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piccolo gruppo di Cristo

ESPERIENZE DI VITA
(ad uso interno della Comunità)
Aprile 2024

SOMMARIO

AGGIORNAMENTI
Dall’incaricato per la carità
Corrispondenza con il Monastero di Viboldone
Ringraziamento (Emiliano Gigliotti)
Risposta (Madre Anna Maria)
Dal delegato per la preghiera e la spiritualità del Gruppo
Invito a pregare per le vocazioni (Fiorenzo Gandini)
RIFLESSIONI
Riflessione durante la compieta del 14 marzo a casa di Ireos (Edoardo Censi)
Riflessioni sulla nostra vocazione durante la Messa Crismale a Gozo (Andrea Di Maio)
INSERTO SPECIALE:
RICORDI E TESTIMONIANZE SU IREOS
Spunti tratti dai “sommari” delle interviste sulla vita di Ireos - seconda parte (a cura di Rosalba e
Ruggero Poli)
TESTIMONIANZE
Benvenuti all’Hogar Arcoiris [resoconto del viaggio in Perù] (Cinzia Meneguzzo)
Un’esperienza cenacolare di vicinanza ai detenuti nel braccio della morte
Premessa (Vilma Cazzulani)
Donnie di Dio, Nessuno è perduto – Donald Otis Williams (Roberta Buroni, del Cenacolo di San
Pio V)
CRONACHE FOTOGRAFICHE
Visita alla casa delle “piccole sorelle” alle Tre Fontane a Roma e al Massimo il 1° marzo
Al Seminario di Reggio Emilia (facoltà teologica)
Anniversario di Manuela
Incontro dei giovani del “Nord-Est”

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AGGIORNAMENTI
Dall’incaricato per la carità

Corrispondenza con il Monastero di Viboldone

Ringraziamento (Emiliano Gigliotti)

6 marzo 2024
Gentile Madre Annamaria,
A nome di tutto il Piccolo Gruppo di Cristo la ringrazio per il ritiro tenuto domenica a Desio da
Madre Ignazia.
Certi di fare cosa gradita abbiamo pensato di fare una piccola donazione, come segno di
vicinanza fraterna, a seguito dell’ evento che avete avuto la notte di sabato.
È un piccolo gesto che facciamo con tutto il cuore, con la convinzione che ogni piccolo gesto di
amore reciproco possa anticipare già qui quella gioia che si sperimenta da una profonda
comunione con il nostro amato Gesù e tra di noi.
Con stima ed affetto ed uniti nella preghiera
Cordialmente, Emiliano Gigliotti

Risposta (Madre Anna Maria)

Buonasera Emiliano,
grazie per il pensiero gentile e fraterno, siete sempre molto cari, e ci sentiamo confortate dalla
vostra vicinanza.
Le darò conferma di ricezione della donazione.
In comunione di preghiera, un caro saluto, da tutte noi, m. Anna Maria

Dal delegato per la preghiera e la spiritualità del Gruppo

Invito a pregare per le vocazioni (Fiorenzo Gandini)


La bella iniziativa di Andrea Fazio della preghiera per le vocazioni possa trovare nel nostro
cuore un posto particolare per poter comunicare la “Bellezza” che abbiamo provato quando a
nostro tempo siamo stati riempiti di gioia scoprendo il posto che il Signore ci chiamava a
vivere.
Manuela scriveva come, da responsabile dell’aspirantato nel Piccolo Gruppo, era molto “bello”
impegnarsi per poter donare agli altri “tutto quello che aveva ricevuto”, ringraziando per l’attivo
contributo della preghiera offerto dalle sorelle e fratelli in Comunità. Dal Cielo Manuela
continuerà a farlo, ma qui sulla Terra ora tocca a noi con tanta buona volontà e il nostro
contributo, metterci nelle mani dello Spirito del Signore, e se lo vorrà, allietare altri suoi figli con
il dono della vocazione particolare nel Suo Piccolo Gruppo o in altre vocazioni che Lui indicherà
singolarmente.
“Sono io il custode di mio fratello?”. Sì, lo sono!

Lunedì 11 possa essere davvero un giorno particolare di fervorosa preghiera personale, e il


Signore “già sa di che cosa abbiamo bisogno” e sicuramente ascolterà!

Buona santa preghiera,


Fiorenzo

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RIFLESSIONI

Riflessione durante la compieta del 14 marzo a casa di Ireos (Edoardo Censi)


Questa preghiera non ha bisogno di commento da parte mia perché esprime molto bene i
sentimenti che anche io provo anche se non così intensamente.
Per esempio il mio sentirmi debole, peccatore, ma riponendo sempre la fiducia nel Padre al
quale chiedo il sostegno perché so che nonostante il mio poco amore Lui mi vuole bene così
come sono e me ne accorgo attraverso piccoli segni che mi manda. Mi piacerebbe essere come
un bambino di 5–6 anni che tiene la sua mano nella mano del “papà” perché questo lo fa sentire
compreso, protetto e sicuro.

Riflessioni sulla nostra vocazione durante la Messa Crismale a Gozo (Andrea Di Maio)
Per il terzo anno consecutivo vengo a Malta per il Triduo Pasquale. Ho quindi modo non solo di
incontrare gli amici di qui (Alberto, Donata e Karl, Corinne e Manuel, Francesco, don Daniel,
don Gabriel…), ma anche di vivere più intensamente, a mo’ di esercizi spirituali, i riti pasquali.
Proprio perché non capisco la lingua maltese (posso al massimo afferrarne qualche parola), ma
conosco quasi a memoria la liturgia di questi giorni santi, posso seguirla concentrandomi sui
segni e gesti e sul loro significato interiore.

La mattina del Giovedì Santo arrivo per tempo nella Cattedrale di Gozo per partecipare alla
“Messa Crismale”, a cui tengo molto. Perciò non posso fare a meno di ripensare a
un’osservazione scherzosa che mi è stata fatta: “Sarai il solo laico presente!”. In effetti, è una
celebrazione poco sentita nel popolo cristiano (anche perché nelle grandi diocesi è difficile
prendervi parte senza invito), eppure è molto importante: non solo perché il presbiterio della
diocesi si stringe intorno al suo Vescovo e rinnova le promesse sacerdotali, ed è bello che senta
il sostegno e la gratitudine di tutto il Popolo di Dio, ma anche perché ci rimanda all’unzione di
Spirito Santo che Gesù ha ricevuto fin dal concepimento, e poi all’inizio del suo ministero
pubblico, e all’unzione di olio profumato che ha voluto ricevere a Betania proprio alla vigilia della
sua Pasqua. Lui stesso ha preannunciato che insieme all’annuncio del Vangelo si sarebbe fatta
memoria di questa unzione!

La “Messa Crismale” si chiama così proprio perché vi si benedicono gli oli per l’unzione (in
greco, “crisma”) usata nella Bibbia per consacrare in maniera esclusiva e perpetua qualcuno o
qualcosa, a Dio, come gli antichi re e sacerdoti, e (con un’unzione solo spirituale) i profeti.
Proprio da “crisma” deriva il titolo di “Cristo” (equivalente greco della parola ebraica “Messia”) e,
indirettamente, quello di “cristiano” (in quanto seguace di Cristo, e consacrato nel Battesimo
come altro “cristo”); da “crisma” deriva anche “cresima” (cioè “crismazione”) con cui si indica il
sacramento della Confermazione. La Messa Crismale quindi ci aiuta a cogliere il senso della
consacrazione: Gesù è il Cristo, ossia il Consacrato di Spirito Santo dal Padre, e noi siamo
Cristiani, ossia consacrati a Cristo e in Cristo!

Mi torna in mente l’inizio dell’icona biblica:

L’ulivo dell’orto del Getsemani sul quale sono cadute le lacrime e il sangue di Cristo ha dato il suo
frutto. Il suo olio profumato è servito a ungere il corpo di Cristo croci­fisso, a consacrare la Chiesa
e, ancor oggi, a unge­re coloro che si consacrano a Dio con un servizio esclu­sivo e perpetuo.

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Ecco: la nostra consacrazione è una conseguenza della consacrazione attuata da Gesù che
nell’Orto degli Ulivi, dice al Padre: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. E le celebrazioni del
Giovedì Santo, dalla Messa Crismale al mattino alla Messa vespertina nella “Cena del Signore”,
con la Lavanda dei piedi e l’Adorazione per vegliare con Gesù, costituiscono un tutt’uno.

Durante l’omelia, che non posso capire, medito sulle letture bibliche che sono state proclamate:
la prima lettura e il Vangelo sono la profezia di Isaia (“Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha
consacrato con l’unzione…”) e il suo compimento in Gesù nella sinagoga di Nazaret. Capisco
meglio l’Icona biblica, in cui nel “quarto giorno” della Settimana lavorativa il Signore dice a
ciascuno di noi: “Ti vedrò portare il lieto annuncio ai poveri…”. La seconda lettura, tratta
dall’Apocalisse, è quella che in gruppo proclamiamo all’inizio di ogni adorazione eucaristica:

A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un
regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà… “Sì, Amen! Io sono l’Alfa e l’Omega”, dice il Signore
Dio, “Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!”.

Ecco il senso della nostra vocazione nella Chiesa e nel gruppo è di aiutarci ad accogliere la
salvezza e a vivere pienamente la consacrazione battesimale ricevuta! Il nostro “consacrarci a
Dio” non è altro che un lasciarci “consacrare da Dio” per cercare di essere davvero suoi re,
profeti e sacerdoti nel mondo.

Durante il rinnovo delle promesse sacerdotali che i presbiteri fanno davanti al Vescovo, prego
per tutti i pastori della Chiesa e ringrazio Dio per il dono della compresenza, nella Chiesa e in
comunità, del sacerdozio battesimale e di quello ministeriale, grazie al quale possiamo disporci
tutti a ricevere la Grazia.

Arriva il momento solenne della benedizione dei tre oli d’oliva destinati a “consacrare”. Mi
colpisce la progressione con cui vengono portati (in grosse anfore) e benedetti.

Prima viene portata l’anfora dell’olio che una volta benedetto dal Vescovo servirà durante l’anno
ad ungere i malati nel sacramento dell’unzione degli infermi: il primo olio ad essere benedetto è
quello che verrà usato per l’unzione che spesso si riceve alla fine della vita mortale. L’infermità
è in effetti la condizione che caratterizza tutta l’esistenza umana; spesso è ciò che ci aiuta a
iniziare il nostro percorso verso Dio. Del resto, anche per Ireos la malattia ha segnato l’inizio
della conversione. L’unzione degli infermi debitamente ricevuta fa sì che l’infermità non sia più
un ostacolo, ma sia vissuta in Cristo, così che l’infermo possa essere “totalmente di Dio”.

Poi viene portata l’anfora dell’olio che una volta benedetto dal Vescovo servirà durante l’anno a
ungere i catecumeni in preparazione al sacramento del Battesimo. Ripenso che tutti gli esseri
umani sono potenzialmente “catecumeni”, ossia “uditori della Parola”. Ed è molto bello che la
Chiesa abbia pensato a una forma di consacrazione e accoglienza anche per chi non è ancora
battezzato, perché tutti siamo “del Signore”, che lo vogliamo o no. Ripenso a quanto diceva
Ireos: prima ancora di diventare “figli rigenerati” di Dio, fin dal nostro concepimento siamo “figli
creati” da Dio. Anche il piccolo gesto del segno di croce sulla fronte che i genitori cristiani fanno
ai figli appena nati è come un anticipo di catecumenato.

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Infine, viene portata la terza anfora di olio, assieme a un’ampollina, il cui contenuto viene
versato dal diacono nell’anfora dell’olio, sprigionando un effluvio di profumo lieve e lieto che si
spande in tutta la cattedrale e permarrà fino alla fine della celebrazione: è il “balsamo” (in greco,
“myron”), ossia un estratto di essenze profumate, come il famoso “nardo” versato da Maria di
Betania e gli aromi preparati dalle “mirofore” per la sepoltura di Gesù. Questa miscela di olio
d’oliva e balsamo, benedetta dal Vescovo che vi alita sopra (a evocare l’effusione dello Spirito
Santo) e recita una lunga orazione durante la quale tutti i preti presenti stendono la mano
destra: è l’“olio del crisma”, che servirà
durante l’anno a ungere e consacrare i
battezzati e i confermati come “re, profeti e
sacerdoti” secondo il sacerdozio comune, e
preti e vescovi come “re, profeti e sacerdoti”
secondo il sacerdozio ministeriale.
Il gesto di versare il balsamo nell’olio (che per
la prima volta riesco a vedere, data la mia
posizione) con l’effetto di sprigionare il
profumo, mi fa percepire chiaramente che
ogni consacrazione realizza una comunione
per la missione. Il profumo infatti si spande e
attrae. Ripenso allora all’inizio dell’icona
biblica e finalmente capisco perché del frutto
del Getsemani non dice soltanto “il suo olio”,
ma “il suo olio profumato”, perché vi è stato
aggiunto un profumo! E capisco finalmente
anche perché l’icona, citando San Paolo,
identifica questo profumo con la “conoscenza
di Dio” che “tramite la nostra umile e fedele
presenza” può diffondersi nel mondo: ossia,
come diceva il Cardinal Martini, diffondere il
cristianesimo rendendolo amabile.

Allora, al termine della Messa Crismale,


possiamo anche noi con maggiore
consapevolezza far nostra l’acclamazione
paolina inserita nell’icona:

“Siano rese grazie a Dio che diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza al
mondo intero”.

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INSERTO SPECIALE:
RICORDI E TESTIMONIANZE SU IREOS

Spunti tratti dai “sommari” delle interviste sulla vita di Ireos - seconda parte (a cura di
Rosalba e Ruggero Poli)

Sono in svolgimento le interviste agli appartenenti al gruppo in ordine di “anzianità” (dopo quelli entrati
negli anni Sessanta e Settanta, adesso si stanno completando le interviste a quelli entrati negli anni
Ottanta): di ogni intervista (in base a domande sottoposte preventivamente all’intervistato) viene effettuata
la videoregistrazione, da cui è tratta una concisa sintesi scritta (rivista successivamente dal singolo
intervistato). In attesa di poter condividere l’intero lavoro, viene intanto anticipata una prima selezione di
stralci di alcune delle sintesi raccolte. (Nei numeri successivi si continuerà con altri stralci).

● Ireos era un uomo veramente innamorato di Dio, ecco perché Lo portava in tutta la sua
vita. Era una persona finemente spirituale ed estremamente concreta allo stesso
tempo, attenta agli aspetti concreti dell’esistenza, non era certo uno spiritualista, quindi
non c’era il rischio della preghiera vissuta come evasione. Perciò lo trovavo
estremamente convincente. Conosceva le durezze e le difficoltà della vita fin
dall’infanzia, aveva imparato a vivere con il cuore in cielo e i piedi per terra. [Cinzia
Bellani]
● Vedevo spesso a Messa Ireos; rimaneva spesso in ginocchio per molto tempo. Ricordo
le chiacchierate fatte con lui all’uscita da Messa; questo rapporto familiare si è interrotto
quando, sposandomi, sono andata a vivere a san Donato e ne ho sentito la mancanza.
Quello che stava a cuore a Ireos, secondo me, era la nostra appartenenza al pgC, la
nostra obbedienza, l’amore per il pgC dimostrato anche con la puntualità. [Anna
Mondin]
● La fede era per Ireos il centro della sua vita ed era il primo a vivere ciò che
raccomandava agli altri. Metteva Dio davanti a tutto e questo era per lui la
santificazione. [Andrea Giustiniani]
● Ireos portava una novità nella Chiesa: il cuore indiviso anche per i coniugi, la possibilità
di una piena consacrazione per gli sposati; questo, insieme alla figura del responsabile
personale, è uno specifico nostro. Soprattutto nella parte finale della sua vita ha
dimostrato serenità nel superare i momenti di salute fragile e grande paternità spirituale.
[Alberto Cattaneo]
● Era facile parlare con Ireos perché era come aprire il cuore a un padre che sapeva
ascoltare. Aveva una sapienza ispirata dallo Spirito. Per me sono fondamentali le due
Icone e la Preghiera del Cammino; quest’ultima Ireos diceva che era un programma di
vita da vivere e incarnare. Il carattere di Ireos era attento, accogliente, rispettoso,
deciso, esigente, amabile. Per lui la preghiera era tutto: anche nei periodi di aridità è
sempre stato fedele alla preghiera, e questo lo considerava una grazia. È stato un
profeta, un uomo di Dio a tutto tondo. [Letizia Dondossola]
● La relazione mia con Ireos era come quella che dovremmo avere con Dio Padre:
semplice, umana e spirituale, assistita dallo Spirito Santo che ci illumina e indica con
l’intuizione, ci fa sperimentare con e nella Parola la strada da percorrere, la
Provvidenza che si manifesta negli incontri, nelle occasioni, nella sofferenza e nella
gioia della vita. [Fernanda Petracco]
● Ricordo la morte di mio marito Giovanni Molaschi: verso le 23.00-23.30 abbiamo
recitato con lui il Padre Nostro, ero lì in ospedale con Ireos e altri, ho cercato di
sollevarlo quasi a metterlo seduto. Ad un certo punto ci accorgemmo che stava
vedendo qualcosa che lo illuminava, Giovanni ha cantato più volte “Alleluia” e ha detto
“Abbà, Padre!”. Più tardi chiusi il finestrone della camera d’ospedale e sono andata a
casa dai bambini. In corridoio c’erano molti parrocchiani che pregavano per lui. Ireos mi
raccontò poi, che verso le 5.30 del mattino con Giovanni cosciente pregarono il

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mattutino, poi sentirono un fragore come di temporale, un vento molto forte che
spalancò il finestrone e Giovanni spirò. Ireos ha interpretato questi segni come una
conferma del Signore che Giovanni era arrivato in Paradiso e per questo dovevo essere
contenta. Io, invece, ero dispiaciuta che Giovanni non c’era più ma sapendolo arrivato
mi dava conforto. Ho chiamato a casa il Prevosto padre Motta che venne
accompagnato da padre Giuseppe, ho svegliato i bambini e abbiamo detto loro che il
papà stava festeggiando in Paradiso con il Signore, gli Angeli e occorreva fare festa.
Così abbiamo fatto colazione insieme con le tazze della domenica nella sala da pranzo,
usata solo nelle occasioni importanti, insieme ai sacerdoti. [Fernanda Petracco]
● La preghiera di Ireos era un dono soprannaturale che lui viveva con grande dedizione,
perseveranza, entusiasmo, energia e bellezza ed io guardandolo volevo imitarlo perché
esprimeva tanto frutto spirituale con la sua preghiera. Era un maestro spirituale, diceva
“bisogna mettersi in ginocchio e stare lì, in ascolto”. Ricordo ad una settimana aspiranti
in Val d’Aosta viaggiando ci fece notare i campanili delle chiese e disse “vedete quanti
campanili ci sono? In ogni chiesa c’è la presenza eucaristica”. Da quella volta visitando
le chiese non mi faccio prendere subito dalla bellezza delle opere d’arte ma cerco prima
il tabernacolo per salutare Gesù, cercare la Sua presenza e la presenza in me. Ireos
diceva “noi diventiamo Eucaristia, Eucaristia è la nostra vita che viene trasformata”. Nel
1985 mi ha scritto: “Dio è amore sicuro e, quando tu sarai in grado di accoglierlo in
pienezza, vivrai il momento più bello della vita perché sarai ammessa a recepire la vita
unitiva e a gustare l’amplesso dell'amore soprannaturale. Devi far l’amore con l’Amore.
Adora il nostro Dio e ricevi con gioia, meraviglia e stupore la Santa Eucaristia”. [Lucia
Nicolao]
● Ireos negli incontri in comunità ascoltava con attenzione gli interventi di tutti e quando
interveniva lui per dare il suo contributo sul tema proposto, non faceva pesare la
profondità del suo pensiero, era sempre pacato ma appassionato. Non si lamentava
mai di eventuali disagi: a Capiago soffriva terribilmente il caldo in quella stanza esposta
al sole, ma non chiese di cambiarla spostandosi in un’altra all'ombra. Vestiva spesso
con abiti usati, taceva ascoltava, trovava sempre parole adatte, misurate, in ogni
circostanza. Si rivolgeva a tutti sempre con rispetto, molta cortesia, sempre premuroso
se si accorgeva di un bisogno di qualcuno. Santificarsi era per lui vivere fino in fondo le
litanie dell'umiltà, essere obbediente, paziente, sereno. Esercitava su di noi una
profonda paternità spirituale, gli si confidava tutto e si riceveva da lui l'aiuto necessario
a leggere i fatti della nostra vita, a ridimensionare problemi, a vivere situazioni con
spirito evangelico. Ireos è stato presente sempre nella nostra vita familiare (potrei dire
fino al suo ingresso nella RSA) ha camminato con noi, ci è stato vicino in ogni
occasione. Ci ha accompagnati nel percorso che ci ha portati a comprendere la
vocazione di nostra figlia Chiara, ma sempre tenendo i piedi per terra e lo sguardo
attento a tutto e tutti, senza perdersi in generici discorsi, commenti banali, scontati su
una vocazione di quel tipo (clausura). [Aurora Lagonigro e Saverio De Simone]
● Aveva il carisma dell’educatore, nei colloqui usava con ciascuno un modo diverso, ed
ogni colloquio era inserito in un clima di preghiera. Quando i colloqui si facevano in
casa, tutta la casa di Ireos era un appello alla preghiera, quando si entrava si faceva la
genuflessione perché Dio è in cielo e in terra e in ogni luogo. Nei primi colloqui mi
lasciava parlare, poi mi aiutava a entrare più in profondità: “A me interessa te, non
quello che fai”. Era paterno, ma non paternalista. Era premuroso nell’ospitalità,
sollecito, aveva una rete di relazioni impressionante, scriveva molte lettere a monache,
preti e vescovi, teneva molto all’amicizia, andava a trovare gli ammalati. Sapeva essere
spiritoso, sapeva dire le parole giuste. Una volta a Valserena con Francesco Corda, ci
aiutò a fare l’esperienza della preghiera diffusa, anche a tavola, richiamandoci a
riconoscere che il Signore è sempre presente. [Andrea Di Maio]

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TESTIMONIANZE

Benvenuti all’Hogar Arcoiris [resoconto del viaggio in Perù] (Cinzia Meneguzzo)

“Se i tuoi piedi potessero raccontare la tua strada, tu troveresti più sollievo che nel cercare parole
adatte. Ci sono cose che ci rimangono addosso e non si possono dire perché sono esperienza,
non racconto” (Luigi Maria Epicoco).

Questa frase esprime al meglio quello che vorrei raccontare ma che mi viene difficile dire a
parole.
Ci attendevano tutti il 14 gennaio, da giorni: un’accoglienza che sprizzava gioia! Ci aspettava un
periodo di tempo da condividere insieme a questa grande famiglia che non vedeva l’ora che
arrivassimo.
Una volta all’anno questa visita dall’Italia è per loro un lungo momento di festa che interrompe la
routine quotidiana e che porta con sé la possibilità di fare qualcosa di diverso, di condividere le
giornate ma è soprattutto un modo per trasmettere concretamente l’affetto e il sostegno che
tante persone in Italia provano per loro.
Una famiglia molto particolare, formata da 23 “figli”, 12 maschi e 11 femmine, di età compresa
tra i 4 e i 17 anni, accompagnati da due “mamme” cuoche e da una suora peruviana che si
prendono cura di loro ognuna per una parte della giornata.
A gestire l’hogar una “direttrice” che si occupa anche di tutta la parte burocratica ed
amministrativa di concerto con l’associazione “Gocce di Vita” odv.
“Hogar Arcoiris”, significativa la scelta del nome! In italiano “Focolare Arcobaleno”: i colori
dell’arcobaleno per ricreare quella serenità che solo il calore di un focolare familiare può
regalare.
Abbiamo imparato a conoscere ognuno di questi bimbi, giorno dopo giorno, dapprima
timidamente e poi con più confidenza superando le barriere dovute alla lingua e al fatto che non
ci si conosceva.
Ognuno a suo modo mi ha rapito con il suo sguardo, la sua simpatia, il suo stupore, la sua
gratitudine, il suo cercarti da solo perché bisognoso di un rapporto personale o con alcuni altri
per giocare insieme a qualsiasi ora.
Il loro aspettarti fuori dalla camera e richiederti attenzione, chiederti di essere lì con lui o con lei.
Il finire i pasti e ritrovarsi sempre qualcuno in collo e altri intorno che ti chiedevano un contatto
tenero, di quelli che noi cerchiamo di dispensare senza misura ai nostri figli e nipoti...Eh sì, la
cosa che mi ha colpito di più è stata proprio questa: il grande bisogno di “coccole” che la quasi
totalità di loro esprime e che fa comprendere la sofferenza che portano nel cuore per la
mancanza di una mamma, di un papà, a volte di entrambi, o la provenienza da famiglie
disagiate, con problemi legati all’alcolismo, alle violenze domestiche. Quelle coccole che tanto
fanno sentire i nostri figli e nipoti amati e desiderati, considerati ed incoraggiati nel loro percorso
di crescita.
Mi sono ritrovata a ripetere ad Emanuel, un bimbo che inizia ora la seconda elementare e
incontra problemi ad imparare a leggere e a scrivere, più e più volte, prendendolo in collo:
“Puedes hacerlo, tu eres bueno! Bien hecho!” (tradotto: “Puoi farcela. Sei bravo! Ben fatto!”)
Mi sono ritrovata ad accompagnare José Luis ad acquistare l’uniforme scolastica e, come una
mamma fuori dallo spogliatoio, aspettarlo che provasse i pantaloni più volte fino a trovare la
taglia giusta. Questo mi ha fatto riflettere su quanto siano dati per scontati i piccoli gesti e
attenzioni che vengono ricevuti quotidianamente ma che diventano motivo di gioia, di
tranquillità e di rassicurazione quando vengono ricevuti in una condizione di carenza affettiva.

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Mi sono ritrovata a limare con cura le unghie alle bimbe e ragazze e vederle felici del risultato,
loro che utilizzavano solo forbice o tronchesino... e poi quando ho visto Bernardino, 8 anni,
lavarsi i piedi in una bacinella mi sono chinata ad aiutarlo. Da premettere che i peruviani
utilizzano molto “las ojotas”, una sorta di sandali fatta utilizzando i copertoni delle gomme delle
auto e che fanno anche parte del loro abbigliamento tipico. Insomma sandali e terra e strade
sterrate: un mix che impedisce di tenere i piedi puliti. E così dopo il lavaggio, inizia la pedicure
con successo! Risultato: la fila e le prenotazioni pure... Un gesto di attenzione personalizzato…
Da ultimo, è importante sottolineare che la convivenza in un’esperienza di questo tipo mette alla
prova le tue capacità di adattamento, ma è giusto così: ti porta a riflettere che non è scontato
mangiare ciò che desideri, dormire dove e come desideri e avere a disposizione l’acqua quando
desideri…
Ti porta ad avere relazioni con persone che non hanno la tua stessa concezione del tempo, ti
devi adeguare al loro ritmo di vita…
Ti porta a riflettere anche sulla vita dura che conducono tanti peruviani, specialmente nelle
piccole comunità rurali: chi coltiva patate su terreni ripidi o pascola pecore e lama in condizioni
estreme, vive in capanne estremamente povere, cucina chinato su un fuoco a terra e l’unica
acqua corrente è quella del ruscello che a volte non è proprio vicino…
... e poi è impossibile raccontare la bellezza dei monti circostanti Tambobamba, città situata nel
sud del Perù, a sei ore di auto dal noto centro turistico di Cuzco, gli alberi, il verde, il profumo
dell’aria che ti fa stare molto bene e piena di energie, nonostante l’altitudine: nessuna difficoltà a
respirare a 3250 metri! Proprio qui dovevo arrivare!
Sono partita per stare, per stare con loro perché è bello accogliersi reciprocamente, dialogare e
condividere; è bello apprezzare e dimostrare loro che è un bel posto quello che il Signore ha
donato loro per vivere e vale la pena trovare un tempo per dirglielo con la presenza.

La poesia, letta da una delegata dell’UNHCR ad un incontro sui migranti a cui ho partecipato
ultimamente, mi ha colpito molto e mi sembra che sia un invito per ognuno di noi

Mentre prepari la tua colazione,


pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre,
pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua,
pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua,
pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti,
pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore,
pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani,
pensa a te stesso,
e di’: Magari fossi una candela in mezzo al buio. (Mahmoud Darwish)

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Un’esperienza cenacolare di vicinanza ai detenuti nel braccio della morte

Premessa (Vilma Cazzulani)

In questa memoria, Roberta, del Cenacolo milanese di San Pio V, ci racconta il suo viaggio
dall’Italia alla Florida, fino al carcere di massima sicurezza di Raiford, in cui sono rinchiusi
detenuti che rischiano la pena di morte. Con l’amica Silvia ha incontrato Donald, un
sessantaquattrenne da 13 anni in carcere, senza che nessuno l’avesse mai visitato prima, ma
con il quale avevano intrecciato una corrispondenza di circa 700 lettere. È stato condannato per
rapina e omicidio nei confronti di una anziana, ma si proclama innocente ed è in attesa di
appello. All’epoca del delitto era un senzatetto che abusava di alcol e faceva uso di droga. Sono
state accompagnate nel viaggio dalla preghiera e dal sostegno di una comunità di cui fanno
parte laici, religiosi e presbiteri. Tra questi, don Luigi Galli.

Donnie di Dio, Nessuno è perduto – Donald Otis Williams (Roberta Buroni, del Cenacolo
di San Pio V)
Se devo essere sincera, all’inizio ho accettato questa scommessa, quest’avventura incredibile
solo per accompagnare Silvia, una persona straordinaria, un’amica conosciuta qualche anno fa
nell’ambito della pastorale diocesana Acor per separati, divorziati e risposati.
Ma chi c’era mai stato in un carcere? Certamente non io, competente in materia di film gialli e
polizieschi, ma assolutamente digiuna di implicazioni reali in merito. Scavando bene, però, a
questa prima motivazione del cuore se ne è aggiunta un’altra, risalente a un paio di anni fa e
legata al mio periodo “immobile” di quattro mesi, quando mi ero rotta il piede. In quell’occasione
di immobilità assoluta, tra i tanti programmi e iniziative seguiti da remoto su varie piattaforme
digitali, c’era stata anche una serie di “incontri” organizzati dall’Associazione Italia-Russia in
occasione del centenario della nascita di Fëdor Dostojevskij. Uno di questi incontri curati dal
russologo, prof. Fausto Malcovati, era incentrato sul rapporto fra l’opera del grande romanziere
russo e la Giustizia (si veda, uno su tutti, il romanzo Delitto e Castigo). Durante quel
collegamento vi era stata la partecipazione dell’ex direttore del carcere di San Vittore e la
testimonianza di due ex detenuti che avevano scontato la loro pena e che erano riusciti a
ricucire i rapporti con le loro famiglie, oltre che a re-inserirsi in un contesto sociale.
Quell’incontro mi colpì molto e per molto tempo mi è rimasto in testa e nel cuore, per il tema
della giustizia sociale che sollevava, ma anche per il tema di quella che noi pensiamo debba
essere LA giustizia di fronte a un crimine. E della misericordia che dovrebbe essere usata.
Adesso comprendo che quell’immobilità, quella conferenza a distanza, quelle testimonianze
sono stati, a modo loro, tasselli di questo mosaico che è stata la visita a Donald.

Tutto è partito così, con le pratiche burocratiche da espletare, i moduli, i primi contatti con la
responsabile penitenziaria: si era a luglio del 2023, più o meno. Dopo, i mesi sono trascorsi a
rotta di collo, ho cominciato a scrivere a Donald sulla piattaforma dedicata, ma Donald era
ancora abbastanza virtuale per me, sebbene Silvia mi avesse mostrato qualche sua fotografia e
narrato delle circa settecento lettere da lui ricevute.
E poi arriva il giorno della partenza, con un po’ d’ansia per le tante ore di volo e anche un senso
forte di responsabilità nei confronti di Silvia e dei suoi acciacchi. Ma tant’è, ormai ci siamo, e
dalle mail di Donald traspare un’impazienza e una gioia che quasi passano il confine dello
schermo del cellulare e si riversano come una cascata di luce su me e su Silvia che leggiamo i
suoi messaggi.
Il viaggio in aereo è abbastanza tranquillo, ritiriamo l’auto presa a noleggio, ma ecco che già ci
aspetta, mi aspetta, un’impresa titanica: dover guidare per circa un’ora e non avere il navigatore
sull’auto.

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San Vodafone accorre in mio aiuto, ma semplicemente perché avevo acquistato il pacchetto
Travel Mondo con un tot di chiamate e Giga a disposizione. Una volta impostato il cellulare, si
parte e, complice il buio della sera e il cambio automatico, riesco ad arrivare con la mia
compagna d’avventure in albergo alle 4.20 del mattino (ora italiana), sveglie praticamente da 24
ore e impiegandoci il doppio del tempo calcolato da Maps: due ore totali.
Non so come io sia riuscita a guidare fino alla nostra destinazione, Starke, da Jacksonville dove
siamo atterrate (Florida), ma questo viaggio in auto è stata sicuramente la prova tangibile
dell’amorevole cura e protezione del Signore per noi, corroborata dalle preghiere di tutti gli amici
miei e di Silvia.
Il giorno seguente all’arrivo ci serve per riprenderci parzialmente dal viaggio, poi arriva il giorno
X, quello dell’incontro.
Il giorno del Ringraziamento che, per tradizione, il 98% degli americani trascorre in famiglia,
circondato dagli affetti più cari, è iniziato in modo del tutto diverso per le persone che si sono
trovate in fila con noi, avvolti tutti in un’aria gelida che ben poco aveva a che fare con il clima
(immaginato) della Florida.
Dopo esserci fermate in prima battuta alla prigione sbagliata (scopriremo poi che lì hanno luogo
le esecuzioni!) arriviamo al carcere giusto. Scattano a me e a Silvia una foto a testa che rimarrà
poi su tutte le carte che ci verranno consegnate ogni giorno per l’ingresso al carcere. Lascio
Silvia poi al caldo nella cosiddetta reception della prigione e mi metto in fila ordinatamente,
insieme a madri, mogli, fidanzate, amiche di penna, qualche uomo.
Ogni mattina si ripeterà questo rito dolente e insieme di speranza, alla fine alcuni volti
diverranno familiari e si parlerà del più e del meno, del tempo, dei luoghi di provenienza,
sempre con un occhio al vetro della porta d’entrata, perché fa freddo e non vediamo l’ora di
entrare.

Finalmente è il nostro turno, recupero in fretta la mia amica dalla reception ed entriamo.
I controlli sono simili a quelli aeroportuali: dobbiamo toglierci le scarpe e depositarle su un
nastro insieme alle giacche. Ci passano al metaldetector, sia quello manuale che quello a
torretta. Poi ci portano in uno stanzino dove una guardia donna ci perquisisce, dobbiamo
persino scuotere i reggiseni per dimostrare che non vi è nascosto niente. Il personale è gentile,
alcuni più morbidi, altri più fermi. Ci viene restituito il tutto, ci viene chiesto quanti anelli,
bracciali, orecchini, collane, occhiali indossiamo, quanti contanti abbiamo con noi.
Ci vengono trattenuti i passaporti. Il terzo passaggio sono le impronte digitali: mano destra,
quattro dita, poi due dita; idem per la mano sinistra. Il sistema non le legge, però, con facilità
perché fa freddo e i polpastrelli sono secchi. Infine anche le impronte digitali sono prese e una
guardia ci scorta fino al braccio della morte.
Intorno, filo spinato ovunque, cancelli che si aprono e si chiudono, sbarre che scorrono
perfettamente oliate e che fanno il loro dovere: separare, impedire, frapporsi. Finalmente si
arriva al parlatorio.
È un luogo luminoso, inaspettatamente e a dispetto della giornata decisamente novembrina. Le
pareti sono piastrellate di un tenue color grigio-azzurrino, il pavimento è quasi bianco, le finestre
(sbarrate) sono alte e strette, bordate di un azzurro carico. Le “postazioni” sono tavoli in acciaio,
freddissimi al contatto, con sgabelli in acciaio altrettanto gelidi.
Non ci sono parti indipendenti, slegate, il tavolo è una struttura unica con i sedili, una striscia di
nastro adesivo nero sul tavolo e sul sedile indica dove deve sedersi il detenuto: sempre in
faccia alle guardie sedute in alto, dietro un bancone.

Quando entriamo nel locale ci sono già diversi detenuti che si stanno intrattenendo con amici e
familiari. La loro divisa è color arancio, proprio come si vede in alcuni film americani. Casacca e

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pantaloni arancio, sotto una felpa bianca a maniche lunghe, scarpe bianche, una giacca di
cotone azzurra a completare la divisa. Sono decorosi e dignitosi, la maggior parte uomini
dall’aspetto piacevole. Parlano a bassa voce, alcuni ridono e scherzano, ma mai in modo
sguaiato. Riconosco qualche familiare con cui ho atteso al freddo poco prima, saluto,
sembriamo quasi già vecchi amici.
E poi arriva lui, Donald Otis Williams. Un uomo alto piacente, indossa occhiali da cui sbucano
occhi gentili e assolutamente, totalmente commossi fino alle lacrime. Il primo lungo, tenero
abbraccio è per Silvia, naturalmente, con cui corrisponde da due anni e cui ha aperto il suo
cuore e la storia della sua vita.
Sono tredici anni che Donald non riceve una visita, ovvero dalla sua incarcerazione. Dopo Silvia
è il mio turno, certo un po’ timida perché non lo conosco così bene, ma accolta da lui con
eguale affetto e tanta, tanta gratitudine.
Il primo giorno non parla molto, Donnie, non riesce perché l’emozione lo sovrasta, in un certo
senso, come lui stesso ci dice, non crede ai suoi occhi che si siano materializzate
improvvisamente due persone, a distanza di migliaia di miglia e con un oceano di mezzo, per
venire a trovare LUI. Il primo gesto che compie è molto semplice: si toglie la giacchetta e la
stende sul tavolo gelido perché, come ci dice, “è troppo freddo per voi”. Ed è l’unico nel
parlatorio a farlo.
Seguono altri tre giorni di visita a Donald, scanditi dalle procedure di controllo che alla fine ci
sembrano quasi normali, riti da consumare per poter portare la nostra presenza, le nostre
strette di mano, i nostri sorrisi a Donald.
Donald che non si arrende, Donald che ci riempie di ogni gentilezza per quel poco che il luogo e
la sua situazione consentono, che finalmente parla, può parlare con qualcuno faccia a faccia e
raccontare, raccontarsi: del padre che letteralmente lo scaraventa fuori dalla finestra, facendolo
atterrare stordito sul selciato del cortile, a tre anni, perché giudicato “reo” di aver provocato la
caduta di sua madre incinta e, dunque, la morte della sua sorellina per l’aborto che ne
consegue. Ma parla anche, Donald, del crimine che gli hanno imputato, delle circostanze e
dell’uomo che era all’epoca, dichiarando per l’ennesima volta la sua innocenza.
Donald racconta e noi lo ascoltiamo, cercando di farci un’idea degli accadimenti, ma soprattutto
scrutando i suoi occhi e i suoi gesti, perché a nostro modo di vedere, il corpo non mente mai.
Certo, non è facile, poi, confrontarsi e scambiare due parole per esempio con il detenuto
accusato di avere stuprato e ucciso una bambina. Non nascondo che i sentimenti si alternano
vivi e contraddittori in tutte quelle ore trascorse nel parlatorio dove incroci sguardi anche
impenetrabili rispetto a quello di Donald e, per certi versi, più chiusi. E così ci si avvia alla fine
del tempo concesso a noi tre per trovarci e conoscerci di persona. Tra panini riscaldati al
microonde e brodaglie di minestra figlie anch’esse dell’acqua calda, ovvero i nostri pranzi,
giunge il momento atteso della foto insieme, l’unica consentita e scattata da un detenuto con
una Polaroid. Siamo davanti alla parete delle grandi occasioni, del sogno di libertà: un tramonto
pseudo floridiano, palme, sole e persino fenicotteri. Non possiamo abbracciarci, né tenerci per
mano, tutto deve essere dignitoso, ma anche neutro. I volti, però, non mentono, soprattutto
quello di Donald che si apre in un ampio sorriso gioioso.
Il commiato è affidato alla benedizione che Silvia lascia a Donald, su mandato del nostro padre
spirituale, dopo che in auto al mattino ci siamo cosparse le mani di acqua di Lourdes (non si
può ovviamente portare nulla in carcere) ed è un momento solenne, ma al tempo stesso
delicato e fortemente spirituale: le mani di tutti e tre si stringono in un Padre Nostro recitato in
italiano e in inglese, ma la lingua, in questo caso, significa davvero poco e non c’è bisogno di
traduzioni, poiché ognuno di noi avverte la stessa Presenza, lo stesso Amore e la stessa
Benedizione nel cuore. Donnie furtivamente fa scivolare nella tasca di Silvia un rosario di
plastica, nero, assolutamente anonimo, ma per lui il dono più prezioso che può farle.

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Siamo tornate a casa, Silvia e io, ma certamente con un notevole bagaglio. Una ragazza
indomita e battagliera di 85 anni, con parecchi problemini di salute, accompagnata da un’ancora
incredula “figlia del cuore” che però ce l’ha messa tutta per far sì che tutto potesse filare liscio.
Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, sostenute e protette dalla Provvidenza divina, dalla
preghiera della comunità di Donald e di tutti gli amici al corrente di questa impresa che all’inizio,
certamente, è sembrata strana e addirittura strampalata.
La foto non è un souvenir di vacanza, è una piccola testimonianza di questo viaggio e delle sue
fatiche, dei suoi timori, ma soprattutto del sorriso e della gioia che siamo riuscite a portare con
l’aiuto di Dio anche lì, nella sperduta provincia americana, nel braccio della morte di Raiford
dove sono recluse persone in due metri per 2,90, senza finestre e con sei ore d’aria alla
settimana, suddivise in due giorni.
Se questo è un uomo.

Roberta Buroni
31 dicembre 2023

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CRONACHE FOTOGRAFICHE

Visita alla casa delle “piccole sorelle” alle Tre Fontane a Roma e al Massimo il 1° marzo

La tomba di piccola sorella Magdeleine, fondatrice delle piccole sorelle di Gesù

La cameretta di piccola sorella Magdeleine

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Con piccola sorella Giuliana nell’oratorio dedicato a fratel Carlo

Con Andrea Cassar, novizio gesuita, all’Istituto Massimo

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Al Seminario di Reggio Emilia (facoltà teologica)

Anniversario di Manuela

Messa del 10 aprile ad Anguillara

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Incontro dei giovani del “Nord-Est”

A Ferrara il 16 marzo

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