Il Vangelo di oggi racconta l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli nel cenacolo la sera di Pasqua, con il noto
episodio di Tommaso che non crede se non vede. Noi abbiamo commentato questo brano nei due anni
passati e, in parte, l’abbiamo anche toccato Domenica scorsa. Questo ci permette di valorizzare uno spunto
presente nella seconda lettura: la Pasqua come vittoria sulla morte e sugli inferi. È il Risorto in persona che
parla e dice:
“Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e
La discesa vittoriosa di Cristo agli inferi è ricordata nel simbolo degli apostoli, cioè nel più antico Credo della
Chiesa: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da
morte”. Anche la Prima lettera di Pietro dice che Cristo “andò, in spirito, ad annunciare la salvezza agli spiriti
Per illustrare questo tema dobbiamo andare a scuola dai nostri fratelli Ortodossi, presso i quali esso ha uno
straordinario rilievo. È anche l’occasione per dedicare una volta l’attenzione ed esprimere la nostra
ammirazione per questa Chiesa che riunisce la maggioranza dei cristiani dell’Europa orientale ed è, per
Dobbiamo anzitutto chiarire una cosa. Come mai Cattolici e Ortodossi non celebrano la Pasqua alla stessa
data, ma questi ultimi la celebrano, in genere, una o più domeniche dopo di noi? Lo spiego subito. Il Concilio di
Nicea del 325 fissò una data comune per tutti i cristiani che fu in vigore fino al 1582. In questo anno, il papa
Gregorio XIII riformò il vecchio calendario “Giuliano” che, da quel tempo, si chiama infatti calendario
“Gregoriano”. I Greci non accolsero tale modifica, anche perché non erano stati consultati dal papa, e così la
Pasqua cominciò a essere celebrata in date diverse in Oriente e in Occidente. C’è un progetto tra le varie
Chiese cristiane per risolvere alla radice questo problema, stabilendo per la Pasqua una Domenica fissa
nell’anno, sempre la stessa, che eviti le attuali oscillazioni tra “Pasqua alta” e “Pasqua bassa” con le difficoltà
che ne derivano.
La visione ortodossa della Pasqua è tutta racchiusa nell’icona della festa. Secondo questa rappresentazione,
Gesù, risorgendo, non sale, ma scende. Per cogliere la differenza, pensate a certi quadri occidentali della
risurrezione, come quello di Piero della Francesca. Qui tutto si svolge fuori, il movimento è di ascesa, non di
discesa. Quello che vuol mettere in risalto l’icona orientale è che Gesù scende “con braccio forte e mano tesa”,
nel mondo misterioso dei trapassati (gli inferi, o Ade), per liberare dalla morte Adamo ed Eva e il popolo dei
giusti, come un tempo era sceso in Egitto per liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù. La risurrezione di
Quello che colpisce nelle icone ortodosse della discesa di Cristo agli inferi è il senso di forza e di vittoria che
essa promana. La liturgia vede realizzato in questo momento il versetto del salmo che dice:
Alla nostra mentalità scientifica di oggi risulta difficile dare un significato preciso alla discesa di Gesù agli inferi.
La difficoltà nasce dal fatto che intendiamo la cosa in senso troppo materiale. Gli inferi, più che un luogo, sono
uno stato. Più che affermare un mitico viaggio dell’anima di Cristo nelle viscere della terra, l’articolo del Credo
mette in evidenza il significato spirituale e gli effetti della sua risurrezione: la salvezza operata da Cristo
raggiunge assolutamente tutti i gli esseri: “quelli nei cieli, quelli sulla terra e quelli sottoterra” (cfr. Filippesi 2,
10). Nessuna zona del reale o epoca della storia -neppure quella che l’ha preceduto- resta esclusa dai benefici
In questo senso, la discesa di Gesù agli inferi contiene un messaggio formidabile anche per l’uomo d’oggi.
Scriveva un antico Padre: “Quando senti dire che Cristo discese negli inferi e liberò le anime che erano tenute
prigioniere nei sepolcri, non pensare che queste cose siano molto lontane da quelle che si compiono oggi.
Il nostro cuore a volte è davvero un sepolcro, perché vi regna dentro la morte, la disperazione, l’angoscia, la
paura, e soprattutto il peccato. O semplicemente una noia e un grigiore mortali. Si può discendere agli inferi
anche da vivi. Ne sa qualcosa chi un giorno si ritrova schiavo della droga o dell’alcolismo, in situazioni senza
via d’uscita; chi vede il proprio matrimonio entrare in una fase di buio e di incomprensione profonda e
trasformarsi da paradiso in inferno; chi esce dal medico con un responso infausto tra le mani, o vive uno stato
di depressione profonda. Inutile insistere con gli esempi: i casi della vita sono sempre più vari e numerosi di
Queste sono le situazioni in cui un uomo o una donna può fare oggi una esperienza viva e personale della
Pasqua di Cristo. Cristo non è sceso una volta sola agli inferi; vi scende continuamente. Dovunque c’è una
persona che dal suo “inferno” grida a lui e protende la propria mano verso la sua, come fanno Adamo ed Eva
nell’icona orientale, egli scende vittorioso e la tira fuori. Rischiara le sue tenebre, gli infonde nuova vita e
speranza. Lo risuscita.
Cosa deve fare chi vuole ripetere nella propria vita questa esperienza? Tendere a Cristo quella mano invisibile
che è la fede. Credere che Cristo risorto può e vuole liberarlo. Pregare, gridare. Tutti sanno che esiste un
salmo intitolato “De profundis”. Lo sanno perché è il salmo che si cantava un tempo, in latino, ad ogni funerale
Questo salmo però non è stato scritto per i morti, ma per i vivi. Il “profondo” da cui il salmista eleva la voce non
è quello del Purgatorio (che allora non si conosceva ancora), ma quello del peccato e del dolore. Impariamo a
recitarlo così. Quando si fa l’esperienza di essere tirati su dal profondo dell’angoscia e della tristezza, si
capiscono le parole di un antico Padre che vengono proclamate nella liturgia ortodossa della Pasqua: “Ieri ero
morto con Cristo, oggi sono con lui tornato alla vita. Ieri ero sepolto con lui, oggi sono con lui risuscitato” .
Una tradizione antichissima, ereditata dagli ebrei, riteneva che il mondo fosse stato creato nell’equinozio di
primavera, nel momento più ridente dell’anno, per cui la Pasqua, che cade appunto in tale periodo, venne
considerata l’anniversario della creazione, il genetliaco del mondo. La rinascita della natura, dopo il gelo
invernale, era vista come un simbolo di quello che avviene, nel campo spirituale, con la risurrezione di Cristo.
San Zeno, il patrono di Verona, diceva in un suo discorso: “In questo giorno, allontanata la malinconia del
passato inverno, sotto il soffiare mite del carezzevole vento Favonio, i prati germogliano ovunque, olezzando
di fiori diversi per specie, colore e profumo. Chi non capisce che tutto questo è un simbolo dei misteri celesti
della Pasqua? “.
Il 21 maggio 1996, furono trucidati a Tibhirine, in Algeria, sette monaci trappisti. Uno di essi, fratel Luc, aveva
da tempo messo da parte una audiocassetta con registrata una canzone che desiderava fosse cantata nel
giorno del suo funerale. Alcune settimane prima dell’eccidio, in occasione del suo ottantesimo compleanno,
l’aveva fatta sentire ai confratelli, perché non si sbagliassero. Non era un canto di chiesa. Era la canzone di
Edith Piaf “Je ne regrette rien”, “No, non rimpiango nulla”. Ascoltiamo una sua traduzione italiana, perché
credo che se uno può fare sue le parole di questa canzone, nel significato che esse ebbero per fratel Luc,
costui può dire di aver fatto una volta la Pasqua nella vita.
L’unica variazione, in questa versione pasquale della canzone, è che il “Te” finale è scritto con la lettera
maiuscola. È Cristo. Pensiamo a tutti quelli che sono usciti da poco da un tunnel buio; a coloro che delusi o
traditi nel loro amore, hanno finalmente trovato in Cristo la possibilità e la forza di ricominciare da capo.
Pensiamo alla Maddalena che incontra Gesù il mattino di Pasqua, e vediamo che luce nuova assumono quelle
parole finali: “La mia vita, le mie gioie, tutto inizia oggi con Te”.