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LA VITA

«Ille hic est Raphael, timuit quo sospite


vinci rerum magna parens et moriente mori»

(“Qui giace quel Raffaello, da cui, vivo, Madre Natura


temette di essere vinta e quando morì, [temette]
di morire [con lui]”).

Epitaffio sulla tomba di Raffaello nel Pantheon a Roma


F iglio del pittore e letterato Giovanni Santi e di Maria di Giovan
Battista Ciarla, Raffaello nasce il 6 aprile del 1483 a Urbino, uno dei
più importanti centri del Rinascimento italiano. Probabilmente
acquisisce i primi rudimenti artistici nella fiorente bottega paterna,
ma rimane presto orfano di madre (1491) e di padre (1494).
Secondo Giorgio Vasari (Le vite 1550 e 1568), il giovane compie
un alunnato presso Pietro Vannucchi detto il Perugino, rinomato
artista all’apice del suo successo. Nel 1499 Raffaello si trasferisce
a Città di Castello dove, a soli diciassette anni, riceve il suo primo
incarico da «magister», insieme a Evangelista di Pian di Meleto già
collaboratore di Giovanni Santi: la pala con l’Incoronazione del beato
Nicola da Tolentino vincitore di Satana (1500-1501). Nella cittadina
umbra, durante i successivi quattro anni, Raffaello compie i suoi
primi capolavori, come la cosiddetta Crocifissione Mond (Londra,
National Gallery) e lo Sposalizio della Vergine (Milano, Pinacoteca
di Brera). Il suo stile si distacca ormai da quello del Perugino per
avvicinarsi ai modi di Piero della Francesca e Leonardo.
Nel frattempo mantiene rapporti con Perugia e Urbino e compie viaggi
formativi (Firenze, Venezia, Padova, Roma, Orvieto). Nel 1502-1503
a Siena collabora con Bernardino di Betto detto il Pintoricchio nella In apertura:
Autoritratto (1506);
realizzazione degli affreschi per la Libreria Piccolomini nel duomo. Firenze, Gallerie
Dal 1504 al 1508 soggiorna e lavora fra Firenze, Perugia e degli Uffizi.

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Doppio ritratto
(Autoritratto
con un amico)
(1514-1515);
Parigi, Musée
du Louvre.

Urbino. La città toscana, dove da alcuni anni è stata instaurata


una Repubblica, offre un ambiente particolarmente stimolante
anche per la presenza concomitante di Michelangelo e Leonardo.
Il giovane artista aspira a importanti commissioni pubbliche, ma
sarà invece molto richiesto come pittore di dipinti destinati alle
dimore dell’alta borghesia fiorentina, in particolare Madonne e
ritratti. Fra i principali committenti sono i Nasi, i Canigiani, i Taddei.
Per Agnolo e Maddalena Doni, committenti anche di Michelangelo,
Raffaello compie i loro ritratti, fra le opere più celebri del soggiorno
fiorentino. Diversamente, per la corte di Urbino dipinge raffinati
quadretti di soggetto allegorico e celebrativo, mentre per Perugia

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esegue imponenti pale d’altare. Nel 1508 lascia incompiuta l’unica Studio per Psiche
pala d’altare commissionata per una chiesa fiorentina, la Madonna presenta a Venere
l’acqua dello Stige
del baldacchino  per l’altare Dei in Santo Spirito, e parte per Roma, (1518 circa);
chiamato da papa Giulio II per decorare le stanze dei suoi nuovi Parigi, Musée
du Louvre.
appartamenti. Negli stessi anni in cui Michelangelo dipinge la volta
nella Cappella Sistina, Raffaello lavora agli affreschi della stanza Scuola di Raffaello,
Psiche presenta
della Segnatura fino al 1511, affrescando la Disputa del Sacramento,
a Venere l’acqua
la Scuola d’Atene, il Parnaso, le Virtù. Prosegue con le decorazioni dello Stige
della stanza di Eliodoro, fra cui gli affreschi raffiguranti la Cacciata (1518 circa);
Roma, villa Farnesina,
di Eliodoro e la Messa di Bolsena  (1511-1514). Loggia di Psiche.
Intanto il banchiere senese Agostino Chigi gli commissiona alcuni
affreschi per la propria villa romana, la Farnesina (Trionfo di Galatea)
e per la cappella in Santa Maria della Pace. Nel 1512-1513 il Sanzio
compie opere che rinnovano profondamente la concezione della pala
d’altare: la Madonna di Foligno e soprattutto la Madonna Sistina.
Dopo la morte di Giulio II (1513), il nuovo papa Leone X Medici
affida a Raffaello molti incarichi, assolti dall’artista anche grazie
alla collaborazione di una valente equipe di collaboratori. Il Sanzio
comincia a interessarsi all’architettura. Lavora alla progettazione
della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a Roma, che
terminerà nel 1516. Alla morte di Donato Bramante (1514) ,

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Raffaello viene nominato architetto della basilica vaticana. Seguirà,
fra gli altri, il progetto, parzialmente realizzato, per villa Madama.
Nel frattempo assolve a numerose commissioni private. Tra il 1514
e il 1515 dipinge il Ritratto di Baldassarre Castiglione, la Madonna
della seggiola e l’Estasi di santa Cecilia. In questo periodo riceve
anche la nomina a sovrintendente agli scavi e alle antichità.
Per i palazzi vaticani, mentre procedono i lavori nelle Stanze ormai
delegati sempre più ai collaboratori, Raffaello realizza i cartoni per gli
arazzi destinati alla Cappella Sistina, affresca la Loggetta e la Stufetta
del cardinal Bibbiena, lavora alla decorazione delle Logge vaticane
avvalendosi di aiuti. Nel concepire queste ultime opere e gli affreschi nella
Loggia di Psiche alla Farnesina, Raffaello si confronta con grande libertà e
inventiva con le antichità romane, di cui era diventato “conservatore”.
Il 6 aprile 1520, a soli trentasette anni, Raffaello muore, all’apice della
sua fervida attività. Stava lavorando alla sua ultima grande opera:
la Trasfigurazione, commissionata dal cardinale Giulio de’ Medici.

Jean-Auguste-
Dominique Ingres,
Raffaello e la Fornarina
(1814); Cambridge,
Fogg Art Museum.

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I CAPOLAVORI

«Vi confesserò che a Firenze e a Roma,


nella prodigiosa varietà di capolavori che ho visto
è ancora la pittura di Raffaello […] in particolare,
dire l’emozione che ho provato davanti alla
Madonna della Seggiola.
Ero andato a vedere questo quadro per divertirmici:
ed ecco che mi trovo davanti alla pittura più libera,
più solida, più meravigliosamente semplice
e vivente che si possa immaginare, delle braccia,
delle gambe con la carne vera, e che toccante
espressione di tenerezza materna!»

Pierre-Auguste Renoir, in Ambroise Vollard, Renoir, Parigi 1920


Cristo benedicente
1502 - 1504 circa
Olio su tavola, 30x25 cm

Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

In questo dipinto di grande semplicità, caratterizzato da un forte spirito devozionale,


Cristo con grande tristezza mostra le piaghe della crocifissione mentre benedice.
Si tratta di un’opera di sintesi degli elementi che compongono la formazione
del Sanzio: infatti, risulta evidente la ripresa dei modelli desunti dall’opera di
Perugino, probabile maestro di Raffaello, ma si manifestano anche l’attenzione per
le atmosfere leonardesche e le suggestioni derivate dalla monumentalità e dalla
nitidezza luministica di Piero della Francesca. Un influsso fiammingo riecheggiante
la tradizione di Antonello da Messina, forse mediato da una possibile esperienza
veneta, sembra trapelare nella nitidissima stesura, carattere dello stile del Sanzio
poi particolarmente evidente alla fine del periodo influenzato da Perugino. Alcuni
studiosi, nell’atteggiamento del Cristo, con la testa inclinata e la mano alzata
vedono anche una ripresa del Bacco di Michelangelo, che Raffaello potrebbe aver
visto a Roma presso il banchiere Jacopo Galli, in un probabile viaggio formativo. 
Ardua la datazione di questo capolavoro giovanile, da collocare molto
vicino alla Pala Oddi ma già proiettato verso le idee figurative che Raffaello
svilupperà a Firenze, tappa decisiva della sua carriera artistica.

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I CAPOLAVORI | 23 |
Madonna e il Bambino in trono con i
santi Giovannino, Pietro, Caterina, Paolo,
Margherita; Padre eterno benedicente
fra due angeli (Pala Colonna)
1503-1505 (1504 circa attr.)
Olio su tavola, 172,4x172,4 cm la pala centrale, 74,9x180 cm la lunetta
-
New York, Metropolitan Museum of Art

La pala fu commissionata dalle suore del convento francescano di Sant’Antonio a


Perugia ed ebbe una lunga elaborazione, come dimostrano le differenze stilistiche
tra la lunetta che mantiene ancora vivo l’influsso peruginesco, e la tavola principale
che denota la frequentazione dell’ambiente fiorentino, in particolare l’influenza di Fra
Bartolomeo. Menzionata da Vasari nella biografia su Raffaello (edizione 1568 delle
Vite), la pala, con la predella originale ora smembrata, era appesa al centro del coro
poligonale della “chiesa interna” riservata alle suore, illuminata dalle finestre sulla
parete destra, come conferma la provenienza della luce nel dipinto. Opera di difficile
datazione, è l’unica a presentare un marcato influsso del Pintoricchio, con il quale
Raffaello collaborò negli affreschi della Libreria Piccolomini a Siena nel 1502-1503
circa. Il dipinto è noto come Pala Colonna dalla famiglia romana che nel 1678 entrò
in possesso della tavola centrale e della lunetta. Tale insieme fu poi ceduto al re di
Napoli e dopo altri passaggi fu acquistato da J. Pierpont Morgan, che lo lasciò nel
1916 al Metropolitan Museum di New York. Nel museo statunitense si conservano,
oltre alla tavola centrale e alla lunetta, anche un pannello della predella smembrata,
raffigurante l’Orazione nell’orto. Altri scomparti della medesima sono presso lo
Stewart Gardner Museum di Boston (Pietà), la National Gallery di Londra (Andata
al Calvario) e la Dulwich Picture Gallery di Londra (due pannelli raffiguranti San
Francesco e Sant’Antonio da Padova, in origine situati alle estremità della predella).

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I CAPOLAVORI | 25 |
San Michele uccide il demonio
San Giorgio e il drago
1503-1505 circa
Olio su tavola, 30,9x26,5 cm (San Michele), 31x27 cm (San Giorgio)
-
Parigi, Musée du Louvre

Si ritiene che le due tavolette, di identiche misure, costituissero gli sportelli di un


dittico. La scena in cui l’arcangelo Michele uccide il demonio nelle spoglie di un
drago è tratta dall’Apocalisse di san Giovanni: nel corso della lotta tra l’arcangelo
Michele e gli angeli ribelli il dragone viene abbattutto e precipita sulla terra.
Raffaello, con la vastità della sua cultura figurativa, arricchisce però la narrazione
con elementi diversi. Da una parte evoca motivi desunti dalla tradizione nordica,
come i mostri in secondo piano che ricordano i dipinti di Hieronymus Bosch
(‘s-Hertogenbosch 1453 –1516), dall’altra trae ispirazione dalla narrazione di alcuni
versi dell’Inferno di Dante, con la rappresentazione delle figure dei dannati sul
fondo. In particolare, gli ipocriti del Canto XXIII sarebbero qui raffigurati a sinistra,
incappucciati e in marcia, mentre a destra i bambini nudi, avvolti da serpenti
e uccelli neri, incarnerebbero i ladri (Canto XXIV). L’altra scena raffigura in un
sereno paesaggio san Giorgio che combatte il drago. L’opera potrebbe essere stata
commissionata da Giovanna Feltria della Rovere per celebrare due onorificenze
famigliari: l’Ordine francese di San Michele, conferito prima al marito Giovanni
della Rovere, prefetto di Roma, e quindi al figlio Francesco Maria (1503), e l’Ordine
inglese della Giarrettiera, attribuito già al padre Federico da Montefeltro e poi
al fratello Guidobaldo (1504), entrambi duchi di Urbino. Raffaello potrebbe aver
dipinto il dittico fra il 1503 e il 1505, quando era attivo fra Perugia e Urbino.

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I CAPOLAVORI | 27 |
Il sogno del cavaliere
Le tre Grazie
Il sogno del cavaliere Le tre Grazie
1504-1505 1504-1505
Olio su tavola, 17x17 cm Olio su tavola, 17x17 cm
- -
Londra, National Gallery Chantilly, Musée Condé

Le due tavolette, con dimensioni identiche e analogo significato, facevano


probabilmente parte di un dittico. Il tema del Sogno del cavaliere è tratto dal Somnium
Scipionis di Macrobio, giunto alla cultura umanistica attraverso la versione poetica
di Silio Italico ritrovata da Poggio Bracciolini nel 1417. Si tratta di un dipinto di
carattere moraleggiante e filosofico, adatto al raffinato ambiente culturale di inizio
Cinquecento. Il giovane addormentato, Scipione l’Africano, è posto di fronte a due
scelte di vita contrapposte: la strada impervia della Conoscenza e della Virtù,
rappresentata da Pallade, figura femminile a sinistra, e la strada dolce e seducente
del piacere, simboleggiata da Venere, a destra. La delicata raffigurazione delle
Tre Grazie s’ispira invece al celebre gruppo antico, noto in diverse varianti anche
all’epoca di Raffaello, con una delle tre giovani nude vista di spalle. Ciascuna ostenta
un pomo, ovvero l’immortalità, dono offerto al cavaliere virtuoso, se si accetta il
probabile significato del dipinto con il quale faceva coppia. Ignoto è il committente
del dittico, che nel 1650 era nella collezione Borghese a Roma. Forse il destinatario
fu il giovane Scipione di Tommaso Borghese, nato nel 1493. Un altro possibile
committente è Francesco Maria della Rovere, figlio di Giovanna Feltria, nel 1504
nominato erede del ducato di Urbino dallo zio Guidobaldo da Montefeltro e ritratto
dallo stesso Raffaello nel Giovane con pomo ora a Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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Sposalizio della Vergine
1504
Olio su tavola, 173,5x120,7 cm
-
Milano, Pinacoteca di Brera

Il dipinto fu commissionato dagli Albizzini per una cappella nella chiesa di San
Francesco a Città di Castello: la firma «RAPHAEL VRBINAS» e la data 1504 («MDIIII»)
sono visibili sopra l’arco centrale del tempio. L’opera rappresenta il momento di
massimo avvicinamento da parte di Raffaello ai modi del Perugino. Nello stesso
tempo il confronto con la pala peruginesca di analogo soggetto conservata in Francia,
al Musée des Beaux-Arts di Caen (1503), come pure l’affresco eseguito dal Perugino
nella Cappella Sistina con la Consegna delle chiavi – di vent’anni prima – permette di
evidenziare le differenze tra i due artisti. Il Sanzio ha un diverso modo d’intendere
la composizione e lo spazio. Più armoniosa è l’immagine dell’edificio, che diviene
punto d’incontro delle linee prospettiche della figurazione. Se nel Perugino figure
e architetture sono disposte per piani paralleli, in Raffaello i personaggi seguono
una disposizione semicircolare, che si armonizza con la centina della tavola, la
cupola e la serrata circolarità del tempio. L’edificio sacro raffigurato da Raffaello
si caratterizza per la sua modernità e ripropone tra l’altro la formula progettata
dal marchigiano Donato Bramante, attivo a Roma dal 1500, per i tempietti a pianta
centrale come quello romano di San Pietro in Montorio, realizzato intorno al 1502,
due anni prima di questo dipinto. Il restauro della pala di Brera, terminato nel
2009, ha rilevato una tecnica raffinata, con lievi velature negli incarnati, corpose
pennellate su panneggi e architetture, ricami d’oro e argento sugli abiti.

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Madonna del cardellino
1505-1506
Olio su tavola, 107x77 cm
-
Firenze, Gallerie degli Uffizi

Sullo sfondo di un sereno paesaggio che sfuma in lontananza, la Madonna siede


al centro della composizione, con un libro in mano che la identifica come “sedes
Sapientiae”. Il suo sguardo è rivolto a san Giovannino, che accarezza con dolcezza
sulla schiena, mentre Gesù, in piedi fra le sue ginocchia, vezzeggia il cardellino,
simbolo della Passione di Cristo, che gli porge Giovannino. La tavola, destinata
alla devozione privata, fu eseguita da Raffaello durante il soggiorno fiorentino,
in occasione delle nozze del mercante Lorenzo Nasi con Alessandra Canigiani. Il
dipinto si trovava ancora in casa Nasi nel 1547, quando fu danneggiato e ridotto in
diciassette pezzi per il crollo di un soffitto. La tavola fu ricomposta e recuperata
poco tempo dopo. Nel secolo successivo entrò nella collezione del cardinale
Carlo de’ Medici, nella quale è registrata nel 1666. Un recente intervento, dopo
nove anni di indagini e di restauro, ha consentito un sorprendente recupero della
superficie pittorica (2008), nella quale adesso si possono nuovamente distinguere
particolare insospettabili e raffinatissimi, come i fili d’erba e i fiori in primo piano.
La Madonna del cardellino, caratterizzata – come le altre Madonne dipinte
da Raffaello nel periodo fiorentino – da un impianto piramidale e dall’uso
del morbido sfumato, risente con evidenza dell’influsso di Leonardo. Inoltre
la composizione rivela stretti rapporti anche con la Madonna di Bruges di
Michelangelo, nella posa del Bambino tra le gambe della madre.

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Madonna col Bambino
(Madonna del granduca)
1506
Olio su tavola, 84x55 cm
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Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina

Il dipinto è così denominato perché fu acquistato alla fine del XVIII secolo da
Ferdinando III di Lorena, granduca di Toscana, su suggerimento dell’allora direttore
delle Gallerie degli Uffizi, Tommaso Puccini. Il granduca, da cui la tavola prende
il nome, amò talmente quest’opera da volerla sempre con sé, e sappiamo che nel
1799 se la fece addirittura spedire a Vienna, dov’era stato costretto a riparare a
seguito dell’invasione napoleonica (a Firenze sarebbe tornato solo nel 1814).
Tra le numerose tavole di Raffaello dedicate al tema, questa è senza dubbio
la più essenziale: rappresenta la Madonna in piedi, posta di tre quarti, con il
corpo leggermente ruotato a destra, mentre tiene il Bambino in braccio, che
a sua volta ha un movimento opposto, così da bilanciare la composizione.
Nella sobrietà dell’insieme, l’opera emana una religiosità semplice e tenera,
evidente nello sguardo dolce e sereno della giovane mamma e nel delicato
abbraccio del Bambino Gesù, che le poggia le manine sul petto e sulla spalla,
non solo a chiedere affetto, ma quasi a presagire un senso di protezione.
L’immagine si staglia su un fondo scuro. Viene talora ipotizzato che questo
fondo sia un’aggiunta di un intervento secentesco, ma l’indagine radiografica
ha dimostrato che dietro le due figure c’era in origine una finestra aperta su
un paesaggio, ed è possibile che si tratti di un pentimento di Raffaello, che poi
avrebbe lui stesso coperto col fondo scuro. Questa scoperta, insieme alle evidenti
reminiscenze leonardesche, consente di datare il dipinto intorno al 1506.

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Ritratto di Agnolo Doni
Ritratto di Maddalena Doni
1506 circa
Olio su tavola, 65x45,7 cm (Agnolo Doni), 65x45,8 cm (Maddalena Doni)
-
Firenze, Gallerie degli Uffizi

Nel 1504 Agnolo Doni sposò Maddalena, figlia di Giovanni Strozzi, e con la consorte
risiedeva nel palazzo di famiglia in corso dei Tintori a Firenze. Controversa è la
datazione dei due ritratti Doni, che stilisticamente paiono collocarsi nel 1506 in
prossimità della Madonna del cardellino e della Madonna del prato. Il ritratto di
Maddalena Doni rivela sensibili analogie con la Gioconda di Leonardo, in particolare
per la posa. L’indagine radiografica suggerisce che in un primo tempo Raffaello
aveva pensato di ambientare la composizione in un interno, aperto sul paesaggio
mediante una finestra. A differenza dei ritratti leonardeschi, più intimi, il dipinto
del Sanzio ha un’impronta più distaccata, tesa a ribadire lo status sociale della
gentildonna, che indossa abiti all’ultima moda realizzati con stoffe pregiate
e preziosi gioielli. Ispirandosi ai Ritratti di Federico da Montefeltro e Battista
Sforza compiuti da Piero della Francesca alla corte di Urbino, i due ritratti Doni
dovevano costituire un dittico e l’unità della loro concezione è sottolineata anche
dalla medesima fonte di luce. Nei pannelli del Sanzio è superata la rigidezza
e l’arcaicità del ritratto di profilo pierfrancescano, a favore di una più libera e
naturale impostazione spaziale, che deriva dai modelli fiamminghi e fiorentini, in
particolare leonardeschi, conosciuti da Raffaello in questi anni. Mercante facoltoso,
Agnolo era anche un aggiornato cultore d’arte e un raffinato collezionista e
commissionò a Michelangelo, verso il 1507, il dipinto raffigurante la Sacra famiglia
con san Giovannino meglio noto come Tondo Doni, oggi conservato agli Uffizi.

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Ritratto di donna con liocorno
(Dama con il liocorno)
1506 circa
Olio su tavola trasportata su tela, 65x51 cm
-
Roma, Galleria Borghese

Il bellissimo ritratto fu eseguito da Raffaello nel periodo fiorentino, come dimostra


l’affinità stilistica e di impianto con i due ritratti dei coniugi Doni ora conservati a
palazzo Pitti. Non si possiedono dati per arrivare all’identificazione della gentildonna
ritratta (un tempo si era proposto di identificarla con Maddalena Strozzi, moglie di
Agnolo Doni, ma la sua fisionomia non corrisponde a quella del ritratto fiorentino che
sicuramente la raffigura). La presenza del liocorno (o unicorno), l’animale fantastico
con un corno d’avorio sulla fronte fa pensare a una committenza in occasione delle
nozze o del fidanzamento della giovane ritratta. Secondo la mitologia, tramandata
attraverso i bestiari medievali, il liocorno era simbolo di castità, perché si riteneva
che solo una vergine avrebbe potuto addomesticarlo. La giovane donna bionda, con gli
occhi azzuri e i tratti delicati, siede contro un parapetto, sullo sfondo di un paesaggio
inquadrato da due colonne. Una storia curiosa interessa questo dipinto. Per secoli,
a causa della ridipintura di una ruota dentata che copriva il liocorno (effettuata per
il cattivo stato dell’opera), il personaggio effigiato fu identificato con santa Caterina
d’Alessandria e l’opera venne attribuita al Perugino. Nel 1935, tuttavia, una radiografia
ha consentito di scoprire la presenza dell’animale al posto dell’attributo della santa.
Una volta restaurata, la tavola ha rivelato l’inconfondibile mano di Raffaello. Le
indagini radiografiche hanno anche appurato che in origine, al posto dell’unicorno,
la giovane teneva fra le braccia un cagnolino, simbolo di fedeltà coniugale.

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Sacra famiglia con i santi Giovannino
e Elisabetta (Sacra famiglia Canigiani)
1507-1508
Olio su tavola, 131x107 cm
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Monaco, Alte Pinakothek

Firmata «RAPHAEL VRBINAS» sulla fettuccia dorata che orna lo scollo del
vestito della Madonna, la tavola ha un’inconfondibile composizione a
piramide: al centro, in piedi, san Giuseppe appoggiato al suo bastone; alla
sua destra, inginocchiata, l’anziana Elisabetta che a lui rivolge lo sguardo.
La santa è raffigurata nella posa naturale e verosimile della madre che tiene
fra le ginocchia il figlio, ovvero san Giovannino, per farlo giocare. Dall’altro
lato sta Maria, seduta anch’essa sul prato con Gesù, che s’intrattiene con
Giovannino, in un realistico scambio di sguardi e giocosi ammiccamenti.
La tavola è ricordata nella casa della famiglia fiorentina dei Canigiani da Giorgio
Vasari (1568). Con ogni probabilità era stata commissionata a Raffaello da Domenico
Canigiani, in occasione delle proprie nozze, avvenute nel 1507 a ventuno anni appena
compiuti, con Lucrezia Frescobaldi. Canigiani, vicino alla famiglia Medici, ebbe poi
un ruolo diplomatico e politico di spicco nella storia fiorentina, con alterne vicende, e
morì nel 1548. Dunque la tavola si data tra il 1507 e il 1508, in un momento prossimo
alla Pala Baglioni. La struttura compositiva piramidale è ripresa dai dipinti di
Leonardo, ma si complica nell’intreccio delle figure, degli sguardi e dei moti affettivi.
Nelle figure del san Giuseppe e di sant’Anna sono evidenti motivi michelangioleschi. 
Entrato a far parte delle collezioni medicee, il quadro fu portato in Germania da
Anna Maria Luisa de’ Medici andata in sposa dell’Elettore del Palatinato. Gli angeli
in alto fra le nubi sono stati rinvenuti in occasione di un recente restauro.

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Trasporto di Cristo al sepolcro
(Pala Baglioni)
1507-1509
Olio su tavola, 184x176 cm
-
Roma, Galleria Borghese

In basso a sinistra si legge la firma «RAPHAEL VRBINAS» e la data


«M.D.VII», che indica presumibilmente l’epoca dell’incarico del dipinto.
Committente fu la nobildonna perugina Atalanta Baglioni, in memoria
del figlio Grifonetto morto sette anni prima, assassinato.
Secondo la tradizione, Grifonetto sarebbe effigiato nel giovane
trasportatore sulla destra, la cui fisionomia risulta ben diversa da
quella fissata dall’artista nello studio preparatorio oggi agli Uffizi.
Stilisticamente la tavola rivela l’influsso della pittura di Michelangelo, in particolare
del Tondo Doni, evidente nella figura femminile che sorregge la Vergine svenuta
che ripropone la posa avvitata della Madonna del tondo michelangiolesco.
La tavola fu collocata nella cappella Baglioni in San Francesco al Prato a Perugia,
dove rimase fino al 1608, quando il cardinale Scipione Borghese la fece prelevare
perché la voleva nella sua raccolta. In origine il dipinto era sormontato da una cimasa
con il Padre Eterno benedicente (ora a Perugia, Galleria nazionale dell’Umbria),
probabilmente eseguita da Domenico Alfani, collaboratore del Sanzio che nel 1508-
1509 risulta incaricato di riscuotere il compenso per conto del maestro, come
testimoniato in una scritta posta sul verso di un disegno dell’urbinate (Lille, Musée
Wicar). La predella con le Virtù teologali si trova oggi nella Pinacoteca vaticana.

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I CAPOLAVORI | 43 |
Madonna col Bambino in trono,
i santi Pietro, Bernardo, Jacopo
e Agostino, e angeli
(Madonna del baldacchino o Pala Dei)
entro il 1508
Olio su tavola, 276x224 cm
-
Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina

La pala fu commissionata a Raffaello dalla famiglia Dei per la propria cappella nella
basilica di Santo Spirito a Firenze, nell’ultimo periodo del suo soggiorno fiorentino.
Prima opera a carattere sacro richiesta al pittore a Firenze, rimase incompiuta nel 1508,
a causa della partenza di Raffaello per Roma, chiamatovi da papa Giulio II della Rovere,
zio di Francesco Maria della Rovere, all’epoca prefetto di Roma. Gli Dei dovettero allora
rivolgersi al Rosso Fiorentino per decorare la cappella, mentre la pala di Raffaello fu
poi acquistata da Baldassarre Turini, amico ed esecutore testamentario del Sanzio,
per la sua cappella nel duomo di Pescia. Qui l’opera di Raffaello risulta almeno dal
1550, ma nel 1697 fu fatta rimuovere dal gran principe Ferdinando de’ Medici, raffinato
collezionista, che la volle a Firenze nella propria quadreria granducale in palazzo
Pitti. Il gran principe la fece restaurare e completare da Niccolò e Agostino Cassana.
I due fratelli aggiunsero la striscia superiore in modo da armonizzare le dimensioni
con un dipinto di Fra Bartolomeo al quale doveva essere accostato in quadreria.
Composizione molto complessa, la pala reinterpreta in termini moderni le pale
d’altare del tardo Quattrocento veneto e la Sacra conversazione di Piero della
Francesca, oggi a Milano, Pinacoteca di Brera. La Madonna del baldacchino
presenta un impianto monumentale che influenzò Fra Bartolomeo, domenicano
del convento di San Marco e allora pittore affermato, come testimonia il
suo Matrimonio mistico di santa Caterina (Parigi, Louvre, datato 1511).

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I CAPOLAVORI | 45 |
Scuola di Atene
1509-1511
Affresco
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Città del Vaticano, Musei Vaticani, stanza della Segnatura

Giunto alla fine del 1508 a Roma, Raffaello, divenuto pittore di corte di Leone X,
è incaricato di decorare le stanze al piano superiore degli appartamenti vaticani.
Gli ambienti designati dal papa dovevano distinguersi da quelli nei quali aveva
abitato lo «sciagurato» papa Alessandro VI Borgia. Mentre Michelangelo lavorava
alla Sistina, gli artisti già attivi in quelle stanze (come Perugino e Lorenzo Lotto)
furono licenziati per dare ampia scelta a Raffaello, che all’inizio del 1509 cominciò
a esser pagato. La prima stanza alla quale mise mano era destinata alla biblioteca
del papa, poi nota come della Segnatura perché divenuta sede del Tribunale dove
papa firmava i documenti. L’affresco omaggia filosofi, astronomi, matematici della
Grecia antica, disposti su vari piani e concatenati fra loro in un ritmo equilibrato.
Fra loro spiccano Pitagora, Eraclito (con il volto di Michelangelo), Platone (con
quello di Leonardo), Aristotele, ciascuno con i loro attributi. All’estrema destra,
di profilo, il giovane Raffaello. L’intero ciclo della stanza alludeva alle categorie
dello spirito umano, il Bene, il Vero, il Bello, e la Scuola di Atene ne rappresenta
la verità razionale, a confermare la natura filosofica dell’arte della pittura. La
grandiosa scenografia anticheggiante, con finti rilievi e statue, verso il fondo mostra
un ambiente a pianta circolare e ancora oltre, un arco che fa intravedere il cielo
con nuvole. Molti dettagli derivano da idee concepite in quegli anni da Bramante,
amico e rivale, che pare avesse disegnato per lui la prospettiva della scena.

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Trionfo di Galatea
1511
Affresco, 295x225 cm
-
Roma, villa Farnesina

La villa suburbana del senese Agostino Chigi, banchiere del pontefice, in prossimità
del Tevere, fu una delle più raffinate dell’epoca. Ideata da Baldassarre Peruzzi
attorno al 1509, è nota col nome di Farnesina, dalla famiglia Farnese che in seguito
l’acquistò. Raffaello vi contribuì con questo affresco al piano terra, in un ambiente
un tempo aperto sul giardino. Il trionfo di Galatea – una delle cinquanta nereidi, le
ninfe del mare figlie di Nereo e di Doride – è un soggetto mitologico desunto da una
favola tramandata da Teocrito e Ovidio, ripresa nel tardo Quattrocento dall’umanista
fiorentino Agnolo Poliziano nei celebri versi della sua Giostra. Il dipinto di Raffaello
si completa, sulla medesima parete, con un affresco di Sebastiano del Piombo, che
vi raffigurò Polifemo, infelicemente innamorato della nereide e geloso del bellissimo
Aci, amato dalla fanciulla. Della tragedia amorosa non trapela niente nella radiosa
e classica raffigurazione raffaellesca della ninfa che, tra le altre creature marine,
cavalca le onde su un cocchio a forma di conchiglia, trainato da due delfini guidati dal
fanciullo Palemone. In alto, tre amorini scagliano frecce sulla giovane. Volta verso
l’alto in una posa attorta a spirale, Galatea diventa la personificazione neoplatonica
dell’amore spirituale in contrapposizione all’amore carnale dei tritoni e delle ninfe
che la circondano, fra i quali, quasi in primo piano, spicca una coppia abbracciata.

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Liberazione di san Pietro dal carcere
1514 circa
Affresco, base 660 cm
-
Città del Vaticano, Musei Vaticani, stanza di Eliodoro

L’affresco è datato sull’architrave della finestra «LEO X PONT MAX ANN CHRIST
MDXIIII PONTIFICAT SUI II» e fu dunque terminato, giusta l’iscrizione, quando papa
Giulio II era già morto e gli era succeduto papa Leone X. La stupefacente lunetta,
che Raffaello eseguì su un preesistente affresco di Piero della Francesca, raffigura
san Pietro, principe degli apostoli, primo papa e titolare della basilica vaticana,
imprigionato a Gerusalemme e poi liberato dal carcere grazie a un angelo che gli
appare in sogno. L’opera, ispirata agli Atti degli apostoli, si trova nella stanza che
trae il nome dall’affresco con la Cacciata di Eliodoro, ed è la seconda, dopo quella
della Segnatura, nella quale lavorò Raffaello a partire dal 1511. Era questa la sala
delle Udienze, e in questo caso fu scelta una decorazione apertamente politica, certo
in accordo col papa, per sottolineare l’autorità divina della Chiesa. Anche i toni della
composizione risultano più narrativi rispetto agli affreschi della sala precedente.
Nella scena di san Pietro in carcere, la cui figura attestava, secondo gli esperti di
diritto canonico, la legittimità politica del papa, Raffaello sfrutta magistralmente
l’apertura della finestra: in una cella che pare quasi sospesa sopra la finestra
reale, il santo appare illuminato dalla luce divina dell’angelo situato a destra,
mentre a sinistra i soldati rishiarati dalle fiaccole dormono sotto una pallida luna.
Contribuisce a un intenso senso atmosferico l’illuminazione naturale della finestra.

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Madonna col Bambino e san Giovannino
(Madonna della seggiola)
1513-1514 circa
Olio su tavola, diametro 71 cm
-
Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina

L’opera è tra le più conosciute e riprodotte della storia dell’arte, emblema


del tenero rapporto simbiotico fra madre e figlio. La composizione
serratissima asseconda la circolarità della tavola, attraverso l’inclinarsi
della testa della Vergine, l’andamento curvilineo del braccio e il
sovrapporsi dei piedini del Bambino. La scena affascina soprattutto per la
semplicità e per il senso di intimità e quotidianità da cui è caratterizzata:
la Vergine è raffigurata in vesti domestiche, per quanto raffinate, con
un asciugatoio che le avvolge il capo e uno scialle verde sulle spalle.
Siede sulla cosiddetta sedia camerale, destinata ai membri più alti
della corte papale. L’umanissimo riferimento alla maternità con ogni
probabilità nasconde un significato più alto e allude all’identificazione
tra Madre e Chiesa. Il dipinto presenta diverse analogie con la Madonna
della tenda, ora a Monaco, Alte Pinakothek, che pure si distingue da
questa per la dimensione rettangolare della tavola. Risulta ancora
ignoto il committente dell’opera (si è perfino ipotizzato trattarsi di papa
Leone X), ma le vicende successive alla sua esecuzione sono piuttosto
movimentate: almeno dal 1589 nella Tribuna degli Uffizi, a palazzo Pitti
dagli inizi del Settecento, la tavola fu trafugata dai francesi nel 1799 e
restituita nel 1815. Secondo la falsa notizia diffusa agli inizi del XIX secolo
dallo scrittore romantico tedesco Von Houwald la tavola sarebbe stata
dipinta sul coperchio di una botte e avrebbe ritratto la figlia di un vinaio.

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I CAPOLAVORI | 53 |
Estasi di santa Cecilia, fra i santi Paolo,
Giovanni evangelista, Agostino
e Maria Maddalena
1515-1517 circa
Olio su tavola trasportato su tela, 236x149 cm
-
Bologna, Pinacoteca nazionale

La pala fu dipinta per la cappella di Elena Duglioli dall’Olio per la chiesa


di San Giovanni in Monte Uliveto a Bologna, che l’aveva richiesta nel 1514.
Trafugata dalle truppe napoleoniche nel 1798, fu trasferita su tela e restituita
alla città di Bologna nel 1815. Secondo la biografia di Giorgio Vasari l’opera
fu commissionata a Raffaello per il tramite di Antonio di Alessandro Pucci,
sottodecano fiorentino al servizio di Leone X, e poi, nel 1531, nominato
cardinale da Clemente VII. Vasari racconta anche che i numerosi strumenti
musicali raffigurati nella grande pala furono dipinti da Giovanni da Udine.
Raffaello qui si fa interprete di un tema iconografico che avrà larga fortuna nel secolo
successivo: l’estasi, ossia l’“effetto” che il contatto con il divino provoca nell’animo del
santo. Nel dipinto cinque santi interiorizzano la propria esperienza mistica, ciascuno
secondo il proprio carattere: oltre a santa Cecilia al centro, vediamo raffigurati i
santi Paolo, Giovanni evangelista, Agostino e Maria Maddalena. Solo Cecilia volge lo
sguardo al coro angelico apparso in alto in cielo: incantata dalla melodia celestiale,
la santa, che era musicista, si rende conto dell’inutilità della musica terrena e getta
a terra i propri strumenti musicali. Questi vanno a costituire una natura morta in
primo piano di straordinaria efficacia. Del tutto attendibile la notizia di Vasari, che
attribuì questi dettagli alla mano di Giovanni da Udine, entrato nella bottega romana
di Raffaello nel 1514, che sappiamo specialista in questo genere di soggetti.

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Ritratto di Leone X con i cardinali
Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi
1518
Olio su tavola, 155,2x118,9 cm
-
Firenze, palazzo PItti, Galleria palatina

Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico e appassionato mecenate e collezionista,


si è fatto ritrarre seduto di fronte a un pregiato codice miniato, in procinto di
ammirare con una lente, e un campanello cesellato sul tavolo. Sulla base di
indagini diagnostiche risulta che le figure dei cardinali Giulio de’ Medici e Luigi
de’ Rossi furono inserite in un secondo momento, alle spalle del pontefice. Dopo
tale modifica l’opera fu inviata a Firenze per rappresentare il pontefice che non
poteva intervenire alle nozze del nipote Lorenzo de’ Medici con Maddalena de
la Tour d’Auvergne, celebrate l’8 settembre del 1518. Si tratta di un capolavoro
di virtuosismo tecnico: basta osservare la minuzia alla fiamminga con la quale
Raffaello ritrae le miniature nel libro, il campanello, la lente, gli effetti serici delle
vesti e il pomello di metallo della sedia, sul quale si riflette una finestra. Ma il Sanzio
dimostra anche una straordinaria capacità d’introspezione psicologica, ritraendo
il pontefice, assorto e sfuggente, nel momento in cui sospende l’osservazione del
codice. Il dipinto, che alla fine del secolo scorso è stato oggetto di indagini tecniche
e di un accurato restauro che ha riportato allo splendore i colori quasi smaltati
dell’opera, è stato analizzato in ogni minimo dettaglio. Si è così appurato che il
campanello reca lo stemma mediceo del papa e che il sontuoso codice miniato è la
cosiddetta Bibbia Hamilton, un codice medievale d’origine napoletana acquistato
nel XVIII secolo da sir Alexander Hamilton, e ora a Berlino, Kupferstichkabinett.

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Trasfigurazione
1515-1520 circa
Tempera grassa su tavola trasportata su tela, 405x278 cm
-
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca

La grande pala raffigura in alto l’episodio di Cristo sul monte Tabor, così come
narrato nei Vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca. Gesù, affiancato in cielo dai
profeti Elia e Mosè, si trasfigura sotto gli occhi dei discepoli, sorpresi e abbagliati
dalla luce divina. In basso gli apostoli sono alle prese con un giovane indemoniato
che viene sorretto dai parenti che implorano aiuto. Le figure monumentali in primo
piano fanno da contrappunto drammatico alla scena altrettanto spettacolare della
trasfigurazione. Movimentate le vicende del grande dipinto, lasciato incompiuto
da Raffaello alla morte (6 aprile 1520). La pala gli era stata richiesta nel 1515 dal
cardinale Giulio de’ Medici, poi papa Clemente VII, per inviarla alla cattedrale di
Narbona in Francia, chiesa episcopale della quale era titolare. Il cardinale pensò
a una gara, e commissionò a Sebastiano del Piombo un dipinto per un diverso
altare della stessa chiesa. Sappiamo da varie testimonianze, come una lettera
di Michelangelo, che Raffaello non prese bene questa competizione. Inoltre, la
corte papale era all’epoca indispettita per il largo contributo di collaboratori alle
imprese del maestro. Tuttavia, in questo caso Raffaello si accollò interamente
l’impegno. La morte improvvisa lo colse quando aveva quasi terminato la parte
superiore e solo accennato l’inferiore. L’opera fu collocata accanto al suo feretro
e poi terminata da Giulio Romano e altri artisti. Dopo vari passaggi, fu trafugata
dai francesi nel 1797, ripulita malamente e restituita al Vaticano nel 1815.

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Sogni
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