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Prefazione di Enzo Bianchi

DON TONINO BELLO MITE DISCEPOLO DEL MAESTRO MITE

Beati i miti, perché erediteranno la terra»: è questa la beatitudine che risuona al mio cuore ogni
volta che “incontro» Don Tonino Bello. Forse ad altri viene più spontaneo pensare all'altra
promessa di Gesù: «Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio», ma per me il
passaggio di Don Tonino in mezzo a noi resta contrassegnato innanzitutto dalla «mitezza», da
quell'essere discepolo del Maestro «mite e umile di cuore» che invita tutti a prendere su di sé il suo
giogo dolce e il suo carico leggero. Una mitezza mai triste, una docilità mai remissiva, un'umiltà di
cuore resa manifesta da un'umiltà nel servizio, un'audacia evangelica propria di chi non ha nulla da
difendere. Sì, alla sequela di Gesù e assieme a lui siamo chiamati a portare un carico, una croce che
è nel contempo segno di speranza e di gioia: cirenei della croce, cirenei della gioia.
Siamo portatori di qualcosa che è più grande di noi, che «porta» noi nel momento stesso in cui è
portato: come la croce è «nostra» solo in virtù del profondo legame con la croce di Cristo, così la
gioia è «nostra», ed è autentica, piena solo se vissuta in comunione con la gioia del Risorto, solo se
trasmessa, condivisa, annunciata agli uomini tutti, al mondo che l'attende forse senza nemmeno
saperlo.
Di questo Don Tonino Bello ci parla ancora oggi, non solo perché è possibile diffondere oggi - dopo
il suo passaggio dalla morte alla vita - il testo delle meditazioni da lui offerte in occasione di un
pellegrinaggio di presbiteri anziani o malati a Lourdes1, ma anche e soprattutto perché le verità di
fede annunciate da Don Tonino e la sua testimonianza di fedele discepolo del Signore rimangono
vive perché ancorate, radicate nel Signore della vita.
Rimane viva la sua semplicità, la sua concretezza, la sua fedeltà alla terra nella ricerca delle cose
dell'alto. Rimane viva la sua passione per il mondo, «passione» talmente intensa da prendere carne
nella sua sofferenza fisica, passione che anche da queste pagine emerge con chiarezza cristallina e
con radicalità evangelica: “Il mondo non è il rivale della Chiesa. Il mondo deve essere il termine
della passione della Chiesa, così come è il termine della passione di Dio, così come è il termine del
progetto salvifico di Dio».
Era solo la stanchezza che gli faceva ripetere in quei giorni, in mezzo ai malati, «Sono malato
anch'io»? O era un presagio di quella prova che avrebbe affrontato poco dopo? Forse era qualcosa
di più profondo ancora: era il suo desiderio di farsi «tutto a tutti», povero con i poveri, emarginato
con gli emarginati, lacerato dalla violenza e dalla guerra con le vittime della violenza e della guerra;
un desiderio talmente autentico e profondo da essere esaudito dal Signore. La malattia allora come
segno di una preghiera esaudita, come sigillo a una solidarietà vissuta non solo a parole, come
testimonianza di amore fino alla fine.
Mite discepolo del Maestro mite, Don Tonino è stato, anzi è ancora, con più forza che mai, parabola
vivente del Pastore dei pastori che depone le vesti per servire i fratelli, che depone la vita per le sue
pecore. Sì, a Lourdes, in mezzo a malati e sofferenti, don Tonino ha rivolto loro parole di
consolazione e di gioia, ma queste pagine ci dicono anche che li ha iniziato ad ascoltare nel proprio
intimo una voce amica che come acqua viva gli sussurrava: «Vieni al Padre!».
Bose, 3 giugno 1995

1
Il pellegrinaggio si tenne dal 22 al 27 luglio 1991
Cap. 1. CIRENEI DELLA GIOIA DEL MONDO

Confratelli sacerdoti, dopo aver visto in questo suggestivo vespro di luglio tanto tripudio nella gente
che ci ha atteso nelle stazioni di Grosseto, di Livorno, di Pisa, di Chiavari, di Sestri, di La Spezia,
dopo aver contemplato la distesa del mare nella festa del tramonto, dopo aver invidiato la serenità
gioiosa di tanti bagnanti sulle spiagge della riviera ligure, dopo aver ammirato la dolcezza di questi
ridenti paesaggi quando scende la sera, mi è venuta l'idea di intitolare questo mio primo intervento
così: Cirenei della gioia.
Noi conosciamo bene il Cireneo della croce. Una lunga dottrina ascetica ci ha abituati a pensarci
soccorritori delle sofferenze del mondo, a sentirci gente che aiuta il mondo a portare la croce.
Perché non ci pensiamo invece come gente che aiuta il mondo a portare la gioia? Non vi sembra
bello dare inizio con questa idea al nostro pellegrinaggio?
Se è lecito abusare delle immagini, a me pare che, da quando siamo partiti, è come se avessimo
steso una rete a strascico, come dicono i pescatori del mio paese; stiamo trascinando verso Lourdes
come una rete che ingloba dentro di sé tantissima letizia, tanto tripudio, tanto gaudio.

«Siamo i collaboratori della vostra gioia»


È vero: questo è un treno di sacerdoti anziani, ammalati, di gente che soffre, però noi stiamo
portando adesso verso la grotta di Lourdes, verso la Vergine santissima, tutto un tripudio, un
gaudio, tutto l'esubero di gioia pasquale che abbiamo potuto cogliere lungo il cammino. È giusto
quindi avere come primo pensiero il nostro essere cirenei della gioia.
D'altra parte oggi, nella liturgia di Santa Maria Maddalena, ci sono stati offerti per lo meno due
spunti su questo tema. Il primo ci viene dato dal pianto della Maddalena; nel Vangelo se ne parla
ben quattro volte: «Maria stava all'esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva... vide
due angeli... (che) le dissero: Donna, perché piangi? E vide Gesù (che) le disse: Donna, perché
piangi?». Prima gli angeli, poi Gesù stesso, le dicono: «Donna, perché piangi?». La rimproverano
garbatamente, come per dirle: «Non han più motivo le tue lacrime, non è più tempo di piangere. Tu
devi essere l'annunciatrice gioiosa della risurrezione». Così abbiamo detto nell'orazione della
Messa: «Fa' che, per il suo esempio e la sua intercessione, proclamiamo al mondo il Signore
risorto».
Il secondo spunto ci è offerto da una espressione della seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto
nell'Ufficio delle letture (lunedì della 16a settimana). San Paolo dice: «Siamo i collaboratori della
vostra gioia».
La gioia infatti deve permeare il nostro cammino. Anche il nostro viaggio verso Lourdes deve
essere caratterizzato dall'empito della gioia pasquale. Noi sappiamo di essere amati da Gesù Cristo,
che è la nostra pace, che è la nostra luce, che è la nostra gioia. Oggi dovremmo ripetere tutti insieme
l'esclamazione del Salmo: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa di Maria, andremo
alla sua casa».
A me sembra indispensabile tutto questo: noi non siamo solo i portatori della sofferenza del mondo,
non siamo i cirenei che aiutano il mondo a portare soltanto la croce.

Le speranze del mondo sono le nostre speranze


Non possiamo dimenticare che uno dei documenti più importanti e più belli del concilio Vaticano II
comincia proprio con questa espressione carica di luce: Gaudium et Spes. Tra tutti i documenti della
Chiesa, da quando si è incominciato a designarli con le parole latine, nessun altro - credo - ha una
ouverture così perfetta: Gaudium et Spes. Si direbbe che vi abbiano posto mano i poeti più che i
teologi, e che la prima stesura sia stata scritta non sulle carte severe degli esperti di scienze divine
ma sulle righe agili di un pentagramma musicale. Sembra infatti l'attacco a piena orchestra d'una
sinfonia le cui note scuotono l'aria, ora con irrefrenabili vibrazioni di festa, ora col ritmo simmetrico
della fuga, ora con le cadenze della elegia.
Ricordate certo quelle parole benedette: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli
uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi
eco nel loro cuore». Con questo preludio solenne - è come una diga squarciata dai pensieri di Dio -
la Chiesa sembra dire al mondo: «D'ora in poi le tue gioie, o mondo, saranno le mie gioie, spartirò
con te il pane amaro delle tue tristezze, mi lascerò coinvolgere dalle tue stesse speranze, e le tue
angosce stringeranno pure a me la gola con identico groppo di paura».
Non siamo soltanto portatori dei dolori del mondo verso la grotta di Lourdes, siamo anche portatori
delle gioie del mondo, e siamo chiamati a spartirle. È questa l'aggiunta in più che vorrei dare al
pensiero di stasera. Dovremo rendere grazie alla Chiesa per tante cose, soprattutto per quella notizia
inaspettata, stupenda, che ci dà col fremito dei lieti annunci, quando afferma, nella Gaudium et
Spes, che le gioie degli uomini sono anche le gioie del cristiano, e che tra le une e le altre - caduto il
sospetto della contrapposizione - corre il filo doppio della simpatia.

Non esperti solo nell'arte della compassione


Sembra incredibile. Eravamo abituati a condividere solo i dolori del mondo. Una lunga dottrina
ascetica ci aveva allenati a farci carico esclusivamente delle sofferenze dell'umanità. Eravamo
esperti nell'arte della compassione. Nelle nostre dinamiche spirituali aveva esercitato sempre un
fascino irresistibile il Cireneo della croce, ma i maestri di vita interiore non ci avevano fatto mai
balenare l'idea che ci fossero anche i cirenei della gioia.
Ecco ora lo sconvolgente messaggio: le gioie genuinamente umane, che fanno battere il cuore
dell'uomo, per quanto limitate e forse banali, non sono snobbate da Dio, né fanno parte di un
repertorio scadente che abbia poco da spartire con la gioia pasquale del Regno.
La felicità per la nascita di un amore, per un incontro che ti cambia la vita, per una serata da
trascorrere con gli amici, per una notizia sospirata da tempo, per l'arrivo di una creatura che riempie
la casa di luce, per il ritorno del padre lontano, per una promozione che non ti aspettavi, per la
conclusione a lieto fine d'una vicenda che ti ha fatto penare, questa felicità così corposamente
umana fa corpo con quella che sperimenteremo nel Regno; questa felicità passeggera è contigua col
brivido dell'eternità che proveremo in cielo. L'estasi che ti coglie davanti alle montagne innevate,
alle trasparenze di un lago, o - come stasera - davanti alle spume del mare, al mistero delle foreste,
ai colori dei prati, ai turgori del grano, ai profumi dei fiori, alle luci del firmamento, ai silenzi
notturni, all'incanto dei meriggi, al respiro delle cose, alle modulazioni delle canzoni, al fascino
dell'arte, questa estasi è parente stretta con le sovrumane gioie dello spirito; allo stesso modo
l'umanissima gioia che ti rapisce di fronte al sorriso di un bambino, al lampeggiamento degli occhi,
agli stupori di un'anima pulita, alla letizia di un abbraccio sincero, al piacere di un applauso
meritato, all'intuizione di cose grandi nascoste dietro i veli dell'effimero, alla fragilità tenerissima di
cui si riveste la bellezza, al si che finalmente ti dice la persona dei tuoi sogni. Non vi è nulla di
genuinamente umano che non trovi eco nel cuore e nell'anima.
Ma che cos'è questa rivelazione improvvisa che annuncia coincidenze arcane tra le gioie degli
uomini e le gioie dei discepoli di Gesù? Colpo di scena o colpo di genio? Forse è solo colpo di
grazia.

Facciamo suonare le campane della speranza


Come cirenei della gioia, quindi, ci avviamo verso il santuario della Madonna di Lourdes. Siamo
contenti questa sera di portare anche il sospiro della letizia pasquale di tutte le cose, di tutte le
creature, del mondo che ci siamo lasciati dietro. Noi dovremmo essere, per abitudine, gli
annunciatori della gioia pasquale come Maria di Magdala.
Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l'ultimo
giorno andai in una scuola materna. C'erano tantissimi bambini di 3-4 anni che si affollavano stupiti
intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese:
«Bambini, sapete chi è il vescovo?». Tutti diedero delle risposte. Uno disse: «È quello che porta il
cappello lungo in testa»; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa
bellissima che a me piacque tanto: «Il vescovo è quello che fa suonare le campane». Forse mi aveva
visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il
vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica
ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono,
potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo
“quelli che fanno suonare le campane», le campane della gioia di Pasqua, le campane della
speranza.

Cap. 2. MARIA ICONA DEL NOSTRO PELLEGRINARE

Se è vero che il giorno si conosce dal mattino, oggi sentiamo che questo inizio è davvero il preludio
d'una splendida giornata che vivremo insieme. Anzi, mi è parso di cogliere anche in alcuni segni
della natura uno stimolo perché i nostri occhi si rivolgano al Signore. Prima di arrivare a Toulouse,
abbiamo visto dei campi sterminati di papaveri, con le loro corolle orientate verso il sole. Allora mi
sono ricordato del Salmo:
«A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli. Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro
padroni, come gli occhi della schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al
Signore nostro Dio».
È bello questo orientarci verso il Signore Gesù, che nell'inno delle Lodi (memoria di santa Brigida)
abbiamo invocato oggi in diversi modi: «Cibo, bevanda di vita, balsamo, veste, dimora, forza,
rifugio, conforto».

La Vergine del cammino


In questo nostro andare, che dura da parecchie ore - e per me che vengo dal Sud dell'Italia è ancora
più lungo - mi è parso di leggere come la ripetizione di quel che ha fatto Maria. Noi stiamo andando
a cercare lei, ma la Vergine santa è per noi «l'icona dell'itineranza», di questo andare, della
transumanza, del nostro passare da una terra all'altra - trans humus - cambiare territorio.
Maria è la Vergine del cammino e noi siamo in cammino, stiamo andando a cercare proprio lei, la
Vergine del cammino, la Vergine dalle mete sicure, la Vergine che non ha speso inutilmente i suoi
passi, la Vergine che sapeva in vita dove veramente andare. A me piace moltissimo invocare Maria
come la Madonna della strada, la Madonna del cammino.
Se i personaggi del Vangelo avessero avuto un contachilometri incorporato, penso che la classifica
dei camminatori più infaticabili l'avrebbe vinta lei, Maria. Gesù naturalmente è fuori concorso,
perché egli si identificò addirittura con la strada, a tal punto che, ai discepoli chiamati alla sua
sequela, confidava: «Io sono la Via». Gesù è la Via, non un viandante; Gesù è la Via, i viandanti
siamo noi.
Così a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche, la prima dopo Gesù è
indiscutibilmente Maria. La troviamo sempre in cammino da un punto all'altro della Palestina, con
uno sconfinamento anche all'estero: viaggio di andata e ritorno da Nazaret ai monti di Giuda per
trovare la cugina Elisabetta, con una specie di supplemento rapido, menzionato da san Luca con
l'affermazione: «Raggiunse in fretta una città». Poi il viaggio da Nazaret a Betlemme, e di qui a
Gerusalemme per la presentazione al tempio. Quindi l'espatrio clandestino in Egitto e il ritorno
guardingo attraverso la Giudea, con il... foglio di via rilasciato dall'angelo del Signore, fino a
Nazaret. Ancora, il pellegrinaggio a Gerusalemme, con sconto comitiva, quando Gesù aveva 12
anni, poi raddoppio del percorso con escursione in tutta la città alla ricerca di Gesù tra la folla; e
nuova traversata fino a Nazaret. Poi diversi viaggi per incontrare Gesù, errante tra i villaggi della
Galilea, a cominciare da Cana, forse con la mezza idea di invitarlo a tornare a casa. Finalmente sul
sentiero del Calvario, fino ai piedi della croce, dove la meraviglia espressa dall'evangelista
Giovanni con la parola stabat, più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime
l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.
Maria è l'icona del «cammina, cammina»: la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo,
seduta ma non ferma. Maria non sa rimanersene quieta: a Cana non corre col corpo ma precorre con
l'anima. E se non va lei verso l'ora di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le
lancette, perché la gioia pasquale possa irrompere sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino, sempre in salita


Maria è sempre in cammino, e per giunta sempre in salita. Da quando si mise in viaggio «verso la
montagna», fino al venerdì del Golgota, anzi fino al crepuscolo del giorno dell'ascensione, quando
anche lei con gli apostoli «salirono al piano superiore» in attesa dello Spirito, i passi di Maria sono
sempre scanditi dall'affanno delle alture.
Avrà fatto anche lei le sue discese, ma il Vangelo ne ricorda una sola, quando dice che Gesù, dopo
le nozze di Cana, «discese a Cafarnao insieme con sua madre». Ma l'insistenza con cui il Vangelo
accompagna con il verbo salire i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto
o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simboleggia tutta la fatica di
un esigente itinerario spirituale.
Non vi sembra, carissimi confratelli e amici, che la Vergine Maria, più che la meta del nostro
andare, sia proprio l'icona di quello che deve essere il nostro peregrinare, il nostro camminare;
l'icona di un peregrinare che non sia un errare, non sia un andare allo sbando; l'icona del nostro
essere pellegrini, anche noi svelti, «senza bisaccia, né denaro nella borsa, né tuniche, né bastone, ma
soltanto con i calzari ai piedi», come dice il Vangelo? I calzari ai piedi sono il simbolo del
viandante.
Mentre ci avviciniamo a Lourdes, a conclusione di questo rapido pensiero, vorrei elevare una
preghiera alla Vergine santa a nome di tutti voi. Voi siete sacerdoti e volete bene al Signore; ci sono
parecchi laici tra noi, anch'essi vogliono bene a Gesù e vogliono bene a Maria. Ma è molto facile
che, nonostante la nostra tensione verso il Signore, qualche volta ci siano delle sbandate nella nostra
vita; è facile che si cammini ma non si sappia bene dove andare, e che, lungo la strada, non si
disponga di quei rifornimenti che ci vengono assicurati durante il nostro viaggio in treno. La
sollecitudine di coloro che sovrintendono al servizio per assicurarci i confort necessari per un
cammino spedito, e il bisogno di nutrirci che avvertiamo, da parte nostra, all'ora del pranzo, della
cena o della colazione, bisogna saperlo trasferire anche nel viaggio della vita, in quel «cammina,
cammina» che non è scandito dai biglietti del treno o dalle prenotazioni.

Preghiera alla Vergine della strada


Vorrei rivolgere a nome di tutti una preghiera alla Vergine del cammino, della itineranza, della
transumanza, alla Vergine dell'esodo e del deserto:
Santa Maria, Vergine della strada, come vorremmo somigliarti nelle nostre corse trafelate, ma noi
non abbiamo sempre traguardi. Siamo pellegrini come te, ma senza santuari verso cui andare. Sì,
oggi noi andiamo a Lourdes, come tante volte si va ai santuari di Santiago, di Czestochowa, di
Loreto, ma i veri santuari non sono quelli dei viaggi organizzati ma quelli della vita, i santuari
ultimi, che qualche volta ci sfuggono.
Siamo più veloci di te, ma il deserto ingoia i nostri passi. Camminiamo sull'asfalto, ma il bitume fa
svanire le nostre orme. Siamo i forzati del «cammina, cammina», ci manca nella bisaccia da
viandanti la carta stradale che dia senso alle nostre itineranze. Nonostante i raccordi anulari che
abbiamo a disposizione, spesso la nostra vita non si raccorda con nessuno svincolo costruttivo. Così
le nostre ruote girano a vuoto sugli anelli dell'assurdo, e ci ritroviamo inesorabilmente a
contemplare gli stessi squallori.
E se questa non è proprio la nostra esperienza personale, quante volte ci è dato di coglierla
nell'esperienza dei nostri parrocchiani, di tante persone che sono state affidate alla nostra cura
pastorale. Quanto andare avanti senza traguardi, quanto girare a vuoto, quanta incapacità di
raccordarsi con gli svincoli degli altri fratelli.
Madonna della strada, dona il gusto della vita a noi e a tutti i nostri amici: facci assaporare
l'ebbrezza delle cose, offri risposte materne alle domande di significato circa il nostro interminabile
andare. Se, sotto i nostri pneumatici violenti - come un tempo sotto i tuoi piedi nudi - non spuntano
più i fiori, fa' che rallentiamo almeno le nostre frenetiche corse, per goderne il profumo e
ammirarne la bellezza.
Santa Maria, Donna del cammino, fa' che i nostri sentieri siano, come lo erano i tuoi, strumento di
comunicazione con la gente, strumento di comunicazione e non nastri isolanti entro cui assicuriamo
la nostra aristocratica solitudine.
Liberaci dall'ansia della metropoli e donaci l'impazienza di Dio, che ci fa allungare il passo per
raggiungere i compagni di strada. L'ansia della metropoli invece ci rende specialisti del sorpasso.
L'impazienza di Dio ci fa allungare il passo, l'ansia della metropoli ci fa diventare i progettisti, gli
specialisti, gli esecutori spericolati del sorpasso. Siamo affetti da questa ansia della metropoli - che
ci fa guadagnar tempo, ma ci fa perdere il fratello che cammina accanto a noi - anche noi sacerdoti:
con il nostro correre di qua e di là, per rispondere a centomila interpellanze, non tutte di pari grado,
a volte diventiamo girandole dell'affanno delle cose. L'ansia della metropoli ci mette nelle vene la
frenesia della velocità, ma svuota di tenerezza i nostri giorni. Ci fa premere sull'acceleratore, ma la
nostra fretta è vuota. Tu raggiungesti in fretta una città di Giuda, ma la tua fretta aveva i sapori
dell'amore, i sapori della carità. L'ansia della metropoli comprime nelle sigle persino i sentimenti,
ma ci priva della gioia di quelle relazioni corte che per essere veramente umane hanno bisogno del
gaudio di cento parole.
Santa Maria, Donna del cammino, segno di sicura speranza e di consolazione per il peregrinante
popolo di Dio, come dice la Lumen Gentium parlando di te.
Facci capire come dobbiamo cercare, più sulle tavole della storia che sulle mappe della geografia, le
carovaniere dei nostri pellegrinaggi. È su questi itinerari che crescerà la nostra fede. Con le cartine
geografiche è facile raggiungere i luoghi della nostra meta, del nostro andare; è più difficile, invece,
ricercare i sentieri e le mete della nostra itineranza, sulle tavole della storia.
Prendici per mano allora e facci scorgere la presenza sacramentale di Dio, sotto il filo dei giorni,
negli accadimenti del tempo: ecco la storia, ecco le cartine della storia. Facci scorgere la presenza
sacramentale di Dio nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei
crepuscoli mattutini di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell'aria. Sono questi i
nuovi santuari che dobbiamo visitare.
Rimettici in cammino, restituisci sapori di ricerca interiore ai nostri sussulti da turisti senza meta. E
se ci vedi allo sbando sul ciglio della strada, fermati, Samaritana dolcissima, per versare sulle nostre
ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza.
Dalle nebbie di questa valle di lacrime facci “alzare gli occhi verso i monti, da dove ci verrà
l'aiuto», come abbiamo ripetuto rievocando il Salmo 120.
Allora sulle nostre strade fiorirà l'esultanza del Magnificat, come avvenne in quella lontana
primavera, sulle alture della Giudea, quando ci salisti tu.
Amen.

Cap. 3. SACERDOTI PER IL MONDO

Abbiamo già sottolineato come la gioia deve caratterizzare questi giorni che viviamo insieme, qui
presso la Madonna, e abbiamo contemplato in Maria l'immagine della Chiesa peregrinante e il
punto di riferimento del nostro essere pellegrini qui al santuario.
Ora vogliamo entrare più direttamente nel tema che deve caratterizzare queste nostre giornate e che
ho intitolato così: «Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa».
Inquadrerò le riflessioni di questi giorni nel contesto del documento Evangelizzazione e
testimonianza della carità, che la Conferenza Episcopale Italiana ha approntato per gli anni 90, e mi
sforzerò di svilupparlo in chiave spiccatamente mariana.
Vorrei partire subito da una icona mariana, non solo per un fatto di buona creanza - dal momento
che ci troviamo a Lourdes, nella sua casa - non per un'esigenza di galateo, ma per una ragione
teologica. Maria infatti è la prima campionatura di come Dio vuole la Chiesa, è il primo abbozzo, la
prova d'autore di Dio. Quel primo schizzo della Chiesa certo gli è riuscito benissimo, meglio di
come viene l'opera: ma la Chiesa è destinata ad essere quello che Maria è già oggi; verrà il
momento in cui la Chiesa, come Maria, sarà tutta bella, tota pulchra, tutta pura, e non ci sarà
macchia di peccato in lei, et macula originalis non est in te.

Maria raggiunse in fretta una città di Giuda


Per sviluppare il nostro tema partiamo dal Vangelo: «In quei giorni Maria si mise in viaggio verso
la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò
Elisabetta».
Vorrei fermarmi un attimo su questa icona, prima di entrare direttamente nello sviluppo del tema.
La traduzione italiana del brano di Luca omette un termine che per me è molto bello, molto
espressivo: il testo greco dice che Maria anastàsa, levatasi, alzatasi, messasi in piedi, si mise in
viaggio verso la montagna. Secondo qualche studioso di Sacra Scrittura quell'anastàsa (participio
del verbo anistemi) vuol dire anche risorta. Il vocabolo anàstasis infatti dice chiarissimo
riferimento alla risurrezione. Maria che si mise in viaggio verso la montagna è allora la Donna
risorta, immagine della Chiesa risorta, immagine cioè della Chiesa che porta dentro di sé Gesù
Cristo e lo presenta al mondo. Non so per quale motivo, nella traduzione ufficiale della CEI, sia
stata eliminata questa parola che a me sembra tanto bella.
Cerchiamo di seguire il Vangelo. «Maria (alzatasi, risorta) si mise in viaggio verso la montagna e
raggiunse in fretta una città di Giuda». Questo raggiungere la città mi sembra che voglia indicare
tutta l'ansia, tutta la passione di Maria: quindi deve indicare tutta l'ansia, tutta la passione della
Chiesa che vuole raggiungere il mondo, quindi una Chiesa fatta per il mondo. Ecco allora noi
sacerdoti per il mondo.

Il mondo chiodo fisso di Dio


Voglio spiegarmi meglio: che cos'è il mondo? Il mondo, lo sapete, è il termine ultimo dei progetti di
salvezza di Dio. Dice infatti il Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito».
Il mondo è il chiodo fisso di Dio, è l'idea dominante che gli turba il sonno e non gli fa chiudere
occhio. Comprendete allora che, se noi assumiamo nella loro crudezza queste espressioni e le
metabolizziamo all'interno della nostra vita interiore, anche per noi il mondo deve diventare il
chiodo fisso, l'idea dominante che non ci fa chiudere occhio.
«Dio ha tanto amato il mondo». Ora sappiamo che il mondo si trova al termine dei progetti di Dio,
al culmine di tutta l'architettura di Dio. La santissima Trinità «manda» il Figlio; Gesù, il Figlio,
mandato sulla terra, istituisce l'eucaristia: l'eucaristia è la gemma che spunta sull'albero della
Trinità; quando questa gemma si apre viene fuori la Chiesa. La Chiesa non è altro che il
completamento dell'eucaristia, è l'eucaristia sbocciata in completezza; e quando la Chiesa sboccia
completamente nel fulgore della sua corolla, ecco il mondo così come è voluto da Dio.
Quindi il mondo sta al termine di tutta questa trafila: l'amore della santissima Trinità che manda il
Figlio sulla terra, il Figlio che istituisce l'eucaristia, è l'eucaristia che sboccia e dà la Chiesa. Ecco
perché nel linguaggio biblico e patristico c'è quasi una identificazione della Chiesa con l'eucaristia.
Quando sboccia l'eucaristia fiorisce la Chiesa, e quando la Chiesa si apre, quando si sviluppa, dà il
mondo. Il mondo allora è il termine ultimo del progetto di salvezza.

La Chiesa è fatta per il mondo


Come Gesù «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», così la Chiesa è stata
stabilita per il mondo. Con la Chiesa tutti noi siamo un popolo sacerdotale, sacerdoti per il mondo.
Non tanto come persone consacrate unte dal crisma dell'ordinazione sacerdotale, ma come
battezzati, perché facciamo parte della Chiesa, noi siamo sacerdoti per il mondo, insieme a tutto il
popolo di Dio. In forza del sacerdozio comune, quindi, siamo protesi verso il mondo, in forza del
nostro battesimo.
Ma che cos'è per noi il mondo, chi è questo mondo che noi dobbiamo amare? Carissimi confratelli
sacerdoti, come vorrei che proprio dalla nostra permanenza a Lourdes, dal nostro stare a contatto
con la Vergine santa e con i sacramenti che celebriamo in questi giorni, con le liturgie alle quali
partecipiamo, partisse dal nostro cuore un empito di affetto per il mondo. Voglia il cielo che
possiamo partire da questa città, da questo luogo di grazia, con un grande amore per il mondo.
Il mondo è l'umanità che ci passa accanto. È il mondo della violenza, il mondo delle periferie, il
mondo della droga, il mondo della cattiveria, il mondo del sopruso, il mondo dello squallore, il
mondo delle nostre strade invase dalla prostituzione e dalla delinquenza, il mondo dei lontani, di
quelli che non hanno mai sentito parlare di Dio, di coloro che non hanno assunto la logica delle
beatitudini all'interno della loro vita spirituale.
Questo mondo che ci fa gli sberleffi, che sorride dei nostri slanci, che si meraviglia di fronte alla
nostra fede, che ci domanda, scettico: Ma cosa volete da noi?
Questo è il mondo. E poi, via via, il mondo dei tossici, il mondo di coloro che non credono in Gesù
Cristo, dei marocchini che vengono in mezzo a noi, dei terzomondiali, dei maomettani che
invadono le nostre città, degli albanesi, di coloro che non sono stati abituati a far riferimento
all'Assoluto.
Questo è il mondo. Il mondo che troviamo alla stazione Termini, il mondo che vediamo quando
andiamo in autobus, afferrati ai sostegni per non cadere. Non tanto il mondo che troviamo qui a
Lourdes, perché sappiamo che questo è un mondo orientato, che ha un riferimento a Dio; ma il
mondo che cambia intorno a noi, di coloro che ci toccano e ci stanno vicini un momento e poi non li
vediamo più.
Questo è il mondo. Il mondo che vediamo negli aeroporti, il mondo che ci troviamo accanto in
aereo o in nave, in una grande piazza, il mondo col quale non ci intendiamo, perché parla un
linguaggio diverso dal nostro (e non soltanto su un piano idiomatico), che ha strutture mentali
completamente diverse.
Questo è il mondo. Per questo mondo Dio ha trepidato, per questo mondo Dio non chiude occhio.
Per questo mondo, per il mondo degli iracheni o per il mondo degli americani, dei sudamericani o
degli eschimesi. Per tutto questo mondo Dio ha trepidato. E non soltanto per il mondo fatto di
uomini, ma anche per la terra, anche per il mare: Dio ha amato anche queste cose.

Simpatia col mondo come missione


Noi siamo Chiesa per il mondo. Gesù la Chiesa l'ha stabilita per questo mondo. Perché simpatizzi
col mondo, perché sia simpatica, soffra insieme con il mondo, gioisca insieme con il mondo. E noi
siamo sacerdoti per il mondo.
Siamo sacerdoti per il mondo non tanto in forza della nostra consacrazione presbiterale - anche per
quello, è chiaro - ma siamo sacerdoti per il mondo in forza del nostro battesimo, insieme con tutto il
popolo di Dio.
Non vi sembra una missione eccezionale la nostra simpatia con il mondo? Siamo sacerdoti per una
Chiesa estroversa quindi, per una Chiesa protesa verso il mondo, non per una Chiesa avviluppata
dentro di sé, non per una Chiesa sinagoga, ma per una Chiesa che si allarga, che apre i cancelli e si
spalanca sul mondo intero, per una Chiesa che supera le sue barriere. Una Chiesa che non chiude
occhio per il mondo. Non una Chiesa che si protegge, che si difende, che si compatta per mostrare
la sua forza, per fare esibizione muscolare con le altre potenze. Una Chiesa che sa di dover essere il
sale, di dover entrare e lasciarsi assorbire, per dare sapore alla storia del mondo, alla geografia del
mondo.
Chiediamo alla Vergine santa che ci faccia voler bene alla gente, che ci faccia voler bene alle cose,
alla storia che noi viviamo, alla geografia a cui apparteniamo. Chiediamo che ci faccia voler bene
perfino alle realtà terrene che calchiamo, alla terra, al mare, al cielo, alle nostre campagne. Nessuno
e nulla deve sentirsi escluso.
Anche voi sacerdoti, passando per le strade di una metropoli, o forse qualche volta andando allo
stadio, vi sarete trovati in mezzo alla gente fuori dei recinti sacri. Credo che la vostra sensibilità
sacerdotale vi avrà portato a chiedervi: Ma il Signore Gesù è morto anche per questa gente? Gesù è
morto anche per quella ragazza cinese che mi passa accanto per caso, o è seduta sull'autobus? E io
che sono propaggine di Gesù Cristo, che cosa faccio per lei? Infatti la Chiesa è il prolungamento di
Gesù Cristo nello spazio e nel tempo, «è la propaggine della santissima Trinità», come diceva
Romano Guardini; la Chiesa è come la pròtesi di Gesù Cristo: dalla Trinità a Gesù, da Gesù
all'eucaristia, dall'eucaristia alla Chiesa. Allora noi siamo questa Chiesa, la pròtesi, il
prolungamento, la propaggine della santissima Trinità.

Riscoprire la dimensione «estroversa» della Chiesa


Siamo sacerdoti per il mondo con tutta la Chiesa, Chiesa sacerdotale, popolo sacerdotale.
Domandiamoci allora: Come mi rapporto con questo mondo? Lo scomunico soltanto, lo maledico,
mi turo le orecchie, mi giro dall'altra parte per dire: Dio, in che mondo ci tocca vivere? Oppure ho
nel cuore gli stessi sentimenti, la stessa passione di Gesù Cristo per le realtà terrene che lo
circondavano, per cui lui non ha escluso nessuno, e per tutti quanti lui si è sentito in sintonia, in
simpatia?
Non posso essere io ad insegnarvi queste cose. Vorrei solo incoraggiarvi, carissimi sacerdoti: anche
dall'altare delle vostre carrozzelle, su cui celebrate quotidianamente un sacrificio che si compone
con quello eucaristico, noi dovremmo essere capaci di far capire alla nostra Chiesa, alla nostra
gente, che siamo fatti per il mondo, che il Signore Gesù ci ha voluto per la salvezza degli altri.
Molte volte noi avvertiamo questa sofferenza: i nostri fedeli pensano solo alla salvezza propria, del
loro gruppo, talora si difendono, si cinturano, rischiano poco, si rifugiano in zone sacre, più che
investire di santità tutti gli spazi e tutti i tempi.
Coraggio allora: riscopriamo, e aiutiamo gli altri a riscoprire, la dimensione estroversa della Chiesa,
la Chiesa che va verso il mondo.
Il mondo non è il ripostiglio dei rifiuti, non è una Chiesa mancata, non è qualcosa che fa il braccio
di ferro con la Chiesa. Il mondo non è il rivale della Chiesa. Il mondo deve essere il termine della
passione della Chiesa, così come è il termine della passione di Dio, così come è il termine del
progetto salvifico di Dio.

Cap. 4. SACERDOTI PER LA CHIESA

Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale


Con tutto il popolo di Dio siamo titolari del sacerdozio comune per il mondo; all'interno della
Chiesa, cioè all'interno del «popolo sacerdotale», siamo titolari del sacerdozio ministeriale. Non è
che il nostro sacerdozio ministeriale non abbia nulla a che fare con il mondo. Voglio solo
sottolineare una priorità.
Il sacerdozio ministeriale ha una forza grandissima, eccezionale all'interno della Chiesa. All'interno
del sacerdozio comune, il nostro sacerdozio ministeriale ha il compito di vivificare la coscienza
comune dei fedeli. Infatti, se non ci fosse il sacerdozio ministeriale, il sacerdozio comune dei fedeli
si ripiegherebbe, si atrofizzerebbe, si avvilupperebbe su se stesso e si morderebbe la coda; il
sacerdozio comune sarebbe destinato ad un essiccamento progressivo se Gesù Cristo non avesse
scelto, in mezzo al popolo sacerdotale, alcune persone che partecipano in un modo vicino, in un
modo diverso, in un modo nuovo, del suo sacerdozio.
Ecco allora il nostro compito all'interno della Chiesa.
Come ho già detto, lo voglio risottolineare: la Chiesa, l'eucaristia, il sacerdozio, il nostro sacerdozio
ministeriale, sono nati insieme, nella stessa notte, nella stessa casa, nella stessa cena; sono nati nello
stesso parto, con le stesse doglie.
Ministri della parola e dei sacramenti, testimoni della comunione
Gesù ha istituito il sacerdozio ministeriale perché il popolo di Dio possa vivere in pienezza la sua
dimensione sacerdotale. Perciò ci ha costituiti ministri della Parola: perché noi, pronunciando la
Parola di Dio, potessimo sollecitare tutto il popolo sacerdotale alla sua missione, al suo compito. La
Parola di Dio è efficace e produce ciò che dice: «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». La
celebrazione dei sacramenti va inquadrata all'interno del ministero della Parola: è il momento
vertice in cui la Parola diventa efficace, produce ciò che dice.
Parola e sacramenti: se non ci fosse la Parola di Dio il popolo cristiano non potrebbe nutrirsi. Se
non ci fossero i sacramenti, per i quali noi siamo in modo particolare abilitati, il popolo di Dio
morirebbe di fame come nel deserto.
Oltre la Parola e i sacramenti c'è la testimonianza con cui dobbiamo sorreggere il popolo cristiano e
stimolare la coscienza della grande vocazione a cui Dio ha chiamato la sua Chiesa. È soprattutto la
testimonianza della comunione. Il presbiterio deve essere una comunità di fratelli così in sintonia tra
di loro da costituire la primizia e il modello della più ampia comunità ecclesiale.
Su questo vorrei fermarmi un momento perché mi sembra una cosa importante. La Chiesa è
«propaggine della santissima Trinità», potremmo dire è l'agenzia periferica della santissima Trinità.
Sulla santissima Trinità, comunione di persone uguali e distinte che vivono così intensamente la
comunione da formare un solo Dio, è modellata la Chiesa sulla terra: più persone uguali e distinte
che formano un solo uomo, l'uomo nuovo Cristo Gesù.
La Chiesa è chiamata a vivere la comunione.
La Chiesa è la primizia, il modello di quello che un giorno dovrà essere il mondo, secondo il
progetto di Dio. Come Chiesa, noi dovremmo costituire la primizia, l'anticipazione, il modello di
come Dio vuole che sia il mondo. È un compito straordinario che ci sovrasta, un compito che
dovrebbe farci tremare, perché tutti ci sentiamo in difetto rispetto a questa missione che ci è stata
affidata.
Noi comunità presbiterale dovremmo esprimere, all'interno della Chiesa, una forza di comunione
incredibile. Presbiteri di una Chiesa locale, dovremmo formare una comunità di fratelli per offrire
un modello a tutto il popolo di Dio, per essere la primizia di quello che deve essere la Chiesa.
Dovremmo essere capaci di esprimere una comunione forte attorno al nostro vescovo, nelle nostre
Chiese locali.
Credo che, oltre la Parola, oltre la celebrazione dei sacramenti, oltre alla testimonianza in genere,
questa testimonianza specifica di comunione sia lo strumento attraverso il quale noi possiamo
esprimere il nostro essere presbiteri per la Chiesa.

Presbiterio modello di comunione


Quale responsabilità!
Non può fiorire il frutto della comunione all'interno delle nostre Chiese se non sboccia prima,
turgida di freschezza e di promesse, la gemma della comunione presbiterale. Non illudiamoci: non
possiamo pretendere che ci sia una comunione forte attorno a Gesù Cristo e attorno al vescovo
all'interno delle nostre comunità diocesane, se non offriamo questo modello, questa primizia,
all'interno del nostro presbiterio. Se non spunta la gemma della comunione presbiterale, se una
gelata la brucia, se una malattia ne intacca la potenzialità di sviluppo, il frutto della comunione non
potrà mai maturare. Nel migliore dei casi potrà solo ingrossare corroso internamente dai vermi.
Potremmo avere anche delle Chiese super organizzate, delle Chiese efficienti, delle Chiese prese
dall'ansia della metropoli più che dall'impazienza di Dio, però sarebbero come quei frutti che di
fuori sembrano carnosi, ma se li apri vedi che all'interno sono corrosi dai vermi.
Attenzione: qui non si scherza davvero.
Non è in gioco la nostra efficienza aziendale. Se sottolineo la necessità di sentirsi presbiterio in
comunione, che sa superare certe divaricazioni di pensiero, di impostazione pastorale, di
metodologie, non lo faccio perché sia in gioco la nostra efficienza aziendale: è in gioco la nostra
«esistenza teologica».
Se il vostro vescovo vi esorta ad essere uniti, a volervi bene, non è semplicemente perché l'unione
fa la forza, non è per il fatto che stando insieme si vive meglio. Se uno tira a destra e uno tira a
sinistra e uno va per prati, certo si è disorganizzati, ma non è in gioco solo la nostra efficienza; è in
gioco la nostra esistenza teologica.
Perdonate se insisto su questo versante. Qualcuno forse preferirebbe che insistessi sul servizio della
Parola o sul servizio delle celebrazioni sacramentali, ma su questo piano non mi pare ci siano molte
slabbrature, molte crepe. Oltre che sulla Parola e i sacramenti, dobbiamo insistere sulla
testimonianza. Davvero dovremo mettere a fuoco in modo particolare la testimonianza della
comunione, la testimonianza del nostro essere presbiterio, cementato dalla Parola di Dio,
compattato attorno all'altare; presbiterio in cui ognuno vuole bene all'altro, in cui sappiamo lavarci i
piedi gli uni gli altri, come dice Gesù.

Servire prima dentro il presbiterio


Quello della lavanda dei piedi noi l'abbiamo preso come un invito rivolto da Gesù alla Chiesa
perché vada a lavare i piedi al mondo, perché tutti, armati di brocca, catino e asciugatoio, si vada a
lavare i piedi al tossico, al marocchino, alla prostituta, agli emarginati. Brocca, catino e asciugatoio,
strumenti del servizio, non vanno collocati fuori della Chiesa, perché, uscendo dalle nostre liturgie,
si vada a lavare i piedi al mondo, agli altri. Vanno posti all'interno del presbiterio, perché Gesù ha
detto ai suoi apostoli: «Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri». C'è in questa espressione di Gesù
tutto il suo desiderio, tutta la sua preoccupazione per una comunione presbiterale all'interno del
gruppo dei suoi apostoli, una comunione profonda che noi dobbiamo riscoprire, mettendoci al
servizio gli uni degli altri.
Ne va di mezzo la salvezza del mondo: se noi, presbiterio, noi che siamo più a contatto con
l'eucaristia, non viviamo veramente la comunione, non offriamo una plausibile riproduzione della
Trinità, se non siamo noi la prima propaggine della Trinità, il popolo di Dio che dovrebbe
modellarsi su di noi non potrà che essere una Chiesa falsata, una Chiesa sbilenca, con delle
spaccature sotterranee o visibili, una Chiesa che magari ha sul dorso un mantello che sembra
«inconsùtile», ma è lacerata, è spaccata. E che propaggine della Trinità sarebbe una Chiesa
spaccata? E che primizia del mondo potrebbe essere?
Faremmo fare brutta figura al Titolare... della ditta, perché il mondo dirà: «Siete voi il modello su
cui Dio vuole che il mondo intero si compatti? Non ci teniamo a essere così”.
Essere sacerdoti insieme a tutta la Chiesa per il mondo, inviati al mondo, è un compito davvero
eccezionale, un compito che non dovrebbe lasciarci chiuder occhio.
Anche come sacerdoti all'interno della Chiesa siamo caricati di una responsabilità eccezionale. Non
si tratta soltanto di predicare la Parola e di predicarla magari in modo affascinante, non si tratta di
essere preparatissimi sulla Scrittura, non si tratta di celebrare magari delle liturgie coinvolgenti, si
tratta di dare questa testimonianza. Guai se proclamiamo la Parola, se spezziamo il pane
dell'eucaristia, ma poi ognuno vive per conto proprio, mortificandoci a vicenda, coltivando piccole
invidie, piccoli rancori, dissociandoci anche dall'impostazione pastorale dei nostri pastori, vivendo
all'interno stesso dei nostri presbiteri la contraddizione, la fuga, la disaffezione reciproca, senza
slanci di amicizia e senza le umane tenerezze che il mondo stesso ci insegna.

Lo «scrupolo» della comunione


Siamo davvero titolari di una missione incredibile che dobbiamo riscoprire, nella preghiera e
nell'ascolto della Parola di Dio. Noi per primi dobbiamo lasciarci interrogare dalla Parola che
annunciamo, dobbiamo lasciarci nutrire dal corpo e dal sangue di Gesù che celebriamo.
Dovremmo avvertirne la provocazione continua, lo scrupolo: i latini chiamavano così il sassolino
che entrava nella scarpa e dava fastidio lungo il cammino: scrupulum. La Parola che annunciamo,
che ascoltiamo, che leggiamo, i sacramenti che celebriamo, dovrebbero mettere dentro di noi una
salutare inquietudine, dovrebbero essere come una spina nel fianco. Uno stimolo continuo al
superamento di noi stessi. Ma soprattutto uno stimolo perché noi si viva il mistero della comunione.
Della comunione non soltanto teologica e della comunione ecclesiale, ma anche della comunione
pastorale, quella cioè che si sviluppa sui versanti concreti della vita di ogni giorno, della ferialità.
Una volta tornati all'interno delle nostre Chiese locali, il Signore ci metta nel cuore il bisogno di
sentirci tutt'uno con tutti i nostri fratelli sacerdoti. Carissimi presbiteri qui presenti, forse la
Madonna vi offre questo incarico: ricercate tutti i vostri confratelli sacerdoti, quando vedete che
qualcuno fra loro è un po' sbandato, che non tutti si vogliono bene l'un l'altro. Rischiate anche
qualche cosa di voi pur di ricompattarli insieme, pur di metterli insieme con il vescovo. Perché se
noi diamo un'immagine sbagliata alla Chiesa locale e se la Chiesa dà un'immagine sbagliata di
fronte al mondo, se ne vanno a ruzzoloni tutte le considerazioni che stiamo facendo e tutti i temi
spirituali che possono suggerirci i vescovi, o il papa, o altri predicatori.

Preghiera per sentirsi famiglia


Una preghiera deve scaturire nel nostro cuore. Vorrei invitare tutti a pregare con me:
Donaci, Signore, il gusto di sentirci famiglia attorno al nostro vescovo, di sentirci presbiterio, di
sentirci protesi verso un'unica missione. Donaci la gioia di sentirci sacerdoti per la Chiesa, perché se
noi non viviamo il nostro sacerdozio ministeriale in perfetta comunione tra di noi, la nostra Chiesa
non può vivere tutta intera il suo sacerdozio comune e allora sarà inefficiente per il mondo, come se
non ci fosse.
Donaci, Signore, il gusto di sentirci estroversi con tutta la nostra Chiesa locale, di sentirci
estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata ma è l'oggetto ultimo
del tuo incontenibile amore.
Mettici le ali ai piedi perché, come Maria, siamo sacerdoti per il mondo e «raggiungiamo in fretta la
città». E, come Maria, siamo sacerdoti per la Chiesa, nella cerchia dei poveri di Jhwh, dei suoi
amici, di coloro che vivono forti esperienze di fede, come quando, «entrata nella casa di Zaccaria,
Maria salutò Elisabetta».
Mettici le ali ai piedi perché, come Maria, possiamo “raggiungere in fretta la città», la città terrena,
quella che tu ami appassionatamente, la nostra città - Molfetta, Livorno, Roma, Reggio - che non è
il ripostiglio di rifiuti, ma il partner benedetto con cui dobbiamo agonizzare perché giunga a
compimento l'opera della tua redenzione.
Amen.

Cap. 5. SIAMO LA CHIESA DEGLI APOSTOLI

Per esplicitare meglio il tema assegnato quest'anno a tutti i pellegrini che vengono a Lourdes
Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa, faccio riferimento a un passo degli Atti degli Apostoli: è
una icona molto bella, un'immagine splendida, un quadretto che ci presenta la Chiesa
gerarchicamente organizzata, come si suol dire, attorno a Pietro, con Maria, gli apostoli, il popolo,
le donne.
Vi leggo il testo, poi traggo da questa icona tre verbi che desidero mettere in evidenza: «Entrati in
città, salirono al piano superiore dove abitavano. C'erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea,
Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di
Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con
Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui».
Ho scelto questo passo perché si fa riferimento esplicito a Maria. E voglio spiegare tre cose: che
cosa significa per noi entrare in città; salire al piano superiore; essere assidui e concordi nella
preghiera con Maria e gli altri.

I. ENTRARE IN CITTÀ
Nel contesto del nostro tema, questo entrare in città significa ritrovare la ragion d'essere della
nostra appartenenza a una comunità cristiana. L'abbiamo detto più volte: compito della Chiesa è
entrare nel mondo, la Chiesa è per il mondo. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal
cielo», per noi uomini e per la nostra salvezza Gesù ha istituito la Chiesa.
Compito della Chiesa non è estraniarsi dal mondo ma entrare nel suo tessuto connettivo,
assumendone la storia e la geografia. Così dice il Concilio nel primo capitolo della Gaudium et
Spes: la Chiesa fa proprie «le gioie e le speranze», i dolori, le ansie, le angosce e le sofferenze,
tutto. «Nulla vi è di genuinamente umano che sia estraneo al cuore dei credenti», soprattutto al
cuore di noi presbiteri.
Nulla vi è di più genuinamente umano del pianto, del sorriso, della letizia, della gioia e, perché no?,
della danza; se ci sarà tempo, vorrei parlarvi un giorno di Maria Donna della danza. Se è vero che il
Signore «trasforma il nostro lamento in danza e ci toglie gli abiti di lutto per rivestirci degli abiti da
festa», dobbiamo davvero mettere anche la danza al centro delle nostre attenzioni, soprattutto al
centro dell'attenzione di chi soffre, per un motivo o per l'altro, di chi è su una carrozzella, di chi
soffre disagi interiori, fisici, l'anzianità, la vecchiaia. La danza non è affatto estranea alla nostra
situazione attuale, dato che tra noi molti sacerdoti sono malati.

Aprire le porte verso il mondo


Entrare in città significa non solo non estraniarsi dal mondo ma entrare nel tessuto connettivo del
mondo.
L'anno passato nella mia diocesi, per una concessione particolare che il Santo Padre fa in occasione
di particolari celebrazioni centenarie, mi fu concesso di indire un Anno Santo speciale in una
comunità parrocchiale. Per l'occasione aprimmo anche due grandi porte di bronzo scolpite da un
artista di Molfetta. Una folla incredibile gremiva la piazza piena di luci. Quando il corteo guidato
dal cerimoniere giunse davanti all'ingresso, ho battuto per tre volte, col martello, e le porte si sono
spalancate, e la chiesa subito si riempì di gente.
Al momento dell'omelia, suggestionato dalla folla che gremiva la piazza e la chiesa, misi da parte le
idee e gli appunti che avevo preparato, e parlai alla gente: “Carissimi fratelli, abbiamo inaugurato
queste porte di bronzo e siamo entrati dalla piazza verso la chiesa. Vorrei tanto inaugurare un altro
giubileo, magari fra venticinque anni, invertendo però le simbologie: invece di entrare dalla piazza
verso la chiesa, spalancheremo le porte per andare verso la piazza: andremo ad occupare tutte le
arterie del mondo, andremo sui pianerottoli, nei condomini, nelle strade, nei vicoli, e - c'era il porto
li vicino - andremo al porto di Molfetta, andremo anche lì, perché questo è il nostro compito. Oggi
non abbiamo bisogno di molte simbologie che ci orientino verso Gesù Cristo, perché lo sentiamo,
specialmente in mezzo ai giovani, sentiamo che c'è questo orientamento verso di lui. Anche se non
si vive con coerenza, si avverte che Cristo è il centro, è il cuore di tutta la terra, è il punto di
convergenza di tutte le nostre tensioni, lo sentiamo. Non c'è bisogno di molte simbologie, non c'è
bisogno di una porta di bronzo che si apra verso l'interno a simboleggiare il nostro convergere da
tutte le parti del mondo, come affluenti, verso di lui che è il cuore della terra. C'è bisogno di una
simbologia rovesciata, di simbologie che ci facciano capire che Gesù noi lo dissequestriamo, lo
facciamo uscire dalla Chiesa, spalanchiamo le porte e andiamo verso il mondo. L'anno venturo -
dissi così - l'anno venturo, o fra venticinque anni se celebreremo un nuovo giubileo, lo faremo con
questi simboli rovesciati».
Tornato in episcopio, sono andato in cappella per chiedere scusa al Signore, caso mai avessi
esagerato volendo essere originale a tutti i costi: ma non ho trovato motivi per chiedere perdono,
anzi ho provato il gusto della recidiva, ricordando il grido di Giovanni Paolo II: «Aprite, anzi
spalancate le porte a Cristo».

Perché al Vangelo non manchi il mondo


A me è parso che questo invito Giovanni Paolo II lo abbia rivolto ai fedelissimi di Gesù, ai suoi
"ultras", a quelli che stanno sulle curve a fare il tifo per lui; non l'ha rivolto ai lontani, ai giovani che
stanno ai margini, alle periferie, quasi a dire: «Aprite le porte a Cristo, fategli spazio, perché vi
faccia contenti e dia senso alla vostra vita». Mi sembra che il papa, invece, voglia dire proprio ai
fedelissimi: «Aprite le porte a Cristo, lasciatelo uscire un po', toglietelo dai ceppi in cui l'avete
incatenato, all'interno magari delle vostre liturgie, all'interno del nostro intimismo, talvolta molto
gratificante, col quale lo stringiamo in catene. Apriamo le porte a Cristo, dissequestriamolo,
facciamolo uscire, facciamolo andare verso il mondo».
Qualche anno fa il tema della Giornata Missionaria era: “Perché al mondo non manchi il Vangelo”.
Anche qui è bellissimo pensare ad un'inversione: «Perché al Vangelo non manchi il mondo». Che
senso avrebbe un Vangelo senza mondo? una Chiesa senza mondo? Non solo perché al mondo non
manchi il Vangelo, ma anche perché al Vangelo non manchi il mondo: è un nostro compito
fondamentale agganciare il mondo alla Chiesa, il mondo al Vangelo, per portarlo nella stazione del
Regno.
Abbiamo già detto che la Trinità è la sorgente prima e la meta ultima della Chiesa: Ecclesia de
Trinitate, Ecclesia ad Trinitatem. Abbiamo ripetuto che siamo - dobbiamo essere - la propaggine
della Trinità. Nel movimento dalla Trinità alla Chiesa c'è una stazione intermedia, una fermata
obbligatoria: è l'eucaristia, è la gemma che spunta sull'albero della Trinità. Dalla Trinità non si
arriva alla Chiesa se non si passa attraverso l'eucaristia. È l'eucaristia che fa la Chiesa, come la
Chiesa fa l'eucaristia. Quante volte avete sentito quest'assioma. Dovremmo fare la riscoperta
entusiasta dell'importanza dell'eucaristia nella nostra vita.
Anche nel viaggio di ritorno, dalla Chiesa alla Trinità, c'è una fermata obbligatoria, una stazione
intermedia senza la quale non si entra nella Trinità: la fermata obbligatoria, la stazione intermedia, è
il mondo. Come dire la locomotiva della Chiesa non può entrare nella stazione del Regno senza
aver agganciato la carrozza del mondo, perché se una Chiesa dovesse presentarsi senza aver
agganciato il mondo non potrebbe entrare all'interno della famiglia di Dio.
Anche se il paradosso delle immagini può avere falsato qualche lineamento teologico, mi sembra
molto espressivo. Queste cose dobbiamo saperle dire anche ai nostri fedeli con più coraggio, perché
dissequestrino Gesù Cristo, dissequestrino la Chiesa, qualche volta liberino anche noi dai ceppi
rituali nei quali siamo bloccati.
Abbiamo cercato di chiarire cosa significa “Sacerdoti per il mondo insieme a tutta la Chiesa»,
attraverso la Parola, i sacramenti, la testimonianza, soprattutto la testimonianza di comunione. Il
presbitero deve sentire l'ansia della Chiesa, deve esplicitare l'anelito della Chiesa verso il mondo,
perché il secolo entri nel sabato eterno, il secolo diventi sabato eterno. Questo è il nostro compito.

Non siamo alternativi ad altri progetti


Entrare nel mondo significa soprattutto mettersi a servizio del mondo, mettersi al servizio della
gente. Dovremmo essere anche i ministri, i cirenei, della felicità della gente. Dovunque vediamo
progetti validi a favorire la crescita globale dell'uomo e della città terrena, dovremmo mettercela
tutta perché tali progetti si realizzino, perché non vadano in fumo, senza troppo sottilizzare sul
nome del progettista o sulle sigle del loro distintivo.
Qualche volta esprimiamo si la nostra simpatia per il mondo, ma vogliamo prima vedere le
etichette, le sigle. Abbiamo paura di afferrare con tutto il cuore i temi fondamentali per la vita del
mondo, perché magari sono portati avanti da quel gruppo, sono sostenuti da quella sigla o da
quell'altra etichetta. Quante paure! Dimentichiamo, a volte, di essere presbiteri per tutto il mondo,
per tutta la gente, per l'ecumene, per l'universalità. Non siamo i sacerdoti di un gruppo, di una parte,
di una porzione.
Ribadiamo, ancora una volta, che come Chiesa desideriamo intensificare la nostra azione di rispetto,
di incoraggiamento, di sostegno, di preghiera, perché tutti gli uomini impegnati nelle istituzioni
pubbliche conducano nel migliore dei modi la loro difficile missione.
Noi non siamo alternativi con quelli che esprimono un servizio all'interno della società. Non siamo
più bravi ad aprire case per tossicodipendenti, non siamo più bravi a venire incontro agli anziani, a
venire incontro agli orfani: guai se dovessimo metterci a fare il braccio di ferro con le istituzioni.
Noi dobbiamo essere servi del mondo. Come Chiesa non cerchiamo spazi in cui esprimerci come
padroni invece che come servi.
Qualche volta ci dicono che noi non amiamo la città terrena, che noi non amiamo lo Stato. Durante
la guerra del Golfo, certi tromboni della cultura contemporanea, della cultura laica, hanno scritto
che a noi manca il senso dello Stato. Non è vero. Anche noi siamo italiani, amiamo l'Italia: una,
repubblicana, laica ma non laicista. E se qualcuno dubita del nostro amore per lo Stato, per la città
terrena, ci offende non meno di chi dubita del nostro amore per la Chiesa, per Gesù Cristo.
Entrare nella città significa vivere con cordialità, offrire una mano a tutta la gente. In questo senso
noi vorremmo servire meglio coloro che sono chiamati a servire il popolo: senza pretendere di
essere alternativi al loro progetto, non presentiamo un progetto «altro», un progetto nostro, ma
indicando costantemente l'«oltre» di qualsiasi progetto umano. Questo significa entrare nella città:
indicare l’oltre di qualsiasi progetto umano.

Preghiera alla Vergine in cammino.


A proposito di questo entrare nella città, interpretando i vostri sentimenti, vorrei, se mi riesce,
rivolgere una preghiera alla Vergine santa. Questo riferimento a Maria è d'obbligo, perché siamo in
casa sua.
Vergine santa, che, guidata dallo Spirito, «ti mettesti in cammino per raggiungere in fretta una città
di Giuda», dove abitava Elisabetta, e divenisti così la prima missionaria del Vangelo, fa' che,
sospinti dallo stesso Spirito, abbiamo anche noi il coraggio di entrare nella città per portarle annunci
di liberazione e di speranza, per condividere con essa la fatica quotidiana, nella ricerca del bene
comune.
Donaci il coraggio di non allontanarci, di non imboscarci dai luoghi dove ferve la mischia, di offrire
a tutti il nostro servizio disinteressato e guardare con simpatia questo mondo nel quale nulla vi è di
genuinamente umano che non debba trovare eco nel nostro cuore.
Aiutaci a guardare con simpatia il mondo, a volergli bene.
Noi sacerdoti troviamo il culmine della nostra presenza presbiterale nel giovedì santo, quando vien
posto nelle nostre mani l'olio dei catecumeni, l'olio degli infermi e il sacro crisma. Fa' che nelle
nostre mani l'olio degli infermi significhi scelta preferenziale della città malata, che soffre a causa
della debolezza propria o della malvagità altrui. Fa' che l'olio dei catecumeni, l'olio dei forti, l'olio
dei lottatori, esprima solidarietà di impegno con chi lotta per il pane, per la casa, per il lavoro.
Solidarietà da tradurre anche con coraggiose scelte di campo, offerta di impegno da non
imbalsamare nel chiuso dei nostri sterili sentimenti. E fa' che il sacro crisma indichi a tutti gli
umiliati e gli offesi della nostra città, ma anche agli indifferenti, ai distratti, ai peccatori, la loro
incredibile dignità sacerdotale, profetica e regale. Come te, Vergine santa, sacerdote, profeta e re,
facci entrare nella città. Amen.

II. SALIRE AL PIANO SUPERIORE

Guardare la vita dalle alte postazioni del Regno


Il misterioso salire al piano superiore, che san Luca annota negli Atti degli Apostoli, deve pur
significare qualcosa. Entrarono in città, l'abbiamo già visto; poi salirono al piano superiore. Forse
oggi siamo capaci di entrare nella città, ma non sempre siamo capaci di guardare da una postazione
superiore, da una visione prospettica più alta.
Cosa significa per noi, come Chiesa e come singoli, contemplare la vita dalle postazioni
prospettiche del Regno di Dio? Com'è diverso il mondo quando lo si guarda dall'alto di un aereo!
Quante volte anche voi avrete provato le stesse emozioni! Vedere la vostra città dall'alto: all'interno
di quella grande macchia colorata c'è il quartiere dove abito, all'interno di quel quartiere c'è il
condominio, in quel condominio c'è la mia casa, in quella casa c'è la mia stanza, nella quale magari
ho pianto per un incidente di percorso che mi è accaduto. Dall'alto ci viene da sorridere: possibile
che io mi sia intristito per tanto poco?
Salire al piano superiore significa guardare la vita dalle postazioni del Regno di Dio, assumere la
logica del Signore nel giudicare le vicende della storia, assumere la logica di Dio che non è la nostra
logica. Significa allargare gli orizzonti fino agli estremi confini della terra.

La misura dei tempi lunghi


Dopo aver spalancato i cancelletti della nostra sinagoga per allargarli sino agli estremi confini della
terra - come si diceva prima - occorre non lasciarci sedurre dall'effimero né intristire nella banalità
del quotidiano, occorre introdurre nei nostri criteri di valutazione la misura dei tempi lunghi.
Salire al piano superiore significa questo.
Quanta tristezza ci provoca una parola che ci ha detto il vescovo o un confratello, quanta tristezza
per un piccolo sgarbo ricevuto, per una lettera arrivata tardi, per una telefonata ambigua. «Il
vescovo ce l'ha con me. Quel confratello ce l'ha con me». Per una Messa detta prima o dopo, per un
permesso non dato, per un certificato non vidimato, sono sorte tante tensioni, sono sorte piccole
rivalità.
Chiediamo al Signore e alla Vergine santa la grazia di salire con lei al piano superiore. Ciò
significa non comprimersi l'esistenza nelle strettoie del tornaconto, nei vicoli ciechi dell'interesse,
nei labirinti delle piccole ritorsioni vicendevoli.
Salire al piano superiore significa non deprimersi per i sussurri dei pettegolezzi da cortile,
pellegrini dello scandalo farisaico; significa non avvilirsi per un improvviso calo d'immagine, per
una figuraccia che abbiamo fatto, per un'umiliazione ricevuta, quando sembra che la vita se ne vada
in frantumi.

Fuori dai bassifondi della burocrazia


Stiamo ancora nei bassifondi, negli scantinati della vita spirituale: dobbiamo salire al piano
superiore anche noi, che qualche volta siamo un tantino burocrati, perché stiamo dietro un tavolo,
dentro una curia.
Salire al piano superiore per noi significa superare la freddezza di un diritto senza la carità, di un
sillogismo senza fantasia e senza estro, di un calcolo senza passione; significa superare la freddezza
di un logos senza sophia, d'un discorso senza sapienza e senza cuore. Significa non accontentarsi
dell'armamentario delle nostre piccole virtù umane, come se queste potessero comprarci il Regno di
Dio, mentre sappiamo che è il Signore che ci dà la forza di essere buoni e umili. Infatti il Signore
non ci ama perché siamo buoni, ma ci fa essere buoni perché ci ama.
Se la nostra istintiva docilità - perché siamo buoni, perché siamo mansueti - non diviene obbedienza
allo Spirito, se l'innata bontà non tocca le sponde della comunione trinitaria, non lambisce la
battigia della santissima Trinità, se le attese calcolate non trascendono verso i traguardi della
speranza ultramondana, se l'indulgenza congenita che abbiamo non si trasforma in perdono cristiano
- lo ripeto: se la nostra naturale indulgenza, la condiscendenza, la remissività, la dimenticanza
congenita, non attinge alle sponde del perdono cristiano - allora siamo sempre al pian terreno di una
abitazione le cui finestre non sono ancora scosse dal vento rinnovatore dello Spirito.

Preghiera a Maria, Donna del piano superiore


Desidero chiudere con una preghiera:
Santa Maria, tu sei un'inquilina così abituata al piano superiore che il Vangelo di san Luca ti
presenta sempre come la Vergine delle salite: verso la montagna per andare a trovare Elisabetta, in
salita da Nazaret a Betlemme per il censimento e per il Natale, a Gerusalemme con Gesù dodicenne,
fino al Calvario per condividere con Gesù il mistero della sua morte in croce. Salisti al piano
superiore con la Chiesa nascente, per attendere il dono dello Spirito e infine sei salita al cielo,
assunta nell'anima e nel corpo.
Tiraci fuori dalle infeconde bassure in cui ristagniamo malinconicamente e dalle quali siamo
incapaci di uscire. Forse anche dalle bassure del nostro peccato. Non c'è peccato, non c'è tristezza
spirituale da cui il Signore non possa farci risalire. Tiraci fuori anche dal sacrilegio di credere che il
nostro peccato sia più forte del perdono e dell'amore del Signore. Aiutaci a credere che possiamo
risalire dalle bassezze della vita passata, dell'uomo vecchio.
Tu che hai magnificato il Signore che «innalza gli umili», sollevaci, ti preghiamo, da uno stile
pastorale faccendiero, senza estro, da un'esperienza di preghiera solo richiesta dal copione, senza
soprassalti di fantasia, senza emozione. Riscattaci dall'appiattimento della nostra vita interiore a
livelli di banalità, dall'affanno delle cose che ci impedisce di elevarci a te, dalle ridicole manie di
protagonismo che ci sollecitano non alle scalate dell'impegno ma alle scalate della carriera.
Tante altre cose dovremmo chiedere alla Madonna. Dovremmo chiedere che l'olio degli infermi
messo nelle nostre mani sollevi il dolore degli uomini dai livelli rassegnati da “forza del destino” a
dignità di scheggia della croce di Cristo. E l'olio dei catecumeni, l'olio dei lottatori, ci aiuti a fare
una lettura sapienziale, come nel Magnificat, di tutti gli sforzi di liberazione di poveri e oppressi,
sforzi che oggi incurvano la schiena del mondo. Finalmente dovremmo chiedere che il sacro crisma,
che ci ha assimilati a Cristo, ci dia la nostalgia delle altezze, le tensioni audaci, sofferte, i traguardi
prestigiosi quasi sempre in salita, non i traguardi della carriera ma i traguardi dell'impegno.
Dovremmo chiedere di sentire il richiamo provocatore della nostra missione di sacerdoti, di profeti
e di re, anche quando il peccato ci deprime nella palude della tristezza.
Dovremmo sentirlo ribollire, il sacro crisma del nostro sacerdozio, sulla fronte, sulle mani, - sul
capo, per i vescovi - secondo la struggente verità delle parole di sant'Efrem: «Lo Spirito Santo ha
impresso con l'olio il suo sigillo alle pecore del suo gregge. L'olio è un vero e proprio specchio: da
qualunque parte osservo quest'olio vedo splendere in esso lo sguardo di Cristo». L'olio luccica come
uno specchio: nelle nostre mani i fedeli dovrebbero vedere riflesso il volto di Gesù.

III. ASSIDUI E CONCORDI NELLA PREGHIERA

Dopo essere entrati in città, dopo esser saliti al piano superiore, erano assidui e concordi nella
preghiera. Non occorrono molte spiegazioni per capire quali valori si nascondono sotto queste
parole.
Assidui e concordi. L'assiduità del cammino pastorale qualche volta si traduce nell'assiduità a
partecipare a incontri, ritiri, aggiornamenti, che il vescovo si sforza di organizzare. Se non si può
essere presenti con il corpo, perché malati, perché sofferenti, perché impediti, occorre essere
presenti con la cordialità della vita. Questa è l'assiduità.
E poi la concordia nella preghiera: pregare insieme con gli altri, non rifuggire dalle espressioni
comunitarie della preghiera. Ed essere assidui: nella recita del breviario, nella nostra preghiera,
nella lettura spirituale, nella meditazione, nella visita al Santissimo Sacramento.
Carissimi fratelli, coraggio. Probabilmente avete vissuto con malinconia una messa tra parentesi di
quelle che, ai nostri tempi, chiamavamo le pratiche di pietà. Forse, con altrettanta malinconia, vi
siete accorti che nei seminari oggi non si insiste tanto su questo. Posso dire che si stanno
riprendendo questi valori, anche all'interno dei seminari più moderni. Coraggio, perché sono quelli
gli strumenti che ci fanno diventare davvero sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
Assidui e solidali nelle scelte operative, senza sgomitare all'interno del nostro presbiterio: chi la
vuole cotta e chi la vuole cruda, chi dice di si e chi dice di no, chi spara a zero contro certe
iniziative, chi invece si mostra entusiasta.
Essere assidui e concordi nella preghiera significa anche comunione interpersonale, stima reciproca,
rispetto dell'altro, misericordia vicendevole nei giudizi. Sarebbe bello se, sulla nostra lapide,
potessero scrivere: “Ha detto sempre bene degli altri». Non si tratta di restare gregari, di essere
gregge anonimo, ma quando abbiamo espresso la nostra funzione critica, quando un'opinione,
ratificata da quella del vescovo, diventa scelta, via, avanti con coraggio! Chi sei mai tu? Pretendi di
rimanere negli annali del bollettino diocesano?

Insieme con Maria la Madre di Gesù


Maria, all'interno del cenacolo, sembra raccogliere e custodire i discepoli di Gesù, proteggendoli
con la sua tenerezza di madre. Sembra che sia li a tenerli d'occhio, a far loro coraggio, forse ad
interpellarli: «Come va? Come stai?”. È la crescita comunitaria, senza fughe all'indietro nella notte,
né fughe in avanti di giorno: sono valori forti e Maria, nel cenacolo, sembra «covarli» con tenerezza
di madre.
Emerge in questa icona quello che alcuni teologi chiamano la funzione ecclesializzante della
Madonna. Ed è proprio qui che si innesta la visione nuova del ruolo di Maria che in questi ultimi
anni sta decisamente «traslocando». Senza abbandonare le posizioni precedenti - è ovvio! - Maria
sta traslocando dalla costellazione Cristo alla costellazione Chiesa, alla costellazione Spirito, per
entrare nella galassia trinitaria, principio supremo della comunione.
Nel concilio, Maria viene chiamata «tempio dello Spirito Santo», anzi in latino è chiamata
Sacrarium Spiritus Sancti, non solo tempio ma tabernacolo. Un teologo medievale usa per Maria
un'espressione bellissima: “Totius Trinitatis nobile triclinium», Maria è il nobile triclinio su cui si
adagia la santissima Trinità.
Se la Chiesa è la propaggine della Trinità, se la Chiesa è l'espressione terrena della vita trinitaria -
più persone uguali e distinte che vivono la comunione a tal punto da formare un solo uomo, l'uomo
nuovo Gesù Cristo - Maria è anche il nobile triclinio della Chiesa. Per noi è colei che ci fa
sperimentare lo stare insieme nella convivialità delle differenze, perché siamo uguali ma anche
distinti.

Preghiera a Maria Sposa dello Spirito


Ecco allora la preghiera che vorrei fare a nome di tutti:
Santa Maria, Sposa dello Spirito, non farci mancare la tua sollecitudine materna perché i tratti del
volto della nostra Chiesa non abbiano a oscillare come riflessi dell'acqua mossa dal vento.
Aiutaci a ricucire gli strappi della tunica inconsutile del Figlio tuo, perché questa tunica inconsutile
preservi dal freddo le spalle del mondo. Ricomponi presto la linea di bellezza della nostra Chiesa
locale col dono dell'unità, nell'eleganza dell'armonia.
Fa' che l'olio degli infermi, messo nelle nostre mani, ci riconduca all'unità, non solo quando il
dolore fisico dissocia la prontezza dello Spirito dalla debolezza della carne, ma anche quando la
sofferenza derivante dalle lacerazioni comunitarie ci impedisce di sperimentare l'impagabile felicità
propria dei fratelli che sanno vivere insieme.
Fa' che l'olio dei catecumeni, l'olio dei lottatori, non soltanto ci aiuti a riannodare alle esigenti
utopie del Vangelo i nostri comportamenti così poveri di coerenza, ma ci renda più agevole il
“sollevamento pesi” dei nostri macigni spirituali, così che ogni pietra d'inciampo diventi pietra di
guado.
E fa' che il sacro crisma con il quale sciamiamo verso le nostre comunità parrocchiali, rinnovati
nella fiducia e nell'amore il giovedì santo, diventi davvero uno specchio che riflette il volto di
Cristo. Amen.

Cap. 6. CONFIGURATI A CRISTO CAPO E SACERDOTE

In forza della nostra ordinazione presbiterale siamo configurati a Cristo sacerdote. Il compito di
Cristo sacerdote è quello di ricapitolare attorno a sé tutte le realtà del cielo e della terra: san Paolo
adopera infatti il verbo mettere a capo, ricapitolare, in greco anakefalaiósasthai, in latino
instaurare, per dire che tutte le realtà fanno corpo intorno a lui che è il capo.
Sant'Agostino usa il paragone di una brocca di creta ridotta in cocci dal fulmine del peccato: le sue
parti sono disperse in ogni direzione, nord, sud, est, ovest, e presenta Gesù come il grande
ricapitolatore, colui che ricompatta tutte le realtà create disperse dal peccato, tutti i cocci della
brocca infranta.

Il nuovo Adam ricompatta l'umanità dispersa


Adam, il primo uomo che ricapitola la prima umanità, - dice sant'Agostino - compie il peccato e
sgretola l'umanità, la spacca disperdendola a nord, a sud, ad est, a ovest. Gesù, il nuovo Adam, -
conclude sant'Agostino leggendo quel nome come un acrostico - è colui che ricompatta tutte le
realtà create da nord, da sud, da est, da ovest. Infatti le lettere iniziali del nome Adam in greco
suggeriscono un gioco filologico: A come anatolé, che significa oriente, l'Anatolia, dove sorge il
sole; D come dysis, che significa delta, l'occidente dove il sole si immerge (da dyo, immergersi);
l'altra A come arktos, che significa nord; M come mesembrìa, che significa mezzogiorno.
Gesù è il nuovo Adam che ricompatta l'est e l'ovest, il nord e il sud, nell'unica persona, nell'unico
uomo, che è lui stesso. Il compito fondamentale di Gesù sacerdote è proprio questa ricapitolazione
di tutte le realtà nella sua persona, dentro di lui. Questo è il Signore Gesù.
Compito di noi sacerdoti, che siamo configurati a Cristo capo e ricapitolatore, non può essere che
questo: essere anche noi ricapitolatori, ricompaginatori. Nostro compito essenziale è mettere
insieme, compaginare: tutte le pagine sparse si compaginano attorno alla dorsale, attorno al capo,
che è Gesù Cristo.
Per essere ricompattatori, ricapitolatori, coloro che compaginano tutte le realtà create attorno a lui,
dobbiamo fare come ha fatto Gesù. Perché noi siamo configurati a lui, primo sacerdote per il mondo
e per la Chiesa. Vediamo di scoprire qualche segreto che serva a noi come modello, come spinta,
per diventare come Gesù, con assoluta fedeltà, anche noi sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.

La "V" del mistero pasquale


Gesù ha ricapitolato tutte le cose attorno a sé mediante il mistero pasquale. L'antichissimo inno
riportato nella lettera ai Filippesi presenta come una "V": c'è una linea in discesa:
«Cristo Gesù, essendo di natura divina,
spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce».
E c'è una linea in salita:
«Per questo Dio l'ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome».
La stessa verità la proclamiamo nel Credo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal
cielo, - ecco la linea discendente - per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine
Maria e si è fatto uomo, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto». A Gesù non basta
sfiorare la terra. Il mistero pasquale scende nelle profondità del nostro caos chiamato a diventare
cosmo (chaos significa sbadiglio, kosmos significa bellezza). Col mistero pasquale Gesù scende
nelle viscere della terra: «Morì e fu sepolto».
Poi comincia la salita: “Il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla
destra del Padre».
Ecco, questo è il mistero pasquale. Gesù ha operato la ricapitolazione di tutte le realtà attorno a sé
attraverso il mistero pasquale, attraverso il mistero della sua passione, morte e risurrezione, che ci
viene raccontato nel Vangelo in forma longior e in forma brevior.
Tutti e quattro gli evangelisti, infatti, hanno descritto la passione di Gesù; anzi, al dire di Charles
Harold Dodd, i Vangeli non sono che il racconto della passione e morte di Gesù più una
introduzione. Gli evangelisti riportano in forma lunga la passione, morte e risurrezione del Signore.
Ma Giovanni, oltre la forma lunga - Passio Domini nostri Jesu Christi secundum Joannem - riporta
anche una forma breve, una specie di sintesi della passione: proprio quella vogliamo meditare,
mentre ricerchiamo il segreto del nostro essere, come Gesù, sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
La passione breve secondo Giovanni
Nel Vangelo di Giovanni si dice: «Gesù... si alzò da tavola, depose le vesti, e, preso un asciugatoio,
se lo cinse intorno alla vita. Poi, versata dell'acqua in un catino, cominciò a lavare i piedi dei
discepoli. Poi riprese le vesti, sedette di nuovo, e disse loro».
Depose le vesti e riprese le vesti e sedette sono una chiarissima allusione pasquale, un evidente
riferimento al racconto della passione e morte e risurrezione di Gesù. In greco, infatti, i verbi
deporre e riprendere sono formati dalla radice lambàno, gli stessi verbi che Giovanni mette sulle
labbra di Gesù quando dice: «Poiché ho il potere di offrirla (di lasciare la vita) e il potere di
riprenderla di nuovo». Lasciare e riprendere le vesti, come lasciare e riprendere la vita. Anche qui
c'è un movimento a "V": è in sintesi il mistero pasquale.
Se avessimo più tempo, vorrei approfondire un particolare: Gesù depone le vesti, poi le riprende
ma, secondo il Vangelo, non depose l'asciugatoio, se lo tenne: Gesù è diacono permanente, è servo
a tempo pieno. Anche noi siamo diaconi permanenti: è strano che questa espressione sia riservata
solo a quelli che esercitano questa funzione senza diventar preti. Diaconi permanenti siamo tutti.
Nell'ultima mia ordinazione sacerdotale, - non dovrei metter le mie trasgressioni in pubblico -
proprio riflettendo su queste cose, davanti a tanti sacerdoti, quando hanno fatto il gesto di cambiar
la stola all'ordinando (quella da diacono si porta per traverso), ho suggerito: «Per questa volta non
mettetegli la stola diritta, lasciategliela così, di traverso: si ricorderà che deve rimanere ancora
diacono, diacono permanente, per sempre». Il prete non smette mai di essere diacono, servo: perché
Gesù, quando riprese le vesti, non si dice che depose l'asciugatoio che aveva preso.
In questa forma breve del racconto del mistero pasquale c'è anche un altro insegnamento per noi:
Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, si cinse l'asciugatoio, lavò i piedi agli apostoli, poi riprese le
vesti, sedette e incominciò a parlare. Si può incominciare a parlare - questo vale per noi - soltanto
dopo aver fatto il nostro servizio alla gente.
La lavanda dei piedi, come vedete, non è soltanto il racconto di un buon esempio di Gesù, come è
detto nel Vangelo: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete
lavarvi i piedi gli uni gli altri».
Non è solo un buon esempio: è la trascrizione, in chiave abbreviata, del mistero pasquale di Gesù.
Se Cristo, per ricapitolare intorno a sé capo tutte le cose, non ha esitato a farsi servo, anche noi
presbiteri, configurati a Cristo sacerdote, dobbiamo farci servi per ricapitolare tutte le cose intorno a
Gesù Cristo capo.
Userò anch'io la forma breve, limitandomi a illustrare tre verbi con alcune considerazioni fugaci.
Questi tre verbi sono: si alzò da tavola, depose le vesti e si cinse un asciugatoio.

I. «SI ALZÒ DA TAVOLA»


Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da
quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto
nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità:
è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia
che non parte da quella tavola.
Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di
origine controllata, come dire?, avrà la firma d'autore del Signore.
Ricordate quanto si è detto circa la Chiesa de Trinitate e ad Trinitatem, con la stazione intermedia
dell'eucaristia da una parte e del mondo dall'altra: se non partiamo dall'eucaristia la nostra è soltanto
un'attività faccendiera, saremo sempre super-oberati da mille cose, faremo si le opere della carità
ma senza la carità delle opere, come ci è stato ricordato nell'ultima Conferenza Episcopale Italiana,
quando ci è stato presentato il documento Evangelizzazione e testimonianza della carità.

L'eucaristia alla base della contempl-attività


Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui
partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni
impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.
Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e
poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contempl-attività, con due t, la
dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si
alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità
di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di
poter essere suoi intimi.
Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari
vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo,
diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose
senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento
profondo.
Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa,
abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario
tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono
qui io; non ti preoccupare». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto
e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un
abbraccio d'amore.
Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il
terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui,
lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».

Dobbiamo alzarci da quella tavola


Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale,
perché siamo bravi ad organizzare chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i
tossici, per i malati di Aids. Diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo
anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgono che non c'è sostanza, che non c'è
l'acqua viva, la gente se ne va.
Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola
ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il
tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.
Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre
prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella
Christi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.
La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e li dentro siamo anche bravi; ma poi non
ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del
caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in un modo o
nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte».
Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da
quell'intimismo ovattato dove le percussioni del mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non
penetra mai l'ordine del giorno che il mondo ci impone.
Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo.

II. «DEPOSE LE VESTI».


Non è solo una questione di guardaroba né un gesto casuale insignificante. Giovanni, che misura e
soppesa tutti i vocaboli, mette questo particolare perché senz'altro c'è sotto qualcosa. Ho già
accennato al parallelismo tra il deporre e riprendere le vesti e l'espressione di Gesù: «Per questo il
Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la
offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo».
Deporre le vesti nel linguaggio di Giovanni significa deporre la vita: Gesù offre volontariamente la
sua vita, diventa cioè il chicco di frumento che cade in terra, marcisce, muore, perché solo così può
sbocciare la nuova vita nella spiga.
Deporre le vesti significa perdere la vita, lasciarci la pelle: è la dimensione del sacrificio, la
dimensione della croce, che connota - deve connotare - anche il nostro impegno pastorale.

Non basta compatire


Durante la Quaresima, scrivo di solito sul settimanale diocesano una lettera ai miei diocesani: l'anno
scorso ho scritto a quelli che si sentono falliti, che perdono sempre il treno, a quelli che sono drop
out, cioè gettati fuori, agli sbandati, a quelli che non trovano più se stessi. Ho scritto anche a coloro
che soffrono nel corpo.
Quei destinatari erano diversi; mi sembra però che questa lettera esprima bene il pensiero che vorrei
esprimere ora. La richiamo perché possiate percepire quale sentimento interiore mi ha animato e
con quali disposizioni d'animo coloro che soffrono possono affidarsi. Tutti soffriamo, non soltanto
coloro che sono in carrozzella o hanno una sofferenza fisica. Soffrono anche coloro che hanno delle
piaghe morali, che sono depressi, avviliti, coloro che non ce la fanno più... anche tra noi, qualche
volta.
Perché veniamo ai piedi di Maria? A volte si viene nell'empito dell'entusiasmo, trasportati
dall'entusiasmo: siamo così felici che vogliamo raccontarlo a lei e veniamo al santuario. Certe volte,
invece, veniamo qui perché siamo sull'orlo della disperazione. Tutti comunque abbiamo qualche
sofferenza.
Nella mia lettera dicevo più o meno così: Non vi scrivo per consolarvi, anche perché so bene quanto
fastidio vi diano le declamazioni di coloro che, sentendosi sempre in dovere di spendere qualche
buona parola con voi, ricorrono ai prontuari dei più indisponenti fraseggi. - A volte è meglio stare
zitti con quelli che soffrono - Non è di compatimento che avete bisogno. Prima di tutto perché il
compatimento è una spartizione fittizia del dolore, poi perché vi toglie la fierezza di rimanere soli
sulla croce, infine perché rischia di fermarsi alla soglia delle parole.
Al paraplegico che sta inchiodato sulla sedia a rotelle, che sollievo può dare il sermone di
circostanza, fatto magari da chi dopo corre in palestra per una partita di basket? All'handicappato
che ti interpella sui grandi perché della vita e vuol rendersi conto delle ragioni misteriose che stanno
all'origine della sua sfortuna, che conforto possono recare i luoghi comuni tratti dai repertori della
compassione? A chi è ridotto all'impotenza da una malattia irreversibile, da un improvviso declino
della salute o da un fatale incidente sulla strada, e ti pone la scomoda domanda del che cosa ci sto a
fare io sulla terra?, quale aiuto possono dare le tue maldestre citazioni bibliche?
Davanti a chi soffre come voi, l'atteggiamento più giusto sembrerebbe quello del silenzio. Però
anche il silenzio potrebbe essere frainteso o come segno di imbarazzo o come tentativo di rimozione
del problema. Allora tanto vale parlarne, semmai con pudore, chiedendo scusa per ogni parola di
troppo.

Il coraggio di accettare il piano di Dio


Una parola di troppo potrà sembrare, per esempio, un segreto che vi confido sulle mie consuetudini,
con questa preghiera che recito ogni mattina:
Padre mio, io mi abbandono a te,
fa' di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa tu faccia di me
io ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto
purché la tua volontà sia fatta
in me e in tutte le tue creature.
Non desidero altro, mio Dio.
Rimetto la mia anima nelle tue mani,
te la dono, mio Dio,
con tutto l'amore del mio cuore,
perché ti amo,
ed è per me una necessità d'amore il donarmi
e rimettermi nelle tue mani
senza misura e con infinita fiducia,
perché tu mi sei Padre.
È una preghiera difficile, lo ammetto. Forse è stata difficile anche per Charles de Foucauld che l'ha
composta: questo brillante ufficiale di cavalleria, amante della vita, eppure spinto a fare un
cammino di conversione nell'aridità del deserto, non poteva mai immaginare che un giorno sarebbe
caduto assassinato da un beduino mentre era assorto in adorazione davanti al Santissimo
Sacramento. Ebbene, ciò che l'ha reso celebre non è stato soltanto il suo martirio, quanto quella
preghiera di abbandono.
Forse è una preghiera difficile anche per voi, che siete piagati nel corpo, che tremate a pronunciarla
ora che la prova vi è caduta addosso. Potrebbe essere anche una preghiera di comodo, sapendo che,
a ribellarvi, non cambiereste la vostra situazione, mentre, accettandovi, potreste cambiare in
preziosissimi assegni circolari per l'eternità le stigmate del vostro fallimento umano. Ma quando si
soffre è difficile fare di necessità virtù, se non viene una forza dall'alto. Al massimo ci si può
rassegnare stoicamente, col sarcasmo sulle labbra, che spesso è peggio della bestemmia.

Un posto riservato dietro la croce


Eccomi allora chiamato dal mio dovere di vescovo ad additarvi con fermezza lo scandalo della
croce. Dire che col vostro dolore contribuite alla salvezza del mondo può sembrarvi letteratura
consolatoria. Ricorrere alle frasi fatte, da occhi che vedono bene solo attraverso le lacrime può
essere inteso se non come un insulto gratuito, almeno come un ritrovato sterile della saggezza
umana.
Accennarvi che, in fondo, ognuno si porta dentro il suo carico di dolori e che tutto sommato non
siete così soli come sembra, potrebbe accrescere il vostro sdegno. Aggiungere che un giorno sarete
pure voi schiodati dalla croce può apparire uno scampolo di quell'eloquenza mistificatoria che non
convince nessuno.
Ma dirvi che sulla croce un giorno ci è salito un uomo innocente e che sul retro della croce c'è un
posto vuoto, dove un altro innocente è chiamato a fare compagnia ai rantoli di Cristo, appartiene al
messaggio inquietante e pur dolcissimo che un ministro della Parola non può né accorciare, né
mettere tra parentesi.
Quel posto sulla croce di Cristo è tuo, Ignazio, paralizzato per sempre, e di nessun altro. È tuo,
Ruggero, che ti trascini a tentoni per la casa e mugoli parole indistinte. Chiamalo il tuo Signore, è
un nome breve, non può non sentirti: è inchiodato dietro di te. Quel posto è tuo, Giuseppe,
sballottato da una clinica all'altra per un male incurabile - e hai solo trent'anni! - Non fare lo sbaglio
di rinunciare a quel posto. È tuo, Nadia, splendida bambina, non cederlo a nessuno.
Forse un giorno quel posto sarà mio, o lo è già da adesso? È solo l'esemplarità del vostro martirio
più grande che me ne rende agevole il tormento. Anche solo per questo vorrei dirvi grazie.
Grazie soprattutto perché, se è vero che dobbiamo «adorare e benedire Gesù Cristo che con la sua
santa croce ha redento il mondo», è altrettanto vero che, in cooperativa con lui, voi ci avete
comprato le gioie che fanno fremere il mondo. Con i vostri dolori, avete comprato le sue canzoni, le
sue attese di libertà, le sue esplosioni di luce, i suoi tripudi di vita, le sue ansie di festa senza
tramonti, le sue speranze di cieli nuovi e di terra nuova.
Sapete che vi dico? Il mattino di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro voi sarete più veloci di tutti e
ci precederete, come Giovanni; forse vi fermerete sulla soglia, per farci vedere «le bende per terra e
il sudario piegato in luogo a parte». Ed è l'ultima carità che ci aspettiamo da voi.
Queste cose ho scritto nella mia lettera, e credo possa aiutarci a riflettere. Deporre le vesti è
partecipare alla sofferenza di Gesù, come Gesù depose la vita. Non sono parole consolatorie, è
teologia viva: è il nostro amore per Gesù Cristo che ci fa sentire sacerdoti davvero configurati a lui
per l'ordinazione presbiterale e per la partecipazione più viva alle sue sofferenze fisiche e morali.
III. «PRESO UN ASCIUGATOIO, SE LO CINSE»
Gesù cinse l'asciugatoio. Forse è una civetteria, ma a me piace moltissimo l'espressione Chiesa del
grembiule, cioè Chiesa del servizio. Certo c'è anche la Chiesa della casula, la Chiesa della Parola e
del Lezionario: è bellissimo, quando il Vangelo viene portato in trionfo, magari con le fiaccole. La
Chiesa la si rappresenta sempre così: con il Lezionario, per l'evangelizzazione; con la casula, per la
liturgia. Invece la Chiesa che cinge il grembiule, con gli abiti tirati un po' su, sembra un'immagine
troppo ancillare, indegna della sua grandezza: invece è un'immagine bellissima, ed è ricordata nel
Vangelo.
Per l'ordinazione le suore del paese o gli amici ci hanno regalato una cotta, una stola ricamata in
oro, ma nessuno ci ha regalato un grembiule, un asciugatoio. Eppure è questo l'unico paramento
sacerdotale ricordato nel Vangelo.
La Chiesa del grembiule, la Chiesa del servizio, ci invita a metterci in un processo di conversione.
Durante il periodo quaresimale, invece di fare una lettera pastorale che difficilmente la gente legge,
quest'anno ho scritto un breve pensiero ogni settimana, sotto il titolo: Dalla testa ai piedi. Mi pareva
indovinato, come titolo, perché la Quaresima comincia con la cenere in testa e finisce con la
lavanda dei piedi.
Dalla testa ai piedi potrebbe sembrare un cammino ridotto a un metro e mezzo, due metri per i più
fortunati, invece è un cammino molto lungo, perché si tratta di andare dalla testa propria fino ai
piedi degli altri. È un processo di conversione e di servizio. Lo «shampoo» del mercoledì delle
ceneri indica la conversione interiore che dobbiamo operare, per farci cadere in ginocchio, il
giovedì santo, ai piedi dei poveri che dobbiamo servire.
Dalla testa ai piedi: ecco la Chiesa del grembiule, la Chiesa del servizio. Il Vangelo dice che Gesù
«si alzò e riprese le vesti», ma non depose l'asciugatoio: così il movimento a "V" del mistero
pasquale giunge alla sua nitidezza precisa.

Maria serva del Signore e degli uomini


Vorrei finire con un riferimento a Maria. Mi sembra che la Madonna ci dia una lezione straordinaria
circa il levarsi in piedi. Abbiamo già meditato su «Maria si mise in viaggio verso la montagna»,
sottolineando un participio importante, anastàsa, purtroppo dimenticato nella traduzione della CEI.
Maria allora, «alzatasi» anche lei, si mise in viaggio, affrontando il sacrificio della strada per
cingere l'asciugatoio, anche lei, e divenire serva in casa di Elisabetta. Subito dopo aver detto
all'angelo: «Eccomi, sono la serva del Signore», va a fare la serva della gente, la serva del popolo di
Dio.
Potremmo prolungare questa riflessione. Ma, in questo momento, ci basta chiedere a Maria, serva
del Signore e serva dei fratelli, che ci doni un pezzo del suo grembiule, che dal suo asciugatoio
ritagli un pezzo per noi, servi del Signore e servi dei fratelli.

Accanto a noi nessuno deve rimanere al freddo


Vogliamo rivolgerci in modo particolare allo Spirito Santo, perché ci dia tanta forza per proseguire
il nostro cammino di riflessione sul compito che abbiamo di essere sacerdoti per il mondo e per la
Chiesa. Possiamo invocarlo con la liturgia:
«Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato».
Mentes tuorum visita: potremmo tradurre: Vieni a fare una «visita pastorale». La sua sarebbe una
visita veramente pastorale: quelle che facciamo noi vescovi sono un po' troppo intasate di
atteggiamenti burocratici, di controlli. Se viene in visita pastorale, lo Spirito Santo viene a darci la
consolazione, spiritalis unctio; viene ad arricchire la nostra gola, la nostra voce, la nostra bocca,
viene ad arricchirci con la parola vera: sermone ditans guttura.
Un teologo molto bravo, che tutti conoscete, Vladislaos Boros, dice: «Vicino a noi, nessuno deve
rimanere al freddo». Vicino a noi Chiesa, il mondo non può rimanere al freddo. Insieme a tutto il
popolo di Dio siamo sacerdoti per il mondo: se il mondo rimane al freddo vuol dire che non siamo
Chiesa, vuol dire che non siamo abbastanza animati dalla passione per il mondo.
Nel pavillon missionnaire che sta qui accanto ho visto tanti libri, e ho visto una bellissima
proiezione sulla vocazione: parla con il linguaggio delle immagini, in modo molto convincente;
dura una decina di minuti, e vi consiglierei di andarla a vedere, magari in gruppi. Tra l'altro ho
comprato qualche libro missionario e un'antologia degli scritti del vescovo brasiliano don Pedro
Casaldàliga, che ha tante idee che possono sembrare paradossali, ma dice anche cose molto belle.
Un suo pensiero mi sembra convincente e ben in linea con quel che stiamo dicendo a proposito
della Chiesa missionaria, impegnata a diffondere il calore che ha dentro perché il mondo non
rimanga raggelato. Partendo dall'assioma latino che abbiamo studiato in teologia extra Ecclesiam
nulla salus (fuori della Chiesa non c'è salvezza), riconosce che dove c'è salvezza c'è sempre di
mezzo la Chiesa, in forme nascoste o palesi, ma inverte la frase e dice: «Oggi forse è più vero che
extra salutem nulla Ecclesia», come dire: se non c'è proclamazione e realizzazione di salvezza non
c'è neanche la Chiesa.
La Chiesa è stata istituita da Gesù Cristo come strumento di salvezza: senza il mondo - l'abbiamo
già visto - non avrebbe la sua ragion d'essere. Nel suo viaggio di ritorno verso la casa trinitaria la
locomotiva-Chiesa deve far sosta obbligatoria alla stazione del mondo; deve agganciare il carro del
mondo e portarlo nella patria trinitaria. Il mondo - capite bene - non va considerato come
antagonista della Chiesa o come elemento da guardare in termini di rivalità: è il mondo che Gesù
vuole salvare. Se la Chiesa non realizza questa salvezza non ha nessuna ragion d'essere: extra
salutem nulla Ecclesia.
Se non ci sono i segni della salvezza operata, predicata, realizzata, vuol dire che non c'è neanche la
Chiesa, o c'è una Chiesa che si dissolve. Ecco perché si dice nei confronti del mondo: “Accanto' a
noi nessuno deve rimanere al freddo», accanto a noi presbiteri il popolo di Dio non può rimanere al
freddo.

Esodo dalla mentalità individualista


Dopo aver visto la nostra conformazione a Gesù Cristo capo, vorrei ora considerare le conseguenze
della nostra conformazione a Gesù Cristo servo. Se volessimo veramente bene a Gesù Cristo,
basteremmo noi soli a dare calore all'esistenza così gelida del mondo. Vuol dire che noi dobbiamo
essere provocatori di coscienza di popolo, dobbiamo dirlo con franchezza.
Facciamo pure un esame di coscienza, una diagnosi sulla situazione delle nostre chiese. Non
abbiamo ancora acquisito una forte coscienza di popolo - che non significa coscienza democratica -
non siamo abbastanza convinti che siamo popolo di Dio e che, in forza del nostro battesimo, siamo
sacerdoti insieme con tutto il popolo. Anche il sacerdozio ministeriale ci abilita ad essere
sprigionatori di carica nuova, di nuova forza, perché la nostra gente, da popolo di straccioni
disperati, come erano gli ebrei nel deserto, si riconosca popolo prediletto, scelto da Dio come segno
e come strumento di salvezza.
Dovremmo essere essenzialmente provocatori di questa coscienza unitaria. Invece siamo un po'
come gli ebrei angariati in terra d'Egitto: non abbiamo ancora sperimentato la Pasqua. Qualche
volta, anche nelle nostre comunità, non abbiamo ancora vissuto l'esodo dalla mentalità
individualista. Come dire: continuiamo ancora a cuocere le cipolle d'Egitto, ciascuno nella propria
cucina.
Questo lo avvertiamo, a volte, anche nel nostro presbiterio, se ognuno va per conto suo. Lo abbiamo
detto più volte: se all'interno del nostro presbiterio non abbiamo la coscienza forte di essere
l'agenzia periferica della santissima Trinità, sarà molto difficile che questa coscienza pervada
l'anima della nostra gente.
Come il popolo ebreo ha preso coscienza di sé soltanto lungo le strade dell'esodo, noi non possiamo
continuare a impastar paglia e argilla sulle sponde del Nilo, in minuscole aziende a conduzione
privata; non possiamo continuare a portar mattoni per la costruzione di Pitom e Ramses, con piccoli
contratti individuali, con i nostri piccoli giri a responsabilità limitata, con le nostre solite preghiere.
Nonostante il vocabolario accettato, non ci sentiamo ancora popolo, non riusciamo a cantare epopee
collettive. Probabilmente io esagero un po', ma che questi sian paradossi è vero fino a un certo
punto: qualche volta, nei momenti difficili, sono la realtà che sperimentiamo.
Permettete che io tenti di diagnosticare i punti limite, gli estremi della nostra esperienza: non
possiamo ancora vantare passaggi comunitari del Mar Rosso, non abbiamo al nostro attivo vittorie
di popolo nella terra di Canaan. Non ci sono neppure idolatrie collegiali, questo è vero: non
abbiamo adorato il vitello d'oro, come il popolo ebreo nel deserto. Così non ci sono penitenze
pubbliche nelle peregrinazioni dei nostri deserti.
Resta vero che noi dobbiamo essere provocatori di una nuova coscienza di popolo di Dio, perché il
mondo, e la nostra Chiesa, non abbiano a patire il freddo accanto a noi.

Cap. 7. CONFIGURATI A CRISTO SERVO

Scelgo come travatura di questa riflessione, un'espressione che si trova nel prefazio della Messa
crismale del giovedì santo: «Egli (Gesù) con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che,
mediante l'imposizione delle mani, fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi (o Padre) che
nel suo nome,... servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i
sacramenti».
Siamo, dobbiamo essere, servi premurosi del popolo di Dio. Siamo condotti ora a considerare la
nostra conformazione a Gesù Cristo servo, dopo aver visto la nostra conformazione a Gesù Cristo
capo.
Desidero sottolineare tre concetti: il nostro essere servi, essere servi premurosi, essere servi
premurosi del popolo: perché il popolo che ci sta accanto non abbia a patire il freddo.

Essere servi
Gesù «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Siamo
servi del gregge, non padroni, non despoti, non tiranni. È probabile che ci sia un'accentuazione
pessimistica in queste espressioni: però, qualche volta, i segni di questo dispotismo noi li
esprimiamo nei confronti del gregge.

Il complesso del «reverendo»


Lo so, carissimi fratelli presbiteri, è difficile per noi vincere la sindrome del condottiero, la
deformazione professionaie del dignitario, la sicurezza sprezzante del notabile; forse siamo troppo
reverendi nelle nostre chiese, troppo ragguardevoli nell'ambito delle nostre città, troppo dotti nei
circuiti dei nostri impegni umani, per sentircela di condividere uno dei tanti sinonimi che ogni buon
vocabolario porta sotto il termine «servi». Prendete un Palazzi, uno Zingarelli qualsiasi, ed ecco
cosa c'è sotto il termine «servi», ecco quali sinonimi, quale nomenclatura viene snocciolata:
domestico, dipendente, cameriere, schiavo, sguattero, facchino, lavapiatti, uomo di fatica.
Siamo troppo reverendi, troppo dotti, troppo ragguardevoli, troppo notabili, per sentircela di
condividere fino in fondo uno di questi sinonimi. Siamo troppo assuefatti al ruolo di progettisti per
sopportare di essere relegati al compito di esecutori. Siamo troppo abituati al ruolo di maestri.
Gesù è il Maestro, ma è anche il Servo.
Essere maestri (magister, magis-stare) è stare un gradino più su: in questo momento io parlo stando
un gradino più su di voi. Essere servi però significa vivere in dimensione opposta: ministro (minus-
stare), stare un gradino più sotto.
Nonostante lo scialo di vocabolario che facciamo - ministri sacri, ministri ordinati, ministeri - si fa
molta fatica ad essere ministri: minus-stare è fare come Gesù, che si inginocchia davanti agli alluci
male odoranti dei discepoli.
Come si fa ad essere servi? Ci sentiamo troppo impiegati di concetto per vederci confinati alla
mansione di scrivani o di uscieri. Ci consideriamo troppo capaci di genialità creativa per accettare
un gioco di squadra elaborato su altri tavoli che non siano quelli della nostra ingegneria pastorale.
Quante volte, anche all'interno del nostro presbiterio, si configurano planimetrie pastorali cosiddette
comunitarie, però poi ognuno il suo progetto se lo fa per conto suo. Siamo troppo bravi come
impiegati di concetto, come architetti, per subire l'affronto di accettare un disegno fatto da altri.

La carriera o la diaconia
Abbiamo troppo vivo il senso della nostra partecipazione alla dignità di Cristo capo, per sentirci
fino in fondo «incaricati della diaconia di Gesù Cristo», come diceva sant'Ignazio di Antiochia
parlando dei vescovi; incaricati del servizio, secondo lo stile evangelico che abbiamo già
considerato. Come presbiterio, tutt'uno col vescovo, siamo incaricati della diaconia di Cristo, che
afferma: «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo; e colui che vorrà essere il
primo tra voi, sarà vostro schiavo».
Chi vuol essere il primo sarà il servo di tutti: sono parole che diciamo da tanto tempo e che, negli
anni di seminario, abbiamo sentito dire tantissime volte, all'interno delle conferenze spirituali, dei
ritiri, degli esercizi. Chiediamo incessantemente al Signore la grazia della schiavitù, che nessuno di
noi si senta proprietario del popolo che è di Dio, nessuno si senta il gestore delle sue sorti spirituali.
«Gestisco io, mi faccio carico io, mi prendo io la responsabilità, decido io per te». Queste non sono
forme di servizio ma di potere. Stiamo attenti: c'è anche una forma di potere molto raffinato, molto
aristocratico, che si infiltra nelle nostre scelte.
Nessuno di noi si senta manipolatore della coscienza degli altri, agente segreto delle scelte libere
della nostra gente, condizionatore delle sue opzioni. Si senta semplicemente servo, servo senza le
attenuanti della nomenclatura in uso presso la nostra raffinatissima civiltà. Servo, non
«collaboratore domestico», come si vuole oggi. Servo a tempo pieno, non a mezzo servizio. Servo
insonne dalla mattina alla sera e non con semplici prestazioni part-time. Servo amante degli ultimi
posti e non innamorato delle luci della ribalta.
Qualche volta si sprigionano anche nel nostro cuore sentimenti di amarezza, piccole invidie per un
posto non raggiunto, per un titolo che non ci è stato accordato, per una carriera che ci pare
stroncata. Come se noi dovessimo fare discorsi di carriera.
La nostra vera carriera è un'altra cosa: è la sequela di Gesù Cristo, felicissimi di essere rimasti servi,
preti del Signore nella nostra piccola parrocchia, che magari non conosce nessuno. Quando ci
chiedono: «Dove sei, parroco? Quanti abitanti ha la tua parrocchia? Così pochi?», siano 350 o siano
40.000 le anime che ci sono affidate, noi siamo servi. Sei in una parrocchia di montagna? Felice te
che puoi servire il Signore.
Diceva Luther King: «Se c'è una persona soltanto alla quale tu puoi dire buon giorno, hai già un
motivo valido per sopravvivere». Altro che il buon giorno, io do la salute del Signore, la grazia del
Signore a tante persone, e sono felicissimo di stare li dove il Signore mi ha messo, di essere arrivato
lì, e di non aver fatto quello scatto di carriera.
Siamo servi, ansiosi di collegarsi con gli altri servi, non per fare un sindacato di categoria o per
promuovere rivendicazioni salariali, ma per servire con efficacia e umiltà. Se il servo invece rifiuta
le planimetrie pastorali concordate con gli altri o si sottrae a precisi ordini di servizio, anche se
fatica per cento, è peggio di un dittatore.

Gli arnesi del servizio


Chiediamo al Signore la grazia di mantenere sempre nitidi gli arnesi del nostro servizio, che
vengono indicati nel bellissimo prefazio della Messa crismale: “servi premurosi del tuo popolo, lo
nutrano con la tua parola, lo santifichino con i sacramenti... e rendano testimonianza di fedeltà e di
amore generoso».
La Parola, i sacramenti, la testimonianza: ecco gli strumenti del nostro servizio. Sono la nostra
vanga, sono la nostra zappa, sono gli arnesi che il Signore mette nelle nostre mani perché possiamo
dissodare il terreno e perché davvero il popolo di Dio che sta accanto a noi non abbia a patire il
freddo.
Il servizio della Parola
La Parola risuoni limpida sulle nostre labbra, soprattutto risuoni vera, senza finzioni, non inquinata
da sofismi umani, da ricercatezze culturali, da interpretazioni di parte, da riduzioni di comodo.
Risuoni tagliente, anche quando si ritorce come un boomerang contro di noi, perché non siamo
abilitati a dire la Parola di Dio solo se trova verifica o adempimento nella nostra vita. Guai se al
nostro popolo dovessimo presentare soltanto la Parola di Dio che viene realizzata nella nostra vita:
presenteremmo una Parola molto decurtata. Anche se si ritorce contro di noi, anche quando colpisce
per primi noi, la Parola di Dio dobbiamo pronunciarla tutta intera.
La Parola deve risuonare vera sulle nostre labbra, perché la gente possa dire: “Quello crede
veramente a quel che dice». La gente si accorge subito se noi facciamo la sceneggiata, quando noi
parliamo per riporto, se diciamo cose che non toccano la nostra esistenza.
Chiediamo al Signore di essere noi stessi i primi discepoli della sua Parola. Risuoni soprattutto
questa Parola di Dio essenziale, profetica, libera, dopo che è stata lungamente cercata nella
preghiera, nello studio e nel sacrificio.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sta molto a cuore: ricordiamoci che la Parola di Dio non si
colloca sul prolungamento dei ragionamenti umani, della prudenza umana, della logica umana; la
Parola di Dio è «altra», è diversa, è uno stacco, non è la pròtesi della nostra prudenza carnale. La
Parola di Dio è altra, è diversa, sconvolge, turba e rasserena.
Noi a volte cerchiamo delle cerniere, cerchiamo di attutire la forza d'urto della Parola di Dio, per
incastrarla un po' alle giunture della prudenza carnale, della prudenza umana. A volte facciamo dei
discorsi che sono assurdi per noi credenti, dei discorsi che potrebbero fare i filosofi del mondo, i
profeti del mondo, discorsi che sono veramente il prolungamento della logica umana.

Il Vangelo senza sfumare le finali


Il diverso, il novum, molte volte non lo esprimiamo perché abbiamo paura, abbiamo paura che ci
prendano per matti, abbiamo paura di passare per ridicoli. I dotti, quelli che la sanno lunga, quelli
che ci trattano con sufficienza, ci fanno paura. Per cui noi, proprio per essere contigui con la loro
mentalità, facciamo delle riduzioni in scala, «sfumiamo le finali», come ci insegnavano in seminario
per il canto gregoriano.
Noi sfumiamo le finali ai paradossi del Vangelo. Anche dove la Parola del Signore è radicalmente
nuova, qualche volta diciamo che questo appartiene al linguaggio paradossale di Gesù.
Attenzione. La Parola di Dio, dopo che l'abbiamo ricercata nella preghiera perché non sia la parola
nostra, dopo che l'abbiamo ricercata nello studio approfondito, responsabile, cosciente, dopo che
l'abbiamo ricercata nel sacrificio, dobbiamo avere il coraggio di presentarla tutta intera e di dire i
paradossi del Vangelo così come suonano, senza sfumature di comodo. “Se uno ti percuote la
guancia destra, tu porgigli anche l'altra. Io vi dico: Amate i vostri nemici. Fate del bene a quelli che
vi odiano. Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i
pubblicani?”.
È scritto: «Amate i vostri nemici». Come si può discutere della pace o della guerra, della lotta e
della difesa violenta o non violenta? Che mortificazione, carissimi fratelli, vedere che noi «profeti e
figli di profeti» attenuiamo la forza prorompente del Vangelo, facciamo degli accomodamenti, delle
edulcorazioni di comodo sulla Parola di Dio.
La Parola di Dio dobbiamo sentirla vibrare prima sulla nostra carne, dobbiamo metterci sotto accusa
noi per primi, dobbiamo lasciarci soggiogare e afferrare noi per primi dalla Parola del Signore:
allora potrà prorompere profetica all'interno delle nostre assemblee.
Poco importa che altre persone ci facciano naufragare nel sorriso della sufficienza. Attenzione:
anche al di fuori della Chiesa, in altri giardini fuori dell'orto cristiano, ci sono dei profeti che vanno
riscoprendo le straordinarie ricchezze della nostra miniera cristiana, che parlano di non violenza, di
non violenza attiva, che parlano di perdono, che parlano di solidarietà. E noi, che siamo i titolari di
questa miniera, facciamo delle manipolazioni per sintonizzare la Parola di Dio con la logica del
mondo?
Il servizio sacramentale
Oltre la Parola ci sono i sacramenti, con i quali alimentiamo le speranze del mondo, perché nessuno
vicino a noi abbia a patire il freddo. I sacramenti sono gli strumenti del nostro ministero, per essere
servi premurosi del popolo del Signore, strumenti preziosi che dobbiamo mantenere nitidi, come la
vanga del contadino o la pialla del falegname.
I sacramenti siano celebrati come momenti di amore, come gesti culminanti di un traboccamento di
fede, non con l'anima del funzionario che agisce su commissione - qualche volta diamo questa
impressione - col medesimo assorto stupore con cui Mosè operava e contemplava le meraviglie di
Dio, magnolia Dei, durante le peregrinazioni nel deserto.
Ho detto: i sacramenti siano segno di un traboccamento di amore. Mi vengono in mente certe nostre
abitudini, come binare, persino trinare quotidianamente e quatrinare la domenica. A meno che non
si sia proprio presi per la gola, in casi disperati, queste abitudini sono veramente il culmine di un
traboccamento d'amore? Se è il momento culminante della nostra vita presbiterale, non può
diventare un gesto banale, gelido, meccanico, ripetitivo, senza slanci. Come si fa a banalizzare nella
ripetizione assurda, giornaliera, i nostri sacramenti quasi concessi su commissione? Dobbiamo
rivedere davvero anche le nostre posizioni.

Il servizio della testimonianza


Infine deve cadenzare i ritmi del nostro servizio la testimonianza della vita, una vita povera. Questa
non è la solita predica che fanno i vescovi: è la predica che detta l'ascetica cristiana. Lo
sperimentiamo tutti che la gente non crede a tante cose nostre, ma alla povertà sì. Starei per dire: il
mondo, i lontani, non credono tanto neanche al nostro celibato, perche pensano che, in fondo,
ognuno di noi abbia una sua vita sottobanco. Non ci credono perché sembra impossibile per la loro
mentalità: un mondo così assurdamente infognato, con tanti problemi di sesso, immerso in questa
logica del godimento e del piacere, non crede che ci possano essere delle persone che impegnano
tutta la vita in un servizio puro per Dio e per i fratelli.
Tutti però si accorgono se un prete è povero o se è attaccato al denaro, se un prete vive per la
parrocchia o fa tutto per i suoi interessi. La gente crede alla vita povera dei sacerdoti, alla vita
povera.
L'estate passata sono stato in Africa, nell'Etiopia meridionale, a predicare un corso di esercizi
spirituali alle suore missionarie italiane. Mi sono incontrato davvero con la vita povera della gente.
Ero stato già in altre parti nel Terzo Mondo, nell'America Latina, nell'Africa Centrale, però quello
che ho visto li mi ha impressionato. Un vescovo intrepido, mons. Armido Gasparini, bolognese,
comboniano, di 77 anni, per una settimana mi ha accompagnato in tutte le missioni, facendo fino a
700 km in un giorno: dovunque passava faceva il giro dei mercati per portare qualcosa ai suoi
missionari. Alla sera, nelle missioni, c'era un po' di pane, delle banane e “il formaggino, perché ci
sei tu stasera».
Ho visto la povertà della gente: 110 dollari l'anno il reddito medio pro capite. Non al mese, alla
settimana o al giorno, come da noi. Poco più di 100 dollari l'anno: quanto è costato un minuto di
permanenza di uno solo dei marines durante la guerra del Golfo. Poi è proibito ribellarsi, perché si è
demagoghi, perché questi raffronti non vanno fatti. È chiaro che non vanno fatti: disturbano la
digestione, la buona coscienza.

Testimoni poveri, obbedienti e casti, senza ambiguità


La povertà del mondo impegna la nostra testimonianza. Non dovremmo rivedere certi nostri
moduli? Ecco la testimonianza della povertà, la testimonianza dell'essenziale: la gente deve vedere
che noi siamo sobri, che non si corre spasmodicamente all'ultimo tipo di macchina, all'ultimo tipo di
computer o di hi-fi... Quello che serve sì, ma con attenzione.
La nostra povertà è anche questo: una vita scarna di retorica, amante della semplicità, lontana dalle
lusinghe della carriera, desiderosa soltanto dell'unica affermazione del Cristo Signore del quale noi
indossiamo la livrea. Noi siamo i poveri, i servi di Gesù, indossiamo la sua livrea.
E una vita obbediente. Si è servi premurosi del popolo di Dio con una vita obbediente. Che non si
esprime con allineamenti supini agli ordini del capo di turno: l'obbedienza non è questo!
Obbedienza viene dal latino ob-audire, udire stando di fronte. Di solito non si obbedisce in
ginocchio, prosternati per terra, si obbedisce stando di fronte, come ha fatto Maria. Obbedire col
gaudio di chi si diverte a seguire le orme lasciate dai passi di Gesù, come fanno i bambini quando
sgambettano per mettere i piedi sulle orme lasciate dal padre. Questa è l'obbedienza: camminare
sulle orme di Gesù, uomo libero che fu obbediente fino alla morte.
Povertà è anche una vita pura che rifugga dalle ambiguità, dai compromessi, dai sotterfugi; una vita
che accetta la rinuncia, anche la rinuncia di una donna, non tanto per esercitare l'ascetica, ma per
esprimere una profezia. Povertà è vivere questa vita senza macerazioni, senza i ripensamenti
malinconici di chi, furtivamente, si riprende in piccole dosi compensatorie ciò che un giorno ha
donato in un empito di generosità.
Non facciamo leva sulla rinuncia: noi non ci siamo sposati non per esercitazioni ascetiche, perché
facciamo dei sacrifici, così il Signore ci dà dei meriti maggiori e forse arricchisce di efficacia la
nostra azione. Non è per questo. Non è tanto per ascetica, quanto per profezia.

“Cantus firmus» per la polifonia del mondo


In una pagina stupenda, Dietrich Bonhoeffer parla ad un monaco cattolico paragonando i voti di
povertà, di obbedienza e di castità, con il cantus firmus all'interno del concerto del mondo. Chi si
intende di musica sa bene che in polifonia cantus firmus è la melodia portante, quella che sostiene il
resto. Bonhoeffer vuol dire perciò che i consacrati sono abilitati a cantare la melodia portante nel
concerto del mondo; gli altri, gli sposati, coloro che vivono altre esperienze di vita, sono chiamati
ad intrecciare intorno a questa le melodie di contorno, che abbelliscono e completano la polifonia.
Ma se il cantus firmus cala di tono, ruzzolano tutti gli altri.
Cerchiamo di mantenere saldo il nostro cantus firmus perché nessuno cali di tono intorno a noi. I
grandi cantanti, quando viaggiano e non possono disporre dell'orchestra, si portano registrata la
cosiddetta base musicale per farsi «accompagnare» nei loro esercizi. Se la base musicale stonasse,
per un difetto o per un guasto, stonerebbe anche la modulazione del tenore, per quanto bravo. Con
la nostra povertà, con la nostra obbedienza, con la nostra castità, vogliamo indicare al mondo il
traguardo verso cui puntare.
Non facciamo spericolati esercizi di ascetica, ma vogliamo dire agli sposi che ci guardano: “La
vostra esperienza è la più bella e la più grande che si possa vivere. Io però non mi sono sposato per
indicare anche a voi che c'è un amore più grande dell'amore coniugale; per essere segno dell'amore
più grande - che è Dio - nel quale confluiranno tutti i torrenti dell'amore umano».
Lo stesso vale per la nostra povertà. Vorremmo poter dire agli uomini: «La ricchezza è buona, non è
vero che il denaro è lo sterco del diavolo; però c'è una ricchezza ancora più grande che è il Signore,
e io che sono povero e faccio voto di povertà voglio indicartela ed essere segno di libertà interiore
per tutti».
E per l'obbedienza, dovremmo dire: «Non c'è cosa più grande della libertà personale, ma c'è un
valore ancora più grande: uniformare la nostra volontà alla volontà di Dio. Obbedendo al mio
vescovo e facendo voto di obbedienza, non faccio un atto di vassallaggio verso una persona, ma
voglio indicare che è una cosa straordinariamente bella aderire alla volontà di un altro vedendovi il
segno della volontà di Dio».

La passione di servire
Essere servi premurosi significa avere una forte passione sacerdotale, avere «il brivido della
passione». La nostra premura indica l'insonnia per il Regno, la sollecitudine per la causa del
Vangelo, la sofferenza perché il Padrone della parabola, sempre in viaggio, tarda a tornare, la
preoccupazione per il rallentamento dei ritmi di servizio.
Una volta iniziai la visita pastorale in una cittadina della mia diocesi parlando di queste cose, e
dissi: “Dovremmo vibrare per il Regno di Dio, dovremmo avere il brivido della passione, come
diceva Gramsci». Mi andò bene per quella sera, ma il giorno dopo arrivarono le prime lettere di
protesta: «Una volta i vescovi citavano i Padri della Chiesa. Dove siamo arrivati? Adesso si cita
anche Gramsci”. A me sembrava opportuno riportare quelle parole, pur rivolte a compagni di partito
che non vibravano abbastanza di passione, in diverso contesto (come andò a finire lo vedremo
un'altra volta). Resta vero che alla nostra premura è legato questo “brivido della passione».
Ancora Dietrich Bonhoeffer, in una bellissima poesia, pone in bocca a Mosè morente e non ancora
entrato nella terra promessa una preghiera che mi piacerebbe potessimo tutti pronunciare nell'ultimo
momento della nostra vita:
(Signore),
tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l'ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta.
Reggimi, prendimi; il mio bastone s'incurva,
preparami la tomba, o fedele Iddio!

Il mio bastone s'incurva: una preghiera che è anche un augurio, perché anche noi, come Mosè, alla
fine dei nostri giorni possiamo sentire l'intima soddisfazione di aver servito premurosamente il
nostro popolo.

Cap. 8. SOFFRIRE LE COSE DI DIO E SOFFRIRE LE COSE DELL'UOMO

Continuando la nostra riflessione su come essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo, vorrei
intitolare questa meditazione: soffrire le cose di Dio e soffrire le cose dell'uomo. Se, in forza
dell'ordinazione presbiterale, siamo stati conformati a Cristo capo e a Cristo servo, dobbiamo
comportarci «in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto», come dice san Paolo.

Pescatori di tutti gli uomini


L'abbiamo già detto: se la vocazione ci vuole sacerdoti per il mondo, nessuno può rimanere escluso
dai nostri interessi pastorali: siamo sacerdoti per l'ecumene, per tutti. Non c'è marocchino, o
maomettano, o buddista, o ateo, o miscredente, che possa essere lontano dalle nostre attenzioni.
Da quando, insieme con Pietro, siamo costituiti «pescatori di uomini», nessuno dovrebbe essere
escluso dalla nostra rete. Nell'episodio della pesca miracolosa, quando il Signore risorto invita
Pietro, sfiduciato per aver pescato inutilmente tutta la notte, a gettare nuovamente le reti,
l'evangelista annota che, aiutato dai compagni, l'apostolo «trasse a terra la rete piena di
centocinquantatre grossi pesci”. Quel numero non è messo a caso: a Giovanni piace giocare con i
numeri. Una delle interpretazioni plausibili ricollega quel numero alla «tavola dei popoli» riportata
nella Genesi e all'ecumene di Pentecoste, elencata negli Atti degli Apostoli: «Siamo Parti, Medi,
Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della
Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e
proseliti, Cretesi e Arabi». Sommando i popoli di quelle due importanti pagine si giunge proprio a
153. Nel Vangelo si sottolinea, perciò, che Pietro è costituito pastore, o «pescatore», di tutti i
popoli: nessuno può sottrarsi al suo compito missionario, al suo compito apostolico.
Ciò vale anche per noi, sacerdoti per il mondo: sia che ci trasferiscano in Cina, sia che si vada in
Marocco, sia che si vada tra gli Eschimesi, dobbiamo sentire la nostra presenza di presbiteri
mandati a consacrare il mondo.
Teilhard de Chardin, nel suo libro Messa sul mondo, racconta di essersi trovato, nel corso d'una
spedizione scientifica sulla catena dell'Himalaya, privo del pane e del vino per celebrare l'eucaristia.
Ciò lo portò a riflettere: il pane e il vino non sono che “frutti della terra e del lavoro dell'uomo»,
elementi rappresentativi di tutte le altre realtà cosmiche. Davanti alle realtà cosmiche, quei monti
maestosi, il mondo che contemplava dall'alto, ecco il nuovo offertorio per la Messa sul mondo.
Teilhard, che era sacerdote e gesuita, sente così la sua funzione sacerdotale: «Ricevi, Signore,
quest'ostia totale che la creazione, mossa dalla tua potenza, ti presenta all'alba del nuovo giorno».
Un'ostia totale: non quella di pane, che rappresenta la natura con poteri delegati, ma quella
cosmica, di tutti gli elementi «deleganti», le montagne, i fiumi, le vallate, il cielo, le nubi, il sole che
sorge.
Ecco cosa vuol dire essere sacerdoti per il mondo. È una cosa bellissima, che non dovrebbe lasciarci
dormire. Come essere degni di tale vocazione?

I. PATI DIVINA: LA PASSIONE PER IL REGNO


Pati divina, soffrire le cose divine, è un'espressione di san Tommaso; per simmetria divideremo la
riflessione in due momenti, aggiungendo pati humana: soffrire le cose divine e soffrire le cose
umane. Anzitutto cerchiamo di capire cosa vuol dire soffrire le cose divine.
A furia di voler «vincere le passioni», come ci hanno insegnato in seminario i nostri padri spirituali,
abbiamo finito col perdere di vista, fino a spegnerla, la passione per il Regno. Dentro di noi non ci
sono più soprassalti di gioia, non abbiamo più brividi. I sogni e le forti idealità, che pure ci hanno
nutriti per tanti anni, adesso li ripudiamo, quasi fossero malattie infantili.
Questo è brutto, è un peccato.
Non ci entusiasmiamo più, non ci vengono più le lacrime agli occhi per le cose grandi, belle, nobili,
del Regno di Dio. Siamo diventati freddi, un po' duri. Abbiamo eliminato ogni fuga dalle logiche
standardizzate: le arrampicate, le sporgenze utopiche, ci sembrano esercitazioni adolescenziali; ci
sovrasta il linguaggio misurato, siamo compassati, siamo diventati «intelligenti», ci affascina cioè il
mito dei piedi per terra.
L'entusiasmo, la voglia di andare oltre la scontata «prudenza» carnale, li classifichiamo come
romanticismo pastorale. Ci viene da sorridere dei nostri slanci passati, se ci capita di trovare, nel
nostro carteggio, gli appunti spirituali di quando eravamo in seminario, giovani, suddiaconi o
diaconi. Anche nel nostro presbiterio qualche volta compatiamo l'impeto, l'entusiasmo, la focosità
ingenua dei più generosi. Abbiamo sempre una parola a portata di mano per spegnere l'entusiasmo
mettendone in guardia «le vittime», come si trattasse di un eczema giovanile.

Vivere da innamorati
Non soffriamo più le cose divine. Pati divina per noi deve significare innamorarsi di Gesù Cristo.
So bene che non sono la persona più adatta a dire queste cose, specialmente parlando con dei
sacerdoti che hanno consumato la vita innanzi al tabernacolo, toccando il Corpo e il Sangue del
Signore, parlando delle sue meraviglie. Sono solo un fratello tra voi, che si mette in ascolto di una
voce che prorompe – provocata attraverso la mia - e della quale io per primo voglio diventare
discepolo.
Innamorarsi di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo
impegno umano e professionale su di lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i
progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il suo carattere, sempre in
funzione della sintonia con lei. Cosa non fa, ad esempio, un uomo per la sua donna, perché ha
impostato la sua vita su di lei? Osservando la vita di tanti nostri amici, dei nostri compagni di studi,
ci accorgiamo come l'amore totalizzante investe non soltanto l'aspetto della loro affettività, ma
trascina nel suo vortice i giorni, le notti, il riposo, il lavoro, la festa, la ferialità, la gioia, il dolore, le
delusioni, le speranze. È un investimento totale.
Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della
nostra vita. Per noi il Signore non è una fascia, una frangia, un merletto, sia pure notevole, che si
aggiunge al panneggio della nostra esistenza. L'amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità,
è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore, magari col compenso maggiorato per lo straordinario, con
Cristo non è ammissibile; un servizio a ore saprebbe di mercificazione.
Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza
diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze
più radicali e più coinvolgenti del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero la vita intorno al Signore
Gesù, perché la nostra esistenza, come diceva Dietrich Bonhoeffer, diventi «una esistenza
teologica».

La meditazione non è come la coramina


Anche se il richiamo rischia persino la banalità e provocherà in qualcuno il sospetto che manchi di
fantasia, dobbiamo ripetere che, senza la meditazione del mattino, lunga, calma, davanti al
tabernacolo, ci si illude di lavorare per il Regno. Chi ha l'età che ho io - non è l'età degli anziani ma
neppure dei giovani - questo lo sa e l'ha sperimentato. Se me l'avessero detto trent'anni fa, avrei
pensato che era «una buona esortazione», un po' di coramina distribuita dal padre spirituale: invece
devo dirvelo con l'esperienza, con i segni, le stimmate, sulla pelle: senza la meditazione del mattino
ci illudiamo di lavorare per il Regno, senza l'alimentazione della preghiera programmata, prevista
anche nella sua estensione, non lasciata all'occasionalità, la nostra spiritualità sarà solo appariscente,
come la bellezza di certi bouquet di fiori che poi ti accorgi che sono fiori finti, fanno bella mostra di
sé ma non profumano.
E la gente se ne accorge subito. Non possiamo bluffare con i fedeli: se ne accorgono e ce lo dicono
senza mezzi termini, se crediamo sul serio o se facciamo il mestiere. Ricordate la donna del
Vangelo che vuole toccare una frangia del mantello di Gesù: spintona, sgomita e finalmente arriva a
toccare il mantello e guarisce. Sant'Agostino fa un commento: c'erano forse altri malati, altre donne
che soffrivano della stessa malattia, stavano intorno a Gesù ma non si avvicinarono a toccare quella
frangia per guarire. Turba premit, illa tangit: la turba spintona, sgomita, pigia da tutte le parti, solo
lei «tocca» Gesù. C'è differenza tra premere e toccare. Forse noi premiamo Gesù, lo spintoniamo, lo
schiacciamo con tutte le nostre ritualità, con tutti i nostri gesti, con tutte le nostre prediche, ma non
lo «tocchiamo». La gente si accorge subito se noi Gesù lo tocchiamo davvero, oppure lo
spintoniamo invano.

Non c'è amore senza sofferenza


Pati divina significa anche soffrire le sofferenze dell'amore, i patimenti dell'amore, perché chi ama
soffre. L'amore non è solo delizia, non è solo celestiale abbandono senza morsi crudeli, senza
crocifissioni. Non c'è amore per Gesù Cristo senza sofferenza.
Se non ci afferriamo a tutto l'armamentario dell'amore, a tutti gli strumenti che tengono desto
l'amore per Gesù Cristo, ci condanniamo a una insopportabile mediocrità: non saremo più la
sentinella incaricata di scrutare l'aurora, ma ci adatteremo a orizzonti da cortile. E alla gente, che ha
diritto di essere servita secondo scrupolose tabelle alimentari, non saremo in grado di offrire il pane
che sa di grano, né il vino che allieta il cuore degli uomini. Saremo bravi, faremo sussultare la
nostra gente di letizie estemporanee, la terremo su, ma non la aiuteremo ad arrivare al cuore di Dio.
Non voglio insistere su questo, ma un accenno non si può evitare. Le cose che vi sto dicendo le
soffro su di me, le dico prima per me: c'è una persona che ti chiama, un altro che ti interpella, il
telefono che trilla, l'agenda intasata di appuntamenti; c'è il citofono, c'è il fax, c'è tutto un mondo
che ti impedisce di entrare in rapporto con Dio. E tu rimandi. Dovresti celebrare l'Ora media; passa
mezzogiorno: «La dirò alle tre». Passano le tre: «La dirò stasera». E la sera dici effettivamente
anche l'Ora media, giusto per conservarti la targhetta di «fedelissimo al breviario». Ma questo non
ha più il sapore genuino della preghiera vera.
La recita quotidiana del rosario, una minore superficialità nella recita dell'ufficio divino, senza
rimandarlo all'ultimo momento, senza farlo solo «perché bisogna tranquillizzarsi la coscienza».
Dobbiamo stare attenti: non vi parlo come predicatore ma come amico, come un fratello che
insieme con voi subisce i contraccolpi della vita vertiginosa che stiamo conducendo.

Il rischio di amori surrogati


Pati divina, soffrire le cose divine significa avere alla base di tutti i nostri gesti e le nostre scelte
l'innamoramento profondo di Gesù Cristo. Quindi la recita del breviario, il rosario, la lettura
spirituale, la visita al Santissimo Sacramento, non sono vecchia ferraglia da mettere in solaio: sono
segni ancora validi di amore vero per il Signore, e se vengono a mancare inesorabilmente vengono
surrogati da altri amori: per una donna, per la propria immagine, per la carriera, per il denaro.
Vorrei dire una parola anche per ciò che riguarda la riscoperta e lo studio sistematico della Parola di
Dio. Pati divina significa certamente anche togliere dal cassetto la lettera che Dio ci ha inviato e
che, magari, non abbiamo neanche dissigillato, significa tener dietro all'aggiornamento teologico
con qualche rivista seria, significa impegno nel seguire l'evolversi della dottrina morale, della
dottrina biblica, della dottrina teologica. Queste cose non devono apparirci un lusso aggiuntivo che
dà un po' di charme alla nostra cultura. No. È uno dei doveri presbiterali più sacrosanti, che
richiedono sacrifici e costanza, di cui dobbiamo rendere conto a Dio e alla storia.
Noi infatti non annunciamo parole nostre, né siamo divulgatori di ricette sapienziali umane.
Dobbiamo costatare che c'è molta superficialità in qualcuno. Molte volte quello che dovrebbe essere
una diaconia diventa un mestiere, svolto per giunta senza un minimo di professionalità. Attenzione,
carissimi fratelli e amici, il Signore ci ha scelti come strumento di annuncio della sua Parola.
Secondo un teologo contemporaneo, «l'uomo è il terreno sul quale chiunque sa parlare di Dio deve
essere ascoltato». È una frase contorta sintatticamente, ma è molto bella: ma perché un discorso
tanto importante possa essere ascoltato, bisogna che chi lo fa sappia parlare di Dio, e per poterlo
fare bisogna vivere di lui. Coraggio quindi: pati divina.

II. PATI HUMANA: LA PASSIONE PER L'UOMO


Oltre alla grazia di soffrire le cose divine, dobbiamo chiedere al Signore la grazia di soffrire le cose
umane, pati humana. Nel brano della lettera agli Efesini che abbiamo già ricordato, san Paolo esorta
a comportarsi «in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine
e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore».
Dovremmo metterci in atteggiamento costante di verifica: cosa farebbe Gesù al mio posto, in questa
circostanza? Facciamo in modo che, nel nostro comportamento di individui e di Chiesa, appaia di
più la benignità del volto di Cristo. Dobbiamo diventare più umani.
«È un prete umano» mi sembra l'elogio più bello che la gente può fare di noi. Invece a volte ci
rimproverano durezza di stile, arroganza di tratto, qualche volta anche violenza di vocabolario,
eccessi di autorità, scrupolosità da burocrati, inflessibilità di decisioni «perché dobbiamo salvare i
principi», ritardi nel capire le debolezze del cuore, lentezza nell'entrare nei problemi comuni,
lontananza siderale dalla fatica quotidiana del vivere. Com'è triste la vita per tanta gente. Quanti
problemi. Ricorrono a noi, e tante volte trovano una roccia, non si sentono compresi, non si sentono
capiti. Fortunatamente non è sempre così.
Ma io voglio dirvi: diventiamo più umani, pur senza «fare sconti o concessioni» ove non si può.
Facciamo in modo che la gente, dopo un incontro con noi, abbia l'impressione di essersi incontrata
con Gesù Cristo. Perché così deve essere.

«Mettersi in corpo l'occhio dei poveri»


Se siamo configurati a Cristo sacerdote, a Cristo capo e a Cristo servo, seminiamo di rimorsi ma
non scontentezze, lasciamo i nostri interlocutori inquieti ma non depressi, soprappensiero ma non
avviliti, in tumulto interiore ma non irritati. Quanta gente se ne va sbattendo la porta della sacrestia
o della parrocchia per una risposta mal data, perché siamo stati inflessibili, perché, come guardiani
del faro, abbiamo applicato con durezza le norme della curia “che dicono così e così». A volte
dobbiamo farlo, ma c'è modo e modo. Anche per salvaguardare il Codice c'è modo e modo. Alla
gente si può dire tutto, e la gente accoglie tutto, se tu glielo dici con amore.
Pati humana significa questo: entriamo con più pazienza nelle ragioni degli altri. In Sud-America
dicono: «Bisogna mettersi in corpo l'occhio dei poveri», mettersi in corpo l'occhio degli altri, per
poterli capire, dal latino capere, accogliere. Condividiamo la storia del nostro popolo, del nostro
paese, della nostra parrocchia, diventando davvero clero indigeno. Facciamoci carico dei suoi
problemi reali di sofferenza, di povertà, di disoccupazione, di peccato, di sfratto, di miseria morale,
fisica.
Non basta amare la gente: verifichiamo sempre le motivazioni che ci spingono a questa donazione,
perché non è raro che si creda di dare e invece si voglia soltanto prendere. Non abbiate paura di chi
vi accusa di “orizzontalismo” quando vi interessate un po' troppo delle cose umane. Non abbiate
paura, perché anche Gesù, per salvare il mondo, si è steso, orizzontale, sulla croce prima di essere
innalzato, verticale, tra cielo e terra.
Ho già ricordato mons. Armido Gasparini, vescovo missionario in Etiopia: un giorno guidava
instancabile lungo le piste della foresta, percorse da molta gente a piedi, soprattutto da donne, curve
sotto pesanti fasci di legna. A un certo punto si ferma a salutare alcune vecchiette, dicendomi:
«Queste sono della mia diocesi». La sua diocesi è grande quanto l'Italia meridionale da Napoli in
giù. Sceso dal gippone, ha dato loro qualche spicciolo e le ha abbracciate. Mentre ripartivamo
piangeva e, quasi scusandosi, mi diceva: «Sai, sono cristiani, sono i miei cristiani». Poi, tutto felice,
aggiunse: «Forse tu non la condividerai, ma io faccio sempre una preghiera al Signore. - Posso
dirtela? Sicuro, dimmela! - Io prego così: Signore, se non entrano in paradiso questi, non voglio
venirci neanch'io».
È una preghiera straordinaria, una preghiera di piena solidarietà con il suo popolo: un vescovo fatto
popolo chiede di rimanere alle porte del Regno se il suo popolo non entra nel Regno. Non è un
romantico: è un uomo di 77 anni ed è stato tutta una vita in mezzo a quelle sofferenze, ma l'ho visto
piangere perché alle sofferenze della sua gente non ha fatto l'abitudine. È ancora capace di farle
proprie. Questo significa pati humana, soffrire le cose umane. E lui sa benissimo che, andando in
paradiso, i suoi cristiani se li porterà dietro tutti.

L'immanenza della Trinità e i problemi segnati in agenda


Per finire, posso riferire una mia esperienza dove ho dovuto mescolare la passione per le cose di
Dio con la passione per le cose degli uomini. Commentavo settimanalmente in una «lettera ai
catechisti» l'inizio della prima lettera di Giovanni: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo
veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con
noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché
la nostra gioia sia perfetta».
Volevo spiegare questa «comunione» ai catechisti, poveri di profonda cultura teologica, e far capire
che proprio noi, tutti noi - con-morti, con-sepolti, con-risuscitati con Cristo e diventati «figli nel
Figlio» - saremo nel Padre, nel Figlio, nello Spirito, in casa della Trinità, senza... violazioni di
domicilio. Di solito queste lettere le scrivo nella calma, di sera o di notte, ma quella volta, in visita
pastorale, mi ridussi a scrivere all'ultimo momento, in sacrestia tra un incontro e l'altro.
“Carissimi catechisti - scrissi - avrei voluto scrivervi questa pagina in un clima di raccoglimento, in
Chiesa, per esempio, come ho fatto altre volte, anzi nel cuore di una veglia notturna. L'inizio della
prima lettera di Giovanni giunge alla stretta decisiva: per coglierne la forza non c'è momento
migliore della notte, ma ora mi ritrovo qui, in pieno giorno, nella sacrestia di una parrocchia dove
sto facendo la visita pastorale. Non riesco a concentrarmi: c'è tanta gente li fuori che vuole parlarmi
e viene a raccontarmi i suoi problemi, che non sono quasi mai di natura altamente teologica.
Pazienza. Vorrei scrivere qualcosa tra un colloquio e l'altro, ma l'agenda s'infittisce di ben altri
appunti: chiamare Anna che è tornata a Trani da sua madre e ha lasciato a Molfetta il marito e tre
figli; mettersi in contatto con don Picchi per trovare un posto a Nadia che si buca; andare in via
Mazzini a visitare Michele, vittima di un esaurimento, che non vuole avere contatti con nessuno;
parlare con la superiora dell'asilo per vedere se può prendere gratis nella scuola materna il bambino
di una ragazza madre. Dio mio, quanta tristezza! Com'è difficile riandare al mistero trinitario, su cui
dovrei scrivervi. Questo girotondo di persone ferite, di persone sconsolate, di situazioni insanabili,
di violenze sotto traccia. Che fatica combinare il vocabolario suggerito dalla dottrina biblica con
quello urlato dalla disperazione degli uomini. Quanto lontana è la luce dei cieli da questi crepuscoli
vermigli della terra tinti di lacrime e di sangue.
«In cima a un foglio ho segnato: mutua immanenza delle Persone divine, ma che cosa ha da spartire
questo concetto, che pure avrei voluto spiegarvi, col 70% di invalidità di Luigi, che mi sono
annotato più sotto, nella speranza di segnalarlo alla casa di riposo dove non hanno voluto accogliere
sua moglie, anch'essa anziana e malata di diabete? Che senso ha che sul dritto del foglietto dei miei
appunti abbia abbozzato alcune frasi sulla inabitazione della Trinità nell'anima del giusto, e sul
rovescio mi ritrovo il numero telefonico del SUNIA, presso cui stasera dovrò protestare perché ad
una famiglia numerosa, che abita in un locale diroccato fuori mano, non hanno concesso il
punteggio giusto per l'assegnazione delle case popolari? No, non ce la faccio proprio, carissimi
catechisti, a continuare il discorso sulla dimora inaccessibile di Dio dove un giorno, con-morti, con-
sepolti, con-risuscitati, risiederemo con Cristo per sempre, mentre un poveruomo, dall'aspetto un po'
ebete, insiste perché vada a trovare il figlio handicappato nell'umido sottano dove abita da vent'anni.
«Ma cos'è questo sortilegio che mi impedisce di parlarvi dell'amore eterno del Padre, della
consustanzialità del Figlio e della forza ricreante dello Spirito, dirottandomi dalle autostrade a
scorrimento veloce della riflessione trinitaria sui viottoli impervi di questa terribile quotidianità? E
perché proprio i fogli dell'agenda, su cui avrei dovuto raccontare dello Spirito che geme dentro di
noi, si vergano di note che raccontano i gemiti della povera gente?
«E perché la meditazione, che pure avevo deciso di farvi sulla condiscendenza del Figlio e sul suo
abbassarsi al nostro livello e sul suo voler fare tutt'uno con noi, è stata soppiantata sul mio bloc-
notes da un malinconico promemoria che mi ricorda il tentativo di far fare la pace, domani, tra
Maria e suo fratello Giovanni, il quale ha torto marcio ma che, essendo più grande, non vuole
piegarsi a chiederle scusa?
“E perché gli appunti che avrei dovuto riservare alla giustizia e alla misericordia del Padre, come
per un'incredibile dissolvenza, si tramutano sotto la mia penna nel rilievo che quel giovane medico
ha subito un'ingiustizia colossale al concorso della USL, o che Antonella, scappata da casa e
sposatasi con un divorziato, non ha più trovato pietà presso i suoi genitori?
«È inutile, non ce la faccio proprio a sollevarmi verso le vertigini trinitarie, sono troppo
impantanato nei problemi dei nostri umani crepacci. Mi fermo qui, forse sono troppo stanco. Se mi
riuscirà stanotte riconsidererò tutto nel silenzio della mia cappella. Per ora perdonatemi. Vi saluto».
Poi ho aggiunto un post-scriptum: «È vero, è tutto vero. Ho rimeditato su tutto ciò che ho scritto ieri
e il Signore mi ha suggerito di non cambiare neppure una virgola: forse è proprio vero che le strade
del cielo attraversano i poveri incroci della terra».
Inabitazione e condiscendenza si intrecciano nella nostra storia: pati humana. Vi auguro, carissimi
fratelli, che possiate sentire tutto questo - voi che toccate il Signore - possiate dare risposte a tutti
coloro che vi interrogano, risposte che alimentino la speranza.
L'ultima sera di quella visita pastorale, di domenica, celebravo l'ultima Messa solenne. C'era
tantissima gente. Alla comunione si è presentato un giovane alto, sui trent'anni, con una bambinetta
in braccio. Al rituale: “Il corpo di Cristo - Amen», la bambina ha esclamato: «È buona, papà?».
Sono rimasto lì, bloccato per un momento. Poi, con la pisside in mano, mi sono fatto largo tra la
gente, ho raggiunto quell'uomo che si stava allontanando e ho abbracciato la bambina. «È buona,
papà?». Anche a noi la gente chiede se la Parola di Dio è buona, se la croce è buona, se l'amore che
noi abbiamo per Gesù Cristo è buono. Auguriamoci, carissimi confratelli, di poter rispondere
sempre: «Ma certo che è buona!”.

Cap. 9. ANNUNCIATORI DI UN MONDO CHE VERRÀ

Vorrei incentrare l'attenzione su Maria, la Donna della novità, dell'attesa, della gioia, della festa;
vorrei parlare anche di Maria come la Donna della croce, che danza attorno alla croce. Non intendo
cedere all'esuberanza omiletica perché parliamo della Madonna, ma non vogliamo farne un essere
evanescente, inafferrabile, astratto. Vorrei sottolineare invece la dimensione teologica, cristologica,
ecclesiologica, trinitaria, che c'è sotto ogni considerazione che si riferisce a Maria.
È un altro modo di considerare il nostro essere sacerdoti per il mondo e per la Chiesa: non soltanto
conformandoci a Cristo sacerdote nella sua duplice dimensione di capo e di servo; non soltanto
soffrendo con lui le cose divine e le cose umane, ma anche diventando - eccoci in tema - gli
annunciatori, i profeti «del mondo che verrà», come diciamo nel Credo. Quell'“aspetto la
risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà» però non riguarda solo la vita del cielo, dopo la
morte. Aspetto già adesso la vita del mondo che verrà, aspetto il mondo che irrompe, è imminente.
Ed è Maria colei che fa irrompere il mondo nuovo.

Le sentinelle del mattino


Essere annunciatori di questo mondo nuovo vuol dire essere i profeti della festa, i profeti della
novità, i profeti della speranza. Oggi c'è molta tristezza in giro, quanta gente è malinconica, non ha
il gusto di vivere, le manca la sapienza, il dulce sapere, il sapore della vita. Tanta gente, che pure ha
motore, carrozzeria e benzina, è triste perché non sa dove andare. Noi sacerdoti che cosa siamo: i
cantori del lamento del mondo o i preannunciatori, i profeti, le sentinelle del mattino?
Ecco il tema di questa conversazione: le sentinelle del mattino. «Voglio cantare, a te voglio
inneggiare; svegliati, mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l'aurora» cantiamo anche
noi con il Salmista. Questo servizio grande e necessario noi sacerdoti lo dobbiamo rendere in questi
termini al mondo. La nostra gente ha bisogno di questo.
Poniamo allora come concetti base quelli della novità, dell'attesa vigilante, che vediamo legati a
Maria, la Donna della novità, del vino nuovo, e la Donna dell'attesa. Anche noi abbiamo la missione
di introdurre nel banchetto della vita il vino della festa, il vino della novità. E siamo anche coloro
che attendono «la vita del mondo che verrà», siamo i profeti dell'attesa.

Maria la Donna del vino nuovo


Facciamo riferimento all'episodio delle nozze di Cana, che gli ultimi approfondimenti biblici
obbligano a rivedere decisamente, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria. Quante volte ci
siamo commossi, spiegando questa pagina del Vangelo, dinanzi alla sensibilità della madre di Gesù,
che con finezza tutta particolare ha intuito il disappunto degli sposi a corto di vino e ha “forzato la
mano” del Figlio, troncando sul nascere l'evidente imbarazzo che serpeggiava dietro le quinte di
quel banchetto benedetto.
È vero che la Madonna con sollecitudine materna si è accorta che quei poveri ragazzi stavano per
bruciarsi la festa ed è intervenuta, provocando il primo prodigio con la potenza della sua
intercessione. Ma non è questo che Giovanni vuol mettere in evidenza.
Il Vangelo presenta anzitutto Maria come colei che percepisce il dissolversi del piccolo mondo
antico e anticipa l'ora di Gesù. Ha un bel dire Gesù: «Non è ancora giunta la mia ora». Anticipando
l'ora di Gesù, Maria introduce sul banchetto della storia non soltanto i boccali della festa, perché il
vino è il simbolo della festa, ma anche i primi fermenti della novità messianica.
Festa e novità irrompono nella sala per espresso richiamo di lei. Maria è la donna della festa, è la
donna della novità, è colei che sta sullo spartiacque del piccolo mondo antico che tramonta e del
mondo nuovo che viene. È lei la ianua coeli, la porta del cielo.

Le giare del mondo vecchio


Nella pagina di Giovanni c'è un particolare che potrebbe sembrare accidentale e che invece si
impone con invadente protagonismo: sono le «sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei»,
ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice, oscene nella loro immobilità: «panciute, maestose...
come una badessa», per dirla con Pirandello.
Ci sembra di vederle, addossate alla parete, gelide come cadaveri perché «di pietra», - Giovanni
dice sempre tantissimo attraverso i particolari - inutili ai fini della purificazione perché vuote. Sono
sei, e non sette, che per gli ebrei sarebbe il numero perfetto; sei è simbolo malinconico di ciò che
non giungerà mai a completezza, che non toccherà mai i confini della maturazione.
Le giare di Cana sono il simbolo del mondo vecchio, dell'antica economia che non giungerà più a
maturazione: si può arrivare solo fino a sei, e si resterà sempre al di sotto della legittima attesa, del
vero bisogno del cuore.
Di fronte a quello scenario da paresi irreversibile, con le giare di pietra immobili come le tavole di
Mosè, Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che è ormai fuori corso
l'antica economia di salvezza, fondata sulle prescrizioni della legge, ma sollecita coraggiosamente
la transizione.
Maria è la Donna amante del cambiamento: questa dovrebbe diventare la nostra categoria di
presbiteri, sentinelle del mattino pronte a dare il cambio. A tutti coloro che chiedo no, come è scritto
in Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?» - in latino è bellissimo: «Custos, quid de nocte?” - la
vedetta risponde: “Viene il mattino...”, resta poco della notte, già le prime luci stanno indorando
l'orizzonte. È Maria la sentinella del mattino.

Un acconto sulla nuova alleanza


Quelle sei giare di pietra sono una rappresentazione icastica incredibile. Maria vede un mondo che
boccheggia nella tristezza e nel dolore, vede che i livelli di guardia stanno per essere superati, e
invoca da suo Figlio Gesù non tanto uno strappo alla legge della natura quanto uno strappo alla
natura della legge. La legge antica non tiene più, la legge di Mosè non contiene nulla, non è più in
grado di purificare nessuno, non rallegra più il cuore dell'uomo. Maria interviene d'anticipo, chiede
a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile e festoso
nell'ora della croce. Quella è «l'ora».
«L'ora» ha un significato straordinario: è quella della morte e risurrezione di Gesù, che per
Giovanni coincidono sulla croce. A Cana Gesù dice: «Non è ancor giunta la mia ora». Maria chiede
un anticipo e Gesù è obbligato a fare le «prove generali» della Pasqua. Questa è la festa nuova, è la
festa di nozze dell'umanità con lo Sposo divino.
Il racconto delle nozze di Cana è collocato da Giovanni al sesto giorno della misteriosa «settimana»
della manifestazione di Gesù: “il giorno dopo, il giorno dopo, tre giorni dopo». Siamo nel sesto
giorno, il giorno delle nozze dell'Agnello. È l'alleanza nuova, «la nuova ed eterna alleanza».
«Non hanno più vino» non è espressione di materna gentilezza per evitare la mortificazione di due
sposi: è un grido di allarme che sopraggiunge per scongiurare la morte del mondo vecchio che sta
boccheggiando.
Allora si comprende la bellezza di questa pagina del Vangelo. Maria è la donna della novità, la
donna della festa, che noi dobbiamo invocare perché anche il nostro atteggiamento di presbiteri, la
nostra passione di apostoli sia intrisa di questa mentalità: essere gli annunciatori della festa, gli
annunciatori della novità, i profeti della speranza, gli annunciatori della luce.
Non si tratta di essere romantici o di attaccarsi a sussulti sentimentali. Qui si tratta di vivere la
nostra «esistenza teologica», e Maria ci offre un modulo di straordinaria bellezza. La pagina delle
nozze di Cana va rivista davvero. Nelle litanie non entrerà mai questa invocazione, ma noi
dovremmo pregare: «Maria, Donna del vino nuovo, prega per noi».

Preghiera a Maria, Donna del vino nuovo


Se la Madonna tornasse oggi al banchetto della nostra vita, invece di «Non hanno più vino»,
direbbe: «Figlio, non hanno più sale». Perché la vita non ha più sapore. Manca la sapienza, il dulce
sapere. Anche a noi. Viene la malinconia nell'osservare le cose di quando eravamo giovani, cose
che ci hanno deliziato l'anima, ci hanno entusiasmato, ci hanno fatto vibrare, e adesso non ci dicono
più nulla. Non ci dice più niente neppure il male. Non perché è cresciuto il numero degli anni sulle
nostre spalle, ma perché forse siamo sazi di tutto.
Potremmo concludere pregando così:
Santa Maria, Donna del vino nuovo, quante volte anche noi sperimentiamo che il banchetto della
vita langue e la felicità si spegne sul volto dei commensali. È il vino della festa che viene a
mancare.
Ci sono tante feste oggi, ma non c'è la festa: sulla nostra tavola non manca nulla, ma abbiamo perso
il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell'opulenza, ma con l'ingordigia
degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Mangiamo di tutto, però non abbiamo fame. Le
pietanze della nostra cucina hanno smarrito gli antichi sapori e i frutti esotici hanno poco da dirci.
Quali brividi, quali sussulti, quali impennate di entusiasmo, quali lieti annunci, quali novità
sconvolgenti, quali telegrammi forti sappiamo recapitare al mondo che attende buone notizie? O
Maria, tu sai da cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite. Non
abbiamo più vino. Da tempo gli odori asprigni del mosto non deliziano più la nostra anima. Le
vecchie cantine non fermentano più e le botti vuote danno solo spurghi di aceto.
Muoviti a compassione di noi e ridonaci il gusto delle cose. Solo così le giare della nostra esistenza
si riempiranno fino all'orlo di significati ultimi e l'ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà provare
le vertigini.
Santa Maria, Donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambiamento, che a Cana di
Galilea provocasti anzi tempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove
generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.
Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili, dalle piccole conversioni sotto costo, dai rattoppi
di comodo. Preservaci dalle facili sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale. Liberaci
dalla fiducia incondizionata degli schemi, dall'uso idolatrico della tradizione.
Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l'avvedutezza di
sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascinò dello statu quo, rendici tanto risoluti da
abbandonare gli accampamenti. Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il
coraggio dei passi e facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l'adattamento agli
orizzonti dei bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.
Santa Maria, Donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo infine perché con le parole: «Fate tutto
quello che Gesù vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.
Queste sono davvero grazie da chiedere.
Quando presentate Maria ai giovani, cari confratelli, non presentatela come la bambinella, la
santarella tutta casa e sinagoga. Maria è amante della giovinezza, amante del cambiamento. Questo
discorso fatto ai giovani li seduce. Anche lei, come i nostri giovani, non è soddisfatta delle cose
come vanno, perché è proprio dei giovani percepire l'usura dei moduli che non reggono più e
invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, non con impercettibili
restauri da laboratorio.
Mi raccomando, cari fratelli: quando tornate a casa non soltanto «Fate tutto quello che Gesù vi
dirà», ma dite anche tutto quello che il Signore vi farà, raccontate anzi quello che vi ha fatto,
comunicate la vostra testimonianza e vedrete come anche nei giovani, nel vostro popolo, le cose
cambieranno.

La tristezza di non attendere più nessuno


Oltre che sentinella del mattino, fautrice della novità, della festa, della speranza, della luce, Maria è
la donna dell'attesa. È un'altra verità da approfondire in dimensione teologale, non di devozione
sentimentale.
La vera tristezza non è quando la sera non sei atteso da nessuno al rientro in casa tua, ma quando tu
non attendi più nulla dalla vita. Non vi nascondo che mi rattrista un po' non essere atteso, potermi
ritirare la sera a qualsiasi ora perché tanto non c'è nessuno in episcopio; non dover telefonare per un
ritardo in autostrada; poter impunemente tornare a qualsiasi ora. È un po' triste, e qualche volta noi
lo enfatizziamo.
La tristezza vera è quando tu non attendi più nessuno, non attendi più nulla dalla vita. La solitudine
più nera non la provi quando trovi il focolare spento ma quando non lo vuoi più accendere, neppure
per un eventuale ospite di passaggio. È tristezza quando non aspetti più neppure «la vita del mondo
che verrà», quando pensi che ormai i giochi sono fatti, che per te «la musica è finita, gli amici se ne
vanno», come diceva una famosa canzone.
È tristezza se nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta, se non ci saranno più né soprassalti
di gioia per una buona notizia né trasalimenti di stupore per una improvvisata, se non ci saranno
neppure fremiti di tristezza e di dolore per una tragedia umana, «tanto non ti resta più nessuno per il
quale trepidare”. È brutto anche quando non aspetti neppure una brutta notizia.
La vita allora scorre piatta - per tanti è così - verso un epilogo che non arriva mai: è come un nastro
magnetico che ha finito troppo presto la sua canzone e si srotola interminabile verso il suo ultimo
stacco, senza dire più nulla. Per molta gente la vita è così, ed è pesante perché è vuota. Ma voi siete
presbiteri, venite a contatto con la gente, confessate anime in pena: quante volte avete sperimentato
la sofferenza del mondo, a contatto con questa temperie di umanità!

Maria sempre in attesa


Attendere significa sperimentare il gusto di vivere.
Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle sue attese.
Se è così, bisogna concludere che Maria è la più santa delle creature, perché tutta la sua vita appare
cadenzata dai ritmi gaudiosi di chi aspetta qualcuno. Non è soltanto un'esuberanza omiletica la mia:
è una verità ben puntellata sulla Bibbia. Già il fotogramma iniziale con cui il pennello di Luca
identifica Maria è carico di attesa: «promessa sposa di un uomo della casa di Davide». Prima ancora
di rivelare il suo nome, il Vangelo presenta Maria come fidanzata, promessa sposa: a quale messe di
speranza e di batticuori fa allusione quella parola che ogni donna sperimenta come preludio di
misteriose tenerezze.
Maria è la vergine in attesa. In attesa di Giuseppe, in ascolto del bruciare dei suoi anni, quando, sul
far della sera, profumato di legni e di vernici, egli sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni.
Giuseppe è l'uomo dei suoi sogni: Maria è in attesa di lui. Solo dopo, l'evangelista annota: «La
vergine si chiamava Maria».
Maria si presenta nel Nuovo Testamento come fidanzata in attesa; lo stesso Luca, negli Atti degli
Apostoli, sembra volerla congedare ancora in attesa. Nel cenacolo - abbiamo già sottolineato che si
trovava «al piano superiore» - Maria è in attesa dello Spirito in compagnia dei discepoli. Stava in
trepido ascolto del frusciare dei sandali di Giuseppe nelle sere del fidanzamento; ora, sul far del
giorno, è in ascolto del frusciare dello Spirito, quando, profumato di unzioni e di santità, sarebbe
disceso sulla Chiesa per additarle la sua missione di salvezza.
Vergine in attesa quindi, dall'inizio alla fine, e nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni - una
così umana, l'altra così divina - cento altre attese struggenti: l'attesa di Gesù per nove lunghissimi
mesi, l'attesa degli adempimenti legali, la circoncisione, la presentazione al tempio, l'attesa di
scadenze festeggiate forse con frustoli di povertà e con gaudi di modeste parentele; l'attesa del
giorno in cui il Figlio sarebbe uscito di casa per non farvi più ritorno, giorno che di volta in volta
avrebbe voluto ritardare; l'attesa di quell'«ora», tragica ma gloriosa, di cui Maria, esperta in
anticipazioni, provocò l'avvento a Cana; e finalmente l'attesa dell'ultimo rantolo dell'Unigenito
inchiodato sul legno, e l'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia della
fede e della speranza.

Attendere è l'infinito del verbo amare


Attendere, nel vocabolario di Maria, è amare all'infinito.
Qualche volta noi abbiamo l'impressione di essere degli uomini finiti, degli uomini «arrivati», anche
se siamo presbiteri. Nella carrozzella del dolore, nella vecchiaia, nella mia salute malferma, nel
progressivo abbassamento di tono, nel tristissimo deficit della speranza; cosa possiamo attenderci
ancora dalla vita? «Vescovo non mi fanno più, monsignore neppure; cosa dovrei fare più?” Forse
abbiamo perso lo smalto di un tempo. Qualche volta siamo presi dalla tristezza, costatiamo di non
avere più fascino sui giovani, perché quelli vanno alla ricerca di cose nuove e di volti giovani. Una
volta eravamo bravi in teologia, adesso può batterci anche l'ultimo seminarista che frequenta un
corso qualunque.
Non attendiamo più nulla e abbiamo voglia di metterci da parte. Ma se noi «non provochiamo
l'aurora», la gente che cosa può aspettarsi da noi? Il nostro popolo ha bisogno di vedere dei
presbiteri con gli occhi rivolti al futuro, di sentinelle che scrutano l'aurora per annunciare che il sole
sta per sorgere. La gente ha bisogno di preti innamorati, capaci di soffrire le cose umane, pati
humana. Ha bisogno di sognatori. Noi purtroppo abbiamo chiuso da tempo con i sogni, siamo
diventati troppo ragionieri, troppo fiscali,'e abbiamo finito per privare le nostre scelte di ogni
empito di attesa e di questa speranza.

Preghiera a Maria, Vergine dell'attesa


Vorrei concludere invocando Maria, perché sia per noi il paradigma splendido, l'archetipo
fondamentale a cui ci riferiamo nel travaglio della vita, nel travaglio del ministero presbiterale, nel
nostro travaglio di essere sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci del tuo olio, perché le nostre lampade si spengono, le
riserve si sono consumate. Non ci mandare da altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli
antichi fervori che ci bruciavano dentro quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia:
l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno
accoglieva i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini
in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che
giungevano dai palmeti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo
che irrompeva quando si preparava una culla.
Se oggi non sappiamo attendere più è perché siamo a corto di speranza, si sono disseccate le nostre
sorgenti, soffiamo una profonda crisi di desiderio e, ormai paghi dei mille surrogati, rischiamo di
non aspettarci più nulla neppure dalle promesse ultraterrene che sono firmate col sangue del Dio
dell'alleanza.
Santa Maria, Donna dell'attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli: conosciamo tante
madri che soffrono per i loro figli, usciti di casa e mai tornati, uccisi da un incidente stradale o
sedotti dal richiamo della giungla, dispersi dalla furia d'una guerra o risucchiati dal turbine delle
passioni, travolti dalla tempesta del mare o dalle tempeste della vita.
Abbiamo visto in questi giorni mille e cinquecento tossicodipendenti e malati di Aids: altrettante
madri hanno atteso disperate il loro rientro. Vergine dell'attesa, riempi i silenzi di Antonella che non
sa che farsene dei suoi giovani anni dopo che lui se n'è andato con un'altra. Colma di pace il vuoto
interiore di Massimo che nella vita le ha sbagliate tutte e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella
della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti e, per la
cattiveria della gente, se li è visti svanire a uno a uno, e ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.
Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci un'anima vigilare. Noi sacerdoti, giunti alle soglie del terzo
millennio, purtroppo ci sentiamo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del
mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo che si sente già
vecchio. Portaci finalmente arpa e cetra, perché con te, mattiniera, possiamo svegliare l'aurora. Di
fronte ai cambiamenti che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei
cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere, bisogna attendere. Accogliere talvolta è
segno di rassegnazione; attendere è sempre segno di speranza. Rendici perciò ministri dell'attesa.
E il Signore che viene, Vergine dell'avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con
le lampade in mano. Amen.

Cap. 10. IL MISTERO DELLA CROCE

Meditiamo ora sul rapporto che Maria ha avuto con il mistero della croce di Gesù. Il mistero della
croce, infatti, è qualcosa di più del legno della croce. Per Giovanni, ad esempio, la croce è P«ora»
della gloria, è il momento culminante della passione-morte-risurrezione di Gesù e della stessa
Pentecoste. Quel parédoken tò pnéuma, che viene tradotto normalmente con spirò, rese lo spirito,
indica molto di più: «diede lo Spirito». La morte di Gesù è la vera Pentecoste della Chiesa: Gesù
«consegnò lo Spirito». In quel contesto è facile capire perché dal suo costato “uscì sangue e acqua»,
segni sacramentali del battesimo e dell'eucaristia. Dal costato di Cristo dormiente esce la Chiesa,
come dal costato di Adamo dormiente era uscita l'antica Eva.

Il mistero prima del legno


Maria ha avuto a che fare col mistero della croce.
Quando andavamo a scuola di teologia, parlo degli anni miei (gli anni 53-58), già a ridosso del
Concilio, quanta fatica facevamo a fondare su citazioni bibliche il mistero di Maria corredentrice, di
Maria che collabora con Gesù per la salvezza del mondo. Poi quanta luce è venuta anche dalle
scoperte bibliche. Maria ha a che fare in modo forte con il mistero della croce, prima di tutto perché
ha un rapporto forte con l'«ora» di Gesù, che abbiamo già visto anticipata nel vino dei tempi nuovi a
Cana; Maria è presente, da protagonista - Stabat iuxta crucem - nell'ora della glorificazione sul
Calvario.
Maria alla passione è presente, alla morte è presente, a Pentecoste è presente. Il Vangelo non dice
che fosse presente alla risurrezione: Gesù risorto appare alla Maddalena, agli apostoli, ai discepoli
di Emmaus e a chissà quanti altri, e non è apparso a Maria? Forse - più che una spiegazione, la mia
è un'impertinenza - il Risorto non le è apparso perché non ce n'era bisogno. O forse Maria fu l'unica
creatura presente all'atto della risurrezione? Gesù è apparso alle donne, ai discepoli, dopo la
risurrezione, a Maria non è apparso perché lei, l'unica creatura al mondo, è stata testimone del
mistero di Pasqua? I teologi dicono che la risurrezione è un fatto metastorico: i Vangeli raccontano
le apparizioni del Risorto ma non descrivono il momento della risurrezione perché nessuno sguardo
umano ha potuto assistere al mistero della risurrezione. Eppure io penso che una piccola grande
eccezione deve esserci stata: Maria stabat, era là, come in tutti i misteri fondamentali della vita di
Gesù, al concepimento e all'uscita dal grembo di carne, alla morte e all'uscita dal grembo di pietra.
Maria è presente alla morte di Gesù e alla Pentecoste: perché avrebbe dovuto mancare alla
risurrezione? Gli altri hanno visto il Risorto, ma lei ha visto la risurrezione.
È bello pensare così, forse è anche logico: non credo ci siano stiracchiature.

Gesù risorto «ritrovato» il terzo giorno


Secondo alcuni esegeti, nel Vangelo di Luca c'è anche un racconto «retrodatato» della risurrezione
di Gesù, e qui Maria era presente. Si tratta dello smarrimento di Gesù tra i dottori nel tempio.
Questo episodio starebbe a dire lo smarrimento della Chiesa nascente che ha perduto Gesù e che lo
ritrova il terzo giorno. La morte di Gesù provocò certamente un carico di sgomento; la ricerca
ansiosa di Maria riflette la ricerca della Chiesa nascente: Maria come la Chiesa nascente sono alla
ricerca di Gesù.
Anche qui Gesù viene ritrovato il terzo giorno. Maria è davvero la donna del terzo giorno: nel
tempio come per la risurrezione. Secondo gli esegeti questo episodio non è altro che la trascrizione
in altra chiave musicale - un arrangiamento - del racconto stesso della risurrezione, e indica che
Maria è lì, è presente.
Maria ha a che fare col mistero della croce di Cristo, ma anche con il mistero della nostra croce
personale. Quale deve essere il nostro rapporto con il mistero della croce di Gesù e con quel legno
dolcissimo «che non siamo chiamati a piallare - come dice Claudel - ma sul quale siamo chiamati a
salire»?
Come i Corinzi, - dobbiamo pur dirlo - qualche volta noi parliamo un po' troppo; come i Corinzi,
anche noi la croce l'abbiamo inquadrata nella cornice della sapienza umana e nel telaio della
sublimità di parole. Siamo tutti predicatori, tutti bravi omileti: diciamo queste cose agli altri.
Abbiamo attaccato la croce alle pareti delle nostre case, ma non ce la siamo piantata nel cuore;
pende dal nostro collo, ma non sempre pende sulle nostre scelte. Le rivolgiamo inchini e
incensazioni in chiesa, ma ci manteniamo agli antipodi della logica della croce. Qualche volta è
così. Noi dovremmo seguire la logica della croce, piegare il capo con umiltà, con gioia, con
abbandono: perché alla croce ci si abbandona.

C'è croce e croce


Durante un convegno dei volontari della sofferenza, nel seminario di Molfetta, ero stato chiamato a
celebrare, e mi venne spontanea un'immagine: staccai il crocifisso dal piedistallo, lo portai in mezzo
ai malati, lo girai all'indietro e dissi: «Vedete, qui c'è un posto vuoto, per voi». Soffrire significa
essere inchiodati sul retro della croce di Gesù; basta dargli una voce e lui ti risponde. Sta li dietro.
Per cercar di capire quale deve essere il nostro rapporto con la croce di Gesù e con la logica della
croce, parlerò per immagini; parlerò di alcuni crocifissi che mi hanno colpito particolarmente. Dio
stesso sostiene la croce. Il primo è uno splendido crocifisso del Masaccio, nella basilica di Santa
Maria Novella, vicino alla stazione di Firenze, sulla sinistra di chi entra, mi pare sul secondo altare.
C'è il Signore Gesù sulla croce, ci sono i personaggi classici della crocifissione, e poi c'è la
Colomba e il Padre. La croce non è poggiata a terra, è il Padre che la tiene sollevata. Gesù è
inchiodato sulla croce, sostenuta dalle braccia del Padre. È bellissimo: io, ogni volta che passo da
Firenze, vado a pregare davanti a quel crocifisso, per assorbire la logica della croce. L'immagine
parla con un'eloquenza straordinaria: è Dio che dà le prove, e dà anche la forza di poterle sostenere.
Teniamolo ben presente.
Gesù sale da sé sulla croce. Un altro bel crocifisso l'ho scoperto in una chiesa di Reims una trentina
di anni fa, quando venni a Lourdes nei primi mesi che ero sacerdote: facevo il cameriere e mi
fermai un mese, un mese straordinario. Dopo feci un giro per la Francia. Non ricordo bene in quale
chiesa di Reims trovai un'immagine bellissima: una croce alta alta con una scala appoggiata allo
stipite e Gesù che vi sale in croce. Anche qui c'è un aspetto teologico molto importante: Gesù non è
vittima della forza del destino; è salito sulla croce perché l'ha accettato, perché l'ha voluto. La sua
accettazione non è rassegnazione passiva, non è fare di necessità virtù, ma è accoglimento della
croce, è accettazione della volontà del Padre. È una visione bellissima, che ci schioda dalla
situazione di condannati a vita.
Queste cose le dico nella consapevolezza che, quando arriverà anche per me un momento difficile,
il momento culminante della croce, la Vergine santa mi conceda di vivere queste realtà fino in
fondo, mi aiuti a salire liberamente, per compiere la volontà di Dio con libertà, con gioia. Come
Cristo che si affretta a salire.
Mi viene in mente un episodio che raccontava monsignor Mariano Magrassi, arcivescovo di Bari, -
non so se è capitato a lui o a qualche suo amico - di un novizio benedettino mandato in Francia a
fare un po' di esercitazione: faceva il catechismo alle bambinette della scuola elementare. Un
giorno, mentre dettava il Padre nostro - «Notre Pére, qui es dans les cieux” - si accorse che una
bambina, invece di scrivere: «que votre volonté soi faite» (sia fatta la tua volontà), aveva scritto sul
suo foglio: «que votre volonté soi fète» (sia festa la tua volontà). Forse aveva pronunciato male la
parola. Subito disse alla bambina: «Hai sbagliato», ma poi aggiunse: «Oh Dio, che bello: sia festa la
tua volontà». Quell'errore di scrittura rivelava una grande verità. E meritava un bel voto, non un
richiamo. Sia festa la tua volontà.
Cristo torchiato. La terza immagine che voglio ricordare è un crocifisso che ho visto nel monastero
di Santa Maria delle Grazie a Rossano Calabro: proviene dai Paesi del Terzo Mondo e la croce è
fatta a forma di torchio. Gesù viene torchiato, schiacciato, e gronda dalle sue ferite il sangue della
vita, il sangue della salvezza. Gesù torchiato sta ad indicare lo spasimo della croce: della croce
personale di Gesù e della croce di tutti noi, perché tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo di
sangue, che diventa affluente del grande fiume che parte dal Golgota e che alimenta l'economia
sommersa della salvezza, quella «cassa depositi e prestiti» dell'economia della salvezza, da cui il
Signore attinge per venire incontro alla salvezza del mondo, alla liberazione del mondo. Quella
cassa depositi e prestiti la alimentiamo anche noi, con le nostre sofferenze fisiche, col nostro pianto,
con le nostre lacrime, col nostro dolore.
Un poeta danese dice che in cielo - non so in quale punto del firmamento - c'è una stella in cui il
Padre eterno conserva in uno scrigno tutte le lacrime degli uomini, perché non sono mai inutili le
lacrime. Le nostre sofferenze alimentano la «cassa» da cui Dio attinge per operare la salvezza, la
liberazione del mondo, la liberazione anche dalla schiavitù dei nuovi faraoni che schiacciano
l'umanità.
Cristo schiacciato sotto il torchio mi richiama popolazioni intere che vengono schiacciate sotto
l'oppressione di tanti tiranni. Quanti popoli sono schiacciati. In quante parti della terra ci sono
fabbriche clandestine di croci collettive che vengono messe sulle spalle dei poveri. Tocca a noi
schiodare la gente dalla croce. Noi siamo chiamati a operare deposizioni dalla croce, siamo chiamati
a servire con coraggio e con forza, per schiodare dalla croce la povera gente che ci passa accanto,
sconfitta, lacerata, uccisa, dissanguata. Siano marocchini, albanesi, tossicodipendenti, sfrattati,
disoccupati, o siano i depressi mentalmente, persone che vanno allo sbando. Tutte persone torchiate:
anche questa è logica della croce, forse la più difficile, la più tremenda. Ma dobbiamo capirla.

Anche Giovanni Battista sotto la croce


Per ultima vorrei ricordare un'altra tela che molti di voi avranno visto a scuola dell'arte: è una
crocifissione del Grùnewald, pittore fiammingo del primo Cinquecento. Su uno sfondo fosco che
prelude alla tempesta, si vede Gesù sulla croce e accanto le pie donne; con un anacronismo audace
l'artista raffigura Giovanni il Battista - che era già stato ammazzato da tempo - con un braccio lungo
lungo e un dito spropositato rispetto alla mano, nell'atteggiamento di indicare il crocifisso: «Ecco
l'agnello di Dio». La riproduzione di quella tela era molto amata dal teologo protestante Karl Barth
il quale, trasmigrando da un'università all'altra, se la portava sempre con sé come ultimo oggetto
personale da ritirare e come primo da mettere sulla scrivania nella nuova sede. Secondo Karl Barth,
quello è il dito più celebre, più suffragato, più testimoniato del Nuovo e del Vecchio Testamento; è
il dito che indica Gesù: «Ecco l'agnello di Dio».
Ecco la logica della croce.
Penso a tutti i poveri della terra, agli sbandati che strisciano accanto alle nostre case, a tutta
l'umanità dolente che ci passa sotto gli occhi. Mettete i nomi che volete: Marisa, Antonella, Luisa,
Piero. Quanta gente soffre! Il piazzale di Lourdes è l'icona, starei per dire la concentrazione più
grande, il densificarsi più emozionante, della sofferenza umana. Però questa sofferenza la vediamo
nelle nostre case, nelle nostre parrocchie, nei nostri quartieri. Ebbene, a questa gente io vorrei dire
che un giorno, quando avranno finito di percorrere la mulattiera del Calvario e avranno
sperimentato come Cristo l'agonia del patibolo, si squarceranno davvero da cima a fondo i veli che
avvolgono il tempio della storia. Se noi saremo bravi a farlo capire, essi diranno che la loro vita non
è stata inutile. Non è inutile la vita dei nostri fratelli disfatti dal dolore, che si trovano su una lettiga
da tempo: la vita di Ignazio, un amico giovanissimo che prorompeva di vita e adesso è
immobilizzato e soltanto soffiando può togliersi le mosche dal volto. Nessuna vita, nessuna
sofferenza è inutile. Questo ci dice la logica della croce.

Cap. 11. QUAL È LA VITA VERA?

Quando si era in seminario, durante il mese di maggio si cantavano le canzoni di Casimiri, a 4 voci,
e si concludeva con quella che inizia così:
Col tramonto dei celeri giorni, queta l'inno dei cantici a te.
Queta, si placa ma non si rompe, non si spezza il canto, il tripudio alla Vergine continua anche negli
altri giorni. È molto bello questo frammento di ricordi e di nostalgia. Voglio rubare questo pensiero
per dire che adesso non interrompiamo la nostra invocazione ripetuta: sarà molto difficile che tutti i
giorni futuri noi si possa recitare 15 poste di rosario, oppure che si possa stare lunghe ore davanti
all'immagine di Maria, o che la si possa invocare sempre con ritornelli così appassionati. Il nostro
canto si queta, si placa ma non si arresta, non si ferma.
Tornare nella ferialità
Ora torniamo nella ferialità e vorrei chiedermi: qual è la vita più vera? Quella che abbiamo vissuto
qui con le emozioni di questi giorni, con questo struggimento interiore, con questo pentimento, con
tanta voglia di ricominciare da capo; con questa chiarezza, concettuale e affettiva, su tutto ciò che
riguarda il nostro essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo?
Qual è la vita più vera per noi? È quella vissuta in questi giorni o quella che sperimenteremo
quando ci immergeremo di nuovo nel vortice delle nostre faccende, quando saremo lacerati dalla
gente, presi da mille problemi: la costruzione della parrocchia, l'impegno catechistico, l'anno
pastorale che non tarda molto a ricominciare, problemi di salute, problemi di rapporti in casa, col
vescovo, con la curia?
È molto probabile che, tornando a casa, si sorrida dei nostri slanci di questi giorni e si finisca col
dire: «Eravamo prigionieri in una morsa di sentimenti e ci eravamo sbilanciati sui crinali
dell'entusiasmo”. È più vera la vita di questi giorni o quella del cosiddetto «realismo»?
Carissimi confratelli: la vita più vera è questa. L'altra - quella che ci sembra piena di normalità - è
una vita cinturata, corazzata, perché ci mettiamo intorno le nostre difese, mettiamo tutt'intorno delle
paratie con cui ci difendiamo dai raggi del sole della grazia, ci difendiamo dai venti dello Spirito.
La vita vera è questa. È come se avessimo messo l'occhio nelle feritoie «del mondo che verrà», di
un mondo nuovo, fatto di giustizia, di solidarietà, di pace, di impegno, di passione per il Regno di
Dio, di grazia. La vita vera è questa, non quell'altra.
Adesso non torniamo nel «realismo»: la realtà vera, il vero realismo è questo. Quell'altra è una vita
sofisticata perché ci sono i costumi sociali, ci sono i rapporti dai quali ci dobbiamo pur difendere.
Quella è una vita sofisticata, la vita vera è questa, i sentimenti veri sono questi: il don Michele vero
è questo, il don Arturo, il don Emilio, il don Giacinto vero è quello di questi giorni; l'altro è
un'adulterazione, perché ci mettiamo intorno degli schermi e delle difese, e ci nascondiamo
all'interno. Il bambino si nasconde: in questi giorni è venuto fuori. La vita vera è questa allora.
Dall'incontro che abbiamo avuto con la Parola, dall'incontro avuto con l'eucaristia, con Maria, con i
fratelli, possiamo riportare a casa almeno qualche scheggia.
Vorrei suggerire alcune cose.

Anzitutto più spazio allo stupore


Con Maria, anche noi dobbiamo dire al Signore: «Fecit mihi magna qui potens est», colui che è
potente fa per me cose grandi ogni momento. E dobbiamo lasciarci prendere dallo stupore.
Oggi c'è crisi di estasi, è in calo il fattore sorpresa. Non ci sorprendiamo più. Non ci si esalta più per
nulla. C'è in giro un insopportabile ristagno di déjà vu, come dicono qui in Francia, di cose già
viste, di cose già fatte, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Anche la
novità di Dio la stiamo dimenticando, il novum di Dio, che sconvolge tutti i nostri piani, che soffia
sulle nostre costruzioni e getta tutto a terra. La novità di Dio stentiamo anche noi a percepirla.
In questi giorni noi l'abbiamo afferrata, non solo per quello che lui ha fatto nella nostra anima, per il
perdono che ci ha concesso, per l'amicizia che ci ha fatto vivere, per l'esperienza che abbiamo
vissuto vedendo tante sofferenze, tanti poveri, tante persone. Adesso, come in un caleidoscopio,
nella nostra mente si rigirano tutte le immagini.
Non so se stupirmi di più del fluire dell'acqua del Gave o del fluire interminabile delle persone
davanti alla grotta. Quanta gente, quanto stupore!
Abbiamo visto il pianto sul ciglio di tante persone, abbiamo visto che Dio fa delle meraviglie,
compie cose nuove. Ebbene noi dovremmo stupirci di più del nostro Dio, che è un Dio nuovo, che
non ci ha abbandonati come fa il vasaio o lo scultore quando un bozzetto non riesce e l'accantona. Il
Signore fa sempre cose nuove per noi. Non le ha fatte soltanto in questi giorni ma le fa ogni giorno
e noi dobbiamo stupirci di più. Senza stupore è impossibile l'adorazione, senza rapimenti estatici è
difficile la preghiera. Con Dio si potrà avere forse un rapporto «mercantile», basato sulla
contrattazione «domanda e offerta», ma non sarà preghiera, non sarà abbandono fiduciale.
La meraviglia è la base dell'adorazione, ha scritto qualcuno. Senza meraviglia non si può adorare
Dio. Senza avere coscienza che ci troviamo di fronte a uno che fa continuamente nuove tutte le
cose, quindi anche questa nostra anima vecchia, questo nostro cuore antico, senza questa
convinzione, non possiamo adorare in profondità. Impariamo perciò a stupirci.
Non è facile giubilare.
Sant'Agostino fa come un gioco sul termine jubilàre, giubilare: la parola onomatopeica indica
infatti il prorompere del gaudio interiore che viene fuori in colate di sillabe, di canto senza parole; o
meglio, di parole che non riescono a contenere l'empito dei sentimenti e si strappano, si sfaldano, si
sgretolano e lasciano venir fuori la colata lavica dei sentimenti. Appunto questo è il giubilo.
Forse l'abbiamo avvertito qualche volta nella nostra vita. In questi giorni probabilmente l'abbiamo
avvertito di più nei nostri silenzi: dobbiamo portarlo via di qui come una scheggia delle più belle.
Qualcuno forse avrà preso dell'acqua dal Gave o dalle fontane, avrà preso un ciottolo dal torrente.
Penso che la scheggia più grande che dovremmo portarci a casa è il sentimento dello stupore e del
giubilo.
Stupirsi è proprio dei bambini, forse perché i bambini sanno, meglio degli altri, scavalcare la fase
raziocinante e andar dritto all'intuizione. I bambini sono più bravi nello stupore forse perché vivono
quella stagione della vita in cui ci si esercita in un'altra operazione, così affine, quella del pianto.
Anche il pianto è senza parole. Forse per questo i bambini sono capaci di stupore, più di quanto non
lo siamo noi.
Comunque chiediamo al Signore, chiediamo alla Vergine, come ultima grazia, quella di poterci
stupire nella nostra vita e poter cantare pure noi: «Fecit mihi magna qui potens est». Direi meglio
facit: ora fa cose grandi colui che è potente; fa cose grandi per me che sono l'ultimo, che sono il più
povero, che sono un buono a nulla, capace di tutto però se si mette lui di mezzo. Quello dello
stupore è il souvenir che voglio portarmi via da Lourdes.

Recuperare la corporeità
C'è un'altra cosa che vorrei portarmi via, una seconda scheggia: lo spessore della corporeità che
dobbiamo dare alla nostra vita interiore. Abbiamo visto in questi giorni tanti corpi, tante persone. Le
persone sono corpo: noi non abbiamo il corpo, siamo corpo e anima. Voglio dire: siamo corpi, cose
tangibili. Per questo dobbiamo recuperare lo spessore delle cose che si toccano, che si vedono.
Durante la processione eucaristica ieri sera mi sono aggrappato all'inferriata: mi sembrava di essere
in carcere, io in carcere e gli altri negli spazi della libertà. Vedevo tutta questa gente che passava,
passava libera sulle carrozzelle. Quanti corpi, quante carrozzelle, quanti volti; volti facilmente
classificabili: quelli sono cinesi, quelli sono indiani, quelli sono irlandesi, quelli sono scandinavi,
quelli sono senz'altro italiani. Quante carrozzelle.
E quante acque si vedono qui: acqua alle fontane, acqua alle piscine, acque nelle bottiglie. Mi
pareva di vedere qualcosa di sacro pur in questo disperdersi, anche nella girandola dei negozi di
Lourdes.
Quanta gente ci è passata accanto subito dopo il disperdersi di una processione, quanta gente, quanti
saluti anche, quanta gente ci ha fermato, intuendo forse che siamo sacerdoti. L'avete scorto anche
voi il pianto di alcune persone.
E poi candele, candele. Chi le ha accese? Chissà quanta gente povera avrà pianto nell'offrire alla
Madonna una candela, grossa o piccola. Chissà quale struggimento interiore. Vedevo quella gente
che prendeva la candela, l'accendeva per portarla davanti all'immagine di Maria, quasi fosse il
prolungamento della propria persona che non può attardarsi più a lungo, come un prolungamento
dell'anima, un prolungamento della fede. Questa è corporeità.
Quante canzoni, in quante lingue, quanti strumenti. Anche la tromba c'è stata oggi nella nostra
chiesa durante la liturgia. Anche questa è corporeità. E mi ha fatto capire una cosa: che anche alle
cadenze interiori della nostra vita spirituale noi dobbiamo dare lo spessore della corporeità, la
carnalità della grazia di cui parlano i teologi. La carnalità della grazia. È un fatto di alta ascetica.
Mi viene in mente un episodio che ci viene raccontato da Tommaso da Celano a proposito di san
Francesco: la notte di Natale a Greccio, quando venne fatto il primo presepe, Francesco era diacono,
perciò venne invitato a cantare il Vangelo. Il cronista annota che, ogni volta che pronunciava il
nome di Gesù, Francesco si passava la lingua sulle labbra per assaporare la dolcezza di quel nome.
Questo leccarsi le labbra mi sembra molto bello.
La carne è il cardine della salvezza.
Vorrei dirlo a voi, carissimi confratelli; non lo direi alle sorelle infermiere, alle volontarie, ai laici,
perché su questo sono più protesi di noi sacerdoti che siamo accademici della teologia, che abbiamo
studiato e sappiamo tanta teoria. Voglio dire: di Dio non si dà soltanto teoria ma si dà soteria, che
significa salvezza. È un vocabolo difficile.
Visto che mi son messo a parlare difficile, aggiungo un'altra espressione che anche voi avrete
ripetuto chissà quante volte studiando nella scuola di teologia: caro salutis cardo, la carne è il
cardine della salvezza. La carne, il corpo, la visibilità, sono il cardine attorno a cui si articola la
salvezza, anzi sono la feritoia attraverso cui l'opera salvifica di Dio entra nelle arterie della storia.
Se è così, dobbiamo esprimere anche visibilmente il nostro amore per Gesù Cristo, il nostro amore
per il Vangelo, il nostro amore per il mondo, per la terra, per cui siamo costituiti sacerdoti.
Dobbiamo esprimerlo anche attraverso le vibrazioni del nostro essere, del nostro corpo. La gente
deve capire che dalle nostre mani si spande il buon profumo di Cristo, la gente deve intuirlo questo,
deve capire che noi abbiamo messo gli occhi negli occhi di Dio, che lo abbiamo toccato il Signore,
che gli siamo stati vicini.
Leggiamo nella lettera a Tito: «Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo
amore per gli uomini”. La bontà di Dio che si è manifestata - benignitas Salvatoris nostri -
dobbiamo esprimerla noi: la benignità, la mansuetudine, la dolcezza, la tenerezza di Gesù Cristo ha
preso forma nei nostri gesti, nelle nostre strette di mano, nella nostra preghiera, nel nostro
atteggiamento, anche del corpo. Non dobbiamo disdegnare la benignità come se fosse una
spiritualità d'accatto. Forse non mi so esprimere come vorrei, però avete compreso che la seconda
scheggia che vorrei portar via di qui è proprio questo: dare alla nostra vita interiore lo spessore della
corporeità.

Maria nella nostra vita interiore


Poi una terza cosa. Dobbiamo riscoprire di più la funzione di Maria all'interno della nostra vita
interiore, all'interno della nostra vita spirituale. Qualcuno potrà aver la sensazione che stiamo
rasentando le soglie del devozionismo; qualcuno potrà anche arricciare il naso in nome del
cristocentrismo, del pneumocentrismo e di tutti gli altri centrismi. Qualcuno potrebbe domandarsi
perplesso: Cosa diranno i nostri fratelli protestanti se vengono qui? Non voglio esortarvi ad
aumentare gli spessori della devozione mariana, vi sto esortando a ricentrare di più, a scoprire di
più, la funzione ecclesializzante di Maria, la funzione di Maria all'interno della nostra vita interiore.
Non si tratta di devozione: la Lumen Gentium parla chiaro. Se è vero che Maria è segno del
peregrinante popolo di Dio ed è segno efficace, segno e strumento della crescita del popolo di Dio,
quella segnaletica dobbiamo osservarla, non possiamo metterla tra parentesi. Non possiamo far finta
di non aver visto il rosso, il verde, oppure la freccia direzionale. Se il Signore ha messo Maria come
segno, se Maria, tota pulchra, e anticipazione della Chiesa, anche la Chiesa sarà un giorno tota
pulchra, senza macchia e senza ruga. Un giorno anche noi saremo come Maria.
Se Maria ha la funzione anticipatrice, non possiamo scavalcarla. Si tratta di riscoprire proprio
questa verità profondissima: Maria è «primizia e immagine della Chiesa», come diciamo nel
prefazio proprio. A Cana ella «ha anticipato i tempi nuovi», ha anticipato le nozze dell'Agnello al
sesto giorno, come nel sesto giorno avvenne la creazione dell'uomo e della donna, l'istituzione del
matrimonio. Al sesto giorno - l'ho già fatto notare - non il sabato quando Gesù, come Dio, si riposò.
Giovanni, all'inizio del suo Vangelo, segue lo schema dell'esamerone dell'Antico Testamento per
farci capire che Maria è colei che ci introduce alle nozze dell'Agnello.
Questo lo dobbiamo riscoprire. Ciò significa che dovremo forse piegarci con maggior tenacia sugli
studi di teologia mariana, di teologia biblica, per scoprire il peso che ha Maria nella nostra vita
interiore.
Abbiamo vissuto la festa mariana in questa settimana, adesso torniamo a immergerci nella ferialità.
Vorrei concludere invocando Maria, Donna feriale, donna di ogni giorno. Ci sarà di grandissimo
aiuto perché, nel contemplare le grandezze straordinarie di Maria, qualche volta possiamo essere
tenuti a una certa distanza; se non siamo proprio scoraggiati, siamo presi un po' dallo sgomento.
Nella ferialità, con i piedi per terra.
Maria però ha vissuto davvero la ferialità, la vita di ogni giorno. Lo dice il Concilio con molta
chiarezza. Anche per me è stata una scoperta. Mi ha colpito una frase riportata sotto un'immagine
della Madonna, una frase che avevo letto e riletto mille volte; mi è parsa così audace che sono
andato alla fonte per controllarne l'autenticità. Al quarto paragrafo del Decreto sull'apostolato dei
laici è scritto testualmente: «Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti, piena di sollecitudini
familiari e di lavoro».
Bellissimo. Maria viveva sulla terra, non sulle nuvole; i suoi pensieri non erano campati in aria, i
suoi gesti avevano come soggiorno obbligato il perimetro delle cose concrete. Anche se l'estasi era
l'esperienza a cui Dio spesso la chiamava, non si sentiva dispensata dalla fatica di rimanere con i
piedi per terra. Maria viveva sulla terra, lontana dalle astrattezze dei visionari, come dalle evasioni
degli scontenti, o dalle fughe degli illusionisti: Maria conservava caparbiamente il domicilio nel
terribile quotidiano.
Ma c'è di più: Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti. Simile cioè alla vicina di casa.
Beveva l'acqua dello stesso pozzo, pestava il grano nello stesso mortaio, sedeva al fresco dello
stesso cortile. Anche lei tornava stanca la sera dopo aver spigolato nei campi. Anche a lei un giorno
dissero: «Maria, ti stai facendo i capelli bianchi». Si specchiò forse alla fontana, e anche lei provò la
struggente nostalgia di tutte le donne quando si accorgono che sfiorisce la giovinezza. Non è
estranea Maria alla sofferenza di tutte le figlie di Eva.
Le sorprese però non sono finite: infatti, se la vita di Maria fu, come la nostra, piena di sollecitudini
familiari e di lavoro, se questa creatura straordinaria divenne inquilina delle nostre fatiche umane,
bisogna sospettare che la nostra penosa ferialità non debba essere banale come pensiamo. Anche lei
ha avuto i suoi problemi di salute, di economia, di rapporti, di adattamento. Chissà quante volte è
tornata dal lavatoio col mal di capo, soprappensiero, mentre Giuseppe vedeva diradarsi i clienti
dalla bottega. A quante porte avrà bussato chiedendo qualche giornata di lavoro per il suo Gesù
nella stagione dei frantoi? Avrà consumato malinconicamente chissà quanti meriggi per rivoltare il
mantello logoro di Giuseppe e ricavarne un altro perché Gesù non sfigurasse tra i compagni di
Nazaret.
Come tutte le mogli avrà avuto anche lei dei momenti di crisi nei rapporti con suo marito, del quale
- taciturno com'era - non sempre avrà capito i silenzi. Come tutte le madri avrà spiato tra timori e
speranze le pieghe dell'adolescenza di suo figlio. Come tutte le donne avrà provato la sofferenza di
non sentirsi compresa neppure dai due amori più grandi che avesse sulla terra e avrà temuto di
deluderli, o di non essere all'altezza del ruolo. E dopo aver stemperato nelle lacrime il travaglio di
una solitudine immensa, avrà trovato, finalmente, nella preghiera fatta insieme il gaudio di una
comunione sovrumana.

Preghiera a Maria, Donna dei nostri giorni


Santa Maria, donna dei nostri giorni, vieni ad abitare in mezzo a noi. Tu hai predetto che tutte le
generazioni ti avrebbero chiamata beata. Ebbene, tra queste generazioni c'è anche la nostra, che
vuole cantarti la sua lode non solo per le cose grandi che il Signore ha fatto in te nel passato, ma
anche per le meraviglie che egli continua a operare in te nel presente.
Fa' che possiamo sentirti vicina ai nostri problemi. Non come Signora che viene da lontano a
sbrogliarceli con la potenza della sua grazia o con i soliti moduli stampati una volta per sempre. Ma
come una che, gli stessi problemi, li vive anche lei sulla sua pelle, e ne conosce l'inedita
drammaticità, e ne percepisce le sfumature del mutamento, e ne coglie l'alta quota di tribolazione.
Santa Maria, donna dei nostri giorni, liberaci dal pericolo di pensare che le esperienze spirituali
vissute da te duemila anni fa siano improponibili oggi per noi, figli di una civiltà che, dopo essersi
proclamata postmoderna, postindustriale e postnonsoché, si qualifica anche come postcristiana.
Facci comprendere che la modestia, l'umiltà, la purezza sono frutti di tutte le stagioni della storia, e
che il volgere dei tempi non ha alterato la composizione chimica di certi valori quali la gratuità,
l'obbedienza, la fiducia, la tenerezza, il perdono. Sono valori che tengono ancora e che non
andranno mai in disuso. Ritorna, perciò, in mezzo a noi, e offri a tutti l'edizione aggiornata di quelle
grandi virtù umane che ti hanno resa grande agli occhi di Dio.
Santa Maria, donna dei nostri giorni, dandoti per nostra madre, Gesù ti ha costituita non solo
conterranea, ma anche contemporanea di tutti. Prigioniera nello stesso frammento di spazio e di
tempo. Nessuno, perciò, può addebitarti distanze generazionali, né gli è lecito sospettare che tu non
sia in grado di capire i drammi della nostra epoca.
Mettiti, allora, accanto a noi, e ascoltaci mentre ti confidiamo le ansie quotidiane che assillano la
nostra vita moderna: lo stipendio che non basta, la stanchezza da stress, l'incertezza del futuro, la
paura di non farcela, la solitudine interiore, l'usura dei rapporti, l'instabilità degli affetti,
l'educazione difficile dei figli, l'incomunicabilità perfino con le persone più care, la frammentazione
assurda del tempo, il capogiro delle tentazioni, la tristezza delle cadute, la noia del peccato.
Facci sentire la tua rassicurante presenza, o coetanea dolcissima di tutti. E non ci sia mai un appello
in cui risuoni il nostro nome, nel quale, sotto la stessa lettera alfabetica, non risuoni anche il tuo, e
non ti si oda rispondere: «Presente!».
Come un'antica compagna di scuola.

Cap. 12. DAI POVERI VERSO TUTTI

Sono andato a trovare un mio sacerdote in Argentina e ho potuto incontrare il vescovo del luogo,
monsignor Miguel Esteban Hesayne, un vescovo straordinario, intrepido, che ha scritto una
pastorale a fumetti, per farla capire alla gente, intitolata Desde los pobres a todos, cioè Dai poveri
verso tutti. Partire dai poveri non significa fare una scelta di classe, significa andare dai poveri verso
tutti, per raggiungere tutti.
Quando ci dicono: «Voi parlate sempre degli ultimi; stare con gli ultimi, partire dagli ultimi. E dei
primi che facciamo? Gesù ha amato tutti», la risposta è servita proprio con questa espressione:
Desde los pobres a todos, dai poveri verso tutti. La Chiesa ci dice di partire dagli ultimi ma per
andare verso tutti, perché anche i primi, anche i ricchi, sono oggetto del nostro impegno, del nostro
interessamento pastorale, della nostra passione di presbiteri.

Il Vangelo a Bariloche
Accompagnato da monsignor Hesayne, andai a visitare una città simile alla nostra Cortina
d'Ampezzo: si chiama Bariloche. C'è la Bariloche bene, con grandi palazzi dei grossissimi
proprietari terrieri dell'Argentina, di tutti i ras che vanno lì. E c'è la Bariloche povera, dei quartieri
squallidi: in questa sono andato con due sacerdoti. È una cosa incredibile. Quanta miseria, quanta
povertà ho toccato con mano. Bambini cileni, boliviani, famiglie distrutte. Faceva freddo, era il
mese di ottobre (che là corrisponde al nostro mese di marzo), e si vedevano le montagne innevate,
lo ricordo bene. Nelfango c'erano bambini a piedi scalzi, rossi per il freddo, che facevano volare i
loro aquiloni. Era un tramonto limpidissimo. Ho «catturato» un bambino con alcune caramelle e gli
ho chiesto: «Dove abiti?». Mi ha condotto in una stamberga fatta di lamiere contorte. Sono entrato:
c'era una donna con un bambino in braccio, sudamericana, gli occhi profondissimi; aveva 32 anni
ma ne dimostrava 50, e aveva dodici figli. Nella casupola fatta di lamiere non c'era nulla, solo un
caminetto acceso, un televisore spento e un tavolino. Ho capito che, la notte, quello diventava il loro
dormitorio; forse dormivano uno sull'altro. In quella miseria così squallida ho visto sul tavolo un
libro in spagnolo: «Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo». Fu come se avessi avuto una
illuminazione e mi sono sentito a casa mia. Ho guardato quella donna e le ho detto: “Voi leggete il
Vangelo?”. Con un sorriso che non dimenticherò mai, mi ha risposto: “Unico consueto por nuestra
pobreza» (ricordo quelle parole; non so se le dico bene, in spagnolo): il Vangelo è l'unica
consolazione, l'unico sostegno per la nostra povertà. Quando sono uscito, i bambini continuavano a
far volare i loro aquiloni: a me sembrava che avessero ritagliato gli aquiloni sulle pagine del
Vangelo, per annunciare alla Bariloche dei ricchi il Vangelo della liberazione.

Evangelizzazione e carità
Priorità dell'evangelizzazione: siamo angariati da questo problema, dobbiamo portare anche noi
questa croce dolcissima ed è un'urgenza fondamentale. Certo: priorità dell'evangelizzazione; ma poi
c'è l'altro concetto fondamentale che ci dicono i vescovi: la carità è il cuore dell'evangelizzazione.
Ricordate: la carità è il cuore del Vangelo ed è la via maestra dell'evangelizzazione. I vescovi, per
sintetizzare tutto questo, parlano ora del Vangelo della carità che deve essere al centro della nuova
evangelizzazione.
Cosa significa Vangelo della carità? Nonostante la ristrettezza del tempo, mi sembra essenziale
potervi dire almenoda dove dobbiamo partire. Ho già parlato della carità delle opere che deve
prevalere sulle opere della carità, perché se questo flusso che ci porta verso gli altri non parte dalla
Trinità sarà soltanto filantropismo faccendiero, vortice di attività, di impegni; sarà un intasamento
di cose che non fa giungere al nostro fratello il beneficio fondamentale, ciò di cui lui ha veramente
bisogno: questo è l'annuncio della liberazione radicale operata da Gesù Cristo. Dobbiamo partire da
lui, alzarci da tavola, come abbiamo già ampiamente spiegato.
Naturalmente se ci alziamo da tavola e andiamo dai nostri fratelli è chiaro che li aiuteremo, che
andremo loro incontro, col cervello prima che col cuore, e con le mani; sarà la nostra una carità
articolata. Oggi non basta commuoversi, andare incontro al fratello che ha bisogno, dargli diecimila
lire, centomila lire, pagargli l'affitto di casa o la luce, quando vengono con le bollette. E quando gli
hai pagato la bolletta di questo mese cosa fai? Devi ricominciare sempre da capo. Si tratta di aiutare
i nostri fratelli col cuore, sì, ma anche col cervello e con le mani buone: questo significa che
dobbiamo prendere atto - attenzione: mi sembra fondamentale, per noi sacerdoti e vescovi -
dobbiamo prendere atto che non siamo dei potenti che possono dare oro e argento. Noi possiamo
dire soltanto ai nostri fratelli: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome
di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». Questo possiamo dire. Però quel poco che abbiamo
a disposizione dobbiamo pur metterlo a vantaggio dei nostri fratelli.

I segni del potere e il potere dei segni


Oggi come Chiesa noi non abbiamo i segni del potere, ma abbiamo il potere dei segni. Grazie a Dio,
oggi le nostre autorità, i vescovi, i cardinali, i notabili, per adoperare una frase non molto bella, non
esprimono più i segni di potere. Grazie a Dio, stanno cadendo i segni del potere all'interno della
Chiesa. Però teniamoci stretti il potere dei segni. Questo sì, teniamocelo stretto il potere di collocare
dei segni sulla strada a scorrimento veloce che il mondo ha imboccato.
Noi siamo delle frecce stradali, delle frecce che indicano l’ulteriorità, spine dell'inappagamento
conficcate nel fianco del mondo per richiamare il mondo: «Ma che strada stai battendo?».
Abbiamo soltanto il potere dei segni.
Quando introduciamo in casa nostra gli sfrattati o i tossicodipendenti ci dicono: «Cosa fai? - lo
hanno detto pure a me! - Pensi di risolvere il problema degli sfrattati della città introducendo due o
tre famiglie in casa tua? Ce ne sono trecento, quattrocento, che cosa vuoi fare to? Ti illudi». Ecco la
risposta che dobbiamo dare: noi come Chiesa non dobbiamo pensare alla risoluzione del problema
degli sfrattati, ci devono pensare le istituzioni pubbliche, lo Stato, il Comune, la Provincia, la
Regione. Ci devono pensare loro, loro hanno il potere in mano, i segni del potere. Noi però abbiamo
il potere dei segni. Noi dobbiamo essere uno "scrupolo" conficcato nella scarpa del mondo:
«Introduco degli sfrattati in casa mia per dire che la Chiesa è disponibile all'incontro con i fratelli e
che tutti voi dovete fare lo stesso». Non soltanto voi strutture ma anche voi credenti, che affollate le
Messe la domenica e vi percuotete il petto dichiarando le vostre colpe: Mia colpa, mia colpa, mia
grandissima colpa... e vi scambiate il segno di pace; e dopo aver cantato: «Se qualcuno ha dei beni
in questo mondo, e chiudesse il cuore agli altri nel dolor», fuori, ognuno continua per i fatti suoi.
La Chiesa ha il potere dei segni. Alcuni hanno dei tossici in casa, dei poveri, degli sbandati, degli
zingari, degli sfrattati. È il potere dei segni che avete. Coltivatelo, tenetelo, perché fa un salutare
contrasto nell'animo di coloro che vi criticano. Forse dovremmo fare tutti così, dovremmo
alleggerirci dei Tir delle nostre stupide suppellettili, per andare incontro più da vicino al nostro
fratello.
Quando usciamo da qui troviamo tantissimi poveri che stendono la mano. È chiaro che tu non puoi
dare a tutti, perché ne trovi una ventina finché arrivi a casa. Hai dato a qualcuno? Basta. Il tuo
compito non è quello di risolvere il problema di tutti, ma di esprimere solidarietà con la gente. Se
hai dato all'uno e all'altro, hai dato quello che potevi dare, basta: sii contento, non affliggerti di non
poter dare al quinto, al sesto che viene accanto a te.
“Bisogna stare attenti, perché ci sono moltissimi che truffano». È un mondo dove tutti truffano alla
grande, ma dobbiamo essere proprio noi, ministri del Vangelo e propositori della carità, a doverci
trattenere «per prudenza» dal dare l'obolo della vedova ad un piccolo, ad un povero, ad un ultimo?
Se dieci persone bussano a casa vostra, qualcuno potrebbe dirci: «Guarda che di queste dieci
persone nove non hanno assolutamente bisogno». Ma se c'è uno che ha bisogno, dietro di lui si
nasconde Gesù Cristo: allora è meglio mandare tutti con qualche cosa in mano - col rischio di essere
truffati da nove - piuttosto che mandare tutti a mani vuote, per paura di essere presi in giro. Non
facciamo troppe analisi logiche o grammaticali, quando i poveri vengono a bussare alla nostra casa.
Già sant'Ambrogio, in una pagina bellissima, mette in guardia i cristiani da tutti coloro che
prendono in giro, che truffano, che approfittano di certe loro situazioni. Però tutti sanno quanto
sant'Ambrogio era largo di cuore e di mente.

Parlare col linguaggio delle opere


Allora, ho detto: priorità all'evangelizzazione e poi, ecco, il secondo passaggio, la carità cuore del
Vangelo, via maestra dell'evangelizzazione. Perché quando si fa la carità si annuncia il Vangelo. È
il linguaggio delle opere. Si ripete la Pentecoste con i gesti, la stessa Pentecoste nella quale Pietro
parla e tutti lo ascoltano. Ma cosa c'è sotto quel discorso? Un'interpretazione molto forte che danno
gli esegeti è questa: gli apostoli parlano con il linguaggio delle opere, che tutti comprendono. Se
vediamo che due ragazzi si baciano, capiamo benissimo che si vogliono bene. Anche se uno è
inglese, un altro è australiano, un altro italiano, e quei due sono francesi, tutti capiscono che si
vogliono bene. Tutti capiscono il linguaggio dei segni: una stretta di mano, la condivisione, l'aiuto a
un povero. È un linguaggio percettibile a tutti, che si rinnova, è la Pentecoste.

Carità e giustizia: “Sollicitudo rei meridionalis»


Sto riassumendo per sommi capi, forse in termini non molto appropriati: è come se vi affidassi il
compito a casa. È meglio correre il rischio della scarsa raffinatezza di vocabolario nella sostanziale
sufficienza dei contenuti, piuttosto che indugiare su articolate composizioni in carta lucida di
operazioni che rimangono sterili sul piano della prassi.
Sfruttando la congiunzione che c'è tra i giorni che abbiamo vissuto qui a Lourdes e il Vangelo che
oggi ci viene affidato, credo che questo compito a casa sia affidato dalla Vergine santa
particolarmente a noi sacerdoti, che siamo raccolti nel suo nome.
Dai nostri vescovi ci vengono indicati tre orizzonti. L'impegno cristiano deve coniugare carità e
giustizia.
Soffrire le cose del mondo, carissimi confratelli, significa anche non accettare le situazioni di
ingiustizia, non accettare il diluvio che c'è nel mondo, l'oscena distribuzione delle ricchezze per cui
il 30% dell'umanità utilizza l'88% delle risorse e il 70% dell'umanità deve accontentarsi del
rimanente 12%. Non è gonfiata la cifra, è arrotondata per difetto. Il 70% dell'umanità usufruisce
soltanto del 12% delle ricchezze: come dire che rimangono 12 pani su 100 da spartire tra 70 persone
su 100.
Queste ingiustizie ci sono: ce lo dice il papa nella Christi fideles laici, ce lo ha detto nella
Sollicitudo rei socialis, ce lo dicono i vescovi italiani nel documento Chiesa italiana e
Mezzogiorno, che io chiamo Sollicitudo rei meridionalis.
Dobbiamo veramente coniugare carità e giustizia: soprattutto, dicono i vescovi, siano adempiuti gli
obblighi di giustizia. Non si offra come dono di carità ciò che è dovuto a titolo di giustizia.
Educhiamo a questo i giovani con coraggio.
Vorrei che nessuno di voi dicesse a questo punto: «Non è compito di noi sacerdoti. Noi dobbiamo
predicare all'ingrosso, sulla testa della gente; dobbiamo dire i principi. Le cose concrete poi se le
devono vedere loro». Non è vero. Questa è una tentazione diabolica.
Quando il Vangelo dice che Gesù “ebbe compassione della gente perché erano come pecore senza
pastore», usa il verbo enthyméo (da thymos, cuore, anima). Come Gesù, anche noi dovremmo
sentire il nostro cuore gonfio di tenerezza verso i poveri, gonfio di sdegno quando vediamo tante
cose che non vanno. Ma non con l'aria dei demagoghi, col piglio di coloro che dicono chissà-che-
cosa, che lanciano scomuniche, che denunciano soltanto. Prima di tutto dobbiamo vivere noi la
povertà, se vogliamo annunciarla agli altri. Dobbiamo educarci alla povertà, perché - attenzione! -
poveri non si nasce, poveri si diventa. Si nasce poeti, ma non si nasce poveri; poveri si diventa, così
come si diventa ingegnere, si diventa avvocato, si diventa prete, dopo una trafila di studi, dopo
approfondimenti continui.

Rinunciare, prima di denunciare


È una educazione difficile quella della povertà. È un insegnamento che Gesù Cristo ha voluto
riservare a se stesso: “Gesù da ricco che era si è fatto povero»; il culmine della sua carriera è la
povertà. Gesù si è fatto povero, come noi ci facciamo preti, come mio fratello si è fatto medico. Lui
si è fatto povero. Per Gesù la povertà ha il sapore di un diploma di laurea, incorniciato con cura,
custodito gelosamente ed esposto al momento buono, come quando dice: «Le volpi hanno le loro
tane, gli uccelli del cielo il loro nido, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». È un
insegnamento per noi: anche noi dobbiamo farci poveri.
Non basta denunciare le ingiustizie. Non basta denunciare soltanto, se non si testimonia. Bisogna
prima annunciare, poi rinunciare, finalmente denunciare.
Prima di denunciare, rinunciare. Lo abbiamo già ricordato: le nostre testimonianze al riguardo non
sempre sono delle più limpide; siamo un po' attaccati alle nostre cose. Quando il vescovo ci ordina
un trasferimento, non basta una piccola valigia, qualche volta dobbiamo prenotare camion e
rimorchio per portarci dietro tutto.
La nostra libertà interiore: questo è il primo annuncio che oggi il mondo attende da noi. Come san
Francesco - ricordate? «Scalzati, Egidio. Scalzati, Silvestro» - seguì a tal punto Madonna Povertà,
che anche i suoi discepoli si scalzarono. Non è pauperismo romantico questo. Sono le strade
maestre che il Signore ci invita a percorrere con coraggio.

Sono i poveri che annunciano il Vangelo


I vescovi, parlando dell'impegno cristiano di coniugare carità e giustizia, parlano di amore
preferenziale per i poveri. «Preferenziale» significa «da preferire». Cioè: dobbiamo partire da loro,
dobbiamo farli diventare non soltanto destinatari delle nostre esuberanze caritative ma protagonisti
del nostro annuncio di liberazione. I vescovi latino-americani parlano del carisma evangelizzatore
dei poveri, altri parlano del potenziale evangelizzatore dei poveri: sono i poveri che annunciano.
Passiamo armi e bagagli dalla parte dei poveri, abbiamo più fiducia in loro. È il Signore Gesù che ci
provoca a questo assurdo nel quale noi dobbiamo decisamente entrare. Diamo spazio ai poveri nelle
nostre assemblee, facciamoli parlare, non chiamiamo soltanto i notabili della cultura, quelli che
sono capaci di prendere la parola. Diamo la parola ai poveri, facciamo più spazio a loro. Faremo
forse passi più piccoli, ma senza dubbio saranno passi molto più credibili.
Amore preferenziale per i poveri significa non soltanto diventare poveri ma anche aiutare i poveri.
Quando arriveremo alle porte del Regno, il visto sul passaporto può avere due timbri: o «Beati voi
poveri perché vostro è il Regno di Dio», oppure «Benedetti dal Padre mio, perché avevo fame e mi
avete dato da mangiare”. O beatio benedetti: o ci facciamo poveri, o ci facciamo tutt'uno con loro,
solidarizziamo con loro e li amiamo al punto da diventare quasi la loro pròtesi, il loro
prolungamento. Senza uno di questi due timbri nessun passaporto vale per entrare nel Regno di Dio.

Non solo i poveri aristocratici


Terzo compito dell'impegno cristiano è coniugare carità e giustizia. Non lasciatevi disturbare da
coloro che dicono: «Ma questo è linguaggio demagogico. Voi state parlando di orizzontalismo; non
state facendo gli interessi del Regno, ma quelli della demagogia». Non è vero. Gesù ha sofferto
davvero per i poveri. I miserabili, gli esclusi, coloro che si trovano in difficoltà, le categorie a
rischio, i poveri, insomma, li troviamo intorno a noi: dai minori agli handicappati, dagli anziani alle
prostitute, dai tossici ai malati di Aids, la gente divisa, le famiglie spaccate. Sono poveri anche
alcuni nostri confratelli allo sbando, dei quali nessuno si preoccupa, quelli che, poverini, non
trovano una spalla su cui appoggiare il capo dopo le loro fatiche. E non sempre la spalla che trovano
è quella che vuole il Signore, perché non li sappiamo capire, li giudichiamo, chiudiamo loro le porte
in faccia, non li accogliamo più nei nostri presbiteri.
Questo non significa fare un mantello e coprire tutto. Significa essere veri. Perché la carità si fa
nella verità. Significa essere veri, significa essere chiari, significa essere duri, ma sempre
accoglienti, capaci di misericordia. Questa è la nostra attitudine nei confronti dei poveri. Anche nei
confronti dei poveri che non ti ringraziano, dei poveri che ti sputano in faccia, dei poveri che,
quando escono dalla tua casa, dicono che li hai maltrattati; dei poveri che poi vanno spargendo
anche chiacchiere sul tuo conto, poveri viscidi, poveri pieni di miseria umana, di maleducazione.
Quelli che ha amato Gesù non sono i poveri aristocratici, i carcerati eccellenti, per delitti politici;
quelli hanno già la prima pagina sui giornali. C'è uno charme anche nella sofferenza. Gesù parla dei
sofferenti, degli ultimi, quelli che sono squalificati a vita, quelli che sono diventati... (è una parola
che comincia con la m, che non si dice qui in chiesa, ma i tossicodipendenti l'adoperano
moltissimo).
Allora, cari confratelli, noi siamo chiamati davvero a questo annuncio: «Ero carcerato, e siete venuti
a visitarmi».

L'orizzonte planetario della solidarietà


L'ultima cosa che ci dicono i vescovi è l'orizzonte planetario della solidarietà, della pace e della
salvaguardia del creato.
La solidarietà. Ricordate quel numero folgorante della Sollicitudo rei socialis dove il papa parla
della interdipendenza delle sorti dei popoli e degli individui; quindi del bisogno di solidarietà che
deve scaturire anche come impegno, come imperativo etico, all'interno delle nostre comunità.
Solidarietà non è uno sterile sentimento che ci fa lacrimare di commozione, ma è la decisione
irrevocabile, ferma ed efficace di farsi carico dei problemi degli altri. Ad esempio: se pestano un
piede a me - questa è la solidarietà - quel confratello che sta là in fondo dice: «Ahi!».

La pace per fede, non per calcolo


Sull'impegno per la pace vorrei avere il tempo di fare un intero corso di esercizi spirituali. Non
abbiamo dato buona prova noi, a proposito dei temi della pace: non abbiamo sempre avuto la
parresìa, il coraggio di parlare ad alta voce. C'è un'icona molto bella negli Atti degli Apostoli, dove
si spiega benissimo cos'è la parresìa: «Pietro allora, levatosi in piedi insieme con gli altri Undici,
parlò a voce alta così». Alzarsi in piedi, con coraggio, insieme con gli Undici - ecco la collegialità -
e dire le cose con coraggio, con chiarezza, ad alta voce, senza attenuare le finali, senza smorzare,
come abbiamo già accennato.
Noi forse, durante la guerra del Golfo, abbiamo lasciato che si alzasse Pietro, ma «gli altri Undici»,
tutta la Chiesa non si è alzata in piedi. Il papa ha parlato a gran voce, ma la parresìa complessiva
della Chiesa ha trovato qualche fessura, ha scricchiolato un po'. Dovremmo essere più audaci.
Fare la pace per fede, come diceva Dietrich Bonhoeffer, non per puro calcolo umano: è Gesù la
nostra pace. Gesù è venuto a parlare contro ogni forma di violenza. Non ci sono legittimazioni alla
violenza.
Dovremmo affrontare questi temi con maggior audacia e con maggior pazienza. Non c'è da
scandalizzarsi che non s'è data proprio buona prova in questo.
Forse la Chiesa è stata provocata ad approfondire meglio il tema radicale della non violenza di
Gesù, della non violenza attiva che non significa remissività. Il Signore ci provoca non alla difesa
dei nostri diritti, della nostra persona, ma alla difesa non violenta: ecco l'alternativa grande che oggi
deve affascinare noi e le nostre comunità, così come affascina tanti giovani che queste cose le
stanno riscoprendo anche al di fuori dell'ambiente cristiano.

La salvaguardia del creato


Dovremmo partire di qui con un'aura francescana all'interno della nostra anima. Frate Francesco,
che chiamava fratello e sorella tutte le realtà, non era un romantico: se trovava un lombrico sulla
strada lo prendeva e lo adagiava su un muretto perché non venisse schiacciato, non metteva i piedi
nelle pozzanghere per non inquinarle. Frate Francesco ha restituito il diritto di parola a tutte le
creature, per cui parlava con loro e tutte gli rispondevano: le cicale di San Damiano, gli uccelli del
cielo... gli rispondevano perché aveva loro restituito il diritto di parola.
Sentire questo profumo delle cose, questo gemito che scompagina le viscere della terra, questo
anelito profondo sepolto nel cuore della terra che sprigiona fuori in mille canti, in mille colori.
In una splendida poesia intitolata Ognissanti - è uno degli Inni sacri rimasto incompiuto, ma quei
10-12 versi sono belli lo stesso - il Manzoni si interroga: Perché Dio fa crescere fiori splendidi
all'interno di una foresta dove nessuno passa, perché? E risponde: Perché spandono davanti a Dio la
loro fragranza.

A Lui che nell'erba del campo


la spiga vitale nascose,
A Quello domanda, o sdegnoso,
perché sull'inospiti piagge
al tremito d'aure selvagge
fa sorgere il tacito fior;
Che spiega davanti a Lui solo
la pompa del pinto suo velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.

Lo stesso vale per i santi, che il mondo non comprende perché ritiene la loro vita inutile e vuota:
Il secol vi sdegna, e superbo
domanda qual merto agli altari
v'addusse: che giovin gli avari
tesor di solinghe virtù.

Preghiera a Maria, Donna della ferialità.


Concludiamo con una preghiera a Maria, Donna della ferialità, dell'anonimato d'una vita qualunque,
della solitudine d'ogni madre, che avrà ritrovato nella preghiera fatta insieme a Gesù e a Giuseppe il
gaudio di una comunione sovrumana. Maria: una vita tenerissima, dolcissima, come la vita di tutte
le donne, delle nostre sorelle, delle nostre nipoti, delle donne che incontriamo in parrocchia, o
vengono a piangere in chiesa, o a pregare, o a chiedere consiglio.
Preghiamo Maria così:
Santa Maria, Donna feriale, forse tu sola puoi capire che questa nostra follia di ricondurti entro i
confini dell'esperienza terra-terra, che noi pure viviamo, non è il segno di mode dissacratorie. Se per
un attimo osiamo toglierti l'aureola è perché vogliamo vedere quanto sei bella a capo scoperto. Se
spegniamo i riflettori puntati su di te è perché ci sembra di misurare meglio l'onnipotenza di Dio,
che dietro le ombre della tua carne ha nascosto le sorgenti della luce. Sappiamo bene che sei stata
destinata a navigazioni d'alto mare, ma se ti costringiamo a veleggiare sotto costa non è perché
vogliamo ridurti ai livelli del nostro piccolo cabotaggio; è perché, vedendoti così vicina alle spiagge
del nostro scoraggiamento, ci possa afferrare la coscienza d'essere chiamati pure noi ad
avventurarci, come te, negli oceani della libertà.
Santa Maria, Donna feriale, aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia non è
quello che ti pone all'interno della Bibbia o della patristica, della spiritualità o della liturgia, dei
dogmi o dell'arte, ma è quello che ti colloca all'interno della casa di Nazaret, dove tra pentole e telai,
tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli della Scrittura hai sperimentato, in tutto lo
spessore della tua anti-eroica femminilità, gioie senza malizia, amarezze senza disperazioni e
partenze senza ritorni.
Santa Maria, Donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell'epopea e insegnaci a considerare la vita
quotidiana come il cantiere dove si costruisce la storia della salvezza. Allenta gli ormeggi delle
nostre paure, perché possiamo sperimentare, come te, l'abbandono alla volontà di Dio nelle pieghe
prosaiche del tempo e nelle agonie lente delle ore. Torna a camminare discretamente con noi, o
creatura straordinaria innamorata di normalità, che prima d'essere incoronata Regina del cielo hai
ingoiato la polvere della nostra povera terra.

“Offri la vita tua, come Maria”


Maria è così: e ci aiuterà, e ci farà camminare con lei, accompagnerà in modo particolare voi, noi
sacerdoti.
Vorrei che chiudessimo ascoltando un canto che ci fanno i nostri ragazzi. L'abbiamo sentito tante
volte: l'hanno cantato ieri alla grotta. Mi sembra un canto di speranza, di incoraggiamento per voi,
di sprone perché abbiate a sentirvi davvero, come Maria ai piedi della croce, servi per amore e
sacerdoti dell'umanità, perché siamo sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
Le parole del canto fanno riferimento alle fatiche che abbiamo fatto senza prendere niente, finché
un giorno il Signore ci invita a gettare la rete nel suo nome, e noi, come Pietro, afferriamo 153
grossi pesci (ricordate la storia del numero 153: ne abbiamo parlato).
Una notte di sudore,
sulla barca in mezzo al mare:
mentre il cielo si imbianca già
tu guardi le tue reti vuote.

Il cielo si imbianca già, e noi ci accorgiamo, magari a 70 anni, che non abbiamo preso niente:
«Signore, a vuoto ho girato tutta la notte». Ma non abbiamo paura di presentarci a mani vuote:
Ma la voce che ti chiama
un altro mare ti mostrerà
e sulle rive di ogni cuore
le tue reti getterai.

Torniamo a casa presi da questo bisogno di rinnovamento. Getteremo di nuovo le reti «nel tuo
nome, Signore», e nel nome di lei, Maria: così le nostre reti si gonfieranno.
Offri la vita tua
come Maria ai piedi della croce
e sarai servo di ogni uomo,
servo per amore,
sacerdote dell'umanità.
E un'altra strofa dice:
Avanzavi nel silenzio,
tra le lacrime speravi
che il seme sparso davanti a te
cadesse sulla buona terra.

Quante parole hai pronunciato nella vita, dall'altare, dall'ambone. Ora il tuo cuore è in festa. Non
temere, anche se apparentemente la mietitura non è stata abbondante, non temere. Il Signore tiene
conto dei sacrifici che hai seminato:
Ora il cuore tuo è in festa
perché il grano biondeggia ormai,
è maturato sotto il sole
e puoi riporlo nei granai.
Offri la vita tua come Maria
ai piedi della croce.

Ascoltiamo il canto come una preghiera, come sprone, come stimolo che ci viene da questi ragazzi
che abbiamo di fronte, e ci auguriamo che, tra qualche anno, possano calcare le orme che abbiamo
lasciato noi. Penso che, per loro, non ci sia gratificazione più grande del vostro sorriso e
dell'incoraggiamento che avete dato loro con la vostra esemplarità in questi giorni.

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