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MISERICORDIA: MISURA EVANGELICA DELLA GIUSTIZIA

1° MEDITAZIONE - LUNEDÌ 5 GIUGNO

Comincerei il nostro itinerario proprio soffermandomi sulla lettura del vangelo di ieri.
L’avete tutti ben presente. Siamo alla fine del vangelo di Giovanni: quel brano è calcolato come la
pentecoste giovannea. L’evento della pentecoste è presentato nel libro degli Atti. Giovanni nel suo
vangelo, la sera di Pasqua, presenta tutto il mistero con l’invio dello Spirito Santo. Mi voglio
soffermare su questo perché è la prima cosa potente che noi dobbiamo imparare ad accogliere se
vogliamo seguire il Signore in verità.

Mi fermo proprio su questo perché in quel brano (come anche nei vangeli sinottici), è la
prima volta che Gesù saluta con SHALOM. Pace a voi. Non è il buongiorno e buonasera. Nella
tradizione ebraica soltanto il Messia avrebbe potuto donare la pace piena che è la pace di
comunione con il Signore e in questa comunione con il Signore poter godere di una fraternità, di
una comunità santa, cioè che può celebrare, benedire, offrire il culto santo a Dio.

Quello che noi dobbiamo imparare a percepire lo traduco con queste parole: siamo dopo la
passione, morte e risurrezione; è come se tutto l’arco del mistero della vita di Gesù si è manifestato
e Gesù dice: “Non dovete più avere alcun timore, né vergogna dei vostri peccati, perché tutti sono
perdonati”.

Quello shalom è allusivo del fatto che Dio ha garantito la sua comunione con l’invio del
figlio che ha ottenuto per voi questa pienezza di vita. Perché dico che è la prima cosa che dobbiamo
imparare? In teoria lo sappiamo che è così: siamo battezzati, tutte le volte che celebriamo
l’eucaristia avviene questo, quando ci confessiamo sacramentalmente otteniamo questo, ma provate
a guardare quando noi siamo afflitti, quando uno ci pesta i piedi, quando uno ci dà una stilettata,
questa realtà è come non più nota, non più presente. E’ come se noi chiedessimo a Dio
qualcos’altro. Quando noi chiediamo perdono a Dio – perdonate se dico così – ma a Dio che gliene
frega dei nostri peccati? Se il perdono viene direttamente da lui, che interessa considerare da parte
di Dio i nostri peccati? Quando noi chiediamo perdono, invece di fare l’elenco della spesa di tutti i
peccati (che non finiremmo mai!), dovremmo avvertire questo: ma perché l’amore suo che ci è stato
dato con tale abbondanza in Gesù non è sufficiente mai per noi?

Noi è come se sempre abbiamo bisogno di domandare qualcos’altro al Signore. Quello che
lui ci dà non basta mai. Ecco, questo mi sembra la dimensione più evidente del nostro disattendere
l’amore del Signore per noi. Io dico sempre: sono arrivato a 65 anni (ne ho 67 in verità) a intuire
che quando chiediamo perdono al Signore devo chiedere perdono per questo, quello che dicevano i
padri antichi e tutti i santi: non interessa le singole colpe, quello che interessa è la nostra
insensibilità all’amore del Signore e l’amore del Signore per noi si traduce nel suo perdono, in quel
“non avere più paura, non avere vergogna, perché i tuoi peccati sono tutti perdonati”.

Se questa esperienza fosse significativa, noi non avremmo più motivo di rivendicare
qualcosa e presso Dio e presso i nostri fratelli. Ma non è così. Allora il riflettere sulle Scritture è per
accompagnarci a far sì che questa esperienza possa diventare davvero autentica per noi. Davvero
autentica, davvero emotivamente significativa tanto che le altre emozioni (e non considerate tanto le
altre emozioni rispetto al desiderio, ma rispetto all’ira, rispetto al fatto di volere sempre difendere il

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nostro diritto, essere sempre così troppo sensibili che gli altri ci mancano di rispetto, ci mancano di
importanza, ci tengono da parte, non ci considerano). Se questa esperienza fosse emotivamente
significativa, queste altre emozioni non avrebbero così presa. Non che non le sentiamo, ma non
avrebbero così presa.

Se ritorniamo al racconto di questo brano noi ci accorgiamo che dopo che Gesù ha
proclamato questo “pace a voi” con il significato che ho detto prima, lui mostra le mani con le ferite
e il costato. Qual è il collegamento tra il dare la pace e il mostrare le sue ferite? Per Giovanni non si
tratta di certificare che quella persona, che quella persona che gli apostoli vedono davanti a loro, è
davvero il loro maestro, quello che è stato ucciso seppellito e poi è risorto. Giovanni non ha nel suo
vangelo l’intento di dimostrare che Gesù è veramente risorto, a differenza per esempio del vangelo
di Luca che perfino mangia: eccomi, sono in carne ed ossa! Giovanni non ha questo intento. Qui il
motivo è un altro. E quale può essere il motivo?

E’ da collegare proprio con questa pace. Pensate alla passione soprattutto alla crocifissione.
Quando viene sottolineato il colpo di lancia del soldato, cosa è annotato dal vangelo? Uscì sangue
ed acqua che nella tradizione da sempre sono stati interpretati come il sacramento del battesimo ed
eucaristia. Ora, battesimo ed eucaristia rappresentano la pienezza di questa comunione con la vita di
Dio che avviene per noi perché il Signore ci accoglie perdonati, ci accoglie in un rinnovo del nostro
cuore, ormai luminoso perché perdonato.

La pace non è in rapporto a che le cose vadano bene. La pace è sempre in rapporto al fatto
che il Signore perdona noi peccatori. E’ sempre in rapporto al fatto che il suo perdono è l’opera
divina per eccellenza perché noi non meriteremmo questo. Questo a tal punto è vero che soltanto se
noi facciamo questa esperienza saremo in grado di non dare più peso a tutto ciò che fa riferimento
alla nostra bella faccia.

E’ più comodo avere una carezza che una sberla, ma siccome nella vita così non è, allora
quando questa esperienza è vera queste altre cose non hanno presa e se Gesù mostra il suo costato
vuol dire che noi proprio in quel costato siamo custoditi.

Le suore francescane qui presenti conosceranno bene quell’episodio che da dentro il costato
san Francesco si mostra e poi viene chiuso di nuovo. Noi siamo custoditi nel costato di Gesù, nella
ferita di Gesù. Ora provate a domandarvi: Gesù ci ha salvati forse per la sua capacità del saper
soffrire? La virtù salvatrice di Gesù nella crocifissione, è data dal suo soffrire per noi? Faccio
questa domanda per questo motivo. Noi siamo molto ambivalenti rispetto alla sofferenza. Se uno
non sa soffrire vuol dire che non sa amare e dall’altra è la paura e immaginiamo che la salvezza
arrivi proprio attraverso la sofferenza. Il vangelo però non parla di questo principalmente. Tenete
conto che per dieci secoli i credenti non hanno mai rappresentato Gesù in croce nella sofferenza.
Per dieci secoli! Il che significa che l’evento della croce non suscitava la solidarietà del discepolo
rispetto al maestro che soffre. Suscitava un’altra cosa e noi questa l’abbiamo persa. E secondo me
occorre ricuperarla. Il punto principale della passione di Gesù non è la sofferenza ma è l’ignominia,
è l’essere calpestato, è non essere tenuto in conto per quello che è. E’ quella sopportazione che
ottiene da parte di Gesù per noi la salvezza. Vale a dire: la nostra umanità è privata del veleno che il
tentatore gli ha instillato. E il veleno è: “io valgo qualcosa”. Per dire io valgo qualcosa devo dirlo
davanti ad altri, devo dirlo o contro altri, o su altri. Questo è il veleno che il tentatore ha instillato
che se noi non facciamo valere il nostro io, noi non contiamo nulla. E non contiamo nulla neanche
per Dio. Questa è la bestialità che noi abbiamo immaginato. Però è una bestialità che ci riguarda
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tutti e non si riesce mai a togliere del tutto. Un dono è poter guardare a questo Crocifisso e vedere
per quale via la sua umanità ci ha ottenuto la redenzione, cioè la salvezza.

In termini di pace nella vita fraterna non è che serve soffrire per l’altro, serve non calpestare
mai l’altro, non offendere mai l’altro, non mancare mai di onore all’altro e se l’altro manca verso di
noi, noi perdonare. Che poi questo comporti sofferenza (ed è vero!), ma è una conseguenza. Non è
che se io soffro allora salvo. Non è vero. E’ che se io soffro perché voglio onorare comunque l’altro
e se non sono onorato io perdono, allora sì viene la salvezza, se no, no!

Gesù, nel racconto della pentecoste giovannea, dopo aver detto PACE e aver mostrato il
costato soffia e dice: “Ricevete lo Spirito Santo”. Strano è che collega il dono dello Spirito Santo al
fatto di rimettere i peccati. Non pensate che quel versetto che pure ha costituito l’argomentazione
principale perché nella Chiesa sia accolta la confessione sacramentale, il rito della penitenza,
all’inizio non era questo il significato. Non c’era ancora questo. E’ dopo che si è riflettuto per
estendere anche alla confessione sacramentale il valore di questa frase. Il valore della frase è legato
alla natura della testimonianza della fede nel mondo. Io sono discepolo di Gesù, sono inviato come
testimone nel mondo. Che cosa mi contraddistingue come discepolo di Gesù?

Gesù dice questa frase: “Come il Padre ha mandato me io mando voi. Ricevete lo Spirito
Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”. Provate a pensare così: io sono discepolo di
Gesù. Voglio estendere al mondo e portare nel mondo quella pace che lui ha fatto gustare a me nel
perdono dei peccati. Io mi avvicino ai miei fratelli e uno mi dà una botta in testa oppure mi
disprezza. Io come reagisco da discepolo del Signore? E’ qui il punto. Se io come discepolo del
Signore faccio valere la mia umanità contro quella dell’altro io esco dall’azione dello Spirito Santo
che è teso a rimettere i peccati. Il che vuol dire: quando l’altro pecca contro di me, se io non
perdono, io faccio due cose cattive che sono letali. Uno: faccio in modo che quel peccato persista e
si estenda nel mondo. Due: io che dicevo di aver ricevuto la pace del Signore, non facendola valere,
in realtà non la vivo, in realtà non è vera. Io mi impedisco di godere la comunione con Dio. Queste
due conseguenze letali sono il rinnegamento dell’azione dello Spirito Santo. Voi potete fare tutte le
opere buone che volete, potete fare tutti gli atti di culto a Dio che volete, tutte le penitenze che
volete, se non si risolvono nel favorire questa dinamica nei nostri cuori nel perdonare, non saranno
cose gradite a Dio. Vi rendete conto?

Altra deduzione ancora più terribile per noi. Davanti a Dio la nostra santità personale non
conta assolutamente nulla. Posso fare tutte le azioni di virtù che voglio, davanti a Dio non conta
nulla se non perché le virtù che io cerco di esercitare, la mia santità personale, favorisce, mi rende
più facile, allargare il cuore a perdonare. Questo è ciò che contraddistingue l’azione del discepolo di
Gesù inviato come testimone suo nel mondo.

Ci sono tante piccole deduzioni, per esempio: è il mondo il destinatario dell’azione di


salvezza di Gesù, non io. E se è il mondo, perché lo guardiamo con occhi cattivi? Perché quando fa
il male noi siamo già lì a condannare? In che senso noi siamo testimoni di Gesù?

E’ come se non cogliamo che quello che Gesù promette a noi, in realtà è per il mondo. Se io
mi arrogo questo senza mettere in moto questa azione dello Spirito, nel senso di far conoscere a tutti
la misericordia di Dio, io mi allontano da Dio. Io praticamente più faccio atti di culto meno sono
gradito a Dio. Difatti la cosa più terribile che ci può capitare è agire bene ed essere assolutamente
ribelli dentro. Agire bene ed essere arrabbiati. Non è molto difficile cadere in questo. Allora non

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state a puntare il dito contro di voi. La logica che deve essere posta è esattamente questa: se noi
cadiamo in questa conseguenza vuol dire che non favoriamo, non abbiamo accolto, questa dinamica
dell’azione dello Spirito Santo. Basta ritornare lì e tutto rifiorisce. Non è che chissà quale sforzo ci
viene chiesto. Ci viene chiesto solo questa cosa. E’ per questo che non posso non partire da qui per
fare tutto il nostro percorso e mostrare come la misericordia è la giustizia del vangelo perché il
discernimento della bontà delle nostre azioni deve essere attuato sulla bontà di Dio verso di noi e la
sua bontà verso di noi è di essere misericordioso cioè di perdonarci, di accoglierci nella sua
comunione senza che noi abbiamo alcun titolo.

Ora proprio questo che ci viene donato da Gesù è esattamente quello che il Signore chiede a
noi perché noi, inviati nel mondo, non facciamo che estendere quella che è stata la sua azione
quando era nel suo corpo in terra e quello che è il suo corpo nella chiesa. E’ la prima cosa da
cogliere e vi ricordo che quando nel Padre Nostro diciamo: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori” che è l’unica richiesta che noi facciamo a noi stessi perché se no sono
tutte richieste fatte a Dio, la prima cosa che noi domandiamo con questa richiesta è di avere
coscienza di essere peccatori perché se non si può gustare l'amore di Dio, se noi non gustiamo
l’amore di Dio, noi non riusciamo a vivere in comunione con tutti i nostri fratelli che ci pestano i
piedi e ci danno fastidio. Non riusciamo. Naturalmente ricordiamo che se gli altri danno fastidio a
noi, noi diamo fastidio agli altri. E’ una realtà comune. L’invito è proprio quello di riconoscersi
peccatori. Ma non peccatori perché sbaglio questo, perché faccio male questo. Sono peccatore
perché io difendo il mio diritto come prima cosa. E’ come se io per poter tenere me in qualche
modo devo allontanare o tenere a distanza gli altri . E’ questa cosa che è profondamente avvelenata.
Ripeto: per quanto noi pensiamo “è proprio così”, in pratica non scatta. Nelle singole circostanze
tutti questi pensieri nobili non tengono più perché l’esperienza della pace del perdono che il Signore
ci fa non la lasciamo entrare fino in fondo. Facciamo in modo che non ci tocchi tutte le corde.
Invece deve arrivare lì. Come se non ci deve essere nulla in noi, pur tenebroso, pur cattivo, pur
come dimenticato, che non venga toccato dalla pace del Signore. Al fondo è la vittoria di ogni
paura. Se questa paura non è vinta noi avremo paura di mille cose: avremo paura che gli altri ci
tolgono qualcosa, che il mondo ci viene contro, che non tengono abbastanza conto di noi, che quello
che facciamo noi non è mai importante. Sempre così. Questa è la prima cosa da sottolineare e da
metterci sotto il naso.

Concludo con questo piccolo riferimento che mi ha sempre colpito. Se voi andate a leggere
la settimana di Pentecoste, la novena di Pentecoste, nei formulari delle messe, se guardate l’antifona
di ingresso, le collette, quasi sempre parlano della volontà di Dio. Facciamo la domanda al Signore
che possiamo aderire alla sua volontà, che possiamo collaborare con la sua volontà, cosa che noi
tranquillamente diciamo e non ci rendiamo conto che domandare di conoscere, di aderire, dare
spazio, alla sua volontà è esattamente quello che ho detto prima. Perché l’azione dello Spirito lavora
in quella direzione e quindi la volontà del Signore è lì.

Se non la vediamo lì non sognatevi di cogliere la volontà di Dio nelle cose. La volontà di
Dio è questa e tutte le altre sono in funzione di questa. Ecco perché una preghiera sana, autentica,
non ci allontana mai dai nostri fratelli. Per avere un piccolo esempio: senza che arrossiamo gli uni
davanti agli altri. Ognuno pensa per sé. Quando siamo arrabbiati, provate a guardare che tipo di
preghiera facciamo: credo che non sia mai quella che Gesù ha fatto sulla croce. Mai. E questo vuol
dire quanto siamo lontani da quella volontà di Dio che pure diciamo di voler fare. Quanto siamo
distanti. Questa è la prima cosa. Poi proseguiremo oggi.
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