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VITA DI S.

VERONICA GIULIANI
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INDICE

Introduzione: da un discorso di S. S. Benedetto XVI

LIBRO PRIMO
I preparativi della Passione

Cap. I. - L'apparizione della vittima


Cap. II. - L'elezione
Cap. III. - L'ornamento della vittima
Cap. IV. - L'oblazione della vittima
Cap. V. - La consacrazione della vittima

LIBRO SECONDO
Le scene della Passione

Cap. I. - La scena del Getsemani


Cap. II. - La scena del pretorio
Cap. III. - La scena del Golgota
Cap. IV. - Seguito della scena del Golgota
Cap. V. - La confessione generale.
Cap. VI. - I divini sponsali
Cap. VII. - La trasverberazione del cuore
Cap. VIII. - Le Stimmate
Cap. IX. - Rinnovamento delle scene della Passione

LIBRO TERZO
I carnefici

Cap. I. - Gesù Cristo


Cap. II. - S. Chiara d'Assisi
Cap. III. - I rappresentanti di Dio.
Cap. IV. - Le suore avversarie.
Cap. V. - I demoni
Cap. VI. - Veronica
LIBRO QUARTO
I sostegni

Cap. I. - Cirenei e Veroniche.


Cap. II. - L'angelo consolatore e Maria compaziente
Cap. III. - N. S. Gesù Cristo

LIBRO QUINTO
I frutti della Passione

Cap. I. - Per nostro Signor Gesù Cristo


Cap. II. - Per la Chiesa militante
Cap. III. - Per la Chiesa purgante.

LIBRO SESTO
La consumazione della Passione

Cap. unico - Malattia e morte della vittima

LIBRO SETTIMO
Il sepolcro glorioso

Cap. I. - I funerali trionfali


Cap. II. - Le virtù eroiche
Cap. III. - Le virtù eroiche negli uffici
Cap. IV. - Carismi e doni soprannaturali
Cap. V. - Il suo culto nel paese natale
INTRODUZIONE

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI, Mercoledì, 15 dicembre 2010

Santa Veronica Giuliani

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei presentare una mistica che non è dell’epoca medievale; si tratta di santa
Veronica Giuliani, monaca clarissa cappuccina. Il motivo è che il 27 dicembre prossimo
ricorre il 350° anniversario della Sua nascita. Città di Castello, luogo dove visse più a lungo
e morì, come pure Mercatello - suo paese natale - e la diocesi di Urbino, vivono con gioia
questo evento.

Veronica nasce appunto il 27 dicembre 1660 a Mercatello, nella valle del Metauro, da
Francesco Giuliani e Benedetta Mancini; è l’ultima di sette sorelle, delle quali altre tre
abbracceranno la vita monastica; le viene dato il nome di Orsola. All’età di sette anni, perde
la madre, e il padre si trasferisce a Piacenza come soprintendente alle dogane del ducato di
Parma. In questa città, Orsola sente crescere in sé il desiderio di dedicare la vita a Cristo. Il
richiamo si fa sempre più pressante, tanto che, a 17 anni, entra nella stretta clausura del
monastero delle Clarisse Cappuccine di Città di Castello, dove rimarrà per tutta la vita. Là
riceve il nome di Veronica, che significa “vera immagine”, e, in effetti, ella diventerà una
vera immagine di Cristo Crocifisso. Un anno dopo emette la solenne professione religiosa:
inizia per lei il cammino di configurazione a Cristo attraverso molte penitenze, grandi
sofferenze e alcune esperienze mistiche legate alla Passione di Gesù: la coronazione di
spine, lo sposalizio mistico, la ferita nel cuore e le stimmate. Nel 1716, a 56 anni, diventa
badessa del monastero e verrà riconfermata in tale ruolo fino alla morte, avvenuta nel 1727,
dopo una dolorosissima agonia di 33 giorni che culmina in una gioia profonda, tanto che le
sue ultime parole furono: “Ho trovato l’Amore, l’Amore si è lasciato vedere! Questa è la
causa del mio patire. Ditelo a tutte, ditelo a tutte!” (Summarium Beatificationis, 115-120). Il
9 luglio lascia la dimora terrena per l’incontro con Dio. Ha 67 anni, cinquanta dei quali
trascorsi nel monastero di Città di Castello. Viene proclamata Santa il 26 maggio 1839 dal
Papa Gregorio XVI.

Veronica Giuliani ha scritto molto: lettere, relazioni autobiografiche, poesie. La fonte


principale per ricostruirne il pensiero è, tuttavia, il suo Diario, iniziato nel 1693: ben
ventiduemila pagine manoscritte, che coprono un arco di trentaquattro anni di vita
claustrale. La scrittura fluisce spontanea e continua, non vi sono cancellature o correzioni,
né segni d’interpunzione o distribuzione della materia in capitoli o parti secondo un disegno
prestabilito. Veronica non voleva comporre un’opera letteraria; anzi, fu obbligata a mettere
per iscritto le sue esperienze dal Padre Girolamo Bastianelli, religioso dei Filippini, in
accordo con il Vescovo diocesano Antonio Eustachi.

Santa Veronica ha una spiritualità marcatamente cristologico-sponsale: è l’esperienza di


essere amata da Cristo, Sposo fedele e sincero, e di voler corrispondere con un amore
sempre più coinvolto e appassionato. In lei tutto è interpretato in chiave d’amore, e questo le
infonde una profonda serenità. Ogni cosa è vissuta in unione con Cristo, per amore suo, e
con la gioia di poter dimostrare a Lui tutto l’amore di cui è capace una creatura.

Il Cristo a cui Veronica è profondamente unita è quello sofferente della passione, morte e
risurrezione; è Gesù nell’atto di offrirsi al Padre per salvarci. Da questa esperienza deriva
anche l’amore intenso e sofferente per la Chiesa, nella duplice forma della preghiera e
dell’offerta. La Santa vive in quest’ottica: prega, soffre, cerca la “povertà santa”, come
“esproprio”, perdita di sé (cfr ibid., III, 523), proprio per essere come Cristo, che ha donato
tutto se stesso.

In ogni pagina dei suoi scritti Veronica raccomanda qualcuno al Signore, avvalorando le sue
preghiere d’intercessione con l’offerta di se stessa in ogni sofferenza. Il suo cuore si dilata a
tutti “i bisogni di Santa Chiesa”, vivendo con ansia il desiderio della salvezza di “tutto
l’universo mondo” (ibid., III-IV, passim). Veronica grida: “O peccatori, o peccatrici… tutti
e tutte venite al cuore di Gesù; venite alla lavanda del suo preziosissimo sangue… Egli vi
aspetta con le braccia aperte per abbracciarvi” (ibid., II, 16-17). Animata da un’ardente
carità, dona alle sorelle del monastero attenzione, comprensione, perdono; offre le sue
preghiere e i suoi sacrifici per il Papa, il suo vescovo, i sacerdoti e per tutte le persone
bisognose, comprese le anime del purgatorio. Riassume la sua missione contemplativa in
queste parole: “Noi non possiamo andare predicando per il mondo a convertire anime, ma
siamo obbligate a pregare di continuo per tutte quelle anime che stanno in offesa di Dio…
particolarmente con le nostre sofferenze, cioè con un principio di vita crocifissa” (ibid., IV,
877). La nostra Santa concepisce questa missione come uno “stare in mezzo” tra gli uomini
e Dio, tra i peccatori e Cristo Crocifisso.

Veronica vive in modo profondo la partecipazione all’amore sofferente di Gesù, certa che il
“soffrire con gioia” sia la “chiave dell’amore” (cfr ibid., I, 299.417; III, 330.303.871; IV,
192). Ella evidenzia che Gesù patisce per i peccati degli uomini, ma anche per le sofferenze
che i suoi servi fedeli avrebbero dovuto sopportare lungo i secoli, nel tempo della Chiesa,
proprio per la loro fede solida e coerente. Scrive: “L’eterno Suo Padre Gli fece vedere e
sentire in quel punto tutti i patimenti che avevano da patire i suoi eletti, le anime Sue più
care, cioè quelle che si sarebbero approfittate del Suo Sangue e di tutti i Suoi patimenti”
(ibid., II, 170). Come dice di sé l’apostolo Paolo: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che
sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne,
a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Veronica arriva a chiedere a Gesù di
essere crocifissa con Lui: “In un istante – scrive -, io vidi uscire dalle Sue santissime piaghe
cinque raggi risplendenti; e tutti vennero alla volta mia. Ed io vedevo questi raggi divenire
come piccole fiamme. In quattro vi erano i chiodi; ed in una vi era la lancia, come d’oro,
tutta infuocata: e mi passò il cuore, da banda a banda… e i chiodi passarono le mani e i
piedi. Io sentii gran dolore; ma, nello stesso dolore, mi vedevo, mi sentivo tutta trasformata
in Dio” (Diario, I, 897).

La Santa è convinta di partecipare già al Regno di Dio, ma contemporaneamente invoca tutti


i Santi della Patria beata perché le vengano in aiuto nel cammino terreno della sua
donazione, in attesa della beatitudine eterna; è questa la costante aspirazione della sua vita
(cfr ibid., II, 909; V, 246). Rispetto alla predicazione dell’epoca, incentrata non raramente
sul “salvarsi l’anima” in termini individuali, Veronica mostra un forte senso “solidale”, di
comunione con tutti i fratelli e le sorelle in cammino verso il Cielo, e vive, prega, soffre per
tutti. Le cose penultime, terrene, invece, pur apprezzate in senso francescano come dono del
Creatore, risultano sempre relative, del tutto subordinate al “gusto” di Dio e sotto il segno
d’una povertà radicale. Nella communio sanctorum, ella chiarisce la sua donazione
ecclesiale, nonché il rapporto tra la Chiesa peregrinante e la Chiesa celeste. “I Santi tutti -
scrive - sono colassù mediante i meriti e la passione di Gesù; ma a tutto quello che ha fatto
Nostro Signore, essi hanno cooperato, in modo che la loro vita è stata tutta ordinata, regolata
dalle medesime opere (sue)” (ibid., III, 203).

Negli scritti di Veronica troviamo molte citazioni bibliche, a volte in modo indiretto, ma
sempre puntuale: ella rivela familiarità col Testo sacro, del quale si nutre la sua esperienza
spirituale. Va rilevato, inoltre, che i momenti forti dell’esperienza mistica di Veronica non
sono mai separati dagli eventi salvifici celebrati nella liturgia, dove ha un posto particolare
la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio. La Sacra Scrittura, dunque, illumina,
purifica, conferma l’esperienza di Veronica, rendendola ecclesiale. D’altra parte, però,
proprio la sua esperienza, ancorata alla Sacra Scrittura con una intensità non comune, guida
ad una lettura più profonda e “spirituale” dello stesso Testo, entra nella profondità nascosta
del testo. Ella non solo si esprime con le parole della Sacra Scrittura, ma realmente anche
vive di queste parole, diventano vita in lei.

Ad esempio, la nostra Santa cita spesso l’espressione dell’apostolo Paolo: “Se Dio è per noi,
chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31; cfr Diario, I, 714; II, 116.1021; III, 48). In lei,
l’assimilazione di questo testo paolino, questa sua fiducia grande e gioia profonda, diventa
un fatto compiuto nella sua stessa persona: “L’anima mia – scrive - è stata legata colla
divina volontà ed io mi sono stabilita davvero e fermata per sempre nella volontà di Dio.
Parevami che mai più avessi da scostarmi da questo volere di Dio e tornai in me con queste
precise parole: niente mi potrà separare dalla volontà di Dio, né angustie, né pene, né
travagli, né disprezzi, né tentazioni, né creature, né demoni, né oscurità, e nemmeno la
medesima morte, perché, in vita e in morte, voglio tutto, e in tutto, il volere di Dio” (Diario,
IV, 272). Così siamo anche nella certezza che la morte non è l’ultima parola, siamo fissati
nella volontà di Dio e così, realmente, nella vita per sempre.

Veronica si rivela, in particolare, una testimone coraggiosa della bellezza e della potenza
dell’Amore divino, che la attira, la pervade, la infuoca. È l’Amore crocifisso che si è
impresso nella sua carne, come in quella di san Francesco d’Assisi, con le stimmate di Gesù.
“Mia sposa - mi sussurra il Cristo crocifisso - mi sono care le penitenze che fai per coloro
che sono in mia disgrazia … Poi, staccando un braccio dalla croce, mi fece cenno che mi
accostassi al Suo costato ... E mi trovai tra le braccia del Crocifisso. Quello che provai in
quel punto non posso raccontarlo: avrei voluto star sempre nel Suo santissimo costato”
(ibid., I, 37). E’ anche un’immagine del suo cammino spirituale, della sua vita interiore:
stare nell’abbraccio del Crocifisso e così stare nell’amore di Cristo per gli altri. Anche con
la Vergine Maria Veronica vive una relazione di profonda intimità, testimoniata dalle parole
che si sente dire un giorno dalla Madonna e che riporta nel suo Diario: “Io ti feci riposare
nel mio seno, avesti l’unione con l’anima mia, e da essa fosti come in volo portata davanti a
Dio” (IV, 901).

Santa Veronica Giuliani ci invita a far crescere, nella nostra vita cristiana, l’unione con il
Signore nell’essere per gli altri, abbandonandoci alla sua volontà con fiducia completa e
totale, e l’unione con la Chiesa, Sposa di Cristo; ci invita a partecipare all’amore sofferente
di Gesù Crocifisso per la salvezza di tutti i peccatori; ci invita a tenere lo sguardo fisso al
Paradiso, meta del nostro cammino terreno, dove vivremo assieme a tanti fratelli e sorelle la
gioia della comunione piena con Dio; ci invita a nutrirci quotidianamente della Parola di
Dio per riscaldare il nostro cuore e orientare la nostra vita. Le ultime parole della Santa
possono considerarsi la sintesi della sua appassionata esperienza mistica: “Ho trovato
l’Amore, l’Amore si è lasciato vedere!”. Grazie.
LIBRO PRIMO
I preparativi della Passione

Capitolo I. L’APPARIZIONE DELLA VITTIMA

In quel tempo l'islamismo minacciava la cristianità, il sensualismo traboccava sulle masse, il


filosofismo, nelle persone di Spinoza e di Bayle, minava la fede, il giansenismo soffocava la
speranza e spengeva la carità, il regalismo attentava ai diritti della Chiesa, mentre il
democratismo insorgeva contro i re rovesciando le dinastie e spezzando scettri e corone. A
questo torrente di mali, Dio oppose due dighe: due deboli donne: santa Margherita Maria e
santa Veronica Giuliani, l'una e l'altra vittime della Giustizia e apostole dell'Amore.

Santa Margherita Maria, di tredici anni, era uscita appena dal pensionato delle Clarisse di
Charolle, quando santa Veronica venne al mondo.

In Italia, la terra dei grandi mistici, nella provincia di Pesaro, alle falde orientali degli
Appennini, nel fondo di una campagna sconfinata e senza caratteristiche speciali, sorge
Mercatello 15. Umile città, ma quanto gloriosa: è la patria della nostra Santa.

Dentro le sue mura s'innalzano tre santuari: la chiesa collegiata, dove Veronica ricevette il
battesimo e la cresima; la chiesa di S. Sebastiano, vicina alla casa dei Giuliani, dove
Veronica apprese a pregare, e la chiesa dei Cordiglieri, oggi scomparsi, che custodisce le
ossa della mamma della Santa. Sono ancora visibili l'antico convento delle Clarisse e la casa
paterna di Veronica, trasformata, secondo una sua profezia, in un monastero dalla facciata
austera. Vi si conserva piamente la camera in cui nacque la Santa: camera vasta e alta, dove
ora sorge un altare e sta scritto:

Qui nacque Veronica Giuliani il 27 dicembre del 1660.

Torno torno ai muri della stanza, innumeri reliquie: capelli, velo, abito e scapolare portato
dalla Santa nel giorno della sua stimmatizzazione; saggi della sua scrittura larga, rapida,
slanciata, generosa; disciplina di ferro e altri strumenti di penitenza.

La sua camera natale! Là vide la luce; là emise i primi vagiti; là ebbero luogo tante
apparizioni e si compirono tanti miracoli. Nessun pellegrino che abbia letto la storia della
Santa, può resistervi indifferente: i suoi ginocchi si piegano e le sue labbra baciano a lungo
l'impiantito santificato.

I Giuliani erano tra le famiglie più ragguardevoli del posto. Il padre, di nome Francesco,
occupava l'ufficio di gonfaloniere della città, ma intelligente e ambizioso, aspirava a una
professione più elevata; così un giorno lo vedremo sopraintendente delle dogane del Ducato
di Parma.
Sua madre, Benedetta Mancini, di S. Angelo, era profondamente pia. Custode gelosa
dell'anima dei propri nati, inculcava loro l'orrore per tutto ciò che è mondano, e li allevava
nel timor santo di Dio.

Ebbe sette figlie: due morirono in tenera età, una rimase nel secolo e quattro si monacarono.
L'ultima, Orsola, doveva diventare illustre sotto il nome di Veronica.

Onore a questa famiglia il cui ultimo frutto fu la nostra eroina, il prodigio dei secoli!

Battezzata il giorno dopo la nascita, Orsola apparve subito un angelo: né pianti, né grida. La
si lasci qui o la si posi là, qualunque cosa avvenga, la piccina è beatamente tranquilla.

La meraviglia: Orsolina ha un temperamento eccezionale, ma nulla arresta il suo sviluppo


fisico. In alcuni giorni rifiuta dolcemente ostinata il latte materno. Si cerca di scoprire il
mistero, e, osservando bene, si nota che questi giorni son quelli che la tradizione consacra
alla penitenza: i mercoledì, i venerdì e i sabati; e si nota altresì che questi digiuni, invece di
indebolirla, le fanno acquistare un colore di gran salute.

I miracoli si moltiplicano. Orsola ha cinque mesi.

È in braccio della mamma, quando, appesa al muro, vede un'immagine delle Tre Divine
Persone. Era precisamente il giorno della SS. Trinità dell'anno 1661. Scivola giù, corre
svelta e sicura alla volta del quadro, e ci s'inginocchia davanti estasiata.

Ha sei mesi; altri dicono diciotto: è con la nutrice da un mercante di olio, che non fa misura
piena. La piccina si agita, stende il suo piccolo braccio e grida indignata: «Fate giustizia!
Dio ci vede!».

Iddio ci vede! Tale sarà il motto che segnerà un giorno sulle porte delle celle nel monastero
di Città di Castello.

Ha circa tre anni. Per la prima volta assiste al santo sacrificio della Messa: è sulle ginocchia
della mamma e sta zitta come l'olio. All'elevazione manda un grido di gioia. Coi suoi grandi
occhi aperti ha veduto sull'altare un Bambino che le sorride: è bello come la gloria.
Istintivamente si precipita ad abbracciarla, ma le mani materne la trattengono e gran lacrime
colano giù calde per le gote di Orsola. Quante volte ritornerà ai piedi di questo altare, e
quante volte la celeste visione riapparirà, sapendo che questo Bambino è un sacrificatore e
che lei sarà la vittima.

Ha quattro anni. Quando la mamma e le sorelle vanno alla chiesa per fare la comunione,
lasciano a casa la piccina, la quale, al loro ritorno, le accoglie con segni di festa e di giubilo.
«Oh, come profumate!», esclama; ed una alla volta le tira giù con le mani per arrivare a
baciare le loro labbra. Non c'è cosa che riesca ad attirarla durante tutto il giorno, quanto lo
star vicina ad esse.
Verso questa età, senza dubbio dopo avuta la visione del Bambino Gesù al momento della
consacrazione, Orsola non sogna che altari e ne semina un po' dappertutto. Le occorrono
piccole panche, candele, olio, fiori; è presto fatto: mette tutto a soqquadro, e sceglie sempre
il meglio di quel che trova.

Oh, prodigio! Oh, felicità! Un giorno, mentre è in giardino, le si para davanti lo stesso
Bambino già visto in chiesa, e le dice: «Sono io il fiore dei campi». Ma è un momento e
scompare. Allora la piccolina parte di rincorsa per ricercarlo da tutte le parti, perfino nelle
stanze di casa, ma non c'è che il quadro della Sacra Famiglia: una graziosa pittura a olio.
L'immagine del Bambino misterioso che l'ama e che essa ama, è dipinta lì, ed Orsola gli si
fissa davanti. Poi gli offre giocattoli, nastri, trine, ciondoli: tutto quello che ha. Gli porta
perfino da mangiare e lo invita con insistenza: «Vieni, prendi; se non mangi, neppure io
mangio».

Alle volte si nasconde dietro la porta della stanza a far capolino in attesa che l'Amico si
decida a scendere giù.

Un giorno, stanca di attenderlo, si decise ad accostarglisi e rizzò al muro una specie di


sgabello fatto di casse. Ci si inerpica; è già su, quando tutto ad un tratto il malfido edifizio
barcolla ed Orsola precipita giù sanguinante. «Santa Vergine», grida: «non dite niente alla
mia mamma!». Poi aggiunge corrucciata: «Dopo tutto, o Santa Vergine, è colpa vostra se io
sanguino. Perché non mi date quel bambino? Guaritemi: è necessario!». Maria in persona le
si fa subito accanto, e le rimargina la ferita. Ma quella seguita a lamentarsi: «O Maria,
datemelo, ve ne scongiuro; datemelo, perché senza di lui io non posso vivere. Lo nutrirò
come fossi voi». A un tratto, sotto la figura di un bambino lattante, Gesù, vivo, riposa tra le
braccia di Orsola.

Il Gesù dipinto nel quadro già ricordato, d'ora in avanti si animerà spesso e le parlerà
dicendo: «Io sarò davvero il tuo sposo». Si rivolgerà pure alla sua Madre divina, e le dirà:
«La nostra Orsola! Voi ne sarete una mamma e la guida».

Era natale. In casa avevano fatto il Presepio e ci avevano messo una culla con dentro un
Gesù di cera, adagiato sulla paglia. Con lo sguardo infuocato, Orsola tende le braccia:
«Datemelo, datemelo!». Le sorelle la trattengono, la fermano, perché non arrivi al
pupazzolo. «Oh! non è quello che vi domando! È troppo brutto! L'altro voglio, vivo così,
così bello!». Ma quell'altro non c'era più. Le era difatti apparso il solito Bambino.

Ormai gli aveva donato il suo cuore, e Gesù le aveva risposto: «Sì, lo prenderò; io stesso
sarò il tuo cuore!».

Orsola ha cinque anni. Ahimè! Mamma Benedetta sta per morire, ed a momenti le
porteranno il Santo Viatico. Appena il sacerdote appare nella camera dell'inferma, la
figliuoletta cade in ginocchio ed alza le braccia. Ha veduto l'Ostia risplendere, e la vuole per
sé. Le impongono silenzio, di chetarsi. Ma come calmare i suoi ardori? «La voglio, la
voglio!». «È per tua mamma», le dice serio serio il sacerdote. La fanciulla insiste: «Una
particella sola e avrò Lui tutto intero come mia madre». Tutti ascoltano la piccola teologa,
muti dallo stupore. Uscito il sacerdote, Orsola si precipita al letto della moribonda, e, con la
testa appoggiata sulle labbra materne: «Oh!, dice, il profumo che sento! Voi felice!».
«Ringrazia Dio per me», mormora Benedetta, e spira fra il bacio di Gesù e della sua
figliolina.

Prima di entrare in agonia, mamma Benedetta aveva voluto abbracciare ad una ad una le
figliole, ed aveva loro raccomandato di coltivare l'amore divino. Non contenta di questo,
aveva assegnato a ciascuna, come dimora inviolabile, le cinque piaghe del Salvatore. Per
Orsola volle riservare la piaga del sacro Costato. E il disegno fu provvidenziale, perché
Orsola abiterà davvero nel Cuore di Gesù.

Francesco Giuliani, rimasto vedovo, non volle più saperne di Mercatello, e se ne andò in
cerca di fortuna a Piacenza, affidando le figlie al loro zio, il dottor Rasi. Nominato
sovrintendente delle dogane, venne a ritrovare la famiglia, ma questa non espatriò che alla
fine dell'anno 1669. Orsola era per fare la prima Comunione.

Che avverrà di questa fanciulla? Dio le ha detto: «Tu sarai mia sposa». Orsola gli si
assocerà nell'opera redentrice; sarà una vittima. Già la chiama.

Capitolo II
L’ELEZIONE

Mentre Orsola non sognava che di fare altarini, la mamma e le sorelle lavoravano d'ago e
d'uncinetto, leggevano le gesta dei martiri e la vita della grande penitente santa Rosa da
Lima. Leggevano ed imitavano. Nel silenzio delle loro camere, infatti, si disciplinavano
seriamente, tanto che il rumore giungeva fino alle orecchie della fanciulla.

Era Dio che, per mezzo di quelle, chiamava Orsola alla penitenza. In questa piccola anima,
già aperta ai grandi pensieri e ai nobili sentimenti, s'affermava e si precisava la dottrina
dell'espiazione. «Io soffrirò; io espierò», pensava. E i supplizi cominciarono.

La sua cara santa Rosa s'era fatta schiacciare le dita sotto il coperchio di un forziere: chi le
schiaccerà le sue? E si mette a cincischiare a bella posta coi diti fra il vano di una porta
aperta ed il muro. È servita nel suo desiderio. Arriva un cane enorme, che vuol entrare; la
sorella maggiore spinge con violenza la porta, e il dito è preso, schiacciato. Alla vista del
sangue, la sorella principia a gridare accusandosi di aver ucciso la piccola Orsola, gioia
della casa; ma Orsola non si dà cura e quando il chirurgo accorso in tutta fretta, taglia la
carne viva: «Perché, domanda, mi curate? Bisogna soffrire!».

Bisogna soffrire. Il dito è sempre fasciato, quando Orsola escogita un nuovo supplizio. Nella
sala della culla arde un braciere in cui fuma dell'incenso. Il fuoco! Oh! perire nel fuoco
come tante vergini martiri! E vi immerge la mano, nella speranza che le fiamme gliela
divorino. Provvidenzialmente arriva una sua sorella. Era tempo, perché ancora un minuto e
la mano si sarebbe carbonizzata.

Un'altra volta la mamma, volendole tagliare le unghie di un piede, sbadatamente la ferisce


con le forbici. Come se ne dispera la mamma! ma la fanciulla trasalisce di gioia: «Io
rassomiglio un po' alla mia dilettissima santa Rosa», dice, e rifiuta ogni sorta di cure.

Bisogna soffrire. Prende una funicella e ci si lega fortemente braccia e gambe. Fan sangue.
Nel giardino accumula delle pietre. Non ha una disciplina come le sorelle; se ne fabbrica
una col grembiule annodandolo stretto stretto, e poi giù colpi. Terminata la flagellazione, va
a nascondere lo strumento di penitenza in un certo nascondiglio in giardino, e appena può
essere sola, ricomincia l'esercizio. Finalmente la mamma la sorprende con quel flagello in
mano, ma non rifiata, e si ritira piangendo di consolazione.

Gesù aveva chiamato la vittima all'immolazione per mezzo della famiglia; ora la chiama
direttamente in persona. Le appare crocifisso, tutto coperto di piaghe sanguinanti: «Tu sei la
mia sposa, la mia associata nell'espiazione: la Croce ti attende». Il programma è tracciato:
Orsola deve rinunziare ad ogni soddisfazione naturale; deve esser pronta a tutte le
privazioni, a tutti i sacrifici.

Sacrificio di curiosità. Un giorno passava sotto casa sua una mascherata e la fanciulla,
spinta dall'età, curiosa, è per correre alle finestre, ma una voce la trattiene: «Me solo devi
contemplare!». E i suoi occhi si beano nella visione del Crocifisso, che, nell'atto di
abbracciarla, le mostra un bacio.

Sacrificio di sensualità. Che festa! Le han regalato un sacchetto di confetti. Ne assaggerà


qualcuno, e gli altri li nasconderà per succhiarseli a comodo. Ma le appare il Bambin Gesù.
«Per mio amore, dona tutte codeste ghiottonerie al primo povero che incontrerai». Il
Bambin Gesù è appena sparito che si presenta un povero. Ella dice: «Metà per te, metà per
me». Subito un secondo povero tende la mano. E lei ripete la stessa storia serbando per sé
alcuni confetti. Erano così buoni! Ma questi le cominciano a pesare quanto un rimorso e li
getta dalla finestra. Ne ha salvato uno solo. Traditore! Si è fatto mangiare. Era così
seducente, così caro! Ma più tardi espierà il peccato di gola.

Sacrificio di vanità. Quanto è felice con le sue scarpette nuove! Son proprio belle, e si
adattano a meraviglia al suo piedino! Se le prova, quando dalla strada sale su una voce
tremante, che implora la carità in nome di Dio. La fanciulla si ricorda della divina consegna,
e tira al mendicante, una dietro l'altra, le due scarpette. L'ultima va a fermarsi sulla cornice
della porta d'ingresso, tanto alta da non poterci arrivare da terra. Ma, con meraviglia dei
testimoni, il mendicante c'è arrivato, s'è preso la scarpa e se n'è andato via benedicendo la
benefattrice. Un giorno Orsola saprà che il mendicante era Gesù in persona.
Si è fatta grandicella e ha ormai l'uso della ragione. Sa chi è il bel Bambino, tante volte
veduto sull'altare, e poi nel presepio e in giardino, è Gesù, il Figlio di Dio, il Salvatore degli
uomini; sa che Egli è vivente nella santa Eucarestia, e che si dà in cibo. Ha fame di lui, una
fame che la consuma. Quando le sue sorelle vanno a riceverlo presso l'altare, il suo cuore vi
si slancia: è agitato, brucia, e sospira: «Gesù, venite». Oh! quando potrà provare la felicità
di chi si comunica? Supplica i suoi confessori, ma essi seguono il costume del tempo, che
esclude i piccoli dal divino Banchetto.

Entra ora nei dieci anni; è arrivata da poco tempo a Piacenza; la liturgia sta per celebrare la
Festa della Purificazione. Oh, in quel giorno, poter ricevere Colui che Maria, Simeone,
Anna portarono sulle braccia! Con gli occhi pieni di lacrime raddoppia le sue istanze.
Felicità! Viene esaudita, e si prepara al grande atto con un esame, che dura dieci giorni,
tramezzo a generosi sacrifici. 2 febbraio 1670: il Re si dona a una sposa-regina. La notte
avanti Orsola non poté dormire, e nel momento in cui le sue labbra si aprirono all'Ostia
santa, risuonò dolcemente una voce: «Sono io! Sono con te!».

E Gesù era con lei per compiere la sua opera espiatrice. Nel giorno solenne della prima
comunione, chiama ancora all'immolazione la tenera vittima. La vittima trasalisce a questa
chiamata, e implora la grazia di far sempre il beneplacito divino per puro amore, quel
beneplacito che la voleva redentrice. L'Ostia ricevuta era un fuoco che le bruciava le viscere
e le facoltà. Giunta a casa, domandò ingenuamente alle sorelle: «Per quanto tempo si
brucia?».

Orsola, quanto sei amata da Colui che è l'amore! Ma non lo sai ancora. Lo saprai quando,
più tardi, ti dirà: «Discendo dal mio cielo».

Orsola è amata, perché accetta l'ufficio di vittima. La vittima sta per incamminarsi
all'immolazione. Già il divino Sacrificatore la prepara per condurla all'altare.

CAPITOLO III.
L'ORNAMENTO DELLA VITTIMA

Prima di immolare una vittima, gli antichi la ornavano. Dio adorna similmente le sue.
L'ornamento di Veronica sorpassò ogni ricchezza.

Dio la colmò dei beni di fortuna. A Mercatello viveva più che agiatamente, nel palazzo
ducale, splendidamente. Veronica racconterà più tardi che la casa era piena di servitori e di
serve.

Dio l'arricchì di tutte le qualità fisiche, che tanto apprezza il mondo. I suoi lineamenti erano
nobili, regolari; carnagione bianca, guance colorate, occhi neri e vivi; di fisionomia
espressiva, nobile, vivace; il suo passo era naturalmente elegante e le maniere distinte. I
contemporanei son d'accordo nel dire che era assai bella, e di grande spirito. D'intelligenza
profonda, aveva una memoria tenace e sicura, e la sua immaginazione era così fervida, che
quando scrive, pittura. Ne fa testimonianza il suo «Diario». Fu colta?

Pare che, per qualche tempo, venisse affidata ad un’istitutrice, ma non risulta che abbia
frequentato le scuole. Suo padre l'idolatrava e la voleva sempre presso di sé; così, per
egoismo, trascurò di darle una istruzione conveniente al suo grado sociale. Mi voleva
sempre presso di sé, scrive la Santa.

Le sue qualità morali non erano meno notevoli.

D'una vivacità impetuosa, faceva in un'ora il lavoro di una giornata; d'una sensibilità
squisita, fuggiva in un primo momento davanti alla sofferenza, ma poi l'affrontava con
coraggio; d'una volontà energica, in domabile, dominatrice, bisognava che tutto piegasse ai
suoi voleri di fanciulla. Le sorelle avevano un bel dire che avevano da pensare ai loro lavori,
e non potevano perdersi coi suoi giuochi: al semplice cenno di Orsola erano forzate a
lasciare tutto in asso e a correre ad aiutarla nel mettere su gli altarini.

Alla porta di casa riuniva i bambini poveri della sua età; distribuiva loro delle elemosine, a
condizione che recitassero l'Ave Maria; quando uno di questi ci si rifiutò, s'ebbe degli
schiaffi.

Una sua domestica proferì una certa volta delle parole sconvenienti: Orsola la schiaffeggiò e
obbligò la famiglia a licenziarla.

Un vasaio del vicinato aveva fama d'essere miscredente: lo convertirà Orsola. Ma come? Le
letture le hanno insegnato che i dispiaceri sono una misericordia divina; non c'è dunque da
esitare: impiegherà la maniera forte, che si confà tanto bene alla sua natura. Sopra i vasi
innocenti, che si seccano al sole, essa precipita con piede fermo e mano sicura; sono
rovesciati, spezzati, ridotti in polvere; poi spiega, arditamente, il motivo della sua azione. E
il vasaio?

Ammirato questo zelo, si convertì.

Aveva imparato a tirare di scherma. Si servì di quest'arte per vincere il suo maestro d'armi
nelle circostanze che ora vedremo. Egli era suo cugino; era stato invitato a una serata
pericolosa per le sue virtù. «Bisogna proteggerlo contro se stesso», pensava, e lo invitò a
battersi in duello. Da abile schermitrice, lo colpì leggermente, ma tanto, che quello dovette
mettersi in letto e rinunziare alla serata di gala.

Ma perché questa fanciulla di nove anni aveva imparato la scherma e si batteva così? Una
voce celeste le aveva ingiunto di prepararsi alla guerra, e, pensando che si trattasse non dei
demoni dell'inferno, ma dei Turchi che minacciavano la cristianità, da vera crociata, aveva
giurato di difendere la Chiesa e il proprio paese.
Ma a tanta fiera energia s'accoppiava una squisita bontà. Quando le Suore questuanti
venivano a bussare alla sua porta, Orsola non aveva più fermezza, e dava loro quel che le
veniva alle mani; per dare ai poveri, imponeva a se stessa ed a quelli di casa delle vere
privazioni. Un bel giorno, infatti, in casa Giuliani si aspettavano dei parenti carissimi, e s'era
appunto preparato un enorme e gustosissimo panettone. Tranquillamente Orsola lo taglia in
mille pezzi, perché non sia più presentabile, e lo distribuisce ai suoi cari poveri.

Ricchezza, beltà, intelligenza, carattere, forza, sentimento: aveva tutto. Nulla di


sproporzionato in questa creatura ideale; in lei l'equilibrio completo, l'armonia perfetta. Se,
nei giorni dell'infanzia, la sua virtù era un frutto immaturo, esso maturerà presto, prendendo
un sapore delizioso. Ella era l'opposto degli anormali, dei nevrotici, degli isterici. Un
vescovo, Mons. Eustachi, che la conobbe a lungo, griderà, in uno slancio d'ammirazione:
«Questa donna governerebbe un impero».

Aveva tutto: ecco il pericolo. La voce celèste l'aveva esortata alla lotta contro il mondo di
cui Orsola era l'idolo e che voleva fare di lei la sua preda. Fiero di lei, diciamo folle di lei,
suo padre voleva completare l'ornamento della natura: la vestiva come una regina, la faceva
comparire nei salotti più rinomati della città, e chiamava in casa la gioventù più elegante:
giuochi e feste nelle quali la figlia teneva l'ufficio di principessa. I cavalieri affluivano, la
corteggiavano, se la disputavano, ma Francesco Giuliani la riservava in cuor suo per il conte
di Sant'Angelo in Vado.

L'immagine di Orsola era in tutti gli occhi, il suo nome su tutte le labbra, la sua fiamma in
tutti i cuori. Ella lo sapeva e lo vedeva. Il pericolo era immenso.

Già diveniva sensibile alle attrattive della moda; aveva già chiesto a suo padre di
accompagnarlo ad una mascherata, e, per giuoco puerile, s'era anche travestita da uomo. I
biglietti sentimentali, le proposte lusinghiere le volteggiarono attorno come uccelletti dorati,
ed una delle sue cugine cominciò perfino a rivelarle segreti turbamenti.

Entrava dunque nell'adolescenza, ignorante dei misteri della vita, perciò senza malizia; il
Signore lo dichiarerà un giorno in termini espliciti. Ma le voci celesti diventavano lontane, e
l'immagine di Dio si dileguava nella sua anima. Ella feriva l'Amore infinito.

Che facevano le sue pie sorelle? Non contavano nulla nel palazzo Giuliani. Vegliavano
almeno sulla virtù dell'ultima? Quando Orsola era piccolina, esse vivevano per
contemplarla, e ne ammiravano anche i difetti; fatta più grande, l'adulavano ancora di più, e
se la vedevano tra le spire dell'incendio, non se ne spaventavano, perché ricordavano i
prodigi divini, che avevano contrassegnato la sua infanzia. Dio la custodirebbe.

Il mondo la disputa a Dio. Chi l'avrà, il mondo o Dio?


CAPITOLO IV.
L'OBLAZIONE DELLA VITTIMA

I capricci della sua infanzia e la dissipazione della sua adolescenza, quanto li detesterà sotto
l'abito religioso! Verserà lagrime di sangue e ricorderà senza fine ciò ch'ella chiama i suoi
peccati, per esporli all'esecrazione degli uomini.

Ma l'umiltà la rendeva ingiusta verso se stessa; Dio vegliava su di lei, e, nonostante tutto, il
suo cuore era di Dio.

All'uscire dai festini, il mondo le appariva insipido e vuoto il creato. Il Divino l'attirava. Le
comunioni le si trasformavano come un vino d'ebbrezza, e la preghiera come un sonno
celeste. Senza saper come, si trovava in ginocchio, inabissata nel pensiero di Dio. Ignorava
ciò che faceva; sentiva solo di essere felice, felice quanto si può essere in cielo. Ciò che
voleva, lo sapeva bene; la gloria di Dio, e quando, dopo le prime estasi, tornava in sé, un
fuoco di zelo la trasportava: le sue sorelle dovevano cantare con lei le divine lodi.

Vengono gli amici di suo padre? Agli adulatori chiude la bocca, ai pretendenti mostra la
porta. «Sarò Religiosa», dice con un tono che non ammette replica. Francesco Giuliani ne è
spaventato; perdere la figlia gli sembra più amaro che perdere la vita. La lusinga, cerca di
commuoverla col rappresentarle la propria tristezza, le descrive le gioie della maternità, che
carezza il suo neonato. Entra un giorno nella sua camera, e con tono solenne, le dice:
«Figliola mia, poiché non volete ascoltare i consigli dell'amico, udite la sentenza d'un padre.
Io non voglio che voi pensiate al chiostro: resterete presso di me». E conoscendo la pietà di
Orsola, alza la voce sillabando: «Ve lo comando! L'ordine d'un padre è l'ordine di Dio!».

Orsola lo ascolta in ginocchio, e gli bacia le mani per calmarlo. Alla fine alza gli occhi,
occhi nei quali brilla una fiamma divina: «Voi parlate di Dio, padre mio, ma Dio è il
padrone di tutti noi. Egli, che mi ha prestato a voi, mi richiama. Tremate d'irritare la sua
giustizia. Io vi amo, ma devo amare Dio più di voi. Vado a lui, e lasciandovi, vi porto a lui».
Francesco è vinto.

Tre delle figlie maggiori avevano già ottenuto il permesso di monacarsi al paese natio;
l'ultima, la più cara, è per sfuggirgli, e Francesco tenta l'ultimo espediente rimandandola
presso lo zio Rasi.

Rieccola di nuovo a Mercatello. Le sorelle maggiori erano entrate dalle Clarisse, ma Orsola
doveva vivere ancora nel secolo, troppo giovane per prendere il velo. Intanto si preparava
alla grazia.

Avida di orazione, si faceva svegliare di buon mattino da una donna di servizio, e


s'inabissava nella contemplazione. Una volta sentì che una mano divina le toglieva il cuore.

Ben lontana da contrariarla, la zia approvava lo zelo di Orsola, ma zio Rasi aveva la
missione segreta di ucciderle in seno il germe della vocazione religiosa. Contrastata così nei
suoi disegni, la giovane si precipitava ai piedi del crocifisso, e con occhio ardente e le
braccia tese, lo supplicava dicendo: «O Gesù, voglio i vostri chiodi a perforare i miei piedi e
le mie mani; voglio la vostra corona sulla mia testa, il vostro fiele sulla mia bocca; la vostra
lancia la voglio nel mio cuore. Scendete dalla Croce! Io prenderò il vostro posto. Oh, che io
sia la vostra sposa!».

La salute di Orsola, intanto, deperiva a vista d'occhio, né c'era rimedio che la potesse
liberare dal pericolo della vita. I medici, infine, dichiararono che il solo mezzo d'uscirne era
di contentare il suo cuore. Lo zio ne avvisò il padre, e Orsola fu libera.

Quale sarà il monastero che sceglierà?

A Mercatello c'era il convento delle Clarisse dove già vivevano tre delle sue sorelle. Ma
questo convento non osservava la regola primitiva, mentre Orsola sognava la povertà
serafica di s. Francesco e di s. Chiara, la povertà assoluta.

Ora in seno ai Frati Minori veniva operandosi la riforma Cappuccina. Le riforme, nella
famiglia francescana, sono non tanto dei segni di decadenza quanto una crisi di sviluppo e
una sovrabbondanza di vitalità serafica. La nuova riforma, dunque, non era una nuova
religione, ma era la religione di s. Francesco con una denominazione nuova, era un nuovo
braccio che il fiume molto pieno di acque, sotto la spinta d'una corrente più rapida, aveva
scavato; era un nuovo ramo, che il rigoglioso albero francescano, per la forza d'una linfa più
calda, aveva gettato.

Certe Clarisse desiderarono di ricevere da questo giovane ramo, vita e vigore. A Napoli la
nobildonna Longa, con alcune giovani della città e alcune Clarisse giunte da un altro
monastero, si misero sotto la direzione dei Minori Cappuccini, adottando le loro costituzioni
particolari. Altre le imitarono, e le Clarisse governate o ispirate dai Minori Cappuccini,
presero il nome di Cappuccine.

Alcune Cappuccine vennero a stabilirsi in Umbria, a Città di Castello, sede vescovile dalla
quale anticamente dipendeva Mercatello. Avevano fama di osservare integralmente la prima
regola di s. Chiara, e le migliori famiglie della regione vi destinavano le loro figlie. Una
voce interiore disse a Orsola che quello era il luogo del suo rifugio.

Cominciò con un pellegrinaggio a Nostra Signora del Belvedere, santuario poco distante da
Città di Castello. Poi eccola tutta commossa alla grata del monastero, sollecitando di
entrare. Le sue parole, il suo accento toccano le monache, ma il numero fissato dall'autorità
ecclesiastica è già stato raggiunto; anzi, c'è in più una postulante, che attende il suo turno.
Le si consiglia di far visita al Vescovo, Mons. Sebastiani, vecchio missionario, dell'ordine
dei Carmelitani. E lei ci va di corsa. È accompagnata da zio Rasi. Il vescovo la riguarda, e la
trova troppo giovane (non aveva che sedici anni). D'altra parte non può permettere che il
numero delle religiose sia sorpassato. Desolata, la postulante riscende le grandi scale del
palazzo vescovile. È in fondo quando risolutamente torna indietro. È di nuovo ai piedi del
vescovo: gli bacia lo scapolare e lo supplica con le lacrime agli occhi di accettarla. Il
vescovo ammira la fede e il carattere deciso della giovane forestiera, e, lì su due piedi,
procede all'esame consueto. Le dà un grosso breviario: «Leggete». Quella legge senza
errori, senza esitazioni, con un'intelligenza perfetta della lingua della Chiesa. La
soddisfazione brilla negli occhi dell'esaminatore, la meraviglia si dipinge sul viso dello zio
Rasi, che sa che la nipote non conosce il latino. Seguono alcune questioni che dan luogo a
risposte umili e precise. Ogni ostacolo è vinto.

Orsola ha i piedi o le ali? Quasi non tocca terra: è subito al convento: «Mi accettate voi?».
Le vien dato il cordone serafico in segno di ammissione, cordone che ella dovrà portare fino
alla vestizione; ed è sulla via del ritorno.

Deve attraversare Borgo Sansepolcro. Sa che per quella campagna, dominata da Monte
Casale, s. Francesco d'Assisi aveva lungamente camminato con gli occhi fissi nel cielo in
estasi, senza vedere e udire la folla che l'acclamava: Orsola, è sua confessione, ne rivive i
momenti, poiché sta per divenire discepola dell'ardente Serafino.

«La figlia del sovrintendente si fa monaca». È un mormorio generale tra la gioventù di


Mercatello, e il mormorio giunse fino a Piacenza.

Quanti non avevano sollecitato la mano della giovane? Chi non aveva sognato di dividere
l'esistenza con una creatura tanto perfetta? Fu un assalto: le si portavano mazzi di fiori, che
presero subito la via della finestra; la risoluzione era presa, definitiva, irrevocabile: Orsola
sarà Cappuccina.

Un altro assalto le era riservato: l'inferno la metteva in agitazione, rappresentandole


l'impraticabile austerità della regola, che Orsola voleva abbracciare; le riscaldava
l'immaginazione, mostrandole dei visi di giovani sorridenti o imploranti; perché dire addio
alla vita? Ma ella sfidava ogni tempesta.

È giunto il giorno della definitiva partenza.

Che? Piange?! Ama quella collegiata dove ha ricevuto il battesimo e la cresima, dove ha
visto così spesso Gesù Bambino; ama quella chiesa dei cordiglieri dove riposa la sua
mamma diletta; ama la casa natale in cui le si fece sentire la voce: «Tu sarai la mia sposa»;
ama le sorelle, che or ora ha salutato alla grata, e che ha lasciate piangenti; ama quelle
persone, e quelle cose, che abbandona per sempre.

Ma fra le lacrime mormora: «Io sono felice».

Intrepida amazzone, a cavallo di un giovane corsiero, seguita da un gruppo fedele con a


capo i canonici Ambroni e Rossi, direttori della sua coscienza e amici di famiglia, lascia
Mercatello.
Giunti ad un buon punto di strada, gli ecclesiastici la benedicono, la salutano e tornano
indietro. Ancora un po' di tragitto, una gran salita, ed Orsola è in cima agli Appennini.

Ottobre volge alla fine. Tutto è avvolto in una fredda nebbia: poi, pian piano, la nube
svanisce e si spalanca sotto gli occhi dei viaggiatori una campagna superba, paragonabile a
quella di Spoleto o d'Assisi. È l'immensa vallata del Tevere, che la Verna sembra arrestare
su a nord e che si stende a perdita d'occhio oltre Città di Castello.

Guarda, figliuola, bevi con gli occhi questa luce e questi splendori: fra poco tu non vedrai
che gli alberi d'un piccolo giardino chiuso da alte mura.

Ma un'altra bellezza senza dubbio l'attira. Sul suo cammino c'è il convento di Monte Casale,
costruito da s. Francesco: orrore per i sensi, estasi per l'anima. Come possono vivere in
questi buchi di pietra delle creature umane? Tuttavia lassù il Serafino terrestre cantava la
sua gioia dopo la conversione dei suoi fratelli, i briganti; là sant'Antonio di Padova
componeva i suoi ammirabili sermoni e s. Bonaventura prendeva gli appunti per la «Vita»
del serafico Padre. Lassù vivevano i suoi fratelli in religione, i Cappuccini, custodi del
santuario.

Entrò Orsola in questo eremitaggio? Implorò la benedizione dei solitari, dei quali sarà la
sorella? Chi sa? Ma non ritardiamo il racconto.

Orsola a Città di Castello si fermò presso la sua amica marchesa Coscina d'Ancona. Prima
di recarsi al convento, bisogna che visiti conventi, chiese e i benefattori del monastero;
bisogna che si adatti all'uso, e che compaia in tutta la sontuosità degli abbigliamenti
mondani. Fate largo alla sposa di Cristo! Con grande disperazione della paziente, la
marchesa la riveste coi più begli abiti e l'adorna di gioielli. Finalmente può uscire fuori. I
testimoni, durante il processo di beatificazione ne descrivevano l'impressione provata. La
«Sposa di Cristo» parve loro non un essere umano ma una visione di cielo.

Trascorse la notte senza dormire ed ebbe la visione corporea di Gesù Bambino, che le rivelò
il significato della cerimonia dell'indomani. All'alba era già pronta a comparire ai piedi
dell'altare.

E dov'era Francesco Giuliani? Egli non aveva nulla di Abramo, il padre dei credenti; non
aveva potuto assistere al sacrificio della figlia, ma un giorno lo vedremo alla grata delle
Cappuccine di Città di Castello e ne sapremo il perché.

La folla riempiva la chiesa, e le due strade di fronte all'entrata del Santuario. Le Suore
stavano dietro la grata della comunione, salmeggiando le preghiere e a velo calato.
Presiedeva il Vescovo. Il rito si svolse in tutta la sua impressionante maestà. Mentre
l'officiante predicava, Gesù, visibile a lei sola, si mise al fianco di Orsola. Sotto le forbici
cadono i capelli; poi, scansando la folla, attraversa la chiesa, e, con la croce sulle spalle, si
presenta alla porta di clausura. Dei gridi: «Ancora c'è tempo: ritornate indietro e siate felice
con noi!». Sono i giovani eleganti, che l'hanno seguita fino all'ultimo momento. Orsola si
volta, fa un gesto di ripulsione suprema e lancia al mondo l'eterno addio. Le porta della
Clausura si apre lentamente; i càrdini cigolano. Un silenzio. Poi la stessa porta si richiude.
Di fuori scoppiano singhiozzi: di dentro, come in lontananza, le voci delle vergini, che
conducono la sposa allo Sposo.

Orsola è già nella sua tomba: una tomba buia, stretta, silenziosa, sterile. Ut quid perditio
haec? No, la sua tomba è più lucente del firmamento stellato, più larga dei continenti e dei
mari; una tomba che sarà punto di convegno del cielo, del purgatorio e dell'inferno; una
tomba in cui vivrà una esistenza ricca di avvenimenti e in cui genererà schiere di eletti. Era
il 28 ottobre 1677. Orsola non aveva ancora compiuti i 17 anni.

Orsola non è più Orsola: per volere del Vescovo, che ha profetizzato la sua futura santità,
d'ora in avanti si chiamerà Suor Veronica, che vuol dire: vera immagine. Salutiamo in lei la
riproduzione viva di Cristo crocifisso e redentore!

È la Vittima: s'è offerta, e sta per essere consacrata.

CAPITOLO V.
LA CONSACRAZIONE DELLA VITTIMA

Veronica è nel chiostro; porta l'abito e il bianco velo di fidanzata di Cristo; è nel colmo della
felicità.

La prima notte le apparve una visione: una moltitudine d'angeli e di santi, poi la Beata
Vergine, poi il Signore in persona, raggiante di vederla lì. Egli disse all'assemblea celeste:
«Ecco la nostra fanciulla!». Poi le domandò che volesse: «Il vostro amore», rispose, e le
parve che l'amore penetrasse tutto il suo essere. Di nuovo Gesù le chiese che volesse.
«Queste tre grazie, Signore: la perseveranza nella mia vocazione, il compimento della vostra
volontà, il supplizio della crocifissione». Rispose: «Io ti ho scelta per una grande Opera, e,
per amor mio, sosterrai un lungo martirio». Senza accorgersene, Veronica era caduta in
ginocchio sul pavimento. Una luce vivissima riempì la sua cella.

Gioia da parte del cielo e gioia da parte della terra, perché le suore la circondavano del loro
affetto e la chiamavano la piccola. Ma ad un tratto Veronica si sente soffocare sotto la
stretta del dolore. Non è più in compagnia del babbo e delle sorelle. Li vuole. Come viverne
senza? Li rimpiange amaramente e prova ripugnanza per tutte le cose della nuova vita.

Ripugnanza per il luogo: il monastero le è una prigione buia e fredda; le sbarre della grata le
fanno orrore; tutto le si presenta come una tomba la cui pietra sepolcrale la opprime. Le
nasce l'idea di fuggire attraverso i tetti.
Ripugnanza per il lavoro: lavoro di cucitura, che non ha mai amato, avendo gusti piuttosto
mascolini; lavoro del rammendo, del bucato, della cucina; servizi rilasciati ai domestici
nella casa paterna.

Ripugnanza per l'ufficio divino, che le sembrava complicato; ripugnanza per la meditazione,
che le pareva un gran perditempo. La direzione spirituale del monastero impone il metodo
discorsivo, tutto divisioni e suddivisioni; metodo logico, eccellente per una comunità, ma
non per Veronica. Fanciulla e giovinetta, che stesse a Mercatello o a Piacenza, attendeva
alla preghiera con tutta naturalezza e spontaneità, alla maniera dell'uccello che canta, del
ruscello che mormora, del fiore che profuma, del sole che illumina; alla maniera di s.
Francesco, sotto la spinta dello Spirito d'amore. Qui la si paralizza e le si mettono i ferri.

Ripugnanza per le persone. La madre abbadessa le pare senza discrezione, la madre maestra
senza tatto, le compagne senza educazione; c'è di peggio: il confessore le chiude il cuore e
la bocca. Da parte di qualche suora, il primitivo affetto si cambia in antipatia e in ostilità.
Una d'esse, divorata dalla gelosia, decide di rovinarla nel concetto delle altre, e allora i visi
che Veronica incontra ispirano diffidenza o disprezzo. La madre abbadessa e la madre
maestra le procurano in modo particolare pene e dispiaceri.

E non ha forse meritato i sospetti? Non ha violato la regola e la virtù della carità? Non è
entrata forse nella cella d'una suora del noviziato per indisporla perfidamente contro la
madre maestra? La novizia, piena di orrore, l'ha già denunziata, e la maestra punisce la
colpevole con un silenzio ostinato e glaciale. Ma Veronica era innocente e non c'entrava per
niente in tutto questo affare.

Il mistero venne svelato da un fatto stranissimo.

Veronica pregava nella sua cella, quando le si presentò la maestra per rivelarle un segreto.
Molte volte la novizia s'era trovata in presenza della sua superiora, ma mai ne aveva sentito
il ribrezzo e lo spavento, che ora provava. Tale era il segreto: il confessore doveva
abbandonare il convento a causa di Veronica, che aveva mancato di prudenza, se non di
virtù. La raccomandazione: non più aprirsi in confessione e neanche confessarsi. Infine la
prescrizione data in nome dell'ubbidienza: conservare il segreto sullo stesso segreto.

Sonava compieta. Tutta turbata, Veronica si congedò dalla madre maestra e corse in coro.
Ma la maestra era già lì da qualche tempo, né s'era sognata di entrare nella cameretta della
novizia. Non era dunque stata la maestra a parlare a Veronica, poiché era in coro, come
difatti non era stata Veronica a calunniare la maestra, perché nella stessa ora si trovava
presso la maestra.

Qual era questo mistero?

Per paura degli scherni di alcuni increduli, non dobbiamo tacere o tradire la verità.
Veronica, corredentrice con Cristo Gesù 16, doveva combattere l'inferno, strappargli migliaia
e migliaia di vittime, e Satana aveva preso le apparenze umane per rovinare fin dall'inizio la
sua pericolosa nemica.

Descriveremo più tardi la gigantesca lotta tra Veronica e i demoni; diciamo soltanto, per
ora, che la guerra era già cominciata, formidabile, e che la Vittima espiatrice soffriva più per
parte dell'inferno che degli uomini.

La notte, tutte le notti non fa che piangere, ma le lacrime non spengono il suo ardore.
Tentata, bacia l'abito e le mura della cella; provoca i comandi per abituarsi a obbedire;
diviene la serva premurosa delle suore; corre al lavoro; non fa che scendere e salire,
portando brocche di acqua all'infermeria lungo la ripida scala, senza preoccuparsi dei suoi
piedi delicati, che si gonfiano e sanguinano. Se non muore sfinita di stanchezza, è perché
Dio la riserba per la grande crocifissione del Golgota.

Non è nemica che di se stessa: brucia d'amore per Colui, che l'ha fatta sua sposa. Nel
silenzio della notte si disfà in lacrime al pensiero che i peccatori continuano a ricoprire di
contumelie Gesù e ad inchiodarlo sulla croce. Ama, ma non ama per quanto vorrebbe, e
rivela alla madre maestra il timore che le altre suore amino Gesù più di lei. È felice che le
sue compagne siano infuocate di amore, ma vorrebbe che anche il suo non fosse meno
ardente.

Una visione la consolerà. Gesù una volta le apparve come il primo giorno del suo ingresso,
e le propose la stessa questione: «Che vuoi?». «Il vostro amore, o Signore; ecco ciò che
voglio». «E perché il mio amore?». «Per contraccambiarvi e amarvi col vostro amore». E
questo serafino terrestre fu esaudito. Ora una fiamma viva la bruciava dentro, e il cuore le
saltava nel petto.

Era un amore di compiacenza: si riposava con delizia nel pensiero divino; era un amore di
benevolenza: voleva delle anime da togliere al peccato, da strappare all'inferno, da dare a
Dio. Quante volte ripeteva: «Anime, mio Dio, vi domando delle anime!». E una voce le
rispondeva: «Guadagnale con le sofferenze». Veronica stendeva le braccia, mostrava i piedi,
le mani, il cuore, dicendo: «Signore, le voglio acquistare; io sono la vostra Vittima:
crocifiggetemi!».

Per questa crocifissione la Vittima s'era offerta nel giorno della vestizione; per questa
crocifissione la Vittima si era consacrata nel giorno della professione solenne il 10
novembre del 1678. Terminava così il noviziato, trascorso fra gioie, lacrime e amore.

Veronica professa ufficialmente e per sempre sotto gli occhi e la benedizione della Chiesa,
rinunzia ai beni esteriori, ai sensi, alla volontà e al bene di se stessa. La professione di
Veronica aveva un aspetto doloroso. All'Amore che si sacrifica, la Vittima dava la sua vita e
il suo sangue, e alla Vittima gradita, consacrata, l'Amore che si sacrifica, stava per dare i
chiodi della sua carne e le angosce del suo cuore.
La professa commemorava tutti gli anni il grande atto, e il cielo partecipava alla sua festa. Il
Figlio di Dio presentava a sua Madre il velo nero delle spose consacrate, perché lo
imponesse alla Santa. Questa, il 10 novembre 1702, riceveva addirittura un velo miracoloso,
che si conserva ancora nel monastero di Città di Castello, mentre era invitata ad aggiungere
al suo nome di Religiosa: Veronica di Gesù e di Maria, di Gesù crocifisso e di Maria
compaziente.

La Vittima doveva provare le sofferenze del Redentore, i tormenti della Corredentrice.

La Vittima è offerta, la Vittima è gradita; i preparativi sono terminati. Assistiamo alle scene
della spaventosa Passione.
LIBRO SECONDO

Le scene della Passione

CAPITOLO I.
LA SCENA DEL GETSEMANI

Nel Getsemani, Gesù, riscatto dell'umanità colpevole, vede i nostri peccati, ne vede il
castigo, e prende il calice e beve; ma il terrore, il disgusto, la tristezza, lo prostrano a terra, e
suda sangue.

La Vittima vedrà ugualmente tutte le iniquità umane, i supplizi dell'inferno, i dolori fisici e
morali dell'Uomo-Dio Salvatore; vedrà pure, l'orrore dei martirii che attendono anche lei.
Anch'essa verserà lacrime di sangue, che scorreranno veramente dalla sua faccia
macchiandole il velo. Proverà agonie più angosciose dello spavento della morte.

Un calice appariva davanti ai suoi occhi, portato da mani invisibili. Sa che è per lei; esso
contiene tutte le pene della creazione, e lei dovrà consumarlo fino alla feccia. Bolle,
trabocca quasi. Veronica ne prova spavento. Il calice le è presentato da Gesù in persona; egli
è coperto di piaghe, e con la voce di tutte le ferite la invita ad accostarci la bocca. Il calice è
ripresentato da Maria: è il giorno dell'Assunzione. Veronica ha paura, ma ama. «Berrò il
calice», dice.

Il calice trabocca, e la inonda. Un'incredibile amarezza si spande sulla sua lingua, che si
ricopre in un istante come di scaglia di pesce, che le suore raschiano invano. L'amarezza
impregna l'acqua che beve. Ha una sete divorante: le ci vorrebbero gli oceani del mondo! Ed
è costretta ad inghiottire l'amarezza, che annienta le sue fibre intime.

L'amarezza impregna gli alimenti che mangia e che s'arrestano alla gola. È scossa da
spasimi orribili. Piange quando suona l'ora dei pasti: perché scendere in refettorio? Rimane
giorni e giorni senza prendere nulla. Le religiose sono stupite e si domandano come può
vivere. È immaginazione? Ma si è provato a mordere il suo pane e lo si è dovuto gettare via
subito come un veleno. L'amarezza impregna l'aria che Veronica respira. Svenimenti su
svenimenti. La febbre la consuma; si crede che Veronica sia sul punto di morire. Si
mandano a chiamare i medici, che combattono l'amarezza con l'amarezza; ma i loro rimedi
violenti non riescono che a sconvolgere lo stomaco della paziente. Intanto il calice seguitava
a versare le sue terribili gocce.

«Ogni goccia mi bruciava», scrive la Santa, ed «io non vedevo traccia di fuoco; ogni goccia
mi trafiggeva; ed io non vedevo la spada; ogni goccia era per me una nuova tortura, una
nuova morte». Ciò nonostante la sposa dello Sposo del Sangue continuava a gridare: «Il
vostro calice, Signore; io berrò al vostro calice».
Dal calice spuntano delle croci. Una è piantata nel cuore di Veronica in segno di presa di
possesso della sposa del Sangue e come annunzio che la sua vita sarà tutta una croce. Essa
le accende nel cuore fiamme d'amore, che glielo dilatano, fiamme conquistatrici, che
arrestano le operazioni dell'anima e distruggono tutto ciò che non è amore. E il cuore le si
solleva battendo fortissimamente. Le suore, infatti, non sanno ridire la cosa che con queste
parole: Sono colpi al cuore. E i colpi risuonano nel silenzio della cella, risuonano in chiesa
durante la recita dell'ufficio: si direbbe che mani invisibili, armate di un bastone, colpiscano
senza pietà il petto di Veronica. Poi, quando i colpi cessano, ella sente in fondo al cuore la
melodia degli angeli che l'hanno assistita nei momenti dell'agonia di sangue. Essi han
raccolto in un vaso d'oro il liquore d'amarezza, e glielo mostrano in premio della sofferenza
e ad incitamento a più alti martirii.

Il Getsemani non è che il principio. Andiamo al pretorio.

CAPITOLO II.
LA SCENA DEL PRETORIO

Nel Pretorio, Gesù è flagellato, coronato di spine, caricato della croce. Veronica è lo
specchio vivente di queste scene, o, meglio, le rivive.

Quand'era bambina, s'era fabbricato un cilizio, che manovrava con braccio spietato, tanto
che il rumore dei colpi aveva attirato sua madre. Religiosa, bruciata da un amore più
ardente, si disciplinava quotidianamente, in certi giorni, per ore intere, con una crudeltà
inaudita, in modo che i pannolini con cui fasciava le sue carni lacerate s'imbevevano
letteralmente di sangue. Ma parliamo della misteriosa flagellazione, che mani invisibili le
infliggevano.

Gesù le compariva spesso legato alla colonna di esecuzione. Allora, immediatamente, tutto
il suo corpo fremeva sotto le sferzate di carnefici invisibili. In un altro capitolo
descriveremo questa scena piena d'orrore, raccontata da testimoni oculari.

La cosa principiò ad essere dal 4 aprile 1694? No, ma fin dal 1681. Veronica aveva venti
anni. Le apparve il Salvatore coronato di Spine. «O Signore, disse, datemi la vostra corona
di spine, affinché le ferite che esse mi produrranno, vi gridino il mio amore». La corona è
già sulla sua fronte, e le spine le penetrano nelle tempie, nella nuca, nel cervello, nelle
orecchie, negli occhi. La paziente cade per terra come morta. Il Signore la solleva e le dice:
«Per tutta la vita, più o meno, sentirai queste spine». Di nuovo ella cade, cade una terza
volta, ma, come per miracolo, è di nuovo in piedi. La testa le si gonfia smisuratamente, gli
occhi le escono dall'orbita. Nonostante tutti i suoi sforzi, è impotente a nascondere il suo
martirio. Si corre a cercare il medico, che reclama il chirurgo, e si constata che spine
misteriose spuntano sotto la pelle. Si prescrivono medicamenti energici. «Presto, un calco di
fuoco alla testa!». E nella testa si forma una cavità che ingrandisce a vista d'occhio. «Presto,
un cauterio al collo, alla gamba!». E queste parti gonfiano come la testa, lacerando i muscoli
e i nervi. «Presto, degli unguenti sulle piaghe!». E il cervello diviene ora una fornace, ora
una ghiacciaia. «Presto, un laccio attorno al collo, perché ne escano gli umori!». E il bisturi
taglia e penetra nelle carni vive. E via e via di questo passo.

Poi i medici si dichiarano vinti. I loro medicamenti non han fatto che aggravare il male, che
non è d'ordine naturale.

Nel frattempo la paziente non può dormire tanto i nervi si sono contratti; le sembra di non
essere che una piaga viva. E quando medici e chirurghi la martirizzano, le sue labbra
sorridono, i suoi occhi s'illuminano, il suo cuore giubila e canta.

La croce le appariva già da molto tempo, immensa, oscura, coronata di piccole croci
moltiplicate all'infinito.

Questa volta le apparve sulle spalle del Salvatore, che cammina curvo e triste! «Che
desideri, Veronica?». «La vostra croce, o Signore; voglio portarla al vostro posto!». Ed ecco
la croce sulle sue spalle. Come è pesante! Cade e ricade sotto quel peso, ma Gesù la solleva.
La croce si sprofonda nelle sue carni, mettendo a nudo l'osso della spalla. Quanto la trova
pesante e dolorosa! Ma cammina e cammina, curva, con affanno. È un supplizio orribile.
Dopo la sua morte, si constaterà che delle carni nuove hanno sostituito le carni martirizzate,
e si constaterà un tale abbassamento della spalla, che il braccio non avrebbe potuto
muoversi senza un miracolo.

I supplizi della flagellazione, della coronazione di spine, del portare la croce, saranno
rinnovati migliaia di volte, e noi dovremo rivederli. Ma ora corriamo al Calvario.

CAPITOLO III.
LA SCENA DEL GOLGOTA

La grande scena del Golgota fu per Gesù la crocifissione. Per Veronica saranno le stimmate,
precedute da un grande lavoro di purificazioni passive e dalla celebrazione dei mistici
sponsali.

Per essere ammessa all'onore delle stimmate, la Vittima deve penetrare ancora più nel
castello della croce nuda. Vien fatto di domandarci se Veronica avesse il culto di santa
Teresa; e conoscesse il trattato della grande riformatrice del Carmelo, cioè, il Castello
dell'anima. Non è probabile, perché la direzione dei monasteri di quel tempo, vittima del
pregiudizio corrente, diffidava della mistica per paura della falsa mistica. La Santa stessa
darà alle sue novizie soltanto libri d'ascesi. Ciò nonostante le due Sante descrivono ciascuna
un castello spirituale quasi con le stesse parole. Le pagine di Veronica sono splendide; ne
diamo un pallido e freddo riassunto.
Questo castello, da lei scorto durante una visione celeste, s'innalza tanto in alto, che, per
raggiungerlo, bisogna staccarsi da tutte le cose del mondo. S'innalza nel mezzo dell'anima,
e, per penetrarvi, bisogna uscire di sé. È costruito con pietre segnate col segno della croce,
per indicare che riceve i soli penitenti, che hanno praticato la mortificazione universale. È
aperto a tutti i lati, per significare che diventerà il ricovero delle fiere, il ritrovo dei demoni
ruggenti.

Si muove nello spazio, per indicare che le purificazioni dolorose dovranno moltiplicarsi, e
che la croce potrà essere abbracciata dopo lunghi sforzi, sotto orride volte minaccianti
rovina. Ecco infine la croce nuda; l'uomo è spogliato di tutto, il corpo è senza forze,
l'intelligenza senza luce, la memoria senza ricordi, la volontà sensibile senza stimoli, le
facoltà impotenti a raggiungere il loro oggetto; è, in qualche modo, l'anima senza se stessa.

Felice l'anima che penetra nel castello, che trova e abbraccia la croce nuda: la croce le
diviene un trono di delizie, e il castello un paradiso di gioia.

Veronica ha voluto penetrare nel castello. S'è isolata dalla terra, si è separata da se stessa, ha
fatto scorrere il castello della mortificazione nei sensi e nella volontà, ha affrontato la
persecuzione degli uomini e dell'inferno; li ha vinti con la pazienza, ha consentito a vivere
nella morte di tutto. Condotta da Gesù al centro del castello, ha visto Dio fuggirsene
lasciandola sola nella desolazione e nella notte, ma da vera eroina, ha gridato: «Viva la pura
sofferenza! Viva la Croce nuda!», e s'è gettata, abbracciandola, ai piedi della croce. Subito,
la croce s'è cambiata in un trono di delizia, e il castello, in un paradiso di gioia.

Gloria al castello della croce nuda! Veronica vi celebrerà solennemente le nozze mistiche
con lo Sposo del sangue, e vi riceverà il privilegio delle spose-regine: le stimmate.

CAPITOLO IV.
SEGUITO DELLA SCENA DEL GOLGOTA

Era il 20 marzo del 1695. Veronica si era appena comunicata, quando il Signore le apparve
ordinandole di non più cibarsi per l'avvenire che del suo Santissimo Corpo. Nel frattempo,
poiché quest'ordine troverà opposizione da parte dell'autorità, le prescrive di stare a pane e
acqua.

Nel passato aveva ottenuto il permesso di stare dei giorni senza mangiare, e di alternare il
digiuno con pasti leggeri definiti dai medici addirittura insufficienti.

Il padre Cappelletti, Oratoriano, confessore del monastero, riferì la cosa ai suoi confratelli,
poi al Vescovo, e tutti furono del parere di opporsi al desiderio di Veronica. Anzi, andarono
più oltre: la obbligarono a mangiare ciò che non compariva mai alla tavola delle
Cappuccine: carne e brodo, ma la Santa ributtava fuori con orribili convulsioni, tutto quel
che prendeva. La sua pena aumentava per il fatto che ogni giorno il Signore le rimproverava
la sua disobbedienza. «Signore, sospirava, cambiate dunque il cuore dei vostri
rappresentanti». E tornava ad insistere presso di loro. Finalmente le proibirono ogni
penitenza nella persuasione che fosse posseduta dal demonio. Poi, compreso che tutto
dipendeva dalla volontà di Dio, l'8 settembre le concessero il permesso che chiedeva.

L'indignazione scosse il convento. Madre Gertrude Albizzini, piena di pregiudizi contro la


Santa, aveva da poco ripreso le insegne d'Abbadessa, e non contribuì a calmare gli spiriti
eccitati. La digiunante fu tacciata di eccentrica, di superba e di indemoniata. Un fatto venne
a dare ragione alle suore nemiche: Veronica sorpresa a mangiare di nascosto nella dispensa.
Apriti cielo! Fu il finimondo! In seguito fu appurato che nel momento del delitto, Veronica
era in cappella a pregare. Il demonio, per rovinarla, aveva preso di nuovo le sue sembianze.

Le contradizioni, così, cominciarono a calare di tono, ma la digiunante, benché sostenuta dal


miracolo, si stava riducendo ad un'ombra. E non consumava solo il digiuno, ma anche il
supplizio del calice d'amarezza, che seguitava a versare le sue gocce mortali, le battiture
invisibili, le spine, il cuore ferito dalla lancia divina, dal quale uscivano fiotti di sangue, la
rabbia dell'inferno, la natura che protestava ruggendo: «Ho fame! ho fame!».

Pensarci: Veronica doveva attendere alla dispensa e alla cucina: le pietanze che le passavano
sotto gli occhi, prendevano una voce seducente, irresistibile, mentre le sue dita si torcevano
raggrinzite per denutrizione: «Mangia! Mangia!». Ma lei si chinava per terra, e tuffava la
bocca nella polvere: «Vuoi mangiare? Mangia questa!».

Lo spaventoso digiuno durò vari anni, e, verso la fine, Veronica si contentava di mangiare i
ritagli delle ostie. La comunità non si comunicava che due volte la settimana: il venerdì e la
domenica. Dietro l'ordine divino, la Santa aveva chiesto e ottenuto di comunicarsi tutti i
giorni. L'Eucaristia era divenuta insieme la vita del suo corpo e della sua anima.

CAPITOLO V.
LA CONFESSIONE GENERALE

Le sue confessioni generali furono numerose, e le ripeté anche dopo la celebrazione dei
mistici sponsali; quella del 31 marzo del 1697 è la più celebre.

In quel giorno la Santa ricevé l'ordine di fare a Gesù in persona la sua confessione generale.
Rapita in estasi, si trovò davanti al tribunale eterno presieduto dal Signore e da Maria
santissima, che erano circondati da una moltitudine di Angeli e Santi.
Subito, tutti i peccati della sua vita uscirono come uno sciame di api dalla sua anima. Gesù
si velò la faccia. Spaventata, Veronica si prostrò ai ginocchi di Maria, che non fu meno
tenera di Gesù; ripeté il gesto a santa Chiara, ma anche questa si coperse la faccia dicendo:
«Non ti conosco per mia figliola». Si volse allora a s. Francesco e agli altri Santi, ma non
ottenne accoglienza migliore.
Nel vedersi abbandonata da tutti e con davanti dei giudici, fu assalita dal terrore, principiò a
tremare e disse con un filo di voce: «Signore, dov'è, dunque, la vostra misericordia?». Ma il
Signore si velò di nuovo la faccia. Si volse a Maria: «Non siete voi il rifugio dei peccatori e
la loro Madre». Ma anche questa non cambiò modo. Il Signore intanto fece un segno
all'Angelo Custode, che in un baleno portò Veronica ai piedi del Sommo Giudice
ordinandole di cominciare la sua confessione generale.

Si segnò lentamente, ma, per quanto ci si provasse, non le riusciva di aprir bocca. Era tutta
confusione, e pentimento. Poi, finalmente, poté dire:

«Signore: ho offeso voi, sommo Bene; me ne confesso». Vide allora, con una luce
improvvisa, il valore e l'efficacia del sacramento della Penitenza. E volle continuare,
soffocata dal dolore: «Signore, voi siete il Bene infinito e io vi ho offeso». Sussultava dai
singhiozzi.

Intervenne l'Angelo Custode, e principiò a dire tutte le colpe che Veronica aveva commesso
dai tre anni in poi. I capricci infantili, gli schiaffi dati al piccolo povero e alla domestica, gli
oggetti presi senza permesso per mettere su l'altarino a Maria; e il tempo trascorso in questo
lavoro per puro piacere: tutto le fu rimproverato. E il Signore fece avanzare la sua Madre
santissima, che confermò le accuse dell'Angelo, e si velò la faccia.

L'Angelo, continuando la sua requisitoria, venne ai peccati che lei aveva commesso contro
l'angelica virtù, cioè, come suo padre l'avesse condotta nel mondo, e come dei volti umani si
fossero impressi nel suo pensiero; come sua cugina l'avesse turbata con imprudenti
rivelazioni, e come, anche dopo la vestizione, lei fosse rimasta per molto tempo a bocca
chiusa, vinta dalla vergogna, senza sapere che pensare e dire.

A questo punto, Veronica urlò: «Signore, vi ho gravemente offeso?». «No, le rispose Gesù,
ma il tuo piede scivolava, e senza l'aiuto della mia mano, tu avresti toccato il fondo del
precipizio». E fece un cenno, e comparvero santa Chiara e san Francesco ad accusarla. Dopo
la vestizione, aveva infatti mancato alla povertà, quando, da sagrestana, aveva accettato per
il culto un oggetto troppo di lusso.

Venne poi la volta di s. Bonaventura, di s. Antonio da Padova, di s. Bernardino di Siena, di


s. Agostino e di s. Domenico, di s. Giovanni Battista e di s. Filippo Neri, che le
rimproverarono d'aver mancato di zelo nel divino servizio. Per ultimi s. Lorenzo, s. Stefano
e altri martiri, che l'accusarono d'aver tremato davanti alla croce.

Proprio nessuno la difendeva, ma tutti l'accusavano. Non ne poteva più dal dolore.

Allora i Santi si prosternarono davanti a Gesù implorando misericordia per lei, in nome
delle piaghe redentrici, e le Sante fecero altrettanto davanti a Maria, particolarmente s.
Caterina da Siena, s. Rosa da Lima e s. Teresa d'Avila, supplicandola d'interporsi per la
salute della colpevole.
Veronica guardava come allibita la scena e si sentiva annientare dal cumolo delle colpe,
quando udì delle grida: «Vittoria! Vittoria!». Erano gli Angeli che gridavano di gioia, e in
quel momento lei si sentì rinata. Le parve di uscire con l'anima dalle acque d'un nuovo
battesimo e che Maria offrisse il suo cuore purificato al divin Figlio. Egli lo ricevette con
gioia, e disse alla corte celeste: «Per la virtù delle mie piaghe e per le vostre preghiere, io le
perdono». Poi, vòlto verso di lei, alzò la mano, la benedì e soggiunse: «Vai in pace e non
peccare mai più».

Il cielo si richiuse e Veronica si ritrovò sulla terra.

Vittima, bisogna che sia pura; anzi, la stessa purezza non basta; per associarsi al sacrificio
redentore, deve celebrare con l'Uomo-Dio i divini sponsali.

CAPITOLO VI.
I DIVINI SPONSALI

È meravigliosa l'unione che si stabilisce tra Gesù Cristo e le anime. Le si danno nomi
diversi. S. Paolo la chiama incorporazione; e difatti, per la grazia, noi siamo misticamente e
realmente uniti all'Uomo-Dio, come le membra sono unite alla testa formando un solo e
medesimo corpo.

La Scrittura la chiama spesso alleanza; e difatti, essendo il Verbo lo sposo della sua santa
Umanità, è lo sposo dell'anima giusta, che diviene come una sua seconda umanità 17.

Tutte le anime giuste sono dunque spose di Cristo, ma vi sono delle spose che portano
ufficialmente questo nome: esse sono le anime che, per aver fatto i voti religiosi, si sono
impegnate a crescere senza fine nella divina carità. Tra queste spose ufficiali, vi sono le
spose-regine, quelle che una carità più ardente conduce al letto della Croce: esse sono le
anime vittime.

La donna, nata per essere sposa, comprende meglio il mistero dell'unione divina presentato
sotto l'immagine di alleanza, e Nostro Signore, trattando con la donna, si serve appunto di
questo simbolo.

S. Veronica fu una sposa-regina, poiché fissò la propria dimora presso la croce. Con lei lo
Sposo del sangue celebrò un divino matrimonio, il cui rito egli volle ripetere ogni qual volta
che la Santa rinnovava la sua professione religiosa e nei giorni delle grandi solennità. Lei
stessa descrive questi frequenti sponsali, li descrive in modo che sono uno più interessante
dell'altro. È impossibile seguire ciascuna descrizione; limitiamoci alla prima.

Da molto tempo il Signore annunziava alla Santa di voler celebrare con lei un mistico
sposalizio, e la Santa attendeva con ansia.
Il giorno arrivò con la Pasqua dell'anno 1694. Veronica era sul punto di ricevere la
Comunione: il suo cuore ardeva come un braciere, quando, tutto ad un tratto, l'aria fu
inondata da un cantico di paradiso: Veni sponsa Christi. Caduta in estasi, si ritrovò ai piedi
del Signore.

Il Signore era seduto su di un trono sospeso in alto; un trono d'oro purissimo e incastonato
di pietre lucentissime, al cui confronto tutti i soli del mondo parrebbero tenebre. Di fianco a
questo, un altro trono fatto d'alabastro tempestato di gemme, con sopra la Madre di Dio, che
parlava con il Figlio. Ricoperta di un manto bianco pieno zeppo di diamanti, era bella in
modo inesprimibile.

Tutte intorno le Sante del suo primo amore: s. Caterina da Siena e s. Rosa da Lima; e poi
Santi e Sante, tutto il paradiso.

Veronica, senza saper come, si vide rivestita con abiti ricchissimi.

Fu presa allora dai più santi desideri, ed i suoi occhi non finivano di mirare la bellezza
indescrivibile del Signore. Non capiva bene di che fosse rivestito, ma le sue piaghe
risplendevano più di tutte le costellazioni del firmamento.

Alzata di nuovo la destra, egli la benedì e la invitò dicendo: «Vieni, sposa di Cristo». La
Vergine e le Sante risposero: «Ricevi la corona, che il Signore ti ha preparato dai secoli
eterni». Sollevata in estasi, gli si avvicinò e vide nella piaga del sacro Costato l'anello, che
lo Sposo le riserbava. Difatti lo prese, lo consegnò alla sua divina Madre, che lo mostrò alla
corte celeste, perché ne ammirasse lo splendore. L'anello era d'oro e nel mezzo spiccava un
gioiello con inciso il nome di Gesù.

In quel frattempo Veronica si ritrovò in mezzo fra Gesù e Maria, che erano pieni
d'allegrezza. La Vergine le accennò di mettere un poco più avanti la mano destra, mentre il
Signore, benedicendo l'anello glielo infilò in dito. Allora miriadi di musici celesti diedero di
mano ai loro strumenti e tutto il paradiso esultò di gioia. Ma Veronica non vedeva che Gesù.
La sposa era unita per sempre al suo sposo.

L'anello misterioso le restò per sempre al dito, ora invisibile ed ora visibile. Le suore,
durante il processo, testimoniarono d'averlo visto con i loro occhi, e si trovarono tutte
d'accordo nella descrizione che ne fecero.

Dopo i mistici sponsali, Veronica divenne una fornace: il fuoco interiore la bruciava tutta;
erano fiamme quelle che le uscivano dagli occhi e dalla bocca, quando, nel giardino,
invitava le piante e le stelle a benedire e a cantare lo Sposo Divino.

Alle nozze doveva seguire il banchetto. Tutto era preparato, e alla novella sposa, vennero
offerte le vivande già pronte sulla tavola misteriosa. Il banchetto era composto dei meriti del
Salvatore, di cui Veronica poteva ormai disporre a piacere, e delle sofferenze della Passione,
che per Veronica dovevano essere il nutrimento avvenire. Christo confixa sum cruci!
CAPITOLO VII.
LA TRASVERBERAZIONE DEL CUORE

Prima di s. Francesco d'Assisi, la stimmatizzazione era sconosciuta. Non apparve nella


storia che con la scena della Verna. Il Serafino della terra chiese all'Uomo-Dio questa grazia
inaudita: provare i dolori che Egli provò nell'ora tragica della crocifissione.

E il Signore discese, e dei raggi partirono dai suoi piedi, dalle sue mani, dal suo costato,
ferendo i piedi, le mani e il costato di Francesco.

In seguito altri stigmatizzati apparvero in seno alla Chiesa. Tra i privilegiati, brilla una figlia
di s. Francesco: s. Veronica Giuliani. Vittima d'elezione, sposa-regina, deve stendersi con
Gesù sulla croce redentrice. E il Cuore di Gesù fu ferito da ultimo sulla croce; quello di
Veronica, invece, sarà ferito subito al principio della passione.

Il cuore, presso tutti i popoli, è il simbolo dell'amore; i sentimenti dell'animo risiedono nel
cuore; la cosa a cui l'uomo tiene di più è il cuore. Gesù Cristo, quando ci parla del suo
amore, ci presenta il cuore. Dunque, dovrà toccare il cuore, per fare opera d'amore.

La notte di Natale del 1696, Veronica andò a visitare il presepio. Era lì in orazione, quando
vide il Bambino Gesù vivo e vero. Pazza di gioia, lo prese, se lo strinse al petto, e lo
scongiurò di prenderle il cuore, che ardeva come una fornace. Poi cadde in estasi.

Il Bambino Gesù teneva in mano una specie di bacchetta d'oro con su in cima una fiamma e
giù in basso una lama. Ma lasciamo parlare la Santa: «Egli mise la fiamma contro il suo
Cuore, e la lama contro il mio, che subito fu trapassato da parte a parte. Ritornata in me,
sentii un acuto dolore al cuore, e messi un pannolino sulla parte. Quando lo tolsi, era zuppo
di sangue» 18.

La ferita era profonda, tanto profonda, che veramente passava il cuore da parte a parte. Essa
aveva la lunghezza del mignolo: sottile, verso l'alto, larga giù abbasso, come si può vedere
dalle pezzuole tinte di sangue, che servivano per la medicazione, e che si conservano
religiosamente nel monastero di Città di Castello.

Il Vescovo e il confessore vollero assicurarsi del miracolo. Obbligarono la Santa a mostrarsi


alla grata della cappella e comandarono alle sue compagne di tagliarle a semicerchio l'abito
dalla parte del cuore. Si poterono così assicurare che la piaga era larga, sanguinante,
constatarono uno strano fenomeno: ne usciva un soffio tanto forte da spegnere una candela.
Prodigio! La piaga si chiudeva e s'apriva secondo i desideri dell'autorità ecclesiastica. Altri
prodigi: ne usciva un odore di paradiso; causava un dolore mortale alla paziente, ma non la
uccideva.

Alla grande piaga s'aggiunsero in seguito altre cinque piaghe, più piccole a simiglianza di
quelle del Salvatore. E un chiodo comparve, piantato entro le labbra della grande piaga, che
dita divine aprivano nella carne viva quando la Vittima Redentrice implorava la conversione
dei peccatori e la liberazione delle anime sofferenti.

CAPITOLO VIII.
LE STIMMATE

Le stimmate sono il punto culminante dell'esistenza della Santa. Immensa, è vero, la grazia
dei mistici sponsali, ma essa fu come l'annunzio delle stimmate.

Veronica era sposa-regina; doveva, dunque, trasformarsi in sposa-vittima per morire sulla
croce dello Sposo del Sangue e redimere il mondo. Gesù, infatti, le dirà: «Dall'eternità ho
decretato di aprire in te queste piaghe, e fin dai primi momenti dell'Incarnazione ho
sospirato quest'ora».

Perché? Per mezzo di questo segno miracoloso (son parole di Gesù), voleva ravvivare la
fede nel mondo e, con le piaghe, voleva rendere Veronica corredentrice perfetta; unite a
quelle di Gesù, tali piaghe sarebbero come bocche amate, che placherebbero Dio, sorgenti di
grazie, che salverebbero gli uomini. Sulla croce, trafitto da cinque piaghe, l'Uomo-Dio
aveva pagato il nostro riscatto.

Da quando le venne trapassato il cuore, Veronica era quasi sempre rapita in estasi; un'estasi
che le permetteva di costituirsi più che mai la serva delle suore.

Ella amava; l'amore, anzi, la consumava: «Delle anime! delle anime!»; lo sposo ne ha sete.
Dunque «delle croci!», poiché questo è il prezzo delle anime! «Delle croci, delle croci!». È
il continuo grido della Santa.

Passò la quaresima del 1697 nelle più orribili torture. Nel giorno del Venerdì Santo, ricevé
dei lumi straordinari sull'amore infinito di Dio e sulle sofferenze del Redentore. «Le tue
sofferenze, le fu detto, sono una semplice scintilla della fornace delle mie», e fu avvertita
che sarebbe stata decorata con le stimmate. Ella aveva già lo Sposo.

Ad un certo momento le apparve Gesù sulla croce. Dalle sue piaghe uscivano cinque raggi
luminosi; quattro terminavano a forma di chiodo e il quinto a forma di lancia d'oro
infiammata. La lancia le trapassò il cuore da parte a parte, i chiodi le attraversarono i piedi e
le mani; poi i raggi tornarono nelle piaghe del Salvatore, Veronica, secondo la voce celeste,
era finalmente vera sposa dello Sposo divino, redentrice con il Redentore.

Ripresi i sensi, Veronica si ritrovò in ginocchio con le braccia in croce. La piaga del cuore
gocciolava sangue, e sui piedi e sulle mani, interamente perforati, notò dei piccoli
ricrescimenti di carne appiattiti, che somigliavano a teste di chiodi, ricrescimenti che al
primo movimento, la fecero gridare di dolore. A tal vista si mise a piangere supplicando Dio
di rendere invisibili quei segni, ma invano, perché essi dovevano confermare la fede
cristiana. Dopo aver pianto e pregato, ne asciugò il sangue, e pazientemente si preparò ad
attendere ai consueti lavori.

Quali sforzi eroici! Camminava ed agiva; ma mentre prima era così accorta e sollecita, ora
piuttosto si trascinava a piccoli salti e ricurva. I piedi le sanguinavano, le mani le
sanguinavano, e doveva tenerli fasciati. Il Signore ne ebbe pietà e le ordinò di rivelare tutto
ai confessori. Impossibile nascondere più a lungo le stimmate.

Ma sono di origine divina? Ecco ciò che si domandarono il vescovo e i confessori. E


sentenziarono che, in un primo tempo, dovevano trattarsi come ferite naturali. Si ricorse a
celebrità mediche e chirurgiche, che ben presto si dichiararono incompetenti. Le cure
rimasero senza effetto, e non fecero che ingrandire e infiammare le piaghe con gran spasimi
per la paziente. Gli intendenti conclusero per il soprannaturale, ma gli ecclesiastici, più
difficili, spinsero la prudenza all'estremo. Non saranno per caso diavolerie? E sigillarono col
sigillo episcopale i guanti e le fasce che coprivano le piaghe; fu anzi ordinato alla
stigmatizzata di lavorare come se i piedi e le mani fossero liberi. Docile, questa si mise al
lavoro ritrovando l'antica agilità e l'antica destrezza.

Sventurata! Le stimmate le attireranno addosso una persecuzione inaudita, della quale


parleremo più avanti nel libro intitolato: I carnefici della vittima.

A forza di suppliche riuscì a toccare il cuore di Dio. Dopo tre anni, le piaghe le si chiusero
per un poco; poi si aprirono e si richiusero, e così per tutta la vita.

Scene della passione, atroci scene! Come la Vittima divina poté sopportare tutti questi
tormenti? Ed ora queste scene si rinnoveranno sotto i nostri occhi spaventati, fino al giorno
in cui anche Veronica lancerà verso il cielo il suo consummatum est.

CAPITOLO IX
RINNOVAMENTO DELLE SCENE DELLA PASSIONE

Dopo aver ricevuto le stimmate, parrebbe che la Santa dovesse entrare nel suo riposo; ma
non fu così. La sua missione non era terminata: era invece all'inizio. Veronica fu
stimmatizzata per perfezionare e fecondare il suo ufficio di redentrice.

Le scene della passione, dunque, si rinnovano quasi ogni giorno, ma specialmente nel tempo
di Carnevale, di Quaresima e dell'Avvento. Si rinnovano senz'ordine: ora il Getsemani, ora
il Pretorio, ora il Calvario. Il calice versava un fiele più amaro; le battiture piovevano più
crudeli sulle sue spalle; la corona si riempiva di spine enormi, che attraversavano la sua
testa; la piaga del cuore le si allargava e le stimmate bruciavano più atrocemente le sue
carni.
Le scene si rinnovano pure nell'ordine cronologico, cioè, secondo il Vangelo. Ella vedeva il
Salvatore subire successivamente tutti i supplizi della Passione, dal sudore dell'orto alla
crocifissione del Golgota. Assisteva a questi supplizi con occhio inorridito, e vi partecipava,
provandoli in tutto il loro orrore nella sua stessa persona.

Vedeva i peccati degli uomini, vedeva i suoi propri peccati, e il pentimento che ne provava
l'abbatteva. La tristezza penetrava fin dentro nelle sue ossa; la sua anima provava delle
agonie, che i moribondi non conoscono; ma ciò che più di tutto la martirizzava, era il timore
che Dio la respingesse e la condannasse. Allora tutto il suo corpo si ricopriva di un sudore
freddo di ghiaccio, e non c'era coperta che potesse scaldarla.

Partecipava al supplizio della cattura. Delle funi invisibili stringevano e laceravano fino
all'osso i suoi polsi e il suo collo; la strozzavano quasi, né dava più un respiro.

Partecipava al supplizio della caduta nell'acqua del Cedron: averla veduta come batteva i
denti dal freddo!

Partecipava al supplizio della prigione. Vedeva i nemici sputare e schiaffeggiare il suo Dio,
sospenderlo per le braccia e con le mani legate ad un'alta trave. Sentiva le congiunture
scricchiolare, le ossa come rompersi, e provava in se stessa il martirio.

Partecipava al supplizio della flagellazione. I flagelli mordevano la carne dei suoi fianchi;
qualche sferzata la colpiva agli occhi accecandola. Da ciò comprendeva che l'Uomo-Dio
dovette soffrire quel tormento, e, per espiarlo, lei diceva di non volere aprire mai più gli
occhi su spettacoli inutili.

Partecipava al supplizio della crocifissione, e i suoi piedi e le sue mani spasimavano dal
dolore: si contorceva tutta fra un crepitare di ossa straziate.

Partecipava al supplizio della croce distesa quando si piantarono i chiodi, e il viso di


Veronica strisciava per terra.

Partecipava al supplizio dell'inalberamento della Croce, e vacillava e si scoteva con violenza


mentre le piaghe dei suoi piedi e delle sue mani si allargavano tutte.

Partecipava al supplizio dello stare sulla Croce con le estremità delle mani e dei piedi
inchiodate, con la testa lacerata dalle spine, che penetravano più dentro più toccavano il
legno, e con la schiena, che diventava una piaga viva.

Partecipava al supplizio della sete ardente, e il vento penetrava nelle ferite aperte, e la sua
lingua, che si gonfiava fino a soffocarla, stillava fiele.

Partecipava al supplizio della suprema agonia, e una mano le strappava il cuore: era nello
stesso tempo viva e morta nel fondo del sepolcro.
Lo sapeva Veronica perché il Salvatore soffrì tutti quei tormenti. Davanti ai suoi occhi si
apriva come una apertura attraverso la quale vedeva un oceano di fuoco d'amore, e vi si
tuffava spirando non tanto per il dolore quanto per l'amore.

Si crederà? Le scene della passione si muovevano secondo il volere del Vescovo e dei
confessori.

Un illustre religioso della Compagnia di Gesù, il P. Giuseppe Maria Crivelli, fu mandato da


Roma ad esaminare il caso delle stimmate. Egli ordina alla Santa di subire in sua presenza i
supplizi della Passione, ed è subito accontentato. Arrivata l'ora della flagellazione, torno
torno ai polsi della paziente appariscono dei segni di corde, che sembrano affondare sempre
più nelle carni; è il segno che la Vittima è legata alla colonna. Ancora un istante e le sferzate
piovono giù fitte fitte. È spaventoso! Il suo corpo vien gettato contro il muro, lanciato in aria
con una violenza inaudita; i cavalletti del letto, la cella, tutto trema. C'è da credere che il
convento sprofondi: la trepidazione e il frastuono fan gridare di spavento le suore.
Visibilmente la Vittima divina è al colmo del dolore: vedetela: Veronica sta per morire.

Il compagno di P. Crivelli, il P. de Vecchi, fuggì gridando il suo spavento al collega di cui


era il Superiore; ma l'inviato del Sant'Uffizio ebbe il coraggio di rimanere e di continuare
per un'altr'ora la sua esperienza; dopo di che, disse semplicemente: «Basta!».

La messa stava per cominciare. «Su, alzatevi» soggiunse. Sostenuta dal miracolo, la
moribonda si alzò, assisté al santo Sacrificio, e poi tornò di nuovo sul suo letto d'agonia.

Seguì il supplizio della coronazione di spine. A vista d'occhio la tua testa si gonfia, diventa
rovente, Le suore, che gliela toccano, credono di metter le mani sopra un bracere acceso. Poi
il supplizio del portare la croce, della salita al Calvario, della crocifissione. Subito le sue
braccia s'allungano, i muscoli e i nervi si stirano e la sua fronte si copre di sudore. Gli
spasimi annunziatori della morte si susseguono. A questo punto il Sacerdote ordinò il
«Basta!». La seduta era finita.

Informato degli avvenimenti, Mons. Eustachi, accompagnato da P. Crivelli, corse al


monastero. Veronica, più morta che viva, dovette presentarsi alla grata del coro e
rappresentare la scena della crocifissione.

Si alza, distende le braccia che si slogano, mentre il suolo sembra muggire per lo spavento.
Tocca terra con l'estremità dei piedi soltanto, quasi stia per volarsene in aria. «In aria! In
aria!», dice P. Crivelli. Ma a un tratto, con un sol movimento, eccola con la faccia per terra.
Passò mezz'ora in un'agonia senza nome.

Disfatto dall'emozione, il vescovo fece terminare l'esperienza. «Perché, fu chiesto alla


suppliziata, perché avete toccato terra con la fronte?». «Per rappresentare, rispose, la scena
dei chiodi ribaditi...». E in ginocchio, con la testa umilmente abbassata, implorò la
benedizione del vescovo ed il permesso di potersi ritirare.
LIBRO TERZO

I carnefici

CAPITOLO I.
GESÙ CRISTO

Carnefice! E questo nome a voi, Signore Gesù!

Non siete tutto amore? Voi siete tutto saggezza. Conoscete il valore della sofferenza, e
coloro che amate, li rendete simili a voi. Quest'anima, che abitava nel vostro pensiero dai
secoli eterni e che dall'istante della Incarnazione faceva battere il vostro cuore umano, voi
l'amate: ciò significa ch'ella sarà vittima e che voi siete il Sacrificatore.

Il Salvatore degli uomini è in cerca di vittime. Con la sua Passione ha pienamente


soddisfatto alla divina Giustizia, ha saldato tutto il debito umano, e col sacrificio della
Messa, rinnovazione del sacrificio della Croce, non cessa d'applicare al mondo i meriti del
suo sangue e della sua morte. Tuttavia, s. Paolo dice: «Io compio per la Chiesa nella mia
carne ciò che manca alla Passione di Cristo». Cristo, per l'onore degli uomini, non ci vuol
salvare da solo; vuol trovare in mezzo a noi i collaboratori, i corredentori; vuole, diremmo
noi, continuare a patire, a piangere, a sanguinare quaggiù nella persona dei suoi membri
d'elezione; vuole che alcune vittime rinnovino, attraverso le età, il mistero delle sue
sofferenze e della sua morte. Per loro mezzo, espia e salva, e completa la sua opera di salute.

M'ami tu? dice alle anime; e aspetta la risposta.

Se le anime rispondono come rispose questa ammirabile Santa delizia del nostro tempo: «Io
vi amo: non fate a riguardo con me», allora, veramente, egli diventa carnefice d'amore, e
colpisce.

Amava s. Veronica, ne fu riamato, e la colpì. Quando era piccina le aveva detto: «Tu sarai la
mia sposa, la mia associata nell'opera redentrice»; più tardi: «È mia volontà che ti conformi
a me, perché ti ho destinata al mio lavoro di redenzione. D'ora in avanti ti chiamerai Vittima
mediatrice, Vittima espiatrice».

Ed egli è il carnefice, che versa sulla vittima il calice d'amarezza, che le lacera la fronte con
la corona di spine, le spalle con la croce; che le trapassa i piedi, le mani, il cuore. Egli è il
carnefice che pigia col dito sul chiodo del suo cuore, che la fa. gridare di dolore e quasi
morire. E dopo averla martirizzata le annuncia che non ha sofferto nulla al confronto di
quanto deve ancora patire.
Arrivata alla metà del cammino della vita, per la festa del Corpus Domini del 1693, Gesù le
rivela che le restano trentatré anni da viverli, come un altro Cristo, in seno alla morte. E
mantiene la parola.

In innumerevoli apparizioni, la visita per dirle: «Io vengo a confermarti nella sofferenza; Io
sono il tuo Sposo, e come pegno della mia fede, ti dò la mia croce. Io sono il crocifisso e
vengo a trasformarti in me, a renderti vittima. Voglio che nelle tue agonie tu canti
d'allegrezza». E le torture raddoppiano. Ad ogni occasione, penitenze crudeli su penitenze.
Esse le vengono imposte per i misfatti che si commettono nel mondo.

Ad un tratto egli non colpisce più: fugge.

Dio è amore: Dio è pienezza. Veronica ha accostato le labbra a questa sorgente viva che
disseta, che inebria i beati nel cielo; ha gustato Dio, e ora Dio le ritira le sue dolcezze;
sembra partito. Costì ella non sperimenta più la pena del senso, ma la pena del danno. Voler
Dio, non è un vano egoismo, ma è dovere: non è egli il centro e il termine? Dunque
Veronica non trova più la sorgente d'acqua viva, ed il suo desiderio si fa più cocente del
fuoco dell'inferno. Dio le manca: è la fame torturante, il vuoto più profondo di tutti gli
abissi, è il supplizio dei supplizi. Dio le manca: non l'avrà contristato? Ha forse ferito
l'amore?

Che farà?

Nel Cantico dei cantici, lo Spirito Santo ci presenta l'anima sotto il nome di sposa che cerca
Dio sotto il nome di sposo, Dio assente, Dio in fuga. Essa corre lungo le strade e le piazze
della città domandando a tutti di aiutarla a ricercare il suo Diletto: è Veronica in cerca di
Dio.

Con la mano sul cuore piagato da cinque ferite d'amore, ella geme: «O mio Dio, vedete il
mio cuore, ascoltate la voce delle sue piaghe ... ritornate a lui! È tutto vostro. Oh! io griderò
ancora; io non tacerò fino a quando non abbiate ripreso possesso di lui. Oh! non lo volete il
mio cuore? Palpita affannosamente, si spezza! O Padre della mia vita, Sposo dell'anima mia,
Cuore del mio cuore, tornate! Ritornate!...». Ma il Dio della consolazione se ne rimane
nascosto. Allora Veronica esce dalla sua cella, dalla chiesa e corre nel giardino, ansante,
smarrita, in cerca di Colui, che non viene. Guarda le stelle scintillanti, che sembrano così
felici di risplendere. «Stelle, che splendete davanti a Lui, ditegli che io languisco d'amore».
Guarda le piante del giardino, le stringe, le abbraccia: «Cercatelo, dunque, con me!». Ma
egli non è più sulla terra. Dov'è? Dov'è? «O Padre della mia vita, Sposo dell'anima mia,
Cuore del mio cuore, tornate nel mio cuore ....».

Dio godeva degli ardori della Santa, e ritornava ai suoi disperati appelli dimostrandole che
non l'aveva mai proprio abbandonata. Il carnefice ridiventava l'amico, e, piuttosto, provava
di essere carnefice per pienezza d'amore.

Ma diamo il passo agli altri carnefici. Son capitanati da s. Chiara di Assisi.


CAPITOLO II.
S. CHIARA D'ASSISI

Clara nomine, vita clarior.

È giovane e ricca, bella e pura, pronta di spirito e nobile di cuore; è la gioia della buona
mamma Ortolana e l'orgoglio di babbo Leiff, fiero cavaliere; è la consolazione dei poveri e
il profumo della città.

Siamo nella quaresima del 1212. Ella corre a udire un nuovo predicatore, l'antico re della
giovinezza divenuto lo strano sposo di Madonna Povertà. Come son nuove quell'eloquenza
e quella dottrina! Chiara ne è soggiogata, sedotta. Abbandona il mondo, e sposa Cristo Gesù
al focolare di Madonna Povertà.

I genitori non la vogliono perdere per non morirne di dispiacere, e Chiara fugge di casa.

È notte; in casa tutti dormono; solo Chiara veglia; il suo cuore batte forte forte. Suona la
mezzanotte: è l'ora. Si slancia fuori; s'incammina per la pianura; le fa da compagna una
saggia confidente; corre verso il santo eremitaggio.

Le stelle son chiare chiare, la notte calma come un olio; non c'è un alito di vento: la natura
ammira in silenzio. Dal fondo della pianura Francesco e i suoi compagni s'avanzano ordinati
incontro a Chiara. La cerimonia si svolge sotto gli occhi di s. Maria e degli Angeli. Chiara
ha perduto la sua lunga capigliatura, si è spogliata delle eleganze mondane e si è rivestita
col saio delle figlie di Madonna Povertà.

Chiara è feconda: le sorelle, la mamma, le zie, le cugine, le figlie dei nobili della città
diventavano sue figlie. Presto sono in cinquanta in s. Damiano, piccolo casolare, senza
posto, senz'aria, spesso senza pane, gioiose carnefici di se stesse. Chiara dà l'esempio. La
sua tunica di sotto è fatta di setole di maiale e di crini di cavallo. La sua tunica di sopra è
formata di cento pezzi. Il suo letto è di tormenti, il suo guanciale di pietra. A forza di
digiunare, non si sa più di che viva e come possa vivere. Le figlie imitano la madre:
cantano: sono felici. Madonna Povertà è fiera di esse. Madonna Povertà non è che una
figlia, la figlia dell'Amore.

Chiara è un serafino come Francesco, che s'è fatto suo conquistatore. Ella può dire come lui:
«Mio Dio e mio tutto». È più virile dei virili discepoli di Francesco. Essi sotto il giogo della
povertà, talora piegheranno, gemeranno, imploreranno delle dispense; Chiara, no, mai!
Ricusa anche le dispense del Papa; anzi, strappa al Papa il privilegio della povertà collettiva,
della povertà serafica. Ella sa essere povera: ama.

Ama. Quando Francesco invia dei missionari ai popoli infedeli, Chiara vorrebbe seguirli per
convertire le donne, e, per mezzo delle donne, convertire gli uomini. Vorrebbe mettere il
Vangelo al posto del Corano, la Croce al posto della Mezzaluna, o morir martire. Oh, il bel
sogno! Ma no: salverà il mondo con il martirio della vita del chiostro, della penitenza e
dell'amore.

Manda lettere alle sue figlie, che hanno valicato i monti; s. Damiano ha sciamato in Francia,
in Germania, in Ungheria e in altre nazioni; lettere che traboccano di tenerezza e di forza
virile: «Noi siamo le ausiliarie del clero apostolico, e lo sosterremo con l'amorosa pratica
della Povertà, figlia dell'amore».

Chiara irradia la bontà attorno a sé. Il Papa in persona viene a raccomandarle i bisogni della
Chiesa; viene a benedire la sua agonia, a presiedere le sue esequie. Il Papa ordina che le si
canti la messa delle Vergini.

Clara nomine, vita clarior.

La regola di Chiara vive sovrana nel monastero di Città di Castello.

Clausura rigorosa. Per corrispondere con il di fuori, una ruota, che nasconde le persone e ne
spenge le voci.

Saio grossolano e pesante: toppe senza fine; piedi nudi dentro a poveri sandali; celle strette
dai vetri di carta bianca; uno sgabello basso e un predellino, che si mette sopra le ginocchia
quando si scrive.

Letto di tavole; nell'infermeria un pagliericcio. Alzata a mezzanotte; mattutino e preghiera


fino alle due. Guai a chi si coricasse d'inverno con i piedi freddi! Il freddo caccerebbe il
sonno per tutta la notte. Silenzio perpetuo; solo la domenica un po' di ricreazione.

Astinenza perpetua e digiuno quotidiano: la domenica, no. Il pranzo: una zuppa e un uovo
cui talvolta s'aggiunge qualche frutto. Durante le quattro quaresime dell'ordine, alle quali
vanno aggiunti i mercoledì, i venerdì e i sabati dell'anno, invece delle uova, cinque libbre di
pesce. Per cena una zuppa o dell'insalata con un po' d'uva o una patata, o due castagne o due
noci.

Lavoro manuale, per quanto è possibile, uguale per tutte: cucito, tessitura, rammendo,
bucato; servizio di cucina a turno.

Perché questa vita? Per quelli che peccano, per quelle che si esibiscono impudentemente,
per quelli che godono, per quelli che non pregano, per quelli che non amano; per tutti
costoro si espia, ci si nasconde, si soffre, si prega, si ama.

Vita durissima! Veronica stava meglio nella casa paterna: s. Chiara è una carnefice!

In ogni modo Madonna Povertà deve essere contenta. Madonna Povertà è esigente, e s.
Chiara vigilante ...
Ma che accade? Il suo occhio è offeso: si tollerano in Convento degli oggetti superflui;
lavorando per il di fuori, si introducono dei pezzi di seta perfino nelle celle; si perde un
tempo prezioso con lo stare a giro o alla grata in discorsi inutili.

Che c'è ancora? Veronica in persona, da sagrestana, ha ricevuto una stoffa di valore per la
cappella. S. Chiara appare in compagnia di s. Francesco, e la loro indignazione scoppia:
«Esse non sono nostre figlie».

E Veronica ha la missione di parlare alla superiora e di sopprimere gli abusi. Parla, ma la si


taccia d'eccentricità e di grettezza di mente e diventa lo zimbello d'una parte del monastero.
Parla ancora, e diventa la nemica da combattere e da punire. Noi la vedremo infamata e
perseguitata.

S. Chiara è davvero una carnefice ...

CAPITOLO III.
I RAPPRESENTANTI DI DIO

Gesù Cristo governa il mondo con la sua Chiesa. La Chiesa ha elementi divini e umani. Lo
Spirito Santo l'anima, Spirito di verità e di amore, e uomini dal carattere sacro, ma fallibili
nella loro vita, insegnano e governano. Il Papa comanda alla Chiesa universale, il Vescovo
alla Chiesa particolare, i confessori alle anime, che si mettono sotto il loro scettro.

Veronica è sottomessa all'autorità del Papa, del Vescovo e alla direzione dei confessori.

Dio permette che soffra da parte dei Sacerdoti.

Cammina fuori delle vie ordinarie e dei sentieri battuti; sembra vivere nei lumi infusi e nelle
rivelazioni dall'alto, negli svenimenti dell'estasi come negli slanci dei rapimenti
soprannaturali, nello straordinario stesso dei miracoli. Il cielo, il purgatorio e l'inferno si son
quasi dati convegno nella sua cella e nella sua vita.

Per caso, non sarebbe vittima della propria immaginazione e dei sensi? Certuni lo pensano,
altri lo credono e glielo dicono. Si arriva perfino a concludere che sia posseduta dal
demonio, e si vorrebbe l'esorcismo. Ella soffre per tutto ciò. Parecchi si pronunziano
dichiarando che i fenomeni sono divini. Questi torturano più dei primi.

Il Padre Bastianelli, confessore prudente e illuminato, comprende che quest'anima è


straordinaria, ed ha il presentimento che sarà una fiaccola della Chiesa; perciò, col consenso
del Vescovo Mons. Eustachi, le ordina di scrivere un Diario, cioè, la propria vita.

Il grande istinto di Veronica è il pudore: vela la sua anima più del corpo. Benché fanciulla,
prova ripugnanza a rivelare le grazie che riceve, e questa ripugnanza si accresce con gli
anni. La grande virtù di Veronica è l'umiltà: la si obbliga a rivelare tutti i doni che le
concede il cielo, tutti i favori che ogni giorno riceve; sarà questa una gran pena per lei e se
ne lamenterà spesso nel Diario, ma deve ubbidire.

Portinaia, cucitrice, infermiera, cuciniera, maestra delle novizie, lavorerà tutto il tempo che
le riman libero dal coro. Di più beve al calice d'amarezza, rabbrividisce sotto i colpi delle
sferzate invisibili che la percuotono, spasima a causa delle spine che penetrano nelle tempie,
delle piaghe scavate nei suoi piedi, nelle sue mani, nel suo cuore, subisce i continui assalti
degli spiriti infernali che la percuotono, stordiscono, accecano e che la perseguitano senza
tregua. E deve pur scrivere. La notte, seduta sopra uno sgabello, col piccolo tavolo sulle
ginocchia, scrive pagine sopra pagine. La penna corre sulla carta senza fermarsi, senza fare
cancellature, perché le è assolutamente interdetto di rileggersi. Talvolta la penna le sfugge
dalle dita, l'inchiostro si rovescia, come vuole il maligno. La mano si stanca, gli occhi si
chiudono, e gli avvenimenti della giornata non sono stati ancora tutti trascritti. Onta a voi!
che le infliggete un simile tormento, e gloria a voi! perché così noi possediamo il Diario di
s. Veronica, un vero tesoro 19, una delle più grandi ricchezze della Chiesa. Vi si mostra a
nudo un'anima bella della beltà di Dio, feconda della fecondità di Dio; è una visione di
cielo. Ma quante lagrime hanno bagnato questo divino ritratto.

Dopo tante meraviglie, s'è compiuto il miracolo delle stimmate. È il segnale d'una
persecuzione a regola d'arte contro la Santa. Non parliamo più dei medicamenti cui vien
sottomessa e che la martirizzano, ma parliamo delle confusioni e degli obbrobrii di cui la si
sazia.

Coscienti della loro responsabilità, gli uomini della Chiesa hanno a cuore di proteggere
l'onore della fede, e per esser sicuri che Satana non c'entra per nulla in tutta questa faccenda,
agiscono in conseguenza. Con quale durezza mettono alla prova l'infelice stigmatizzata!

Mons. Eustachi vuol procedere a un nuovo esame. Assistito dal confessore straordinario,
che è il superiore dei Domenicani della città, dal confessore ordinario Padre Cappelletti e da
due teologi, Padre Tassinari, servita, e Padre Vitale da Bologna, Minore Riformato
Ecclesiastico. Il fenomeno è innegabile: ecco la piaga del cuore, che sanguina ancora, le
piaghe delle mani e dei piedi. Interviene il s. Uffizio. Raccomanda una severità estrema in
attesa che arrivino i suoi inviati.

Veronica è condannata all'esilio completo dal mondo: proibizione assoluta di corrispondere


in qualunque modo col di fuori; condannata all'esilio dalla comunità: è tolta da maestra delle
novizie, privata del diritto di voto, gettata in prigione sotto la custodia di due sorveglianti,
che non la lasciano né di giorno né di notte; condannata all'esilio dal coro: non deve più
comparirvi né per l'ufficio né per la comunione; condannata a star lontana da Dio: non
assisterà alla Messa che la Domenica sotto l'occhio delle sorveglianti, ma non dovrà
accostarsi alla Sacra Mensa. Cacciata lontano da tutti! Che pena! Privata della S. Eucarestia!
Che inferno! È ancora l'epoca del Grande Digiuno, ma viene obbligata a mangiare come
tutte le altre suore e i cibi le lacerano lo stomaco e ritornano per la bocca in vomiti mortali.
Nessuna compassione per lei. Il santo Vescovo Mons. Eustachi la di scaccia dalla sua
presenza come una infame. Il Padre Cappelletti, che tante volte l'ha difesa, la tratta da pazza.
Anche le suore avversarie fremono di compassione.

Entra in azione il S. Uffizio, nella persona di Crivelli.

Già sappiamo che fece rinnovare alla sua presenza le scene dolorose della passione. Ora va
più oltre. Quando Veronica ha trascorso notti intere in fondo al purgatorio o all'inferno,
quando agonizza sul suo duro giaciglio, bisogna che si alzi, che riprenda l'osservanza;
quando si presenta per comunicarsi, bisogna che si ritiri come una pubblica peccatrice;
quando lavora giù in cucina, bisogna che corra subito in cella a scrivere; quando ha scritto,
bisogna che laceri quel che ha scritto e lo ricominci da capo. In convento c'è un angolo buio,
pieno di polvere e di ragni: bisogna che Veronica ne lecchi i muri con la lingua e mangi vive
quelle bestie.

Basta! L'emozione c'impedisce di continuare. Questi carnefici ci fanno stupire; tuttavia


riflettiamo che, essendo rappresentanti di Dio, sono anche i suoi strumenti, perché Dio vuole
per Veronica la gloria di un tanto martirio; riflettiamo altresì che essi sono pure gli
strumenti di Veronica, perché, macinata sotto la «ruota di questo mulino» (l'espressione è
sua), ha potuto diventare bianca farina per la tavola di Cristo.

Condannata, s'inchina umilmente dichiarandosi degna di tutti i castighi; in prigione, rimane


sottomessa ai custodi e sorride loro col più bel sorriso.

I carnefici riconobbero infine che le sue stimmate non erano un fenomeno naturale, e che
non erano d'origine diabolica, e si fermarono qui. La grande prova durò ufficialmente
cinquanta giorni, ma per continuare di fatto, meno severa, per sempre.

Più tardi le si permetterà di riprendere l'ufficio di maestra delle novizie e si consentirà a


darle le insegne di Abbadessa, ma la proibizione di corrispondere con le persone esterne,
tranne con le sorelle di Mercatello, sarà mantenuta fino alla sua morte. Due o tre eccezioni
saran fatte in favore di qualche personaggio quale la Principessa dell'Etruria, l'inviato
dell'imperatore Carlo II, e il Rev.mo Padre Michelangelo da Ragusa, Ministro Generale dei
Cappuccini.

E ora altri carnefici.

CAPITOLO IV.
LE SUORE AVVERSARIE.

Dei carnefici nelle comunità religiose?! Ma non è in loro onore che lo Spirito Santo ha
ispirato il Cantico, che dice: Com'è dolce per i fratelli e per le sorelle abitare insieme? Sì: il
mondo è preda di anime volgari e di cuori corrotti, ed il fior fiore del genere umano si
rifugia nei conventi e nei chiostri per camminare nella via perfetta. Quanti vi raggiungono le
alte vette della virtù!

Ma perché negarlo? Vi s'incontrano talvolta dei soggetti, che sono di peso a sé e agli altri.
Venuti senza vocazione, mancano della grazia di stato, di discernimento e d'apertura di
spirito; benché colti, mancano di comprensione relativamente alle vie superiori per cui
camminano i perfetti, e credono con orgoglio di camminare su queste vie; spesso son
visionari, che guardano alle penitenze esterne come al fine supremo, e prendono i loro sogni
per visioni celesti o illustrazioni dall' Alto; posseduti dallo spirito di con tradizione, sono
afflitti da un carattere ingrato e difficile; sono sprovvisti di delicatezza di sentimento e di
nobiltà d'animo e anche di virtù. Hanno rifiutato di regolare le loro simpatie, di comprimere
le antipatie; gelosi, si rattristano di vedere altri più ricchi dei doni di natura e di grazia; sono
invidiosi dell'invidia diabolica, che ha per oggetto i carismi soprannaturali. Se ce ne sono,
dunque, di carnefici e di vittime nei chiostri! Ma che sarà mai se il carnefice è la Superiora,
che bisogna avvicinare ogni momento, che deve dar licenza per le minime cose e quasi per
respirare?

Veronica è delicata e sensibile, ha qualità superiori, nutre un alto ideale di perfezione


religiosa. Ha la vocazione di redentrice. Nessuno deve stupirsi se Dio permette che ella
incontri alcune suore ostili in mezzo a tante religiose ferventi.

Spesso delle grandi croci sorgono davanti ai suoi occhi spaventati come annunzio delle
prove, che verranno da parte delle sue compagne.

Il giorno del suo ingresso in convento, era abbadessa Geltrude Albizzini, intelligente e
decisa; però la sua intelligenza, più pratica che speculativa, si apriva poco alle cose della
mistica. Gelosa della sua autorità, attaccata alle proprie idee personali, faceva tutto di sua
testa credendosi più illuminata degli stessi direttori, i quali trovava troppo semplici e
confidenti. Era il carnefice nato, per un'anima che fosse chiamata alle vie superiori.

Dai primi giorni del noviziato, le parve che Veronica mirasse troppo in alto, e cominciò a
diffidare; credette meno ai propri occhi, testimoni d'una regolarità senza fallo, che alle
proprie orecchie, aperte alle calunnie di una novizia gelosa della Santa. Così usciva spesso
in rimproveri umilianti e immeritati.

La diffidenza si cambiò presto in indignazione.

Veronica, infatti, principiò a parlarle di riforme. Non toccava a lei, Abbadessa, d'interpretare
le Costituzioni e la Regola? Le proibì di corrispondere con i confessori. L'indignazione, poi,
si trasformò in persecuzione, quando Veronica fece umilmente domanda di camminare
senza sandali e di digiunare ogni giorno a pane e acqua. Queste pretese erano segno d'un
orgoglio intollerabile, che bisognava reprimere a forza di umiliazioni esemplari.

Quanto ai segni visibili della corona di spine, alla piaga del cuore, e alle stimmate, perché i
direttori erano stati informati a sua insaputa? Perché Dio con tutto quello strepito, turbava la
pace della comunità? No, non era Dio l'autore di quei fenomeni. Veronica era una malata,
un'ossessa. Il chiasso strano nel silenzio della notte, le pietre gettate da mano invisibili, i gas
infetti, che asfissiavano il convento, i muri traballanti, che minacciavano rovina, ne erano la
riprova.

Fu ella che denunziò la vittima al S. Uffizio, evitando di metterne al corrente Mons.


Eustachi, e quando erano in coro, giunse la risposta di Roma, che prescriveva le misure più
energiche contro la stigmatizzata, e subito, senza attendere la fine della recita dell'Officio,
ordinò a due converse di condurre la «strega» in prigione.

E poiché la consegna data dall'autorità ecclesiastica era l'impiego della verga di ferro, ubbidì
a parola.

Madre Gertrude, finalmente, fu designata a governare un altro monastero, e la vittima


respirò.

Ma vi erano altri carnefici: suor Angelica Barioli, cioè, che non perdonava a Veronica
d'essere ricca di tante buone qualità, regolare e fervorosa; suor Maddalena, la cui ostilità
scoppiò al momento del tentativo di riforma circa la povertà. Intraprendente, a forza
d'intrighi, aveva ottenuto l'allontanamento del confessore P. Bastianelli, che Maddalena
sapeva favorevole alla giovane riformatrice. A queste va aggiunta suor Luisa, che non
soffriva Veronica e la perseguitava con modi così strani e cattivi, che le altre suore la
credevano posseduta dal demonio.

Parleremo di suor Francesca designata come custode della stigmatizzata durante i due mesi
di detenzione. Quella non era precisamente una suora nemica, ma aveva come parola
d'ordine di mostrarsi esigente e severa. L'incarico d'altronde le si addiceva a meraviglia,
perché, per quanto fosse virtuosa, era così grossolana e rozza quanto Veronica era fine.
Sotto i suoi ordini severi la prigioniera doveva pulire il cortile e altri luoghi; inoltre doveva
fare l'ufficio di sguattera in cucina. Nel frattempo piovevano su di lei gli aspri attributi di
indolente e di stupida.

La vittima soffriva senza mai lamentarsi, stimandosi indegna di vivere nella santa
compagnia delle suore, tanto che non osava comunicare con esse. Le persecuzioni che le
facevano, se le pigliava come tanti favori, e le contraccambiava con altrettanti servizi. Noi
vedremo ciò che fece più tardi per Madre Albizzini. Che fece ella per suor Maddalena?

Quest'ultima ebbe il seno rovinato da un cancro orribile che nessuno osava né guardare né
toccare con le dita. Veronica si costituì sua infermiera, e la medicava con mano abile e
tenera. Colei che aveva giurato di respingerla anche al suo letto di morte, non volle che lei
per assisterla all'ultimo momento, e si addormentò nei santi abbracci della sua vittima, tutta
compresa di pentimento.

Bisogna credere che l'anima della suor Luisa fosse in ben cattivo stato. Colpita da una
malattia mortale, si contorceva nel suo giaciglio, sapendo che i demoni stavano per
trascinarla nell'abisso. Ma già la vittima vegliava presso il suo carnefice, giurando di salvare
quest'anima. Ella gettava l'acqua benedetta sulle ombre infernali che fuggivano per ritornare
subito. Si imponeva la penitenza del Portamento di Croce, penitenza spaventosa della quale
parleremo a suo luogo, poi sanguinose penitenze. Le ombre ritornavano sempre, in atto di
minaccia, e la malata si voltava in una nera disperazione. «Le pene dell'inferno, ve le
domando, o Gesù, mio Sposo, sospirava l'infermiera; ma, di grazia, risparmiate
quest'anima». La mediatrice sembrava non essere esaudita, e la morente, come se avesse già
visto il gorgo inghiottirla, prendeva convulsivamente la mano di Veronica: «Difendetemi!
salvatemi!». «Mio Dio, gridò la Santa, calcate sulla mia testa la corona di spine!». Le spine
tosto lacerarono le sue tempie, ciò che le diede speranza, ma la lotta rimaneva ardente.
Ricusando di mangiare, coperta del sangue che le tenaglie, le discipline facevano uscire
dalle sue arterie, teneva testa ai demoni che la minacciavano ruggendo: «È nostra! È nostra!
Guai a te!». «È di Dio», ribatteva la Santa. E difatti, fu Dio che ricevette l'anima del
carnefice, riscattata a così caro prezzo dalla vittima.

Cosa fece mai per suor Angelica? Costei in piena tiepidezza, forse in pieno stato di peccato,
era caduta nella foma, foma terrificante, perché la folle non cessava d'invocare il demonio.
Veronica giurò di strapparla dall'abisso. Senz'essere infermiera d'ufficio, ottenne d'assistere
la malata, prossima ormai alla fine. «Sorella mia, diceva ella, lasciate là il demonio e
scongiurate Gesù d'aver pietà della vostra anima». La malata ebbe un momento di lucido
intervallo. «Sì, lo farò subito, ma voi non mi abbandonate!». La Santa non ebbe difficoltà a
prometterlo. Giorno e notte era là accanto al letto, in preghiera, inginocchiata,
senz'appoggio, offrendosi in sacrificio per quell'anima esposta. «Signore Gesù, supplicava
mentre i demoni la coprivano di colpi, fate parlare il vostro sangue e i vostri meriti per
quest'anima che avete redento, ottenete questa grazia dal vostro Padre eterno! Per me, io
sono disposta a tutti i tormenti».

I demoni giravano attorno al letto, furiosi. L'ultima notte verso le 7, gli spiriti infernali si
lanciarono sulla morente, gridandole ch'era di loro senza remissione e ch'erano venuti per
portarla nell'abisso.

«Mio Dio, mio Dio, sarà vostra quest'anima, gridava la mediatrice; offrite il vostro sangue e
il mio con il vostro». E per essere più sicuramente esaudita corse a gettarsi ai piedi del
SS.mo Sacramento. Un rumore terribile fece tremare il convento. Un gatto mostruoso si
lanciò su di lei mentre una voce miagolava «Tu hai vinto, ma me la pagherai, miserabile!».
Piena di speranza, tornò all'infermeria e là, nelle braccia dell'infermiera, la morente esalò il
suo ultimo respiro.
CAPITOLO V.
I DEMONI

Esiste la demonofobia? Esiste l'isterismo? Nessuno lo nega. Vi sono delle manìe o delle
malattie misteriose, ma puramente naturali, che richiedono l'intervento della medicina e non
del sacerdozio.

Si negherà l'esistenza dei demoni e la loro azione sugli uomini? Sarebbe un contradire la
Scrittura e smentire la storia. La Scrittura, quasi in ogni pagina, ci parla di Satana e degli
angeli cattivi, e la storia è piena di avvenimenti inesplicabili se non fossero demoniaci.

Spetta alla teologia spiegare come Lucifero è divenuto Satana, come i ribelli son precipitati
nell'inferno e come essi agiscano sul nostro globo e tentino l'uomo. Il compito nostro è di
difendere la dottrina e di esporre dei fatti.

Non avremo solo l'affermazione di Veronica, ma anche le dichiarazioni di testimoni


veridici, che deporranno con giuramento al processo.

Sappiamo che Veronica aveva per missione di riscattare le anime rinnovando nella sua
persona il mistero della Passione; niente di più naturale che l'inferno la trattasse come una
grande nemica e spiegasse contro di lei tutte le sue forze.

L'inferno ha un ministro fedele, potentissimo: il mondo; e il mondo si è accanito contro


Veronica nell'intento di perderla. Sorprende che la giovane non abbia fatto naufragio.

L'inferno viene alle prese con la nostra sensibilità e col nostro organismo. Perciò esso
tentava la giovane novizia con lo scoraggiamento e accendeva un'accanita avversione nel
cuore delle sue compagne.

Non esiste solo la tentazione diabolica, ma anche l'ossessione e l'infestazione. Infatti


vediamo i demoni strapparle di mano brocche e altri utensili, rovesciarle addosso acqua
bollente quando lavora in cucina, strapparle la penna dalle dita, sporcarle di inchiostro le
pagine scritte, spengerle la lampada quando, nel silenzio e nella quiete della sua cella, redige
il Diario. Niente lascia intentato per metterla nella disperazione.

Per la maggior parte degli uomini i demoni restano invisibili, ma si rendono visibili alla
maggior parte dei grandi santi.

S. Veronica non ha una notte tranquilla. Gli spiriti infernali le si precipitano in cella e le
infliggono tutti i supplizi.

Il supplizio degli occhi. Noi siamo fatti per il bello; i demoni, invece, appaiono a Veronica
in una deformità straziante per l'occhio, senza proporzioni, metà uomini e metà bestie, laidi,
abominevoli come il peccato. La Santa dichiara che la vista di Satana, l'orribile, è la gran
pena dei dannati, come la grande gioia degli eletti è contemplare la bellezza di Dio. Essi le
appaiono in atto di libidine, in mezzo ad orgie infamanti. Pura come è, questo martirio le è
troppo grande, e presto ne ottiene la liberazione. Le appaiono minacciosi: vipere fischianti,
che cacciano il pungiglione nella sua bocca; leoni ruggenti con le unghie stese e con la gola
spalancata, che vomitano fiamme.

Il supplizio dell'udito. In un concerto infernale essi urlano, mugghiano, rompono i timpani


della Santa, che resta sorda per qualche ora. Bestemmiano. Ha un bel tapparsi gli orecchi: le
loro bestemmie diventano più forti ed orribili. Li scongiura di colpirla, di polverizzarla,
purché cessino di insultare il suo Dio.

Il supplizio dell'odorato. Essi buttano fuori degli odori infetti, che la fanno svenire, ed è
felice quando può salvarsi nel giardino.

Il supplizio del palato. I demoni gettano nella sua scodella, ove ha messo gli avanzi dei
piatti delle vecchie sorelle, pugni di capelli, cimici, ragni, topi morti, ogni genere di bestie
immonde. Orrore! Le manca il cuore, ma fa egualmente il gesto di mettersi il tovagliolo,
quando la sua vicina di tavola, suor Florida Cevoli, le strappa di sotto il piatto e fa il gesto di
gettarlo nell'immondezzaio.

Il supplizio del tatto. Davanti a testimoni, le strappano di mano le marmitte piene, e versano
per terra la minestra già cotta. Essi buttano la Santa in un bagno ghiaccio o nel fuoco; la
scaraventano contro i muri o contro il soffitto; le lanciano addosso enormi pietre, la battono
come con una mazza, la lacerano come con una sega, la tagliano come con un rasoio fino al
midollo delle ossa, e la lasciano tutta una piaga e tutta un dolore. Hanno dei piedi di cavallo
e irrompono con tale impeto, che un giorno le troncano un piede. Le rimase penzoloni come
un cencio. Le suore la portarono al confessionale in questo stato, e istantaneamente risanò,
perché il confessore le impose di chiedere la guarigione.

Il supplizio dell'anima. I demoni la persuadono che Dio l'abbandona e che è dannata. «Tu
sei nostra! Tu sei nostra!». Le sembra di vivere già nell'inferno, condannata a bruciare e a
bestemmiare eternamente.

È tutto effetto di un'immaginazione malata? Ma dei testimoni sentono quei rumori,


respirano quei miasmi; vedono la Santa ferita e sanguinante, violentemente lanciata in aria o
scaraventata per terra. Anche altri hanno avuto le stesse visioni e son stati terrificati più di
lei dall'inferno.

In che tempo i dèmoni si armano per combatterla? Generalmente quando compie il suo
ufficio di vittima mediatrice e redentrice, quando prega o si mortifica per la conversione dei
peccatori. «Smetti», essi le urlano, come se strappi loro delle prede troppo care; «smetti, o
noi ti faremo sentire i supplizi dell'inferno!». Veronica ricordava che, ancora fanciulla,
quando si servì per la prima volta di una disciplina, sembrò che la casa crollasse. Era il
segnale della spaventevole guerra, che le dichiarava l'inferno.

E come subisce gli assalti del demonio? Chi si ride della paura degli altri, non ha mai avuto
paura. I dèmoni sono gli ospiti del mondo invisibile, e il loro pensiero mette terrore. Sono
spiriti più potenti dell'uomo, capaci, se Dio non li trattenesse, di sconvolgere il firmamento e
di polverizzare il mondo. Sono esseri difformi, perversi, che mettono la loro potenza a
servizio dell'empietà. Come non tremare quando essi si rendono sensibili? Da principio,
dunque, Veronica si spaventa; talora (è lei stessa che lo dice) finge d'essere coraggiosa, ma
d'ordinario lo è veramente. Ella sfida e rimprovera i suoi nemici: «Venite, colpitemi,
martirizzatemi; è mia felicità soffrire per il mio Dio». «Pusillanimi che siete, venire così
numerosi contro una povera donna come me!». E quando le sue compagne sono testimoni di
scene diaboliche, le incoraggia e le rassicura.

Gli eroi della guerra si gloriano d'aver vinto dei regni, come l'uccellatore si gloria d'aver
preso dei nidi in fondo al bosco. Veronica, da sola, combatte contro il potere che ha vinto
l'umanità e che ne atterra tanti in un giorno; da sola, fa impeto contro Satana il fiero, che si è
creduto forte come Dio stesso, e lo vince.

Veronica assisté un giorno ad una sommossa di dèmoni che, simili a cani arrabbiati, si
mordevano l'un l'altro tentando di slanciarsi su di lei. Allora comparve Maria e ordinò agli
Angeli di Dio di condurre la Santa contro gli angeli di Satana. Costoro, tremanti, invano si
sforzavano di fuggire. «Ecco la mia figlia», diceva la Regina del cielo, «la mia figlia
imporporata del, sangue di Cristo e segnata col suo sigillo; la mia figlia è dominatrice
dell'inferno».

Veronica ha vinto davvero l'inferno e nessun carnefice oserà più di presentarsi. Eppure un
altro nemico comparirà contro di lei: ella stessa.

CAPITOLO VI.
VERONICA

Veronica era delicata, sensibile, impressionabile; vedere o sentir rammentare la croce, la


faceva rabbrividire. Questo suo carattere la rendeva il più terribile carnefice di se stessa.
Carnefice non per domare la natura in rivolta, o per reprimere ardenti concupiscenze, ma a
causa delle anime. Vittima mediatrice, vittima redentrice.

Vede Gesù sofferente: lo ama, quindi bisogna che gli somigli. Vede Gesù sofferente: lo
ama, quindi bisogna che lo consoli, lo sollevi, lo liberi dalla croce e prenda il suo posto.
Vede Gesù che patisce per il riscatto dell'umanità colpevole, ed ella, che è la sposa dello
Sposo del sangue, si associa alla sua Passione e alla sua morte.

Vede i peccatori che corrono al piacere, e, poiché è vittima, vola al Calvario. Ma ha bisogno
di una croce. In fondo al giardino, nella cappella di s. Francesco, ci son banche lunghe, alte,
pesanti. La sua debole mano ne solleva una, se la carica sulle spalle, e si mette in cammino.
Ora è la volta di un tronco di quercia, che appena un uomo può portare; lo prende sulle
spalle come un simbolo dei peccati del mondo, e cammina. Le occorre una vera croce e se la
procura pesa come il piombo, e cammina. Cammina ginocchioni sulla neve quando è
inverno, sui ciottoli e sui rovi quando è estate. Le stazioni della Via Crucis sono in giardino,
e una suora le fa da compagna. Si alzano dei fantasmi, si odono dei sibili e degli urli, ma
quelle camminano. Del sangue corre sulla neve, sulle spine; una riga di sangue lungo tutto il
percorso. Un giorno la vittima si arresta, sviene. Ripresa la conoscenza, s'indigna con se
stessa e ricomincia da capo la via del Calvario. Sempre in ginocchio, sale la scala del
convento, e su ciascun gradino fa una croce colla lingua, che sanguina come le ginocchia.

Vede i peccatori aumentare nell'indipendenza e nell'orgoglio; poiché ella è vittima, s'impone


la penitenza del carcere ...

Ascolta i peccatori che vomitano bestemmie contro Dio; quale vittima, si arma di un cilizio
che le morde le spalle, di una corda che le logora i fianchi, di una veste cosparsa di spine
che le pungono tutto il corpo.

Vede i peccatori addormentarsi nella mollezza e nel fango; vittima com'è, zeppa delle spine
sotto la coperta del letto, che così diventa una croce. Una croce vera pende dal muro; ai
bracci della croce due anelli dentro i quali infila una corda, che si lega ai polsi. Eccola
sospesa in aria tra il cielo e la terra, come lo sposo Gesù. Suor Giacinta, che era incaricata di
sollevarla sulla croce e di calarla giù, una volta si addormentò e lasciò Veronica sul patibolo
negli spasimi dell'agonia.

Vede i peccatori impinzare la loro carne di godimenti; la vittima sazia la sua di tormenti.
Cammina coi sandali pieni di piccoli sassi; si arma di un temperino, se lo immerge nel cuore
e vi incide il nome di Gesù, lo scalda e se lo applica sul petto; prende una croce dentata con
cinque punte in forma di chiodi, e se la carica sulle spalle; prende delle tenaglie e si strappa
pezzi di carne medicando le ferite con cera calda.

Erano davvero coraggiosi i confessori, che le permettevano simili penitenze, ma Veronica


dichiarava che, se essi l'avessero voluto, si sarebbe ridotta in briciole, in polvere.

La volontà di patire col Redentore e di espiare con lui i peccati del genere umano, le fa
rifiutare ogni consolazione da parte dei direttori, che vuol duri e rigorosi. Questa passione le
fa sospirare tormenti sconosciuti, che non può trovare né infliggere a se stessa. Che importa
se i nervi si contraggono atrocemente? Grida sempre: «Croci! Io voglio delle croci! La mia
volontà è di non vivere senza pena; senza pene io non posso vivere». E supplica tutte le
creature di trasformarsi per lei in altrettanti strumenti di supplizio. Supplica i demoni di
tormentarla giorno e notte; supplica l'Onnipotente di valersi della sua onnipotenza per
schiacciarla, per farla vivere nell'annientamento; forza perfino l'Uomo Dio a diffondere
dell'amarezza nelle consolazioni che le porge. La parte sensibile del suo essere, che chiama
la mia umanità, si esaspera e domanda grazie, ma con un'ironia sublime impone silenzio a
queste lamentazioni. «Più borbotterai, più ti colpirò», diceva al suo corpo; e i martirii
succedevano ai martirii.
Gli strumenti di penitenza empiono la cella della vittima nel convento di Città di Castello.
Silenziosi strumenti, quanto la vostra voce è tonante e come confonde la sensualità e la viltà
della nostra vita!

Però la vittima non ebbe solo dei carnefici nel corso della sua passione; ebbe pure dei
Cirenei per portarle la croce e delle Veroniche per asciugarle la faccia.
LIBRO QUARTO

I sostegni

CAPITOLO I
CIRENEI E VERONICHE.

Quanto è augusto il Sacerdozio! Divino il ministero sacerdotale! Terribile facoltà quella del
confessore o del direttore di spirito! Nel nome di Gesù Cristo il confessore libera e purifica
le anime, le illumina, le spinge a unirsi a Dio. Esercita veramente l'arte delle arti.

Delle anime sono chiamate alle vie superiori: non è necessario che essi conoscano queste
vie per averle esplorate e percorse? Non occorre che, per lo meno, le abbiano studiate? Non
bisogna che abbiano praticato la rinunzia totale? Essi, infatti, devono fare completa rinunzia
al loro naturale, alle loro idee e metodi per conformarsi all'azione dello Spirito di libertà,
che è multiforme. Non occorre che la loro direzione subisca un lume superiore e divino?
Utilizzino anche i lumi che vengono dalle anime, perché esse sono un libro scritto dalla
mano di Dio, e mille volte più istruttivo dei libri stampati.

La via della perfezione si confonde con la via del Golgota. Le guide, dunque, siano degli
aiuti, dei Cirenei.

S. Veronica visse a Città di Castello sotto il governo di quattro vescovi. Essi sono: Mons.
Sebastiani, soprannominato il Santo, che le diede l'abito religioso, e profetizzò com'ella
diverrebbe una gran santa; Mons. Marsotti, che morì dopo poco tempo dal suo ingresso in
Diocesi e che perciò non poté occuparsi di Veronica. Mons. Eustachi, soprannominato il
Borromeo di Città di Castello, che tenne il governo venti due anni, e che faticò più per la
Santa che per il resto della diocesi. Egli assunse la grave responsabilità di farle scrivere il
Diario o la narrazione della sua vita. Infine, Mons. Codebò, il quale, dopo sedici anni
d'Episcopato, ebbe la consolazione d'assisterla in punto di morte.

Questi Vescovi nominarono confessori del monastero delle Cappuccine, i sacerdoti più
zelanti della città, presi fra i Canonici, i Domenicani, gli Oratoriani, i Gesuiti, i Serviti. I
Frati Minori Cappuccini non figurano nel numero, perché non erano in Diocesi, e anche
perché costituzioni di allora proibivano loro di dirigere comunità di monache.

Di questi confessori, ne citiamo i più noti. P. Bastianelli, Oratoriano, sostenne la Santa nella
sua impresa di riforma, e le prescrisse, col consenso di Mons. Eustachi, di scrivere il Diario.
Morì ottantenne.

P. Cappelletti, altro Oratoriano. Era sacerdote secolare quando per la prima volta venne a
celebrare la Messa dalle Cappuccine di Città di Castello nel giorno stesso che la giovane
Orsola sollecitava d'essere ammessa in convento. La postulante, illuminata dall'alto,
profetizzò che egli sarebbe entrato nella Congregazione di s. Filippo, e che poi sarebbe stato
suo confessore. La predizione si avverò esattamente. Passati degli anni, lo vide un giorno
all'altare come trasformato in Cristo. In varie circostanze, si mostrò rude e severo verso la
Santa, poi le testimoniò sempre una perfetta devozione. Egli voleva che il Diario fosse
esattamente aggiornato, prendeva nota degli avvenimenti prodigiosi di cui era testimone
provvidenziale. Racconteremo ciò in un altro capitolo.

Gli successe P. Tassinari, Servita, religioso molto apprezzato. Egli seguì lungamente, da
vicino e da lontano, la Santa, e depose durante il suo processo. Ebbe il privilegio di assistere
a incredibili miracoli, che ricorderemo in seguito.

P. Tommasini, Gesuita, il quale, in compenso della sua venerata direzione, dopo morte
apparve a Veronica tutto splendente di gloria.

P. Crivelli, ugualmente Gesuita, vecchio missionario delle Indie. Di una tempra energica e,
nello stesso tempo, di un grande zelo per la gloria divina, fu nominato esaminatore del S.
Uffizio. Dopo aver provato sì duramente la stigmatizzata, non fu avaro di elogi verso di lei,
e la dichiarò santa tra tutte le sante della Chiesa. Esaltava il suo nome nelle missioni più
lontane, nella corte pontificia, e affermava che, invocando il nome di Veronica ancora
vivente, otteneva in sperate conversioni. Per le sue istanze al tribunale di Roma ella poté
essere Abbadessa.

P. Guelfi, Oratoriano, fu l'ultimo confessore della vittima. Poiché la giudicava


sufficientemente colpita dal cielo, dalla terra e dall'inferno, le soppresse alcune penitenze
supererogatorie. Al suo comando ella volò poi al cielo.

Ma vi è ancora un cireneo, di cui occorre parlare. È il Ministro Generale dei Cappuccini, P.


Michelangelo da Ragusa. Dotato di tutte le virtù, fu il confidente dell'Imperatore Carlo II,
ma non si servì di una tale influenza che per il bene della Chiesa e del suo Ordine. Diresse le
personalità più illustri dell'epoca, senza trascurare i doveri di Ministro Generale. Compì dei
miracoli durante la sua vita e alla sua morte.

Le Cappuccine di Città di Castello desideravano ardentemente di conoscerlo, perché


consolasse la loro santa Abbadessa e più volte gli scrissero in questo senso. D'altra parte
l'imperatore bramava di ottenere le preghiere della stigmatizzata, ed affidò a P.
Michelangelo un messaggio per la Santa. Poiché ella non poteva tener corrispondenza con
persone di fuori, si tolse la proibizione in favore dell'illustre successore di s. Francesco, n
quale arrivò al monastero il 24 ottobre del 1718. Egli restò qualche giorno a Città di
Castello ed ebbe vari colloqui, con l'Abbadessa. Questa ne provò consolazione grandissima
trovando in lui un'anima che assomigliava alla sua.

Il giorno in cui egli celebrò nel monastero, al momento dell'elevazione, Veronica lo vide
trasformato in serafino, mentre l'Ostia risplendeva come un sole. Durante la Comunione, la
Santa cadde in estasi e vide uscire dal Purgatorio le anime, che n pio Generale le aveva
raccomandato.

Era molto riconoscente alle cure che le avevano i confessori, e pregava spesso e con frutto
per loro non dimenticando i canonici Ambroni e Mancini, che erano stati i primi a dirigerla
nella via della santità.

Un giorno le fu data la gioia di vedere quelli e questi nel Cuore di Gesù.

Ai Cirenei si unirono delle degne Veroniche. Se, per permissione divina, Veronica ebbe
qualche avversaria nella comunità, le altre la riguardavano con ammirazione. Suora Clara
Felice, entrata in convento lo stesso giorno di Veronica, nutrì sempre verso di lei la più
tenera amicizia. Suor Marianna voleva essere la sua compagna nelle preghiere per la
conversione dei peccatori. Suor Anna Mazzocchi, una delle sedici fondatrici del monastero,
la seguiva devotamente durante le processioni notturne. Suor Maddalena Boscarini si
flagellava con lei nella cappella di s. Francesco, in fondo al giardino. Suor Giacinta aveva
accettato dalla Santa l'incarico di staccarla dalla Croce e di flagellarla. Tutte le novizie, che
stettero sotto il suo governo, le conservarono una confidenza filiale e camminarono
eroicamente nella via, che Veronica aveva loro insegnato.

Ella aveva dei Cirenei e delle Veroniche in cielo e sulla terra.

La Santa, alla quale si affezionò di più nella sua infanzia, fu s. Caterina da Siena, che la
preparò e assisté alle prime nozze mistiche. Si vedrà in seguito s. Teresa presiedere ai
rinnovati sposalizi. S. Maria Maddalena, s. Gertrude e altre, la circondarono della loro
celeste protezione.

I santi tutelari furono s. Giuseppe, s. Giovanni Battista, s. Paolo, s. Benedetto, s. Ignazio, s.


Luigi Gonzaga, s. Filippo Neri, s. Domenico, che la comunicò miracolosamente. Dei Santi
dell'Ordine prediligeva s. Antonio da Padova, s. Bonaventura, s. Bernardino da Siena, s.
Pietro d'Alcantara, s. Felice di Cantalice.

S. Chiara, che le appariva così spesso per eccitarla e istruirla, era da lei venerata come
madre, e invocata come mediatrice. Infine s. Francesco era pieno di sollecitudine per la sua
figlia stigmatizzata. Un giorno le apparve nello stesso trono di Gesù. Francesco e Gesù
erano una cosa sola: l'Amore.

Il Diario è una continua descrizione del cielo che discendeva sopra la terra per conversare
con quest'anima celestiale.

Ma il cielo non è ancora apparso tutto intero.

È la volta dell'Angelo consolatore e di Maria compaziente.


CAPITOLO II
L'ANGELO CONSOLATORE E MARIA COMPAZIENTE

Dio potrebbe agire da solo, ma, nella sua sapienza, ama servirvi delle creature che ha tratto
dal niente. Esse sono i ministri della sua santissima volontà. La Scrittura ci mostra in
ciascuna pagina gli Spiriti celesti quali ambasciatori di Dio presso gli uomini.

Durante la Passione, nell'ora dell'agonia, Gesù ebbe un Angelo a consolare la sua Umanità.
Veronica, rappresentazione viva di Gesù Redentore, ebbe anch'essa il suo Angelo.

Le apparve la prima volta quando fu cresimata nella Collegiata di Mercatello. Dopo, le


manifestazioni si moltiplicarono. L'Angelo spesso la rialzava quando cadeva sotto il peso
della croce; la difendeva quando le armate dei demoni l'assalivano da ogni parte; l'assisteva
nelle ore terribili dei giudizi particolari come in quelle gioiose dello sposalizio; era
l'ambasciatore di Maria presso la Santa; alcune volte le comunicava in nome di Gesù; era lui
che accorreva quando la Santa chiamava le suore a soccorrerla, e l'aiuta nei lavori manuali.

Quando P. Crivelli esigeva che lei fosse da per tutto nello stesso momento, in cucina come
serva della comunità e in cella a compilare il «Diario», l'Angelo compiva meraviglie in suo
favore; prendeva forma di una luce bianca, apriva e chiudeva le porte, pensava alla dispensa
e faceva cuocere gli alimenti.

Verso la fine della sua vita, acquistata una santità più alta, poiché era assalita più forte che
mai da parte dell'infermo, vari Angeli furono inviati a custodire la Santa. «Miei Angeli»,
scrive, infatti nelle sue note. E se gli Angeli la consolavano, Maria l'assisteva, come assisté
suo Figlio durante la Passione.

Lo abbiamo già detto che, nella sua prima infanzia, trovandosi ai piedi di un quadro della S.
Famiglia, apprese dalla bocca di Gesù che Maria sarebbe Madre sua e Maestra. Più tardi,
Maria le sostituì il suo cuore, che la natura le aveva dato di ferro, con un cuore di argento e
di oro. Più tardi ancora, ricevuto l'ordine di mettere in iscritto gli avvenimenti meravigliosi
dei suoi primi anni, Maria le dettava le parole da scrivere, e intercedeva per Veronica ogni
volta che Gesù la confessava o la giudicava. Maria le dava la Comunione tutti i giorni nella
prigione, finché durò la prova imposta dal S. Uffizio; la comunicava altresì nei giorni in cui
la comunità non faceva la Comunione: staccava miracolosamente una particella dall'Ostia
magna del sacerdote, o prendeva le Ostie piccole del ciborio. Per mezzo di Maria ella
guariva perfino le suore ammalate. La proteggeva contro i demoni e la liberava dalle
tentazioni contro l'angelica virtù.

Per ispirazione di Maria, il giorno della Presentazione del 1708, solennemente si consacrò
alla Madonna. Nel Natale dello stesso anno, Maria le impose di nuovo il velo bianco delle
novizie dandole il bacio di pace. Il 28 ottobre del 1711, presenti s. Francesco e s. Chiara, la
Madonna le donò un anello con sopra impresso il nome di Maria, e la chiamò figlia sua,
carissima tra tutte le figlie. Poi le pose due calici: uno col sangue di Gesù, l'altro, pieno
delle lacrime di Maria, calici che la Santa offrì all'Eterno Padre ottenendone ogni sorta di
grazie. Maria la fece partecipe dei dolori provati ai piedi della croce e delle spade, che le
avevano trapassato il cuore. La istruì sui doveri di Abbadessa nel giorno in cui Veronica ne
ricevette le insegne. Fu Maria che disse finalmente alla sua figlia stringendola al seno: «Il
tuo cuore è il mio».

Così tutto il Cielo discendeva nel monastero di Città di Castello, che Veronica aveva scelto
come tomba. La vittima era consolata; la vittima poteva soffrire. Ed ecco il consolatore
supremo: Gesù.

CAPITOLO III.
N. S. GESÙ CRISTO

Noi siamo amati. Dolce rivelazione per l'uomo, che non può vivere senza amore. Siamo
amati, e Colui che ci ama, è più che amico: è l'Amore Onnipotente.

Dio ama tutte le sue opere, ma in modo speciale gli uomini per i quali si è incarnato e si è
immolato sulla croce. Ma c'è gerarchia nel suo amore: vi sono delle anime, che ama di un
amore di preferenza. S. Veronica è di questo numero.

Carnefice è il nome che demmo a Cristo Gesù, ma è carnefice per amore. Sceglie delle
vittime per pervaderle della sua tenerezza.

Gesù principia a rivelarsi alla sua grande vittima nella forma semplice delle immagini.
Quante volte a Mercatello le immagini s'animano e parlano: «Tu sei mia. Io sono tuo. Tu
sarai la mia sposa, la mia associata nell'opera della redenzione».

Il crocifisso dell'infermeria del monastero, quando Veronica sta per coprirlo di baci, si
stacca dalla croce ed abbraccia dolcemente la Santa ricolmandola di felicità.

Gesù le si rivela nel Sacramento dell'altare. A Mercatello, come a Città di Castello, l'Ostia
risplende come un sole, e dice alla Santa: «Tu sei il mio letto di riposo!». Qualche volta,
durante la Messa, l'Ostia si spezza, e una particella, traversando invisibilmente l'aria, va a
posarsi sulla bocca di lei; un'altra volta un'Ostia intera esce dalla Pisside, e va a cadere fra i
suoi labbri. Ora è l'Angelo Custode che la comunica, ora è Maria, ora è Gesù stesso in
persona.

Gesù le si rivela nei misteri della sua Umanità: presso l'altare, nella cella, in giardino, ella
vede corporalmente Gesù, che le sorride e le parla.

Le appare come a s. Margherita Maria, mostrandole il Cuore, quel Cuore che è una fornace
ardente, un oceano di fuoco, un firmamento di bellezza, un paradiso di delizie; quel Cuore
nel quale Veronica vede se stessa ed anime sante, mentre una voce risuona con dolcezza:
«Questo è il tuo eterno soggiorno!».
Gesù la illumina sul valore della sofferenza, perché, prima di tutto, ella è vittima, e la Santa
compone un cantico in onore della sofferenza. «Un'oncia di sofferenze val più di tutte le
ricchezze e di tutte le gioie del mondo. Se avessi mille lingue non potrei esprimere il bene
che porta all'anima la sofferenza. La più leggera sofferenza, per disporsi degnamente a
riceverla, esigerebbe anni e anni di preparazione». «Chi cammina nella vera sofferenza, non
ha altro desiderio che di servire Dio con puro amore, e il puro amore aumenta man mano
che s'accresce la vera sofferenza ... La sofferenza è la chiave dell'amore. L'anima che ama,
rigurgita di sofferenze o si duole di mancarne». Ha una espressione sublime: s. Teresa dice:
o soffrire o morire! S. Maddalena de' Pazzi: Sempre soffrire, mai morire! S. Veronica,
poiché il suo piacere è di soffrire e di morire, scrive: «Né soffrire né morire!».

Nostro Signore la illumina sul valore dell'alta orazione, che caccia via dalla mente immagini
e pensieri particolari, che fa la notte e il vuoto in tutte le facoltà che vede Dio nella notte e
che lo abbraccia nel vuoto.

La illumina sulla efficacia del Sacramento di Penitenza, che purifica l'anima nel sangue
dell'Agnello; e tale illuminazione è così viva, che Veronica vorrebbe confessarsi ogni
giorno.

La illumina sulla sopraeminenza dell'Eucaristia di cui ella ha continuamente fame e sete.

La illumina sul nulla del creato e delle creature, sulla necessità e la beatitudine dell'umiltà,
sulla carità fraterna, sulla carità divina, che paragona ad un oceano senza sponde, ad un
incendio senza fine, sulle operazioni deificanti dell'amore, sull'abbandono che imparadisa il
cuore; e la fa esclamare: «Paradiso!».

La illumina sulla presenza e sugli attributi di Dio, sulla Trinità, sull'Incarnazione, sulle
disposizioni del Verbo nel seno di Maria, sulla via interiore e le virtù nascoste di Gesù.

La illumina sul peccato con tanta efficacia, che il suo cuore si spezza di pentimento.

La illumina sulla natura umana, sull'unione dell'anima e del corpo, sull'unione dell'anima
con Dio. «Oh, questa è l'unione», dice con forza, «la vera unione. Così è!».

La illumina anche sulla maniera misteriosa con cui il corpo soffre nell'inferno.

Ma perché questa sterile nomenclatura? Perché non trascrivere le pagine sublimi che la
Santa ha scritto su tali argomenti? Ci vorrebbero dei volumi, mentre il nostro compito è di
riassumere. Perciò ci limitiamo a riprodurre solo una risposta al P. Bastianelli, che le chiese
che differenza ci fosse tra l'anima e il cuore, preso in senso spirituale e simbolico. La Santa
scrisse dunque nel Diario l'8 dicembre del 1693: «Trovandomi in conversazione col
prossimo, sentii tutto ad un tratto una voce intima, che m'invitava alla solitudine, una
solitudine che non consisteva nell'abbandonare la persona presente, ma a trasportare il mio
spirito in Dio. L'invito veniva dal cuore, che manifestava la sua volontà per una
commozione improvvisa. Il cuore sembra, dunque, l'ambasciatore dell'anima ... Se il cuore
si trova nelle fiamme, l'anima l'ha preceduto, ed essa lo fa saltare di gioia. Se esso si
consuma nelle fiamme, l'anima gli dà vita e conforto. Quando il cuore vuole innalzarsi verso
Dio come un'aquila, l'anima scuote le sue ali e, in un batter d'occhio, vola nelle braccia di
Dio. Se si sente invitato al banchetto della sofferenza, l'anima gusta già le vivande della
mensa. Desidera di riposare in Dio, suo amore e suo tutto? L'anima è già partita alla sua
ricerca. Aspira di raggiungere Dio? L'anima già lo possiede nella sua piena sazietà».

«Tra il cuore e l'anima esiste una perfetta unione, ma l'anima è padrona. Quando il cuore è
inondato dalla grazia divina, scarica come un canale le acque celesti sull'anima, e l'anima
diviene un mare di dolcezza e di delizie».

«Tra il cuore e l'anima c'è una santa rivalità.

Mentre il cuore arde del semplice desiderio di unirsi a Dio, l'anima è già salita in seno a Dio,
ebbra dei suoi beni. Il cuore a questa vista ha un bell'irritarsi e infiammarsi per superare
l'anima: l'anima lo domina, dominata da Dio solo, nel quale esercita tutte le sue operazioni».

«Il cuore è la sentinella, ma l'anima resta sempre sull'attenti. Il cuore è come un sonatore di
tromba, ma l'anima è la tromba stessa, che lancia le sue note verso l'unico bene. Il cuore è
tutto lingua; l'anima, invece, è muta, cieca, sorda per tutto ciò che passa; ma per il suo
mutismo, la sua sordità e il suo accecamento, possiede tutto, gioisce di tutto e nel suo tutto,
che non è altro che Dio, mette le sue facoltà alla scuola dell'amore».

«Il cuore vuole essere la porta, ma l'anima è la portinaia che riceve tutti. Il cuore è il
segretario dell'amore, l'anima ne è la tesoriera».

Quale plasticità nel pensiero e nella forma! E non dimentichiamo che la penna ha dovuto
correre sulla carta a briglia sciolta, con l'ordine di non riprendere fiato.

Così, dunque, il Verbo fatto carne illumina la Santa con la sua presenza e l'aiuta e la
consola. Durante le ore del coro sta presso di lei, canta con lei, e le spiega per via di
comunicazioni intime il senso dei salmi e delle preghiere. Anche nel lavoro manuale l'aiuta.
È il momento di tessere o di far la cucina. «Va', le dice Gesù, e scrivi il tuo Diario». Ed ella
ubbidisce; va e viene, e la tessitura è terminata, il pasto è già pronto, cucinato ottimamente,
come dicono le suore. Egli l'assiste durante i ritiri supererogatori, e le stabilisce l'argomento
della meditazione e dell'esame riuscendo così ad essere il suo predicatore e il suo direttore.

Egli la consola. «Sono l'Amore in persona, le dice; io t'amo e ti porto nel mio cuore. Il mio
cuore è la vita del tuo. Tu sei la sposa del mio cuore!».

Un giorno le chiede: «Questo cuore, che vedo nel tuo petto, di chi è?». «Vostro, o Signore».
«Allora me lo prendo». E lo fa riporre sul cuore di Maria, che è presente; poi lo ripone sul
proprio petto. «Ed ora qual è il mio cuore?», domanda la Santa. E Gesù risponde: «Il tuo
cuore, sono io».
Trasformato in bambino, una notte di Natale egli salta al collo di Veronica, ed esclama:
«Oh! io non partirei più. Son caduto nel mio centro», e se la stringe fortemente al cuore.

Spesso ne abbraccia l'anima nella sua intima sostanza, purificandola, divinizzandola,


beatificandola, e la fa esclamare: «Paradiso! Paradiso!». L'unione è tale, che egli le dice: «Ti
ho trasformata in me; tu sei divenuta me stesso».

Incredibile meraviglia! Dal suo fianco perforato scaturisce un liquore divino, e Veronica se
ne bagna le labbra e se ne nutre l'anima.

Meraviglia ancora più incredibile! Dal cuore di Veronica, trapassato dalla lancia dell'amore,
sgorga un liquido profumato; ne assapora una semplice goccia, e può restare più giorni
senza mangiare e bere.

Meraviglia delle meraviglie! Ella ha due cuori: il suo, che è il cuore sofferente, e quello di
Gesù, che è il cuore amante. A turno, ella porta o l'uno o l'altro; quando batte il cuore
sofferente, allora partecipa ai tormenti del Salvatore e della sua Madre; quando batte il cuore
amante, allora arde letteralmente, tanto che, se mette le mani in un bacino d'acqua fredda,
l'acqua bolle subito. Il cuore amante è talora deposto nel cuore sofferente, che sopporta
supplizi ineffabili, incomprensibili gioie; così i due cuori battono all'unisono e tanto forte,
che paiono due orologi.

Avremo il coraggio d'affermarlo? Non dobbiamo certo arrossire della storia, ma il miracolo
è tale, che supera ogni verosimiglianza. Nel suo cuore ferito son tracciati gli strumenti della
Passione: i martelli, i chiodi, la spugna, la colonna, le sferze, e in più, lo stendardo della
Regalità di Cristo, due soli, simboleggianti la divina carità, con le iniziali delle virtù speciali
che praticava la Santa, e le sette spade di Maria compaziente. Queste cose cambiavano
talora di posto nel cuore della Santa, e, come se fossero in una scatola, sbattevano insieme.
Dei testimoni assicurano, e tra gli altri il P. Tassinari, che il rumore che producevano
assomigliava a un rullo di tamburo.

Ora la meraviglia sale al colmo! I confessori ordinarono a più riprese alla penitente di
disegnare gli oggetti, che racchiudeva nel cuore, secondo la posizione che vi occupavano.
Quella obbedì, e, dopo morte, nell'autopsia che le fu fatta, i medici, i chirurghi, i sacerdoti, il
vescovo le trovarono in cuore la perfetta riproduzione del disegno, che la Santa aveva
tracciato mentre era in vita.

Finalmente il Signore le concede privilegi inauditi. «Ciò che tu toccherai durante la


preghiera, io lo benedirò ... Tu sarai l'apostolo della devozione alle mie cinque piaghe... Tu
sarai l'araldo del mio amore ... Le tue ferite saranno una difesa per te e per gli altri: per te e
per gli altri saranno sorgente di perdono e di grazie ... Le grazie che ti fo, voglio che siano
conosciute dal mondo intero per la gloria del mio nome, per l'onore della mia Passione, per
la conferma della fede, per la salvezza delle anime... Io ti ho arricchita di tutti i tesori, a
profitto del mondo ... Ti ho fatto dispensatrice delle ricchezze del cielo ...».
Suggestiva la visione che ebbe l'8 settembre del 1701. In quel giorno il Signore le mise sotto
gli occhi la lista delle incomparabili grazie, che le aveva prodigate. La lista non finiva più, e
la Santa non poté ricordarne che qualche punto.

Per cinquecento volte le aveva rinnovato il dolore del cuore perforato dalla lancia; l'aveva
ferita cento volte con ferita segreta; sessanta volte le aveva rinnovato la celebrazione delle
divine nozze; trentatré volte le aveva fatto subire appieno i supplizi della Passione facendole
sentire e vedere nettamente i tormenti che egli aveva sopportato; le si era mostrato venti
volte con apparizioni corporali, tutto coperto di piaghe e intriso di sangue; tre volte s'era
distaccato dalla croce per stringersi al petto di Veronica; nove volte le aveva fatto accostare
la bocca alla piaga del Suo cuore; cinque volte le aveva dato da bere il liquore che sgorgava
dal suo costato; quindici volte le aveva lavato il cuore col sangue del suo cuore; dodici volte
le aveva preso il cuore e glielo aveva purificato delle più piccole macchie; duecento volte le
aveva abbracciato l'anima con un abbraccio d'amore; innumerevoli volte l'aveva illuminata
con lumi infusi sulle virtù e i misteri, sulla conoscenza di se stessa e di Dio. «Perché contare
tutte le grazie ricevute? Io non finirei più», scrive la Santa.

E a quel giorno non era che agli inizi della sua via meravigliosa: ci aveva ancora ventisei
anni di vita! Vi fu mai esistenza così piena di benefici divini?

Il Cantico dei Cantici racchiude le pagine più poetiche, più appassionate e più purificatrici
della S. Scrittura. Dio, presa la figura di Sposo, si rivolge all'anima santa raffigurata nella
sposa, e si estasia quasi davanti ad essa. Le dichiara la sua ammirazione e la sua tenerezza;
le dice che non può vivere lontano da lei, e trova in essa ogni più cara delizia. Avviene così
che l'anima umana diventa la gioia di Dio. Ecco s. Veronica.

Vi fu mai anima più amata di lei?


Ma è giunto il momento di vedere i frutti della sua passione.
LIBRO QUINTO

I frutti della Passione

CAPITOLO I.
PER NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

Il nostro grande bisogno è d'essere amati. Questo bisogno lo sente anche Dio. Egli si ama;
da qui il segreto della sua infinita beatitudine.

Egli ama se stesso, ma vuole che altri lo amino e produce la creazione.

Vuol'essere amato di un amore degno di lui e compie il coronamento della creazione con la
Incarnazione. Il suo Figlio, divenuto figlio dell'uomo, lo amerà divinamente. Egli vuole che
anche gli uomini, e, per mezzo degli uomini, tutti gli esseri dell'universo, si uniscano al
Figlio suo per intonare il cantico dell'amore: Diligo Patrem.

L'umanità, nella persona del suo capo si rifiutò di amare Dio; i figli d'Adamo fecero
altrettanto nel corso dei secoli. Finalmente il Figlio di Dio si farà Redentore. Come
Redentore illuminerà con tratto di suprema bellezza il dolore, figlio dell'amore. Subirà la
spaventosa Passione, che sboccherà nell'Eucarestia. Diverrà nostro pane, dopo esser stato
vittima nostra.

Così si mette alla portata di tutti e tutti avvicina sotto la veste indicata nel libro del Cantico
dei cantici. Attraversata l'orribile notte del giovedì Santo, ricoperto degli sputi dei carnefici
e del proprio sangue, soffre per tutti, ricorda a tutti l'immensità del suo dolore e l'infinito suo
amore, e bussa ai cuori. La passione d'essere amato gli fa tremare la mano e la voce:
«Aprimi! Amami!». Ma l'Amore non è amato. I cuori restano chiusi, e il divino Mendicante
è ricusato. Egli vede se stesso in questi cuori chiusi; vi si vede sputacchiato, lacerato,
crocifisso, morente, morto; vi si vede sepolto, ricoperto di disprezzo e di oblio.

L'Amore non è amato! L'Amore non è amato! Gesù disse a Pietro per tre volte: Mi ami tu? E
queste parole egli le ripete alle anime privilegiate, che devono amare anche per coloro che
non amano.

Mi ami tu? In tutti i secoli un piccolo numero di prediletti fanno dimenticare coi loro ardori
e la loro bellezza interiore, il laidume e la freddezza di molti. Nel tempo di cui parliamo
emersero s. Margherita Maria e Veronica Giuliani.

L'Amore è amato!

Spesso Gesù appariva alla Cappuccina di Città di Castello per domandarle: Mi ami tu? E lei
gli rispondeva scrivendo col proprio sangue le proteste d'amore più ardenti.
«O mio Dio, io protesto di volerti amare e di unirmi a voi. O Padre mio, fate che l'amore del
vostro cuore infiammi il mio cuore, affinché, morta a tutto, non viva che per amarvi. La mia
anima è vostra sposa. Non desidero, non voglio che voi. Voi solo avete il dominio di me
stessa; trattenetemi secondo il vostro beneplacito. Per la vostra gioia e per la vostra gloria,
io non domando che la croce, la croce tutta pura, tutta nuda. Questa croce, o mio Dio, voi
me l'avete data in dote; essa è il mio letto per compiere con voi il sacrificio redentore... O
mio Dio, apritemi il vostro cuore, e fate che io entri per questa porta formando con voi una
cosa sola».

Ella scriveva la sua protesta d'amore sulla carta viva del cuore. Per mostrargli la sua
tenerezza, s'era scolpito il nome di Gesù nella regione del cuore. I confessori non avrebbero
voluto che giungesse a tanto, ma poi avevano finito per acconsentire. Con l'anima in festa e
la mano tremante per l'emozione, preso un temperino, se lo immerse nel cuore tracciandovi
le divine parole. «O mio Dio, il cuore è vostro, perché ci ho scolpito il vostro nome».
Quando le fecero l'autopsia, la cicatrice era ancora molto visibile.

Era tutta un ardore di amore, e non faceva che sospirare: «Mio amore, mio tesoro, quando io
vi amerò? È già tempo: non posso più aspettare. Sono vostra; il mio cuore è vostro. Fate che
vi ami col vostro amore».

Mi ami tu? Il Signore sapeva bene che Veronica l'amava, ma voleva sentirsi ripetere: Io
v'amo.

Mi ami tu? E ogni volta la Santa rispondeva come Pietro: Signore, lo sapete che vi amo.

Una volta egli prese il cuore di Veronica, quel cuore ferito dalla lancia dell'amore, e lo
contemplava dicendo: Mi ami tu? «O Signore, rispose: ve lo dicano le piaghe del mio cuore,
scavate da Colui che è l'Amore». E sull'istante le sgorgarono dal cuore ferito fiotti di
sangue.

Mi ami tu? Le rivolse un giorno questa domanda alla presenza di s. Francesco, decorato
delle sacre stimmate e le ripeté: «Mi ami come questo serafino?». La Santa non osava
rispondere, ma Gesù disse: «La tua figliola, o Francesco, è la più cara delle mie spose».

Mi ami tu? E lei rispondeva: «Voi siete l'Amore; l'Amore non può essere amato che
coll'Amore; per mezzo di voi, o Amore, io vi amo». Come mi ami tu? «Come amate voi, o
Signore».

Gesù le spiega la ragione della sua triplice interrogazione. «L'uomo, creato dall'Amore e per
Amore, ha offeso l'Amore con l'orgoglio dello spirito e con la ribellione della carne. Io ho
chiuso la ferita fatta all'Amore creatore, e l'ho chiusa per mezzo del supremo dolore. Chi
vorrà come me, dietro il mio esempio, soddisfare l'Amore creatore? Chi vorrà perfezionare
in sé ciò che manca alla mia Passione redentrice? Mi ami tu?». E la Santa vede un quadro
presentarsi ai suoi occhi. Gesù è in giro per il mondo, in cerca di anime, che vogliano
prendere la sua croce; egli cerca, cerca sempre. Ma è sfuggito.
Veronica gli si presenta: «Eccomi, Signore; io voglio la vostra croce. Voglio in me tutti i
tormenti che furono in voi; con voi e dietro a voi voglio soddisfare l'Amore creatore; di più,
voglio che tutte le spade, che trapassarono il cuore di Maria corredentrice, trapassino il mio
cuore. Voi mi chiedete: Mi ami tu? Oh! se vi amo, o Signore! Infatti vi dico: crocifiggete
Veronica».

Gesù seguita a dire: «Mediante le mie ferite ho chiusa la ferita fatta all'Amore creatore. Chi
vorrà lenire le ferite fatte a me, Amore redentore? E Veronica vede Gesù tutto sanguinante:
sangue negli occhi, nella bocca, su tutto il corpo. «Mio Dio, grida, chi vi ha ridotto in
codesto stato?». Le risponde: «I peccatori, gli eretici; soprattutto coloro che mi negano
l'attributo dell'Amore».

E sembra a Veronica che nessuno s'avvicini per asciugare la faccia del Maestro. Allora lei si
fa avanti con mano fremente, singhiozzando: «Sarò io la vostra Veronica, la riparatrice e la
consolatrice. Io dò il mio sangue per risparmiare il vostro». E un fiotto di sangue esce dalle
sue labbra. «Io mi offro, perché i peccatori m'inchiodino al vostro posto. Voi mi dite,
Signore: M'ami tu? Io vi amo, Signore, e voglio rinchiudermi nel sepolcro, perché le anime
risuscitino in se stesse».

Ho sete. - Ho sete d'essere amato. Chi mi porterà la bevanda dei cuori umani?

«Signore, io acquisterò tale bevanda con la moneta della sofferenza e ve la porterò


gorgogliante nella coppa del mio cuore. Io sarò il vostro apostolo. Vi amo».

E come sapeva essere missionaria! Era a un tempo nei ghiacciai del polo e sotto il calore
tropicale. Fuggiva in giardino, ma col cuore si slanciava nel mondo. Parlava e chiamava i
peccatori, gli eretici, gli infedeli. «Voi non conoscete l'amore! Se invece lo conosceste!
Venite all'Amore! Datevi all'Amore! Amate l'Amore!».

Missionaria! Il P. Crivelli era apostolo ufficiale, ma Veronica gli faceva una domanda
insensata, cioè, di venire a predicare alla grata rivolgendosi ai peccatori, agli eretici, agli
infedeli che popolano il mondo, per far loro amare l'Amore. Che importa se essi non sono
presenti? Udendo chiamarli a penitenza, lei ne sentirà sollievo.

Da vera Missionaria, sarebbe andata con la croce in mano a mettersi alla testa delle armate
cristiane per il trionfo di Cristo Re. «Bisogna che egli regni!». Questo era il grido del suo
cuore, poiché nel suo cuore era scolpito lo stendardo del divino Monarca.

Ma se la clausura la tratteneva, se il sesso le impediva di salire sulla cattedra, vi aveva la


voce del sangue per predicare.

Era una notte di Natale, e il Dio d'amore venne a cercare la sua bevanda d'amore. Lasciamo
parlare Veronica.
«Terminata la messa, io bruciavo come una fornace. Cantavo l'ufficio delle lodi con voce
più forte che mai. Dopo invitai alcune suore a seguirmi in giardino. Nove di esse mi
seguirono. Camminavo per prima con il Bambino Gesù sulle braccia, ma non sapevo che
cosa facevo. Dissi alle suore: andiamo e chiamiamo i peccatori. Con questa intenzione
recitammo le litanie della Madonna e l'Ave maris stella. Quasi correvo e le mie compagne
rimanevano indietro. Alla fine, una di esse mi prese per un braccio, ma le scappai. Ero fuori
di me».

«Arrivate alla cappella di s. Francesco, ci disciplinammo; poi ritornammo in chiesa


cantando il Te Deum. Là nuove discipline con trentatré invocazioni al Salvatore del
mondo».

«Chiesi perdono dei miei scandali, e le compagne mi imitarono piangendo. Esse tornarono
nelle loro celle, ma io non ero ancora contenta. Un gran. fuoco mi bruciava. Tornai in
giardino e vi restai a lungo. La neve era alta, ma poteva essa ghiacciarmi? La mia voce non
bastava per chiamare le anime e vi aggiunsi la voce delle catene, delle corde, delle spine; ad
ogni colpo invitavo al pentimento i peccatori, gli eretici e i Turchi...».

Per acquistare a Gesù Bambino un nutrimento di anime, ella domandò di vivere senza fine
per soffrire sempre!

Ma nonostante le sue preghiere, i suoi pianti e il suo sangue versato, quanti ancora ne
restano, che non amano l'Amore. Ella vede Gesù sotto le sembianze del buon pastore in
cerca di pecorelle smarrite, che sfuggono sempre più lontano da lui e, piangendo, esclama:
«Signore, imploro una grazia: fate che io vi ami per tutti quelli che non vi amano». E la
grazia fu concessa.

Il cuore di Veronica era più vasto del mondo; vi palpitavano dentro tutti i cuori umani.
Pieno di tanti cuori, era come un calice offerto alle labbra di Gesù. «Ecco il vostro cibo
d'amore. Prendetene, o Dio d'amore!».

Cessino di odiarsi gli uomini, e facciano anch'essi divampare l'amore!

CAPITOLO II.
PER LA CHIESA MILITANTE

Dio ama gli uomini, e i Santi partecipano di questo amore. Il mondo sa che è fuggito dai
Santi, perché vogliono salvarlo. Veronica chiusa nel sepolcro del suo convento, pensa al
cielo e nello stesso tempo alla terra. È innamorata di Dio e degli uomini, perché immagini di
Dio, perché membra dell'Uomo-Dio. È innamorata degli uomini per se stessi. Nel suo cuore
immenso racchiude gli uomini e vive per essi. Se rimargina la piaga dell'Amore creatore e la
ferita dell'Amore redentore, lo fa per serrare ai fratelli le porte dell'inferno. Fedele
riproduttrice di Gesù, l'amico dei peccatori, merita appieno il nome di Veronica.
Il suo occhio si apre e vede lo stato del mondo: gli infedeli respingono la luce, gli scismatici
lacerano la veste inconsuntile di Cristo, gli eretici guastano la sua immagine e la sua
dottrina, i cattolici gli sputano in viso, la tribù di Levi gli trapassa il cuore con la lancia di
Longino. Nella Chiesa vi sono indubbiamente virtù elevate, anime ardenti, che esclamano
con Veronica: Voi lo sapete se io vi amo! ma poiché è vittima d'espiazione, le si spalanca
davanti lo spettacolo del male.

Il mondo pecca e provoca i castighi. Ella vede la spada e la folgore in mano della divina
Giustizia, pronte a precipitare sopra i colpevoli fin da questa vita, e li vede punire nell'altra
vita. L'inferno! Lo vede quasi ogni giorno coi suoi orrori e i suoi supplizi; e per ogni giorno
una nuova descrizione.

Nessun pittore ha mai avuto tanti colori per i suoi pennelli.

Il 17 gennaio del 1716, ella faceva il ritiro meditando l'inferno. Improvvisamente le apparve
Maria, che la trasportò ai piedi della Trinità gloriosa; poi ordinò agli Angeli custodi di
condurla in ispirito nell'abisso. «Non temere, figlia mia; io sono con te».

Lasciamo parlare la Santa. Dante stesso ascolterebbe con invidia.

«In un batter d'occhio mi ritrovai in una regione bassa, nera, fetida, piena di muggiti di tori,
di urli di leoni, di fischi di serpenti, di tuoni fragorosi. Vedevo dei lampi sinistri serpeggiare
fra un fumo denso. Ma questo era nulla. Una grande montagna si alzava a picco davanti a
me ed era tutta coperta di aspidi e di basilischi legati insieme. Essi si agitavano, si
contorcevano, ma non potevano liberarsi. La montagna viva era un clamore di maledizioni
orribili. Tornai verso i miei Angeli, e chiesi loro che fosse tutto ciò. Mi risposero che era
l'inferno superiore, cioè l'inferno benigno. Infatti la montagna si spalancò, e nei suoi fianchi
aperti vidi una moltitudine di anime e i demoni intrecciati con catene di fuoco. I demoni,
quasi tori furiosi, schizzavano fuoco dagli occhi, dal naso, dalla bocca. I loro denti, simili a
pugnali d'acciaio, mordevano le anime fra un clamore spaventoso di urli disperati. A questa
montagna seguivano altre montagne più orride, le cui viscere eran teatro di atroci e
indescrivibili supplizi. Nel fondo dell'abisso, vidi un trono mostruoso, fatto di demoni
terrificanti. Al centro una sedia formata dai capi dell'abisso. Satana ci sedeva sopra nel suo
indescrivibile orrore. Aveva una testa composta di cento teste, ed era sormontata da enormi
picche viventi, che finivano con un occhio di fuoco. Questi occhi si aprivano e lanciavano
fiamme il cui ardore aumentava l'incendio infernale. Satana vedeva tutti i dannati, e questi
vedevano Satana. Gli Angeli mi spiegarono che la visione di Satana, il mostro, forma il
tormento dell'inferno, come la visione di Dio forma la delizia del Paradiso. Sui suoi sudditi
Satana lanciava tormenti, che li divoravano. Egli bestemmiava maledizioni e tutti gli
facevano coro: erano grandi urla di disperazione».

«Dissi ai miei Angeli: - Quanto tempo dureranno questi supplizi? - Mi risposero: - Per
sempre, per tutta l'eternità -. E quando io tacqui muta di spavento, notai che il muto cuscino
della sedia di Lucifero erano Giuda ed altre anime disperate come lui. Chiesi alle mie guide:
- Di chi sono quelle anime? -. Mio Dio, quale risposta! - Furono dignitari della Chiesa e
prelati religiosi! -».

«... Ebbi coscienza che la mia presenza raddoppiava la rabbia dei dannati. Senza l'assistenza
dei miei Angeli e di Maria, che invisibile stava al mio fianco, io sarei morta di spavento.
Silenzio. Io non detto nulla. Non posso dir nulla. Di fronte all'inesplicabile verità, tutto ciò
che raccontano i predicatori, non è niente. Niente!».

E nell'abisso tenebroso, soggiorno di spavento, ella vide cadere una pioggia di anime.

È questo l'inferno nella sua realtà? Che importa? Tali visioni erano concesse a Veronica per
infiammarne lo zelo.

Ella prega per i peccatori, e prega notte e giorno.

Al Signore, che le domanda: «Che desideri?», risponde: «Anime! Guardate, o Signore, le


piaghe del mio cuore: esse vi gridano: Anime! Anime!». In un giorno di mercato, udito il
rumore che si faceva in città, supplicò: «Signore, facciamo mercato anche noi: datemi delle
anime, delle anime. Io non andrò via di qui finché non m'avrete promesso delle anime».

Le anime bisogna comprarle. Le comprerà con la moneta che ben conosce. «Uccidete me,
sospirava, ma risparmiate i peccatori. Inviatemi i tormenti dell'inferno, ma che non vi siano
più dannati».

Perché il Signore le faceva fare tanto frequentemente la confessione generale, che era così
torturante per lei? Gli occhi le si riempivano di lacrime, e il cuore le si spezzava dal dolore.
Con questo supplizio, la vittima meritava ai peccatori di confessare le loro colpe. Perché la
citava tanto spesso al tribunale della sua Giustizia inesorabile? Con questo supplizio la
vittima meritava di ottenere la sentenza di perdono e di vita per i peccatori.

Occorre descrivere una scena di tali giudizi, che Veronica subiva quand'era in estasi.

«... La B. Vergine fece segno ai miei Angeli custodi di accostarsi al Giudice. Gesù e Maria
mi guardavano indignati e severi. Angeli e Santi, le anime dei miei direttori defunti
adempivano la funzione di accusatori; anche i miei Angeli custodi mi facevano paura».

«Improvvisamente si fece luce e la mia vita si mostrò in tutta la sua nudità. Vidi le grazie
ricevute, e le mie infedeltà, e mi sembrò di udire la Corte celeste rimproverarmi la mia
ingratitudine; tutti si velavano la faccia per la collera e il disgusto. I Santi tremavano nel
vedere i visi corrucciati di Gesù e di Maria. Io guardavo i miei Angeli e i miei Santi, ma
nessuno prendeva le mie difese. Nascondermi o fuggire? Impossibile! La giustizia di Dio mi
teneva legata e la presenza di Dio irritato mi condannava. Parlare? Impossibile! Là restiamo
senza voce. Solo la voce delle colpe sale davanti al Giudice».

«Dunque, un diluvio di grazie mi aveva mondata. Dio m'aveva spesso donato i meriti della
sua Passione, i fiotti del suo sangue e le lacrime della Madre di pietà. Questo sangue e
queste lacrime, rimasti sterili nelle mie mani, mi condannavano ... Nello specchio divino
vidi le mie infedeltà e ingratitudini. Compresi che l'offesa, che chiamiamo leggera e che ci
appare come un pulviscolo, per Iddio è una montagna. Lo dico arditamente: avrei preferito
di sostenere i tormenti dei martiri, le pene del purgatorio, i supplizi dell'inferno sino alla fine
del mondo, che vedere le opere, le azioni, le parole, i pensieri miei cogli occhi del Giudice
supremo. Una semplice parola oziosa ricade sull'anima come una folgore vendicatrice... E
l'anima attende la sentenza di morte... Rimasi cinque ore davanti alla Giustizia divina
contando una ad una tutte le mie colpe, che gli accusatori ridicevano a voce alta. Ogni
momento mi sembrava un secolo, un'eternità. Già un'armata di demoni s'avvicinava per
prendermi e per portarmi via. Ma d'un tratto la Madonna mi guardò con pietà, e rivolse al
Figlio queste parole: - Per amor mio, perdonatele. Pronunziate la sentenza d'eterna vita,
perché voglio così. Gesù, allora, mi riguardò con tenerezza, e tutti i miei Santi protettori
cantarono un inno di grazie e di trionfo. Ma quanto terribile era stato il giudizio! E pensare
che tutti gli uomini lo subiranno».

Mentre ella si trovava davanti al tribunale del Giudice, le suore la videro stare fissa con gli
occhi per ore intere sul Crocifisso. Stava immobile, pallida, disfatta, tremante e aveva sudori
d'agonia. Alla fine, la sua faccia s'irradiò di gioia celeste.
Per l'agonia che soffriva in questi giudizi, Veronica otteneva ai peccatori sentenze
d'assoluzione e di salvezza.

Le anime si comprano: perciò ella implorava di essere costituita come porta viva
dell'inferno. Sarà morsa dalle fiamme e tormentata dai demoni, affronterà il fuoco e i
demoni, ma non cederà, e gli uomini non cadranno nell'abisso. Chiudeva l'inferno
sopportandone tutti i supplizi.

Durante la quaresima del 1697, esperimentò per trentatré notti di seguito, ciò che chiama «le
ore d'eternità». Dimentica di tutte le grazie ricevute e di tutte le assicurazioni del cielo, le
appaiono i demoni sotto forma di angeli di luce. Per meglio ingannarla avevano preso la
figura di Cristo e di Maria. L'anima di Veronica ormai apparteneva loro; rotoli, dunque, con
essi nell'abisso.

In ciascuna notte un nuovo abisso. È immersa nella fossa dei leoni, negli antri delle belve,
che l'assalgono coi loro artigli, e la stritolano sotto i loro denti; è precipitata in nidi di rettili,
che la mordono e la ricoprono di bava; è battuta con verghe infiammate, trasportata da
raffiche di fuoco e di zolfo; è gettata in uno stagno di ghiaccio ove non le resta che battere i
denti. In lei si concentrano tutti i tormenti non immaginabili. Supplizio inesprimibile: crede
realmente di essere nell'inferno e di doverci stare per tutta l'eternità. Supplizio dei supplizi:
crede d'essere lontana da Dio, d'essere da lui abbandonata e condannata a bestemmiare per
sempre l'Amore.
Quando l'abisso si apre e la inghiottisce, trema tutta e con lei tremano perfino i muri della
cella. Quando l'abisso la rigetta, è come morta; poi si agita tutta in un tremito. Il suo corpo è
pieno di contusioni, di bruciature e di punture come quelle di vespa.

Dopo quella quaresima, il supplizio si rinnovò forse cento volte. Ma quante le anime
salvate! Fra queste anche l'anima di suo padre, di Francesco Giuliani, che non fu senza
mancanze a Piacenza. Due volte Veronica aveva ottenuto di vederlo incamminarsi al S.
Tribunale, ma poi egli era ricaduto. Quando si separò da lui, per rispetto filiale e per pudore
verginale, Veronica si limitò a dirgli: «Padre mio, pensate alla vostra anima». Gli disse così
per non aver rimorsi. Un giorno Francesco andò a Città di Castello (era il terzo anno dopo la
vestizione solenne di Veronica). Veronica era malata dell'amore che portava ai peccatori, e
fece uno sforzo per recarsi alla grata del convento. La sua Veronica, il piacere dei suoi
occhi, il tesoro del suo cuore, l'orgoglio della sua vita, gli stava di fronte, ma un muro li
divideva ed un fitto velo li rendeva invisibili l'uno all'altro. Egli non poteva riabbracciare
sua figlia, non poteva baciarla né rimirarla; non ne udiva che la voce. Si commosse, scoppiò
in singhiozzi e non ebbe che il fiato di dire: «Figlia mia, ti affido la mia anima; salvami!».
Lasciata una ricca elemosina. al monastero, andò a visitare le altre figlie a Mercatello; poi
ritornò a Piacenza, e sposò in Chiesa. Poco dopo, durante un certo viaggio, morì quasi
improvvisamente. Ma la sua vita leggera e orgogliosa terminava con una santa morte. Da
lontano la figlia lo aveva seguito in ispirito, e all'ultim'ora lo avvolse nel lenzuolo tutto
bianco e caldo delle sue preghiere e delle sue penitenze offrendolo al supremo Giudice.
Francesco era salvo.

Veronica fece altre conquiste.

Le sue qualità e le sue virtù, avevano provocato, come sappiamo, la gelosia di alcune
compagne, e Dio le mostrava l'infelice stato delle anime. Le vide un giorno con la faccia
come coperta da una maschera. «Perché, Signore, domandò, quella maschera?». «Perché si
nascondono a se stesse, e vorrebbero nascondersi anche a me. Io voglio dimenticarle come
esse dimenticano me». Ma poiché ella intercedeva per le colpevoli, specialmente a pro della
sua più grande avversaria, una voce le disse: «Codesta, poi, ama il demonio più di me».
Allora la Santa rispose di voler cacciare ad ogni costo il demonio dal monastero. «Se vuoi
cacciarlo, riprese la voce, prendi la tua croce». E lei subito prese la sua croce pesante e se la
pose sulle spalle. Le stesse suore, così, in virtù di Veronica, morirono tutte nel bacio del
Signore.

Ma che vide un giorno? Il Signore stava su di un trono, e teneva in mano una spada
sormontata da una fiamma, che si assottigliava sempre più. Veronica comprese
immediatamente il senso della visione. Ne era desolata. La fiamma simboleggiava
l'osservanza della regola e la carità delle suore, due cose che andavano affievolendosi giorno
per giorno. Guai a loro! Ben presto, spenta la fiamma, resterebbe solo la spada, cioè, il
castigo. Ma il Salvatore degli uomini stringeva nell'altra mano una croce, e la Santa non
ebbe bisogno di altre spiegazioni. Prese la sua croce ed espiò per le sue suore. La fiamma
allora riprese larga a bruciare ed avvolse la spada, che diventò ben presto di fuoco.

Un altro giorno vide il giardino chiuso di Salomone, pieno di fiori e frutti, che mandavano
un gran bel profumo. Raffigurava la comunità di Città di Castello. Ma a quel prezzo si era
trasformata in quel giardino di abbondanza? A prezzo delle sofferenze della santa vittima.

Ma ella espiava anche a vantaggio di tutto l'Ordine Francescano.

Le visioni si succedono.

Che vede il 4 ottobre del 1694? S. Francesco, su di un trono luminoso, è circondato da una
moltitudine di Santi Francescani, vestiti di luce risplendente. D'improvviso appare Gesù, il
gran sole di gloria. Francesco lascia il trono e si inginocchia implorando una grazia. La
visione cambia. Si presenta agli occhi di Veronica una moltitudine di religiosi e di religiose,
che stanno perdendosi in un mare fitto di tenebre. Sono gli infelici che non praticano la
povertà, che si attaccano ai beni terreni, che non cantano il cantico: Mio Dio e mio Tutto.
Ma la Santa espia, e lo spirito di povertà torna a fiorire nella religione serafica.

Espia per i suoi, per il suo Ordine, per gli Istituti dei suoi confessori, per la sua città.

Un giorno il Signore le apparve ricoperto di sangue, con in mano tre spade, la cui punta era
rivolta verso terra. La città, colpevole, era, dunque, minacciata da Dio. Nello stesso tempo
Veronica scorse un antro spaventevole, che brulicava di serpenti e di altre bestie immonde,
simbolo dei peccati carnali degli abitanti. La Santa intercedette, e le tre spade sparirono
dando posto alla croce della salvezza. La città era salvata. La stessa città, dopo poco, cadde
nelle discordie intestine. La vittima vide allora apparire nell'aria nuvole di serpenti con le ali
e con la bocca spalancata e infuocata. La folgore brillava nelle mani della Giustizia, pronta a
fulminare i colpevoli. Neppure Maria voleva più intercedere a pro degli abitanti. Il cuore di
Veronica si commosse, e gettò sangue dalla ferita riaperta. Mons. Eustachi, per
suggerimento della Santa, indisse una processione di penitenza, e di nuovo Dio fu placato.

Ella prega per coloro che si raccomandano alla sua mediazione.

Una cappuccina del convento avendole confidato che un suo fratello dava scandalo nel
mondo, subito ottenne che ritornasse a una perfetta dignità di vita. Il p. De Vecchi, Gesuita,
non sapendo come convertire una peccatrice divorata da terribile cancrena, frutto delle
dissolutezze del passato, ricorse alla grande amica dei peccatori, e quella disgraziata non
tardò ad espiare nel pentimento i propri falli. Si fece raccomandare all'intercessione della
Santa; questa promise di pregare e di espiare ma dettò una condizione, che, cioè, la
colpevole facesse pubblica ammenda degli scandali dati. E si assisté a uno spettacolo mai
visto: i magistrati stessi di Città di Castello domandarono perdono e implorarono
misericordia per la convertita.
Veronica espia anche per i sacerdoti, religiosi o secolari che siano. Il cielo la intenerisce
rivelandole le colpe di alcuni cattivi, che celebrano sacrilegamente e infliggono al Figlio di
Dio oltraggi più grandi di quelli della Passione. Ma il Signore glieli mostra, perché lo
disarmi. Infatti non le aveva detto che le faceva vedere i peccati perché li soddisfacesse e
convertisse i peccatori? Non le aveva promesso che le implorazioni delle sue stimmate
avrebbero ottenuto tutto ciò?

Ella espia per la Chiesa. Perché tanti cristiani, abusando della grazia, si rendono peggiori
degli infedeli, mediante gl'infedeli Dio s'appresta a punire i cristiani. La Santa vede che i
Turchi verranno fino a Roma e che in S. Pietro, profanato dalle orge e dal sangue, al posto
della croce inalbereranno la mezzaluna. Ciò non ostante, il 5 agosto del 1716, furono vinti e
fermati dal principe Eugenio di Savoia. La stigmatizzata di Città di Castello, non contribuì
forse alla vittoria con la voce delle sue piaghe redentrici?

Grande è il mondo, ma più grande è il cuore di Veronica. Il mondo e macchiato, ma è puro


il sangue di Veronica. Unito al sangue di Gesù, per virtù di esso, purifica e salva migliaia di
peccatori.

Dispensatrice del cielo, Veronica è anche la liberatrice del Purgatorio.

CAPITOLO III.
PER LA CHIESA PURGANTE

L'amore è più forte della morte. L'amore arde il cuore di Veronica e la rende superiore alla
forza dell'inferno. Come non sormonterà il fuoco del Purgatorio? Ama le anime; si offre a
tutti i supplizi dell'inferno, affinché esse non vi cadano. Preservatele dalla dannazione, le
segue al giudizio, le accompagna al luogo della purificazione, e dice ad esse: «Salite al
cielo; resto io a soddisfare per voi». Ella fa questo gesto nell'amore per Gesù, che ha sete
della totalità dei suoi membri mistici, e lo fa anche per amore delle anime.

Una istituzione benemerita è stata recentemente fondata nella Chiesa: le Ausiliatrici delle
anime del purgatorio. Questo nome fu dato dal cielo la prima volta a s. Veronica: «Tu sei
l'aiuto delle anime del Purgatorio».

Per eccitarla alla salvezza dei peccatori, Dio le aveva mostrato il giudizio e l'inferno; per
eccitarla alla liberazione delle anime, ora le mostrava il Purgatorio.

Qualche lettore si rattristerà leggendo ciò che la Santa scrive. Per consolarlo, gli diremo che
ella aveva la vocazione di Espiatrice, d'Ausiliatrice; perciò vide nel purgatorio le sole pene,
senza le gioie; ma le gioie vi sono reali come le pene. Ma ascoltiamo la Santa.

«Le pene del purgatorio sono così atroci, che nessuna intelligenza umana potrà
comprenderle. Il fuoco è così ardente, così penetrante, che, nello spazio di un lampo,
distruggerebbe il mondo fondendolo come cera. Le anime sono incorporate e come
trasformate in fuoco. E col fuoco, il ghiaccio: il ghiaccio, che penetra fino nelle midolla.
Ghiaccio è fuoco. E quel ghiaccio nel fuoco, indurisce piuttosto che sciogliersi. Non c'è
requie: non è finito un supplizio, che subito ne principia un altro, più duro del primo. Si
muore di sofferenza; si rinasce per soffrire ancora. Che sono i tormenti dei martiri? Nulla,
nulla a confronto».

«Tutte le torture sono escogitate per punire le anime. Ho parlato del fuoco e del ghiaccio;
ma c'è di più: coltelli, spade, scuri, ruote da carro o da molino; c'è il braccio onnipotente
della giustizia di Dio. E non c'è uscita, aiuto o meriti. Nell'ipotesi impossibile che un'anima
del purgatorio potesse ritornare sulla terra, essa si precipiterebbe in una fornace ardente,
affronterebbe tutti i martirii pur di risparmiarsi il purgatorio. Queste anime hanno ben
ragione di esclamare: La mano del Signore mi ha toccato: manus Domini tetigit me. Che io
possa correre attraverso il mondo e gridare a tutti: Penitenza! Penitenza! Non peccati, ma
virtù e sacrifici! Evitate il fuoco del purgatorio e quello dell'inferno! Ho parlato e non ho
detto niente, perché ho taciuto dei supplizi del danno. Non ho proprio parole per descriverli.
I dolori del corpo sono un nulla a confronto di quelli dell'anima. Separazione da Dio,
privazione di Dio! Ogni minuto un'eternità!».

E parla con cognizione di causa, perché non solo ha veduto il purgatorio, ma l'ha anche
sofferto.

Con un sentimento d'incredibile eroismo, ha chiesto di vuotare il purgatorio e di restarvi al


posto di tutte le anime. Ed ha ottenuto la grazia, ma a quale costo! Vivrà in purgatorio.

Sì, Veronica fece una tale domanda, ed ottenne la grazia. È risaputo che si usò ed abusò
della sua mediazione. I suoi confessori e i suoi direttori le affidavano le anime dei loro
parenti, dei loro protetti, dei loro amici. Le anime stesse, le anime abbandonate, avevano il
permesso di venire a raccomandarsi ai suoi suffragi. La notte bussano alla sua porta, le
vengono davanti dicendole con voce lamentevole: La mano del Signore mi ha toccato; pietà
di me. Ed ella, mediatrice generosa, doveva soddisfare per parecchi alla volta.

D'ordinario, come avvenivano queste cose? La Santa ausiliatrice non faceva nulla se non
per mezzo di Maria. Maria, dunque, la presentava alla Trinità gloriosa e ordinava agli
Angeli di condurre la sua cara figlia nel luogo d'espiazione. L'abisso si apriva. Orrore!
Veronica vedeva ciò che soffrivano le anime e i motivi per i quali esse erano lì, e, col cuore
gonfio di compassione, offriva se stessa per saldare il loro debito alla divina Giustizia. E le
anime uscivano dall'abisso, bianche, luminose, e volavano su verso il cielo, mentre lei, pur
vivendo sulla terra tra le suore, pativa nel purgatorio. Le consorelle la vedevano d'un pallore
mortale, vacillante, sfinita.

Le pene soddisfatorie variavano di forma e di intensità, secondo le colpe commesse dalle


anime, che ella sostituiva. Parli la Santa.
«Il 14, 15 e 16 novembre del 1715 furono per me tre giorni di dolore indicibile. Unghie e
uncini di ferro, come imbevuti di sale e di aceto, mi laceravano le carni penetrando fino al
midollo delle ossa; cani idrofobi mi mordevano dai piedi alla testa spezzando le mie ossa,
maciullando i miei nervi sotto i denti delle loro bocche; serpenti velenosi mi pungevano
gonfiandomi del loro veleno. Oh! avrei voluto gridare, tanto da agghiacciare il mondo dallo
spavento. Morivo, morivo ad ogni istante e rinascevo sempre. E che dovrei dire della
privazione di Dio, sommo Bene?».

Talora le anime non venivano liberate fin dal momento che la vittima eroica si sostituiva
loro; costei le strappava al castigo per gradi, immergendosi gradatamente nella straziante
espiazione. Allora le anime le apparivano in un aspetto meno desolato. La pena del senso
era terminata; restava quella del danno. L'ausiliatrice tornava ad immergersi nelle torture;
finalmente la liberazione avveniva fra grida di trionfo.

I confessori, sempre esigenti verso di lei, nella loro carità per gli altri, non soffrivano che i
loro protetti patissero troppo a lungo, e arrivavano fino a stabilire il giorno della loro
liberazione. Eppure il debito era così pesante!

Specie in determinate ore o in determinati minuti, Veronica espiava con terribile intensità, e
nel giorno fissato, abitualmente durante il santo sacrificio della Messa, le anime spezzavano
le loro catene e si slanciavano a ricevere il bacio di Dio. Moltitudini di anime le
sorridevano, la benedicevano cantando le misericordie del Signore.

Però, man mano che il purgatorio si vuotava, tornava a riempirsi, e la sublime ausiliatrice
cominciava da capo il suo martirio.

Sarebbe indubbiamente interessante rileggere la liberazione di sua sorella e di sua cugina,


clarisse a Mercatello, di un'altra clarissa a Città di Castello, dei protetti di P. Tassinari, di P.
Guelfi, della madre dello zio della Santa, di certi confratelli di P. Crivelli, del Sommo
Pontefice Clemente XI e di tanti altri; liberazioni descritte con penna calda e viva da
Veronica stessa. Ma limitiamoci al racconto della liberazione di alcune personalità, che
abbiamo conosciute durante questa storia.

Francesco Giuliani non era un buon padre, ma era sempre il padre di una santa. Sebbene
fosse morto in istato di grazia, quale debito aveva da pagare? Sua figlia lo vide in un luogo
spaventevole, così orribile, che si sarebbe detto l'inferno. Ella cacciò il pensiero di una tale
visione temendo che fosse un inganno di satana, ma la visione si ripresentò con grida di
spavento. Allora ella s'impose penitenze su penitenze, e la notte di Natale del 1700, suo
padre le apparve avvolto in una tunica luminosa in mezzo a una schiera di anime, che se ne
andavano a Dio.

La Madre Gertrude Albizzini, vecchia abbadessa del convento di Città di Castello, si spense
il 2 settembre 1704. Appena avuta notizia di questa morte, la vittima domandò di soffrire
per tutto il resto della sua vita a pro dell'anima della sua antica superiora, stata così dura con
lei. Gesù si contentò d'immergere un chiodo della sua Passione nel cuore ferito della sua
serva. Il dolore fu così vivo da sembrare che le ossa le si dividessero; ma l'anima della
defunta volò subito al cielo.

Ricordiamo suor Angelica l'incorreggibile avversaria di Veronica? Ora doveva saldare il suo
grave debito.

La Santa la scorse nel fondo di un nero precipizio, popolato di tormenti. Era forse l'inferno?
Una moltitudine di anime vi sopportava orribili torture, ma una di esse, suor Angelica,
soffriva più delle altre. Era dunque l'inferno? Ma poteva anche essere il purgatorio, e la
generosa ausiliatrice si mise all'opera di salvezza.

Finalmente, oh, felicità!, seppe che suor Angelica era nel purgatorio, e che Dio aveva
applicato ad altre anime i suffragi di Veronica. Per varie notti, di seguito, fu rivelato altresì
alla vittima espiatrice le colpe, che avevano precipitato in quell'abisso la sua compagna di
un tempo.

Da prima vide l'anima di suor Angelica, tremante e trapassata da spade acuminate, sulla
cima di una stretta colonna espiando così le colpe di disubbidienza alle superiore e ai
confessori, colpe non confessate durante la vita e che, senza la mediazione di Veronica,
l'avrebbero trascinata all'inferno. Poi la vide come un'ombra, distesa sopra un letto di fuoco
accusandosi di avere obbedito più alla natura che alle mortificazioni. Più tardi la vide
imprigionata in uno stagno di ghiacci, per aver fatto troppo fuoco nell'inverno con disprezzo
dell'altissima povertà. Poi con le ossa come rotte, per aver troppo accarezzato la vita
comoda. Infine i tormenti principiarono a diminuire d'intensità, e l'anima sofferente,
sentendosi sollevata, non finiva di supplicare la Santa, perché non l'abbandonasse. Tuttavia
seguitava a soffrire per aver conservato in cella oggetti superflui. «Guai, diceva, ai superiori,
che mi hanno permesso di trasgredire così alla regola!».

Veramente l'anima di suor Angelica, era stata condannata al purgatorio fino al giorno del
giudizio universale a causa dell'orgoglio, che le aveva nascosto le sue colpe e le aveva fatto
credere di essere il canale delle grazie divine. Questa seria rivelazione fu accompagnata da
una rivelazione consolante:

Veronica poteva prendere su di sé le pene meritate dalla morta. Intuiamo ciò che allora fece
e soffrì la Santa! Il fatto è che, il mese dopo, avvenne la liberazione della colpevole.

Conosciamo il P. Vital, il Frate minore riformato, che, con Mons. Eustachi, aveva
controllato la realtà delle stimmate. Stupito della santità di Veronica, le aveva chiesto di fare
un patto: cioè, che, chi morisse per primo, avvertirebbe il secondo sul proprio stato. Un
giorno, fatta la comunione, vide un braccio, infilato in una manica francescana, agitarsi
davanti ai suoi occhi, e udì una voce sospirare: «Aiuto! Aiuto!». Temendo un'illusione dei
sensi, Veronica si approfondì nel raccoglimento; ma, un poco più tardi, si sentì scuotere
forte forte per un braccio: «Sono io, P. Vitali; ho mantenuto il patto. Sono nella miseria;
abbiate pietà di me!».

Il braccio di Veronica, intirizzito dalla scossa, restò freddo di ghiaccio fino alla sera. Con
ciò ella espiò per il frate, l'anima del quale, così, poté ricevere l'abbraccio del Signore.

P. Cappelletti, il più zelante e devoto dei confessori della Santa, che prendeva
quotidianamente appunti sugli avvenimenti che riguardavano la sua penitente, uomo di
virtù, morendo, cadde nelle mani della Divina Giustizia. Ciò avvenne verso la fine del 1711.
Che dolorosa sorpresa fu per Veronica vederlo confinato in un luogo buio e solitario, sotto il
peso di una cappa di fango. Ottenuto dalla Vergine il permesso di patire invece di lui, con
ardore si precipitò nei tormenti. Giornalmente egli le appariva, ma era sempre triste e
sempre sotto il peso di quella cappa di fango. Fumo e fumo usciva dalla sua bocca
velandogli la faccia. Però, più che i giorni passavano, la sua prigione diveniva meno buia,
ed egli supplicava la sua figliola spirituale di soccorrerlo. Ma non c'era davvero bisogno di
una tale raccomandazione. Padre Cappelletti, intanto, era sempre meno triste e già una luce
dall'alto irradiava la sua fronte. Il 14 di gennaio del 1712 non era ancora liberato. Il fatto
doveva accadere il 2 di febbraio, il giorno della Purificazione di Maria. L'espiatrice soffriva
di questa dilazione. «O Maria, pregava, io non abbandonerò il posto dove mi trovo, prima
che mi abbiate esaudita. Parlino i vostri dolori e le piaghe di Gesù; parlino le mie stimmate e
la ferita del mio cuore! Datemi pure un nuovo purgatorio più terribile degli altri, ma voglio
libero il Padre dell'anima mia!». La grazia era concessa, ma ad una condizione: che ella
soffrisse tre ore per ogni giorno fino alla purificazione. Veronica poteva soffrire, e soffrì con
gioia. Finalmente il Padre della sua anima vide la faccia di Dio.

Fra le persone colte, che constatarono il duplice miracolo della corona di spine e delle
stimmate, c'era il dottor Fabri, medico del convento. Egli aveva diritto alla riconoscenza
della sua santa cliente.

Un giorno Veronica era al confessionale, quando udì i rintocchi di una campana, che
annunziava la morte del buon dottore. Il confessore interpretò il desiderio segreto della sua
penitente, e le ordinò di chiedere alla Madonna la grazia di soffrire le pene del purgatorio in
luogo del povero defunto. La grazia le fu concessa parzialmente: Veronica doveva prendere
su di sé la sola pena del senso. E, infatti, per nove ore di seguito, sopportò i più terribili
supplizi. Finito il martirio, il confessore le ordinò di sostenere anche le pene del danno.
Nuovo supplizio, mille volte più crudele del primo; durò sei lunghi giorni. Poi l'ausiliatrice
ebbe una visione. Durante la Messa, Maria, circondata dai suoi Angeli, versò sull'anima del
morto il calice dei meriti soddisfatori di Gesù e di innumerevoli Santi, tra i quali s.
Giuseppe, s. Filippo Neri, s. Antonio di Padova, e la condusse trionfalmente in paradiso.

Che avverrà alla morte della liberatrice del purgatorio? Le anime che ha liberato e che
riempiono il cielo, accorreranno ad incontrarla in moltitudini luminose; la circonderanno
come a corona di gloria, e, con inni di giubilo, l'introdurranno nel soggiorno della pace e del
riposo. Dopo aver tanto sofferto, è giusto che anche lei abbia a godere.

L'eroica vittima ha vissuto abbastanza: è venuta l'ora della consumazione.


LIBRO SESTO

La consumazione della Passione

CAPITOLO UNICO
MALATTIA E MORTE DELLA VITTIMA

A trentatré anni Veronica aveva ricevuto l'avviso che sarebbe vissuta altri trentatré anni per
onorare il tempo, che Gesù passò sulla terra. Il tempo era compiuto, e la morte si
avvicinava.

Tutti i lumi, che lo spirito umano può ricevere, Veronica li aveva ricevuti; tutti i dolori e
tutte le gioie, che l'anima umana può sopportare, ella li aveva subìti o assaporati; tutto
l'amore, che un cuore umano può contenere, ella l'aveva posseduto; tutte le opere, che può
compiere un'attività umana, ella le aveva compiute. Aveva pienamente realizzato il fine
della sua vita essendo stata letteralmente Veronica, cioè, la fedele e viva rappresentazione di
Cristo Redentore. La grazia, in lei, era salita al limite supremo, dopo di che prende il nome
di gloria. Veronica non poteva vivere più, e la morte veniva ora a cercarla.

È già nella sua ultima malattia; diciamo ultima, perché la sua vita era stata un succedersi di
malattie.

A quarantasette anni, dopo uno di quei giudizi così terribili per lei, ma che portavano ad altri
la salvezza, perdette il respiro, e le furono amministrati d'urgenza i Sacramenti. In quello
stato, ricevette dei lumi sulla condotta delle sue novizie, e le fece chiamare ad una ad una
per rivelar loro intimi segreti e per metterle sull'avviso che niente è leggero quando è offeso
l'Amore. Dopo si accusò pubblicamente d'essere una miserabile, una orgogliosa, senza
gentilezza né carità; tale si considerava, e tale si mostrò alle sue figlie, che piansero allo
spettacolo di una così alta umiltà, ed al pensiero di dover perdere una mamma così santa.
Ma non doveva ancora morire e non morì.

Nel 1707, dieci anni dopo, preannunziò un'altra prossima malattia. Lo racconta P.
Cappelletti nelle sue note. Veronica conferma che il Signore «doveva tagliarle un abito di
dolore», che ella porterebbe per trenta giorni. Il male scoppiò nell'anniversario della sua
vestizione, il 28 ottobre, e fece ben presto dei grandi progressi. Il dieci novembre le si
amministrò l'estrema unzione. Allora Gesù, come se non avesse potuto attendere il giorno
fissato, l'invitò di persona, teneramente, all'unione celeste, mentre Maria intercedeva, perché
vivesse ancora. Il dodici novembre, parve che la malata entrasse in agonia; anzi, essa chiese
al confessore il permesso di morire. Il confessore le comandò di seguitare a vivere per il
bene delle anime. Le sofferenze aumentavano. Il cuore le sobbalzava in petto sollevando la
tunica e le coperte del letto della paziente. Tutto il suo corpo tremava. A un certo momento
fu come proiettata nell'aria fuori del letto per opera dei demoni che si accanivano contro di
lei, furiosi di vederla vivere a distruzione del loro regno. Anche questa volta non morì,
perché il suo compito non era terminato. Ma venne poi il suo giorno!

Passati degli anni, ricominciò a predire la sua morte. «Sorella mia, diceva a una delle suore,
dispensando ordini: è l'ultima volta che dò incarichi». «Sorella, diceva ad un'altra:
prepariamoci al momento del rendiconto, perché il tempo è vicino». Invitata dal confessore
a ricevere in udienza una terza suora, ella stessa si recò sull'istante da questa religiosa,
dicendo: «Domani non avrei più tempo».

La morte si avvicinava. Lo predisse anche al confessore aggiungendogli i particolari, che le


aveva detto la Vergine: che, cioè, la malattia durerebbe trentatré giorni, e che, prima di
morire, subirebbe tre duri purgatori. Uno da parte di Dio, e sarebbe stata la malattia stessa;
l'altro da parte dei rappresentanti di Dio, che avrebbero lavorato contro di lei; il terzo da
parte dei demoni, che si sarebbero vendicati prima di vederla entrare nella gloria.

È il 6 giugno del 1727. La comunità s'appresta a ricevere la santa Comunione e Veronica,


che ha terminato la sua confessione quotidiana, accende di persona le candele della grata.
Tutto è pronto: s'avanza con le altre; apre le labbra; il suo viso si illumina nell'estasi.
Ricevuta l'Ostia, mormora: «Me ne vado ...», e sviene. Le suore accorrono, la mettono a
sedere su di uno sgabello; poi la trasportano all'infermeria, e infilano la prima camera che
trovano.

P. Guelfi, il medico Bordiga, il chirurgo Gentili, il Vescovo Mons. Codebò accorrono al


capezzale dell'illustre malata, la cui vita sembrava necessaria alla vita del mondo.

Per rivelazione particolare, come si è detto, ella sa che la sua malattia durerà trentatré giorni,
ma, secondo il solito, agisce come se la rivelazione non sia avvenuta, e chiede al confessore
l'estrema unzione e al Vescovo l'assoluzione in articulo mortis. Non muore: dovrà fare la
sua confessione pubblica e dichiarare che, nei cinquant'anni di vita religiosa, non ha saputo
acquistare alcuna virtù; che è una peccatrice indegna di vivere.

Finalmente cominciano i tre purgatori.

Mio Dio, mio Dio, perché mi abbandoni?

Il suo unico amore, Dio, l'abbandona, si nasconde, tace. Dio sembra svanire nel nulla e che
più non ci sia. Dio la spinge a tutte le sofferenze. La febbre da divora, i nervi le si
contraggono, i denti scricchiolano, le viscere si lamentano come le ossa sotto il peso di tanto
dolore. Dio, abbiate pietà di lei! I medici curano un male che non è della loro portata, la
esasperano fino al parossismo, e la malata non protesta a queste medicazioni inutili e
tormentatrici. Le suore si studiano di sollevare la loro Madre, ma al più piccolo movimento
la fanno cadere in deliquio.

Mio Dio, mio Dio, perché m'hai abbandonata?


I sacerdoti l'assistono alla loro maniera: quella destinata da Dio.

P. Segapeoli, additando sdegnosamente i pannilini che ricoprono le mani della stigmatizzata


esclama: «Ipocrita, togliti codesta roba»! E la povera inferma pronta tende le mani, perché
«l'obbedienza tolga ciò che l'obbedienza ha messo».

Chiede di confessarsi; si confessa, ma non trova le parole nonostante l'intervento delle


suore, che le suggeriscono la formula. Allora le viene imposto brutalmente il silenzio, ed è
trattata di sciocca e di mentecatta. Non può fare il più piccolo movimento?! Su, su, si alzi, e
vada in coro con le altre a cantare l'ufficio.

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonata?

Un demonio prende la figura del Vescovo, e le ordina di abiurare i suoi errori e di


riconoscere pubblicamente che la sua vita non è stata che una trama di illusioni e di
menzogne. Altri, ma quanti!, appaiono in forme spaventevoli e urlano sfacciatamente che la
sua sorte è segnata e che è per sempre nelle loro mani.

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonata?

Il supplizio: sentirsi morire e non morire!

Ha sete. Chiede da bere. Ho sete. La sete s'accende dentro la sua bocca come un fuoco. È
fuoco, infatti, quello che esce dalle sue labbra, che sanguinano. Ha una sete, che, per
vincerla, ci vorrebbero gli oceani. Ma l'ordine dei confessori è questo: non una sola goccia
d'acqua. È possibile? Devono proprio essere obbediti? Ascoltando il proprio cuore e
credendo d'obbedire anche ad una ispirazione divina, suor Gabriella Brozzi corre in
giardino, raccoglie un frutto e lo porta alla cara malata, che, a vederlo, brilla di gioia; mani
invisibili, confiscano subito il frutto. Suor Giacinta bagna un lino in acqua di rose, e tenta di
portar sollievo alla martire, le cui carni si gonfiano e sanguinano; ma appare un'ombra, un
demonio, che rimprovera alla suora la sua disobbedienza, e la paziente implora perdono.
Subisce davvero i tre purgatori annunziatile.

Padre, perdona loro.

Offre al Vescovo le ultime sofferenze a pro dei fedeli della Diocesi, e il corpo come a
protezione di tutti.

Padre, rimetto nelle tue mani il mio spirito.

Stringe nelle mani il crocifisso, e se lo comprime sul cuore. Dice alle suore: «Lo vedete?
L'Amore si è lasciato prendere; ecco il segreto delle mie sofferenze, ed il segreto delle mie
gioie: ho trovato l'Amore!», e ordina loro di cantare l'inno del Verbo Incarnato, il cantico
dell'amore. Ora piange: ha gli occhi pieni di lacrime e sospira: «Oh! lasciatemi piangere
pensando a tanto amore!».
Padre, rimetto nelle tue mani il mio spirito.

Non ha che tre giorni da vivere. Riceve le sante Benedizioni e il Viatico. I demoni fuggono,
le angosce svaniscono, i dolori si calmano; una luce di paradiso è ora dipinta sul suo viso.
Balbetta, dice qualche cosa. Che dice? Chiama lo Sposo: Gesù!, e la mamma sua: Maria! È
in estasi.

Silenzio.

Torna a muoversi. Fa cenno ad alcune suore di avvicinarsi. Ha un fiato di voce.


Raccomanda loro d'osservare la cara Regola dell'Ordine, d'essere ubbidienti alla carità
divina, di volersi bene l'una con l'altra; poi dà loro a baciare il crocifisso.

Il Vescovo pone sulle sue labbra la croce pettorale.

L'agonia sta per cominciare. Si principiano le preghiere per i moribondi. L'agonizzante


ascolta un momento e apre gli occhi estasiati. Che guarda? Ha veduto lo Sposo. Gesù è lì
vicino a lei con Maria, s. Giuseppe, s. Francesco, s. Chiara. La Madonna le fa cenno di
salire alla gloria. Veronica fa come per volare, ma non può.

Tutto è consumato. Ella è stata obbediente fino alla morte e alla morte di croce.

La sua malattia è durata trentatré giorni; la sua vita, due volte trentatré anni; il suo immenso
compito di vittima è, dunque, compiuto? È Maria che la chiama presso il Padre! Veronica,
allora, guarda il confessore con occhio di implorazione. P. Guelfi non comprende bene e
riprincipia la recita delle preghiere esortando la santa al pentimento, ma questa non fa che
guardarlo insoddisfatta. Finalmente il confessore capisce. Ricorda come molte volte ella gli
avesse dichiarato di voler morire in un atto di suprema obbedienza, sull'esempio di Gesù.
Allora egli si raccoglie e, con voce strozzata dalla commozione, dice: «Io, ministro di Dio,
se tale è il suo volere, ti ordino di uscire dal mondo». Veronica gira gli occhi tutto intorno
sopra le suore; poi inclina la testa, e rende lo spirito.

Era il 9 luglio del 1727, di venerdì.

Lettore mio, spingiti un giorno fino a Città di Castello, penetra nel monastero delle
Cappuccine, visita la cella della santa, e vedrai il letto dove ella si addormentò nel bacio del
Signore 20. Vedrai altresì sul guanciale le tracce dei suoi sudori d'agonia, e bacerai questa
reliquia come se tu baciassi il sangue del Golgota.

Veronica, nella vita come nella morte, vera e viva immagine di Gesù redentore.
LIBRO SETTIMO

Il sepolcro glorioso

CAPITOLO I.
I FUNERALI TRIONFALI

«La Santa è morta! La Santa è morta!». La notizia si diffuse in un baleno col suono a morto
delle campane.

Nonostante le prescrizioni del S. Uffizio, che, per prudenza, voleva Veronica circondata di
un silenzio di tomba, la Santa godeva di una stima quasi mondiale. Chi non scriveva, chi
non accorreva a Città di Castello per raccomandarsi alla mediazione della gloriosa
stigmatizzata? Anche dei Sovrani avevano chiesto la grazia di conferire con lei, ma l'ordine
era formale: nessuno estraneo poteva avvicinarla e parlarle; toccava a madre Florida Cevoli,
vicaria, a ricevere le visite e a rispondere. Violante di Baviera fu la sola che ottenne di
entrare nel convento, e poté guarire i suoi occhi con la visione delle stimmate. Altri, come
Cosimo III, duca di Toscana, e l'Imperatore Carlo II, dovettero accontentarsi di inviarle
ambasciatori per implorare i suoi lumi e i suoi aiuti.

«La Santa è morta»! Tutta la città fu in movimento. Tutti accorrevano alle porte del
convento; anche dalla campagna salivano folle di pellegrini alla città della Santa, che tante
grazie aveva fatto piovere sulla terra. La fiumana di popolo attese all'aperto tutta la notte il
momento di potere entrare a rendere omaggio alla morta. Era una vera glorificazione.
Quando il popolo, finalmente, poté entrare in chiesa, avvenne un tumulto indicibile, tanto
che la salma fu riportata nell'interno del convento. All'indomani i funerali solenni. Il
governatore, la nobiltà, il clero, tutti i gradi sociali si trovarono riuniti in un cordoglio
unanime, celebrando le virtù della defunta.

In precedenza, il Vescovo aveva convocato il governatore Torreggiani, il pittore Lucantonio


Angelucci, il medico Francesco Bordiga, il chirurgo Francesco Gentili, il cancelliere Fabri,
il notaio principale, i confessori del convento e i principali della città per procedere
all'autopsia.

Com'è risaputo, la Santa, quando era in vita, aveva minuziosamente descritto nel Diario
l'interno del suo cuore, raccontando che vi si trovavano impressi, con altri emblemi, tutti gli
strumenti della Passione. Con una santa curiosità, dunque, estrassero il cuore alla morta e
glielo aprirono. La piaga era tanto profonda, che lo attraversava da parte a parte. Essa
esisteva da trent'anni e, contrariamente alle leggi della biologia, era sempre viva. Miracolo
che non si fosse cicatrizzata e non fosse divenuta purulenta! E che profumo ne uscì! I
testimoni ne furono penetrati.
Esaminarono, così, il mistero che quel cuore racchiudeva. E che videro? Riprodotta al vero
la descrizione fatta dalla Santa: i muscoli, di colore bruno, formavano la croce, la corona di
spine, la lancia e la canna legate insieme, l'iscrizione, i martelli, i chiodi, lo stendardo di
Cristo-Re, le due fiamme simboleggianti l'amore di Dio e l'amore del prossimo, le sette
spade dell'Addolorata, e le iniziali del nome di Gesù e di Maria con quelle delle grandi virtù,
che la Santa aveva praticato in maniera particolare.

La storia aveva mai riferito una simile meraviglia?

L'autopsia rivelò altre cose straordinarie: fu constatata la miracolosa incurvatura della spalla
sotto il peso della croce, e, sulla carne, le innumerevoli cicatrici lasciate dalle tanaglie, dal
temperino e da altri strumenti di penitenza.

Il corpo, il cuore e il processo verbale dell'autopsia, furono racchiusi in una cassa di quercia,
che venne deposta nel cimitero interno del monastero. Il 4 marzo del 1728, Mons. Codebò
fece esumare questi resti, che furono sepolti sotto il coro della cappella. Attualmente si
trovano sotto l'altare maggiore del convento e nei giorni di festa sono esposti alla
venerazione dei fedeli.

All'indomani dei funerali, fu iniziato il processo in una atmosfera di miracoli. Numerosi


testimoni furono citati e uditi, tra gli altri i chirurghi e i medici, che avevano curato la Santa;
i sei confessori, le suore del convento, la sorella maggiore, che era Clarissa a Mercatello.
Cinque mesi dopo la morte della Santa, l'incarto era completo e, un anno più tardi, Mons.
Vescovo domandava l'introduzione della causa.

La beatificazione fu proclamata da Pio VII, e fu celebrata a Città di Castello con grande


concorso di fedeli, esultanti nel rendere omaggio a quella che essi consideravano l'onore
della Chiesa e la gloria del paese 21. Lungamente ritardata a causa di ogni genere di
avversità nel campo sociale, la canonizzazione avvenne il 26 maggio del 1839, sotto
Gregorio XVI.

I promotori del processo non ebbero difficoltà a dimostrare il grado eroico delle virtù di
Veronica, e i carismi o i doni soprannaturali, che aveva ricevuti.

È ciò che anche noi vedremo nel seguente capitolo.

CAPITOLO II.
LE VIRTÙ EROICHE

Siamo sulla soglia di un santuario, dove il divino investirà i nostri sensi, penetrerà le nostre
potenze, e le nostre labbra ripeteranno con Giacobbe a Bèthel: Questa è la casa del Signore.

La santità di Veronica è una montagna. Tenteremo di salirci pur disperando di poter arrivare
su in cima.
Veronica emise il voto della maggior perfezione, che realizzò appieno. Vediamo l'eroicità
delle virtù che praticò nei rapporti con se stessa, col prossimo e, soprattutto, con Dio.

Creatura umana, era composta di corpo e di anima. Ora, la mortificazione aveva piantato
una croce alla porta di ciascun senso, una croce ai cui piedi scaturiva una sorgente di
sangue. Dopo la sua entrata in religione e, anche prima, aveva mai concesso a se stessa una
soddisfazione di natura? No: s'era immolata ogni giorno. Non abbiamo forse provato dei
fremiti di spavento alla vista delle penitenze che s'imponeva, le quali, al dire di P. Crivelli,
l'avrebbero uccisa senza un miracolo? Fu fedele alla sua altissima vocazione di vittima.

La vittima deve esalare profumo d'incenso. L'Altissimo, come potrebbe gradire oblazioni
impure?

Veronica era un angelo. Il mondo aveva cercato di imbrattarla col suo fango, ma invano. I
demoni l'avevano lungamente tentata affacciando ai suoi occhi scene carnali; l'avevano
anche colpita con rabbia, ma senza poterla profanare.

Era un tempio inviolato dove Dio trovava le sue delizie; era il giardino chiuso, la fonte
sigillata di cui parla la Scrittura, e riserbava le sue copiosissime acque ed i suoi frutti per
l'unico Amore. La sua purezza cresceva a misura che le apparizioni celesti baciavano, con le
loro labbra luminose, la fronte verginale, e dalle sue piaghe salivano profumi che
imbalsamavano l'aria purificando il mondo. Se il cielo era rattristato dal quadro della terra
immersa nella corruzione, lo sguardo di Dio si riposava sulla compagna dell'anima eterea,
descritta dal Cantico dei Cantici, per la quale Dio stesso ha composto l'epitalamio:

Tu sei tutta bella!

La vittima cadde da se stessa nel suo abisso originario, il nulla. Fornita di tutti i doni della
natura e di tutte le prerogative della grazia, era inaccessibile agli assalti dell'orgoglio. Il
cielo sembrava discendere presso di lei come per provare un aumento di felicità, ma ad ogni
nuova sua apparizione, Veronica manifestava la sua nullità e la sua miseria. «No, no; non
richiedo questo, ma voglio delle croci; delle croci per l'espiazione dei peccati». E, convinta
di non meritare che castighi, in un primo tempo respingeva le visioni come manifestazione
del maligno.

Bisogna leggere il suo Diario. Costretta dall'obbedienza, da Dio stesso, a riferire tutte le
grazie che riceveva, ubbidiva con tristezza ed era felice soltanto quando poteva annotare le
presunte infedeltà della sua vita. Questo «Diario» è un bagno, in cui il lettore lascia tutte le
colpe dell'orgoglio.

Bisogna seguirla passo passo. Mentre i suoi confessori, come P. Crivelli, attestavano che
non c'era nulla di cui ella si potesse accusare al tribunale della penitenza, Veronica invece si
proclamava la più grande peccatrice del mondo, addirittura lo scandalo del monastero.
D'una superiorità senza pari, si stendeva, per così dire, come un vile tappeto ai piedi delle
suore, supplicandole quasi di camminare sopra di lei per disprezzo. Quando le si voleva dare
una carica qualunque, gemeva dal dolore. Non senza difficoltà, Mons. Eustachi le rimise
l'insegna di Abbadessa; non ne voleva sapere, perché, secondo la testimonianza di P.
Crivelli, non si credeva capace di governare una corte rustica. Due volte sole fu veramente
felice, quando, cioè, il S. Uffizio la coprì di confusione e quando, sotto la direzione della
brutale conversa, in cucina, al lavatoio o altrove, passava come la più inutile del convento.

Offriva i sensi al coltello dell'immolazione, lo spirito alle ferite dell'ignominia, la volontà


alla prigionia dell'ubbidienza. Era nata indipendente e anche dominatrice, ma l'amore divino
seppe ben presto renderla dolce e mansueta.

Fin dal noviziato si diede premura di conformarsi in tutto ai voleri della suora Maestra, e poi
fece l'eroico voto di obbedire non al direttore di sua scelta, ma a tutti i confessori, quali essi
fossero, cui fosse affidata la sua coscienza. E guanto le costò il voto, quando si trattò di
rivelare per ordine i divini favori! Ma in questa materia, l'osservò pienamente? Pare di no,
perché il Signore la rimproverava spesso e non voleva che tacesse le grazie, che, per
edificazione degli altri, ella doveva manifestare. Per tutto il resto, quale fedeltà! Un giorno,
sentendosi dire in confessionale che meritava il fuoco, non esitò niente: corse in cucina, e si
sarebbe gettata davvero nel fuoco, se una compagna, spedita d'urgenza dal confessore, non
l'avesse trattenuta. Gesù e Maria avevano un bel suggerirle questo o quell'atto, questa o
quella pratica di penitenza; non ubbidiva che dopo averne ottenuta licenza dai confessori. La
vedremo seppellirsi come in un lenzuolo di ubbidienza. Scriveva: Suor Veronica, figlia
dell'obbedienza.

Eroica nei suoi rapporti con se stessa, lo era egualmente nelle relazioni con gli altri. Quali
virtù ella praticava a riguardo del prossimo? Lo sappiamo: la carità fraterna sotto il nome di
zelo, di pazienza, di compatimento e di devozione assoluta. Alla violenza, alle
contraddizioni, alle ingiustizie, opponeva una invincibile dolcezza. Le sue stesse avversarie
divenivano le sue amiche più care, perché maggiormente beneficate dalle sue premure. Ella
si sacrificava per tutti.

Durante una certa estate, gli insetti, le mosche, ed altri animaletti avevano invaso il
monastero con gran disturbo della comunità. Veronica ne ebbe compassione. Usando del
suo potere taumaturgico, ordinò alla moltitudine dei non necessari di passare nella sua
camera. Sull'istante, da tutti i punti del convento, essi si rovesciarono dentro il nuovo campo
di Marte. Il letto, i muri quasi scomparvero sotto le fila serrate di tanti nemici. C'è da
immaginare, con la fame che avevano, quanto avranno tormentata la Santa! Finalmente,
valendosi del suo potere, ordinò loro di partire, e quelli scomparvero.

In convento c'erano suore interne ed esterne.

La Santa portava anche queste ultime nel pensiero e nel cuore. Una di esse un giorno
contrasse una malattia ripugnante. Veronica, Abbadessa, di nascosto, alla porta di clausura,
medicava con mani materne il ributtante cancro. Di tutto si dava pensiero, anche delle
domestiche e dei facchini, che trattava con grande rispetto. Non si dimenticava dei poveri,
amici di Cristo, e privava se stessa pur di nutrirli.

La sua carità non aveva nulla di duro né di affettato. Naturalmente nobile nel portamento e
nei gesti, si rendeva come s. Francesco: amabile e cara. Era la cortesia in persona.

Eroica sempre, anche verso l'Ordine cui apparteneva, si mostrava come il difensore
appassionato, il cavaliere senza macchia e senza paura della Regola. Per le Figlie di s.
Chiara, la regola si riassume nella povertà, in quella povertà, che è figlia dell'amore e madre
delle altre virtù. Veronica era appunto lo splendore della privazione: un solo libro, la
Regola; sulla veste, che portava da tanti anni, si contavano fino a 98 rattoppi. Per obbedire
alle preghiere insistenti della sua vicaria, suor Florida Cèvoli, si decise a cambiarla con una
tonaca meno usata, ma volle riceverla a titolo d'elemosina e nell'atteggiamento di
mendicante.

La nipote di Clemente XI ed altre personalità, si provarono ad offrirle dei regali di molto


pregio, che lei subito mandò al Vescovo. Abbadessa, tollerava presso di sé i demoni sotto
forma di rettili o di animali, ma non sotto forma di cose di valore. Specialmente le novizie
erano allevate al culto della grande virtù; le invitava a trovare la loro felicità nella
privazione del necessario e a raccogliere da terra anche i più piccoli avanzi di filo. Quando
vedeva delle provvigioni troppo abbondanti, sgridava le dispensiere e faceva portare il
superfluo fuori del convento.

Eroica nei suoi rapporti con Dio. La fede, la speranza e la carità erano la vita della sua vita,
e i dogmi s'incarnavano in qualche modo negli avvenimenti in cui scorreva la sua esistenza;
eppure, nell'ora delle forti tentazioni o dei mortali languori, le sembrava che Dio non
esistesse.

Quanto le stava a cuore la fede! Con che fermezza scriveva: «Credo ciò che crede la Chiesa
Romana». Avrebbe voluto diffonderla tra gli infedeli anche a prezzo della vita. Un'ombra di
tristezza le solcava la fronte al pensiero di non essere missionaria: con la croce in mano, col
credo nel cuore e sulle labbra, chi avrebbe potuto resistere al suo zelo?

Esercitava la speranza quasi più della fede, perché Dio sembrava abbandonarla lasciandola
in potere di Satana. Infatti diceva sempre piena di fiducia: «Io sono un verme vile e abietto;
io sono niente, ma Dio è potente. Mi affido alla sua potenza: lui combatterà per me. Io mi
gloria nella sua gloria infinita, spero nella sua misericordia, mi getto nelle braccia della sua
immensa carità. Più m'avvicino a Dio, più le mie forze raddoppiano, e più mi sento pronta a
lottare anche contro tutto l'inferno, se occorre. Non sono che un nulla, ma più l'abisso del
mio nulla è profondo, più mi riposo nella considerazione degli attributi divini. Mi fermo su
quello della misericordia, e, come in uno specchio, vedo di quale amore Dio mi ha amata e
mi ama ancora. Io spero in questo Amore ...».
Il suo amore era l'unione a Dio per mezzo dell'Uomo-Dio. Ma è venuto il momento di
considerarla non più come la consolatrice di Gesù crocifisso: contemplare, invece, il mistero
della sua unione con lui.

Perché il Verbo si è fatto uomo? Perché l'uomo, per mezzo della sua Umanità raggiungesse
la Divinità. Io sono la via; nessuno va al Padre se non per mio mezzo. Con una guida
soprannaturale, Veronica, dunque, si univa all'Uomo-Dio per consumarsi in Dio. Gesù era lo
spettacolo dei suoi occhi, l'occupazione del suo pensiero, tutto il suo sogno. Il crocifisso e le
sante immagini ricoprivano i muri del convento, ed ella li benediva e trasaliva alla loro
vista. Gesù era tutto vivo nel suo spirito e nel suo cuore. Lo possedeva e non cessava mai di
aprirgli la porta del suo cuore. Sia che camminasse o che stesse ferma, che meditasse o fosse
occupata in lavori manuali, col pensiero lo seguiva nei misteri della sua vita e della sua
morte.

Un giorno le fu detto: «Butta via ogni libro; io sono la tua unica fiamma». E quanto, sotto
questa luce, progrediva nello spirito!

L'unione si opera con la preghiera.

Il presepio, che attrattiva per lei! Perché il fanciullino non era Dio stesso, al quale l'Amore
aveva adattato una veste di carne?

Nella circostanza del Natale, le Cappuccine erano solite di esporre un Gesù Bambino di
cera, e lo portavano processionalmente attraverso la clausura e i dormitori. Una volta, che
Veronica ne era la portatrice, il piccolo Gesù di cera si animò con immensa sorpresa e gioia
delle suore. La Santa stessa gioì di uno spettacolo ben più grande, perché il Dio-Bambino le
si attaccò al collo colmandola di carezze.

L'unione si opera con la partecipazione al giubilo dell'Uomo-Dio.

Dopo il presepio, la Croce. Veronica viveva ai suoi piedi meditando il nuovo mistero. Era
Dio, e l'amore lo aveva crocifisso. Davanti al presepio ella aveva pianto di tenerezza, ora
piangeva di compassione. Se in refettorio leggevano il racconto della Passione, Veronica
non mangiava, piangeva come per la via crucis, e piangeva pure quando accudiva ai lavori
giornalieri, perché il suo pensiero, come il passerotto al suo nido, ritornava sempre al
Calvario. Dio aveva sofferto: ella voleva soffrire con lui, con il suo Dio, ed aveva ciò che
desiderava. Gesù la chiamava l'amante della croce, e la teneva distesa sulla croce
comunicandole le sofferenze della croce. Veronica aveva la consolazione di dire con s.
Paolo: Con Cristo io sono inchiodata alla croce: stigmata Domini Jesu in corpore meo
porto.

L'unione si attua col partecipare alle desolazioni dell'Uomo-Dio.

L'altare. Sull'altare, Dio è immolato dall'amore ogni giorno, fatto prigioniero e pane di vita.
È lui in persona, e non più in immagine. Veronica non si era forse cambiata in angelo
adoratore? Non poteva abbattere il muro, né spezzare la grata per abbracciarlo nel
tabernacolo, ma bastava che il sacerdote entrasse nel chiostro del convento per portare Gesù
ai malati: non era possibile trattenerla. Volava a baciare il ciborio del suo Dio. Avesse
potuto essere sacerdote! Diceva che ne sarebbe impazzita e morta di gioia.

Non poteva comunicarsi per quanto avrebbe voluto. Era costume a quei tempi che la
comunione si facesse due volte la settimana: il venerdì e la domenica. Ma ella aveva fame:
come non comunicarsi ogni giorno? Il confessore non ne voleva sapere, ma Dio finì per
accontentarla. Infatti veniva miracolosamente a riposare nelle sue labbra. Anche il
confessore, poi ci si piegò, e lei, ogni mattina, poteva ricevere il Dio vivo d'amore. Così nel
suo spirito si accendevano lumi superiori ed il suo cuore ardeva di fuoco. Vederla! Il suo
viso aveva dei riflessi di porpora e la sua bocca conservava per tutta la giornata un profumo
di paradiso, che si espandeva per il convento.

Dopo la comunione, l'Amore le faceva compiere delle amabili stravaganze.

Un giorno, ad ora insolita, Veronica si dètte a suonare le campane del convento. Al segnale,
tutte le suore corsero in coro. E che videro? Veronica suonava a distesa per proclamare al
mondo che Dio è amore e che bisogna amare l'Amore.

L'Abbadessa le ordinò di lasciare le funi, ed allora soltanto Veronica uscì dall'estasi,


riconobbe le suore, e fuggì supplicando Dio di non permettere più che l'incendio dell'anima
si manifestasse al di fuori. Madre Albizzini le rimproverò la stravaganza; ma aveva mai
sperimentato gli effetti dell'amore santo?

Veronica sapeva che Gesù è presente con una presenza reale d'influenza e d'azione, nelle
anime dei giusti, e gli teneva fedele compagnia in questo vivente tabernacolo. Di più sapeva
che Gesù è presente corporalmente sull'altare, ed è lì che andava ad adorarlo ed a
supplicarlo quando c'era un ostacolo duro da vincere e una grazia da ottenere. Sapeva di
poter comunicare sempre con la Divinità ovunque presente, e la sua anima non cessava di
gustare questo pane degli angeli, ma sapeva pure che una tale comunione non è veramente
profittevole se non per mezzo della comunione all'Umanità. Perciò voleva alimentarsi di
Dio, alimentare Dio di se stessa per assimilarsi a Dio: compiere la duplice alimentazione col
mezzo dell'Uomo-Dio.

L'unione si opera per mezzo della comunione sacramentale.

Ma c'è anche un altro modo d'unione.

In Gesù Cristo la Santa Umanità si riassume nel cuore, simbolo e organo del suo amore
verso il Padre, del suo amore verso gli uomini; Amore che s'incarna, s'immola, si dona e
porta a Dio.

Non meravigliamoci che il Signore ispirasse anche a s. Veronica, la devozione al S. Cuore.


Straordinario il numero d'apparizioni nel corso delle quali le manifestò il suo cuore, e glielo
manifestava non solo per rammentarle il suo amore verso gli uomini, e per invitarla a
compatire la ferita aperta, ma anche perché vi penetrasse come in un vivo soggiorno, e vi
realizzasse il mistero della divina unione.

Del resto il Signore le veniva in soccorso. «Di chi è il tuo cuore, Veronica?».

«È tuo, Signore».

«Di chi è il tuo cuore?», le ripeteva una seconda e una terza volta.

«È tuo, Signore».

«Poiché, dunque, è mio, lo prendo».

E il cuore di Veronica era nel cuore di Gesù. Gesù rispondeva così alla preghiera della
Santa:

«Aprimi il tuo cuore, affinché io entri in te per questa porta, e divenga uno stesso essere con
te». Ma era per fare di più. Gesù prese il proprio Cuore e lo depositò nel petto di Veronica,
dicendo: «Ama e vivi nel mio cuore».

L'unione si opera per mezzo della devozione al S. Cuore, e l'unione è perfetta, perché non è
unione di semplice grazia, ma unione d'amore, unione trasformante.

Gesù le serviva di cuore, Gesù era la vita di Veronica, il suo io: alter Christus.

E Maria? Maria è il complemento di Gesù. La Santa non poteva unirsi a Gesù senza unirsi a
Maria, di cui ella difatti condivideva i dolori come condivideva quelli di Gesù. Viveva di
Maria e di Gesù, ed era per mezzo di Maria che viveva di Gesù.

L'unione si opera per mezzo della devozione a Maria Santissima, e l'unione è perfetta.

Cristo trasportava la Santa nella Trinità gloriosa che contemplava, e si proclamava «figlia
del Padre, sposa del Figlio e discepola dello Spirito Santo». Cristo la trasportava nella
divina unità, dove ella si riposava con le tre Persone in seno agli attributi eterni, nella luce e
nell'amore.

Guai a lei! Viveva, infatti, in un corpo mortale, la vita stessa di Dio, la vita d'amore.
Quest'amore era troppo ardente, e lei doveva sostenere un martirio d'amore. Oh, le grida che
le abbiamo sentito indirizzare al cielo nelle fiamme di un simile incendio! Ma anche beata
lei! L'amore, a poco a poco, prendeva in lei la forma che ha nella gloria, cioè, l'ebbrezza
della beatitudine. Scrive a proposito in diverse pagine del Diario: «Ho sperimentato l'amore.
La mia anima è immersa nell'immensità di questo mare; l'amore trasforma la mia anima
nell'amore stesso. La mia anima è in Dio. Dio è nella mia anima. Dio parla con la voce del
silenzio, l'anima risponde, ma la sua risposta è l'eco della voce di Dio, che in lei ama se
stesso. La mia anima, con l'amore, sembra che conosca Dio in Dio stesso e condivida la sua
felicità eterna. Dio la tira a sé con trasporti, slanci, rapimenti, frutti dell'amore, e la
conoscenza nuova di Dio produce una nuova trasformazione in Dio».

Quasi identificata in Dio, come s. Francesco, ella guardava le creature con l'occhio di Dio,
le amava col cuore di Dio e ne godeva con la sapienza di Dio. Ecco perché cantava sotto gli
alberi del giardino del convento e sotto le stelle del cielo.

Quale eroismo di virtù! Eppure Gesù, che la teneva così spesso in ritiro, le faceva dei duri
rimproveri; le prendeva il cuore, anzi, e ne faceva uscire di gran mali. Ma non era lei, che
aveva peccato. Lei amava. Per amore si era costituita cauzione dei peccatori, e il Signore
rimproverava in lei i peccatori, e la liberava dalle sozzure di costoro.

Veronica, gioia di Dio! Ed era davvero la gioia di Dio per l'eroicità delle proprie virtù. Lo
vedremo nel nuovo capitolo.

CAPITOLO III.
LE VIRTÙ EROICHE NEGLI UFFICI

Oltre alle sante pratiche, così numerose e lunghe, quante occupazioni hanno i contemplativi!
Il monastero: un alveare dove le api lavorano senza far rumore, in silenzio.

Veronica adempì successivamente a molti lavori: fu cucini era, lavandaia, stiratrice,


guardarobiera, credenziera, infermiera, giardiniera, sagrestana. Sempre ingegnosa e svelta,
in un'ora sbrigava il lavoro, che ad altre avrebbe richiesto un giorno di tempo. Delicata e
coscienziosa, faceva le cose con ordine e compitezza: era umile, paziente e amava più di
ubbidire che d'essere ubbidita.

Sappiamo che la Provvidenza le assegnava come compagne le più antipatiche del convento;
ma lei, caritatevole, correva gioiosa alle occupazioni più vili e pesanti. Era presente a tutto,
luminosa, carezzevole come un profumo, incoraggiante, benefica. Andava e veniva. E le
suore, forse, sapevano che, durante la giornata, non aveva accostato niente alla bocca? Che i
chiodi della Passione le avevano torturato i piedi e le mani? Che la piaga del cuore le aveva
fatto sangue nel trasportare bracciate di legna? Che aveva passata la notte alle prese col
demonio, nei bracieri dell'inferno o sulla croce d'espiazione?

Certamente amava queste occupazioni, ma quei lavori ripugnavano alla sua natura delicata e
fine e alle sue attrattive per la contemplazione.

Le sue mani ci soffrivano a toccare la materia quanto le sue ginocchia, quando non potevano
star piegate nell'orazione ai piedi dell'altare. Ma sapeva vincere il disgusto.

Quegli odori della cucina e dell'infermeria! Ma vi rimaneva imperterrita nonostante le


proteste interiori. Per lungo tempo fu infermiera. Passava la notte sui gradini del piccolo
altare, vegliando, e portava aiuto alle malate con un sorriso pieno di dolcezza materna.
Come ristoro, metteva in cella uno di quei pesci che aborriva, e ce lo lasciava a imputridire;
poi ci si metteva sopra col viso a respirarne l'esalazione fetida. Non contenta, era capace di
ingerire l'avanzo di un impiastro per punire se stessa di averne avuto nausea. O vincersi o
morire! E il miracolo ricompensava il suo eroismo.

Vi son cariche che conferiscono autorità e comando. Queste cariche le apparivano come una
croce e un supplizio. Ciò non ostante nel 1688 (non aveva ancora ventotto anni) fu eletta
maestra delle novizie. Il S. Uffizio la sospese dalle sue funzioni per cinque anni, dal 1699 al
1704, ma poi bisognò che si arrendesse alle insistenti domande della comunità, che voleva
la migliore, e ristabilì Veronica nella carica. Più tardi, benché la Santa non ne volesse
sapere, fu eletta Abbadessa. Il S. Uffizio volle umiliarla e dichiarò che Veronica non
sarebbe stata capace di governare un pollaio. Allora P. Crivelli ricorse a Papa Clemente XI,
perché volesse fare giustizia alla più santa e saggia delle donne. Gloria alla comunità!
Richiese ed ottenne che Veronica divenisse insieme maestra e Abbadessa, la duplice.
funzione, che conservò fino alla morte.

E fu una maestra perfetta. Prima di tutto insegnò alle novizie la dottrina cristiana, e lo fece
con tanta esattezza e profondità, come dice P. Crivelli, quanto un dottore di Roma. Poi le
istruì sui precetti della Regola e sugli obblighi dello stato religioso. Insegnò loro il dovere di
«spogliarsi delle mani per mezzo della povertà, dei sensi per mezzo della mortificazione,
dello spirito per mezzo dell'umiltà, della volontà per mezzo dell'obbedienza». Ma, da vera
figlia di s. Francesco, le spinse a queste virtù, perché pervenissero all'Amore. Ne è
testimone il saluto, che mise in uso nel convento. «Che fai tu, sorella mia? - Amo Dio,
sorella mia».

Spingeva le sue figlie alla perfezione in modo facile e piano risparmiando loro in principio i
sacrifici troppo pesanti.

Il suo motto: «Moriamo a noi stesse per vivere in Dio; facciamo dispiacere a noi per far
piacere a Dio».

Piena di commiserazione verso le sofferenze del corpo e le pene dell'anima, si faceva


infermiera e consolatrice delle sue care figliole, e spesso anche taumaturga; ma non
tollerava infrazioni alla Regola o mancanze contro una virtù qualsiasi. A una giovane suora,
che aveva mancato di rispetto a una anziana, inflisse come penitenza di tracciare con la
lingua cinque croci per terra, d'implorare in ginocchio il perdono e di fare una confessione
pubblica in refettorio. A un'altra, che si lamentava del caldo, mostrò il fuoco del purgatorio,
che si merita con il non mortificarsi; poi le impose d'andare in giardino col mantello sulle
spalle e con due veli sopra la testa, ed esporsi al sole. Quella ubbidì; ma subito si levò un
venticello fresco fresco, che le rese piacevole la penitenza. Veronica, infatti, aveva pregato
Gesù di confortare a quel modo la colpevole.

Pur volendo che le novizie fossero delicate di coscienza e fedeli nelle piccole cose, non
amava: vederle né scrupolose, né tristi. Anzi, durante la ricreazione, si prestava a rallegrarle
con certe sue composizioni poetiche e motti piacevolissimi. Faceva come il capitano, che
trascina i suoi uomini al combattimento al suono di trombe e di tamburi.

Santo noviziato quello di Città di Castello! Il bambino Gesù aveva raccomandato


personalmente alla maestra di spingere le novizie alle virtù dell'infanzia spirituale,
specialmente all'umiltà, e le novizie riuscirono a possedere queste virtù.

Che gioia! Un anno, durante la festa della Purificazione, Veronica ebbe questa visione:
Giuseppe presentava a Maria un vestitino superbo, tutto ricami d'oro e gioielli. Maria lo
prese e ci rivestì Gesù Bambino, che, tutto giulivo, se ne stava in braccio alla Santa. La
Vergine le rivelò che quel vestitino era tessuto con le virtù praticate dalle novizie. Il manto
della Madre di Dio, era ricoperto ugualmente di ricchi ricami, cioè, dei sacrifici compiuti
dalle anziane.

Come Abbadessa, resse la comunità con gli stessi sistemi, che aveva tenuto col noviziato.
Trovò talora nelle professe degli abusi che non aveva riscontrato nelle novizie, e che non
andavano d'accordo con l'altissima povertà. S. Francesco e s. Chiara le avevano denunziato
con indignazione tali abusi, e le avevano ordinato di metterci un rimedio. Ella usò ora la
dolcezza e ora la fermezza, ma fu sempre prudente, e trionfò. Considerava la povertà come
la condizione essenziale per arrivare all'amore, anzi all'autentica manifestazione dell'amore,
e predicava l'amore in termini così caldi, col viso così trasfigurato, che sembrava un
Serafino del cielo. Era di tutte: tanto delle anziane quanto delle giovani; amabile sempre,
anche quando sotto l'abito le si aprivano, sanguinando, le piaghe, o usciva dalle estasi.

Come Abbadessa, doveva pensare anche alle cose d'ordine materiale, e mentre la sua
conversazione era in cielo, sovveniva praticamente alle necessità temporali del monastero.
Ottenne intelligentemente una sorgente vicina, e arricchì di acqua il convento e il giardino;
costruì un lavatoio, e ingrandì il dormitorio. Ci bisognavano aiuti, ma le elemosine
affluivano come per incanto, dopo che la santa povertà aveva ritrovati i suoi altari.

Che era, dunque, la comunità di Città di Castello? L'immagine del cielo. Nessuna
meraviglia, perché vi governava una santa.

Una santa?! No: la Madonna in persona. Veronica era semplice maestra delle novizie
quando, nel giorno della Presentazione del 1708, mise solennemente se stessa e il noviziato
nelle mani della Madre dei dolori. La formola di consacrazione fu data al confessore, che,
durante la Messa, la depositò sull'altare. Gesù gradì l'atto e Maria, con grazie e miracoli
innumerevoli, dimostrò d'essere divenuta Madre e Maestra del caro e piccolo gregge.

Quando Veronica fu eletta Abbadessa, le consegnarono ciò che spetta alla Superiora, ma lei
non toccò nulla: e chiavi della casa, Regola, sigillo dell'ordine, tutto offrì a Gesù vittima e a
Maria, la cui statua era al posto d'onore. «Eccola, diceva alle suore, eccola la vostra
Abbadessa». E Maria, che aveva acconsentito ad essere la maestra, divenne anche
Abbadessa effettiva delle Cappuccine di Città di Castello. «D'ora in avanti, lascia pure a me
la cura di tutto», disse a Veronica in una apparizione gloriosa. «Me ne incarico io, secondo i
tuoi desideri; tutto procederà per il meglio». Poi diede alla nuova eletta una precisa regola di
condotta. «Io sono la superiora; tu dipendi totalmente da me, non agirai che per me. Ama.
Governa con amore, senza amor proprio e rispetto umano. Cura solo gli interessi e la gloria
di Dio. Sii vigilante. Per ben conoscerla, comprenderla e viverla, tieni sempre la Regola di
fronte agli occhi della mente e nel cuore. Sii imparziale: mamma di tutte e di ciascuna in
particolare. Finalmente sii umile, perché tale dev'essere la virtù fondamentale di chi
comanda».

Veronica fu fedele alle prescrizioni dell'Abbadessa celeste; si mostrò la sua perfetta


immagine e il suo docile strumento e ne fu ricompensata.

CAPITOLO IV.
CARISMI E DONI SOPRANNATURALI

Stiamo per inoltrarci come in un oceano senza fondo né riva, perché sulla nostra Santa, i
carismi e i doni soprannaturali piovvero con una abbondanza straordinaria.

È utile una dichiarazione preliminare.

La potenza immaginativa dell'uomo è grande: sogna impossibili creazioni e si getta in


illusioni inverosimili. La fede c'insegna che esiste un'altra sorgente d'errori: l'angelo delle
tenebre, che si trasforma in angelo di luce. Perciò la Chiesa, in riguardo alle visioni e alle
apparizioni, è di una prudenza suprema. Noi, però, possiamo credere tranquillamente alle
visioni e alle apparizioni di s. Veronica.

La sua vita, dalla nascita alla morte, è intessuta di apparizioni e di visioni. Esse non sono
immaginarie, come in tanti altri casi, ma sono reali, intellettuali e corporali.

Veronica non le chiedeva né le desiderava; ciò che implorava, era la confusione di se stessa
e la sofferenza: la volontà di Dio. Quando le si presentava un essere dell'altro mondo, il suo
primo gesto era di repulsione. Non poteva credere che il paradiso scendesse verso una
creatura ingrata e colpevole come lei. È il demonio, pensava. E qualche volta era davvero il
demonio. L'inferno viveva infatti presso di lei come in cielo. Ma il più delle volte erano
Gesù e Maria o gli Angeli e i Santi del Paradiso. D'altra parte ne aveva il presentimento, e
capiva da che parte venisse l'apparizione a seconda dell'orrore o della gioia, che ne provava.

Quale esistenza! Era sulla terra, cioè, nel paese dell'esilio, ma conversava quasi
continuamente con Dio e con i cittadini del cielo. E non ne restavano colpiti soltanto gli
occhi dello spirito e del corpo, ma anche l'udito interiore ed esterno. Udiva distintamente
canti e parole.
Altri fenomeni. La coglieva il raccoglimento soprannaturale: era come una mano che
s'impadronisse delle sue facoltà mantenendola nella contemplazione delle verità eterne.
Tutte le sue potenze quasi si ritiravano nell'intimo dell'anima sotto l'impeto e l'azione
esclusiva di Dio. Il sonno mistico le chiudeva le palpebre, e lei si addormentava alle cose di
quaggiù, mentre il suo cuore vegliava per le cose dell'alto. Le estasi, poi, la lasciavano senza
forza né vita, e la trasportavano verso il cielo.

I suoi occhi si riempivano di luce, la sua fronte si illuminava, il cuore le batteva forte forte.
Si alzava in aria fino all'altezza del crocifisso appeso al muro; alle volte arrivava a toccare
con la testa il soffitto della cella o la volta del coro.

Un certo giorno, mentre le suore cantavano un inno all'Amore eterno, cadde radiosa come
un sole fra le braccia delle compagne, che rispettarono il suo sonno soprannaturale. Quando
si risvegliò, ebbe vergogna di se stessa, e con tono di scherzo disse che l'estro poetico
l'aveva visitata dettandole un sonetto. Avrebbe voluto che nessuno fosse testimone di quelle
grazie straordinarie, ma Dio restava insensibile alle sue preghiere. Un altro giorno, mentre
discorreva di cose spirituali, prese un viso di paradiso, e restò un'ora fuori di sé. Una volta
se ne stava vicina a suor Florida Cèvoli, e cadde in estasi. Non si sa come, aveva preso per
un dito la vicaria, e questa non poté liberarsi dalla stretta che quando Veronica tornò in sé.
Chi poteva farle riprendere i sensi? Non le suore, che veramente si estasiavano davanti a
tanta bellezza divina, ma solo i rappresentanti di Dio. Bastava che pronunziassero la parola
obbedienza, perché quella tornasse subito in se stessa. Allora correva a nascondersi
piangendo e scongiurando Dio di toglierle le estasi non l'amore. Il promotore della causa,
dirà una parola molto espressiva: «Ella viveva in un'estasi perpetua».

Favorita del dono soprannaturale di duplice vista, leggeva nella coscienza delle suore e dei
confessori che, per loro confessione, tremavano davanti a lei. Leggeva nella coscienza di
coloro che udiva senza vederli e nelle coscienze degli assenti. Possedeva i segreti della
politica dei prìncipi e dei progetti dei loro ministri.

«Figliuola mia, diceva a questa o a quella delle novizie che nascondeva il suo interno: tu hai
il tal pensiero, la tal pena, la tal tentazione», e colpiva giusto. Le coscienze dei sacerdoti che
celebravano al convento (la grata le impediva di vederli) erano per lei un libro aperto; vi
scopriva fino le ombre più leggere. Ne vide uno che commetteva dei sacrilegi. Tutta
sconvolta, lo denunziò al confessore, che scoprì la verità dei fatti ed ebbe la sorte di
assistere alla conversione del colpevole. Un altro sacerdote, incolpato di una mancanza
grave, era sul punto di subire le pene canoniche, quando la Santa lo scorse nel Cuore di
Gesù. Informato di questa visione, il Vescovo istruì con più diligenza il processo e si
accertò che stava per colpire un innocente. In virtù di lei, Mons. Codebò era illuminato su
tutte le cose, e le difficoltà che incontrava nel suo governo erano prevenute o appianate.

P. Cursoni della Compagnia di Gesù, nell'intento di provare lo spirito che animava la Santa,
le ordinò di fare il pellegrinaggio dei principali santuari d'Italia fino a Loreto. Subito la
Santa pregò la sua Madre celeste di accompagnarla, ed il viaggio ebbe principio. Non si
mosse di un passo, e ciò nonostante entrò nella chiesa di s. Domenico a Perugia, nella
basilica d'Assisi ecc. e, finalmente, a Loreto. Quando uscì dall'estasi, fece la descrizione
minuziosa di quei luoghi, che mai, prima di allora, aveva visitato.

Aveva anche il dono della profezia. Sapeva in antecedenza chi sarebbe stato il confessore
della comunità, chi avrebbe occupato la sede episcopale di Città di Castello. Informò
l'imperatore Carlo II che avrebbe avuto un figlio, e che questo figlio non tarderebbe molto a
morire. Quando fu detto alla sua presenza che la grande peste di Marsiglia stava per finire,
annunziò che, al contrario, il flagello raddoppierebbe di violenza e che ammucchierebbe
vittime su vittime. Ma perché moltiplicare le testimonianze? Limitiamoci a dire che previde
e predisse le calamità, che colpirono la Chiesa durante la Rivoluzione Francese.

Occorre parlare del dono che aveva di far miracoli? La faceva da padrona con la materia
inanimata. Le porte chiuse a chiave si aprivano ad un suo comando; a un suo cenno, uova,
pesci, pesche si moltiplicavano come per incanto. Ciò che non avrebbe potuto sfamare una
suora, saziava la comunità per più giorni di seguito; e quando le suore, meravigliate,
chiedevano spiegazioni, rispondeva: «Mangiate, e non guastatevi il cervello inutilmente». Il
convento fu un giorno in grande emozione: nel coro era scoppiato un incendio, che già
aveva divorato l'intavolato e minacciava di distruzione la cappella e qualcosa di più. Un
semplice segno di Veronica, ed il fuoco si estinse.

Ella comandava a qualunque genere di animali. Conosciamo la storia degli insetti, ma essi,
dopo che furono partiti, ritornarono. Allora la Santa ordinò loro di sparire per sempre, e
quelli ubbidirono per sempre. Certi animaletti erano sul punto di distruggere le piante del
giardino; Veronica dette un ordine ed essi, correndo da tutte le parti, si radunarono in un
certo punto. Quando si furono ammassati a quel modo, ne fu fatto il massacro con gran festa
delle galline.

La poteva anche sulle malattie. Suor Caterina aveva un occhio molto ammalato ed era sul
punto di subire un'operazione pericolosa; Veronica le bagnò l'occhio, il quale, dopo un
leggero sonno, riprese luce e vita. Suor Costanza soffriva di una risipola alla gamba;
Veronica vi tracciò sopra il segno della croce, e il male, dalla gamba malata, si trasferì
subito nella Santa.

Se seguitassimo di questo passo, diventeremmo noiosi; perciò, sorvolando su tanti altri


prodigi compiuti dalla Santa, ci limiteremo a citare i prodigi, che riguardano la potenza del
Sacerdozio.

S. Veronica professava un'immensa devozione verso il Sacramento di Penitenza e verso i


suoi ministri, e la comunicava alle suore. D'altronde Gesù in persona era continuamente a
dirle di aprirsi e di obbedire ai confessori come obbedirebbe a lui stesso, e difatti la voce del
sacerdote risuonava nelle sue orecchie tale e quale alla voce di Dio.
Stando, dunque, al confessionale, meritava d'essere fatta strumento delle meraviglie più
sorprendenti. Chi ha dimenticato che, al comando del confessore, la sua gamba rotta guarì
completamente? C'è da aggiungere che, a questo stesso comando, l'idropisia, di cui la Santa
soffriva, scomparve istantaneamente. Nelle rivelazioni che faceva alla Santa, naturalmente,
chi comandava era nostro Signore, ma questa non eseguiva che col permesso dei confessori.

Diciamo anche che questi avevano piena libertà di domandare a Dio per mezzo di lei cose
più ardite, e le loro richieste erano sempre e in anticipo esaudite. A loro piacimento il cuore
della Santa sanguinava o no, le stimmate si riaprivano o si chiudevano, le scene della
Passione si rinnovavano, la Santa, un momento prima quasi morta, si alzava da letto per dire
l'uffizio o servire le suore.

Per esperimentare le virtù delle chiavi, P. Tassinari le ordinò un giorno di morire per
rivivere subito dopo, se questa era la volontà di Dio. «Comunicatevi, le disse: questa
comunione vi servirà di viatico». La Santa fece la comunione spirituale.

Egli aggiunse: «Ricevete l'estrema unzione». Questo non poteva essere che in figura e per
desiderio. Poi le fece la raccomandazione dell'anima: Partite, anima cristiana. Bruscamente
il suo cuore s'arrestò, il suo viso divenne come di cera: Veronica era cadavere. L'anima si
trovava in una specie di notte, ma senza turbamento o paura, perché era in grazia di Dio.
Sull'istante una gran luce la indirizzò ai piedi di Gesù.

C'erano colà terribili demoni, che si mordevano l'un l'altro come cani arrabbiati, perché il
Giudice si mostrava pieno di misericordia e di tenerezza verso la Santa. Maria intervenne e
pregò Gesù di rinviarne l'anima nel corpo inanimato, poiché il confessore le aveva
comandato di rivivere.

Frattanto il P. Tassinari, stupefatto della sua audacia, si chiedeva quando il cadavere si


rianimasse, ma questo restava immobile e muto. Allora con voce tremante gridò: «In nome
dell'obbedienza, ti ordino di risuscitare»! A queste parole l'anima rientrò nel corpo, che però
restava rigido, freddo, senza forza. In nome dell'ubbidienza il Padre le comandò di parlare.
Così Veronica poté narrare tutto ciò che era avvenuto, ed aggiunse che ritornava nel mondo
per soffrire ancora e per perfezionare la sua missione di vittima.

La vita di s. Veronica è il più eloquente trattato della divinità della Chiesa, dell'autorità del
Sacerdozio e della virtù dei Sacramenti. Veronica è un carisma vivente in tutto il suo essere
corporale, in tutto il suo essere spirituale, dal primo all'ultimo soffio delle sue labbra. Non è
un'immaginaria che si esalta e si vanta, un'illuminata che si inebria dei suoi sogni, ma la
provvidenziale conferma del soprannaturale. È un corpo che mostra le sue stimmate, un
cuore che mostra la sua ferita; è una suppliziata che mostra sulla sua testa la traccia delle
spine, sulle sue braccia le tracce delle battiture, sulle sue spalle i segni del peso della croce;
è il deposito animato dagli strumenti della Passione e delle spade della Madonna della pietà.
È il testimone volontario del cielo, del purgatorio e dell'inferno, la cui azione è visibile
all'occhio del senso e a quello dello spirito. È la prova irrefutabile della realtà e dell'efficacia
della grazia. È il perfetto tipo della religiosa, che è sempre impegnata nelle penitenze,
nell'uffizio, nell'orazione, nella lotta gigantesca con le potenze dell'abisso; nei lavori di
cucina, di infermeria, di maestra, di Badessa, di scrittrice. Il suo Diario si compone di dieci
enormi volumi. È una donna senza cultura classica, che scrive come un Dante; senza studi
teologici, e i dottori ne invidiano la dottrina. È la Santa che si fregia delle mortificazioni
della carne, si veste della porpora del suo sangue; che, illuminata dalla sapienza divina,
armata di tutta la potenza di Dio, aspira al nascondimento, si sazia d'obbrobri per amore di
Dio e del prossimo. Chi la contempla se è un fedele, è affascinato dalla verità; se è un
incredulo senza pregiudizi, è conquistato alla Fede.

Gielo disse già il Divino Maestro: «Voglio che si conosca la tua vita a conferma della fede».
Questa era una parte della missione di Veronica. E poi si crede per amare; perciò l'ultima
sua missione era di ricordare al mondo che un Dio ci ha amato fino all'immolazione. Quale
altro senso dovevano avere le stimmate? «Tu sarai il testimone del mio amore». E con la sua
passione e le sue sofferenze di vittima, ottenne la grazia d'amare Colui che ci ha amato per
primo.

Rendere alla Santa un culto d'onore, di riconoscenza e d'amore è, dunque, un dovere.

CAPITOLO V.
IL SUO CULTO NEL PAESE NATALE

A Mercatello il pellegrino è naturalmente invitato ad ammirare il bel paesaggio, che fu


spettatore dei primi anni di vita della privilegiata del Signore.

Ecco il Metauro. Esso la vide. Le sue acque di un tempo ne rifletterono l'immagine quando
lei si avvicinava alla riva; quelle di ora mormorano teneramente il suo nome.

Ecco gli alberi che fiancheggiano la strada. Anch'essi la videro. Quelli d'oggi son per lo
meno i rampolli degli alberi di allora, le cui foglie tremavano d'emozione al suo passaggio.

Ecco le case. Esse la videro. Le loro finestre riflettevano su di lei i raggi del sole nascente
quando andava alla Messa.

Ecco la chiesa. Quante volte la vide! Essa si onora di avere ospitato la Santa sotto le sue
volte e di averla rigenerata al fonte battesimale. È ancora piena del profumo verginale
lasciatovi dalla fanciulla.

Ecco l'angelo custode della chiesa. Egli la vide, e come fu contento di accoglierla quando gli
si mostrò tutta bella.

Ecco l'Ospite Divino della chiesa. La vide. Era bianca di giglio, pura, amorosa. La vide e se
ne invaghì per sempre.
Ma gli abitanti di Mercatello hanno il culto del ricordo di Veronica ?

La casa sua natale, come si sa, secondo una profezia della Santa, fu trasformata in un
monastero per le Cappuccine di Città di Castello, che vennero a formare il primo gruppo
della nuova comunità. Monache fortunate!

Espulse sotto Napoleone, ritornarono ai tempi di Vittorio Emanuele al posto d'onore. Sono
ferventi e sono amate.

Il paese è piccolo e povero, ma è grande e ricco di cuore e si gloria di nutrire coloro che gli
fan piovere sopra le grazie del cielo.

La cappella del convento, di festa, rigurgita di fedeli.

L'autore di questo libro ebbe la consolazione di celebrare il santo Sacrificio nella camera
che vide nascere la Santa. Era di domenica. La folla aveva già udita una prima Messa nella
cappella grande, ma quando si annunziò che un'altra Messa sarebbe stata detta nella camera-
santuario, questo fu subito riempito. E con quale religiosa devozione si assisté ai divini
Misteri.

Veronica è nel pensiero di tutti. Iscrizioni, reliquie, emblemi, tutto lì parla di lei, e i cuori
palpitano al suo ricordo.

Mercatello la vide nascere alla duplice vita di natura e di grazia. Città di Castello, invece, la
vide nascere alla vita di gloria, ed è fiera di conservare i tesori del suo corpo. Ha di belle
chiese, una splendida cattedrale, numerosi monasteri, ma il suo cuore è là dove riposano le
reliquie della Santa.

Entriamo nella cappella del convento delle Cappuccine. Ci sono tre altari. Sopra l'altare
maggiore, un quadro che rappresenta s. Veronica stigmatizzata. A sinistra, in cornu
epistolae, una grata, attraverso la quale le monache ricevono la Comunione. Sempre al
centro dell'altare, alta, tagliata nel muro, un'altra grata: di lì ascoltano la Messa. A destra, in
cornu evangelii, la porta di sagrestia, dietro la quale c'è una terza grata. É quella del
confessionale. Tre volte venerabile grata! Quanti segreti divini!

Ed ora inginocchiamoci: il santo corpo riposa sotto l'altare maggiore.

Non potremo visitare l'interno del convento dove s. Veronica si è santificata. Ci vuole un
permesso speciale della Congregazione dei Religiosi, ma è molto difficile ad ottenere.
Avete, però, la fortuna d'essere munito di un simile permesso? Oh, allora, entriamo! Ed
entriamo per la porta situata tra la grata del parlatorio e la torre. Di lì la giovane Veronica si
slanciò nella tomba dove visse cinquant'anni.

Circondati da Religiose coperte di un fitto velo, passiamo per un corridoio, che appare come
ornato di croci impressionanti. Sacerdote? Sarete allora condotto direttamente nella cappella
interna, che fu la cella della Santa, la testimone di tante penitenze e di tante estasi; cella-
convegno del mondo invisibile; cella dove si precipitavano armate di demoni appena
scomparsi gli esseri celesti. La Santa vi ricevette le stimmate e voi ci celebrerete la Messa
con il cuore e gli occhi in cielo.

Ora guardate. Ecco il letto d'agonia, sul quale la Santa s'addormentò nel bacio del Signore;
la grande croce fatta di corde e di catene, a cui si teneva sospesa durante la notte;
numerosissimi strumenti di penitenze. Quello il quadro di Maria, che si animava, e le
dettava ciò che doveva scrivere nel Diario; questa la penna di cui si serviva per scrivere; oh,
la lampada miracolosa, che ardeva dietro a lei! Li vedete? Sono i pannilini coi quali si
ricopriva le stimmate, che le servivano per medicarsi la piaga del cuore. Se lo volete, baciate
pure le chiazze di sangue.

Andiamo in giardino. Attraversiamo prima un corridoio stretto stretto con tante porte di
celle ed altrettante iscrizioni così: Iddio ci vede, ed eccoci in giardino dove un tempo c'erano
le stazioni della Via Crucis. In ispirito camminiamo su del sangue, quel sangue che
sgorgava dalle ginocchia della vittima quando, di notte, faceva le Stazioni. Da un lato, il
posto dove la Santa faceva il bucato; in fondo, la cappella di s. Francesco. Lontana dalle
suore, quante volte ci s'era sottomessa a lunghe e crudeli discipline! Nella cappella, banchi
lunghi tre metri. Provatevi ad alzarli. Pesi, eh? E pensare che la Santa se li metteva sulle
spalle durante la Via Crucis! Poi li sostituì con una croce di quercia, dura e pesa. Guardate.
Sono gli alberi da dove gli uccelli gorgheggiavano quando lei cantava a Dio inni di lode.
Pensarci! Traboccante di amore, abbracciava questi alberi come fossero creature umane, e ci
saliva su in cima per essere più vicina al cielo. Cogliete i fiori a ricordo: essi, infatti,
profumano delle virtù di Veronica.

Rientriamo in convento. Ecco le scale del noviziato. Quante volte la Santa le salì con le
brocche piene di acqua e le ridiscese coi piedi sanguinanti! Là. Quello era il posto
dell'Abbadessa. Par di sentirla parlare alle novizie sull'amore divino.

Entriamo nel guardaroba. Vi ci si conservano tutti i suoi manoscritti. Sono una montagna
alta così. Per di qua, nella stanza dei lavori, dove Gesù l'aiutava a tessere la tela. Ora,
all'infermeria. Ci siamo. Fu la sua prigione durante i famosi giorni della prova. Vedete. Lo
ricevette qui il bacio della morte. Guardate: giù in fondo, l'altare. Su quei gradini, la notte,
quando vegliava le ammalate, quante volte ci si appoggiò. Più in là, verso la parte che
guarda il giardino, attaccato al muro, il crocifisso miracoloso, che dal costato stillava i
succhi per nutrirla, e che si staccava dal legno per abbracciarla. Sotto l'infermeria, il coro
dove faceva le lunghe orazioni, cantava l'uffizio col compagno Gesù, e assisteva al santo
Sacrificio della Messa. Quante anime allora liberava dal purgatorio! Oh, averla veduta
comunicarsi! e aver veduto i beati del cielo depositare sulle sue labbra ardentissime l'Ostia
divina! Felice coro!

O monastero di Città di Castello, il pellegrino ti lascia col corpo, ma la sua anima rimane fra
le tue mura, vivificata dalla tua atmosfera celeste!
O s. Veronica, quanto siete amata e invocata nel paese natìo! Siate conosciuta anche altrove,
in tutta la Chiesa, in tutto il mondo. Sorgano scrittori per scrivere la vostra vita, predicatori
per cantare le vostre glorie. Voi siete la viva immagine di Cristo Redentore, il riflesso della
bellezza di Dio. Aprite gli occhi a tutti, fate ardenti tutti i cuori, esercitate la vostra triplice
prerogativa di dominatrice dell'inferno, di liberatrice del purgatorio, di dispensatrice delle
grazie del cielo. Per mezzo vostro l'inferno si chiuda, il purgatorio si vuoti, il cielo si apra e
si riempia; per mezzo vostro Cristo trionfi e regni l'Amore.

FINE
PROSPETTO CRONOLOGICO

1660, 27 dicembre:
Veronica Giuliani nasce a Mercatello, nella valle del Metauro, da Francesco e da Benedetta
Mancini. Quella dei Giuliani è una delle famiglie più agiate e stimate del piccolo paese
montano. La madre è una donna di fede profonda, nonché di ottime capacità educative; e sa
dare alle sue cinque figlie una solida formazione cristiana: quattro di esse prenderanno la via
del Monastero.

1660, 28 dicembre:
la piccola è battezzata nella collegiata del paese e le viene imposto il nome di Orsola.
Cresce vivace e precocissima: a cinque mesi già fa i primi passi e presto balbetta qualche
frase. Il soprannaturale non tarda a manifestarsi in maniera vistosa: Dio la prepara alla sua
futura missione e al grande destino che l'attende. La piccola, davanti a un quadro della
parete domestica, prega con fervore la Madonna:
- Datemi il vostro Figlio!

Il bimbo divino si muove, va verso di lei e il colloquio si fa molto tenero e impegnato:


- Io sono tua e Tu sei tutto per me!
- Io sono per te e tu sei tutta per me!

1667, 28 aprile:
resta orfana di madre. La santa donna, dopo aver ricevuto il viatico, si fa dare il crocifisso e
regala ad ognuna delle sue figlie una piaga di Cristo:
- A te, disse alla più piccola, regalo la piaga del petto di Gesù: il Signore ti custodisca nel
suo Cuore!

Veronica sarà anche la santa del Cuore di Cristo, in piena crisi giansenistica. La Madonna,
verso cui avrà sempre una devozione tenerissima, colma il vuoto lasciato dalla madre e
prepara la piccola al suo avvenire:
- Figlia mia, Gesù ti ama tanto! Preparati, ché sarà il tuo Sposo ...

1670, 2 febbraio:
riceve a Piacenza la prima Comunione. Il padre vedovo, per fuggire la solitudine vuota di
Mercatello, si è trasferito nella città padana ed è diventato soprintendente alle dogane del
Duca. Orsola, nell'incontro con Cristo, riempie il desiderio più vivo della sua fanciullezza.
Quando la mamma aveva ricevuto il viatico, la piccola aveva vanamente implorato: date
anche a me Gesù!
Diventerà anche la santa dell'eucarestia, che fu il segreto e la forza della sua grandezza.

Intanto cresce, si fa una graziosissima signorina e il babbo sogna un avvenire dorato per lei.
Il capit. Montecuccoli ha piegato l'ira dei Turchi (1664) e anche lei vuol andare a
combattere per la fede: si esercita nella scherma e diventa una brava spadaccina. Ma Dio la
vuole tutta per sé ...
I giovani le stanno vicino, sognando incantati nei ritrovi mondani. La giovane ondeggia con
grande sofferenza tra i richiami vistosi del cuore e l'appello della grazia. E conquista da
brava la sua futura grandezza; dopo tre anni di permanenza, lascia la città tentatrice e torna
nella quieta vallata del Metauro, ove si matura con calma il fiore della sua vocazione.

1677, 28 ottobre:
lascia finalmente il paesetto natio, saluta le vette luminose del suo Appennino ed entra nel
monastero delle Clarisse cappuccine a Città di Castello: ora, il suo gran sogno di santità le
sorride davanti! Il nuovo nome che prende è Veronica: e presto sarà la «vera immagine» di
Cristo crocifisso. Il severo convento dell'alta Valle tiberina ha chiuso per sempre alle sue
spalle la speranza mondana e apre alla giovane intrepida la via dell'amore totale: per Dio e
per il prossimo.

1678, 10 novembre:
Veronica fa la solenne professione religiosa. Dio le rivela gradatamente la severa missione a
cui la chiama: diventare la grande espiatrice delle umane miserie, attraverso una vita di
intense sofferenze e di incredibili penitenze: «mi esibivo mezzana tra Cristo e i peccatori».
E pregava con impeto generoso il Signore: «crocifiggete anche me con voi, e non tardate!»
(Diario, I, p. 30 s.).

La Chiesa stava passando uno dei periodi più difficili della sua storia. Innocenzo XI
condannava nel 1679 il lassismo della morale, e nel 1687 il quietismo decadente di Michele
Molinos. Il santo papa fu indefesso nella lotta contro l'errore: fu «in perpetua contesa» con
Luigi XIV, che nel 1682 umiliò anche l'aquila di Meaux a firmare la Dichiarazione del clero
gallicano, che piegava la Chiesa transalpina alla boria del potere regale. Organizzò con
insonne energia la lega contro i Turchi, che puntavano al Baltico per spezzare in due
l'Europa stessa. E nel 1683 sotto le mura di Vienna, Giovanni Sobieski in una battaglia
memorabile sgominò la potenza turca e salvò la civiltà cristiana.

Veronica, nel suo convento, pregava e pativa in silenzio per la vittoria della fede di Cristo.

1693, 13 dicembre:
Veronica inizia, per comando del confessore, il suo Diario, o più precisamente il racconto
della sua grande esperienza mistica: e l'ultima pagina porta la data del 25 marzo 1727. È
questa una delle più vaste autobiografie che si conoscano e certamente la più sincera,
straordinaria e immediata: e Veronica ha dato alla Chiesa «uno dei tesori più alti» di
eroismo sofferto, di vangelo vissuto e di mistica, trasumanante esperienza.

Il soprannaturale inonda con prepotenza questa meravigliosa storia di un'anima: «le grazie
di Dio, scrive la Santa, hanno diluviato su di me!». Spesse volte Veronica scrive in estasi, ed
è lei stessa che ce lo confessa: «per lo più scrivo fuori di me, e non so cosa dico» (Diario,
IV, p. 168). Se non fosse stato così - fa notare padre Pizzicaria - ella non avrebbe potuto
scrivere cose tanto difficili in modo così esatto. Negli ultimi anni, poi, è la Madonna stessa
che le detta tanta parte delle pagine del Diario.
Veronica è stata, a ragione, definita «la Maestra per eccellenza della dottrina
dell'espiazione».

1694, 4 aprile:
Gesù le pone sul capo la corona di spine. I fenomeni mistici invadono di giorno e di notte la
vita di Veronica, e la fama della sua santità diventa clamorosa in tutta Europa: «empì di
meraviglia il mondo», dice uno dei suoi vecchi biografi. La serie delle sue gesta fu l'opera
grandiosa di Dio contro le eresie dell'epoca; fu l'epopea cattolica di quel tempo, come
Ignazio era stato l'epopea contro i protestanti (L. Baccini).

È questa la testimonianza, che rifulge nella vita dell'umile cappuccina, come richiamo alla
fede di un'epoca in crisi: John Anthony Collins già dichiarava i diritti del «libero pensiero»,
che spegne nell'orgoglio la vera speranza dell'uomo.

1694, 11 aprile:
mistiche nozze con Gesù. Veronica aumenta l'ardore delle sue penitenze redentive, in
unione sempre più intima con lo Sposo divino. I demoni, ebbri di rabbia, vessano con ogni
genere di tormenti l'impavida cappuccina: «maledetta che sei! Tu ci rubi le anime, e devi
pagarla»!

1697, venerdì santo:


Gesù le imprime le sacre stimmate, e anche Veronica può finalmente dire: Christo confixa
sum cruci! Per il suo virile, eroico anelito di immolazione nel desiderio di convertire tutte le
genti, con espressione ardita ma non ingenua, è stata definita «il S. Paolo degli ultimi
tempi» (Dausse).

Il s. Uffizio conduce per mezzo del vescovo Luca Ant. Eustachi un'azione di severissimi,
spietati controlli sul «caso» Veronica. Più tardi il gesuita Giovanni M. Crivelli ripeterà
l'esame, umiliandola pesantemente con prove durissime. Ma Veronica, paziente, convinse
tutti!

1714, 29 novembre:
partecipa intensamente ai dolori della Passione e prega il Cuore di Cristo per la salvezza
degli uomini. Veronica, come la sua contemporanea Margherita Alacoque, proclama al
mondo l'Amore: e l'amore è la nota più intensa che vibra in tutte le pagine del suo Diario.
Un anno prima, Clemente XI aveva definitivamente condannato con la costituzione
Unigenitus il gelido e torvo rigore dei giansenisti.
Nel 1715, tra il fasto incantato di Versailles tramontava per sempre il Re Sole.

1716, 5 aprile:
viene eletta Abbadessa del monastero, e tale sarà riconfermata fino alla morte. Era già da
molti anni Maestra delle novizie.
Eugenio di Savoia vince i Turchi a Petervàrad, e un anno dopo piegherà definitivamente a
Belgrado la potenza della mezzaluna. In Italia, al lungo e nefasto predominio spagnolo
subentra quello non meno umiliante degli Austriaci.

Per Veronica iniziano gli anni della più intensa stagione mistica, puntualmente segnata nelle
pagine più drammatiche nel suo Diario (vol. IV). Come la terra nel meriggio d'estate geme
infuocata sotto la vampa del sole, così l'anima di Veronica arde sotto i raggi dell'amore di
Dio. La Madonna rende il suo spirito terso come la luce, puro come quello dei Beati, per
contemplare i divini attributi e i folgoranti misteri di Dio. L'anima della Santa acquista una
capacità di sofferenza quasi infinita: e Dio la rende dispensi era delle grazie divine per tutti i
bisogni «della Chiesa santa», mediatrice di perdono tra Lui e i peccatori, procuratrice delle
anime del purgatorio.

Le esperienze mistiche incalzano senza tregua, sempre più ardite; la sua volontà «sì
intrinseca» sempre più strettamente con quella di Dio e Veronica si prepara all'incontro
supremo, «privilegiatissima tra tutti i privilegiati» del Cuore di Cristo.

1727, 6 giugno:
Veronica inizia una dolorosissima agonia, che dura 33 giorni e rivive per l'ultima volta la
Passione di Cristo redentore. Stesa sulla croce delle sue sofferenze inaudite, inondata dalla
gioia della sua immolazione suprema, si stringe sempre più alle sofferenze del suo Sposo
divino; e consuma l'ultimo anelito di vita con un estremo invito all'amore: «ditelo a tutti che
ho trovato l'Amore! Sta qui il segreto delle mie gioie e delle mie sofferenze: ho trovato
l'Amore»!

1727, 9 luglio:
Ricevuta l'«obbedienza», si spegne serenamente nelle prime ore del mattino. Ha 67 anni, di
cui cinquanta passati nella stretta clausura del suo monastero, a Città di Castello.

1804, 17 giugno:
è segnata da papa Pio VII nei fasti dei Beati. Il processo è stato assai lungo, anche per la
mole dei suoi Scritti che i teologi romani esaminarono con vivo interesse e con tenace
diligenza.

1839, 29 maggio:
Papa Gregorio XVI firma la bolla di canonizzazione.
Nella festa della SS. Trinità (29 maggio), la basilica di Pietro è gremita di folla: Veronica è
solennemente festeggiata Salita della Chiesa. Nello stesso giorno il medesimo onore è
toccato anche ad Alfonso M. de Liguori, dottore di morale.

1928, 17 maggio:
il vescovo tifernate C. Liviero concede l'imprimatur all'ultimo dei 10 voll., che formano la l
ediz. del Diario. Porta il titolo di Tesoro nascosto e gli Scritti veronichiani riemergono
dall'oblio due volte secolare.
Inizia così un'altra grande missione, che Dio affidò alla Santa; leggiamo infatti nel suo
Diario: «mentre scrivevo, mi venne un rapimento. In esso il Signore mi fece capire che io
descrivessi tutto: gli scritti sarebbero stati di grande profitto a molte anime; e voleva,
pertanto, che andassero per tutto il mondo cristiano» (vol. II, p. 15).

1978, 1° maggio:
si chiude a Città di Castello un Convegno di studio, che ha per tema: S. Veronica Dottore
della Chiesa?

Il santo Pio X così giudicava: «le cose che la vergine Veronica scrisse, con l'aiuto
certamente di Dio, saranno di grande profitto a quelli che si studiano di acquistare la
perfezione cristiana».

1980, 20 settembre:
I Vescovi della Regione umbra inoltrano alla S. Congregazione per le Cause dei Santi la
petizione, intesa ad ottenere per la nostra grande Cappuccina il titolo di Dottore della
Chiesa.

Scriveva Piero Bargellini, poco prima di morire: «quando avverrà, come si spera, la
proclamazione del dottorato ottenuto dalla "discepola dello Spirito Santo", la biografia di
Veronica Giuliani sarà conclusa».

Questo è il volo che elevano a Dio da ogni parte del mondo cattolico i devoti della Santa e i
lettori dei suoi Scritti.
_________________

Note

1 Lett. del 6 ag. 1980, al direttore del Centro Studi veronichiano.

2 È il giudizio di mons. Gioacchino Pecci, il futuro pontefice Leone XIII. Anche Pio IX e S.
Pio X ebbero alte parole di ammirazione per la nostra Santa e per i suoi Scritti.

3 Cfr. Preghiera di introduzione.

4 Cfr., tra le altre, le seguenti pubblicazioni:

a) METODIO DA NEMBRO, Misticismo e Missione di S. Veronica Giuliani, Milano 1962


(con la bibliografia ivi citata, p. IX ss.).

b) AA.VV., S. Veronica Giuliani vitae spiritualis Magistra et exemplar: a cura dell'Istituto


Storico dei Min. Cappuccini, Roma 1961.

c) AA.VV., S. Veronica Giuliani Dottore della Chiesa? (Atti del Convegno di Studio 1978),
Città di Castello 1979.

5 Ricordiamo, tra le altre, quelle del Salvatori, della Villermont, del Cioni, di P. Francesco
M. da S. Marino.

6 In una recente e apprezzata pubblicazione sulla Santa, l'autore afferma: «la complessa e
formidabile personalità carismatica di Veronica non ha ancora trovato il suo biografo» (Cfr.
ANTONIO MINCIOTTI, Amore e Luce; pref. di Piero Bargellini, 3a ediz., C. di Castello
1979, pag. 205).

7 La prima ediz. uscì in 10 volumi: i primi otto furono pubblicati a Prato (1895-1905), gli
ultimi due a C. di Castello nel 1928.

L'opera, tranne l'ultimo vol., fu egregiamente preparata e commentata da P. Pietro Pizzicaria


della Compagnia di Gesù.

8 Intanto puoi leggere:

a) Lettere di S. Veronica, a cura di Oreste Fiorucci, C. di Castello 1965.

b) Lettere di S. Veronica a P. Giuliano Brunori S.I., a cura di Melchiorrre da Pobladura,


Coll. Franc. 31 (1961).

9 I manoscritti di S. Veronica sono conservati nell'Archivio delle Cappucci ne a Città di


Castello. Una fotocopia di essi è a disposizione degli studiosi, presso il Centro Studi
veronichiano della stessa città.
10 Cfr. (S. Veronica Giuliani), Il mio Calvario, C. di Castello 1960, p. 207.

11 Cfr. Lumen gentium, 58-61-62

12 Pio IX

13 In particolare a quelle di Filippo M. Salvatori e della cont. M. de Villermont.

14 L'ora di Veronica si va maturando, e da più parti oggi si eleva una viva preghiera che la
Santa, grande Maestra di mistica, venga dichiarata dottore della Chiesa (N.d.R.).

15 Oggi conta circa mille abitanti.

16 Può darsi che il lettore rimanga stupito di incontrare spesso i termini di corredentrice, di
mediatrice applicati a santa Veronica. La sua meraviglia cesserà nel sentire che così la
chiama N. S. stesso nel Diario approvato dalla Chiesa. E tali espressioni devono intendersi
secondo il testo di s. Paolo: «Dò compimento nella mia carne a quello che manca alla
passione di Cristo». Difatti, con Cristo, per Cristo e in dipendenza strettissima di Cristo,
anche ogni cristiano deve essere mediatore e corredentore. Il bel titolo di mediatrice si
applica in maniera eminente alla SS.ma Vergine Maria! Lo si attribuisce anche a s. Veronica
per la sua stretta unione al Salvatore e alla sua divina Madre. Per un privilegio straordinario,
non ha portato in sé le sofferenze dell'uno e dell'altra?

17 Vedi dello stesso autore: Commento al Cantico dei Cantici. Classici Cristiani, 1939;
Cantagalli, Siena.

18 Sangue prezioso era l'inchiostro col quale scriveva le sue proteste d'amore: «O mio Gesù,
io mi consacro a voi. Voi m'avete detto che quelli che amano la croce non hanno altra
dimora che il vostro Cuore. Io mi dichiaro amante della Croce, e scrivo questa
dichiarazione col mio sangue».

«O amore infinito, feritemi con i vostri lineamenti... O mio Sposo, io mi offro in olocausto
perpetuo, e come una Vittima d'amore, unisco questo sacrificio al vostro, cioè, a quello della
croce. Io mi obbligo a rimanere sempre crocifissa con voi, a non volere mai altro che la
vostra volontà... Io vi domando, o mio Salvatore Gesù, la conversione dei peccatori...
Eccomi pronta a dare il mio sangue per la loro salute, e per la confermazione della santa
fede. O mio Dio, questa preghiera io faccio in nome del vostro amore, in nome del vostro
Cuore... E voi, anime riscattate dal sangue di Gesù, o peccatori, venite a questo Cuore.
Venite alla fontana, all'oceano del suo amore ...».

19 P. Pizzicaria

20 Il letto di morte della Santa, dall'infermeria fu poi trasportato nella sua cella.

21 La solenne beatificazione di Veronica avvenne in S. Pietro il 17 di giugno 1804. Ma i


tifernati fecero festa il 12 setto 1802, data del decreto Inclyta S. Francisci alumna. In esso,
tra l'altro, si legge che il Papa «ha decretato solennemente di procedere a collocare sul
candelabro inestinguibile della Chiesa Veronica Giuliani, luminare tanto grande di santità
che basterebbe da solo a illustrarla, a disprezzo dell'irrisione e della calunnia della più
superba e mordace filosofia degli increduli».

Ci sembra di sentire l'eco d'una risposta alla rabbiosa polemica di Voltaire (1694-1778) e di
tutti gli enciclopedisti. (N.d.R.)

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