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I quindici gradini
Un commento ai Salmi 120-134
Giuntina
Copyright © 2012 Gianpaolo Anderlini
Casa Editrice Giuntina, via Mannelli 29 rosso, Firenze
www.giuntina.it
ISBN 978-88-8057-467-5
In memoria di
suor Maria Francesca
Quinta lezione. Galleggiare nel mare del male. Commento al Salmo 125 . . . 61
Dodicesima lezione. Nell’attesa dei volti del Messia. Commento al Salmo 132 . . 149
Tredicesima lezione. Quando i fratelli abitano insieme. Commento al Salmo 133 . 159
7
Prefazione
Per un credente ebreo o cristiano la Scrittura è “Parola di Dio”. Ma nel caso dei
Salmi questa definizione ci spinge a un ulteriore passo: perché qui si tratta di parole
indirizzate a Dio. Perciò potremmo anche dire che Dio, nei Salmi, ci insegna con quali
parole rivolgerci a Lui. Un commento ai Salmi è quindi nello stesso tempo un aiuto
– se così si può dire – al credente, ma anche un aiuto a Dio: un aiuto, per entrambe le
parti, a trovare le parole giuste per essere ascoltati. La letteratura esegetica sui Salmi
è talmente vasta che non credo trovi posto a sufficienza neppure in paradiso. Ma in
questa letteratura è sicuramente minoritaria l’interpretazione teologico - linguistica.
Che invece è ricca nella esegesi rabbinica, anche perché richiede una attenzione a ogni
singola parola che si perde quando non si ha presente il testo ebraico.
L’autore di questi “Quindici gradini”, o “Salmi della salita” possiede una pro-
fonda conoscenza della esegesi midrashica e rabbinica, sa muoversi in un contatto
diretto (generalmente assente negli esegeti cristiani) con le parole, e ci apre un mon-
do da cui siamo lontani. Lontani, in questo caso, significa incapaci di cogliere la
ricchezza che si cela nel testo originale. Una ricchezza che in certo senso, oltre ad
aiutarci a cogliere fino in fondo il pensiero del salmista, va ancora più in là: aiuta Dio
– se così si può dire – a trovare le parole e i pensieri che più aiutano noi. Come scrive
l’autore, “Se il mondo tiene, generazione dopo generazione, forse è anche perché ci
accompagna, celato in uno dei microcosmi consegnati alla Scrittura, il viatico dei
quindici Salmi detti e da dire, ieri come oggi, ritti, sui gradini dell’abisso, sul confine
che separa l’ordine dal disordine, il bene dal male, il tutto dal nulla”. Ciò significa
che sarebbe un grave impoverimento ridurre i Salmi a una semplice devozione: nei
Salmi è nascosto sia Dio, sia l’abisso, e diventa quindi assolutamente necessario che
un maestro (e qui Anderlini cita tutti i più grandi, dal Midrash a Rashi a Radaq fino
a… lui) ci aiuti a scavare nelle parole, perché i tesori sono tutti sempre sepolti. Il
lettore, anche quello che recita Salmi tutti i giorni, troverà qui una finestra aperta sul
cielo, una finestra che i maestri di Israele ci hanno aiutati ad aprire e che nella cultura
cristiana, senza Anderlini, sarebbe rimasta chiusa.
Più che mai nella ruminatio dei Salmi vale l’affermazione di Warburg: “Dio sta
nel dettaglio”. Una delle definizioni ebraiche di Dio è ha-Mistatter, “colui che si
nasconde”, si nasconde e ci domanda: ‘Ajjèka?, “dove sei?”. Trovare Dio (per dirgli
hinneni, “eccomi”) è compito certamente della preghiera, ma anche del Midrash. E
i non ebrei hanno veramente bisogno di avere anch’essi un darshan, cioè “autore di
Midrash”, che li conduca alla ricchezza nascosta nella parola di Dio. E forse anche
Dio ha bisogno di un darshan, che gli faccia giungere le nostre parole, i nostri pen-
sieri, tutto ciò che si trova su questi quindici gradini.
Paolo De Benedetti
9
Introduzione
Sui gradini dell’abisso
“Signore, mio Dio, tu sei veramente grande” (Sal 104,1).
Il mondo creato è lo specchio in cui l’uomo può intravedere il riflesso dell’amo-
revole onnipotenza di Colui che ha parlato e il mondo fu. Tutto nel cosmo è talmente
smisurato, ordinato e perfetto che l’impotente forza dell’uomo, la sua limitata ca-
pacità di intuire e di comprendere e la breve durata della sua vita non possono che
favorire il riconoscimento dell’aspetto numinoso che in tutto si cela e che si svela in
trasparenza, quando l’umiltà ci permette di vedere e percepire oltre la nostra finitez-
za non più accecata dalla nostra tracotanza.
13
Domanda.
Perché nel Séfer Tehillìm è detto, dal Salmo 120 al Salmo 134, per quindici
volte, 1 ִשׁיר ַה ַמּעֲ לוֹת, shir ha-ma‘alot?
L’espressione, polisemica e aperta, può avere diversi significati: “cantico dei
gradini”. Altra interpretazione: “cantico delle ascensioni”. Altra interpretazione:
“cantico delle salite”. Altra interpretazione: “cantico delle elevazioni”. E un signi-
ficato non esclude l’altro, anzi lo integra e lo porta a compimento. Così come ogni
interpretazione non esclude l’altra, ma apre la Parola e mostra un altro dei suoi
settanta volti.
La parola ַמֲעָלה, ma‘alà, usata nei titoli di questo gruppo di Salmi, deriva dalla
radice del verbo ָעָלה, ‘alà, che ha il significato primario di salire, dal basso verso l’al-
to. Si sale, procedendo per cerchi concentrici connessi col grado di santità dei luoghi,
alla terra d’Israele, a Gerusalemme, al Santuario. Si sale in momenti precisi e definiti
legati alla ciclicità del tempo liturgico (durante le feste di pellegrinaggio); si sale in
momenti particolari della vita o per compiere azioni cultuali; si sale in tempi forti
della storia della comunità, quando, da ogni esilio, si fa ritorno alla terra dei Padri e
si ritrova l’odore di “quella” terra; così come si sale dal basso della condizione che
nasce dal peccato per elevarsi al bene, al cielo e a Dio; si sale in questo mondo e nel
mondo a venire. Si sale da ciò che ha meno valore (in basso) a ciò che ha un valore
maggiore (in alto) e il salire è sempre un’elevazione: fisica, sociale, morale, mistica.
Il paradigma di questo movimento ascensionale è posto in un famoso versetto
del libro di Ezra:
Il primo giorno del primo mese egli aveva stabilito la salita ( ַמעֲ לָ ה, ma‘alà) da Bavèl e il
primo del quinto mese giunse a Gerusalemme, perché la mano del suo Dio era benevola su
di lui (Ezra 7,9).
Il viaggio di Ezra e degli esuli non è inteso come un ritorno, che, in quanto
tale, implica un’inversione del cammino lungo un itinerario che mira solo al punto
d’arrivo; è, invece, una salita, che comporta un progressivo passaggio, passo dopo
passo, gradino dopo gradino, da un luogo ad un altro, da una condizione ad un’altra,
dal basso verso l’alto, dall’esilio alla terra dei Padri, dal peccato alla redenzione, da
Bavèl a Jerushalàjim. E questo cammino verso ciò che è amato, desiderato, sperato,
invocato e conosciuto, anche se lontano o irraggiungibile nel tempo presente, non
avviene a passi lenti e misurati, ma nell’ardente foga dell’innamorato che più non
può o non vuole rimanere separato dal Luogo.
Così insegna il Midrash:
In questo passo non è scritto Cantico del gradino, ma è scritto Cantico dei gradini, per il fatto
che quando i figli d’Israele salgono, non lo fanno salendo un gradino alla volta, ma più gradi-
ni insieme, secondo quanto è detto: Tu salirai in alto in alto 2; e ancora è detto: Chi è questa
1
Più precisamente: 14 volte più una variazione. Vedi sotto: “Prima lezione. Di gradino in
gradino. Commento ai Salmi 120 e 121”.
2
Non c’è alcun passo della Scrittura che risponda alle parole citate. Probabilmente le parole
citate richiamano Dt 28,43, ma non pare appropriato: “Il forestiero che è presso di te salirà sem-
pre più sopra di te”. I commentatori moderni propongo di leggere: “Orsù saliamo e prendiamone
possesso” (Nm 13,30).
14
che sale dal deserto come una colonna di fumo? (Ct 3,6), da intendere: Chi è questa che è
fatta salire dal deserto? E quando essi scendono, non scendono un gradino alla volta, ma
come è detto: Tu scenderai in basso in basso (Dt 28,43); così pure è detto: Egli ha scagliato
dal cielo in terra la gloria d’Israele (Lam 2,1). E così quando i figli di Israele salgono, essi
salgono più gradini insieme, perciò è detto: Cantico dei gradini (Midrash Tehillìm120,1).
Quando il Targum interpreta e traduce il titolo che introduce i “Salmi dei gra-
dini” con “Cantico che fu detto sui gradini dell’abisso” ci offre una possibilità per
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giocare al meglio il nostro spazio di libertà e di scelta. Scegliere di salire (e, di con-
seguenza, anche di scendere) si lega in modo indissolubile all’equilibrio del mondo
creato ed alla struttura soggiacente che Dio vi ha impresso direttamente con le sue
mani e con la sua parola. L’uomo, che vive alla ricerca di tracce e di sussurri, può so-
lo intravedere la trama di questo disegno intelligente scrutando nella mirabile com-
plessità dei microcosmi della Scrittura, ritto sul primo gradino, poi sul secondo, sul
terzo fino al quindicesimo. E, in tal modo, di gradino in gradino, di traccia in traccia,
riesce (forse) a scampare dall’abisso e dai suoi allettanti richiami.
Di quale abisso si tratta?
Forse è l’abisso in cui precipita il nostro cuore sopraffatto dal male e dall’errore.
Forse è il riemergere del caos primordiale nascosto dietro il velo dell’ordine posto
dal Creatore. Forse è la reazione a catena innescata dalle nostre azioni tracotanti e
violente, che vanno ad alterare la sequenza di quell’ordine e che rischiano di tra-
scinare il mondo in una dimensione altra rispetto al progetto di Dio. Forse è solo la
nostra pigrizia o l’incapacità di riconoscere i passi falsi, gli errori, le porte chiuse,
i silenzi, i rifiuti che ci tengono lontani da Dio e dai volti che Egli, nel silenzio e
nell’assenza, continua a mostrarci nei volti degli altri.
Se il mondo tiene, generazione dopo generazione, forse è anche perché ci ac-
compagna, celato in uno dei microcosmi consegnati alla Scrittura, il viatico dei
quindici Salmi detti e da dire, ieri come oggi, ritti, sui gradini dell’abisso, sul confine
che separa l’ordine dal disordine, il bene dal male, il tutto dal nulla, Dio dall’uomo.
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Prima lezione
Di gradino in gradino
Commento ai Salmi 120 e 121
Salmo 120
18
Salmo 121
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1. Fra quindici e trenta gradini
I quindici Salmi che vanno dal 120 al 134, secondo la numerazione della Bibbia
ebraica, 1 costituiscono un’unità redazionale e liturgica chiaramente identificabile e
definita. 2 Quattordici dei quindici salmi sono introdotti dal medesimo titolo, 3 che
può essere inteso come una notazione di carattere liturgico, come una modalità di
esecuzione o come l’indicazione di un contenuto secondo il senso letterale dei sin-
goli testi oppure secondo il senso complessivo di questa unità litrugico-redazionale:
1
Nella LXX e nella Vulgata la numerazione va dal 119 al 133.
2
Nel manoscritto dei Salmi della grotta 11 di Qumran (11QPSa) i salmi che vanno dal 121
al 132 sembrano costituire una unità speciica, isolata, forse per uso liturgico, dagli altri salmi
(coll. iii-vi).
3
Per una ampia carrellata sulle diverse possibilità interpretative del titolo vedi: Giovanni
LENZI (a cura di), I salmi del pellegrinaggio, Roma, Città Nuova, 2000, pp. 21-25; Cuthbert C.
KEET, A Study of the Psalms of Ascents, London, Mitre Press, 1969, pp. 1-17.
4
Le versioni antiche hanno interpretato la notazione del titolo o come Cantico dei
gradini (LXX e Vulgata) o come Canto delle salite/ascensioni (Teodozione, Aquila, Sim-
maco).
21
E da lì (= cortile delle donne) quindici gradini salivano al Cortile di Israele, corrispondenti ai
quindici Cantici dei gradini che si trovano nei Salmi, che i leviti recitavano su di loro con un
canto; e questi gradini non erano rettangolari ma curvi, di forma semicircolare (mMiddòt II,5).
Il rapporto fra il numero dei gradini ed il numero dei Salmi è, secondo la tra-
dizione halakica, assodato, così come sembra inconfutabile il rapporto del gruppo
di Salmi con la festa di Sukkòt. Se consideriamo il commento di Rashi al primo
versetto del Salmo 120, scopriamo che la tradizione aggadica ha individuato, con le
sue specifiche modalità di lettura e di apertura del testo, un altro percorso che porta
a collegare i Cantici dei gradini alla festa di Sukkòt. Così scrive Rashi:
Cantico dei gradini – (Cantico) che i leviti recitavano sopra i quindici gradini che scendevano
dal Cortile di Israele al Cortile delle donne e vi sono qui quindici salmi (che portano il titolo)
di Cantico dei gradini.
Ma i nostri Maestri hanno detto che David li aveva composti per fare risalire l’abisso come è
spiegato nel trattato del Talmud Sukkà; ma secondo l’aggadà il titolo è da intendere: Cantico
per i cento gradini. 6
5
Le parole di Ezechiele descrivono l’atteggiamento errato: solo il Signore è degno di lode
e di preghiera, pertanto è al Santuario, luogo della sua presenza, che si deve volgere lo sguardo.
6
Il riferimento è a jSanhedrin 10,2; 29a, passo in cui si dice che l’abisso era disceso di 1500
cubiti e che ad ogni salmo risaliva di cento cubiti. La recita dei quindici Salmi corrisponde, quindi,
a1500 cubiti. Non si tratta, quindi, di cento gradini, ma di cento cubiti ogni Salmo.
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Quindici gradini. Ha detto rav Chisda a uno dei Maestri che stavano presentando ‘aggadòt
davanti a lui: Hai mai udito davanti a chi David ha recitato i quindici cantici delle ascensioni?
Gli rispose: Ecco quanto ha detto rabbi Jochanan: Nell’ora in cui David scavò le fondamenta
(del Santuario) salì l’abisso/tehom e stava per inondare il mondo, allora David disse i quindici
Salmi delle ascensioni e lo fece ridiscendere. (Replicò rav Chisda): Si tratta allora di cantici
delle ascensioni? Bisognerebbe chiamarli cantici delle discese! Gli disse: Dal momento che
me lo hai fatto ricordare, ecco è stata detta un’altra parola: Nell’ora in cui David scavò le fon-
damenta, l’abisso salì e stava per inondare il mondo. Disse David: Chi è che sa se è concesso
scrivere il Nome santo e gettarlo nell’abisso per farlo fermare? Ma non c’era nessuno che
fosse capace di rispondergli. Disse allora David: Chi sa parlare e non parla, (la parola) gli si
strozzerà in gola! Achitofel addusse un ragionamento qal wa-chomer (= ragionamento a mi-
nore ad maius): Come per porre pace fra il marito e la moglie, la Torà dice: Il mio nome che è
scritto sul rotolo santo sarà sciolto nell’acqua (cfr Num 5,23), a maggior ragione (lo si potrà
fare) per fare pace per il mondo tutto intero! Gli disse (David): È concesso. Scrisse quindi
il nome santo e lo gettò nell’abisso e l’abisso scese sedicimila cubiti 7. Quando vide che era
sceso troppo, disse: Quando (l’abisso) era più alto, il mondo era irrigato (dalle sue acque).
Recitò allora i quindici cantici delle ascensioni e lo fece risalire di quindicimila cubiti 8 e lo
fece stare a mille cubiti (dalla superficie della terra) (bSukkà 53a-b).
La tradizione aggadica riportata nel passo del Talmud vuole indicare una realtà
profonda e ce la mostra partendo da azioni attribuite a David e da parole poste sulla
sua bocca. Quando il re volle scavare le fondamenta del Santuario sconvolse l’ordine
posto da Dio nel mondo, in quanto l’atto da lui compiuto nasceva dalla sua volontà di
uomo e non era secondo il volere di Dio. Lo sconvolgimento del mondo creato è in-
dicato dall’emergere, attraverso lo scavo delle fondamenta del Santuario, dell’abisso,
che contiene e trattiene quelle acque che secondo la cosmologia biblica erano poste
di sotto. Come rimettere ordine nel mondo sconvolto dall’uomo? Due sono le vie che
vengono indicate: la prima è la via del sacro numinoso, che utilizza la forza di Dio tra-
mite l’uso del Nome sacro con un procedimento di magia bianca (per così dire), sug-
gerito dal saggio Achitofel con un erroneo ragionamento qal wa-chomer (a minore ad
maius). 9 Di fronte alla potenza del Nome, le acque si ritirano in profondità e il mondo
che stava per essere inondato dalle acque primordiali dell’abisso, rischia ora di essere
disseccato completamente. Questa abnorme discesa, oltre ad incidere sullo stato del
creato, può influenzare direttamente anche l’aspetto cultuale, in quanto, se si seccano i
pozzi, non è più possibile la cerimonia dell’attingimento dell’acqua propria della festa
di Sukkòt. L’azione di David comporta una doppia trasgressione: non rispetta la volon-
tà di Dio (scavo delle fondamenta del Santuario) e va contro le prescrizioni della Torà
(uso improprio del Nome santo). L’effetto che produce è devastante. Come è possibile,
allora, rimettere le cose al posto giusto? Camminando lungo la via che Dio ha tracciato
per andare a Lui, secondo le modalità concesse e date agli uomini. La via da seguire, la
seconda indicata nel passo del Talmud, è quella del servizio liturgico (בוֹדה ָ ֲע, ‘avodà):
la recita dei quindici Cantici dei gradini che, come atto del servizio liturgico-cultuale, è
in grado di ripristinare e di mantenere la stabilità del mondo secondo l’ordine posto da
7
Sedicimila cubiti equivalgono a 7315 metri.
8
Quindicimila è un multiplo di quindici: ogni Salmo fa risalire l’abisso di mille cubiti.
9
Diversa è l’interpretazione riportata in un passo parallelo del Talmud: bMakkòt 11a. In
questo passo il parere di Achitofel ottiene l’effetto desiderato di fare tornare l’abisso al suo posto.
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Dio nella creazione. Centro del discorso, ora, non è più il numero quindici (fatto rile-
vante, ma non determinante), ma l’atteggiamento che l’uomo è chiamato ad assumere
nei confronti di Dio e del mondo Lui creato.
Nel trattato Pirqè ’Avòt Simone il Giusto, in uno dei detti più antichi attribuiti a
un maestro di Israele, fissa i tre pilastri su cui si regge il mondo:
Simone il Giusto era uno degli ultimi membri della Grande Assemblea. Egli era solito dire:
Su tre cose si regge il mondo: sulla Torà, sul culto (בוֹדה
ָ ֲע, ‘avodà) e sulle opere di miseri-
cordia (m’Avòt 1,2).
Il mondo, nonostante gli errori dell’uomo, si regge grazie alla Torà, al culto, che,
nel caso in discussione, si esplicita nella preghiera, e alle opere di misericordia. Questo
reggersi del mondo, necessario ma non definitivo, non è fine a se stesso. Non è, infatti,
la semplice conservazione della creazione così come posta ed ordinata da Dio. Se così
fosse, il mondo sarebbe non il luogo dato all’uomo per vivervi nel segno della libera
scelta, ma il museo dell’azione creatrice di Dio, un monumento perfetto, ma inutile,
in quanto l’uomo sarebbe chiamato a farvi esclusivamente da comparsa o da semplice
spettatore, come ’Adàm ha-rishòn nel Gan ‘Eden. Il mondo è dato all’uomo perché
egli, fedele al piano di Dio, possa contribuire a portare a compimento, di generazione
in generazione, fuori dal Gan ‘Eden, la creazione fino al compiersi, nel tempo a venire,
della redenzione definitiva, che sarà operata da Dio secondo modalità e tempi che non
corrispondono a quelli consueti, prevedibili e determinabili dall’uomo.
Questa prospettiva, che ci proietta nel tempo e nel mondo a venire, ci è offerta,
nel gruppo dei quindici Salmi dei gradini, da una “anomalia di superficie” contenuta
nel titolo del Salmo 121:
ִשׁיר לַ ַמּעֲ לוֹת, shir la-ma‘alot, “cantico per i gradini” (Salmo 121,1).
Perché nel testo è detto “cantico per i gradini” e non “cantico dei gradini”?
Il commento di Rashi, in linea con la tradizione del Midrash e del Talmud, ci
fornisce diverse chiavi interpretative che aprano diversi sensi della Scrittura:
Cantico per i gradini – Il Salmista allude nel Salmo secondo ai gradini che nel tempo a venire
saliranno per i giusti da sotto l’albero della vita fino al trono della Gloria, come è insegnato
nel Sifré: “Non è scritto qui cantico dei gradini ma cantico per i gradini, vale a dire cantico
per Colui che farà i gradini per i giusti nel tempo a venire”. 10
E questo è ciò che ha stabilito ha-Qallir (nel poema conclusivo del servizio liturgico del mat-
tino del secondo giorno di Sukkòt, che ha composto rabbi Elièzer ha-Qallir, figlio di rabbi
Shimon bar Jochaj, di cui si parla nel trattato Chagigà 11 capitolo secondo: Noi non possiamo
spiegare): “E da sotto di esso (= l’albero della vita) ci sono trenta gradini per salire da qui al
trono della Gloria, su cui volano e salgono pronunciando le melodie dei cantici dei gradini
(Rashi su Salmo 121,1). 12
10
Cfr Sifré Deuteronomio § 47 riportato sotto.
11
Il riferimento a bChagigà non è chiaro. È probabile che si debba intendere il riferimento
a Tosafòt su bChagigà 13a in cui si discute di ha-Qallìr. Oggi è comunemente riconosciuto che
Eleazar ha-Qallìr sia vissuto in ’Eretz Jisra’el nel VII sec. dell’E.V.
12
Per i problemi legati alla tradizione manoscritta relativa al commento di Rashi al Salmo
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Tutto si pone nel Gan ‘Eden, nel mondo a venire, nel percorso ascensionale
che, dall’albero della vita al trono della Gloria, permette ai giusti e a tutti coloro che
ottengono la vita nel mondo a venire di ascendere e di giungere a diretto contatto
con Dio. I Cantici dei gradini, pertanto, sia perché in numero di quindici, sia perché
caratterizzati dall’anomalia del titolo del secondo Salmo, rappresentano, in questo
mondo, una anticipazione del mondo a venire, nel quale, definitivamente redenti, gli
uomini saranno capaci di alzare gli occhi al trono della Gloria e di riconoscere in Dio
il loro unico padre, di andare senza mediatore alcuno a Lui, il Padre che è nei cieli,
l’unico in grado di dare risposta all’umana sete, solo allora sazia, di redenzione, di
verità, di giustizia, di bene e di pace.
Come insegna il Midrash, il primo passo da compiere è confidare esclusivamen-
te nel nostro Padre che è nei cieli, perché nessuno, eccetto lui, potrà aprirci le porte
del mondo a venire nel segno della giustizia e dell’amore:
Che cosa significa Alzo gli occhi ai monti? Nel giorno in cui il Santo benedetto egli sia verrà
in giudizio e i figli di Israele guarderanno ai Padri, affinché parlino in loro difesa, non ci
sarà padre che possa liberare il proprio figlio, né uomo che possa liberare il proprio fratello.
In quella tribolazione, in quel giorno di giudizio, in quell’ora alzeranno i loro occhi al loro
Padre che è nei cieli e diranno: Perché tu sei nostro Padre, poiché Abramo non sa chi siamo
e Israele non ci riconosce (Is 63,16). Il mio aiuto viene dal Signore che fa cieli e terra. Così
ha detto a Israele il Santo benedetto egli sia: Voi sapete chi è chi vi aiuta: Colui che fa i cieli
e la terra (Midrash Tehillìm 121,1).
L’interpretazione di rabbi Aqivà parte dal testo e dalle sue caratteristiche speci-
fiche, e vuole fare emergere ciò che il testo in sé porta e contiene. È scritto, infatti,
ִשׁיר לַ ַמּעֲ לוֹת, shir la-ma‘alot. La lettera lamed ()ל, l’elemento proprio di differenzia-
zione rispetto ai titoli degli altri quattordici salmi, ha in gematrià 13 il valore numeri-
co di trenta, per cui possiamo intendere, proprio perché il testo ci autorizza a dirlo:
Cantico per i trenta gradini. 14 Il numero trenta, in questo specifico contesto inter-
121 vedi Mayer I. GRUBER, Rashi’s Commentary on Psalms, Philadelphia, The Jewish Publication
Society, 2007, p. 701 n.1.
13
La gematrià è un procedimento interpretativo che la tradizione rabbinica applica al testo
biblico, partendo dal valore numerico attribuito ad ogni lettera dell’alfabeto ebraico.
14
Il numero 30 può aprirsi ad alte possibilità di lettura. Ad esempio, come riportato in
m’Avòt 6,6, può indicare le trenta prerogative della regalità, deinite nel testo “trenta gradini”, in
contrapposizione ai ventiquattro aspetti del sacerdozio ed ai quarantotto della Torà.
25
pretativo, è da cogliere, al di là del versetto, in tutta la sua pregnanza: è un multiplo
di quindici (15 + 15 o 15 x 2), quindici gradini per questo mondo e quindici gradini
per il mondo a venire, per insegnarci che ogni luogo ed ogni tempo sono il luogo e il
tempo dell’incontro di Dio e dell’uomo. A partire dal tempo presente, qui ed ora, fi-
no al tempo, lontano e vicino nello stesso tempo, della redenzione finale e definitiva.
2. Il quindicesimo gradino
I due sabati consecutivi sono un ciclo di due settimane, un ciclo che si apre su
un nuovo giorno, un ottavo (o quindicesimo giorno) che inaugura il tempo della re-
denzione in una dimensione temporale altra. Questo ci indica che all’uomo è dato di
mantenere saldo e stabile il mondo con la sua opera, di essere cooperatore dell’atto
continuo di creazione del mondo nell’arco dei quattordici giorni, ma che non gli è
concesso di chiudere il discorso della redenzione, che è per l’uomo e per il mondo,
ma che, nello stesso tempo, è altra dall’uomo e dal mondo. La redenzione è opera
esclusiva di Dio, nello spazio del tempo altro che si inaugura l’ottavo giorno o il
quindicesimo in un ciclo di due settimane.
Il cammino è tracciato. La Torà è la via di santità che conduce l’uomo a Dio, qui
ed ora, su questa terra e in questo mondo. Il compiere in modo completo, immediato
15
Il testo ebraico del passo di Isaia 56,4 che sta alla base di questa interpretazione riporta
ַ ַשׁ ְבּ, shabbetotàj, “i miei sabati”, al plurale. Secondo la tradizione rabbinica il plurale ha va-
תוֹתי
lore numerico di due.
26
e risoluto, la volontà di Dio è la strada che mantiene saldo il mondo e che prepara,
anche se non anticipa e non determina, la redenzione definitiva del mondo. Il quale
per essere redento ha, comunque, bisogno di chi tenga aperto uno spazio piccolo e
insignificante (i quattro cubiti di halakà di cui parla la tradizione ebraica), ma capace
di permettere, in un tempo e secondo modalità che non è dato determinare, l’irrom-
pere della redenzione.
Insegna il Midrash:
Cantico per le elevazioni. Alzerò i miei occhi. Questo è quanto è detto in un altro passo del-
la Scrittura: Il Signore ti porrà in testa e in coda e sarai solo in alto e non in basso perché
darai ascolto ai precetti del Signore tuo Dio, che oggi Io ti ho ordinato per osservarli e per
compierli (Dt 28,13). Beati (i figli di) Israele nel tempo in cui compiono la volontà del Santo
benedetto egli sia, egli infatti li conduce in alto come angeli del servizio, come è detto: Ed
ecco se tu obbedirai fedelmente alla voce del Signore tuo Dio preoccupandoti di mettere in
pratica i suoi comandi che io ti prescrivo, il Signore tuo Dio ti porrà al disopra di tutte le
nazioni della terra (Dt 28,1) (Aggadàt Bereshìt 39).
Nel tempo dell’attesa, il secondo passo. La Shekinà cammina con noi, lungo le
strade di tutti i nostri esili.
27
Seconda lezione
Alle porte di Gerusalemme
Commento al Salmo 122
Salmo 122
30
1. David e il Santuario
Il titolo, come avviene anche per i Salmi 124, 131 e 133, attribuisce in modo di-
retto il Salmo 122 a David. Come è possibile, se si mantiene, come vuole la tradizione,
l’attribuzione davidica, considerare plausibili o spiegabili le parole del primo versetto?
È detto, infatti:
Se il Santuario non è ancora edificato, come può affermare David di avere gioito
alle parole di coloro che affermavano al suo cospetto di avviarsi lungo il cammino
che sale a Gerusalemme verso quel Santuario che sarà costruito da suo figlio?
Una possibile soluzione ci è offerta da Rashi, il quale così commenta il passo,
seguendo una linea interpretativa che si fonda sul valore futuro della forma verbale
utilizzata nel testo: 1
Ho esultato per coloro che mi dicevano – Ho udito persone che dicevano: “Quand’è che mo-
rirà questo vecchio e regnerà Salomone suo figlio e edificherà il Santuario e noi vi saliremo
per la festa?” Ma io (nonostante ciò) gioisco (Rashi su Salmo 122,1).
Rashi in questo caso si limita a dare ragione di una delle interpretazioni elabo-
rate dalla tradizione rabbinica. In realtà il problema è, nelle sue diverse sfaccettature,
più complesso. Infatti, nel Midrash e nel Talmud la discussione, volta a chiarire i
significati di questo versetto, cerca di trovare risposte a tre specifiche domande: chi
sono coloro che rivolgono le parole all’io-orante; quale valore assumono le parole
dette; in cosa consiste la gioia dell’orante (= David).
Una prima linea interpretativa ci è proposta da un passo del Talmud che pone
con chiarezza la superiorità di David rispetto a Salomone:
Non vi è generazione alcuna nella quale non vi siano dei beffardi. Che cosa facevano i ribelli
della generazione di David? Andavano vicino alle finestre (della casa) di David e gli diceva-
1
Rashi riprende la posizione di rabbi Jehoshua ben Levi riportata in bMakkòt 10a.
31
no: David, quando sarà costruito il Santuario? Quando potremo andare alla casa del Signore?
Ed egli diceva: Nonostante che intendano farmi adirare, mi sia concesso ugualmente di gioire
nel mio cuore. (Come è detto) Ho gioito quando mi dicevano: Andremo alla casa del Signo-
re. (E ancora è detto) Ed avverrà quando saranno pieni i tuoi giorni (2 Sam 7,12). Ha detto
rabbi Shemuel bar Nachmani: Il Santo benedetto egli sia ha detto a David: David, io misuro
per te giorni pieni e non giorni difettivi. Salomone tuo figlio non costruirà il Santuario se non
per presentarvi offerte sacrificali. Per me il diritto e la giustizia che tu compi sono più graditi
delle sue offerte. Qual è la prova? (Quanto è detto nel seguente passo): Il fare la giustizia e il
diritto è preferito dal Signore al sacrificio (Pr 21,3) (jBerakòt 2,4; 2a).
A parlare sono gli avversari di David che gli rimproverano in modo beffardo
di non avere edificato il Santuario per la celebrazione delle feste. David, nonostante
queste parole di scherno, prova gioia perché sa con certezza non tanto che il Santua-
rio sarà edificato da suo figlio Salomone, ma che al Signore, come afferma la Scrit-
tura, la giustizia ed il diritto sono più graditi dei sacrifici. È così annullato l’effetto di
scherno dei beffardi in quanto David ha una posizione di vantaggio rispetto a Salo-
mone: il figlio costruirà sì il Santuario e renderà possibile la celebrazione delle feste
e l’offerta dei sacrifici, ma è David ad indicare la via più gradita al Signore, la via
che porta a compiere le opere proprie del diritto e della giustizia. Il testo biblico che
viene utilizzato come appoggio per introdurre la discussione è 2 Samuele 7,12-13 2:
12
Quando i tuoi giorni saranno pieni e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la
tua discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. 13Egli edificherà una
Casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il suo regno (2 Samuele 7, 12-13)
2
Cfr il passo parallelo: 1 Cronache 17, 11-12.
32
infatti, cercavano di dirmi: Non sarai tu a costruire il Santuario. Gli disse il Santo benedetto
egli sia: Per la tua vita, io non ti toglierò una sola ora della tua vita! Da dove si può dedurre
ciò? Da quanto è detto: Quando i tuoi giorni saranno pieni e tu riposerai con i tuoi padri, io
assicurerò dopo di te la tua discendenza uscita dalle tue viscere e renderò stabile il tuo regno
(2 Sam 7,12). Gli disse ancora il Santo benedetto egli sia: La giustizia e il diritto che tu operi
sono per me più amabili del Santuario. Da dove si può dedurre ciò? Da quanto è detto: David
faceva diritto e giustizia per tutto il suo popolo (2 Sam 8,15) (Devarìm Rabbà 5,3).
Il Talmud mette in scena un dialogo fra David e il Santo benedetto egli sia nel
corso del quale David riferisce ed interpreta le parole udite. Tali parole non sono più
pronunciate dai beffardi che intendono provocarlo e schernirlo, ma da coloro che,
per potere celebrare le feste e osservare le regole del culto, desiderano la costruzione
del Santuario, che implica necessariamente la morte di David e la successione al
trono di Salomone, suo figlio. La gioia di David è la gioia di chi comprende che la
richiesta di costruzione del Santuario è segno della profonda fede dei figli d’Israele,
in quanto solo il Santuario renderà possibile l’esercizio del culto secondo le prescri-
zioni della Torà. Ma ancora una volta Dio si schiera dalla parte di David: l’opera che
Egli maggiormente gradisce non è la costruzione del Santuario, ma è l’occuparsi
della Torà, e David, ossia colui che non costruisce il Santuario, è l’esempio perfetto
di questo atteggiamento di amore della Torà, che si fa azione, studio e ricerca, tanto
da riempire completamente la vita. Nella contrapposizione fra David e Salomone è,
ancora una volta, David a prevalere. In questo caso a fare la differenza è l’atteggia-
mento di David nei confronti della Torà, atteggiamento che, così come descritto nel
Talmud, può essere paragonato a quello di un Maestro che si dedica completamente
allo studio della Torà.
Il Talmud in un altro passo amplifica questa idea e chiarisce, nello stesso tempo,
alcuni elementi interpretativi espressi in forma ellittica nei testi sopra riportati:
Ha detto rav Jehudà in nome di Rav: Cosa significa quanto è scritto: Fammi conoscere, Si-
gnore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni e saprò quando cesserò di esistere (Sal
39,5)? Ha detto David al cospetto del Santo benedetto egli sia: Signore del mondo, fammi
conoscere la mia fine! Gli rispose: È un decreto che viene dal mio cospetto che gli uomini
non debbano conoscere la loro fine. E la misura dei miei giorni cosa significa? (Disse il
33
Santo benedetto egli sia): È un decreto che viene dal mio cospetto che l’uomo non conosca
la misura dei suoi giorni. Quando cesserò di esistere cosa significa? Gli rispose: Morirai di
Shabbat! (Chiese David): Possa io morire nel primo giorno della settimana! Gli rispose: Sa-
rebbe già sopravvenuto il regno di Salomone tuo figlio, e un regno non può sovrapporsi ad un
altro neppure per lo spessore di un capello. (Disse David): Possa io allora morire la vigilia di
Shabbat! Gli rispose: Perché un giorno nei tuoi atri è migliore di mille (Sal 84,11), è migliore
per me un solo giorno in cui tu sieda ad occuparti della Torà dei mille sacrifici che in futuro
Salomone tuo figlio presenterà al mio cospetto sull’altare (del Santuario) (bShabbàt 30a).
Alla base di queste letture aggadica sta l’interpretazione di Salmo 84,11: “Per-
ché è meglio un giorno nei tuoi atri di mille”. Il midrash ’aggadà non vede nel
numerale ֶאלֶ ף, ’èlef, i mille giorni trascorsi dall’orante lontano dagli atri del San-
tuario come vorrebbe il senso letterale del testo, ma intende i mille sacrifici offerti
da Salomone sull’altare del Santuario: “ È meglio un giorno passato al mio cospetto
nello studio della Torà dei mille sacrifici che saranno offerti da Salomone sull’altare
del Santuario”. 3
La medesima discussione viene riportata in un passo del Midrash con una va-
riante significativa:
Fammi conoscere, Signore, la mia fine, e qual è la misura dei miei giorni (Sal 39,5). Disse
David al cospetto del Santo benedetto egli sia: Signore del mondo, mi sia dato di conoscere
quando morirò! Gli rispose: È stato decretato che ciò non sia rivelato all’uomo e pertanto non
è possibile che ti venga rivelato. (Chiese, ancora, David): E la misura dei miei giorni qual è?
Gli rispose: Settanta anni. (Disse, allora David): E saprò quando cesserò di esistere, possa io
sapere in quale giorno morirò. Gli rispose: Di shabbat. Gli chiese David: Toglimi un giorno.
Gli rispose: No! Gli chiese allora: Perché? Gli rispose: Mi è più gradita una sola preghiera
che tu reciti davanti a me dei mille sacrifici che Salomone tuo figlio farà salire al mio cospetto
come è detto: Mille olocausti farà salire Salomone su questo altare (1 Re 3,4). Disse allora
David: Aggiungimi un giorno solo! Gli rispose: No! Gli chiese quindi: Perché? Gli disse: Tu
così facendo comprimeresti il tempo di accesso al potere di tuo figlio (Rut Rabbà 3,2).
Quello che ora entra in gioco nel gradimento del Signore non è lo studio della
Torà, ma la preghiera, altro elemento fondamentale nella vita dell’ebreo. L’atteg-
giamento di David, secondo il Talmud e il Midrash, è, pertanto, il paradigma che,
partendo dal tempo in cui ancora non c’era il Santuario, viene proposto all’ebreo nel
tempo in cui non c’è più il Santuario, profanato e distrutto dai romani.
Studio della Torà e preghiera sono i due poli della vita legati ai due luoghi
dell’esperienza comunitaria, dopo la distruzione del Secondo Santuario: la Casa di
studio/Bet midrash e la Sinagoga/Bet ha-knèsset. È questo, dunque, il modello va-
lido fino alla venuta del Re Messia, il quale riedificherà il Santuario e ripristinerà
il diritto e la giustizia nel mondo. Come a dire, nel tempo della Diaspora/Galùt,
inaugurato in forma definitiva con la distruzione del Secondo Santuario, l’uomo si
volgerà non più al Santuario/Bet ha-miqdash e ai sacrifici che lì erano compiuti, ma
ad altri due punti d’incontro della comunità: la Casa di studio/Bet midrash, luogo
dedicato alla Torà, e la Sinagoga/Bet ha-knèsset, luogo dedicato alla preghiera.
3
Cfr 1 Re 3,4 עֹלוֹת ֶאלֶ ף, ’elef ‘olot, “mille sacrifici”.
34
La prospettiva messianica soggiacente può essere colta anche nel testo di Salmo
122,1: il tempo futuro del verbo (נֵ לֵ ך, nelék, “andremo”) lascia aperta la possibilità
di vedere nella Casa del Signore il terzo Santuario, che sarà riedificato dal Re Mes-
sia. Così, infatti, commenta il Midrash:
Aronne lo preparerà nella tenda del convegno fuori del velo della Testimonianza (Lv 24,3).
Ha detto rabbi Elazar ben Shamùa: Per il merito del preparerà voi sarete liberati da quanto è
detto nel profeta Isaia: poiché è preparato da tempo il forno (Is 30,33).
Ha detto rav Hanin: Per il merito di quanto è detto: per mantenere il lume perenne (Lv 24,2),
voi siete degni di ricevere il lume del Re Messia. Qual è la prova scritturistica? La seguente:
Là farà germogliare un corno per David; ho preparato un lume per il mio unto/mashìach (Sal
132,17), e ancora è detto in un altro passo: Ho gioito in coloro che mi dicevano: Andremo alla
casa del Signore (Wajjiqrà Rabbà 31,11).
Il lume del Messia è il lume che arderà nel Santuario che il Messia stesso ri-
edificherà. Ed è per questo che ogni membro di Israele può e potrà dire assieme a
David: “Ho gioito in coloro che mi dicevano: Andremo (di nuovo, nei giorni del
Messia) alla Casa del Signore”.
Passiamo ora all’analisi del terzo versetto del Salmo, partendo dalla traduzione
letterale:
Ha detto Rabbi Jehoshua ben Levi: Gerusalemme costruita come una città tutta
connessa insieme: città che rende tutti i figli di Israele amici/compagni da ora (= dal
momento della festa) e pure nel resto dei giorni dell’anno. Ha detto rabbi Zeurà: No,
solamente nell’ora in cui là salgono le tribù (Sal 122,4) (jChagigà 3,6; 79d).
35
Il celebrare le feste di pellegrinaggio a Gerusalemme, secondo Rabbi Jehoshua
ben Levi, rende i figli di Israele compartecipi della stessa natura di Gerusalemme:
se Gerusalemme è città connessa insieme, così lo saranno anche i figli di Israele se
saranno capaci di trasferire questa unità in tutti gli altri giorni dell’anno, divenendo a
tutti gli effetti una comunità. Cioè: la santità propria di Gerusalemme si estende a chi
ne partecipa nei giorni designati per salire alla città santa. Da Gerusalemme, pertan-
to, si riporta nei villaggi e nelle proprie case non solo la gioia della festa, ma anche
quel senso di unità che ci trasforma in una “compagnia”, ossia in un insieme di amici
e di compagni mossi dai medesimi ideali e dalla condivisione della medesima fede.
Gerusalemme costruita – (È come se David dicesse): Quando mio figlio Salomone costru-
irà il Santuario in mezzo ad essa, allora sarà costruita con la Shekinà, il Santuario, l’arca e
l’altare.
Come città che è connessa a lei – Come Shilo, in quanto la Scrittura paragona l’una all’altra,
come è detto: Al luogo di riposo e all’eredità (Dt 12,9), il luogo di riposo è Shilo, l’eredità
è Gerusalemme. 4
E i nostri Maestri hanno detto (che il passo allude al fatto) che c’è una Gerusalemme costruita
nei cieli e che nel futuro la Gerusalemme di quaggiù diverrà come quella (Rashi su Salmo
122,3).
Qual è il luogo verso il quale sono salite le tribù quando uscirono dall’Egitto?
Quel luogo è Shilo: l’avverbio ָשׁם, sham, “là”, non sta, dunque, ad indicare Gerusa-
lemme, ma il primo luogo della dimora dell’arca, dell’altare e della Shekinà, al tem-
po dei Giudici. Anche il verbo al perfetto עָ לוּ, ‘alù, “salirono”, si pone nel medesimo
contesto spaziale e temporale. È un salire volto al passato, ad una situazione superata
da una successiva e definitiva.
In un altro passo del suo commento Rashi individua il riferimento diretto a
Gerusalemme:
Perché là ( ָשׁ ָמּה, shàmmah) saranno posti i troni del giudizio – Poiché anche a Gerusalemme
risiederà la Shekinà e saranno posti i troni per giudicare su di essi le nazioni e i troni del
regno per la casa di David (Rashi su Salmo 122,5).
4
Cfr Rashi su Deuteronomio 12,9: “Il luogo di riposo – è Shilo. All’eredità – è Gerusalem-
me”. Il passo del Talmud in cui è riportata la discussione a cui Rashi fa riferimento è bZevachìm
119a-b
36
Secondo questa modalità interpretativa, il ruolo delle due città è indicato con
chiarezza nel testo del Salmo: nella dimensione temporale, prima Shilo ( ָשׁם, sham)
poi Gerusalemme ( ָשׁ ָמּה, shàmmah), e nella continuità della presenza della Shekinà:
prima a Shilo poi a Gerusalemme. Rashi fonda la sua lettura su una doppia contrap-
posizione: quella delle due forme avverbiali ( ָשׁם, sham,e ָשׁ ָמּה, shàmmah) e quella
delle due forme verbali, la prima al perfetto e la seconda al futuro). Egli, infatti, sem-
bra interpretare come futuro la forma consonantica ישׁבו, jshbw, vocalizzata come
perfetto nel testo masoretico, 5 e riferita a Gerusalemme:
L’unione fra le due Gerusalemme è tanto stretta che il Santo benedetto egli sia,
quando opererà la redenzione del mondo, non entrerà nella Gerusalemme celeste
senza prima avere fatto sì che la sua Shekinà torni a dimorare nella Gerusalemme
terrestre, e ciò potrà avvenire solo con la ricostruzione per mano del Messia di Ge-
rusalemme e del Santuario, secondo il modello celeste.
5
Nel testo masoretico troviamo la seguente vocalizzazione: יָ ְשׁבוּ, jashevù, “sono posti”.
37
Ancora una volta ci è di aiuto il commento di Rashi:
Gerusalemme, costruita come città che unita a lei insieme – La Gerusalemme che è in basso sarà
costruita come una città che è strettamente unita a lei, che è cioè come lei, unita a lei e a sua imma-
gine. Per implicazione c’è dunque un’altra Gerusalemme e dove si trova quest’altra Gerusalemme
se non in alto? (Rashi su bTa’anìt 5a).
Il Santo benedetto egli sia condivide, se è possibile dirlo, col suo popolo la
condizione di esilio in terra straniera. Fino al compiersi della redenzione definitiva,
la Shekinà è, se è possibile dirlo, costretta ad errare per il mondo, con o senza meta,
assieme ai figli d’Israele e a provare, di generazione in generazione, sia le sofferenze
e l’umiliazione che vengono dalla condizione dell’esilio, sia la speranza nell’attesa
del ritorno e della redenzione che ancora non si realizzano. A tenere vive l’attesa e la
speranza, sta, in alto, la Gerusalemme nei cieli che non è specchio della Gerusalem-
me che è in basso sulla terra, ma è il paradigma fisso ed inalterabile posto, là dove
giunge solo lo sguardo penetrante della fede, ad indicare la possibilità effettiva che la
Gerusalemme in basso sia riedificata in modo strettamente unito alla Gerusalemme
in alto. C’è, dunque, in queste parole consolazione e speranza che poggiano sulla
fedeltà di Dio alle promesse. Consolazione perché la Shekinà cammina, qui ed ora,
con noi e ci accompagna, nel silenzio e nell’assenza, in tutti i nostri esili; speranza
perché la Gerusalemme in alto, verso cui la Shekinà anela e tende, è segno e pro-
messa della redenzione che non tarderà a venire e che si realizzerà, presto e ai nostri
giorni, trasformando e trasfigurando in modo definitivo ciò che è in basso.
Nella speranza, il terzo passo. Nel tempo del disprezzo, solo la via della fedeltà
apre le porte della misericordia.
38
Terza lezione
Alzare gli occhi a Dio
Commento al Salmo 123
Salmo 123
40
1. Oltre il disprezzo
Il Salmo, breve ed intenso, è, come scrive Giorgio Castellino, “un piccolo gio-
iello. Condotto con precisione di linea e chiarezza di figura, potrebbe essere para-
gonato ad una scenetta incisa su un cammeo. Nella sua brevità è completo nelle sue
parti, e ogni parte è tracciata con eleganza e sicurezza”. 1
1
Giorgio CASTELLINO, Libro dei Salmi, Torino, Marietti, 1965, p. 840.
2
Secondo Radaq l’alternanza di IO e di NOI non è casuale, ma ha un valore particolare:
“Quando riporta le parole degli esiliati, il Salmista si esprime talvolta al singolare, includendoli
tutti, e talvolta al plurale” (Radaq su Salmo 123,1).
41
Una infelice vittima di una società di gaudenti, pieni di boria, si rivolge a Dio perché lo aiuti.
Nella gente che lo circonda non trova nessun’anima amica, nessun cuore gentile, e non gli
rimane altro rifugio o soccorso che quello dell’Essere supremo, più alto e più buono di tutti. Il
poeta non ricorre a Dio come il figlio al padre, ma come il servo al padrone da cui dipendono
la sua vita, la sua tranquillità e il suo pane, e come la schiava che attende dalla signora la
carità d’uno sguardo gentile, d’una parola buona, d’un cibo sufficiente, d’un vestito. Questo
atteggiamento umile dipende dallo stato di abiezione nella quale si trovava il poeta o si tro-
vavano quelli nel cui nome egli parlava. Erano povere anime in balia dell’altrui disprezzo;
erano esseri reietti in mezzo ad una società di gaudenti orgogliosi, di ricchi egoisti che non
degnavano di uno sguardo umano e di un atto pietoso i poveri, gli straccioni, i miserabili. Il
tono del canto è commovente per la umile invocazione di pietà e per il quadro di miseria e
di avvilimento che si intravvede dall’ultimo verso dove, accanto alla sofferenza ormai insop-
portabile del misero protagonista, sazio dell’altrui disprezzo e dell’altrui scherno, ci sono gli
shaanannim, i satolli, i tranquilli, i felici sicuri di sé e delle proprie ricchezze; i gheejonim, gli
altezzosi, i boriosi, pieni di sé stessi e delle proprie fortune. Se è un canto di pellegrini esso
deve essere posto in bocca a gente umile, povera e disprezzata, a proletari senza alcuna fortu-
na, viventi in margine ad una società di benestanti egoisti, oppure ai miseri reduci dall’esilio,
pieni di miseria e di amarezza. In ogni modo è un piccolo poetico gioiello, specchio d’un’ani-
ma sensibile che anela ad un po’ di pace e di umano rispetto. 3
Il punto di crisi di ogni tentativo di interpretazione del Salmo è dato dal difficile
versetto conclusivo (v. 4), che si presenta come un’estensione della parte finale del
versetto precedente (Salmo 123, 3b), di cui amplifica, con tecniche poetiche proprie
della poesia biblica, le ultime tre parole:
3
Dante LATTES, Il Libro dei Salmi, Roma, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane,
1963, p. 475.
4
Il testo consonantico del ketìv (= “ciò che è scritto”) è da vocalizzare per via analogica:
לַ גַּ ֲאיוֹנִ ים, la-ga’ajonìm, in quanto le vocali riportate nel testo sono quelle proprie della lezione del
42
Vediamo, in primo luogo, a testimonianza di diverse possibilità interpretative o
di diverse modalità di trasmissione del testo, come le versioni antiche hanno tradotto
e interpretato il versetto.
Partiamo dalla traduzione dei LXX:
San Girolamo, in questa traduzione più fedele al testo ebraico, accetta l’inter-
pretazione rabbinica della sintassi del testo (saziarsi di) e legge seguendo il ketìv. 6
qeré, indicata in margine. Per la vocalizzazione del ketìv cfr H. BAUER – P. LEANDER, Historische
Grammatik der hebräische Sprache des Alten Testaments, Halle, 1922, p. 500, § 61p. È possibile
vocalizzare anche senza l’articolo: lega’ajonìm
5
Cfr Il Salterio della tradizione, a cura di Luciana Mortari, Gribaudi, Torino, 1983, p.289.
6
Va aggiunto che, nella tradizione manoscritta della Bibbia ebraica, non tutti i ma-
noscritti riportano la proposta di lettura del qeré, primo fra tutti il manoscritto di San Pie-
troburgo, che è alla base della edizione critica della Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS).
43
Le versioni antiche, pertanto, sembrano o non conoscere o, quantomeno, non
accettare la lettura proposta nel qeré che, di conseguenza, si presenta esclusivamente
come una rilettura masoretica del testo; una delle tante sedimentate nella tradizione
anche se non legata a specifiche necessità interpretative o correttive.
Rashi affronta il problema del significato della parte finale del versetto (4c) e
lo risolve con un’interpretazione che mira a recuperare una struttura di senso che
chiama in causa in modo diretto Gerusalemme: accetta il qeré secondo la notazione
masoretica (“è scritto come un’unica parola, ma va letto come due”) e applica il
tutto a Gerusalemme (= “la valle delle colombe”). 7 Come precisa Alberto Mello: “In
pratica, Rashi viene a dire che il salmista è molto stanco del disprezzo delle genti nei
confronti di Gerusalemme”. 8
La nota marginale masoretica che accompagna, in alcuni manoscritti, il qeré,
così recita:
A questa linea di lettura si oppone Ibn Ezra, il quale ritiene corretta la lezione
conservata nel testo tràdito (ketìv):
ַהלַּ עַ ג ַה ַשּׁ ֲאנַ נִּ ים, ha-là’ag ha-sha’anannìm – il sintagma va inteso come stato costrutto, con
la medesima costruzione che si trova anche in Ger 32,12: il contratto di acquisto (ַה ֵסּ ֶפר
ַה ִמּ ְקנָ ה, ha-séfer ha-miqnà), per cui si deve intendere לַ ַעג ַה ַשּׁ ֲאנַ נִּ ים, là’ag ha-sha’anannìm,
“lo scherno dei gaudenti”. Allo stesso modo si deve interpretare anche la forma ַהבּוּז, ha-buz,
nel sintagma che segue: בּוּז לַ גַּ ֲאיוֹנִ ים, buz la-ga’ajonìm, “il disprezzo dei superbi”. לַ גַּ ֲאיוֹנִ ים,
la-ga’ajonim, va letto come una parola sola e non come due, derivante dalla radice גָּ ָאה, ga’à,
“insuperbire”, costruito secondo lo stesso schema nominale di ֶעלְ יוֹנִ ים, ‘eljonìm (Ibn Ezra su
Salmo 123,4).
7
Rashi probabilmente si richiama a Is 60,8 (כַּ יּוֹנִ ים, kajjonìm, “come colombe”), come
interpretato in bBava Batra 75b.
8
Alberto MELLO, Leggere e pregare i Salmi, Qiqajon, Magnano, 2008, p. 538.
9
Cfr Rashi su Salmo 10,10: nel commento Rashi discute i seguenti passi: Gen 30,11; Dt
33,2: Is 3,15. Per l’elenco delle quindici occorrenze Cfr Oklah we-oklah, ed. Frensdorff, §99. Si
veda anche Page H. KELLEY, Daniel S. MYNATT, Timothy G. CRAWFORD, The Masorah of Biblia
Hebraica Suttgartensia, Eerdmans, Grand Rapids (Mi)/Cambridge, 1998, p. 192.
44
bi” e non: “i superbi (sono) scherno”, e vede in (la-)ga’ajonim una sola parola da
interpretare non come una eccezione ma come formazione che segue uno specifico
schema nominale.
Radaq, dal canto suo, mantiene aperte entrambe le vie, quella offerta dal ketìv,
nella linea di Ibn Ezra, e quella del qeré, anche se dà la preferenza alla lezione del
testo tradito (ketìv):
לִ גְ ֵאיוֹנִ ים, lig’èjonìm – nella Scrittura è una parola sola che deve essere intesa come גֵּ ִאים,
ge’ìm, “superbi”, col lamed d’agente prefisso, la lettera jud frapposta e la nun alla fine; è una
formazione nominale del tipo ֶעלְ יוֹנִ ים, ‘eljonìm, con la differenza che quest’ultima parola ha
una vocalizzazione che deriva dalla presenza della consonante gutturale. Nel qeré, invece, si
hanno due parole: לִ גְ ֵאי יוֹנִ ים, e, pertanto, si trova aggiunto un valore semantico, in quanto גְּ ֵאי
è da intendere come גֵּ ִאים, ge’ìm, mentre la parola יוֹנִ ים, jonìm, ha il valore di “opprimere”,
come nei seguenti passi della Scrittura: la città che opprime (Sof 3,1), la spada che opprime
(Ger 46,16), nessuno opprima suo fratello (Lv 25,17), i miei prìncipi non opprimeranno più
il mio popolo (Ez 45,8) (Radaq su Salmo 123,4).
Il fatto che גַּ ֲאיוֹנִ ים, ga’ajonìm, sia un hapax può avere indotto i Masoreti a
introdurre la lezione proposta nel qeré, che, se intesa nella linea tradizionale seguita
da Radaq, non aggiunge nulla, o poco più di nulla, all’interpretazione del Salmo. Si
tratta, più che di una variante testuale, di una glossa marginale interpretativa, che
non ha lo scopo di risolvere difficoltà testuali o “teologiche” specifiche. Infatti, il
passaggio da גַּ ֲאיוֹנִ ים, ga’ajionìm, “superbi, altezzosi”, a גְּ ֵאי יוֹנִ ים, ge’é jonìm, “su-
perbi fra gli oppressori/prepotenti”, non è particolarmente significativo nell’econo-
mia del Salmo.
Può darsi, allora, che il senso della lezione masoretica proposta nel qeré sia da
cercare per altra via, come, d’altra parte, ammonisce Rashi nel suo commento.
L’esegesi moderna attribuisce la variante testuale testimoniata dal qeré a un
processo di attualizzazione del Salmo avvenuto in età maccabaica, con esplicito ri-
ferimento ai dominatori greco - macedoni, i Seleucidi:
10
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi, vol. III, EDB, Bologna, 1984, p. 549).
45
Così intesa, la lezione del qeré sembra adombrare un gioco di parole nascosto
dall’autore del Salmo nell’hapax לַ גַּ ֲאיוֹנִ ים, la-ga’ajonìm; gioco di parole lungimi-
rante e detto in spirito di profezia se si accetta l’attribuzione davidica del Salmo.
Ma il riferimento ai greci o ai romani o ad altri popoli che hanno oppresso Israele
nei diversi esili, non appare direttamente legato al testo del Salmo e al suo conte-
nuto. Proviamo, allora, a seguire un’altra via interpretativa della lezione masoretica
proposta nel qeré, affidandoci alla sensibilità linguistica di Rashi. L’interpretazione
proposta da Rashi si basa sulla polisemia del termine יוֹנִ ים, jonìm, testimoniato nella
lezione del qeré. Non si tratta, secondo Rashi, del participio qal del verbo יָ נָ ה, janà,
“opprimere”, come vorrebbe la lettura piana del testo, ma del plurale del sostantivo
יוֹנָ ה, jonà, “colomba”. Egli intende: “la valle delle colombe”, ossia Gerusalemme,
schernita e distrutta dalle nazioni che sono come uccelli rapaci contrapposti alle
colombe, docili e pacifiche. La parola colomba, pertanto, ci porta in un ambito se-
mantico diametralmente opposto a quello indicato dalla superbia e dall’oppressione.
La proposta di lettura di Rashi apre una breccia nell’interpretazione del testo,
nella quale si incunea, nell’alveo della tradizione, il commento di rabbi Hirsch 11, che
ci stimola ad aprire nuovi orizzonti di riflessione:
גְּ ֵאי יוֹנִ ים, ge’é jonìm – “i superbi fra le colombe”. Contrapposta alle imperiose aquile che sono
l’emblema del potere e della maestà delle nazioni del mondo, la “colomba”, simbolo della
debolezza e dell’impotenza, è alla completa mercé di tutti i suoi nemici. Fra tutte le “colom-
be”, fra tutti i popoli deboli e senza potere del mondo, solo Israele ha il coraggio e l’energia
morale per sostenere con occhio calmo lo sguardo, simile a quello di aquila, del grande e
del potente, per restare ritto con un’indomabile sicurezza, e, a dispetto della bassa posizione
occupata nel rango delle nazioni, per sentirsi come una grande forza fra le manifestazioni na-
zionali dell’intera storia mondiale. I grandi e i potenti hanno liquidato questo atteggiamento
di autostima d’Israele considerandolo גְּ ֵאי יוֹנִ ים, ge’é jonim, “l’orgoglio del povero”, e si sono
allontanati dal popolo ebraico con disprezzo. 12
Secondo Hirsch, solo Israele, fra tutti i popoli del mondo, ha la dirittura mora-
le, derivante dalla fedeltà a Dio e alla Torà, per opporsi alla forza schiacciante dei
potenti che scherniscono, disprezzano e umiliano, dall’alto del loro potere e della
loro ricchezza, l’uomo (= l’ebreo) e Dio. Egli così traduce e interpreta il v. 4c: “il
disprezzo rivolto (dalle genti) agli orgogliosi (= Israele) fra le colombe, ossia: fra i
poveri e i deboli”.
C’è un’altra via interpretativa, che coinvolge il Salmo nella sua interezza, se-
condo la quale all’esilio è attribuita una funzione pedagogica. L’esilio, infatti, educa
Israele eliminando le condizioni che possono portarlo ad assumere un atteggiamento
di superbia, di autosufficienza e di sicurezza; tale atteggiamento può essere favorito
dalla permanenza in terra d’Israele, sia perché Israele è il popolo eletto al quale Dio
11
Rabbi Samson Rapahel Hirsch (1808-1888), rabbino tedesco, fu fondatore della neo-
ortodossia, con la quale tentò di conciliare la fedeltà alla tradizione con i principi della scienza
moderna, con l’emancipazione degli ebrei e con l’assimilazione nazionalistica, attraverso la ferma
adesione alla speranza messianica. Il commento ai Salmi è del 1882.
12
The Psalms, translation and commentary by Rabbi Samson Raphael Hirsch, rendered into
English by Gertrude Hirschler, Jerusalem/New York, 1997, Book Three, pp. 379-380.
46
si è rivolto direttamente, sia perché quella terra è il luogo in cui può sperimentare la
presenza del Signore, la Shekinà,e la sua benedizione.
La superbia, infatti, è l’atteggiamento che Dio maggiormente detesta perché
diametralmente opposto alla natura creaturale dell’uomo, che, in ogni momento e in
ogni luogo, ha bisogno di rivolgersi al Creatore e non di crogiolarsi in una titanica e
devastante autosufficienza, come è detto: “È un abominio per il Signore ogni cuore
superbo” (Pr 16,5). E quando la superbia si annida nel cuore dell’ebreo e nel cuore
stesso di Israele, come popolo e come terra, Dio deve intervenire e usare l’arma
dell’esilio per cancellare le condizioni che generano quell’atteggiamento superbo
che nel segno del progressivo distacco da Dio annulla il senso primo dell’elezione,
la testimonianza al cospetto delle genti.
Così insegnano i Profeti:
11
In quel giorno non avrai vergogna di tutte le tue profanazioni che hai compiuto contro di
me perché allora eliminerò da te coloro che si rallegrano della tua superbia e tu cesserai di
insuperbirti sul mio santo monte. 12Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero ed
essi confideranno nel nome del Signore (Sof 3, 11-12).
L’uomo superbo e tracotante pensa di potere vivere e prosperare senza Dio. Tale
atteggiamento è deprecabile se lo si riscontra presso le nazioni del mondo, ma non
impone un intervento diretto da parte di Dio. Quando, invece, è il popolo eletto a
cedere all’hybris e alla superbia, l’intervento di Dio è necessario perché, se così non
fosse, si rischierebbe di interrompere il cammino, continuo e inarrestabile, della te-
stimonianza e della fedeltà, che sole possono contribuire a mantenere l’ordine della
creazione e tengono aperta la via della redenzione definitiva dell’uomo e del mondo.
Il mondo può reggersi solo se l’uomo dipende o se, educato dalla sofferenza e
dall’esilio, torna a dipendere completamente da Dio; se torna a confidare in Lui e a
volgersi a Lui con cuore umile e sincero, perché ha sperimentato e compreso che può
ottenere la salvezza e la redenzione solo da Lui.
Nel nostro Salmo, questo atteggiamento è indicato dalla doppia similitudine
servo/padrone, serva/ padrona:
L’esilio, pertanto, può essere luogo che, per duplice via, tiene il popolo d’Israele
lontano dalla superbia e dal miraggio dell’autosufficienza. L’esilio è sofferenza ed è
47
lontananza, ed è, in quanto tale, il luogo in cui, come necessità che viene dall’assen-
za di Dio e dalla distanza incolmabile dalla terra, si manifesta la dimensione della
testimonianza, che è ascendente, ossia: un grido che squarcia le porte del cielo, e
orizzontale, ossia: una mano tesa alle nazioni del mondo per fare risplendere anche
su di loro la luce del Dio della vita, della giustizia e della misericordia.
Su questo ultimo aspetto insiste rabbi Hirsch:
Il Signore ha disperso Israele fra le nazioni come עֶ ֶבד, ‘èved, e come ִשׁ ְפ ָחה, shifchà, come
“servo” e come “ancella” per essere di aiuto alla grande opera divina a favore dell’umanità.
Israele è chiamato “servo” ad indicare l’arduo lavoro che deve svolgere, nella vita pubblica, a
contato diretto con le nazioni del mondo; ed è chiamato “ancella” ad indicare il gioioso com-
pimento del proprio compito nella sfera interna delle case, delle famiglie e delle comunità
ebraiche. Per l’adempimento di entrambi questi compiti Israele ha bisogno di una straordi-
naria energia spirituale e morale; ed è per ottenere queste facoltà che Israele volge gli occhi
al Signore, suo Dio, proprio come un servo e un’ancella volgono gli occhi al loro padrone. 13
Detto con altre parole: se non ci fosse, fra le nazioni del mondo, Israele, disper-
so ed esiliato, ad alzare, nel dolore e nella lontananza, gli occhi a Dio e a testimo-
niarne l’unicità nella fedeltà (ascendente e discendente), Dio resterebbe il Signore di
un cielo lontano ed impassibile, che non è più in grado di comunicare con la terra.
La testimonianza d’Israele non riguarda Dio e la sua essenza in sé e per sé, in quanto
Dio è Dio indipendentemente dalla testimonianza dell’uomo o dalla sua risposta alla
chiamata, ma è rivolta alle nazioni del mondo per mostrare loro la luce vera della
vita e per indicare loro la strada che può condurle a quel Dio che è creatore e padre
di tutti gli uomini.
Tutto questo continua ad accadere e a realizzarsi nonostante il disprezzo e lo
scherno delle nazioni gaudenti, potenti e prepotenti; nonostante l’odio, la sofferenza,
la morte, lo sterminio; nonostante la pressione asfissiante degli uomini su quel pic-
colo popolo indifeso e nonostante il silenzio devastante di Dio.
Solo quando Israele, come comunità e come persona singola, così come ci inse-
gna il Salmo con l’alternanza io/noi, alza gli occhi a Dio, la luce del divino si irradia
sul mondo, debole e fioca o forte e accecante, a seconda della capacità e della volon-
tà dell’uomo di accoglierla e di farla risplendere nel segreto del cuore, e di scorgerla
nei volti degli altri uomini, che nuovamente si mostrano ad immagine e secondo la
somiglianza di Dio.
Grazie all’esilio e alla testimonianza, Dio è Dio e l’uomo è l’uomo, ognuno al
proprio posto, senza la tentazione, dal basso, di detronizzare Colui che siede nei cieli
e, dall’alto, di abbandonare il mondo e l’uomo. L’occhio, che si alza al cielo in se-
13
The Psalms, translation and commentary by Rabbi Samson Raphael Hirsch, rendered into
English by Gertrude Hirschler, Jerusalem/New York, 1997, Book Three, pp. 378-379.
48
gno di supplica nel tempo del dolore e dell’abbandono, è espressione di dipendenza
diretta dell’orante da Dio ed è il primo passo di un cammino di umiltà destinato a
cambiare e a rinnovare profondamente il mondo. Non è, infatti, solo un gesto dettato
dalla crisi del tempo presente o dalla disperazione dell’esilio; è atto di fede e segno
di una fiducia testarda e irremovibile, imperturbabile e duratura, incrollabile e in-
scalfibile, tanto forte nella sua debolezza da costringere Dio, se è possibile dirlo, a
tenere gli occhi fissi sulle sofferenze e sul dolore di tutti gli esili (passati, presenti e
futuri) e sul flebile bagliore della testimonianza, fino a quando da quegli occhi divini
non s’irraggerà sull’uomo e sul mondo lo sguardo amorevole e misericordioso col
quale Egli verrà a visitarci, a risollevarci e a donarci gratuitamente la redenzione
definitiva. Proprio come insegna il Salmista:
49
Quarta lezione
Tutto e tutti contro di noi
Commento al Salmo 124
Salmo 124
52
1. Un uomo o gli uomini?
L’ora (עַ ָתּה, ‘attà) del tempo presente si pone in relazione con la dimensione
memoriale del passato, visto come elemento puntuale (allora) o come linea che da
un punto di origine giunge fino a noi (da allora - fino ad ora). Israele è chiamato a
proclamare, nell’ora del tempo presente la fedeltà di Dio al popolo che si è scelto e
che ha liberato allora dalla casa di schiavi in Egitto e che ha continuato ad assistere
fino ad ora e che anche ora continua ad assistere.
Il nostro Salmo, se letto nell’alveo della tradizione ebraica, non si limita a sotto-
lineare la dialettica della dimensione temporale (allora/fino ad ora/ora), pone anche
la necessità di considerare lo stretto rapporto che lega lo spazio dell’individuo allo
spazio della comunità nel continuo confronto e scontro tra Dio e l’uomo/umanità e
tra il popolo di Israele e gli altri popoli. Questa dialettica è posta, nei versetti 1 e 2,
da due sostantivi al singolare che possono assumere una valenza individuale e una
dimensione collettiva. Il sostantivo ִשׂ ָר ֵאל
ְ , jisra’él, inteso in senso individuale, in-
dica Giacobbe/Israele, mentre, in senso collettivo, è il popolo d’Israele. Allo stesso
modo, il sostantivo ָא ָדם, ‘adàm, in senso individuale indica un uomo che ha mostrato
un’ostilità specifica nei confronti di Israele, mentre in senso collettivo indica l’uma-
nità e le genti che hanno amareggiato ed amareggiano la vita del popolo ebraico.
Se ci limitiamo al senso letterale del testo, il Salmo ci porta a cogliere solo la
dimensione collettiva o comunitaria della preghiera. In questa prospettiva, ִשׂ ָר ֵאל ְ ,
jisra’él, è il “popolo d’Israele” ed altro non può essere, come ci conferma l’insisten-
1
Cfr Targum Salmo 124,1: “Se il Signore non fosse venuto in nostro aiuto, lo dicano ora i
igli d’Israele”; Vulgata Salmo 123,1: “dicat nunc Israel”.
53
za del testo del Salmo sul “noi”, ossia sul quel popolo che è il soggetto orante e che
è, allo stesso tempo, l’oggetto dell’amore divino e dell’odio delle nazioni.
La dimensione del noi, infatti, domina il Salmo: “se il Signore non fosse stato per
noi” (v.1 e 2); “quando uomini sorsero contro di noi” (v.2); “allora ci avrebbero divorati
vivi” (v.3); “quando divampò la loro ira contro di noi” (v.3); “allora ci avrebbero som-
merso le acque” (v.4); “un torrente sarebbe passato sulle nostre anime” (v.4); “allora
sarebbe passato sulle nostre anime” (v.5); “che non ci ha dato come preda per i loro den-
ti” (v.6); “la nostra anima” (v.7); “e noi siamo scampati” (v.7); “il nostro aiuto” (v.8).
Allo stesso modo, la parola ָא ָדם, ’adam, sta ad indicare gli uomini (= le na-
zioni) ostili ad Israele, come è confermato dall’insistenza del testo del Salmo sulla
terza persona plurale: “allora essi ci avrebbero divorati vivi” (v.3), “nell’ardere della
loro ira contro di noi” (v. 3b); “che non ci ha dato come preda per i loro denti” (v.6)
Lungo questa linea interpretativa si pongono i commentatori medievali, in par-
ticolare Radaq, che applica il Salmo alla condizione dell’esilio:
Questo dica Israele nell’esilio: che cioè se il Signore non fosse stato per noi quando i nemici
ci assalirono nell’esilio per distruggerci, allora ci avrebbero inghiottiti vivi. Per noi va inteso
così: con noi (Radaq su Salmo 124, 1-3).
Ibn Ezra, invece, insiste sul valore plurale della parola ָא ָדם,’adam, “uomo”:
“ ָא ָדם,’adam, uomo – è parola con valore plurale, come è testimoniato (da quello che segue
nel testo del Salmo)” (Ibn Ezra su Salmo 124,2).
2
‘Ever, iglio di Selach, nella tradizione ebraica è considerato un giusto e un saggio. Alla
scuola di Shem e del nipote ‘Ever andò anche Isacco. Secondo il Midrash alla scuola di ‘Ever
andarono per tredici anni Esaù e Giacobbe, nei successivi tredici anni Giacobbe continuò lo studio
mentre Esaù si volse all’idolatria (cfr Bereshìt rabbà 63,10).
3
Cfr Zohar II, 47a: “Ha detto rabbi Jehudà: Il merito di Giacobbe protegge i igli di
Israele, come è scritto: Se il Signore non fosse stato per noi, lo dica Israele (Sal 124,1), si
tratta del patriarca Israele”.
4
Cfr Bereshìt rabbà 74, 11; Midrash Tehillìm 124, 1.
54
Il Midrash gioca sul fatto che la frase “e si coricò in quel luogo” (Gen 28,11)
compare solo nel passo relativo al sogno di Giacobbe a Betel, mentre non è attestata
negli episodi precedenti riguardanti la vita di Giacobbe e nemmeno in quello suc-
cessivo, relativo al suo soggiorno presso Labano. Questo porta a concludere che ci
furono lunghi periodi, che precedettero e seguirono quanto narrato in Genesi 28,11,
durante i quali Giacobbe non si coricò di notte e non dormì.
Secondo l’opinione di rabbi Jehudà, la prima riportata nel passo del Midrash,
Giacobbe non si sarebbe mai coricato nei quattordici anni passati a studiare nella
scuola di ‘Ever. Il fatto che Giacobbe abbia frequentato la scuola di Shem e di ‘Ever
è desumibile da Genesi 25,27: “e Giacobbe, uomo pacifico, viveva nelle tende”. Di
quali tende si tratta? Sono la scuola di Shem e la scuola di ‘Ever. 5
Rashi osserva:
L’espressione ha un valore limitativo: in quel luogo Giacobbe si coricò, ma non durante i
quattordici anni precedenti in cui aveva studiato alla scuola di ‘Ever. Egli non si era mai co-
ricato di notte, perché era costantemente impegnato nello studio della Torà (Rashi su Genesi
28,11).
5
Bereshìt rabbà 63,10: “E Giacobbe, uomo paciico, viveva nelle tende. Si tratta di due
tende. La scuola di Shem e la scuola di ‘Ever”.
6
Il riferimento all’Egitto lo si ha in Midrash Tehillìm 114,6: “Ha detto rabbi Avin in nome
di rabbi Simon: Che cosa signiica il passo: di mezzo ad un’altra nazione (Dt 3,34)? Signiica
che erano inghiottiti nelle viscere dell’Egitto, come è detto: allora ci avevano inghiottiti vivi (Sal
124,4). Ma se qualcuno viene a bisbigliarti dicendo: ‘Nel conteso del versetto non si richiama
l’Egitto’, ecco cosa è scritto in un altro passo: Se il Signore non fosse stato per noi, quando sorse
contro di noi un uomo, la parola uomo indica l’Egitto, come è detto: L’Egitto è un uomo e non un
dio (Is 31,3)”.
55
Non si tratta di un’interpretazione forzata del testo. Il riferimento all’Egitto e, in
particolare all’uscita dall’Egitto e al passaggio del mare, è giustificato dalle parole
stesse del Salmo nei seguenti versetti:
7
Si tratta di un uomo comune (Hamàn) e non di un re (Faraone). Il Talmud sembra
dire che la liberazione dal pericolo di Hamàn non è paragonabile alla liberazione dall’Egit-
to. E Rashi, per evitare incomprensioni, così postilla: “un uomo e non un re - si tratta di
Hamàn” (Rashi su bMegillà 11a).
8
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma. 1963,
pp. 476-477.
56
Aggiungo una riflessione.
Il nemico d’Israele nel Salmo è chiamato ָא ָדם, ’adam, “un uomo”, al singolare,
senza l’articolo, per insegnarci che non esiste una forma di odio o una colpa collet-
tiva di un popolo contro un altro popolo, ma che tutto parte dal cuore del singolo
uomo e dalle scelte che egli opera in piena libertà. Nessuno, di conseguenza, può
considerarsi innocente del dolore e del male che lacerano e divorano il mondo, per-
ché ognuno di noi ha il dovere di chiedersi, in ogni attimo della vita e di fronte ad
ogni scelta: “Sei tu quell’uomo? Cosa hai fatto e cosa stai facendo per non essere
quell’uomo?”
Perché nel nostro Salmo compare questa particolarità linguistica e per di più
tre volte?
La gematrià ci aiuta a trovare una possibile risposta. La parola ֲאזַ י, ’azàj, ha,
secondo il computo delle singole lettere, il valore numerico di 18: ( אalef) = 1 + ז
(zajin) = 7 + ( יjod) = 10. Arizal, rabbi Jitschaq Lurja, sostiene che il numero di-
ciotto faccia riferimento alla preghiera delle “Diciotto benedizioni” o ‘Amidà, che è
recitata tre volte al giorno nella liturgia sinagogale. Tre volte nel Salmo è ripetuta la
parola ֲאזַ י, ’azàj, (18 x 3 = 54), come tre volte sono ripetute le “Diciotto benedizio-
ni” (18 x 3 = 54). I commenti vanno oltre e, preso atto che il nome Hamàn è riportato
cinquantaquattro volte nel libro di Estèr, giungono a concludere che è stata la recita
della ‘Amidà ad avere consentito agli Ebrei di superare le angustie e i pericoli di quel
tragico momento.
Ne deriva che la recita della ‘Amidà nella liturgia sinagogale quotidiana è una
delle vie affidate all’uomo per mantenere, tramite il servizio/‘avodà, il rapporto di
fedeltà con Dio e per tenere Dio legato alle promesse. Questa interpretazione è se-
ducente ed accattivante perché tiene uniti assieme passato, presente e futuro; liturgia
e vita; storia e redenzione, ed inoltre ha il vantaggio di chiamare in causa di nuovo
Hamàn, il prototipo di ogni atteggiamento antiebraico ed antisemita. Ma il Salmo
non si chiude in questo quadro di forte corrispondenza fra Parola di Dio, culto e
storia. C’è nel Salmo una spinta altra che ci porta, come sempre avviene, al di là del
versetto, in una dimensione interpretativa che necessita di una parola altra e, nello
stesso tempo, la giustifica.
Proviamo, allora, a seguire un’altra via, utilizzando ancora le tecniche interpre-
tative proprie del principio esegetico della gematrià, che permettono di sostituire
una parola con un’altra dal medesimo valore numerico.
57
Quali sono altre parole, testimoniate nella Torà, che hanno come ֲאזַ י, ’azàj, il
valore numerico di 18? Fra le tante attestate, tre hanno una portata interpretativa di
notevole rilevanza. Le tre parole, secondo un ordine dettato da una disegno soggia-
cente al testo del Salmo, sono le seguenti:
9
Cfr Sal 121,1: “Il mio aiuto da presso il Signore, che fa cieli e terra”.
10
Cfr la traduzione della Vulgata: Adiutorium nostrum in nomine Domini qui fecit caelum et
terram, “il nostro aiuto è nel nome del Signore, che ha fatto il cielo e la terra”.
58
che, sotto il sole, tentano, in direzione ostinata e contraria, di fare risplendere sulla
terra, per gli uomini e per tutte le creature, un debole riflesso della luce della giusti-
zia e della verità.
Sulla via del bene il quinto passo. Anche nell’angustia e nell’abisso c’è sempre
un modo per provare a fare il bene.
59
Quinta lezione
Galleggiare nel mare del male
Commento al Salmo 125
Salmo 125
1
Cantico dei gradini.
Pace su Israele”.
62
1. Cos’è il bene?
Quale sia l’intento del Salmista è espresso con chiarezza da Dante Lattes nel
suo commento:
Il salmo comincia con un paragone geografico: dice che come Gerusalemme è circondata da
montagne che le fanno corona e la proteggono contro le incursioni nemiche e come il monte
su cui sorge il Tempio non crollerà giammai, sia perché Dio vigilerà dall’alto sulla Sua casa,
sia perché le montagne sono la parte più solida e più durevole della terra, essendone le fonda-
menta, così Dio circonda con la sua benevolenza coloro che ripongono in lui la loro fiducia
e che da Lui attendono l’aiuto. I credenti non debbono temere alcuna avversità, perché Iddio
li difende. Essi debbono essere sicuri che Dio non permetterà ai cattivi di prevalere sui buoni
e di determinarne la sorte, sia per un senso di somma giustizia ma anche perché gli onesti
non siano indotti dalla prevalenza e dal successo dei malvagi ad imitarne il cattivo esempio e
a commettere come loro empie azioni. Se Dio vuole che nel mondo regni la virtù, non deve
però scoraggiare i buoni collo spettacolo della prospera sorte che arride ai peccatori, né deve
permettere a questi di prevalere, ma deve mostrarsi favorevole a chi è onesto e segue le vie
diritte e lasciare che i traviati si accodino pure ai tristi artefici di empie azioni, quali loro
degni compagni. 1
Se “Dio circonda con la sua benevolenza coloro che ripongono in lui la loro
fiducia e che da lui attendono l’aiuto”, quali sono le modalità che Egli utilizza per
fare, secondo le parole del Salmo, il bene ai buoni?
Il Midrash, commentando il versetto 4 del Salmo, ci fornisce una risposta che
è ripresa da una discussione riportata in una pagina del Talmud (bMenachòt 53b):
1
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma, 1963,
p. 478.
63
Fa’ del bene, Signore, ai buoni – Venga il buono e riceva il bene dal Buono per i buoni. Venga il
buono, questo è Mosè, come è detto: E vide che era buono (Es 2,2). Dal Buono, questo è il San-
to Benedetto egli sia, come è detto: Buono è il Signore verso tutto (Sal 145,9). E riceva il bene,
questo è la Torà, come è detto: perché vi ho dato un buon insegnamento (Pr 4,2). Ai buoni, si
tratta di Israele, come è detto (nel nostro passo): Fa’ del bene ai buoni e ai retti nei loro cuori.
Fa’ del bene, Signore, ai buoni – si potrebbe pensare che il Signore faccia del bene a tutti, ma
la Scrittura dice: e ai retti nei loro cuori, (per cui è solo a questi che il Signore fa del bene)
(Midrash Tehillìm 125, 4).
Lo schema esegetico ripreso nel passo del Midrash è inserito nella discussione
del Talmud in una serie di quattro suppliche che, giocando su una parola chiave tratta
da un versetto biblico, ricostruiscono il rapporto che lega Dio ad Israele.
Nella pagina del Talmud la parola, da cui parte la riflessione esegetica, è ַא ִדּיר,
’addir, “potente”, che ritroviamo in Salmo 16,3: 2
1. Quando rabbi Ezra udì la parola del versetto: potente ( ַא ִדּיר, ’addir), aprì il senso del testo e
disse: Venga il Potente e faccia vendetta ai potenti verso potenti per mezzo dei potenti. Venga il
Potente, questo è il Santo benedetto egli sia, secondo quanto è scritto: Potente nel luogo eccelso
è il Signore (Sal 93,4). E faccia vendetta ai potenti, si riferisce ad Israele, come è detto: Nei
potenti è ogni mio desiderio (Sal 16,3). Verso i potenti, sono gli egiziani, come è scritto: Affon-
darono come piombo nelle acque i potenti (Es. 15,10). Per mezzo dei potenti, si tratta delle ac-
que del mare come è detto: Più delle voci di molte acque, dei potenti flutti del mare (Sal 93,4).
2. Venga il diletto figlio del diletto e costruisca il (luogo) diletto per il Diletto nella porzione
del Diletto e in esso ricevano espiazione i diletti. Venga il diletto (יָ ִדיד, jadid), questo è il re
Salomone, come è scritto: Il Signore mandò a dire per mezzo del profeta Natan che lo chia-
masse col nome: Diletto del Signore (2 Sam 12,25). Figlio del diletto, si tratta di Abramo,
come è scritto: Cosa fa il mio diletto nella mia casa? (Ger 11,15). E costruisca il (luogo)
diletto, cioè il Santuario, come è scritto: Quanto sono dilette le tue dimore (Sal 84,2). Per il
Diletto, questo è il Santo benedetto egli sia, come è scritto: Canterò al mio diletto (Is 5,1).
Nella porzione del diletto, si tratta di Beniamino, come è detto: Di Beniamino disse: Il diletto
del Signore abita con sicurezza presso di lui (Dt 33,12). E in esso ricevano espiazione i di-
letti, cioè i figli d’Israele, come è scritto: Ho consegnato i diletti della mia anima nella mano
dei sui nemici (Ger 12,7).
2
Sal 16,3: “Per i santi che sono sulla terra e i potenti per i quali è tutto il mio amore per
loro”.
64
3. Venga il buono e riceva il bene dal Buono per i buoni. Venga il buono, questo è Mosè, come
è detto: E vide che era buono (Es 2,2). Dal Buono, questo è il Santo Benedetto egli sia, come
è detto: Buono è il Signore verso tutto (Sal 145,9). E riceva il bene, questo è la Torà, come è
detto: perché vi ho dato un buon insegnamento (Pr 4,2). Ai buoni, si tratta di Israele, come è
detto: Fa’ del bene ai buoni e ai retti nei loro cuori (Sal 125,4).
4. Venga questo e riceva questa cosa da Questo per questo popolo. Venga questo (זֶ ה, zè), è Mo-
sè, come è scritto: Perché questo Mosè, l’uomo (Es 32,1). E riceva questa cosa, è la Torà, come
è scritto: E questa è la Torà che Mosè ha dato (Dt 4,4). Da Questo, è il Santo benedetto egli
sia, come è scritto: Questo è il mio Dio e lo glorificherò (Es 15,2). Per questo popolo, si tratta
di Israele, come è scritto: Questo popolo che tu hai preso (Es 15,16)” (bMenachòt 53a-b).
2. la costruzione del Santuario di Gerusalemme (parola chiave יָ ִדיד, jadid, “diletto”):
3. Il dono della Torà (parola chiave טוֹב, tov, “buono” e זֶ ה, zè, “questo”): 3
3
Cfr Midrash Aggadà, Wajjiqrà, 19: “I igli d’Israele sono chiamati buoni, come è detto: Fa’
del bene, Signore, ai buoni”.
65
Venga questo Mosè
e riceva questa cosa Torà
da Questo Dio
per questo popolo figli d’Israele
La seconda linea interpretativa, invece, legge il versetto nella sua totalità e non
si limita alla parola chiave (טוֹב, tov, “buono”). La domanda è la seguente: in che
rapporto è la prima parte del versetto (“Fa’ del bene, Signore, ai buoni”) con la
seconda (“e a coloro che sono retti nel loro cuore”)? Si tratta di parallelismo sino-
nimico proprio del linguaggio poetico biblico, come indica la critica moderna, o
dobbiamo utilizzare, come vuole l’esegesi rabbinica, un’altra chiave interpretativa?
Riprendiamo il testo del Midrash:
Fa’ del bene, Signore, ai buoni – si potrebbe pensare che il Signore faccia del bene a tutti, ma
la Scrittura dice: e ai retti nei loro cuori (per cui è solo a questi che il Signore fa del bene)
(Midrash Tehillìm 125, 4).
Il testo viene interpretato grazie all’utilizzo del criterio esegetico וּפ ָרט ְ כְּ לָ ל,
“klal ufrat, generale e particolare”, la quarta middà di Rabbi Jishmael. Si tratta di un
criterio di limitazione: quanto è contenuto nell’affermazione principale o generale
(“fa’, o Signore, del bene ai buoni”) viene applicato solo alla categoria introdotta
dall’affermazione particolare (“e ai retti nel loro cuore”). Ne deriva che il Signore è
chiamato a fare del bene non ai buoni in generale, ma solamente a coloro che sono
anche retti nel loro cuore. Questo che è un criterio esegetico fondamentale per la
determinazione halakica, diviene fondamentale, come nel nostro caso, anche per la
lettura aggadica del testo.
Nei midrashìm esegetici ed omiletici, di norma, viene proposta una serie di
passi da interpretare seguendo la medesima modalità. Cito un midrash esegetico in
cui il passo del nostro Salmo è inserito in un catena di testi ai quali è applicato in
modo omogeneo il criterio esegetico וּפ ָרט ְ כְּ לָ ל, klal ufrat, “generale e particolare”:
Quando sarete entrati nel paese di Canaan che io sto per darvi in possesso, qualora io mandi
un’infezione di lebbra in una casa del paese di vostra proprietà (Lv 14,34) – Questo è quanto
è scritto in un altro passo della Scrittura: Certamente Dio è buono verso Israele, verso i puri
di cuore (Sal 73,1). Si potrebbe ritenere che il passo si applichi a tutto Israele, ma la Scrittura
dice: verso i puri di cuore, (per cui il passo si applica solo) a coloro il cui cuore è fermo nella
applicazione dei precetti.
Beato l’uomo la cui forza è in te (Sal 84,6) – si potrebbe ritenere che il passo si applichi a
tutti, ma la Scrittura dice: le vie sono nel loro cuore (Sal 84,6), vale a dire coloro per i quali
le vie della Torà sono tracciate nei loro cuori.
Fa’ del bene, Signore, ai buoni (Sal 125,4) – si potrebbe pensare che il passo si applichi a
tutti, ma la Scrittura dice: ai retti nei loro cuori.
66
Buono il Signore, un asilo sicuro nel giorno dell’angoscia (Na 1,7) – si potrebbe pensare che
il passo si applichi a tutti, ma la Scrittura dice: conosce quelli che confidano in lui (Na 1,8).
Buono è il Signore per chi spera in lui (Lam 3,25) – si potrebbe pensare che il passo si appli-
chi a tutti, ma la Scrittura dice: con l’anima che lo cerca.
Vicino è il Signore a tutti coloro che lo invocano (Sal 145, 18) – si potrebbe pensare che il
passo si applichi a tutti, ma la Scrittura dice: a tutti quelli che lo invocano in verità.
Quale dio è come te che toglie l’iniquità e perdona il peccato (Mich 7,18) – si potrebbe pen-
sare che il passo si applichi a tutti, ma la Scrittura dice: al resto della sua eredità” (Wajjiqrà
rabbà, 17,1).
Il Salmo ci insegna che costruire l’edificio delle nostre opere secondo i precetti
della Torà è condizione necessaria ma non sufficiente; occorre aderire a Dio e alla
via da lui tracciata partendo da quella rettitudine interiore che è il fondamento della
nostra fedeltà. Solo nel segreto del cuore, in quell’area interiore che è conosciuta
soltanto dalla singola persona e da Dio, sta il punto focale capace di illuminare e di
sostenere l’agire dell’uomo, nel duplice atteggiamento definito da due parole chiave
della tradizione ebraica: כַּ וָּ נָ ה, kawwanà, “intenzione (stabile)” e ְדּ ֵבקוּת, deveqùt,
“adesione (completa)”.
Tutto si fonda sulla kawwanà e sulla deveqùt che radicano con forza tenace la
rettitudine nell’interiorità del cuore, permettendo, in tal modo, all’uomo di ricono-
scere che il camminare sulla via di Dio non ammette compromessi, deviazioni, vie
tortuose, falsità.
2. Le vie tortuose
La via della rettitudine del cuore è contrapposta in modo netto alla via del com-
promesso e del progressivo e deviante slittamento che conduce fuori strada, lontano da
Dio, dalla giustizia, dall’amore. Il Salmo lo esprime in modo chiaro con queste parole:
4
Cfr Metsudat Tsion su Salmo 125,5: “Le loro tortuosità - il signiicato della parola è cur-
vatura, come nel passo: sentieri tortuosi (Gdc 5,6)”.
67
La contrapposizione è espressa da due parole in netta antitesi, accomunate dal
suffisso possessivo ָ ם, -am, “di loro”: nel v. 4 troviamo בּוֹתם ָ ִ ְבּל, belibbotàm, “(co-
loro che sono retti) nei loro cuori”, e nel v. 5 לּוֹתם ָ עַ ַקלְ ַק, ‘aqalqallotàm, “(coloro
che deviano) nelle loro tortuosità”. Il Salmista pone in relazione antitetica coloro che
sono retti nel loro cuore con coloro che deviano seguendo le loro falsità. Seguen-
do l’interpretazione di Radaq, coloro che, in Israele, restano retti saranno oggetto
dell’azione di Dio volta a fare loro il bene; invece coloro che trai i figli d’Israele
abbandonano la via della rettitudine per seguire altri sentieri, saranno accomunati
alla sorte dei malvagi fra le nazioni.
Sono queste le parole del commento di Radaq: 5
Coloro che deviano nelle loro tortuosità – si riferisce a quanti sono in Israele ed intende dire:
coloro che si traviano nelle loro vie, li faccia andare il Signore con gli operatori di iniquità,
che provengono dalle nazioni. Ma c’è chi interpreta in altro modo. Coloro che deviano nelle
loro tortuosità – nel loro cuore, in quanto il loro atteggiamento interiore non è come il loro
atteggiamento esteriore 6. Costoro il Signore li condurrà con gli operatori di iniquità che
provengono dalle nazioni, in contrapposizione a quanto detto sopra: Fa’ del bene, Signore, ai
buoni e ai retti di cuore (Radaq su Salmo 125,5).
Il Targum, con una traduzione che amplifica e commenta il testo, ci aiuta a com-
prendere più in profondità questa linea interpretativa:
La parola aramaica utilizzata per tradurre l’ebraico עַ ַקלְ ַקלּוֹת, ‘aqalqallot, è
נוּתא
ָ עוּק ָמ
ְ , ‘uqmanutà, che deriva dalla radice עקם, ‘.q.m, “curvare, rendere tor-
tuoso, falso, ingannevole”. La falsità e la menzogna provengono da un atteggiamento
interiore che non corrisponde a quello esteriore: si dice una cosa, ma se ne pensa
un’altra; si punta ad un obiettivo, ma è un altro quello a cui si tende. Tale atteggia-
mento è stigmatizzato ed è espressamente condannato, perché è visto come il primo
passo o come il punto di non ritorno nel cammino che può condurre ogni uomo, anche
l’uomo giusto, a tendere la sua mano verso il male, fino a toccarlo e a farsi travolgere.
Tale cammino, allettante e degradante, è favorito, nel consesso umano, dalle regole
consolidate della ricerca del proprio tornaconto e dell’utilità spicciola, nonché dal
fatto che chi opera in modo scorretto, mendace e contro la morale, spesso ottiene una
posizione sociale ed economica migliore e più evidente e duratura di chi si astiene
da tutto ciò e continua a percorrere la via del bene, della rettitudine e della giustizia.
Il Salmista, in tono deprecatorio, sembra volerci dire che, senza l’intervento
diretto di Dio, è impossibile conservare un barlume di giustizia e verità in un mondo
che è dominato dall’ingiustizia e dall’empietà, ormai talmente forti e radicate da
5
Il versetto non ha avuto grande utilizzo nella letteratura rabbinica; è, infatti, utilizzato solo
in bBerakòt 19a e nei passi paralleli.
6
Il riferimento è a bJomà 72b: “Ha detto Ravà: Ogni talmìd chakàm il cui interno non è
come il suo esterno non è un talmìd chakàm”.
68
essere in grado di condurre ogni uomo, anche il giusto, sulla via che porta ad abban-
donare Dio e le sue vie.
È detto, infatti, nel Salmo:
Per Rabbi Abba e per Rabbi Jitschaq, così come per Rashi, il mondo poggia
sui giusti. Per rabbi Abbà la distanza che separa i malvagi da giusti sta nel fatto che
l’inclinazione al male va a braccetto con i malvagi e non con i giusti, perché mentre
i giusti, forti della loro integrità e della loro fermezza, resistono al male, i malvagi
si nutrono del male che compiono. Per rabbi Jitschaq, invece, l’inclinazione al male
trova riposo solo nei giusti, mentre opera copiosamente nei malvagi, per il fatto che
7
La LXX legge, traduce ed interpreta in questo modo: “Poiché non lascerà il Signore lo
scettro dei peccatori sulla sorte dei giusti.”
8
Rashi vede in לְ ַמעַ ן, lemà‘an, una congiunzione con valore causale e non finale, come di
solito ha. Tale lettura modifica completamente la struttura logica e sintattica del versetto.
69
i giusti vivono proiettati nel bene. Stando così le cose, il mondo, anche se galleggia
nel mare del male, ha già in sé gli anticorpi capaci di arginare la vittoria definitiva
del male, vale a dire: la forza interiore dei giusti che a tutto resiste. Pertanto, questo
mondo, grazie ai giusti, non ha bisogno, qui ed ora, di un intervento diretto di Dio
proprio perché Dio agisce ed è presente nella testimonianza, lunga la via della giu-
stizia e del bene, di quegli uomini che gli sono rimasti fedeli, in modo consapevole
ed anche in modo inconsapevole. Tutto, in questa prospettiva, si gioca sotto il sole
tanto che è la resistenza dal basso a salvare il mondo e Dio grazie alla santità (e forse
alla divinità) ascendente.
Questa linea di lettura, profonda e accattivante, non sembra essere la prospettiva
diretta del Salmista, per il quale il mondo, che continua a galleggiare nel mare del
male, è in costante pericolo proprio perché i giusti non possono sopportare da soli
il peso della malvagità, dell’empietà, della menzogna, dell’ingiustizia dilaganti ed
incontrollabili. Solo se Dio circonda, con amore e con compassione, il suo popolo,
solo se interviene a sostenere i buoni e coloro che sono retti nel loro cuore, solo così
il mondo può conservare la speranza di un oggi e di un domani ancora umani perché
Dio potrà specchiarsi nei volti di quanti, volgendo in alto i loro sguardi e tendendo al
cielo le loro mani, cercano la forza ed il sostegno per rimanere uomini nel segno del
bene, della giustizia e della verità. È la redenzione continua dall’alto, in altre parole:
l’umanità discendente, che è divina ed umana, allo stesso tempo, proprio perché
conserva, rivivificata dal Dio della vita e dell’amore, la scintilla di bene che brilla
nel vuoto e nell’abisso, trattiene la tenebra del male dal cancellare, forse per sempre,
la luce della speranza e tiene viva la fiaccola della dignità umana.
Tutto funziona solo se Dio sceglie di continuare a stare a fianco dell’uomo e
di accompagnarlo lungo la via che lo conduce alla redenzione, che può venire solo
dall’Alto. Non è, infatti, sufficiente che l’uomo si ponga, anche con fedeltà tenace
e con fiducia caparbia, dalla parte di Dio. Solo se sarà Dio a tenerci per mano come
bambini che hanno bisogno della cura premurosa della madre e della correzione e
degli insegnamenti del padre, solo così potremo continuare (o cominciare) a percor-
rere il sentiero della vera vita in questo mondo e, se ci sarà concesso, nel mondo a
venire.
Ma di tutto ciò abbiamo solo la (in)certezza della fede.
Il sesto passo è lasciare tracce lungo le strade del mondo per consentire alla
Shekinà di camminare dietro di noi.
70
Sesta lezione
Esilio: andata e ritorno
Commento al Salmo 126
Salmo 126
1
Secondo il ketìv: “Restaura, Signore, la nostra sorte”.
72
1. Chi ritorna?
Le tematiche specifiche del Salmo 126, canto di gioia per il ritorno dall’esilio,
possono essere delineate con chiarezza utilizzando le parole del commento di Dante
Lattes:
Il poeta rievoca i giorni lieti del ritorno in patria dal duro esilio sofferto in terra straniera.
Allora quel ritorno era sembrato come l’avverarsi di un bel sogno, come un magnifica cosa
ma quasi irreale e fantastica. Erano state giornate di gioia, di riso, di canti. Anche gli stra-
nieri avevano considerato quel ritorno come un grande evento, come un gran miracolo che
Dio aveva fatto a favore degli Ebrei. Anche noi, dice il poeta, avevamo considerato il nostro
ritorno in patria come un gran miracolo di Dio. Per questo eravamo pieni di gioia, perché in-
sieme colla riconquistata libertà, avevamo avuto la prova della divina benevolenza e del Suo
prodigioso intervento in favore nostro. 2
Questo canto traboccante di gioia si apre con una particolarità testuale che dà luo-
go a diverse possibilità interpretative. Si tratta dell’hapax יבת ַ ִשׁ, shivàt, da intendere
come stato costrutto di יבהָ ִשׁ, shivà, stato assoluto non attestato nell’ebraico biblico.
Secondo l’interpretazione tradizionale, la parola è da collegare alla radice שׁבי,
sh.b.j., “essere prigioniero”, 3 ad indicare, come voce collettiva, l’insieme dei pri-
gionieri che fanno ritorno dall’esilio in terra babilonese. Seguendo questa linea di
lettura, il primo versetto del Salmo può essere così tradotto:
2
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma, 1963,
p. 479.
3
Cfr Metsudat Sion: “La parola ִשׁיַבת, shivàt, deriva dalla radice שׁבי, sh.b.j, essere impri-
gionato”. La versione dei LXX rende con aijcmalwsiva, aichmalosìa, “prigionia” e la Vulgata con
captivitas.
73
Nella medesima direzione va letto anche il versetto 4 del Salmo, secondo la
variante testuale proposta dal qeré:
Una seconda via interpretativa fa derivare l’hapax dalla radice שׁוּב, shuv, “ritor-
nare”, e, di conseguenza, dà al testo una diversa connotazione semantica:
Ibn Ezra, attento come sempre agli aspetti grammaticali, afferma che la forma-
zione nominale anomala di Salmo 126,1 è della medesima tipologia di quella che
si ritrova in Lam 3,63. Come nel secondo passo il sostantivo ימה ָ ִק, qimà, deriva
dalla radice קוּם, qum, “sorgere”, così nel primo passo il sostantivo יבה ָ ִשׁshivà, de-
riva dalla radice שׁוּבshuv, “tornare”. Ibn Ezra, quindi, interpreta יבה ָ ִשׁ, shivà, come
equivalente di ָשׁבוּת, shavùt, “ritorno, (sorte)”.
Nella stessa linea di lettura si pone anche il versetto 4 nella variante testuale
testimoniata dal ketìv,ossia dal testo consonantico tràdito, e dal rotolo dei Salmi della
Grotta 11 di Qumran (11QPsa):
Il ritorno ( ָשׁבוּת, shavùt) di cui si parla, per la tradizione rabbinica e per i com-
mentatori medievali, è il ritorno dall’esilio babilonese, ma, nelle diverse condizioni
della storia del popolo ebraico, può trattarsi del ritorno da ogni esilio. Il Targum,
infatti, così traduce e interpreta il versetto 1: “gli esili di Sion”, e il versetto 4: “i
nostri esili”.
Radaq va oltre e fa un ulteriore passo interpretativo: il ritorno (shavùt) è conver-
sione (teshuvà). Egli scrive:
ִשׁ ַיבת, shivàt – la forma ha il significato di “ritorno/pentimento (teshuvà), ad indicare che i
figli di Sion ritorneranno al Signore (= faranno penitenza)” (Radaq su Salmo 126,1).
È importante sottolineare che l’espressione שׁוּב ָשׁבוּת, shuv shavùt, “fare tor-
nare il ritorno, ripristinare la sorte”, più volte usata nei testi biblici in particolare
nei Profeti, può avere un rapporto sia con il ritorno dall’esilio sia col superamento
della condizione che è legata all’esilio stesso o ad altra situazione di angustia. Fra
i passi più interessanti per la nostra analisi, cito il seguente che per diversi aspetti è
ricollegabile al nostro Salmo:
74
“Chi darà da Sion la salvezza d’Israele?
Quando il Signore farà tornare il ritorno (= ristabilirà la sorte) del suo popolo,
Giacobbe esulterà, Israele si rallegrerà” (Salmo 14,7).
Un altro passo della Scrittura ci fornisce, invece, indicazioni diverse che vanno
nella medesima direzione utilizzata dalla tradizione masoretica per Salmo 126,4 e in
direzione opposta rispetto ai passi sopra richiamati. Si tratta di Salmo 85,2:
4
Cfr Sefer Oklah weoklah (ed. Diaz Esteban), § 126, p. 166.
5
Nel passo la variante del qeré è riproposta tre volte. E così hanno letto e interpretato anche
le versioni antiche: la LXX (ajpostrofhv , apostrophè, “ritorno”) e la Vulgata (conversio, reversio).
Radaq nel suo commento precisa: “Nel passo le forme ְשִׁבית, shevìt, scritte con la lettera jud van-
no lette con la lettera waw vocalizzata con shureq”.
6
Cfr Sefer Oklah weoklah (ed. Diaz Esteban), § 126, p. 166.
7
È interessante notare che le versioni antiche hanno collegato molti testi al tema
della prigionia. La versione dei LXX rende con aijcmalwsiva, aichmalosìa, “prigionia” e
la Vulgata con captivitas i seguenti passi: Sal 14, 7 = 53,7; Sal 85,2; Sal 125,1.4; Ez 39,25;
Os 6,11; Am 9,14. Il Targum, invece, applica il tutto all’esilio: Sal 14, 7 = 53,7 (“l’esilio
del suo popolo”); Sal 85,2 (“la prigionia”); Sal 126,1 (“gli esili”); Sal 126,4 (“i nostri
esili”).
75
Viene, allora, da chiedersi perché nel primo versetto del nostro Salmo non ci sia
stato intervento masoretico per risolvere la difficoltà legata all’hapax יבת ַ ִשׁ, shivàt.
Probabilmente perché יבת ַ ִשׁ, shivàt, come insegnano la traduzione dei LXX e la
tradizione rabbinica, indica la prigionia ed in tal modo si giustifica anche il qeré del
versetto 4 che mette in campo, come lettura armonizzante, il riferimento diretto al
ritorno dei prigionieri; o forse perché, come sottolinea il commento di Ibn Ezra, la
formazione nominale richiama direttamente il ritorno e, in tale modo, si dà valore e
si supporta il ketìv del versetto 4 rendendo in tal modo non necessario il ricorso al
qeré proposto. In entrambi i casi l’intervento masoretico non è richiesto in quanto il
riferimento all’esilio è evidente: se indica il ritorno dei prigionieri, il punto focale è
posto nel percorso che conduce dal luogo dell’esilio e del dolore al luogo della terra
dei Padri e della gioia; se, invece, indica la ricostituzione della sorte d’Israele, il
riferimento è a Sion che diviene di nuovo luogo vivo e vitale grazie al ritorno degli
esiliati e alla rinascita della comunità.
La polisemia del testo ci conduce, nella stessa parola, nella dimensione dolorosa
dell’esilio e ci riporta nella prospettiva gioiosa della terra dei padri. In questo cammino,
di andata e ritorno, non siamo soli, nel dolore della lontananza e nella gioia del ritorno.
Nel dolore dell’esilio, infatti, si apre un’altra possibilità di (ri)lettura del testo, già sug-
gerita da Meiri 8: in יבת צִ יּוֹן
ַ ת־שׁ
ִ ֶא, ’et shivàt tsijjòn, del versetto 1 la particella ֶאת, ’et,
non indica il complemento oggetto (nota accusativi), ma ha valore di preposizione (=
“con”). Questo è possibile dirlo perché il verbo שׁוּב, shuv, non è da intendere in senso
transitivo, come se fosse una forma hiqtil (= “fare tornare”), ma in senso intransitivo
come forma qal (= “tornare”): “Quando il Signore ritornò con il ritorno di Sion (= con
coloro che ritornano a Sion), 9 eravamo come chi sogna (= trasognati)”. Dio (o meglio:
la Shekinà) ritorna assieme agli esiliati che rientrano a Sion; oppure, seguendo la linea
indicata da Radaq: Dio fa teshuvà assieme ai penitenti di Sion e, se è possibile dirlo,
si redime assieme a loro. In entrambi i casi c’è una partecipazione diretta di Dio, o
meglio: della Shekinà, alla sorte d’Israele e al suo cammino di conversione. Questo
implica che la Shekinà, come insegna la tradizione ebraica, sia con Israele nei diversi
esili e soffra assieme ai figli d’Israele le angustie e i dolori dell’esilio.
Il tema dell’esilio della Shekinà, sviluppato in particolare dalla scuola di rabbi
Aqivà e riconoscibile anche nel nostro Salmo, è di fondamentale importanza per
comprendere l’approccio della tradizione rabbinica alle parole della Scrittura, lette e
rilette nella prospettiva della storia del popolo ebraico.
Vediamo uno dei passi più significativi del Midrash in cui viene applicata que-
sta modalità interpretativa:
Rabbi Aqivà diceva: Se non fosse scritto espressamente nella Scrittura, non sarebbe possibile
affermarlo: Se è possibile dirlo, dissero i figli d’Israele al cospetto del Santo benedetto egli
sia: Te stesso hai redento 10. Tu trovi, infatti, che dovunque Israele venne esiliato, la Shekinà,
se è possibile dirlo, era con loro. Li esiliarono in Egitto e la Shekinà era con loro, come è
detto: Non mi sono forse esiliato assieme alla casa di tuo padre quando erano in Egitto? (1
8
Menachem Meiri (1246-1316), commentatore medievale provenzale.
9
Si può intendere anche così: “Quando il Signore ritornò con i prigionieri di Sion”. Il senso
globale del passo non cambia. Così Radaq commenta il v. 4: “È scritto con a lettera waw ma va
letto con la lettera jud, ma il signiicato è il medesimo” (Radaq su Salmo 126,4).
10
Cfr 2 Sam 7,23.
76
Sam 2,27). Li esiliarono in Babilonia e la Shekinà era con loro come è detto: In vostro favore
fui inviato in Babilonia (Is 43,14). Furono esiliati in Elam e la Shekinà era con loro, come è
detto: Ho posto il mio trono in Elam (Ger 49, 38). Furono esiliati in Edom e la Shekinà era
con loro, come è detto: Chi è costui che viene da Edom, da Bosra, con le vesti macchiate di
rosso? (Is 63,1). E quando in futuro ritorneranno, se è possibile dirlo, la Shekinà ritornerà con
loro, come è detto: Tornerà il Signore tuo Dio con il tuo ritorno (Dt 30,3), qui non si dice farà
tornare, ma ritornerà (Mekiltà de-rabbi Jishmael, Pischà, 14).
Rabbi Aqivà ci invita a prestare attenzione, perché il testo può essere letto in
due modi diversi: si può intendere la forma verbale וְ ָשׁב, weshav, come equivalente
a וְ ֵה ִשׁיב, weheshìv, e allora si dovrà interpretare: “Farà tornare” seguito da comple-
mento oggetto; oppure, e questa è la lettura proposta da Rabbi Aqivà, si deve dare al
verbo il suo valore intransitivo e intendere “egli (= Dio) ritornerà con”. Questa è la
medesima situazione testuale e interpretativa del primo versetto del nostro Salmo.
Ci si può, allora, chiedere per quale motivo rabbi Aqivà non abbia utilizzato
nella discussione riportata nel midrash halakà come prova testuale il versetto 1 o il
versetto 4 del Salmo 126, e la risposta è scontata: il passo del Deuteronomio viene
dalla Torà che ha un valore normativo superiore ad un passo proveniente dagli
Scritti/Ketuvìm, ed inoltre il passo del Deuteronomio non ha bisogno di ulteriori
interventi interpretativi, necessari invece sia per il versetto 1 sia per il versetto 4
del Salmo 126.
Si deve, inoltre, sottolineare la forza del pensiero di rabbi Aqivà, e, nello stesso
tempo, precisare che la sua riflessione è guidata da una grande prudenza: “Se non
fosse la Scrittura a dirlo espressamente, non potremmo affermare quanto andiamo
dicendo”; e quando lo affermiamo partendo dalla Scrittura dobbiamo sempre tenere
presente la distanza che separa l’uomo da Dio ed il limite che l’uomo non può supe-
rare. Rabbi Aqivà, infatti, ripete più volte la formula כִּ ְביָ כוֹל, kivjakòl, “se è possibile
dire ciò”, sottolineando il fatto che l’uomo che interpreta la Scrittura nel solco della
tradizione, può dire il non detto e anche l’indicibile a patto che sappia navigare
nell’oceano del testo e dei suoi settanta significati. Ciò che non viene dal testo e
dalla tradizione che lo compie e che lo interpreta rischia di farci sprofondare e di
farci affogare nell’abisso della tracotanza umana o nell’abominio della bestemmia.
La tradizione ebraica ci insegna ripetutamente che, quando si parla di Dio o a
Dio, la prudenza non è mai troppa. Ecco, a conferma, il commento di Rashi a Deu-
teronomio 30,3:
Farà tornare (וְ ָשׁב, weshav) il Signore tuo Dio il tuo ritorno – Si sarebbe dovuto scrivere (per
evitare problemi interpretativi) weheshìv ()וְ ֵה ִשׁיב, “egli farà tornare”. I nostri Maestri 11 han-
11
bMegillà 29a.
77
no appreso, partendo da questo testo, che la Shekinà, se è possibile dirlo, dimora con Israele
nell’angustia dell’esilio; e quando li redime, il Signore fa in modo che la Scrittura riferisca la
redenzione a Lui stesso, che ritornerà assieme a loro. Ma bisogna anche aggiungere che gran-
de è il giorno del raduno degli esiliati ed è difficile da realizzare a tal punto che è necessario
che sia Egli stesso a riportare indietro con le sue mani ogni uomo dal luogo in cui si trova,
secondo il significato del seguente passo: Voi sarete raccolti ad uno a uno, figli d’Israele (Is
27,12). Ma anche al riguardo degli esiliati delle altre nazioni troviamo la stessa cosa: Tornerò
(con) gli esiliati di Moab (Ger 48,47) (Rashi su Deuteronomio 30,3).
Il commento di Rashi, nell’ultima parte relativa alle altre nazioni, non è del
tutto chiaro. Rashi, probabilmente, vuole metterci in guardia da interpretazioni non
direttamente supportate dal testo anche se documentate dalla tradizione. Se infatti,
sembra sottintendere Rashi, interpretiamo Deuteronomio 30,3 nella linea di Rabbi
Aqivà (= “ritornerà con”), dobbiamo estendere la possibilità anche ad altri passi in
cui compare la medesima espressione o espressione analoga. E allora quanto si dice
di Israele lo si dovrebbe applicare anche alle altre nazioni, secondo il passo di Ge-
remia riferito agli esiliati di Moab (Ger 48,47), nel quale, però, manca la particella
ֶאת,’et, a marcare la distanza rispetto agli esili di Israele. Certamente Dio è padre
di tutte le nazioni, ma non è possibile affermare, sembra dire Rashi, che la Shekinà
sia in esilio “anche” con loro. Di conseguenza, occorre interpretare con prudenza,
perché una cosa è dire che Dio si prenderà cura di tutte le nazioni e le farà ritornare
dai loro esili in terra straniera, e altra cosa è dire che la Shekinà è in esilio con tutte
le nazioni. Questo, in virtù dell’elezione, è un privilegio solo di Israele.
2. Quale sogno?
Eravamo come chi sogna – come un sogno fuggente sarà allora agli occhi nostri l’angustia
dell’esilio, per la grande gioia che proveremo al ritorno nella nostra terra. Così ha spiegato il
mio signor padre, la sua memoria sia in benedizione (Radaq su Salmo 126,1).
78
Nella stessa direzione va anche Rashi, il quale richiamandosi in modo indiretto
alla discussione riportata in bTa‘anit 23a ed alla tradizione che considera la durata
dell’esilio babilonese di settanta anni, così annota:
I settanta anni 12 sono considerati come un unico sogno, secondo quando è affermato nel
seguente passo: Quando il Signore fece ritornare i prigionieri di Sion, noi eravamo come chi
sogna, e questo è detto in riferimento ai settanta anni dell’esilio babilonese (Rashi su Salmo
90,5).
Il sogno, per Rashi, rappresenta i lunghi e penosi anni dell’esilio, dai quali, al
momento del rientro, ci si risveglia, per tornare alla realtà della vita vissuta nella
terra d’Israele e questo ritorno, come ogni ritorno da ogni esilio, diviene proiezione
e anticipazione della dimensione futura della redenzione finale e definitiva. 13
Ibn Ezra, invece, indica un’altra possibilità interpretativa:
Dirà Israele, quando ha-Shem ristabilirà la loro sorte: Nessun uomo può mai vedere una tale
meraviglia da sveglio, ma soltanto in sogno (Ibn Ezra su Salmo 126,1).
Nel tempo della redenzione, Dio opererà in modo così mirabile e così lontano
dalle reali capacità intellettive ed operative dell’uomo che sembrerà di vivere come
in un sogno.
12
Sono i settanta anni di cui si parla in Sal 90,10, considerati equivalenti a due generazioni.
13
Interpretazione analoga si torva anche nello Zohar: “Quando il Signore fece ritornare
il ritorno di Sion. Questo passo fu detto durante l’esilio babilonese, in quanto non rimasero di-
menticati nell’esilio per più di settanta anni, come è scritto: poiché quando saranno compiuti per
Bavèl settant’anni vi visiterò (Ger 29,10). Ed è scritto: eravamo come coloro che sognano. Cosa
signiica? Che gli esiliati si risveglieranno come dopo un sogno di settant’anni” (Zohar III 89a-b).
14
“In convertendo Dominus captivitatem Sion facti sumus sicut consolati” (= LXX).
Diversa la traduzione di San Girolamo nello Psalterium iuxta hebraeos: “cum converteret
Dominus captivitatem Sion facti sumus quasi somniantes” (= TM).
79
inequivocabile, con Dio che si rivela direttamente al profeta e con l’azione profetica
che ne segue, come è detto:
E ancora è detto:
“E (Dio) disse:
Ascoltate le mie parole:
Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore,
mi farò conoscere a lui in visione
in sogno parlerò con lui” (Numeri 12,6).
Se il sogno è una modalità utilizzata da Dio per rivelare al profeta la sua volon-
tà, ne deriva che in Salmo 126,1b la frase “eravamo come coloro che sognano” sta
ad indicare che i figli d’Israele che ritornano dall’esilio si sentono investiti di una
missione profetica (= “eravamo come sognanti/profeti”), che può essere interpretata
in due direzioni fra loro complementari.
La prima.
Il Salmo si riferisce ad una dimensione futura, quella del mondo a venire, e il
sogno è la visione profetica della redenzione definitiva che Dio opererà nel mondo
e per il mondo. Come a dire: Dio concede a coloro che ritornano a Lui, in modo
completo e definitivo, di pregustare, secondo le modalità riservate ai profeti (sogno
e visone), le delizie del mondo a venire.
La seconda.
Se la Shekinà, secondo l’interpretazione di rabbi Aqivà e della sua scuola, è
in esilio con Israele e ritorna dall’esilio assieme ad Israele, l’esilio e il cammino
del ritorno divengono come un sogno profetico in cui è possibile, in Spirito santo,
sperimentare in modo diretto la presenza della Shekinà. Nello stesso tempo, pro-
prio perché Israele ha continuato, generazione dopo generazione, a testimoniare alle
genti del mondo la propria fedeltà al Dio Uno, il ritorno dall’esilio mostra alle genti
la forza dell’amore di Dio per il suo popolo. Come a dire: Israele, anche nel dolore
e nell’angustia degli esili di ieri, di oggi e di domani, ha il compito di chiamare il
mondo al Dio Uno e di mantenere viva, così come è la missione di un vero profeta,
l’eco di quella voce, che, data al Sinài, non può giungere in modo diretto alle genti.
La voce del Sinài ha bisogno, infatti, di Israele e della sua fedeltà perché se ne pro-
lunghi, di generazione in generazione, l’eco che, portatrice di vita e di amore, giunge
fino a noi per mostrarci la via che conduce tutti, secondo cammini diversi e modalità
diverse, al Dio Uno.
Lungo questa via è dato a tutti (ad Israele, in primo luogo, e, tramite Israele, alle
genti) di percepire la compassionevole, silente e impotente, vicinanza della Shekinà
che continua ad accompagnare nel dolore (oggi, come ieri, nonostante le fratture
insanabili della storia) Israele, il servo sofferente.
Lungo questa via si può compiere o, forse, si sta già compiendo la parola ripor-
tata da Zaccaria:
80
Così dice il Signore degli eserciti: In quei giorni dieci uomini provenienti da tutte le lingue
delle genti afferreranno il lembo del mantello di un giudeo dicendo: Vogliamo venire con voi,
perché abbiamo compreso che Dio è con voi (Zc 8, 23).
81
Settima lezione
Senza Dio tutto è vano
Commento al Salmo 127
Salmo 127
84
1. David o Salomone?
La tradizione rabbinica ritiene che il Salmo sia stato composto da David, no-
nostante il titolo usi un sintagma (lamed + nome proprio) 1 che, secondo l’interpre-
tazione tradizionale, dovrebbe attribuire il Salmo a Salomone, suo figlio: לִ ְשֹׁמֹה,
lishlomò, “di Salomone”. 2
I Maestri d’Israele, infatti, leggono in questo modo l’indicazione riportata nel
titolo:
Le motivazioni che sono alla base di questa modalità interpretativa sono chiarite
da Rashi nel suo commento:
Cantico dei gradini. In riferimento a Salomone – Questo cantico lo disse David in riferimen-
to a Salomone, suo figlio, quando vide in Spirito santo che questi avrebbe costruito il Santua-
rio e che in quel medesimo giorno avrebbe preso in moglie la figlia di Faraone (cfr 1 Re 3,1),
come è detto: Causa della mia ira e del mio sdegno è stata questa città fin dal giorno in cui la
edificarono (Ger 32,31). Perciò egli recitò questo Salmo (chiedendo al figlio): Perché, figlio
mio, costruisci la Casa e, nello stesso tempo, ti allontani dal seguire il Luogo? Siccome Egli
non se ne compiace, invano vi faticano i suoi costruttori (Rashi su Salmo 127,1).
1
È il cosiddetto lamed auctoris, che indica l’autore di un Salmo.
2
La versione dei LXX non riporta questa parte del titolo del Salmo.
85
con la figlia di Faraone sono atti fra loro inconciliabili, perché vanno in direzione
diametralmente opposta. Da un lato sta la costruzione del Santuario, opera che se-
gue il piano tracciato da Dio; dall’altro il matrimonio di Salomone con la figlia di
Faraone, scelta che risponde solo a motivazioni politiche o al richiamo del desiderio
e che, collegata alla dedicazione del Santuario, mina alla base il valore stesso della
costruzione del luogo santo, che è, già da quel momento, destinato alla profanazione
e alla distruzione.
Vediamo, tramite l’analisi di alcuni passi significativi, come la tradizione rabbi-
nica ha elaborato questa linea di lettura.
Il primo passo si pone nella linea seguita da Rashi:
Ha detto rabbi Judan: Per tutti i sette anni in cui costruì il Santuario, Salomone non bevve
vino. Ma quando l’ebbe costruito e sposò Bitia 3, la figlia di Faraone, quella stessa notte
bevve vino. Due manifestazioni di gioia festeggiate col vino ebbero luogo nel medesimo
tempo: una per la gioia derivante dalla costruzione del Santuario e l’altra per la gioia de-
rivante dal matrimonio con la figlia di Faraone. Disse allora il Santo, benedetto egli sia:
Quale delle due dovrò accogliere, la prima o la seconda? In quel momento il Santo bene-
detto egli sia concepì l’idea di distruggere Gerusalemme, come è detto: Causa della mia
ira e del mio sdegno è stata questa città fin dal giorno in cui la edificarono (Ger 32, 31)
(Wajjiqrà rabbà 12,5).
3
Secondo il Midrash la iglia di Faraone di cui si parla porta il nome di Bitia.
4
Così il Midrash interpreta e scompone il nome Lemu’el.
5
Circa le dieci del mattino.
86
di svegliarlo per il rispetto della regalità. Andarono da Bat Sheba, sua madre, e la informarono.
Ella andò, lo svegliò e lo rimproverò, come è detto: Sentenze con cui sua madre lo corresse (Pr
31,1) 6 (Bemidbar rabbà 10,4).
I passi del Midrash sopra riportati, pur aprendo squarci interpretativi e narrativi
inattesi, non chiariscono quale sia la ragione linguistica o esegetica per la quale si
debba intendere che il Salmo non è stato composto da Salomone ma è stato a lui ri-
volto da David, come sostengono i Maestri, o da un cantore, come ritiene Ibn Ezra. Il
commento di quest’ultimo ci offre la possibilità di intravedere una prova sia linguistica
sia esegetica che dà sostegno all’interpretazione proposta dalla tradizione rabbinica.
Così scrive Ibn Ezra:
Cantico dei gradini. Lishlomò – È da intendere: A riguardo di Salomone, (in quanto la lettera
ל/lamed va interpretata) come nel passo seguente: E a riguardo di Levi (לְ לֵ וִ י, lelewì) disse (Dt
33,8). Questo cantico lo ha composto uno dei cantori a riguardo di Salomone, quando David
voleva costruire il Santuario e Natan profetizzò che lo avrebbe costruito Salomone, suo figlio
[…] (Ibn Ezra su Salmo 127,1).
La prova Ibn Ezra la trova nelle cosiddette benedizioni di Mosè (Dt 33), 7 in
cui il sintagma “lamed ( )ל+ nome proprio” ha il valore inconfutabile di “a riguardo
di, in riferimento a”. In questo modo egli riesce ad individuare un sostegno valido
per l’interpretazione che vuole che il sintagma לִ ְשֹׁמֹה, lishlomò, vada inteso come
indicazione della persona alla quale il Salmo è rivolto.
Anche nello Zohar troviamo attestata la linea interpretativa che attribuisce il
Salmo a David e non a Salomone:
Cominciò è disse: Cantico dei gradini. A riguardo di Salomone. Se il Signore non costruisce
la casa, invano si affaticano i suoi costruttori in essa; se il Signore non custodisce la città,
invano veglia i custode (Sal 127, 1). Forse che Salomone recitò questo canto di lode quando
costruì il Santuario? No, ma lo recitò il re David a riguardo del re Salomone, suo figlio,
quando venne da lui Natan e gli disse a riguardo di Salomone che questi avrebbe costruito il
Santuario. Dopo di ciò il re David mostrò a Salomone la forma del Santuario. Quando David
vide la forma del Santuario e tutti gli ornamenti, recitò questo cantico a riguardo di Salomone
suo figlio e disse: Se il Signore non costruisce la Casa ecc. (Zohar, II 164a).
Se le cose stanno così, Salomone, allora, è solo il destinatario delle parole at-
tribuite a David oppure è possibile, per altra via interpretativa, considerarlo l’autore
del Salmo? Ci sono nel testo altri elementi, oltre all’indicazione che proviene dalla
lettura piana del titolo (lamed auctoris), che fanno riferimento diretto a Salomone e
al suo operato?
Un indizio ci è offerto dalle parole del commento di Dante Lattes:
Il Salmo è attribuibile a Salomone forse perché vi si parla della costruzione della casa, cioè
6
Cfr Rashi su Proverbi 31,1: “Il fardello delle sentenze con cui sua madre lo corresse.”
7
Ibn Ezra cita solamente Dt 33,8: “a riguardo di Levi”. La medesima struttura la ritroviamo
anche in altri versetti di Dt 33: v.12 (“a riguardo di Beniamino”); v.13 (“a riguardo di Giuseppe”);
18 (“a riguardo di Zabulon”); v.20 (“a riguardo di Gad”); v.22 (“a riguardo di Dan”); v.23 (“a
riguardo di Neftali”); v.24 (“a riguardo di Asher”).
87
del Tempio che è la casa per antonomasia, eretta da Salomone ed anche perché si cita l’amico
di Dio (v.2) come venne chiamato Salomone dal profeta Natan (II Samuele XII, 25). 8
Il rapporto che lega i due passi è stretto e pertanto il Salmo può, secondo il titolo
e secondo questa prova interna, essere attribuito a Salomone: a לִ ִידידוֹ, lididò, “al
suo amato” di Salmo 127,2, corrisponde il nome proprio יְ ִד ְידיָ הּ, Jedidjàh, “L’amato
del Signore”, di 2 Sam 12,25. Questo non fa che confermare la complessa struttura
interpretativa del Salmo e la diversificata storia della sua ricezione nella tradizione
ebraica. Il Targum, infatti, diversamente dai commenti sopra riportati, mantiene l’at-
tribuzione a Salomone:
Cantico che fu detto sui gradini dell’abisso. Per mano di Salomone (Targum Salmo 127,1).
Già a partire dal titolo, il Salmo, interpretato dalla tradizione viva d’Israele, si
presenta come un testo polisemico e polifonico, e, in quanto tale, ci offre infinite
possibilità di lettura, alcune problematiche ma tutte necessarie.
2. Un Salmo polifonico
8
Dante LATTES, Il Libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, p. 482.
9
Secondo l’interpretazione di Rashi.
10
Dante LATTES, Il Libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, p. 481.
88
Cantico dei gradini. A riguardo di Salomone – Questo Salmo fu recitato a riguardo di Salo-
mone. La lettera lamed della parola לִ ְשֹׁמֹה, lishlomò, ha il significato di “a riguardo di”, co-
me nel seguente passo: Dirai a mio riguardo: È mio fratello (Gen 20,13). 11 Il Salmo è detto a
riguardo della costruzione del Santuario, che David progettò di compiere. Egli raccolse oro,
argento e bronzo per l’opera, ma nonostante tutta la sua fatica, non riuscì a realizzare il suo
progetto, che fu portato a termine da suo figlio. Ora lo stesso tema si può applicare ad ogni
uomo comune che non riesce a realizzare i suoi progetti. Inoltre, il testo contiene un’allusio-
ne al Re Messia, poiché anche egli è chiamato Salomone nel Cantico dei cantici (Ct 3,11).
Noi, dunque, abbiamo interpretato il Salmo secondo questi tre significati. In primo luogo in
riferimento a Salomone” (Radaq su Salmo 127,1).
Radaq individua diversi piani di lettura, che rivelano la struttura polisemica del
testo. Tre possono essere le chiavi di lettura, che, come voci di un canto polifonico,
non possono essere separate ma devono essere ascoltate sovrapposte. La prima chia-
ve di lettura riguarda il rapporto David - Salomone nella costruzione del Santuario e
si pone nel solco delle riflessioni e dei commenti già analizzati. La secondo e la terza
ci portano a riflettere sulla condizione applicabile ad ogni uomo e, nella dimensione
dell’attesa, sulla venuta del Re Messia.
Questa polifonia, in particolare per quanto riguarda la seconda e la terza chiave
di lettura, è, per così dire, garantita nell’economia del testo dalle tre attestazioni
della parola ָשׁוְ א, shaw, “cosa vana, invano”:
Come Dio è tre volte santo, così il mondo è tre volte vuoto, vacuo e vano se
l’uomo non si affida al suo Creatore e non compie le opere che Egli gli ha ordinato
di compiere.
Tutto è vano senza Dio. Tutto è vano senza la risposta dell’uomo. Tutto è vano
senza la speranza nella venuta del Messia e nella redenzione.
Vediamo, ora, come Radaq applica il Salmo al Re Messia con una rilettura che
percorre la storia di Gerusalemme e del popolo ebraico:
In riferimento al Re Messia il Salmo può essere spiegato così. Dice il testo del Salmo: Se il
Signore non costruisce, riferendosi al Santuario, mentre la città indica Gerusalemme. Infatti
dal giorno il cui fu distrutto il Santuario, i figli di Israele andarono in esilio e la città andò in
rovina, Gerusalemme fu di volta in volta riedificata e poi di nuovo distrutta. Essa fu nelle ma-
ni di Edom (= romani) e poi degli Ismaeliti e per tutto il tempo se la sono contesa in guerra;
questi la ricostruivano e quelli la distruggevano, perché il loro costruirla ed il loro custodirla
11
Radaq porta a sostegno dell’interpretazione “a riguardo di Salomone” il passo di Genesi
20,13 che è una prova scritturistica diversa rispetto a quella utilizzata da Ibn Ezra nel suo com-
mento.
89
non era secondo il volere del Signore benedetto. E per questo invano vi faticano i costruttori
e invano la vegliano i custodi. E poi il Salmo dice: è vano per voi alzarvi presto, questo si
riferisce ad Edom che furono i primi a conquistare Gerusalemme; e ritardare il posarsi, si
riferisce agli Ismaeliti, che vennero più tardi, contesero con i cristiani e la sottrassero alle loro
mani e poi i cristiani la presero di nuovo dalle mani di quelli. Vi è stata guerra continua fra
di loro e tale vi sarà fino alla venuta del Redentore. Mangiare pane di dolore, essi faticano
e si danno pena per Gerusalemme, per questo il Salmo li chiama coloro che mangiano pane
di dolore. Poi il Salmo dice: così darà al suo diletto il sonno, il suo diletto è il Re Messia, al
quale il Signore benedetto darà Gerusalemme senza fatica, mentre quelli che si sono affaticati
per essa non vi rimarranno e non l’abiteranno (Radaq su Salmo 127).
3. La giusta chiave
Se la città, metafora del mondo, può reggersi solo se è Dio a costruirla, ossia se
è costruita secondo i piani di Dio, qual è la via che è consegnata all’uomo per portare
a compimento il progetto divino, qui ed ora, nel tempo del precetto e dell’attesa del
Re Messia e del mondo a venire?
Rashi ci indica una possibile risposta alla domanda:
Così darà – Il Santo benedetto egli sia darà sostentamento a chi bandisce il sonno dai suoi
occhi per impegnarsi nello studio della Torà.
Al suo diletto il sonno – a colui che caccia il sonno dai suoi occhi (Rashi su Salmo 127,2).
Rashi fonda la sua lettura del testo su una particolare interpretazione della paro-
la לִ ִידידוֹ, lididò, che fa derivare dalla radice נדד, n.d.d., “cacciare”, e, così facendo,
sembra fare riferimento alla discussione contenuta nel seguente passo del Talmud:
Cosa significa il seguente passo: mi sazierò al risveglio della tua immagine (Sal 17,15)? Ha
detto rabbi Nachman bar Jitschaq: Questi sono i discepoli dei sapienti che cacciano il sonno
dai loro occhi in questo mondo, e il Santo benedetto egli sia li delizia con lo splendore della
Shekinà nel mondo a venire (bBava Batra 10a).
Il Talmud ci insegna che per coloro che cacciano il sonno dai loro occhi de-
dicando le ore notturne allo studio della Torà, è preparato un futuro di delizie nel
mondo a venire. È, però, interessante sottolineare che Rashi, pur accettando in forma
implicita l’interpretazione proposta dal Talmud, non fa riferimento alla ricompensa
nel mondo a venire.
Una parte della tradizione rabbinica amplifica in altra direzione questa lettura
del passo del nostro Salmo: a cacciare il sonno dai loro occhi, quindi a restare svegli,
non sono i discepoli dei sapienti ma le loro mogli, secondo le parole di rav Jitschaq.
Il detto di rav Jitschaq è inserito in un passo del Talmud che discute la periodicità
degli obblighi sessuali di marito e moglie:
90
(I rapporti coniugali 12 di) coloro che non hanno un lavoro proprio ( ַטיָּ ילִ ין, tajjalìn) – ogni
giorno 13. Cosa significa la parola ַטיָּ ילִ ין, tajjalìn? Ha detto Ravà: Sono coloro che si dedicano
alla sessione di studio (in città e che ritornano a casa la sera). Gli disse Abbajjè: Di chi si parla
allora nel seguente passo: È vano per voi alzarsi presto, ritardare il posarsi, mangiare pane
di dolore, tanto che cacciano il sonno dai loro occhi? 14 In proposito ha detto rav Jitschaq:
Questi di cui si parla sono le mogli dei discepoli dei sapienti che cacciano il sonno dai loro
occhi in questo mondo (restando sveglie la notte ad attendere il rientro a casa dei mariti dediti
allo studio della Torà) e ottengono la vita nel mondo a venire (bKetubbòt 62a). 15
12
Si tratta dei rapporti coniugali consentiti, a diversi intervalli di tempo, fra marito e moglie
(עוֹנָ ה, ‘onà), come previsti in Es 21,10.
13
Cfr Bereshit rabbà, 76,7: “E pernottò colà quella notte ecc. (Gen 32, 14-15). Disse rabbi
Eleazar: Da qui si deducono i rapporti sessuali come previsti dalla Torà: i disoccupati, tutti i gior-
ni; gli operai, due volte la settimana; i marinai, una volta ogni sei mesi.”
14
Abbajjè ritiene che il testo del Salmo indichi in modo chiaro che i discepoli dei sapienti
dedicano molto tempo della notte allo studio della Torà e che pertanto non possano dedicarsi tutte
le sere agli obblighi coniugali in quanto ad altro intenti. Per Abbajjè, infatti, la prescrizione della
Mishnà deve applicarsi non ai Sapienti e ai loro discepoli, ma a certi maestri di categoria inferiore
che si occupano della educazione dei bambini e che non hanno la caratura morale e spirituale dei
grandi Maestri e dei loro discepoli.
15
Cfr Midrash Tehillìm 127, 2: “Si tratta delle mogli dei discepoli dei sapienti, le quali cac-
ciano il sonno dai loro occhi in questo mondo ed ottengono la vita nel mondo a venire”.
91
In primo luogo, vuole metterci in guardia dai pericoli del troppo zelo: se il mio
dedicarmi giorno e notte allo studio della Torà crea un danno (di qualsiasi tipo) a
qualcuno (alla moglie, in questo caso specifico, come attesa necessaria che può es-
sere realizzata o vanificata), è necessario che io ne prenda coscienza e che cambi il
mio approccio alla vita: meno zelo e più compassione (ed amore), sia nel definire la
norma, sia nel viverla.
In secondo luogo, ci insegna che il cacciare il sonno dagli occhi per i Maestri/
mariti ha valore solo se destinato allo studio della Torà, mentre per le mogli ha
valore in sé: si compie, cioè, nell’attesa. Le due modalità non sono antitetiche ma
complementari: la prima è legata al fare e all’ascoltare, la seconda alla prospettiva
dell’attesa che ci conduce oltre, verso i giorni del Messia e il mondo a venire. Que-
sto ci insegna che assolutizzare la Torà può essere un rischio che porta il mondo a
rinchiudersi nella dimensione, in tutto e per tutto maschile, del Bet midrash. Senza
le donne, che non hanno spazio nel Bet midrash, il mondo può rischiare di rimanere
prigioniero dello spazio insieme ristretto ed infinito delimitato dai quattro cubiti di
halakà; grazie alle donne, nello specifico: alle mogli dei Sapienti, il mondo si apre,
nella dimensione dell’attesa, alla prospettiva della redenzione che non viene dalla
Torà, ma solo ed esclusivamente da Dio.
I figli – sono i discepoli che egli fa crescere e che sono per lui come figli.
Un ricompensa è il frutto del ventre (v. 4) – una ricompensa è il frutto della Torà che è nel
cuore, come è detto: È bello che tu li osservi nel tuo intimo (Pr 22,18).
Come frecce nelle mani di un eroe – per combattere con queste i suoi nemici.
I figli della gioventù – sono i discepoli che un uomo fa crescere dalla sua giovinezza 16.
Beato l’uomo che ha piena la faretra (v. 5) – di queste frecce (= di questi figli) 17.
[...]
Non arrossiranno quando parleranno con i nemici alla porta – sono i discepoli dei sapienti
che disputano fra di loro a riguardo della halakà e sono come nemici l’uno per l’altro (Rashi
su Salmo 127, 3-5).
Cfr Rashi su bQiddushìn 30b: “Così i igli dei giovani - i discepoli di un uomo sono chia-
16
mati suoi igli, come ha detto Ezechia: Figli miei, ora non siate negligenti (2 Cr 29,11), e è detto:
Ecco io e i igli che il Signore mi ha dato (Is 8,18).
17
Cfr Rashi su Cantico 4,4: “Tutti gli scudi dei prodi - troviamo che i discepoli sono chia-
mati col nome di frecce e di scudi, come è detto: Come frecce nelle mani di un prode, così i igli
della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra.”
92
scepolo che si occupano della Torà nella stessa scuola divengono nemico l’uno dell’altro, ma
non ne se ne vanno da là fino a che non provano amore l’uno per l’altro 18, come è detto: ‘et
wahev besufà (Nm 21,14), non leggere besufà, ma leggi besofà, alla fine (bQiddushìn 30b).
Vediamo come è possibile tenere viva questa tensione che dà vita e forza alla
tradizione, prendendo spunto dalla traduzione del Targum, che, solo apparentemen-
te, va nella direzione interpretativa finora delineata. La traduzione aramaica, infatti,
rilegge il testo e, seguendo percorsi paralleli resi possibili dalle diverse linee inter-
pretative tracciate dalla tradizione, apre lo spazio per altre dimensioni di senso:
18
In Jalqut Shimoni, Chuqqat, § 764, la parte inale del detto è attribuita a Ravà: “E ha detto
Ravà: Non ne se ne vanno da là ino a che non provano amore l’uno per l’altro”.
19
Letteralmente: “i padroni delle loro porte”.
93
linea di lettura tracciata dalla tradizione rabbinica. Ma il testo del Targum conserva
un grado di ambiguità che lascia intravedere, qualora si sia disposti a camminare al
di là del versetto, altre possibilità di lettura.
Chi sono i nemici (o meglio: “i padroni delle porte”, secondo la traduzione let-
terale del testo) e di quale tribunale si tratta?
L’ambiguità del Targum sembra essere richiamata e risolta in un passo dello
Zohar:
Cosa significa quello che è scritto nel seguente passo: beato il prode che ne ha piena la sua
faretra, non arrossirà ecc.? Beato in questo mondo e beato nel mondo a venire. Non arros-
siranno quando parleranno con i nemici alla porta. Chi sono i nemici alla porta? Sono i
Signori del giudizio (= angeli), in quanto quando l’anima se ne parte da questo mondo, molti
Signori del giudizio la chiamano in giudizio prima che entri nel suo posto. Alla porta – la
porta per la quale l’anima entrerà, in quanto ha lasciato in questo mondo dei mallevadori (= i
figli), per merito dei quali può entrare in quest’altro mondo. Per questo è detto: non arrossi-
ranno quando parleranno con i nemici alla porta (Zohar I 115b).
I figli possono, quindi, essere una consolazione in quanto, con la loro vita, che
continua dopo la nostra morte, sono segno tangibile del cammino, non solo genetico,
ma soprattutto spirituale e morale, che continua nel tempo. Ma sono anche e, forse,
in primo luogo, un rischio e una frattura, e rappresentano ciò che non è controllabile
od omologabile, la spinta ad andare oltre (oltre noi), in tutto e per tutto (nella tradi-
zione, oltre la tradizione, nonostante la tradizione). Forza, vitalismo, contestazione,
nuove mete, nuove domande, a volte le stesse che noi abbiamo posto e per le quali
non abbiamo trovato risposte valide o plausibili... E allora non arrossiremo, perché,
dovunque vadano e qualunque cosa compiano i figli, non è più sotto il nostro con-
trollo, nella speranza che tutto si compia nel nome dei Cieli.
Il rischio della discontinuità e dell’oltre non è cancellabile nella vicenda umana,
che porta da una generazione all’altra. Ed è per questo che i Maestri (leggi: i Sapien-
ti), non sempre hanno amato o amano i giovani. Questo atteggiamento lo si ritrova
non solo nella tradizione ebraica, ma un po’ dovunque nelle varie tradizioni del
mondo. Anche il nostro Salmo ci offre una possibilità di rilettura in questa direzione.
Vediamo come.
Le parole e i testi non solo portano con sé le interpretazione e le riletture che
nel tempo si sono sovrapposte all’intenzione originaria che al testo ha dato vita, ma
subiscono un continuo slittamento interpretativo legato al mutamento della lingua e
dei significati delle parole. Se oggi si legge un testo in una lingua di qualche decen-
nio o di qualche secolo fa, si è portati ad interpretare le parole partendo dai signifi-
cati che esse hanno assunto nella lingua di oggi e, a volte, si può creare uno stato di
straniamento che dà vita nuova e altra al testo. Nel nostro Salmo c’è una parola che
nell’ebraico mishnaico e talmudico ha assunto un valore lessicale non testimoniato
nell’ebraico biblico: ַא ְשׁ ָפּה, ’ashpà, “faretra” nell’ebraico biblico, “mucchio (di pat-
tume, di letame)” nell’ebraico mishnaico.
Il versetto 5 alle orecchie di un Maestro, giocando sullo slittamento lessicale
della parola, poteva suonare anche in questo modo: “Beato l’uomo che riempie la
sua casa di studio del loro pattume”. Ossia: “Beato il Maestro che riempie la sua
scuola di giovani discepoli, chiassosi, indisciplinati, poco rispettosi delle regole,
abituati a lasciare sporco dovunque”. Il Salmo, così interpretato, diviene un invito
a correre il rischio di confrontarsi con i giovani, non solo per educarli lungo la via
94
della tradizione, ma soprattutto per imparare da loro a rompere gli schemi che l’età
(la nostra) non sempre invita a o permette di rompere (i Maestri, i sapienti e i filosofi
sono sempre o quasi sempre piuttosto anziani, nel mondo antico, come oggi).
A conferma di quanto affermato, riporto un testo che viene da una tradizione
altra rispetto a quella ebraica: la tradizione greca. In un passo della Repubblica,
Platone afferma che solo a partire dai trent’anni chi ha seguito il cammino di prepa-
razione, può dedicarsi allo studio della filosofia dialettica.
“Quindi”, ripresi, “ciò che accade a chi fa questo uso della dialettica non è forse naturale e,
come ho detto prima, degno di molta indulgenza?” “E anche di compassione!”, aggiunse. “E
per non esporre i tuoi trentenni a questa compassione, non si dovrà affrontare la dialettica
con la massima cautela?” “Certamente”, rispose. “Ma non è una grande precauzione impe-
dire loro di gustarla finché sono giovani? Non ti è sfuggito, credo, che i ragazzi, non appena
assaggiano la dialettica, la usano come un gioco per contraddire sempre, e imitando quelli
che confutano finiscono per farlo essi stessi, godendo come cagnolini di tirare e mordere con
la parola chi di volta in volta si trova vicino a loro”. “E provano un piacere straordinario!»,
esclamò. “Pertanto, quando ne confutano molti e da molti sono confutati, ben presto cadono
in una forte sfiducia verso tutto ciò in cui credevano prima; di conseguenza sia loro stessi, sia
nel complesso tutta la filosofia, cadono in discredito presso gli altri”. “Verissimo”, disse. “Al
contrario”, proseguii, “l’uomo più anziano non parteciperà di una simile follia, ma imiterà
chi vuole usare la dialettica per indagare il vero piuttosto che chi vuole giocare e contraddire
per divertimento; inoltre sarà egli stesso più equilibrato e renderà la sua professione più ono-
rata anziché più disprezzabile” (Platone, Repubblica, libro VII, 539).
Il filosofo, così come lo intende Platone, svolge un ruolo che è per diversi aspet-
ti simile a quello del talmìd chakàm nella tradizione rabbinica: guidare gli uomini
sulla via del vero. Il filosofo, così come il talmìd chakàm, è un adulto-anziano, che
non vede più il mondo e la conoscenza con gli occhi di un giovane-adolescente e che
non ha tempo da dedicare al percorso formativo del giovane, ai suoi dubbi, alle sue
incertezze, alle sue deviazioni ed al suo vitalismo. Anzi diffida dell’approccio del
giovane alla vita e del suo uso della conoscenza.
Ma il mondo e l’uomo, per seguire la via di Dio e del bene comune, hanno
bisogno di vicinanza e di compassione, vale a dire: di accoglienza, ed anche di sco-
rie dolorose e pesanti, ossia di ciò che oggi, in proiezione del domani che non sarà
nostro, siamo chiamati a mettere in discussione delle nostre sicurezze e delle nostre
costruzioni culturali e spirituali per lasciare spazio all’oltre che viene e di cui, anche
se valessimo bloccarlo, potremmo solo ritardare, di un attimo o di un tempo indeter-
minato ma limitato, l’ineluttabile affermarsi.
Ecco, allora, che il Maestro veramente sapiente sa accogliere l’oltre rappresen-
tato dai giovani e prova ad apprendere anche da loro e ad anticipare l’oltre che essi
incarnano, non per omologarlo ed annullarlo, ma per farlo motore del cambiamento,
continuo e necessario, che, in quanto tale, è capace di mantenere viva la tradizione e
di creare nuovi spazi, nuovi luoghi e nuovi tempi di Torà vissuta e rinnovata (qui ed
ora, per noi ed oltre noi).
In questa prospettiva, aperta ed accogliente, è necessario abbandonare la posi-
zione di Salomone/Qohèlet, espressa nei versetti che seguono, fortemente critici nei
confronti della generazione destinata a succedere a chi, giunto al termine del proprio
cammino, deve cedere il passo:
Ho preso in odio ogni lavoro da me fatto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio succes-
18
sore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in
95
cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto
di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo durato sotto il sole, 21perché chi ha lavo-
rato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non
vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura (Qoh 2,18-21).
Non è possibile prevedere se i figli, dal punto di vista del padre, e i discepoli,
dal punto di vista del maestro, saranno saggi o stolti, empi o giusti, ma dato che nel
corso del tempo, di generazione in generazione, dal monte Sinài ad oggi, la Torà non
è stata dimenticata e il nome di Dio è ancora lodato e santificato sulla faccia della
terra, ne deriva che la sapiente stoltezza di chi viene dopo di noi è necessaria, forse
per bilanciare la troppa saggezza che ci attribuiamo o forse perché non si misura un
uomo dalla sua sapienza ma dai frutti delle sue azioni.
Oggi più che mai abbiamo bisogno della coraggiosa stoltezza dei figli e dei
discepoli.
L’ottavo passo ci invita a non rinunciare al mondo e a vivere del lavoro delle
nostre mani.
96
Ottava lezione
La fatica delle mani dell’uomo
Commento al Salmo 128
Salmo 128
Pace su Israele!”.
98
1. Quale fatica?
“La fatica delle tue mani (lett.: delle tue palme) certo mangerai,
ne sarai felice e avrai prosperità!”
La prima domanda da porsi è quale sia l’esatto significato del sintagma: la fati-
ca delle tue mani (lett.: delle tue palme) e, in particolare, della prima parola del sin-
tagma: ַיְ גִ יע, jegìa‘. La parola, infatti, come testimoniato dai lessicografi, ha un dop-
pio significato: un significato di base legato al valore del lessema: “fatica, lavoro che
produce stanchezza”, ed uno traslato (metonimico): “ricchezza, frutto del lavoro”.
Che valore specifico ha nel nostro Salmo?
Per chiarirlo è opportuno soffermarci sugli altri passi biblici in cui compare
la parola ַיְ גִ יע, jegìa’, con valore semantico ricollegabile a quello testimoniato nel
versetto del nostro Salmo.
La prima attestazione si trova in Genesi 31,42.
Nel passo Giacobbe si rivolge a Labano con queste parole:
Se il Dio di mio padre, il Dio di Abramo e il Terrore di Isacco non fosse stato con me, tu ora
mi avresti mandato via a mani vuote; ma Dio ha visto la mia afflizione e la fatica delle mie
palme (= delle mie mani) e ha giudicato (tra noi due) ieri notte. 1
Il Targum traduce il sintagma ebraico יְ גִ יעַ כַּ ַפּי, jegìa‘ kappàj, con un sintagma
aramaico, לֵ יאוּת יְ ַדי, le’ut jedaj, che esprime un lavoro o uno sforzo che affatica
1
Giacobbe fa riferimento alla parole di Labano riportate in Gen 31,29: “Sarebbe in mio
potere di farti del male, ma il Dio dei vostri Padri mi ha parlato la notte scorsa: Bada di non dire
niente a Giacobbe né in bene né in male”.
99
l’uomo fino a spossarlo; lavoro o sforzo che ha in sé anche il senso del vano in quan-
to è sempre esposto al rischio di non raggiungere lo scopo per cui è prodotto. Infatti
il lavoro ventennale di Giacobbe al servizio di Labano rischia di essere una fatica
vana se non ottiene il frutto desiderato.
Il lavoro di cui si parla è, in primo luogo, fatica e sudore e, secondo l’opinione
del Midrash, ha un valore che supera quello del merito dei Padri:
La mia afflizione e la fatica delle mie mani (Gen 31,42). Ha detto rabbi Jirmejà: È più gradito
il lavoro che il merito dei Padri, perché il merito dei Padri salva il denaro, mentre il lavoro
salva le persone. Il merito dei Padri salva il denaro, secondo quanto è detto: Se il Dio dei miei
Padri, il Dio di Abramo e il Terrore di Giacobbe non fosse stato con me, tu ora mi avresti
mandato via a mani vuote. Ma il lavoro salva le persone, come è detto: ma Dio ha visto la mia
afflizione e la fatica delle mie palme (= delle mie mani) e ha giudicato ieri notte (Bereshit
Rabbà 74,12).
La fatica di cui parla il profeta Aggeo è legata ad una attività di tipo agrico-
lo - pastorale come esige il contesto: coltivazione o allevamento. Il commento dei
maestri medievali tende a definire in modo più ristretto la tipologia del lavoro di cui
parla il profeta Aggeo:
E su ogni fatica delle palme (delle mani) – Perché il loro lavoro non otterrà alcun vantaggio
e si affaticheranno invano coloro che vogliono attingere l’acqua del pozzo per irrigare, intatti
non porteranno a compimento la loro opera (Ibn Ezra su Aggeo 1,11). 2
La siccità rende vana ogni attività dell’uomo, persino la fatica di attingere acqua
dal pozzo risulta inutile, perché quel poco d’acqua che può essere destinato all’irri-
gazione non ottiene effetto alcuno a causa della calura e della siccità.
Anche in questo testo l’ambito del lavoro faticoso, reso vano dal culto idolatrico
e dai sacrifici, si inserisce in un contesto agricolo - pastorale e si allarga alla fami-
glia: i loro greggi e i loro armenti, ma anche: i loro figli e le loro figlie.
2
Così commenta Radaq: “E su ogni fatica delle loro mani - il passo va inteso secondo il
commento del saggio Avrahàm Ibn Ezra – la sua memoria sia in benedizione: non otterranno alcun
proitto e si affaticheranno invano coloro che attingono acqua dal pozzo perché non porteranno a
compimento (la loro opera). Intendeva dire che il clima secco che c’era nella loro terra seccava
tutto ciò che irrigavano”.
100
La quarta attestazione si trova in Salmo 78,46:
Il soggetto agente è Dio, l’opera delle sue mani è l’uomo, Giobbe, nella fatti-
specie, per cui l’attività alla quale si fa riferimento è quella propria di un artigiano
che plasma e forgia la sua opera, così come Dio ha plasmato dalla polvere Adamo 3
Ne deriva che il nostro Salmo, quando afferma: “La fatica delle tue palme certo
mangerai”, intende sottolineare il valore e l’importanza del lavoro dell’uomo volto
a procurare il cibo e a dare il sostentamento necessario alla vita a sé e alla propria
famiglia. Non è l’esaltazione della fatica come ascesi terrena chiusa in se stessa, ma
è il riconoscimento, dopo la cacciata di ‘Adàm ha-rishòn dal Gan ‘Eden, 4 del valore
dell’opera e del lavoro dell’uomo sulla terra, secondo il piano e la volontà di Dio.
Così, infatti, commenta il Midrash:
Se l’uomo non fa il bene in questo mondo, non può porre fiducia nelle opere dei suoi padri,
perciò è detto: Non riponete la vostra fiducia nei potenti (Sal 143,6). In cosa, pertanto, potete
riporre fiducia? Nelle vostre opere, come è detto: Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio, se sei
beffardo tu solo ne porterai la pena (Pr 9,12). Così è detto in un altro passo: L’appetito del la-
voratore lavora per lui, perché la sua bocca lo stimola (Pr 16,26), l’uomo non potrà mangiare
grazie all’opera dei suoi padri, ogni uomo mangia del suo (= grazie alle proprie opere), come
è detto: Tutta la fatica dell’uomo è per la sua bocca (Qoh 6,7) e ancora è scritto: Vidi che
non c’è altro bene se non che l’uomo gioisca per le sue opere (Qoh 3,22), non c’è parte per
l’uomo se non nella sua fatica, questo è il senso del passo: Il lavoro delle tue mani mangerai.
Per questi motivi è detto: Non riponete la vostra fiducia nei potenti (Midrash Tehillìm 146,2).
Il Midrash afferma a chiare lettere: “Se l’uomo non fa il bene in questo mondo,
non può porre fiducia nelle opere dei suoi padri”, e in tal modo pone l’accento sul
compito morale che è affidato ad ogni uomo: non noi viviamo, qui ed ora, e non
avremo parte del mondo a venire grazie alle opere dei Padri e per i loro meriti, ma
in virtù del lavoro e delle opere che quotidianamente siamo chiamati a compiere.
La tradizione ebraica insiste non sul valore salvifico delle opere in sé e per sé, ma
sulla necessità dell’uomo di vivere e lavorare in questo mondo per compiere la Torà,
3
Cfr il racconto della creazione dell’uomo in Gen 2.
4
Cfr Gen 3,17-19.
101
per camminare sulla via della santità, per fare il bene e la giustizia e per mantenere
aperta la possibilità di avere parte della vita nel mondo a venire.
Il commento di Rashi si muove in questa direzione specifica:
Il lavoro delle tue mani – Chi gode del lavoro delle sue mani eredita due mondi (Rashi su
Salmo 128,2).
Ad ascoltare queste parole di Ben Zoma sempre quasi di udire la voce del pro-
feta Geremia:
Così ha detto il Signore: Non si vanti il sapiente nella sua sapienza, non si vanti l’uomo forte
nella sua forza, non si vanti il ricco nella sua ricchezza (Ger 9,22).
E potremo aggiungere: chi lavora con fatica, non si vanti della sua fatica o del
suo lavoro! Fatica e lavoro sono l’eredità assegnata all’uomo sulla terra, non come
condanna o come giogo opprimente, ma come strumento che, generazione dopo
generazione, permette di porre le condizioni per il bene (il ben-essere in senso eti-
mologico), in questo mondo e, in prospettiva, nel mondo a venire.
È interessante notare che nella tradizione rabbinica il testo del nostro Salmo
si apre ad altre, molteplici e profonde, possibilità di lettura. Seguiamone una. Il
Midrash si chiede: chi sono coloro che temono il Signore (v. 1)? La risposta è la
seguente: i proseliti.
Altra interpretazione. Le cose che un uomo consacrerà saranno sue (Nm 5,10). Ecco quan-
to è scritto in un altro passo della Scrittura: Beati tutti coloro che temono il Signore, chi
cammina nelle sue vie (Sal 128,1). Non è detto nel testo: Beati i figli di Israele, beati i
sacerdoti, beati i leviti, ma è detto: Beati tutti coloro che temono il Signore. Questi (di cui
il Salmo parla) sono i proseliti (gerìm) che temono il Signore e che sono detti beati. Come
102
è detto a riguardo di Israele: Beato te, Israele (Dt 33,29), allo stesso modo è detto di loro:
Beati tutti coloro che temono il Signore. E quale proselita è detto beato? Il proselita giusto
e non quei Cutei (= Samaritani), dei quali è scritto: Temevano il Signore e servivano i loro
dei (2 Re 17,33). Infatti a riguardo del proselita che teme il Santo benedetto egli sia e cam-
mina lungo le vie del Santo benedetto egli sia, la Scrittura dice: (egli è colui) che cammina
nelle sue vie.
Il lavoro delle tue mani mangerai. Questi è il proselita che non possiede i meriti dei Padri.
Per fare in modo che questi non dica: “Guai a me! Dato che non ho i meriti dei padri, tutte le
opere buone di cui farò tesoro, non mi frutteranno una ricompensa se non in questo mondo”,
la Scrittura annuncia ai proseliti che per i loro meriti mangeranno in questo mondo e nel
mondo a venire, proprio come è detto: Il lavoro delle tue mani mangerai. Queste di cui si
parla sono le opere buone che (il proselita) compie in questo mondo, proprio come tu potresti
dire (citando il seguente passo) E là riposeranno quanti hanno lavorato con forza (Gb 3,17)
e ancora il passo seguente: Tutto ciò che troverà la tua mano da fare, fallo (finché ne sei in
grado) (Qoh 9,10). (Ci si può chiedere) qual è la ricompensa di ciò? È la seguente: Ne sarai
felice e te ne verrà bene, sarai felice in questo mondo e te ne verrà bene nel mondo a venire
(Bemidbar rabbà 8,9).
Il Midrash applica al primo versetto del Salmo 128 una modalità interpretativa
specifica: “Nel passo della Scrittura non è scritto… ma è scritto…”, per insegnarci
che il testo non parla dei figli di Israele. Il testo, secondo l’interpretazione del Mi-
drash, chiama in causa i proseliti, in quanto, come risulta anche dall’interpretazione
di Salmo 135,20 e di Salmo 115,11, quando si parla di “coloro che temono il Si-
gnore” si intendono categorie di persone esterne ad Israele, i proseliti o i pii delle
nazioni. A loro, infatti, si applica in modo perfetto l’invito contenuto nel versetto 2
del nostro Salmo: “ La fatica delle tue mani certo mangerai”. I proseliti, infatti, non
possono avvalersi dei meriti dei Padri ed è solo grazie alle proprie mani, al lavoro e
alla adesione a Dio, che potranno mangiare, in senso materiale e in senso spirituale,
e sperimentare il bene in questo mondo e nel mondo a venire.
È questa una prospettiva “normalizzante”, che “corregge” o definisce secondo
una diversa modalità interpretativa quanto affermato nel passo del Midrash Tehillìm
sopra riportato, 5 in quanto ora ad essere chiamato in causa non è più Israele, ma sono
i proseliti. Chi è, allora, che non può farsi schermo del merito dei padri, Israele o i
proseliti? La tradizione ebraica, individuando vie interpretative fra loro complemen-
tari, ci insegna che sia Israele sia i proseliti, anche se con modalità e motivazioni
diverse, sono chiamati a costruire in prima persona, con la fatica delle loro mani, il
rispettivo spazio di fedeltà a Dio, di felicità e di ben-essere in questo mondo e, in
prospettiva, nel mondo a venire.
5
Midrash Tehillìm 146, 2.
103
a quanto gli consente di camminare lungo le strade del Signore, fedele al progetto di
santità che Dio gli ha assegnato. Questo orizzonte è la Torà, che viene a dare senso
ad ogni cosa, ad ogni fatica, ad ogni cammino. Considerato, quindi, che la Torà ed
il suo studio sono l’elemento centrale nella definizione del modello di vita rabbini-
co e, quindi, ebraico, viene da chiedersi se sia possibile non tanto vivere senza lo
studio della Torà, quanto vivere dedicandosi completamente alla Torà senza avere
un’occupazione pratica che sia di sostentamento ai bisogni primari e non eliminabili
dell’uomo, se vuole essere e restare uomo.
In sostanza, la vita si dipana all’interno delle coordinate che determinano un
orizzonte di senso variabile, mai dato come definito per sempre, scandito da due poli
non opposti ma complementari.
Il primo polo ci chiama a dedicarci alla Torà giorno e notte, come è detto:
Non si allontani questo libro della Torà dalla tua bocca e mediterai su di esso di giorno e di
notte, affinché tu possa cercare di agire secondo tutto quanto è scritto in esso, poiché allora tu
potrai portare a buon fine la tua via e allora sarai sapiente (Giosuè 1,8). 6
6
Cfr Sal 1, 2.
104
polo di studiosi di Torà, un popolo in cui lo studio della Torà lascia la propria impronta sulla
vita pur non giungendo allo stesso grado di approfondimento e di intensità reso possibile
dall’esistenza di professionisti. 7
Come a dire: della Torà non è possibile farsene un vanto o un motivo di esal-
tazione o di superbia e nemmeno da essa è permesso trarre profitto per il sostenta-
mento o per l’arricchimento. E così, lungo questa via, raggiungiamo l’estremità di
un corno della discussione.
La posizione opposta è sostenuta da chi, come rabbi Nechunjà ben ha-qanà , ri-
tiene che chi si occupa della Torà non possa dedicarsi alle esigenze pratiche della vita,
sia personali e famigliari sia sociali, di cui sono chiamate a farsi carico altre persone
che non intendono dedicarsi, in forma piena e totalizzante, allo studio della Torà:
Rabbi Nechunjà ben ha-qanà era solito dire: A chiunque accetti su di sé il giogo della Torà,
venga tolto il giogo del governo e il giogo delle occupazioni mondane. Ma a chi si scrolla
di dosso il giogo della Torà viene imposto il giogo del governo e il giogo delle occupazioni
mondane (m’Avòt 3,5).
In questo viaggio alla ricerca della vera corona è necessario abbandonare, co-
me afferma un detto attribuito a rabbi Nehoraj, le occupazioni del mondo per con-
segnarsi completamente all’unica occupazione certa e sicura, lo studio della Torà:
7
Yeshayahu LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, Giuntina, Fi-
renze, 1999, pp. 44-45.
105
Rabbi Nehoraj era solito dire: Io metto da parte tutte le professioni del mondo e non insegno
a mio figlio altro che la Torà, perché l’uomo mangia dei suoi frutti in questo mondo, ma la
parte principale della sua ricompensa resta per il mondo a venire. Ma il resto delle professioni
non è così. Quando un uomo si ammala o diviene vecchio e cade in preda alle preoccupazioni
e così non può svolgere il proprio lavoro, muore di fame. La Torà, invece, non è così: ella lo
preserva da ogni male nella sua giovinezza, gli fornisce un futuro e la speranza quando è vec-
chio. A riguardo della sua gioventù cosa è detto nella Scrittura? Quanti sperano nel Signore
riacquistano forza (Is 40,31). E a riguardo della vecchiaia, cosa è detto nella Scrittura? Ed
essi daranno ancora frutti nella vecchiaia (Sal 92,15). E così è detto a riguardo di Avraham
nostro padre, su di lui la pace: E Avraham era vecchio e avanti negli anni e il Signore lo ave-
va benedetto in ogni sua cosa (Gen 24,1). Noi possiamo trovare che Avraham nostro padre
osservò tutta quanta la Torà prima che fosse data, come è detto: per il fatto che Avraham ha
obbedito alla mia voce e ha osservato tutto ciò che gli avevo prescritto: i miei comandi, le
miei istituzioni e le mie Toròt 8 (Gen 26,5) (mQiddushìn 4,14).
8
Nel passo è usato il plurale toròt e questo porta a concludere che Avraham ha osservato
sia la Torà scritta sia la Torà orale.
106
La discussione riportata in questa pagina del Talmud è schierata dalla parte di
rabbi Jishmael e ritiene non percorribile la via indicata da rabbi Shimon ben Jochaj.
Ma, come è consuetudine nella tradizione rabbinica, le due opzioni contrapposte non
si elidono, né l’una fagocita l’altra, ma restano entrambe vive e presenti nella storia
dell’approccio di Israele alla Torà e, grazie al processo di trasmissione e di ricezione, di
continuità e di innovazione, proprio della catena della tradizione, giungono fino a noi,
nell’oggi della nostra generazione, e guidano il nostro approccio alla Torà ed alla vita.
Vediamo, in aggiunta a quanto detto, la posizione di rabbi Meir:
Rabbi Meir era solito dire: Riduci le tue occupazioni e occupati di più della Torà, ma sii umile
di fronte ad ogni uomo. Se trascuri la Torà, ti imbatterai in molte cose futili che ti contrarie-
ranno; ma se ti affatichi nella Torà, ha da darti una grande ricompensa (m’Avòt 4, 10).
Rabbi Meir sostiene che l’uomo non debba rinunciare alle occupazioni prati-
che, ma fare della Torà la sua occupazione principale e del lavoro un’occupazione
occasionale in modo da dedicare le energie migliori alla corona della Torà e non al
lavoro. Occorre, in altre parole, dare il giusto peso alle occupazioni mondane per
evitare che prendano il soppravvento: meno mondo e più Torà in un equilibrio che
è sempre da porre in discussione e da ridefinire e da riconquistare. L’atteggiamento
equilibrato di rabbi Meir è descritto in modo mirabile nel Midrash:
Ho preso in odio tutta la mia fatica con cui mi sono affaticato sotto il sole (Qoh 2,18).
Rabbi Meir era uno scriba eccellente e lavorava solamente per tre soldi la settimana. Uno lo
spendeva per mangiare e bere, uno per vestirsi e il rimanente lo dava per il sostentamento
dei Maestri. Gli chiesero i suoi discepoli: Rabbi, che cosa fai per i tuoi figli? Ed egli rispose
loro: Se saranno giusti, avverrà di loro secondo quanto ha detto David: Non ho mai visto il
giusto abbandonato e la sua discendenza cercare pane (Sal 37,25); altrimenti, perché dovrei
lasciare del mio ai nemici di Dio? Così infatti ha detto Salomone: Ho preso in odio tutta la
mia fatica con cui mi sono affaticato sotto il sole, perché dovrò lasciarla a un’altra dopo di
me e chi sa se sarà saggio o stolto (Qoh 2,28-29) (Qohèlet rabbà 2,17).
Il detto di rabbi Meir ci insegna che lo studio della Torà è il centro propulso-
re della vita dell’uomo, il quale, dato che non può occuparsi esclusivamente dello
studio, deve ridurre il tempo e l’impegno da dedicare alle occupazioni mondane e
alla famiglia. Il lavoro che l’uomo svolge secondo le modalità mondane non è volto
né alla ricchezza né all’onore né alla sicurezza, ma esclusivamente a garantire la
base per una vita decorosa: mangiare, bere, vestirsi e dare sostentamento ai Maestri.
Nulla di più. Rabbi Meir, pertanto, non rinuncia al ֶדּ ֶרְ ֶא ֶרץ, dèrek ’èrets, ma ne
riduce il peso e la portata: l’impegnarsi nel mondo e nel lavoro ha valore solo perché
è proiettato a garantire la centralità della Torà nella vita e per la vita del singolo e
della comunità.
L’equilibrio è garantito, inoltre, dalla contrapposizione o meglio dalla giustap-
posizione delle diverse vie interpretative, per lasciare aperto il dibattito e non chiu-
dere mai la discussione:
Rabbi Joshua era solito dire: Impari l’uomo due halakòt al mattino e due halakòt la sera e
tutto il giorno si dedichi al suo lavoro, gli verrà imputato come se osservasse tutta quanta
la Torà nel suo complesso. Partendo da queste considerazioni rabbi Shimon ben Jochaj era
solito dire: Lo Torà è stata data da studiare solo a coloro che mangiavano la manna. Come
potrebbe un uomo sedersi e studiare la Torà se non sa da dove gli proviene il mangiare e il
bere e come si vestirà e si coprirà? Pertanto la Torà è stata data da studiare solo a coloro che
107
mangiavano la manna e dopo di loro a coloro che mangiano la Terumà (Mekiltà derabbi Ji-
shmael, Beshallàch, Wajjasà 2).
Vorrei concludere questa breve riflessione con le parole della risposta che Ye-
shayahu Leibowitz diede allo scrittore Agnon che gli chiedeva per quale motivo la
Torà stesse perdendo la forza che sempre aveva avuto nel popolo di Israele:
Agnon mi chiese quale fosse, a mio parere, la causa della perdita dell’enorme forza che la
Torà aveva avuto nel popolo d’Israele – una forza immensa espressa dal fatto meraviglioso,
forse senza paralleli nella storia umana, che la moltitudine del popolo d’Israele pur senza
ufficiali, poliziotti, governatori e mezzi coercitivi in genere, accettò di seguire il rigoroso
modello di vita indicato dalla Torà – mentre nelle ultime generazioni tale forza si va di con-
tinuo indebolendo, fino quasi ad annullarsi del tutto. La mia risposta fu la seguente: “Shmuel
Yosef, maestro mio, mi poni una domanda enorme, per la quale si può dire che ‘è più lunga
della terra e più larga del mare’, e la poni così semplicemente. Quindi, debbo fornirti una ri-
sposta che sia pur’essa semplice, anche se sottintende numerosissime problematiche relative
alla storia del popolo di Israele, alla struttura interna delle comunità in Israele, a fattori sociali
e artistici. Cercherò comunque di esporre il tutto in una sola frase, ed è quanto basta per un
uomo del tuo livello: la forza della Torà si è persa a seguito della trasformazione dello studio
della Torà in studio professionale”. 9
In altri termini, quello che deve essere posto in primo piano è la centralità della
Torà come orizzonte di senso della vita. Questo non significa che darsi completa-
mente alla Torà debba divenire un occuparsi esclusivamente di Torà, facendo della
Torà una professione, che porta a vivere delle risorse e della fatica di altri, o a farsi,
grazie alla Torà, una posizione sociale o, ancor peggio, a fare della Torà un vanto.
Un passo della Mishnà, che porta Salmo 128,2 a sostegno della determinazione
halakica, ci chiama al faticoso lavoro di studio e, nello stesso tempo, ci mette in
guardia dalle pietre d’inciampo sulle quali rischiamo continuamente di cadere:
Questa è la via della Torà: un pezzo di pane con sale mangerai, berrai acqua misuratamente,
sulla terra dormirai, vivrai una vita di afflizioni e ti affaticherai nello studio della Torà. Se
così farai sarai beato e bene verrà a te (Sal 128,2); beato in questo mondo e bene verrà a te
nel mondo a venire. Non ricercare la grandezza per te e non bramare l’onore. Metti in pratica
più di quello che hai studiato e non ambire alla tavola del re, perché la tua tavola è più ricca
della loro, e la tua corona più grande della loro corona. Fedele infatti è il tuo datore di lavoro,
che ti pagherà il salario per la tua opera (m’Avòt 6,4).
La via della Torà è via di dedizione completa ed assoluta, perché nulla nel mon-
do ha valore maggiore della Torà. Si deve essere disposti a rinunciare a tutto per rag-
giungere quella felicità che solo la Torà può dare in questo mondo e il bene completo
nel mondo a venire. Ma tutto va fatto e compiuto esclusivamente con la fatica delle
nostre mani, ossia con le nostre forze, come cammino di ascesi che ci rende capaci
di sottrarci alla forza attrattiva e seduttrice delle cose del mondo, ma che non deve
portarci ad abbandonare il mondo o a ridurne il peso ed il valore. La Torà è vita, ma
per essere tale ha bisogno delle cose del mondo senza le quali la vita, sia materiale
9
Yeshayahu LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, Giuntina, Fi-
renze, 1999, p. 65.
108
sia spirituale, non può sussistere o rischia di decadere a livello sia biologico, sia
materiale, sia spirituale. E in questo cammino, quando si abbandona l’impegno nel
mondo per darsi solo alla Torà fruendo per il proprio sostentamento esclusivamente
delle cose e della fatica d’altri, s’inizia (forse) a tradire la Torà, perché, anche se altro
non c’è per chi si dedica alla Torà per se stessa se non il precetto da compiere, grazie
ad essa possono venire grandezza ed onore, posizione sociale e visibilità, potere e
possibilità di guidare, nel bene e nel male, le scelte degli altri.
E non è questa (penso) la via che, rivestiti dell’abito dell’umiltà, siamo chiamati
a seguire, al cospetto degli uomini e di Dio, lungo la via della santità.
Il nono passo ci porta a un nuovo inizio per ritrovare la forza e i valori del tempo
della giovinezza.
109
Nona lezione
L’erba senza domani
Commento al Salmo 129
Salmo 129
112
1. Fin dalla giovinezza: esilio e sofferenza
Nella tradizione ebraica il Salmo è visto come una preghiera collettiva che rie-
voca, con toni di speranza e di fiducia, la storia d’Israele. Fra le diverse le chiavi di
lettura proposte, due ci offrono squarci sul passato e sul presente, accomunate dalla
centralità della riflessione storica e metastorica contenuta nel versetto 2b: “eppure
non hanno prevalso su di me”.
La prima chiave di lettura è incentrata sul tema dell’esilio in cui Israele continua
a sopravvivere e ad esistere nonostante l’oppressione, la persecuzione e le sofferenze:
Il Salmista paragona i giorni dell’esilio 1 a quelli della vita umana; l’inizio dell’esilio corri-
sponde dunque al tempo della giovinezza, e la sua durata a quello della vecchiaia. Dice: “Poi-
ché fin dall’inizio dell’esilio i nemici ci hanno sottoposti a una dura persecuzione, dica Israe-
le un inno di lode a Dio, perché non siamo periti nell’esilio. Infatti, sebbene fin dall’inizio ci
abbiano fatto oggetto di grandi persecuzioni e tuttora facciano altrettanto, i nemici non hanno
prevalso su di noi così da distruggerci, come avevano progettato (Radaq su Salmo 129,1).
La seconda chiave di lettura insiste sulla “dolente storia” del popolo ebraico,
dall’Egitto al qui e all’ora del tempo presente, e fa del Salmo, secondo le parole di
Dante Lattes, “il carme secolare d’Israele”:
Delizioso canto posto sulla bocca d’Israele per rievocare la sua tragica storia e la sua mira-
colosa salvezza da tutte le insidie, le persecuzioni e le infamie del mondo nemico, comin-
ciando dalle prime sofferenze patite sotto il giogo dell’Egitto, nella giovinezza del popolo.
Nonostante l’inimicizia feroce e l’odio inesorabile esercitato con così tenace costanza contro
il popolo ebraico, esso ha potuto resistere, vincere e vivere. L’antisemitismo universale e se-
colare non è riuscito a fiaccare la sua resistenza. [...] Come abbiamo detto, c’è in questo breve
Salmo tutta quanta la dolente storia vissuta dal popolo ebraico nei secoli della sua tragica
esistenza, ma c’è anche la soddisfazione della gratitudine a Dio per gli scampati pericoli e per
il fallito sforzo dei nemici che volevano annientarlo. È il carme secolare d’Israele che dovreb-
be essere cantato ad ogni momento e adottato come l’inno nazionale della nazione risorta. 2
1
Radaq segue la linea interpretativa di Ibn Ezra: “Cantico dei gradini - Le parole del Sal-
mista riportano quanto dice Israele nell’esilio”.
2
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma, 1963,
pp. 484-485.
113
Sofferenza “necessaria” ed assistenza divina sono i due poli all’interno dei quali
si sviluppa la storia delle generazioni dei figli d’Israele, dalla giovinezza dell’Egitto
all’ora della generazione presente:
Cantico dei gradini – il Salmo parla dell’attenzione che il Signore usa per proteggere i figli
d’Israele da tutti i loro nemici.
Molto ( ַר ַבּת, rabbat) – il testo intende dire che si tratta di un fatto grande e importante quan-
do afferma: mi hanno oppresso fin dalla mia giovinezza dirà Israele, per il fatto che i figli
d’Israele diranno e racconteranno di essere stati fin dalla loro giovinezza in stato d’assedio.
Con questa espressione si intende che erano come un città assediata, che fin dal giorno della
sua fondazione è soggetta all’assedio del nemico che si protrae per migliaia di anni. Interpre-
tando in questo modo il passo si dà al testo un senso profondo in quanto anche se mi hanno
oppresso fin dalla giovinezza, ciononostante non hanno prevalso su di me. Interpretando il
testo in senso più ampio, si può intendere che Israele è una nazione contro la quale si ergono
i nemici per distruggerla. Il fatto rilevante è che, a causa della condizione specifica dei figli
d’Israele, è necessario che i popoli li opprimano e muovano guerra contro di loro, proprio
perché essi sono un popolo che dimora da solo e fra le genti non si annovera (Nm 23,9). Ma
c’è un fatto ancora più rilevante: anche se tutti i popoli li hanno oppressi con i loro complotti,
non hanno tuttavia potuto fare loro del male, perché il loro Dio è con loro per salvarli (cfr Ger
42,11) (Malbim 3 su Salmo 129,1).
Vediamo come il Salmo sviluppa questa bipolarità, partendo del primo versetto,
che recita:
“1Cantico dei gradini.
Molto mi hanno oppresso dalla mia giovinezza,
– lo dica ora (נָ א, na’) Israele” (Salmo 129,1).
La tradizione rabbinica, come abbiamo avuto modo di osservare a riguardo di
Salmo 124,1, 4 dà alla particella asseverativa נָ א, na’, il valore temporale attualizzan-
te di “ora”, pertanto la seconda parte del versetto deve essere tradotta: “lo dica ora
Israele” e non semplicemente: “lo dica Israele”. 5
Questa linea di lettura è seguita dal Targum:
“1 Cantico che fu detto sui gradini dell’abisso.
Molti mi hanno afflitto dalla mia giovinezza
– lo dica ora Israele”.
3
Rabbi Meir Leibush ben Jehiel Michel Weiser (1809-1879), rabbino capo di Bucarest.
4
La formula compare una terza volta in Salmo 118,2.
5
Così Ibn Ezra commenta Salmo 124,1: “Lo dica ora - (anche in questo passo) signi-
fica ora come ogni particella נָ א, na’, che si incontra nella Bibbia”.
114
Il tempo indicato dall’avverbio ora (כָּ דוּן, kadùn, nella traduzione aramaica del
Targum) è proiettato nel presente/futuro della generazione che assisterà alla reden-
zione definitiva d’Israele, quando avranno termine le continue tribolazioni che ven-
gono ai figli d’Israele dagli uomini e da Dio.
Il Salmo, nella linea indicata dal primo versetto, è un invito a riflettere sulla
storia del popolo ebraico, prendendo come punto di vista gli interventi di Dio in
risposta al grido di dolore di Israele. In un Midrash di straordinaria bellezza sono
presentate alcune tappe dolorose della storia del popolo d’Israele ed è posta in risalto
l’assistenza continua con cui Dio viene in aiuto al suo popolo:
Cantico dei gradini. Molto mi hanno oppresso fin dalla giovinezza lo dica ora Israele – Que-
sto è quanto è detto in un altro passo della Scrittura: E quando lo avranno colpito malanni
numerosi e angosciosi, allora questo canto sarà testimone davanti a lui (Dt 31,21). Ha detto
il Santo benedetto egli sia: Quando saranno venute ad Israele queste tribolazioni e io li avrò
liberati, in quell’ora diranno rivolti a me questo canto, come è detto: questo canto sarà testi-
mone davanti a lui (Dt 31,21).
Tu puoi trovare nella Scrittura che i figli d’Israele erano ridotti in schiavitù in Egitto e quando
Dio li liberò stavano seduti e mangiavano, e subito dissero il cantico, come è detto: Voi innal-
zerete il vostro canto come la notte in cui si santifica la festa (Is 30,29). Come quella notte di
cui è detto: questa sarà una notte di veglia in onore del Signore (Es 12,42).
E così (accadde) al mare, quando si trovarono in grande angustia, come è detto: e attraver-
serà il mare dell’angustia (Zc 10,11). E quando Dio operò per loro prodigi e li liberò, subito
dissero il cantico, come è detto: Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva
agito contro l’Egitto (Es 14,31). E subito dopo è detto: Allora cantarono Mosè e i figli d’Isra-
ele il cantico (Es 15,1).
Giunsero nel deserto ed erano assetati, come è detto: Erano affamati e assetati, veniva meno
la loro vita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie (Sal
107, 5-6). Quando videro il pozzo dell’acqua, subito dissero il cantico, come è detto: Allora
Israele disse questo canto: Sgorga o pozzo, cantatelo (Nm 21,17), perciò è detto: Quando gli
capiteranno grandi mali e disgrazie, questo canto sarà testimone davanti a lui (Dt 31,21).
E così accadde a Debora e a Baraq, che erano afflitti da Sisara, come è detto: Allora Sisara
radunò i suoi carri (Gdc 4,13). E quando il Santo benedetto egli sia li liberò, credettero e
subito Debora recitò questo canto (Gdc 5,1).
E quando venne Sennacherib, disse Ezechia: Il Signore si è degnato di aiutarmi, per questo
canteremo sulle cetre tutti i giorni della nostra vita (Is 38,20).
E così accadde anche a David. La colpirono molte tribolazioni, come è detto: poiché mi hanno
circondato mali senza numero (Sal 40,13), quando il Santo lo liberò da tutti questi mali, subito
disse un cantico, come è detto: Questi quattro erano nati a Rafa, in Gat. Essi perirono per ma-
no di David e per mano dei suoi servi (2 Sam 21,22). Subito David rivolse al Signore le parole
di questo cantico, quando il Signore lo liberò dalla mano di tutti i suoi nemici (2 Sam 22,1).
Per questo motivo la Scrittura dice: Quando gli capiteranno grandi mali e disgrazie, que-
sto canto sarà testimone davanti a lui. E questo è in accordo con quanto è detto: Cantico
dei gradini. Molto mi hanno oppresso fin dalla giovinezza lo dica ora Israele (Aggadàt
Bereshìt, 60,1).
Questo passo del Midrash, partendo dalla storia d’Israele così come raccontata
nei tesi biblici e come può essere ampliata in riferimento a momenti successivi della
storia del popolo ebraico, ci insegna che in ogni momento ed in ogni tempo ci sono
tribolazione ed angustie, che sembrano tante e tali da fare soccombere il popolo
d’Israele; ma in ogni tempo ed in ogni tribolazione Dio ha soccorso, soccorre e
soccorrerà Israele, liberandolo dalla stretta dell’angustia e concedendogli la forza
115
necessaria per continuare a compiere i precetti della Torà nel segno della fedeltà a
Dio e della testimonianza alle nazioni.
E, al cospetto del Dio che consola e salva, qual è la risposta d’Israele?
Un cantico di lode, di cui il nostro Salmo è il paradigma.
Di fronte all’altalenante risposta dell’uomo, che trasgredisce e fa teshuvà, Dio
mostra la sua duplice misura: la misura della giustizia e la misura della misericordia.
Amareggia e libera. Punisce e redime. Toglie una corona e dà la possibilità di me-
ritarne un’altra. Nasconde il suo volto e ci visita. Si allontana da noi ed è continua-
mente presente e vicino. Il Midrash, riprendendo ed reinterpretando in forma omi-
letica una riflessione del Talmud, 6 ci indica la via seguita dalla provvida assistenza
divina, che, nel segno della misura della misericordia, si mantiene fedele e pronta
a perdonare quando è Israele ad amareggiare Dio ed anche quando è Dio stesso, in
risposta alla trasgressione e al tradimento, ad amareggiare Israele, in modo diretto o
per mano dei nemici d’Israele. È detto in un passo del Midrash:
Cantico dei gradini. Molto mi hanno oppresso fin dalla giovinezza lo dica Israele – Questo è
quanto è detto in un altro passo della Scrittura: Il mio amato è per me come un fascio (צְ רוֹר,
tseròr) di mirra ( ַהמּוֹר, ha-mor) (Ct 1,13) 7. Dice l’Assemblea d’Israele: “Anche se Egli mi ha
oppresso e amareggiato, come è detto: Amareggiarono la loro vita (Es 1,14), ciononostante
Egli trascorre la notte tra i miei seni (Ct 1,13), fra i due figli di Amram, cioè fra Mosè e
Aronne, come è detto: I tuoi due seni sono come due cerbiatti (Ct 7,4). 8
Allo stesso modo al mare. Si ribellarono presso il mare, il mar Rosso (Sal 106,7), cionono-
stante Egli trascorre la notte tra i miei seni (Ct 1,13), come è detto: La tua destra Signore è
magnifica nella potenza, la tua destra Signore annienta il nemico (Es 15,6).
Nel deserto Egli mi ha afflitto e amareggiato, come è detto: Il Signore colpì il popolo perché
aveva fatto il vitello (Es 32,35), ciononostante Egli trascorre la notte tra i miei seni, fra il
primo minjàn e l’ultimo minjàn 9 (Aggadàt Bereshìt, 63,1, ed. Buber).
6
Cfr bShabbàt 88b: “Ha detto rabbi Jehoshua ben Levi: Cosa signiica il seguente passo: Il
mio amato è per me come un fascio di mirra, trascorre la notte tra i miei seni? Ha detto l’Assem-
blea d’Israele al cospetto del Santo benedetto egli sia: Signore del mondo, anche se il mio amato
opprime e amareggia la mia vita, (nonostante questo) trascorre la notte tra i miei seni”. Rashi
commenta il passo del Talmud con queste parole: “Anche se il mio amato opprime e amareggia la
mia vita – al tempo del Vitello d’oro, quando disse: Ora deponi i tuoi ornamenti (Es 33,5)”. Rashi
porta Esodo 33,5 a sostegno del suo commento al passo del Talmud: Ora deponi i tuoi ornamenti
e poi saprò che cosa dovrò farti, passo che egli così commenta: “Accogliete questa punizione
subito: deponete questi ornamenti” (Rashi su Esodo 33,5).
7
La tradizione aggadica e omiletica interpreta in questo modo il versetto: “il mio amato
mi opprime e mi amareggia”.
8
Questa prima parte del Midrash rielabora e reinterpreta bShabbàt 88b (cfr n. 6).
9
Da intendere in questo modo: tra la prima comunità costituita e l’ultima, nella continuità
del tempo, di generazione in generazione.
116
può accadere in ogni rapporto amoroso, una delle due parti, l’amata o l’amato, può
allontanarsi e tradire, ma il rapporto è salvato e mantenuto vivo dalla fedeltà gratuita ed
incondizionata dell’altra parte. Il Santo benedetto egli sia è lo sposo che “trascorre la
notte fra i miei seni”, che, cioè, non abbandona mai Israele, la sposa amata dalla giovi-
nezza, sia come promessa di liberazione che si avvera, sia come presenza che accompa-
gna il patire ed il soffrire di quel popolo che Dio si è scelto come sua proprietà. E questa
presenza, nonostante il tradimento d’Israele al tempo del Vitello d’oro, si realizza al
fianco di Mosè e di Aronne, nel segno della Torà e del sacerdozio, nelle due forme di
servizio che rendono l’uomo capace di camminare lungo la via della santità. Rimane
viva anche nella destra del Signore, che è il segno che esprime i due poli del suo agire
per Israele e per il mondo: la giustizia e la misericordia. Si rende attuale nella continua
risposta dell’uomo dal primo all’ultimo minjàn, lungo tutta la storia di fede e di fedeltà
del popolo d’Israele, dal monte Sinài alle porte del mondo a venire.
I Padri d’Israele e, in particolare, Abramo e Giacobbe sono, con la loro vita esem-
plare, il paradigma che permette di interpretare la storia d’Israele e di ogni singolo
ebreo: da una situazione iniziale di crisi e di sofferenza, che diviene prova della fedeltà
dell’uomo e della comunità a Dio, si passa, al termine del percorso, ad uno stato di pa-
ce e di appagamento, in questo mondo, come preludio della pace e dell’appagamento
117
nel mondo a venire. La storia individuale e collettiva, nel segno della fedeltà e della
fiducia, è il cammino che ci porta al superamento delle angustie e delle tribolazioni,
tratti in salvo in luogo sicuro dalla mano che Dio continuamente ci porge.
Sia i Padri sia Israele hanno vissuto una giovinezza di sofferenza e di oppres-
sione; sia i Padri sia Israele, una volta superata la fase critica, hanno ottenuto appa-
gamento. Per Israele, la giovinezza è la schiavitù in Egitto, da cui la mano potente
del Signore lo ha liberato per condurlo nel deserto, il luogo del dono della Torà;
ma è anche l’esilio da cui il Signore lo ha liberato, lo libera e lo libererà. La doppia
fedeltà, di Dio e dell’uomo, è, anche nell’oppressione e nella solitudine apparente
di ogni esilio, la garanzia della redenzione che sta per venire e che già viene grazie
a chi, giusto o profeta o santo o uomo senza colpa o anche senza merito e qualità, si
pone sulla breccia a contrastare, nella quotidiana resistenza, la caduta e la catastrofe
e a mantenere la distanza che separa e che mantiene santi, nel mondo e nei Cieli
rispettivamente, l’uomo e, se e possibile dirlo, Dio stesso. In questa prospettiva, la
giovinezza è il tempo della vita e della storia da cui bisogna uscire per raggiungere,
nelle tribolazioni e nell’angustia, con l’aiuto di Dio ed anche contro Dio se necessa-
rio, l’età della libertà e il tempo della risposta seguendo la via dei precetti.
Israele diviene in modo definitivo il popolo d’Israele solo quando passa il Gior-
dano ed entra nella terra promessa da Dio ai Padri; quando, cioè, terminata l’età
della giovinezza ed il tempo del deserto, passa dall’innamoramento all’amore ed
inizia una nuova età, quella adulta e matura, che lo porta non più ai piedi del monte
Sinài, ma dal monte Sinài a Sion.
Cfr Geremia 31,1: “Così ha detto il Signore: Ha trovato grazia ( ֵחן, chen) nel deserto un
10
popolo di scampati alla spada, Israele va verso (la terra) della sua quiete.”
118
Altra interpretazione. Lo dica ora Israele che in eterno è la sua misericordia (Sal 118,2).
Così ha detto il Santo benedetto egli sia: Quello che ho fatto per loro in Egitto e come li ho
ricompensati nel deserto, è a motivo del fatto che hanno creduto in me in Egitto, come è
detto: E il popolo credette (Es 4,31). E in che modo li ho ricompensati nel deserto? Secondo
quello che dice la Scrittura: E il Signore andava davanti a loro di giorno (Es 13,21). Ed essi
cosa hanno fatto per me al Sinài? Hanno risposto in questo modo: Tutto quello che il Signore
ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo (Es 24,7). E in quel momento il Santo benedetto egli
sia disse: Mi ricordo per te dell’affetto della tua giovinezza (Ger 2,2). Per questo è detto: lo
dica ora Israele che in eterno è la sua misericordia (Midrash Tehillìm 118,6).
Radaq, nel commentare il passo del profeta Geremia, insiste sulla metafora ma-
trimoniale:
E per quanto riguardo il tuo sposalizio, la parola proviene da כּלּה, kallà, sposa, in quanto
l’assemblea d’Israele è paragonata nel giorno del dono della Torà ad una sposa ed il Santo
benedetto egli sia ad uno sposo (Radaq su Geremia 2,2).
11
Sulla forte connotazione sessuale del verbo usato, cfr Es 22, 14: “Quando un uomo se-
119
17
Le renderò le sue vigne di là e la valle di Akor diverrà porta di speranza ed ella risponderà
là come nei giorni della sua giovinezza e come nel giorno in cui è salita dal paese d’Egitto.
18
E in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai “Mio marito” e non mi chiamerai
più “Mio padrone (ba‘al)”. 19E toglierò i nomi dei ba‘al dalla tua bocca e non saranno più
ricordati per il loro nome (Osea 2, 16-19).
duce una giovane non ancora idanzata e giacerà con lei, dovrà pagarle la dote ed ella diverrà sua
moglie”.
12
Cfr Sifrè Deuteronomio, 313: “Altra interpretazione - Lo troverà nella terra del deserto
(Dt 32,10). Questo passo si riferisce al futuro che deve venire, come è detto: Perciò ecco: Io sono
colui che la seduce e la porterò nel deserto e parlerò al suo cuore”.
13
Sandro Paolo CARBONE – Giovanni RIZZI, Il libro di Osea secondo il testo ebraico Maso-
retico secondo la traduzione greca dei Settanta secondo la parafrasi aramaica del Talmud, EDB,
Bologna, 1992, p. 95 n. 52.
120
Lungo la linea temporale che va da quella giovinezza al tempo presente nella
prospettiva del tempo a venire, quale significato assume il passo iniziale del nostro
Salmo?
Il Salmo non si limita a parlare del tempo della giovinezza, ma ci insegna che
chi si oppone al cammino di Israele, chi opprime il popolo di Dio, non avrà successo
e che i suoi piani e le sue azioni non raggiungeranno il risultato voluto. L’immagi-
ne usata dal Salmista è quella, tratta dal mondo agricolo, dell’erba che, invece di
crescere nei campi o sui declivi delle colline per essere usata come foraggio per gli
animali, spunta sui tetti delle case, sembra crescere rigogliosa, ma si secca in fretta
ed avvizzisce.
14
Sono “i legami degli empi” di cui parla il v. 4 del Salmo.
121
Così scrive il Salmista:
Con queste parole continua, anche in questa seconda parte, la riflessione sulla
condizione bipolare di Israele, così caratterizzata: da una parte, l’oppressione, quasi
necessaria ed ineludibile, esercitata dalle nazioni nei confronti di Israele; dall’altra, l’as-
sistenza divina che rende vano, oggi come ieri, l’odio totale delle nazioni nei confronti
di Israele e del suo messaggio religioso e morale, fondato sulla fedeltà e sull’attesa.
Il primo polo: l’oppressione/odio da parte delle nazioni, è indicata dalle seguen-
ti parole del Salmo: “tutti coloro che odiano Sion” (v. 5b). Lo sguardo non parte più
dal passato, dal tempo della giovinezza in Egitto e nel deserto, ma si pone, come
indica l’uso del participio, nel presente della generazione che legge e interpreta il
Salmo: “coloro che odiano oggi Sion”. Il riferimento a Sion fa intendere che l’odio è
rivolto alla terra d’Israele, a chi la occupa, a Gerusalemme, al luogo santo, al senso
religioso, al mandato etico affidato al popolo ebraico e, di conseguenza, a Dio stes-
so. Un odio completo, che, forse (ma non bisogna dilatare troppo il testo) è la prima
consapevolezza dell’esserci dell’antisemitismo, come dimensione quasi necessaria
del rapporto delle nazioni con Israele.
Il secondo polo: la mano potente e provvidente di Dio che viene per punire
gli oppressori e per liberare e redimere Israele, è espresso dalle parole “saranno
come l’erba dei tetti” (v. 6). La casa rappresenta Israele; l’erba, che cresce sui tetti,
le nazioni che opprimono Israele e tentano di soggiogarlo fino ad annullarlo. Ma,
nell’economia dell’edificio, l’erba che cresce sui tetti non è distruttiva come il ter-
remoto o come il fuoco. La casa non crolla e non viene resa inabitabile, si mantiene
nel tempo, nonostante l’erba.
Inoltre, quest’erba, venuta da lontano e portata dal vento, occupa uno spazio
non suo e non ha la possibilità di porre radici profonde, di crescere e di durare nel
tempo. È erba che non è erba in senso proprio e, pertanto, è destinata, nel volgere
di poco tempo, a seccarsi e a non dare frutto. Questo perché l’assistenza di Dio,
dal tempo della giovinezza all’oggi, non ha permesso e non permette che la casa
sia soffocata ed abbatta dall’erba e che, di conseguenza, Israele sia annullato. Per
proteggere la casa/Israele, Dio agisce come il sole o il vento d’oriente che brucia
quell’erba cresciuta sul tetto.
Il futuro/iussivo (“siano come l’erba”) ci proietta in una duplice dimensione: l’og-
gi in cui si manifestano la presenza e l’assistenza divina ed il futuro lontano, o forse
vicino, in cui si realizzerà la redenzione definitiva di Israele, dell’uomo e del mondo.
15
Cfr Metsudat Tsion su Salmo 129,6: “כַּ ֲחצִ יר, kachatsìr - come erba”.
122
attecchimento e di crescita, il foraggio per gli animali da pascolo ( ְבּ ֵה ָמה, behemà),
come ci insegna il Salmo 104:
Egli fa crescere il foraggio ( ָחצִ יר, chatsìr) per il bestiame, e piante per il lavoro dell’uomo,
per fare uscire il pane dalla terra (Sal 104,14).
Ma questa erba, secondo il commento di Ibn Ezra al passo del nostro Salmo,
non germoglia nel luogo giusto e, di conseguenza, non può crescere e divenire fo-
raggio per il bestiame:
Saranno come l’erba – dato che germoglia sul tetto, non si tiene (Ibn Ezra su Salmo 129,6).
L’erba che cresce sui tetti ha vita breve per diversi motivi. In primo luogo, man-
ca del terreno necessario per attecchire, crescere e divenire rigogliosa ed, inoltre, è
maggiormente esposta alla calura ed al vento che dissecca; in secondo luogo, spunta
e germoglia in un luogo non idoneo al fine per cui è stata creata. Sui tetti, infatti,
quest’erba non può, in nessun modo, divenire foraggio 18 per gli animali di grossa ta-
glia i quali, comunque, non salgono là per cibarsene. Ne segue che l’erba che cresce
sui tetti non è erba in senso proprio e, in quanto tale, va contro l’ordine delle cose
così come voluto e fissato da Dio nella creazione.
Chi opera contro la giustizia e contro l’altro uomo è, come l’erba che cresce sui
tetti, un parassita, che subito sembra prosperare ed avere successo, ma presto va in
rovina e non ottiene il risultato sperato.
Così rabbi Hirsch commenta Salmo 129,6:
La loro felicità è come l’erba che cresce sui tetti. Sembra alzarsi alta alla brezza leggera del
vento, riceve pioggia e raggi del sole, ma si secca ancora prima che la mano dell’uomo la
strappi. Perché accade così? Semplicemente perché quest’erba lascia il terreno suo proprio e
muore perché, come un parassita, cerca di fiorire sul tetto di una casa straniera e perché Dio
è giusto e fa in modo che il cuore dell’uomo trovi la benedizione della serena gioia della vita
solo lungo la via della misericordia e della giustizia. 19
16
Rut 2,4: “Ed ecco Boaz venne da Bet Lèchem e disse ai mietitori: Il Signore sia con voi.
Ed essi gli risposero: Ti benedica il Signore”.
17
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, p. 485.
18
Cfr 2 Re 19,26 = Is 37,27: “(come) l’erba dei tetti e come le messi bruciate prima della
mietitura”.
19
The Psalms, translation and commentary by Rabbi Samson Raphael Hirsch, rendered into
English by Gertrude Hirschler, Jerusalem/New York, 1997, Book Tree, p. 394.
123
Chi non segue la via della misericordia e della giustizia è come non vivesse una
vita piena, o meglio: la sua vita, come l’erba che cresce sui tetti, manca del sostrato
necessario e del terreno fertile che la sostenti, e, in questa condizione, non dà frutto,
secondo il piano di Dio, ma produce dolore, oppressione e sofferenza. È questa una
vita vuota e, anche se sembra svettare più alta, là sul culmine del tetto, e gioire del
vento del mattino, in realtà è vita che ha abbandonato e tradito il cammino che Dio
le ha assegnato dai giorni della creazione. L’erba che cresce sui tetti, non è come
l’erba che cresce nei pascoli: non cresce nel luogo suo proprio, ma in un luogo de-
stinato ad altro; non rispetta i tempi del suo sviluppo, non porta a compimento la sua
missione, ma si erge, per così dire, contro il Creatore, per darsi come scelta libera o
svolgere,anche in modo casuale, un ruolo altro che non ha futuro e che non apre le
porte della speranza.
Ne deriva che l’uomo che non segue la via della misericordia e della giustizia,
si pone al di fuori del cammino tracciato da Dio e, proprio perché abbandona il per-
corso costruito secondo il principio della somiglianza con Dio, diviene, in virtù del
libero arbitrio, padrone delle proprie scelte, ma resta incapace di costruire una vita
piena e dignitosa, per sé e, soprattutto, per gli altri.
Solo chi accetta di essere erba del campo, con le radici ben infisse nel terreno
fertile, può dare frutto, secondo il principio della somiglianza con Dio, lungo la via
della misericordia e della giustizia, in questo mondo e nel modo a venire. E questo
vale sia per Israele sia per le nazioni: nessuno, in quanto figlio di Adamo, può dirsi
escluso da questo cammino di umanità e di santità riflessa, secondo la misura della
misericordia e la misura della giustizia.
Misericordia e giustizia sono i pilastri su cui edificare, pietra su pietra, il ponte
che viene non a cancellare la distanza fra Israele e le nazioni, ma a rendere possibile
la convivenza sulla base della condizione creaturale che li accomuna. I figli d’Israele
e i figli delle nazioni, in quanto creature dell’unico Dio, sono chiamati ad incontrarsi
lungo le vie delle misericordia e della giustizia, per realizzare la somiglianza con
Dio, che non è iscritta nel volto dell’uomo come un marchio indelebile, ma che si
manifesta solo nelle scelte e nelle opere che ogni uomo decide di compiere al co-
spetto dell’altro uomo.
Forse è giunto il tempo di rendere nuovamente stabili quei pilastri che possono
permettere, se non a noi almeno ad altri dopo di noi, di costruire il ponte del dialogo
e della reciproca accoglienza, perché, nei piani di Dio, nessuna sofferenza, nessuna
oppressione, nessuna discriminazione, nessuna lontananza è necessaria.
124
Decima lezione
Da quali profondità?
Commento al Salmo 130
Salmo 130
126
1. Nel segno dell’umiltà
Il Salmo 130, il “De profundis” della tradizione cristiana, 1 inizia con queste
parole:
“1. Cantico dei gradini.
Dalle profondità 2 ti ho invocato, Signore”.
È una profondità collettiva, in cui è caduto il popolo, che dal baratro del peccato
e della condizione dell’esilio chiede al Signore perdono e riscatto.
Scrive Dante Lattes:
Non è il canto di una persona singola, ma è l’inno di un popolo che, caduto in basso, preci-
pitato nel più profondo abisso degli errori e delle pene, si rivolge alla divina misericordia per
invocarne il perdono e la salute. 3
1
Nella numerazione della LXX e della Vulgata il Salmo è il 129.
2
Cfr Metsudat David su Salmo 130,1: “Dalle profondità - da in mezzo la profondità delle
sventure ho gridato a te, Signore”.
3
Dante LATTES, Il Libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma, 1963,
p. 486.
4
Giorgio CASTELLINO, Il Libro dei Salmi, Marietti, Torino, 1965, p. 237.
127
Il testo, sia come canto collettivo sia come lamento individuale, si apre a diverse
ed infinite possibilità di lettura, i settanta sensi della Scrittura di cui parla la tradi-
zione ebraica.
Seguiamo, lungo il cammino dell’interpretazione, alcune di queste aperture di
senso.
5
Cfr Ernst Friedrich Karl ROSENMÜLLER, Scholia in Vetus Testamentum Volumen III. Scho-
lia in Psalmis, Lipsia, 1831, p. 645: “mersus in malis, quae saepe in Psalmis aquarum voragini
comparantur”.
6
Isaia 51,10 (= le profondità del mare); Salmo 69, 3.15 e Ezechiele 27,34 (= le profondità
delle acque).
7
Radaq applica all’esilio anche Salmo 69,3.15.
8
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi, vol. III, EDB, Bologna, 1984, p. 640-641.
128
Comunque si voglia interpretare il passo, occorre tenere presente che le pro-
fondità di cui parla il Salmista, sono, nell’economia del versetto e nella struttura
del Salmo, profondità in senso assoluto senza alcun riferimento diretto alle acque
o al mare ed alla forza, reale e metaforica, che queste immagini trascinano con sé.
È, quindi, necessario scandagliare altre rotte interpretative per cogliere le diverse
dimensioni di queste profondità.
Una prima rotta ci mostra che il testo, così come interpretato dai Maestri, si
apre ad un’altra dimensione, che lo proietta nell’orizzonte della halakà secondo una
modalità lettura che l’esegesi scientifica o le riletture storico-letterarie successive
non sono in grado di cogliere o di individuare.
Così insegna il Talmud:
E ha detto rabbi Josè in nome di rabbi Chanina secondo quanto ha detto rabbi Eli’ezer ben
Ja’aqov: Non stia un uomo in luogo elevato e preghi, ma in un luogo basso e preghi, come è
detto: Da luoghi profondi ti ho invocato, Signore. È stato insegnato anche così: Non stia un
uomo su una sedia, né su di uno sgabello, né in un luogo elevato e preghi, ma stia in un luogo
basso e preghi, perché non c’è altezza (= superbia) al cospetto del Luogo (= Dio), come è det-
to: Da luoghi profondi ti ho invocato, Signore, e ancora è scritto: Preghiera dell’umile mentre
è abbattuto ed effonde il suo lamento al cospetto del Signore (Sal 102,1) (bBerakòt 10b).
9
La tevà è il tavolo o il pulpito presso il quale l’oficiante recita la preghiera.
129
Ha detto rabbi Pinchas: Così ha detto David al cospetto del Santo benedetto egli sia: Signore
del mondo, quando io sto in preghiera al tuo cospetto, la mia preghiera non sia rigettata al tuo
cospetto, perché gli occhi d’Israele sono fissi a me e i miei occhi sono fissi a te, così se tu dai
ascolto alla mia preghiera, è come se tu dessi ascolto anche alla loro preghiera. Allo stesso
modo si può trovare che durante il digiuno, quando tutta la comunità digiuna, solo colui che
è incaricato di condurre il servizio scende (per leggere la preghiera) davanti alla Tevà, per il
fatto che gli occhi dei membri della comunità sono rivolti a lui ed i suoi occhi sono rivolti
al Santo benedetto egli sia, in modo che Egli oda anche la loro preghiera. Perciò David ha
detto: Nessuno di quelli che sperano in te sia confuso, siano confusi quelli che si comportano
slealmente in relazione alla loro vacuità 10 (Sal 25,3), questi di cui si parla sono quegli uomini
che fanno digiuno senza fare teshuvà (Midrash Tehillìm 25,5).
10
Il Midrash interpreta ֵר ָיקם, reqàm, “invano”, del passo del Salmo, non come forma av-
verbiale ma come sostantivo con suffisso pronominale e pone il tutto in relazione con lo stato di
digiuno. Cfr Is 29,8: “Avverrà come quando un affamato sogna di mangiare, ma si sveglia e la sua
anima è vuota ( ֵר ָיקה, reqà), come quando un assetato sogna di bere, ma si sveglia stanco e con la
gola riarsa, così avverrà alla folla di tutte le nazioni che marciano contro il monte Sion.”
11
Cfr Salmo 92,6: “Quanto sono grandi le tue opere, Signore, troppo profondi sono i tuoi
pensieri.”
12
Cfr Sir 3,21: “Non cercare le cose troppo dificili per te, non indagare le cose per te
troppo grandi”.
130
resterebbe danneggiata la mia mente. Riguardo a ciò è detto: È gloria di Dio nascondere una
cosa/parola (Pr 25,2), e ancora è detto: Se hai trovato il miele, mangiane quanto basta (Pr
25,16) (Radaq su Salmo 131,1).
L’uomo è creato nel segno della finitudine e della limitatezza: la durata della sua
vita copre un determinato arco di tempo; le sue forze e le sue capacità fisiche sono
limitate così come le sue facoltà percettive ed intellettive. Guidati dal senso del limite
devono essere anche la sua mente, il suo spirito e la sua brama di conoscenza, per
evitare che l’uomo insuperbisca, dia l’assalto ai Cieli e cerchi di raggiungere ciò che
è consentito solo a Dio. La condizione dell’uomo deve essere, sempre e comunque,
quella dell’umiltà, perché è chiamato a riconoscere i confini e i limiti propri della
condizione umana e l’ineffabile Alterità di Dio, per evitare che il mondo crolli sotto i
colpi della conoscenza che diviene superbia e tracotanza.
Come Dio, secondo la tradizione qabbalistica, all’atto della creazione ha dovuto
contrarsi per lasciare posto al mondo creato, così l’uomo deve abbassarsi, farsi umile
e contenere l’indomabile hybris che lo anima, per fare posto a Dio che lo chiama
al cammino di santità, secondo la via della Torà data dal monte Sinài. Sembra un
cammino facile da percorrere, ma fare posto a Dio è quanto di più difficile l’uomo
sia chiamato a compiere, nell’oggi di ogni generazione e soprattutto nella temperie
del tempo presente.
2. Perdono e redenzione
Il versetto, nella tradizione cristiana, è stato inteso diversamente (e, direi, frain-
teso) a partire dalla traduzione latina della Vulgata, che riprende il testo della LXX
conservato in alcuni manoscritti:
131
La Vulgata sembra avere letto, assieme ad alcuni manoscritti della LXX 13:
ָתּוֹר ֶת
ָ , toratèka, “la tua legge”, al posto di ִתּוָּ ֵרא, tiwwaré, “tu sei temuto”, del te-
sto masoretico e, inoltre, ha unito sintatticamente la parola con il versetto seguente.
Così precisa Ravasi nel suo commento:
I LXX-Vg hanno letto le consonanti twr’ come twrh-torah, “legge”, e hanno connesso la
parola al versetto seguente: “e a causa della tua legge ti ho aspettato” (“et propter legem tuam
sustinui te, Domine”, Vg). Secondo questa interpretazione la parola di Dio ufficiale, la torah,
è la ragione per la quale il fedele attende la parola personale del perdono (v. 5). 14
Rashi fa riferimento ad una linea di pensiero della tradizione ebraica che attri-
buisce solo a Dio e a nessun altro la facoltà di perdonare e di redimere. Tale pre-
rogativa specifica di Dio è testimoniata anche nel seguente passo del Midrash che
commenta Esodo 23,21:
Altra interpretazione. Perché egli (= l’angelo) non perdonerà le vostre trasgressioni (Es
23,21). Per il fatto che (l’angelo) è un inviato e l’inviato compie soltanto ciò che gli è stato
comandato di compiere; sono invece Io a volgere su di voi il mio volto, come è detto: Il
Signore rivolge su di te il suo voto (Nm 6, 24). Gli disse David: Signore del mondo, tu mi
vorresti consegnare al tuo angelo che non può volgere il suo volto su di me, davanti a lui chi
potrebbe mai resistere (come è detto): se tu conservi le colpe, Signore, chi resisterà? Ma se tu
provi a dire che il perdono non è presso di Te, io affermo che è presso di Te, secondo quanto è
detto: perché presso di te è il perdono affinché tu sia temuto (Midrash Tanchuma, ed. Buber,
Mishpatìm, 11).
13
La medesima lezione si trova probabilmente anche in Simmaco e Teodozione, cfr. Frede-
rick FIELD, Origenis Hexaplorum quae supersunt, Tomus II, Oxford, 1875, p. 286 n.3. Il Codex
Sinaiticus e il Codex Alexandrinus, invece, leggono: “a causa del tuo nome (ti ho atteso, Signo-
re)”, che è una variante che non deriva dal testo ebraico ma dallo stesso testo greco.
14
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi, vol. III, EDB, Bologna, 1984, p. 643.
15
Cfr Rashi su Esodo 23,21: “Perché egli (= l’angelo) non perdonerà le vostre trasgres-
sioni - Egli non è abituato a ciò, perché appartiene alla categoria di coloro che non commettono
peccati. Ed inoltre egli è un inviato e compie solamente la sua missione.” La sua missione è quella
di proteggere e non di perdonare.
16
Così commenta Radaq: “Il mio signor padre, la sua memoria sia in benedizione, ha spie-
gato così il versetto: Dio, benedetto egli sia, ha concesso alle creature celesti di compiere il suo
volere sulla terra riservando però a sé il perdono. Per quale motivo? Perché gli uomini non dicano
in cuor loro: Se noi pecchiamo, gli angeli si riconcilieranno con noi e rimetteranno i nostri delitti.
Il testo vuole insegnare che il perdono non è presso di loro, in quanto gli uomini sono chiamati a
temere Dio, presso il quale soltanto è il perdono” (Radaq su Salmo 130,4).
132
È Dio e non un suo angelo o un suo inviato a perdonare e, quindi, ad accogliere
di nuovo Israele e a redimerlo; tutto è nelle mani di Dio, solo nelle sue mani tese a
risollevare Israele e l’umanità. Di conseguenza, ogni nostra speranza deve essere ri-
posta solo in Lui e in nessun altro. E questa è, nella scia della tradizione ebraica, una
delle possibili letture del Salmo, che non necessariamente deve essere intesa come
espressione di una specifica polemica anticristiana, con riferimento a quei passi del
Nuovo Testamento in cui Gesù si presenta come colui che può rimettere i peccati. 17
Altra interpretazione.
Ibn Ezra nel suo commento ci offre un’altra chiave di lettura:
Perché presso di te è il perdono – il significato del passo è il seguente: quando tu perdonerai
la mia iniquità, i peccatori udiranno e anche essi faranno teshuvà e deporranno il loro pecca-
to. Ma se non perdonerai, non ti temeranno e faranno ciò che desiderano secondo la brama
della loro anima (Ibn Ezra su Salmo 130,4).
Il perdono di Dio, frutto e pegno della sua misericordia infinita, nei confronti
di David, che è peccatore, è la chiave per dimostrare la benevolenza divina verso
l’umanità e per aprire la via della conversione e del ritorno a Dio degli uomini, anche
loro peccatori.
Altra interpretazione.
C’è ancora un’altra possibilità di interpretare il testo:
Perché con te è il perdono. Ha detto rabbi Abba: Il perdono è presso di Te da Rosh ha-shanà
a Jom Kippur. E perché? Perché tu sia temuto, in modo che a Jom Kippur il timore nei tuoi
confronti sia su tutte le tue creature (Midrash Tehillìm Salmo 130, 2).
C’è un periodo specifico dell’anno, da Rosh ha-shanà a Jom Kippur, dal primo
al dieci del mese di Tishrì, nei dieci giorni che la tradizione ebraica chiama jamìm
nora’ìm, “giorni terribili”, in cui il perdono è con Dio e in cui l’uomo è chiamato a
porsi al cospetto dell’Altissimo, con timore e tremore, per raggiungere ed ottenere,
grazie ad un percorso di vera teshuvà, il perdono dei peccati, quelli contro Dio e, se
si realizzano le condizioni, anche quelli commessi a danno delle altre creature.
Ecco, allora, che il testo del Salmo si carica di un altro significato.
Da quali profondità, ִמ ַמּעֲ ַמ ִקּים, mimma‘amaqqim?
Dalle profondità del peccato, dalle quali l’uomo può emergere da Rosh ha-
shanà a Jom Kippur, qualora faccia teshuvà, ritorni fino a Dio e provi a cancellare gli
effetti negativi che la sua trasgressione ha prodotto sugli altri uomini e sul mondo.
Ma Dio, secondo l’insegnamento del Salmista, non è solo colui che perdona i
peccati, è anche colui che libera e redime Israele e l’umanità. I versetti 7 e 8 espri-
mono questa seconda modalità dell’agire di Dio nei confronti dell’uomo:
17
Cfr Mc 2, 1-12; Mt 9, 1-8; Lc 5, 17-26; At 5, 31.
133
e grande presso di Lui è il riscatto ( ְפּדוּת, pedùt).
8
Egli riscatterà Israele da tutte le sue colpe”.
La parola utilizzata in ebraico, ְפּדוּת, pedùt, deriva dalla radice פדי, p.d.j, che ha
il significato primario di “pagare il prezzo del riscatto”. Utilizziamo due passi della
Scrittura per coglierne il valore.
Nel primo passo il Salmista 18 afferma:
8
Neppure un fratello può liberare l’altro o dare a Dio il suo prezzo. 9Il riscatto della loro ani-
ma è troppo caro, e non esiste in tutto il mondo 10per fare sì che uno possa vivere senza fine,
e non vedere la fossa (Salmo 49, 8-10).
L’uomo, mortale e limitato nella sua natura, non può pagare il prezzo del pro-
prio riscatto o del riscatto di un altro uomo; chi, infatti, punta tutto su se stesso e
sulla propria forza, fisica ed economica, non può fare altro che fallire e sprofondare
nella fossa così come è la sorte di ogni uomo e di ogni creatura. Solo Dio può riscat-
tare la condizione umana, come ci insegna il profeta Isaia nel seguente passo:
1
Dice il Signore: Dov’è il documento di ripudio di vostra madre con cui l’ho scacciata? Op-
pure a quale dei miei creditori io vi ho venduti? Ecco, per le vostre iniquità siete stati venduti,
per le vostre colpe è stata scacciata vostra madre. 2Per quale motivo non c’è nessuno, ora che
sono venuto? Perché, ora che chiamo, nessuno risponde? È forse la mia mano troppo corta
per riscattare oppure io non ho la forza per liberare? (Isaia 50, 1-2).
Solo Dio può riscattare, liberare, redimere, ma a caro prezzo. L’uomo, come
spesso avviene, non fa teshuvà, non risponde a Dio che lo chiama al pentimento, non
torna a Lui. Ancora una volta è Dio che deve scendere dal Cielo e prendere per mano
l’umanità, così come prese per mano Israele e lo trasse fuori dal paese d’Egitto; ma,
per riscattare l’umanità, Dio deve pagare quel prezzo che l’uomo non è stato e non
è in grado di pagare. Tale prezzo è alto: è il dolore di cui anche Dio, se è possibile
dirlo, deve farsi partecipe. Nella tradizione ebraica è l’esilio della Shekinà, la Pre-
senza divina, che cammina e soffre con Israele in tutti i suoi esili fino a sprofondare
nell’abisso della Shoà. Nella tradizione cristiana è l’abbassamento dell’Incarnazio-
ne, ovvero il prezzo del riscatto che Dio paga col sangue del suo Figlio primogenito.
L’umanità non è ancora redenta. Siamo a metà del guado e spetta a noi, qui ed
ora, decidere se affondare nelle acque profonde e melmose senza Dio o volgere lo
sguardo all’altra riva dalla quale Dio ci porge la mano per riscattarci e per trarci alla
libertà.
La Bibbia ebraica ci offre un’occasione di riflessione sul senso profondo del non
ancora in una notazione masoretica, a prima vista curiosa, posta a margine del testo
del versetto 2 del Salmo: תוּביםִ ְ ֲחצִ י ַהכּ, chatsì ha-ketuvìm, “metà degli Scritti”.
Per Scritti/ketuvìm la tradizione rabbinica intende, in primo luogo, il gruppo dei
18
Il titolo attribuisce il Salmo a igli di Qòrach.
134
tre libri poetici, Salmi,Giobbe e Proverbi, caratterizzati da un sistema proprio di ac-
centazione, e chiamati ִס ְפ ֵרי ֱא ֶמת, sifré ’emèt, “i libri della Verità”. La parola ֱא ֶמת,
’emèt, “verità”, è voce mnemonica che per acronimo richiama i tre libri poetici: la
prima lettera, la alef ()א, sta per Giobbe/’ijjòv ( ;) ִאיּוֹבla seconda lettera, la mem
()מ, richiama i Proverbi/Mishlé ( ;) ִמ ְשׁלֵ יla terza lettera, la taw ()ת, indica i Salmi/
Tehillìm () ְתּ ִהלִּ ים.
Nel testo biblico, che è Parola di Dio, nulla è lasciato al caso. La metà esatta dei
versetti dei “libri poetici” è posta nel seguente passo del Libro dei Salmi:
L’urlo non è un grido scagliato contro il cielo, come se Dio non potesse o non
volesse udire ed ascoltare, è il gemito di liberazione di chi si affida al Cielo e da Dio
attende di essere strappato da quelle profondità in cui nessuna salvezza è possibile.
L’uomo, sia nell’abisso del dolore, dell’abbandono o del peccato, sia nella nor-
malità della vita quotidiana, si trova, sempre e comunque, distante da Dio e deve ur-
lare la sua disperazione e la sua richiesta. Le profondità, allora, divengono metafora
di questo stato delle cose, in basso, e della distanza, insieme finita ed infinita, che
separa la terra dal Cielo. È Dio, in alto, a dovere tendere l’orecchio verso l’uomo per
udire, nonostante le urla disperate, quel debole brusio indistinto che sale e che Dio,
solo se vuole, può ascoltare. Se ascolta e non interviene, è perché non è nelle sue
possibilità, nel tempo presente, mutare le cose nel mondo creato; ovvero interviene e
le muta secondo modalità e vie che l’uomo non è in grado di percepire, di intendere
e di comprendere.
C’è, allora, in questo punto centrale dei tre libri poetici, la consapevolezza, in
basso, della necessità di un dialogo ascendente ed asimmetrico, comunque in ab-
sentia, che tenga aperte le porte dei Cieli, in modo che possa affacciarsi sul mondo
la luce della redenzione definitiva, quando Dio dirà, nuovamente, sullo schema del
primo esodo:
19
Cfr Metsudat Tsion su Salmo 130,2: “Attente - ha il signiicato di pronte ad ascoltare”.
È interessante notare che la formula compare in 2 Cr 6,40 al termine delle preghiera di Salomone
per la dedicazione del Santuario: “Ora, mio Dio, i tuoi occhi siano aperti e le tue orecchie attente
alla preghiera innalzata in questo luogo”.
20
Molti sono i punti che richiamano il Salmo 86: “5Poiché, Signore, tu sei buono
pronto a perdonare e usi grande benignità verso tutti coloro che gridano a te. 6Tendi l’orec-
chio, Signore, alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche. 7Nel giorno
della mia avversità io ti invoco, perché tu mi rispondi” (Salmo 86,5-7).
135
Ho avuto modo di vedere la miseria del mio popolo che è in Egitto e ho udito il loro grido a
causa dei suoi oppressori; conosco, infatti, le sue sofferenze (Esodo 3,7).
Dio deve vedere la miseria dell’umanità (e questo spetta solo a Lui, in alto) e
deve udire il grido di dolore che sale al Cielo dalla bocca dell’uomo. Quando nuova-
mente Dio vedrà ed udirà insieme, solo allora tornerà a liberare e a riscattare le sue
creature, come un tempo ha liberato e riscattato il popolo d’Israele dall’oppressione
e dalla schiavitù in terra d’Egitto.
E sarà, allora, l’esodo definitivo.
136
Undicesima lezione
L’ottava porta
ovvero: il cammino dell’umiltà
Commento al Salmo 131
Salmo 131
138
1. David esempio di umiltà
1
Cfr 2 Sam 19, 23-41.
2
Cfr jSanhedrìn II, 4 (9a).
3
Il passo di Rashi, nell’edizione delle Bibbie rabbiniche, è accompagnato dalla sigla סא˝א,
sefarìm ’acherìm ’enò, “non si trova in altre edizioni”. La sigla indica che il passo presente
nell’edizione a stampa bomberghiana non si trova nei manoscritti di riferimento. Molti studiosi
ritengono che questi passi siano opera della scuola di Rashi. Il passo citato non si accorda col resto
del commento del Salmo.
139
sto, infatti, invece di leggere כְּ גָ ֻמל, kegamùl, “come un bambino, un infante”, legge,
operando una semplice metatesi delle consonanti, כְּ גֹלֶ ם, kegòlem, “come una massa
informe, una larva”. L’uomo è, al cospetto a Dio, come un bambino alla nascita, nudo
ed incapace di camminare, di parlare, di agire e di pensare; è come una massa informe
che può essere plasmata solo da Dio per vivere in Lui e per Lui. A nulla valgono la su-
perbia, la tracotanza e la fiducia nelle proprie forze, nelle proprie capacità, nelle opere
compiute o nelle imprese portate a termine. Solo la fiducia in Dio può dargli la forza
per progettare la sua vita, solo la Torà può guidarlo e portarlo a riconoscere di essere
solamente un uomo e, come tale, inane e inerme, al cospetto del Signore del mondo.
Il commento di Rashi contiene anche un richiamo, evidente all’interno della
tradizione rabbinica, agli stadi formativi del primo uomo, ‘Adàm ha-rishòn, all’atto
della sua creazione da parte di Dio. Racconta il Talmud:
Ha detto rabbi Jochanan bar Chanina: Il giorno ho dodici ore. Nella prima ora fu raccolta la
polvere per formare l’uomo. Nella seconda venne fatta una massa informe (גּוֹלֶ ם, gòlem). Nel-
la terza ora furono formati i suoi arti. Nella quarta ora gli venne infusa un’anima. Nella quinta
ora stette ritto sui suoi piedi. Nella sesta ora diede i nomi agli animali. Nella settima ora Eva
divenne la sua compagna. Nell’ottava ora salirono sul letto in due e scesero in quattro. 4 Nella
nona ora gli venne ordinato di non mangiare dall’albero. Nella decima ora peccò. Nell’undi-
cesima ora fu giudicato. Nella dodicesima ora fu cacciato e se ne andò, come è detto: L’uomo
nell’onore non dormirà (Sal 49,13) (bSanhedrìn 38b).
Si può, quindi, affermare che Rashi, con questo richiamo implicito alla creazio-
ne di Adamo, intende porre in primo piano l’atteggiamento di umile sottomissione
di David a Dio: egli è disponibile, come scelta volontaria, a farsi plasmare, come
‘Adàm ha-rishòn, prototipo di ogni uomo, dalla parola di Dio e dalla sua volontà. È
interessante notare che, mentre il Salmo insiste sul legame del lattante con la madre,
Rashi, in questa prima parte del suo commento, propone un diverso orientamento del
paragone giocato sul rapporto che lega Dio creatore all’uomo creato; in tal modo, in-
siste non sul volto materno e femminile di Dio ma sul suo volto paterno e maschile. 5
Il cammino dell’umiltà si estende anche al versetto 2 e il Midrash fa emergere
altri due aspetti dell’umiltà dimostrata da David, vale a dire: il suo farsi umile davan-
ti agli uomini e davanti a Dio nell’episodio del trasporto dell’arca a Gerusalemme e
la sua disponibilità ad apprendere la Torà da chiunque.
Ho invece acquietato e fatto tacere la mia anima come un lattante verso sua madre – come
un bambino appena nato non si vergogna di rimanere scoperto davanti a sua madre, così ho
posto la mia anima di fronte a te, perché non mi sono vergognato di umiliarmi al tuo cospetto
per la tua gloria.
Come un lattante è su di me la mia anima – come un bambino che è uscito dalle viscere di
sua madre e non ha spirito di superbia, ma è disposto a succhiare il latte dai seni di sua ma-
4
Si fa riferimento ad una interpretazione aggadica che ritiene che Caino e la sorella gemel-
la furono generati prima della cacciata dal Gan ‘Eden, mentre Abele e la sorella gemella sarebbero
stati generati dopo la cacciata.
5
Nella seconda parte del commento Rashi, invece, insiste in modo specifico sul rapporto
che lega la madre al lattante. Egli, infatti, interpreta la voce גָּ מוּל, gamùl nel senso di “lattante
che sugge il latte dal seno della madre” e non nel significato di “lattante svezzato”, come invece
intende Radaq.
140
dre, così è la mia anima in me perché non mi vergogno di imparare la Torà perfino dai più
piccoli di Israele. Ha detto rabbi Ada in nome di rabbi Chanina: Gli disse il Santo benedetto
egli sia: Tu ti sei paragonato ad un lattante, per la tua vita, come questo lattante non ha colpe
così anche tu non hai colpe, come è detto: Certo il Signore ha perdonato il tuo peccato, non
morirai (2 Sam 12, 13). Da questo si può apprendere che l’uomo non deve porsi con superbia
al cospetto del Luogo (= Dio), ma è necessario che l’uomo si faccia umile per la gloria del
Luogo (= Dio) (Bemidbar rabbà 4,20).
a motivo dell’arca di Dio. Allora andò David e fece salire l’arca di Dio dalla casa di Oved-
Edom alla città di David, con gioia. 13Quando quelli che trasportavano l’arca ebbero fatto sei
passi, egli immolò un bue e un ariete. 14David danzava con tutte le forze davanti al Signore
e era cinto di un ’efòd di lino. 15Così David e tutta la casa di Israele fecero salire l’arca del
Signore con tripudi e suono di shofàr. 16Mentre l’arca del Signore entrava nella città di David,
Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra e vide il re David che saltava e danzava dinanzi
al Signore e lo disprezzò in cuor suo. 17Introdussero l’arca del Signore e la collocarono al
suo posto nel mezzo della tenda che David aveva piantato per essa; David offrì olocausti e
sacrifici di comunione davanti al Signore. 18Quando David ebbe terminato di offrire gli olo-
causti e i sacrifici di comunione, benedisse il popolo nel nome del Signore degli eserciti. 19E
distribuì a tutto il popolo di Israele, uomini e donne, una focaccia per ognuno, una porzione
di carne e una schiacciata di uva passa. Poi tutto il popolo se ne andò, ciascuno a casa sua. 20
Tornò David per benedire la sua casa e Mikal, figlia di Saul, uscì incontro a David e gli disse:
Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele, che si è mostrato nudo davanti agli occhi delle serve
dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla. 21Rispose David a Mikal: L’ho fatto
dinanzi al Signore che mi ha scelto al posto di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi
capo su tutto il popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. 22Anzi mi ab-
basserò anche più di così e mi renderò vile ai miei occhi, ma presso quelle serve di cui parli,
proprio presso di loro io sarò onorato! 23Mikal, figlia di Saul, non ebbe figli fino alla fine dei
suoi giorni (2 Samuele 6,12-23).
Il re David, grazie al suo atteggiamento di umiltà, reso sempre più forte e più
stabile dal costante studio della Torà, diviene l’esempio che ogni uomo, in Israele e
nel mondo, è chiamato a seguire, sia nel segreto del suo cuore sia in pubblico:
Così ha spiegato e ha detto il Maestro: Signore, non si è innalzato il mio cuore non si sono
elevati i miei occhi. Il re David disse ciò perché era un re eccelso e potente, più di tutti i re
eccelsi e potenti che vi erano dall’oriente all’occidente, ma non gli venne in animo di deviare
dalla via; anzi umiliava costantemente il suo cuore davanti al suo Signore. Quando faticava
nella Torà diveniva forte come un leone e i suoi occhi erano costantemente abbassati a terra
per il timore del suo Signore. Quando camminava in mezzo al suo popolo non c’era in lui
superbia. 6 Per questo scrisse: Signore, non si è innalzato il mio cuore, non si è innalzato il
mio cuore anche se sono un re più potente degli altri re del mondo. E non si sono elevati i
6
Cfr il commento di Ibn Ezra: “Non si è innalzato il mio cuore – nel segreto; e non si sono
elevati i miei occhi – in pubblico” (Ibn Ezra su Salmo 131,1).
141
miei occhi, quando stavo davanti a te faticando nello studio della Torà. E non ho camminato
in cose troppo grandi e mirabili per me, quando camminavo tra il popolo. E se il David ha
detto questo, quanto più devono dirlo gli altri figli di questo mondo! (Zohar II, 101b).
2. La via dell’umiltà
L’umiltà (עֲ נָ וָ ה, ‘anawà) che, secondo l’interpretazione di rabbi Jehoshua ben
Levi, è la più grande delle virtù, nasce, secondo le parole di rabbi Pinchas, dall’atteg-
giamento pio ( ָח ִסידוּת, chasidùt) e conduce al timore del peccato. Il fatto che umiltà
e timore del peccato siano virtù strettamente connesse è chiarito da un passo della
letteratura rabbinica particolarmente importante:
Dalla morte di Rabbi sono cessati l’umiltà e il timore del peccato (mSotà 9,15). 7
7
In un altro passo del Talmud, bKetubbòt 103a, si dice, che alla morte di Rabbi è la santità
a cessare dal mondo.
142
in cui progressivamente si vanno spegnendo la forza delle virtù e la luce della Torà.
La caduta di qualità del mondo in dipendenza dalla morte dei maestri non è un fatto
isolato, si pone, secondo la Mishnà e il Talmud, in una prospettiva di degrado che,
iniziata con la distruzione del secondo Santuario, giungerà alla fase finale nel tempo
che precederà la venuta del Messia.
Vediamo nella sua forma completa il passo della Mishnà citato sopra:
Dalla morte di Rabbi Meir sono cessati i compositori di parabole. Dalla morte di Ben Azzaj
sono cessati gli studenti diligenti. Dalla morte di Ben Zoma sono cessati gli esegeti. Dalla
morte di rabbi Jehoshua se ne è andata la bontà dal mondo. Dalla morte di rabban Shimon ben
Gamaliel sono venute le locuste e si sono moltiplicate le sventure. Dalla morte di rabbi Elazar
ben Azarià la ricchezza se né andata via dai saggi. Dalla morte di rabbi Aqivà è cessata la
gloria della Torà. Dalla morte di rabbi Chanina ben Dosa sono cessati gli operai volenterosi.
Dalla morte di rabbi Josè Qatnuta se ne sono andati gli uomini pii. E perché è chiamato Qat-
nuta? Per il fatto che egli è stato l’ultimo dei pii. Dalla morte di rabban Jochanan ben Zakkaj
è cessato lo splendore della sapienza. Dalla morte di rabban Gamliel il Vecchio è cessata la
gloria della Torà e sono morte la purezza e la separatezza. Dalla morte di rabbi Jishmael ben
Pavi è cessato lo splendore del sacerdozio. Dalla morte di Rabbi sono cessati l’umiltà e il
timore del peccato (mSotà 9, 15).
L’ultimo dei maestri citati è Rabbi; alla sua morte, cessano nel mondo l’umiltà e
il timore del peccato, le due virtù capaci di tenere l’uomo al suo posto nel cammino
che Dio ha tracciato.
È interessante notare che il trattato Sotà della Mishnà si chiude, qualche riga
dopo, proprio al termine del capitolo IX, con la citazione del detto di rabbi Pinchas
ben Jair, che è stato riportato sopra in una stesura lievemente divergente testimoniata
da altra fonte (bAvodà zarà 20b). Rabbi Pinchas sembra dire che di fronte al ritmo
discendente impresso alla storia nel periodo che va dalla distruzione del secondo
Santuario alla venuta del Re Messia, la posizione dell’uomo, in ogni generazione,
non può essere rinunciataria o quietista. All’uomo, partendo dalla Torà, è dato di
seguire un cammino che lo porta a risollevarsi progressivamente dal baratro in cui
sembra precipitare e ad innalzarsi verso il Cielo per tenere viva la possibilità della
venuta del Re Messia e del mondo a venire.
Rispetto al testo sopra citato, mSotà 9,15 porta, oltre al diverso ordine delle
virtù, una variante decisiva:
Rabbi Pinchas ben Jair era solito dire: La dedizione conduce all’innocenza, l’innocenza condu-
ce alla purezza, la purezza conduce alla separatezza, la separatezza conduce alla santità, la san-
tità conduce all’umiltà, l’umiltà conduce al timore del peccato, il timore del peccato conduce
alla pietà, la pietà conduce allo Spirito santo, lo Spirito santo conduce alla risurrezione dei morti
e la risurrezione dei morti viene per mano di Elia, sia ricordato in bene, amèn (mSotà 9,15).
Questa versione del detto di rabbi Pinchas ben Jair introduce il riferimento ad
Elia per meglio definire il contesto temporale entro il quale l’uomo è chiamato a
compiere le proprie scelte per non essere escluso dalla risurrezione dei morti e dal
mondo a venire. L’uomo che intraprende il cammino, possibile e necessario, incentra-
to sull’ascesi delle virtù, si proietta dall’oggi della vita vissuta, qui ed ora, al domani
del Messia, prefigurato da Elia, per abbreviare, se è possibile, il tempo dell’attesa.
L’uomo, inoltre, non è abbandonato a se stesso: gli è dato un punto di appoggio
in alto e uno in basso, il Padre nei cieli e la Torà sulla terra. L’appoggiarsi al Padre
nei cieli dà continuità e fiducia, la Torà pone l’uomo, in ogni generazione, davanti
143
alla necessità morale di scegliere se seguire o non seguire la via di santità tracciata
da Dio. Ne deriva che il mondo non è abbandonato a se stesso e che l’uomo non è ,
in nessuna condizione, privato della possibilità di agire secondo un impegno morale
preciso. All’uomo è affidato il compito di proseguire lungo il cammino tracciato e di
confermare, passo dopo passo, la propria fedeltà a Dio, fonte di giustizia e di amore
nello stesso tempo. Ed è per questo che, come ad ogni uomo in ogni generazione
è affidato il compito di compiere la Torà, così ogni uomo in ogni generazione non
può considerare altro da sé il cammino della virtù, lungo la via dei precetti ed oltre i
precetti. I Padri e i Maestri, i primi con i loro meriti e i secondi con la loro dedizione
a Dio e alla Torà, non hanno cancellato la nostra chiamata all’impegno quotidiano
nella conquista della corona del mondo a venire. È illuminante il commento del Tal-
mud al passo della Mishnà relativo alla morte di Rabbi:
Dalla morte di Rabbi sono cessati l’umiltà e il timore del peccato – Disse rabbi Josè al Tan-
naita: Non devi riportare nella lettura del testo la parola umiltà, perché ci sono io. Disse rav
Nachman al Tannaita: Non devi riportare nella lettura del testo le parole timore del peccato,
perché ci sono io (bSotà 49b).
Queste vibranti parole chiudono il trattato Sotà del Talmud babilonese ed assu-
mono, pertanto, una rilevanza particolarmente forte. Rabbi Josè e rav Nachman non
considerano chiuso il cammino sulla via dell’umiltà e del timore del peccato: l’uno
riapre la porta dell’umiltà, l’altro quella del timore del peccato. Entrambi ci conse-
gnano il testimone e ci chiamano all’impegno, perché, nell’oggi di ogni generazione,
si compie e si realizza solo quello che i singoli uomini sono disposti a compiere, nel
bene o nel male, lungo la via dell’umiltà o lungo la via della tracotanza, lungo la via
della fedeltà e del timore del peccato o lungo la via della trasgressione.
In altre parole, ognuno è chiamato ad essere se stesso, con i propri limiti e con
le proprie potenzialità, e a spendere ogni energia per camminare lungo la via della
santità. Così, infatti, ci insegna un detto chassidico:
Prima della sua fine Rabbi Sussja disse: Nel mondo a venire non mi si chiederà: “Perché non
sei stato Mosè?”. Mi si chiederà: “Perché non sei stato Sussja?”. 8
8
Martin BUBER, I racconti dei assidim, traduzione di Gabriella Bemporad, Ugo Guanda
Editore, Parma, 1992, p. 230.
144
Secondo l’insegnamento del Talmud è l’uomo in tutti i suoi aspetti ad essere
coinvolto nel percorso dell’umiltà: l’atteggiamento esterno deve corrispondere alla
propensione interiore all’umiltà; la vita privata e la vita sociale sono specchio di
questo ideale di medianità e abbassamento; così anche lo studio della Torà non deve
mai divenire un vanto ma deve essere il segno della disponibilità a seguire le vie
della tradizione, ad accogliere gli insegnamenti dei Maestri e a non fare della Torà
un motivo di merito.
La riflessione ebraica sul tema dell’umiltà si arricchisce nel corso del tempo di
contributi importanti, come, ad esempio, quello del mistico medievale Ibn Paquda:
L’uomo deve comportarsi umilmente nei suoi affari mondani, pubblici o privati, nelle sue
parole, nei suoi atti, nei sui movimenti o nel suo riposo, perché il suo intimo non smentisca il
suo aspetto esteriore e il segreto del suo cuore non smentisca la sua apparenza; i suoi movi-
menti devono essere misurati, armoniosi, senza scosse, costantemente orientati verso l’umiltà
e l’abbassamento di sé davanti a Dio e davanti agli uomini, secondo l’aiuto che essi arrecano
alla sua vita religiosa e terrena. 9
La dottrina della via mediana, come percorso di virtù che rifugge l’estremo
dell’eccesso e quello opposto del difetto, è posta con chiarezza da Rambam:
Le azioni buone sono quelle equilibrate, a metà strada fra i due estremi, entrambi cattivi, i
quali sono rispettivamente: l’eccesso e il difetto. Le virtù sono disposizioni dell’anima e abi-
tudini a metà strada fra due atteggiamenti cattivi, di cui uno è rappresentato dall’eccedente,
l’altro dall’insufficiente. Da queste (diverse) disposizioni derivano queste (diverse) azioni.
Ad esempio: la continenza è la disposizione mediana fra il desiderio sfrenato e l’assenza di
sensazione di piacere. Or dunque, la continenza fa parte delle azioni buone. La disposizione
dell’anima che conduce alla continenza è una delle virtù morali, mentre il desiderio sfrenato
è un suo estremo e l’assenza di sensazione di piacere è l’altro suo estremo, diametralmente
opposto, ed entrambi sono un male in assoluto. Queste due disposizioni dell’anima da cui
derivano rispettivamente il desiderio sfrenato, che è la condizione eccedente, e l’assenza di
sensazione, che è la condizione insufficiente, sono entrambe delle disfunzioni della virtù.
Così, la generosità è mediana tra l’avarizia e la prodigalità; il coraggio è mediano tra la teme-
rarietà e la pusillanimità; la cordialità è mediana tra la sfacciataggine e l’estrema timidezza;
l’umiltà è mediana tra l’orgoglio e l’abiezione; la riservatezza è mediana tra la superbia e
l’autodisistima; la moderazione è mediana tra la cupidigia e il disinteresse; la ponderatezza
è mediana tra la suscettibilità e l’apatia; la riservatezza è mediana tra la sfrontatezza e la
timidezza, e così via. 10
9
Bahya Ibn Paquda, I doveri del cuore, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988,
p. 324.
10
Mosè Maimonide, Gli “Otto Capitoli” la dottrina etica, Carucci, Assisi/Roma, 1977, p.
29-30.
145
Se l’atteggiamento di medianità è proprio di ogni virtù, quello proprio dell’umil-
tà è espresso in modo mirabile in due detti del trattato ’Avòt:
“Rabbi Jishmael era solito dire: Sii remissivo davanti ai superiori, sii benevolo con la gioven-
tù e accogli ogni uomo con gioia” (m’Avòt 3,12).
Quella che è tracciata è la via delle perfezione ideale che si realizza lungo il sen-
tiero che ha nell’umiltà il suo punto centrale. In entrambe le redazioni sopra riportate
della lista delle virtù, l’umiltà è al sesto posto su dieci: inizia, cioè, una seconda serie
di cinque ed è il punto di svolta che consente di procedere oltre con sicurezza e sta-
bilità. E, pertanto, come insegna rabbi Mosè Chajjim Luzzatto (Ramchal), l’umiltà
è la vera corona dell’uomo:
L’umiltà, senza dubbio, rimuove molti ostacoli sul cammino dell’uomo e gli facilita l’accesso
a molte buone azioni. L’umile non si dà troppo pensiero per le cose del mondo e non prova
invidia per le sue vanità. Inoltre, stare con lui è molto piacevole e gli animi di tutti sono al-
lietati dalla sua compagnia. Per natura non si arrabbia e non fa polemiche, ma si muove con
tutta tranquillità e calma. Beato chi merita di possedere questa virtù! Dicono i nostri maestri:
“Ciò che la sapienza considera una corona per la testa, l’umiltà la considera una suola per i
sandali”. 11 Come a dire: l’intera sapienza non vale l’umiltà. 12
11
Cfr jShabbàt I,3. Il Talmud commenta Proverbi 22,4: “Premio dell’umiltà è il timore di
Dio e questo dà ricchezza, onore e vita” (Pr 22,4).
12
Moshè Chajjim LUZZATTO, Il sentiero dei giusti (Mesilat Jesharim), introduzione, tra-
duzione e note di Massimo Giuliani, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pp. 194-195.
147
Ecco, allora, che anche noi, facendo tesoro delle parole di rabbi Jehoshua ben
Levi, possiamo affermare che l’umiltà è la più grande di tutte le virtù , perché man-
tiene l’uomo dentro i confini della sua finitudine e gli consente di vivere alla ricerca
di Dio e del suo amore.
Il dodicesimo passo ci apre le porte del tempo a venire: il Messia viene perché
noi viviamo nell’attesa e perché il Santo benedetto egli sia ha già preparato la luce
che ne accompagna la venuta.
148
Dodicesima lezione
Nell’attesa dei volti del Messia
Commento al Salmo 132
Salmo 132
151
Come spesso avviene, Rashi richiama in forma abbreviata una complessa e ar-
ticolata interpretazione riportata in una pagina del Talmud:
Altra interpretazione. E ho lodato i morti (Qoh 4,2). In accordo con rav Jehudà ha detto Rav:
Cosa significa il seguente passo: Fa’ con me un segno per il bene e vedano coloro che mi
odiano e siano confusi (Sal 86,17)? Disse David al cospetto del Santo benedetto egli sia: Si-
gnore del mondo, perdonami per questo peccato (con Bat Sheva‘)! Gli disse: Ti è perdonato.
Replicò David: Fammi un segno durante la mia vita! Gli rispose il Santo benedetto egli sia:
Durante la tua vita non lo farò conoscere, ma lo farò conoscere durante la vita di Salomone
tuo figlio. Quando Salomone ebbe costruito il Santuario, cercò di fare entrare l’arca nel Santo
dei Santi, ma le porte si unirono l’una all’altra (per non lasciarlo entrare). Salomone recitò
ventiquattro preghiere 1 e non ottenne risposta. Allora aprì (la sua bocca) e disse: Alzate,
porte, la vostra testa, alzatevi, porte antiche, e entri il re della gloria (Sal 24,9). Le porte
corsero contro di lui per inghiottirlo e dissero: Chi è questo re della gloria (Sal 24,8)? 2 Ed
egli disse loro: È il Signore forte e potente (Sal 24,8). Tornò nuovamente a dire: Alzate, porte,
la vostra testa, alzatevi, porte antiche, e entri il Re della gloria. Chi è questo Re della gloria?
Il Signore delle schiere questi è il re della gloria per sempre (Sal 24,9-10). Ma non ottenne
(ancora) risposta. Quando disse: Non respingere il volto del tuo unto, ricordati della lealtà di
David tuo servo (2 Cr 6,42), 3 subito ottenne risposta. In quell’ora furono resi neri i volti di
tutti coloro che odiano David, come il fondo di un tegame, così tutto il popolo e tutto Israele
conobbe che il Signore gli aveva perdonato la colpa” (bShabbàt 30a).
Radaq riferisce il testo sia a David 4 sia a Salomone: David chiede che la sua
preghiera sia accolta e che, pertanto, possa conoscere il luogo in cui sarà edificato
il Santuario 5; Salomone, invece, chiede che Dio gli permetta di fare entrare l’Arca
1
Così Rashi commenta il passo del Talmud: “Ventiquattro preghiere - Le parole rinnà,
teillà e techinnà (indicanti diverse modalità di preghiera) sono scritte ventiquattro volte nella
preghiera di Salomone (per la dedicazione del Santuario)”.
2
Le porte pensano che Salomone faccia riferimento a se stesso.
3
Così Radaq su 2 Cr 6,42: “Non respingere il volto del tuo unto - (Tu non volgere il tuo volto)
da tutto ciò che ti ho chiesto in preghiera, in modo che la mia preghiera sia accolta al tuo cospetto.”
4
L’unto di cui parla il Salmo può essere anche David: “A motivo - Il versetto è unito con
quanto è detto in precedenza: Alzati, Signore, verso il luogo del tuo riposo (v.8). Non respingere il
volto del tuo unto, si tratta di David” (Ibn Ezra su Salmo 132,10). Anche nello Zohar il passo del
Salmo è riferito a David: “Disse David: A motivo di David tuo servo, non respingere il volto del
tuo unto! Non sia rigettato l’ordinamento che ho predisposto (= fare cantare i sacerdoti al posto dei
leviti). Gli rispose il Santo benedetto egli sia: David, per la tua vita, io non userò i miei vasi, ma
solamente i tuoi! E non si mosse il Signore da là inché non gli ebbe elargito doni e regali, come è
scritto: Ha giurato il Signore, verità da cui non torna indietro: Dal frutto delle tue viscere io porrò
sul tuo trono per te.” (Zohar, I, 148b).
5
Cfr Salmo 132,5: “inché io abbia trovato un luogo per il Signore, una dimora per il Po-
tente di Giacobbe”.
152
nel Santuario già edificato. Dato che il testo usa l’espressione ָיח ֶ ְפּנֵ י ְמ ִשׁ, pnè me-
shichéka, “i volti del tuo unto”, ne deriva che è possibile fare riferimento sia a David
sia a Salomone ed è, inoltre, possibile e necessario che, nella prospettiva dell’attesa
messianica, si riveli un volto altro, il volto di un unto oltre David e oltre Salomone. Se
il Signore è invitato a non respingere il volto dell’unto, ne deriva che l’unto/mashìach
(re o altro) non ha, in sé e per sé, le caratteristiche per essere accolto dal Signore, ma
deve dimostrare, nell’integrità e nella fedeltà, di essere degno di quella unzione.
La tradizione rabbinica sottolinea a più riprese, partendo dalla Bibbia, che il
dono della regalità alla casa si David è un dono condizionato. Il Salmo, infatti, così
continua:
Radaq indica il fine della promessa divina: “Io li esorterò per mezzo di profeti
sempre in modo che non dimentichino la Torà”. I profeti, secondo la tradizione rab-
binica, sono uno degli anelli nella catena di trasmissione della Torà:
Mosè ricevette la Torà dal Sinài e la consegnò a Giosuè, Giosuè agli Anziani, gli Anziani ai
Profeti e i Profeti la consegnarono agli uomini della Grande Sinagoga. Essi dissero tre parole:
Siate lenti nel giudizio, educate molti discepoli e fate una siepe alla Torà (m’Avòt 1,1).
A partire dal tempo degli uomini della Grande Sinagoga (knèsset ha-gedolà),
il compito assegnato ai profeti è svolto dai maestri. Pertanto, la testimonianza che
Dio dichiara di insegnare ai discendenti di David è contenuta nella Torà orale, che,
di generazione in generazione, lungo la catena della tradizione, giunge fino a noi, di
maestro in discepolo, in modo che la Torà, nello studio e nella vita, non sia dimenti-
cata, ma resti viva e vitale. Non può esserci, nell’oggi delle generazioni, possibilità
per l’avverarsi della promessa divina se non nella fedeltà di Israele, come popolo
e come singole persone, alla Torà. Il Messia viene perché nel mondo continua ad
esserci uno spazio, piccolo o grande non conta (bastano anche i quattro cubiti di
halakà), per Dio e per il realizzarsi delle sue promesse.
Il questa prospettiva, il Talmud elabora una precisa e dettagliata “scala di va-
lori”:
153
Ha detto Ravà: Nell’ora in cui l’uomo viene condotto al giudizio nel mondo a venire gli viene
chiesto: Hai agito onestamente (lett.: hai preso e dato con fedeltà)? Hai fissato i tempi per
lo studio della Torà? Ti sei occupato del precetto “crescete e moltiplicatevi”? Hai atteso la
salvezza? 6 Ti sei dedicato alla discussione della sapienza? Hai compreso una cosa partendo
da un’altra (= deduzione per analogia)? Anche se hai fatto tutto ciò, se il timore di Dio è il
suo tesoro (Is 33,6), (tutto ciò è) bene; se no, non lo è (bShabbàt 31a).
L’attendere la salvezza si pone al centro della vita dell’uomo fra l’applicare nel
mondo i precetti della Torà (in primo luogo il precetto “Crescete e moltiplicatevi”)
ed il cammino di studio e di ricerca, lungo la via della vera sapienza che può venire
solo dalla Torà.
Tutto, allora, dipende dall’attesa/speranza, secondo le parole di rabbi Jitschaq:
Ha detto rabbi Jitschaq: Tutto dipende dal qiwwuj (attesa/speranza) (Bereshit Rabbà 98,14).
6
Così commenta Rashi: “Hai atteso la salvezza? - secondo le parole dei profeti.” (Rashi
su bShabbàt 31a).
154
Il versetto, come sottolinea Gianfranco Ravasi nel suo commento al Salmo, ha
una forte carica messianica:
Il Sal 132 si chiude ora con una solenne invocazione davidica (vv. 17-18), più intensa di quella
che ha chiuso la prima tavola del dittico (v. 10). Essa inizia con un sham che di per sé può avere
valore locale ma anche asseverativo (“certo!”), ovviamente il senso qui è spaziale (“là”), data
la sequenza logica col poh, “qui”, del v. 14. In Gerusalemme Dio “farà germogliare”: il verbo
ebraico, ???, contiene in sé una forte allusione messianica. È noto, infatti, che “Germoglio”
diverrà nella letteratura post-esilica il nome emblematico del davidide perfetto (Zc 3,8; 6,12). 7
Il là ( ָשׁם, sham) del versetto 17 si contrappone al qui (פֹּה, pò) del versetto 14,
sia in senso spaziale sia in senso temporale. C’è una distanza, nello spazio e nel
tempo, che può essere colmata solamente nei giorni del Messia e nel tempo della
redenzione definitiva, dopo la nuova stagione da lui aperta. Ora, nel tempo presente,
l’attesa mira a fare sì che quel là ( ָשׁם, sham), ovvero il luogo in cui ancora siamo e
da cui tendiamo ad un altrove, possa avviarsi a divenire il qui (פֹּה, pò) che si realizza
in forma finale e definitiva secondo le parole del Salmo:
Il Salmo lo esprime con estrema chiarezza: solo Dio può dire qui; all’uomo è
permesso solo attendere il qui che ancora deve venire, vivendo con coraggio e dedi-
zione nella prospettiva del là. Nell’oggi di ogni generazione e nella precarietà della
condizione umana, solo l’attesa dà senso e significato al cammino, nella fedeltà,
verso la redenzione definitiva, quando anche tutti noi potremo finalmente dire qui
(פֹּה, pò), assieme a Dio che ci accoglie, ci salva e ci redime, nel suo luogo.
Ma perché tutto questo avvenga, è necessario che Dio faccia germogliare, se-
condo le parole del Salmo, “un corno per David”.
Così commenta Radaq:
Là farò germogliare un corno per David. Corno indica potenza e sovranità. Allo stesso modo
è detto: In quel giorno io farò germogliare un corno per la casa d’Israele (Ez 29, 21); e: Il
Signore eleverà il corno del suo unto/maschìach (1 Sam 2,10). Questo versetto è stato detto
in riferimento al Messia futuro, per questo è detto: farò germogliare (al futuro), che significa:
Anche se dovesse avvizzire per lungo tempo, io lo farò germogliare di nuovo (al tempo giu-
sto). Allo stesso modo è detto a riguardo del Messia: Farò sorgere per David un germoglio
giusto (Ger 23,5); e ancora è detto: E in quei giorni e in quel tempo farò germogliare per
David un germoglio di giustizia 8 (Ger 33, 15); ed è detto in questo passo che ciò avverrà a
Sion, proprio come è scritto: Saliranno i liberatori sul monte Sion (Abd 1,21), 9 e così è scrit-
to: In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme abiterà al sicuro e questo sarà il nome
con cui sarà chiamata: Il Signore è la nostra giustizia (Ger 33,16) (Radaq su Salmo 132, 17).
7
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi, III, EDB, Bologna, 1988. p. 682. Cfr il commento
di Ibn Ezra: “Là - è detto in modo profetico che (là) sarà ristabilito il regno di David” (Ibn Ezra
su Salmo 132, 17).
8
Cfr Radaq su Geremia 33,15: “Un germoglio di giustizia - è il Re Messia.”.
9
Cfr Radaq su Abdia 1,21: “Saliranno i liberatori - il Re Messia e i suoi compagni”.
155
Il germogliare è segno della rinascita e del rinnovamento, mentre il corno è la for-
za che si mantiene e si perpetua nel tempo in virtù della fedeltà di Dio alle sue promes-
se e dell’uomo (o anche solo di alcuni uomini) alla Parola di Dio e alla sua chiamata.
Partendo dalla Scrittura il Midrash, con un procedimento omiletico, individua
dieci corni dati da Dio ad Israele, vale a dire “i corni dei giusti” di cui parla Salmo
75,11:
Frantumerò tutti i corni degli empi, mentre saranno innalzati i corni dei giusti (Sal 75,11).
Sono dieci i corni che il Santo benedetto egli sia ha dato ad Israele. Il corno di Abramo, co-
me è detto: Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la mia vigna. Il mio diletto
possedeva una vigna sopra un fertile corno 10 (Is 5,1). Il corno d’Isacco, come è detto: Allora
Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato per le corna in un cespuglio (Gen 22,13). Il
corno di Mosè, come è detto: Non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante 11
(Es 34,29). Il corno di Samuele nella profezia, come è detto: Allora Anna pregò: Il mio cuore
esulta nel Signore, il mio corno si innalza (1 Sam 2,1). Il corno di Aronne nel sommo sacer-
dozio, come è detto: il suo corno s’innalza nella gloria (Sal 112, 9). Il corno del Sinedrio nel-
la Torà, come è detto: bagliori di folgore escono dalla sua mano (Ab 3,4). Il corno di Heman
nel servizio dei leviti, come è detto: per esaltare la sua potenza Dio concesse ad Heman 14
figli e 3 figlie (1 Cr 25, 5). Il corno di Gerusalemme nella costruzione (del Santuario), come è
detto: dalle corna dei bufali mi hai risposto (Sal 22,22). Il corno del Re Messia nella regalità,
come è detto: Il Signore eleverà il corno del suo Messia (1 Sam 2,10). Il corno di David nella
luce del giorno a venire, come è detto: Là farò germogliare un corno per David, ho preparato
una lampada per il mio unto (Sal 132,17) (Midrash Tehillìm 75,5).
Il corno del Messia ed il corno pegno della lealtà di David, che si proietta nella
luce del mondo a venire, sono i due punti culminanti della forza che Dio ha con-
segnato ad Israele, in un cammino che, partendo da Abramo, investe tutta la storia
dell’umanità fino alla soglia dei tempi ultimi.
Questa prospettiva, orientata al futuro ma radicata nel passato, emerge con chia-
rezza dal versetto del nostro Salmo. Se la prima parte, infatti, è rivolta al futuro
(“farò germogliare”), la seconda parte ha le radici infisse nel passato come segno
di una promessa che da un tempo in cui era possibile il qui si estende fino al tempo
del qui definitivo attraverso il là del presente. Il verbo utilizzato nella seconda parte
è: עָ ַרכְ ִתּי, ‘aràkti, “io ho preparato”, coniugato al perfetto ad indicare un’azione già
definita e giunta a compimento. 12
Il passo si apre a diversi livelli di lettura. Può, infatti, essere letto in senso me-
taforico in quanto il re è la lampada che illumina il popolo:
Ho preparato una lampada per il mio unto – Come è detto nel passo seguente: A suo figlio
lascerò una tribù, perché ci sia sempre una lampada per David mio servo (1 Re 11,36). Il re
è come una lampada che illumina il popolo (Radaq su Salmo 132,17).
Oppure è possibile vedere nel testo un riferimento a una realtà più complessa.
La lampada che Dio ha preparato là è la lampada del Santuario, le luci del candela-
10
In Is 5,1 ֶק ֶרן, qèren, “corno”, assume il significato di “colle”.
11
Il verbo utilizzato è ָק ַרן, qaràn, che richiama la medesima radice di ֶק ֶרן, qèren, “corno”.
12
Cfr Metsudat Tsion su Salmo 132, 17: “Il verbo ָע ַרכְ ִתּי, ‘aràkti, ha il significato di predi-
sporre, ordinare.”
156
bro-menorà, per il quale i figli d’Israele sono tenuti a portare in offerta l’olio puro di
olive schiacciate. Ed è per il merito di questa offerta e della luce delle lampade che
ardono, che Israele otterrà di essere illuminato dalla luce della lampada del Messia.
Vediamo il passo del Levitico:
1
Parlò il Signor a Mosè dicendo: 2Ordina ai figli d’Israele che ti portino olio puro di olive
schiacciate per l’illuminazione per tenere acceso il lume perenne. 3Aronne lo preparerà nella
tenda del convegno, fuori dal velo che sta davanti alla Testimonianza, perché arda sempre da
sera al mattino davanti al Signore. È una legge perenne di generazione in generazione. 4Egli
disporrà le lampade sul candelabro d’oro puro di fronte al Signore sempre (Lv 24,1-4).
Il rapporto che lega il versetto del nostro Salmo a questo passo del Levitico è
stretto. Si segnalano, in particolare, il versetto 3: “Aronne lo preparerà (יַ ֲערֹך, ja‘aròk)
nella tenda del convegno”, ed il versetto 4: “Egli disporrà (יַ עֲ רֹך, ja‘aròk) le lampa-
de”. Come Aronne prepara l’olio per l’illuminazione e dispone le lampade accese sul
candelabro, così il Signore ha predisposto l’olio per l’unzione del Messia, che è la
lampada che per ardere ha bisogno dei meriti di quell’olio. In ebraico è utilizzato il
medesimo verbo: al futuro nel passo del Levitico, al perfetto nel nostro Salmo.
E il Midrash così commenta:
Rabbi Chanin ha detto: Per il merito del fare salire il lume perenne voi meritate di accogliere
il volto della lampada del Re Messia. Qual è la prova? Il seguente passo: Là farò germogliare
un corno per David, ho preparato una lampada per il mio unto, e ancora è detto: Mi sono
rallegrato in coloro che mi dicono: Andiamo alla casa del Signore (Sal 122,1) (Wajjiqrà
rabbà 31,11).
158
Tredicesima lezione
Quando i fratelli abitano insieme
Commento al Salmo 133
Salmo 133
1
Cantico dei gradini. Di David.
1
Lett.: “sulla bocca delle vesti”.
160
1. Chi sono i fratelli?
2
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, p. 493-494.
3
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, p. 493.
161
Il passo pone due specifiche domande alle quali cercheremo di dare una risposta
nel solco della tradizione ed oltre.
La prima. Chi sono i fratelli?
La seconda. Qual è il valore della particella גַּ ם, gam, “anche”, che, nelle tradu-
zioni in lingua italiana di solito utilizzate sia per lo studio sia per la preghiera, non
viene presa in considerazione?
Quali fratelli?
Nella tradizione ebraica i fratelli ai quali il Salmo fa riferimento sono, in primo
luogo, Mosè ed Aronne. Ce lo insegna il Midrash:
Altra interpretazione. Va’ incontro a Mosè nel deserto (Es 4,27). Questo è quanto è detto
in un altro passo della Scrittura: Magari tu fossi come un fratello per me! (Ct 8,1). 4 I figli
d’Israele dicono al Santo benedetto egli sia: Magari tu fossi come un fratello per me! Come
quale fratello? Tu puoi trovare che dall’inizio della creazione del mondo fino ad ora i fratelli
si odiano fra di loro. Caino odiò Abele e l’uccise, come è detto: Si levò Caino contro suo
fratello Abele e l’uccise (Gen 4,8). Ismaele odiò Isacco, come è detto: Vide Sara il figlio
di Agar, l’egiziana, che essa aveva partorito ad Abramo, scherzare (Gen 21, 9). La parola
“scherzare” significa che Ismaele cercava di uccidere Isacco, come è detto: Si alzino i gio-
vani e scherzino davanti a noi (2 Sam 2,14). 5 Ed Esaù odiò Giacobbe, come è detto: Ed
Esaù disse nel suo cuore: Si avvicinano i giorni del lutto per mio padre, allora ucciderò mio
fratello Giacobbe (Gen 27,14). I capostipiti delle tribù odiarono Giuseppe, come è detto:
lo odiarono (Gen 37,4). Allora come quale fratello? Dissero i figli d’Israele: come Mosè
ed Aronne, come è detto: Ecco come è buono e come è dolce che i fratelli dimorino anche
insieme (Sal 133,1). Essi si amavano l’un altro, si volevano bene l’un l’altro e nell’ora in
cui Mosè ricevette la regalità ed Aronne il sommo sacerdozio, non provarono invidia l’uno
per l’altro, ma gioirono ciascuno per la magnificenza che era concessa all’altro (Midrash
Tanchuma, ed. Buber, Shemòt, 24).
4
Cfr. Rashi su Cantico 8,1: “Magari tu fosse per me come un fratello – in modo che Tu
venga a consolarmi come ha fatto Giuseppe con i suoi fratelli, che si erano comportati male nei
suoi confronti. Di lui è detto: e li consolò (Gen 50,21)”.
5
Cfr Bereshit rabbà 53,11 su Gen 21,9: “Rabbi Elazar figlio di rabbi Josè il Galileo era
solito dire: La parola qui usata, scherzare (צְ חוֹק, tsechòq) non significa altro che spargimento di
sangue, come nel seguente passo: Si alzino i giovani e scherzino (= si scontrino, versino sangue)
davanti a noi (2 Sam 2,14)”.
6
Midrash Tanchuma, ed. Buber, Shemòt, 24.
162
La linea interpretativa indicata non chiude la polisemia del testo. Se prendiamo
in considerazione il commento di Radaq, ci rendiamo conto della complessità dei
problemi interpretativi e di quanto sia ampio ed aperto il campo delle possibilità.
Alla domanda “Chi sono i fratelli?” Radaq dà diverse risposte. Dapprima riporta il
parere di suo padre che vede nei fratelli il popolo d’Israele; poi riporta il parere di
Ibn Ezra, sul quale ritorneremo, ed infine propone la sua chiave di lettura:
Ma a me pare che il Salmo si riferisca al Re Messia e al sommo sacerdote che vivrà ai suoi
giorni. Entrambi, infatti, sono grandi fra i figli d’Israele ed esercitano potere su di loro: il re
siede sul trono del diritto e della regalità per impartire ordini ad Israele secondo quanto sem-
bra conforme alla sua volontà, il sacerdote invece insegna la Torà e i precetti. Il testo li chia-
ma fratelli, perché entrambi sono grandi e non si invidiano a vicenda. Quando i figli d’Israele
fecero ritorno dall’esilio babilonese, Zaccaria profetizzò su entrambi: su Zerubabel, il prin-
cipe, e su Giosuè, il sommo sacerdote. Li vide in visione come due ulivi e li chiamò: i due
figli dell’olio puro (= consacrati) (Zc 4, 14), perché entrambi sono stati consacrati con l’olio
dell’unzione, uno per il sacerdozio e l’altro per la regalità. E dice ancora: Prendi quell’oro
e quell’argento, ne farai corone e (la) porrai sul capo di Giosuè, figlio di Jotsedaq, sommo
sacerdote (Zc 6,11), che significa: (Dio) gli ordinò di porre una corona sul capo di Giosuè
e l’altra sul capo dell’uomo il cui nome sarà Germoglio (Zc 6,12), cioè Zerubabel. Così il
passo il dimorare dei fratelli anche insieme si riferisce al re e al sommo sacerdote del tempo
futuro, perché ognuno di essi sederà sul trono della grandezza e così il loro sedere insieme
sarà veramente bello e soave. Il testo dice anche insieme, perché essi come sono fratelli nella
grandezza, così lo saranno anche nel loro cuore, ad indicare che saranno uniti di comune
accordo senza provare invidia l’uno per l’altro. E allo stesso modo si dice di Zerubabel e di
Giosuè: e fra i due vi saranno pensieri di pace (Zc 6,13) 7 (Radaq su Salmo 133,1).
Per Radaq tutto si proietta nei giorni futuri, in cui il Messia ed il Sommo sacer-
dote vivranno in perfetta e fraterna armonia, senza contrapposizioni o invidia reci-
proca, animati solo da pensieri di pace. E sarà un nuovo inizio, l’ultimo e il definiti-
vo, seguendo il paradigma di un altro inizio, quello dell’età del Secondo Santuario,
quando Zerubabel e Giosuè guidarono la comunità ricostituita a Gerusalemme e in
terra d’Israele. Il commento di Radaq, pur nella sua prospettiva messianica, si pre-
senta come una variazione del tema della fratellanza perfetta rappresentata da Mosè
e da Aronne, nel segno del corretto rapporto fra la regalità e il sacerdozio.
Ma Rashi, al termine del commento del Salmo, ci pone in guardia nei confronti
di una lettura troppo letterale del Salmo e si chiede se nel versetto si parli veramente
di Mosè e di Aronne o se si faccia riferimento, in un senso desumibile dal testo stes-
so, ad un’altra realtà:
Ma i nostri maestri hanno spiegato il passo il dimorare dei fratelli (םיִחא תֶבֶשׁ, shèvet ’achìm)
in riferimento a Mosè e ad Aronne in relazione alla trasgressione relativa all’olio dell’unzio-
ne (nel trattato Horajòt è commentato tutto il Salmo). Ma nelle parole delle Torà e negli altri
libri della Scrittura (הָלָבּ ַק, qabbalà) ci sono metafore e similitudini, le parole dei saggi e i
loro enigmi (Pr 1,6), pertanto la corretta interpretazione del Salmo Cantico dei gradini (=
Salmo 133) è che fu detto in riferimento al Santuario (Rashi su Salmo 133,2).
7
Cfr Radaq su Zaccaria 6,13: “E pensiero di pace sarà fra di loro – per il fatto che non
si invidieranno l’un l’altro ed entrambi agiranno di comune accordo, come se fossero uno solo”.
163
Il passo del Talmud al quale Rashi fa riferimento chiarisce quale sia la prospet-
tiva esegetica ed interpretativa che egli vuole non annullare o superare ma ridefinire:
Hanno insegnato i nostri Maestri: Come olio buono sul capo, che scende sulla barba, la
barba di Aronne, che scende sull’orlo delle sue vesti (Sal 133,2) – pendevano dalla barba di
Aronne due gocce di olio a forma di perle. Ha detto rav Papa: È stato insegnato: Quando egli
parlò 8 , salirono e andarono a posarsi alla base della sua barba. A riguardo di questo fatto
Mosè era preoccupato e disse: È forse possibile – Dio me ne scampi – che io abbia commes-
so una trasgressione relativa all’olio dell’unzione? 9 Uscì una voce dal cielo e disse: Come
olio buono che scende sulla barba, sulla barba di Aronne… come rugiada del Chermòn (Sal
133,2-3), come non si applica la norma relativa alla trasgressione alla rugiada del Chermòn,
così non la si applica all’olio dell’unzione. Ma Aronne era ancora preoccupato e disse: È pos-
sibile che Mosè non abbia trasgredito, forse ho trasgredito io? Uscì una voce dal cielo e disse:
Come è bello e dolce che i fratelli dimorino anche insieme, come Mosè non ha trasgredito,
così nemmeno tu hai trasgredito (bHorajòt 12a 10).
Rashi sembra dirci che il Salmo parla anche di questo, ma che non è di questo,
o solamente di questo, che, oggi, dobbiamo parlare se vogliamo dare voce, in noi e
per mezzo di noi, alle parole della Scrittura. Rashi, diversamente da altre linee inter-
pretative della tradizione ebraica, non si chiede chi siano i fratelli che danno luogo
all’unione, ma in quale luogo si verifichi l’unione. Per lui il luogo dell’incontro
fraterno è il Santuario, nel tempo a venire:
Cantico dei gradini. Ecco come è bello e come è dolce che i fratelli dimorino anche insieme
– quando il Santo benedetto egli sia dimorerà nella Casa d’elezione (= il Santuario) con i
figli d’Israele, che sono chiamati fratelli e compagni, 11 anche Egli sarà unito a loro (in questo
stato di fratellanza) (Rashi su Salmo 133,1).
Perché è detto “e i loro volti (come il volto di) un uomo rivolto a suo fratello”
(Es 25,20)?
Vediamo due commenti. Il primo utilizza il versetto del nostro Salmo per chiari-
re il senso dell’espressione usata nel passo dell’Esodo a proposito dell’orientamento
dei cherubini posti sull’arca.
8
Cfr Rashi su bHorajòt 12a: “quando parlava con altri”.
9
Cfr Rashi su bCheritòt 5b: “perché ne ho messo più del necessario”.
10
Il passo è riportato anche in bCheritòt 5a.
11
Cfr Sal 122,8: “A motivo dei miei fratelli e dei miei amici ora dirò: Sia pace in te”.
164
Cominciò a parlare e disse: Cantico dei gradini. Ecco come è bello e come è dolce che i
fratelli dimorino anche insieme (Sal 133,1). Cosa significa il dimorare dei fratelli anche
insieme? È da porre in relazione con quanto è detto: e i loro volti come un uomo verso suo
fratello: quando guardano uno verso l’altro, faccia a faccia, è scritto: come è bello e come è
dolce (Zohar III, Acharé mot, 59b).
Come avviene per i cherubini posti sopra l’arca, l’atteggiamento proprio dei
fratelli non è sufficiente a definire le caratteristiche dello stare insieme; occorre, nei
rapporti che legano gli uomini agli altri uomini, in presenza o in assenza di Dio, un
approccio che tenga uniti strettamente i diversi aspetti, che risultano elencati in una
formula di supplica attribuita dal Talmud a rabbi Elazar:
Rabbi Elazar, dopo avere terminato la preghiera, era solito dire così: Sia la tua volontà Signo-
re, nostro Dio, che tu faccia dimorare nella nostra sorte amore ( ַא ֲה ָבה, ’ahavà), fratellanza
( ַא ְחוָ ה, ’achwà), pace ( ָשׁלוֹם, shalòm) e amicizia ( ֵרעוּת, re’ùt); che accresca il numero dei
nostri discepoli e renda prospera la nostra fine ultima e la speranza, e ponga la nostra sorte
nel Gan Eden. Rendici migliori attraverso un buon compagno ed una buona indole nel tuo
mondo e fa’ che alzandoci presto possiamo trovare il desiderio del nostro cuore indirizzato a
temere il tuo nome e possa giungere la soddisfazione del nostro cuore al tuo cospetto per il
bene (bBerakòt 16b).
Vedremo, nel prossimo paragrafo, quale sia l’importanza dei quattro elementi:
amore ( ַא ֲה ָבה, ’ahavà), fratellanza ( ַא ְחוָ ה, ’achwà), pace ( ָשׁלוֹם, shalòm) e amicizia
( ֵרעוּת, re’ùt) e, in particolare, quale ruolo rivesta l’amore.
12
Il discepolo si allontana dal maestro distogliendo progressivamente lo sguardo da lui.
165
I fratelli di cui parla il Salmo sono, senza ombra di dubbio, i figli di Israele,
come è possibile desumere dal confronto con Salmo 122,8:
Se è vero che, secondo il senso piano e letterale del Salmo, i fratelli sono i figli
d’Israele, va, però, aggiunto che nel testo del Salmo non è detto semplicemente “il
sedere dei fratelli insieme”, ma è detto “il sedere dei fratelli anche insieme”, con
l’aggiunta della particella גַּ ם, gam, “anche”. Proviamo a dare ragione di questa par-
ticolarità sintattica del testo utilizzando un criterio esegetico della tradizione rabbi-
nica: ribbùj, “aumento, inclusione”, la prima delle trentadue Middòt, “misure” o re-
gole interpretative, attribuite a rabbi Eli‘ezer. Il criterio esegetico ribbùj si applica in
presenza di una delle tre particelle: ַאף/’af, גַּ ם/gam, ֵאת/’et, ed implica che nel testo
sia detto e contenuto qualcosa in più rispetto al senso piano e letterale delle parole.
Lo stare insieme dei figli di Israele non è un solo lo stare insieme dei fratelli, ma è
uno stare insieme in una condizione speciale determinata dall’aggiunta della particella
גַּ ם, gam, “anche”. È necessario, di conseguenza, cercare di individuare una possibile
interpretazione che assuma valore nell’oggi della nostra generazione, oltre la tradi-
zione ma dentro il cammino da lei tracciata ed oltre il versetto ma dentro la Scrittura.
La particella גַּ ם, gam, in gematrià, ha il valore numerico di 43 (40 = מ+ 3 = )ג
e ad essa, fra le tante testimoniate nel TaNaK con lo stesso valore numerico, può cor-
rispondere la parola לְ ַא ֲה ָבה, le’ahavà, “per amore/per amare”(5 =, ה,1 = א,30 = ל
5 = ה,2 = בper un totale di 43).
La parola לְ ַא ֲה ָבה, le’ahavà, rimanda al passo di bBerakòt 16b sopra citato,
in cui si fa riferimento a quattro modalità di comportamento che sono viste come
compimento di una condizione umana benedetta da Dio: amore ( ַא ֲה ָבה, ’ahavà),
fratellanza ( ַא ְחוָ ה, ’achwà), pace ( ָשׁלוֹם, shalòm) e amicizia ( ֵרעוּת, re’ùt). Di questi
quattro modalità, tre sono determinate da legami o di sangue (fratellanza = ַא ְחוָ ה,
’achwà), o di prossimità all’interno del proprio gruppo (amicizia verso il compagno/
prossimo = ֵרעוּת, re’ùt), o di concordia economica e sociale (pace = ָשׁלוֹם, shalòm).
13
Il passo è inteso in modi diversi nella tradizione rabbinica: compagni e amici sono i igli
d’Israele; il Santo benedetto egli sia è il fratello e l’amico d’Israele; Israele è compagno ed amico
di Dio.
166
Una sola delle quattro condizioni è libera, non condizionata e non determinabile:
l’amore ( ַא ֲה ָבה, ’ahavà).
L’amore, infatti, non è determinato da vincoli di sangue, da legami di prossimità
o economico-sociali; l’amore è frutto di una scelta libera, libera anche dai vincoli
della ragione; è adesione all’altro, nella sua umanità, grande o misera, forte o debole,
come me o diverso da me, amico o nemico che sia. Allora, utilizzando il criterio di
equivalenza fra parole con il medesimo valore numerico, il primo versetto del Salmo
può essere così interpretato e tradotto: “Ecco come è buono e come è soave lo stare
insieme dei fratelli per amore”.
Chi sono i fratelli che stanno insieme per amore?
Sono quelli che si riconoscono fratelli non per vincoli di sangue, per legami
di prossimità od economico-sociali, ma perché vedono nell’altro l’unico punto, qui
sulla terra, capace di anticipare quell’unità (יָ ַחד, jàchad) che solo in Dio, l’Uno, è
possibile ottenere o raggiungere.
Ci viene in soccorso un passo degli Scritti/Ketuvìm:
Non rimproverare l’uomo frivolo in modo che non ti odi, muovi rimproveri al saggio ed egli
ti amerà (Proverbi 9,8).
Chi è il saggio? La tradizione dice che è saggio chi sa imparare da ogni uomo;
possiamo aggiungere: è saggio chi sa rapportarsi con ogni uomo con amore. Non è so-
lo l’amore verso le creature ( ַא ֲה ַבת ַה ְבּ ִריוֹת, ’ahavàt ha-berijòt), verso Israele (ַא ֲה ַבת
יִ ְשׂ ָר ֵאל, ’ahavàt Jisra’él), verso la Torà (תּוֹרהָ ַא ֲה ַבת ַה, ’ahavàt ha-torà) e verso Dio
( ַא ֲה ַבת ַה ֵשּׁם, ’ahavàt ha-Shem). L’amore è scelta di campo che non ha confini, anzi:
che ci porta oltre i confini, e che sa costruire un mondo che non si chiude solo sotto
le ali, protettive ma escludenti, del Dio d’Israele; è amore che osa la libertà e le scelte
estreme, necessarie in tempi estremi in cui gli uomini non sanno più riconoscersi co-
me fratelli e in cui, tanto meno, sono disposti a lasciarsi guidare dall’amore.
È tempo di superare la concezione tradizionale di un amore rivolto, partendo
dalla Torà, “solo” ai figli d’Israele e a chi aderisce al Dio d’Israele. È tempo di anda-
re oltre, per scoprire che, al di là della siepe, che separa dalla trasgressione e, nello
stesso tempo, dall’altro, c’è un’altra persona, un fratello, che attende una parola, un
gesto, un sorriso, una stretta di mano, un aiuto e che è pronto a porgerci una parola,
un gesto, un sorriso, una stretta di mano, un aiuto.
E l’altro, nel campo aperto oltre la siepe, è lo straniero (גֵּ ר, ger), quello stra-
niero che Dio ama e per il quale provvede quanto necessario ad una vita dignitosa:
Egli (= Dio) rende giustizia all’orfano e alla vedova e ama lo straniero per dargli pane e
vestito (Dt 10,18).
14
Il precetto positivo ha un forza morale superiore ad un precetto negativo, in quanto il
precetto negativo ha valore puramente limitativo e delimitativo e, in quanto tale, non ci obbliga ad
uscire e ad andare oltre.
167
E amerete lo straniero perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto (Dt 10,19). 15
Lo straniero (גֵּ ר, ger) non è solo lo straniero-residente che, secondo la tradizione,
“viene a porsi sotto le ali della Shekinà”, perché, se così fosse, l’amore rimarrebbe
circoscritto all’ambito d’Israele secondo il criterio inclusivo della prossimità, men-
tre la condizione di stranierità è indicata come equivalente alla condizione degli
ebrei nel paese d’Egitto. Vale a dire: la mitswà positiva “E amerete lo straniero” è
motivata da una precisa esperienza, storicamente determinata. Ed ancora è detto, in
un passo dalla forza sconvolgente:
Lo straniero non lo devi opprimere: anche voi avete conosciuto l’anima (נֶ ֶפשׁ, nèfesh) dello
straniero perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto (Es 23,9).
15
Cfr Levitico 19,33-34.
16
Ancora una volta si deve applicare il criterio esegetico ribbùj.
168
Quattordicesima lezione
Fare i cieli e la terra
Commento al Salmo 134
Salmo 134
170
1. La lunghezza della notte
Il Salmo, pur nella sua brevità e nella sua apparente semplicità, presenta alcuni
problemi testuali ed interpretativi, che pongono domande alle quali è necessario
tentare di dare una risposta.
Queste le domande.
Chi sono coloro che stanno ritti durante le notti?
Qual è la condizione richiesta per alzare le mani al Signore?
In quale dimensione temporale si pone il fare di Dio creatore?
Prendiamo l’avvio nel cammino di analisi di questo Salmo, che Ravasi ha in-
giustamente definito “breve e spoglia composizione, priva di pretese poetiche e di
ricercatezze erudite”, 1 ancora una volta dalle parole di Dante Lattes:
Sembra ai commentatori che questo Salmo sia un specie di dialogo o di reciproco appello fra
i pellegrini e i sacerdoti custodi del Tempio; primi sarebbero stati i pellegrini ad invitare i cu-
stodi, che vegliavano di notte alle porte o ai cortile del Santuario, a benedire, cioè a celebrare
il Signore di cui erano servitori e ministri. Nel I Libro delle Cronache (IX, 17) si parla di
sacerdoti o leviti “portinai” (sho’arim) di vario grado che facevano la guardia alla soglia del
Tabernacolo, all’ingresso, ai cortili, agli arredi, ecc. e sembra che uno di loro, il capo, cantas-
se perché non fossero presi dal sonno durante la notte. Il Talmud (Tamid, 27) 2 riferisce che
l’addetto al Monte del tempio (ish har-ha-baith), preceduto da torce accese, faceva il giro di
ogni corpo di guardia; se qualcuna delle sentinelle non si alzava per dirgli: “O uomo del mon-
te del Tempio, ti saluto!”, voleva dire che si era addormentato ed allora, oltre ad essere battuto
con un colpo di verga, poteva avere bruciato il vestito. Tutto ciò produceva naturalmente un
certo rumore, per cui alla gente che chiedeva da che cosa esso fosse prodotto, rispondevano:
1
Gianfranco RAVASI, Il libro dei Salmi, EDB, Bologna, 1984, vol. III, p. 700.
2
Lattes rinvia al Talmud (bTamìd 27b), ma il passo in oggetto altro non fa che citare
espressamente uno speciico passaggio della Mishnà: mMiddòt I,2. Il testo del Talmud, o
meglio: della Mishnà, citato e parafrasato da Lattes è il seguente: “L’uomo del Monte del
Tempio faceva il giro di tutti i custodi e le torce brillavano davanti a lui. E al guardiano
che non si trovava in piedi, l’uomo del Monte del Tempio diceva: ‘La pace sia con te’. Se
era evidente che lui dormiva, lo colpiva col suo bastone e aveva il permesso di bruciargli i
vestiti. E gli altri dicevano: ‘Che cos’è questa voce nella ‘azarà (cortile)? È la voce di un
levita che è stato percosso e gli sono stati bruciati i vestiti perché dormiva durante il suo
turno di guardia. Rabbi Eli‘ezer ben Ja‘aqov diceva: Una volta hanno trovato il fratello di
mia madre che dormiva e gli hanno bruciato i vestiti” (mMiddòt I, 2).
171
“È un levita battuto le cui vesti sono state bruciate, perché si è addormentato mentre monta-
va la guardia”. Rabbi Eliezer ben Jaaqov raccontava che una volta avevano trovato suo zio
materno che dormiva e gli avevano bruciato le vesti. Doveva sembrare un privilegio questo
ufficio di sentinella notturna; chi ne era investito godeva di una speciale stima, come del per-
fetto servitore di Dio, più degno di tutti di celebrarne le lodi e di invocarne la protezione. A
questo invito il sacerdote rispondeva coll’augurio che Dio benedicesse le folle dei pellegrini
che erano venuti dalle città e dalle campagne al Santuario per renderGli omaggio. 3
Lo stare in piedi indica, sia per i leviti sia per i sacerdoti, un particolare rapporto
col Santuario e con le modalità del servizio ad esso legato. Nel Salmo tutto si muove
attorno al Santuario ed al servizio liturgico (כָּ ל־ עַ ְב ֵדי יהוה, kol-‘avdè ha-Shem, “tutti
i servi del Signore”). Lo stare ritti è, quindi, legato, in questo contesto, al Santuario
ed al servizio dei sacerdoti e dei leviti, sia secondo la prospettiva proposta dal passo
del Talmud ripreso da Lattes (bTamìd 27b), sia secondo quanto è indicato nel se-
guente passo della Torà:
Perché il Signore tuo Dio ha scelto lui (= Levi) fra tutte le tue tribù per stare in piedi ( לַ ֲעמׁד,
la‘amòd), per servire nel nome del Signore, lui e i suoi figli tutti i giorni (Deuteronomio
18,5). 4
Il Salmo che ha a che fare, nella interpretazione proposta dalla tradizione rab-
binica, con i sacerdoti e con i leviti, era probabilmente utilizzato direttamente anche
nel servizio liturgico come ci indica un passo delle Toseftà:
E i leviti suonavano arpe, lire, cembali ed ogni tipo di strumento musicale (mSukkà 5,4).
Alcuni di loro cantavano: Cantico dei gradini. Ecco benedite il Signore (Sal 134,1). Alcuni
di loro dicevano: Alzate le vostre mani nel Santuario (Sal 134,2). E quando si allontanavano
l’uno dall’altro dicevano: Ti benedica il Signore da Sion. E ancora: E possa tu vedere i figli
dei tuoi figli. Pace su Israele (Sal 128,5-6) (tSukkà IV, 7-9).
3
Dante LATTES, Il libro dei Salmi, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma,
1963, pp. 494-495.
4
Così Rashi commenta il passo del Deuteronomio: “Per stare in piedi per servi-
re – da qui si deduce che il servizio sacerdotale si svolge solo stando in piedi” (Rashi su
Deuteronomio 18,5).
5
Cfr Midrash Tehillìm 134,1.
172
che intendono praticare la lettura e lo studio della Torà in quell’ora specifica, per
partecipare alla stessa gioia che provano i giusti nel Gan ‘Eden, perché è in quel mo-
mento specifico della notte che il Santo benedetto egli sia viene a deliziarsi con loro.
Prese la parola rabbi Jehudà e disse: Ecco benedite il Signore, voi tutti servi del Signore che
state ritti nella Casa del Signore durante le notti (Sal 134,1). Questo versetto è già stato de-
terminato nel suo significato 6, ma considera quanto è scritto: Ecco, benedite il Signore. E chi
può essere degno di benedire il Santo benedetto egli sia? Tutti i servi del Signore, vuol forse
significare che ogni figlio d’Israele come totalità è degno di benedire il Santo benedetto egli
sia, a motivo del quale benedicono quelli che stanno in alto e quelli che stanno in basso? Qual
è questa benedizione? È quella dei servi del Signore, non di tutti loro. Chi sono coloro che
dicono la vera benedizione? Coloro che stanno ritti nella Casa del Signore durante le notti
– questi sono coloro che si alzano a mezzanotte e si svegliano per recitare la Torà. Proprio
loro sono quelli che stanno nella casa del Signore durante le notti. E questo corrisponde al
momento della notte in cui il Santo benedetto egli sia viene a deliziarsi con i giusti nel Gan
‘Eden (Zohar I, 136a-b).
L’interpretazione del Talmud (bMenachòt 110a) si fonda sul valore proprio del
verbo ָע ַמד, ‘amad, che, come abbiamo visto, indica la modalità specifica del servizio
cultuale dei sacerdoti e dei leviti. Pertanto, i Maestri, che si dedicano allo studio della
Torà di giorno e di notte, compiono quel servizio che, assieme alla preghiera, sostitui-
sce il servizio sacerdotale non più possibile dopo la distruzione del secondo Santuario.
La forza innovativa della tradizione sta nella capacità di sostituire quello che è
legato a ciò non è più, vale a dire: il servizio cultuale al Santuario, con la linfa nuova
della vita dedicata alla Torà e a Dio. La funzione dello stare ritti (עָ ַמד, ‘amàd) e del
servire (עָ ַבד, ‘avàd) passa, nel tempo senza Santuario, dai sacerdoti ai Maestri; dai
Maestri passa ai discepoli e, per osmosi necessaria e incontrollabile, ad ogni uomo
che intenda affidarsi completamente a Dio ed alla sua parola per compierla.
Se lo stare dei sacerdoti al cospetto di Dio ( ָע ַמד, ‘amàd, e עָ ַבד, ‘avàd) era re-
golato dalle norme specifiche della Torà, come deve essere lo stare “transitivo” dei
Maestri, dei discepoli e degli uomini al cospetto di Dio?
Il Salmo ci suggerisce una possibile risposta.
Il Salmista parla del luogo in cui si alza preghiera a Dio (“nel Santuario”) o
delle modalità della preghiera (“in santità”)?
La tradizione ebraica privilegia il primo aspetto, ma non esclude la seconda
modalità d’interpretazione.
6
Il riferimento implicito è a bMenachòt 110a.
173
Il luogo: ק ֶֹדשׁ, qòdesh, “nel Santuario (o: verso il Santuario)”.
Così interpreta Radaq nel suo commento:
Alzate le vostre mani nel Santuario. L’atto di alzare le mani era proprio dei sacerdoti quando
benedicevano nel Santuario i figli d’Israele. A mio avviso l’espressione indica la preghiera
rivolta a Dio, in analogia con: Innalziamo i nostri cuori con le nostre mani verso Dio nei cieli
(Lam 3,41). Allo stesso modo è detto: Ascolta la voce della mia supplica... quando alzo le
mie mani verso l’adito tuo santo (Sal 28,2); e ancora: Ti ho invocato, Signore, ogni giorno
ho proteso verso di te le mie mani (Sal 88,10). È infatti possibile spiegare l’espressione “nel
Santuario” come se fosse “verso il Santuario”; allo stesso modo di come è detto nel passo
seguente: Verso l’adito tuo santo (Sal 28,2) (Radaq su Salmo 134,2).
La santità delle mani non è richiesta solo ai sacerdoti, ma deve essere l’atteggia-
mento di chi, sacerdote e non, si rivolge al Signore:
Alzate – Tendete in alto le vostre mani al Signore in condizione di santità per benedire il
Signore, perché questo è il modo che deve utilizzare chi benedice (altre persone) alzando le
sue mani verso l’alto (Metsudat David su Salmo 134,2).
7
Così commenta Rashi: “Che non ha lavato le sue mani – prima di salire sulla tribuna”
(Rashi su bSotà 39b).
8
Moshè ben Chaim Alshek (Maharam) (1507-1593). Il suo commento ai Salmi venne pub-
blicato nel 1605 a Venezia.
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La Masorà così indica: “Unica attestazione con scriptio defectiva”. La vocalizzazione ma-
soretica non è da porre in discussione, in quanto il sacerdote (o l’orante) alza entrambe le mani,
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Perché nel testo è usata la scriptio defectiva? È un plurale come vuole la vo-
calizzazione, che si presenta nelle vesti di un singolare come vorrebbe la struttura
consonantica. Tendendo le mani come una sola, pure perché hanno toccato il mondo
secondo i precetti della Torà, l’uomo, nell’atto della preghiera, inaugura il tempo
della rinuncia per dedicarsi solo ed esclusivamente a Dio.
A quale Dio?
A un Dio lontano o a un Dio vicino? A un Dio assente o a un Dio presente?
Il Dio che il Salmista ci propone non è il Dio forte dell’Esodo, il Dio liberatore
che ha tratto i figli d’Israele dal paese d’Egitto; non è nemmeno il Dio potente che
dona la terra di Canaan e vince le battaglie d’Israele. È il Dio creatore, indicato non
col linguaggio dei racconti della creazione, ma secondo una modalità propria della
lingua della preghiera:
Il sintagma ע ֵֹשׂה ָשׁ ַמיִ ם וָ ָא ֶרץ, ‘osé shamàjim wa’àretz, “colui che fa cieli e
terra”, che è attestato anche in Salmo 115,15; 121,2; 124,8; 146,6, ha un valore
“teologico” particolare. Il testo, infatti, non dice: “Egli ha fatto cieli e terra”, ma:
“Colui che fa cieli e terra”. E questo è uno dei gioielli interpretativi del testo ebraico
consegnatoci dalla tradizione masoretica. Secondo la vocalizzazione del testo, l’agi-
re di Dio non è nel passato, nel giorni della creazione, come lascerebbe intendere la
Vulgata, assieme alle versioni antiche: qui fecit caelum et terram, 10 ma nel presente
di ogni generazione. È un fare che attraversa continuamente il tempo della storia,
fino al tempo della redenzione definitiva, quando cieli nuovi e terra nuova saranno
il luogo dell’esserci di Dio.
L’uomo alza le mani a questo Dio che, con volto amorevole e compassionevole,
continua ad accompagnare l’umanità e il mondo nella fatica quotidiana della fedel-
tà, e che trattiene il creato dall’abisso del caos. In questo tempo intermedio, l’unico
tempo che ci è dato di sperimentare nel corso della nostra vita, Dio non agisce diret-
tamente, ma lascia che siano le mani degli uomini a tracciare il corso della creazione
che continua a rinnovarsi e ad avvicinarsi al suo compimento. La creazione è un
progetto in fieri: se le nostre mani saranno pure, secondo l’insegnamento dei Profeti
e dei Maestri, potremo contribuire all’opera creatrice di Dio; se, invece, saranno
impure e lorde di sangue, cancelleremo progressivamente l’ordito posto da Dio nel
creato lungo il quale si tesse la trama delle nostre azioni.
non una sola o una alla volta. Di conseguenza, il testo ebraico conservato presenta una particolarità
che è portatrice di signiicati profondi che vanno ricercati utilizzando i criteri e le modalità che la
tradizione ci ha consegnato.
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Cfr Sal 133,3 LXX: “colui che ha fatto il cielo e la terra”. Nella medesima direzione va
anche il Targum: “Ti benedica il Signore da Sion, lui che ha fatto i cieli e la terra”.
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In cosa consiste, allora, la purità “difettiva” delle mani?
È il modo con cui ci approcciamo agli altri e al mondo a determinare l’attitudine
propria delle nostri mani, che non sono pure in sé e per sé, ma che necessitano di
un quotidiano esercizio, di una ascesi incarnata nel mondo, per divenire e rimanere
pure. I precetti sono uno strumento in questo cammino, ma non sono sufficienti, in
quanto regolamentano l’uso che l’uomo fa delle cose del mondo e delle cose di Dio,
ma non ci indicano quale è il peso dell’impronta delle nostre mani. Nell’ordine della
Torà non c’è il troppo o il poco, ma il consentito e il non consentito. Solo lo Shabbàt,
come elemento fondante che precede la Torà perché è iscritto nell’ordine della crea-
zione e non della rivelazione, introduce il senso del limite e dell’astensione (oggi si
direbbe: della sobrietà e della decrescita). È necessario, per fare sì che le mani siano
realmente pure, estendere progressivamente il valore del limite e dell’astensione,
propri dello Shabbàt, a quella che possiamo definire la condizione feriale, o profana,
della vita dell’uomo.
Solo mani leggere ed amorevoli, capaci di profondere cura e di costruire spazi
di bene, possono essere pure. Si è, infatti, puri sempre in condizione “difettiva”: alla
parola יְ ֵדכֶ ם, jedekèm manca una lettera: la piccola lettera jud ()י, la prima lettera
del Tetragramma sacro. Tutta la vita dell’uomo è una rincorsa alla ricerca di questa
lettera mancante, ovvero: è il tentativo di imitare Dio, per costruire o continuare a
creare un mondo a misura d’uomo. Ma, nonostante ogni sforzo, l’uomo non potrà
raggiungere che quella lettera mancante, solo la prima del Nome divino, quel pic-
colo tratto di calamo che dischiude mondi sempre nuovi ma che non completa il
mondo e non si fa Dio.
Il testo del Salmo, con quella parola scritta in forma difettiva, torna continua-
mente a ricordarci che la condizione umana è caratterizzata da una permanente man-
canza (di Dio, di santità, di umanità, ecc.) che non può essere superata. L’unica via
concessa, per attingere il riflesso di quella lettera mancante, è nella ricerca della
purezza delle mani che sono il segno tangibile della condizione difettiva propria
dell’uomo e del mondo.
Probabilmente, come insegna lo Zohar, c’è solo un tempo in cui è consentito
all’uomo di superare questa condizione difettiva: è la mezzanotte, quando chi vuo-
le andare in cerca del sussurro del divino, si alza, prega, studia la Torà e si dedica
esclusivamente a Dio, togliendo peso alle proprie mani, per un tempo insieme finito
ed infinito. Ed allora, in quel tempo sospeso, il mondo si shabbatizza e le porte del
Gan ‘Eden si aprono per lasciare filtrare un riflesso della luce conservata per i giusti
e della gioia che splende dal volto di Dio.
***
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Quindicesima lezione
Da dove verrà il mio aiuto?
Rilessione dal quindicesimo gradino (e oltre)
Il microcosmo svelato dai Cantici dei gradini ci mostra la verità della condizio-
ne umana: in questo mondo, sottoposto alle leggi del tempo, della morte e del libero
arbitrio, all’uomo che intende seguire la via tracciata da Dio è consentito salire solo,
qualora ne sia capace, fino al quindicesimo gradino. Non è consentito andare oltre.
Solo la via della visione mistica permette un viaggio in un altrove infinito, indefinito
e non ancora conosciuto.
L’uomo, ritto sul quindicesimo gradino, o rimira, a ritroso, il cammino che ri-
conduce ai bordi dell’abisso e sceglie liberamente di precipitare progressivamente
in basso, o volge lo sguardo in avanti e spazia nella monotona pianura senza fine
dell’attesa. Gli sguardi sincronici di tutti gli uomini, in ogni generazione, percorro-
no ogni angolo di quella pianura in cerca di segni che annuncino l’avvicinarsi della
redenzione o l’avversarsi, qui ed ora, delle promesse.
Nella pianura si intravedono tracce da ricercare, da studiare e da seguire. È
la pianura del rotolo scritto, aperto e disteso; è la pianura della Parola, dalla quale
emergono le colline e le montagne rese visibili dalla interpretazione, e che ci apre
la possibilità di percorrere strade capaci di mostrare o di anticipare i frutti possibili
dell’attesa. È la pianura della vita condotta con rettitudine, piana come la via retta
che non conosce più deviazione, ostacolo od inciampo.
Un passo del Midrash ci consente di individuare alcune di quelle tracce e di
percorre un tratto del cammino (oltre).
È scritto: Cantico per i gradini. Alzerò i miei occhi verso i monti: da dove verrà il mio aiuto?
(Sal 121,1) ed è scritto in un altro passo: Chi sei tu, grande monte, al cospetto di Zorobabele
in rettitudine 1? (Zc 4,7). Che cosa significa Chi sei tu, grande monte? Si tratta del Re Messia.
E perché lo chiama grande monte? Per il fatto che egli è grande più dei Padri, come è detto:
Ecco il mio servo avrà successo, si innalzerà, si eleverà, diverrà molto alto (Is 52,13). Si in-
nalzerà più di Abramo, si eleverà più di Mosè e diverrà più alto degli Angeli del servizio. Più
di Abramo, a proposito del quale è scritto: Ho innalzato la mia mano al Signore (Gen 14,22).
Si eleverà più di Mosè, come è detto: Perché tu mi dica: Elevalo sul tuo petto come la balia
eleva il lattante (Nm 11,12). Diverrà alto più degli Angeli del servizio, come è detto: E i loro
cerchi che erano alti incutevano terrore e tutti i quattro cerchi erano pieni di occhi attorno
(Ez 1,18). Da chi discende il Re Messia? Da Zorobabele, e Zorobabele discende da David,
come è detto: E figlio di Salomone fu Roboamo, di cui fu figlio Abia, di cui fu figlio Asa, di cui
1
La parola ִמישֹׁר, mishòr, del testo ebraico, può essere intesa come pianura e, in senso tra-
slato, come rettitudine. Dato che il midrash applica il passo al Re Messia, sembra migliore tradurre
con rettitudine.
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fu figlio Giosafat, di cui fu figlio Ioram, di cui fu figlio Ioas, di cui fu figlio Amazia, di cui fu
figlio Azaria, di cui fu figlio Iotam, di cui fu figlio Acaz, di cui fu figlio Ezechia, di cui fu figlio
Manasse, di cui fu figlio Amon, di cui fu figlio Giosia. Figli di Giosia: Giovanni primogenito,
Ioakim secondo, Sedecia terzo, Sallum quarto. Figli di Ioakim: Ieconia, di cui fu figlio Sede-
cia. Figli di Ieconia il prigioniero: Sealtiel, Malchiram, Pedaià, Seneazzar, Iekamià, Hosamà
e Nedabia. Figli di Pedaià: Zorobabele e Simei. Figli di Zorobabele: Mesullàm e Anania e
Selomìt loro sorella. Figli di Mesullàm: Casubà, Oel, Berechià, Casadia, Iuab-Chesed, cin-
que figli. Figli di Anania: Pelatia, di cui fu figlio Isaia, di cui fu figlio Refaià, di cui fu figlio
Arnan, di cui fu figlio Abdia, di cui fu figlio Secanià. Figli di Secanià: Semaià, Cattus, Igheal,
Naaria e Safàt, sei. Figli di Naarià: Elioenài, Ezechia e Azrikàm, tre. Figli di Elioenài: Oda-
vià, liasib, Pelaià, Akub, Giovanni, Delaià e Ananì, sette (1 Cr 3, 10-24). La Scrittura spiega
in modo dettagliato fino a qui. Chi è questo Ananì? È il Re Messia, come è detto: Guardando
ancora nelle visioni della notte, ecco apparire con le nubi del cielo come un figlio di uomo
(Dn 7,13). Cosa significa sette? Quanto è scritto a riguardo del Messia, come è detto: Perché
chi disprezza il giorno delle piccolezze? Anzi gioiranno e vedranno la pietra del filo a piombo
in mano a Zorobabele. Questi sette sono gli occhi del Signore che percorrono tutta la terra
(Zc 4,10). Proprio per questo è detto: Chi sei tu, grande monte, al cospetto di Zorobabele in
rettitudine? (Zc 4.7). Colui a proposito del quale è scritto: Giudicherà con giustizia i miseri
e decreterà con rettitudine ( ְבּ ִמישׁוֹר, bemishòr) a riguardo degli umili della terra (Is 11,4). 2
E farà uscire la pietra, quella di testa (Zc 4,7). Questa è la pietra di Giacobbe, come è detto:
Giacobbe si alzò si buon mattino e prese la pietra che aveva posto sotto la sua testa (Gen
28,18). E così dice Daniele: Mentre tu stavi guardando, fu tagliata una pietra non per opera
di mani, essa colpì la statua sui piedi di ferro e di argilla e li frantumò… e la pietra che ave-
va frantumato la statua divenne un grande monte che riempì tutto il paese (Dn 2,34 e 35).
Cosa significa “grande monte” nel passo di Daniele? È quanto troviamo nel passo: Chi sei tu,
grande monte? (Zc 4,7). Si tratta del Re Messia. E da dove giunge? Attraverso i monti, come
è detto: Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace (Is 52,7). In
quell’ora i figli d’Israele vedranno in modo chiaro e diranno: Alzerò gli occhi ai monti, da
dove verrà il mio aiuto? Il mio aiuto viene da con il Signore (Sal 121, 1-2) (Midrash Tanchu-
ma Toledòt, 20, ed. Buber).
Se è vero, come insegna la tradizione rabbinica, che nella Torà non c’è un prima
o un dopo, ovvero che tutte le parole del testo sono dette nella dimensione atempo-
rale della Rivelazione, allora ogni parola della Scrittura può essere una porta che
si apre su infiniti microcosmi o su mondi che solo l’interpretazione può svelare
e compiere. Fra le parole contenute nella Scrittura quelle dei quindici Cantici dei
gradini hanno una forza particolare sia perché ci inducono alla elevazione del cuore,
sia perché ci confortano nel cammino dell’attesa in quanto proclamano la fedeltà di
Dio alle promesse.
Le parole aprono porte e ci guidano, grazie alla riflessione delle generazioni che
ci hanno preceduto, verso altre porte che ci schiudono altri sentieri o ci riportano là
dove già siamo o eravamo. A volte le porte che si erano aperte si richiudono, perché
ci limitiamo a ripetere quanto abbiamo appreso dai Padri e dai Maestri senza porre,
a nostra volta, domande e senza cercare altre porte da aprire.
Il passo del Midrash pone diverse domande alla Parola e individua, partendo
sempre ed esclusivamente dalla Parola, diverse risposte che legano assieme parole
2
L’utilizzo di Isaia 11,4 conferma che, secondo il midrash, la parola ִמישׁוֹר, mishòr, anche
in Zaccaria 4,7 ha il valore di rettitudine.
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che tutte conducono alla soglia del regno del Re Messia e, in tal modo, Scrittura ed
interpretazione sembrano chiudere il cerchio dell’attesa e annunciare l’inizio del
tempo della consolazione. In realtà il Midrash si chiude in modo aperto perché non
risolve tutti i problemi interpretativi e lascia ad altri la ricerca di risposte ad una
domanda non espressa ma soggiacente: perché nel passo del Salmo è detto “Il mio
aiuto viene da con il Signore” e non semplicemente “dal Signore”?
È detto “Il mio aiuto viene da con il Signore” perché il passo parla del Re
Messia e intende insegnarci che l’aiuto non verrà direttamente dal Signore, ma da
colui che, giusto ed innocente, è con Colui che è Giusto ed Innocente; solo in virtù
di questa intima compartecipazione, il Re Messia potrà inaugurare sulla terra il tem-
po della giustizia, dell’innocenza e della pace, preludio necessario alla Redenzione
finale e definitiva.
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Finito di stampare nel dicembre 2012
da ABC Tipograia, Sesto Fiorentino