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Convivenza inizio corso 2006

VALORE SALVIFICO DELLA SOFFERENZA

Premessa
Quest' anno tratteremo del problema della sofferenza, della malattia, della vecchiaia e della morte,
alla luce della Rivelazione, della dottrina trasmessaci dai Padri e del Magistero. Sono argomenti
che ci toccano tutti da vicino, sopratutto le prime comunità composte ormai da gente anziana, ma
che interesserà anche i giovani che prima o poi si dovranno confrontare con queste realtà nella
propria vita e in quella dei familiari e dei più vicini, oltre che di fratelli della propria comunità.
Trattandosi di realtà che solo lo Spirito Santo ci può far comprendere e penetrare, prego che sia Lui
stesso ad illuminarci e a condurci poco a poco alla pienezza della verità. Il tema è molto profondo e
denso, ma spero che il Signore aiuti me ad esporre e voi a comprendere.
Anche se in forma molto sintetica, per mancanza di tempo, affronteremo questo tema trattando in
una prima parte del “valore salvifico della sofferenza” nella malattia, in una seconda parte della
vecchiaia e in una terza parte della morte e della sepoltura. Ma al termine ho voluto concludere il
discorso sulla sofferenza, la vecchiaia e la morte, parlando in una quarta parte, del Cielo. In realtà il
Cielo, che rappresenta il punto di arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra, andrebbe sviluppato
all’inizio, e quindi è bene che lo teniamo presente fin dall’inizio, perché solamente alla luce del
Cielo acquista senso la sofferenza. Gesù Cristo stesso ha voluto preparare i tre discepoli Pietro,
Giovanni e Giacomo, che avrebbero assistito alla sua agonia nel Getsemani, manifestando loro
nella Trasfigurazione sul Tabor “la gloria del Padre sul suo volto”, affinché i tre testimoni,
ricordando la sua gloria vista sul santo monte (2Pt.2,17) non rimanessero schiacciati dallo scandalo
della Croce.(Prefazio della Trasfigurazione)
Vorrei premettere alcune precisazioni che ci aiutino a smontare falsi pregiudizi sulla sofferenza e ci
dispongano ad accogliere la luce che ci viene dalla rivelazione:
Una prima precisazione è che la sofferenza, la Croce non si può comprendere in senso cristiano se
non alla luce della gloria della risurrezione. 1
Un’altra precisazione è che la visione cristiana della croce non sottolinea il valore della sofferenza
in se stessa, quasi si trattasse di una forma di masochismo, o di sublimazione per un falso
misticismo, ma al contrario mette in risalto lo spirito con cui si affronta la sofferenza: che è
l’Amore, come vedremo, rivelato in sommo grado in Gesù Cristo “Nessuno ha amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici”(Gv.15,13).
Una terza precisazione: è che nessuno può pretendere di comprendere la sofferenza con la sola
sua ragione, né di affrontare la croce con le sole sue forze: la figura di Pietro cui Gesù risponde:
«Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli
uomini!». (Mt.16,23), e “non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di
conoscermi» (Mt.26,34), rimangono un paradigma per ogni cristiano
Nel Cammino Neocatecumenale, sopratutto nel primo scrutinio ma poi durante tutto il percorso il
Signore ci è andato svelando il senso glorioso e salvifico della Croce. Ma dato che finito
l’itinerario del neocatecumenato, come più volte ci hanno ripetuto i nostri catechisti, ci attendono
prima o poi tre nuovi scrutini: la malattia, la vecchiaia e la morte, per prepararci al
combattimento che ci attende lasciamoci guidare da Papa Giovanni Paolo II che nella sua lettera
Apostolica “Salvifici Doloris” metterà in rilievo il “valore salvifico della sofferenza” . 2 Ne
riporterò solo alcuni passi che ci aiutino ad illuminare il valore salvifico della sofferenza.

1
E’ significativo che l’arte cristiana dei primi secoli fino all’alto medioevo, il Cristo in croce è sempre
stato rappresentato come Cristo glorioso, come su un trono, diversamente dai crocefissi più tormentati del
basso medioevo in avanti. Lo stesso San Giovanni a differenza dei Sinottici, presenta la passione come il
trionfo di Cristo che entra nella morte per sconfiggere il demonio “ora il principe di questo mondo sarà
gettato fuori” e per attrarre tutti a sè “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv.12,32”.
2
Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, Edizioni Paoline 1984
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“La Lettera Apostolica Salvifici Doloris vide la luce nel contesto del Giubileo
straordinario per l’anniversario della Redenzione, celebrato tra i mesi di marzo 1983 e
marzo 1984, il giorno undici febbraio, sei settimane dopo l'intervista che ebbero il Santo
Padre e Mehmet Ali Agca, l'uomo che cercò di assassinarlo il tredici maggio del 1981 in
Piazza di San Pietro. La riflessione che questa Lettera Apostolica abbraccia è breve in
quanto allo spazio, ma profonda per quanto si riferisce al suo messaggio. Il testo racchiude
una gran profondità nella sua esposizione e si può dire che è più complesso di quello che
sembra. E’ diretta "ai vescovi, sacerdoti, famiglie religiose e fedeli della Chiesa Cattolica" e
verte "sul senso cristiano della sofferenza umana".
Dall'inizio si vede che la parola sofferenza va sempre accompagnata da altre due parole,
altrettanto relazionate tra loro: “senso e valore salvifico”. Il Santo Padre intende manifestare
quello che c'è stato rivelato in Gesù Cristo rispetto al dolore e alla sofferenza, perché la
Redenzione si è realizzata in un modo molto concreto, mediante il Mistero Pasquale del
Signore, che include la sua sofferenza. Si tratta, dunque, della risposta della fede, la quale
non è un’interpretazione in più tra varie possibili, bensì l'unica piena e definitiva.
È una conferma che è urgente parlare della valutazione che, dalla Rivelazione, merita la
sofferenza umana. In modo speciale in quest’epoca, oggi come ventidue anni fa, nella quale
tende ad imporsi una falsa concezione di tipo edonista che, lontano dal salvare l'uomo, lo
confonde e pregiudica. Da questa prospettiva parte il documento che ci occupa, situandosi
nella linea dell'esperienza, ciò che è di attualità; un messaggio profetico nel nostro attuale
contesto storico che illumina la realtà”.3
LA SOFFERENZA

Alcuni aspetti del problema della sofferenza


Perché il male, perché il dolore, perché la sofferenza?
Questi sono gli interrogativi che l'uomo si è posto fino dai tempi primitivi, cercando di dare una
risposta. Così ne parla Papa Giovanni Paolo II all’inizio della sua lettera sul valore salvifico della
sofferenza:
“Il tema della sofferenza... è un tema universale che accompagna l’uomo ad ogni grado
della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel
mondo, e perciò esige di essere costantemente ripreso. Anche se Paolo nella lettera ai
Romani ha scritto che ‘tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del
parto’ (Rm 8,22), anche se all’uomo sono note e vicine le sofferenze proprie del mondo
degli animali, tuttavia ciò che esprimiamo con la parola ‘sofferenza’ sembra essere
particolarmente essenziale alla natura dell’uomo. Ciò è tanto profondo quanto l’uomo,
appunto perché manifesta a suo modo quella profondità che è propria dell’uomo, e a suo
modo la supera. La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è
uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso ‘destinato’ a superare se
stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso” (SD 2).
“La sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, e a suo modo intimidisce.
In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero. Questo particolare
rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto all’inizio di quanto verrà espresso qui
successivamente dal più profondo bisogno del cuore, e anche dal profondo imperativo
della fede: il bisogno del cuore ci ordina di vincere il timore, e l’imperativo della fede...
fornisce il contenuto, nel nome e in forza del quale osiamo toccare ciò che sembra in ogni
uomo tanto intangibile: poiché l’uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero
intangibile” (SD 4).
Cosa intendiamo per dolore e cosa intendiamo per sofferenza?
“La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso e
insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea di questo

3
George Weigel, Testimone della speranza, la vita di Giovanni Paolo II, Ed. Mondatori 1999, p. 592.
2
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problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa
distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell’essere umano, e indica
l’elemento corporale e spirituale come l’immediato o diretto soggetto della sofferenza...
La sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo “duole il corpo”, mentre la
sofferenza morale è “dolore dell’anima”.
Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione “psichica”
del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella fisica” (SD 5).
È da notare come quando soffriamo sia di importanza fondamentale scoprire il senso del nostro
soffrire. È diversa la situazione di chi soffre senza sapere il perché, da chi soffre avendo
scoperto il perché della sua sofferenza. Ciascuno di noi è meglio disposto a soffrire i dolori di
un’operazione e del tempo post operatorio, se sa che questo servirà a recuperare la salute. Mentre
invece un ammalato di cancro, che sa di dover morire in breve tempo, anche se ha meno dolori
soffre molto di più. Nel primo caso infatti sopportiamo meglio perché abbiamo la certezza di
guarire, mentre chi è senza speranza è tentato di disperazione e magari di togliersi la vita.4
“All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero
mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un
interrogativo circa la causa, la ragione, e insieme un interrogativo circa lo scopo
(perché?) e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l’umana sofferenza,
ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è
propriamente sofferenza umana.
Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso nel mondo degli animali.
Però solo l’uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo
umanamente ancor più profondo se non trova soddisfacente risposta (SD 9).

Alcune risposte al problema della sofferenza


Prima di esporre la risposta della Rivelazione al problema della sofferenza, diamo uno sguardo
rapidissimo ad alcune risposte date lungo la storia nelle diverse culture, che ci aiuti a comprendere
meglio anche la risposta odierna alla malattia, alla vecchiaia e alla morte.
Per questa visione mi servirò anche, con il suo consenso, di uno studio fatto da un Presbitero del
Redemptoris Mater di Madrid che cito nella bibliografia. 5
Dalla antichità al Rinascimento 6
Nel mondo mesopotamico ed egiziano la malattia, la vecchiaia e la morte erano vissute come
profondamente legate al sacro, alla divinità. In molti popoli il sacerdote o lo stregone svolgevano
anche il ruolo di curatore, di medico, sopratutto con rimedi tratti dalla natura (erbe, salassi, ecc.).
Per questo chi era afflitto da qualche malattia o problema grave ricorreva al tempio dove il
sacerdote faceva dei riti, offriva sacrifici alla divinità per ottenere la guarigione ed allo stesso
tempo dava quei rimedi che la medicina rudimentale poteva offrire per lenire il dolore e ottenere la
guarigione.
D’altra parte in genere presso i popoli primitivi la malattia, la vecchiaia e la morte erano vissute
come dei processi naturali che toccavano anche il mondo animale e il mondo vegetale: nella
natura tutto nasce, cresce, si sviluppa e matura e poi deperisce. Ad esempio nella cultura dei popoli
indiani l'anziano andava nella foresta per lasciarsi morire e ricongiungersi attraverso la morte ai
propri antenati.

4
Ignacio Serrada Sotil, El valor moral el dolor y del sufrimiento a partir de “Salvifici Doloris”,
Tesina de licencia, Madrid 2006 p.43 “L´essere umano può anche sopportare il dolore: ciò che non può
sopportare è una sofferenza priva di senso, il dolore dell´anima. E l´uomo soffre quando sperimenta la
sproporzione al suo desiderio di compimento, la minaccia al suo desiderio di essere». Cf. ID, «Amor, deseo y
acción», en: MELINA-NORIEGA-PÉREZ SOBA, La plenitud del obrar cristiano, 319-344.
5
Ignacio Serrada Sotil , op. cit. Non essendo pubblicata la tesi il numero delle pagine corrisponde al
manoscritto.
6
Per chi volesse approfondire questi temi cito il libro da cu ho tratto sinteticamente alcune note, di Renato
Zanchetta, Malattia, salute, salvezza, Edizioni Messaggero, Padova 2004.
3
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Nel mondo greco-romano, pur mantenendosi il rapporto sacrale della malattia e della morte,
incomincia a svilupparsi la medicina come scienza capace di diagnosticare le cause della malattia e
di offrire rimedi meno rudimentali e più efficaci. (Ippocrate, Galeno).
“Nel medio Evo, per influsso del cristianesimo, la malattia e la terapia si
mantengono in un contesto sacrale. Sarà la scolastica che imporrà alla medicina di
operare una sintesi tra contenuti e tradizioni disparate aprendo così la strada al
passaggio della medicina da arte a scienza”.7
Il Rinascimento può essere considerato il terreno di coltura in cui maturano i
contenuti della scienza moderna, poiché i grandi studiosi di quel tempo si posero in
un'ottica nuova nel considerare il mondo.
In questo periodo, assistiamo a una vera e propria «rivoluzione antropologica» e
l'uomo diventa il centro nodale del creato. Questa nuova situazione si collega a una
specie di rivoluzione religiosa.8
Ma è sopratutto Cartesio (1596-1650) che
“fonda la concezione della natura su un dualismo fondamentale: quello dello spirito
(o res cogitans) la sostanza pensante, e quello della materia (o res extensa), la
“sostanza estesa”. Il corpo separato dalla mente, incomincia la sua storia come
somma di parti senza interiorità e la mente come interiorità senza distanze...Il corpo
con Cartesio, diventa “organismo” così che tutti gli aspetti qualitativi vengono
risolti come quantitativi, cioè misurabili..: a un deciso idealismo e spiritualismo in
metafisica e morale si associa un non meno deciso meccanicismo in biologia e
medicina: è un idealismo che, in certi punti, finisce per coincidere con il
materialismo”. 9
La risposta dell’illuminismo razionalista
È stato nel secolo XVIII quando è apparsa, con molta forza, la convinzione utopica che gli
uomini potevano e dovevano eliminare le sofferenze ed essere felici qui nella Terra (...).
La Natura era tutta buona, la Ragione onnipotente e a patto che gli uomini si lasciassero
guidare dalla Ragione e dalla Natura sarebbero stati felici (...). Tutte le filosofie
materialiste hanno sognato ideologicamente una esistenza senza dolore o nella quale il
dolore fosse eliminato; sopravvive in esse l'immagine di un uomo dotato di un'integrità
originale e naturale.10 Nella Enciclica evangelium vitae, Papa Giovanni Paolo II afferma in
proposito:
“L’eclissi del senso di Dio e dell’uomo conduce inevitabilmente al materialismo
pratico, nel quale proliferano l’individualismo, l’utilitarismo e l’edonismo. Si
manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive l’Apostolo: «Poiché hanno
disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza
depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1,28). Così i valori
dell’essere sono sostituiti da quelli dell’avere. L’unico fine che conta è il
perseguimento del proprio benessere materiale. La cosiddetta «qualità della vita» è
interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo
disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più
profonde - relazionali, spirituali e religiose - dell’esistenza.
In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell’esistenza umana ma anche
fattore di possibile crescita personale, viene «censurata», respinta come inutile,
anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque. Quando non la si può
superare e la prospettiva di un benessere almeno futuro svanisce, allora pare che la

7
Ibid. p. 117.
8
Ibid., p.123-124.
9
Ibid., p.136-137
10
El valor moral..., p 14....
4
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vita abbia perso ogni significato e cresce nell’uomo la tentazione di rivendicare il


diritto alla sua soppressione” (EV 23)11
Accanto a questa concezione della malattia, i cambiamenti sociali nelle ultime decadi hanno
conformato una cultura che presenta due caratteristiche specifiche:
a) Scarsa capacità di sofferenza: la nostra società è preda di un crescente infantilismo che
spinge senza cessare verso un'immediata soddisfazione e che rende le persone inabili a
sopportare situazioni nelle quali non si ottiene un piacere immediato. Attualmente, si usano
sistematicamente psicofarmaci per sopprimere i disturbi normali della vita, per
diminuire ogni paura o nervosismo.
b) Passività e mancanza di senso: le società primitive non potevano dare soluzioni alla
malattia o alla morte, ma, al contrario, erano capaci di offrire un senso globale. (...) La
nostra società, a differenza delle primitive, tende all'abolizione della sofferenza nella forma
più patologica dal punto di vista psicologico: negando l'esistenza della sofferenza, negando
la realtà. In questo contesto, la sofferenza non ha senso perché, semplicemente, non esiste.
La malattia terminale è un fallimento della scienza e, pertanto, della società nel suo insieme.
(...) La nostra società è l'unica nella storia che ha osato arrivare a questo estremo». 12
La risposta del naturalismo etico
Sotto questa denominazione, si nasconde una pseudomorale molto in voga ai nostri giorni,
e che gode di grande accettazione nella nostra società, centrata nella soddisfazione e
nell'emotività, che costituisce in realtà una trappola per le persone. Ci stiamo riferendo al
naturalismo etico, secondo il quale si considera il bene dell'uomo limitato alla sua
natura, e l'azione come un semplice dispiegamento delle proprie capacità naturali che la
va perfezionando. "
L'uomo non sarebbe altro che il risultato di un insieme di influenze fisiche, fisiologiche e
sociologiche che lo determinano e fanno di lui un pezzo in più della natura".13 L'azione
umana si concepisce come il mero esercizio delle facoltà naturali, lasciando al margine sia
il dominio della persona sopra di esse, sia l'implicazione, nel senso morale, di tale persona
nel proprio agire.
L'uomo guidato dal naturalismo vive ingannato nell'identificazione del bene col piacere
e del male col soffrire, dando origine a una società emotiva e sensitiva la cui filosofia è
vivere il momento ed il cui riferimento etico è il relativismo morale, "secondo il quale le
norme che esprimano obblighi morali non possiedono validità universale, bensì limitata a
contesti storici o culturali determinati".14
Con il risultato di considerare la sofferenza come qualcosa di assolutamente negativo... Il
problema è che in questa dinamica sono coinvolti, in primo luogo, i più deboli secondo la
natura, come è il caso dei malati, degli anziani, degli invalidi (denominazione secondo la
quale il valore di una persona si "misura" esclusivamente in funzione di caratteristiche
fisiche o psichiche), o dei bambini, inclusi quelli non ancora nati.15
L'errore consiste nel non vedere che il godimento, il piacere e perfino la felicità, non sono
fini in se stessi, bensì una conseguenza che accompagna l’ azione; essere felice non è
uguale a sentirsi bene, ad un stato di soddisfazione svincolato da ogni tipo di problemi, ma

11
E’ significativo il dibattito in corso ai nostri giorni sull’appello al capo dello Stato Giorgio Napolitano,fatto da
Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare, invocando il diritto ad una “morte dignitosa” ed assistita.
12
Ignacio Serrada Sotil, op. cit.,p.15 J. Garcia – Campayo, «La enfermedad y el sentido del sufrimiento»:
Cuadernos de bioética, 7 (1996).
13
Ibid.,p.46 F. Blazquez – A. Devesa – M. Cano, Diccionario de términos éticos, Verbo Divino, Estella 1999, p.
396.
14
Ibid,p.47 È evidente che queste questioni che appena si abbozzano qui, sono suscettibili di uno studio più
ampio, ci limitiamo qui ad alcuni accenni. L. Rodriguez Dupla, Etica, (BAC), Madrid 2001, p. 105. Cf. EV 70.

15
Ibid., p.48 Cfr. Evangelium Vitae, nn. 11-17.
5
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fa riferimento alla pienezza della vita, a condividere il bene che mi precede e guida le mie
azioni.16
Le conseguenze del naturalismo morale sono disastrose perché, come si è visto, la negazione
dell'intenzionalità ultima causa la frustrazione esistenziale..17
La gioia è qualcosa di più profondo del piacere, e può accompagnare perfettamente la
fatica, il lavoro ed anche la sofferenza, secondo il senso che ogni persona va scoprendo
nella propria esperienza di vita. Di fatto “l’ideale della vita senza dolore, la illusione della
insensibilità, distrugge nell’uomo perfino i propri organi percettivi”. 18
Conseguenze i malati negli ospedali di oggi:
Grossomodo possiamo dire che oggi il malato viene sempre più considerato come oggetto di
studio, di ricerca, di sperimentazione di nuove terapie. Mentre fino all'illuminismo il malato in
genere era sempre considerato nella sua integralità personale, con un rapporto personale con il
medico o con il sacerdote, attorniato e sostenuto dall'affetto dei familiari, con l'evento della
medicina moderna l'ammalato comincia ad essere trattato meno come persona, e sempre più
come un oggetto, isolato dall'ambiente familiare, e sperimenta la solitudine nei complessi
ospedalieri; non ha più un rapporto personale con il medico. Negli ospedali il medico ha rapporti
saltuari solo con i familiari per informarli dell'evoluzione in bene o in male della malattia.
Si notano tuttavia nuove tendenze per rapportarsi al malato come persona nella sua integralità.
Oltre agli ospedali dove operano medici cattolici o con coscienza umana, e dove la assistenza è
assicurata da suore cattoliche o personale animato da rispetto ed amore verso i degenti, sorgono
forme di medicina che offrono terapie integrate rispettose dei vari aspetti della persona
dell’ammalato.
Altre risposte alla sofferenza ai nostri giorni
Molte altre sono le risposte al problema della sofferenza nella malattia, nella vecchiaia e di fronte
alla morte ai nostri giorni: oltre alla medicina, il ricorso anche alla magia, a religioni orientali tra
cui di moda il Buddismo 19, a sette esoteriche, allo spiritismo, all’astrologia.

La risposta della Rivelazione


Dopo questo rapido sguardo ad alcune risposte alla sofferenza vediamo ora la risposta che ci viene
dalla Rivelazione. È da precisare che nel giudeo cristianesimo la risposta al perché della
16
In un libro che sta riscuotendo grande successo in germania “La festa è finita” di Peter Hahne (in uscita per
Marsilio il 4 ottobre, pagg. 116, euro 10), l’autore critica la società edonista e individualista uscita dal ’68, e
invita a ritornare a Dio e alla Chiesa. (Il Giornale del 30 Settembre 2006, p.27 - Cultura)
17
Ibid., p.48 Cf. Vilar, Antropologia del dolor, p. 45: "Il piacere è stato molte volte elevato all'ordine di fine,
alla cui aspirazione porta la unica funzione della vita. Questa ossessione degenera in mania ed atrofizza tutta la
tematica transitiva della vita umana. L’edonismo, privo di vincolo con il dovere, sostenitore della comodità per
natura, senza capacità per ili lavoro e lo sforzo, si fa arbitrario e capriccioso, assente di comprensione ed
insensibile, indifferente alla verità ed esposto alla noia esistenziale costante."
18
Ibid., D. Solle, Sufrimiento, Sigueme, Salamanca 1978, p. 10.
19
Ignacio Serrada Sotil, op. cit. p .45 "Buddha, che significa illuminato o sveglio, era il nome descrittivo che
ricevette un principe indiano, Siddharta Gautama, per essere arrivato ad uno stato di completa conoscenza. Il
cammino buddista non ha altro scopo che condurre ad uno stato di illuminazione ed alla liberazione dalla
paura e dalla sofferenza che tale conoscenza implica".Tale dottrina ha la sua base nelle quattro nobili verità.
La prima è la verità della sofferenza: suppone la conoscenza che l'esistenza è, in se stessa, sofferenza
(dukkha). Cioè, la vita è radicalmente incapace di soddisfarci. La condizione umana è fragile, malaticcia, e
la morte è l'unica realtà certa. Tanto la nascita come la malattia, la decadenza della vita, la morte sono un
male che confermano nella conoscenza che tutto è sofferenza (dukkha). Colui che trova l'illuminazione su
questo aspetto e non si abbandona ad una vita facile e ingannevole, raggiunge la seconda nobile verità, che
è la verità sulla causa della sofferenza. Questa causa è il desiderio che ci divora costantemente in tutti gli
ambiti della vita, e che porta associata la delusione perché non raggiungiamo mai pienamente quello che
desideriamo. Così, la terza nobile verità riguarda la cessazione della sofferenza: "L'insegnamento di
Buddha afferma che solamente eliminando alla radice la causa della sofferenza (dukkha), cioè il desiderio,
si può raggiungere uno stato nel quale non si dà più sofferenza. Questo stato, lo stato di assenza della
sofferenza, si chiama nirvana» (Ibid., p. 44 Sadddhatissa, Introducción al budismo.
6
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sofferenza non viene più da una ricerca dell'uomo solamente o principalmente, ma viene dalla
luce della rivelazione di Dio. Dio stesso, che con il popolo di Israele inizia una storia di salvezza,
va illuminando poco a poco il suo popolo sul significato, sul perché dei mali che lo affliggono,
sul perché della malattia e della sofferenza.
Questa manifestazione del senso salvifico della sofferenza sarà progressiva e raggiungerà il
culmine in Gesù Cristo, nel mistero della sua Pasqua, passione morte e Risurrezione.
Nell'Antico Testamento Dio attraverso eventi va manifestando al suo popolo il valore salvifico
della sofferenza. Cito solo alcuni passaggi:
Nel libro della Genesi vediamo come la sofferenza sia conseguenza del peccato. Ma:
“...nel racconto della caduta, l'annuncio della salvezza precede l'annuncio della
punizione che sarà inflitto ad Eva ed Adamo. Questo piano di salvezza si
realizzerebbe grazie all'alleanza stabilita con la donna e la lotta vittoriosa sul serpente
dal discendente della donna:
“Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu
maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche...Io porrò
inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti
schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Alla donna disse:
«Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai
figli...All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai
mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare,
maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i
giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba
campestre. Con il sudore del tuo volto, mangerai il pane; finché tornerai
alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere
tornerai!”.(Gen.3,14ss.)
“Quindi questo annuncio iniziale non consiste in punire bensì in salvare...La vittoria
del figlio della donna non si produce se non mediante un combattimento; suppone
quindi un certo carattere penoso. Si vedono profilare le lotte che Gesù terrà contro
Satana e contro coloro che sotto il suo influsso lo respingono e lo perseguitano. Cioè
la vittoria non sarà raggiunta se non mediante la sofferenza. Allora nella persona
del Salvatore la sofferenza assume un altro senso, differente espressamente dal
giudizio dei colpevoli. Nell'origine del vero senso della sofferenza, c'è l'atto
misterioso della generosità del Padre che risponde all'uomo che l'ha offeso, non
con la collera bensì con l’ amore che manifesta dandoci un Salvatore.” 20
Nel libro del Genesi, nella figura di Giuseppe troviamo un primo esempio di lettura della storia
alla luce di Dio, alla luce della rivelazione. Giuseppe, che per invidia è stato venduto dei propri
fratelli e deportato in Egitto, dopo diverse vicissitudini viene ad essere costituito viceré dell'Egitto.
Ai fratelli ignari che ricorrono a lui costretti dalla carestia, quando si fa riconoscere dice loro:
“non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui
prima di voi per conservarvi in vita...Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la
sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a
mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e
governatore di tutto il paese d’Egitto” (Gen.45,5ss).
Questo è un primo esempio di teologia della storia che, consiste nel saper leggere i fatti anche
dolorosi, di sofferenza, alla luce della fede.21

20
Jean Galot, Porque el sufrimiento?, pp.136-137, Caparros Editore, Madrid 2006. Un ottimo libro sul
senso cristiano della sofferenza.
21
Per chi desidera approfondire una lettura della storia passata e recente alla luce della fede consiglio
l’ultimo libro di Papa Giovanni Paolo II “Memoria ed identità”, Rizzoli 2005 ed anche il libro di Georges
Huber, Dio è Signore della Storia, per una visione cristiana della storia, Ed. Massimo, 1982; [Le bras de
Dieu, pour un vision chretienne de l’histoire, Librairie Tequi, Paris 1976]. Scritto da un laico per laici
cristiana, si basa come fonti principali su San Tommaso, la Scrittura, i Padri della chiesa, il Magistero.
7
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Un altro esempio del valore salvifico della sofferenza, cioè del perché Dio permette la sofferenza
al suo popolo in vista della sua salvezza, per chiamarlo a conversione, la troviamo nel libro del
Deuteronomio; Dio dice:
“Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi
quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel
cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto
provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non
avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che
l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore...Riconosci dunque in cuor tuo che,
come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te” (Deut. 8,5 ss.).
Nella storia della salvezza vediamo come molte volte Dio permette situazioni di sofferenza come
la deportazione e l'esilio, per richiamare il suo popolo ad abbandonare l’idolatria e a ritornare a
lui.
Nell'epoca in cui non esisteva ancora la prospettiva di una retribuzione dopo la morte, nel popolo
d'Israele si è andata sempre più diffondendo la convinzione che Dio in questa vita premia i buoni,
coloro che aderiscono e sono fedeli all'alleanza, e castiga gli empi. (Dottrina della retribuzione)
Ma questa convinzione poco a poco è stata messa in dubbio soprattutto nel libro di Giobbe in cui è
presentata la sofferenza di un innocente. Alla domanda sul perché della sua sofferenza, gli amici
di Giobbe rispondono con delle teorie, secondo la dottrina della retribuzione, ma non gli danno
una risposta convincente, mentre egli continua ostinatamente a professare la sua innocenza.
Solamente l'apparire di Dio, condurrà Giobbe a riconoscere la sua situazione di creatura di fronte
al Creatore, e solo allora, dopo un lungo combattimento con Dio stesso, i suoi occhi “vedranno
Colui del quale aveva solo sentito parlare” (cf Gb 42,5). Anche in questo caso la sofferenza di
Giobbe, seppure umanamente inesplicabile alla luce della dottrina della retribuzione, è stata
occasione di un incontro personale con Dio.22 Così ne parla Papa Giovanni Paolo II nella sua
lettera:
“Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la
punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di
non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla
fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe
non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un
mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza... Se
è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è
vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di
punizione...23 Se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per
dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova...” (SD 11).
Un'altra figura emblematica che prefigura la passione-morte di Cristo in vista della sua
Risurrezione è il Servo di Javè. Isaia ne parla nei suoi Canti del servo di Javè: vediamo un
innocente, che non combatte con Dio come Giobbe per avere una risposta, ma come agnello
condotto al macello si lascia condurre al sacrificio. Egli prende su di sé i nostri peccati, le nostre
infermità, e agli occhi di tutti sembra punito da Dio, ma in realtà egli offre la sua sofferenza e la
sua vita in vista della salvezza delle moltitudini. Tocchiamo qui il punto culmine della rivelazione
di Dio sul senso salvifico della sofferenza nell' Antico Testamento. La sofferenza non ha solo più
un significato di pedagogia per condurre il popolo a ritornare a Dio, alla conversione, ma nel Servo
di Javè acquista un valore di salvezza per gli altri.

22
Per mancanza di tempo è impossibile esporre la figura di Giobbe, molto attuale per noi. Una esposizione
molto ricca sul libro di Giobbe alla luce di Gesù Cristo è quella curata da Don Emiliano Jimènez
Hernandez, Giobbe, crogiolo della fede, Ed. Chirico 2006; Job, crisol de la fe, Grafite ediciones, Baracaldo
1999. Ottimo anche il libro di Gianfranco Ravasi, Giobbe, traduzione e commento, Borla 2005.
23
Gesù reagisce contro una interpretazione univoca e troppo rigida del legame tra peccato e malattia: Ai
discepoli che gli chiedevano alla vista di un cieco dalla nascita «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori,
perché egli nascesse cieco?». Gesù: rispose «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio”. (Gv.9,1 ss.)
8
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Sarà in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo “per noi uomini e per la nostra salvezza”, che
risplenderà in pienezza il senso salvifico della sofferenza.
Dopo questo breve sguardo sull’ Antico Testamento, riprendiamo ora il testo della lettera
“Salvifici Doloris” di Papa Giovanni Paolo II. Per comprendere quanto il Papa espone, è
importante tener presente la situazione di peccato, da cui doveva liberarci il Salvatore promesso.
Nella lettera enciclica sullo Spirito Santo, commentando l’azione dello Spirito Santo che avrebbe
“convinto il mondo riguardo al peccato, al giudizio e alla giustizia”, Papa Giovanni Paolo II
afferma::
Il peccato: la disobbedienza
“Secondo la testimonianza dell'inizio, che troviamo nella Scrittura e nella Tradizione, dopo la
prima descrizione nel Libro della Genesi il peccato nella sua forma originaria è inteso come
“disobbedienza”, il che significa semplicemente e direttamente trasgressione di un divieto posto
da Dio. Chiamato all'esistenza, l'essere umano - uomo e donna - è una creatura. L'“immagine di
Dio”, consistente nella razionalità e nella libertà, dice la grandezza e la dignità del soggetto
umano, che è persona. Ma questo soggetto personale è pur sempre una creatura: nella sua
esistenza ed essenza dipende dal Creatore. Secondo la Genesi, “l'albero della conoscenza del
bene e del male” doveva esprimere e costantemente ricordare all'uomo il “limite” invalicabile per
un essere creato. In questo senso va inteso il divieto da parte di Dio: il Creatore proibisce all'uomo
e alla donna di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male. Le parole
dell'istigazione, cioè della tentazione, come è formulata nel testo sacro, inducono a trasgredire
questo divieto - cioè a superare quel “limite”: “Quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri
occhi e diventereste come Dio (“come dèi”) conoscendo il bene e il male”. La “disobbedienza”
significa appunto il superamento di quel limite, che rimane invalicabile alla volontà e libertà
dell'uomo, come essere creato. Dio creatore è, infatti, l'unica e definitiva fonte dell'ordine morale
nel mondo, da lui creato. L'uomo non può da se stesso decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo -
non può “conoscere il bene e il male, come Dio”. (Donum et Vivificantem n.36)
Padre Jean Galot, nel libro citato “Perchè la sofferenza?” commenta:
Perché il Padre ha scelto la via della sofferenza
Perché il Padre ha scelto la via della sofferenza? Il Padre avrebbe potuto scegliere un’altra
via di salvezza, concedere il perdono senza dovere necessariamente ricorrere sacrificio
redentore.
Se egli ha voluto scegliere la via del sacrificio, è perché ha voluto rispettare le conseguenze
del peccato. Se avesse perdonato senza esigere una riparazione, avrebbe dato poca
importanza alle decisioni libere dell'uomo. Se avesse cancellato semplicemente la
colpevolezza, non avrebbe preso sul serio l'offesa del peccato. Quindi invece di minimizzare
questa offesa, la rivelazione dell'Antico Testamento tende ad illuminarne la gravità. II Padre
dà importanza alle opzioni della volontà umana: C'è qui una manifestazione del suo
amore verso l'uomo.
In effetti, esigendo una riparazione, egli fa onore all'uomo. Gli permette in questo modo
una libertà più funzionale di fronte al peccato, e lo sollecita alla collaborazione nell'opera della
salvezza. Quello che ripara è un atteggiamento opposto all'offesa e corregge la deviazione
della volontà e dei sentimenti. E’ vero che la riparazione fondamentale è compiuta da
Cristo, ma il Salvatore coinvolge l'umanità nella partecipazione di questa riparazione.
Il Padre ha voluto rispettare la decisione del peccatore che accetta le conseguenze della
sofferenza e della morte che derivano dal peccato...Il peccatore deve caricare con gli effetti
della sua mancanza...Ma queste conseguenze, il Padre le trasforma, facendo ricadere sul
suo Figlio la sofferenza e la morte. Così è come si armonizza il suo amore salvatore col suo
rispetto alla volontà umana.
Accogliendo la sofferenza e la morte, frutto del peccato, e caricandole sul suo Figlio, il Padre
conferisce loro un nuovo valore. Per i suoi dolori e la sua morte sulla croce, Gesù andrà fino
all'estremo dell'amore. La sofferenza gli permetterà di amare nel modo più perfetto.

9
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Abbiamo fatto già notare che nel Padre la volontà del sacrificio costituisce il culmine del suo
amore verso l'umanità. La sofferenza è la via in cui l'amore divino può manifestarsi nella
forma più totale, è ugualmente la via per cui l'amore umano di Cristo può giungere alla
sua massima espressione: "Non c'è ed amore più grande di colui che dà la sua vita per i suoi
amici" (Jn.15,13) (Porque el sufrimiento?, Jean Galot, p.151)
Per questo San Paolo nella Lettera agli Ebrei esplicita:
“Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è
divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che
della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore
della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita... Infatti proprio per
essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di
venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.
La vera risposta al “perché” della sofferenza, nella Rivelazione dell’amore divino
“Per poter percepire la vera risposta al ‘perché’ della sofferenza, dobbiamo volgere il
nostro sguardo verso la Rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò
che esiste. L’amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane
sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre
spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il ‘perché’ della sofferenza, in
quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino....L’amore è anche
la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa
risposta è stata data da Dio all’uomo nella croce di Gesù Cristo (SD 13).24
La sofferenza nella dimensione della Redenzione
“Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque
crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel
centro stesso dell’azione salvifica di Dio. Salvezza significa liberazione dal male, e per
ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le parole
rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al “mondo” per liberare l’uomo dal male, che
porta in sé la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la
stessa parola “dà” (“ha dato”) indica che questa liberazione deve essere compiuta dal
Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l’amore,
l’amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale “dà” per questo il suo
Figlio. Questo è l’amore per l’uomo, l’amore per il “mondo”: è l’amore salvifico.
Ci troviamo qui in una dimensione completamente nuova del nostro tema. È dimensione
diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato
della sofferenza entro i limiti della giustizia.
Questa è la dimensione della redenzione, alla quale l’Antico Testamento già sembra
preludere. Il colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso
fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l’uomo “non muoia”,
e il significato di questo “non muoia” viene precisato accuratamente dalle parole
successive: “ma abbia la vita eterna”.

24
Papa Benedetto XVI nella lettera enciclica “Deus Caritas est”, così dice: “Quando Gesù nelle sue parabole
parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del Padre che va
incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del
suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel
quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo
rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di
partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata.
E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la
strada del suo vivere e del suo amare” (n. 12).
10
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

L’uomo “muore”, quando perde “la vita eterna”. Il contrario della salvezza non è,
quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza
definitiva: la perdita della vita eterna, l’essere respinti da Dio, la dannazione.
Il Figlio unigenito è stato dato all’umanità per proteggere l’uomo, prima di tutto, contro
questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli
deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si
sviluppa nella storia dell’uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato
e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La
missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il
peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione”
(SD 14).

Cristo per mezzo della sua croce tocca le radici del male e ci salva
“Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione
che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza
egli deve far sì ‘che l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna’. Proprio per mezzo
della sua croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell’uomo e nelle
anime umane. Proprio per mezzo della sua croce deve compiere l’opera della salvezza.
Quest’opera, nel disegno dell’eterno Amore, ha un carattere redentivo” (SD 16).
Il Carme del Servo sofferente
“Il carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un
certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari:
l’arresto, l’umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del
prigioniero, l’ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno,
il cammino con la croce, la crocifissione, l’agonia.25
Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la
profondità del sacrificio di Cristo. Ecco, egli, benché innocente, si addossa le
sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti. ‘Il Signore fece ricadere
su di lui l’iniquità di tutti’: tutto il peccato dell’uomo nella sua estensione e profondità
diventa la vera causa della sofferenza del Redentore...
Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio
unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera il
male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei
rapporti tra Dio e l’umanità, e riempie questo spazio col bene. 26
Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza
redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla croce opera la redenzione, è il
Figlio unigenito che Dio ‘ha dato’. E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al
Padre soffre come uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche - uniche nella
storia dell’umanità - una profondità e intensità che, pur essendo umane, possono essere
anche incomparabili profondità e intensità di sofferenza, in quanto l’uomo che soffre è
in persona lo stesso Figlio unigenito: ‘Dio da Dio’. Dunque, soltanto lui - il Figlio
unigenito - è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell’uomo:
in ogni peccato e nel peccato ‘totale’, secondo le dimensioni dell’esistenza storica
dell’umanità sulla terra” (SD 17).
25
“Cristo attualmente è glorificato e non soffre più, e tutta la nostra vita di fede, la nostra preghiera e la
nostra contemplazione si riferiscono sempre al Cristo reale, che attualmente sta di fronte a noi, cioè al Cristo
glorioso...ciò nonostante la meditazione dei fatti e stati della vita terrestre di Gesù è possibile ed è ragionevole.
Noi non vediamo il Cristo glorioso, egli si rivela a noi solamente attraverso i fatti passati, descritti nel
Vangelo; l'influsso attuale dello Spirito è appunto ricordare e interpretare attraverso quei fatti, l'amore di
Cristo che ci salva, quale si è manifestato nei 'misteri' della sua vita terrestre, e resta attualmente. «Gesù Cristo
è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebr. 13,8). Flick-Alszegh, op. cit. p. 363
26
In questo testo Papa Giovanni Paolo II indica che la sofferenza più grande di Gesù Cristo, ancor più che nella
sua crocifissione si ha nel Getsemani. Normalmente l’agonia segna l’ultimo momento prima di morire, in Gesù
Cristo avviene nell’agonia del Getsemani, prima della crocifissione, come il Papa esplicita più avanti.
11
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente


Cristo soffre volontariamente27 e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza
quell’interrogativo, che - posto molte volte dagli uomini - è stato espresso, in un certo
senso, in modo radicale dal libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa
domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe,
ma è l’unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a
questo interrogativo. Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della
sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la buona novella, ma prima di
tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della buona novella è
integrata in modo organico e indissolubile. E questa è l’ultima, sintetica parola di questo
insegnamento: “la parola della Croce”, come dirà un giorno san Paolo (SD 18).
La “parola della Croce” : verità dell’amore mediante la verità della sofferenza
Questa “parola della croce” riempie di una realtà definitiva l’immagine dell’antica
profezia. Molti passi, molti discorsi durante l’insegnamento pubblico di Cristo
testimoniano come egli accetti sin dall’inizio questa sofferenza, che è la volontà del
Padre per la salvezza del mondo.
Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: “Padre
mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi
tu!” (Mt 26,39), e in seguito: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza
che io lo beva, sia fatta la tua volontà” (Mt 26,42), hanno una multiforme eloquenza.
Esse provano la verità di quell’amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua
obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza.
Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell’amore
mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità
questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male,
davanti al quale l’uomo rabbrividisce. Egli dice: “passi da me”, proprio così, come dice
Cristo nel Getsemani.
Le sue parole attestano insieme quest’unica e incomparabile profondità e intensità della
sofferenza che poté sperimentare solamente l’Uomo che è il Figlio unigenito. Esse
attestano quella profondità e intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a
loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero
divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza
insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell’uomo e quella del Dio-Uomo. Il
Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità, espressa dal
profeta, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell’anima di Cristo.
Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che
testimoniano questa profondità - unica nella storia del mondo - del male della sofferenza
che si prova. Quando Cristo dice: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Si
può dire che queste parole sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione
del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre “fece ricadere su di lui l’iniquità di noi
tutti” (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà san Paolo: “Colui che non aveva conosciuto
peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21). Insieme con questo
orribile peso, misurando “l’intero” male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato,
Cristo, mediante la divina profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce in modo
umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la
rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la redenzione, e può
dire spirando: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30)...
L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E
contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un
nuovo ordine: è stata legata all’amore,28 a quell’amore del quale Cristo parlava a

27
“Egli offrendosi liberamente alla sua passione” cantiamo nell’ Anafora II della eucaristia.
28
“Nel sacrificio del Figlio dell'uomo lo Spirito Santo è presente ed agisce così come agiva nel suo
concepimento, nella sua venuta al mondo, nella sua vita nascosta e nel suo ministero pubblico. Secondo la
12
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Nicodemo, a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per
mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato
tratto dalla croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di
Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva. In essa
dobbiamo anche riproporre l’interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino
alla fine la risposta a questo interrogativo (SD 18).
Il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale
“La croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo e,
in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la
risurrezione: IL MISTERO DELLA PASSIONE È RACCHIUSO NEL MISTERO PASQUALE. I
testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua
risurrezione. Scrive Paolo: ‘Perché io possa conoscere lui , la potenza della sua
risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con
la speranza di giungere alla risurrezione dai morti’ (Fil 3,10-11). Veramente, l’Apostolo
prima sperimentò ‘la potenza della risurrezione’ di Cristo sulla via di Damasco, e solo
in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella ‘partecipazione alle sue sofferenze’,
della quale parla, ad esempio, nella lettera ai Galati. La via di Paolo è chiaramente
pasquale: la partecipazione alla croce di Cristo avviene attraverso l’esperienza del
Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione. 29 Perciò, anche
nelle espressioni dell’Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della
gloria, alla quale la croce di Cristo dà inizio.
I testimoni della croce e della risurrezione erano convinti che ‘è necessario attraversare
molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio’ (At 14,22)” (SD 21).
La risurrezione di Cristo ha rivelato “la gloria del secolo futuro” e, contemporaneamente,
ha confermato “il vanto della croce”: quella gloria che è contenuta nella sofferenza
stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza
dell’uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di
questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte,
pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa.
Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità
dell’uomo (SD 22).

Lettera agli Ebrei, sulla via della sua “dipartita” attraverso il Getsemani e il Golgota, lo stesso Cristo Gesù
nella propria umanità si è aperto totalmente a questa azione dello Spirito-Paraclito, che dalla sofferenza fa
emergere l'eterno amore salvifico. Egli è stato, dunque, “esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio,
imparò l'obbedienza dalle cose che patì”. In questo modo tale Lettera dimostra come l'umanità, sottomessa al
peccato nei discendenti del primo Adamo, in Gesù Cristo è diventata perfettamente sottomessa a Dio ed a lui
unita e, nello stesso tempo, piena di misericordia verso gli uomini.
29
“Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, infine, completare gli stati e i misteri di Gesù.
Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa. Infatti i misteri di
Gesù non hanno ancora raggiunto la loro totale perfezione e completezza. Essi sono certo completi e perfetti
per quanto riguarda la persona di Gesù; non lo sono tuttavia ancora in noi che siamo sue membra, e
nemmeno nella sua Chiesa, che è il suo corpo mistico. II Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e
come un'estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa del mistero della sua incarnazione, della
sua nascita, della sua infanzia, della sua vita nascosta. Lo fa prendendo forma in noi, nascendo nelle nostre
anime per mezzo dei santi sacramenti del battesimo e della divina eucaristia. Lo compie facendoci vivere di
una vita spirituale e interiore che sia nascosta con lui in Dio. Egli intende rendere perfetti in noi i misteri
della sua passione, della sua morte e della sua risurrezione. Li attua facendoci soffrire, morire e risuscitare
con lui e in lui. Desidera comunicare a noi la condizione gloriosa e immortale che egli possiede in cielo.
Ottiene questo fine facendoci vivere con lui e in lui di una vita gloriosa e immortale. Questo lo farà quando lo
avremo raggiunto in cielo” (Dal trattato Il Regno di Gesù, di san Giovanni Eudes, sacerdote).

13
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Partecipare alle sofferenze di Cristo per partecipare alla sua gloria


Nella nostra debolezza si manifesta la potenza di Cristo
Nella sofferenza (malattia, vecchiaia, morte) sperimentiamo la nostra radicale impotenza,
debolezza, ma per la presenza di Cristo vivo in noi, questa diventa occasione perché si manifesti in
noi la potenza della sua gloria.
La sofferenza è sempre una prova - a volte una prova alquanto dura -, alla quale viene
sottoposta l’umanità. Dalle pagine delle lettere di san Paolo più volte parla a noi quel
paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare
dall’Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle
sofferenze di Cristo. Egli scrive nella seconda lettera ai Corinzi: “Mi vanterò quindi ben
volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2Cor 12,9)... E
nella lettera ai Filippesi dirà addirittura: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil
4,13).
Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero
pasquale della croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase,
sino agli ultimi confini della debolezza e dell’impotenza umana: egli, infatti, muore
inchiodato sulla croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua
elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di
tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si
è manifestata nella croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare
particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di
Dio, offerte all’umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente
per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell’uomo, e di voler
proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza.
Nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di
questo “nascere della forza nella debolezza”, di questo ritemprarsi spirituale dell’uomo
in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono
partecipi delle sofferenze di Cristo: “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo
che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la
speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato” (Rm 5,3-5). Nella sofferenza è
come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l’uomo deve esercitare da parte
sua.
E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male.
L’uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la
sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell’uomo unita
alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con
l’opera dell’amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito Santo. Man mano che
partecipa a questo amore, l’uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova
“l’anima”, che gli sembrava di aver “perduto” a causa della sofferenza (SD 23).
Nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo
Attraverso i secoli e le generazioni è stato constatato che nella sofferenza si nasconde una
particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad
essa debbono la loro profonda conversione molti santi, come ad esempio san Francesco
d’Assisi, sant’Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che
l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza
diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la
propria vita e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della
grandezza spirituale che nell’uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile.
Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi
incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e

14
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e
normali.30
Questa interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza certamente sono frutto di
una particolare conversione e cooperazione con la grazia del Redentore crocifisso. È
lui stesso ad agire nel vivo delle umane sofferenze per mezzo del suo Spirito di verità,
per mezzo dello Spirito consolatore... È lui - come maestro e guida interiore - a insegnare
al fratello e alla sorella sofferenti questo mirabile scambio, posto nel cuore stesso del
mistero della redenzione. La sofferenza è, in se stessa, un provocare il male. Ma Cristo
ne ha fatto la più solida base del bene definitivo, cioè del bene della salvezza eterna.
Con la sua sofferenza sulla croce Cristo... ha vinto l’artefice del male, che è Satana, e la
sua permanente ribellione contro il Creatore. Davanti al fratello o alla sorella sofferenti
Cristo dischiude e dispiega gradualmente gli orizzonti del regno di Dio: di un mondo
convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato, che si sta edificando sulla
potenza salvifica dell’amore. E, lentamente ma efficacemente, Cristo introduce in
questo mondo, in questo regno del Padre, l’uomo sofferente, in un certo senso attraverso
il cuore stesso della sua sofferenza. La sofferenza, infatti, non può essere trasformata e
mutata con una grazia dall’esterno, ma dall’interno. E Cristo mediante la sua propria
sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad ogni sofferenza umana, e può agire
dall’interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità, del suo Spirito consolatore
(SD 26).31
Il valore della sofferenza si scopre in un cammino progressivo
Non sempre, però, un tale processo interiore si svolge in modo uguale. Spesso inizia e si
instaura con difficoltà. Già il punto stesso di partenza è diverso: diversa è la disposizione,
che l’uomo porta nella sua sofferenza. Si può, tuttavia, premettere che quasi sempre
ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda
del suo “perché”. Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a
questa domanda al suo livello umano. Certamente pone più volte questa domanda anche
a Dio, come la pone a Cristo. Inoltre, egli non può non notare che colui, al quale pone la
sua domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla croce, dal centro della sua
propria sofferenza. Tuttavia, a volte c’è bisogno di tempo, persino di un lungo tempo,
perché questa risposta cominci ad essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non
risponde direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa il
senso della sofferenza. L’uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso
diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. 32
La risposta del Signore alla sofferenza non è astratta: è una chiamata “Seguimi!”
La risposta che giunge mediante tale partecipazione, lungo la strada dell’incontro
interiore col Maestro, è a sua volta qualcosa di più della sola risposta astratta
all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. È
una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di

30
Per chi fosse interessato mi permetto di segnalare il libro di Domenico Mondrone, Angiolino, Edizioni
Centro Volontari della Sofferenza, Via dei Bresciani 2, 00186 Roma 1983; [in spagnolo: Domenico
Mondrone, Angelo, Edibesa, Madrid 2003]. È la vita di un mio amico, il Venerabile Angiolino Bonetta, del
quale è in corso la causa di beatificazione. Una testimonianza di come agisce il Signore in un ragazzo di 14
anni, affetto da cancro. Nel nostro tempo in cui si approva la legge sull’eutaniasia per ragazzi affetti da
malattie terminali, è una testimonianza di attualità.
31
“…Gesù non esita a proclamare la beatitudine di coloro che soffrono: «Beati gli afflitti, perché saranno
consolati…» (Mt 5,4ss). Non si può capire questa beatitudine se non si ammette che la vita umana non si
limita al tempo della permanenza sulla terra, ma è tutta proiettata verso la perfetta gioia e pienezza di vita
dell'aldilà. La sofferenza terrena, quando è accolta nell'amore, è come un nocciolo amaro che racchiude il
seme della nuova vita, il tesoro della gloria divina che verrà concessa all'uomo nell'eternità” (Catechesi del
Papa agli ammalati, Roma, 27 aprile 1994, 3).
32
Nella misura in cui di fronte alla sofferenza chiudiamo il nostro cuore a Dio, questa si trasforma in un
insopportabile peso e angoscia, al contrario nella misura in cui il nostro cuore si apre a Dio, abbandonandoci
alla sua volontà, fluisce in noi la forza di Cristo risorto che ci infonde pace e talora anche gioia.
15
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

tutto dice: “Seguimi!”. Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di
salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia
croce. Man mano che l’uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla croce di
Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza. L’uomo non scopre
questo senso al suo livello umano, ma al livello della sofferenza di Cristo. Al tempo stesso,
però, da questo livello di Cristo, quel senso salvifico della sofferenza scende a livello
dell’uomo e diventa, in qualche modo, la sua risposta personale. E allora l’uomo trova
nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale (SD 26).
Gioia nella sofferenza
Di tale gioia parla l’Apostolo nella lettera ai Colossesi: “Sono lieto delle sofferenze
che sopporto per voi” (Col 1,24). Fonte di gioia diventa il superamento del senso
d’inutilità della sofferenza, sensazione che a volte è radicata molto fortemente
nell’umana sofferenza. Questa non solo consuma l’uomo dentro se stesso, ma
sembra renderlo un peso per gli altri. L’uomo si sente condannato a ricevere aiuto
e assistenza dagli altri e, in pari tempo, sembra a se stesso inutile. La scoperta del
senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma questa sensazione
deprimente (SD 27).

Fecondità apostolica della sofferenza


La fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza interiore
che l’uomo sofferente “completa quello che manca ai patimenti di Cristo”; che
nella dimensione spirituale dell’opera della redenzione serve, come Cristo, alla
salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi è utile agli altri, ma per di più
adempie un servizio insostituibile. Nel corpo di Cristo, che incessantemente cresce
dalla croce del Redentore, proprio la sofferenza, permeata dallo spirito del sacrificio
di Cristo, è l’insostituibile mediatrice e autrice dei beni, indispensabili per la
salvezza del mondo. È essa, più di ogni altra cosa, a fare strada alla grazia che
trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa, rende presenti nella storia
dell’umanità le forze della redenzione. In quella lotta “cosmica” tra le forze
spirituali del bene e del male della quale parla la lettera agli Efesini, le sofferenze
umane, unite alla sofferenza redentrice di Cristo, costituiscono un particolare
sostegno per le forze del bene, aprendo la strada alla vittoria di queste forze
salvifiche (SD 27).
“La persuasione33 che la sofferenza, portata con lo spirito di Cristo, ha una efficacia
'apostolica', è stata vissuta come sfondo della vita cristiana attraverso la storia della
chiesa. Infatti molti credenti trovavano coraggio e generosità per affrontare il
martirio e la quotidiana croce della sofferenza, imposta loro dalla provvidenza,
nella certezza che tale pazienza animata dalla fede sarà di utilità spirituale, per il
prossimo, specialmente nell'ambiente immediato del sofferente.34
I martiri stessi, sono stati persuasi che il martirio non solo è una testimonianza di
eccezionale efficacia per la verità del messaggio cristiano, ma è anche la
continuazione dell'opera di Cristo, come fonte oggettiva di forza e vita, per
1'edificazione del corpo di Cristo. Più tardi, la vita sacrificata dei monaci, e degli
asceti, e la pazienza eroica dei malati sono state considerate come un
33
Alzsegy, Op. cit., p. 373 ss.
34
“La Rivelazione, d'altra parte, insegna che, nel suo cammino di conversione, il cristiano non si trova solo.
In Cristo e per mezzo di Cristo la sua vita viene congiunta con misterioso legame alla vita di tutti gli altri
cristiani nella soprannaturale unità del Corpo mistico. Si instaura così tra i fedeli un meraviglioso scambio di
beni spirituali, in forza del quale la santità dell'uno giova agli altri ben al di là del danno che il peccato
dell'uno ha potuto causare agli altri... È la realtà della «vicarietà», sulla quale si fonda tutto il mistero di
Cristo. Il suo amore sovrabbondante ci salva tutti. Nondimeno fa parte della grandezza dell'amore di
Cristo non lasciarci nella condizione di destinatari passivi, ma coinvolgerci nella sua opera salvifica e, in
particolare, nella sua passione. Lo dice il noto brano della lettera ai Colossesi: «Do compimento a ciò che
manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (1, 24)”. (Giovanni
Paolo II, Incarnationis mysterium, 10 (1998).
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CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

prolungamento della passione vivificante del Signore. La dottrina sull'efficacia


apostolica della sofferenza, è stata tematizzata e teorizzata, nella seconda metà
dell'800 e nella prima metà del '900, in un serie di scritti di teologia spirituale, che
sono stati poco considerati, anche perché, rivolgendosi specialmente ai malati,
rimaneva estranei al quadro sistematico dell'insegnamento accademico.
Indirizzandosi ai malati e ai fedeli colpiti da varie sofferenze (fisiche e morali), gli
ultimi tre pontefici riaffermavano con crescente frequenza e insistenza la dottrina,
secondo cui la sofferenza, portata con spirito di fede, ha una utilità per
l'edificazione del corpo mistico.
Ciò si ripete anche nel nuovo rito dell'unzione degli infermi; i sacerdoti devono
esortare i malati ad unirsi con libera accoglienza alla passione e alla morte di
Cristo, e di contribuire così al bene del popolo di Dio.
Ciò che media la salvezza non è la sofferenza nella sua materialità, ma lo Spirito
di Cristo, intensamente vissuto. Sarebbe dunque un malinteso supporre che la
funzione redentiva della croce del discepolo aumenti, in proporzione quantitativa con
l'intensità del dolore; caso mai, si potrebbe cercare una certa proporzione tra la
funzione comunitaria e l'intensità della carità, provocata e manifestata dalla croce. La
sofferenza infatti è operante, in quanto è stimolo e manifestazione della carità”.35

La partecipazione e il sostegno della Comunità


Partecipazione dei fratelli della propria comunità
Nei momenti in cui sperimentiamo maggiormente la nostra debolezza e impotenza (malattia,
vecchiaia, morte) è quando avvertiamo il bisogno della vicinanza dei propri cari e dei fratelli della
comunità . Solo la Parola di Dio ascoltata assiduamente, le celebrazioni in comunità per quanto la
salute ce lo permette, la partecipazione all'Eucaristia, il sostegno dei fratelli, ci aiutano e ci
sostengono nel combattimento contro il demonio, che sempre prende occasione delle nostre
sofferenze per farci dubitare dell'amore di Dio, per farci ribellare contro la sua volontà,
aumentando così molto più profondamente la nostra solitudine, la nostra sofferenza, e talora la
nostra disperazione.
Da vari anni i nostri catechisti invitano soprattutto il responsabile, il presbitero, ma anche tutti
fratelli della stessa comunità, nei limiti delle proprie possibilità e senza farne una legge con
esigenza, a stare vicini ai fratelli ammalati sia negli ospedali che nelle loro famiglia.
Pure ci hanno indicato che fino a quando sia possibile ai fratelli ammalati o anziani poter
partecipare si celebri il gruppo dei garanti e la scrutatio presso le loro case. Come pure
assicurare la partecipazione alla Celebrazione dell’eucaristia della comunità portando loro la
comunione. Anche la recita delle Lodi, o del Vespro, o del Rosario, e talora anche la celebrazione
dell'eucaristia soprattutto nei momenti più critici, con un presbitero e alcuni fratelli attorno al letto
dell'ammalato o in ospedale o nella sua casa (previo eventuale permesso del parroco), sono di
grande aiuto ed esprimono la profonda comunione che ci unisce e che si manifesta nei momenti
di maggiore necessità, di maggiore debolezza.36
Questa stessa cura i fratelli sono chiamati ad avere anche con i fratelli più anziani, magari degenti
nella propria casa, ormai impossibilitati a partecipare alle celebrazioni e agli atti della comunità, a
volte anche in condizioni psichicamente debilitate. Non vanno abbandonati, anche se molto deperiti
rimangono sempre fratelli, parte del Corpo di Cristo, vissuto nella comunità. Anche a loro va

35
Flick-Alszeghy, Il Mistero della Croce, Queriniana, Brescia 1978, pg. 373-379.
36
«Ero malato - dice Gesù di se stesso - e mi avete visitato» (Mt 25,36). Secondo la logica della stessa
economia della salvezza, lui che si immedesima in ciascun sofferente, attende - in quest'uomo - altri
uomini che «vengano a visitarlo». Attende che si sprigioni la compassione umana, la solidarietà, la
bontà, l'amore, la pazienza, la sollecitudine in tutte le varie forme... Gesù vuole che dalla sofferenza, e
attorno alla sofferenza, cresca l'amore, la solidarietà d'amore, cioè la somma di quel bene, che è possibile
nel nostro mondo umano. Bene che non tramonta mai (Saluto del Papa agli ammalati, 11 febbraio
1979,4).
17
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

mantenuta una vicinanza sensibile che li allievi delle loro sofferenze e li aiuti e prepari al passaggio
da questo mondo al Padre.
Anche in situazioni di perdita di facoltà mentali, come nei casi di Alzheimer, in stadio avanzato,
quando le persone non connettono più con la realtà, non riconoscono nemmeno i propri familiari,
sembrano completamente assenti dalla realtà, l'esperienza ha dimostrato che pregare con loro, farli
partecipare a delle celebrazioni eucaristiche magari domestiche sempre li aiuta. Infatti pur avendo
perso certe facoltà mantengono una viva sensibilità per cui percepiscono l'ambiente che li attornia,
l’accoglienza e il calore affettivo della famiglia, ma soprattutto li aiuta l’ambiente di preghiera con
salmi, con la Parola di Dio, con canti: a loro modo vi partecipano trovando sollievo e pace
interiore.
È per questo che il Signore ha istituito un sacramento per ammalati in grave pericolo. Un
sacramento che viene dato come aiuto da parte della Chiesa, della comunità, quando siamo colpiti
da malattia grave.

L’Unzione degli infermi


Il nuovo Rituale si chiama: “Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi” (SUCPI),
spostando quindi l’accento dal momento della morte al sostegno durante una malattia grave, 37 cioè
che presenta rischio di morte, come certe operazioni, oppure in malattie degenerative gravi, come
in caso di tumori, ecc.
La visita agli infermi
Nel nuovo Rituale la Chiesa indica come primo aiuto la “Visita e comunione agli infermi”, nelle
loro case o negli ospedali. Anche se l'invito è rivolto alla premura dei presbiteri e dei diaconi, nelle
nostre comunità questo senso di partecipazione e di aiuto mutuo dei momenti di maggiore
debolezza riguarda tutti i fratelli della comunità, soprattutto coloro che dallo Spirito Santo sono
più inclinati, ed hanno maggiore disponibilità di tempo. Tutti sappiamo infatti che nei momenti di
maggiore gravità della malattia, soprattutto dopo un intervento o nel periodo del recupero, si è
quasi impediti a concentrarsi per pregare o leggere il Breviario, la Parola di Dio, per questo l'aiuto
di qualche fratello della comunità che viene a pregare con noi è di grande sollievo e di aiuto.
“Il nuovo rituale, approvato il 30 novembre 1973 e promulgato il 7 dicembre
successivo38 dal titolo stesso rivela ed esplicita la mentalità sottesa: l’unzione degli
infermi è inserita nel quadro di tutta la pastorale dei malati, di cui viene ribadita la
caratteristica ecclesiale: è la chiesa intera, nell'obbedienza a Cristo, che deve
essere mossa dalla sollecitudine per i malati, la cura dei quali non può essere affare
esclusivo dei presbiteri, ma opera dell'intera comunità cristiana (SUCPI 4; 5; 16;
18: 19; 32; 34: 35...): « È quindi ottima cosa che tutti i battezzati partecipino a questo
mutuo servizio di carità tra le membra del corpo di Cristo, sia nella lotta contro 1a
malattia e nell'amore premuroso verso malati, sia nella celebrazione dei
sacramenti degli infermi. Anche questi sacramenti infatti hanno, come tutti gli altri,
un carattere comunitario, e tale carattere deve risultare, per quanto è possibile, nel-
la loro celebrazione» (SUCPI 33). Un obbligo particolare è fatto ai familiari dei
malati stessi e coloro che in qualsiasi modo sono addetti alla loro cura (SUCPI 34).
Il Rito dell’Unzione degli infermi
Se la vicinanza ai fratelli ammalati è raccomandata a tutti i membri della comunità
secondo le proprie possibilità e disponibilità di tempo, l’amministrazione del
sacramento della unzione degli infermi per quanto possibile dovrebbe coinvolgere
tutta la comunità, che almeno in spirito è unita per supplicare dal Signore la salute
e il sollievo del fratello ammalato.
37
“Nel corso dei secoli, l’Unzione degli infermi è stata conferita sempre più esclusivamente a coloro che
erano in punto di morte. Per questo motivo aveva ricevuto il nome di “ Estrema Unzione ”. Malgrado
questa evoluzione, la liturgia non ha mai tralasciato di pregare il Signore affinché il malato riacquisti la
salute, se ciò può giovare alla sua salvezza” (CCC 1512).
38
L’edizione tipica italiana è stata pubblicata il 23 maggio 1974: Sacramento dell'Unzione e Cura pastorale
degli Infermi, Editrice Vaticana 1979.
18
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Il nuovo Ordo reagisce contro uno spiritualismo esagerato, ricuperando alla luce
dell’incarnazione, tutto ciò che la cultura moderna ha riscoperto intorno alla
corporeità: l'uomo non è una interiorità chiusa che in un secondo tempo, quasi in
una seconda fase, si incarna nel mondo attraverso la corporeità. Il corpo umano fa
indivisamente parte come tale della soggettività dell'uomo. È nel corpo che l'uomo
si manifesta, diventa visibile, percepibile, aperto a tutti. La carne dell'uomo, il suo
essere corpo, è il “luogo” in cui l'uomo ama, soffre, lavora, si relaziona all'altro.
Alla luce di questo recupero, il rituale dichiara che l'uomo intero, spirito incarnato,
è aiutato per vivere la sua vita, nonostante le particolari difficoltà della malattia
(SUCPI 6; 59; 77bis; 79; 80). La stessa formula sacramentale rivela una correzione
di rotta rispetto alla visione espressa dall'invocazione medievale, con la quale si
chiedeva il per-dono dei peccati commessi con i singoli sensi. La liberazione dal
peccato, implicita in ogni evento di salvezza, è invece un effetto secondario e
condizionalo:
«Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Si-
gnore con la grazia dello Spirito santo. Amen. E, liberandoti dai
peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi. Amen».
La formula pone dunque il sacramento sul piano dell'evento salvifico, Cristo non si
presenta come un concorrente di coloro che operano nel campo della medicina:
Cristo è il salvatore. L'unzione, infatti, è sacramento della fede, quindi incontro con
Cristo nel e mediante il segno sacramentale, che è dono di grazia per superare le
difficoltà della situazione di malattia, sostegno nella prova, forza per proseguire il
cammino di salvezza nell’ambito della missione della Chiesa. 39
L’esperienza ci ha mostrato come molte volte la preghiera dei fratelli di comunità (fatta anche
alzandosi di notte) ha ottenuto autentici miracoli di guarigione 40 (sopratutto in casi di malattie
gravi di genitori con figli ancora piccoli) e comunque sempre sono state di giovamento nel
combattimento della malattia.
La sofferenza destinata a santificare coloro che soffrono e anche coloro che li assistono
“Vorrei lasciare, a tutti voi che mi ascoltate, come conclusione, le parole stesse di
Gesù: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Ciò significa che la
sofferenza, destinata a santificare coloro che soffrono, è destinata a santificare
anche coloro che portano ad essi aiuto e conforto”. (Catechesi del Papa agli
ammalati, Roma, 27 aprile1994, 7).
“Se alla luce del Vangelo la malattia può essere un tempo di grazia, un tempo in cui
l'amore divino penetra più profondamente in coloro che soffrono, non c'è dubbio che,
con la loro offerta, i malati e gli infermi santificano se stessi e contribuiscono alla
santificazione degli altri. Ciò vale, in particolare, per coloro che si dedicano al
servizio dei malati e degli infermi. Tale servizio è una via di santificazione come la
malattia stessa. Nel corso dei secoli, esso è stato una manifestazione della carità di
Cristo, che è appunto la sorgente della santità.
È un servizio che richiede dedizione, pazienza e delicatezza, unite a una grande
capacità di compassione e di comprensione, tanto più che, oltre alla cura sotto
l'aspetto strettamente sanitario, occorre portare ai malati anche il conforto morale,
come suggerisce Gesù: «Ero malato... e mi avete visitato» (Mt. 25,36)”. (Catechesi
del Papa agli ammalati, Roma 15 Giugno1994, 6).
39
G. Colombo, “Unzione degli Infermi”, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paoline 1983, pp. 1547ss.
40
“ La grazia fondamentale di questo sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per
superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia. Questa grazia è un
dono dello Spirito Santo che rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del
maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte. Questa assistenza del
Signore attraverso la forza del suo Spirito vuole portare il malato alla guarigione dell’anima, ma anche a
quella del corpo, se tale è la volontà di Dio. Inoltre, “ se ha commesso peccati, gli saranno perdonati ”
(CCC. 1520)
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CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Accettazione della sofferenza non significa opporsi alle cure mediche


“Il senso salvifico della sofferenza non si identifica in nessun modo con un
atteggiamento di passività" (SD 30). “Questo non significa che non si debba
approfondire l'arte medica, realtà necessaria e che tanto bene apporta. In realtà,
bisogna sottolineare l'importanza che hanno oggi quei professionisti che si dedicano
a curare quelli che soffrono. Questa attività ha continuato ad adottare, durante il
tempo, forme istituzionali organizzate e professionali, che prestano un gran servizio.
Quello che qui pretendiamo è insistere nel fatto che il problema non è come
mantenere il dolore e la sofferenza dentro alcuni limiti accettabili, bensì trovare il
suo senso, e segnalare il pericolo di dimenticare che "nessuna istituzione può
sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa
umana, quando si tenta di andare incontro alla sofferenza dell’altro. Questo si
riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora più se si tratta delle molteplici
sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima" (SD 29). 41

L’aiuto degli operatori sanitari


Papa Benedetto XVI nella lettera enciclica Deus Caritas est, così parla degli operatori sanitari:
“Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre
innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in
modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l'impegno del
proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale
necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri
umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta.
Hanno bisogno di umanità. Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali
operatori è necessaria anche, e soprattutto, la «formazione del cuore»: occorre
condurli a quell'incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l'amore e apra il loro
animo all'altro, così che per loro l'amore del prossimo non sia più un comandamento
imposto per così dire dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che
diventa operante nell'amore (cfr Gal 5, 6)” (Benedetto XVI, Deus Caritas est, 31).
La qualità della vita: discriminante moderna
Oggi purtroppo è diffusa la mentalità che discrimina tra vita degna e sana, e vita
qualitativa indegna, carente di valore non appena sia irreparabilmente malata. Il valore
intrinseco della vita in questo modo rimane dosato su criteri soggettivi ed utilitari.
Tuttavia, questa forma di esprimersi, tanto estesa attualmente, è ingannevole, perché la
dignità di una persona non dipende dalle sue circostanze; cioè: un essere umano non perde
la sua dignità a causa del fatto di soffrire.42
È certo che la vita è un valore fondamentale della persona, ma non è un valore assoluto,
perché "fanno parte della dignità della persona altri valori più alti di quello della sua vita
fisica, e per i quali l'uomo può dare la sua vita, spenderla e perfino accorciarla, a patto che
non attenti direttamente contro di essa". È un errore considerare la salute e la totale
assenza di sofferenza come un bene assoluto. È necessario affermare, in questo senso, che
ci troviamo davanti ad un caso grave di manipolazione del linguaggio, che ha come
conseguenza la tergiversazione del significato delle azioni.43
41
Ignacio Serra, Op. cit, nota 255
42
Ignacio Serra, Op. cit.p.115; cf. M.D. Vila-Coro, La bioetica ad un incrocio. Sessualità, aborto, eutanasia,
Dykinson, Madrid 2003), p. 205: "Della morte non si può dire con proprietà che sia degna. La dignità sta
nell'essere, non sta nel non essere che è la morte: non c'è morte degna, c'è una persona che affronta la sua
morte con dignità. La morte ed il dolore si dignificano se sono accettati e vissuti dalla persona in tutta la sua
dimensione; organica, psicologica e spirituale".
43
Ibid.,p. 115 Conferencia Episcopall Española, La eutanasia: 100 cuestiones y respuestas: "L'espressione
"aiutare a morire" è un altro esempio concreto di tergiversazione del senso delle parole, perché non è la
stessa cosa aiutare a morire qualcuno quanto ammazzarlo, benché gli sia data morte per apparente compassione
dietro sua richiesta. L'espressione "aiutare a morire" evoca un atteggiamento filantropico e disinteressato,
generoso e compassionevole che svanirebbe immediatamente se quello che si porta a termine mediante
20
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Risulta evidente che "se l'ideale supremo dell'uomo è il benessere fisico e materiale, la
salute, la bellezza, la forza, la prospettiva di un futuro comodo, allora la sua sofferenza
inutile ed irrimediabile è un male assoluto, e l'eutanasia serve per evitarlo.44 Dentro questa
prospettiva materialista, dovremo concludere anche che ci sono vite umane senza valore ed
uomini che non meritano vivere". Tuttavia, il dolore e la sofferenza non solamente non sono
realtà esterne all'uomo, ma possiedono un valore positivo per la vita umana. Trasformare
la fuga da ogni sofferenza nel valore supremo della vita, suppone negare la propria realtà, e
conduce in maniera inevitabile alla frustrazione esistenziale.
Uso dei palliativi per alleviare il dolore
“La prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggioranza dei malati l'uso di medicine
appropriate per alleviare o sopprimere il dolore, benché da questi possano derivare
intorpidimento o minore lucidità mentale. Quando "motivi proporzionati" lo esigano, è
permesso utilizzare con moderazione narcotici che calmano il dolore, ma conducono anche
ad una morte più rapida. In tale caso, la morte non è voluta o cercata in nessun modo,
anche se si corre questo rischio per una causa giustificabile: semplicemente si ha
l'intenzione di mitigare il dolore in maniera efficace, usando per tale fine quegli analgesica
dei quali dispone la medicina". 45 In qualsiasi caso conviene considerare che i recenti
avanzamenti nel trattamento efficace del dolore e della malattia terminale hanno ridotto
quasi completamente il rischio di anticipare indebitamente la morte.
Deve tenersi anche in conto che la possibilità da parte del paziente di respingere queste
medicine speciali è ammissibile, perché "è necessario lasciare libero il malato che desidera
vivere i momenti della sua malattia in una prospettiva personale e cristiana rinunciando alla
possibilità di alleviare le sue sofferenze, perché, in questo caso, il dolore assume un prezioso
significato salvifico, come partecipazione alla croce di Cristo e, pertanto, può essere accolto
liberamente". Benché tale atto possa considerarsi come eroico in un'assunzione personale
della sofferenza, non deve, tuttavia, essere preteso né imposto a nessuno. 46 (pp. 126 ss.).
La fede viva è il miglior palliativo
Inoltre, il mistero cristiano non è solo qualcosa che si contempla, ma si sperimenta. Vivendo
il mistero della sofferenza cristiana può comprendersi un po' solo che cosa significa la
sofferenza e come trascenderlo e superarlo. Avendo, dunque, in conto quanto esposto, si può
sostenere che la fede appare nell'esperienza di chi soffre, e in modo particolare nella fase
terminale della morte, come realtà trascendente di vero sollievo palliativo.47

l'eutanasia si esprimesse con la parola dura, naturalmente, ma precisa che è ammazzare".


44
E’ sintomatico di questa mentalità ormai diffusa anche dai media, il film “Mar adentro” in cui si mostra come
un atto di pietà e di solidarietà umana aiutare un malato tetraplegico a morire mediante l’eutanasia. “Se non
si capisce il senso della morte, neanche si capisce il senso della vita." È una frase presente nella lettera che
Ramón Sampedro Camean diresse ai giudici il 13 di novembre di 1996 affinché gli permettessero di finire con la
sua esistenza, (per considerarla un diritto, non un obbligo), dopo 28 anni di tetraplegia, provocato da un salto a
capofitto sulla spiaggia che lo lasciò immobilizzo in un letto.
45
Ibid., Evangelista, “Los cuidados paliativos", in: CPPS, Cuidados paliativos, p. 106. Già Papa Pio XII si era
espresso su questa questione nella sua Allocuzione del 24-II-1957, come si raccoglie in Iure et bona, 3: "Ad un
gruppo di medici che gli avevano esposto la seguente domanda: "La soppressione del dolore e della coscienza
per mezzo di narcotici, è permessa al medico ed al paziente dalla religione e dalla morale, (anche quando la
morte si avvicina o quando si prevede che l'uso di narcotici abbrevierà la vita?", il Papa rispose: "Se non ci
sono altri mezzi e se, in tali circostanze, ciò non ostacola il compimento di altri doveri religiosi e morali:
sì."
46
Ibid., pp.125-126
47
Ibid., p.127 B. Honings, «Fe y secularización en la última fase de la vida», en: Ibid., p. 231: "La cura
palliativa per eccellenza, motivata dalla fede, consiste nella presenza personale di Cristo nel malato. Come
nessun altro uomo, Egli conosce il soffrire ed il morire, sta vicino a lui per dargli forza ed aiutarlo a conservare
la fiducia in Dio Padre ed ad avere pazienza col suo fragile corpo destinato alla resurrezione. Riconfortato per
la fiducia in Dio, il malato terminale ottiene la forza di vincere le tentazioni del maligno e l'ansietà della
morte". In questo senso, sono interessanti gli studi realizzati da Zucchi e Honings, sul ruolo fondamentale della
fede nell'esperienza del dolore, esposti in: Andate, La fede come elemento che trascende e facilita il risultato
terapeutico nel paziente che soffre: Dolentium hominum.
21
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

LA VECCHIAIA
Oltre alla malattia e alla sofferenza, una ulteriore tappa che ci attende, ma questo non sappiamo per
quanti di noi, è la vecchiaia. Il Consilium pro laicis, in un documento sulla dignità dell’anziano e
la sua missione nella Chiesa e nel mondo48 afferma:
“Le conquiste della scienza e i conseguenti progressi della medicina hanno
contribuito in maniera decisiva, negli ultimi decenni, ad allungare la durata media
della vita umana. L'espressione "terza età" abbraccia ormai una considerevole
fetta della popolazione mondiale: persone che escono dai circuiti produttivi,
avendo ancora grandi risorse e capacità di partecipazione al bene comune. A questa
folta schiera di "young old" ("anziani giovani", come li definiscono le nuove
categorie della vecchiaia fissate dai demografi, che ne circoscrivono l'età dai 65 ai
75 anni) si aggiunge quella degli "oldest old" ("gli anziani più anziani", che
superano i 75 anni), una quarta età, le cui fila sono destinate a divenire anch'esse
sempre più nutrite.
Papa Giovanni Paolo II nella sua “Lettera agli anziani”,49 scrive:
Che cosa è la vecchiaia?
Sant'Efrem il Siro amava paragonare la vita alle dita di una mano, sia per mettere in
evidenza che la sua lunghezza non va oltre quella di una spanna, sia per indicare che,
al pari di ciascun dito, ogni fase della vita ha la sua caratteristica, e “le dita
rappresentano i cinque gradini su cui l'uomo avanza ". Se, pertanto, l'infanzia e la
giovinezza sono il periodo in cui l'essere umano è in formazione, vive proiettato
verso il futuro, e, prendendo consapevolezza delle proprie potenzialità, imbastisce
progetti per l'età adulta, la vecchiaia non manca dei suoi beni, perché – come osserva
san Girolamo – attenuando l'impeto delle passioni, essa "accresce la sapienza, dà più
maturi consigli". In un certo senso, è l'epoca privilegiata di quella saggezza che in
genere è frutto dell'esperienza, perché "il tempo è un grande maestro". È ben nota,
poi, la preghiera del Salmista: "Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla
sapienza del cuore" (Sal 90 [89], 12).50
Nella vecchiaia saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore
La vecchiaia, dunque, alla luce dell'insegnamento e nel lessico proprio della Bibbia,
si propone come "tempo favorevole" per il compimento dell'umana avventura, e
rientra nel disegno divino riguardo ad ogni uomo come tempo in cui tutto converge,
perché egli possa meglio cogliere il senso della vita e raggiungere la "sapienza del
cuore".51 Essa costituisce la tappa definitiva della maturità umana ed è
espressione della benedizione divina”.52
“Se la vita è un pellegrinaggio verso la patria celeste, la vecchiaia è il tempo in cui
più naturalmente si guarda alla soglia dell'eternità”... Sono anni da vivere con un
senso di fiducioso abbandono nelle mani di Dio, Padre provvidente e
misericordioso; un periodo da utilizzare in modo creativo in vista di un
approfondimento della vita spirituale,53 mediante l'intensificazione della preghiera
e l'impegno di dedizione ai fratelli nella carità... sicché il tramonto dell'esistenza,
nella percezione cristiana, assume i contorni di un "passaggio", di un ponte gettato
dalla vita alla vita, tra la gioia fragile e insicura di questa terra e la gioia piena che il
48
Consilium pro laicis, La dignità dell’anziano e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Roma 1998.
49
Giovanni Paolo II, Lettera agli anziani, Ed. Paoline 1999.
50
Ibid., n. 5
51
"Vecchiaia veneranda – osserva il Libro della Sapienza – non è la longevità, né si calcola dal numero degli
anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; vera longevità è una vita senza macchia " (4, 8-9).
52
Ibid., n. 8
53
Come vedremo più avanti, la nostra attività interiore non termina con la morte, ma continua nella vita
eterna. È pertanto contrario alla visione cristiana il pensare che con la vecchiaia e con la morte tutto finisce.
In realtà un cristiano, per la presenza dello Spirito Santo che sempre lo ammaestra, non va mai in pensione; con
la morte continuerà in modo nuovo la vita attiva nel Signore.
22
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Signore riserva ai suoi servi fedeli: "Entra nella gioia del tuo Signore!" (Mt 25, 21)
(nn. 14 e 16).
La qualità della nostra vecchiaia dipenderà dalla nostra visione di fede
“È oggi molto diffusa l'immagine della terza età come fase di declino in cui
l'insufficienza umana e sociale è data per scontata. Questo è però uno stereotipo che
non rende ragione di una condizione che nella realtà dei fatti è molto più
diversificata, perché gli anziani non sono un gruppo umano omogeneo e la vecchiaia
viene vissuta in modi molto diversi. C'è una categoria di persone che – capaci di
cogliere il significato che essa ha nell'arco dell'esistenza umana – la vivono non solo
con serenità e dignità, ma come una stagione della vita che offre nuove
opportunità di crescita e di impegno. E c'è un'altra categoria – ai nostri giorni
appunto molto numerosa – per la quale la vecchiaia è un trauma. Si tratta di
persone che dinanzi al proprio invecchiamento assumono atteggiamenti che vanno
dalla rassegnazione passiva alla ribellione e al rifiuto disperati. Persone che,
chiudendosi in se stesse e ponendosi esse stesse ai margini della vita, innestano il
processo del proprio degrado fisico e mentale. 54
...La qualità della nostra vecchiaia dipenderà soprattutto dalla nostra capacità di
coglierne il senso e il valore sia sul piano puramente umano che sul piano della
fede. Bisogna perciò situare la vecchiaia in un preciso disegno di Dio che è amore,
vivendola come una tappa del cammino attraverso il quale Cristo ci conduce alla
casa del Padre (cfr. Gv 14, 2). Solo alla luce della fede, forti della speranza che non
delude (cfr. Rm 5, 5), saremo infatti capaci di viverla come dono e come compito, in
maniera veramente cristiana. È il segreto della giovinezza dello spirito, che si può
coltivare malgrado il passare degli anni”.55
Noi sappiamo che gli anziani, anche quando impossibilitati, ammalati, sono una grazia per la
famiglia intera. Anche se in certi momenti può diventare pesante e difficile dare loro assistenza, il
bene che ne viene alla famiglia, sia ai figli come anche ai nipoti, è inestimabile: la presenza di un
anziano anche se malato cronico, aiuta tutti a maturare nella fede.
Per questo nelle nostre Comunità le famiglie tengono con sé i genitori o suoceri anziani e non li
mettono negli ospizi. L’ ambiente familiare di accoglienza, di amore e di affetto è sempre
percepito da loro come positivo e li aiuta nella loro malattia e nel loro deperimento progressivo.
Molto li aiuta anche quando sembra che siano incoscienti la partecipazione a Liturgie domestiche,
alle orazioni, ai Salmi, ai canti, li percepiscono e li aiuta pregare con loro.
Il posto degli anziani è all’interno della famiglia
“Mentre in alcune culture la persona più avanzata in età rimane inserita nella
famiglia con un ruolo attivo importante, in altre culture invece chi è vecchio è
sentito come un peso inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile contesto
può sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere all’eutanasia. L’emarginazione o
addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro presenza in famiglia, o
almeno la vicinanza ad essi della famiglia quando per la ristrettezza degli spazi
abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse possibile, sono di fondamentale
importanza nel creare un clima di reciproco scambio e di arricchente comunicazione
fra le varie età della vita.56 È importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca dove
54
In questo rinchiudersi su di se stessi gioca molto l’orgoglio, per cui talora risulta difficile o impossibile
accettare di dover dipendere dagli altri. Si prende la scusa di non voler essere di peso, di non voler disturbare,
ma nel fondo si rifiuta il fatto che Dio ci ha creati limitati e perciò interdipendenti, bisognosi dell’aiuto degli
altri. In realtà nella sua Sapienza Dio ha disposto la vecchiaia e la nostra inabilità come scuola per l’umiltà, per
farci piccoli per entrare nel Regno.
55
Consilium pro laicis, La dignità dell’anziano e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Roma 1998.
56
“L'ideale resta la permanenza dell'anziano in famiglia, con la garanzia di efficaci aiuti sociali rispetto ai
bisogni crescenti che l'età o la malattia comportano. Ci sono tuttavia situazioni, in cui le circostanze stesse
consigliano o impongono l'ingresso in " case per anziani ", perché l'anziano possa godere della compagnia
di altre persone e usufruire di un'assistenza specializzata. Tali istituzioni sono pertanto lodevoli, e
l'esperienza dice che possono rendere un servizio prezioso, nella misura in cui si ispirano a criteri non solo di
23
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

è andato smarrito, una sorta di «patto» tra le generazioni, così che i genitori anziani,
giunti al termine del loro cammino, possano trovare nei figli l’accoglienza e la
solidarietà che essi hanno avuto nei loro confronti quando s’affacciavano alla vita: lo
esige l’obbedienza al comando divino di onorare il padre e la madre (cf. Es 20,12; Lv
19,3). Ma c’è di più. L’anziano non è da considerare solo oggetto di attenzione,
vicinanza e servizio. Anch’egli ha un prezioso contributo da portare al Vangelo
della vita. Grazie al ricco patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e
deve essere dispensatore di sapienza, testimone di speranza e di carità (EV 94).
La missione di testimoniare e di passare la fede alle nuove generazioni
“E dovere della Chiesa far prendere agli anziani viva coscienza del compito che
anch'essi hanno di trasmettere al mondo il Vangelo di Cristo, rivelando a tutti il
mistero della sua perenne presenza nella storia. E renderli consapevoli della
responsabilità che deriva loro dall'essere testimoni privilegiati – per la comunità
umana e cristiana – della fedeltà di Dio, che mantiene sempre le promesse fatte
all'uomo.
“Nei regimi totalitari atei del socialismo reale nel ventesimo secolo. Chi non ha
sentito parlare delle ‘babuske' russe? Le nonne che, durante lunghi decenni nei quali
ogni espressione di fede equivaleva a un'attività criminale, sono state capaci di
mantenere viva la fede cristiana trasmettendola alle generazioni dei nipoti. È
grazie al loro coraggio che nei paesi ex-comunisti la fede non è scomparsa
completamente e che oggi esiste un aggancio, seppur minimo, per la nuova
evangelizzazione”.57
“Desidero ora rivolgermi ai nonni, così importanti nelle famiglie. Essi possono
essere - e sono tante volte - i garanti dell'affetto e della tenerezza che ogni essere
umano ha bisogno di dare e di ricevere. Essi offrono ai piccoli la prospettiva del
tempo, sono memoria e ricchezza delle famiglie. Mai per nessuna ragione siano
esclusi dall’ambito familiare. Sono un tesoro che non possiamo strappare alle nuove
generazioni, soprattutto quando danno testimonianza di fede all’avvicinarsi della
morte.” (Papa Benedetto XVI, 8 Luglio 2006)
Tempo di semplicità e di contemplazione
In una società come la nostra “dominata dalla fretta, dall'agitazione, non raramente
dalla nevrosi, dimentica degli interrogativi fondamentali sulla vocazione, la dignità,
il destino dell'uomo, la terza età è anche l'età della semplicità, della
contemplazione. L'anziano coglie bene la superiorità dell'"essere" sul "fare" e
sull'"avere". Le società umane saranno migliori se sapranno beneficiare dei carismi
della vecchiaia...
La testimonianza di Papa Giovanni Paolo II: anziano, ammalato ma giovane in spirito
Un esempio straordinario di questa verità ci è venuto da Giovanni Paolo II, anche in
ciò grande testimone per l'uomo di oggi. Di lui, davanti alla sua vecchiaia, si è
detto: “Il Papa vive la sua vecchiaia con estrema naturalezza. Lungi dal
nasconderla (chi non l'ha mai visto scherzare con il suo bastone?), la pone sotto gli
occhi di tutti. Con serena semplicità, di se stesso dice: "Sono un prete anziano". Egli
vive la propria vecchiaia nella fede, al servizio del mandato affidatogli da Cristo.
Non si lascia condizionare dall'età. I suoi settantotto anni compiuti non l'hanno
privato della giovinezza dello spirito. La sua innegabile fragilità fisica non ha
neppure scalfito l'entusiasmo con cui si dedica alla sua missione di Successore di
efficienza organizzativa, ma anche di affettuosa premura. Tutto è in questo senso più facile, se il rapporto
stabilito con i singoli ospiti anziani da parte di familiari, amici, comunità parrocchiali, è tale da aiutarli a
sentirsi persone amate e ancora utili per la società. E come non inviare qui un ammirato e grato pensiero
alle Congregazioni religiose ed ai gruppi di volontariato, che si dedicano con speciale cura proprio
all'assistenza degli anziani, soprattutto di quelli più poveri, abbandonati o in difficoltà?” (Lettera agli
anziani, Papa Giovanni Paolo II, n.13)
57
Ibid.
24
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

Pietro. Continua i suoi viaggi apostolici attraverso i continenti. Ed è sorprendente


constatare come la sua parola acquisti sempre più forza, come essa raggiunga più che
mai ora il cuore della gente”.58

LA MORTE
Il Signore ci invita ad essere sempre vigilanti, sempre pronti alla nostra morte
“Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi
ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore... Ma voi, fratelli,
non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro...”
(1Tess.5,1 ss).
Per noi cristiani la morte è il momento del passaggio da questo mondo al Padre. È il momento
in cui la nostra vita fisica viene meno e rendiamo a Dio il nostro spirito, ed entriamo in una nuova
dimensione, la dimensione del Cielo. Il nostro corpo, che è stato dimora, tempio dello Spirito
Santo, viene accompagnato alla tomba, nel cimitero, nel dormitorio, in attesa della risurrezione dei
corpi. Il nostro io59, il nostro spirito si presenterà davanti a Dio per il giudizio particolare che sarà
secondo le opere che ci accompagnano.60
Il momento della morte: Dies natalis
“Nella tradizione della Chiesa, il momento della morte è stato considerato come il dies
natalis, il giorno in cui il cristiano nasce alla vita vera.
“ La morte è tutt’altro che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza
che si spalanca sull’eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza di
partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione verso l'eternità e per coloro
che la vivono in Cristo, è esperienza di partecipazione nel suo mistero di morte e
resurrezione (Evangelium Vitae 97).
Nel passaggio, certamente drammatico ed agonico, a questa seconda nascita, è necessario far
emergere come fondamentali gli aiuti che la Chiesa può concedere a chi sta vivendo questo
momento.61 I sacramenti sono un mezzo privilegiato per ricevere le grazie opportune in
questo momento fondamentale per la vita di ogni uomo, perché "così, come i sacramenti del
Battesimo, della Confermazione e dell'Eucaristia costituiscono un'unità, chiamata i
sacramenti dell'iniziazione "cristiana", si può dire che la Penitenza, la Santa Unzione e
l'Eucaristia, e non solamente il viatico, costituiscono, quando la vita cristiana tocca la sua
fine, "i sacramenti che preparano ad entrare nella Patria", sono i sacramenti che
chiudono il pellegrinaggio".62

58
Consilium pro Laicis, La dignità dell’anziano…
59
“Non bisogna… pensare che la vita oltre la morte cominci solo con la risurrezione finale. Questa infatti è
preceduta dalla condizione speciale in cui si trova, fin dal momento della morte fisica, ogni essere umano. Si
tratta di una fase intermedia, in cui alla decomposizione del corpo corrisponde "la sopravvivenza e la
sussistenza di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l''io
umano' sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del suo corpo" (Sacra Congregatio pro
doctrina fidei, De quibusdam quaestionibus ad eschatologiam spectantibus, 17 maggio 1979: AAS 71 [1979]
941).
60
Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla
sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data
a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede (CCC 1039).
61
El valor moral...,op.ci. p.128; Cf. Juan Pablo II, «Alocución a la Sociedad Internacional de Oncología
Ginecológica», 30-09-1999 (citado por: MONGE, Medicina pastoral, 199):"Una vita che sta arrivando alla sua
fine non è meno preziosa di una vita che sta cominciando...Nel suo livello più profondo, la morte è come la
nascita: ambedue sono momenti critici e dolorosi di transizione che aprono ad una vita più ricca
dell'anteriore. La morte è un esodo, dopo il quale è possibile vedere il volto di Dio che è la fonte della vita
e dell’ amore, precisamente come un bambino che è appena nato e può vedere il volto dei suoi genitori. Per
questa ragione, la Chiesa parla della morte come di una seconda nascita." Cf. CEE, La eutanasia: 100
cuestiones y respuestas…, 100.
62
Rosario Messina, L’Olio che guarisce, Edizioni Camilliane, Torino 1999, pp. 87-94
25
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza
e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di
annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di
sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le
speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, «in
faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo» per l’uomo; e
tuttavia «l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge
l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il
germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge
contro la morte». Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale
speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede
cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto...
La certezza dell’immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa
proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel
credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio” (Evangelium
Vitae, 64-67).
Il Viatico: Sacramento del "passaggio"
Il sacramento di chi sta per morire, «in articulo mortis», e in ordine alla morte
imminente è l'Eucaristia, detta in quella circostanza «Viatico».63
Il Nuovo Rituale, dopo l'Unzione, riporta il rito del Viatico: «Tutti i battezzati che
possono ricevere la Comunione sono obbligati a ricevere il Viatico. Tutti i fedeli in
pericolo di morte, da qualsiasi causa derivi, sono tenuti al precetto di ricevere la
Comunione. I familiari e i pastori... sono invitati a vigilare perché il Viatico non
venga differito, ma i malati lo ricevano «quando ancora sono pienamente
consapevoli» (n. 27).
«Nel passaggio da questa vita, il fedele, rinvigorito dal Viatico del Corpo e Sangue di
Cristo, viene arricchito del pegno della resurrezione» (n. 26).
«Il Viatico va ritenuto come un segno speciale della partecipazione al mistero... della
morte del Signore e del suo passaggio al Padre» (n 26). Sappiamo infatti che la
morte di Cristo fu il suo «passaggio» da questo mondo al Padre; sappiamo pure che
in grazia di quella anche la morte del credente è un «passaggio», una Pasqua. Nel
momento della propria morte il cristiano ha modo di inserire la sua situazione nella
morte di Cristo, perché sia, come la sua, un passaggio. Solo Cristo morto e risorto è
«via» al Padre.
In rapporto a quanto andiamo dicendo un elemento rituale di essenziale importanza è
il richiamo al Battesimo, fatto aspergendo con acqua benedetta la camera
dell'infermo, come pure rinnovando la fede battesimale.64
È in tale convinzione che le Premesse chiedono pure la «rinnovazione, da parte
dell'infermo, dell'atto di fede battesimale, in cui ricevette l'adozione a figlio ed è
stato fatto erede della promessa della vita eterna» (n. 28).
Il cristiano che possiede profondamente queste convinzioni avrà anche la capacità di
comprendere e gustare la pienezza di significato che in quel momento acquistano le
parole che il sacerdote pronuncia appena data la Comunione: «Egli (il corpo e il
sangue di Cristo) ti custodisca e ti conduca alla vita eterna». Parole udite molte
volte durante l'assemblea liturgica, ma che in quel momento raggiungono il credente
con una forza e una pienezza tutta particolare. «Ti custodisca», anima e corpo per la
resurrezione finale; «ti conduca alla vita eterna»: alla pienezza e totalità della vita in
Dio per l'anima e per il corpo.

.Ibid.
63

64
E’ consuetudine nel Cammino neocatecumenale che membri della comunità accompagnino con il canto
del Credo il passaggio di un loro fratello da questo mondo al Padre.
26
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

La raccomandazione dei moribondi


Al capitolo sul Viatico nel nuovo Rituale fa seguito un ultimo capitolo di
fondamentale importanza pastorale e liturgica: «La raccomandazione dei
moribondi».
«L'amore verso il prossimo deve spingere i cristiani a star vicini ai loro fratelli,
prossimi a morire, perché sentano in maniera più viva la comunione con la Chiesa
e, aiutati dalla comune preghiera, provino il conforto della misericordia di Dio e
ravvivino la loro fiducia in Cristo» (n. 138).
La presenza attiva della comunità, pur ridotta ai soli familiari, è un elemento di vero
aiuto e di profondo conforto.
L'appello del nuovo ordinamento della Liturgia per la cura dei malati è rivolto a tutti,
ma in maniera più particolare ai sacerdoti e ai diaconi: «I sacerdoti procurino per
quanto è possibile di trovarsi personalmente vicino ai moribondi e di recitare con i
familiari le preghiere di raccomandazione e quelle dell'ultimo respiro; con la loro
presenza essi esprimono con maggiore evidenza che il cristiano muore nella
comunione della Chiesa» (n. 142).
«Coloro poi che assistono un moribondo... possono trarre un grande conforto da
queste preghiere che richiamano al senso pasquale della morte cristiana» (n.139).
Il momento del «trapasso» richiede una preghiera più intensa e fervorosa.
«La catechesi, avverte il Direttorio Pastorale, spieghi il vero senso di ciò che la
Chiesa fa in tale celebrazione. Essa non si limita a raccomandare l'anima del
morente alla misericordia divina ricorrendo alla intercessione di Maria e dei Santi,
essa consegna (da «commendare») il fedele a Dio invocando tutta la corte celeste ad
accoglierlo» (n. 91). La celebrazione infatti si chiude con un antico responsorio con
cui la comunità segue nell'aldilà il proprio fratello: «Venitegli incontro, o santi di
Dio: accorrete, angeli del Signore, accogliete la sua anima e presentatela davanti al
trono dell'Altissimo».
Il bacio del Crocifisso, o, come suggeriscono le Premesse (n. 139), il segno della
croce in fronte, e, secondo l'opportunità, la lettura della Passione del Signore,
associano la morte del battezzato a quella di Gesù sulla croce.65

La sepoltura cristiana: inumazione e non cremazione


“la Chiesa inculca il rispetto per i resti mortali di ogni essere umano, sia per la
dignità della persona a cui essi sono appartenuti, sia per l'onore che si deve al
corpo di quanti, col Battesimo, sono divenuti tempio dello Spirito Santo. Ne è
specifica testimonianza la liturgia nel rito delle Esequie e nella venerazione delle
reliquie dei Santi, che si è sviluppata fin dai primi secoli. Alle ossa di questi ultimi -
dice san Paolino di Nola - "mai viene meno la presenza dello Spirito Santo, da cui
proviene una viva grazia ai sacri sepolcri" (Carme XXI, 632-633)” (Udienza
Generale 28 Ottobre 1998).
Per contrarrestare la mentalizzazione sempre più pressante e diffusa 66, anche in campo cattolico,
che spinge a preferire la cremazione alla sepoltura delle spoglie mortali, vediamo quale è stata la
posizione della Chiesa in passato e quale è oggi. Farò un brevissimo exursus storico, offrendo un
po’ di bibliografia per chi volesse approfondire il pensiero della chiesa.
Inumazione e cremazione
“L'inumazione dei cadaveri, come abbiamo documentato studiando l'argomento
presso le varie culture, era praticata quasi ovunque in Israele. La cremazione... era
praticata solo dagli stranieri: gli Israeliti se ne scostarono sempre, ma il popolo
ebraico aveva delle motivazioni ben precise nel rifiutarla; infatti era per essi una
65
Rosario Messina, op.cit.
66
Un esempio di “disinformazione” circa il pensiero della chiesa sulla cremazione, in www.socremfirenze.it
in L’aspetto Religione, La Cremazione e la Religione Cristiana
27
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

modalità sconveniente e non in consonanza con la riverenza dovuta al corpo


umano. Mentre al contrario, bruciare i corpi era l'oltraggio che veniva inflitto ai
grandi delinquenti, o ai nemici che si volevano annientare definitivamente. 67
In seguito, il maggior incentivo all'inumazione venne ancora nell'epoca apostolica,
cioè nel I sec. d.C.
Nel II sec. d.C. i cadaveri dei cristiani defunti furono sepolti nei terreni delle
famiglie nobili divenute cristiane. Le ricerche archeologiche ci riferiscono i nomi di
alcuni cimiteri o “catacombe". Infatti il nome pagano «necropolis», o città dei
morti, che si usava per indicare i luoghi della sepoltura, venne poco a poco
sostituito dai cristiani con il nome cimitero, derivante dal greco «koimào» ossia
dormire (120).
Il pensiero filosofico-teologico della Chiesa primitiva, purificata dalle persecuzioni,
proibiva la cremazione dei cadaveri. Il filo conduttore di questa decisione, che
prese radici nella dottrina della Chiesa, fu quell'aspetto assai ribadito che esponeva
chiaramente il tradizionale insegnamento sulla resurrezione dei corpi, l'immortalità
dell'anima e la fede nel giudizio finale...
Con la riforma carolingia, Carlo Magno nel Capitulare Paderbrunnense, del 785,
vietava il rito della cremazione considerato pagano, spiccando la pena capitale
per tutti coloro che lo praticassero.
Con il Rinascimento, ma specialmente con l'Illuminismo, si cominciò a sostenere la
cremazione. I motivi basilari originanti quel movimento erano sostanzialmente due:
l'igiene e la salute pubblica, con un’ulteriore connotazione dettata
dall'anticlericalismo di moda: l'odio per la religione.
Una certa laicizzazione del culto cattolico che ne derivò negli anni 1790-92, con la
nuova costituzione civile, mirò a staccare il clero francese da Roma e ad asservirlo
interamente alla supremazia dello Stato. Le logge massoniche contribuirono alla
diffusione di posizioni distorte, cercando con tutti i mezzi possibili di ottenere
legalmente che l'incenerimento dei cadaveri fosse sostituito all'allora vigente
sistema di inumazione, ma esse consideravano il cristianesimo come «un errore ed il
cattolicesimo come un flagello».68
La prima società che propagava la cremazione era nata in Inghilterra nel 1874. E in
Italia già nel 1882 era sorta una lega o unione di tutte le società che praticavano la
cremazione, per conseguirne il fine comune...
Nel 1887 si diffonde una lega internazionale di tutte le società favorevoli alla
cremazione. Nei congressi internazionali le società aderenti formularono degli
obiettivi:
1° «Proposta di caldeggiare presso i poteri legislativi un'innovazione di polizia
mortuaria, tendente a generalizzare il sistema della cremazione per i resti mortali,
già condannati da viete consuetudini.
6° «Desiderio che vengano trasportate le urne cinerarie e abolite le tasse relative».
7° «Abolizione della tassa governativa per il trasporto di salme al più vicino
crematorio della provincia».
13° «Cremazione dei resti dei caduti di guerra».

67
Zbigniew Suchecki, La cremazione, Libreria editrice vaticana, Città del vaticano 1995; p. 117ss.
68
«Non ci sarà più culto cattolico in Francia, non un battesimo, non una confessione, non un matrimonio,
non un'estrema unzione, non una messa: nessuno farà o ascolterà un sermone, nessuno amministrerà o
riceverà un sacramento. Nei comuni dove noi siamo padroni, ci faremo domandare, dai Giacobini del
luogo, l'abolizione del culto. Chiuderemo le chiese, demoliremo i campanili, spezzeremo i santi,
profaneremo le reliquie, proibiremo i funerali religiosi, impareremo i funerali civili», in J. Taine, La
Rivoluzione: il governo rivoluzionario, Milano 1921, vol. 1, pp. 76-77; E.F. Regatillo, Los cadaveres:
Cremación de los cadaveres, in Sal Terrae, 17 (1928) pp. 706-713.
28
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

14° «Processo tecnico per effettuare sul posto la cremazione delle salme dei caduti al
fronte»...69
Prime disposizioni della S. Sede nei confronti della cremazione
La questione della cremazione dei cadaveri pur non essendo contraria alla Sacra
Scrittura, non fu né risolta né definita con un dogma di fede. Tuttavia,
l'argomentazione con cui la cremazione veniva proposta dai suoi sostenitori obbligò
il S. Officio, a dei pronunciamenti.
Nei primi documenti la Santa Sede aveva dichiarato che la cremazione è contraria
alla tradizione dei cristiani e il S. Uffizio, a tal proposito aveva emanato, decreti,
risposte e istruzioni.
Un primo documento sotto forma di decreto, Quoad cadaverum cremationes, del 19
maggio 1886, nella maggior parte del suo contenuto, domanda ai cristiani di
conservare l'antica consuetudine del solenne rito dell'inumazione, consacrato
dalla Chiesa... In un periodo nel quale l'idea di cremazione andava espandendosi, e in
risposta a domande che ponevano molti cristiani in uno stato d'incertezza, l'organo
ufficiale della S. Sede dichiarava che tutte le società con interessi di propaganda
anticristiana della cremazione, e soprattutto le sette massoniche o ad esse associate,
incorrono in pene stabilite contro di esse... Pur colorando sotto il pretesto dell'igiene
la loro propaganda, intendevano realmente scalzare dai fedeli la speranza della
resurrezione dei corpi e allontanarli dai pensieri salutari dell'al di là, che la morte -
qualunque morte - o suscita o risveglia.
Le sanzioni previste furono, dunque, la scomunica e la privazione della sepoltura
ecclesiastica.70
Papa Leone XIII invitava quindi in modo particolare gli Ordinari del luogo a
istruire e notificare ai loro fedeli le posizioni della Chiesa...
Nell'ambito della riforma liturgica, la celebrazione delle esequie per il caso della
cremazione venne presa in considerazione come abbiamo appena detto, fin dalla
fase preparatoria al Concilio. Nel passato, col diffondersi della cremazione,
venivano spesso presentate sul suo conto motivazioni contrarie alla fede nella
resurrezione dei morti e nella vita futura. Per questo la Chiesa l'aveva proibita ai
fedeli, come abbiamo avuto modo di documentare, rifiutando di conseguenza ogni
rito liturgico e vietando di seppellire nel camposanto l'urna contenente le ceneri. La
riflessione sulla liturgia ha così portato spontaneamente al ripensamento ed alla
riforma dei riti funebri.
La Riforma del Concilio: L'istruzione «De Cadaverum Crematione: piam et constantem» 71
La riforma conciliare intendeva innovare tutta la legislazione precedente, le
disposizioni riguardanti le sanzioni contenute nell'ordinamento della Chiesa e, in
modo particolare, per quanto ci concerne, la sepoltura ecclesiastica, ed effettivamente
ha condotto ad una rivisitazione del CIC del 1917 e raggiunge con il CIC del 1983
dei traguardi altamente innovativi rispetto alla disciplina precedente.
Con l'Istruzione «De cadaverum crematione: piam et constantem», sulla
cremazione dei cadaveri, emanata il 5 luglio 1963... la Congregazione del S. Officio,
invita ad usare ogni cura per conservare la consuetudine di seppellire i cadaveri
dei fedeli defunti, in quanto traduce più fedelmente il mistero e la speranza della
resurrezione.

Dopo il Concilio vaticano II


«Fino a ieri, data la mentalità con cui veniva propugnata, la cremazione doveva
presumersi scelta e praticata in opposizione della dottrina della Chiesa, quasi una
69
Ibid., p.134.
70
Ibid., p. 139.
71
«De Cadaverum Crematione: piam et constantem» (5-07-1963)
29
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

sfida al senso cristiano della vita e della morte. Oggi la mentalità è cambiata, e si
può presumere che la cosa avvenga per motivi onesti, alieni da scopi antidogmatici
ed anticristiani».
In questi ultimi tempi è cambiata radicalmente nelle diverse società anche
l'argomentazione, con la quale molte persone han fatto ricorso alla S.
Congregazione per ricevere il permesso della cremazione . Un cambiamento radicale
nella mentalità delle persone spiega specialmente la mitigazione della precedente
disciplina ecclesiastica relativa alla cremazione. Essa è richiesta non certo per odio
contro la Chiesa o contro le usanze cristiane.
Argomenti di natura igienica furono proposti da persone che volevano praticare la
cremazione, perché l'inumazione, secondo il loro parere, era molto pericolosa alla
salute pubblica ed all'igiene. I casi di infezione dell'acqua, dell'aria e dei terreni
furono un tipo di accusa contro i cimiteri di corpi inumati. «È stato provato
sperimentalmente il movimento dei micro-organismi paleogeni nello spessore del
suolo ed il passaggio da questo in altri esseri superiori per influenza delle falde o
vene acquee superficiali». L'esperienza, dunque, insegna che casi di inquinamento
avevano luogo nei cimiteri dove non si rispettava il tempo previsto dalla legge per
effettuare nello stesso posto nuove inumazioni. Infatti si può sempre essere
pienamente sicuri che un inquinamento non si possa verificare quando la terra è
purificata e protetta dalle piante. Abbastanza recentemente Angelo Colli con esame
chimico ha dimostrato che le acque del Campo Verano a Roma erano meno
inquinate della falda liquida di altri punti della città.
L'argomento di natura igienica favorevole alla cremazione fu addotto dai medici, per
i casi in cui degli individui erano stati portatori di certi tipi di malattie infettive. In
questi casi solo il fuoco avrebbe distrutto i postumi di esse.
Ripetendo gli stessi argomenti e le stesse motivazioni dei documenti precedenti, il
documento giunge ad affermare: «La santa madre Chiesa, attenta direttamente al
bene spirituale dei fedeli, ma non ignara delle altre necessità, decide di ascoltare
benignamente queste richieste, stabilendo quanto segue: “Deve essere usata ogni cura
perché sia fedelmente mantenuta la consuetudine di seppellire i cadaveri dei
fedeli; perciò gli ordinari con opportune istruzioni ed ammonimenti cureranno che il
popolo cristiano rifugga dalla cremazione dei cadaveri, e non receda, se non in casi
di vera necessità, dall'uso dell’inumazione che la Chiesa sempre ritenne e adornò di
solenni riti».72
Nel gennaio 1977 la S.Congregazione per i Sacramenti e per il Culto Divino, in una
risposta riguardante la celebrazione delle esequie di coloro che avessero scelto la
cremazione del proprio cadavere, dava una soluzione al problema riguardante la
celebrazione in chiesa dei riti esequiali in presenza dell'urna con le ceneri...
Seguendo la secolare prassi ecclesiale dell'inumazione, il Dicastero come risposta
afferma che non vede opportuno celebrare il rito esequiale, prescritto per la
celebrazione in presenza del cadavere del defunto, sulle sue ceneri.73
Con questa decisione il Dicastero non vuole condannare la cremazione come una
forma di rito delle esequie previsto dalla Chiesa, ma avverte che non si vede
72
S.C.S.Off, inst., De cadaveribus crematione: piam et constantem (5 Luglio 1963), AAS 56 (1964),
pp.822-823.
73
“Infatti non si vede opportuno celebrare sulle ceneri il rito che è ordinato a venerare il corpo del
defunto. Non si tratta di condannare la cremazione ma piuttosto di conservare la verità del segno
nella azione liturgica. Infatti le ceneri che sono il segno della corruzione del corpo umano,
rappresentano inadeguatamente l’indole del “dormire” in attesa della risurrezione. Inoltre il corpo,
non le ceneri, riceve gli onori liturgici, perchè per il Battesimo è stato fatto tempio dello Spirito di
Dio. E’ di massimo interesse conservare la verità del segno affinchè la catechesi liturgica e la stessa
celebrazione sia fatta in verità e con frutto. Pertanto se non fosse possibile portare il corpo del
defunto in Chiesa per celebrare la messa delle esequie, si può celebrare la stessa messa, a meno di
impedimenti, anche se il corpo del defunto è assente, secondo le norme, che sono da osservare per la
celebrazione con il corpo presente » (Notitiae, 13 (1977), p. 45.
30
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

opportuna l'applicazione e celebrazione del rito prescritto per la funzione in presenza


del cadavere del defunto sulle sue ceneri. Le ceneri non esprimono così bene come
l'intera salma la ricchezza della simbologia prevista dalla liturgia per sottolineare
l'indole Pasquale della sepoltura.74
Nel nuovo Codice di Diritto Canonico: si raccomanda la inumazione
Le disposizioni del Diritto Canonico nei confronti della cremazione sono contenuti
in modo particolare nel c. 1176, § 3, quando, in primo luogo si raccomanda
vivamente di conservare la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti,
senza proibire la cremazione, e nel c. 1184, § 1, n. 2°, dove espressamente vengono
negate le esequie ecclesiastiche a coloro che scelsero la cremazione del proprio
corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana.
Nel c. 1176, § 2 vengono descritte le specifiche finalità delle esequie ecclesiastiche:
«Le esequie ecclesiastiche, con le quali la Chiesa impetra l'aiuto spirituale per i defunti e ne onora
i corpi, e insieme arreca ai vivi il conforto della speranza, devono essere celebrate a norma delle
leggi liturgiche» (c. 1176, § 2).
Tali norme costituiscono il fondamento sicuro e più genuinamente cristiano dell'istituto delle
esequie ecclesiastiche quale è andato affermandosi lungo i secoli. E questo diritto-dovere,
celebrato dai fedeli insieme ai sacerdoti secondo le leggi liturgiche, esprime profondamente
l'indole pasquale sottolineata già dal Concilio Vaticano II.
Naturalmente le modalità di celebrazione vengono stabilite dalle norme liturgiche.
La liturgia nei suoi atti normativi riguardanti le esequie esprime profondamente il carattere di
speranza che scaturisce dal mistero pasquale della morte di Cristo. Ora, per ciò che riguarda le
esequie ecclesiastiche:
«La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei
defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni
contrarie alla dottrina cristiana» (c. 1176, § 3).
Non può sfuggire a nessuno il rapporto che lega le esequie ecclesiastiche a quella tipica
consuetudine della Chiesa di seppellire i corpi dei defunti, su cui ci siamo già diffusamente
soffermati... Il CIC del 1983 attribuisce alla consuetudine di seppellire i corpi dei fedeli
defunti la massima importanza, e ne consolida la forza normativa con delle norme ben
precise.
Nel diritto e nella prassi viene affidata ai vescovi dalla Chiesa una migliore tutela della
consuetudine di seppellire i corpi dei fedeli defunti. Si tratta realmente di una consuetudine e di
un'esigenza particolarmente sentita, prima di tutto dal punto di vista pastorale. I vescovi
diocesani, dunque, devono rispettare, nell'ambito della propria competenza, la consuetudine già
vigente.75
IL CIELO
Siamo giunti al punto finale della catechesi sulla malattia, vecchiaia e morte: il Cielo
In realtà, come facevo presente all’inizio, il Cielo costituisce il punto di arrivo del nostro vivere
sulla terra, ed è da questo punto di arrivo, appunto dal Cielo, che prende luce e significato la
sofferenza: la malattia, la vecchiaia e la morte.
In tutti i popoli c’è sempre stata una attesa e una proiezione della vita dopo la morte che risponde al
“germe di eternità che porta in sè” (GS.18)
Ma è nel Cristianesimo che la risurrezione della carne, fondata sulla risurrezione di Cristo, entra
nella prospettiva dopo la morte. Già nel popolo eletto era maturata questa coscienza specie nel libro
dei Maccabei, ma sarà la risurrezione di Cristo di cui gli Apostoli sono testimoni oculari e

74
Ibid., 185-186.
75
Le cose ultime, Romano Guardini, Ed. Vita e pensiero, Milano 1997, pp. 197-199.
31
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

propagatori mediante la predicazione, che fonda la nostra speranza, e costituisce il cuore della
nostra professione di fede. (il Credo).
Anche se il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “Questo mistero di comunione beata
con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di
descrizione” (CCC. 1027) pur tuttavia la riflessione teologica della Chiesa lungo i secoli è andata
progressivamente penetrando questo mistero ed ha esplicitato alcuni aspetti della vita del Cielo
che in certa misura già possiamo conoscere fino da ora.
Sant Agostino commentando il verso 4 del Salmo 27 “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola
io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del
Signore ed ammirare il suo santuario” dice: “Lo Spirito di Dio...muove i santi a pregare con gemiti
inesprimibili, ispirando loro il desiderio di una cosa tanto grande, ma ancora sconosciuta, che noi
aspettiamo mediante la speranza. Altrimenti come si potrebbe esprimere nella preghiera il desiderio
di un bene che si ignora? In realtà se fosse del tutto sconosciuto non sarebbe oggetto di
desiderio, e se d'altra parte lo si vedesse come realtà già posseduta, non sarebbe né desiderato, né
ricercato con gemiti.” (Dalla lettera a Proba, XXIV Settimana, Venerdì).
Tenendo quindi presente che la realtà del Cielo sarà nello stesso tempo diversa ma anche simile
da quanto noi oggi possiamo pensare od immaginare, cercherò di esporre alcuni aspetti, sia per
smontare falsi pregiudizi diffusi nella mentalità comune sia perché, come dice San Paolo
“pensando alle cose di lassù, 76 dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col.3,1) “ci
confortiamo a vicenda” (1Tes. 4,18).

Più volte abbiamo considerato in questi anni nelle catechesi di inizio corso il fatto che sebbene la
Rivelazione sia completa, dal Libro della Genesi alla Apocalisse, tramandataci dalla Chiesa, dai
Padri e dal Magistero, tuttavia la comprensione della Rivelazione è sempre in sviluppo sotto
l’assistenza dello Spirito Santo. In questo senso anche il Concilio Vaticano II ha segnato un
passo in avanti rispetto alle cose ultime: “i novissimi”. C’è stata una rinnovata esplicitazione della
morte, giudizio, inferno, purgatorio e paradiso fatta presente da Papa Giovanni Paolo II nelle sue
catechesi, ma già lo stesso Ratzinger nel suo libro “Escatologia” presenta le realtà ultime in una
prospettiva più personalistica.
Nelle Catechesi in preparazione al grande giubileo della redenzione dell’anno 2000, Papa Giovanni
paolo II affermava:
“Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il «cielo» o la «beatitudine» nella quale
ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un
rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. E’ l’incontro con il Padre che si
realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo.
Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste 'realtà ultime',
giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio
personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace
in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio.”

76
Papa Benedetto XVI all’Angelus della festa di Maria Assunta in cielo ha detto: “Maria è esempio e
sostegno per tutti i credenti: ci incoraggia a non perderci di fiducia dinanzi alle difficoltà e agli inevitabili
problemi di tutti i giorni. Ci assicura il suo aiuto e ci ricorda che l’essenziale è cercare e pensare "alle cose
di lassù, non a quelle della terra" (cfr Col 3,2). Presi dalle occupazioni quotidiane rischiamo infatti di
ritenere che sia qui, in questo mondo nel quale siamo solo di passaggio, lo scopo ultimo dell’umana
esistenza. Invece è il Paradiso la vera meta del nostro pellegrinaggio terreno. Quanto diverse sarebbero le
nostre giornate se ad animarle fosse questa prospettiva! Così è stato per i santi. Le loro esistenze
testimoniano che quando si vive con il cuore costantemente rivolto al cielo, le realtà terrene sono vissute
nel loro giusto valore perché ad illuminarle è la verità eterna dell’amore divino” (Papa Benedetto XVI,
Angelus dell’Assunta 2006).
32
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

La risurrezione: restaurazione globale in Cristo


Quel che è sicuro è che in un mondo in cui la scienza ha più che mai allargato gli
orizzonti dell'umanità, nello spazio come nel tempo, dobbiamo ripensare una
cosmologia e una metafisica cristiane fondate sull'incarnazione e la risurrezione
di Cristo. Il nostro universo è stato concepito da Dio per diventare, un giorno, la
Terra Nuova in sintonia con lo splendore dei corpi risuscitati.
La speranza del cristiano del XXI secolo non può più accontentarsi di un discorso
striminzito e deve ritrovare tutta la sua ampiezza . 77
L'incarnazione-risurrezione di Cristo non è un incidente storico, isolato, ma
un evento cosmico che ingloba l'avventura dell'universo quale ce la rivela la
scienza e un evento metacosmico dal momento che dipende da un atto creatore
di Dio.
Poiché Dio, in Cristo, ha trasfigurato tutta l'umanità, la risurrezione non può
essere un'avventura puramente individuale, « privata ». Il nostro « corpo
di risurrezione » non può essere considerato isolatamente, al di fuori delle sue
relazioni con l'umanità e l'universo rinnovati.
Più l'universo si dilata, più lo sguardo dell'uomo si allarga, e più il Cristo
Pantocrator deve illuminare la fede e la speranza dei cristiani. Se non
vogliamo ridurre il cristianesimo a un meschino « geocentrismo », dobbiamo
ritrovare l'ispirazione del disegno creatore di Dio che vuol « ricapitolare » e
trasfigurare gli esseri visibili e invisibili in Cristo.
“La Chiesa... non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo, quando
verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose, e col genere umano anche
tutto il mondo, il quale è intimamente congiunto con l'uomo e per mezzo di lui
arriva al suo fine, sarà perfettamente restaurato in Cristo... Già dunque è arrivata
per noi l'ultima fase dei tempi e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente
fissata e in un certo modo reale è anticipata in questo mondo (Lumen gentium,
n. 48).
Quanto poi a sapere quando e come Dio compirà questo rinnovamento ultimo
dell'uomo e dell'universo, legato alla manifestazione finale di Cristo, a rigore non ne
sappiamo nulla. Il suo scenario ci sfugge. Allo stesso modo in cui siamo incapaci di
immaginare il mondo nuovo della comunione generalizzata e della reciprocità totale.
La fede cristiana, a proposito dell'inizio e della fine del mondo, non è né cronologica
né descrittiva. Il cristiano crede semplicemente che c'è un rapporto stretto tra Dio e la
creazione, tra Dio e la storia dell'umanità, tra Dio e l'esistenza di ciascuno di noi. 78
(L’al di là)
Il significato della dottrina cristiana sul corpo
Dalla fine del Medioevo nel pensiero umano si sono evidenziati due poli
d'attrazione: da un lato la semplice materia, dall'altro il puro spirito - e
precisamente nella forma della ragione. Questa tensione ha prodotto effetti poderosi,
tra i quali la nascita della scienza e della tecnica moderne. Ma si è persa la
corporeità vitale, vivificata dall'anima, e la spiritualità incarnata, visibile,
immagine e simbolo. Anzi si è perso l'uomo - e, con lui, la realtà.
Quanto si è detto è utile anche per comprendere il cristianesimo. Anche la vita
cristiana ha sconfinato da una parte nella sfera astratta spirituale, dall'altra in

77
R. Guardini, op.cit. Siamo ancora troppo legati alla rappresentazione spaziale dell'aldilà, ereditata dal
Medioevo, centrata quasi esclusivamente sull'individuo che si sposta da un « luogo » a un altro, dove
l'aldilà non si situa assolutamente all'interno di un vasto disegno universale di Dio e dove la vita eterna non
ha nessuna dimensione cosmica. San Tommaso, ad esempio, esclude le piante e gli animali che saranno
distrutti! L'essere umano vi è concepito non come membro dell'umanità e come elemento dell'universo, ma
unicamente come individuo.
78
Ibid. Pag. 196-197
33
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

quella materiale efficientista, e l'uomo, la forma vitale, immagine e simbolo sono


impalliditi. Ma a questo punto si profila un mutamento. Noi sappiamo che non è
«Dio in sé» a determinare in modo decisivo la coscienza cristiana, ma il Dio fatto
uomo, Gesù Cristo. Sappiamo che non è in gioco la salvezza dello «spirito» o
dell'«anima», ma dell'uomo vivente, e con lui del mondo; 1'«uomo nuovo» (Rm 6,4-
6), un «nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1).79
Per quanto riguarda Dio, è bene chiarire cosa significa che egli si faccia uomo; che dopo la
morte di Cristo rimanga uomo per mezzo della resurrezione; che l'umanità di Cristo in
Dio sieda «alla destra del Padre» nei secoli dei secoli, sul trono della gloria eterna...
Da tutto questo la nostra esistenza cristiana riceve una nuova impronta: acquista nuova
concretezza e vitalità nei confronti dell'uomo e delle cose. Diventa realtà. Riceve un nuovo
calore. Il cuore,80 non lo «spirito» diventa la forza determinante - dove «cuore» significa una
realtà radicalmente diversa dal puro sentimento o sentimentalismo. Anzi, lo è diventato
quando l'uomo si è scisso in spirito e materia. Il cuore è l'unità vitale di spirito e sangue, la
vera realtà dell'uomo, il suo centro più intimo, la sede di ogni decisione, l'origine del divenire,
e di ogni trasformazione.81
“Secondo Spidlik (Teologo gesuita del nostro tempo), il "cuore" rappresenta il
punto d'incontro tra Dio e 1'uomo e soprattutto "luogo" delle vere relazioni.
Per Spidlik, la grandezza dell'uomo consiste nell'essere a immagine di Dio, e,
grazie al mistero dell'incarnazione, immagine della Trinità. Il cuore purificato
dell'uomo, è capace di accogliere la grazia, e attraverso i sentimenti spirituali, o
sentimenti del cuore, la persona si divinizza e acquisisce la vera conoscenza. Per
Spidlik, che la pratica interiore della purificazione del cuore consiste quindi nella
spiritualizzazione progressiva dell'uomo. Lo Spirito Santo si unisce alla nostra
anima e rafforza in noi tutto ciò che è umano. La sua mente, la sua volontà, i suoi
sentimenti sono penetrati dallo Spirito Santo, e sono inseriti nel cuore puro che è
sede dello Spinto di Dio. Per il teologo gesuita, il cuore appare veramente l'organo
di unione tra l'umano e divino.
Quindi una vera conoscenza è profondamente legata alla trasformazione spirituale
dell'uomo. Immerso nella "vita dello Spirito", la persona entra in un processo di
conoscenza personale e intuitiva delle realtà divine. L'uomo raggiunge così la
"familiarità" con Dio.” 82
Si sente ripetere che il cristianesimo sminuisce l'uomo, disprezza il corpo, scredita il mondo,
relega il credente in un isolamento spirituale e religioso, sottraendolo alle opere e alle azioni.
Non si comprende come sia potuto nascere e abbia potuto conservarsi un clima di tali falsità,
poiché mai come nel messaggio cristiano si attribuisce tanta grandezza all'uomo, nessun'altra

79
Ibid., p. 76. Una breve nota: la frase di Marco 8,36 più volte citata viene tradotta quasi sempre: «Che giova
infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima». Ma non è così, bensì: «se poi perde
la propria vita». Nella parola greca psyche confluiscono il significato di anima come principio della vita e di
questa vita stessa. Non intendiamo sottolineare una finezza filologica, ma constatare che Gesù non è uno
spiritualista. Ciò che gli sta a cuore non è l'«anima», ma l'uomo. La preoccupazione per la sola anima era degli
gnostici nell'antichità, e degli spiritualisti nell'età moderna.
80
La Bibbia di Gerusalemme al verso Gen.8,21 “Il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò:
«Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin
dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto”, nella Nota dice:
il cuore è l’interno dell’uomo, distinto da ciò che si vede e specialmente dalla «carne». E’ la sede
delle facoltà e della personalità, da cui nascono pensieri e sentimenti, parole, decisioni, azioni. Dio
lo conosce a fondo, qualunque sia l’apparenza. Il cuore è il centro della coscienza religiosa e della
vita morale. Con il suo cuore l’uomo cerca Dio, lo ascolta, lo serve, lo loda, lo ama. Il cuore
semplice, retto, puro, è quello che non è diviso da nessuna riserva o secondi fini o finzioni ipocrite,
riguardo a Dio o agli uomini.

81
Ibid., p. 77.
82
“La teologia del cuore” in Tomas Spidlick, di Franco Nardin, Tesi di Dottorato, Lateranense 2006
34
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

dottrina prende tanto seriamente il mondo, e mai come per mezzo di Cristo le cose create, che
esistono nella temporalità, s'innalzano con tanta risolutezza verso Dio e sono assunte in lui. E
tutto questo in un modo che nulla ha del mito o della favola, ma con una serietà divina, della
quale è garante il destino di Cristo.83
La resurrezione: il corpo spirituale
“Il fondamento dell'esistenza corporea umana è Cristo. La resurrezione non
costituisce una fase ulteriore del corso della vita, bensì la risposta a una chiamata
che viene dalla sovranità di Dio. Dio ha voluto l'uomo come uomo.
Ma uomo è lo spirito nella misura in cui si esprime e agisce nel corpo... Resur-
rezione significa quindi che l'anima spirituale ritorna ad essere ciò a cui è destinata
per sua natura, ovvero anima di un corpo - solo adesso libera e capace di
informare il corpo. Anima significa che la materia esanime ritorna corporeità
individuata come persona e vivificata dallo spirito, cioè quindi corpo umano - corpo
che non è più soggetto ai vincoli spazio-temporali, ma, come dice Paolo, si trova in
una nuova condizione, è «spirituale», pneumatico.
Se si riflette sull'importanza che la fisica moderna attribuisce alla forma nella
struttura della materia, e se si considera il potere sulla vita fisica che la medicina
riconosce all'elemento spirituale, allora il corpo appare affidato allo spirito in una
misura che non avremmo potuto prevedere.84
“Il risorto non sarà altro rispetto a colui che è morto, ma, proprio secondo il paragone
del seme, risulterà della medesima identità ma trasformato: non più mortale, ma
immortale, non più “carnale” ma animato dallo Spirito...Il corpo della risurrezione
avrà la stessa identità essenziale-personale, e non materiale, in rapporto a quella
che era nell’esistenza spazio-temporale. In effetti non si può confondere identità
corporea con identità materiale. La biologia ci ricorda che la materia del corpo si
trasforma periodicamente in un soggetto, eppure abbiamo la stessa identità. Con la
risurrezione saremo trasformati nella nostra corporeità, ma non alterati nella nostra
individualità...E’ necessario avere ben chiaro che non bisogna confondere identità
corporea con identità materiale...Così sarà per l’uomo la risurrezione della carne.
La sua corporeità non sarà materiale, ma avrà per sè le caratteristiche della
relazionalità e della conoscenza identitativa. Sorgente e modello della risurrezione
dei credenti è Cristo.”Egli trasformerà il nostro corpo mortale nel suo corpo
glorioso” (Fil 3,21). E’ alla luce del “primo tra i i risorti” che possiamo farci un’idea
della natura del corpo risorto” (Introduzione alla antropologia teologica, Luis F.
Ladaria, Piemme, VI Edizione, 2002; p. 58-61)
Nella vita futura l'uomo... anche il mondo intero
Nella vita futura l'uomo non avrà solamente corpo e anima, ma anche il mondo intero. Questo
pensiero era diffuso tra gli ebrei che accolsero la rivelazione della verità sulla resurrezione,
credettero che la resurrezione futura avrebbe riguardato l'uomo intero, ma non ritennero
necessario considerare l'idea di una resurrezione separata dell'anima e del corpo. Solamente nel
periodo più tardo, in particolare sotto l'influsso del dualismo della filosofia greca, gli scrittori
cristiani vollero sottolineare in maniera decisa che anche il corpo dell'uomo sarebbe risorto alla
vita eterna. La Chiesa ha ripreso più volte queste riflessioni. Così ad esempio nel Catechismo
della Chiesa Cattolica si dice: «Cristo è risorto con il suo proprio corpo: "Guardate le mie
mani e i miei piedi: sono proprio io" (Lc 24,39); ma egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo
stesso modo, in lui, "tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti", ma questo corpo sarà
trasfigurato in corpo glorioso, in "corpo spirituale" (1 Cor 15,44) (CCC. 999).
Il corpo con il quale risorgeremo sarà il nostro corpo, non sarà un corpo fatto di aria, ma il
corpo nel quale viviamo e con il quale ci muoviamo.85 Questa dichiarazione contraddice la
separazione dualistica del corpo dall'uomo, o 1'idea di una trasformazione del corpo in qualcosa
83
Romano Guardini, op.cit. 112.
84
Ibid., p. 70.
85
Il Cielo, Zdzislaw Kijas, Città Nuova, 2005, p. 226.
35
CONVIVENZA DI INIZIO CORSO 2006-07 - Allegati

di incorporeo, in puro spirito o in qualche sostanza volatile. A1 contrario, la Chiesa constata


senza ombra di dubbio che il corpo risorto sarà identico al corpo terreno, sarà il corpo dello
stesso uomo. 86
Nel Cielo non immobilità, ma costante dinamismo e novità in Dio
I1 paradiso inoltre sarà «senza fine e senza noia (sine fastidio)», scrive sant'Agostino. Questa
è una certezza consolante. Eppure notiamo che, di tanto in tanto, torna in qualche scrittore
questa curiosa e strana concezione della vita beata in cielo. Tra questi annoveriamo anche
Miguel De Unamuno (1864-1936), scrittore e professore di letteratura greca all'Università di
Salamanca, il quale dichiara: «Il cielo della gloria eterna è anche il luogo della noia eterna».
Strano che si facciamo queste affermazioni... Si pensa al paradiso come a un'immobile
contemplazione che, alla lunga, riesce stancante e noiosa. Niente di più falso di questa
concezione! L'anima in paradiso possiede Dio, che è infinito amore e infinita pace e non
desidera possedere altro. Dio è anche infinita novità, è sempre nuovo, ha infinite sorprese per
tutta l'eternità.
Dio infatti è sempre nuovo perché non può essere esaurito dalla creatura. Resta molto valido
al riguardo l'insegnamento degli scolastici i quali, con linguaggio chiaro e preciso, parlano di
beatitudine in perenne dinamismo e aggiungono che l'anima possiede tutto Dio, ma non lo
possiede totalmente, e quindi l'uomo non è mai capace di esaurirne 1'infinita ricchezza: «Videtur
Deus totus, sed non totaliter (si vedrà tutto Dio ma non totalmente)». La visione di Dio è
un'avventura all'insegna dell'imprevisto e dell'imprevedibile, è il gaudio pieno in Dio e, nello
stesso tempo, Dio trascende la creatura.
«La noia invece nasce dal fatto che l'oggetto di cui l'uomo gode è finito e non può soddisfare
1'esigenza d'infinito che è in lui, per cui egli cerca qualche cosa d'altro: nasce, poi, dal fatto che
nel mondo creato il nuovo è sempre limitato e quindi viene presto a noia. Ci sono tuttavia
esperienze che possono darci qualche idea del paradiso. Quella della bellezza, per esempio: non
ci stanca mai di vedere una cosa bella, un volto umano, un'opera d'arte, un fiore. Meglio
ancora: l'esperienza dell'amore: due innamorati non si stancano mai di dirsi il loro amore e
scoprono nelle loro persone e nel loro amore cose sempre nuove. Ora Dio-Trinità è infinita
Bellezza e infinito Amore».87
Molto saggiamente il Nuovo Testamento ci presenta questa vita in Dio, in cui si sta insieme per
una festa senza fine, ricorrendo a una ricca varietà di immagini. 88
In cielo permane la nostra condizione di creature
Inoltre, pur vivendo l'esperienza della comunione in Dio e con Dio in paradiso, non vi è il
superamento della nostra creaturalità, non viene annullata la radicale differenza tra il Creatore
e la creatura quasi da far pensare a un'identificazione con Dio. Nient'affatto! Dio resta Dio e
l'uomo resta uomo con i suoi insuperabili limiti e la sua finitudine naturale.
Dunque «i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13,43).
L'uomo continuerà a crescere nella carità di Dio. È come se í beati andassero “dalla vita verso
la vita, dalla gioia verso la gioia, dalla carità verso la carità, dalla chiarezza verso la chia rezza,
da stupore a stupore, nella misura in cui divengono sempre più capaci di penetrare il mistero di
Dio, dell'uomo e dell'universo».
...Allora si realizzerà la perfezione, che non indicherà però la fine, ma una vita attiva, libera da
ogni privazione, nella pura gioia del creato, nella piena conoscenza e felicità eterne.89
Il cielo non indica una condizione irrigidita, ma significa essere "da Dio", "con Dio”, è dunque
una continua crescita, significa "fare ingresso" in Dio. Poiché Dio è per sua essenza senza
86
Ibid., nota 13 Cfr. Joseph Ratzinger- Johann Auer, Escatologia, morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979.
87
C’è l’aldilà?, Ubaldo Terrinoni, EDB, Bologna 2006., pp. 193-194.
88
“Regno dei cieli”: Mt 53.l0.19:721: 8,21: 13.43: ecc.;“Nozze”: Mt 25,1-10; Lc 12.36: Ap
19.7.17; “Banchetto”: Mt 22,2; 25.21: 26.29: Mc. 14,2s; “Vita eterna”: Mt 19.16.29: 20, 46;
Mc 10,30; Lc 16.9; “Il nome nuovo”: Ap 2,17: 3,12; 14.1: 17.5; “Gerusalemme celeste”: Gal
4.26: Eb. 12.22; Ap 3,12: 21,2.9-17; “Paradiso”: Lc 23.43: 2Cor. 12.4; Ap 2.7; “Albero della
vita”: Ap 2,7; 2,2,14.
89
Il cielo, p. 232.
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limiti, è necessario che la nostra comunione con lui sia illimitata e capace di ricevere sempre
di più.90.
La nostra salvezza in Cielo sarà in comunità
Così come la nostra redenzione si realizza nella comunità storica, sarà in una comunità che
noi proveremo la salvezza nella vita futura in cielo. Nel cielo non saremo soli, ma felici per la
presenza degli altri. Nel suo significato più pieno, una tale comunità è quella della Chiesa, al
cui interno il rinnovamento dell'uomo e del mondo ha già luogo poiché i suoi membri
partecipano alla grazia della vita eterna, sebbene ancora incerta, e alle gioie promesse dopo la
fine della vita terrena. «La comunione ultima ed eterna con Dio - insegna il Catechismo
Cattolico degli Adulti - non significa isolamento, al contrario è basata sulla perfetta comunione
dei santi.
“La vita eterna infine consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti
estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l'altro
come se stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio. Così il gaudio di uno solo sarà tanto
maggiore, quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati.” (Dalle Conferenze di San Tommaso
d’Aquino, Sabato XIX Sett. Anno II).
La salvezza di Cristo è già conosciuta da noi, vissuta e sperimentata nella fede
La pienezza in cui speriamo, che è l'oggetto dell'escatologia cristiana, è una pienezza già
posseduta, in primizia ma realmente. Non potremmo in alcun modo sperare in ciò di cui non
abbiamo nessuna idea. Ma la salvezza di Cristo è già conosciuta da noi, vissuta e sperimentata
nella fede, nelle diverse manifestazioni della vita della Chiesa, in particolar modo nella
celebrazione dell'eucarestia. K. Rahner ha parlato dell'escatologia come della trasposizione del
presente nella sua piena realizzazione. La signoria di Cristo su ogni cosa è reale ed efficace a
partire dalla sua risurrezione, però non si è ancora manifestata completamente in noi. Da qui la
tensione tra il presente e il futuro tipica dell'escatologia cristiana, che è presente in tutto il
Nuovo Testamento.
Se la vita futura non sta semplicemente in continuità con quella presente, non dobbiamo
dimenticare che dipende da essa. È in questo mondo transitorio in cui si decide la nostra sorte
eterna. Per questo, il nostro sforzo nel mondo che passa acquista un valore trascendente.
Rottura e continuità devono essere quindi affermate contemporaneamente.91
Nel Cielo tutto quanto abbiamo vissuto sarà trasfigurato
La felicità del cielo sarà così ricca, come è stata ricca la vita terrena dell'uomo, di cui nulla
verrà perduto, poiché tutto verrà trasfigurato, reso perfetto e santificato. Si può dunque
dire che entriamo nel cielo con tutto il nostro mondo presente, che parteciperà, mutato, alla
nuova vita. In che modo ciò accadrà? «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò
perfettamente, come anch'io sono conosciuto» (1 Cor 13,12). Con queste parole l'Apostolo
vuole dirci che solamente l'opera di Cristo, asceso al cielo con il suo corpo, può spiegare la
nostra imperfetta conoscenza di questa metamorfosi. Cristo non spiega con le parole, ma con le
azioni, il mistero di quella trasfigurazione futura.92
I Padri della Chiesa hanno dato rilievo a questa verità insegnandoci che non esiste il cielo nella
sua forma perfetta senza la comunione di tutti i beati. La stessa cosa ci hanno detto
Sant’Agostino e sant'Ambrogio, secondo i quali in cielo rivedremo gli amici di un tempo. San
Girolamo (347-420ca) ha aggiunto che nella comunità celeste i beati incontrano persone che
non conoscevano, e la loro amicizia li renderà felici come mai è accaduto sulla terra. La

90
Ibid., p. 233, L. Boros insegna che la crescita interiore dei beati in cielo raggiungerebbe la sua fine
solamente quando la natura umana si identificasse totalmente con la natura di Dio, cosa impossibile, poiché
«Dio è incommensurabile e inesauribile nella sua grandezza, e dunque il processo di unione con Dio è una
dialettica che dura in eterno. Un continuo divenire in una pienezza senza limiti - ecco la struttura della nostra
beatitudine eterna»
91
Introduzione alla antropologia teologica, Luis F. Ladaria, Piemme, Vi Edizione, 2002., p. 151.
92
Ibid., p. 194.
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solitudine totale è una caratteristica fondamentale dell'inferno, mentre nel cielo regna la
comunione.
In cielo i beati manterranno interamente la propria individualità e l’"io" non si fonderà con il
"tu", i legami interpersonali esistenti durante la storia verranno purificati, e diventeranno
perfetti. Solamente in cielo la nostra personalità raggiungerà quella pienezza autentica
stabilita da Dio al momento della creazione, e ciascuno degli eletti gioirà per la realizzazione
del desiderio divino di essere a sua «immagine e somiglianza» (Gn. 1, 26).93
La partecipazione alla vita divina è di per se stessa una realtà «sensibile e progressiva» e non
può che portare alla pienezza del gaudio, il cielo, come appunto viene espresso in ciò che
troviamo su questo argomento nell'Epistola agli Ebrei. Lontana dall'essere un elemento
depistante per l'impegno di una trasformazione della storia, la speranza cristiana è una sorgente
di dinamismo che cresce di giorno in giorno, in quanto poggia sulla comunione della vita
divina che di per se stessa, essendo il sommo bene, tende a diffondersi. Il cielo, sull'esempio
dell'incarnazione del Verbo, vuole tonificare ogni realtà terrena in quanto la terra tutta ha un
unico «destino»: la comunione, in modi diversi, alla vita di Dio (Rm 8,19s).94

93
Ibid., p. 225.
94
La speranza dei cristiani, Ettore Malnati, Paoline, Milano 2003, p. 125.
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INDICE

VALORE SALVIFICO DELLA SOFFERENZA................................................................................................1


PREMESSA.............................................................................................................................................................1
LA SOFFERENZA.................................................................................................................................................2
ALCUNI ASPETTI DEL PROBLEMA DELLA SOFFERENZA.........................................................................................2
Perché il male, perché il dolore, perché la sofferenza?...................................................................................2
Cosa intendiamo per dolore e cosa intendiamo per sofferenza?.....................................................................3
ALCUNE RISPOSTE AL PROBLEMA DELLA SOFFERENZA.........................................................................................3
Dalla antichità al Rinascimento ......................................................................................................................3
La risposta dell’illuminismo razionalista........................................................................................................4
La risposta del naturalismo etico.....................................................................................................................5
Conseguenze i malati negli ospedali di oggi:..................................................................................................6
Altre risposte alla sofferenza ai nostri giorni..................................................................................................6
LA RISPOSTA DELLA RIVELAZIONE.......................................................................................................................7
Il peccato: la disobbedienza.............................................................................................................................9
Perché il Padre ha scelto la via della sofferenza.............................................................................................9
La vera risposta al “perché” della sofferenza, nella Rivelazione dell’amore divino....................................10
La sofferenza nella dimensione della Redenzione..........................................................................................10
CRISTO PER MEZZO DELLA SUA CROCE TOCCA LE RADICI DEL MALE E CI SALVA..............................................11
Il Carme del Servo sofferente.........................................................................................................................11
Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente..................................................................................12
La “parola della Croce” : verità dell’amore mediante la verità della sofferenza........................................12
Il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale...........................................................................13
PARTECIPARE ALLE SOFFERENZE DI CRISTO PER PARTECIPARE ALLA SUA GLORIA............................................14
Nella nostra debolezza si manifesta la potenza di Cristo..............................................................................14
Nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo.................14
Il valore della sofferenza si scopre in un cammino progressivo....................................................................15
La risposta del Signore alla sofferenza non è astratta: è una chiamata “Seguimi!”....................................16
Gioia nella sofferenza....................................................................................................................................16
FECONDITÀ APOSTOLICA DELLA SOFFERENZA....................................................................................................16
LA PARTECIPAZIONE E IL SOSTEGNO DELLA COMUNITÀ.....................................................................................17
Partecipazione dei fratelli della propria comunità........................................................................................17
L’UNZIONE DEGLI INFERMI.................................................................................................................................18
La visita agli infermi......................................................................................................................................18
Il Rito dell’Unzione degli infermi...................................................................................................................19
La sofferenza destinata a santificare coloro che soffrono e anche coloro che li assistono...........................19
Accettazione della sofferenza non significa opporsi alle cure mediche.........................................................20
L’AIUTO DEGLI OPERATORI SANITARI.................................................................................................................20
La qualità della vita: discriminante moderna................................................................................................20
Uso dei palliativi per alleviare il dolore........................................................................................................21
La fede viva è il miglior palliativo.................................................................................................................21
LA VECCHIAIA...................................................................................................................................................22
Che cosa è la vecchiaia?................................................................................................................................22
Nella vecchiaia saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore................................22
La qualità della nostra vecchiaia dipenderà dalla nostra visione di fede.....................................................23
Il posto degli anziani è all’interno della famiglia..........................................................................................24
La missione di testimoniare e di passare la fede alle nuove generazioni......................................................24
Tempo di semplicità e di contemplazione......................................................................................................25
La testimonianza di Papa Giovanni Paolo II: anziano, ammalato ma giovane in spirito.............................25
LA MORTE...........................................................................................................................................................25
Il Signore ci invita ad essere sempre vigilanti, sempre pronti alla nostra morte..........................................25
Il momento della morte: Dies natalis.............................................................................................................25
Il Viatico: Sacramento del "passaggio".........................................................................................................26
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La raccomandazione dei moribondi...............................................................................................................27


LA SEPOLTURA CRISTIANA: INUMAZIONE E NON CREMAZIONE...........................................................................28
Inumazione e cremazione...............................................................................................................................28
Prime disposizioni della S. Sede nei confronti della cremazione..................................................................29
La Riforma del Concilio: L'istruzione «De Cadaverum Crematione: piam et constantem» ........................30
DOPO IL CONCILIO VATICANO II.........................................................................................................................30
Nel nuovo Codice di Diritto Canonico: si raccomanda la inumazione.........................................................31
IL CIELO...............................................................................................................................................................32
La risurrezione: restaurazione globale in Cristo...........................................................................................33
Il significato della dottrina cristiana sul corpo.............................................................................................34
La resurrezione: il corpo spirituale...............................................................................................................35
Nella vita futura l'uomo... anche il mondo intero..........................................................................................36
Nel Cielo non immobilità, ma costante dinamismo e novità in Dio...............................................................36
In cielo permane la nostra condizione di creature........................................................................................37
La nostra salvezza in Cielo sarà in comunità................................................................................................37
La salvezza di Cristo è già conosciuta da noi, vissuta e sperimentata nella fede.........................................38
Nel Cielo tutto quanto abbiamo vissuto sarà trasfigurato.............................................................................38
INDICE...................................................................................................................................................................39

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FONDAZIONE “FAMIGLIA DI NAZARETH”


PER L’EVANGELIZZAZIONE ITINERANTE

COLLETTE 2003/2004/2005/2006/2007
COORDINATE BANCARIE E POSTALI
IN VIGORE DAL MESE DI NOVEMBRE 2003

Le collette che le Comunità faranno in occasione delle Convivenze di Riporto (o per gli
Shemà o nei vari “passaggi”), andranno inviate alla “Fondazione Famiglia di Nazareth”,
secondo una delle seguenti 2 modalità:
1) tramite la BANCA DI ROMA per: Seminari e/o Evangelizzazione e/o Shemà
e/o Stampati per Catechesi e/o Canti Risuscitò;
Filiale 6004 - Via della Conciliazione, 11 – 00193 Roma
ABI: 3 0 0 2
CAB: 5 0 0 8
C/C: 0 0 0 0 0 0 6 2 0 0 3 3
CIN: L
(Codice IBAN: IT 70 L 03002 05008 000000620033)
(dall’estero anche il Codice Swift: B R O M I T R 1 2 0 4)

2) tramite il C/C POSTALE N. 8 8 3 0 9 0 0 0 intestato a:


“FONDAZIONE FAMIGLIA DI NAZARETH” – ROMA
senza aggiungere altre indicazioni come indirizzi od altro.
 Per cortesia, specificate nella causale, che il versamento è fatto per:
Seminari e/o Evangelizzazione e/o Shemà e/o altro.

IN TUTTI I CASI
indicate bene la comunità che versa e la città (per il c/c postale anche il nome di chi versa
e l’indirizzo), e soprattutto, indicate la causale del versamento :

Per esempio: “1a Martiri Canadesi – Roma – seminari”


3) inviate copia LEGGIBILE del versamento bancario o postale per posta a:
 Fondazione Famiglia di Nazareth – via del Mascherino, 53 - 00193 Roma
 oppure a: Sergio Mesiti – via G.B. de Rossi, 12 – 00161 Roma
 oppure: per fax al n. 06 44 23 42 50 (Sergio)

per favore non inviate raccomandate e non inviate vaglia postali


4) per informazioni telefonate al n. 06 841 49 07 (Sergio Mesiti) oppure al n.
335 27 09 28 (Sergio Mesiti) oppure all’e-mail: semesiti@tin.it (Sergio).

La Pace. Giampiero e Sergio

Persona giuridica pubblica canonica eretta con decreto del Cardinal Vicario Generale di Sua Santità n.
1123/88
Persona giuridica civile riconosciuta con decreto M.I. n. 11 del 8-4-92 pubblicato sulla G.U n. 130/92
Via del Mascherino, 53 – 00193 Roma – C.F. 97062010588
Tel. 06-6813 4502 – Fax 06-6813 4438 – e-mail: cncroma@tin.it

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