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Guerra Civile Spagnola
Guerra Civile Spagnola
Indice
Contesto storico
La nascita della Seconda Repubblica
Il biennio repubblicano
Il biennio nero
Le nuove elezioni del 1936
Il colpo di Stato
La situazione politico-militare dopo il golpe
Repressione e violenze
Il ruolo delle altre potenze
Le Brigate internazionali e gli intellettuali
Le operazioni militari
Agosto-ottobre 1936: l'avanzata su Madrid e la campagna di Guipúzcoa
Novembre 1936-marzo 1937: la battaglia per Madrid
Marzo-novembre 1937: la campagna del Nord e le battaglie di Brunete e Belchite
Dicembre 1937-novembre 1938: le battaglie di Teruel e dell'Ebro
Dicembre 1938-marzo 1939: l'offensiva contro la Catalogna
Marzo 1939: la caduta della Repubblica
La nascita del Nuevo Estado
I primi anni del regime
La repressione nazionalista
Analisi e conseguenze
Cause della sconfitta della Repubblica
L'esodo dei repubblicani
La resistenza antifranchista
Il numero dei caduti
Note
Esplicative
Bibliografiche
Bibliografia
Voci correlate
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Contesto storico
La guerra civile ha radici molto lontane nella storia di Spagna. Quello del 1936-39 fu il quarto conflitto
intestino in cento anni, e in questo periodo sul territorio spagnolo andarono a definirsi ragioni strutturali,
sociali e politiche che con un processo graduale portarono a una divisione in due blocchi sociali
grossolanamente antagonisti[8].
La guerra civile rappresentò il culmine di una serie intermittente di lotte fra le forze riformiste e quelle
reazionarie che avevano caratterizzato la scena spagnola dal 1808, anno in cui ci fu una prima rivolta
spontanea a causa dell'occupazione francese, repressa nel sangue da Gioacchino Murat con l'appoggio
dell'aristocrazia spagnola che si era rapidamente schierata a fianco dell'occupante[9]. Per lunghi periodi le
forze reazionarie utilizzarono il potere politico e militare per soffocare il progresso sociale, ai quali
seguirono inevitabilmente moti di carattere rivoluzionario. A più riprese la Spagna aveva tentato di
adeguare la realtà politica alla realtà sociale, introducendo riforme radicali, specie in campo agrario, e una
diversa distribuzione della ricchezza. Ogni volta la reazione rispose cercando di rimettere indietro l'orologio
e ristabilire i tradizionali equilibri di potere sociale ed economico. I vari movimenti riformisti finirono tutti
soffocati: quello del 1856 dal generale Leopoldo O'Donnell; quello del 1874 dal generale Manuel Pavía,
che rovesciò la Prima Repubblica nata meno di due anni prima a seguito dell'abdicazione di Amedeo I di
Spagna per restaurare il trono dei Borbone con il re Alfonso XII; e quello del 1923 dal generale Miguel
Primo de Rivera[10].
La costituzione scritta nel 1874 dal conservatore Antonio Cánovas del Castillo - che rimase in vigore fino al
1931 - legittimava di fatto la repressione dei latifondisti nei confronti dei braccianti e dei contadini, i quali
erano costretti a votare quello che il padrone comandava. Il braccio armato dei latifondisti erano dei
caporioni politici, i caciques, i quali oltre a falsare le votazioni, sguinzagliavano bande armate nelle
campagne per soggiogare i contadini[11] La corruzione politica ed economica imperversava in tutto il paese,
i tribunali erano corrotti fino alle preture di villaggio, e nessun povero poteva sperare di avere giustizia,
mentre le deboli classi mercantili e manifatturiere, e gli industriali del nord, non avevano assolutamente la
forza di intaccare il monopolio politico dell'oligarchia agraria.[12][13] Nel frattempo la Spagna proseguì
arrancando, diventando sempre più povera, senza conoscere la rivoluzione borghese classica che altrove
frantumò le strutture dell'ancien régime: il potere della monarchia, dell'aristocrazia terriera e della chiesa
rimase quasi intatto fino agli anni trenta. Il 14 aprile 1931, quando fra scene di giubilo si insediò la Seconda
Repubblica spagnola, ben pochi spagnoli - tolte le frange estreme di destra e sinistra, i cospiratori
monarchici e gli anarchici - pensavano che l'unica soluzione ai problemi potesse essere la violenza[8].
In quel momento anarchismo e socialismo acquisivano sempre più influenza tra la popolazione urbana e
agraria; l'UGT e il CNT salirono rispettivamente a 160.000 e 700.000 iscritti nel 1919, mentre il piccolo
partito socialista, il Partido Socialista Obrero Español (PSOE), salì a 42.000 iscritti[18]. Solo i piccoli
possidenti non si erano ancora apertamente schierati, ma il loro partito rappresentante, il gruppo cristiano-
sociale che univa le piccole Federazioni cattoliche delle campagne, la Asociación Católica Nacional de
Propagantistas (ACNP) di Ángel Herrera Oria, grazie a finanziamenti dei ricchi agrari contribuì a non far
cadere tra le braccia del socialismo i piccoli proprietari terrieri, spingendoli lentamente nella coalizione delle
forze conservatrici[19].
Per quanto gli agrari riuscirono a mantenere lo status quo, il triennio 1918-1921 fu contraddistinto da molti
disordini, con sollevazioni operaie organizzate soprattutto dagli anarchici, in Andalusia e Barcellona. Re
Alfonso XIII (salito al trono nel 1902) per placare i disordini autorizzò violente rappresaglie contro i
sindacati, e la spirale di violenza che ne scaturì portò all'uccisione di 21 sindacalisti e di Eduardo Dato nel
marzo 1921. Nel luglio successivo inoltre si aprì una grave crisi interna quando l'esercito spagnolo subì una
pesante sconfitta in Marocco[20]. Il 20 luglio dello stesso anno il generale Manuel Fernández Silvestre subì
un'imboscata ad Annual da parte di tribù marocchine comandate da Abd el-Krim, perdendo circa 14 000
uomini. In Spagna la reazione fu aspra: venne incaricata una commissione d'inchiesta ma il nuovo capitano-
generale della Catalogna, Miguel Primo de Rivera, il 23 settembre 1923 fece un pronunciamento
nominandosi dittatore, con Alfonso XIII che assecondò il golpe e venne nominato capo dello Stato. Il
generale proclamò subito lo stato di guerra per reprimere sul nascere ogni sciopero o disordine, e in quanto
connivente con i magnati dell'industria tessile catalana e figlio di agrari del sud, mise fuori legge il
movimento anarchico e strinse un patto con la UGT, cui concesse il monopolio sindacale. Primo de Rivera
avviò subito un massiccio programma di opere pubbliche e infrastrutturali, favorendo notevolmente la
borghesia spagnola[21]. Ma l'incapacità di Primo de Rivera di sfruttare l'andamento economico e costruire
un sistema politico alternativo alla decrepita monarchia lo portarono ad alienarsi le simpatie dei borghesi
che in origine l'avevano sostenuto. Industriali, agrari ed esercito per diversi motivi non ebbero più fiducia
nel dittatore, il quale rassegnò le dimissioni a fine gennaio del 1930[22].
Di fronte alla dubbia lealtà dell'esercito e della Guardia Civil, il re su consiglio dei suoi collaboratori decise
spontaneamente di andare in esilio anziché rischiare di essere cacciato con la forza. La nuova Repubblica
ereditò una situazione di guerra sociale intermittente, i conflitti del periodo 1918-1921, il risentimento per la
dittatura di Primo de Rivera e l'odio dei braccianti nei confronti dei magnati della terra covavano ancora
sotto la cenere. La nascita della Seconda Repubblica venne percepita dai ceti privilegiati come una
minaccia mentre risvegliò enormi attese nei ceti più umili. Le pressioni a cui fu sottoposta furono fin da
subito molto pesanti[24].
Il biennio repubblicano
Tra quelle che fecero più allarmare la destra ci furono la riforma dell'esercito, che cercando di sfoltire il
pletorico corpo ufficiali e rendere più dinamiche le forze armate, rischiava di far annullare alcune delle
generose promozioni concesse durante la non esaltante campagna in Marocco[27]; la riforma agraria in cui si
imponeva agli agrari di assumere braccianti del luogo per evitare utilizzassero manodopera estera o crumiri,
definiva la giornata lavorativa di 8 ore e imponeva la coltivazione forzata dei possedimenti per impedire di
tenere troppo alti i prezzi; e infine la riforma ecclesiastica, che metteva fine ai generosi sussidi statali alla
Chiesa, proclamava la libertà di culto e imponeva la nazionalizzazione degli enormi possedimenti terrieri
della chiesa a favore dei braccianti senza terra[28].
Il 27 agosto 1931 il socialista Luis Jiménez de Asúa presentò la nuova Costituzione che all'articolo 1
recitava «La Spagna è una repubblica di lavoratori di tutte le classi sociali», che venne approvata
definitivamente il 9 dicembre; era democratica, laica, riformatrice e liberale in materia di autonomia
regionale e spaventò a morte i ricchi, il clero e l'esercito. L'opposizione delle classi conservatrici si
concentrò sugli articoli 26, 27 e 44, i primi riguardavano i tagli ai finanziamenti al clero, dato che la
Repubblica considerava vitale liberarsi dalla presa che la Chiesa esercitava su molti settori della società, e
prevedevano lo scioglimento degli ordini religiosi. Il secondo in merito all'esproprio delle terre, dichiarava
che solo le terre incolte potevano essere assegnate ai contadini, nel rispetto della proprietà privata. Le forze
reazionarie però interpretarono questi articoli come degli attacchi diretti ai valori tradizionali: le gerarchie
ecclesiastiche si convinsero di essere perseguitate, gli agrari erano terrorizzati da una possibile
redistribuzione della ricchezza e i militari iniziarono a mobilitarsi per rovesciare la Repubblica[30]. Lo statuto
di autonomia catalana fu poi un altro motivo di contrasto con l'esercito. La Generalitat, come era chiamato
lo statuto, fu considerato dall'esercito e dai conservatori come un attacco all'unità nazionale. Gli ufficiali
indignati e i monarchici iniziarono dunque a cospirare con l'intento di persuadere il generale José Sanjurjo
che il paese era sull'orlo dell'anarchia[31].
Nell'ottobre 1931 Zamora e Maura rassegnarono le dimissioni, e Manuel
Azaña Díaz, salito alla ribalta durante la stesura della Costituzione, divenne
Primo Ministro con Zamora Presidente della Repubblica. Il radicale Lerroux,
che ambiva al posto di Primo Ministro, venne escluso dall'incarico a causa
della corruzione che caratterizzava il suo partito e irritato per questo, passò sul
fronte delle destre. Azaña dunque si trovò sempre più dipendente dal partito
socialista[32]. A livello nazionale le forze di destra si divisero in due ampi
gruppi noti come «accidentalisti» e «catastrofisti»; i primi guidati da José
Maria Gil-Robles, che unì le varie Federazioni cattoliche agrarie fino ad allora
rappresentate dall'ACNP in una nuova formazione politica di Acción Popular,
adottarono una linea legalitaria conquistando alle elezioni alcuni seggi[33]. I
secondi invece attuarono una opposizione radicale alla Repubblica, che
ritenevano dovesse essere abbattuta con una grande insurrezione. Le più Frontespizio della carta
importanti frange «catastrofiste» erano: i Carlisti di Manuel Fal Conde, che costituzionale spagnola
raggruppavano anti-modernisti fautori di una teocrazia governata da sacerdoti- del 1931
guerrieri, forti nella Navarra e dotati di una milizia fanatica, il Requeté; i
monarchici alfonsini di Antonio Goicoechea, che con il loro quotidiano
Acción Espagñola e il loro partito Renovación Española finanziavano l'estrema destra spagnola; e la
formazione dichiaratamente fascista della Falange Española guidata da José Antonio Primo de Rivera
(figlio del dittatore Miguel Primo de Rivera), finanziata direttamente da Benito Mussolini, che rappresentò il
braccio armato delle forze monarchiche, cattoliche e di estrema destra[34].
Dopo gli scontri fra scioperanti e forze dell'ordine che caratterizzarono il mese di gennaio 1933, a Madrid
Gil-Robles dichiarò che solo il fascismo poteva essere una cura ai mali della Spagna. Queste dichiarazioni
non fecero altro che rafforzare la convinzione dei socialisti che la CEDA fosse un embrione del fascismo, e
Largo Caballero arrivò alla conclusione che la democrazia borghese non fosse in grado di impedire
l'insorgere del fascismo in Spagna e spettava agli operai trovare altre forme di difesa[38]. La CEDA
continuò per tutto il 1933 a rinfocolare gli animi, la fine della
Repubblica di Weimar era sulla bocca di tutti, la destra cattolica
plaudiva la distruzione dei movimento socialista e comunista in
Germania ad opera del Partito nazista e nel mentre i socialisti -
spinti dalla loro base e dalla concorrenza anarchica - si
dissociarono sempre più dalla coalizione repubblicana. Fu in
questo clima incandescente che si andò alle urne nel novembre
dello stesso anno[39][36].
I risultati delle elezioni furono un'amara delusione per il PSOE, che conquistò appena 58 seggi contro i 115
del CEDA e i 104 dei radicali di Lerroux. La destra conservatrice riconquistò dunque il potere statale e si
mise immediatamente a smantellare le riforme del biennio precedente, e nel momento in cui il governo
iniziò a spostare le lancette dell'orologio a prima del 1931, la rabbia popolare esplose[41].
Il biennio nero
Nel biennio successivo, che divenne noto come bienio negro, la politica spagnola subì una brutale
trasformazione. La coalizione di destra decisa a vendicare le presunte offese subite, diede apertamente
inizio al conflitto di classe; gli operai e i contadini portati alla disperazione dalle riforme inadeguate del
1931-1932 non potevano sopportare un governo determinato a cancellare quei piccoli tentativi di
miglioramento della loro condizione di vita. L'indignazione dei militanti del PSOE crebbe quando si resero
conto che a causa dei brogli e delle intimidazioni, con il loro milione e mezzo di voti guadagnarono 55
seggi mentre i radicali con 800.000 voti ne presero 104, e così di fronte al sempre più acceso attivismo della
sua base, Largo Caballero adottò il linguaggio della retorica rivoluzionario nella speranza di impaurire la
destra per limitarne la bellicosità, e allo tesso tempo persuadere Zamora a indire nuove elezioni.[42]
Pur non essendo disposto a tanto, Zamora non ebbe l'accortezza di non affidare l'incarico all'incendiario
Gil-Robles, perché sospettoso delle ambizioni di tipo fascista del leader del CEDA, ma al radicale
Alejandro Lerroux, che però non potendo fare a meno dei voti della CEDA ne divenne succube. Il
successo della strategia «accidentalista» fu più che mai evidente e il «catastrofismo» fu temporaneamente
accantonato[43]. Tuttavia l'area di estrema destra rimase perplessa da Gil-Robles, definito troppo moderato, e
i movimenti estremisti iniziarono seriamente a prepararsi per una rivolta armata. I Carlisti di Fal Conde
iniziarono ad addestrarsi e a reclutare volontari, mentre a marzo una delegazione di carlisti e monarchici di
Renovación Española si recarono da Mussolini, il quale promise denaro per l'insurrezione[42][44]. Nel
maggio 1934 il leader storico e carismatico dei monarchici, José Calvo Sotelo, tornò in Spagna dopo tre
anni d'esilio subentrando a Goicoechea, e i monarchici iniziarono una campagna di accuse contro Gil-
Robles e a parlare di conquistare lo Stato per instaurare un nuovo regime autoritario e corporativo[45].
Sempre nell'area dell'estrema destra la Falange si fuse con il gruppo filonazista Junta de Ofensiva Nacional-
Sindacalista di Ramiro Ledesma Ramos, assumendo il nome di FE de Las JONS. La Falange da piccolo
gruppo di fanatici nazionalisti che predicavano il culto della
violenza, divennero così una milizia ben armata che si rifaceva
decisamente ai modelli nazifascisti[46].
La Legione si macchiò di crimini efferati senza risparmiare donne e bambini, e quando le città principali
Gijón e Oviedo cessarono la resistenza, la Legione fucilò sommariamente centinaia di militanti di
sinistra[49]. Furono oltre 1 000 le esecuzioni sommarie e circa 30 000 gli arrestati, molti dei quali subirono
torture[50]. L'insurrezione asturiana contrassegnò la fine della Repubblica e fu, secondo Gerald Brenan «la
prima battaglia della guerra civile». La rivolta seminò il panico fra le classi agiate, e la repressione violenta
convinse il movimento socialista che non era più il tempo delle mezze misure. Nei quindici mesi successivi
il governo non fece nulla per placare gli animi che la repressione aveva suscitato. Il presidente catalano
Lluís Companys - che durante la rivolta asturiana aveva dichiarato l'indipendenza della catalogna - fu
condannato a trent'anni di carcere, mentre la stampa sferrò una campagna intimidatoria contro Azaña,
tentando invano di addossargli la colpa del tentativo di indipendenza catalano. A maggio 1935 Gil-Robles
aprì una nuova crisi, e dal rimpasto uscì il nuovo gabinetto Lerroux con ben cinque cedisti, fra cui lo stesso
Gil-Robles come Ministro della Guerra[51]. Gil-Robles epurò dall'esercito tutti gli ufficiali repubblicani e
nominò sostenitori della destra: Francisco Franco divenne capo di Stato Maggiore, Manuel Goded ispettore
generale e Joaquín Fanjul sottosegretario alla Guerra. Nel frattempo venne portata avanti la valida riforma
di Azaña per l'esercito, che venne così motorizzato ed equipaggiato rendendolo paradossalmente più
moderno ed efficace in vista della guerra civile[52].
Tra aprile e maggio gli eventi precipitarono: Azaña e Prieto tramarono per togliere di mezzo Zamora, che
con il suo conservatorismo interferiva continuamente con l'operato del governo, e il 10 maggio il
repubblicano Azaña venne eletto Presidente della Repubblica e Prieto Primo Ministro. Prieto aveva già in
mano un programma molto dettagliato di riforme e misure drastiche per contenere la destra, ma entrambi
dipendevano dalla decisione di Largo Caballero - che deteneva il controllo in ampi settori del movimento
socialista - il quale ingenuamente convinto che in caso di una rivolta della destra le masse operaie si
sarebbero sollevate consegnando il potere al PSOE, non accettò di appoggiare il governo di Azaña.
Demoralizzato, Azaña si dimise, e il governo fu affidato a Santiago Casares Quiroga. Quiroga era un uomo
debole e malato, e la sua unica soluzione agli scioperi e all'occupazione delle terre dei contadini, fu quella
di inviare la Guardia Civil a difendere gli agrari.[55]
La destra abbandonò il CEDA per affidarsi al combattivo monarchico José Calvo Sotelo, mentre Gil-
Robles consegnò i fondi del suo partito al capo dei militari golpisti Emilio Mola, con la Falange
imperversava nella campagne per creare disordini che giustificassero l'avvento di un regime autoritario.
Scontri di piazza e attentati contro singole personalità politiche si susseguirono; in questo clima politico
Prieto sembrava l'unico a capire che imporre dei mutamenti rivoluzionari avrebbe spinto definitivamente la
borghesia nelle braccia dell'estrema destra, e occorreva un programma di riforme rapido ed efficace, mentre
Largo Caballero soffiava sulla fiamma dell'insurrezione, profetizzando nei suoi discorsi il trionfo della
rivoluzione della sinistra. Per questo Caballero acconsentì alla fusione dei movimenti giovanili socialista
(JSE) e comunista (UJCE) in una Juventudes Socialistas Unificadas (JSU), ma i più dinamici comunisti
presero rapidamente le redini del movimento e molti giovani socialisti entrarono in massa nel Partido
Comunista de España (PCE)[56].
Il capo naturale del golpe non poteva non essere che José Sanjurjo, ma il protagonista del complotto
sarebbe stato Mola, mentre agli altri generali veniva assegnata una regione: a Franco fu affidato il Marocco,
a Fanjul la capitale Madrid, a Goded la città di Barcellona. Nel frattempo in Spagna la situazione diventava
sempre più ingestibile; il 12 luglio alcuni falangisti uccisero l'ufficiale delle Guardie d'assalto repubblicane
José del Castillo, e all'alba del mattino seguente i suoi commilitoni andarono prima a casa di Gil-Robles, ma
non trovandolo si recarono dal leader dell'opposizione Calvo Sotelo, che fu rapito e ucciso. L'indignazione
della destra fu enorme, ma il suo assassinio creava una ottima giustificazione per intervenire. I piani
insurrezionali subirono un'accelerazione e grazie all'aiuto di Luis Bolín e del cattolico britannico Douglas
Jerrold, Francisco Franco il 17 luglio fu trasferito in aereo dalle Canarie al Marocco, dove fin dal mattino le
guarnigioni di Melilla, Tétouan e Ceuta si erano sollevate. La guerra civile era cominciata[58].
Il colpo di Stato
«Le autorità repubblicane non erano preparate a darci le armi, perché avevano più
paura dei lavoratori che dell'esercito»
(Testimonianza di Juan Campos, un falegname di Siviglia[59]. )
Nonostante il colpo di Stato non fosse riuscito del tutto, la Repubblica non fu in grado di reprimerlo nelle
prime quarantott'ore, le ore decisive in cui venne deciso il possesso di intere regioni della Spagna. Gli ordini
definitivi trasmessi da Mola (detto «el director») prevedevano che l'insurrezione sarebbe partita prima in
Marocco, dove l'Armata d'Africa avrebbe dato inizio alla sollevazione alle 5:00 del mattino del 18 luglio
1936, ma a Melilla il pomeriggio del giorno prima i piani dell'insurrezione vennero scoperti, così il
colonnello Juan Seguí Almuzara dovette agire d'impulso e anticipò la rivolta, e solo dopo aver fatto fucilare
i comandi repubblicani di Melilla, Almuzara comunicò il suo gesto ai colonnelli Sáenz de Buruaga, Yagüe
e quindi a Franco. Alla sera del 17 il governo della Repubblica venne informato dell'insurrezione a Melilla,
e il mattino del 18 diramò un comunicato in cui affermava che l'insurrezione era limitata al Marocco e che
in Spagna non si erano registrati disordini preoccupati[60].
Nelle zone rurali i braccianti, tutti accesi repubblicani, riuscirono in molte zone ad avere la meglio sui
piccoli contingenti locali della Guardia Civil, e si abbandonarono poi a rappresaglie spesso cruente contro i
proprietari terrieri che non erano riusciti a rifugiarsi a Siviglia o nel Sud della Francia, e contro il clero, che
aveva sempre legittimato le violenze dei caciques e dei latifondisti. Pochi giorni dopo l'insurrezione i
comitati locali della FNTT e della CNT iniziarono a collettivizzare le grandi proprietà, svuotare i magazzini
dei notabili locali per distribuirne il cibo alla popolazione e
coltivare i campi lasciati incolti dagli agrari[63].
Sulla costa settentrionale Santander venne assicurata alla Repubblica senza spargimento di sangue quando
il 23º fanteria rifiutò di unirsi agli insorti, a Gijón l'insurrezione fallì grazie all'azione decisa dei portuali,
mentre i baschi consapevoli del pericolo dei carlisti della Navarra, l'UGT e la CNT giocarono d'anticipo
mantenendo il controllo di San Sebastián, Eibar e Bilbao, e i nazionalisti riuscirono ad impossessarsi solo di
Vitoria[66]. Ben più grave per la Repubblica fu però la perdita di Saragozza, capitale dell'Aragona, dove il
generale Cabanellas si schierò a fianco degli insorti mentre il governatore civile si rifiutò di armare gli oltre
30 000 iscritti alla CNT, i quali la sera del 19, al momento dell'attacco da parte delle truppe nazionaliste si
ritrovarono disarmati e furono massacrati impietosamente[67].
Alle 11:00 del mattino del 19 Goded arrivò a Barcellona da Maiorca già in mano agli insorti, e si recò alla
Capitanía, sede del comando militare della città. Durante gli scontri un piccolo gruppo di operai e asaltos
catturarono alcuni pezzi da 75 mm degli insorti, e fu proprio con una salva d'artiglieria che Goded fu
convinto a uscire dal suo rifugio. Arrestato, fu condotto da Companys che lo convinse a diramare un
comunicato radio in cui si appellava ai suoi uomini affinché posassero le armi. Ciò fu di grande aiuto per le
forze repubblicane ma non gli valse a salvargli la vita, verrà infatti condannato a morte ad agosto da una
corte marziale.[69] In quelle stesse ore, a Madrid, Fanjul con un manipolo di falangisti attendeva la sua sorte
all'interno della caserma Montaña, ma il 20 luglio resosi conto che gli aiuti non sarebbero mai arrivati si
consegnò ai repubblicani. Fra gli assalitori della caserma vi era il giovane Valentín Gonzáles - che sarebbe
diventato famoso come El Campesino - che presa la caserma organizzò alcune colonne di miliziani per
andare a strappare Toledo agli insorti. Con Madrid salva, i miliziani appoggiati da truppe regolari fedeli alla
Repubblica espugnarono Toledo ma gli insorti, capeggiati da José Moscardó si rifugiarono all'Alcázar, la
fortezza che sovrastava la città[70].
La cattura di Fanjul a Madrid e Goded a Barcellona furono un brutto colpo per gli insorti, anche se non del
tutto imprevisto: entrambi sapevano di dover affrontare un compito di estrema difficoltà. Ma un altro colpo
di scena si abbatté su Mola e gli altri cospiratori che attendevano l'arrivo di Sanjurjo dal suo esilio
portoghese. L'aereo che avrebbe dovuto portare Sanjurjo a Burgos precipitò fase di decollo, il generale
morì mentre l'esperto pilota Juan Antonio Ansaldo sopravvisse. Con Fanjul, Goded e Sanjurjo usciti di
scena e José Antonio Primo de Rivera in carcere ad Alicante (fu arrestato nel marzo 1936 per la sua
implicazione nell'attentato alla vita di Largo Caballero), a contendersi la leadership degli insorti rimasero
solo Emilio Mola e Francisco Franco.[71] I ribelli controllavano circa un terzo della Spagna: un grande
blocco che andava dalla Galizia, al Léon, alla Vecchia Castiglia, all'Aragona e a parte dell'Estremadura,
assieme ad alcune zone isolate come Oviedo, Siviglia e Cordova. Quel blocco comprendeva le grandi zone
cerealicole, ma i principali centri industriali rimanevano in mano della Repubblica. La rivolta era fallita a
Madrid, Barcellona, Malaga e Bilbao, e gli insorti si ritrovarono dunque con l'impellente necessità di
organizzare un attacco contro la capitale ritenuta il perno della resistenza repubblicana. Per farlo però
avevano bisogno dell'armata di Franco che ancora si trovava oltre lo Stretto di Gibilterra e aveva bisogno di
un modo rapido per sbarcare in Spagna[72].
Con questo stato di cose la situazione sul continente era pressoché pari: la Repubblica aveva dalla sua parte
una leggera maggioranza degli effettivi delle forze armate, 46 000 uomini contro 44 000 degli insorti,
mentre i 15 000 ufficiali e sottufficiali si divisero equamente tra le due parti. Nell'area della Repubblica (la
più popolosa) restò invece la netta maggioranza delle forze dell'ordine, ma queste spesso si schierarono con
gli insorti, come a Murcia, Bajadoz, quasi ovunque nelle Asturie e in Andalusia. La situazione degli
armamenti era pressoché identica, fatta eccezione per una lieve superiore disponibilità di pezzi d'artiglieria
dei repubblicani, i quali poterono contare anche su una buona superiorità aerea - circa 400 apparecchi
contro 100 - anche se in realtà si trattava di aerei antiquati e con scarsa dotazione di bombe. L'arsenale
complessivo comunque era esiguo da non consentire operazioni su larga scala a nessuno dei due
contendenti, ma le cose sarebbe cambiate rapidamente[74].
Il panorama che offriva la Spagna repubblicana nelle prime settimane dopo il golpe era dunque variegato e
fragile; in Catalogna Companys, cooperando con gli anarchici creò il Comité Central de Milicias
Antifascistas, che mantenne in vita la Generalitat; similmente avvenne nei Paesi Baschi, dove a San
Sebastían si costituì una Junta de Defensa de Guipúzcoa a cui parteciparono anarchici, comunisti e militanti
del PNV, che allestirono la difesa della regione contro le forze carliste della vicina Navarra.[76] Comitati di
difesa sorsero inevitabilmente in buona parte dei territori repubblicani sulla costa cantabrica, rimasta isolata
dopo l'alzamiento, ma in generale tutti i territori repubblicani furono colpiti da un'ondata cosiddetta di
«consiglismo», ossia la nascita di Consigli, Comitati, Juntas in ogni dove, che in alcuni casi entrarono in
conflitto con il governo di Madrid, come accadde a Valencia e Malaga. Questa «polverizzazione» del
potere fu in parte dovuta al fatto che il popolo si rese presto conto di essere stato determinante per
sconfiggere gli insorti, così in molti casi si sviluppò la consapevolezza di poter creare piccoli centri di potere
alternativi al governo di Madrid, soprattutto nei piccoli paesi dove agivano gli anarchici della CNT, che con
il loro disprezzo per il potere statale riuscì a catalizzare l'attenzione dei disillusi proletari che anche sotto la
Repubblica avevano conosciuto la repressione.[77] Armare il popolo si rivelò dunque un'arma a doppio
taglio: se da una parte servì a mantenere in vita la Repubblica, dall'altro creò un indebolimento del suo
potenziale di difesa militare. Molti ufficiali per quanto fedeli alla Repubblica non vedevano di buon occhio
il popolo in armi e passarono dall'altra parte, mentre altri furono semplicemente allontanati dai comitati sorti
spontaneamente in quanto sospettati di essere infidi o complici. Questo fece sì che numeri alla mano,
appena 2/3 000 ufficiali servirono effettivamente nella Repubblica. Il governo di Azaña comunque poteva
ancora godere di prestigio internazionale, in particolare nella vicina Francia governata dalla coalizione di
centro sinistra di Léon Blum, dalla quale poteva ottenere gli aiuti militari necessari per schiacciare la rivolta.
Madrid dunque, a una settimana dal golpe pur immersa nel disordine, sembrava ancora lontana da ogni
grave pericolo[78].
Da parte nazionalista invece la sostanza di quello che sarebbe dovuta diventare la Spagna parve subito più
chiara: un governo autoritario centralizzato. La forma, tuttavia, non era chiara e le forze che ambivano a
predominare erano diverse: il falangismo, il carlismo, la restaurazione della monarchia o una dittatura
repubblicana. In attesa di risolvere la questione il 24 luglio Mola organizzò la nascita a Burgos della Junta
de Defensa Nacional (JDN) presieduta dal generale più anziano dopo la scomparsa di Sanjurjo, Miguel
Cabanellas Ferrer, il comandante della divisione di Saragozza.[79] In questo periodo di incertezza circa la
forma del nuovo Stato, fu la Chiesa cattolica a fornire ai nazionalisti una causa comune e un simbolo che
accomunò ideologicamente tutte le fazioni interne. La gerarchia ecclesiastica si alleò con la causa
dell'estrema destra - tanto che alcuni importanti esponenti del clero iniziarono ad utilizzare il saluto
fascista[80] - e diede ai nazionalisti una causa morale e spirituale riassunta nel termine della Crusada,
annunciata ufficiosamente il 30 settembre 1936 dal vescovo di Salamanca Enrique Pla i Deniel, che
pubblicò una lettera pastorale in cui affermava che la lotta in Spagna non era una guerra civile, bensì una
«crociata religiosa» contro i «comunisti e gli anarchici [...] figli di Caino, fratricidi dei loro fratelli, invidiosi
di coloro che hanno il culto della virtù» aggiungendo poi che «nessuno poteva rimproverare la Chiesa per
essersi apertamente e ufficialmente schierata con l'ordine contro l'anarchia, a favore di un nuovo governo
gerarchico contro il comunismo disgregante, a favore della difesa della civiltà cristiana e dei suoi
fondamenti di religione, patria e famiglia contro i senza Dio e i contro Dio»[81]. Così facendo la Chiesa
spagnola non solo diede ai nazionalisti una causa ideale e spirituale, e non solo le garantirà il pieno
sostegno dell'autorità papale e dello Stato Vaticano, ma garantirà una base di consenso di massa per il
regime e una riserva continua di fedeli pronti a combattere nelle file nazionaliste. I nazionalisti si
immedesimarono così tanto in questo concetto della "crociata" che durante la fase repressiva che seguì la
stabilizzazione del fronte dopo il colpo di Stato, i militari e ufficiali repubblicani caduti nelle mani dei
nazionalisti venivano fucilati per «ribellione», in un singolare capovolgimento di definizioni che rivelava
come il concetto di "crociata contro il marxismo a favore della vera Spagna" era ben saldo nella mentalità
degli insorti[82][83].
Repressione e violenze
«Sul mio onore di gentiluomo, per ogni persona che ucciderete voi, noi ne uccideremo
almeno dieci»
Da parte nazionalista, invece, il concetto di limpieza, cioè di «ripulitura», costituiva una parte essenziale
della strategia dei ribelli, che in breve tempo divenne pianificata, metodica e incoraggiata dalle autorità
militari e civili e benedetta dalla Chiesa cattolica[86]. La spietatezza programmatica che guidò l'azione
annientatrice condotta nelle retrovie del fronte nazionalista ben si rifletteva - secondo lo storico Gabriele
Ranzato - nelle parole del generale Mola quando diceva: «Una guerra di questa natura deve concludersi
con il dominio del vincitore e lo sterminio totale e assoluto del vinto» o quando istruiva i suoi a «seminare il
terrore [...] Dobbiamo creare un'impressione di dominio, eliminando senza scrupoli né esitazioni tutti coloro
che non la pensano come noi»[85].
Per contro in territorio repubblicano si levarono più voci per impedire la violenza vendicatrice; Prieto
scrisse su El Socialistas che «Per quanto terribili possano essere le tragiche notizie di ciò che è accaduto e
accade nel territorio dominato dai nostri nemici [...] non imitate questa condotta, ve ne prego, vi supplico!
[...] Superateli con la vostra condotta morale; superateli con la vostra generosità!». A Prieto si unirono più
riprese Azaña, Martinez Barrio e altri leader repubblicani, ma il desiderio di vendetta per i soprusi passati e
la rabbia per le crudeltà dei nazionalisti, in un primo tempo fu più forte del buonsenso, e nell'estate del 1936
le violenze repubblicane si abbatterono indiscriminatamente sui nazionalisti o presunti simpatizzanti[87].
Molti insorti catturati dopo il golpe furono sommariamente passati per le armi, spesso per iniziativa delle
cosiddette checas (nome ispanizzato della prima polizia politica sovietica "Čeka"), mentre molti prigionieri
furono presi dalle carceri e abbattuti successivamente per rappresaglia a bombardamenti e uccisioni della
controparte, in una spirale di terrore che si autoalimentava. Alla notizia della strage compiuta da Yagüe a
Bajadoz, dove i circa 2 000 difensori della città furono falciati a colpi di mitragliatrice dopo essere stati
radunati nella plaza de toros, i repubblicani radunarono i 30 detenuti nazionalisti nel carcere Modelo di
Madrid e li fucilarono per rappresaglia. Bastava anche solo un sospetto o una falsa notizia a far scatenare la
reazione vendicatrice, come ad esempio la notizia (poi rivelatasi falsa) che a Igualada il leader del Partido
Obrero de Unificación Marxista (POUM) Joaquín Maurín fosse stato fucilato dai nazionalisti; la notizia
provocò il massacro di 18 detenuti del carcere di Madrid.[88]
Da Alicante a San Sebastián, da Cartagena a Jaén, e in tanti paesi della costa mediterranea particolarmente
bersagliati dall'aviazione italo-spagnola[89], si ripeté questo sanguinario «rito retributivo»; a Santander per
esempio, nel dicembre 1936 la folla furibonda per le morti provocate da un bombardamento aereo assalì la
nave-prigione uccidendo 156 detenuti. A volte poi ai bombardamenti si rispondeva con altri
bombardamenti, come a Saragozza, Siviglia, Burgos e Salamanca, dato che la logica della guerra totale
dominava ormai le menti anche degli uomini più lucidi[90].
Furono però gli attacchi al clero da parte dei repubblicani a provocare la più vasta reazione all'estero, dove
il secolare dominio dispotico della Chiesa spagnola sulla popolazione era poco o per nulla compreso. La
Spagna era percepita come profondamente cattolica, e gli eccessi che la rabbia anticlericale scatenò nei
giorni successivi al golpe furono recepiti con sgomento dall'opinione pubblica. A questo contribuì non poco
la propaganda nazionalista[N 1] e il fatto che la maggioranza dei corrispondenti stranieri, accettati solo nella
zona repubblicana, riferissero notizie basandosi solo a quello che vedevano nella zona repubblicana, senza
controllarne la veridicità o senza comprenderne i prodromi. Solo il bombardamento di Guernica dell'aprile
1937 cambiò a favore della Repubblica l'opinione pubblica mondiale, ma fino a quel momento in pochi
compresero che la rabbia anticlericale nasceva da secoli di oppressione.[91]
Alcuni cattolici comunque - pur inorridendo contro la persecuzione anticlericale nei territori della
Repubblica - si rifiutarono di chiudere gli occhi di fronte al «terrore bianco» della zona franchista. Il
filosofo francese Jacques Maritain denunciò con forza le stragi compiute dalle forze nazionaliste, dove
«Uomini d'ordine, invocando la religione e la patria, hanno dato occasione ai vecchi rancori islamici[94] di
vendicarsi sul sangue spagnolo», mentre tra i cattolici antifascisti italiani don Luigi Sturzo scrisse: «Non so
se mi facciano più orrore i massacri fatti dai difensori della fede e che inalberano le insegne religiose, che
non quelli fatti da una plebe incitata e piena d'odio che non sa quello che fa e merita perciò la preghiera di
Gesù per i suoi crocifisso». Queste voci tuttavia non riuscirono smuovere le coscienze perché impercettibili
di fronte alla voce tonante della Chiesa cattolica che si era ormai schierata convintamente con i
nazionalisti[95].
Nelle zone che di volta in volta cadevano sotto il controllo nazionalista, la repressione selvaggia si
trasformò rapidamente in una repressione metodica e pianificata dai comandi e poi dal governo. Quando le
truppe regolari si allontanavano da una località appena occupata, i falangisti (che divennero il braccio
armato di Franco, con il compito di occuparsi della «pulizia politica») arrestavano e fucilavano
sistematicamente migliaia di funzionari della Repubblica, dirigenti sindacali, politici di centro-sinistra,
intellettuali, insegnanti, medici e chiunque fosse sospettato di essere un «rosso», un elettore della
Repubblica o un massone, senza andare per il sottile. A Huesca, per esempio, furono fucilate 100 persone
accusate di massoneria, quando la loggia cittadina contava appena 12 iscritti[83]. Il terrore fu un'arma
fondamentale nella conquista del potere da parte dei nazionalisti, Franco stesso aveva imparato in Africa a
inculcare la fedeltà attraverso la paura, e quando si trovò a coordinare le operazioni militari di tutte le forze
nazionaliste, diede molta importanza nell'eliminazione fisica di ogni militante di sinistra o presunto tale.
D'altronde l'esasperante lentezza con cui condusse la guerra, oltre a nascondere l'assenza di obiettivi
politici, servì anche al suo intento di sradicare dalla Spagna il socialismo, il comunismo, l'anarchia, la
democrazia liberale e la massoneria, e per fare ciò aveva bisogno di tempo per eliminare i suoi nemici uno
ad uno[96].
Stupri, saccheggi e fucilazioni sommarie accompagnavano poi la risalita dell'Armata d'Africa: un giornalista
statunitense raccontò di quando a Navalcarnero due giovani ragazze furono prese e consegnate alle truppe
marocchine dal loro comandante, il maggiore Mohammed Mizzian, e questi disse con calma che non
sarebbero sopravvissute più di quattro ore. Il maggiore divenne in seguito tenente generale dell'esercito di
Franco e i regulares furono fatti «cristiani onorari» dai nazionalisti[97].
I nazionalisti giustificavano la loro brutalità come rappresaglia al «terrore rosso», ma in realtà le stragi dei
nazionalisti superarono di moltissimo quelle degli avversari, nel paesino di Lora del Río, per esempio, la cui
unica vittima dei braccianti fu il cacique locale, vennero fucilate per rappresaglia 300 persone[99][100]. A
Malaga, i nazionalisti accusarono i repubblicani di aver ucciso 1 005 persone, ma nel 1944 il console
britannico riferì a Londra che tra il febbraio 1937 e l'agosto di quell'anno, nella città furono giustiziate
secondo fonti nazionaliste ben 16 952 persone, cifra che non considerava le uccisioni sommarie avvenute
durante la conquista della città da parte dei franchisti. Qualunque sia quindi la cifra esatta, risulta chiaro che
le rappresaglie nazionaliste non erano solo una questione di vendetta, ma erano motivate dall'idea di istituire
un regno del terrore, soprattutto nelle zone in cui la destra era stata numericamente inferiore durante il
periodo di governo repubblicano[101] Le stragi nazionaliste raggiunsero il loro apice in settembre e
continuarono per lungo tempo, anche dopo la fine della guerra: negli anni novanta alcune ricerche condotte
in appena metà della Spagna hanno accertato un totale di circa 80 000 vittime dei nazionalisti, e tenendo
conto delle morti non registrate e delle provincie spagnole ancora in fase di studio, gli storici sono concordi
nel considerare attendibile la cifra di 200 000 persone uccise dalla repressione franchista[2].
Inizialmente Benito Mussolini si rivelò refrattario ad un intervento italiano in Spagna, a causa delle voci di
un coinvolgimento francese nella guerra civile, ma col prosieguo dei giorni e grazie alle lusinghe di Franco
- che prometteva peraltro un rapido successo e la sudditanza politica futura - la posizione del duce iniziò a
pendere per l'intervento diretto. Il neo-Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano si disse fin da subito favorevole
ad appoggiare i nazionalisti, in quanto un intervento poteva costituire un mezzo per spingere la Germania a
collaborare con il governo fascista, e dare inizio dunque ad un percorso che avrebbe portato ad un'alleanza
fra le due dittature. Tuttavia i rapporti del Servizio di Informazioni Militari italiano che provenivano da
Parigi davano il governo di León Blum sempre meno propenso ad intervenire in Spagna, e ciò unito alla
prospettiva di ampliare l'influenza italiana nel Mediterraneo spinsero Mussolini ad aiutare Franco, così nella
notte tra il 27 e 28 luglio il duce diede disposizioni affinché i primi dodici bombardieri Savoia-Marchetti
S.M.81 fossero inviati nel Marocco francese con una missione segreta. Il forte vento fece precipitare due
dei dodici aerei, uno in mare e uno in territorio del Marocco francese, e a quel punto, nonostante Ciano
negasse con forza l'evidenza, il coinvolgimento italiano divenne di dominio pubblico[103][104][N 4].
Con una procedura analoga Franco avviò i contatti con la Germania attraverso due uomini d'affari tedeschi
che dirigevano in Marocco la Ausland Organisation, l'organizzazione nazista per l'estero, e il 22 luglio
Franco poté contattare direttamente Adolf Hitler, il quale decise di lanciare l'operazione Feuerzauber
("incantesimo di fuoco"). L'aiuto tedesco si rivelò più discreto di quello italiano, e la Germania si limitò
all'invio di circa 6 500 uomini, fondamentalmente tutti incorporati nell'unità aerea soprannominata
«Legione Condor» e in qualche compagnia di blindati. Per Hitler
la questione spagnola costituiva sicuramente un buon mezzo per
assicurare la solidarietà con l'Italia e con una futura dittatura
fascista in Spagna, e allo stesso tempo stornare verso il
Mediterraneo occidentale le ambizioni del duce che
presumibilmente avrebbe allentato le sue ambizioni nell'area
danubiana[105]. D'altronde se a Hitler interessava la Spagna per
ragioni strategiche (l'apertura di un secondo fronte in prospettiva di
un conflitto con la Francia) ed economiche (Franco promise
concessioni minerarie al Reich), il Führer non sembrava aver fretta Un Fiat B.R.20 con le insegne
dell'aviazione nazionalista, 1939
di risolvere la questione spagnola; un conflitto lungo avrebbe
circa.
impegnato l'Italia e nel mentre la Germania avrebbe avuto tutto il
tempo per preparare il colpo di forza previsto in Austria. Mussolini
al contrario era indirizzato ad un coinvolgimento massiccio in
Spagna, in quanto preoccupato che una vittoria della Repubblica avrebbe potuto creare un asse Parigi-
Madrid esplicitamente antifascista che avrebbe potuto contenere le mire espansionistiche dell'Italia. Inoltre
Mussolini vide nella guerra di Spagna l'occasione - come fu per la guerra d'Etiopia - di «temprare l'anima
degli italiani», sperimentare nuove armi e tattiche e allo stesso tempo aumentare il suo prestigio.[106]
In Francia l'iniziale sostegno del Primo Ministro socialista Léon Blum, sostenuto dal suo ministro
dell'Aeronautica il radicale Pierre Cot, portò a vendere ai repubblicani una piccola aliquota di caccia e
bombardieri, ma la notizia fu resa pubblica dai diplomatici dell'ambasciata spagnola a Parigi che si erano
dimessi per il loro sostegno alla causa nazionalista. Ciò creò una spaccatura nell'opinione pubblica francese
che accese le proteste della stampa di destra, che accusò violentemente il governo di Blum di volere una
guerra con la Germania, tanto che anche un moderato come lo scrittore cattolico François Mauriac minacciò
il governo dalle pagine di Le Figaro con una lettera che concludeva «Fate attenzione, noi non vi
perdoneremmo mai questo crimine». Le divisioni del paese peraltro si rispecchiavano nel governo: il futuro
eroe della Resistenza francese Jean Moulin, allora capo del gabinetto di Cot, premette per inviare altri aerei
alla Repubblica, mentre il segretario generale del ministero degli Esteri Alexis Léger ne sabotava
l'attuazione. La stessa ala socialista era divisa tra interventismo e prudenza, così Blum, sotto la pressione
dello stesso Presidente della Repubblica Albert Lebrun alla fine desistette dai suoi propositi. Alla necessità
di impedire la nascita di un nuovo stato fascista ostile alla Francia sul confine meridionale, l'opposizione
replicava che proprio una stretta neutralità avrebbe garantito a chiunque avesse vinto in Spagna non le
sarebbe poi stato nemico, così il 25 luglio il governo francese adottò ufficialmente la decisione di non
inviare alcun aiuto militare al governo spagnolo (non si andò oltre all'invio semiclandestino di 13 caccia e 6
bombardieri privi di armamento).[110]
Una cosa è certa, l'embargo statunitense penalizzò molto più la Repubblica che i nazionalisti: il presidente
filonazista della Texaco, Thorkild Rieber fornì a credito sei milioni di dollari di petrolio ai nazionalisti,
mentre alla Glenn L. Martin Company di Baltimora non fu permesso di inviare alla Repubblica alcune parti
di ricambio ordinate mesi prima. L'ambasciatore della Casa Bianca in Spagna, Claude Bowers, fu uno dei
pochi a spendersi a favore della Repubblica, inviando una notevole serie di missive a Roosevelt chiedendo
un cambio di atteggiamento, senza però riuscire a persuaderlo. Solo nel 1939, quando Bowers tornò a
Washington, Roosevelt gli confessò: «Abbiamo commesso uno sbaglio; lei aveva visto giusto fin dal
principio», mentre un eminente diplomatico statunitense Sumner Welles, ebbe a dire anni dopo: «Di tutte le
nostre scelte politiche ciecamente isolazioniste, la più disastrosa fu l'atteggiamento che tenemmo verso la
guerra civile spagnola»[116].
La posizione più complessa e sofisticata però, fu indubbiamente quella dell'Unione Sovietica. La linea di
condotta del Comintern aveva già accantonato da tempo l'obiettivo di diffondere la rivoluzione, e ora si
impegnava a favorire e migliorare i rapporti con gli stati borghesi dell'Occidente. L'ascesa del fascismo in
Italia e del nazismo in Germania convinsero Iosif Stalin che occorreva allearsi con le democrazie capitaliste,
vale a dire Francia e Gran Bretagna, così dopo aver riallacciato i rapporti con la Spagna nel 1933, il 2
maggio 1935 venne siglato un patto di mutua assistenza con la Francia, e poco dopo la firma del patto si
svolse a Mosca il VII Congresso del Comintern, dove viene formulata una strategia che salvaguardasse
l'Unione Sovietica da attacchi esterni anche grazie ad una politica comune dei partiti comunisti europei.[117]
Questa linea di condotta fu dettata principalmente dai disegni aggressivi di Hitler sui territori sovietici, per
cui Stalin non solo desiderava stringere alleanze con Francia e Gran Bretagna, ma si premurò anche di non
compiere alcun gesto che potesse irritare Hitler. Per questo motivo fu inizialmente molto restio ad un
intervento in Spagna. Stalin si dibatteva dunque su un dilemma; da una parte non poteva stare a guardare
mentre la Repubblica veniva affondata da un nuovo regime filofascista che avrebbe forse favorito l'estrema
destra della confinante Francia e messo a repentaglio il patto franco-sovietico, mentre dall'altra parte una
Repubblica vittoriosa, che avrebbe potuto farsi tentare da una rivoluzione di sinistra, avrebbe indispettito le
democrazie capitaliste impaurite da ogni sussulto anche lontanamente rivoluzionario, sospingendole quindi
ad avvicinarsi ai due stati fascisti. In sostanza Stalin aveva bisogno che la Repubblica non fosse sconfitta
ma che la sinistra rivoluzionaria non riportasse una vittoria netta.[118]
La politica del non-intervento, che di fatto mise la Repubblica in netto svantaggio, e confermò il carattere
anti-rivoluzionario della diplomazia internazionale, venne sancita ufficialmente nell'agosto 1936 su
iniziativa francese, e vi aderirono ventisette nazioni, ma i suoi effetti furono del tutto insignificanti: gli
interventi di Italia e Germania proseguirono come se nulla fosse, e successivamente anche quelli
dell'URSS. La Commissione per il non-intervento istituita a Londra il 9 settembre fu poco più che una
finzione, una finzione che però ostacolò moltissimo la Repubblica favorì i ribelli, e mentre l'Unione
Sovietica ne accettò inizialmente le clausole per mantenere relazioni cordiali con l'Occidente, i due paesi
dell'Asse le irrisero apertamente, anzi, era un paravento così utile per la loro causa che ne difesero
l'esistenza. Nonostante le iniziali denunce di Stalin, il governo britannico e il conservatore Lord Plymouth -
presidente della Commissione - furono molto accondiscendenti con i paesi fascisti e ostili nei confronti
dell'Unione Sovietica, così alla fine l'Unione Sovietica si decise ad intervenire[121][122]. Gli aiuti dell'Unione
Sovietica risposero dunque ad una serie di esigenze, ma non furono del tutto disinteressati, soprattutto
furono più che garantiti dal deposito aureo del Banco de España, che venne quasi interamente trasferito in
URSS, fatto che se da una parte diede un'argomentazione propagandistica per i nazionalisti, dall'altra era
una vera e propria necessità dato che la Repubblica non aveva altra alternativa per procurarsi gli armamenti
necessari per sopravvivere.[123]
La prima nave sovietica carica di armi - il Komsomol - attraccò a Cartagena il 15 ottobre 1936, mentre Italia
e Germania era da almeno due mesi e mezzo che inviavano sistematicamente materiale bellico ai ribelli. Ma
Stalin decise di inviare alla Repubblica solo gli aiuti necessari per tenerla in vita il più a lungo possibile e
nel frattempo tenere impegnato Hitler, difatti le armi che arrivavano erano soggette a due limitazioni: la
prima fu che i proletari spagnoli le utilizzassero senza varcare i limiti accettabili imposti dagli statisti anglo-
francesi (cioè che non si andasse oltre alle azioni di guerra convenzionale), la seconda fu che a usufruirne
sarebbero state solo le milizie legate al PCE, cosa che nel prosieguo della guerra si rivelò una decisione
deleteria e piena di contraddizioni[124].
«Nel luglio 1936, ero a Parigi. Non amo la guerra; ma ciò che mi ha sempre fatto orrore
nella guerra, è la situazione di quelli che si trovano nelle retrovie. Quando ho capito
che, malgrado i miei sforzi, non potevo fare a meno di partecipare moralmente a questa
guerra, cioè di augurarmi ogni giorno, ogni momento, la vittoria degli uni, la sconfitta
degli altri, mi sono detta che Parigi per me era le retrovie, e ho preso il treno per
Barcellona con l'intenzione di arruolarmi. Era l'inizio dell'agosto 1936.»
La politica del non-intervento confermò sia nei fascisti sia negli anti-fascisti il disprezzo per i non-
interventisti. Inoltre accrebbe enormemente il prestigio dell'Unione Sovietica, la sola potenza accorsa in
aiuto al legittimo governo spagnolo, nonché il prestigio dei comunisti dentro e fuori la Spagna, non solo
perché essi organizzarono la resistenza delle forze repubblicane, ma anche perché organizzarono l'aiuto
internazionalista di migliaia e migliaia di volontari che decisero di sposare la causa repubblicana[126]. Ancor
prima che il Comintern cominciasse ad organizzare le Brigate internazionali, e ancor prima che le Colonne
di volontari facessero la loro comparsa al fronte, un certo numero di volontari combatteva già per la
Repubblica, tra i quali circa 250 atleti che il 19 luglio avrebbero dovuto dare inizio all'Olimpiade Popolare a
Barcellona ma che alla notizia del colpo di Stato rimasero a combattere a fianco della Repubblica[127]. Alla
fine oltre 40 000 volontari provenienti da più di cinquanta nazioni andarono a combattere per la causa
repubblicana, in un conflitto che ai contemporanei parve il fronte centrale di una battaglia ideologica contro
l'avanzata del fascismo in Europa e forse nel Mondo. La guerra di Spagna forgiò in anticipo quello
schieramento di forze che, pochi mesi dopo la vittoria di Franco, si sarebbe riproposto su scala globale[128].
Anche a favore del campo nazionalista accorsero, seppur in misura minore, volontari internazionali, in
particolare da Portogallo, Irlanda e Romania.
La guerra civile spagnola assunse così una dimensione simbolica decisiva che tracciò nuove frontiere e
ridefinì le posizioni in campo intellettuale. Da una parte il triangolo tra liberismo, comunismo e fascismo
che si era profilato alla fine della Grande Guerra, con i diversi sistemi di alleanze che ne derivarono e la
possibilità, da parte di larga parte degli intellighenzia, di ritirarsi in una comoda posizione di osservatrice, si
ridusse ora in uno scontro tra fascismo e antifascismo che polarizzò il campo intellettuale[129]. Romanzieri e
poeti indossarono sia l'uniforme repubblicana sia - limitatamente - franchista: Henri Massis e Paul Claudel
scrissero odi alla gloria di Franco, con Massis che vide la «rinconquista» della Spagna contro i «rossi» una
«febbre creatrice che si mescola al sangue e della morte», aderendo alla retorica della crociata contro il
marxismo; mentre gli scrittori falangisti Ramiro Ledesma e García Serrano scoprirono il mito jüngeriano
della morte in combattimento. I poeti repubblicani risposero a questa estetica della morte con la
politicizzazione della loro arte e l'inevitabilità della lotta, con le poesie Spagna di Wystan Hugh Auden e
Spiego alcune cose di Pablo Neruda che elevavano la violenza antifascista come violenza necessaria per
contrastare il fascismo[130].
La guerra civile dunque divenne uno scontro che non apparteneva più solo alla Spagna, l'intervento di
Hitler e Mussolini a sostegno di Franco l'avevano trasformata anche, e soprattutto, in uno contro
internazionale tra fascismo e antifascismo. Gli intellettuali che si schierarono con la Repubblica capirono
che la posta in gioco della guerra non era solo la sua sopravvivenza, ma i valori di libertà e democrazia che
la trascendevano. Un valore simbolico dunque, rappresentato dal poeta Stephen Spender quando su Left
Review scrisse: « [...] se Franco vince, il principio della democrazia avrà ricevuto un duro colpo». In prima
fila in quella battaglia per la democrazia vi si posizionarono i comunisti, che in breve tempo furono gli unici
in grado di organizzare le Brigate internazionali in cui molti intellettuali combatterono, tanto che reparti
come il 5º Reggimento adottarono distintivi molto simili a quelli dell'Armata Rossa e venne adottata la
figura del commissario politico che affiancava i comandanti[134]. Il loro stato maggiore fu integralmente
comunista, dal comandante André Marty al commissario generale Luigi Longo ("Gallo"), ai comandanti e
commissari delle singole brigate; la stessa Colonna Italiana (una delle primissime unità di volontari che
raggiunsero la Spagna), essendo emanazione di una lunga opposizione italiana al fascismo fu l'unità con la
maggior presenza di antifascisti non-comunisti (fu infatti comandata fino al marzo 1937 dal repubblicano
Randolfo Pacciardi ed ebbe tra i più importati dirigenti politici l'azionista Emilio Lussu), ma i suoi due
commissari politici erano comunque comunisti: Antonio Roasio e Ilio Barontini[135]. Inoltre gran parte dei
quadri che svolsero diversi incarichi militari e organizzativi nelle Brigate erano "rivoluzionari di
professione" di ogni nazionalità che venivano direttamente o indirettamente da Mosca, come il tedesco
Franz Dahlem (per sei mesi sostituto di Marty), lo statunitense Robert Merriman, comandante del
Battaglione "Lincoln", o l'ex-deputato italiano Guido Picelli, caduto nel gennaio 1937. E molti dei
comandanti delle Brigate, nel dopoguerra divennero protagonisti dei governi comunisti e filo-comunisti
nell'Est Europa, come i tedeschi Walter Ulbricht e Friedrich Dichel, il ceco Klement Gottwald, l'albanese
Enver Hoxha, lo jugoslavo Josip Broz ("Tito") e altri.[136]
Nonostante la capacità dei comunisti di monopolizzare o quasi la lotta, l'antifascismo fu il vero comun
denominatore politico delle Brigate internazionali, nei reparti comunisti come in quelli che gravitavano
attorno agli anarchici; la figura più rappresentativa dei volontari stranieri della prima ora fu certamente
Carlo Rosselli, leader del movimento Giustizia e Libertà e fondatore assieme all'anarchico Camillo Berneri
della Colonna Italiana (o Colonna Ascaso) - che fu protagonista dei primi scontri in cui furono protagonisti
i volontari stranieri - e che divenne subito celebre per la sua frase «oggi in Spagna domani in Italia», a
conferma della volontà degli antifascisti di combattere il fascismo in ogni luogo fosse necessario[137].
Con Albacete come centro decisionale e di addestramento delle Brigate internazionali in Spagna, il centro
principale per il loro arruolamento divenne Parigi, dove il Partito Comunista Francese e italiano si
occupavano dell'organizzazione e della logistica delle Brigate, dato che le dittature fasciste o filofasciste
occupavano l'Europa centrale rendendo difficoltoso per gli antifascisti dell'Europa dell'Est trasferirsi in
Spagna. Polacchi in esilio dal regime militare di Józef Piłsudski assieme a ungheresi in fuga dal dittatore
Miklós Horthy, romeni che volevano evitare la Guardia di Ferro e greci che lasciavano la dittatura di
Ioannis Metaxas, giunsero a Parigi affrontando viaggi pericolosi e incerti, per poi imbarcarsi a Marsiglia
verso Barcellona o Valencia, oppure marciare di notte attraverso i Pirenei via Perpignano[138]. Il comitato
organizzativo delle Brigate internazionali il 26 ottobre si trasformò in un Consiglio militare che
comprendeva Vidal Gayman ("Vidal"), Vittorio Vidali ("Carlos Contreras") e il generale Karol
Świerczewski ("Walter"), con il generale Manfred Stern ("Emilio Kléber") in qualità di comandante
militare, mentre numerosi comandanti e consiglieri militari dell'Armata Rossa furono fatti arrivare in Spagna
per riferire al generale Kliment Efremovič Vorošilov l'andamento delle operazioni e la situazione politica
all'interno delle Brigate[139].
Le operazioni militari
Fu soltanto all'inizio di agosto che le rispettive zone
diventarono chiare e i fronti riconoscibili. Solo a
questo punto ci si rese conto che la Spagna si
trovava di fronte ad una guerra civile anziché ad un
colpo di Stato contrastato con la forza, e l'insuccesso
della Repubblica nel soccorre gli insorti fece in
modo che il governo legittimo si trovasse coinvolto
in un tipo di combattimenti a cui non era preparata,
in cui per vincere erano necessarie qualità che in un
primo tempo non possedeva[140]. I generali
nazionalisti d'altronde avevano bisogno di rapide
conquiste territoriali per convincere l'opinione
pubblica interna ed estera, l'ineluttabilità della loro
vittoria, e l'Armata d'Africa di Franco era l'arma più
efficace a disposizione dei nazionalisti[141]. Il ponte
aereo e il sistema di convogli organizzato da Franco Mappa riepilogativa delle operazioni 1936-1939:
furono la prima vittoria propagandistica a favore del Legenda
generale spagnolo, che acquisì grande prestigio. Il 7 Zone nazionaliste nel luglio 1936
Avanzata nazionalista a sett. 1936
agosto Franco atterrò a Siviglia stabilendovi il Avanzata nazionalista ott. 1937
proprio quartier generale, e iniziando a raccogliere Avanzata nazionalista a nov. 1938
attorno a sé il nucleo dello Stato Maggiore formato Avanzata nazionalista a febb. 1939
Ultime aree sotto controllo repubblicano
da uomini a lui fedeli, come Carlos Díaz Varela, il
colonnello Martín Moreno, il generale Alfredo Principali città nazionaliste
Kindelán e il generale Millán Astray, ma già dal Principali città repubblicane
giorno 3, Franco aveva dato ordine a tre colonne di Battaglie campali
soldati dell'Armata d'Africa di mettersi in marcia Battaglie navali
verso Madrid.[142] Città bombardate
L'11 agosto Franco scrisse a Mola una lettera in cui affermava che l'obiettivo primario per i nazionalisti era
quello di occupare Madrid, insistendo comunque sul fatto che fosse necessario spezzare la resistenza nelle
zone occupate, in particolar modo in Andalusia. Suggeriva perciò di stringere d'assedio la capitale, e
concludeva con un'affermazione che si rivelerà di grande peso nelle decisioni successive: «Non sapevo che
[l'Alcázar] di Toledo fosse ancora difeso. L'avanzata delle nostre truppe alleggerirà la tensione su Toledo e
ne procurerà la liberazione senza dover distogliere le nostre forze che potrebbero essere necessarie altrove».
Al tempo in cui Franco scrisse la lettera, Mola - senza coglierle implicazioni che una decisione del genere
avrebbe potuto avere - decise di non proseguire a sua volta nella ricerca di aiuti stranieri, ora che Franco li
aveva ottenuti, consegnando di fatto a lui il controllo dei rifornimenti italo-tedeschi. La cosa fece apparire
Mola come il vicecomandante di Franco agli occhi di Hitler e Mussolini, i quali iniziarono a considerare
Franco come il comandante unico dei nazionalisti, considerando inoltre che la pianificazione congiunta
degli aiuti militari per gli italo-tedeschi richiedeva la presenza di un unico comandante supremo nazionalista
con cui comunicare[144]. Il 14 agosto le forze di Yagüe Blanco, dopo aver preso Mérida, fecero una
inversione di marcia verso Bajadoz, che venne conquistata al costo di gravi perdite, ma permise ai
nazionalisti di collegare le zone nord e sud e di avere libero accesso alla frontiera con il Portogallo del
dittatore António de Oliveira Salazar, loro grande alleato[145].
Mentre le truppe di Franco ripresero la loro marcia attraverso l'Estremadura e la Nuova Castiglia verso
Madrid, a nord Mola decise di attaccare la provincia basca di Guipúzcoa per isolare i Paesi Baschi dalla
Francia. L'aviazione italo-tedesca colpì per giorni su Irún e San Sebastían, me tre dal mare l'obsoleta ma
incontrastata flotta nazionalista scaricava bordate contro le città basche. I difensori repubblicani, male armati
e male addestrati, nonostante il coraggio e il sacrificio furono sopraffatti: il 3 settembre cadde Irún e il 12
San Sebastián. Fu una vittoria chiave per i nazionalisti, Guipúzcoa era una ricca provincia agricola con
industrie pesanti, e sul piano strategico la zona repubblicana del nord venne di fatto completamente isolata;
le provincie di Vizcaya, Santander e delle Asturie potevano comunicare con il resto del territorio
repubblicano solo per via aerea e marittima[146].
Mola, consultandosi con Franco, mise a punto una strategia che prevedeva di espugnare Madrid in due
tempi; il primo attacco da nord-ovest avrebbe dovuto stringere la città in una morsa, mentre da sud-ovest le
forze dell'Armata d'Africa avrebbero dovuto sferrare un attacco frontale contro la periferia. L'offensiva fu
lanciata il 7 ottobre partendo da nord, da Navalperal lungo il fiume Manzaranes; a ovest da Cebreros e a
sud da Toledo. Le difese avanzate della città, già fiaccate dai bombardamenti, furono spazzate via dalle
colonne motorizzate nazionaliste, armate di carri veloci di fabbricazione italiana. Tuttavia, se fino a quel
momento si era trattato di una guerra simile a quella coloniale contro forze male armate e male addestrate -
in cui Franco e gli altri africanistica si erano fatti le ossa - adesso il conflitto cominciava ad assumere la
piega di uno scontro tra fronti contrapposti[154]. Dopo aver disperso le sue forze per aiutare Toledo, Franco
si accorse solo il 20 ottobre che le difese della capitale si stavano rafforzando, ed emanò frettolosamente
l'ordine di «concentrare tutta l'attenzione [...] intorno a Madrid». Inoltre Franco non si assunse la
responsabilità della campagna, probabilmente consapevole che a Madrid non avrebbe potuto cogliere i
facili allori che aveva colto a Toledo, per cui astutamente lasciò il difficile compito a Mola, il quale pieno di
ottimismo nominò un sindaco nazionalista e i suoi assessori convinto di entrare in pochi giorni nella
capitale[155]. A fine ottobre le forze di Mola erano entrate in possesso di numerosi villaggi e cittadine
circostanti Madrid, tra le quali Brunete, Móstoles, Fuenlabrada, Villaviciosa de Odón, Alcorcón e Getafe, e
la capitale venne sommersa da una marea di profughi che calavano in città con il loro carico di pecore e
animali domestici, creando non pochi problemi nella distribuzione del cibo e degli alloggi[156].
La maniera caotica con cui il governo lasciò Madrid fece pessima impressione all'opinione pubblica e diede
al partito comunista l'occasione per assumere il comando della difesa della capitale, aumentando
enormemente il proprio prestigio. La difesa di Madrid fu infatti una tappa importante nel cammino per il
PCE, che lo portò a dirigere l'intero sforzo bellico repubblicano in Spagna[159]. Nel frattempo il governo
repubblicano - nonostante le recriminazione degli anarchici del POUM [N 7] emanò alcune direttive per la
creazione di un Esercito popolare repubblicano a cui veniva accompagnata l’istituzione di un
Commissariato Generale di Guerra che doveva centralizzare e sostenere il lavoro dei commissari politici.
Dunque, anche in seno al nuovo esercito repubblicano veniva riprodotta la dinamica dei commissari
politici, che affiancarono il loro lavoro a quello dei commissari di guerra, ma questo non evitò che nel
percorso di formazione del nuovo organo, il PCE perdesse peso politico. Anzitutto, il governo volle
affidare la composizione degli organi direttivi dell’esercito unicamente ai militari di carriera; secondo, il
partito perse il suo fondamentale potere d’influenza sul governo dato dal controllo del reggimento più
importante per la difesa della Repubblica, il 5° che fu deciso si sarebbe sciolto. Tutta l'organizzazione delle
forze armate venne posta sotto il controllo del Ministero della Guerra, in mano al socialista moderato
Indalecio Prieto, e questo puntò politicamente a ridurre il peso dei comunisti nel nuovo esercito[160].
L'Esercito Popolare venne formandosi quindi sin dall'ottobre 1936, ma il processo si concluse parzialmente
con lo scioglimento del 5º Reggimento il 27 gennaio 1937 e la sua confluenza nel nuovo apparato militare.
Alla fine del 1937 però rimanevano ancora autonome le milizie anarchiche in Catalogna[161].
Il logoramento fisico delle truppe nazionaliste si fece sempre più importante e Yagüe Blanco e Varela
suggerirono di eseguire attacchi rapidi attraverso i sobborghi della capitale per fiaccare la resistenza nemica
in vari punti, Mola al contrario rimase convinto di poter compiere un attacco frontale decisivo lungo tutto il
fronte. Tra il 6 e 7 novembre Franco, cauto come sempre, bocciò entrambi i piani e lasciò Mola col compito
di continuare a premere sulla Città universitaria e lungo la direttrice del Manzaranes[156]. Varela e Yagüe
comprensibilmente fiduciosi ritardarono l'offensiva finale per far riposare le truppe, ma non erano al
corrente che il 7 novembre i repubblicani erano entrati in possesso dei piani d'attacco di Varela ritrovati
dentro un carro armato nazionalista. Questo e l'arrivo dei rinforzi nella capitale creò uno stato di modesto
ottimismo nei comandi repubblicani. L'attacco di Varela del 10 novembre lungo la Casa de Campo a ovest
di Madrid fu respinto, con gravi perdite tra i nazionalisti, mentre il 15 novembre iniziarono i combattimenti
all'arma bianca tra le Brigate internazionali e le truppe nordafricane nella Città universitaria. Dal 12
novembre erano inoltre iniziati i bombardamenti sistematici sulla capitale da parte della Legione Condor,
ma l'impatto dell'arma aerea sulle operazioni fu di fatto trascurabile, con i tedeschi ansiosi soprattutto di
misurare le distruzioni dei bombardamenti aerei su un'area urbana piuttosto che supportare le truppe di
terra[166]. Il 23 novembre l'avanzata nazionalista si era ormai esaurita, le forze repubblicane assieme alle
Brigate e allo stoicismo della popolazione madrilena riuscirono a fermare l'Armata d'Africa nei pressi della
Città universitaria, a pochi chilometri dal centro città, e Miaja divenne un eroe popolare anche grazie all'uso
propagandistico che il PCE fece della sua figura. I comunisti si erano resi
conto che ai madrileni serviva una figura eroica, e Miaja fu perciò tenuto
su un piedistallo, ma in molti consideravano Miaja sciatto e
incompetente. Il giornalista Michajl Kol'cov per esempio, sosteneva che
le operazioni nella capitale furono in realtà coordinate dal colonnello -
poi generale - Vicente Rojo, che Caballero aveva nominato capo di stato
maggiore prima di riparare a Valencia[167]. Ma la figura di Miaja con il
suo ottimismo e la sua tenacia contribuirono a tenere alto il morale delle
truppe madrilene che resistettero agli attacchi dei nazionalisti, nonostante
avesse ereditato una situazione militare talmente disperata che fu ritenuto
da molti, compreso sé stesso, il capro espiatorio sulla cui testa sarebbe
ricaduto il biasimo per la caduta di Madrid[166].
Nel frattempo gli italiani avevano ormai fatto arrivare nella Spagna
del sud abbastanza uomini e mezzi per intraprendere operazioni
militari sul campo, così il 3 febbraio 1937, colonne motorizzate
italiane al comando di Roatta e nazionalisti spagnoli al comando di
Quipo de Llano puntarono su Malaga. La città, bombardata da
aerei italiani e dalle navi nazionaliste cadde con relativa facilità,
mentre le difese repubblicane collassavano incapaci di affrontare i
piccoli ma veloci carri italiani. Da questa facile vittoria Franco e
Mussolini trassero la errata conclusione che la missione militare di
Roatta fosse invincibile, ma la relativa poca resistenza non impedì
Truppe nazionaliste impegnate negli alle truppe nazionaliste di dare inizio al massacro della
scontri a Guadalajara popolazione: aerei e navi presero di mira le colonne di rifugiati che
si allontanavano verso est, mentre in città gli uomini della Falange
fucilarono circa 4.000 repubblicani[170]. La conquista di una delle
città più popolose della Spagna diede a Franco un risultato sia propagandistico che strategico, dato che ora i
nazionalisti potevano minacciare Cartagena (il principale porto repubblicano in cui sbarcavano gli aiuti
sovietici) e in prospettiva Valencia[171]. La vittoria di Malaga ridiede fiducia alle truppe che assediavano
Madrid, e i nazionalisti sferrarono una imponente offensiva a sud della capitale nella valle del fiume Jarama,
lungo la direttrice Madrid-Valencia. I difensori furono colti di sorpresa dall'intensità del fuoco d'artiglieria a
disposizione dei franchisti e dall'abilità delle truppe nordafricane di muoversi in campo aperto, ma dopo un
primo sbandamento riuscirono a ricompattarci e a offrire una strenua difesa. I nazionalisti avanzarono di
qualche chilometro ma non conquistarono alcun obiettivo strategico, mentre le forze repubblicane e le
Brigate internazionali dimostrarono di potersi difendere efficacemente anche se al costo di perdite elevate.
L'esito della battaglia fu infatti enormemente sanguinoso; i repubblicani persero 25.000 uomini, mentre i
nazionalisti circa 20.000, ma il prezzo più alto fu pagato dalle inesperte Brigate internazionali: il
contingente britannico venne praticamente annientato in un solo pomeriggio, assieme ad alcuni tra i migliori
combattenti reduci della prima guerra mondiale a disposizione delle Brigate[172].
Guadalajara fece vacillare la convinzione di Franco di poter vincere la guerra prendendo Madrid e lo
costrinse a un brusco voltafaccia strategico. Per la Repubblica Guadalajara rappresentò una vittoria di
prestigio il cui unico risultato fu quello di procrastinare, sia pur di parecchio, la sconfitta definitiva, ma sul
morale delle truppe ebbe un effetto galvanizzante. Inoltre i repubblicani si impadronirono di molto materiale
bellico, fecero migliaia di prigionieri ed entrarono in possesso di documenti che dimostrarono
l'appartenenza all'esercito regolare di molti italiani, smontando quindi la menzogna propagandistica che in
Spagna fossero presenti solo italiani volontari. Il Comitato del non-intervento comunque si rifiutò di
accogliere la prova inconfutabile dell'intervento ufficiale italiano in Spagna, con la risibile motivazione che
a presentarle non era un paese membro. L'ipocrisia del Comitato si presentò in tutta la sua evidenza quando
il 23 marzo, Dino Grandi, si prese gioco della diplomazia europea annunciando che nessun «volontario»
italiano sarebbe stato fatto rimpatriare finché la vittoria di Franco non fosse stata completa[176].
Strategicamente Franco non colse l'apporto decisivo che la collaborazione tra blindati, aviazione e truppe di
terra avrebbe potuto portare a una conclusione più rapida della guerra. Il 22 aprile intervistato da un
giornalista statunitense Franco palesò la sua visione obsoleta della guerra ammettendo che «Le guerre non
si vincono né si perdono nei cieli [...] I carri armati sono di una certa utilità e hanno, naturalmente, un loro
ruolo in battaglia, ma è un ruolo limitato. [...] Tutto considerato il successo arriva là dove esiste la
competenza del comandante, il coraggio delle truppe e la Fede», rivelando chiaramente il divario che lo
separava dagli sviluppi che la teoria militare stava avendo in quegli anni e la sua mentalità militare ferma a
fine '800[177].
Tra il 24 e il 26 marzo a Salamanca, lo stato maggiore di Franco e di Mola assieme al tenente colonnello
Wolfram von Richthofen, capo di stato maggiore della Legione Condor, stabilirono le linee generali per una
campagna contro le provincie basche e in primo luogo con l'obiettivo di prendere Bilbao. Nel corso delle
riunioni vennero presi accordi per mantenere contatti costanti e solerti tra le forze terrestri spagnole e la
Legione Condor, e fu stabilito che le incursioni aeree in preparazione all'assalto di terra sarebbero avvenute
«senza tenere conto della popolazione civile»[179]. Mola riunì un grande esercito formato da unità
dell'Armata d'Africa, da Requetés ormai completamente militarizzati e riuniti nelle cosiddette "Brigate
navarresi" e da brigate italo-spagnole, mentre la copertura aerea sarebbe stata assicurata dalla Legione
Condor e da in minor misura da reparti dell'Aviazione Legionaria. L'integrazione delle truppe italiane con
quelle spagnole fu facilitata dal richiamo in patria di Roatta e del suo capo di stato maggiore Emilio
Faldella, sostituiti da Ettore Bastico e Gastone Gambara che sottoposero il CTV a una drastica
riorganizzazione. E con il CTV in fase di riorganizzazione, i tedeschi esclusero di fatto i comandi italiani
dalle decisioni operative nella campagna del Nord, con soddisfazione di sia loro sia dei comandi spagnoli
che vedevano gli italiani come alleati ingombranti e meno preparati dei tedeschi, che al contrario riuscirono
ad assicurarsi la fiducia quasi totale di Franco e Mola[180].
L'offensiva di Mola ebbe inizio il 31 marzo con il bombardamento delle città di Elorrio e di Durango, nelle
retrovie del fronte, vennero sottoposte a violenti incursioni a ondate successive di bombardieri Ju 52 e
S.M.81 partiti da Soria. Durango, senza difese antiaeree e senza alcuna presenza militare, venne
bombardata deliberatamente per colpire i civili, e mentre i civili
scappavano lasciando la città, un’ondata di He 51 fatta alzare
appositamente in volo andò a caccia delle colonne di persone in
fuga. In totale 250 persone persero la vita durante l’azione.
Successivamente da Radio Siviglia il generale Queipo del Llano
dichiarò che « [...] i nostri aerei hanno bombardato obiettivi militari
a Durango» e dato che nel bombardamento venne colpita una
chiesa, causando la morte di 14 suore e del sacerdote che stavano Mappa esplicativa della campagna
officiando la messa, per far ricadere la colpa di questo sugli del Nord, con le date della caduta
avversari, dichiarò anche che «in seguito i comunisti e socialisti delle maggiori città basche
hanno rinchiuso preti e suore, uccidendoli senza pietà e
incendiando le chiese»[181]. Sul fronte terrestre le forze nazionaliste
andarono all'attacco di tre alture che controllavano l'accesso alla città di Bilbao - i monti Maroto, Albertía e
Jarinto - sulle quali erano trincerate le forze repubblicane formate dai nazionalisti baschi dell'Euzko
Gudaroztea, da battaglioni delle Asturie e di Santander, e da formazioni dell'UGT e del CNT. Prevedendo
di mettere le mani sulle provincie basche in meno di tre settimane, Mola e Franco rimasero sconcertati dalla
tenacia dei nazionalisti baschi, ma il terrore che seminavano i franchisti con i bombardamenti aerei e
d'artiglieria, che uniti ai contrasti interni fra i repubblicani le cui milizie politiche erano diffidenti le une dalle
altre[N 8], provocarono un graduale sgretolamento della resistenza basca[182].
Alla lenta avanzata nazionalista i repubblicani privilegiarono - rispetto all'invio diretto di aiuti sulla costa
cantabrica - l'attuazione di offensive in altre zone per costringere l'esercito franchista a frenare l'iniziativa
nei Paesi Baschi. Tra maggio e giugno vennero sferrate le modeste offensive su La Granja-Segovia e su
Huesca - nella quale cadde il leggendario "generale Lukács" delle Brigate internazionali - contenute dai
nazionalisti senza grande difficoltà. Sul piano militare Franco pianificò un'avanzata molto lenta verso
Bilbao, con grande disappunto degli alleati fascisti, sia perché questo gli avrebbe dato modo di operare con
tutta calma all'eliminazione fisica dei repubblicani sia perché volle sfruttare la situazione mediatica
internazionale dopo Guernica. Difatti dopo il bombardamento si levarono molte voci che chiedevano un
compromesso tra baschi e nazionalisti, così Franco colse l'occasione per non apparire irragionevole e dare
l'impressione che avesse intenzione di cercare un accordo, dando ordine a Mola di sottoporre ai baschi delle
condizioni per accettare la resa. Tuttavia l'azione di Franco fu di facciata, di fatto non diede nemmeno il
tempo necessario ai mediatori per decidere, così l'8 maggio diede ordine a Mola di riprendere la marcia e
accerchiare Bilbao[185]. Il 3 giugno Mola rimase vittima di un incidente aereo durante il trasferimento verso
Burgos dove avrebbe dovuto incontrare Franco e Serrano Suñer; la notizia suscitò scalpore al quartier
generale nazionalista ma il Caudillo ne rimase sollevato, dato che ora non doveva avere più a che fare con
un generale per lui «scomodo», con il quale non erano mai intercorsi buoni rapporti. L'Armata del Nord fu
quindi affidata a Fidel Dávila Arrondo, un generale ciecamente fedele a Franco[186], e con il vitale supporto
delle forze aeree italo-tedesche Arrondo entrò a Bilbao il 19 giugno. Caduta Bilbao i nazionalisti
incontrarono ben poca resistenza nel prosieguo della campagna del Nord, l'unico ostacolo alla loro avanzata
era l'esasperata lentezza di Franco, che, secondo Kindelán, rischiava di lasciarsi sfuggire l'opportunità di
compiere una campagna lampo in tutto il settentrione. Ci vollero tre settimane per preparare la seconda fase
dell'offensiva, ossia l'avanzata verso Santander e la provincia di Vizcaya, l'ultima ancora in mano alla
Repubblica, e di questa lentezza ne approfittarono i repubblicani, che grazie alla pianificazione
dell'energico capo di stato maggiore Vicente Rojo, sferrarono un ambizioso attacco a Brunete che colse di
sorpresa le forze nazionaliste e per poco non riuscì a isolare le truppe franchiste che assediavano
Madrid[187].
Le controffensive repubblicane
Le offensive di Brunete e Belchite avevano messo in evidenza i grossi limiti delle forze armate
repubblicane, che non riguardavano solo l'inferiorità aerea e in generale dei mezzi a disposizione, ma
soprattutto le deficienze dei comandi intermedi e i limiti delle truppe di seconda linea e di riserva. La
strategia di Rojo dovette quindi scontrarsi con i limiti di quadri intermedi non all'altezza, e di truppe di
rinforzo che non avevano un addestramento sufficiente per tamponare le perdite e mantenere terreno
conquistato dalle truppe di prima linea. I comunisti nelle due offensive misero a disposizione buona parte
degli alti comandi: il comandante del V Corpo d'Armata Juan Modesto, i comandanti di divisione Líster,
Valentin Gonzales ("El Campesino") e José Maria Galán, gli ufficiali sovietici delle Brigate internazionali
"Walter" e "Gal", e il comandante delle operazioni a Belchite, Pozas, così quasi per reazione istintiva, il
PCE iniziò ad accusare sempre più insistentemente gli ufficiali non-comunisti dell'esercito e dello Stato,
esasperando sempre di più i rapporti nel tentativo di occupare sempre un maggior numero di posti con
effetti sempre più negativi sul morale dei repubblicani[194][195]. Il PCE fu assecondato da Negrín e da tutti
coloro che condividevano l'idea che esso era lo strumento essenziale per salvare la Repubblica, ma
occupare posti di rilievo significava spodestare gli altri partiti, e ciò creava rivalità, esacerbate dal fatto che
la penetrazione nello Stato non corrispondeva nei successi militari promessi, così l'azione dei comunisti
venne percepita soprattutto come il tentativo di instaurare un regime comunista, anche se Stalin e il
Comintern non avevano tale proposito[196]. Anzi, la caduta di Caballero aveva dato speranze al binomio
Azaña-Prieto che contavano in Negrín per un ritorno al sistema liberal-democratico, e per realizzare questo
disegno Azaña contava in una nuova disponibilità di Francia e Gran Bretagna a sostituirsi all'Unione
Sovietica nel sostegno militare e politico alla Repubblica. Questa condizione si rivelò irrealistica, e
nonostante una iniziale intesa fra Azaña, Prieto e Negrín, con la sconfitta nella campagna del Nord il clima
si fece così plumbeo che le prospettive di una resurrezione democratica divennero sempre più deboli e
incerte[197].
Se sul fronte repubblicano i contrasti tra comunisti, socialisti e anarchici inficiavano pesantemente sul
morale e sulla condotta politica, la situazione era ben diversa nella zona nazionalista. Dopo la morte di
Mola, Franco poté dirigere le operazioni in totale autonomia, al comando di truppe che non avevano
problemi né di insubordinazione né di disciplina. Questo tuttavia non impedì al generalissimo di sacrificare
la vita dei suoi soldati in azioni di dubbio valore strategico, come sanguinose controffensive, in particolare a
Brunete, per riconquistare ogni singolo centimetro di terreno perduto coerentemente alla sua visione politica
vendicativa che mirava ad annientare totalmente il repubblicanesimo. Ora che i suoi rivali erano tutti morti,
Franco poté inoltre estendere il suo comando non solo alla sfera
militare, ma anche a quella politica[198]. Il 30 gennaio 1938 istituì il
primo governo regolare, chiudendo l'epoca della Junta militare di
Burgos e mettendo ai vertici politici familiari e fedelissimi: suo
cognato Ramón Serrano Súñer - che in breve tempo ottenne
grandissimo potere con il controllo della stampa e della
propaganda - ottenne il dicastero degli Interni, mentre gli altri
ministeri vennero assegnati a un gruppo costituito da militari,
monarchici, carlisti e falangisti molto accondiscendenti al
Caudillo[199][N 9]. Questo primo governo fu l'antesignano degli
equilibrismi attentamente bilanciati che Franco utilizzò dei
successivi vent'anni, in cui il dittatore cercò di accontentare e La situazione del fronte dopo la
neutralizzare tutte le forze nel campo nazionalista. In quest'ottica si campagna del Nord e le
controffensive repubblicane
inseriva dunque anche la fusione tra la Falange e i carlisti, che
avvenne il 19 aprile precedente, quando i due movimenti furono
fusi insieme in un unico partito, ossia la Falange Española
Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista (FET y de Las JONS) con il franchista
Raimundo Fernández-Cuesta segretario generale. La creazione tramite decreto di questo partito unico e
l'auto-conferimento del potere di nominare per diritto metà dei membri del Consejo Nacional - i quali, a
loro volta avrebbero nominato l'altra metà - conferì di fatto a Franco il potere assoluto sulla Spagna
nazionalista. Il Caudillo si era così liberato di tutti coloro che tentavano di apporre il proprio marchio sul
processo di unificazione delle forze nazionaliste, che ora sarebbe avvenuto unicamente sotto la sua
leadership[200].
Le tre sconfitte di Belchite, Brunete e Teruel dimostrarono in modo inoppugnabile che la superiorità
materiale permetteva ai ribelli di avere sempre e comunque la meglio sul coraggio dei repubblicani e sui
brillanti piani di Rojo. In tutte e tre le occasioni le forze della Repubblica non seppero sfruttare il successo
iniziale, sia a causa della schiacciante superiorità di Franco in termini di uomini e mezzi (da fine 1937 la
leva obbligatoria nelle sempre più ampie zone nazionaliste forniva sempre truppe fresche, mentre in campo
repubblicano le truppe diventavano sempre meno a causa del terreno perso), sia a causa delle divergenze in
seno ai comandi repubblicani. Indalecio Prieto criticò aspramente l'inefficienza delle operazioni, mentre i
comandanti erano lacerati da forti rivalità: il comunista "El Campesino" criticò Líster e Modesto rei secondo
lui di averlo abbandonato mentre si trovava accerchiato a Teruel, mentre altre versioni accusarono "El
Campesino" di essere fuggito dal fronte in preda al panico, mentre alcune unità del CNT ammutinarono e
46 anarchici furono fucilati per diserzione[205].
Punto di rottura
La sconfitta di Teruel segnò il punto di svolta della guerra civile. La schiacciante superiorità delle truppe
franchiste fece propendere i comandi nazionalisti a consolidare la loro vittoria con una massiccia offensiva
che passando dall'Aragona e Castellón raggiungesse il mare[206]. I piani dettagliati della grande offensiva
tracciata a grandi linee da Franco in una riunione dell'alto comando il 24 febbraio 1938 a Saragozza, furono
elaborati nel dettaglio dal generale Juan Vigón e prevedevano l'avanzata di 200 000 uomini su un fronte di
260 chilometri, lungo la valle dell'Ebro, ed effettuassero azioni a lungo raggio a nord verso i Pirenei e a sud
verso Valencia. Franco gettò sul piatto della bilancia tutta la sua superiorità materiale nel tentativo di
costringere gli avversari a tendere le linee difensive fino a spezzarle. Il comando delle operazioni fu affidato
al generale Fidel Dávila Arrondo e a Yagüe Blanco fu affidato il compito di sfondare le linee con l'ausilio di
carri tedeschi e sovietici di preda bellica, in quella che può essere considerata l'operazione più simile a una
blitzkrieg che Franco avesse mai autorizzato[207].
Politicamente, da parte repubblicana, la battaglia dell'Ebro fu quella che la Repubblica poté affrontare con
le migliori condizioni dall'inizio della guerra; il governo Negrín aveva raggiunto il massimo dell'autorità
dato che nessun centro di potere autonomo era rimasto in piedi nella zona repubblicana: con la caduta del
Nord erano spariti il governo autonomo basco, la Junta di Santander e il Comitato sovrano delle Asturie; il
Consiglio d'Aragona era stato sciolto e il governo catalano era ormai praticamente esautorato. La dissidenza
politica interna era stata emarginata con Caballero ormai in posizione minoritaria, le organizzazioni
anarchiche logorate da una irreversibile crisi interna e Prieto che dopo la caduta di Teruel era caduto in
disgrazia e aveva ceduto il posto di ministro della Guerra allo stesso Negrín il 5 aprile[212][N 10].
Gli unici malumori erano creati dai comunisti, dei quali Negrín era
considerato una creatura, che occupavano progressivamente i posti
chiave dell'amministrazione e dell'esercito grazie a una politica
perseguita dal Comintern - e attuata in Spagna da Palmiro Togliatti
- che rendeva i comunisti i maggiori e più efficaci interpreti della
linea di difesa a oltranza della Repubblica, e allo stesso tempo
favoriva le accuse di assoggettamento della Spagna a Mosca,
creando vagheggiamenti tra quanti speravano di arrivare a una
pace di compromesso con Franco in nome dell'anticomunismo[213]. Bombardamenti nazionalisti su
Tra la primavera e l'estate del 1938 i comandi dei quattro corpi Barcellona
d'armata in Catalogna, che avrebbero combattuto la grande
battaglia dell'Ebro, furono assegnati tutti a comunisti, mentre tre le
forze del centro-sud nell'inverno 1938-1939, 8 dei 17 corpi d'armata erano comandanti da comunisti e in 5
dei restanti 9 avevano come commissario politico un comunista. Anche per quanto riguardava le forze di
polizia Negrín affidò ai comunisti i posti chiave, e restò passivo quando le varie forze di polizia divennero
uno strumento repressivo in mano dei comunisti, ad esempio quando i comunisti decapitarono il POUM,
facendo sparire il loro leader Andrés Nin, accusato di trotzkismo, durante le cupe giornate del maggio 1937
a Barcellona[214].
La subordinazione di Negrín ai sovietici era dettata dal pragmatismo del capo del governo repubblicano,
consapevole che la guerra sarebbe stata persa senza le armi sovietiche, e che la scelta di resistere implicava
inevitabilmente, in assenza di alternative, quella dipendenza a cui Negrín - secondo lo storico Burnett
Bolloten - avrebbe fatto probabilmente a meno se le democrazie occidentali avessero cambiato il loro
atteggiamento. Ma la «farsa del non-intervento» e lo scenario internazionale rimase sfavorevole per la
Repubblica: nell'aprile 1938 Blum cedette il suo posto a Édouard Daladier, che preoccupato
dell'aggressività italo-tedesca non cambiò la politica francese del non-intervento; in Gran Bretagna Eden fu
sostituito da lord Halifax, molto disponibile a un'intesa a scapito della Repubblica che conseguì a un patto
anglo-italiano nell'aprile 1938, che implicava l'accettazione di truppe italiane in Spagna in cambio di un
impegno di Mussolini di abbandonare la Spagna al termine della guerra[213]. Nel frattempo dal mare o
attraverso il Portogallo continuava il regolare afflusso di armi italo-tedesche e di petrolio statunitense,
mentre per la Repubblica gli aiuti furono discontinui, interrotti dalle navi italiane, tedesche e nazionaliste
che controllavano impunemente il Mediterraneo costringendo l'URSS ad abbandonare quella rotta per far
pervenire i suoi aiuti attraverso la lunga rotta Murmansk-Bordeaux, da dove sarebbero arrivati in Spagna
via terra attraversando la frontiera francese, che in diverse occasioni si rivelò chiusa, anche a marzo 1938 il
governo francese consentì un flusso più o meno costante di armi per l'esercito repubblicano[215].
Dopo aver tagliato in due la zona repubblicana, Franco rinunciò ad attaccare la Catalogna, in cui si
concentrava l'ormai unica industria bellica della Repubblica, così da concludere con mesi d'anticipo la
guerra. Al Caudillo non interessava finire celermente la guerra né arrivare a un compromesso con Negrín; il
conseguimento di una vittoria decisiva a Barcellona, o in alternativa a Madrid, avrebbe lasciato in vita un
numero eccessivo di repubblicani armati nella Spagna centrale nel primo caso, o nel sud-est del paese nel
secondo caso, e questo cozzava con l'obiettivo di Franco di annichilire la Repubblica e tutti i suoi
sostenitori. Così dopo qualche settimana Franco decise di deviare il suo attacco verso sud per attaccare in
forze Valencia[216]. Ai primi di maggio l'offensiva sull'Ebro fu fermata, e per convincere i tedeschi - molto
contrariati per questa lentezza - a non lasciare la Spagna, Franco moltiplicò le concessioni minerarie al
Reich, mentre Mussolini sgomento della lentezza di Franco, dopo aver minacciato di ritirare 10 000 uomini,
ne inviò altri 6 000 con decine di aerei per dare nuovo vigore alle forze nazionaliste. In campo repubblicano
al contrario il 13 giugno il nuovo governo Daladier chiuse i confini tra Francia e Spagna, rendendo molto
difficile ogni approvvigionamento per la Catalogna[217][218].
Il 23 luglio i nazionalisti giunsero a meno di 40 chilometri da Valencia, e il comandante Rojo - ancora una
volta - organizzò un disperato attacco di carattere diversivo lungo il fiume Ebro. All'alba del 26 luglio
Yagüe Blanco, che presidiava con le sue truppe marocchine l'ansa che l'Ebro descrive tra Fayón e Xerta, si
accorse che durante la notte un grande esercito repubblicano aveva attraversato in più punti il fiume e fatto
passare uomini, carri, artiglierie e veicoli motorizzati. La sorpresa fu tanto peggiore quanto per la prima
volta i nazionalisti si resero conto che la Repubblica era in grado di compiere in poco tempo un lavoro
logistico e organizzativo mai visto prima, e nel giro di quattro giorni un esercito di 250 000 uomini al
comando del generale Juan Hernández Saravia e dai colonnelli Sebastián Pozas Perea e Juan Modesto,
occupò la sacca disegnata dal fiume fino al paese di Gandesa[220]. La sorpresa attuata da Rojo, oltre a
distogliere Franco da Valencia, avrebbe inoltre consentito a Miaja di organizzare un'offensiva verso
l'Estremadura in modo da spezzare in due il territorio nazionalista e invadere l'Andalusia. Ma solo la prima
parte del piano si realizzò; Franco effettivamente abbandonò Valencia per spostare le sue forze sull'Ebro,
dando inizio a una lunga e logorante battaglia militarmente insensata, con grandi attacchi frontali, piccole
avanzate e ritirate alternate ed enormi perdite in entrambi gli schieramenti. A metà novembre 1938, dopo tre
mesi e mezzo di inconcludenti combattimenti, la battaglia dell'Ebro terminò con la ritirata dell'esercito
repubblicano sulle posizioni di partenza al di là del fiume, mentre sul fronte centrale inoltre Miaja dovette
abbandonare ogni velleità di aiuto diretto all'esercito impegnato sull'Ebro a causa degli attacchi compiuti da
Queipo de Llano, che costrinsero i repubblicani sulla difensiva[221].
Molti furono i critici di Franco in questa occasione, dato che in molti sostennero che avrebbe potuto
facilmente consolidare il fronte di Gandesa e quindi aggirare le posizioni avversarie dilaniando in
Catalogna, ma il Caudillo preferì impegnarsi in una battaglia di logoramento, forte di avere uomini e
materiali in abbondanza, ritardando la vittoria finale e allo tesso tempo infliggendo un duro colpo al morale
dell'esercito repubblicano vanificando ogni suo sforzo.[222][223]. Entrambi i contendenti lasciarono sul
terreno migliaia di uomini: i nazionalisti ebbero circa 65 000 morti e 30 000 feriti, ma la Repubblica aveva
perso la quasi totalità dell'Esercito dell'Ebro e non avevano alcuna possibilità di sostituire le perdite umane e
materiali; l'ultima offensiva repubblicana si era conclusa con la decisiva vittoria dei nazionalisti[224].
Nonostante ciò la compattezza e lo spirito di sacrificio di cui diedero prova le truppe repubblicane sull'Ebro
furono più che mai il risultato dell'opera dei commissari politici in maggioranza comunisti. Il commissario in
capo di quell'esercito era infatti Luis Delage, già responsabile a Madrid della propaganda di partito, che
dimostrò la grande opera dei comunisti nel motivare gli uomini al fronte; se socialisti, repubblicani e
anarchici avevano ragione da vendere in merito alla loro costante emarginazione decisionale e nella
distribuzione delle armi a favore dei comunisti, nessuno meglio di questi ultimi riuscì a tenere desta
l'adesione popolare alla difesa della Repubblica[230]. La capacità di resistenza di quelle truppe però non fu
inesauribile, e la sconfitta sull'Ebro contribuì a isolare ancor di più i comunisti dalle altre forze politiche,
mentre Franco per aggravare le discordie tra i suoi nemici fece balenare qua e là che ad alcune condizioni si
poteva trattare una pace, e una di queste condizioni era che il generalissimo si sarebbe detto disposto a
trattare se al posto di Negrín ci fosse stato un moderato come Julián Besteiro. Nel novembre 1938 Besteiro
si recò a Barcellona per dei colloqui con i "pacifisti" Companys, Prieto e altri del PSOE - specialmente con
Azaña, ma dal colloquio non emerse nessuna effettiva volontà di agire, e dal dicembre entrarono in gioco i
militari Casado e Miaja, che incontrarono diverse volte Negrín per sondare le sue intenzioni di staccarsi dai
comunisti, ricevendo risposte sempre negative[231].
Dal canto suo Negrín nel settembre 1938, durante i giorni della Conferenza di Monaco, annunciò il ritiro di
tutti i volontari stranieri dalla Spagna nel tentativo di presentare la guerra come un affare interno, e nella
speranza che la questione spagnola potesse venir inclusa nel contenzioso tra potenze democratiche e regimi
fascisti che si stava svolgendo a Monaco. Una deflagrazione europea avrebbe inoltre potuto spingere le
forze democratiche a scendere in campo a fianco della Spagna repubblicana, e costringere Italia e Germania
a mettere da parte gli aiuti a Franco, il quale si sarebbe trovato costretto a intavolare negoziati di pace. Ma la
crisi cecoslovacca si risolse con una genuflessione delle nazioni democratiche nei confronti di Hitler, e ciò
costituì la condanna definitiva per la Spagna repubblicana; in primo luogo perché svanì ogni possibilità di
inglobare il conflitto spagnolo in una guerra europea, che era forse l'ultima e unica chance di vittoria, in
secondo luogo perché l'atteggiamento di Francia e Gran Bretagna nei confronti della Cecoslovacchia fece
capire ai leader repubblicani che non vi era nessuna possibilità che le due potenze intervenissero a favore
della Repubblica[232]. A Barcellona il 29 ottobre 1938 le Brigate internazionali sfilarono per l'ultima volta
prima di lasciare la Spagna, davanti a migliaia di spagnoli che applaudivano e piangevano. In
quell'occasione Dolores Ibarruri, "la Pasionaria", tenne un discorso commovente e commosso: «Compagni
delle Brigate internazionali! Ragioni politiche, ragioni di stato, il bene di quella stessa causa per cui avete
offerto il vostro sangue con illimitata generosità, costringono alcuni di voi a tornare in patria, altri a
prendere la via dell'esilio. Potete partire con orgoglio. Voi siete la storia. Voi siete la leggenda [...] Non vi
dimenticheremo; e quando l'ulivo della pace metterà le foglie [...] tornate! Tornate da noi e qui troverete una
patria»[233].
L'attacco nazionalista
Franco dopo Monaco tirò un sospiro di sollievo, la Francia aveva perso credibilità agli occhi del Caudillo
mentre l'Unione Sovietica - esclusa dalle trattative della situazione cecoslovacca - data l'inconsistenza della
politica francese cominciò a ridurre progressivamente il suo sostegno alla Repubblica e a cercare altrove
garanzie per la propria sicurezza[234]. In poche parole la fine della Repubblica era imminente, se i
repubblicani continuarono a resistere per mesi fu soltanto per la paura che suscitava il proposito di Franco,
ben propagandato, di sradicare per sempre la «pianta infestante» liberale, socialista e comunista, e dopo
aver ribadito la impossibilità di una pace - tempo prima falsamente ventilata da lui stesso - dichiarò che i
nazionalisti avevano una lista di due milioni di rossi che dovevano essere «puniti» per i crimini commessi.
Fu il terrore delle rappresaglie nazionaliste a trattenere i repubblicani sui campi di battaglia[235].
Il 4 marzo il colonnello Segismundo Casado, comandante dell'armata repubblicana del Centro ed effettivo
sostituto di Miaja, decise di porre termine alla carneficina della guerra civile, e insieme ai leader anarchici
delusi e al socialista Julián Besteiro costituì una Junta de Defensa Nacional a Madrid in opposizione a
Negrín e ai comunisti che volevano continuare la lotta, nella speranza che un'insurrezione militare di
carattere anti-comunista potesse convincere Franco ad avviare trattative di pace. La rivolta di Casado diede
il via a quella che a tutti gli effetti fu una seconda guerra civile all'interno della zona repubblicana, e il 6
marzo iniziarono gli arresti a Madrid dei comunisti, arresti ai quali Miaja acconsentì con riluttanza dopo
aver assunto la presidenza della Junta voluta da Casado. Il 7 marzo Luis Barceló Jover, comandante filo-
comunista decise di passare all'azione e con le sue truppe attaccò Madrid scontrandosi duramente con il 4º
Corpo d'armata comandato dall'anarchico Cipriano Mera Sanz, il quale ebbe la meglio e il 10 marzo
Barceló, assieme ad altri ufficiali comunisti, fu arrestato e giustiziato. Fu la fine del predominio del partito
comunista nei territori centrali[240], confermato dal fatto che già dal 6 marzo Negrín, Stepanov, Ibárruri,
Modesto, Líster e altri dirigenti comunisti lasciarono la Spagna decollando da Elda diretti a Orano o
Tolosa[241]. Solo Togliatti, con Fernando Claudín, rimase in Spagna per cercare di riprendere le fila della
situazione, cercando di comunicare con i comunisti di Madrid nel tentativo di cercare un'intesa con Casado,
senza tuttavia ottenere alcun risultato. E il 24 marzo a sua volta lasciò la Spagna assieme ad altri membri del
partito diretto in Algeria[242].
Ma le aspettative di Casado furono frustate da Franco, che non era assolutamente intenzionato ad accettare
una resa con condizioni, voleva una resa incondizionata e inoltre si rifiutò di concedere qualsiasi garanzia ai
governi britannico e statunitense sulle rappresaglie, sostenendo che dopo aver versato tanto sangue, una
pace negoziata era inaccettabile. Quando i repubblicani si resero conto che i piani di Casado era
disastrosamente falliti, al fronte i repubblicani cominciarono a deporre le armi per arrendersi o dirigersi alle
proprie case, oppure per continuare la resistenza sulle montagne che durò fino al 1951. Il 26 marzo le
truppe franchiste iniziarono ad avanzare in modo concentrico verso il centro senza incontrare resistenza,
limitandosi a occupare le zone abbandonate dai repubblicani. Il 27 marzo le forze nazionaliste fecero il loro
ingresso a Madrid in un silenzio spettrale, accolte solo dai militanti nazionalisti della quinta colonna
madrilena, e nei giorni seguenti caddero Alicante, Jaén, Cartagena, Cuenca, Guadalajara, Ciudad Real e
così via, fino al 31 marzo, giorno in cui tutta la Spagna era ormai sotto il dominio nazionalista. Il 1º aprile
1939 il quartier generale di Franco emise l'ultimo bollettino di guerra, scritto a mano dal Caudillo in
persona, che diceva: «Oggi, con l'esercito rosso prigioniero e disarmato, le nostre truppe vittoriose hanno
conquistato i loro ultimi obiettivi militari. La guerra è finita»[243].
Fra i repubblicani alcuni avevano tentato di salpare da Alicante per raggiungere disperatamente i porti del
Mediterrano, altri preferirono suicidarsi piuttosto che cadere nelle mani dei Falangisti, mentre per quanti
erano riusciti a raggiungere la frontiera con la Francia prima della caduta della Catalogna si aprì il nuovo
dramma dei campi di raccolta francesi. Alla disperazione di aver lasciato il proprio paese e alla delusione
della sconfitta, per i repubblicani che riuscirono a riparare in Francia si aggiunsero le vessazioni delle
guardie di frontiera, l'abbandono senza riparo nelle notti gelide, il disprezzo dei sorveglianti, l'insensibilità
delle autorità, preoccupate, specie quelle militari, esclusivamente della loro sorveglianza, come se fossero
delinquenti comuni[244]. Il 27 marzo il colonnello Casado, accordatosi con la quinta colonna madrilena per
aver salva la vita, salpò con i suoi su una nave britannica nel porto di Gandía, mentre il vecchio leader
socialista Besteiro decide di rimanere accanto alla popolazione di Madrid nella illusoria speranza di riuscire
a placare la sete di vendetta dei nazionalisti. Fu arrestato e rinchiuso nella squallida prigione di Carmona,
dove morì nel settembre 1940. I comunisti arrestati da Casado e ancora imprigionati nelle carceri madrilene
furono immediatamente passati per le armi dai falangisti, mentre chi venne catturato mentre tentava di
lasciare la capitale o catturato nei porti spagnoli venne inviato nei campi di concentramento nazionalisti[245],
e per gli anni a seguire per molti di loro «la Spagna franchista sarebbe stata solo un grande carcere in cui
cercare di sopravvivere. Nessuna volontà di perdono o conciliazione guidò la condotta del Caudillo». Al
contrario, in base a un rigido criterio vendicativo ed epurativo, i plotoni d'esecuzione si dedicarono a
un'attività così intensiva da sorprendere anche i loro stessi alleati. Nel luglio 1939, dopo una visita ufficiale
in Spagna, Ciano scrisse in un rapporto che: «I processi quotidiani si svolgono con una rapidità che direi
quasi sommaria [...] le fucilazioni sono ancora numerosissime. Nella sola Madrid dalle 200 alle 250 al
giorno, a Barcellona 150; 80 a Siviglia, città che non fu mai nelle mani dei rossi»[246].
Per il controllo dell'economia e l'autarchia venne varato per decreto l'Istituto Nacional de Industria (INI),
che coordinava qualunque tipo di produzione, da quella tessile alla produzione di aerei. Franco proclamò
che la Spagna non aveva bisogno di importazioni estere per vivere; secondo lo storico Antony Beevor in
realtà l'autarchia servì soprattutto per pagare gli ingenti debiti con la Germania e l'Italia, rinunciando alle
spese per le importazioni. Per le opere pubbliche vennero poi utilizzati i migliaia di prigionieri di guerra
repubblicani, e il finanziamento di queste opere da parte delle banche spagnole creò uno stretto rapporto tra
le cinque principali banche spagnole e il regime franchista: in cambio della loro cooperazione vennero
protette dalla concorrenza - non vennero aperte nuove banche fino al 1962 - e ottennero notevole potere
economico, accumulando profitti basati sullo sfruttamento dei prigionieri di guerra e sul controllo statale dei
salari[252].
Dietro la retorica dell'unità nazionale e sociale, Franco fece di tutto per conservare la divisione fra vinti e
vincitori, la classe operaia non fu integrata in organizzazioni di regime come accadde in Italia o Germania,
ma venne inquadrata in sindacati corporativi come la Hermandades Sindicales de Labradores y
Granaderos (Confraternita sindacale di agricoltori e allevatori) che erano basate sul presupposto di una
comunanza di interessi tra lavoratori e possidenti terrieri. Questa però era sostanzialmente una frode che
poggiava sul sistema repressivo messo in atto nelle campagne dalla Guardia Civil e dalle guardas jurados
che vigilavano per impedire ai contadini di procurarsi qualcosa da
mangiare sulle terre padronali. Nella Spagna di Franco non ci fu
mai spazio per alcun aspetto anche fintamente anti-oligarchico, il
Nuevo Estado rimase uno strumento dell'oligarchia tradizionale, e
nonostante i falangisti basarono i loro proclami sulla retorica
anticapitalista, furono gli stessi dirigenti della Falange a
riconoscere apertamente la natura classista del regime
franchista[253]. Secondo l'ispanista Paul Preston quindi, il
franchismo dunque non fu che l'ultimo tentativo dei militari di
Ramón Serrano Súñer in visita nella
bloccare il progresso sociale in Spagna, ma a differenza di quelli
caserma della SS-Leibstandarte
precedenti, esso non servì solo gli interessi dell'oligarchia
"Adolf Hitler" a Berlino,
spagnola, ma anche quelli del capitalismo internazionale[254]. Le
accompagnato da Heinrich Himmler,
1º ottobre 1940.
democrazie occidentali si dimostrarono arrendevoli con Franco
dopo il 1945, consapevoli che il regime poteva proteggere gli
interessi e gli investimenti stranieri in Spagna meglio di quanto
avrebbe potuto fare un qualsiasi altro sistema politico, e questo, unito all'apparente anti-comunismo
celebrato da Franco, attirò ingenti capitali stranieri privati in Spagna[254]. Winston Churchill in un discorso
alla Camera dei Comuni nel maggio 1944, mentre gli Alleati erano ancora impegnati ad abbattere il
nazifascismo, aveva già tracciato l'atteggiamento che le potenze democratiche avrebbero mantenuto con
Franco, affermando che «I problemi politici interni della Spagna sono affari degli spagnoli medesimi [...]
Immagino che il nostro programma di rinnovamento del mondo non implichi un'azione militare contro
qualsiasi governo la cui forma interna di amministrazione non sia conforme ai nostri ideali»[255].
Se è pur vero che inizialmente il regime di Franco fu un calco di quelli fascisti, con la stessa coreografia e
gli stessi caratteri istituzionali come il culto del capo, il partito unico (il Movimiento), l'ordinamento di tipo
corporativistico e così via, esso manterrà fino alla fine un'accentuata coincidenza con la persona del
dittatore - da qui ad esempio l'accezione "franchista" in relazione al tipo di dittatura - e un tratto di costante
superiorità dell'elemento militare su quello civile. Attraverso il dividi et impera Franco riuscì ad assicurarsi
la lealtà delle diverse anime del franchismo: falangisti, monarchici, carlisti, cattolici e tecnocrati dell'Opus
Dei, ognuno dei quali però dovette sottostare nel quadro politico-amministrativo alla sfera militare del
regime[256]. Il ruolo del vice-Caudillo per esempio, fin dal 1941 fu sempre occupato da un militare, prima
l'ammiraglio Luis Carrero Blanco, poi il generale Muñoz Grandes e infine Arias Navarro; il Movimento
ebbe sempre un militare di carriera come segretario, così come il ministero dell'Interno, quello dell'Industria
e spesso anche i governatori delle provincie furono sotto controllo dei militari. Secondo lo storico Gabriele
Ranzato dunque, questo consentì a Franco di mantenere per quasi trentacinque anni il controllo totale della
Spagna, eliminando qualunque spinta ideologica e di cambiamento all'interno del partito, in una sorta di
neo-assolutismo che consentì al suo regime di sopravvivere alla caduta degli altri regimi fascisti europei[257].
Secondo Paul Preston però, la decisione che più di tutte consentì al regime di sopravvivere per molti anni fu
la decisione di Franco di non entrare in guerra a fianco delle potenze dell'Asse. Se nel 1939 Franco poteva
sentirsi politicamente al sicuro, la capacità economica e militare della Spagna non consentiva alcuna
avventura, anzi, l'esercito uscito dalla guerra civile non era neppure in grado di difendere i confini nazionali
in caso di attacco. Benché moltissimi armamenti italo-tedeschi fossero rimasti in Spagna, l'uso intensivo che
ne era stato fatto li aveva in larga parte logorati, e le difficoltà nel reperire pezzi di ricambio (e soprattutto
pagarli) ne diminuì ulteriormente l'utilizzo. Nonostante tutto, dopo l'estate 1939 Franco mantenne sotto le
armi quasi mezzo milione di uomini, in parte per avere a disposizione una forza repressiva, in parte perché
sopravvalutava la propria importanza militare[258]. All'inizio dell'estate Franco si considerava pronto a
esibire la sua forza militare su scena mondiale, dispose importanti concentrazioni di truppe alla frontiera
francese e a Gibilterra, e l'8 marzo aveva decretato l'uscita della Spagna dalla Società delle Nazioni
emulando gli alleati dell'Asse. Sempre secondo Preston, in quel periodo Franco era immerso in una sorta di
coreografica auto-celebrazione che culminò con le imponenti celebrazioni del 19 maggio 1939, che
proponevano Franco quale alleato a pieno titolo dei paesi dell'Asse, con i quali il regime franchista tenne
inizialmente rapporti molto cordiali[259].
Ma lo scoppio della guerra il 1º settembre 1939 colse Franco di sorpresa, cosciente che nonostante le
parate, i discorsi trionfali e i cordiali rapporti con Italia e Germania, i tempi non erano ancora maturi per
affrontare una nuova guerra. Franco annunciò in tutta fretta che la Spagna sarebbe attenuta a una «rigida
neutralità», cogliendo così l'approvazione di Mussolini che si sarebbe orientato verso la «non
belligeranza»[260]. Nonostante la neutralità, la predilezione di Franco per l'Asse non era affatto calata.
Accecato dalle vittorie tedesche in Polonia e dai rapporti entusiastici che Serrano Suñer e i consolati
dell'Asse in Spagna facevano pervenire al Caudillo riguardo alla situazione europea, questo entusiasmo
aumentò di fronte ai successi tedeschi in Norvegia e Danimarca nel giugno 1940 e soprattutto dinanzi al
crollo della Francia[261]. Ma Franco mirava a scendere in campo all'ultimo momento per conquistarsi un
posto al tavolo dei vincitori[262], e fu questa cautela che nel prosieguo dei mesi gli consentì di rendersi conto
che né l'Asse era in grado di vincere la guerra né la Spagna era in grado di scendere in campo. L'opinione
pubblica spagnola poi non era affatto favorevole all'entrata in guerra, e i primi rovesci dell'Asse in
Nordafrica, la resistenza della Gran Bretagna sulla Manica convinsero Franco che la guerra sarebbe stata
lunga, e la Spagna non sarebbe stata in grado di parteciparvi[263].
La repressione nazionalista
Secondo lo storico Gabriele Ranzato, sconcerta come la Chiesa cattolica non abbia cercato affatto di
fermare questa mattanza o di mitigare le pene dei reclusi. Il giorno dell'ingresso delle truppe nazionaliste a
Madrid, il vescovo della capitale Eijo de Garay diffuse una pastorale in cui auspicava il perdono per gli
sconfitti, ma quelle esortazioni si persero nel vuoto e non furono ascoltate né dagli uomini del regime né
dalla Chiesa stessa, i cui parroci collaborarono spesso solertemente nella consegna dei repubblicani alle
autorità nazionaliste. Il vescovo di Vic ad esempio, invocò l'epurazione dei «rossi» usando la metafora: «un
bisturi per drenare il pus dalle interiora spagnole»[267]. Non risulta che nel corso degli anni si sia levata
alcuna voce di sdegno tra le autorità ecclesiastiche volta quanto meno a ridurrebbe esecuzioni capitali.
D'altro canto lo stesso pontefice Papa Pio XII, salito alla guida della Chiesa di Roma un mese prima della
fine della guerra, celebrò la vittoria di Franco con un messaggio radiofonico «ai figli dilettissimi della
cattolica Spagna» per felicitarsi «per il dono della pace e della vittoria, con cui Dio si è degnato di colmare
l'eroismo cristiano della vostra fede e carità». L'unico passo in cui Pio XII si riferì al destino dei vinti fu
quando parlò della benevolenza del generalissimo e della sua opera di pacificazione, chiedendo «giustizia
per il crimine e benevola generosità verso coloro che sono caduti nell'errore», una frase che però di fatto
legittimava la falsa propaganda franchista che accusava i repubblicani di crimini contro la Spagna[268].
I nazionalistici cercarono di legittimare la propria necessità di repressione con una base scientifica fasulla
che giustificasse pericolo di «infezione bolscevica». Il maggiore Antonio Valejo Nágera, docente di
psichiatria a Madrid, nel 1938 fondò un centro di indagine psicologica con 14 cliniche per studiare il
«psiquismo del fanatismo marxista», che arrivò a conclusioni draconiane circa la prevenzione dal
dissoluzione razziale dell'Hispanidad (ossia l'espressione utilizzata per indicare «l'uomo spagnolo» come
espressione di razza superiore e strumento di Dio nella difesa della religione cattolica[271]). Tra queste
misure, la più famosa rimane l'allontanamento di migliaia di figli da famiglie "sospette", che nel 1943 portò
ben 12 043 bambini a essere sottratti alle proprie famiglie per essere consegnati all'Auxilio Social falangista,
a orfanotrofi, a organizzazioni religiose o a famiglie scelte che si occupavano dell'indottrinamento delle
nuove generazioni[272]. L'allontanamento dei bambini dalle loro madri «in nome di Dio e della Patria»
dapprima venne disposto nei riguardi degli oppositori politici reali o presunti, poi fu allargato ai figli delle
madri ritenute - in base a motivazioni pretestuose - di scarsa moralità. Questi niños robados venivano poi
venduti o affidati a famiglie benestanti fedeli al regime; prima veniva dichiarata la morte del bambino scelto
e quindi veniva rilasciato un nuovo certificato di nascita[273].
L'ossessione del controllo investì tutta la società spagnola, dall'infanzia fino all'età adulta, e soprattutto in
campo lavorativo. La «Legge per la sicurezza dello Stato» varata nel marzo 1941 puniva severamente la
propaganda illegale, gli scioperi e la diffusione d voci sgradevoli contro il regime, cose che vennero
equiparate alla «ribellione militare» e quindi punibili con la morte, mentre la «Legge per la Repressione del
Banditismo», varata per combattere i guerriglieri repubblicani che continuarono a combattere contro i
franchisti nel dopoguerra, diede un ulteriore giro di vite sulle libertà individuali, con decine di migliaia di
arresti indiscriminati sulla base di semplici sospetti o «soffiate»[272]. I sindacati furono distrutti e le
assunzioni e gli spostamenti lavorativi vennero regolati da un sistema di salvacondotti e di attestati di
«affidabilità politica e religiosa»: i repubblicani sfuggiti alla prigione quindi, non potevano dimostrare la
propria affidabilità politica a causa del loro passato, e divennero a tutti gli effetti cittadini di seconda classe,
soprattutto se residenti nelle campagne, dove i braccianti vennero costretti a vivere in condizioni ancora più
disumane di quelle esistenti prima del 1931 a causa della loro militanza politica[274].
Analisi e conseguenze
Il golpe nazionalista del 17-18 luglio 1936 militarmente andò incontro a un fallimento, tanto che il 25 luglio
l'ambasciatore tedesco telegrafò a Berlino: «A meno che non si verifichino circostanze impreviste, è
difficile sperare che la ribellione militare possa vincere». Se alla fine il golpe produsse un conflitto civile
lungo tre anni la responsabilità determinante fu l'ingerenza straniera di Italia e Germania in appoggio ai
militari golpisti e il mancato appoggio delle nazioni democratiche nei confronti della Repubblica; Gran
Bretagna e Stati Uniti chiusero le frontiere e impedirono qualsiasi aiuto concreto alla Repubblica,
assumendo quell'atteggiamento di malcelata ostilità che costituì uno dei motivi della caduta della
Repubblica. La Francia, che pure era guidata da un governo di Fronte Popolare, non volle perdere
l'alleanza con gli stati anglosassoni per appoggiare il legittimo governo spagnolo, e di fatto voltò le spalle
alla Repubblica, che non poté quindi rifornirsi di armi sul mercato internazionale, al contrario dei
nazionalisti che venivano regolarmente riforniti dagli alleati dell'Asse[275].
Sebbene ben 14 000 dei 16 000 ufficiali dell'esercito passarono tra le fila dei nazionalisti, decretando di
fatto nel campo repubblicano lo scioglimento delle unità e della catena di comando, e nonostante i golpisti
potessero sfruttare l’effetto sorpresa di una mobilitazione imprevista e improvvisa, nelle principali città del
paese il popolo difese la Repubblica dimostrando peraltro quanto fosse sedimentata tra la popolazione la
voglia di cambiamento nei confronti delle forze reazionarie che governavano la Spagna da secoli. L'esercito
ribelle si trovò di fronte una vasta difesa miliziana, che seppur impreparata e male armata mobilitò una tale
quantità di popolazione che le consentì di reggere l'urto nelle grandi città e di salvare due terzi del
paese[276]. Ma questa reazione popolare oltre a non essere stata sufficiente a sedare del tutto le rivolte,
palesò anche la totale impreparazione del governo e la sottovalutazione del pericolo dei politici repubblicani
nei confronti della rivolta dei militari.
Lo storico Raymond Carr in Storia della Spagna 1808-1939, sostiene che esisteva un chiaro disegno
politico, appoggiato dai presidenti della Repubblica e del Consiglio dei ministri, che, sottovalutando la forza
dei rivoltosi, riteneva di poter riuscire a stroncare facilmente la rivolta nella penisola per poi intervenire in
Marocco, di modo che, una volta sconfitti i generali faziosi, le forze armate sarebbero state epurate dagli
elementi inaffidabili e la Repubblica avrebbe potuto contare su un esercito totalmente fedele. In ogni caso
non fu concertato un programma d'azione ed una tattica precisa contro i congiurati; in realtà si temeva sia
l'avanzata del fascismo, sia una maggiore presa di potere delle forze popolari. Quando la rivolta scoppiò in
Marocco nel pomeriggio del 17 luglio 1936 il primo ministro Casares Quiroga, anziché impartire rapide e
decisive disposizioni per stroncare la rivolta, diede le dimissioni, creando un vuoto di potere in un momento
delicatissimo. A sua volta il presidente della Repubblica Azaña, anziché nominare quale sostituto un
personaggio deciso e capace, affidò a Martinez Barrio il compito di negoziare un accordo con il generale
Mola, offrendogli il Ministero della Guerra, nonostante le precarie condizioni di salute di Barrio e la sua
poca propensione alla gestione di situazioni critiche. Di fronte al rifiuto del militare e spaventato dalle
manifestazioni di piazza che reclamavano la consegna di armi al popolo, anche Martinez Barrio rinunciò al
mandato ricevuto[277].
La debolezza e l'indecisione del governo e dei suoi organi periferici trasferì il potere in mano a comitati
cittadini che subito organizzarono loro milizie e questo anche per il grave errore del governo di sciogliere
l'esercito e congedare le truppe, all'inizio della sollevazione, lasciando così il paese senza unità militari
organizzate e senza l'infrastruttura indispensabile per una veloce ricostituzione delle forze armate. Il
localismo del potere civile e militare impedì l'adozione di contromisure di più ampio respiro, soprattutto fu
sottovalutata la decisiva importanza dei porti dell'Andalusia e dello stretto di Gibilterra per i ribelli, da cui la
mancata concentrazione del massimo sforzo iniziale - terrestre, aereo e marittimo - per mantenerli sotto il
controllo repubblicano[277]. Di lì, infatti, vennero prima i soldati mercenari che avrebbero cambiato il
rapporto di forze: marocchini e legionari, poi, lì, l'intervento nazista e fascista concentrerà i suoi maggiori
sforzi, con lo sbarco di materiale e truppe. Ed era proprio sull'Armata d'Africa che i rivoltosi contavano,
mentre nella confusione dei primi giorni dell'alzamiento, mancando una direzione militare unitaria delle
operazioni, tutto fu lasciato all’iniziativa dei comitati locali, che naturalmente si preoccuparono dei fronti a
loro più vicini. Da Barcellona si andò a combattere in Aragona, la perdita di Saragozza era per gli anarchici
intollerabile; da Madrid si salì sulle sierre o si andò a Toledo dove i ribelli resistevano nell'Alcazar. Non si
comprese che il pericolo era più a Sud, e si lasciò che le improvvisate formazioni di miliziani inesperti
affrontassero i professionisti dell'Armata d'Africa, che in tre mesi percorsero oltre quattrocento chilometri
dallo stretto di Gibilterra a Madrid, lasciando dietro di sé una scia di sangue che intimorì notevolmente le
impreparate truppe repubblicane, con ovvie conseguenze sul morale dei difensori[277].
Solo alla fine di settembre si procedette alla militarizzazione delle milizie, primo passo per la costituzione di
un esercito organizzato, iniziando a porre fine ad una situazione di caos generata dal fatto che ogni gruppo
politico o sindacale disponeva di sue unità combattenti e le utilizzava secondo i propri disegni. Ma
l'esercito, creato quasi ex novo, aveva come struttura base le brigate miste; mancò però la predisposizione di
un piano generale organico per la conduzione della guerra, che mobilitasse tutte le risorse militari, umane,
economiche ed industriali, coordinato da un efficiente comando unico. Mancò poi una concezione moderna
della guerra, cioè la capacità di sfruttare gli sviluppi delle offensive o delle controffensive, fondate sulla
potenza di fuoco e mobilità delle riserve, nella coordinazione rigorosa delle operazioni terrestri, aeree, e
marittime. Si attaccarono posizioni nemiche fortificate con attacchi frontali estremamente sanguinosi con
scarso appoggio di artiglieria, carri armati ed aviazione, che pochi agguerriti difensori potevano contenere.
Una concezione simile a quella che si era vista durante la prima guerra mondiale che non portò a nulla, e
che, assieme alla tendenza di concentrare eccessivamente le truppe sul fronte madrileno, quando il centro di
gravità della guerra si era già sviluppato in altri settori - Aragona, Levante, Ebro, Estremadura, Catalogna -
non permise una efficace disposizione delle riserve dove servivano di volta in volta[277].
A golpe avviato molti dirigenti repubblicani e socialisti moderati spinsero verso un accordo con i
nazionalisti nel tentativo di salvare la Repubblica anche a discapito delle conquiste sociali ottenute negli
anni precedenti e mantenere il potere centrale. La vecchia classe politica, soprattutto liberale e repubblicana,
era in un certo senso abituata alle sollevazioni militari; normalmente la classe politica liberale chinava la
testa di fronte alle richieste dei militari e le ribellioni tendevano a concludersi in poco tempo dopo la
restaurazione dei normali interessi. Ma nell'estate del 1936, dopo anni di radicalizzazione delle posizioni
politiche, le forze politiche di sinistra non erano più disposte a cedere ancora una volta le conquiste sociali
ottenute. In questo contesto si sviluppò quindi una delle concause della sconfitta della Repubblica, ossia i
contrasti politici interni alla Repubblica stessa. Le forze anarchiche e comuniste di sinistra oltre alla vittoria
militare ponevano tra le prime priorità una riformulazione dei rapporti sociali interni alla Repubblica, non
solo avviando una completa politica di nazionalizzazioni, ma anche procedendo con la collettivizzazione
generale dell'economia e l'abolizione dei persistenti simboli dell'oppressione rappresentati dall'esercito, dai
possidenti terrieri e dal clero[278].
Le due posizioni erano per motivi diversi insufficienti per ottenere successo nella lotta contro il fascismo
internazionale. La prima avrebbe forse potuto produrre un accordo con i franchisti risparmiando tre anni di
guerra, ma al prezzo del ritorno in Spagna dei rapporti politici pre-repubblicani e con una sostanziale
vittoria delle destre di ogni risma. Soluzione, questa, ampiamente scartata da vasti pezzi di società spagnola
ormai assuefatti allo scontro storico con la reazione. La seconda rischiava (e per certi versi ha fattivamente
prodotto) uno scontro sociale interno di vaste proporzioni che avrebbe alienato una parte importante dei
consensi alla causa repubblicana, oltre che disorganizzato ulteriormente la produzione e la militarizzazione
inevitabile. Tra questi opposti si inserì una terza forza politica che destabilizzò ulteriormente il conflitto
interno alla Repubblica; il PCE, che da partito irrilevante fino al giugno 1936, divenne via via una forza
politica sempre più importante[278]. Per i comunisti sia l'esercito sia la più generale struttura politica
avrebbero dovuto rispondere a un modello nuovo, quello del Fronte popolare, corrispondente alla
definizione di «democrazia di tipo nuovo» immaginata in seguito al VII Congresso del Comintern del 1935
e successivamente teorizzata da Togliatti in riferimento alla lotta antifascista in Italia. Tra rivoluzione
vagheggiata dagli anarchici e ritorno all'ordine pre-borghese, secondo il PCE esisteva la possibilità di
portare avanti la mancata rivoluzione borghese in Spagna, indurre un avanzamento dei rapporti politici delle
classi subalterne e successivamente, una volta vinto il confronto militare, procedere a una socializzazione
dei mezzi di produzione. Una posizione non rivoluzionaria (ampiamente negata peraltro dagli stessi
dirigenti a Mosca che non volevano incrinare i rapporti con le democrazie occidentali in prospettiva di una
coalizione antifascista), ma che divenne quella più credibile in seno alla Repubblica e tra la popolazione,
che aveva disperato bisogno di forze credibili capaci di dirigere la lotta contro i franchisti[278]. Il controllo
dell'esercito da parte dei comunisti fu poi facilitato enormemente dalla politica del non-intervento che
impedì alla Repubblica di acquistare armi sul mercato internazionale, dunque l'unico referente in questo
campo divenne l'Unione Sovietica, che poté facilmente imporre le proprie decisione in campo militare alla
Repubblica[279]. D'altra parte però, i comunisti ricercarono comunque l'egemonia nelle strutture intermedie
della società spagnola, a cominciare proprio dall'organizzazione dell'esercito, passando per la cultura e la
questione agraria. Atteggiamento che indispettì non poco i dirigenti socialisti e anarchici oltre che liberali,
timorosi che il controllo dei comunisti si estendesse a tutta la società in preparazione di una vera e propria
dittatura di stampo sovietico, con relativi scontri politici che sfociarono anche in vere e proprie rappresaglie
e scontri armati all'interno della Repubblica[278]. Questi scontri portarono a esiti drammatici, come durante
le giornate di maggio dove il PCE epurò molti dirigenti anarchici e trozkisti, all'uccisione del leader
marxista Andrés Nin, alle epurazioni di anarchici attuate dai servizi segreti spagnoli filo-stalinisti che
portarono ad ulteriori rappresaglie contro i comunisti.
Lo scontro politico all'interno della Repubblica si radicalizzò nel maggio 1937 con l'insediamento del
governo Negrín, che se da una parte spense gli entusiasmi rivoluzionari degli anarchici e dei sindacati di
CNT/FAI e UGT, dall'altra diede ai comunisti la possibilità di centralizzare la produzione militare e la
conduzione della guerra. Negrín sapeva che l'unica opportunità di vincere la guerra era consentire al PCE il
controllo delle forze militari, condizione imprescindibile affinché Mosca continuasse l'invio di armamenti.
Ma se i partiti politici mantennero la loro convinzione nel continuare a combattere, la vera flessione nella
volontà di resistenza si ebbe nella popolazione civile sempre più logorata dal conflitto, che aveva meno da
temere nella sconfitta, aveva idee meno chiare e convinzioni meno salde, era sempre più delusa dai rovesci
militari e partecipava alla guerra perché chiamata alle armi[280]. La capacità dei partiti di trascinare la
popolazione nel corso della guerra venne meno, e a questo si unì anche la palese inadeguatezza della
Repubblica sui campi di battaglia. Nonostante il controllo dei comunisti e la loro effettiva competenza in
campo militare, la Repubblica non fu in grado di vincere alcuna battaglia decisiva, tolta probabilmente
Guadalajara, né prima né dopo il governo Negrín. La ragione fu la palese superiorità militare e logistica dei
nazionalisti, in primo luogo riguardo agli armamenti, non tanto nella quantità o nella qualità, quanto
piuttosto nel loro utilizzo, non solo sotto lo stretto profilo dell'impiego in battaglia ma soprattutto sotto
l'aspetto logistico, cioè nel loro tempestivo e corretto impiego lì dove ce n'era bisogno, e ancor di più sotto
l'aspetto strategico ossia nella scelta rapida di dove impiegare le risorse e le armi. Tutto ciò rimanda quindi a
grandi questioni di fondo strettamente connesse: la capacità di direzione militare e la capacità di direzione
politica della guerra, questioni che se in guerra non vengono correttamente sbrogliate portano a risultati
scadenti[281].
Negli ultimi giorni della Repubblica si assistette a una corsa angosciosa verso il mare nella speranza che
navi britanniche o francesi potessero imbarcare verso i porti francesi coloro che sfuggivano dalla vendetta
dei vincitori. Considerando anche i rifugiati che travalicarono i Pirenei durante l'avanzata franchista in
Catalogna, furono circa 500 000 gli spagnoli, uomini, donne e bambini, che furono costretti a espatriare e a
vivere come esuli per evitare la violenza dei franchisti, e assieme a loro gran parte degli artisti e degli
intellettuali, tra cui la "generazione del '27". Artisti del calibro di Pablo Picasso, Joan Miró, Luis Buñuel,
Rafael Alberti e molti altri intellettuali e artisti spagnoli, sostenitori della democrazia e, per questo, avversati
dal franchismo, furono costretti a espatriare o preferirono non rientrare in patria. Si stima che del mezzo
milione circa di persone entrate in Francia durante quella che gli storici spagnoli hanno definito La
Retirada, rientrarono in Spagna in un primo tempo poco più di cinquantamila, a cui si aggiunsero più tardi
altre decine di migliaia. La cifra totale dei rimpatri oscilla, a seconda delle fonti, da 75 000 a 280 000[244].
La burocrazia e la logistica della Francia peraltro non era preparata ad assorbire l'urto di una tale massa di
profughi, dei quali molte migliaia erano feriti, malati o denutriti e abbisognavano di cure e trattamenti
specifici, e durante i primi mesi dovettero vivere in condizioni pessime, raccolti in campi privi di servizi
igienici, in tende temporanee e senza la possibilità di spostarsi. Ci volle del tempo prima che i campi
profughi assumessero una parvenza di organizzazione, mentre diversi internati venivano reclutati da
agricoltori della zona per i lavori agricoli, per cui potevano giornalmente uscire dai campi e ricevere un
modesto salario. Via via le comunità nei campi si diedero un'impronta di vita civile, nel campo di Argelès-
sur-Mer sorse un mercatino, un'osteria, e con discrezione funzionava un bordello, "la casa de la Sevillana",
dove cinque prostitute avevano ripreso la vecchia professione, mentre molti rifugiati ricevevano dalle
organizzazioni di aiuto repubblicane piccole somme in denaro, che molti integravano lavorando presso i
francesi o vendendo oggetti di loro produzione, fatti con i materiali più disparati[244]. Prendendo spunto da
una circolare del Ministero dell'Interno, che dava istruzioni ai prefetti di istituire dei corsi di lingua francese,
numerosi insegnanti e intellettuali internati iniziarono dei corsi di istruzione di varie materie ottenendo
l'approvazione delle autorità francesi. Con i miglioramenti anche la politica riprese vitalità e riaffiorarono,
mai sopite, le divergenze che tanto danno avevavo arrecato alla causa della Repubblica spagnola, tanto da
indurre le autorità francesi a effettuare arresti e trasferimenti di personalità o gruppi politici avversi.
Nacquero quotidiani stampati con mezzi di fortuna come la Voz de los Españoles di ispirazione comunista e
il Buletin de los antifascistas descontentos de los campo internacionales di ispirazione anarchica[244].
La resistenza antifranchista
Con la vittoria dei nazionalisti migliaia di repubblicani che non vollero o non poterono rifugiarsi all'estero
ripararono sulle montagne della Spagna, e lì continuare a combattere contro il franchismo. Col passare del
tempo, di fronte alla feroce repressione nazionalista, sempre più persone preferirono scappare sui monti per
sfuggire alla violenza e continuare a vivere, dando inizio ad un fenomeno resistenziale di carattere
soprattutto difensivo che può essere diviso in due fasi: la prima, il «periodo dei fuggitivi», e la seconda di
carattere propriamente guerrigliero[271]. Il primo periodo, che può essere datato tra il 1939 e il 1944, fu
caratterizzato soprattutto da gruppi scarsamente organizzati, scollegati fra loro e senza una direzione
comune, che sopravvivevano sulle montagne cercando di sfuggire alla repressione nazionalista, mentre il
secondo, che può essere datato dal 1944 al 1950, vide la nascita del Comitato delle Milizie Antifasciste per
mano di socialisti e anarchici, che fu un primo tentativo di organizzare il movimento resistenziale[271], ma
una vera unificazione dei gruppi di resistenza si ebbe solo a partire dal 1944 sotto la direzione comunista
spagnola operante nel sud-ovest della Franca[285]. Dopo la liberazione
della Francia dall'occupazione nazista, il PCE preparò un duplice piano
per la «riconquista» della Spagna: in parte mirava a un'invasione
attraverso i Pirenei, e in parte voleva infiltrare gruppi di guerriglieri che
dovevano organizzare una capillare rete di resistenza e spionaggio nella
Spagna franchista. La vana speranza era che questo impegno avrebbe
portato gli Alleati ad assumere un atteggiamento più duro nei confronti
del fascismo spagnolo, e quindi aiuti alla resistenza[286].
Note
Esplicative
1. ^ Ad esempio l'argomento sensazionalistico rimbalzato sulla stampa mondiale degli stupri
commessi contro le suore non ha trovato riscontro nella storiografia successiva, se non in un
caso. Come le voci di gente uccisa solo perché vestita in modo troppo borghese furono
essenzialmente imputabili a un inevitabile complesso di persecuzione del ceto borghese.
Vedi: Beevor, p. 102
2. ^ Il PNV si ispirava a forti sentimenti religiosi e di obbedienza alla Chiesa, e molti sacerdoti
baschi condividevano i sentimenti anti-franchisti della Repubblica, tanto che alcuni di essi,
quando i nazionalisti si impossessarono dei Paesi Baschi, pagarono con la vita la loro
scelta di campo. Vedi: Ranzato 2004, p. 414.
3. ^ In questo quadro repressivo divennero famose le imprese del "Conte Rossi", pseudonimo
di Arconovaldo Bonacorsi, ex squadrista bolognese, poi console della MVSN, inviato da
Mussolini a Maiorca nell'agosto 1936. Dopo la presa dell'isola da parte dei nazionalisti
durante il golpe, a metà agosto Maiorca fu invasa dai repubblicani, e quindi riconquistata dai
nazionalisti con l'aiuto degli italiani a metà settembre. Da quel momento per quattro
settimane, sull'isola ci fu una spaventosa carneficina con la supervisione dello stesso
Bonaccorsi, il quale era alla guida della falange locale con la quale organizzò
un'operazione di sterminio sistematico dei potenziali oppositori, i quali erano assolutamente
indifesi e disorganizzati, considerando anche la scarsa consistenza delle tendenze
repubblicane sull'isola. Le stragi suscitarono la ripulsa dello scrittore francese Georges
Bernanos, il quale le denunciò nel suo libro I grandi cimiteri sotto la luna lo sterminio degli
oppositori politici sull'isola di Maiorca a cui parteciparono anche le truppe italiane. Vedi:
Ranzato 2004, p. 394 e Preston 2004, p. 98.
4. ^ Lo storico spagnolo Angel Viñas in una pubblicazione del 2013 ha rivelato l’esistenza di
quattro contratti, datati 1º luglio 1936, due settimane e mezzo prima del colpo di Stato,
stipulati fra Saínz Rodríguez, noto esponente monarchico alfonsino, e l’ingegner Luigi Capè,
rappresentante legale della Società Idrovolanti Alta Italia, produttrice dei noti Savoia-
Marchetti. Contratti relativi alla fornitura per l’appunto di 12 Savoia 81, bombardieri che
potevano fungere anche da aerei da trasporto, 21 Fiat CR32, 4 idrovolanti, oltre a centinaia
di bombe, tonnellate di benzina e altro materiale, da consegnare non più tardi del 31 luglio. Il
costo, che l’autore valuta grosso modo pari a 339 milioni di euro attuali, era probabilmente
stato garantito, se non coperto, da Juan March, il cui cospicuo apporto finanziario al golpe di
luglio è noto. Secondo Viñas, Mussolini non poteva essere all'oscuro di ciò dato il controllo
rigido che il regime esercitava sull’attività dei grandi gruppi economici e soprattutto sulle
forniture militari. Così la decisione di inviare i mezzi aerei il 27 luglio 1936 non fu presa dopo
la sollevazione militare, come sinora la storiografia aveva supposto, bensì prima, fatto che
cambia sostanzialmente la lettura che sinora è stata data dell’internazionalizzazione della
Guerra civile. Vedi: Marco Puppini, Guerra civile spagnola o europea? I miti del franchismo
rivisitati (e demoliti) (https://www.spagnacontemporanea.it/index.php/spacon/issue/view/18/1
2) recensione de AA.VV., Los mitos del 18 de julio, Barcelona, Crítica, 2013, pp. 466, ISBN
978-84-9892-475-6
5. ^ L'intervento in Spagna trovò consenso tra i ceti medio-alto borghesi, ma non ebbe lo
stesso ampio consenso che caratterizzò la guerra d'Etiopia ad esempio, dato che non c'era
alcuna prospettiva di vantaggi economici o territoriali, alcuna prospettiva di sfogo
dell'emigrazione o semplicemente l'alibi di una conquista coloniale che attirasse le simpatie
della popolazione. Vedi: Rochat, pp. 98-99.
6. ^ Il fatto che gli anarco-sindacalisti della CNT andassero contro il loro principio di rifiuto
dello Stato per accorrere in aiuto della Repubblica, dava la misura della gravità della
situazione. Vedi: Preston 2004, p. 125.
7. ^ La sostanziale avversità verso l'unità militare di anarchici e poumisti stava negli obiettivi
politici che le varie organizzazioni davano a questa guerra. Mentre per socialisti e comunisti
la parola d’ordine era Primero ganar la guerra ("Per prima cosa vincere la guerra") contro i
golpisti, per la CNT, la FAI e il POUM era fare la rivoluzione. Questa cosa evidentemente era
in contrasto con la formazione di un esercito della Repubblica, perché inevitabilmente un
esercito guidato dalle forze al governo sarebbe stato un avversario di ogni ipotesi
rivoluzionaria, e siccome la rivoluzione, almeno in Catalogna, era concretamente in corso,
questa era meglio portarla avanti in un territorio senza militari che in uno presidiato da un
esercito organizzato. Perché tale esercito, eventualmente sconfitto Franco, si sarebbe
scagliato contro tutti i tentativi insurrezionali in quanto agente in difesa dell'ordine costituito.
In terzo luogo, gli anarchici sapevano benissimo che probabilmente il nuovo esercito
sarebbe stato egemonizzato dai comunisti, che dunque non avrebbero consentito fughe in
avanti verso esperimenti di comunismo libertario, né in un futuro pacificato né tantomeno
sotto la cappa della guerra civile. Vedi: Barile, pp. 111-112-113.
8. ^ In quel momento il governo di Valencia e il governo basco, il cui esasperato
indipendentismo minava la solidarietà tra i due poteri, erano in rapporti molto tesi, e in un
clima di emergenza si crearono molti problemi. Il presidente del governo autonomo basco,
José Antonio Aguirre assunse direttamente in comando delle operazioni rimuovendo il
generale Llano de la Encomienda inviato da Valencia, mentre l'anticlericalismo di anarchici
e comunisti era pesantemente osteggiato dai nazionalisti baschi cattolici e conservatori.
Questi, consapevoli della disparità di forze, moltiplicarono i contatti con la Santa Sede,
l'Italia e gli ambienti anglo-francesi per cercare una pace separata con Franco già prima
dell'esito della campagna, e anche se questi contatti non portarono a nulla, palesano lo stato
d'animo con cui il governo basco affrontò la situazione. Vedi: Ranzato 2004, pp. 490-491.
9. ^ Il giorno successivo all'annuncio della formazione del governo, il diplomatico britannico Sir
Robert Hodgson ebbe un incontro molto cordiale con Franco, a cui disse che
l'atteggiamento della Gran Bretagna verso la Spagna era totalmente disinteressato e che
Londra si augurava di poter avere relazioni amichevoli con il suo governo. Franco rispose
che le prime leggi del suo governo «sarebbero state in sintonia con le idee inglesi». Vedi:
Preston 1997, pp. 299-300.
10. ^ Prieto in qualità di Ministro della Guerra aveva sempre cercato di mantenere l'esercito
«staccato dalla militanza comunista» e per fare ciò aveva ostacolato e ridimensionato i
comunisti rimuovendoli quando possibile dai posti di comando, promuovendo socialisti
moderati e repubblicani. Entrò anche in contrasto con il capo dell'NKVD Aleksandr Orlov,
per il controllo del Servicio de Información Militar (SIM), l'organo di polizia e
controspionaggio militare che Prieto aveva creato nell'agosto 1937 e che i sovietici volevano
ridurre a loro strumento. Prieto divenne dunque un ostacolo da rimuovere, e il disastro in
Aragona fu l'occasione migliore per iniziare una campagna denigratoria contro di lui, che si
risolse con la sua esclusione dal governo. Vedi: Ranzato 2004, pp. da 576 a 586
Bibliografiche
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5. ^ Ranzato 1995, da p. 10 a 14. 18. ^ Beevor, p. 25.
6. ^ Preston 2004, p. 15. 19. ^ Preston 2004, p. 24.
7. ^ Hobsbawm, p. 189. 20. ^ Beevor, p. 29.
8. Preston 2004, p. 14. 21. ^ Preston 2004, p. 25.
9. ^ Beevor, p. 17. 22. ^ Preston 2004, p. 26.
10. ^ Beevor, p. 18. 23. ^ Preston 2004, pp. 27-31.
11. ^ Beevor, pp. 18-19. 24. ^ Preston 2004, p. 28.
25. ^ Preston 2004, p. 31. 70. ^ Preston, pp. 88-89.
26. ^ Beevor, p. 33. 71. ^ Preston, pp. 90-91.
27. ^ Preston 2004, pp. 36-37. 72. ^ Preston, p. 92.
28. ^ Beevor, pp. 35-37. 73. ^ Ranzato 2004, p. 292.
29. ^ Preston 2004, pp. 38-39-42. 74. ^ Ranzato 2004, p. 293.
30. ^ Preston 2004, pp. 40-41. 75. ^ Ranzato 2004, p. 294.
31. ^ Preston 2004, pp. 44-45. 76. ^ Ranzato 2004, p. 295.
32. ^ Preston 2004, pp. 41-42. 77. ^ Ranzato 2004, pp. 296-297.
33. ^ Preston 2004, p. 33. 78. ^ Ranzato 2004, pp. 298-299.
34. ^ Preston 2004, p. 34. 79. ^ Preston 1997, p. 159.
35. ^ Preston 2004, p. 45. 80. ^ Beevor, p. 117.
36. Ranzato 1995, p. 41. 81. ^ Ranzato 2004, p. 406.
37. ^ Preston 2004, pp. 46-47. 82. ^ Ranzato 1995, p. 72.
38. ^ Preston 2004, pp. 47-48. 83. Beevor, p. 109.
39. ^ Preston 2004, p. 48. 84. ^ Preston 2004, p. 99.
40. ^ Preston 2004, pp. 49-50. 85. Ranzato 2004, p. 385.
41. ^ Preston 2004, p. 50. 86. ^ Beevor, p. 108.
42. Preston 2004, p. 52. 87. ^ Ranzato 2004, pp. 386-387.
43. ^ Preston 2004, p. 53. 88. ^ Ranzato 2004, p. 388.
44. ^ Milza, p. 742. 89. ^ L'Aviazione Legionaria italiana fece di
45. ^ Preston 2004, p. 54. Maiorca la sua principale base operativa,
46. ^ Preston 2004, pp. 54-55. da cui operava soprattutto contro i centri
abitati lungo la costa mediterranea.
47. ^ Preston 2004, pp. 56-57.
90. ^ Ranzato 2004, pp. 388-389.
48. ^ Preston 2004, pp. 58-59.
91. Beevor, pp. 102-103.
49. Preston 2004, pp. 61-63.
92. ^ Ranzato 2004, p. 409.
50. Ranzato 1995, p. 45.
93. ^ Ranzato 2004, p. 411.
51. ^ Preston 2004, pp. 63.
94. ^ In riferimento alle truppe nordafricane
52. ^ Preston 2004, pp. 64. dell'Armata d'Africa lasciate libere di
53. ^ Preston 2004, pp. 65-66. seminare violenza e distruzione nelle zone
54. ^ Preston 2004, pp. 66-67. occupate.
55. ^ Preston 2004, pp. 68-69. 95. ^ Ranzato 2004, pp. 412-413.
56. ^ Preston 2004, pp. da 70 a 72. 96. ^ Preston 2004, p. 156.
57. Preston 2004, pp. 74-75. 97. Beevor, pp. 111-112-113.
58. ^ Preston 2004, pp. da 77-80. 98. ^ Preston 2004, p. 85.
59. ^ Beevor, p. 71. 99. ^ Beevor, p. 113.
60. ^ Beevor, pp. da 71 a 73. 100. ^ Preston 2004, p. 105.
61. ^ Beevor, pp. da 76 a 77. 101. ^ Beevor, p. 114.
62. ^ Preston 2004, pp. 81-82. 102. ^ Preston 2004, p. 93.
63. ^ Preston 2004, p. 83. 103. ^ Milza, pp. 742-743.
64. ^ Beevor, pp. 78-79. 104. ^ Ranzato 2004, p. 308.
65. ^ Beevor, p. 80. 105. ^ Milza, p. 743.
66. ^ Beevor, p. 82. 106. Milza, p. 744.
67. ^ Beevor, p. 84. 107. ^ Rochat, pp. 98-99.
68. ^ Beevor, pp. 84-85. 108. ^ A seguito dei primi bombardieri, il 6/7
69. ^ Beevor, pp. 86-87. agosto arrivarono in Spagna 27 caccia Fiat
C.R.32, il 12 agosto 3 idrovolanti e il 19 152. ^ Ranzato 2004, pp. 271-272.
altri 6 caccia. Vedi: Beevor, p. 164. 153. ^ Ranzato 2004, pp. 274-275.
109. ^ Preston 2004, p. 95. 154. ^ Preston 1997, pp. 202-203.
110. ^ Ranzato 2004, pp. 308-309-311. 155. ^ Preston 1997, p. 203.
111. ^ Ranzato 2004, p. 310. 156. Preston 1997, p. 204.
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Voci correlate
Aerei militari della guerra civile spagnola
Croce spagnola
Cronologia della guerra civile spagnola
Gibilterra nella seconda guerra mondiale
Guerra civile spagnola nella cultura popolare
Martiri della guerra civile spagnola
Nazionalismo spagnolo
Rivoluzione anarchica spagnola
Persone legate alla guerra civile spagnola
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