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“Per l’artista la creazione comincia dalla visione.

Vedere è già un’opera creativa ed esige uno


sforzo. Tutto quello che vediamo, nella vita di tutti i giorni, subisce più o meno la deformazione
generata dalle abitudini acquisite, e il fatto è forse più sensibile in un’epoca come la nostra, dove
cinema, pubblicità e periodici ci impongono quotidianamente una valanga di immagini bell’e
fatte, che sono un po’ nell’ordine visivo come il pregiudizio nell’ordine mentale. Lo sforzo
necessario per liberarsene esige una sorta di coraggio; e questo coraggio è indispensabile
all’artista che deve vedere tutte le cose come se le vedesse per la prima volta; bisogna vedere
tutte le cose come quando si era bambini.”
Henry Matisse

Ciò che il bello aggiunge al vero è il diletto, il sentimento di dolcezza che la visione del bello
ispira. In altri termini il bello ci fa sentire il «vero» come «buono», dà «sapore» al vero, per
così dire. Ora, tende solitamente a sfuggire alla nostra attenzione un paradosso che invece ha
a mio avviso un’importanza immensa. Il piacere che il bello mi dà è un piacere peculiare. È un
piacere che posso provare solo se io mi pongo ad una certa distanza dall’oggetto,
permettendogli così di rendersi a me visibile. Io non posso godere del bello se non
ritraendomi al suo cospetto. Ciò non significa ovviamente che il bello non attragga verso di sè.
Il bello chiama a sé. E tuttavia non soltanto attrae: impone anche rispetto. E ciò proprio perché
il tipo di godimento che la contemplazione del bello dona richiede per così dire due moti
contrari: «verso» e «lontano» dalla fonte dello splendore.
Quando Platone descrive l’appassionata ricerca della bellezza attraverso la famosa immagine
dell’auriga che guida la coppia di cavalli, pone in evidenza una sorta di paradossale bi-
direzionalità che pertiene al movimento amoroso: la bellezza non solo spinge l’anima al
possesso, ma anche forza simultaneamente l’anima a frenarsi in uno stato di riverente
venerazione; la bellezza muove a lasciar essere in gratitudine.
Ecco allora la prima ragione per cui credo che Dostoevskij avesse ragione nel dire che “la
bellezza salverá il mondo”. Aveva ragione perché il bello è quella qualità dell’essere che desta
in noi il potere di amare, cioè di affermare gratuitamente ciò che è. Di più : esso ha il potere di
ispirare il desiderio di spendersi per proteggerne l’integrità senza voler nulla in cambio.
Ciò mi introduce ad una seconda e forse ancor più profonda ragione per cui condivido il
parere di Dostoevskij. Una ragione che però si può comprendere pienamente solo alla luce
della rivelazione Cristiana, alla luce cioè di quel che Cristo ci rivela di Dio e di cosa significa
diventare simili a Lui –Domandiamoci: cos’è questa strana gioia, questo strano senso di libertà
che proviamo quando qualcosa di davvero bello ci strappa un moto di disinteressato amore?
La rivelazione Cristiana ci aiuta a rispondere: quell’amore è in realtà come un «assaggio» del
destino ultimo per cui siamo fatti – cioè di ciò che chiamiamo paradiso-. Cosa vuol dire infatti
essere in paradiso? Certo, nessuno di noi può pretendere di dire di saperlo. Una cosa però ci è
stata promessa: essere in paradiso significa diventare simili a Dio, cioè conoscere e amare
tutto nel modo in cui Egli conosce ed ama. E come ama Dio? L’amore di Dio è carità, cioè «pura
gratuità ». L’amore di Dio è pura gioia di lasciar essere, pura gioia di affermare il tu, l’altro. Dio
è carità – agape, dice San Giovanni. Ecco allora perché un atto di genuino stupore di fronte alla
bellezza dona al cuore un sentimento di libertà , di leggerezza, di pienezza che è
qualitativamente imparagonabile a qualunque altro piacere – sia esso sessuale o psicologico
(successo, gloria mondana, etc.). È così semplicemente perché noi siamo fatti per vedere ed
amare come Dio ama. Nell’incontro col bello questa divina gratuità d’improvviso diviene in
qualche modo gustabile anche da chi di Dio non sa nulla – anche da chi vive immerso nel
grigiore, in un mondo avvolto da una cappa di menzogne. Un passo del Signore degli Anelli di
Tolkien aiuta a comprendere questa affermazione. Frodo e Sam marciano ormai da giorni nel
cuore di Mordor, avvolti da oscurità e desolazione. Stremati, si fermano a riposare per la
notte:
“Dormite prima voi, signor Frodo», disse. «Si sta facendo di nuovo buio. Credo che il giorno sia
quasi finito». Frodo sospirò e si addormentò prima ancora che Sam finisse di parlare. Questi
lottava con la propria stanchezza; prese la mano del padrone e rimase seduto e immobile fino
a notte fonda. Finalmente, per tenersi sveglio, strisciò carponi fuori dal nascondiglio e si
guardò intorno. Il paese sembrava pieno di scricchiolii, di scalpitii e di fruscii, ma non si
udivano voci né passi. Sopra l’Ephel Dú ath, a occidente, il cielo della notte era ancora pallido. E
lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un’alta vetta, vide una stella bianca
scintillare all'improvviso. Lo splendore della sua bellezza gli penetrò nell'anima e la speranza
nacque di nuovo in lui. Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che
l’Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna
luce e splendida bellezza. Il suo canto nella Torre era stato una sfida più che una vera e
propria speranza, perché pensava a se stesso. Ora, per un attimo, il suo destino e persino
quello del suo padrone smisero di tormentarlo. Tornò strisciando fra i rovi e si sdraiò accanto
a Frodo, e dimenticando ogni timore si lasciò cadere in un profondo sonno tranquillo.”
La speranza che riempie il cuore di Sam e gli fa dimenticare ogni timore sembra essere il
frutto di una improvvisa, quasi subliminale intuizione: alla fine del tempo l’Ombra non
prevarrà e il mondo sarà salvato. È il sentimento di gratuita ammirazione che Sam prova per
la stella – mi permetto di suggerire – la causa di questa misteriosa resurrezione della speranza
nel suo cuore. Cosa è infatti la speranza? La speranza è l’anticipo nel presente della salvezza
futura.

Nel momento stesso in cui Sam riesce a stupirsi, per così dire, «gratuitamente» della bellezza
della stella, a gioire che essa esista, egli sta in realtà già sperimentando la salvezza – cioè il
manifestarsi della vittoria del divino in lui, nel suo cuore. Immedesimiamoci. Sam è
imprigionato nel luogo più orrendo che si possa immaginare. Eppure, all’apparir della stella,
gli è dato non solo di realizzare ma di «gioire» del fatto che ci sia nel mondo qualcosa di
«indomabilmente» bello – qualcosa che rimane inaccessibile a qualsivoglia ombra di male.
Lungi dal provare invidia, Sam è consolato, gioisce, per così dire, del fatto che esista qualcosa
che non è nel posto orrendo dove lui è. Qualcosa di immacolato, di perfettamente puro. Ne
gode, ne gioisce. Di più , ne gioisce di una gioia così penetrante che “per un attimo il suo
destino e persino quello del suo padrone smettono di tormentarlo”. Questo è il potere
paradossale del bello: esso resuscita in me la vita nel momento stesso in cui mi libera, anche
solo per un attimo, da ogni ansia circa la «mia» vita. Nello strapparmi un atto di gratuita,
generosa ammirazione, di amore senza ritorno, la bellezza mi lascia intuire che proprio questo
è il ritorno, il dono che ella mi elargisce: il potere di amare gratis – cioè divinamente.
Bisogna aggiungere un’ultima cosa. Da una parte, è vero che la bellezza è «inutile», come si
dice. Non serve a nulla. Dall’altra, tuttavia, l’incontro con lei non è infecondo. Al contrario il
bello porta in me un frutto straordinario: mi trasforma in un generoso amante. Ancor più
notevole è il fatto che questa generosità che il bello genera in me tende naturalmente a
tracimare, per così dire, cioè a contagiare il mio modo di guardare anche il resto della realtà ,
anche il non bello. È questa un’esperienza certamente nota a molti: la lettura di un toccante
brano di letteratura o di una poesia, l’ascolto di un brano musicale che per qualche ignota
ragione va a toccare le corde più profonde del nostro cuore, ha spesso su di noi un effetto
catartico simile all’impatto della stella sul cuore di Sam. Lascia nella nostra anima, almeno per
qualche tempo, un senso di riconciliazione, di pace che ci permette di guardare alla realtà ,
anche nei suoi aspetti più plumbei, con una maggiore magnanimità e leggerezza.

Finisco con questa altra citazione di Tolkien:


Abbiamo bisogno della «riscoperta». (…) La «riscoperta» (che implica il ritorno alla salute e il
suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara (…) «vedere le cose
come siamo (o eravamo) destinati a vederle», vale a dire quali entità separate da noi stessi.
Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza
possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare - dalla possessività . Tra
tutti i volti, quelli dei nostri familiares sono quelli con cui è più difficile dedicarsi a giochi di
fantasia e i più difficili da osservare con fresca attenzione, percependone somiglianze e
disuguaglianze, cioè che si tratta di volti, e tuttavia di volti unici. Questo tritume è, a ben
guardare, lo scotto dell’appropriazione»: le cose che sono trite o familiari in senso
peggiorativo, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Affermiamo
di conoscerle. Sono diventate quali quelle che una volta ci hanno attratto con il loro luccichio,
il loro colore o la loro forma, e abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a
chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle.

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