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Raniero Cantalamessa

L’Eucaristia nostra
santificazione
Il mistero della cena

1
Collana I misteri di Cristo
Immagine di copertina: Ultima cena, icona
russa del XV secolo

© 2003 Àncora S.r.l.


Àncora Editrice
Via G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
ISBN 978-88-514-1439-9
Prima edizione digitale: giugno 2014

2
I
«Cristo, nostra Pasqua, è stato
immolato»
L’Eucaristia nella storia della
salvezza

In questa prima meditazione vorrei


inquadrare il mistero della cena
nell’insieme della storia della salvezza. Dio
si è rivelato agli uomini nel contesto di una
storia, che, dal suo oggetto e dal suo scopo,
viene chiamata “storia della salvezza”.
Dentro la storia visibile e documentabile del
mondo, si svolge, dunque, un’altra storia, il
cui filo conduttore non sono, come per la
storia umana, le guerre, le paci o le
invenzioni dell’uomo, ma sono le
“invenzioni” di Dio, i mirabilia Dei; gli
interventi meravigliosi e benevoli di Dio.

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Tutte le operazioni compiute da Dio al di
fuori di sé (ad extra), a partire dalla
creazione fino alla parusia, fanno parte di
questa storia. La venuta di Gesù
nell’incarnazione segna in essa un salto di
qualità, come quando un fiume arriva a una
chiusa e la barca riprende la navigazione a
un livello più alto. Tutti i gesti compiuti da
Gesù durante la sua vita fanno parte della
storia della salvezza: anche il suo silenzio e
la vita quotidiana di Nazaret appartengono
alla storia! Il suo tempo è “il centro dei
tempi” e “la pienezza dei tempi”. Ma la
storia della salvezza continua anche dopo di
lui e anche noi facciamo parte di essa. La
vita di ogni singolo credente, dal battesimo
alla morte, è una piccola storia di salvezza;
è il microcosmo della salvezza, mentre
l’altra storia, quella che va dalla creazione
alla parusia, ne è il macrocosmo. La venuta
finale di Cristo segnerà, in questa lunga
storia, un nuovo salto di livello: questa
volta, dalla storia a ciò che è sopra la storia,
dal tempo all’eternità, dalla speranza al
possesso e dalla fede alla gloria.

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Noi viviamo, dunque, nella pienezza dei
tempi inaugurata dall’incarnazione, in un
punto situato tra un “già” e un “non
ancora”. Immaginando la storia della
salvezza come una lunga linea che si svolge
nel tempo, possiamo indicare ciò che si è
“già” realizzato con una linea continua che
arriva fino al momento presente, e il “non
ancora” accaduto, ciò che aspettiamo che si
compia, con una linea tratteggiata che può
interrompersi ad ogni istante, giacché
questa notte stessa potrebbe tornare il
Signore.
Ora ci domandiamo: che posto occupa, in
questa storia della salvezza, l’Eucaristia? In
che punto della linea la dobbiamo
collocare? La risposta è: non occupa un
posto, ma la occupa tutta! L’Eucaristia è
coestensiva alla storia della salvezza: tutta
la storia della salvezza è presente
nell’Eucaristia e l’Eucaristia è presente in
tutta la storia della salvezza. Come in una
goccia di rugiada appesa a una siepe, in un
mattino sereno, si vede riflessa l’intera
volta del cielo, così nell’Eucaristia si

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rispecchia l’intero arco della storia della
salvezza.
L’Eucaristia, però, è presente in tre modi
diversi nei tempi, o fasi, che abbiamo
distinto nella storia della salvezza: è
presente nell’Antico Testamento come
figura; è presente nel Nuovo Testamento
come evento ed è presente nel tempo della
Chiesa, in cui viviamo noi, come
sacramento. La figura anticipa e prepara
l’evento, il sacramento “prolunga” e
attualizza l’evento.

1. Le figure dell’Eucaristia
Nell’Antico Testamento, dicevo,
l’Eucaristia è presente “in figura”. Tutto
l’Antico Testamento era una preparazione
della cena del Signore. «Un uomo diede una
grande cena»: «Chi è quest’uomo – esclama
sant’Agostino – se non il mediatore di Dio e
degli uomini Cristo Gesù? “All’ora della
cena, mandò a dire agli invitati: Venite, è
pronto” (Lc 14, 16 s): chi sono gli invitati
se non coloro che furono chiamati

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attraverso i profeti? Sempre, da quando
cominciarono a essere mandati, i profeti
invitavano alla cena di Cristo. Furono
inviati al popolo d’Israele; spesso furono
inviati, spesso invitarono, perché al tempo
opportuno venissero alla cena»1.
Questa attesa dell’ora della cena, oltre che
dalle parole dei profeti, fu tenuta desta
anche mediante delle figure o dei “tipi”,
cioè mediante dei segni o riti concreti che,
della cena di Cristo, costituivano la
preparazione visibile e quasi “l’abbozzo”.
Una di queste figure, ricordata da Gesù
stesso, era la manna (cf Es 16, 4 ss; Gv 6,
31 ss). Un’altra figura era il sacrificio di
Melchisedek che offrì pane e vino (cf Gn
14, 18; Sal 110, 4; Eb 7, 1 ss). Un’altra
ancora il sacrificio di Isacco. Nella
sequenza Lauda Sion Salvatorem, composta
da san Tommaso d’Aquino per la festa del
Corpus Domini, si canta: «Adombrato nelle
figure: immolato in Isacco, indicato
nell’agnello pasquale, dato ai padri come
manna». Tra tutte queste figure
dell’Eucaristia, ce n’è una che è più che una

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“figura”; ne è la preparazione e quasi
l’antefatto: la Pasqua! Da essa l’Eucaristia
prende il nome, la sua fisionomia di
banchetto o cena pasquale; in riferimento a
essa Gesù è detto “l’Agnello di Dio”. Già
fin dalla notte dell’esodo dall’Egitto, Dio
contemplava l’Eucaristia, già pensava a
donarci il vero Agnello: «Io vedrò il sangue
– dice Dio – e passerò oltre» (Es 12, 13),
cioè vi farò “fare Pasqua”, vi risparmierò e
vi salverò. I Padri della Chiesa si
domandavano, a questo punto, cosa vedesse
di tanto prezioso il Signore sulle case degli
ebrei, da “passar oltre” e da dire al suo
angelo di non colpire, e rispondevano:
vedeva il Sangue di Cristo, vedeva
l’Eucaristia! In uno dei primi testi pasquali
della Chiesa, leggiamo queste parole: «O
mistero nuovo e inesprimibile!
L’immolazione dell’agnello divenne
salvezza per Israele, la morte dell’agnello
divenne vita del popolo e il sangue intimorì
l’angelo (cf Es 12, 23). Rispondimi, o
angelo: cosa fu a incuterti timore:
l’uccisione dell’agnello o la vita del

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Signore? La morte dell’agnello o la vita del
Signore? Il sangue dell’agnello o lo Spirito
del Signore? È chiaro cosa ti ha spaventato:
tu hai visto il mistero del Signore
compiutosi nell’agnello, la vita del Signore
nell’immolazione dell’agnello, la figura del
Signore nella morte dell’agnello e per
questo non hai colpito Israele»2. «Quale
sarà mai la forza della realtà (cioè della
Pasqua cristiana), se già la semplice figura
di essa era causa di salvezza?»3. Grazie a
questa efficacia che avevano in quanto
figure dell’Eucaristia, san Tommaso arriva
a chiamare i riti dell’Antico Testamento «i
sacramenti dell’antica Legge»4.
Al tempo di Gesù, il rito della Pasqua
ebraica si svolgeva in due tempi: il primo
tempo era costituito dall’immolazione
dell’agnello che avveniva nel tempio di
Gerusalemme, nel pomeriggio del 14 Nisan;
il secondo tempo era costituito dalla
consumazione della vittima, nella cena
pasquale che si svolgeva, famiglia per
famiglia, nella notte successiva al 14 Nisan.
Durante la liturgia della cena, il padre di

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famiglia, che in quest’unica circostanza era
rivestito di una dignità sacerdotale,
illustrava il significato dei riti, tracciando ai
suoi figli un riassunto della meravigliosa
storia di Dio nei confronti del suo popolo.
Ai tempi di Gesù, la Pasqua aveva finito per
divenire il “memoriale”, non solo
dell’esodo dall’Egitto, ma anche di tutti gli
altri interventi di Dio nella storia d’Israele:
la Pasqua era il memoriale e l’anniversario
delle quattro notti più importanti del
mondo: della notte della creazione, quando
la luce brillò nelle tenebre, della notte del
sacrificio di Isacco da parte di Abramo,
della notte dell’uscita dall’Egitto e della
notte, ancora futura, della venuta del
Messia5.
La Pasqua ebraica era, dunque, un
memoriale (secondo la parola di Es 12, 14)
ed era anche un’attesa. Il dramma fu che,
quando il Messia atteso venne, non fu
riconosciuto, ma «fecero di lui quello che
vollero», uccidendolo proprio durante una
festa di Pasqua. Ma proprio uccidendolo,
essi realizzarono la figura, compirono ciò

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che si attendeva e cioè l’immolazione del
vero Agnello di Dio. Mentre, in quei giorni,
c’era, come al solito, in Gerusalemme, un
gran brulicare di gente venuta per celebrare
la Pasqua, nessuno sapeva che in una “sala
alta” della città si stava realizzando ciò che
da secoli si aspettava. Quando Gesù, dopo
aver preso del pane e reso grazie, lo spezzò
e lo diede ai suoi discepoli dicendo:
«Questo è il mio corpo che è dato per voi;
fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19),
quella parola «memoria» dovette richiamare
immediatamente la stessa parola contenuta
in Esodo e far pensare a una nuova
istituzione della Pasqua. Difatti, rimane
l’antico memoriale, ma è cambiato –
meglio, è compiuto – il suo contenuto:
d’ora in poi la Pasqua sarà memoriale di
un’altra immolazione e di un altro
passaggio. «Beata sei tu, o notte ultima,
perché in te si è compiuta la notte d’Egitto.
Il Signore nostro in te mangiò la piccola
Pasqua e diventò lui stesso la grande
Pasqua; la Pasqua si sostituì alla Pasqua, la
festa alla festa. Ecco la Pasqua che passa e

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la Pasqua che non passa; ecco la figura e il
suo compimento»6.

2. L’Eucaristia come evento


Siamo ormai nella pienezza dei tempi:
l’Eucaristia non è più presente ormai come
figura, ma come realtà. Non è distrutto o
dimenticato il contenuto antico della
Pasqua, ma a esso se ne sovrappone un altro
infinitamente più importante che lo
«invera» e lo sovrasta. La grande novità è
tutta racchiusa in questa esclamazione
dell’Apostolo: «Cristo, nostra Pasqua, è
stato immolato!» (1 Cor 5, 7). Per questo
l’Eucaristia può essere chiamata «il mistero
antico e nuovo: antico per la prefigurazione,
nuovo per la realizzazione»7.
Ma in che cosa consiste, propriamente,
l’evento che fonda l’Eucaristia e che
realizza la nuova Pasqua? I Vangeli ci
danno, su ciò, due risposte diverse, ma
complementari, le quali, insieme,
permettono di avere una visione più
comprensiva del mistero, come una cosa

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vista da due angolature differenti. La
Pasqua ebraica – abbiamo visto – si
svolgeva in due tempi e in due luoghi
diversi: l’immolazione nel tempio e la cena
nelle case. Ebbene, l’evangelista Giovanni
guarda di preferenza al momento
dell’immolazione; per lui la Pasqua
cristiana – e quindi l’Eucaristia – viene
istituita sulla croce, nel momento in cui
Gesù, vero Agnello di Dio, viene immolato.
Egli stabilisce un singolare sincronismo nel
suo vangelo: da una parte, sottolinea
continuamente l’avvicinarsi della Pasqua
dei giudei («mancavano sei giorni alla
Pasqua dei giudei», «era il giorno prima
della Pasqua», «era il giorno della
Pasqua»), dall’altra, sottolinea l’avvicinarsi,
per Gesù, della sua «ora», l’ora della sua
«glorificazione», cioè della sua morte. C’è,
dunque, un avvicinarsi “temporale”, di un
giorno e di un’ora precisi, e un avvicinarsi
«spaziale» verso Gerusalemme, finché
questi due movimenti convergono e si
incrociano sul Calvario, nel pomeriggio del
14 Nisan, precisamente nel momento in cui,

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nel tempio, cominciava l’immolazione degli
agnelli pasquali. Per sottolineare ancor più
chiaramente questa coincidenza, Giovanni
mette in rilievo il fatto che a Gesù, sulla
croce, «non fu spezzato alcun osso» (Gv 19,
36), come era, appunto, prescritto per la
vittima pasquale (cf Es 12, 46). È come se
l’evangelista facesse sue, in questo
momento, le parole del Battista e, additando
Gesù sulla croce, proclamasse
solennemente al mondo: «Ecco l’Agnello di
Dio, ecco colui che toglie il peccato del
mondo!» (Gv 1, 29).
Gli altri tre evangelisti, i Sinottici,
guardano invece, di preferenza, al momento
della cena. È nella cena, precisamente
nell’istituzione dell’Eucaristia, che si
compie, per essi, il passaggio dall’antica
alla nuova Pasqua. Un grande rilievo
assume in essi la preparazione dell’ultima
cena pasquale celebrata da Gesù prima di
morire: «Dov’è la stanza in cui posso
mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»
(Lc 22, 11). Potremmo dire che la cena dei
Sinottici anticipa e contiene già l’evento

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pasquale della immolazione di Cristo, come
l’azione simbolica anticipa talvolta, nei
profeti, l’evento annunciato. L’azione
simbolica, o il gesto profetico – come è per
esempio lo spezzare la brocca da parte di
Geremia (19, 1 ss), o il giacere a terra
legato di Ezechiele (4, 4 ss) – non è una
semplice illustrazione didattica
dell’annuncio orale; è «una prefigurazione
creatrice della realtà avvenire a cui doveva
seguire immediatamente l’attuazione. Nel
momento in cui il profeta, sia pure nelle
ridotte dimensioni del segno, innesta
l’avvenire nella storia, l’avvenire stesso
comincia ad attuarsi e quindi il segno del
profeta non è altro che una forma sublime
di discorso profetico» (G. von Rad). «I
segni profetici sono il concreto realizzarsi
della parola di Jahvè e sono avvenimenti
che anticipano la storia predetta dalla parola
di Dio» (W. Zimmerli).
In questa luce il gesto che Gesù compie
nell’ultima cena, spezzando il pane e
istituendo l’Eucaristia, è la suprema azione
simbolica e profetica della storia della

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salvezza; esso si colloca sulla scia delle
azioni simboliche dei profeti, anche se le
supera di tanto quanto la parola di Gesù è
superiore a quella dei profeti e la persona di
Gesù più divina di quella dei profeti.
Nell’istituire l’Eucaristia, Gesù annuncia
profeticamente e anticipa sacramentalmente
ciò che avverrà di lì a poco – la sua morte e
risurrezione –, innestando già l’avvenire
nella storia. La predicazione di Gesù
annuncia il veniente regno di Dio;
l’istituzione dell’Eucaristia è l’azione
profetica che anticipa il compimento di
questo annuncio che diventerà realtà nella
morte-risurrezione di Cristo. I Padri
(specialmente i Padri siriaci) sentivano così
fortemente questo realismo del gesto di
Cristo, che erano soliti contare i tre giorni
della morte di Gesù, non a partire dal
momento in cui muore sulla croce, ma dal
momento in cui, nel cenacolo, «spezzò il
suo corpo per i suoi discepoli»8. Si tratta
dunque di uno stesso fondamentale evento
che i Sinottici presentano anticipato
nell’azione simbolica e sacramentale

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dell’Eucaristia e che Giovanni presenta nel
suo pieno e definitivo manifestarsi sulla
croce.
Giovanni accentua il momento
dell’immolazione reale (la croce), mentre i
Sinottici accentuano il momento
dell’immolazione mistica (la cena). Ma si
tratta dello stesso evento guardato da due
diversi punti di osservazione e tale evento è
l’immolazione di Cristo. «Nella cena –
scrive sant’Efrem – Gesù si immolò da se
stesso; sulla croce fu immolato dagli altri»9,
e questo per indicare che nessuno poteva
togliergli la vita, se non fosse stato lui a
offrirla liberamente, avendo il potere di
offrirla e di riprenderla di nuovo (cf Gv 10,
18).
L’evento che fonda, o istituisce,
l’Eucaristia è, dunque, la morte e
risurrezione di Cristo, il suo «dare la vita
per riprenderla di nuovo». Lo chiamiamo
“evento” perché è qualcosa di storicamente
accaduto, un fatto unico nel tempo e nello
spazio, avvenuto una volta sola (semel) e
irripetibile: Cristo «una volta sola, alla

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pienezza dei tempi, è apparso per annullare
il peccato mediante il sacrificio di se
stesso» (Eb 9, 26). Ma non si tratta di nudi
“fatti”; questi fatti hanno una ragione, un
“perché”, che costituisce come l’anima di
questi fatti ed è l’amore. L’Eucaristia nasce
dall’amore; tutto si spiega con questo
motivo: perché ci amava; «Cristo vi ha
amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi
a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5, 2).
Ecco la migliore descrizione dell’origine e
dell’essenza dell’Eucaristia. Essa ci appare
come opera e dono di tutta la Trinità; tutta
la Trinità è implicata nell’istituzione
dell’Eucaristia: c’è il Figlio che si offre, il
Padre al quale si offre e lo Spirito Santo nel
quale si offre (cf Eb 9, 14).
Tutta la Trinità partecipa al sacrificio dal
quale nasce l’Eucaristia, non Gesù soltanto.
Questo ci aiuta a correggere un’idea errata
che possiamo avere concepito riguardo al
Padre. Una certa cultura moderna tenta,
stoltamente e sacrilegamente, di trasferire
su Dio-Padre alcune prevenzioni che la
psicanalisi ha reso familiari nei confronti

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del padre terreno. Così, si immagina il
Padre impassibile, nell’alto dei cieli, mentre
il Figlio muore sulla croce, pronto, anzi, a
ricevere l’offerta del suo sangue. Un Padre
che riceve soltanto e non si dona, che
chiede il sangue del proprio Figlio come
prezzo del riscatto, non potrebbe che
ispirarci spavento e ripugnanza. Ma questa
è una rappresentazione tutta sbagliata. San
Paolo dice che il Padre «non ha risparmiato
il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi»
(Rm 8, 32). «Per tutti noi»: qui sta la chiave
per capire tutto. Se il Padre trova
gradimento nel sacrificio del Figlio è perché
esso gli ha restituito «tutti i figli dispersi»
(cf Gv 11, 52), perché gli permette di
realizzare la sua più grande volontà che è
«che tutti gli uomini siano salvi» (cf 1 Tm
2, 4). Il Padre ama Gesù di amore così
smisurato, perché egli si è sacrificato per i
fratelli; non, si badi bene, semplicemente
perché si è sacrificato, ma perché si è
sacrificato per i fratelli. Dio resta sempre il
Dio che «vuole misericordia, non
sacrificio» (Os 6, 6); se ha gradito il

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sacrificio del Figlio, è perché esso gli ha
permesso di usare misericordia al mondo.
Il Padre non è, dunque, soltanto colui che
riceve il sacrificio del Figlio, ma anche
colui che dà in sacrificio il Figlio; che fa il
sacrificio di darci il suo Figlio! Se Gesù –
come diceva Paolo – ha offerto se stesso a
Dio «per noi», allora il destinatario del
sacrificio è, sì, Dio, ma il beneficiario non è
Dio, è l’uomo, siamo noi, e questo distingue
il sacrificio cristiano da ogni altro
sacrificio.
Potremmo continuare a parlare a lungo
dell’evento della croce da cui deriva
l’Eucaristia: non ne esauriremmo mai la
ricchezza. In quell’evento, apparentemente
così breve e così piccolo rispetto alla storia
del mondo, è racchiusa tanta energia che su
di esso riposa la salvezza della storia e del
mondo. Viene da pensare, per analogia,
all’energia immensa contenuta nell’atomo,
che è anch’esso così piccolo. Riferendosi a
quel momento, Gesù disse una volta: «Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra e come
vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49).

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Realmente, sulla croce «tutto è compiuto»:
non c’è nulla che si possa pensare o fare di
più grande; lì, si è dato fondo a tutte le
risorse divine e umane: ogni male è vinto in
radice, ogni salvezza procurata, ogni gloria
data alla Trinità.

3. L’Eucaristia come sacramento


Adesso consideriamo l’Eucaristia nel
terzo tempo della storia della salvezza, nel
tempo della Chiesa, in cui noi stessi
viviamo. Essa è presente, in questo tempo,
come sacramento, cioè nel segno del pane e
del vino, istituito da Gesù nell’ultima cena
con le parole: «Fate questo in memoria di
me».
È importante che comprendiamo bene la
differenza tra l’evento che abbiamo
descritto finora e il sacramento, la
differenza tra la storia e la liturgia. Ci aiuta
sant’Agostino. Noi – dice il santo dottore –
sappiamo e crediamo con fede certissima
che Cristo è morto una sola volta per noi,
lui giusto per i peccatori, lui Signore per i

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servi. Sappiamo perfettamente che ciò è
avvenuto una sola volta; e, tuttavia, il
sacramento periodicamente lo rinnova,
come se si ripetesse più volte quello che la
storia proclama essere avvenuto una sola
volta. Eppure evento e sacramento non sono
tra loro in contrasto, quasi che il sacramento
sia fallace e solo l’evento sia vero. Infatti,
di ciò che la storia afferma essere accaduto,
nella realtà, una sola volta, di questo il
sacramento rinnova (renovat) spesso la
celebrazione nel cuore dei fedeli. La storia
svela ciò che è accaduto una volta e come è
accaduto, la liturgia fa sì che il passato non
sia dimenticato; non nel senso che lo fa
accadere di nuovo (non faciendo), ma nel
senso che lo celebra (sed celebrando)10.
Precisare il nesso che esiste tra il
sacrificio unico della croce e la Messa è una
cosa assai delicata ed è stato sempre uno dei
punti di maggior dissenso tra cattolici e
protestanti. Agostino usa, come abbiamo
visto, due verbi: rinnovare e celebrare, che
sono giustissimi, a patto però di essere
intesi l’uno alla luce dell’altro: la Messa

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rinnova l’evento della croce celebrandolo
(non reiterandolo!) e lo celebra
rinnovandolo (non soltanto ricordandolo!).
La parola, nella quale si realizza oggi il
maggior consenso ecumenico, è forse il
verbo (usato anche da Paolo VI,
nell’enciclica Mysterium fidei)
rappresentare, inteso nel senso forte di ri-
presentare, cioè rendere nuovamente
presente11.
Secondo la storia, c’è stata, dunque, una
sola Eucaristia, quella realizzata da Gesù
con la sua vita e la sua morte; secondo la
liturgia, invece, cioè grazie al sacramento
istituito da Gesù nell’ultima cena, ci sono
tante Eucaristie quante se ne sono celebrate
e se ne celebreranno fino alla fine del
mondo. L’evento si è realizzato una sola
volta (semel), il sacramento si realizza
«ogni volta» (quotiescumque).
Grazie al sacramento dell’Eucaristia, noi
diventiamo, misteriosamente,
contemporanei dell’evento; l’evento si fa
presente a noi e noi all’evento. Nella
liturgia della notte di Pasqua, gli ebrei del

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tempo di Gesù dicevano: «In ogni
generazione, ognuno deve considerare se
stesso, come se egli in persona fosse uscito,
quella notte, dall’Egitto»12. Applicato a noi
cristiani, questo testo viene a dire che in
ogni generazione, ciascuno deve
considerare se stesso, come se egli in
persona fosse stato, quel pomeriggio, sotto
la croce, insieme con Maria e con Giovanni.
Sì, noi eravamo là; «tutti là siamo nati».
Quando ascolto quel canto “spiritual” negro
che dice: «C’eri tu, c’eri tu, alla croce di
Gesù?», dentro di me rispondo sempre: Sì,
c’ero anch’io alla croce di Gesù!
Ma il sacramento dell’Eucaristia non
rende presente l’evento della croce soltanto
a noi; sarebbe poco: lo rende presente
soprattutto al Padre. A ogni “frazione del
pane”, quando il sacerdote spezza l’ostia, è
come se venisse di nuovo infranto il vaso di
alabastro dell’umanità di Cristo, come
avvenne, appunto, sulla croce, e il profumo
della sua obbedienza salisse ad intenerire
ancora il cuore del Padre. Come quando
Isacco aspirò il profumo delle vesti di

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Giacobbe e lo benedisse dicendo: «Ecco
l’odore del mio figlio come l’odore di un
campo che il Signore ha benedetto» (Gn 27,
27).
Se ci domandiamo come mai l’evento
della croce non è finito e concluso in se
stesso, come ogni altro fatto della storia, ma
continua, invece, a essere attuale anche
oggi, la risposta ultima è: lo Spirito Santo!
Riprendendo un detto di san Basilio, papa
Leone XIII, nella sua enciclica sullo Spirito
Santo, dice che «Cristo ha compiuto ogni
sua opera, e specialmente il suo sacrificio,
con l’intervento dello Spirito Santo
(praesente Spiritu)». Nella Messa, prima
della comunione, il sacerdote prega
dicendo: «Signore Gesù Cristo, Figlio del
Dio vivo, che per volontà del Padre “e con
l’opera dello Spirito Santo”, morendo hai
dato la vita al mondo...». Tutto ciò si fonda
sulla parola della Scrittura, in cui si dice
che Cristo, «in virtù di uno Spirito eterno,
offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9,
14). Queste parole illuminano l’evento della
croce di una luce nuova; esso appare un

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evento «spirituale», nel senso che fu
operato nello Spirito Santo. Era lo Spirito
Santo, che è amore, a suscitare nelle
profondità dell’anima umana di Cristo quel
movimento di autodonazione di sé al Padre,
per noi, che gli fece abbracciare la croce.
Lo Spirito Santo è detto, in questo passo,
Spirito «eterno»: eterno significa, qui, che
non è destinato a cessare, come i sacrifici
dell’Antico Testamento, ma che dura
sempre, sino alla fine dei secoli. Grazie allo
Spirito «eterno», Gesù ci ha procurato una
redenzione «eterna» (cf Eb 9, 12). Il
sacrificio della croce, per sé, finì, nel
momento, in cui Gesù, chinato il capo,
spirò. Ma in esso c’era come una fiamma
nascosta, che, una volta accesa, non poteva
più essere spenta, neppure dalla morte.
Gesù di Nazaret, come tale, non resta con
noi «sempre», ma torna al Padre; invece il
suo Spirito resta con noi «in eterno». Lo
dice Gesù stesso. Ai giudei che gli
obiettavano: «Noi abbiamo appreso dalla
legge che il Cristo rimane in eterno; come
dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve

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essere elevato?» (Gv 12, 34), Gesù risponde
indirettamente, di lì a poco, quando dice:
«Io pregherò il Padre ed egli vi darà un
altro Consolatore perché rimanga con voi
sempre» (Gv 14, 16). Cristo rimane in
eterno, dando ai discepoli il suo Spirito che
resta con loro per sempre.
Questo fa capire perché il sacrificio della
croce può, in un certo senso, durare ancora.
Come la vita intera di Gesù, esso è concluso
e non concluso, momentaneo e duraturo:
momentaneo secondo la storia, duraturo
secondo lo Spirito. I sacramenti della
Chiesa, e in modo tutto speciale
l’Eucaristia, sono resi possibili dallo Spirito
di Gesù che vive nella Chiesa. Da questo
fondamento teologico, scaturisce
l’importanza dell’epiclesi, cioè
dell’invocazione dello Spirito Santo, nella
Messa, al momento di consacrare le offerte.
Sulla croce Gesù, chinato il capo «spirò»,
cioè «emise lo Spirito» (cf Gv 19, 30); a
ogni Messa è come se quell’ultimo respiro
di Gesù, mai spento, tornasse ad aleggiare
su di noi, a smuovere, per così dire, l’aria e

27
a riempire l’assemblea della presenza di
Cristo. Si rinnova, in modo tutto spirituale e
invisibile, il prodigio che avvenne, per la
preghiera di Elia, sul monte Carmelo,
quando un fuoco scese dal cielo e bruciò la
legna dell’olocausto, consumando il
sacrificio (cf 1 Re 18, 38).
Se celebreremo anche noi – come fece
Gesù sulla croce – la nostra Messa «in
compagnia dello Spirito Santo», egli darà
un raccoglimento nuovo e una luce nuova
alle nostre celebrazioni. Farà davvero di noi
– come chiediamo nel canone della Messa –
«un sacrificio perenne a Dio gradito».

Note
1 Agostino, Sermo 112 (PL 38, 643).
2 Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 31 ss (SCh 123,
p. 76 s).
3 Omelia pasquale di antico autore, 3 (SCh 27, p.
121).
4 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 60,
a. 2, 2.
5 Cf Targum su Esodo 12, 42 (R. Le Déaut, La nuit
pascale, Roma 1963, pp. 64 s).
6 Efrem, Inni sulla crocifissione, 3, 2 (ed. Th. I.

28
Lamy, 1882, p. 656).
7 Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 2 s (SCh 123, p.
60 s).
8 Efrem, Comm. al Diatess., 9, 4 (SCh 121, p. 333).
9 Id., Inni sulla crocifissione, 3, 1 (ed. Th. I. Lamy,
1882, p. 655).
10 Cf Agostino, Sermo 220 (PL 38, 1089).
11 Cf Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57, 1965, p.
753 ss).
12 Pesachim, X, 5.

29
II
«Questo è il mio corpo
offerto in sacrificio per voi»
L’Eucaristia fa la Chiesa
mediante consacrazione

Nella precedente meditazione abbiamo


considerato l’Eucaristia nella storia della
salvezza, in cui essa è presente,
successivamente, come figura, come evento
e come sacramento. Ora e nelle meditazioni
che seguiranno concentriamo tutta la nostra
attenzione sull’Eucaristia-sacramento, cioè
sull’Eucaristia come è attinta oggi da noi
nella Chiesa. In questa nuova prospettiva,
l’Eucaristia ci appare, non più al centro di
una linea (la linea che si snoda dall’esodo
alla parusia), ma piuttosto al centro di un
cerchio. Questo cerchio rappresenta

30
idealmente la Chiesa, come essa esiste oggi,
in tutta la sua concretezza. Possiamo, anzi,
rappresentarci, con la mente, tre cerchi
concentrici: un cerchio più grande che è
l’universo intero; dentro di esso, un cerchio
più piccolo che è la Chiesa e, infine, dentro
questo secondo cerchio, un cerchio ancora
più piccolo (anche se, in realtà, contiene
tutto l’universo) che è l’Ostia. L’Eucaristia
ci appare come il centro e il sole, non solo
della Chiesa, ma anche del resto
dell’umanità e dell’universo intero anche
inanimato. La differenza è solo questa: che
la Chiesa ha per centro Gesù Cristo e sa di
averlo; l’universo ha per centro Gesù
Cristo, ma non sa di averlo!
Il rapporto Eucaristia-Chiesa, sul quale
vogliamo ormai riflettere, non è però un
rapporto statico, ma un rapporto dinamico e
operativo. Non basta, perciò, dire che
l’Eucaristia sta al centro della Chiesa,
bisogna dire: l’Eucaristia fa la Chiesa! Se la
costruisce standovi dentro, se la tesse
intorno come un vestito. Di due sacramenti
si dice, in modo particolare, che “fanno” la

31
Chiesa: del Battesimo e dell’Eucaristia. Ma
mentre il Battesimo fa crescere la Chiesa,
per così dire, in estensione e in numero,
cioè quantitativamente, l’Eucaristia la fa
crescere in intensità, qualitativamente,
perché la trasforma sempre più in
profondità ad immagine del suo Capo,
Cristo. Il regno dei cieli è simile al lievito
che una donna nasconde in tre staia di
farina (cf Mt 13, 33); anche l’Eucaristia è
simile a un lievito; Gesù l’ha posta nella
massa di farina, che è la sua Chiesa, perché
la “sollevi” e la faccia fermentare tutta; ne
faccia un “pane”, come è lui! Se la Chiesa è
il lievito del mondo, l’Eucaristia è il lievito
della Chiesa.
In vari modi, o momenti, l’Eucaristia “fa”
la Chiesa, cioè la trasforma in Cristo:
mediante consacrazione, mediante
comunione, mediante contemplazione e
mediante imitazione. Meditiamo sul primo
di questi modi o momenti: l’Eucaristia fa la
Chiesa mediante consacrazione.

1. «Spezzò il pane»

32
Nell’epistola ai Romani leggiamo queste
parole dell’Apostolo: «Vi esorto, fratelli,
per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri
corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio, è questo il vostro culto
spirituale» (Rm 12, 1). Ma queste parole
richiamano alla mente irresistibilmente le
parole pronunciate da Gesù nell’ultima
cena: «Prendete, mangiate: questo è il mio
corpo offerto in sacrificio per voi». Quando,
perciò, san Paolo ci esorta a offrire i nostri
corpi in sacrificio, è come se dicesse: Fate
anche voi ciò che ha fatto Cristo Gesù;
fatevi anche voi eucaristia per Dio! Egli si è
offerto a Dio in sacrificio di soave odore;
offritevi anche voi in sacrificio vivente e
gradito a Dio!
Ma è Gesù stesso che ci esorta a fare così,
non solo l’apostolo Paolo. Quando,
compiuta l’istituzione dell’Eucaristia, diede
il comando: «Fate questo in memoria di
me» (Lc 22, 19), egli, infatti, non intendeva
dire soltanto: Fate esattamente i gesti che
ho fatto io, ripetete il rito che io ho
compiuto; ma intendeva dire anche: Fate la

33
sostanza di ciò che ho fatto io; offrite anche
voi il vostro corpo in sacrificio, come
vedete che ho fatto io! «Vi ho dato infatti
l’esempio, perché come ho fatto io, facciate
anche voi» (Gv 13, 15). Anzi, c’è qualcosa
di ancora più pressante e accorato in quel
comando di Gesù. Noi siamo il “suo”
corpo, le “sue” membra (cf 1 Cor 12, 12
ss); perciò è come se Gesù ci dicesse:
Permettetemi di offrire al Padre il mio
stesso corpo che siete voi; non mi impedite
di offrire me stesso al Padre; io non posso
offrirmi totalmente al Padre finché c’è un
solo membro del mio corpo che si rifiuta di
offrirsi con me! Completate, dunque, ciò
che manca alla mia offerta; fate piena la
mia gioia!
Guardiamo, dunque, con occhi nuovi il
momento della consacrazione eucaristica,
poiché ora sappiamo – come diceva
sant’Agostino – che «è anche il nostro
mistero che si celebra sull’altare»1. Ho detto
che per celebrare in verità l’Eucaristia
bisogna “fare” anche noi ciò che fece Gesù.
Cosa fece Gesù quella notte? Anzitutto,

34
compì un gesto: spezzò il pane; tutti i
racconti dell’istituzione mettono in rilievo
questo gesto, tanto che l’Eucaristia prese,
ben presto, il nome di “frazione del pane”
(fractio panis). Ma il significato di quel
gesto, forse, non l’abbiamo ancora
compreso appieno. Perché Gesù spezzò il
pane? Solo per darne un pezzo a ciascuno,
cioè in vista dei suoi discepoli? No! Quel
gesto aveva, prima di tutto, un significato
sacrificale che si consumava tra Gesù e il
Padre; non indicava solo condivisione, ma
anche immolazione. Il pane è lui stesso;
spezzando il pane, Gesù “spezzava” se
stesso, nel senso con cui Isaia aveva detto
del Servo di Jahvè: egli è stato spezzato
(attritus) per i nostri delitti (cf Is 53, 5).
Una creatura umana – che, però, è lo stesso
Figlio eterno di Dio – spezza se stessa
davanti a Dio, cioè «obbedisce fino alla
morte», per riaffermare i diritti di Dio
violati dal peccato, per proclamare che Dio
è Dio e basta. È impossibile spiegare a
parole l’essenza dell’atto interiore che
accompagna il gesto di spezzare il pane. A

35
noi sembra un atto duro, crudele, ed è,
invece, il supremo atto di amore e di
tenerezza che sia stato mai compiuto o che
possa compiersi sulla terra. Quando, alla
consacrazione, tengo tra le mani la fragile
ostia e ripeto le parole: «spezzò il pane...»,
mi sembra di intuire qualcosa dei sentimenti
che erano, in quel momento, nel cuore di
Gesù: come la sua volontà umana si
consegnava interamente al Padre, vincendo
ogni resistenza, e ripeteva tra sé le ben note
parole della Scrittura: Tu non hai gradito né
olocausti né sacrifici per il peccato, ma mi
hai preparato un corpo; ecco che ora io ti
offro questo corpo che mi hai dato: io
vengo, o Dio, a fare la tua volontà (cf Eb
10, 5-9). Quello che Gesù dà da mangiare ai
suoi discepoli è il pane della sua
obbedienza e del suo amore per il Padre.
Allora capisco che per “fare” anch’io ciò
che fece Gesù in quella notte, devo
anzitutto “spezzare” me stesso, cioè deporre
ogni rigidezza davanti a Dio, ogni ribellione
verso di lui o verso i fratelli, devo
infrangere il mio orgoglio, piegarmi e dire

36
“sì” fino in fondo, a tutto ciò che Dio mi
chiede; devo ripetere anch’io quelle parole:
Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!
Tu non vuoi tante cose da me; vuoi me e io
ti dico “sì”. Essere eucaristia come Gesù
significa essere una cosa tutta abbandonata
alla volontà del Padre.

2. «Prendete, mangiatene tutti...»


Dopo aver spezzato il pane e mentre lo
dava ai suoi discepoli, Gesù pronunciò
anche alcune parole; disse: «Prendete e
mangiate; questo è il mio corpo che è dato
per voi» (Mt 26, 26; Lc 22, 19). Voglio dire,
a questo proposito, la mia piccola
esperienza, come, cioè, sono giunto a
scoprire che anche queste parole devono
essere fatte “nostre”, al pari del gesto di
spezzare il pane; come sono giunto,
insomma, a scoprire la portata ecclesiale e
personale della consacrazione eucaristica.
Fino a qualche anno fa, ecco come io
vivevo il momento della consacrazione
nella santa Messa: chiudevo gli occhi,

37
chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da
tutto ciò che mi circondava per
immedesimarmi in Gesù che, nel cenacolo,
prima di morire, pronunciò per la prima
volta quelle parole: «Prendete, mangiate...».
La liturgia stessa favoriva questo
atteggiamento, facendo pronunciare le
parole della consacrazione a voce bassa e in
latino, chinati sulle specie. Poi, un giorno,
ho capito che tale atteggiamento, da solo,
non esprimeva tutto il significato della mia
partecipazione alla consacrazione. Quel
Gesù del cenacolo non esiste più! Esiste
ormai il Gesù risorto: il Gesù, per essere
esatti, che era morto, ma ora vive per
sempre (cf Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il
“Cristo totale”, Capo e corpo
inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo
Cristo totale che pronuncia le parole della
consacrazione, anch’io le pronuncio con lui.
Dentro l’“Io” grande del Capo, c’è nascosto
il piccolo “io” del corpo che è la Chiesa.
C’è anche il mio piccolissimo “io” e
anch’esso dice a chi gli sta davanti:
«Prendete, mangiate; questo è il mio corpo

38
offerto in sacrificio per voi!». Che mistero!
Gesù mi ha unito a sé nell’azione più
sublime, più santa della storia: nell’unica
azione pienamente “degna di Dio”, degna
della sua santità e della sua maestà. Stupisci
o cielo, esulta o terra, rallegratevi angeli,
tremate demoni: Dio ha ottenuto ciò per cui
ha creato l’universo; il suo progetto e il suo
desiderio si sono realizzati; niente ha potuto
impedirlo, neppure il peccato: la creatura si
è restituita a lui con un moto spontaneo di
amore; ha offerto in sacrificio ciò che aveva
ricevuto in dono da Dio.
Da quel giorno in cui capii questo, non
chiudo più gli occhi al momento della
consacrazione, ma guardo i fratelli che ho
davanti, o, se celebro da solo, penso a
coloro che devo incontrare nella giornata e
ai quali devo dedicare il mio tempo, o
penso addirittura a tutta la Chiesa e, rivolto
a essi, dico come Gesù: Prendete, mangiate:
questo è il mio corpo.
In seguito è venuto sant’Agostino con
alcune sue parole a togliermi ogni dubbio
su questa intuizione e a farmi vedere che

39
essa appartiene alla dottrina più “sana”
della tradizione, anche se ora un po’
dimenticata. «Tutta la città redenta, cioè
l’assemblea comunitaria dei santi – scrive
egli – viene offerta a Dio come sacrificio
universale per la mediazione del sacerdote
grande che nella passione offrì se stesso per
noi nella forma di servo, perché fossimo il
corpo di un Capo così grande. La Chiesa
celebra questo mistero nel sacramento
dell’altare ben noto ai fedeli; in esso viene
mostrato che in ciò che offre, è essa stessa
che si offre (in ea re quam offert, ipsa
offertur)»2.
La Chiesa, nell’Eucaristia è, dunque,
offerente e offerta nello stesso tempo e in
ogni suo membro. Non si possono dividere
e ripartire le due cose, quasi che la Chiesa
ministeriale (il sacerdote) sia l’offerente e il
resto della Chiesa (i laici) l’offerta. Ogni
membro della Chiesa è, simultaneamente,
sacerdote e vittima, ferma restando,
s’intende, la differenza tra sacerdozio
ministeriale e sacerdozio universale di tutti i
battezzati. Questo perché Gesù, al quale ci

40
uniamo, è lui stesso, contemporaneamente,
«in modo inconfuso, ma anche indiviso»,
sacerdote e vittima: «per noi è sacerdote e
sacrificio davanti al Padre: sacerdote
proprio perché vittima (ideo sacerdos, quia
sacrificium)»3. È questa la caratteristica
unica e irripetibile del sacrificio di Cristo
che scaturisce dal mistero dell’unione
ipostatica dell’umanità e della divinità nella
sua unica persona. La conseguenza che ne
deriva è che, sul piano reale, l’unico che
conta per la propria santificazione (non però
sul piano ministeriale), tanto più un
vescovo e un sacerdote partecipano al
sacerdozio di Cristo, quanto più partecipano
al suo sacrificio; più perfettamente uno si
offre al Padre con Cristo, più realmente
offre al Padre Cristo. Sull’altare il sacerdote
agisce al posto di Cristo Sommo Sacerdote,
ma anche al posto (“in persona”) di Cristo
Somma Vittima.
«Sapendo – scrive san Gregorio
Nazianzeno – che nessuno è degno della
grandezza di Dio, della Vittima e del
Sacerdote, se non si è prima offerto lui

41
stesso come sacrificio vivente e santo, se
non si è presentato come oblazione
ragionevole e gradita (cf Rm 12, 1) e se non
ha offerto a Dio un sacrificio di lode e uno
spirito contrito – l’unico sacrificio di cui
l’autore di ogni dono domanda l’offerta –,
come oserò offrirgli l’offerta esteriore
sull’altare, quella che è la rappresentazione
dei grandi misteri?»4. L’offerta del corpo di
Cristo deve essere accompagnata
dall’offerta del proprio corpo.
Tutto, dunque, è limpido e sicuro in
questa visione della consacrazione
eucaristica. Ci sono due corpi di Cristo
sull’altare: c’è il suo corpo reale (il corpo
«nato da Maria Vergine», risorto e asceso al
cielo) e c’è il suo corpo mistico che è la
Chiesa. Ebbene, sull’altare è presente
realmente il suo corpo reale ed è presente
misticamente il suo corpo mistico, dove
“misticamente” significa: in forza della sua
inscindibile unione con il Capo. Nessuna
confusione tra le due presenze che sono ben
diverse, ma anche nessuna divisione.
L’offerta di noi e della Chiesa, senza quella

42
di Gesù, sarebbe un nulla; non sarebbe né
santa, né gradita a Dio, perché siamo solo
creature peccatrici. Ma l’offerta di Gesù,
senza quella della Chiesa che è il suo corpo,
non sarebbe sufficiente (non sarebbe
sufficiente, s’intende, alla redenzione
passiva, cioè per ricevere la salvezza, non
alla redenzione attiva, cioè per procurare la
salvezza), tanto è vero che la Chiesa può
dire, con san Paolo: Completo nella mia
carne ciò che manca alla passione di Cristo
(cf Col 1, 24).
Poiché ci sono due “offerte” e due “doni”
sull’altare – quello che deve diventare il
corpo e il sangue di Cristo (il pane e il vino)
e quello che deve diventare il corpo mistico
di Cristo –, ecco che ci sono anche due
«epiclesi» nella Messa, cioè due
invocazioni dello Spirito Santo. Nella prima
si dice: «Ora ti preghiamo umilmente:
manda il tuo Spirito a santificare i doni che
ti offriamo, perché diventino il corpo e il
sangue di Gesù Cristo»; nella seconda, che
si recita dopo la consacrazione, si dice:
«Dona la pienezza dello Spirito Santo

43
perché diventiamo in Cristo un solo corpo e
un solo spirito. Egli (lo Spirito) faccia di
noi un sacrificio perenne a te gradito».
Ora sappiamo come l’Eucaristia fa la
Chiesa: l’Eucaristia fa la Chiesa, facendo
della Chiesa un’Eucaristia! L’Eucaristia non
è solo, genericamente, la sorgente o la causa
della santità della Chiesa; ne è anche la
“forma”, cioè il modello. La santità del
cristiano deve realizzarsi secondo la
“forma” dell’Eucaristia; deve essere una
santità eucaristica. Il cristiano non può
limitarsi a celebrare l’Eucaristia, deve
essere Eucaristia con Gesù.

3. «Questo è il mio corpo, questo è il mio


sangue»
Ora possiamo tirare le conseguenze
pratiche di questa dottrina per la nostra vita
quotidiana. Se nella consacrazione siamo
anche noi che, rivolti ai fratelli, diciamo:
«Prendete, mangiate: questo è il mio corpo;
prendete, bevete: questo è il mio sangue»,
dobbiamo sapere cosa significano «corpo»

44
e «sangue», per sapere ciò che offriamo.
Cosa intendeva donarci Gesù, dicendo,
nell’ultima cena: «Questo è il mio corpo»?
La parola «corpo» non indica, nella Bibbia,
una componente, o una parte, dell’uomo
che, unita alle altre componenti che sono
l’anima e lo spirito, forma l’uomo
completo. Così ragioniamo noi che siamo
eredi della cultura greca che pensava,
appunto, l’uomo a tre stadi: corpo, anima e
spirito (tricotomismo). Nel linguaggio
biblico, e quindi in quello di Gesù e di
Paolo, “corpo” indica tutto l’uomo, in
quanto vive la sua vita in un corpo, in una
condizione corporea e mortale. Giovanni,
nel suo Vangelo, al posto della parola
“corpo”, usa la parola “carne” («se non
mangiate la carne del Figlio dell’uomo...»)
ed è chiaro che questa parola, che troviamo
al capitolo sesto del Vangelo, ha lo stesso
significato che ha nel capitolo primo, in cui
si dice che «il Verbo si è fatto carne», cioè
uomo. “Corpo” indica, dunque, tutta la vita.
Gesù, istituendo l’Eucaristia, ci ha lasciato
in dono tutta la sua vita, dal primo istante

45
dell’incarnazione all’ultimo momento, con
tutto ciò che concretamente aveva riempito
tale vita: silenzio, sudori, fatiche, preghiera,
lotte, umiliazioni...
Poi Gesù dice anche: Questo è il mio
sangue. Cosa aggiunge con la parola
«sangue», se ci ha già donato tutta la sua
vita nel suo corpo? Aggiunge la morte!
Dopo averci donato la vita, ci dona anche la
parte più preziosa di essa, la sua morte. Il
termine “sangue” nella Bibbia non indica,
infatti, una parte del corpo, cioè una parte di
una parte dell’uomo; indica un evento: la
morte. Se il sangue è la sede della vita (così
si pensava allora), il suo “versamento” è il
segno plastico della morte. «Dopo aver
amato i suoi che erano nel mondo – scrive
Giovanni – li amò sino alla fine» (Gv 13,
1). L’Eucaristia è il mistero del corpo e del
sangue del Signore, cioè della vita e della
morte del Signore!
Ora, venendo a noi, cosa offriamo noi,
offrendo il nostro corpo e il nostro sangue,
insieme con Gesù, nella Messa? Offriamo
anche noi quello che offrì Gesù: la vita e la

46
morte. Con la parola “corpo”, doniamo tutto
ciò che costituisce concretamente la vita
che conduciamo in questo corpo: tempo,
salute, energie, capacità, affetto, magari
solo un sorriso, che solo uno spirito che
vive in un corpo può fare e che è, a volte,
una cosa così preziosa. Con la parola
«sangue», esprimiamo anche noi l’offerta
della nostra morte; ma non necessariamente
la morte definitiva, il martirio per Cristo o
per i fratelli. È morte tutto ciò che in noi,
fin d’ora, prepara e anticipa la morte:
umiliazioni, insuccessi, malattie che
immobilizzano, limitazioni dovute all’età,
alla salute, tutto ciò che ci “mortifica”.
Quando san Paolo, come abbiamo ascoltato,
ci esorta, per la misericordia di Dio, a
offrire «i nostri corpi», non intendeva, con
la parola “corpo”, solo i nostri sensi e
appetiti carnali, ma tutti noi stessi, anima e
corpo; anzi, soprattutto l’anima, la volontà,
l’intelligenza. Prosegue infatti dicendo:
«Non conformatevi alla mentalità di questo
secolo, ma trasformatevi rinnovando la
vostra mente, per discernere la volontà di

47
Dio, ciò che è buono, a lui gradito e
perfetto» (Rm 12, 2).
Tutto ciò esige, però, che noi, appena
usciti dalla Messa, ci diamo da fare per
realizzare ciò che abbiamo detto; che
realmente ci sforziamo, con tutti i nostri
limiti, di offrire ai fratelli, il nostro “corpo”,
cioè il tempo, le energie, l’attenzione; in
una parola, la nostra vita. Gesù, dopo aver
pronunciato quelle parole: «Prendete...
questo è il mio corpo; prendete... questo è il
mio sangue», non lasciò passare molto
tempo che compì ciò che aveva promesso:
dopo poche ore diede la sua vita e il suo
sangue sulla croce. Diversamente, tutto
resta parola vuota, anzi menzogna. Bisogna,
dunque, che, dopo aver detto ai fratelli:
«Prendete, mangiate», noi ci lasciamo
realmente “mangiare” e ci lasciamo
mangiare soprattutto da chi non lo fa con
tutta la delicatezza e il garbo che ci
aspetteremmo. Gesù diceva: Se amate solo
quelli che vi amano; se salutate solo quelli
che vi salutano; se invitate solo quelli che vi
riinvitano, che merito ne avete? Così fanno

48
tutti. Sant’Ignazio di Antiochia, andando a
Roma per morirvi martire, scriveva: «Io
sono frumento di Cristo: che io sia
macinato dai denti delle fiere, per diventare
pane puro per il Signore»5. Ognuno di noi,
se si guarda bene intorno, ha di questi denti
acuminati di fiere che lo macinano: sono
critiche, contrasti, opposizioni nascoste o
palesi, divergenze di vedute con chi ci sta
intorno, diversità di carattere. Dovremmo
essere perfino grati a quei fratelli che ci
aiutano in questo modo; essi ci sono
infinitamente più utili che non coloro che ci
approvano e lusingano in tutto; lo stesso
santo martire Ignazio, in un’altra lettera,
diceva: «Coloro che mi lodano, mi
flagellano»6.
Proviamo a immaginare cosa avverrebbe
se celebrassimo con questa partecipazione
personale la Messa, se dicessimo veramente
tutti, al momento della consacrazione, chi
ad alta voce e chi silenziosamente, secondo
il ministero di ognuno: Prendete, mangiate.
Una mamma di famiglia celebra così la sua
Messa, poi va a casa e comincia la sua

49
giornata fatta di mille piccole cose. La sua
vita è letteralmente sbriciolata; ma non è
cosa da niente quello che fa: è un’eucaristia
insieme con Gesù! Una suora vive così la
sua Messa, poi anche lei va al suo lavoro
giornaliero: bambini, malati, anziani. Anche
la sua vita può sembrare polverizzata in
mille cose che, giunta a sera, non lasciano
traccia; una giornata perduta. Invece è
eucaristia; ha “salvato” la propria vita! Un
sacerdote, un parroco e, a maggior ragione,
un vescovo, celebra così la sua Messa, poi
va: prega, predica, confessa, riceve gente,
visita malati, ascolta; anche la sua giornata
è eucaristia. Come Gesù rimane uno nella
frazione del pane, così una vita spesa in
questo modo è unitaria, non è dispersiva e
ciò che la rende unitaria è il fatto che è
eucaristia. Anche lui rimane unito nella
frazione, unito nel dividersi, nel donarsi. Un
grande maestro di spirito diceva: «Al
mattino, nella Messa, io sono sacerdote e
Gesù è vittima; lungo la giornata, Gesù è
sacerdote e io vittima» (P. Olivaint). Così
un sacerdote imita il “buon Pastore”, perché

50
realmente dà la vita per le sue pecorelle.
Ma non bisogna dimenticarci che
abbiamo offerto anche il nostro “sangue”,
cioè le passività, le mortificazioni. Esse
sono la parte migliore che Dio stesso
destina a chi ha più bisogno nella Chiesa. È
quando non possiamo più andare e fare ciò
che vogliamo, che possiamo essere più
vicini all’Ostia grande che è Cristo. Gesù
dopo la Pasqua disse a Pietro: «“Quando eri
più giovane ti cingevi la veste da solo, e
andavi dove volevi; ma quando sarai
vecchio tenderai le mani, e un altro ti
cingerà la veste e ti porterà dove tu non
vuoi”. Questo gli disse per indicare con
quale morte egli avrebbe glorificato Dio»
(Gv 21, 18 ss). Poco prima Gesù ha detto a
Pietro tre volte: «Pasci le mie pecorelle»,
ma ora gli fa capire che la gloria maggiore è
quella che darà a Dio morendo.
Grazie all’Eucaristia, non ci sono più vite
«inutili» al mondo; nessuno dovrebbe dire:
«A che serve la mia vita? Perché sono al
mondo?». Sei al mondo per lo scopo più
sublime che ci sia: per essere un sacrificio

51
vivente, un’eucaristia insieme con Gesù.

4. «Vieni al Padre!»
Il segreto è offrirsi completamente, non
trattenendo volontariamente nulla per sé.
Gesù sulla croce fu tutto oblazione. Non
c’era fibra del suo corpo o sentimento della
sua anima che non fosse offerto al Padre;
tutto era sull’altare. Tutto ciò che uno
trattiene per sé è perduto, perché non si
possiede se non ciò che si dona. San
Francesco d’Assisi che possiamo prendere
come speciale maestro per l’elevatezza e il
fervore della sua pietà eucaristica, conclude
una sua mirabile pagina sulla santa Messa,
con questa esortazione: «Guardate, frati,
l’umiltà di Dio e aprite davanti a lui i vostri
cuori; umiliatevi anche voi perché egli vi
esalti. Nulla di voi tenete per voi; affinché
vi accolga tutti colui che a voi si dà tutto»7.
L’autore dell’Imitazione di Cristo fa dire a
Gesù: «Ecco, io mi sono offerto tutto al
Padre per te e ho dato tutto il corpo e il
sangue mio in cibo, per essere tutto tuo, e tu

52
mio per sempre. Ma se vorrai appartenere a
te stesso e non ti offrirai spontaneamente
alla mia volontà, non c’è offerta completa,
né vi sarà perfetta unione fra noi»8. La cosa
che uno trattiene per sé, per conservare un
margine di libertà con Dio, inquina tutto il
resto. È quel piccolo filo di seta di cui parla
san Giovanni della Croce che impedisce
all’uccello di volare.
Anche noi perciò, con l’autore
dell’Imitazione di Cristo, rispondiamo
all’offerta di Cristo offrendo tutti noi stessi
con queste parole che egli ci suggerisce:
«Signore, tutto quanto si trova in cielo e
sulla terra è tuo. Desidero offrirti me stesso
in volontaria oblazione e restare tuo per
sempre. Signore, in semplicità di cuore, ti
offro oggi me stesso come servo perpetuo,
in ossequio e in sacrificio di eterna lode.
Accettami in unione alla santa offerta del
tuo prezioso corpo, che a te oggi immolo al
cospetto degli angeli invisibilmente
presenti, perché sia di salvezza a me e a
tutto il popolo cristiano»9.
Dove trovare, però, la forza per fare

53
questa offerta totale di sé, per prendersi e
sollevarsi, per così dire, con le proprie mani
verso Dio? La risposta è: lo Spirito Santo!
Cristo, dice la Scrittura, offrì se stesso al
Padre in sacrificio, grazie a uno «Spirito
eterno» (Eb 9, 14). Lo Spirito Santo è
all’origine di ogni movimento di donazione
di sé. Egli è il “Dono” o meglio “il
donarsi”: nella Trinità è il donarsi del Padre
al Figlio e del Figlio al Padre; nella storia è
il donarsi di Dio a noi e, ora, di noi a Dio.
Fu lui a creare nel cuore del Verbo
incarnato quella “spinta” che lo portò a
offrirsi per noi al Padre. È ancora a lui,
perciò, che la liturgia chiede nella Messa di
«fare di noi un sacrificio perenne a Dio
gradito»10.
Ho ricordato sopra una frase pronunciata
dal martire sant’Ignazio d’Antiochia. Nella
stessa lettera scritta da lui ai Romani,
troviamo un’altra frase che dobbiamo
raccogliere. Per convincere i cristiani di
Roma a non fare nulla per impedire il suo
martirio, egli confida a essi un segreto:
«C’è in me un’acqua viva che mormora e

54
dice: Vieni al Padre!». È la voce
inconfondibile dello Spirito di Gesù che,
andato al Padre, ora può dire anche al suo
discepolo: Vieni, offriti con me!

Note
1 Agostino, Sermo 272 (PL 38, 1247).
2 Agostino, De civitate Dei, X, 6 (CCL 47, 279).
3 Id., Confessioni, X, 43, 69.
4 Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, 95 (PG 35, 497).
5 Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, 4, 1.
6 Id., Lettera ai Trallesi, 4, 1.
7 Francesco d’Assisi, Lettera al Capitolo Generale,
2 (Fonti Francescane, 221).
8 Imitazione di Cristo, IV, 8.
9 L. cit.
10 Preghiera eucaristica III.

55
III
«Chi mangia di me vivrà per me»
L’Eucaristia fa la Chiesa
mediante comunione

Un filosofo ateo ha detto: «L’uomo è ciò


che mangia», intendendo dire, con ciò, che
nell’uomo non esiste una differenza
qualitativa tra materia e spirito, ma che
tutto, in esso, si riduce alla componente
organica e materiale. Ma, ancora una volta,
è avvenuto che un ateo ha dato, senza
saperlo, la migliore formulazione a un
mistero cristiano. Grazie all’Eucaristia, il
cristiano è veramente ciò che mangia!
Scriveva già, tanto tempo fa, san Leone
Magno: «La nostra partecipazione al corpo
e al sangue di Cristo non tende ad altro che
a farci diventare quello che mangiamo»1.

56
Ma ascoltiamo cosa dice, a questo
proposito, Gesù stesso: «Come il Padre, che
ha la vita, ha mandato me e io vivo per il
Padre, così anche colui che mangia di me
vivrà per me» (Gv 6, 57). La preposizione
«per», in questa frase, indica due cose o due
movimenti: un movimento di provenienza e
un movimento di destinazione. Significa
che chi mangia il corpo di Cristo vive “da”
lui, cioè in forza della vita che proviene da
lui, e vive “in vista di” lui, cioè per la sua
gloria, il suo amore, il suo Regno. Come
Gesù vive del Padre e per il Padre, così,
comunicandoci al santo mistero del suo
corpo e del suo sangue, noi viviamo di
Gesù e per Gesù.
I Padri della Chiesa hanno illustrato
questo mistero servendosi dell’esempio
dell’alimentazione fisica. È il principio
vitale più forte, hanno detto, che assimila a
sé quello più debole, non viceversa. È il
vegetale che assimila il minerale, l’animale
che assimila il vegetale, lo spirituale che
assimila il materiale. A colui che si accosta
a riceverlo, Gesù dice: «Non sarai tu che

57
assimilerai me a te, ma sarò io che
assimilerò te a me»2. Anzi, il cibo, non
essendo vivente, per sé, non può immettere
in noi la vita, ma è ritenuto causa di vita
solo in quanto sostenta la vita già presente
nel nostro corpo. Invece il pane di vita è
esso stesso vivente e per esso veramente
vivono quelli che lo ricevono. Sicché,
mentre il nutrimento corporale si trasforma
in chi l’ha mangiato e il pesce, il pane e
qualunque altro cibo diventano sangue
dell’uomo, qui accade tutto il contrario. È il
pane di vita che muove chi se ne nutre, lo
assimila e lo trasforma in sé. Siamo noi a
essere mossi da Cristo e a vivere della vita
che è in lui, grazie alla sua funzione di capo
e di cuore di tutto il corpo. Proprio per farci
comprendere questo, che non alimenta in
noi la vita al modo dei cibi materiali, ma
che, possedendo in sé la vita, la diffonde in
noi, dice di essere il «pane vivo» e
aggiunge: «Chi mangia di me vivrà per
me»3. Dire che Gesù, nella comunione, ci
“assimila” a sé, significa dire, in concreto,
che egli assimila, cioè rende simili i nostri

58
sentimenti ai suoi, i nostri desideri ai suoi, il
nostro modo di pensare al suo; ci fa avere,
insomma, «gli stessi sentimenti che furono
in Cristo Gesù» (cf Fil 2, 5).
Gesù fa tutto questo, «grazie alla sua
funzione di cuore» del corpo mistico. Cosa
fa, infatti, il cuore nell’organismo umano?
A esso affluisce, da ogni parte del corpo, il
sangue “guasto”, cioè impoverito di
elementi vitali e carico di tutti i residui
tossici dell’organismo. Nei polmoni, quel
sangue, al contatto con l’ossigeno, viene
come bruciato e così, rigenerato e arricchito
di principi nutritivi, viene, dal cuore stesso,
ridonato instancabilmente a tutte le
membra. La stessa cosa fa, sul piano
spirituale, nell’Eucaristia, il cuore della
Chiesa che è Cristo. A esso affluisce, a ogni
Messa, il sangue guasto di tutto il mondo.
In esso, alla comunione, io getto il mio
peccato e ogni mia impurità perché sia
distrutta, ed esso mi dona un sangue puro, il
suo sangue, che è il sangue dell’Agnello
immacolato, pieno di vita e di santità,
«farmaco di immortalità»4. Solo dopo aver

59
fatto questa esperienza, si capiscono le
parole della Scrittura che dicono: «Il sangue
di Cristo... purificherà la nostra coscienza
dalle opere di morte» (Eb 9, 14) e ancora:
«Il sangue di Cristo ci purificherà da ogni
peccato» (1 Gv 1, 7). L’Eucaristia è davvero
“il cuore” della Chiesa e in un senso molto
più realistico di quanto di solito pensiamo.

1. Comunione con il corpo e il sangue di


Cristo
Ma con chi e con che cosa, esattamente,
entriamo in comunione nell’Eucaristia? San
Paolo scrive: «Il calice della benedizione
che noi benediciamo non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi
spezziamo non è forse comunione con il
corpo di Cristo?» (1 Cor 10, 16).
Noi siamo abituati a interpretare queste
parole nel senso che entriamo in comunione
con tutta la realtà del Cristo, attraverso i
vari elementi che la costituiscono: il corpo,
il sangue, l’anima e la divinità. Questo però
risente della visuale filosofica greca che

60
concepiva l’uomo come un essere a tre
stadi: il corpo, l’anima e lo spirito. Non è
messo bene in luce il rapporto da persona a
persona, da vivente a vivente, da intero a
intero, che si realizza, nella comunione, con
immediatezza e semplicità. Nel linguaggio
biblico (l’ho notato una volta, ma ci insisto
di nuovo), i termini corpo e sangue hanno
un significato concreto e storico; indicano
tutta la vita di Cristo; meglio, la sua vita e
la sua morte. Corpo non indica tanto una
componente metafisica dell’uomo, quanto
piuttosto una condizione di vita e cioè la
vita vissuta nel corpo; indica tutto l’uomo,
come del resto anche il termine “carne”
usato nel vangelo di Giovanni.
Nell’Eucaristia, corpo designa il Cristo
nella sua condizione di servo,
contrassegnata da passibilità, povertà,
croce; il Cristo “fatto carne” che ha
lavorato, sudato, sofferto, pregato, in mezzo
a noi.
Lo stesso la parola sangue. Essa non
indica la parte di una parte dell’uomo (il
sangue è parte del corpo!), ma indica una

61
realtà concreta, meglio, un evento concreto:
indica la morte. Non una morte qualsiasi,
ma la morte violenta e, nel linguaggio dei
sacrifici di alleanza, una morte espiatoria
(cf Es 24, 8).
Da ciò scaturisce una conseguenza
importante: che non c’è momento o
esperienza della vita di Gesù che non
possiamo rivivere e condividere, facendo la
comunione; tutta la sua vita, infatti, è
presente e donata nel corpo e nel sangue.
San Paolo sintetizza, una volta, il mistero
della croce di Cristo con le parole «annientò
se stesso» (cf Fil 2, 7). Ecco, una nostra
Messa potrebbe essere tutta riempita e
illuminata da questa frase, specialmente se
è una Messa celebrata, o ascoltata, in un
momento in cui siamo davanti a un torto
subito, al quale tutto in noi si ribella, o
davanti a una difficile obbedienza. Gesù –
possiamo dire – annientò se stesso e anch’io
voglio annientare me stesso, morendo a me
stesso e alle mie “ragioni”! Questo è un
vero “fare comunione” con Cristo.
Secondo le disposizioni interiori o i

62
bisogni del momento, noi possiamo
affiancarci e stare guancia a guancia con il
Gesù che prega, con il Gesù che è tentato,
con il Gesù che è stanco, con il Gesù che
muore sulla croce, con il Gesù che risorge.
Tutto questo non per una finzione mentale,
ma perché quel Gesù esiste ancora ed è
vivente, anche se non vive più nella carne,
ma nello Spirito.

2. Chi si unisce al Signore


forma un solo Spirito con lui
Nelle famose catechesi mistagogiche,
attribuite a san Cirillo di Gerusalemme,
leggiamo: «Sotto la specie del pane ti è dato
il corpo e sotto quella del vino il sangue,
affinché, reso partecipe del corpo e del
sangue di Cristo, tu divenga concorporeo e
consanguineo con lui»5. È un linguaggio
ardito, ma i Padri sapevano di non
esagerare. La verità è che la comunione
eucaristica è di una tale profondità da
superare ogni analogia umana che si possa
portare. Gesù adduce l’esempio della vite e

63
del tralcio. È certo una unione strettissima;
vite e tralcio condividono la stessa linfa, la
stessa vita; staccato dalla vite, il tralcio
muore. Ma né la vite, né il tralcio “sanno”
di questa loro unione, essendo inanimati! Si
adduce, talvolta, l’esempio degli sposi che,
unendosi, formano «una sola carne» (ed è,
forse, l’analogia più forte); ma si tratta, qui,
di un piano diverso e ben inferiore: quello,
appunto, della carne, non dello spirito. I
coniugi possono formare una sola carne, ma
non possono formare un solo spirito, se non
in senso morale. Invece, «chi si unisce al
Signore forma con lui un solo spirito» (1
Cor 6, 17). La forza della comunione
eucaristica risiede proprio qui; in essa noi
diventiamo un solo spirito con Gesù e
questo «solo spirito» è lo Spirito Santo! Nel
sacramento si ripete, ogni volta, quello che
avvenne, una sola volta, nella storia. Al
momento della nascita, è lo Spirito Santo
che dona al mondo il Cristo (Maria concepì,
infatti, per opera dello Spirito Santo); al
momento della morte, è Cristo che dona al
mondo lo Spirito Santo (morendo, «emise

64
lo Spirito»). Similmente nell’Eucaristia,
nella consacrazione lo Spirito Santo ci dona
Cristo, nella comunione Cristo ci dona lo
Spirito Santo.
Lo Spirito Santo è colui che opera la
nostra intimità con Dio, dice san Basilio6.
Anzi, sant’Ireneo dice che lo Spirito Santo è
«la nostra stessa comunione con Cristo»7.
Egli è – per usare il linguaggio di un
teologo moderno – la stessa
“immediatezza” del nostro rapporto con
Cristo, nel senso che fa da intermediario tra
noi e lui, senza però creare alcun
diaframma. Senza che nulla stia “in mezzo”
tra noi e Gesù, perché Gesù e lo Spirito
Santo sono anch’essi – come Gesù e il
Padre – “una cosa sola”.
Nella comunione Gesù viene a noi come
colui che dona lo Spirito. Non come colui
che un giorno, tanto tempo fa, diede lo
Spirito, ma come colui che ora, consumato
il suo sacrificio incruento sull’altare, di
nuovo, «emette lo Spirito» (cf Gv 19, 30).
In tal modo Gesù ci fa partecipi della sua
unzione spirituale. La sua unzione si

65
trasfonde in noi; meglio, noi ci immergiamo
in essa: «Cristo si riversa in noi e con noi si
fonde, mutandoci e trasformandoci in sé,
come una goccia d’acqua versata in un
infinito oceano di unguento profumato.
Questi sono gli effetti che un tale unguento
produce in coloro che lo incontrano: non si
limita a renderli semplicemente profumati,
neppure fa soltanto respirare a essi quel
profumo, ma trasforma la loro stessa
sostanza nel profumo di quell’unguento che
per noi si è effuso: “Siamo il buon odore di
Cristo” (2 Cor 2, 15)»8.
Intorno alla mensa eucaristica si realizza
la «sobria ebbrezza dello Spirito».
Commentando un testo del Cantico dei
Cantici, sant’Ambrogio scrive: «“Ho
mangiato il mio pane con il mio miele” (Ct
5, 1): vedi come non c’è amarezza, ma ogni
soavità, in questo pane? “Ho bevuto il mio
vino con il mio latte” (ibid.): vedi come si
tratta di una gioia non inquinata da alcuna
macchia? Ogni volta, infatti, che tu bevi,
ricevi la remissione dei peccati e ti inebri
spiritualmente. L’Apostolo dice: “Non

66
ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi dello
Spirito” (Ef 5, 18); chi si inebria di vino
vacilla ed è incerto, ma colui che si inebria
di Spirito, viene come radicato in Cristo.
Una santa ebbrezza è questa che opera la
sobrietà del cuore»9. Di qui la celebre
esclamazione dello stesso sant’Ambrogio,
in un suo inno che ancora oggi si recita
nella Liturgia delle Ore: «Beviamo con
gioia l’abbondanza sobria dello Spirito!»
(Laeti bibamus sobriam profusionem
Spiritus). La sobria ebbrezza non è un tema
soltanto poetico, ma è pieno di significato e
di verità. L’effetto dell’ebbrezza è sempre
quello di far uscire l’uomo da se stesso, dal
proprio angusto limite. Ma mentre
nell’ebbrezza materiale (vino, droga)
l’uomo esce da sé, per vivere “al di sotto”
del proprio livello razionale, quasi alla
stregua delle bestie, nell’ebbrezza
spirituale, esce da sé per vivere “al di
sopra” della propria ragione, nell’orizzonte
stesso di Dio. Ogni comunione dovrebbe
terminare in un’estasi, se intendiamo, con
questa parola, non i fenomeni straordinari,

67
ma accidentali, che talvolta
l’accompagnano nei mistici, ma, alla lettera,
l’uscita (extasis) dell’uomo da se stesso, il
«non sono più io che vivo» di Paolo.
Quello che i Padri della Chiesa
intendevano dire con il linguaggio figurato
dell’ebbrezza, san Tommaso d’Aquino lo
esprime in termini più razionali, dicendo
che l’Eucaristia è «il sacramento
dell’amore» (sacramentum caritatis)10.
L’unione con il Cristo che è vivente, non
può avvenire altrimenti – egli spiega – che
nell’amore; l’amore, infatti, è la sola realtà
grazie alla quale due distinti esseri viventi,
rimanendo ognuno nel proprio essere,
possono unirsi per formare una cosa sola.
Se lo Spirito Santo è detto «la stessa
comunione» con Cristo, è proprio perché
egli è l’Amore stesso di Dio. Ogni
comunione eucaristica che non si conclude
con un atto d’amore, è incompiuta. Io mi
comunico pienamente e definitivamente con
Cristo che si è comunicato a me, solo
quando riesco a dirgli, in semplicità e
sincerità di cuore, come Pietro: «Signore, tu

68
sai che ti amo!» (cf Gv 21, 16).

3. «Io in loro e tu in me»:


la comunione con il Padre
Attraverso Gesù e il suo Spirito, nella
comunione eucaristica, noi attingiamo,
finalmente, anche il Padre. Nella sua
“preghiera sacerdotale”, Gesù dice al Padre:
«Che siano come noi una cosa sola. Io in
loro e tu in me» (Gv 17, 23). Quelle parole:
«Io in loro e tu in me», significano che
Gesù è in noi e che in Gesù c’è il Padre.
Non si può, perciò, ricevere il Figlio, senza
ricevere, con lui, anche il Padre. Il motivo
ultimo di ciò è che Padre, Figlio e Spirito
Santo sono un’unica e inseparabile natura
divina, sono «una cosa sola». Scrive, a
questo proposito, sant’Ilario di Poitiers:
«Noi siamo uniti a Cristo che è inseparabile
dal Padre, ma che, pur rimanendo nel Padre,
resta unito a noi. Così anche noi arriviamo
all’unità con il Padre. Infatti, Cristo è nel
Padre connaturalmente, in quanto da lui
generato; ma, in certo modo, anche noi

69
attraverso Cristo, siamo connaturalmente
nel Padre. Egli vive in virtù del Padre e noi
viviamo in virtù della sua umanità»11.
Volendo esprimerci con precisione
teologica, diciamo che nell’Eucaristia, il
Figlio Gesù Cristo è presente naturalmente
(cioè con la sua duplice natura divina e
umana) ed è presente anche personalmente
(come persona del Figlio); il Padre e lo
Spirito Santo direttamente, sono presenti
soltanto naturalmente (in forza dell’unità
della natura divina), ma indirettamente in
forza, cioè della pericoresi delle persone
divine, sono presenti anche personalmente.
In ognuna delle tre persone della Trinità,
infatti, sono incluse le altre due.
Di questa presenza dell’intera Trinità
nell’Eucaristia, che la teologia afferma in
linea di principio, i santi hanno fatto
talvolta l’esperienza vissuta. Nel Diario di
una grande mistica, santa Veronica Giuliani,
si legge: «Mi parve di vedere nel SS.
Sacramento, come in un trono, Dio Trino e
Uno: il Padre con la sua onnipotenza, il
Figlio con la sua sapienza, lo Spirito Santo

70
con il suo amore. Ogni volta che noi ci
comunichiamo, l’anima nostra e il nostro
cuore divengono tempio della SS. Trinità e,
venendo in noi Dio, vi viene tutto il
paradiso. Vedendo come Dio sta racchiuso
nell’Ostia sacrosanta, stetti tutto il giorno
fuori di me per il giubilo che provavo.
Dovessi dare la vita a conferma di tale
verità, la darei mille volte»12.
Noi entriamo, dunque, in una comunione
misteriosa, ma vera e profonda, con tutta la
Trinità: con il Padre, attraverso Cristo, nello
Spirito Santo. Tutta la Trinità è presente,
invisibilmente, intorno all’altare. È ciò che
vuol significare la celebre icona della
Trinità di Rublëv, nella quale Padre, Figlio
e Spirito Santo, simboleggiati nei tre angeli
che apparvero ad Abramo sotto la quercia
di Mamre, formano una specie di mistico
cerchio intorno all’altare e sembrano dire a
chi guarda: «Siate una cosa sola; come noi
siamo una cosa sola!».

4. Dio ci ha messo il suo corpo tra le mani

71
La comunione ci spalanca, dunque,
davanti come delle porte successive che ci
fanno entrare prima nel cuore di Cristo e
poi, attraverso lui, nel cuore stesso della
Trinità. Ma di fronte a tanta degnazione da
parte della divinità, un velo di tristezza cala
su di noi, appena riflettiamo. Cosa ne
facciamo noi del corpo di Cristo? Un
giorno, ascoltavo, al momento della
comunione, un bel canto in cui si ripetevano
continuamente queste parole: «Dio ci ha
messo il suo corpo tra le mani, Dio ci ha
messo il suo corpo tra le mani!». D’un
tratto, fui preso come da una fitta al cuore:
Dio ci ha messo il suo corpo tra le mani, ma
noi cosa facciamo a questo corpo di Dio? E
non potevo trattenermi dal gridare dentro di
me: Noi facciamo violenza a Dio! Gli
facciamo violenza! Come gli facciamo
violenza? Abusiamo della promessa con cui
si è vincolato a venire sull’altare e dentro di
noi. Lo «costringiamo» ogni giorno a fare
questo supremo gesto d’amore, ma noi
siamo senz’amore, spesso siamo perfino
distratti, e questo è fargli violenza. Come

72
bisogna essere delicati e teneri con un
bambino che non può difendersi; come
siamo, invece, rozzi e grossolani con Gesù
che, misteriosamente, non può difendersi da
noi. «Ecco – esclamava san Francesco
d’Assisi – ogni giorno egli si umilia per
venire sull’altare, come quando dalla sede
regale discese nel grembo della Vergine»13.
Non ci si può, perciò, accostare alla
comunione se non sprofondati nell’umiltà e
nel pentimento. «Udite, fratelli miei – è
ancora san Francesco che ci parla –: se la
beata Vergine è così onorata, come è giusto,
perché lo portò nel suo santissimo seno; se
il beato Battista tremò di gioia e non osò
toccare il santo capo del Signore; se è
venerato il sepolcro nel quale per qualche
tempo egli giacque; quanto deve essere
santo, giusto, degno, colui che lo accoglie
nelle proprie mani, lo riceve nel cuore e con
la bocca e lo offre agli altri perché lo
ricevano? Gran miseria sarebbe e
miserevole male, se, avendo lui così
presente, vi curaste di qualunque altra cosa
che fosse nell’universo intero! L’umanità

73
trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo
esulti, quando sull’altare, nelle mani del
sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo.
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio e aprite
davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche
voi, perché egli vi esalti»14.
Conoscendo quanto è grande il mistero
che riceviamo e superiore alle nostre
capacità di accoglienza, i nostri amici del
Paradiso – Maria, gli angeli, i santi a noi
più familiari – sono pronti, se lo chiediamo,
ad aiutarci. Noi possiamo fare ad essi un
discorso molto semplice e deciso, un po’
come quell’uomo di cui parla il Vangelo
che, dovendo ricevere un amico di notte e
non avendo nulla da offrirgli, non teme di
svegliare un conoscente per chiedergli in
prestito del pane (cf Lc 11, 5 ss). Noi
possiamo chiedere in prestito a questi
perfetti adoratori celesti la loro purezza, la
loro lode, la loro umiltà, i loro sentimenti di
infinita gratitudine a Dio e farli poi trovare
a Gesù quando viene in noi nella
comunione. I santi – e, in primo luogo,
Maria – sono pronti a far questo. Lo

74
possono, per la comunione dei santi; lo
vogliono, per l’amore che ci portano e che
portano a Gesù. Figurarsi se si rifiutano!
Anzi, io dico che c’è, in Paradiso, una certa
gara e gelosia per simili inviti. Nella
comunione c’è di mezzo Dio e quando c’è
di mezzo Dio è la volta che succede
l’impossibile: i semplici desideri, anche
infantili, per l’onnipotenza e la liberalità
divina, sono considerati come diritti. «Egli
che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma
lo ha dato per tutti noi come non ci donerà
ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8, 32). Se
un re acconsente a che suo figlio visiti un
poveretto nel suo tugurio, forse che rifiuterà
a quel poveretto qualche addobbo e qualche
fiore per rendere meno squallido l’ambiente
e meno indegna l’accoglienza? Noi
possiamo parlare ancora più da bambini e
raffigurarci, al momento della comunione,
la “sorpresa” di Gesù che, venendo in noi,
si aspetta di trovare la solita squallida
abitazione e invece, ecco che si trova
davanti agli stessi splendori del Paradiso da
cui è venuto! Soltanto bisogna stare attenti.

75
Maria e i santi prendono molto sul serio
queste cose in cui c’è di mezzo il Re del
Paradiso e che tristezza e confusione,
perciò, quando, a metà della giornata, ti
accorgi improvvisamente che essi sono
venuti e hanno reso bella la casa del povero,
ma il proprietario è uscito fuori di buon
mattino e non vi è più rientrato!
Io credo che sia una grazia salutare per un
cristiano passare attraverso un periodo di
tempo in cui ha paura di accostarsi alla
comunione, trema al pensiero di ciò che sta
per accadere e non finisce di ripetere, come
Giovanni il Battista: «Tu vieni da me?» (Mt
3, 14). Noi non possiamo ricevere Dio che
come «Dio», conservandogli, cioè, tutta la
sua santità e la sua maestà. Non possiamo
addomesticare Dio! La predicazione della
Chiesa non dovrebbe aver paura – ora che
la comunione è diventata una cosa così
abituale e così “facile” – di usare qualche
volta il linguaggio dell’epistola agli Ebrei e
dire ai fedeli: «Voi non vi siete accostati a
un luogo tangibile e a un fuoco ardente né a
oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di

76
tromba e suono di parole mentre quelli che
lo udivano scongiuravano che Dio non
rivolgesse più a loro la parola... Lo
spettacolo in realtà era così terrificante che
Mosè disse: “Ho paura e tremo”. Voi vi
siete invece accostati al monte di Sion e alla
città del Dio vivente, alla Gerusalemme
celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza
festosa e all’assemblea dei primogeniti
iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti..., al
Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue
dell’aspersione dalla voce più eloquente di
quella di Abele» (Eb 12, 18-24).
Conosciamo l’ammonimento che
risuonava nell’assemblea liturgica, nei
primi tempi della Chiesa, al momento della
comunione: «Chi è santo si accosti, chi non
lo è si penta!»15. San Giovanni Crisostomo,
avendo a che fare con una popolazione
incline, anch’essa, a prendere le cose alla
leggera, non parla mai, si può dire, della
comunione eucaristica, senza usare
l’aggettivo “terribile” (friktos): «Terribili –
scrive – sono i misteri della Chiesa; terribile
è l’altare!»; «Terribile e ineffabile è la

77
comunione dei santi misteri»; «Senza
l’aiuto speciale della grazia di Dio, nessuna
anima umana potrebbe sopportare il fuoco
di questo sacrificio, senza esserne
completamente annientata»16. Lo stesso
Santo diceva che quando il cristiano torna
dalla sacra mensa somiglia a un leone che
emette fiamme di fuoco dalla bocca: la sua
vista è insopportabile al demonio17. Bisogna
aver sperimentato, almeno una volta, la
maestà terribile dell’Eucaristia, per sapere
poi valutare appieno la bontà e la
condiscendenza di Dio che nasconde, come
con un velo, questa maestà, per non
annientarci.

5. La comunione con il corpo di Cristo


che è la Chiesa
Ci siamo limitati finora a meditare
l’aspetto verticale della comunione, la
comunione con Dio, Padre, Figlio e Spirito
Santo. Ma nell’Eucaristia si realizza anche
una comunione orizzontale, cioè con i
fratelli. Nel testo che abbiamo ricordato

78
all’inizio, san Paolo diceva: «Il pane che
noi spezziamo non è forse comunione con il
corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane,
noi, pur essendo molti, siamo un corpo
solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico
pane» (1 Cor 10, 16-17). In questo brano
ricorre due volte la parola «corpo»; la prima
volta essa designa il corpo reale di Cristo, la
seconda volta il suo corpo mistico che è la
Chiesa. «Avendo sofferto la passione –
scrive sant’Agostino – il Signore ci ha
affidato, in questo sacramento, il suo corpo
e il suo sangue, facendo sì che noi stessi
diventassimo queste cose. Infatti, anche noi
siamo il suo corpo e così, per la sua
misericordia, ciò che riceviamo siamo.
Ricordate un istante cosa era una volta,
quand’era ancora nel campo, questa
creatura: la terra la fece germogliare, la
pioggia la nutrì; poi ci fu il lavoro
dell’uomo che la recò sull’aia, la trebbiò, la
vagliò e la ripose nei granai; da qui la
prelevò per macinarla e cuocerla e così,
finalmente, diventò pane. Adesso ripensate
a voi stessi: non eravate e foste creati, siete

79
stati recati sull’aia del Signore, siete stati
trebbiati, grazie al lavoro dei “buoi”, cioè di
coloro che vi hanno annunciato il Vangelo.
Durante il tempo del catecumenato, eravate
come conservati nel granaio; quando avete
dato i vostri nomi per il battesimo,
cominciaste a essere macinati dai digiuni e
dagli esorcismi; poi finalmente siete venuti
all’acqua, siete stati impastati e siete
diventati una cosa sola; sopravvenendo il
fuoco dello Spirito Santo, siete stati cotti e
siete diventati pane del Signore. Ecco
quello che avete ricevuto. Come, dunque,
vedete che è uno il pane preparato, così
siate anche voi una cosa sola, amandovi,
conservando la stessa fede, una stessa
speranza e indivisa carità»18.
Il corpo di Cristo che è la Chiesa si è
formato a somiglianza del pane eucaristico;
è passato attraverso le stesse vicissitudini. Il
pane eucaristico realizza l’unità delle
membra tra di loro, significandola. Anche
in questo, il sacramento significando
causat. Nella comunione «l’unità del
popolo di Dio è adeguatamente espressa e

80
mirabilmente prodotta»19. In altre parole,
ciò che i segni del pane e del vino
esprimono sul piano visibile – l’unità di più
chicchi di frumento e di una molteplicità di
acini d’uva –, il sacramento lo realizza sul
piano interiore e spirituale.
“Lo realizza”: non però da solo,
automaticamente, ma con il nostro
impegno. Io non posso più disinteressarmi
del fratello nell’accostarmi all’Eucaristia;
non posso rifiutarlo, senza rifiutare Cristo
stesso e staccarmi, io, dall’unità. Chi, alla
comunione, pretendesse di essere tutto
fervore per Cristo, dopo che ha appena
offeso o ferito un fratello senza chiedergli
perdono, o senza essere deciso a farlo,
somiglia a uno che, incontrando dopo tanto
tempo un amico, si leva in punta di piedi
per baciarlo in fronte e mostrargli tutto il
suo affetto; ma non si accorge che, intanto,
gli sta calpestando i piedi con scarpe
chiodate! I piedi di Gesù sono le membra
del suo corpo, specialmente quelle più
povere e umiliate. Egli ama questi suoi
“piedi” e potrebbe gridare a quel tale: Tu mi

81
onori a vuoto!
Il Cristo che viene a me, nella comunione,
è lo stesso Cristo indiviso che va anche al
fratello che è accanto a me; egli, per così
dire, ci lega gli uni agli altri, nel momento
in cui ci lega tutti a sé. Qui risiede, forse, il
significato profondo di quella frase che si
legge talvolta negli scritti del Nuovo
Testamento e dei primi secoli della Chiesa:
«Uniti nella frazione del pane» (cf At 2,
42): i cristiani si sentivano uniti nella
frazione del pane. Un paradosso: uniti nel
dividere. Frazione significa, infatti,
divisione. Proprio così: noi siamo uniti nel
dividere, meglio nel condividere, lo stesso
pane! Sant’Agostino ci ricordava sopra che
non si può avere un pane, se i chicchi che lo
compongono non sono stati prima
“macinati”. Per essere macinati non c’è
niente di più efficace che la carità fraterna,
specie per chi vive in comunità: il
sopportarsi gli uni gli altri, nonostante le
differenze di carattere, di vedute ecc. È
come una mola che ci affina ogni giorno,
facendoci perdere le nostre naturali asperità.

82
Ora abbiamo capito cosa significa dire:
Amen e a chi diciamo: Amen al momento
della comunione. Viene proclamato: «Il
corpo di Cristo!» e noi rispondiamo: Amen!
Diciamo Amen al corpo santissimo di Gesù
nato da Maria e morto per noi, ma diciamo
Amen, sì, anche al suo corpo mistico che è
la Chiesa e che sono, concretamente, i
fratelli che ci sono intorno, nella vita o alla
mensa eucaristica. Non possiamo separare i
due corpi e accettare uno senza l’altro. Non
ci costerà forse molto dire il nostro Amen a
molti fratelli, forse alla maggioranza. Ma ci
sarà sempre, tra loro, qualcuno che ci fa
soffrire, per colpa sua o nostra non importa;
qualcuno che ci si oppone, ci critica, ci
calunnia. Dire Amen in questo caso, è più
difficile, ma nasconde una grazia speciale.
C’è, anzi una sorta di segreto in questo atto.
Quando vogliamo realizzare una comunione
più intima con Gesù, o abbiamo bisogno di
un perdono e di una grazia particolare da
lui, questo è il modo per ottenerlo:
accogliere Gesù, nella comunione, insieme
con “quel” fratello o “quei” fratelli. Dirgli

83
esplicitamente: Gesù, oggi ti ricevo insieme
con il tale (e qui dire il nome), lo ospito
insieme con te nel mio cuore, sono contento
se tu lo porti con te. Questo piccolo gesto
piace tanto a Gesù, perché egli sa che per
farlo dobbiamo un po’ morire.
Termino questa meditazione con una
strofa dell’Adoro te devote che ha
alimentato la pietà eucaristica di tante
generazioni di credenti: «O memoriale della
morte del Signore, pane vivo che dai la vita
all’uomo: concedi alla mia anima di vivere
di te e di sperimentare sempre la tua
dolcezza».

Note
1 Leone Magno, Sermone 12 sulla Passione, 7 (CCL
138A, p. 388).
2 Cf Agostino, Confessioni, VII, 10.
3 Cf N. Cabasilas, Vita in Cristo, IV, 3 (PG 150,
597).
4 Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 20, 2.
5 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche,
IV, 3 (PG 33, 1100).
6 Basilio, Sullo Spirito Santo, XIX, 49 (PG 32, 157
A).

84
7 Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1.
8 N. Cabasilas, Vita in Cristo, IV, 3 (PG 150, 593).
9 Ambrogio, Sui sacramenti, V, 17 (PL 16, 449 s).
10 Cf Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-IIae,
q. 28, a. 1; III, q. 78, a. 3.
11 Ilario, De Trinitate, VIII, 13-16 (PL 10, 246 ss).
12 Veronica Giuliani, Diario, 30 maggio 1715 (vol.
III, Città di Castello 1973, p. 928).
13 Francesco d’Assisi, Ammonizioni, I (FF 144).
14 Id., Lettera al Capitolo Generale (FF 220).
15 Didaché, 10.
16 Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni, 46, 4
(PG 59, 261); Sul sacerdozio 3, 4 (PG 48, 642).
17 Id., Omelie battesimali, III, 12 (SCh 50, p. 158).
18 Agostino, Sermo Denis 6 (PL 46, 834 s).
19 Lumen gentium, n. 11.

85
IV
«Se non bevete il sangue del
Figlio dell’uomo...»
L’Eucaristia, comunione al
sangue di Cristo

Continuiamo a riflettere, in questo


capitolo, sul tema: «L’Eucaristia fa la
Chiesa mediante comunione». Abbiamo
parlato fin qui della comunione in generale,
ora vorremmo dedicare la nostra attenzione
a un aspetto particolare di essa: la
comunione con il sangue di Cristo.
Un giorno, al termine della Santa Messa,
una donna mi mise tra le mani un foglietto.
Vi era scritto: «Gesù ci dice: “Prendete e
bevetene tutti, questo è il mio sangue”:
perché non possiamo bere anche noi il
sangue di Cristo, come lui ce l’ha chiesto?

86
Questo sangue è così potente per lavare i
nostri peccati e noi ne abbiamo sete: perché
dobbiamo esserne privati? Ci sono
abbastanza vigne e vino nei nostri campi
per dare da bere il sangue di Cristo ai laici
cristiani anche tutti i giorni, se lo vogliono.
Perché siamo avari con lui, mentre lui è
così generoso con noi?». In seguito,
parlandole, mi resi conto che la richiesta
nasceva da un reale anelito al sangue di
Cristo, non da spirito di contestazione, e
che era accompagnata da profonda umiltà e
amore alla Chiesa. La presente catechesi
vuole essere una risposta a tale anelito
sempre più diffuso in mezzo al popolo
cristiano. Essa si propone di aiutare a
riscoprire la potenza e la dolcezza del
sangue eucaristico di Cristo e di
incoraggiare la pratica della comunione
sotto le due specie, ora che essa è stata
reintrodotta nella Chiesa cattolica dal
concilio Vaticano II.

1. La comunione sotto le due specie

87
Devo premettere alcuni cenni storici e
teologici, comprensibili, penso, a tutti. Gesù
ha istituito l’Eucaristia nel segno del pane e
del vino, cioè del mangiare e del bere che,
insieme, realizzano l’immagine del
banchetto e del convito. Nel discorso di
Cafarnao dice: «Se non mangiate la carne
del figlio dell’uomo e non bevete il suo
sangue, non avrete in voi la vita», e ancora:
«La mia carne è vero cibo e il mio sangue
vera bevanda» (Gv 6, 53.55). Nell’istituire
l’Eucaristia dice: «Prendete e mangiate...
Prendete e bevetene tutti». Non dice:
“alcuni”, o “chi vuole”, ma “tutti”.
San Paolo ci attesta la fedele attuazione di
questo comando nella Chiesa apostolica,
nominando una volta «la comunione con il
sangue di Cristo», addirittura prima della
«comunione al corpo di Cristo» (1 Cor 10,
16).
Alcune voci, tra le tante, bastano a darci
un’idea di che cosa rappresentasse il sangue
nella catechesi eucaristica dei Padri.
«Riconoscete – diceva sant’Agostino ai
neofiti – nel pane quel corpo che pendette

88
dalla croce e nel calice quel sangue che
sgorgò dal suo fianco... Per non disgregarvi,
mangiate il vincolo della vostra unità; per
non svilirvi, bevete il prezzo pagato per
voi»1. Il sangue di Cristo è il «prezzo del
nostro riscatto» (1 Cor 6, 20; Ef 1, 7). I
fedeli sono “preziosi” a causa del “prezzo”
(pretium) che Cristo ha pagato per essi. «Se
mostrerai al maligno la lingua intrisa del
prezioso sangue – esclamava, dal canto suo,
il Crisostomo – non potrà resistere; se gli
farai vedere la bocca tinta di porpora, come
una fiera impaurita volterà di corsa le
spalle. Vuoi conoscere la forza di questo
sangue? Bada da dove sgorgò e donde ebbe
la sua fonte: dall’alto della croce, dal fianco
del Signore»2.
Tutto l’amore e la riverenza dei primi
cristiani verso il sangue di Cristo traspare
dal modo con cui si accostavano a
riceverlo: «Dopo aver comunicato al corpo
di Cristo – diceva un vescovo ai suoi fedeli
– accòstati al calice del suo sangue. Non
stendere le mani, ma chìnati, di’ Amen in
segno di adorazione e di venerazione, e

89
santifica te stesso prendendo il sangue di
Cristo. Asciuga con la mano l’umidità
rimasta sulle tue labbra e santifica,
toccandoli, la tua fronte, i tuoi occhi e gli
organi dei tuoi sensi. E rendi grazie a Dio
che ti ha giudicato degno di partecipare a
tali misteri»3. Tale amore e stima per il
sangue di Cristo sono all’origine di uno dei
simboli più amati dell’Eucaristia: quello del
pellicano. Era credenza comune
nell’antichità che il pellicano si aprisse, con
il becco, una ferita nel petto, per nutrire,
con il proprio sangue, i suoi piccoli
affamati, o anche per ridestarli alla vita4.
Ora, se guardiamo, alla luce di queste
premesse, al modo con cui l’Eucaristia è
stata vissuta per tanto tempo, non possiamo
non notare quanto, su questo punto, ci si è
allontanati, in seguito, dalla sua fisionomia
originale. Molti fattori hanno finito per fare
tacitamente dell’Eucaristia il sacramento
del corpo di Cristo e molto meno del suo
sangue. Primo fra tutti la comunione data ai
fedeli sotto la sola specie del pane. Anche il
culto eucaristico fuori della Messa ha

90
involontariamente contribuito a questo.
L’esposizione, l’adorazione e la
benedizione eucaristica si fanno solo con
l’Ostia; nella festa del Corpus Domini si
porta in processione solo il corpo di Cristo;
alcuni dei canti eucaristici più tradizionali
(Ave verum, Panis angelicus) presentano
l’Eucaristia, suggestivamente ma
unilateralmente, come «il vero corpo nato
da Maria» e come «il pane degli angeli»,
senza alcuna menzione del suo sangue. Il
sangue di Cristo finisce per apparire come il
“parente povero” e come una specie di
appendice al corpo di Cristo, con la
conseguenza che l’Eucaristia appare più
adatta a significare il mistero
dell’incarnazione che non quello della
passione.
La pietà cristiana ha cercato di rimediare
a questo inconveniente, sviluppando, fuori
del mistero eucaristico, una fiorentissima
devozione al sangue di Cristo. Ne è prova
l’istituzione di una festa a parte del
Preziosissimo Sangue, al primo luglio,
come se la festa del corpo di Cristo non

91
fosse anche la festa del suo sangue. In
seguito al Concilio, tale festa è stata
soppressa, mentre parallelamente la festa
detta del “Santissimo Corpo di Cristo” ha
preso il nome più esatto di “Festa del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo”.
Ma torniamo al fatto principale della
comunione sotto le due specie. Si sa che
essa fu la prassi ordinaria anche della
Chiesa latina fin verso il secolo XII. Nel
secolo V, papa Gelasio arrivò perfino a
condannare alcuni che si astenevano dal
comunicare anche con il sangue di Cristo,
dicendo: «Costoro, o ricevano tutto il
sacramento, o siano privati di tutto. Non si
può infatti separare, senza grande
sacrilegio, questo mistero che è uno e
identico»5. In seguito, per ragioni
prudenziali («è cresciuta la moltitudine dei
cristiani; tra essi vi sono anziani, giovani e
fanciulli, non sempre in grado di assicurare
la debita cautela nel ricevere questo
sacramento»), tale prassi venne
progressivamente abbandonata e la
comunione al calice riservata al solo

92
celebrante.
È istruttivo conoscere la motivazione
teologica che fu data a questa nuova prassi
liturgica. Essa si basa sulla certezza che «in
ognuna delle due specie è contenuto tutto
intero Cristo». San Tommaso d’Aquino,
nell’addurre tale principio, ne spiega però
subito il senso e il limite. È vero – dice –
che in ognuna delle due specie è presente
tutto Cristo, però secondo ragioni diverse.
Infatti sotto il segno del pane, il corpo di
Cristo è presente “in forza del sacramento”,
cioè in forza delle parole di Cristo, mentre
il sangue vi è presente solo “in forza della
naturale concomitanza”, cioè in forza del
fatto per cui dove c’è un corpo vivente, lì
c’è necessariamente anche il suo sangue.
Parallelamente, nel segno del vino, il
sangue di Cristo è presente “in forza del
sacramento”, mentre il corpo di Cristo è
presente solo indirettamente, per il principio
della “naturale concomitanza”6.
L’inconveniente nasce quando il principio
fisico, o metafisico, della “reale
concomitanza” diviene prevalente rispetto

93
alla volontà espressa da Cristo con le parole
dell’istituzione (“la forza del sacramento”).
Quando, cioè, le categorie filosofiche del
momento prendono il sopravvento sulle
categorie bibliche e sono esse a determinare
la prassi liturgica. Abbiamo più volte
ricordato che per Aristotele, come, del
resto, anche per noi oggi, il sangue, nella
sua accezione ordinaria, non è che una parte
del corpo umano. Secondo questa logica,
bisognerebbe perciò concludere che, in
forza della naturale concomitanza, nel
corpo di Cristo non è presente solo il
sangue, ma anche i nervi, le ossa, il cuore,
le mani e ogni altra parte del corpo. Ma così
si vede subito quanto tutto ciò sia crudo e
materiale e ci allontani dal vero significato
del rito istituito da Cristo. Il sangue, per la
Bibbia e nelle parole dell’istituzione, è ben
altro che una semplice parte del corpo
umano! È significativo notare che di fronte
al peso della Scrittura e di tutta la tradizione
antica, le due uniche “autorità” che si
poterono addurre in favore della nuova
prassi liturgica furono una «glossa

94
ordinaria» e «l’uso di molte chiese»7.
San Tommaso lascia intravedere, lui
stesso, una certa riserva nell’applicare il
principio della reale concomitanza,
soprattutto attraverso le obiezioni che egli
stesso si pone. «Questo sacramento – scrive
– viene celebrato in memoria della passione
del Signore; ma la passione di Cristo è
espressa meglio dal sangue che dal corpo,
per cui bisognerebbe astenersi piuttosto dal
ricevere il corpo che dal ricevere il
sangue»8. D’altra parte, il principio secondo
cui nel corpo è già contenuto anche il
sangue, preso rigidamente, finisce per
insinuare l’idea che una delle due specie è
superflua e che Cristo poteva fare a meno di
aggiungerla. «Ora – spiega lo stesso santo –
nessuna delle due specie è superflua. In
primo luogo perché serve a rappresentare al
vivo la passione di Cristo, in cui il sangue
fu separato dal corpo; in secondo luogo
perché è conforme all’indole di questo
sacramento che vengano offerti
separatamente ai fedeli il corpo di Cristo
come cibo e il sangue come bevanda»9.

95
Come si vede, in questa fase,
l’importanza della comunione al sangue di
Cristo è ancora ben presente, nonostante
tutto, alla coscienza della Chiesa. Ciò che
determinò l’abbandono definitivo, teorico e
pratico, della comunione al sangue di Cristo
fu, come in tanti altri casi, la reazione alle
posizioni dei Riformatori protestanti. Il
concilio di Trento non condannò la prassi
della comunione sotto le due specie, ma la
motivazione teologica che i fautori di essa
(detti Calistini e Utraquisti) adducevano, e
secondo la quale Cristo non sarebbe
presente tutto intero sotto ognuna delle due
specie10. Il Concilio, anzi, lasciò la porta
aperta a possibili concessioni sul piano
pratico. Fu solo più tardi, nel 1621, che il
rito della comunione sotto le due specie fu
definitivamente soppresso. Un’altra triste
conseguenza della divisione tra i cristiani.
Ciò che risultava compromessa in questa
nuova prassi non era, evidentemente,
l’essenza o la validità del sacramento, ma la
perfezione e la completezza del segno.
Sempre infatti si continuò a consacrare sia

96
il pane che il vino e in ogni Messa almeno il
celebrante comunicava anche nel sangue di
Cristo.
Ai nostri giorni, il concilio Vaticano II ha
reintrodotto la possibilità della comunione
sotto le due specie: «Fermi restando – dice
– i principi dottrinali stabiliti dal concilio di
Trento [cioè che in ognuna delle due specie
è presente tutto Cristo], la comunione sotto
le due specie si può concedere sia ai chierici
e religiosi sia ai laici, in casi determinati
dalla Sede Apostolica e secondo il giudizio
del vescovo»11. La comunione sotto le due
specie non solo è permessa, ma anche
incoraggiata. «La santa comunione – si
legge in un testo ufficiale – esprime con
maggiore pienezza la sua forma di segno, se
viene fatta sotto le due specie. Risulta
infatti più evidente il segno del banchetto
eucaristico e si esprime più chiaramente la
volontà divina di ratificare la nuova ed
eterna alleanza nel sangue del Signore, ed è
più intuitivo il rapporto tra il banchetto
eucaristico e il convito escatologico del
regno del Padre»12.

97
Il nuovo Messale elenca ben quattordici
casi in cui è permesso dare la comunione al
calice ai presenti. A essi, molte conferenze
episcopali ne hanno aggiunti altri e non è
proibito sperare che si arrivi, un giorno non
lontano, a poter dare la comunione nel
sangue di Cristo a tutti coloro che ne
sentono il desiderio. Fino a quando infatti si
potrà andare avanti con una prassi che
discrimina tra Messa e Messa e tra una
categoria e l’altra di persone, all’interno
della stessa Messa, senza che la stessa
comunione sotto le due specie divenga
segno di discriminazione, anziché di
comunione, tra i fedeli? Si deve dire che su
questo punto l’attuazione pratica non è
andata al di là delle norme fissate
dall’autorità ecclesiastica, ma ne è rimasta
ben al di qua.
A poco, tuttavia, gioverebbe ripristinare la
comunione sotto le due specie, anche a
livello generalizzato, se a essa non si
affiancasse una catechesi atta a mettere in
luce il significato del sangue di Cristo e a
suscitarne il desiderio. In questo caso, si

98
ripristinerebbe, per così dire, il segno
(sacramentum), non il significato o la realtà
di esso (la res sacramenti). Ed è proprio a
questo scopo che vorrei far servire tutta la
riflessione che segue. Vogliamo che anche
dal nostro cuore possa erompere quel grido
che uscì dalle labbra del martire
sant’Ignazio: «Voglio il pane di Dio che è la
carne di Gesù Cristo e come bevanda voglio
il suo sangue che è amore incorruttibile!»13.
Dobbiamo fare in modo che il
“Preziosissimo Sangue” esca dall’ambito
delle “devozioni”, in cui ha finito spesso
per essere confinato, e ritorni all’ambito che
gli è proprio del kerigma e del sacramento.
Che torni a essere per noi ciò che era per
Paolo e per gli altri apostoli che
riassumevano con la parola “sangue” tutta
la redenzione e tutto l’amore di Cristo per
l’umanità.

2. Il sangue nella Bibbia: figura, evento e


sacramento
C’è una specie di filo scarlatto, o un

99
rigagnolo di fuoco, che attraversa la Bibbia
da un capo all’altro e ci raggiunge
nell’Eucaristia, ed è il tema del sangue. Nel
cercare di seguire questo filo, ci è di aiuto
lo schema illustrato all’inizio del libro,
secondo cui l’Eucaristia è presente in tutta
la storia della salvezza, rispettivamente,
come figura nell’Antico Testamento, come
evento nella vita di Gesù e come
sacramento nel tempo della Chiesa. Alla
luce di questo schema, l’effusione del
sangue di Cristo ci appare dapprima
profeticamente prefigurata, poi
storicamente realizzata e infine
sacramentalmente rinnovata nell’Eucaristia.
Le grandi figure del sangue di Cristo
nell’Antico Testamento sono: il sangue
dell’agnello pasquale (cf Es 12, 7.13), il
sangue dell’alleanza con cui Mosè asperse
il popolo (cf Es 24, 8) e il sangue per la
purificazione dei peccati con cui il sommo
sacerdote entrava nel Santo dei santi, il
giorno della Grande Espiazione (cf Lv 16, 1
ss). Tutte queste figure non perdono il loro
valore all’apparire della realtà che è il

100
sangue di Cristo versato sulla croce, ma
servono invece a descriverla, a interpretarla
e a metterne in luce la assoluta superiorità
rispetto a ogni prefigurazione.
Gesù stesso, nelle parole dell’istituzione,
richiama quelle tre figure, usando
espressioni come «memoriale» (cf Es 12,
14), «sangue della nuova alleanza» e «in
remissione dei peccati». La catechesi
apostolica lo segue su questa via. «Voi
sapete – si legge nella prima lettera di
Pietro – che non a prezzo di cose
corruttibili, come l’argento e l’oro, foste
liberati dalla vostra vuota condotta ereditata
dai vostri padri, ma con il sangue prezioso
di Cristo, come di agnello senza difetti e
senza macchia» (1 Pt 1, 18-19). Questo per
quanto riguarda l’agnello pasquale. La
lettera agli Ebrei, dal canto suo, ha tutto un
capitolo in cui, in contrappunto con i riti
antichi, si parla del sangue di Cristo come
principio della nuova ed eterna alleanza e
della remissione dei peccati. «Non con
sangue di capri e di vitelli – dice –, ma con
il proprio sangue Cristo entrò una volta per

101
sempre nel santuario, procurandoci una
redenzione eterna» (Eb 9, 12).
Le figure dell’Antico Testamento
continuano a essere il quadro nel quale si
sviluppa la ricchissima catechesi dei Padri.
Commentando Esodo 12, 13 («Io vedrò il
sangue e vi proteggerò»), uno di essi scrive:
«Tu, o Gesù, ci hai veramente protetti dalla
grande rovina. Hai disteso paternamente le
braccia e ci hai nascosti all’ombra delle tue
ali, riversando sulla terra il sangue tuo
divino in libagione cruenta per amore per
gli uomini»14.
Tutto questo insieme di figure e di realtà
giunge fino a noi, dicevo, come un
rigagnolo di fuoco, nel sacramento
dell’Eucaristia. Ma con un’importante
novità che costituisce appunto la
caratteristica del sacramento: al posto della
realtà, il sangue, c’è il suo segno, il vino. Il
vino ha affinità con il sangue, è il «sangue
dell’uva» (Dt 32, 14). «Esso permette di
evitare l’orrore naturale provocato dal
sangue, pur conservando intatta l’efficacia
del prezzo della redenzione»15. Non solo,

102
ma la trasposizione sangue-vino dà
finalmente un senso alla parola di Gesù: «Il
mio sangue è vera bevanda»; evoca «il vino
nuovo», quello della «vite vera», cioè la
nuova alleanza e lo Spirito Santo; richiama
il tema della gioia e dell’ebrezza spirituale
(cf Sal 23, 5; 104, 15), facendo così,
dell’Eucaristia, un anticipo del banchetto
escatologico del regno (cf Mc 14, 25).
«Lo Spirito Santo – scrive san Cipriano –
non passa sotto silenzio il mistero di questo
sangue; dice infatti nei Salmi: “Il tuo calice
inebriante, quanto è mirabile!” (cf Sal 23,
5). L’ebbrezza del calice del Signore e del
suo sangue non è come quella del vino
comune. Il calice del Signore inebria in
modo da rendere sobri e conduce gli animi
alla sapienza spirituale. E se il vino comune
scioglie la mente e rilassa l’anima,
disperdendo ogni tristezza, il sangue del
Signore e il calice di salvezza dissipa il
ricordo dell’uomo vecchio, fa dimenticare i
costumi di un tempo ed espelle la tristezza
accumulatasi nel cuore a causa dei peccati,
con la gioia del perdono divino»16. È

103
pensando a tutto ciò che, con le parole di
una nota preghiera eucaristica, diciamo
anche oggi: «Sangue di Cristo, inebriami!».
La catechesi mistagogica ha bisogno di
poesia per esprimersi appieno, perché è essa
stessa una forma sublime di poesia che non
“indaga”, ma “canta” i misteri della fede.
Ascoltiamo, perciò, un grande poeta
cattolico che canta del “Prezioso Sangue”,
proprio nella sua forma eucaristica, e
lasciamoci trasportare nel suo clima
“estatico”:
«Questo sangue che ha ricevuto da Maria,
E il calore del suo proprio cuore,
Questo sangue che ebbe in comune con lei,
Ora è infuso in noi nel sonno luminoso,
Dell’ebbrezza sacramentale!...
Ciò che eleviamo tra le nostre mani,
non è solo un calice d’oro,
È tutto il sacrificio del Calvario!...
La Redenzione intera verso di noi,
come un vaso che s’inclina,
Come i cinque fiumi del Paradiso...
Le nostre labbra si posano sull’altra vita»17.

Dalle cinque piaghe di Cristo sulla croce,


sgorgano i fiumi che irrigano il nuovo

104
Paradiso che è la Chiesa (cf Gn 2, 10).
Grazie all’Eucaristia, noi diventiamo
«consanguinei di Cristo»18 e, in un senso
più remoto, anche di Maria. Quello che,
nell’Ave verum, diciamo del corpo di Gesù,
lo possiamo dire, a ugual titolo, anche del
suo sangue: «Ave vero sangue, nato da
Maria Vergine...».
Potrebbe venire spontaneo domandarci, a
questo punto: perché tanta importanza
accordata a una realtà così materiale, come
è il sangue, per certi aspetti addirittura
ripugnante all’uomo, a causa delle
immagini di sofferenza e di violenza che
evoca? Cosa c’è, nel sangue, da giustificare
un posto così rilevante nella religiosità
biblica? A questa domanda si deve
rispondere che il sangue, compreso quello
di Cristo, non interessa nella Bibbia per se
stesso, nella sua cruda realtà fisica. Il
sangue, per l’uomo antico, è la sede della
vita, cioè di quello che vi è di più prezioso e
più sacro al mondo. Il versamento del
sangue perciò (quando, come nel caso di
Gesù, si tratta del sangue proprio, non altrui

105
o di animali) è il segno di un amore di cui
non ce ne può essere uno maggiore (cf Gv
15, 13). «Non fu la morte del Figlio che
piacque al Padre, quanto la sua volontà di
morire spontaneamente per noi»19. Il sangue
è segno di un’obbedienza al Padre e di un
amore per noi, spinti fino alla morte. Cristo
«ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati
con il suo sangue» (Ap 1, 5). Un autore
chiama il sangue eucaristico di Gesù «la
coppa tremenda dell’amore»20,
presentandoci, così, con due sole parole,
l’Eucaristia come mistero di amorevole
condiscendenza e, insieme, di assoluta
trascendenza, come mistero «tremendo e
affascinante», al pari di Dio stesso.
Una grande innamorata del sangue di
Cristo, santa Caterina da Siena, così
scriveva al suo confessore: «Annegatevi nel
sangue di Cristo crocifisso, e bagnatevi nel
sangue, e inebriatevi del sangue, e vestitevi
del sangue. E se foste divenuto infedele,
ribattezzatevi nel sangue; se il demonio vi
avesse offuscato l’occhio dell’intelletto,
lavatevi l’occhio con il sangue; se foste

106
caduto nell’ingratitudine dei doni non
conosciuti, siate grato nel sangue... Nel
caldo del sangue dissolvete la tiepidezza, e
nel lume del sangue cada la tenebra e voi
siate sposo della Verità»21. A leggere queste
infuocate parole, qualcuno potrebbe
scambiare la mite Caterina per una
sanguinaria; ma basta leggere «amore di
Cristo» dove è scritto «sangue di Cristo» e
tutto diventa subito chiaro.
Dobbiamo però stare attenti a non ridurre
il sangue di Cristo a un puro simbolo, sia
pure di una realtà così grande come è
l’amore. Si chiama “simbolo” una cosa che
ne suggerisce e ne richiama un’altra, una
realtà materiale che sta per una realtà
spirituale. Ma il sangue di Cristo non sta
solo per una realtà spirituale – il suo amore,
la sua obbedienza –; esso sta per un evento
preciso accaduto nel tempo e nello spazio:
«Cristo, con il proprio sangue, entrò una
volta per sempre nel santuario,
procurandoci una redenzione eterna» (Eb 9,
12). È da qui che gli viene la sua forza
unica e trascendente. Esso è segno, ma

107
anche memoriale. Non stabilisce un
rapporto solo verticale, tra una realtà
visibile e una invisibile, ma anche un
rapporto orizzontale, dentro la storia, tra il
segno presente e l’evento passato. Esso ci
mette in un contatto diretto, anche se
sacramentale, con la morte di Cristo. Il
sangue di Cristo è il sigillo rutilante posto
su tutta la Bibbia. Esso attesta che «tutto è
compiuto».

3. «Tutti ci siamo abbeverati a uno stesso


Spirito»
San Paolo dice che Dio ha predestinato
Gesù a servire da strumento di espiazione
«per mezzo della fede nel suo sangue» (Rm
3, 25). Sembrerebbe quindi che la fede, non
il sacramento, è il mezzo per entrare in
contatto con la misteriosa potenza del
sangue di Cristo. La verità è che le due cose
sono entrambe necessarie e che non bisogna
contrapporle, ma unirle. Il mezzo è sì la
fede, che però trova la sua attuazione
concreta e piena nel sacramento, cioè

108
nell’Eucaristia. È qui che si rinnova ogni
volta il prodigio della «giustificazione
gratuita mediante la fede». Viene
consacrato ed elevato davanti a te il sangue
della nuova alleanza, come fu elevato il
serpente nel deserto (cf Gv 3, 14). Tu credi
che quello è lo stesso sangue che fu versato
per te sulla croce; ti ricordi delle parole: «Il
sangue di Cristo ci purifica da ogni
peccato» (1 Gv 1, 7). Getti perciò in esso
tutti i tuoi peccati, come si gettano dei sassi
in una fornace di calce viva perché siano
tutti frantumati, e torni ogni volta a casa,
come il pubblicano, «giustificato» (Lc 18,
14), cioè perdonato, fatto creatura nuova.
A volte, nell’elevare il calice dopo la
consacrazione, sento il bisogno di indugiare
per qualche istante in quella posizione. Se
sono a conoscenza di situazioni di lotta o di
peccato particolarmente dure, proclamo
mentalmente su di esse la potenza del
sangue di Cristo, sicuro che non c’è nulla di
più efficace da opporre al fronte minaccioso
delle tenebre e del male. Se l’angelo
sterminatore, diceva il Crisostomo, vedendo

109
solo la figura del sangue sulle porte degli
ebrei, ne ebbe timore e non entrò per
colpire (cf Es 12, 23), quanto più il
demonio, vista la realtà, fuggirà lontano?22
La comunione al corpo di Cristo è già
capace di farci entrare in possesso di tutta
questa grazia, se accompagnata da viva fede
nel sangue di Cristo. Tuttavia la comunione
al calice è il mezzo più consono, stabilito da
Cristo stesso, per accedere a essa, perché
«significandola, la causa», come si dice di
ogni segno sacramentale. La lettera agli
Ebrei dice che «il sangue di Cristo...
purifica la nostra coscienza dalle opere
morte» (Eb 9, 14). I peccati si depositano
nel fondo della nostra coscienza come corpi
morti. Che sollievo scoprire che c’è un
mezzo per liberarsi di questi pesi morti che
ci opprimono, e che esso è sempre a tua
disposizione nel sacramento eucaristico!
«Se, ogni volta che il sangue viene sparso,
viene sparso per la remissione dei peccati,
devo riceverlo sempre, perché sempre mi
rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo
sempre disporre della medicina»23.

110
Ma il sangue di Cristo non ha solo questo
effetto, per così dire, negativo, di togliere il
peccato; ne ha anche uno sommamente
positivo, che consiste nel darci lo Spirito
Santo. «Per mezzo del sangue versato per
noi – scrive un autore antico – noi
riceviamo lo Spirito Santo. Sangue e Spirito
sono stati associati, affinché mediante il
sangue che ci è connaturale potessimo
ricevere lo Spirito Santo che è al di sopra
della nostra natura»24. Per il suo colore e
calore, il sangue, come del resto anche il
suo segno che è il vino, ha una certa
somiglianza con il fuoco (“fuoco liquido”,
come vengono talvolta chiamati!) e il fuoco
richiama a sua volta lo Spirito Santo: «Noi
beviamo il calice della gioia, il sangue vivo
e infuocato, segnato dal calore dello
Spirito», leggiamo in una delle più antiche
omelie pasquali25. «Vi do da bere un vino –
fa dire a Gesù sant’Efrem – in cui sono
mescolati fuoco e Spirito»26.
Per il modo con cui si esprimeva, questa
idea era influenzata dalla visione stoica del
tempo, secondo cui il sangue era la sede e il

111
veicolo, per così dire, dello pneuma nel
corpo umano, ma nella sostanza essa viene
dalla Bibbia. Giovanni ha visto un rapporto
stretto tra lo Spirito che Gesù “emette” sulla
croce e l’acqua e il sangue che subito dopo
sgorgano dal suo costato (cf Gv 19, 30.34),
tanto che nella prima lettera, riferendosi a
questo episodio, scrive: «Tre sono quelli
che rendono testimonianza: lo Spirito,
l’acqua e il sangue» (1 Gv 5, 7). Con la
frase: «Tutti ci siamo abbeverati allo stesso
Spirito» (1 Cor 12, 13), san Paolo stabilisce
la stessa connessione tra la bevanda
eucaristica e lo Spirito Santo.
Commentando l’episodio dell’acqua che
sgorgò dalla roccia (cf Es 17, 5 s), egli
scrive: «Bevevano tutti da una roccia
spirituale e quella roccia era Cristo» (1 Cor
10, 4). Anche il popolo cristiano ha,
dunque, la sua «roccia spirituale», dalla
quale attingere «la bevanda spirituale», che
è lo stesso Spirito Santo. Una roccia che li
“accompagna” nella storia, grazie proprio
all’Eucaristia. «A quelli scaturì l’acqua
dalla roccia, a te il sangue di Cristo; l’acqua

112
dissetò quelli per un certo tempo, il sangue
lava te in eterno»27. Per questo, non c’è via
più sicura per ricevere lo Spirito Santo che
comunicare, con fede, al sangue di Cristo.
Come fare, in conclusione, per ridare al
sangue di Cristo il posto che gli compete
nella teologia e nella pietà eucaristica?
Accanto alla riscoperta dell’importanza del
sangue nella Bibbia e alla pratica sempre
più ampia della comunione sotto le due
specie, si potrebbe pensare anche ad alcuni
piccoli segni concreti che (qualora fossero
autorizzati dalla competente autorità)
potrebbero aiutare i fedeli a percepire
l’Eucaristia come il sacramento, insieme,
del corpo e del sangue di Cristo. Per
esempio: celebrare qualche volta la Messa
con un calice trasparente, di vetro o di
cristallo, in modo che il popolo possa
contemplare con i propri occhi il sangue del
Signore, come contempla il suo corpo
nell’ostia; in qualche circostanza
particolare, fare l’adorazione eucaristica
davanti al corpo e al sangue di Cristo, o
anche solo davanti al sangue, per ricordare

113
che anche nel sangue c’è tutto intero Cristo;
portare in processione, nella festa del
Corpus Domini, non solo il corpo ma anche
il sangue del Signore... È chiaro che la
conservazione del vino presenta difficoltà
maggiori che non quella del pane, ma qui
non si tratterebbe di conservarlo
indefinitamente, ma solo per l’occasione.
Ho detto che il “Preziosissimo Sangue”,
dall’ambito della devozione, deve tornare
più chiaramente a quello del kerigma e del
sacramento. Ma questo non significa
rinnegare nulla di ciò che di valido e di
splendido tale devozione ha prodotto nella
Chiesa negli ultimi secoli. Al contrario
significa dare a tutto ciò una solida base
dogmatica. La fede non esclude la
devozione, ma la suscita, specialmente
quando si tratta della devozione in senso
forte, quella che è dovuta solo a Dio. Anche
gli innumerevoli Istituti religiosi, sorti negli
ultimi secoli, che portano il nome del
Preziosissimo Sangue, possono trovare in
ciò un aiuto per scoprire la bellezza del
proprio carisma e viverlo in modo sempre

114
più consono alla rinnovata sensibilità
biblica e liturgica del nostro tempo.
Terminiamo facendo nostre le parole che
sono servite a generazioni di credenti prima
di noi per esprimere il proprio ardente
anelito al sangue di Cristo:
«Pio Pellicano, Gesù Signore,
me, immondo, monda col tuo sangue
di cui una sola stilla
tutto il mondo può
salvare dalla colpa»28.

Ogni volta che torniamo al posto, dopo


aver ricevuto l’Eucaristia, specie se
l’abbiamo ricevuta anche nel segno del
vino, dovrebbe risuonare nel nostro intimo
quella parola della Scrittura così carica di
suggestioni e ammonimento: «Voi vi siete
accostati... al Mediatore della nuova
alleanza, al sangue dell’aspersione, dalla
voce più eloquente di quello di Abele» (Eb
12, 24).

Note
1 Agostino, Sermo Denis 3, 3 (Miscellanea

115
Agostiniana 1, p. 19).
2 Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali, 3,
12.16 (SCh 50, p. 158 s).
3 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche,
5, 22 (PG 33, 1125).
4 Agostino, Esposizioni sui Salmi, 101, 8 (PL 36,
1299).
5 Gelasio papa, Canoni (PL 59, 141).
6 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 76,
a. 2.
7 Cf Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q.
76, a. 2; q. 80, a. 12, Sed contra.
8 Ibid., q. 80, a. 12.
9 Ibid., q. 76, a. 2.
10 H. Denzinger - A. Schönmetzer, Enchiridion
symbolorum definitionum et declarationum de rebus
fidei et morum, 1726-1734.
11 Sacrosanctum concilium, n. 55.
12 Istr. Eucharisticum mysterium, n. 32 (AAS 59,
1967, p. 558).
13 Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, 7, 3.
14 Antica omelia pasquale, 38 (SCh 27, p. 159).
15 Ambrogio, De sacramentis, IV, 20.
16 Cipriano, Epistola 63, 11 (PL 4, 394).
17 P. Claudel, Il prezioso sangue (Oeuvre Poétique,
Gallimard, Parigi 1967, p. 541 s).
18 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche,
IV, 3 (PG 33, 1100).
19 Bernardo, Contra quaedam capitula errorum
Abaelardi, 8, 21; (PL 182, 1070).

116
20 N. Cabasilas, Vita in Cristo, III, 3 (PG 150, 580).
21 Caterina da Siena, Lettera 102.
22 Cf Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali,
3, 15 (SCh 50, p. 160).
23 Ambrogio, De sacramentis, IV, 28.
24 Omelia pasquale del III sec. (SCh 36, p. 83).
25 Antica omelia pasquale (SCh 27, p. 133 s).
26 Efrem, Sermo in hebdomadam sanctam, 2, 627
(CSCO 413, p. 41).
27 Ambrogio, De mysteriis, 8, 48.
28 Inno Adoro te devote.

117
V
«Fate questo in memoria di me»
L’Eucaristia fa la Chiesa
mediante contemplazione

Ho cercato finora di mostrare come


l’Eucaristia fa la Chiesa mediante
consacrazione e mediante comunione. In
questa meditazione vorrei aggiungere che
l’Eucaristia fa la Chiesa anche in un altro
modo e cioè mediante contemplazione.
Eucaristia e contemplazione sono state
viste, talvolta, come due vie distinte e quasi
parallele alla perfezione cristiana. La prima
è conosciuta come la via misterica, o
oggettiva, che dà il primato ai sacramenti
(misteri) e soprattutto all’Eucaristia; la
seconda come la via mistica, o soggettiva,
che dà il primato alla contemplazione. Si è

118
voluto vedere, intorno a ciò, una certa
diversificazione tra epoca patristica ed
epoca moderna, e tra spiritualità ortodossa e
spiritualità occidentale. La spiritualità
patristica, mantenutasi più fedelmente
nell’ortodossia – si dice – si fonda di più sui
misteri; quella occidentale, invece,
influenzata da alcuni grandi mistici
moderni, si fonda di più sulla
contemplazione, o, come si esprime una di
essi, santa Teresa d’Avila, sulla vita di
orazione.
Comunque stiano le cose nella realtà (che
è sempre tanto più complessa degli schemi),
io credo che sia venuto il momento di fare
la sintesi tra queste due vie, o, meglio, di
riscoprire la sintesi che è esistita, su questo
punto, fino alle soglie dell’epoca moderna e
che, per varie ragioni, è andata smarrita.
Secondo questa visione unitaria, sacramenti
e vita di orazione non sono due “vie”
diverse e alternative alla santificazione, ma
intimamente legate e interdipendenti tra di
loro. Alla base di tutto c’è certamente la
vita sacramentale, ci sono i “misteri”, che ci

119
mettono in contatto immediato e oggettivo
con la salvezza operata da Dio in Cristo
Gesù una volta per tutte. Ma da soli essi
non bastano a far progredire nel cammino
spirituale; è necessario che alla vita
sacramentale si affianchi una vita interiore,
o di contemplazione. La contemplazione,
infatti, è il mezzo con cui noi “riceviamo”,
in senso forte, i misteri, il mezzo con cui li
interiorizziamo e ci apriamo alla loro
azione; è il corrispettivo dei misteri sul
piano esistenziale e soggettivo; è un modo
per permettere alla grazia, ricevuta nei
sacramenti, di plasmare il nostro universo
interiore, cioè i pensieri, gli affetti, la
volontà, la memoria.
Solo dopo che la vita divina, venuta in noi
tramite i sacramenti, è stata assimilata nella
contemplazione, potrà esprimersi
concretamente anche nelle azioni, cioè
nell’esercizio delle virtù e, in primo luogo,
della carità. Come non c’è un’azione umana
che non scaturisca da un pensiero (e se c’è,
è senza alcun valore, o è molto pericolosa),
così non c’è una virtù cristiana che non

120
scaturisca da contemplazione. Scrive san
Gregorio Nisseno: «Tre sono gli elementi
che manifestano e distinguono la vita del
cristiano: l’azione, la parola e il pensiero.
Primo fra questi è il pensiero, poi viene la
parola che dischiude e manifesta con
vocaboli ciò che è stato concepito con la
mente; quindi, in terzo luogo, si colloca
l’azione che traduce nei fatti quello che uno
ha pensato. La perfezione della vita
cristiana consiste nell’assimilarsi a Cristo in
modo pieno, prima nell’ambito interiore del
cuore, poi in quello esteriore dell’azione»1.
La contemplazione è, dunque, la via
obbligata per passare dalla comunione con
Cristo nella Messa, all’imitazione di Cristo
nella vita. Come, perciò, si parla di
un’universale chiamata alla santità di tutti i
battezzati2, allo stesso modo si deve parlare
di un’universale chiamata di tutti i
battezzati alla contemplazione. La via della
perfezione cristiana va dai misteri alla
contemplazione e dalla contemplazione
all’azione. Insieme, questi tre elementi
formano un unico cammino di santità aperto

121
a tutti i battezzati, secondo la misura
imperscrutabile del dono di Dio e della
risposta libera dell’uomo. Per sé, il
“primato della contemplazione” sull’azione
non vuol dire che la contemplazione è “più
grande” della pratica delle virtù e della vita
attiva, ma che viene “prima”, ne è la
sorgente. Specialmente se parliamo di un
certo tipo di vita contemplativa, aperto a
tutti e possibile a tutti.

1. La memoria costante di Cristo


Appena proviamo ad applicare, da vicino,
queste premesse generali, riguardanti i
misteri, all’Eucaristia, ne scopriamo
immediatamente l’importanza e l’attualità.
Ne scaturisce che, per assimilarci a Cristo,
non basta mangiare il suo corpo e bere il
suo sangue; occorre anche contemplare
questo mistero. C’è una grande affinità tra
Eucaristia e Incarnazione.
Nell’Incarnazione – dice sant’Agostino –
«Maria concepì il Verbo prima con la mente
che con il corpo» (Prius concepit mente

122
quam corpore). Anzi, aggiunge, a nulla le
sarebbe valso portare Cristo nel suo
grembo, se non lo avesse portato con amore
anche nel suo cuore3.
Maria, dopo l’Incarnazione, era, dunque,
piena di Gesù non solo nel suo corpo, ma
anche nel suo spirito; era piena di Gesù
perché pensava a Gesù, attendeva Gesù (e
come lo attendeva!), amava Gesù. Come
ogni donna che “attende” un bimbo, ma in
misura tanto più perfetta, era tutta raccolta
in se stessa. I suoi occhi guardavano più
dentro che fuori, perché dentro era il suo
tesoro, dentro portava il dolce segreto che la
lasciava stupita e senza parole. «Maria – è
scritto nel Vangelo di Luca – da parte sua
serbava tutte queste cose meditandole nel
suo cuore» (Lc 2, 19). In ciò, ella ci appare
come il modello più perfetto di ciò che
intendiamo per contemplazione eucaristica:
così deve essere il cristiano che ha appena
ricevuto Gesù nell’Eucaristia. Anche lui
deve accogliere Cristo nella sua mente,
dopo averlo accolto nel suo corpo.
(Concepire significa accogliere in sé). E

123
accogliere Cristo nella mente significa,
concretamente, pensare lui, avere lo
sguardo rivolto su di lui, ricordarsi di lui. È
proprio questa la parola-chiave della nostra
meditazione odierna; ricordarci di Cristo,
fare memoria di lui.
Istituendo l’Eucaristia, Gesù ha
consacrato questa parola; disse: «Fate
questo in memoria di me» (Lc 22, 19).
«Memoria» è la categoria che collega
idealmente l’Eucaristia alla Pasqua ebraica
che era anch’essa, come si sa, un
«memoriale» (cf Es 12, 14). La sua
importanza è tale che san Paolo, nel suo
racconto dell’istituzione, ripete per ben due
volte quel comando di Gesù. Egli specifica
anche qual è il contenuto della memoria da
fare di Gesù, dicendo: «Ogni volta infatti
che mangiate questo pane voi annunciate la
morte del Signore» (1 Cor 11, 26). Il
contenuto è la morte di Cristo.
Il memoriale eucaristico ha una duplice
dimensione, o un duplice significato: uno
che riguarda Dio e uno che riguarda
l’uomo; li possiamo chiamare, perciò, un

124
significato teologico e un significato
antropologico. In senso teologico, il
memoriale consiste nel fare memoria di
Gesù al Padre, nell’invitare il Padre a
ricordarsi di ciò che Gesù ha fatto per noi e,
per amore di lui, a perdonarci e beneficarci.
Noi, in altre parole, ricordiamo Gesù al
Padre, perché il Padre si ricordi di noi.
Jeremias ha spiegato così quella parola di
Gesù: «Fate questo affinché il Padre si
ricordi di me». Nell’Antico Testamento, nei
momenti di grande prova, ci si rivolgeva a
Dio esclamando: «Ricordati di Abramo
nostro padre, ricordati di Isacco, di
Giacobbe» un salmo dice: «Ricordati,
Signore, di David e di tutte le sue prove»
(Sal 132, 1). Ma ora noi, popolo della
Nuova Alleanza, possiamo lanciare verso
Dio un grido infinitamente più efficace di
questo; possiamo dirgli: Ricordati di Gesù,
tuo Figlio, e del suo sacrificio! Di questo ci
dà esempio la liturgia della Chiesa. Le
preghiere eucaristiche della Messa – e, in
modo tutto particolare, la Preghiera
eucaristica IV – non sono che un’anamnesi,

125
cioè un far memoria al Padre di Gesù.
Raccontano con meravigliosa ingenuità
(come se il Padre non lo sapesse!) ciò che il
Figlio suo disse e fece per noi quand’era
ancora quaggiù: «Egli si è fatto uomo... Si
consegnò volontariamente alla morte... Ha
mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo
dono ai credenti... Venuta l’ora di essere
glorificato da te, Padre santo, avendo amato
i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla
fine». Le parole stesse della consacrazione
hanno un carattere narrativo; sono
anch’esse un racconto fatto al Padre di ciò
che Gesù disse, prendendo il pane e
spezzandolo per noi. Solo dopo aver
ricordato a lungo Gesù al Padre, si prega il
Padre di ricordarsi, lui, di noi: «E ora,
Padre, ricordati di tutti quelli per i quali ti
offriamo questo sacrificio»; «Ricordati,
Padre, della tua Chiesa».
In senso antropologico, o esistenziale, il
memoriale eucaristico consiste nel ricordare
Gesù, non più al Padre, ma a noi stessi, nel
ricordarci, noi, di lui. Per molti secoli, le
prime parole pronunciate dal sacerdote,

126
dopo la consacrazione, sono state «Unde et
memores»: «Perciò, ricordandoci, noi tuoi
servi, della beata passione, della
risurrezione dai morti e della gloriosa
ascensione di Gesù tuo Figlio...»4.
Dobbiamo tornare a valorizzare l’immenso
potenziale spirituale racchiuso in questo
ricordo di Gesù. Dobbiamo fare del ricordo
di Gesù la nostra gioia e la nostra forza in
questa terra di pellegrinaggio. «Dolce è il
ricordo di Gesù che al cuore dà la vera
gioia», dice un antico canto liturgico5.
Dobbiamo poter arrivare a dire a Gesù ciò
che Isaia diceva a Dio, nell’Antico
Testamento: «Al tuo nome e al tuo ricordo
si volge tutto il nostro desiderio» (Is 26, 8).
Il ricordo, infatti, al suo affacciarsi alla
mente, ha il potere di catalizzare tutto il
nostro mondo interiore e di convogliarlo
verso l’oggetto del ricordo, specie se questo
non è una cosa, ma una persona e una
persona amata. Quando una mamma si
ricorda del suo bambino che ha dato alla
luce da pochi giorni e che ha lasciato a casa,
tutto dentro di lei vola verso la sua creatura,

127
un impeto di tenerezza sale dalle sue
viscere materne e le vela gli occhi di
lacrime. Così è anche, sebbene in modo più
spirituale, per i santi quando si ricordano di
Dio; dice infatti un salmo: «Quando nel mio
giaciglio di te mi ricordo e penso a te nelle
veglie notturne... esulto di gioia all’ombra
delle tue ali» (Sal 63, 7 s).
La memoria è una delle facoltà più
misteriose e più grandiose dello spirito
umano. Tutte le cose viste, udite, pensate e
fatte fin dalla nostra prima infanzia, sono
conservate in questo “seno” immenso che
non occupa nessuno spazio, pronte a
ridestarsi e venire alla luce, a un cenno
della volontà. Sant’Agostino ha scritto delle
cose molto belle sulla memoria che, per lui,
era, addirittura, segno e vestigio della
Trinità: «Grande è codesta facoltà della
memoria, grande assai, o mio Dio; essa è un
penetrale immenso e infinito... Chi può
toccarne il fondo? Essa fa venire, in certo
modo, le vertigini... Dal tempo in cui ti ho
conosciuto, tu dimori nella mia memoria ed
è qui che io ti trovo quando mi ricordo e

128
gioisco di te»6. Dio, che i cieli dei cieli non
possono contenere, è racchiuso nel tempio
della memoria dell’uomo! Ricordare viene
dal latino recordari e significa, alla lettera,
far salire di nuovo (re-) al cuore (cor). Non
è perciò un’attività solo dell’intelletto, ma
anche della volontà e del cuore; ricordare è
pensare con amore. Gesù attribuisce,
addirittura, allo Spirito Santo il fatto che noi
ci possiamo ricordare di lui (cf Gv 14, 26).
I Padri della Chiesa, specialmente i Padri
greci, hanno elaborato tutta una ricca
spiritualità eucaristica a partire dalla parola
di Gesù, ripetuta nella liturgia: «Fate questo
in memoria di me». Per essi, il frutto
spirituale dell’Eucaristia non è altro che la
memoria continua di Gesù. È attraverso tale
ricordo costante, infatti, che Dio prende
dimora nell’anima e la rende suo tempio.
Secondo san Basilio, Gesù, istituendo
l’Eucaristia, non mirava che a questo: che,
«mangiando il suo corpo e bevendo il suo
sangue, sempre ci ricordassimo di lui che è
morto e risorto per noi»7.
Questi Padri insistono, però, su una cosa:

129
per operare davvero la trasformazione del
nostro cuore, la contemplazione dei misteri
deve essere «assidua». «Poiché il dolore
pieno di grazia nasce dall’amore per Cristo
e l’amore nasce dai pensieri che hanno per
oggetto il Cristo e il suo amore per gli
uomini, giova molto conservare tali pensieri
nella memoria, rivolgerli nell’anima e non
darsi mai vacanza da questa occupazione. È
utile, inoltre, tentare di rendere continuo
tale esercizio, senza lasciarsi interrompere
da nulla, possibilmente per tutto il corso
della vita, o almeno molto spesso; sicché
questi pensieri si imprimano nell’anima e
possiedano totalmente il cuore. Come il
fuoco non può agire per nulla sugli oggetti
che tocca se il contatto non è continuo, così
un pensiero intermittente non può disporre
il cuore a nessuna passione; occorre un
certo tempo, lungo e continuo»8.
Dobbiamo, dunque, desiderare di arrivare
al punto che il ricordo di Gesù si insinui e
circoli attraverso i nostri pensieri, come il
miele nei favi. Questa cosa non è
impossibile, né al di fuori della portata

130
normale dei cristiani. Molte anime, anche di
quelle che vivono nel mondo, ne hanno
fatto l’esperienza, almeno per lunghi
periodi. (Non si può certo pretendere di
arrivare quaggiù a possedere tale ricordo
continuo in modo permanente e inalterato).
Esso è facilitato, specie all’inizio, dalla
ripetizione mentale, o a fior di labbra, di
una parola, come la prolungata invocazione
del nome di Gesù. È quasi incredibile
l’efficacia di questo mezzo così semplice. Il
motivo è che il nome di Gesù non è solo un
“nome”; in esso è racchiuso il mistero e la
potenza della persona di Cristo.
L’invocazione del nome di Gesù serve
soprattutto a stroncare sul nascere i pensieri
di orgoglio, di autocompiacenza, di ira, i
pensieri impuri, e a potenziare, invece, i
pensieri buoni. Basta imparare a osservare i
propri pensieri, come fossero di un’altra
persona e, per così dire, a precorrerli nel
loro sviluppo. Si capisce immediatamente
dove andrà a finire un certo pensiero che sta
nascendo in noi: se in Dio, o in noi stessi, se
risulterà a sua gloria, o a nostra gloria. In

131
quest’ultimo caso, la ripetizione del nome
di Gesù, accompagnata dalla fede nella
potenza del Signore, serve a “spezzare” il
filo del pensiero cattivo o inutile e a
introdurre in noi, un po’ alla volta, «i
sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil
2, 5). Così, l’uomo si abitua a «pensare
secondo Dio, e non secondo gli uomini» (cf
Mt 16, 23) e il suo cuore diventa «puro».
Ciò che inquina, infatti, il nostro cuore è
soprattutto la ricerca di noi stessi, della
nostra gloria. Ma l’uomo che contempla
Dio è come uno che volta le spalle a se
stesso: è costretto a dimenticarsi e a
perdersi di vista. Chi contempla non si
contempla!

2. L’adorazione davanti al Santissimo


Ho cercato, fin qui, di mettere in luce il
principio generale della contemplazione
eucaristica e il posto che essa deve
occupare nel cammino verso la
santificazione. Vorrei ora accennare anche
alle forme che essa può rivestire e ai mezzi

132
che abbiamo a disposizione per coltivarla.
Una prima forma di contemplazione
eucaristica è la stessa liturgia della Parola
della Messa. Essa richiama alla mente ogni
volta un aspetto della storia della salvezza e
un tratto della vita di Gesù, aggiungendo, in
tal modo, un contenuto, in parte, nuovo alla
memoria che facciamo di lui. La liturgia
della Parola illumina l’Eucaristia, aiuta a
penetrare le profondità inesauribili del
mistero che viene celebrato. Facciamo un
esempio concreto: la domenica
ventinovesima del ciclo B dell’anno
liturgico. Come prima lettura troviamo Isaia
53, 2 ss: «Disprezzato e reietto dagli
uomini, uomo dei dolori che ben conosce il
patire...»; come seconda lettura, Ebrei 4,
14-16: «Abbiamo un grande sommo
sacerdote...»; infine, come brano
evangelico, Marco 10, 35-45: «Potete bere
il calice che io bevo? Il Figlio dell’uomo
infatti non è venuto per essere servito...».
Quali orizzonti apre alla contemplazione
eucaristica ognuna di queste parole! La
mensa della parola prepara la mensa del

133
pane; suscita il desiderio, accresce il gusto
di Cristo. Così avvenne in quella
straordinaria liturgia vissuta dai discepoli di
Emmaus: la spiegazione delle Scritture
cominciò a far ardere il cuore dei due
discepoli, i quali, così disposti, furono poi
capaci di “riconoscere” il Signore allo
spezzare del pane.
Una forma di contemplazione eucaristica
è anche il tempo dedicato alla preparazione
e al ringraziamento prima e dopo la
comunione.
Ma la forma per eccellenza di
contemplazione eucaristica si ha
nell’adorazione silenziosa davanti al
Santissimo. Si può, certo, contemplare
Gesù-Eucaristia anche da lontano, nel
tabernacolo della propria mente. (San
Francesco soleva dire: «Quando non ascolto
la Messa, adoro il corpo di Cristo nella
preghiera, con gli occhi della mente, allo
stesso modo con cui lo adoro quando lo
contemplo durante la celebrazione
9
eucaristica» ). Tuttavia, la contemplazione
fatta alla presenza reale di Cristo, davanti

134
alle specie che lo contengono, in un luogo
possibilmente raccolto e già impregnato,
per così dire, della presenza di lui, aggiunge
qualcosa che ci è di grande aiuto.
Nella sua lettera su Il mistero e il culto
della SS. Eucaristia, del giovedì santo
1980, il Santo Padre, Giovanni Paolo II,
scriveva: «L’adorazione di Cristo in questo
sacramento d’amore deve trovare la sua
espressione in diverse forme di devozione
eucaristica: preghiera personale davanti al
Santissimo, ore di adorazione, esposizioni
brevi, prolungate, annuali... L’animazione e
l’approfondimento del culto eucaristico
sono prova di quell’autentico rinnovamento
che il Concilio si è posto come fine, e ne
sono il punto centrale... Gesù ci aspetta in
questo sacramento dell’amore. Non
risparmiamo il nostro tempo per andare a
incontrarlo nell’adorazione e nella
contemplazione piena di fede». Un tale
richiamo era necessario. La pietà eucaristica
tradizionale era stata, infatti, alquanto
dimenticata nel fervore del rinnovamento
liturgico che, di sua natura, si preoccupa di

135
più dell’ambito comunitario e rituale, che
non di quello della pietà personale. Era stata
trascurata anche a causa di un certo eccesso
ingenuo di sociologismo e di secolarismo
che vede nell’Eucaristia quasi solo l’aspetto
conviviale, o, come si dice, orizzontale. Il
movimento centrifugo (verso i poveri, verso
l’impegno politico, verso il terzo mondo
ecc.), che ha caratterizzato tante comunità
cristiane dopo il Concilio, ha bisogno di
essere riequilibrato da un movimento
centripeto, che richiami, cioè, al cuore della
comunità, al suo centro, dove si trova
l’Eucaristia. L’arcivescovo di Milano, Carlo
Maria Martini, nella sua prima lettera
pastorale, intitolata La dimensione
contemplativa della vita insiste anche lui
sulla necessità di questa riscoperta,
scrivendo: «Tutto questo (cioè il fare
dell’Eucaristia la forma della propria vita)
richiede, in concreto, la coltivazione di
atteggiamenti interiori che precedano,
accompagnino, seguano la celebrazione
eucaristica: ascolto della parola rivelata,
contemplazione dei misteri di Gesù,

136
intuizione della volontà del Padre tralucente
nelle parole di Gesù, confronto tra il
progetto di vita che scaturisce dalla Pasqua-
Eucaristia e le sempre nuove situazioni
spirituali in cui la comunità e i singoli
credenti vengono a trovarsi. Per questo,
preghiera silenziosa, ascolto della parola,
meditazione biblica, riflessione personale,
non sono disgiunti dall’Eucaristia, ma sono
vitalmente collegati con essa».
Il culto e l’adorazione dell’Eucaristia
fuori della Messa è un frutto relativamente
recente della pietà cristiana. Cominciò
infatti a svilupparsi, in Occidente, a partire
dall’XI secolo, come reazione all’eresia di
Berengario di Tours che negava la presenza
«reale» e ammetteva una presenza soltanto
simbolica di Gesù nell’Eucaristia. A partire
da quella data, però, non c’è stato, si può
dire, un santo, nella cui vita non si noti un
influsso determinante della pietà
eucaristica. Essa è stata fonte di immense
energie spirituali, una specie di focolare
sempre acceso in mezzo alla casa di Dio, al
quale si sono riscaldati tutti i grandi figli

137
della Chiesa.
Forse è giusto vedere nello sviluppo
relativamente tardivo del culto eucaristico
fuori della Messa un’indicazione per
lasciare, a questo riguardo, una certa libertà
alle diverse confessioni cristiane10. Tale
pietà eucaristica è un dono che lo Spirito ha
fatto alla Chiesa cattolica e che essa deve
coltivare, con gratitudine, anche per gli altri
cristiani, senza però esigerlo
necessariamente anche da essi. Ogni grande
corrente spirituale, in seno al cristianesimo,
ha avuto il suo particolare carisma che
costituisce il suo contributo alla ricchezza
di tutta la Chiesa. Per i protestanti, questo è
il culto della parola di Dio; per gli
ortodossi, il culto delle icone (e quanto
abbiamo attinto, noi cattolici, da loro, in
questi campi!); per la Chiesa cattolica, esso
è il culto eucaristico. Attraverso ognuna di
queste tre vie, si realizza lo stesso scopo di
fondo, che è la contemplazione di Cristo e
del suo mistero.
Se il dono particolare della Chiesa
cattolica, e il segreto della sua forza, sta nel

138
modo unico con cui Gesù-Eucaristia è
presente e adorato in mezzo a essa, allora si
vede come è importante che torniamo a
valorizzare appieno questo dono. È come se
ora lo Spirito Santo spingesse la Chiesa a
riprendere certe forme di pietà eucaristica
che erano divenute alquanto consunte a
causa dell’abitudine e del ritualismo, ma a
riprenderle in modo rinnovato, immettendo
anche in esse l’accresciuta sensibilità
biblica e liturgica acquisita, nel frattempo,
dalla pietà cristiana. Si assiste alla rinascita
di un profondo bisogno di adorazione
eucaristica e di stare, come Maria di
Betania, ai piedi del Maestro (cf Lc 10, 39).
Stiamo riscoprendo che il corpo mistico di
Cristo, che è la Chiesa, non può nascere e
svilupparsi altrimenti che intorno al suo
corpo reale, che è l’Eucaristia.
In questo senso dico che l’Eucaristia fa la
Chiesa mediante contemplazione. Stando
calmi e silenziosi, e possibilmente a lungo,
davanti a Gesù sacramentato, si
percepiscono i suoi desideri a nostro
riguardo, si depongono i propri progetti per

139
fare posto a quelli di Cristo, la luce di Dio
penetra, a poco a poco, nel cuore e lo
risana. Avviene qualcosa che richiama ciò
che avviene sugli alberi in primavera, e cioè
il processo della fotosintesi. Spuntano dai
rami le foglie verdi; queste assorbono
dall’atmosfera certi elementi che, sotto
l’azione della luce solare, vengono «fissati»
e trasformati in nutrimento della pianta.
Senza tali foglioline verdi, la pianta non
potrebbe crescere e portare frutti e non
contribuirebbe a rigenerare l’ossigeno che
noi stessi respiriamo. Noi dobbiamo essere
come quelle foglie verdi! Esse sono un
simbolo delle anime eucaristiche le quali,
contemplando il “Sole di giustizia” che è
Cristo, “fissano” il nutrimento che è lo
Spirito Santo stesso, a beneficio di tutto il
grande albero che è la Chiesa. In altre
parole, è ciò che dice anche l’apostolo
Paolo quando scrive: «Noi tutti, a viso
scoperto, riflettendo come in uno specchio
la gloria del Signore, veniamo trasformati
in quella medesima immagine, di gloria in
gloria, secondo l’azione dello Spirito del

140
Signore» (2 Cor 3, 18).
Un poeta contemporaneo ha creato un
verso stupendo che potrebbe benissimo
essere fatto proprio dall’anima che sta in
contemplazione davanti all’Eucaristia: «Mi
illumino d’immenso»11.

3. Io guardo lui e lui guarda me


Ma cosa significa, concretamente, fare
contemplazione eucaristica? In se stessa, la
contemplazione eucaristica non è altro che
la capacità, o meglio il dono, di saper
stabilire un contatto da cuore a cuore con
Gesù presente realmente nell’Ostia e,
attraverso lui, elevarsi al Padre nello Spirito
Santo. Tutto questo, il più possibile nel
silenzio, sia esteriore che interiore. Il
silenzio è lo sposo prediletto della
contemplazione che la custodisce, come
Giuseppe custodiva Maria. Contemplare è
fissarsi intuitivamente sulla realtà divina
(che può essere Dio stesso, un suo attributo,
o un mistero della vita di Cristo) e godere
della sua presenza. Nella meditazione

141
prevale la ricerca della verità, nella
contemplazione, invece, il godimento della
Verità trovata. (Qui Verità è scritta con la
lettera maiuscola, perché la contemplazione
tende sempre alla persona, al tutto e non
alle parti).
I grandi maestri di spirito hanno definito
la contemplazione: «Uno sguardo libero,
penetrante e immobile» (Ugo di San
Vittore), oppure: «Uno sguardo affettivo su
Dio» (san Bonaventura). Faceva perciò
ottima contemplazione eucaristica quel
contadino della parrocchia di Ars che
passava ore e ore immobile, in chiesa, con
lo sguardo rivolto al tabernacolo e che,
interrogato dal Santo Curato cosa facesse
così tutto il giorno, rispose: «Niente, io
guardo lui e lui guarda me!». Questo ci dice
che la contemplazione cristiana non è mai a
senso unico, né è rivolta al “Nulla” (come è
quella di certe religioni orientali, e in
particolare del buddhismo). Sono sempre
due sguardi che si incontrano: il nostro
sguardo su Dio e lo sguardo di Dio su di
noi. Se a volte si abbassa e viene meno il

142
nostro sguardo, non viene mai meno, però,
quello di Dio. La contemplazione
eucaristica si riduce, talvolta,
semplicemente a tenere compagnia a Gesù,
a stare sotto il suo sguardo, donando anche
a lui la gioia di contemplare noi, che, per
quanto creature da nulla e peccatrici, siamo
però il frutto della sua passione, coloro per i
quali egli ha dato la vita: «Egli guarda
me!».
La contemplazione eucaristica non è
dunque impedita, per sé, dall’aridità che a
volte si può sperimentare, sia essa dovuta
alla nostra dissipazione, sia invece
permessa da Dio per la nostra purificazione.
Basta dare a essa un senso, rinunciando
anche alla nostra soddisfazione derivante
dal fervore, per far felice lui e dire, come
diceva Charles de Foucauld: «La tua
felicità, Gesù, mi basta!»; cioè: mi basta
che sia felice tu. Gesù ha a disposizione
l’eternità per far felici noi; noi non abbiamo
che questo breve spazio del tempo per far
felice lui: come rassegnarsi a perdere questa
occasione che non tornerà mai più in

143
eterno? A volte la nostra adorazione
eucaristica può sembrare una perdita di
tempo pura e semplice, un guardare senza
vedere; invece, quale forza e quale
testimonianza di fede è racchiusa in essa!
Gesù sa che potremmo andare via e fare
cento altre cose che ci gratificherebbero
assai di più, mentre rimaniamo lì, bruciando
il nostro tempo in pura perdita. Quando non
riusciamo a pregare con l’anima, possiamo
sempre pregare con il nostro corpo e quello
è un pregare con il corpo (anche se l’anima
è tutt’altro che assente).
Contemplando Gesù nel Sacramento
dell’altare, noi realizziamo la profezia fatta
al momento della morte di Gesù sulla croce:
«Guarderanno a colui che hanno trafitto»
(Gv 19, 37). Anzi, tale contemplazione è
essa stessa una profezia, perché anticipa ciò
che faremo per sempre nella Gerusalemme
celeste. È l’attività più escatologica e
profetica che si possa compiere nella
Chiesa. Alla fine non si immolerà più
l’Agnello, né si mangeranno più le sue
carni. Cesseranno, cioè, la consacrazione e

144
la comunione; ma non cesserà la
contemplazione dell’Agnello immolato per
noi. Questo infatti è ciò che i santi fanno nel
cielo (cf Ap 5, 1 ss). Quando siamo davanti
al tabernacolo, noi formiamo già un unico
coro con la Chiesa di lassù: essi davanti,
noi, per così dire, dietro l’altare; essi nella
visione, noi nella fede.
Nel libro dell’Esodo leggiamo che
«quando Mosè scese dal monte Sinai, non
sapeva che la pelle del suo viso era
diventata raggiante, poiché aveva
conversato con lui» (Es 34, 29). Mosè non
sapeva e neppure noi sapremo (perché così
è bene che sia); ma forse avverrà anche a
noi che, tornando tra i fratelli dopo quei
momenti, qualcuno vedrà che il nostro viso
è diventato raggiante, poiché abbiamo
contemplato il Signore. E sarà questo il
dono più bello che potremo fare a essi.

Note
1 Gregorio Nisseno, Sull’ideale perfetto del
cristiano (PG 46, 283 s).
2 Cf Lumen gentium, nn. 39-40.

145
3 Cf Agostino, Sulla santa verginità, 3 (PL 40, 398).
4 Preghiera eucaristica I (“Canone Romano”).
5 Inno Iesu dulcis memoria.
6 Agostino, Confessioni, X, 8-24.
7 Basilio, Sul battesimo, I, 3 (PG 31, 1576).
8 N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4 (PG 150, 653).
9 Nota sul Breviario di san Francesco (FF 2696).
10 Cf M. Thurian, Il mistero dell’Eucaristia. Un
approccio ecumenico, Roma 1982.
11 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. 106 Poesie, A.
Mondadori, Milano 1988, p. 72.

146
VI
«Io vi ho dato l’esempio»
L’Eucaristia fa la Chiesa
mediante imitazione

Nel racconto della cena lasciatoci da Luca


e da Paolo, abbiamo incontrato il comando
di Gesù: «Fate questo in memoria di me».
Anche nel racconto dell’ultima cena che si
legge nel Vangelo di Giovanni, troviamo un
comando di Gesù. Dice: «Io vi ho dato
l’esempio, perché come ho fatto io facciate
anche voi» (Gv 13, 15). Questi due
“comandi” di Gesù sono innegabilmente in
rapporto tra di loro. Presentano, tuttavia,
anche una differenza: nel primo caso, si
tratta di un “far memoria”, quindi di
qualcosa che si riferisce alla liturgia; nel
secondo caso, si tratta invece di un fare

147
(«perché facciate»), cioè di qualcosa che si
riferisce alla vita. È la stessa progressione
evangelica che ci spinge, dunque, a passare
dalla memoria all’imitazione, dalla
contemplazione eucaristica alla prassi
eucaristica.
La cena descritta da Giovanni nei capitoli
13-17 del suo vangelo non è una cena
“pasquale”. La cena pasquale ebraica aveva
luogo, infatti, la sera del 14 Nisan.
(Secondo Giovanni, Gesù muore il 14
Nisan, quando i giudei dovevano ancora
consumare la cena pasquale e proprio per
questo non entrano nel pretorio di Pilato: cf
Gv 18, 28). La cena “pasquale” di Gesù,
descritta dai Sinottici, potrebbe essere stata
celebrata qualche giorno prima, seguendo
un calendario liturgico diverso da quello
ufficiale del tempio, in uso anche presso gli
Esseni di Qumran, a meno che non si tratti
invece della stessa identica cena, della
quale i Sinottici mettono in risalto il
carattere pasquale ed eucaristico, a
differenza di Giovanni che lo passa sotto
silenzio.

148
Ma non voglio occuparmi qui della
famosa questione della cronologia della
Passione. Quello che interessa sapere è
perché Giovanni, nel racconto dell’ultima
cena, non parla dell’istituzione
dell’Eucaristia, ma parla invece, al suo
posto, della lavanda dei piedi. Non si può
pensare che egli non conosca il rito
dell’Eucaristia, o che esso non venisse
praticato nell’ambiente da cui è uscito il
quarto vangelo, perché, al contrario, è stato
notato che tutto il racconto degli eventi
pasquali, nel quarto vangelo, è fatto proprio
a partire dalla liturgia eucaristica in uso in
tale ambiente (che era la prassi
quartodecimana) e come rivissuto attraverso
di essa. Il motivo principale non è neppure,
come si è soliti dire, che Giovanni,
scrivendo dopo gli altri evangelisti, si
propone di integrare i Sinottici, dando per
conosciuto ciò che già si trovava scritto in
essi, oppure che egli abbia voluto evitare di
divulgare il mistero cristiano. Il motivo
vero è che in tutto ciò che riguarda la
Pasqua e l’Eucaristia, Giovanni mostra di

149
voler accentuare più l’evento che il
sacramento, cioè più il significato che il
segno. Per lui, la nuova Pasqua non
comincia tanto nel Cenacolo, quando si
istituisce il rito che la deve commemorare,
ma comincia piuttosto sulla croce quando si
compie il fatto che deve essere
commemorato. Analogamente, possiamo
pensare che nel dare risalto, nel quadro
dell’ultima cena, al gesto della lavanda dei
piedi Giovanni abbia voluto ricordare alla
comunità cristiana, che celebrava ormai
abitualmente il rito dell’Eucaristia, quale
era il significato di tale rito, quali le
esigenze concrete in esso racchiuse per la
Chiesa. L’evangelista, in altre parole, come
ho anticipato sopra, ci sollecita tacitamente
a passare dalla liturgia alla vita, dalla
memoria all’imitazione dell’Eucaristia.

1. Il significato della lavanda dei piedi


Si capisce da ciò quanto è importante
comprendere bene il significato che ha per
Giovanni il gesto di Gesù di lavare i piedi

150
agli apostoli. Siamo davanti a uno di quegli
episodi (un altro è, per esempio, l’episodio
della trafittura del costato), in cui
l’evangelista lascia capire chiaramente che
c’è sotto un mistero che va molto al di là
del fatto contingente che potrebbe, in se
stesso, sembrare trascurabile.
«Io – dice Gesù – vi ho dato l’esempio».
Di che cosa ci ha dato l’esempio? Di come
si devono lavare materialmente i piedi ai
fratelli, ogni volta che ci si mette a tavola?
No certamente! Di qualcos’altro che è assai
facile da scoprire per chi legge il Vangelo
conoscendo già chi è Gesù.
Mi colpì, un giorno che rileggevo il
racconto della lavanda dei piedi, l’affinità
profonda con l’inno a Cristo dell’epistola ai
Filippesi. Anche lì c’è un invito
all’imitazione: «Abbiate in voi gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù»;
viene quindi la descrizione di Gesù che, pur
essendo di condizione divina, «si spoglia»,
per assumere la «condizione di servo». Dal
canto suo, Giovanni ci presenta Gesù che,
pur «sapendo che il Padre gli aveva dato

151
tutto nelle mani e che era venuto da Dio e
che a Dio ritornava», si spoglia delle sue
vesti, si cinge di un grembiule, che è la
veste del servo, e si mette a lavare i piedi
agli apostoli. Si direbbe quasi che
l’evangelista traduca qui in immagini
plastiche e in gesti concreti quello che in
Paolo è detto in un modo generale ed
esplicito.
In realtà, si tratta sempre dello stesso
tema che percorre tutti gli scritti del Nuovo
Testamento: Gesù servo di Dio e degli
uomini. Nel Vangelo di Luca, proprio nel
contesto dell’ultima cena, è riportata una
parola di Gesù che sembra pronunciata a
conclusione della lavanda dei piedi: «Chi è
più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non
è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto
in mezzo a voi come colui che serve» (Lc
22, 27). Secondo l’evangelista, Gesù disse
queste parole perché tra i discepoli era sorta
una discussione su chi di loro poteva essere
considerato il più grande (cf Lc 22, 24).
Forse fu la stessa circostanza che ispirò a
Gesù il gesto della lavanda dei piedi, come

152
una specie di parabola in azione. Mentre i
discepoli sono tutti intenti a discutere
animatamente tra loro, egli si alza
silenziosamente da tavola, cerca un catino
d’acqua e un asciugatoio, poi torna indietro
e si inginocchia davanti a Pietro per lavargli
i piedi, gettandolo, comprensibilmente,
nella più grande confusione: «Signore tu
lavi i piedi a me?» (Gv 13, 6).
Nella lavanda dei piedi, Gesù ha voluto
come riassumere tutto il senso della sua
vita, perché rimanesse bene impresso nella
memoria dei discepoli e un giorno, quando
avrebbero potuto capire, capissero: «Quello
che io faccio tu ora non lo capisci, ma lo
capirai dopo» (Gv 13, 7). Quel gesto, posto
a conclusione dei Vangeli, ci dice che tutta
la vita di Gesù, dall’inizio alla fine, fu una
lavanda dei piedi, cioè un servire gli
uomini. Fu – come ama dire qualche
esegeta – una pro-esistenza, cioè
un’esistenza vissuta a favore degli altri.
Gesù ci ha dato l’esempio di una vita
spesa per gli altri, una vita fatta «pane
spezzato per il mondo», come diceva bene

153
il tema del congresso eucaristico mondiale
tenuto, qualche anno fa, a Lourdes. Con le
parole: «Fate anche voi come ho fatto io»,
Gesù istituisce dunque la diakonía, cioè il
servizio, elevandolo a legge fondamentale,
o, meglio, a stile di vita e a modello di tutti
i rapporti nella Chiesa.
Gesù aveva detto a Pietro che avrebbe
capito «dopo» e infatti dopo – cioè dopo la
Pasqua – la Chiesa non cessa di parlare del
servizio e di inculcarlo, in ogni modo, ai
discepoli. Tracciando il profilo della vedova
ideale, le epistole pastorali menzionano la
lavanda dei piedi, come un punto
qualificante: «Abbia lavato i piedi ai
santi...» (1 Tm 5, 10). La stessa dottrina dei
carismi è tutta orientata al servizio; il
servizio appare come l’anima e lo scopo di
ogni carisma. San Paolo afferma che ogni
«manifestazione particolare dello Spirito» è
data «per l’utilità comune» (cf 1 Cor 12, 7)
e che i carismi sono elargiti «per rendere
idonei i fratelli a compiere il servizio»
(diakonía) (Ef 4, 12). Anche l’apostolo
Pietro, raccomandando l’ospitalità, scrive:

154
«Ciascuno viva secondo la grazia
(chárisma) ricevuta, mettendola a servizio
(diakonía) degli altri» (1 Pt 4, 10). Le due
cose – carisma e ministero, o servizio –
appaiono sempre vitalmente collegate tra di
loro. Un carisma che non si esplica in
servizio è come il talento sotterrato, che si
trasforma in titolo di condanna (cf Mt 25,
25); è come l’aratro che arrugginisce, se sta
a lungo senza arare la terra. La Chiesa è
carismatica per servire!

2. Lo spirito del servizio


Dobbiamo però approfondire cosa
significa “servizio”, per poterlo realizzare
nella nostra vita e non fermarci alle parole.
Il servizio non è, in se stesso, una virtù; in
nessun catalogo delle virtù o dei frutti dello
Spirito, come le chiama il Nuovo
Testamento, si incontra la parola diakonía,
servizio. Si parla, anzi, perfino di un
servizio al peccato (cf Rm 6, 16) o agli idoli
(cf 1 Cor 6, 9) che non è certamente un
servizio buono. Per sé, il servizio è una cosa

155
neutra: indica una condizione di vita, o un
modo di rapportarsi agli altri nel proprio
lavoro, un essere alle dipendenze di altri.
Può essere, addirittura, una cosa negativa,
se fatta per costrizione (schiavitù), o solo
per interesse. Tutti oggi parlano di servizio;
tutti si dicono in servizio: il commerciante
serve i clienti; di chiunque esercita una
mansione nella società, si dice che presta
servizio, o che è di servizio. Ma è evidente
che il servizio di cui parla il Vangelo è
tutt’altra cosa, anche se non esclude di per
sé, né squalifica necessariamente il servizio
come è inteso dal mondo. La differenza è
tutta nelle motivazioni e nell’atteggiamento
interiore con cui il servizio è fatto.
Rileggiamo il racconto della lavanda dei
piedi, per vedere con che spirito la compie
Gesù e da che cosa è mosso: «Dopo aver
amato i suoi che erano nel mondo, li amò
sino alla fine» (Gv 13, 1). Il servizio non è
una virtù ma scaturisce dalle virtù e, in
primo luogo, dalla carità; è, anzi,
l’espressione più grande del comandamento
nuovo. Il servizio è un modo di manifestarsi

156
dell’agápe, cioè di quell’amore che «non
cerca il proprio interesse» (cf 1 Cor 13, 5),
ma quello degli altri, che non è fatto di
ricerca ma di donazione. È, insomma, una
partecipazione e un’imitazione dell’agire di
Dio che, essendo «il Bene, tutto il Bene, il
Sommo Bene», non può amare e beneficare
che gratuitamente, senza alcun proprio
interesse. Per questo, il servizio evangelico,
all’opposto di quello del mondo, non è
proprio dell’inferiore, del bisognoso, di chi
non ha, ma è proprio, piuttosto, di chi
possiede, di chi è posto in alto, di chi ha. A
colui cui fu dato molto, molto sarà chiesto,
in fatto di servizio (cf Lc 12, 48). Per
questo, Gesù dice che, nella sua Chiesa, è
soprattutto «chi governa» che deve essere
«come colui che serve» (Lc 22, 26) e chi è
«il primo» che deve essere «il servo di
tutti» (Mc 10, 44). La lavanda dei piedi è
«il sacramento dell’autorità cristiana» (C.
Spicq).
Accanto alla gratuità, il servizio esprime
un’altra grande caratteristica dell’agápe
divina: l’umiltà. Le parole di Gesù:

157
«Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri»,
significano: dovete rendervi a vicenda i
servizi di un’umile carità. Carità e umiltà,
insieme, formano il servizio evangelico.
Gesù ha detto una volta: «Imparate da me
che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,
29). Ma che cosa ha fatto Gesù per definirsi
«umile»? Forse che ha sentito bassamente
di sé, o ha parlato in modo dimesso della
sua persona? Al contrario, nell’episodio
stesso della lavanda dei piedi, egli dice di
essere «Maestro e Signore» (cf Gv 13, 13).
Che cosa dunque ha fatto per definirsi
«umile»? Si è abbassato, è disceso per
servire! Dal momento dell’incarnazione,
non ha fatto altro che discendere,
discendere, fino a quel punto estremo,
quando lo vediamo in ginocchio, in atto di
lavare i piedi agli apostoli. Che fremito
dovette correre fra gli angeli, al vedere in
tale abbassamento il Figlio di Dio, sul quale
essi non osano neppure fissare lo sguardo
(cf 1 Pt 1, 12). Il Creatore è in ginocchio di
fronte alla creatura! «Arrossisci, superba
cenere: Dio si abbassa e tu ti innalzi!»,

158
diceva a se stesso san Bernardo1. Così
intesa – cioè come un abbassarsi per servire
– l’umiltà è davvero la via regia per
somigliare a Dio e per imitare l’Eucaristia
nella nostra vita. «Guardate, frati, l’umiltà
di Dio – esclama ancora san Francesco – e
aprite davanti a Lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi perché egli vi esalti.
Nulla, di voi, tenete per voi, affinché vi
accolga tutti colui che a voi si dà tutto»2.
Il frutto di questa meditazione dovrebbe
essere una revisione coraggiosa della nostra
vita (abitudini, mansioni, orari di lavoro,
distribuzione e impiego del tempo) per
vedere se essa è realmente un servizio e se,
in questo servizio, c’è amore e umiltà. Il
punto fondamentale è sapere se noi
serviamo i fratelli, o invece ci serviamo dei
fratelli. Si serve dei fratelli e li
strumentalizza colui che, magari, si fa in
quattro per gli altri, come si suol dire, ma in
tutto ciò che fa non è disinteressato, cerca,
in qualche modo, l’approvazione, il plauso
oppure la soddisfazione di sentirsi, nel suo
intimo, a posto e benefattore. Il Vangelo

159
presenta, su questo punto, esigenze di una
radicalità estrema: «Non sappia la tua
sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6, 3).
Tutto ciò che è fatto, in qualche modo, «per
essere visti dagli uomini», è perso.
«Christus non sibi placuit»: Cristo non
cercò di compiacere se stesso! (Rm 15, 3):
questa è la regola del servizio.
Per fare il “discernimento degli spiriti”,
cioè delle intenzioni che ci muovono nel
nostro servizio, è utile vedere quali sono i
servizi che facciamo volentieri e quelli che
cerchiamo di scansare in tutti i modi.
Vedere, ancora, se il nostro cuore è pronto
ad abbandonare – qualora ci venga richiesto
– un servizio nobile, che dà lustro, per uno
umile che nessuno apprezzerà. I servizi più
sicuri sono quelli che facciamo senza che
nessuno, neppure chi lo riceve, se ne
accorga, ma solo il Padre che vede nel
segreto. Gesù ha elevato a simbolo del
servizio uno dei gesti più umili che si
conoscessero al suo tempo e che era
affidato, di solito, agli schiavi: il lavare i
piedi. San Paolo esorta: «Non aspirate a

160
cose troppo alte, piegatevi invece a quelle
umili» (Rm 12, 16).
Allo spirito di servizio si oppone la brama
di dominio, l’abitudine a imporre agli altri
la propria volontà e il proprio modo di
vedere o di fare le cose. Insomma,
l’autoritarismo. Spesso chi è tiranneggiato
da queste disposizioni non si rende
minimamente conto delle sofferenze che
provoca e si stupisce anzi nel vedere che gli
altri non mostrano di apprezzare tutto il suo
“interessamento” e i suoi sforzi e fa persino
la vittima. Gesù ha detto ai suoi apostoli di
essere come «agnelli in mezzo a lupi», ma
costoro sono, al contrario, lupi in mezzo ad
agnelli. Una grande parte delle sofferenze
che talvolta affliggono una famiglia o una
comunità è dovuta all’esistenza in esse di
qualche spirito autoritario e dispotico che
calpesta gli altri con scarpe chiodate e che,
con il pretesto di “servire” gli altri, in realtà
“asserve” gli altri.
È possibilissimo che questo “qualcuno”
siamo proprio noi! Se ci viene un piccolo
dubbio in questo senso, sarebbe buona cosa

161
che interrogassimo sinceramente chi ci vive
accanto e dessimo loro la possibilità di
esprimersi senza timore. Se risulta che
anche noi rendiamo la vita difficile, con il
nostro carattere, a qualcuno, dobbiamo
accettare con umiltà la realtà e ripensare il
nostro servizio.
Allo spirito di servizio si oppone anche,
per altro verso, l’attaccamento esagerato
alle proprie abitudini e comodità. Insomma
lo spirito di mollezza. Non può servire
seriamente gli altri chi è sempre intento ad
accontentare se stesso, chi fa un idolo del
proprio riposo, del proprio tempo libero, del
proprio orario. La regola del servizio resta
sempre la stessa: Cristo non cercò di
compiacere se stesso.
Il servizio, abbiamo visto, è la virtù
propria di chi presiede, è la cosa che Gesù
ha lasciato ai pastori della Chiesa, come la
sua eredità più cara. Tutti i carismi,
abbiamo visto, sono in funzione del
servizio; ma in modo tutto particolare lo è il
carisma di «pastori e maestri» (cf Ef 4, 11),
cioè il carisma dell’autorità. La Chiesa è

162
«carismatica» per servire ed è anche
«gerarchica» per servire!

3. Il servizio dello Spirito


Se per tutti i cristiani servire significa
«non vivere più per se stessi» (cf 2 Cor 5,
15), per i pastori significa: «non pascere se
stessi»: «Guai ai pastori d’Israele che
pascono se stessi! I pastori non devono
forse pascere il gregge?» (Ez 34, 2). Per il
mondo, niente è più naturale e giusto di
questo, che, cioè, chi è signore (dominus)
“domini”, cioè faccia da padrone; tra i
discepoli di Gesù, però, “non così”, ma chi
è signore deve servire. «Noi non
intendiamo far da padroni sulla vostra fede
– scrive san Paolo –; siamo invece i
collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1,
24). La stessa cosa raccomanda ai pastori
l’apostolo san Pietro: «Non spadroneggiate
sulle persone a voi affidate, ma fatevi
modelli del gregge» (cf 1 Pt 5, 3). Non è
facile, nel ministero pastorale, evitare la
mentalità del padrone nella fede; essa si è

163
inserita molto presto nella concezione
dell’autorità. In uno dei più antichi
documenti sul ministero episcopale (la
Didascalia siriaca) troviamo già una
concezione che presenta il vescovo come il
monarca, nella cui Chiesa nulla può essere
intrapreso, né dagli uomini né da Dio, senza
passare attraverso di lui.
Per i pastori, e in quanto pastori, è spesso
su questo punto che si decide il problema
della conversione. Come risuonano forti e
accorate quelle parole di Gesù dopo la
lavanda dei piedi: Io il Signore e il
Maestro...! Gesù «non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2,
6), cioè non ebbe paura di compromettere la
sua dignità divina, di favorire la mancanza
di rispetto da parte degli uomini,
spogliandosi dei suoi privilegi e
mostrandosi all’esterno un uomo in mezzo
agli altri uomini («simile agli uomini»).
Gesù ha vissuto semplicemente; la
semplicità è stata sempre l’inizio e il segno
di un vero ritorno al Vangelo. Bisogna
imitare l’agire di Dio. Non c’è nulla –

164
scrive Tertulliano – che caratterizza meglio
l’agire di Dio, quanto il contrasto tra la
semplicità dei mezzi e dei modi esterni con
cui opera e la grandiosità degli effetti
spirituali che ottiene3. Il mondo ha bisogno
di apparato per agire e per impressionare;
Dio no. C’è stata un’epoca in cui la dignità
dei vescovi si esprimeva in insegne, titoli,
castelli, eserciti. Erano, come si dice,
vescovi-principi, ma assai più principi che
vescovi. La Chiesa vive oggi, su questo
punto, un’epoca che, al confronto, ci appare
d’oro. So di un vescovo che trova naturale
trascorrere spesso qualche ora in una casa
di riposo, per aiutare gli anziani a vestirsi e
a mangiare; lui ha preso alla lettera la
lavanda dei piedi. Io stesso devo dire di
aver ricevuto da alcuni prelati i migliori
esempi di semplicità della mia vita.
Occorre però conservare, anche su questo
punto, una grande libertà evangelica. La
semplicità esige che non ci mettiamo al di
sopra degli altri, ma neppure sempre e
ostinatamente al di sotto, per mantenere, in
un modo o nell’altro, le distanze, ma che

165
accettiamo, nelle cose ordinarie della vita,
di essere come gli altri. Ci sono persone –
nota acutamente il Manzoni – che di umiltà,
ne hanno quanta ne bisogna per mettersi al
di sotto della buona gente, ma non per star
loro in pari4. A volte, il servizio migliore
non consiste nel servire, ma nel lasciarsi
servire, come Gesù che, all’occasione,
sapeva anche stare a tavola e farsi lavare i
piedi (cf Lc 7, 38) e che, di buon grado,
accettava i servizi che gli rendevano,
durante i suoi viaggi, alcune donne
generose e affezionate (cf Lc 8, 2-3).
C’è un’altra cosa che bisogna dire a
proposito del servizio pastorale, cioè dei
pastori, ed è questa: il servizio dei fratelli,
per quanto importante e santo, non è la
prima cosa e non è l’essenziale; prima c’è il
servizio di Dio. Gesù è anzitutto il «Servo
di Jahvè» e poi anche il servo degli uomini.
Agli stessi genitori ricorda questo, dicendo:
«Non sapevate che io devo occuparmi delle
cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). Egli non
esitava a deludere le folle, venute per
ascoltarlo e per farsi guarire, lasciandole

166
improvvisamente, per ritirarsi in luoghi
solitari a pregare (cf Lc 5, 16). Anche il
servizio evangelico è insidiato oggi dal
pericolo della secolarizzazione. Si dà troppo
facilmente per scontato che ogni servizio
all’uomo è servizio di Dio. San Paolo parla
di un servizio dello Spirito (diakonía
pneumatos) (2 Cor 3, 8), al quale servizio
sono destinati i ministri del Nuovo
Testamento. Lo spirito di servizio si deve
esprimere, nei pastori, attraverso il servizio
dello Spirito!
Chi, come il sacerdote, è, per vocazione,
chiamato a tale servizio “spirituale”, non
serve i fratelli se rende loro cento o mille
altri servizi, ma trascura quell’unico che si
ha diritto di aspettarsi da lui e che lui solo
può dare. È scritto che il sacerdote «viene
costituito per il bene degli uomini nelle
cose che riguardano Dio» (Eb 5, 1). Quando
sorse per la prima volta questo problema
nella Chiesa, Pietro lo risolse dicendo:
«Non è giusto che noi trascuriamo la parola
di Dio per il servizio delle mense... Noi ci
dedicheremo alla preghiera e al ministero

167
della Parola» (At 6, 2-4). Ci sono dei
pastori che sono, di fatto, ritornati al
servizio delle mense. Si occupano di ogni
sorta di problemi materiali, economici,
amministrativi, talvolta perfino agricoli, che
esistono nella loro comunità (anche quando
si potrebbero benissimo lasciar fare da
altri), e trascurano il loro vero, insostituibile
servizio. Il servizio della Parola esige ore di
lettura, studio, preghiera. Se c’è un lamento
generale che circola oggi tra i fedeli nella
Chiesa è questo: l’inadeguatezza, il vuoto,
della predicazione. Molti escono dalla
Messa disgustati dell’omelia, inariditi,
anziché arricchiti. Per me questo è il
problema pastorale numero uno: si deve
ripetere con Isaia: «I miseri e i poveri
cercano acqua ma non ce n’è» (Is 41, 17).
La gente cerca un pane e le viene dato
spesso uno scorpione, cioè parole vuote,
trite, parole che non sanno di Dio; o non le
viene dato niente.
Conserva tutta la sua attualità questa
pagina di san Gregorio Magno: «Per una
grande messe gli operai sono pochi: non

168
possiamo parlare di questa scarsità senza
profonda tristezza, perché ci sono persone
che ascolterebbero la buona parola, ma
mancano i predicatori. Ecco, il mondo è
pieno di sacerdoti, e tuttavia si trova di rado
chi lavora nella vigna del Signore; ci siamo
assunti l’ufficio sacerdotale, ma non
compiamo le opere che l’ufficio comporta...
Ci siamo ingolfati in affari terreni e altro è
ciò che abbiamo assunto con l’ufficio
sacerdotale, altro ciò che mostriamo con i
fatti. Noi abbandoniamo il ministero della
predicazione e siamo chiamati vescovi, ma
forse piuttosto a nostra condanna, dato che
possediamo il titolo onorifico e non le
qualità... Tutti rivolti alle faccende terrene
diventiamo tanto più insensibili
interiormente, quanto più sembriamo attenti
agli affari terreni»5.

4. Il servizio dei poveri


Ma è venuto il momento di toccare il
punto più importante, a proposito del
servizio, quello che riguarda tutti, sacerdoti

169
e laici, nella Chiesa: il servizio dei poveri.
Lo stesso evangelista Giovanni, nella sua
prima lettera, scrive: «Egli ha dato la sua
vita per noi; quindi anche noi dobbiamo
dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha
ricchezze di questo mondo e vedendo il suo
fratello in necessità gli chiude il proprio
cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?
Figlioli, non amiamo a parole né con la
lingua ma coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,
16-18). Sant’Agostino dice che, con queste
parole, «il beato apostolo Giovanni ha
chiaramente voluto spiegare a noi il mistero
della cena»6. Si tratta cioè di qualcosa che,
nel pensiero di san Giovanni, costituisce un
aspetto essenziale del mistero eucaristico.
Possiamo capire il perché profondo di
tutto questo con un semplice ragionamento
teologico. Gesù Cristo, il cui corpo e il cui
sangue viene consacrato, che riceviamo e
che adoriamo presente nel Santissimo
Sacramento dell’altare, è, secondo il dogma
della Chiesa, «vero Dio e vero uomo». Ora
noi riconosciamo e proclamiamo Gesù
«vero Dio» mediante l’adorazione

170
eucaristica, di cui abbiamo parlato nel
capitolo precedente. Ma come e con quale
gesto proclameremo concretamente la
nostra fede in Gesù «vero uomo»? Appunto
con il servizio dei poveri e dei sofferenti!
L’adorazione esprime dunque un aspetto
essenziale del mistero eucaristico, ma da
sola non basta; occorre che all’adorazione si
unisca la condivisione. Colui che disse sul
pane: «Questo è il mio corpo!», ha detto
queste stesse parole anche dei poveri. Le ha
dette quando, parlando di quello che si è
fatto per l’affamato, per l’assetato, per il
prigioniero e per l’ignudo, ha dichiarato
solennemente: «L’avete fatto a me!»;
quando, identificandosi completamente con
loro, ha detto: Io ero affamato, io avevo
sete, io ero forestiero, io ero nudo, malato,
carcerato (cf Mt 25, 35 ss).
Nel povero e nell’affamato non si ha lo
stesso genere di presenza di Cristo che si ha
nel segno del pane e del vino sull’altare; ma
si tratta ugualmente di una presenza “reale”,
cioè vera, non fittizia o immaginaria, perché
Gesù si è identificato con essi. Lui ha

171
“istituito” questo segno, come ha istituito
l’Eucaristia. Potremmo dire che nel povero
si ha una presenza di Cristo passiva, non
attiva. Il povero infatti non sempre e non
necessariamente contiene in sé Cristo e lo
trasmette a chi lo accoglie, come invece
fanno le specie eucaristiche. Egli non è un
«segno efficace della grazia», come lo è il
sacramento; non produce la grazia per se
stesso o, come dice la teologia, ex opere
operato. Tanto è vero che uno «potrebbe
distribuire tutte le sue sostanze ai poveri»,
come dice l’Apostolo, senza che questo gli
giovi a nulla, se non ha la carità (cf 1 Cor
13, 3). E tuttavia non accoglie pienamente
Cristo chi non è disposto ad accogliere, con
lui, il povero con cui egli si è identificato.
In occasione della sua ultima malattia,
poiché, non potendo trattenere ciò che
ingeriva, si differiva dal portargli il santo
Viatico, il grande filosofo e credente Blaise
Pascal chiese che, «non potendo
comunicare nel Capo», potesse avere
accanto al suo letto la compagnia di un
povero, per potere – diceva – «comunicare

172
almeno nelle membra»7.
San Leone Magno diceva che, in seguito
all’ascensione di Gesù al cielo, «tutto
quello che c’era di visibile nel nostro
Signore Gesù Cristo è passato nei segni
sacramentali della Chiesa»8. Questo
principio – che, per san Leone si applica ai
sacramenti e ai ministeri della Chiesa,
compreso il suo ministero pontificale – si
applica anche, per altro verso, ai poveri e a
tutti quelli che Gesù chiama «i suoi fratelli
più piccoli» (Mt 25, 40). Con l’ascensione,
quello che c’era di umanamente visibile in
Cristo è passato nei poveri e nei sofferenti
che lo rappresentano al vivo. Se infatti, in
forza del fatto dell’incarnazione, ogni uomo
– come amavano dire certi Padri della
Chiesa – è stato assunto, in qualche modo,
dal Verbo, in forza del modo con cui è
avvenuta l’incarnazione, è il povero, il
sofferente e il reietto che è stato assunto in
modo tutto particolare dal Verbo. Gesù
poteva infatti nascere e vivere come un
uomo ricco, onorato, glorioso, e invece ha
voluto nascere e vivere come un uomo

173
povero, sofferente e disprezzato.
L’incarnazione ci dice che il Verbo si è fatto
“uomo”, ma il mistero pasquale ci dice
anche “che uomo” si è fatto il Verbo: un
uomo indifeso, condannato e crocifisso.
San Giovanni Crisostomo ha messo in
luce, in una pagina giustamente famosa,
questo intimo nesso tra Gesù presente
sull’altare e il Gesù presente nel povero:
«Vuoi – scrive – onorare il corpo di Cristo?
Non permettere che sia oggetto di disprezzo
nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di
panni per coprirsi. Non onorarlo qui in
chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo
trascuri quando soffre il freddo e la nudità...
Che vantaggio può avere Cristo se la mensa
del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre
poi muore di fame nella persona del
povero? Prima sazia l’affamato, e solo in
seguito orna l’altare con quello che rimane.
Gli offrirai un calice d’oro e non gli darai
un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di
adornare con veli d’oro il suo altare, se poi
non gli offri il vestito necessario?... Perciò,
mentre adorni l’ambiente del culto, non

174
chiudere il tuo cuore al fratello che soffre.
Questi è un tempio vivo più prezioso di
quello»9.
Oggi questo dovere di onorare Cristo nei
poveri si presenta in modo diverso che al
tempo del Crisostomo. Non si tratta solo di
dare l’elemosina al primo povero che te la
chiede; questo è diventato, in molti casi,
assai problematico e, comunque,
insufficiente. Si tratta di aprire gli occhi,
anzitutto, sulla situazione di scandalosa
ingiustizia esistente nel mondo, per cui
meno del venti per cento della popolazione
del mondo (grosso modo, quella che
corrisponde ai popoli ricchi e cristiani
dell’emisfero nord) consuma più
dell’ottanta per cento delle risorse della
terra. Io credo che come nel medioevo vi
furono grandi pontefici e santi che
percorsero il mondo cristiano per
organizzare le crociate, così oggi dobbiamo
pregare Dio che susciti un moto analogo,
una specie di mobilitazione corale di tutta la
cristianità, per una nuova crociata: la
crociata per liberare i templi viventi di

175
Cristo che sono i milioni e milioni di
persone che muoiono di fame, o di malattie
e di stenti. Non già, dunque, il sepolcro
vuoto di Cristo o i luoghi dove egli passò,
ma i suoi sepolcri viventi, dove egli giace
ora e soffre. Questa sarebbe una “crociata”
degna di questo nome, degna cioè della
croce di Cristo!
San Paolo vedeva un impedimento ad
accostarsi all’Eucaristia nel fatto che «uno
ha fame e un altro, al contrario, è ubriaco».
«Quando dunque vi radunate insieme –
scriveva ai Corinzi – il vostro non è più un
mangiare la cena del Signore. Ciascuno
infatti quando partecipa alla cena prende
prima il proprio pasto e così uno ha fame
l’altro è ubriaco» (1 Cor 11,20-21). Dire
che questo «non è più un mangiare la cena
del Signore» è come dire che questa non è
più un’Eucaristia. È un’affermazione
gravissima, anche dal punto di vista
teologico, alla quale non si presta forse tutta
l’attenzione dovuta. Ora questa situazione,
in cui «uno ha fame e l’altro, al contrario, è
ubriaco» è in atto tra noi, non più su scala

176
locale, ma su scala mondiale. La cena del
Signore non può somigliare alle cene del
ricco epulone, in cui si banchettava
lautamente, dimentichi del povero Lazzaro
che giaceva alla porta. L’ansia di
condividere qualcosa con chi è nel bisogno,
siano essi vicini o lontani, deve essere parte
integrante della nostra pietà e della nostra
prassi eucaristica. Non c’è persona che,
volendo, non possa, durante la settimana,
compiere una delle opere elencate da Gesù
e delle quali egli dice: «L’avete fatto a
me!». Condivisione infatti non è solo
“dare” (pane, vestito, tetto), ma anche
“visitare” (un carcerato, un ammalato, un
anziano solo in casa...). Non è solo dare
denaro, ma anche dare del proprio tempo. I
poveri e i sofferenti non hanno meno
bisogno di solidarietà e di amore che di
pane da mangiare e di panni di cui coprirsi.
Gesù ha detto: «I poveri li avete sempre con
voi, me, invece, non sempre mi avete» (Mt
26, 11). Questo è vero anche nel senso che
non sempre possiamo comunicare con il
corpo eucaristico di Cristo e, anche quando

177
avviene, questo non dura che qualche
istante, mentre sempre possiamo
comunicare con lui attraverso i poveri.
Basta volerlo; non ci sono limiti. I poveri li
abbiamo davvero sempre a portata di mano.
Ogni volta che siamo di fronte a una
persona umana che soffre, specialmente di
certe sofferenze estreme, dovremmo, con
gli orecchi della fede, sentire dentro di noi
la voce di Cristo che ci ripete: «Questo è il
mio corpo!».
Subito dopo aver spiegato agli apostoli il
significato della lavanda dei piedi, Gesù
disse loro: «Sapendo queste cose sarete
beati se le metterete in pratica» (Gv 13, 17).
Anche noi saremo beati, se non ci
accontenteremo di sapere queste cose – e
cioè che l’Eucaristia ci spinge al servizio e
alla condivisione –, ma le metteremo in
pratica, possibilmente a cominciare da oggi
stesso. Sì, l’Eucaristia non è solo un mistero
da consacrare, da ricevere, da contemplare e
da adorare, ma è anche un mistero da
imitare.

178
Note
1 Bernardo, Lodi della Vergine, I, 8.
2 Francesco d’Assisi, Lettera al Capitolo Generale,
2 (FF 221).
3 Cf Tertulliano, De baptismo, 1 (CCL I, p. 277).
4 Cf A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. 38.
5 Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, 17, 3.14 (PL
76, 1139 ss).
6 Agostino, Sermo 304, 1 (PL 38, 1395).
7 Vita di Pascal, in Oeuvres complètes, Parigi 1954,
p. 3 ss.
8 Leone Magno, Discorso 2 sull’Ascensione, 2 (PL
54, 398).
9 Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo, 50, 3-4
(PG 58, 508 s).

179
VII
«Ecco, ora qui c’è più di
Salomone»
L’Eucaristia come presenza reale
del Signore

Ho iniziato questo ciclo di meditazioni


con una riflessione sull’Eucaristia nella
storia della salvezza; in essa il mistero
eucaristico ci è apparso presente, in modo
diverso, in tutta quanta la storia della
salvezza: nell’Antico Testamento come
figura, nel Nuovo Testamento come evento
e nel tempo della Chiesa come sacramento.
Mi sono quindi soffermato a lungo
sull’Eucaristia-sacramento, mostrando
come essa “fa” la Chiesa mediante
consacrazione, mediante comunione,
mediante contemplazione e mediante

180
imitazione. In questi due ultimi capitoli,
vorrei riprendere il discorso iniziale
sull’Eucaristia nella storia della salvezza,
con lo sguardo, però, rivolto ormai al
presente ed al futuro. Il mistero cristiano –
dice san Tommaso – ha sempre una triplice
dimensione: è memoria del passato, è
presenza della grazia ed è attesa del
compimento eterno1. Per questo egli chiama
l’Eucaristia «il sacro convito, nel quale si
riceve Cristo: si celebra la memoria della
sua passione (passato), l’anima è ricolma di
grazia (presente) e a noi viene dato il pegno
della gloria futura»2.
Ora consideriamo l’Eucaristia come
presenza reale del Signore nella Chiesa e
nel capitolo successivo l’Eucaristia come
attesa del ritorno del Signore.

1. «Ecco la dimora di Dio con gli


uomini!»
Un giorno d’estate, mi trovavo a celebrare
la Messa in un piccolo monastero di
clausura. C’era, come brano evangelico,

181
Matteo 12. Non dimenticherò mai
l’impressione che mi fecero quelle parole di
Gesù: «Ecco, ora qui c’è più di Giona...
Ecco ora qui c’è più di Salomone». Era
come se le ascoltassi in quel momento per
la prima volta. Capivo che quei due avverbi
«ora» e «qui» significavano veramente ora
e qui, cioè in quel momento e in quel luogo,
non soltanto nel tempo in cui Gesù era sulla
terra, tanti secoli fa. Ebbi un fremito che mi
scosse dal mio torpore: lì, davanti a me,
c’era dunque più di Giona, più di
Salomone, più di Abramo, più di Mosè:
c’era il Figlio di Dio vivo e vero! Capii
cosa volevano dire le parole: «Ecco, io sono
con voi, tutti i giorni...» (Mt 28, 20).
Da quel giorno d’estate, quelle parole mi
sono diventate care e familiari in un modo
nuovo. Spesso, nella Messa, al momento in
cui mi genufletto e mi rialzo dopo la
consacrazione, mi viene da ripetere dentro
di me: «Ecco, ora qui c’è più di Salomone!
Ecco, ora qui c’è più di Giona!». Volendo,
in questa meditazione, riflettere sul mistero
della presenza reale di Gesù nell’Eucaristia,

182
non ho trovato una parola più bella di
questa, da cui partire e dalla quale lasciarci
accompagnare lungo tutta la nostra
riflessione.
Prima però di addentrarci nel mistero di
questa presenza di Gesù nell’Eucaristia,
soffermiamoci un istante sulla soglia e
guardiamola, quasi dall’esterno, sullo
sfondo di tutta la Bibbia. In questo sguardo
d’insieme, la presenza eucaristica ci si
rivela come l’approdo naturale della
rivelazione biblica su Dio, come il tratto
conclusivo di un disegno che ci svela il vero
volto di Dio. Il Dio della Bibbia è un Dio-
con-noi, un Dio presente, non un dio
“inesistente per le cose umane” e
inaccessibile, come era il dio dei filosofi.
Per questo trova nell’Eucaristia il luogo
della sua piena e definitiva manifestazione.
L’Eucaristia è il vero roveto ardente, in cui
Dio manifesta il suo nome: Jahvè, cioè –
secondo il genuino significato di Es 3, 14 –
«colui che c’è, che è presente».
Isaia continua in questa linea, parlando di
un bambino che sarà chiamato Emmanuele,

183
cioè Dio-con-noi (cf Is 7, 14). Finalmente,
avviene il fatto che realizza tutte queste
promesse: «Il Verbo si è fatto carne ed è
venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,
14). La presenza di Dio che prima si
manifestava in una nube o nella gloria – ma
in una gloria che andava e veniva e che era
inafferrabile – ora si manifesta in una carne
visibile, palpabile, che è stabilmente tra noi.
Noi abbiamo udito, veduto, contemplato,
toccato il Verbo della vita! (cf 1 Gv 1, 1). In
questa lista impressionante di participi –
udito, veduto, contemplato, toccato – ne
mancava ancora uno: mangiato. E
quest’ultimo passo viene fatto con
l’istituzione dell’Eucaristia: «Prendete,
mangiate...»; «Chi mangia la mia carne,
avrà la vita eterna». La presenza di Dio, da
generica e, per così dire, esterna, si fa
personale e interna all’uomo, e non solo in
modo intenzionale e immateriale (come
avviene nella vista, nell’ascolto, nella
contemplazione e nella fede), ma in modo
reale, concreto, pienamente adattato alla
nostra condizione di esseri fatti di carne.

184
L’Eucaristia è l’ultimo gradino nel lungo
cammino della “condiscendenza” di Dio:
creazione, rivelazione, incarnazione,
Eucaristia. A ragione la liturgia della festa
del Corpus Domini applicava, una volta,
all’Eucaristia la parola di Mosè: «Quale
grande nazione ha la divinità così vicina a
sé, come il Signore nostro Dio è vicino a
noi?» (Dt 4, 7). Davanti al tabernacolo noi
possiamo ripetere con tutta verità le parole
dell’Apocalisse: «Ecco la dimora di Dio
con gli uomini!» (Ap 21, 3). L’Eucaristia è,
sì, in rapporto con il Mistero pasquale, ma è
ugualmente in rapporto vitale con il Mistero
dell’Incarnazione. È memoriale di un
evento – la Pasqua – ma è anche presenza di
una persona: il Verbo incarnato. Tale
intimo legame è messo in luce, nel Vangelo
di Giovanni, nel passaggio dal primo al
sesto capitolo: il Verbo si è fatto carne
(Incarnazione) e la carne si è fatta “vero
cibo” (Eucaristia). La vita eterna, che
nell’Incarnazione si è fatta visibile a noi (cf
1 Gv 1, 2), ora si fa anche mangiare da noi,
si fa «cibo di vita eterna». L’Eucaristia trae

185
la sua inesauribile forza divinizzatrice
proprio dal fatto che ci mette in contatto
con la carne dell’Uomo-Dio.

2. «Ritenete ciò che è buono»


Ma varchiamo ormai quella soglia,
davanti alla quale ci siamo finora trattenuti;
entriamo nella nube luminosa, oltre il velo,
nel “Santo dei santi”. Affrontiamo, cioè, il
mistero stesso della presenza reale di Gesù
nell’Eucaristia. Come affrontare un mistero
così alto e così inaccessibile? Ci vengono
subito alla mente le infinite teorie e
discussioni esistenti intorno a esso, le
divergenze tra cattolici e protestanti, tra
latini e ortodossi, che riempivano i libri sui
quali abbiamo studiato teologia noi che
abbiamo una certa età, e siamo tentati di
pensare che è impossibile dire ancora
qualcosa di questo mistero che possa
edificare la nostra fede e riscaldare il nostro
cuore, senza scivolare inevitabilmente nella
polemica interconfessionale. Ma è proprio
questa l’opera meravigliosa che lo Spirito

186
Santo sta compiendo ai nostri giorni tra tutti
i cristiani. Egli ci spinge a riconoscere
quanta parte avevano, nelle nostre dispute
eucaristiche, la presunzione umana di poter
racchiudere il mistero in una teoria o,
addirittura, in una parola, come pure la
volontà di prevalere sull’avversario. Ci
spinge a pentirci di aver ridotto il supremo
pegno d’amore e di unità lasciatoci da
nostro Signore ad oggetto privilegiato dei
nostri alterchi.
La via per incamminarci su questa strada
dell’ecumenismo eucaristico è la via del
riconoscimento reciproco, la via cristiana
dell’agápe, cioè della condivisione. Non si
tratta di passar sopra alle divergenze reali, o
di venir meno in qualcosa all’autentica
dottrina cattolica. Si tratta piuttosto di
mettere insieme gli aspetti positivi e i valori
autentici che ci sono in ognuna delle
tradizioni, in modo da costituire una
“massa” di verità comune che cominci ad
attirarci verso l’unità. È incredibile come
alcune posizioni cattoliche, ortodosse e
protestanti, intorno alla presenza reale,

187
risultino divergenti tra di loro e distruttive,
qualora vengano contrapposte e viste in
alternativa tra di loro, mentre appaiono,
invece, meravigliosamente convergenti, se
tenute insieme in equilibrio. È la sintesi che
dobbiamo cominciare a fare; dobbiamo
passare, come al setaccio, le grandi
tradizioni cristiane, per ritenere di ognuna,
come ci esorta l’Apostolo, «ciò che è
buono» (cf 1 Ts 5, 21). In questa messa in
comune, avviene che ciò che è da Dio si
accumula e ciò che è dall’uomo si elide.

3. Una presenza reale, ma nascosta: la


tradizione latina
Andiamo, dunque, a visitare, con questo
spirito, le tre principali tradizioni
eucaristiche – latina, ortodossa e protestante
– per edificarci delle ricchezze di ognuna e
riunire tutte nel tesoro comune della Chiesa.
L’idea che, alla fine, avremo del mistero
della presenza reale risulterà più ricca e più
viva. Nella visione della teologia latina, il
centro indiscusso dell’azione eucaristica,

188
dal quale scaturisce la presenza reale di
Cristo, è il momento della consacrazione. In
esso, Gesù agisce e parla in prima persona.
La teologia latina raccoglie, in ciò, tutto un
filone della tradizione patristica.
Sant’Ambrogio, per esempio, scrive:
«Questo pane è pane prima delle parole
sacramentali; ma, intervenendo la
consacrazione, il pane diventa carne di
Cristo... Da quali parole è operata la
consacrazione e di chi sono tali parole? Del
Signore Gesù! Tutte le cose che si dicono
prima di quel momento sono dette dal
sacerdote che loda Dio, prega per il popolo,
per i re e per gli altri; ma quando si arriva al
momento di realizzare il venerabile
sacramento, il sacerdote non usa più parole
sue, ma di Cristo. È dunque la parola che
opera (conficit) il sacramento... Vedi quanto
è efficace (operatorius) il parlare di Cristo?
Prima della consacrazione non c’era il
corpo di Cristo, ma dopo la consacrazione,
io ti dico che c’è ormai il corpo di Cristo.
Egli ha detto ed è stato fatto, ha comandato
ed è stato creato (cf Sal 33, 9)»3.

189
Possiamo parlare, nella visione latina, di
un realismo cristologico. “Cristologico”,
perché tutta l’attenzione è rivolta qui a
Cristo, visto sia nella sua esistenza storica e
incarnata che in quella di Risorto; Cristo è
sia l’oggetto che il soggetto dell’Eucaristia,
cioè colui che è realizzato nell’Eucaristia e
colui che realizza l’Eucaristia. “Realismo”,
perché questo Gesù non è visto presente
sull’altare semplicemente in un segno o in
un simbolo (questo contro Berengario di
Tours), ma in verità e con la sua realtà. Tale
realismo cristologico è visibile, per fare un
esempio, nel canto Ave verum, composto
dal papa Innocenzo IV per l’elevazione, che
dice: «Salve, vero corpo, nato da Maria
Vergine, che realmente hai sofferto e fosti
immolato sulla croce per l’uomo, il cui
fianco squarciato ha effuso sangue ed
acqua...».
Il concilio di Trento, in seguito, ha
precisato meglio questo modo di concepire
la presenza reale, usando tre avverbi: vere,
realiter, substantialiter. Gesù è presente
veramente, non solo in immagine, o in

190
figura; è presente realmente, non solo
soggettivamente, per la fede dei credenti; è
presente sostanzialmente, cioè secondo la
sua realtà profonda che è invisibile ai sensi,
e non secondo le apparenze che restano
quelle del pane e del vino.
Ci poteva essere, è vero, il pericolo di
cadere in un “crudo” realismo, o in un
realismo esagerato, quasi che – come
diceva infatti una formula contrapposta
all’eresia di Berengario – il corpo e il
sangue di Cristo fossero presenti sull’altare
«sensibilmente e venissero, in verità, toccati
e spezzati dalle mani del sacerdote e
masticati dai denti dei fedeli»4. Ma il
rimedio a tale pericolo è nella tradizione
stessa. Sant’Agostino ha chiarito, una volta
per sempre, che la presenza di Gesù
nell’Eucaristia avviene “in sacramento”.
Non è, in altre parole, una presenza fisica,
ma sacramentale, mediata da segni che
sono, appunto, il pane e il vino. In questo
caso, però, il segno non esclude la realtà,
ma la rende presente, nell’unico modo con
cui il Cristo risorto che «vive nello Spirito»

191
(1 Pt 3, 18) può rendersi presente a noi,
finché viviamo ancora nel corpo.
San Tommaso d’Aquino – l’altro grande
artefice della spiritualità eucaristica
occidentale, insieme con sant’Agostino –
dice la medesima cosa, parlando di una
presenza di Cristo «secondo la sostanza»
sotto le specie del pane e del vino5. Dire
infatti che Gesù si fa presente
nell’Eucaristia con la sua sostanza, significa
dire che si fa presente con la sua realtà vera
e profonda, che può essere attinta solo
mediante la fede: «Gli occhi, il tatto, il
gusto: tutto qui vien meno; resta solo la
fede nella tua parola», canta san Tommaso
nell’Adoro te devote. All’inizio di questa
stessa sequenza, il Santo riprende e
sviluppa, in modo originale, la visione
sacramentale di Agostino, dicendo che,
nell’Eucaristia, Cristo è presente attraverso
le specie, o le figure: «Ti adoro
devotamente, Dio nascosto, che sotto queste
figure veramente ti celi». L’espressione
latina «vere latitas» è densissima di
significato; vuol dire: sei nascosto, ma ci sei

192
veramente (dove l’accento è sul «vere»,
sulla realtà della presenza) e vuol dire
anche: ci sei veramente, ma nascosto (dove
l’accento è su «latitas», sul carattere
sacramentale di questa presenza). È
superato, in tal modo, il pericolo di “crudo”
realismo. Cristo – dice lo stesso san
Tommaso in un altro dei suoi inni
eucaristici – «non è rotto da chi lo mangia,
non è spezzato né diviso, ma è ricevuto
integro»6.
Gesù è presente, dunque, nell’Eucaristia
in un modo unico che non ha riscontro
altrove. Nessun aggettivo, da solo, è
sufficiente a descrivere tale presenza;
neppure l’aggettivo “reale”. Reale viene da
res (cosa) e significa: a modo di cosa o di
oggetto; ma Gesù non è presente
nell’Eucaristia come una “cosa” o un
oggetto, ma come una persona. Se proprio
si vuol dare un nome a questa presenza,
meglio sarebbe chiamarla semplicemente
presenza “eucaristica”, perché si realizza
soltanto nell’Eucaristia.

193
4. L’azione dello Spirito Santo: la
tradizione ortodossa
La teologia latina presenta tante
ricchezze, ma non esaurisce – né potrebbe
farlo – il mistero. È mancato ad essa,
almeno in passato, il dovuto rilievo allo
Spirito Santo, che pure è essenziale per
capire l’Eucaristia. Ecco, allora, che ci
volgiamo verso l’Oriente, per interrogare la
tradizione ortodossa, con animo, però, ben
diverso da un tempo: non più inquieti per la
differenza, ma felici per il completamento
che essa arreca alla nostra visione latina.
Nella tradizione ortodossa, infatti, è messa
in piena luce l’azione dello Spirito Santo
nella celebrazione eucaristica. Già, del
resto, questo confronto ha portato i suoi
frutti, dopo il concilio Vaticano II. Fino ad
allora, nel canone romano della Messa,
l’unica menzione dello Spirito Santo era
quella, per inciso, della dossologia finale:
«Per Cristo, con Cristo, in Cristo...
nell’unità dello Spirito Santo...». Ora,
invece, tutti i canoni nuovi recano una

194
doppia invocazione dello Spirito Santo: una
sui doni, prima della consacrazione, e una
sulla Chiesa, dopo la consacrazione.
Le liturgie orientali hanno attribuito
sempre la realizzazione della presenza reale
di Cristo sull’altare a un’operazione
speciale dello Spirito Santo, fino a vedere,
come si sa, nell’epiclesi, e non nella
consacrazione, il momento preciso in cui
Cristo comincia a essere presente (questo
però, più tardi, in seguito alla controversia
iconoclasta). Nell’anafora detta di san
Giacomo, in uso nella Chiesa antiochena, lo
Spirito Santo è invocato con queste parole:
«Manda su noi e su questi santi doni
presentati, il tuo santissimo Spirito, Signore
e datore di vita, che siede con te, Dio e
Padre, e con il tuo unico Figlio. Egli regna
consostanziale e coeterno; ha parlato nella
legge e nei profeti e nel Nuovo Testamento;
è disceso, sotto forma di colomba, sul
nostro Signore Gesù Cristo nel fiume
Giordano e si è riposato su di lui; è disceso
sui santi apostoli, il giorno di Pentecoste,
sotto forma di lingue di fuoco. Manda

195
questo tuo Spirito tre volte santo, Signore,
su noi e su questi santi doni presentati,
affinché, per la sua venuta, santa, buona e
gloriosa, santifichi questo pane e ne faccia
il santo corpo di Cristo (Amen), santifichi
questo calice e ne faccia il sangue prezioso
di Cristo (Amen)».
C’è, qui, ben più che la semplice aggiunta
dell’invocazione dello Spirito Santo. C’è
uno sguardo ampio e penetrante in tutta la
storia della salvezza che aiuta a scoprire
una dimensione nuova del mistero
eucaristico. Partendo dalle parole del
simbolo niceno costantinopolitano che
definiscono lo Spirito Santo «Signore» e
«Datore di vita», «che ha parlato per mezzo
dei profeti», si amplia la prospettiva fino a
tracciare una vera e propria “storia” dello
Spirito Santo. Egli è stato sempre all’opera
quando si è trattato di dare la vita.
All’inizio Adamo era un simulacro inerte,
fatto di fango, ma fu soffiato in lui «un alito
di vita» e l’uomo divenne essere vivente.
Quando si trattò di chiamare all’esistenza il
Nuovo Adamo, ancora lo Spirito Santo

196
intervenne su Maria per dar vita, in essa, al
Salvatore. Nel cenacolo, abbiamo ancora un
pugno di uomini spauriti e incerti, una
specie di corpo inerte, come quello del
primo uomo; ma viene anche qui il soffio
dello Spirito ed ecco che appare la Chiesa
vivente. Ogni volta è lo Spirito che fa fare
un salto di qualità alla vita e alla storia della
salvezza.
L’Eucaristia porta a compimento questa
serie di interventi prodigiosi. Lo Spirito
Santo che a Pasqua irruppe nel sepolcro e,
“toccando” il corpo inanimato di Gesù, lo
fece rivivere, nell’Eucaristia ripete questo
prodigio. Egli viene sul pane e sul vino che
sono elementi morti e dà loro la vita, ne fa
il corpo e il sangue viventi del Redentore.
Veramente – come disse Gesù stesso,
parlando dell’Eucaristia – «è lo Spirito che
dà la vita» (Gv 6, 63). Un grande
rappresentante della tradizione eucaristica
orientale, Teodoro di Mopsuestia, scrive:
«In virtù dell’azione liturgica, il nostro
Signore è come risuscitato dai morti e
spande la sua grazia su noi tutti, per la

197
venuta dello Spirito Santo... Quando il
pontefice dichiara che questo pane e questo
vino sono il corpo e il sangue di Cristo,
afferma che lo sono diventati per il contatto
dello Spirito Santo. Avviene come del corpo
naturale di Cristo, quando ricevette lo
Spirito Santo e la sua unzione. In quel
momento, al sopraggiungere dello Spirito
Santo, noi crediamo che il pane e il vino
ricevono una specie di unzione di grazia. E
da allora li crediamo essere il corpo e il
sangue di Cristo, immortali, incorruttibili,
impassibili e immutabili per natura, come il
corpo stesso di Cristo nella risurrezione»7.
È importante, però, tener conto di una
cosa: lo Spirito Santo non agisce
separatamente da Gesù, ma dentro la parola
di Gesù. Di lui Gesù disse: «Non parlerà da
sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito... Egli
mi glorificherà perché prenderà del mio e
ve l’annunzierà» (Gv 16, 13-14). Ecco
perché non bisogna separare, né, tanto
meno, contrapporre, le parole di Gesù
(«Questo è il mio corpo») dalle parole
dell’epiclesi («Lo Spirito Santo faccia di

198
questo pane il corpo di Cristo»). L’appello
all’unità, per i cattolici e i fratelli ortodossi,
sale dalle profondità stesse del mistero
eucaristico. Anche se, per necessità di cose,
il ricordo dell’istituzione e l’invocazione
dello Spirito avvengono in momenti distinti
(l’uomo non può esprimere il mistero in un
solo istante), la loro azione, però, è
congiunta. L’efficacia viene certamente
dallo Spirito (non dal sacerdote, né dalla
Chiesa), ma tale efficacia si esercita dentro
la parola di Cristo e attraverso di essa.
Sant’Ambrogio esclamava: «Vedi quanto è
efficace la parola di Cristo?»8. Ora
sappiamo da chi riceve questa efficacia:
dallo Spirito Santo! Gesù dice: «Questo è il
mio corpo», cioè: Voglio che questo pane
sia il mio corpo! E lo Spirito Santo compie,
ogni volta, questa volontà di Gesù. Si
realizza quella meravigliosa
“collaborazione” che ho notato già una
volta: nella consacrazione lo Spirito Santo
ci dà Gesù, perché nella comunione Gesù
possa darci lo Spirito Santo.
L’efficacia che rende presente Gesù

199
sull’altare non viene – ho detto – dalla
Chiesa, ma – aggiungo – non avviene senza
la Chiesa. Essa è lo strumento vivente,
attraverso il quale e insieme con il quale
opera lo Spirito Santo. Avviene, per la
venuta di Gesù sull’Altare, come per la
venuta finale in gloria: «Lo Spirito e la
Sposa» (la Chiesa!) «dicono» a Gesù:
«Vieni!» (cf Ap 22, 17). Ed egli viene.

5. L’importanza della fede: la spiritualità


protestante
La tradizione latina ha messo in luce
“chi” è presente nell’Eucaristia, Cristo; la
tradizione ortodossa ha messo in luce “da
chi” è operata la sua presenza, dallo Spirito
Santo; la teologia protestante mette in luce
“su chi” opera tale presenza; in altre parole,
a quali condizioni, il sacramento opera, di
fatto, in chi lo riceve, quello che significa.
Queste condizioni sono diverse, ma si
riassumono in una parola: la fede.
Non fermiamoci subito alle conseguenze
negative, tratte, in certi periodi, dal

200
principio protestante secondo cui i
sacramenti non sono che “segni della fede”.
Oltrepassiamo i malintesi e la polemica e
allora troviamo che questo energico
richiamo alla fede è salutare proprio per
salvare il sacramento e non farlo scadere
(come era avvenuto al tempo di Lutero e
non solo allora) a una delle “buone opere”,
o a qualcosa che agisce un po’
meccanicamente e magicamente, quasi
all’insaputa dell’uomo. Si tratta, in fondo,
di scoprire il profondo significato di
quell’esclamazione che la liturgia fa
risuonare al termine della consacrazione e
che, una volta, ce lo ricordiamo, era
addirittura inserita al centro della formula di
consacrazione, quasi a sottolineare che la
fede è parte essenziale del mistero:
Mysterium fidei, mistero della fede!
La fede non “fa”, ma solo “riceve” il
sacramento. Solo la parola di Cristo ripetuta
dalla Chiesa e resa efficace dallo Spirito
Santo “fa” il sacramento. Ma che
gioverebbe un sacramento “fatto”, ma non
“ricevuto”? A proposito dell’Incarnazione,

201
uomini come Origene, sant’Agostino, san
Bernardo, hanno detto: «Che giova a me
che Cristo sia nato una volta da Maria a
Betlemme, se non nasce anche, per fede, nel
mio cuore?». La stessa cosa si deve dire
anche dell’Eucaristia; che giova a me che
Cristo sia realmente presente sull’altare, se
egli non è presente per me? A nulla
servirebbe che ci sia, da qualche parte, una
stazione-radio emittente, se non ci fosse un
apparecchio ricevente per raccogliere le sue
onde. Non esiste musica, là dove non c’è
alcun orecchio per ascoltarla. Già al tempo
in cui Gesù era presente fisicamente sulla
terra, occorreva la fede; altrimenti – come
ripete tante volte egli stesso nel Vangelo –
la sua presenza non serviva a niente, se non
a condanna: «Guai a te Gorozaim, guai a te
Cafarnao!».
La fede è necessaria perché la presenza di
Gesù nell’Eucaristia sia, non soltanto
“reale”, ma anche “personale”, cioè da
persona a persona. Altro è infatti “esserci” e
altro “essere presente”. La presenza
suppone uno che è presente e uno al quale è

202
presente; suppone comunicazione reciproca,
lo scambio tra due soggetti liberi, che si
accorgono l’uno dell’altro. È molto di più,
quindi, che non il semplice essere in un
certo luogo.
Una tale dimensione soggettiva ed
esistenziale della presenza eucaristica non
annulla la presenza oggettiva che precede la
fede dell’uomo, ma anzi la suppone e la
valorizza. Lutero, che ha tanto esaltato il
ruolo della fede, è anche uno di quelli che
hanno sostenuto con più vigore la dottrina
della presenza reale di Cristo nel
sacramento dell’altare. Nel corso di un
dibattito con altri riformatori su questo
tema, egli non si stanca di ribadire
continuamente, con parole diverse, questi
stessi concetti: «Non posso intendere le
parole “Questo è il mio corpo”,
diversamente da come suonano. Tocca
quindi agli altri dimostrare che là dove la
parola dice: “Questo è il mio corpo”, il
corpo di Cristo non c’è. Non voglio
ascoltare spiegazioni basate sulla ragione.
Di fronte a parole tanto chiare, non

203
ammetto domande; respingo il raziocinio e
la sana ragione umana. Dimostrazioni
materiali, argomentazioni geometriche:
tutto respingo completamente. Dio sta al di
sopra di qualsiasi matematica e bisogna
adorare con stupore la Parola di Dio»9.
Il rapido sguardo che abbiamo gettato
sulla ricchezza delle varie tradizioni
cristiane è stato sufficiente a farci
intravedere quale dono immenso si
dischiude alla Chiesa, quando le varie
confessioni cristiane decidono di mettere in
comune i loro beni spirituali, come
facevano i primi cristiani, dei quali è detto
che «tenevano ogni cosa in comune» (At 2,
44). Avviene come nella ricostruzione del
tempio, al tempo del profeta Aggeo. Gli
israeliti erano tutti intenti a ricostruire e
abbellire ognuno la propria casa, quando
Dio fece udire la sua voce per mezzo del
profeta: «Vi sembra questo il tempo di
abitare tranquilli nelle vostre case ben
coperte, mentre questa casa è ancora in
rovina?» (Ag 1, 4). Allora, il popolo
cominciò a portare legname sul monte per

204
ricostruire il tempio di Dio e Dio si
compiacque di essi e manifestò la sua
gloria.
A me pare di ascoltare ancora oggi,
rivolto a noi cristiani, quel lamento di Dio:
Vi sembra questo il tempo di stare
tranquilli, ognuno contento della propria
«chiesa», mentre il corpo di mio Figlio è
ancora diviso? San Paolo attribuiva la
debolezza della comunità di Corinto a due
cose: al fatto di mangiare il pasto del
Signore “indegnamente” (dunque, alla loro
cattiva condotta) e al fatto di mangiarlo
“separatamente” (dunque alle loro
divisioni). C’erano infatti di quelli che
consumavano il proprio pasto, contenti di
avere con sé tutto ciò che occorreva alla
loro fame, e ignorando completamente gli
altri (cf 1 Cor 11, 20 ss). Dobbiamo
raccogliere l’ammonimento che c’è qui per
noi e imparare ad “aspettarci” gli uni gli
altri alla cena del Signore e a condividere
con tutti le ricchezze della propria
tradizione, senza credere di avere tutto e
disprezzare le ricchezze degli altri. È questa

205
l’agápe più grande, a dimensione di tutta la
Chiesa, che il Signore ci mette in cuore di
desiderare di vedere, per la gioia del
comune Padre e il rinvigorimento della sua
Chiesa.

6. Sentimento di presenza
Siamo giunti alla fine del nostro breve
pellegrinaggio eucaristico attraverso le
varie confessioni cristiane. Abbiamo
raccolto anche noi alcune ceste di
frammenti avanzati dalla grande
moltiplicazione dei pani avvenuta nella
Chiesa. Ma non possiamo terminare qui la
nostra meditazione sul mistero della
presenza reale. Sarebbe come un aver
raccolto i frammenti e non mangiarli. La
fede nella presenza reale è una grande cosa,
ma non ci basta; almeno la fede intesa in un
certo modo. Non basta avere un’idea esatta,
profonda, teologicamente perfetta della
presenza reale di Gesù nell’Eucaristia.
Quanti, tra i teologi, sanno tutto su tale
mistero: dalle dispute al tempo di

206
Berengario a quelle moderne intorno a
transustanziazione e transignificazione, ma
non conoscono la presenza reale. Perché
“conosce”, in senso biblico, una cosa, solo
chi fa l’esperienza di quella cosa. Conosce
veramente il fuoco solo chi, almeno una
volta, è stato raggiunto da una fiamma e ha
dovuto tirarsi velocemente indietro per non
scottarsi.
San Gregorio Nisseno ci ha lasciato
un’espressione stupenda per indicare questo
più alto livello di fede; parla di «un
sentimento di presenza»10 che si ha quando
uno è colto dalla presenza di Dio, ha una
certa percezione (non solo un’idea) che egli
è presente. Non si tratta di una percezione
naturale; è frutto di una grazia che opera
come una rottura di livello, un salto di
qualità. C’è un’analogia molto forte con ciò
che avveniva quando, dopo la risurrezione,
Gesù si faceva riconoscere da qualcuno. Era
una cosa improvvisa che, di colpo,
cambiava completamente lo stato di una
persona. Il mattino di Pasqua, Gesù appare
a Maria; le dice: «Donna perché piangi?»;

207
ma essa lo scambia per il custode del
giardino. Non succede ancora nulla; è una
normale conversazione tra uomini. Ma ecco
che Gesù pronuncia il suo nome: «Maria!»
e, improvvisamente, è come se un velo si
squarciasse: «Rabbunì!» Sei tu, Maestro!
(Gv 20, 11 ss). Pochi giorni dopo, gli
apostoli sono sul lago a pescare; sulla riva
compare un uomo. Si instaura un dialogo a
distanza: «Non avete nulla da mangiare?»;
rispondono: «No!» Ma ecco che scocca una
scintilla nel cuore di Giovanni ed egli lancia
un grido: «È il Signore!» e allora tutto
cambia e corrono verso la riva (cf Gv 21, 4
ss). La stessa cosa avviene, anche se in
modo più pacato, con i discepoli di
Emmaus; Gesù camminava con loro, «ma i
loro occhi erano incapaci di riconoscerlo»;
finalmente, all’atto di spezzare il pane, ecco
che «si aprirono i loro occhi e lo
riconobbero» (Lc 24, 13 ss).
Ecco, una cosa simile avviene il giorno
che un cristiano, dopo aver ricevuto tante e
tante volte Gesù nell’Eucaristia, finalmente,
per un dono di grazia, lo “riconosce” e

208
capisce la verità di quelle parole: «Ecco ora
qui c’è più di Salomone!». Da
un’esperienza come questa nacque, il
Rinnovamento carismatico in seno alla
Chiesa cattolica. Alcuni giovani cattolici
americani erano andati a trascorrere il fine
settimana in una casa di ritiro. A sera si
ritrovarono in cappella davanti al
Santissimo, quando, a un tratto, avvenne
una cosa singolare che uno di essi, in
seguito, descrisse così: «Timore del Signore
prese a scorrere in mezzo a noi; una specie
di terrore sacro ci impediva di sollevare gli
occhi. Egli era lì, personalmente presente, e
noi avevamo paura di non reggere al suo
eccessivo amore. Lo adorammo, scoprendo
per la prima volta che cosa significa
adorare. Facemmo un’esperienza bruciante
della terribile realtà e presenza del Signore.
Da allora abbiamo capito con una chiarezza
nuova e diretta le immagini di Jahvè che,
sul monte Sinai, tuona ed esplode con il
fuoco del suo stesso essere; abbiamo capito
l’esperienza di Isaia e l’affermazione
secondo cui “il nostro Dio è un fuoco

209
divorante”. Questo sacro timore era, in
qualche modo, la stessa cosa che amore, o
almeno così era avvertito da noi. Era
qualcosa di sommamente amabile e bello,
anche se nessuno di noi vide alcuna
immagine sensibile. Era come se la realtà
personale di Dio, splendida e abbagliante,
fosse venuta nella stanza, riempiendo
insieme essa e noi»11.

7. La nostra risposta al mistero della


presenza reale
Dalla fede e dal “sentimento” della
presenza reale, deve sbocciare
spontaneamente la riverenza e, anzi, la
tenerezza verso Gesù sacramentato. È
questo un sentimento così delicato e
personale che solo a parlarne si rischia di
sciuparlo. Ascoltiamo, ancora una volta, san
Francesco d’Assisi che ci è stato così
spesso maestro di pietà eucaristica nel corso
di queste meditazioni. Egli ebbe il cuore
ricolmo di tali sentimenti di riverenza e
tenerezza. Nella sua lettera, intitolata «A

210
tutti i chierici sulla riverenza del corpo di
Cristo», scrive accoratamente: «Tutti quelli
che amministrano sì grandi misteri
considerino tra sé, soprattutto chi li
amministra senza il dovuto rispetto, quanto
siano vili i calici, i corporali, le tovaglie,
usate per la consacrazione del corpo del
Signore Gesù Cristo. E da molti il corpo è
lasciato in luoghi indegni, è portato per via
in modo lacrimevole, è ricevuto senza le
dovute disposizioni e amministrato senza
riverenza... Non dovremmo essere ripieni di
zelo per tutto questo, dato che lo stesso
buon Signore si offre alle nostre mani e noi
lo abbiamo a nostra disposizione e ce ne
comunichiamo ogni giorno? Ignoriamo
forse che dobbiamo venire nelle sue mani?
Orsù, di queste cose e di altre subito e con
fermezza emendiamoci»12.
Il Poverello si intenerisce davanti a Gesù
sacramentato, come a Greccio si inteneriva
davanti al Bambino di Betlemme; lo vede
così affidato agli uomini, così inerme, così
umile: così umile soprattutto. Per lui si
tratta sempre dello stesso Gesù vivo e

211
concreto, mai di un’astrazione teologica.
«Faccio questo – scrisse nel suo Testamento
– perché dell’Altissimo Figlio di Dio
nient’altro io vedo corporalmente in questo
mondo, se non il santissimo corpo e sangue
suo»13.
L’Eucaristia è la più grande responsabilità
della Chiesa nella storia. La Chiesa è
responsabile di tante cose: di una sana
dottrina, dell’uomo, di una cultura, di tesori
d’arte. Ma tutte queste responsabilità sono
poca cosa, paragonate a quella che ha nei
confronti del corpo e del sangue del
Salvatore che sono il prezzo del suo
riscatto.
Una volta, nei primi secoli del
cristianesimo, vigeva la cosiddetta
“disciplina dell’arcano”. Dell’Eucaristia
non si doveva parlare facilmente e alla
leggera e, tanto meno, mostrarla a tutti. Agli
stessi convertiti, il mistero eucaristico
veniva svelato pienamente soltanto nella
settimana successiva al battesimo: da
neofiti e non da catecumeni. Era, questo, un
momento molto atteso, proprio per il

212
mistero che lo circondava. Perché, ci
domandiamo oggi, tante precauzioni? Era
forse soltanto paura di derisione e di
violazione da parte dei pagani? Certo che
c’era anche questo timore; ma era, nel suo
fondo, espressione di un sentimento di
venerazione e di religioso stupore davanti a
tanta vicinanza di Dio. “Arcano” viene da
“arca” e questa da arcere che significa
tenere lontano, nascondere, proteggere da
sguardi profani. Per questo, nelle iscrizioni
e nei dipinti, l’Eucaristia veniva nascosta ai
pagani sotto il simbolo del pesce e sotto
altri simboli. Forse è venuto il momento di
ripristinare la disciplina dell’arcano. Non
nelle forme, ma nello spirito. Oggi il
pericolo non è tanto quello che l’Eucaristia
sia profanata (c’è purtroppo anche questo),
quanto quello che venga banalizzata, ridotta
a cosa «ordinaria», che si può trattare con
tutta disinvoltura e faciloneria. I sacerdoti
devono ricordare prima di tutto a se stessi
queste cose, perché sono essi che trattano
quotidianamente il corpo e il sangue di
Cristo, essi i “custodi” incaricati dalla

213
Chiesa e sono essi i più esposti al rischio
dell’assuefazione, al rischio di dimenticare
che si tratta di Dio e Dio va adorato.
Quando si tratta di Dio, la confidenza deve
sempre accompagnarsi con la riverenza.
La prima catechesi eucaristica al popolo è
quella che un parroco fa con il suo modo di
stare all’altare e di andare e venire davanti
al Santissimo. Una genuflessione davanti al
tabernacolo, fatta in un certo modo, può
valere un’intera predica sulla presenza
reale. Ci sono tanti piccoli segni dai quali si
capisce quanto è sentito presente Gesù in
una comunità cristiana: tovaglie sempre
linde, un fiore, magari uno solo ma sempre
fresco, una lampada ben curata... Non
bisogna disdegnare troppo facilmente i
segni esterni. Se il Figlio di Dio non ha
disdegnato di manifestare il suo amore per
noi con dei segni, come sono, appunto, i
segni eucaristici, perché dovremmo aver
paura di manifestargli anche noi il nostro
amore con dei segni? Certo, Gesù non si
diletta dei gesti del corpo ma dei sentimenti
del cuore; ma siamo noi che abbiamo

214
bisogno dei gesti del corpo per suscitare ed
esprimere i sentimenti del cuore. La
premura e la delicatezza (non la
leziosaggine!) con cui è tenuto in una
chiesa il Santissimo Sacramento è il
termometro per misurare la fede e la pietà
del sacerdote e della comunità che vi si
raduna.
Uno che non credeva nella presenza reale
ha detto: «Se io potessi credere che lì,
sull’altare, c’è davvero Dio, credo che
cadrei in ginocchio e non mi rialzerei più».
Forse Gesù non ci chiede proprio questo,
perché ci sono anche i doveri di carità e di
servizio dei fratelli; non ci chiede cioè di
stare sempre in ginocchio materialmente,
ma spiritualmente, con il cuore, sì. È
possibile stare, con il cuore, in adorazione
davanti al Santissimo, mentre le nostre
mani lavorano, assolvono, scrivono. La vita
di ogni cristiano, ma specialmente quella
dell’anima religiosa e del sacerdote, deve
essere orientata verso il tabernacolo. Per
una tradizione anch’essa antichissima, le
chiese sono state sempre “orientate”, cioè

215
volte a oriente, perché a Oriente, a
Gerusalemme, Cristo si immolò e risorse.
Anche il tempio che è il nostro cuore deve
essere volto a Oriente, al Sole di giustizia
che splende dall’Eucaristia sulla Chiesa.
Gesù ha detto che dov’è il nostro tesoro, là
sarà anche il nostro cuore (cf Mt 6, 21). Ma
il nostro più grande tesoro in questo mondo
(«il tesoro nascosto nel campo») è proprio
Gesù eucaristico. Che lì sia dunque il nostro
cuore, che lì ritorni dopo il riposo della
notte, che nel tabernacolo fissi la sua
dimora. È possibile passare, nello spirito,
lunghe ore in ginocchio davanti al
Santissimo, pur lavorando, o viaggiando su
un treno...
È molto importante coltivare il
raccoglimento, essere presenti al presente.
La presenza, abbiamo visto, esige, dall’altra
parte, presenza. Noi invece siamo, per lo
più, assenti. Se Dio è “colui che c’è”,
l’uomo è colui che “non c’è”, che vive
fuori, alienato, “in una regione lontana”.
Ripensando al tempo prima della sua
conversione, sant’Agostino esclamava con

216
tristezza: «Tu eri con me, ma io non ero con
te!»14. Per incontrare Gesù nel sacramento,
bisogna rientrare in se stessi.
Quando i discepoli di Emmaus
«riconobbero» il Signore allo spezzare il
pane, subito, senza più curarsi che «era già
sera», corsero a dirlo agli altri discepoli
rimasti a Gerusalemme. Colui che ha
riconosciuto davvero il Signore
nell’Eucaristia, diventa spontaneamente
apostolo della presenza reale. La fede sfocia
nell’esperienza e l’esperienza nella
testimonianza. Giovanni Battista è il
modello insuperabile di come si predica il
mistero della presenza reale. Non con tante
parole, come ho fatto anch’io in questa
meditazione, ma, semplicemente, «in
Spirito e potenza», gridando: «In mezzo a
voi sta uno che voi non conoscete!» (Gv 1,
26). Egli è un “indicatore”, uno che punta il
dito con forza verso una direzione precisa e
dice: «Ecco l’Agnello di Dio!» e tutti
guardano da quella parte e lasciano lui per
seguire l’Agnello (cf Gv 1, 35 ss). Abbiamo
riflettuto sulla presenza reale di Gesù in

217
mezzo a noi; ricordiamoci, alla fine, che
essa non è solo un dono, ma, come dicevo,
anche una responsabilità. Quel giorno Gesù
disse: «La regina del sud si leverà a
giudicare questa generazione e la
condannerà perché essa venne dalle
estremità della terra per ascoltare la
sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più
di Salomone!».

Note
1 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 60,
a. 3.
2 Antifona “O sacrum convivium”.
3 Ambrogio, De sacramentis, IV, 14-16 (PL 16, 439
ss).
4 Cf H. Denzinger - A. Schönmetzer, Enchiridion
Symbolorum..., cit., 690.
5 Cf Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q.
75, a. 4.
6 Sequenza Lauda Sion Salvatorem.
7 Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche, XVI,
11 s (Studi e Testi 145, pp. 551 s).
8 Ambrogio, De sacramentis, IV, 14-16 (PL 16, 439
ss).
9 Cf Atti del colloquio di Marburgo del 1529 (Opere
di Lutero, ed. di Weimar, 30, 3, p. 110 ss).

218
10 Gregorio Nisseno, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44,
1001) (aisthesis parousias).
11 The Spirit and the Church, a cura di R. Martin,
New York 1976, p. 16.
12 Francesco d’Assisi, Lettera a tutti i chierici (FF
208 s).
13 Id., Testamento (FF 113).
14 Agostino, Confessioni, X, 27.

219
VIII
«Finché egli venga»
L’Eucaristia come attesa del
ritorno del Signore

«Ogni volta che mangiate di questo pane


e bevete di questo calice, voi annunziate la
morte del Signore finché egli venga» (1 Cor
11, 26). In ogni Messa risuona questa parola
dell’Apostolo; dopo la consacrazione,
infatti noi esclamiamo: «Annunziamo la tua
morte, Signore, proclamiamo la tua
risurrezione, nell’attesa della tua venuta!».
È un’eco del Maranatha, del «Vieni
Signore!» (o «Il Signore viene!») che si
ascoltava, durante la celebrazione
eucaristica, nei primi giorni della Chiesa.
San Girolamo parla di «una tradizione
apostolica», conservatasi fino ai giorni suoi,

220
secondo la quale, nella veglia di Pasqua,
non era lecito congedare il popolo prima
della mezzanotte, perché fino a quel
momento poteva sempre aver luogo ancora
la parusia del Signore1. Questo dimostra
quanto era concreta e sentita questa attesa
del ritorno di Cristo nella primitiva liturgia
della Chiesa.

1. «Sursum corda!»
L’attesa del ritorno del Signore (la
“tensione escatologica”) non è un fatto
puramente soggettivo – che esiste, cioè,
solo nella mente di coloro che si accostano
all’Eucaristia –, ma, al contrario, si radica
nelle profondità stesse del mistero, è
intrinseca alla celebrazione eucaristica.
Nella Pasqua ebraica, questa attesa era già
presente, sebbene anch’essa “in figura”.
L’agnello doveva essere mangiato «con i
fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in
mano e in fretta» (cf Es 12, 11), come chi è
sul piede di partenza. Il nome stesso
“Pasqua” veniva interpretato come

221
“passaggio” o “emigrazione”, perché
indicava il passaggio dell’uomo dall’Egitto
alla terra promessa, da questo mondo al
Padre. Ora, nell’Eucaristia, questa “fretta”,
questa spinta in avanti, si è fatta più
spirituale, più profonda. È il modo stesso di
presenza di Gesù nel sacramento che fa
nascere nel cuore l’attesa e il desiderio di
qualcos’altro. Tale presenza è una presenza
“velata”, cioè, per così dire, una presenza-
assenza. Come nell’Incarnazione, così
anche nell’Eucaristia, Dio si rivela
velandosi, né potrebbe fare diversamente,
senza che la creatura sia annientata dal
fulgore della sua maestà. Ma proprio questo
suo essere velato, genera il desiderio dello
svelamento, della visione “senza veli”. Lo
capisce chi ama. Lo aveva capito bene chi
ha scritto quelle parole che cantiamo
nell’Adoro te devote: «Gesù che ora
contemplo velato, fa’, ti supplico, che si
realizzi il mio ardente desiderio di vederti a
viso scoperto (revelata facie) ed essere così
beato per la visione della tua gloria». A chi
ama non basta una presenza nascosta e

222
parziale. Nel «Canto dell’anima che si
strugge di vedere il Signore» (così è
intitolato), san Giovanni della Croce parla
dell’Eucaristia con queste parole,
suggeritegli certamente dall’esperienza:
«Quando a temprar lo spasimo
ti miro in Sacramento,
il vel che ti dissimula
accresce il mio tormento.
Tutto è per me di strazio
finché quaggiù dimoro:
muoio perché non muoio».

L’Eucaristia, anziché spegnere la sete


della presenza di Dio, l’accresce e la rende
più struggente. San Paolo dice la stessa cosa
con l’immagine delle “primizie”. Noi
gustiamo le primizie dello Spirito, ma
proprio gustandole, ci accorgiamo che le
primizie non ci bastano; le primizie fanno
aspettare l’intero raccolto, fanno desiderare
il Tutto. Per questo – aggiunge l’Apostolo –
«gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro
corpo» (Rm 8, 23).
In tal modo, l’Eucaristia esprime la natura

223
stessa dell’esistenza cristiana sulla terra. È
il momento privilegiato in cui la Chiesa
sperimenta il suo essere “viatrice”, in
cammino. Essa è il “cibo dei viatori”, il
sacramento dell’esodo che continua, il
sacramento pasquale, cioè del “passaggio”.
Nell’introduzione al prefazio della Messa,
risuona, fin dai primissimi tempi della
Chiesa, il grido: «Sursum corda!», in alto i
cuori! E Agostino commenta: «Tutta la vita
dei veri cristiani è un “sursum cor”. Cosa
significa avere “in alto” il cuore? Significa
avere in Dio la speranza. Quando ascoltate
il sacerdote che dice: “Sursum corda!”, voi
rispondete: “Habemus ad Dominum!”, lo
teniamo rivolto al Signore! Fate in modo
che sia vero ciò che rispondete»2. Molti
Padri della Chiesa, riferendosi al testo di
Ebrei 10, 1, distinguevano tre fasi, o tre
tempi, nella storia della salvezza: la fase
dell’ombra, quella dell’immagine e quella
della realtà: «L’ombra è nella Legge,
l’immagine nel Vangelo, ma la realtà nel
cielo. Qui camminiamo nell’immagine;
allora, quando sarà venuta la pienezza della

224
perfezione, vedremo a faccia a faccia,
perché la perfezione è nella realtà»3. Di
conseguenza, questi stessi Padri
distinguevano, poi, tre Pasque: la Pasqua
della Legge, quella del Vangelo e «quella
terza Pasqua che si compirà tra miriadi di
angeli nella festa perfettissima e nell’esodo
beatissimo al cielo»4. L’idea della “Pasqua
celeste” era stata preparata da Gesù stesso,
quando, istituendo l’Eucaristia, aveva
parlato di una misteriosa nuova Pasqua che
si sarebbe compiuta «nel regno di Dio» (cf
Lc 22, 16).

2. L’Eucaristia fa la parrocchia
L’Eucaristia ci spinge, dunque, a vivere
escatologicamente, da pellegrini, con lo
sguardo e il cuore rivolti in alto. Nelle
precedenti meditazioni ho mostrato come
l’Eucaristia fa la Chiesa; ebbene, in
quest’ultima meditazione, voglio mostrare
come l’Eucaristia fa la parrocchia!
Cos’è una parrocchia? È stata anche per
me una sorpresa scoprire che nella Bibbia si

225
parla, in lungo e in largo, di “parrocchia” e
di “parroci”. Questi termini derivano infatti
da paroikéo che ricorre assai spesso, sia
nell’Antico Testamento che nel Nuovo
Testamento greco. Per sapere cos’è, o cosa
dovrebbe essere, esattamente, una
parrocchia, bisogna, dunque, interrogare la
Bibbia.
Negli Atti degli Apostoli si legge che
Israele fu «in esilio in terra d’Egitto» (At
13, 17); ma la parola che nelle moderne
traduzioni suona «esilio», nel testo greco
originale suona «parrocchia» (paroikía).
Altrove si legge che Abramo, per fede,
visse tutta la sua vita da «parroco», cioè,
come viene tradotto, da pellegrino e
forestiero (cf Gn 15, 13; Eb 11, 9). Ma
veniamo ormai ai cristiani, cioè al nuovo
Israele. Nell’epistola prima di Pietro
leggiamo: «Comportatevi con timore nel
tempo del vostro pellegrinaggio» (1 Pt 1,
17); alla lettera: «nel tempo della vostra
parrocchia». E ancora: «Vi esorto come
pellegrini e forestieri ad astenervi dai
desideri della carne» (1 Pt 2, 11); alla

226
lettera: «Vi esorto come parroci».
Cosa significano queste strane espressioni
e cosa significano le parole paroikía e
pároikos? È semplicissimo: pará è un
avverbio e significa accanto; oikía è un
sostantivo e significa abitazione; dunque:
abitare accanto, vicino, non dentro, ma ai
margini. Di qui il termine passa a indicare
chi abita in un posto per un po’ di tempo,
l’uomo di passaggio, o anche l’esule dalla
patria; paroikía indica dunque un’abitazione
provvisoria. A questo senso di
provvisorietà, si aggiunge quello della
precarietà. Infatti colui che è ospite in una
città, non gode di tutti i diritti dei veri
cittadini; perciò pároikos sta a indicare
anche il forestiero, in opposizione al
cittadino di pieno diritto. Se scoppia una
guerra tra la città di origine e quella che lo
ospita, il forestiero deve sapere che ci andrà
quasi sicuramente di mezzo, a meno di
rinnegare la sua patria di origine.
Perché allora la vita cristiana è definita
dalla Bibbia come una vita di «parroci» e di
«parrocchia», cioè di pellegrini e forestieri?

227
La risposta è molto chiara: perché essi sono
«nel» mondo, ma non sono «del» mondo (cf
Gv 17, 10.16); perché la loro patria vera è
nei cieli, da dove aspettano che venga come
Salvatore il Signore Gesù Cristo (cf Fil 3,
20); perché non hanno quaggiù dimora
stabile, ma sono in cammino verso quella
futura (cf Eb 13, 14). In questo senso, che è
quello vero e originario, tutta quanta la
Chiesa non è che un’unica grande
“parrocchia”. Questo fu, all’inizio, il
sentimento basilare dell’identità cristiana.
Esso si esprime, per esempio, nelle lettere
che si scambiavano tra di loro le primitive
comunità. La famosa lettera di san
Clemente papa alla Chiesa di Corinto
cominciava così: «La Chiesa di Dio che
abita da forestiera (alla lettera: che è di
parrocchia) a Roma, alla Chiesa di Dio che
abita da forestiera a Corinto»5.
Annunciando ai fratelli di un’altra città il
martirio del vescovo san Policarpo, i
cristiani di Smirne scrivevano: «La Chiesa
di Dio che abita da forestiera (paroikousa:
che è di parrocchia) a Smirne, alla Chiesa di

228
Dio che abita da forestiera a Filomelo»6.
L’epistola a Diogneto – documento
anch’esso antichissimo – definisce il
cristiano come un uomo «che abita una
patria, ma come forestiero (pároikos!) che
partecipa a tutto come cittadino, ma
sopporta tutto come pellegrino; per il quale
ogni terra straniera è patria e ogni patria
terra straniera»7.
Questo mi fa venire in mente una cosa.
Nel linguaggio attuale della diplomazia, il
Vaticano si definisce “uno stato straniero” e
il papa “il capo di uno stato straniero”.
Questa espressione per “quelli di fuori”
significa una cosa, ma per noi credenti ne
deve significare un’altra ben più radicale.
Sì, il Vaticano, come rappresentante e
centro della Chiesa cattolica, è uno stato
“straniero”, ma straniero non soltanto
rispetto all’Italia in cui si trova, ma rispetto
a tutto il mondo. Esso è infatti lo stato del
popolo che è straniero e pellegrino in
questo mondo!
Ma si tratta di una “estraneità” tutta
speciale. Altre dottrine hanno inculcato

229
all’uomo il senso della estraneità e della
fuga dal mondo. In senso tra loro diverso,
platonici e gnostici definivano l’uomo: «Per
natura, straniero al mondo». Ma la
differenza è enorme: costoro ritenevano il
mondo opera del male e perciò
raccomandavano l’astensione dall’impegno
verso di esso che si esprime nel
matrimonio, nel lavoro, nello stato. Nulla,
invece, di tutto questo nel cristiano. Egli è
un uomo «che si sposa e mette al mondo
bambini», uno «che partecipa a tutto»8. La
sua è una estraneità escatologica, non
ontologica; egli, cioè, si sente estraneo per
vocazione, non per natura; in quanto
destinato a un altro mondo, non in quanto
proveniente da un altro mondo. Il
sentimento cristiano di estraneità si fonda
sulla risurrezione di Cristo: «Se siete risorti
con Cristo, cercate le cose di lassù». Non
annulla perciò la creazione e la sua bontà
fondamentale.
Il concetto di parrocchia è integrato, nella
Bibbia, da quello di «diaspora», o
dispersione: «Pietro, apostolo di Gesù

230
Cristo, ai fedeli dispersi...» (1 Pt 1, 1).
Diaspora significa disseminazione: i
cristiani sono la semente di Dio, sparsa per
il mondo, perché alla fine tutto il mondo
divenga un campo di Dio che porta frutti di
bene. Non c’è ostilità, o disprezzo, nei
confronti del mondo; è anch’esso di Dio e
Dio «ama il mondo» e vuole «salvare il
mondo» (cf Gv 3, 16; 12, 47). È vero che i
cristiani devono essere anche «sale della
terra», ma lo sono se, pur sciogliendosi in
essa, non perderanno il loro «sapore», cioè
la loro alterità rispetto al mondo; se sanno
inserire un germe di eternità e di
incorruzione in questo nostro mondo che è
tutto racchiuso nella temporaneità e nella
corruzione. In altre parole, i cristiani sono
«sale della terra», finché vivono da
pellegrini e forestieri nel mondo.
Si dice che la sapienza cristiana consiste
nell’equilibrio tra trascendenza e
immanenza. Questo equilibrio è concepito,
spesso, come una specie di dosaggio: un po’
di trascendenza e un po’ di immanenza, un
po’ di attenzione all’“altro” mondo e un po’

231
di attenzione a “questo” mondo, senza
esagerare né in un senso né nell’altro. Ma
questo è un modo di ragionare umano e
carnale. L’equilibrio, nelle cose di Dio, non
consiste mai in un dosaggio dei contrari, ma
nella simultanea presenza dei contrari in
tutta la loro forza; bisogna “esagerare”,
andando fino in fondo in un senso e
nell’altro. Questo crea «il tenore di vita
paradossale e, a detta di tutti, meraviglioso
dei cristiani»9. Il Mistero pasquale non
consiste nel predicare un po’ di croce e un
po’ di risurrezione, ma in un andare fino in
fondo alla croce, per poi gustare appieno la
risurrezione. Così la sapienza cristiana
consiste nell’usare di questo mondo come
se dovesse passare domani e lavorare per
questo mondo come se non dovesse passare
mai.

3. «Ecco lo Sposo che viene!»


Cominciamo così a comprendere come e
perché l’Eucaristia fa la parrocchia. Fa la
parrocchia perché tiene i cristiani «con i

232
fianchi cinti, il bastone in mano e i sandali
ai piedi», in stato di esodo permanente;
perché impedisce, con il suo richiamo
giornaliero nella Messa, che la Chiesa si
adagi e divenga una Chiesa “insediata” e
sedentaria, una Chiesa caduta nel sonno.
Questo è il tipo di parrocchia di cui il
mondo ha bisogno: non luogo in cui si
ritrovano tutti i servizi, le attività e gli
svaghi che il mondo stesso produce e
diffonde (e dei quali è, esso stesso, stanco e
deluso), ma luogo del pellegrinaggio e della
gioia. Luogo in cui si sperimenta la
presenza dello Spirito e nel quale chi viene
la prima volta è costretto ad ammettere che
c’è qualcosa di diverso ed esclama, come
quelli che entravano per la prima volta in
una comunità cristiana delle origini:
«Veramente Dio è fra voi!» (1 Cor 14, 25).
Purtroppo, con il passare del tempo, si è
perso molto del significato originario di
parrocchia, tanto che ormai scorriamo le
pagine della Bibbia e non siamo più
nemmeno in grado di riconoscervelo. Il
termine parrocchia è passato a significare,

233
semplicemente, una porzione, o un distretto
amministrativo della Chiesa locale.
“Parroco”, che originariamente era detto di
ogni cristiano, combinandosi, pare, con un
altro termine affine (parochos, colui che
provvedeva certi servizi alla gente di
passaggio), è passato a indicare il
responsabile o l’amministratore di una
parrocchia, senza più riferimento alcuno
all’idea di pellegrino e forestiero.
In tempi a noi più vicini, la riscoperta del
ruolo e dell’impegno dei cristiani nel
mondo ha contribuito ad attenuare
ulteriormente, nelle coscienze, il senso
escatologico della vita cristiana. Abbiamo
pensato anche noi, come le vergini stolte,
che la notte è fatta per dormire. È successo
proprio come nella parabola: «Poiché lo
sposo tardava, si assopirono tutte e
dormirono» (Mt 25, 5).
Ma ecco che, in questo sonno profondo in
cui è caduto il mondo, si leva un grido:
«Vergini prudenti, ravvivate le vostre
lampade: ecco lo Sposo che viene!». Come
le sentinelle si trasmettevano, una volta, da

234
una torre all’altra, il segnale dell’arrivo del
re, così deve correre questo grido, come un
brivido, per tutta la Chiesa. Lo Sposo viene!
Viene! L’ha detto e lo farà. «La sua venuta è
certa come l’aurora». Il Signore mi ha
messo in cuore un grido che non riesco a
contenere; lo sento formarsi dentro di me e
trascinarmi come un vortice. Dovunque
vado a predicare, in questi ultimi tempi,
devo gridare ad alta voce: Fratelli, è ormai
tempo di svegliarvi dal sonno! «La fine di
tutte le cose è vicina» (1 Pt 4, 7); «Il
giudice è alle porte» (Gc 5, 9). Ripeto
dentro di me le parole del salmo dell’esilio
e dico: Mi si attacchi la lingua al palato, se
lascio cadere il tuo ricordo; se mi dimentico
di te, Gerusalemme; se non metto la
Gerusalemme celeste al di sopra di ogni
mio pensiero e di ogni mio annuncio (cf Sal
137, 5 ss).
È molto facile trincerarsi dietro il
pretesto: «Ma questa è una predicazione
apocalittica, da fine del mondo!». Non è
una predicazione apocalittica, no; è una
predicazione escatologica, o semplicemente

235
cristiana. La differenza è questa. Per la
predicazione apocalittica, conta il “quando”
la venuta di Cristo avverrà, contano il
giorno e l’ora, ed ecco che spuntano allora,
periodicamente, le previsioni dei falsi
profeti sull’imminente fine del mondo,
mentre Gesù ha troncato alla radice queste
speculazioni dicendo che, quanto a quel
giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, e che
non sta a noi conoscere i tempi e i momenti
che il Padre ha riservato a sé (cf Mt 24, 36;
At 1, 7).
Per la predicazione escatologica, ciò che
conta è “il fatto che” avverrà, che ci sarà
una fine, che «passa la scena di questo
mondo». Ma questo rende la cosa, forse,
meno seria e urgente? Che stoltezza
consolarsi con il pensiero che, tanto,
nessuno sa quando sarà la fine! Come se per
me la fine non potesse essere domani, o
questa notte stessa. Sarebbe, per me, la
parusia del Signore, né più né meno. Gesù,
nell’Apocalisse, dice: «Verrò presto» (Ap
22, 20) e Gesù sa quello che dice!
Il vescovo martire, san Cipriano, diceva ai

236
cristiani di Cartagine: «Fratelli carissimi, il
regno di Dio è alle porte; il premio della
vita, il gaudio della salvezza perpetua, la
felicità eterna e il possesso del paradiso che,
un tempo, abbiamo perduto, ecco che,
passando questo mondo, stanno per venire;
le cose celesti stanno per succedere a quelle
terrestri, le cose grandi a quelle piccole, le
cose eterne a quelle passeggere»10. Chi
potrebbe affermare che san Cipriano, quel
giorno, si ingannò, o ingannò il suo popolo,
perché sono passati tanti secoli da allora e
apparentemente non è successo nulla? Ciò
che egli disse si è puntualmente avverato
per tutti quelli che lo ascoltarono, e beati
quelli che lo ascoltarono davvero!
Per capire il linguaggio della Bibbia e dei
Padri, su questo punto, è importante tener
conto di un fatto. Quando noi parliamo oggi
della fine del mondo, pensiamo, secondo la
nostra cultura moderna, alla fine del mondo
in assoluto, dopo la quale non può esserci
che l’eternità. Ma la Bibbia ragiona in
modo più concreto e con categorie relative.
Quando, perciò, parla della fine del mondo,

237
intende molto spesso il mondo di fatto
esistente e conosciuto da un certo gruppo di
uomini: il “loro” mondo. Si tratta,
insomma, più della fine di “un” mondo, che
non della fine “del” mondo. Non è affatto
vero, allora, che tutte le previsioni della fine
del mondo sono state smentite dai fatti.
Gesù aveva detto: «Non passerà questa
generazione...» e i fatti gli diedero ragione:
non passò quella generazione che “il mondo
giudaico” finì tragicamente, con la
distruzione di Gerusalemme. Anche il
mondo romano, con la venuta dei barbari,
finì. I Padri che, in occasione del sacco di
Roma del 410, credettero venuta la fine del
mondo, non si sbagliarono nella sostanza
delle cose: finiva realmente un mondo e ne
cominciava un altro. Con la Rivoluzione
francese, un mondo finì; un mondo è,
parimenti, finito con l’avvento del
comunismo in certi paesi dell’est. E chi ci
dice che anche oggi, tra noi, un certo
mondo che ci siamo costruito, impastandolo
di progresso e di tranquilla ribellione a Dio,
non stia per finire tra gli sconvolgimenti da

238
agonia che accompagnano di solito questi
momenti di passaggio della storia?
Conserva intatta tutta la sua forza la parola
di Gesù: «State pronti perché nell’ora che
non immaginate il Figlio dell’uomo verrà»
(Mt 24, 44).

4. Attesa e impegno
È qui la sorgente della speranza cristiana:
«Il Signore sta arrivando – come dice un
canto – la fatica finirà». San Paolo la
chiama, anzi, la «beata speranza»: viviamo
– dice – nell’attesa della beata speranza
della manifestazione gloriosa del nostro
grande Dio e salvatore Gesù Cristo (cf Tt 2,
13). È l’unica grande verità che muove tutto
e verso cui tutti muovono; è la sola notizia
veramente importante che la fede ha da
recare al mondo: Il Signore viene!
Proviamo a immaginare la vita, il mondo, la
fede stessa, senza una tale certezza: tutto si
appanna e diventa assurdo. Se noi speriamo
in Cristo soltanto per questa vita, siamo da
compiangere più di tutti gli uomini (cf 1

239
Cor 15, 19). Ogni cosa, dicevano gli
antichi, si conosce dal suo fine (ma finis,
per essi, significava sia “la fine” che “il
fine”). Non conosce perciò realmente
neppure questo mondo chi non conosce
dove va a “finire”, a che cosa tende.
Banalizza la storia e la fraintende chi non sa
che essa va verso il Signore che viene.
L’annuncio del ritorno del Signore è la
forza della predicazione cristiana. Allora
perché tacere, perché tenere sotto il moggio
questa fiaccola capace di incendiare il
mondo? Io credo che sia rivolto a tutta la
Chiesa questo comando di Dio che si legge
nel libro del profeta Isaia: «Sali su un alto
monte tu che rechi liete notizie in Sion...
Alza la voce, non temere; annunzia alle
città di Giuda: “Ecco il Signore Dio viene
con potenza”» (Is 40, 9 s).
Non annunciare più la fine del mondo per
timore di inquietare la gente è come
ripetere, su scala più vasta, la stoltezza dei
parenti che non avvertono il congiunto che
sta per morire per paura di spaventarlo;
questo non impedirà certamente che il

240
congiunto muoia; impedirà invece che
muoia bene. «Ma che razza di amore è il
nostro per Cristo – esclama sant’Agostino –
se temiamo che egli venga? E non ce ne
vergogniamo, fratelli? Noi l’amiamo e
abbiamo paura che venga? Ma l’amiamo
davvero? O non amiamo, per caso, i nostri
peccati, più di Cristo?»11.
È un compito urgente restituire ai nostri
fedeli la familiarità, la nostalgia, il senso
della patria celeste e, perché no?, del
Paradiso. Queste cose sono state loro
sottratte, a poco a poco, da quei maestri
incauti che si sono lasciati intimidire da
certe ideologie atee, per le quali parlare di
un “al di là” è sempre e comunque
alienazione. Quando è genuinamente
biblica, l’attesa del ritorno del Signore non
distoglie dall’impegno verso i fratelli, ma,
anzi, lo purifica. Insegna a «valutare con
sapienza i beni della terra, sempre orientati
verso i beni del cielo», come dice una
preghiera liturgica dell’Avvento. San Paolo,
dopo aver ricordato ai cristiani che «il
tempo è breve», concludeva dicendo:

241
«Dunque, finché abbiamo del tempo,
operiamo il bene verso tutti e specialmente
verso i fratelli di fede!» (cf Gal 6, 10). Gesù
stesso ci ha insegnato che, nell’attesa del
suo ritorno, dobbiamo lavarci i piedi gli uni
gli altri. Se la nostra Eucaristia è
escatologica, è vero anche che la nostra
escatologia è eucaristica, cioè fatta di
servizio e di donazione di sé fino alla
morte.
Vivere nell’attesa del ritorno del Signore
non significa neppure desiderare di morire
presto. Queste cose non hanno niente a che
vedere con il sentimento escatologico. C’è
chi desidera di sciogliersi presto dal corpo
per essere con Cristo, chi desidera di
rimanere a lungo nella carne, infine, chi
ama dire con lo stesso Apostolo: «Se il
vivere nel corpo significa lavorare con
frutto, non so davvero che cosa debba
scegliere» (Fil 1, 21 ss), che è la decisione
migliore. Ognuno, in questo, ha il proprio
dono. «Cercare le cose di lassù» significa
piuttosto orientare tutta la propria esistenza
in vista dell’incontro con il Signore, fare di

242
questo evento il polo di attrazione e come il
faro della propria vita. Il “quando” è anche
qui secondario e va lasciato serenamente
alla volontà di Dio.

5. «Andremo alla casa del Signore!»


L’attesa della venuta di Cristo non ha,
dunque, un movente negativo che si può
qualificare come disgusto del mondo e della
vita, ma ha un movente sommamente
positivo che è il desiderio della vera vita
nella quale Gesù ci introduce con la sua
venuta. La liturgia della Chiesa ha sempre
chiamato “nascita” (dies natalis) il giorno
dell’incontro con il Signore dei suoi santi.
Gesù parla di un “parto” (cf Gv 16, 21) e,
difatti, sarà davvero come un uscire
dall’utero tenebroso di questo mondo
visibile e trasalire alla luce della piena
verità.
Non si tratta, perciò, di un messaggio di
tristezza e tanto meno di paura, ma di gioia
e di speranza. Nel salterio ebraico c’è un
gruppo di salmi, detti “salmi delle

243
ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i
salmi che cantavano i pellegrini israeliti
quando “salivano” in pellegrinaggio verso
la città santa, Gerusalemme. Uno di essi
comincia così: «Quale gioia quando mi
dissero: “Andremo alla casa del Signore”»
(Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni
sono diventati ormai i salmi di coloro che,
nella Chiesa, sono in cammino verso la
Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi.
Commentando quelle parole iniziali del
salmo, sant’Agostino diceva ai suoi
ascoltatori: «Ripensate, fratelli, a quello che
succede quando al popolo si dà notizia della
festa dei martiri, o si fissa un qualche luogo
santo per radunarvisi in un determinato
giorno e celebrarvi la festa: come tutta la
gente si anima e, esortandosi
scambievolmente, dice: Andiamo, andiamo!
Se si chiede loro: Ma dove andiamo?,
rispondono: Là, in quel luogo, in quel
santuario! Parlano così fra di loro e
accendendosi, per così dire, l’un l’altro,
formano un’unica fiamma, nata da chi,
parlando, comunica all’altro il fuoco di cui

244
arde, facendo confluire tutti a quel luogo
santo. Se pertanto un amore puro riesce a
trasportare i fedeli a un santuario materiale,
quanto più sublime non dovrà essere
l’amore che rapisce al cielo il cuore di chi,
vivendo nella concordia, può scambiare col
fratello le parole: “Andremo alla casa del
Signore!”. Ebbene, corriamo! Corriamo
perché andremo alla casa del Signore;
corriamo perché tale corsa non stanca;
perché arriveremo a una meta dove non
esiste stanchezza. Corriamo alla casa del
Signore e la nostra anima gioisca per coloro
che ci ripetono queste parole. Essi han visto
prima di noi la patria e, da lontano, a noi
che li seguiamo, gridano: “Andremo alla
casa del Signore!”. Camminate, correte!
L’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto:
Correte, affrettatevi, veniteci dietro!
“Andremo alla casa del Signore!”»12.
A questa corsa non si partecipa con i passi
del corpo, ma con i passi dell’anima che
sono i santi desideri, le opere della luce.
Gesù ci è passato davanti, come il corifeo
del grande pellegrinaggio dell’umanità

245
verso Dio, al santuario celeste. Egli ha
inaugurato per noi «una via nuova e vivente
attraverso il velo che è la sua carne» (cf Eb
10, 20). Noi corriamo su delle orme già
segnate; corriamo «al profumo del suo
unguento», che è lo Spirito Santo.
In ogni Eucaristia, «lo Spirito e la Sposa
dicono» (a Gesù): «Vieni!» (Ap 22, 17). E
anche noi che abbiamo ascoltato diciamo a
Gesù: Vieni!

Note
1 Girolamo, In Evangelium Matthei, IV, 25, 6 (CCL
77, p. 236 s).
2 Agostino, Sermo Denis 6 (PL 46, 834 s).
3 Ambrogio, De officiis I, 48 (PL 16, 94).
4 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, X,
111 (GCS 1903, p. 189).
5 Clemente papa, Lettera ai Corinzi (saluto iniziale).
6 Martirio di S. Policarpo (ed. Bihlmeyer -
Schneemelcher, p. 120).
7 Lettera a Diogneto, V, 5.
8 Ibid., V, 5-6.
9 Ibid., V, 4.
10 Cipriano, De mortalitate, 2 (CCL 3A, p. 17 s).
11 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 95, 14 (CCL
39, p. 1352).

246
12 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 121, 2 (CCL
40, p. 1802).

247
L'AUTORE

Padre Raniero Cantalamessa, francescano


cappuccino, è originario della provincia di
Ascoli Piceno. Laureato in Teologia e in
Lettere classiche, già professore ordinario
di Storia delle origini cristiane presso
l’Università Cattolica di Milano, membro
della Commissione Teologica
Internazionale fino al 1981, nel 1979 ha
lasciato l’insegnamento accademico per
dedicarsi interamente alla predicazione in
varie nazioni del mondo, con spiccata

248
sensibilità ecumenica. Dal 1980 è
Predicatore della Casa Pontificia. Ha
condotto per 14 anni, su RAI 1, il
programma di cultura religiosa ‘Le ragioni
della speranza’. Con Àncora ha pubblicato
molti libri di successo, tradotti in tutto il
mondo.

249
Indice
I. «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato»
1. Le figure dell’Eucaristia
2. L’Eucaristia come evento
3. L’Eucaristia come sacramento
II. «Questo è il mio corpo offerto in
sacrificio per voi»
1. «Spezzò il pane»
2. «Prendete, mangiatene tutti...»
3. «Questo è il mio corpo, questo è il mio
sangue»
4. «Vieni al Padre!»
III. «Chi mangia di me vivrà per me»
1. Comunione con il corpo e il sangue di
Cristo
2. Chi si unisce al Signore forma un solo
Spirito con lui
3. «Io in loro e tu in me»: la comunione
con il Padre
4. Dio ci ha messo il suo corpo tra le mani
5. La comunione con il corpo di Cristo che
è la Chiesa

250
IV. «Se non bevete il sangue del Figlio
dell’uomo...»
1. La comunione sotto le due specie
2. Il sangue nella Bibbia: figura, evento e
sacramento
3. «Tutti ci siamo abbeverati a uno stesso
Spirito»
V. «Fate questo in memoria di me»
1. La memoria costante di Cristo
2. L’adorazione davanti al Santissimo
3. Io guardo lui e lui guarda me
VI. «Io vi ho dato l’esempio»
1. Il significato della lavanda dei piedi
2. Lo spirito del servizio
3. Il servizio dello Spirito
4. Il servizio dei poveri
VII. «Ecco, ora qui c’è più di Salomone»
1. «Ecco la dimora di Dio con gli uomini!»
2. «Ritenete ciò che è buono»
3. Una presenza reale, ma nascosta: la
tradizione latina
4. L’azione dello Spirito Santo: la
tradizione ortodossa
5. L’importanza della fede: la spiritualità
protestante
6. Sentimento di presenza

251
7. La nostra risposta al mistero della
presenza reale
VIII. «Finché egli venga»
1. «Sursum corda!»
2. L’Eucaristia fa la parrocchia
3. «Ecco lo Sposo che viene!»
4. Attesa e impegno
5. «Andremo alla casa del Signore!»
Autore

252
Indice
I. «Cristo, nostra Pasqua, è
3
stato immolato»
1. Le figure dell’Eucaristia 6
2. L’Eucaristia come evento 12
3. L’Eucaristia come sacramento 21
Indice 250
II. «Questo è il mio corpo
30
offerto in sacrificio per voi»
1. «Spezzò il pane» 32
2. «Prendete, mangiatene tutti...» 37
3. «Questo è il mio corpo, questo è
44
il mio sangue»
4. «Vieni al Padre!» 52
III. «Chi mangia di me vivrà
56
per me»
1. Comunione con il corpo e il
60
sangue di Cristo
2. Chi si unisce al Signore forma
63
un solo Spirito con lui

253
3. «Io in loro e tu in me»: la 69
comunione con il Padre
4. Dio ci ha messo il suo corpo tra
71
le mani
5. La comunione con il corpo di
78
Cristo che è la Chiesa
IV. «Se non bevete il sangue
86
del Figlio dell’uomo...»
1. La comunione sotto le due
87
specie
2. Il sangue nella Bibbia: figura,
99
evento e sacramento
3. «Tutti ci siamo abbeverati a uno
108
stesso Spirito»
V. «Fate questo in memoria di
118
me»
1. La memoria costante di Cristo 122
2. L’adorazione davanti al
132
Santissimo
3. Io guardo lui e lui guarda me 141
VI. «Io vi ho dato l’esempio» 147
1. Il significato della lavanda dei
150
piedi

254
2. Lo spirito del servizio 155
3. Il servizio dello Spirito 163
4. Il servizio dei poveri 169
VII. «Ecco, ora qui c’è più di
180
Salomone»
1. «Ecco la dimora di Dio con gli
181
uomini!»
2. «Ritenete ciò che è buono» 186
3. Una presenza reale, ma nascosta:
188
la tradizione latina
4. L’azione dello Spirito Santo: la
194
tradizione ortodossa
5. L’importanza della fede: la
200
spiritualità protestante
6. Sentimento di presenza 206
7. La nostra risposta al mistero
210
della presenza reale
VIII. «Finché egli venga» 220
1. «Sursum corda!» 221
2. L’Eucaristia fa la parrocchia 225
3. «Ecco lo Sposo che viene!» 232
4. Attesa e impegno 239

255
5. «Andremo alla casa del 243
Signore!»
Autore 248

256

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