’umiltà è la madre della perfetta impassi­
bilità»); XXV, 9; 36. SlMEONE IL NUOVO T eologo , Catechesi, XX, 204-207 («è l’umiltà che pro­
cura la celeste e angelica impassibilità»).

672
l’umiltà osserva tutti i comandamenti»257. Sant’Isacco il Siro fa nota­
re che essa «ingloba tutto in sé», «per questo non è possibile consi­
derare umile il primo venuto»: l’umiltà nella sua perfezione è la sola
virtù che «i santi perfetti ricevono quando hanno condotto a buon
fine l’ascesi della loro vita»; essa «è data solo a coloro che giungono
alla perfezione della virtù per mezzo della forza della grazia»258.
Guarendo l’uomo da tutte le sue passioni e inglobando tutte le virtù,
l’umiltà gli permette di recuperare la sua natura originaria, di ridiven­
tare veramente uomo. San Doroteo di Gaza dice che essa permette al­
l’uomo «di riprendersi e tornare allo stato naturale»259. Nel fare ciò,
essa gli permette di ritornare alla salute. E così che san Giovanni
Crisostomo constata che «l’umiltà risana [l’anima]»260.
L’umiltà appare così come «madre, radice, alimento, legame e base
di ogni bene»261.
Essa non solo è, come abbiamo visto, fonte di pace interiore, ma
anche di vera vita, di gioia spirituale, all’opposto dell’orgoglio che è
principio di morte e di privazione della gioia autentica262. Essa eleva
l’uomo alla carità263 che è, come vedremo, la vetta della pràxis. E an­
che una delle condizioni principali per accedere alla conoscenza spi­
rituale264. Sant’Isacco il Siro scrive: colui che possiede l’umiltà per­
fetta «è entrato nel mistero di tutte le nature spirituali, egli porta in sé
la sapienza della creazione con ogni precisione, e tuttavia considera
che non conosce nulla [...]. Ora è proprio qui quanto aveva detto la
Sacra Scrittura: i misteri sono rivelati agli umili. Agli umili è dato di
ricevere in se stessi questo Spirito delle rivelazioni che scopre i mi­
steri. Per questo alcuni santi hanno detto che l’umiltà eleva l’anima al­
la contemplazione divina»265. L’umiltà permette allora all’uomo di fa­
re l’esperienza della luce ineffabile266, che lo rende partecipe della glo­
ria divina267. E così, sulla scia di Salomone, c’è chi afferma: «L’umile
257Apoftegmi, Arm II, 319 (aggiunta a Teodora 18).
258Discorsi ascetici, 20.
259Istruzioni spirituali, 1,10.
260 Omelie sulla lettera ai Filippesi, VE, 5.
261 G iovanni C risostom o , Omelie su Atti , XXX, 3. Cfr. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 21.
BARSANUFIO, Lettere, 226. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni spirituali, I, 7.
262 Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, I, 8.
263 Cfr. GIOVANNI C assia no , Istituzioni cenobitiche, IV, 39,2.
264 Cfr. MASSIMO il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 57. ISACCO IL S iro , Discorsi asce­
tici, 16.
265Discorsi ascetici, 20.
266Cfr. G iovanni C lim aco , La Scala, XXV, 27.
267 Cfr. D oroteo d i G aza , Istruzioni spirituali, I, 8.
673
di spirito avrà l’onore» (Pro 29,23), sant’Isacco il Siro consiglia: «Di­
scendi al di sotto di te stesso, e vedrai la gloria di Dio. Infatti, là do­
ve germoglia l’umiltà, là si diffonde la gloria di Dio»268. In questo vi si
riscontra uno degli effetti della promessa del Cristo: «Chi si umilierà
sarà esaltato» (Mt 23,11).
Se gli effetti dell’umiltà sono così importanti, è perché essa è per
l’uomo una delle principali fonti dell’accoglienza della grazia divina269,
così come l’orgoglio era una delle principali cause della sua privazio­
ne. Il salmista constata: «Un cuore spezzato e umiliato, Dio non lo di­
sprezza», e Dio stesso dice per bocca d’Isaia: «Verso chi volgerò lo
sguardo? Verso il povero» (Is 66,2). «Dio elargisce la sua benevolen­
za agli umili» insegnano i santi apostoli Pietro (lPt 5,5) e Giacomo
(cfr. Gc 4,6), seguendo l’autore del libro dei Proverbi (cfr. Pro 3,34).
Abbiamo visto che è per mezzo dell’umiltà che le virtù hanno valore,
sebbene sant’Isacco il Siro non esiti a dire che è «per mezzo dell’u­
miltà [che] è data la grazia»270, e che «davanti alla grazia corre l’u­
miltà»271. Ciò si spiega soprattutto con il fatto che l’umiltà è il rico­
noscimento da parte dell’uomo della sua debolezza, del proprio nul­
la, e nello stesso tempo il riconoscimento dell’onnipotenza di Dio. Con
l’umiltà, l’uomo rinuncia alla propria volontà rendendosi totalmente
permeabile all’azione della volontà divina; cessa di essere attaccato a
se stesso, e si apre alla grazia che chiede con la preghiera e di cui si
sforza di essere degno praticando i comandamenti divini. San Maca­
rio in questo senso scrive: «Anche se pratica tutte le virtù, l’anima che
ama Dio ha l’abitudine di non attribuirsi nulla, ma di rapportare tut­
to a Dio. Allora Dio, a sua volta, attento alla salute e alla rettitudine
dell’intelligenza e della conoscenza di tale anima, le concede tutto»272.
E per quest’ultimo motivo che l’umiltà, assieme alla carità, appare
come la virtù che più unisce l’uomo a Dio273.

268Discorsi ascetici, 5.
269 Cfr. D oro teo DI G aza , Istruzioni spirituali, II, 29. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXI,
32. GIOVANNI C risostom o , Omelie su 2 Tessalonicesi, 1,2; Commento al Salmo 9, 6. BARSANU-
FIO, Lettere, 214.
270Discorsi ascetici, 37.
271 Ibid., 73.
272 Capitoli parafrasati, 123.
273Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, 1,11. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 48; 20.
M acario d ’E g itt o , Capitoli parafrasati, 86.

674
PARTE SESTA

LA SALUTE RITROVATA
I
L’IMPASSIBILITÀ

Quando l’uomo ha vinto tutte le passioni e al loro posto ha ristabi­


lito le virtù, raggiunge l’impassibilità (aphàtheia)1, che si presenta co­
sì come «il fiore della praxis»2, oppure il frutto della pratica dei co-
mandamenti3, nella quale consiste la pràxis.
Ora, «per mezzo della pratica dei comandamenti, lo spirito si spo­
glia delle passioni»4 e correlativamente acquista le virtù. Per questo
motivo siamo dunque portati ad esaminare l’impassibilità sotto questi
due aspetti.
È opportuno distinguere la vera impassibilità dalla forma d’im­
passibilità che alcuni pensano di avere raggiunto quando tutte le
passioni sono scomparse in essi ma rimangono inconsciamente sot­
tomessi alla cenodossia e all’orgoglio che li illudono sul loro stato. In
questa pseudo impassibilità, nota Evagrio, «la cenodossia, accompa­
gnata dall’orgoglio, utilizza la scomparsa degli altri demoni per tra­
scinare il monaco alla sua perdizione»5. La vera impassibilità, al con­
trario, si riconosce, dal fatto che è accompagnata «dall’umiltà, dalla
compunzione, dalle lacrime, da un infinito desiderio del Divino, e da
zelo smisurato per il lavoro [spirituale]»6. A un livello più elementa­
re, l’uomo può illudersi di essere impassibile per la ragione che le
sue passioni gli sono inconscie e che gli oggetti che possono dar oc­
casione alla loro manifestazione non sono presenti. San Massimo a
questo proposito scrive: «In assenza degli oggetti, si può non essere
affatto importunati dalle passioni e non avere che un’impassibilità par­
1Cfr. NlCETA St ETATOS, Centurie, 1,1; 89.
2 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 81.
3Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1, 77.
4Ibid.y 94.
5 Trattato pratico sulla vita monastica, 57.
6Ibid.
677
ziale. Appena gli oggetti appaiono, immediatamente le passioni tirano
di qua e di là lo spirito»7; «non credere di avere la perfetta impassi­
bilità fintanto che l’oggetto non è presente. Quando esso appare, se
resti imperturbabile, di fronte a tale oggetto, prima, e al suo ricordo,
poi, sappi allora che hai raggiunto le sue frontiere»8.
1) La vera impassibilità è innanzitutto lo stato costituito dalla so
pressione di ogni peccato in atto, più fondamentalmente di ogni pas­
sione, movimento, desiderio, pensiero, immaginazione passionale, co­
sì come di ogni rappresentazione che attacca l’uomo al mondo e per
ciò stesso lo tiene lontano da Dio9.
L’impassibilità non significa che l’uomo non sia più tentato di fare
il male. In questo stato, continua ad essere tentato dai demoni, an­
che più di prima, e continuerà ad esserlo fino alla sua morte10. Egli
però possiede, per la forza che ha ricevuto da Dio, il potere di resi­
stere a tutte le tentazioni, di respingere tutti gli attacchi dei demoni, e
non essere affatto colpito da essi. San Diadoco di Foticea scrive: «L’im­
passibilità non consiste nel non essere attaccati dai demoni, perché al­
lora dovremmo, come dice l’Apostolo, uscire da questo mondo (ICor
5,10), ma nel rimanere inespugnabili quando ci attaccano», ed egli pa­
ragona l’impassibilità a un guerriero rivestito della sua armatura che
riceve numerose frecce ma che non è colpito a motivo della solidità
del suo equipaggiamento11, costituito dalle virtù (cfr. Ef 6,13-17). A
questo proposito Evagrio osserva: «Le virtù non fanno cessare gli as­
salti dei demoni, ma esse ci conservano indenni»12. In realtà, i demo­
ni hanno potere sull’uomo solo per quel tanto che trovano in lui di cu­
pidigia corrispondente alle loro suggestioni (cfr. Gc 1,15-16); ora la
pràxis riduce progressivamente questa cupidigia e alla fine la soppri­
me, come spiega san Massimo: «La forza dei demoni diminuisce, quan­
do la pratica dei comandamenti indebolisce in noi le passioni; essa è
distrutta, quando infine, per effetto dell’impassibilità, queste passioni
7 Centurie sulla carità, IV, 53.
8Ibid.j 54.
9 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 62; Sui diversi pensieri della
malvagità, 15. BASILIO DI CESAREA, citato da CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 86.
MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla carità, II, 5; Questioni a Talassio, 55, PG 90, 544C;
565BC. N iceta STETATOS, Centurie, I, 89. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gno­
stici e pratici, DI, 33, 87; Trattati etici, IV, 21-24; VI, 264.
10Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 36. M assimo il C onfesso ­
re , Centurie sulla carità, II, 57.
11 Centurie, 98.
12 Trattato pratico sulla vita monastica, 77.
678
sono scomparse dall’anima. Infatti, non trovano più in essa delle com­
plicità che fungano da base ai loro attacchi. Ed ecco senza dubbio il
senso del versetto: “I miei nemici inciampavano e si dileguavano dal
tuo cospetto” {Sai 9,4)»13. Quando l’uomo raggiunge l’impassibilità
perfetta, propriamente parlando egli non deve più combattere contro
i demoni, perché, anche se essi continuano ad attaccarlo, egli li ha mes­
si in rotta, li ha vinti del tutto, li ha sottomessi e li ha messi a morte14.
L’impassibilità rende coloro che la possiedono «inattacabili dagli av­
versari»15. Da quel momento, all’impassibile «gli artifici dei demoni
non sembrano altro che un gioco risibile», scrive san Giovanni Cli-
maco16. Nell’impassibilità perfetta, osserva ancora, l’uomo non nota
neppure più l’andirivieni dei demoni intorno a lui: «Io considero co­
me segno distintivo della santa impassibilità poter dire: “Quando il
maligno si allontana da me, non me ne accorgo” (cfr. Sai 101 [100],'4);
non so come è venuto, né perché, né come se ne è andato; ma sono
completamente insensibile a tutto questo, perché sono interamente
unito a Dio, e lo sarò sempre»17. San Macario scrive lo stesso: «Senza
dubbio il nemico combatte [i cristiani], ma essi rimangono accanto al­
la divinità, hanno rivestito la forza e il riposo dall’alto, e non si preoc­
cupano della guerra»18.
L’impassibilità non significa che l’uomo non ha più la possibilità di
fare il male, ma che egli non vi è più portato, perché la preoccupazione
del bene allontana da lui la preoccupazione del male, perché le virtù
lo rendono cieco alle passioni19. Per questo così scrive san Massimo:
«L’impassibilità è uno stato di pace nel quale l’anima non è più por­
tata verso il male che con difficoltà»20.
L’impassibilità non significa affatto che l’uomo non abbia più rap­
porti con le passioni, ma ormai egli ha il potere di resistere loro21, le
domina e le assoggetta completamente. «Lo spirito impassibile è quel­
lo che ha dominato le passioni», scrive san Niceta Stetato22. Sant’I­
13Centurie sulla carità, II, 22.
14Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV. 135-138. E vagrio P ontico , Tratta­
to pratico sulla vita monastica, 60.
15 S imeone il N uovo T eologo , loc. dt., IV, 787-788.
16La Scala, XXIX, 1.
17Ibid., 9.
18Omelie (Coll. H), XVI, 14. Cfr. 15.
19Cfr. E vagrio P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 62. T ertulliano , Apologeti­
co, XLVI, 11.
20 Centurie sulla carità, 1,36.
21 Cfr. Apoftegmi, serie degli anonimi, 35.
22 Centurie, I, 92.
679
sacco il Siro, al quale chiesero cosa è l’impassibilità umana, rispose:
«L’impassibilità non è non sentire le passioni, ma il non accoglierle.
Le passioni si esauriscono per le molte e varie virtù manifeste e na­
scoste che gli asceti hanno acquistato. Esse non possono con facilità
sollevarsi contro l’anima [...]. Quando giungono le passioni, la rifles­
sione è subito strappata al loro contatto da una coscienza attenta che
è al centro dell’intelligenza. Allora le passioni la lasciano e non pos­
sono più farle nulla, come ha detto il beato Marco. L’intelligenza,
che per la grazia di Dio compie le azioni delle virtù e si è avvicinata al­
la conoscenza, non sente affatto ciò che le viene dal male e dalla irra­
zionalità dell’anima»23. San Giovanni Crisostomo osserva la stessa co­
sa: «Colui che si è dato a Dio [...] comanda alla collera, all’invidia, al­
l’avarizia, al piacere e a tutti gli altri vizi; esamina e medita continua-
mente i mezzi per non lasciar soggiogare la sua anima dalle passioni
vergognose, né lascia asservire la sua ragione da una insopportabile ti­
rannia, ma ha sempre lo spirito al di sopra di tutto questo»24. Egli è
come dice san Giovanni Climaco, «un re nel [suo] cuore»25, cosa che
afferma anche san Giovanni Crisostomo, per il quale è quella la vera
regalità, cui ogni uomo è chiamato: «Infatti il vero re, è colui che co­
manda [...] su tutte le passioni, che assoggetta tutto alle leggi di Dio,
che conserva il suo spirito libero, e non lascia alla tirannia delle voluttà
dominare nella sua anima»26. Si potrebbe anche dire che piuttosto che
la morte delle passioni, l’impassibilità è la morte dell’uomo alle pas­
sioni27. Essa corrisponde a quello che i Padri spesso chiamano «la mor­
te al mondo»28, risultato della crocifissione che costituisce la praxis, e
che essi considerano condizione essenziale della salvezza29. San Si­
meone il Nuovo Teologo si chiede: «Colui che è morto al mondo, per­
ché è questa la croce [...], colui che ha fatto morire le sue membra ter­
rene [...] al punto da non essere più raggiunto da alcuna passione né
da alcun desiderio cattivo, come riceverà anche minimamente dal mon­
do una sensazione di passione, o subirà un moto di voluttà, o infine
sarà sconvolto nel suo cuore?»30.

23Discorsi ascetici, 81.


24 Paragone tra il solitario e il re, 1.
25 La Scala, VII, 43.
26Paragone tra il solitario e il re, 2.
27 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 49.
28 Cfr. S im eone il N u o v o T eo lo g o , Trattati etici, VI, 20-21. Apoftegmi, Eth. Coll., 13,45.
29Vedi, per esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 23.
30 Trattati etici, VI, 352-359.
680
Questa morte al mondo implica indifferenza (adiaphorta) alle cose
di questo mondo, una perfetta noncuranza (amerimnia) e una totale
insensibilità (anaisthèia) nei loro riguardi; questi termini, intesi in sen­
so positivo31, compaiono spesso, sulla bocca o sotto la penna dei Pa­
dri, per indicare stati prossimi all’impassibilità32. Per l’impassibile, il
disprezzo è divenuto simile alla lode, l’obbrobrio all’onore, la povertà
alla ricchezza, l’indigenza all’abbondanza33, il dolore al piacere34, la tri­
stezza alla gioia35. «Le cose della carne sono [per lui] come estranee»36.
Ma questo non significa che l’impassibilità sia una indifferenza o una
insensibilità riguardo al prossimo37; essa sarebbe allora una passione.
In seguito vedremo che essa, al contrario, è fonte di carità in tutta l’am­
piezza di questo termine. Ciò non significa che questa sia una indiffe­
renza riguardo alle cose stesse, poiché vedremo che essa sfocia anche
e immediatamente sulla contemplazione naturale, che è la contem­
plazione delle ragioni spirituali (o lógoi) delle cose. L’impassibilità,
in verità, è uno stato in cui l’uomo non cessa necessariamente di con­
siderare gli oggetti, ma cessa, quando li considera, di avere per essi un
qualsiasi attaccamento e desiderio passionale, si mostra totalmente im­
perturbabile dinanzi ad essi, non è affatto colpito da essi. «Una prova
d’impassibilità è, scrive Evagrio, il fatto che lo spirito [...] guarda gli
oggetti con serenità»38. «Come uno specchio non rimane macchiato
dalle immagini che vi si riflettono, così l’anima impassibile non rima­
ne macchiata dalle cose che sono sulla terra»39. Colui che è impassi­
bile rimane saldo non solo dinanzi agli oggetti, ma anche dinanzi al lo­
ro ricordo. Per questo san Massimo scrive: «Non immaginarti di ave­
re l’impassibilità perfetta, fintanto che l’oggetto non è presente. Quando
esso appare, se tu rimani senza commuoverti, per lui prima, e per il
suo ricordo in seguito, sappi allora che hai raggiunto le sue frontie­
re»40. Anche Evagrio nota: «L’anima che possiede l’impassibilità,
31 Difatti questi atteggiamenti non sono virtuosi se non si esercitano di fronte al mondo. Se
si esercitano nei riguardi di Dio e del prossimo, detti atteggiamenti sono passioni.
32Sull’affinità tra amerimnia e apàtheia, vedi I. HAUSHERR, Hésychasme et prière, Roma 1966,
pp. 166; 216-221.
33Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Macario, 20. Ibid., Am 166,4.
34 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, Prologo, PG 90,260D. N iceta Ste -
TATOS, Centurie, I, 92.
35 Cfr. Apoftegmi, Am 166,4.
36Ibid.
37 Cfr. MARCO l ’Erem ita, Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 128.
38 Trattato pratico sulla vita monastica, 64.
39Id., Capitoli gnostici, V, 64.
40 Centurie sulla carità, VI, 54.
681
non è quella che non prova alcuna passione dinanzi agli oggetti, ma
quella che rimane imperturbabile anche dinanzi al loro ricordo»41.
L’impassibile rimane imperturbabile anche dinanzi alle immagini de­
gli oggetti42; tali immagini, che gli si presentino nello stato di veglia o
nel sonno, gli appaiono «pure e senza turbamento»43. Essere impas­
sibile non vuol dire non avere relazioni con gli oggetti né essere senza
rappresentazioni (salvo nella preghiera pura e nella contemplazione
pura di Dio), ma vuol dire avere ormai con gli oggetti solo relazioni
esenti da ogni passione e avere solo ormai delle «rappresentazioni sem­
plici e pure»44, cioè prive di ogni connotazione passionale e che non
suscitano più in lui alcun desiderio, alcun affetto, alcun moto carnale.
Precisando che «lo spirito amico di Dio combatte non gli oggetti né
la loro rappresentazione, ma le passioni legate a queste rappresenta­
zioni»45, san Massimo nota: «Un indice di alta impassibilità sta nel fat­
to che le rappresentazioni degli oggetti sorgono nell’anima nella loro
semplicità, nella veglia o nel sonno»46. In quest’ultimo caso, uno dei
segni dell’impassibilità è quello di non fare più sogni il cui contenuto
sia legato a una qualsiasi passione; se non è così, vuol dire che «noi sia­
mo ancora malati»47, poiché i sogni accompagnati dal desiderio e dal
piacere testimoniano che l’elemento concupiscibile non è guarito, che
gli incubi o i sogni accompagnati da timore manifestano la non guari­
gione della parte irascibile48; occorre, dunque, continuare a fare «ri­
corso ai rimedi suddetti»49. Così in modo generale, «è una prova d’im­
passibilità il fatto che lo spirito [...] resti calmo dinanzi alle visioni del
sogno»50.
Avere solo rappresentazioni non-passionali suppone che l’uomo sia
pervenuto a una dissociazione tra le passioni e le sue rappresentazio­
ni: «Tutta la lotta che il monaco conduce contro i demoni, scrive an­
cora san Massimo, tende a separare le passioni dalle rappresentazio­
ni: altrimenti è impossibile restare impassibili alla vista delle cose»51;
41 Trattato pratico sulla vita monastica, 67.
42 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,91.
43 Ibid., 89. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 56: «Riconosceremo le
prove dell’impassibilità, di giorno, dai pensieri, e di notte, dai sogni».
44 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,97.
45 Ibid., IH, 40. Cfr. 53.
46Ibid., 1,93.
47 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 54.
48 Ibid.
49 Ibid.
50Ibid., 64. Vedi anche CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, IV, 22. TALASSIO, Centurie, 1,54.
51 Centurie sulla carità, HI, 41.
682
«ima rappresentazione passionale è un pensiero composto da una rap­
presentazione e da una passione. Separiamo passione da rappresenta­
zione, non rimane che il pensiero semplice»52. Il non avere più rap­
presentazioni passionali manifesta un più alto grado d’impassibilità
che il non avere più passione dinanzi agli oggetti stessi53.
Possiamo considerare con san Massimo che, al suo più alto livello,
l’impassibilità consiste anche nell’eliminazione dei pensieri semplici
stessi, si caratterizza per «la completa purificazione della semplice rap­
presentazione stessa»54, per «il rifiuto totale di tutte le rappresenta­
zioni sensibili che attraversano la riflessione»55. Ciò può apparire in­
gannevole nella misura in cui i pensieri semplici non sono pensieri pas­
sionali bensì «pensieri impeccabili» che, in quanto tali, non impediscono
l’impassibilità nel senso stretto del termine56. Ma ciò può anche esse­
re giustificato, perché i pensieri semplici, se non sono cattivi, man­
tengono tuttavia l’uomo in relazione con il mondo e costituiscono an­
che un ostacolo alla perfetta unione con Dio57. Questo grado superiore
d’impassibilità si situa, peraltro, al di là del dominio della pràxis, al
livello della conoscenza di Dio58, e costituisce «l’impassibilità perfet­
ta» posseduta dai perfetti. A quest’ultimo grado d’impassibilità, l’uo­
mo ha «elevato il suo spirito al di sopra delle creature»59ed è separa­
to dalle cose visibili e sensibili60. Ciò riguarda in particolare lo stato di
preghiera pura, che è, come vedremo in seguito, il modo privilegiato
della contemplazione: in questo stato, l’uomo ha respinto non solo
ogni attaccamento al mondo e ogni pensiero passionale che implica
l’oblio di Dio, ma anche ogni pensiero semplice che ostacola il ricor­
do puro di Dio. Sant’Elia Ecdico nota così che «gli impassibili cono­
scono nella preghiera un grande silenzio e una totale mancanza delle
rappresentazioni e dei pensieri»61. E san Massimo scrive: «Quando du­
rante la preghiera non viene mai nessun ricordo del mondo a turba­
re lo spirito, sappi allora che tu non sei più fuori del dominio dell’im­
52 Cfr. M assim o i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 43.
53 Ibid., 1,91.
54 Questioni a Talassio, 55, PG 90,544C.
55 Ibid.
56Vedi, per esempio, EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 55.
57Vedi infra.
58 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, 55, P G 90. 544C. NlCETA STETATOS,
Centurie, 1,1; 89.
59G iovanni C limaco , La Scala, X X IX, 2.
60 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 33. E vagrio
PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 66.
61 Capitoli gnostici, 76.
683
passibilità»62, e altrove: «Quando al momento della preghiera tu hai
sempre lo spirito senza materia e senza forma, sappi allora che tu hai
raggiunto la piena misura dell’impassibilità»63. Infatti, è nel grado più
elevato d’impassibilità che gli stessi pensieri semplici sono assenti dal­
lo spirito nel quale vi è posto solo per la preghiera. Occorre, però, sot­
tolineare che l’impassibilità non è vera a questo livello se non quan­
do i suoi gradi inferiori sono stati raggiunti, e quando questa to­
tale vacuità dei pensieri è permanente (come del resto indica san Mas­
simo, nei brani citati in precedenza) e che è permanente, correlativa­
mente, la preghiera pura. Infatti l’eliminazione dei pensieri può facil­
mente realizzarsi provvisoriamente con una semplice tecnica mentale
di concentrazione, lasciando sussistere completamente, soggiacenti e
inconsce, le passioni. Ora occorre ricordare che l’impassibilità consi­
ste prima di tutto nello stato di purezza che risulta dal fatto che, per
ascesi teantropica, tutte le passioni, moti, desideri e pensieri passionali
sono stati totalmente eliminati dall’anima64. Per questo san Simeone il
Nuovo Teologo precisa: «Quelli che sono ancora trattenuti da una pic­
cola cupidigia, qualunque essa sia, del mondo e degli affari, sono an­
cora molto lontani dal raggiungere il fine»65.
2) Le considerazioni precedenti non devono tuttavia farci dimen
care che l’impassibilità indica anche lo stato in cui l’uomo è in pos­
sesso di tutte le virtù. È così che san Giovanni Climaco scrive: «Le
virtù sono l’ornamento dell’impassibilità»66, e ancora: «L’anima pos­
siede l’impassibilità quando le virtù sono divenute per essa una se­
conda natura»67. Altrove egli precisa: «L’impassibilità non raggiunge
la sua perfezione se trascuriamo anche una sola virtù, qualunque es­
62 Centurie sulla carità, I, 88. Cfr. DI, 95.
63 Ibid., IV, 42.
64 L’impassibilità s’identifica al punto tale con la purezza che alcuni Padri la indicano esclu­
sivamente con quest’ultimo termine. Così, per esempio, san Giovanni Cassiano, che ha l’abitu­
dine di trascrivere i principali termini ascetici greci, non usa apàtbeia né il suo corrispondente
latino impassibilitas, ma puritas o anche tranquillitas mentis. Ciò si spiega certamente anche
per ragioni storiche poiché sappiamo che san Girolamo, nel contesto della controversia pela-
giana, ha violentemente attaccato la nozione di apàtbeia, il che ha comportato l’esclusione di es­
sa dalla tradizione ascetica latina. Vedi A. e C. GUILLAUMONT, Introduzione a EVAGRE LE PON-
TIQUE, Traitépratique, SC 170, Paris 1971, pp. 98-100; 103; 103-110. n. 6; G. BARDY, «Apatheia»,
in Dictionnaire de spiritualité, I, coll. 727-746. La maggior parte dei Padri usa indifferentemen­
te sia l’uno che l’altro termine (vedi per esempio DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici,
98. Giovanni Cassiano, Conferenze, VII, 1).
65 Trattati etici, IV, 21-24.
«LaScala, XXIX, 1.
67 Ibid., 8.
684
sa sia»68. Abbiamo visto che la conversione spirituale dell’uomo, con
la quale avviene la guarigione, non solo esige che egli si astenga dal
male, ma che inoltre faccia il bene. In questo senso, la pratica delle
virtù appare come il completamento necessario per la soppressione
delle passioni. Ecco perché san Giovanni Climaco vede, nell’impas­
sibilità che consiste nel possesso delle virtù, un’impassibilità superio­
re a quella che consiste solo nell’astenersi dalle passioni: «C’è chi è im­
passibile; e c’è chi possiede un’impassibilità ancora più grande. Il pri­
mo odia fortemente il male, ma l’altro possiede un impenetrabile tesoro
di virtù»69. «Una cosa è l’inerzia delle membra del corpo e delle pas­
sioni stesse dell’anima, un’altra cosa è l’acquisizione delle virtù», scri­
ve nello stesso senso san Simeone il Nuovo Teologo70 che, in un lun­
go trattato, mostra con precisione la distanza che separa la perfezione
di ogni virtù dalla semplice assenza della passione corrispondente71.
Ma, d’altra parte, nella misura in cui le virtù scacciano le passioni
sostituendosi ad esse, si può dire che l’impassibilità, in quanto indica
l’assenza di passione e l’insensibilità alle passioni, deriva dalle virtù72.
E così che san Massimo scrive: «Come ricompensa, il duro sforzo del­
la virtù ottiene l’impassibilità»73. E nella misura in cui l’uomo possie­
de le virtù che non è più portato al male74, non è più attaccato al mon­
do, e resta indenne di fronte agli attacchi dei demoni75. Sono «le virtù
[che] liberano lo spirito dalle passioni»76, sono «le virtù [che] purifi­
cano l’anima» e la conservano pura77.
Il fatto che le virtù appaiano non solo come la fonte dell’impassi­
bilità, ma anche come ciò che la costituisce essenzialmente, ci mostra
che questa non è una realtà puramente negativa, che essa non è più,
come osserva san Gregorio Palamas, «uno stato passivo dell’anima che
suppone la morte della parte passionale» di questa78, e nemmeno l’i­
nerzia delle sue potenze o delle facoltà. L’impassibilità, infatti, rap-
68 Ibid., 12.
*Ibtd., 5.
70 Trattati etici, IV, 67-69. Vedi anche Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 87; 94.
71 Trattati etici, IV, 71-138.
72 Cfr. EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 57; 62. GIOVANNI CRISOSTO­
MO, Commento al Salmo 4 ,1 1 .
73 Centurie sulla carità, II, 34.
74 Cfr. E vagrio P o n t ic o , Capitoli gnostici, V I, 21.
75 Cfr. I d ., Trattato pratico stilla vita monastica, 77.
76 M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, in, 44.
77 Cfr. EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 85.
78 Triadi, II, 2, 21.
685
presenta lo stato in cui l’uomo è giunto ad allontanare completamen­
te da «questo mondo» le potenze della sua anima, a cessare di farne
un uso «carnale», a non utilizzarle più per compiere il male, per ri-vol-
gerle totalmente verso Dio, per usarle spiritualmente, per fame un uso
completamente buono. Per questo l’impassibilità non significa che l’e­
lemento concupiscibile e l’elemento irascibile79muoiano, ma solo che
questi muoiano al mondo per condurre con il loro riorientamento ver­
so Dio una vita nuova che gli sia completamente consacrata. Ciò è
quanto sottolinea nettamente, più volte, san Gregorio Palamas: si trat­
ta, scrive, di far morire le cattive passioni «e non le attività dello Spi­
rito che si compiono per mezzo del corpo, né le passioni divine e be­
nefiche, né le potenze dell’anima destinate per natura a produrre que­
ste passioni»80. «Io considero come chiaramente dimostrato il fatto che
gli uomini impassibili abbiano la parte passionale della loro anima sem­
pre viva e che agisce per il meglio e che essi non la fanno ancora mo­
rire», nota ancora81. Altrove egli spiega perciò a lungo: «L’impassibi­
lità non consiste nel far morire la parte passionale, ma nel trasferirla
dal male verso il bene, nel dirigerla, nella sua stessa costituzione, ver­
so le cose divine, dopo averla completamente allontanata dal male e
rivolta verso il bene; secondo noi, l’uomo impassibile è colui che non
possiede più alcuna cattiva abitudine e che è ricco di buone abitudi­
ni, colui che si qualifica per le sue virtù, come le persone passionali
si qualificano per i cattivi piaceri; colui che ha sottomesso i suoi ap­
petiti irascibile e concupiscibile, che entrambi costituiscono la parte
passionale dell’anima, alle facoltà di conoscenza, di giudizio e di ra­
gionamento di questa stessa anima, come le persone passionali sotto­
mettono la loro ragione alle passioni. Infatti, è il cattivo uso delle po­
tenze dell’anima che genera le passioni abominevoli [...]. Ma se ce ne
serviamo convenientemente, [...] praticheremo le virtù corrisponden­
ti, in aiuto alla parte passionale dell’anima che agirà in conformità con
il fine che Dio le ha proposto nel crearla; con l’elemento concupisci­
bile, si abbraccerà la carità; con l’elemento irascibile, si assumerà la
pazienza. Non è, dunque, colui che avrà fatto morire la parte passio­
nale della sua anima (infatti allora non ci sarebbero in lui alcun mo­
vimento, né azione per acquistare uno stato divino, né relazioni con
Dio, e disposizioni divine dello spirito), ma colui che l’avrà sotto­
79 Evagrio condivide questo punto di vista. Vedi A. e C. GUILLAUMONT, Introduzione a ÉVA-
GRE LE PONTIQUE, Truité pratique, p. 106.
80 Triadi, II, 2, 22.
81 Ibid., 24.
686
messa, affinché per obbedienza allo spirito, che per natura possiede la
preminenza, egli vada, come è opportuno, a Dio e tenda verso Dio
t...]»82. Così l’impassibilità è morte al mondo per essere vita nello Spi­
rito83; essa è insensibilità alle realtà di questo mondo per essere viva
sensibilità alle realtà spirituali e divine, il che fa dire a Evagrio in ma­
niera sorprendente: «La sensibilità spirituale è l’impassibilità dell’ani­
ma razionale prodotta dalla grazia di Dio»84. L’impassibile è separato
dal mondo per essere «pienamente unito a Dio»85. Egli non vive per
se stesso, perché il Cristo vive in lui (cfr. Gal 2,20)86. Tutte le facoltà,
le potenze, le energie, le forze dell’impassibile sono in disaccordo con
questo mondo per essere pienamente concordi con Dio, per essere in­
teramente sottomesse alla sua volontà: «Colui al quale è stato con­
cesso un tale stato, benché sia ancora nella carne, diventa la dimora di
Dio e Dio governa tutte le sue parole, le sue opere e i suoi pensieri»,
scrive san Giovanni Climaco87. San Niceta Stetato nota che con l’im­
passibilità il Cristo «regna in tutte le potenze della nostra anima» e «la
sua volontà si compie in noi come in cielo»88.
L’impassibilità costituisce, dunque, il punto di arrivo della conver­
sione spirituale dell’uomo per mezzo della quale, come abbiamo di­
mostrato, avviene il suo ritorno alla salute. Ecco perché i Padri consi­
derano l’impassibilità come la salute dell’uomo. «L’impassibilità è la sa­
lute dell’anima», scrive Evagrio89, come fa anche san Talassio: «La salute
dell’anima è l’impassibilità»90. San Massimo nota che, quando raggiunge
l’impassibilità, «l’anima prende coscienza della sua buona salute»91.
L’impassibilità è la salute spirituale dell’uomo poiché essa corri­
sponde allo stato in cui l’uomo è liberato dalle passioni, quindi gua­
rito da tutte le sue malattie spirituali, ma corrisponde anche allo stato
in cui egli è in possesso di tutte le virtù che, come abbiamo visto, co­
stituiscono la sua salute. Essa è la salute spirituale dell’uomo poiché è
lo stato in cui tutte le sue facoltà e potenze hanno cessato di esercitarsi
patologicamente nelle passioni e hanno ritrovato nelle virtù l’uso cor­

82Ibid., 19.
85 Cfr. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, VI, 20-22.
84 Capitoli gnostici, I, 37.
85 G iovanni C limaco , La Scala, XX IX, 9.
86 Cfr. ibid., 11. S imeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 254-255; VI, 350-359.
87 La Scala, XXIX, 10.
88 Centurie, II, 91.
89 Trattato pratico sulla vita monastica, 56. Cfr. 55. Commento al Salmo 114, 7.
90 Centurie, E, 2.
91 Centurie sulla carità, I, 89.
687
rispondente alla loro vera finalità, quella che è conforme alla loro na­
tura. L’impassibilità appare, così, come lo stato in cui l’uomo recupe­
ra la propria natura, è liberato dall’alienazione precedente e ritrova se
stesso, reintegra il suo essere vero e originale, poiché egli è impassi­
bile per natura ed è stato creato virtuoso da Dio92. A questo proposi­
to Doroteo di Gaza nota che «vi furono amici di Dio che, dopo il san­
to battesimo, non solo rinunciarono ad atti passionali, ma vollero vin­
cere le passioni stesse e divenire impassibili [...], avendo come scopo
quello di purificarsi da “ogni macchia della carne e dello spirito”,
come dice l’Apostolo (2Cor 7,1), e sapendo che è per mezzo dell’os­
servanza dei comandamenti che l’anima si purifica, e lo spirito, puri­
ficato anch’esso per così dire, recupera la vista e ritorna al suo stato
naturale»93. San Gregorio di Nissa scrive allo stesso modo: «Coloro
che avranno armonizzato la loro vita con la purificazione del battesi­
mo s’incamminano verso ciò che costituisce il loro profondo essere.
Ora, alla purezza è strettamente unita l’impassibilità»94. «Lo spirito
agisce secondo la natura quando tiene le passioni assoggettate», scri­
ve san Massimo95, il quale osserva anche che l’anima «agisce secondo
la sua natura quando le sue potenze passionali - [ossia] l’irascibile e il
concupiscibile - di fronte agli oggetti e alle loro rappresentazioni ri­
mangono in pace»96da un lato, e sono totalmente orientate verso Dio,
dall’altro97. San Niceta Stetato, da parte sua, osserva che l’impassibi­
lità «rende alle potenze dell’anima il loro movimento naturale»98.
Si può dire così che con l’impassibilità l’uomo ritrova la perfezione
della sua natura, la statura di uomo perfetto in Cristo (cfr. Ef 4,13)".
Infatti, «l’anima perfetta è quella la cui potenza passionale agisce na­
turalmente», scrive Evagrio100, cosa che ripete san Massimo più espli­
citamente: «L’anima è perfetta quando la sua potenza passionale si è
completamente rivolta verso Dio»101, formula che riprendono testual­
mente anche san Callisto e sant’Ignazio Xantopulo102.
92 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 82; 83.
93 Istruzioni spirituali, I, 11.
94 Discorso catechetico, 35.
95 Centurie sulla carità, IV, 45.
96 Ihid., IH, 35.
97 Cfr. M assim o il C o nfessore , Centurie sulla carità, ni, 98. E vagrio P o n t ic o , Trattato
pratico sulla vita monastica, 87; Capitoli gnostici, IV, 73.
98 Centurie, I, 89.
99 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 364ss.
100Capitoli gnostici, DI, 16.
101 Centurie sulla carità, III, 98.
102 Centuria, 66.
688
Per mezzo dell’impassibilità l’uomo recupera la libertà in quanto
non è più sottomesso alle passioni, ai moti, ai desideri e ai pensieri pas­
sionali103, ma anche perché egli si volge spontaneamente al bene, co­
sa in cui consiste, lo abbiamo visto, la vera libertà. A questo proposi­
to san Doroteo di Gaza nota che l’impassibilità permette all’uomo di
essere «perfettamente affrancato e liberato»104. San Simeone il Nuovo
Teologo indica così l’impassibile: «Colui che ha ricevuto da Dio il go­
dimento della libertà dello Spirito»105. La libertà è talmente legata al­
l’impassibilità che molti Padri usano frequentemente il termine «li­
bertà» (eleutheria) per indicare l’impassibilità106, e molti traduttori non
esitano a tradurre il termine apàtheia con l’espressione «libertà inte­
riore»107.
L’impassibilità, oltre a dare all’uomo la vera libertà, stabilisce nella
sua anima la vera pace, fa regnare nel cuore dell’uomo la pace di Dio
(cfr. Col 3,15). La calma (hèsychta) e il riposo (anàpausis) spirituali ap­
paiono infatti come caratteristiche fondamentali dell’impassibilità a tal
punto che anch’essi servono spesso a indicarla108. Così Evagrio defi­
nisce l’impassibilità come «lo stato tranquillo dell’anima razionale»109,
san Massimo come «uno stato di pace»110, san Niceta Stetato come «lo
stato pacifico dello spirito»111. La salute costituita dall’impassibilità ap­
pare, perciò, per una parte legata a questo stato di riposo, di tranquillità
e di pace. Evagrio scrive: «Come il malato ritorna in salute, l’anima ri­
torna al suo riposo»112, e sant’Isacco il Siro osserva: «La pace è la sa­
lute perfetta della coscienza»113. L’impassibile, infatti, «in fondo alla
103Cfr. G io v ann i C risostom o , Paragone tra il solitario e il re, 1; 2.
104Istruzioni spirituali, I, 20.
105 Trattati etici, IV, 230-232. Cfr. 200-203.
106Vedi per esempio NlCETA STETATOS, Centurie, I, 1. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trat­
tati etici, IV, 198; VI, 36-38.
107In particolare J. Pegon nella sua traduzione di Centurie sulla carità di san Massimo il Con­
fessore, (SC 9).
108 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico, 73; Capitoli gnostici, IV, 44. Giovanni Cassiano,
che non usa né apàtheia né impassibilitas, utilizza spesso l’espressione «tranquillitas mentis». Ma
la pace, il riposo, la tranquillità non bastano da soli a caratterizzare l’impassibilità. Ecco per­
ché Giovanni Cassiano traduce questo termine con diverse altre espressioni, soprattutto con «pu-
ritas mentis». Tale precisazione è necessaria perché l’uomo potrebbe, per mezzo di una tecnica
mentale, arrivare ad una certa pace interiore (che, è vero, non sarebbe però la vera pace) senza
essere veramente apathes, senza essere allo stesso tempo puro e virtuoso. Si noti tra l’altro che
Yhèsychza conosce forme e gradi diversi, ed è al grado più elevato che corrisponde Vapàtheia (ve­
di I. H ausherr , Hésychasme et prière, Roma 1966, pp. 163s).
109Riflessioni, éd. Muyldermans, p. 38.
110Centurie sulla carità, I, 36; 44. Cfr. II, 87.
111 Cfr. Centurie, I, 89.
112 Commento al Salmo 114,1.
113Discorsi ascetici, 58.
689
sua anima tiene le sue passioni nella calma completa»114, «conserva la
pace dell’anima di fronte alle rappresentazioni impure»115, e non è più
sottomesso interiormente all’agitazione patologica che ne derivava.
D’altra parte, l’impassibilità, in quanto corrisponde all’eliminazione
delle passioni, significa la fine di tutti i conflitti e di tutte le divisioni
che esse generavano nell’anima e, in quanto corrisponde al possesso
delle virtù, stabilisce nel loro posto la concordia e l’armonia interiori
legate a queste ultime. «Nulla dà più abitualmente la pace, scrive san
Giovanni Crisostomo, che il possesso della virtù che espelle dal nostro
cuore le passioni e i turbamenti che queste vi formano e impedisce al­
l’uomo di essere in guerra con se stesso»116. L’impassibilità, come af­
ferma san Niceta Stetato, «sottomette e placa ciò che era diviso»117, e
lo riunifica, perché mette fine alla divisione e alla dispersione dei pen­
sieri, dei desideri e delle sensazioni dell’uomo, pone fine alla diver­
genza delle sue facoltà svendute alla carne attraverso le passioni118, per
farle convergere, nelle virtù, verso un solo fine che le riunifica, cioè
Dio. L’impassibilità significa la fine del vagabondaggio terreno dello
spirito: «Lo spirito vaga quando è passionale, cioè esso non si ferma
nel soddisfare ogni sorta di desiderio; ma si astiene dal traviamento
quando è divenuto impassibile»119. L’impassibilità, al contrario, signi­
fica una sua stabile concentrazione sulle realtà spirituali e il ritorno nel
cuore da cui si era separata. Ciò fa dire a san Giovanni Climaco: «Per
impassibilità non intendo altro che il cielo dello spirito stabilito nel
mio cuore»120, essendo lo stesso cuore ridiventato, per mezzo della pu­
rificazione dalle passioni e l’acquisto delle virtù, il luogo in cui l’uomo
ritrova Dio.
Acquistando l’impassibilità, l’uomo è reso partecipe di una pro­
prietà divina fondamentale. Per questo san Giovanni Climaco intito­
la il Grado XXIX della Scala: «Della divina impassibilità, imitatrice di
Dio». Per mezzo dell’impassibilità, l’uomo acquista la somiglianza con
Dio121, e se egli può divenire impassibile, è perché ciò corrisponde
1MM assim o il C o n fe s s o r e , Centurie sulla carità, n, 98.
m lbid„ 87.
116Commento al Salmo 4 ,11.
117 Centurie, II, 91.
118 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. E), XXXI, 6.
119Capitoli gnostici, I, 85.
120La Scala, XXIX, 1.
121 Cfr. C lem ente d ’A lessandria , Stromata, E, 20,103,1.
690
alla natura che Dio, creandolo, ha donato a colui che egli ha fatto a
sua immagine122, e che è destinato a divenire dio per grazia123. Le ca­
ratteristiche dell’impassibilità che rendono l’uomo simile a Dio non
solo sono l’assenza di ogni passione riguardo alle realtà sensibili124e
il possesso delle virtù, ma anche la libertà e l’immutabilità125. Per que­
sto san Massimo nota che l’impassibile, con il suo spirito, «ha anco­
rato tutta la potenza della sua anima all’immobile libertà divina»126, e
che «ormai egli appartiene completamente al Bene stabile, permanente
e sempre uguale a se stesso a causa della sua natura» e che «con que­
sto Bene egli rimane totalmente immutabile»127.
L’impassibilità permette all’uomo di accedere alla carità perfetta.
Evagrio nota che essa la genera128. San Massimo scrive: «L’impassibi­
lità produce l’amore perfetto»129; «colui che è giunto alla vetta del­
l’impassibilità possiede la carità perfetta»130.
L’impassibilità appare, d’altra parte, come ciò che permette all’uo­
mo di accedere alla contemplazione (theórìa) e alla conoscenza {gnò-
sis) spirituali: alla contemplazione naturale (theórìa phystke) prima di
tutto, che è la conoscenza delle ragioni spirituali (lógoi) degli esseri;
poi alla conoscenza di Dio (theologia)m.
L’impassibilità è la condizione sine qua non di questa conoscenza
superiore132. A questo proposito san Massimo scrive: «Il cammino del­
la conoscenza è l’impassibilità [...]. Senza [di essa] non vedremo mai
il Signore»133. Infatti, per conoscere le realtà spirituali, e a fortiori Dio
stesso, l’uomo deve necessariamente essere puro (cfr. Mt 5,8); «la pu­
rezza perfetta è il fondamento della teologia»134. Ora, solo nell’im­
passibilità egli raggiunge questa purezza perfetta. Ma si può anche di­
re che, in quanto essa è pieno possesso delle virtù, l’impassibilità è la
fonte della conoscenza spirituale, perché è solo nella perfezione delle
122I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 82.
123 Cfr. S im eone il N uo v o T e o l o g o , Trattati etici, V I, 193s.
124 Cfr. ibid, 192-193.
125 Cfr. ibid, IV, 666.
126Commento del Padre nostro, PG 90, 888A.
127 Questioni a Talassio, PG 90,260C. Vedi anche Commento del Padre nostro, PG 90,885D-
888A.
128Cfr. Specchio dei monaci, 67; Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo, 8; 81.
129Centurie sulla carità, IV, 91. Cfr. I, 2.
130Ibid., II, 30. Cfr. Centurie sulla carità, IV, 42; 92.
131 Cfr. NlCETA STETATOS, Centurie, I, 1. GREGORIO PALAMAS, Triadi, II, 2, 19.
132 Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, HI, 5,43,1.
133 Centurie sulla carità, IV, 58. Cfr. I, 85; 86.
134 G iovanni C lim aco , La Scala, XXX, 21.
691
virtù che l’uomo può conoscere Dio. È per questo che san Massimo
scrive: «Come ricompensa, il duro sforzo della virtù ottiene l’impas­
sibilità e la conoscenza»135.
Se, tuttavia, l’impassibilità è fonte di conoscenza, non lo è che in­
direttamente. In verità, è dalla carità stessa che procede la conoscen­
za, scopo della pràxis. Infatti, se l’impassibilità è «il fiore della praxis»,
è la carità che ne è il termine.

1,5 Centurie sulla carità, II, 34.


692
II
LA CARITÀ

La carità {agape, èros..., caritas, dilectio)1, che è, inseparabilmente,


amore di Dio e del prossimo2, costituisce l’essenza della vita cristiana3,
e ciò tanto più che, come lo Spirito Santo ha rivelato all’apostolo san
Giovanni, «Dio è amore» (lGv 4,8.16). «Molti, scrive san Massimo,
hanno parlato della carità, e anche abbondantemente. Ma se tu la cer­
chi, tu la troverai solo tra i discepoli del Cristo, gli unici che abbiano
per maestro nella carità la Carità vera, quella di cui si è detto: “E se
anche ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scien­
za, ma non ho la carità, non sono niente” (lCor 13,2)»4. San Gregorio
Nazianzeno dice: «Se ci chiedessero: “Qual è l’oggetto del vostro cul­
to e della vostra adorazione?”, risponderemmo senza esitare: “la ca­
rità”, perché “il nostro Dio è la carità”»5.
Nella carità si trova riassunta e compiuta tutta la vita cristiana. Es­
sa rappresenta il primo e il più grande comandamento (cfr. Mt 22,36-
40); Me 12,28-3 l)é, che fonda e riassume tutta la Legge e i Profeti (cfr.
Mt 22,40)7; essa è la somma di tutti i comandamenti8, «il compimento
1Se il termine spesso usato dai Padri greci è agape, il termine èros è usato dalla maggior
parte di essi come sinonimo di quello, salvo il fatto che esso talvolta aggiunge una connotazio­
ne di ardore, d’intensità, e riguarda piuttosto l’amore di Dio che non l’amore del prossimo, men­
tre agape sta a indicare sia l’uno che l’altro. Lo Pseudo Dionigi sottolinea questo sinonimo (Sui
Nomi divini, IV, 12, PG 3, 709B: «Mi sembra che i teologi abbiano considerato come sinonimi
èros e agape.»; ibid., 709C: «I santi teologi, per rivelare i segreti divini, attribuiscono il medesimo
valore die due espressioni agape e èros»), u. termine póthos è anche impiegato per indicare la ca­
rità. Su queste questioni di terminologia, vedi J. FARGES e M. VlLLER, «Charité», in Dictionnai-
re de spiritualité, t. 2, Paris 1953, coll. 529-530.v
2 Cfr. Mt 22,37-39’, Me 12,30-31; Le 10,27. È questa la definizione più sem plice e più classi­
ca (vedi per esem pio CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stromata, IV, 18. GREGORIO MAGNO, Moralia
su Giobbe, 10, 6).
3Cfr. Gv 13,35. S im eone il N u o v o T eo lo g o , Catechesi, 1,145s.
4 Centurie sulla carità, IV, 100.
5Discorsi, XXII, 4.
6 Cfr. G regorio N azia nzen o , Discorsi, XIV, 5. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 11.
7 Cfr. Discorsi, XIV, 5; XXII, 4.
8Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 2; 5. G iovanni C risostom o , Omelia sulla perfet­
ta carità, 1.
693
della Legge» (Km 13,10) nella sua essenza9e totalità, il fine della Leg­
ge10. Chi possiede la carità compie tutti i comandamenti11, sia perché
essa li presuppone sia perché li contiene tutti. La carità, dice san Mas­
simo, «riassume in un principio universale ciò che hanno di parziale
i comandamenti che il beneplacito di Dio ingloba in essa secondo una
tipologia unica e che la sua provvidenza distribuisce a partire da essa
in molti modi»12.
Nella misura in cui la pratica dei comandamenti ha come fine il pos­
sesso delle virtù, si dice la stessa cosa affermando che la carità costi­
tuisce la più grande delle virtù principali (cfr. lCor 13,13), il vertice di
tutte13e la loro perfezione14, la testa del corpo dell’uomo adulto in Cri­
sto che l’edificio delle virtù costituisce15, ma anche il principio, il fon­
damento16e la somma di tutte le virtù17.
Con questo si comprende già che la carità appare come «fine del­
la pràxis»18.
La carità segue all’impassibilità, perché essa suppone non solo il
possesso di tutte le virtù, ma anche l’assenza delle passioni. Infatti, lo
mostreremo, l’uomo non ama veramente Dio né il suo prossimo come
se stesso, fintanto che conserva un qualsiasi attaccamento passionale
al mondo e a se stesso.
Che la carità presupponga l’impassibilità non significa, tuttavia, che
l’uomo non possa affatto amare Dio né il suo prossimo prima di esse­
re divenuto impassibile, stato molto difficile da raggiungere e posse­
duto molto raramente. È la perfetta carità che l’impassibilità condi­
ziona. Ed è la perfetta carità che costituisce la perfezione della vita spi­
rituale19. Ma, nondimeno, la carità è per l’uomo, fin dall’inizio della sua
vita ascetica, un dovere immediato: ciò significa che essa è il primo co-
mandamento. E il fatto che la carità contiene tutti i comandamenti e
include tutte le virtù, implica inversamente che la pratica di ciascun
’ Iren eo DI L ione, Contro le eresie, V, 12,1.
10 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Catechesi, 1 , 127-128.
11 M assimo il C onfessore , Discorso ascetico, 6.
12Lettere, 2.
13Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXX, 38. G iovanni D amasceno , Omelia sulla Trasfi­
gurazione, 10, PG 96,560D. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 74.
14Cfr. DOROTEO DI G aza , Istruzioni spirituali, XIV, 2.
15Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 515s.
16G iovanni C risostomo , Omelie su 2 Timoteo, VE, 3.
17Cfr. G regorio M agno , Moralia su Giobbe, X, 6. G iovanni C limaco , La Scala, XXVI, 52.
18EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 84. TALASSIO, Centurie, IV, 51.
19Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, VII, 4. BASILIO DI CESAREA, Commento al Salmo 32,
PG 29,537. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnostici, 16-17. G regorio M ag n o , Moralia
su Giobbe, XXII, 20. TALASSIO, Centurie, IV, 79. ELIA ECDICO, Antologia, 2.
694
comandamento e la vita secondo ciascuna virtù in qualche misura in­
cludono la carità. In altri termini, l’ordine che adottiamo nel nostro
studio e che ci fa esaminare la carità dopo tutte le virtù e al di là della
stessa impassibilità, non deve farci dimenticare che vi sono dei gradi
nella carità20, e che questa dev’essere considerata anche a ciascun li­
vello della vita spirituale, e in rapporto con la terapia di ciascuna pas­
sione e con l’acquisto di ciascuna virtù, o anche come rimedio all’uso
patologico di ciascuna potenza o facoltà fondamentale dell’anima sì da
farla agire sanamente, cioè secondo l’ordine della sua natura. È così
che abbiamo visto come la carità possa essere considerata un rimedio
alla cupidigia e alla concupiscenza, e correlativamente come la virtù
della potenza di desiderio [o concupiscibile] dell’anima; ma anche co­
me il rimedio alla collera e correlativamente come la virtù della potenza
aggressiva [o irascibile]. Vedremo come, condizionando la conoscen­
za spirituale, la carità costituisca anche una terapia fondamentale de­
gli organi di conoscenza e un rimedio fondamentale all’ignoranza.

1. La carità, amore spirituale di sé


Se la carità è prima di tutto amore di Dio, e in secondo luogo, ma
inseparabilmente, amore del prossimo, essa è amore di questo «co­
me di se stessi», secondo l’insegnamento del Cristo (cfr. Mt 22,39; Me
12,31; Le 10,27). La carità include, dunque, l’amore di sé: philautia.
Ma questa filautia non ha nulla da vedere con la filautia che è la ma­
dre di tutte le passioni; essa ne è persino l’antitesi. Mentre la filautia-
passione consiste nell’amarsi secondo la carne, e per se stessi, narci-
sisticamente, al di fuori di Dio, la «filautia spirituale» consiste, al con­
trario, nell’amarsi spiritualmente, cioè in Dio e in vista di Dio, in ciò
che si è nel profondo attualmente, cioè come persona creata ad im­
magine di Dio, e in ciò che si è chiamati a divenire: persona a somi­
glianza di Dio, figlio di Dio per adozione e dio per grazia.
L’amore spirituale di sé o filautia virtuosa appare qui subordinato
al primo comandamento, che è quello di amare Dio, poiché amarsi
spiritualmente porta ad amarsi in Dio e per Dio. San Massimo osser­
va così che si tratta di «adorare incessantemente Dio per mezzo di que­
sta bella filautia»21.
20Vedi per esempio MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 14.
21 Questioni a Talassio, Prologo.
695
Del resto, amore di Dio e filautia virtuosa s’implicano reciproca­
mente: amarsi nella propria realtà spirituale di immagine di Dio por­
ta ad amare Dio. In maniera corrispondente, come dice sant’Anto­
nio il Grande, «chi ama Dio ama se stesso»22.
Mentre la filautia-passione è attaccamento dell’uomo alla sua indi­
vidualità, a un io ripiegato su se stesso, opaco, che esclude Dio, pri­
vo per questo di ogni realtà e di ogni vera vita, la filautia virtuosa, al
contrario, è apertura piena a Dio, totale trasparenza alle sue energie.
Mentre nella prima forma d’amore di sé, l’uomo è in realtà, senza ren­
dersene conto, «amante di se stesso contro se stesso», secondo l’e­
spressione di san Massimo, nella filautia spirituale, egli si ama vera­
mente, nella sua realtà più profonda e più essenziale, quella della sua
autentica natura di cui Dio è il principio e il termine. Mentre la filau-
tia-passione aliena l’uomo, la filautia virtuosa gli permette, in Dio, di
ritrovare se stesso e di recuperare la vita che aveva perduta. Mentre la
prima lo trascinava al peccato e sviluppava in lui le diverse passioni,
la seconda suppone e implica l’odio del peccato distruttore e la puri­
ficazione delle passioni che rendono il suo essere malato e lo condu­
cono alla morte, e la pratica delle virtù che lo fanno essere ciò che egli
è veramente, che lo rendono conforme alla sua autentica natura. Nel­
la misura in cui, secondo l’adagio patristico, è attraverso le virtù che
l’uomo è reso simile a Dio, virtù che sono in germe nell’immagine di
Dio, amare se stessi nel proprio essere e nel divenire spirituale sup­
pone e implica, da parte dell’uomo, l’attaccamento alle virtù23, o più
esattamente l’attaccamento a Dio nella pratica delle virtù. A questo ri­
guardo così scrive san Massimo: «Al posto della filautia perversa, avre­
mo la filautia spirituale [...]; è allora che noi non smetteremo mai di
adorare Dio per mezzo di questa bella filautia, cercando sempre in Dio
la vera sussistenza dell’anima. E questa l’adorazione autentica, vera­
mente gradita a Dio: la cura attenta che ci prendiamo nella pratica del­
le virtù»24.
La filautia spirituale è, tra l’altro, una delle chiavi dell’amore del
prossimo, come dice il comandamento formulato dal Cristo: «Amerai
il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,39; Me 12,31; Le 10,27). E so­
lo nella misura in cui l’uomo si ama veramente, in ciò che è fonda­
mentalmente, in Dio e per Dio, che egli può amare il suo fratello spi­
22 Lettere, IV, 9. NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, V E , 66.
23 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 4.
24 Questioni a Talassio, Prefazione.
696
ritualmente, senza che questo amore sia intaccato da alcun elemento
passionale o carnale, che egli può amarlo nella sua vera natura di per­
sona creata anch’essa a immagine di Dio, e chiamata anch’essa ad as­
somigliargli, che egli può dunque amarlo come qualcuno che condi­
vide la stessa natura e come un altro figlio per adozione dello stesso
Padre, come un fratello in Cristo. E così che sant’Antonio il Grande
scrive: «Chi conosce se stesso conosce le altre creature [...]. Chi sa ama­
re se stesso ama anche gli altri»25. Reciprocamente, l’amore spirituale
di sé suppone l’amore del prossimo: per amare veramente se stessi, oc­
corre amare i fratelli, sottolinea san Giovanni Crisostomo26.
In ogni modo, appare evidente che mentre la filautia-passione con­
duceva la natura umana a fare la guerra a se stessa e la divideva, fa­
cendo degli uomini individui non solo isolati ma anche opposti e ne­
mici gli uni degli altri, la filautia spirituale contribuisce a ri-unire la na­
tura in se stessa e con Dio.
Più precisamente, la filautia-virtù non può sostituirsi alla filautia-
passione, o più esattamente la filautia carnale non può cambiarsi in fi­
lautia spirituale27, se l’uomo non si distacca dall’io decaduto, ossia se
non rinuncia alle passioni. Ecco perché l’amore spirituale di sé è con­
dizionato, nella sua perfezione, dall’impassibilità.
2. L’amore del prossimo
La carità riguardo al prossimo può essere brevemente definita co­
me l’amore di tutti gli uomini senza eccezione e in modo uguale. Il co-
mandamento di amare i propri nemici (cfr. Mt 5,43-44; Le 6,27-36)
sottolinea questo carattere universale della carità, la quale non deve
conoscere eccezioni. E in ciò il segno distintivo della carità cristiana
(cfr. Mt 5,43): mentre gli stessi peccatori sono capaci di un amore se­
lettivo (cfr. Le 6,32-35) e «amano quelli che li amano» (cfr. Le 6,32),
«gli amici del Cristo amano sinceramente tutti gli uomini»28. «Tutti so­
no il nostro prossimo», ricorda san Giovanni di Gaza29. «Colui che
compatisce nel suo spirito non fa distinzioni tra gli uni e gli altri, ma
ha pietà di tutti», scrive sant’Isacco il Siro30, che nota ancora: «Colui
25 Lettere, IV, 7.
26 Omelie su 2 Timoteo, VII, 1.
27 Cfr. MASSIMO il C onfessore , Questioni a Talassio, Prefazione.
28 Id., Centurie sulla carità, IV, 98.
29Lettere, 339.
30Discorsi ascetici, 56.
697
che ama tutti gli esseri in modo uguale [...] è giunto alla perfezione»31.
«Fa’ il possibile per amare tutti gli uomini» consiglia san Massimo32,
che definisce la carità come una «totale sollecitudine per la totalità del
genere umano»33, e scrive: «Beato l’uomo capace di amare tutti gli uo­
mini allo stesso modo»34. Lo stesso autore osserva che non si possiede
l’amore perfetto «fintanto che non si amano allo stesso modo tutti
gli uomini»35. Egli precisa ancora: «La carità perfetta non ammette, fra
gli uomini [...], alcuna distinzione basata sulla differenza di caratte­
re. Essa [...] ama allo stesso modo tutti gli uomini, i buoni a titolo di
amici, i cattivi a titolo di nemici, facendo loro del bene, sopportando­
li, tollerando pazientemente quanto si riceve da essi, rifiutando osti­
natamente di vedervi del male, arrivando fino a soffrire per loro qua­
lora se ne presenti l’occasione»36.
La carità perfetta considera e tratta in ugual modo non solo tutti gli
uomini, ma anche ciascuno in ogni momento: «Non ha ancora la ca­
rità perfetta colui le cui disposizioni cambiano a seconda di quelle de­
gli altri, che per esempio ama questo, detesta quello per un sì o per un
no, oppure oggi ama, mentre domani detesterà la stessa persona per
gli stessi motivi»37.
Amare in ugual modo tutti gli uomini suppone non solo che non si
escluda nessuno e che si ami ciascuno costantemente, ma anche che
tutti siano amati costantemente con la stessa intensità. A questo pro­
posito san Massimo scrive: «Un tale, tu lo detesti; quest’altro, tu non
lo ami e neppure lo odi; questo, tu lo ami, ma molto moderatamen­
te; quello invece, tu lo ami intensamente... Da queste differenze, rico­
nosci che tu sei lontano dalla carità perfetta che, invece, si propone di
amare allo stesso modo tutti gli uomini»38. Ed egli allora consiglia: «Oc­
corre amare ogni uomo con tutta l’anima»39, e fa notare che, per di più,
«gli amici del Cristo perseverano sino alla fine nel loro amore»40.
L’amore del prossimo, se è uno nella sua natura, tuttavia riveste for­
31 Ibid., 43.
32 Centurie sulla carità, IV, 82.
33 Lettere, 2.
34 Centurie sulla carità, I, 17.
35Ibid., 61.
* Ibid.,11.
37Ibid., 70.
™Ibid., H, 10.
39Ibid., IV, 95.
40Ibid., 98.
698
me molteplici e varie41, e inoltre, come abbiamo detto, «si estende a
tutte le manifestazioni della virtù»42. Per questo san Paolo scrive: «La
carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non
si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo inte­
resse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode del­
l’ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tut­
to spera, tutto sopporta» (ICor 13,4-6). La carità si manifesta in par­
ticolare con la benevolenza, la bontà, la dolcezza, la longanimità, la
compassione, la beneficenza...
Nella misura in cui essa implica che si ami il prossimo come se stes­
si43, secondo il comandamento del Cristo (cfr. Mt 22,38; Me 12,31;
Le 10,27), le sue manifestazioni possono riassumersi in questi due pre­
cetti: non fare al prossimo ciò che non vorremmo fosse fatto a noi; fa­
re al prossimo ciò che si vorrebbe che egli facesse a noi44.
Il primo precetto, in forma negativa, è dato nell’Antico Testamen­
to dal giusto Tobia: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb
4,15). San Paolo lo presenta così: «L’amore non procura del male al
prossimo: quindi la pienezza della legge è l’amore» (Rm 13,10). Egli
lo esprime anche, tra l’altro, e sulla sua scia i Padri, in molte racco­
mandazioni che mirano non solo all’astensione da ogni azione e da
ogni parola pregiudizievole per il prossimo, non foss’altro perché ciò
lo rattristerebbe45, ma anche all’astensione da ogni pensiero o cattiva
intenzione nei riguardi del prossimo, da ogni atteggiamento esteriore
e/o interiore che implica una relazione con il prossimo che da un pun­
to di vista spirituale sarebbe perversa. E così che la carità esclude per
esempio che si invidi il prossimo46, che lo si disprezzi47, lo si giudichi
sfavorevolmente48, si gioisca delle sventure o delle cadute che gli ca­
pitano49e afortiori che gli si auguri del male50, ci si rattristi per ciò che
gli capita di buono51... Qui vediamo anche come la carità presuppon­
41 G re g o rio M agn o, Momlia su Giobbe
60-62.
,X, 6. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Catechesi, I,
42Ibid.
43 Cfr. G iovanni C risostomo , Omelia sulla perfetta carità, I. G iovanni di G aza , Lettere,
339.
44 Cfr. G regorio M a g n o , Moralia su Giobbe, X, 6.
45 Cfr. D oroteo di G aza , Istruzioni spirituali, in , 44. M assimo il C onfessore, Centurie sul­
la carità, 1 ,41.
46Cfr. ICor 13,4. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,55.
47 Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 342.
48 Cfr. ICor 13,5. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,42; 57.
49 Cfr. ICor 13,6. M assimo il C onfessore , loc. dt., 1 ,56.
50 Cfr. M assimo i l C onfessore , loc. cit.
51 Cfr. ibid., 55.
699
ga l’impassibilità, poiché essa esclude tutte le passioni, le quali con­
ducono, a un grado o a un altro, sotto una forma o sotto un’altra,
colui in cui esse abitano a trattare male o solo a considerare sfavore­
volmente il prossimo.
Il secondo precetto, in forma positiva, è dato nel Nuovo Testamento
dallo stesso Cristo: «Quanto dunque desiderate che gli uomini vi fac­
ciano, fatelo anche voi ad essi» (Mt 7,12; Le 6,31). Ciò implica in
particolare che ci si senta solidali con tutti gli uomini e che si vada
loro in aiuto secondo la raccomandazione dell’Apostolo: «Portate vi­
cendevolmente i vostri pesi, così compirete la legge di Cristo» {Gal
6,2), e che ci si faccia loro servitore (cfr. Gal 5,13-14). Questo aiuto
deve rispondere a tutti i bisogni del prossimo: a quelli materiali, per
mezzo dell’elemosina in particolare52, ma anche a quelli spirituali nel
condurre il prossimo a Dio se se ne è allontanato53, contribuendo a cu­
rare le sue malattie spirituali54, ricercando il suo progresso spirituale e
la sua salvezza55, aiuto che si dimostra con la parola56, con il servizio57,
e soprattutto con la preghiera58. La carità implica anche la compas­
sione, ossia che si gioisca con il prossimo di quanto gli avviene di buo­
no, e ci si affligga con lui per tutti i mali che lo colpiscono59, prodi­
gandogli consolazione e conforto60.
Notiamo infine che amare il prossimo come se stessi, vuol dire es­
sere attaccati e uniti a lui quanto a se stessi. E caritatevole, potrem­
mo dire con Evagrio, «colui che si ritiene uno con tutti, per l’abitu­
dine di vedere se stesso in ciascuno»61.
Il primo fondamento dell’amore del prossimo è l’imitazione di Dio
per quanto possibile all’uomo: «In questo l’amore che è in noi è per­
fetto; poiché come egli è, siamo anche noi in questo mondo» (lGv

52 Cfr. ICor 8,13-15. M assim o IL CONFESSORE, loc. cit., 26.


55 Cfr. B asilio di C esarea , Regole brevi, 176.
M Cfr. G iovan n i C risostom o, Commento a san Giovanni, Lvm, 3. M assim o i l C o n fes­
sore, Centurie sulla carità, 1,25; IV, 83. BARSANUFIO, Lettere, 315.
55 Cfr. E vagrio P o n tic o , La preghiera, 122. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità,
1 ,13. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Catechesi, V IE, 59s.
56 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, 1, 26. M acario d 'E g itto , Omelie (Coll,
n), XL, 6.
57 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1, 26.
5” Cfr. Mt 5,44.
59 Cfr. G iovan ni C risostom o, Omelia sulla perfetta carità, 1. G iovan ni C lim aco, La Scala,
IV, 52. G iovan ni d i G aza, Lettere, 339.
“ Cfr. G iovanni di G aza , Lettere, 315.
61 La preghiera, 125.
700
4,17). Innanzitutto per l’uomo vuol dire conformare il proprio atteg­
giamento verso coloro che hanno la sua stessa natura all’atteggiamen­
to di ciascuna delle ipostasi della Santissima Trinità verso le altre due.
Il Cristo ce ne dà egli stesso l’esempio: «Come il Padre ha amato me,
così io ho amato voi» (Gv 15,9). È anche il conformarsi all’amore di
Dio per gli uomini:
- All’amore del Padre, che è giunto fino a dare il suo Figlio per
loro: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unige­
nito» (Gv 3,16); «L’amore di Dio si è manifestato tra noi in questo:
Dio ha inviato il suo Figlio unigenito nel mondo, affinché noi avessi­
mo la vita per mezzo di lui. In questo si è manifestato l’amore: non noi
abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi ed ha inviato il Figlio suo
come propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se così Dio ha ama­
to noi, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (iGv 4,9-11).
- All’amore del Figlio, che per gli uomini liberamente si è incar­
nato, ha subito la passione ed è morto sulla croce. È per la carità, scri­
ve san Massimo, che «l’autore stesso della nostra natura [...] ha rive­
stito la nostra natura»62. «E la carità che ha fatto discendere tra noi il
Figlio prediletto di Dio», nota anche san Giovanni Crisostomo65. E
l’Apostolo: «Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, men­
tre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi» (Rrn 5,8). Lo stes­
so Cristo d indica il suo amore per noi come fondamento del nostro
amore per i nostri simili: «Come io ho amato voi, anche voi amatevi
gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). E su questo
fondamento l’Apostolo consiglia: «Camminate nell’amore sull’esem­
pio del Cristo che vi ha amati» CE/5,2).
- All’amore dello Spirito Santo, dispensatore agli uomini dell’amore
divino, dunque fonte del loro amore mutuo e del loro amore per Dio
(cfr. Gal 5,22).
Il fatto che la carità perfetta consista nell’amare tutti gli uomini al­
lo stesso modo, ha il suo fondamento nel fatto che Dio ama tutti gli
uomini senza eccezione e allo stesso modo. Amate i vostri nemici e
non solo quelli che vi amano, raccomanda il Cristo, «affinché siate
figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui
cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi» (Mt
5,45); «Egli infatti è buono anche verso gli ingrati e i cattivi» (Le 6,35);
62Lettere, 2.
63 Omelia sulla perfetta carità, 1.
701
«siate perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli» (.Mt 5,48);
«siate misericordiosi come Dio vostro Padre è misericordioso» (Le
6,36). San Massimo commenta: «“Amate i vostri nemici e pregate per
quelli che vi perseguitano” (Mi 5,44). Perché questi precetti del Si­
gnore? Per strapparti all’odio, all’amarezza, alla collera, al rancore, per
renderti degno di questo bene supremo che è l’amore perfetto, ben­
ché tu non lo possa possedere fintanto che non ami allo stesso modo
tutti gli uomini, sull’esempio di Dio che ama in ugual misura tutti gli
uomini, e che “vuole che tutti siano salvi e arrivino alla conoscenza
della verità” (lTm 2,4)»M. Lo stesso osserva altrove: «Il nostro Si­
gnore Gesù Cristo, mostrando l’amore che ha per noi, ha sofferto per
tutta l’umanità e ha dato la speranza della risurrezione a tutti allo stes­
so modo, anche se ciascuno, per mezzo delle proprie opere, richia­
ma su di sé la gloria o il castigo»65.
Un’altra ragione per la quale la carità perfetta ama tutti gli uomini
in ugual misura è che tutti gli uomini sono essenzialmente uguali e han­
no tutti la stessa natura. «Siamo tutti di una sola e stessa essenza, mem­
bra gli uni degli altri. Così amiamoci profondamente gli uni gli altri»,
scrive sant’Antonio il Grande66. San Massimo afferma nella stessa li­
nea che «la carità perfetta non ammette, tra gli uomini che hanno la
stessa natura, alcuna distinzione basata sulla differenza di caratteri. Es­
sa non vede altro che questa natura unica, ama allo stesso modo tutti
gli uomini»67. Egli osserva anche, tra l’altro, che la carità consiste nel-
l’onorare tutti gli uomini, «altrettanto quanto lo esige l’idea della na­
tura che prescrive un onore uguale ed esclude dalla natura ogni ine­
guaglianza che lo spirito porrebbe nei riguardi del tale o del talaltro,
perché essa li include tutti in sé al solo titolo d’identità»68. «Colui
che [...] possiede la carità perfetta», scrive ancora, «non fa più diffe­
renza tra sé e gli altri, schiavo e uomo libero, uomo o donna. [...] Egli
non vede negli uomini che la loro natura unica: li vede tutti su un pia­
no di uguaglianza, per tutti ha lo stesso cuore»69. A questo proposito
egli cita l’esempio di Abramo, che per la carità fu elevato fino a Dio
«abbandonando la distinzione di ciò che è diviso e può essere diviso,
considerando ciascun uomo come se stesso e considerando uno come
64 Centurie sulla carità, I, 61.
65 Ibid.y71.
66Lettere, IV, 9.
67 Centurie sulla carità, I, 71.
68Lettere, 2.
69 Centurie sulla carità, II, 30.
702
tutti e tutti come uno»70. Questo esempio peraltro ci è dato da tutti i
santi che, sottolinea san Giovanni Crisostomo, agiscono «come se il
genere umano fosse un’unica persona»71. Per questo san Simeone il
Nuovo Teologo consiglia: «Tutti i fedeli devono essere considerati
da noi, fedeli, come un unico essere»72.
E perché tutti gli uomini hanno la stessa «essenza spirituale», spie­
ga sant’Antonio, che «colui che pecca verso il prossimo pecca verso se
stesso; colui che gli fa un torto lo fa a se stesso; colui che fa del bene
al prossimo lo fa a se stesso», o anche «colui che sa amare se stesso
ama anche gli altri»73 e viceversa. Così si comprende anche la formu­
la di Evagrio già citata: «E monaco chi si considera uno con tutti,
per l’abitudine acquisita di vedersi in ciascuno»74.
Questa essenza spirituale, che determina l’unità fondamentale del
genere umano, è l’immagine di Dio, la quale costituisce e definisce fon­
damentalmente la natura umana, e si ritrova in ciascuno di noi. Ecco
perché amare il prossimo è amare Dio presente nel prossimo per la
sua immagine. E così che subito dopo avere affermato che «siamo tut­
ti della stessa essenza», sant’Antonio scrive: «Amiamoci profonda­
mente gli uni gli altri: infatti, chi amerà il suo prossimo amerà Dio, e
chi ama Dio ama se stesso»75. Sant’Isacco il Siro, ricordando la ca­
rità, si esprime in questo modo: Dio «gioisce nel vedere qualcuno
dare pace all’uomo sua immagine e venerarlo a causa di lui»76. Eva­
grio, nella stessa prospettiva, scrive che «il ruolo della carità è quello
di comportarsi nei riguardi di ogni immagine di Dio pressappoco nel­
la stessa maniera che riguardo all’Archetipo»77, ed egli proclama: «Bea­
to il monaco che considera tutti gli uomini come Dio secondo Dio»78.
Appare chiaro che in tutti questi fondamenti che abbiamo ricorda­
to, la carità riguardo al prossimo, è legata profondamente all’amore di
Dio: essa consiste, in verità, nell’amare il prossimo «per Dio», «nel suo
Nome», a considerarlo e trattarlo in funzione di ciò che è fondamen­
tale in Dio, nella sua relazione naturale e obiettiva a lui, come perso­
70Lettere, 2.
71 Commento al Salmo 9, 8.
72 Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 3.
73 Lettere, IV, 7.
74 La preghiera, 125.
75 Lettere, IV, 9.
76Discorsi ascetici, 5.
77 Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
78 La preghiera, 123.
703
na fatta a sua immagine e potenzialmente a sua somiglianza. La ca­
rità consiste nell’amare il prossimo in Dio, ma nello stesso tempo Dio
nel prossimo. Si può comprendere in questo senso tale affermazione
del Cristo circa le diverse manifestazioni della carità che egli racco­
manda: «Tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi
miei fratelli, lo avete fatto a me [...]. Ciò che non avete fatto a uno di
questi più piccoli, non lo avete fatto a me» (cfr. Mt 25,31-46). In altri
termini, sottolinea san Basilio, il Signore «vede come fatta a se stesso
ogni buona azione fatta al prossimo»79. Ecco perché egli consiglia al­
trove: dobbiamo servire i nostri fratelli «considerando questo servizio
come reso al Signore stesso»80. In modo più diretto, Abba Apollo «di­
ceva che occorre inchinarsi dinanzi ai fratelli che arrivano, perché non
è davanti a loro, ma è davanti a Dio che ci prostriamo. Quando vedi
tuo fratello, diceva, tu vedi il Signore tuo Dio»81. E san Simeone il Nuo­
vo Teologo, dopo aver raccomandato di considerare tutti gli uomini
come un solo essere, precisa: «Dobbiamo pensare che in essi abita il
Cristo»82, e cita l’esempio di san Simeone Studita che «guardava co­
me Cristo tutti i battezzati»83. Quanto a san Massimo, egli dopo aver
affermato che «colui che possiede la carità perfetta non fa più diffe­
renza tra sé e gli altri, schiavo o libero, uomo o donna», conclude ci­
tando questo passo della lettera ai Galati: «Voi siete una sola perso­
na in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Questo vuol dire che l’amore del prossimo non ha valore che in
riferimento all’amore di Dio. «Da questo noi conosciamo che amiamo
i figli di Dio: se amiamo Dio e compiamo i suoi comandamenti» (lGv
5,2), dice l’apostolo Giovanni. Questo significa anche che deve es­
sergli sempre subordinato. Tra i motivi che san Massimo sottolinea,
«motivi per i quali un uomo può amare un altro uomo», il solo vera­
mente buono consiste nell’amare «per amore di Dio»84. Come insegna
il Cristo, l’amore di Dio è «il primo e il più grande dei precetti» (Mt
22,38), e quello dell’amore del prossimo occupa il secondo posto (Mi
22,39; Me 12,31). I Padri, ricordando questo comandamento85, met­
tono in guardia contro la tentazione di invertirli e di esercitare la ca­
79Regole lunghe, 3.
80Regole brevi, 160.
81Apoftegmi, serie alfabetica, Apollo, 3.
82 Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 3. Cfr. ibid., 96: «Ognuno consideri suo fratello e
suo prossimo come suo Dio [...]».
83 Inni, XV, 209.
84 Centurie sulla carità, II, 9.
85 Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 1.

704
rità nei riguardi del prossimo dimenticando l’amore di Dio. Questo
avvertimento è proprio necessario, perché, come fa notare Origene nel
commentare questo passo del Cantico dei Cantici in cui il Signore di­
ce: «ordina in me la carità» (cfr. Ct 2,4), se «la carità dei santi è ordi­
nata», «molto spesso la carità di tante persone è disordinata. Ciò che
dev’essere amato per primo, essi lo amano come secondo, e ciò che es­
si devono amare come secondo lo amano come primo»86. Anche sant’I-
sacco il Siro precisa che «è bello e degno di lode l’amore del prossi­
mo se la preoccupazione che noi ne abbiamo non ci distrae dall’a­
more di Dio» e che «è dolce la relazione che abbiamo con i fratelli
spirituali, se nello stesso tempo possiamo conservare la relazione che
ci unisce a Dio»87. E san Macario scrive più precisamente: «L’uomo ri­
cerchi innanzitutto il santo amore [di Dio], che è il primo e il più gran­
de dei comandamenti [...]. Attraverso di esso, è facile adempiere il se­
condo comandamento, voglio dire l’amore del prossimo. Ciò che è pri­
mo deve, infatti, essere preferito al resto e suscitare uno sforzo più
grande: così ciò che è secondo seguirà ciò che è primo. Ma se qual­
cuno dimentica questo primo e grande comandamento - voglio dire
l’amore di Dio - [...] e se tale uomo non vuole accontentarsi che del­
la cura esteriore del secondo - il servizio del prossimo -, gli è impos­
sibile praticare correttamente e con purezza il primo»88.
Ma questo non significa, tuttavia, che l’amore del prossimo debba
in qualche modo essere assorbito e dissolto per l’amore di Dio: ciò al
limite potrebbe significare che l’amore di Dio basta e dispensa dal­
l’amore del prossimo. Vedremo che lo stesso amore di Dio suppone
ed implica l’amore del prossimo e ne è inseparabile. Così come l’a­
more di Dio non è riducibile all’amore del prossimo, l’amore del pros­
simo non è riducibile all’amore di Dio perché il prossimo possiede per
la sua stessa qualità di persona un’autonomia e una sussistenza chia­
mata ad affermarsi e non a dissolversi in Dio, e ciò, attraverso la gra­
zia, per l’eternità, di modo che sia l’amore di Dio sia l’amore del pros­
simo non avranno fine (cfr. ICor 13,8), e nell’uno come nell’altro «non
cesseremo mai di progredire, sia nel secolo presente, che nei secoli fu­
turi»89.
Infatti, la carità è fondamentalmente una nella sua natura, nella sua
86 Omelie sul Cantico dei Cantici, II, 8.
87Discorsi ascetici, 73.
88Capitoli parafrasati, 11.
89G iovanni C lim aco , La Scala, XXVI, 138. Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla ca­
rità, HI, 100.
705
origine e nel suo fine: è lo stesso amore che assume la sua fonte in Dio
e ha Dio come fine. Perciò san Massimo scrive a questo riguardo: «Non
esiste un amore per Dio e un altro per il prossimo, ma esso è unico e
identico a se stesso nella sua totalità, ed è dovuto a Dio»90.

3. L’amore di Dio
L’amore di Dio non può essere ridotto a un sentimento. Benché fac­
cia intervenire in primo piano le facoltà affettive dell’uomo, la sua po­
tenza di desiderio (epithymetikón) e d’amore (erdtike dynamisf1non
si limita ad esse, ma fa intervenire la totalità dell’essere, implica tutte
le sue «potenze» o facoltà. Il Cristo lo indica chiaramente: «Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con
tutta la tua mente» (Mt 22,37); «Amerai il Signore tuo Dio con tutto
il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta
la tua forza» (Me 12,29; cfr. Le 20,27). Come abbiamo visto prece­
dentemente, la carità è legata a tutte le virtù, e quindi all’uso norma­
le di tutte le «potenze» o facoltà dell’uomo.
Prima di tutto si è sorpresi, leggendo i Padri, di constatare che que­
sti parlano relativamente poco della carità. Una prima ragione è che
la carità non consiste semplicemente in parole, ma anche e soprat­
tutto in azioni (interiori ed esteriori). Una seconda ragione è che «l’a­
more di Dio non si insegna»92. Una terza ragione è che la carità, nelle
sue forme superiori, è ineffabile. Una quarta ragione è che l’amore di
Dio consiste essenzialmente nel compiere la sua volontà93, e pertanto
nel praticare i suoi comandamenti. Ecco perché parlare della pratica
dei comandamenti, della lotta contro le passioni e dell’acquisto delle
virtù, come fanno i santi asceti nella maggior parte del loro insegna­
mento, implicitamente significa parlare della carità, sulla quale è in­
centrata tutta la vita ascetica, verso la quale converge tutta la praxis.
Che l’amore di Dio consista nel compiere i suoi comandamenti, il
Cristo stesso ce lo insegna: «Se mi amate, osservate i miei comanda-
menti» (Gv 14,15); «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è lui che
90Lettere, 2.
91 Vedi, per esempio, SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, IV, 575. GIOVANNI C li-
maco , La Scala, V, 28. B asilio di C esarea , Regole lunghe, 2.
92 B asilio di C esarea, Regole lunghe, 2.
93Cfr. Id., Regole brevi, 157; 211. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, m , 10. ORI-
GENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, PG 13,164.

706
mi ama» (Gv 14,21); «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola»
(Gv 14,23); «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei coman­
damenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comanda-
menti del Padre mio e rimango nel suo amore» {Gv 15,9-10). L’apo­
stolo san Giovanni dice: «Chi osserva la sua parola, veramente l’a­
more di Dio in lui è perfetto. Da ciò noi conosciamo di essere in lui»
(1 Gì» 2,5), e più esplicitamente ancora: «Questo è l’amore di Dio:
osservare i suoi comandamenti» (lGv 5,3; cfr. 5,2).
L’amore di Dio consiste nella pratica di tutti i comandamenti sen­
za eccezione, ma in primo luogo in quello di amare il prossimo, poi­
ché questo è «il secondo» comandamento dato dal Cristo (cfr. Mi 22,39)
e il più grande dopo quello dell’amore verso Dio (cfr. Me 12,31). Co­
sì come l’amore del prossimo è indissociabile dall’amore di Dio e, per
essere vero, lo presuppone, l’amore di Dio presuppone l’amore del
prossimo e ne è indissociabile. Nessuno può amare Dio senza amare
il prossimo. «Se uno dice: “Amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è
mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può
amare Dio che non vede. E noi abbiamo da lui questo comandamen­
to: chi ama Dio ami anche il proprio fratello» (lGv 4,20-21). L’amore
del prossimo appare come la conseguenza e il compimento dell’amo­
re di Dio94. «Chi ama Dio non può non amare anche ciascun uomo co­
me se stesso»; «chi ama Dio ama anche il suo prossimo senza riserve»,
afferma san Massimo95. Ma nello stesso tempo l’amore di Dio appare
come una conseguenza dell’amore del prossimo96, nella misura in cui
quello non è possibile se non è preceduto da questo97. A questo ri­
guardo san Massimo osserva: «“Se mi amate”, dice il Signore, “os­
servate i miei comandamenti” (Gv 14,15). “Questo è il mio coman­
damento: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,12). Colui, dunque, che
non ama il suo prossimo non osserva il comandamento, e chi non os­
serva il comandamento non potrà amare il Maestro»98; e arriva a di­
re: «Chi constata nel suo cuore una traccia d’inimicizia verso qualcu­
no, per un’offesa qualsiasi, è completamente estraneo all’amore di
Dio»99. La prova dell’amore di Dio è l’amore del prossimo100.
94 B asilio di C esarea , Regole lunghe, 1; 3.
95 Centurie sulla carità, 1 ,13; 23.
96 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 3.
97Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XX X, 26. M assimo il C onfessore , Discorso ascetico, 7.
98 Centurie sulla carità, 1 ,16.
"Ibid., 15.
100 G iovanni C limaco , La Scala, X X X, 26. M assimo il C onfessore , Discorsi ascetici, 7; Let­
tere, 2.
707
L’amore di Dio e l’amore del prossimo, dunque, «sono insepara­
bili» e «legati insieme come con una catena»101. Anzi di più: essi si con­
dizionano e s’implicano reciprocamente. San Doroteo propone un’im­
magine che fa ben comprendere questa interdipendenza. «Suppone­
te un cerchio [...]. Immaginate che questo cerchio sia il mondo; il centro
di questo cerchio, Dio, e i raggi le diverse vie o modi di vivere degli
uomini. Quando i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano
verso il centro del cerchio, nella misura in cui essi penetrano all’inter­
no, essi si avvicinano gli uni agli altri nello stesso tempo che a Dio. Più
essi si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio. Voi capire­
te che avviene la stessa cosa nel senso inverso, quando ci si allontana
da Dio per ritirarsi verso l’esterno: è evidente allora che, più ci si al­
lontana da Dio, più ci si allontana gli uni dagli altri, e che più ci si al­
lontana gli uni dagli altri, più ci si allontana anche da Dio. Tale è la na­
tura della carità. Nella misura in cui siamo all’esterno e non amiamo
Dio, nella stessa misura noi sperimentiamo un allontanamento riguardo
al prossimo. Ma se amiamo Dio, quanto più ci avviciniamo a Dio at­
traverso la carità per lui, tanto più siamo uniti alla carità del prossimo,
e quanto più siamo uniti al prossimo, tanto più lo siamo a Dio»102.
Poiché l’amore di Dio consiste essenzialmente nel compimento del­
la sua volontà e nella pratica dei suoi comandamenti, ne segue che è
conformandosi ai precetti divini che l’uomo acquista la carità103, o an­
cora, poiché proprio quello è il fine della pratica dei comandamenti,
purificandosi dalle passioni e acquistando le virtù104. All’inizio della
nostra esposizione abbiamo ricordato il legame fondamentale che vi­
ge tra la carità e l’insieme delle virtù, legame che l’Apostolo sottolinea
caratterizzando la carità (cfr. lCor 13,4-7)105, ma anche tra la carità e
l’assenza di passioni, che l’Apostolo indica nello stesso brano106. È per
questo che i Padri presentano costantemente la purezza e l’impassibi­
lità (da cui dipende il possesso di tutte le virtù nella loro perfezione)
101 G iovanni C risostomo, Commento a san Giovanni, LXXVH, 1.
102 Istruzioni spirituali, VI, 78.
103 Cfr. B asilio d i C esarea , Regole lunghe, 5. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), V, 9; IX,
10. S im eone il N uo v o T eo l o g o , Trattati etici, IV, 563-567.
104 Su quest’ultimo punto, vedi MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,11.
105 «La carità è paziente, è piena di bontà, gioisce della verità, scusa tutto, crede tutto, spe­
ra tutto, sopporta tutto».
106«La carità non è affatto invidiosa, la carità non si vanta affatto, non si gonfia di orgoglio,
non fa nulla di disonesto, non cerca il suo interesse, non si adira, non sospetta il male, non
gioisce per l’ingiustizia».
708
come la condizione essenziale della carità. La carità dell’uomo cresce
a misura della sua purezza e della sua impassibilità, e raggiunge la
carità perfetta quando diviene del tutto puro e impassibile107. San Gio­
vanni Climaco scrive: «La carità è prima di tutto il rifiuto di ogni pen­
siero iniquo, perché “la carità non manca di rispetto” (lCor 13,5)»108.
San Diadoco di Foticea, a sua volta, afferma: «L’amore perfetto ap­
partiene a quelli che sono già purificati»109. «La carità è figlia dell’im­
passibilità»110; «per mezzo dell’impassibilità avete acquistato la carità»,
scrive Evagrio111. Anche san Massimo osserva: «La carità nasce dal­
l’impassibilità»112. San Giovanni Climaco arriva a dire che «la carità
e l’impassibilità [...] non si distinguono che per il nome»113.
Poiché tutte le passioni sono nate dal fatto che l’uomo si è allonta­
nato da Dio per attaccarsi a se stesso e al mondo e costituiscono le mo­
dalità di questo attaccamento, è evidente che la carità, la quale inve­
ce è attaccamento a Dio, non è possibile se non nella misura in cui
l’uomo si purifica dalle passioni, e si distacca da sé e dal mondo. Lo
abbiamo dimostrato: amore di Dio e amore del mondo sono incom­
patibili e si escludono l’un l’altro. «Nessuno può possedere insieme
l’amore di Dio e il desiderio del mondo», scrive sant’Isacco il Siro114.
L’amore di Dio suppone, dunque, il rifiuto di ogni attaccamento al
mondo e a se stessi115. «Non c’è altro percorso verso l’amore spiri­
tuale», afferma sant’Isacco116. Quanto alla necessità della rinuncia al­
l’amore (passionale) di sé, san Diadoco di Foticea scrive: «Colui che
ama se stesso non può amare Dio; ma colui che non ama se stesso [...]
questi ama Dio»117. E san Massimo consiglia: «Non amare te stesso e
amerai Dio»118. Per quanto riguarda l’amore del mondo (espressione
che del resto include l’amore di sé) Evagrio scrive: «L’amore di que­
sto mondo è nemico di Dio (cfr. Gc 4,4). Se il nostro Dio è amore
come è scritto (cfr. lGv 4,8), dunque l’amore di questo mondo catti­

107Cfr. Apoftegmi, Arm II, 365 (33).


108La Scala, XXX, 8. Vedi anche NlCETA STETATOS, Centurie, II, 1.
109Cento capitoli gnostici, 16.
110 Trattato pratico sulla vita monastica, 81. Cfr. ibid., Prologo, 8.
111 Lettere, 61. Cfr. Trattato al monaco Eulogio, 23.
112 Centurie sulla carità, 1,2. Cfr. II, 30; IV, 91.
1,3 La Scala, XXX, 9.
114Discorsi ascetici, 4. Vedi anche ORIGENE, Commento a san Giovanni, XIX, 21.
115Cfr. Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 8. Isacco il Siro, Discorsi ascetici, 1; 73; 81. Si­
meone IL Nuovo T eologo, Trattati etici, IV, 579-582. NlCETA Stetatos, Centurie, E, 1.
116Discorsi ascetici, 1.
117Centuria, 12.
118Centurie sulla carità, II, 37.
709
vo è nemico della carità. Non è, quindi, possibile acquistare la carità
se non odiamo il mondo»119. «Quanto ad arrivare al possesso abituale
de[lla] carità, è una cosa impossibile fintanto che si conserva un at­
taccamento passionale a qualcuna delle cose terrene», avverte san Mas­
simo120, e altrove: «Nessuno, se non rinuncia a ogni attaccamento al­
le cose di questo mondo, può amare veramente Dio e il prossimo. In
verità, applicarsi alle cose materiali e nello stesso tempo applicare il
proprio amore a Dio è semplicemente impossibile. È quanto ha detto
il Signore: “Nessuno può servire due padroni” (Mt 6,24)»121. E arri­
va persino a dire: «Non ama Dio colui che conserva il suo spirito at­
taccato a qualche oggetto terreno»122. San Macario osserva che i santi
«sono interamente e totalmente tesi» verso il Cristo, «non hanno che
lui davanti agli occhi con grande desiderio» e «si liberano di ogni amo­
re del mondo e rompono ogni legame terreno, al fine di essere capa­
ci di possedere costantemente solo questo desiderio nel loro cuore e
di non mescolarvi nuli’altro»123. Ed egli sottolinea che, se qualcuno ri­
mane lontano dal Regno, «ciò viene dal fatto che egli non vuole pren­
dersi la pena di rinnegare se stesso, e ama qualcosa e nello stesso tem­
po Dio, conserva dei riguardi verso alcuni piaceri e certe brame di que­
sto secolo, non dirige tutto il suo amore verso il Signore, tanto più che
sarebbe sotto il potere della sua libera scelta e della sua volontà»124.
«Infatti, quando un’anima si eleva veramente verso il Signore, essa di­
rige verso di lui tutto il suo amore, deliberatamente si attacca solo a
lui con tutte le forze, [...] se rinuncia a se stessa, non segue più i de­
sideri del suo spirito [...]; al contrario, quest’anima si affida totalmente
alla parola del Signore, si sottrae, per quanto possibile alla propria vo­
lontà, a ogni legame visibile, e si abbandona senza riserve al Signo­
re»125. Così, «otterrà e possederà la sua anima e la carità dello Spirito
celeste solo colui che si rende estraneo a tutte le cose di questo seco­
lo, per dedicarsi alla ricerca dell’amore del Cristo t...]»126.
La rinuncia assoluta a se stessi e al mondo non sono solo la condi­
zione dell’amore di Dio: lo sono anche per l’amore del prossimo127.
119Lettere, 60.
120 Centurie sulla carità, 1,1. Cfr. 72; 75.
121Discorso ascetico, 6.
122 Centurie sulla carità, II, 1.
123 Omelie (Coll. II), V, 6.
124Ibid., 9.
125Ibid., 12.
126Ibid., IX, 10.
127Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 30; IV, 37. I sacco il S iro , Discor­
si ascetici, 81.
710
E l’amore perfetto del prossimo richiede l’impassibilità128come il per­
fetto amore di Dio: è solo quando si è purificato da ogni passione che
l’uomo può amare il prossimo di un amore spirituale, perché se non è
impassibile lo amerà di un amore carnale, terreno, in relazione con una
o con l’altra delle sue passioni, che ciò sia conscio o inconscio, perché
sono molti i motivi dell’amore, e la maggior parte tra essi sono «vizia­
ti dalla passione» e lontani dalla vera carità129. Fintanto che l’uomo non
è impassibile, è incapace di considerare il prossimo nella sua vera realtà,
«le passioni nascoste nella [sua] anima oscurano il [suo] giudizio»130;
è solo quando egli è impassibile che può vederlo in Dio, ed entrare
con lui in una relazione spirituale esclusiva di ogni desiderio, di ogni
intenzione, di ogni affetto carnale (nel senso esteso del termine).
Il fatto che la carità consista nella pratica dei comandamenti, il le­
game fondamentale che essa intrattiene con tutte le virtù, il fatto che
essa presupponga la rinuncia a se stessi e al mondo, e nella sua per­
fezione, l’impassibilità, ci mostrano bene perché i Padri la pongono al
termine della pràxis, la subordinano a tutta la vita ascetica, vi vedono
il frutto dello sforzo che l’uomo, con tutto l’essere e in tutta la sua
vita, fa per allontanarsi da questo mondo e volgersi verso Dio. Si com­
prende con dò che non è spontaneamente che l’uomo è capace di ama­
re autenticamente Dio e il prossimo, ma, come dice san Macario, «at­
traverso una lunga lotta»131. Non bisogna dimenticare pertanto che
la carità, come tutte le virtù, di cui essa è la sintesi e il coronamento,
è un dono di Dio all’uomo, una grazia di cui lo Spirito Santo è il do­
natore132. L’amore, dice san Giovanni, «è [generato] da Dio (ek tou
theoù)» (lGv 4,7). «Dell’amore, egli è la causa e, in qualche modo, il
produttore e il generatore», osserva Dionigi l’Areopagita133. San Cle­
mente di Roma dice che nessuno può «essere ritenuto capace di rag­
giungerlo, se non colui a cui Dio ne ha fatto grazia»134. Ma per rice­
vere questo dono, l’uomo deve tendere verso di esso con tutte le sue
forze, aprirsi a esso con tutto il suo essere, e inoltre essere degno di ri­
128Cfr. E vagrio P o n t ic o , Lettere, 60. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, II, 30;
IV, 92.
129Cfr. M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 9.
m Ibid., IV, 92.
131 Capitoli parafrasati, 13.
132 Cfr. Rm 15,30; 2Tm 1,7. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 12. MASSIMO IL
C o nfessore , Lettere, 2.
133Sui Nomi divini, IV, 14, PG 3, 712C.
134Lettere ai Corinzi, 50, 2.
711
ceverlo, avere, in altre parole, il cuore e lo spirito purificati dall’asce­
si teantropica. È per questo che occorre dire della carità, come di tut­
te le virtù, che essa risulta dalla sinergia tra la grazia divina e lo sforzo
umano, da un’azione reciproca, o se si vuole, da una dialettica che san
Macario caratterizza bene quando scrive: «E attraverso lo sforzo e la
tensione, la vigilanza e la lotta, che noi diventiamo capaci d’acquista­
re l’amore di Dio, questo amore che la grazia e il dono del Cristo for­
mano in noi»135.
In questo sforzo ascetico per mezzo del quale l’uomo si volge verso
Dio, tende verso di lui, si purifica e si apre alla sua grazia, la preghie­
ra gioca un ruolo di primo piano. Abbiamo evidenziato questa funzio­
ne essenziale della preghiera esaminando l’acquisto delle virtù. Occor­
re sottolinearla ancora di più per ciò che concerne la carità. «Tutte le
virtù aiutano lo spirito nell’amore per Dio, ma, più delle altre, la pre­
ghiera pura», sottolinea san Massimo136. E in risposta alla sua pre­
ghiera, legata alla pratica degli altri comandamenti, che l’uomo riceve
da Dio il dono della carità. È per mezzo della preghiera e nella sua pre­
ghiera che l’amore si rivela a lui, e ciò tanto più quanto più la sua pre­
ghiera è pura. «Questa carità, è grazie alla preghiera che il monaco l’a­
vrà acquistata in sé», nota san Macario137, che dice ancora della pre­
ghiera: «E da essa che proviene in coloro che ne sono giudicati degni
[...] l’unione delle loro disposizioni interiori con il Signore in una ca­
rità ineffabile»138. «Noi preghiamo per acquistare l’amore di Dio. In­
fatti troviamo nella preghiera le cause che d fanno amare Dio», scrive
sant’Isacco il Siro, che nota ancora: «L’amore viene dalla preghiera»,
«dalla preghiera pura nasce l’amore di Dio»; se l’uomo «non perseve­
ra [nella preghiera], intrattenendosi con Dio e passando attraverso tut­
te le forme successive di preghiera [...], egli non sentirà l’amore»;
«l’amore di Dio viene dunque dal rapporto che si ha con lui» nella pre­
ghiera139. E attraverso la sua preghiera che il suo amore tanto nei ri­
guardi del prossimo che di Dio cresce e si fortifica. Per questo, san Ma­
cario consiglia: che l’uomo «chieda costantemente al Signore di gene­
rarlo nel suo cuore e che egli lo acquisisca così, facendolo crescere e
progredire ogni giorno per la grazia in un continuo e incessante ricor-
1.5 Capitoli parafrasati, 11. Cfr. 13; Omelie (Coll. II), V, 12.
1.6 Centurie sulla cariti, 1,11.
1.7 Omelie (Coll. E), LVI, 6.
138Ibid., XL, 2.
159Discorsi ascetici, 35.
712
do di Dio»140. È anche per la sua preghiera che questo amore si mani­
festa141, a tal punto che si può definire l’amore come preghiera pura e
continua. «La carità è assiduità presso Dio in un ringraziamento con­
tinuo», afferma Abba Isaia142, e san Massimo scrive: «Chi ama since­
ramente Dio prega così assolutamente senza distrazione, e chi prega as­
solutamente senza distrazione ama anche sinceramente Dio»143; «sen­
za distrazione» significa non solo che lo spirito è vuoto di ogni pensiero
estraneo alla preghiera stessa, ma anche che il cuore è puro da ogni ele­
mento passionale144. Nella preghiera pura, l’uomo è purificato da ogni
attaccamento passionale al mondo e può unirsi pienamente a Dio, tan­
to più che, tra tutte le virtù, la preghiera costituisce un modo privile­
giato di relazione145e di unione a Dio. D’altra parte, è per la continuità
della preghiera che l’amore può essere stabile, come gli è tipico146,
che noi possiamo, come dice san Basilio, «rimanere attaccati al ricor­
do [di Dio] come i bambini al ricordo della madre»147. La preghiera
appare allora come un criterio della carità. «Sono il tempo e la prati­
ca della preghiera che rivelano l’amore che il monaco ha per Dio»; «co­
sì come la fornace prova l’oro, la pratica della preghiera prova lo zelo
e l’amore del monaco per Dio», scrive san Giovanni Climaco148. E sant’I-
sacco il Siro insegna che è nella preghiera continua accompagnata dal­
le lacrime che si riconosce la perfezione dell’amore149.
Se la carità è un dono della grazia, un’energia divina che viene dal
Padre e che è comunicata all’uomo dal Cristo nello Spirito Santo, non­
dimeno essa corrisponde, come tutte le altre virtù, a una disposizio­
ne naturale dell’uomo nella sua condizione di salute originaria, di­
sposizione che è stata sconvolta dal peccato, ma che rimane presente
in lui a titolo di potenzialità150, in quanto costitutiva dell’immagine di
140Capitoli parafrasati, 11.
141 Cfr. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. E), LVI, 3.
142Apoftegmi, Arm E, 365 (33).
143 Centurie sulla carità, E, 1.
144 Cfr. ibid., E, 7.
145 Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 35.
146Una qualità essenziale dell’amore perfetto è, infatti, la sua costanza e la sua immutabilità
che ne fa una disposizione permanente, uno stato stabile (éxis). Cfr. CLEMENTE D’ALESSANDRIA,
Stromata, VI, 7; IV, 22; VII, 12. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 90. MASSIMO IL
CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1 ,1; Discorsi ascetici, 26.
147Regole lunghe, 2. La stessa immagine è usata da GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 12.
148La Scala, XXVEI, 36; XVIE, 8.
149Discorsi ascetici, 85.
150 Su tutto ciò, vedi BASILIO DI CESAREA, Regole lunghe, 2; 3. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La
Scala, XXVI, 50.
713
Dio, secondo cui egli è stato creato. Per questo sant’Antonio il Gran­
de ricorda «la legge d’amore deposta nella [sua] natura» e «la bontà
originale che fa parte di essa nel suo primo stato e nella sua prima crea­
zione»151. «E conforme alla natura dell’anima creata da Dio amarlo»,
nota nello stesso senso san Macario152. «E naturale», scrive san Basi­
lio, «che un’anima sana provi un tale sentimento»153. Essendo Dio amo­
re (cfr. lGv 4,8.16), è normale, infatti, che l’uomo, che è stato creato
a sua immagine, sia portatore di questa virtù e persino che questa lo
caratterizzi essenzialmente. Così san Giovanni Crisostomo non esita a
dire: «È la carità che fa sì che egli sia uomo. Non stupitevi che il pro­
prio dell’uomo sia l’essere caritatevole, poiché è il proprio di Dio stes­
so»154. Esercitandosi sinergicamente, lo sforzo ascetico e la grazia re­
stituiscono a questa disposizione il suo stato originale in cui essa ten­
deva verso Dio e manifestano nuovamente nell’uomo l’immagine di
Dio in tutto il suo splendore, perché «solo essa, afferma san Massimo,
dimostra che l’uomo è a immagine del Creatore»155. Lo sforzo asceti­
co e la grazia consentono all’anima di svilupparsi dal suo stato inizia­
le fino allo stato di perfezione. Così san Basilio scrive molto chiara­
mente: «Non è un precetto esteriore che d insegna ad amare Dio. Nd-
la natura stessa dell’essere vivente - voglio dire dell’uomo -, troviamo
inserito come un germe che contiene in sé il prindpio di questa atti­
tudine ad amare. E alla scuola dei comandamenti di Dio che spet­
ta raccogliere questo germe, coltivarlo diligentemente, nutrirlo con cu­
ra, e portarlo a sbocciare attraverso la grazia divina»156. Sant’Isacco
sottolinea che, in questo fiorire dell’amore in sé, l’uomo recupera la
sua natura originale, a cui, creato a immagine di Dio, egli era natu­
ralmente destinato e in cui si sforzava di rassomigliargli: «La compas­
sione157, quando vive nd tuo cuore, è in te l’icona della santa bellezza
a somiglianza della quale tu sd stato creato»158. San Diadoco di Foti-
cea nota nello stesso senso che la carità, quando raggiunge la pienez­
za dd suo sviluppo, «rivda che l’immagine ha raggiunto totalmente la
bellezza della somiglianza»159.
151 T pttprp T 1
152 Omelie (Coil. II), LVI, 3.
153Regole brevi, 212.
154 Commento a san Matteo, LE, 5.
155Lettere, 2.
156Regole lunghe, 1.
157 Nome che sant’Isacco dà spesso alla carità.
158Discorsi ascetici, 1.
159 Centuria, 89.
714
Questo ritorno dell’uomo alla sua natura originale, normale e sana,
nella carità, avviene attraverso l’ascesi teantropica in un processo di
conversione, secondo il quale l’uomo distoglie tutta la sua facoltà di
desiderio [o concupiscibile] e la sua potenza d’amore dal mondo in
cui, il peccato, pervertendola, l’aveva investita per rivolgerla verso Dio,
suo fine originale e normale, e re-investirla in lui160. Per questo san Gio­
vanni Climaco parla di «riportare» sul Signore l’amore carnale161. San
Massimo osserva che «l’anima si serve della sua concupiscenza per sti­
molare il suo desiderio» di Dio162. Egli parla «di avere volto comple­
tamente verso il divino» le passioni e i pensieri163e definisce la carità
una «felice passione»164. E poi spiega: «Passione d’amore biasimevo­
le, quella che impegna lo spirito nelle realtà materiali; passione d’a­
more lodevole, quella che l’unisce al divino. Infatti, in genere, quan­
do si sofferma su un oggetto, lo spirito è a suo agio, e là dove è a suo
agio, convergono il desiderio e l’amore; sia verso le realtà divine e spi­
rituali che gli sono proprie, sia verso le realtà e le passioni carnali»165.
Poi egli insegna che se si esercita a lungo lo spirito ad astenersi dai pia­
ceri e a occuparsi nelle cose divine, «alla fine, ogni suo desiderio si vol­
gerà verso il divino»166. Occorre aggiungere che, poiché la carità coin­
volge tutto l’essere dell’uomo, in verità essa è il risultato della conver­
sione di tutte le sue facoltà e «potenze». Per questo, san Massimo
osserva, che «l’anima si serve della sua concupiscenza per stimolare
il desiderio», si serve anche «della sua potenza irascibile per difende­
re con amore l’oggetto delle sue ricerche»167. Quanto al suo spirito, es­
so stesso deve volgersi verso Dio e tendere alla sua conoscenza, e pos­
sederla in una certa misura, poiché sia possibile la carità168. Ecco per­
ché «la carità è il frutto della convergenza e dell’unione delle potenze
dell’anima - cioè razionale, irascibile e concupiscibile -, circa le cose
di Dio»169. Dopo aver ricordato le passioni principali, «che si raffor­
160Vedi, oltre i testi citati infra: M acakio d ’E g itto , Omelie (Coll. Ü), V, 9. MASSIMO IL CON-
FESSORE, Centurie sulla carità, I, 8; Questioni a Talassio, Prologo. GREGORIO DI NlSSA, Omelie
sullEcclesiaste, Vili.
161 La Scala, V, 28. Cfr. XV, 2; XXVI, 34; XXX, 11.
162 Questioni a Talassio, 55, PG 90,544A.
163 Centurie sulla carità, IH, 68.
164 Ibid., 67.
165 Ibid., 71.
166 Ibid.y 72.
167 Questioni a Talassio, 55, PG 90, 544A.
168Cfr. MASSIMO il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 25. ISACCO IL Smo, Discorsi asce­
tici, 16; 38. Simeone il N uovo T eologo , Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 .33.
169 Questioni a Talassio, 49, PG 449A.
715
zano per l’uso disordinato delle nostre potenze: razionale, irascibile
e di desiderio», san Massimo descrive chiaramente il processo di con­
versione totale da cui risulta la carità: «Occorreva che la ragione, in­
vece di ignorare Dio, portasse il suo movimento verso di lui attraver­
so la ricerca esclusiva della conoscenza; che il concupiscibile, purifi­
cato della filautia, dirigesse il suo desiderio solo verso Dio; che
l’irascibile, liberato dalla tirannia, intraprendesse a lottare per Dio so­
lo, e che fosse creata la divina e beata carità che si forma da essi e gra­
zie alla quale essi sono»170. Questa conversione, ricordiamolo, si rea­
lizza attraverso la pratica di tutti i comandamenti e ne appare come
uno dei principali fini171.
A partire da ciò, possiamo vedere, come, nell’acquisto della carità
si realizzi la guarigione spirituale dell’uomo, e ciò a tutti i livelli, poi­
ché la carità coinvolge l’uomo in tutto il suo essere.
Ecco perché la carità appare come un rimedio fondamentale della
parte concupiscibile dell’anima e di tutte le passioni che le sono le­
gate172, come abbiamo già visto analizzando queste diverse passioni,
e perché si può considerarla insieme alla temperanza come la princi­
pale virtù del concupiscibile173. Nella carità, infatti, l’uomo restitui­
sce alla sua facoltà concupiscibile e alla sua «potenza erotica» la loro
finalità normale, l’uso corrispondente alla loro natura e costitutivo del­
la loro salute.
Ecco perché essa appare anche come il principale rimedio della par­
te irascibile. San Massimo osserva che «il precetto della carità» è «il
rimedio che il Signore ha dato per la parte irascibile dell’anima»174, ed
Evagrio scrive: «La carità guarisce l’elemento irascibile»175. Essa è cor­
relativamente la principale virtù dell’elemento irascibile, che corri­
sponde all’uso razionale176, naturale, normale e sano di questa poten­
za fondamentale dell’anima. San Massimo sottolinea che, per mezzo
della carità, si dà alla parte irascibile dell’anima «ciò che le conviene»177.
La carità è dunque, tutto sommato, il rimedio principale di tutte
170Lettere, 2.
171 L’altro fine è, lo vedremo, la conoscenza di Dio.
172 Cfr. M assimo il C o nfessore , Centurie sulla carità, IV, 75.
173 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, 89.
174 Centurie sulla carità, I, 66. Cfr. II, 47; 70 (in questi due ultimi capitoli la carità è anche
considerata come «rimedio»); IV, 22; 75; 80; Discorso ascetico, 20. EVAGRIO PONTICO, Trattato
pratico sulla vita monastica, 38; Capitoli gnostici, IH, 35. TALASSIO, Centurie, I, 66.
175Vedi anche Lettere, 19; Trattato pratico sulla vita monastica, 38.
176 M assimo il C o nfessore , Centurie sulla carità, IV, 15.
177Ibid., 44.
716
le passioni dell’anima, e di tutti i peccati che sono la loro manifesta­
zione. L’apostolo Pietro indica già questa cosa quando afferma che
«l’amore ricopre la moltitudine di peccati» (lPt 4,8), e san Giovanni
Crisostomo lo dice chiaramente: «E il rimedio delle nostre colpe»178.
«Le passioni dell’anima sono tagliate fuori dall’amore spirituale» no­
tano Evagrio179e san Massimo180, che aggiunge: «Se amiamo sincera­
mente Dio, la nostra stessa carità scaccia le nostre passioni»181. La stes­
sa osservazione vale per l’amore del prossimo. «Giunto alla carità e al­
la benevolenza verso il prossimo, eliminerai dalla tua anima ogni traccia
di passione», afferma san Massimo182. E sant’Isacco il Siro dice: «L’uo­
mo compassionevole è il medico della propria anima. Come sotto un
vento violento, egli scaccia dall’interno di sé le tenebre delle passioni»185.
In cima a tutte le passioni da cui l’uomo è guarito dalla carità, c’è
la filautia che le è direttamente opposta. Così come la carità può es­
sere definita la madre di tutte le virtù, la filautia, lo abbiamo visto, è
considerata dai Padri come la madre di tutte le passioni. Da questo
punto di vista, guarendo l’uomo dalla filautia, la carità lo guarisce
anche da tutte le passioni che essa contiene, come spiega san Massi­
mo: «Facendo scomparire la filautia per mezzo della carità, colui che
si mostra degno di Dio fa scomparire nello stesso tempo la folla dei vi­
zi che dopo di essa non ha altro fondamento né altra causa per esi­
stere»184.
Una volta che l’uomo possiede la carità perfetta, in lui non vi è
più alcuna passione, perché, lo abbiamo visto, la carità non può coe­
sistere con nessuna forma di attaccamento al mondo e a se stessi. Tut­
te le potenze e le facoltà dell’uomo si trovano investite in Dio, e più
nessuna delle loro energie è perciò disponibile per qualche altro og­
getto. «Se tu ami Dio in modo autentico e rimani nel suo amore,
scrive san Simeone il Nuovo Teologo, non ti dominerà mai passione
alcuna, né la costrizione del corpo ti ridurrà alla sua mercè. Infatti, co­
me il corpo non può muoversi verso nulla senza l’anima, così l’anima
unita a Dio per mezzo dell’amore non potrà essere trascinata verso i
piaceri e gli appetiti del corpo, nemmeno verso alcun desiderio per
178 Omelie sulla lettera a Tito, VI, 3. Cfr. Omelie su 2 Timoteo, VII, 1.
179 Trattato pratico sulla vita monastica, 35.
180Centurie sulla carità, 1,64. Cfr. 65; III, 39,43; IV, 57; 61; 79; 86; Questioni a Talassio, Pro­
logo. TALASSIO, Centurie, 1,11; 93; HI, 37.
181 Centurie sulla carità, IH, 50. Cfr. Discorso molto utile su Abba Filemone.
182 Centurie sulla carità, III, 90. Cfr. TALASSIO, Centurie, II, 39. Cfr. 1,14.
183Discorsi ascetici, 34.
184 Lettere, 2. Cfr. Centurie sulla carità, II, 8; 59; HI, 57.
qualcosa di visibile o anche d’invisibile, sia oggetto sia passione, per­
ché il dolce amore di Dio tiene legato lo slancio del suo cuore, o per
meglio dire tutta l’inclinazione della sua volontà»185. San Massimo scri­
ve la stessa cosa: «Le passioni che soggiogano lo spirito e lo legano agli
oggetti materiali lo separano da Dio occupandolo completamente con
i loro oggetti. Ma se l’amore di Dio prende il sopravvento, esso lo li­
bera da questi legami [,..]»186. Vediamo dunque che se la carità per­
fetta presuppone l’impassibilità, nei suoi gradi inferiori essa vi con­
duce l’uomo, e può essere considerata da questo punto di vista come
la madre dell’impassibilità187.
Correlativamente, mentre, nella sua perfezione, essa presuppone
il possesso di tutte le virtù, nei suoi gradi inferiori, essa le introduce188,
le forma e le stimola189, conferendo ad esse unità190e valore191e le con­
duce alla perfezione192.
Attraverso queste ultime proprietà, la carità perfeziona l’edificio
dell’uomo spirituale, gli permette di raggiungere la sua piena statura
di uomo adulto in Cristo. Essa rappresenta la testa di quest’uomo per­
fetto di cui le altre virtù sono le membra193; è essa che dà vita a questo
corpo194; è essa che «mette insieme [le sue membra], le aggiusta e le
collega tra loro»195; è essa che, come dice san Massimo, «riunisce ciò
che era diviso, ricerca l’uomo nell’unità di pensiero e d’azione»196.
Occorre notare che questa funzione unificatrice della carità non si
esercita solo su una persona singola che la possiede, ma anche sul­
l’insieme della comunità umana. Ed è possibile vedere in ciò come la
carità sani le relazioni tra i membri di questa comunità. Mentre le pas­
sioni, e in primo luogo la fQautia, dividono la natura umana e oppon­
185Catechesi, XXV, 109-121. Cfr. 1,80-82.
186 Centurie sulla carità, II, 3. Cfr. 58.
187 Cfr. A m m o n a , Istruzioni, IV, 60. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 30, PG 91,1273C.
S im eone il N u o v o T eo l o g o , Catechesi, XX, 204-207.
188 G iovanni C risostomo , Omelia sulla perfetta carità, 1. M assimo il C onfessore , Lette­
re, 2.
189G iovanni C risostomo , Commento a san Giovanni, LXXVTI, 1.
190 Cfr. C o/3,14. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 545-548. M assimo il C o n ­
fessore , Lettere, 2.
191 Cfr. ICor 13,1-3. IRENEO DI LlONE, Contro le eresie, V, 12, 1. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sulla carità, 1 ,54.
192 Cfr. Col 3,14. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 13. Simeone il N uovo T eologo ,
Trattati etici, IV, 524-541.
193 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati etici, IV, 485-526.
194 Ibid., 519-524.
195 Ibid., 545-548.
196Lettere, 2.
718
gono i suoi membri l’uno contro l’altro, distruggendo così in questa
natura e in ciascuno dei suoi membri, solidali con tutti gli altri, l’ar­
monia voluta da Dio, la carità pone fine a tutte le dispute, litigi, di­
scordie, dissensi, rivalità, gelosie, invidie, inimicizie, violenze...197, e
ristabilisce questa armonia, accompagnandola con una pace profon­
da198. In realtà, «la carità lega a Dio e gli uni agli altri coloro che ama­
no»199e «unifica tutti gli uomini in un solo corpo»200. «Unificare per
mezzo della vera fede e dell’amore spirituale colui che il vizio ha get­
tato in molte divisioni, ecco il disegno della Provvidenza divina», scri­
ve san Massimo201. Ora è attraverso la carità che, «come tutti abbia­
mo un’unica natura, così possiamo avere un solo sentimento e una
sola volontà nei riguardi di Dio e gli uni per gli altri, senza che nulla
venga ad allontanarci da Dio o gli uni dagli altri»202. Mentre agiva sot­
to le passioni, ogni uomo aveva l’unica preoccupazione di affermare
la sua individualità e di far ammettere la sua sedicente superiorità,
ponendosi in opposizione agli altri, «attraverso di essa, spiega san
Massimo, ciascuno si disfà deliberatamente di sé separandosi dalle
nozioni e dalle particolarità che ciascuno concepisce da sé nel suo spi­
rito, e va a unirsi in una sola semplicità e identità attraverso la quale
nessuno possiede più nulla che lo distingue da ciò che è comune, ma
in cui ciascuno è per ciascuno, tutti per tutti e per Dio più che gli uni
per gli altri»205. Occorre notare che, se la carità «livella e appiana ogni
ineguaglianza e differenza di sentimento»204, ciò non è a detrimento
della personalità di ciascuno. Sono la filautia e le passioni, al con­
trario, che, facendo credere all’uomo che egli si afferma e si realizza
attraverso di esse, lo distruggono. Infatti l’uomo non può realizzarsi
veramente se non in relazioni armoniche con il suo prossimo fonda­
te in Dio, il che si compie solo per mezzo della carità. E allora cia­
scuno, cessando di affermarsi come individuo, e per dò stesso di op­
porsi al prossimo e a Dio, può affermarsi come persona, o piuttosto
essere affermato e valorizzato dal prossimo nella relazione d’amore
che lo unisce ad esso. E in questo senso che san Massimo precisa che
197 Vedi per esempio GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera a Tito, IV, 2; Commento
al Salmo 142.
198Cfr. GIOVANNI C risostom o , Omelie su 2 Timoteo, vn , 1; Commento al Salmo 142.
199TALASSIO, Centurie, I, 1. MASSIMO IL CONFESSORE, Lettere, 2.
200 G iovanni C risostom o , Omelia sulla perfetta carità, 2.
201 Centurie sulla carità, IV, 17.
202 ID., Lettere, 2.
203Ibid.
204Ibid.
719
è la carità «che conduce a questa lodevole ineguaglianza per mezzo
della quale ciascuno attira a sé deliberatamente il prossimo e lo pre­
ferisce a se stesso, mentre prima era spinto ad allontanarlo e a farsi
avanti»205.
La filautia genera una misconoscenza e persino un’ignoranza del
prossimo, spesso riducendolo a un oggetto da far proprio o da scar­
tare. Essa aveva del prossimo una conoscenza solo esteriore, superfi­
ciale, e anche, lo abbiamo visto, falsa cioè delirante. La carità, al con­
trario, conosce ogni persona nella sua realtà più autentica e più profon­
da. I rapporti tra gli uomini ritrovano tutto il loro significato e la loro
profondità. Mentre la filautia aveva reso gli uomini estranei gli uni agli
altri, la carità ristabilisce tra loro relazioni di prossimità: la carità fa
dell’altro veramente il prossimo di ciascuno. È per questo che san Mas­
simo scrive: «Avendo [nella carità] una stessa anima, gli uomini co­
noscono i cuori gli uni degli altri»206.
Si comprende, tutto sommato, come, a diversi livelli e sotto diver­
se forme, la carità costituisca per l’uomo, come dice san Basilio, «una
norma di salvezza»207, e perché i Padri la considerino un rimedio. San
Barsanufio scrive che il Cristo «ci ha dato il grande cataplasma che
racchiude tutte le membra, guarisce ogni malattia e infermità (cfr.
Mt 4,23), ossia la carità»208. Sant’Ammona afferma che «la carità ren­
de l’anima sana»209e Abba Filemone che «l’amore libera l’anima dal­
le malattie»210. Sant’Elia Ecdico consiglia: «Allontànati dalla [tua ma­
lattia] usando rimedi efficaci - i rimedi dell’amore e della sofferenza
-, se ti prendi cura della salute della tua anima»211. Clemente d’Ales-
sandria vede nella carità uno dei «legami indissolubili della salute e
della salvezza»212. Sant’Agostino sottolinea che il suo possesso in pie­
nezza significa per l’uomo il possesso della salute perfetta: «La giu­
stizia sarà completa quando sarà completa la salute; la salute sarà com­
pleta quando sarà completa la carità»213.
L’uomo risente di questa salute soprattutto attraverso la pace che
205ibid.
206Ibid., 25.
207Regole brevi, 172.
m Lettere, 61.
209 Istruzioni spirituali, IV, 60.
210Discorso molto utile su Abba Filemone.
211Antologia, 32.
212 Quale ricco può essere salvato?, 29.
213Sulla perfezione della giustizia dell uomo, IH, 8.
720
gli procura la carità214. Egli la prova anche attraverso la gioia profon­
da che accompagna la carità215.
Più profondamente, la carità per l'uomo è la fonte principale della
vera vita216. «Cos'è che rende gli uomini veramente vivi, si chiede san
Nicola Cabasilas, se non la carità?»217. È lo stesso Cristo che ci inse­
gna: «Fa’ questo e vivrai», dice dopo aver dato il comandamento
dell'amore di Dio e del prossimo (Le 10,28). Da questo punto di vista,
il secondo comandamento è tanto importante quanto il primo: «Noi
sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fra­
telli», precisa, infatti, l'apostolo san Giovanni (lGv 3,14). E non è una
vita passeggera che viene qui ricordata, ma è proprio la vita eterna che
dà la carità218.
In verità, la carità è per l'uomo il principio219 e la fine220 di ogni
bene. In essa, sottolineano i Padri seguendo san Paolo (cfr. Col3,14),
l'uomo può trovare la perfezione221 alla quale egli è chiamato. La ca­
rità, infatti, unisce l’uomo a Dio222 e fa abitare in lui la Santissima
Trinità223. «Se qualcuno mi ama», dice Gesù Cristo, «osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora
presso di lui» (Gv 14,23). Ciò è vero per quanto riguarda l’amore di
Dio ma lo è anche per l'amore del prossimo: «Se ci amiamo gli uni gli
altri Dio rimane in noi» (lGv 4,12). «Chi rimane nell'amore rimane
in Dio e Dio rimane in lui», dice ancora l'apostolo san Giovanni (lGv
4,16). Ecco perché sant'Isacco scrive: «Quando giungiamo all'amore,
siamo giunti a Dio»224. Se «colui che possiede la carità possiede Dio»,
214 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, M osè, 18d. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. GIOVANNI CRISO­
STOMO, Omelia sulla perfetta carità, 2. NlCETA STETATOS, Centurie, II, 2. MASSIMO IL CONFES­
SORE, Centurie sulla carità, E, 36.
215 Cfr. Lettera di Barnaba I, 6. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 16; 17. ISACCO IL SlRO,
Discorsi ascetici, 72. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1 ,34.
216Cfr. Didaché, I, 2. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4.
217La vita in Cristo, VII, 108.
2,8 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 72. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXX, 19. MASS
MO il C onfessore , Lettere, 2.
219Cfr. G iovanni C risostom o , Omelie sulla perfetta carità, 1.
220Cfr. M assim o il C onfessore , Lettere, 2. E lia Ridico, Antologia, 2.
221 Cfr. CLEMENTE DI R o m a , Lettera ai Corinzi, 4 9 ,5 . ORIGENE, Omelie sul Cantico dei Can­
tici, PG 13,101. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 12,2. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Sco­
rnata, IV, 7. G iovanni C assiano, Conferenze, 1 ,6; XV, 2. G re g o rio M agn o, Moralia su Giob­
be, XXVin, 22. D ia d o c o di F o tic ea , Cento capitoli gnostici, 89; 90. Isa cc o i l Siro, Discorsi
ascetici, 1; 81; 85; Lettere, 4. MASSIMO IL CONFESSORE, Lettere, 2. GIOVANNI DAMASCENO, Ome­
lia sulla Trasfigurazione, 10. MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), XXVI, 16; XL, 2.
222 Cfr. C lemente di R om a , Lettera ai Corinzi, 4 9 , 5. D ionigi l’A reopagita , Sui Nomi di­
vini, IV, 13, PG 3 ,712B (sul potere unitivo della carità, vedi 12, PG 3, 709C; 15, PG 3, 713B).
M assimo il C onfessore , Lettere, 2. T alassio , Centurie, 1 ,1.
223Cfr. NlCETA Stetatos, Centurie, E, 2.
224Discorsi ascetici, 72.
721
come dice san Massimo, è perché, secondo la parola di san Giovanni,
«Dio è amore» (lGv 4,8.16)225.
Poiché Dio è amore, colui che ama si rende simile a Dio226, e dò tan­
to più quanto più è perfetta la sua carità. Amando Dio, «diveniamo in
certo senso ciò che egli è», afferma san Gregorio di Nissa227. San Mas­
simo scrive più arditamente: «La carità è dunque un grande bene, il
primo dd beni, il bene supremo, essa tende a far sembrare un uomo
come il creatore degli uomini per l’esatta somiglianza nel bene con
Dio, per quanto possibile a un uomo»228.
In altre parole, la carità deifica l’uomo, e questa più di ogni altra
virtù, poiché «Dio è amore». San Massimo scrive: «In verità non vi è
nulla di più deiforme della divina carità [...], nulla che devi di più gli
uomini alla deificazione»229; «essa unisce a Dio e fa apparire dio co­
lui che ama Dio»250; perfeziona la natura umana fino a «farla appari­
re nell’unità e nell’identità con la natura divina nella grazia»231. Deifi­
ca l’uomo per se stessa, in quanto fa partecipare colui che la possie­
de a una qualità divina232, la prima di tutte, ma anche per tutte le virtù
che essa suppone, contiene e genera: «Da essa e per essa», scrive san
Massimo, «è formata la grazia della carità che conduce, deificato, ver­
so Dio l’uomo che egli ha creato»233. Ecco perché la carità fa parted-
pare l’uomo a tutte le virtù o energie divine, e, come dice san Diado­
co di Foticea, «la carità unisce l’anima alle virtù stesse di Dio»234.
San Massimo termina così la sua Lettera 2, dedicata alla carità,
con un inno alla virtù in generale, a Dio che la dona e all’uomo che
Dio deifica per mezzo di essa: «A me sembra che sia una sola e me­
desima cosa lodarvi, voi e la virtù, lodare Dio che vi gratifica dello
splendore della virtù che, per grazia, vi deifica in Dio facendo scom­
parire i segni distintivi propri dell’uomo, e nello stesso tempo rende
in voi Dio uomo per condiscendenza, dandovi la possibilità di assu­
mere in voi, per quanto è possibile all’uomo, le proprietà divine».
225 MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 100; Lettere, 2.
226Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXX, 7. D iadoco da F oticea , Cento capitoli gnosti­
ci., 4; 89.
227 Omelie sulVEcclesiaste, Vffl.
228Lettere, 2. Cfr. Centurie sulla carità, IH, 25.
229Lettere, 2.
m Ibid.
231Ambigua, 41, PG 91,1308B. Cfr. C lemente d ’A lessandria , Quale ricco può essere sal­
vato?, 27.
232 M assimo il C onfessore , Lettere, 2.
233 Ibid.
234 Cento capitoli gnostici, 1.
722
Ili

LA CONOSCENZA

1. Introduzione
La carità perfetta è considerata tradizionalmente come il punto d’ar­
rivo della pràxis. Alla pràxis seguono la conoscenza (gnòsis) e la con­
templazione (thedria) spirituali.
La conoscenza/contemplazione1è il fine della pràxis. Il progetto
di Dio, come indica l’Apostolo, è quello «che tutti gli uomini si salvi­
no e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4). San Macario il
Grande fa notare che «tutto lo sforzo e il lavoro dei Padri, e quello del
Signore stesso, tendono a questo: che Dio sia conosciuto dagli uomi­
ni»2. Evagrio aggiunge che tutto ciò che è stato creato lo è stato per la
conoscenza di Dio3.
Sul piano della guarigione spirituale dell’uomo, la conoscenza/con-
templazione appare il complemento indispensabile della pràxis. «L’a­
zione dei comandamenti, scrive Evagrio, non basta a guarire perfetta­
mente le potenze dell’anima, se le contemplazioni che vi corrispondono
non si avvicendano nello spirito»4. Infatti, «la pràxis è il metodo spiri­
tuale che purifica la parte passionale dell’anima»5, ed è indispensabile
aggiungervi la contemplazione, la quale, lo vedremo, guarisce la parte
razionale dell’anima (logistikón) liberandola dall’oblio e dall’ignoranza6.
1Assimiliamo qui la thedria alla gnòsis\ esse hanno infatti acquisito nell’ambito della spiri­
tualità cristiana significati quasi equivalenti (vedi a questo proposito J. LEMAÌTRE [pseudonimo
di I. Hausherr], «Contemplation chez les orientaux chrétiens», in Dictionnaire de spiritualité,
1.1, 1953, coll. 1762s). Poiché vi sono, come vedremo, molti gradi di conoscenza/contempla­
zione, saremo condotti in seguito, per comodità, a distinguerli usando termini diversi, mentre i
Padri lo fanno ognuno a modo suo, essendo gli schemi a questo riguardo molteplici, pur corri­
spondendo l’uno all’altro.
2 Omelie (Coll. II), LUI, 4.
3Capitoli gnostici, 1,50; 87.
4 Trattato pratico sulla vita monastica, 79.
5Ibid.y 78.
6 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 5.
723
«La pràxis e la contemplazione non esistono l’una senza l’altra»7. La
contemplazione è indispensabile alla pràxis come la pràxis alla con­
templazione, sottolinea lo scoliaste delle Questioni a Talassio, spie­
gando l’insegnamento di san Massimo a questo proposito: «Colui che
ha mostrato la conoscenza incarnata per mezzo della pràxis e la pràxis
vivificata dalla conoscenza, ha trovato il modo esatto della vera teur­
gia. Ma colui che porta in sé solo una delle due separata dall’altra, o
fa della conoscenza un’immaginazione inconsistente o della pràxis
un simulacro. Infatti la conoscenza priva della pràxis non differisce in
nulla dall’immaginazione: essa non ha in sé questa pràxis che la fon­
da. E la pràxis priva della ragione non è altro che un simulacro: essa
non ha la conoscenza che vivifica»8. «Il mistero della nostra salvezza,
afferma san Massimo, mostra che la pràxis è una contemplazione atti­
va, e che la contemplazione è una pràxis iniziata»9.
Se la conoscenza/contemplazione è il fine della pràxis nonché il suo
compimento, la pràxis appare come la condizione della conoscen­
za/contemplazione10. E questa che permette di accedervi. San Grego­
rio Nazianzeno consiglia: «Vuoi divenire un giorno teologo e degno
della divinità? Osserva i comandamenti, progredisci per mezzo del­
l’osservanza dei precetti, perché la pràxis è il mezzo per avvicinarsi al­
la contemplazione»11. «Colui che cerca il Signore attraverso la con­
templazione senza la pràxis non lo troverà», afferma san Massimo, per­
ché «non ha cercato il Signore con il timore del Signore», «cioè per
mezzo della pratica dei comandamenti»12. E solo «attraverso la pràxis
e i santi combattimenti» dell’ascesi, che si può «raggiungere la cono­
scenza» spirituale, insegna san Simeone il Nuovo Teologo13. Ciò non
significa che la pràxis divenga inefficiente con il sopraggiungere della
conoscenza/contemplazione: essa ne è la condizione permanente; è es­
sa che le permette di mantenersi e che è il pegno del suo valore. Le
opere della pràxis sono i frutti che rivelano quanto vale l’albero, os­
serva Clemente d’Alessandria14. E san Massimo arriva persino a dire
che la conoscenza «non serve a nulla» se non è tesa verso l’energia dei
7 ORIGENE, frammenti su Luca, 72.
8 Questioni a Talassio, 63, Scolio 32, PG 90,689D-692A (= Scolio 9, CCSG 22, p. 183).
9 Questioni a Talassio, 63, PG 90, 681A.
10Cfr. ORIGINE, Omelie su Luca, 1. NlCEFORO IL SOLITARIO, Sulla vigilanza e la custodia del
cuore, PG 147,948A.
11Discorsi ascetici, XX, 12.
12 Questioni a Talassio, 48, PG 90, 440A.
13 Capitoli teologici, gnostici e pratici, E, 10.
14Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, EI, 5.
724
comandamenti»15. San Marco l’Eremita scrive: «La conoscenza non
è ancora sicura se non si concretizza nelle opere proprie, anche se
essa è reale, perché la pràxis è l’affermazione di ogni cosa»16. San Gio­
vanni Carpazio osserva, nella stessa prospettiva, che «la conoscenza
più vera è la pràxis» ed egli consiglia: «Sforzatevi dunque di dare si­
gnificato con le opere alla fede e alla conoscenza. Infatti colui che, de­
dicatosi solo alla conoscenza, è stato accecato, si sentirà dire: “Essi
professano bensì di conoscere Dio, ma con le loro opere lo negano”
(Ti 1,16)»17.
Il fatto che la conoscenza/contemplazione sia fondata sulla pràxis
riguarda il carattere specifico della conoscenza spirituale, che non ha
nulla in comune con alcuna conoscenza mondana di qualunque natu­
ra essa sia, fosse anche quella delle «sapienze» (cfr. ICor 1,19-25). Que­
sta opposizione tra la conoscenza spirituale e la conoscenza secondo
questo mondo è sottolineata da san Paolo (cfr. ICor 1,19-25; 2,4-13;
8,2), e dai Padri18, che mettono in guardia contro il rischio di scam­
biare per conoscenza/contemplazione spirituale ciò che non lo è, e che
essi chiamano spesso «conoscenza semplice» (lògos philós)19. Questi
ultimi fanno spesso notare che molti, compresi i credenti, i teologi, e
i più avanzati nella vita spirituale, s’illudono nel credere di possedere
una tale conoscenza mentre non ne hanno in verità che una pseudo­
conoscenza {pseudonymos gnósis, gnòsis pseudès, pseudognósia)20, una
conoscenza immaginaria21, e non sono che degli «ignoranti nella co­
noscenza»22. Allo stesso modo molti credono di avere raggiunto la ve­
ra contemplazione, mentre contemplano solo alla maniera dei demo­
ni23 e la loro contemplazione ha per oggetto solo i fantasmi che essi
stessi hanno suscitato24e i concetti che la loro ragione ha prodotto. La
conoscenza spirituale è all’opposto delle investigazioni dell’intelligen­
15 Centurie sulla teologia e sull’economia, I, 22.
16Su coloro che pensano di essere giustificati per le loro opere, 12.
17 Capitoli sulla vigilanza, 17.
18Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 1; 19. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati teolo­
gici, 1 ,27ls. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, VI, 2.
19Cfr. C lemente d ’A lessandria , Stromata, HI, 5. M assimo il C onfessore , Questioni a Ta-
lassio, 31, PG 90 ,3 7 2 A. MARCO L’EREMITA, Su coloro che pensano di essere giustificati per le lo­
ro opere, 7; 11.
20Cfr. lTm 6,20. EVAGRIO PONTICO, Ai monaci, 43. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. SlMEONE IL
N u o v o T eologo , Trattati teologici, I, 271s; Trattati etici, 1 ,184-185; IX, 105-106. GREGORIO
PALAMAS, Triadi, 1 ,1, 2; 12.
21 Cfr. Isacco il Siro , Lettere, 4.
22 EVAGRIO PONTICO, Lettere, 62.
23 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, VI, 2.
24 Cfr. I sacco il Siro , Lettere, 4.
725
za, che cerca di soddisfare la propria curiosità25. Essa non è il frutto
dello studio né di una qualsiasi ricerca; essa non procede dalla spe­
culazione intellettuale. Essa non è il frutto della riflessione. Non è nem­
meno una conoscenza concettuale e teorica. San Simeone il Nuovo
Teologo, per esempio, denuncia la «stupidità» e P«accecamento» di
coloro che «suppongono in modo insensato» che essa «sia identica al­
l’elaborazione di concetti prodotti dal loro pensiero»26. Lungi dall’i-
dentifìcarsi con una qualsiasi forma di conoscenza mondana, la cono­
scenza spirituale implica che vi si rinunci, che si escluda ogni sapien­
za di questo mondo27. Sant’Isacco il Siro così scrive a questo riguardo:
«Credi tu veramente che colui che ha la conoscenza del mondo possa
ricevere una tale conoscenza spirituale? Non solo gli è impossibile
ricevere in tale condizione la conoscenza spirituale, ma non può nem­
meno sentirla [...]. Non è possibile che essa sia data a coloro che si
sforzano di acquistarla solo per mezzo dello studio. Se alcuni tra lo­
ro vogliono avvicinarsi a questa conoscenza dello Spirito, non posso­
no farlo neanche per poco, fintanto che non hanno rinunciato allo stu­
dio, ai raggiri sottili della sua ricerca, alle complessità del suo metodo,
e non conservano un cuore di bambino. L’abitudine e i pensieri che lo
studio genera sono un grande impedimento, fintanto che non sono sta­
ti cancellati a poco a poco. Infatti la conoscenza spirituale è semplice
[...]. Fintanto che l’intelligenza non è stata liberata dai numerosi pen­
sieri, fintanto che non ha raggiunto la semplicità della purezza, essa
non può percepire la conoscenza spirituale»28.
Si comprende, così, perché una tale conoscenza non suppone al­
cuna particolare qualificazione intellettuale né è riservata solo a qual­
che iniziato29: per accedervi «la sapienza dei saggi» è inutile, e «nulla
l’intelligenza degli intelligenti» (cfr. lCor l,19ss.). Essa può essere rag­
giunta da analfabeti30, spesso più adatti ad accedervi di coloro che, se­
dotti dalle proprie capacità intellettuali, s’impegolano nel campo
25 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, X X VI, 85.
26 Trattati etici, IX, 28s. Cfr. Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,100.
27 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll, n), XVII, 15.
28Discorsi ascetici, 19.
29 Lo stesso Clemente d’Alessandria afferma: «Gli uni non sono dunque “gnostici”, mentre
gli altri sarebbero “psichici”, nel Logos stesso, tutti coloro che hanno deposto i desideri della
carne sono tutti uguali, tutti “pneumatici” agli occhi del Signore» {IlPedagogo, I, VI, 31,2). Cfr.
ibid, 33,3.
30 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Arsenio, 6. GlUSTINO, Apologia prima, 60. NlCETA STE-
TATOS, Vita di Simeone il Nuovo Teologo, 135. Ricordiamo che negli Atti i santi apostoli Pietro
e Giovanni sono definiti «uomini illetterati e semplici» {At 4,13).
726
della pseudo-conoscenza. Essa si rivela a tutti coloro che, nel timore
di Dio e nella pratica dei comandamenti in una vita di ascesi, hanno
raggiunto la purezza, la semplicità e l’umiltà del cuore31. Vi è, del re­
sto, un legame molto stretto tra la vera conoscenza/contemplazione
e l’umiltà, mentre, al contrario la pseudo-conoscenza appare legata al­
l’orgoglio, da cui essa procede e che accresce (cfr. ICor 8,1)32.
Se tutti possono a priori accedere alla conoscenza/contemplazione,
non è perché essa è relativa alle capacità intellettuali dell’uomo, ma è,
a gradi diversi come vedremo e sempre in una certa misura, un dono
di Dio, una rivelazione dello Spirito Santo33. Tuttavia, ricevono que­
sto dono solo coloro che con l’ascesi teantropica se ne sono resi de­
gni, perché lo Spirito si rivela solo ai puri di cuore34. Ecco perché una
delle principali condizioni per l’accesso alla conoscenza/contempla-
zione è l’impassibilità35. Essa suppone correlativamente il possesso di
tutte le virtù (essa ne è, dice Evagrio, «il frutto»36) e in primissimo luo­
go della carità, che è l’altra condizione principale per riceverla37.
Si comprende, allora, come la conoscenza spirituale non sia una co­
noscenza teorica, ma una conoscenza sperimentale38, non solo per­
ché è una conoscenza intuitiva che mette l’uomo direttamente in con­
tatto con ciò che egli conosce, ma anche e soprattutto perché è fon­
data sulla totalità dell’esperienza spirituale dell’uomo39, e l’uomo vi fa
l’esperienza della grazia40 che l’informa, e persino, a un livello supe­
riore, la costituisce.
In realtà, nella conoscenza/contemplazione vi sono dei gradi, di cui
due sono i principali. Il grado inferiore è costituito dalla contempla­
31 Cfr. Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, m , 22.
32 Cfr. ID., Trattati etici, 1, 271s; Trattati etici, 1 ,12,184-185.
33 Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, IV, 40; Lettere, 62. ISACCO IL SlRO, Discorsi asce­
tici, 37. M acario d ’E gitto , Capitoli parafrasati, 80; 101. G regorio di N azianzo , Discorsi, HI,
1. GIUSTINO, Apologia prima, 60. Cfr. ICor 2,4-5. MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talas-
sio, 54, PG 9 0 ,512B; 65, PG 90, 737A.
34 Cfr. S im eo ne il N uo v o T e o l o g o , Trattati etici, 1 ,27ls; 1 ,12,184-185. A tanasio d ’A-
LESSANDRIA, SullTncamazione del Verbo, 57. ISACCO IL SlRO, Discorsi ascetici, 19.
35 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,85-86.
36 Trattato pratico sulla vita monastica, 90.
37 Cfr. ICor 2,9. EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, P rologo, 8; Lettere,
62. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1 ,12; 46; 47.
38Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,22. M acario d ’E­
gitto , Omelie (Coll. II), LIII, 4.
39 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 1. MACARIO D’EGITTO, Capitoli parafrasati, 80; 101;
Omelie (Coll. II), LEI, 4. DIADOCO DI FOTICEA, Cento capitoli gnostici, 9. SlMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1 ,100.
40 Cfr. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll. II), LIE, 4.
727
zione naturale (physiche theòria)-, il grado superiore è costituito dalla
contemplazione/conoscenza di Dio (spesso chiamata theologia, il ter­
mine «teologia» ha qui un’accezione radicalmente diversa da quella
assunta in Occidente)41. L’accesso a questo secondo grado, la cui na­
tura differisce considerevolmente da quella del primo e che si situa
molto al di sopra di esso, esige che l’uomo abbia acquisito nell’ascesi
teantropica, come per giungere al primo, la purezza dell’impassibi­
lità e la totalità delle virtù, al primo posto delle quali vi è la carità,
ma in modo preminente, in altre parole che egli abbia raggiunto,
nell’unione con Dio, un più alto grado di perfezione.

2. La contemplazione naturale
L’uomo giunto alla carità dopo aver acquistato l’impassibilità, ac­
cede immediatamente alla conoscenza/contemplazione naturale (gnó-
sis physiche, physiche theóriaf2. Questa consiste nella conoscenza/con­
templazione degli esseri naturali, cioè delle creature43. Essa compor­
ta perciò due gradi: il più basso è costituito dalla conoscenza/con-
templazione degli esseri corporei, il più alto dalla conoscenza/con-
templazione degli esseri invisibili, incorporei e intelligibili44.
Possiamo distinguervi un terzo grado, costituito dalla conoscen­
za/contemplazione dell’«economia divina»45, della Provvidenza e del
41Ricordiamo a questo proposito la definizione di Evagrio Pontico: «Il cristianesimo è la dot­
trina del Cristo nostro Salvatore, che si compone della pràxis, della fìsica e della teologia» {Trat­
tato pratico sulla vita monastica, 1). Lo stesso altrove afferma: «La scienza della nostra salvezza
è costituita da queste tre cose» {Capitoli gnostici, 1,10). Questa suddivisione, che si trova già in
Clemente d’Alessandria {Strornata, I, 28) e in Origine {Omelie sul Cantico dei Cantici, Prologo)
è stata ripresa da san Massimo il Confessore ed è diventata classica nella spiritualità ortodossa.
Un buon numero di scritti ascetici s’intitola Centurie (o Capitoli) pratiche (o etiche), fisiche e teo­
logiche {o gnostiche). Secondo la classificazione di Evagrio Pontico, physike theòria e theologia
(o physike e theologike) costituiscono insieme la gnòstike (cfr. Trattato pratico sulla vita mona­
stica, Prologo, 9), il che ci rimanda allo schema bipartito pràxis (o praktike) e theòria (o gnò-
sis), schema egualmente diventato classico (la Filocalia lo riprende nel suo stesso titolo). Su que­
sto schema^ sulle sue origini e sui suoi significati precedenti, vedi A. e C. GUILLAUMONT, intro­
duzione a ÉVAGRE LE PONTIQUE, Tratte pratique, SC 170, pp. 38s.
42Cfr. EVAGRIO P o n u c o , Trattato pratico sulla vita monastica, Prologo 8: «La carità è la por­
ta della conoscenza naturale».
43 Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostici, 1,10; V, 30; VI, 1. M assimo il C onfessore , Cen­
turie sulla carità, I, 87. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. GREGORIO DI NlSSA, Vita diMosè, II, 154; 169.
Essa è chiamata con diversi nomi: gnòsis physike, physike, gnósis tòn óntòn {Sap 7,17), theòria
tòn óntòn, theòria tòn gegonótòn.
44 Cfr. E vagrio P o ntico , Capitoli gnostici, 1,27; 74. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, I, 94; E, 26. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4.
45 I sacco il Siro , loc. dt.

728
Giudizio divino nella creazione46, come anche del senso profondo e
nascosto delle Sacre Scritture47.
L’uomo è elevato in questi gradi di contemplazione naturale pro­
porzionalmente al grado di purezza e di perfezione nella virtù che egli
ha raggiunto attraverso il faticoso lavoro della praxis**. A ogni tappa
che egli raggiunge, Dio gli concede, senza che se lo aspetti, e senza che
la ricerchi, la conoscenza corrispondente49.
In ogni caso, la conoscenza/contemplazione naturale consiste nel­
la conoscenza/contemplazione dei lógoi degli esseri50, cioè delle loro
ragioni spirituali nascoste51, della loro essenza spirituale52, del loro prin­
cipio, della loro causa53 e del loro fine in Dio54, del loro senso spiri­
tuale55, di ciò che costituisce il loro rapporto con Dio, delle energie di­
vine alle quali essi partecipano56, del marchio che il Creatore ha la­
sciato in essi57. Sono questi i lógoi degli esseri creati che l’Apostolo
ricorda quando parla delle «perfezioni invisibili di Dio», della «sua
potenza eterna» e della «sua divinità» «dopo la creazione del mon­
do, che si rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fat­
te» (Rm 1,20), e che permettono all’uomo privo di passioni di perce­
pire Dio attraverso la creazione58. Sono questi stessi lógoi, che egli ri­
corda, secondo Evagrio, quando parla «della multiforme sapienza
divina» (E/3,10) che Dio ha messo negli esseri59. È per questo che,
46Cfr. EVAGRIO P onttco , Capitoli gnostici, 1,27; Commento ai Salmi, PG 12,1661C.
47 Cfr. I sacco il Siro , Lettere 4. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 32, PG 90,
372BC; 65, PG 90,745D.
48 Cfr. M assimo il C onfessore , loc. cit., 47; 65, PG 90,737A.
49Cfr. Id., Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,16; Centurie sulla carità, I, 95.
50Cfr. E vagrio P o n t ic o , Capitoli gnostici, 1,10; IV, 40. M assimo il C onfessore , Centurie
sulla carità, I, 98-99. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati teologici, I, 197-198. NlCETA S te -
TATOS, Centurie, II, 67; III, 43.
51 Cfr. M assim o IL C on fessore, Ambigua, 10, PG 91, 1116D; Questioni a Talassio, 32, PG
90, 372BC.
52 Precisiamo ogni volta «spirituale», perché, come sottolinea san Massimo il Confessore,
questi lógoi hanno una natura diversa dai «lógoi fìsici delle cose», dalla loro essenza, dalla loro
definizione, dalla loro forma nel senso aristotelico del termine; questi ultimi lógoi sono ancora
la «superficie» delle cose (Questioni a Talassio, 65, 744D-745D).
53 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,98-99; Questioni a Talassio, 13, PG
90,293D-296A.
54 Cfr. ID., Questioni a Talassio, 13, PG 90,293D-296A; 32, PG 90, 372BA.
55 Cfr. Id., Centurie sulla carità, I, 98.
56Cfr. GREGORIO DI N issa , Omelie sulle Beatitudini, VI, 3.
57 Cfr. Id., Sull’Hexaemeron, PG 44, 73A.
58Cfr. Atanasio d ’A lessandria , Sull’Incarnazione del Verbo, 12.
59 Cfr. EVAGRIO P o n t ic o , Capitoli gnostici, IV, 7. E spesso in quest’ultimo modo che i Pa­
dri evocano i lógoi, come san Massimo il Confessore, che parla di essi come «della sapienza di­
vina invisibilmente intima alle creature» (Questioni a Talassio, 51, PG 90,481C); poiché la co­
noscenza che l’uomo ne ha è correlativamente qualificata come «sapienza», il termine gnósis in­
dica allora la conoscenza di Dio.
729
con sant’Isacco il Siro, si può definire la contemplazione naturale co­
me «la sensazione dei misteri divini nascosti nelle cose e nelle cause»60.
Nella conoscenza/contemplazione del mondo sensibile, questo ces­
sa di essere opaco, chiuso su se stesso; gli esseri sensibili divengono
completamente trasparenti alla loro realtà intelligibile e spirituale61, in
modo tale che il mondo sensibile è percepito nel mondo intelligibile
e il mondo intelligibile nel mondo sensibile come spiega lo scoliaste
delle Questioni a Talassio di san Massimo: «Colui che ha l’intelligen­
za del mondo sensibile contempla il mondo intelligibile. Egli si raffi­
gura gli intelligibili attraverso i sensi rappresentandoseli, e costruisce
secondo l’intelligenza le ragioni che ha contemplato e trasporta ver­
so i sensi, in molti modi, la costituzione del mondo intelligibile, e ver­
so l’intelligibile la costituzione così complessa del mondo sensibile.
Egli considera i sensi nel mondo intelligibile trasportando attraverso
le ragioni il mondo sensibile verso l’intelligenza. E considera l’intelli­
genza nel mondo sensibile inserendo attraverso le forme, con scienza,
il mondo intelligibile nei sensi»62. San Massimo spiega tutto questo
in modo più semplice, mostrando chiaramente come, per colui che è
giunto alla conoscenza/contemplazione naturale, il mondo sensibile è
divenuto interamente un simbolo del mondo intelligibile, e come ogni
suo oggetto non cessi di rivelarglielo63: «Tutto il mondo intelligibile
appare, a coloro che sono capaci di vedere, misteriosamente impres­
so in tutto il mondo sensibile, attraverso forme simboliche. Il mondo
sensibile, al contrario, è in modo conoscibile presente all’interno di
tutto il mondo intelligibile, ma semplificato, per l’intelligenza, dai ló-
goi. Questo in quello attraverso i lógoi; quello in questo attraverso le
impronte. La loro realtà è una come sarebbe una ruota in una ruota
secondo quanto dice l’ammirevole e grande veggente Ezechiele (cfr.
Ez 1,16) parlando, mi sembra, dei due mondi. E ancora: le sue perfe­
zioni visibili si vedono a partire dalla creazione, grazie alle opere che
le fanno vedere all’intelligenza (cfr. Rm 1,20). Così parla il divino Apo­
stolo. Infatti, le cose non apparenti si vedono grazie a quelle apparenti,
come è scritto, e afortiori le apparenti saranno pensate grazie alle non
apparenti da coloro che si applicano alla contemplazione spirituale.
Per questo motivo, la contemplazione simbolica degli intelligibili per
60 Discorsi ascetici, 30.
61 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, V, 57.
62 Questioni a Talassio, 63, Scolio 47, PG 90, 692D-693A (= Scolio 18, CCSG 22, p. 185).
63 Vedi anche MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. II), LIE, 15.
730
mezzo dei visibili è scienza spirituale e intelligenza dei visibili attra­
verso gli invisibili»64.
Si vede, allora, tutto quello che separa la percezione della realtà che
possiede colui che è adatto alla conoscenza/contemplazione naturale
da quella che ha l’uomo decaduto. Fintanto che l’uomo rimane sotto­
messo alle passioni, resta schiavo della realtà sensibile, la sola che co­
stituisce l’oggetto della sua percezione. Esaminando le passioni, ab­
biamo mostrato come, sotto l’influsso di queste, l’uomo non solo non
considera altro che l’aspetto superficiale e visibile delle cose65 e per­
cepisce il mondo come una realtà chiusa in se stessa, non rinviando a
null’altro che a se stessa, ma ne ha per di più e in conseguenza una co­
noscenza totalmente falsata, una conoscenza che abbiamo persino po­
tuto a più riprese definire delirante. Fintanto che l’uomo non è libe­
rato dalle passioni, percepisce e conosce gli esseri in funzione delle
passioni che sono in lui; egli entra in relazione con essi secondo un
modo, determinato da queste passioni, che ne fa esclusivamente per
le stesse passioni oggetti di godimento. Ricordando questa afferma­
zione di san Gregorio Nazianzeno che «la carne è una nebbia e un ve­
lo», san Massimo spiega: «La nebbia è la passione carnale che ottene­
bra la facoltà dominante dell’anima, il velo è l’illusione prodotta dai
sensi che fissa l’attenzione dell’anima sulle apparenze superficiali de­
gli oggetti sensibili e sbarra il passaggio alle intelligibili. Di conseguenza,
avviene che essa dimentica i beni naturali ed esercita tutta la sua atti­
vità sui sensibili, per trovarvi eccitazioni, bramosie e piaceri sconve­
nienti»66. Il raggiungimento dell’impassibilità porta alla soppressione
di questa barriera che arrestava «il movimento dello spirito attraver­
so i sensi verso gli intelligibili»67, che impediva allo spirito di perce­
pire attraverso gli esseri sensibili le energie divine, alle quali essi par­
tecipano, e teneva lo stesso spirito inchiodato all’«aspetto superficia­
le e visibile delle cose»68; il raggiungimento dell’impassibilità segna così
la fine delle relazioni perverse che, di conseguenza, l’uomo intratte­
neva con esse. Coloro che hanno raggiunto questo stadio della cono­
scenza/contemplazione naturale, perché sono impassibili, hanno, co­
me afferma san Massimo, «rifiutato completamente la sensazione con
i sensibili quanto alla relazione attuale esistente nelle disposizioni»69,
64Mistagogia, 2.
65 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 90,452AB.
66Ambigua, 10, PG 91,1112AB.
67 M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 90,452B.
68 Ibid.
69Ambigua, 10, PG 91,1193D.
731
cioè quanto alle passioni. L’uomo, allora, non percepisce più gli esse­
ri, relativamente al piacere che, secondo le sue passioni, egli può trar­
ne o al dolore che, secondo queste stesse passioni, egli può subirne,
ma «concepisce di tutte le cose pensieri puri»70. Egli non le coglie più
nel loro aspetto esteriore, sensibile e superficiale71, ma le percepisce
nella realtà e nel significato profondi, che esse hanno in rapporto a
Dio. «Liberato da ogni errore»72, accede alla conoscenza vera di tutti
gli esseri, la quale gli rivela un mondo nuovo, molto diverso da quel­
lo, fantasmatico, suscitato dalle sue passioni. «Lo spirito che si è spo­
gliato delle passioni e vede le intellezioni degli esseri non riceve vera­
mente i simulacri che (arrivano) attraverso i sensi; ma è come se un al­
tro mondo fosse creato dalla sua conoscenza», osserva Evagrio73. «Colui
che ricerca impassibilmente trova nella contemplazione naturale la ve­
rità che è al centro degli esseri», scrive lo scoliaste delle Questioni a
Talassio14; e anche san Massimo afferma che egli conosce «il vero si­
gnificato degli esseri»75e «vede le cose secondo la loro natura»76. Eva­
grio definisce questa tappa in maniera simile come «l’impassibilità del­
l’anima accompagnata dalla conoscenza vera degli esseri»77. Forte di
questa conoscenza e dando più importanza a queste «ragioni nasco­
ste sotto le apparenze» che alle «forme apparenti» degli esseri78, l’uo­
mo si comporta riguardo alle creature e riguardo a Dio come si deve.
«Colui che pratica alla perfezione le virtù e ha acquisito il tesoro del­
la conoscenza vede ormai le cose secondo la loro natura e, di conse­
guenza, agisce e pensa sempre secondo un retto giudizio, senza mai
ingannarsi», scrive san Massimo79.
Percependo tutte le creature nella loro relazione con il Creatore,
l’uomo diviene allora capace di una scelta totale della realtà che pri­
ma conosceva solo in parte80, e di una visione unificata del mondo che
prima egli percepiva come diviso81. Facendo così, afferma san Massi­
mo, l’uomo realizza il compito che Dio gli aveva affidato creandolo,
70 M acario d 'E g itto , Omelie (Coll, n), LEI, 15.
71 Cfr. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 32, PG 90, 372BC.
72 Ibid.
73 Capitoli gnostici, V, 12.
74 Questioni a Talassio, 59, S colio 2.
75 Questioni a Talassio, 48.
76 Centurie sulla carità, I, 92.
77 EVAGRIO P ontico , Trattato pratico sulla vita monastica, 2.
78 Cfr. M assimo il C onfessore , Questioni a Talassio, 49, PG 9 0 ,460A.
79 Centurie sulla carità, I, 92.
80Cfr. E vagrio P o n tic o , Capitoli gnostici, n, 28.
81 Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassio, 32, PG 9 0 ,372BC.
732
cioè quello di realizzare in sé l’unione con Dio, l’unificazione della
creazione, «ren[dendo] la creazione visibile completamente indivisa
in se stessa»82, e «unendo inoltre gli intelligibili e i sensibili, renden­
do] una tutta la creazione, non più divisa per lui secondo conoscen­
za e ignoranza, perché la sua conoscenza gnostica dei ìógoi nelle cose
sarà divenuta indefettibilmente uguale a quella degli angeli»83.
La conoscenza/contemplazione degli esseri sensibili condiziona e
apre all’uomo l’accesso alla contemplazione delle nature incorporee e
intelligibili84. Quest’ultima include, da una parte, la conoscenza/con-
templazione degli angeli e la conoscenza dei demoni85 e, dall’altra, la
conoscenza degli esseri umani nella realtà intelligibile del loro spirito.
L’uomo acquista allora la conoscenza vera del prossimo86, e soprattutto
la conoscenza vera di sé87. San Niceta Stetato sottolinea chiaramente
che questa è condizionata dalla conoscenza dei lógoi degli esseri, ed
è solo a questo livello che la si può ottenere: «Colui che per mezzo del­
la purezza è giunto alla conoscenza degli esseri conosce se stesso [...].
Ma colui che non ha ancora raggiunto i lógoi stessi della creazione, del­
le cose divine e umane, conosce ciò che è intorno a lui e ciò che è al
di fuori di lui, ma egli non si conosce assolutamente»88. Nello stesso
tempo, però, fanno notare i Padri, la conoscenza di sé è una chiave per
la conoscenza di tutto89e gioca per questo fatto un ruolo centrale.
La conoscenza di sé alla quale l’uomo accede è la conoscenza «di
ciò che egli è secondo la sua natura spirituale»90, cioè da un lato del
suo essere spirituale91, dell’immagine di Dio92 che fondamentalmente
costituisce la sua natura e, dall’altro, del suo nulla nei riguardi di Dio
in quanto creatura, e in quanto uomo decaduto e lontano da Dio. I
Padri insistono soprattutto su questo secondo aspetto93, come san Gio­
82 Massimo i l C onfessore, Ambigua, 41, PG 91,1305D-1308A.
85Ibid., 1308A.
84M assimo il C onfessore, Questioni a Talassio, 58, PG 9 0 ,597A.
85 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 67.
86Cfr. ibid.
87Cfr. N iceta Stetatos, Centurie, n, 36.
88Ibid.
89 Cfr. G iovanni C risostomo, Commento a san Matteo, XXV, 4. Isacco il Siro, Discorsi
ascetici, 16.
90A n to n io l ’Erem ita, Lettere, 1 ,1.
91 Cfr. ibid., IV, 7.
92 N ic e ta S te ta to s, Centurie, n, 37.
95 Cfr. GREGORIO Palam as, Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 29, PG 1 5 0 ,1140C. GIO­
VANNI C um aco, La Scala, XXV, 38. NICETA STETATOS, Centurie, II, 35; 39. Cfr. SIMEONE IL NUO­
VO T eolo go , Trattati etici, IX, 443s.

733
vanni Crisostomo il quale osserva: «Nessuno si conosce più perfetta­
mente di colui che crede di essere un nulla»94.1 Padri fanno apparire
la penitenza e l’umiltà come la condizione sine qua non della cono­
scenza autentica di sé fino alle alte sfere spirituali95. Avendo così «una
corretta conoscenza del [suo] stato»96, l’uomo «conosce anche le altre
creature che Dio ha tratto dal nulla»97, e «conosce egualmente l’eco­
nomia della salvezza realizzata dal Creatore, e tutto ciò egli ha fatto
per le sue creature»98.
Chiave per la conoscenza degli esseri creati, la conoscenza di sé lo
è anche per la conoscenza di Dio. «Chi conosce se stesso conosce
anche Dio», scrive sant’Antonio l’Eremita99. L’uomo, infatti, mentre
accede alla conoscenza della sua essenza come essere creato a imma­
gine di Dio, accede alla conoscenza del suo Creatore in quanto tale,
e della sua Provvidenza, percependo che egli lo ha tratto dal nulla, ma
anche che egli lo ha, come la natura che gli ha dato creandolo, reso
adatto ad essere deificato per grazia. Egli lo riconosce come suo Sal­
vatore, tanto più che correlativamente egli ha una chiara conoscenza
della sua debolezza, della sua miseria e del suo nulla spirituale.
La conoscenza di sé dà un accesso più facile e più diretto sia alla
conoscenza/contemplazione di Dio che alla conoscenza delle creatu­
re, come fa notare san Basilio: «Il cielo e la terra sono meno adatti a
farci conoscere Dio di quanto lo è la nostra costituzione, per colui che
si esamina con intelligenza. È ciò che dice il profeta: “Stupenda è
per me la tua conoscenza” (Sai 139 [138] ,6)»100. Infatti, l’uomo è la so­
la tra tutte le creature che sia costituita a immagine di Dio. Avendo
raggiunto la purezza dell’impassibilità, il suo spirito è capace di per­
cepire chiaramente in sé questa immagine di Dio, di vedere così in sé
come un riflesso di Dio, di vedere Dio come in uno specchio (cfr. lCor
13,12), e ciò tanto più in quanto, attraverso l’acquisizione delle virtù,
egli possiede inoltre la somiglianza con Dio. L’anima, scrive san Gre­
gorio di Nissa, «se si libera dall’agitazione delle passioni, ritorna in
sé e si conosce nella sua vera natura»; «contemplerà allora il Model­
lo per la propria bellezza come in uno specchio e un’immagine»101. Al­
94 Commento a san Matteo, XXV, 4.
95 Cfr. Simeone il N uovo T eologo , Trattati teologici, 1,250s; Trattati etici, IX, 443s. Ni-
CETA Stetatos, Centurie, II, 35; 38, 39.
96 A n to n io l ’E rem ita, Lettere, 1,4.
97 Ibid., IV, 7.
98 Ibid., 1,1; 4.
99 Ibid., VE.
100 Omelie suU’Hexaemeron, IX, 6.
101Sull’anima e la risurrezione.
734
trove, egli spiega: «L’uomo interiore, il cuore, [...] una volta liberato
della ruggine che sporcava la sua bellezza, ritroverà l’immagine origi­
nale. Così l’uomo, guardandosi, vedrà in sé Colui che egli cerca. Ed
ecco la gioia suprema che riempie il suo cuore purificato: guarda la
propria purezza e scopre nell’immagine il Modello. Quando si guar­
da il sole in uno specchio, anche senza alzare gli occhi verso il cielo, si
vede il sole nello splendore dello specchio, ugualmente bene come
se si guardasse lo stesso disco solare. Non potrete contemplare la lu­
ce in se stessa. Ma se ritrovate la grazia dell’immagine deposta in voi
fin dall’inizio, avrete in voi l’oggetto dei vostri desideri»102.
In conclusione, la conoscenza/contemplazione naturale permette
all’uomo di recuperare la conoscenza vera della totalità del mondo
creato. Attraverso di essa, l’uomo è guarito da «questa malattia che è
l’ignoranza della causa degli esseri»103; egli è liberato in dò che lo ri­
guarda dalla conoscenza falsata, ossia delirante, che il peccato e le pas­
sioni avevano generato in lui. In questa vera conoscenza egli ritrova la
salute, essendo la conoscenza vera «la salute dell’anima», come dice
Evagrio104. E, come nota anche san Massimo, «dò che la salute e la ma­
lattia sono per il corpo vivente, [...] la conoscenza e l’ignoranza lo
sono in rapporto allo spirito»105.
Per suo mezzo, l’uomo è guarito nelle sue stesse facoltà di cono­
scenza che si erano pervertite e alienate nella pseudo-conoscenza di
un mondo ridotto alle apparenze sensibili e si erano sottomesse alle
passioni. Evagrio sottolinea che, mentre «la carità [guarisce] la parte
irascibile dell’anima, e la castità la parte concupiscibile», «la cono­
scenza guarisce l’intelligenza»106. L’intelligenza (nous) dell’uomo ri­
trova la salute nella misura in cui, per la contemplazione naturale,
essa si volge verso Dio e si esercita di nuovo secondo la finalità della
sua natura, che è quella di conoscere e contemplare Dio: nella con­
templazione naturale, infatti, essa contempla Dio negli esseri e gli es­
seri in Dio. A questo stadio si applica già, anche se parzialmente, que­
sta osservazione di Evagrio: «Quando la natura razionale riceverà la
contemplazione che la riguarda, allora sarà sana anche tutta la po­
tenza dell’intelligenza»107.
102 Omelie sulle beatitudini, VI, 4.
103 Cfr. M assim o i l C on fessore,Questioni a Talassio, 32, PG 9 0 , 372BC.
104 Capitoli gnostici, II, 8.
105 Centurie sulla carità, IV, 46.
106Capitoli gnostici, HE, 35.
107Ibid., n, 15.
735
L’uomo ritrova anche questa finalità della sua natura che è quella
di rendere gloria a Dio, e dò nell’incontro con ogni essere. Infatti, que­
sto è il fine principale della conoscenza/contemplazione naturale, co­
me afferma l’Apostolo (cfr. Rm 1,21), e come osserva san Massimo108:
«Se mai i santi hanno acconsentito allo spettacolo degli esseri, essi non
si sono fermati a contemplarli e a conoscerli, come noi, soprattutto per
attaccamento alla materia, ma per lodare in molti modi il Dio pre­
sente e che appare in tutto e dovunque, per ammassare grandi tesori
di meraviglia e numerosi soggetti di dossologia»109. È così, osserva an­
cora san Massimo, che l’uomo «raccoglie come dei doni da offrire a
Dio da parte della creazione, i lógoi spirituali degli esseri»110.
Questo ci permette di sottolineare che, in realtà, è a Dio che si
trova ordinata la contemplazione naturale, e che, anziché contempla­
zione della natura o degli esseri, sarebbe meglio dire «contemplazio­
ne di Dio attraverso la natura e attraverso gli esseri». Infatti, la con­
templazione naturale ha per finalità ultima la conoscenza/contem-
plazione di Dio e sfocia naturalmente in essa111.
Tuttavia, essa non basta a costituirla. Se comporta una certa cono­
scenza di Dio, poiché gli esseri che essa ha per oggetto sono conosciuti
in Dio e Dio in essi, essa è una conoscenza analogica di Dio, relativa
alle creature, che è limitata dai limiti di queste, che resta relativa alle
loro forme, diversità, e questo tanto più in quanto esse appartengo­
no al mondo sensibile. Anche la conoscenza che l’uomo può avere in
sé di Dio è una conoscenza speculare che porta solo su un riflesso, in
cui egli vede Dio solo «in modo oscuro» e «in parte» (lCor 13,12). Es­
sa non è la conoscenza di Dio in quanto egli è trascendente a ogni crea­
tura. Per questo sant’Isacco il Siro scrive: «La conoscenza delle crea­
ture, per dolce che sia, non è mai che l’ombra della conoscenza [...].
Una tale contemplazione nutre lo spirito mentre attende che questo
possa ricevere una contemplazione più alta»112. La finalità della cono­
scenza della natura creata è quella di elevare l’uomo fino a Colui che
ne è l’Autore113 e che è al di sopra di essa114. È per questo che, se al-
108 Vedi anche GREGORIO PALAMAS, Triadi, 1 ,1,20.
m Ambigua, 10, PG 91,1113D-1116A.
110 Questioni a Talassio, 51, PG 90, 481C.
111 Cfr. D io n ig i l ’A re o p a g ita , Lettere, V II, PG 3 ,1080B. I s a c c o i l S iro , Lettere, 4. M as­
sim o IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, I, 86; Questioni a Talassio, 63. SIMEONE IL NUOVO
TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 15.
112Lettere, 4.
113 D io n ig i l ’A reo p a g ita , Lettere, VE, 2. Cfr. M assim o i l C o n fe sso r e , Questioni a Talas­
sio, 63.
114 Cfr. S im eon e i l N u o v o T e o lo g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, E, 15.
736
cuni sono tentati di rimanere a questo stadio, vanno fuori strada115(per­
ché è a questo livello che si trova il principale pericolo di smarrirsi sul­
la via della conoscenza)116, o non arrivano ad elevarsi al di sopra, men­
tre lo spirituale esperto, una volta che è «libero da ogni passione, si
slancia verso la contemplazione degli esseri e, al di là, verso la cono­
scenza della Santissima Trinità»117. Lo spirituale non fa altro che at­
traversare, senza attardarvisi, quest’ambito delle contemplazioni na­
turali118, non ritrovandole, se non per necessità, nella misura in cui egli
vive ancora in questo mondo. Infatti, il tetto dell’edificio spirituale è
«la conoscenza divina di Dio» stesso119.

3. La conoscenza/visione di Dio
Se la conoscenza/contemplazione della Santissima Trinità120segue
alla conoscenza/contemplazione degli esseri creati, ciò non è in con­
tinuità ma in rottura con quest’ultima. Difatti, fintanto che l’uomo con­
templa gli oggetti e si occupa dei loro lógoi, questi «anche se sono del­
le semplici espressioni, nondimeno, in quanto considerazioni di og­
getti, imprimono una forma allo spirito e lo allontanano da Dio»121.
«La Santissima Trinità, sottolinea Evagrio, non è una realtà mescola­
ta alla contemplazione» naturale, «ciò accade solo alle cose create»122.
Poiché Dio è infinitamente trascendente a ogni essere creato, la sua
contemplazione esclude ogni immagine e ogni rappresentazione, an­
che se semplici, di qualsiasi oggetto, foss’anche intelligibile125. È per
questo che san Simeone il Nuovo Teologo scrive: «Lo sviluppo della
conoscenza di Dio diviene la causa della nostra ignoranza di tutti gli
altri esseri»124. La conoscenza/contemplazione di Dio presuppone
Yapóthesis noèmàtòn, cioè l’allontanamento, l’abbandono di tutte le
115 Cfr. I s a c c o i l S iro , Lettere, 4.
116 Cfr. M assim o i l C o n fe s s o r e , Questioni a Talassio, 63, PG 9 0 ,673C.
1,7 Id., Centurie sulla carità, 1,86.
118Questo permette di comprendere perché la maggior parte dei Padri (in particolare Si­
meone il Nuovo Teologo, Niceta Stetatos, Gregorio Palamas), pur menzionando questo grado
della contemplazione naturale nel titolo stesso dei loro scritti ascetici, le accordano solo un ruo­
lo molto secondario.
1,9 Sim eone i l N u o v o T e o lo g o , Trattati etici, IX , 459-460.
120 Cfr. EVAGRIO P o n tic o , Trattato pratico sulla vita monastica, 3; Capitoli gnostici, 1 ,70; II,
4; V, 57. Isa cco i l Siro, Lettere, 4.
121 E vagrio P o n tic o , La preghiera, 56.
122Capitoli gnostici, V, 55.
123 Cfr. E vagrio P o n tic o , La preghiera, 57.
12,1Capitoli teologici, gnostici e pratici, H, 2.
737
intellezioni ricevute nella contemplazione naturale, e a fortiori di tut­
te le rappresentazioni e i pensieri di una natura inferiore a queste125.
Essa implica, per ciò stesso, la rinuncia a ogni conoscenza umana,
perché questa porta necessariamente su un essere. Ora Dio, che è il­
limitato, è al di là di ogni essere, è dunque necessariamente inacces­
sibile a una tale conoscenza126. Ecco perché l’Apostolo scrive: «Se al­
cuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora appreso come bi­
sogna sapere» (ICor 8,2); e per indicare paradossalmente il mezzo per
accedere alla conoscenza perfetta di Dio precisa (cfr. ICor 13,10-12):
«la conoscenza sarà abolita» (cfr. ICor 13,8). La conoscenza di Dio
può essere quindi solo una conoscenza al di là di ogni conoscenza
(umana)127, la quale presuppone che l’uomo sia in uno stato di non­
conoscenza o di inconoscibilità (agnosia, agnota)m. Come afferma san
Gregorio Palamas129, sulla scia di Dionigi l’Areopagita130e di molti Pa­
dri131, essa avviene «quando vi è la cessazione di ogni attività intellet­
tuale».
Non bisognerà, pertanto, credere che la conoscenza di Dio consi­
sta nella inconoscenza stessa. «La sola negazione, afferma san Gre­
gorio Palamas, non basta all’intelligenza {nous) per raggiungere le co­
se sopra-intelligibili; l’elevazione attraverso la negazione [...] porta so­
lo all’immagine dell’ineffabile contemplazione e della realizzazione del­
lo spirito in questa contemplazione; essa non è in se stessa questa rea­
lizzazione»132. «Dio non è solo al di sopra della conoscenza, ma al di
sopra dell’inconoscenza»133, come pure non è solo al di là dell’essere,
ma anche al di là del non-essere134. «E gli uomini che venerano la so­
125Cfr. M assimo IL C onfessore , Questioni a Talassici, 25, PG 90,332C; 65, PG 90,756C;
Ambigua, 1, PG 90,1077B; 10, PG 91,1141B; 1193D; 51, PG 91,1372B; 71, PG 91,1413CD;
Centurie sulla teologia e sull’economia, I, 83.
126Cfr. D ionigi l’A reopagita , Sui Nomi divini, 1,4-5, PG 3,593AB.
127Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,3,4. I sacco il Siro , Discorsi ascetici, 66.
128 Vedi per esempio GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XIII, 60. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sutla carità, III, 45.
129 Triadi, 1,3,17; 18.
130Cfr. Sui Nomi divini, 1,5, PG 3,593BC.
131 San Massimo il Confessore, per esempio, scrive che per unirsi a Dio che «supera ogni
ragione e conoscenza, occorre superare in uno slancio irresistibile il sensibile e l’intelligibile, [...]
essere spogliati totalmente di ogni energia dei sensi, del pensiero e dell’intelligenza {nous), per
incontrare ineffabilmente e nell’ignoranza le delizie divine, al di sopra del pensiero e dell’intel­
ligenza» {Ambigua, 10, PG 91, 1153BC). Vedi anche Questioni e dubbi, 73; Ambigua, 10, PG
91,1113B; 15, PG 91,1220B; 20, PG 91,1237D; 1241AB; Questioni a Talassio, 22, PG 90,321A;
54, PG 90, 504C; 60, PG 90, 621C-624A; Centurie sulla teologia e sull’economia, 1,54; 55; 2;
Opuscoli teologici e polemici, 20, PG 91, 229A.
132 Triadi, 1,3,19.
133 Ibid., 4.
134Vedi per esempio DIONIGI l’A reopagua , Teologia mistica, 1,1.
738
la contemplazione apofatica, che non credono all’esistenza di alcuna
attività, né di alcuna visione che sia al di là di essa [...], non vedono,
propriamente parlando, non conoscono nulla e sono privi di cono­
scenza e di visione»135. «La contemplazione non è, dunque, solo spo-
gliamento e negazione, ma è una unione e una divinizzazione che so­
praggiungono [...] dopo lo spogliamento»136.
Se l’uomo può conoscere Dio, ma non lo può fare con le proprie
facoltà di conoscenza, né tantomeno per mezzo ddl’inconoscenza stes­
sa che ne è la condizione, il solo modo di accedere a una tale cono­
scenza è che Dio si riveli a lui, e dunque sia la fonte e il principio di
questa conoscenza, perché «se Dio è invisibile alle creature, egli non
è invisibile a se stesso»137. Ciò è quanto scrive l’Apostolo quando af­
ferma alla fine del passo precedentemente citato: «Allora conoscerò
come sono conosciuto» (lCor 13,12), e altrove più esplicitamente: «Chi
conobbe la mente (noùs) del Signore da poterlo dirigere? Ora noi ab­
biamo la mente di Cristo» (1Cor 2,16). E ancora: quelle cose «che mai
entrarono in cuore di uomo, ciò Dio ha preparato per quelli che lo
amano, Dio lo ha rivelato a noi mediante lo Spirito; lo Spirito infatti
scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (lCor 2,9-10). Agli spi­
rituali che ne sono degni, che sono puri e amano perfettamente Dio,
la conoscenza/contemplazione «arriva misticamente e indicibilmente
per la grazia di Dio»138, «infatti, se tutta la loro attività intellettuale è
ferma, come [...] vedranno Dio se non per mezzo della potenza dello
Spirito?», fa notare san Gregorio Palamas139. La conoscenza/con-
templazione di Dio è, dunque, l’opera della potenza divina stessa140;
essa è data all’uomo da Dio; è una grazia, una «rivelazione dei miste­
ri»141 che l’uomo riceve da Dio nel Cristo per mezzo dello Spirito, o
per mezzo del Cristo, nello Spirito142.
E vero che la conoscenza/contemplazione naturale (spesso chiamata
«sapienza» perché è la conoscenza/contemplazione della Sapienza di
155 G regorio Palamas, Triadi, n , 3,53.
156Ibid., 1,3,17.
13?lbid., 37.
m lbid„ 17.
m Ibid., 18.
140Cfr. G iustin o , Apologia prima, 60.
141 I sacco IL Siro , Discorsi ascetici, 37. Cfr. Discorsi ascetici, 66. SlMEONE IL NUOVO TEO­
LOGO, Catechesi, XXIV, 54-55.
142 Cfr. MACARIO IL G rande, Capitoli parafrasati, 101; Omelie (Coll. II), IX, 7; XVIII, 5. Sl­
MEONE IL Nuovo T e o lo g o , Catechesi, XXXIH, 107s. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, II,
20. MASSIMO IL C on fessore, Centurie sulla carità, n, 26; Questioni a Talassio, 59, PG 90,604BC.
ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 66; Lettere, 4. GREGORIO PALAMAS, Triadi, I, 3,17.

739
Dio nelle creature e nell’ordine generale del mondo) è anch’essa rive­
lata. È «il Signore [che] dona sapienza, dalla sua bocca viene scienza
e intelligenza», dice l’autore ispirato dei Proverbi (Pro 2,6). Ecco per­
ché spesso, evocando la conoscenza/contemplazione sotto le sue due
forme, la Scrittura o i Padri dicono che essa è data all’uomo per gra­
zia143, nel Cristo, per lo Spirito144. «Senza il Signore Gesù e l’opera­
zione della potenza divina, nessuno può conoscere la sapienza e i mi­
steri di Dio», sottolinea san Macario145. E, a sua volta, san Diadoco
di Foticea; «La sapienza e la conoscenza sono i doni di un solo e me­
desimo Spirito»146.
Vi è tuttavia una differenza fondamentale tra la conoscenza/con­
templazione naturale e la conoscenza/contemplazione di Dio: nella
prima, l’uomo conosce per mezzo della potenza del proprio spirito il­
luminato dallo Spirito Santo; nella seconda, l’uomo non conosce più
attraverso il proprio spirito né attraverso alcuna delle sue facoltà che
si rivelano allora tutte inadeguate, ma per mezzo dello Spirito Santo
stesso. Evagrio sottolinea bene questa differenza: «Avere la conoscenza
delle cose naturali è possibile allo spirito, ma conoscere la Santissima
Trinità non solo non è possibile allo spirito, ma è una grazia sovrab­
bondante di Dio»147. Nel secondo caso, «l’uomo non vede né attra­
verso l’intelligenza (noùs) né attraverso il corpo, ma attraverso lo Spi­
rito», osserva san Gregorio Palamas148, che aggiunge: «E evidente che
questa illuminazione supera [...] ogni conoscenza, anche se la si chia­
ma “conoscenza” (gnósis) e “intellezione” (nóesis), perché è lo Spiri­
to che la dona all’intelligenza (nous)»149. Colui che è l’oggetto della vi­
sione, cioè Dio, è lui che la procura150. «I santi vedono nello Spirito»151.
L’Apostolo indica chiaramente questa distinzione dei due modi di co­
noscenza: «Chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito
dell’uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai co­
nosciuti se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spi­
145 Cfr. E vagrio P o n tic o , Lo gnostico, 107. Isa cco IL Siro, Discorsi ascetici, 66.
144 Cfr. Ef 1,17. Isa cco i l Siro, Lettere, 4. M assim o i l C on fessore, Questioni a Talassio, 59,
PG 90,605B; 63, PG 80,673C. NlCETA S eta to s, Centurie, n, 67; IH, 46. GIOVANNI CLIMACO,
Lettera al Pastore, 100. GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi, E, 39. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO,
Trattati etici, V, 419s; Catechesi, XXXIII, 89-97. MACARIO D'EGITTO, Omelie (Coll. HI), XVI, 3.
145 Omelie (Coll. E), XVE, 10.
146Cento capitoli gnostici, 9.
147Capitoli gnostici, V, 79.
148 Triadi, 1,3,21.
149Ibid., 52.
m Ihid.
151 I d ., Contro Achindinos, IV, 16.
740
rito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio» (ICor 2,11-12). Ri­
ferendosi a questo passo, san Macario d’Egitto nota che colui che è
degno della conoscenza di Dio diventa partecipe «dell’intelligenza che
non è di questo mondo» e si differenzia «in tutto da tutti gli uomini
che hanno lo spirito del mondo»152. E san Massimo precisa così la dif­
ferenza di origine dei due gradi di conoscenza: «Le facoltà che cer­
cano e sondano le cose divine, la natura degli uomini le ha ricevute in
deposito dal Creatore, fondamentalmente, al momento del suo pas­
saggio all’essere. Ma le rivelazioni del divino, è la potenza del Santis­
simo Spirito che le compie per grazia, quando essa viene ad abitare in
noi»153. Nella prima forma di conoscenza, l’uomo resta esterno a Dio
e lo conosce indirettamente; nella seconda, conosce Dio direttamente
attraverso Dio che è in lui154: «H Signore [...] giunge direttamente nel­
l’intelligenza per inserirvi a suo piacimento la conoscenza», osserva
Evagrio155. San Gregorio Palamas così spiega a questo riguardo: «Poi­
ché ogni uomo possiede i sensi e una intelligenza (noùs) come fa­
coltà naturali di conoscenza, come queste facoltà possono permet­
terci di conoscere Dio che non è né sensibile né intelligibile? Per nes­
suna altra via, certamente, se non quella degli esseri sensibili e
intelligibili: queste facoltà costituiscono, in realtà, dei mezzi per co­
noscere gli esseri; esse sono limitate dagli esseri e manifestano il divi­
no a partire da questi esseri. Ma coloro che possiedono non solo le fa­
coltà di sensazione e d’intellezione, ma che hanno anche ottenuto la
grazia spirituale e soprannaturale, non saranno limitati dagli esseri nel­
la loro conoscenza, ma conosceranno anche spiritualmente, al di so­
pra dei sensi e dell’intelligenza, che Dio è Spirito, perché essi diven­
gono totalmente Dio e conoscono Dio in Dio»156.
L’anima vede, dunque, Dio con un occhio diverso da quello che gli
permette di conoscerlo e di contemplarlo negli esseri creati157. A que­
sto grado superiore della conoscenza/contemplazione, in realtà, os­
serva san Simeone il Nuovo Teologo, «noi riceviamo l’intelligenza del
Cristo e attraverso di essa vediamo Dio»158. E san Gregorio Palamas
152Omelie (Coll. II), IX, 7.
153 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 604BC.
154 Cfr. G r e g o r io Palam as, Triadi, II, 3,16. M assim o i l C o n fesso re, Questioni a Talas­
sio, 63, PG 90, 673C.
155La preghiera, 63. Cfr. Capitoli gnostici, II, 20.
156Triadi, II, 3, 68. Cfr. 17.
157Ibid., 17.
158Catechesi, XXTV, 82s. La medesima affermazione si trova in san NlCETA STETATOS, Cen­
turie, IH, 46.
741
sottolinea che quelli che hanno raggiunto queste altezze «acquistano
lo Spirito incomprensibile e, attraverso di lui, essi vedono, intendo­
no e comprendono»159.
«Solo la sapienza divina accorda la grazia della teologia mistica»,
sottolinea lo scoliaste delle Questioni a Talassio160. Non può essere al­
trimenti, perché tutte le facoltà dell’uomo, compresa la più alta fra es­
se, lo spirito (noùs), essendo create e appartenendo all’ambito della
natura, non possiedono la capacità di comprendere ciò che supera la
natura, come spiega san Massimo: «A questo punto, come tutti gli es­
seri finiti, noi cessiamo di possedere le nostre facoltà e diveniamo qual­
cosa che le nostre facoltà naturali non potrebbero mai produrre, per­
ché la natura umana non possiede affatto la capacità di comprendere
dò che è al di sopra della natura. In realtà, nessuna creatura può ot­
tenere da sé la deificazione, perché è incapace di comprendere Dio.
Solo la grazia divina può operare la deificazione, secondo i meriti di
ciascuno, irradiare la natura con la luce soprannaturale ed elevarla,
con l’eccellenza della sua luce, al di là dd propri limiti»161. È solo per
un dono di Dio che l’uomo, essere creato, può essere reso capace di
conoscere l’increato, spiega nello stesso senso san Simeone il Nuovo
Teologo: «Se paragoniamo gli esseri prodotti al produttore, coloro che
hanno cominciato ad esistere a colui che è da sempre, il creato all’in­
creato, all’essere senza inizio coloro che hanno ricevuto l’esistenza nd
tempo, come questi potrebbero percepire in qualche modo la natura,
la grandezza e il modo della sua nascita? Mai, se dò non avviene pre­
cisamente nd modo in cui l’Autore degli esseri creati [vuole rivdar-
si]: come egli stesso accorda a ciascuno il soffio della vita, lo spirito
(noùs) e la ragione, così egli accorda anche per amore degli uomini,
per quanto sia opportuno, il dono di conoscerlo. Altrimenti, come po­
trai dire che l’essere creato da Dio conosce il suo creatore? Al di là
di ciò, non c’è mezzo per giungervi, e nessuno assolutamente ne è
capace»162.
Quando l’uomo conosce Dio, è dunque lo Spirito che conosce in
lui, e non le sue facoltà di conoscenza, non il proprio spirito. Occor­
re altresì ammettere, tuttavia, che le sue facoltà partecipano in certo
modo a questa conoscenza, perché, altrimenti, non si potrebbe dire
159 Triadi, I, 3, 18.
160 Questioni a Talassio, 63, Scolio 17, PG 90,689A (= Scolio 4, CCSG 22, p. 181).
161 Questioni a Talassio, 22.
162 Trattati teologici, 1,179-189.
742
che l’uomo conosce, ed egli sarebbe in un certo senso escluso dalla co­
noscenza che avverrebbe per mezzo di Dio indipendentemente da lui.
San Massimo, fa notare che, da una parte, «non è per se stesso» che
lo Spirito conosce, «perché egli è Dio e al di là di ogni conoscenza»,
ma proprio per noi163, e, dall’altra parte, che «la grazia divina non ope­
ra le illuminazioni della conoscenza se non vi è nessuno a ricevere, at­
traverso una potenza naturale, l’illuminazione»164. E, pur precisando
che i santi «non hanno acquistato la vera conoscenza delle cose [di­
vine] per mezzo delle proprie capacità e senza l’aiuto della grazia del­
lo Spirito», egli scrive: «Si può dire che la grazia abbia prodotto au­
tomaticamente la conoscenza dei misteri nei santi, cioè senza che le fa­
coltà naturali di questi ultimi siano disposte a ricevere tale cono­
scenza»165. Occorre, dunque, precisare che l’uomo riceve questa co­
noscenza nei propri organi, in primo luogo e principalmente nel suo
spirito (nous)166, ma anche in tutta la sua anima167e nel suo corpo168.
Tuttavia, non è per l’energia propria di questi organi che egli conosce,
ma per mezzo della sola energia divina169. San Massimo spiega con mol­
ta precisione questo concetto: «L’intelligenza del Cristo che ricevono
i santi [...] non è data quando manca la potenza spirituale in noi, né
per completare la nostra propria intelligenza, né per passare con l’es­
senza e l’ipostasi nella nostra intelligenza, ma per illuminare la poten­
za della nostra intelligenza con la sua propria qualità, e per condurla
ad essa affinché la nostra acquisti la stessa energia»170.
Questa conoscenza/contemplazione che trascende ogni modo di
conoscenza umana, che supera le capacità di «tutte le nostre facoltà
sensitive e intellettive»171, «che si compie al di sopra dell’intelligenza
(nous) e della conoscenza (gnòsis)»172, è dunque impropriamente chia­
mata conoscenza, sensazione (aisthésis) o intellezione (noesis)m. San
163 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 608B.
164Ibid., Scolio 1, PG 90, 617B (= Scolio 1, CCSG, 22, p. 67).
165 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 605B.
166Cfr. G regorio P alamas, Triadi, 1,3,33; 35. G regorio N azianzeno , Discorsi, XLV, 3.
Simeone IL N uovo T eologo , Inni, xxxm, 63-64; XXXIX, 61-62; Catechesi, XV, 71-72.
167 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teologia e sull economia, II, 88. G regorio
Palamas , Triadi, 1,3,37. S imeone il N uovo T eologo , Catechesi, 71s; XVI, 85; Inni, XXV, 61.
168Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,33; 37. M assimo il C onfessore , Centurie sulla teo­
logia e sull*economia, II, 88. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, XV, 7 ls; Rendimento di
grazie, 1,170-171; Inni, XXV, 61.
169Cfr. MASSIMO IL C onfessore , Centurie sulla teologia e sull'economia, II, 83; 88.
170Centurie sulla teologia e suWeconomia, II, 83.
171 G regorio P alamas , Triadi, II, 3 ,3 9 .
172Ibid., 68.
173Cfr. ibid, I, 3,18; 33; 52; II, 3, 17; 39; 47; HI, 2, 14.
743
Gregorio Palamas scrive in particolare: «Noi rifiutiamo di chiamare
questa contemplazione conoscenza (gnósis) [...]. Questa contempla­
zione non è una conoscenza: [...] non bisogna considerarla come tale
e parlarne come di una conoscenza [...], a meno che non vogliamo im­
piegare [questo termine] in maniera impropria ed equivoca; [...] non
solo non bisogna considerarla come una conoscenza, ma bisogna cre­
derla prima d’ogni cosa superiore a ogni conoscenza e a ogni con­
templazione che dipenderebbe dalla conoscenza»174. Se i termini «co­
noscenza» o «intellezione» continuano ad esserle applicati, ciò non
può essere che «per metafora» e «per omonimia»175. E preferibile il
termine «visione» (órasis), ma nell’usarlo occorre sapere che anche
questo termine è improprio nella misura in cui non si tratta né di
una visione sensibile né di una visione intellettuale176, poiché l’uomo
non vede né attraverso i suoi sensi né per la sua intelligenza (noùs)177,
ma per una visione spirituale (pneumatike)m. Difatti egli vede per mez­
zo dello Spirito179, perciò la natura e il modo di tale visione sono in­
comprensibili e indicibili180.
Gò che l’uomo vede, quando si dice (impropriamente) che egli ve­
de Dio, è una Luce, nella quale Dio manifesta e comunica le sue ener­
gie. L’uomo non può conoscere Dio se non in queste energie181, perché
l’essenza divina gli è assolutamente inaccessibile182. Così Dio rimane in­
visibile in sé183, e colui che ha raggiunto il grado più alto della cono­
174 Ibid., n, 3,17.
m lbid., 39.
176Cfr. G r e g o r io P alam as, Triadi, 1,3,21; II, 3,31.
177Ibid.
178Cfr. ibid, 1,3,21; 30.
179Cfr. ibid., II, 3,31.
Cfr. ibid., I, 3,21.
181Cfr. ibid., in, 2,14. BASILIO DI CESAREA, Lettere, CCXXXIV, PG 32,869AB. MASSIMO IL
CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,100; II, 27; IV, 7. Sulla distinzione ortodossa dell’essenza e
delle energie di Dio, vedi V. LOSSKY, Théologie mystique de l'Eglise d’Orient, Paris 1944, pp. 65-
86. Questa distinzione che è fatta esplicitamente dalla maggior parte dei Padri greci (in parti­
colare da Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore,
Giovanni Damasceno) è stata formulata in modo molto preciso da san Gregorio Palamas, sul
quale si potrà consultare J. MEYNDORFF, Introduction à l’étude de Grégoire Palamas, Paris 1959,
pp. 279s. Ricordiamo solo che le energie sono le processioni, le forze, le operazioni attraverso
cui Dio si manifesta e si comunica al di fuori della sua essenza, e ciò senza che egli se ne trovi
diviso o sminuito.
182Vedi tra gli altri: BASILIO d i CESAREA, Lettere, CCXXXIV, PG 32,869AB. GREGORIO N a-
ZIANZÉNO, Discorsi, xxvm, 4. GIOVANNI D am a scen o , Esposizione esatta della fede ortodossa,
1,10. M assim o i l C o n fe s s o r e , Centurie sulla carità, 1,96; 100; n, 27; IV, 7. G r e g o r io P a la -
mas, Triadi, IH, 2,14.
1,5 G regorio P alamas , Triadi, 1,3,9.
744
scenza vede «Dio [solo] attraverso una rivelazione che conviene a Dio
e proporzionata a se stesso»184, rivelazione che è precisamente quella
della Luce divina increata che manifesta la gloria di Dio. «Dio è luce
(lGv 1,5) e la sua visione è una luce» scrive san Simeone il Nuovo Teo­
logo185; «è la luce evidentemente che introduce in noi la conoscenza; in­
fatti, non vi è altro mezzo per conoscere Dio, se non quello della con­
templazione della luce che emana da lui»186. Lo stesso autore aggiunge:
«Noi testimoniamo che Dio è luce; che quelli che sono ritenuti degni
di vederlo lo hanno contemplato come luce; che quelli che lo hanno ri­
cevuto lo hanno ricevuto come luce, perché davanti a lui cammina la
luce della sua gloria ed è impossibile che egli appaia senza luce; che
quelli che non hanno visto la sua luce, non l’hanno visto, perché è lui
la luce; che quelli che non hanno ricevuto la luce non hanno ancora
ricevuto la grazia, perché quelli che hanno ricevuto la grazia hanno ri­
cevuto la luce di Dio e Dio stesso»187. Questa Luce è la grazia188che si
rivela e si comunica all’uomo, ma anche la grazia o la potenza per mez­
zo della quale egli conosce Dio. Ciò è quanto afferma il salmista: «Al­
la tua luce noi vedremo la luce» (Sai36[35],10). Ciò è quanto ricorda
anche l’Apostolo: «Dio che disse: “Brilli la luce nelle tenebre” è brilla­
to nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divi­
na che rifulge sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). San Gregorio Palamas scri­
ve a questo riguardo: «La luce spirituale non è solo l’oggetto della vi­
sione, ma essa è anche la facoltà che permette di vedere»189; «la luce
della conoscenza è comunicata dalla presenza della luce della grazia»190.
184Ibid., 4.
185 Trattati etici, V, 176. Cfr. Trattati teologici, Ut, 137-144. Dio, dice ancora Simeone, è «egli
stesso tutta luce», in lui «non esiste la minima traccia di notte, alcun velo di oscurità, assoluta-
mente nessuno» (Inni, XII, 54-56). La «Tenebra» che la Scrittura (Sai 17,12; cfr. Es 19-20) e che
alcuni Padri ricordano nell’ambito della conoscenza di Dio si riferisce all’uomo e non a Dio. Es­
sa può assumere diversi significati, ma corrisponde soprattutto al momento apofatico della co­
noscenza di Dio. Essa spesso significa l’oscurità legata all’inconoscenza. L’espressione «Dio ha
fatto delle Tenebre il suo eremo» in genere significa che egli abita là dove non ha accesso la
nostra conoscenza umana. (Cfr. V. LOSSKY, «“Ténèbre” et “Lumière” dans la connaissance de
Dieu», in À l’image et à la ressemblance de Dieu, Paris 1967, pp. 25-37; Théologie mystique de
l’Église d’Orient, Paris 1944, pp. 21-41). Colui al quale appare la Luce divina può, tuttavia, per­
cepirla «nella Tenebra» (le due realtà sono spesso ricordate simultaneamente, per esempio da
DIONIGI L’AREOPAGITA, Teologia mistica, 1,1). Per mezzo di questa Tenebra, Dio protegge
l’uomo dall’abbagliamento prodotto dalla Luce (cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Trattati
etici, I, 12, 129-133. GREGORIO PALAMAS, Omelie, 34). È lui che «stabilisce queste tenebre che
coprono non il suo essere, ma la nostra persona» (SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, loc. cit.).
186lbid., 255-257.
187 Catechesi, XXVIII, 109-116.
188 GREGORIO P alamas , Capitoli fisici, teologici, etici e pratici, 69; 93.
189 Triadi, IH, 2,14.
m lbid., 1,3,3.
745
Questa luce non è né sensibile191 né intellettuale192; è una luce in­
creata di natura spirituale193; correlativamente, essa non è «né una sen­
sazione né una intellezione, ma una potenza spirituale, distinta, nella
sua trascendenza, da tutte le facoltà cognitive create»194. Quando l’uo­
mo conosce per mezzo di questa luce, non conosce né secondo il mo­
do di una sensazione né secondo il modo di una intellezione; pertan­
to, lo abbiamo detto, tutte le sue facoltà partecipano di questa cono­
scenza: egli conosce innanzitutto e soprattutto con la sua intelligenza
{nous), ma anche con la sua anima e con il suo corpo195, i suoi stessi
occhi percepiscono questa Luce. Ciò può avvenire perché le sue fa­
coltà, a questo punto, sono trasformate dalla grazia, da questa Luce,
per la potenza dello Spirito Santo, in modo da essere capaci di per­
cepire questa Luce e vedere per suo mezzo secondo un modo che
supera la loro propria natura. «Vi darò un cuore nuovo e metterò den­
tro di voi uno spirito nuovo», dice il Signore (Ez 36,26). I santi, scri­
ve san Gregorio Palamas, sono «trasformati dalla potenza dello Spiri­
to; essi ricevono una potenza che prima non possedevano; divengono
Spirito e vedono nello Spirito»196. San Massimo osserva la stessa cosa
quando afferma: «Dio appare allora nell’anima e nel corpo, perché
le caratteristiche della loro natura sono vinte dalla sovrabbondanza
della gloria»197. San Simeone il Nuovo Teologo si rivolge così a Dio:
«Chi dopo averti visto, dopo essere stato sensibilmente illuminato dal­
la tua gloria, dalla tua luce divina, non è stato cambiato nella sua in­
telligenza, nella sua anima, nel suo cuore, e non ha ottenuto il favore
straordinario, o Salvatore, di vedere e intendere in maniera diversa?
Difatti, l’intelligenza è immersa nella tua luce, essa diviene luminosa,
è trasformata in luce, simile alla tua gloria, essa si chiama tua intelli­
genza; colui che è stato gratificato fino ad arrivare a questo stato, sì al­
lora egli merita di possedere la tua intelligenza, egli diviene insepara­
bilmente uno con Te»198. Le facoltà umane, sotto l’azione dello Spiri-

1,1 Cfr. GREGORIO Palam as, Tomo agioritìco, P G 1 5 0 ,1233D; Omelie, 34. SIMEONE IL NU
VO T e o lo g o , Inni, xxxm , 45-46; 53-57.
m Cfr. G reg o k io Palam as, loc. cit.
l9> Cfr. ibid. G re g o rio N azian zen o, Discorsi, XL, 6.
154 G regorio P alamas , Triadi, in, 2 ,1 4 .
195 Vedi riferimenti supra.
m'Contro Akindinos, IV, 16. Cfr. SIMEONE IL NUOVO T eo logo , Capitoli teologia, gnostici
e pratici, II, 3.
w Centurie sulla teologia e sull’economia, II, 88. Citato da GREGORIO Palamas nelle sue Tria­
di, 1 ,3 ,3 7 .
198 Inni, XX XIX , 56-66.
746
to, accedono così a un altro modo di esistenza; esse divengono facoltà
divino-umane. È così che san Macario insegna a questo riguardo: «Le
nostre anime devono cambiare e passare dal loro stato attuale a un al­
tro stato, in una natura divina199, e divenire nuove [...]. Il Signore è ve­
nuto per cambiare e ricreare le nostre anime, per renderle partecipi
della natura divina, come sta scritto (cfr. 2Pt 1,4), per dare alla no­
stra anima un’anima celeste, ossia lo spirito della divinità, [...] affin­
ché noi potessimo vivere la vita eterna»200.
Ecco perché questa Luce della grazia riempie l’uomo compieta-
mente, fa sì che l’uomo «sia tutto come una luce»201, che l’uomo tutto
intero conosca per mezzo di essa. «Allora, o miracolo, è Dio che
guard[a] non solo attraverso l’anima che è in noi, ma anche attraver­
so il nostro corpo. Ecco perché noi [vediamo] allora distintamente,
per mezzo dei nostri stessi organi fìsici, la luce divina e inaccessibile»,
afferma san Gregorio Palamas202. E anche per questa luce che l’uo­
mo viene completamente divinizzato. Infatti, è per questa luce che egli
è perfettamente unito a Dio, che viene comunicata a lui la grazia dei­
ficante. Per questo motivo san Gregorio Palamas preferisce parlare,
come fa san Dionigi l’Areopagita203, di unione piuttosto che di cono­
scenza204. L’uomo, in realtà, è assimilato a ciò che egli vede e a ciò at­
traverso cui egli vede205. «Colui che partecipa dell’energia divina di­
viene egli stesso in qualche modo luce», scrive san Gregorio Palamas206;
divenendo interamente luce, l’uomo è reso simile a ciò che egli vede,
egli vi si unisce senza mescolanze207. «Per la grazia, Dio abbraccia to­
talmente coloro che ne sono degni, e i santi abbracciano Dio nella sua
pienezza», osserva ancora lo stesso santo208, che, seguendo san Mas­
simo, aggiunge: «Dio e i santi hanno una sola e medesima energia»209.
Anche san Simeone il Nuovo Teologo ricorda questa unione deificante

199Vedremo ulteriormente in quale senso occorre capire quest’ultima espressione.


200 Omelie (Coll. II), XLIV, 6.
201 G regorio P alamas , Omelie, 53.
202 Triadi, 1 ,3 ,3 7 .
203 Cfr. Sui Nomi divini, VII, 1, PG 3, 865C; IV, 11, 708D.
204 Triadi, 1,3,20.
205 Cfr. G regorio P alamas, Triadi, II, 3,36.
206 Omelia sulla presentazione della Vergine al tempio.
207 Id., Contro Akindinos, IV, 16.
208 Tomo agioritico, PG 150,1229D.
209 M assimo IL C onfessore , Opuscoli teologici e polemici, 1, PG 91,12B; 33 A; Ambigua, 1,
PG 91,1076BC. GREGORIO PALAMAS, Lettera a Gabra. Cfr. Omelie, 35; Triadi, IÉ, 1, 33. Sulla
concezione massimiana, vedi il nostro studio: La divinisation de l’homme selon saint Maxime le
Confesseur, Paris 1996, pp. 553s.
747
dell’uomo nella sua totalità a Dio nella sua pienezza: «O meraviglia!
L’uomo è unito a Dio sia spiritualmente che corporalmente, poiché
l’anima non si separa dallo spirito (nous), né il corpo dall’anima, ma
nell’unità di essenza, anche l’uomo diviene triplice ipostasi, per gra­
zia, e un solo dio per posizione (thésis), con la sua anima, il suo cor­
po, e lo Spirito divino del quale egli partecipa. E allora che si realiz­
za ciò che ha detto il profeta Davide: “Io dissi: siete dèi, tutti figli del­
l’Altissimo” CW82[81],6)»210.
Occorre sottolineare, tuttavia, che questa unione non è confusione.
L’uomo è, in realtà, unito a Dio nelle sue energie e non nella sua es­
senza. Ciò che è comune tra l’uomo e Dio, è la grazia, non la natura
divina211. «I santi, precisa san Gregorio Palamas, vedono e ricevono
per partecipazione il Regno, la gloria, lo splendore, la luce ineffabile
e la grazia divina, ma non l’essenza di Dio»212. In questa unione l’uo­
mo diviene Dio per grazia; egli è, secondo l’espressione dell’apostolo
san Pietro, reso «partecipe della natura divina» (2Pt 1,4) secondo
l’energia, e non secondo l’essenza213; egli non s’identifica con Dio. Par­
lando dell’anima unita a Dio, san Macario insiste sulla differenza as­
soluta che vige tra le due nature: «Egli è Dio, essa non è Dio; egli è Si­
gnore, essa è serva; egli è il creatore, essa la creatura; egli è l’artigiano,
essa l’opera. Non vi è nulla di comune tra la sua natura e quella del­
l’anima»214. L’uomo, pertanto, è pienamente unito a Dio e realmente
deificato, perché se Dio interamente non si manifesta ed è imparteci­
pabile nella sua Essenza, nello stesso tempo egli si manifesta interamen­
te ed è interamente partecipato nelle sue energie215: «Dio è presente
interamente in ciascuna delle energie divine»216, «ciascuna potenza e
ciascuna energia è Dio stesso»217. «Dio, pur rimanendo interamente in
sé, abita interamente in noi per la sua potenza superessenziale e ci co­
munica non la sua natura, ma la sua gloria e il suo splendore», scrive
san Gregorio Palamas218. San Massimo traduce bene il fatto che, nel­
la deificazione, pur restando pienamente uomo, questi nella sua tota­
210 Catechesi, XV, 72-79.
211 Cfr. G regorio P alamas, Omelie, 35.
212 Ibid.
213 Cfr. ibid.
214 Omelie (Coll. H), XLIX, 4.
215 G regorio P alamas , Della partecipazione di Dio.
216ID., Triadi, HI, 2 ,7 .
217 Id., Lettera a Gabra.
218 Triadi, I, 3, 23.
748
lità diviene pienamente dio: «Pur rimanendo interamente uomo per
sua natura, nella sua anima e nel suo corpo, egli diviene interamente
dio nella sua anima e nel suo corpo, per la grazia e lo splendore divi­
no della gloria beatificante che gii si addice interamente»219.
Occorre notare, inoltre, il carattere personale dell’unione con Dio:
essa è la realtà di una persona umana che si unisce non a una deità im­
personale o soprapersonale, ma a un Dio personale e vivente220. San
Simeone il Nuovo Teologo lo sottolinea, pur affermando il carattere
trascendente del modo in cui Dio appare all’uomo: «Allora, non è più
come prima senza forma e senza figura che viene il Senza-forma e il
Senza-figura, né è nel silenzio che egli realizza in noi la presenza e l’av­
venimento della sua luce. Come allora? Sotto una certa forma, forma
di Dio tuttavia - benché non sia in un disegno o in un’impronta, ma
prendendo forma in una luce incomprensibile, inaccessibile e senza
forma, che Dio, essendo semplice, si mostra, perché noi non possia­
mo dire nulla o esprimere di più, ma in ogni caso egli si mostra allo
scoperto -, egli si fa riconoscere in modo del tutto cosciente e si fa ve­
dere in piena luce, lui, l’invisibile, invisibilmente parla e ascolta e, a
faccia a faccia, come un amico con un amico, egli, Dio per natura, s’in­
trattiene con gli dèi nati per grazia da lui»221. Dire che l’uomo è unito
allora al Dio personale vuol dire che egli è unito al Padre, al Figlio e
allo Spirito Santo. Ogni energia divina, in quanto procede dall’es­
senza che è comune alle tre Persone divine, manifesta la Trinità. Se­
condo la teologia ortodossa, l’essenza divina non è né precedente né
superiore alle ipostasi e non può essere considerata indipendentemente
da esse. La luce increata è «lo splendore ineffabile della natura una in
tre ipostasi», osserva san Gregorio Palamas222; essa è, precisa san Mas­
simo, «la luce della Santissima Trinità»223. Questa luce è comune alle
tre Persone e appartiene a ciascuna di esse. «Luce è il Padre, luce è il
Figlio, luce lo Spirito Santo [...]. Le tre sono una sola Luce, unica, non
separata ma unificata in tre Persone, senza confusione», osserva san
Simeone il Nuovo Teologo224. Le energie divine e la Luce che le ma-
™ Ambigua, 7, PG 9 1,1088C.
220Questo carattere personale della Luce appare chiaramente nei racconti che san Simeone
il Nuovo Teologo fa delle sue visioni. Vedi lo studio di BASILE KRIVOCHÉINE, Dans la Lumière
du Christ, Saint Syméon le Nouveau Théologien, Chevetogne 1980, pp. 229-255, in cui sono rac­
colte a questo riguardo le principali testimonianze di san Simeone.
221 Rendimento di grazie, 1,197-208.
222 Omelie, 35.
223 Centurie sulla carità, I, 97.
224 Inni, XXXIII, 1-10.
749
nifesta procedono dal Padre e sono comunicate all’uomo per il Cristo
nello Spirito Santo. È per quest’ultima ragione che la grazia divina,
la Luce, spesso viene identificata allo Spirito Santo. Nella Luce divi­
na, lo Spirito Santo manifesta all’uomo deificato la persona del Verbo
incarnato, del Dio-uomo, il quale, in questa luce che è anche la sua lu­
ce e la luce del Padre, manifesta il Padre, secondo la parola di san Gio­
vanni: «Dio nessuno l’ha visto mai. L’unigenito Dio, che è nel seno del
Padre, egli l’ha rivelato» (Gv 1,18).
Osserviamo, altresì, che il modo stesso dell’unione, e il modo in cui
l’uomo vede Dio nella Luce e per essa, gli rimangono incomprensi­
bili e inesprimibili225.
Si tratta, tuttavia, di uno stato cosciente226: l’uomo, «unito alla lu­
ce e con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nasco­
sto a coloro che non hanno questa grazia», nota san Gregorio Pala-
mas227. Per mezzo dello Spirito che è in lui, accede a una coscienza su­
periore che gli consente nella luce di vedere se stesso228 e il mondo
intero229in Dio, nello stesso tempo in cui vede Dio e lui solo230. A que­
sto riguardo così scrive san Simeone il Nuovo Teologo: «Colui che ha
gli occhi fissati sull’Uno, attraverso l’Uno percepisce tutto, se stesso,
gli uomini e le cose, e nascosto in lui egli non vede più niente dell’u­
niverso»231; «colui che vede l’Uno è nella contemplazione di tutto; egli
si astiene dal contemplare il tutto e, al tempo stesso egli entra nella
contemplazione di tutto e si trova al di fuori delle cose contemplate;
essendo nell’Uno egli vede tutto, essendo al centro di tutto egli non
vede nulla»232. Ma se allora coloro che vedono «possiedono una com­
225 Cfr. G io v ann i C lim aco , La Scala, V II, 60. I sacco il S iro , Discorsi ascetici, 66. S im eone
IL NUOVO TEOLOGO, Trattati etici, I, 12, 67-68; VII, 60; Rendimento di grazie, 1, 235-236.
G regorio P alamas , Triadi, 1,3,4; 17.
226Vedi per esempio SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Rendimento di grazie, 1,205; 2,268-269;
Catechesi, XV, 71-72.
227 Omelia sulla presentazione della Vergine al tempio.
228 Propriamente parlando, qui non si tratta di conoscenza di sé, perché si è al di là di ogni
conoscenza. Da questo punto di vista, come osserva san Simeone, l’uomo ignora completamen­
te se stesso (Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 18).
229 Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, Catechesi, XVI, 131-133; Rendimento di grazie, 1,103.
GREGORIO M a g n o , Vita di san Benedetto, 35: «Egli vide una luce [...]. In questa visione [...] il
mondo intero, come se fosse riunito in un solo raggio di sole, fu presente davanti ai suoi occhi».
Occorre sottolineare ugualmente che per «conoscenza di sé» qui non si tratta di una cono­
scenza del mondo strettamente parlando; questo stadio è superato, e da questo punto di vista,
l’uomo non conosce nulla di nulla (cfr. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gno­
stici e pratici, II, 17; 18).
230 Cfr. SlMEONE IL Nuovo TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 17; 18; 25.
m Ibid.,l, 52.
232 Ibid., 51.
750
prensione, essi la possiedono in modo incomprensibile», osserva san
Gregorio Palamas233.
In ogni caso, se l’uomo ha coscienza della presenza in sé di Dio,
di essere unito a Dio e di fare un tutt’uno con lui, egli ha correlativa­
mente coscienza dei propri limiti234e della radicale trascendenza di Dio.
Ciò corrisponde al fatto, precedentemente ricordato, che Dio, pur co­
municandosi realmente e totalmente nelle sue energie, rimane inco­
municabile e assolutamente trascendente nella sua Essenza.
Occorre, altresì, precisare che la visione di Dio alla quale l’uomo
può accedere quaggiù non è né totale né permanente. «Nessuno, pre­
cisa san Gregorio Palamas, ha visto la totalità di questa bellezza [...];
[l’uomo] non vede questa totalità quale essa è, ma solo nella misura in
cui egli stesso si è reso ricettivo alla potenza dello Spirito divino»235.
Dunque, «questa esperienza divina è data a ciascuno secondo la sua
misura e può essere più o meno grande, secondo la dignità di coloro
che la sperimentano»236. D’altra parte, la visione che l’uomo può ave­
re di Dio nella sua condizione terrena non è che la primizia e il pegno
di quella che egli è chiamato a ricevere nella sua condizione celeste,
dopo la risurrezione. La visione piena e permanente di Dio nella sua
luce increata appartiene al secolo futuro237.

4. Il legame tra la conoscenza/visione di Dio e la praxis


La Luce che permette all’uomo di vedere Dio e di unirsi a lui è sem­
pre un dono gratuito di Dio, che Dio concede a chi egli vuole, quan­
do vuole e come vuole238, e non è effetto della volontà umana e del suo
sforzo per ottenerla.
Nello stesso tempo, però, Dio concede questa grazia solo a coloro
che ne sono degni e in proporzione alla loro dignità239. L’uomo non
vede Dio e non ne è deificato se non «nella misura in cui egli stesso
233 Triadi, 1 ,3 ,1 7 .
234 Cfr. S im eone il N uo v o T eo l o g o , Catechesi, XVI, 133; Inni, 1,3,17.
235 Triadi, 1,3,17.
236 Id., Omelie sulla Trasfigurazione, PG 150, 823. Cfr. Triadi, I, 3, 4. IRENEO DI LlONE,
Contro le eresie, V, 36,1.
237 Cfr. G regorio P alamas, Omelie, 34. S im eone il N uo v o T eo lo g o , Trattati etici, X, 687-
713.
238 Cfr. I reneo DI LlONE, Contro le eresie, IV, 20, 5. EVAGRIO PONTICO, Lettere, 29. GRE­
GORIO P alamas , Triadi, II, 3 ,1 7 .
239Vedi per esempio MASSIMO IL CONFESSORE, Questioni a Talassio, 63, P G 90, 679C. GRE­
GORIO PALAMAS, Triadi, in, 1, 28; Contro Akindinos, HE, 6.

751
si è reso ricettivo della potenza dello Spirito divino»240. Possiamo di­
re, altresì, che in e per questa Luce Dio si unisce a coloro che sono
uniti a lui. È così, per esempio, che san Massimo scrive: «Per ottene­
re il dono della conoscenza divina, occorrerà [...] essere in Dio»241. Op­
pure, come afferma san Gregorio Palamas: coloro che conoscono Dio
lo conoscono «perché uniti a lui, essi hanno già assunto l’aspetto di
Dio»242. San Gregorio di Nissa afferma ancora più nettamente: «Non
è possibile che sia mai unito alla luce colui che non brilla del riflesso
di questa luce»243.
Ora è per la purezza interiore che l’uomo è degno di ricevere lo Spi­
rito Santo; è per le virtù che egli acquista l’aspetto di Dio244e si unisce
a lui. E, come abbiamo visto, la purezza, che l’uomo raggiunge nel­
l’impassibilità, e il possesso delle virtù si ottengono osservando i co-
mandamenti. La visione di Dio e la deificazione appaiono, dunque,
beni indissociabili dalla pràxis, da tutta la vita ascetica, e dalle lotte,
dai sudori e dalle pene che essa inevitabilmente implica245. Sottoli­
neando chiaramente il carattere sinergico dell’unione con Dio e del­
lo sforzo umano per aprirsi alla grazia, san Macario così scrive: «La
presenza nell’uomo dell’energia della grazia di Dio e il dono dello Spi­
rito Santo, che un’anima fedele è ritenuta degna di ricevere, si acqui­
stano attraverso molte lotte, molta pazienza, sopportazione, tentazio­
ni e prove, l’uso della libera volontà dovendo essere messo alla prova
da molte tribolazioni. Quando l’anima non rattrista più in nulla lo Spi­
rito Santo, ma entra in armonia con la grazia attraverso la pratica di
tutti i comandamenti, allora ottiene di essere liberata dalle passioni, di
ricevere la pienezza dell’adozione filiale dallo Spirito, la sapienza che
si esprime in modo misterioso (cfr. lCor 2,14), la ricchezza spirituale
e l’intelligenza che non è di questo mondo, di cui i veri cristiani di­
vengono partecipi»246.
Che la purezza sia la principale condizione per ricevere da Dio
l’illuminazione della visione di Dio viene affermato dallo stesso Cri­
sto: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). I Padri lo
240G r e g o rio Palam as, Triadi, 1 ,3 ,1 7 .
241 Centurie sulla carità, II, 26.
242 Triadi, HI, 3 , 12. Cfr. GREGORIO NAZIANZENO, Discorsi, XLV, 3*
243Sulfine da perseguire secondo Dio.
244 Ibid.
245Cfr. S im eone il N u o v o T eo l o g o , Capitoli teologici, gnostici e pratici, n, 10; IH, 22. M a ­
cario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), XVII, 4.
246 Omelie (Coll. II), IX, 7.
752
ricordano quasi tutte le volte che evocano la conoscenza di Dio247.
«Questa illuminazione [...] è inaccessibile al cuore dei fedeli stessi, a
meno che essi non siano stati purificati», afferma san Gregorio Pala-
mas248. «La contemplazione spirituale agisce in noi nell’ambito della
purezza»249, insegna sant’Isacco il Siro, il quale aggiunge che, se la pu­
rezza non è in essa, l’anima è come un’atmosfera piena di nuvole che
nascondono la luce del sole e le impediscono di giungere fino ad es­
sa250. Dio, che è Luce, rende partecipi i fedeli del proprio splendore
«secondo la misura della loro purificazione», osserva san Simeone il
Nuovo Teologo251, che scrive ancora: «La conoscenza [dei] misteri ap­
partiene a coloro il cui spirito è illuminato ogni istante dallo Spirito
Santo a motivo della purezza della loro anima»252. E san Niceta Ste-
tatos osserva: «La conoscenza di Dio, di cui si può dire che è una fon­
te radiosa e infinita di luce, rende divinamente luminose le anime nel­
le quali essa si trova per mezzo della purezza»253. Infatti, come dice san
Gregorio Nazianzeno, «solo la purezza può avvicinare Colui che è pu­
ro»254; solo essa ci rende degni di ricevere lo Spirito Santo.
La purezza, di cui si tratta qui, non è solo quella dell’intelligenza,
frutto dell’eliminazione di ogni rappresentazione, immaginazione o
pensiero, dell’allontanamento di ogni intellezione. La contemplazio­
ne richiede, certo, uno «spirito nudo», relativamente per ciò che ri­
guarda la contemplazione naturale255, che ammette rappresentazioni
semplici, totalmente per ciò che riguarda la contemplazione di Dio.
Questo spogliamento e questa nudità, per quanto necessari256, non ba­
stano tuttavia per ottenere la visione di Dio257 e, del resto, sono ac­
cessibili ai principianti per mezzo di una semplice tecnica mentale258.
247 Cfr. G io v ann i C lim aco , La Scala, VII, 60; XXX, 21. G regorio N azia nzen o , Discorsi,
XLV, 3. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici, 67; Lettere, 4, passim. MACARIO D’EGIITO, Omelie (Coll.
E ), X V H , 4; L E I, 4. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, HE, 23.
N iceta S tetatos , Centurie, n, 67; H I, 19-20. GREGORIO PALAMAS, Teofane, P G 150, 956B; A
Xene, P G 150,1064D; 1085A; Capitoli sulla preghiera, P G 150,1117C; U 20C -1121A ; Triadi, I,
1,7; 3,9; 52. ATANASIO D’ALESSANDRIA, SullTncamazione del Verbo, 57. EVAGRIO PONTICO, Ca­
pitoli gnostici, IV, 90; Lettere, 62. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,32.
m Triadi, 1,3,52.
249 Lettere, 4.
250Discorsi ascetici, 69.
251 Catechesi, XV, 68-70. Cfr. Trattati etici, X, 32-33.
252 Trattati etici, IX, 68-70. Cfr. ibid., 59-68.
253 Centurie, III, 19.
254 Discorsi ascetici, E, 39.
255 Cfr. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, EI, 21.
256Cfr. ibid., 19; Lettere, 41; 58. SlMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e
pratici, II, 17.
257 Cfr. G regorio P alamas , Triadi, 1,3,19; IE, 3,12.
258Cfr. ibid, Et, 3,12.
753
L’uomo deve aver acquisito preliminarmente questa forma di pu­
rificazione, quella delle sue passioni, che «libera effettivamente lo spi­
rito in rapporto a tutto»259. Una tale purezza, per di più, coinvolge l’uo­
mo nella totalità del suo essere. Si tratta, dunque, di purificare «tutte
le disposizioni e tutte le potenze dell’anima e del corpo»260. È solo a
questa condizione che lo spirito sarà veramente puro e degno di esse­
re abitazione della grazia; a questa stessa condizione, lo saranno anche
l’anima e il corpo che, lo abbiamo visto, sono ugualmente chiamati a
partecipare alla visione di Dio, e a essere deificati. Per questo, i Padri,
quando ricordano la visione di Dio, parlano correlativamente del­
l’impassibilità come della sua condizione sine qua non261.
La purezza che l’uomo raggiunge nell’impassibilità è il frutto della
pratica dei comandamenti. E per questo che esiste un legame diretto
tra la conoscenza di Dio e la pratica dei comandamenti, apparendo
questa ugualmente come la condizione di quella. Il Cristo, che è la ve­
ra Luce (cfr. Gv 1,9), che presenta se stesso come la Verità (cfr. Gv
14,6), che promette agli uomini la venuta dello Spirito di verità (cfr.
Gv 14,17; 15,26; 16,13) e che dice a suo Padre: «Questa è la vita eter­
na: che conoscano te, il solo vero Dio» (Gv 17,3), egli stesso ci inse­
gna: «Se rimanete nella mia parola, siete veramente miei discepoli e
conoscerete la verità» (Gv 8,31-32). E ancora: «Se qualcuno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Anche l’apostolo san Gio­
vanni indica tale legame: «Da questo noi sappiamo di conoscerlo, se
osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: lo conosco, ma non osser­
va i suoi comandamenti, è un mentitore e la verità non è in lui» (lGv
2,3-4). E il salmista, rivolgendosi a Dio, esclama: «Insegnami buon sen­
so e conoscenza: sì, sto saldo nei tuoi precetti» (Sal 119[118],66); «dai
tuoi comandi ricevo intelligenza» (ibid., 104). I Padri, da parte loro,
insistono particolarmente su questa relazione. San Macario il Gran­
de osserva che, se noi non conosciamo Dio, in altri termini se non spe­
rimentiamo l’energia della grazia, è solo per le nostre mancanze, per­
ché «Egli dice di manifestarsi a coloro che [...] osservano i suoi co-
mandamenti» (cfr. Gv 14,21)262. Sant’Isacco il Siro così scrive a tale
m Ibid.,l,},2 1.
260Ibid., m, 3 , 12.
261 Cfr. E vagrio P o n t ic o , Capitoli gnostici, V, 75; V I, 83. ISACCO IL SlRO, Lettere, 4. GIO­
VANNI C lim aco , La Scala, X X V II, 27. M assim o il C onfessore , Centurie sulla carità, 1,85-86;
ni, 70. N iceta S tetatos, Centurie, 1,89; II, 91. GREGORIO PALAMAS, Triadi, E, 3,11.
262 Omelie (Coll. II), LEI, 4. Cfr. LIV, 5; 8.
754
proposito: «Con l’osservanza dei comandamenti è dato allo spirito la
grazia della contemplazione mistica e della rivelazione della conoscenza
dello Spirito»263; «se tu desideri contemplare i misteri, metti in prati­
ca in te i comandamenti»264. E questo il motivo conduttore dell’inse­
gnamento di san Simeone il Nuovo Teologo: il Signore, egli osserva,
benedice «coloro che, per la pratica precedente dei comandamenti,
hanno meritato di vedere e hanno contemplato in sé la luce rischia­
rante e scintillante dello Spirito»265; «per mezzo dei comandamenti ci
viene aperta la porta della conoscenza»266; colui che «è stato elevato al
vertice della contemplazione per mezzo della pratica dei comanda-
menti, costui vede Dio in persona»267; «non si può arrivare a contem­
plarlo altrimenti che per l’esatta osservanza dei suoi comandamenti,
occorre cioè che la loro pratica non sia intaccata da alcuna alterazio­
ne operata dalla negligenza o dal disprezzo, ma portata a termine con
cura fervente. Di conseguenza, “tutti coloro che si atterranno a que­
sta regola non saranno lontani dal regno dei cieli” (cfr. Me 12,34); in
proporzione del loro fervore e della loro pratica [...], presto o tardi,
più o meno, avranno il salario della visione di Dio e diventeranno par­
tecipi della sua natura divina; saranno manifestamente dèi per ado­
zione e figli di Dio in Gesù Cristo»268; «là dove i comandamenti sono
osservati esattamente, ivi sarà la manifestazione del Salvatore»269. An­
che san Gregorio Palamas non cessa di ripeterlo: «La vera conoscen­
za, l’unione e l’assimilazione a Dio non arrivano che per l’osservanza
dei comandamenti»270; «secondo le promesse di Dio, sarà solo il com­
pimento dei comandamenti che procura la venuta, l’inabitazione e l’ap­
parizione di Dio»271; «abbiamo fede in Colui che ha condiviso la no­
stra natura e l’ha gratificata della gloria della sua propria natura, e chie­
diamoci come la si acquisisce e come la si vede. Come? Con l’osservanza
dei divini comandamenti»272; «noi pensiamo che i comandamenti di
Dio diano la conoscenza, non solo, ma anche la deificazione»273.
Tra i comandamenti ve n’è uno che occupa, relativamente alla vi-
263 Lettere, 4.
264 Ibid.
265 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 1,4.
266 Catechesi, XXIV, 58-60.
267 Capitoli teologici, gnostici e pratici, II, 8.
268 Trattati teologici, II, 304s.
269 Trattati etici, V, 129s.
270 Triadi, II, 3, 75.
m Ibid., 3 ,11.
272 Ibid., 3,16.
273 Ibid., 3,17.
755
sione di Dio, un posto centrale, e che il Cristo ricorda molte volte:
quello della penitenza. Sant’Isacco il Siro afferma che è «attraverso
la penitenza [che] riceviamo come una grazia la conoscenza spiritua­
le»274. Questo legame tra la visione di Dio e la penitenza è stabilito in
modo costante da san Simeone il Nuovo Teologo275, che scrive in par­
ticolare: «Il frutto e il lavoro proprio della penitenza, ecco dò che scac­
cia l’ignoranza e procura nello stesso tempo la conoscenza. Per co­
noscenza io intendo innanzitutto quella di noi stessi e di ciò che ci
riguarda, poi quella di ciò che ci supera e dei misteri divini, che sono
invisibili e inconoscibili per coloro che non hanno fatto penitenza»276.
La pratica dei comandamenti, come abbiamo visto, non ha solo la
funzione di purificare l’uomo e di condurlo sino all’impassibilità; es­
sa ha correlativamente il compito di permettergli di recuperare le virtù
e di farle crescere in lui. Ora il possesso delle virtù gioca ugualmente
un ruolo fondamentale nell’accesso alla conoscenza di Dio. É per mez­
zo delle virtù, infatti, che l’uomo acquista la somiglianza con Dio e si
unisce ontologicamente a lui. Come abbiamo detto precedentemente,
è nella misura in cui l’uomo si unisce a Dio che Dio si unisce a lui, Da
qui il legame diretto che stabiliscono, inoltre, i Padri tra la conoscen­
za/visione di Dio e le virtù, frutti della pratica dei comandamenti277.
La conoscenza è il «frutto delle virtù», nota Evagrio278. «La conoscenza
spirituale segue per natura la pratica delle virtù», scrive anche sant’I-
sacco il Siro279. «Veramente beati e seguaci ferventi della vita e del go­
dimento soprannaturale sono coloro che, votandosi all’ardore della fe­
de e alla condotta virtuosa, hanno ricevuto attraverso l’esperienza e la
percezione la conoscenza celeste dei misteri dello Spirito», afferma san
Macario280. «Dai comandamenti nascono le virtù e, da queste, la rive­
lazione dei misteri», scrive san Simeone il Nuovo Teologo281, il cui ca­
pitolo 12 del I Trattato etico è intitolato: «Non spetta ai non iniziati
scrutare i misteri nascosti del Regno dei cieli senza la pratica prelimi­
nare dei comandamenti e il progresso nella virtù fino alla perfezione».
274 Discorsi ascetici, 18.
275Vedi tra gli altri: Inni, XV, 257-261; Capitoli teologici, gnostici e pratici, DI, 22; Trattati teo­
logici, I, 250s; 27 ls; Trattati etici, IX, 462s.
276 Trattati teologici, 1,304-308.
277 Cfr. Eh 12,14. GREGORIO N azia nzen o , Discorsi, XVI, 2.
278 Trattato pratico sulla vita monastica, 90. Cfr. Capitoli gnostici, V, 66.
279Discorsi ascetici, 44.
280 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 101.
281 Catechesi, XXIV, 54-55.
756
Ed egli offre questa immagine: la conoscenza di Dio è il tetto dell’e­
difìcio spirituale, il quale non può poggiare che sulle mura delle virtù282.
San Gregorio Palamas da parte sua spiega: «E nello stare vicino a Dio
con la virtù e unito a lui con lo spirito che si otterrà la manifestazio­
ne di questo splendore che si offre agli sguardi di tutti coloro che ten­
dono continuamente verso Dio [...]»283.
Ricordiamo che tra le virtù ve ne sono due che giocano un ruolo
particolarmente importante nell’accesso alla conoscenza/visione di
Dio: l’umiltà e la carità, che san Simeone qualifica come «deificanti»284.
«La vera umiltà genera la conoscenza», scrive sant’Isacco il Siro285.
«La conoscenza di Dio significa che è conosciuto da Dio colui che si
edifica in essa attraverso l’umiltà», spiega san Niceta Stetato286. Infat­
ti, è solo se si è svuotato di sé che l’uomo può essere riempito dello
Spirito Santo che gli permette di conoscere Dio; è solo se egli si è an­
nullato davanti a Dio che può ricevere la sua energia che lo unisce a
lui. «Colui che non possiede queste disposizioni non può unirsi allo
Spirito Santo e, se non è unito a lui dopo la purificazione, non può
inoltre raggiungere la conoscenza e la contemplazione di Dio», inse­
gna san Simeone il Nuovo Teologo287. Questi, d’altronde, mostra che
l’uomo progredisce nella conoscenza in proporzione al suo progresso
nell’umiltà, tanto che la più alta conoscenza e la più alta umiltà fini­
scono per coincidere, ragion per cui l’uomo, «quando è giunto alla mi­
sura della pienezza della conoscenza del Cristo ed ha assimilato il Cri­
sto stesso e per davvero l’intelligenza del Cristo, [...] ha la convinzio­
ne di non sapere e di non possedere assolutamente nulla e si ritiene
un servo vile e inutile» e ritiene anche «che non vi è nel mondo un uo­
mo più peccatore di lui»288.
Il ruolo della carità è ancora più importante. Sintesi e vertice di tut­
te le virtù, è veramente dalla sua perfezione che deriva la conoscen­
za, perché è attraverso di essa che si compie l’unione con Dio nella
quale l’uomo riceve da Lui questa conoscenza. Tale legame tra la ca­
rità, frutto della pratica dei comandamenti, e la conoscenza, è indi­
cata chiaramente dallo stesso Cristo: «Chi ha i miei comandamenti e

282 Trattati etici, IX, 453s.


283 Omelie, 34.
284 Catechesi, XX, 117; Inni, V, 24.
285Discorsi ascetici, 16.
286 Centurie, HI, 80.
287 Capitoli teologici, gnostici e pratici, HI, 23. Cfr. ibid., 22 e 84.
288Cfr. Trattati etici, IX, 462-497.
757
li osserva, è lui che mi ama. Colui che mi ama sarà amato dal Padre
mio ed io lo amerò e manifesterò a lui me stesso» (Gv 14,21). Anche
l’apostolo san Giovanni afferma: «Chi ama è generato da Dio e co­
nosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio» (lGv 4,7-8). Lo stes­
so san Paolo osserva che «la sapienza divina, avvolta nel mistero, che
fu a lungo nascosta e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la
nostra gloria» appartiene a «ciò che Dio ha preparato per quelli che
lo amano» (1Cor 2,7.9). I Padri insistono su questa relazione289. San
Massimo scrive a questo proposito: «Essa è la porta e colui che entra
attraverso di essa penetra nel santo dei santi e diviene tale da poter
contemplare l’inaccessibile bellezza della santa e regale Trinità»290. «La
carità [...] genera l’illuminazione della conoscenza», scrive san Talas-
sio291. E san Niceta Stetato: «Colui che ama Dio, che considera che
nulla è preferibile al suo amore e all’amore del prossimo, questo co­
nosce anche le profondità di Dio e i misteri del suo Regno, come de­
ve conoscere colui che è guidato dallo Spirito Santo»292. San Simeo­
ne il Nuovo Teologo insegna la stessa cosa: «A coloro che dànno pro­
va d’amore verso di lui con l’osservanza dei comandamenti, [...] [il
Cristo] si manifesta, come ha detto egli stesso; per mezzo della sua ma­
nifestazione egli dona loro lo Spirito Santo in persona e poi, per mez­
zo dello Spirito Santo, egli stesso e il Padre rimangono inseparabil­
mente con essi»293. San Gregorio Palamas spiega così questo concet­
to: «E quando avrai nella tua anima lo stato divino che possederai
realmente Dio all'interno di te stesso; e il vero stato divino è l’amore
verso Dio, e questo non si verifica se non con la pratica dei divini co-
mandamenti, poiché esso ne è il principio, il contenuto centrale, e
tra essi occupa il primo posto; perché l’amore è Dio (cfr. lGv 4,8.16)
e non è che nell’amore che egli ha promesso di venire, di dimorare e
di apparire»294.
Ma se la carità genera la conoscenza e se, da tale punto di vista, que­
sta è il fine di quella, non bisogna credere, con ciò, che la conoscen­
za annulli la carità. Come dice l’Apostolo: «La carità non avrà mai fì-
289 Cfr. E vagrio P o n tic o , Lettere, 27; 62; Trattato pratico, Prologo, 8. G iovan ni CLIMACO,
La Scala, XXX, 17; 37. ISACCO IL SlRO, Lettere, 2; 4, passim; Discorsi ascetici, 73. MASSIMO IL
C on fessore, Centurie sulla carità, 1 ,31; IV, 59-62. GIOVANNI DAMASCENO, Omelia sulla Trasfi­
gurazione, 10, PG 9 6 ,560D.
290Lettere, 2.
291 Centurie, IV, 60.
292 Centurie, IH, 80.
293 Trattati etici, V, 419s. Cfr. ibid., IV, 5 7 3 -5 8 3 .
294 Triadi, II, 3 ,7 7 .
758
ne» (lCor 13,8). Occorre sottolineare che, al contrario, la conoscenza
genera la carità, o più esattamente l’accresce, e che, da quest’altro pun­
to di vista, la carità appare come il fine della conoscenza. Secondo il
primo punto di vista, la conoscenza sembra superiore alla carità; in ba­
se al secondo, è la carità che sembra superiore alla conoscenza. E per
questo che l’Apostolo afferma: «Se anche [...] conosco tutti i misteri
e tutta la scienza, [...] ma non ho la carità, non sono niente» (lCor
13,2). Sant’Isacco ritiene la conoscenza di Dio come la condizione del­
l’amore di Dio quando scrive: «Se tu non conosci Dio, non è possi­
bile che viva in te il suo amore. E non puoi amare Dio se tu non lo ve­
di»295. San Simeone sottolinea ugualmente che «non si può acquistare
e conservare il perfetto amore di Dio se non in proporzione alla co­
noscenza spirituale»296. Altrove afferma: «Dopo la manifestazione [del
Signore] la carità perfetta si presenta in noi»; fintanto che egli non si
è manifestato, «noi non possiamo amarlo correttamente»297. San Ma­
cario osserva, infatti, che «l’anima illuminata dallo Spirito [...] e che
vede così per mezzo dello spirito la bellezza desiderata, unica e ine­
sprimibile, è ferita dall’amore divino [...]. Essa acquista allora un amo­
re illimitato e inesauribile per il Signore che essa desidera»298. A que­
sto riguardo sant’Isacco così afferma: «L’amore è il figlio della cono­
scenza»299. A sua volta, san Massimo così scrive: «La conoscenza genera
l’amore di Dio»300. Quanto a Clemente d’Alessandria sottolinea: «E
scritto: a colui che ha, sarà dato di più; [...] alla conoscenza, la carità»;
e osserva: la conoscenza «termina nella carità»301.
In realtà, questi due punti di vista, che gli stessi Padri presenta­
no tra l’altro alternativamente, sono complementari. Vi è una dia­
lettica dell’amore e della conoscenza di Dio, ove il progresso di cia­
scuno è per l’altro fonte di un nuovo progresso. Questa dialettica non
cessa mai nemmeno ai più alti livelli della vita spirituale: perché
Dio è infinito e nella sua essenza è inaccessibile e inconoscibile, sic­
ché l’amore e la conoscenza dell’uomo, per quanto grandi possano
295 Discorsi ascetici, 16.
296 Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, 33.
297 Trattati etici, V, 130-135.
298 Omelie (Coll. II), X X V III, 5.
299Discorsi ascetici, 38.
300 Centurie sulla carità, II, 25.
301Stromata, VII, 10, P G 9 ,4 8 0 A; 481 A. Possiamo ancora citare Origene il quale osserva che
l’amore si accresce quando cresce la conoscenza {Suiprincipi, 1 , 3, 8, P G 11, 155). Vedi anche
DIADOCO DI F o tic e a , secondo il quale la carità perfetta segue Pilluminazione che viene dalla
L uce divina dello Spirito Santo {Cento capitoli gnostici, 89).

759
essere, sono suscettìbili di crescere all’infinito302. Questo vale per tut­
te le virtù303.

5. D ruolo della preghiera pura


È necessario, infine, sottolineare la relazione fondamentale che vi­
ge tra la conoscenza/visione di Dio e la preghiera.
La preghiera, lo abbiamo visto, è una condizione di tutta la vita spi­
rituale. È per essa che l’uomo si volge verso Dio, senza il quale non
può fare nulla (cfr. Gv 15,5); è attraverso di essa che egli invoca l’aiu­
to di Dio, che si apre alla sua grazia, e si unisce a lui. La preghiera ap­
pare come la condizione necessaria della pratica dei comandamenti,
dell’eliminazione delle passioni, della pratica di ogni virtù che questa
unione suppone e, in primo luogo, della carità.
Già per tutte queste ragioni, in particolare per quella che la lega al­
la carità304, la preghiera avvia l’uomo alla conoscenza/visione di Dio
e ne appare come la condizione. Tra quella e questa vi è, però, una re­
lazione più diretta305. San Massimo afferma che «lo stato di preghiera
stabilisce [lo spirito] in Dio stesso»306. San Gregorio Palamas spiega:
«La partecipazione delle virtù, per la somiglianza [a Dio] che essa in­
staura, ha l’effetto di disporre l’uomo virtuoso a ricevere Dio. Spetta
alla potenza della preghiera operare questa ricezione»307. Egli afferma
altresì che la preghiera è la chiave308della conoscenza di Dio, che «è
la preghiera che procura questa beata contemplazione» di Dio309. La
loro relazione è stretta al pianto tale che i Padri non considerano il do­
no della conoscenza/visione di Dio se non nel cuore della preghiera
compiuta, la preghiera perfetta, chiamata anche la «preghiera pura»310,
302 Cfr.Vii 3,12 -1 4 . GREGORIO DI N issa, Omelie sul Cantico dei Cantici, I, P G 4 4 , 777B -D ; 5 ,
P G 44, 876B C ; 885D -888A ; 8, P G 4 4 , 9 40D -941C ; 12, P G 4 4 , 1037B C ); Vita di Mosè, E , 225-
24 4. M acario d ’E g itto , Omelie (Coll.II), X; XV, XXVI,
37; 17. G re g o rio N azian zen o, Di­
scorsi, II, 76. G iovan ni C lim aco, La Scala, XXX, 37 . Isa cco i l Siro,Discorsi ascetici, 85. Si­
m eone IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, I, Inni, Vili,
7; 39s.
303 Cfr. G re g o rio di N issa,Vita di Mosè, Prefazione, 5-8.
'304 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera,52 . TEOLETTO DI FILADELFIA, Capitoli teologici, gno­
stici e pratici,3.
305 Cfr. ISACCO IL S iro , Discorsi ascetici,13; 21.
306 Centurie sulla carità, IV, 86. Cfr.IH, 44.
307 Tre capitoli, 1.
308Cfr. Triadi, 1 ,1,20.
309 Omelie, 34.
310Cfr. ISACCO IL Siro, Discorsi ascetici, 31; 32. GREGORIO PALAMAS, Triadi, 1 ,1,7; 2 ,2 . Nl-
CETA S te ta to s, Centurie, HI, 80.

760
nella quale, come nota sant’Isacco il Siro, «si compiono» e «hanno il
loro fine» «tutti i modi e tutte le forme con le quali gli uomini prega­
no Dio»311. Evagrio arriva a identificarle312, in particolare nella sua ce­
lebre formula: «Se tu sei teologo, preghi veramente; e se preghi vera­
mente, tu sei teologo»313, il teologo sta ad indicare colui che è giunto
alla theologia nel significato antico di questo termine, cioè alla cono­
scenza/visione di Dio. Sant’Isacco sottolinea che, in ogni caso, la
grazia di questa conoscenza, che si compie attraverso lo Spirito, «è ac­
cordata a coloro che ne sono degni, al momento della preghiera. Essa
ha la sua fonte nella preghiera. Essa non ha altro luogo che questo tem­
po per abitare in noi con tutta la sua gloria, secondo la testimonian­
za dei Padri. Per questo è chiamata con il nome di preghiera fin dal
momento in cui lo spirito è condotto a questa beatitudine attraverso
la preghiera, perché la preghiera è la fonte e una tale grazia non ha un
luogo in altri tempi, come dimostrano gli scritti dei Padri»314.
Questi ritengono che tutta la vita ascetica debba tendere a ottene­
re (perché è un carisma315) tale preghiera316. È così che la preghiera
contribuisce per gran parte a condurre l’uomo all’impassibilità e al
possesso di tutte le virtù, e che l’impassibilità e le virtù (in particola­
re la carità317), una volta stabilite nell’uomo, gli permettono di acce­
dere alla preghiera pura318.
La preghiera pura, infatti, si definisce innanzitutto come una pre­
ghiera dell’uomo purificato da ogni passione e da ogni rappresenta­
zione (immagine o pensiero) cattiva319. E quanto ricorda l’Apostolo
quando invita a pregare «in ogni luogo, innalzando verso il cielo ma­
ni pure, senza collera e spirito di contesa» (lTm 2,8). La purificazio­

311 Discorsi ascetici, 32.


312 Cfr. Capitoli gnostici, Pseudo supplemento, 3 0 ; La preghiera, 86. Vedi il com mento di I.
H a u sh err, pp. 121-122 della sua edizione de La preghiera. Vedi anche J . LEMAÌTRE (= I. H au-
SHERR), «Contemplation», in Dictionnaire de spititualité, t. 2 ,1 9 5 3 , coll. 1783-1784. MASSIMO IL
CONFESSORE, Centurie sulla carità, IV, 6 4 , cita in parallelo «la conoscenza di D io» e «la pre­
ghiera». Sant’Isacco il Siro, nel suo Discorso ascetico 3 2 , «Sulla preghiera pura», nota: «Alcuni
Padri chiamano via questa preghiera spirituale. Altri la chiamano conoscenza. Altri ancora vi­
sione dello spirito».
La preghiera
313 , 60.
Discorsi ascetici
314 , 32.
315 Cfr. E vagrio P ontico , La preghiera, 87.
316Cfr. G iovanni CASSIANO, Conferenze, IX, 2.
317 Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 1; 7.
318 Cfr. GIOVANNI C assiano, Conferenze, I X , 2-3. EVAGRIO PONTICO, Sui diversi pensieri del­
la malvagità, recensione lunga, 39 ; La preghiera, 71.
319 Cfr. M assimo i l C on fessore, Centurie sulla carità, n , 7; 100; IV, 51. E vagrio P o n tic o ,
La preghiera, 4, 71 ; Trattato pratico sulla vita monastica, 42.
761
ne dalle passioni si compie attraverso tutta l’ascesi, e quella dei pen­
sieri si compie in particolare attraverso il «combattimento interiore»
in cui, lo abbiamo visto, la vigilanza e l’attenzione giocano, congiun­
tamente alla preghiera, un ruolo essenziale, quello della «custodia del
cuore». La purificazione del cuore appare così come la prima e indi­
spensabile condizione dell’accesso dell’uomo alla conoscenza/visio-
ne di Dio, la quale costituisce la sua finalità ultima. Ciò è quanto sot­
tolinea san Filoteo il Sinaita quando scrive: «Abbiamo ricevuto la leg­
ge della purificazione del cuore per nessun’altra ragione che questa:
quando le nubi del male avranno lasciato lo spazio del cuore e saran­
no state dissipate per mezzo della continuità dell’attenzione, potremo
in tutta purezza, come in un cielo sereno, vedere Gesù, il Sole di Giu­
stizia»320. Sant’Esichio di Batos osserva nello stesso senso che la vigi­
lanza, che «libera completamente l’uomo dai pensieri passionali come
dalle azioni cattive, se essa è a lungo e ardentemente perseguita [...],
per quanto possibile, offre una conoscenza sicura dell’Incomprensi-
bile, e [...] rivela i misteri divini e nascosti»321.
Questa prima condizione, di cui i Padri sottolineano così la parti­
colare importanza, non è tuttavia sufficiente: la purificazione del cuo­
re da tutti i pensieri passionali non impedisce allo spirito di essere
distratto dai «pensieri semplici», cioè dai pensieri privi di passio­
ne322. Come fa notare Evagrio: «Non è perché si è raggiunta l’impas-
sibilità che pertanto si pregherà veramente; perché si può rimanere
ai pensieri semplici e distrarsi nel meditarli, e quindi essere lontani da
Dio»323.
Una volta liberato dalle passioni, purificato e preservato dai pen­
sieri e dalle immaginazioni cattive, resta dunque all’uomo, per unirsi
a Dio in una preghiera pura - ed è questo il secondo significato di ta­
le espressione -, evitare gli stessi pensieri semplici, svuotare il suo spi­
rito (o, come dicono spesso i Padri, renderlo nudo324) da qualsiasi rap­
presentazione, immagine o pensiero indifferente o anche buono325.
320 Capitoli teologici, gnostici e pratici, 8.
321 Capitoli sulla vigilanza, 1. Cfr. 104; 175.
322 Circa la distinzione tra pensieri passionali e pensieri semplici, vedi MASSIMO IL CONFES­
SORE, Centurie sulla carità, II, 84; HI, 43.
323 La preghiera, 55.
324Questo qualificativo è usato spesso da Evagrio Pontico. Ma lo troviamo anche, in un con­
testo più ortodosso, in san Massimo il Confessore (cfr. Discorso ascetico, 19) e in san Gregorio
Palamas.
325 Cfr. E vagrio P o n tico , Capitoli gnostici, Pseudo supplemento, 29. D ia d o co di F o ticea ,
Cento capitoli gnostici, 68. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, DI, 49. EsiCHIO DI BA­
TOS, Capitoli sulla vigilanza, 103.

762
Per questo san Gregorio il Sinaita consiglia: «Con il concorso della
preghiera, disprezza ogni rappresentazione sensibile o intellettuale
che salirà dal tuo cuore»326; anche «se dei concetti buoni delle cose si
presentano a te, non prestarvi attenzione»327. Anche sant’Esichio di
Batos afferma: «Veglia per non avere nel cuore alcun pensiero né ir­
razionale né razionale»328, per «preservare [il tuo] cuore da ogni pen­
siero, quand’anche possa sembrare buono»329. «Come il corpo, quan­
do muore, si separa totalmente dalle cose del mondo, così l’anima che
si applica a rimanere in questo stato altissimo della preghiera, e che
muore, si separa da tutti i pensieri del mondo», scrive san Massimo330.
Evagrio consiglia la stessa cosa: «Sforzati di rendere il tuo spirito, al
momento della preghiera, sordo e muto, e potrai pregare»331. Devo­
no essere escluse anche le rappresentazioni sensibili o intelligibili pro­
prie della contemplazione naturale. Evagrio a questo proposito scri­
ve: «Anche se lo spirito non si sofferma sui pensieri semplici, non per
questo ha già raggiunto il luogo della preghiera; infatti lo spirito
può essere nella contemplazione degli oggetti e occuparsi delle loro
ragioni, le quali, anche se sono espressioni semplici, nondimeno, in
quanto considerazioni d’oggetti, imprimono ima forma allo spirito e
lo portano lontano da Dio»332. In breve, «la preghiera è abbandono
delle rappresentazioni (apóthesis noèmatòn)»m, soppressione di tut­
ti i pensieri334. Dio si fa conoscere all’uomo solo se prega in questa
condizione335, perché «la contemplazione di Dio non conduce su nul­
la che imprima una forma nello spirito (noùs)», nota Evagrio336, il qua­
le ricorda che Dio è al di là di ogni figura337. «L’illuminazione appa­
re allo spirito puro nella misura in cui esso si è liberato da tutte le rap­
presentazioni e da ogni forma», scrive da parte sua san Gregorio
326SulVesichia e i due modi della preghiera, 9. Vedi anche Come Vesicasta deve stare nella
preghiera.
327SulVesichia e i due modi della preghiera, 2.
328Capitoli sulla vigilanza, 49.
329Ibid., 20.
330 Centurie sulla carità, I, 6 2 . Cfr. EVAGRIO PONTICO, Sui diversi pensieri della malvagità,
recensione lunga, 39.
331 La preghiera, 11.
332Ibid., 56. Cfr. 57. Sui diversi pensieri della malvagità, recensione lunga, 39.
333 E v a g r io P o n t ic o , La preghiera, 70. Cfr. 69; Lettere, 58; 61. MASSIMO IL CONFESSORE,
Centurie sulla carità, IV, 42.
334 Cfr. M assim o i l C on fessore, Discorso ascetico, 19. E vagrio P o n tic o , Capitoli gnostici,
Pseudo supplemento, 29.
335 Cfr. E vagrio P ontico , Lettere, 58.
336Ibid., 39. Cfr. La preghiera, 66.
337 La preghiera, 67.
763
Palamas338. Questi non cessa di affermare, nella linea di tutta la Tra­
dizione, che Dio è radicalmente trascendente a ogni essere e inac­
cessibile a tutte le facoltà della conoscenza umana339. San Nicodemo
l’Agiorita raccomanda, in questa linea, di applicare l’attenzione alla
preghiera «rimanendo senza immagini né figure, non immaginando
né pensando qualunque cosa d’altro, sensibile o intellettiva, esteriore
o interiore, fosse questo anche qualcosa di buono. Dio è al di fuori di
tutto il sensibile e di tutto l’intelligibile, al di sopra di tutto questo; lo
spirito dunque che vuole unirsi a Dio attraverso la preghiera deve usci­
re sia dal sensibile che dall’intelligibile, superare tutto ciò per otte­
nere l’unione divina»340. Ne segue che anche ogni rappresentazione
delle realtà spirituali deve, per questo motivo, essere esclusa. Per evi­
tare il rischio d’illusione che sta in agguato nei confronti dell’orante
a questo stadio, san Gregorio il Sinaita consiglia: «Se vogliamo sco­
prire e conoscere la verità senza rischio d’errore, cerchiamo di non
avere che l’operazione del cuore assolutamente senza forma o figu­
ra, di non riflettere nella nostra immaginazione né forma né impres­
sione di sedicenti cose sante, di non contemplare alcuna luce, perché
l’errore, soprattutto all’inizio, ha l’abitudine di trarre in inganno lo
spirito dei monaci esperti attraverso questi fantasmi menzogneri»341.
Per questo raccomanda ancora: «Se tu pratichi come si deve Yhesy-
chta nell’attesa dell’unione a Dio, non lasciare mai che un oggetto sen­
sibile o intelligibile, esteriore o interiore, fosse pure l’immagine del
Cristo, o la pretesa forma di un angelo o di santi, o anche una luce,
s’inscriva o si disegni nel tuo spirito»342. Diverse forme straordinarie
possono, in realtà, essere percepite nel tempo della preghiera, forme
suscitate dai demoni343, e anche diverse apparizioni luminose che so­
no di natura ben diversa dalla luce della grazia increata nella quale
Dio si rivela, ma che nondimeno l’orante rischia di confondere con
essa. H rifiuto di ogni forma che si manifesta, l’astensione da ogni rap­
presentazione di qualunque natura, costituisce la migliore protezione
contro questo genere d’illusioni.
Nella realizzazione di questa radicale «eliminazione dei pensieri»,
di questo vuoto totale di ogni rappresentazione consiste il secondo
Dialogo, Coisl. 99, fol. 40 v.
333839Vedi anche TEOLETTO DI FILADELFIA, Sullazione segreta.
340Enchiridion, 10.
341 Sull1esichia e la preghiera.
342 Come Vesicasta deve stare nella preghiera.
343 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 67; 68; 72.
764
aspetto del ruolo della vigilanza, raccomandate anche dall’apostolo
Pietro quando consiglia: «Siate vigilanti per poter pregare» (lPt 4,7).
La vigilanza assume qui, da una parte, la forma della «custodia dei sen­
si»344, che esclude ogni sensazione, principio di molte rappresentazio­
ni «materiali e vane» che sono per lo spirito altrettanti «ladri»345, e an­
che se esse sono senza passione, rendono l’uomo presente a questo
mondo e gli impediscono di esserlo pienamente a Dio. Dall’altra par­
te, essa prende la forma della «custodia dello spirito»346, che esclude
ogni immaginazione, ricordo, concetto, ogni intuizione intellettuale,
in breve, ogni rappresentazione di qualsiasi natura347. Questa custodia
dello spirito si realizza nello stesso modo della custodia del cuore
che abbiamo preso in esame precedentemente, cioè nel rifiutare la rap­
presentazione fin dalla sua apparizione, non lasciandole alcuna possi­
bilità di soffermarsi e di svilupparsi, ogni discussione con essa essen­
do qui è esclusa. Quanto alla custodia dei sensi, essa può avvenire
solo nell’isolamento, nell’oscurità e nel silenzio, condizioni che ab­
biamo ricordato nel presentare la preghiera di Gesù.
Questo secondo aspetto del ruolo della vigilanza completa il primo,
ma sarebbe per se stesso insufficiente348e presuppone necessariamen­
te il precedente. L’uomo per mezzo di una tecnica puramente men­
tale può giungere al vuoto dello spirito con l’annullamento di ogni rap­
presentazione. È anche una cosa relativamente facile questa purifica­
zione dello spirito349, e accessibile ai principianti, come fa notare san
Gregorio Palamas350. Ma essa da sola non serve a nulla e non dà affatto
accesso alla conoscenza di Dio né all’unione con lui. Essa non può ar­
rivarvi, per la grazia di Dio, se non è stata preceduta dalla purifica­
zione del cuore, «da tutte le facoltà e potenze dell’anima e del cor­
po»351. San Gregorio Palamas spiega in realtà che se «l’attività (enér-
geia) dello spirito si regola e si purifica facilmente» quando ci si astiene
da ogni pensiero, «la potenza (dynamis) che produce questa attività
344 Cfr. EsiCHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 1; 53. FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capi­
toli neptici, 27.
345Cfr. EsiCHIO DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 53. Apoftegmi, serie alfabetica, Sindetico,
15. EVAGRIO PONTICO, Capitoli gnostici, Pseudo supplemento, 18.
346Cfr. E sichio DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 3; 109; 157; 168; 171. GIOVANNI CLIMACO,
La Scala, XXVI, 61. DlADOCO di FOTICEA, Capitoli sulla vigilanza, 97. La custodia dello spirito
è anche chiamata, ma meno adeguatamente in questo contesto, «custodia del cuore».
347Vedi tra gli altri CALLISTO e IGNAZIO XANTOPULO, Centuria, 20; 25; 48.
348Cfr. G regorio P alamas, Triadi, HI, 3,12.
349 Cfr. ISACCO IL Siro , Discorsi ascetici, 83.
m Ibid.
351 Ibid.
765
non è purificata se non quando lo sono anche le altre potenze. Infat­
ti l’anima è un’essenza dalle molteplici potenze; se un male deriva da
una di queste potenze, essa è completamente sporcata: tutte comuni­
cano nella stessa unità. Per il fatto che ogni potenza ha la sua attività,
è possibile, con una certa applicazione, purificare per qualche tempo
un’attività qualunque. Ciò nonostante, la potenza non ne sarà purifi­
cata, poiché comunica con le altre ed essa è così piuttosto impura che
pura»352. Detto altrimenti, quando lo spirito è puro da ogni rappre­
sentazione, se le altre facoltà del cuore non sono purificate esse stesse
dalle passioni, lo spirito partecipa della loro impurità, egli stesso è mac­
chiato dalle passioni che attaccano le facoltà. Ora, sottolinea san Gre­
gorio Palamas, «uno spirito legato alle passioni non potrà aspirare al­
l’unione divina. Fintanto che lo spirito prega in questa specie di di­
sposizione, non ottiene misericordia»353. In altre parole, l’unione con
Dio ha per condizione indispensabile l’impassibilità, che deriva, lo ab­
biamo visto, dalla pratica dei divini comandamenti e implica tutta la
vita virtuosa di cui san Gregorio Palamas sottolinea anche la necessità
per «disporre l’uomo a ricevere Dio»354. San Simeone il Nuovo Teo­
logo sottolinea a lungo la necessità di rispettare quest’ordine, e di sa­
lire sulla scala dal basso in alto prendendo in prestito successivamen­
te ciascuno dei pioli355. Osserva, altresì, di cominciare la costruzione
della casa spirituale dalle fondamenta e non dal tetto356, cosa che, per
quanto bene sia fatta, non potrà tenere se dette fondamenta non sono
prima d’ogni cosa solidamente costruite.
Eliminando dal cuore e dallo spirito ogni rappresentazione, la vigi­
lanza costruisce allora nell’uomo il perfetto silenzio dei pensieri e delle
facoltà che i Padri indicano con il termine di hesychta357nella sua acce­
zione più alta, cioè di silenzio che predispone a ricevere la conoscenza358.
Abbiamo visto, infatti, che la conoscenza/visione di Dio si compie
al di là di ogni modo di conoscenza umana, che consiste in una visio­
352 Tre capitoli sulla preghiera e la purezza del cuore, 3.
353 Ibid., 1.
354 Ibid.
355Metodo della santa orazione e attenzione, éd. Hausherr, pp. 166s.
m Ibid., pp. 171-172.
357 Cfr. E sicm o DI B atos, Capitoli sulla vigilanza, 103; 115. GREGORIO IL SlNATTA, SulVesi-
chia e i due modi della preghiera, 9. Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 69, in cui il termine
èremia è usato nello stesso senso.
358 Cfr. D iadoco DI F oticea , Cento capitoli gnostici, 9. E sicm o DI B atos, Capitoli sulla vi­
gilanza, 7; 10.
766
ne al dì là di ogni sensazione e in una conoscenza al di là di ogni in­
tellezione, conoscenza realizzata dallo Spirito Santo stesso utilizzando
le facoltà dell’uomo, dopo averle trasformate per renderle atte al suo
operare in esse. Ciò suppone, dunque, che l’uomo rinunci a ogni sen­
sazione, a ogni modo d’intellezione propria, qualunque essa sia. I san­
ti, scrive san Gregorio Palamas, «trascendono ogni conoscenza con la
preghiera ininterrotta e immateriale: essi allora iniziano a intrawede-
re Dio»359. San Massimo sottolinea nello stesso senso: «La grazia del­
la preghiera unisce lo spirito a Dio, e, per questo, lo sottrae a ogni
altro pensiero. Lo spirito, intrattenendosi allora con Dio, nella sua nu­
dità, diviene deiforme»360. Sant’Isacco il Siro nota più precisamente:
«Quando l’anima è condotta dall’energia dello Spirito verso le cose
divine, i sensi e le loro energie ci sono inutili, così come ci sono inu­
tili le potenze dell’anima spirituale quando, per mezzo dell’unione in­
comprensibile, questa si fa simile alla Divinità e viene a trovarsi illu­
minata nei suoi movimenti dal raggio della luce più alta»361. Quanto
a sant’Esichio di Batos, egli sottolinea il ruolo ddla vigilanza in que­
sto accesso dell’uomo, nella preghiera, all’esperienza della visione del­
la luce divina362: «La custodia dello spirito sia chiamata con i suoi
nomi propri che le dànno tutto il suo senso: fonte di luce, fonte di ba­
gliori, effusione luminosa, portatrice di fuoco [...]. Per queste luci fiam­
meggianti che nascono da esse, occorre [...] chiamare con nomi pre­
ziosi questa virtù [...]. Coloro che l’amano possono [...] contemplare
i misteri e divenire teologi. Divenuti contemplativi, essi nuotano in
questa luce purissima e infinita, la toccano con ineffabili sfioramenti,
rimangono e vivono con essa, perché alla fine essi hanno assaporato
quanto è buono il Signore»363. San Filoteo il Sinaita sottolinea ugual­
mente il potere della vigilanza e dell’attenzione congiunte alla pre­
ghiera: «Se queste vanno di pari passo nel corso dei giorni, l’atten­
zione e la preghiera sono simili al carro di fuoco di Elia: esse elevano
nell’alto del cielo colui che trasportano [...]. Se questi, con cuore fe­
lice, porta o si sforza di portare a buon fine la vigilanza, [...] nell’or­
dine della contemplazione e dell’elevazione mistiche, il suo cuore di­
viene lo spazio di Dio che nulla può contenere»364.
m Triadi, II, 3,11.
360Discorso ascetico, 24.
361 Discorsi ascetici, 32.
362 Su questo argomento, vedi anche FlLOTEO IL SlNATTA, Quaranta capitoli neptici, 24; 27.
363 Capitoli sulla vigilanza, 171. Cfr. 166.
364 Ibid., 21.
767
Occorre, tuttavia, ricordare che se l’uomo può avere l’esperienza
della conoscenza/visione di Dio solo alle condizioni ricordate in pre­
cedenza, e in particolare quella della perfetta vigilanza e attenzione,
questa esperienza non ne è l’effetto automatico e come determinato
da una tecnica, ma resta un dono gratuito di Dio a colui che ha fatto
gli sforzi necessari per esserne degno. Ecco perché sant’Esichio di Ba­
tos precisa: «Quando lo spirito è completamente spoglio di tutti i pen­
sieri e delle forme che questi impongono, allora la beata luce della Di­
vinità lo illuminerà, se però, grazie al vuoto di tutti i pensieri, questo
splendore si rivela improvvisamente all’intelligenza pura»365. Insegnando
altrove che «la virtù dell’attenzione fa abbondare ogni bene [nel] cuo­
re», fino a permettere all’uomo, alla fine, di vedere «chiaramente in
ispirito il Cristo [...] con suo Padre consostanziale e lo Spirito Santo
adorabile», egli precisa: «O piuttosto è Nostro Signore Gesù Cristo,
senza il quale non possiamo fare nulla, che ti darà queste cose»366.1
Padri fanno inoltre notare che il momento in cui la grazia della visio­
ne di Dio è concessa all’uomo è totalmente imprevedibile, sottolineando
con ciò anche la sua gratuità. San Gregorio il Sinaita riferisce queste
parole di sant’Isacco il Siro: «Le cose divine vengono da sole, tu ne
ignori l’ora»367.
Quanto abbiamo detto in precedenza sullo spogliamento dei pen­
sieri attraverso la vigilanza e l’attenzione, non deve farci dimenticare
che la funzione delle sue attitudini è correlativamente quella di con­
sentire all’uomo di concentrare tutta la sua potenza riflessiva nell’u­
nico pensiero della preghiera, e di realizzare una preghiera pura da
ogni pensiero estraneo a Dio368; è in questo senso che la preghiera pu­
ra è chiamata dai Padri anche «preghiera senza distrazione (aperispà-
stds)»}m. Sant’Isacco il Siro scrive: «La preghiera è pura, o non è pu­
ra. Ecco come possiamo riconoscerla. Se nel tempo in cui lo spirito
[prega] [...] si mescola ad esso un pensiero estraneo o una distrazio­
ne, si dice che la preghiera allora non è pura»370. E, alla domanda per­
ché è proprio nel tempo della preghiera che è data all’uomo la grazia

m I b i d ., 89.
Ibid., 117.
367SuWesichia e i due modi della preghiera, 10.
368 Cfr. B asilio di C esarea, Regole lunghe, 5. G iovanni C assiano, Conferenze, XXIV, 6. Si­
m eone IL NUOVO TEOLOGO, Capitoli teologici, gnostici e pratici, IH, 32.
369Cfr. M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, n, 1; 5.
370Discorsi ascetici, 32.
768
della conoscenza/visione di Dio, egli risponde: «Perché in questo, più
che in ogni altro momento, l’uomo è preparato e condotto a volgere
verso Dio tutta la sua attenzione, desiderando e ricevendo la sua pietà
[...]. Nel tempo della preghiera, lo spirito contemplativo è attento so­
lo a Dio, tende verso di lui con tutti i suoi movimenti, e non cessa di
rivolgergli con fervore e calore le suppliche del cuore. È, dunque, in
questo tempo in cui l’anima si applica all’unico necessario che dovrà
sgorgare la benevolenza divina»371. Ecco perché i Padri raccomanda­
no costantemente di essere attenti alla preghiera372, perché la preghie­
ra pura deriva anche dall’attenzione373. Qui l’attenzione assume la for­
ma di una perfetta attenzione a Dio, e la vigilanza consiste nel veglia­
re per essere sempre completamente presenti a lui374. Attenzione e
vigilanza perseguono come fine il perfetto raccoglimento dello spiri­
to375 e, più ancora, la concentrazione di tutte le facoltà dell’uomo in
Dio nella preghiera. Abbiamo visto, infatti, che uno degli effetti che
cerca di ottenere il «metodo di orazione esicasta» è quello dell’unio­
ne tra spirito e cuore nella preghiera, in modo che tutto l’uomo (con
tutte le facoltà della sua anima e del suo corpo) preghi con purezza e
divenga totalmente preghiera pura.
Quando, dunque, i Padri dicono che la conoscenza/visione di Dio
è data all’uomo che ha raggiunto lo stato della preghiera pura, essi in­
tendono con questo, da una parte, lo stato di un uomo che prega con
il cuore puro da ogni passione e con lo spirito puro da ogni rappre­
sentazione, e, dall’altra parte, lo stato di un uomo perfettamente at­
tento a Dio376, ossia di un uomo in cui non solo tutto il potere del pen­
siero è concentrato nella preghiera e attraverso essa in Dio, ma in cui,
inoltre, tutto l’essere, attraverso il cuore che è il suo centro e al quale
lo spirito è unito, è divenuto preghiera. È così che l’uomo intero può
,71 Ibid.
372Vedi per esempio Apoftegmi, XI, 87. ESICHIO DI BATOS, Capitoli sulla vigilanza, 90; 94. Fl-
LOTEO IL S in AITA, Quaranta capitoli neptici, 4. L’associazione dei termini proseuche e prosoche
è molto frequente. La troviamo in particolare nel titolo del celebre trattato falsamente attribui­
to a SlMEONE IL N uovo T eologo : Metodo della santa orazione e attenzione.
373 Cfr. EVAGRIO PONTICO, La preghiera, 149.
374 Cfr. BARSANUFIO, Lettere, 4; 7; 106. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla Genesi, XXX,
5; Omelia sulla Settimana Santa, 5; Commento a san Matteo, XLX, 2. CALLINICO, Vita di Ipazio,
48. M acario d ’E gitto , Omelie (Coll. II), IX, 11. D iadoco di F oticea , Cento capitoli gnosti­
ci, 56. MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie sulla carità, 1,8; HI, 50-51. E sicm o di B atos, Capitoli
sulla vigilanza, 98.
375 Cfr. G iovanni C limaco , La Scala, XXVIII, 34.
376 E così che san Niceforo il Solitario scrive: «L’attenzione è il principio della contempla­
zione o, meglio, la sua base permanente» (Trattato sulla vigilanza).
769
ricevere questa visione/contemplazione, e può completamente, spiri­
to, anima e corpo, essere deificato da essa.
È in queste condizioni che l’anima, come afferma san Gregorio Pa-
lamas, «servendosi della preghiera come di una serratura, penetra gra­
zie a essa [nei] misteri che l’occhio non ha visto [...], manifestati dal
solo Spirito a coloro che ne sono degni»377. Al vertice della preghiera
pura, possiamo distinguere due stati, spiega san Massimo: «Indizi del
primo stato: lo spirito si raccoglie, si astrae da tutti i pensieri del mon­
do e, nel pensiero che Dio è presente - ed egli in realtà lo è -, prega
senza distrazioni né turbamenti»378. Quando l’uomo che ha raggiunto
questo stato è ritenuto degno da Dio, egli accede al secondo, il quale
è il dono, che appare bruscamente e in modo imprevedibile, della vi­
sione di Dio nella luce. «Indizi [di questo] secondo stato: lo spirito è
rapito, nello slancio stesso della preghiera, dall’infinita luce di Dio;
perde ogni senso e di se stesso e degli altri esseri, eccetto di Colui che
con l’amore opera in lui questa illuminazione»379.

6. Conoscenza di Dio e salute spirituale


La conoscenza/visione di Dio segna il compimento del processo di
conversione spirituale secondo cui l’uomo, attraverso l’ascesi teantro-
pica, distoglie tutte le sue facoltà dal mondo, dove esse si erano pa­
tologicamente investite secondo le passioni, e correlativamente le ri­
volge verso Dio con la pratica delle virtù, restituendo ad esse così la
loro finalità normale, quella della natura originale, e con ciò la loro sa­
lute, rendendole così capaci di ricevere nello Spirito la grazia piena
della visione della luce deificante.
San Massimo mostra chiaramente come la grazia della conoscenza,
concessa all’uomo dallo Spirito Santo, non possa essere ricevuta se
queste sue facoltà non sono disposte a tale ricezione e risponda a que­
sto ritorno delle facoltà umane alla loro condizione primitiva, cioè
alla loro natura: «La natura umana possiede per essenza le facoltà d’in­
vestigazione e di ricerca delle cose divine, di cui Dio Creatore l’ha do­
tata al momento del suo passaggio alla vita. Quanto alle rivelazioni del­

377 Triadi, 1,1,20.


378 Centurie sulla carità, II, 6.
379Ibid. Cfr. GIOVANNI CLIMACO, La Scala, XXVHI, 19: la perfezione della preghiera «è il ra­
pimento nel Signore».

770
le cose divine, è la potenza dello Spirito Santissimo che le compie per
grazia, quando essa viene ad abitare in noi. Ma all’inizio, a causa del
peccato, il Maligno ha inchiodato queste facoltà alla natura delle cose
visibili. Così, non vi era un solo uomo che ascoltasse e cercasse Dio,
perché tutto quanto riguardava la natura aveva la potenza della sua in­
telligenza e della sua ragione rinchiusa nella manifestazione delle co­
se sensibili, e non possedeva alcuna nozione delle cose elevate sopra
i sensi. È, dunque, a giusto titolo che la grazia dello Spirito Santissi­
mo, in coloro che non si erano deliberatamente sottomessi all’errore
nella loro vita interiore, ha ristabilito la potenza che era stata inchio­
data alle cose materiali, dopo averla da esse distaccata. Dotati di que­
sta facoltà nel suo stato originale di purezza, questi uomini hanno pri­
ma pregato e poi hanno cercato di scoprire e di conoscere, con l’aiu­
to della grazia. In seguito, essi hanno potuto cercare e conoscere più
profondamente: per la grazia stessa dello Spirito»380. Altri Padri sot­
tolineano ugualmente la necessità per le facoltà umane, e in partico­
lare per lo spirito (noiis), di essere purificate, di ritrovare la loro con­
dizione naturale, in altri termini di essere in buona salute, al fine di es­
sere disposte a ricevere l’energia dello Spirito Santo che opererà
nell’anima la conoscenza/visione di Dio. «La luce del sole attrae l’oc­
chio sano. Allo stesso modo la conoscenza di Dio attrae naturalmen­
te a sé, con la carità, lo spirito purificato», nota san Massimo381. San
Basilio Magno si esprime in modo simile: «Come la potenza di vede­
re risiede nell’occhio sano, così l’energia dello Spirito è nell’anima pu­
rificata»382. Sant’Isacco il Siro così scrive a questo proposito: «La con­
templazione mistica si rivela allo spirito dopo che l’anima ha recupe­
rato la salute»383; «lo spirito che vede i misteri nascosti dello Spirito,
se però ha conservato in sé la salute della sua natura, contempla per­
fettamente la gloria del Cristo»384.
E i Padri ricordano che la salute dell’anima, che dispone l’uomo
al dono della conoscenza di Dio, è il frutto dell’ascesi. «La cono­
scenza nasce dalla salute dell’anima» e «la salute dell’anima è una po­
tenza che proviene da una lunga pazienza», osserva sant’Isacco385. A

380 Questioni a Talassio, 59, PG 90, 604B.


381 Centurie sulla carità, I, 32. Q uesta immagine dell’occhio che dev’essere puro per vedere
la luce è anche usata da MACARIO D’EGITTO, Omelie (Coll. E ), XVII.
382Sullo Spirito Santo, XXVI, 61.
383 Lettere, 4.
384 Ibid.
385 Discorsi ascetici, 38.
sua volta, così scrive san Gregorio Palamas: «Sappiamo che l’osser­
vanza dei comandamenti di Dio dà una conoscenza e una conoscenza
vera, perché è solo per mezzo di questa osservanza che l’anima acquista
la salute»386. Quanto a Evagrio, egli scrive: «Chi conosce l’efficada dei
comandamenti di Dio e comprende le potenze dell’anima, e come quel­
li guariscono queste e le conducono alla contemplazione vera?»387.
Se non è solo lo spirito, occhio del cuore, ma tutto il cuore, l’uomo
interiore, anima e corpo, nella sua totalità che dev’essere sana, è per­
ché la salute dello spirito è condizionata dalla salute di tutto il cuore.
Ma è anche perché l’uomo è chiamato a unirsi a Dio e a partecipare
della conoscenza divina di Dio, a ricevere la luce della grazia e a es­
sere trasformato e deificato da essa, nella totalità dd suo essere: in pri­
mo luogo nel suo spirito, ma anche nell’anima e nel corpo. E così
che san Gregorio Palamas si preoccupa di precisare che il corpo uma­
no stesso dev’essere adatto alle «disposizioni spirituali»388, e ricorda
«le attività dello Spirito che si compiono per mezzo dd corpo»389.
Se la salute di tutte le facoltà umane è la condizione dell’accesso al­
la conoscenza/contemplazione di Dio, essa è anche, a un livello su­
periore, un effetto di questa. All’inizio dd nostro studio abbiamo vi­
sto come tutti i mali che l’uomo ha subito in seguito al peccato ance­
strale potessero avere come causa prima l’ignoranza di Dio, poiché
l’uomo, creato per contemplare Dio e per conoscerlo, aveva allonta­
nato da lui il suo spirito. Questa ignoranza costituisce la prima e più
grave malattia dell’uomo, così come la conoscenza costituisce la sua
salute, al dire di san Massimo: «Ciò che la salute e la malattia sono per
il corpo vivente [...] la conoscenza e l’ignoranza lo sono in rapporto
allo spirito»390. Rinnovato dal Cristo, l’uomo è potenzialmente libe­
rato da questa ignoranza mediante la fede, anticipazione e primizia
della conoscenza diretta di Dio. Ma è nella «contemplazione spiritua­
le» che la «parte razionale dell’anima» (logistikón) è messa effettiva­
mente e direttamente in presenza «di ciò che le è proprio»391- cioè di
ciò che corrisponde alla finalità della sua natura - e si eserdta così di
nuovo razionalmente392. La sua guarigione avviene a un primo livello

,86 Triadi, n , 3,17.


387 Capitoli gnostici, II, 9.
388 Tomo agioritico, PG 150,1233BD.
389 Triadi, n, 2,22.
390 Centurie sulla carità, VI, 46.
391 M assimo il C onfessore , Centurie sulla carità, IV, 44.
392 Ibid.} 5.
772
nella contemplazione naturale393che la libera dall’ignoranza di Dio re­
lativamente agli esseri creati. Tale guarigione diviene totale per mezzo
della guarigione/contemplazione di Dio. E così che Evagrio scrive: «La
conoscenza guarisce lo spirito («o«ì)»394; «quando la natura raziona­
le riceverà la contemplazione che la riguarda, allora anche tutta la po­
tenza dello spirito sarà sana»395. San Massimo nota in altri termini: «Lo
spirito è perfetto quando [...] possiede nella super-ignoranza la super-
conoscenza del super-inconoscibile»396. In questa «conoscenza», in­
fatti, lo spirito ritrova la finalità della sua natura ed esercita nella sua
perfezione l’attività che gli è propria secondo il disegno di Dio: cono­
scere e contemplare la Santissima Trinità. Ciò non significa, tuttavia,
sottolineano i Padri, che lo spirito sia esso stesso capace di questa
conoscenza che, lo abbiamo visto, supera le possibilità della sua na­
tura e avviene, secondo un modo incomprensibile, per la potenza del­
lo Spirito divino. Lo spirito (noùs), afferma Evagrio, è dektikós della
contemplazione della Santissima Trinità397, dektikós, cioè «capace di
ricevere e non di produrre né acquisire in senso stretto»398. Evagrio lo
precisa: «Per il fatto che siamo capaci di ricevere qualcosa, non ne con­
segue in alcun modo che ne abbiamo anche la potenza (dynamis)»m.
Anche sant’Isacco il Siro precisa che «lo spirito ha in sé la potenza na­
turale di tendere verso la contemplazione divina», ma non di giungervi
da se stesso, perché «né lo spirito umano né lo spirito angelico sono
capaci con la sola loro natura di giungere alla contemplazione della
Divinità»; in realtà, questa «non è donata con la natura, ma per la
grazia»400.
Benché lo spirito, in ragione della sua natura e del posto superiore
che egli occupa nel composto umano, sia il primo a beneficiare di que­
sta guarigione per mezzo della conoscenza, non è solo lui, ma tutta l’a­
nima che la riceve, come nota Evagrio stesso che vede nella conoscenza
«la salute dell’anima», come vedeva nell’ignoranza la sua malattia401, e
come osserva anche san Talassio: «La salute dell’anima è [...] la cono-
Cfr. E vagrio P ontico , Capitoli gnostiá, VI, 35. M assimo il C onfessore , Centurie sul
la carità, E, 5.
394 Capitoli gnostici, HI, 35.
395 Ibid., E, 15.
396Centurie sulla carità, IH, 99. Cfr. I, 33.
397J. LEMAÍTRE (= I. HAUSHERR), «Contemplation chez les orientaux chretiens», in Diction-
naire de spiritualité, t. 1,1953, col. 1845.
398Ibid., col. 1846.
399Lettere, 43, éd. Frankenberg, p. 595.
400Discorsi ascetici, 84.
401 Capitoli gnostici, E, 8.
scenza»402. Potremmo aggiungere che il corpo stesso, nella misura in
cui partecipa a questa conoscenza, vi trova la salute spirituale. È così
che san Gregorio Palamas scrive in senso generale: «L’unione sopran­
naturale con la luce più che risplendente [...] ha come effetto di sta­
bilire e di far muovere conformemente alla natura le potenze interio­
ri dell’anima e del corpo»403. Infatti, se è vero che lo spirito, in primo
luogo, ritorna nella conoscenza/contemplazione al destino che Dio gli
ha assegnato404, ritrova la sua vera natura che è quella di conoscere e
di contemplare Dio, altrettanto è vero che l’uomo nella sua anima e
nel suo corpo è destinato per natura a questa conoscenza/contempla-
zione, che consiste nel ricevere in tutto il suo essere la grazia dello Spi­
rito che fa di lui un uomo-dio a somiglianza del Dio-uomo.
È nell’illuminazione per mezzo dello Spirito che si compie nella sua
perfezione la somiglianza a Dio alla quale Dio ha destinato l’uomo
creandolo, e che le virtù non avevano realizzato che parzialmente. «La
grazia di Dio», scrive san Diadoco di Foticea, «quando ci vede aspi­
rare con tutta la nostra volontà alla bellezza della somiglianza [...],
allora, facendo fiorire virtù su virtù ed elevando la bellezza dell’anima
di splendore in splendore, essa le fa acquisire il marchio della somi­
glianza [...]. Ma la perfezione di questa, noi la conosceremo solo per
mezzo dell’illuminazione»405. San Simeone il Nuovo Teologo nota a
proposito di quest’ultima: «È allora che si realizza quanto ha detto il
profeta Davide: “Io dico: siete dèi, tutti figli dell’Altissimo” {Sai
82[81],6); figli dell’Altissimo, cioè secondo l’immagine dell’Altissi­
mo e la sua somiglianza»406. Ciò è quanto insegna anche l’apostolo san
Giovanni quando scrive: «Sappiamo che quando [Dio] si sarà mani­
festato, saremo simili a lui, poiché lo vedremo come egli è» (lGv 3,2).
Non ci resta che ricordare che la conoscenza/contemplazione del­
la Santissima Trinità, la visione deificante di Dio, anche se si compie
per mezzo della potenza dello Spirito divino, per la grazia luminosa di
Dio comunicata all’uomo dal Cristo nello Spirito Santo, gli è accessi­
bile solo grazie all’opera salvifica del Cristo, e alla deificazione, nella
sua Persona, della natura umana. «Prima dell’Incarnazione del Cristo,
non vi erano né questa contemplazione dello spirito né questa visio­
402 Centurie, II, 2.
403 Triadi, 1,3,15.
404 Cfr. G re g o rio Palam as, Omelie, 3, P G 150,40B.
405 Cento capitoli gnostici, 89.
406 Catechesi, XV, 78-80.
774
ne», nota sant’Isacco il Siro407, che aggiunge: «La vera contemplazio­
ne della Santissima Trinità è, dunque, data nella pienezza della rivela­
zione del Cristo. È lui che l’ha insegnata e mostrata agli uomini, in­
nanzitutto quando egli ha rinnovato la natura umana nella propria ipo­
stasi, poi quando egli ci ha tracciato in sé un cammino affinché
attraverso i suoi comandamenti vivificanti potessimo giungere alla
verità»408.

407Lettere, 84.
m Ibid., 4.
775
CONCLUSIONE

Giunti al termine di questa ricerca, speriamo di essere riusciti a


dimostrare non solo l’importanza, per tutta la Tradizione della Chie­
sa ortodossa, ma anche la pertinenza, di ciò che abbiamo chiamato al­
l’inizio «immagine medica», per tradurre sia lo stato dell’umanità
decaduta e il modo della sua salute secondo l’economia trinitaria, e a
dimostrare nello stesso tempo che l’ascetica ortodossa costituisce una
vera medicina capace, per grazia di Dio, di fornire, sul piano spirituale,
all’uomo malato i mezzi per recuperare la salute.
La natura stessa del nostro lavoro ci ha imposto di presentare se­
condo un modo analitico - cioè separando, talvolta anche isolando
le sue parti -, una realtà viva, di cui tutti gli elementi sono in realtà
organicamente legati, interdipendenti, e continuamente interagenti
tra loro. Speriamo, tuttavia, di aver un po’ limitato questo difetto
con alcune ripetizioni, o piuttosto con alcune riprese, procedura, pe­
raltro, caratteristica del modo di approccio «circolare» degli stessi Pa­
dri orientali.
Tali riprese erano tanto più necessarie in quanto la vita spirituale,
che è un lungo processo di crescita, comporta dei gradi, in quanto cia­
scuna delle sue modalità può essere considerata al più basso come al
più alto di tali gradi, e in quanto in ciascuno di essi tutte coesistono
e interagiscono. Ciò è vero soprattutto per i principali atteggiamenti
spirituali (la fede, la penitenza, la preghiera...), necessari in qualche
misura all’inizio della vita spirituale, e sempre presenti, nella loro per­
fezione, al suo termine.
Questa è una delle ragioni per le quali è molto difficile dire in qua­
le preciso momento del suo progresso nella vita ascetica l’uomo ritro­
va la salute spirituale.
Il battesimo ristabilisce, certo, pienamente questa salute poiché ren­
de l’uomo pienamente partecipe della grazia della salvezza deU’uma­
777
nità operata dal Dio-uomo. Ma abbiamo visto che questa grazia del
battesimo non diviene efficace per il battezzato se non grazie agli sfor­
zi ascetici per aprirsi e accordarsi ad essa. L’interrogativo che ci siamo
posti richiede, dunque, una risposta complementare.
Abbiamo dimostrato che lo stato di malattia dell’uomo decaduto,
sotto tutte le sue forme, è essenzialmente dovuto al fatto che egli si è
allontanato da Dio, pervertendo così tutte le sue facoltà che erano per
natura orientate verso di lui, mutilando il suo essere fatto per trovare
in lui e per lui la sua pienezza. Possiamo dire, per questa ragione,
che l’uomo ritrova già la salute all’inizio della sua vita spirituale fin da
quando egli si converte a Dio, fin da quando si volge a lui, e comincia
a riorientare verso di lui tutte le potenze del suo essere.
L’uomo resta malato nella misura in cui resta attaccato a questo
mondo, guarisce e ritrova la salute nella misura in cui egli si distacca
da esso per attaccarsi correlativamente a Dio.
Sulla via della guarigione in cui egli è chiamato a progredire, una
tappa decisiva è costituita dall’impassibilità, stato a cui ben pochi ac­
cedono, è vero, ma a cui tutti sono chiamati a giungere. L’impassibi­
lità è lo stato spirituale in cui l’uomo può essere considerato come com­
pletamente guarito, per la grazia di Dio, dalle malattie spirituali co­
stituite dalle passioni, e in cui queste vengono rimpiazzate dalle virtù
alle quali esse si erano patologicamente sostituite. Le virtù ristabili­
scono l’uomo nella conformità alla sua vera natura, restituiscono a tut­
te le sue facoltà e potenze l’ordine che spetta loro, l’uso che corrispon­
de alla loro finalità normale. Pertanto, esse gli ridanno la salute.
È all’impassibilità che corrisponde già lo stato che spesso è indica­
to con il termine «santità»1. «Colui che ha liberato le sue membra dal­
la schiavitù delle passioni e le ha messe al servizio della giustizia, è en­
trato nella santificazione dello Spirito Santo», scrive san Niceta Steta-
tos2. E, dunque, legittimo stabilire un parallelo tra salute e santità3.
Possiamo dire che il santo è perfettamente sano, perché per ascesi tean-
tropica è diventato conforme alla norma della natura umana così co­
me Dio l’ha creata e voluta, perché ha ristabilito in sé la bellezza pri­
mitiva dell’immagine di Dio, e per di più l’ha portata alla somiglian­
za al modello divino.

1Vedi in particolare Simeone IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi, X, 69-94.


2 Centurie, III, 75.
3P. Evdokimov lo fa brevemente nel suo studio dedicato a «La santità», di cui intitola il § 2:
«Santità - Guarigione della natura» (Contacts, 73-74, pp. 124-125).
778
Colui al quale è stata data la grazia d’incontrare un santo ha certa­
mente percepito di avere di fronte a sé qualcuno in cui l’umanità era
pienamente compiuta, qualcuno che era perfettamente uomo perché
egli non era più un uomo decaduto, amputato di una parte di se stes­
so, mutilato nella sua natura, ma un uomo già in una certa misura dei­
ficato, portatore dello Spirito, divenuto per grazia un uomo-dio a so­
miglianza del Dio-uomo.
Ma se è vero che, come evidenzia in particolare sant’Isacco, la stes­
sa perfezione comporta dei gradi, si può dire che accede a una salute
più perfetta ancora colui che ha avuto la grazia, eccezionale, della
conoscenza/visione di Dio. Questi ha intravisto, già in questo mondo,
il fine ultimo per il quale è stato creato; nell’esperienza della luce dei­
ficante, energia comune delle tre Persone della Trinità, ha trovato il
suo pieno compimento, la sua perfezione.
Pertanto, tale esperienza in questo mondo, oltre alla sua rarità, non
può essere duratura. Inoltre, l’uomo rimane con il suo corpo legato al­
le vicissitudini del cosmo decaduto. Ciò che i santi ricevono quaggiù
è la caparra dello Spirito, ciò che essi sperimentano sono le primizie
del Regno. E solo nel secolo futuro, dopo la risurrezione, che essi po­
tranno, per grazia di Dio, conoscere permanentemente e pienamente
la deificazione e i suoi effetti. E là che colui che ne sarà giudicato de­
gno potrà, in modo stabile e definitivo, godere in tutto il suo essere,
spirito, anima e corpo, con la pienezza dei mezzi che Dio gli ha dato
nel crearlo a questo scopo, dei beni divini che per natura egli è desti­
nato a ricevere, cioè Dio stesso che si comunica completamente nelle
sue energie increate.
Speriamo di avere sufficientemente mostrato che le nozioni di ma­
lattia, di guarigione e di salute sono una chiave importante offerta dal­
la teologia, dall’antropologia e dall’ascetica ortodosse per compren­
dere lo stato deU’umanità decaduta e le modalità della sua salute in Dio.
Ma non dobbiamo tuttavia dimenticare che la realtà cristiana su­
pera largamente questa maniera di esprimerla, per pertinente che es­
sa sia.
Se quest’ultima traduce bene, e senza dubbio meglio di tutte le al­
tre, ciò che riguarda la salute (poiché l’adeguamento si realizza fin nel­
l'etimologia di questo termine), essa rivela i suoi limiti quando si trat­
ta della deificazione che è il polo complementare del destino spiri­
tuale dell’uomo secondo il disegno benevolo di Dio.
Occorreva proprio, per non mutilare la nostra presentazione della
779
vita spirituale cristiana, che si parlasse della conoscenza/visione di Dio
che in questo mondo ne è il più alto compimento. Ma si sarà notato
che nel lungo sviluppo che abbiamo dedicato alla conoscenza/visio­
ne, il tema della guarigione e della salute hanno occupato un posto
molto modesto. Se è permesso, infatti, dire che in questo stato l’uomo
raggiunge una salute ancora più perfetta che nei precedenti, poiché
non solo il suo spirito, ma anche la sua anima e il suo corpo raggiun­
gono qui pienamente la loro finalità, non bisogna dimenticare che
un tale stato supera ampiamente la nozione di salute, e sarebbe sicu­
ramente uno dei limiti dell’ultima parte della nostra ricerca il non aver­
lo fatto sufficientemente apparire.
Non bisogna, peraltro, dire che il nostro lavoro spinge a conclu­
dere che tutto ciò a cui l’uomo deve mirare con la vita in Cristo è la
guarigione dalle sue malattie e l’acquisizione della salute, il che ne ri­
durrebbe considerevolmente la portata. Occorre prendere coscienza
che la salute, anche quella spirituale, non è fine a se stessa. Essa è so­
lo la condizione affinché l’uomo possa divenire «una creatura nuova»
(cfr. Gal 6,15), condurre una vita nuova, compiere il suo destino che
è alla fine quello di glorificare Dio degnamente e con la pienezza dei
mezzi che il Creatore gli ha dato, e vivere pienamente in Dio essen­
do lui stesso deificato dalla grazia.
L’espressione stessa di salute in termini di guarigione presa in pre­
stito dai medici del corpo e della psiche può anche sembrare che com­
porti certe insufficienze. Come ogni espressione simbolica, essa com­
porta ima parte di adeguamento al suo oggetto, ma anche una parte
di inadeguatezza, dovuta, nel nostro caso, al carattere specifico del­
l’ambito spirituale al quale essa si applica.
Benché abbiamo insistito sul carattere sistematico, finanche a vol­
te tecnico dell’ascetica ortodossa, e sull’importanza fondamentale del­
lo sforzo umano, speriamo di avere sufficientemente lasciato intrave­
dere ciò che distingue questa terapia spirituale dalle terapie sempli­
cemente umane.
Ricordiamo qui solo che si tratta in verità di una terapia divino-uma-
na, nella quale lo sforzo umano, in qualunque modo esso sia definito
nel suo orientamento e nelle sue forme, costituisce un elemento ne­
cessario ma non sufficiente della sinergia attraverso cui essa si compie.
Lo sforzo umano, che agisce indipendentemente dalla grazia, po­
trebbe giungere ad alcuni risultati, ma questi resterebbero necessa­
riamente limitati.
780
Essi sarebbero soprattutto spiritualmente vani, perché il fine ulti­
mo dell’ascesi, ripetiamolo, è permettere all’uomo di partecipare pie­
namente alla vita delle tre Persone divine.
Ciò che costituisce il valore della terapia cristiana e del suo fine è il
fatto che essa ha come norma della salute e della perfezione l’umanità
compiuta così come ce l’ha mostrata nella sua Persona il Verbo di Dio
incarnato, Gesù Cristo.
Ciò che costituisce la sua forza è che essa si fonda totalmente sulla
grazia della salute e della deificazione acquistata all’umanità, secondo
la benevolenza del Padre, dall’Incarnazione e da tutta l’opera salvifi­
ca del Figlio, grazia che ciascuno può, essendo unito a lui nella Chie­
sa che è il suo corpo, ricevere dallo Spirito Santo, se solamente vuo­
le, con tutto il suo essere, volgersi a Dio.
BIBLIOGRAFIA

Sacra Scrittura
Antico Testamento: La versione di base è l’antica versione greca dei Settan­
ta, testo di riferimento per i Padri greci e ancora oggi per la Chiesa orto­
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MANSI (J. D.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima colleetio, Firenze
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Testi liturgici
La prière des Églises de rite byzantin: L'office divin, la liturgie, les sacrements,
Chevetogne 1937; Les fêtes fixes, Chevetogne 1953; Les fêtes mobiles, Che-
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Fond patristiche
Vengono indicati i nomi ed eventualmente soprannome/i dell’autore, testo/i di riferimento,
traduzione/i francesi utilizzate dall’autore nella presente opera; le versioni italiane vengono in­
dicate tra parentesi quadre: [...].
AGOSTINO d ’Ip p o n a , Il bene del matrimonio.PL 40, 373-396. Traduzione
di F. Quéré-Jaulmes in Le mariage, «Lettres chrétiennes» n. 13, Paris 1969.
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783
zione di G. Combès, 5 voli., Paris 1959-1960. [La città di Dio, Bompiani, Il
pensiero occidentale, Milano 2001; La città di Dio: I (libri I-X), Città Nuo­
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1991].
-L e Confessioni. Testo dell'edizione benedettina. Traduzione di J. Trabucco,
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- Lettere. Testo greco stabilito da F. Nau, Patrologia Orientalis, XI, 4. Tra­
duzione dal siriaco, dal georgiano e dal greco di Dom B. Outtier et Dom
L. Régnault in Lettres des Pères du désert, «Spiritualité orientale» n. 42, Bel-
lefontaine 1985 (abbiamo seguito la numerazione adottata nella traduzio­
ne).
ANASTASIO IL S , Omelie per la festa della Trasfigurazione di Cristo. Te­
in a it a

sto greco stabilito da A . Guillou, Mélanges d'archéologie et d’histoire, 67,


1955, pp. 217-258. Traduzione di Dom M. Coune in Joie de la Transfigu­
ration d’après les Pères d’Orient, «Spiritualité orientale» n. 39, Bellefontai-
ne 1985.
- Questioni e risposte: PG 89, 329-824.
A ndrea DI Creta, Grande canone penitenziale. Testo greco in Triodion ka-
tanuktikon, Atene 1960. Traduzione anonima, Paris 1979.
- Omelia 7. Sulla Trasfigurazione del Signore: PG 97,932-957. Traduzione di
Dom. M. Coune in Joie de la Transfiguration d’après les Pères d’Orient, «Spi­
ritualité orientale» n. 39, Bellefontaine 1985.
A N O N IM O , A Diogneto. Testo greco e traduzione di H.-I. Marrou, «Sources
chrétiennes» n. 33, Paris 1951. [A Diogneto, Edizioni Paoline, Alba 1991].
- Discorso molto utile su Abba Filemone. In Philokalia ton hierôn nëptikôn, t.
2, Atene 1976, pp. 241-252. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des
Pères neptiques, 1.1, Paris 1995, pp. 604-614. [La Filocalia, 4 voli., Gribaudi,
Torino 1982, 1983, 1985, 1987: Discorso utilissimo sull’Abate Filemone,
II, pp. 357-371].
- Interpretazione del «Kyrie eleison». Testo greco in Philokalia ton hierôn nëp­
tikôn, t. 5, Atene 1976, pp. 69-72. Traduzione di J. Touraille in Philocalie
des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 801-803. [La Filocalia, cit., IV, Spie­
gazione del «Signore, pietà», pp. 493-496].
- La Didachè. Testo stabilito da H. Hemmer, G. Oger et A. Laurent, «Hem-
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mer et Lejay», Paris 1926. Traduzione di F. Refoulé in Les écrits des Pères
apostoliques, «Chrétiens de tous les temps» n. 1, Paris 1963. [Didachè. In­
segnamento degli Apostoli, Paoline, Milano 2000].
- Le Costituzioni apostoliche.Testo e traduzione di M. Metzger, «Sources chré-
tiennes» n. 320 (Libri I-II), 329 (Libri III-VI), 336 (Libri VII-Vili), Paris
1985, 1986,1987.
- Storia dei monaci d'Egitto. Testo greco di A.-J. Festugière, Subsidia Magio-
graphica, 34, 1961. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moines d’Orient,
t. IV/1, Paris 1964.
- Sulle parole della santa preghiera: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi
pietà di me». Testo greco in Philokalia tòn hieròn nèptikón, t. 5, Atene 1976,
pp. 63-68. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2,
Paris 1995, pp. 796-800. [La Filocalia, cit., IV, Discorso mirabile sulle pa­
role della divina preghiera, cioè «Signore Gesù Cristo Piglio di Dio abbi pietà
di me», pp. 486-492].
- Vita di sant’Atanasio VAtónita. Testo stabilito da L. Petit, Analecta Bollan-
diana, 25, Bruxelles 1906. Traduzione di D.O.R., Chevetogne 1963.
- Vita di san Daniele lo Stilita. Testo stabilito da le P. Delehaye in Les saints
stylites, Bruxelles 1923. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moines d’O-
rient, t. II, Paris 1961.
- Vita di san Pacomio (Prima vita greca). Testo stabilito da Halkin, Sancti Pa-
chomii Vitae Graecae, Bruxelles 1932. Traduzione di A.-J. Festugière in Les
moines d’Orient, t. IV/2, Paris 1965.
A ntonio (Eremita, il G rande), Esortazioni sui costumi degli uomini e sulla
vita virtuosa (attribuzione dubbia) in Philokalta tòn hieròn nèptikón, t. 1,
Atene 1976, pp. 4-27. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères nep-
tiques, 1.1, Paris 1995, pp. 44-64. [La Filocalia, cit., I, Avvisi sull'indole uma­
na e la vita buona, pp. 58-85].
- Lettere. Versione latina: PG 40, 977-1000; versione georgiana stabilita da
G. Garitte, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, 148 (testo) et
149 (traduzione latina); versione siriaca (lere lettre): edizione F. Nau, Revue
de rOrient chrétien, 14, pp. 282-297. Traduzione francese dei Monaci del
Mont des Cats, «Spiritualité orientale» n. 19, Bellefontaine 1976. [A tana -
SIO - ANTON IO ABATE, Vita di Antonio. Detti e lettere, Paoline, Milano 20012].
ANTONIO Studita, Opere. Testo greco edito da A. Papadopoulos-Kerameus,
Gerusalemme 1905.
Apo fteg m i D EI P
adri , Collezione alfabetica: PG 65, 71-440, completata da
J.-Cl. Guy, «Recherche sur la tradition grecque des Apophthegmata Pa-
trum», Subsidia Hagiographica, 36, Bruxelles 1962, pp. 19-36. Traduzione
di a) J.-Cl. Guy, Les apophtegmes des Pères du désert. Sèrie alphabétique,
«Spiritualité orientale» n. 1, Bellefontaine 1966, pp. 17-317; b) Dom L. Ré-
gnault, Les sentences des Pères du désert. Collection alphabétique, Sole-
smes 1981. Noi utilizziamo la numerazione di J.-Cl. Guy. [Cfr. Apoftegmi
785
di sapienza latina, ossia Florilegio di parecchie migliaia di locuzioni latine, Jo-
vene, Napoli 1921].
- Collezione anonima. Testo greco stabilito da F. Nau, Revue de VOrient Chré­
tien, 12-14; 17-18 (1907-1913). Traduzione di Dom L. Régnault, Les sen­
tences des Pères du désert. Série des anonymes, Solesmes 1985 (apoftegmi
numerati N 133 a N 339). Tavola di corrispondenza con la numerazione di
J.-Cl. Guy in Les sentences des Pères du désert. Troisième recueil, Solesmes
1976, pp. 254-266.
- Collezione sistematica: Versione latina di Pelagio e Giovanni, PL 73, 851-
1052. Traduzione di J. Dion et G. Oury, Les sentences des Pères du désert,
Solesmes 1966. Testo greco e traduzione dei capitoli I-IX di J.-Cl. Guy, Les
apophtegmes des Pères. Collection systématique, 1, «Sources chrétiennes» n.
387, Paris 1993.
- Collezioni diverse: a) Apoftegmi inediti o poco conosciuti raccolti e pre­
sentati da Dom L. Regnault. Traduzione dal greco (Ms. Coislin 126 = N;
Paul Evergetinos = PE), dal latino (R, Pa, M), dal siriaco (Bu), dalFarme-
no (Arm), dal copto (Eth. Coll.), dall'etiopico (Eth. Coll., Eth. Pat.) dei Mo­
naci di Solesmes, Les sentences des Pères du désert. Nouveau recueil, Sole­
smes 1970; b) Complementi della collezione alfabetico-anonima, comple­
menti della collezione sistematica greca (I-XXI, H, QRT), apoftegmi tradotti
dal latino (PA, CSP), apoftegmi tradotti dal copto (Am), da Dom L. Ré­
gnault, Les sentences des Pères du désert. Troisième recueil, Solesmes 1976.
Quest’ultima opera riporta le tavole di tutte le collezioni.
Arsenio, Lettere. Traduzione dal georgiano di Dom B. Outtier, in Lettres des
Pères du désert, «Spiritualité orientale» n. 42, Bellefontaine 1985.
Atanasio d ’Alessandria, Apologia contro gli Ariani: PG 25,248-409.
- Commento ai Salmi: PG 27,59-546.
- Contro i pagani. Testo e traduzione di P. Th. Camelot, «Sources chrétien­
nes» n. 18 bis, Paris 1983.
- Lettere a Serapione: PG 26, 520-676. Traduzione di J. Lebon, «Sources
chrétiennes» n. 15, Paris 1947. [.Lettere a Serapione: sulla divinità dello Spi­
rito Santo, EMP, Padova 1983; Lettere a Serapione: lo Spirito Santo, Città
Nuova, Roma 1986].
- SullTncarnazione del Verbo. Testo e traduzione di C. Kannengiesser, «Sour­
ces chrétiennes» n. 199, Paris 1973. [L incarnazione del Verbo, Città Nuo­
va, Roma 19933].
- Vita di Antonio. Testo greco e traduzione di G. J. M. Bartelink, «Sources
chrétiennes» n. 400, Paris 1994. [Vita di Antonio. Detti e lettere (di Anto­
nio abate), Paoline, Milano 20012].
B , Lettere. Testo greco stabilito da Nicodemo PAgiorita, Venezia
a r s a n u f io

1816; ried. Tessalonica 1984. Traduzione di Dom L. Régnault, P. Lemaire


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1972. La numerazione adottata è quella della traduzione.
786
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BA SILIO d ’A n c i r a ,
dreau, Saint-Benoît 1981.
Basilio di Cesarea (il G rande), Commento a Isaia: PG 30,117-668.
- Costituzioni ascetiche: PG 31,132lA-1428C. Traduzione di J.-M. Bague-
nard, in Dans la tradition basilienne, «Spiritualité orientale» n. 58, Bel-
lefontaine 1994, pp. 109-232 (attribuzione dubbia).
- Lettere. Testo e traduzione di Y. Courtonne, «Collection des Universités
de France», Paris 1957 (t. I), 1961 (t. II), 1966 (t. III). [Le lettere, SEI,
Torino s.i.d.].
- Omelie sulVHexaemeron. Testo e traduzione di S. Giet, «Sources chré­
tiennes» n. 26 bis, Paris 1968. [Sulla Genesi: omelie suWEsamerone, Fon­
dazione Lorenzo Valla, Roma 1990].
- Omelie sull’origine dell’uomo. Testo e traduzione di A. Smets et M. Van
Esbroeck, «Sources chrétiennes» n. 160, Paris 1970.
- Omelie: PG 31, 163-618 et 1429-1514.
- Regole brevi: PG 31,1080-1305. Traduzione di L. Lèbe, SAINT B A SIL E , Les
Règles monastiques, Maredsous 1969. [Le Regole, cit.].
- Regole lunghe: PG 31, 889-1052. Traduzione di L. Lèbe, SAINT BA SILE, Les
Règles monastiques, Maredsous 1969. [Le Regole: regulae fusius tractatae,
regulae brevius tractatae, Qiqajon, Magnano 1993].
- Regole morali: PG 31, 653-869. Traduzione di L. Lèbe, SAINT B A S IL E , Les
Règles morales, Maredsous 1969. [Regole morali, Città Nuova, Roma 1996].
-Sulbattesimo. Testo e traduzione di J. Ducatillon, «Sources chrétiennes» n.
357, Paris 1989.
- Sullo Spirito Santo. Testo e traduzione di B. Pruche, «Sources chrétiennes»
n. 17 bis, Paris 1968. [Lo Spirito Santo, Città Nuova, Roma 1993].
C A LLIN IC O , Vita dTpazio. Testo e traduzione di G. J. M. Bartelink, «Sources
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Callisto e Ignazio X antopulo (Xanthopoulos), Centuria spirituale.
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Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995,
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Callisto II (il Patriarca), Capitoli sulla preghiera. Testo greco in Philokalia
ton hierôn nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 296-298, e PG 147,813-817. Tra­
duzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp.
647-714. [La Filocalia, cit., IV, Capitoli sulla preghiera, pp. 287-385].
CALLISTO Telikudes, Sulla pratica dell’esicasmo. Testo greco in Philokalia ton
787
hierôn nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 368-372, e PG 147, 817-825. Tradu­
zione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp.
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na 1932].
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rum Latinorum, 3. Traduzione di D. Gorce in Saint Cyprien, «Les écrits des
saints», Namur 1958. [Opere di san Cipriano, UTET, Torino 1980].
- Sulla morte. PL 4, 583-602. Traduzione di M. H. Stébé in Cyprien-Am-
BROISE, Le chrétien devant la mort, «Les Pères dans la foi», Paris 1980.
CIRILLO d ’ALESSANDRIA, Commento a san Giovanni, IV, 2; 3: PG 73,560-605.
Traduzione di H. Delanne in La messe, «Lettres chrétiennes» n. 9, Paris
1964. [Commento al Vangelo di Giovanni, 3 voli., Città Nuova, Roma 1994].
- Commento alla lettera ai Romani: PG 74, 775-856. [Commento alla lettera
ai Romani, Città Nuova, Roma 1991].
- Dialoghi sulla Trinità. Testo e traduzione di G.-M. de Durand, «Sources
chrétiennes», nn. 231,237,246, Paris 1976,1977,1978. [Dialoghisulla Tri­
nità, Città Nuova, Roma 1992].
-Dialogo sull'incarnazione dell'Unigenito. Testo e traduzione di G.-M. de Du­
rand, «Sources chrétiennes » n. 97, Paris 1964.
- Glaphyra sull'Esodo: PG 69, 485-537.
- Glaphyra sulla Genesi: PG 69, 13-385.
- Il Cristo è uno. Testo e traduzione di G.-M. de Durand, «Sources chré­
tiennes» n. 97, Paris 1964. [Perché Cristo è uno, Città Nuova, Roma 1983].
- Spiegazione dei dogmi. Testo stabilito da P. E. Pusey, voi. 5 delle Opere com­
plete (7 voli.), Oxford 1868-1877.
Cirillo di G erusalemme, Catechesi battesimali: PG 33, 332-1057. Tradu­
zione di J. Bouvet, «Les écrits des saints», Namur 1962. [Catechesiprebat­
tesimali e mistagogiche, Paoline, Milano 1994; Le catechesi, Città Nuova,
Roma 1993].
- Catechesi mistagogiche. Testo stabilito da A. Piédagnel, traduzione di P. Pa­
ris, «Sources chrétiennes» n. 126 bis, Paris 1988.
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- Vita di sant'Eutimio. Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und Untersu­
chungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moi­
nes d'Orient, III/l, Paris 1961.
- Vita di san Giovanni l'Esicasta. Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und
Untersuchungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière
in Les moines d'Orient, III/3, Paris 1963.
788
- Vita di san Kyriakos. Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und Untersu­
chungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moi­
nes d’Orient, III/3, Paris 1963.
- Vita di san Sabas (Sabba). Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und Unter­
suchungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière in Les
moines d’Orient, III/2, Paris 1961.
- Vita di san Teodosio. Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und Untersu­
chungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moi­
nes d’Orient, III/3, Paris 1963.
- Vita di san Theognios. Testo stabilito da E. Schwartz, Texte und Untersu­
chungen, XLIX, 2, Leipzig 1939. Traduzione di A.-J. Festugière in Les moi­
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II, Capitoli gnostici, pp. 430-448].
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790
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Gressmann, Nonnenspiegel und Mónchsspiegel des Euagrios Pontikos, in
Texte und Untersuchungen, XXXIX, 4, Leipzig 1913. [Per conoscere lui:
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- Capitoli gnostici. Pseudo supplemento. Testo della versione siriaca con re­
troversione greca di W. Frankenberg, Euagrius Ponticus, Berlin 1912, pp.
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- Capitoli gnostici. Testo siriaco e traduzione di A. Guillaumont, Patrologia
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- Commento ai Salmi: PG 12,1053-1685; PG 27,60-545; J.-B. Pitra, Analecta
sacra, II, pp. 444-483; III, pp. 1-364. Utilizzato secondo il raggruppamen­
to proposto da M. Rondeau in Orientalia Christiana Periodica, 26,1960, pp.
328-348.
- Gli otto spiriti della malvagità: PG 79,1145-1164. [Gli otto spiriti della mal­
vagità; Sui diversi pensieri della malvagità, San Paolo, Cinisello Balsamo
1996].
- Grande lettera a Melania l'Anziana, II. Testo siriaco e traduzione di Vite-
stam, Scripta minora, Lund 1964.
- Le basi della vita monastica. Testo: PG 40,1252-1254, e Phibkalia tòn hieròn
nèptikòn, t. 1, Atene 1976, pp. 38-43. Traduzione di J. Touraille in Philo-
calie des Pères neptiques, t. 1, Paris 1995, pp. 78-83. [La Filocalia, cit., I,
Sommario di vita monastica..., pp. 99-106].
- Lettera sulla fede - Lettera Vili di san Basilio. Testo e traduzione di Y. Cour-
tonne in SAINT Basile, Lettres, t. 1, Paris 1957.
- Lettere. Testo della versione siriaca con retroversione greca di W. Franken­
berg, Euagrius Ponticus, Berlin 1912, pp. 564-635. [Lettere dal deserto, Qi­
qajon, Magnano (VC) s.i.d.].
- Lo gnostico. Testo e traduzione di A. Guillaumont, «Sources chrétiennes»
n. 356, Paris 1989.
- Parenetico. Testo della versione siriaca, retroversione greca di W. Franken­
berg, Euagrius Ponticus, Berlin 1912, pp. 558-563.
- Riflessioni (= Skemmata). Testo edito da J. Muyldermans, Evagriana, Pa­
ris 1931, pp. 1-47.
- Scolii ai Proverbi. Testo e traduzione di P. Géhin, «Sources chrétiennes»
n. 340, Paris 1987.
- Scolii aWEcclesiaste. Testo e traduzione di P. Géhin, «Sources chrétiennes»
n. 397, Paris 1993.
- Sentenze: PG 40,1264-1269, e PG 79,1236-1264.
- Sui diversi pensieri della malvagità: PG 79,1200-1233; PG 40,1240-1244;
capitoli supplementari editi da J. Muyldermans, «À travers la tradition manu-
791
scrite d’Évagre le Pontique», Bibliothèque du Muséon, 3, Louvain 1932, pp.
47-55.
- Trattato al monaco Eulogio: PG 79,1093-1140. Traduzione di M.-A. Jour-
dan-Gueyer in ÉVAGRE, De la prière à la perfection, «Les Pères dans la foi»,
Paris 1992.
- Trattato pratico sulla vita monastica. Testo, traduzione e note di A. e G Guil-
laumont, «Sources chrétiennes» n. 171, Paris 1971. [Trattato pratico sulla
vita monastica, Città Nuova, Roma 19982].
- Trattato sull’orazione: PG 79, 1165-1200. Traduzione di I. Hausherr, Les
leçons d’un contemplatif Le Traité de l’oraison d’Évagre le Pontique, Paris
1960. Questo trattato si trova anche sotto il nome di san Nilo, in Philokalia
ton hierôn nëptikôn, t. 1, Atene 1976, pp. 177-189; traduzione di J. Tou-
raille in Philocalie des Pères neptiques, t. 1, Paris 1995, pp. 98-111. [La pre­
ghiera, Città Nuova, Roma 1994].
Filone d ’Alessandria, Sulla vita contemplativa. Testo greco stabilito da Cohn
e Wendland, rivisto da F. Daumas e P. Miquel. Traduzione di P. Miquel. In­
troduzione e note di F. Daumas, Paris 1963.
Filoteo IL SlNAlTA, Quaranta capitoli neptici [di sobrietà]. Testo greco in Phi-
lokalia ton hierôn nëptikôn, t. 2, Atene 1976, pp. 274-286. Traduzione di
J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 1, Paris 1995, pp. 637-650.
[La Filocalia, cit., II, Quaranta capitoli di sobrietà, pp. 398-414].
G iovanni Carpazio (o di Carpato), Capitoli di esortazione(-i). Testo greco
in Philokalia ton hierôn nëptikôn, t. 1, Atene 1971, pp. 276-296, e PG 85,
1837-1856. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, 1.1,
Paris 1995, pp. 313-333. [La Filocalia, cit., I, A i monaci dell’ìndia che gli
avevano scritto, cento capitoli di ammonizione, pp. 400-427].
- Discorso ascetico. Testo greco in Philokalta ton hierôn nëptikôn, t. 1, Atene
1971, pp. 297-301, e PG 85, 1857-1860. Traduzione di J. Touraille in Phi­
localie des Pères neptiques, t. 1, Paris 1995, pp. 334-338. [La Filocalia, cit.,
I, Discorso ascetico..., pp. 428-433].
GIOVANNI Cassiano, Conferenze. Testo e traduzione di E. Pichery, «Sources
chrétiennes» nn. 42, 54, 64, Paris 1955, 1958, 1959. [Conferenze spiritua­
li, 3 voli., Edizioni Paoline, Alba 1966].
- Istituzioni cenobitiche. Testo e traduzione di J.-Cl. Guy, «Sources chré­
tiennes» n. 109, Paris 1965.
GIOVANNI Climaco, La Scala santa. Testo edito dall'Eremita Sophronios, Co­
stantinopoli 1883, riedizione Atene 1979. Traduzione di Placide Deseille,
«Spiritualité orientale» n. 24, Bellefontaine 1978. [La scala del paradiso,
Città Nuova, Roma 1989].
- Lettera al Pastore. Idem.
GIOVANNI Crisostomo, Opere complete: PG 47-64. Traduzione sotto la di­
rezione di M. Jeannin, 11 voli., Bar-le-Duc, 1863-1867.
- Commento a Isaia. Testo e traduzione di J. Dumortier, «Sources chrétien-
792
nes» n. 304, Paris 1983. [Commento a Isaia; Omelie su Ozia, Città Nuova,
Roma 2001].
- Otto catechesi battesimali. Testo e traduzione di A. Wenger, «Sources chré-
tiennes» n. 50 bis, Paris 1985. [Le catechesi battesimali, Messaggero, Pa­
dova 1988].
-Sulla vanagloria e l'educazione dei bambini. Testo e traduzione di A.-M. Ma-
lingrey, «Sources chrétiennes» n. 188, Paris 1972. [Vanità, educazione dei
figli, matrimonio, Città Nuova, Roma 19852].
GIOVANNI D am asceno , Discorso utile all'anima (= Sulle virtù e i vizi). Testo
greco in Philokalia tòn hierón nèptikón, t. 2, Atene 1976, pp. 222-238, e PG
95, 85-97. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 1,
Paris 1995, pp. 593-599 (attribuzione discussa). [La Filocalia, cit., II: Di­
scorso utile all'anima e mirabile, pp. 345-353].
- Esposizione esatta della fede ortodossa. Testo: PG 94, 789-1228, ed edizio­
ne critica di B. Kotter, Die Schriften des Johannes von Damaskos, II, «Pa-
tristischen Texte und Studien» n. 12. Traduzione di E. Ponsoye, Paris-Su-
resnes 1992.
- Omelia sulla Trasfigurazione: PG 96,545-576. Traduzione di K. Rozemond
in Jote de la Transfiguration d'après les Pères d'Orient, «Spiritualité orien­
tale» n. 39, Bellefontaine 1985.
GIOVANNI DI G a za , Lettere. Testo edito da Nicodemo PAgiorita, Venezia
1816; ried. Tessalonica 1984. Traduzione di Dom L. Régnault, P. Lemaire,
e B. Outtier in BARSANUPHE et JEAN DE G aza , Correspondance, Solesmes
1972. La numerazione adottata è quella della traduzione.
GIOVANNI IL SOLITARIO, Dialogo sull'anima e le passioni degli uomini. Tra­
duzione dal siriaco di I. Hausherr, Roma 1939.
GIOVANNI M osco , Il prato spirituale: PG 87,2851-3116. Traduzione di M.-J.
Rouét de Joumel, «Sources chrétiennes» n. 12, Paris 1946.
GIUSTINO (il F ilosofo ), Dialogo con Trifone. Testo e traduzione di G . Ar-
chambault, «Hemmer et Lejay», Paris 1909. Traduzione rivista da A. Ham-
man, Paris 1958. [Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988].
- Prima apologia. Testo e traduzione di L. Pautigny, «Hemmer et Lejay», Pa­
ris 1904. Traduzione rivista da A. Hamman, Paris 1958. [Le Apologie, Città
Nuova, Roma 1962].
- Seconda apologia. Idem.
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N. F., V, 2, Leipzig 1899.
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J. Bernardi, «Sources chrétiennes» n. 247, Paris 1978. [I Cinque discorsi teo­
logici: appendici, lettere teologiche, il mistero cristiano: poesie (Carmina ar­
cana), Città Nuova, Roma 19992; Tutte le orazioni, Bompiani, Milano 2000].
- Discorsi 20-23. Testo e traduzione di J. Mossay et G. Lafontaine, «Sources
chrétiennes» n. 270, Paris 1980.
793
- Discorsi 24-26. Testo e traduzione di J. Mossay, «Sources chrétiennes» n.
284, Paris 1981.
- Discorsi 27-31. Testo e traduzione di P. Gallay, «Sources chrétiennes» n.
250, Paris 1978.
- Discorsi 32-37. Testo stabilito da C. Moreschini. Traduzione di P. Gallay,
«Sources chrétiennes» n. 318, Paris 1985.
- Discorsi 38-41. Testo stabilito da C. Moreschini. Traduzione di P. Gallay,
«Sources chrétiennes» n. 358, Paris 1989. [Omelie sulla natività: discorsi
38-40, Città Nuova, Roma 19982].
-Discorsi42-43. Testo e traduzione di J. Bernardi, «Sources chrétiennes»
n. 384, Paris 1992.
- Discorsi 4-5. Testo e traduzione di J. Bernardi, «Sources chrétiennes» n.
309, Paris 1983.
- Discorsi 45: PG 36, 624-661. Traduzione di E. Devolder, «Les écrits des
saints», Namur 1961.
- Discorsi 6-12. Testo e traduzione di M.-A. Calvet, «Sources chrétiennes» n.
405, Paris 1995.
- Lettere teologiche. Testo e traduzione di P. Gallay, «Sources chrétiennes» n.
208, Paris 1974.
- Lettere. Testo e traduzione di P. Gallay, «Collection des Universités de Fran­
ce», 2 voli., Paris 1964,1967.
- Poesie dogmatiche: PG 37, 397-522.
- Poesie morali: PG 37,522-968.
GREGORIO DI Nissa, Contro Eunomio: PG 45,238-1122. [Teologia trinitaria',
contro Eunomio: confutazione della professione di fede di Eunomio, Rusco­
ni, Milano 1994].
- Discorso catechetico. Testo e traduzione di L. Méridier, «Hemmer et Lejay»,
Paris 1908. Traduzione più recente di A. Maignan, Catéchèse de lafoi, «Les
Pères dans la foi», Paris 1978. [La Grande Catechesi, Città Nuova, Roma
19902].
- Discorso sulla morte: PG 46, 497-537. [Discorso sui defunti, SEI, Torino
1991].
- La creazione dell’uomo: PG 44, 128-256. Traduzione di J. Laplace, «Sour­
ces chrétiennes» n. 6, Paris 1943. [L'uomo, Città Nuova, Roma 20003].
- Lettere. Testo e traduzione di P. Maraval, «Sources chrétiennes» n. 363, Pa­
ris 1990. [Epistole, Associazione di studi tardoantichi, Napoli 1981].
- Omelia 3 sulla santa festa di Pasqua e la Risurrezione: PG 46,652-681. Tra­
duzione di H. Delanne in Le mystère de Pâques, «Lettres chrétiennes» n.
10, Paris 1965.
- Omelie sugli usurai: PG 46,434-452. Traduzione di F. Quéré-Jaulmes in Ri­
ches et pauvres dans l’Eglise ancienne, «Lettres chrétiennes» n. 6, Paris 1962.
- Omelie sul Cantico dei cantici. Testo: PG 44, 756-1119, et W. Jaeger, Gre-
gorii Nysseni Opera, VI, Leida 1960. Traduzione di C. Bouchet et M. De-
794
vailly, «Les Pères dans la foi», Paris 1992. [Omelie sul Cantico dei cantici,
Città Nuova, Roma 1996].
- Omelie sul Padre nostro: PG 44,1120-1193. Traduzione di M. Péden-Go-
defroi, La prière du Seigneur, Paris 1982. [La preghiera del Signore: omelie
sul Padre nostro, Edizioni Paoline, Roma 1983].
- Omelie sull'amore ai poveri: PG 46, 454-469; 472-489. Traduzione di F.
Quéré-Jaulmes in Riches et pauvres dans l’Église ancienne, «Lettres chré­
tiennes» n. 6, Paris 1962.
- Omelie sull’Ecclesiaste. Texte grec de Péd. P. Alexander. Traduzione di F.
Vinel, «Sources chrétiennes» n. 416, Paris 1996. [Omelie sull’Ecclesiaste,
Città Nuova, Roma 1990].
- Omelie sulle Beatitudini: PG 44, 1193-1301. Traduzione di J.-Y. Guillau-
min et G. Parent, «Les Pères dans la foi», Paris 1979. [Commento al Nuo­
vo Testamento: le Beatitudini ed altri scritti, Coletti, Roma 1992].
- Sul fine da perseguire secondo Dio e la vera ascesi (- De instituto christia-
no). Testo di W. Jaeger, Gregorii Nysseni Opera, Vili, Leida 1952, pp. 40-
89. Traduzione di C. Bouchet in GRÉGOIRE DE NYSSE, Écrits spirituels, «Les
Pères dans la foi», Paris 1990. [Fine, professione e perfezione del cristiano,
Città Nuova, Roma 19962].
- Sul nome e sulla professione del cristiano: PG 46, 237-249. Traduzione di
J. Millet in GRÉGOIRE DE N ysse, Écrits spirituels, «Les Pères dans la foi»,
Paris 1990.
-Sull’anima e la risurrezione: PG 46, 12-160. Traduzione di J. Terrieux, Pa­
ris 1995. [L’anima e la risurrezione, Città Nuova, Roma 19922].
- Sulla perfezione cristiana: PG 46, 252-285. Traduzione di M. Devailly in
GRÉGOIRE DE N ysse, Écrits spirituels, «Les Pères dans la foi», Paris 1990.
- Trattato sui Salmi: PG 44,432-616 [cfr. Sui titoli dei salmi, Città Nuova, Ro­
ma 1994].
- Trattato sulla verginità. Testo e traduzione di M. Aubineau, «Sources chré­
tiennes» n. 119, Paris 1966. [La verginità, Città Nuova, Roma 19902].
- Vita di Mosè. Testo e traduzione di J. Daniélou, «Sources chrétiennes» n. 1
ter, Paris 1987. [La vita di Mosè, Fondazione Lorenzo Valla, Roma 20013].
- Vita di santa Macrina. Testo e traduzione di P. Maraval, «Sources chré­
tiennes» n. 178, 1971. [Vita di santa Macrina, Città Nuova, Roma 1989].
GREGORIO IL Sinaita, Capitoli. Testo greco in Philokalta ton hierôn nëptikôn,
t. 4, Atene 1976, pp. 31-62, e PG 150, 1240-1300. Traduzione di J. Tou-
raille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 378-408. [La Fi­
localia, cit., Ili, Utilissimi capitoli, pp. 531-573].
-Altricapitoli. Testo greco in Philokalia ton hierôn nëptikôn, t. 4, Atene 1976,
pp. 63-65, e PG 150,1300-1304. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des
Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 408-410. [La Filocalia, cit., Ili, Altri
capitoli, pp. 574-577].
- Come l’esicasta deve stare nella preghiera. Testo greco in Philokalta ton hierôn
795
nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 80-88, e PG 150, 1329-1345. Traduzione
di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 425-433.
[La Filocalia, cit., Ili, Come l’esicasta deve starsene seduto nella preghiera e
non alzarsene presto, pp. 597-609].
- SulVesichia e la preghiera. Testo greco in Philokalta ton hierôn nëptikôn, t.
4, Atene 1976, pp. 66-70, e PG 150, 1304-1312. Traduzione di J. Tourail­
le in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 411-415. [La Filo­
calia, cit., Ili, Rigorosa notizia sulVesichia e sulla preghiera, pp. 578-583].
- SulVesichia e i due modi della preghiera. Testo greco in Philokalta ton hierôn
nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 71-79, e PG 150, 1313-1329. Traduzione
di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 417-424.
[La Filocalia, cit., Ili, Lesichia e i due modi della preghiera in quindici ca­
pitoli, pp. 584-596].
GREGORIO IL Taumaturgo, Ringraziamento a Origene. Testo e traduzione di
H. Crouzel, «Sources chrétiennes» n. 148, Paris 1969.
G regorio Magno (il G rande), Moralia su Giobbe. PL 75-76. Traduzione
di brani diversi di R. Wasselynck, «Les écrits des saints», Namur 1964. Edi­
zione critica e traduzione: Libri I-II di R. Guillet et A. de Gaudemaris,
«Sources chrétiennes» n. 32 bis; Libri XI-XIV di A. Bocognano, «Sour­
ces chrétiennes» n. 212, Paris 1974; Libri XV-XVI di A. Bocognano, «Sour­
ces chrétiennes» n. 212, Paris 1975. [Commento morale a Giobbe, Bibliotheca
Gregorii Magni, in più voli., Città Nuova, Roma 1992,1994,1997,2001].
- Vita di San Benedetto - Dialoghi, II. PL 66,125-204. [Vita di San Benedet­
to e la Regola, Città Nuova, Roma 19985].
GREGORIO Palamas, A(lla monaca) Xene. Testo greco in Philokalta ton hierôn
nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 91-115, e PG 150, 1044-1088. Traduzione
di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 439-462.
[La Filocalia, cit., IV, Alla monaca Xene, pp. 6-39].
- Capitoli fisici, teologici, etici e pratici. Testo greco in Philokalta ton hierôn
nëptikôn, t. 4, Atene 1976, pp. 134-187, e PG 150,1121-1225. Traduzione
di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 482-535.
[La Filocalia, cit., IV, Centocinquanta capitoli naturali, teologici, etici e pra­
tici, pp. 66-138].
- Confessione della fede ortodossa: PG 151, 763-768.
-Difesa dei santi esicasti. Testo e traduzione di J. Meyendorff, Louvain 1973.
[Difesa dei santi esicasti, Messaggero, Padova 1989].
- Omelie: PG 151, 9-549, ed edizione S. Oikonomos, Grègoriou tou Palama
omiliai, Atene 1861. Traduzione delle omelie 11, 14, 16, 18, 21, 24, 34,
35,56,58,59,60 di J. Cler in GRÉGOIRE PALAMAS, Douze homélies pour les
fêtes, Paris 1987.
- Omelie sulla Trasfigurazione: PG 151,424-449. Traduzione di Dom M. Cou-
ne in Joie de la Transfiguration d’après les Pères d’Orient, «Spiritualité orien­
tale» n. 39, Bellefontaine 1985. [Omelie sulla trasfigurazione, Magnano
(VC)].
796
- Teofane: PG 150, 909-960.
- Tomo agioritico. Testo greco in Philokalia tón hierón nèptikón, t. 4, Atene
1976, pp. 188-193, e PG 150,1225-1236. Traduzione di J. Touraille in Phi-
localie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp. 536-541. [La Filocalia, cit.,
IV, Tomo agioritico, pp. 139-146].
- Tre capitoli sulla preghiera e la purezza del cuore. Testo greco in Philokalia
tòn hierón nèptikón, t. 4, Atene 1976, pp. 132-133, e PG 150,117-121. Tra­
duzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t. 2, Paris 1995, pp.
480-481. [La Filocalia, cit., IV, Sulla preghiera e la purezza del cuore, pp. 63-
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IGNAZIO D jA ntiochia , Lettere. Testo e traduzione di P. Th. Camelot, «Sour-
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IRENEO DI Lione, Contro le eresie.Testo stabilito da A. Rousseau e C. Dou-
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- Dimostrazione della predicazione apostolica. Testo e traduzione di A. Rous­
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edito da N. Théotoki, Leipzig 1770, riedito da J. Spetsieris, Atene 1895.
Traduzione di J. Touraille, Paris 1981. N.B.: questa versione greca è stata
preferita al testo originale siriaco, poiché è il testo receptus da tutto il mo­
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Roma 1984].
-Lettere. Idem.
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LEONZIO DI N eapoli, Vita di san Giovanni di Cipro detto l'Elemosiniere.
Testo e traduzione di A.-J. Festugière, Paris 1974.
- Vita di san Simeone il folle. Testo e traduzione di A.-J. Festugière, Paris
1974.
Macario d ’Egitto (il G rande, P seudo-), Capitoli parafrasati da Simeone
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Briefe, «Die griechische christliche Schriftsteller der ersten Jahrhunderte»,
Berlin 1973. Traduzione di J. Touraille in Philocalie des Pères neptiques, t.
2, Paris 1995, pp. 168-227. [La Filocalia, cit., Ili, Parafrasici Simeone Me-
tafrasto..., pp. 269-348].
797
- Lettera ai suoi figli. Testo greco stabilito da W. Strothmann, Wiesbaden
1981; testo latino di A. Wilmart, Revue d’ascétique et de mystique, 1,1920.
Traduzione dalla versione greca e dalla versione latina di Dom A. Louf in
Lettres des Pères du désert, «Spiritualité orientale» n. 42, Bellefontaine 1985.
[La grande lettera, Gribaudi, Torino 1989].
- Omelie della Collezione I (1-64). Testo stabilito da H. Berthold. «Die grie-
chische christliche Schriftsteller der ersten Jahrhunderte», 2 voli., Berlin
1973. [Cfr. Discorsi e dialoghi spirituali, Abbazia di Praglia (Padova) 1968].
- Omelie della Collezione II (1-50). Testo stabilito da H. Dòrries, E. Klo-
stermann, M. Kroeger, Die 50 geistlichen tìomilien des Makarios, «Patri-
stische Texte und Studien» n. 4, Berlin 1964. Traduzione di Placide De-
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- Le pèlerin russe. Trois récits inédits. Trad. une équipe, «Points sagesse», Pa­
ris 1979.
IGNACE Briantchaninov, Introduction à la tradition ascétique de l’Église d’O-
rient, Sisteron 1978.
- Approches de la prière de Jésus, «Spiritualité orientale» n. 35, Bellefontai-
ne 1983.
N il SORSKY (Sorskij), Oeuvres complètes, «Spiritualité orientale» n. 32,
Bellefontaine 1980. [Vita e scritti, Gribaudi, Torino 1988].
SERAFINO DI Sarov, Entretien avec Motovilov, in I. GORAINOV, Séraphim de
SarovyParis 1979.
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Silvano dell’Athos, Oeuvres complètes, in Archimandrite Sophrony, Sta-
retz Silouane, Moine du Mont-Athos, Paris-Sisteron 1974. [SOPHRONIJ, Sil­
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INDICE

Introduzione pag. 5

PASTE PRIMA
PREMESSE ANTROPOLOGICHE
SALUTE ORIGINALE E ORIGINE DELLE MALATTIE

I. LA SALUTE ORIGINALE DELL’UOMO » 15


IL L’ORIGINE PRIMARIADELLE MALATTIE
Il PECCATOANCESTRALE » 37
[II. Patologia dell’uomo decaduto » 47
1. Patologia della conoscenza » 47
a. La perversione e la decadenza della conoscenza e
dei suoi organi » 47
b. Il male come invenzione.
Nascita di una conoscenza fantasmatica.
La percezione delirante della realtà nell’uomo deca­
duto » 55
2. Patologia del desiderio e del godimento » 63
a. La deviazione del desiderio e la perversione del go­
dimento » 63
b. Economia del desiderio » 68
c. Patologia del desiderio e del godimento nell’uomo
decaduto » 72
3. Patologia dell’aggressività » 83
4. Patologia della libertà » 90
5. Patologia della memoria » 98
809
6. Patologia dell’immaginazione pag. 107
7. Patologia dei sensi e delle funzioni corporee » 117

PARTESECONDA
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI
DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI

I. Le passioni, m alattie spirituali » 127


II. L a fila u tia » 145
III. La gastrim argia » 151
IV. La lussuria » 159
V. La FILARGIRIAE LAPLEONESSIA » 171
VI. La TRISTEZZA » 185
VII. L’acedia » 195
VIII. La collera » 202
IX. Il tim ore »216
La pusillanimità » 223
X. L acenodossia » 226
XI. L’o rg o g lio » 241
XII. La TRASMISSIONE DELLE MALATTIE SPIRITUALI
NELL’UMANITÀDECADUTA » 259

810
PARTETERZA
CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA

I. Il Cristo medico pag. 269


II. LE TERAPIE SACRAMENTALI » 292
1. Introduzione » 292
2. Il battesimo » 294
3. La crismazione » 299
4. La penitenza » 301
5. L’Eucaristia » 311
6. L’unzione dei malati » 315
III. Le condizioni soggettive della guarigione
e la salute in Cristo » 318
1. La volontà di guarire » 318
2. Il rimedio della fede » 326
3. Il rimedio del pentimento » 332
4. Il rimedio della preghiera » 348
a. Il ruolo della preghiera e i suoi effetti terapeutici » 348
b. Il metodo di preghiera esicasta » 364
5. Il rimedio dei comandamenti » 374
6. Il rimedio della speranza » 388
IV. Il processo della guarigione: la conversione
INTERIORE » 397

PARTEQUARTA
APPLICAZIONE DELLA TERAPIA

I. Il duplice movimento della conversione


interiore. La p r A x i s » 413
II. Cenni di terapia delle facoltà fondamentali
dell’anima. Pratica delle virtù generiche » 427
1. Introduzione » 427
2. La temperanza » 428
811
3. La fortezza pag- 436
4. La prudenza » 441
III. Il ruolo terapeutico del padre spirituale » 446
IV. La MANIFESTAZIONE DEI pensieri » 472
V. IL COMBATTIMENTO CONTRO I PENSIERI » 485
1. La lotta interiore » 485
2. La duplice origine dei pensieri » 489
3. Il meccanismo della tentazione » 494
4. La strategia spirituale. Vigilanza e attenzione » 497
5. Il rigetto dei pensieri cattivi » 503
6. Il ruolo della preghiera e della pazienza » 507
7. Effetti terapeutici » 511
VI. T erapia coadiuvante: l’ascesi corporale » 520

PARTE QUINTA
TERAPIA DELLE PASSIONI E ACQUISTO DELLE VIRTÙ

I. Terapia della gastrimargia. La temperanza » 537


II. Terapia della lussuria. La continenza
E LA CASTITÀ » 546
1. La castità monastica » 547
2. La castità coniugale » 554
III. Terapia della filargiria e della pleonessia.
Il non-possedere e l’elemosina » 562
1. Il non-possedere » 567
2. L’elemosina » 568
IV. Terapia della tristezza. Il dolore,
l a c o m p u n z io n e e l a g io ia » 578
V. Terapia dell’acedia » 601
812
VI. T erapia della collera. La dolcezza
E LA PAZIENZA pag. 611
VII. T erapia della paura.Il timore di D io » 627
Vili. T erapia della cenodossia e dell’orgoglio.
L’umiltà » 644
1. Terapia della cenodossia » 644
2. Terapia dell’orgoglio » 651
3. L’umiltà » 658

PARTE SESTA
LA SALUTE RITROVATA

I. L’im p a s s ib ilità » 677


II. La carità » 693
1. La carità, amore spirituale di sé » 695
2. L’amore del prossimo » 697
3. L’amore di Dio » 706
III. La CONOSCENZA » 723
1. Introduzione » 723
2. La contemplazione naturale » 728
3. La conoscenza/visione di Dio » 737
4. Il legame tra la conoscenza/visionedi Dio e la pràxis » 751
5. Il ruolo della preghiera pura » 760
6. Conoscenza di Dio e salute spirituale » 770

Conclusione » 777
Bibliografia » 783

813

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