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Beati i miti, perché erediteranno la terra»: è questa la beatitudine che risuona al mio cuore ogni
volta che “incontro» Don Tonino Bello. Forse ad altri viene più spontaneo pensare all'altra
promessa di Gesù: «Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio», ma per me il
passaggio di Don Tonino in mezzo a noi resta contrassegnato innanzitutto dalla «mitezza», da
quell'essere discepolo del Maestro «mite e umile di cuore» che invita tutti a prendere su di sé il suo
giogo dolce e il suo carico leggero. Una mitezza mai triste, una docilità mai remissiva, un'umiltà di
cuore resa manifesta da un'umiltà nel servizio, un'audacia evangelica propria di chi non ha nulla da
difendere. Sì, alla sequela di Gesù e assieme a lui siamo chiamati a portare un carico, una croce che
è nel contempo segno di speranza e di gioia: cirenei della croce, cirenei della gioia.
Siamo portatori di qualcosa che è più grande di noi, che «porta» noi nel momento stesso in cui è
portato: come la croce è «nostra» solo in virtù del profondo legame con la croce di Cristo, così la
gioia è «nostra», ed è autentica, piena solo se vissuta in comunione con la gioia del Risorto, solo se
trasmessa, condivisa, annunciata agli uomini tutti, al mondo che l'attende forse senza nemmeno
saperlo.
Di questo Don Tonino Bello ci parla ancora oggi, non solo perché è possibile diffondere oggi - dopo
il suo passaggio dalla morte alla vita - il testo delle meditazioni da lui offerte in occasione di un
pellegrinaggio di presbiteri anziani o malati a Lourdes1, ma anche e soprattutto perché le verità di
fede annunciate da Don Tonino e la sua testimonianza di fedele discepolo del Signore rimangono
vive perché ancorate, radicate nel Signore della vita.
Rimane viva la sua semplicità, la sua concretezza, la sua fedeltà alla terra nella ricerca delle cose
dell'alto. Rimane viva la sua passione per il mondo, «passione» talmente intensa da prendere carne
nella sua sofferenza fisica, passione che anche da queste pagine emerge con chiarezza cristallina e
con radicalità evangelica: “Il mondo non è il rivale della Chiesa. Il mondo deve essere il termine
della passione della Chiesa, così come è il termine della passione di Dio, così come è il termine del
progetto salvifico di Dio».
Era solo la stanchezza che gli faceva ripetere in quei giorni, in mezzo ai malati, «Sono malato
anch'io»? O era un presagio di quella prova che avrebbe affrontato poco dopo? Forse era qualcosa
di più profondo ancora: era il suo desiderio di farsi «tutto a tutti», povero con i poveri, emarginato
con gli emarginati, lacerato dalla violenza e dalla guerra con le vittime della violenza e della guerra;
un desiderio talmente autentico e profondo da essere esaudito dal Signore. La malattia allora come
segno di una preghiera esaudita, come sigillo a una solidarietà vissuta non solo a parole, come
testimonianza di amore fino alla fine.
Mite discepolo del Maestro mite, Don Tonino è stato, anzi è ancora, con più forza che mai, parabola
vivente del Pastore dei pastori che depone le vesti per servire i fratelli, che depone la vita per le sue
pecore. Sì, a Lourdes, in mezzo a malati e sofferenti, don Tonino ha rivolto loro parole di
consolazione e di gioia, ma queste pagine ci dicono anche che li ha iniziato ad ascoltare nel proprio
intimo una voce amica che come acqua viva gli sussurrava: «Vieni al Padre!».
Bose, 3 giugno 1995
1
Il pellegrinaggio si tenne dal 22 al 27 luglio 1991
Cap. 1. CIRENEI DELLA GIOIA DEL MONDO
Confratelli sacerdoti, dopo aver visto in questo suggestivo vespro di luglio tanto tripudio nella gente
che ci ha atteso nelle stazioni di Grosseto, di Livorno, di Pisa, di Chiavari, di Sestri, di La Spezia,
dopo aver contemplato la distesa del mare nella festa del tramonto, dopo aver invidiato la serenità
gioiosa di tanti bagnanti sulle spiagge della riviera ligure, dopo aver ammirato la dolcezza di questi
ridenti paesaggi quando scende la sera, mi è venuta l'idea di intitolare questo mio primo intervento
così: Cirenei della gioia.
Noi conosciamo bene il Cireneo della croce. Una lunga dottrina ascetica ci ha abituati a pensarci
soccorritori delle sofferenze del mondo, a sentirci gente che aiuta il mondo a portare la croce.
Perché non ci pensiamo invece come gente che aiuta il mondo a portare la gioia? Non vi sembra
bello dare inizio con questa idea al nostro pellegrinaggio?
Se è lecito abusare delle immagini, a me pare che, da quando siamo partiti, è come se avessimo
steso una rete a strascico, come dicono i pescatori del mio paese; stiamo trascinando verso Lourdes
come una rete che ingloba dentro di sé tantissima letizia, tanto tripudio, tanto gaudio.
Se è vero che il giorno si conosce dal mattino, oggi sentiamo che questo inizio è davvero il preludio
d'una splendida giornata che vivremo insieme. Anzi, mi è parso di cogliere anche in alcuni segni
della natura uno stimolo perché i nostri occhi si rivolgano al Signore. Prima di arrivare a Toulouse,
abbiamo visto dei campi sterminati di papaveri, con le loro corolle orientate verso il sole. Allora mi
sono ricordato del Salmo:
«A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli. Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro
padroni, come gli occhi della schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al
Signore nostro Dio».
È bello questo orientarci verso il Signore Gesù, che nell'inno delle Lodi (memoria di santa Brigida)
abbiamo invocato oggi in diversi modi: «Cibo, bevanda di vita, balsamo, veste, dimora, forza,
rifugio, conforto».
Abbiamo già sottolineato come la gioia deve caratterizzare questi giorni che viviamo insieme, qui
presso la Madonna, e abbiamo contemplato in Maria l'immagine della Chiesa peregrinante e il
punto di riferimento del nostro essere pellegrini qui al santuario.
Ora vogliamo entrare più direttamente nel tema che deve caratterizzare queste nostre giornate e che
ho intitolato così: «Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa».
Inquadrerò le riflessioni di questi giorni nel contesto del documento Evangelizzazione e
testimonianza della carità, che la Conferenza Episcopale Italiana ha approntato per gli anni 90, e mi
sforzerò di svilupparlo in chiave spiccatamente mariana.
Vorrei partire subito da una icona mariana, non solo per un fatto di buona creanza - dal momento
che ci troviamo a Lourdes, nella sua casa - non per un'esigenza di galateo, ma per una ragione
teologica. Maria infatti è la prima campionatura di come Dio vuole la Chiesa, è il primo abbozzo, la
prova d'autore di Dio. Quel primo schizzo della Chiesa certo gli è riuscito benissimo, meglio di
come viene l'opera: ma la Chiesa è destinata ad essere quello che Maria è già oggi; verrà il
momento in cui la Chiesa, come Maria, sarà tutta bella, tota pulchra, tutta pura, e non ci sarà
macchia di peccato in lei, et macula originalis non est in te.
Per esplicitare meglio il tema assegnato quest'anno a tutti i pellegrini che vengono a Lourdes
Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa, faccio riferimento a un passo degli Atti degli Apostoli: è
una icona molto bella, un'immagine splendida, un quadretto che ci presenta la Chiesa
gerarchicamente organizzata, come si suol dire, attorno a Pietro, con Maria, gli apostoli, il popolo,
le donne.
Vi leggo il testo, poi traggo da questa icona tre verbi che desidero mettere in evidenza: «Entrati in
città, salirono al piano superiore dove abitavano. C'erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea,
Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di
Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con
Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui».
Ho scelto questo passo perché si fa riferimento esplicito a Maria. E voglio spiegare tre cose: che
cosa significa per noi entrare in città; salire al piano superiore; essere assidui e concordi nella
preghiera con Maria e gli altri.
I. ENTRARE IN CITTÀ
Nel contesto del nostro tema, questo entrare in città significa ritrovare la ragion d'essere della
nostra appartenenza a una comunità cristiana. L'abbiamo detto più volte: compito della Chiesa è
entrare nel mondo, la Chiesa è per il mondo. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal
cielo», per noi uomini e per la nostra salvezza Gesù ha istituito la Chiesa.
Compito della Chiesa non è estraniarsi dal mondo ma entrare nel suo tessuto connettivo,
assumendone la storia e la geografia. Così dice il Concilio nel primo capitolo della Gaudium et
Spes: la Chiesa fa proprie «le gioie e le speranze», i dolori, le ansie, le angosce e le sofferenze,
tutto. «Nulla vi è di genuinamente umano che sia estraneo al cuore dei credenti», soprattutto al
cuore di noi presbiteri.
Nulla vi è di più genuinamente umano del pianto, del sorriso, della letizia, della gioia e, perché no?,
della danza; se ci sarà tempo, vorrei parlarvi un giorno di Maria Donna della danza. Se è vero che il
Signore «trasforma il nostro lamento in danza e ci toglie gli abiti di lutto per rivestirci degli abiti da
festa», dobbiamo davvero mettere anche la danza al centro delle nostre attenzioni, soprattutto al
centro dell'attenzione di chi soffre, per un motivo o per l'altro, di chi è su una carrozzella, di chi
soffre disagi interiori, fisici, l'anzianità, la vecchiaia. La danza non è affatto estranea alla nostra
situazione attuale, dato che tra noi molti sacerdoti sono malati.
Dopo essere entrati in città, dopo esser saliti al piano superiore, erano assidui e concordi nella
preghiera. Non occorrono molte spiegazioni per capire quali valori si nascondono sotto queste
parole.
Assidui e concordi. L'assiduità del cammino pastorale qualche volta si traduce nell'assiduità a
partecipare a incontri, ritiri, aggiornamenti, che il vescovo si sforza di organizzare. Se non si può
essere presenti con il corpo, perché malati, perché sofferenti, perché impediti, occorre essere
presenti con la cordialità della vita. Questa è l'assiduità.
E poi la concordia nella preghiera: pregare insieme con gli altri, non rifuggire dalle espressioni
comunitarie della preghiera. Ed essere assidui: nella recita del breviario, nella nostra preghiera,
nella lettura spirituale, nella meditazione, nella visita al Santissimo Sacramento.
Carissimi fratelli, coraggio. Probabilmente avete vissuto con malinconia una messa tra parentesi di
quelle che, ai nostri tempi, chiamavamo le pratiche di pietà. Forse, con altrettanta malinconia, vi
siete accorti che nei seminari oggi non si insiste tanto su questo. Posso dire che si stanno
riprendendo questi valori, anche all'interno dei seminari più moderni. Coraggio, perché sono quelli
gli strumenti che ci fanno diventare davvero sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
Assidui e solidali nelle scelte operative, senza sgomitare all'interno del nostro presbiterio: chi la
vuole cotta e chi la vuole cruda, chi dice di si e chi dice di no, chi spara a zero contro certe
iniziative, chi invece si mostra entusiasta.
Essere assidui e concordi nella preghiera significa anche comunione interpersonale, stima reciproca,
rispetto dell'altro, misericordia vicendevole nei giudizi. Sarebbe bello se, sulla nostra lapide,
potessero scrivere: “Ha detto sempre bene degli altri». Non si tratta di restare gregari, di essere
gregge anonimo, ma quando abbiamo espresso la nostra funzione critica, quando un'opinione,
ratificata da quella del vescovo, diventa scelta, via, avanti con coraggio! Chi sei mai tu? Pretendi di
rimanere negli annali del bollettino diocesano?
In forza della nostra ordinazione presbiterale siamo configurati a Cristo sacerdote. Il compito di
Cristo sacerdote è quello di ricapitolare attorno a sé tutte le realtà del cielo e della terra: san Paolo
adopera infatti il verbo mettere a capo, ricapitolare, in greco anakefalaiósasthai, in latino
instaurare, per dire che tutte le realtà fanno corpo intorno a lui che è il capo.
Sant'Agostino usa il paragone di una brocca di creta ridotta in cocci dal fulmine del peccato: le sue
parti sono disperse in ogni direzione, nord, sud, est, ovest, e presenta Gesù come il grande
ricapitolatore, colui che ricompatta tutte le realtà create disperse dal peccato, tutti i cocci della
brocca infranta.
Scelgo come travatura di questa riflessione, un'espressione che si trova nel prefazio della Messa
crismale del giovedì santo: «Egli (Gesù) con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che,
mediante l'imposizione delle mani, fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi (o Padre) che
nel suo nome,... servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i
sacramenti».
Siamo, dobbiamo essere, servi premurosi del popolo di Dio. Siamo condotti ora a considerare la
nostra conformazione a Gesù Cristo servo, dopo aver visto la nostra conformazione a Gesù Cristo
capo.
Desidero sottolineare tre concetti: il nostro essere servi, essere servi premurosi, essere servi
premurosi del popolo: perché il popolo che ci sta accanto non abbia a patire il freddo.
Essere servi
Gesù «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Siamo
servi del gregge, non padroni, non despoti, non tiranni. È probabile che ci sia un'accentuazione
pessimistica in queste espressioni: però, qualche volta, i segni di questo dispotismo noi li
esprimiamo nei confronti del gregge.
La carriera o la diaconia
Abbiamo troppo vivo il senso della nostra partecipazione alla dignità di Cristo capo, per sentirci
fino in fondo «incaricati della diaconia di Gesù Cristo», come diceva sant'Ignazio di Antiochia
parlando dei vescovi; incaricati del servizio, secondo lo stile evangelico che abbiamo già
considerato. Come presbiterio, tutt'uno col vescovo, siamo incaricati della diaconia di Cristo, che
afferma: «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo; e colui che vorrà essere il
primo tra voi, sarà vostro schiavo».
Chi vuol essere il primo sarà il servo di tutti: sono parole che diciamo da tanto tempo e che, negli
anni di seminario, abbiamo sentito dire tantissime volte, all'interno delle conferenze spirituali, dei
ritiri, degli esercizi. Chiediamo incessantemente al Signore la grazia della schiavitù, che nessuno di
noi si senta proprietario del popolo che è di Dio, nessuno si senta il gestore delle sue sorti spirituali.
«Gestisco io, mi faccio carico io, mi prendo io la responsabilità, decido io per te». Queste non sono
forme di servizio ma di potere. Stiamo attenti: c'è anche una forma di potere molto raffinato, molto
aristocratico, che si infiltra nelle nostre scelte.
Nessuno di noi si senta manipolatore della coscienza degli altri, agente segreto delle scelte libere
della nostra gente, condizionatore delle sue opzioni. Si senta semplicemente servo, servo senza le
attenuanti della nomenclatura in uso presso la nostra raffinatissima civiltà. Servo, non
«collaboratore domestico», come si vuole oggi. Servo a tempo pieno, non a mezzo servizio. Servo
insonne dalla mattina alla sera e non con semplici prestazioni part-time. Servo amante degli ultimi
posti e non innamorato delle luci della ribalta.
Qualche volta si sprigionano anche nel nostro cuore sentimenti di amarezza, piccole invidie per un
posto non raggiunto, per un titolo che non ci è stato accordato, per una carriera che ci pare
stroncata. Come se noi dovessimo fare discorsi di carriera.
La nostra vera carriera è un'altra cosa: è la sequela di Gesù Cristo, felicissimi di essere rimasti servi,
preti del Signore nella nostra piccola parrocchia, che magari non conosce nessuno. Quando ci
chiedono: «Dove sei, parroco? Quanti abitanti ha la tua parrocchia? Così pochi?», siano 350 o siano
40.000 le anime che ci sono affidate, noi siamo servi. Sei in una parrocchia di montagna? Felice te
che puoi servire il Signore.
Diceva Luther King: «Se c'è una persona soltanto alla quale tu puoi dire buon giorno, hai già un
motivo valido per sopravvivere». Altro che il buon giorno, io do la salute del Signore, la grazia del
Signore a tante persone, e sono felicissimo di stare li dove il Signore mi ha messo, di essere arrivato
lì, e di non aver fatto quello scatto di carriera.
Siamo servi, ansiosi di collegarsi con gli altri servi, non per fare un sindacato di categoria o per
promuovere rivendicazioni salariali, ma per servire con efficacia e umiltà. Se il servo invece rifiuta
le planimetrie pastorali concordate con gli altri o si sottrae a precisi ordini di servizio, anche se
fatica per cento, è peggio di un dittatore.
La passione di servire
Essere servi premurosi significa avere una forte passione sacerdotale, avere «il brivido della
passione». La nostra premura indica l'insonnia per il Regno, la sollecitudine per la causa del
Vangelo, la sofferenza perché il Padrone della parabola, sempre in viaggio, tarda a tornare, la
preoccupazione per il rallentamento dei ritmi di servizio.
Una volta iniziai la visita pastorale in una cittadina della mia diocesi parlando di queste cose, e
dissi: “Dovremmo vibrare per il Regno di Dio, dovremmo avere il brivido della passione, come
diceva Gramsci». Mi andò bene per quella sera, ma il giorno dopo arrivarono le prime lettere di
protesta: «Una volta i vescovi citavano i Padri della Chiesa. Dove siamo arrivati? Adesso si cita
anche Gramsci”. A me sembrava opportuno riportare quelle parole, pur rivolte a compagni di partito
che non vibravano abbastanza di passione, in diverso contesto (come andò a finire lo vedremo
un'altra volta). Resta vero che alla nostra premura è legato questo “brivido della passione».
Ancora Dietrich Bonhoeffer, in una bellissima poesia, pone in bocca a Mosè morente e non ancora
entrato nella terra promessa una preghiera che mi piacerebbe potessimo tutti pronunciare nell'ultimo
momento della nostra vita:
(Signore),
tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l'ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta.
Reggimi, prendimi; il mio bastone s'incurva,
preparami la tomba, o fedele Iddio!
Il mio bastone s'incurva: una preghiera che è anche un augurio, perché anche noi, come Mosè, alla
fine dei nostri giorni possiamo sentire l'intima soddisfazione di aver servito premurosamente il
nostro popolo.
Continuando la nostra riflessione su come essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo, vorrei
intitolare questa meditazione: soffrire le cose di Dio e soffrire le cose dell'uomo. Se, in forza
dell'ordinazione presbiterale, siamo stati conformati a Cristo capo e a Cristo servo, dobbiamo
comportarci «in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto», come dice san Paolo.
Vivere da innamorati
Non soffriamo più le cose divine. Pati divina per noi deve significare innamorarsi di Gesù Cristo.
So bene che non sono la persona più adatta a dire queste cose, specialmente parlando con dei
sacerdoti che hanno consumato la vita innanzi al tabernacolo, toccando il Corpo e il Sangue del
Signore, parlando delle sue meraviglie. Sono solo un fratello tra voi, che si mette in ascolto di una
voce che prorompe – provocata attraverso la mia - e della quale io per primo voglio diventare
discepolo.
Innamorarsi di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo
impegno umano e professionale su di lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i
progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il suo carattere, sempre in
funzione della sintonia con lei. Cosa non fa, ad esempio, un uomo per la sua donna, perché ha
impostato la sua vita su di lei? Osservando la vita di tanti nostri amici, dei nostri compagni di studi,
ci accorgiamo come l'amore totalizzante investe non soltanto l'aspetto della loro affettività, ma
trascina nel suo vortice i giorni, le notti, il riposo, il lavoro, la festa, la ferialità, la gioia, il dolore, le
delusioni, le speranze. È un investimento totale.
Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della
nostra vita. Per noi il Signore non è una fascia, una frangia, un merletto, sia pure notevole, che si
aggiunge al panneggio della nostra esistenza. L'amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità,
è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore, magari col compenso maggiorato per lo straordinario, con
Cristo non è ammissibile; un servizio a ore saprebbe di mercificazione.
Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza
diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze
più radicali e più coinvolgenti del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero la vita intorno al Signore
Gesù, perché la nostra esistenza, come diceva Dietrich Bonhoeffer, diventi «una esistenza
teologica».
Vorrei incentrare l'attenzione su Maria, la Donna della novità, dell'attesa, della gioia, della festa;
vorrei parlare anche di Maria come la Donna della croce, che danza attorno alla croce. Non intendo
cedere all'esuberanza omiletica perché parliamo della Madonna, ma non vogliamo farne un essere
evanescente, inafferrabile, astratto. Vorrei sottolineare invece la dimensione teologica, cristologica,
ecclesiologica, trinitaria, che c'è sotto ogni considerazione che si riferisce a Maria.
È un altro modo di considerare il nostro essere sacerdoti per il mondo e per la Chiesa: non soltanto
conformandoci a Cristo sacerdote nella sua duplice dimensione di capo e di servo; non soltanto
soffrendo con lui le cose divine e le cose umane, ma anche diventando - eccoci in tema - gli
annunciatori, i profeti «del mondo che verrà», come diciamo nel Credo. Quell'“aspetto la
risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà» però non riguarda solo la vita del cielo, dopo la
morte. Aspetto già adesso la vita del mondo che verrà, aspetto il mondo che irrompe, è imminente.
Ed è Maria colei che fa irrompere il mondo nuovo.
Meditiamo ora sul rapporto che Maria ha avuto con il mistero della croce di Gesù. Il mistero della
croce, infatti, è qualcosa di più del legno della croce. Per Giovanni, ad esempio, la croce è P«ora»
della gloria, è il momento culminante della passione-morte-risurrezione di Gesù e della stessa
Pentecoste. Quel parédoken tò pnéuma, che viene tradotto normalmente con spirò, rese lo spirito,
indica molto di più: «diede lo Spirito». La morte di Gesù è la vera Pentecoste della Chiesa: Gesù
«consegnò lo Spirito». In quel contesto è facile capire perché dal suo costato “uscì sangue e acqua»,
segni sacramentali del battesimo e dell'eucaristia. Dal costato di Cristo dormiente esce la Chiesa,
come dal costato di Adamo dormiente era uscita l'antica Eva.
Quando si era in seminario, durante il mese di maggio si cantavano le canzoni di Casimiri, a 4 voci,
e si concludeva con quella che inizia così:
Col tramonto dei celeri giorni, queta l'inno dei cantici a te.
Queta, si placa ma non si rompe, non si spezza il canto, il tripudio alla Vergine continua anche negli
altri giorni. È molto bello questo frammento di ricordi e di nostalgia. Voglio rubare questo pensiero
per dire che adesso non interrompiamo la nostra invocazione ripetuta: sarà molto difficile che tutti i
giorni futuri noi si possa recitare 15 poste di rosario, oppure che si possa stare lunghe ore davanti
all'immagine di Maria, o che la si possa invocare sempre con ritornelli così appassionati. Il nostro
canto si queta, si placa ma non si arresta, non si ferma.
Tornare nella ferialità
Ora torniamo nella ferialità e vorrei chiedermi: qual è la vita più vera? Quella che abbiamo vissuto
qui con le emozioni di questi giorni, con questo struggimento interiore, con questo pentimento, con
tanta voglia di ricominciare da capo; con questa chiarezza, concettuale e affettiva, su tutto ciò che
riguarda il nostro essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo?
Qual è la vita più vera per noi? È quella vissuta in questi giorni o quella che sperimenteremo
quando ci immergeremo di nuovo nel vortice delle nostre faccende, quando saremo lacerati dalla
gente, presi da mille problemi: la costruzione della parrocchia, l'impegno catechistico, l'anno
pastorale che non tarda molto a ricominciare, problemi di salute, problemi di rapporti in casa, col
vescovo, con la curia?
È molto probabile che, tornando a casa, si sorrida dei nostri slanci di questi giorni e si finisca col
dire: «Eravamo prigionieri in una morsa di sentimenti e ci eravamo sbilanciati sui crinali
dell'entusiasmo”. È più vera la vita di questi giorni o quella del cosiddetto «realismo»?
Carissimi confratelli: la vita più vera è questa. L'altra - quella che ci sembra piena di normalità - è
una vita cinturata, corazzata, perché ci mettiamo intorno le nostre difese, mettiamo tutt'intorno delle
paratie con cui ci difendiamo dai raggi del sole della grazia, ci difendiamo dai venti dello Spirito.
La vita vera è questa. È come se avessimo messo l'occhio nelle feritoie «del mondo che verrà», di
un mondo nuovo, fatto di giustizia, di solidarietà, di pace, di impegno, di passione per il Regno di
Dio, di grazia. La vita vera è questa, non quell'altra.
Adesso non torniamo nel «realismo»: la realtà vera, il vero realismo è questo. Quell'altra è una vita
sofisticata perché ci sono i costumi sociali, ci sono i rapporti dai quali ci dobbiamo pur difendere.
Quella è una vita sofisticata, la vita vera è questa, i sentimenti veri sono questi: il don Michele vero
è questo, il don Arturo, il don Emilio, il don Giacinto vero è quello di questi giorni; l'altro è
un'adulterazione, perché ci mettiamo intorno degli schermi e delle difese, e ci nascondiamo
all'interno. Il bambino si nasconde: in questi giorni è venuto fuori. La vita vera è questa allora.
Dall'incontro che abbiamo avuto con la Parola, dall'incontro avuto con l'eucaristia, con Maria, con i
fratelli, possiamo riportare a casa almeno qualche scheggia.
Vorrei suggerire alcune cose.
Recuperare la corporeità
C'è un'altra cosa che vorrei portarmi via, una seconda scheggia: lo spessore della corporeità che
dobbiamo dare alla nostra vita interiore. Abbiamo visto in questi giorni tanti corpi, tante persone. Le
persone sono corpo: noi non abbiamo il corpo, siamo corpo e anima. Voglio dire: siamo corpi, cose
tangibili. Per questo dobbiamo recuperare lo spessore delle cose che si toccano, che si vedono.
Durante la processione eucaristica ieri sera mi sono aggrappato all'inferriata: mi sembrava di essere
in carcere, io in carcere e gli altri negli spazi della libertà. Vedevo tutta questa gente che passava,
passava libera sulle carrozzelle. Quanti corpi, quante carrozzelle, quanti volti; volti facilmente
classificabili: quelli sono cinesi, quelli sono indiani, quelli sono irlandesi, quelli sono scandinavi,
quelli sono senz'altro italiani. Quante carrozzelle.
E quante acque si vedono qui: acqua alle fontane, acqua alle piscine, acque nelle bottiglie. Mi
pareva di vedere qualcosa di sacro pur in questo disperdersi, anche nella girandola dei negozi di
Lourdes.
Quanta gente ci è passata accanto subito dopo il disperdersi di una processione, quanta gente, quanti
saluti anche, quanta gente ci ha fermato, intuendo forse che siamo sacerdoti. L'avete scorto anche
voi il pianto di alcune persone.
E poi candele, candele. Chi le ha accese? Chissà quanta gente povera avrà pianto nell'offrire alla
Madonna una candela, grossa o piccola. Chissà quale struggimento interiore. Vedevo quella gente
che prendeva la candela, l'accendeva per portarla davanti all'immagine di Maria, quasi fosse il
prolungamento della propria persona che non può attardarsi più a lungo, come un prolungamento
dell'anima, un prolungamento della fede. Questa è corporeità.
Quante canzoni, in quante lingue, quanti strumenti. Anche la tromba c'è stata oggi nella nostra
chiesa durante la liturgia. Anche questa è corporeità. E mi ha fatto capire una cosa: che anche alle
cadenze interiori della nostra vita spirituale noi dobbiamo dare lo spessore della corporeità, la
carnalità della grazia di cui parlano i teologi. La carnalità della grazia. È un fatto di alta ascetica.
Mi viene in mente un episodio che ci viene raccontato da Tommaso da Celano a proposito di san
Francesco: la notte di Natale a Greccio, quando venne fatto il primo presepe, Francesco era diacono,
perciò venne invitato a cantare il Vangelo. Il cronista annota che, ogni volta che pronunciava il
nome di Gesù, Francesco si passava la lingua sulle labbra per assaporare la dolcezza di quel nome.
Questo leccarsi le labbra mi sembra molto bello.
La carne è il cardine della salvezza.
Vorrei dirlo a voi, carissimi confratelli; non lo direi alle sorelle infermiere, alle volontarie, ai laici,
perché su questo sono più protesi di noi sacerdoti che siamo accademici della teologia, che abbiamo
studiato e sappiamo tanta teoria. Voglio dire: di Dio non si dà soltanto teoria ma si dà soteria, che
significa salvezza. È un vocabolo difficile.
Visto che mi son messo a parlare difficile, aggiungo un'altra espressione che anche voi avrete
ripetuto chissà quante volte studiando nella scuola di teologia: caro salutis cardo, la carne è il
cardine della salvezza. La carne, il corpo, la visibilità, sono il cardine attorno a cui si articola la
salvezza, anzi sono la feritoia attraverso cui l'opera salvifica di Dio entra nelle arterie della storia.
Se è così, dobbiamo esprimere anche visibilmente il nostro amore per Gesù Cristo, il nostro amore
per il Vangelo, il nostro amore per il mondo, per la terra, per cui siamo costituiti sacerdoti.
Dobbiamo esprimerlo anche attraverso le vibrazioni del nostro essere, del nostro corpo. La gente
deve capire che dalle nostre mani si spande il buon profumo di Cristo, la gente deve intuirlo questo,
deve capire che noi abbiamo messo gli occhi negli occhi di Dio, che lo abbiamo toccato il Signore,
che gli siamo stati vicini.
Leggiamo nella lettera a Tito: «Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo
amore per gli uomini”. La bontà di Dio che si è manifestata - benignitas Salvatoris nostri -
dobbiamo esprimerla noi: la benignità, la mansuetudine, la dolcezza, la tenerezza di Gesù Cristo ha
preso forma nei nostri gesti, nelle nostre strette di mano, nella nostra preghiera, nel nostro
atteggiamento, anche del corpo. Non dobbiamo disdegnare la benignità come se fosse una
spiritualità d'accatto. Forse non mi so esprimere come vorrei, però avete compreso che la seconda
scheggia che vorrei portar via di qui è proprio questo: dare alla nostra vita interiore lo spessore della
corporeità.
Sono andato a trovare un mio sacerdote in Argentina e ho potuto incontrare il vescovo del luogo,
monsignor Miguel Esteban Hesayne, un vescovo straordinario, intrepido, che ha scritto una
pastorale a fumetti, per farla capire alla gente, intitolata Desde los pobres a todos, cioè Dai poveri
verso tutti. Partire dai poveri non significa fare una scelta di classe, significa andare dai poveri verso
tutti, per raggiungere tutti.
Quando ci dicono: «Voi parlate sempre degli ultimi; stare con gli ultimi, partire dagli ultimi. E dei
primi che facciamo? Gesù ha amato tutti», la risposta è servita proprio con questa espressione:
Desde los pobres a todos, dai poveri verso tutti. La Chiesa ci dice di partire dagli ultimi ma per
andare verso tutti, perché anche i primi, anche i ricchi, sono oggetto del nostro impegno, del nostro
interessamento pastorale, della nostra passione di presbiteri.
Il Vangelo a Bariloche
Accompagnato da monsignor Hesayne, andai a visitare una città simile alla nostra Cortina
d'Ampezzo: si chiama Bariloche. C'è la Bariloche bene, con grandi palazzi dei grossissimi
proprietari terrieri dell'Argentina, di tutti i ras che vanno lì. E c'è la Bariloche povera, dei quartieri
squallidi: in questa sono andato con due sacerdoti. È una cosa incredibile. Quanta miseria, quanta
povertà ho toccato con mano. Bambini cileni, boliviani, famiglie distrutte. Faceva freddo, era il
mese di ottobre (che là corrisponde al nostro mese di marzo), e si vedevano le montagne innevate,
lo ricordo bene. Nelfango c'erano bambini a piedi scalzi, rossi per il freddo, che facevano volare i
loro aquiloni. Era un tramonto limpidissimo. Ho «catturato» un bambino con alcune caramelle e gli
ho chiesto: «Dove abiti?». Mi ha condotto in una stamberga fatta di lamiere contorte. Sono entrato:
c'era una donna con un bambino in braccio, sudamericana, gli occhi profondissimi; aveva 32 anni
ma ne dimostrava 50, e aveva dodici figli. Nella casupola fatta di lamiere non c'era nulla, solo un
caminetto acceso, un televisore spento e un tavolino. Ho capito che, la notte, quello diventava il loro
dormitorio; forse dormivano uno sull'altro. In quella miseria così squallida ho visto sul tavolo un
libro in spagnolo: «Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo». Fu come se avessi avuto una
illuminazione e mi sono sentito a casa mia. Ho guardato quella donna e le ho detto: “Voi leggete il
Vangelo?”. Con un sorriso che non dimenticherò mai, mi ha risposto: “Unico consueto por nuestra
pobreza» (ricordo quelle parole; non so se le dico bene, in spagnolo): il Vangelo è l'unica
consolazione, l'unico sostegno per la nostra povertà. Quando sono uscito, i bambini continuavano a
far volare i loro aquiloni: a me sembrava che avessero ritagliato gli aquiloni sulle pagine del
Vangelo, per annunciare alla Bariloche dei ricchi il Vangelo della liberazione.
Evangelizzazione e carità
Priorità dell'evangelizzazione: siamo angariati da questo problema, dobbiamo portare anche noi
questa croce dolcissima ed è un'urgenza fondamentale. Certo: priorità dell'evangelizzazione; ma poi
c'è l'altro concetto fondamentale che ci dicono i vescovi: la carità è il cuore dell'evangelizzazione.
Ricordate: la carità è il cuore del Vangelo ed è la via maestra dell'evangelizzazione. I vescovi, per
sintetizzare tutto questo, parlano ora del Vangelo della carità che deve essere al centro della nuova
evangelizzazione.
Cosa significa Vangelo della carità? Nonostante la ristrettezza del tempo, mi sembra essenziale
potervi dire almenoda dove dobbiamo partire. Ho già parlato della carità delle opere che deve
prevalere sulle opere della carità, perché se questo flusso che ci porta verso gli altri non parte dalla
Trinità sarà soltanto filantropismo faccendiero, vortice di attività, di impegni; sarà un intasamento
di cose che non fa giungere al nostro fratello il beneficio fondamentale, ciò di cui lui ha veramente
bisogno: questo è l'annuncio della liberazione radicale operata da Gesù Cristo. Dobbiamo partire da
lui, alzarci da tavola, come abbiamo già ampiamente spiegato.
Naturalmente se ci alziamo da tavola e andiamo dai nostri fratelli è chiaro che li aiuteremo, che
andremo loro incontro, col cervello prima che col cuore, e con le mani; sarà la nostra una carità
articolata. Oggi non basta commuoversi, andare incontro al fratello che ha bisogno, dargli diecimila
lire, centomila lire, pagargli l'affitto di casa o la luce, quando vengono con le bollette. E quando gli
hai pagato la bolletta di questo mese cosa fai? Devi ricominciare sempre da capo. Si tratta di aiutare
i nostri fratelli col cuore, sì, ma anche col cervello e con le mani buone: questo significa che
dobbiamo prendere atto - attenzione: mi sembra fondamentale, per noi sacerdoti e vescovi -
dobbiamo prendere atto che non siamo dei potenti che possono dare oro e argento. Noi possiamo
dire soltanto ai nostri fratelli: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome
di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». Questo possiamo dire. Però quel poco che abbiamo
a disposizione dobbiamo pur metterlo a vantaggio dei nostri fratelli.
Lo stesso vale per i santi, che il mondo non comprende perché ritiene la loro vita inutile e vuota:
Il secol vi sdegna, e superbo
domanda qual merto agli altari
v'addusse: che giovin gli avari
tesor di solinghe virtù.
Il cielo si imbianca già, e noi ci accorgiamo, magari a 70 anni, che non abbiamo preso niente:
«Signore, a vuoto ho girato tutta la notte». Ma non abbiamo paura di presentarci a mani vuote:
Ma la voce che ti chiama
un altro mare ti mostrerà
e sulle rive di ogni cuore
le tue reti getterai.
Torniamo a casa presi da questo bisogno di rinnovamento. Getteremo di nuovo le reti «nel tuo
nome, Signore», e nel nome di lei, Maria: così le nostre reti si gonfieranno.
Offri la vita tua
come Maria ai piedi della croce
e sarai servo di ogni uomo,
servo per amore,
sacerdote dell'umanità.
E un'altra strofa dice:
Avanzavi nel silenzio,
tra le lacrime speravi
che il seme sparso davanti a te
cadesse sulla buona terra.
Quante parole hai pronunciato nella vita, dall'altare, dall'ambone. Ora il tuo cuore è in festa. Non
temere, anche se apparentemente la mietitura non è stata abbondante, non temere. Il Signore tiene
conto dei sacrifici che hai seminato:
Ora il cuore tuo è in festa
perché il grano biondeggia ormai,
è maturato sotto il sole
e puoi riporlo nei granai.
Offri la vita tua come Maria
ai piedi della croce.
Ascoltiamo il canto come una preghiera, come sprone, come stimolo che ci viene da questi ragazzi
che abbiamo di fronte, e ci auguriamo che, tra qualche anno, possano calcare le orme che abbiamo
lasciato noi. Penso che, per loro, non ci sia gratificazione più grande del vostro sorriso e
dell'incoraggiamento che avete dato loro con la vostra esemplarità in questi giorni.