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Capitolo terzo

L’OLIO CRISTICO

I. PREMESSE

1. Terminologia: i ‘verbi’ dell’unzione


Prima di entrare nel merito della radice cristica del sacramento dell’unzione, ci
dobbiamo soffermare brevemente sulla terminologia usata nella Bibbia relativamente
alle unzioni. Bisogna anzitutto distinguere tra l’uso dei verbi che a noi interessano
nell’Antico e nel Nuovo Testamento. I verbi che significano ungere sono χρίω e
̉αλείφω. I due termini e i loro derivati, nell’Antico Testamento, traducono
rispettivamente i significati ebraici di mišhāh, per le unzioni liturgiche, e di tamrûq,
per le altre unzioni1. Tuttavia, la traduzione in greco, per quanto riguarda la Bibbia dei
Settanta2, non distingue così nettamente i due usi, poiché ̉αλείφω e i suoi derivati sono
utilizzati anche in merito a unzioni sacerdotali, come si legge, ad esempio, in Es 40,15 o
Nm 3,33, unzioni che seguono subito la purificazione dei sacerdoti con acqua.
Etimologicamente mišhāh deriva da māšāh, ungere, consacrare, mentre tamrûq
deriva da māraq, pulire, purificare, lucidare. L’accezione di pulire, purificare, lucidare
per certi versi la si ritrova anche nel significato del greco ̉αλείφω. L’uso dei due termini
greci diventa specifico nel Nuovo Testamento, dove si ricorre a χρίω per “esprimere
l’idea dell’unzione in un contesto religioso e teologico” e ad ̉αλείφω “quando si tratta di
un’unzione materiale”4. Le unzioni di Betania del vangelo di Giovanni (Gv 12,3), della
peccatrice (Lc 7,38) e degli infermi (Mc 6,13 e Gc 5,14) nel testo greco sono rese con il
verbo ̉αλείφω. In generale nel Nuovo Testamento, come nell’era cristiana almeno nei

1
Cfr. F. VIGOUROUX (ed.), Dictionnaire de la Bible, Paris, Litourzey et ané Éditeurs, 1912, voce Onction.
2
Per la Bibbia dei Settanta si fa riferimento a Alfred RAHLFS (ed.), Septuaginta, Stuttgart, Deutsche
Bibelgesellschaft, 2004.
3
Per le ricorrenze dei due verbi e i loro derivati nella Septuaginta v.: Edwin HATCH – Henry A. REDPATH
(a cura di), A concordance to the septuagint and the other greek versions of the Old Testament (including
the Apocriphat Books), Graz, Akademische Druck-u. Verlagsanstalt, 1975, voci ̉αλείφειν e χρίειν.
4
H. Schlier, ̉αλείφω, in Gerhard FRIEDRICH (ed.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia,
Paideia, 1965, vol. I, col. 617.

25
primi secoli, la parola ̉αλείφω è legata alle unzioni di valore medico ed esorcistico,
quindi con orientamento alla pulizia e alla purificazione5.

2 Il senso della malattia nell’AT e nel NT

Bisogna brevemente soffermarci anche sul senso della malattia per il popolo
ebraico prima e per il cristianesimo poi. Il rapporto peccato-malattia sembra essere
smentito da Giobbe: le sofferenze vengono da Dio al pari delle gioie e hanno significato
di prova e di fedeltà. Nell’Antico Testamento, comunque, la malattia, la sofferenza, è
legata al peccato, al contrario della salute e di una lunga vita che sono interpretate,
invece, come benedizioni. Tale è la visione della malattia e della salute che hanno gli
amici di Giobbe6.
Il male e la morte non sono realtà ontologiche, non fanno parte del disegno di
Dio, ma derivano dal peccato dell’uomo, come si può leggere nel terzo capitolo di
Genesi, oppure Nm 12,9-13, o in 1Sam 16,14, o in sl 38,3-9. Nonostante il libro di
Giobbe, vi sono altri esempi che mettono in evidenza la connessione tra peccato e
malattia come in 2Re 5,27, in 1Mac 9,54-57, in Dn 4,28, in Is 38,1-20. La sofferenza
come prova di fede che si trova in Giobbe, la ritroviamo anche in Tb 12,13, Gdt 8,25-
27. Quello che è importante è che la sofferenza non è soltanto una prova di fede, ma
comporta una ricompensa che ristabilirà la giustizia, come si evince in Gb 19,26-27,
dove si può anche leggere una speranza della risurrezione. La speranza diventa
escatologica, guarda al futuro e non più solo al passato, dove viene cercata una causa
della sofferenza.
Nell’Antico Testamento, così come nel Nuovo, la malattia e la sofferenza sono
viste da una prospettiva religiosa. Non è casuale che l’avvento del Messia, tra le altre
cose, porti con sé la guarigione (Is 19,22; Is 53,4; Is 57,18), non disgiunta dall’idea che
la sofferenza del giusto espia i peccati altrui, come è descritto nei canti del servo di
Jahvè del profeta Isaia. In questo modo la sofferenza diventa grazia e distrugge il
peccato. Nel Nuovo Testamento questo aspetto si accentua notevolmente tenendo conto
5
Ivi, coll. 617-626. In questo saggio, all’inizio, si dice che ̉αλείφω rende le parole ebraiche sûk, tûâh e
māšah, mentre non menziona tamrûq e neppure māraq.
6
Per il rapporto malattia-peccato v.: Samuangala Raymond NKINDIJ, Il sacramento dell’unzione degli
infermi, cit., pp. 151-154; Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica,
cit., pp. 55-82.

26
della speranza della risurrezione che si lega inevitabilmente alle vicende storiche di
Gesù Cristo. Mt 8,17 presenta Gesù come medico che prende su di sé le infermità e
applica simbolicamente quelle unzioni che non erano state applicate in Is 1,5-6 e cura
quelle ferite non curate in Ger 30,12 e in Os 5,13. La cacciata degli spiriti immondi
prepara la guarigione dalle malattie, come si legge riguardo alla missione affidata da
Gesù ai Dodici in Mt 10,1-8, Mc 6,6-13 e Lc 9,1-6. I vangeli non perdono di vista la
prospettiva religiosa e ci presentano normalmente i malati come peccatori e sofferenti.
Per Paolo, ad esempio in 2Cor 1,5 e Fil 1,20, la sofferenza del cristiano, più
specificatamente la tribolazione e la persecuzione e non tanto una malattia, che vive la
vita in Cristo è un atto di fede che, da un lato, spera nella consolazione di Dio,
dall’altro, va a vantaggio della Chiesa.
La dimensione della fede è molto importante e Gesù opera le guarigioni proprio
in presenza della fede, così guarisce il paralitico in Mc 2,9-11. In Lc 13,10-17, Gesù
imputa a Satana il male che affligge la donna curva, così lo vince e guarisce la donna.
La malattia, nel Nuovo Testamento, è in continua tensione tra fede, peccato e
manifestazione delle opere di Dio, come nella guarigione del cieco nato, dove Gesù non
richiede espressamente la fede e nega un nesso tra peccato e malattia (Gv 9,1-12). Un
nesso negato anche in At 3,1-10, dove Pietro guarisce uno storpio, oppure in At 9, 32-35
dove sempre Pietro guarisce un paralitico, o in At 14,8-11 dove Paolo guarisce un altro
paralitico.
Nel Nuovo Testamento, la guarigione è segno della salvezza futura, tant’è vero
che in Ap 21,1-4, dopo che sono apparsi un nuovo cielo e una nuova terra e la
Gerusalemme scesa dal cielo, il dolore non c’è più. La sofferenza resta, fino alla fine dei
tempi, ed è il modo attraverso cui è possibile conoscere Dio, tanto più, che, proprio
mediante la sofferenza, il Dio incarnato ha espiato il peccato per l’umanità intera, come
era stato annunciato tramite la figura del servo di Jahvè. La croce, come strumento di
dolore e di morte cruenta, diventa segno di vittoria e di salvezza e crea un forte legame
tra popolo e Dio, mirabilmente espresso da san Paolo: “[…] sono lieto delle sofferenze
che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo,
a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col. 1,24).
La tensione fede-peccato-malattia e la dimensione religioso-salvifica
dell’unzione, si riscontra nei rituali delle varie chiese, dove si invoca sempre il perdono
dei peccati. A esempio, riporto la formula di unzione del nostro rito latino che è molto
semplice, ma significativa nella visione della malattia ora illustrata: “Per questa santa

27
unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito
Santo. E liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi”.

3. Breve storia del sacramento dell’unzione. Punti essenziali

Dobbiamo altresì percorrere a grandi linee la storia del sacramento dell’unzione


degli infermi. Questa storia inizia nei vangeli, in particolare nel vangelo di Marco.
Benché Mc 6,12-13 alluda soltanto il sacramento, si deve rilevare che in questi due
versetti, fuorché l’imposizione delle mani e la preghiera, vi sono elementi che
caratterizzeranno il sacramento stesso: la fede e l’unzione con l’olio. L’atto di ungere gli
infermi sembra strettamente legato alla predicazione per la conversione (un atto molto
importante come si può leggere anche in Mc 1,15) e alla cacciata dei demoni.
Se adottassimo un’altra prospettiva, potremmo leggere queste guarigioni come
di natura taumaturgica e decisamente corporali. Stando, invece, alle guarigioni operate
da Gesù, esse sono legate al perdono dei peccati, dando valore anche alla guarigione
spirituale. Si rileva un primo discrimine tra l’uso dell’olio per alleviare le ferite, che
troviamo nella parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37), e l’unzione degli apostoli in
nome di Gesù che guarisce sia corporalmente, sia spiritualmente7.
Abbiamo già detto che, nel Nuovo Testamento, la sofferenza e la guarigione si
inseriscono in un orizzonte escatologico ed è in questo senso che va letto Mc 16,15-18 8,
l’altro testo esplicito sulla guarigione dalle malattie, insieme a quelli della missione dei
Dodici (tra cui Mc 6,12-13), che però non menziona l’unzione con olio, ma solo
l’imposizione delle mani. Qui, è la fede nel Cristo risorto che porterà gli uomini a essere
battezzati e a salvarsi, e le guarigioni operate nel nome del Signore da coloro che
credono, come in Mc 6,12-13, sembrano essere di natura taumaturgica.
In questi passi del vangelo di Marco, si farebbe menzione di un sacramento in
nuce che trova pieno sviluppo e chiara divulgazione nella lettera di Giacomo. Qui la
guarigione non ha più caratteristiche taumaturgiche, ma è assolutamente legata al
sacramento9. In Gc 5,13-16, il malato chiama a sé i presbiteri perché forse non può
muoversi; α̉σθενει̃ è un termine usato talvolta per chi sta per morire (Gv 4,46 e 11,1, At
7
Cfr. Samuangala Raymond NKINDIJ, Il sacramento dell’unzione degli infermi, cit., p. 157.
8
Cfr. Giorgio GOZZELINO, L’unzione degli infermi: sacramento della vittoria sulla malattia, cit. p. 53;
Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., p. 87.
9
Cfr. Giorgio GOZZELINO, L’unzione degli infermi: sacramento della vittoria sulla malattia, cit. p. 53-54.

28
9,37). Viene descritto un rito di carattere ecclesiale, in cui si impongono le mani sul
malato e gli si rimettono i peccati10. Secondo Nkindji, invece, l’infermo non è un
moribondo e l’unzione ha efficacia per la fede e la preghiera che l’accompagnano. La
salvezza è più di carattere spirituale: il malato riceve un sollievo da parte del Signore,
secondo il significato della parola ε̉γερει̃11.
La lettera di Giacomo è presumibilmente databile all’inizio della seconda metà
del I sec. e prima della rivolta giudaica (66-70). Al decennio 70-80 è invece databile una
lamina d’argento con inciso, in diciassette righe, presumibilmente, il rituale
dell’unzione degli infermi12. L’entusiasmo interpretativo e l’estesa integrazione nella
traduzione dello studioso francescano, Testa, porta questi ad affermare che il testo
presenterebbe numerose analogie con quello della lettera di Giacomo, compresa la
remissione dei peccati, la grazia santificante che indica l’unzione come sacramento. Le
differenze che si rilevano sono la menzione dell’angelo cattivo, Qwr’el, che ha
provocato la caduta del malato, l’aspersione dell’olio mediante presumibilmente un
ramo di issopo13 e la venuta della Verga, il Messia, secondo l’oracolo di Is 11,1-5 e
l’interpretazione dei giudeo-crisitani14. Riguardo a questa lamina vi sono da dire ancora
due cose: il rifiuto del sacrificio secondo l’antica legge (lo si dovrebbe leggere nella
settima riga) e la lunga tradizione durata fino al concilio Vaticano II di menzionare nelle
orazioni iniziali alla somministrazione del sacramento dell’unzione dei malati (estrema
unzione dal sec. VII al Vaticano II) l’intervento dell’angelo mandato da Dio per
sconfiggere le maligne discordie (v. Rituale Romanum), con la differenza che la lamina
menziona l’angelo che ha portato la malattia al malato.
10
Cfr. Giorgio GOZZELINO, L’unzione degli infermi: sacramento della vittoria sulla malattia, cit. p. 53-
60; Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., pp. 90-92.
11
Cfr. Samuangala Raymond NKINDIJ, Il sacramento dell’unzione degli infermi, cit., pp. 159-160. v.
anche Mario MASINI – Franco SOTTOCORNOLA (a cura di), Cura pastorale degli infermi. Commento
esegetico e pastorale del lezionario liturgico degli infermi, cit., pp. 273-276.
12
Per gli studi sulla lamina v.: L. CRISTIANI, Découverte d’un texte sur l’Extrême-Onction, in «L’ami du
clergé», 73 (1963), pp. 490- ; Samuangala Raymond NKINDIJ, Il sacramento dell’unzione degli infermi,
cit., p. 163; Emmanuel TESTA, L’Huile de la Foi, Jérusalem, Imprimerie des PP. Franciscains, 1967.
13
“L’objet liturgique qu’on fait trembler, qu’on agite, qu’on secoue sur l’infirme de la lamelle, “est notre
bouquet”. Ceux-ci rappellent intentionnellement le bouquet d’hysope qu’on trempait dans le sang de
l’agneau, pour en asperger les portes des Hébraux, Ex 12,22. Ici, avant de la secouer sur le malade, avant
d’asperger la victime de l’ange Qwr’el, on le trempe dans l’Huile de la Foi” (Emmanuel TESTA, L’Huile
de la Foi, p. 37).
14
Ivi, pp. 49-51.

29
L’olio assume varie denominazioni nel corso dei primi secoli da olio della
preghiera a olio celeste, da olio della misericordia a olio dei malati, da olio del crisma a
olio della santa riconciliazione15. Nella lamina, risulterebbe un riferimento alla lettera di
Giacomo, ma non vi è nessun cenno riguardo all’istituzione di Cristo del sacramento
che, tuttavia, è reso efficace in relazione all’unico grande sacrificio, come si dedurebbe
indirettamente dal rigo settimo che rifiuta il sacrificio dell’antica economia di salvezza.
Riferimenti scritturistici non si evincono neanche dalla Tradizione Apostolica di
Ippolito di Roma, scritto risalente agli inizi del sec. II:

Se si offre olio, (il vescovo) renda grazie come nell’offerta del pane e del vino,
adoperando non proprio le stesse parole, ma nello stesso senso: “Come santificando
quest’olio, con il quale hai unto re, sacerdoti e profeti, tu dai salvezza a coloro che lo
ricevono e se ne ungono, così esso porti conforto a coloro che lo gustano e salute a
coloro che lo usano”16.

Da questo brano si deduce che l’olio potesse essere assunto anche per via orale.
La lettera di papa Innocenzo I a Decenzio vescovo di Gubbio, datata 416, si
riferisce alla lettera di Giacomo e ci informa per la prima volta, sulla base dei documenti
di cui disponiamo, che la benedizione dell’olio spetta al vescovo. L’unzione è inoltre
considerata sacramento perché non può essere somministrata a un penitente17.
Dalla orazione Emitte, tipica della Chiesa romana, che troviamo nella redazione
gregoriana del sec. VI e nel sacramentario gelasiano del sec. VIII, anche se la formula
potrebbe risalire al sec. V, sappiamo che l’olio serve per essere unti, o per berlo o per
applicarselo da parte del malato stesso18.
Dalla Gallia del sec. VI, la predicazione di Cesario di Arles ci mostra come
l’unzione si opponga ai riti magici di guarigione dei pagani. Seppure Cesario parli di

15
Ivi, pp. 78-79.
16
IPPOLITO DI ROMA, La Tradizione Apostolica, a cura di Rachele TATEO, Milano, Paoline, 1995, p. 65.
17
Cfr. Heinrich DENZINGER (ed.), Enchiridion symbolorum. Definitionum et declarationum de rebus fidei
et morum, cit., § 216.
18
Per la storia del sacramento v.: Giorgio GOZZELINO, L’unzione degli infermi: sacramento della vittoria
sulla malattia, cit. pp. 63-109; Mario RIGHETTI, Storia liturgica, cit., vol. IV, pp. 323-352.

30
perdono dei peccati, egli insiste sulla guarigione fisica 19. Il perdono dei peccati emerge,
nella stessa epoca, anche in Cassiodoro20 ed Eligio vescovo di Noyon21.
Dal sec. VII, la benedizione dell’olio dei malati è celebrata dal vescovo il
Giovedì Santo. La lettera di Giacomo resta il riferimento scritturistico del sacramento.
Tra i secc. VIII e XII si afferma l’unzione dei cinque sensi, perché veicolano il peccato,
e cessa l’assunzione dell’olio per via orale. L’applicazione dell’olio è riservata al prete,
poiché si fa più stretto il legame tra penitenza sacramentale e unzione dei malati, della
quale si privilegiano in maggior misura gli effetti spirituali. Quando poi l’unzione si
connette alla confessione che precede il viatico, essa diviene estrema unzione, creando
uno iato tra prassi pastorale e indicazioni liturgiche, in quanto nelle orazioni si continua
a parlare di guarigione e di recupero delle normali attività del malato. Questi
cambiamenti sono iniziati, probabilmente già nel sec. VII, quando per la prima volta
viene usata da Sonnatius di Reims l’espressione estrema unzione22.
Nel periodo della scolastica, Ugo di San Vittore 23, che anch’egli enumera i sette
sacramenti secondo l’uso della teologia del tempo, sostiene che l’unzione ha il duplice
effetto di medicina spirituale prima di tutto e poi corporale. Sempre in questa epoca, a
seguito dell’uso pastorale di conferire l’olio degli infermi in stato di grazia, cioè dopo la
confessione, si sviluppa l’idea di un parallelismo tra sacramenti di iniziazione cristiana e
penitenza, viatico e unzione.
Per san Tommaso24, l’unzione, a differenza del battesimo che è una
rigenerazione spirituale e della penitenza che è una risurrezione spirituale, è una
guarigione o cura dello spirito. Quindi, questo sacramento, che è tale perché dispensa la
grazia e rimette i peccati, interviene non sul peccato originale o mortale, ma su quelli
che rendono l’uomo spiritualmente infermo. Tali peccati sono un residuo del peccato
attuale e originale e generano una debolezza. La grazia dispensata nel sacramento è

19
Cfr. CÆSARIUS ARELATENSIS (?), Sermo CCLXV . De christiano nomine cum operibus non christianis,
in PL, vol. 39, coll. 2237-2240, col. 2238.
20
Cfr. CASSIODORUS VIVARIENSIS, Epistola S. Jacobi ad dispersos, in PL, vol. 70, coll. 1377-1380, col.
1380.
21
Cfr. AUDŒNUS ROTHMAGENSIS, Monitum in vitam sancti Eligii, in PL, coll. 477-594, col. 529.
22
“Extrema unctio deferatur laboranti et petenti, eumque pastor in propria saepius invisat, et pie visitet,
eum ad futuram gloriam animando, et debito preparando” (SANCTI SONNATII RHEMENSIS, Statuta, in PL,
vol. 80, col. 444).
23
Cfr. HUGO DE S. VICTORE, De sacramentis christiane fidei, in PL, vol. 176, coll. 173-618, col. 577-580.
24
Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, La somma teologica, Suppl., qq. 29-33, in particolare q. 30 art. 1 e 2.

31
incompatibile con qualsiasi tipo di peccato che viene così cancellato. In questo senso,
nella lettera di Giacomo si fa riferimento alla remissione dei peccati. Ciò significa che
non sempre il sacramento dell’unzione cancella il peccato, perché non sempre lo trova,
ma elimina questa debolezza che si chiama reliquie del peccato. Quando il peccato c’è
lo cancella, ma è un effetto secondario. L’unzione opera una guarigione interiore, che è
l’effetto principale, mentre quella fisica è un effetto secondario e si produce quando
giova alla prima. Siccome prepara comunque all’ingresso nella gloria è estrema
unzione.
San Tommaso25 scrive anche che i sacramenti perfezionano l’uomo e forniscono
rimedi contro il peccato ed elabora un parallelismo tra vita fisica e spirituale, in cui si
riflette quello tra sacramenti di iniziazione e penitenziali. Alla generazione fisica, che
sancisce l’essere e il vivere dell’uomo, corrisponde il battesimo. Alla crescita e alla
fortificazione dell’essere troviamo la cresima, mentre al nutrimento trova riscontro
l’eucaristia. Ma nella vita ci sono le infermità anche spirituali che si combattono con la
penitenza, mentre per il recupero delle forze c’è l’estrema unzione che toglie le reliquie
del peccato.
Per quanto riguarda l’istituzione di questo sacramento, san Tommaso 26 scrive
che Cristo istituì tutti i sacramenti, ma differì la loro promulgazione. Alcuni di difficile
comprensione li istituì lui stesso, altri, come l’estrema unzione, furono affidati agli
apostoli. Il Signore operò e disse molte cose che non si trovano nei vangeli e gli
evangelisti trasmisero quanto era necessario per la salvezza e l’organizzazione della
Chiesa. Per questo motivo essi non narrano dell’estrema unzione, perché non è
necessaria alla salvezza, né appartiene all’organizzazione o perfezione della Chiesa,
tuttavia, è di rilievo ricordare che nel vangelo di Marco si fa menzione dell’unzione
degli infermi.
Il concilio di Trento, nella XIV sessione del 25 novembre 1551, definisce la
dottrina dell’estrema unzione come il perfezionamento del sacramento della penitenza e
di tutta la vita cristiana intesa come una perpetua penitenza. Dispensa la grazia e quindi
rimette i peccati e ciò che resta dei peccati, rafforzando l’anima del malato per
sopportare più facilmente le sofferenze e le pene della malattia e per resistere meglio
alle tentazioni del demonio. La guarigione corporale si ha se questa può giovare alla
salvezza dell’anima. Il concilio, inoltre, proclama la divina istituzione di questo
25
Ivi, III, q. 65, art. 1.
26
Ivi, Suppl., q. 29, art. 3.

32
sacramento solo accennata in Mc 6,13 e promulgata da Gc 5,14 27. Nonostante il concilio
di Trento consideri il sacramento sia per la guarigione spirituale e sia per quella
corporale (basti consultare il rituale di Paolo V, datato 1614), per tutto il periodo
successivo fino al concilio Vaticano II, il sacramento resta una preparazione alla morte.
Con il concilio Vaticano II, in particolare con la costituzione dogmatica
Sacrosantum Concilium, ai numeri 73 e 74, il sacramento viene chiamato in modo
migliore unzione degli infermi e non è più il sacramento per coloro che sono in fin di
vita, ma che per malattia o per vecchiaia corrono il pericolo di morte.
La duplice traiettoria, spirituale e corporale, tracciata dal concilio di Trento, si fa
più chiara con il Direttorio liturgico pastorale per l’uso rituale dei sacramenti e dei
sacramentali della CEI del 23 febbraio 1967, dove il sacramento è rinvigorimento
spirituale dalla debolezza della malattia. È orientato alla guarigione, tuttavia è anche in
preparazione alla morte. Toglie il peccato e i resti del peccato.
Nel periodo post-conciliare, in Sacram Uctionem Infirmorum del 30 novembre
del 1972, costituzione apostolica, sono confermate le linee del concilio Vaticano II. Nel
rituale, Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, del 1972, non si nega
che ci sia un rapporto tra il peccato e la malattia, ma neppure si imputa al peccato
(personale) la malattia. L’esperienza contemporanea (v. per esempio Sacram Unctionem
Infirmorum del 30 novembre 1972) fa tesoro della lunga tradizione che parte da
Innocenzo I e passa per il concilio di Trento. E la malattia resta in qualche modo legata
alla dimensione del peccato. Un’altra costituzione dogmatica, Lumen Gentium, al
numero 11 dice:

Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa
raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro
pene e li salvi (cfr. Iac 5,14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e
morte di Cristo (cfr. Rom 8,17; Col 1,24; 2Tim 2,11-12; 1Petr 4,13) per contribuire così
al bene del Popolo di Dio.

Questo testo è particolarmente importante, perché, oltre a sottolineare che il sacramento


passa attraverso la morte e la risurrezione di Cristo e alla sua glorificazione, conferma,
secondo la tradizione, che il testo scritturistico di riferimento è il brano tratto dalla
lettera di Giacomo.
27
Per la dottrina e i canoni da essa derivati cfr. Heinrich DENZINGER (ed.), Enchiridion symbolorum.
Definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, cit., § 1694-1770, 1716-1719.

33
Chiese Orientali

Nelle chiese orientali, fatta eccezione per la Chiesa nestoriana (più propriamente
Chiesa assira) in cui non vi è un vero e proprio sacramento dell’unzione, questo
sacramento è celebrato con l’assemblea dei fedeli, ma se il malato non può essere
trasportato in chiesa, l’amministrazione del sacramento avviene in casa del malato
stesso. Εύχελαιος è l’olio santo, benedetto di regola da sette sacerdoti (ma il numero può
variare a seconda del rito e delle necessità), rituale mai separato dall’amministrazione
del sacramento. La celebrazione è detta anche rito della lampada, perché le unzioni sono
conferite con olio benedetto che alimenta delle lampade. Il fondamento scritturistico è il
brano della lettera di Giacomo. A differenza della sacramentaria occidentale, soprattutto
pre-conciliare, gli effetti della somministrazione dell’unzione riguardano prima di tutto
la guarigione spirituale e poi quella corporale28. Il sacramento infatti non è riservato ai
morenti, ragione per cui sono stati fatti dei rimproveri alla prassi della Chiesa di
Roma29.
Cominciamo con la Chiesa assira, che non contempla questo sacramento, ma che
presenta delle tradizioni molto interessanti. Il rito assiro, prevede una benedizione
dell’olio per i malati, detto olio della guarigione. Nella preghiera di benedizione
dell’olio, si invoca il Signore come vero Medico per guarire tutte le malattie e le
angosce e per rimettere i peccati. La materia del rituale ha un trattamento molto
particolare ed è indirizzata alla confezione del Taybûtha, del santo, o Hnana, la grazia.
Lo Hnana si compone di polvere prelevata in un luogo in cui sono stati martirizzati i
confessori della fede (o della polvere presa dai sepolcri dei martiri), posta in un vaso e
mischiata ad acqua e olio. L’impasto viene poi suddiviso in piccoli pezzetti che sono
messi a seccare. Al termine di questo procedimento, i pezzetti sono messi in un vaso e
benedetti invocando san Tommaso apostolo perché essi siano medicina per il corpo e
per l’anima30.

28
Cfr. Giorgio GOZZELINO, L’unzione degli infermi: sacramento della vittoria sulla malattia, cit. pp. 86-
88. Erroneamente, Gozzelino scrive che gli effetti dell’unzione sono orientati più verso la guarigione
corporale che spirituale.
29
A questo proposito si ricorda la posizione di Simeone di Tessalonica che definisce “insania” la
consuetudine di somministrare il sacramento non ai malati ma ai moribondi (v. SYMEONIS
THESSALONICENSIS, De sacro ritu sancti olei sive euchelæi, in PG, vol. 155, coll. 515-536, col. 518).

34
Nella Chiesa siro-ortodossa o giacobita , già da Severo di Antiochia si menziona
l’unzione degli infermi. Mentre per la chiesa assira non è stato possibile rintracciare una
base scritturistica, qui al contrario leggiamo che il testo di riferimento è la lettera di
Giacomo. Perciò, l’unzione era amministrata ritenendo che avesse efficacia corporale e
spirituale (remissione dei peccati). L’olio, propriamente detto della preghiera o della
grazia (l’olio dell’unzione era riservato al battesimo), è benedetto e amministrato dai
sacerdoti durante il rito detto delle lampade31.
Nella Chiesa siro-antiochena cattolica si distinguono due riti: l’unzione
sacramentale vera e propria e il rito delle lampade. Il rito dell’unzione presenta tra le
letture la lettera di Giacomo (5,13-16) e il vangelo di Marco (6,6-13). Il rito delle
lampade è di gran lunga più interessante. Questo rito, ancora oggi celebrato nelle chiese
copta ed etiope e in quella bizantina e in uso nella chiesa siro-antiochena fino al
secondo sinodo Sciarfè del 1888, si chiama così perché in siriaco il sacramento
dell’unzione era detta lampade da Lc 12,35: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le
lucerne accese”. L’unzione è usata per guarire sia nel corpo e sia dal peccato. Con il rito
delle lampade, l’infermo riceve la grazia di Dio anche per i peccati dimenticati. Il rito si
svolge nel modo seguente: della farina impastata con olio è posta in un vaso di
terracotta, poi cinque lampade (a significare le cinque vergini prudenti o i cinque sensi)
vengono poste a forma di croce e accese una per volta a ogni ufficio. Durante

30
Cfr. Irénée-Henri DALMAIS, Le liturgie orientali, Catania, Edizioni Paoline, 1960, pp. 115-116;
Henricus DENZINGER (a cura di), De estrema Unctione, in Ritus orientalium coptorum, syrorum et
armenorum, in administrandis sacramentis. Ex Assemanis, Renaudotio, Trombello aliisque fontibus
authenticis collectos, prolegomenis notisque eritis et exegeticis intructos, concurrentibus nonnullis
orientalium pertir, Wirceburgi, Typis et Sumptibus Stahelianis, 1863, pp. 184-190; C. MOUSSESS, Les
livres liturgiques de l’église chaldeenne, Beyrouth, La Photo-Presse, 1955, pp. 110-114. Tamas riporta
invece un rituale un po’ diverso: l’olio è mescolato con acqua e polvere delle reliquie di un santo, il tutto
poi è benedetto e fatto bere al malato (Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena
cattolica, cit., p. 127). Lo stesso Tamas descrive anche la volontà di Giacomo di Edessa di combattere
questa superstizione: si riferisce a un sacchetto portato al collo con la polvere del santuario raccolta ai
piedi dell’altare talvolta mischiata a briciole del corpo santo cadute dall’altare stesso. Giacomo consente
di dare agli ammalati l’olio e l’acqua posti con fede sotto l’altare durante la celebrazione dei santi misteri.
Sono gli stessi malati a praticarsi le unzioni (Ivi, pp.127-129). Per la teologia sacramentaria nella chiesa
assira v.: Guillaume DE VRIES, La théologie sacramentaire chez les syriens orientaux, in «L’Orient
Syrien», vol. IV, fasc. IV (1959), pp. 471-494.
31
Cfr. W. DE VRIES, La théologie des sacraments chez les syriens monophysites, in «L’Orient Syrien»,
vol. VIII, fasc. 3-4 (1963), pp. 261-288.

35
l’eucaristia, dell’olio viene posto sotto l’altare e poi amministrato al malato. Nello
svolgimento del rito è usato anche dell’incenso. La differenza tra il rito delle lampade e
l’unzione dei malati, sta nel fatto che il primo può essere amministrato anche a persone
sane e l’olio è benedetto dal sacerdote il giovedì di mezza quaresima e poi posto davanti
all’altare, il secondo è per i malati gravi e l’olio è benedetto solo dal vescovo32.
Il rito delle lampade è presente anche nella Chiesa copta ed etiope. In
particolare, nel rito etiopico esistono due versioni del rituale risalenti uno al sec. XV e
l’altro al sec. XVI. Nella versione del sec. XVI è degno di nota rilevare che tra i testi
scritturistici da proclamare, oltre alla lettera di Giacomo, vi è anche il racconto
dell’unzione della peccatrice del vangelo di Luca (Lc 7, 36-50) 33, esattamente come
nella sesta preghiera del rituale copto, mentre non vi è il brano tratto dal vangelo di
Marco.
Nella Chiesa bizantina34, il sacramento dell’unzione per molto tempo è stato
legato alla messa. I cristiani dei primi secoli avevano la particolarità di servirsi di olio
prelevato dalle lampade accese dinanzi alle icone dei santi o alle tombe dei martiri. A
Gerusalemme si faceva invece uso dell’olio che ardeva davanti alla Santa Croce nella
basilica della Resurrezione. .
Dai secc. VI-VII, la chiesa sembra divenire il luogo ordinario per conferire il
sacramento dell’unzione e si lega al sacrificio dell’altare fino al sec. XIV. Un
cambiamento che comporta la costruzione di ospedali vicino alle chiese. Dai secc. VII-
VIII, il rituale prevede la partecipazione di sette preti. A differenza della Chiesa latina,
quella bizantina (come le altre di rito orientale) consente da sempre la benedizione
dell’olio da parte dei preti al pari del vescovo. Il sacramento è conferito ai malati,
basandosi proprio sul brano tratto dalla lettera di Giacomo, per conseguire anche solo la
purificazione completa dai peccati. Dal sec. XIII, la Chiesa russa tende ad avvicinarsi a
quella latina, per il fatto di rivolgersi ai malati gravi. Nella lampada dell’unzione è

32
Cfr. Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., pp. 214-236.
33
Per quanto riguarda il rito delle lampade nella chiesa copta v.: Alfonso ABDALLAH (a cura di),
L’ordinamento liturgico di Gabriele V, 88° patriarca copto (1409-1427), Cairo, Edizioni del Centro
Francescano di Studi Orientali Cristiani, 1962; Maurus CHAÎNE, Le rituel éthiopien. Rituel de l’Extrème-
Onction, in «Bessarione», vol. XXIX, fasc. 126, (1913), pp. 420-451); vol. XXX, fasc. 127 (1914), pp.
12-41.
34
Per il rito dell’unzione nella Chiesa bizantina v.: Irénée-Henri DALMAIS, Le liturgie orientali, Catania,
Edizioni Paoline, 1960, pp. 116-119; M. J. ROUËT DE JOURNEL, Le rite de l’extrême-onction dans l’église
gréco-russe, in «Revue de l’orient chrétien», tomo I (XXI) (1918-1919), pp. 40-72.

36
facoltativo versarvi del vino, forse ricollegandosi agli usi del buon samaritano (Lc
10,29-37).
Sono ammessi al sacramento dell’unzione i fedeli sani di corpo, ma malati
nell’anima, per purificarsi prima della comunione. Certamente dal sec. IX, il rito
prevedeva la partecipazione di sette preti in chiesa e la proclamazione di Mc 6,7-13 e
Gc 5,10-16, l’invocazione del Padre Santo, come medico delle anime e dei corpi..
Attualmente, il rituale dell’olio santo (lo stesso in uso anche nella chiesa
melkita) prevede, tra le sette letture, la proclamazione della lettera di Giacomo, mentre
tra quella dei vangeli non vi è il brano tratto dal vangelo Marco. Nella quinta ode della
preghiera dell’olio, o inno di Arsenio, si fa riferimento all’unguento della peccatrice del
vangelo di Luca, mentre nella preghiera che segue la lettura del sesto vangelo si
richiama al perdono dei peccati della stessa peccatrice.

II. Radice cristica del sacramento dell’unzione

Dopo quanto è stato detto finora, riguardo alla natura simbolica del sacramento,
le dimensioni cosmiche e storiche dell’olio, l’etimologia della parola unzione, il
rapporto tra malattia e peccato, la storia del sacramento dell’unzione e le sue molteplici
modalità di somministrazione nei vari riti cristiani, possiamo sin da ora supporre che la
radice cristica del sacramento sta nelle unzioni della peccatrice e di Betania. Arrivati a
trattare la dimensione cristica dell’olio, dobbiamo capire come l’olio cristico sintetizzi e
superi quelli cosmico e storico. Abbiamo già visto che san Massimo il Confessore scrive
che la Trasfigurazione sintetizza la conoscenza di Dio nel creato e nella storia del
popolo di Israele. Lo splendore della Trasfigurazione svela agli apostoli il senso delle
Scritture e il passaggio dalla carne allo spirito li libera delle sensazioni corporali e
fisiche, riconoscendo in Gesù Cristo il Creatore. La conoscenza spirituale della Scrittura
e la contemplazione in spirito figurano come le due necessità per la conoscenza di Dio 35.
Se con Gesù Cristo si sintetizzano e si superano le leggi di natura e la Legge, si
devono sintetizzare e superare anche gli usi e i significati dell’olio e dell’unzioni
relative. In altre parole, nella natura e nella storia del popolo di Israele si possono

35
Cfr Hans Urs VON BALTHASAR, Massimo il Confessore. Liturgia cosmica, cit., pp. 269-271; MASSIMO
IL CONFESSORE, Ambigua, 10,17 (pp. 268-270) – 10,25-26 (pp. 293-295) – 10,31° (p. 301) – 10,31c-31d
(pp. 306-307).

37
individuare atti e parole che significano l’archetipo del sacramento dell’unzione. Come
nella sintesi e nel trascendimento si devono individuare azioni e parole che specificano
la radice del sacramento. Abbiamo già detto che i sacramenti scaturiscono da un’azione
subita da Gesù Cristo. L’azione subita per eccellenza è la morte per mano degli uomini
e la risurrezione per opera dello Spirito Santo, quella stessa azione fonte e dispensatrice
di grazia che a sua volta rende efficace un’azione subita da Gesù Cristo durante la sua
vita terrena. Nel caso che a noi interessa, Gesù Cristo subisce due volte l’unzione: da
una peccatrice e a Betania.
La prima unzione è ricordata soltanto nel vangelo di Luca (Lc 7,36-50) (della
quale forse vi è un’allusione in Gv 11,236) ma ha incredibili analogie con l’unzione di
Betania; la seconda è riportata dagli altri tre vangeli e vi si riscontrano alcune
differenze. Marco (Mc 14,3-9) e Matteo (Mt 26, 6-13) raccontano lo stesso episodio che
si svolge nella casa di Simone il lebbroso: una donna versa sul capo di Gesù
dell’unguento profumato mentre è a tavola, tra il biasimo di alcuni che criticano il gesto
dicendo che sarebbe stato meglio vendere il profumo e dare il ricavato ai poveri. Gesù,
invece, apprezza il gesto e lo legge in relazione alla sua sepoltura. Nei vangeli di Matteo
e Marco, l’unzione di Betania, come nel vangelo di Giovanni (Gv 12, 1-8) del resto,
avviene prima dell’ultima cena. Nel vangelo di Luca, l’episodio è compreso in un
inserto proprio messo al termine del discorso della pianura che segna il ministero di
Gesù in Galilea. Non è indicata la località in cui avviene l’unzione e, pur avendo molte
analogie con quella di Betania, sembra essere un episodio del tutto diverso. Tuttavia, è
da ricordare che il fariseo che invita Gesù a mangiare si chiama Simone, proprio come il
lebbroso degli altri due vangeli sinottici. Il racconto lucano narra che, mentre Gesù è a
tavola, una peccatrice bagna di lacrime i suoi piedi, li asciuga con i capelli e li cosparge
di olio profumato. Un gesto riprovato dal fariseo a motivo della impurità della donna,
ma apprezzato da Gesù che vi percepisce una grande fede e un grande amore, per cui le
perdona i peccati e la salva.
Nell’unzione di Betania del vangelo di Giovanni, pare presentarsi una sintesi dei
racconti dei vangeli sinottici. Benché l’unzione avvenga a Betania, Gesù si trova nella
casa di Lazzaro, da lui risuscitato dai morti. Sua sorella Maria unge i piedi di Gesù e li
asciuga con i capelli in modo simile alla peccatrice del vangelo di Luca. Un gesto

36
È forte la tentazione di identificare Maria, sorella di Lazzaro e Marta, con la peccatrice del vangelo di
Luca, poiché nei racconti del vangelo di Luca e di Giovanni le donne adottano le stesse modalità di
unzione.

38
riprovato anche in questo caso, però stavolta da Giuda che, secondo l’evangelista, ha a
cuore non i poveri, ma la cassa. Gesù apprezza l’unzione e, come nei racconti dei
vangeli di Matteo e Marco, la mette in relazione alla sua sepoltura. Dunque, l’unzione
del vangelo di Giovanni è più aderente a quella dei vangeli di Matteo e Marco, ma poi si
avvicina al vangelo di Luca per le modalità dell’azione della donna. Certo è, sulla base
delle riflessioni teologiche delle chiese orientali, l’unzione della peccatrice è presa a
esempio per mettere in relazione unzione e remissione dei peccati, mentre non si
menziona mai l’unzione di Betania (almeno nel materiale da me consultato), nemmeno
in riferimento alla morte. A questo proposito, una risposta sembrano darla Maria Luisa
Rigato37 e Mercedes Navarro38: secondo i loro studi, l’unzione di Betania sembrerebbe
riferirsi alla sepoltura regale di Gesù Cristo. La profumazione e le modalità di sepoltura
di Gesù rinviano a quelli in uso per i re, per questo motivo il gesto della donna è
profetico: perché avviene prima della morte di Gesù e perché lo indica come re, come
recita successivamente il titolo della croce. Tuttavia, l’unzione per la sepoltura sarebbe
applicata per affrontare la morte e guarire l’umanità dal peccato e dalla morte stessa:
“ser ungido para la vida en la paradoja de su sepoltura” 39. Ignazio di Antiochia, nei
primissimi anni del sec. II, scrive una lettera ai cristiani di Efeso e, sebbene si riferisce
alle false dottrine, interpreta l’unzione sul capo di Gesù come segno di effusione
dell’incorruttibilità sulla sua chiesa che comunque porta alla vita eterna 40.
Possiamo ipotizzare che in entrambe le unzioni subite da Gesù affondi la radice
cristica del sacramento. Ipotesi sostenuta anche considerando la stesura, nei primi
secoli, del Diatessaron, la fusione dei vangeli in un’unica narrazione, per mano di
Taziano, divenuto eretico encratico. Il Diatessaron si diffuse nella cristianità antica, fino
a essere considerato, per esempio, il testo ufficiale usato nella liturgia nella città di
Edessa. Vittore di Capua, preoccupato di correggere gli errori di Taziano, redasse anche

37
Cfr. Maria Luisa RIGATO, Gesù «profumato» a Betania da una donna, nella redazione mattana, in
Cettina MILITELLO (a cura di), Donna e Ministero, Roma, Edizioni Devoniane, 1991, pp. 497-504; Maria
Luisa RIGATO, Maria di Betania nella redazione giovannea, in «Antonianum», fasc. 2-3 (1991), pp. 203-
226; Maria Luisa RIGATO, Il titolo della croce di Gesù. Confronto tra i Vangeli e la Tavoletta-reliquia
della Basilica Eleniana a Roma, Roma, Gregorian University Press, 2005, pp. 176-226.
38
Cfr. Mercedes NAVARRO PUERTO, Ungido para la vida. Exégesis narrativa y teología de Mc 14,3-9 y
12,1-8, Roma, Tipografia Poliglotta della Pontificia Università Gregoriana, 1996.
39
Ivi, p. 65.
40
Cfr. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai cristiani di Efeso, in Didachè, Lettere di Ignazio di Antiochia, A
Diogneto, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2002, p. 49 (XVII, 1).

39
lui un Diatessaron41 che ebbe poi larga diffusione. Per quanto riguarda le unzioni che a
noi interessano, il Diatessaron di Vittore di Capua crea un unico racconto, distinguendo
al suo interno due parti. Nella prima parte riunisce i brani dei vangeli di Matteo, Marco
e Giovanni, dove la donna è individuata come Maria che unge sia il capo e sia i piedi di
Gesù e Giuda è colui che biasima il gesto. Poi conclude il racconto inserendo il brano
tratto dal vangelo di Luca. Al termine di tutto il capitolo, l’autore aggiunge che dopo
questi fatti i protagonisti salirono verso Gerusalemme 42, non considerando che il brano
del vangelo di Luca si colloca cronologicamente da tutta un’altra parte. Vittore di Capua
41
Non è certo che sant’Efrem si riferisca a Taziano nel suo Diatessaron. Certo è che proprio riguardo alle
unzioni della peccatrice e di Betania non fonde i racconti, ma li tiene ben separati, non prestando mai
attenzione alle unzioni, ma alle lacrime della peccatrice e all’avidità di Giuda. Anche se c’è da dire che
all’inizio del suo racconto sull’unzione di Betania, parla della guarigione di Simone il lebbroso (ÉPHREM
DE NISIBE, Commentare de l’Évangile concordant ou Diatessaron, a cura di Louis LELOIR, Paris,
Éditions du Cerf, 1966, pp. 310-312 (v. anche l’Introduzione, dove si ripercorrono le coordinate storiche e
la struttura dell’opera).
42
Cfr. VICTORIS CAPUANI, Evangelicarum harmoniarum interpretatio, in PL, vol. 68, coll. 251-358, coll.
329-330. Qui di seguito si riporta tutto il capitolo inerente all’episodio: “CAPUT CXXXVIII. Maria fudit
alabastrum unguenti in capite Jesu. Et Jesus increpat Pharisaeum. JOAN. XII, 3-8; MARC. XIV, 3-9;
MATTH. XXVI, 6-13. Maria ergo habens alabastrum unguenti nardi spicati pretiosi, fracto alabastro,
effudit super caput ejus recumbentis, et unxit pedes ejus, et extersit capillis suis: et domus impleta est ex
odore unguenti. Dixit ergo unus ex discipulis ejus Judas Scariotis, qui erat traditurus eum: Quare
unguentum hoc non veniit trecentis denariis, et datum est egenis? Dixit autem hoc, non quia de egenis
pertinebat ad eum, sed quia fur erat, et loculos habens, ea quae mittebantur portabat. Erant autem quidam
indigne ferentes intra semetipsos, et dicentes: Utquid perditio haec unguenti facta est? Sciens autem
Jesus, ait illis: Quid molesti estis huic mulieri? Opus bonum operata est in me. Nam semper pauperes
habebitis vobiscum; et cum volueritis, potestis illis benefacere; me autem non semper habebitis. Mittens
enim haec unguentum hoc in corpus meum, ad sepeliendum me fecit. Amen dico vobis: Ubicunque
praedicatum fuerit Evangelium hoc in toto mundo, dicetur et quod haec fecit in memoriam ejus.—LUC.
VII, 39-50. Videns autem Pharisaeus qui vocaverat eum, ait intra se, dicens: Hic si esset propheta, sciret
utique quae et qualis esset mulier quae tangit eum, quia peccatrix est. Et respondens Jesus, dixit ad illum:
Simon, habeo tibi aliquid dicere. At ille ait: Magister, dic. Duo debitores erant cuidam feneratori: unus
debebat denarios quingentos, alius quinquaginta. Non habentibus illis unde redderent, donavit utrisque.
Quis ergo eum plus diliget? Respondens Simon dixit: Aestimo quia is cui plus donavit. At ille dixit ei:
Recte judicasti. Et conversus ad mulierem, dixit: Simon, vides hanc mulierem? Intravi in domum tuam,
aquam pedibus meis non dedisti: haec autem lacrymis rigavit pedes meos, et capillis suis tersit. Osculum
mihi non dedisti: haec autem ex quo intravi, non cessavit osculari pedes meos. Oleo caput meum non
unxisti: haec autem unguento unxit pedes meos. Propter quod dico tibi: Remittentur ei peccata multa, quia
dilexit multum. Cui autem minus dimittitur, minus diligit. Dixit autem ad illam: Dimittuntur tibi peccata.
Et coeperunt qui simul accumbebant, dicere intra se: Quis est hic, qui etiam peccata dimittit? Dixit autem

40
ci propone un’unzione unica con due finalità: per la sepoltura e per il perdono dei
peccati
L’unità narrativa proposta da tale Diatessaron sembra essere il risultato concreto
della riflessione teologica intorno all’unico vangelo quadriforme che, secondo Ireneo di
Lione, presenta Gesù Cristo come Figlio di Dio nel vangelo di Giovanni, come vittima
sacrificale nel vangelo di Luca, definito sacerdotale, di espiazione, come uomo nel
vangelo di Matteo e come profeta in quello di Marco 43. A questo proposito, mi pare che
Barbaglio sia ancora più chiaro: nel vangelo di Giovanni troviamo Gesù Cristo Figlio di
Dio trasfigurato, in quello di Marco il Figlio di Dio debole, umiliato, nella sua umanità
mi viene da aggiungere, in quello di Matteo il maestro interprete della Legge, e, infine,
in quello di Luca il salvatore del mondo44. Per entrambe le prospettive, il vangelo di
Luca evidenzia il Gesù salvatore e anche guaritore, un aspetto questo che sembra essere
legato al fatto che la tradizione indica l’evangelista Luca come medico (Col 4,14).
L’idea del vangelo quadriforme ha il vantaggio di sintetizzare l’unico messaggio di
salvezza.
È di qualche interesse notare che proprio da questa sintesi, nella prospettiva della
ricerca che ci siamo posti, appaiano le diverse valenze dell’unzione subita da Cristo:
unzione in vista della passione, morte e sepoltura e ingresso nella gloria, e unzione che
merita il perdono dei peccati in vista della guarigione dello spirito che vivifica il corpo.
Ruët de Journel si domanda quali possano essere stati i modelli di unzione nei
vangeli e cita la parabola del buon samaritano e l’unzione dei piedi del Cristo da parte di
Maria (la Maddalena per l’autore45). La menzione dell’unzione di Betania del vangelo di
Giovanni non credo sia casuale. Come ho già scritto essa rappresenta un po’ la sintesi
degli altri tre racconti evangelici: l’unzione in vista della sepoltura e il perdono dei
peccati con l’unzione dei piedi. Ricordiamo che la lavanda dei piedi nel vangelo di
Giovanni avviene durante l’ultima cena ed è un gesto di purificazione e di servizio di
salvezza46. Certo la differenza è che in Betania l’unzione la fa Maria, ma sono diverse le
motivazioni: nell’ultima cena, Gesù offre un servizio di salvezza a cui gli apostoli

ad mulierem: Fides tua te salvam fecit: vade in pace.—LUC. XIX, 28. Et his dictis abiit, ascendens
Hierusalem”.
43
Cfr. S. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, a cura di Vittorino DELLAGIACOMA, Siena, Cantagalli, 1996,
vol. I, p. 266 (III, 11, 8).
44
Cfr. Giuseppe BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Bologna, Edizioni Dehoniane,
2003, pp. 54-57.
45
Cfr. M. J. ROUËT DE JOURNEL, Le rite de l’extrême-onction dans l’église gréco-russe, cit., p. 53.

41
devono sottostare se vogliono a loro volta servire, in Betania non si parla di perdono dei
peccati, tuttavia il gesto di amore gratuito di Maria è fortemente allusivo. Esprime un
riconoscimento e un’appartenenza del e al Signore. Il gesto dei capelli che asciugano i
piedi potrebbe essere visto come una sublimazione del nazireato (Nm 6), dove i capelli
lunghi esprimono una speciale appartenenza a Dio. L’appartenenza a Dio, il Santo,
comporta evidentemente la distruzione del peccato e della morte. Forse, è in questa
chiave che va letta l’unzione ai piedi di Gesù, per la sepoltura certo, ma anche per
l’appartenenza, dando vita a un gesto sponsale. Una dimensione sponsale ribadita
dall’olio che Maria cosparge sui piedi di Gesù che è profumato al nardo, prezioso
profumo che nel Cantico dei Cantici scaturisce dai “germogli” della sposa, come dice lo
sposo:

I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,/con i frutti più squisiti,/alberi di cipro


con nardo,/nardo e zafferano, cannella e cinnamomo/con ogni specie di alberi da
incenso;/mirra e aloe/con tutti i migliori profumi (Ct 4,13-14).

Sono solo ipotesi, perché soltanto la lettera di Giacomo dice espressamente che
l’unzione e il perdono dei peccati portano un sollievo spirituale e corporale. Il nemico
da combattere è la malattia che nelle Sacre Scritture è spesso legata al peccato, e Gesù
Cristo è il Salvatore, ma anche il medico.
Interessante, a questo proposito, sono le leggende orientali sulle figure dei magi.
Un frammento uigurico dice che i magi donarono al bambino Gesù oro per provare che
egli è re, incenso per provare che egli è Dio e mirra per provare che egli è medico. Il
vescovo di Hedhatthā nell’850, Išō’dādh, spiega che la mirra donata dai magi indica che
Gesù Cristo guarisce i peccati di Adamo. Mentre, nel testo etiopico Libro di Adamo ed
Eva, la mirra è stata offerta in vista della sepoltura di Gesù e, siccome serve per la
conservazione del corpo dopo la morte, indicherebbe la mortalità umana del Salvatore 47.
Anche se in ambito ebraico l’unzione dei morti significava altro, aggiungo che la
conservazione del corpo ha alla base l’idea della incorruttibilità e quindi della vita
eterna e in qualche modo questo concetto è legato a quello della guarigione dai peccati
di Adamo che hanno portato morte, sofferenza e corruzione. In effetti, quando appare la
46
Cfr. Giorgio MAZZANTI, I sacramenti simbolo e teologia. 2. Eucaristia, Battesimo e Confermazione,
cit., pp. 55-56.
47
Cfr. Ugo MONNERET DE VILLARD, Le leggende orientali sui magi evangelici, Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, 1952, pp. 91-98.

42
Gerusalemme Celeste nel libro dell’Apocalisse, “non vi sarà più morte, né lutto e grida
e dolore” (Ap 21,4).
Riguardo alla conservazione della propria immagine, Narsai di Edessa,
riferendosi alle vergini sagge, che con l’olio della misericordia rimasero intatte e
poterono entrare a nozze con lo sposo, elabora una splendida metafora per dire che
l’uomo, con l’olio, non si corrompe:

Così usano fare i pittori:/con l’olio preservano il dipinto dalla corruzione./Mescolano


l’olio con i colori e poi dipingono le immagini/affinché, grazie all’olio, l’immagine
rimanga intatta48

In un contesto battesimale, sant’Efrem scrive in un suo inno:

In simbolo e in realtà/il Leviatano è stato schiacciato/dai mortali./Si sono spogliati i


tuffatori,/e si sono rivestiti dell’olio,/in simbolo di Cristo,/ti hanno presa [la perla] e
sono risaliti./Gli apostoli afferrarono l’anima dalla bocca del drago/mentre era ancora
amara49.

L’olio, dunque, unge colui che è destinato a lottare contro il demonio, unto alla stregua
di un atleta prima della gara, come ricorda Daniélou seppure in ambito battesimale 50.
Per il sacramento dell’unzione, è più chiara la sacramentaria siriaca: con l’unzione,
l’anima sfugge al combattimento con il demonio. Se il cristiano già fu unto al battesimo
e alla cresima, con questa nuova unzione è sicuro di sfuggire al combattimento con
Beliar, il demonio dell’aria51.
Si potrebbe affermare che l’unzione sul capo serva per entrare nella gloria e,
ricordando Ilario di Poitiers, renda gloria a Dio. La donna versa sulla testa di Gesù tutto
ciò che serve per la cura del corpo e tutto ciò che è prezioso nei sentimenti del suo cuore
per l’onore e la gloria di Dio52:

48
NARSAI DI EDESSA, L’olio della misericordia, a cura di, Monastero di Bose, Edizioni Qiqajon, 1997, p.
20.
49
EFREM IL SIRO, Il dono della perla, a cura di Emidio VERGANI, Monastero di Bose, Edizioni Qiqajon,
2005, p. 28.
50
Cfr. Jean DANIELOU, Bible et liturgie. La théologie biblique des Sacrements et des fêtes d’après les
Pères de l’Eglise, cit., pp. 57-60.
51
Cfr. Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., p. 235.
52
Cfr. ILARIO DI POITIERS, Commentario a Matteo, cit., p. 279-280.

43
E il Signore risponde loro che avrebbero avuto molto tempo per potere avere cura dei
poveri, ma solo mediante la sua istruzione potrà essere offerta la salvezza ai pagani, che
sono stati sepolti con lui nel profumo sparso da questa donna53.

Anche se il discorso sembra declinare in ambito battesimale, è da notare come l’unzione


prepari comunque a una battaglia con la morte.
Per quanto riguarda il perdono dei peccati, Simeone di Tessalonica lo mette in
relazione con il sacramento dell’unzione. Rimproverando l’uso della chiesa di occidente
di somministrare l’olio ai moribondi, ricorda che anche il Salvatore fu unto per noi,
come ci insegna l’unzione della peccatrice:

Che il Salvatore fu unto con l’olio per noi possiamo apprenderlo dall’unguento con il
quale la meretrice fattasi avanti lo unse; non come Maria sorella di Lazzaro per la
sepoltura (essa era una donna onesta) e quell’unguento come disse il Signore era per la
sua imbalsamazione, né la donna che era in casa di Simone il lebbroso se era un’altra
diversa da Maria: perché anche quello era riferito alla passione e alla sua sepoltura, ma
quello che offrì la meretrice (secondo che dice Luca nel suo vangelo) la quale con le
lacrime lavò i suoi piedi e li unse e li asciugò con i capelli della sua testa. Questo è
l’olio della conversione e ben convenientemente fu portato a lui dalla peccatrice, perché
anch’essa per mezzo dei capelli con i quali lo asciugava con quello stesso, unta,
ricevette il perdono dei suoi molti peccati come il vangelo chiaramente dimostra 54.

Da questo brano emergerebbe che l’unzione sia un sacramento subito e che abbia la sua
radice scritturistica nel vangelo di Luca, almeno per il perdono dei peccati e la
guarigione spirituale. Inoltre, Simeone sente la necessità di distinguere questa unzione
da quella di Maria, sorella di Lazzaro, fatta per la sepoltura. Simeone, pur vivendo nel
sec. XV, ebbe il bisogno di distinguere le due unzioni per evitare, forse, delle confusioni
sorte dalla circolazione dei Diatessaron già in epoca molto anteriore come si vince
dall’omelia sulla peccatrice di Amphilochio di Iconia 55, o dall’omelia sull’unzione di
Betania del vangelo di Matteo, dove san Giovanni Crisostomo differenzia il solo
episodio dell’unzione di Betania del vangelo di Giovanni dai racconti dei vangeli
sinottici56. Oppure da due omelie sulla peccatrice di area siriaca, probabilmente del sec.
VI, che sembrano collegare l’unzione con il perdono dei peccati: Gesù Cristo è indicato
53
Ivi, p. 280.
54
SYMEONIS THESSALONICENSIS, De Sacramentis, in PG, vol. 155, coll. 175-238, col. 203-206.
55
Cfr. AMPHILOCHIUS ICONENSIS, Oratio in mulierem peccatricem, in PG, vol. 39, coll. 65-90.
56
Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Matteo/3, cit., pp. 254-266.

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varie volte come medico per curare le infermità anche dell’anima, della peccatrice in
questo caso. Mentre la prima omelia si riferisce senza dubbio al brano tratto dal vangelo
di Luca, la seconda sembra essere stata stesa guardando anche a un Diatessaron57.
Da una riflessione della Rigato sulla detersione dei piedi, nasce lo spunto che si
possa desumere, invece, che è l’unzione di Betania, secondo il vangelo di Giovanni, a
poter essere considerata come sacramento subito:

Detergendo i piedi di Gesù con i propri capelli Mariam ha riassorbito sul proprio capo il
nardo con cui ha profumato il Signore, Mariam a sua volta resta profumata/unta, è
santificata per il suo contatto con «il Santo di Dio»58.

Dalle considerazioni teologiche di Simeone di Tessalonica e della Rigato


potremmo, così, sostenere l’ipotesi di aver individuato nelle unzioni di Betania e della
peccatrice la radice cristica del sacramento dell’unzione degli infermi.

L’unzione dei malati, contrariamente a quanto sostenuto da san Tommaso, è


prefigurata nell’antica legge. Per quanto riguarda l’ingresso nella gloria si farebbe
riferimento a una disposizione del Levitico sull’unzione del lebbroso guarito. Qui
l’unzione avviene, appunto, dopo la guarigione e consente il ritorno nell’accampamento,
o meglio nella propria tenda sita nell’accampamento. Qui potremmo vedere prefigurati
coloro che sono reintegrati con piene forze nella comunità o si preparano per l’ingresso
nella Gerusalemme Celeste. Nella prima fase del rito di purificazione del lebbroso (Lv
14,1-8) c’è la verifica del sacerdote riguardo alla guarigione del lebbroso. La seconda
parte del rito si svolge dopo sette giorni:

Il settimo giorno si raderà tutti i peli, il capo, la barba, le ciglia, insomma tutti i peli; si
laverà le vesti e si bagnerà il corpo nell’acqua e sarà mondo. L’ottavo giorno prenderà
due agnelli senza difetto, tre decimi di efa di fior di farina, intrisa nell’olio, come
oblazione, e un log di olio; il sacerdote che fa la purificazione, presenterà l’uomo che si
purifica e le cose suddette davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. Il
sacerdote prenderà uno degli agnelli e l’offrirà come sacrificio di riparazione, con il log
di olio, e li agiterà come offerta da agitare secondo il rito davanti al Signore. Poi
immolerà l’agnello nel luogo dove si immolano le vittime espiatorie e gli olocausti, cioè

57
Cfr. François GRAFFIN (a cura di), Homélies anonymes sur la pécheresse, in «L’Orient Syrien», vol. III,
fasc.2 (1962), pp. 174-222.
58
Maria Luisa RIGATO, Maria di Betania nella redazione giovannea, cit., pp. 203-226, p. 217.

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nel luogo sacro poiché il sacrificio di riparazione è per il sacerdote, come quello
espiatorio: è cosa sacrosanta. Il sacerdote prenderà sangue del sacrificio di riparazione e
bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della mano destra e
l’alluce del piede destro. Poi, preso l’olio dal log, lo verserà sulla palma della sua mano
sinistra; intingerà il dito della destra nell’olio che ha nella sinistra; con il dito spruzzerà
sette volte quell’olio davanti al Signore. E del rimanente olio che tiene nella palma della
mano, il sacerdote bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice
della destra e l’alluce del piede destro, sopra il sangue del sacrificio di riparazione. Il
resto dell’olio che ha nella palma della mano, il sacerdote lo verserà sul capo di colui
che si purifica; così farà per lui il rito espiatorio davanti al Signore. Poi il sacerdote
offrirà il sacrificio espiatorio e compirà l’espiazione per colui che si purifica della sua
immondezza; quindi immolerà l’olocausto. Offerto l’olocausto e l’oblazione sull’altare,
il sacerdote eseguirà per lui il rito espiatorio e sarà mondo (Lv 14,9-20).

Dalle modalità ritualistiche, mi pare evidente che vi sia uno stretto legame tra malattia e
peccato. Le analogie con le unzioni di Betania e della peccatrice potrebbero stare nel
sacrificio, nelle unzioni e nell’altare. I sacramenti sono efficaci per la morte e la
resurrezione di Gesù Cristo, vittima espiatoria per la salvezza dell’uomo. Un sacrificio
di salvezza che si comanda di fare con l’olio, come ricorda Origene, citando Lv 7,11-12,
un passo relativo al sacrificio di comunione59.
Significativa è l’unzione sul capo del lebbroso guarito all’ottavo giorno che
rientra nella complessità del rito espiatorio. Gesù Cristo espia il peccato del mondo con
la sua morte e resurrezione che inaugura l’octava dies, per questo motivo forse
l’unzione sulla sua testa ha il significato di rendergli gloria, secondo Ilario di Poitiers.
Dell’unzione dei piedi abbiamo già detto.
Infine, trattiamo dell’altare, sul quale nel Levitico sono offerti l’oblazione e
l’olocausto. Con l’avvento del cristianesimo, Cristo stesso diventa altare, a partire dalle
allusioni presenti nella lettera agli Ebrei (Eb 9,11-14). L’altare cristiano risulta
strettamente legato alle unzioni. Sant’Efrem, nel suo Inno sull’olio, ricorda che l’olio
dona l’unzione agli altari che sostengono il sacrificio di riconciliazione 60. Questo ci dice
perché gli altari sono consacrati con il crisma, ma non ci dice nulla sulla purificazione e
sulla guarigione. Tuttavia, lo stretto rapporto tra sacrificio dell’altare e sacramento
dell’unzione potrebbe essere spiegato in area siriaca, o comunque nelle chiese orientali,
59
Cfr. ORIGENE, Omelie sul Levitico, a cura di, Roma, Città Nuova, 1985, p. 113.
60
Cfr. SANCTUS EPHRAEM SYRUS, De oleo et oliva et mysteriis Domini, in Hymni et sermones, a cura di
Thomas Josephus LAMY, Mechliniæ, H.Dessain, Summi Pontificis, S. Congregationis de Propaganda
Fide et Archiepiscopatus Mechliniensis Typographus, 1886, tomus II, pp. 786-806, p. 788.

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proprio a partire dall’unzione di Gesù Cristo in Betania e per mano della peccatrice. Si
deve inoltre ricordare che il rito delle lampade in area siriaca prevedeva di porre sotto
l’altare un vaso di terracotta con dentro della farina impastata a olio, su cui si mettevano
cinque lampade (in ricordo delle cinque vergini sagge), accese una per volta a ogni
ufficio61. Il rito prevedeva anche l’uso dell’incenso. Ancora oggi, nel rito bizantino, le
candele sono poste in un vaso con del grano o della farina che sarà poi usata per fare il
pane per l’eucaristia. Farina, olio e incenso ricordano l’oblazione descritta nei capitoli 2
e 6 del libro del Levitico, dove l’olio è, per Origene, l’olio di misericordia, della
compassione celeste62. Scrive poi Origene:

Mostra così che la misericordia verso i poveri versa l’olio sul sacrificio fatto a Dio, e
che il servizio reso ai santi vi aggiunge la sua vita dell’incenso63.

Nelle chiese orientali vi era l’uso di portare i malati all’altare 64, uso molto antico
come testimonia anche Isacco di Antiochia 65. Da tutto ciò ricaviamo che l’olio rimanda
alla misericordia di Dio e, attraverso il sacrificio di Gesù Cristo, anche al perdono dei
peccati. L’olio è pure rendere gloria a Dio e ungere Gesù Cristo è come ungere l’altare-
sacrificio per la vittoria sulla morte. La malattia è legata al male, al peccato e la
guarigione comporta una vittoria sul male, mediante l’invocazione al Cristo-medico. La
guarigione spirituale è strettamente legata a quella corporale e ci consente, come il
lebbroso guarito che rientra prima nell’accampamento e poi nella propria tenda, di
rientrare nella comunità, oppure di entrare nella Gerusalemme Celeste dove “non vi sarà
più morte, né lutto e grida e dolore” (Ap 21,4).

61
Cfr. Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., pp. 236-237.
62
Cfr. ORIGENE, Omelie sul Levitico, cit., p. 47.
63
Ivi, p. 95.
64
Cfr. Faris TAMAS, L’unzione degli infermi nella chiesa siro-antiochena cattolica, cit., p. 123.
65
Cfr. S. ISAACUS ANTIOCHENUS, Opera omnia, a cura di Gustavus BICKELL, Gissae, J. Rickeri, 1873,
vol. I, p. 189 (X, 210).

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