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“Li chiamò perché stessero con Lui”

(Mc. 3, 13-19)
Cari fratelli, la celebrazione del triduo in onore di sant’Antonio di Padova, patrono della
Custodia di Terra Santa, ci offre l’occasione per riflettere sulla nostra vocazione di frati
minori. Vorrei sottolineare alcuni elementi della chiamata dei dodici. Dopo la preghiera sul
monte, il Signore “chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui”. Il primo gesto di
Gesù dimostra la gratuità e la sua misericordiosa iniziativa, la chiamata è un gesto di elezione.
La frase “essi andarono da Lui” indica la risposta dei discepoli alla chiamata e Marco usa il
verbo ἀπέρχομαι che esprime appunto la reazione dei chiamati. Questa reazione è un
incamminarsi, uno staccarsi da quanto c’è stato fino a quel momento, un rivolgersi a Gesù che
chiama. La prima funzione che scaturisce da questa chiamata è di costituire la comunità di
Gesù o come dice il Vangelo di “stare/essere con Lui”. Dopo viene specificata un altro aspetto
della chiamata, infatti il Vangelo dice “e anche per mandarli a predicare e perché avessero il
potere di scacciare i demoni”. Questa seconda funzione costituisce una partecipazione alla
missione di Gesù.
Cari fratelli, anche nella nostra vita abbiamo esperimentato questa stessa dinamica: una
chiamata – seguita da una risposta, cioè un incamminarsi verso di Lui, da questi due momenti
sono scaturiti due funzioni: lo stare con Lui e tutte le attività che comportano questa chiamata.
Possiamo pensare che la chiamata e la risposta sono stati momenti puntuali e che ora fanno
parte del passato o della nostra storia vocazionale. Invece non è proprio così perché il Signore
continua a chiamarci e questo ci mantiene nella dinamica di dover sempre incamminarci
verso di Lui, è un continuo rispondere alla sua chiamata e di vivere in una costante
conversione per non smarrire la strada. E la prima cosa che ci viene chiesta è di “stare con
Lui” nella fatica, nella tentazione, nel buio, nella gioia. Di avere l’umiltà di metterci in ascolto
della sua Parola. Perché è proprio questo stare con Lui che da senso a tutto il resto, è questo
stare col Signore che dà senso alle attività che ci sono affidate nella fraternità, è questo stare
col Signore che ci permette di tenere il cuore libero.
Senza queste due dimensioni, cioè l’incamminarsi ogni giorno verso il Signore e di
imparare a stare con Lui diventiamo solo dei funzionari del sacro, smarriamo la strada o come
dice il profeta Geremia 2, 3 «abbandoniamo il Signore e ci scaviamo delle cisterne screpolate
che non contengono l’acqua». Ecco perché è importante tener presente non perché ma per Chi
siamo qui. Lo stare in Terra Santa o nel luogo in cui ci porta l’obbedienza ha senso nella
misura in cui non perdiamo di vista la prima funzione della nostra chiamata: stare col
Signore. Non a caso Gregorio di Nissa in una lettera a tre pie pellegrine dice: «Se voi tenete il
vostro uomo interiore pieno di cattivi pensieri, foste pure sul Golgota, sul Monte degli Ulivi,
sulla roccia memoriale della risurrezione, sareste così lontani dal ricevere il Cristo in voi
come si è quando non si è neppure iniziato a confessarlo». Secondo il Nisseno lo stare nei
luoghi più santi della cristianità non significa nulla se coviamo nel nostro cuore pensieri
cattivi o lo spirito di mondanità che nulla hanno a che fare col Vangelo.
Cari fratelli, teniamo sempre presente il ricordo della nostra chiamata, manteniamo vivo il
desiderio di incamminarci ogni giorno verso il Signore e impariamo a stare con Lui.
Chiediamo a Sant’Antonio la grazia di custodire il dono della vocazione.
“Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca”
(Ef. 4, 29-32)
Cari fratelli, siamo stati chiamati a vivere il Vangelo in fraternità, questa però va coltivata
e custodita. Tutti sappiamo che la parola ha una grande forza, questa può distruggere o
edificare. Infatti, nella lettera ai cristiani di Efeso, l’Apostolo Paolo dice: «nessuna parola
cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole che possano servire per la necessaria
edificazione, giovando a quelli che ascoltano».
Qualche volta sulla nostra vita fraterna incombe questa tentazione: avere uno sguardo
mondano. È lo sguardo di chi non vede più la grazia di Dio come protagonista della comunità
e della vita dei fratelli. E sappiamo che cosa succede: ci si lascia trascinare da pettegolezzi e
malignità, ci si sdegna per ogni piccola cosa che non va e si intonano le litanie del lamento:
sui fratelli, sulla comunità, sulla Chiesa, sulla società (Papa Francesco). E poiché siamo
chiamati a vivere in fraternità, questo sguardo mondano e le chiacchiere vanno evitate perché
danneggiano gravemente la vita fraterna e distruggono l’opera di Dio nella vita del prossimo.
San Giovanni Crisostomo parlando al popolo antiocheno sui benefici del digiuno e le
conseguenze delle chiacchiere dice: «Il maldicente mangia carne fraterna e morde il
prossimo… Avete conficcato non i denti nella carne, ma la calunnia nell’anima, e avete ferito
la stima causando immensi mali a voi, a lui e a tanti altri. Calunniando il prossimo hai
rovinato chi ti ascolta» (Giovanni Crisostomo, Omelie al popolo antiocheno 3). Quindi
secondo il Crisostomo chi sparla danneggia sè stesso, chi ascolta e naturalmente la vittima.
La radice di questo male va ricercata non negli altri ma nel proprio cuore, infatti Cipriano,
vescovo di Cartagine ne sottolinea due: l’invidia e la gelosia. Il vescovo cartaginese sostiene
che chi si lascia trascinare dall’invidia scatena la propria lingua e così «violenta la carità la
fraterna, falsifica la verità e rompe l’unità» (Cipriano, La gelosia e l’invidia 6). Da queste
parole di Cipriano si capisce quanto danno facciano le chiacchiere alla fraternità e perciò
vanno evitate. A questo riguardo le nostre Costituzioni dicono: «i frati si guardino da ogni
azione che possa danneggiare l’unione fraterna» (CCGG III, 43).
Colui sparla allora è animato da uno spirito mondano e a questo spirito l’Apostolo Paolo
contrappone lo «Spirito Santo di Dio col quale siamo stati segnati per il giorno della
redenzione» (Ef. 4, 30). A coloro che vogliono lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio
l’Apostolo dice: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a
vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef. 4, 32).
Cari fratelli, non ci limitiamo a onorare Sant’Antonio solo con le celebrazioni liturgiche
ma imitando anche le sue virtù: lui che ha saputo usare la lingua, non per distruggere ma per
edificare i fratelli con la parola della predicazione ci aiuti a custodire il dono della fraternità.
“Rimasero in due: la misera e la misericordia”
(Sant’Agostino, Commento al vangelo di Giovanni 33, 5-6)
Cari fratelli, in concomitanza con il triduo in onore di Sant’Antonio celebriamo oggi con
tutta la Chiesa la solennità del Sacro Cuore di Gesù. Che cos’è questa solennità se non un
volgere lo sguardo verso il cuore di Colui che ci ha amato sino alla fine? (Gv. 13, 1). Nella
riflessione patristica è possibile trovare alcuni accenni al Cuore di Gesù, anche se non aveva
la valenza devozionale che ha oggi. Ecco perché vorrei soffermarmi su due autori, un Padre
greco e un Padre latino, due grandi teologi della chiesa antica che tutt’ora la nutrono con i
loro insegnamenti: Origene e Agostino di Ippona.
Per l’Adamantino il vero discepolo di Gesù deve compiere lo stesso gesto del discepolo
amato durante l’ultima cena, cioè chinarsi sul petto di Gesù per ascoltare l’insegnamento del
Maestro. Non si tratta di un semplice gesto ma è un momento importante nel cammino di
discepolato, perché è proprio nel cuore del Maestro che si impara e si scorge i tesori segreti
della Parola (Origene, Commento al vangelo di Giovanni I, 4, 22-23). Nel suo Commento al
Cantico dei Cantici 1, 2-3 Origene riprende questa idea e dice: «Qui infatti certamente si dice
che Giovanni riposava nella facoltà principale del cuore di Gesù e nel significato intimo della
sua dottrina, e lì riposando scrutava i tesori di sapienza e di scienza che erano nascosti in
Cristo Gesù (Cfr. Col. 2, 3)». Per Origene, l’Apostolo Giovanni è il prototipo di ogni
discepolo di Gesù e il gesto di chinarsi sul suo cuore ha un valore altamente mistico. Infatti,
lo definisce come un’esperienza «straordinaria» (Omelia sul Levitico I, 4), in questo gesto il
discepolo diventa più discepolo in quanto si mette in ascolto della Parola ed entra «in
comunione di sentimenti con lui» (Omelia su Ezechiele VI, 4). Per il maestro alessandrino
chinarsi sul Cuore di Gesù vuol dire dunque, ascoltare ed scrutare la sua Parola in modo da
poter avere in noi «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil. 2, 5), in modo da
poter vivere come Lui ha vissuto.
Per sant’Agostino, invece, possiamo dire che il tratto più significativo del Cuore di Gesù è
la misericordia. Infatti in un sermone a lui attribuito, del quale non sappiamo dove, né quando
venne pronunciato, il vescovo di Ippona dice: «Che cos’è la misericordia? Non è altro se non
caricarsi il cuore di un po’ di miseria altrui. La parola “misericordia” deriva il suo nome dal
dolore per il “misero”. Tutt’e due le parole sono presenti in questo termine: miseria e cuore.
Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia».
L’immagine più forte di questa definizione agostiniana la troviamo nel Commento al Vangelo
di Giovanni 33, 5-6 quando Agostino presenta la scena dell’adultera perdonata da Gesù. Gli
scribi e i farisei che accusavano la donna di adulterio erano pronti a lapidarla, ma dopo che
Gesù ebbe pronunciato la frase «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di
lei» (Gv. 8, 7) tutti se ne vanno, uno per uno, cominciando dai più anziani. A questo punto
Agostino commenta «relicti sunt duo, misera et misericordia / rimasero in due: la misera e la
misericordia». A differenza degli accusatori, la Misericordia in persona, cioè Gesù è capace di
caricarsi il cuore della miseria della donna, e carica questa misera non come un peso ma come
qualcuno da redimere, da guarire, da accompagnare, da perdonare, da salvare. Così come si
carica la pecora smarrita o come il Buon Samaritano che carica l’uomo ferito sulla sua
cavalcatura. La vita del mondo e la vita di ognuno di noi è descritta in questa espressione
stupenda di Agostino: miseria e Misericordia. Ecco perché il Cuore di Gesù è il luogo dove la
nostra storia e la nostra miseria sono redente; così anche noi siamo chiamati ad usare
misericordia nei riguardi dei nostri fratelli, a caricarci il cuore di un po’ di miseria altrui e non
a lapidare come gli accusatori della donna adultera.
Chiediamo a Sant’Antonio la grazia di essere discepoli che si mettono in ascolto della
Parola e di avere in noi gli stessi sentimenti di misericordia che furono in Cristo Gesù.

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