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Introduzione allo studio del marketing

Materiale didattico di supporto al corso di

Marketing e Comunicazione d’Impresa

Anno accademico 2016-17

N.B.: Il presente materiale è una breve raccolta di argomenti destinati ad integrare quelli presenti
nel libro di testo consigliato e, pertanto, non sostituisce quest’ultimo. La trattazione è ancora in
forma provvisoria poiché si è voluto mettere a disposizione degli studenti tale materiale ad inizio
del corso di lezioni. Tuttavia, entro la fine dell’anno accademico, sarà predisposta la versione
definitiva.
“Il marketing è diverso dalla vendita
come la chimica dall’alchimia,
l’astronomia dall’astrologia,
gli scacchi dalla dama”.

(Theodore Levitt)

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1. Concetti introduttivi.

Lo studio di una qualunque disciplina richiede l’utilizzo di termini di base condivisi al fine di
evitare confusione. Questa esigenza è ancor più avvertita allorquando i termini sono già stati
oggetto di studio in altri insegnamenti. In questa prospettiva si ritiene, quindi, necessario realizzare
preliminarmente una breve omogeneizzazione dei saperi chiarendo il significato che tali termini
assumono nello studio del marketing. Con ciò non si vuole assolutamente affermare che i concetti
forniti in altre discipline siano errati, ma che le definizioni ed i concetti sottostanti sono strumentali
rispetto ai fini conoscitivi prefissati e che, cambiando l’oggetto di analisi o la prospettiva di
osservazione, possono quindi assumere valenze diverse.
I termini sui quali si soffermerà l’attenzione sono: bisogno, desiderio, domanda, prodotto, scambio,
mercato.

1.1 Bisogno, desiderio, domanda.


Tutti gli studi introduttivi alle discipline economiche ed aziendali prendono le mosse dal concetto di
bisogno. L’attività economica, infatti, viene svolta per soddisfare i vari e mutevoli bisogni degli
individui.
Il termine bisogno è stato variamente interpretato in letteratura e fra le varie definizioni proposte
certamente quella fornita da Adam Smith è la più semplice e, al contempo, la più efficace. Egli,
infatti, definì i bisogni come le molle dell’agire umano. Senza di essi ciascuno di noi non
svolgerebbe alcun tipo di attività, rimarremmo costantemente in uno stato vegetativo. La presenza
dei bisogni, invece, ci induce a compiere tutte le attività che svolgiamo nel corso della nostra vita.
Esempi di bisogni sono, quindi, la fame o la sete.
Nell’ottica della psicologia sociale, disciplina strettamente collegata al marketing, il bisogno si
concretizza in uno stato di tensione provocato in un dato soggetto dal divario tra un fine da
realizzare e i mezzi di cui dispone per conseguirlo. Questo stato di tensione crea insoddisfazione ed
induce il soggetto ad attivarsi per cercare di soddisfarlo.
Il bisogno, quindi, è una condizione dell’individuo in cui il soggetto percepisce uno stato di
privazione.
I bisogni sono illimitati anche se, in un determinato momento, ne avvertiamo un insieme contenuto.
Non appena, però, questi ultimi sono soddisfatti, totalmente o parzialmente, ecco che ne emergono
dei nuovi. In economia si dice che i bisogni hanno una intensità decrescente, cioè man mano che li
soddisfiamo diminuisce la loro impellenza fino a scomparire se totalmente appagati dando spazio
agli altri. Ciò non toglie, però, che un bisogno soddisfatto non possa ripresentarsi in tempi più o
meno lunghi. Si pensi, ad esempio, alla fame che una volta soddisfatta torna a farsi sentire a
distanza di alcune ore.
È bene precisare che, sebbene i bisogni sono comuni a tutti gli individui, l’intensità con la quale
ciascuno di noi li percepisce è differente.
Il bisogno viene avvertito dall’individuo allorquando la sensazione di insoddisfazione supera un
certo limite (diverso da persona a persona) che i neurofisiologi chiamano “funzione di risveglio” e
che può essere attivata da stimoli interni all’individuo (si pensi, ad esempio, al languore per la
fame) oppure esterni a quest’ultimo (ad esempio, una pubblicità).
I bisogni possono essere variamente classificati. Richiamando le principali classificazioni incontrate
in altre discipline, i bisogni sono distinti in individuali (avvertiti dall’uomo in quanto individuo
indipendentemente dal contesto nel quale vive) e collettivi (avvertiti quale componente della
società), primari (se legati alla sopravvivenza dell’uomo) e secondari (per esclusione, tutti gli altri).
La classificazione più utile ai fini delle successive considerazioni è, però, quella proposta da
Maslow, il quale, negli anni ’50, ha elaborato una teoria denominata “piramide o scala dei
bisogni”. In base a tale teoria i bisogni si presentano secondo una precisa scala gerarchica, e un
bisogno di livello più elevato non è motivante per un individuo se egli non ha soddisfatto prima
quelli di livello inferiore. Man mano che i bisogni vengono soddisfatti la loro intensità
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progressivamente si attenua mentre quella dei bisogni posti a livelli gerarchici superiori ed ancora
insoddisfatti tende ad aumentare.
Il Maslow riconduce tutti i bisogni percepiti dall’individuo ad una delle seguenti cinque categorie:
fisiologici, di sicurezza, sociali, di stima e di autorealizzazione.
Alla base della piramide si trovano i bisogni fisiologici, cioè quei bisogni legati alla stessa
sopravvivenza dell'uomo (ad esempio, la fame o la sete). Tali bisogni sono i primi a dover essere
soddisfatti e, solamente quando essi sono appagati in modo regolare, sorgono nell’individuo le altre
necessità di livello superiore.

Figura n. 1: Piramide di Maslow


Al secondo livello si collocano i bisogni di
sicurezza da intendere quest’ultima non
Bisogni soltanto come incolumità fisica ma in senso
di
autorealizzazione
più ampio, come mantenimento della capacità
di soddisfare i bisogni fisiologici anche in
Bisogni di stima futuro. Pertanto, in questa categoria rientrano
Bisogni di socialità quei bisogni che si collegano alla stabilità del
Bisogni di sicurezza
posto di lavoro, all’assistenza durante i periodi
di disoccupazione o di malattia, etc.
Bisogni fisiologici
Al gradino della piramide immediatamente
superiore, si pongono i bisogni sociali, ovvero
il senso di appartenenza al gruppo, l’essere accettati dagli altri, il ricevere amicizia ed affetto.
Successivamente si trovano i bisogni di stima intesa sia nel senso di apprezzamento degli altri nei
nostri confronti sia di prestigio.
All’ultimo livello della piramide si collocano i bisogni di autorealizzazione che consistono nel voler
essere ciò che si desidera in base alle proprie capacità e alle proprie aspirazioni e nel voler occupare
una posizione soddisfacente nel gruppo; potremmo dire di realizzazione del successo personale per
il proprio piacimento.
Nelle società economicamente più progredite, dove i bisogni di livello inferiore della scala
gerarchica sono largamente soddisfatti (come i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza), la
motivazione alla stima e alla autorealizzazione prevalgono su altri bisogni gerarchicamente
inferiori.
Certamente si possono muovere parecchie critiche alla schematizzazione proposta da Maslow.
Infatti, non tutti gli individui dispongono i bisogni secondo l’ordine proposto e non necessariamente
si deve realizzare la piena soddisfazione dei bisogni posti a livello inferiore prima di appagare quelli
di ordine superiore; la scala, inoltre, può essere diversa a seconda del contesto economico e sociale
ed un soggetto può essere spinto da più bisogni contemporaneamente anche se con diversa intensità.
Nonostante i limiti segnalati, la piramide di Maslow costituisce un utilissimo strumento di analisi
dei bisogni umani.
Spesso il termine bisogno viene utilizzato come sinonimo di desiderio ma, in realtà, si tratta di due
espressioni che sottendono concetti assai diversi. Infatti, con la seconda espressione ci si intende
riferire all’individuazione di qualcosa di specifico ritenuta in grado di soddisfare i bisogni più
profondi. Pertanto, il bisogno si pone “a monte” mentre il desiderio “a valle”: un individuo avverte
il bisogno della fame e desidera un panino perché lo ritiene in grado di placare la sua fame. È bene
precisare che, affinché si crei un desiderio, non è necessario che quel qualcosa effettivamente sia in
grado di soddisfare il bisogno ma è sufficiente che lo si reputi tale.
Chiarita la distinzione fra i due concetti è possibile confutare una delle tante affermazioni errate che
circolano in tema di marketing: le imprese creano i bisogni. Ciò non è vero: i bisogni sono innati
nell’individuo e le imprese hanno invece la capacità di creare i desideri. Generalmente l’errata

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affermazione viene riportata al fine di voler attribuire gravi colpe alle imprese in ordine al
fenomeno del consumismo spinto ma occorre sottolineare che disconoscere la capacità di creare
bisogni non significa negare le gravi responsabilità di ordine sociale imputabili a tali
organizzazioni. Infatti, non è da ritiene eticamente corretto, o per lo meno discutibile, far desiderare
prodotti che non sono in grado di soddisfare i nostri bisogni.
A ciò si aggiunga che un’impresa, anche se non crea bisogni, può modificare la loro gerarchia
facendo emergere bisogni posizionati nella parte alta della piramide e che senza il suo intervento
sarebbero soddisfatti solo successivamente oppure può indurre a soddisfare in misura contenuta i
bisogni di livello inferiore per destinare le risorse finanziarie risparmiate per il soddisfacimento di
quelli di livello superiore.
I desideri si trasformano in domanda se sostenuti da una adeguata capacità di spesa, in altre parole,
da un sufficiente potere d’acquisto. Molti di noi, ad esempio, desiderano una Ferrari ma il nostro
desiderio non si trasforma in domanda perché non disponiamo dei mezzi finanziari o, pur avendoli,
non riteniamo opportuno destinarli a tale acquisto. La domanda è, quindi, costituita dai desideri per
specifici prodotti, fondati sulla capacità e sulla volontà di acquistarli.

1.2 Prodotto, scambio, mercato.


Alla luce delle precedenti precisazioni terminologiche, appare evidente come i prodotti siano
l’oggetto del desiderio. In questa sede viene proposta una interpretazione estremamente ampia di
prodotto. Quest’ultimo, infatti, può essere inteso come tutto ciò che è ritenuto in grado di soddisfare
un bisogno. È bene sottolineare che, affinché si possa parlare di prodotto, non è necessario
l’effettivo soddisfacimento del bisogno ma è sufficiente che il soggetto lo reputi in grado di farlo.
Il termine prodotto evoca immediatamente un oggetto fisico, ma si tratta di una visione assai
limitata. In realtà le imprese e gli altri soggetti talvolta cercano di soddisfare i bisogni degli
individui con altre forme di offerta. Accanto ai prodotti con una loro consistenza materiale (beni) si
affiancano, quindi, le seguenti altre tipologie:
- prodotti immateriali (servizi);
- combinazioni di beni e servizi particolarmente coinvolgenti (esperienze)1;
- luoghi o aree geografiche (territori);
- ideologie o pensieri (idee);
- personaggi (celebrità).
L’ampia interpretazione fornita del concetto di prodotto vuole evidenziare come il marketing trova
ormai applicazione in tutte le attività umane comprese quelle non tradizionalmente economiche.
Pertanto, anche se nel prosieguo si concentrerà l’attenzione sui beni, occorre non dimenticare mai la
possibile estensione dei principi e delle tecniche di marketing ad altre tipologie di offerta
provenienti non soltanto da organizzazioni for profit ma anche no-profit.
Indipendentemente dalla tipologia, ogni prodotto possiede delle caratteristiche (attributi) più o
meno distintive che possono essere di natura concreta o astratta (Olson e Reynolds, 1983). Gli
attributi concreti sono prevalentemente unidimensionali, oggettivamente misurabili e connessi
direttamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto (ad esempio, il contenuto calorico di una
bevanda). Gli attributi astratti, invece, sono prevalentemente multidimensionali, definiti cioè da più
attributi concreti, ma a differenza di questi ultimi non sono oggettivamente misurabili e non
necessariamente connessi alle caratteristiche fisiche del prodotto (ad esempio, il gusto di una
bevanda).
Attraverso gli attributi il prodotto fornisce benefici al consumatore. I benefici sono le utilità che un
soggetto può trarre dal consumo di un prodotto e possono essere di natura funzionale (connessi alla
performance del prodotto), psicologica e sociale (connessi al significato che il prodotto assume sul

1
Per un approfondimento del concetto di esperienza si rinvia a Pine e Gilmore (2000).

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piano simbolico) oppure esperienziale (connessi alle emozioni positive derivanti dall’esperienza di
acquisto e di utilizzo). Sotto questo profilo il prodotto può essere interpretato come un fascio di
utilità (bundle of utilities), ossia come un insieme di benefici promessi2.
Ormai, tranne qualche rara eccezione, un bisogno può essere soddisfatto da una molteplicità di
prodotti alternativi. Si pensi, ad esempio, al bisogno della fame ed ai tanti beni alimentari presenti
sul mercato. Di fronte alle diverse alternative occorre domandarsi come il consumatore possa
giungere alla scelta del prodotto. La risposta a questo interrogativo non è semplice e sarà oggetto di
approfondimento in altra parte del programma; in questa sede si può anticipare che la scelta viene
effettuata in base al valore percepito, ossia tenendo conto, da un lato, del prezzo da pagare e,
dall’altro lato, della stima riguardo alla capacità del prodotto di soddisfare il bisogno avvertito. Il
soggetto che intende soddisfare un proprio bisogno effettua, quindi, un confronto fra le varie offerte
(proposte di valore) delle diverse imprese presenti sul mercato e sceglierà quella che reputa
possedere il maggiore valore.
È opportuno precisare che la scelta non è frutto di un calcolo meramente economico (razionalità
economica) ma è influenzata, altresì, da fattori di carattere socio-psicologico in quanto i benefici
ricercati, come già precisato, non sono soltanto di natura funzionale. A ciò si aggiunga che tale
scelta viene assunta in un contesto caratterizzato da profonda incertezza. La scelta è, quindi, il
risultato di un processo estremamente complesso nel quale ciascun consumatore prende in
considerazione un insieme, più o meno ampio, di caratteristiche alle quali attribuisce un’importanza
(o priorità) diversa.
In altri termini la decisione di acquisto è basata sulla percezione da parte del cliente delle
caratteristiche dei prodotti disponibili e su una scala d’importanza attribuita a tali caratteristiche.
In forza a tale meccanismo di scelta, ogni impresa si presenta sul mercato con una propria proposta
di valore, cioè con un insieme di benefici che promette di offrire per soddisfare i bisogni dei
consumatori e di sacrifici (non sempre e non solo il prezzo) che si richiedono a questi ultimi per
poter fruire di tali benefici. Le varie proposte di valore sono, quindi, oggetto di confronto e la scelta
ricadrà su quella che il consumatore reputa migliore sulla base delle caratteristiche percepite e della
rilevanza attribuita ad esse.
L’individuo, una volta individuato il prodotto ritenuto in grado di soddisfare meglio degli altri il
bisogno o i bisogni avvertiti, si attiva per procurarselo. Varie sono le modalità (autoproduzione,
coercizione, mendicità) utilizzabili dal soggetto ma certamente, nell’economie moderne e per la
maggioranza dei prodotti, quella più diffusa è lo scambio.
Affinché lo scambio si realizzi è necessaria la presenza delle seguenti condizioni:
 che vi siano almeno due parti;
 che ciascuna parte abbia qualcosa che possa essere di valore per l’altra;
 che ciascuna parte sia in grado di comunicare e di trasferire valore all’altra;
 che ciascuna parte ritenga possibile o desiderabile trattare con l’altra.
Se manca anche una soltanto di queste condizioni lo scambio non si realizza.
Lo scambio può essere in natura (c.d. baratto) o monetario. Nel nostro corso ci occuperemo di
quest’ultima tipologia di scambio ma occorre non dimenticare che il marketing trova applicazione
anche per altre tipologie di offerta che vengono trasferite senza il ricorso alla scambio monetario.
Gli scambi si realizzano all’interno dei mercati. È ormai superata l’idea che un mercato sia
identificabile come un luogo fisico nel quale si incontrano compratori e venditori per realizzare lo
scambio. In Economia Aziendale il mercato viene generalmente inteso come “un complesso
dinamico di negoziazioni che hanno per oggetto una certa classe di «beni» che si manifestano con
continuità, con caratteri omogenei e con elevata interazione reciproca” (Airoldi et alii, 2005, p.

2
Gli attributi, da cui scaturiscono le utilità offerte, incorporandosi nel prodotto, danno vita a varie configurazioni di
prodotto.

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256). Nella disciplina del marketing, invece, il mercato è costituito da tutti quei soggetti che
condividono un particolare desiderio e che hanno le potenzialità economiche e di altro tipo3 per
poterlo soddisfarlo. Si preferisce utilizzare l’espressione “soggetti” e non “individui” poiché la
domanda di un determinato prodotto può derivare da persone fisiche o da organizzazioni,
distinguendo così il mercato di consumo (business-to-consumer) da quello industriale (business-to-
business).
Pertanto, ad esempio, quando si parla di mercato dell’automobile ci si intende riferire a tutti coloro
che desiderano acquistare un’autovettura (interesse), hanno le potenzialità economiche (reddito) e
hanno l’età per poterla guidare (qualifica).
Poiché il mercato può essere analizzato a più livelli, il concetto proposto viene identificato con
l’espressione “disponibile qualificato” per distinguerlo dalle seguenti altre configurazioni:
- mercato potenziale, costituito da tutti quei soggetti che dichiarano un sufficiente livello di
interesse verso una determinata offerta di mercato;
- mercato disponibile, formato da coloro che non solo hanno interesse nei confronti del clienti
ma anche le potenzialità economiche per acquistarlo;
- mercato obiettivo (o target), quella parte del mercato disponibile qualificato a cui l’impresa
intende rivolgersi;
- mercato penetrato, composto dall’insieme dei soggetti che acquistano il prodotto
dell’impresa.

potenziale
Fig. n. 2: Livelli di mercato
disponibile

disponibile
qualificato
obiettivo
penetrato
penetrato

Poiché, come precedentemente osservato, ciascuno individuo assegna diversa rilevanza agli attributi
in quanto ricerca benefici differenti, il mercato è costituito da un insieme di eterogeneo di soggetti.
Tale insieme può essere suddiviso in insiemi meno eterogenei detti segmenti. Si preferisce utilizzare
l’espressione “meno eterogenei” in luogo di “omogenei” per sottolineare il fatto che i soggetti sono
sempre differenti l’uno dall’altro e che, proprio in virtù di tale constatazione, alcune imprese
esasperano tale scomposizione sino a giungere a considerare il segmento a base uno (c.d. marketing
one-to-one), in cui si realizza una offerta specifica diversa per ciascun consumatore.

2. Il marketing: da funzione aziendale a filosofia di gestione.


Effettuate queste brevi precisazioni terminologiche, si tratta adesso di chiarire il concetto di
marketing. Tale termine deriva dalla lingua inglese e, più specificatamente, dal verbo “to market”
che può essere tradotto con l’espressione “introdurre nel mercato” o “commercializzare”. L’origine
etimologica ben evidenzia come il marketing non sia semplicemente vendita (“to sell”) ma una
attività molto più complessa.
Il marketing odierno è frutto di un lungo ed incessante processo evolutivo la cui origine è difficile
da determinare. Secondo alcuni studiosi, infatti, già nelle epoche antiche era possibile individuare

3
Le potenzialità di altro tipo sono di varia natura a secondo della tipologia di prodotto. Ad esempio, la maggiore età è
un requisito in assenza del quale un individuo non può essere considerato come componente del mercato delle
autovetture.

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una molteplicità di iniziative svolte per favorire il collocamento sul mercato dei prodotti anche se
non avevano il carattere di sistematicità. Altri ricercatori (Drucker, 1978, p. 72), invece, ritengono
che il marketing sia nato in Giappone, alla fine del XVII secolo, dal capostipite della famiglia
Mitsui allorquando, trasferitosi a Tokio, aprì un grande magazzino che gestiva praticando alcune
politiche di marketing. In Occidente, soltanto verso la metà del XIX secolo, il marketing fa la sua
comparsa presso la International Harvester Company.
Il Fullerton (1988), invece, individua pratiche riconducibili al marketing a partire dal 1750, in Gran
Bretagna, e dal 1830, negli Stati Uniti, allorché si compie appieno la rivoluzione industriale. Tale
evento rappresenta una tappa fondamentale nello sviluppo socio-economico dell’intera umanità,
poiché l’impiego delle macchine nei processi produttivi rese disponibili quantità sempre più elevate
di prodotti per i quali, essendosi modificati profondamente i rapporti tra produttori e mercato,
cominciarono a porsi dei problemi di collocamento.
A giudizio di Hollander, infine, la circostanza che sin dagli anni 1915-1920 si fossero costituite
negli Stati Uniti alcune associazioni di operatori del settore evidenzia che la nascita del marketing
possa farsi risalire all’inizio del XX secolo.
La difficoltà di indicare una data o un luogo ben precisi sono da imputare al diverso modo di
intendere l’espressione marketing. Se con questo termine intendiamo riferirci ad una semplice
attività di commercializzazione, certamente occorre risalire indietro nel tempo. È possibile
individuare in epoche assai remote numerose pratiche che oggi sono considerate tipiche del
marketing. Si può, quindi, affermare che, sia pure in forma embrionale e circoscritta, già
nell’antichità si ponevano dei problemi in ordine al collocamento dei prodotti e, conseguentemente,
veniva svolta qualche forma di raccordo con il mercato.
Viceversa, se con l’espressione marketing si indica un particolare atteggiamento delle imprese nei
confronti del mercato - in base al quale il cliente diviene oggetto centrale di attenzione -, appare
pienamente condivisibile l’opinione che il marketing, modernamente inteso, inizia ad affermarsi
negli anni ’50 allorché un numero sempre crescente di imprese abbandona gli orientamenti alla
produzione ed alle vendite per assumere quello rivolto al mercato, prima, ed al consumatore,
successivamente4.
Da allora il marketing ha ampliato il suo contenuto sia sotto il profilo quantitativo sia sotto quello
qualitativo, trasformandosi da semplice funzione aziendale a vera e propria filosofia di governo
delle imprese.
Effettuati questi brevi richiami di ordine storico, occorre sottolineare come il marketing sia
generalmente inteso come una specifica funzione aziendale, cioè come una parte della varia e
complessa attività svolta da una qualunque organizzazione (c.d. gestione).
Infatti, sebbene l’attività tipica delle imprese sia quella di realizzazione di prodotti, tant’è che
vengono anche denominate aziende di produzione, in concreto all’interno di questa tipologia di
organizzazioni vengono svolte numerose altre attività. È infatti evidente come la produzione non
sia fine a se stessa, ma sia rivolta al soddisfacimento dei bisogni umani per cui è necessario
realizzare un’attività di commercializzazione di quanto è stato prodotto. Per svolgere l’attività di
produzione e di commercializzazione è necessario effettuare, precedentemente, una serie di
investimenti che richiedono la determinazione del fabbisogno finanziario e la scelta delle fonti alle
quali attingere i mezzi. Tutte queste attività devono poi essere organizzate e controllate e, quindi,
occorre compiere la programmazione ed il controllo. Se si riflette un attimo ci si accorge che se ne
possono individuare tante altre (logistica, organizzazione, ecc.).

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Generalmente si assume che la decisione presa nel 1930 dalla General Electric di fissare il prezzo di una turbina,
anziché sulle diverse componenti di costo, in base alla disponibilità dell’acquirente a spendere, costituisca il primo
esempio di un orientamento al cliente. Non tutti gli studiosi, però, condividono questa opinione in quanto sembra che la
scelta sia stata fortemente condizionata dall’imperante crisi economica, piuttosto che frutto di una reale modifica di
atteggiamento dell’impresa nei confronti del mercato.

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Da queste brevi considerazioni è facile, quindi, rilevare come la gestione ricomprenda un insieme
assai eterogeneo di attività che, per facilità di analisi, può essere scomposta in varie parti chiamate
funzioni.
Richiamando l’articolazione delle combinazioni economiche proposta dal Masini (vedi schema n.
1), una funzione è una coordinazione parziale, ossia un aggregato di processi costituiti da
operazioni affini sotto il profilo della specie.
Nello specifico, il marketing, in prima approssimazione, può essere quindi interpretato come una
particolare funzione aziendale costituita da un insieme di processi (distributivi, di pricing, di
packaging, di vendita, ecc.) rivolti a favorire il collocamento sul mercato dei prodotti una volta che
sono stati realizzati. Il contenuto di tale funzione è estremamente vario e si modifica a secondo delle
differenti condizioni ambientali. In tal senso non bisogna mai dimenticare che l’impresa è un
soggetto che opera all’interno di un contesto più ampio (l’ambiente) che ne condiziona l’operato e
che, a sua volta, contribuisce al suo cambiamento.

Schema n. 1: L’articolazione delle combinazioni economiche

L’operazione è costituita da un insieme di accadimenti (o azioni elementari) non


utilmente distinguibili tra di loro.
Il processo è costituito un insieme di operazioni della stessa specie.
La coordinazione parziale è costituita da aggregati di processi per affinità di specie
delle operazioni che li compongono.
La combinazione parziale è costituita da aggregati di processi composti da operazioni
di specie diversa, relative ad un medesimo oggetto.
La combinazione generale è costituita dall’insieme di tutte le operazioni.

2.1 Gli orientamenti dell’impresa.

Ogni impresa, a secondo delle condizioni ambientali esistenti, adotta un proprio atteggiamento (c.d.
orientamento) nei confronti del mercato, assegnando al marketing rilevanza e contenuti diversi.
Posto che in un dato contesto ambientale possono coesistere imprese con orientamenti differenti, in
questa breve rassegna si analizzano i vari orientamenti in chiave storico-evolutiva nel senso che,
man mano che i sistemi economici nascono ed evolvono, generalmente si può riscontare un
atteggiamento prevalente sugli altri, ossia adottato dalla maggioranza delle imprese.

Orientamento alla produzione


“Costruiamo autovetture di qualunque
colore voglia il cliente, purché siano nere!”
(Henry Ford, fondatore della Ford)
Il tipo di orientamento prevalente che generalmente si riscontra nelle prime fase del processo di
sviluppo di un sistema economico, cioè in quei contesti caratterizzati dalla presenza di un mercato
del venditore, è quello “alla produzione”. Esso si origina nel momento in cui la domanda potenziale
sviluppata è di gran lunga superiore all’offerta.
In questa tipologia di mercato il fattore critico di successo è il prezzo, nel senso che la domanda
potenziale non riesce a trasformarsi in domanda effettiva perché il prezzo richiesto è troppo elevato
per larga parte della popolazione. Le imprese concentrano, quindi, la propria attenzione sull’attività

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produttiva, al fine di migliorare l’efficienza tecnica ed economica in modo da poter offrire i propri
prodotti ad un prezzo più basso.
Si cerca di innescare un meccanismo virtuoso grazie al quale i miglioramenti in termini di
produttività e di economicità, si trasferiscono in parte sui prezzi di vendita, generando una riduzione
di questi ultimi. L’abbassamento dei prezzi favorisce un aumento degli acquisti e, quindi,
l’innalzamento dei volumi di produzione. Tale incremento determina una serie di economie (di
scala, di esperienza, ecc.) che, a loro volta, comportano un’ulteriore riduzione dei prezzi,
innescando una spirale virtuosa (c.d. paradigma tecnologico) (vedi figura n. 2). L’imperativo
seguito è “produrre e produrre!”.

Figura n. 2: Il paradigma tecnologico.


Riduzione
dei costi

Aumento di Riduzione
produzione dei prezzi

Aumento
delle vendite

In tale contesto il marketing assume un ruolo secondario rispetto alle altre funzioni, limitandosi ad
un insieme di attività svolte a conclusione del processo produttivo ed indirizzate a rendere
disponibile il prodotto nei punti di vendita ed a far sapere ai potenziali acquirenti l’esistenza del
prodotto ed il luogo dove reperirlo. Il marketing ha un contenuto estremamente povero sia sotto il
profilo qualitativo che quantitativo.

Produzione  Marketing  Cliente

Nelle imprese che adottano un orientamento alla produzione il ruolo del consumatore è
praticamente nullo in quanto è considerato un soggetto passivo non in grado di influenzare le
decisioni aziendali, la cui attività è rivolta a massimizzare il soddisfacimento dei propri bisogni
stante una limitata capacità di spendita. Tale ruolo può essere ben sintetizzato nella frase di Henry
Ford sopra riportata.
L’inconveniente di questo orientamento è che induce le imprese che lo adottano ad avere una ridotta
capacità di apportare innovazioni in grado di assicurare una risposta adeguata alle esigenze della
domanda e alle condotte della concorrenza

Man mano che il sistema economico si evolve, in sempre più numerosi mercati, lo squilibrio fra
domanda ed offerta tende ad annullarsi per l’effetto combinato di due cause: l’aumento di offerta,
determinato dall’attrazione che il mercato presenta per un numero sempre crescente di imprese, e
l’aumento di disponibilità economiche, a seguito del maggior livello di occupazione e della crescita
di produttività.
Di fronte a questa nuova situazione ambientale molte imprese modificano il proprio atteggiamento:
alcune assumono un orientamento alle vendite mentre altre un orientamento al prodotto.

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Orientamento alle vendite

“Lo scopo del marketing è quello di vendere


più prodotti, a più persone, più frequentemente e per
una spesa più elevata, in modo da incrementare il profitto!”
(Sergio Zyman, ex vicepresidente Coca-Cola Co.)
Il miglioramento delle condizioni economiche di strati sempre più ampi di mercato rende, via via,
meno rilevante la variabile prezzo e si affermano, contestualmente, preferenze più spiccate in
relazione ai diversi attributi del prodotto. In tali contesti, alcune imprese, comprendendo che non è
più sufficiente realizzare il prodotto e porlo sugli scaffali o esporlo nelle vetrine, decidono di
svolgere un’intensa e coordinata attività di commercializzazione volta a generare una preferenza da
parte dei consumatori nei riguardi della propria marca (orientamento alle vendite). Assume, quindi,
grande importanza la pubblicità per convincere i consumatori ad acquistare il prodotto realizzato e
la distribuzione diventa capillare e spesso aggressiva: l’imperativo seguito diventa “vendere ciò che
si produce!”.
Con altre parole, poiché i consumatori sono restii ad acquistare maggiori quantitativi di prodotto,
l’impresa ritiene di superare tale resistenza con una attività di vendita molto aggressiva inviando
adeguati stimoli ai consumatori.
L’enfasi è posta sulle esigenze del venditore e gli obiettivi si concentrano sulla massimizzazione dei
volumi (a prescindere da cosa accade “after the sale is over”).
In questo tipo di orientamento il marketing rimane sempre subordinato alla funzione di produzione
anche se il suo contenuto si amplia, si affinano le tecniche di vendita e la comunicazione diviene più
sofisticata.

Produzione
 Marketing
 Cliente

La forzature del mercato, oltre ad essere particolarmente dispendiosa in termini di risorse da impiegare,
è un atteggiamento che difficilmente può essere mantenuto nei tempi lunghi poiché, a poco a poco, i
consumatori sono più attenti e sempre meno disponibili a subire passivamente le azioni delle imprese.

Orientamento al prodotto

“I consumatori non sanno


che cosa è possibile, ma noi sì!”
(Akiro Morita, fondatore della Sony)
Di fronte al miglioramento generale delle condizioni economiche, altre imprese, invece, ricercano il
proprio successo puntando sul miglioramento delle prestazioni del prodotto (c.d. imprese technology
driven). La loro attenzione si rivolge, quindi, verso quei consumatori che ricercano prodotti con
prestazioni superiori e che sono disposti a pagare di più. In questo tipo di orientamento il marketing
continua a svolgere un ruolo secondario, essendo subordinato non soltanto alla funzione di produzione
(come negli orientamenti precedenti) ma anche nei riguardi della funzione di Ricerca & Sviluppo. Il
marketing, infatti, si limita ad informare i consumatori circa l’esistenza di un prodotto con
caratteristiche superiori rispetto agli altri presenti sul mercato.

R&S
 Produzione
 Marketing
 Cliente

Il limite più rilevante di questo tipo di orientamento è che le imprese mirano a introdurre
innovazioni di prodotto guidate dall’interno dell’impresa piuttosto che dal mercato e, quindi,
rischiano di offrire prodotti troppo evoluti rispetto alla capacità di apprezzamento e di utilizzo dei
consumatori o non in linea con le esigenze di questi ultimi.

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Orientamento al mercato
“Se non siamo guidati dal cliente,
nemmeno le nostre auto lo saranno!”
(un dirigente Ford)
L’ulteriore evoluzione dell’ambiente, determinata dalla presenza di un consumatore più esigente e
volubile, induce un numero sempre crescente di imprese a modificare il loro atteggiamento nei
confronti del mercato. L’idea guida è che sia più conveniente individuare preliminarmente ciò che il
consumatore desidera e, quindi, realizzarlo, piuttosto che produrre un prodotto e svolgere
successivamente un’intensa e costosa attività di marketing per convincere il consumatore ad
acquistarlo. Le imprese che adottano un orientamento di tal genere sviluppano un’intensa attività di
studio del consumatore al fine di individuare i suoi desideri. L’imperativo è “produrre ciò che
desidera il mercato!”.
Con questo tipo di orientamento il marketing compie un vero e proprio salto di qualità poiché non
costituisce più una semplice funzione subordinata alle altre, ma si colloca anche a monte del
processo produttivo essendo diretta, preliminarmente, ad indagare i gusti e le tendenze dei
consumatori. La funzione di marketing si arricchisce di contenuti e le ricerche di mercato diventano
via via sempre più sofisticate e determinanti per il successo delle imprese.

Marketing
 R&S
 Produzione
 Marketing
 Cliente

Anche questo tipo di orientamento presenta limiti. In tale contesto, infatti, il marketing assume la
caratteristica di un inseguimento a breve del consumatore che, anche se svolto in modo efficiente,
può rendere incapace l’impresa di riuscire a soddisfare i reali bisogni dello stesso (c.d. marketing
myopia) (Levitt, 1960). Infatti, fra il momento in cui l’impresa svolge la propria ricerca di mercato,
individuando ciò che il consumatore desidera, ed il momento in cui l’impresa è in grado di
commercializzare quanto desiderato, può trascorrere un arco di tempo sufficientemente ampio nel
quale le preferenze possono modificarsi. A ciò si aggiunga la circostanza che, assecondando i
desideri dei consumatori, non è detto che l’impresa soddisfi il bisogno.

Orientamento al cliente

“Il marketing è così fondamentale che non può


essere considerato una funzione separata …
Esso è l’intera impresa riguardata dal punto di vista del suo
risultato finale, cioè dal punto di vista della clientela”.
(Peter Drucker)

Facendo tesoro degli insegnamenti tratti dai precedenti orientamenti, si è fatto strada un nuovo
atteggiamento che si propone di considerare il cliente non più come un soggetto esterno ma come il
fulcro attorno al quale deve ruotare l’intera attività d’impresa. Ciò significa concentrare l’attenzione
non sui desideri ma piuttosto sui bisogni, ossia non su ciò che vorrebbe ma su ciò che ha bisogno, in
quanto, pur assecondando i suoi desideri, non è detto che l’impresa riesca a soddisfare il cliente.
Quante volte si acquista un prodotto tanto desiderato e poi si rimane insoddisfatti. Ecco, quindi, che
molte imprese spostano l’osservazione dai desideri ai bisogni e seguono l’imperativo: “produrre ciò
che ha bisogno il cliente!”.
Al fine di meglio chiarire la differenza fra l’orientamento al cliente e quello al mercato, è opportuno
richiamare un esempio riportato da Levitt (1960) che per primo evidenziò la necessità di porre
l’attenzione sui bisogni. L’illustre studioso diceva che quando un consumatore si reca in un negozio
di ferramenta per acquistare una “punta per il trapano”, in realtà ha necessità di un foro nel muro
per, ad esempio, appendere un quadro. Se l’addetto alla ferramenta gli fornisce quanto richiesto sta

11
semplicemente assecondando un suo desiderio (orientamento al mercato); se, invece, riesce a
comprendere qual è la necessità sottostante (bisogno) e gli fornisce un prodotto che riesce meglio
della punta da trapano a raggiungere l’obiettivo voluto (ad esempio una colla speciale che evita di
forare il muro o di sporcare o che permette di modificare a piacimento la collocazione del quadro),
allora vuol dire che quella ferramenta ha assunto un orientamento al cliente.
Porre al centro il cliente significa ritenere che la soddisfazione di quest’ultimo sia il presupposto per
la sopravvivenza dell’impresa e, conseguentemente, tutte le funzioni aziendali devono porsi a
servizio del consumatore e, in tale contesto, il marketing ha il compito di svolgere un’attività di
raccordo fra queste le varie funzioni ed il cliente.
In tale prospettiva la funzione R&S, ad esempio, deve svolgere la sua attività evitando “fughe in
avanti”, sviluppandosi in relazione alle esigenze (bisogni) del cliente ed accompagnando
quest’ultimo nel percorso innovativo (acculturazione), mettendolo cioè in grado di percepire i
miglioramenti apportati al prodotto, o la funzione di produzione deve implementare dei modelli di
produzione che vedono il cliente non come semplice spettatore ma come co-protagonista5.

Produzione

Fin
S

Marketing
R&

an z
Cliente a
o ne

Lo
zi

gis
zza

ti
ani

ca
Org

Altre funzioni

Interiorizzare questo concetto a tutti i livelli dell’organizzazione conduce il marketing a non essere
più inteso come una semplice funzione aziendale ma ad assumere la configurazione di vera e
propria filosofia di gestione6, nella quale la ricerca del soddisfacimento dei bisogni dei consumatori,
prima, e degli altri interlocutori aziendali, poi, diviene prioritaria (orientamento al consumatore).
Spostare l’ottica di osservazione sui bisogni comporta una modifica d’impostazione dell’intera
impresa a partire dalla sua missione che non viene più espressa in termini di combinazioni
prodotti/mercati ma di bisogni da servire. È il caso di Kodak che nella sua mission non dichiara di
vendere pellicole fotografiche ma la gioia della memoria, i ricordi.
Definire la missione aziendale in termini di bisogni soddisfatti (orientamento al cliente) piuttosto
che di prodotti da realizzare (orientamento alla produzione) non è una differenza semplicemente di
tipo teorico ma un approccio concreto per cogliere le opportunità che il mercato offre ed in grado di
individuare le vie alternative di sviluppo aziendale.
Assumere un orientamento al cliente pone altresì l’esigenza di osservare tutte le attività aziendali
con gli “occhi” del cliente, cioè mettendosi nella sua prospettiva di osservazione (c.d. customer
based view). Ad esempio, il prezzo deve essere fissato dall’impresa non sulla base dei costi
sostenuti per produrlo (orientamento alla produzione), ma di quanto il consumatore è disposto a
pagare in contropartita ai benefici che riceve (orientamento al cliente)7.

5
Per un esame delle varie forme di personalizzazione dell’offerta (customerization, co-creation, ecc.) si rinvia a
Raimondo et alii. (2009).
6
Con l’espressione filosofia d’impresa si intende una implicita teoria dell’impresa che descrive gli obiettivi e i modi in
cui muovere verso essi. I principi centrali cui il comportamento deve uniformarsi. Il modo in cui vogliamo fare o essere
impresa (Coda, 1988, p. 46).
7
Al fine di evitare fraintendimenti, è bene precisare che con questo tipo di orientamento i costi non sono ignorati ma
presi in cosiderazione soltanto dopo che si è determinata la disponibilità del cliente a pagare.

12
L’accoglimento della customer based view comporta, quindi, una rilettura delle tradizionali leve del
marketing mix, ossia degli strumenti utilizzati dall’impresa per influenzare la domanda (prodotto,
prezzo, promozione e distribuzione8), in chiave del consumatore assumendo la denominazione 4 C9:

Quattro P Quattro C
Prodotto  Cliente (bisogni e desideri del)
Prezzo  Costi per il cliente
Distribuzione (Placement)  Convenienza
Promozione  Comunicazione

“Pertanto” – come scrive il Kotler (2009, p. 61) - “mentre le imprese si riconoscono quali venditori
di un prodotto, i clienti si percepiscono come acquirenti di valore e soluzioni in grado di risolvere i
loro problemi. I clienti non sono interessati solo al prezzo, si preoccupano anche dei costi
complessivi dell’acquisto, dell’utilizzo e dell’eliminazione del prodotto; richiedono prodotti e
servizi ottenibili nel modo più semplice e comodo e aspirano a una comunicazione bilaterale”.

Il processo evolutivo descritto mostra un lento ma inesorabile passaggio dalla visione tolemaica,
ossia dal ritenere che l’impresa sia la terra ed il consumatore sia il sole e gli altri pianeti, alla visione
copernicana, in cui il cliente è il sole e si pone al centro dell’universo e tutte le funzioni aziendali
sono altrettanti pianeti che devono agire per realizzare il pieno soddisfacimento del cliente.
È bene precisare che questo cambio di mentalità non è frutto di un atteggiamento di benevolenza o
magnanimità dell’impresa nei confronti del cliente, ma di un contesto che “obbliga” l’impresa a non
ignorare più il cliente. Alcuni fattori - come l’accresciuta concorrenza, l’avvento delle nuove
tecnologie e di internet, le maggiori tutele giuridiche nei confronti dei consumatori - hanno
“costretto” un numero sempre crescente di imprese a porre particolare attenzione al cliente.
Il passaggio da funzione a filosofia ha condotto ad uno sdoppiamento del marketing tant’è che se
osserviamo gli organigrammi di molte imprese di grandi dimensioni (o più dinamiche) troviamo la
funzione vendite distinta da quella marketing.

L’evoluzione del marketing è inarrestabile come, d’altra parte, è in continuo cambiamento


l’ambiente in cui le imprese operano. Così in questi ultimi anni, a seguito di una maggiore
sensibilità nei confronti delle problematiche relative alla responsabilità sociale, si sta prospettando
un nuovo tipo di orientamento che è stato definito olistico.
Questo nuovo tipo di orientamento si basa sull’osservazione che ogni impresa opera
contemporaneamente su più mercati (approvvigionamento, del lavoro, dei capitali, ecc.), e sulla
conseguentemente possibilità di estendere l’applicazione della filosofia marketing, finora
circoscritta ai clienti, anche nei riguardi degli altri interlocutori sociali (stakeholders). In base a tale
interpretazione il marketing non sarebbe più relegato alla cura delle relazioni con gli acquirenti
effettivi o potenziali dei prodotti, ma una filosofia di gestione complessiva che conduce a
considerare tutti gli interlocutori come “clienti” e, quindi, a ritenere che il soddisfacimento dei loro
interessi sia il presupposto del mantenimento in vita dell’impresa.
Questa visione si ricollega alla c.d. stakeholders theory sviluppata originariamente da Emshoff e
Freeman (1978) alla fine degli anni ’70 presso il Wharton Applied Research Center dell’Università
di Pennsylvania e riscoperta due decenni dopo a seguito del crescente interesse riguardo alla
responsabilità delle imprese.

8
I vari strumenti sono riconducibili a quattro categorie: politica del prodotto, del prezzo, di distribuzione e di
promozione. Il marketing-mix viene spesso indicato con l’espressione 4 P che deriva dalle iniziali dei termini
anglosassoni con cui si denominano le singole politiche che lo compongono (placement = distribuzione)
9
L’espressione è stata coniata da Lauterborn (1990, p. 26).

13
Sebbene questa nuova prospettazione sia particolarmente interessante, nel presente corso di
“Marketing e Comunicazione d’Impresa” si circoscriverà lo studio al mercato di collocamento
dell’offerta aziendale da parte delle sole imprese.

I NOSTRI VALORI

La filosofia Honda è basata su due valori fondamentali.

Uno di questi è il rispetto per l’individuo, alimentato dal principio fondamentale dell’unicità delle persona.
Nell’intento della Honda, è necessario adoperarsi per coltivare e promuovere la capacità insita in ciascuna persona
di pensare, ragionare e creare. … Il secondo valore fondamentale, anch’esso basato sul rispetto per l’individuo,
esprime l’intenzione della Honda di condividere le diverse forme di soddisfazione con tutte le persone che entrano
in contatto con le attività dell’azienda, sia all’interno che all’esterno di essa. Solo lavorando con l’obiettivo della
soddisfazione, è possibile guadagnare la fiducia delle altre persone ed accrescere la propria responsabilità
sociale d’azienda.
Honda crede nel valore di tutti gli individui, ed è convinta che tutti coloro i quali lavorano per lei, che hanno contatti
con le sue aziende, che acquistano e vendono i suoi prodotti debbano trarre da quelle esperienze un ampio senso
di soddisfazione. Da ciò nasce quel che Honda ha chiamato le “tre soddisfazioni”.

La Soddisfazione di Comprare
- Promuovere la comprensione del prodotto verso il cliente
- Accertarsi che il cliente sia convinto del prodotto e decida di acquistarlo consapevolmente
- Verificare che il cliente sia soddisfatto
- Condividere con il cliente la soddisfazione derivante dall’acquisto di prodotti e servizi che superano le sue
aspettative

La Soddisfazione di Vendere
- Rafforzare il rapporto umano con il client
- Fornire prodotti e servizi che superano le aspettative dei concessionari e dei clienti.
- Provare orgoglio nel rappresentare i prodotti ed i servizi Honda.

La Soddisfazione di Produrre
- Progettare, sviluppare, disegnare e realizzare prodotti che superino le aspettative dei nostri concessionari e client
- Essere orgogliosi del nostro lavoro.

Fonte: http://www.hondaitalia.com/company/chi_siamo/mission_e_valori

2.2 L’evoluzione dottrinale del marketing.

Parallelamente all’evoluzione della prassi aziendale, anche la disciplina del marketing si è


sviluppata, sebbene questo adeguamento si sia registrato con una certa lentezza.
La causa del ritardo con il quale gli studiosi di marketing hanno iniziato a costruire una solida
impalcatura dottrinale è da imputare alla circostanza che, alle discipline aziendali in genere, il
mondo operativo sollecitava delle soluzioni ai problemi concreti, piuttosto che la formulazione di
teorie e paradigmi.
Sotto il profilo storico, sembrerebbe che i primi studiosi ad utilizzare il termine marketing siano
stati gli economisti agrari di alcune università statunitensi del Midwest all’inizio del XX secolo10.
Tale origine è da imputare alla circostanza che l’economia americana di quell’epoca si basava
prevalentemente sul settore primario. Pertanto, inizialmente, gli studi di marketing si concentrarono
sul funzionamento dei mercati agricoli, dando vita al primo dei tre filoni di ricerca che
caratterizzarono la prima metà del XX secolo11.

10
Riguardo all’origine del marketing, si rinvia alla breve ma efficace sintesi in Ziliani (2000, p. 1 e ss.).
11
Questa tripartizione, proposta da Bartels (1962) all’inizio degli anni sessanta, è ormai largamente condivisa. Tuttavia,
secondo altri studiosi (Sheth e Gross, 1988, p. 11) è possibile individuare una quarta scuola denominata regional school.

14
Questa scuola di pensiero, generalmente denominata “commodity school”, focalizzava la propria
attenzione sugli oggetti delle transazioni di mercato (le merci). In questa prospettiva, gli studiosi
che aderirono a tale scuola proposero varie classificazioni dei prodotti in base alle loro
caratteristiche ed ai correlati comportamenti d’acquisto dei consumatori12. La denominazione
“commodity”, attribuita a tale scuola, scaturisce dalla circostanza che i primi prodotti oggetto di
analisi furono le derrate agricole che, specie in quell’epoca, com’è noto, erano dei prodotti
scarsamente differenziabili.
Il passaggio da un’economia agricola a quella industriale segnò il tramonto della commodity school
e l’affermarsi dell’approccio istituzionale e di quello funzionale (vedi figura n. 1). A differenza,
però, di questi ultimi approcci, la prospettiva commodity, pur avendo breve vita, continuò a nutrire
l’interesse dei ricercatori di marketing anche in tempi recenti.
La diversità fra i due approcci scaturiva dalla circostanza che, mentre la commodity school
soffermava l’attenzione sui beni commercializzati, le scuole di pensiero successive, la functional
school e la institutional school, miravano, rispettivamente, ad analizzare altri due particolari aspetti
del processo di scambio: le funzioni svolte dalle imprese e le istituzioni protagoniste del mercato.
In particolare, l’approccio istituzionale, concentrando l’attenzione sui soggetti e sulle
organizzazioni che svolgono le funzioni di marketing, affrontò prevalentemente lo studio degli
intermediari commerciali; mentre, la functional school studiò le varie funzioni o attività di
marketing (promozione, vendita, determinazione dei prezzi) svolte dalle istituzioni per costituire,
sviluppare e migliorare il percorso dal produttore al consumatore.

Figura n. 3: Evoluzione delle scuole di marketing


Marketing focus on:
Aggregate Market Individual Behavior
Behavior
Era One Era Two
Classical Marketing Managerial Marketing
1900-1950 1950-1975
Social
a. Commodity School a. Managerial School
Sciences
b. Functional School b. Systemic and
Marketing
c. Institutional School Exchange School
reliance on:
d. Regional School
Era Four Era Three
Adaptive Marketing 1975- Behavioral Marketing
Behavioral
present 1965-Present
Sciences
a. Macromarketing School a. Organizational School
b. Strategic Planning b. Consumerism School
School c. Buyer Behavior
School

Semplificato da: J.N. SHETH – B.L. GROSS, op. cit., p. 11.

Ben presto quest’ultimo indirizzo prevalse su quello istituzionale, poiché le funzioni del marketing
si manifestavano con una sufficiente costanza nel tempo e nello spazio, a differenza degli istituti
che subivano profonde modificazioni anche nel breve periodo.
I pionieri della scuola funzionalista furono Shaw (1912) e Weld (1917); quest’ultimo studioso, in
particolare, era un economista agrario e ciò spiega perché inserì fra le sette funzioni di marketing
anche “establishing connections with country shippers”.

12
Nel 1923, all’interno della commodity school, Copeland propose la fondamentale distinzione fra «convenience
goods», «shopping goods» e «speciality goods».

15
Weld concentrò i suoi studi sulla commercializzazione dei prodotti agricoli e sulle motivazioni che
giustificavano la presenza di intermediari commerciali nel sistema. I risultati delle sue ricerche
furono assai criticati, tanto da costringerlo a difendersi dall’accusa di essere stato pilotato nei suoi
studi, davanti alla commissione investigativa legislativa del Minnesota.
All’indirizzo funzionale ed a quello istituzionale si sostituì pian piano l’approccio manageriale. La
svolta che segna il passaggio a questo nuovo approccio è da rinvenirsi nella definizione di
marketing fornita dall’American Marketing Association, nella quale si affermava la natura di
attività commerciale piuttosto che di un processo di natura sociale ed economica (Bartels, 1962, p.
258)13.
Nasce il concetto di marketing management ed appaiono i primi “manifesti” attraverso i quali si
afferma una vera e propria “rivoluzione copernicana” negli studi: viene infatti abbandonata l’idea
della centralità dell’impresa e si pone al centro dell’attenzione il consumatore.
Negli anni ’50 e ’60, la dottrina elaborò nuovi strumenti concettuali (come quello di marketing-mix,
di differenziazione e di ciclo di vita del prodotto) che contribuirono a rafforzare le fondamenta
dell’approccio manageriale14.
È, comunque, con riferimento alla grande impresa multinazionale americana produttrice di beni di
largo consumo, che la dottrina marketing si afferma. L’idea di fondo su cui si basava l’intera
impalcatura concettuale era, infatti, che l’impresa avesse la capacità di governare l’ambiente
esterno. Se da un lato questa concezione contribuisce al notevole sviluppo della disciplina, dall’altro
lato ciò rappresenterà un limite all’estensione del paradigma a contesti differenti poiché gli schemi
interpretativi proposti si dimostreranno inadeguati.
La pubblicazione di un articolo di Kotler e Levy (1969), alla fine degli anni ’60, rappresenta un
momento fondamentale nello sviluppo della disciplina del marketing. In questo articolo, infatti, si
sosteneva che il marketing, in quanto attività umana omnicomprensiva, era applicabile oltre che alle
imprese anche ad organizzazioni politiche, universitarie, religiose o di beneficenza.
Tre anni dopo, lo stesso Kotler giunse ad affermare che il “marketing can be viewed as a category
of human action distinguishable from other categories of human action such as voting, loving,
consuming, or fighting” (1971, p. 49). Questa interpretazione, anche se non fu esente da critiche15,
aprì la strada ad un processo di differenziazione degli studi di marketing.
Infatti, nel corso degli anni successivi il marketing ha manifestato una grande capacità di estensione
del proprio campo di interesse e di governo dando vita a numerosi e vari filoni di ricerca.
Un primo filone di studi, che si sviluppa a seguito del dibattito innescato dall’articolo di Kotler e
Levy (1969), tende a privilegiare la dimensione sociale dell’agire d’impresa. Lo sviluppo di questa
tematica appare per certi versi paradossale, poiché questa direttrice di ricerca prende avvio proprio
quando, nei paesi maggiormente sviluppati, è presente una profonda crisi economica e sociale ed al
marketing ed alle altre discipline manageriali viene richiesto di fornire adeguati strumenti per far
fronte alla nuova situazione.
Il marketing sociale, pur cominciando ad affermarsi a partire dagli anni ’70, a seguito delle
numerose critiche avanzate nei riguardi dell’impresa da parte delle associazioni consumeristiche e
dei movimenti ecologisti, si consolida soltanto con la crisi ambientale degli anni ’80 e con le istanze
di maggior tutela da parte dei consumatori. Da questo filone di studi si svilupperanno ulteriori
tipologie di marketing, fra cui quello pubblico e quello non-profit (Milanese, 1998, p. 119).

13
Secondo la definizione del 1948, “il marketing consiste nello svolgimento delle attività commerciali che riguardano e
rendono possibile il trasferimento di prodotti e di servizi dai produttori ai clienti o utilizzatori finali”.
14
All’interno dell’approccio manageriale si sviluppano varie correnti, fra le quali assume particolare rilevanza quello
della systemic and exchange school.
15
Fra coloro che assunsero una posizione critica è possibile ricordare il Luck (1969), secondo cui il campo di
applicazione del marketing doveva essere circoscritto alle transazioni di mercato, ed il Bartels (1974), a giudizio del
quale l’allargamento del concetto di marketing avrebbe indotto a trascurare alcune aree specifiche della disciplina.

16
In particolare, quest’ultimo filone, nonostante nei due citati articoli fosse presente l’idea di
estendere l’applicazione dei principi e degli strumenti del marketing anche alle organizzazioni non-
profit, si afferma soltanto a metà degli anni ’70 ed occorre attendere il 1985 perché quest’area trovi
un riconoscimento ufficiale da parte dell’AMA. In quell’anno, infatti, nella definizione di marketing
fu introdotto, accanto ai beni ed ai servizi, il prodotto “idee” come ulteriore oggetto di interesse
della disciplina.
All’inizio degli anni ottanta, l’affermarsi nelle discipline economico aziendali dello strategic
management16, ponendo al centro dell’attenzione l’analisi settoriale ed il sistema competitivo,
conduce alla nascita del marketing strategico17.
Le diversità presenti nei diversi settori e nelle strategie competitive favorisce, quindi, lo sviluppo di
una serie di studi tendenti ad approfondire l’applicabilità dei principi di marketing a particolari
categorie di prodotti. Accanto al marketing dei beni industriali (oggi definibile del business to
business), già oggetto di attenzione da alcuni anni, si sviluppa particolarmente il marketing dei
servizi.
Il lento passaggio delle economie occidentali da prevalentemente manifatturiere ad economie di
servizi induce, infatti, un folto numero di studiosi ad analizzare questa tipologia di prodotti
immateriali.
Man mano che si innescano i processi di specializzazione produttiva ci si rende conto della
opportunità di esaminare categorie sempre più particolari di offerte aziendali; fioriscono così una
serie di altri marketing (marketing turistico, sportivo, sanitario, fashion, museale, ecc.),
determinando una vera e propria inflazione.
Tutti questi filoni di studio utilizzano, sia pure con gli opportuni adattamenti, il paradigma di studio
originario fondato sull’idea dello scambio.
A metà degli anni ’90, invece, alcuni studiosi concentrano l’attenzione su un paradigma di studio,
già da anni utilizzato nell’ambito degli studi di marketing industriale: il paradigma relazionale.
Questo paradigma si basa sull’idea che i rapporti con l’acquirente devono essere improntati al
mantenimento di una relazione duratura con il cliente, piuttosto che sullo scambio occasionale.
L’origine “industriale” del paradigma è facilmente spiegabile se si tiene conto che nei rapporti fra
imprese si privilegia la stabilità della relazione e che frequenti sono i casi di cooperazione.
L’esportazione di tale paradigma al settore dei beni di consumo, in primis, ed agli altri settori di
attività, successivamente, si rende necessaria a seguito dello sviluppo degli studi sulla customer
satisfaction, che evidenziano l’opportunità e la convenienza di fidelizzare il cliente, intessendo un
rapporto di carattere duraturo, piuttosto che acquisendo nuovi clienti.
Le problematiche relative alla progressiva omogeneizzazione dei mercati e l’innescarsi di situazione
di situazioni concorrenziali fra aree territoriali favoriscono lo sviluppo di nuove tipologie di
marketing (globale, territoriale, ecc.) che si affiancano a quello internazionale.
In tempi recenti, l’affermarsi delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione hanno avuto
un forte impatto sull’intera gestione d’impresa e, conseguentemente, anche sul marketing. Si è
iniziato a parlare di internet marketing e di viral marketing.
L’evoluzione del marketing è, comunque, inarrestabile. Accanto al fiorire di marketing applicati a
specifici contesti, proprio all’inizio del nuovo millennio si è fatto strada quello che il Kotler ha
denominato marketing olistico (Kotler et alii, 2009). Si tratta di un concetto di marketing che
integra le varie dimensioni dell’agire aziendale, ossia la gestione della domanda, delle risorse
interne e delle partnership.
Il processo evolutivo fin qui tracciato, sia pure in modo sintetico, evidenzia come la disciplina del
marketing si sia evoluta parallelamente in numerose direzioni e sia oggetto di studio in tutti i campi
dell’agire umano.

16
Ad onor del vero occorre sottolineare che i primi studiosi di marketing italiani già da tempo aveva posto particolare
attenzione alle problematiche dell’ambiente economico e della concorrenza.
17
Sul processo evolutivo del marketing e del suo pensiero dottrinale si veda, fra gli altri, Valdani (1990).

17
3. Il valore percepito dal cliente.
Qualunque impresa per poter sopravvivere e svilupparsi in un clima di consenso deve svolgere la
propria attività di produzione di beni e servizi cercando di realizzare un flusso di ricchezza in grado
di soddisfare le attese dei vari interlocutori sociali (stakeholders), ossia generare e diffondere
valore.
Il valore creato dall’impresa scaturisce fondamentalmente dalla differenza fra il valore della
produzione realizzata e quello delle risorse impiegate per il suo ottenimento18. Quest’ultimo è
rappresentato dai costi sostenuti per l’acquisizione delle differenti condizioni produttive, ossia, in
altra prospettiva, dalle remunerazioni monetarie spettanti ai diversi interlocutori sociali che le hanno
fornite.
È bene tener presente altresì che, poiché il reddito scaturisce dalla differenza fra ricavi e costi,
l’impresa deve realizzare un flusso di ricavi in grado di coprire tutti i costi e lasciare un margine.
Π = R – C da cui R = C + Π
dove:
R = ricavi
C = costi, ossia le remunerazioni dei vari interlocutori che hanno fornito i fattori necessari
alla produzione (fornitori, lavoratori, finanziatori esterni, pubblica amministrazione, …).
Π = profitto
Poiché il flusso di ricavi proviene, prevalentemente, dalla vendita dei prodotti (vedi formula
successiva), se l’impresa non riesce a collocare questi ultimi non sarà in grado di remunerare i vari
fattori che hanno concorso alla loro produzione.
R=pxQ
dove:
p = prezzo medio di vendita
Q = quantità di prodotti venduti.
Riguardo al valore della produzione e, conseguentemente, al problema dell’assegnazione di valore
all’output offerto dall’impresa è bene ricordare che “non sono i beni che si impongono a noi con il
loro valore bensì questo è attribuito ad essi dall’uomo”19. Nello specifico è il consumatore che, con
la sua disponibilità a pagare il prezzo richiesto dall’impresa, valorizza la produzione realizzata
dall’impresa. Quest’ultima, infatti, è libera di fissare il livello di prezzo che preferisce ma sarà poi il
cliente a decidere se acquistarlo o meno.
Il ruolo del cliente quale valorizzatore della produzione è ben radicato ormai in molte imprese
com’è possibile rilevare, ad esempio, dalla mission dichiarata da Procter & Gamble: “Forniremo
prodotti e servizi di marca, di qualità e valore superiore in grado di migliorare la vita dei
consumatori nel mondo, oggi e per le generazioni a venire. Grazie a questo impegno, i consumatori
ci ricompenseranno garantendo la leadership nelle vendite, la crescita nei profitti e la creazione di

18
“Il processo di creazione del valore è un particolare tipo di processo circolare: nel continuo ripetersi del ciclo risorse -
output - risorse (queste ultime intese come capitale investito in fattori produttivi), le risorse del tempo t1 tendono ad
essere maggiori di quelle al tempo t0, secondo un processo di accumulazione tipico della produzione capitalistica. Il
valore dunque genera valore trasferendosi in continuazione dalle risorse all'output e viceversa; l’impresa ed il mercato
regolano questo processo, agendo il mercato come momento di verifica, di attrazione dell’output e di valorizzazione del
medesimo” (Podestà, 1993, p. 96).
19
Questo principio, prima ancora di essere formulato in economia, era stato enunciato in campo filosofico; la massima:
“l’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono, per ciò che sono, e di quelle che non sono, per ciò che non sono”
mette in evidenza la soggettività che condiziona ogni giudizio di valore. A tal proposito Bodrero (1941, p. 43) afferma:
“È questo il cosiddetto assioma individualista: l’uomo conosce solo ciò che la sensazione gli offre; il conoscere risiede
quindi nella sensazione che, in quanto tipicamente soggettiva, non può portare a risultati diversi. Trova spiegazione cioè
il principio dell’identità dei contrari: ogni ricerca conduce ad una verità logicamente accettabile; se su ogni argomento
vi sono due discorsi contraddittori, l’uomo è misura di tutte le cose”.

18
valore. Di ciò beneficeranno le nostre persone, gli azionisti e le comunità nelle quali viviamo e
lavoriamo”. È, quindi, il consumatore che con il suo atto di acquisto valorizza e fintanto che i
prodotti realizzati non troveranno degli acquirenti disposti a comprarli, tali prodotti
rappresenteranno soltanto una promessa di valore (value proposition) da parte dell’impresa nei
confronti dei consumatori.
Poiché la disponibilità all’acquisto dipende dal valore (o utilità) che il prodotto può offrire al
consumatore, è necessario approfondire il concetto di valore per il cliente.

3.1 Il concetto di valore percepito.

Il concetto di valore ha un’importanza decisiva nella scienza economica al punto che l’economista
Claudio Pantaleoni (1976, p. 17) ha affermato che “la teoria del valore non è una parte della scienza
economica, ma è il principio di cui tutta la scienza si svolge”.
La categoria economica del valore è stata, pertanto, oggetto di numerose interpretazioni
riconducibili a tre nozioni in base alle quali può essere assegnato il valore ad un prodotto20:
- rarità, ossia del grado di limitatezza dell’offerta;
- lavoro, cioè della quantità di lavoro utilizzata per la sua realizzazione;
- utilità, ossia alla capacità di soddisfare i bisogni dell’individuo.
Mentre le interpretazioni di valore che si collegano a rarità e lavoro sono frutto di una visione che
privilegia l’ottica d’impresa, quella relativa all’utilità enfatizza la prospettiva customer view e,
pertanto, è a quest’ultima nozione che occorre riferirsi in sede di marketing. In prima
approssimazione, il valore deve, quindi, intendersi come l’utilità che può fornire un prodotto a
fronte dei sacrifici che si sostengono per procurarselo.
L’impresa può creare valore per il cliente generando utilità nelle diverse fasi del processo di
acquisto e di consumo da parte del consumatore attraverso varie modalità: trasformazione fisica,
trasferimento nel tempo e nello spazio, adattamento di tipo quali-quantitativo.
La trasformazione fisica è quell’insieme di processi di gestione attraverso il quale le imprese
trasformano le materie prime in prodotti finiti. Si tratta di processi spesso assai complessi che
richiedono conoscenze tecniche specifiche e comportano, frequentemente, il sostenimento di costi
elevati per l’acquisto degli impianti e delle attrezzature idonei per il loro svolgimento. Il
consumatore, non essendo in grado di realizzare tali processi, riceve utilità se qualcun altro
(l’impresa) li svolge per proprio conto, rendendo disponibile il prodotto finito con un sacrifico
minore rispetto a quello che eventualmente avrebbe sopportato se fosse stato capace di realizzarlo21.
L’impresa può generare utilità attraverso il trasferimento nel tempo, ossia rendendo disponibile il
prodotto nel momento in cui il consumatore ne ha maggiormente bisogno. L’utilità per il
consumatore scaturisce dal fatto che quest’ultimo evita di acquistare il prodotto in momenti distanti
dal consumo evitando i problemi inerenti la sua conservazione (deperibilità, stoccaggio).
Il trasferimento nello spazio è un’ulteriore modalità per generare utilità, ossia rendendo disponibile
il prodotto nel luogo in cui il consumatore può acquisirlo e/o consumarlo più comodamente.
Ultima forma di generazione di utilità è la trasformazione nel modo, ossia mettendo a disposizione
il prodotto nelle condizioni quali-quantitative più adatte al consumo.
La creazione di valore attraverso la trasformazione fisica è tipica delle imprese industriali, mentre le
altre modalità sono caratteristiche delle imprese commerciali.
Il valore attribuito dal consumatore è soggettivo e dinamico. Infatti ognuno di noi attribuisce ad uno
stesso prodotto differente utilità e quest’ultima può modificarsi nel corso del tempo (obsolescenza).

20
Per approfondimenti sul concetto di valore nelle discipline economico-aziendali si rinvia a Vicari (1995). Si
rammenta che in Economia Aziendale il termine valore viene utilizzato per indicare il risultato di un processo di
quantificazione realizzato utilizzando la moneta come unità di misura.
21
Sull’argomento si rinvia al tema della specializzazione economica studiato in Economia Aziendale.

19
La formulazione del giudizio da parte del consumatore riguardo la capacità del prodotto di fornire
utilità (c.d. valutazione) avviene in due differenti momenti: ex-ante ed ex-post. Ex-ante, cioè prima
di effettuare l’acquisto, il consumatore fa un confronto fra le varie alternative di offerta presenti sul
mercato per comprendere quale possa offrirgli la maggiore utilità a fronte dei sacrifici richiesti22. È
in questa fase che si creano le aspettative, cioè i giudizi riguardo alla capacità del prodotto di
soddisfare i propri bisogni e che configurano il c.d. valore atteso (o valore percepito ex-ante). Ex-
post, cioè dopo l’acquisto, il prodotto è oggetto nuovamente di valutazione per capire quale utilità e
quali sacrifici effettivamente ha originato l’uso del prodotto (c.d. valore percepito sic et simpliciter
o valore percepito ex-post).
L’aggettivo “percepito”, sebbene riferibile sia alla valutazione ax-ante sia a quella ex-post, in
quanto in entrambi i casi frutto di una percezione23, è generalmente riservato al momento
successivo all’acquisto.
Solitamente gli individui hanno di uno stesso prodotto una percezione di valore diversa, sicché di
norma si forma nel mercato un valore di scambio uniforme per prodotti identici, ai quali soggetti
diversi attribuiscono, però, utilità differenti (Panati, Golinelli, p. 471). Ecco, quindi, l’esigenza di
distinguere il valore di scambio dal valore d’uso (value-in-use o valore per il cliente) che potrebbe
definirsi come “l’attitudine del bene di soddisfare un bisogno biologico o culturale”24.
È in base, quindi, al valore d’uso che il consumatore procede alla scelta ed all’acquisto del prodotto
mediante un confronto (trade-off) tra una componente get (ciò che egli ottiene acquistando una
determinata offerta) e una componente give (ciò che sostiene per acquisire quell’offerta). In altri
termini, si tratta di una valutazione globale dell’utilità di un prodotto basata sulla percezione di ciò
che si riceve e ciò che si dà (Zeithaml, 1988).
Comunemente si ritiene che il confronto si basi tra la qualità percepita del prodotto quale
componente get e il prezzo (percepito) quale componente give. In realtà, le due componenti del
valore devono essere interpretate in modo più ampio25, considerando non solo le performance
tecnico-funzionali del prodotto, alle quali tipicamente si riferiscono le concettualizzazioni basate
sulla qualità percepita, e i costi monetari, ma tutte le categorie di benefici e di sacrifici (monetari e
non) che possono essere, rispettivamente, ricercate e sostenute nelle varie fasi del processo di
acquisto e di consumo (Costabile, 1996 e 2001; Woodall, 2003).
In relazione alla natura dei benefici ottenibili alcuni studiosi nord-americani (Sheth et al., 1991)
hanno identificato cinque dimensioni costitutive del valore (vedi fig. 1):
 valore funzionale (functional), riconducibile alle performance tecnico-funzionali offerte
da un prodotto;
 valore sociale (social), derivante dalla possibilità di associare il consumo di un prodotto
alle dinamiche legate a uno o più gruppi sociali;

22
Sempre in fase pre-acquisto è individuabile, come si vedrà poco più avanti, un’altra configurazione di valore
denominato “desiderato”.
23
Con l’espressione dimensione percettiva si fa riferimento “a quella fase del processo decisionale di acquisto durante
la quale il consumatore ricerca le varie alternative disponibili, capta le caratteristiche distintive di ciascuna di esse per
sottoporle successivamente a un processo di comparazione, che si concluderà con la scelta dell’alternativa giudicata
ottimale dal cliente” (Castaldo, 2009, p. 96).
24
Sulla distinzione fra i due concetti di valore ricordiamo che il Mazza (1969, pp. 66-67), richiamandosi al pensiero di
Adam Smith, sottolinea l’opportunità di parlare di valore nell’uso e nello scambio al fine di evidenziare il fatto che è
soltanto l’impiego del bene a suscitare l’apprezzamento soggettivo di un suo valore.
25
“L’idea che le imprese hanno successo vendendo valore non è nuova. Ciò che è nuovo, invece, è il modo in cui i
consumatori considerano il concetto di valore in molti mercati. In passato, gli acquirenti hanno giudicato il valore di un
prodotto o di un servizio sulla base di una combinazione di qualità e prezzo. I consumatori oggi, invece, hanno un
concetto di valore più ampio che comprende la convenienza d’acquisto, il servizio post-vendita, l’affidabilità e così via”
(Treacy e Wiersema, p. 36).

20
 valore emozionale (emotional), legato alla capacità di un prodotto di suscitare sentimenti
o stati affettivi;
 valore epistemico (epistemic), riferibile alla capacità di un prodotto di suscitare curiosità,
offrire una novità o soddisfare un desiderio di conoscenza;
 valore contestuale (conditional), che si manifesta quando fattori situazionali e
contingenti influenzano la percezione di valore, aumentandone le dimensioni funzionale
e/o sociale.
La componente give è costituita, invece, da una serie di elementi, primo fra tutti il prezzo monetario
(o valore di scambio26) cui si aggiungono altre componenti connesse ai sacrifici in termini di tempo
e di energie per l’acquisizione, l’utilizzazione e lo smaltimento dopo l’uso del prodotto desiderato.
È bene precisare che il concetto di valore percepito dal cliente è un costrutto concettuale dinamico
nel quale l’enfasi di ciascuna componente get e give può subire cambiamenti nel corso del tempo di
utilizzo del prodotto, ossia nel ciclo di vita utile di quest’ultimo. Ad esempio, nel caso di un bene
durevole in nostro possesso, il valore percepito può accrescersi se le sue performance si
mantengono elevate oltre il periodo di vita stimato o, viceversa, diminuire a seguito del lancio di un
nuovo prodotto tecnologicamente superiore.
L’utilità che può trarre il consumatore non riguarda, quindi, soltanto i benefici riconducibili all’atto
di acquisto e di consumo in senso stretto ma anche quelli scaturenti dalle fasi precedenti (processo
pre-acquisto) e quelle successive (processo post-acquisto),
Esemplificando le considerazioni fin qui sviluppate, il valore percepito dal cliente scaturisce da una
comparazione tra i benefici (B) ed i sacrifici (S) rappresentabile o in forma di rapporto (Busacca,
1994; Costabile, 1996; Gronroos, 1997) o in termini sottrattivi (Day, 1990; Lai, 1995; Romani,
2000).
Vc = B / S oppure Vc = B – S 27
L’impresa, sapendo che il consumatore utilizza questo particolare modello di comportamento di
acquisto, può avvalersene per migliorare la propria offerta (value proposition)28, accrescendo il
valore percepito dal cliente tramite l’azione sui due termini della relazione (benefici e sacrifici).
La proposta di valore avanzata dall’impresa è oggetto di confronto con quelle alternative sul
mercato e può presentarsi agli occhi del consumatore in modo differente (vedi figura successiva):
- irresistibile, se i sacrifici percepiti dal cliente sono bassi a fronte degli elevati benefici
ottenibili;
- deludente, se i modesti benefici promessi non compensano gli elevati sacrifici richiesti;
- equilibrata, se ai benefici offerti corrisponde un adeguato livello di sacrifici.
In quest’ultimo caso l’impresa può decidere se avanzare una value proposition economica (ad es.
Lidl) o media (ad es. Barilla) o premium (ad es. Apple) 29.

26
“Il concetto di scambio e l’individuazione delle circostanze che lo condizionano consentono infine di distinguere tra
due nozioni del valore di un bene, cui altre si aggiungono quando si esamini l’ipotesi di un’economia monetaria. Le due
nozioni sono quelle di valore d’uso e di valore di scambio. Il valore d’uso non è altro che l'utilità soggettiva attribuita
da ogni individuo ad un bene con riguardo all’impiego diretto che può essere fatto del bene medesimo. Il valore di
scambio è invece l’utilità soggettiva attribuita ad un bene suscettibile di essere scambiato con quello posseduto. In
entrambi i casi, tuttavia, il valore del bene è legato al giudizio soggettivo circa la sua attitudine a soddisfare, mediante
l’impiego diretto o per mezzo dello scambio, i bisogni dell’individuo” (Cattaneo, 1969, p. 39).
27
Talvolta le due rappresentazioni vengono integrate da J che esprime la forma funzionale che lega il valore ai benefici
e ai sacrifici (Hagerty, 1978).
28
Si parla di “proposta” di valore in quanto l’offerta dell’impresa si concretizzerà soltanto se quest’ultima riuscirà a
trovare dei clienti disposti a pagare il prezzo richiesto.
29
La scelta del tipo di value proposition da adottare rispetto a quella dei concorrenti viene denominata posizionamento.

21
Mappa del valore

3.2 La misurazione del valore percepito (cenni e rinvio).

L’importanza che assume il valore percepito dal cliente impone all’impresa di procedere ad una
sistematica sua misurazione che, generalmente, si articola in due momenti differenti. Inizialmente si
compie un’analisi qualitativa che, attraverso interviste individuali o focus group, mira ad
individuare le caratteristiche dell’offerta da cui dipendono i giudizi di valore per uno specifico
prodotto. Tra le tecniche di indagine qualitativa quella maggiormente diffusa è la tecnica del
laddering che viene applicata per ricostruire la catena mezzi-fini del cliente e, quindi, la sequenza di
attributi, benefici e valore che spiegano il comportamento di consumo e contribuiscono a generare
la percezione di valore (vedi Castaldo).
Individuate le caratteristiche influenti, si effettua un’analisi quantitativa, finalizzata a misurare
l’importanza relativa di tali componenti ed i rapporti di trade-off mediante particolari tecniche, quali
la tecnica di misurazione dell’EVC (Economic Value for the Customer), la tecnica à la Fishbein,
l’analisi congiunta (conjoint analysis) e gli approcci ibridi basati sull’utilizzo congiunto di più
tecniche (Costabile, 1996; Busacca e al., 2004)30.

4. La customer satisfaction e la fedeltà del cliente.


L’adozione della filosofia di marketing descritta nei paragrafi precedenti e la crucialità del cliente,
quale soggetto deputato alla produzione del cliente, impongono ormai a tutte le organizzazioni31, e
non soltanto alle imprese, l’esigenza di focalizzare la propria attenzione sulla customer satisfaction.
Nell’accezione del linguaggio economico, la soddisfazione dei bisogni si realizza con la loro
estinzione attraverso il consumo di beni ritenuti, dal soggetto, idonei a far cessare la dolorosa sensa-
zione d’inappagamento collegata al bisogno stesso. Pertanto, nell’ottica d’impresa, la soddisfazione,
in prima approssimazione, è la capacità di offrire prodotti in linea con le aspettative della domanda.

4.1. Introduzione.
Al pari di altre tematiche, l’argomento della soddisfazione del cliente è entrato di prepotenza

30
Queste varie modalità di misurazione saranno oggetto di approfondimento in quella parte del programma dedicata alla
determinazione del prezzo (Castaldo, 2009, cap. VII).
31
È bene ricordare che non tutte le imprese, come possiamo facilmente riscontrare nella vita pratica sono realmente
vocate alla soddisfazione. Molte, infatti, pur dichiarando di perseguire tale obiettivo in concreto non mettono in pratica
alcuna attività rivolta al suo raggiungimento.

22
nell'ambito delle discipline economico-aziendali a seguito della pubblicazione di numerosi articoli e
saggi di studiosi stranieri, in particolare d’oltre oceano32.
In realtà, è dato riscontrare come tale espressione-concetto sia propria del nostro bagaglio culturale.
Com'è noto, la funzione primaria di tutte le aziende, siano esse di produzione o di erogazione, è
quella di soddisfare, direttamente o indirettamente, i bisogni delle persone. Concetto, quest’ultimo,
ben radicato nella dottrina economico-aziendale italiana, come testimoniano le numerose
definizioni di azienda formulate dai più autorevoli studiosi nazionali33.
Nonostante i numerosi riferimenti rintracciabili, l’aspetto della soddisfazione dei bisogni è stato
fino a tempi relativamente recenti scarsamente investigato, anche se è da ritenere che la capacità
dell'impresa di realizzare tale soddisfazione rappresenta l'indicatore più importante di performance.
Il tema è stato, comunque, trattato in dottrina, sia pure in forma embrionale, nell’ambito dello studio
delle ricerche di mercato34.
Altra caratteristica – oltre all’apparente importazione dall’estero – è che, a differenza di quanto si
è verificato per tante altre problematiche aziendali, quello della soddisfazione è un argomento che è
stato investigato, originariamente, nell’ambito delle aziende produttrici di pubblici servizi – o,
comunque, in imprese operanti nei settori nei quali la concorrenza era assente – e, solo successiva-
mente, è diventato oggetto di analisi anche nell'ambito delle imprese private.
È dato constatare, infatti, che l’argomento veniva indagato indirettamente nel più ampio studio
sull’efficienza della pubblica amministrazione. L’origine “pubblicistica” si deve alla circostanza
che questa tipologia di aziende non disponeva di una strumentazione in grado di giudicare le proprie
performance, in settori di attività nei quali la competizione era assente.
Soltanto in tempi più recenti, anche le aziende di produzione – principalmente quelle produttrici di
beni di consumo durevole e di servizi – si sono rese conto dell’importanza della capacità di sod-
disfare il cliente e dell’inadeguatezza dei tradizionali indicatori di competitività aziendale (la quota
di mercato, il fatturato o il riacquisto) ad esprimere, in modo corretto, tale competenza.
Così un numero sempre crescente di imprese sono state “costrette” ad abbandonare la condotta di
chiusura verso l’esterno, o, comunque, atteggiamenti insensibili alle effettive esigenze dei
consumatori.
Paradossalmente, man mano che le imprese hanno adottato un orientamento al cliente, sono
cresciute le lamentele da parte dei consumatori. In realtà, si tratta solo di una contraddizione
soltanto apparente, in quanto la crescita di attenzione delle imprese nei confronti dei clienti è stata
determinata dalla riduzione del loro potere contrattuale, che ha consentito ai clienti di far sentire,
sempre più, la propria voce.

32
A tal proposito, viene frequentemente riportata la frase di Peter Drucker (1954): “vi è una sola valida definizione
dello scopo aziendale: creare clienti soddisfatti”.
33
Si ricordano le due definizioni di Zappa ("Coordinazione economica in atto, istituita e retta per il soddisfacimento di
bisogni umani"; "Istituto economico destinato a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svol-
ge in continua coordinazione la produzione, o il procacciamento e il consumo della ricchezza"), quella di Onida "Un
complesso economico che, sotto il nome di un soggetto giuridico e il controllo di un soggetto economico, ha vita in un
sistema continuamente rinnovantesi e mutevole di operazioni attuabili mercé una duratura, sebbene non rigida,
organizzazione di lavoro, per la soddisfazione di bisogni umani, in quanto questa richieda produzione o acquisizione e
consumo di beni economici" e quella di Amodeo ("Istituto economico unitario e duraturo, costituito da un complesso di
persone e di beni economici e diretto al soddisfacimento dei bisogni umani, il quale in vista di tale fine, svolge processi
di acquisizione, di produzione e di consumo continuamente coordinati in un sistema ancorché mutevole negli aspetti e
variabile nelle dimensioni").
34
Fra i pochi studi condotti dagli studiosi italiani un doveroso richiamo è al Ferrero, il quale nel 1958 (in precedenza,
sullo stesso tema, lo stesso aveva pubblicato due articoli) è stato autore di un volume dal titolo "La clientela nell'analisi
delle vendite". In questa opera, dopo aver richiamato la distinzione utilizzata dalla dottrina francese fra mercato teorico
(o ideale), attuale, potenziale e futuro, il Ferrero sofferma la propria attenzione sulla clientela, ossia “il complesso dei
"consumatori attuali" che, nel periodo considerato, hanno acquistato prodotti o servizi dall'impresa stessa”. In
particolare, analizza nel capitolo terzo la “stabilità e "cifra d'affari" della clientela”.

23
Prima, le imprese appartenenti a multinazionali straniere e, successivamente, alcune grandi imprese
italiane hanno iniziato a svolgere specifici programmi rivolti ad accertare, misurare ed accrescere la
customer satisfaction.
In sintesi, è dato constatare che l’impresa, indipendentemente dal sistema economico nel quale
opera e dei soggetti che ne esercitano il controllo, ha una funzione principale: quella di produrre be-
ni e servizi atti a soddisfare i bisogni dei consumatori35.
In passato, questa funzione è stata considerata strumentale rispetto alla realizzazione delle attese di
specifiche categorie di soggetti (in particolare dei conferenti di capitale di rischio): oggi, la
soddisfazione del cliente è diventata l’idea centrale che ispira l’operato di qualunque impresa, come
dimostra la sempre più frequente presenza negli enunciati della missione aziendale36.
La customer satisfaction si configura, quindi, come una filosofia di gestione che investe
trasversalmente tutte le tipologie di aziende e, all’interno di ciascuna di esse, tutte le funzioni
aziendali. Infatti, anche se l’area più direttamente interessata appare quella di marketing, in realtà,
sono intensamente coinvolte anche le altre funzioni, allorquando il principio della soddisfazione del
cliente viene interiorizzato nell’orientamento strategico di fondo dell’organizzazione37.
La soddisfazione rappresenta oggi per un numero crescente di organizzazioni se non il fine ultimo
per lo meno un obiettivo prioritario da perseguire. Infatti, anche le organizzazioni non vocate al
sociale hanno compreso che creare dei clienti soddisfatti ha una serie di ricadute positive sulla
stessa organizzazione. Un cliente soddisfatto, infatti, sarà maggiormente propenso al riacquisto,
presterà meno attenzione alla value proposition della concorrenza, realizzerà un passaparola
positivo; acquisterà altri prodotti della stessa impresa (cross selling).
Evidenziata l’importanza della customer satisfaction nella gestione d’impresa, occorre adesso
chiarire cosa si debba intendere con questa espressione e per far ciò è necessario prendere le mosse
dal concetto di qualità. Infatti, com’è stato ben evidenziato da Kotler et alii (2001, p. 8), “la
soddisfazione del cliente è strettamente legata alla qualità … La qualità ha un impatto diretto sulle
prestazioni dei prodotti, e pertanto sul livello di soddisfazione del cliente”38.

35
Nell'ambito del filone di studio sulle imprese eccellenti, è radicato il convincimento che il cliente "- con le sue
necessità di soddisfare con i prodotti e servizi sempre migliori e più economici – è la fondamentale ragione di esistere
dell'impresa" (Coda, 1988, p. 207).
36
La missione della Honda Motor Co. è si concretizza nel seguente enunciato: "Il nostro obiettivo numero uno è la
customer satisfaction. Nel quadro di una strategia di sviluppo internazionale, siamo impegnati a fornire prodotti della
massima efficienza, a prezzi ragionevoli, per la worldwide customer satisfaction". Per altri esempi di missione che
includono l'obiettivo della customer satisfaction, si rinvia a Pellicelli (1996, p. 117).
37
Sulla necessità che questo concetto pervada tutta l'impresa, il Valdani afferma l'esigenza che i comportamenti
aziendali si caratterizzino per: "la totale integrazione fra le azioni di marketing e le capacità organizzative,
finalizzate alla concentrazione delle risorse tangibili ed intangibili sulla soddisfazione dei bisogni dei clienti. Non
si tratta, cioè, del convenzionale orientamento al mercato. Il successo di tali imprese sembra fondarsi sulla ricerca della
massima integrazione di tutte le competenze funzionali, tradizionalmente intese, verso un unico grande obiettivo: il
cliente e la sua soddisfazione" (Valdani et alii, 1994, p. VII).
38
“Nel suo significato più ristretto, la qualità può essere definita come uno stato di «assenza di difetti». Tuttavia, molte
imprese orientate al cliente vanno oltre una consimile definizione. Per esempio, la Motorola, un’impresa pioniera negli
Stati Uniti in materia di sviluppo della qualità, afferma che «la qualità deve fare qualcosa per il cliente». La nostra
definizione di un difetto è: «se un prodotto non piace al cliente, questo è il difetto». Da una definizione di qualità che sia
orientata al cliente discende che un’impresa raggiunge la qualità totale solo quando i suoi prodotti o servizi rispondono
o superano le aspettative degli acquirenti. È per questa ragione che l’obiettivo fondamentale dei movimenti
contemporanei per lo sviluppo della qualità totale sta evolvendo verso un concetto di soddisfazione totale del cliente.
La qualità ha inizio con le esigenze dell’acquirente e trova una conclusione con il soddisfacimento delle stesse” (Kotler
et alii, 2001, pp. 8-9).

24
4.2. Il concetto di qualità: dalla filosofia all’economia.

Il tema della qualità può essere affrontato da differenti punti di vista. In questa sede si desidera
analizzarlo da due diverse ottiche: filosofica ed economica. Per meglio chiarire il concetto di qualità
è opportuno partire dalla sua interpretazione di natura filosofica. È evidente che la filosofia non si è
occupata specificatamente né di soddisfazione del cliente né di qualità dei prodotti ma alcune
riflessioni in ordine alla “bellezza” possono rappresentare un interessante punto di partenza per
successive considerazioni.
A tal fine appare oltre modo utile riportare alcune brevi considerazioni sviluppate dal Peri (1988).
“Premesso che intendiamo occuparci di qualità riferibili ad oggetti materiali e non di qualità
metafisiche o morali, il primo problema che si pone, di ordine filosofico, è di sapere se la qualità
appartiene all’oggetto oppure al soggetto che la percepisce.
Quando esprimiamo un giudizio di qualità, dicendo ad esempio che un quadro è bello o che un
cibo è buono o che una poltrona è comoda, di cosa stiamo parlando in realtà? Dell’oggetto
(quadro, cibo, poltrona) o di noi stessi e della nostra reazione riguardo all’oggetto?
Su questo interrogativo sì sono cimentati i filosofi con opinioni contrastanti: da quella
oggettivistica (la qualità è propria dell’oggetto) che ha i suoi fondamenti in Aristotele, a quella
soggettivistica (la qualità è propria del soggetto) che ha i suoi fondamenti nei filosofi presocratici
come Parmenide e gli Eleati, che consideravano le qualità sensibili come semplici proiezioni del
soggetto. L’opinione soggettivistica tende oggi a prevalere, per reazione all’approccio della
scienza tradizionale e alla illusione oggettivistica” che lo ha accompagnato da Galileo ai nostri
giorni. Dice Whitehead (1979): «In tal modo si attribuiscono alla natura doti che in verità sono
esclusivamente nostre: alla rosa il suo profumo, all’usignolo il suo canto, al sole il suo fulgore. I
poeti sono totalmente fuori strada. Essi dovrebbero rivolgere le loro liriche a se stessi, e
trasformarle in lodi di autofelicitazione per l’eccellenza della mente umana. La natura è opaca,
silenziosa, senza odore, senza colori, è soltanto l’impetuoso incalzare dì materia, senza fine,
senza motivo».
A nostro parere è ragionevole pensare che le due posizioni siano in parte entrambe vere ed
entrambe false e che la loro composizione sia possibile rifacendosi a Kant e alla sua filosofia
della conoscenza e del giudizio. Secondo Kant, perché vi sia conoscenza è necessario che ci sia
un oggetto o un dato (fuori di noi) che la nostra sensibilità percepisce e una forma o funzione a
priori (dentro di noi) in grado di “organizzare” la percezione.
Nella Critica del Giudizio, Kant, riferendosi alla percezione delle qualità estetiche nell‘arte,
scrive: «Il bello non è una proprietà delle cose, ma nasce dal rapporto fra le cose e noi, e
precisamente dal rapporto fra la loro immagine e il nostro sentimento». E, nello stesso testo: «Il
gusto estetico non valuta le rappresentazioni per la loro realtà o per le loro proprietà oggettive,
ma per il sentimento che esse suscitano in noi»,
Quello che Kant riferiva alle funzioni a priori e alle categorie dell’intelletto, oppure a quelle del
sentimento, è riferibile, nel caso che ci interessa, alla percezione che noi abbiamo delle qualità
degli oggetti. Le qualità sensibili appartengono al soggetto, che impone la forma della
percezione, non meno che all’oggetto che riempie di contenuti tale forma; ed esse non esistono se
non nell’incontro fra soggetto ed oggetto.
Se noi consideriamo, ad esempio, la qualità di “dolce”, dobbiamo ammettere che essa si
manifesta ed esiste soltanto quando alcune nostre papille gustative (forma della percezione)
vengono in contatto con le molecole dello zucchero (oggetto della percezione). Lo zucchero non
è dolce ma appare dolce a noi.
Dal punto di vista dell’oggetto che provoca la sensazione, la qualità può essere dunque definita
come una capacità, una funzione che l’oggetto esplica sul (a beneficio del) soggetto.
La seconda domanda che ci poniamo è: perché? Perché gli oggetti esplicano su di noi le funzioni
che noi chiamiamo qualità? Oppure, rovesciando i termini del problema: perché noi instauriamo
con gli oggetti questo rapporto di valutazione che si esprime in giudizi di qualità?

25
Con queste domande si entra in un campo sconosciuto e misterioso, che ha a che vedere con la
nostre sopravvivenza. È difatti evidente che la bellezza di un quadro, la bontà di un cibo, la
comodità di una poltrona hanno a che vedere con la soddisfazione di nostri bisogni psichici e
fisici, di cui non comprendiamo i meccanismi ma di cui percepiamo molto bene l’urgenza.
Dunque possiamo concludere che la qualità di un oggetto è la sua capacità di soddisfare alcuni
nostri bisogni. Questa definizione rende ancor più chiaro che la qualità non è nell’oggetto, nella
sua essenza e sostanza fuori di noi, ma nella funzione che l’oggetto esplica su dì noi quando vie-
ne in contatto con noi. Questo sistema è rappresentato simbolicamente dalla triade della figura 4.

OGGETTO QUALITÀ SOGGETTO


(struttura) (funzione) (bisogni)

Fig. 4 - La qualità come tramite fra la struttura dell’oggetto ed i bisogni del soggetto.
Un’ultima precisazione si impone. Il concetto di qualità viene spesso contrapposto a quello di
quantità. Si considera la qualità come una proprietà meramente formale, mentre la quantità è
riferita soltanto alla misura. In realtà anche la quantità è un aspetto della qualità nel senso che
una qualità non è percepibile se non come livello di soddisfazione di una determinata esigenza.
Possiamo parlare in astratto di “dolcezza” come categoria di qualità sensoriale. Però, nel
momento che viene percepita come qualità di un oggetto, essa è automaticamente associata ad un
certo grado o livello di intensità. Non si può pensare di percepire una sensazione (di piacere o
dolore, dì gusto o di disgusto, di dolce o di amaro) senza pensare di percepirla con una certa
intensità. D’altro canto la quantità presuppone la qualità, poiché nulla si potrebbe contare o
misurare che non avesse già una qualche determinazione qualitativa”.
In conclusione, possiamo intendere la qualità di un prodotto come la capacità dei suoi attributi di
soddisfare i nostri bisogni (o motivazioni).
Spostando l’ottica di osservazione sul piano economico ci accorgiamo che l’interpretazione
filosofica è perfettamente in linea con la norma UNI ISO39 8402 secondo la quale: "la qualità è
l’insieme delle proprietà e caratteristiche di un prodotto o servizio che gli conferiscono l’attitudine
a soddisfare bisogni espressi o impliciti". Com’è facile rilevare un prodotto deve avere, quindi,
delle caratteristiche (oggettività) ma queste devono essere giudicate in termini relativi, ossia in
relazione alla capacità di soddisfare il bisogno (soggettività).
Nel 2005 l’ISO ha modificato formalmente la definizione di qualità mantenendone inalterato il
significato. Infatti, secondo UNI EN ISO 9000 “qualità è il grado in cui un insieme di caratteristiche
intrinseche soddisfa i requisiti”.
Alla luce di tali considerazioni appare evidente come le espressioni buona o cattiva qualità sono
inadeguate e sarebbe molto più corretto parlare di qualità giusta o di qualità sbagliata” (Stanton e
Varaldo, p. 182).
In conclusione, possiamo intendere la qualità di un prodotto come la capacità dei suoi attributi di
soddisfare i nostri bisogni.

4.3. La soddisfazione del cliente


Chiarito il significato di qualità occorre analizzare come questo concetto si colleghi a quello di
valore per il cliente. In tal senso è facile intuire che la qualità è un elemento del valore percepito:
infatti, i benefici che si possono trarre da un prodotto scaturiscono dalla percezione dell’attitudine

39
ISO (International Organization for Standardization) è la più importante organizzazione a livello mondiale per la
definizione di norme tecniche che vengono recepite, armonizzate e diffuse dai singoli paesi ed in particolare, per
l’Italia, dall’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione).

26
delle singole caratteristiche di soddisfare il bisogno (ossia qualità) e dal grado di importanza
assegnato a ciascun attributo. Pertanto,
B = f (Q, i)
dove i rappresenta l’importanza di ciascun attributo.
È opportuno avvertire che, ai fini della definizione del concetto di soddisfazione, qualche studioso
utilizza il termine valore come sinonimo di qualità, in realtà questa scelta appare poco convincente
in quanto quest’ultimo enfatizza la componente get (ciò che si riceve) mettendo in ombra la
componente give (ciò che si dà)40.
In altri termini, la nostra soddisfazione è condizionata non soltanto dalla capacità del prodotto con
le sue caratteristiche di appagare il bisogno ma, altresì, dal sacrificio che si sostiene per poter
disporre di tale prodotto. Infatti, a parità di prestazioni, maggiore è il sacrificio che si sopporta,
minore sarà la nostra soddisfazione.
Al fine di una migliore comprensione del concetto di soddisfazione, il valore si può configurare
variamente a secondo del soggetto e del momento di osservazione, dando vita a sei dimensioni:
- valore desiderato dal cliente, costituito dall’insieme delle caratteristiche del prodotto ricercate dal
consumatore prima dell’acquisto ritenute in grado di soddisfare al meglio il proprio bisogno ed i
sacrifici che è disposto a sopportare per poter fruire dei benefici scaturenti dalle suddette
caratteristiche;
- valore pianificato dal management, dato dall’insieme delle attese che l’impresa ritiene opportuno
e conveniente soddisfare e dei sacrifici che reputa possa sopportare il cliente;
- valore recepito dal personale, costituito dall’insieme delle caratteristiche strutturali espresse
sottoforma di standards che rappresenteranno gli obiettivi-guida nella realizzazione del prodotto;
- valore offerto dall’impresa, dato dall’insieme di attributi che effettivamente possiede il prodotto;
- valore atteso dall’acquirente, rappresentato dalle caratteristiche che ci si attende da quella
specifica offerta prima che sia acquistata;
- valore percepito dal consumatore, costituito dall’insieme di caratteristiche che sono apprezzate
dal cliente e dai connessi sacrifici sopportati.
È utile sottolineare che il valore atteso è diverso da quello desiderato in quanto quest’ultimo fa
riferimento a delle caratteristiche ideali ricercate mentre il primo è relativo alla specifica proposta
dell’impresa scelta.
L’esame di queste varie configurazioni di valore si rende necessario poiché dal confronto di alcune
di esse deriva la soddisfazione. Infatti, ricorrendo agli studi sulla personalità (Lewin, 1936) dai
quali sono emerse le evidenze confluite poi nel paradigma della conferma/disconferma delle
aspettative, il costrutto “soddisfazione” è stato definito come il risultato della valutazione di ogni
interazione con l’impresa in cui le performance percepite confermano o eccedono il valore atteso
(Oliver, 1980 e 1997).
Con altre parole, la customer satisfaction è lo stato psicologico post-acquisto41, che scaturisce da un
raffronto tra le aspettative (valore desiderato e valore atteso) sul prodotto e le performance (valore
percepito), ossia i benefici e sacrifici sperimentati con il suo utilizzo.

Soddisfazione Performance Aspettative


del cliente = (valore percepito) - (valore desiderato e valore atteso)

40
Gli studiosi che, invece, utilizzano il termine qualità come sinonimo di valore motivano questa loro interpretazione
con il fatto che l’economicità nell’acquisto e nell’utilizzo possono essere considerate delle caratteristiche al pari degli
altri attributi posseduti dal prodotto.
41
In tal senso non si considera la soddisfazione come un fenomeno esclusivamente cognitivo ma si pone enfasi anche
sulla dimensione affettiva (Cote e Giese).

27
Pertanto, se le aspettative del cliente sono inferiori alle performance del prodotto, cioè trovano
conferma, si verifica la soddisfazione (confirmation), nel caso inverso si ha l’insoddisfazione del
consumatore (disconfirmation).
Le aspettative, intese come previsioni effettuate dal cliente circa il livello più probabile della
performance che otterrà, sono influenzate da numerosi elementi: caratteristiche del cliente, grado di
informazione, esperienze passate, giudizi espressi da altri soggetti, ecc.42 Le performance, invece,
esprimono la capacità del prodotto di svolgere le funzioni per le quali è stato acquistato e sono
influenzate non soltanto dagli attributi del prodotto ma, soprattutto, dalle capacità del cliente di
percepirli.
La soddisfazione del cliente scaturisce, quindi, dal raffronto fra valore desiderato, valore atteso e
valore percepito43 (vedi figura n. 5). Spesso si limita il confronto alle ultime due configurazioni,

Valore Figura n. 5: Valore per il cliente e


desiderato customer satisfaction

Valore Conferma / Livello di


atteso Disconferma soddisfazione

Valore
percepito

Tratto da: Busacca e Bertoli (2009), p. 220.

escludendo la prima. In realtà, appare più corretto considerare anche il valore atteso e non solo
quello desiderato poiché si rischierebbe di giungere alla errata conclusione che se ci attendiamo
qualcosa di negativo (ossia, riteniamo che i sacrifici eccedano i benefici) e ciò trova conferma con
l’uso del prodotto, paradossalmente, saremmo soddisfatti.
L’accoglimento di tale paradigma ha condotto alla costruzione di numerosi modelli di studio volti
ad identificare ed analizzare le fonti che generano insoddisfazione della clientela. Fra questi
certamente il più diffuso è il gaps model (figura n. 6) che analizza gli scostamenti fra le varie
dimensioni del valore.
In base a tale modello l’insoddisfazione, intesa come gap di valore, può derivare da cause “interne”
o “esterne”. Fra queste ultime si individuano l’incapacità del management di comprendere le reali
esigenze dei consumatori (gap di sintonia) o di far apprezzare loro le caratteristiche del prodotto
offerto (gap di percezione). Fra le cause interne è possibile indicare errori nelle direttive impartite al
personale riguardo al modo in cui realizzare il prodotto (gap di allineamento) o nel rispetto delle
specifiche da seguire per la sua produzione (gap di realizzazione).
Il gap di valore44, a sua volta, può essere scomposto in gap di valore desiderato (valore desiderato ≠
valore atteso) e gap di valore atteso (valore atteso ≠ valore percepito)
In base al gaps model, la piena soddisfazione del cliente si otterrà allorquando saranno eliminati

42
Tali elementi sono riconducibili a quattro differenti tipologie di fonti: commerciali, istituzionali, interpersonali,
empiriche.
43
Lo scostamento fra queste tre configurazioni di valore viene denominato, come sarà evidenziato poco più avanti, gap
di valore.
44
Il gap di valore è, quindi, considerato l’indicatore di sintesi da monitorare costantemente ai fini di una corretta
gestione della soddisfazione del cliente (Busacca e Bertoli, p. 223).

28
tutti i possibili scostamenti, ossia quando si avrà la piena consonanza fra le varie dimensioni del
valore.
In questo senso, com’è stato correttamente osservato (Busacca e Bertoli, p. 223), “la soddisfazione
della clientela è raggiunta quando i processi di comprensione, progettazione, realizzazione (valore
pianificato, recepito, offerto) dell’impresa sono perfettamente allineati al sistema cognitivo dei
clienti (valore desiderato, atteso e percepito). Quando, cioè, i desideri del cliente coincidono con le
aspettative nei confronti dell’offerta aziendale e sono perfettamente compresi dal management e
tradotti in specifiche di progetto e di prodotto, originando una proposta di valore pienamente
percepita dalla domanda” (il corsivo è nostro).
Gap di
sintonia Figura n. 6: I gap di customer
Valore Valore
satisfaction: un modello di sintesi
pianificato desiderato
Gap di valore
desiderato
n to

Gap
ime
volg di

Valore
Gap

di v

atteso
coin

alor

Gap di valore
e

atteso
Valore
recepito Valore
percepito

rea Gap i
liz di
zaz a p d one
ion G ezi
e Valore rc
pe
offerto Modificato da: Busacca, Bertoli, (2009), p. 225.

4.4 La relazione fra soddisfazione, fedeltà, fiducia e lealtà.

Il concetto di soddisfazione proposto è strettamente legato a quello di fedeltà ed in taluni casi tende
a sovrapporsi. Infatti, quando si parla di fedeltà del cliente è necessario distinguere due componenti
o dimensioni45: la fedeltà comportamentale e quella cognitiva.
La fedeltà comportamentale si ricollega al concetto di riacquisto e si concretizza in fenomeni di
regolarità dimostrata dal cliente nel processo di acquisto. Quanto più il cliente ripete l’acquisto di
una determinata marca o presso un dato punto vendita, tanto maggiore è la sua fedeltà alla marca o
all’insegna (vedi tabella n. 2).
Tabella n. 2: I differenti livelli di fedeltà
Tipologie di clienti Sequenze acquisti Livello di fedeltà
I fedelissimi A–A–A–A–A–A Massimo
I fedeli tiepidi A–A–B–B–A–A Medio
I fedeli mutevoli A–A–A–B–B–B Medio
Gli incostanti A – C – E –B – D – A Minino / nullo
La fedeltà cognitiva si basa, invece, sul pieno convincimento da parte del consumatore che la value
proposition da lui scelta ha un valore percepito superiore a quelli delle alternative presenti sul
mercato. Questa dimensione di fedeltà è di più difficile accertamento in quanto non è un outcome
osservabile ma deve essere interpretata dalle dichiarazioni di preferenza. In altri termini si giudica

45
Oliver (1999) ha evidenziato come la fedeltà evolva progressivamente in quattro forme: cognitiva, affettiva, conativa
e pro-attiva.

29
la sua esistenza non dai comportamenti (riacquisto), ma allorquando il cliente manifesta
esplicitamente l’intima convinzione della superiorità dell’offerta di quell’impresa rispetto ai
concorrenti.
In altri termini, la fedeltà cognitiva si fonda sul pieno convincimento che l’impresa è in grado di
generare un valore differenziale positivo, ossia il valore percepito relativo alla sua offerta è ritenuto
superiore a quello offerto dai concorrenti.
Riguardo al rapporto fra soddisfazione e fedeltà comportamentale (riacquisto) è facile rilevare come
i due concetti sono in relazione asimmetrica. Talvolta, infatti, ci si trova di fronte a clienti che
riacquistano pur non essendo soddisfatti. Ciò si verifica ogni qual volta un soggetto è
impossibilitato a rivolgere la propria preferenza verso altre offerte a causa dell’assenza di value
proposition alternative o della presenza di barriere di passaggio (swicthing cost), ossia di ostacoli di
varia natura (economica, tecnologica, giuridica, ecc.) che impediscono o rendono non conveniente il
cambio del fornitore. Si pensi, ad esempio, a quanti utenti di telefonia mobile seppur insoddisfatti
del servizio offerto non cambiavano gestore perché non era consentita la portabilità del proprio
numero.
È altrettanto vero, però, che un cliente soddisfatto non necessariamente è pure fedele (Oliver, 1999).
Il desiderio di novità, ad esempio, può indurre talvolta a cambiare marca nonostante vi sia customer
satisfaction oppure la scelta di rivolgersi ad altro fornitore, nonostante un giudizio positivo riguardo
alla value proposition ricevuta, è condizionata da altri soggetti46. Tale divergenza trova conferma in
una ricerca condotta negli Stati Uniti da Bain & Co. dalla quale è emerso che fra il 65% ed il 95%
dei clienti soddisfatti sostituiscono nei propri acquisti il prodotto nei confronti del quale hanno
dichiarato la propria soddisfazione.
La circostanza che la soddisfazione possa talvolta non determinare la fedeltà comportamentale non
vuol dire disconoscere l’importanza della customer satisfaction o l’inutilità del suo perseguimento
(Oliver, 1999). È evidente che un consumatore soddisfatto sarà in ogni caso indotto ad effettuare un
passaparola positivo nei confronti di altri soggetti (word-of-mouth) o sarà spinto ad acquistare altri
prodotti della stessa impresa (cross-selling).
Accertato che non sempre soddisfazione e fedeltà coesistono, è stato proposto, seguendo un
modello di analisi predisposto dalla Xerox, di distinguere i clienti in quattro differenti classi (vedi
figura n. 3)47 da monitorare costantemente e nei confronti dei quali adottare delle strategie
differenziate.
Figura 3: Classificazione dei clienti in base al grado di soddisfazione ed a quello di
fedeltà comportamentale (c.d. matrice Xerox)

Alto Ostaggi Apostoli


Livello di fedeltà
comportamentale
Basso Terroristi Mercenari

Insoddisfatti Soddisfatti
Livello di customer satisfaction
Ulteriori concetti sui quali si desidera soffermare l’attenzione sono quello di fiducia (trust), al quale
sarà dedicato solo un breve cenno poiché sarà oggetto di approfondimento nel libro di testo, e
quello di lealtà del cliente (customer loyalty). Riguardo al primo concetto, in questa sede si
richiama la definizione fornita da Castaldo (p. 20) che la intende come “la capacità dell’impresa di
“mantenere le promesse” e di far fronte ai propri impegni”. La fiducia, anche se talvolta è
considerata sinonimo di fedeltà cognitiva (Castaldo, p. 122), in realtà è un convincimento del

46
L’utilizzatore (o consumatore) del prodotto sulle cui aspettative si misura la soddisfazione può non coincidere con
l’acquirente che effettua il riacquisto.
47
Questa classificazione è molto simile a quella proposta da Castaldo (p. 122) che individua le varie tipologie di clienti
in base all’intensità della fedeltà cognitiva e comportamentale.

30
consumatore che si genera progressivamente man mano che le sue aspettative trovano conferma
nelle varie occasioni di riacquisto. La fiducia è, quindi, qualcosa che si costruisce nel tempo, cioè
man mano che negli acquisti successivi il consumatore sperimenta in modo sistematico la
soddisfazione.
Riguardo alla relazione con la customer satisfaction è facile rilevare come quest’ultima rappresenti,
quindi, uno dei principali antecedenti della fiducia48, ossia dei fattori in grado di influire sulla sua
generazione.
La fiducia, infine, evolve in lealtà nel momento in cui il cliente abbandona eventuali atteggiamenti
opportunistici nei riguardi dell’impresa fornitrice per assumere degli atteggiamenti cooperativi in
quanto è convinto che la relazione sia caratterizzata dalla reciprocità e sia connotata da
atteggiamenti e comportamenti cooperativi fondati sul convincimento di una complessiva equità
della relazione49. In altri termini, man mano che si svolge la relazione, il cliente matura da un lato la
consapevolezza che la controparte, cioè l’impresa fornitrice, ha finalità ed esigenze proprie e
dall’altro lato si rende conto che quest’ultima assume degli atteggiamenti leali, cioè rispetta le
promesse e le regole del gioco, e manifesta sincerità nelle promesse che avanza. Per tali ragioni il
cliente è indotto a sviluppare un rapporto cooperativo.
Nel concetto di equità è insita, pertanto, l’idea dell’equilibrio delle opposte esigenze che
contrappongono le parti e che trovano un terreno di cooperazione nel lungo termine50.
Le relazioni fra il concetto di valore nelle sue varie configurazioni, di soddisfazione, di fedeltà, di
fiducia e di lealtà possono essere sintetizzate nello schema n. 2 che ricalca, sia pure con modifiche,
il c.d. modello dinamico della relazione (Costabile, 2001).
Le considerazioni fin qui sviluppate hanno messo in evidenza l’esigenza da parte delle imprese di
prestare attenzione non soltanto alla soddisfazione del consumatore ma anche agli altri stadi
evolutivi del rapporto con il cliente.
Infatti, proprio la possibilità che la soddisfazione non determini il riacquisto fa comprendere la
necessità per l’impresa di farla evolvere in fedeltà e lealtà. Questa esigenza trova conferma in
numerose ricerche che hanno evidenziato come l’acquisizione di un nuovo cliente può costare
all’impresa cinque volte rispetto al mantenimento di un cliente (Jones e Sasser, 1995). È stato,
altresì, accertato che la redditività offerta dal cliente cresce con l’allungamento della durata del
rapporto (Reichheld e Sasser, 1990) sia per un consumo più intenso dei prodotti di quell’impresa sia
per l’acquisto di altri prodotti della stessa azienda.
Oggigiorno, quindi, un numero sempre crescente di imprese concentra la propria attenzione non più
sulla transazione, ossia sul singolo atto di scambio, ma sulla relazione. Questo mutamento di
attenzione induce a valutare i propri clienti in base non alla singola vendita, ma in relazione a tutte
le transazioni che quel soggetto è in grado di sviluppare nel corso del tempo con l’impresa. Si parla
in tal senso di life-time value o customer equity.
Il life-time value può essere definito come “il valore corrente del flusso di profitti futuri previsti a
seguito degli acquisti effettuati dal cliente nel corso della sua vita”. Perdere un cliente significa,
quindi, non soltanto perdere l’utile sulla singola transazione ma rinunciare a tutti i profitti che si
sarebbero potuti realizzare nel corso dell’intera durata del rapporto con il cliente perduto.
Il passaggio dall’approccio transazionale a quello relazionale conduce a sostituire il termine
consumatore con quello di cliente cha enfatizza un rapporto non di carattere episodico ma di tipo

48
Altri antecedenti sono le passate esperienze, e competenze percepite dell’impresa, la sua benevolenza, l’assenza di
opportunismo, ecc. (Castaldo, p. 123).
49
La lealtà del cliente (customer loyalty) può anche essere definita come costrutto multidimensionale, che emerge nel
tempo quale prodotto ottimale della relazione tra consumatore e fornitore (o marca).
50
Nelle percezioni del cliente, l’equità deriva dalla proporzionalità del rapporto benefici/sacrifici del cliente rispetto al
rapporto ricavi/costi generati dallo stesso cliente per l’impresa.

31
duraturo.
Schema n. 2: Le relazioni fra soddisfazione, fedeltà, fiducia, lealtà.

Fiducia

Valore Confronto Fedeltà


Riacquisto Soddisfazione
differenziale alternative comportamentale

Valore Ricerca di Valore Valore


desiderato alternative atteso Acquisto percepito

Fedeltà Cambio
cognitiva del Insoddisfazione
fornitore

Riacquisto
Valore
equità
Fedeltà
comportamentale

Superamento
Lealtà del barriere di
cliente passaggio

5. Il marketing management: prime considerazioni finali.


Il marketing come filosofia di gestione mira, quindi, a creare valore per i clienti ed a instaurare con
loro solide relazioni al fine di ottenere in cambio ulteriore valore” (Kotler e Armstrong, 2006, p. 5).
Questo concetto è stato ormai ampiamente recepito dall’American Marketing Association (AMA),
la più autorevole associazione di professionisti e ricercatori di marketing a livello mondiale, nelle
ultime due definizioni di marketing formulate, rispettivamente, nel 2004 e 2009. La prima interpreta
il marketing come “an organizational function and a set of processes for creating, communicating,
and delivering value to customers and for managing customer relationships in ways that benefit the
organization and its stakeholders” mentre quella successiva “the activity, set of institutions, and
processes for creating, communicating, delivering, and exchanging offerings that have value for
customers, clients, partners, and society at large”. Com’è facile rilevare entrambe attribuiscono al
valore creato per il cliente il ruolo di obiettivo, non fine a stesso, capace di generare a sua volta
valore anche per altri soggetti.
Al fine di generare valore, immediato e nel tempo, per il cliente è indispensabile porre in essere un
complesso di attività che viene denominato marketing management.

32
Fra tali attività certamente quella preliminare è di tipo analitico, essendo volta a capire se e come le
altre imprese già creano valore per il cliente (analisi della concorrenza) e ad individuare qual è il
valore ricercato dai consumatori (analisi del mercato).
Una volta fatto ciò, si passa alla fase di progettazione della proposta di valore che si concretizza nel
decidere a chi rivolgere tale proposta (segmentazione e targeting) e com’è possibile offrire loro un
valore più elevato rispetto a quanto fanno i concorrenti (posizionamento). In tale fase vengono
altresì definiti i contenuti della value proposition sia in termini di benefici offerti sia di sacrifici
economici (pricing) da chiedere al consumatore.
Successivamente è necessario comunicare, ossia di mettere a conoscenza del consumatore riguardo
all’esistenza ed il contenuto della proposta di valore (communication) e di trasferirla (delivery), cioè
di renderla acquisibile o fruibile dal cliente.
Infine, occorre verificare il grado di accettazione della value proposition ed il modo con il quale
sono state svolte tutte le attività per realizzarla e diffonderla. Le informazioni che scaturiscono da
tale attività costituiscono gli elementi che alimentano la progettazione dei successivi cicli di
marketing management e che trovano formalizzazione all’interno del piano di marketing.
Schema n. 3: Creazione del valore per il cliente e per l’impresa

Analisi del Progettazione Comunicazione Controllo e Acquisizione e mante-


e delivery del pianificazione nimento del valore
valore del valore
valore del valore tramite le vendite

Creazione del valore per il cliente Ritorno di valore dal cliente

La proposta di valore, anche se apprezzata e preferita rispetto a quelle dei concorrenti, deve essere
oggetto di miglioramento e rinnovo per cui è possibile individuare un’ulteriore fase di innovazione
del valore che si svolge parallelamente a quelle precedentemente descritte.
A questo punto è facile rilevare come il marketing non si identifichi più con una semplice attività di
vendita e, quindi, non sia deputato esclusivamente ad accrescere la domanda del prodotto offerto. In
realtà, poiché la domanda di un determinato prodotto può presentarsi in modo differente, il
marketing ha il compito di gestirla in modo profittevole per l’impresa, influenzandone il livello, i
tempi e la composizione in modo da facilitare all’impresa il raggiungimento dei propri fini.
Nella tabella 1 sono riportati alcuni possibili stati della domanda ed i corrispondenti compiti del
marketing management.
In altri termini si tratta di agire differentemente a seconda delle situazioni in cui si trova la
domanda. Ad esempio se la domanda di un certo prodotto si concentra in un periodo particolare nel
quale la capacità produttiva dell’impresa non può essere aumentata, occorre porre in essere delle
iniziative di marketing volte a trasferirla temporalmente. È questo il caso tipico delle imprese
alberghiere fortemente caratterizzate da un’elevata stagionalità della domanda.
Se, invece, la domanda si mantiene costantemente elevata e l’impresa è impossibilitata ad
accrescere l’offerta, si tratta di contenerla. In altri casi, invece, allorquando la domanda proviene da
gruppi di clienti differenti alcuni desiderabili mentre altri indesiderati, occorre intervenire per
stimolare gli acquisti dei primi e frenare quelli dei secondi.

33
Tab. 1: Stati della domanda e corrispondenti compiti del marketing

Domanda negativa: un mercato si trova in uno stato di domanda negativa allorquando una parte considerevole di
esso nutre avversione nei confronti del prodotto che ne è l'oggetto, giungendo perfino a pagare un
prezzo per poterlo evitare. La gente manifesta una domanda negativa per le vaccinazioni, le cure
dentistiche e le operazioni chirurgiche. I datori di lavoro esprimono una domanda negativa nei confronti
di prestatori d'opera quali coloro che hanno precedenti penali o alcolizzati. Il compito del marketing è
quello di analizzare perché il mercato respinge un dato prodotto e di stabilire se un programma di
marketing, attraverso la riprogettazione del prodotto, la riduzione del prezzo e una più efficace
promozione possa modificare le opinioni e gli orientamenti del mercato.
Domanda inesistente: i consumatori ai quali si pensa di offrire un prodotto possono mostrarsi privi di interesse o
indifferenti nei confronti dello stesso. Per esempio gli agricoltori possono non avere interesse in una
nuova tecnica colturale oppure gli studenti delle medie superiori possono mostrarsi indifferenti nei
confronti dell'apprendimento delle lingue straniere. Il compito del marketing è quello di trovare i modi di
collegare i vantaggi ottenibili dal prodotto con i bisogni e gli interessi dei vari gruppi di persone.
Domanda latente: un numero consistente di consumatori può nutrire un forte desiderio che non può essere soddisfatto
dai prodotti esistenti sul mercato. Vi è, per esempio, una forte domanda latente per sigarette che non
provochino danni alla salute, di una maggiore sicurezza urbana e di auto che consumino meno
carburante. Il compito del marketing è quello di determinare la dimensione del mercato potenziale e di
sviluppare beni e servizi capaci di dare una risposta efficace alla domanda in oggetto.
Domanda declinante: ogni organizzazione, presto o tardi, si trova di fronte al declino della domanda per uno o più dei
propri prodotti o servizi. Le chiese hanno assistito alla riduzione del numero dei fedeli, mentre le
scuole private hanno avuto una riduzione degli iscritti. L'operatore di mercato deve analizzare le
cause del declino e determinare se la domanda possa essere rigenerata mediante l'individuazione di
nuovi mercati obiettivo, la modifica delle caratteristiche del prodotto oppure l'impiego di più efficaci
mezzi di comunicazione. Il compito del marketing è pertanto quello di avviare un processo creativo ed
efficace, capace di invertire la tendenza al declino del prodotto.
Domanda irregolare: molte organizzazioni si trovano di fronte a una domanda la cui entità varia secondo modalità
stagionali, giornaliere o anche orarie, dando luogo a situazioni di capacità produttiva eccedente o, al
contrario, sovraccarica. Nel caso dei trasporti pubblici di massa, per esempio, gran parte del materiale è
scarsamente utilizzato nei periodi compresi fra le ore di punta, in corrispondenza delle quali esso si
dimostra invece insufficiente. Ancora, í musei sono deserti durante la settimana, mentre nei giorni
festivi essi sono gremiti. Negli ospedali l'inizio della settimana vede ,una notevole richiesta di sale
operatorie che si riduce al minimo alla fine della stessa. Il compito del marketing (chiamato
sincromarketing) è quello di individuare le possibilità di modificare le manifestazioni temporali della do-
manda mediante prezzi differenziati, campagne promozionali e altri incentivi.
Domanda piena: questa situazione si ha allorquando un'organizzazione è soddisfatta della domanda che si
manifesta nei confronti dei propri prodotti o servizi. Il marketing ha il compito di evitare che il livello
della domanda si riduca a seguito del modificarsi delle preferenze dei consumatori e dell'accrescersi
della concorrenza. A tale scopo è necessario mantenere elevata la qualità dei prodotti e tenere sotto
costante controllo il grado di soddisfazione conseguito dai consumatori.
Domanda eccessiva: alcune organizzazioni si trovano in situazioni in cui la domanda è superiore al livello che esse
possono o vogliono soddisfare. Il Golden Gate Bridge di San Francisco, per esempio, sopporta un
volume di traffico superiore ai livelli di sicurezza e il parco nazionale di Yellowstone è
spaventosamente affollato durante il periodo estivo. In questi casi il compito del marketing, definibile
con il termine di demarketing, è quello di ridurre la domanda, in modo temporaneo o definitivo.
Un'azione di demarketing può essere generale o selettiva. Nel primo caso essa mira a scoraggiare la
domanda in generale, sia mediante l'aumento dei prezzi sia riducendo la promozione e il servizio alla
clientela. Nel secondo caso si punta a ridurre la domanda espressa da quei settori del mercato che sono
ritenuti meno profittevoli o che meno necessitano del prodotto o del servizio in considerazione. Il
demarketing non mira a distruggere la domanda ma solo a ridurne il livello.
Domanda nociva: i prodotti nocivi sono oggetto di sforzi organizzati che si propongono di scoraggiare nel
consumo. Ne sono esempi le campagne condotte contro il fumo, il consumo di alcool, l'uso della
droga e così via. Il compito del marketing è quello di indurre le persone che fanno uso di determinati
prodotti a rinunciare ai medesimi, impiegando strumenti che vanno dall'evidenziare i danni che l'uso in
questione determina, all'incremento dei prezzi, alla riduzione della disponibilità.

Tratto da: P. Kotler (2004), p. 8.

34
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36
6. Il ciclo di vita del prodotto e la sua gestione*

6.1. Fasi del ciclo di vita del prodotto


6.1.1. Una prima definizione
Ricorrendo ad un'analogia mutuata dalla biologia (cioè, nascita, crescita, invecchiamento, morte),
gli studiosi di marketing ipotizzano che anche i prodotti attraversino fasi ben definite, a partire
dall'introduzione fino al ritiro dal mercato. La figura 1.1 propone una diffusa rappresentazione
del concetto di ciclo di vita del prodotto, tracciando il grafico della funzione di vendite e
profitti rispetto al tempo. Le vendite aumentano lentamente nella fase di introduzione, ovvero
la curva è relativamente piatta. Molti consumatori n'on sono a conoscenza dell'esistenza del
prodotto e anche coloro che lo conoscono potrebbero astenersi dall'acquistare qualcosa di non
sperimentato. In questo stadio, i responsabili di marketing devono costruire consapevolezza e
fiducia attraverso strumenti quali promozione e pubblicità, guadagnarsi il consenso dei negozianti e
incrementare i volumi di produzione al fine di soddisfare la domanda futura.
Non appena i consumatori valutano favorevolmente un prodotto e lo adottano, gli acquisti di
prova e i successivi riacquisti aumentano in modo più repentino. Per questo, la fase di sviluppo
presenta una pendenza abbastanza ripida. In questo caso, le imprese intervengono sulla produzione,
sulla distribuzione, sulla pubblicità e sul prezzo al fine di soddisfare la domanda e respingere i
potenziali concorrenti. A questo scopo, le imprese potrebbero essere anche chiamate ad espandere
ulteriormente la produzione, entrare in nuovi mercati, mantenere livelli di pubblicità elevati o ridurre
leggermente i prezzi. La concorrenza in questa fase può essere intensa, man mano che le imprese
concorrenti realizzano proprie versioni di prodotti rivelatisi di successo.
Dopo un certo periodo di tempo, il mercato si satura e/o i concorrenti si impadroniscono di
significative quote di mercato. Le vendite aumentano più lentamente e spesso si stabilizzano.
Questa fase è definita maturità. La concorrenza tra imprese raggiunge il suo apice durante questa
fase. Le imprese possono assumere posizioni difensive tagliando i costi, ricercando nuovi mercati e
perfezionando accordi promozionali con i dettaglianti. Altre assumono comportamenti più
aggressivi aumentando la pubblicità, migliorando i propri prodotti e abbassando i prezzi. Nel corso
della fase di maturità si assiste sovente all'adozione di strategie di marketing che fanno ricorso sia a
tattiche difensive che offensive.
Nello stadio finale, il declino, le vendite cominciano a diminuire. In alcuni casi questa discesa
è graduale e può protrarsi per molti anni. In altre situazioni i gusti dei consumatori mutano così
rapidamente e/o i concorrenti accrescono la loro quota in misura tale da far calare le vendite in
modo brusco. Il risultato finale è spesso il ritiro del prodotto dal mercato. Se il declino del
prodotto è ritenuto irreversibile, i responsabili di marketing abbasseranno i loro budget pubblicitari
e promozionali al fine di ridurre le spese, interromperanno le attività di ricerca e sviluppo sul
prodotto e ridurranno lo sforzo complessivo di marketing.
Il tradizionale concetto di CVP rappresentato in figura 1.1 mostra come anche i profitti tendano a
seguire un analogo percorso di sviluppo, saturazione e declino. I profitti crescono più lentamente
delle vendite nelle fasi iniziali del ciclo di vita, presentando abitualmente il proprio picco al termine
della fase di sviluppo o all'inizio della maturità.
I personal computer (PC) forniscono un buon esempio di CVP. Il processore Intel 286 per PC fu
commercializzato per un numero ridotto di anni prima di essere rimpiazzato dai processori 386 e
in seguito dai 486. Anche il 486 ebbe vita breve, dopo l'arrivo dei processori Pentium. Ad ogni
successiva generazione di processori la produzione dei vecchi PC veniva rapidamente a cessare. I
produttori di PC sono stati in grado di sostenere le vendite sviluppando continuamente processori
più veloci.

*
Tratto da: Richard P. Bagozzi, Fondamenti di marketing, Il Mulino, Bologna, 2001.

37
Fig. 6.1. Il
ciclo di vita
del prodotto

6.1.2. Il concetto di ciclo di vita: alcuni approfondimenti

Come si è potuto desumere dalla figura 1.1, la durata di ciascuna fase del CVP è variabile.
La fase di introduzione è in assoluto la più breve, la crescita è un po' più lunga, la maturità è
ancora più lunga e il declino è all'incirca della stessa durata della maturità. In realtà, tali fasi
possono risultare più corte o più lunghe di quanto evidenziato in figura, in funzione delle
condizioni del mercato e degli specifici comportamenti dell'impresa. Ciò pone un'interessante
domanda: come è possibile comprendere se e quando un determinato prodotto è giunto ad una
particolare fase del proprio CVP? I manager possono trovare questi stadi difficili da
accertare, sia perché il passaggio da una fase all'altra non è necessariamente ineluttabile, sia
perché non è sempre possibile determinare le specifiche cause sottostanti ogni transizione.
In effetti, la stessa applicabilità del concetto di CVP al mondo reale è fortemente dibattuta. 1
ricercatori Dhalla e Yuspeh, per esempio, non sono riusciti a individuare alcun prodotto che sia
effettivamente transitato attraverso i quattro stadi descritti dal modello51. D'altro canto, altri
ricercatori hanno invece individuato vari prodotti che appaiono seguire approssimativamente la
curva del CVP52. Ma anche per i prodotti che sembrano seguire il CVP, la durata delle fasi
evidenzia una spiccata variabilità, così che la forma generale del CVP si differenzia in modo
spesso sostanziale dalla precisa curva a S illustrata in figura 1.1. Per esempio, in uno studio sul
caffè liofilizzato e sul succo di frutta surgelato, il tempo intercorrente dall'inizio dello sviluppo
alla fase di maturità si è rivelato, per entrambi i prodotti, di circa 12 anni53. Al contrario, un
altro studio ha evidenziato come la fase di sviluppo relativa a cinque geni industriali presi in

51
N.K. Dhalla e S. Yuspeh, Forget the Product Life Cycle Concept!, in «Harvard Business Review», gennaio-febbraio,
1976, pp. 102-112.
52
R.D. Buzzell, Competitive Behavior and Product Life Cycle, in New Ideas for Successful Marketing, a cura di J.S.
Wright e J.L. Goldstucker, Chicago, IL, American Marketing Association, 1966, pp. 46-48; W.E. Cox jr., Product
Life Cycles as Marketing Models, in «Journal of Business», 40, ottobre, 1967, pp. 375-384; R Polli e V Cook,
Validity of the Product Life Cycle, in «Journal of Business», 42, ottobre, 1962, pp. 385-400; F.M. Bass, A New
Product Growth Model for Consumer Durables, in «Management Science», 15, gennaio, 1969, pp. 215-217.
53
Buzzell, Competitive Behavior and Product Life Cycles, cit.

38
esame variasse dai 3 ai 10 anni54. Altre curve di CVP non evidenziano affatto la tipica forma a
S, ma mostrano piuttosto forme uniformemente crescenti, discendenti, piatte o, al contrario,
fortemente erratiche55. Addirittura, una o più fasi mostrate in figura 1.1 possono, a seconda del
prodotto, non trovare alcun riscontro nella realtà.

6.1.3. Definizione e misura dei volumi di vendita

Sono almeno cinque le questioni che esercitano qualche impatto sulla validità del modello di
CVP. La prima riguarda la definizione e la misurazione delle vendite56. Le imprese misurano
le vendite in vari modi: in termini di unità vendute, di valore complessivo, di valore complessivo
corretto in base all'inflazione o alla stagionalità, di vendite per regioni o territori, di vendite per
gruppi di consumatori, di vendite per unità di tempo, e così via. Nessuna regola univocamente
valida sembra indicare che una misura sia più accurata o migliore di un'altra in tutte le circostanze.
Eppure, i metodi di misurazione influiscono pesantemente sulla forma della curva del CVP. Fino a
quando ricerche più accurate non suggeriranno una modalità di misurazione superiore alle altre, il
migliore approccio possibile sembra consistere nell'esaminare le differenti alternative al fine di
valutarne le relative implicazioni. Le difficoltà finora riscontrate nel rilevare le curve di CVP di
taluni prodotti possono essere imputabili a misure improprie o imprecise.
In secondo luogo, le curve di CVP possono essere tracciate in base a differenti livelli di
aggregazione del prodotto. La tabella 1.1 illustra alcune possibili opzioni. I ricercatori possono
modellare i cicli di vita relativi a classi di prodotto generiche, classi di prodotto, forme di prodotto o
singole marche comprese all’interno di queste classi. Per esempio, si potrebbero tracciare le
curve relative alla vendita di bevande alcoliche o non alcoliche per valutare come i percorsi di
consumo di queste due classi di prodotto generiche si siano evoluti nel corso del tempo.
Al successivo livello di specificità, è possibile esaminare le vendite di una classe di prodotto
omogenea all'interno di una categoria generica. Una classe di prodotto omogenea include prodotti
percepiti come diretti sostituti gli uni degli altri. Alcune classi di prodotto omogenee nel segmento
delle bevande sono rappresentate da caffè, tè, bibite, acqua minerale o succhi di frutta. In parole
povere, quando la gente ha sete ciascuna di queste classi compete con le altre per la soddisfazione
del bisogno del consumatore, rendendo in questo modo possibile tracciare uno specifico CVP per
singola classe.
Le classi di prodotto omogenee, a loro volta, possono essere suddivise in forme di prodotto,
varianti di un prodotto omogeneo che soddisfano gli stessi bisogni generici oltre a esigenze più
specifiche. Per esempio, il bisogno di caffè è in parte stimolato dal generico bisogno di dissetarsi,
affiancato da una specifica preferenza del consumatore per il caffè dovuta a sue abitudini personali,
alla dipendenza fisiologica dalla caffeina o al particolare sapore del caffè. Le forme di prodotto per
il caffè includono, fra le altre, il caffè macinato, il caffè liofilizzato e il caffè liofilizzato
decaffeinato: è possibile tracciare un CVP per ciascuna forma di prodotto. Le curve così ottenute
potrebbero suggerire i momenti di svolta nelle tendenze di consumo e fornire nuovi elementi di
supporto al processo decisionale di marketing: in molti paesi, parallelamente ad una crescente
attenzione ai temi della salute, la richiesta di caffè /decaffeinato si è notevolmente accresciuta, po-
nendo la curva corrispondente nella fase di sviluppo e segnalando al management quanto attrattiva
sia la nuova componente di domanda.
Infine, ogni forma di prodotto è composta da marche concorrenti. La tabella 1.1 cita Brim
Istant, un caffè liofilizzato decaffeinato, come esempio di marca. In effetti, potremmo addirittura

54
M.T. Cummingham, The Application of Product Life Cycles to Corporate Strategy: Some Research Findings, in
«British Journal of Marketing», 33, primavera, 1969, pp. 32-44.
55
Cox, Product Life Cycles as Marketing Models, cit.; Buzzell, Competitive Behavior and Product Life Cycles,
cit.; Rink e Swan, Product Life Cycle Research, cit.
56
Si veda Wind, Product Policy, cit., per una discussione su alcune di tali questioni.

39
esaminare il CVP per i sottogruppi delle singole marche come le vendite di Brim Istant nel
Midwest degli Stati Uniti o gli acquisti di Brim Istant da parte di specifici gruppi etnici.

Tab. 6.1: Livelli di aggregazione delle vendite per il ciclo di vita del prodotto
Fenomeno da rappresentare
Classe di prodotto generica Classe di prodotto omogeea Forma di prodotto Marca
Bevande Caffè Caffè liofilizzato Bram Istant
Trasporto Automobili Macchine sportive Porsche
Istruzione e intrattenimento Musei Musei d’arte Louvre

La tabella 6.1 sembra suggerire che il concetto di CVP sia applicabile a differenti livelli di
aggregazione. Ma a quali di questi il concetto di CVP si adatta con maggiore precisione? Nonostante
la ricerca su questo tema sia in continua evoluzione, la forma di prodotto sembra costituire il livello
di aggregazione in grado di meglio adattarsi al modello del CVP. Le singole marche tendono a
fluttuare in modo troppo vistoso e le loro curve di CVP si discostano frequentemente dalla
forma ideale. In misura analoga, le classi di prodotto (sia omogenee che generiche) seguono spesso
strutture temporali più lunghe e sono soggette a influenze molteplici, rendendo difficile l'analisi.
Attualmente, sembra che il CVP rifletta in buona misura l'andamento delle vendite relativo alle
forme di prodotto. Per esempio, esso si applicherebbe meglio alle vendite di tagliaerba elettrici
che ai tagliaerba in generale, o al tagliaerba elettrico Craftman in particolare. Con l'approfondirsi
delle ricerche sul concetto di CVP non è escluso che in un prossimo futuro i ricercatori possano
scoprire che il CVP opera sia a livelli di analisi più ampi che a livelli più specifici di quelli
attualmente considerati57.

6.1.4. I tempi del CVP

Un'altra dimensione ad elevato impatto sul concetto di CVP è il tempo. Quanto dura ogni
singolo stadio? Come è possibile definire le grandezze caratteristiche di una fase? Da cosa
dipendono le variazioni nella durata di una fase, sia da un punto di vista longitudinale,che fra
prodotti differenti? Un modo per determinare la durata delle fasi è di tenere traccia delle
variazioni delle vendite nel tempo e in un secondo momento, quando si sia constatata l'avvenuta
transizione, sancire la conclusione di una fase e l'inizio della successiva. Sebbene questa procedura
presenti ampie componenti di soggettività, può comunque produrre risultati soddisfacenti
laddove i dati seguano, almeno approssimativamente, la consueta forma a S. In alternativa, i
ricercatori si sono sforzati di definire delle regole generalizzabili ad una classe relativamente ampia
di prodotti. Per esempio, un gruppo di ricercatori ha definito il passaggio dall'introduzione allo
sviluppo e dallo sviluppo alla maturità per 37 tipi di elettrodomestici mediante i seguenti criteri:
l'inizio della fase di sviluppo è indicato dal consecutivo verificarsi di due esercizi in cui si sia
riscontrato un tasso di crescita delle vendite pari o superiore al 5%; il passaggio alla maturità è
invece segnalato da un tasso di crescita delle vendite uguale o inferiore al tasso di aumento della
spesa complessiva destinata ad apparecchiature ad uso domestico58. Queste regole offrono il
vantaggio di essere chiare, mostrano una certa validità apparente e consentono un buon grado di

57
Un nuovo filone di ricerca a questo proposito è rappresentato dallo studio relativo a varie imprese nei settori
che producono beni industriali e di consumo e in altrisettori. Il lavoro preliminare con i dati Profit Impact of
Market Strategy (PIMS) mostra che il concetto di CVP può essere ampiamente generalizzato e interagisce in
modo prevedibile con la struttura di mercato, la performance e le variabili decisionali del marketing strategico. Si
veda, per esempio, H.B. Thorelli e S.C. Burnett, The Nature of Product Life Cycles for Industrial Goods Businesses,
in «Journal of Marketing», 45, autunno, 1981, pp. 76-80.
58
W. Qualls, R.W. Olshavsky e R.E. Michaels, Shortening of the PLC. An Empirical Test, in «Journal of Marketing»,
45, autunno, 1981, pp. 76-80.

40
verificabilità sul campo. D'altro canto, qualsiasi regola empirica è in qualche modo arbitraria.
Per esempio, i ricercatori citati hanno rilevato che per i 37 tipi di elettrodomestici analizzati
la durata della fase di introduzione variava da 0 a 18 anni e la durata della fase di sviluppo
oscillava invece dai 3 ai 44 anni 59. Se perfino il ciclo di vita di prodotti così simili fluttua
in modo talmente vistoso, non, sorprende constatare quanto sia difficile effettuare generalizzazioni
e previsioni sulla base della teoria del CVP. Esiste inoltre un altro problema: i ricercatori
hanno riscontrato forti difficoltà nel definire regole capaci di definire in modo realistico il
passaggio dalla maturità al declino e questo perché le vendite, prima di assumere un andamento
costante, presentano vistose oscillazioni (ovvero diminuiscono, quindi tornano ad aumentare e
in seguito diminuiscono ancora).
La ricerca sulla scansione temporale del CVP è tuttora in corso. Alcune evidenze empiriche
sembrano suggerire che, nel corso degli anni, le fasi di introduzione e di sviluppo per i nuovi
prodotti si siano accorciate.
Come mostra la tabella 6.2, il tempo che intercorre tra l'introduzione e la maturità è
diminuito da una media di 46,3 anni per gli elettrodomestici introdotti dal 1922 al 1942, a 26,5
anni per il periodo 1945-64, fino a meno di 9 anni per il periodo 1965-79. Oggi, il CVP di
alcuni elettrodomestici, tra cui i videoregistratori, è pressoché analogo mentre, per altri prodotti
elettronici come i videogame, si è ristretto notevolmente. L'accorciamento del CVP è molto
probabilmente dovuto ad un'accelerazione nel cambiamento della tecnologia, ad una
concorrenza più agguerrita e alla presenza di un consumatore più colto ed esigente.

Tab. 6.2: Durata media delle fasi di introduzione e di sviluppo per una serie di elettrodomestici
Durata stadio Durata stadio
Gruppi di prodotto
introduttivo (anni) sviluppo (anni)
12 elettrodomestici introdotti nel 1922-42 12,5 33,8
16 elettrodomestici introdotti nel 1945-64 7,0 19,5
9 elettrodomestici introdotti nel 1965-79 2,0 6,8

6.1.5. Percorsi di adozione dei consumatori

I percorsi di adozione che i consumatori presentano con riferimento agli acquisti di prova, ai
riacquisti e alle vendite totali influenzano a loro volta l'andamento del CVP. Alcuni prodotti,
come il dentifricio o la carta per fotocopiatrice, presentano una vita utile molto breve, generando
una sequenza di acquisti ripetuti da parte dei consumatori. Se si procedesse alla rilevazione
delle sole vendite totali si rischierebbe però di perdere di vista quelle dinamiche del
comportamento di consumo maggiormente in grado di riflettere le modalità in base alle quali
il mercato sta recependo il prodotto. La figura 6.2 evidenzia due curve di CVP relative a prodotti
simili per i quali si registrano vendite totali sostanzialmente identiche. Si osservi però come la
figura 1.2a presenti un'articolazione delle vendite totali, composte da acquisti di prova e riacquisti,
caratterizzata da un rapido incremento delle vendite di prova, seguite da una successiva stagnazione
ed infine da un declino; le vendite indotte da riacquisti presentano un identico andamento. Al
contrario, la figura 1.2b produce vendite totali quasi uguali, pur se i volumi di vendita relativi agli
acquisti di prova e ai riacquisti si differenziano considerevolmente. Nonostante le vendite di prova
per il caso b siano abbastanza buone, raggiungendo livelli più elevati rispetto al caso a, i riacquisti
molto scarsi impediscono al caso b di sorpassare le vendite del caso a.

59
Qualls, Olshavsky e Michaels, Shortening of the PLC, cit.

41
Fig. 6.1. Due percorsi tipici relativi ad acquisti di prova, riacquisti e vendite totali nel tempo
Se i manager si concentrassero solo sulle vendite totali giungerebbero certamente alla conclusione
che i prodotti a e b sono identici. Invece, come dimostrano le curve, il caso a non ha ricevuto una
buona accoglienza da parte del mercato, forse perché la pubblicità è insufficiente, oppure la
distribuzione è inadeguata. Nonostante generi eccezionali i volumi di acquisti di prova, il prodotto b
non soddisfa i consumatori in maniera sufficiente da generare un livello accettabile di riacquisti,
probabilmente perché disattende le aspettative create dalla pubblicità oppure perché i concorrenti
hanno realizzato prodotti con vantaggi differenziali superiori. Il punto fondamentale è che i
manager possono ottenere una migliore comprensione dell'andamento del CVP esaminando le
diverse componenti delle vendite totali. Si noti che le vendite di prova per il caso a e le vendite
totali per i casi a e b tendono a seguire la classica curva a S del CVP, mentre i riacquisti per il
caso b non mostrano la forma attesa; le curve possono essere rappresentate da equazioni per
spiegare e prevedere le vendite. Infine, si tenga presente che le curve relative agli acquisti di prova
e ai riacquisti possono incrociarsi tra loro nel corso del tempo.

6.1.6. Determinanti della curva del CVP

Il CVP descrive le vendite rispetto al tempo, senza tener conto delle determinanti della curva (per
esempio, le cause delle vendite). Questa lacuna può far pensare che lo sviluppo e il declino delle
vendite siano inevitabili, indipendentemente dalle azioni compiute dai manager; in realtà, il concetto
di CVP ignora le influenze sulle vendite di molti fattori che a loro volta possono essere influenzati
dalle decisioni dei manager.
Un esempio classico è il detersivo Tide di Procter & Gamble60. Introdotto nel 1947, questo prodotto
non ha assolutamente seguito la classica curva del CVP, al punto da poter essere ancora considerato
nella sua fase di sviluppo, dal momento che dopo più di cinque decenni non ha ancora raggiunto la
maturità. Da cosa dipendono queste insolite longevità e vitalità? Quali sono le cause della
redditività di Tide? Un dato può essere d'aiuto: Procter & Gamble ha apportato non meno di 55
modifiche al prodotto nel corso degli anni, e presumibilmente questi miglioramenti hanno
stimolato la richiesta dei consumatori in termini di acquisti di prova, di riacquisti e di
fidelizzazione. In breve, Procter & Gamble è stata capace di aggirare le forze che tendono a
riprodurre le condizioni tipiche del CVP attraverso una particolare attenzione verso i segmenti dei
consumatori e mediante opportuni cambiamenti del marketing mix.

60
Per una trattazione del caso Tide, si veda D.S. Hopkins, Business Strategies for Problem Products, New York, Conferente Board,
1977.

42
Fig. 6.3. Estensione
del CVP

Theodore Levitt ha definito questo fenomeno estensione del CVP da parte dell'impresa61. L'idea è
mostrata graficamente nella figura 1.3. Si introduce il prodotto al tempo zero, si assiste alla
crescita lungo la curva di CVP (I) fino a quando viene raggiunto il punto x. Nel caso i manager
effettuino unicamente cambiamenti minimi nel marketing mix, le vendite probabilmente potrebbero
appiattirsi e cominciare a declinare verso il punto A. La curva da 0 ad A rappresenta il percorso
atteso del CVP in condizioni di investimenti di marketing e pressioni competitive «normali».
Tuttavia, se al tempo x l'impresa riesce a scoprire un nuovo mercato geografico, proporre un
nuovo utilizzo del prodotto, o stimolare le vendite in qualche altra maniera (per esempio, attraverso
un totale restyling del prodotto, maggiori investimenti pubblicitari, tagli di prezzo, e così via),
potrebbe allungare la «vita» del prodotto lungo la curva II. Al tempo y, si presenta di nuovo la
possibilità di un declino verso B: i manager possono evitarlo ancora una volta sviluppando nuovi
mercati o nuovi programmi di marketing, determinando un aumento delle vendite lungo la curva III,
e così via. Quindi, lo sviluppo e il declino di un prodotto non sono eventi certi, almeno nel breve o
medio termine, e il management può in qualche modo influenzare la forma del CVP per i suoi beni.
Nonostante il CVP sia un concetto in qualche modo semplicistico, viene impiegato da numerose
imprese nella pianificazione strategica e nella formulazione del marketing mix, in quanto ritenuto
sufficientemente indicativo. Invece di seguire la forma teorica e le successioni presentate nella
figura 1.3, i manager dovrebbero sviluppare modelli più complessi per riuscire a rappresentare più
fedelmente la realtà. I ricercatori di marketing sono in grado di ottenere le informazioni relative al
CVP necessarie per lo sviluppo di alcune forme base; la ricerca potrebbe mettere a punto teorie
contingenti, ossia l'andamento della curva e la sua forma potrebbero dipendere da particolari gruppi
di consumatori, tecnologie o funzioni di prodotto, fattori geografici, e così via.

61
T. Levitt, Exploit tbe Produci Life Cycle, in «Harvard Business Review», novembre-dicembre, 1965, pp. 81-94.

43
Tab. 6.3. Risultati caratteristici delle fasi del CVP e conseguenti reazioni del management

6.2. Il CVP come strumento gestionale

La tabella 1.3 riassume le implicazioni più comuni derivanti dal concetto di CVP e le risposte
manageriali più adatte. Queste situazioni esemplificano il modello per un'ampia amma di
prodotti. Il CVP descrive le vendite, i profitti, cash flow, il target di consumatori e
l'ambiente competitivo caratteristici di ciascuna fase. La fase di maturità, per esempio, si
caratterizza per una crescita lenta o nulla nelle vendite, diminuzione dei profitti, cash flow elevati,
orientamento al mercato di massa o comunque ad un mercato allargato, e un'intensa concorrenza
tra imprese. La tabella mostra anche le tipiche risposte manageriali caratterizzanti ciascuna
occorrenza interna ad ogni fase del CVP. I manager devono adeguare il proprio obiettivo
strategico, le spese e gli sforzi di marketing, la distribuzione, le decisioni di prezzo e di prodotto
alle caratteristiche di ogni fase. Per esempio nella fase di sviluppo, la principale
preoccupazione del management è di penetrare il mercato e generare vendite: un'azione di
marketing ben riuscita, quindi, richiede in questo caso grossi investimenti (sebbene forse minori
di quelli necessari per il lancio del prodotto) finalizzati alla costruzione di una preferenza di
marea e a stimolarne la fidelizzazione. A seconda del prodotto e dei consumatori, questa fase
può anche richiedere una distribuzione intensiva attraverso il maggior numero di punti vendita
possibili; i manager potrebbero decidere di ridurre il prezzo per indurre all'acquisto anche
coloro che non sono attratti dal prodotto. Le imprese possono inoltre perfezionare i propri
prodotti per migliorarne la qualità.
Come illustrazione del concetto di gestione di un prodotto lungo il suo ciclo di vita, la tabella
1.4 mostra le variazioni nel marketing mix da parte dei manager durante l'intero ciclo di vita di
una marca di dentifricio. Nella fase d'introduzione (chiamata in questo caso «entrata»)
l'impresa cerca di raggiungere una posizione stabile sul mercato sottolineando la qualità del
prodotto e i suoi effettivi vantaggi sulla concorrenza. I programmi di pubblicità e di
promozione in un primo momento puntano a costruire la notorietà del prodotto stesso, in
seguito inducono all'acquisto; la forza di vendita compie particolari sforzi per convincere i
dettaglianti a referenziare la marca e a concederle il massimo spazio di scaffale; i manager fissano
il prezzo basandosi sui costi, a cui aggiungono un ammontare variabile che potrebbe
dipendere sia dalle vendite attese che da un determinato obiettivo di ritorno sugli investimenti.

44
Tab. 6.4. Strategie di ciclo di vita del prodotto per una marca di dentifricio

Con lo sviluppo del mercato e l'entrata di nuovi concorrenti, i manager spostano la loro
attenzione dalla penetrazione dei mercati al mantenimento della quota (la fase di
«mantenimento» nella tab. 6.4). Gli sforzi di ricerca sono mirati all'identificazione dei punti
deboli del prodotto per apportare i necessari miglioramenti; la pubblicità sottolinea i vantaggi del
prodotto per costruire la fedeltà di marca; i rappresentanti istituiscono un rapporto privilegiato con i
dettaglianti, solitamente attraverso la fornitura di maggiori servizi; i prezzi sono concorrenziali.
Al ristagno delle vendite che caratterizza la fase di proliferazione (cioè di maturità), l'impresa
risponde cercando nuovi mercati geografici o nuovi segmenti, ma questa strategia di solito si
rivela insufficiente, per cui si riconosce la necessità di cambiare il prodotto e introdurne una
versione «migliorata»: i brand manager possono cambiare le caratteristiche, la confezione, la
grandezza e così via, i pubblicitari si adattano di conseguenza, e gli agenti di vendita hanno il
compito di informare e convincere i dettaglianti ad acquistare le nuove versioni del prodotto
attraverso accordi sul prezzo e su specifiche promozioni.
Infine, arriva il declino, e i manager devono decidere se modificare il prodotto proponendo
un'offerta «nuova e migliorata» o introdurre un dentifricio interamente nuovo. Procter & Gamble,
per esempio, ha modificato in passato le marche Crest e Gleem, che sono diventate Crest Plus e
Gleem II; nel corso degli anni, Procter & Gamble ha anche introdotto nuovi gusti e nuovi
ingredienti per combattere tartaro, placca e gengivite.
I produttori possono essere tentati di riproporre lo stesso prodotto apportando modifiche soltanto
apparenti e aumentando la pubblicità e/o la promozione. Per esempio, sebbene fosse stato
introdotto come uno shampoo antiforfora, i consumatori dimostrarono fin da subito di
apprezzare Mead & Shoulders di Procter & Gamble, che divenne lo shampoo più venduto negli
Stati Uniti. Tuttavia, dopo poco tempo, Johnson's Baby Shampoo e altre marche entrarono nel
mercato e strapparono la leadership a Head & Shoulders; il declino di questa marca fu anche
dovuto all'impressione, espressa da molti consumatori, che il prodotto fosse piuttosto aggressivo sui
capelli, soprattutto a fronte di un utilizzo quotidiano. La ricerca di Procter & Gamble dimostrò
che il prodotto non era più aggressivo degli altri shampoo, così si cercò di replicare a queste
«false» caratteristiche che gli erano state attribuite attraverso un cambiamento nella comunicazione
pubblicitaria. In effetti, i nuovi spot evidenziavano come Head & Shoulders lasciasse i capelli
morbidi e pettinabili anche dopo lavaggi frequenti, ma la campagna pubblicitaria non riuscì a
riportare il prodotto al suo ruolo di leadership. Procter & Gamble condusse quindi ulteriori ricerche
sui consumatori da cui emerse che, nonostante la pubblicità affermasse il contrario, gli individui
percepivano ancora il prodotto come troppo aggressivo sui capelli a causa del suo profumo.
medicinale: le percezioni dei consumatori associavano l'aggressività (spesso inconsciamente) con il
profumo, e proprio per questo molti consumatori non acquistavano lo shampoo.
Per contrastare questo trend, Procter & Gamble cambiò il profumo del prodotto e ne lanciò una

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versione nuova e migliorata; il successo che ne è seguito nel corso degli anni può essere in parte
attribuito a questa decisione di cambiamento. Da questo esempio emerge come le imprese non
debbano affidarsi esclusivamente alla pubblicità, ma anche prendere in considerazione possibili
cambiamenti fisici nei propri prodotti. La ricerca sul comportamento del consumatore assume in
questo senso un ruolo strategico: gli individui acquistano i prodotti basandosi non tanto su criteri
oggettivi ma su valutazioni e giudizi soggettivi. Un'impresa che introduce sul mercato nuovi
prodotti deve studiare e comprendere la psicologia del consumatore e il suo legame con il prodotto,
con la concorrenza e con le altre forze socioeconomiche.

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Errata corrige del volume Castaldo S. (a cura di), Marketing e fiducia, Il Mulino, Bologna, 2009.

pag. 46, seconda riga: sostituire “factor anaysis” con “factor analysis”.

pag. 56, Fig. 2.2, sostituire:


“Potenziale di primo acquisto = Unità vendibili a nuovi potenziali acquirenti – Unità
vendibili a non-utilizzatori storici”
con
“Potenziale di primo acquisto = Unità vendibili a nuovi potenziali acquirenti + Unità
vendibili a non-utilizzatori storici”.

pag. 60, Tab. 2.5, terz’ultima riga: sostituire “357 (gap)” con “3,57 (gap)”.

pag. 66, ultima riga: sostituire “QM i t+1 = α (Qm i,t) + β (1-Qm i,t)”
con “Qm i, t+1 = α (Qm i,t) + β (1-Qm i,t)”

pag. 67, sostituire: “ Q me=tasso di attrazione ”


[(1 – tasso di fedeltà) + (tasso di attrazione)]

con “ Q me = tasso di attrazione ”


[(1 – tasso di fedeltà) + (tasso di attrazione)]

pag. 67, quadro 2.6, riga Daf: sostituire “1,4” con “11,4”

pag. 67, quadro 2.6, riga Altre: sostituire “7,8” con “4,8”

pag. 68, quadro 2.6: sostituire


“Poiché dalle ricerche condotte è noto che l’impresa in parola riesce a trattenere, in ogni
periodo, il 10% degli acquisti precedenti e che il tasso di attrazione si esercita sul
complemento a 100 della quota in ogni periodo (1-Qm i,t = 92,4%), è possibile stimare il
tasso di attrazione (9,7%):
QM Daf (t + 1) = (10% x 56,2%) + 9,7% (92,4%) = 5,62 + 8,98 = 14.6% »
con
“Poiché dalle ricerche condotte è noto che l’impresa in parola è riuscita a trattenere il
56,2% degli acquisti precedenti e che il tasso di attrazione si esercita sul complemento a
100 della quota in ogni periodo (1-Qm i,t = 92,4%), è possibile stimare il tasso di attrazione
(11,2%). Pertanto, ipotizzando che tali tassi si manterranno nei periodi fututi, la quota di
mercato tendenziale sarà:
QM Daf (t + 1) = (56,2% x 7,6%) + (11,2% x 92,4%) = 4,27% + 10,35 = 14.6%”

pag. 72, formula [23]: Acs i x n i Acs i x n i


ni ni Acs i x ni x N
Acs i = = = ni N Q
Q Q x N Q x N
N N

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pag. 74, quadro 2.7: sostituire “I a = (80 + 90 + 30) = 3,1” con “I a = (80 + 90 + 30) = 3,3”
60 60
pag. 74, sostituire:
“Esso viene calcolato come rapporto fra la sommatoria degli indici di copertura ponderata
relativi alle diverse varianti (modelli, colori, formati, gusti, ecc.) proposti dalla medesima
marca e il suo grado di copertura ponderata complessiva. In formule:
(CP1  CP 2  ...  CPn)
Iai 
CP
dove:
CP 1 … n corrisponde alla copertura ponderata di ogni variante della marca i;
CP indica la copertura ponderata totale della marca i”.
con
“Esso viene calcolato come rapporto fra la sommatoria degli indici di copertura numerica
relativi alle diverse varianti (modelli, colori, formati, gusti, ecc.) proposti dalla medesima
marca e il suo grado di copertura numerica complessiva. In formule:
(CN1  CN 2  ...  CNn)
Iai 
CN
dove:
CN 1 … n corrisponde alla copertura numerica di ogni variante della marca i;
CN indica la copertura numerica totale della marca i”.

pag. 74, Tab. 2.9


Sostituire “Copertura ponderata per SKU” con “Copertura numerica per SKU”

pag. 74, Quadro 2.7, terz’ultima riga


Sostituire “mentre la copertura ponderata della linea è del 60%” con “mentre la copertura
numerica della linea è del 60%”

pag. 213, formula: sostituire “ p = cv + CF ” con “ p = cv + CF ”


Q Q

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